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Italian Pages 184 [180] Year 2007
L’armonia del mondo 9 Collana di letteratura comparata diretta da Stefano Manferlotti
Vincenzo Maggitti
Lo schermo fra le righe Cinema e letteratura del Novecento
Liguori Editore
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Indice
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Introduzione Il cinema inventato dalla letteratura 1. Una comparatista al cinema 4; 2. Questione di generi 8; 3. Terre di mezzo 10.
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Capitolo primo La letteratura protocinematografica. Matthews e De Amicis 1. La macchina di Cagliostro 13; 2. I classici in Peep Shows 18; 3. Edison vs Cagliostro 23; 4. Tra lanterna magica e homevideo 29; 5. Un Cavaliere voyeur e feticista 36; 6. Un Cavaliere, anzi due 40.
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Capitolo secondo La convergenza modernista fra cinema e letteratura. Schwartz, Pirandello, Quiroga, Bellow e Nabokov 1. Il sogno cinematografico 47; 2. Sogno o son desto? 50; 3. Vissi d’arte 57; 4. Schermi multipli 64; 5. Dal muto al sonoro 66; 6. Camere oscure e quadri in movimento 74; 7. Crash! 88.
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Capitolo terzo La novellizzazione postmoderna. Puig, Coover, Marı´as, Bram e Viel 1. Il racconto del film come genere letterario 93; 2. L’ultimo spettacolo 97; 3. Frankenstein in TV 102; 4. Prigioni con cinema 107; 5. Lo scrittore, la pantera e la videoteca 111; 6. Voci distanti, sempre presenti 119; 7. Conversazioni pericolose 124; 8. Un libro lungo un film 130; 9. Il labirinto di Foscomaniero 136; 10. La prima “visione” 141; 11. Una pellicola vocale 148.
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Bibliografia
Ringraziamenti I primi ringraziamenti vanno a Massimo Fusillo per il sostegno che non mi ha mai fatto mancare e per quanto di passione scientifica ha voluto trasmettermi, e a Stefano Manferlotti per la fiducia nel progetto e per la successiva inclusione del volume nella collana da lui diretta. Questo studio nasce nella cornice del Dipartimento di Letterature Comparate dell’Universita` di Roma Tre. Ringrazio Viola Papetti per il suo prezioso sostegno e Masolino D’Amico che ha esaminato alcune parti del dattiloscritto, consigliandomi la lettura del romanzo di Bellow qui discusso. Oltre che degli stimoli avuti dalle conversazioni con Paola Splendore e Francesco Fiorentino, la mia ricerca si e` poi giovata degli incontri alla Scuola Europea di Studi Comparati di Synapsis a Bertinoro e a Pontignano: a questo proposito ringrazio Roberto Bigazzi, Laura Caretti e Remo Ceserani. Sono debitore verso Jeanne-Marie Clerc dell’Universita` di Montpellier per il serrato confronto di opinioni avuto de visu e per e-mail, e ringrazio Jan Baetens dell’Institut d’E´tudes culturelles di Leuven e Pietro Montani per i loro preziosi suggerimenti. In ambito americanistico, un ringraziamento particolare va a Cristina Giorcelli e a Donatella Izzo, con cui ho spesso discusso del libro. Vorrei infine dire un grazie infinito a Camilla Cattarulla, paziente lettrice del manoscritto e dispensatrice di consigli tecnici, nonche´ stilistici. A Tilli Bertone debbo un’amicizia che mi arricchisce e il titolo del libro.
Ai miei genitori
Avvertenza Per quanto concerne i testi letterari, mi sono servito delle traduzioni italiane, quando disponibili, operando modifiche laddove mi sembrava che alcune valenze del testo originale fossero state trascurate. Preferisco, quindi, fornire in dettaglio queste indicazioni, anziche´ comprimerle in nota. L’ordine di elenco e` quello cronologico degli autori; al titolo dell’opera segue il nome del traduttore. La voglia (Antonelli, Tattoni); Eva futura (Dazzi); Il Kinetoscopio del tempo (Fink); Il 42˚ parallelo (Pavese); Nei sogni cominciano le responsabilita` e Cinembola (Brilli); Miss Dorothy Phillips, mia moglie (Antonucci); La difesa di Luzˇin (Scarcia e Tessitore); Re, donna e fante (Capriolo); per Risata nel buio, la cui ultima traduzione risale al 1961 (Malvezzi), ho preferito ritradurre direttamente dalla versione inglese di Nabokov; Casa senza custode (Chiusano); Il bacio della donna ragno (Morino), Triste, solitario y final (Felici); Il dono di Humboldt (Paolini); L’uomo che andava al cinema (Romano); Una serata al cinema (Schenoni); Domani nella battaglia pensa a me (Felici); Cinema (Bompiani). Per i testi non menzionati in questo elenco e riportati in bibliografia, la traduzione si intenda a mia cura; lo stesso dicasi per gli studi critici citati in originale e non nella loro eventuale traduzione italiana.
Introduzione Il cinema inventato dalla letteratura
In un suo recente romanzo, Book of Illusions, Paul Auster immagina che un professore di letterature comparate all’Hampton College nel Vermont scopra nel cinema il mezzo inaspettato per superare un momento difficile della sua vita. Chiuso da mesi in una totale apatia, il professore si scopre a sorridere di fronte alle immagini di un film comico trasmesso in TV. Regista e attore del film e` Hector Mann, nome a lui sconosciuto, ma che da quel momento diventa la sua ragione di vita: la passione da tempo sopita per la ricerca si risveglia e lo porta a girare per musei e videoteche di tutto il mondo nel difficile compito di reperire i titoli di Mann, uno dei quali, come capita spesso nel romanzo postmoderno, sembra irrimediabilmente perduto. Il libro in cui raccoglie i risultati di questa ricerca, pubblicato dalla University of Pennsylvania Press, non e` “una biografia, ma uno studio dei suoi film, e tutta l’aneddotica extracinematografica che vi acclusi era presa dalle fonti piu` canoniche: enciclopedie del cinema, 1 memorie, storie dei tempi eroici di Hollywood” . Naturalmente non esiste nessun regista con quel nome, tanto meno una monografia universitaria dedicata alla sua opera cinematografica, ma la sospensione dell’incredulita` viene facile al lettore per il modo in cui la scrittura riesce a imitare i film nel racconto particolareggiato che ne fa il protagonista. Questa abilita` non e` un dato di recente acquisizione per la letteratura, ma il risultato di una performance narrativa che nasce con l’invenzione stessa del cinema, e si trasmette ricodificandosi nelle nuove generazioni di autori senza che vi sia, pero`, una pedissequa corrispondenza cronologica con il percorso storico del racconto audiovisivo; ne e` prova il romanzo appena ricordato, che mette al centro della vicenda la riscoperta di un regista del muto2. 1
Paul Auster, Il libro delle illusioni, Einaudi, Torino 2002, p. 4. Sorlin indica in questo ritorno al passato la visione di un linguaggio perduto del cinema che la letteratura contemporanea aspira a recuperare, in cio` distinguendosi dalla “teoria” del film che troviamo espressa in scrittori come Dos Passos: una comprensione, cioe`, di come i film “con il loro tempo rapidissimo e il loro carattere superficiale siano in 2
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Lo schermo fra le righe
Nelle pagine che seguono, comunque, il lettore di questo libro non trovera` una storia alternativa del cinema, ricostruita sulla base di suggestioni letterarie, ma, mi auguro, un modo inusitato di leggere la narrativa del Novecento attraverso l’uso strumentale che la letteratura del secolo scorso ha fatto del cinema per enunciare il proprio racconto. I testi qui raccolti e analizzati formano il tracciato di un possibile percorso novecentesco fra cinema e letteratura, a tratti funambolico, come si addice al secolo, ma non per questo meno saldo nelle coordinate teoriche che l’hanno guidato. La prima cesura e` stata di ordine contenustistico, nel senso che sono state escluse le opere il cui contenuto era esclusivamente legato al mondo del cinema: ne´ storie, quindi, ambientate in un set cinematografico durante le riprese di un film (l’esempio topico sono i Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Pirandello), ne´ racconti di taglio autobiografico nei quali i personaggi siano basati su figure professionali realmente esistite (il pensiero corre a Prater Violet di Isherwood). Il cinema di cui si parla nel libro e` virtuale, e consiste di visioni filmiche che la letteratura cerca di ricreare mantenendone il tratto specifico, esiliandole, di fatto, dal proprio ambito semiotico e narrativo istituzionale, ma esiliandosi, nel farlo, in uno spazio ibrido che comporta nuove modalita` di lettura del testo: questo spazio e` spesso coinciso con l’idea di uno schermo cinematografico che la pagina, anch’essa bianca, si presta facilmente a evocare. Sul cinema ‘inventato’ dalla letteratura si e` scritto molto, in una prospettiva pre-tecnologica di interpretazione dell’immaginario visivo nella narrativa che accomuna i teorici della letteratura con gli studiosi del pre-cinema, ma l’effettiva esistenza del mezzo ha spostato l’attenzione della critica e, molto meno, quella della teoria sul racconto esplicitamente tematico, spesso legato alla storia nazionale del cinema di cui narra. Esiste anche un cinema, pero`, che abita internazionalmente la letteratura del Novecento, e, soprattutto, la mente degli scrittori che l’hanno costruita, indipendentemente dal loro grado di cinefilia. Nei romanzi e nei racconti che il lettore incontrera` nel libro il cinema assume spesso il ruolo di tramite del ricordo, come se il ricordo stesso avesse individuato nel mezzo cinematografico lo strumento piu` opportuno e confacente per riaffacciarsi
sintonia con una societa` che privilegia il movimento, la velocita`, gli scambi tra persone e tra paesi”. Cfr. Pierre Sorlin, “Novellizzazione letteraria”, in A. Autelitano e V. Re (a cura di), Il racconto del film. La novellizzazione: dal catalogo al trailer. Narrating the Film. Novelization: from the catalogue to the trailer, Atti del XII Convegno Internazionale di Studi sul Cinema, Universita` di Udine (8-10 marzo 2005), Forum, Udine 2006, p. 85.
Introduzione
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alla mente dell’autore, tanto che si puo` avere anche l’impressione di leggere un libro sulla memoria, e non solo cinematografica. Psicanalisi e linguistica sono stati i supporti teorici che piu` mi sono serviti per modellare una linea di interpretazione di questo forte vincolo mnestico fra cinema e letteratura, supporti che ho in parte rivisitati nella chiave culturale di Burgin e della sua idea di in/differenzialita` dello spazio mnemonico. In alcuni casi film e ricordo si interrelano cosı` diffusamente che il cinema assorbe in se´ il senso del passato e ne diventa espressione attraverso l’accelerato invecchiamento tecnico del suo apparato, oltre che nella deperibilita` delle pellicole cinematografiche. L’elemento spiazzante, pero`, e` che questi aspetti relativi alla natura effimera dello strumento non sono riscontrabili solo nella letteratura postmoderna e nella sua rilettura apparentemente nostalgica dello spettacolo cinematografico, ma anche nella letteratura cronologicamente vicina a quel cinema descritto come lontano nel tempo e nelle forme. Sebbene implicito nella fisionomia tecnica del cinema fin dalle sue origini, il passaggio al sonoro ha fornito alla letteratura un esempio di mutazione semiotica che quest’ultima non poteva cercare nei suoi codici: usare il cinema come strumento del racconto significa anche elaborare un discorso fra diverse componenti comunicative ed espressive del testo. Questa riflessione mi ha condotto a tener conto delle implicazioni comparatistiche presenti nel tema cinematografico cosı` declinato, mettendo a punto strategie di interpretazione che, per la specificita` novecentesca del tema stesso, si sono mostrate utili, secondo me, a rivedere la relazione tra moderno e postmoderno e a misurare la portata dei temi politici e identitari che queste narrazioni ‘cinematografiche’ mettono in evidenza, correlati alla dimensione contrastiva del rapporto iconografico tra cinema e letteratura. In questa direzione ho trovato una fonte inesauribile di stimoli teorici nei lavori di Mitchell, che, pur non occupandosi specificamente dell’argomento, fornisce strumenti di analisi indispensabili alla comprensione del pictorial turn novecentesco, partendo dall’assunto che l’approccio comparatistico va superato, in quanto indice di una supposta gerarchia fra le arti. Per dare al lettore un piccolo, ma spero utile, sfondo teorico dell’argomento, continuero` l’introduzione con un breve excursus sulle posizioni teoriche di Claude-Edmonde Magny, per la frequenza con la quale il suo nome ricorre ancora oggi, dopo piu` di cinquant’anni, nel dibattito comparatistico relativo alle dinamiche cinematografiche nella letteratura, in una versione a tratti distorta che mi preme di rivedere.
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1. Una comparatista al cinema Il primo studio cui si riconosce di aver iniziato la lettura comparatistica dell’influenza che il cinema ha avuto sulla narrativa, anche per opposizione concettuale da parte dei suoi successivi detrattori, appare in Francia nel 1948 a firma di Claude-Edmonde Magny. Oggetto del suo saggio, L’aˆge du roman ame´ricain, e` la letteratura nordamericana degli anni che vedono il cinema, quello statunitense per antonomasia, assurgere a modello di una nuova narrazione. La fecondita` di questo testo e` stata parzialmente riconosciuta solo negli anni Sessanta, in ambito narratologico, da Ge´rard Genette, il quale sostiene che lo studio di Magny ha contribuito a riversare sulla letteratura l’interesse che la novita` dei mezzi cinematografici aveva suscitato attorno ai problemi della tecnica narrativa. Il fine delle pagine che seguono, oltre ad illustrarne brevemente il pensiero, data la scarsa conoscenza e diffusione del suo testo, rimasto inedito in italiano, e` anche quello di riuscire a contestualizzarlo, facendolo dialogare con altre posizioni di intellettuali coevi e non, senza eccessiva attenzione a distinzioni disciplinari. Ad esempio con Bazin. In Francia la riflessione sui rapporti fra cinema e letteratura raggiunge la sua climax negli scritti di Andre´ Bazin. Nel corso della sua attivita` di critico cinematografico (che spesso sfociava in vera e propria elaborazione teorica) Bazin ha elaborato un sistematico ripensamento del rapporto tra le due arti, soprattutto nel periodo a cavallo fra gli anni quaranta e cinquanta. Appartengono a questi anni articoli e saggi scritti per i “Cahiers du Cine´ma”, dove mostra una straordinaria lucidita` di intervento a 3 proposito di cio` che oggi possiamo chiamare le ‘dinamiche di scambio’ tra cinema e letteratura. Bazin esprime con chiarezza non soggetta a fraintendimenti la sua convinzione sull’assenza di influenza diretta fra le novita` del linguaggio cinematografico in materia di organizzazione del racconto e le tecniche narrative espressamente orientate verso modalita` filmiche che caratterizzano larga parte della letteratura modernista. Anziche´ chiudere le porte a qualsiasi ragionamento sugli effetti “re4 bound”, come li chiama Genette , che si possono evidenziare tra il 3 Prendo a prestito il sintagma dal titolo del libro di Keith Cohen, Cinema e narrativita`. Le dinamiche di scambio (1979), Eri, Torino 1982, che tratta dell’impatto che il cinema ha avuto su scrittori come Joyce, Proust e Woolf, prendendo in esame una serie di categorie testuali indicate dalla critica letteraria come tipicamente moderne – la distorsione temporale, il punto di vista, la discontinuita` e quello che Cohen battezza il “montaggio della coscienza” – nell’intento di valutarne il debito cinematografico. 4 Per una riflessione su alcuni modi in cui si e` manifestato questo effetto in entrambi i
Introduzione
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racconto cinematografico e quello letterario, questo assunto baziniano puo` invece valere come indicazione di percorso per cercare i punti nevralgici delle intersezioni tra letteratura e cinema. E cio` laddove risultino meno simmetricamente catalogabili e, soprattutto, su terreni di comparazione che non includano solo fenomeni di influenza e di prestito tra l’una e l’altro. Il discorso di Bazin, comunque, non ha come conclusione lo screditare i possibili approcci alla comprensione delle analogie testuali. Lui stesso sostiene, spaziando tra la letteratura ‘alta’ e quella di consumo, che si potrebbe parlare di “[...] una sorta di convergenza estetica che polarizza simultaneamente piu` forme di espressione contemporanee”5. Spostando la questione sul piano estetico, Bazin compie un’operazione analoga a quella con cui Claude-Edmonde Magny era riuscita in modo convincente a sostenere la tesi di un’appartenenza estetica comune per quelle somiglianze tecniche individuate nei film, nei romanzi americani e in quelli francesi contemporanei e da lei accuratamente riscontrate nell’analisi di testi letterari. A fare da modello di una nuova narrativita` era il romanzo americano di Dos Passos, di Steinbeck, di Hemingway e di Faulkner, al quale il titolo del suo libro conferiva i tratti epocali di un corpus che avrebbe segnato un’epoca di rivoluzione nel mondo della letteratura, proponendosi come uno studio delle caratteristiche tecniche di taglio cinematografico che trovavano nel romanzo americano moderno un’applicazione particolarmente felice e lo portavano piu` in la` rispetto al romanzo francese a lei contemporaneo. Nel considerare le condizioni che spiegano l’importanza dell’esempio americano per il romanzo francese, tuttavia, Magny non fa ricorso a stilemi critici di rapporto causa-effetto, che potrebbero vedere nella traduzione delle opere l’unico veicolo di comunicazione e contatto fra autori, ma amplia il discorso fino a comprendere cambiamenti di natura estetica, indipendenti dalla nazionalita` delle opere prese in considerazione. E` possibile spiegare l’attuale prestigio della letteratura americana e l’influenza che esercita sugli scrittori francesi in termini o di contingenze politiche oppure di eccellenza delle opere che sono state tradotte. Ma esiste indubbiamente un’altra, piu` fondamentale ragione per una simile moda, ed io suggerisco che venga trovata nella profonda modificazione apportata dal cinema alla nostra capacita` collettiva di percezione [...] l’abitudine che sensi di percorribilita` tra letteratura e cinema, cfr. Antonio Costa, Immagine di un’immagine. Cinema e letteratura, Torino, Utet 1993, pp. 45-49, cui rimando per la citazione genettiana. 5 Andre´ Bazin, Che cosa `e il cinema? (1958), Milano, Garzanti 1986, p. 130.
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abbiamo ora e` quella di farci mostrare le storie anziche´ sentirle raccontate. Cio` 6 naturalmente comporta un ribaltamento della tecnica del racconto .
Mentre spesso dietro l’utilizzo di nuovi metodi si cela solo l’urgenza di essere notati dalla critica e dal pubblico, nel caso della narrativa americana compresa fra le due guerre abbiamo a che fare, secondo Magny, con una presa d’atto da parte dello scrittore di quanto il cinema abbia rivoluzionato la coscienza collettiva ed offra al romanzo la possibilita` di raccontare diversamente le realta` che lo attraversano. Raccontarle diversamente significa, per Magny, aver mutuato dal cinema un repertorio di tecniche la cui scambiabilita` e` garantita dal vincolo estetico tra le due arti, quello della narrazione. Torniamo per un po’ a Bazin. Tra le pagine che dedica al rapporto del cinema con le altre arti il critico non lesina i tentativi di smontare ante litteram la teoria dell’effetto “rebound” del cinema sulla letteratura su cui poggia la fortuna francese del romanzo americano. Apostrofa come luogo comune la convinzione che il romanzo, soprattutto quello americano, abbia subito l’influenza del cinema e motiva il suo dissenso, considerando come ovvio l’impiego di accessori tecnici analoghi al primo piano o al montaggio nella scrittura narrativa dei romanzieri a lui contemporanei: Ma nella misura stessa in cui i riferimenti cinematografici sono confessati, come in Dos Passos, essi sono nello stesso tempo ricusabili: si aggiungono semplicemente al bagaglio di procedimenti con cui lo scrittore costruisce il suo universo particolare. Anche se si ammette che il cinema ha pesato sul romanzo sotto l’influsso della sua gravitazione estetica, l’azione della nuova arte non ha certo superato quella che ha potuto esercitare il teatro sulla 7 letteratura del secolo scorso per esempio .
Circa vent’anni prima Cesare Pavese, commentando l’adattamento cinematografico che si riteneva Vidor avesse tratto da Manhattan Transfer girando The Crowd (La folla, 1928), era giunto a conclusioni analoghe sull’uso esteriore dell’analogia tra cinema e letteratura, per il suo riflesso negativo sulla complessita` umana “che soffre per le esigenze di esteriore chiarezza di quello stile cinematografico, che fa parere il tutto un irritante 6
Claude-Edmonde Magny, The Age of the American Novel. The Film Aesthetic of Fiction between the Two Wars, Frederick Ungar Publishing Co., New York 1974, translated by Eleanor Hochman, p. 37 (L’aˆge du roman ame´ricain, Ed. du Seuil, Paris 1948). Si e` consultata l’edizione americana per motivi di reperibilita` del testo; il corsivo e` dell’autrice. 7 A. Bazin, Che cos’e` il cinema?, cit., pp. 127-8 (corsivo mio).
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sforzo tecnico di creare soltanto una nuova faccia di realismo”8. Il giudizio critico sui possibili risultati di questo uso sconsiderato della tecnica cinematografica che ottiene artificialmente un succedaneo realismo viene, pero`, inserito da Bazin in un diverso contesto di analisi, che dota il cinema di una “gravitazione estetica” a supporto delle modalita` tecniche esportate nelle altre arti. In questa espressione mi sembra lecito trovare un’eco del sottotitolo del libro di Magny, che recita: “L’estetica del film nel romanzo fra le due guerre”. Non credo sia un caso che, continuando il suo ragionamento, Bazin giunga ad ammettere che “se l’influenza del cinema sul romanzo moderno ha potuto illudere qualche ottimo spirito critico, e` di fatto perche´ il romanziere utilizza oggi tecniche di racconto, adotta una valorizzazione dei fatti le cui affinita` con i mezzi di espressione del cinema 9 sono indubbie” . L’inclusione di diritto della Magny nel novero di “ottimi spiriti critici” risulta piu` che probabile. Ma, per quanto ‘ingenua’ agli occhi di Bazin, Magny era ben consapevole del rischio che le sue argomentazioni venissero registrate sotto l’unica voce di “influenza” fra letterature o arti diverse e chiarisce le sue intenzioni gia` nella parte introduttiva del suo studio, dove compare il termine teorico di “convergenza” a sostituzione di un rapporto diretto di influenza tra linguaggi: Sarebbe errato cercare di spiegare il prendere a prestito reciproco tra film e romanzo oppure tra il romanzo francese e quello americano con il concetto vago di “influenza”. E` difficile parlare di imitazione o persino di trasposizione se con cio` si intende un reale processo storico. Le sezioni precedenti di questo libro portano piuttosto ad una teoria di convergenza tra arti che sono diverse per natura e paese di origine10.
Questo punto di arrivo teorico Magny lo descrive anche come superamento della ricerca di analogie di contenuto che aveva informato i suoi precedenti scritti sulla narrativa romanzesca. Il fattore determinante nel suo passaggio e` la capacita` critica di non sostituire all’analisi del contenuto quella della forma, ma, con uno spirito pre-semiotico, di cercare negli aspetti tecnici del discorso narrativo, sia esso letterario o filmico, le forme attraverso cui osservare un profilo diverso del rapporto fra cinema e letteratura.
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C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Firenze, Il Saggiatore 1971, p. 112. A. Bazin, Che cos’e` il cinema, cit., p. 130 (corsivo mio). 10 Claude-Edmonde Magny, L’aˆge du roman ame´ricain, cit., p. 97 (corsivo dell’autrice). 9
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2. Questione di generi Mi sembra interessante notare il fatto che Magny usi di solito il termine “generi” per riferirsi a romanzo e film, come se la comunanza estetica li staccasse dal dovere classificatorio di appartenenza ad arti diverse per farli diventare rappresentativi di un unico sistema, quello del racconto. In cio` l’autrice si differenzia da proposte di comparazione successive tra cinema e letteratura in cui il film viene classificato come una diramazione piu` recente del romanzo e si trova quindi inserito nel sistema letterario: uno dei fautori piu` convinti di questa assimilazione e` Robert Richardson, il quale ritiene, pero`, altrettanto indispensabile una riflessione aggiornata sugli effetti che il film, come modello di una nuova struttura narrativa, piuttosto che il cinema nella sua generica totalita`, ha avuto sulla letteratura moderna. A questo proposito, Richardson opera una prima scrematura fra quello che definisce “movie novel”, un sotto-genere dove il tema predominante coincide quasi sempre con la visione dell’industria cinematografica come luogo di nefandezze, e la finzione “seria” dei romanzi che “cercano di comprendere il senso degli aspetti meccanici e industriali dei film”11 e che, pur condannando il lato affaristico, dimostrano l’influenza della forma filmica nelle tecniche usate. Il termine “influenza” torna qui a regolare i rapporti fra cinema e letteratura. Tuttavia, quando arriva ai testi scelti per chiarire, esemplificandola, a che tipo di narrativa si riferisce, Richardson supera il vincolo regionale ancora vigente negli “Hollywood novels” di pregio letterario (tra i quali include i Quaderni di Pirandello, per affinita` tematica con The Day of the Locust di West e The Last Tycoon di Fitzgerald) e prende in esame anche altri romanzi europei, formulando giudizi di valore sulla base di quello che reputa essere il risultato di questo prestito tecnico del film alla letteratura: Robbe-Grillet, ad esempio, diventa oggetto di una critica impietosa per aver utilizzato il linguaggio filmico solo come modello disconnettivo delle apparenze superficiali del reale. Le modalita` di Richardson sembrano convalidare, a distanza di quasi trent’anni, la convinzione di Magny che il cinema sia diventato un’ideale piattaforma critica sulla quale misurare i cambiamenti che sono parallelamente avvenuti nel romanzo americano e in quello europeo, anche se dimostrano come la componente prevalentemente tecnicistica del cinema e del ‘prestito’ cinematografico debba ‘umanizzarsi’ agli occhi del 11
Robert D. Richardson, Literature and Film, Indiana University Press, Bloomington and London 1972, p. 80.
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critico per diventare davvero letteratura. Il pregiudizio umanistico trapela chiaramente nell’entusiasmo critico riservato al romanzo Death in the Family di James Agee (1957); sopra ogni altro aspetto, Richardson elogia la capacita` mostrata dall’autore nel descrivere il legame fra padre e figlio attraverso il racconto della loro visione empatica di un film di Charlie Chaplin, cui l’intero romanzo finirebbe per assomigliare. La questione del genere letterario, che Richardson non si pone nemmeno per la gamma eterogenea dei testi citati, viene ripresa con maggiore vis polemica da Kellman, il quale manifesta profondo sconcerto 12 per la noncuranza scientifica con cui la definizione di “cinematic novel” e` applicata a fenomeni testuali estremamente diversi fra loro. Mi sembra degno di nota il fatto che il lavoro di Magny sia utilizzato come spartiacque storico per l’ingresso del vocabolario cinematografico nella discussione sulle altre arti, e in particolare, nella prospettiva di Kellman, sul romanzo, che viene qui gia` a sostituire tout court il termine di “letteratura”; non a caso, l’articolo si chiude sulla correlazione ‘autoriale’ fra cinema e letteratura, cioe` sul fenomeno della responsabilita` creativa come luogo in co13 mune fra la prassi teorica della politique des auteurs e la ridefinizione 14 comunicativa che la “letteratura d’autore” ha svolto al posto dei generi letterari nel processo novecentesco di ricezione del testo. In questo legame si vede un superamento degli altri ambiti di discussione del rapporto: il contenuto, la tecnica e il contesto sociale. Sono proprio questi, invece, a tornare prevalenti nella successiva impostazione comparatistica che tenta di gestire i comportamenti testuali ibridi dei romanzi ‘cinematografici’. Una proposta piu` aggiornata sulla possibilita` teorica di un genere sara` esaminata nel libro (cfr. capitolo terzo); ritengo, comunque, sufficiente quanto esposto per non considerare la creazione di un genere come strumento indispensabile di analisi: il genere ha, in questo caso, la funzione strumentale di contenere in ambito letterario delle tensioni che richiedono un’ipotesi meno usurata di autodefinizione del testo. Nel fantasma di “cinematic novel” discusso da Kellman si gioca un delicato equilibrio che vede l’ago della bilancia spostarsi verso l’uno o l’altro dei due termini a seconda del singolo autore. Esemplificando ancora in Robbe-Grillet un esempio ‘scorretto’, Kellman evidenzia lo squilibrio dei 12
Steven G. Kellman, The Cinematic Novel: Tracking a Concept, in «Modern Fiction Studies», Autumn 1987, 33, n. 3, p. 468. 13 Su questo punto torneremo durante l’analisi di Puig come autore (cfr. capitolo terzo). 14 Riporto il sintagma cosı` come etichettato nel lavoro di Carla Benedetti, cui rimando per la discussione sulla tramontata funzione del genere letterario: cfr. C. Benedetti, L’ombra lunga dell’autore. Indagine su una figura cancellata, Feltrinelli, Milano 1999.
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suoi romanzi sul primo termine con il conseguente effetto che “l’aggettivo diventa un sostantivo, e la penna e` soppiantata da una macchina da 15 presa” : in questa sostituzione, il critico vede una continuita` tra il progetto di elusione del significato dell’autore portato avanti da Robbe-Grillet e la componente di silenziosa oggettivita` che Magny aveva rilevato nel romanzo americano tra gli anni venti e trenta del Novecento. L’accusa implicita nel rilievo di questa analogia e` l’ostinazione con cui la letteratura avrebbe elevato a modello di “scrittura” un tipo di cinema che e` stato superato dall’evoluzione storica del linguaggio audiovisivo, fenomeno culturale di cui Magny sarebbe la prima responsabile, imponendo criticamente ai posteri un limite nella scelta delle tecniche cinematografiche da imitare e riprodurre; a dimostrazione di cio`, i ‘rimproveri’ di Kellman si focalizzano sulla persistenza letteraria del montaggio come categoria dello specifico filmico nonostante l’importanza della mise-en-sce`ne e della profondita` di campo, che proprio Bazin aveva opposto al predominio ideologico del montaggio. Insomma, Kellman ha trovato deprecabile quello scarto fra storia del cinema e storia della letteratura che invece rappresenta il nerbo d’interazione piu` proficuo per emtrambi i media, e riporta costantemente sull’agenda critica la necessita` di non considerare teleologici ne´ l’uno ne´ l’altra.
3. Terre di mezzo L’affaire Magny trova una felice chiarificazione nelle mani di Jeanne-Marie Clerc che muove critiche pertinenti alle posizioni di Magny sulla base del diverso contesto storico ed estetico che le aveva prodotte, nonostante le imputi un uso improprio, e rifiutato dalla stessa Magny nel brano di cui sopra, della perniciosa nozione di ‘influenza’, sostenendo che i suoi scritti “hanno contribuito a diffondere l’idea convenzionale che l’influenza del cinema sul romanzo si traduca nelle tecniche del racconto oggettivo e nelle ellissi narrative accomunandole in una retorica realistica che aveva come 16 fine quello di dare alla realta` una presenza piu` diretta per il lettore” . Come osservava Pavese, si tratta di un risultato insito nella finalita` ideologica del testo letterario, piuttosto che nell’interpretazione del critico. Clerc aggiorna in “osmosi” fra i due mezzi di espressione la “conver15
S. G. Kellman, The Cinematic Novel, cit., p. 474. Jeanne-Marie Clerc, “La litte´rature compare´e devant les images modernes: cine´ma, photographies, te´le´vision”, in Pierre Brunel, Yvres Chevrel, Precis de litte´rature compare´e, Presses Universitaires de France, Paris 1989, p. 265. 16
Introduzione
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genza” di Magny, descrivendo la relazione prolifica tra scrittori e cineasti nella stagione del cine´-roman. Nella scelta degli autori che compongono il percorso del libro sono rimasto anch’io nel dominio della scrittura letteraria, come ‘raccomanda’ opportunamente Clerc quando descrive il compito del comparatista di visualita` letterarie, ma, cosı` come ho deciso di tralasciare testi di tema esclusivamente cinematografico, allo stesso modo ho creduto opportuno di non includere testi dove la scrittura dichiarava in partenza legami strutturali con il cinema e con un implicito supporto iconico (com’e` il caso, appunto, del cine´-roman). I testi su cui ho costruito il mio discorso non condividono lo stesso statuto letterario, e non sono stretti da compatibilita` canonica; ne´ sono proposti come titoli di un ennesimo genere che assorba le forme cinematografiche del romanzo. Sono, piuttosto, terre di mezzo, dove i confini della semiotica vengono continuamente ridefiniti e le categorie linguistiche hanno perduto il predominio. La loro esplorazione comincia con il racconto fantastico di un accademico statunitense di fine Ottocento (Matthews) per concludersi con il romanzo anti-accademico di un cinefilo francese postmoderno (Viel), in un viaggio fitto di andate e ritorni tra l’Europa (Pirandello, De Amicis, Marı´as), il Nord (Schwartz, Bellow, Nabokov, Coover, Bram) e il Sud (Quiroga, Puig, Soriano) dell’America. Il fatto che l’area testuale presa in esame si estende progressivamente dal racconto al romanzo non e` casuale, ma riflette le prospere sorti di una modalita` cinematografica che incontra il massimo favore da parte degli scrittori nella letteratura postmoderna, con il peculiare anticipo nella scrittura nabokoviana, che nel libro fa da trait d’union tra moderno e postmoderno; le sue radici, pero`, hanno una storia diversa, alla luce della quale mi auguro si possano analizzare meglio alcune discrasie contemporanee fra romanzo e film che la sola chiave dell’intertestualita`, per quanto anche intersemiotica, non e` piu` in grado di aprire alla nostra comprensione. L’intento, come sara` chiaro al lettore fin dalle prime pagine, non e` 17 stata l’elaborazione di una “narratologia comparata” , anche se l’esempio jostiano di muoversi teoricamente tra suono e vista all’interno del romanzo ha fornito uno spunto ideale alle inclinazioni analitiche dell’ultimo capitolo; piuttosto, anche qui, e` prevalsa l’intenzione di raccontare una letteratura cinematografica del Novecento, con tutti i benefici del dubbio che la definizione chiama all’appello, senza confinare la sua spaziatura 17
Franc¸ois Jost, L’oeil-came´ra. Entre film et roman, Presses Universitaires de Lyon, Lyon 1987, p. 9.
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storico-geografica (almeno quella occidentale) che finora, con l’esclusione del libro di Gavriel Moses18, e` coincisa con un’ottica nazionalistica sull’argomento.
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Gavriel Moses, The Nickel Was for the Movies. Film in the Novel from Pirandello to Puig, University of California Press, Berkeley & Los Angeles 1995.
1 La letteratura protocinematografica. Matthews e De Amicis Se io non parlassi con il gestore del cinematografo o con la signorina della cassa, sarei perso, alla deriva metafisicamente parlando. Me ne starei a guardare la copia di un film che potrebbe essere proiettato ovunque e in qualsiasi momento. C’e` il rischio di scivolare fuori dallo spazio e dal tempo. W. Percy, The Moviegoer
1. La macchina di Cagliostro L’anno 1895 e` la data a partire dalla quale si celebra la “nascita del cinema”, in coincidenza con l’inizio delle proiezioni dei fratelli Lumie`re nel Salon Indien del Gran Cafe´ di Parigi. Si deve alla penna poligrafa di un critico teatrale americano, nonche´ 1 docente universitario , la stesura di un racconto sul cinema, la cui pubblicazione, su una rivista illustrata, avviene proprio nel 1895. Brander Matthews, questo il nome dello scrittore, inaugura l’attenzione letteraria per la finzione audiovisiva, in cui suono e immagine, ancor prima di coesistere nella realta` cinematografica, mutano il rapporto del lettore con la pagina scritta per la loro dichiarata provenienza da un diverso sistema semiotico. Sebbene la data di pubblicazione coincida con il battesimo francese dello spettacolo cinematografico, Matthews scrive di una forma di intrattenimento di cui poteva disporre in terra natia: il kinetoscopio. Lo strumento ottico, brevettato da Thomas A. Edison nel 1891, compare nel titolo stesso del racconto: The Kinetoscope of Time2, che racchiude, in modo sintagmatica1
Matthews insegno` Dramatic Literature presso la attuale Columbia University (all’epoca Columbia College) dal 1892 al 1924. 2 Il racconto fu pubblicato sullo Scribner’s Magazine (Volume 18, Issue 6, December, 1895) in una versione illustrata. La copia e` consultabile nel sito web della Cornell University: http://cdl.library.cornell.edu/. Sara` successivamente incluso nella raccolta Tales of Fantasy
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mente esemplare, le coordinate spazio-temporali per le quali il cinema ha rappresentato una rivoluzione estetica. Tempo e spazio sono oggetto nel racconto di una riduzione della loro verosimiglianza narrativa, a vantaggio della proposta alternativa di tempi e spazi multipli ‘offerta’ allo spettatore protagonista con l’ausilio tecnico del kinetoscopio: si ipotizza come lecita, allora, una lettura del racconto 3 connessa ai modi, se non al genere, del fantastico . “The Kinetoscope of Time”, d’altronde, ne palesa marche tangibili fin dall’incipit: allo scoccare, preciso e convenzionale, della mezzanotte, il narratore si descrive nell’atto di attraversare in modo erratico uno spazio urbano notturno non identificato, attratto dall’unica luce visibile. L’accesso alla sala dove si trovano i kinetoscopi viene cadenzato da passaggi intermedi, che delineano una spazialita` contorta, dai tratti novecenteschi, in bilico tra la prospettiva escheriana e l’espressionismo cinematografico del futuro Caligari di Robert Wiene (1919). Il racconto, in fondo, esprime, sin dal titolo, una sensibile tensione fra l’immaginario ottocentesco e il futuribile novecentesco. Constatata l’assenza di qualsiasi oggetto prevedibile di mobilio (“ne´ 4 tavoli, ne´ sedie, ne´ divani, niente”) , che avrebbe ricondotto lo spazio della sala ai termini di una teatralita` familiare e borghese, quindi rassicurante, il visitatore notturno passa a rendere conto degli unici oggetti che si offrono alla descrizione, salvandolo da un horror vacui enunciazionale. Mentre la prima formulazione verbale risente di un approccio impressionistico che registra la “forma curiosa” dei quattro, stretti, piedistalli, le successive notazioni spostano il discorso su un registro piu` scientificamente attendibile, le cui voci attribuiscono altezza e larghezza all’oggetto sconosciuto. Il risultato visuale dato dalle successive misurazioni trova palese corrispon-
and Fact, licenziata dall’autore nel 1896 (Harper & Brothers, New York, pp. 27-53). La prima traduzione italiana, nella versione ridotta da Guido Fink, e` apparsa, con il titolo “Il Kinetoscopio del tempo”, in un numero monografico di «Cinema & Cinema», dedicato al romanzo di Hollywood (n. 40-41, luglio-dicembre 1984, pp. 4-7). Le successive citazioni saranno prese da questa edizione o, nel caso siano relative a parti espunte dalla riduzione, dalla versione integrale del racconto contenuta nella raccolta a cura di G. Celati e G. Fink, The Celebrated art of US Short-story writing, Mucchi, Modena 1986. 3 Aderisco alla specificazione formulata da Ceserani, il quale, nell’introduzione al suo studio sul fantastico, privilegia il concetto di modo su quello di genere, sostenendo che "ha avuto radici storiche precise e si e` attuato storicamente in alcuni generi e sottogeneri, ma ha poi potuto essere utilizzato e continua a essere utilizzato, con maggiore o minore evidenza e capacita` creativa, in opere appartenenti a generi del tutto diversi” (Il Fantastico, Il Mulino, Bologna 1996, p. 11). 4 B. Matthews, “Il Kinetoscopio del tempo”, in AA.VV., Il romanzo di Hollywood, «Cinema & Cinema», cit., p. 4.
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denza con il modello di kinetoscopio tuttora conservato nella sezione dell’archivio tecnologico del pre-cinema presso la George Eastman House 5 a Rochester, nel New Jersey. La macchina, gia` esistente e operante all’epoca della stesura del racconto, viene descritta come per la prima volta. Il dato (per quanto mi risulti) potrebbe corrispondere al vero in termini statistici: la verginita` letteraria del kinetoscopio sarebbe, in questo caso, siglata dallo stile dettagliato della sua presentazione al lettore di fiction; tuttavia, il paradosso concettuale resta insito nella scelta di dissimulare l’esistenza ‘reale’ del mezzo, in contraddizione apparente con la sua riconoscibilita` nominale, garantita attraverso il titolo. La parziale rinuncia da parte di Matthews alla dimensione realistica del mezzo edisoniano appare narrativamente comprensibile come condizione necessaria alla funzione di soglia del kinetoscopio: lo sguardo del protagonista entra in contatto audiovisivo con una realta` altra, rappresentata dalle immagini in movimento. Sebbene nuovo nella forma, il device usato per il passaggio tra i due piani di realta` e` l’aggiornamento tecnocratico di una lunga, non conclusa, e, tantomeno, teleologica, serie di elaborazioni fantastiche e ‘antiquarie’, svolte a partire da un arazzo o un dipinto, le cui figure prendono vita, interagendo con i personaggi del 6 mondo narrato . La superficie gia` animata delle immagini kinetoscopiche ha, pero`, una parentela anomala con i suoi predecessori: il loro spazio metanarrativo resta incontaminato dalla presenza e anche dal desiderio dello spettatore, il quale, una volta sfumata l’immagine, si limita a cambiare kinetoscopio. Ad indicarglielo sono scritte misteriose che compaiono e scompaiono sul velluto scuro della parete, la cui proiezione era gia` iniziata nell’atrio che introduceva alla sala. Le parole che compongono queste scritte non sono singolarmente distinguibili per la velocita` con cui sono fatte scorrere sulla superficie (“milioni di piccolissime scintille balugi7 narono qua e la` nel buio”) , ma lasciano nel protagonista il ricordo di un messaggio. Antesignane dei nostri display, permettono al visitatore di conoscere il tema delle immagini visibili in due dei kinetoscopi; la loro fonte di origine non viene spiegata, ma in questa forma di naı¨vete´ interse5
La prima sala kinetoscopica era stata inaugurata a New York nel 1892; ad essa ne erano seguite numerose altre, in America cosı` come in Europa. Esisteva gia`, dunque, un ‘pubblico’ suscettibile di identificazione con il protagonista del racconto. 6 Una ricca e dettagliata articolazione di questa tipologia del fantastico e` stata formulata da Lucio Lugnani in “Verita` e disordine: il dispositivo dell’oggetto mediatore”, in: R. Ceserani, L. Lugnani et al., La narrazione fantastica, Nistri-Lischi, Pisa 1983, (cfr. in particolar modo pp. 199-219). 7 B. Matthews, “Il Kinetoscopio del tempo”, cit., p. 4.
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miotica di comunicazione si palesa la delega che il narratore sta per dare alle immagini come mezzo di espressione narrativa. La soglia varcata dal protagonista attraverso la fessura oculare del kinetoscopio, tuttavia, non conduce direttamente al sovrannaturale, ma rappresenta, semmai, uno stadio intermedio del percorso che lo portera` ad incontrare il conte Cagliostro, figura del fantastico per antonomasia, cui viene affidata la funzione faustiana di proporre un patto diabolico: per ogni anno di vita ‘venduto’, il protagonista potra` godere della visione di dieci anni del suo futuro, utilizzando uno dei rimanenti kinetoscopi (l’altro contiene registrazioni del suo passato). Padrone del tempo – tanto da 8 esservi identificato dal narratore (“Lei... lei non e` il tempo stesso?”) , che e` assolutamente ignaro dell’identita` del suo interlocutore – il conte ha dato come garanzia della propria attendibilita` le visioni kinetoscopiche. Il rinnovamento strumentale delle dinamiche di transazione esoterica suona gia` postmoderno: nel Cagliostro di Matthews convivono esemplarmente l’esercente avveduto e il demiurgo mefistofelico. Torneremo fra breve sulle implicazioni culturali di questa commistione, per tracciarne le coordinate intertestuali fra letteratura europea e statunitense. Per ora seguiamo l’uscita del protagonista dalla sala e il suo ritorno alla realta` urbana: dopo aver rifiutato con fermezza la proposta dell’inquietante sconosciuto (Cagliostro), il nostro spettatore infila una porticina oltre la quale lo aspetta un campionario di modernita` che riattiva la sua percezione standard del reale: ero in una strada ampia, illuminata dalla luce elettrica che sbiancava il marciapiede, e all’angolo un treno della sopraelevata sfrecciava fra un rumore assordante, seguito da una scia di vapore bianco. Poi un tram sferraglio`, con una serie di rintocchi di campana. Ma nella vetrina del negozio davanti al quale mi trovavo, un ritratto incorniciato, esposto insieme ad altri, attiro` la mia attenzione. Era senz’altro un ritratto dell’uomo con cui avevo appena parlato9.
Il fantastico piu` tradizionale torna ad affacciarsi, con la variante che qui e` il ritratto intero a fungere da oggetto mediatore fra i diversi piani di realta`, mentre, nel repertorio piu` consolidato, sono gli oggetti che transitano dal quadro al mondo reale, dove, nel recuperarli, il protagonista trova conferma all’ipotesi di un contatto avvenuto fra dimensioni allotrope. Nel testo di Matthews, il ritratto interrompe nuovamente la quoti8 9
Ibid., p. 6. Ibid., p. 7 (corsivo mio).
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dianita` riconoscibile dal personaggio, in modo piu` straniante per il luogo di esposizione commerciale e mercificata in cui e` contestualizzata la sua apparizione, quasi a riproporre il connubio fra il soprannaturale dell’incontro e la realta` popolare, ma descritta in forme uncanny, della sala di visione. Il racconto si chiude con la descrizione ecfrastica del quadro in vetrina: Mi accostai, per vederlo meglio. La luce elettrica rendeva evidenti i lineamenti nobili, gli occhi inquisitori, l’aria di Vecchio Mondo che lo circondava. Non c’era dubbio che fosse la stessa persona. Sotto il suo volto, un’iscrizione a caratteri gotigheggianti rivelava che quello era un ritratto del signor conte di Cagliostro10.
Il lato perturbante di questa identificazione simulacra non puo` scindersi dal tratto ironico che accompagna la nostra ricezione contemporanea di un fantastico che si puo` appendere sulla parete di un salotto (ad uso, forse, della simulazione americana, anch’essa dai toni postmoderni, di un retaggio culturale europeo). Comunque nell’uso del ritratto emergono intenzioni narrative che modificano ulteriormente il profilo gia` complesso della tipologia discorsiva nel fantastico, in quanto il testimone della componente fantastica del racconto si trasforma da oggetto in personaggio, gia` connotato in senso perturbante. L’effetto di unheimlich sul lettore non passa allora solamente attraverso la dislocazione spazio-temporale dell’elemento fantastico, e la vertigine che consegue alla presenza di uno stesso ‘oggetto’ in mondi tra loro separati per convenzione scientifica. In Matthews l’oggetto – vale a dire il personaggio di Cagliostro garante dell’inspiegabile che viene consegnato in eredita` al lettore – arriva alla percezione del protagonista anche in una forma estetica che sembra apparentemente contrapporsi a quella delle immagini nel kinetoscopio. Il quadro assume importanza in quanto materia di svelamento narrativo e non solo come soglia di comunicazione fra mondi diegetici. Credo sia importante, a questo proposito, ricordare che le immagini viste al kinetoscopio mutano la capacita` di percezione del protagonista in un duplice senso, sia temporale sia spaziale. Risulta determinante il fatto diegetico che l’apparizione di Cagliostro segue le visioni. Questa successione giustifica la presenza di Cagliostro, in quanto la possibilita` di spostamenti tra epoche diverse e` stata gia` messa in atto dalle immagini, che la rendono narrativamente accessibile anche al protagonista. Ma la
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Ibid.
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conseguenza piu` rilevante per il discorso intersemiotico, innestata sulla configurazione fantastica dei rapporti spazio-temporali, e` nella credibilita` audiovisiva che il personaggio di Cagliostro acquisisce grazie alle proiezioni. La scoperta post festum che il personaggio misterioso, apparso al protagonista nella sala, e` Cagliostro non puo` essere scissa dalla manifestazione semioticamente ‘diversa’ della sua identita` attraverso il quadro esposto in vetrina. Cagliostro ritorna al passato in forma intersemiotica, passando dal movimento e dal sonoro che condivide con le ‘sue’ immagini (“cosa direbbe allora se le dicessi che io ho veduto personalmente tutte le 11 visioni che le sono state mostrate qui?”) alla fissita` silenziosa del ritratto: l’universo di finzione in cui si ‘muove’ e`, comunque, sempre di pertinenza iconografica.
2. I classici in Peep Shows Il racconto di Matthews trasforma il fantastico reinterpretando l’alterita` dei mondi fittizi in una esplicita differenza di ordine semiotico. Questo significativo slittamento tra contenuto e contenitore passa attraverso il problematico rapporto spazio-tempo che si instaura tra l’interno ‘fantastico’ della sala e l’esterno ‘reale’ della citta`. A compromettere la distanza, come abbiamo visto, e` il ritratto, che, informando il protagonista della identita` storica del personaggio misterioso, lo riporta al passato imprecisato del “Vecchio Mondo” europeo, in contrasto con la modernita` che fa 12 da sfondo all’agnizione pittorica . Nella sala, tuttavia, il protagonista non si era trovato di fronte ad alambicchi seicenteschi, bensı` ad una novita` commerciale statunitense usata a fini spettacolari. Il Cagliostro di poi si muove, anzi, da padrone in una strumentazione contemporanea che trova i suoi consanguinei metallici nei treni e nei tram di cui si inebria la vista del protagonista al suo ritorno nella realta` cittadina. 11
Ibid., p. 6. La figura di Cagliostro sara` di nuovo messa in ‘movimento’, questa volta nel Sud dell’America, nel ruolo da protagonista di un romanzo programmaticamente cinematografico scritto da un autore cileno, Vicente Huidobro, piu` noto per i suoi meriti letterari come poeta. Nelle intenzioni del suo autore, il romanzo Cagliostro (1920-21) nasce come dimostrazione testuale dei modi in cui il cinema puo` influenzare la letteratura, anche se la connessione di Huidobro e` piu` con la serialita` avventurosa delle vicende narrate che con le sperimentazioni visuali del personaggio alchimista, almeno per quanto emerge dagli usi sfacciatamente didascalici delle tecniche cinematografiche; a riguardo cfr. C. B. Morris, This Loving Darkness: the Cinema and Spanish Writers 1920-36, Oxford University Press, New York 1980, pp. 152-4. 12
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Abbiamo piu` volte fatto riferimento alle immagini che vengono mostrate dai due kinetoscopi ai quali l’occhio del protagonista ha accesso (gli altri due, lo ricordiamo, resteranno invisibili per il mancato accordo con Cagliostro): vediamo ora di considerarle nello specifico. Nei kinetoscopi passano in rassegna scene tratte da testi letterari o che rimandano ad episodi storici, con modalita` che anticipano le dinamiche casalinghe del telecomando13. Lo zapping involontario che il protagonista subisce dalla regia kinetoscopica di Cagliostro non inficia, tuttavia, la capacita` dello spettatore di scindere fra reale e fittizio: sollecitato dalla domanda-quiz dell’inquietante direttore di sala (“Ha riconosciuto le scene che le sono apparse in questi strumenti?”)14, il protagonista esprime, invece, meraviglia per il medesimo trattamento di verosimiglianza che era percepibile nelle storie vere cosı` come in quelle che erano “frutto dell’immaginazione”. Sul rapporto di commistione fra verosimile e inverosimile si gioca la sfida del fantastico alla netta distinzione operata dalla letteratura come istituzione normativa: il testo fantastico e` un testo che, poiche´ riunisce tratti appartenenti a generi diversi, “disattende una convenzione di lettura e di narrazione radicata e resa automatica dalla tradizione letteraria”15. L’indice di verosimiglianza riscontrato dal protagonista del racconto di Matthews nelle immagini proiettate scombina i parametri di ‘lettura’ che permettono di distinguere fra eventi storici e racconti di finzione, secondo una gerarchia che lo spettatore stesso fornisce nel testo, appellando con vain (“vana”) l’immaginazione creativa dell’artista di professione16. La ‘lettura’ del protagonista si basa, pero`, su parametri visuali, elencati a supporto dell’impressione di realta` insita nelle immagini: forma, colore e
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Il parallelo viene dal commento di Fink come chiosa critica del racconto: Fink utilizza la similitudine per descrivere la modalita` narratoriale con cui vengono repentinamente cambiate le scene in visione ed elenca, inoltre, tutte le forme di anticipazione che troviamo nel racconto rispetto all’evoluzione successiva del cinema. La sua proposta e` di considerare il testo all’interno dello sviluppo, anch’esso successivo, del genere romanzesco su Hollywood; a me sembra, invece, che la struttura fantasmatica di un cinema immaginato, e l’intenzione di rinviare ad un’immagine inesistente attraverso la parola scritta rendano il racconto di Matthews anche parte di un diverso discorso letterario, oggetto di questo volume. 14 B. Matthews, “Il Kinetoscopio del tempo”, cit., p. 6. 15 E. Scarano, “I modi dell’autenticazione”, in R. Ceserani, L. Lugnani et al., cit., p. 355. 16 Nello stesso paragrafo troviamo la definizione di scrittore di fiction che menziona il lato artistico accanto a quello economico (“coloro che raccontano storie per arte e come mezzo di sostentamento”). L’accostamento tornera` utile nel paragrafo sulla figura di Edison.
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movimento diventano veicolo stilistico di una sovrapposizione fra ambiti generici diversi, ma, soprattutto, di un ribaltamento della gerarchia sottesa fra Storia e finzione, non piu` distinguibili perche´ riunite attraverso la categoria del verosimile, che, per abitudine e convenzione culturali, e` pertinente al solo racconto di invenzione. Dobbiamo chiederci quanto di questa conseguenza sovversiva sia voluta dallo scrittore, che proprio in occasione della risposta al proprietario dei kinetoscopi trova nel protagonista un suo riconoscibile portavoce, perche´ sufficientemente acculturato da poter distinguere, nonostante il comune tratto verosimile, le scene che replicano avvenimenti storici da quelle ispirate da fonti narrative. Se la scena della danza che la piccola Pearl esegue davanti alla madre Hester ha il medesimo grado di verosimiglianza della visione del Generale Custer nei momenti finali della battaglia di Little Big Horn, l’effetto percettivo di entrambe sullo spettatore imbarazza i suoi criteri valutativi. Stiamo parlando di un cinema ancora a venire, che in seguito avrebbe puntualmente soddisfatto e confermato le pre-visioni del Cagliostro kinetoscopico, financo nella svolta conclusiva del racconto, che ricorda in anticipo, come osserva Fink, il finale di un film di Fritz Lang, Woman in the Window (La donna del ritratto, 1944). Ma stiamo parlando anche di un cinema usato in senso squisitamente illustrativo, in cui il movimento non evolve in sequenza, anzi, si interrompe ‘magicamente’ quando si e` sul punto di richiedere uno spostamento di macchina per l’ingresso di un 17 nuovo personaggio . Un ulteriore elemento di riprova del carattere ancillare con cui si immagina il futuro del cinema nel racconto e` fornito dal sistema antologico con cui le scene kinetoscopiche vengono assemblate: per contiguita` di proiezione, La capanna dello zio Tom e La lettera scarlatta si trovano affiancate all’Iliade e al Faust in un’ottica che scorge nella ripresa di immagini uno strumento straordinario di parificazione culturale fra Nuovo e Vecchio Mondo, e nel cinema prossimo venturo un veicolo di inserimento dei modelli letterari statunitensi nel canone della letteratura universale. Qualcosa, comunque, sfugge alle intenzioni pedagogiche dello spettatore matthewsiano: il ritratto di Cagliostro, pur riconducendo ad una cornice di distanza storica i rapporti tra il protagonista e il misterioso personaggio della sala, risulta prova dell’avvenuto incontro, portando una identita` biografica (la persona realmente esistita di Cagliostro) a conferire 17
Accade proprio nell’episodio appena menzionato in cui viene visualizzata una scena dalla Lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne che si estingue in concomitanza con la sensazione, espressa dallo spettatore protagonista, che “stesse giungendo qualcun altro”.
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veridicita` al racconto fantastico. All’esterno della sala, il protagonista si ritrova di nuovo immerso nel dubbio di decifrazione fra oggetti reali (il treno, il tram e, perche´ no, il ritratto) ed eventi fittizi. Seguendo i suggerimenti terminologici di Jost contenuti nel suo recente volume sul tema, potremmo parlare delle visioni offerte dai kinetoscopi come di “finte diegetiche”, definizione pertinente nei casi in cui “si fa credere allo spettatore che una serie di azioni recitata da attori sia presa direttamente 18 dalla realta`” . Nel racconto le visioni sono tutte attribuite a Cagliostro, che si autodefinisce come testimone oculare diretto di quanto e` dato allo spettatore, e al lettore, di vedere nei kinetoscopi. Di fronte a questa certificazione del vero, lo spettatore e` indifeso, incapace di “dedurre la sua 19 [dell’immagine] falsita` da una serie di indizi diversi” . Tuttavia, sarebbe assurdo imputargli un difetto nella sua abilita` di ricezione, dal momento che viene a mancare il passaggio fondamentale nella costruzione dell’immagine prima della ripresa, in cui e` possibile rintracciare gli indizi e le marche di falsita`: lo stesso Cagliostro, in effetti, nega l’esistenza di un 20 profilmico , di una scena ricreata per la ripresa, quando asserisce di aver visto “di persona” le immagini proposte e, quindi, di averle ri/prese dalla realta` atemporale dalla quale proviene. La rielaborazione fantastica dell’audiovisivo nel racconto porta, dunque, alla fusione problematica di due procedimenti di ripresa cinematografica che caratterizzano il periodo, per cosı` dire, formativo del cinema stesso. La strumentazione edisoniana, concepita per le riprese in studio e per un’organizzazione centrata e monoprospettica dei materiali filmati, viene declinata nel modo opposto di ripresa, in esterni e dal vivo, tipica del metodo di lavoro dei Lumie`re. Il contrasto fra le due pratiche non e` l’obiettivo culturale di Matthews, il cui interesse nello strumento di riproduzione e` senz’altro letterario, come abbiamo appena argomentato. Tuttavia, l’accostamento paradossale fra un cinema da teatro di posa, dove tutto e` predisposto alla ripresa, e un cinema della realta`, dove la macchina da presa riprende cio` che l’occhio ha davanti senza il contributo di premesse sceniche, e` reso possibile dal contesto letterario delle immagini kinetoscopiche, e non solo in virtu` della struttura fantastica del racconto. Altri fattori sono determinanti, relativi proprio all’uso letterario del cinema.
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Franc¸ois Jost, Realta`/Finzione. L’impero del falso, Il Castoro, Milano 2003, p. 59. Ibid., p. 60. 20 “Tutti quegli elementi che il cineasta manipola per collocarli davanti alla macchina da presa”, Andre´ Gaudreault, Dal letterario al filmico. Sistema del racconto, Lindau, Torino 2000, p. 113. Come scrive l’autore, la definizione deriva da Souriau. 19
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Le scene proiettate nei kinetoscopi sono prese direttamente dalla letteratura, anzi, in alcuni casi si arriva letteralmente alla trascrizione dei brani utilizzati per dimostrare la veridicita` della fonte; la riduzione quasi ‘a zero’ della distanza tra il racconto e i testi citati simula, cosı`, il grado di coinvolgimento del protagonista nella apparente realta` delle immagini. In questa analogia e` nascosto un inganno percettivo, una simulazione, appunto, che ci permette di focalizzare con maggiore puntualita` uno dei paradossi attivi nel rapporto tra cinema e letteratura. Agli occhi dello scrittore, le immagini proiettate aumentano di veridicita` nella misura in cui la loro descrizione ricalca il testo che le ha ispirate: il lettore che guarda nel kinetoscopio insieme al protagonista dovrebbe riconoscere il testo scritto al di la` delle immagini. Da questa riformulazione del patto narrativo, pero`, cio` che risulta assente e` proprio la scrittura, la parola stampata, che si annulla nel momento in cui serve a trasmettere le immagini proiettate dai kinetoscopi. Questo effetto di scomparsa del carattere stampato, inoltre, si fa ancora piu` vivido quando il protagonista, e il lettore insieme a lui, comprendono che anche Cagliostro era una ‘immagine in movimento’; anzi, per contrasto con la sua nuova immobilita` pittorica, la citta` e i suoi mezzi di locomozione assumono un connotato audiovisivo che collima assurdamente con il fantastico dei kinetoscopi. Nella compenetrazione fra immagine audiovisiva e parola scritta, il racconto di Matthews instaura un dialogo della letteratura con una serie di possibili simulacri filmici che vivono gia` all’interno della scrittura. Qui si puo` gia` parlare di simulacro filmico nell’accezione, formulata da Ropars-Wuilleumier, di presenza invisibile cui il testo letterario rimanda cosı` insistentemente da perdere il suo statuto testuale senza poterne acquisire uno definitivamente cinematografico, per il modo in cui le visioni di Matthews assumono il significato di elemento destabilizzante nel rapporto fra letteratura e cinema, perche´ il simulacro “al tempo stesso postula e rende impossibile la distinzione tra modello e copia”21: la letteratura, in Matthews, giunge ad annullare questa distinzione, trovando nel cinema un modello per scrivere la sua copia. Le visioni cinetoscopiche acquisiscono, cosı`, un valore en abyme dal quale emerge una nuova struttura intertestuale nel macrotesto fantastico, che mette in relazione pittura, letteratura e cinema. L’ultima pagina dell’e-
Marie-Claire Ropars-Wuilleumier, E´craniques. Le film du texte, Presses Universitaires de Lille, Lille 1990, p. 117. Il discorso della Ropars sul simulacro filmico e` applicato ad un romanzo franco-canadese degli anni Settanta (Neige noire di Hubert Aquin, 1974). 21
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dizione illustrata sullo Scribner’s del racconto di Matthews si puo` leggere come emblematica visualizzazione di questo intreccio, in quanto il carattere stampato viene simbolicamente sostituito dalla riproduzione del ritratto, con il nome del personaggio Cagliostro scritto in corsivo sotto il quadro: il tutto sullo sfondo dell’illustrazione di una delle scene viste dal protagonista nei kinetoscopi, che copre l’intera pagina. Nell’agglomerato di segni che l’attraversano, la pagina assume esplicitamente la funzione di uno schermo sul quale le parole stampate si proiettano con la medesima simbolicita` iconica delle figure illustrate.
3. Edison vs Cagliostro Resta ancora da vedere in che rapporto stanno le variazioni fantastiche di Matthews sul Cagliostro cinematografico con il suo referente storico, cui e` attribuita la paternita` del kinetoscopio. Per seguire questa traccia, di nuovo in bilico tra realta` e finzione, occorre tornare a Thomas A. Edison, e, nello specifico, alla portata mitopoietica della sua identita` di inventore. A questo scopo, ci serviremo di altri tre riferimenti testuali, che possano aiutarci ad abbozzare la trama culturale in cui prende forma la transcodificazione operata da Matthews sulla persona storica dell’inventore. Il primo testo che consideriamo e` un romanzo di Villiers de l’IsleAdam, E`ve future (1886), spesso citato come profetico, insieme ad altri titoli22, per la descrizione in esso contenuta di macchine riproduttrici di immagini che anticipano il dispositivo di proiezione cinematografica. Nel caso di Villiers, il protagonista-inventore della macchina immaginata dallo scrittore e` proprio Edison, all’epoca noto per aver brevettato il fonografo. La sua prima invenzione importante, anzi, era stata sufficiente a farlo entrare nella leggenda, tanto che Villiers usa nel romanzo l’epiteto, gia` diffuso, di “mago di Menlo Park”23. Nell’avviso al lettore che precede l’inizio del romanzo, Villiers precisa che il personaggio di nome Edison corrisponde alla persona esistente (ancora in vita ai tempi della pubblicazione) solo in quanto leggenda, cioe` solo nei tratti che lo hanno gia` reso leggenda, reclamandone, di conseguenza, l’appartenenza legittima all’“im-
22 Per una argomentata rassegna dei testi narrativi in cui si preconizza l’invenzione del cinema cfr. il primo capitolo del saggio di Lucilla Albano, La caverna dei giganti, Pratiche, Parma 1982, pp. 21-41. 23 Villiers de l’Isle-Adam, Eva futura, Bompiani, Milano 1992, p. 17.
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maginazione della gente”24. A conforto di questa posizione letteraria, Villiers sviluppa un paragone con il personaggio di Faust nell’opera di Goethe: Se il dottor Johannes Faust fosse stato contemporaneo di Wolfgang Goethe e avesse dato origine alla propria simbolica leggenda, il Faust di Goethe non sarebbe stato altrettanto lecito?25
I termini di Villiers difendono il carattere legittimo di un procedimento di scrittura che avalla una permeabilita` tra mondi paralleli di cui la letteratura esplorera` il pieno potenziale solo in ambito postmoderno. La scelta di Faust come esempio ci riporta a Matthews, che include l’opera di Goethe fra gli adattamenti kinetoscopici, ma i due testi ci pongono di fronte ad un diverso piano di relazione fra persona storica e personaggio. La trasformazione letteraria di una persona esistita puo` essere svincolata da problemi di verosimiglianza, soprattutto quando la finzione muove a partire dal dato leggendario che si e` creato attorno alla figura reale. Tuttavia, il passaggio da un mondo all’altro trova solitamente una forma di legittimita` nella conservazione del nome proprio, il “designatore rigido” della semantica finzionale, che funge da costante per “tutte le incarnazioni 26 di un individuo in tutti i mondi possibili” . L’Edison di Villiers, pur non coincidendo del tutto con la persona reale, ne condivide i tratti biografici, 27 come anche il profilo scientifico ; il Cagliostro di Matthews, invece, mistifica l’operato cinematografico di Edison, ‘passando’ per l’inventore fantastico di macchine storicamente esistenti. Il richiamo alla figura di Edison viene esercitato dalle macchine kinetoscopiche, dimostrando come la persona storica si sia staccata dalle elaborazioni dell’immaginario, pronta a rifrangersi nelle sembianze non identificate del personaggio del racconto, una versione, per l’appunto, priva di designatore. Quando arriva a Matthews, infatti, la ‘leggenda’ di Edison e` anche carica della rielaborazione di Villiers, gia` declinata in senso fantastico: Cagliostro, leggenda altrettanto funambolica, piu` tendente alla magia che alla scienza, si presta a rivestire i panni simbolici di Edison, facendone transitare la figura nel 24
Ibid., p. xxi. Ibid. 26 Lubomı´r Dolezˇel, Heterocosmica. Fiction e mondi possibili, Bompiani, Milano 1999, p. 19. 27 Tutta la prima sezione del romanzo e` occupata dalle riflessioni di Edison sulla ridotta portata culturale della sua invenzione del fonografo nel mondo in cui vive, con un passato che, invece, abbondava di occasioni straordinarie di applicazione, sulle quali Edison fantastica. 25
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territorio del fantastico statunitense per poi restituirsi iconicamente all’Europa sotto forma di quadro. Un’ulteriore forma in cui opera lo scambio transnazionale e` poi rappresentata dall’accostamento fra artista e scienziato, che ritroviamo in entrambi i testi: in Villiers piu` esplicito, in quanto dichiarato fin dalla prima pagina e visualizzato nella persona di Gustav 28 Dore´ (“Era quasi il viso dell’artista, tradotto in un viso di scienziato”) ; in Matthews implicito nell’esaltazione estetica del maggiore valore che Cagliostro attribuisce alla fiction rispetto alla realta` (“Quando lei sara` vecchio come me – quando avra` vissuto quanto me – quando avra` visto le cose che io ho visto – allora sapra`, come so io ora, che la vita spesso e` inferiore all’arte”). La letteratura statunitense includeva gia` esempi di questa possibilita` combinatoria nelle short-stories di Hawthorne, altro referente narrativo di Matthews nel suo assemblaggio di titoli canonici per le versioni audiovisive del kinetoscopio. Nel racconto “The Birthmark” (1843), lo scienziato Aylmer conforta con una ‘proiezione’ la moglie Georgiana, costretta a subire un intervento di asportazione della voglia sulla guancia, il “birthmark”, appunto, per il modo in cui questo segno deturpa il concetto di pura bellezza che il suo aspetto riveste agli occhi del marito: le figure aeree che vede sullo schermo, di cui viene descritta con accuratezza la consistenza e l’effetto di apertura allo spazio infinito, le danno l’illusione che Aylmer abbia potere sul mondo spirituale. Questa sensazione permane anche quando lo schermo ospita immagini tratta dall’esistenza esterna e quotidiana: The scenery and the figures of actual life were perfectly represented, but with that bewitching, yet indescribable difference which always makes a picture, an image, or a shadow so much more attractive than the original29.
Attraverso lo sguardo della spettatrice, si sottolinea di nuovo la superiorita` estetica dell’immagine sull’originale, mettendo in risalto la componente artistica di Aylmer. La presenza di un dissidio ancora piu` manicheo fra le diverse tendenze creative di un personaggio sono al centro di altri racconti di Hawthorne, ma in “The Birthmark” il lato artistico si palesa 28
Villiers de l’Isle-Adam, Eva futura, cit., p. 17. In questa stessa pagina si descrive l’atteggiamento di Edison come un “positivismo enigmatico”. 29 N. Hawthorne, “The Birthmark”, in Id., Selected Tales and Sketches, Rinehart, New York 1964, p. 211 [La scena e le forme della vita reale erano rappresentate alla perfezione, ma con quella incantevole e tuttavia indescrivibile differenza che rende un quadro, un’immagine o un’ombra sempre molto piu` attraenti dell’originale].
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con dinamiche pre-cinematografiche che ritroviamo nel racconto di Matthews, con la differenza che in Cagliostro lo scienziato alchimista ha lasciato spazio al geniale esercente, e lo spettacolo straordinario di immagini in movimento serve come merce di contrattazione per uno scambio faustiano. In Matthews il funzionamento della macchina di proiezione non occupa piu` parte cospicua del testo. L’elemento esplicativo e la spiegazione scientifica caratterizzano, invece, il romanzo di Villiers, in opposizione alle definizioni piu` elusive che si leggono in altri testi fantastici coevi30. Il ‘seguito’ letterario della vicenda edisoniana dimostra, pero`, che non e` positivista lo spirito che guida le sue sorti, cosicche´, quando la macchina kinetoscopica presagita da Villiers diventa realta` negli Stati Uniti di fine Ottocento, l’effetto e` quello, inatteso, di spostare il discorso letterario verso elaborazioni piu` dichiaratamente fantastiche e di recuperare il “mago” Edison in una forma che, tuttavia, non puo` evitare una implicazione commerciale della leggenda31. Il tocco successivo a questo processo di deterioramento immaginifico della leggenda di Edison lo dobbiamo al poeta Vachel Lindsay, anch’egli nordamericano. Trent’anni dopo Matthews, Lindasy presenta Edison con l’epiteto di “American Wizard” nel suo studio antesignano di estetica cinematografica, dal titolo The Art of the Moving Picture32, seconda fonte della nostra ricognizione; Lindsay, pero`, cita il soprannome solo per dissociarsi dalle implicazioni ideologiche che esso sottende, cioe` la celebrazione dell’immaginazione scientifica. E il suo libro, in effetti, diventa il luogo in cui Edison viene riconsegnato ad una categoria piu` secolare, e meno specificamente cinematografica, di inventori meccanici, che Lindsay riuni30
“L’inventore Edison, nel romanzo di Villiers de L’Isle Adam, spiega con grande puntigliosita` e dovizia di particolari tutti i fenomeni che si rivelano via via alla «muta meraviglia» dell’amico Lord Ewald”. L. Albano, La caverna dei giganti, cit., p. 36. 31 Nel suo studio sulle ideologie attive nella costruzione del linguaggio cinematografico, Burch mette in evidenza il lato affaristico dell’inventore: “Perche´ Edison, esperto uomo d’affari, era in tutto e per tutto un uomo dei suoi tempi: mentre fantasticava l’opera filmata, non esitava infatti a spedire i suoi soci armati di kinetograph ai piu` malfamati (e illegali) tornei di boxe, per trasformare poi quelle riprese nei primissimi successi di botteghino che le immagini animate abbiano conosciuto”, N. Burch, Il lucernario dell’infinito. Nascita del linguaggio cinematografico (1990), Pratiche, Parma 1994 p. 41. 32 Il volume, pubblicato nel 1915, e` stato solo recentemente ristampato (utilizzando obbligatoriamente, peraltro, l’edizione rivista e accorciata del 1922), dopo una lunga assenza dalla scena culturale, nonche´ da quella del dibattito teorico dei film studies: V. Lindsay, The Art of the Moving Picture, The Modern Library, New York 2000. La citazione e` presa da p. 174. La prima traduzione italiana del libro e` in stampa presso l’editore Marsilio, a cura di Anna De Biasio.
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sce sotto la dicitura di “realisti”33. Comunque, la magia non sparisce del tutto: in un passo particolarmente pertinente al nostro discorso, il lato esoterico di Edison torna ad affacciarsi, risultando declassato a una forma imitativa di religione pagana. Il photoplay e` destinato a restare un semplice voodooism nelle mani di persone come Edison, che mancano della collabo34 razione del “prophetic photoplaywright” cui Lindsay affida il futuro artistico, l’unico auspicabile a suo parere, del mezzo cinematografico. Il destino ideologico di Edison non viene esteso da Lindsay alla prassi commerciale dei kinetoscope parlors, i luoghi preposti dove il kinetoscopio era fruibile dallo spettatore, di cui la sala del racconto di Matthews e` una variazione fantastica (anch’essa in chiave internazionale: il tendone di velluto che separa e contiene la sala rispetto allo spazio urbano e` un ibrido fra le penny arcades statunitensi e le fiere europee). Al contrario, nel saggio di Lindsay troviamo la definizione di un legame fra questi spazi di intrattenimento e gli edifici che ne avevano poi rilevato la funzione, come il nickelodeon e la sala cinematografica vera e propria. Anziche´ contrapporli come luoghi antitetici dello spettacolo cinematografico, lo scrittore, che 35 dedico` alcune sue poesie alla celebrazione dei divi del grande schermo , sottolinea il carattere privato della visione cinetoscopica, vedendone la continuita` col rapporto anch’esso individuale, fra il pubblico delle sale di cinema e il film, e spostando l’accento sulla differenza rispetto alla collettivita` del pubblico teatrale. In questa relazione privata con le immagini, Lindsay scorge una marcata affinita` con il lettore, per ragioni di analogia fenomenologica tra l’isolamento del lettore in biblioteca e quello dello spettatore al cinema36. La coincidenza di sguardi che abbiamo discusso 33
Ibid., p. 173 (insieme ad Edison viene incluso, tra gli altri, A. G. Bell). Ibid., p. 174. Il neologismo coniuga la funzione del drammaturgo al mezzo cinematografico, ma Lindsay, per le premesse che pone al suo discorso, non si riferisce al mestiere dello sceneggiatore, quanto a una figura di ‘autore’ del cinema. 35 Uno di questi componimenti a tema cinematografico (“The Goodly, Strange Lanterns”, 1914) e` ispirato proprio dal kinetoscopio e dal dissidio che si crea fra la bellezza di questa invenzione e l’orrore delle notizie di guerra comunicate dai reels. L’“Edison’s goodliest toy”, come Lindsay definisce il kinetoscopio, viene celebrato per la forza democratica con cui attira gli uomini a trascorrere il tempo, preferendo i film al vino, ma, al posto delle favole che deliziano il cuore o delle pillole culturali (“bits of science, made so plain”) che stimolano il cervello apatico del manovale, il cinetoscopio proietta solo immagini di “WAR, WAR”. 36 Questo accostamento e` stato evidenziato da Michael T. Gilmore, che sottolinea, inoltre, la preveggenza fenomenologica di Lindsay, indicando nel videoregistratore l’apogeo dello spettacolo cinematografico come “noncommunal experience”, quindi come ulteriore conferma della intimita` spettatoriale insita nel cinema ‘secondo’ Lindsay (M. T. Gilmore, Surface and Depth. The Quest for Legibility in American Culture, Oxford University Press, New York 2003, p. 118). 34
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sopra fra lettore e spettatore nel racconto di Matthews e` sorretta da un altro tipo di associazione, che si crea tra il film e il testo in uno scompaginamento di relazioni interdipendenti. Il lettore del racconto che diventa spettatore delle immagini cinetoscopiche trova il suo alter-ego nello spettatore nel racconto che riconosce il film in quanto lettore del libro da cui e` tratta la scena proiettata: il risultato e` che non siamo piu` in grado di distinguere l’uno dall’altro, o meglio, di attribuire a questa distinzione un ordine cronologico e ideologico. La terza testimonianza letteraria su Edison che produco e` quella di Dos Passos. Allo scienziato inventore Dos Passos dedica uno dei ritratti biografici di “uomini rappresentativi” che compongono la multiforme nd 37 struttura di The 42 Parallel . Siamo nel 1930, anno di pubblicazione del primo romanzo della famosa trilogia U.S.A., e la figura di Edison e` ricordata dallo scrittore come parte fondante del processo industriale della nazione accanto a Henry Ford, con il quale condivide il disinteresse per la matematica e la filosofia; anche se il brano biografico e` intitolato “Il mago dell’elettricita`”, il termine ha perduto qualunque connotazione esoterica a vantaggio della consolidata fama di brillante tecnico che Edison aveva acquisito in campo. La sua efficienza produttiva e la costante registrazione di nuovi brevetti vengono ribadite in una formula ripetitiva che evidenzia ironicamente l’esigenza dell’inventore di verificare con esperimenti tutto cio` di cui leggeva; sebbene risultato della prodigiosa dedizione alla sperimentazione tecnica, il successo di Edison e` letto da Dos Passos come esito della spinta individuale all’affermazione economica del self-made man. L’invenzione del kinetoscopio non occupa un posto di rilievo tra le sue molteplici invenzioni, forse perche´ inclusa nell’ottica commerciale di Edison e priva dei risvolti documentaristici che invece avvicinano la scrittura di Dos Passos al cinema, come dimostrano le sezioni del “Cine-giornale” che si alternano nel romanzo. Oltre al futuro narrativo del cinema Matthews, invece, ha previsto anche il futuro cinematografico di Cagliostro, il quale, solo quattro anni dopo la pubblicazione del racconto, sara` ‘protagonista’ di un film di 38 Me`lie´s che porta il suo nome nel titolo (Le miroir de Cagliostro, 1899) . Nel John Dos Passos, The 42nd Parallel, The Library of America, New York 1996. Cagliostro avra` anche una versione cinematografica della sua persona storica in un film successivo di Gregory Ratoff (Black Magic, 1949), con Orson Welles come protagonista. Il film inserisce un tassello ulteriore nel percorso transnazionale che abbiamo disegnato per il Cagliostro statunitense, trattandosi di una coproduzione italo-statunitense che utilizzo` alcune locations nella ex-Jugoslavia. Ultimo episodio, in ordine di tempo, il film italiano di D. Ciprı` e F. Maresco, Il ritorno di Cagliostro (2003), in cui la figura di Cagliostro e` al centro 37 38
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film Cagliostro e` impegnato come presentatore dei trucchi cinematografici esibiti che costituiscono il film stesso, svolgendo, quindi, la funzione di tramite fra mondi possibili che in Me`lie´s e` spesso connotata in senso magico. Nella sua figura, pero`, troviamo esplicitata l’esigenza di rappresentare visivamente un narratore specifico della comunicazione cinematografica, destinata a scomparire di fronte al successo del film finzionale che Cagliostro presenta, in anteprima, al lettore del Novecento.
4. Tra lanterna magica e homevideo Lo spettatore del racconto “The Kinetoscope of Time”, da cui siamo appena usciti, viene bersagliato da una serie di frammenti audiovisivi che gli fanno sperimentare un viaggio temporale nel cinema del futuro. Il suo successivo rifiuto della proposta mefistofelica di Cagliostro nasconde e al tempo stesso esalta la deformazione cronologica cui ha gia` provveduto l’accesso visionario ai due kinetoscopi. La scelta del personaggio di Matthews si addice alla coscienza razionale del cittadino moderno, libero da credenze e illusioni metafisiche, ma lo scarto della modernita` rispetto ai suoi illustri predecessori, che cedono alla tentazione visionaria, e` afferrabile solo nell’effetto che le immagini mostrategli hanno sulle sue facolta` di percezione. Come spettatore di un cinema che non permette piu` di distinguere fra reale storico e finzione narrativa, il personaggio, infatti, comunica il suo disagio epistemologico commentando l’incredibile verosimiglianza delle immagini. La credibilita` visiva del cinema fa parte di una fenomenologia che, nelle parole di Derrida, “non era possibile prima del cinematografo perche´ tale esperienza del credere, interamente storica, e` legata a quella tecnica 39 particolare che e` il cinema” . Quando questa esperienza viene raccontata in letteratura, diventa piu` facile comprendere che la prassi del cinema non ha effetti soltanto limitati al dato esteriore dell’esistenza umana. Nella di uno strampalato progetto cinematografico degli immaginari fratelli Trinacria nella Sicilia degli anni Quaranta del secolo scorso: a interpretare la parte del protagonista viene chiamato un attore statunitense (Errol Douglas, precipitato citazionistico del divismo maschile americano dell’epoca) che dovrebbe garantire il successo di cassetta. Oltre al discorso sul transnazionalismo, il film recupera, in chiave parodica e metanarrativa, anche la cornice di genere legata al personaggio di Cagliostro, che dal fantastico declina nell’horror, in quanto a recitare la parte del divo in crisi e` Robert Englund, ben noto al pubblico cinematografico per la serie di Nightmare. 39 Jacques Derrida, Il cinema e i suoi fantasmi, in AA.VV., Pensare il cinema, «aut aut», 309, maggio-giugno 2002, p. 56.
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parola “tecnica” non si deve leggere l’insieme articolato di procedimenti, appunto tecnici, che vanno spesso a costituire il debito ‘esteriore’ che la letteratura avrebbe contratto dal cinema, in termini di modalita` del racconto; si tratta piuttosto dell’apparato cinematografico e del suo funzionamento, della partecipazione tecnica che lo spettatore offre in sala quando salda il suo sguardo sull’asse direzionale del proiettore, uno sguardo storicamente soggetto a variazioni, cosı` come variano le articolazioni mentali dell’uomo che sono modificate dallo strumento usato. Lo sdegno umanistico per la tecnica, che Debray ha descritto con rapsodica chiarezza, ha reso difficile la possibilita` di indagare sulla trasformazione che la letteratura, in quanto attivita` umana, ha subı`to con il cambiamento delle dinamiche mentali ad opera del mezzo cinematografico, “non vedendo nell’utensile se non la strumentazione di una facolta` e non la sua trasformazione”40. In un racconto italiano dei primi del Novecento, De Amicis elabora la consapevolezza letteraria di questo apporto interiormente tecnico del cinema riconducendo l’esperienza dello spettatore a una dimensione puramente mentale. “Cinematografo cerebrale”41 (1907) e`, in effetti, il battesimo letterario della configurazione tecnica, nello specifico cinematografica, che il protagonista scopre nell’andamento dei suoi pensieri, una volta che questi siano lasciati liberi di vagare nella mente. Il termine tecnico di “cinematografo” e` usato soltanto nel titolo, nel medesimo spazio peritestuale dove appariva il “kinetoscope” di Matthews; tuttavia, il concetto di cinema e` richiamato, per contrasto, dal teatro dove moglie e figlie del personaggio – la cui identita` viene celata al lettore dietro la borghese apposizione nominale di “Cavaliere” – si recano all’inizio del racconto, e, per analogia, dalla finalita` di intrattenimento con cui il protagonista cerca di trovare un passatempo che sostituisca il teatro. La domanda che si pone non appena resta solo in casa e`: “Come faro` ad ammazzare queste tre ore?”42. Proprio in considerazione della preminenza assoluta che assume il percorso mentale del personaggio nel racconto, credo sia utile situarne il nucleo portante nella rappresentazione di una crisi del modello spaziale contrastivo esterno/interno su cui la storia del Cavaliere sembra basarsi. 40
Re´gis Debray, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, Il Castoro, Milano 1999, p. 106 (corsivo dell’autore). 41 Edmondo De Amicis, Cinematografo cerebrale (a cura di Biagio Prezioso), Salerno Editrice, Roma 1995 (d’ora in poi Cc). Il racconto che da` il titolo alla raccolta fu pubblicato per la prima volta nel dicembre del 1907 sull’“Illustrazione Italiana”. 42 Ibid., p. 27.
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Fin dalla premessa narrativa, che introduce e motiva la solitudine casalinga del protagonista, lo scrittore sottolinea una netta demarcazione fra lo spazio diegetico e quello extra-diegetico, creando una situazione narrativa dalla quale lo spazio esterno sembra completamente escluso; anzi, tale esclusione risulta quasi condizione necessaria allo svolgersi della vicenda. Moglie e figlie del Cavaliere si recano a teatro e, dopo averle accompagnate “fino all’uscio”43, il protagonista si siede su una poltrona davanti al camino. Per prima cosa il Cavaliere cerca di non pensare a nulla, montando idealmente davanti a se´ uno schermo bianco sul quale non vorrebbe si manifestasse alcuna immagine. La confusione mentale che ne deriva, con l’affastellarsi di vari pensieri in un turbine senza controllo, lo spinge a ‘selezionare’ un’immagine precisa. Si tratta, non a caso, di un raddoppiamento della propria spazialita`: il pranzo di Natale con parenti e amici, quindi la casa, l’interno, elevata a difesa da interferenze esterne che possano turbare l’idillio. Il tentativo fallisce e la mente comincia a ospitare pensieri che distruggono l’amenita` della scena. L’immagine della casa torna di nuovo ad affacciarsi ai pensieri del Cavaliere, ma questa volta per dare una forma visiva al suo desiderio di contenerli in uno spazio discreto: “Gia`”, penso` scrollando il capo: “bisognerebbe che la mente fosse come una casa di cui potessimo chiudere le porte e le finestre per trattenerci non disturbati con chi ci piace: e invece e` una casa aperta da ogni parte, senza battenti e senza imposte, come un edifizio non finito, dove entra chi vuole”44.
La mente del Cavaliere sceglie la casa come immagine per rappresentarsi visualmente; la scelta e` direttamente rapportata all’immagine della festa casalinga che il protagonista ha cercato di rievocare e che la mente elabora come metonimia dello spazio abitativo intero. La casa si imprime, cosı`, sulla superficie assolutamente vuota che il Cavaliere prefigurava di ottenere dalla sua mente decidendo di non pensare a “niente”. L’assenza auspicata di qualsiasi tipo di segno – verbale o visuale – da quest’area indica che i suoi presupposti risalgono alla radice aristotelica della teoria dell’immagine mentale, cioe` all’immagine mentale della tavoletta di cera su cui l’oggetto materiale lascia impressa la sua forma attraverso la
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Ibid. Ibid., p. 29 (corsivi miei).
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percezione del soggetto45: la nostra mente, leggendo il racconto, ne ha fatto uno schermo cinematografico per la tecnica deamicisiana del funzionamento “cerebrale” e per i materiali di matrice gia` filmica che proietta, come vedremo in seguito. Nel paragrafo citato, lo scrittore, attraverso l’uso delle virgolette, visualizza graficamente il pensiero del Cavaliere, dandogli anche una connotazione orale, come per segnalare che si tratta di un discorso udibile dal lettore; il contenuto del pensiero cosı` audio-visualizzato risulta essere, a sua volta, il paragone fra due immagini della mente che rappresentano la loro differenza a partire dall’archetipo di “casa”. Il pensiero del personaggio prende corpo dalla situazione in cui si trova, cioe` dallo spazio abitativo dove ha scelto di restare: l’immagine ‘reale’ della casa e` servita al Cavaliere per dare una rappresentazione visiva alla sua mente. Nel passaggio, tuttavia, avviene qualcosa di piu` eversivo della trasformazione di una immagine materiale in una mentale. La rappresentazione della mente come casa scombina i rapporti diegetici fra interno ed esterno che sono stati appena siglati dall’uscita serale della famiglia del Cavaliere. Fino a questo punto lo spazio deputato al racconto sembrava essere la casa del Cavaliere, con la disponibilita` di tutte le possibili interferenze dall’esterno che la casistica narrativa puo` contemplare. L’utilizzo della casa come immagine per rappresentare la mente, apparentemente ingenuo e naturalistico, muta il concetto di spazio di “Cinematografo cerebrale”, trasferendo letteralmente la casa all’interno della mente del personaggio e facendo della mente la casa in cui si svolge il racconto. La seconda ‘visione’ sara` cosı` dipendente dalla similitudine casa-mente da assorbirla nel racconto come setting. D’altronde, la constatazione che tutto si sia spostato all’interno del personaggio e` gia` palese nella riflessione del Cavaliere: gli attributi di aperto e chiuso, sui quali si gioca la contrapposizione fra le due immagini di casa, reinterpretano semanticamente il divario esterno-interno, diventando definizioni della mente. La casa, in seguito, tornera` come immagine esterna nel racconto, rivelandosi allo sguardo trasformato del Cavaliere come una “gabbia”, “un guscio appicci46 cato ad altri gusci” , un completo rovesciamento di segno rispetto all’elogio della chiusura che il personaggio aveva tessuto nella sua immagine 47 ideale di casa (e di mente) . 45
Sulla centralita` e sulle contraddizioni dell’immaginario mentale nello sviluppo del pensiero occidentale si veda W. J. T. Mitchell, Iconology. Image, Text, Ideology, Chicago University Press, Chicago & London 1986. 46 Cc, p. 42. 47 Fino alla climax appena riportata la casa assume toni sempre piu` spettrali nel corso
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Nel paragrafo successivo al paragone mentale il discorso si connota in senso cinematografico per la trasformazione in schermo di una delle finestre di questo “edifizio” cerebrale appena descritto: il viso di un ex compagno di collegio gli compare improvvisamente davanti, in primo piano, come “risorto” dal “cimitero” di ricordi che il Cavaliere immagina sia ospitato dentro la nostra testa. Nella dinamica di questa apparizione il lettore trova conferma dell’immagine mentale del personaggio: al disegno non finito della casa corrisponde il ritratto incompleto del compagno, il 48 cui viso manca della parte inferiore, “come in una maschera lacerata” . Insieme alla modalita` cinematografica dei pensieri, la visualizzazione imperfetta del compagno introduce la cifra psicologica che li provoca. Intrattenendosi con i propri pensieri, come spieghera` alla moglie che scorge i segni della pazzia nello stato di agitazione in cui lo trova al ritorno da teatro, il Cavaliere vede dentro di se´ lo spettacolo poco edificante delle ansie e delle paure che lo ossessionano; i modi in cui si struttura questa visione non sarebbero ‘pensabili’ senza il cinema. Uno studio specifico sul connubio fra cinema e psicologia non vedra` la luce prima del 1916, anno della pubblicazione di The Photoplay. Hugo Mu¨nsterberg, il suo autore, era un accademico friburghese trapiantato negli Stati Uniti la cui passione per il cinema si tradusse nella prima monografia scientifica dedicata alla nuova arte. Nel libro si ritrovano, 49 come ha sottolineato Gilmore , accenti analoghi a quelli che animano lo scritto di Vachel Lindsay, con la medesima enfasi per l’aspetto democratico del nuovo intrattenimento. La corda nuova toccata da Mu¨nsterberg era la stretta relazione fra cinema e psicologia, che caratterizza il suo profilo professionale insieme al profondo discredito manifestato nei con50 fronti della psicanalisi . Nell’introduzione alla tardiva edizione italiana, Apra` sostiene che la “rimozione” del testo e` da collegare alla tesi centrale del libro, “e cioe` alla individuazione dello spettatore e delle sue reazioni 51 mentali come elemento strutturale dello spettacolo cinematografico” .
del racconto, che stravolgono l’immagine di convivialita` delle presenze evocate all’inizio del testo (gia` minata, comunque, dall’intrusione di convitati ‘spiacevoli’ nel pranzo natalizio richiamato alla mente dal Cavaliere). Due pagine prima di diventare “gabbia”, la casa produce suoni terrificanti (“Lo scosse lo schianto d’un mobile”, p. 40) che portano il pensiero del Cavaliere a materializzare presenze incorporee. 48 Ibid., p. 30. 49 Michael T. Gilmore, Surface and Depth, cit., p. 112. 50 Ibid., p. 111. 51 H. Mu¨nsterberg, Film. Il cinema muto nel 1916, Pratiche, Parma 1980, p. 6 (corsivo dell’autore).
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Partendo da questa centralita` dello spettatore, Mu¨nsterberg rapportava il cinema alla sua facolta` tecnologica di esteriorizzare i processi interiori dell’essere umano, in esplicita alternativa al naturalismo limitante del teatro. Il racconto di De Amicis rinuncia al naturalismo come conseguenza della decisione del Cavaliere di rinunciare al teatro; il suo ambito si scioglie metaforicamente dai vincoli del reale e della verosimiglianza cui e` legato il palcoscenico per scoprire nella mente del personaggio l’espressione cinematografica del pensiero. Nella scrittura deamicisiana troviamo i procedimenti linguistici del cinema muto, che Mu¨nsterberg illustrera` nel suo studio a partire dal primo piano. “Cinematografo cerebrale” e` costituito da una serie di sequenze, tre per la precisione, scandite dai tentativi di rifocalizzazione dello sguardo sull’interno casalingo, che nel contesto narrativo assume paradossalmente la funzione di un esterno. Impossibili da riassumere, le sequenze si sviluppano per associazioni mentali la cui logica e` intrinseca al vissuto del personaggio, a tal punto che si e` scritto del 52 racconto come di un’anticipazione del film d’avanguardia . Il testo, a mio parere, trova gia` nel cinematografo contemporaneo, se non nel cosiddetto pre-cinema, un referente piu` prossimo (come attesta anche la costruzione episodica del racconto) che viene indirettamente citato nei passaggi fra una immagine e l’altra e nei rapporti di composizione delle immagini stesse, creando un ibrido semiotico nel quale la tensione verso il cinema fa della pagina scritta uno schermo che, deleuzianamente, non puo` trovare una diretta corrispondenza semantica in alcuna superficie esterna di proiezione. Prendiamo di nuovo il viso del compagno di collegio: la parte mancante verra` ritrovata dal Cavaliere in un volto femminile, senza il supporto ‘realistico’ di una somiglianza fra i due, come lo stesso personaggio constata stupito. La modalita` di ricomposizione di questo viso del passato rimanda a invenzioni come il Thaumatropio o il Fenakistiscopio, strumenti ottocenteschi che divertivano tramite illusioni ottiche e meravigliavano soprattutto i giovani spettatori per la possibilita` di vedere due figure separate fondersi in una unica immagine: secondo una vulgata di stampo pseudo-scientifico, il fenomeno veniva allora attribuito alla persistenza retinica della prima immagine durante la visione della seconda. Invece, la
52 L’accostamento si legge in uno scritto di Cristina Bragaglia, pubblicato on line su «Bollettino 900», Dicembre 2001, n. 2. Il titolo dell’articolo e`: Scrittori italiani e cinema; il sito su cui consultare questo e gli altri numeri e`: http://www.unibo.it/boll900/numeri /2001-ii/.
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distanza fra le due immagini nella sequenza del racconto delega gia` a dinamiche psichiche il completamento dell’inquadratura imperfetta. Fra le linee di questo disegno articolato del cinema delle origini che il Cavaliere traccia nella sua mente, non manca spazio per il fantastico. Il compagno buono viene rimpiazzato, senza soluzione di continuita`, da un suo doppio malvagio dagli occhi loschi, che perseguita la mente del Cavaliere, comparendo negli scenari piu` impensati, affastellati dal perseguitato nella speranza di estrometterlo dall’assurda sequenza: l’Arsenale di La Spezia, poi la basilica di San Pietro, passando per un ghiacciaio delle Alpi per finire in un luogo confortante e florido che il cavaliere identifica nella Bolivia. Qui il rimando e` ai Kaiserpanorama e alle proiezioni di mondi nuovi, o soltanto lontani, che rallegravano le serate della borghesia di fine Ottocento. A questa immagine persistente dello sguardo maligno si accompagna per sottrazione quella del padre del Cavaliere, che, nonostante la sua ostinazione a evocarlo, come per esorcizzare la possibilita` che appaia senza convocazione, egli non riesce a visualizzare. Sono proprio i termini che usa il Cavaliere, quando, memore del racconto di un’amica sulla visione del fantasma di suo padre, chiude gli occhi, dicendo: “Quando riapriro` gli occhi, lo vedro` in quell’angolo”53. Quasi una celebrazione delle potenzialita` della lanterna magica, di cui il personaggio spettatore del racconto di De Amicis si sente figura sostitutiva e autofunzionante, riprendendone il repertorio, spesso legato al tema dell’apparizione terrifica dall’aldila`. “Cinematografo cerebrale” esplora le potenzialita` del flashback cinematografico (o cutback, come lo chiamava Mu¨nsterberg, “atto mentale del ricordo”54), rovesciando il corso del tempo e riportando il personaggio allo stadio infantile fino a ricostruire sotto i suoi occhi l’immagine della mano piccola e graziosa che aveva da bambino: una dissolvenza che solo il cinema puo` realizzare. Nel racconto, tuttavia, trova spazio anche un inquietante flash-forward, allorche´ i pensieri del Cavaliere si rivolgono alla morte e al dubbio che la facolta` visiva possa continuare a sussistere in lui dopo il trapasso. Ma nella mente del Cavaliere non scorrono solo immagini private (e soltanto spaventose) della sua esistenza.
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Cc, p. 40. H. Munsterberg, Film. Il cinema muto nel 1916, cit., p. 58.
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5. Un Cavaliere voyeur e feticista Le preoccupazioni del Cavaliere sono anche sociali e politiche. Nella metafora visuale della casa aperta e ‘indifesa’ da irruzioni esterne risiede il senso di perdita del potere borghese legato all’immagine della casa, come nucleo protetto in cui esercitare le stesse dinamiche di controllo che vengono praticate all’esterno per mantenere le classi inferiori in condizione di subalternita` sociale. La voce che sente vicina a lui, dopo che immagini di morte e di sopraffazione militare di riottosi gli si sono affacciate alla mente al suono della Marsigliese, gli chiede, non a caso: “E 55 se avessero ragione i socialisti?” . Dalla parola “socialisti” all’immagine 56 della faccia “zazzeruta e barbuta” di Marx il passo e` breve, ma rilevante per la connotazione visiva del rapporto ideologico tra parola e figura: il ‘fantasma’ socialista prende forma nel salotto borghese, precisamente sopra il pendolo del caminetto. Il quadro, austero e sgradevole, che il Cavaliere ha appena incorniciato si disfa in movimento, cambiando anche di genere sessuale: al suo posto prende vita il ricordo di un’operaia dai bei fianchi che aveva osservato sfilare a un corteo del Primo Maggio. La contiguita` ideologica non e` interrotta, perche´ l’inquadratura del dettaglio fisico, nonostante l’apparente incongruita` con l’immagine precedente, non sposta il discorso in un diverso ordine di idee. La proiezione del ritratto scompigliato di Marx sulla parete somiglia alle illusioni ottiche emanate dalla camera obscura, uno strumento che ricorre spesso negli scritti marxisti come metafora visiva della falsita` ideologica dell’idealismo tedesco. L’accezione di camera obscura impiegata da Marx era quella uno di strumento scientifico, nei cui presupposti di riproduzione diretta della visione naturale si potevano individuare le illusioni della filosofia idealista. L’uso retorico dello strumento non sfugge, tuttora, ad uno slittamento semantico in quanto la camera obscura, come ha 57 ben illustrato Mitchell , forniva a Marx un modello cognitivo altrettanto valido sull’origine concreta e visuale dei concetti (da opporre a quella innata degli idealisti); inoltre, resta da considerare la funzione ‘magica’ della macchina ottica, utilizzata per la produzione di intrattenimenti visuali per la borghesia e per le sue ambizioni sociali di collezionismo delle immagini, oppure per spettacoli da lanterna magica con la trasformazione visiva di una figura umana in due immagini opposte (angelo e demonio, se
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Cc, p. 30. Ibid. W. J. T. Mitchell, Iconology, cit., pp. 168-172.
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non, in senso socialmente piu` esplicito, re e mendicante). Il cinema cerebrale del Cavaliere sembra aver introiettato una sovrapposizione fra le immagini riproducibili, utilizzando entrambe le versioni ‘sociali’ della camera obscura: quella scientifica produce il volto di Marx, per un processo di affinita` ideologica, percio` immaginifica, fra concetto e filosofo; quella magica disvela, dal volto zazzeruto del filosofo, il fianco di una procace operaia, con un percorso che trasforma il dato sociale in dettaglio voyeuristico. Lo stesso meccanismo di associazione si riproduce nella seconda sequenza del racconto. Il Cavaliere, seguendo un filo incalzante di ricordi, si ritrova nella stazione di Roma a ridere con altri passeggeri per la oscenita` irresistibilmente comica detta da un operaio; anche qui, l’immagine successiva e` di un corpo femminile, “una fresca ragazza tutta curvili58 nea” che esce fuori da una botola, la cui relazione con il protagonista e`, di nuovo, segnata da motivi di lavoro (e` la sua cameriera). La ‘trovata’ della botola e` un corrispettivo visuale della rapidita` dei passaggi prodotti nella camera obscura, ma la sua imprevista apertura connota la morbosita` del desiderio sessuale verso i propri subalterni, in una chiave topica della rappresentazione femminile nel cinema delle origini. In effetti, la ricorrenza della donna come oggetto erotico nei pensieri del Cavaliere, oltre a rievocare l’attacco alla pruderie borghese, collega le sue visioni al voyeurismo, che gli storici del cinema concordano nel considerare il genere piu` frequentato dalla produzione cinematografica degli esordi. Come osserva Burch: Uno degli archetipi del racconto cinematografico, apparso contemporaneamente alle Passioni e assai prima dell’inseguimento, e` il film propriamente voyeuristico: una donna si spoglia sotto gli occhi di un uomo (di regola nascosto al suo sguardo)59.
La cameriera si presenta allo sguardo del padrone “non piu` vestita che 60 la Venere dei Medici” , cosı` da far scattare una censura interna dei pensieri, che si chiudono nell’immaginazione. In questo caso il pensiero del corpo femminile determina una sospensione nel racconto, un punto di interruzione del flusso memoriale che diventa momento di ripiegamento autoriflessivo del personaggio sulla trama dei suoi pensieri, in cerca di una logica preposta alla loro composizione. Lo scarto emotivo causato dalla
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Cc, p. 35. La citazione e` tratta da N. Burch, Il lucernario dell’infinito, cit., pp. 220-221, corsivo mio. Cc, p. 35.
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visione feticistica della sequenza precedente era stato risolto con meno imbarazzo, anche se creando stupore nel Cavaliere stesso: il volto dell’operaia manifestante si era incastrato perfettamente nel viso del compagno di collegio, completandolo, e assicurando la continuita` ‘progressiva’ del pensiero. L’apparizione ex machina della cameriera ha un disvalore aggiunto rispetto al ricordo dell’operaia: compromette la ricerca di narrativita` del racconto, esemplificando, qui in anticipo sui tempi, l’effetto di paralisi diegetica che l’esposizione del corpo femminile avra` sulla struttura del racconto cinematografico classico. Come ha argomentato Laura Mulvey 61 nel suo fondamentale saggio “Visual Pleasure and Narrative Cinema” , la presenza del corpo femminile pone problemi di integrazione del medesimo nella struttura sintattica della narrazione, perche´ prevale la sua funzione di oggetto erotico su quella narrativa: la soluzione spesso adottata e` quella di far convergere i due sguardi – l’erotico e il narrativo – all’interno di una strategia, come quella della esibizione di una show-girl. In De Amicis la visione improvvisa della cameriera espone il desiderio erotico del Cavaliere come ulteriore colpo al tentativo da parte del personaggio di dare un ordine logico ai suoi pensieri: egli stesso arranchera` nel tentativo di rifare il percorso compiuto dalla sua mente, partendo dall’immagine ben piu` edulcorata ma certo non salvifica, della cuginetta bionda e dal ricordo – messo en abyme in un altro ricordo – della sensazione provata nello stringerle la mano di nascosto. C’e` un altro elemento feticistico che riporta l’attenzione del Cavaliere alla sua vita esteriore: il denaro. Sono tre i momenti in cui il pensiero del denaro viene ad interrompere il flusso mentale del Cavaliere, provocando un repentino abbassamento di tono e riportando bruscamente il dialogo audiovisivo fra il Cavaliere e la sua mente a livelli bassi nel senso bachtiniano del termine. Lasciando da parte la nota di un bottegaio il cui ricordo improvviso lo interrompe a meta` della recita del Pater noster, ci soffermiamo sugli altri due episodi per le fantasie visive ‘immorali’ che suscitano nella mente del personaggio. Nel primo episodio il Cavaliere cerca di ricomporre i pensieri, vergognandosi della regressione infantile che lo aveva ricondotto alla mano della cuginetta; per farlo disegna mentalmente la villa dei suoi sogni e si inventa vari modi per venire in possesso della cifra necessaria, l’ultimo dei quali e` il furto. Nel secondo episodio, il Cavaliere rammenta le beghe pecuniarie avute con il padrone di casa per il rifiuto, da parte di 61
L. Mulvey, Visual and Other Pleasures, Bloomington and Indianapolis, Indiana University Press 1989, pp. 14-26.
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quest’ultimo, di partecipare alle spese necessarie a riparare la cucina: il desiderio di rivalsa sul proprietario si tramuta in spinta omicida, che, a differenza della laconicita` del furto immaginato, viene descritta in maniera dettagliata con uso di notazioni splatter sugli effetti della sua azione violenta (“fracassargli il capo contro il muro, dove avrebbe lasciato un’impronta 62 rossa con dei capelli”) . Il desiderio di denaro porta il personaggio a rivestire mentalmente ruoli che non gli appartengono per collocazione sociale, permettendogli di provare sensazioni di deragliamento dal reale quotidiano simili a quelle sperimentate sull’asse spazio-temporale attraverso il ritorno alla fanciullezza. Quando, terrorizzato dall’ultima trasformazione in assassino, il Cavaliere fa un bilancio della sua avventura mentale, le ‘interpretazioni’ che elenca dentro di se´ abbracciano entrambe le tipologie: E penso` a tutto quello ch’egli era stato in quel breve tempo che era da solo: un bambino, un eroe, un santo, un vigliacco, un pazzo. In verita`, c’era da perdere il capo63.
Il rutilante esibizionismo attoriale del Cavaliere convive, anzi, scaturisce dalla condizione di solitudine che proprio in quegli anni va sempre piu` caratterizzando lo spettatore cinematografico diversamente dalla comunita` formata dal pubblico teatrale. La sensazione vertiginosa di passare attraverso cosı` diverse ‘interpretazioni’ non si accompagna, tuttavia, a un senso di liberta` espressiva, ma insinua nel personaggio il dubbio che non esista alcuna volonta` personale a guida del suo percorso mentale. Questa incertezza si manifesta gia` nella prima sequenza: per sfuggire alla persecuzione dello sguardo della figura losca che emerge dal volto del suo compagno, il Cavaliere finisce per pensare a un paesaggio apocalittico e disabitato da cui desidera andarsene; come nuova meta si ritrova di colpo a pensare alla Bolivia, di cui non sa nulla, e si chiede, piccato, il motivo di quella scelta priva di qualunque logica. L’unica ipotesi plausibile che puo` formulare e` quella di essere soltanto “una macchina pensante”, mossa da congegni a lui ignoti e dei cui prodotti puo` dirsi soltanto “spettatore”. Con questa riflessione De Amicis attribuisce al pensiero la struttura di una macchina, che, producendo immagini, trova nel cinema il modello al quale rifarsi; il racconto esemplifica, allora, il processo di trasformazione che il pensiero, in quanto facolta` umana, elabora, ripensando il proprio 62 63
Cc, p. 43. Ibid.
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funzionamento a partire dalla macchina con cui entra in relazione, in questo caso il cinema. La definizione di se´ che il Cavaliere da` rispondendosi profila, pero`, un tipo di spettatore passivo, quella tabula rasa dove verrebbero impresse le immagini cinematografiche, gia` sentito come stereotipo fallace da Mu¨nsterberg, il quale scrive che “lo spettatore puo` essere completamente affascinato dall’azione scenica”, per aggiungere immediatamente dopo che “la sua mente puo` essere presa da altri pensieri. Uno di questi, e non certo 64 il meno importante, e` la memoria” . Che ritratto di spettatore emerge da “Cinematografo cerebrale”, e in che rapporto sta con la letteratura, di cui e` ‘ospite’?
6. Un Cavaliere, anzi due Davanti al pensiero di una latente pazzia, il Cavaliere cerca di trovare un antidoto nella lettura. La decisione e` unicamente frutto della sua ansia, dal 65 momento che “di leggere libri non aveva l’abitudine” : anche il libro, come il teatro, appare come oggetto mediatico esterno alle forme cinematografiche in cui si esprime il pensiero del personaggio. A differenza del teatro, pero`, il libro e` in uno spazio – la casa – che torna ad essere percettibile ogni volta che le proiezioni mentali del Cavaliere si interrompono per il superamento di un grado tollerabile di emotivita`. Il libro, anonimo, che compare nel racconto si situa fra due di queste interruzioni: della prima si e` detto, mentre la seconda e` opera di un “altro” Cavaliere, la cui presenza censurante e` diretta emanazione del volume stesso. La funzione di questo ‘doppio’ e` specificamente semiotica: a lui viene attribuita la lettura della pagina appena terminata di cui il Cavaliere non ricorda nemmeno una parola. Nella tripartizione che Fusillo propone del 66 tema , la situazione del Cavaliere corrisponde al terzo caso, definito della “duplicazione dell’io”, una versione del tema che si configura pienamente nell’Ottocento, in concomitanza con l’interesse tematico del romanticismo per le forme di patologia mentale. Si potrebbe obiettare che il doppio del Cavaliere ha una vita troppo breve per indirizzare tematicamente il racconto; tuttavia, la sua comparsa e` suscitata da una dissociazione 64
H. Mu¨nsterberg, Film. Il cinema muto nel 1916, cit., p. 57. Cc, p. 27. 66 Massimo Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, La Nuova Italia, Firenze 1998. 65
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semiotica del personaggio, che organizza e rielabora i campi di contrapposizione sociale e psichica in cui si e` dibattuto il Cavaliere intorno al rapporto fra scrittura e immagine. Nello svolgersi regolare e visibilmente geometrico delle frasi sul libro, la mente del personaggio avrebbe dovuto trovare sollievo ed armonizzare il proprio percorso alla continuita` lineare del discorso; invece, l’attenzione del Cavaliere si focalizza tutta sugli interstizi bianchi tra un rigo e l’altro e la sua mente si impossessa di quegli spazi liberi da parole per riempirli di altre, nuove immagini la cui origine non sembra affatto localizzabile nelle frasi lette, che per l’appunto non sono ne´ riportate ne´ ricordate dal lettore distratto. L’atteggiamento del Cavaliere e` quello di un flaˆneur sulla superficie testuale del libro, che legge “pensando ad altro”: la pagina viene assuefatta allo spazio architettonico che la mente si e` figurata per rappresentarsi e diventa di conseguenza una parete, le cui fessure, parte integrante dell’incompletezza lamentata dal Cavaliere nell’immagine mentale della casa, permettono allo sguardo del personaggio una vista ulteriore su paesaggi e figure della sua memoria. Alla fine della pagina, il Cavaliere ricorda di aver letto, ma non ricorda cosa: da qui, come accennavo sopra, la ricerca di una parte nascosta di se´ che possa giustificare il paradosso: eppure aveva letto. Ma lui proprio? O un altro lui, misterioso, che aveva fatto le sue veci? Siamo due in uno, dunque? E chi e` l’altro? E io...? Chi sono? Gli parve in quel momento d’essere sconosciuto a se stesso67.
La moltitudine di io che il personaggio ritrova nei suoi ricordi si condensa bruscamente in una sola presenza, un doppio interiore, di cui il Cavaliere cerca spasmodico la voce ponendosi una sequela di incalzanti interrogativi: otterra` una risposta alquanto seccata (“Finiscila!”) dal “lettore compiacente” che e` in lui e non sopporta i pensieri di morte ai quali si abbandona il protagonista dopo aver letto la propria eta` nel numero della pagina. Il taglio ironico con cui il doppio liquida i dubbi esistenziali del Cavaliere incrina il piano fantastico sul quale la percezione dell’altro da se´ sembrava svilupparsi nelle domande del personaggio. Il resto del racconto dimostra che la mente del Cavaliere non da` ascolto a questa voce interiore normativa, ma si spinge oltre fino a sperimentare una trasformazione ancora piu` eccessiva delle altre, quella in assassino del padrone di casa. Tuttavia, la fugace apparizione del doppio non ne svilisce l’impor67
Cc, p. 41.
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tanza nell’economia del racconto; anzi, si riaffaccia l’ipotesi virtuale di un io ‘lettore’ che il Cavaliere aveva rifiutato a priori come soluzione per ammazzare il tempo. Questo io virtuale si manifesta nel medesimo perimetro casalingo del protagonista (come nel racconto “The Jolly Corner” di 68 James , di un anno successivo a “Cinematografo cerebrale”), costringendolo ad alzarsi dal letto in cui si era immaginato morente, e a camminare; la sua forte connotazione mediatica (appare solo ‘attraverso’ il libro) non puo` passare, pero`, inosservata. Immaginando l’altro come lettore, il Cavaliere scopre di non conoscersi e di non avere termini per definire la propria personalita` nel modo in cui la macchina cinematografica dei suoi pensieri l’ha rivelata. Il doppio ‘letterale’ del Cavaliere diventa, cosı`, un’invenzione del personaggio, un immaginario deuteragonista che costringe la mente a interrompere le sue proiezioni, ma anche un’ennesima proiezione della sua mente che ha trasformato in schermo lo spazio tra un rigo e l’altro del libro. Il ritratto che emerge e` quello di una incarnazione letteraria 69 dell’homo cinematographicus , un personaggio di cui il cinema mette in crisi i valori, confondendone la presunta conoscenza di se´. Psicanalisi e cinema si incontrano qui in modo esemplare, inscenando nella mente del personaggio il disvelamento dei mostri che la abitano, i ‘reali’ doppi perturbanti della sua personalita`: che scopriamo improvvisamente in noi come malfattori rimpiattati nella nostra casa. Che cosa e` dunque anche la testa di un uomo onesto se ci 68
Introducendo il racconto (il cui titolo e` stato tradotto in L’angolo prediletto) come esempio di duplicazione dell’io, Fusillo scrive: “A cavallo fra Ottocento e Novecento la letteratura fantastica subisce una profonda trasformazione: molti dei temi della fase romantica – fra cui ovviamente il doppio – vengono ripresi e riscritti in forme innovative, con una marcata tendenza alla soggettivizzazione e all’ambiguita`”, in Id., L’altro e lo stesso, cit., p. 299. Incentrato sulla paura e sul desiderio di visualizzazione dell’altro se´, il racconto di James insinua il motivo intersemiotico per ribaltare il rapporto tra copia e originale: per fornire al lettore un’idea di come siano particolareggiati i tratti del doppio, quando finalmente il protagonista Spencer Brydon lo incontra, James riutilizza in versione litotica l’espediente narrativo del quadro animato, sottolineando la diversita` inquietante del doppio di Brydon attraverso la sua irriproducibilita` su tela, indipendentemente dalla grandezza dell’artista moderno che avesse intrapreso l’opera. 69 La definizione e` di Gian Piero Brunetta, nel saggio Visibilita` e iconosfera dal cinema alla televisione, in AA.VV., Pensare al cinema, «aut aut», cit., p. 70. Brunetta sottolinea l’impatto anti-narrativo che il cinema ha sui letterati coevi alla sua nascita: “Il cinema nella sua prima infanzia viene riconosciuto e apprezzato dai letterati piu` che per le caratteristiche mimetiche, per le capacita` simboliche, per il potere di giungere, grazie alla luce, a poteri di conoscenza superiore, a vedere oltre la superficie del visibile, a captare e rendere tangibile quella materia impalpabile di cui sono fatti i sogni”, ibid., p. 73.
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possono nascere mille immaginazioni scellerate, turpi, mostruose, che ci vergogneremmo di confessare all’amico piu` fidato e piu` indulgente?70.
Altrettanto ineludibili i riferimenti all’antropologia, nella figura del 71 “selvaggio tatuato” in cui si sente e si vede trasformato il Cavaliere, e ai raggi X, che con cinema e psicanalisi condividono l’anno di nascita: fissando la propria mano, il Cavaliere comincia a immaginare gli strati successivi all’epidermide, arrivando alla visione di un corpo “scorticato, 72 aperto, multicolore, sanguinoso” , non senza riservare lo stesso trattamento virtuale a tutti i corpi di tutta la gente, che finisce per apparirgli mostruosa, persino nei gesti piu` delicati. L’attesa spasmodica e ormai incontenibile per il ritorno di moglie e figlie da teatro viene finalmente premiata e, con questo rientro, il registro del racconto si modifica: tornano (o meglio, fanno fugace apparizione) i dialoghi, si liquidano come stranezze le peregrinazioni rumorose del pensiero. Considerevole parte giocano le associazioni che il Cavaliere fa tra materiali sonori, associazioni che rimpiazzano gli accordi e i legami piu` tradizionalmente narrativi e sembrano alludere alle strategie di una scrittura intermedia, sul confine imprecisato tra la parola e la realizzazione audiovisiva dei rimandi che contiene: ci spostiamo su una forma testuale che puo` andare a coincidere con quella di una proto-sceneggiatura. A conferma di questo passaggio, le fessure che si aprono nel libro al Cavaliere spettatore, rivelando immagini che si sovrappongono nella sua memoria alle parole lette, uno spazio di compresenza ‘fantastica’ di parole e immagini che diventa autoreferenziale e si sdoppia metaforicamente dalla pagina che abbiamo sotto gli occhi. Ma con la moglie e le figlie rientra anche il teatro, inteso come istituzione borghese fondata sulla spiegazione razionale e narrativa degli accadimenti, oltre che come fruizione comunitaria del prodotto estetico. L’incapacita` di spiegare il motivo della propria agitazione viene scambiato dalla moglie per inconfessata ubriachezza, se non per la malcelata eccitazione di un incontro proibito con la cameriera: materia che si addice di piu` a una edificante rappresentazione teatrale, appunto. Il Cavaliere, invece, deve la sua eccitazione soprattutto alla scoperta di un sistema assolutamente inedito di comprensione e di appropriazione del senso che l’uomo sta sperimentando con la frequentazione del cinematografo. Nasce 70 71 72
Cc, p. 36. Ibid., p. 37. Ibid., p. 39.
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da qui l’esigenza di nutrire il personaggio di visioni legate ad una produzione cinematografica coeva (il film voyeuristico, il film d’orrore) e ad un contatto di apertura con una espressione anti-narrativa della scrittura, che De Amicis rintraccia a partire dalle modalita` pre-cinematografiche. Sebbene ancorato alla propria contemporaneita` dai riferimenti tecnici e scientifici che implicitamente punteggiano il racconto, il Cavaliere porta in se´ anche i tratti di un percorso della modernita` che nasce con l’introspezione letteraria settecentesca e di cui De Amicis corregge il dettato sentimentale: basti confrontarlo con Harley, il protagonista del romanzo The Man of Feeling di Henry Mackenzie (1771), la cui esplicita intenzione programmatica e` di “mettere in mostra, del suo essere, the man within di contro the man without, cosı` caro a tanta narrativa d’avventura del 73 Settecento” ; un personaggio, Harley, che condivide con il Cavaliere anche la dimensione ipnagogica in cui riaffiorano le sue memorie davanti al camino, descritta poi da Sartre come la condizione piu` prossima a quella della visione cinematografica. Ogni personaggio che trascorre il suo tempo narrativo a vedere lo spettacolo che gli offrono i suoi pensieri e` ovviamente esposto a questo tipo di lettura intersemiotica. Rispetto a Harley, tuttavia, la funzione di spettatore del Cavaliere e` cinematografica, non solo nel titolo, ma nella sostanza del suo pensiero. Ho trovato nel racconto una collocazione piu` indicizzata di questo ‘spettatore’, che permette di evitare il suffragio indiscriminato di una categoria universale priva dei necessari correttivi storici. A questo riguardo, la parabola audiovisiva del nostro spettatore deamicisiano sembra offrire un caso pertinente. Le opportunita` di svago che il Cavaliere cerca, e momentaneamente trova, nel funzionamento meccanico della sua mente, schiacciando sul pulsante metaforico del “ricordo”, lo rendono simile a chi usa un supporto meccanico esterno, come videoregistratore o lettore DVD. In questo senso, il Cavaliere e` identificabile con il potenziale cliente delle sale kinetoscopiche di cui l’homevideo rappresenta un aggiornamento; la scelta isolazionista che lo contrappone al pubblico teatrale (moglie e figlie) conferma l’ipotesi. Il racconto di De Amicis offre al lettore anche un altro aggancio con lo sviluppo tecnologico dell’epoca: la forte componente
73 Laura Di Michele, Maschere e Prigioni del romanzo sentimentale in Inghilterra, in P. Amalfitano, F. Fiorentino, Giuseppe Merlino (a cura di), Il romanzo sentimentale (1740-1814), Atti del Colloquio della Associazione Sigismondo Malatesta (19-20 maggio 1989), Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1990, p. 36.
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psicanalitica, cui accennavo sopra. In “Cinematografo cerebrale” non vedo, pero`, le premesse di quella analogia fra spettatore e paziente che e` diventata poi un assioma della teoria estetica del cinema, soprattutto nella 74 definizione del processo di identificazione formulato da Baudry . Tanto questa coincidenza fra processi di identificazione, dalla psicanalisi al cinema, e` anche funzionale ad una garanzia del regolare adeguamento dello spettatore alla visione del film, quanto le visioni di “Cinematografo cerebrale” portano il segno di una mancata condivisione tra spettatore e film che spinge temporalmente il racconto ai confini dell’onirismo d’avanguardia. In questa prospettiva, la parola “cinematografo” prende a significare la confusione audiovisiva generata dalla mente del Cavaliere, piuttosto che la coincidenza fattuale tra le immagini create nella testa del personaggio e quelle di uno specifico filmico esterno. I riferimenti ingarbugliati al pre-cinema e al cinema delle origini testimoniano il tentativo deamicisiano di rappresentare un personaggio ancora sconosciuto come lo spettatore, cui il cinema si presenta come un luogo privato, una ‘casa della mente’, che l’uomo cinematografico del Novecento puo` percorrere fino a raggiungere l’“ultima camera dove si muovono allo stesso tempo la 75 speranza e il fantasma di una storia interiore” .
74 Cfr. Jacques Aumont, Alain Bergala, Michele Marie e Marc Vernet, Estetica del film, Lindau, Torino, 1999, pp. 172-185. 75 Jean Louis Schefer, L’Homme ordinaire du cine´ma, Cahiers du cine´ma-Gallimard, Paris 1980, p. 12 (corsivo mio).
Robert Englund interpreta l’attore americano cui è affidato il ruolo di Cagliostro nel film Il Ritorno di Cagliostro (2003) di D. Ciprì e F. Maresco.
Buster Keaton davanti alla cassa di un cinema in Sherlock, Jr. (1924). Immagine tratta da “Il Cinema. Grande storia illustrata” (Istituto Geografico De Agostini).
George O’Brien in Sunrise (1927) di F. Murnau. Immagine presa dal catalogo della rassegna CINEAMERICA (Roma, 1991), a cura di O. Caldiron.
Evelyn Brent e Emil Jannings in The Last Command (1928) di J. Von Sternberg. Immagine presa dal catalogo della rassegna CINEAMERICA (Roma, 1991), a cura di O. Caldiron.
New York Movie (1939) di E. Hopper, New York, The Museum of Modern Art.
Cacciatori nella neve (1565) di P. Bruegel il Vecchio, Vienna, Kunsthistorisches Museum.
Copertina della prima edizione inglese del romanzo di Nabokov (1936), ritradotto subito dopo dallo stesso autore con il titolo di Laughter in the Dark; lo pseudonimo Sirin risale al periodo trascorso a Cambridge (immagine tratta dal sito della New York Public Library).
Keith Baxter (Hal) e Orson Welles (Falstaff) in Chimes at Midnight (1966) di O. Welles.
Elsa Lanchester (the Bride) e Boris Karloff (the Monster) nel film Bride of Frankenstein (1935) di J. Whale.
William Hurt (Molina) e Raul Julia (Valentín) in The Kiss of the Spider Woman (1985) di H. Babenco.
David Weisman (produttore), Sonia Braga (attrice non protagonista) e Manuel Puig (scrittore) durante il party promozionale del film The Kiss of the Spider Woman. (immagine tratta dal sito del film www.kissofthespiderwoman.com).
Jane Randolph (Alice) si accorge di essere seguita in Cat People (1942) di J. Tourneur.
La locandina del film The Conversation (1974) di Francis Ford Coppola.
Un altro fotogramma del film Sherlock, Jr. (1924) di Buster Keaton. Immagine tratta da “Il Cinema. Grande storia illustrata” (Istituto Geografico De Agostini).
Michael Caine (Milo) e Laurence Olivier (Andrew) nel film Sleuth (1972) di J. Mankiewicz. Immagine tratta da “Il Cinema. Grande storia illustrata” (Istituto Geografico De Agostini).
2 La convergenza modernista fra cinema e letteratura. Schwartz, Pirandello, Quiroga, Bellow e Nabokov Ai giorni nostri, quando una persona vive da qualche parte in un quartiere periferico, il posto non `e “certificato” ai suoi occhi. Ci vivra` di sicuro con tristezza e il vuoto che `e dentro di lui si espandera` fino a evacuare l’intero quartiere. Ma quando vedra` un film che mostra quello stesso quartiere, gli diventera` possibile viverci, almeno per un po’ di tempo, come una persona che `e da Qualche Parte e non da Nessuna Parte. W. Percy, The Moviegoer
1. Il sogno cinematografico Il rapporto fra sogno e personaggio, tema principe del canone letterario ottocentesco, e` soggetto a modifiche significative con l’avvento del cinema. Individuato come luogo narrativo in cui gli scrittori hanno spinto l’immaginazione visuale fino a prefigurarvi una sala cinematografica, il sogno e` stato poi acquisito dalla teoria estetica del cinema come possibile modello interpretativo della relazione fra spettatore e schermo, diventando uno dei cardini del discorso psicanalitico sul cinema. Nel racconto di Delmore Schwartz (“In Dreams Begin Responsibilities”, 1935), che mi accingo a commentare, il personaggio narrante, autobiografico, sogna di essere in un cinema; non solo, sogna anche di vedere un film con altri spettatori e di condividere con loro la visione cinematografica del suo sogno, la cui materia appartiene a memorie di famiglia: il giorno del fidanzamento dei genitori. Come si evince anche da questa breve sinossi, la peculiarita` del testo e` quella di comprendere il racconto del fidanzamento all’interno della cornice cinematografica, tanto che il sogno si interrompe quando il personaggio viene estromesso dalla
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sala a causa del suo comportamento scorretto, di cui tornero` presto ad occuparmi. Restiamo, per ora, sul meccanismo dell’interruzione, parola che troviamo usata, sintassi a parte, nel titolo di un racconto italiano quasi contemporaneo, ancora in relazione al sogno. Pur non trattando di cinema e nell’apparente convenzionalita` retro` dei meccanismi fantastici, il racconto “Effetti d’un sogno interrotto” (1936) di Pirandello si incentra su una visione onirica che continua anche dopo il risveglio del personaggio sognante, in una chiave che e` stata gia` letta come cinematografica1. Pirandello, i cui legami con il cinema sono molteplici2, usa il motivo tradizionale del quadro vivente per sondare uno spazio narrativo inedito e colloca proprio in questa transizione tra sogno e veglia il nucleo fantastico del racconto. Il quadro in questione si trova nella casa presa in affitto dal narratore, e ritrae una Maddalena dalle sembianze straordinariamente simili a quelle della moglie defunta di un visitatore che, sconvolto dalla somiglianza, vorrebbe acquistarlo. Insieme al vedovo e` in visita anche un antiquario, che si offre subito da intermediario, sollecitando la vendita del quadro: il narratore oppone un categorico rifiuto, in quanto non e` proprietario della tela. Tuttavia, per il turbamento provocatogli dall’episodio, sogna di vedere la Maddalena intrattenersi con l’uomo nel salotto di casa sua. Svegliato da un improvviso rumore esterno, si alza dal letto per scoprire i due nello stesso luogo del sogno: la Maddalena viene descritta nell’atto di rientrare nel dipinto e riprendere la sua posizione, mentre l’immagine dell’uomo svanisce completamente, rivelando le forme e i colori del divano su cui un attimo prima giaceva disteso. Nella durata pur brevissima di questa coda del sogno assistiamo alla materializzazione di uno schermo virtuale, un supporto transitorio sul quale soltanto e` possibile visualizzare le due dissolvenze cinematografiche descritte dal narratore: un fade in per la Maddalena cui segue il fade out del vedovo momentaneamente consolato. L’elemento nuovo che si ravvisa nel racconto pirandelliano e` nella concentrazione diegetica del fantastico “in uno spazio di soglia quasi impraticabi-
1 Sandro Bernardi scrive del racconto come di un “magico esempio di cinema scritto” (cfr. Id., Introduzione alla retorica del cinema, Casa Editrice Le Lettere, Firenze 1995, p. 64). Per una esaustiva analisi critica del racconto, v. P. Pellini, Il quadro animato: tematiche artistiche e letteratura fantastica, Edizioni dell’Arco, Milano 2001. 2 Il prodotto piu` studiato di questo profondo interesse pirandelliano per il cinema e` costituito dai Quaderni di Serafino Gubbio (1925): per una documentata bibliografia sul romanzo, rimando al volume di F. Callari, Pirandello e il cinema, Marsilio, Venezia 1991.
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le”3, quello distinguibile fra “l’essere svegliati e l’essere svegli”4, uno spazio simile a quello che abbiamo visto attraversare piu` volte dal Cavaliere del racconto di De Amicis, tra la veglia e il sogno ad occhi aperti. “In Dreams Begin Responsibilities” la soglia tra sogno e risveglio coincide con l’ingresso della sala cinematografica, che risolve in chiave apparentemente realistica la collocazione fin qui fluida e instabile di questo spazio connettivo. Il campo, pero`, va subito sgombrato da eventuali fraintendimenti: non intendo sostenere che il racconto di Schwartz e` il primo ad essere ambientato in una sala cinematografica. Anzi, restando nell’ambito del fantastico su cui ci ha riportati il testo di Pirandello, ma spostandoci su 5 diverse latitudini geografiche , non fatichiamo a trovare in Horacio Quiroga, scrittore uruguayano ma naturalizzato argentino dei primi decenni del Novecento, un filone narrativo caratterizzato dall’elaborazione del tratto inquietante insito nello spettacolo cinematografico. Quiroga si inventa addirittura un personaggio ricorrente che assume il ruolo di ‘vittima’ della fascinazione cinematografica, unendo nel suo nome – Guillermo 6 Grant – la diversita` antropologica e culturale da “americano del sud” con la componente fonetica di marca statunitense; il racconto che qui mi 3
L. Lugnani, “Verita` e disordine”, in R. Ceserani, L. Lugnani et al., La narrazione fantastica, cit., p. 215. 4 Ibid., p. 213. 5 Se la piega fantastica che il cinema aveva preso nell’interpretazione di Matthews non avra` seguito immediato negli Stati Uniti, dove la presenza di Hollywood catalizza l’attenzione tematica degli scrittori, non avviene altrettanto in Sudamerica, dove il cinema diventa, invece, uno degli elementi chiave del fantastico. Il genere si sviluppa, infatti, proprio sulla scorta della forte influenza che i film nordamericani esercitano sull’immaginazione letteraria dell’altro emisfero, meno costretta dalla necessita` di favorire generi piu` compatibili con il taglio morale, spesso anche moraleggiante, in cui molti dei testi narrativi “hollywoodiani” trattano la questione del rapporto fra arte e industria. In un recente studio sulla narrativa hollywoodiana, Springer elenca il comico, il tragico, il realistico, il romantico e il satirico come stili letterari che la caratterizzano: “Certamente non ci sono elementi letterari specifici che forniscano una unita` formale e interna alla narrativa hollywoodiana di per se´. Tuttavia, si puo` parlare di un consenso tematico tra i testi narrativi di Hollywood e in molti di essi anche di un approccio quasi stilizzato in cui personaggi hollywoodiani stereotipati (il produttore avido, la stellina libidinosa, il regista ambizioso, lo scrittore disilluso, la comparsa dalle alterne fortune) vengono fatti muovere fra ambienti e situazioni quasi rituali (il party hollywoodiano, la riunione dei soggettisti o il resoconto col produttore, le retrovie degli studi cinematografici, la prima del film)”. Cfr. John P. Springer, Hollywood Fictions. The Dream Factory in American Popular Culture, University of Oklahoma Press, Norman 2000, pp. 15-19. 6 “Miss Dorothy Phillips, mia moglie” (1919) in H. Quiroga, Anaconda e altri racconti, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 76.
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interessa ricordare non e` tra quelli del ‘ciclo’ Grant, ma narra una vicenda che fa perno sulla transitorieta` del fantasma attoriale da una parte all’altra dello schermo cinematografico: in “El Puritano”7 (1921) i protagonisti sono degli spettri cinematografici che, chiusi in uno studio hollywoodiano, attendono la proiezione dei loro film per affacciarsi sul mondo reale degli spettatori. La trasformazione del “mondo finzionale dei film in un mondo 8 coesistente e parallelo al mondo attuale” e` frutto di una rilettura fantastica del cinema come mezzo di riproduzione che supera i confini tra vita 9 e morte e apre un dialogo oltremondano fra le ombre dello schermo e lo spettatore in carne e ossa.
2. Sogno o son desto? Di un ipotetico dialogo tra i vivi e i morti si parla anche nel racconto di Schwartz che descrive i disperati tentativi del protagonista di richiamare l’attenzione dei personaggi sullo schermo. Si tratta, appunto, dei suoi genitori, di cui il film sognato racconta il giorno del fidanzamento: il padre passa a prendere la fidanzata per portarla a Coney Island e, tra un divertimento e l’altro, chiederle di sposarlo. Il contesto di questa visione particolare non e` mai connotato in senso fantastico, ma conserva fino alla fine i tratti di un comune spettacolo cinematografico, reso anomalo dal comportamento esagitato del protagonista. L’unica connotazione e`, invece, di ordine temporale: il film e` una vecchia pellicola, con tutti i difetti del caso che vengono puntualmente elencati all’inizio del racconto: I think it is the year 1909. I feel as if I were in a motion picture theatre, the long arm of light crossing the darkness and spinning, my eyes fixed on the screen. This is a silent picture as if an old Biograph one, in which the actors are dressed in ridiculously old-fashioned clothes, and one flash succeeds another with sudden jumps. The actors too seem to jump about and walk
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Horacio Quiroga, Todos los cuentos, a cura di N. Ponce de Leo´n e J. Lafforgue, Coleccio´n Archivos, Madrid 1993. 8 Carlos Da´maso Martı´nez, “Horacio Quiroga: la industria editorial, el cine y sus relatos fanta´sticos”, in: Horacio Quiroga, Todos los cuentos, cit., p. 1299. 9 Sempre restando in tema di commistione tra mondo anglosassone e reinvenzione latino americana, si possono gia` osservare nel racconto di Quiroga i prodromi dell’incontro fra un ‘Crusoe’ sudamericano e i fantasmi audiovisivi dell’isola dov’e` naufragato che avra` luogo nel romanzo L’invenzione di Morel (1941) di Bioy Casares.
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too fast. The shots themselves are full of dots and rays, as if it were raining when the picture was photographed. The light is bad10.
Il paragrafo successivo si apre con un’ulteriore specificazione temporale: all’anno si aggiunge il giorno (“Domenica”) e il mese (“12 giugno”). Nel sogno del personaggio il film si adegua tecnicamente alla data del giorno in cui e` ambientato: la storia del cinema torna indietro insieme alla memoria del personaggio fino alla completa identificazione tecnica fra il ricordo e il film. In questa regressione temporale fino alla perfetta compatibilita` fra ricordo e film si puo` ravvisare una forte analogia con il concetto freudiano di regressione applicato alla teoria del sogno. Freud chiama regressione “il fatto che nel sogno la rappresentazione si ritrasforma nell’immagine 11 sensoriale da cui e` sorta in un momento qualsiasi” . Nel racconto di Schwartz questo percorso a ritroso porta a individuare l’immagine iniziale in un film, comunicandoci l’impressione che lo scrittore abbia trovato nel cinema la sua idea di immagine sensoriale e che la cornice cinematografica del racconto si possa anche leggere come una ricreazione immaginaria del contesto psichico in cui ha assorbito il racconto materno. Sappiamo, infatti, che la storia di Schwartz e` basata sul racconto che la madre gli fece di quel giorno fatidico, lasciando una traccia profonda nella sua psiche, come attesta la conferma materna della precisione dei dettagli con cui 12 l’evento viene narrato . Il peso di fattori psicanalitici e`, in effetti, particolarmente rilevante nella dinamica del racconto, tanto che lo si e` interpretato anche come “una metafora della nascita, con il nostro eroe che, dalla sala buia, calda, protettiva del cinema, immagine del grembo materno, 13 viene espulso, nella luce, nel freddo, nella solitudine della vita” . Tuttavia, la trasformazione dell’immagine sensoriale onirica in un film ha implica-
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Delmore Schwartz, “In Dreams Begin Responsabilities”, in Id., Screeno: Stories & Poems, New Directions, New York 2004, p. 34 (d’ora in poi DBR) [Credo sia il 1909. Mi sento come se fossi in un cinema, gli occhi fissi sullo schermo, il lungo braccio di luce intermittente che attraversa il buio. Il film e` muto, come i vecchi Biograph: gli attori sono conciati ridicolmente all’antica, i fotogrammi si succedono con sbalzi improvvisi. Anche gli attori si muovono a scatti e camminano troppo veloci; la pellicola e` macchiata e striata, come se il film fosse stato girato sotto la pioggia. Le luci non vanno]. 11 Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni (1899), Bollati Boringhieri, Torino 1988, p. 493. 12 Sull’origine del racconto cfr. l’introduzione di James Atlas a Delmore Schwartz, In Dreams Begin Responsibilities, New Directions, New York 1978. 13 Sandro Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, cit., p. 171.
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zioni ulteriori sul rapporto fra spettatore e schermo che hanno bisogno di essere approfondite. Nell’interpretazione freudiana sogno e ricordo sono gia` accomunati dalla modalita` regressiva: “Anche il ricordo intenzionale e altri processi parziali del nostro pensiero normale corrispondono nell’apparato psichico al regredire di qualche complesso atto rappresentativo verso la materia 14 grezza delle tracce mnestiche su cui esso si basa” . Le imperfezioni della pellicola muta descritta dal narratore sono il corrispettivo visuale della “materia grezza” di Freud. L’immagine accelerata, la grana puntiforme e la scarsa luminosita` rendono, pero`, il film del racconto di Schwartz anche l’equivalente di un ricordo nella memoria cinematografica del lettore – e 15 dello scrittore – statunitense contemporaneo (il rimando alla Biograph aggiunge una connotazione nazionalista), espandendo il dato personale e familiare del ricordo alla dimensione di un appuntamento con la Storia da cui non e` escluso il resto del consorzio sociale; non a caso, nel racconto si annovera la presenza di figure che interagiscono con lo spettatore isterico, prima nei tentativi della vecchia signora di ricondurre il suo vicino di posto alla ragione, spiegandogli, con reiterata pazienza, che si tratta soltanto di un film e che rischia di essere buttato fuori e di perdere, cosı`, i trentacinque centesimi che ha pagato per entrare, e poi nell’intervento della maschera che mette in pratica gli avvertimenti dettati dal buon senso dell’anziana signora e costringe lo spettatore ad abbandonare la sala. Riportandoci alla quotidianita` fenomenologica di una qualunque sala cinematografica dell’epoca, questi campioni di umanita` che incontriamo nella cornice del racconto, cui si fa ritorno piu` volte nel testo, annullano il connubio fra sogno e film potenzialmente inscritto nell’analogia regressiva dell’immagine. Il film fungerebbe da “materia grezza” alla quale il lavoro onirico riconduce il ricordo, ma il motion picture theatre in cui si trova il personaggio narrante spezza il legame isolazionista che fonda la possibile corrispondenza psicanalitica tra sogno e film: Il sogno risponde al desiderio con piu` esattezza e irregolarita`: sprovvisto di supporti materiali, e` sicuro di non scontrarsi mai con la realta`. E` come un film che sia stato “girato” interamente dal soggetto stesso del desiderio, film singolare per le sue censure, i suoi non-detto come per il suo contenuto
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S. Freud, L’interpretazione dei sogni, cit., pp. 492-93. Casa di produzione cinematografica statunitense che partecipo` alla guerra dei brevetti negli anni fra il 1897 e il 1908, e guadagno` la sua fama soprattutto con i film di Griffith, dal cui nome e`, in un certo senso, indissociabile. 15
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espresso, tagliato su misura per il suo unico spettatore, spettatore che e` anche autore e ha tutte le ragioni per essere soddisfatto16.
La ‘realta`’ della sala cinematografica interviene e si frappone tra il desiderio e il suo appagamento, binomio relazionale del sogno anche nel caso di “un materiale in piena contraddizione con l’appagamento di un desiderio, ossia preoccupazioni fondate, considerazioni dolorose, giudizi 17 penosi” . Nel film di Schwartz tutto avviene come previsto e tutto porta angosciosamente alle ineluttabili conseguenze di infelicita` del personaggio autobiografico, che vede il suo destino gia` segnato dalla mancanza di sincerita` e di rispetto tra i futuri genitori. Film-ricordo, il sogno di Schwartz presenta caratteristiche inconciliabili con le liberta` combinatorie di montaggio autoriale di cui dispone anche la memoria. In effetti, il racconto “In Dreams Begin Responsibilities” sembra rappresentare una versione estremizzata del rapporto che Freud raffigura fra memoria e individuo, dove la funzione censoria dell’inconscio fa da schermo alla memoria stessa. Per la determinante componente intersemiotica del testo, direi, anzi, che al racconto si addice di piu` la versione 18 mediatizzata della screen memory freudiana , secondo la quale il soggetto agisce in maniera censoria sui ricordi sostituendone alcune parti con immagini tratte da film o da altro materiale audiovisivo e convincendosi della veridicita` autobiografica del proprio racconto. Questa relazione inconscia con l’immaginario cinematografico ci permette di comprendere meglio come i film possano fungere da immagini sensoriali primitive alle 19 quali facciamo ritorno nel sogno “mischiando memoria e desiderio” . In Schwartz il passaggio e` gia` avvenuto, per cui il ricordo riappare nel testo letterario come film, e lo ‘schermo’ che lo separa dalla nostra attivita` conscia perde l’assunto metaforico e si ritrasforma nello schermo mentale ‘reale’ su cui lo scrittore ha proiettato i ricordi materni mentre gli venivano raccontati: la regressione va a recuperare le immagini al di qua dei pensieri, scoprendole cinematografiche. Ho accennato sopra a come il mancato controllo dell’isteria da parte del personaggio provochi le reazioni della sala e la sua estromissione dalla medesima. Anche se buie e saltellanti, le immagini hanno il potere di convincere lo spettatore della loro realta`, muovendolo a disperazione per 16
Christian Metz, Cinema e psicanalisi, Marsilio, Venezia 1980, p. 103. S. Freud, L’interpretazione dei sogni, cit., p. 504. 18 Cfr. Victor Burgin, The Remembered Film, Reaktion Books, London 2004, pp. 68-69. 19 Il verso e` tratto dall’incipit di The Waste Land (1921) di T.S. Eliot, Rizzoli, Milano 1982, p. 74, a cura di A. Serpieri. 17
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l’impossibilita` di apporre modifiche al testo filmico, definitivo e distante nella sua perfetta riproducibilita`. L’abbandono forzato della sala determina il suo risveglio, che porta i segni temporali di un ritorno nel mondo della narrazione dopo il tempo presente che ha sostenuto la descrizione dello spettacolo cinematografico: and he [la maschera] said that dragging me through the lobby of the theatre into the cold light, and I woke up into the bleak winter morning of my 21st birthday, the windowsill shining with its lip of snow, and the morning already begun20.
Le pagine che Roland Barthes dedica all’uscita dal cinema e alle sue implicazioni sul rapporto fra noi e lo schermo cinematografico contengono spunti particolarmente calzanti. Dopo aver descritto la condizione del soggetto uscente dal cinema come quella di un assonnato, Barthes si domanda quale sia lo stato dello spettatore prima di entrare. La sua risposta e` che “tutto si svolge come se, prima ancora di entrare nella sala, si sommassero le condizioni classiche dell’ipnosi: vuoto, ozio, disimpegno; non e` davanti al film o a causa del film che si sogna; inconsapevolmente, si 21 sogna prima ancora di diventarne spettatori” . Lo spettatore di Schwartz incarna questa situazione, in quanto il sogno, come scopriamo in senso retroattivo dalle frasi che concludono il racconto, era iniziato prima del film. Come lo spettatore di Schwartz, noi siamo, altrettanto “inconsapevolmente”, all’interno di un testo onirico che non contiene, se non al suo termine, marche esplicite di identificazione. Il sogno, allora, diventa la cornice del racconto stesso, ribaltando la posizione piu` comunemente inversa tra racconto e sogno, dove il secondo occupa uno spazio narrativo interno al primo. Quello che sembra inizialmente un flashback sara` codificato come sogno solo alla fine, giustificando a posteriori la presenza dei genitori come personaggi principali del film sognato. Allo stato di incertezza tra lettori – di un testo scritto — e spettatori – di un film commentato in ‘diretta’ – cui il racconto ci induce per modalita` stilistiche, corrisponde, sul piano della struttura narrativa, una straordinaria forma di contaminazione fra il racconto del sogno e il racconto del 20
DBR, p. 43 [disse cio` trascinandomi attraverso la hall del cinema nella luce fredda, e mi svegliai nella triste mattina d’inverno del mio ventunesimo compleanno, il davanzale che splendeva per il chiarore della neve che lo copriva, a mattina gia` iniziata]. 21 Roland Barthes, “Uscendo dal cinema” (ed. originale: En sortant du cine´ma, “Communications”, n. 23, II trimestre, 1975, traduzione di Bruno Bellotto) in Id., Sul cinema, a cura di Sergio Toffetti, Il melangolo, Genova 1997, p. 146 (corsivo mio).
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film. L’ambiguita` ontologica dello spettatore risalta ancor piu` se la interpretiamo alla luce di quanto sostiene Metz, di cui riporto la netta distinzione fra soggetto sognante e soggetto spettatoriale che suona ispirata a criteri universali di incontestabile validita`: Chi sogna non sa di sognare, lo spettatore di un film sa di trovarsi al cinema: prima e principale differenza tra situazione filmica e situazione onirica. Ci si appella spesso a un’illusione di realta` per ambedue i casi, ma l’illusione vera e propria e` un’esclusiva del sogno. Per il cinema e` preferibile limitarsi a constatare l’esistenza di una certa impressione di realta`22.
Lo spettatore del racconto di Schwartz si trova contemporaneamente in tutte e due le situazioni: sente di trovarsi in un cinema e non sa di sognare. Nel suo sentire, certo, e` inscritta tutta la potenzialita` delle reazioni che ha durante la proiezione del film, ma queste reazioni, riassumibili come manifestazioni di un atteggiamento di rifiuto emotivo di quanto vede sullo schermo, contribuiscono tutte a ridurre lo scarto fra le due situazioni descritte da Metz, e, di conseguenza, tra film e sogno. La partecipazione affettiva registrabile nel corso di una proiezione cinematografica non supera mai il grado di intensita` che impedirebbe scientemente la visione, appunto perche´ durante la visione del film lo spettatore e` in uno stato di vigilanza che gli impedisce di perdere del tutto la coscienza della situazione filmica. Ma, in determinate condizioni, “se il film lo tocca profondamente, se si trova in uno stato di fatica, di turbo23 lenza affettiva, ecc.” , allora e` possibile che anche lo spettatore adulto sia vittima di attimi di squilibrio mentale, dovuti all’aumento incontrollato della traslazione percettiva, cioe` di una tendenza a tradurre in allucinazione le immagini proiettate sullo schermo: il film, a questo punto, diventa illusione di realta` e si avvicina alla dinamica del sogno. Il racconto del film in “In Dreams Begin Responsibilities” accusa quattro interruzioni di tipo emotivo (senza considerare, per il momento, il primo incidente tecnico durante la proiezione): per due volte lo spettatore si interrompe per un pianto insopprimibile e per altre due, inclusa quella finale che ne causa l’espulsione dal cinema — e il conseguente risveglio — si alza ad urlare, rivolgendosi direttamente ai personaggi sullo schermo. Uno stress emotivo cosı` reiterato dovrebbe indurre lo spettatore a ‘svegliarsi’ dal film, come accadrebbe durante un sogno troppo spiacevole per intervento della parte
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Christian Metz, Cinema e psicanalisi, cit., p. 93 (corsivo dell’autore). Ibid., p. 95.
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inconscia dell’Io, che conserva sul sogno una vigilanza di segno diverso da quella filmica, ma pronta a difendere il soggetto fino all’insonnia24. Cio` che impedisce allo spettatore del racconto di interrompere il film e farlo diventare quello che e` (un sogno) e` frutto dell’azione combinata di due fattori. Da un lato, la consapevolezza di ricevere percezioni esterne – le immagini cinematografiche – la cui continuita` temporale non e` intaccata dai suoi sfoghi: “Nel frattempo, avevo perso qualcosa” constata lo spettatore dopo il primo pianto, dotando la proiezione del film di un senso di realta` a lui esterna e non endogena, come nel sogno. Dall’altro, il richiamo, ora visivo, ora sonoro, della anziana signora che gli siede a fianco affinche´ si comporti come prescritto. In realta`, e` come se lo spettatore reagisse a un sogno anziche´ a un film, ma, trattandosi comunque di un film, dovesse far finta di non sognare. Puo` tornare qui utile la definizione di allucinazione paradossale elaborata da Metz, che la descrive concomitante alla proiezione cinematografica, in quanto “il soggetto ha allucinato cio` che era veramente di fronte a lui, cio` che nello stesso momento egli percepiva effettivamente: le immagini e i suoni del film”25; la visione filmica del ricordo acuisce il tratto allucinatorio per l’interdizione sociale ad agire contro lo scorrimento indifferente della pellicola sullo schermo. Schwartz costruisce, quindi, il suo racconto su una doppia anomalia, del sogno e, allo stesso tempo, del film: il sogno non funziona normalmente perche´ non scattano i meccanismi di interruzione e di ripristino dello stato di veglia che dovrebbero garantire l’incolumita` psicologica del soggetto sognante; il film, d’altra parte, non ha una proiezione regolare a causa della relazione problematica fra spettatore e immagini, che impedisce qualsiasi identificazione tra i due sguardi – di proiezione e di visione – che convergono sullo schermo. L’esito del difettoso funzionamento di entrambe le tecniche (sogno e film) e` di avvicinarle, di trovare un punto di contatto in quella che Metz chiama la loro incrinatura26, e di far sı` che si scambino costantemente i ruoli di cornice e di racconto, cui fa eco intersemiotica lo scambio fra lettore e spettatore.
24 “Certe insonnie sono opera dell’Io che, spaventato dai propri sogni, preferisce rinunciare a dormire”. Ibid., p. 97. 25 Ibid., p. 95. 26 Ibid., p. 96 (corsivo mio).
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3. Vissi d’arte Ne´ lettore ne´ spettatore hanno la possibilita` di conoscere la conclusione del film, che resta in sospeso dopo il litigio tra i due fidanzati nella cabina di una veggente. Davanti al desiderio ostinato della donna di farsi predire il futuro, l’uomo si lascia prendere da uno scatto d’ira e si precipita all’esterno; quando il figlio vede che la madre si fa convincere a restare dalla veggente, viene preso da un’ansieta` incontenibile che riguarda anche il suo futuro, improvvisamente compromesso dal futile dissidio. Sebbene incompleto, il film, comunque, ha gia` ampiamente dimostrato di appartenere a una generazione cinematografica che ha acquisito la capacita` di raccontare: gli episodi che lo compongono si susseguono, infatti, con un rapporto di sequenzialita` che, sebbene prevedibile, sta per raggiungere una potenziale climax melodrammatica nella scena della veggente, vanificata dall’ennesimo attacco isterico dello spettatore. Nonostante i continui scambi tra film e sogno che il racconto sostiene, il film conserva un grado costante di comprensibilita`, la cui tenuta deriva dalla mancata corrispondenza con il sogno, poiche´ “se il contenuto manifesto di un sogno fosse 27 riportato pari pari sullo schermo, darebbe luogo a un film inintelligibile” . Comunque, se la ricorrenza degli sfoghi isterici ha una matrice psicanalitica che e` stata evidenziata nel precedente paragrafo, la loro contropartita sul piano della configurazione narrativa degli episodi merita di essere analizzata. Nel film il racconto vero e proprio comincia nella casa paterna della fidanzata, quando siamo introdotti al microcosmo familiare, riunito per la cena. La prima interruzione, l’unica ancora da descrivere, avviene proprio ora. Lo scorrimento della pellicola si inceppa in corrispondenza del primo piano del volto del padre della sposa, che sta osservando perplesso il futuro genero. Sappiamo dell’importanza fondamentale che il primo piano ha avuto nella costruzione del discorso narrativo nel cinema, e del suo affermarsi come elemento di una sequenza narrativa solo “quando i rapporti causa-effetto cominciarono ad assorbire la psicologia dei personaggi princi28 pali” ; sappiamo anche che il cinema americano diede un impulso rilevante in questa direzione, come il riferimento implicito a Griffith nell’ana27
L’opinione di Rene´ Zazzo viene citata da Metz (Ibid., pp. 111-112) che chiosa nel modo seguente: “Un film, aggiungo io, autenticamente inintelligibile (oggetto di fatto molto raro) e non uno di quei film d’avanguardia e di ricerca, che il pubblico accorto e smaliziato sa che e` opportuno capirli e non capirli”. 28 Jurij M. Lotman-Yuri Tsivian, Dialogo con lo schermo (1994), Moretti & Vitali, Bergamo 2001, p. 83 (corsivo degli autori).
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logia tra il film e i muti della Biograph sta a ricordare. Il frame-stop che questo incidente immette nel film, con il ritorno della medesima immagine al ripartire della pellicola, disturba la ‘felicita`’ di spettatore che il personaggio aveva gia` raggiunto, quella forma di apparente passivita` che si 29 acquisisce stando seduti di fronte ad uno schermo cinematografico . In realta`, lo spettatore aveva gia` dato segni di un’autonomia d’osservazione nella sequenza del tragitto che il padre compie per recarsi dalla futura sposa: il suo e` uno sguardo che non trascura di segnalare alcuna presenza all’interno dell’inquadratura, tant’e` che menziona anche le cose che vede sfuggire all’attenzione del padre: le case in cui si sta consumando il pasto domenicale, i numerosi alberi in fioritura che costeggiano ogni strada. Lo spettatore di Schwartz, in veste di narratore onnisciente, ci dice anche cosa tiene occupata la mente del padre per non fargli notare tutte le cose visibili cui passa accanto nel corso del tragitto. Nella sua mente di 30 spettatore, invece, si e` subito avviato il discorso interno che, secondo le ancora attualissime osservazioni dei formalisti russi, e` connaturato alle nuove condizioni di percezione richieste e introdotte dal cinema, portando dal movimento visibile del film alla sua comprensione; cio` che viene intaccato dall’incidente tecnico di proiezione riguarda la narrazione cinematografica: si mette larvatamente in dubbio la conclusione lieta della vicenda, ma anche la possibilita` di raccontarla in modo indisturbato. Il fatto, non trascurabile, che il film non esista se non dentro la mente del personaggio e nella sua memoria ‘cinematografica’ del racconto orale materno rende il discorso interno di Schwartz piu` vicino alle dinamiche 31 psicologiche studiate da Vygotskij nel rapporto fra pensiero e linguaggio ; in particolare, si possono tracciare analogie tra il monologo egocentrico
29 Per reazione dopo questa pausa, lo spettatore utilizza la sua preconoscenza del microcosmo descritto e va a frugare con la mente in una delle stanze del piano di sopra, mentre i suoi futuri genitori si stanno accomiatando dalla famiglia di lei per l’uscita domenicale. Sa di trovarci suo zio a studiare e con prolessi extradiegetica, che tornera` poi ad usare su di se´, ci informa di cosa e` morto lo zio ventuno anni dopo quella domenica. 30 Per la nozione di discorso interno applicata al cinema, rimando al saggio di Boris Ejchenbaum, “I problemi dello stile cinematografico” (1927), in Giorgio Kraiski (a cura di), I formalisti russi nel cinema, Garzanti, Milano 1987. “Nella fase in cui ci troviamo, il film rappresenta una nuova forma di arte sincretica. [...] Lo spettatore cinematografico si trova in condizioni di percezione completamente nuove, contrarie a quelle della lettura: dall’oggetto, dal movimento visibile egli muove verso la comprensione, verso la costruzione del discorso interiore”, Ibid., p. 22. Utilizzo la lectio “interno” anziche´ “interiore”, indicatami da Pietro Montani, perche´ non da` adito a eventuali confusioni con la tecnica narrativa del discorso interiore. 31 L. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, a cura di L. Mecacci, Laterza, Bari 2003.
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che il bambino sviluppa nel suo pensiero per un processo di autoreferenzialita` psicologica e le forme di insoddisfazione infantile che il personaggio del racconto prova di fronte alle immagini ‘imperfette’ dei genitori, cui, inoltre, rimanda con precisione una similitudine usata dallo scrittore per descrivere il suo atteggiamento nei confronti del film. Prima di riprendere il commento del film, interrotto da un’ennesima crisi di pianto, lo spettatore si paragona a un bambino che vuole tenere il broncio anche dopo che gli e` stata offerta una ricompensa. Il paragone mi sembra un tassello importante nel ritratto psicanalitico che ho abbozzato sopra: il bambino rifiuta di concentrarsi su altri oggetti perche´ ancora preso dalla rete edipica di identificazione con i genitori. Tuttavia, la finzione onirica in cui il film e` calato, allargata com’e` al pubblico e al personale della sala, ostacola in modo diretto l’egocentrismo dello spettatore ed impedisce al personaggio il godimento individuale del film. Nella sala cinematografica del sogno si esplicita il processo di crescita del personaggio, la sua assunzione di responsabilita` nei confronti di se´ e della propria famiglia: il racconto, allora, e` documento letterario di questo faticoso processo di conquista etica dell’individuo piu` che metafora della sua nascita biologica, e la sua complessa architettura riflette la tortuosita` del processo stesso. Inoltre, “Nei sogni cominciano le responsabilita`” non e` l’unico racconto di Schwartz in cui il cinema assolva una funzione di laboratorio socio32 psicologico: in “Screeno” (1937) Cornelius, personaggio anch’esso autobiografico, entra in un cinema nonostante il bingo (Screeno, appunto) annunciato a grandi lettere dal programma di sala (lo considera una sgradevole interruzione dello scorrere dei film) e inaspettatamente vince la lotteria, per poi scoprire subito dopo un imbroglio nella presenza, al medesimo giro di estrazione, di un altro vincitore, un vecchio musicista dalla vita grama, al quale Cornelius decide di regalare l’intero ammontare del jackpot. In questo racconto troviamo un resoconto dettagliato di tutto cio` che poteva procedere la proiezione dei due film (double feature), compresa la tombola, per cui l’insieme costituisce una sorta di premessa ideale alla materia filmica di “In Dreams Begin Responsibilities”; la sala cinematografica, da iniziale “rifugio” e “santuario” per il protagonista depresso, diventa il palcoscenico di una forzata esibizione di se´ al pubblico, che finisce per applaudire distrattamente il suo gesto di generosita`. Il contrasto fra individuale e sociale viene anche qui a connotare lo spazio della sala, 32
Cfr. D. Schwartz, Screeno: Stories & Poems, cit., pp. 44-62. Il titolo italiano del racconto e` “Cinembola”, frutto di un calco di discutibile resa dalla presunta fusione dei termini screen e bingo.
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per un personaggio come Cornelius, che non si sente ancora ne´ carne ne´ pesce e non puo` piu` permettersi, per motivi generazionali, di tuffarsi in “that cruel zoo inhabited by a special kind of animal”33 che e` il mondo giovanile. Sul palco della sala Cornelius cerca di liberarsi del peso di una precarieta` sociale, oltre che anagrafica, tanto che, invitato a dire di che si occupa dal presentatore della lotteria, supera l’imbarazzo di dichiararsi scrittore e sfida i pregiudizi del pubblico, dichiarandosi poeta. Alla richiesta di recitare un suo componimento risponde con la citazione di un passo di T.S. Eliot tratto da “Gerontion”, in cui si riflette sull’incubo modernista della Storia: una Storia che grava sull’individuo, e sull’artista, in modo altrettanto ineluttabile della data del fidanzamento ‘filmato’ dei genitori sul protagonista di “In Dreams Begin Responsibilities”, data che, non a caso, si ripete dettagliata nei due incipit del racconto, quello della cornice onirica e quello della descrizione del film. Il poeta incompreso e` un topos ricorrente nel macrotesto schwartziano e fornisce la chiave di lettura per la biografia intellettuale dello scrittore che Saul Bellow ha raccontato nel romanzo Humboldt’s Gift all’inizio degli anni Settanta. Il dono che Humboldt-Schwartz lascia in eredita` a Charles Citrine, l’intellettuale arrivato in cui traspaiono elementi biografici di Bellow, e` un soggetto cinematografico, che ha come protagonista uno scrittore di successo: Humboldt salda un debito artistico con l’amico, confidandogli nella lettera del testamento di aver preso a modello la sua personalita`, cosı` come Charles aveva sfruttato quella di Humboldt per scrivere il fortunato romanzo Trenck. Il gioco di duplicita` ritorna come principio di struttura narrativa anche nel soggetto cinematografico, che vede Corcoran, lo scrittore di successo, costretto a ripetere con la moglie il viaggio romantico fatto con l’amante, replicandolo con maniacale precisione, fino all’ultimo dettaglio. Dell’organizzazione si incarica il suo agente letterario, che propone a Corcoran questa “parodia” come escamotage per pubblicare il nuovo romanzo, basato sul primo viaggio, senza compromettere il suo matrimonio. Nel finale del soggetto Humboldt si prende una rivincita morale, lasciando Corcoran solo (la moglie capisce che l’eroina e` un’altra) con il suo enorme successo. Deluso dalla trasferta a Coney Island per ricevere il testamento, Charles Citrine scoprira`, nel colpo di scena finale del libro di Bellow, che il vero dono era un altro: la sceneggiatura, scritta a quattro mani con Humboldt ai tempi dell’universita`, sul superstite
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Ibid., p. 45 [quello zoo crudele abitato da una razza speciale di animali].
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di una spedizione italiana al Polo Nord accusato di cannibalismo34; la copia originale custodita da Humboldt permette a Charles di ottenere un risarcimento dalla casa di produzione del film che ne e` stato tratto, con straordinario successo di pubblico. Il film, intitolato Caldofreddo dal nome del personaggio protagonista, viene raccontato dettagliatamente ‘in diretta’ dal cinema degli Champs-Elyse´es dove Charles va a vederlo per accertarsi della questione, ma il comportamento tenuto in sala da Charles e dal suo accompagnatore, Rinaldo Cantabile, un amico malavitoso che lo ha messo al corrente della faccenda strappandolo dal suo esilio dorato a Madrid, rischia di provocarne l’allontanamento dalla sala cinematografica. Il pubblico viene disturbato dal tafferuglio dei due che stanno litigando per lo scontrino della cassaforte dell’albergo dove hanno depositato la copia originale della sceneggiatura, in perfetto tempismo con la zuffa che sta avvenendo sullo schermo tra il protagonista del film e il giornalista svedese giunto nel piccolo paese in Sicilia, dove Caldofreddo e` tornato a vivere, per fare ricerche da utilizzare nel suo libro sulla spedizione italiana: nei vari richiami che giungono dalla sala (“Dehors!”, “Flanquez les a` la 35 porte!”) si percepisce l’eco tradotta delle voci nel sogno cinematografico di Schwartz. Alla fine anche Charles, come il poeta Cornelius di “Screeno”, regalera` meta` della cifra al vecchio e povero zio Waldemar, che Humboldt gli raccomanda nel suo testamento, e fara` riesumare il cadavere di Humboldt per seppellirlo accanto alla madre. La supposta pompa magna delle nuove esequie, da cui Charles auspicherebbe una palingenesi artistica del genio misconosciuto dell’amico, cozza irrimediabilmente con il male arnese del corteo funebre (“Two old fuddyduddies and a distracted creature, not far 36 behind them in age”) . D’altronde, Humboldt aveva gia` consegnato 34
Nel 1969 era uscito nelle sale un film che narrava proprio della famosa spedizione di Umberto Nobile e del dirigibile “Italia” che nel 1928 precipito` tra i ghiacci dell’Artide. Il film – La tenda rossa (regia di M. Kalatozof) – prende il titolo dal rifugio sotto cui trovarono riparo i sei superstiti fino all’arrivo dei soccorritori, due mesi dopo l’incidente. Bellow probabilmente aveva visto il film o ne aveva sentito parlare, in quanto si trattava di una megaproduzione italo-sovietica nella quale recitavano Peter Finch nel ruolo di Nobile e Sean Connery in quello di Roald Amundsen. La sua versione risulta piu` ‘esagerata’ nei toni e nei contenuti, con la componente del cannibalismo di cui non si accuso` mai nessuno dei superstiti, data l’assenza di cadaveri nella zona dove furono trovati dalla squadra di soccorso, guidata da Amundsen; il cinema regala a Humboldt un tardivo successo dozzinale che rimarra` comunque negato al suo ruolo di poeta. 35 Saul Bellow, Humboldt’s Gift, Penguin, Harmondsworth 1976, p. 453. 36 Ibid.: “Due vecchietti scalcinati e un terzo individuo, stralunato, non molto piu` giovane”, p. 472.
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all’amico un ritratto impietoso e fedele di questo contrasto tra ideale e realta` nello scrittore protagonista del suo soggetto cinematografico: This, you see, is the artist. By wishing to play a great role in the fate of mankind he becomes a bum and a joke. A double punishment is inflicted on him as the would-be representative of meaning and beauty37.
Anche nel racconto “In Dreams Begin responsibilities” troviamo una figura di artista fallimentare: il fotografo di Coney Island dove vanno i due fidanzati a immortalare la ‘storica’ giornata. Nella descrizione del gabinetto fotografico lo spettatore appunta la stranezza dell’apparecchio 38 (“looks like a Martian man”) che dimostra nelle sue forme l’appartenenza ad un altro mondo temporale: la connotazione d’epoca con cui il film e` stato introdotto al lettore si rinnova nella strumentazione ottica del fotografo. La scena ricorda il primo film americano di Murnau, Aurora (Sunrise, 1927), che potrebbe rappresentare un riferimento cinematografico per l’intero racconto, non tanto per analogie nella trama (in Aurora una coppia sposata tenta di ricostruire il proprio rapporto, corrotto da una relazione extra-coniugale del marito, con un viaggio in citta`, durante il quale, tra le altre mete, si recano da un fotografo), quanto per la sperimentazione artistica che Schwartz e Murnau costruiscono intorno agli stereotipi del melodramma, proiettando nel fotografo la loro istanza autoriale. Come osserva Abruzzese, “il regista Murnau nel creare l’opera filmica traveste criticamente i panni dell’anonimo fotografo che abbiamo visto predisporre il cerimoniale ostentativo della coppia nella cornice dell’immagine colletti39 va” . Tra il fotografo e lo spettatore narrante si crea una sintonia estetica che supera le distanze oniriche e si traduce in un tentativo autocosciente di identificazione dello spettatore con l’apparato di proiezione del film di cui 37
“E il martire da farsa, vedi, e` l’artista. Per il suo desiderio di svolgere un ruolo importante nel destino dell’umanita`, egli diviene un buffone, un giullare. Una duplice pena gli e` inflitta come velleitario esponente del vero e del bello”, p. 337. 38 DBR, p. 41 [sembra un marziano]. 39 Alberto Abruzzese, L’occhio di Joker. Cinema e modernita`, Carocci, Roma 2006, p. 43. Abruzzese vede ancora troppo presente la letteratura e i suoi codici in questa sequenza per poterla considerare un “modello non-letterario di cinema”. Il racconto di Schwartz rielabora il ricordo, collettivo se non personale, della sequenza del film di Murnau sovrapponendovi la memoria che la sua mente ospita visivamente; il risultato e` cosı` “sfumato”, per usare la categoria di pensiero (la sfumatura) che Abruzzese propone in alternativa al contrasto tra letterario e non-letterario, che permette di attribuire al cinema un tratto archeologico.
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la macchina fotografica e` qui figura en abyme. Mentre il ritorno alla immedesimazione con le immagini e` stato fino a questo punto registrato come un automatismo privo di volonta`, la ricerca della giusta posa da parte del fotografo diventa una causa legittima e artisticamente sentita anche per lo spettatore, sorretta da un disinteresse dichiarato per il denaro che il poeta Schwartz non puo` che condividere. La dedizione artistica del fotografo permette al personaggio di credere nella possibilita` di ‘correggere’ il legame fra i genitori; questi, tuttavia, palesano per la ricerca estetica del fotografo lo stesso tipo di insensibilita` che avevano dimostrato, appoggiati alla ringhiera del lungomare di Coney Island, di fronte allo spettacolo straordinario dato dalla foga dell’oceano. La perfettibilita` artistica dell’immagine memoriale dei genitori si offre allo scrittore nella fissita` dell’immagine fotografica, in un processo di recupero, da parte del film, della propria memoria tecnica, del fotogramma come matrice mnestica delle immagini in movimento: la memoria di Schwartz recupera il ricordo dei genitori tornando indietro nel tempo cinematografico del loro fidanzamento fino alle radici fotografiche dell’immagine che gli scorre nella mente, il punctum barthesiano in cui riuscire a percepire il soggetto della foto al di la` della sua rappresentazione. In questa parte del racconto la speranza di una riscrivibilita` del passato diventa tensione verso una riscrittura dei codici di rappresentazione che il cinema qui viene chiamato a rendere nella loro metaforicita` piu` chiusa e definita. Il fallimento di questo tentativo viene comunque raccontato in forma visuale, visto che inizio e fine dell’episodio nel gabinetto fotografico sono marcati da un’ekphrasis: all’inizio il narratore descrive i fidanzati sorridenti nella posa che assumono per la foto, per la quale il fotografo proporra` continue modifiche fino a irritare l’uomo; alla fine, invece, viene descritta l’immagine che risulta dallo scatto “with my father’s smile turned to 40 a grimace and my mother’s bright and false” . Tra le due ekphrasis, la successione slapstick delle indicazioni del fotografo terminante nel fermo immagine dei due fidanzati che attendono, depressi, lo sviluppo della foto. Schwartz torno` a scrivere di cinema in un altro racconto ancora: “The 41 Heights of Joy”, pubblicato solo recentemente . Ennesima rivisitazione del melodramma, la storia d’amore tra il finanziere Hugo Bauer e l’attrice cinematografica Magda Gehrhardt si incrina sin dall’inizio per l’ossessione visiva del marito, le cui emozioni sono suscitate soltanto dalle immagini 40
DBR, p. 42 [col sorriso di mio padre trasformato in un ghigno e quello di mia madre luminoso quanto insincero]. 41 Sulla rivista letteraria Boulevard nel 2002.
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cinematografiche della moglie; di qui, la gelosia per immagini cosı` largamente disponibili a tutti gli spettatori e la manovra finanziaria per riuscire ad acquistare tutte le copie del film galeotto, che da` il titolo al racconto, e impedire che altri possano vedere le numerose sequenze in cui l’attrice mostra le sue grazie. La transazione obbliga Bauer a spostarsi dall’Europa agli Stati Uniti, dove e` necessario controllare il lavoro delle agenzie; uno spostamento geografico che ricorda quello dal Sud al Nord America che compie Guillermo Grant nel racconto gia` menzionato di Quiroga. In “Miss Dorothy Phillips, mia moglie”, Guillermo si inventa imprenditore portando con se´ la copia manufatta di un’inesistente rivista cinematografica, patinata e pettegola al pari dello “Screen Gossip” che Humboldt, descritto da Bellow come fanatico del cinema, non mancava mai di leggere. I due personaggi, tuttavia, viaggiano negli Stati Uniti per motivi speculari: Grant vuole portare a termine il suo piano di sposare una diva del cinema di cui si e` innamorato vedendo film nord-americani; Bauer vuole comprare tutte le copie del film che l’aveva fatto innamorare di Marta. La fortuna economica sorridera` a Bauer, che estende i suoi traffici commerciali a entrambe le Americhe; ma mentre Grant spedisce alla sua Dorothy il racconto del sogno transamericano, diventando ‘autore’ della sua ossessione cinematografica, Bauer rimedia ad un nuovo attacco di gelosia per le seconde nozze di Martha, comprando il necessario per rivedere il film The Heights of Joy, di cui ha portato con se´ una copia a Rio de Janeiro, e continuare a sognare l’attrice. Anche qui, la memoria impone il suo repertorio di immagini dal passato: After all, it seemed to him very likely that she would remain, for him, an adored being, an idolized visual image [...] This conclusion made him think once again of the time of adolescence when he had looked from a great distance upon a beautiful woman on the stage or upon the screen42.
4. Schermi multipli Nabokov e` da annoverare fra gli ammiratori dichiarati del racconto “In Dreams Begin Responsibilities”, come ci ricorda James Atlas nell’introduzione alla prima raccolta dei racconti di Schwartz: 42
Delmore Schwartz, Screeno: Stories & Poems, cit., p. 74 [Dopo tutto, gli sembro` assai probabile che sarebbe rimasta, ai suoi occhi, un essere adorato, l’icona di un idolo [...] Questa conclusione gli fece tornare di nuovo in mente il tempo in cui, adolescente, sentiva la grande distanza che c’era fra il suo sguardo e una bellissima donna sul palcoscenico di un teatro o sullo schermo di un cinema].
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Sapeva di aver scritto un capolavoro, verdetto confermato in seguito da Vladimir Nabokov, che lo individuo` come uno fra la sua “mezza dozzina di racconti preferiti” nella letteratura americana contemporanea43.
Nell’articolo al quale Atlas fa riferimento, Nabokov scende maggiormente in dettaglio sui motivi della sua preferenza per il lavoro di Schwartz, definendolo “una miscela miracolosa fra il passato personale e il 44 cinema dei tempi andati” , e riconoscendo poi l’affinita` del testo con il 45 suo racconto piu` cinematografico, “The Assistant Producer” (1943); lo stesso intervento contiene, tuttavia, l’attestazione di una differenza fondamentale nello spirito della composizione: Capisco l’analogia fra “The Assistant Producer” e la storia di Delmore Schwartz ma non si tratta di un legame creativo profondo. L’ho letta soltanto quattro o cinque anni fa nell’antologia di Klein and Pack Short Stories del 196746.
Entrambi i testi condividono la scelta stilistica di tornare ad un evento biografico non vissuto in prima persona attraverso la proiezione dei ricordi su di un immaginario schermo cinematografico. Una palese differenza strutturale, comunque, esiste: alla fine del film il narratore di Nabokov esce dalla sala godendosi una sigaretta che lo rinfranca dall’esperienza trash della visione, mentre lo spettatore di Schwartz si risveglia turbato dall’incubo. L’assenza della cornice onirica in Nabokov e` senza dubbio determinante nel rapporto fra i due racconti, ma non impedisce di interpretarli come esempi complementari di scrittura, nei quali si propone al lettore e allo spettatore di riflettere sulle rispettive identita`. 47 Il vincolo creativo di Nabokov con il cinema , d’altronde, non e` certo 43
Dall’introduzione di James Atlas nel volume: Delmore Schwartz, In Dreams Begin Responsibilities (and other stories), cit., p. xv. 44 Da un articolo scritto nel 1972 per la Saturday Review e inserito nella raccolta Strong Opinions, McGraw Hill, New York 1973, pp. 312-313. 45 Vladimir Nabokov, “The Assistant Producer”, in Id., The Stories of Vladimir Nabokov, Vintage, New York 1997, pp. 546-559 (d’ora in poi AP; tutti i riferimenti successivi saranno presi da questa edizione). 46 Id, Strong Opinions, cit., p. 312. 47 Marco Belpoliti fa riferimento a questo aspetto, evidenziando la doppiezza insita nel modello cinematografico: “[...] il proiettore cinematografico, o meglio il cinema, inteso sia come luogo dove si proietta la pellicola che come sistema di registrazione delle immagini. Non c’e` infatti libro di Nabokov dove, oltre alle immancabili farfalle, non sia presente il cinema quale camera obscura dove i protagonisti sono costretti a entrare” (M. Belpoliti, Cinque pezzi facili, in AA.VV., Vladimir Nabokov, «Riga», n. 16, Marcos y Marcos, Milano 1994, pp.
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databile solo a partire da “The Assistant Producer”, ma risale al periodo dell’esilio berlinese dello scrittore e si ritrova esplicitato nelle sue trame fin 48 dal primo romanzo, Mary , il cui protagonista, Garin, viene descritto mentre si trova in una sala cinematografica con la fidanzata e si riconosce inaspettatamente sullo schermo: aveva lavorato in un ruolo di comparsa nel film che stanno proiettando, come parte del pubblico di un’opera lirica che era stata interrotta per il malore improvviso della protagonista (la sua parte di assassina le riporta alla mente l’omicidio involontario da lei commesso). A parte la vertiginosa complessita` delle relazioni tra personaggio e ruolo che costituiscono il nerbo stesso della narrativa nabokoviana, il ‘legame creativo’ fra cinema e racconto mi sembra gia` attestato in questo, per ora unico, esempio. Consapevole del fatto che questo riferimento iniziale potrebbe innescare delle aspettative di indagine macrotestuale sull’opera di Nabokov (gia` reperibili in altri studi che citero` piu` avanti), intendo chiarire, fin da subito, che mi soffermero` sul Nabokov pre-Lolita e, nello specifico, sul racconto americano ‘imparentato’ a Schwartz e sul romanzo russo Laughter in the Dark, per la preminenza tematica che questi testi attribuiscono al cinema.
5. Dal muto al sonoro Partiamo dal testo piu` recente di questa selezione, “The Assistant Producer”. Il racconto narra una storia realmente accaduta, avente come protagonisti una famosa cantante folk russa, Nadezhda Plevitskaia, e il marito, Generale Skoblin, coinvolti in una serie di rapimenti di leaders del 49 movimento dei russi Bianchi ; nella sua rielaborazione Nabokov modifica i nomi, ma gli eventi spionistici sono i medesimi della coppia storica. Il Generale Golubkin e sua moglie, la cantante di cui sapremo soltanto il soprannome, “La Slavska”, datole dai francesi, si stabiliscono a Parigi,
241-42, corsivo dell’autore). Nella sua rilettura critica delle opere narrative risulta stranamente assente il romanzo su cui si focalizza la mia analisi, Laughter in the Dark. 48 Scritto in russo e pubblicato nel 1926 a Berlino dalla casa editrice Slovo, con il titolo Mashen’ka; poi tradotto in inglese da Michael Glenny e dallo stesso Nabokov ed edito a New York nel 1970, per i tipi della McGraw-Hill e a Londra nel 1971, da Weidenfeld & Nicolson (in entrambi i casi con il titolo Mary). 49 Con l’aggettivo Bianchi si intende riferirsi ai nostalgici dello zar che tramano dall’esilio estero per riportare la monarchia al potere. Per maggiori dettagli sul contesto storico, cfr. il saggio di G. Barabtarlo, “English Short Stories”, in C. Nicol-G. Barabtarlo, A Small Alpine Form: Studies in Nabokov’s Short Fiction, Garland, New York 1993, p. 105.
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dopo l’incontro fatale che ne ha unito le sorti, avvenuto in un campo di battaglia dove ciascuno era a capo di una fazione opposta dell’esercito russo post-rivoluzionario: lui guidava i Bianchi, fedeli allo Zar, lei i Rossi bolscevichi. Passata senza indugio dalla parte piu` conveniente, la Slavska aiuta il marito nell’organizzazione reazionaria (White Warriors Union), di cui lui diventa membro influente, facendo, al contempo, il doppio gioco. Per accelerare i tempi di avanzamento della carriera, i due, con il benestare e la partecipazione, diversamente motivati, di tedeschi e sovietici, ordiscono una trappola per eliminare il presidente dell’organizzazione, Generale Fedchenko, ultimo ostacolo all’ambita posizione. Il caso vuole che il loro complotto sia smascherato dal segretario dell’organizzazione e da un altro generale, ma il destino delle due spie e` diverso: mentre Golubkov riesce facilmente a sfuggire all’arresto, la Slavska viene condotta in prigione, dove finira` i suoi giorni. L’avvio del racconto e` rocambolesco, a cominciare dal viaggio a ritroso nel tempo che il narratore ci invita a compiere con lui per raggiungere il vecchio “Europe Picture Palace” nel quale si proietta il film. Sembra di essere in macchina con Buster Keaton alla guida diretti a tutta 50 velocita` “back to the thirties and down the twenties” , con i decenni che fanno da nomi di strade, in una parodia del funzionalismo urbano americano, e una topografia astratta che collega il tempo del sonoro a quello del muto, l’America, luogo della scrittura del racconto, all’Europa, la vecchia sala cinematografica dove i personaggi si muovono come su schermi multipli che Nabokov illumina con immagini tratte dalla sua memoria. La voce narrante ci avverte fin dalla terza pagina che si tratta di 51 un “vile script” , una sceneggiatura di basso rango che la realta` ha preso a modello: il commento si inserisce in una serie di interventi narratoriali che segnalano al lettore tutti i possibili retroscena della storia, per metterlo a parte di informazioni e di dettagli finalizzati a una completa demistificazione dei protagonisti del racconto, e rilevano con divertito sarcasmo tutte le incongruita` cinematografiche che costellano il film. Se il ricordo di Schwartz si visualizza in un vecchio film muto il cui potenziale melodrammatico e` tangibile, anche se piu` volte cassato dallo spettatore, la memoria di Nabokov produce un film che ha gia` le caratteristiche di un pastiche postmoderno, dove i generi si affastellano con un ritmo incalzante al quale lo stesso narratore fatica a star dietro. Con un richiamo rovesciato all’impossibilita` sterniana di raccontare la vita (e le opinioni) di Tristram 50 51
AP, p. 546 [indietro fino agli anni trenta e poi giu` per i venti]. Ibid., p. 547.
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Shandy per lo scarto di velocita` fra il tempo di raccontarle e quello di viverle, il narratore di “The Assistant Producer” si accorge, ad un certo 52 punto, che “my reel is going too fast” : nella notazione, oltre al possibile riferimento letterario, e` sicuramente incluso un sapere cinematografico che collega la lettura del racconto alle condizioni in cui si svolgevano le proiezioni nelle sale del cinema muto. Raccontando la storia del cinema nel loro volume a quattro mani, Lotman e Tsivian ricordano la simpatia che il regista teatrale Mejerchol’d nutriva per il rumore dell’impianto di proiezione, un ronzio che gli pareva avesse l’effetto di creare nello spettatore l’immagine stessa del Tempo, e proseguono: Il rumore del proiettore non era uniforme: i proiezionisti facevano girare il film a mano, la velocita` di movimento dei personaggi dipendeva da loro. Le commedie venivano sempre fatte girare piu` in fretta, le scene commoventi lentamente. Ma anche nel corso della trama il ritmo della proiezione spesso cambiava: il proiezionista, per esempio, cercava di far scorrere piu` in fretta gli episodi che gli sembravano poco interessanti53.
Non a caso, la maggiore celerita` dello scorrimento coincide nel racconto con una serie di eventi monotoni che riguardano la successione dei presidenti dei White Warriors, i Guerrieri Bianchi. La manipolazione del materiale narrato trova nelle dinamiche performative del proiezionista di film muti il corrispettivo della longevita` dei ricordi, nonche´ la possibilita` di adeguare i ritmi della lettura ai canoni cinematografici del comico e del melodrammatico: quando deve sottolineare i momenti di pathos nelle espressioni della Slavska, accorata per il futuro del consorte, il narratore rallenta la scansione delle immagini e ci invita a rilevare con un “look” o con un “note” i segni che esprimono queste ansie sul viso della cantante, fermandosi in un dettagliato primo piano. Oltre al proiezionista, a ben vedere, c’e` anche un altro mestiere del cinema muto che il narratore di Nabokov recupera dall’oblio, quello dell’imbonitore. Il riferimento a questa categoria puo` sembrare paradossale, considerando la complementarieta` necessaria fra l’imbonitore e le immagini sullo schermo, come spiega Gaudreault: Vi fu infatti un periodo, all’inizio del secolo, in cui lo spettacolo cinematografico dava luogo a due prestazioni narrative concorrenti e simultanee, relativamente autonome l’una rispetto all’altra. Due prestazioni narrative che non utilizzavano 52 53
Ibid., p. 549 [la mia pellicola sta scorrendo troppo veloce]. J. Lotman-Y. Tsivian, Dialogo con lo schermo, cit., p. 73.
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lo stesso veicolo semiotico, ne´ le stesse materie dell’espressione. Da una parte le immagini di un racconto visivo percepito all’epoca come relativamente lacunoso, a tal punto che lo si faceva accompagnare dall’altra parte, dalla prestazione di un imbonitore, vero e proprio cantastorie che, a titolo di adiuvante narrativo, sosteneva la mostrazione visiva con la propria narrazione verbale, consentendo al cinema di compiere “prodezze” narrative che avrebbe fatto filmicamente o, meglio, filmograficamente, sue solo 54 diversi anni piu` tardi, con l’avvento del sonoro .
Nabokov annulla l’autonomia delle due prestazioni, rendendo le immagini del tutto dipendenti dalla voce narrante, e trasformando in virtuosismo estetico il ruolo tecnico dell’imbonitore: non piu` funzionale alle immagini cinematografiche, il commento della voce viene usato per esecrare sarcasticamente le azioni dei protagonisti e ricomporre i retroscena di un capitolo doloroso della vicenda umana degli espatriati russi. La profonda, benche´ indiretta, conoscenza che questo imbonitore speciale ha degli eventi, gli permette anche di soffermarsi a spiegare aspetti che non sarebbero considerati opportuni da quelli che chiama “film pruners”, cioe` i montatori, che la metafora giardiniera rilegge intenti a “potare” il film. Il pensiero gli viene quando descrive i sogni e le aspettative che gli emigranti russi affidavano alle associazioni di White Warriors, considerandone i componenti come una specie di cavalieri della Tavola Rotonda: una notazione che sembra perfettamente rientrare nella categoria di “excre55 scence upon the main theme” , meritando, quindi, il taglio nella sala di montaggio. All’elenco di mansioni cinematografiche si aggiunge, cosı`, un altro nome, il cui prospettato intervento sul racconto, per tagliare via la parte irrilevante, rende ancora piu` esplicita la trasformazione cinematografica del testo, soggetto agli stessi trattamenti tecnici di un film perche´ fatto dello stesso ‘materiale’. Che il racconto citi tanti aspetti tecnici del cinema non deve risultare strano o inaspettato, se pensiamo che gia` nel titolo campeggia la scritta “The Assistant Producer”, sulla cui dissolvenza si vede apparire un’armata fantasma di Cosacchi all’attacco, osservati attraverso le lenti del cannocchiale da opera del generale Golubkov (che il narratore chiosa come un raccordo ottico tipico del cinema muto: “When movies and we were young, we used to be shown what the sights divulged neatly framed in two 56 connected circles” ). Ancora prima di essere inglobato visivamente nei 54
A. Gaudreault, Dal letterario al filmico, cit., p. 147, corsivo mio. AP, p. 550 [escrescenza sul tema principale]. 56 Ibid., p. 547 [Quando eravamo giovani, noi e il cinema, ci mostravano quello che la vista offriva ben racchiuso in due cerchi connessi]. 55
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credits di apertura del film, il titolo del racconto viene subito reso oggetto di esegesi dall’imbonitore nabokoviano, che lo spiega in termini metaforici: l’assistente produttore del film sarebbe la vita, in quanto ha permesso a una storia infima di essere realmente accaduta. Ho trascurato, finora, la figura della moglie del generale, la cantante Slavska, che, oltre all’identita` 57 biografica , rimanda alle immagini cinematografiche di spie russe che animavano gli schermi americani, tra cui la Garbo nel film The Mysterious Lady (1928) di F. Niblo. Come osserva Appel Jr., la storia russa aveva generato una lunga serie di B-movie che la distorcevano in modo analogo a quanto facevano i revisionisti sovietici. La presentazione della Slavska allo spettatore segna l’inizio del programma cinematografico, combinando l’elemento sonoro del suo profilo professionale alla scansione onnisciente della voce narratoriale, che dedica una finestra immaginaria e sarcastica sul successo che le avrebbe arriso se le cose fossero andate diversamente: Had things gone as they were seeming to go, she might have been singing tonight in a central-heated Hall of Nobility or at Tsarkoye, and I should be turning off her broadcast voice in some remote corner of steppe-mother Siberia58.
Il montaggio fra campo e controcampo passa qui attraverso i fili elettrici della radio, anticipando il sentimento tecnico con cui il narratore sta ricostruendo il passato e l’impiego di strumenti cinematografici con cui allestira` nella mente le sale da concerto della vecchia Europa. Sulla pagina tutti i personaggi del racconto portano segni indelebili del loro ‘ritrovato’ status cinematografico, cioe` della tecnica cinematografica che serve a ritrovarli. Tuttavia, la presentazione segue parametri diversi per le due figure principali del racconto. Mentre il Generale compare nel racconto a film appena iniziato, la Slavska si materializza visivamente davanti a noi 59 insieme ai titoli di testa, perche´ lo “she” (“She was a celebrated singer”) che la introduce, per l’impossibilita` di riferirsi proletticamente a qualcuno di cui si e` gia` parlato, puo` soltanto rinviare allo schermo indicatoci dal 57
Nabokov stesso – come si legge nel libro di Alfred Appel, Jr., Nabokov’s Dark Cinema, Oxford University Press, New York 1974, p. 289 – rivela che la cantante era veramente esistita, con il nome di Plevitskaya, e la descrive come “an Elvis Presley in period dress” (“un Elvis Presley in costume d’epoca”). 58 AP, p. 547 [Se le cose fossero andate bene come sembrava, avrebbe potuto ancora cantare stasera in un Salone nobiliare col riscaldamento centralizzato oppure a Tsarskoye, mentre io sarei stato sul punto di spegnere la sua voce trasmessa in qualche angolo remoto della matrigna Siberia]. 59 Ibid., p. 546 [Lei era una celeberrima cantante].
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narratore. Attraverso la sua figura sonora entrano nel testo di Nabokov altre due forme cinematografiche: il cinegiornale e il numero musicale che la fortuna del sonoro aveva introdotto nella produzione audiovisiva. La descrizione della Slavska ha i tratti mediatici di un finto newsreel sulla biografia di una famosa cantante. Nell’ordine: un soprannome, una fotografia con dedica, una sequenza iterativa delle code che i suoi fan facevano per vederla e una medaglia e una spilla datele dalla Zarina. Proprio come in un newsreel, le riprese di repertorio (i fans in fila sotto la neve per entrare nella sala del concerto) si alternano a inquadrature di titoli dei quotidiani (il soprannome parigino e il suo profilo d’artista) e a immagini fisse (la foto). Siamo in un territorio parodico delle tecniche di giornalismo documentario del cinema che raggiunge l’apice nella sequenza iniziale (dopo la scena della morte di Kane e i titoli di testa) in Citizen Kane (1941) di Orson Welles, tutta cucita sulla falsariga pseudosto60 rica del profilo giornalistico che serve da prologo : per essere descritta, la cantante deve essere mediata da una sua immagine o dalla trasmissione della sua voce. Sebbene costantemente sollecitati a ricordare che stiamo vedendo un film, l’esistenza reale di una sala cinematografica si palesa soltanto alla fine del racconto, quando il narratore descrive la sua uscita a ritroso dal cinema, ironizzando sulle false aspettative create dai manifesti del film e sul ciarpame storico-romantico che vede collazionato nelle foto dei poster. In effetti un’altra sala compare nel racconto, ma si tratta di uno dei concert hall dove la Slavska si esibiva: e` proprio rievocando questi concerti di Berlino e Parigi che il narratore immagina di restituire visibilita` a un vecchissimo film, apportandovi le migliorie – suono e technicolor – che nel frattempo la tecnica ha reso disponibili; nel farlo, riporta in vita alcuni esemplari di spettatori che animavano le sale da concerto e che vanno ora a collocarsi nel cinema mentale che le ha sostituite: un uomo pelato con lo sguardo folle, che si va a sistemare in una delle ultime file dopo aver letteralmente fluttuato nello spazio mnemonico della sala come “an elderly 61 fetus” , seguito da un conte, che il narratore definisce suo amico e per 60 A proposito di questo brano filmico, Dario Tomasi parla di “esposizione diegetizzata”, termini con cui definisce la soluzione cinematografica per raccontare il passato di un personaggio (uso di flashback o di delega narratoriale ad altri personaggi). Per il brano da Nabokov proporrei, piuttosto, l’aggettivo “mediatizzata”, per l’intervento sincronico nel testo di molteplici forme di espressione. Cfr. D. Tomasi, Cinema e racconto. Il personaggio, Loescher, Torino 1988, pp. 32-4. 61 AP, p. 551 [un feto anziano]. Un’immagine simile compare ne L’occhio, al termine del romanzo, come figura di un inevitabile viaggio a ritroso che l’immagine del narratore e` destinata a compiere: “Feto a rovescio, anche la mia immagine languira` e perira` insieme
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finire un prete venerabile, ma mondano, seduto in prima fila. Scopriremo che a quest’ultimo spettatore appartiene le voce del racconto alcuni paragrafi dopo, quando, ricordando il reciproco disprezzo che due coniugi avevano maturato l’uno per l’altra in conseguenza di un atto criminoso condiviso, il narratore riferisce i fatti all’epoca in cui amministrava il conforto della fede al marito incarcerato. Fra i vari mestieri del cinema che Nabokov include nel suo racconto, dunque, e` compreso anche lo spettatore: il termine ‘mestiere’ qui non e` da intendersi come il lavoro che ogni spettatore deve compiere sulle immagini cinematografiche per assimilarne le componenti e farne discorso interno, come si diceva a proposito del testo di Schwartz. Con la parola ‘mestiere’ si intende, invece, la professione di comparse cinematografiche di cui spesso vivevano gli ´emigre´s russi nelle citta` (Parigi, Berlino) della loro diaspora europea post-rivoluzione. Nabokov e` cosı` sensibile alla carica metaforica di questa esistenza da spettatori virtuali da farne elemento tematico, come abbiamo visto, gia` nel primo romanzo. La notazione di curiosita` sociologica, che sembra aggiungere solo un’ulteriore coloritura elegiaca alla narrazione, introduce, in realta`, il tema cinematografico centrale del racconto. La vita degli aristocratici e dei generali zaristi costretti ad emigrare dalla Russia dopo la rivoluzione e` un tema ricorrente soprattutto nella narrativa pre-statunitense di Nabokov, ma trova in “The Assistant Producer” un punto d’arrivo, una coagulazione tematica che fa combaciare il recupero di una figura marginale della storia produttiva del cinema con la rilettura cinematografica della storia di spionaggio ´emigre´. Molti fra gli espatriati, come dicevo, trovarono una fonte di sopravvivenza nel mondo del cinema, come extra, figure di contorno che impersonavano personaggi russi oppure servivano a rappresentare il pubblico in scene ambientate in un teatro o in un cinema. Nella letteratura americana su Hollywood esiste uno specifico sottogenere dedicato agli extra, come venivano definiti, appunto, tutti coloro che affollavano gli studi cinematografici nella spasmodica e frustrante attesa di un ruolo da comparsa; a meta` degli anni Venti del secolo scorso, il fenomeno era gia` cosı` radicato nel sistema cinematografico statunitense da ispirare una striscia comica sul Los Angeles Sunday Times, nel cui nome “Ella Cinders” venivano stigmatizzate la predominanza femminile della categoria e le illusioni favolistiche (il titolo e` l’anagramma di Cinderella-Cenerentola) che l’animavano. Il disagio della condizione degli extra suscito` anche negli Stati Uniti lo sdegno all’ultimo testimone del crimine che ho commesso per il solo fatto di vivere” (V. Nabokov, L’occhio (1930), Adelphi, Milano 1998, p. 100).
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morale degli intellettuali, fra cui Theodor Dreiser, che intervenne sulla questione con una serie di articoli apparsi sul periodico Shadowland fra il 1921 e il 1922; ma mentre gli sforzi di Dreiser di “esporre l’iniquo trattamento degli extra a Hollywood riflettono una preoccupazione piu` diffusa sull’influenza dei film e sull’etica dell’industria cinematografica del 62 tempo” , la tensione non meno morale, ma scevra da finalita` ‘realistiche’, di Nabokov prende corpo dalla paradossale convergenza fra ruolo sociale e ruolo cinematografico degli ´emigre´s: i russi emigrati in Europa non vedono nel lavoro di comparse il possibile trampolino per un successo futuro, ma sembrano interpretare cinematograficamente la stessa posizione di invisibilita` e di marginalita` che e` stata loro attribuita nel contesto sociale dai paesi ospitanti. Il modo in cui Nabokov affronta l’argomento della sovrapposizione fra perdita di identita` culturale e anonimia del ruolo di comparsa trova maggiore affinita` in ambito cinematografico piuttosto che letterario, e, precisamente, in un’opera di Joseph Von Sternberg, The Last Command (Crepuscolo di gloria, 1928), con Emil Jennings nel ruolo principale. Nel film viene delineato lo straordinario ritratto di un generale russo che, caduto in disgrazia con la rivoluzione, si ritrova per necessita` economica a impersonare se stesso, recitando la parte di un generale russo durante la rivoluzione su un set cinematografico hollywoodiano. Il film in cui lavora come comparsa e` diretto da un uomo che gli era nemico in patria; pur avendolo riconosciuto, il regista abbandona poi ogni volonta` di vendetta nel momento in cui il generale cade morente al suolo (nel film e sul set), per regalargli, invece, parole di conforto sul possibile ritorno al potere della vecchia Russia. In sottofondo, come previsto dalla sceneggiatura del film, suona l’inno nazionale. La figura alienata e per nulla patetica ritratta nel film di Sternberg si ritrova specularmente nel personaggio di Nabokov, protagonista irreale di un film che da potenziale colossal epico-bellico degenera in una slapstick comedy, sul cui modello e` ricalcata l’intera sequenza della fuga di Golubkov e della reazione impacciata e inconcludente dei due generali che vanno ad arrestarlo. La conclusione del racconto riprende questa prospettiva metacinematografica nella figura che il narratore ci indica all’uscita dal cinema, corredandola di un dettaglio rivelatore (il vecchio portasigarette di pelle) da cui risulta che si tratta del generale Golubkov, apparentemente sparito dopo la sua fallita cattura e oggetto appena qualche rigo prima di ipotetici
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J. P. Springer, Hollywood Fictions, cit., p. 138.
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destini formulati dal sarcasmo del nostro imbonitore (tutte parodie filmiche del ‘talento’ spionistico del generale): Perhaps he found a heaven in Germany and was given there some small administrative job in the Baedecker Training School for Young Spies. Perhaps he returned to the land where he had taken towns single-handedly. Perhaps he did not. Perhaps he was summoned by whoever his arch-boss was and told with that slight foreign accent and special brand of blandness that we all know: “I am afraid, my friend, you are not needed anymore” – and as X turns to go, Dr. Puppenmeister’s delicate index presses a button at the edge of his impassive writing desk and a trap yawns under X, who plunges to his death (he who knows “too much”), or breaks his funny bone 63 by crashing right through into the living room of the elderly couple below .
Nell’estensione del potere autoriale di gestire tutti i possibili futuri del personaggio si riconosce una cifra tipica della narrativa nabokoviana, in cui spesso i personaggi sono simili a marionette (Puppen). In questo caso, Nabokov riserva a Golubkov un destino specificamente cinematografico nel quale il personaggio espia un contrappasso, finendo, da protagonista, a comparsa nel pubblico che guarda il film: l’autore ‘vendica’ cosı` le figure di extra che avevano incarnato sullo schermo l’inconsistenza del loro presente.
6. Camere oscure e quadri in movimento Ripartirei da un’altra dichiarazione di Nabokov, raccolta nel volume di Appel, nella quale lo scrittore esprime i propri intenti nel corso della 63
AP, p. 559 [Forse ha trovato il paradiso in Germania e gli e` stato dato un lavoro amministrativo di poco conto in una Scuola Baedecker di Formazione per Giovani Spie. Forse e` tornato nella terra dove aveva conquistato intere citta` con la mano sinistra. O forse no. Forse e` stato convocato da chiunque fosse il suo mega-direttore e gli e` stato comunicato, con quel lieve accento straniero e quella speciale blandizie che tutti noi conosciamo: “Mi spiace, amico mio, ma non c’e` piu` bisogno di te” – e, mentre X si gira per andarsene, il Dott. Puppenmeister preme delicatamente un bottone sul bordo della sua asettica scrivania e si spalanca una trappola in cui X cade, sprofondando nella morte (lui che sa “troppo”) o spezzandosi l’ulna sul pavimento del salotto nell’appartamento sottostante in cui vive una coppia di anziani]. Ho citato l’intero paragrafo anche per motivi filologici, dato che nella raccolta Nabokov’s Dozen. A Collection of Thirteen Stories (Lifetime Library, New York 1971), in cui il racconto e` incluso e che risulta piu` facilmente reperibile nelle biblioteche italiane, quest’ultima parte manca, mentre era inclusa nella precedente raccolta (Nine Stories, New Directions, New York 1947), dove il racconto apparve in volume per la prima volta. Sulle variazioni del testo cfr. Alfred Appel Jr., Nabokov’s Dark Cinema, cit., pp. 289-294.
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stesura del romanzo Laughter in the Dark64: Volevo scrivere tutto il libro come se fosse un film [...] Non pensavo al modello di una sceneggiatura; si tratta di una imitazione verbale di quello che all’epoca si era soliti chiamare un “photoplay”65.
Il gruppo di romanzi russi scritti a Berlino, di cui Laughter in the Dark fa parte, rivela l’interesse ‘archeologico’ (“photoplay” ci riporta direttamente a Mu¨nsterberg) di Nabokov per il cinema, in un riavvolgimento della memoria cinematografica che risale fino al periodo in cui il primo bioscopio era stato mostrato nei circhi e nei music hall come affascinante curiosita`; di pari passo, tuttavia, troviamo in Nabokov una fascinazione per la componente metaforica della fenomenologia dello spettacolo cinematografico e per l’utilizzo narrativo del film che non solo prefigura, ma elabora, superandole in audacia performativa, le dinamiche postmoderne. Se Gavin in Mashen’ka si rivede da spettatore in un film dove aveva la 66 parte di uno spettatore, al protagonista di The Luzˇin Defense (1930) succede di iniziare tardivamente la sua attivita` di spettatore cinematografico come uno dei tentativi messi in pratica dalla moglie per distrarlo dalla fissazione per gli scacchi che lo sta portando alla follia. Il film che vanno a vedere, pero`, contiene una scena in cui due personaggi giocano a scacchi e la sua competenza in materia – e` un campione – gli impedisce di trattenersi dal commentare divertito l’assoluta implausibilita` nella posizione dei pezzi. La spirale di coincidenze cinematografiche si fa vorticosa quando il produttore Valentinov, amico della moglie, gli chiede di fare da consulente per un nuovo film, in cui il protagonista evade dal carcere e diventa un famoso giocatore di scacchi; Luzˇin pensa che sia soltanto una scusa per farlo tornare al gioco e che non esista nessun film del genere, quando il lettore scopre, da una frase della moglie (“Macchine, alt!”), che stavano gia` girando un film su di lui a sua insaputa. Se “The Assistant Producer” e` ambientato alle soglie del cinema sonoro, in Laughter in the Dark si fa esplicito riferimento alla polemica fra
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Il romanzo, scritto in russo, fu pubblicato a Berlino nel 1933 con il titolo di Kamera Obskura. Tradotto in inglese da Winifred Roy nel 1936 con lo stesso titolo (anglicizzato in Camera Obscura), il testo fu quasi subito oggetto di una nuova traduzione, curata dallo stesso Nabokov, insoddisfatto per le numerose pecche della precedente versione: si giunge cosı` al titolo attuale. L’edizione da cui cito e` Laughter in the Dark, Vintage International, New York 1989 (d’ora in poi LD). 65 Alfred Appel Jr., Nabokov’s Dark Cinema, cit., pp. 258-59. 66 V. Nabokov, The Luzhin Defense, Penguin, Harmondsworth 1994.
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promotori del talkie e sostenitori del muto nella figura di Albinus, che, preso dall’entusiasmo per l’interesse mostrato da Margot nei confronti del cinema, profetizza il ruolo nefando del suono nel futuro prossimo dell’arte cinematografica. In realta` Margot, l’amante per la quale Albinus ha lasciato moglie e figlia, e` ben poco ricettiva a conversazioni estetiche sul mezzo audiovisivo e vive nell’aspirazione ossessiva di diventare attrice, ruolo per il quale si prepara con zelo narcisistico replicando davanti allo specchio le pose viste sullo schermo: le sue domande nascono, quindi, soltanto dal desiderio di sapere come faranno a farla ‘diventare’ film, una volta intrapresa la carriera di attrice; Albinus, allora, si offre di accompagnarla in uno studio per mostrarle il procedimento e spiegargliene le fasi. Fin dall’inizio del romanzo, il personaggio di Albinus viene connotato in senso cinematografico. La descrizione del personaggio, prima di essere fisica, riguarda la sua attivita` di critico d’arte e l’illustrazione dei suoi progetti: lo sappiamo intento a scrivere, come passatempo, “a little essay 67 (nothing very brilliant, he was not a particularly gifted man)” sull’arte del cinema, quando e` colto dall’idea di applicare il disegno animato a colori alla realizzazione di un film documentario sui quadri dei suoi amati 68 maestri fiamminghi, “the Old Masters” . La proposta cinematografica di Albinus non trova consensi da parte dei produttori cui la espone, perche´ dispendiosa e troppo sperimentale per ottenerne proventi commerciali. L’unico a mostrarsi ben disposto e` un artista statunitense, Axel Rex, la cui fama di illustratore di una fiaba persiana “which had delighted highbrows 69 in Paris and ruined the man who had financed the venture” giunge alle orecchie di Albinus a Berlino. Il progetto e` comunque destinato a restare sulla carta, in quanto l’unico risultato del loro incontro e` il triangolo amoroso con Margot, gia` coinvolta in una precedente storia con Rex, che portera` inesorabilmente all’epilogo drammatico. L’idea irrealizzata di Albinus merita di essere ripresa in dettaglio per il modo in cui rielabora in termini cinematografici un procedimento letterario che si usa far risalire a Omero e alla sua descrizione dello scudo di Achille, primo esempio storicamente conclamato di ekphrasis poetica. Nabokov innesta questo genere nel sogno cinematografico di Albinus, passando attraverso la visione dell’oggetto artistico descritto, solo potenzial-
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LD, p. 8 [un piccolo saggio (nulla di brillante, non era un uomo particolarmente dotato)]. 68 Ibid. 69 Ibid., p. 10 [che aveva deliziato il pubblico colto di Parigi e rovinato l’uomo che aveva finanziato l’impresa].
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mente, su un immaginario schermo cinematografico: How fascinating it would be, he thought, if one could use this method [colored animated drawings] for having some well-known picture, preferably of the Dutch School, perfectely reproduced on the screen in vivid colors and then brought to life – movement and gesture graphically developed in complete harmony with their static state in the picture [...] It could be continued by having the little figures come out and then pass through the landscape of the same painter, with, perhaps, a brown sky and a frozen canal, and people on the quaint skates they used then, sliding about in the old-fashioned curves suggested by the picture [...] And the designer would not only have to possess a thorough knowledge of the given painter and his period, but be blessed with talent enough to avoid any clash between the movements produced and those fixed by the old master: he would have to work them out from the picture [...] What tale might be told, the tale of an 70 artist’s vision, the happy journey of eye and brush .
Nel progetto di Albinus il cinema si presta a svolgere un percorso di rappresentazione artistica del dipinto che nella tradizione occidentale era, e continua ad essere, di pertinenza letteraria. La visione di Albinus, tuttavia, trovera` una realizzazione puntualmente cinematografica nel film Solaris di Tarkovskij (1972): un quadro di Bruegel – Cacciatori nella neve – viene ripreso e ‘animato’ dall’immagine sovrimpressa di un falco in volo, componendo una sequenza dotata di un’incisiva corrispondenza al “Breu71 ghel film” che Rex propone ad Albinus come ipotesi di pittura in movimento. Anche se non cronologicamente, il film breugeliano proposto da Rex e` a meta` strada fra la sovrapposizione cinematografica di Tarkovskij e la versione poetica che William Carlos Williams ha stilato dai quadri dell’“old master” fiammingo (Pictures from Brueghel and other Poems, 1962), e dimostra come la riscoperta modernita` del pittore non sia limitata all’area culturale anglo-americana. Tra le prerogative del disegnatore immaginato 70
Ibid., pp. 8-9 [Come sarebbe affascinante, penso`, poter utilizzare questo metodo (disegno animato a colori) per ottenere la riproduzione fedele, a colori vivaci, di qualche quadro famoso, preferibilmente di scuola fiamminga, su di uno schermo e poi portarlo in vita – con movimenti e gesti sviluppati in completa corrispondenza alla loro posizione statica nel quadro [...] Si potrebbe continuare, forse, facendo muovere le piccole sagome attraverso un paesaggio dello stesso pittore, magari con un cielo cupo e un ruscello ghiacciato e qualche figura che si muove con le desuete sinuosita` suggerite dal quadro stesso sugli strani pattini che andavano all’epoca [...] E il disegnatore non dovrebbe soltanto possedere una dettagliata conoscenza del pittore e della sua epoca, ma avere in dono un talento sufficiente a evitare ogni contrasto fra i movimenti prodotti e quelli fissati dal maestro] (corsivi miei). 71 Ibid., p. 11.
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da Albinus e` contemplata, infatti, un’adesione estetica al dipinto che ritroviamo, analoga, nella volonta` di Williams “di catturare e di riprodurre l’impianto compositivo del pittore”72; in entrambi i casi, poi, va considerata l’importanza della preparazione critica e dello studio approfondito del pittore e della sua epoca, da vero e proprio connoisseur, come strumenti indispensabili per chi si appresti a tradurre il quadro in un altro ambito semiotico: nel risultato confluiscono, quindi, anche conoscenze secondarie sull’opera, quella competenza critica che spesso prelude e partecipa alla scrittura narrativa nel postmoderno e che vediamo esplicitata in Nabokov, ma non meno determinante nella raccolta di Williams73. Il fine dell’ekphrasis come genere letterario e` sensibilmente legato al discorso sulla relazione fra arti in quanto paradossale tentativo di superamento dei confini tra il tempo della letteratura e lo spazio delle arti visive, paradossale perche´ implicitamente destinato all’insuccesso, ma anche perche´ questo insuccesso e` la garanzia di longevita` e di continuita` del tentativo e rappresenta la sua ragione d’essere nel sistema delle arti. La doppiezza ideologica dell’ekphrasis e` ben delineata da Mitchell, quando confronta l’opinione di chi la considera un genere letterario minore e oscuro con la messe di letteratura critica e teorica sull’argomento, che ne rintraccia esempi dalla narrativa orale in poi74. Il film, in quanto oggetto d’arte semioticamente misto, costituisce gia` un esempio di incontro realizzato fra immagine e parola. Ma il tipo di operazione descritta nel brano di Nabokov prevede un genere specifico di film, il disegno animato, appunto, non a caso in equilibristica sospensione tra linguaggi artistici diversi, connessi dall’elemento caratterizzante del disegno. La cifra del disegno, comune al dipinto e alla tecnica di animazione, crea le premesse per il raggiungimento di quella condizione ecfrastica, che, in termini ossimorici, Krieger descrive come “still movement”75, dove il movimento della scrittura sembra ‘fermarsi’ in una temporanea compatibilita` semiotica con l’opera d’arte immobile che e` stata oggetto di descrizione; qui, analoga-
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Renzo S. Crivelli, Lo sguardo narrato. Letteratura e arti visive, Carocci, Roma 2003, p. 30. “Pictures from Brueghel e` una continua dimostrazione non solo di come Willimas trasforma verbalmente le opere di Bruegel ma anche del modo in cui rielabora le parole degli storici dell’arte”: James A.W. Heffernan, Museum of Words. The Poetics of Ekphrasis from Homer to Ashbery, The University of Chicago Press, Chicago and London 1993, p. 161. 74 W. J. T. Mitchell, Ekphrasis and the Other, ora in Id., Picture Theory, cit., p. 152. 75 M. Krieger, “The Ekphrastic Principle and the Still Movement of Poetry; or Laokoon revisited” (1967) in: Id., Ekphrasis: the Illusion of the Natural Sign, The John Hopkins University Press, Baltimore and London 1992. 73
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mente, il movimento dei disegni deve comporsi in modo da rappresentare 76 l’immobilita` delle figure che animano il quadro . Il concetto di ‘movimento immobile’, ma anche ‘silenzioso’, per la duplicita` semantica dell’aggettivo “still”, si addice allo stile nabokoviano, 77 soprattutto nel periodo berlinese. In King, Queen and Knave (1928) il sintagma e` applicabile alla scelta di privilegiare il paradosso quando, ad esempio, descrive la partenza di un treno creando l’illusione prospettica che a muoversi siano le persone sulla banchina, la stazione, nonche´ il borgo stesso dal quale il protagonista Franz si sta congedando. E anche al rapporto che instaura con i suoi personaggi-automi dalla posizione autoriale di “Gran Marionettista” (il Puppenmeister che abbiamo incontrato alla fine di “The Assistant Producer”), il cui ruolo diventa oggetto di metarac78 conto in una sottotrama del romanzo , dove un inventore presenta allo zio di Franz, il commerciante Dreyer, il suo gruppo di automannequins da alternare nella vetrina del suo negozio come se fossero modelli in carne e ossa. Il titolo stesso del romanzo, oltre che al gioco degli scacchi, fa riferimento alle tre gigantesche carte da gioco che campeggiano sul manifesto pubblicitario del film omonimo, vestite con abiti indossati nel corso del romanzo dai tre protagonisti: Franz, Dreyer e la moglie, Martha, l’amante di Franz. Il film spesso in Nabokov assume la funzione di trappola predeterminata, di ultima ratio del racconto di finzione nel quale vengono riassorbiti personaggi che pensavano di vivere di vita propria o, comunque, di godere della maggiore liberta` ontologica offerta dalla letteratura. Nel cinema lo scacco tragico e insieme ironico del personaggio sembra amplificarsi in una reiterata messa in scena che esclude ogni possibilita` di riscatto, nel senso piu` ‘tecnico’ possibile. Il testo narrativo diventa un duplicato della pellicola cinematografica che si sta proiettando altrove, in un fuori campo che viene pero` indirettamente evocato e indicato all’interno del testo stesso: in King, Queen and Knave la costruzione di una sala cinematografica puntella lo svolgimento degli eventi nei rimandi apparentemente casuali dei personaggi, fino a quando la sua inaugurazione ha luogo con la proiezione del film omonimo, basato su una commedia la cui 76 Commentando la sequenza bruegeliana di Solaris Bernardi usa il felice ossimoro di “movimento nell’immobilita`”. Cfr. Introduzione alla retorica del cinema, cit., p. 163. 77 V. Nabokov, King, Queen and Knave, Penguin, Harmondsworth 1993. 78 Come osserva Andrea Carosso, “il livello metanarrativo si incentra non su uno, ma su piu` elementi autoreferenziali. Innanzitutto nel coincidere del titolo del romanzo con quello di un testo drammatico-cinematografico di cui seguiamo le vicende in uno dei sottointrecci”, cfr. A. Carosso, Invito alla lettura di Nabokov, Mursia, Milano 1999, p. 66.
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trama era ben nota solo al ‘regista’ del triangolo amoroso, cioe` a Dreyer. In Laughter in the Dark un film incornicia l’inizio e la fine della relazione fra Albinus e Margot. Il loro incontro avviene in una sala cinematografica, dove lei lavora come maschera, la figura a margine dell’ingresso che Hopper dipingera` qualche anno dopo nel quadro New York Movie (1939). Al senso metaforico di guida in un universo di finzione per un uomo gia` affetto da una cecita` implicita che si rivelera` fisicamente solo nei pressi della fine del romanzo, si aggiunge l’analogia fra la parcellizzazione del corpo di Margot illuminato a scatti dalla torcia elettrica e la visione frammentata del film che Albinus, entrato per ingannare il tempo che lo separa da un appuntamento di lavoro, vede dalla fine. La sequenza cinematografica, l’unica descritta dal narratore, tornera` perfettamente replicata nel tragico finale, cui toglie pathos il fatto di essere ricondotta allo stadio verbale della sua versione pre-filmica, la sceneggiatura. Il romanzo si conclude, infatti, con una serie di stage-directions che descrivono in modo particolareggiato la stanza dell’omicidio di Albinus cosı` come doveva essergli apparsa sullo schermo appena entrato nel cinema, per demistificazione mitologica chiamato malignamente “Argus”. A noi lettori era stata fornita solo una cruda descrizione degli attanti (“a girl was receding 79 among tumbled furniture before a masked man with a gun”) , senza quei 80 “dettagli” che il narratore segnala nell’incipit del romanzo come opportuni in ogni narrazione, in alternativa alla brevita` con cui si puo` riassumere la vita di un uomo. Prima che al cinema, Albinus ha gia` scambiato la realta` con la finzione per l’abitudine di cercare, nei volti umani e nei paesaggi che si presentano al suo sguardo, le copie dei quadri che lui conosce e ama. Il desiderio di figurarsi sempre di fronte a un’ immagine e` quasi un corrispettivo romanzato del pictorial turn di cui parla Mitchell, cioe` “la nozione ampiamente condivisa che le immagini visive hanno rimpiazzato le parole 81 come modalita` dominante di espressione nella nostra epoca” . La perso79
LD, p. 20 [una ragazza stava indietreggiando in mezzo a mobili rovesciati davanti a un uomo armato con il volto coperto da una maschera]. 80 I dettagli che sfuggono allo spettatore Albinus rientrano nella dinamica visiva cinematografica che solitamente non concede il tempo necessario per soffermarvisi, producendo quella che Chatman ha definito una situazione estetica singolare dove la “pressione della componente narrativa e` troppo grande”: in questa situazione, lo si vede bene anche in “The Assistant Producer”, Nabokov ama particolarmente trovarsi. Cfr. Seymour Chatman, What Novels Can Do That Films Can’t (and Vice Versa), in W. J. T. Mitchell (ed.), On Narrative, The University of Chicago Press, Chicago and London 1981, p. 122. 81 W. J. T. Mitchell, What do pictures want?, The University of Chicago Press, Chicago and London 2005, p. 5.
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nalita` iconofila di Albinus esce ulteriormente confermata dalla descrizione della sua idea cinematografica sui pittori del passato, in quanto sottrae il primato ecfrastico alla letteratura per riportarlo, paradossalmente, nell’ambito del visivo, con una svolta tautologica, che fa incontrare le immagini dipinte con quelle del cinema: le immagini si spiegano con altre immagini e la parola diventa superflua. Nabokov, tuttavia, usa degli importanti distinguo nel panorama iconologico che si riflettono sulle attitudini performative dei personaggi: l’ossessione culturale e visuale per i quadri dei Maestri si rivela, cosı`, un filtro deformante non solo per il reale, ma anche per il cinema, limitando la comprensione e la capacita` di decodifica delle immagini in movimento, tanto da mortificarne il potenziale artistico, riducendole a semplice elemento sussidiario e didascalico delle opere pittoriche del passato. La sequenza ipervisiva dei quadri ‘portati in vita’ – una variante metalinguistica e parodica della sindrome di Frankenstein da cui e` affetto il cinema narrativo – non e` impostata su un’idea di progresso rappresentativo dalla pittura al cinema, ma va letta in senso palindromo: le immagini cinematografiche piacciono a Albinus solo nella misura in cui rimandano alla loro origine pittorica, cioe` prive di qualsiasi aggiunta (il sonoro) che possa ledere la loro ‘immagine’ di purezza iconica. In questo atteggiamento culturale si comprende ancora meglio la sua investitura del disegno animato come cavalier servente della pittura, che deriva, appunto, dall’idea che le immagini del cinema ritrovino la loro componente originale nel valore dell’immobilita` cui deve aspirare il movimento. Queste le ragioni per cui non posso concordare con Moses quando, nella sua pur approfondita analisi del romanzo, sostiene che l’idea di Albinus e` la dimostrazione della volonta` di controllo da parte del personaggio e del suo desiderio di costruire trame circolari e ripetitive, collegandone il fallimento alle limita82 zioni del genere cinematografico che ha scelto . Il genere del disegno animato e`, invece, connesso alla lettura univocamente pittorica dell’immagine cinematografica e Nabokov e` cosı` particolarmente attento alla peculiare caratterizzazione iconofila di Albinus che inserisce la descrizione del suo progetto di animazione nel primo capitolo, riservandosi poi di cominciare il secondo con un piu` ‘regolare’ profilo dell’aspetto fisico del personaggio e delle sue vicende personali. Questa caratterizzazione iconofila riguarda, in effetti, tutti e tre i protagonisti del me´nage: Rex viene introdotto dalla sua fama come disegnatore e l’occupazione iniziale di Margot ha direttamente a che fare con una 82
Gavriel Moses, The Nickel Was for the Movies, cit., pp. 94-95.
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sala cinematografica. Anche nel loro sviluppo narrativo, i personaggi risultano come affetti da una devianza ecfrastica che li fa convivere con figure estratte da quadri, come l’Enrico VIII di Holbein con cui Rex gioca a carte nei suoi sogni, o prese e imitate dal cinema, fra cui spicca la Garbo citata per due volte come modello per l’atteggiamento assunto da Margot. Per riavvicinarsi a quest’ultima, dopo averla lasciata due anni prima di rivederla accanto a Albinus, Rex le consegna un foglietto, che, in un primo momento, Margot scambia per una banconota, sfuggendogli, percio`, risentita. Quando lo dispiega, Margot scopre che si tratta invece di un disegno a matita, nel quale lei appare di schiena seduta su un letto, nella medesima posizione in cui lui l’aveva abbandonata (la data appuntata sul foglio risale a due anni prima). L’affetto che Rex scopre di provare per Margot e` poi direttamente connotato in senso ritrattistico dal narratore che sottolinea come il ‘pittore’ in Rex prevalesse sull’umorista quando si trattava di Margot. Anche le relazioni fra personaggi sono quindi rappresentate figurativamente da un immaginario pittorico, la cui gamma espressiva utilizzata da Nabokov diventa indice dello svilimento melodrammatico dei sentimenti. Quando Albinus porta Margot sulla spiaggia, la sua immagine snella e abbronzata si traduce nei pensieri di Albinus in una vignette a colori che illustra il nuovo capitolo della sua vita: i quadri seicenteschi lasciano spazio a rappresentazioni piu` consone della ragazza mediatizzata, che, qualche rigo sopra, ha gia` meritato il paragone con un perfetto poster marino. In Margot, Albinus trova il corrispettivo delle immagini mediatiche che lo attraggono, il cui tratto comune e` quello di essere fisse e silenti: vignette, appunto, caricature (che chiede a Rex di disegnare per un suo articolo), fotografie (il ritratto fotografico della Garbo cattura il suo interesse proprio mentre Margot confessa di avergli spedito a casa una cartolina compromettente); Albinus, inoltre, applica su Margot la stessa prospettiva edonista, continuando a vederne le parti del corpo anatomizzate, cosı` come gli erano apparse alla luce erratica della torcia nella sala cinematografica “Argus” al loro primo incontro. Lo stesso ricordo si riaffaccia alla mente di Albinus quando assiste alla pre-view del film che avrebbe dovuto lanciare Margot come star del cinema: il film si rivela un prevedibile flop, soprattutto per la recitazione penosa della neo-attrice, ma offre a Nabokov la possibilita` di scatenare la sua vena satirica su un modello cinematografico trito e commerciale in un romanzo che, invece, esalta tutte le potenzialita` di straniamento narrativo mutuabili dal cinema. Si profila, qui piu` che altrove in Nabokov, il carattere contraddittorio del film nella sua scrittura, messo bene in evidenza da Barbara Wyllie, come qualcosa a meta` fra “la dinamica
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parodica esplicita e dichiarata” e “l’imput seminale per la sua estetica 83 creativa” , cioe` tra un giudizio negativo della prassi cinematografica da parte dello spettatore Nabokov e una funzione ispiratrice delle sue dinamiche per il Nabokov scrittore. Il rapporto fra le due componenti e`, tuttavia, meno manicheo di come possa apparire. Alla proiezione del film Nabokov dedica un intero capitolo nel corso del quale il lettore viene reso partecipe delle reazioni di ogni singolo componente del triangolo amoroso. Il film denuncia la sua monotonia sin 84 dai titoli di testa, che il narratore fa scorrere con “a diffident quiver” ; l’assenza di una musica di accompagnamento alle immagini mute e` sottolineata dal ronzio continuo del proiettore paragonato al rumore distante di un aspirapolvere, immagine sonora simile a quella della macchina a manovella, usata per produrre il suono (asincrono) del mare, che abbiamo gia` incontrato nella visualizzazione cinematografica dei concerti della Slavska in “The Assistant Producer”. Margot e`, ovviamente, il personaggio su cui si concentra l’attenzione del narratore: il suo rifiuto di riconoscersi nella figura movente che vede apparire sullo schermo costituisce un esempio unico di fallita identificazione dello spettatore con la macchina cinematografica. Unico, perche´ la predisposizione da parte di Margot a identificarsi con l’immagine, il suo desiderio di “diventare film” che aveva espresso ad Albinus, si sfalda di fronte alla goffaggine del movimento e all’inadeguatezza dei gesti. Cio` svilisce la sua aspirazione narcisistica fino ad invertire il processo di identificazione, retrocedendolo a una fase edipica irrisolta nella somiglianza che Margot rintraccia fra la sua apparizione cinematografica e una vecchia fotografia della madre in abito da sposa. Anche Rex, ma solo per disamore artistico, rinuncia alle immagini in movimento, sostituendole con le caricature a colori disegnate per Albinus che visualizza mentalmente ad occhi chiusi. Solo Albinus esterna commenti favorevoli alla performance d’attrice dell’amante fedifraga, dimostrando, ancora una volta, la sua dipendenza dall’immagine di Margot e dalle circostanze cinematografiche del loro primo incontro che si replicano nella sala, ma anche l’assenza di una pur minima consapevolezza dell’importanza che il medium cinematografico ha assunto nella sua 85 vita . Albinus e` gia`, come Luzˇin, ‘dentro’ un film, di cui Rex si e` attribuito virtualmente la regia nel capitolo precedente (il ventiduesimo): 83
Barbara Wyllie, Nabokov at the Movies. Film Perspectives in Fiction, McFarland, Jefferson 2003, p. 3. 84 LD, p. 187 [un tremolio diffidente]. 85 L’esempio portato da Barbara Wyllie a sostegno della sua interpretazione di Albinus come personaggio le cui azioni sono determinate dalla consapevolezza dell’influenza che il
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He watched with interest the sufferings of Albinus (in his opinion an oaf with simple passions and a solid, too solid, knowledge of painting), who thought, poor man, that he had touched the very depths of human distress; whereas Rex reflected – with a sense of pleasant anticipation – that, far from being the limit, it was merely the first item in the program of a roaring comedy at which he, Rex, had been reserved a place in the stage manager’s private box. The stage manager of this performance was neither God nor the devil [...] The stage manager whom Rex had in view was an elusive, double, triple, self-reflecting magic Proteus of a phantom, the shadow of many-colored glass balls flying in a curve, the ghost of a juggler on a 86 shimmering curtain .
Quando Albinus, divenuto cieco, si ritrovera` in un cottage svizzero che Margot ha appositamente affittato in alternativa al sanatorio, Rex, trasferitosi nella medesima abitazione, si curera` di tutti gli aspetti della messa in scena, dalla decorazione (decide di far mentire Margot sui colori delle pareti, in modo da imporre ad Albinus come immaginare la casa) al cast (prende a servizio una cameriera, spacciandosi per il medico che segue personalmente il decorso della malattia di Albinus) fino a ‘comparire’ lui stesso sul set che ha realizzato, in una forma letteralmente invisibile ad Albinus, in cui si condensano tutte le successive metalessi con cui gli scrittori postmoderni popolano i mondi narrati con i loro travestimenti. Rex non e` l’unico ‘autore’ che compare nel romanzo: nell’incipit e` cinema ha su di lui (B. Wyllie, Nabokov at the Movies, cit., p. 72) e` il risultato di una lettura imprecisa: lo sfarfallio dell’immagine di un funerale nel vecchio film che Albinus vede nella sua mente quando, uscito dalla sala parto, il dottore gli comunica che per la moglie “e` tutto finito”, deriva dal fraintendimento dell’espressione mesta (“gloomy”) disegnata sul volto del dottore. Non sorprende che questo contesto narrativo non sia stato preso in considerazione in un approccio critico che si prefigge di contrastare il privilegio della lettura ironica negli studi sul ‘cinema’ nabokoviano: il film muto di Albinus, tuttavia, e` un’altra forma di incoerenza, e quindi di ironia cinematografica sul personaggio e non serve, narrativamente, a segnalare “un’intima conoscenza degli aspetti anche meno ragguardevoli del cinema” (Ibid., pp. 72-73). 86 V. Nabokov, Laughter in the Dark, cit., pp. 182-3 [Osservava con interesse la sofferenza di Albinus (secondo lui, uno sciocco dalle passioni semplici e con una solida, troppo solida, conoscenza della pittura), che pensava, poveretto, di aver toccato il fondo della sofferenza umana, mentre Rex meditava – gustandosi piacevolmente i preliminari – sul fatto che, ben lungi dall’essere il limite, questa era solo la prima parte di una commedia scoppiettante alla quale poteva assistere dal posto riservatogli nel palco privato dell’impresario teatrale. L’impresario di questo spettacolo non era ne´ Dio ne´ il diavolo [...] L’impresario che Rex si figurava era il Proteo magico, sfuggente, un fantasma doppio e triplo di se stesso, l’ombra di biglie multicolori che sfrecciavano in curva, lo spettro di un giocoliere su di un sipario baluginante].
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citato il nome di Conrad, seguito dall’immediata precisazione che non si 87 tratta di Joseph (“the famous Pole”) , ma di un certo Udo, del quale viene fornita una succinta bibliografia, comprendente, oltre a un libro di memorie, dal cui titolo si evince la smemoratezza dell’autore, anche un volume su un vecchio mago dissoltosi nell’aria il giorno del suo ultimo spettacolo. Gia` chiaramente impliciti in questo scarno ritratto, in Udo si stratificheranno successivi tasselli autoreferenziali della figura di Nabokov: l’esperienza dell’esilio; il disinteresse per i problemi sociali e lo stile divino della sua scrittura (fatti risaltare dal contrasto ironico con lo scrittore fintamente ‘impegnato’ per il genere esotico, Baum, oggetto di critiche da parte di Udo); la scarsa considerazione per la psicanalisi (“I don’t think much of 88 Freudian novels”) e il disprezzo per chi sfrutta in modo sentimentale il tema dell’esilio (“the merchants I see here aren’t particularly good at 89 provoking nostalgia”) . L’ombra di Joseph Conrad, tuttavia, si sovrappone al divertissement autobiografico per essere proprio Udo l’ispiratore dell’idea cinematografica di Albinus illustrata nel primo capitolo di Laughter in the Dark, rinviando, quindi, alle finalita` audiovisive che lo scrittore inserı` programmaticamente nella prefazione al racconto The Nigger of the “Narcissus” 90 (1897) ; un’altra ombra poi (non era triplo l’impresario immaginato da Rex?), ben piu` inquietante, si staglia fra i due autori, allorche´, per descrivere uno degli amici di Otto, il fratello di Margot, che avevano turbato la ragazza da adolescente, il narratore fa ricorso alla memoria cinematografica del lettore, tracciando un paragone tra gli occhi del compagno di Otto e quelli dell’attore Veidt. Il nome taciuto dell’attore – Conrad, appunto – lega, invisibile, la visionarieta` cinematografica dello scrittore polacco alla figura proteiforme del mago Nabokov che guida gli impulsi dei suoi personaggi in modo analogo al teatrante che comanda il sonnambulo Cesare (interpretato da Conrad Veidt) nel film Das Kabinett des 87
LD, p. 7 [il famoso polacco]. Ibid., p. 216 [Non penso gran che dei romanzi freudiani]. 89 Ibid., p. 218 [i mercanti che vedo qui non sono particolarmente efficaci nel provocare la nostalgia]. 90 Il riferimento e` alla famosa dichiarazione in cui Conrad enuncia il suo compito di scrittore come artefice della trasformazione del lettore in spettatore mentale di cio` che legge: “My task which I am trying to achieve is, by the power of the written word to make you hear, to make you feel – it is, before all, to make you see”. Mitchell ascrive solo parzialmente lo scopo di quest’invito di Conrad a un principio di descrittivita` spaziale, ritenendo che la visione richiesta implichi la necessita` di andare oltre lo scenario esotico delle sue narrazioni per osservare “i disegni fondamentali che giacciono al di sotto del mondo di finzione”. Cfr. W.J.T. Mitchell, Spatial Form in Literature, in Id. (ed.), The Language of Images, The University of Chicago Press, Chicago and London, 1980 p. 285. 88
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Dr Caligari (Il Gabinetto del dottor Caligari, 1919) di Robert Wiene. Il riferimento al film espressionista, implicito nel nome dell’attore, passa attraverso il protagonista Caligari, personalita` multipla per eccellenza – prima malvagio ipnotizzatore, poi direttore del manicomio di cui l’eroe del film si rivela paziente – e anche “il mago, il controllore da lontano, l’uomo che puo` uccidere senza che lo si veda alzare il coltello, colui che puo` indurre gli altri ad agire o a farsi manovrare, alla stessa maniera in cui un 91 burattinaio manovra le sue marionette” , tutti tratti assimilabili all’ambiguita` del manipolatore nabokoviano. Non solo Caligari, ma anche Das Testament des Dr Mabuse (Il testamento del dottor Mabuse, 1933) di Fritz Lang viene indirettamente citato nella figura, sopra accennata, di Baum, lo 92 scrittore “with strong communistic leanings and a comfortable income” , nel cui nome riecheggia quello del dottor Baum, il direttore di un altro manicomio che rischia di essere posseduto da Mabuse e “adempie cosı`, nel film di Lang, alle funzioni combinate di Caligari e di Cesare nel film di 93 Wiene” . All’intreccio di nazionalita` artistiche corrisponde anche una mescolanza interlinguistica che raggiunge la climax proprio in prossimita` dell’incidente automobilistico di Albinus, dopo il quale la ‘banda sonora’ del romanzo acquisisce un rilievo ancora maggiore di quello gia` avuto nel testo, per la funzione sostitutiva che riveste nell’apparato sensoriale menomato di Albinus. In vacanza con Rex e Margot nel sud della Francia, un modo per far dimenticare a Margot l’esito disastroso del film, Albinus incontra Conrad in un bar: sara` quest’ultimo a metterlo a parte di una conversazione sentimentale che i due amanti hanno avuto sull’autobus che 94 li riportava in hotel . L’intero breve capitolo in cui questa rivelazione ha luogo e` intessuto di problemi di comunicazione auditiva. Il primo riferi91
Siegbert S. Prawer, I figli del Dottor Caligari. Il film come racconto del terrore, Editori Riuniti, Roma 1981, p. 206. 92 LD, p. 126 [con forti inclinazioni comuniste e un considerevole reddito]. 93 S. Prawer, I figli del Dottor Caligari, cit., p. 202. 94 Non e` la prima volta nel romanzo che la conversazione fra Rex e Margot e` tagliata nel ‘montaggio’ del narratore: nello stadio dove si ritrovano soli per la prima volta, i loro primi piani – coincidenti per analogia visiva con le battute del dialogo — si alternano ai suoni e alle immagini della partita di hockey che si sta giocando su ghiaccio, dettaglio importante per gli effetti sonori che, appunto, produce; ad un certo punto, quando la conversazione si fa piu` tesa, l’audio della partita copre quello del dialogo, scelta resa piu` straniante dalla continuita` visiva del primo piano sui personaggi (“Their lips continued to move, but the clamor around drowned their swift quarrel”), cfr. LD, cit., p. 151 [Le loro labbra continuarono a muoversi, ma il clamore circostante sommerse il loro rapido battibecco].
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mento agli amanti arriva da un colonnello francese che Albinus incontra all’ingresso di una tabaccheria: Albinus chiede conferma semantica (“What do you mean?”) su quanto sostiene il colonnello, che replica di non essere in grado di ripetere tutto in tedesco; entrato nel negozio Albinus esprime disappunto, di nuovo semantico (“What nonsense!”), al quale la cassiera, non avendo inteso, replica in francese. Anche il lettore si trova incluso nella babele linguistica, posto di fronte al fatto che i personaggi parlano fra loro in tedesco, sebbene la scrittura sia in inglese (a sua volta, tradotta dall’originale russo): Conrad credera` che la curiosita` di Albinus sulla conversazione dei due amanti sia dovuta soltanto all’interesse per il comportamento socio-linguistico dei tedeschi in un paese straniero e tutto il loro dialogo, attraverso una finestra chiusa, sara` metaforicamente puntellato da espressioni di mancata percezione auditiva di Conrad (“Pardon?”; “I can’t hear a word through this window”)95. I difetti della vista di Albinus sono raccontati attraverso uno spostamento dell’attenzione percettiva del lettore verso il sonoro, nonche´ del colore96, in pieno contrappasso semiotico rispetto all’incapacita` del personaggio di ‘vedere’ oltre il cinema muto e la pittura; anzi, la sua cecita` e` gia` gradualmente suggerita da un episodio che mette in dubbio il suo status di esperto di pittura. Su esplicita richiesta, Albinus mostra a Rex un quadro della sua collezione privata, che Rex riconosce come uno dei suoi lavori da ‘falsario’; tuttavia, si astiene dal rivelarlo, concordando, addirittura, sul tocco di modernita` che Albinus attribuisce alla tela (“Doesn’t it look modern? Almost surrealistic, in fact”)97, pur convinto della sua originalita`; Nabokov, al contrario, non esita a comunicarcelo, chiosando la risposta affermativa di Rex con l’esatta indicazione temporale del lavoro (“It was modern: he had painted it only eight years ago”)98. La perdita fisiologica della vista di Albinus e`, tuttavia, conseguenza dell’incidente d’auto, causato dalla combinazione di agenti atmosferici (il sole accecante) ed emotivi (le lacrime per il tradimento di Margot) che lo fanno sbandare a una curva. Intendo, ora, usare l’incidente per riaprire il discorso al resto della produzione nabokoviana e leggerlo sotto l’aspetto cinematografico che l’autore gli vede artificiosamente connaturato.
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Ibid., pp. 222. Sull’importanza del colore e della sua ricorrenza tematica nel romanzo cfr. Moses, The Nickel Was for the Movie, cit., pp. 81-85. 97 LD, p. 146 [Non sembra moderno? Anzi, direi surrealista]. 98 Ibid. [Era moderno: l’aveva dipinto solo otto anni prima]. 96
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7. Crash! L’incidente automobilistico e` una situazione topica nel macrotesto di Nabokov. Per il narratore nabokoviano la dinamica dell’incidente rappresenta un punto di crisi del racconto, perche´ esaspera l’incompatibilita` fra pensiero e parola nella percezione visuale dell’evento: ne risulta, sul piano narrativo, il bisogno di segnalare al lettore questa discrasia enunciazionale fra evento e racconto che puo` assumere differenti forme espressive, la cui cifra comune e` rappresentata sia dall’uso problematico della scansione visiva dell’incidente sia dal ribaltamento prospettico spazio-temporale del punto di vista. In conseguenza di tale complessita`, ho scelto di illustrare tre momenti diversi della produzione letteraria di Nabokov, che, montati in sequenza, articolano la struttura prismatica di un unico incidente visto in tre tempi: partiamo dal primo tempo, preso dal testo che occupa la posizione intermedia nella cronologia delle opere su cui lavoro. “Spring in Fialta” e` un racconto scritto in russo e pubblicato da ´emigre´ a Parigi nel 1938. Sebbene la componente cinematografica sia riconoscibile, come osserva Wyllie, nell’utilizzo ricorrente del flashback, l’incidente stradale che segna la climax della narrazione e` oggetto, invece, di una premonizione visiva del narratore. Il russo Victor racconta la sua impossibile storia d’amore con Nina, sua conterranea, puntellata dai loro incontri a Fialta. La sua professione, non chiaramente esplicitata, concerne il cinema, come veniamo a sapere dal riferimento che fa all’acquisto dei diritti cinematografici di una delle storie piu` comprensibili di Ferdinand, marito di Nina, un drammaturgo su cui Victor riversa le sue critiche piu` feroci, abbozzando con feroce sagacia un ritratto parodico dell’artista modernista: Now, frankly speaking, I have always been irritated by the complacent conviction that a ripple of stream consciousness, a few healthy obscenities, and a dash of communism in any old slop pail will alchemically and automatically produce ultramodern literature99.
Non sappiamo che sorte sia toccata al film tratto dal suo lavoro, ma Victor ci informa con gusto vendicativo dell’insuccesso del dramma piu` recente di Ferdinand; oltre alle colpe artistiche, Ferdinand deve l’odio di 99 V. Nabokov, The Stories of Vladimir Nabokov, p. 427 [Parlando onestamente, sono sempre stato irritato dal compiacimento di chi e` convinto che basti mescolare un rivolo di flusso di coscienza, alcune salutari oscenita` e una spruzzata di comunismo in un vecchio catino per produrre con alchemico automatismo una letteratura ultramoderna].
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Victor anche al fatto di essere sopravvissuto all’incidente che ha provocato la morte di Nina. Prima di venirlo a sapere dai giornali, Victor percepisce l’incidente, in un senso quasi ottico, nel momento in cui prefigura il movimento di Nina, Ferdinand e del loro amico Segur per raggiungere la motocicletta e la macchina parcheggiate sotto gli alberi e partire. Questa apparizione di fantasmi, come li chiama Victor, acquista i tratti di un paradosso spazio-temporale, in quanto ricordo di una premonizione, che replica, nel processo mnestico, la stessa disconnessione tra i movimenti percepiti otticamente e la constatata immobilita` dell’auto. In questo modo, l’incidente non viene narrato, ma colto in due fasi temporali che lo circondano: la prima resta semanticamente oscura nell’economia del racconto fino alla lettura del giornale che, a posteriori, ne rivela la conclusione. L’ambiguita` dell’immagine mentale, infatti, non e` soltanto temporale, ma anche narrativa, e la sospensione del suo senso e` un riflesso, en abyme, della sua anomala collocazione e del suo paradossale ruolo nel percorso mnemonico del narratore: un ricordo che diventa prolettico, in quanto racconta un episodio che deve ancora avvenire. Le immagini che lo compongono, inoltre, sono connotate in senso cinematografico dalla definizione che il narratore da` di se´ e di Nina come filmland pedestrians, “pedoni di filmlandia”, mentre vengono riflessi sulla superficie bombata di un faro dell’auto. Il ‘film’ mentale di Victor diventa realta` nella cronaca del giornale locale, una forma estrema di adeguamento del reale alle visioni filmiche del narratore, ma anche una riscrittura del passaggio semantico fra pensiero e parola. Anche in Lolita (1955), con cui continuo la sequenza, superando per un attimo la soglia bibliografica che ho precisato all’inizio del capitolo, l’incidente provvidenziale che elimina Charlotte accade ‘fuori campo’ mentre Humbert e` dentro casa e sta meditando su come evitare che la scoperta sconvolgente della moglie possa nuocere ai suoi progetti amorosi con Lolita. Chiamato dai vicini, Humbert viene travolto visivamente dal quadro d’insieme e si ‘scusa’ con il lettore per il fatto di dover trasferire 100 l’impatto della “instantaneous vision into a sequence of words” . In questa frase riecheggiano le riflessioni del linguista Vygotskij, cui ho implicitamente fatto riferimento ogni volta che ho usato il binomio pensiero e linguaggio. Oltre che con la definizione di “discorso interno” e con il chiarimento scientifico che la memoria verbale ne costituisce solo una
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V. Nabokov, The Annotated Lolita (ed. by A. Appel Jr.), Penguin, Harmondsworth 1991, p. 97 [visione istantanea in una sequela di parole].
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delle componenti, Vygotskij sottolinea la distanza tra pensiero e linguaggio ricorrendo ai termini di contrasto fra visione e espressione: Se io desidero esprimere il pensiero che oggi ho visto un ragazzo con una camicia blu che correva scalzo per la strada, io non vedo prima il ragazzo, poi la camicia, poi il suo colore blu, poi i piedi scalzi e poi l’azione del correre; io vedo tutte queste cose insieme, collegate in un unico atto del pensiero, ma le esprimo mediante il linguaggio differenziandole in singole parole101.
Nabokov reinterpreta la differenza fra pensiero e parole attraverso uno spettro cinematografico che esclude la formulazione psicanalitica e riflette, invece, la portata metalinguistica dello schermo su cui il pensiero si visualizza integralmente. In Laughter in the Dark l’incidente stradale divide il romanzo in due parti, differenziate dalla perdita della vista da parte di Albinus. L’incidente viene differito in un fuori campo che occupa visivamente lo spazio tra un capitolo e l’altro (fra il trentunesimo e il trentaduesimo). Quando il racconto riprende, la descrizione dell’incidente torna indietro come se la pellicola fosse stata riavvolta fino al momento ante-quem: «The old woman gathering herbs on the hillside saw the car and the two cyclists approa102 ching the sharp bend from opposite directions» . L’immagine in movimento e` la stessa con cui si chiudeva il capitolo precedente, consegnando l’origine del punto di vista allo sguardo della fantomatica “old woman”, con un accesso visuale piu` ampio, frutto di uno zoom all’indietro della macchina da presa virtuale con cui il narratore sta riprendendo la scena. In questo procedimento di montaggio troviamo un tratto tipico della 103 suspense piu` commerciale : la ripetizione, infatti, aumenta l’effetto di 101
Lev Vygotskij, Pensiero e linguaggio, cit., p. 390 (corsivo mio). LD, p. 237 [La vecchia che stava raccogliendo erbe sul pendio della collina vide la macchina e due ciclisti che si avvicinano alla curva stretta da due direzioni opposte]. 103 Nel suo libro su Nabokov e il cinema, Alfred Appel sottolinea l’importanza che la conoscenza del cinema ha avuto su alcune tecniche nella fiction dello scrittore e parla dell’“influenza positiva” che le forme popolari hanno esercitato su un corpus di opere segnato visibilmente da tematiche ‘basse’. Sul concetto di influenza dobbiamo sempre essere guardinghi, ma in un punto successivo del testo Appel sposta sul contenuto dei film l’interesse precipuo di Nabokov, anziche´ sulla tecnica, e trova una corrispondenza fra le figure finzionali di Nabokov e i cartoni animati che vedo adeguata anche per i testi che abbiamo considerato in questa rassegna: “Nabokov era particolarmente affascinato dal contenuto del film di finzione, come e` talvolta chiamato, per distinguerlo dalla forma documentaria – finzioni le cui trame e i cui attori ricordavano i cartoni animati”, in A. Appel jr., Nabokov’s Dark Cinema, cit., p. 41. 102
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attesa dello spettatore, prolungando la messa in scena di una tragedia annunciata. Nella successiva inquadratura, tuttavia, anziche´ vedere con gli occhi della donna, come sarebbe prevedibile, il lettore viene ulteriormente allontanato dalla scena senza che sia stato fatto alcun riferimento alla dinamica dell’incidente, inserendo, al contrario, successive posizioni di distacco visuale che superano, in arbitrarieta`, il punto di osservazione privilegiato dalla collina. In una sequenza circolare si passa dal pilota di un aereo postale in Provenza (luogo dell’incidente) alla moglie di Albinus (Elisabeth) che sembra percepire un malessere nel momento stesso dello scontro, mentre si trova a Berlino, affacciata al balcone di casa, per poi chiudere il circuito tornando alla “vecchia signora”, che avrebbe raccon104 tato per un anno intero «how she had seen... what she had seen» . L’avrebbe raccontato a tutti, tranne che a noi lettori, come sottolinea Nabokov attraverso la punteggiatura: i puntini di sospensione protraggono la suspense all’infinito e segnalano visivamente l’esistenza del fuori campo, di un non scritto che acquista consistenza in virtu` della parodia cui Nabokov sottopone la scelta dell’osservatore. I dettagli che il narratore di Laughter in the Dark descrive come elemento fondante di ogni narrazione sono proprio le parti mancanti, polisemiche e multimediatiche, che differenziano la breve sinossi che apre il romanzo, ‘bruciando’ le aspettative del lettore, dallo schermo mentale su cui il pensiero ha tracciato il percorso narrativo della vicenda. Il ritorno finale delle parole alle immagini, attraverso il limbo narrativo costituito dalla forma di sceneggiatura, inverte il processo esogamico delle parole rispetto al pensiero: la letteratura, con Nabokov, dilata lo spazio intermedio fino all’inverosimile.
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LD, p. 238 [come aveva visto... cio` che aveva visto...].
3 La novellizzazione postmoderna. Puig, Coover, Marı´as, Bram e Viel Altre persone, cosı` ho letto, fanno tesoro dei momenti memorabili della loro vita: la volta in cui sono saliti sul Partenone all’alba, la notte d’estate in cui hanno incontrato una ragazza solitaria a Central Park, e stabilito una tenera amicizia, come si dice nei libri. Anch’io una volta ho incontrato una ragazza a Central Park, ma non c’e` molto da ricordare. Quello che ricordo io `e quando John Wayne uccise tre uomini con una carabina mentre cadeva nella polvere in “Ombre rosse” e la volta in cui un gattino trovo` Orson Welles sulla soglia del portone nel “Terzo uomo”. W. Percy, The Moviegoer
1. Il racconto del film come genere letterario In ambito postmoderno la presenza del cinema nella letteratura abbandona le forme metaforiche e trasfigurate che abbiamo visto, per farsi ‘testo’. Il film entra nel discorso letterario come elemento strutturante dell’opera, identificabile dal lettore quando non direttamente dichiarato dall’autore, aggiornando in chiave audiovisiva il sistema dell’intertestualita`. La citazione cinematografica, definitivamente acquisita come tassello ineludibile dell’enciclopedia di conoscenze che il lettore e lo scrittore portano con se´, si espande all’interno del testo narrativo fino a diventare un racconto del film, che interagisce con le componenti diegetiche del racconto di primo grado in apparente noncuranza delle contraddizioni semiotiche. Il testo letterario, anzi, scopre in se´ una radice cinematografica che mette in discussione i suoi presupposti mimetici ma, allo stesso tempo, li recupera in una forma di testualita` del film cui il cinema sembrerebbe irriducibile per incompatibilita` 1 con lo scritto . Nella mescolanza di stili ed epoche che il discorso critico non 1
Riportando le osservazioni di Raymond Bellour sulla impossibilita` di citare un film in un
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lesina di sottolineare nel romanzo postmoderno, il film desta interesse per le connotazioni temporali che ne accompagnano l’inclusione nel testo, come traccia di una memoria narrativa in cui il romanzo puo` ritrovare e rielaborare un modello di costruzione del mondo, a volte solo per arrivare a perdersi e annullarsi in questa memoria. Il racconto del film, e` bene dirlo subito, coincide con la nascita stessa del cinema, in quanto precede e accompagna la visibilita` del film sotto forma di programma di sala e nei cataloghi cinematografici gia` a partire dalle prime vedute animate. Si tratta, come osservano Gaudreault e 2 Marion , di testi redazionali privi di qualunque pretesa letteraria, ma la loro pertinenza nel mio discorso e` dovuta al fatto che sono “testi scritturali 3 che prendono il posto di testi iconici, al fine di far vedere senza mostrare” . L’assenza di pretese letterarie si traduce, dunque, in un privilegio accordato alle immagini, alla cui ricostruzione mentale sono funzionali la maggior parte delle espressioni usate dai redattori: testi a forte connotazione ecfrastica che conservano, pero`, il disagio e l’esitazione di fronte alla difficolta` di restituire l’immagine da cui derivano. Nonostante la loro estraneita` alla letteratura, questi testi possono essere considerati come l’antecedente della novellizzazione, un genere insieme letterario e paraletterario, piuttosto misconosciuto dalla critica, per il suo alone di prodotto unicamente commerciale, che nasce anch’esso insieme al cinema, ma “occulta ogni referenza esplicita al medium originale e tutti i riferimenti 4 espliciti alla fattura propriamente mediatica del testo di origine” . Nella 5 sua forma ‘ortodossa’, infatti, la novelization e` la trasformazione di un film di successo in libro con un procedimento che, partendo non dal film, come si crede generalmente, ma dalla sceneggiatura, sposta il baricentro della scrittura verso una testualita` narrativa romanzesca e limita il rimando testo scritto se non attraverso la riproduzione di fotogrammi, Mikhail Iampolski chiosa con il paradosso per cui: “il significato e la testualita` di un film si palesano visivamente proprio nel punto in cui la vita naturale del film subisce un’interruzione”. Cfr. M. Iampolski, The Memory of Tiresias. Intertextuality and Film, University of California Press, Berkeley 1998, p. 29. 2 A. Gaudreault-Ph. Marion, “Les catalogues des premiers fabricants de vues anime´es”, in: Jan Baetens & Marc Lits (eds.), La novellisation: du film au livre. Novelization: from Film to Novel, Leuven University Press, Leuven 2004. 3 Ibid., p. 47 (corsivi degli autori). 4 Ibid., p. 43. 5 La formulazione del genere e` di marca statunitense; ne riporto, a proposito, la definizione di Kellman: “la trasposizione di un’opera dallo schermo alla pagina, di solito volta a capitalizzare la popolarita` di in film”; cfr. The Cinematic Novel: Tracking a Concept, cit., p. 471. Il genere, per Kellman, nasce quando il cinema diventa il medium culturale dominante.
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cinematografico a tracce peritestuali, come il titolo o la copertina, che possano fungere da richiamo per il potenziale lettore. La letteratura postmoderna ha manifestato un interesse diffuso per questa forma di trasposizione scritta del film, praticandola in una chiave alternativa nella quale si ritrovano il disagio e la tensione che erano caratteristici delle forme iniziali di riscrittura del film, finalizzate, come ho accennato sopra, all’esaltazione pubblicitaria delle immagini. In Francia, dove la convergenza di scrittore e cineasta in una medesima figura artistica aveva gia` prodotto forme tecnicamente ibride come il cine´roman, il riferimento specifico al film nella narrativa e il suo utilizzo diegetico sono descritti come la novita` nel campo sempre fluttuante dei rapporti fra 6 letteratura e cinema, e la sua comparsa datata a partire dagli anni Settanta . Sebbene nella novellizzazione convenzionale il film non sia nominato se non al di fuori del testo (sulla copertina, sulla quarta di copertina, nel titolo, ecc.), il racconto del film nel romanzo non puo` prescindere dalla messa in causa di questo genere narrativo per il fatto stesso che si attua un’operazione inversa a quella del piu` tradizionale adattamento cinematografico, in cui il movimento va dal romanzo al film. Le forme postmoderne di novellizzazione che si andra` a commentare, inoltre, appartengono alla 7 modalita` “letteraria” del genere e rivelano il carattere ideologico delle posizioni di chi vede nel genere solo un esempio di “dominazione conscia o 8 inconscia del letterario sul filmico” e non come strumento di una riformulazione del rapporto fra cinema e letteratura che parte dalla metamorfosi testuale del film e implica la metamorfosi del genere stesso. In ambito di novellizzazione, il postmoderno letterario estende la possibilita` di scelta del film ad un repertorio non soggetto soltanto alle dinamiche commerciali che il genere ha avuto, e continua ad avere, come referente principale; recupera il segno transculturale citando e rielaborando filmografie di paesi altri rispetto a quello del testo che le accoglie, ma, soprattutto, riflette attraverso la scrittura sul rapporto fra immagine e
6 Una sintesi di questa ‘rivoluzione’ intertestuale e` contenuta nell’articolo di Jeanne-Marie Clerc, «Ou` en est le paralle`le entre cine´ma et litte´rature?», Revue de litte´rature compare´e, 298, Avril-Juin 2001, pp. 317-326. 7 In un recente convegno, dedicato alle varie forme di racconto del film, Pierre Sorlin ha parlato di novellizzazione letteraria differenziandola dal riferimento cinematografico occasionale e sostenendo che “lo scrittore che si esprime sul cinema ha invece un progetto e da` una forma letteraria al suo testo: la sua e` una novellizzazione calcolata”, P. Sorlin, Novellizzazione letteraria, in A. Autelitano e V. Re (a cura di), Il racconto del film, cit., p. 81. 8 B. Morrissette, Novel and Film: Essays in Two Genres, Chicago University Press, Chicago 1985, p. 29.
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testo, assumendosi il compito problematico di simulare una sintesi fra i due codici che ha gia` avuto una sua dimensione compiuta nell’ “immagi9 netesto” di origine che e` il film. Un precedente letterario virtuale di questa testualita` eterogenea e` ospitato in Casa senza custode (1954), un romanzo di Heinrich Bo¨ll dove viene descritta la coazione di un personaggio – Bolda – a formulare il racconto dei film visti al cinema. Destinatario abituale e` il piccolo Martin, figlio della proprietaria della casa dove Bolda vive in affitto. Il cinema entra nelle pagine del testo in forme contaminate con la parola scritta: i programmi cinematografici che Bolda conserva devotamente nello stesso scaffale in cui tiene i libri di preghiera. Piu` che andandoli a vedere, Martin conosce i film attraverso i racconti orali di Bolda, che aggirano gli ostacoli della censura. La devozione che la donna esterna nei confronti dei programmi si perpetua nel rituale con cui ricuce il filo del racconto, riducendo al minimo necessario l’uso delle illustrazioni per riattivare la memoria: So oft sie ins Kino ging, ließ sie sich fu¨r einen Groschen das Programm geben, namm es dann spa¨ter vor, betrachtete die Bilder eingehend und rekonstruierte, indemsie ihm davon erza¨hlte, den Film genau. Sie schloß dann, um sich zu sammeln, die Augen, o¨ffnete sie nur gelegentlich, um an den Bildern ihre Erinnerungen zu wecken, und erza¨hlte ihm ganze Filme, Szene fu¨r Szene, unter leichter Aba¨nderung der Realita¨t10.
Come Bolda, lo scrittore contemporaneo si muove tra il ricordo delle immagini viste, i testi secondari sul film e il supporto iconico dei fotogrammi, in un misto di tecnica e sacralita`, che ritroveremo presente nei romanzi postmoderni. Non solo. Il veicolo dell’oralita`, che qui viene soltanto descritto come parte del rituale narrativo del personaggio diventa centrale come modalita` di racconto nei testi che incontreremo. Ovviamente, con gli opportuni aggiornamenti del caso: un saggio critico al posto del programma di sala, anche in virtu` della vocazione esplicitamente
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Produco un calco dalla definizione di imagetext che Mitchell usa, coniandola, per definire “opere (o concetti) sintetiche e composite che combinano immagine e testo”, W.J.T. Mitchell, Picture Theory, cit., nota n. 9, p. 89. 10 H. Bo¨ll, Haus ohne Hu¨ter, Deutscher Taschenbuch Verlag, Mu¨nchen 1993, pp. 60, [Ogni volta che andava al cinema, acquistava il programma per un soldo, e piu` tardi lo tirava fuori, osservava attentamente le illustrazioni e, raccontandolo a Martin, ricostruiva punto per punto tutto il film. Allora, per concentrarsi, chiudeva gli occhi, non riaprendoli che incidentalmente per rinfrescare la memoria attingendo alle immagini, e gli raccontava pellicole intere, scena per scena, non modificando che lievemente le realta`] (corsivo mio).
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teorica della letteratura postmoderna, e un videoregistratore oppure un lettore dvd al posto della sala cinematografica come luogo di visione. Prima ancora dell’avvento del dvd, tuttavia, un cambiamento epocale era gia` avvenuto nel contesto della visione del film, dal momento che in molti romanzi e racconti la sala cinematografica non e` piu` da tempo il luogo deputato all’interazione fra spettatore e film, ma e` stata sostituita dal televisore: la scatola catodica diventa il veicolo piu` consueto attraverso il quale la citazione filmica passa nel testo, con delle conseguenze interessanti anche sul piano dell’architettura narrativa. Attorno al film messo in onda si struttura una gamma ampia di posizioni diegetiche, che deriva dalla possibilita` stessa di introdurre ‘casualmente’ sequenze frammentarie di film in luoghi spazialmente separati della finzione, ma visualmente uniti dall’uniformita` del palinsesto televisivo. La citazione televisiva del film inserisce un discorso ‘altro’ con cui i personaggi e la narrazione devono confrontarsi, anche semioticamente: se ne trovera` conferma nel riscontro testuale della coincidenza che si crea tra l’apparizione televisiva del film e la sua novellizzazione, proprio come esempio della forma impura tipica della novellizzazione postmoderna, in cui la mediazione tra film e romanzo non e` occultata, ma, al contrario, duplicata, spesso attraverso il televisore. A questo fine, prendero` in considerazione due romanzi contemporanei, contravvenendo alla linearita` cronologica che ha caratterizzato finora il libro, per poi tornare agli anni Settanta con Manuel Puig. I romanzi in questione sono: Man˜ana en la batalla piensa en mı´ (1994) di Javier Marı´as e Father of Frankenstein (1995) di Christopher Bram.
2. L’ultimo spettacolo Marı´as intreccia l’intero romanzo di rimandi intertestuali a quattro film diversi, la cui casuale programmazione televisiva scandisce i due momenti temporali in cui la narrazione e` strutturata. Entrambi hanno come oggetto l’incontro con una donna ‘fantasma’: la prima, Marta, muore la sera stessa in cui ha invitato Vittorio, il protagonista narrante, a casa sua, approfittando dell’assenza del marito in viaggio d’affari a Londra; la seconda e` una prostituta, Vittoria, nelle cui fattezze il protagonista si era convinto, due anni prima della tragedia, di riconoscere la sua ex moglie, Celia, e alla quale si presenta con il nome di Javier, come per effetto di una spontanea metalessi dello scrittore di fronte all’omonimia dei personaggi. L’accensione del televisore e` un gesto quotidiano che il protagonista compie in modo rituale e automatico, ma risponde anche all’esigenza di trovare un
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palliativo alla piega paradossale che hanno preso gli eventi circostanti, un contatto con il mondo esterno per arginare il senso di vuoto e di assurdo subentrato nella vicenda. Sullo schermo televisivo, il protagonista vede passare immagini di vecchi film gia` iniziati, alternandole con il telecomando, e avvertendo la sensazione di incompletezza trasmessa da un film che non riusciamo a vedere per intero, problema cui non possiamo ovviare aspettando che lo spettacolo ricominci come al cinema: ‘Es ma´s bien como quando de nin˜os ´ıbamos al cine de programa doble y sesio´n continua’ pense´, ‘y entra´bamos en la sala a oscuras con una pelı´cula a medias que veı´amos hasta su final deduciendo lo que habrı´a pasado antes, que´ habrı´a llevado a los personajes a la situacio´n tan grave en que los encontra´bamos, que´ ofensas se habrı´an hecho para ser enemigos y odiarse; luego nos ponı´an otra, y so´lo despue´s, al comenzar el nuevo pase de la primera y ver el inicio que nos faltaba, comprendı´amos que lo que habı´amos imaginado no tenı´a ningu´n fundamento ni se correspondı´a con la mitad perdida. Y entonce tenı´amos que borrar de nuestra cabeza no so´lo lo imaginado, sino tambie´n lo que habı´amos visto con nuestros propios ojos segu´n esas adivinaciones, una pelı´cula inexistente o por lo menos tergiversada. Ahora que ya no hay cines ası´ nos ocurre lo mismo a menudo cuando ponemos la televisio´n al azar, so´lo que ahı´ no nos ofrecen luego otra vez el principio y nos quedamos so´lo con nuestra visio´n parcial, supuesta e imaginaria aunque asistamos al deselance’11.
La visione televisiva del film viene sottratta qui al circuito involutivo che Barthes metaforizzava nella condanna dello spettatore televisivo tout court alla ‘Famiglia’, ossia al recupero di una convenzionalita` borghese in alternativa all’esperienza straniante e destabilizzante della sala cinemato11
Javier Marı´as, Man˜ana en la batalla piensa en mı´, Suma de Letras, Madrid 2000, pp. 215-216 [‘E` piuttosto come quando da bambini andavamo al cinema con il doppio programma e con la proiezione continua – ho pensato – ed entravamo in sala al buio con un film cominciato che vedevamo fino alla fine cercando di immaginare quello che doveva essere successo prima, che cosa doveva aver condotto i personaggi alla situazione cosı` grave in cui li avevamo trovati, quali offese dovevano essersi scambiate per essere nemici e odiarsi; poi proiettavano un altro film e soltanto dopo, quando cominciava di nuovo il primo film e vedevamo l’inizio che ci mancava, capivamo che quello che avevamo immaginato non aveva nessun fondamento e non combaciava con la meta` perduta. E allora dovevamo cancellare dalla nostra testa non soltanto quello che avevamo immaginato, ma anche quello che avevamo visto con i nostri occhi seguendo quelle supposizioni, un film inesistente o almeno deformato. Adesso che non ci sono piu` dei cinema come quelli ci succede spesso la stessa cosa quando accendiamo la televisione a caso, solo che lı` non ci fanno vedere un’altra volta l’inizio e rimaniamo soltanto con la nostra visione parziale, presunta e immaginaria anche se assistiamo al finale] (corsivo mio).
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grafica. Nel romanzo di Marı´as la ‘famiglia’ televisiva viene letteralmente smembrata e il protagonista si ritrova a guardare la TV con il cadavere di una donna sposata oppure ad accenderla di ritorno a casa in piena notte dopo aver incontrato una sosia della moglie, una condizione di solitudine condivisa anche dall’altro personaggio che guarda ‘con’ lui uno dei film, il cui appellativo e`, appunto, il Llanero, cioe` “il solitario” (l’influente personaggio politico che affidera` al narratore la stesura dei suoi discorsi ufficiali e di rappresentanza, designato con un riferimento al telefilm “Il cavaliere solitario”). La TV di Marı´as, pero`, trasmette soltanto film – verosimilmente, vista l’ora tarda – con l’effetto di permettere al protagonista di recuperare lo spaesamento narrativo che provava al cinema da ragazzo; non e` un caso, credo, che i film descritti nel romanzo vadano a coppie, come per riprodurre nel televisivo le modalita` di doppio spettacolo che caratterizzavano le proiezioni cinematografiche di un tempo. Questo parallelismo finzionale fa scattare il ricordo nel personaggio, ma gli fa anche notare una marcata differenza nella percezione del film sul piccolo schermo, tanto marcata che fa del film una cosa diversa, portando lo spettatore a inventarsi un film in grado di soddisfare la sua esigenza di compiutezza, anche a costo di riformularlo in modo personale. Vedremo quanto questo aspetto sia ricorrente nella letteratura postmoderna e con quali conseguenze. Tornando, invece, alle differenze tra vedere un film al cinema e vederlo in televisione, occorre riprenderne una sostanziale da Victor Burgin che offre uno strumento utile all’analisi, e cioe` quella per cui mentre al cinema, per quanto sia complessa e articolata la struttura cronologica del plot filmico, si vive un’esperienza temporalmente lineare, “lo spazio-tempo globale della televisione e` fratturato e caleidoscopico”12. La scrittura di Man˜ana en la batalla piensa en mı´ si nutre di questa frammentazione televisiva, non solo perche´ i film che cita sono parte cosı` integrante della sua memoria di spettatore da rendere superfluo il loro titolo (l’unica eccezione e` costituita da Campanadas de medianoche, 1966, di Orson Welles), ma soprattutto per l’utilizzo ricorrente di brani della banda sonora o visiva dei film che vengono scorporati dal testo audiovisivo (l’imagetext) e collocati nel testo del romanzo ancora prima dell’effettiva apparizione diegetica del film: da ognuno dei film, Marı´as estrae qualcosa, separando l’audio dal visivo e decostruendo l’idea di un elemento specificamente cinematografico attraverso il modo diversificato in cui il film entra nella tessitura del romanzo. Di Remember the Night (1940) di Mitchell 12
V. Burgin, In/different Spaces, cit., p. 34.
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Leisen usa il titolo come un refrain narrativo che si presenta nella mente del narratore a memento di quanto e` successo nell’appartamento della donna con cui stava, forse, per iniziare una relazione, citando i nomi degli attori, Fred MacMurray e Barbara Stanwyck, come presenze irreali del mondo ‘esterno’ che continua ad andare avanti. Il Richard III (1955) di Laurence Olivier si sovrappone a un film di guerra (probabilmente The Lion Has Wings, 1939, di Michael Powell), riflettendo nella scrittura le modalita` di visione televisiva dei due film, seguiti tra un canale e l’altro nel corso della notte insonne: gli aerei in miniatura appesi al soffitto della camera del bambino di Marta ricordano al narratore quelli che compaiono nel film di guerra, mentre nella visitazione notturna del bambino nella stanza da letto della madre rivede la sequenza delle vittime di Riccardo che gli appaiono in sogno la notte prima della battaglia, maledicendolo con la ripetizione formulaica da cui e` preso il titolo del romanzo di Marı´as. Scopriamo, inoltre, nel flashback dell’incontro con Victoria/Celia che le due coppie di film servono anche come elemento di raccordo fra i due episodi, in quanto il narratore si sovviene di alcune immagini dei film visti nella notte di due anni prima quando si trovava a casa di Marta col televisore in funzione. Un lavoro ancora piu` complesso spetta a Campanadas de medianoche di Orson Welles (1967). Dall’adattamento wellesiano, anch’esso da Shakespeare, Marı´as estrapola il recitato e lo fa diventare parte del testo, spostandolo di voce in voce, in un percorso sinuoso ed ellittico che non distingue la citazione cinematografica da quella del testo teatrale. Questa contaminazione riflette una modalita` wellesiana di scrittura, in quanto tutti i dialoghi della sceneggiatura di Campanadas de medianoche (noto anche con il titolo di Chimes at Midnight) sono tratti da opere shakespeariane (il primo e il secondo Henry IV, Henry V e Richard II), di cui, per esigenze di impostazione diegetica e di intenzionalita` discorsiva, Welles non rispetto` la successione cronologica, cioe` quella legata alla sequenza degli historical plays. Ma il punto in cui troviamo un’affinita` piu` profonda tra le due scritture e` nel soliloquio. Marı´as sceglie questa come forma principale di enunciazione nel suo testo, facendola interagire con la visione solitaria dei film che entrano a far parte del soliloquio senza che siano presenti tracce di demarcazione tra linguaggi, attribuendo, anzi, le parole prese da Campanadas de medianoche, a loro volte riprese da Shakespeare, a personaggi diversi nel corso della vicenda, per poi essere citate nel racconto del film e ritornare a conclusione del testo in forma di commiato che il narratore prende dal lettore (“Addio risate e addio oltraggi. Non vi vedro` piu`, ne voi mi vedrete. E addio ardore, addio ricordi”). In Welles la traduzione cinematografica del soliloquio shakespeariano non trova la soluzione piu`
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consueta del discorso di un personaggio rivolto con lo sguardo alla macchina da presa, ma viene spesso condivisa con altri personaggi presenti in scena, per quanto afasici, quando non vede negata la convenzionalita` del suo ‘finto’ isolamento dallo spazio filmico nell’inquadratura di spalle del personaggio che lo recita; i soliloqui diventano cosı` “tentativi di conversazione, di comunicazione con l’universo diegetico, e non, come possono essere, momenti privilegiati dove il linguaggio fornisce un accesso, piu` o meno privo di mediazione, al pensiero”13. Il film occupa una posizione speciale, perche´ e` l’unico a essere riconosciuto e nominato dal narratore, quando si ferma a guardarlo mentre sta scorrendo i canali della TV nella lunga notte a casa di Marta e diventera`, poi, oggetto di racconto orale da parte del Llanero che lo ha visto parzialmente nella medesima notte insonne e vorrebbe riuscire a completarne la visione. Il racconto del film nasce imprevisto durante il colloquio di lavoro come ghost-writer che il protagonista fa sotto mentite spoglie (la sua effettiva occupazione, citata en passant, ma strategicamente funzionale alla riscrittura mediatica del romanzo, e` quello di sceneggiatore per il cinema, che, tuttavia, finisce quasi sempre a lavorare per qualche serie televisiva); lo scopo della finzione e` di riuscire ad avvicinare e conoscere il padre di Marta, Juan Te´llez Orati, un accademico ‘cortigiano’ del Llanero. Alla domanda di Te´llez su come vuole sentirsi rappresentato nei discorsi scritti per lui, il Llanero replica con il racconto del film di Welles per l’identificazione con la figura di Enrico IV, affetta, come lui, da una ricorrente insonnia e descrivendo, al principio, lo stupore provato davanti allo schermo nel riconoscere come Inghilterra luoghi e costruzioni che, invece, sapeva benissimo appartenere al territorio spagnolo; a un certo punto, il Llanero si interrompe “come se avesse interrotto la lettura di un libro” e alza lo sguardo sui presenti. Il ricordo del narratore torna, ancora una volta, alla sua fanciullezza: Aquella circunstancia tenı´a algo de colegial, como quando los chicos nos reunı´amos en el patio durante el recreo en mi infancia, y el que habı´a visto una pelı´cula se la contaba a los otros y hacı´a nacer en ellos las ganas, o bien
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M. Anderegg, Orson Welles, Shakespeare and Popular Culture, Columbia University Press, New York 1999, p. 131. Il capitolo da cui cito, interamente dedicato a Chimes at Midnight, contiene anche riflessioni sul rapporto tra il carattere internazionale della produzione cinematografica del film e le sue implicazioni intertestuali, gia` evidenziate dai titoli plurimi con cui il film e` conosciuto (a quelli citati si aggiunga Falstaff). Per un dettagliato riscontro filologico e testuale fra la sceneggiatura di Welles e le fonti shakespeariane, invece, cfr. B. G. Lyons (ed.), Chimes at Midnight, Rutgers University Press, New Brunswick 1989.
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los compensaba de no haberla visto con el relato, una forma de generosidad, contar algo14.
Nel ritorno all’infanzia e` associato un ritorno all’oralita` come forma di narrazione che si aggiunge alla scrittura e al film. Nel brano appena citato vengono messe in gioco tutte e tre le componenti dell’ “immaginetesto”, in un ordine che proviamo a leggere secondo le indicazioni di Debray: “L’immagine precede la parola, ma il suono precede a sua volta l’immagi15 ne” . La sovrapposizione temporanea fra film e libro cui assistiamo durante il racconto della visione televisiva notturna viene confermata dalla similitudine usata dal narratore per descriverne la conclusione: l’immagine di lettura riporta la voce ad un’origine scritta, segnando, al contempo, l’avvenuta transizione da film a libro, o, piuttosto, la riuscita simulazione del film nel libro. L’apparecchio televisivo si presta a fare da supporto per la simulazione filmica della scrittura letteraria proprio in virtu` della funzione imitativa che la televisione ha esercitato nei confronti del cinema. Un’imitazione riuscita, dal risultato inizialmente vitalizzante per il cinema, ma anche marcata da limiti insuperabili che sono legati alle modalita` storiche dei due media e riguardano, per l’appunto, il sonoro. Sintetizzando la contrapposizione tra cinema e televisione, Debray osserva infatti che il sonoro e` l’elemento di principale scarto, in quanto “c’e` stato e ci puo` essere un 16 cinema muto, mentre non si puo` concepire una televisione muta” ; pero` la si puo` sempre simulare, come fa Marı´as, intervenendo sul volume mentre stanno trasmettendo Remember the Night, fino a rendere mute le immagini, mentre in basso sullo schermo appaiono i sottotitoli.
3. Frankenstein in TV Il ‘padre’ cui si allude nel titolo del romanzo di Bram – Father of 17 Frankenstein – e` il regista James Whale, autore della versione cinematogra14
J. Marı´as, Man˜ana en la batalla piensa en mı´, cit., pp. 175-6 [Quella situazione aveva un che di scolastico, come quando noi ragazzi ci riunivamo nel cortile durante la ricreazione, e chi aveva visto un film lo raccontava agli altri e faceva nascere in loro la voglia, oppure compensava con il racconto il fatto che non lo avessero visto, una forma di generosita`, raccontare qualcosa]. 15 R. Debray, Vita e morte dello sguardo, cit., p. 229. 16 Ibid., p. 230. 17 Christopher Bram, Father of Frankenstein, Plume, New York 1996.
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fica piu` nota del romanzo di Mary Shelley, l’omonimo Frankenstein del 1931. Il suo adattamento, per il modo in cui il testo letterario viene assimilato a problematiche novecentesche, ha assunto il carattere di refe18 rente primario per tutte le successive riletture . Bram non lascia adito a dubbi sulla identificabilita` della base cinematografica del suo romanzo: la sostituzione implicita dei nomi parentali – dalla madre “letteraria” (Shelley) al padre “cinematografico” (Whale) – sottende anche quella del film alla fonte letteraria. Nel sintagma che compone il titolo, tuttavia, si chiarisce come il riferimento non sia al primo Frankenstein di Whale, ma al suo anomalo sequel, girato da Whale per soddisfare le pressanti richieste della produzione, ma usato dal regista come occasione per forzare in chiave grottesca il rapporto tra generi cinematografici: Bride of Frankenstein (La moglie di Frankenstein, 1935) risulta infatti una miscela di romance e horror attraverso cui si ribaltano gli stilemi convenzionali, ereditati dal canone teatrale che aveva dominato, fino ad allora, lo spazio mitopoietico della storia gotica di Mary Shelley. La parola father, cosı`, viene a perdere il connotato maschilista che sembrava aver determinato la mossa di riattribuzione autoriale ai danni della scrittrice ottocentesca; nel corto circuito semantico tra father e bride che il titolo provoca, traspare, semmai, il tema dell’omosessualita` di Whale e la sua rilevanza nell’ambito di questo racconto degli ultimi giorni di vita del regista. Il testo di Bram racconta gli ultimi giorni di vita di James Whale in una chiave di finzione biografica che si sviluppa a partire dal progetto di un documentario con il filmmaker Brian Skeet, come si legge nella “Au19 thor’s note” che chiude il romanzo. L’assenza di materiale documentato sul periodo che precede la morte del regista diventa spunto narrativo per l’invenzione dell’incontro con un giardiniere, il cui personaggio fittizio di aspirante Marine per la guerra in Corea, che viene ripudiato dal padre quando lo congedano per una peritonite, e` modellato sull’icona cinematografica del mostro e sui tratti distintivi di solitudine, marginalita` e incom18
Per una indagine documentata delle trasformazioni apportate al romanzo di M. Shelley dagli adattamenti cinematografici e dei motivi contestuali che possono spiegarne la portata rimando all’articolo di Paul O’Flinn, “Production and reproduction: the case of Frankenstein”, contenuto nel volume Popular Fictions. Essays in Literature and History, a cura di P. Humm, P. Stigant e P. Widdowson, Methuen, London-New York 1986, pp. 196-221. 19 Anche Marı´as inserisce delle indicazioni autoriali di percorso a conclusione di Domani nella battaglia pensa a me, diversificando le note in base ai destinatari, cinefili o letterati, e spiegando, in ognuna, i riferimenti intertestuali presenti nel romanzo, come ironico supporto alla fatica dei critici nel rintracciare le fonti testuali e cinematografiche. Una forma, questa, di imposizione autoriale sulla propria scrittura costruita sulla disseminazione fintamente casuale e ibridamente contigua di tracce visuali e verbali.
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patibilita` sociale che lo hanno reso particolarmente consono alla soggettivita` contemporanea. Credo che proprio sotto questo aspetto il romanzo rappresenti un esempio particolare di incrocio fra trasformazioni mediali. La sua ambientazione fine anni ’50 coincide, infatti, con uno dei periodi di rinnovata attenzione cinematografica verso il romanzo di Mary Shelley come modello interpretativo di una fase culturale in cui l’immagine dei ‘padri’ diventa oggetto di ribellione sociale: in questa prospettiva, il personaggio negativo viene a coincidere con la figura dello scienziato, appositamente incanutito nelle versioni cinematografiche del tempo per recitare meglio il ruolo genitoriale connesso alla condanna della irresponsabilita` scientifica di chi aveva costruito materiali di distruzione di massa. Come si diceva sopra a proposito del titolo del romanzo, la ‘paternita`’ di Frankenstein e` attribuita da Bram al regista del film Frankenstein, in quanto creatore dell’archetipo cinematografico di tutte le versioni successive, che costituiscono un sottotesto indispensabile per comprendere la riconfigurazione dei ruoli. La trasmissione televisiva del film Bride of Frankenstein e` oggetto di una duplice descrizione nel romanzo. Lo stesso film viene seguito in due ambienti differenti, a ognuno dei quali e` dedicato un capitolo, che forma, in successione con l’altro, un vero e proprio “dittico” della ricezione. La visione parallela serve a focalizzare le aspettative e le proiezioni mentali che animano il rapporto centrale del romanzo, quello tra il regista e il suo nuovo giardiniere, Clay Boone: e` proprio quest’ultimo, invitato a posare per un ritratto, ad avvertire Whale che trasmettono un suo film in TV, manifestando un entusiasmo che non e` condiviso dal regista, tutto preso dalla novita` di aver trovato un modello in carne e ossa con il quale sostituire i Vecchi Maestri (una passione che condivide con l’Albinus nabokoviano, anche se qui il pittore citato e` Rembrandt, anziche´ Bruegel) e smettere di copiarne i capolavori. Per vederlo, Clay, che pensa alla coincidenza come a un’occasione di riscatto sociale, si reca al bar “Beachcomber”, il piu` vicino alla zona di posteggio della sua casa-roulotte, e coinvolge, quasi costringendoli alla visione, il proprietario Harry, beatnik ante-litteram, Betty, la barista divorziata che si vede ogni tanto con Clay, e Dwight, avventore abituale, gia` mezzo ubriaco quando comincia il late show della serata. Il romanzo e` ambientato nel 1957, anno della morte di Whale, e il televisore non e` ancora un bene diffuso capillarmente negli Stati Uniti. Whale, pero`, possiede un Magnavox da diciassette pollici, incassato in un mobiletto di ciliegio, e decide, nonostante tutto, di vedere lo spettacolo in compagnia della sua governante-infermiera messicana, Maria.
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La prima visione, quella al bar, e` puntellata da commenti ad alta voce da parte degli avventori: Harry e` disgustato dalla necrofilia che attraversa il film, Betty lo trova incoerente per la mescolanza continua fra commedia e orrore, mentre Dwight riesce solo ad apprezzare il finale apocalittico con il mostro che si autodistrugge. Ci sono anche due non-spettatori nel locale: due ragazzi che stanno flirtando in un angolo del bar azionano il jukebox, facendo risuonare all’improvviso una canzone di Presley, i cui primi versi, riportati in corsivo nel testo (You ain’t nothing but a hound dog, crying all the time) sembrano anch’essi commentare, parodicamente, lo schermo televisivo, sul quale, in quel momento, stanno passando le immagini della cattura del mostro nella foresta. Clay reagisce con estrema violenza a questa interferenza mediale, staccando furente la spina del jukebox. Il suo e` un atteggiamento di difesa, sia del film sia del regista, come dimostrano le risposte con cui cerca di arginare le critiche e le illazioni degli altri, in particolare quelle di Betty, relative alle supposte mire sessuali di Whale; in Clay si fa spazio una progressiva identificazione con il mostro e con la sua solitudine. In casa Whale, invece, il film innesta un percorso mnemonico nella mente del regista, che si diverte a notare la permanenza dell’effetto di terrore su persone semplici come Maria, e ricorda, rivedendoli, i modi in cui lui e i suoi collaboratori si erano presi gioco della produzione che aveva premuto per avere un sequel al primo Frankenstein, connotando alcune sequenze di ambigue allusioni sessuali e scegliendo un finale che rovescia l’assunto romantico della creazione di una compagna per il mostro. Allo stesso tempo, tuttavia, Whale, malato terminale, trova nella rilevanza tematica della morte una sintonia con i suoi desideri attuali e sostituisce l’immagine del mostro con quella di Clay, al quale affida la parte nel ‘film’ prodotto dalla sua mente che vorrebbe trasformare in realta`, riservando a se stesso il ruolo di vittima. La visione parallela di Bride of Frankenstein serve, quindi, ad impostare le dinamiche relazionali dei personaggi sul modello attanziale fornito dal film, salvo poi correggerne la portata nel rifiuto finale di Clay a rivestire il ruolo di ‘mostro’ omicida. In che modo si puo` parlare qui di novellizzazione? Lo stile e la tecnica di scrittura non sembrano coincidere con quelle di un genere che “sembra fare curiosamente come se l’immagine considerata onnipresente non fosse 20 veramente la`” : il discorso interno di Clay fa ricorso a frasi brevi, con verbi al presente, com’e` tipico in una sceneggiatura, mentre con Whale le immagini sono scansionate in base ai ricordi biografico-affettivi che la 20
J. Baetens-M. Lits, “La novellisation: au-dela` des lieux communs”, in Id. (eds.), La novellisation, cit., p. 12.
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vista di ogni attore fa riaffiorare nella mente del regista. Il racconto del film, inoltre, e` del tutto dipendente dalla sua visione, il cui filtro televisivo e` anch’esso oggetto di attenzione da parte di chi guarda: prima ancora che il film cominci nel bar dove si trova Clay, il narratore descrive la sigla del late show, riporta tra virgolette l’annuncio vocale del programma e visualizza il logo della Universal con l’aeroplano che ruota attorno al globo; Whale, dal canto suo, intreccia il flusso incontrollabile dei suoi pensieri agli spot pubblicitari della trasmissione senza soluzione di continuita` (“Yes, he knows these are ‘commercials’ and every viewer will understand they’re not part of the picture, but it’s disconcerting to see Karloff stumbling through the woods on his way to a rendezvous with – a woman in a white 21 owl costume peddling cheap cigars”) . Il passaggio televisivo del film serve anche a contrapporre la curiosita` visiva di Clay, la cui prospettiva di racconto include anche i dettagli peritestuali, come la comparsa del nome del regista nei titoli di testa, al disincanto di Whale, che nota ormai rassegnato i danni apportati alla qualita` del film dal formato televisivo (“the thing is a shadow of itself, not just pixeled like a newspaper photo and shriveled to fit inside a piece of 22 furniture, but amputated, butchered”) . La sequenza amputata e` particolarmente cara a Whale, perche´ l’aveva ideata come mossa spiazzante verso le aspettative generate dalle prime immagini del film: alla ripresa della villa illuminata dai lampi seguiva, infatti, l’interno di un salotto con Byron, Shelley e la moglie Mary che conversano amabilmente sul successo del racconto da lei scritto. Non dobbiamo dimenticarci che il film raccontato in Father of Frankenstein e` un sequel e, per questo, appartiene gia` allo stesso circuito di trasmigrazione mediale di cui fa parte anche la novellizzazione. Il film, come il mostro, torna a vivere attraverso l’apparecchio televisivo, sostituto contemporaneo dei marchingegni d’ispirazione galvanica descritti nel testo ottocentesco. La sua palingenesi mediale diventa l’elemento scatenante della vicenda narrata, che prende una direzione diversa a partire dal passaggio televisivo condiviso a distanza dai due personaggi principali, una distanza che si fa anche metafora del nuovo contesto ricettivo del film e, quindi, della diversa reinterpretazione che
21
C. Bram, Father of Frankenstein, cit., p. 131 [Sı`, sa bene che si tratta soltanto di ‘pubblicita`’ e che ogni spettatore capira` che non sono parti del film, ma e` sconcertante vedere Karloff che annaspa attraverso la foresta per arrivare all’appuntamento con una donna vestita da gufo bianco che smercia sigari a buon prezzo]. 22 Ibid. [era un’ombra di se´, non solo pixellato come una foto sul giornale e ristretto a misura dell’elettrodomestico, ma anche amputato e macellato].
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ognuno dei due elabora internamente sul mostro23. Si puo` dire, allora, che la visione televisiva del film offre al romanzo l’occasione di trasformarsi in una novellizzazione: una versione del pictorial turn novecentesco in cui il testo letterario recupera una propria dimensione cinematografica in modo analogo a quanto abbiamo visto accadere con Nabokov al termine di Laughter in the Dark, espressioni diverse di quei “nuovi modi di pensare l’immagine [che] si sforzano spesso di superare i rapporti dicotomici fra l’ordine verbale e quello visuale”24. Si chiarisce, in questo modo, la funzione intertestuale del film in TV, ma si manifesta anche l’insufficienza del modello di testualita` per dare conto degli intrecci mediali su cui il romanzo e` costruito. Se Father of Frankenstein non rientra nei parametri fissati arbitrariamente, e tacitamente, per confinare il supposto genere della novellizzazione come ‘sottogenere’ paraletterario che restituisce all’ordine verbale del discorso togliendo a quello visuale, il suo ‘testo’ intermediale e` prova, al contrario, della continua riscrivibilita` dei confini creativi della novellizzazione, in quanto categoria dell’impuro che non mira a raggiungere una propria specificita`, ma elabora al suo interno contraddizioni culturali e mediatiche.
4. Prigioni con cinema Nella sua declinazione cinematografica, anche il romanzo postmoderno, novello ‘mostro’ frankensteiniano, intessuto di metafinzioni e riscritture visibili come cicatrici, ha un padre: Manuel Puig. Il suo primo romanzo,
23
Lo straniamento derivante dalla visione di Frankenstein e` al centro di un racconto abbastanza recente di Laura Pariani, nel quale la scrittrice immagina una spettatrice turbata dalle immagini del vecchio film che ha visto in cassetta, a causa dell’identificazione con la bambina che nel film cade vittima involontaria delle azioni del mostro. Il racconto, pero`, ospita anche la voce del mostro, come il romanzo della Shelley, che si difende dalle accuse implicite nello sguardo dello spettatore, traslato in quello della bambina; l’alternanza delle due voci si conclude quando lo schermo e` spento, lasciando la spettatrice in uno stato irreale, dominato dalle immagini come se “la parete bianca della stanza fosse diventata il telone sul quale vengono proiettate”, L. Pariani, “Le belle vittime”, in Eadem, La perfezione degli elastici (e del cinema), Rizzoli, Milano 1997, p. 17. 24 Jan Baetens, La novellisation, un genre contamine´?, «Critical Inquiry», 32, 2005, p. 43; cfr. la versione italiana del saggio di Baetens in P. Zanotti (a cura di), Contaminazioni, “Quaderni di Synapsis”, n. IV, Atti della Scuola Europea di Studi Comparati, Bertinoro (13-20 settembre 2003), Le Monnier, Firenze 2005.
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La Traicio´n de Rita Hayworth25 (1968), nasce letteralmente da una sceneggiatura, che diventa romanzo nel corso della scrittura, offrendo a Puig una liberta` compositiva maggiore rispetto allo standard hollywoodiano su cui erano modellate le sue sceneggiature. L’ibridazione fra cinema e letteratura, tuttavia, raggiunge i livelli piu` originali di scrittura e testualita` in un romanzo di qualche anno successivo, El beso de la mujer aran˜a (1976), reso poi ulteriormente famoso, in un effetto rebound conclamato, dal film omonimo che ne ha tratto Hector Babenco nel 1985. In questo romanzo ritroviamo una modalita` di racconto che viene spesso definita come “cinematografica” e corrisponde all’assenza di un narratore che orienti il lettore nell’attribuzione di importanza all’uno o all’altro evento diegetico; un approccio analogo alla materia del racconto era gia` presente in La Traicio´n de Rita Hayworth. Puig riconosce alla ‘voce’ del personaggio un’indipendenza e un’innervatura testuale che travalica gli argini di un commento narratoriale, ma non vedrei in questa scelta un’emulazione della supposta oggettivita` tecnicistica della macchina da presa, per due motivi, almeno: per prima cosa, Puig non favoriva questo aspetto di superficiale realismo del cinema, criticandone gli eccessi potenzialmente elitari e il conseguente distacco del pubblico di cui era testimone quando frequentava il Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma negli anni di tramonto del “neorealismo” italiano26; in secondo luogo, gli 27 studi sulle forme di espressione del narratore cinematografico e sulla sua composita struttura all’interno dell’immagine in movimento hanno compromesso definitivamente l’idea di un cinema al grado zero di narrativita`. Mi sembrano, invece, molto piu` “cinematografici” i dialoghi, non per la loro rapidita` o la capacita` di assorbire l’azione incidendo peculiarmente sull’economia descrittiva del racconto, ma perche´ il romanzo si compone in gran parte di dialoghi fra due detenuti (Valentin e` un terrorista rivoluzionario, Molina allestisce vetrine ed e` in prigione per adescamento
25
Per una riflessione critica sul rapporto tra questo romanzo e i media nel contesto latino-americano cfr. L. Santos, Kitsch Tropical. Los medios en la literatura y el arte de America Latina, Iberoamericana, Vervuerti 2001. 26 “Esamimando cio` che resta della storia del cinema, riscontro prove sempre piu` consistenti di quanto poco rimanga di quei tentativi di realismo nei quali la macchina da presa sembra scorrere in superficie senza riuscire a entrare in una dimensione diversa da quella fotografica – restando, cioe`, all’interno di un mondo bidimensionale”, Manuel Puig, “The Provincial Argentine” in Keith Cohen (ed.), Writing in a Film Age. Essays by Contemporary Novelists, University Press of Colorado, Niwot 1991, p. 275. 27 Rimando, come esempio paradigmatico, al volume di A. Gaudreault, Dal letterario al filmico, cit.
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di minori), molti dei quali vertono sul racconto e sul commento della trama e dei personaggi di alcuni film e sono articolati, appunto, nella totale assenza di una voce narrante che li ‘diriga’. Il richiamo a una tradizione orale del racconto filmico, alla figura rivisitata dell’imbonitore che commentava i film in ‘diretta’ per un pubblico ancora privo delle competenze audiovisive utili a seguire lo spettacolo senza un supporto, si innesta in una pratica innovativa per la letteratura dell’epoca, un sistema di racconto che, come osserva Keith 28 Cohen, non si era mai incontrato prima: il “recounted movie” . Nella sua recente proposta di classificazione della citazione cinematografica in letteratura, Costa elenca una serie eterogenea di casi, tra i quali e` menzionato anche El beso de la mujer aran˜a, che dimostrano “come nella narrativa contemporanea il cinema funzioni spesso come un gioco riflessivo, una mise en abyme, lungo la sottile linea che separa la messa in scena di se´ nella vita 29 reale e la messa in scena dei personaggi nella finzione cinematografica” . Questa la descrizione di Cohen che evidenzia la fragilita` del confine in relazione specifica al romanzo di Puig: Questa nuova narrativa, cosı` come la pratica Molina, consiste nel prendere la trama di un film e raccontarla un’altra volta, mettendo in evidenza quei dettagli che rivelano indirettamente il carattere della persona che narra. La coerenza strutturale e fenomenologica di questa versione interpolata da` l’impressione del racconto di un fatto vissuto – eccetto che non si tratta di un’esperienza di vita, ma dell’esperienza di un fatto artistico, un esempio di teatro nel teatro, o, piuttosto, di film nel romanzo30.
Recounted movie come sinonimo di novellizzazione? Credo, piuttosto, che il recounted movie, nel modo in cui e` descritto da Cohen, rappresenti una possibile variante del genere. In Puig il racconto del film serve come rivelatore del pensiero e delle attitudini del personaggio: il film, allora, diventa uno strumento del romanzo, un modo per far progredire gli eventi e introdurre elementi che contribuiscano allo sviluppo narrativo della vicenda. Attraverso il film i due prigionieri sono stimolati a raccontare di se´ e della propria vita prima dell’internamento in carcere e a fare progetti sulla vita che li aspetta dopo aver scontato la pena, creando una continuita` tra il film narrato e la vita vissuta, che permette di mutuare dettagli 28
Keith Cohen (ed.), Writing in a Film Age. Essays by Contemporary Novelists, cit., p. 267. A. Costa, Nel corpo della parola, l’immagine: quando la letteratura cita il cinema, «Contemporanea», 3, 2005, p. 66. 30 K. Cohen, Writing in a Film Age, cit., p. 268. 29
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dall’uno all’altra. Cosı`, per parlare della fidanzata che Valentı´n non vede dal giorno dell’arresto, Molina usa il nome dell’attrice del primo film raccontato, perche´ la parte che recita gli sembra adatta allo stesso tipo di donna emancipata e colta: - Yo ahora me acorde´ el nombre de la artista que hace de arquitecta. - ¿Co´mo es? - Jane Randolph. - Nunca la oı´ nombrar. - Es de hace mucho, del cuarenta, por ahı´. A tu compan˜era le podemos decir Jane Randolph31.
La memoria del personaggio trova nel film la fonte piu` attendibile del ricordo. Su questa prospettiva mediatica si colloca anche l’altra funzione, piu` specificamente diegetica, dei racconti cinematografici, quella di agire come trappola, come una tela, invisibile quanto lo schermo cinematografico intessuto dalle descrizioni di Molina, su cui catturare le eventuali informazioni riguardo ai movimenti dei terroristi che possono sfuggire a Valentı´n nel corso delle lunghe conversazioni e delle serrate discussioni sui film, provocate dalle opinioni spesso divergenti dei due ‘spettatori’. La ricompensa promessa a Molina per il lavoro di spia sarebbe una fine rapida della detenzione, dunque la liberta`. Nei “recounted movies” di Molina il contenuto narrativo del film e` inseparabile dalla descrizione degli elementi che compongono la scena, che qui vanno dall’abbigliamento dell’attrice alla scenografia dell’azione, al modo di camminare del personaggio, dettagli decisivi per stimolare la fascinazione visuale dello schermo su di uno spettatore criticamente avveduto e ideologicamente infastidito come Valentı´n. Quella che emerge finora e` una forma di contaminazione fra novellizzazione e ekphrasis, che abbiamo appena visto come rappresentativa del discorso postmoderno successivo su letteratura e cinema. In El beso de la mujer aran˜a la contaminazione e` piu` estrema, ma anche meno visibile, perche´ non filtrata da strumenti intermediari quali la televisione, o il cinema stesso come spazio di fruizione: i film di Molina sono oggetto del dialogo, ma sono anche il mezzo attraverso il quale il dialogo si struttura. Dob31
Manuel Puig, El beso de la mujer aran˜a, Seix Barral, Barcelona 2001, p. 49 [– Adesso mi sono ricordato del nome dell’attrice che faceva l’architetta. – Chi era? – Jane Randolph. – Non l’ho mai sentita nominare. – E` di tanto tempo fa, del quaranta, giu` di lı`. La tua compagna possiamo chiamarla Jane Randolph]. Tutte le citazioni saranno tratte da questa edizione.
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biamo chiederci, per cominciare, che film si raccontano nel romanzo e che relazione hanno tra di loro, con la scrittura e con la figura di autore espressa da Puig; non credo, infatti, che la loro scansione progressiva nel 32 romanzo sia “semplicemente un ricordo magnificato di quei film seriali” prodotti negli Stati Uniti e distribuiti nelle sale popolari dell’America latina, ne´ trovo sia insignificante che il rimando a film esistenti si ‘confonde’ nel romanzo con l’invenzione di trame cinematografiche. Poi si passera` a esaminare quale senso assumano le voci di Molina e Valentı´n nel contesto di un romanzo che delega al film la funzione di medium narrativo, ma recupera una prossemica teatrale quando Molina interagisce con il direttore del carcere per fargli rapporto, al di fuori, quindi, del microcosmo cinematografico della cella; se il romanzo di Puig diventa film, il veicolo semiotico ‘non indifferente’ e` proprio la voce, che sara` letta con il supporto delle teorie audiovisive di Michel Chion, nel tentativo di raccordare, infine, il procedimento narrativo di Puig con la ridefinizione semantica e tematica del piano sonoro riscontrabile in un film statunitense contemporaneo del romanzo, The Conversation (1974) di Francis F. Coppola.
5. Lo scrittore, la pantera e la videoteca Nella monografia piu` recente sullo scrittore argentino, Graciela Speranza osserva che il personaggio di Molina e` “la trasposizione narrativa piu` fedele della sua passione cinematografica, delle lezioni apprese al cinema e delle 33 sue possibilita` di appropriarsene letterariamente” . I film raccontati da Molina sono un surrogato dei generi cinematografici preferiti da Puig, rilevati attraverso la catalogazione dei titoli contenuti nella sua videoteca 34 personale . I piu` ricorrenti nel romanzo sono i film horror, fra i quali spiccano i due titoli diretti da Jacques Tourneur (Cat People, 1942 e I Walked 32
Alain Berenboom, Les pratiques virtuelles du romancier, in J. Baetens & M. Lits, La Novellisation, cit., p. 164. 33 Graciela Speranza, Manuel Puig. Despue´s del fin de la literatura, Grupo Editorial Norma, Buenos Aires 2000, p. 128. 34 Nell’archivio dei film si contano piu` di 1500 titoli, cifra tanto piu` considerevole quanto si pensa alla minore diffusione e commercializzazione dei film su videocassetta; oltre a delineare il profilo di un collezionista per lo scrittore, questa raccolta testimonia “la centralita` del cinema come capitale simbolico specifico dello scrittore e come materiale concreto di lavoro. La videoteca si impone materialmente come spazio privilegiato di apprendistato e di ispirazione e rimpiazza l’enciclopedia tradizionale dello scrittore, la biblioteca” (Ibid., p. 131).
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with a Zombie, 1943), sia per ragioni di posizione testuale – con il racconto del primo film si apre, senza alcuna formula introduttiva, il dialogo fra i due personaggi –, sia per motivi di ascendenza ‘letteraria’. Il secondo film, infatti, e` una libera trasposizione del romanzo Jane Eyre di Charlotte Bronte¨, la cui vicenda viene interamente ambientata su un’isola esotica, che rappresenta visualmente il corrispettivo delle West Indies, cioe` dei Caraibi, e della funzione di alterita` che le “Indie dell’Occidente” rivestivano nell’immaginario coloniale gia` nel paradosso nominale: si anticipa fin d’ora che il sogno finale di Valentı´n avra` nuovamente un’isola come luogo di ambientazione, un legame scenografico che sara` fondamentale nella metamorfosi testuale del romanzo. Diversamente dal romanzo vittoriano, nel film e` la protagonista (Betsy, un’infermiera canadese) che affronta un viaggio ‘verso’ la mad woman sposata da Rochester (Jessica, la zombie del titolo che Betsy e` chiamata ad accudire). Mutuando il lessico dal video documentario di Martin Scorsese sulla storia del cinema nordamericano, Speranza attribuisce a Puig le stesse caratteristiche di “contrabbandiere” estetico che Scorsese usa per definire il modus operandi di Tourneur: in entrambi i casi, il genere, cinematografico o letterario, viene forzato oltre i limiti della sua ‘corretta’ applicazione, e diventa veicolo per l’intromissione di contenuti altri e di tematiche culturali e politiche contemporanee all’artista. Bisogna anche ricordare che Tourneur lavorava nel settore dei B movies, film di “genere” a basso costo realizzati da team altamente specializzati al fine di sostenere gli impegni finanziari delle majors nelle produzioni di maggiore livello (e anche di offrire un recupero economico garantito, in caso di insuccesso del film di categoria superiore); ma, soprattutto, occorre rammentare che il produttore di questa sezione nella RKO era Val Lewton, immigrato russo, colto e poligrafo, al quale si deve la filosofia della composizione di questi prodotti seriali, essenzialmente ravvisabile in un uso estetizzante delle peculiarita` visive delle riprese. In realta`, la tentazione filologica e` bandita dal discorso di Puig, per l’assenza di riferimenti espliciti al regista o al produttore. Anzi, il graduale allontanamento da una fonte autoriale riconoscibile si percepisce nell’iter seguito dai racconti di Molina verso una testualita` disinibita, che poggia sulla tessitura di trame di film parzialmente rammentate e, spesso, su libere rielaborazioni personali. Il film come “testo” viene, allora, a perdere una precisa e unica formulazione diegetica per abbracciarne una estemporanea, nella quale non si possono distinguere con chiarezza i confini tra l’invenzione descrittiva e l’aderenza all’oggetto di partenza. Sembrano, invece, prevalere nel romanzo ragioni metalinguistiche che vedono univoca la scelta di assorbire forme popolari e paraletterarie di
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narrazione a scapito di qualsiasi firma autoriale nel testo. Questa scelta si manifesta nell’assenza palese di un narratore, estromesso dalle forme mediatizzate del linguaggio, che sostituiscono (o mascherano) l’autore, appunto, con il medium utilizzato in una revisione della formula macluhaniana (si pensi non solo ai film descritti, ma anche ai rapporti di polizia e ai saggi scientifici inclusi in nota nel romanzo); e, anche, nella selezione di film la cui cifra comune e` la serialita` di produzione e l’appartenenza al genere. Proprio da questi film di “seconda scelta”, emergono, pero`, contraddizioni palesi con il progetto di cancellazione dell’autore che potremmo ravvisare nel romanzo. Nel ricevere cittadinanza americana dalle sponde 35 francesi dei “Cahiers du Cine´ma” il concetto di auteur e` stato ricontestualizzato nella tensione fra il regista e il suo materiale da Andrew Sarris, il critico cinematografico cui si ascrive il ruolo di mediatore nel passaggio. Nella versione statunitense, l’auteur viene a scuotere il contrasto stereotipato del rapporto schiacciante fra struttura industriale del cinema e liberta` creativa dell’artista, con l’accentuazione della proficua ripercussione di questo contrasto sulla “tensione” espressiva del film (“la teoria dell’auteur valorizza la personalita` di un regista nella misura in cui si pone in ostacolo 36 alla sua espressione”) ; il tutto in una chiave di rivalutazione del cinema americano. Rivalutati sono stati soprattutto i registi nei cui lavori era ravvisabile questa tensione e la cui presenza nominale nella storia del cinema e` stata annunciata e inserita in un sistema gerarchico. I B-movies diventano territorio di ricerca per il singolare connubio di maggiore 37 rispetto del genere praticato e minore pressione dell’industria . 35
Il riferimento e` all’impresa culturale della politique des auteurs, cioe` della ricerca critica dei tratti di un’espressione personale e coerente di un regista nei suoi film che fu praticata dai “Cahiers du Cine´ma” a partire dalla meta` degli anni Cinquanta. Cfr. Giorgio De Vincenti, Il cinema e i film. I “Cahiers du Cine´ma” 1951-1969, Marsilio, Venezia 1980, pp. 147-184, in cui si rivede la presunta unitarieta` del progetto critico, soprattutto alla luce delle osservazioni mosse da Bazin sulle derive ideologiche dell’approccio. 36 A. Sarris, “Toward a theory of film history”, in: John Caughie (ed.), Theories of Authorship, Routledge, London (in association with the British Film Institute) 1981, p. 65. 37 Una versione, piu` vicina nel tempo, della ‘fortuna’ mediatica dei B-movies ci viene illustrata da Carla Benedetti in un breve e incisivo paragrafo sul cinema in rapporto alla ridefinizione del concetto di autore. Benedetti parla del new horror come caso esemplare “che da B-movie e` diventato presto un genere ad alti incassi; e da questa posizione non solo ha influenzato tutti i generi cinematografici, contaminandoli con la sua poetica del ‘mostrare tutto’ basata sugli effetti speciali, ma ha finito col parodiare se stesso” (C. Benedetti, L’ombra lunga dell’autore. Indagine su una figura cancellata, cit., p. 85). In realta`, nel genere new horror si riscontrano posizioni autoriali che non sono tanto dovute alle qualita` di geniale artigianato cui si deve la qualifica di autore a posteriori per registi del passato come
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Puig, quindi, sembra rinunciare alla sua cifra d’autore in misura parallela alla riconoscibilita` dei film narrati da Molina, in un procedimento le cui coordinate culturali includono anche il radiodramma e il fotoromanzo. L’autore si perde, cosı`, nel crocevia dei linguaggi mediatizzati, dove la fruizione popolare dell’artefatto artistico si contrappone a nozioni forti di autorialita`: nel cinema, in modo particolare, Puig troverebbe un “medium alternativo alla letteratura, un linguaggio meno sog38 getto all’autorita` e alla mitologia personale dell’artista” . I film di Molina, tuttavia, sono parte innegabile di una mitologia personale, il cui tratto differenziale (in effetti, poi sempre piu` comune fra gli autori postmoderni) e` quello di essere costituita da titoli cinematografici, anziche´ da libri. Tantomeno si puo` attribuire al cinema una proprieta` transitiva di realismo 39 “integrale” , come lo definisce Speranza, derivante dalla specificita` del medium e sciolta da qualunque distinzione di genere: che non sia il realismo del cinema ad interessarlo, ma la costruzione narrativa, emerge chiaramente dalle sue preferenze per il film di genere. Il ‘problema’ dell’autore trova in quegli stessi anni una soluzione che si pone apparentemente agli antipodi di quella ravvisabile in Puig, formulata com’e` sulla proiezione diegetica dello scrittore nel romanzo. Osvaldo Soriano, infatti, e` il nome del giornalista che si reca a Los Angeles per scrivere un romanzo sulla vita di Sten Laurel e Oliver Hardy, ma e` anche 40 l’autore di Triste, solitario y final (1973), il romanzo in cui si narra quella stessa avventura. La conoscenza esclusivamente cinefila della citta` di Los Angeles rende verosimile nel testo l’incontro di Soriano con il detective Philip Marlowe, che condivide con il giornalista l’interesse per Laurel e
Howard Hawks, quanto al richiamo esplicito a marchi d’autore riscoperti all’interno del discorso di rivalutazione critica della produzione di genere: il caso piu` eclatante, secondo me, e` quello di John Carpenter, che, nel film Fog (1980), fa esplicito riferimento proprio alle modalita` estetiche di Val Lewton, ricucendo il legame con la tradizione del vecchio horror sulla base dell’appartenenza di genere, pur nella contravvenzione ai dettami della poetica che dovrebbe caratterizzarne la nuova versione (‘mostrare tutto’ vs ‘mostrare poco’). Operazione critica e narrativa al tempo stesso. Inoltre, l’influenza cinematografica, dunque ‘interna’, che Benedetti attribuisce al genere dovrebbe essere estesa anche alla letteratura (se pensiamo alla recente stagione di scrittori come Lucarelli, definiti dal gergo critico i “cannibali”), a dimostrazione della maggiore esplicitazione con cui la cultura postmoderna permette di seguire i percorsi di transmedialita` della sua produzione. 38 G. Speranza, Manuel Puig, cit., p. 127. 39 “El realismo integral del cine modeliza la utopı´a de una ausencia autoral sin refugios ni secretos que anule los lı´mites del lenguaje personal y alcance la naturalidad de los lenguajes sociales” (Ibid.). 40 Osvaldo Soriano, Triste, solitario y final (1973), Einaudi, Torino 1978.
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Hardy, portando con se´ il peso del caso non risolto per cui Laurel aveva cercato di ingaggiarlo anni prima. Marlowe e Soriano formano, cosı`, uno squinternato sodalizio in cui prosegue il discorso transnazionale fra Nord e Sud dell’America nella funzione cinematografica gia` presente in Quiroga (nonche´ in Puig, come si vedra`) con una variante piu` squisitamente storiografica. Il caso Laurel, nonostante la venatura fantastica del racconto, appartiene agli annali del cinema e viene presentato nel prologo del romanzo sullo sfondo anti-epico e crepuscolare dell’emigrazione artistica dall’Europa agli Stati Uniti che prelude e contribuisce alla costruzione del mito hollywoodiano. All’andata il mesto Laurel viaggia con il rampante Chaplin, con il quale nel 1911 partecipo` ad una tourne´e a New York nella 41 compagnia di Fred Karno ; nel viaggio di ritorno, invece, sara` insieme al suo compagno di lavoro, Hardy, entrambi amareggiati per l’oblio che il mondo dello spettacolo ha loro riservato per lunghi anni, trascorsi senza mai ricevere l’offerta di una parte. Le situazioni spesso comiche, quando non grottesche, in cui si ritrovano Marlowe e Soriano rendono la loro unione una palingenesi mediatica del duo cinematografico, che rappresenta, non a caso, anche una forma di riscatto intertestuale per l’emarginazione subita: l’emarginazione di Laurel e Hardy dal sistema produttivo di Hollywood, ma anche la condizione di marginalita` sociale che accomuna il giornalista Soriano, un argentino cinefilo che parla un pessimo inglese (fonte di costanti fraintendimenti), e il detective Marlowe, invecchiato e ancor piu` malconcio di quanto il personaggio chandleriano ci avesse abituati a immaginare, il quale, per tirare avanti, deve accollarsi un caso dozzinale di tradimento coniugale che fa da controcanto all’inchiesta cinematografica su Laurel e Hardy. Dietro la cinefilia dell’omaggio, come 42 ha notato Zaldı´var , c’e` l’intenzione politica di rapportarsi con il concetto di alterita` – economica, culturale, ma anche di generi letterari e cinematografici – come dimostra la frequente mescolanza, nel testo di Soriano, di situazioni hard-boiled a palesi omaggi alla slapstick comedy, senza alcuna soluzione di continuita` fra loro. Credo, invece, che Puig sia attratto dalla possibilita` di ‘fare’ cinema con la letteratura, e che, quindi, piu` che vedere nel cinema un’alternativa alla letteratura, scorga, invece, nella letteratura stessa una possibilita` di
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Le informazioni sono tratte dalla monografia di G. Cremonini, Charlie Chaplin, Il Castoro, Milano 1995. 42 Marı´a Ine´s Zaldı´var, El viaje Triste, solitario y final del periodista argentino Osvaldo Soriano a la ciudad de Los Angeles en Estados Unidos de Norteame´rica, in «Hispamerica. Revista de Literatura», 28, 83 (Agosto 1999), pp. 17-31.
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superare la specificita` del medium verbale, usandolo come veicolo per costruire un racconto audiovisivo piuttosto che simularlo. In questo modo, risulta certamente piu` difficile non accorgersi di una presenza autoriale che abbia formulato l’ipotesi e che porti avanti un discorso di rivoluzione culturale attraverso la messa in discussione di ogni settorialita` delle arti. Vediamo insieme un esempio di questa (ri)costruzione narrativa del film, confrontandola con un testo di pura simulazione descrittiva che prendo da uno studio critico-biografico su Lewton e sulle sue produzioni cinematografiche. Lewton e i suoi collaboratori avevano uno schema fisso di lavorazione che includeva una tassonomia diegetica numerata anche nei tempi (“Una storia d’amore, tre scene di orrore suggerito e una di violenza reale. Dissolvenza. Tutto e` finito nel giro di una settantina di 43 minuti”) . Una delle piu` famose tra le sequenze di orrore “suggerito” compare nel film Cat People, tanto famosa da significare per antonomasia tutte le scene caratterizzate da questo tratto stilistico con il nome di busses, dal mezzo di trasporto che diventa protagonista sonoro della sequenza: Jane Randolph, crossing the park late at night, hears footsteps following her. She stops under a street lamp and looks back into the darkness. The noises stop; she sees nothing. As soon as she walks beyond the circumference of lamplight, the footsteps begin again, and she hurries to the next lamp-post. At the moment when audience tension is at its height, a bus boasts into frame, simultaneously applying its pneumatic brakes in order to let off passengers44.
Le frasi del brano sono palesemente al servizio della scrittura critica, che riprende il controllo della descrizione con l’impiego di termini come “audience” e “frame”: la sintassi tende a passare inosservata, per favorire il compito di puro supporto visivo che ha la descrizione della scena. Molina ha la medesima esigenza di visualizzare le sequenze del film, ma 43
Sono parole di Lewton da un’intervista al Los Angeles Times, riportate, senza indicazioni di date, sul volume di Joel E. Siegel, Val Lewton. The Reality of Terror, The Viking Press, New York 1973, p. 31. 44 Ibid. [Jane Randolph sente dei passi che la seguono mentre sta attraversando il parco a notte fonda. Si ferma sotto un lampione e si volta a guardare nell’oscurita`. Il rumore si interrompe, lei non vede nulla. Non appena si incammina di nuovo, superando la circonferenza di luce del lampione, i passi riprendono e lei si affretta per raggiungere il lampione successivo. Nel momento in cui la tensione del pubblico e` al massimo, un autobus entra in scena rumorosamente con il suono dei freni che vengono tirati per far scendere i passeggeri].
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fra le due situazioni comunicative esiste una differenza non trascurabile: nel primo caso, il destinatario e` un lettore interessato alla vita e alle opere di Lewton, che probabilmente conosce gia` bene i film citati nel libro, mentre nel secondo, abbiamo un ascoltatore che non sa nulla di quel genere di film e che li ‘vede’ per la prima volta attraverso le parole del suo compagno di cella. La resa verbale della scena e` molto piu` analitica; ne riunisco qui di seguito i segmenti spezzettati: Y la colega [Alice, interpretata da Jane Randolph] decide caminar esta vez, para un poco ventilarse las ideas, porque le explota la cabeza despue´s de hablar con el muchacho [Oliver, l’architetto che sposa Irena, la donna pantera], e´l le ha contado todo, de Irena que no se acuesta con e´l, de las pesadillas que tiene con las mujeres panteras [...] No hay nadie por ahı´, a los lados del camino esta´ el parque oscuro, no hay viento, no se mueve una hoja, lo u´nico que se siente es pasos de tra´s de la colega, taconeo de zapatos de mujer. Pero por ahı´ el taconeo cada vez se oje ma´s ra´pido. [...] Bueno, esta´bamos en que esta mina nos habe si ponerse a correr o no, cuando por ahı´ los pasos casi no se ojen ma´s, el taconeo de la otra quiero decir, porque son pasos distintos, impercetibles casi, los que siente ahora la arquitecta, como los pasos de un gato, o algo peor. [...] Bueno, ahı´ empieza a temblar de terror, no atina a nada, no se atreve a darse vuelta por miedo a ver la pantera, se para un momento para ver si vuelve a oı´r los pasos humanos, pero nada, el silencio es total, apenas un murmullo de matorrales movidos por el viento... o por otra cosa. Entonces lanza un grito de desperacio´n que es como una mezcla de llanto y queja, cuando el grito queda como tapado por el ruido de la puerta automa´tica del o´mnibus45. 45
Manuel Puig, El beso de la mujer aran˜a, cit., pp. 30-31, p. 32, pp. 35-36 [E la collega decide di andare a piedi questa volta, per chiarirsi un po’ le idee, perche´ ha la testa che le scoppia dopo aver parlato col giovane, lui le ha raccontato tutto, di Irena che non fa l’amore con lui, gli incubi che ha con le donne pantera [...] Nei dintorni non si vede anima viva, ai lati della strada c’e` il parco buio, non c’e` vento, non si muove foglia, si sentono solo dei passi dietro la collega, un tacchettio di scarpe da donna. Ed ecco che il tacchettio diventa sempre piu` veloce] [Allora eravamo rimasti quando la tizia non sa se mettersi a correre o no, ed ecco che i passi non si sentono quasi piu`, il tacchettio dell’altra voglio dire, perche´ sono passi diversi, impercettibili quasi, quelli che sente adesso l’architetta, come i passi di un gatto, o ancora peggio] [Allora ecco che comincia a correre, non riesce a fare niente, non ha il coraggio di voltarsi indietro per paura di vedere la pantera, si ferma un momento per vedere se sente di nuovo passi umani, ma niente, il silenzio e` totale, appena un fruscio di cespugli mossi dal vento o da qualcos’altro. Allora caccia un urlo di disperazione che e` come un misto di pianto e di lamento, ma il grido viene come soffocato dal rumore della porta automatica dell’autobus].
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Il racconto e` spezzato dagli interventi di Valentı´n, ma e` Molina stesso che ne sospende la ‘visione’ proprio nel momento di maggiore tensione, in ossequio dichiarato alle modalita` di racconto che erano in uso anche negli altri media: Un poquito no ma´s, me gusta sacarte el dulce ne lo mejor, ası´ te gusta ma´s la pelicula. Al publico hay que hacerle ası´, si no no esta´ contento. En la 46 radio ante te hacı´an siempre eso. Y ahora en las telenovelas .
Sotto il controllo diegetico di Molina, il film sperimenta una dinamica editoriale che non puo` permettersi nella continuita` ininterrotta di fruizione per cui e` concepito e si contamina attraverso il romanzo con altre forme mediatiche contemporanee. Il racconto serve, cosı`, anche a straniare il medium cinematografico da una prassi performativa consolidata e a metterne alla prova la permeabilita` con altre formule espressive: Molina e` un’intersezione tecnica di modalita` di racconto plurimediatico. Lo scarto con la resa verbale del testo di Siegel si connota nell’aggiunta determinante dei pensieri che si suppone attraversino la mente del personaggio durante la sequenza, e in una loro articolazione che si nutre di quanto e` avvenuto prima e del sapere accumulato dal personaggio (e dallo spettatore) fino a quel punto. Il paragone porta al riscontro, nella versione di Molina, dei tratti atipici e polisemici di una traduzione del discorso interno, processo indispensabile per la ricezione e la comprensione del film, o di qualsiasi sequenza visiva, come abbiamo appreso con Vygotskij: sono le possibili disfunzioni di questo processo, in fondo, ad essere gia` al centro dell’interesse degli scrittori nella prima meta` del ventesimo secolo. Se il modello linguistico di Siegel sembra tendere ad una illusoria ed astratta equivalenza tra fattore verbale e corrispondente visivo, con una iconicita` semantica richiesta dal fine pratico della sua verbalizzazione, il racconto di Molina dimostra la complessita` in cui e` possibile tradurre la visione di un film, comprensiva 47 di elementi semiotici eterogenei e conflittuali.
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Ibid., p. 32 [Solo un pochino, mi piace toglierti di bocca la caramella sul piu` bello, cosı` il film ti piace di piu`. Il pubblico bisogna trattarlo cosı`, senno` non e` contento. Prima alla radio lo facevano sempre. E adesso nei teleromanzi]. 47 Gli studi ancora fondamentali a questo riguardo sono: Emilio Garroni, Progetto di semiotica, Laterza, Bari 1972 e Paul Willemen, Reflections on Ejchenbaum’s Concept of Internal Speech in the Cinema, «Screen», vol. 15, n. 3, 1974, pp. 59-70. Garroni riteneva semioticamente proficua l’ipotesi di discorso interno dei formalisti russi, mentre Willemen sottolinea la possibilita` di fraintendimento che deriva dalla convinzione che il film sia un ‘testo’ del tutto traducibile in un linguaggio verbale.
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6. Voci distanti, sempre presenti Il carattere logorroico dei racconti di Molina si rapporta alle immagini laconiche del film di Tourneur in modo analogo alla esplicitazione verbale del paziente che descrive i suoi sogni allo psicanalista. Molina ha con il film una relazione talmente personale e soggettiva da descriverlo al compagno di cella come se si trattasse di un sogno. Per i dettagli che aggiunge e le supposizioni che da` per scontate Molina viene anche redarguito da Valentı´n, che, non a caso, dichiara di identificarsi nel ruolo dello psicanalista del film. La controversia nasce intorno all’appartamento dove Oliver va a vivere con la moglie Irina: – Pero eso es todo de tu cosecha. Yo que´ se´ si la casa era de la madre, yo te dije eso porque me gusto´ mucho ese departamento y come era la decoracio´n antigua dije que podı´a ser de la madre, pero nada ma´s. A lo mejor e´l lo alquila amueblado. – Entonces me esta´s inventando la mitad de la pelicula. – No, yo no invento, te lo juro, pero hay cosas que para redondea´rtelas que las veas como las estoy viendo yo, bueno, de algu´n modo te las tengo que explicar48.
Personalizzando ulteriormente il racconto, Molina si spinge a fare una dichiarazione di poetica, che poggia con maggiore energia sul supporto della vista e della performance simulata dell’oggetto filmico. I suoi racconti filmici, pero`, non potrebbero fare a meno di un supporto auditivo che Valentı´n, in vece del lettore, rappresenta, fornendo un modello di fruizione del racconto e portando l’ascolto come condizione primaria di accesso alla percezione visiva delle immagini mentali fatte oggetto di racconto da Molina. Ora dobbiamo fermarci un attimo e ascoltare due voci teoriche che sono indispensabili per proseguire nel discorso. La prima e` di Franc¸ois Jost, il quale osserva come all’interno del romanzo, nonostante i rapporti di potere fra occhio e orecchio siano abitualmente squilibrati a favore del primo, il suono possa acquisire una valenza inaspettata. Una volta assodato il fatto che “si possono avere dei romanzi senza suono, mentre non 48
M. Puig, El beso de la mujer aran˜a, cit., p. 25 [– Ma questo te lo sei inventato tutto tu. Cosa ne so io se la casa era della madre? Te l’ho detto perche´ mi e` piaciuto molto quell’appartamento e visto che era arredato all’antica ho detto che poteva essere della madre, tutto lı`. Magari lui lo affitta ammobigliato. – Allora mi stai inventando meta` del film. – No, io non invento, te lo giuro, ma ci sono cose che per sistemarle e fartele vedere come le sto vedendo io, be’, in un modo o nell’altro devo spiegartele] (corsivo mio).
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ne esistono senza descrizione visuale”49, Jost aggiunge che al romanzo riesce di trattare il campo uditivo con maggiore realismo rispetto al cinema e di estrapolare dei suoni precisi dall’ambiente acustico in modo tale che si instauri nel lettore un ascolto “selettivo”. Nella composita struttura auditiva del cinema Michel Chion attribuisce un privilegio assoluto alla voce, sostenendo che la stessa definizione di ‘colonna sonora’ per il cinema e` frutto di un abuso terminologico: Gli elementi sonori del film non sono presi in un blocco autonomo; tali elementi sonori vengono immediatamente analizzati e ripartiti nella percezione dello spettatore in base al rapporto che stabiliscono con le immagini viste via via da quello spettatore. E, prima di tutto, a seconda che sia visibile o meno, nell’immagine, la fonte attribuita al suono, e dunque, nel caso delle parole, la persona che parla50.
Fra le varie conseguenze che la scomparsa del narratore ha sulla configurazione del testo di Puig, c’e` quella non trascurabile della mancata descrizione dei personaggi, cosı` come manca quella degli ambienti in cui si svolge la vicenda. Un altro modo per dire che i personaggi non vengono descritti, adottando, questa volta, il punto di vista del lettore, e` che i personaggi non sono mostrati. La parafrasi sembra quanto mai opportuna per stabilire il grado di perdita di visibilita` che il personaggio subisce, un dato che diventa particolarmente significativo se lo si associa, a completare il rilievo, al primo piano assoluto della voce, unico tramite rimastoci per accedere al mondo della finzione. Nell’ambito di una letteratura intermediale come quella in cui Puig ha piena cittadinanza, l’atto di ascoltare una voce senza vedere chi la emette puo` prendere due diverse accezioni: in una prospettiva radiofonica la frase descrive puntualmente la situazione comunicativa in cui si fruisce del mezzo; dal punto di vista cinematografico, invece, una voce siffatta viene chiamata off, in relazione al campo visivo dal quale viene esclusa la sua fonte. In entrambi i casi, abbiamo, comunque, a che fare con l’a´cusma. Per la descrizione di questo fenomeno intersemiotico, che gioca il suo ruolo tra sonoro e visivo, ci affidiamo ancora a Chion: Ci si perdoni il fatto di enunciare una verita` fin troppo evidente: la radio e` per sua natura acusmatica. Gli a´cusma che parlano alla radio sono tali per il principio stesso che e` alla base del mezzo: non si corre dunque mai il rischio 49 50
Franc¸ois Jost, L’oeil-came´ra. Entre film et roman, cit., p. 100. Michel Chion, La voce nel cinema, Pratiche, Parma 1991, p. 13 (corsivo dell’autore).
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di vederli, ed e` questa la caratteristica essenziale che li distingue dall’a´cusma cinematografico. Non esistono alla radio effetti ricavati dal gioco tra il “mostrare”, il “mostrare parzialmente” o il “non mostrare affatto”51.
Molina (come Valentı´n) sono, senza dubbio, a´cusma: qualunque probabilita` di essere mostrati e` negata dall’assenza di una voce che contenga la loro descrizione. Al tempo stesso, la comparsa sulla pagina iniziale del testo di una voce senza provenienza si adegua perfettamente alla finalita` visualizzante che le parole vogliono avere. La scrittura, nell’incipit del romanzo, esplicita in modo programmatico il suo legame con un segno differente, che assume la stessa forma deittica incontrata all’inizio del racconto “the Assistant Producer” di Nabokov, un pronome femminile: – A ella se la ve que algo raro tiene, que no es una mujer como todas52.
Molina e Valentı´n non sono le uniche voci acusmatiche del testo di Puig. Nella seconda parte del romanzo, alcune frasi in corsivo irrompono nel racconto del film, abitando sia la voce di Molina sia quella di Valentı´n e spezzando la continuita` del dialogo. Il contenuto ha un rapporto schizofrenico con la trama del film narrato, a tratti sembra appartenervi, in altri casi e` completamente disgiunto. Questa volta il film ha un titolo, scelto fra quelli proposti da Molina in seguito alla richiesta specifica di genere che Valentı´n ha avanzato: – No embrome´s. Faltarı´a una pelı´cula, eso es lo que faltarı´a. – Ah... – ¿No te acorda´s de ninguna del tipo de la mujer pantera? Esa fue la que ma´s me gusto´. – Bueno, ası´ fanta´sticas hay muchas. – A ver, decı´, ¿cua´les? – Y bueno, ...Dracula, El hombre lobo... – ¿Que´ otras? – La vuelta de la mujer zombi...53
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Ibid., p. 36. M. Puig, El beso de la mujer aran˜a, cit., p. 9 [– Lei si vede che ha qualcosa di strano, che non e` una donna come tutte] (corsivo mio). 53 Ibid., p. 163 [– Non fare il cretino. Ci mancherebbe un film, ecco quel che ci mancherebbe. – Ah. – Non ne ricordi nessuno sul tipo della donna pantera? E` quello che m’e` piaciuto di piu`. – Be’, cosı` di fantasia ce ne sono molti. – Vediamo, dimmi. Per esempio? – Be’... Dracula, L’uomo lupo... – E poi? – Il ritorno della donna zombi...] 52
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Il titolo e` una ripresa esplicita del film di Tourneur di cui si diceva sopra. La scelta di un preciso filone cinematografico ci riporta alla pertinenza del fantastico come modo interpretativo, cui sembrano ben ascrivibili le sezioni in corsivo disseminate in questa parte del testo. Usando come tramite narrativo la figura dell’infermiera, protagonista del film raccontato da Molina, le frasi anticipano come ectoplasmi verbali il ‘decorso’ della vicenda carceraria, sovrapponendo i registri diametralmente opposti in cui sara` impostata la scrittura dei rispettivi destini dei personaggi: la pobre enfermera, no tiene suerte, le dan el enfermo ma´s grave y no sabe que´ hacer para que esa noche no muera o la mate, ma´s fuerte que nunca el peligro al contagio54.
Dietro il ruolo cinematografico del malato si celano le fattezze di Valentı´n che verra` portato in infermeria in gravissime condizioni dopo l’ennesima tortura. Molina, uscito dal carcere, rimarra` invece vittima dello scontro a fuoco fra la polizia e i terroristi ai quali sta per comunicare dati importanti, come promesso a Valentı´n dopo la notizia del suo scarceramento: podre la cabeza que rueda del puto del barrio, ya no has ma´s remedio, ya no se la puede pegar a su cuerpo, cuando ya esta´ muerta hay que cerrarle los ojos abiertos a esa cabeza55.
I dettagli della morte di Molina sono trasfigurati, ma il testo trasmette la sensazione di empatia che e` cresciuta in Valentı´n durante la condivisione della cella. Quest’apertura del racconto filmico a inserti dei pensieri che ognuno dei due detenuti ha ‘durante’ il film e` anche sintomo del ridotto controllo filologico che Molina ha sul film che sta raccontando, i cui dettagli sono piu` confusi nella sua memoria rispetto a quelli che aveva ricomposto per Cat People (“Pero la vi hace mil an˜os”, dice appunto Molina, riferendosi a I Walked with a Zombie). Le frasi in corsivo sono indice di un contagio in fieri tra i pensieri dei due personaggi, che stanno accogliendo in se stessi l’idea di potersi scambiare i ruoli, sia sessualmente sia politicamente: l’unico rapporto sessuale fra i due detenuti avviene proprio in coincidenza con la fine del racconto filmico, in un processo di 54
Ibid., p. 177 [ povera infermiera, non `e fortunata, le da`nno il malato piu` grave, e non sa come evitare che quella notte muoia o la uccida, piu` forte che mai pericolo di contagio] (corsivo dell’autore). 55 Ibid., p. 193 [povera testa di frocio di borgata che rotola, non c’e` ormai altra soluzione, non si puo` piu` appiccicarla al corpo, quando `e ormai morta bisogna chiudere gli occhi a quella testa] (corsivo dell’autore).
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decostruzione delle opposizioni (omosessuale vs eterosessuale, spia vs terrorista) che sara` ultimato quando Molina accetta l’incarico di portare un messaggio al gruppo rivoluzionario. Molina e Valentı´n formano un double bind atipico, nel quale si rispecchiano, superandosi, ruoli contrapposti che sono declinati a partire da un sistema di identificazione cinematografica. A parlare di identificazione sono i personaggi stessi, che si relazionano, rispettivamente, all’universo femminile e a quello maschile della finzione filmica. Lo slittamento avviene nel momento in cui Valentı´n, in quanto soggetto desiderante del racconto cinematografico classico, sposta il suo oggetto di desiderio dal personaggio del film a Molina e trasforma la sua identificazione in 56 primaria , invertendo le tappe previste dalla posizione dello spettatore e risalendo al mezzo stesso di riproduzione della pellicola, qui sostituito dalla voce del personaggio. Tutto cio` il testo lo esprime anche visualmente. La scrittura, come accennavo sopra, si separa in due modalita` ben distinte fra loro: Molina diventa oggetto di un rapporto giudiziario in cui vengono descritti i movimenti del procesado, scanditi nel numero dei giorni che vanno dalla liberta` condizionata alla sua uccisione; Valentı´n, dal letto d’infermeria dov’e` in fin di vita, sogna di trovarsi su un’isola e di incontrare una donna molto strana. La sua apparizione nel sogno e` immediatamente successiva al commento sulla morte “cinematografica” di 57 Molina: Marta , l’interlocutrice onirica di Valentı´n, smonta, infatti, l’interpretazione politica del gesto di Molina, attribuendolo a una forma di becera imitazione del divismo (“ası´ se morı´a como la heroı´na de una 58 pelı´cula” ); Valentı´n collega automaticamente l’ingresso in scena della donna con un’atmosfera esotica da cinema hollywoodiano, sulla falsariga di quei film che racconta a Marta di aver ascoltato ogni giorno dalla voce di Molina: anche questo film e` in bianco e nero, ha una musica di maracas per sottofondo e la sua fine coincide con un primo piano della “donnaragno” in cui Molina si e` finalmente trasformato, con una palingenesi cinematografica che Valentı´n, narratore di quest’ultima pellicola, aveva presagito per lui: 56
Per una descrizione argomentata dei procedimenti di identificazione dello spettatore cinematografico, riletta in chiave comparata con i modelli freudiani e lacaniani cfr. J. Aumont, A. Bergala, M. Marie, M. Vernet, Estetica del film, cit., pp. 155-200. 57 Si tratta della compagna di Valentı´n, nota nel romanzo sotto lo pseudonimo cinematografico di Jane Randolph, finche´ non riacquista il proprio nome durante il racconto dello stesso film di Tourneur, quando Valentı´n, in un momento di intollerabile sconforto, prega Molina di scrivere sotto sua dettatura una lettera, il cui destinatario e`, appunto, Marta. 58 M. Puig, El beso de la mujer aran˜a, cit., p. 285 [cosı` e` morto come l’eroina di un film].
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Yo no soy la mujer pantera. Es cierto, no sos la mujer pantera. Es muy triste ser la mujer pantera, nadie la puede besar. Ni nada. Vos sos la mujer aran˜a, que atrapa los hombres en su tela59.
L’ultimo film raccontato potrebbe avere lo stesso titolo del romanzo, come si intuisce dalle indicazioni contenute nel dialogo: un corto circuito fra letteratura e cinema, in cui il modello narrativo di riferimento si e` completamente liquefatto nella scrittura.
7. Conversazioni pericolose Moses chiude con Puig il suo canone di testi per il film novel 60, denominazione con la quale designa il genere ‘letterario’ individuato nella presenza del cinema e, soprattutto, della teoria cinematografica nel romanzo del Novecento. La scelta risulta discutibile per la mancanza di personaggi direttamente operanti nel mondo del cinema, che, invece, caratterizza l’intera serie delle opere incluse nel saggio; a fornire una motivazione provvede lo stesso Moses, che indica in Puig la possibilita` di essere portati “al limite opposto dello spettro, dal produttore al consumatore”. Nella metafora economica, il consumatore sarebbe, com’e` ovvio, il lettore. Questa espansione comunicativa, tuttavia, non tiene conto della diversa presenza testuale del film in El beso de la mujer aran˜a, basandosi sulla lettura tautologica dei film raccontati (“questo romanzo ci presenta i film come 61 tali... soltanto film”) che preclude qualunque importanza al loro genere cinematografico nel processo di trasmissione e di ricezione messo in atto dai due personaggi. Il contributo teorico di El beso de la mujer aran˜a risiederebbe per Moses nella capacita` di trasformare in dialogo il discorso interno dello spettatore cinematografico, in contrasto con chi sostiene che 62 si tratti di un ritorno della tradizione orale in una societa` post-letteraria . Ibid., cit., p. 265 [– Io non sono la donna pantera. – E` vero, non sei la donna pantera. – E` molto triste essere la donna pantera, nessuno puo` baciarla. Ne´ niente. – Tu sei la donna ragno, che acchiappa gli uomini nella sua rete]. 60 Il genere viene descritto nei seguenti termini: “A firm notion about the art of cinematography as a whole, intermittent and sometimes extensive attempts at the creation of filmmimetic literary passages, and an exploration through narrative means of the place that this medium has in human experience are all features of the generic definition of this kind of novel”. Cfr. G. Moses, The Nickel Was for the Movies, cit., p. xviii. 61 Ibid., p. 234. 62 Questa e` l’ipotesi fondante del saggio di De Villo Sloan, Manuel Puig’s Kiss of the Spider Woman as Post-literature, «International Fictional Review», n. 14, a. I, 1987, pp. 23-26. 59
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Restando nell’ambito di problematiche intersemiotiche, vorrei correlare la mia lettura audiovisiva di El beso de la mujer aran˜a con l’esempio altrettanto straordinario di ripensamento del sonoro che troviamo nel film The Conversation (La Conversazione, 1974) di Francis Ford Coppola. La relazione fra i due ‘testi’ non e` basata su postulati di influenza stilistica o di convergenza tematica, ma si fonda sull’idea di “contrappunto” che riprendo, attraverso Montani, dalle argomentazioni di Ejzensˇtejn e dalla sua convinzione sulla necessita` di un rapporto dialogante fra immagini e 63 sonoro . Nel film la tensione fra i segni visivi e quelli audio si articola attraverso il filtro tecnologico degli strumenti di registrazione che entrano diegeticamente nel racconto filmico, ponendolo in una dimensione gia` 64 post-cinematografica . Anche Graciela Speranza colloca lo scrittore in una dimensione culturale successiva alla ridefinizione del concetto di arte negli anni ’60, in cui la letteratura si da` per finita, almeno nella sua accezione moderna. La descrizione delle caratteristiche di questa nuova condizione dell’arte, infatti, portano a farla coincidere con la nozione piu` ricorrente di postmoderno: “liberata dall’ideale di purezza del canone moderno, dei suoi mandati di autenticita` e originalita`, aperta ad una liberta` post-storica in cui tutti gli stili sono possibili, compresa la mancanza di stile” (Manuel Puig. Despue´s del fin de la literatura, cit., p. 14). Speranza, tuttavia, rintraccia i prodromi e le modalita` di questo superamento della letteratura nella pop art e nel cinema hollywoodiano, piuttosto che nella tradizione orale. 63 Al sonoro Pietro Montani dedica un “excursus” nell’ambito del suo scritto sulle possibilita`, insite nel racconto cinematografico, di superare i limiti compositivi della letteratura e di trovare nella relazione contrappuntistica fra immagini e suono “un risalimento del racconto strutturato all’istanza della raccontabilita`, una traccia di tale esplorazione del luogo immaginativo in cui prende forma non una storia ma il suo oscuro preludio, non un racconto ma il bisogno o il desiderio di un racconto” (Cfr. P. Montani, L’immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario, Guerini e Associati, Milano, 1999, p. 36). Il limite estremo, e non superabile, raggiunto dalla letteratura e` situato in ambito modernista e ha il titolo di Ulysses, un’opinione condivisa da Ejzensˇtejn, il quale, a suo tempo, indico` in Finnegan’s Wake la prova che dopo Ulysses (1921) non c’era piu` spazio per un’opera letteraria in cui questo percorso verso l’origine della drammaturgia narrativa risultasse anche “accessibile alla lettura e alla comprensione” (Ibid., p. 27). 64 Nell’intento di superare una relazione fra cinema e letteratura chiusa nell’unico regime della transcodificazione da un linguaggio all’altro, Jorge Urrutia colloca il discorso sullo sfondo di mutazioni tecnologiche che hanno gia` spostato il sistema di riferimento linguistico; sulla scorta di storici del cinema come Boussinot, l’invenzione del videoregistratore viene ad assumere il ruolo di spartiacque tra il cinema e una nuova tappa futura dell’evoluzione audiovisiva, nella prospettiva teorica che lo studio comparativo fra cinema e letteratura e sulle loro possibilita` espressive sia forse da ricondurre alle fasi del processo di formazione dell’enunciato, anziche´ alla sua elaborazione nei diversi sistemi. Partendo da una posizione critica delle premesse competitive fra linguaggi artistici che sono alla base dell’attribuzione di una presupposta superiorita` alla letteratura in ambito comparativista, Urrutia giunge a prospettare una chiave endogena di comparazione fra il cinema e il
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Nato dall’interesse suscitato in Coppola da un articolo giornalistico sugli strumenti usati nell’ascolto clandestino, The Conversation racconta la storia di un’ossessione auditiva: il protagonista, una spia “sonora”, quella che nel gergo degli addetti si definisce bugger crede di identificare nella coppia spiata le potenziali vittime di un omicidio, mentre scoprira` che saranno loro ad uccidere il committente del pedinamento. Il film ci mostra Harry Caul al lavoro, intento a raggiungere una perfetta coincidenza fra i movimenti labiali dei due amanti e le parole che hanno pronunciato nel corso del loro incontro. Come spettatori, assistiamo al processo di pulizia del suono che Harry svolge sulla base del materiale registrato da lui e altri buggers: lo stesso lavoro che, nel processo post-produttivo di un film spetta al tecnico del suono e alla sua consolle di missaggio. Harry privilegia la voce come suono significativo allo stesso modo in cui “la voce viene isolata nel missaggio, come uno strumento solista di cui gli altri suoni, musiche e 65 rumori, non sono che l’accompagnamento” . La registrazione di Harry ci pone, cosı`, a confronto con una suddivisione gerarchica interna anche in un medesimo ambito artistico. In effetti, il lavoro di Harry rispecchia le modalita` di composizione di chi si occupa dell’editing di un film. Walter Murch, che ha montato The Conversation, racconta la sensazione di sdoppiamento provata nel corso della lavorazione, quando i movimenti delle sue mani si raddoppiavano in 66 quelli del tecnico Caul . L’analogia viene ancora piu` stimolata dall’alternanza fra le immagini di Harry all’opera e le riprese della coppia di amanti a passeggio, punteggiate da inquadrature fisse di foto che li ritraggono e fanno parte, insieme ai nastri registrati, della documentazione richiesta dal committente. Componendo insieme le varie professionalita` del cinema cui la figura di Harry allude, si e` voluta vedere in lui anche una rappresentazione del regista, una proiezione di Coppola nel suo personaggio. Lo stesso Harry, descrivendo il modo in cui ha risolto il problema di come riuscire a registrare la conversazione nello spazio rumoroso e confusionario del giardino pubblico, illustra le proprie scelte come fosse un regista: oltre all’utilizzo dei microfoni, Harry ha posizionato due cameramen ai piani alti di edifici adiacenti, al fine di assicurarsi le post-cinema. Cfr. J. Urrutia, “Leer, conocer, filmar, decir” in: Carmen Pen˜a-Ardid (coor.), Encuentros sobre Literatura y Cine, cit., pp. 33-34. 65 Michel Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino 1997, p. 13. 66 “Lavoravo al film a notte tarda, guardando un’immagine di Harry Caul che lavora al suo registratore, e improvvisamente vedevo quattro mani, le sue e le mie”. Cfr. Michael Ondaatje, Il cinema e l’arte del montaggio. Conversazioni con Walter Murch, Garzanti, Milano 2003, p. 131.
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riprese ravvicinate delle labbra degli amanti. La sequenza iniziale del film, che funge da prologo, e`, quindi, girata seguendo le istruzioni e la sceneggiatura di Harry. Al suo status di regista viene aggiunto un ulteriore tassello metanarrativo proprio in apertura di film, quando, ancora anonimo, lo vediamo attraversare il camminamento pedonale della piazza, e diventare, a sua insaputa, oggetto di parodia deambulatoria da parte di un mimo che imita l’andatura di persone scelte casualmente: l’imitazione decostruisce la ripresa dell’apparizione “cameo” con cui Hitchcock siglava tutti i suoi film. La figura autoriale che Harry reclamera` di fronte ai suoi colleghi, stancatosi di “essere la maglia di una catena che lo relega ad un ruolo di 67 tecnico” , viene parodiata prima ancora di assumere una forma minimamente consistente. Nonostante il suo sfogo esistenziale, l’atteggiamento di Harry nei confronti dei due amanti spiati si conforma proprio a quello di un elaboratore tecnicistico dell’immagine cinematografica: il materiale raccolto con l’utilizzo di mezzi audio-visivi sembra l’unica possibilita` di entrare in contatto con loro. La sua vicinanza ai due e` sempre filtrata da strumenti di intercettazione del dialogo. Le uniche tre sequenze in cui non c’e` mediazione alcuna sono indicative a riguardo. Nella prima Harry, recatosi nell’ufficio del committente per consegnare i nastri, incrocia l’uomo (Marc) nel corridoio mentre esce dall’ascensore in cui lui stesso sta entrando: all’interno trova la donna (Ann), e, per reazione, si stringe in un angolo dell’abitacolo come se lei potesse riconoscerlo. Con la seconda sequenza entriamo in una dimensione onirica, che risolve in un possibile cinematografico la volonta` di parlare alla donna e di metterla al corrente del pericolo da lui falsamente decifrato nella conversazione. Harry sogna una scena che gli permetta di entrare nella dimensione cinematografica in cui ha collocato la donna, ma anche il sogno reitera la forma di scollamento fra i due mondi attraverso il silenzio della donna: al posto del dialogo sperato, troviamo soltanto un suo affannato monologo. La terza sequenza, invece, e` quella prossima alla fine del film, quando, uscendo dall’edificio fra la ressa dei giornalisti accorsi, entrambi (Marc e Ann) incontrano lo sguardo attonito, ma, a questo punto, consapevole, di Harry: non c’e` scambio alcuno di parole, solo una condanna muta. Nel personaggio di Harry ritroviamo i tratti paranoici che abbiamo visto esemplificati in testi letterari modernisti allorche´ il venir meno della capacita` di controllare il proprio rapporto cinematografico con il mondo 67
Luc Lagier, “Conversation secre`te et le cine´ma paranoı¨aque”, Avant-Sce`ne Cine´ma, n. 494, Sept. 2000, p. 86.
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incrina la stabilita` emotiva del personaggio (De Amicis e Schwartz). Il film di Coppola, infatti, pur riflettendosi in una serie di titoli consacrati alla 68 decostruzione dell’immagine audiovisiva , elabora un percorso di indagine sulla crisi del personaggio in quanto costruzione semiotica: la trasformazione da macchina registrante a persona sensibile e umanamente fragile si articola anche sul mutamento della posizione di Harry rispetto al dispositivo cinematografico. Se nel prologo Harry Caul ci appare in una funzione registica, che viene subito connotata, come ho detto sopra, in senso parodico, il suo rapporto con le immagini ed i suoni registrati diventa cosı` simbiotico da somigliare a quello che si instaura fra spettatore e film, con tutto cio` che l’analogia puo` implicare: le immagini e i suoni diventano la vita interiore di Harry. Nel finale, quando scopre di non riuscire ad individuare la posizione dello strumento con cui lo stanno spiando (che finisce per coincidere con la macchina da presa), la parabola del suo tracciato ritorna alla situazione di partenza, ma, anziche´ ritagliarsi il ruolo di comparsa anonima tra la folla, Harry, ora, e` costretto a diventare consapevole del proprio status, o della sua dissoluzione. In modo del tutto anomalo, pero`, la conversazione registrata da Harry diventa il leit motiv del film, tessendo un rapporto ambiguo con le immagini: i codici auditivi sono quelli che agiscono da distrattore nella composizione del racconto, portando lo spettatore cinematografico al fallimento cognitivo, oltre che sensoriale. Le immagini in movimento della coppia risentono, fin dall’inizio, di un grado di soggettivita` che si puo` misurare soltanto se riflettiamo sul fatto che vengono visualizzate all’interno del laboratorio di Harry. I suoni, infatti, ci arrivano garantiti nella loro veridicita` dalle piste di riproduzione che li emettono; le immagini, invece, non possiamo che attribuirle alla mente di Harry, in quanto provengono da un altrove diegetico, appartenente al passato prossimo della linea temporale del racconto, ma si ricollocano nel presente della narrazione, come richiamate, appunto, alla mente per sostenere e supportare l’ascolto dei brani di dialogo che ad esse appartengono. La presenza delle immagini sullo schermo e` del tutto dipendente dalla riattivazione del sonoro nei ripetuti ascolti dei nastri, creando, cosı`, un’inversione nei rapporti che normalmente governano la relazione fra suono e immagini nel racconto cinematografico. 68
Possiamo tracciare i confini di questo percorso con Blow up (1968) di Antonioni da un lato e Blow out (1981) di De Palma dall’altro, per il grado intenso con cui queste opere interrogano il reale attraverso la mediazione di tracce visuali e sonore, trasponendo i riferimenti piu` esplicitamente politici che si vedono operare nel cinema “paranoico” post-Watergate in un discorso di ambiguita` estetica.
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La visione di immagini che accompagna il suo lavoro – e il nostro di spettatori – drammatizza la possibilita` auspicabile che l’audio converga con il visivo, mostrando una sottesa tensione verso un tipo di cinema narrativo classico che il film e`, invece, tutto impegnato a vanificare. La climax di questa tensione, che poi coincide con la climax della ‘scoperta’ prima accennata, ha luogo nel momento di sincresi69 fra suono e immagine in cui si rivela intelligibile la frase piu` difficile da isolare acusticamente dai rumori e dalla musica del parco: “Il nous tuerait s’il le pouvait”70. Immagine e parola sembrano finalmente incontrarsi in un senso specifico, e questa apparenza scatena le dinamiche di una proiezione finzionale di Harry sui personaggi. Invece, a partire da questo punto di illusoria convergenza, i suoni non aderiscono piu` alle immagini del film, ma diventano autonomi e ossessivi fino al capovolgimento finale, in cui le vittime si rivelano gli assassini. Come osserva ancora Murch, “il normale scambio di battute, dove il senso e` affidato alle parole, comincia a ridursi fino a diventare qualcosa di diverso. Il dialogo diventa molto scarso. Credo che questo incoraggi il pubblico ad ascoltare i rumori come fossero discorsi”71. I rumori assurgono ad un primo piano sonoro in due occasioni: nella stanza dell’albergo dove ha luogo l’omicidio, quando Harry alza il volume del televisore per soffocare acusticamente le urla della vittima che provengono dalla camera adiacente; a casa sua, quando mette a soqquadro l’appartamento per cercare le spie sonore che vi sono nascoste (e finiscono per coincidere metalinguisticamente con la macchina da presa, unico strumento di spionaggio della sua intimita`) e, non trovandole, si accascia sul pavimento a suonare disperatamente il sassofono. Questa configurazione “acustica” del personaggio di Harry, dunque, non deriva soltanto dalla specificita` del suo lavoro, centrato sul perfezionamento delle dinamiche della percezione auditiva, ma si rifrange anche sulla sua sensibilita` interiore, in quanto l’unica passione che ci viene mostrata e` quella musicale, connotata negativamente, pero`, dalla forma imitativa che la carratterizza. Anche nella musica Harry cerca di adeguare la sua espres-
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Per sincresi si deve intendere la “saldatura inevitabile e spontanea che si produce tra un fenomeno sonoro e un fenomeno visivo puntuale quando questi accadono contemporaneamente”. Cfr. M. Chion, L’audiovisione, cit., p. 58. 70 [Ci ucciderebbe se potesse] Cfr. «Avant-Sce`ne Cine´ma» de´coupage de “Conversation Secre`te”, piano di inquadratura n. 209, cit., p. 27. A pronunciarla e` Marc. 71 M. Ondaatje, Il cinema e l’arte del montaggio, cit., p. 149.
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sione a qualcosa di gia` codificato e suona il sassofono soltanto su basi 72 musicali preregistrate . L’accento sui rumori ci riporta all’accezione ejzensˇteiniana del sonoro e al modo in cui “si puo` davvero parlare di cinema sonoro solo a partire dal momento in cui si comincia a riconoscere alla componente acustica della rappresentazione una dignita` e soprattutto un’autonomia pari a 73 quelle che spettano alla componente visiva” . La rielaborazione narrativa dei film nel romanzo di Puig e` inserita in un contesto compositivo che vede il sonoro privilegiato rispetto agli altri codici: dal sonoro delle voci di Molina e Valentı´n dipendono non solo le immagini evocate e commentate dei film, ma anche le disamine saggistiche che compaiono in nota per approfondire un argomento accennato nei dialoghi dei protagonisti. La preponderanza del sonoro, anzi, e` perseguita fino a includere il silenzio che viene visualizzato tipograficamente attraverso l’uso dei puntini di sospensione dopo l’interlinea che segnala il cambio di voce. Nel sonoro onirico di Valentı´n, infine, si compone il film ‘liberatorio’ che dimostra come l’immaginazione narrativa acquisita dal personaggio possa muoversi davvero oltre i parametri dei regimi discorsivi in cui, per contrappunto, viene registrata asetticamente la morte di Molina, come da ‘verbale’.
8. Un libro lungo un film Al titolo allusivamente cinematografico del romanzo di Puig di cui ho discusso, lo scrittore francese Tanguy Viel ha preferito l’utilizzo della parola che racchiude tutti i possibili filmici, intitolando il suo secondo romanzo Cine´ma, pubblicato nel 1999. La data di sapore avvenieristico ben si addice ai toni apocalittici in cui, come vedremo, si conclude il suo peculiare dialogo con lo schermo; anche per questa ragione ho deciso di limitare alla medesima soglia millenaria il mio percorso cinematografico nella letteratura del Novecento. Il romanzo di Viel condivide piu` di un aspetto con El beso de la mujer aran˜a. Il racconto del film lo colloca nello stesso territorio, ampio e irregolare, della novellizzazione, anche se, sovvertendo le aspettative che il lettore puo` formulare dal titolo, il testo non concerne il cinema in senso 72
Nel suo articolo sul film, Youri Deschamps conia la formula di “identite´ acoustique”, descrivendo quella di Harry come una miscela, apparentemente equilibrata, fra la parte tecnica e quella musicale, che includerebbe “interpre´tation et e´motion”. Youri Deschamps, “Conversation Secre`te: l’empire des sons”, in Positif, nr. 494 (Apr. 2002), pp. 69-71. 73 P. Montani, L’immaginazione narrativa, cit., p. 30.
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lato, ma e` interamente dedicato alla ‘verbalizzazione’ di un solo film: Sleuth (Gli insospettabili) di Joseph Leo Mankiewicz (1972). Nell’accostare Viel a Puig mi muovo sulla scia di Jeanne-Marie Clerc che ha recente74 mente proposto un’ipotesi comparativa basata sulla confusione tra monologo interiore e racconto del film cui porta, secondo Clerc, l’uso dell’oralita` in entrambi i testi. Lo scarto sarebbe da localizzare, invece, nei finali dei due romanzi, che, per quanto legati dalla piega assurda e surreale che assume il tono, si differenziano per coerenza e motivazione: se in Viel la conclusione e` conseguente allo “scacco” subito dal romanzo nel suo tentativo di verbalizzare il film, in Puig sarebbe, invece, l’esito meno giustificato della sovrapposizione tra “discorsi fantomatici che si confondono con il racconto del film, al punto che non si sa piu` bene chi parla e 75 chi e` morto” . Nel paragrafo su Puig ho cercato di evidenziare i modi in cui proprio dalla confusione tra piani narrativi nasca una nuova ipotesi di scrittura che diventa ‘film’ nel romanzo; anche in Viel la voce narrante entra, nel finale, in una dimensione dove l’istanza metaletteraria e la deriva metafisica sono inestricabilmente connesse. Questo capitolo sara` focalizzato sul valore diverso di questa voce e sui modi in cui si rielabora, attraverso il cinema, il progetto modernista della letteratura. Nel suo articolo Clerc non menziona la novellizzazione, forse sulla base di un’esclusione di Viel dalle finalita` commerciali che abbiamo visto connaturate al genere, ma anche sopravvalutate nell’approccio critico. Tuttavia, il romanzo Cine´ma costituisce un tale coacervo delle contraddizioni che hanno accompagnato il genere fin dall’inizio del Novecento da non poterne trascurare la pertinenza in sede di interpretazione testuale. Da un lato, Viel non propone una forma di racconto che possa valere come modello letterario di verbalizzazione del film: la scelta di raccontare un solo film, che risponde alle caratteristiche del genere, agisce, in questo caso, ‘contro’ anziche´ a favore di un’armonizzazione narrativa e provoca una serie di discrasie tra scrittura e visione; dall’altro, il suo esperimento di scrittura parallela alla visione del film si puo` leggere come tentativo di evidenziare come primario il sottotesto cinematografico che abita tutta la letteratura contemporanea, dando un contributo fondamentale alla definizione cinematografica di ekphrasis che la riporta alle radici delle sue finalita` letterarie, cioe` descrivere un film come opera d’arte. Un’impresa altrettanto ardua, piu` che in Puig, viene intrapresa in un 74
Cfr. J.-M. Clerc, Ou` en est le paralle`le entre le cine´ma et la litte´rature?, «Revue de Litte´rature Compare´e», Anno 75, n. 2, Avril-Juin 2001. 75 Ibid., p. 326.
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altro testo che si cita come esempio della qualita` letteraria che la novellizzazione puo` raggiungere: A Night at the Movies (1987) di Robert Coover, “un libro”, secondo Baetens e Lits, “che la critica francese comincia soltanto adesso a leggere con maggiore attenzione, dieci anni dopo che e` 76 stato tradotto” . La raccolta di Coover e` interamente strutturata in senso cinematografico: al posto dell’indice troviamo un “programma” cinematografico, nel quale i singoli racconti sono presentati all’interno delle varie sezioni di un double feature a proiezione continua, come quello di cui abbiamo letto nella rievocazione che ne fa Marı´as in Man˜ana en la batalla piensa en mı´, comprensivo di previews, serials, adventure flicks, shorts, comedy, kiddie-films, a travel documentary, a musical interlude e un main feature. La possibilita` di parodiare la retorica dei generi cinematografici aveva gia` ispirato gli esordi letterari di David Lodge, il quale, appunto nel suo primo romanzo, imita i toni pomposi di un “prossimamente al cinema”: ‘Coming next week!’ Into the passive audience a portentous voice pumped monotonous imperatives and superlatives: ‘You will thrill as never before...You will laugh as never before...you will cry as never before.’ Rapidly the trailer ran through the gamut of cinematic experience: ADVENTURE: horse-riders galloped pointelessly through a copse. PASSION: a girl sagged back in a man’s arms as he kissed her wetly. SUSPENSE: tense, unintelligible scraps of dialogue were exchanged. AGONY: a woman awaited the result of an operation on her lover. LAUGHTER: the comic relief fell backwards into a pool. Coming next week”77.
Al messaggio in sala seguono le considerazioni che il protagonista, uno scrittore autobiograficamente alle prime armi, fa sul pubblico circostante: la sua funzione, quindi, e` strumentale ad una considerazione fenomenologica dei frequentatori della sala e anche ad una condanna dell’allontanamento dalla realta` che lo scrittore denuncia nel cinema britannico a lui 76
J. Baetens & M. Lits, La novellisation, cit., p.12. David Lodge, The Picturegoers, Penguin (1960), Harmondsworth 1993, pp. 57-8 [‘Sugli schermi la prossima settimana!’ Una voce stentorea imbottiva il pubblico passivo di imperativi e superlativi monotoni: ‘Proverete brividi che non avete mai provato... riderete come non avete mai riso... piangerete come mai avete fatto in vita vostra.’ Il trailer coprı` rapidamente tutta la gamma dell’esperienza cinematografica: AVVENTURA: uomini a cavallo attraversano casualmente una macchia conifera. PASSIONE: una ragazza si abbandona tra le braccia di un uomo mentre costui la bacia appassionatamente. SUSPENSE: stralci di dialoghi si susseguono nervosamente senza che il loro senso sia minimamente comprensibile. AGONIA: una donna in attesa di conoscere l’esito dell’operazione subita dal suo amante. RISATE: la tensione e` allentata da un tizio che cade indietreggiando in una piscina. Sugli schermi la prossima settimana] (corsivi dell’autore). 77
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contemporaneo, esaltando, non a caso, gli esempi di nuovo realismo che arrivano da altre nazioni europee (nello specifico, Ladri di biciclette, 1948, di De Sica). Il romanzo di Lodge si chiude con una metaforica liberazione del pubblico cinematografico che si alza dai sedili e comincia a cantare e ballare ‘sostituendosi’ agli attori del film musicale che stanno proiettando. Nella ripresa parodica di Coover, invece, il preview cinematografico pone una distanza temporale rispetto alla fruizione contemporanea del cinema e fa da “esca” nostalgica per un lettore che si cala consapevolmente nel ruolo di spettatore fittizio. Dopo l’indice, compare un epigrafico avviso in corsivo che tranquillizza il pubblico sul carattere inoffensivo dei film mostrati (puntualmente smentito). Il lettore e`, quindi, sollecitato ad assumere consapevolmente, e ironicamente, il ruolo di spettatore, fin dagli elementi peritestuali del volume. L’approccio di Coover e` al cinema come istituzione hollywoodiana dello spettacolo e come macchina produttrice di generi verso i quali il sentimento nostalgico78, cifra postmoderna dell’aspirazione irrealizzabile alle forme di grande narrativa, si mescola ad un cinismo corrosivo che ne fa implodere gli stereotipi: la storia del cinema e` diventata per la letteratura postmoderna una forma ‘chiusa’ di passato in cui la dinamica dei generi replica, in forma temporalmente ridotta, quella dei generi letterari e del loro esaurimento. Nel racconto di apertura, “The Phantom of the Movie Palace”, un vecchio proiezionista, amareggiato dalla mancanza endemica di spettatori in sala, trascorre il suo tempo proiettando contemporaneamente le vecchie pellicole, in modo da creare innesti fra i vari generi, con personaggi di film western che diventano ballerini di un musical. Sometimes when one picture does not seem enough, he projects two, three, even several at a time, creating his own split-screen effects, montages, superimpositions. Or he uses multiple projectors to produce a flow of improbable dissolves, startling sequences of abrupt cuts and freeze frames
78 L’atteggiamento problematicamente nostalgico di Coover per un luogo della memoria cinematografica che ha cessato di esistere trova il suo corrispettivo elegiaco nella scrittura di Larry McMurtry, autore del romanzo The Last Picture Show (1966). Nel libro di McMurtry la fine del sogno americano viene raccontata in forma parallela al progressivo spegnersi dell’attivita` di un cinema di provincia, desolato ed esangue quanto quelli visitati dal feticistico sguardo di Binx Bolling, il moviegoer di W. Percy, vorace e appassionato frequentatore di sale cinematografiche, che ne misura la portata in relazione al rapporto fra contesto urbano e spazio immaginifico, e le cui osservazioni nel corso del romanzo omonimo (The Moviegoer, 1960) mi sono apparse illuminanti epigrafi di questo libro.
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like the stopping of a heart, disturbing justaxpositions of slow and fast speeds, fades in and out like labored breathing79.
In questo personaggio sembra rivivere la cifra fantastica che abbiamo visto connotare marcatamente la letteratura di fine e inizio secolo e che torna nel postmoderno in sintonia culturale con il genere horror, che Coover, tuttavia, non privilegia sugli altri generi citati nel racconto. Pur consapevole dell’aspetto corrotto e anche pericoloso di questo “collapsing 80 of boundaries” , fra generi cinematografici cosı` come fra schermo e sala, il proiezionista non riesce a smettere, perche´ lo trova un gesto liberatorio e, in piu`, non fa che accrescere in modo esponenziale la sua biblioteca cinematografica. Oltre che sui bordi dei generi cinematografici, il proiezionista si muove pericolosamente anche su quelli dell’ekphrasis: e` entrato, infatti, in quella che Mitchell definisce la terza fase, quella della paura, dopo l’indifferenza e la speranza. Nella paura ecfrastica, Mitchell vede “il momento di resistenza o respinta che avviene quando percepiamo che la differenza tra la rappresentazione verbale e quella visuale potrebbe cedere 81 e crollare” . Il desiderio di ritrovare l’immagine perduta di una bambina che sta salendo la scala e che non rivede sul fotogramma (in un misto di eroismo e di erotismo pedofilo) spinge il proiezionista a trasformare in realta` il passaggio temuto, con una serie di catastrofiche conseguenze, tra cui la sua esecuzione da parte di un tribunale che condanna tutti gli 82 “abominevoli parvenu delle relazioni iconiche” . Nella sua figura Pierre Joris ha visto un’ennesima proiezione dell’autore postmoderno: “non il creatore simile a Dio delle ‘vere finzioni’ sulle quali si suppone eserciti un controllo totale, lui e` il manipolatore tecnico di dati gia` esistenti – 83 immagini, parole o storie – che controlla solo fino a un certo punto” . Il proiezionista, come l’autore, non riesce piu` ad uscire dall’ekphrasis: non, come Schwartz nel racconto “In Dreams Begin Responsibilities”, per il 79
Robert Coover, A Night at the Movies. Or, You Must Remember This, Collier Books, New York 1987, p. 22 [Qualche volta, quando un film non gli sembra abbastanza, ne proietta due, tre, anche parecchi alla volta, creando i propri effetti di suddivisione dello schermo, i propri montaggi, le proprie sovrapposizioni. O usa dei proiettori multipli per produrre un flusso di inverosimili dissolvenze, delle sequenze sbalorditive di bruschi tagli e inquadrature fisse come un cuore che si ferma, delle giustapposizioni allarmanti di alta e bassa velocita`, delle dissolvenze in apertura o in chiusura come un respiro faticoso]. 80 R. Coover, A Night at the Movies, cit., p. 23 [crollo dei confini]. 81 W. T. J. Mitchell, Picture Theory, cit., p. 154. 82 R. Coover, A Night at the Movies, cit., p. 35. 83 Pierre Joris, Coover’s apoplectic apocalypse or ‘Purviews of cunning abstractions’, «Studies in Contemporary Fictions», Summer 1993, v. 34 n. 4, pp. 212-220.
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peso teleologico e immodificabile della Storia, ma per l’incessante ritrovare nella storia narrata momenti gia` vissuti cinematograficamente, “recal84 ling for some reason a film he once saw” . La nostra percezione del reale viene destabilizzata dal movimento ibrido che il testo di Coover compie tra mediazione letteraria e riferimento cinematografico, mettendo in crisi la stessa definizione del proprio genere, in quanto la separazione tra i racconti si annulla nel continuum temporale in cui la macchina proietta i film. Inoltre, la devianza del sapere tecnico del 85 proiezionista sara` utilizzato dall’autore per aprire biforcazioni costanti allo svolgimento del racconto e lasciare che immagini, parole e suoni invadano la scrittura senza la necessita` diegetica del dettaglio, ma come trovandosi per caso all’interno dello stesso fotogramma (come ‘accade’ nel cortometraggio western “Dentro il fotogramma”, che si chiude sul rumore di indefinita provenienza di una porta che sbatte). Il repertorio cinematografico che in apparenza sembrava funzionale ad una operazione nostalgica si deforma in una parata di riscritture, tese alla distruzione di qualunque postura miticizzante nei confronti del canone hollywoodiano. “Le versioni di Coover”, osserva Chassay, “appaiono ‘scandalose’: si fanno a pezzi i classici e i miti, si apportano modifiche a delle opere d’arte, come se si trattasse, per riprendere l’esempio per antonomasia, di 86 mettere i baffi alla Mona Lisa” . Il gesto blasfemo riscrive la provocazione avanguardistica sulla pellicola cinematografica, portando alla decostruzione del mito: Chaplin si ritrova in una casa dalle proporzioni sbilenche e inquietanti, i fantasmi di Ginger e Fred, richiamati dal titolo del racconto (“Top Hat”, come l’omonimo film di Mark Sandrich del 1935) scoprono che il corpo di ballo e` una truppa militare armata che fa coreografia di
84 R. Coover, A Night at the Movies, cit. p. 36 [che rimandavano per qualche motivo a un film che aveva visto]. 85 Il proiezionista del racconto e` anche un omaggio di Coover alla propria memoria cinematografica, e al film di Buster Keaton, Sherlock Jr. (La palla n. 13, 1924), che ha scelto di commentare per una raccolta antologica; nel suo commento sul film, Coover sottolinea l’importanza tematica che ha rivestito per la sua scrittura la strategia narrativa del film. Il proiezionista interpretato da Keaton sogna di essere entrato nel film, un passaggio che ricorda al pubblico come i mondi finzionali e quelli ‘reali’ siano cosı` strettamente intrecciati che la trama dell’uno trova sviluppo in quella dell’altro. Cfr. Jim Shepard (ed.), Writers at the Movies. Twenty-six Contemporary Authors Celebrate Twenty-six Memorable Movies, HarperCollins, New York 2000, pp. 68-70. 86 Jean-Franc¸ois Chassay, La machine en mouvement. A Night at the Movies di Robert Coover, «E´tudes Litte´raires», 28, n. 2, Automne 1995, p. 52. L’articolo del quebecchese Chassay dimostra che nella francofonia d’oltreoceano il libro di Coover era stato preso seriamente in considerazione in tempi meno recenti.
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un’azione bellica, e Rick e Ilsa di Casablanca si vedono ‘fuori orario’ in una sequenza mai vista che esplicita i contenuti sessuali sottesi ai loro incontri. L’illusione cinematografica del narratore permane anche negli stacchi tra un racconto e l’altro, nella pagina quasi bianca in cui si chiede allo spettatore la cortesia di attendere il tempo necessario al cambio di bobina, con un utilizzo ironico del travestimento tecnico che ci riconduce al Nabokov di “The Assistant Producer”, quando sente di svecchiare il ricordo come se fosse un film muto al quale aggiungere colore e sonoro. In Cine´ma di Viel il tramite fra noi e il film raccontato non e` un tecnico dell’audiovisivo, ne´ un mago illusionista a` la Me´lie`s; ma non si tratta nemmeno, piu` prosaicamente, di un semplice cinefilo. Sembra, piuttosto, una figura appositamente inventata per veicolare il film nel romanzo e per scandire il tempo della visione in pieno accordo con il tempo filmico. Il testo dissacrante di Coover, piu` interessato agli interstizi temporali fra 87 un’inquadratura e la successiva che al loro “inutile e datato contenuto” , sara` quindi un’utile cartina tornasole per il discorso opposto sul recupero della sacralita` del ‘testo’ filmico che trova in Viel la voce piu` estrema del romanzo postmoderno.
9. Il labirinto di Foscomaniero Il primo e piu` rilevante paradosso di Cine´ma nasce dalla presenza di una voce narrante che non si ritrae di fronte alla verbalizzazione del film, riducendosi ad un grado prossimo allo zero, ma dissemina l’intero percorso della visione di commenti e riflessioni che gli derivano dalla sua 88 costante e maniacale frequentazione del ‘testo’ filmico. Il numero spropositato di visioni, che ci viene piu` volte ricordato e posto, esplicitamente, come conditio sine qua non per aspirare ad una corretta comprensione del film; l’accuratezza metodologica con cui il narratore ci dice di aver
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L’espressione “useless dated content” e` attribuita ai pensieri di Rick nel racconto che chiude la raccolta di Cover: “You must remember this”. 88 In termini di “ossessione” si esprime Giacomo Manzoli in una delle poche riflessioni italiane su questo romanzo tra cinema e letteratura che ha l’interessante peculiarita` di apparire a conclusione di un recente volume sul rapporto fra i due mezzi di espressione, un segnale che l’argomento sta cominciando teoricamente a occupare uno spazio, anche se sempre infinitamente piu` piccolo rispetto all’adattamento. A questa ossessione cinematografica, tuttavia, Manzoli attribuisce una pura connotazione sentimentale, tracciando l’ascesa dell’oggetto amato da “una sgradevole forma di feticismo” alle vette di “un amore profondo e sincero”. Cfr. G. Manzoli, Cinema e letteratura, Carocci, Roma 2003, p. 114.
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trascritto su di un apposito quaderno (il cahier) le considerazioni e le emozioni relative ad ogni singola visione: queste modalita` del racconto mettono il lettore in una situazione di disagio analoga a quella che subiscono le persone con le quali, nel romanzo, sono state condivise alcune visioni del film. La loro impreparazione a cogliere alcuni momenti o particolari decisivi per l’interpretazione della scena o della sequenza appena vista o l’incapacita` di rispondere correttamente agli stimoli psicologici del film o alle spiegazioni elargite dall’esperto ospite, scatenano in quest’ultimo reazioni che non si limitano allo sberleffo o alla superiorita` indifferente. Cosı`, ad esempio, capita ad un lontano conoscente che aveva gia` visto il film piu` volte di essere quasi defenestrato per essersi permesso di ridere dopo aver sentito la rivelazione conclusiva sul film. Nonostante il senso di costante insoddisfazione per i suoi compagni di visione del film, il narratore dichiara che continuera` a vederlo in videocassetta, preferendo evitare l’esperienza in una sala cinematografica. Leggiamo, infatti, con stupore, che, nonostante la viscerale passione per questo film, il nostro mentore (che non ha nome nel libro) consulta quotidianamente la pagina dei programmi cinematografici nella sua citta` (anch’essa anonima) nella piena consapevolezza che, qualora trovasse un cinema dove lo proiettano, non andrebbe di certo a vederlo. Che argomenti usa per spiegarcelo? Si un jour il passait sur un grand e´cran, je n’irais certainement pas le voir, parce que ce serait trop dangereux pour mon avenir personnel, ce serait trop risque´, du fait qu’apre`s je ne pourrai plus le regarder sur un magne´toscope. Ce serait trop jouer a` quitte ou double: le voir une fois au moins dans des conditions parfaites, et eˆtre incapable apre`s de le voir dans des conditions imparfaites, et non pas seulement la taille de l’e´cran, a` la te´le´vison, mais toujours, avec la te´le´vision, on est perturbe´, on voit ce qui se 89 passe autour, on voit le mur derrie`re et le reste de la pie`ce sur les coˆte´s .
Appare finalmente alla ribalta il videoregistratore, gia` cronologicamente obsoleto, ma qui restituito alla sua massima funzione di supporto 89
T. Viel, Cine´ma, Minuit, Paris 1999, pp. 61-2 [Se un giorno dovesse passare sul grande schermo, non andrei certo a vederlo, perche´ sarebbe troppo pericoloso per il mio avvenire personale, sarebbe un rischio troppo grande, per il fatto che dopo non potrei piu` guardarlo sul videoregistratore. Sarebbe troppo come puntare tutto sul rosso: vederlo almeno una volta in condizioni perfette, per poi non essere piu` capace di vederlo in condizioni imperfette, e non e` solo la grandezza dello schermo, in televisione, ma con la televisione sei sempre disturbato, vedi quello che succede intorno, vedi il muro dietro e il resto della stanza da una parte e dall’altra].
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della memoria cinematografica quando il televisore aveva smesso, gia` da un po’, di imitare il cinema. “Apparecchio ideologico, dunque narcisistico, la TV attesta un’appartenenza. Promotore di fughe, mentali e fisiche, il 90 cinema ci distacca dalle nostre radici” : il narratore appartiene al mezzo televisivo nella stessa misura in cui appartiene al film che racconta. La sua passione, tuttavia, non lo rende miope di fronte alla perfettibilita` tecnica ed estetica della visione. Nel romanzo, sintesi ideale e idealistica degli appunti riportati tenacemente sul cahier, il narratore identifica il mezzo per sostituire la sua mancata esperienza del film in una sala cinematografica e, quindi, per escludere dallo sguardo gli elementi ‘perturbanti’ che coesistono nello spazio casalingo del televisore: tra la pagina del libro e lo schermo cinematografico si annulla la differenza di proporzioni che il narratore annota come primo fra gli inconvenienti della visione televisiva del film di Mankiewicz. Il film di Viel non e` una presenza casuale, anche se, al tempo stesso, parallela, della trama: e` la trama del romanzo. Il testo letterario deve la sua esistenza al film, cosı` come gliela deve la voce che ne commenta le immagini, emanazione virtuale di cui non abbiamo alcuna informazione all’infuori di quanto e` strettamente connesso con il film. Anzi, per sua stessa ammissione, le cose che sa sono tutte merito di quell’unico film, e non di una novecentesca alfabetizzazione cinematografica, mentre il grado di confidenza emotiva che ha acquisito con i personaggi della finzione cinematografica lo porta ad usare i nomi propri per parlarne: “pas graˆce 91 au cine´ma, non, uniquement graˆce a` Milo et Andrew” . Credo sia meglio, invece, presentarli al lettore con qualche dettaglio in piu`. Andrew Wyke e` uno scrittore di romanzi polizieschi che ha scoperto il tradimento di sua moglie con un parrucchiere di umili origini e cospicui guadagni, il cui nome e` Milo Tindle. Wyke ha usato modi molto urbani, invitando il rivale a raggiungerlo nella sua dimora in campagna, dal nome inquietante di Foscomaniero, in un weekend di solitudine coniugale, per portare a compimento un piano che sembra uscire direttamente dalla sua penna di giallista. Nella prima sequenza del film Wyke, all’interno di un labirintico giardino, ci appare intento nella registrazione auricolare del finale per il suo prossimo libro: C’est une histoire policie`re qui se raconte, cela on le comprend tre`s vite, une histoire qui parle d’un meurtre, et ce qu’on entend dans le labyrinthe,
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Re´gis Debray, Vita e morte dell’immagine, cit., p. 255. T. Viel, Cine´ma, cit., p. 95 [non grazie al cinema, solamente grazie a Milo e Andrew].
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la voix tre`s claire qu’on entend, dit ce moment crucial des histoires policie`res, ce moment ou` le de´tective reconstitue les faits, elle dit: avec la logique tout devient clair. Alors le de´tective, la voix preˆte´e au de´tective, raconte une histoire sordide, une histoire de campagne anglaise, reconstitue toute une histoire policie`re qui vient de se de´nouer, beaucoup d’assurance dans la voix, mais ce n’est pas vraiment la voix du de´tective, je l’ai de´ja` dit, c’est 92 une voix preˆte´e par quelqu’un a` un de´tective imaginaire .
L’invenzione narrativa di Wyke e` un chiaro segnale en abyme della ‘vera’ finzione che ha allestito per Tindle: quella di fargli inscenare un furto di gioielli in villa, il cui premio assicurativo sara` spartito fra loro a suggello di un accordo fra gentiluomini che mira a non rendere intollerabilmente diverso il nuovo stile di vita per la signora divorziata. La generosita` di Wyke diventa sospetta gia` nella messa in scena del furto, per allestire la quale i due vanno a curiosare fra i vari travestimenti teatrali che Wyke colleziona, scegliendo gli abiti di un clown, “l’apoteosi di quello 93 stesso circo la cui pista delimita l’intera pellicola” . Wyke, interpretando se stesso nell’atto di scoprire il ladro, spara e Tindle precipita fino in fondo alla scalinata del salone interno. Questa morte apparente chiude la prima parte del film, che riprende nella stessa modalita` di azione teatrale con un nuovo personaggio, la figura gia` inizialmente evocata del de´tective: questa volta e` Tindle a presentarsi a Wyke sotto le mentite spoglie dell’ispettore Doppler per vendicarsi dell’umiliazione subita, accusando l’aristocratico dell’assassinio che, materialmente, avverra` soltanto alla fine del film. Sull’ambiguita` polisemantica di Sleuth Viel torna ad esprimersi, oltre che attraverso il romanzo, anche in un articolo scritto appositamente per un dossier su Mankiewicz apparso su Positif. Nel confronto fra potere e debolezza, lo scrittore rappresenta lo schema attanziale che ricorre nei film del regista e identifica nella figura del potente una proiezione del regista stesso che sconterebbe, nella disfatta subita dal personaggio, il privilegio di manipolazione dello spettatore di cui gode per mestiere. Se la 92
Ibid., p. 11 [La storia che si racconta e` una storia poliziesca, questo si capisce subito, una storia che parla di un delitto, e quel che senti nel labirinto, la voce molto chiara che senti, dice quel momento cruciale nelle storie poliziesche, quel momento in cui il detective ricostruisce i fatti, dice: con la logica diventa tutto chiaro. Allora il detective, la voce prestata al detective, racconta una storia sordida, una storia di campagna inglese, ricostruisce tutto un intrigo poliziesco che si e` appena risolto, molta sicurezza nella voce, ma non e` veramente la voce del detective, l’ho gia` detto, e` una voce prestata da qualcuno a un detective immaginario] (corsivo dell’autore). 93 Sjef Houppermans, Cine´ma avec Tanguy Viel, in J. Baetens & Marc Lits, La novellisation, cit., p. 148.
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cerchiamo in Sleuth, la figura del regista sembra adattarsi perfettamente al personaggio aristocratico di Andrew: anche il narratore di Cine´ma ci offre lo spunto per questa lettura, quando osserva che, a partire da un certo istante, si ha l’impressione che Wyke abbia il controllo di una macchina da presa. L’istante e` quello in cui Andrew fa apparire la sua pistola come ennesimo ‘effetto di reale’ nella messinscena del furto di Milo; ma nella pistola si annida anche l’immagine metaforica del potere della macchina da presa: lo annota, tra parentesi, lo stesso Viel quando descrive la verita` cinematografica come un “pouvoir du mieux arme´”94. Andrew, inoltre, e` uno scrittore di gialli, che ci viene presentato all’inizio del film nell’atto di completare il suo ultimo giallo: il potere demiurgico gli appartiene, quindi, per professione. La trama che fa recitare a Milo nella prima parte del film e` di sua invenzione e ha dei tratti cosı` improbabili e improponibili da sembrare una parodia del romanzo poliziesco. Milo, da parte sua, si comporta come il piu` passivo degli spettatori, e non esita a identificarsi con quanto gli viene proposto da Andrew, lasciandosi imbeccare su ogni dettaglio che lo scrittore ravvisi come necessario per rendere credibile il finto furto di gioielli che dovrebbe assicurare agio e tranquillita` finanziaria alla nuova coppia (rimpinguando anche le casse di Andrew con i proventi dell’assicurazione). Tutto il quadro si ribalta nella seconda meta` del film, con Milo che, nella continuita` del travestimento (da pagliaccio a ispettore, conservando analoghi tratti di comicita`), inscena una sua trama che prevede che Andrew interpreti realmente la parte di assassino nella quale aveva recitato prima ai danni di Milo: nel perfetto rispetto del copione gia` “scritto” da Andrew, Milo interpreta definitivamente quella del morto. I fantomatici amici del narratore, a cui e` affidato il ruolo, schernito, di critici, vedono in questa duplicazione diegetica un esempio di metacinema, ma lo spunto interpretativo ha solo l’effetto di irritare il narratore, che reagisce con analoga freddezza al suggerimento del termine di “agnizione” per descrivere il momento epifanico in cui Wyke riconosce finalmente chi si cela dietro l’ispettore: “moi c¸a ne m’inte´resse qu’a` moitie´, les termes savants d’une part, les retournements de situation d’autre part, je n’en fais pas une montagne”95. L’unica cosa che vorrebbe davvero ripetere del film e` la sua prima visione, ovviamente televisiva, anzi videoregistrata.
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T. Viel, Obtenir re´paration, in «Positif», n. 469, Marzo 2000, p. 101. Id., Cine´ma, cit., p. 84 [a me queste cose m’interessano ben poco, i termini colti, le situazioni cicliche, non ne faccio una montagna]. 95
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10. La prima “visione” Tra le varie interruzioni che cadenzano la verbalizzazione del film, il rimando piu` ossessivo e martellante e` quello al momento in cui il film e` stato visto per la prima volta. La sua funzione ricorrente nel testo e` duplice: di monito al lettore che ancora non l’avesse visto a non confidare troppo su facili soluzioni interpretative che denigrerebbero la complessita` del testo, oppure di espressione del desiderio di riuscire a recuperare le sensazioni e le impressioni del suo primo contatto con il film. Per un fan cosı` versato nella materia, ci viene da pensare che il ‘battesimo’ sia stato in un cinema: le sue parole, pero`, smentiscono la nostra supposizione (e questo, ovviamente, da` una indicazione alquanto precisa sulla giovane eta` del narratore; il film, lo ricordo, e` del 1972). Che la prima visione sia avvenuta con l’ausilio di un videoregistratore non e` particolarmente inusuale per personaggi e narratori postmoderni; insolita, invece, e` l’insistenza con cui questa prima visione viene rievocata, che le attribuisce un’aura percettibile nello sforzo di memoria emotiva. Nel termine “aura” ritroviamo un’eco delle riflessioni di Benjamin sul cinema e sulle modifiche apportate alla ricezione dell’opera d’arte da parte delle arti visive. Benjamin, in effetti, veniva gia` indirettamente chiamato in causa dal brano di ‘confessioni’ del particolare spettatore con cui abbiamo a che fare. La distrazione di cui si lamenta il narratore nel corso delle sue visioni videoregistrate e` uno, se non il principale, fra gli esiti della partecipazione allo spettacolo cinematografico. Pur non essendo cinematografiche le sue origini, che Benjamin fa risalire alla ricezione delle opere architettoniche, la distrazione “trova nel cinema lo strumento piu` autentico su cui esercitarsi”96, e aiuta il pubblico ad acquisire un atteggiamento piu` critico e valutativo nei confronti dell’opera, non piu` schermata dal suo fascino puramente cultuale: in cio` verrebbero a consistere i nuovi compiti che attendevano le masse. Queste non sembrano certo interessare il nostro spettatore-narratore, che a malapena sopporta l’idea di condividere con qualche amico la visione del ‘suo’ film (ma che e` anche alla ricerca costante di nuovi spettatori cui proporlo). Tuttavia, l’intero romanzo e` attraversato dal pensiero dell’universalita` del contenuto di Sleuth che si formula nella testa del narratore quasi suo malgrado, strutturandosi in apparente antitesi con l’idiosincrasia del suo approccio cultuale al film. 96
Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilita` tecnica. Arte e societa` di massa (1955), Einaudi, Torino 2000, p. 46.
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Nell’accezione benjaminiana, il valore cultuale era quello per cui “il valore unico dell’opera d’arte autentica trova una sua fondazione nel 97 rituale” . In Cine´ma il rituale viene ristabilito in quell’ambito cinematografico dal quale Benjamin l’aveva espunto, come conseguenza della sua riproducibilita` tecnica. Seguiamo i passaggi di questo ripristino: lo spazio privato di fruizione (la casa) viene preferito a quello pubblico (il cinema), in virtu`, come abbiamo visto, di quelle occasioni di distrazione che la visione casalinga su videonastro offrirebbe, e in contrasto con le condizioni perfette di una sala cinematografica, che renderebbero impossibile una successiva visione del film. Il recupero della fruizione distratta che il cinema ‘benjaminiano’ assicurava avviene tra le pareti domestiche, all’interno delle quali, inoltre, si rinnova la speranza di iniziare altri spettatori al culto del film, destinata a crollare di fronte all’insensibilita` dei destinatari. Da un certo punto di vista, il romanzo sembra partecipe di una prassi culturale tipica del postmoderno, quella del cult-movie, che vedrebbe il narratore esercitare la propria competenza intellettuale al fine di sottrarre il film prescelto al destino di anonimato commerciale e convalidarne l’accesso in campo estetico. Lo status di Sleuth, pur non essendo equiparabile a quello dei prodotti di genere nei quali avvengono per lo piu` il 98 recupero e la riscoperta , e` quello di essere l’ultimo film di Mankiewicz, quando il regista era gia` in fase di declino dopo i disastrosi esiti commerciali di The Honey Pot (Masquerade, 1967), e di aver vissuto nell’ombra della ben piu` famosa commedia teatrale di Anthony Schaffer da cui e` tratto. Le credenziali del film (il nome del regista, quello degli attori e persino il titolo stesso del film) vengono indicate quasi in chiusura del romanzo, ma non ne vedrei la citazione come sintomo di una continuita` sottintesa con la politique des auteurs e con la rivalutazione della poetica autoriale; piuttosto mi sembra che la comparsa dei dati sia un ulteriore tentativo da parte della scrittura di inglobare l’interezza del film, senza lasciare nulla al di fuori del testo. In questo modo, comunque, il romanzo tende a sostituirsi allo scritto teatrale e al film come testo di riferimento e diventa l’unico Sleuth, sufficiente a se´ medesimo, testo definitivo che sembra chiudersi ad ogni possibilita` di riscrittura e ammette solo di essere riletto infinitamente. 97
Ibid., p. 26 (corsivo dell’autore). Nella definizione di Ceserani, il cult e` la risposta dei gruppi di ´elites al dilagare di fenomeni commerciali in ambito estetico, che si attua in una “santificazione ed elevazione sugli altari dell’estetico di film o testi letterari e poetici, o musicali e televisivi, prodotti casualmente e in risposta alle esigenze del mercato, ben confezionati, destinati a un medio successo popolare”. Cfr.: R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 28. 98
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Il bisogno di prendere appunti e di marcare le tappe di un percorso di 99 approfondimento analitico fanno intravedere la possibilita` di scoprire nel narratore una vocazione di critico, anche se di un solo film: j’ai achete´ un cahier expre`s, quatre-vingt-seize pages bientoˆt pleines, et je consigne tout dans ce cahier, les impressions faites par chaque sce`ne [...] je 100 peux retrouver de´sormais toutes les ide´es a` propos des images .
Come se il desiderio di dare una forma esteriorizzata al proprio discorso interno sul film avesse prodotto in uno spettatore eccezionale come quello di Viel lo scatto ad una coscienza critica. Ma e` lo stesso narratore a scartare questa ipotesi, e a siglare come ridicoli i vari pareri critici dei suoi amici, stigmatizzando qualsiasi impostazione scientifica dell’analisi con un esibito disprezzo terminologico: se qualcuno propone di leggere il film di Mankiewicz come un “metafilm”, allora lui fara` in modo che chiunque lo pensi ritorni il piu` presto possibile al suo “metasilenzio”. Il narratore si astiene dal dare definizioni critiche, pur affidando al quaderno la tutela delle sue osservazioni e delle sue idee sul film: la sua schizofrenia esemplifica il rapporto che si consuma tra parola e immagine in un meccanismo speculare, di commento che si trasforma in testo e viceversa, cosı` come il libro si trasforma in film e viceversa. La purezza cui vuole aspirare il narratore nel negarsi testualmente a favore del film e` indissociabile dalla sua vocazione critica in un circuito che mette all’opera in prima istanza la metacomunicazione, nell’uso intrecciato di citazioni (esplicite) dal film e di citazioni (implicite) dal proprio quaderno di appunti. Nel distacco sarcastico dalle involuzioni terminologiche cui sono soggetti i suoi amici dotti, il narratore sembra inscenare il superamento di un dilemma di tipo metodologico che Fredric Jameson reputa sintomatico negli studiosi di cultura di massa e nei cultural studies in generale: l’assenza strutturale o volatilizzazione ripetitiva dei “testi primari”. Nel reperimento dei materiali necessari ad esercitare uno studio critico della postmodernita` 99
La lettura e l’apprezzamento critici possono rappresentare un passaggio di questo procedimento di santificazione del testo e alcune caratteristiche del romanzo portano in questa direzione, connotando Cine´ma in senso piu` marcatamente postmoderno, come vuole una serie ben nutrita di testi ‘canonici’ che innestano il commento critico nel corpus stesso della finzione narrativa, o, per meglio dire, travestono da fiction gli spazi autoriflessivi del romanzo (per una serrata argomentazione in merito a questo aspetto cfr.: Mark Currie, Postmodern Narrative Theory, Macmillian, London 1998). 100 T. Viel, Cine´ma, cit., p. 50 [ho comprato un quaderno apposta, quasi novanta pagine piene, e annoto tutto nel quaderno, le impressioni per ogni scena [...] ormai posso ritrovare tutte le idee immagine per immagine].
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viene, infatti, a mancare “un oggetto stabile di commento o esegesi sotto 101 forma di un testo o di un lavoro primario” , una scomparsa visibile nel passaggio dall’eta` modernista “fondata sulla distinzione borghese tra copia e originale, o significante e significato, al populismo estetico della pop 102 culture” : la stessa narrativa postmoderna, come abbiamo visto gia` con Puig, fa oggetto di questa capillarita` intertestuale, esaltandone le potenzia103 lita` compositive del racconto . Nel romanzo di Viel il lavoro narratoriale e` finalizzato, invece, a ricostruire l’ipotesi di un testo primario sulla base della frammentazione scritturale cui hanno dato forma le ripetute visioni del film. Sleuth viene riscritto perche´ possa diventare un ‘oggetto stabile’ a partire da un supporto audiovisivo che agisce ‘contro’ il flusso di immagini che caratterizza la societa` postmoderna, assicurando una visione totalizzante e assolutamente invasiva: il videoregistratore interrompe il flusso temporale, lo sostituisce con un tempo predefinito, quindi garante di un limite non attraversabile, temporalmente chiuso. Nella scelta tecnica desueta, inoltre, si riflette il concetto di ripetizione e di fine dell’invenzione narrativa che sta alla base del culto cinematografico per Sleuth. Il progetto di scrittura in Cine´ma ricalca stilemi cinematografici anziche´ 104 letterari nel modo in cui fa propria un’estetica del remake , anche nella recente accezione finalizzata a recuperare il film nella forma piu` vicina possibile all’originale, in una versione borgesiana dove la pedissequa copiatura del testo diventa indistinguibile dal testo stesso. Anzi, il cinema sembra aver accettato piu` della letteratura la sfida del paradosso di Borges, come attesta l’esempio di Gus Van Sant e del suo remake filologico di Psycho nel 1999, in cui l’unica aggiunta all’originale e` relativa a un’immagine onirica che Hitchcock non aveva incluso dall’accurato storyboard di Saul Bass; tuttavia, la presunta sparizione dell’autore, figura risucchiata dal suo emulo postmoderno, lascia spazio nella riscrittura di Van Sant ad 101
Fredric Jameson, Firme del visibile. Hitchcock, Kubrick, Antonioni, Donzelli, Roma 2003, p. 25; la citazione e` presa, piu` specificamente, dal saggio Reificazione e utopia nella cultura di massa, la cui pubblicazione originale risale al 1979. 102 Franc¸ois Cusset, French Theory. Foucault, Derrida, Deleuze & Cie et les mutations de la vie intellectuelle aux E´tats-Unis, La De´couverte, Paris 2003, p. 227. 103 Non e` un caso che Puig, oltre che con i materiali del cinema, lavori spesso con testi di canzoni popolari e melodie radiofoniche, che sono proprio gli oggetti ‘introvabili’ su cui Jameson focalizza le sue considerazioni: il testo musicale contemporaneo non esiste piu` nella sua originalita`, ma diventa parte del tessuto esistenziale della nostra vita per parziali sovrapposizioni auditive in spazi diversificati che escludono la memoria di una prima esecuzione completa. 104 Per una riflessione sulla prassi del remake cfr. Bussi E. & Chiara D. (a cura di), Letteratura e cinema. Il remake, Clueb, Bologna 1999.
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un’ulteriore, anche se ambigua, esaltazione autoriale di Hitchcock105, come dimostra anche l’insuccesso del film tanto presso le nuove generazioni che non avevano visto l’originale quanto fra i cultori del maestro che non hanno gradito l’aggiornamento iconico (il colore ha sostituito il biano e nero). In modo piu` marcato, Viel adotta un approccio al testo filmico di ispirazione modernista, laddove “il testo ermetico resta non solo come un Everest da conquistare, ma anche come un testo alla cui salda realta` si 106 puo` continuamente ritornare” . Un “testo” cui aggrapparsi, come dice esplicitamente il narratore in uno degli intermezzi confessionali che scandiscono il suo operato: Et comment la vie s’accroche a` rien, et comment ce n’est pas rien, ce film, ces deux hommes, le contraire de rien, tout, tout pour moi, ce cahier pour continuer, il faut dire, c’est tout pour moi, c’est tre`s important de comprendre ces choses a` quoi on s’accroche107.
ma anche un “testo” che esige costanti riletture e riserva sorprese anche a chi lo ha rivisto infinite volte: Et je dois dire: encore aujourd’hui il y a des choses dans ce film qui restent un myste`re pour moi108.
Il culto del film Sleuth esalta anche gli aspetti religiosi della visione. Come scrive Debray, “l’attuale feticismo dell’immagine ha molti piu` punti 109 in comune con la lontana era degli idoli che non con quella dell’arte” , sottraendo il film alla dimensione secolarizzata e rivoluzionaria che Benjamin aveva colto nel fattore tecnico della riproduzione. Lo slittamento elaborato dal romanzo di Viel riflette un approccio al film che fonde, pa-
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Trovo degno di nota che Hitchcock sia l’unico altro nome di regista che Viel cita nel suo romanzo, oltre a Mankiewicz, quando l’immagine del bicchiere di whisky offerto a Milo gli appare fortemente connotata in senso hitchcockiano per il modo in cui nei suoi film “l’alcool ritma l’intreccio per meglio mettere in trappola i personaggi”. 106 F. Jameson, Firme del visibile, cit., p. 24. 107 T. Viel, Cine´ma, cit., p. 63 [E come si aggrappa al niente la vita, e come non e` affatto niente, questo film, questi due uomini, il contrario di niente, tutto, tutto per me, questo quaderno per continuare, lo devo dire, e` tutto per me, e` molto importante capire le cose a cui ci si aggrappa] (corsivo mio). 108 Ibid., p. 16 [E devo dirlo: ancora oggi ci sono cose in questo film che per me restano un mistero]. 109 R. Debray, Vita e morte dell’immagine, cit., p. 244.
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rallelamente, il fenomeno cult della sua fruizione con il culto della mancata visione cinematografica. La riproducibilita` del nastro della videocassetta esenta il narratore dalla necessita` di vedere il film al cinema e gli assicura lo stesso tipo di contatto con il ‘divino’ che l’idolo scolpito era incaricato di garantire al fedele. Il culto, in effetti, puo` essere assicurato soltanto dalla negazione ottica e, quindi, percettiva del divino rispetto al fedele, che assume un contatto mediatico con la divinita` attraverso la duplicazione simbolica e cultuale della sua immagine. Il narratore del romanzo si comporta come se volesse evitare un contatto “diretto” con il divino che ha percepito in Sleuth e che teme di trovare nella visione cinematografica del film, pur aspirandovi e scandendo il testo con una serie di rimandi biblici che si infittiscono in prossimita` del finale. Vediamo insieme di che tipo. La prima segnalazione e` interna alla diegesi filmica e commenta l’espressione di Milo di fronte ai gioielli (“oui, Milo comme Moı¨se, et les 110 bijoux comme Terre Promise” ). Le piu` incisive vengono piu` in la` nella narrazione. Nella prima assistiamo ad un processo di panteizzazione dello ‘spirito’ del film, che ci associa per come siamo “plus o moins spectateurs 111 de ce film, quand bien meˆme on ne l’a jamais vu” . La frase, che richiama anche la frammentarieta` dell’oggetto culturale nella societa` visuale che abitiamo, assume proporzioni ecumeniche nel momento in cui serve a proiettarci nelle figure speculari dei due protagonisti senza la necessita` di ‘vederle’ esternamente, ma solo guardandoci dentro e scoprendole innate. Il massimo grado di intertestualita` biblica si raggiunge, comunque, con la frase che rivela il narratore come figura Christi: “tout ce 112 que vous faites a` Sleuth, c’est a` moi que vous le faites” . La commistione dei toni di ironia e sublimita` si fa ancora piu` tangibile nella descrizione delle cure devozionali che il narratore offre a Sleuth, scusandosi quando esce e lo lascia a casa da solo e mettendolo al riparo da fonti di calore o da correnti di freddo. A Sleuth viene infine attribuita una volonta` propria, che agisce sui personaggi del film stesso, cosı` come sugli spettatori, compresi quelli noncuranti, e persino quelli che palesano un dichiarato disprezzo nei suoi confronti: tutti, prima o poi si ‘convertiranno’, assicura il narra113 tore: “ils finiront par se mettre a` genoux devant lui” . Nel giudizio finale e inappellabile che chiude il romanzo e` finalmente 110 111 112 113
Ibid., Ibid., Ibid., Ibid.,
p. 46 [Milo come Mose`, e i gioielli come la Terra Promessa]. p. 80 [piu` o meno spettatori di questo film, anche se non l’abbiamo mai visto]. p. 117 [tutto quello che fate a Sleuth, lo fate anche a me]. p. 97. [finiranno per mettersi in ginocchio davanti a lui].
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coinvolto anche il narratore, pronto a scontare l’inefficacia, ma soprattutto, l’inopportunita` del suo intervento di mediazione tra Sleuth e lo spettatore, cosı` come il mancato conseguimento dei suoi fini missionari nei confronti del film. Sleuth vive, ora, di vita propria, ed e` divinamente indifferente alle opinioni che gli altri hanno di lui. Il giudizio sul film che rientra nella prassi di ogni nostra comune esperienza cinematografica si trasforma in un giudizio del film sulle nostre capacita` di lettura: il narratore, estensione metonimica, come il videoregistratore, del testo cinematografico, se ne fa portavoce. Si completa, in modo parallelo e speculare alla configurazione “sacrale” del testo, il processo di personificazione del film che il narratore ha avviato a partire dal momento in cui ne nomina il titolo nella sua versione originale, Sleuth, sostantivo desueto e forma obsoleta del piu` recente detective. Il progetto Cine´ma di ekphrasis cinematografica si trasforma nell’annuncio di un culto: al Verbo che si e` fatto Uomo si sovrappone simmetricamente Sleuth che si e` fatto Parola attraverso la verbalizzazione del racconto filmico. Nel lessico e nella fraseologia torna l’eco parodistica della usuale descrizione dei fenomeni cult in termini di pratiche istituzionali ecclesiastiche: la santificazione del testo e l’elevazione sugli altari dell’estetico114. Il romanzo di Viel e` anche leggibile come parodia di queste forme di rivalsa elitaria sulle dinamiche del mercato, come se usandole volesse superarle e condurre la sua fiction agonistica in una direzione diversa. Questa direzione ci porta a incontrare un’opportuna difficolta` nell’attribuire al romanzo modalita` di pensiero esclusivamente moderne o postmoderne; opportuna, perche´ permette di spostare il discorso sulla categoria ontologica della narrazione. L’aspirazione del narratore non e`, infatti, quella di fornire il miglior commento al film, ma di diventare il film, di riuscire a non essere piu` distinguibile dal suo testo audiovisivo di partenza. Sotto questo aspetto, la metamorfosi religiosa ha il pregio di dare al narratore l’occasione di raggiungere uno stadio di compenetrazione con il film che lo rende corporalmente sensibile ai colpi (le incomprensioni, le accuse, gli eventuali sberleffi) patiti dal film. Di corpo, tuttavia, non si dovrebbe parlare, in quanto il narratore per chi legge e` soltanto una voce, mentre chi ascolta siamo noi “spettatori”.
114
Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno, cit., p. 28.
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11. Una pellicola vocale Tornando ora a interrogarci sul rapporto fra Cine´ma e la novellizzazione, in che relazione mette spettatore e lettore il romanzo di Viel? quand je le visionne avec des amis, pourvu que ce soit la premie`re fois pour eux, alors je les regarde du coin de l’œil, je surveille leurs attitudes, c’est comme un miroir de moi, dis-je en moi-meˆme, ma chance de retrouver l’esprit de ma premie`re vision115.
Durante le proiezioni estese agli amici, il processo di identificazione cinematografica, che abbiamo visto spesso rappresentato in letteratura, si sposta dall’oggetto-film all’oggetto-spettatore, che diventa occasione per 116 esperire fittiziamente uno stato primigenio della visione . La terminologia usata rimanda in modo esplicito al concetto psicanalitico lacaniano che Baudry ha trasposto nell’esperienza spettatoriale al cinema: nello spettatore di Sleuth la voce narrante si vede riflessa, come in uno specchio, e cerca di individuare i tratti del suo stesso volto e di abolire le distanze che la separano dalle figure sullo schermo. Trasformato in spettatore, tuttavia, il lettore di Cine´ma e` la chiave attraverso cui il narratore cerca l’istanza di identificazione che gli restituisca la sensazione iniziatica di una prima visione. Per rovesciare la prospettiva e riuscire a cogliere lo sguardo del lettore, Viel attua una messa in scena del racconto di cui ci spiega la dinamica: “je fais comme si je n’avais pas vu ce film, puis je fais comme si quelqu’un me le racontait, et du coup je 117 le raconte pour de vrai” . La realta` si ottiene, allora, replicando una finzione visiva, come accade nel successivo romanzo di Viel (L’assoluta perfezione del crimine, 2001), 115
T. Viel, Cine´ma, cit., pp. 77-78 [quando lo vedo con degli amici, purche´ per loro sia la prima volta, li guardo con la coda dell’occhio, sorveglio il loro atteggiamento, sono come il mio specchio, mi dico fra me, la mia occasione di ritrovare lo spirito della prima visione] (corsivi miei). 116 Il narratore si presenta con caratteristiche contrastanti davanti al lettore, in quanto, da un lato, incarnazione letteraria dello spettatore implicito ma, dall’altro, ipotesi finzionale di annullamento della funzione di spettatore di fronte all’indicibilita` del film stesso (per una recente rassegna delle teorizzazioni sul ruolo cfr. Mariagrazia Franchi, Spettatore, Il Castoro, Milano, 2005, pp. 80-105; per un’accurata e profonda riflessione sull’immagine dello spettatore cinematografico, cfr. Sandro Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, cit., pp. 167-189). Tornano qui altrettanto utili le argomentazioni di Jost sul rapporto fra realta` e finzione in Realta`/finzione. L’impero del falso, cit. 117 T. Viel, Cine´ma, cit., p. 45 [faccio come se non avessi visto il film, poi faccio come se qualcuno me lo raccontasse, e cosı` lo racconto per davvero] (corsivi dell’autore).
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dove una rapina viene descritta attraverso la sua simulazione, attuata da uno dei ladri a beneficio della stampa e della polizia. Dal canto suo, la voce di Cine´ma reinterpreta la modalita` narrativa del film, imitando se stessa nell’atto di raccontare qualcosa che finge di non aver visto. La inquietante parodia del romanzo detective che Sleuth elabora, con omicida e vittima che si scambiano i ruoli nella seconda parte del film per riuscire ad interpretare quelli che rivestivano nella prima, suggerisce al narratore la modalita` del suo rapporto con il lettore. A quest’ultimo viene data, quindi, la parte dello spettatore, di facile interpretazione, se pensiamo alla tradizione romanzesca e al compito narrativo di visualizzatore che chi legge abitualmente svolge; il punto di svolta di questa parabola e` nel carattere fittizio del ruolo, che la voce narrante usa per assorbire la funzione visiva dello spettatore-lettore, ormai esautorata dalla perfezione e dall’‘inutilita`’ cinematografica nella sua forma narrativa, e ricercare un contatto auditivo che non solo il romanzo, ma anche il cinema ha messo in second’ordine. La figura spettatoriale del lettore viene smontata come ipotesi metaforica della lettura, perche´, invece di “mostrarci” il film, Viel ci espone ai limiti della nostra percezione visiva e formula l’esigenza di una risensorializzazione del lettore. Lungo l’intero romanzo ricorre un ossessivo refrain: l’incapacita` di rendere giustizia alla bellezza del film attraverso le parole. L’utilizzo che viene fatto di queste dichiarazioni di insufficienza delle parole e` concentrato soprattutto nel rush finale, in coincidenza, per nulla casuale, con il patema provocato dal desiderio di aderenza temporale del testo letterario al film. Sebbene nasca dall’esperienza spettatoriale accumulata durante le successive visioni, la scrittura del romanzo finge testualmente un effetto di contemporaneita` con lo scorrere delle immagini sullo schermo casalingo del narratore. Questa finzione dovrebbe consentire al lettore di Cine´ma di non percepire alcuno scarto cronologico per la mancata coincidenza tra tempo del racconto e tempo della visione. Il testo di Viel, come il film di Mankiewicz, ha un incipit interamente ‘vocale’, giocato sulla presenza di quello che si puo` definire, ancora con 118 Chion, un doppio a´cusma (la voce di Andrew sta registrando il finale del suo ennesimo romanzo poliziesco, fingendo di essere il personaggio protagonista della vicenda che racconta) che spinge Milo, appena giunto, a cercarne l’emittente nel giardino-labirinto. La volonta` di adesione completa al film si esplicita, poi, nella trascrizione di alcuni dialoghi in
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Cfr. Michel Chion, La voce nel cinema, cit., pp. 31-46.
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caratteri corsivi assorbiti nella linearita` tipografica del testo, senza alcuna differenziazione spaziale tra le due scritture. La climax di questa commistione tra voce e film arriva, pero`, con la metafora sinestetica della “pellicule vocale”. Il narratore lamenta il fatto che ne sprecherebbe meno se il film fosse suo, e potesse, quindi, farne una versione epurata e piu` personale. Per trovare un connubio altrettanto ossimorico nella storia del pensiero teorico cinematografico bisogna risalire alla came´ra stylo di Alexandre Astruc: il cinema (siamo negli anni del secondo dopoguerra, nell’incipienza della Nouvelle Vague) avrebbe raggiunto uno status artistico paritetico a quello letterario solo attraverso una completa personalizzazione autoriale dei suoi prodotti, strada, secondo Astruc, gia` intrapresa con registi come Welles e Renoir. Sulla scorta delle loro opere, che hanno segnato tappe fondamentali nell’evoluzione del linguaggio cinematografico, Astruc sosteneva che “il cinema sta semplicemente diventando un mezzo d’espressione, cosı` come prima di lui lo sono state tutte le altre arti, in particolare la pittura e il romanzo”119. La stylo vale, comunque, come figura metonimica del corpo d’autore che firma la sua opera, piuttosto che come modello di implicita analogia con i procedimenti e le modalita` della scrittura letteraria. Nondimeno, il peso della bilancia e` palesemente spostato sulla singolarita` e sull’autonomia del letterato rispetto alla ripartizione e alla suddivisione del lavoro nel contesto della produzione cinematografica. Quando giunge a descrivere nel dettaglio cosa intende con l’immagine della came´ra stylo, Astruc prospetta un futuro di liberazione del cinema dalla “tirannia del visivo [...] per diventare un mezzo di scrittura flessibile e sottile al pari del linguaggio scritto”120. A sostegno di questo significato, il teorico evita con fermezza ogni possibile equivoco di assimilazione della sua “nuova” avanguardia con quelle surrealiste o dei film astratti degli anni Venti; si tratta, invece, di un cinema dove “la distinzione fra autore e regista non ha piu` senso”121, proprio perche´ frutto di una scrittura unica e individuale dove non si puo` piu` “fare differenza tra colui che ha pensato l’opera e colui che l’ha 119
La citazione proviene da una antologia di scritti sul cinema raccolti da Andrea Martini in Utopia e Cinema. Cento anni di sogni, progetti e paradossi, Marsilio, Venezia 1994 (volume edito in occasione della XXX Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro), pp. 57-61. L’articolo di Astruc, Naissance d’une nouvelle avant-garde: la came´ra stylo, apparve su «E´cran Franc¸ais», n. 144, 1949. Cfr. anche A. Barbera e R. Turigliatto (a cura di), Leggere il cinema, Mondadori, Milano 1978. 120 Ibid., p. 58. 121 Ibidem.
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scritta”122. La proposta del neologismo da parte di Viel non e` articolata in senso teorico ed estetico, ma pensata sul momento come soluzione all’impasse della narrazione. Nell’idea di “pellicola vocale” il concetto stesso di scrittura sembra bandito e accantonato in conseguenza dell’inconciliabilita` tra la frattura e la segmentazione visiva del carattere stampato e la fluidita` ininterrotta che caratterizza la versione orale del film. La ‘provocazione’ del narratore si inserisce senza dubbio nel dibattito post-derridiano sulla rivalutazione dell’oralita` e l’affrancamento dalle accuse di fono- e logo-centrismo, che le erano state addossate dalla critica decostruzionista. L’attenzione del narratore, inoltre, cade sul privilegio espressivo che ha scelto di accordare all’oralita` in un contesto mediatico – il romanzo – che non sembra necessitare di alcuna divisione del lavoro fra elementi semioticamente diversi. In Cine´ma, che pur testimonia testualmente la difficolta` e la fatica di riscrivere un film, la colpa di cio` viene data all’impossibilita` di restituirne nel testo la struttura armoniosa e uniforme. Viel rovescia completamente l’assunto critico aggiornato e militante che poggia sull’incontestabile pluralita` articolatoria e mediatica del discorso cinematografico e guarda con venerazione alla perfetta fusione delle parti in Sleuth, che cerca di eguagliare ricorrendo, appunto, all’oralita`. Nell’elenco delle ragioni cinematografiche in cui risiede la straordinarieta` del film si esaurisce tautologicamente il bisogno di ricorrere ad un lessico critico o scientifico per nobilitarlo. Lo cito per intero qui di seguito: et je pre´fe`re de tre`s loin la mise en sce`ne, le souci du de´tail, et la finesse, la finesse partout qui envahit l’e´cran, c’est c¸a qui m’inte´resse moi, les e´clairages pointe´s de mille parts sur les visages, et l’espace toujours rempli a` propos, les objets et les corps qui dessinent les largeurs, et la langue, l’anglais, qui souffle dans l’image et aspire les distances entre eux deux, entre Andrew et Milo, Andrew et Doppler, Milo et Doppler, Andrew et moi, Milo et moi, c¸a fusionne, c¸a fond a` cause de la parole, a` cause de la profe´ration, comme on dit, de la hauteur des sons dans le registre123.
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Ibid., p. 60. T. Viel, Cine´ma, cit., pp. 84-85 [e preferisco di gran lunga la regia, la cura del particolare, e la finezza, la finezza che invade lo schermo, questo mi interessa, le luci puntate da ogni parte sui visi, e lo spazio sempre pieno nel modo giusto, gli oggetti e i corpi che disegnano le superfici, e la lingua, l’inglese, che alita nell’immagine e aspira le distanze fra loro due, fra Andrew e Milo, Andrew e Doppler, Milo e Doppler, Andrew e me, Milo e me, tutto si fonde, si compone grazie alla parola, al proferire, come si dice, all’altezza dei suoni nel registro (corsivi miei)]. 123
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La assoluta, apparente casualita` delle considerazioni, cosı` come le ripetizioni lessicali e sintattiche, attestano l’approccio emotivo e affettivo verso il film da parte del narratore, privilegiato anche da Jeanne-Marie Clerc nella sua lettura, ma l’elenco degli elementi compositivi rimanda al catalogo stilato da Astruc, in cui “la regia diventa un momento di pura espressivita`, e l’immagine si trasforma nell’impronta digitale dell’auto124 re” . La citazione di Mankiewicz quasi in fondo al film, lo dicevo sopra, puo` apparire anche come operazione retorica di falso understatement. Ma l’importanza assoluta attribuita al suono non passa inosservata. Il vero elemento di fusione dell’insieme viene identificato nel suono della lingua parlata dagli interpreti, portandoci nuovamente in direzioni diverse da quelle di una rappresentazione della difficolta` della parola a tradurre la specificita` cinematografica e la peculiarita` affettiva che vi e` inscritta dallo sguardo dello spettatore narrante. Questo aspetto e` sicuramente presente, ma e` piu` una premessa che un punto d’arrivo: su questa difficolta` il narratore costruisce la prova che il suo racconto sta avvenendo in ‘presa diretta’ con le immagini del film e dona uno statuto di vivacita` orale alla sua voce. La lingua originale del film gioca, in questo senso, un ruolo fondamentale. Il fatto linguistico rientra a pieno titolo nella finalita` di aderenza al film che il romanzo vuole raggiungere: il narratore ci dice di averlo visto solo una volta in versione francese e che tutte le successive visioni sono state in inglese, inclusa quella che sta verbalizzando per noi lettori. Di qui il ricorso a frequenti citazioni di dialoghi originali, visualizzati in corsivo, con un’alternanza irregolare da una lingua all’altra e alcuni casi di traduzione simultanea dall’originale al francese, in una mimica paradossale della prassi cinematografica dei sottotitoli: sulla pagina si visualizza tanto la battuta detta dall’attore quanto la battuta tradotta nel sottotitolo, cioe` in una posizione peritestuale. Nel plurilinguismo di cui si fa carico, il romanzo si avvicina ad una problematica comunicativa che il cinema ha inscritta nel proprio circuito creativo e produttivo, per la frequenza con cui persone che parlano una lingua diversa si trovano a lavorare insieme ad uno stesso progetto, a partire dagli attori. Il rapporto tra la versione originale e quella doppiata e` anche stato oggetto di tematizzazione nel cinema: si pensi alle paradigmatiche vicissitudini del film Le Me´pris (1963) di Godard, nella cui versione francese i personaggi si esprimono nella propria lingua, mentre in quella italiana, per volonta` del produttore, il doppiaggio ha cancellato ogni differenza idiomatica; ma si 124
Barbara Grespi, Marchi d’autore. Percorsi nel postmoderno, Bergamo University Press, Bergamo 2000, p. 23.
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pensi, altresı`, a uno degli ultimi film di De Oliveira, Un filme falado (2003), che vede conversare attorno allo stesso tavolo quattro persone di nazionalita` diversa, ognuna usando la lingua di appartenenza. L’assunto orale della comunicazione narrativa in Cine´ma non puo` che trovare un’ennesima aporia nel contrasto fra le due versioni del film raccontato, solo apparentemente sanato dalla contiguita` tipografica del francese della voce narrante con l’inglese dei personaggi narranti. Lo scacco del film alla scrittura e` gia` tutto qui, nell’impossibilita` che un testo in lingua francese possa rendere conto delle sfumature della lingua inglese, degli accenti che Milo imita per dare credibilita` al suo travestimento da Ispettore cosı` come delle intonazioni aristocratiche nella parlata di Andrew. Il film, sembra dirci il narratore, potrebbe essere verbalizzato in modo perfetto solo a condizione che restasse in versione originale. L’ipoteca linguistica che pesa sull’esito dell’impresa trova soluzione nel rapporto interiorizzato che la voce narrante vuole stabilire con il film. L’interiorita`, nella disamina che Ong ha fatto delle caratteristiche dell’oralita`, ha un legame particolarmente intenso con il suono. “Sight isolates, 125 sound incorporates” : il narratore di Viel riporta le battute del film in originale per circondarci del suo suono e farci sentire l’impressione di esservi dentro. Se la visione e` un’attivita` sensoriale che disseziona, il suono ha, invece, la peculiarita` di essere unificante; la fusione tra i personaggi del film e il narratore ha il suo corrispettivo nell’armonia del suono anziche´ nell’ideale visivo della distinzione. D’altronde, a conferma ulteriore dello scarso investimento che il narratore fa sulle potenzialita` visualizzanti della parola, il testo sceglie un pubblico di ascoltatori, piuttosto che di lettori. Anche le voci dei personaggi sono spesso descritte nel romanzo: arriva cosı` chiara a noi, come a Tindle, la voce di Wyke mentre registra il suo romanzo in giardino; stridula e tendente al contralto quando diventa isterico o imita la cameriera nell’ipotesi che lo ritrovi legato alla poltrona durante la messa in scena del furto di gioielli; Tindle ha una voce remissiva all’inizio e poi modificata nei toni inquisitori dell’Ispettore Doppler. Ad entrambi fanno eco le voci e le risate degli automi che occupano parte rilevante dello spazio interno nel maniero di Wyke, figure ‘doppie’ nella cui ripetitivita` di gesti e suoni si riflette l’automatismo dei personaggi e dei loro ruoli, nonche´ quella del narratore quando l’impressione di avere un legame intimo e personale con il film si annulla nell’esistenza aprioristica del testo audiovisivo.
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