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Italian Pages 724 Year 1992
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SECONDO
Scrittori, critici e pensatori del Novecento ADELPHI
Sinora dispersi o inediti, gli scritti qui radunati per la prima volta rappresentano il necessario e ideale completamento del celebre Scrittori negli anni: disponendosi lun-
go un arco cronologico che va dal 1917 al 1981, essi spaziano dal dibattito sulla critica e sui critici — primi fra tutti Croce e Debenedetti — alle riflessioni di teoria letteraria e di estetica, e mostrano in manie-
ra lampante il ruolo svolto da Solmi, per oltre mezzo secolo, nell’ambito delle let-
tere italiane e la dimensione europea del suo pensiero. Né va dimenticato il critico militante: lettore sensibile, aggiornato, onnivoro, armato di una non comune capa-
cità diagnostica, Solmi affronta qui in analisi appassionate e illuminanti non solo-gli scrittori italiani del Novecento — alcuni, come Saba, Montale, Bacchelli, già trattati in Scrittori negli anni, altri, come
Svevo e Pirandello, accostati per la prima volta —, ma anche, a testimonianza di
una curiosità che travalica i nostri confini, autori stranieri, fra cui T.S. Eliot, Musil,
Spender, Salinger. Così il Novecento rivive nelle intonazioni e nei giudizi di uno dei suoi interpreti più originali e attendibili — voce indispensabile per chi voglia intendere lo spirito di un’epoca. Delle «Opere di Sergio Solmi» Adelphi ha sinora pubblicato: Poesie, meditazioni e ricordi (t0-
mo primo: Poesie e versioni poetiche, 1988; tomo
secondo: Meditazioni e ricordi, 1984), Studi leo-
pardiani (1987) e La letteratura italiana contemporanea (tomo primo: Scrittori negli anni, 1992),
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SERGIO e La letteratura italiana contemporanea +
TOMO
SECONDO
Scrittori, critici e pensatori del Novecento
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A CURA
DI GIOVANNI
PACCHIANO
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ADELPHI
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© 1998 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO.
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ISBN 88-459-1850-3 e:
INDICE
CRITICI E PENSATORI
Debenedetti: « Saggi critici » Ricordo di Giacomo Debenedetti
Filippo Burzio L'estetica di Tilgher Francesco Flora: «I miti della parola » « Galleria » di Cajumi Ricordo di Arrigo Cajumi « La fede dei nostri padri » Una storia universale della letteratura
Ricordo di Giacomo Prampolini Il Croce e noi Nota 1952 Relazione sulla critica La critica letteraria in Italia « Letteratura e vita nazionale » Nota su Roberto Bazlen Lo stile di Alberti « Vita letteraria del Novecento »
FRAMMENTI DI ESTETICA
E DI TEORIA LETTERARIA Pensieri sull’arte Esperienza e teoria Della costruzione La parola creatrice Sopravvivenza del mito Antichi e moderni
153 153 156 158 160 162
Sulla prosa Caratteri della prosa italiana Stile e romanzo Romanzo e frammento
164 164 166 171
Sulla poesia La poesia oggi Poesia di ieri, oggi e domani Neorealismo lirico moderno Morte e resurrezione dell’avanguardia Come l’arretramento nello spazio... Mi ha sempre disturbato... Ho sempre pensato...
181 181 188 193 195 198 201 202
Sul cinematografo Appunti sul cinematografo Decadenza del cinematografo?
204 204 208
Sulla critica marxista Pseudo-marxismo Materialismo storico
211 211 215
SCRITTORI ITALIANI CONTEMPORANEI
La poesia di Guido Gozzano Arturo Onofri: « Arioso » Corrado Govoni: « La terra contro il cielo »
Giovanni Bellini: « Arciviaggio »
225 232 234
238
Giuseppe Raimondi: « Stagioni, seguite da Orfeo all’Inferno e altre favole » Paolo Buzzi: « Poema dei quarantanni » Pirandello La poesia di Eugenia Martinet Prefazione a 12 poesie C.V. Lodovici: « La donna di nessuno » Tendenze nuove « Oreste » a cura di Pilade Italo Svevo: « Senilità » Nota 1929 Adriano Grande: « Avventure » Appunti sulla poesia di Saba Lorenzo Montano: «Il perdigiorno » Giacomo Prampolini: « Dall’alto silenzio » Giacomo Prampolini: « Segni » Poeti italiani in Francia G. Titta Rosa: «Idilli rustici » G. Titta Rosa: «Pietà dell’uomo »: «Poesia » di Girolamo Comi Piero Gadda: « Mozzo » Giuseppe Lanza: « Esilio - Ritorni » «Donne nella vita di Stefano Premuda » Poesia d’oggi La poesia nel 1938 Tre giovani « Poesie » di De Pisis La poesia nel 1940 La poesia italiana contemporanea « Elegie » di Fadin «Uomini e no » di Elio Vittorini Vittorini: « Conversazione in Sicilia » Un poemetto di Bacchelli Due « Viaggi in Grecia » di Bacchelli Ungaretti e la critica Antologia di Poeti Nuovi Anonimo Napolitano: « Poesia » Nietzsche e D'Annunzio Il grande poeta del naturalismo
Sergio Antonielli Difendo la tigre La tigre viziosa Sibilla Aleramo: «Luci della mia sera » «Poesie » di Alessandro Peregalli Il poeta Blotto Helle Busacca: «I quanti del Karma » Un poeta ignoto Testimonianza su Soffici Arnaldo Di Benedetto: « Graffiti meranesi » Luciano Marrucci: « Luci del sagittario » Oreste Ferrari: « Ariadne » Alberto Vigevani: « Fata morgana » Daria Menicanti: « Poesie per un passante » Giuseppe Mesirca: «Taccuino d’Oriente » Vico Faggi: « Corno alle scale » NOTE SU AUTORI STRANIERI
Volontà classica del Novecento Ortega y Gasset: «Il tema del nostro tempo » Garcfa Lorca: « Romancero gitano » Le nuove ortodossie «Il libro del tè » Musil
Richard Hughes: « La volpe nella soffitta » Salinger: «Il giovane Holden » NOTE
DEL
CURATORE
LETTORE D’EUROPA Indice dei nomi
d2? Giovanni Pacchiano
É
Na
DEBENEDETTI:
«SAGGI CRITICI»
Si è molto discusso, in questi ultimi anni, intor-
no alla funzione della critica nella nostra letteratura attuale, e si è lamentato, da qualche parte, l’ec-
cesso della produzione di articoli e saggi in confronto a quella di opere d’indole propriamente creativa. Troppi giudici, si diceva, in confronto a così scarso numero di giudicati. Si errava, al solito,
nel concepire la critica come un'attività secondaria e accessoria, di cui si potrebbe benissimo fare a meno, e che soli motivi di indole pratica avrebbero portato, nei nostri giorni, a un posto d’onore quale in nessun caso le spetterebbe. Tali lamentazioni non avrebbero avuto luogo, se si fosse posto mente alla reale natura della critica, che non
ha già una
semplice funzione di polizia e di «messa a punto» nel seno d’una letteratura, ma rappresenta la stessa coscienza
riflessa,
ineliminabile,
del processo
creativo nel suo svolgimento. E, senza timor di peccare di soverchio ottimismo verso l’epoca che stiamo attraversando, si potrebbe anche constatare co-
me il diffondersi dello spirito critico, e l’esigenza di portare discriminazioni più rigorose nel fatto 13
letterario, abbiano non poco giovato al tono generale della nostra cultura. Tutt’al più si potranno fare, anzi è bene che si facciano, questioni di qualità,
piuttosto che questioni di quantità, sempre imprecise e poco concludenti. Gli scetticismi contro la critica, che rinascono in
ogni tempo, e sono molto spesso frutto del medesimo spirito critico, condotto a quel punto in cui prende a dubitare della propria validità e necessità, trovano udienza anche presso Giacomo Debenedetti che, nella prefazione alla sua recente raccolta di Saggi critici, si chiede: «Trascorsi gli anni, mutati i gusti e i criteri di giudizio, quando le migliori scoperte e definizioni di un critico, per tornar valide, debbono essere rielaborate in termini più attuali,
cosa sopravvive di tutto il suo lavoro?». E risponde egli stesso: «Ma proprio lo spettacolo, sempre tonico ed esaltante, di un uomo che, con le buone o le cattive, prende per il collo un altro uomo e lo co-
stringe a sputar le sue ragioni». Questo alto senso del fondo caldo e ispirato dell’attività critica, che cela sempre, sotto la schematicità dei giudizi, un’esperienza umana diretta, originale a suo modo
quanto quella puramente artistica, domina in tutti questi saggi, che, apparsi a distanza di tempo su diverse
riviste, rivelano
a poco
a poco
nel Debene-
detti uno dei temperamenti più forti e personali che si siano affermati recentemente nel campo dei nostri studi letterari. Un simile atteggiamento di fronte alla critica, co-
sì delicatamente personale e impegnativo, per cui lo scrittore può addirittura indugiarsi a riconoscere «sotto la trama logica dei propri discorsi un vivo grafico delle proprie avventure d’uomo», non va disgiunto da una facoltà d’alta e sostenuta attenzione, rivolta ad aderire il più strettamente possibile a tutti gli aspetti anche meno espliciti di un’opera. Attenzione che non può tuttavia mai apparire passività, tanto è poi forte nello scrittore medesimo la caUS
pacità di ingranare le impressioni anche più sottili e sfuggenti in un ragionamento inflessibile. A questo proposito è bene dir subito che, per quanto il Debenedetti riveli una salda cultura estetica e filosofica, e, nel suo fondamento teorico, non si scosti
di molto dalle conquiste dell'indagine crociana, egli dimostra ad ogni punto un sano terrore di quelle vacue generalizzazioni, di valore nullo di fronte alla presa di possesso del nucleo vivo di un’arte, a cui ci hanno abituati le ultime reclute della filosofia idealistica. Piuttosto è da notarsi come egli sia portato a convergere tale attenzione dal puro esame estetico a quello psicologico e morale, ma con un
trapasso quasi insensibile e singolarissimo: cioè restando sempre nei confini dell’opera esaminata, senza perder mai di vista il concreto mondo dello stile, e rintracciando incarnate in questo le risoluzioni di quei problemi appunto psicologici e morali che l’artista ha posto, impegnando la vita, a fondamento della propria opera. Anche per questo lato nulla il Debenedetti ha da spartire con coloro che scambiano la critica col ritratto, illudendosi di
trovare le ragioni dell’arte nelle accidentalità della biografia. Piuttosto egli seguirà il cammino inverso, giungendo, attraverso la spiegazione stilistica, a di-
segnare una ideale figura dei suoi autori. Così il valore della lirica del Saba è da lui cercato nel fatto dell’essere questa la sola poesia contemporanea in grado di offrire «direttamente e senza simboli intellettualistici un dono d’anima». E le acute notazioni formali di cui sono intessuti i due lunghi saggi dedicati a questo poeta, più che rappresentare le indicazioni
e gli assaggi dell’uomo
di gusto, sono
organate nel discorso in vista di identificare la qualità morale della sua poesia. Così il «caso Radiguet» gli offre occasione di tracciare, in un saggio peraltro aderentissimo
alla sua materia, un colorito ro-
manzetto critico, il «romanzo dei romanzi» di Raymond Radiguet. Così infine il problema delle «in15
termittences du coeur», che il Debenedetti
ci mo-
stra alla base della Recherche proustiana, non viene a costituire soltanto il meccanismo interno di quella singolare ispirazione, ma si estende a significare il segreto stesso della vita del Proust, e la ragione umana dell’arte in cui quella si risolse esprimendosi. Da ciò discende che il Debenedetti, pur restando
saldamente attaccato allo stile e alle figurazioni dei suoi autori, in modo da offrircene approssimazioni
riuscitissime, in qualche posto addirittura stupefacenti, tanto forte in lui è la capacità di sviluppare e di coordinare, sul piano ragionativo, i più complessi
sistemi d’immagini e di sentimenti, potrà apparirci invece un po’ indifferente di fronte a quella ch'è di solito la preoccupazione finale del critico, ossia di tirare le somme, di tracciare discriminanti fra arte e non arte, punti vivi e passività di una ispirazione. Già, agli occhi d’un simile esegeta, attento a non tra-
dire d’una linea il carattere più individuale e ineffabile delle opere che imprende ad esaminare, e a rifletterlo in tutte le sue sfumature, l’atteggiamento di colui che «giudica e manda», attenendosi, come av-
viene il più spesso, alla pura superficie della pagina, doveva per forza sembrare astratto e rivelare una sorta di mancanza del senso di responsabilità. Non è poi detto che in questo autore un giudizio di valutazione non sia sempre, se non palese, almeno sottin-
teso, se non altro nel modo di scegliere e di proporsì i suoi argomenti. A parte ciò, talvolta verrebbe fat-
to al lettore di augurarsi che il critico spingesse ancora più avanti la sua analisi, nel senso di determinare quel residuo di passività, ineliminabile nella creazione anche più alta, e spesso addirittura neces-
sario nell’intima dialettica d’una ispirazione. La critica «integrale»
del Debenedetti,
che, escludendo
ogni «presa» di superficie, ogni punto di vista esterno, dimostra una capacità prodigiosa di scendere al centro vivo d’un’arte, di impadronirsi del segreto 16
d’un autore, appare meno convincente quando si tratta di delimitare delle zone di riuscita, o di gra-
duare il valore complessivo di un’opera. Un solo esempio:
a questo critico, dotato, come
s’è detto,
d’uno spiccato senso teorico e logico, dovevano per forza mostrarsi le debolezze filosofiche d’un libro comunque assai pregevole, come // gusto dei primitivi del Venturi: egli tenta allora di giustificarlo egualmente «in pieno», situandolo su di un piano diverso da quello scientifico, e facendone l’opera agitatrice di una idealità, di un «mito» atto ad accendere e a
stimolare le forze dell’arte moderna, il mito dei primitivi. A noi pare che questa soluzione, nonostante la ricchezza di riferimenti e di legami che la cultura del Debenedetti è al caso di trovare, tenga qualcosa di astratto e di gratuito, che non era richiesto nelle premesse del saggio. E il richiamo a Nietzsche, se pur fatto con tutte le riserve, non può non sembrare per lo meno azzardoso, tenuto sul filo di rasoio d’un ragionamento tanto abile quanto pericolante. Queste osservazioni non sono tanto volte a delimitare i confini del temperamento del Debenedetti,
quanto ad insistere sulla singolarità del suo metodo, sui caratteri profondamente individuali del suo stile critico. Non si può chiedere ad un albero frutti diversi da quelli ch’egli sa dare. E l’ispirazione critica, se così può dirsi, del Debenedetti, sorge in quel momento in cui un generico giudizio valutativo, la conclusione del critico comune, è già in qualche modo implicita nei suoi esordi. Partendo di qui, egli esplica il suo compito come una risoluzione, sul piano lo-
gico e riflesso, del mondo dello stile e delle figurazioni di un poeta. E la mano
sicura, la precisione
quasi chirurgica con cui egli riesce a frugare nelle pieghe più nascoste dell’animo e dell’arte di uno scrittore, organando le sue scoperte in un ragionamento che non smarrisce un solo istante la sua alta lucidità, senza tradire mai la piena aderenza alla sua
materia, sono veramente mirabili. Questa sicurezza
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di svolgimento, non mai disgiunta dal più severo senso di prudenza e di responsabilità critica, era già palese nei primi saggi, pubblicati dal «Primo Tem-
po» di Torino (1922), sul Michelstaedter e sul Cro-
ce, che ritroviamo oggi nel volume: ancora un po’ grigi e sordi, in confronto alle felici pagine posteriori, ancora forse difficoltosi e poco spaziati, ma dove la sapienza d’analisi e l’adeguazione del tono critico sono già pienamente ravvisabili, e tali da offrirci una giusta misura dell’inevitabilità e della forza propria dell’inclinazione
mentale,
profondamente
sui generis, di questo scrittore. Ma, per apprezzare meglio tali qualità, portate in un’atmosfera più sciolta e colorita, dove l’analisi giunge a soffondersi di delicate emozioni, e il discorso riflesso ha ormai poco da invidiare all’arte, occorre leggere i grandi saggi che occupano la parte centrale del volume, dedicati al Saba e al Proust: e particolarmente questi ultimi. Se la poesia del Saba, di cui il Debenedetti è stato fino
ad oggi il primo e più deciso assertore, è stata per lui la posizione di un problema interessante ed arduo, tale da tentar il suo amor proprio di critico, la felice scoperta di una ricca materia poetica, dove l’essen-
zialità lirica non esclude la persistenza delle più complete sfumature psicologiche e di una visione morale della vita acerbamente
delineata, l’incontro
col Proust costituiva addirittura una di quelle esperienze che appaiono decisive nella vita di uno scrittore, e capaci di offrirgli, come in uno specchio, un
suggestivo riconoscimento delle proprie possibilità, e una rivelazione di quelle attitudini ancora implicite, che aspettano forse soltanto un’occasione propizia per fiorire e definirsi in luce. E impossibile riassumere questi tre lunghi saggi (Proust 1925, Proust e
la musica, Commemorazione di Proust), che sono stati
riconosciuti giustamente fra i più acuti che possa vantare in tutta Europa la vasta letteratura critica sorta in questi anni attorno all’opera del grande romanziere. Ch’io sappia, spetta al Debenedetti il me-
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rito d’aver superato le parziali spiegazioni che si son date volta per volta della Recherche — sia facendone una gigantesca autobiografia mascherata, o il ritratto di una società in un dato periodo storico, alla Saint-Simon,
sia eccessivamente
insistendo
sulla
esteriore novità del Proust e del suo apporto psicologico e morale — e di averci richiamato, attraverso una interpretazione ardita quanto esatta, a quello che forma il centro, la molla segreta dell’ispirazione proustiana, che deve invece ricercarsi in un clima del tutto soggettivo e disperatamente individuale. Il fenomeno psicologico delle «intermittenze del cuore», quale fu descritto dallo stesso Proust, non è soltanto, secondo il Debenedetti, l'elemento che dona continuità e unità al vasto romanzo, non è soltanto
la caratteristica essenziale del suo protagonista, portato a ubbidire passivamente a tutti gl’«inviti» della memoria inconsapevole, ma rappresenta anzitutto il
modo operativo della ispirazione proustiana, la sollecitazione unica che spinse la mano dell’artista al grande lavoro. Una simile interpretazione, com'è chiaro, non intende sostituirsi alle altre che via via
vennero date dai maggiori critici francesi della Recherche, ma piuttosto spiegarle nella verità ch’esse contengono,
scendendo
più al vivo, in quella zona
ideale dove il mondo delle figurazioni di un poeta è ancora «in nuce», e perciò rivela a nudo, insieme alle sue infinite possibilità, la ragione, e, per così dire,
la linea del suo formarsi. Questa di individuare il nucleo germinale di una poesia, che è una delle mire
più ambiziose e difficili della critica moderna, è stata raggiunta dal Debenedetti con singolare successo per quanto riguarda il Proust, tanto riescono persuasive e profonde le sue pagine su tale argomento. Con questi accenni vorremmo anche aver illuminato, per incidenza, quanto si è detto al principio dell’articolo sulla severa concezione che il Debenedetti ha del compito critico, sull’impegno vivace e quasi personale ch’egli assume di fronte alla disamiDI
na dell’opera d’arte. Qualcosa del suo credo letterario troviamo nella prefazione, qualcosa nello studio che chiude il volume, dove, traendo pretesto da un
saggio del De Sanctis, egli analizza, su terreno psicologico, i sottili rapporti che intercorrono fra critica e autobiografia. Questione, come egli dice, «che
in teoria si elimina facilmente. Ma in pratica, come accade per tutti i problemi ai quali non si soddisfa che col fare concreto, le soluzioni che ne sono state
escogitate portano in sé la condanna di essere irripetibili». Così egli osserverà che «ogni degno critico ha in mente un suo ideale di “prosa”, non meno toccante per lui di quanto sia la movenza del verso o intonazione del dettato per il poeta: una prosa sostenuta sulle nervature sostanziose del ragionamento, e, insieme, sensibile alla varietà autobiografica di chi
la scrive. Il quale, nell’apprezzamento e nel giudizio dell’arte, porterà il timbro specifico ed incomparabile della sua personale esperienza di vita». Questo timbro personale e inconfondibile rivelano anche i saggi del Debenedetti, la cui materia si inserisce profondamente nel terreno di esperienza umana del loro autore: qualora tale esperienza s’intenda più che altro come esperienza mentale, senza intru-
sione, almeno diretta, di quei motivi autobiografici esterni che si dimostrano quasi sempre ambigui ripieghi e pretesti. E qui, se non mancasse lo spazio,
sarebbe interessante esaminare quanto nella maniera critica del nostro maggiormente aderisce all’esperienza diretta e al sentimento, e fa sì che le sue
migliori pagine si coloriscano di significati non solo strettamente
critici, almeno
quanto
ci apparvero,
per converso, ricchi di qualità analitiche e riflessive i racconti che, del medesimo
autore, leggemmo in
Amedeo (Edizioni del Baretti, 1926). Lo stile del Debenedetti, dal ritmo ancora un po’ faticoso dei pri-
mi saggi, è passato, nei successivi, a modulazioni più leggiadre e sapienti che sanno discendere senza salti apparenti dal tono incalzante alla ricerca più ar20
dua e difficile a quello riposato e garbato in cui il discorso fiorisce di immagini familiari e poetiche, di
quella poesia che l’autore medesimo ha riconosciuto propria del critico. La facoltà di intensa e sostenuta attenzione di fronte al suo oggetto, che c’è parsa una delle caratteristiche più rare e singolari dell'ingegno del nostro, s’incorpora in una frase lunga, flessuosa e musicale,
atta a seguire in tutti i suoi
meandri il ragionamento folto e complesso, e a svolgere in luce le linee più delicate e recondite del pensiero dei suoi autori. Anche di questa frase potrebbe dirsi, in un certo senso, ciò ch’egli dice di quella del Proust, in cui «si sorprende quasi sempre, nella cadenza, lo scatto del polso che, rovesciando la mano,
porta la preda ormai rassegnata alla sua dolce cattività, dall’ombra alla luce». Ma le singole notazioni appaiono poi svolte nel ragionamento come in un organismo unico ed inscindibile. Anche le soluzioni del Debenedetti hanno dunque «la condanna d’essere irripetibili», al pari d’ogni risultato effettivo di pensiero, la cui validità è
raggiunta sempre e soltanto attraverso un’espressione dove si solidifica, ogni volta, una lunga, tormen-
tosa esperienza individuale. Liberi poi di pensare il contrario i partigiani di certa critica a base di formulette, i quali, per esser saliti sui trampoli dell’Estetica, si immaginano di vedersi aprire senza fatica
tutte le porte. Il più forte insegnamento che ci offre il Debenedetti— che, per quanto giovane, è in grado di proporne — è l’esempio d’appassionata serietà morale con cui, eludendo ogni sterile giochetto teorico, ogni velleità di ricami esterni all’opera, egli af-
fronta il suo compito di critico come un seguirsi di esperienze sempre nuove e incomparabili, dove impegnare per intero le sue risorse di scrittore. 1929
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RICORDO DI GIACOMO DEBENEDETTI
Ho conosciuto Giacomo Debenedetti nel gennaio 1918, a Torino, durante una licenza militare, a una conferenza, che egli, giovinetto, teneva alla «Lega
Latina», assieme a Jean Luchaire. Non rammento quale fosse l'argomento della conferenza (cos’è rimasto in noi, fuor di uno sbiaditissimo ricordo, dell’ingenuo interventismo liceale di quegli anni?), ma
mi durarono nella memoria la precisione, la forbitezza del dire, che rivelarono a noi press’a poco coetanei, nel futuro autore
dei Saggi critici, oltre allo
scolaro modello, una sorta di enfant prodige. Ci ritrovammo, a guerra finita, sugli stessi banchi
universitari (Giacomino si laureò in legge, prima di laurearsi in lettere), ma, fin da quell’epoca, i suoi in-
teressi erano già inequivocabilmente letterari. In quegli anni del primo dopoguerra Torino si stava aprendo a una pienezza di vita intellettuale che contrastava col sostanziale provincialismo dell’epoca precedente, e di cui le nostre adolescenze, che miravano appassionatamente a Firenze o a Parigi, avevano sof-
ferto. Fu allora, e precisamente nel 1922, che un nostro
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piccolo gruppo diede vita alla rivistina «Primo Tempo», di cui uscirono pochi numeri. Essa, pur essendo sorta in modo autonomo, veniva naturalmente a
inquadrarsi nel più vasto movimento cui aveva dato inizialmente vita Piero Gobetti prima con «Energie Nove», poi con «La rivoluzione liberale». Nel nostro
ambiente, l’antifascismo fu subito nell’aria anche se
non ci riuscì facile trovare la saldatura fra gli interessi letterari e la protesta politica. L'atmosfera era confusa, l’incertezza dei destini personali si confondeva con quella, nebbiosa, del destino storico.
Il nostro sodalizio durò pochi anni, ma coincise col periodo più delicato delle nostre formazioni. Poco più tardi la vita ci separò, e la nostra amicizia si limitò a brevi incontri e rapporti epistolari. A poco a poco, gli anni torinesi si isolarono luminosi nel ricordo. Rammento le nostre serate nell’accogliente casa di corso San Maurizio, dove convenivano i col-
laboratori di «Primo Tempo» e gli ospiti di passaggio. Lo stesso Debenedetti, nella prefazione alla ristampa dei suoi primi Saggi critici, lasciò scritto: «Mattini dell’Università di Torino, dei quali posso testimoniare di persona: sotto i portici del cortile, vaporassero le nebbie dell’inverno col loro sapore di seltz, o il sole degli aprili o dei maggi levigasse di ceruleo le colonne, o fiammeggiasse quello estivo dei giorni d’esame, chi ora con la macchina del tempo potesse tornare a quei mattini sentirebbe di che cosa si discorreva: Croce e Gentile, Gentile e Croce, il
grande duello: e il criterio per molti di noi preponderante consisteva nel vedere quale di quei concetti in lizza sapesse meglio illuminare le vie dell’arte». E non solo Croce e Gentile, ma anche Bergson, Wil
liam James, Thibaudet: più che mai allora, soprattutto a Torino, si respirava un’aria europea. Rammento altresì di avere assistito all’incontro,
determinante, di Giacomino con l’opera di Proust: se il ricordo non m’inganna, di avergliene persino anticipato l’affinità che egli vi avrebbe riscontrato 23
con se stesso. Incontro destinato in qualche modo a fondere una giovanile disposizione di narratore con la vocazione del critico. E che mai sono i racconti di Amedeo e altri racconti (di cui il principale, Amedeo, ha rivisto di recente la luce), altro che saggi critici, quella volta ricavati sulle pagine di psicologia fluttuante che offrono le ipotesi anonime della vita ancora informe? Strano, i due spiriti più affini a Proust che mi sia
stato dato d’incontrare non sono quelli di romanzieri, bensì di due critici, Spitzer e Debenedetti. Il primo, sul piano formale, sintattico, semanticamente caratterizzante. Il secondo, su quello evocativo, com-
memorativo, poetico: lo stesso spirito di mondanità autobiografica e storica che aleggia nella Recherche, trova, in Debenedetti, una sorta di equivalente criti-
co in quell’alta mondanità intellettuale che indugia così spesso in un gioco compiaciuto ed elegante di metafore culturali e di accostamenti fra antiche e nuove pagine, aneddoti e pensieri, spesso fra loro remoti, col medesimo effetto sostenuto divagatorio. Oggi, in cui si compie l’anno dalla morte di Giacomino, mi vien fatto di pensare che avrà forse inizio il tempo di una più esatta valutazione dell’opera sua, ai cui scarsi volumi presto si aggiungeranno, speriamo, inediti e scritti non ancora raccolti. Se dovessì indicarne una qualità, che la rende rara e difficilmente comparabile, azzarderei una antica e nobile parola: fedeltà. Debenedetti non era una natura polemica. Nelle sue pagine, lo vediamo talora giocare disinvoltamente con le idee, ma sempre con un certo distacco: assunte ogni volta sotto quel determinato taglio in cui tutte possono mostrarsi vere, come le sfaccettature molteplici di un’unica vaga, can-
giante, indeterminata idea. Curioso di novità, lo abbiamo visto spingersi fino all'orlo della neo-avanguardia o fino all’orlo del marxismo: quasi pacata ricerca di nuovi elementi armoniosi di un quadro. Quanto al comunismo, posso 2
testimoniare di una simpatia giovanile, di carattere tutto ideale, che andava anche al di là delle nostre
lontane frequentazioni gramsciane e gobettiane. Questo gli consentirà, tanti anni più tardi, di riconoscersi comunista, ma in una zona che parve sottrarsi ai travagli, ai ripensamenti, ai casi di coscienza
e alle conversioni di cui ci hanno dato esempio tanti intellettuali comunisti dagli anni del dopoguerra in poi, impegnati più di lui nel denso farsi dell’accidentalità storica e cronachistica. Questa serena stabilità di prospettive fondamentali era resa possibile, in lui, dalla fedeltà originaria
cui abbiamo accennato, sempre mantenuta attraverso le mutevoli curiosità. Il suo Croce, trascurato, forse, nella sua costruzione sistematica e nelle sue difficoltà dialettiche, ma assunto a modello di umanità,
di stile e di una idea generale della poesia; il suo Proust, con le singolari affinità di cui si è detto, e su
cui ritornò fino agli ultimi tempi; il suo Saba, che probabilmente lo iniziò alla contemporanea poesia italiana, prima ancora di Ungaretti e di Montale, e che veniva incontro, come Proust, al suo gusto per la
psicologia, per le calde, sfumate, ambigue penombre del sentimento. Della ragione delle sue predilezioni critiche, cui restò fedele per tutta la vita, Debenedetti ci ha lasciato, al solito indirettamente, la chiave in un breve scritto, Critica ed autobiografia, dove, a proposito del
tardo saggio desanctisiano su Leopardi, dimostra il sottile incidere, nella stessa critica più posatamente obiettiva, di una storia personale. La qualità propria del critico Debenedetti sfuggirà sempre a chi vorrà inquadrarla nella rigidità di sviluppi metodologici di una ipotetica storia della critica italiana contemporanea. La si definirebbe tout court, tanto per la presenza, pur inconfessata, del sottofondo autobiografico, quanto per l’attitudine a sviluppare e in qualche modo drammatizzare l’interiorità dei suoi autori, la critica di un artista, se non vi fosse sempre così
BI
presente lo scrupolo di verità documentale, testimoniata dai riferimenti e dai legamenti di una cultura amplissima, chiamata di volta in volta a far convergere le più diverse luci sul fatto letterario di cui tratta a quel momento. La critica di Debenedetti venne una volta, dal Gargiulo, definita «psicologica», e tale, sia pure in
un’accezione un po’ particolare, essa rimase, e ciò non solo per quel suo rivivere dall’interno, come abbiamo accennato, la vicenda intima dei suoi prota-
gonisti, ma anche per il suo istintivo sottrarsi alle qualificazioni,
distinzioni
e graduazioni
di valore,
peraltro essenzialmente enunciate o adombrate nella scelta stessa delle opere e degli scrittori. E qui che egli più si discosta dall’esempio del pur venerato Croce. Certo, il lettore può talora rammaricare
che, nei
suoi periodi di appassionata «critica militante», egli sembri essersi sprecato su occasioni minori o minime, laddove un così sensibile strumento avrebbe po-
tuto cimentarsi in altre prove all’altezza delle sue maggiori. Ma si dimenticherebbe, in tale rimprovero, che per nessuno, come per Debenedetti, la «cosa letteraria» costituì una dimensione intera, non solo intellettuale, ma vitale, collettiva, corale. Anche a
proposito di quelle occasioni minori, egli non mai deflesse dallo scrupolo della verità umana e circostanziale, se pur non sempre poetica o letteraria. Anche questa larghezza fece parte dei suoi modi, della sua attività di maestro, quale si esplicò non solo nell'insegnamento universitario, ma anche nelle minori occasioni delle relazioni e premiazioni letterarie. Direi che questa intensa, totale, assorbente passione riscatto, in Debenedetti, anche quel lato «mondano» — questa volta di mondanità letteraria — per cui l’abbiamo già avvicinato, sia pure su un diverso piano analogico, al suo Proust. Nel settore più alto della sua azione per la cultura, rimane altresì la
sua opera intensa e instancabile di consulente edi26
toriale, in cui poté esplicare appieno, in un tempo più favorevole, quel compito di apertura di sempre più ampie e ariose finestre, sull'Europa e sul mondo, che era stato uno dei sogni dei nostri antichi anni torinesi. 7
1968
27
FILIPPO BURZIO
Non è semplice definire una figura di scrittore come quella di Filippo Burzio, il quale appartiene ad una famiglia di spiriti assai rara da noi, che appaiono come incerti tra fantasia e pensiero, e non mo-
strano di concepire l’uno e l’altra che strettamente legati da un palese fondo autobiografico. Soltanto,
quella che a prima vista può parere incertezza, sì rivela in seguito come una singolare unità: il pensiero, colto nella sua viva formazione psicologica, non rinuncia a quegli accenti lirici che ne accompagnano sempre la nascita, e ne coloriscono gli sviluppi antecedenti alla sua fissazione nelle formule e negli schemi sistematici. E un lirico del pensiero? è un moralista? uno storico? La difficoltà di assegnare il Burzio ad una qualsiasi delle tradizionali categorie di spirito pensanti non toglie ad ogni modo nulla dell’acuto interesse che la sua opera ci desta. Tanto più che egli, come pochi, ha una sua fisonomia caratteristica, e, sotto i diversi aspetti del suo talento, l’unità è data
da un complesso e coerente sistema d’opinioni e di giudizi. Sia nelle figure di scrittori e di politici dise28
gnate con mano esperta nei Ritratti, sia nelle ironiche divagazioni naturali dell’Inverno, sia infine nel lungo Discorso sul demiurgo, si esprime il medesimo problema vissuto, che è quello dell’autore stesso e dei suoi rapporti con il mondo. Sulla soglia di uno di questi libri egli ci indica quali furono i suoi primi maestri: Rousseau, Goethe, Bergson, Croce e Pareto; e se l'accostamento di tali nomi può sulle pri-
me lasciar perplessi, non abbiamo che a riferirci alla nostra stessa storia intellettuale per trovarne di assai più contrastanti, se non sempre altrettanto sicuri. Così la commossa autobiografia spirituale tracciata dal Burzio nel saggio dedicato appunto a quei maestri ci dà alcune delle pagine più convincenti ch’egli abbia scritto. Piemontese, nutrito di cultura
europea come in ogni tempo molti dei suoi corregionali, uomo di scienze esatte e pieno insieme d’acuto interesse per i grandi movimenti storici e sociali, la sua formazione non poteva essere più aliena da quella esclusiva considerazione del fatto letterario che è, oggi ancora, caratteristica della mag-
gior parte dei nostri scrittori. Ciò si rivela anche nel classicismo un po’ primitivo delle sue prose liriche, i cui canori abbandoni risentono qua e là di durezze tutte piemontesi, e come di una leggera approssimazione retorica, propria dell’uomo intento a trasferire in immediata forma poetica ciò che forma il nocciolo più umano e ispirato delle sue esperienze morali. Non è possibile parlare separatamente dei due libri, che appaiono frutto d’una medesima stagione intellettuale, e a loro volta non fanno che continua-
re i due aspetti che già conoscevamo del loro autore: il fine politico del saggio su Giolitti e il viaggiatore sentimentale di Ginevra - Vita nuova, apportandovi in più il singolare contributo di una predicazione morale eroica e goethiana, diretta a determinare un
concetto moderno e attivo della «felicità». Noi consiglieremmo ad ogni modo il lettore di affrontare 29
prima il libro dei Ritratti, il quale, portandolo nel vi-
vo delle esperienze culturali del Burzio, lo introdurrà meglio nel complesso di idee che, frutto di tali esperienze, lo scrittore ha svolto nel Discorso sul demiurgo. I «ritratti» di Machiavelli, di Rousseau, di Talleyrand, ravvivati da una sottile ironia, sono riuscitissi-
mi, oltre che aggiornati sui migliori e più recenti studi. Vilfredo Pareto nel suo romitaggio svizzero, Bernard Groethuysen a spasso per i viali di Pontigny, colti con pochi tratti incisivi, durano anch'essi nel ricordo. Ma si leggano ad esempio, per rendersi conto delle facoltà interpretative del Burzio, queste righe sulla personalità stilistica dello stesso Pareto: «A ogni istante, inquadrati in un disegno sintetico di cui l’avvenire non farà che mostrare di meglio in meglio le grandi linee (pur se poco o molto vi sarà di caduco), il più invasato spirito polemico, le uscite più estravaganti sprizzano dalla rupe concettuale, fecondando oasi di comiche digressioni, e di piacevoli eccessi. Non sono le risorse dello stile (che egli era anzi scrittore aspro e faticoso): è la punta delle idee, sopratutto la spregiudicatezza e la causticità dei sentimenti. Ricorda quei mitici signori ancien régime, gente più di spada che di penna, i quali esprimevano in un francese approssimativo i propositi più eterodossi». Le note sulle Origines de l’esprit bourgeois en France del Groethuysen,
e sul Borghese di Sombart, ispirate
alle fondamentali
preoccupazioni sociali e morali
del Burzio, pensoso dei destini dello spirito moder-
no e della civiltà capitalistica, sono anch'esse assai significative e calzanti. Ma a dimostrare quanto sia sottile il suo fiuto anche nello scoprire e nell’anticipare nuove correnti di pensiero, sviluppi di cultura anco-
ra in fieri, sta l’interessante saggio finale sul libro del Meyerson, De l'explication dans les sciences, dove egli osserva come
il lato debole
dell’idealismo
moderno,
quello da cui prenderà le mosse una prossima revi30
sione, provocandone la crisi, consiste appunto in una mancata o insufficiente soluzione del problema della Natura, quello stesso attorno a cui tanto si affaticò, ed invano, la mente dello Hegel. In altre parole, il problema del valore conoscitivo della Scienza,
negato come sì sa dal Croce, sulle orme degli spiritualisti francesi. Anticipazione critica esattissima, tanto più che il Burzio sembra rendersi conto di come una tale obbiezione non si restringa soltanto alla semplice gnoseologia delle scienze, ma investa lo stesso problema della conoscenza in generale, esigendo anche questa volta una soluzione idealistica e unitaria che, non più eludendo la formidabile questione, giunga ad una coscienza più ricca e compiuta dell’intera realtà umana. Di solito il Burzio si dimostra compreso di argomenti più immediati e terrestri, come sono quelli inerenti alla nostra faticosa vita economica e sociale,
sicché difficilmente ci accadrà di vederlo prendere un giorno il volo nel cielo delle idee pure. L’eternità gli appare avvolta in un delicato velo di nostalgia mistica e poetica, che è bene non sollevare per farne oggetto di dialettiche speculazioni. La Natura, questo meditativo passeggiatore alla Rousseau, non sa concepirla che permeata della nostra stessa vita umana, volto segreto e pur familiare dello spirito. Nelle pagine dell’ Inverno, dove la prosa sale al ritmo, il paesaggio e la stagione si mostrano quasi unicamente a sostenere e a colorire arguti vagabondaggi intellettuali, in cui la riflessione si smarrisce continuamente per ritrovarsi, e le idee accarezzate nella solitudine, ancora implicate nella rete dell’esperien-
za viva del pensatore, diventano oggetto di variazioni scherzose o patetiche. Da questo senso fantasioso e poetico della realtà umana, della sua cultura, di cose storiche e sociali, e
infine da quel suo ottimismo attivo proprio dell’uomo inteso a vivere nella piena immanenza e attualità della storia, e a giustificarne e a chiarirne il segreto Dl
spirito, è derivata al Burzio l’idea, disegnata nel suo «demiurgo», di un tipo umano superiore dove tale spirito si trovi potenziato, riscattando i suoi stessi eccessi e lati negativi, e trovando finalmente il suo equilibrio. Insomma, nel campo pratico e morale, qualcosa di simile a quanto ha tentato il Valéry, nel suo campo rigorosamente intellettuale, col suo signor Teste e col suo Leonardo. In questo caso, quanto di troppo orgoglioso sembrava inerente all’assunto, è stato corretto nel Burzio da un sottile tono eroicomico e bonario, che si rivela anche nel leggero arcaismo della forma di «discorso» da lui scelta, e tra-
pela qua e là sotto l'accento di commossa e quasi mistica convinzione che anima il suo scritto. In sostanza, l’idea più ricca e nuova del saggio è «che il mondo moderno debba ancora costruirsi, o inventarsi, la propria felicità». La follia, da un lato, dell’«azione
per l’azione» di cui ci dà spettacolo la società capitalistica giunta all’acme del suo sviluppo, i progressi dello spirito critico dall’altro, che hanno intimamente corroso gli elementi mitici e mistici che sostenevano un tempo la fede nella vita e gli scopi dell’agire, indicano, secondo il Burzio, una profonda crisi nella civiltà contemporanea, alle cui élites intellettuali egli
propone come rimedio il modello di cui sopra s’è parlato. Ma la polemica del nostro autore, occorre appena notarlo, non è mai sterilmente negativa, né peccante di soverchia logica avvocatesca, com’è quella recente, per altro opportuna e ingegnosa, di un
Benda. Anche qui il senso della realtà concreta e storica ha salvato il Burzio. Egli intende come il fondo della civiltà presente non possa essere soltanto negativo, egli subodora quanto di letterario e di estetizzante, 0, peggio, di calcolato, si nasconda spesso sot-
to le facili condanne e sotto i cosiddetti «ritorni» politici o religiosi. Il suo «demiurgo» non vuole esiliarsì in un chiostro, ma vivere più altamente la stessa realtà che lo circonda, ritrovare una nuova univer-
salità di cultura al di sopra delle specializzazioni che 32
minacciano l’integrità del pensiero moderno, salvare la continuità e intimità del proprio spirito col «distacco» delle passioni, e infine, riacquistata la smarrita poesia dell’azione, assumere la vita in un’atmosfera religiosa e magica, «goethiana». Se si può fare un appunto a questo Discorso, che in un altro paese più sensibile a tale sorta di problemi avrebbe indubbiamente destato numerosi echi e polemiche, è per quanto riguarda la singolarità dell’esperienza cui esso s’ispira, tale da fare del «demiurgo» un solitario modello di perfezione, che, come è
più o meno sorte di tutti i modelli, finisce con l’incarnare le aspirazioni particolari del suo inventore più che raggiungere quella validità universale che era nelle premesse. Forse anche l’assillante preoccupazione di aderire all’attualità storica, che diventa a momenti per il Burzio posizione di un problema astratto, contribuisce a limitare un poco la por-
tata del suo insegnamento, pur profondamente religioso e virile. Forse un’estrema punta di scetticismo verso le apparenze della storia che si svolge nel tempo, e un più vivo richiamo a quella «storia perenne» che si rinnova ad ogni attimo in noi, attraverso l’intrico delle nostre passioni e dei nostri errori, avrebbe ancora ampliato la «moralità» del saggio, svelan-
do, sotto la potenza e l’equilibrio raggiunti, l’umile ma eterno e necessario contrasto umano da cui soltanto può germogliare anche la virtù più alta, sotto la figura ancora un po’ astratta e caricata del demiurgo, l’uomo.
O questo senso di sottile insoddisfazione, che rinasce a tratti nel lettore dopo di esser stato intimamente preso dalle pagine eloquenti e ricche d’idee, non è forse dovuto ad un’ultima insormontabile difficoltà ad aderire a quella forma di felice pienezza, «ove, inventando, l’attività si basta», che l’autore, in
qualche commossa frase del suo discorso, ci lascia intendere d’avere almeno in parte conquistata? Può darsi. Distacco dalla vita pur vivendo nella vita, «re33
stare nel tempo, ma con animo eterno», anche l’an-
tica saggezza di Marc’Aurelio, sebbene più amara, ammoniva alcunché di simile, e non perciò abbiamo ancora imparato a digerire il difficile cibo. 1929
34
L’ESTETICA DI TILGHER
Da qualche tempo si nota, nel campo degli studi estetici, un vivace rifiorire di discussioni e di polemi-
che attorno all’opera del Croce. Alle caute obbiezioni e integrazioni della critica «militante», la quale
ebbe a subire l’influsso del pensiero crociano più come esigenza d’alta cultura e chiarificazione di problemi particolari che come vero e proprio organismo sistematico di pensiero, succedono ora le reazioni dei filosofi professionali, le quali, in luogo di
poggiare, come quelle dei critici, sull’eccessivo rigor teoretico e la difficile adattabilità di qualche parte del sistema, s'inseriscono proprio sulle fratture dia-
lettiche, sui passaggi irresoluti o insufficientemente risolti del sistema
stesso, tentando di minarne la
compagine ab îmis. Di fronte a questo apparato di forze scese in campo, verrà probabilmente fatto al buon crociano di nutrire qualche apprensione. Non del tutto fondata però, ove si rifletta che, in fondo, nessuno ha mai creduto all’infallibilità canonica del Croce, sia pure
in sola materia d’estetica, e nemmeno i suoi più passivi applicatori. Né tampoco il Croce stesso, il quale, 29)
come
si sa, non ha mai cessato di rielaborare e di
correggere il suo pensiero estetico nella sua primitiva formulazione: e a cui non può forse muoversi che l'appunto di nascondere troppo spesso al suo lettore, sotto la compiacente pàtina logica, le incertezze,
le sistemazioni provvisorie e i punti oscuri, che comunque indirettamente ci ‘testimoniano della vitalità tuttora attuale della sua speculazione. E ove si consideri pure, come qualcuno sembra dimenticare, che la forza di una filosofia non consiste soltan-
to nel sapersi costringere in un’armatura dialettica inattaccabile — e il pensiero umano del resto non conosce posizioni in senso assoluto inattaccabili —, ma
soprattutto nel suo potere di permeare profondamente una cultura, di offrirle un senso e una dire-
zione. L'importanza e la fertilità del pensiero crociano non si sono infatti circoscritte all’arido campo della filosofia specializzata, ma hanno intimamente pervaso, sia nella teoria che nelle particolari esem-
plificazioni, tutto un trentennio della nostra vita culturale. Tanto vale a dire che le critiche che oggi si appuntano sull’opera del Croce possono aver bensì valore di obbiezione
e di una riproposizione, sem-
pre giovevole, di nuovi dubbi e nuove soluzioni: ma non vengono ad intaccare ciò che forma la più viva esigenza, ancora insuperata, del pensiero crociano. In altre parole, anch'esse, in quanto siano fondate, si svolgono sulla stessa linea di quel pensiero, partono da lui.
Lasciando ora ad altri di giudicare quali nuovi motivi portino, ad esempio, le recenti speculazioni di un
Gentile, questa Estetica di Adriano Tilgher servirà a chiarire il discorso fatto sopra. Il Tilgher è uno di quegli scrittori che vorremmo chiamare eminentemente «sintomatici», essendo fra i più pronti a riecheggiare e a formulare, spesso a mezzo di sintesi generali assai efficaci, i movimenti di cultura ancora in fieri, e, per usare il titolo d’una sua vecchia raccolta, le «voci del
tempo». «Voci» che hanno sempre contribuito non 36
poco al formarsi del suo pensiero teorico, segnandone le frequenti oscillazioni, dal primo fichtismo rammodernato al recente irrazionalismo e idealismo relativistico. Tutti sanno, ad esempio, come il teatro di Pi-
randello non abbia solo trovato in lui il suo primo banditore e propugnatore di qualche risonanza, ma anche il suo autorizzato interprete filosofico. Temperamento di loico e di viaggiatore in idee, ondeggiante tra la filosofia e il giornalismo, le sue preoccupazioni ideologiche ce lo poterono per qualche tempo avvicinare a scrittori del tipo di Missiroli, come un Missiroli meno agile ma più convinto e conseguente. Era dunque inevitabile che il suo pensiero
estetico tenesse, al pari della sua critica letteraria, di
quella sua formazione tutta mentale: e il suo primo concetto dell’arte intesa come originalità, svolto nel-
la introduzione agli Studi sul teatro contemporaneo, rivelava a suo fondamento certe prospettive d’ordine addirittura sociologico, una attenzione così insistita, parlando d’arte, all’astratta novità del «contenuto»,
inteso come generico e collettivo «spirito del tempo», da situarle assai in disparte dal flusso del pensiero estetico che s’andava elaborando soprattutto nei critici liberamente educatisi alla scuola del Croce, e intenti ad acquistare, attraverso un’analisi formale
sempre più rigorosa e aderente, una più precisa coscienza del fatto artistico nella sua concretezza. Anche il suo principale canone critico, diretto a rintracciare, nelle opere d’arte, il problema e l’«idea centrale» animatrice, diceva in modo abbastanza chiaro
che l’interesse dello scrittore sconfinava dall’arte intesa come arte all’arte intesa come filosofia e docu-
mento spirituale d’un’epoca. Sarebbe però ingiusto non voler riconoscere che in questo libro il pensiero del Tilgher si sia andato notevolmente affinando, in modo da giungere ad alcuni svolgimenti importanti e meritevoli di discussione. Anche il Tilgher comincia col prendere assai vivacemente posizione contro il Croce: ed è certo
524
ch’egli ha saputo dirigere la sua critica proprio sul principale punctum dolens dell’estetica crociana, ossia su quel concetto della «catarsi», del rapporto fra sentimento e intuizione, attorno a cui il pensiero del
Croce s’è così tormentosamente esercitato senza essere ancora riuscito a darne una esauriente e precisa formulazione. Com’è noto, dalla primitiva identità del tutto immediata e passiva di intuizione espressione, definita nella vecchia Estetica, il Croce è
passato in un secondo tempo all’idea d’uno sviluppo, di una sintesi dialettica di contenuto e forma: il
«contenuto» cui l’arte è chiamata a dar forma, fu da lui additato una volta nell’effettivo sentimento pratico dell’artista, inteso quest’ultimo come i fatti volitivi còlti al loro formarsi ancora determinato, al loro
stadio di semplici velleità, aspirazioni e desideri su cui la volizione ha ancora da esercitare la sua scelta. In saggi successivi egli si adoperò a maggiormente differenziare il comune sentimento pratico da quello propriamente estetico, oscillando fra una conce-
zione dell’arte come assunzione del sentimento individuale e pratico a sentimento universale e cosmico, e un’altra che sembra fare dello stesso sentimen-
to cosmico il presupposto della visione estetica. Il Tilgher si sofferma sulle difficoltà e le antinomie logiche di questo pensiero: o l’arte è il semplice rispecchiamento, la semplice «traduzione» d’uno stato d'animo già formato praticamente, e allora da essa dilegua il carattere di attività e di creazione su cui il Croce d’altro canto insiste. O l’arte è effettivamente creazione, e allora il sentimento pratico non
ne è più il presupposto necessario, ma al massimo il dato occasionale: l’arte pone in essere un quid assolutamente nuovo, una forza che non si esaurisce nel-
le sue componenti. Ancora: questo quid è stato definito dalla più recente speculazione del Croce come trasfigurazione, come dilatazione del sentimento immediato e individuale in sentimento
mediato, uni-
versale e cosmico. E allora resta comunque a spiega38
re in che cosa l’universalità dell’arte differisca dall'universalità del concetto, e in genere da quella d’un qualsiasi atto spirituale «individuale e universale come ogni forma ed atto dello spirito». Leggendo gli scritti teorici e i passi della sua opera critica dove il Croce ha svolto e integrato il suo ultimo pensiero estetico, non è infatti facile superare il senso di queste sottili e complesse contraddizioni. O, meglio, tanto in teoria come in pratica il Croce riesce certamente ad attutire, e talvolta ad eliminare si-
mili difficoltà, ma per via puramente descrittiva e psicologica, dunque empirica. Il suo critico ha forse
il torto di disconoscere la suggestiva ricchezza e il concreto sforzo di questi sviluppi altamente empirici del Croce: la morsa dialettica in cui egli tenta di stringerli ci lascia l’impressione che non esaurisca il più vivo pensiero del maestro. Ad ogni modo le difficoltà sussistono. Vediamo come egli tenti a modo suo di superarle. Il Tilgher afferma recisamente l’assoluta indeducibilità dell’arte dalla vita vissuta, dalla prax:s. Lo stato
d’animo, il sentimento effettivamente provato nella sfera pratica può essere, sì, materia della sintesi estetica, ma non lo è di necessità, e non lo può comun-
que essere quando è ancor vivo come sentimento pratico. L'arte non sorge, dunque, da qualcosa di estra-
neo a sé; non è conoscenza, appercezione, posizione di un altro da sé: ma esperienza pura, esperienza sui generis che si conclude in sé stessa creandosi il proprio oggetto. Mentre sul piano della vita vissuta lo spirito è tensione verso un oggetto che gli manca, senso di perpetua insufficienza e imperfezione, anelito verso il futuro, sul piano dell’arte esso basta a sé,
esso è «autosufficiente», è vita che si accoglie e si giustifica e «si ama» com'è, paga della sua pura forma. L’arte è amor vitae, e, come tale, non già puro senso e intuizione, ma riassorbirsi di tutta la vita nel-
l’universalità della sua forma, accogliersi e riflettersi in sé dello spirito tutto. 39
La forza della posizione del Tilgher —- non molto distante, checché possa sembrare, da quella del nostro estremo idealismo —, è di fare dell’arte un at-
teggiamento dello spirito, un’esperienza originale che ha in sé il proprio principio e il proprio fine, ma non implica una «facoltà» particolare, una particolare forma spirituale distinta dalle altre. Con la sua soluzione viene ad essere eliminato il pericolo di quella trascendenza di una forma dello spirito all’altra, la quale di volta in volta degrada a natura, sia
pure interna allo spirito stesso, che è la difficoltà insuperata della speculazione crociana. E bensì vero che il Croce ha tentato di superarla asserendo che la sua distinzione in forme spirituali è distinzione ideale, e che tutte le attività dello spirito sono compresenti in ogni suo atto. Ma ciò equivale a dire, in altre parole, che la distinzione stessa è empirica, se
pure d’un empirismo superiore e, per così dire, di secondo grado, profondamente pervaso dal senso dell’unità spirituale. E tuttavia resta a vedere se questa stessa obbiezione non si spezzi alla fine contro la legge infrangibile del pensiero, che è di pensare appunto per distinzioni empiriche — sia pure senza perder di vista la propria originaria unità —, sotto pena di vanificarsi in quella indeterminatezza dell’atto puro, in quella inarticolata coscienza dell’attualità
spirituale che è la notte dove tutte le vacche sono nere. Lo spirito è un dio nascosto che non può essere contemplato che per speculum et în aenigmate, attraverso la feconda molteplicità delle sue distinzioni e opposizioni. Del resto, se la posizione del Tilgher è forte in
quanto viene ad escludere le difficoltà cui accennavamo, non ci sembra che riesca neppur essa a sfuggire a questa legge inevitabile. Si può dar ragione allo scrittore allorché afferma questa suprema caratteristica dell’arte, di essere un atto di vita a sé suffi-
ciente, che si accoglie nella sua integrità, che ha rinunciato ad esistere sul piano della volontà pratica e 40
del desiderio. E, difatti, se la forza del sentimento
reale dovesse sempre intendersi presupposta alla creazione estetica, non si riuscirebbe a spiegare, a meno di ricorrere a illusori trampoli dialettici, la strana indipendenza dell’arte dalla biografia, la misteriosa contraddizione per cui il creatore d’infinite figure, il poeta d’infiniti stati d’animo sia spesso in realtà un uomo che in pratica tali esperienze e casi non ha mai provato. Ma questa caratteristica dell’arte, di essere pura riflessione del sentimento in sé, isola fuori dal tempo, moto di vita che non di-
viene ma sta e si contempla, è vera anch'essa soltanto
idealmente.
Nell’atto
della creazione,
allor-
ché l’artista s'adopra a foggiare le sue difficili materie, a trarre lentamente un’immagine dal colore e dal marmo, anche l’attività estetica è «tensione ver-
so qualcosa che le manca e aspira a conquistare» — in questo caso l’immagine —, vita divisa che anela a reintegrarsi nella propria totalità; anche l’arte non sfugge al destino che è di ogni creazione umana, di nascere dallo sforzo e dal dolore, di sorgere
«da una mancanza». La concezione del Tilgher, se viene ad eliminare le difficoltà delle teorie che in varie forme situano l’origine dell’arte fuori dell’arte, e sono quindi inadatte a spiegarne l’indole originaria e creativa, inclina fortemente verso un altro pericolo, ossia di situare l’arte fuori dalla vita, che è perpetua «insufficien-
za» di contro all’asserita «autosufficienza» della visione estetica. Insomma
anche l’arte, come ogni at-
tività spirituale, ha un doppio volto: da un lato (ed è
questo il punto su cui il Tilgher insiste) l’arte è effettivamente oltre la vita vissuta, ignora la corrosione della volontà e del desiderio, è realtà che basta a
sé stessa e in punto quella grandi opere, pieni di bene
sé stessa si conclude: di qui deriva ap«impersonalità» che ci stupisce nelle di qui derivano quei misteriosi mondi e di male, di passioni e d’errori eppu-
re soffusi d’una così miracolosa calma; di qui sorge
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la profonda diversità, senza dubbio qualitativa, del sentimento reale da quello che desta in noi l’immagine artistica: ivi la vita, sottratta agli inganni del divenire, veramente «sta e si contempla». Dall'altro la-
to anche l’arte è vita nella vita, praxis nella praxts, azione lenta che mira a reintegrarsi nel proprio 0ggetto, qual è l’opera compiuta, cosa fra le cose, che serba sempre, anche dov'è più luminosa, le ombre e i segni della sua combattuta nascita. Anche per Tilgher l’opera d’arte è creazione, che necessita pertanto di scendere nell’orbita delle cose reali, di darsi corpo: ma creazione, per così dire, sine labe pratica, come per il Croce era sine labe intellectuali. Men-
tre nell’artista l’uomo intero partecipa all’opera, subisce, per così dire, l’opera: imita con una prodigiosa mimica interna, che la psicologia ha ancora da studiare, i sentimenti, i pensieri e i casi ch’egli in-
venta, si atteggia intimamente secondo i personaggi da lui creati, dilata le sue deboli e se pure impercettibili esperienze di vita sino a significare l'avventura eroica, l’amore
e il delitto. Non
solo: ma la stessa
universalità della visione estetica implica la più rigorosa e riconoscibile individualità: e tanto più l’opera sarà universale quanto più essa porterà, nello stile e nella concezione,
il segno inconfondibile
dell’arti-
sta. Anzi in ciò soltanto consisterà l’originalità dell’opera, e non nell’astratta originalità del moto di vita che in essa si esprime, come vorrebbe il Tilgher. Insomma, anche l’arte soggiace alla necessità insita in ogni creazione spirituale: di scendere nella realtà,
d’incarnarsi in tutto il suo sviluppo. Non è che il Tilgher disconosca, in astratto, l’im-
portanza di questo «rovescio» dinamico e reale dell’esperienza artistica. Ma le considerazioni ch’egli fa al riguardo non sono molto esaurienti. Egli è giustamente compreso, ad esempio, di un’altra delle debolezze dell’estetica crociana, ossia della in-
soddisfacente soluzione data al problema dei cosiddetti «mezzi espressivi», dell’estrinsecazione del42
l’immagine. Ma, sforzandosi di chiarire questo punto, egli si lascia sfuggire il nodo essenziale del problema. Il Tilgher viene in sostanza a dire che allo scrittore è necessario scrivere, come al pittore dipingere, perché l’immaginazione umana è troppo labile per potersi sostenere più d’un momento senza il‘concorso di quei mezzi materiali (penna e carta, marmo, colori) con cui soltanto l’opera prende corpo e veramente esiste nel mondo degli uomini. E non s’accorge, combattendo Croce, di dargli implicitamente ragione, come quando afferma: «L’estrinsecazione fisica non è, dunque, inessenziale al
processo estetico, ne è parte integrante e costitutiva, almeno per le opere d’arte che non si esauriscono în un brevissimo respiro». Ora io non dubito che il Croce, sia pure sotto altra forma, sarebbe
disposto a
sottoscrivere l'affermazione tilgheriana. Basta aver dimostrato
la necessaria,
e sia pure ideale, antece-
denza del momento dell’espressione interna (il «brevissimo respiro») su quello della sua estrinsecazione materiale,
per aver dimostrato
che si tratta di
due momenti distinti, se pure in pratica difficilmente scindibili. Mentre bisognava invece vedere se la distinzione fatta dal Croce fra interno-esterno è, in questo senso, legittima. Se è legittima la tra-
sposizione alla sfera pratica del momento strinsecazione.
Se esista, rigorosamente
dell’e-
parlando,
un’attività spirituale — che sia veramente
tale, e
non sogno e allucinazione —, da cui sia assente il correlativo fisico o «pratico». Se la parola anche soltanto pensata (e cosa vuol dire «soltanto pensa-
ta»?) non abbia un suono, se i nostri pensieri stessi non abbiano, e non solo metaforicamente, una forma e un colore. Se, poiché l’arte è creazione ossia «fare», è concepibile un «fare», ad esempio nella
pittura, che si esaurisca in una visione interna sen-
za modificare le cose attorno a sé. Se, insomma, il passaggio dall’ «interno» all’«esterno», dall’intuizione all’estrinsecazione, sia veramente il salto da
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una sfera ad un’altra, e non piuttosto la legge medesima dello spirito, che è d’incarnarsi ad ogni momento per apparire a sé stesso. Quando Tilgher pone sullo stesso piano il poeta che scrive e il pittore che dipinge fa una confusione logica da cui gli riesce impossibile uscir fuori. Analoga incertezza troviamo su di un altro punto, quello dell’autocritica interna all'opera d’arte. Il Tilgher, pure asserendo la necessità della coscienza
critica inerente al processo della creazione artistica, si chiede: «Un’arte al di qua della coscienza critica e riflessa è concepibile? Sì, ma solo se è arte di brevissimo respiro, ... cinta come uno scoglio dalle acque della vita: breve, fuggitivo lampo di amore di sé della vita; che l’artista stesso non distingue, o solo a
malapena, dalla vita da cui quel lampo si solleva. Tale l’arte popolaresca, ecc.». Anche questo brano potrebbe esser sottoscritto da quello stesso Croce che il Tilgher combatte. Basta, anche qui, aver dimostrato la necessaria antecedenza, sia pure ideale,
dell'immagine estetica sulla sua coscienza riflessa, per aver dimostrato che si tratta di due momenti distinti, se pure anche qui difficilmente distinguibili in pratica. Mentre si doveva caso mai affermare che coscienza critica e coscienza senz'altro, parlando d’arte, sono tutt'uno. Che ciò che è fuori dalla coscienza critica, sia pure embrionale ed elementare, non può essere in alcun caso arte, ma natura, e
tutt'al più oggetto e motivo d’arte. Perché un’arte che non fosse accompagnata dalla coscienza critica non sarebbe evidentemente creazione consapevole di sé medesima, ma uno stato mistico e patologico di passività visionaria. Ma le stesse obbiezioni che stiamo affacciando — ed altre ne potremmo aggiungere -, sono anch'esse una riprova dell’interesse del libro. Il quale, come s'è cercato di mettere in rilievo, è nato da una di-
sposizione essenzialmente polemica, ed ha il merito di rimettere sul tappeto molti problemi che l’auto-
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rità del nostro maggior maestro era sino ad oggi valsa a sottrarre ad ulteriori analisi e discussioni. Non c'è quasi punto su cui il Tilgher non ribatta asserzioni del Croce. Ma, caso inevitabile nelle polemiche, avviene talora che le proposte riforme si risolvano in semplici spostamenti d’accento, che del resto abbiamo già avuto occasione di notare. Inoltre, in quanto ha di concreto, anche questo libro si svolge sulla linea del pensiero crociano, come una sottolineazione e un’elaborazione di quel concetto dell’universalità e «totalità» dell’espressione estetica che è merito del Croce di aver enunciato. La parte più matura e svolta del libro è, dunque, quella generale. Meno convincono le affrettate deduzioni, spesso ubbidienti alle necessità della pole-
mica giornalistica, che l’autore trae dal suo principio. E così pesano ancora, nella sua concezione, i residui del precedente «contenutismo», specie nella teoria, su cui egli ancora insiste, dell’arte come
originalità, e nell’altra che tenta di giustificare filosoficamente una gerarchia fra le opere d’arte. In genere, ci sembra che questo pensiero guadagnerebbe a scendere ogni tanto dalla sfera polemica e dialettica a quella della semplice osservazione e dell’analisi diretta, eterne rinnovatrici della filosofia. Temperamento meridionale, discettatore e combattivo, avvezzo a muoversi tra le idee, il Til-
gher ubbidisce spesso a quel terrore dell’empiria che è del resto vivo in tutta la recente tradizione filosofica italiana (di cui risente anche in certi modi
del suo frasario) e si lascia talvolta prender la mano dalle sue eloquenti dimostrazioni scivolando a fior dei problemi. Ma, ove si prescinda dall’eccesso delle intenzioni polemiche, e dalla disinvoltura un
po’ sbrigativa di certe applicazioni secondarie, si deve riconoscere che il bisogno di salvare l’autonomia dell’arte dalla dipendenza verso altre forme spirituali, offrendo in pari tempo una definizione dell’attività estetica che non valga soltanto per le 45
forme immediate e inorganiche di essa, ma anche per quelle più mature e complesse, più ricche d’elementi intellettuali, è un’esigenza viva nel pensiero moderno, e a cui il Tilgher ha dato comunque una risposta degna di far riflettere. 1931
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FRANCESCO FLORA: «I MITI DELLA PAROLA»
Si può dire, all’ingrosso, che ogni filosofia lasci adito a due specie d’interpretazioni. La prima è quella che mira a scioglierne le pure posizioni dialettiche dai dati contingenti che ne hanno accompagnato la nascita, da quel fondo di preferenze istintive e irriducibili, naturali e d’educazione, che
costituiscono in certo modo l’ humus sul quale cresce e si nutre il pensiero del filosofo anche più metafisico: l’ineffabile «residuo» che in effetti non può separarsi, se non per astrazione, dal diagramma logico d’un pensiero. La seconda specie d’interpretazioni è quella che, inversamente, insiste proprio su quanto, in un pensiero, è meno
risolubile nei suoi
anonimi termini logici, ed è invece più facile ricondurre all’individualità d’un temperamento, o al senso specifico d’una cultura: insomma, a ciò che una
volta si diceva la «visione della vita» d’un filosofo o d’una scuola filosofica.
Ora è chiaro che, mentre
soltanto la prima di tali interpretazioni può permetterci di scoprire le difficoltà e le contraddizioni d’un sistema,
soltanto la seconda
è veramente
in
grado di svelarci il senso intimo d’un insegnamendo
to, di immetterci, per così dire, nel suo profondo
spirito, scoprendocene insieme i limiti e le oscurità. Ma, come s’è accennato, tali due specie d’interpretazioni sono distinguibili solo in astratto. Come in realtà non può esistere un pensiero senza corpo, campato in una specie d’iperuranio platonico o matematico, così non v'ha meditazione frammentaria,
dettata dall’umore e dall’occasione, che non ponga od esiga un rapporto logico universale. In una filosofia non è mai scindibile ciò ch'è pensato da uno . solo una sola volta, da ciò ch’è pensato per tutte le volte e per tutti. Con la nostra distinzione non si fa dunque
altro che indicare,
tanto
per intendersi,
due opposte direzioni che la critica può seguire, e di cui non sarebbe difficile indicare gli opposti esempi.
Francesco Flora, nei rispetti della filosofia crociana, appartiene piuttosto alla seconda specie d’interpreti. In altre parole, egli trascura quell’ordine di problemi e di difficoltà che provengono dal consi derare quella dottrina come un organismo dialetti co, storicamente determinato e suscettibile di sviluppi, di critiche e di correzioni, per approfondire semplicemente l’originale spirito, il senso individua-
le della realtà che in essa si esprime. Il suo primo libro, Dal romanticismo al futurismo, si chiudeva infatti
con una appassionata apologia del Croce, dove il filosofo napoletano non era soltanto assunto a sommo
teorico e a maestro
di vita morale,
menti, pareva, addirittura ad concezione della vita e d’una che tali qualifiche potevano mal confacenti alla signorile
ma
a mo-
apostolo di una nuova nuova civiltà. Ma se andimostrarsi eccessive e riserbatezza del Croce
e al carattere stesso dell’attività sua, svoltasi interamente nella sfera dell’alta cultura, il tono di sincera
ed entusiastica devozione del discepolo era tale da riscattare anche le numerose osservazioni ingenue e esorbitanti. E le pagine dedicate al Croce dominavano del resto ben nettamente su tutto il libro, dove
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la storia delle nostre lettere di questo scorcio di se-
colo era vista sotto specie d’una palingenesi abbastanza semplicistica, attraverso giudizi spesso generici e un’insistenza indubbiamente eccessiva su certi fenomeni letterari appariscenti ma di poca consistenza, come il futurismo.
Passando il tempo, la primitiva adesione al pensiero crociano è andata, nel Flora, precisando sempre più i suoi motivi: come sta a dimostrare anche il recente libretto della collezione «Athena», dove il no-
stro critico ha riassunto la filosofia del maestro con chiarezza davvero commendevole.
Ma se, a diffe-
renza di altri epigoni i quali sembrano aver trovato nelle teorie crociane nulla più che degli strumenti di chiarificazione di metodo, l’attenzione del Flora
si sposta sulla teoria considerata di per sé stessa, ciò egli fa, come s’è detto, con intento non già critico
ma interpretativo. Ad esempio, il Flora accetta sic et simpliciter l'estetica crociana — e sia pure con spirito vigile e facendole credito d’ogni futuro imprevedibile sviluppo —, al solo scopo di metterne in luce la profonda aderenza, e, per così dire, la perfet-
ta permeabilità al fatto della poesia. E assieme alla piena accettazione della teoria deriva al Flora anche l’accettazione di quell’insieme di preferenza e di incompatibilità,
estetiche
e morali,
che accen-
tuano il vivo insegnamento del Croce e conferiscono al suo pensiero il rilievo più intenso: così la predilezione per le sue forme poetiche più puramente intuitive e sciolte da vincoli concettuali,
su cui
appunto il metodo crociano fu chiamato a fare miglior prova: come l’Ariosto, o, fra i moderni, il D'Annunzio;
e la correlativa
diffidenza
verso
la
poesia carica di significati morali e metafisici, ironica e riflessa: come il Leopardi della Ginestra e delle Operette. Sintomatico è a questo riguardo il fatto che il Flora sembra in più d’un punto accedere agli stessi atteggiamenti crociani che hanno incontrato fra i critici le più vivaci reazioni: ad esempio la nega49
zione della fondamentale unità poetica della Commedia. Quest'ultimo libro, I miti della parola, può definir-
si appunto come un seguito di variazioni e di svolgimenti sui maggiori temi dell’estetica crociana: svolgimenti, come s’è accennato, di carattere esemplificativo più che teorico, rifuggendo il Flora dalle disquisizioni puramente dialettiche, e limitandosi a rielaborare i motivi della polemica del Croce attraverso un procedimento soprattutto descrittivo. Sembra anzi che il Flora, una volta accettata l’enuncia-
zione dialettica di quelle teorie, non miri che a verificarle per conto proprio, analizzandole e articolandole attraverso un’attenta esperienza personale. Particolarmente le battaglie del Croce contro l’intellettualismo e il sensismo estetico, contro la suddi-
visione delle arti e dei generi letterari, contro i concetti di tecnica, di tradizione e di lingua astrattamente intesi, gli offrirono materia per interessanti digressioni. E qui bisogna riconoscere che lo scrittore, per quanto non tenti né la critica né il superamento
delle posizioni crociane, non appare mai, o
quasi mai, un passivo chiosatore: in questi saggi la filosofia del maestro, appunto perché accolta, più ancora che nella sua formulazione sistematica, in quell'insieme di concreti motivi, di scelte e di sfumature
che formano il corpo reale d’un pensiero (chi par-
lerà, domani, della particolare accezione psicologica che i termini, ad esempio, di intuizione, lirismo, sentimento, acquistano nello stile del Croce?), non fa
che affermare, trasposta su di un altro registro spirituale, la propria intima vitalità. Fra i più notevoli di questi scritti, e fra quelli che
meglio possono mostrarci quale precisa e sfumata risonanza abbia trovato nel Flora il pensiero crociano, è il saggio che dà il titolo al libro, / miti della parola, dove il concetto dell’assoluta idealità dell’immagine poetica, perpetuamente risorgente eppur nuova nello spirito umano, è messo in luce attraverso deli-
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cate analisi, in cui il Flora indugia a rintracciare anche ciò che potrebbe qualificarsi il riflesso psicologico dei concetti crociani: come quando, definita l’arte quale primo momento istintivo e irriflesso del pensiero, egli svolge tale definizione in termini appunto psicologici, mostrando come le nostre immaginazioni di lettori e di contemplatori di opere d’arte, il «fluido spazio» che la realtà estetica anche più perentoria ci concede di riempire con le nostre personali e ineffabili fantasie, si nutrano e si animino in
noi proprio nei primi freschi sensi e impressioni dell’infanzia. E ciò perché «nessuna immagine sarebbe comprensibile se non si riferisse ad elementi di natura e d’idee che noi possiamo riprodurre entro di noi sulla nostra esperienza vitale. Il verso dantesco “dolce color d’oriental zaffiro” è, per noi, non soltanto una visione dantesca, ma anche la storica no-
stra umanità che conosce i colori del cielo all’infinito, come eterna possibilità di cose possibili nel futuro ... Ogni immagine richiama frammenti di esperienze reali in noi, siano di natura o di anima, sensi-
bilmente corporee e plastiche o soltanto pensate in astratto: e le compone in una nuova armonia». E, infine, a questo concetto dell’assoluta spiritua-
lità e libertà dell'immagine artistica che s’intonano tutte le pagine del Flora: concetto che sostanzialmente costituisce il fulcro su cui s'impernia l’intera estetica crociana. In ciò, sembra anzi che il Flora in-
sista ad accentuare e a colorire soverchiamente il romanticismo
del maestro.
Se la filosofia del Croce,
come hanno mostrato recenti critici, non è che l’estrema fioritura del grande pensiero romantico, che in essa è venuto a chiarirsi o ad equilibrarsi in modo si direbbe
definitivo, il Flora, riprendendo
oggi la
polemica crociana contro le distinzioni e gli schemi classici e retorici, viene a fare un passo indietro, sia
perché tale polemica, nei termini posti dal maestro,
se era attuale ai tempi della cultura positivistica, ap-
pare oggi superata, sia perché, se il pensiero esteti51
co oggi tenta concrete vie nuove oltre le posizioni crociane, non è già nel senso d’una ulteriore indistinzione e riduzione all’unità, bensì proprio in quello di riprodurre nuovi, anche se più duttili, schemi e distinzioni. Sicché anche Flora contribuisce all’impressione che danno in genere gli odierni epigoni del Croce, ossia di ravvisare nella filosofia del maestro, contrariamente alle loro medesime premesse, non già un momento, se pure altissimo, del pensiero umano, una storica incarnazione della philosophia perennis, ma un sistema definito e perfetto,
ultima parola della verità, proprio al modo delle vecchie metafisiche. E se noi stessi ci decidessimo ad accogliere senza critiche e dubbi gli apporti di questa filosofia, e ad esempio le ben distinte caratteristiche che il Croce, e dietro di lui il Flora, assegnano al fatto estetico, diffi-
cilmente ci riuscirebbe di varcare il cerchio incantato, e di formulare obbiezioni che tosto non venissero
a vanificarsi. Le difficoltà, che sfuggono al Flora, cominciano invece dal momento
in cui, di fronte alle
esemplificazioni che si propongono alla nostra mente, i quadri della teoria ci vengono a mancare. Ora, non è stato lo stesso Croce a insegnarci che filosofia non si dà se non sui vivi problemi che la storia ad ogni attimo ci propone? Ed è appunto di fronte all’urgere di tali problemi che ci è permesso credere che la teoria del Croce, la quale ha il merito di aver messo filoso-
ficamente in luce il momento romantico e ispirato della creazione artistica, sia suscettibile di svolgimen-
ti e di superamenti, oggi forse ancora imprecisabili, proprio in quell’ordine di opposizioni e di distinzioni in seno al puro fatto estetico, ch’essa ha negato o trascurato. Si dia, ad esempio, la dibattuta questione dei sen-
si estetici e della varietà delle arti. Il Flora riprende la tesi crociana, che, come è noto, respingeva tali problemi alla pratica e all’empiria delle classificazioni mnemoniche,
richiamandosi all’unica e incompara-
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bile individualità dell’opera, che sola permette il concreto giudizio estetico. E ha di fatti buon gioco a dimostrare che un’opera d’arte, anche la più elementare, implica una totale esperienza di vita, quale certamente non può esaurirsi nell’astrattezza di un unico senso, staccato dal complesso dell'effettiva sen-
sibilità. Di fronte a un quadro rappresentante un paesaggio, è chiaro ch’io riassumo in me un’esperienza totale, che non solo mi darà le linee e i colori,
ma le forme tangibili, la freschezza delle foglie e il suono delle acque, e l’aura sentimentale che da tutto ciò emana. Ma è chiaro pure che io non potrò intendere quel quadro se non poggiando sulla sua concreta esistenza di quadro, espresso in linee e colori: e che tanto più intenderò l’opera e la ricreerò in me quanto più dominerò le mie personali fantasie e suggestioni aderendo all’oggetto nella sua effettiva e storica espressione. Sono, difatti, solo le persone di
scarso gusto che, di fronte ad un quadro rappresentante un paesaggio, vedranno unicamente un paesaggio, o un momento di vita rivissuto nell’immaginazione
o nel ricordo; mentre
il buon
intenditore
immancabilmente porterà la sua attenzione sul momento espressivo vero e proprio: tutta una vita e tutta un’esperienza, in quanto espressa e concretata sotto specie di forma e colore. Osservazione che sì potrebbe ripetere, e forse con maggiore evidenza, anche per la musica: la cosidetta tecnica, anziché ausilio materiale e mnemonico dell’arte, sarebbe invece, in questo senso, un momento essenziale dello svilup-
po dell’immagine: l’informe poeticità che s’individua e si fa poesia. Questa deficiente adesione all’opera determinata e reale, provocata appunto dalla necessità posta in via teorica di affrontare l’opera stessa nella sua piena individualità ideale senza servirsi di schemi empirici, è il maggior limite dell’estetica crociana, e co-
me tale rimane anche dopo le acute delucidazioni
del Flora. Limite poi tutt'altro che invalicabile, ove
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si ponga mente, come ha fatto la più recente speculazione idealistica, al criterio in definitiva empirico che ha dettato la distinzione crociana dello spirito in una serie di momenti ideali: e se ne deduca che nulla vieta di creare nuove distinzioni in seno a quella, pur tenendo presente la loro necessaria malleabilità e flessibilità, e il richiamo ad un’unica attività
creatrice e formatrice. Il procedimento del Flora, che, come s'è visto, consiste invece nell’accentuare, del pensiero crociano, il momento romantico e indeterminato del sen-
timento, dissolvendo di volta in volta l'apparente positività dell’immagine nella vita perennemente nuova e fluente ch’essa acquista riproducendosi nella memoria degli uomini, finisce col peccare, difatto,
nelle esemplificazioni. Se è, come pare, impossibile individuare un’opera d’arte all’infuori assolutamente delle distinzioni empiriche (e tutti i ragionamenti del Flora non varranno a farci credere che si possa parlare d’un’opera pittorica senza possedere non soltanto un’esperienza generica dell’arte, ma proprio quella specifica dell’arte che suole chiamarsi pittura), spesso avviene che codesti critici filosofi, pur ricchi di ottime intenzioni, si trovino costretti a
farvi ricorso, e sia pure come a semplici metafore. In tal caso, le loro distinzioni sono spesso le più provvisorie e imprecise che possano darsi. A chiunque si sia nutrito del pensiero moderno, la pretesa di giustificare filosoficamente una gerarchia tra poeti può apparire a buon diritto, come appare al Flora, priva di significato. Ma che impressione può farci il nostro scrittore allorché, a pagina 283
del suo libro, emette no comprendere che il Leopardi è povero te a chi seppe creare
questa sentenza: «Quanti sananche un grande poeta come di motivi e di umanità di fronla musica di Clorinda e di Er-
minia, e il mito delle isole della Fortuna?», dove il
motivo dell’asserita superiorità del poeta della Gerusalemme su quello degli /dilli si fonda sul più grosso e 54
fallace dei criteri, quello della «ricchezza dei motivi», ossia quello quantitativo? Quando poi questo curioso antileopardismo — di cui deve farsi risalire l’origine a certe soverchie limitazioni, di schietto sapor moralistico, fatte dal Croce nella sua nota dedicata
al poeta recanatese —, viene in fondo giustificato dal Flora accollando al cantore dell’/nfinito la colpa di aver coltivato una cattiva metafisica? Meglio dunque ci convince il Flora allorché, mes-
se da parte le velleità polemiche, si adopera ai suoi delicati commenti in margine ad una filosofia che è pur tanta parte della nostra educazione e della nostra vita morale. Egli resta per questo lato il più esatto interprete, più ancora che delle teorie crociane, dello spirito del Croce, della sua serena religiosità e dei suoi atteggiamenti più profondi e veri di maestro. E senza dubbio l’ideale di poesia libera e immaginosa nel cui nome lo scrittore combatte — passione placata nella contemplazione, sensuale ma pura, immune dalle asprezze dell’autobiografia e dalle astrazioni dell’intellettualismo —, è quello stesso che
sta in cima ai pensieri dell’autore dell’Estetica: a cui, oltre alla devozione e alla convinzione del discepolo, legano il Flora anche singolari affinità di temperamento. Lol
772)
«GALLERIA» DI CAJUMI
Arrigo Cajumi appartiene a quella specie di scrittori — oggi assai rara — che trae vivacità e forza dal fatto stesso della propria «inattualità» in senso nietzschiano, dalla tendenza a muoversi contro corrente.
Scrittori degni di interesse anche perché costringono il lettore a riproporsi questioni che a torto potevano credersi definitivamente superate, e, in luogo
di lasciarlo addormentare nelle tranquille adesioni di moda, lo spingono alla discussione e alla manife-
stazione aperta dei propri assensi e dissensi. Polemista combattivo e sincero, aspro e deciso nelle sue stesse limitazioni, il Cajumi ha il merito di non sot-
trarsi al dibattito, di esigere dal lettore la medesima chiarezza e decisione nel porsi i problemi e nel dichiarare le proprie preferenze. Nel saggio intitolato L'Arte del ritratto che apriva la sua precedente raccolta, I cancelli d’oro, egli enunciava senza possibilità di
equivoci il suo «credo» estetico, che ribadiva inoltre nell’altro saggio Parabola di venticinque anni, dove tutta la critica «filosofica» moderna era posta in istato d’accusa. Non so se il Cajumi sarebbe ancor oggi disposto a sottoscrivere, almeno nella loro forma 56
primitiva, un po’ baldanzosa e superficiale, gli addebiti fatti al Croce; non so neppure se egli persista tuttora nella sua convinzione che alla critica vera e propria siano sufficienti i metodi dello studio biografico e del ritratto. Su questo punto potrebbe anzi riaprirsi il dissenso, non si vede con quale vantaggio.. Più delle affrettate dichiarazioni teoriche di uno scrittore che non ambisce a teorico, ci basterà la
netta e sincera espressione d’una preferenza: e al recensore spetterà il compito, di fronte alla maggiore maturità dei nuovi saggi raccolti in Galleria, di indicare le direzioni, i punti d’arrivo a cui tende questo critico. Non sarà tuttavia superfluo sgombrare il terreno da qualche ostacolo preliminare. Nel saggio che concludeva il suo precedente libro, il Cajumi, fatta piazza pulita dell’odiato crocianesimo, finiva coll’indica-
re nell’opera del Carducci la più alta tradizione nostra che occorreva riprendere nel campo degli studi storici e critici: sia per quanto riguardava la concretezza d’un metodo strettamente aderente alle risultanze biografiche e documentarie, sia per l'esempio della robusta coscienza etica e civile che animò il poderoso insegnamento di quell’indefesso operaio delle nostre lettere. E nella rigorosa negazione di tutta la nostra critica «estetica» e «filosofica» di scuola desanctisiana, il richiamo al Carducci doveva infatti ritenersi implicito. Ora bisogna notare che questo «ritorno al Carducci», già caldeggiato dal Croce - si noti per incidenza — in opposizione al lamentato decadentismo
della letteratura odierna, resta anche nel
Cajumi semplicemente enunciato, e vano sarebbe cercarne tracce notevoli in questi suoi saggi. Nulla nel Cajumi, subalpino a tendenze «europee», che ci richiami all’intrepido filologismo carducciano, in cui il senso della tradizione e della sua continuità linguistica, fatto di natura e di religione, è vigile ed ope-
rante in ogni suo punto, e riesce a vivificarne anche l'aspetto meramente erudito. Né che ci richiami al vi57
gore del Carducci «ritrattista» e biografo, che fu certamente lontanissimo dalle sottigliezze della psicologia alla Sainte-Beuve, avendo invece come sommi scopi il rilievo e il colore della figurazione storica tradizionale, erede come fu, anche per questa parte, di certo modo tutto italiano, eloquente e commemorativo, d’intendere la storia. Le preferenze del nostro scrittore ci s’illuminano
invece senza possibilità di dubbi leggendo il commosso omaggio dedicato appunto al Sainte-Beuve che apre questa Galleria, e che è insieme uno dei più riusciti saggi del volume. E stato notato, e a ragione, come nel Sainte-Beuve Cajumi veda sopratutto l’uomo, più ancora del grande critico. Nell’atteggiamento che fu di Sainte-Beuve di fronte agli scrittori del suo tempo, nel suo delicato umanismo un po’ epicureo, che le aspirazioni deluse verso l’arte soffondono di malinconia, nel suo temperamento di figlio ideale d’un’epoca matura e di transizione, che doveva far-
ne il segreto e implacabile annotatore del cattivo gusto e dei vizi romantici, il Cajumi sembra a momenti rintracciare qualcosa di sé e delle sue scontentezze, nello stesso tempo in cui ne trae un modello di vita e d’eleganza spirituale. Ma, certamente,
Sainte-Beuve
non si esaurisce nell’acido se pur penetrantissimo diarista dei Mes poîsons. Nella sua stessa sottile insofferenza verso l’epoca, nei suoi ostacoli a vivere e a scrivere, il francese, come spesso accade, ha saputo
trovare una forza. Così dal romanziere autobiografico di Volupté nasceva a poco a poco il grande critico; l’uomo che non seppe comprendere Baudelaire diventava lo storico impareggiabile di Port-Royal. Nel mondo del passato e della storia finiva col trovare, come in genere gli spiriti della sua razza, le affinità e le fratellanze che il presente gli negava. Il Cajumi si attiene, più che altro, al Sainte-Beuve intimo, al maestro e al modello di vita; a colui che, in
un secolo in cui i letterati volentieri si atteggiavano a profeti e a vaticinatori, non tenne che ad essere «un 58
uomo, un nostro fratello». E, del Sainte-Beuve critico,
accetta un po’ genericamente il metodo biografico, l’illustrazione e la spiegazione dell’opera di poesia attraverso una figura e un ambiente storico. Come dice il titolo, ci troviamo di fronte ad una galleria di ritratti, ciascuno concluso nell’ambito di un breve articolo, cui la stessa brevità conferisce, attraverso una sciol-
tezza che solo a torto potrebbe parere un po’ giornalistica, acume ed essenzialità di particolari e di tinte.
Ma al Cajumi avviene un po’ l’inverso di quanto accadeva al maestro, per il quale spesso la biografia e la storia non erano che un mezzo trasposto per arrivare a stringere il nodo propriamente critico d’un’opera o d’un autore. Nel Cajumi, a volerlo considerare unicamente come critico, si verifica spesso l’equivoco na-
turale ad ogni forma di critica «storica», ossia la conversione dell’opera in documento, la spiegazione dell’autore attraverso l’opera anziché quella dell’opera attraverso l’autore. Ma, come si vedrà, è proprio di questo equivoco che il ritrattista e lo storico vengono ad avvantaggiarsi: così, mentre il giudizio resta sempre nel nostro scrittore apodittico o sottinteso, frutto di gusto e di impressione immediata e senza trapassi,
egli giunge a trovarsi a pieno suo agio di fronte al documento o all’opera considerata come elemento della biografia, allorché ha modo di campire una figura nel suo ambiente sociale, di offrirne in tratti penetranti e recisi il carattere e la psicologia. E, natural-
mente, il suo metodo si dimostra più fruttuoso allorché venga applicato, come qui appunto il più spesso si fa, agli autori minori, che sono in genere quelli la cui opera inestricabilmente confusa con la vita meglio consente il trapasso dall’uno all’altro dei due registri e la loro vicendevole illuminazione. Non ultima delle ragioni per cui qui troviamo Restif anziché Laclos, Pindemonte
invece di Foscolo, Mérimée
in
luogo di Stendhal. Personaggi storici, memorialisti e pamphlétaires, letterati in veste da camera, amori e di-
savventure di femmes de lettres: è a contatto di questi teD9
mi che la penna del Cajumi si fa più attenta e sottile, che la sua verve un po’ acida di moralista @ rebours, insofferente delle idee astratte e dei programmi altisonanti, ma assai sensibile a quanto in un’opera meglio riflette l’uomo in tutte le particolarità e le striature del carattere, e nelle sue stesse più umane manie e debolezze, fiorisce più felicemente; ch’egli trova le sue reazioni migliori, il suo tono più giusto. Oltre al Sainte-Beuve già citato, si vedano i vigorosi «ritratti in piedi» di Lauzun e del principe di Ligne, il capitolo sugli amori della Staél, o la storia di una vocazione mancata nella breve vita infelice di Carlo Bini; o, sul piano più propriamente critico e letterario, gli appunti sulla morbida ed esorbitante sensibilità della Sand, o sul riflettersi della contrad-
ditoria coscienza del romanticismo nell’opera del Mérimée. Sono, scelte a caso, alcune tra le pagine in
cui lo storico e il moralista meglio s'incontrano, e in cui anche il giudizio estetico sulle opere, illuminato
qua e là di scorcio dalla narrazione biografica e dallo spunto psicologico, si dimostra più aderente e persuasivo. Le nostalgie del Cajumi, in quanto storico, vanno naturalmente alla Francia del Sette e dell’Ottocento. A ciò lo dispone sia la sua natura di scrittore piemontese, rivolto per indole e formazione culturale
alle letterature straniere e ai grandi movimenti europei, sia il fatto che quei secoli rappresentano la più ricca miniera per un ritrattista del suo tipo, così attento ai particolari biografici, così conscio dell’importanza che acquista, nella determinazione d’una figura, l’ausilio d’un ambiente sociale formato e com-
plesso, battuto in ogni senso dalla biografia e dalla storia. Ove questi preziosi elementi gli vengano a difettare o gli si presentino con minor risalto, o il te-
ma meno compatisca la pittura dell'ambiente e same delle reazioni psicologiche del personaggio la società che lo esprime, avviene pure che il suo no scada e che le sue pagine ci appaiano meno 60
l’ealtovi-
gorose e incisive. Così l’immagine che ci offre del Pindemonte potrà apparirci scialba in confronto a quelle più vivaci e mosse dedicate ai francesi; e non troppo convincente ci si dimostrerà la sua analisi della poesia del Monti — il cui problema poggia assai meno sulle accidentalità biografiche di quanto il Cajumi mostri di credere — considerando la sottile adesione con cui sono guardati a fondo la Sand o il Mérimée. Al suo amore per certo aspetto lucido, pratico e intuitivo dell’intelligenza francese il Cajumi è tratto anche dalla disposizione moralistica, che in lui s’e-
sprime in un istintivo disprezzo per le ideologie, i problemi astratti
e complicati, e in genere per tutte
le grandi mitologie del pensiero moderno. Verso spiriti come Rivarol, Galiani o Courier egli è attirato dall’ammirazione verso gli intelletti scettici e precisi, per i delicati «smontatori» di utopie eroiche e sentimentali, per i cultori d’una letteratura stretta-
mente modellata sulla vita e sulla società. Di questa disposizione appunto il Settecento, specie francese, preso nella sua corrente mondana e ancien régime piuttosto che in quella ideologica e preparatrice dei tempi nuovi, doveva offrirgli insuperabili modelli. Quanto ai moderni, egli si trova spesso davanti a loro in un atteggiamento di lieve disagio. Così era prevedibile che un inventore e assertore di eroi mitici del tipo di un Suarès non dovesse trovare troppa grazia presso di lui, e finisse tutt'al più per salvarsi per il rotto della cuffia della sua ricchezza immaginifica e verbale. Così era pure naturale che la posizione astrattamente metafisica tenuta dal Benda nella sua denuncia del «tradimento degli intellettuali» dovesse irritare il nostro critico e velargli un poco l’importanza e il valore etico e d’incitamento d’una difesa in fondo opportuna e generosa. Non si può invece che sottoscrivere al giudizio definitivo portato su personalità come quelle di Maurras e di Daudet, o alle sue osservazioni a proposito del libro di
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Thibaudet La république des professeurs, osservazioni preziose in un campo dove predominano le idee fatte, e l’attenzione all’ideologia impedisce l’esatta valutazione della realtà storica. Ma non è qui, crediamo, che bisogna cercare il
meglio di questo scrittore. Se anche quel fondo moralistico e polemico cui s'è accennato sopra può servire al suo atteggiamento ironico e désabusé, impaziente
e mordace di fronte alle eresie moderne, non
è in questo campo, che esige pur sempre dal critico una certa complicità, assieme a un gusto disinteressato per le idee che il Cajumi certo non possiede, ch’egli ci offre la sua figura più riconoscibile. Indirizzandosi verso la storia, e portando la sua attenzione assistita da un vigile senso delle discriminazioni morali e psicologiche, su fatti e personaggi del passato — e ciò senza rinunziare alla passione polemica e alle asprezze combattive — egli ritrova in fondo se stesso. E, considerando la finezza e la giustezza di segno raggiunta dai suoi migliori «ritratti», non è difficile prevedere che è proprio su questa strada che il Cajumi è destinato a mettersi definitivamente, certo
con meno colore e fantasia d’uno Strachey e d’un Maurois, ma in compenso con una maggiore fedeltà storica e precisione erudita, oltre che con una pun-
ta di giudizio del tutto libera e di sapore personalissimo. Le delicate pagine di descrizione che chiudono il saggio sulla Staél, Settembre a Coppet, ci appaiono per questa ragione molto significative, e ci offro-
no la chiave per meglio intendere il temperamento del loro autore e la sua più reale aspirazione letteraria: quel desiderio di fuga del presente pur vivendo nel presente, quell’impossibile ansia di restituire dalle polverose carte e dai relitti d’un passato defunto una figura sensibile e viva, che colora d’una
particolare poesia la paziente opera dello scrittore di storie. 1931 62
RICORDO DI ARRIGO CAJUMI
La morte di Arrigo Cajumi ha privato l’Italia di uno scrittore che deve senz’altro situarsi tra i vivi e originali dell’ultimo trentennio. Di uno scrittore che, in questo paese del facile e adattabile conformismo — al costume, alle scuole, ai partiti, alle mode -,
ebbe il franco coraggio dell’«inattualità» nel senso del noto titolo nietzschiano, ossia di muoversi contro
corrente, riproponendo così, con la sola forza del temperamento e una prepotente curiosità culturale, tante questioni che la pigrizia tende invece ad addormentare
nella supina accettazione,
trasforman-
dole in presupposti tranquillizzanti e innocui. Antifascista in tempi di fascismo, anti-idealista e in genere anti-filosofo in tempi di filosofia idealistica, antimoderno in tempi di futurismo, frammentismo o er-
metismo, ateo e libertino in tempi di moda spiritualistica e cattolica, liberale classico in tempi di affer-
mazione socialistica e marxistica, le sue pagine contengono press’a poco tutti gli anti alle idee correnti nell’ultimo trentennio. Egli appartenne ad una famiglia d’autori assai rara da noi, di quelli che non chiedono,
dal lettore, adesioni di massima, accordi
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su princìpi fondamentali, e neppure l’aura di un lavoro
comune;
che non
tendono
a far proseliti, e
aborrono dall’esprit de système: ma, fieri della propria refrattarietà, ancorati alle determinazioni irriducibili del carattere — e, se si vuole, di un difficile, se non ad-
dirittura di un cattivo carattere — traggono vigore e brio dalle loro stesse volute‘e rivendicate limitazioni. Essi sono, pertanto, «à prendre ou à laisser». Ma, an-
che se non riusciamo a partecipare ai loro punti di vista generali, anche se non possiamo convenire che di raro sui loro particolari giudizi, la loro frequentazione non è mai, per noi, oziosa e svagata. Perché Cajumi fu, anzitutto, scrittore: fu un uomo per cui la pa-
gina scritta costituiva l’esito fatale e necessario, per cui la coscienza del mondo attorniante, gli amori e gli umori, gli astî e le ribellioni — e persino, a tratti,
una certa ritrosa malinconia — dovevano per forza tradursi nella nobiltà e nell’acredine di uno stile secco, increspato, preciso, essenziale: e stile vuol dire, innanzi tutto, contatto, morso sulla realtà.
Come in tutti gli scrittori del suo tipo — si può vagamente pensare, tra i francesi,
a un Gourmont
o a
un Léautaud (ma il primo ebbe interessi d’ordine fi-
losofico e generale, il secondo fu, più del Cajumi, strettamente legato alla letteratura), la sua vocazione sì presenta come qualcosa di assolutamente spontaneo: e fu, per lui, addirittura indipendente dalla stes-
sa inclinazione cui può predisporre un’educazione umanistica e classicistica. Egli veniva infatti dagli studi tecnici, ed essendogli stata ad un certo punto preclusa, per l'ostilità del fascismo ad ogni espressione indipendente di pensiero, l’intrapresa carriera gior-
nalistica di critico letterario sulla «Stampa», affrontò una carriera di uomo d’affari e di burocrate raggiungendovi l’elevata posizione di amministratore delegato della Cokitalia. Le contraddizioni di una esistenza sono destinate a non restare mai inoperanti, e, se non distruggono e uccidono, come talora fanno, sogliono
diventare stimolo alla comprensione e all’azione. Ed 64
indubbiamente la frequentazione di industriali, banchieri e professionisti giovò al Cajumi, a quella sua maniera d’intendere le cose della letteratura nel loro rapporto diretto con la realtà quotidiana e le accidentalità del corso storico. Così come la positività necessaria alla trattazione degli affari e al lavoro amministrativo dovette entrarci per qualcosa in quel suo disprezzo istintivo per i problemi generali e astratti, in quel suo impaziente rifiuto dell’ habitus filosofico e sistematico — non staremo a vedere fino a che punto giustificato, ma che pur caratterizza in modo così preciso l’uomo e lo scrittore — e, infine, in quel suo biso-
gno di venire sbrigativamente «al sodo», che è sensibile nel tratto stesso dell’espressione stilistica. Nelle sue passioni, nei suoi dispetti, nelle sue esclusioni
Cajumi fu, comunque e sempre, un uomo intero. L’opera sua, per lo più affidata a pagine di riviste, e, soprattutto,
negli anni
recenti,
a quelle
della
«Stampa» e del «Mondo», è in buona parte ancora sparsa e inedita, ma la sua pubblicazione o raccolta in volumi (che ci auguriamo prossima), pur annunciandosi di vivo interesse, non desterà probabilmente sorprese. Il valore di questi libri non sta infatti nella scoperta di un metodo critico, né nello svilup-
po di una particolare indagine, né in un’oggettiva interpretazione
del tempo, ma
è tutto immediato,
affidato alla logica personale e incoercibile di una preferenza, alla spontaneità di una reazione, alla se-
greta complicità del critico con lo scrittore esaminato, e, correlativamente, al senso preciso e vivace d’u-
na incompatibilità. Ma la sua parte almeno oggettivamente più concreta è da rintracciarsi negli studi e negli appunti relativi al campo che gli fu più congeniale, ossia la grande letteratura, soprattutto francese — ma anche italiana e inglese — del Sette e dell’Ottocento,
dove il suo gusto per l’individuo nel
suo rapporto con l’ambiente, inteso come gusto per la biografia e il ritratto, la sua vasta e precisa erudizione storica, le sue minuziose curiosità di bouqui65
niste, sono chiamate a dare la loro maggior prova.
Nei Cancelli d’oro (1926) e in Galleria (1930) le pagi-
ne più notevoli sono appunto quelle in cui il Cajumi, con la sua verve di moralista è rebours, individua,
attraverso le opere, la psicologia dei suoi scrittori, in rapporto con lo stile e la biografia. Qui, come altrove, il modello supremo fu per lui Sainte-Beuve, o, almeno, un certo Sainte-Beuve: vale a dire, ovviamen-
te più il Sainte-Beuve dei Portraits littéraires e de Mes poisons che lo storico di Port-Royal. Ma è commovente riconoscere, in questo iconoclasta, la costante devozione verso il maestro, verso colui, cioè, che fu lo spietato annotatore dei vizi e delle esorbitanze ro-
mantiche, e in pari tempo non aspirò ai paludamenti della sublimità geniale, bensì non tenne che ad essere «un uomo, un nostro fratello». Ma è nei Pensieri di un libertino (1950), volume che
raccoglie la sua produzione «clandestina» degli ultimi dieci anni di fascismo (1935-1945), allorché gli fu
praticamente interdetto, dopo la soppressione de «La Cultura», di pubblicare su riviste e giornali, che deve riconoscersi il meglio dell’opera sua. Si tratta di un diario di letture, di riflessioni e di sfoghi, che sa offrirci, come poche delle opere congeneri, lo «spaccato» di una natura di scrittore e di un mondo di osser-
vazioni in fermento. Ne esce un Cajumi, per così dire, allo stato puro, nei suoi amori e nei suoi astî morali e letterarî, nelle sue percezioni spesso straordina-
riamente penetranti come nelle sue «chiusure» altrettanto decise. Un autoritratto, magari, rilevato in colore, esemplato com’è sul modello del «libertino»
seicentesco, ma proprio perciò più vigoroso e crudo. Anche qui è inutile chiedere la coerenza almeno ten-
denzialmente sistematica che possiamo aspettarci da scrittori più riposati e distesi: o meglio, altra coerenza che non sia quella, definitiva e conclusa, di un carattere. Inutile starci a chiedere, ad esempio, come l’edonismo libertino possa offrire una base sufficiente al
moralismo risentito del piemontese di formazione ri66
sorgimentale e cavouriana; come il gusto realistico possa conciliarsi con l'ammirazione in blocco per l’opera di D'Annunzio, e l’abbassamento di Verga; cosa
realmente possa significare, in fondo, anteporre Mérimée a Stendhal, Tommaseo a Manzoni, la canzonetta settecentesca a Verlaine; se veramente la «buo-
na amministrazione» giolittiana possa supplire in astratto e universalmente alle ideologie della politica, reclamanti, volta per volta, un concetto e un ambito
diverso della «buona amministrazione». Ma questi paradossi e impuntature sono spesso giustificati dalla mutevolezza del concreto angolo visuale da cui volta per volta l’autore si pone, e, soprattutto, dall’umore,
dalla verve sempre presente. Si direbbe di lui ciò ch’egli ad un certo punto dice del Carducci: «la stravaganza delle opinioni è salvata dall’energia dello stile». E aggiungeremo, dalla forza e finezza dell’osservazione parziale, che spesso dobbiamo riconoscere anche dove non possiamo condividere il giudizio. Così offrendoci, con la figura «inattuale» del suo libertino, la prepotenza di un gusto e di uno stile, Caju-
mi esercita spesso sul lettore una salutare reazione, dandogli un complesso ambivalente di impressioni che è, poi, un concreto eccitamento a pensare e a
ri-
vedere. Talvolta, più ancora che ai libertini e agli enciclopedisti, a Bayle e a Voltaire — la cui ironia fu senza dubbio più calma -, o all’idolatrato Hugo degli Chàtiments, così impregnato di quell’ideologia umanitaria cui tanto egli repugnava, Cajumi può far pensare, per l’acredine della polemica e il fervor distrutti vo, proprio lui, ateo, materialista e anticlericale dichiarato, a certi polemisti cattolici dell'Ottocento, a
un Veuillot e a un Barbey d’Aurevilly, il cui stile egli non si stanca d’ammirare, e magari al suo composito e furioso Tommaseo. E non c’è da stupirsi se egli finisce col digerire, se pure con qualche sforzo, persino De Maistre, di cui fa suo con entusiasmo il motto:
«Je vous dis qu’on n’a rien fait contre les opinions, tant qu’on n’a pas attaqué les personnes». 67
Una raccolta, che ci auspichiamo
prossima, dei
suoi articoli su «La Stampa» di questi ultimi anni, ci permetterà, meglio di quanto non lo sì possa fare sulla scorta di vaghi e contradditori ricordi, di apprezzare nel suo assieme la sua opera di critico «militante» della letteratura contemporanea. Mentre occorrerà pure rileggere quel suo romanzetto // passaggio di Venere, per cui lo scrittore tenne forse d’occhio l’esempio sainte-beuviano di Volupté. Esso ci parve, a suo tempo, un tentativo di innesto di certa vena di scabroso realismo novecentesco (si penserebbe a Pavese, ma il racconto di Cajumi, stampato nel 1948, fu scritto nel 1934, cioè in epoca anteriore
ai maggiori racconti di Pavese), su moduli maupassantiani. Per quanto forse mancato come opera d’arte, c’era in quel libretto, incentrato sul motivo sessuale, qualcosa come un’ombra d’acida malinconia
gettata sul troppo disinvolto atteggiamento del «Libertino» nelle cose del sesso e dell'amore: qualcosa come una frattura nell’irta corazza del polemista, la rivelazione di una insufficienza e di uno scontento,
che possono rendercelo più prossimo e famigliare. Ma ci basti per ora di aver lumeggiato, in questi giorni susseguiti all’improvvisa dolorosa perdita, la vitalità e la forza dello scrittore, e di aver reso omaggio a quel culto severo della dignità delle lettere, che fu per lui tutt'uno con la dirittura morale e politica: qualità che il sottoscritto, il quale gli fu per qualche anno vicino nella condirezione de «La Cultura», poté apprezzare direttamente, anche al di fuori della pagina scritta e dell’unanime riconoscimento dei migliori. Così come poté apprezzare, sotto la superficie spesso ironica e talora gaiamente acre del suo discorso, una
finezza di sentimento e capacità di comprensiva amicizia, della quale, anche se un diverso destino limitò
da allora la reciproca frequentazione a fugaci incontri, il tempo non ha stinto la memoria.
1955 68
«LA FEDE DEI NOSTRI PADRI»
Il corso di dieci lezioni tenuto da Ernesto Buonaiuti al teatro Arcimboldi su «La fede dei nostri padri» è finito l’altro ieri con un’ultima lezione su sant'Agostino e la Città di Dio. Ove si eccettuino coloro, specialisti e non specialisti, che della storia del-
le religioni posseggono più di qualche superficiale nozione, e per cui l’insegnamento del Buonaiuti verrà ad inquadrarsi su di uno sfondo di studi e di esperienze personali, per tutti gli altri questo breve corso, se anche non porrà loro questioni culturali e storiche, sarà comunque valso a sommovere pensieri e sentimenti profondi, a riaccendere quel senso concreto, nativo delle realtà spirituali, senza di cui la
nostra stessa razionalità moderna rimarrebbe vuoto gioco dialettico e morta categoria. Il semplice aspetto della sala del teatro Arcimboldi, folta di ascoltatori, era già tale da far riflettere.
Volti pensosi e corrugati per l’attenzione: volti d’intellettuali, d’artisti; volti di professionisti, di persone incontrate nella vita d’ogni giorno, e in cui forse non avremmo mai sospettato, sotto la vernice sociale e
mondana, un così vitale interesse per le cose dello 69
spirito. Mescolati a questi, gli esemplari di una umanità singolare, quale di rado è dato veder accolta insieme. Accanto allo studente pallido col suo quadernetto d’appunti, la fronte convessa e l’occhio astratto del mistico; a contrasto con l’alta intellettuale in
pelliccia e con le labbra dipinte, il puro profilo della giovinetta valdese dal collarino bianco e le lunghe trecce ottocentescamente attorte sul collo; a fianco dell’artista con velleità filosofiche, il comandante di
marina a riposo dilettante di teosofia. Un’umanità singolare, come quella che mal riesce a uniformarsi alle norme di una disciplina di pensiero preciso, ed è, per questa sua stessa insofferenza, più aperta alle apprensioni, alle inquietudini, ai contrasti della religiosità. Ad accentuare la eterogeneità, pur in certo senso armonica, della riunione, si aggiunga la mondanità del locale. Al piano sottostante, da una sala da ballo, giungono le note smorzate dell’orchestrina viennese o del jazz-band negro a commentare in sordina i passi del Fedone platonico o dell’ Apocalisse di Giovanni. La catacomba e il dancing muro a muro: ma anche questo alito di frivolità non turba il silenzioso raccoglimento, la sospesa attenzione degli ascoltatori. Il professor Buonaiuti, il volto espressivo illumina-
to dall’amabile sorriso socratico, parla. Si rivela in lui la consumata esperienza del maestro, l’estremo agio
dell’insegnamento orale, che ha acquistato, attraverso la lunga pratica, il fervore immaginoso dell’improvvisazione, la naturalezza del tono conversato. Solo in certo modo di porgere, nella bonaria intimità ch'egli riesce a creare fra sé e gli ascoltatori, si rivela
ancora qualcosa dell’habitus ecclesiastico. Parla: e agevolmente s'intende che non si tratta già di un erudito, di un puro intellettuale, ma di un uomo che
nella sua crisi ha impegnato tutto sé stesso; che le minuziose ricerche sui testi, il lungo e paziente travaglio storico e filologico non sono già per lui fonti di soddisfazione fine a sé stessa, come avviene negli stu70
diosi, ma il modo di rivelare, di render presenti ed attuali in ogni loro elemento, in ogni loro striatura, le
sedimentazioni che millenni di religioni e di filosofie hanno lentamente depositato al fondo dell’animo
suo, dell’animo nostro; che hanno contribuito a formare, con un insonne lavorìo di madrepore, le basi
della nostra spiritualità moderna. Il suo accento è pacato, e pur sovente caldo di commozione; le visioni
che apre al nostro sguardo sono nitide. La stessa apparente insostenibilità della sua posizione, la stessa esistenza di termini non risolti che trapela da tutto il suo insegnamento, e che tradisce l’inquietudine da cui quest’ultimo è animato, ha di fronte a sé, quasi a contrasto, una estrema chiarezza di visione, una for-
te capacità di sintesi, quale è necessaria per seguire nel loro sviluppo questi grandi flussi e riflussi spirituali attraverso i tempi, queste migrazioni di fedi e
di culture: movimenti lentissimi, spesso inestricabilmente compenetrati e confusi, tesi apparentemente a palingenesi immediate e a instaurazioni di regni celesti, in realtà a qualche fine remoto, oscuro alla no-
stra stessa razionalità moderna. In queste poche lezioni egli ha tracciato, a grandi linee, uno studio della formazione delle religiosità mediterranee, col vario intrecciarsi di motivi che, fino dal primo albeggiare della memoria umana, ne
compongono il complicato tessuto. E, fra questi motivi, i due principali, ora in conflitto, ora in sempli-
ce successione temporale. Il motivo dualistico, agonico, che la realtà vivente interpreta come perpetua lotta e contrasto di elementi opposti e irreducibili — tenebre e luce, bene e male - duello incerto di cui il mondo è campo, e senza esito ove non intervenis-
se a consolare gli uomini la speranza della definitiva palingenesi, l’aspettativa del veniente regno di Dio. Di fronte a questo, il motivo statico, monistico, tei-
stico, che raggela la realtà nell’essere e la morale nella metafisica, che ci offre un mondo compiuto e
senza possibilità di divenire, che raffrena la colata in
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fusione del primitivo slancio religioso nella duplice disciplina del pensiero astratto e del rito codificato. Il primo che, latente nella religiosità primitiva, viene affermato nell’insegnamento
di Zarathustra, e, do-
po aver conquistato a sé la religiosità iranica, dopo di aver affiorato in seno allo stesso ebraismo, impregna, passato in Grecia, il teatro tragico e l’insegnamento presocratico; sempre in Grecia sopravvive ancora nell’aspetto eracliteo della filosofia platonica e trionfa nuovamente
nello stoicismo,
mentre
nel
mondo orientale scoppia finalmente nel messaggio cristiano, fomenta il manicheismo, e continua laten-
temente a vivere, con improvvise esplosioni a gran distanza di epoche, in seno allo stesso cristianesimo e in quanto nel cristianesimo è rimasto, retaggio ineliminabile, dell’eresia manichea. Il secondo motivo,
quello statico e monistico, sopravviene invece infallantemente ad attutire, a contenere quanto nel primo è slancio eretico ed irrazionale, incompatibile con le necessità della vita associata. Esso succede, in Grecia, alle filosofie presocratiche, e, attraverso Socrate e Platone, trionfa nell’insegnamento aristote-
lico: in quell’insegnamento aristotelico che, riesumato dalla Chiesa Cattolica, formerà poi nel secondo millennio l’ossatura razionale del cristianesimo giunto a permeare di sé la vita sociale dell’Occidente. E impossibile tentar di riassumere in poche righe la ricca materia di queste dieci lezioni, di cui abbiamo
tracciato
l’astrattissimo
schema,
trascurando
i
complessi sviluppi, le idee, le figure che di volta in volta ne sono state il diretto argomento.
Se, come
auspica il Buonaiuti, la spiritualità più genuinamente religiosa, quella che s’accende nell’urto delle an-
tinomie insolubili che dilaniano la vita dell’uomo e della realtà intera, sia effettivamente chiamata ad un prossimo risveglio; o se, come per altri segni il no-
stro tempo lascerebbe credere, essa sia invece destinata a trasformarsi e a permeare di sé altre forme 72
morali e spirituali, non sappiamo. Si tratta di interrogativi formidabili, che si esita perfino a porre. Ma ascolteremo sempre volentieri la voce di questo maestro che, con tanta autorità e convinzione, ci ri-
chiama alle preoccupazioni fondamentali della nostra coscienza di moderni. 1934
73
UNA STORIA UNIVERSALE DELLA LETTERATURA
Oltre un secolo fa Federico Schlegel, nell’esporre il piano delle sue lezioni sulla storia della letteratura mondiale, dichiarava come suo intendimento fos-
se quello «di abbozzare come si sia formata la letteratura presso le più illustri Nazioni antiche e moderne, e quale ne sia stato lo spirito; rappresentando specialmente i suoi effetti sulla vita reale, sul de-
stino dei popoli e sull'andamento dei tempi». Indubbiamente il Prampolini, nell’intraprendere questa sua Storia universale della letteratura, di cui son già usciti i primi due volumi presso l'Unione Tipografica Editrice Torinese (il primo dedicato alle letterature antiche e primitive, il secondo a quelle cristiane e medioevali), s'è trovato a dover contenere il
suo proposito entro limiti assai più modesti e concreti. Figlio d’un’epoca disillusa, pur di fronte ad un così vasto disegno, quale soltanto sembrava esser concepibile nell’età romantica, egli ha saputo tenersi sul suo terreno, senza ambiziosi sconfinamenti.
Non già ch’egli appaia incurioso davanti a quella interdipendenza di vita e letteratura ch’è una verità lapalissiana — e c’è voluta molta buona fede e anche 74
maggior candore intellettuale per rimetterla, ai nostri giorni, nuovamente in discussione — ma deve certamente essergli apparso, come appare a noi, terribilmente complicato e di difficile accertamento il gioco di azioni e reazioni, la fittissima rete di vasi comunicanti che intercede fra la realtà sociale e politica di un popolo e la sua espressione letteraria. Quanto ai romantici in genere, e agli Schlegel in particolare, l’inconscia supervalutazione ch’essi erano indotti a fare dell’arte e della poesia come molla o motore storico, doveva per forza condurli a considerare,
in un secondo tempo, arte e poesia quasi fiore supremo, sbocco finale dell’«humanitas»,
armoniosa iro-
nica luce raggiante, catarsi definitiva, sulle umane vicende. Per noi invece, giunti, attraverso il romanticismo e la sua derivazione idealistica, ad una concezione globale, per dir così, della realtà e della storia, è na-
turale che il problema del «grado» e della «funzione» spettanti alla letteratura nel mondo dello spirito, venga a cadere nel momento stesso in cui è posto. Sappiamo, per quanto possibile, far giustizia sommaria delle tentazioni cui può indurci il superstite razionalismo astratto. Sappiamo come nessuna gerarchia esista fra le diverse facoltà umane, per cui tutto è egualmente importante, o meglio nulla è importante, se non quello che il nostro sentimento e la nostra volontà esigono, volta per volta, che sia tale.
Sappiamo infine come tutto si spieghi unicamente col tutto, e come non ci voglia meno di tutto per spiegar qualcosa: il che ci ha guariti dalla smania di dar fondo all’universo in una pagina, di trovare in
un’opera di poesia, pur grandissima, addirittura la chiave dello spirito collettivo di un popolo o di un’epoca. Sappiamo, ad esempio, come sia vano tentar di spiegare — se non in base a semplici tautologie — le ragioni per cui i Giapponesi, nazione guerriera per eccellenza, non abbiano, nella loro letteratura,
la benché minima traccia di poesia eroica: ciò valga 75
a confusione dei recenti zelatori di una letteratura a i programma.
Il metodo tenuto dal Prampolini nell’elaborare la
sua Storia riesce, dunque, assai convincente. Sarebbe stato facile, di fronte ad una così sterminata materia, cadere nella tentazione delle comode sintesi storicofilosofiche; o di fare un riassunto di storia universa-
le sotto specie letteraria; o di stendere un trattato di etnografia comparata; o di mettere assieme un’indigesta raccolta di notizie erudite. Il gusto del Prampolini, la sua modestia, la sua rara chiarezza mentale lo hanno trattenuto dall’incorrere in tali pericoli.
Si direbbe che gli stessi limiti del compito che gli è stato affidato dall’UTET abbiano contribuito a mantenerlo sulla buona via. Avviene infatti che la desti-
nazione pratica di un’opera, lungi dall’ostacolare l’ingegno con le sue esigenze limitatrici, spesso gli offra un appiglio, concreto, come un saldo argine a guidarne il corso. Egli si è così, e opportunamente, limitato a una piana esposizione e illustrazione delle diverse letterature secondo un concetto divulgativo e popolare nel miglior senso. Il che non escludeva né il rigore scientifico nel vaglio delle fonti e delle informazioni, né, per quanto possibile, la diretta esperienza della materia trattata. Alla serietà del Prampolini, al
suo appassionato impegno avrebbe senz’altro repugnato l’idea di una passiva compilazione e rielaborazione di storie particolari; d’altra parte le sue este-
sissime cognizioni linguistiche, la sua provata abilità di traduttore dalle più diverse letterature gli aprivano innanzi un immenso e suggestivo campo d’esperienze. Chi, come il sottoscritto — e si consenta una volta tanto di richiamare, in una recensione non sospetta, qualche ricordo personale — ha avuto occasione di vedere il Prampolini nel suo assiduo lavoro di anni, alle prese con qualche difficile testo ebraico O persiano, può farsi un’idea di quanta somma di
sforzi, di quanta intelligente fatica e pazienza sia sta76
ta spesa in questa Storia. La quale è ricca di visioni nuove, di giudizi maturati e originali (si leggano, ad esempio, le pagine sulla poesia latina cristiana del medioevo, così mal conosciuta)
ed è riuscita, oltre
che una vera e propria storia, una foltissima antologia di brani poetici, narrativi, morali, che ne fanno
una lettura particolarmente dilettevole. Data la vastità della sua materia, non poteva il Prampolini rinunciare all’uso di quei provvidi schemi attorno a cui, dalla recente metodologia idealistica, venne fatta, assieme ad alcune critiche essenziali e definitive, tanta inutile accademia. Egli non poteva,
evidentemente, fare a meno di parlare di «generi» letterari, e distinguere, di volta in volta, tra lirica e
romanzo, poema epico e teatro, poesia e prosa. L’uso di queste categorie e distinzioni era, nel caso, più
che mai legittimato dall’economia della distribuzione della materia e, sopratutto, dalle esigenze di age-
vole consultazione inerenti a un’opera siffatta. D’altra parte un temperamento concreto come il suo doveva per forza dimostrarsi alieno dal crearsi una sorta di personificazione di tali generi, facendone delle categorie pseudo-naturalistiche alla Brunetière. Essi, per il Prampolini, non si convertono mai in arbitrari svolgimenti di preconcette idee formali, ma serbano, quasi sempre, la necessaria elasticità. Così, allorché
ad esempio egli parla della «tanka» giapponese, non lo vedremo far la storia di uno schema lirico astratto,
ma piuttosto configurare realisticamente una particolare inclinazione della mente poetica giapponese verso una forma scorciata ed epigrammatica, aliena
da passaggi temporali e da svolgimenti logici. Egualmente, con grande senso di concretezza, lo vedremo situare la grande epica popolare indiana, anziché tra le opere letterarie propriamente dette, tra le forme
miste — poetiche, religiose, metafisiche — in cui originariamente si espressero, in forme collettive e «cora-
li», i miti e gl’ideali di quel popolo: cioè accanto ai Veda e ai canoni buddisti, anziché alle opere d’indi77
viduale poesia. Egli tratta cioè i «generi», da un lato, secondo la loro reale funzione di schemi mnemonici e di classificazione, dall’altro, nella loro accezione
concreta di fioriture uniche e incomparabili, per le quali, specialmente presso le letterature primitive, può anche fino ad un certo punto prescindersi dalle individualità singole: così, ad esempio, la già citata «tanka» giapponese; o i poemi epici primitivi della Grecia, dell’India e della Persia; o le sacre rappresentazioni medioevali. In questo senso, l’indicazione di un «genere» non è più, infatti, un mero espediente classificatorio, ma diviene la concreta determinazione di un’opera d’arte popolare o «corale», in cui
perdono importanza le individualità storiche che hanno contribuito a formarla. Ma non è, appunto, quello d’individualità, un concetto empirico quant'altri mai? Per questo, il sistema propugnato dalla scuola crociana, di una storia dell’arte e della poesia
concepita come un enuclearsi di monografie singole, può oggi dimostrarsi, nonostante le giuste esigenze ch’esso pone, alquanto rigido e manchevole. In realtà la mente storica determina il suo oggetto a seconda del punto di vista da cui si pone. Ed è la diversità del punto di vista a giustificare, ad esempio, una storia complessiva del teatro elisabettiano o una storia particolare dei capolavori dello Shakespeare. L'importante è, dunque, di non perdere mai d’occhio i legamenti vitali con l’assieme; di mettere in lu-
ce, in un’opera singola come in un gruppo d’opere, il comune spirito animatore. Né è detto, d’altronde,
che le esigenze della classificazione non stridano un poco, anche nel Prampolini, allorché egli, ad esempio, ci parla di Kalidasa sotto il capitolo dedicato al poema epico indiano; mentre vediamo poi rispuntare lo stesso poeta fra i lirici, e, a pagine di distanza, fra i tragici. Lo stesso dicasi di altri scrittori greci, latini, ecc. Giustifichiamo lo storico in considerazione
delle difficoltà d’ordine pratico ch'egli si è trovato a dover risolvere; riconosciamo che, specie trattando-
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si di letterature esotiche o primitive, nelle quali i lineamenti della creazione individuale sono spesso quasi insensibili, l'inconveniente non è grave, anzi lievissimo. E attendiamo il Prampolini al terzo ed ultimo volume della sua Storia, d’imminente pubblicazione, dedicato alle letterature moderne: dove in-
dubbiamente lo scrittore avrà saputo contemperare le necessità di coordinamento della sua materia con quella visione totale delle personalità singole che è, comunque,
a fondamento
della nostra concezione
moderna della creazione artistica. E ora lasciamo il lettore a sfogliare le chiare ed interessanti pagine, che l’UTET, oltre a presentare in elegante veste tipografica, ha arricchito di numerose belle illustrazioni, fra cui alcune tavole fuori testo.
Dono del Prampolini è quello di rendere vicine e domestiche le forme d’arte e di pensiero apparentemente più estranee al nostro spirito, sia rivelandocene l’intimo significato, sia sottolineandone con bonaria arguzia le stranezze e le mostruosità. Sicché tutti questi poeti o romanzieri, profeti o filosofi, ap-
partenenti a razze distantissime che hanno scandito versi o messo nero su bianco a intervalli di secoli e di millenni l’uno dall’altro, finiscono veramente
con l’acquistare, in queste pagine, un’aria di fami glia, un segno profondo di riconoscimento, quasi d’appartenenza a una consapevole opera comune. In queste pagine, dove il fior di loto di Valmiki ri-
chiama la rosa mistica, al fragore delle battaglie del Mahabharata fa eco quello delle pugne dell’ /lade, all’usignolo di Hafiz contrasta il corno di Rolando, gli amorosi sospiri del povero pescatore malgascio rinascono trasfigurati dalla dotta lira di Saffo e di Catullo, come
ubbidendo
ad un
misterioso
disegno
prestabilito. Fra tutti i meriti dell’opera, questo dono eccezionale, che troviamo scompagnato da qual siasi sussiego cattedratico,
non
mancherà
d’essere
apprezzato come si conviene. I due grossi volumi, brulicanti di citazioni, susci-
79
terebbero un’irresistibile tentazione di citare, a no-
stra volta, qualcosa. Ma cosa trascegliere, da questo oceano? Limitiamoci ad un raccontino filosofico che ha il vanto d’appartenere ad una delle letterature più illustri, e certo alla più antica, a quella cinese; e che, pur risalendo a qualcosa come
duemi-
lacinquecento anni or sono, ha un così vivo sapore di attualità da sembrar scritto ieri. Eccolo: «Un uomo dello stato di Ceng un giorno stava raccogliendo combustibile quando s’imbatté in un cervo stanato, che inseguì e uccise. Temendo che qualcuno lo vedesse, nascose in fretta la carcassa in una
buca che ricoprì con foglie di banano, allietandosi per la sua buona sorte. Ma subito dopo dimenticò il luogo e, stimando di aver sognato, si diresse verso ca-
sa, e lungo il cammino borbottava intorno alla cosa. «Nel frattempo, un uomo che aveva sorpreso le sue parole, agì in conformità di esse, andò e si prese il cervo. Poi, tornato a casa, così narrò il fatto alla
moglie: “Un boscaiuolo sognò di aver preso un cervo, ma non sapeva dove. Il cervo, l’ho preso io; per-
ciò il suo sogno era realtà”. “Sei tu” gli rispose la moglie “che hai sognato di vedere un boscaiuolo. Lo prese forse lui il cervo? Ed esiste veramente una tale persona? Sei stato tu a prendere il cervo: come può dunque il suo sogno essere una realtà?”. «“E vero,” consenti il marito “il cervo l’ho preso
io. Perciò poco importa se il boscaiuolo ha sognato il cervo ovvero se io ho sognato il boscaiuolo”. «Ora, il boscaiuolo, giungendo a casa, era molto crucciato per la perdita del cervo; e nella notte so-
gnò effettivamente il luogo dove esso si trovava e la persona che l’aveva preso. La mattina dopo si diresse al luogo indicatogli dal sogno, e lo rintracciò. Allora fece causa per ricuperare il cervo; e all’udienza
il magistrato sentenziò come segue: “Il querelante cominciò con un cervo reale e un sogno asserito. Ora si fa avanti con un sogno reale e un cervo asserito. Il querelato si è preso in realtà il cervo che il que80
relante ha detto di aver sognato, e ora cerca di tenerselo; mentre, secondo sua moglie, boscaiuolo e cervo non sono che le finzioni di un sogno, di modo
che nessuno avrebbe preso il cervo. Senonché, qui c’è un cervo; perciò fareste meglio a dividervelo”». Anche Prampolini nota la modernità di questa parabola. Quanto alla sua morale, la faremmo senz’altro nostra. Anche per la nostra letteratura, dopo tanto idealismo, relativismo e pirandellismo, sembrerebbe giunto, alla fin fine, il momento di dividere il cervo. 1935
81
RICORDO DI GIACOMO PRAMPOLINI
Giacomo
Prampolini può dirsi un dimenticato,
benché il suo nome figuri, ch’io mi sappia, in due an-
tologie, nel Dizionario della letteratura mondiale del secolo XX (Roma-Torino, Edizioni Paoline, 1964), dizionario tradotto dal tedesco, nonché nell’Enciclopedia Rizzoli-Larousse. Alla sua morte, avvenuta poco tem-
po fa, ho visto soltanto uno stelloncino sulla «Stampa», evidentemente perché collaboratore dell’UTET.
Ricordo la sua persona, all’epoca in cui viveva in via Besana, a breve distanza da casa nostra, e le visi-
te scambievoli che si facevano le nostre famiglie. Di un anno più anziano di me, aveva, al pari di me, partecipato alla prima guerra mondiale come ufficiale di fanteria. Ricordo come i loro e i nostri bambini giocavano insieme nei vicini giardinetti. Prampolini era un eccellente scrittore. Aveva pubblicato alcuni delicati volumetti di poesie, Dall'alto silenzio, Segni, Porticello, che, ad eccezione di alcune
brevi recensioni, passarono inosservati. Ma la sua vera importanza sta nei cinque grossi volumi della Storia universale della letteratura
(UTET,
1933-38), dove sfrutta a pieno le sue sterminate co82
noscenze linguistiche. Allorché uscì il primo volume il consenso fu unanime; Benedetto Croce, nimicissi-
mo, come si sa, di tale specie di compilazioni gene-
riche, ne fece, in una noticina della «Critica», un
elogio senza riserve.
Per conto mio ne faccio uso continuamente. Ri-
corro ad un esempio. Mi occorreva conoscere qualcosa intorno a quel finissimo scrittore inglese Logan Pearsall Smith, l’autore di Trivia. In nessuna storia o
enciclopedia, neppure nella Britannica, quel nome figurava. Lo ritrovai, invece, con un breve ma succoso commento critico, nella Storia di Prampolini.
Ho qui sottomano altri libri di lui. Ad esempio, Cosecha, una raccolta di canzoni e di coplas spagnole ottimamente
scelte; e un altro, altrettanto fine, di
poesie latine medioevali di carattere profano. Finalmente
ebbi da lui i tre grossi volumi della
Letteratura universale, antologia di testi, una splendida edizione
UTET
(1974)
con
illustrazioni
a colori,
contenente versioni di brani, versi e prose delle più diverse letterature, dal Perù alla Cina, dall’India all’Ecuador, oltre, naturalmente, a quelle europee. Un quarto volume avrebbe dovuto recare testi italiani; ma non fece, evidentemente, in tempo a curarlo. Un altro libro assai bello, questa volta dedicato principalmente all’infanzia, è // tesoro nascosto, che formò la delizia dei miei bambini e di innumerevoli
altri loro coetanei. In questi anni Hoepli lo ha ristampato. Si tratta di un libro di fiabe di svariata ori-
gine, dalle saghe nordiche al Panciatantra, in parte desunte dalle Mille e una notte. Fra le fiabe turche le trovate di Nasreddin sollevavano l’ilarità non soltan-
to dei bambini ma anche dei loro genitori. Un'altra sua bella pubblicazione è la Mitologia nel-
la vita dei popoli (1937-38), opera che dimostra come la curiosità intellettuale di Prampolini si fosse spinta, probabilmente
sulle orme
del Frazer, fino allo
studio delle forme religiose delle popolazioni primitive, e più tarde.
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Le prodigiose cognizioni linguistiche di Prampolini, che ha tradotto dalle lingue più diverse (ho sottomano romanzi olandesi, persino islandesi), traeva-
no origine dal fatto che egli aveva studiato le lingue scientificamente,
cominciando
dal sanscrito
e risa-
lendo via via i rami delle altre lingue antiche e moderne. E singolare, ripetiamo, che un uomo
dell’impor-
tanza di Prampolini sia scomparso senza che la stampa abbia commemorato un'attività e un’opera così originali. Lasciata Milano, Prampolini si ritirò a Spello, in
Umbria. Penso che vi abbia sofferto di solitudine intellettuale, nonostante la vicinanza di Roma. A Spello, alla sua storia, alle sue chiese
e monumenti,
de-
dicò un libretto. L'ultima volta che ebbi occasione di incontrarlo,
fu a un convegno tenutosi a Venezia verso la fine del 1945. Sedeva solitario ad una tavola, ed io, lasciati gli altri amici, andai a sedermi con lui. Si parlò dei tem-
pi milanesi passati, di quelli italiani presenti, e soprattutto di letteratura, l’argomento che ci stava più
a cuore. Penso con rimpianto a lui, come pure agli altri amici perduti; ma si tratterebbe di divagazioni sentimentali che esorbiterebbero dai limiti della presente nota. 1975
84
IL CROCE E NOI
Il «noi» del titolo non è certo un «noi maiestatico», ma non è neppure un noi collettivo e impersonale al punto da comprendere, secondo l’accezione moderna, il vago soggetto d’una generazione. Per determinare, in modo non eccessivamente impreciso, quel «noi», direi che esso comprende, o meglio
vorrebbe comprendere, gli uomini della mia generazione tra i quaranta e i cinquanta, che, essendosi principalmente educati, sia pure in modo del tutto libero, e senza preciso proponimento, alla scuola
del Croce, hanno in pari tempo appassionatamente partecipato alle esperienze dei nostri giorni, magari le più eretiche, riconoscendone d’istinto la profonda necessità. Poiché un uomo, anche se non profes-
satamente filosofo, è nella situazione di dovere perennemente dibattere e formulare le linee della propria interiore coerenza, sotto pena di decadere, dalla sua libera essenza di individuo pensante ed agente, alla condizione meccanica di quel caratteristico prodotto della civiltà che Ortega y Gasset ha definito l’«uomo-massa», il precisare, soprattutto di fronte
all’atteggiamento polemico del Croce contro tanti 85
aspetti della cultura attuale cui ci sentiamo così intimamente legati, il valore che il pensiero crociano rappresenta per noi, la sua importanza formativa nel nostro morale e nella nostra visione della vita, mi
sembra uno sforzo che meriti ogni tanto d’esser fatto, un doveroso «esame di coscienza». Esame di coscienza, che, se non vado illuso, non è del tutto mio
personale. Dire tutto quel che dobbiamo a Croce non è cosa agevole, tanto più che l’intensità d’una qualsiasi influenza non può, evidentemente, commisurarsi in modo materiale, né elencarsi in un’arida lista di punti di dottrina da ritenersi, o meno, «accettati». Per contrasto, ci accorgiamo della profondità di una tale
influenza su di noi, oggi, a contatto con gli uomini delle generazioni più giovani, in cui di frequente non troviamo, nei riguardi del Croce, che un freddo
rispetto, quando non addirittura una decisa insofferenza. Se, a momenti, possiamo anche invidiare la sciolta libertà dell’argomentare di certuni, ad esempio, in materia di cose estetiche e critiche, in pari
tempo sopravvive in noi il sospetto d’una gratuità, d’una prosecuzione di sviluppi inessenziali, di una incertezza di vocabolario che rende così spesso il loro discorso, quand’anche sensibilissimo in molti particolari, come pericolante nell’assieme, quasi condotto su un filo di rasoio: tanto da indurre il timore che, ad una non lontana scadenza, i loro testi si renderanno pressoché indecifrabili. Non mi sembra di errare affermando che l’efficacia didattica della dottrina crociana sia tuttora, per lo studioso italiano di cose morali, insostituibile. Se l’influenza della moderna cultura francese è stata su di noi, e necessariamente, grandissima, abbiamo sempre avuto la netta sensazione che non si potesse in alcun modo acco-
glierla passivamente, bensì soltanto profondamente trasformandola attraverso un’esigenza di chiarezza e di giudizio distaccato e indipendente che per noi si chiamò, anzitutto, Croce. Non abbiamo mai ritenuto
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di dover restare insensibili a nessuno di quei lussi spirituali che una cultura più ampia e più ricca di tradizioni moderne ha, si voglia o non si voglia, da quasi un secolo irraggiato su tutti i paesi d'Europa e d’America. Ma sapevamo molto bene che, senza quella traduzione in termini nostri, senza quella profonda assimilazione, avremmo corso il rischio di perderci in labirinti squisiti ma senza uscita; sapevamo che le creazioni, apparentemente svincolate, di certo: esprit de finesse, venivano ad acquistare il loro esatto significato soltanto perché, se anche fiorite in un clima rarefatto, germogliavano pur sempre dalle solide radici d’una diversa tradizione, a sua volta diramantisi nel terreno d’una società più vecchia e omogenea,
sottratta più della nostra a certe impetuose crisi di crescenza: in cui tante espressioni e svolgimenti marginali sono possibili senza la logorante responsabilità di trovarvi ad ogni passo ragioni e giustificazioni che là sono invece nell’aria, nelle premesse di un lavoro comune di generazioni. Cosicché quelle stesse finezze, trasportate d’emblée in un diverso ambiente, pren-
dono un aspetto ineffettuale e smorto di solitari vagheggiamenti privi di radici con la vita, e confinati all’astrattezza di un mondo riflesso di pure letture. Dobbiamo perciò ritenere che i nostri problemi giovanili fossero alquanto diversi da quelli che oggi sembrano interessare tanti uomini delle generazioni più giovani. Non ci interessava tanto sapere, ad esempio, se ed in quanto l’arte partecipi dell’azione morale, o della preghiera, o possa costituire uno strumento di conoscenza metafisica, quanto, all’opposto, perché essa non sia, scartata a fondo, nessuna di tali cose; non ci interessava sapere come essa, a un certo momento della ricerca speculativa, svanisca
nell’anonimità del puro atto del pensiero, bensì quanto essa riconoscibilmente colori la singolarità dell’atto sempre nuovo. E in quella ansiosa ricerca di un primo alfabeto concreto della realtà spirituale, il Croce, bene inte-
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so 0 frainteso venisse da noi, ci riuscì maestro impa-
reggiabile. Non già che avessimo mai attribuito un valore magico a quattro formulette che, in mano a tanti passivi applicatori, furono così utili a risparmiar lo sforzo di pensare. Abbiamo fin da allora attribuito alla filosofia crociana il compito che è proprio di ogni filosofia: che non è già quello di offrirci una soluzione del problema dell’universo, la stati-
ca imago mundi delle vecchie metafisiche, o il metodo-macchinetta per la soluzione automatica delle questioni, ma quello di condurci a riabbracciare con
più intensa consapevolezza la medesima realtà dalla quale eravamo partiti. Croce giungeva, sui nostri vent’anni, a mettere ordine nella selva di affastellate letture e di incerte e ambigue ricerche, fugando i vaghi fantasmi di tanti problemi che tali non erano, e
precisando i termini di alcuni altri che confusamente presentivamo. Croce fu da allora per noi un essenziale point de repère, una solida piattaforma dalla
quale avremmo ormai saputo anche discostarci, ma senza mai perderla d’occhio. E non che si fosse indifferenti alle sottili difficoltà e contraddizioni — rese alla prima lettura quasi insensibili dalla compiaciuta patina logica d’un ragionamento pacato e ricchissimo d’umane esemplificazioni, dal tranquillo calore d’una prosa dottrinale fra le più perfette del nostro secolo — in cui quel pensiero sembrava giungesse talvolta a irretirsi, soprattutto nello sforzo di organizzare la ricchezza delle osservazioni particolari in un sistema di deduzioni da princìpi a priori, reclamantesi all’idealismo assoluto
e alla dialettica hegeliana. La necessaria implicazione, ad esempio,
del momento
estetico nel circolo
ideale delle forme spirituali, la necessaria antecedenza di quel momento sugli altri del pensiero o dell’azione pratica, non hanno mai finito col convincer-
ci. L’ambiguità del pensiero crociano in quegli alti e delicatissimi sforzi, c'è sempre
sembrata consistere
in una inaderenza appena larvata fra la considera88
zione d’un’amplissima verità d’esperienza e l’astrattezza della sua collocazione in un sistema di deduzioni trascendentali. Superstite mitologia hegeliana che il Croce è venuto man mano correggendo e praticamente riducendo nel più recente evolversi del suo pensiero — come ha mostrato acutamente, per l'estetica, il nostro indimenticabile Eugenio Colorni — fino alla forma di storicismo assoluto con cui ultimamente esso ci si presenta, senza peraltro che sia mai riuscito ad eliminarne compiutamente da sé ogni residuo. Ma, abbandonandosi ai puri filosofi tali difficili questioni, la dottrina del Croce non cessava dal costituire per noi una specie di grandiosa «summa», intendendosi tale termine, evidentemente, non già nel senso d’una estrinseca accozzaglia di soluzioni,
bensì sempre d’opera viva d’uno spirito unico e coerente e tuttavia di così complessa ricchezza da permettere al lettore di accogliere molti dei suoi svolgimenti, altri riprendere per conto proprio ed altri infine rifiutare. La sua impostazione classica, il suo ri-
fiutarsi al gusto di fenomenologie troppo sottili, il suo sospetto verso la psicologia e la «natura» non faceva che aumentarne,
ai nostri occhi, il valore di-
dattico ed esemplare, quasi di correttivo a certe avventure e dispersioni che ci si offrivano fin troppo tentatrici. Così, ad esempio, se la prima Estetica ci sì era pre-
sentata come una dottrina generale dell’espressione, lasciandoci delusi quanto a una più stringente definizione del fatto espressivo più propriamente artistico, i successivi svolgimenti del pensiero crociano, che spesso ubbidivano ad esigenze parallele a quelle che potevano insorgere nei suoi lettori, vennero a poco a poco precisando alcuni motivi concretissimi. Il concetto dell’arte come liricità, quello dell’arte come creazione e come «fare», quello del carattere di totalità dell'espressione estetica, rappre-
sentavano altrettante delimitazioni valide a stringere 89
sempre più dappresso la peculiare natura dell’arte. Meno ci convinsero altri più recenti sviluppi, così la distinzione fra poesia e letteratura, non in quanto essa non sorgesse da un’esigenza legittima e opportuna,
ma
per il carattere
della sua formulazione,
troppo rigido per una distinzione d’indole empirica, troppo incerto e particolare per una delimitazione di concetti filosofici. Ma, sia che giunse ad assumere, nella limpidezza
del suo ragionamento, verità di sostanza profondamente persuasiva, atte a formulare nei loro proprî termini tanti problemi che oscuramente si presentavano nel corso della nostra esperienza, sia che quelle stesse soluzioni ci apparissero in definitiva inaccoglibili, il carattere
supremamente
normativo
della
dottrina crociana si imponeva sempre a noi come un'esigenza irrinunciabile. E stata forse questa necessaria e di continuo sottintesa presenza del Croce nel nostro mondo di pensiero a far parlare, impropriamente, di una «dittatura crociana»? Fatto sta che, dal canto nostro, riprendemmo, nell’esercizio quotidiano della riflessione e della critica, l’uso di
quei termini e di quelle distinzioni della cui improprietà l’indagine del maestro ci aveva fatti avvertiti: ma essi, insensibilmente, avevano cambiato d’accento. Così riprendemmo a distinguere le singole arti, o
a parlare di generi letterari; e sapevamo ormai attribuire a quelle pur necessarie distinzioni il loro carattere estremamente mobile e fluido, di mezzi e strumenti d’individuazione. Altre questioni, di cui la
critica del maestro aveva fatto «tabula rasa», tornarono ad affacciarcisi, ma in un senso più sottile e de-
cisamente relativo. Tornammo a parlare di tecnica e psicologia, e non era più la stessa cosa. Avremmo potuto veramente dire, come Boileau di Malherbe, en-
fin Croce vint... Croce era venuto, e aveva profondamente trasformato e ordinato la nostra visione del mondo:
ma, con tutto questo, ci sarebbe parso im-
possibile accogliere la dottrina crociana come una 90
«soluzione», come un definitivo organum; il mondo si era ricostituito attorno a noi, e noi, per merito di Croce, avevamo ricominciato a pensare, oltre Croce, nel senso di Croce, e, magari, contro Croce...
Se, dal margine fluido e oscuro dei tempi di crisi in cui c’è toccato di vivere, ci volgiamo a considera-
re in prospettiva l’opera di Croce, nel significato che essa ha assunto per la nostra formazione mentale e morale, rileviamo i termini precisi di un contrasto
ancora per noi irresolubile. Se l'insegnamento crociano, nella sua formulazione ultima, di storicismo, o, come ebbe a chiamarlo il Colorni, di «empirismo trascendentale», ci sembra tuttora costituire la sola
struttura di pensiero coerente che possa oggi conservare per noi una certa validità,
è anche vero che
la nostra esperienza trabocca da ogni lato fuor di quello schema, in cerca di soluzioni ancora informulate. Né le altre direzioni che la filosofia e la cul-
tura contemporanea oggi ci propongono sono in grado, pur con tutte le ricchissime suggestioni che esse ci offrono, di sanare quel contrasto. Né la soluzione teologizzante delle teorie dell’atto puro, che dissolvono ogni nostra concreta domanda nell’inar-
ticolata coscienza dell’attività spirituale, in una ineffabile identità; né le altre che, riassumendo la crisi della speculazione moderna nei suoi termini acuti
ed estremi, pretendono di sistemare tale crisi filosofando lo stesso inevitabile fallimento del pensiero: soluzioni che minacciano di inchiodare la riflessione sulla condizione umana ad una sterile esperienza mistica dell’angoscia; né, infine, la riproposizione del marxismo, che, se pure ha il merito di ritornare a
sottolineare
con energia la necessaria implicazio-
ne dei piani cosiddetti superiori dello spirito con la struttura economico-sociale
(apportando,
così, una
dinamica e drammatica correzione a quanto nella visione crociana del mondo persiste ancora di astratto e di contemplativo), purtuttavia si presenta profondamente modificato dalla rielaborazione critica, rias-
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sorbito nella coscienza dello storicismo, a parte il suo
grandioso assumersi a una funzione pragmatistica e illuministica di mito sociale. Probabilmente la nostra insofferenza a placarci nella serena visione della realtà come storia, che è il
punto d’arrivo, e il più alto, raggiunto dalla speculazione crociana, sta nel carattere stesso di quella speculazione, che costituisce, più che una filosofia della vita, una filosofia della cultura: una filosofia del-
l’umano operare e produrre anziché dell’umano vivere, del dover essere anziché dell’essere, rispecchian-
te una historia sime res gestae. universo tutto ro» non è che
rerum gestarum piuttosto che le medeSe, allettati dalla chiarezza di quel suo intelligibile, dove l’ «ombra del mistel’ostacolo perennemente superabile e
superato del pensiero, abbiamo talora potuto sentir-
ci pienamente appagati, se la luce di quel suo pacato giudizio ha di volta in volta condannato le nostre riconosciute insufficienze e debolezze e ci ha bene-
volmente assistiti quando ci sembrò di avere attinto una forma superiore della vita, un valore di moralità e di cultura, troppo spesso esso ci mancò
quando,
muovendoci nel mondo inferiore delle passioni e dei vagheggiamenti, delle incertezze o delle rassegnazioni di cui è intessuta la nostra esistenza fondamentale, l’informe natura sembrava sopraffarci, e domande oscure e pur così umane e inevitabili,
spontaneamente si proponevano all’amico nostro, sepolto in una zona che, per il momento
almeno, ci
sembrava orbata di luci superiori, e ogni speranza di salute sembrava riporsi nelle forze stesse inconsapevoli di un flusso irrazionale. Ci parve, allora, arbitrario il disconoscimento
di
tanti problemi inerenti alla condizione e al destino
dell’uomo, e che lo scrupolo di ricacciarli nelle mitologie dell’impensabile non esaurisse una pur razionale esigenza. All’individualità empirica e particolare, col suo retaggio di dolore e di morte eternamente teso al riscatto della moralità e della cultura,
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ci sembrò andasse almeno riconosciuto un valore di limite, continuamente
attinto e rifuggito, come
a
quella trascendenza nella quale il pensiero umano, quasi per una misteriosa legge, ad ogni momento si urta attraverso la sua storia, e sempre vi sfugge riproducendola per negarla nel corso della realtà immanente. Nella definizione della storia come infinito progresso, in cui il male continuamente risorge per esser bensì vinto, ma non mai sostanzialmente
ridotto, la qualificazione di progresso ci parve il frutto d’una esigenza moralistica, d’una affermazione
vitale, d’una scelta, insomma, più che la constatazio-
ne d’una consolante verità. L’irriducibilità al pensiero del Croce di tanti motivi di pensiero e d’arte che oggi sentiamo tenaci nell'animo nostro, e che non possiamo negare essendone noi stessi, sia pure in minima parte, insieme
gli eredi e i responsabili, irriducibilità che sol-
tanto una superficiale volontà di conciliazione elusiva può ricondurre a una semplice «differenza di gusti», mi pare tragga radice dalla tendenza nettamente umanistica e classica del nostro filosofo ad affisarsi nei soli valori superiori ed esemplari dello spirito e nel suo disdegno a piegarsi verso i limbi, pur reali, dell’esistenza, che il segreto sforzo della nostra
epoca turbata mira, sia pure con modi ancora incerti e manchevoli, a risolvere anch'essi alla luce della
coscienza e della razionalità. Filosofia della «vita riuscita», quella del Croce, che, nella nostra epoca così
piena di realtà fallite e oscurate, ci lascia oggi, assieme a un così alto insegnamento, l’esigenza inappagata ad una sintesi più aperta, che abbracci e tenti di risolvere tra limiti più vasti le contraddizioni tra individuo e storia, tra vita e valore.
In questo nostro sforzo, in questi nostri erramenti, la dottrina del maestro rappresenta pur sempre
un valore normativo, di modello, di soluzione anco-
ra insuperata. Essa vive in questo nostro stesso sentimento «ambivalente», di attrazione e d’insofferenza
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insieme, per cui, anche quando ci sentiamo più lontani da essa, pur ne proviamo lo stimolo, come di una
esigenza di piena chiarezza e responsabilità, di una virile affermazione della coscienza verso ciò che sembra opporvisi, e che oggi soprattutto vogliamo mantenere ben fermo davanti a noi per meglio possederlo e dominarlo. 1946
NOTA 1952
La morte di Benedetto Croce segna, sì, l’arresto di una prodigiosa attività personale la cui influenza ha dominato nettamente gli ultimi cinquant’anni di storia nel campo delle scienze morali, contrassegnando energicamente le stesse reazioni ch’essa seppe suscitare. Ma non può interrompere il processo di penetrazione, di assorbimento e di trasformazio-
ne che il suo imponente apporto ha suscitato nello sviluppo del pensiero italiano. I nostri «conti con Croce» non sono finiti, e dureranno molto, molto tempo ancora. Non si deve
commettere l’errore dei passivi ripetitori, ossia di considerare la sua dottrina, anche in virtù della forma sistematica ch’essa assunse al suo inizio, come una specie di immobile «summa», una mostra di verità congelate. Ma, d’altra parte,
penso che un forte e vitale pensiero non potrà nascere in Italia che attraversando l’esperienza crociana. La sua esigenza centrale, quel concetto dell’«unità nella distinzione» che solo può evitare la sommersione, lo schiacciamento dell’uomo contro il flusso storico, e mantenere aperto il varco alla li-
bertà, rimane sempre insuperata, anche se attende nuove e duttili determinazioni per affrontare i problemi che i tempi nuovi impongono, secondo la curvatura dell’avvenire. Intanto, almeno materialmente, l’opera è dietro di noi, ormai ferma. E giunta l’ora di studiare e di ristudiare Croce con la serena, appassionata, austera obbiettività che onora i
grandi morti.
o
RELAZIONE SULLA CRITICA
Per offrire l’avvio ad una discussione sul tema della critica, letteraria e artistica, mi sembra ci si possa
limitare ad indicare quali siano, oggi, le principali tendenze della critica moderna in Italia.
Mercé l’infaticata opera, teorica ed esemplificativa, del Croce, che a suo tempo liberò questo terreno dai vecchi equivoci della critica pseudoscientifica, edonistica ed erudita, impostando con grande chia-
rezza didattica il problema sul campo filosofico e costringendo ad una coscienza sistematica discipline che vi erano un tempo disavvezze, il nostro compito si trova ad essere, oggigiorno, assai semplificato. Infatti, a differenza di quanto si verifica nella critica, ad esempio, francese, dove una estrema incertezza
e fluidità di concetti informativi provoca una quasi continua interferenza dei diversi piani, estetico, logico, morale, biografico ecc. — interferenza che, se spesso attinge ad un fertile empirismo, altrettan-
to spesso degenera in confusione di valori e di giudizi, che soltanto il vigore creativo delle singole personalità può valere a riscattare —, caratteristica della
nostra migliore critica di questo secolo è l’acuta co5)
scienza dei principii, la maturità teorica del punto di partenza. Ciò premesso, è bene dir subito che la principale corrente della critica italiana, tutt'oggi in pieno svolgimento e fioritura, è quella che, passata attraverso la grande chiarificazione crociana, e attingendo d’altra parte alle più vive fonti; anche straniere, del pensiero moderno,
tiene fermo
all’ancora
insuperato
concetto della fondamentale autonomia dell’arte. Nei suoi esempi migliori, questa critica appare essersi liberata dall’eccessivo teorismo e dal conseguente pericolo di interpretare letteralmente e dogmaticamente le definizioni sempre ampie e sfumate di una filosofia trasformandole, come talora è avvenuto, in una sorta di schemi preformati del gusto: anzi, l’ave-
re a suo tempo assorbito l’insegnamento del Croce nelle sue esigenze più aperte, le permette ora, senza bisogno di superflue riaffermazioni
teoriche, di
muoversi con estrema libertà fra due limiti, peraltro fluidi e intercomunicanti: quello che tende ad interpretare e a caratterizzare l’opera d’arte fin nelle sue più sottili determinazioni e sfumature di forma e di stile, e l’altro che nel ritmo e nel respiro stesso della forma mira a cogliere il senso umano, lo spontaneo
atteggiamento morale che suscita e fonda l’opera. Limiti fluidi, dicevamo, e sostanzialmente in funzione di una ricerca unitaria, che, sia muovendo dall’esterno, sia dall'interno dell’opera, dalla superficie dello stile o dal movimento dell’ispirazione, aspira a
fissare la singolarità e l'efficienza dell’opera stessa nella sua unità vitale e nella sua concordanza col mondo.
Dai risultati, ormai notevoli, di questa cor-
rente critica, che ha senz’altro dominato la prima metà di questo secolo, potranno anche trarsi, domani, nuovi interessanti svolgimenti e messe a punto
degli stessi concetti teorici che appaiono averla informata. Due altre tendenze si sono rivelate, recentemente,
nella critica italiana. La prima è quella che si è an96
data affermando, in un gruppo di giovani scrittori, sotto la tanto discussa etichetta di «ermetismo». Il pericolo, inerente alla critica più propriamente estetica, di una troppo netta separazione dell’arte dalla vita, di un disseccamento delle profonde sorgenti spirituali, motrici dell’arte come di tutto il resto, a
vantaggio di una interpretazione statica e formalistica dell’arte stessa, ha sospinto alcuni spiriti appassionati, talora animati da una latente ispirazione religiosa, a configurarsi l’esperienza letteraria sul piano dell’esperienza di vita, e a prospettarsi l’accostamento critico all’opera come una sorta di attiva e irripetibile avventura interiore. L’opera d’arte stessa finisce col restringersi, da questo punto di vista, ad una sorta d'espressione metafisica, a poetico documento
d’una situazione fondamentale di fronte alla vita, al cosmo, a Dio. Esempi francesi, e suggestioni mutuate, magari inconsapevolmente, dalle odierne filoso-
fie esistenzialistiche, non sono estranei a questa corrente, la quale, come si vede, sommuove preoccupazioni attualissime e di profondo interesse, pur presentando a sua volta due pericoli: la difficile traducibilità di elaborazioni spesso disperatamente interiori, e costrette perciò ad esprimersi in un linguaggio faticoso e divagante (donde la qualificazione di «ermetismo»); e la troppo esclusiva preoccupazione metafisica o religiosa, che induce spesso questi scrittori a perder di vista i lineamenti concreti ed oggettivi dell’opera singola, il naturale agio, la felice «gratuità» di tante sue espressioni, per interpretare l’opera stes-
sa unicamente come segnacolo o punto d’arrivo d’una pura esperienza metafisico-esistenziale: pericolo, quindi, per questa critica, di «saltare» l’opera d’arte e
di trasformarsi essa stessa nel grafico d’un’ardua e incomunicabile avventura mistica. La terza corrente — che doveva di necessità attendere la caduta del fascismo per affermarsi, ma che
pur tuttavia già in precedenza aveva dato qualche segno di vita —, è quella che, se anche impropriamente, BI
è stata definita come «critica sociologica». Essa parte da una sostanziale insoddisfazione del concetto di arte intesa come pura esteticità, e, correlativamente, da
un ricco senso del terreno storico-sociale da cui l’opera fiorisce, e dei riflessi morali che questa giunge a suscitare nell’ambiente in cui si forma e a cui si rivolge. Essa si richiama, naturalmente, al marxismo, co-
me a quella filosofia che ha meglio mostrato la profonda implicazione dei piani cosiddetti superiori dello spirito con le concrete strutture economicosociali della storia, ed ha punte di acre polemica contro tanti aspetti, peraltro tradizionali, del pensiero e dell’arte italiana, d’inaderenza alla realtà e di assenteismo nei
riguardi del tenace sforzo degli uomini per il conseguimento d’una vita migliore. E stata, e giustamente, obbiettata a questa posizione teorica l’astrattezza che consiste nell’isolare, nel complesso «condizionamen-
to» del fenomeno artistico, i soli aspetti economicosociali, attribuendo implicitamente a questi vere e proprie qualificazioni di valore; è stato altresì obbiettato che una considerazione «finalistica» verrebbe a sopprimere la necessaria autonomia dell’arte, e la stessa moralità implicita nel suo libero esplicarsi, trasformando l’arte medesima in una specie di propaganda, nobilissima e superiore fin che si voglia, ma pur sempre subordinata agli scopi dell’azione. Con tutto ciò, e in attesa che queste esigenze si attuino in esempi effettivi, sarebbe ingiusto nascondersi quanto in esse si racchiude di vivo e di attuale, e il fatto che
lo sforzo di questi giovani critici mira sostanzialmente a sempre meglio fondare una positiva considerazione del fenomeno artistico, nei suoi antecedenti e
nel suo svolgersi e trasformarsi a contatto coi reali aspetti della vita e della storia. Il concetto dell’arte e della letteratura, incline a pericolare, in un paese do-
ve vecchie tradizioni accademiche e arcadiche tendono immancabilmente a riaffacciarsi nei periodi di passività, verso astratti moduli retorici ed esornativi,
non può che riuscire irrobustito e fatto più serio e vi98
rile da un’esigenza tutta spiegata di umanità e di eticità. Tanto più apparendo difficile che giovani scrittori, passati attraverso le esperienze più recondite e sottili della poesia moderna, possano mai ispirarsi a forme deteriori e false di pseudo-arte «propagandistica». Queste sono, indicate sommariamente,
le princi-
pali direzioni della critica letteraria e artistica dell’Italia d’oggi. Tutte e tre affermano punti di vista e contengono germi d’indiscutibile validità, ma, come
sempre, la loro efficienza non può e non potrà dimostrarsi che enucleandosi in opere singole, frutto dell’insostituibile esperienza del singolo scrittore di critica. Secondo noi, l’indagine sugli antecedenti e sulle «finalità» dell’arte non potrà che far riscaturire, più viva e vitale che mai, la necessità della sua au-
tonomia: non già di un'autonomia statica e astratta, di isolamento dalle forze della vita, bensì d’una au-
tonomia dinamica, acutamente consapevole, per così dire, dell’eteronomia delle sue umane radici. Può
darsi infine che, come vent’anni fa Leopardi poté essere assunto a supremo modello delle nostre lettere moderne, sia giunto oggi il momento di riaccostarci al De Sanctis. E ad ogni modo su questi grandi motivi e aspirazioni verso l’avvenire che, io penso,
potrà imperniarsi l’odierna discussione sulla critica. 1946
99
LA CRITICA LETTERARIA IN ITALIA
Albert Thibaudet, nella sua Physiologie de la critique, distingue all’inizio tre specie di critica, la «critique
des honnétes gens», la «critique professionelle» e la «critique des artistes». Diciamo subito che questa tripartizione, se può essere valida per la critica francese, lo è assai meno per quella italiana, e ciò per mol te ragioni. La critica delle «honnétes gens», ossia quella spontanea,
«parlata», nata direttamente
dal
pubblico, o meglio dalla parte più illuminata di esso, è, come si sa, piuttosto povera in Italia — ove si eccet-
tuino certi particolari settori tradizionali, come la musica in alcuni centri — difettandovi, tra l’altro, una classe media evoluta, cui si trovino concessi i loisîrs
indispensabili per il raccoglimento degli studi ed il gusto delle arti. Non
che manchino,
da noi, finan-
zieri e professionisti di ampia cultura, mecenati e dilettanti di grande classe: ma restano casi isolati. Soprattutto è difettata all’Italia la tradizione del «salon», che tanta parte ha avuto nello sviluppo della letteratura francese degli ultimi secoli. I salotti letterari, milanesi o romani, dei nostri giorni, conservano
spesso un accentuato carattere professionale o sno100
bistico, marginale rispetto alla «società» vera e propria. Sarebbe anche difficile, oggi in particolare, indicare una linea di demarcazione troppo netta tra «critica professionale» e «critica degli artisti». L’estetica crociana prima, il criticismo liricista e «rondista» poi, infine gli influssi esistenzialistici, rendendo familiare il letterato con le teorie sull’arte e l’esercizio dell’analisi estetica, hanno finito col confondere i vecchi confini fra una critica «di idee» e una critica
di puro gusto. Anche l’altra opposizione, notata dal Thibaudet, tra una critica «di professori» e un’altra «di giornalisti», non ha molto senso da noi, dove pa-
recchi universitari collaborano alla «terza pagina» dei quotidiani, mentre
i più importanti scrittori di
«terza pagina», anche se privi di cattedra, non possono considerarsi certo dei puri giornalisti. Resta, naturalmente,
una
distinzione
obiettiva tra critica
«erudita» e storia letteraria da una parte, e critica «militante» dall’altra, forse con maggiori interferenze che altrove. Più che lo svolgere queste e altrettali considerazioni, come avrebbe detto il Thibaudet, «geografiche», di scarso aiuto in un paese dove l’uomo di let-
tere vive isolato e incline tutt'al più a partecipare a confraternite e a còteries di affini, malconscio di una sua «funzione sociale», gioverà, per delineare il panorama della critica italiana odierna, rifarsi a cor-
renti di pensiero e ad orientamenti metodologici. Da questo punto di vista, il campo della critica italiana potrà apparire, in un certo senso, più unitario
di quello francese, oltreché caratterizzato da problemi propri e particolari. Si deve, anzi, alla particolarità di tali problemi se, ad un recente congresso
del P.E.N. Club tenutosi a Venezia, e dedicato alla critica, parve
così difficile un
terreno
d’intesa
tra
scrittori italiani e stranieri. È inevitabile, parlando della critica italiana contemporanea, prendere le mosse dalla dottrina e dal-
101
l'esempio del Croce, la cui opera, dopo la morte del Maestro, che sola ha potuto porre un punto fermo al suo continuo sviluppo e perfezionamento, grandeggia, ormai conclusa, sull’orizzonte della cultura italiana. Gli scrittori italiani di critica, anche i più ribelli,
non possono negare l’efficacia radicale della «rivoluzione filosofica» operata dall’idealismo di Croce e di Gentile, e in particolare del primo, nei primi anni del ‘900. Sembra, anzitutto, non essere più am-
missibile il «candore teorico» del critico, se pur s’accompagni al gusto e all’erudizione. Tanto più che alcuni dei principali concetti del Croce ebbero la virtù di dissolversi - come notò uno scrittore marxista, il
Gramsci — in una sorta di diffuso «senso comune»:
sicché gli stessi cultori di cose letterarie e artistiche più sprovvisti di corredo teorico — forse costoro più degli altri — finirono per maneggiare, magari inconsapevolmente, distinzioni e terminologie crociane. In secondo
luogo, l’attenzione dei critici ha finito
col concentrarsi esclusivamente sull’elemento «poesia» o «fantasia» trascurando gli altri piani su cui si svolge l’opera letteraria. Poco fa il Momigliano rivolgeva un sospiro di nostalgia verso l’epoca in cui dominava il «Giornale storico della letteratura ita-
liana», verso un certo interesse per la vita e la storia riflesse nella letteratura (i «fatti»), che la critica storica dei positivisti e degli eruditi tenevano in sommo onore, e che la critica «estetica», crociana e post-crociana, fu invece incline a trascurare. Certo, l’apporto italiano in fatto di studi estetici, in questo mezzo secolo, non si è limitato all’opera del Croce. Tentativi di diverse sistemazioni teoriche, in opposizione all’idealismo crociano, o in prosecuzione di esso, furono di volta in volta affacciati fino a questi ultimi anni, con vario rigore speculativo, dal Gentile, dal Tilgher, dal Banfi, dal Baratono, dal Ca-
logero. Ma queste teorie si sono affermate, prevalentemente,
nel puro campo
102
filosofico, mentre
le
dottrine del Croce, che avevano il merito di sorgere, tra l’altro, da una diretta esperienza di critico letterario, giunsero ad operare presso i critici e i letterati, come acutamente aveva compreso uno dei migliori conoscitori francesi di cose nostre, il compianto Benjamin Crémieux, come una sorta di nuova retorica, sia pure presentantesi come negatrice d'ogni superstite retorica, da quella dei «generi letterari» a quella degli «stili», e imperniantesi prevalentemente sulla poesia come attività spirituale spontanea. Con la sua definizione del concetto dell’arte, ela-
boratasi per successive addizioni di grande evidenza descrittiva, il Croce riconosceva all’attività estetica il
suo carattere di forma autonoma e ne delimitava i confini, offrendo così un importante strumento di-
dattico ed interpretativo. In pari tempo, delineandosi attraverso una rara chiarezza concettuale e una visione pacata della realtà spirituale, l’idea crociana dell’arte operava un rovesciamento delle posizioni romantiche cui si richiamava, atteggiandosi ad una volontà e ad un gusto classici. Sotto questo aspetto, l’influenza del Croce appare avere esercitato una assai singolare funzione nella letteratura italiana contemporanea, durante il periodo di assorbimento dell’esperienza decadentistica europea e quello di elaborazione di nuove forme e di nuovi ideali artistici. Non mancarono, all’inizio, coincidenze abbastanza significative fra l’estetica del Croce, almeno nella sua prima formulazione, e le ricerche di
«poesia pura», che cominciarono ad affermarsi nei primi decenni del secolo, particolarmente col cosid-
detto «frammentismo lirico». Ma tali coincidenze furono, assai presto, rinnegate dallo stesso maestro, con
la generica condanna delle nuove tendenze come «sensuali» e «decadentistiche»: e, soprattutto, dai nuovi sviluppi del suo pensiero critico. In altre parole, la sua dottrina ebbe, parallelamente, una funzione chia-
rificatrice, di più intensa presa di possesso del fatto 103
estetico, e una funzione moderatrice e ritardatrice. È probabilmente si deve alla sua influenza, o meglio al-
l'aspetto della mente italiana che attraverso di essa si esprimeva, se le «rivoluzioni» artistiche e letterarie di questo mezzo secolo non ebbero, in Italia, la virulen-
za e la consequenzialità ch’esse avevano avuto in Francia. Se il futurismo, dopo la prima allegra esplosione, si concluse in una specie di piccola accademia avanguardista. Se l’ermetismo — che fu più tardi, sot-
to qualche aspetto, una sorta di equivalente italiano del surrealismo — restò definito su di un piano puramente letterario, del tutto privo delle implicazioni morali, pratiche, politiche che il surrealismo trovò in
Francia. Il clima della dittatura fascista, che tendeva fatalmente a isolare i risultati della esperienza letteraria dalla loro ganga vitale, dalle loro radici sociali, non è sufficiente a spiegare la forza di una tale inclinazione, che ad esso preesisteva, e in un certo senso
gli sopravvisse. L’opera critica del Croce, nel panorama della critica italiana d’oggi, va soprattutto considerata per
questo suo valore introduttivo ed esemplare, per la sua affermazione di un gusto classico, e per ciò stesso moderatore in un’epoca di trasformazioni. In questo senso vengono non poco a perdere rilievo le irreducibili determinazioni d’un temperamento, le sue istintive predilezioni, di fronte alla portata universalistica della teoria e dell'esempio. Furono peraltro notate come sintomatiche le preferenze del Croce verso gli artisti più istintivi, di più forte rilievo fantastico, che lo condussero a robuste analisi di poeti come Shakespeare e Ariosto: e una correlativa incertezza verso le forme più complesse, più ricche di strutture di pensiero, che lo portò a negare la fon-
damentale unità della Commedia; o a giudizi eccessivamente limitativi di lirici come Leopardi o Baudelaire. La distinzione palmare fra «poesia» e «non poesia», scendendo
dalla teoria alla esemplificazio-
104
ne, affidata alle inevitabili singolarità d’un gusto, alle sue irresistibili idiosincrasie, può talora operare separazioni meccaniche o arbitrarie. Comechessia, l’opera critica del Croce rappresenta oggi lo sforzo più organico e imponente che sia stato fatto in questo campo di studi nel mezzo secolo. Nocque alla fecondità dell’insegnamento critico del Croce il suo sollecito straniarsi dalle esperienze dell’arte e della letteratura contemporanee. La sua opera di critico «militante» si arrestò agli anni della giovinezza, e non oltrepassò, se non del tutto occa-
sionalmente, l’epoca che fu contrassegnata dai poeti della «triade», Carducci, Pascoli
e D'Annunzio, e
dagli altri scrittori a cavallo dei due secoli. L’atteggiamento risolutamente polemico contro il suo tempo — che può ricordare, se pure appena affidato a qualche moto di fastidio, quello di un Julien Benda — restrinse la portata dell’influenza crociana almeno nella misura in cui la critica, anche se rivolta al passato, suole trarre linfa e vigore nel suo nascere im-
plicata nelle esperienze artistiche contemporanee, acquistandone un senso di concretezza vitale. Per questo la critica crociana, affermando un certo ideale di classicità moderna, quale riusciva ancora ad
adattarsi ad artisti di natura in fondo semplice, come Carducci, D'Annunzio o Verga, non poté operare sul mondo della letteratura în fier, appunto, che come un freno, nella migliore ipotesi come un richiamo,
volta a volta salutare o deprimente,
al ri-
scatto della pura forma. Fu così che la critica venuta dopo Croce, mentre rimase fortemente ancorata al principio dell'autonomia dell’arte, e sostanzialmen-
te s’informò ad una distinzione fra espressione raggiunta ed elementi estranei alla poesia, dovette poi,
nel suo sforzo d’individuazione dell’opera letteraria, di presa di possesso dei suoi elementi costitutivi, svilupparsi oltre l'orbita crociana, ricorrendo a nuo-
ve fenomenologie e a più complesse motivazioni psi105
cologiche, stilistiche e culturali. In pari tempo, pur facendo a meno di nuove sistemazioni e aggiornamenti teorici, dissolse i rigori strutturali e gli schematismi inevitabili della dottrina crociana, risolven-
doli in una serie di grandi indicazioni ideali. Si ritornò, così, ad usare le distinzioni condannate dal maestro, di singole arti, di generi letterari, ma con
una maggior coscienza dell’unità del fatto estetico, che toglieva a quelle distinzioni ogni rigore dogmatico, riducendole a grandi determinazioni fenome-
nologiche e descrittive. Così, quella stessa coscienza dell’unità della poesia non impedì l’esame particolare delle strutture stilistiche nelle loro complesse
derivazioni. Così l’esigenza per cui il Croce aveva negato la storicità della poesia, e risolto la storia di es-
sa in singole trattazioni monografiche, si salvò egual mente, pur senza che si rinunciasse a prospettare in termini di narrazione storica il formarsi dei mondi e
degli ideali di cultura che la poesia irripetibile anima di volta in volta.
La nuova coscienza del fatto estetico, sviluppatasi attraverso il chiarimento crociano e la tradizione Vico-Hegel-De Sanctis, cui esso si richiamava, si trovò
agli inizi a contrastare con la tradizione della vecchia «critica storica». S'imponeva, in altri termini, lo stabi-
lire un nuovo rapporto tra critica e filologia, e questa sistemazione non si operò senza difficoltà. Sebbene il
rigore filologico del Croce fosse fuori discussione, non altrettanto poteva dirsi di molti suoi discepoli, e
l’affermazione del nuovo metodo tendeva pericolosamente, come a suo estremo, all’impressionismo criti-
co, e quindi ad una implicita svalutazione di certe zone di ricerca, specie di quelle meno direttamente connesse col fatto della poesia. Doveva di necessità operarsi un contemperamento, col declinare, da una parte, del gusto di una certa dispersione erudita, e, dall’altra, con un imperioso affermarsi della necessità di limitare i pericoli di arbitrarietà connessi alla pura
analisi estetica coi risultati della più accurata ricerca 106
filologica. In particolare le scuole di eruditi come Michele Barbi, Santorre Debenedetti, E.G. Parodi e Ce-
sare De Lollis (la rivista fondata da quest’ultimo, «La Cultura», rappresentò assai vivacemente questa fase di svecchiamento degli studi filologici) furono ricche di risultati fruttuosi in tale campo. Dovendo delimitare la nostra indagine alla filologia moderna, citere-
mo, accanto ad un maestro‘ come Ferdinando Neri, che ha indotto una vena francese nella nostra storia letteraria, universitari e studiosi come P.P. Trompeo, A. Zottoli, M. Praz, U. Bosco, M. Fubini, N. Sapegno, G.F. Contini, ecc., tutti all’altezza dello spirito nuovo nell’ambito di questi studi. Particolarmente i saggi
del Fubini mi sembrano esemplari di questa coincidenza acutamente ritrovata tra l’analisi estetica e i da-
ti dell'indagine filologica e stilistica. Anche nella storia generale della letteratura, la cui strada poteva pensarsi, dopo l’iniziale negazione crociana, irta di
spinosi problemi, i risultati furono notevoli. Attilio Momigliano, ad esempio, ci ha lasciato un’opera di
storico tra le più notevoli del nostro tempo. Il Momigliano ebbe a derivare dalla scuola del Graf e del Renier, assieme al gusto della precisione erudita, una certa venatura romantica, che contribuisce ad affermare, nei tre volumi della sua «storia», un alto e quasi religioso senso della poesia. Francesco Flora, accanto ad una ricchissima conoscenza dei testi, dimostra un gusto della freschezza e immediatezza dell’e-
spressione letteraria, che lo ricollega agli insegnamenti della prima estetica crociana. Un altro storico
di solida preparazione, Natalino Sapegno, ha recentemente indotto nell’ortodossia crociana un temperato marxismo, più che altro inteso a rivelare i legami dell’opera letteraria con le sue condizioni storicosociali, venendo così in qualche modo a riavvicinare l'insegnamento del maestro alle sue fonti desanctisiane. Un posto a parte deve assegnarsi a Luigi Russo,
natura vigorosa ed esuberante di universitario e di polemista, il quale, pur movendosi nell’orbita crociana,
107
più che all'analisi della poesia e delle sue strutture psicologiche e stilistiche, mira alla soluzione dei grandi problemi storici ed ideologici su cui s'imposta l’opera letteraria. Sfugge al raggio necessariamente limitato della nostra prospettiva il campo della pura critica filologica, che va illustre di nuovi nomi, come quelli di S. Battaglia, G. Billanovich, V. Pernicone, R. Spongano, V. Branca, ecc. Più ancora quello della filologia
classica, nel quale occorre tuttavia rendere omaggio alla memoria di Giorgio Pasquali, per le sue qualità di scrittore e l'ampiezza dell’interesse umanistico, che investe anche il mondo moderno e contemporaneo. Qualità che si riscontrano anche nell’opera di un maestro come Concetto Marchesi. Se, naturalmente, era spettato alla storia letteraria
il compito di stabilire le nuove zone d’intersezione tra critica e filologia, e se al suo travaglio è princi palmente affidato il problema, ereditato dal crocia-
nesimo, del senso e dei limiti entro cui si può parlare di una storicità dell’arte e della letteratura, alla cosiddetta «critica militante», che con più facilità
aveva potuto accogliere una estetica eminentemente fondata
sulla immediatezza
del gusto,
sarebbe
spettato di verificarne la portata nell’esperienza in divenire della letteratura contemporanea, e di indicarne le direzioni di superamento. Se, infatti, il classicismo crociano poteva ideal mente corrispondere, sul piano della creazione letteraria, a certe espressioni di felice naturalismo fine Ottocento, o a certe prime affermazioni di «poesia pura» (almeno nel senso di volersi unicamente poesia), era inevitabile che una prima frattura avrebbe dovuto manifestarsi col declinare di quegli ideali di pienezza artistica e morale, il che coincise coll’affermarsi dello stato d’animo sorto con la prima guerra mondiale, e, più, con la fine di essa, che fu contras-
segnata da una così forte ondata irrazionalistica. Se 108
uno
«stato d'animo»
non
è in grado, ovviamente,
d’intaccare la forza e la coesione logica di un sistema di pensiero, può tuttavia modificarne le esigenze e porre nuovi punti interrogativi. Particolarmente significativo fu il caso di Renato Serra, caduto sul Pod-
gora nel 1915, in cui confluirono lo spirito d’umanità classica della scuola carducciana, nella sua acce-
zione più austera e squisita, la coscienza critica derivata dall’insegnamento crociano, e le nuove esperienze del decadentismo nostrano ed europeo. La ricerca d’una sottile perfezione classica e sensibile, ap-
plicata ai testi contemporanei, con la parallela e tutta intuitiva coscienza d’una crisi, inducono alle sue
pagine una venatura di scetticismo malinconico. La sua breve opera esemplare, e l’intimità nativa del suo atteggiamento verso l’arte e la vita, esercitarono, e continueranno ad esercitare, un potente fascino. In un altro scrittore di critica, Giovanni Boine, morto
giovine al pari del Serra, e che come questi gravitò attorno al movimento che fu della rivista «La Voce»,
la coscienza di questa crisi si espresse invece in uno slancio di religioso irrazionalismo. Comunque
fosse, anche nel campo
della «critica
militante» l'insegnamento del Croce incontrava ormai dinamiche adesioni e reazioni, cominciava, cioè,
a vivere. E poteva suscitare, ad esempio, la ribellione «con-
tenutistica» di G.A. Borgese — di recente scomparso — che i lunghi anni passati in America allontanarono dalla critica «militante», ma che pur seppe riuscire,
a suo tempo, un brillante giornalista e polemista letterario. Da una posizione tutt’affatto opposta a quella polemica e ideologica del Borgese, ossia da una stretta
partecipazione al travaglio formale della nuova letteratura, mosse invece il compianto Alfredo Gargiulo — mente aristocratica e schiva di sottile distintore, che offerse, per la poesia di D'Annunzio e per la let-
teratura successiva fino al 1935 (almeno per quanto 109
riguarda certi suoi aspetti di «poesia pura», e, dall’altra parte, di ripiegamento descrittivo e discorsivo, il «saggio» e la «prosa d’arte») l’interpretazione forse più aderente. Partito anch’egli dal crocianesimo, offerse più tardi, come teorico, qualche suggestiva anticipazione, rivendicando l’importanza dei mezzi espressivi e la necessità di un’estetica imperniata sulla distinzione rigorosa delle singole arti. Ma, per quanto egli sia spesso ritornato su quei suoi concetti introduttivi, non sembra, dagli stessi scritti
postumi testé pubblicati, che gli sia riuscito di superare lo stadio della mera proposizione di nuove esigenze. Emilio Cecchi, senza pretendere a superamenti teorici, si è invece imposto con la forza del
temperamento personale, raggiungendo una forma di discorso critico estremamente aderente nell’individuazione degli autori e nel saggio delle loro qualità più istintive di forma e di stile. Con la sua opera di feuilletoniste letterario e di studioso di letterature straniere,
ha grandemente
contribuito
a creare
il
«clima europeo» della cultura italiana d’oggi. Dai tempi di Renato Serra, egli è il nostro scrittore di critica più «artista», più ricco di fantasia e di colore (qualità che egli ha, peraltro, trasfuso in un’opera
originale di «saggista»). E da rimpiangere che un certo scetticismo conservatore e una certa oscillazione di giudizi e di simpatie non gli abbiano finora permesso di trarre gli insegnamenti ricapitolativi ch’era legittimo attendersi da una delle esperienze più ricche del nostro tempo. Toscano come Cecchi, Pietro Pancrazi — altro gra-
ve recente lutto delle nostre lettere — affonda le sue radici nell'Ottocento, di cui fu uno dei nostri migliori conoscitori. Lettore «emunctae naris», scritto-
re elegante, seppe portare nell’esame delle cose contemporanee una sottile esigenza classica, venendo così a ricoprire un’autorizzata posizione di «destra» nello «schieramento» della critica militante. Quel suo gusto del concreto, quel suo senso di di110
staccata ironia lo aiutarono a scansare i mostri delle nuove eresie letterarie, imponendogli però anche una prudenza che può talora sembrare eccessiva. Per gli inizi di Giuseppe De Robertis occorre rifarsi alla frequentazione giovanile di Renato Serra. In De Robertis, sia che si eserciti sui testi classici, sia
che affronti le pagine dei contemporanei, si rintraccia qualcosa di quell’atteggiamento di partecipazione trepida e commossa, assieme ad una conoscenza approfondita delle strutture stilistiche e delle loro intricate derivazioni, che offre alla sua opera un saldo fondamento oggettivo. Un estremo di squisitezza lo induce talora a idoleggiamenti di pure forme e tonalità che possono apparire un po’ gracili. Ma anche in questa sottigliezza (che però è talora autentica aderenza) egli mostra di anticipare alcuni successivi sviluppi della giovane critica. È sia, ad esempio, Gianfranco Contini, il quale, universitario come il De Robertis, al pari di questi al-
terna la ricerca filologica ed erudita con lo studio della letteratura contemporanea, imponendo a quest ultimo lo stesso rigore di metodo e ricchezza di riferimenti, con risultati singolarmente
felici. Anche
Contini appunta la sua attenzione sui modi stilistici, sulle strutture formali dello scrittore, con l’intento
di ricostruire, per una sorta di grafologia, l’umana fisionomia di questi. Enrico Falqui ha mescolato un certo gusto «derobertisiano» all’umore polemico, affermandosi come cavalleresco difensore del «Novecento». Fra gli altri critici che hanno con più competenza seguito il corso delle lettere contemporanee, va segnalato A. Bocelli. Abbiamo visto in molti di questi scrittori, come Gargiulo, Cecchi, De Robertis, ecc., un vivo scambio con le parallele esperienze della letteratura creativa;
e già s'è accennato al fatto per cui tanta parte della
miglior letteratura italiana «fra le due guerre» è sta111
ta contrassegnata da un’assidua preminenza della coscienza
critica, o autocritica,
in un
senso
assai
prossimo a quello dell’affermazione di Valéry, per cui «chàque poòète porte un critique en lui méme, et l’associe à ses travaux». Un panorama della critica contemporanea italiana sarebbe manchevole, privo di un accenno a questa zona d’incontro, che rappresenta qualcosa di più o di diverso della definizione, data dal Thibaudet, di «critique des artistes». L’opera della rivista «La Ronda», nel primo dopo-
guerra, affermò l’esigenza di questo «rigore», sotto l’aspetto di un rinnovato classicismo, 0, meglio, di un ritrovato incontro fra classicismo e modernità.
Se, da un lato, questo atteggiamento poté pericolare verso una nobile accademia, dall’altro esso costituì un energico richiamo al senso stesso fondamentale dell’attività di scrittore. Gargiulo fu, in qualche
modo, il teorico del gruppo, di cui il capofila fu Cardarelli, che, con le sue pagine ispirate su Leopardi e sulla lingua italiana, ha acceso alcuni fascinosi miti letterari, e rivendicato un’idea moderna della tradi-
zione. A quella lontana esperienza si ricollegano o0ggi un Bacchelli, ricco d’umori e d’estri polemici; un Baldini, che sembra avere trovato la sua maniera de-
finitiva in certi saporitissimi excursus in margine alla storia letteraria, fra l’erudito e l’umoresco; un Raimondi, anch’egli sul crinale tra fantasia e critica,
con le sue delicate pagine di memorie autobiografiche e quelle su letterati e pittori. A parte si deve nominare il poeta Eugenio Montale, che tiene invece ben distinte poesia e critica, e
tratta quest'ultima, nella sua attività di cronista letterario, con una penetrazione e una sedimentata esperienza, che gli hanno permesso
di avvisare per
primo molti dei più interessanti autori moderni (ad es. Italo Svevo). Libri e saggi di critica hanno anche scritto romanzieri come Pavese, Angioletti, Bontempelli, Tecchi, Moravia, Piovene, Vittorini, ecc.
112
Un altro elemento che contraddistingue la moderna critica italiana è lo spirito nuovo portato nello studio delle letterature straniere: ormai sottratto
alla sterile curiosità dello «specialista» e diventato centro d’un interesse vitale, quale può essere dato dall’acuta consapevolezza d’un intrecciarsi di problemi che, oltre essere al di sotto-delle diverse tradi-
zioni, trovano sempre più un tessuto connettivo comune. Così, per la letteratura francese, possono oggi citarsi, oltre ai nomi già fatti di
Ferdinando Neri
e P.P. Trompeo, quelli di Vittorio Lugli, di Diego Valeri, di Carlo Cordié: scrittori che si nominano
qui
per comodità di discorso, ma la cui attività si sarebbe potuta illuminare anche sotto altri riflessi. Fra i più giovani, quelli di G. Macchia, e di Glauco Natoli. Per la tedesca, si possono ricordare Lavinia Mazzucchetti, Barbara Allason, Leone Traverso, il già citato B. Tecchi, Alessandro Pellegrini, Giovanni Nec-
co. Per l’anglo-americana, oltre a quello di Emilio Cecchi, possono farsi i nomi di Mario Praz, di Salvatore Rosati, di Luigi Berti, di Paolo Milano, e, fra i
più giovani, quelli di A. Guidi e di G. Baldini; per la russa quelli di E. Lo Gatto, di Renato Poggioli, e di
Leone Ginzburg, caduto nella guerra di liberazione. Buon
conoscitore
della letteratura francese
del
Sette e dell’Ottocento è anche Arrigo Cajumi, tipo di scrittore «controcorrente»,
i cui giudizi eversivi,
spesso ispirati a un dispettoso umore, possono non di rado urtare, senza che sia possibile negare la vivace tempra dello scrittore e del polemista. E poiché col Cajumi, feuilletoniste letterario della «Stampa», siamo involontariamente
ritornati, per uno di
quei bruschi spostamenti di prospettiva inevitabili in simile sorta di «panorami», nel campo della «critica militante», nomineremo Goffredo Bellonci, scolaro di Carducci, che da lunghi anni tiene, sul «Giornale d’Italia», la critica letteraria. La cattedra del «Corriere», occupata fino a ieri autorevolmente dal Pancrazi, è ora affidata a Cecchi, per la lettera-
1159
tura italiana, e a Montale per la francese e inglese. Anche Lorenzo Gigli, per la «Gazzetta del Popolo», può annoverarsi fra i più rappresentativi e assidui critici della «terza pagina». Per «l'Unità», vanno particolarmente ricordati Debenedetti e Muscetta. Il nome di Titta Rosa come critico è rimasto principalmente legato alla prima «Fiera letteraria». Citeremo anche due saltuari annotatori di particolare finezza, Guglielmo Alberti e Alberto Rossi (che di recente ci ha dato un importante studio sui Sonetti di Shakespeare, da lui tradotti). Per rendere infine omaggio alla memoria di Silvio Benco, che per lunghi anni ha seguito, con attento gusto e generosa simpatia, lo sviluppo delle lettere italiane contemporanee dalla sua specola triestina. Non è possibile, anche in un panorama, come il presente, strettamente limitato alla critica letteraria, lasciare senza un cenno le vivaci scambievoli interferenze con la critica delle varie arti, musica, figura-
zione, architettura e cinematografo. Il concetto uni tario dell’attività estetica, affermato
dal Croce,
sia
pure con esemplificazioni puramente letterarie, non tardò, infatti, a permeare anche gli altri campi dell’espressione, come ad esempio quello figurativo, in cui si trovò a combattere, in fruttuosi contrasti, con le altre teorie ivi dominanti, in ispecie quelle della pura visibilità. Accanto a critici letterari che, come
Cecchi, trattano con pari competenza anche di arti plastiche,
e a riconosciuti
maestri
come
Roberto
Longhi e Lionello Venturi, possono farsi i nomi di G. Argan, C.L. Ragghianti, C. Brandi, F. Arcangeli, E. Carli, Marco Valsecchi, Gillo Dorfles, e di numerosi
altri. Analogo discorso potrebbe farsi per la musica, l’architettura,
il teatro, il cinema.
Da questo
con-
frontarsi e intrecciarsi di esperienze e di suggestioni è arrivato al settore letterario un senso nuovo, assai concreto, della peculiarità dei mezzi espressivi, della natura, dello stile, ecc.
114
La maggior corrente della critica letteraria italiana contemporanea potrebbe definirsi entro questi larghi termini: laboriosa utilizzazione del chiarimento teorico crociano, e progressiva dissoluzione di questo in un istintivo atteggiamento fondamentale verso le cose dell’arte; confluenza, cammin facendo, di al-
tri apporti italiani e stranieri (per la Francia, ad esempio, Bergson, Thibaudet, Rivière, Alain, gli esi-
stenzialisti); coincidenza e verificazione del pensiero critico in alcune dirette esperienze d’arte; vivace scambio di influenze con la critica delle altre arti. Attraverso questo lavoro di assorbimento e di integrazione l’insegnamento crociano può dirsi oggi consumato e trasformato in sostanza vitale, come è destino
di ogni grande pensiero che si affacci nella storia. Per questo i critici ortodossamente crociani sono, 0g-
gi, rimasti in pochi. E alludiamo a quelli che valgono, perché degli altri, dei passivi ripetitori del «basso crocianesimo», non mette conto parlare: con la loro
applicazione meccanica di alcune formule sacramentali, buone ad essere riempite di qualsiasi contenuto, non hanno servito che a mettere in guardia contro il pericolo dell’ossificarsi di un pensiero che non sia costantemente discusso e messo alla prova. E, con ciò, il fondamento della critica italiana resta ancora oggi sostanzialmente idealistico, anche se es-
sa tende, nei suoi esempi più progrediti, a correzioni e aggiornamenti che, per restare il più spesso impliciti, non sono meno importanti e radicali. Già s°è accennato, in tema d’estetica generale, agli accenni teorici del Gargiulo. Dal canto loro, critici come Fubini
o Praz,
senza
accampare
pretese
filosofiche,
hanno elaborato alcune «messe a punto» assai significative, per quanto riguarda, ad esempio, l’integra-
zione di una critica stilistica in seno alla critica estetica, o la storicità delle espressioni dell’arte oltre la
loro considerazione individualizzante e monografica. Su questo argomento, portano nuovi lumi anche gli studi di «storia delle poetiche» che va svolgendo PI
Walter Binni. Un originale apporto allo sviluppo degli studi estetici è infine costituito dai recentissimi scritti di un critico d’arte, Cesare Brandi, il quale,
partito da una rielaborazione dei problemi inerenti alle arti figurative, sta ora investendo gli aspetti generali dell’espressione artistica, ivi compresa quella letteraria, e innestando sul fondo idealistico nuovi motivi, esistenzialistici e fenomenologici.
Siamo con ciò alle soglie della giovane critica, intendendosi l’aggettivo non tanto nel suo significato anagrafico, quanto nell’altro di una irrequietezza protesa verso l’avvenire, di una insofferenza per le «idee ricevute», di una nuova «rottura» di schemi di
pensiero e di una riproposizione dei problemi stessi fondamentali inerenti al senso e al valore della let-
teratura e dell’arte nei rapporti con la vita. Già s'è all’inizio accennato al fatto che le filosofie dell’arte elaborate successivamente all’estetica crociana ebbero scarsa influenza sulla critica letteraria: neppure quella, notevole per forza speculativa, del Genti
le, che, col suo ricondurre ogni categoria alla spontaneità indistinta dell’atto del pensiero, avrebbe potuto servire da efficace correttivo al pericolo di trascendente astrattezza delle distinzioni crociane. E
neppure l’altra, vitalistica, del Tilgher, che l’autore aveva applicato nei propri studi sul teatro contemporaneo, in ispecie sul Pirandello. Più fortuna ebbe forse il problematicismo di A. Banfi presso alcuni critici settentrionali. Può darsi che l’esistenzialismo, il quale rimane per ora sostanzialmente confinato al campo filosofico, avvivi anche da noi, come altrove,
un serio pensiero critico. E anzi da auspicarsi che i filosofi italiani, solitamente troppo circoscritti ai problemi
generali
ed astratti, scendano
ad incon-
trarsi coi critici nell'esame concreto delle cose della letteratura e dell’arte. Per ora le eccezioni sono poche: una, recente, quella di Enzo Paci, che ha tolto a motivo di considerazioni filosofiche alcuni grandi scrittori moderni.
116
Può quindi affermarsi che questa irrequietezza e questo bisogno di nuovi motivi — paralleli, per altro, a quelli che si svolgevano in altri paesi — siano sorti nella critica italiana per una necessità spontanea, indipendentemente da consapevoli e rigorosi orientamenti di pensiero, bensì in diretta correlazione con
le esperienze della poesia e del romanzo, che da troppo tempo contraddicevano allo spirito di sicurezza e di saldo possesso del mondo implicito in ogni filosofia idealistica. Come altrove, si parlò di «crisi» e di «frattura». L’accento delle nuove esigenze veniva a cadere sull’irresistibilità della lacerazione, sulla stessa assenza di chiusura logica del pensiero: in un richiamo alla solitudine dell’individuo, o
in un rinvio alle totali maturazioni della storia. Due nuove tendenze, assai distintamente riconoscibili, si vennero così formando nella critica italiana. La prima, nota sotto la discussa etichetta di «er-
metismo», si può inizialmente ricondurre a un senso di insoddisfazione verso la critica più propriamente «estetica», col pericolo ad essa inerente di una troppo netta separazione dell’arte dalla vita, e
di una conseguente fissazione formalistica ed esemplare della struttura del fenomeno artistico. Fu così che alcuni spiriti giovanili ed appassionati, talora mossi da una fondamentale ispirazione religiosa, furono sospinti a configurarsi l’esperienza letteraria sul piano dell’esperienza di vita, e a prospettarsi l’accostamento all’opera d’arte come una sorta di attiva e irripetibile esperienza interiore. Esempi francesi (Gide, Rivière, Du Bos) e suggestioni mutuate, più tardi, dall’esistenzialismo, non furono estranei al formarsi di questa tendenza, che veniva a riaffermare la
natura problematica e «totale» di ogni esperienza estetica, la quale diventa perciò unica e insostituibile anche per il lettore o spettatore. Il pericolo di questa critica era, a sua volta, quello di perdere d’occhio i li-
neamenti concreti ed oggettivi dell’opera singola, per trasformarsi nel grafico d’una sorta di itinerario 117
mistico. Da ciò anche l’uso d’un linguaggio faticoso e divagante,
tra il sensibilistico
e l’astratto, come
quello costretto a modellarsi su elaborazioni spesso disperatamente interiori (e da ciò appunto la qualificazione di «critica ermetica»). Il clima di solitudi-
ne culturale indotto dalla dittatura politica aggravò l'esigenza della «cifra». E, per cogliere il vero senso
di quella esperienza, oggi in via di dissoluzione e di riassorbimento, è necessario rifarsi alle riviste e piccole riviste attraverso a cui si espresse: dalla più importante di esse, «Solaria», al cattolico «Frontespizio», a «Campo di Marte», a «Corrente», a «Prospet-
tive». Dissipati i numerosi equivoci, le illusioni e le confusioni dei «programmi» oggi è d’uopo riconoscere che all’ermetismo, insieme a molte scorie d’arbitrio e di fumisterie, si deve un reale sforzo d’interiorizzazione, e, in dipendenza di ciò, anche una
certa attitudine a cogliere gli aspetti della poesia più delicati e inafferrabili, più ribelli ad essere precisati nel comune linguaggio critico. Carlo Bo, con la sua opera voluminosa
e diffusa, che però negli ultimi
anni si è andata chiarendo
e definendo
notevol-
mente, può considerarsi, nel bene come nel male, il
più significativo rappresentante di questa tendenza. Alla quale si ricollegano un poeta come Mario Luzi, con una così precisa attenzione alle ragioni intime dei grandi esemplari della poesia, e scrittori come Piero Bigongiari e Alessandro Parronchi. Così Oreste Macri, ma con una ricerca di strutture filosofiche, e un senso moderno del mito. Alle esperienze di «Solaria», e dell’ermetismo fiorentino, deve pure qualcosa Giansiro Ferrata, spirito irrequieto e ricco di fantasia, che ha partecipato at-
tivamente alle vicissitudini culturali dell’ultimo decennio, non escluso il marxismo, vivendone intensa-
mente le esigenze e le contraddizioni. Qualcosa dell’esperienza ermetica si è pure filtrata in Luciano Anceschi, anch'egli critico di formazione filosofica e fenomenologica,
pensoso
118
della crisi della civiltà
umanistica. E la stessa esperienza ha, per altra via, aiutato Aldo Borlenghi a sempre meglio affinare le sue delicate analisi di scrittori classici e contemporanei. L’altra tendenza —- continuiamo, naturalmente, a
semplificare, perché l’interferenza tra queste correnti è pressoché continua — si potrebbe denominare, e lo è stata talora di fatto, «critica sociologica».
Per quanto essa abbia dovuto di necessità attendere la fine del fascismo per dichiararsi apertamente, già
in tempo fascista aveva dato qualche segno di vita. Anch’essa parte da una insoddisfazione del concetto di arte come pura esteticità, ma, correlativamente, da un ricco senso del terreno storico-sociale su cui l’opera fiorisce, e delle influenze ch’essa giun-
ge a suscitare nell’ambiente in cui si forma e a cui si rivolge. Essa si richiama principalmente al marxismo, come a quella filosofia che ha maggiormente insistito sulle profonde implicazioni dei piani cosiddetti superiori dello spirito con le concrete strutture economico-sociali. La critica di ispirazione marxista, a contatto con l’idealismo crociano, ché anch'essa si
rifaceva alla comune origine hegeliana — e del resto lo stesso Croce aveva, in gioventù, compiuto la sua brava esperienza marxista —, ha avuto in Italia un de-
stino più difficoltoso e complesso che altrove. Già abbiamo parlato di Natalino Sapegno. In Giacomo Debenedetti, che indusse nel suo fondamentale
at-
teggiamento idealistico una grande finezza di interpretazioni psicologiche nei suoi studi su poeti e romanzieri moderni, l’appello all’ideologia marxista s’affaccia piuttosto come un’invocazione romanticamente disperata a un approdo, a una salvezza da un mondo di crisi. Si tratta, in ultima analisi, di coloriture e venatu-
re, che non infirmano l’atteggiamento fondamentale di questi critici, il quale rimane definito nei grandi termini idealistici già accennati o in quelli delle successive esperienze più o meno ermetistiche. In 119
critici come
Muscetta o Salinari, e in genere negli
scrittori di «Società», la tesi sociologica si confonde più spesso con quella puramente storicistica. Diversamente, in Mario Bonfantini si colora di nostalgia verso certo umanitarismo
ottocentesco,
mentre
in
Remo Cantoni, con interessi più filosofici che letterari, si arricchisce di temi esistenzialistici,
e in Fran-
co Fortini incide sull’acuta coscienza del contrasto fra l’artista d’oggi e un mondo in crisi e in trasformazione. Era comunque
difficile, in Italia, che scrittori pas-
sati attraverso i fuochi incrociati di tutte le esperienze moderne, potessero passivamente adattarsi all’idea di una letteratura e di un’arte di «partito», come
negli esempi del marxismo deteriore. Per questo lo sforzo verso una letteratura engagée non poteva porsi da noi che in un modo estremamente indiretto e complicato, che cercasse soprattutto di non urtare contro quella acuta coscienza dell’arte come spontaneità che tutto il pensiero estetico italiano, da Vico a De Sanctis a Croce, aveva così potentemente affer-
mato. Per questo l’esperimento della rivista «Il Politecnico», diretta da Elio Vittorini, non poté conclu-
dersi che con un sostanziale riconoscimento del generoso equivoco. Né il contrasto appare sanato nei quaderni letterari postumi scritti in carcere durante il fascismo da A. Gramsci, capo e teorico riconosciu-
to del primo comunismo italiano, recentemente venuti alla luce. Il vigoroso intelletto di Gramsci, diviso
fra l’idea di autonomia dell’arte affermata dall’estetica crociana e l’esigenza unitaria del marxismo, impostò con estrema chiarezza e con un’insistenza quasi tormentosa il problema dei rapporti tra arte e società, arte e politica, ma non riuscì esso neppure a superare l’antinomia, finendo col riconoscere che l’in-
tervento del politico perché l’arte del suo tempo esprima determinati contenuti culturali è pur sempre un fatto di politica, non di critica artistica. Resta dunque,
in conclusione,
»
*
SEO
che l’istanza più
profonda dei critici di tendenza marxista esprime soprattutto un bisogno di concretezza storicistica. In questo senso, pensiamo, ne va accettata la portata positiva, in quanto mira a fondare una più ricca filologia (con particolare riferimento, stavolta, alla struttura economico-sociale), e respinto il punto d’arrivo, in quanto viene a togliere senso e valore all’esperienza artistica o letteraria al di fuori della prospettiva storica (e, correlativamente, delle mire del-
l’azione). Ché, anzi, lo scopo di una miglior filologia non può essere che quello di portarci a sempre meglio «leggere» l’opera di poesia, ossia a rivelarne l’attualità, non
certo quello di renderla estranea e il-
leggibile se non nei modi trasposti e problematici della prospettiva storica: sotto pena di cadere in una flagrante contraddizione, o di chiudersi in un filolo-
gismo inerte.
Inoltre, la riaffermazione dell’interesse umano e sociale dell’opera d’arte, ove non si risolva in un’i-
nutile tautologia, può dimostrarsi un buon correttivo alle tendenze accademiche e formalistiche di continuo riaffioranti in una letteratura come la nostra, eminentemente tradizionalistica: a patto di tener ben presente che l’imposizione di astratti contenuti all’artista, come dimostrano esempi storici anche recenti, non
può aver altro effetto immediato
che quello di creare nuovi formalismi e nuove accademie, assai più rigidi e sterili di quelli ricorrenti per generazione spontanea. I nuovi
motivi,
spiritualistici o sociali, non
con-
traddicono di necessità all’idea dell'autonomia dell’arte, ossia della sua spontaneità, che è quanto dire
della sua esistenza stessa: bensì esprimono la consapevolezza sempre più intensa dell’eteronomia delle sue radici storiche, delle sue ragioni vitali. Come ha a suo tempo affermato un critico americano, F.O.
Matthiessen, «quanto è più larga la sfera dei suoi interessi, tanto meglio il buon critico sarà in grado di assolvere il suo compito». dat]
Che la nostra critica sia giunta a questo punto supremo di sintesi e di chiarezza, in cui il valore este-
tico abbia a rivelarsi nel suo rapporto naturale e spontaneo con la vita nel suo complesso senza tuttavia confondersi
con
essa, non
può dirsi, ma
può
senz’altro affermarsi ch’essa si trova su questa strada. Frattanto, sotto altro aspetto, si può notare, nei giovani critici educatisi alla scuola di maestri, anziani o meno anziani, come il Barbi, il Momigliano, il De Robertis ecc., la compresenza di un senso vivo
della modernità e di un interesse fondamentale per la letteratura del passato, compresenza che anima e l’uno e l’altro registro. Così, ad esempio, in perso-
nalità già formate come Claudio Varese, Glauco Natoli, Giovanni Macchia, Lanfranco Caretti, Adelia Noferi, Adriano Seroni, Ettore Bonora, Geno Pampaloni, Ferruccio Ulivi, Sergio Antonielli.
Considerando l’indirizzo generale dell’attuale critica italiana nelle sue grandi linee, si può costatare,
dopo il momento della concentrazione teorica sull’essenza della poesia, rappresentato dal pensiero crociano e dalle sue elaborazioni marginali e successive, un nuovo apporto di interessi, umanistici e culturali, che vanno dai più sottili problemi della formazione delle strutture formali e stilistiche a quelli che investono i fondamentali rapporti della espressione estetica con la vita morale e sociale. Se questi nuovi interessi potranno non sviarsi e sapranno fermamente innestarsi su quell’approfondita coscienza dell’autonomia dell’arte elaboratasi lungo il mezzo
secolo,
la critica italiana andrà
incontro
a
fruttuosi sviluppi, mantenendosi a quell’altezza qualitativa che appare aver oggi raggiunto. N.B. Il presente «panorama», come del resto s’intenderà agevolmente per i suoi riferimenti, e per certi excursus e precisazioni superflui per il lettore italiano, fu scritto per una rivista francese, che ne pubblicò ampi stralci. Un discorso per il lettore italiano avrebbe dovuto necessariamente approfondire certi punti, e impegnarsi più decisamente nelle sue con-
22
clusioni. Se, comunque, il «panorama», viene qui pubblicato nel suo testo originale e integrale, con qualche necessario ri-
tocco e aggiornamento, è perché penso che costituisca, tutto sommato, cosa utile quella di cercare di tradurre in un linguaggio «di scambio» certe esperienze che ci ostiniamo a considerare troppo «nostre», anche se in tale sforzo vada sminuito, a vantaggio d’una obiettivazione forse un po’ sommaria, il senso di una originalità culturale che è forse anche un
poco una condanna.
1955
123
«LETTERATURA E VITA NAZIONALE»
Questo sesto volume delle opere di Gramsci, Letteratura e vita nazionale, da tempo annunciato, era atteso con una certa impazienza negli ambienti letterari, e per le «punte» che si mormorava esso contenesse
contro uomini e correnti letterarie del periodo fascista, e per le indicazioni di metodo che da un forte in-
telletto come quello di Gramsci si sarebbero potute trarre nel senso di una critica «marxista»,
e comun-
que contrassegnata da una viva coscienza del lato storico e sociale della realtà artistica. E si può ben dire che l’uscita del libro non ha deluso l’attesa. Una così eccezionale testimonianza, come quella resa dal
fondo d’un carcere sugli aspetti d'un mondo da cui lo scrittore viveva atrocemente separato, viene spesso ad assumere la forza, più che di testimonianza, di giudizio. Ché, se taluni apprezzamenti possono magari sembrare acidi e ingiusti, non è permesso dimenticare che Gramsci è uomo di lotta, e che anche
in questa sua attività apparentemente disinteressata e marginale, di casuale annotatore, egli impegnò tutto se stesso, e la profondità d’una convinzione garantita dal sacrificio della libertà e della stessa vita.
124
E, per quanto riguarda particolarmente la letteratura, è bene dire subito che Gramsci dimostrò fin dall’inizio ottime qualità di critico letterario, come
appare dalle cronache ch'egli scrisse per l'edizione torinese dell’«Avanti!» nel quadriennio 1916-1920, raccolte in appendice al presente volume. Viene, a questo proposito, spontaneo un confronto con
quelle che, in anni successivi, Gobetti redasse per l’«Ordine nuovo», trascelte poi nella Frusta teatrale:
soprattutto, per il comune interesse storico-morale, e l’ansioso riferimento alla particolare situazione italiana. Forse in Gobetti, pur attraverso una formazione più travagliata e immatura, ci fu un gioco intellettuale più curioso e un più vivo contatto e complicità con le esigenze della letteratura contemporanea. Gramsci, in compenso, mostra una ricerca d’umanità essenziale, quindi di poesia, ispirata alla miglior
lezione
del suo
Croce,
una
chiarezza
d'impostazione e un’arguzia di stile e un’autorevolezza didattica di grande efficacia. E chiaro, inol-
tre, che l’ufficio del cronista teatrale comprende solo per una parte quello di critico letterario: la rappresentazione
scenica, che più delle altre for-
me d’arte mostra al vivo i suoi inestricabili legami con gli aspetti cangianti della moda sociale e del costume, implica anche altri più complessi e mobili e sfuggenti elementi di giudizio. L’interesse di Gramsci non si limita, infatti, alla «poesia» teatrale, ma investe il teatro come espressione e funzione sociale, e persino come fatto economico: così
nella tagliente polemica contro i monopolisti dei teatri torinesi. Chi rammenta la vita teatrale della Torino di quegli anni, non può che controllare, at-
traverso queste note di cronaca, la giustezza e l’organicità delle reazioni del Gramsci e il loro spontaneo inserirsi sui crescenti interessi del politico e del sociologo. E saranno questi, ormai,
125
a dominare nelle «note
del carcere», in cui la letteratura contemporanea — la quale, peraltro, più che direttamente dai testi, filtra a lui attraverso articoli di giornali e riviste —, è considerata si può dire esclusivamente nel suo rapporto con la vita nazionale, ossia come espressione sociale e destinata alla società. Attraverso di esse è permesso seguire il filo d’un discorso interiore lucidissimo, pervaso da una logica che, per essere pacata e sottile, è nondimeno, nella sua stessa acutezza, indice d’un lavorîo instancabile e tormentoso.
Come in altri gruppi di note d’argomento politico e filosofico, il dialogo è fra l’idealismo crociano e quella che, nei suoi quaderni, è definita come
«fi-
losofia della prassi», ossia il materialismo storico. Questo stringente dibattito interiore, quasi sempre
sottinteso, gli permette di serrare il problema da più punti, nella ricerca d’una soluzione-sintesi, ta-
lora intuita, forse non mai raggiunta in modo compiuto (ed è in questa lotta tra due esigenze, altrettanto sinceramente sofferte e perseguite, l’aspetto più suggestivo e commovente della meditazione gramsciana). Da un lato, egli sembra sostanzialmen-
te accettare la premessa crociana dell’autonomia dell’arte (distinzione che rimane per lui praticamente valida, anche se egli la considera filosoficamente ideale ed astratta): «Il concetto che l’arte è
arte, e non propaganda politica “voluta” e proposta, è poi, in se stesso, un ostacolo alla formazione di determinate correnti culturali che siano il riflesso del loro tempo e che contribuiscano a rafforzare determinate correnti politiche? Non pare...»; «Ciò che si esclude è che un’opera sia bella per il suo contenuto morale e politico, e non già per la sua forma, in cui il contenuto astratto si è fuso e imme-
desimato»; «Che l’uomo politico faccia una pressione perché l’arte del suo tempo esprima un determinato mondo culturale è attività politica, non di critica artistica». E subito dopo egli tenta il raccordo: «se il mondo culturale per il quale si lotta è 126
un fatto vivente e necessario, la sua espansività sarà irresistibile, esso troverà i suoi artisti». Più avanti an-
cora, egli sottolinea il tema marxista della «coercizione sociale» per giustificare una «letteratura funzionale» alla stessa stregua della «architettura funzionale» di cui già allora si parlava: «La coercizione,
l’indirizzo, il piano, sono semplicemente un terreno di selezione degli artisti, nulla più: e da scegliere per scopi pratici, cioè in un campo in cui la volontà e la coercizione sono perfettamente giustificati ... Si tratta in fondo sempre di “razionalismo” contro l’arbitrio individuale
... In realtà, la coerci-
zione in parola è combattuta perché si tratta di una lotta contro gli intellettuali e contro certi intellettuali, quelli tradizionali
e tradizionalisti,
i quali,
tutt'al più, ammettono che le novità si facciano strada a poco a poco, gradualmente». Parrebbe un tentativo di giustificazione delle «pianificazioni» sovietiche nel campo della cultura. Ma poche pagine prima, con il più vivo senso d’una insuperabile antinomia, discutendo delle idee di Paul Nizan in fatto di politica culturale, egli osservava con grande verità, se pure sotto un angolo visuale un po?’ astratto,
che «per l’uomo politico ogni immagine “fissata” a priori è reazionaria: il politico considera tutto il movimento nel suo divenire. L’artista deve invece avere immagini “fissate” e colate nella loro forma definitiva. Il politico immagina l’uomo
come
è, e,
nello stesso tempo, come dovrebbe essere per raggiungere un determinato fine ... L'artista rappresenta necessariamente “ciò che c’è”, in un certo momento, di personale, di non-conformista ecc., realisticamente. Perciò, dal punto di vista politico, il
politico non sarà mai contento dell'artista e non potrà esserlo: lo troverà sempre in arretrato coi tempi, sempre anacronistico, sempre superato dal movimento reale».
Con la stessa lucida e tormentata acuzie egli sì disponeva a trattare sistematicamente il problema 127
della mancanza, in Italia, d’una letteratura nazionale-popolare, a differenza della Francia e di altre nazioni: ed è un peccato che, dopo aver tracciato l’elenco delle tradizionali questioni, egli non abbia potuto proseguire, anche qui, a trattare il suo argomento in modo organico, permettendoci di afferrare il suo pensiero soltanto attraverso luminosi e suggestivi accenni, perloppiù polemici. Il tasto ch’egli non si stanca di ribattere è, in armonia con la sua concezione d’un integrale rinnovamento sociale e morale, e della sua interpretazione del Risorgimento, la necessità, per la letteratura italiana, di
raggiungere uno stadio nazionale autoctono, finalmente fondato su di una vasta base popolare. Su questo punto, egli critica le astratte concezioni cosmopolitiche, care a molti scrittori di sinistra, e fin
dall’inizio prende le mosse dalle ultime pagine della Storia del De Sanctis e dei saggi dell’ultimo periodo, come
La scienza e la vita, per riproporre la
medesima profonda esigenza rinnovatrice. E anzi tutto chiaro, per lui, che la letteratura non si rinnova con la letteratura, ma rinnovando la vita, «ri-
facendo l’uomo». Egli qui mostra d’aver letto e inteso in profondo la lezione crociana, pur offrendone uno svolgimento marxista: «Lottare per una nuova arte significherebbe lottare per creare nuovi artisti individuali, ciò che è assurdo, poiché non si
possono creare artificiosamente gli artisti. Si deve parlare di lotta per una nuova cultura, cioè per una nuova vita morale, che non può non essere intimamente legata a una nuova intuizione della vita, fino
a che essa diventi un nuovo modo di sentire e di vedere la realtà, e quindi mondo intimamente connaturato con gli “artisti possibili” e le “opere d’arte possibili”». Ciononostante, fedele al suo metodo di
attaccare l'argomento da molte parti, talora egli assume atteggiamenti «interventistici» di «andata verso il popolo» un poco astratti, come laddove si spinge a suggerire una ripresa del melodramma o del 128
romanzo d’appendice. Ma è in questo campo della «letteratura popolare» che gli interessi di Gramsci, le sue inesauribili curiosità culturali, si appuntano più volentieri, elaborandosi in una ricca messe
di
osservazioni, cui non fu certamente estranea la giovanile esperienza di militante nell'ambiente operaio torinese. Le sue riflessioni sulla psicologia del lettore popolare, sugli eroi del romanzo d’appendice e poliziesco, sulla stampa confessionale ecc., so-
no destinate a rimanere fondamentali per ogni ulteriore ricerca in quella materia. Era naturale che la letteratura nostra negli anni della sua prigionia, coi suoi tradizionali vizi particolarmente rilevati dal clima fascista, dovesse apparirgli profondamente irriducibile a quell’ideale «nazionale-popolare» ch’egli vagheggiava: ed egli ha, contro di essa e molti dei suoi rappresentanti di rilievo, mordaci
spunti polemici. Certo, anche il fa-
scismo si era proposto, almeno a parole, di operare nella letteratura italiana un rinnovamento in un largo senso nazionale: ma le sue suggestioni rimasero inoperanti, o si conclusero in una zona manifestamente inferiore. Evidentemente Gramsci alludeva a questi sforzi, allorché, accennando alla «irresistibilità» di un nuovo mondo morale e culturale, nota
che proprio la inefficienza di questo nei confronti dell’arte indicherebbe invece trattarsi «di un mondo fittizio e posticcio, elucubrazione cartacea di me-
diocri che si lamentano che gli uomini di maggior statura non siano d’accordo con loro». Qui avrebbe otuto, con precisione, innestarsi una valida critica liberale: che in Gramsci, al solito, rimane solo ac-
cennata, mentre è chiaro ch’egli riserba il carattere di «irresistibilità» ad un nuovo mondo culturale che sorga da uno sviluppo storico in senso marxista. Oggi, si può osservare che alla critica italiana del tempo fascista era praticamente interdetto di prendere coscienza del rapporto letteratura e politica, letteratura e vita nazionale, se non camuffando, e in de-
129
finitiva falsificando, tale coscienza attraverso formu-
le fascistiche. Sicché lo sforzo della critica migliore si operò in un campo lontano dagli interessi del Gramsci, campo che solo poteva sfuggire all’ingerenza politica, quello della concreta effettualità della forma, e dei sottili rapporti estetici e morali che essa sottintende. Né questa prevalenza del puro interesse estetico fu del tutto negativa, come poteva sembrare al Gramsci, neppure dal punto di vista po-
litico-culturale in cui egli si poneva: ché quello stesso distacco — peraltro, nei migliori, soltanto apparente — da un humus storico e sociale troppo deter-
minato, costituiva già di per sé una critica implicita all’anacronistico mondo del nazionalismo fascista, e un bisogno di più ampi orizzonti. Ma si potrebbe, a questo punto, osservare che la critica di Gramsci va più in là, ed investe la stessa carenza, in una strut-
tura sociale, di un organico sviluppo storico, risalendo così alle cause ultime della crisi di una letteratura. E qui si giunge ad un punto cruciale, che è quello dei limiti di validità di una dottrina che ad un tale sviluppo storico offre un senso e un piano «a priori»: e la discussione andrebbe a sfociare nel tema formidabile degli stessi destini dell’Italia e del mondo. Basti notare che, sotto il punto di vista degli interessi più vivi del Gramsci,
la nostra letteratura
di
quegli anni, che gli giungeva peraltro filtrata, come s'è detto, attraverso articoli di giornale e discussioni addomesticate su riviste, doveva offrirgli proprio il
suo aspetto più ingrato e mortificante. Né il Gramsci si avventura a giudizi di indole estetica su opere specifiche, e gli stessi movimenti letterari sono da lui considerati essenzialmente sotto il profilo morale e politico. Molto, anche sotto questo profilo, si potrebbe discutere. E, anche al critico più severo della nostra recente letteratura, parrà che il ricondurre
genericamente le esperienze della nostra poesia recente sotto l'etichetta di «secentismo» o di «neolali130
smo» sia un po’ troppo sbrigativo. Ché la loro necessità profonda — a parte l’inevitabile fastidio degli imitatori ed epigoni — è comprovata dal loro contemporaneo affacciarsi in tutte le letterature, pur attraverso il differente condizionamento storico. Anche ponendosi da un punto di vista marxista, si poteva osservare la fondamentale ambiguità di ogni creazione dell’arte in rapporto ai fini della politica: ambiguità di cui lo stesso Gramsci ha coscienza, quando definisce, ad esempio, la Divina Commedia
come «il canto del cigno medioevale, che pure anticipa i nuovi tempi e la nuova storia». Così il fenomeno simbolista, se può definirsi come «reazione» sotto l’aspetto «sociale», in quanto istituì una chiusura «aristocratica», racchiudeva in sé fin dall’inizio una carica rivoluzionaria, destinata a esplodere nel
surrealismo: ebbe quindi anche un aspetto eminentemente «progressivo», anche se «negativo», di criti-
ca e di corrosione interna di certe forme di avanzata cultura «borghese»: ciò secondo le note tesi di critici di ispirazione marxista (si pensi a Mirskij per Eliot, o a Max Raphael per Picasso, ecc.). Ma qui tocchiamo i limiti della formazione culturale-letteraria di Gramsci, essenzialmente italiana — ossia desancti-
siana e crociana — e, magari, le più fonde incompatibilità dell’uomo. Le quali si sprigionano, poi, con particolare violenza, nelle brevi note raccolte sotto il titolo / nipoti ni di padre Bresciani, in cui, ancora richiamando il De
Sanctis, Gramsci stigmatizza tanti aspetti, particolarmente
chiusi e ingenerosi, della nostra letteratura
più impregnata di tendenze fasciste, e specie della corrente di essa che più si compiacque di atteggiamenti retrivi e «forcaioli», resi più meschini dalla protezione e dal compiacimento «ufficiali». Alcuni dei nostri scrittori più rappresentativi del tempo fascista escono piuttosto malconci, almeno sotto questo aspetto, dalle mani di Gramsci, il quale si muove
qui sul suo terreno più proprio, che è quello del po131
litico rinnovatore, affrontando una lotta di portata,
oltre che politica, morale, e che, per essere necessariamente postuma, conserva ancora validità contro certi lati più ottusi e gretti della mentalità e del costume contemporaneo. E poco importa che qualche colpo vada a vuoto, e che il dispetto gli veli qualche volta la verità: perché in Gramsci la polemica non è mai veramente personale, malgrado le sue acredini. Dietro la logica sottile e irrequieta di questo cervello, dietro la sua schermaglia aggressiva, vive infatti qualcosa che trascende l’astratta logica, e che potrebbe definirsi col bello e sciupato nome di fedeltà all’ideale: fedeltà istintiva a una memoria di comune dolore e ad un anelito di riscatto, maturata attra-
verso le esperienze della campagna sarda e dell’officina torinese, e temprata alla prova suprema della privazione della libertà. Anche per questa sua fonda radice umana, pur a chi non si senta di accettare in
pieno le sue tesi, il libro si dimostra pieno di intuizioni schiette, di problemi scarniti nella loro strut-
tura essenziale, di suggestioni a pensare. Così, in particolare per quanto riguarda la parte più nuova e vivace delle note, quella dedicata alla letteratura popolare e ai rapporti fra letteratura e nazione, viene oggi spontaneo confrontare il pensiero di Gramsci col panorama profondamente diverso che s’è andato determinando in questa quindicina d’anni, e particolarmente dopo la chiusura del secondo conflitto mondiale, col prodigioso sviluppo della tecnica e il perfezionamento delle forme di diffusione e di propaganda. Il raccordo con la «spontaneità» popolare è sempre più difficile, per le stesse ragioni per cui l’industria va sostituendo l’artigianato, e le dirette espressioni d’arte popolare non sopravvivono più che assunte e come imbalsamate in forme di organizzazione superiore. Il sogno di Gramsci, di riattingere alle fonti più vive dell’interesse popolare, quelle del romanzo d’appendice e del melodramma, si va comunque di fatto attuando,
Vo
sebbene per la diversa via del cinematografo anziché per quella della letteratura e del teatro. Attuali,
almeno in certi paesi, sono i tentativi di creare una letteratura «funzionale» e «pianificata», ma non sembrano molto efficienti nei riguardi dell’arte, come dimostra l'esempio russo, con la sua letteratura a fondo moralistico e didascalico e forma accademica. Un altro fatto che non può dirsi nuovo, ma che
va sempre più assumendo un’importanza determinante, è il sempre crescente scambio fra le diverse letterature (sintomatico è anche il sostituirsi della «egemonia» anglosassone a quella declinante della Francia): scambio che va ponendo su nuove basi il problema dell’affermarsi di una letteratura italiana su base nazionale-popolare. Innegabile, da noi, è il persistente divorzio fra politica e cultura popolare, che l’azione dei politici e degli uomini di cultura è inefficiente
a eliminare,
mentre
era stato invece atte-
nuato dal fortunato equivoco positivista alla fine dello scorso secolo. Anche a questi lumi si potrà rivedere la esperienza in atto del «neorealismo» narrati vo italiano, che non accenna a uscire dal piano della «letteratura per letterati» e comunque «borghese». Su questi, e infiniti altri nuovi aspetti che i problemi trattati o accennati in questo libro sono venuti acquistando nei nostri anni di così intensa pressione storica, il lettore è portato a meditare sulle or-
me di Gramsci, prova della forza e dell’attualità del suo pensiero. . 1951
193
NOTA SU ROBERTO BAZLEN
Questo volumetto contiene alcuni pareri che Roberto Bazlen, nell’ultimo periodo della sua vita, in-
viò a editori amici, oltre a qualche lettera privata. Pochi frammenti della sterminata ragnatela che l’infaticabile lettore — benché una parola che evochi sia pur indirettamente una fatica possa apparire fuor di luogo di fronte all'estremo agio e disponibilità che sembravano trasparire dai suoi scritti come dalla sua conversazione — aveva intessuto fin dal tempo più lontano tra i più diversi campi della cultura mondiale. Certo, fu un fatto di destino — di quel «destino» inteso in un senso un po’ particolare di cui Bobi ci parlava nei nostri anni giovanili, ma di cui soltanto molto più tardi ci fu dato d’intendere il pieno significato (il quale viene ad escludere, nel caso, l’ovvia tautologia) —, che Bobi dovesse nascere a Trieste, che a
Trieste dovesse seguire per molti anni scuole tedesche (e il tedesco rimase la sua lingua elettiva), do-
vesse quindi vivere a Milano, poi, nella sua stagione più piena, a Roma, e tra Roma e Londra. Il sottofondo di cultura tedesca, mitteleuropea, che per
154
altri avrebbe potuto costituire l’avvio ad una «specializzazione», a lui invece doveva assicurare fin dall’i-
nizio una sorta di «piattaforma» centrale, da cui si sarebbe dispiegata un’ampiezza impareggiabile di curiosità, estremamente lontana da ogni dilettantismo come da ogni professionalismo, anche se ad un cer-
to punto le necessità dell’esistenza, e non soltanto esse, lo indussero a mettere a frutto il suo vivace gusto dell’interscambio culturale e del rapporto umano (non per nulla si era adoperato, fin dagli anni Venti, a far conoscere in Italia alcuni grandi scrittori stranieri e all’estero giovani autori italiani; e non per nulla, diceva spesso, era nato sotto l’influenza dei
Gemelli, segno di Mercurio), aprendo nuovi campi, pur senza averne l’aria, a una editoria come quella
italiana, ansiosa di aggiornarsi, specie negli anni dopo la guerra, dopo gli interdetti e le remore del ventennio fascista. Può stupire, nei giudizi di Bobi, sui quali talvolta
si potrà non andare d’accordo — ma non è qui il punto —, l'estrema libertà da cui prende le mosse, il com-
pleto disancoraggio dalle incasellature teoriche, dalle mode culturali che la nostra epoca è andata insieme moltiplicando e via via sostituendo nel suo flusso, spesso irrigidendole in altrettante scolastiche. Non che a Bobi riuscissero indifferenti, tutt'altro: si veda, anzi, come agevolmente se ne serva per colori-
re la situazione di un autore e le caratteristiche di un libro. Ma il suo distacco appare totale; la sua preoccupazione sembra quella di districarsene, ritirandosi sempre «più in là», e di considerarle semplicemente quali campiture e striature di un vasto panorama mobile, dove le idee passate e presenti sfumano e cangiano e contrastano come gli elementi di un paesaggio agli occhi di un camminatore. La realtà stava nel fatto che l’incontro di Bobi con i libri costituiva un fatto supremamente naturale come l’incontro con le persone nella vita (e anche tali incontri, per Bobi, furono molti e significativi), con
135
reazioni similmente, volta a volta, caute, entusiasti-
che o irritate — per quanto le sue stesse irritazioni avessero spesso un che di divertito, quasi di gioco. Si notino, in questi suoi giudizi, i subitanei sbalzi di valutazione, caratteristici di una spregiudicata lettura in fieri, per cui i suoi «ritratti» si risolvono spesso in
bruschi contrasti di luce-ombra, preparatori di una elegantemente sbrigativa conclusione pratica. Dietro di essi, che nella vivacità dello sfogo epistolare
appaiono quasi un prolungamento della conversazione (e chi lo frequentò può indovinare, dietro lo scritto, imovimenti dell’ammirazione e magari della stizza, e addirittura le pause della viva voce), si può agevolmente rilevare, oltre l’interesse «letterario», l’altro più pressante interesse «umano», assai simile,
come si diceva, a quello che lo animava nei rapporti con le persone conosciute, spesso estranee al mondo delle lettere, o nel gusto di mettere a contatto vecchi
e nuovi amici. Negli ultimi anni, mi disse una volta che la «letteratura» non lo interessava più, ma soltanto, in essa e oltre di essa, l’«antropologia». E va da sé che Bobi, sotto quel nome, non intendeva già una «scienza», e tanto meno quella che va oggigiorno definendosi all'insegna dello strutturalismo, ma una libera e avventurosa conoscenza degli uomini, dei singoli, con le ineffabili striature del loro carattere, am-
biente e storia, quali si rivelavano nei loro scritti, 0 dietro di essi. Strano che queste conclusioni, per la
loro stessa suprema semplicità, potessero talvolta disorientarci e apparirci, al contrario, come
estrema
complicazione, e che al corrispondente o interlocutore Bobi desse spesso l'impressione della girandola paradossale, e quasi di un uccello che non si sapeva mai su quale ramo sarebbe andato a posarsi. Soltanto più tardi ne apprendevamo il come e il perché. E come
e perché, senza averne l’aria, egli, suggeren-
doci giocosamente un corso di pensieri, o la lettura d’un libro, fosse per noi essenzialmente un anticipatore: fra l’altro, di tante verità che avremmo dovuto
136
scoprire più tardi, per conto nostro, magari a distanza di decenni. Lettere, un certo numero di poesie di ogni epoca, qualche
frammento
narrativo,
pensieri,
un
diario
discontinuo, e una serie di affascinanti disegni carichi di un indefinibile humour, sono le tracce che ci
sono rimaste di questo singolare «passante sulla terra», che pareva ostinatamente deciso a restare inedito (le sue stesse traduzioni di saggi e racconti apparvero quasi sempre sotto nome fittizio), concedendosi tutt’al più di persistere in una consuetudine infantile di affidarsi a segreti fogli e quaderni. Dei quali egli talvolta lesse, o tradusse dal suo tedesco,
qualche pagina agli intimi: quasi frammenti eterogenei di una work în progress destinata a concludersi in un nebbioso avvenire, o a non concludersi mai.
Ma, nonostante l’intenzione manifestata di distruggere tutto prima di morire, la cura con cui egli conservava i suoi quaderni e disegni potrebbe anche far pensare a una diversa intenzione, o a un filo di iro-
nica speranza. L'abbandono alla sorte di simili orme, segni, concrezioni, di tali testimonianze cristal-
linamente enigmatiche di un «passaggio», s’accorderebbe abbastanza bene al suo gusto per i documenti di vita, per i diari, per quel «non finito», tanto più rivelatore, per lui, delle opere finite e «co-
struite». Ma scrivere di Roberto Bazlen, sia pure nel modo
sommario e sfuggente come qui ho tentato di fare, appare, specie per coloro che gli furono amici da lunga data, un’impresa pressoché impossibile. L’esperienza «Bobi» fa troppo parte della nostra storia per districarla semplicemente nella secchezza di un ritratto o trascenderla nell’equivocità di una «leggenda». Se dovessi riassumerne, per mio conto, l’in-
segnamento vitale (di lui, che peraltro non teneva affatto ad essere un «maestro»), direi che esso sia in
massima parte consistito nella continua rimozione e rimessa in causa di quelli che, di volta in volta, pote437
vano apparirci come i nostri punti di arrivo: in un invito a mantenere,
sempre, la massima apertura del
compasso: magari anche a rischio di oltrepassarne l’estremo circolo. 1968
138
LO STILE DI ALBERTI
Avevo qualche volta intravisto Guglielmo Alberti nei corridoi del Liceo D'Azeglio, a Torino, nei primi
anni della prima guerra mondiale. Frequentavamo classi diverse, e la nostra conoscenza restò superfi-
ciale. Fu soltanto dopo la guerra che lo ritrovai a Torino, e non rammento più chi ci fece incontrare, se
Giacomino Debenedetti o Gobetti, o più probabilmente d’Entrèves, mio compagno di università. Fat-
to sta che, per una comunanza di interessi letterari, cominciammo a vederci, e che Guglielmo diventò per me, in quegli anni, una specie di modello. La nostra stessa differenza di condizioni alimentò qualcosa come un mito. Io ero orfano di padre, in disagiata condizione economica, rassegnato a conquistare al più presto una laurea e un impiego. Ammiravo, in lui, l'educazione
aristocratica, il tratto im-
peccabile, il movimento agevole ed elegante d’una vita più facile, e, nello stesso tempo, la sua cordialità
assolutamente incurante di quella nostra differenza di stato, in cui mi pareva ancora di riconoscere un reale segno aristocratico, d’animo, stavolta, più che
di educazione e di sangue. Un egalitarismo che non 139
aveva nulla di sforzato e di programmatico, come spesso accade, ma ubbidiva a una sorta di naturale giustezza del sentimento, e come ad una superiore consapevolezza della casualità dei destini. Quante volte venne a trovarmi nella mia povera casa di via Belfiore, così come io lo frequentai nella sua signorile villa di via Manfredo Fanti. Da quegli anni data un’amicizia che le distanze, le assenze, il divergersi
delle sorti non hanno mai offuscata né stancata. Nel 1922, quando con Giacomo Debenedetti e Mario Gromo iniziammo «Primo Tempo», Alberti vi
collaborò con noticine pertinentissime di letteratura contemporanea francese e due poemetti in prosa nel gusto letterario di allora. Così come
collaborò,
poco più tardi, alla «Rivoluzione liberale» e al «Baretti». Spregiudicatissimo, legato di amicizia a Gobetti, Alberti fu subito democratico e antifascista, e
tale rimase durante i pesanti anni del regime. Su questo punto, lo trovai sempre inflessibile: persino ai tempi della guerra etiopica, quando tanti intellettuali, fino allora antifascisti, capitolarono di fronte
al miraggio dei «destini imperiali», non perse nulla della sua chiaroveggenza, che soleva esprimere in considerazioni tinte di una signorile ironia, che a me, cresciuto a Torino, ma non piemontese, deno-
tava un aculeo tipicamente torinese. Nel 1927, se ben rammento, pubblicò nelle edizioni del «Baretti» quel libretto di Oreste che, più tardi, nella introduzione al libro di saggi Fatti personali,
definirà come l’esperienza di un «estetismo portato alle sue estreme conseguenze», con la sua «contaminazione» del Gide di Paludes e del Leopardi del Filippo Ottonieri (un Leopardi, aggiungerei io, filtrato attraverso «La Ronda»). Esso rappresentava una
delle forme di «passaggio obbligato» delle nostre giovinezze, né saprei oggi, come fece Guglielmo in quello scritto, giudicarlo con tanta severità. Indubbiamente una natura schiva e ritrosa come il giovane Alberti, a contatto coi miti della letteratura euro-
140
pea contemporanea, non avrebbe saputo oggettivarsi che mediante un travestimento piuttosto artificioso: d'altra parte rammento in quel libretto alcune pagine assai belle per un nitore, una colorata splendidezza di stile descrittivo, quasi di natura morta fiamminga, secondo una vena che avrebbe potuto ulteriormente coltivare. Ebbero inizio in quegli anni, credo, i suoi viaggi attraverso l’Europa, la sua amicizia per uomini come Gide, Du Bos, Berenson,
le sue frequentazioni degli «Entretiens» di Pontigny, da cui, nei suoi passaggi a Milano, dove mi ero frattempo trasferito, mi riportava curiosi aneddoti. Accoglievo con gioia le visite di Alberti, in casa o in ufficio. Rammento anche le nostre cene estive sotto la pergola di qualche trattoria periferica milanese, le nostre confidenze, le nostre appassionate discussioni. Una vita particolarmente pesante di impegni e di lavoro mi impedì invece di accogliere i suoi reiterati inviti di andarlo a trovare a Firenze o a Biella. Datano pure da quegli anni attorno o dopo il ’30, le sue prime esperienze cinematografiche (Alberti, com'è noto, fu uno degli antesignani della critica cinematografica) che hanno larga parte nel citato libro di saggi, nonché il resoconto di un viaggio in Africa Settentrionale
le orme
(in Algeria, mi pare, forse sul-
di Gide), che rammento
«Letteratura», e che meriterebbero
di avere letto in di essere riesu-
mate. Così come meriterebbe di essere riesumata la sua introduzione ad una scelta di poesie di Baudelaire da lui fatta per l’Editore Scheiwiller, contenen-
te un’interpretazione dell’opera e della figura del poeta delle Fleurs du mal assai originale, e che potrebbe essere riproposta e ridiscussa. Dopo la seconda guerra, vidi più di rado Guglielmo, che si era nel frattempo accasato, e mi parlava
della sua nuova esperienza di paterfamilias con l’appassionata serietà e impegno che metteva in tutte le cose sue: l’esatto rovescio, insomma, di quella apparenza di squisito «dilettante» cui facevano pensare 141
tanti aspetti del suo carattere e della sua opera scarsa e preziosa, come pure la varietà dei suoi interessi: ma che invece, come più tardi ci si accorgeva, irradiavano da un centro unitario, quale poteva conservare intatto chi, come
lui, non correva il rischio di
essere guastato dalla meccanicità del «mestiere». Alberti aveva altresì perduto per istrada le ultime tracce del suo giovanile «decadentismo», con quel tanto di sottile posa intellettuale
(in lui peraltro
estremamente sobria) ch’esso comportava, e accentuata la tendenza ai valori della tradizione, al classi-
co, di cui peraltro erano stati sempre testimonianza il pacato rigore dello stile, l’obbiettiva chiarezza del-
lo sguardo. Ciò spiega come, tra i letterati del tempo, egli abbia prediletto il «casalingo» Pancrazi, di cui fu grande amico; e da cui tuttavia lo differenziava una più viva curiosità per le letterature straniere, e, come s’è detto, per la «decima Musa», il cinema-
tografo. La sua posizione appartata, il suo stile di superiore e «voluto» dilettantismo, lo mantennero
vece fondamentalmente
in-
estraneo ai movimenti di
moda, come l’ermetismo, o, più tardi, il neorealismo o la neoavanguardia. La discrezione, la modestia, il distacco di Alberti: che tuttavia fanno talora
rimpiangere che egli non abbia voluto assumere una parte più attiva nella «cosa letteraria», portando la finezza della sua intelligenza, il suo spirito demi-
stificatorio, nella confusione degli anni del dopoguerra. Alberti, invece, si appartò sempre più. Approfondì, in compenso, quanto era più fondamentalmente
«suo»:
ad esempio, la tormentata
religio-
sità che doveva sempre più accostarlo al Manzoni, cui, come è noto, dedicò uno studio assai importante. Mi duole, ora, che i rispettivi pesi della vita (il
mio particolarmente gravoso) non mi abbiano consentito, negli ultimi anni, di avere con lui gli scambi di confidenze, le calorose discussioni dei tempi gio-
vanili. Ed è rimpianto ormai irrimediabile. Quanti amici coetanei perduti, per non dire degli 142
altri. Dopo Alberti, Bobi Bazlen e Giacomino Debenedetti. Prima di lui, fra tanti altri, uno che fu pure amico di Guglielmo, Alberto C. Rossi, che la malat-
tia e la solitudine morale condussero a un tragico passo: e per il quale si attende ancora qualche giovane d’ingegno e di buona volontà che ne ricerchi, e ne raccolga gli scritti sparsi su quotidiani e riviste, tra cui alcuni saggi critici fra gli eccellenti del nostro tempo: che faccia insomma per lui quanto Alberti fece per sé stesso — con un rigore di scelta forse eccessivo — coi Fatti personali. Mi piace a volte immaginare un filo segreto di storia letteraria contemporanea, svolgentesi al disotto, o in disparte, dalla cro-
naca apparente (o appariscente) delle pagine letterarie dei quotidiani, dalle ribalte radio-televisive, e che, se meglio conosciuto, modificherebbe in buo-
na parte le prospettive dei panorami correnti. Alberti appartiene al novero dei pochi che predilessero, se per modestia o per orgoglio non so, la solitudine studiosa e aliena dal mondan rumore. Avrebbe
potuto, inoltre, coltivare poesia e narrativa (chissà se non l’abbia fatto, in segreto) e, salvo l’ Oreste, non
pubblicò che saggi critici o note di viaggio. Ho ritrovato di lui, fra vecchie carte, una poesia, del 1937, che sospetto sia rimasta inedita, Don Giovanni minore, nella quale, attraverso la squisita fattura neoclasun accento di elegante noncuranza sica, si scopre che direi gozzaniano: riprova, in lui piemontese,
della genuinità di una ispirazione. Ma oggi, più che al letterato, ripenso commosso
all’amico perduto. L'autunno avanzato aumenta la malinconia. Gli amici del «tempo felice» sono ormai quasi tutti dall’altra parte. Le foglie presto saranno tutte cadute, e fa freddo.
1970
143
«VITA LETTERARIA DEL NOVECENTO»
Ricordo di aver conosciuto Titta Rosa verso il 1924, all’epoca del mio trasferimento a Milano, e ri-
cordo anche — fatto eccezionale per chi non tiene diari, e ha scarso culto del proprio passato — l’occasione del nostro incontro. Fu ad una conferenza che Gobetti teneva al Castello Sforzesco, e credo fosse stato lo stesso Gobetti a presentarci. Quale fosse l’argomento della conferenza non rammento: ma debbo arguire, data l’epoca, che avesse
attinenza
coi
grossi fatti che in quell’anno si svolgevano: il delitto Matteotti, e la scossa profonda ch’esso suscitò nel paese, tanto che gli ottimisti fra noi ne traevano auspici di una imminente caduta del fascismo. Ma Gobetti, come sappiamo, non era un ottimista, come i bravi professori democratici che incontravamo per istrada e che, sbracciandosi animatamente, assicura-
vano l’incombente crisi economica o la gaffe irrimediabile in politica estera. Egli previde, con una penetrazione cui non era forse estranea la misteriosa lucidità dei destinati a morte precoce, esattamente i vent’anni. Quanto a Titta Rosa, egli già si distingueva tra i
144
critici giovani, e, da Torino, anni prima, un nostro
umbratile gruppetto di ventenni che aveva fondato
una rivistina, «Primo Tempo», ne aveva richiesto la
collaborazione. Dopo quel primo fuggevole incon-
tro, dovevo rivederlo alla «Fiera letteraria» diretta da Umberto Fracchia, quale redattore assieme ad
Angioletti. Da quell’epoca data la nostra amicizia. Allora, per me, Angioletti e Titta Rosa formavano
una coppia inseparabile, e impersonavano, in qualche modo, la «Fiera», fino all’anno in cui la rivista si trasferì a Roma, sotto la direzione di Angioletti, e con la nuova testata di «Italia letteraria»; necessariamente perdendo, nonostante le resistenze «liberali»
dell’«europeo» Angioletti, qualcosa ancora di quel superstite agio che aveva potuto mantenere negli anni milanesi, quando i compiti «ingrati» erano precipuamente sostenuti dal direttore Fracchia. Più tardi, ritrovai Titta Rosa nella condirezione della «Cultura» fondata da Cesare De Lollis, secon-
da serie, assieme a Cajumi, Migliorini, Pasquali, Praz, Santoli e Trompeo: rivista, questa volta, decisamente «grigia» (secondo la definizione in voga durante l’epoca fascista per indicare quello che oggi si chiamerebbe il «cripto-antifascismo» di gruppi intellettuali). Dopo la guerra avvenne per me, e probabilmente per entrambi, l'ingresso in quella dimensione della vita in cui gli impegni si irrigidiscono, diventano esclusivi, e i nostri incontri si dirada-
rono. Nella giovinezza, sia pure dedita al lavoro e gravata di preoccupazioni, non è che il tempo disponibile sia maggiore, ma che il tempo in genere si trova ad essere einsteinianamente più elastico. Ore passate al Caffè della Galleria De Cristoforis, di fronte alla vecchia libreria Hoepli, dove Titta Ro-
sa ci leggeva, da oggidì introvabili preziosi volumetti, con successo di convulse risate, le poesie involon-
tariamente ma formidabilmente umoristiche di uno per altri versi assai rispettabile scrittore, ormai morto da anni. Ore passate alla redazione della «Fiera» 145
in piazza San Carlo, o, in interminabili conversazio-
ni, sotto il porticato antistante. Gli ospiti di passag-
gio, Bacchelli, Cardarelli, Cecchi. O Pastonchi, de-
clamante con la sua bella voce dorata di tenore poetico. I frequentatori più assidui, come il libraio Pescarzoli, che era destinato ad ereditare i locali della «Fiera» per la sua bottega. Infine, indimenticabile,
la figura di un giovinetto poeta, di cui divenni amico, ed era destinato a morte precoce: allora, al no-
stro primo incontro, appena diciottenne: Sergio Fadin.
Mi sono dilungato su questi lontani ricordi, anzitutto perché la maggior parte delle pagine raccolte nel presente volume risalgono agli anni Trenta, e sì situano quindi in un clima, in una temperie cultu-
rale che, col progresso del tempo, si va qualificando sempre più chiaramente. In secondo luogo, per sottolineare l’autenticità e l’intensità dell’esperienza di Titta Rosa quale «critico militante» in quei decenni. Esperienza in cui fermentavano, oltre che la buona preparazione classica e la frequentazione intensiva di opere moderne, anche la vivacità degli ambienti e degli incontri personali. Letterato
in tutta l'estensione
del termine,
non
so, neppure approssimativamente, quanti articoli e recensioni egli possa aver scritto nella sua lunga carriera, ma
essi certamente
costituirebbero
un
assai
voluminoso corpus. E tutti elaborati con quella perspicuità e limpidezza stilistica di cui oggi sempre più sembra vadano perdendosi le tracce, sotto l’impulso delle nuove terminologie filosofiche e tecniche,
nonché con quel garbo e colorito cui non sono certamente estranee le sue parallele esperienze di poeta e di narratore, secondo la duplice caratteristica cui, conformemente peraltro alla nostra maggior tradizione letteraria, si sono informati molti dei migliori scrittori del nostro secolo (ci fu, se ben rammento, chi lo definì il secolo della critica).
146
Ma gli scritti contenuti in questo volume si distaccano dall’occasionalità fuggevole della cronaca per acquistare il distacco, temporale o quantomeno oggettivante, del vero e proprio saggio. Il primo, e, se non erro, più recente, di carattere quasi autobiografico, intitolato 1914, si profonda addietro nelle lon-
tane radici di un’adolescenza di provincia, ad un certo momento approdante a Firenze nel pieno svolgersi dei movimenti di «La Voce» e di «Lacerba». Esperienza, questa, particolarmente rilevante in Titta Rosa, e tale da contribuire a fare di lui uno dei più autorizzati memorialisti dei primi decenni del Novecento. Nulla, infatti, può sostituire l’esperienza di-
retta del particolare clima storico in cui le opere si formano e si affermano. Titta Rosa persegue, in questo libro, i due principali filoni della nostra letteratura novecentesca. Il primo, quello narrativo, con i suoi difficili precedenti nell’Italia uscita dall’ Unità, il suo destino an-
cora per lungo tempo fatalmente regionalistico imposto da quel tardivo assurgere a nazione, col ritardo di una correlativa unificazione linguistica su un piano non più soltanto dotto. Donde la solitudine su cui si stagliano alcune grandi figure, come quella del Verga. Donde le considerazioni del Bonghi sulla mancanza di una letteratura popolare in Italia; più tardi, lo sbrigativo giudizio del Papini su di una pretesa inettitudine della mente italiana al romanzo;
ma anche le positive analisi di un Gramsci sulla difficoltà dell’affermarsi in Italia di una vera letteratura nazional-popolare. Poi, prima e dopo la prima guerra, il faticato formarsi della nuova narrativa, al
cui inizio la moda del «frammento» si presenta, a un certo punto,
come
un sintomo
di crisi (parallela
mente a quanto avviene, sotto un altro aspetto, per la lirica). Oggi è quasi d’obbligo, per i critici, un giudizio di sapor moralistico sul cosiddetto «frammentismo» e sulla «prosa d’arte», considerati come gusto ozioso per la bella pagina e arcadico divertimen147
to. Ma, ove si trascuri, come sempre occorre fare, il grosso di una «maniera» (che, nel caso, varcò i limi-
ti dell’insipidezza e della gratuità, favorita com'era dalle difficoltà di alternative nel clima dominante),
e ci si affisi unicamente sugli esemplari significativamente validi, si comprenderà meglio la fatalità di un passaggio, e le ragioni di persistenza delle pur non numerose opere destinate a salvarsi. Merito di Titta Rosa è di aver insistito sulle ragioni «necessarie» di questo passaggio, seguendo, di là da esse, i caratteri principali della nuova narrativa italiana sviluppatasi nel primo dopoguerra, da Comisso a Moravia.
La trattazione che Titta Rosa ci offre del romanzo ha un carattere unitario. Ed è qui, più che altrove, che si rivelano i fondamenti teorici su cui poggia questa critica. Croce, anzitutto: il che non costituirebbe una originalità, dato che tutta la critica susse-
guita al «metodo storico» appare, più o meno, influenzata dall’idealismo crociano. Titta Rosa ebbe il vantaggio di assorbire quell’insegnamento in un’epoca in cui esso si presentava come novità creatrice, ancora immune, se non certo da equivoci o da travisamenti, dalle passive meccaniche applicazioni a cui così presto e facilmente essa avrebbe dovuto prestarsi. Ma Titta Rosa non è un passivo ripetitore, né si accontenta di una puntuale, quanto facile, distin-
zione di poesia-non poesia. Egli avanza notevoli perplessità, ad esempio, di fronte alla recisa esclusione,
da parte del Croce, della possibilità d’una storia letteraria. Si pone anche un problema generale del linguaggio narrativo nel suo svolgimento da personalità a personalità, e nei suoi rapporti con la lingua di una società nel suo quadro storico. Il suo fondamento è crociano, ma egli tiene costantemente d’occhio i critici e trattatisti francesi del romanzo, Thi-
baudet in primo luogo, i quali, provenendo da una tradizione prevalentemente empiristica, perciò svolgentesi su un piano assai diverso da quello dell’idealismo filosofico, mentre
148
da una parte non
con-
traddicono a quest’ultimo, dall’altra, nella loro ricchezza di riferimenti storici, linguistici e sociali, aiu-
tano il critico ad istituire quei legamenti e raffronti, eminentemente sfrangiati e mobili, perciò stesso più atti a colorire la fioritura delle opere singole nel flusso temporale. I successivi saggi, dedicati ai poeti, hanno invece
carattere precipuamente monografico. In questo settore figurano nel volume saggi di preferenza dedicati ai lirici la cui attività ha cominciato ad affermarsi negli anni precedenti alla prima guerra mondiale, e che si sono sviluppati prevalentemente nel periodo successivo, come Saba, Onofri, Cardarelli, Ungaretti. Fra cui si può annoverare Campana, an-
che se la sua breve opera essenziale, i Canti Orfici, è addirittura anteriore, e, in certo senso, veramente
anticipatoria. La trattazione si arresta metistica, cui vengono ricondotti, estensivamente, almeno a considerare periodi fondamentali delle rispettive
con la fase erforse un po’ altri aspetti o opere, Unga-
retti, Montale e Quasimodo. L’attenzione analitica,
la pacata serenità dei giudizi (anche se qua e là sì potrà magari dissentire, ma quale critico ha mai formulato giudizi accettabili in blocco, in una materia così vaga come è la «cosa letteraria»?), fanno del vo-
lume di Titta Rosa, che presenta tra l’altro il vantaggio di un’attenta
e sensibile
«contemporaneità»,
uno dei non numerosi testi cui dovrà ricorrere necessariamente lo storico futuro che si accingerà a disegnare uno sviluppo della narrativa e della lirica italiana nella prima metà del Novecento. 1972
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PENSIERI SULL’ARTE
Esperienza e teoria Il concetto
d’identità di filosofia e storia, affer-
mato con tanta intransigenza dal pensiero moderno, ha reso possibile, nel campo della critica lette-
raria, i più curiosi fraintendimenti. Principale fra questi il riaffacciarsi continuo, in termini di gergo metafisico e trascendentale, di quegli onesti schemi psicologici ch’eran stati cacciati dalla finestra come superflui aiuti pratici e mnemonici. Così gran parte delle idee correnti sui libri dei critici di scuola idealista nascono da una continua singolare contaminazione di metafisica e psicologia. E un malizioso scambio di carte, di cui prima vittima rimane chi lo opera. Gliè che, a loro stessa insaputa,
il pensiero di questi scrittori si svolge continuamente su piani diversi, sicché, mentre lo stesso con-
cetto era stato in un primo momento senso meramente
assunto in
speculativo e formale, non di ra-
do succede di vedercelo riapparire alla pagina dopo preso in tutt'altra accezione, empirica e relativa,
illudendosi lo scrittore di offrire una dimostrazio153
ne laddove invece, per il grossolano scambio dei significati, non dimostra proprio nulla. Ad esempio dovrebbe essere pacifico che, definendo l’arte come momento infantile e irriflesso della coscienza, ossia come pura forma, ci si è riferi ti ad una successione di momenti ideale e simbolica, che non dovrebbe esimere il critico dall’andar cauto e dal badare dove mette i piedi, insomma, dall’avere esperienza e gusto. Invece, una volta stabilito che il pensiero non è l’arte, eccoli in buona fede a
dar l’ostracismo a tutta l’arte organata e riflessa, a tutta l’arte di sospette origini intellettuali. E, a lasciarli fare, ci sarebbe da veder compierci sott’occhio tale «rovesciamento di valori», che il più elementare ordine di storia letteraria ne verrebbe sovvertito. E forse non è questa una delle ultime ragio-
ni per le quali s'è assistito, in questo scorcio di secolo, al trionfo d’un’arte barbara e puramente istintiva, dalla quale l'elemento intellettuale era senza dubbio assente, ma assieme all’umana verità e alla coscienza stessa dei limiti estremamente delicati della creazione estetica. Né una delle ultime ragioni
per le quali la poesia classica è sempre più fraintesa ai dì nostri, e proprio nei suoi più alti modelli. Il motivo di ciò è sempre nel fatto che teoria ed esperienza, nei nuovi critici cui si accennava, riman-
gono sempre distinte, e senza passaggio l’una coll’altra. Dovendo portare esempî in appoggio alla teoria, accade quindi a costoro di ricercare nell’og-
getto del loro esame ciò che mai sarebbe possibile trovarvi, ossia un riflesso preciso e palese e quasi si direbbe materiale, della teoria medesima. Invece di rintracciare la verità di questa nell’impostazione, per così dire, del tono d’un’opera, nel suo intimo
accento originale, essi pretendono di trovarla nella materia dell’opera stessa, nella maggiore o minore immediatezza dei suoi elementi costitutivi, astratta-
mente presi, ritenendo così di raggiungere una perfetta evidenza. In fondo essi peccano,
1D4
come
tutti i
pensatori di scarso vigore, per un eccesso di dimostrazione. Ora, è bene dirlo, non si vuole con ciò fare dell’intellettualismo alla francese, sulle orme di un
Benda o di un Lasserre. E men che meno ci sogneremmo di avallare le dichiarazioni dei fautori del «costruttivismo» e di quell’arte che, utilizzando i ri-
masugli d’una filosofia bacata, tenta invano di giustificare la propria infinita povertà formale. Ma insomma, se si chiama l’arte un’attività immediata, ciò
non può essere che in linguaggio di metafisica. In realtà, la disposizione di grandi poeti classici, come, ad esempio, Petrarca e Leopardi, e proprio nei loro momenti più rapiti, è più riflessa e raziocinante di quanto comunemente si crede. La loro poesia sembra nascere a un parto stesso con la meditazione, e sostenersi ai nodi e agli sviluppi d’un pensiero che, per quanto musicale, non cessa dall’esser pensiero, in termini di buona psicologia, ossia movimento e ri-
flessione su sé stesso. A volte essi sembrano chiarire le loro sensazioni come se fossero idee, e il ritmo delle loro musiche, come in Dante, tiene in qualche
punto addirittura del sillogistico. Il solo fatto poi che abbiano scritto in lingua, e vagheggiato perfino una «lingua illustre», indica, a chi bene intenda, il
problema in cui s’affaticarono di assumere la loro materia poetica in «pensiero poetico», elaborandola
in disegni più ampî, e trovandovi echi più profondi che non lo comportasse la semplice esigenza d’un sentimento assunto a chiara espressione. In altre parole, l’arte non è soltanto un passaggio dall’oscuro al chiaro, ma anche, come il pensiero, un
procedere da chiarezza a chiarezza. L’aver senz'altro liberato l’intuizione poetica dalle categorie di spazio e di tempo, l’aver riposto l’ispirazione in una specie di fiamma subitanea, la quale arde in sé definitivamente le scorie del sentimento e della tecnica, che rimarranno, come tali, presupposti confusi nel limbo dell’indefinibile, ha reso possibile, nella media cultu-
155
ra idealistica italiana, una concezione dell’arte non solo miracolosa e ineffabile, ma letterariamente ere-
tica, tantoché se quei profeti e sovvertitori, in luogo d’ignorare compiutamente la tradizione limitandosi a fare malgoverno delle cose contemporanee, fossero indotti a risalire il corso della storia letteraria, i sa-
crifici sanguinosi ai loro idoli mentali non si conterebbero più. Il fatto è, come sopra si accennava, che
le idee crociane sono state necessariamente assunte da questi epigoni nella loro accezione più materiale e grossa, e il concetto filosofico, del tutto simbolico e normativo, s'è trasformato nelle loro mani in uno
schema empirico, che ha l’aggravante di ignorarsi come tale, pretendendo invece alla purezza speculativa. Così si spiegano i tentativi, oggi diffusi, di sopravalutare le forme popolari e ingenue dell’arte, a tutto scapito di quelle più elevate, dove la presenza di elementi cosiddetti intellettuali arresta i nuovi critici in una sorta di dubbio teologico, che il loro radicale difetto di gusto impedirà per sempre di risolvere. 1928 Della costruzione
Singolare è l’importanza che i critici della nuova scuola danno al concetto di «costruzione» come ele-
mento essenziale e caratteristico dell’opera d’arte. Anche questo è uno dei soliti equivoci germinati da una cattiva interpretazione dell’estetica crociana, e
precisamente di quel carattere compiuto e universale che il Croce ritiene necessario alla creazione artistica, e che, come è chiaro, deve intendersi esso pu-
re in significato puramente ideale e normativo. I suoi discepoli, al solito, si son trovati, per servirsene, nella necessità di interpretarlo in senso empirico e
limitato, trasformandone l’esigenza filosofica in una ricerca di compiutezza e di ordine esteriori, e giun-
156
gendo persino all’assurdo di ritenere elementi essenziali,
ad esempio,
in un
romanzo,
l’equilibrio
delle varie parti, la particolare disposizione delle figure e il contrasto dei caratteri, intesi con criteri addirittura architettonici. Anche qui è riconoscibile trattarsi di una delle tante scappatoie a cui questi critici, bisognosi di supplire alle deficienze del gusto con la pietra di paragone di una teoria qualsiasi, si trovano costretti a ricorrere ad ogni momento. Ora, se è certo che il concetto di «costruzione» è strettamente connesso all’opera di architettura, do-
ve la disposizione e l’equilibrio della materia rappresentano il dato essenziale che l’artista deve elaborare per giungere alla sua espressione; se è dubbio
che possa parlarsene a proposito dell’opera di pittura, dove varrà, tutt'al più, come metafora per indica-
re l’«impianto» pittorico, il coerente sviluppo della primitiva sensazione; ad ogni modo è evidente che tale concetto non ha nulla a che vedere coll’opera letteraria che si svolge nel tempo e trova la sua particolare concretezza nel gioco puntuale delle immagini, nel trascorrente calore del dettato, e, in defini
tiva, nel potere fantastico e creativo del linguaggio. Ciò è tanto chiaro che desterebbe giustamente stupore il critico che andasse a giudicare di Cervantes o di Stendhal col criterio della «costruzione», come lo
vediamo fare di certe opere moderne, le quali, partorite da cervelli di scarsa fantasia, appaiono invece perfettamente
«costruite» a fil di logica, e perfetta-
mente equilibrate. Laddove invece il carattere delle vere opere d’arte è di negare in ogni loro punto la logica astratta dei procedimenti, attraverso risoluzioni sempre nuove ed imprevedibili, che sorgono non già come conseguenze inevitabili di premesse date una volta per sempre, ma dall’intimo stesso dell’ispirazione, che deve continuamente sostenerle. Perciò,
a ben vedere, i personaggi di un racconto, come il Croce stesso ha riconosciuto, non possono avere altra esistenza che metaforica, e condizionata punto o
per punto dalla parola, il che vale a dire che l’opera di poesia non trascende mai lo stile. . L’uso
del concetto
di «costruzione»,
assieme
a
quello d’altri cànoni estetici oggi in voga, indica chiaramente il difetto di realismo della nuova critica, la sua incapacità ad impadronirsi di quanto nell’arte è concreto ed essenziale, e, per ciò che si rife-
risce all’opera letteraria, a cogliere immagini e figure alla loro origine, che è propriamente la natura del linguaggio come mezzo espressivo. Ciò che sfugge a questi critici è quanto nella poesia vi è di più vitale, ossia il tono, l’intima durata, lo sviluppo tem-
porale, almeno idealmente temporale, della parola come creazione. Essi, posti di fronte all’opera, ten-
dono inevitabilmente a trascenderla e a formarsene una immagine stanca ed affievolita, affaticandosi poi a ricavarne astratti rapporti, quali l’opera stessa, nella sua essenza determinata, male sosterrebbe.
1928 La parola creatrice
La polemica in favore della fantasia contro la parola e lo stile è stata sempre condotta dagli artisti fiacchi e di poca ispirazione, che cercano di suppli-
re alle loro deficienze colla spettacolosità delle invenzioni o colla inerte materia dei fatti. Non risponde a verità, o è solo cattiva metafora, dire che la Francesca di Dante è viva anche fuori dalle terzine
del poema, o che i personaggi di Shakespeare regnano nell’immaginazione popolare scissi e indipendenti dalle battute del dramma. È vero anzi il contrario, o ciò potrà interessare semmai lo storico dei costumi e non lo studioso dell’arte.
Ciò che vi è di più suggestivo nella fantasia dei grandi artisti è appunto il fatto che le loro creazioni, anche le più corpose, e, diremmo, proverbiali, ci ap-
158
paiono nate unicamente e quasi miracolosamente, per virtù di stile, come se la parola, rompendo i suoi limiti quotidiani e riconosciuti, suscitasse significazioni immense, e per la sua semplice positura e il suo segreto accento, ponesse d’un tratto attorno a sé indefinite e febbrili prospettive, in cui lo spazio s'amplia misteriosamente e il tempo applica una sua nuova legge. In ciò consiste la verità del mito della genesi, che fa nascere il mondo dal verbo. — Infatti, nei veri scrittori, la parola precede idealmente, non
segue mai la creazione. Si noti come l’azione dei più grandi romanzi proceda determinata, in ogni suo sviluppo, dall’intimo tono e calore dell’eloquio narrativo,
e come
scarse
e contraddittorie
ne appari-
rebbero le motivazioni scisse dalle parole e dal gesto che le esprimono. Perciò, nelle opere tradotte, sia pure ottime, sempre ci sorprende qualcosa d’arbitrario, per cui il lettore è costretto a collaborare ad esse colle proprie supposizioni. Chi potrà dire quanto, del Don Chisciotte, il carattere e le avventure dei
personaggi siano stati suscitati e formati dal ritmo e dal respiro stesso della narrazione, e quanto le trascendenti allucinazioni di Poe risultino dalla matematica esatta e delirante del suo lucidissimo stile? — Esiste un segreto contrappunto nella creazione, che suscita le figure e le fa vivere nel suo respiro, il quale, ove si ritiri, non abbandona che fragili spoglie disseccate. Il fatto, l’avventura, l’intreccio hanno lo stesso carattere e la stessa origine della metafora, che adombra sempre qualcosa d’indicibile, 0, me-
glio, non esprime che sé stessa. E l’ispirazione potrebbe definirsi un calore vuoto che si concreta bruscamente in parole e in segni. La sosta nel regno dell’oziosa Immaginazione, prima di raggiungere quello della Parola, è solo degli artisti deboli, che, sviandosi dietro le false apparenze, smarriscono ogni presa sul mondo dell’espressione e quella capacità d’incarnarsi in cul consiste la Poesia. Perciò la parola, richiamata dall’Idea
159
e adattata ad essa come un’inutile veste, perde ogni intima virtù, diventa fiato di voce e formula inerte.
La parola magica e suscitatrice è quella che pone da sé per la prima volta la propria misteriosa storia, che esprime nell’accento il suo limite e insieme la sua faticosa origine di organismo vivente. Perciò essa, pur presupponendo la Tradizione, cioè l’Esperienza, ap-
pare all’artista sempre nuova ed inimitabile, vergine e fugace materia colla quale l’ispirazione traccia i suoi segni e perciò solo si afferma ed esiste. Amleto ed Otello, astratti dagli atteggiamenti, dalle battute e dall’accento del dramma,
non sono
che luoghi comuni del dubbio e della gelosia. Beato chi se ne contenta. 1925-1930
Sopravvivenza del mito
La poesia, alle origini, ebbe il suo fondamento nel vocabolario mitologico e religioso. La grafia degli artisti trovava, nell’accenno alle vecchie figurazioni
della favola, il sostegno di cui abbisognava la sua delicata natura, la carne che poteva esser vivificata dal suo
sottilissimo
alito. Il sentimento
iniziale, pren-
dendo corpo in quei nobili luoghi comuni, tanto comuni che potevano ormai tollerare di esser piegati ad ogni significazione, raggiungeva insieme la propria adeguata espressione e il proprio aspetto eterno ed incorruttibile. Nell’epoca moderna è dato scoprire quanto questi elementi avessero perduto del loro peso e del loro carattere a sé stante per assumere unicamente la qualità di metafore e di modi stilistici. Nei Sepolcri le memorie
prendono
la maestosa
e irreparabile di-
gnità delle statue, non sono altro che figure ed espedienti del canto funebre. E, nelle Grazie, è fin trop-
po palese quanto vane ed inconsistenti siano le in160
cantate parvenze che illudono il lume antico della deserta primavera marina. Ormai spento il fuoco della splendida tristezza dei Sepolcri, circola per questi canti una grazia impallidita, come un presentimento della molle nostalgia classica che fiorisce nei marmi del Canova. Il mito si fa simbolo, l’affresco
scolora nei segni numerosi e gracili della stampa. Ora avvenne, dal giorno in cui Leopardi levò un deluso canto alle favole antiche, e fu per sempre smarrita la strada del Tempio, che si sognasse di sostituire alle figure e agli emblemi d’una volta una sostanza sottile e incolore, che pur sarebbe dovuta bastare a sal-
vare l’ispirazione dal corrompimento. «Prends l’éloquence et tords-lui son cou», diceva Verlaine e chia-
mava una fragile musica a sostenere i sensi e gli atteggiamenti della sua poesia. E Mallarmé compose dei poemi, dove un ermetico, fuggevole dramma di memorie e d’immagini familiari, astratte dalla loro con-
suetudine quotidiana e palese, e fissate in cifre suggestive e belle, assumeva, nella materia stanca e preziosa delle parole, la fissità dei miti originarî.
Così, per una via o per l’altra, l'aspirazione ad una poesia pura, ad una poesia cioè liberata dall’eloquenza, tendeva invece ad incarnarsi in una sorta di eloquenza sottile e speciosa, com’è quella il cui aspetto singolare può indurre in errore circa la sua verace natura, ch’è accessoria
e non fondamentale, e pure ne-
cessaria come corpo della poesia. Malinconici scavatori di tombe sepolte, tutto quello che può capitarci è di riportare alla luce le statue infrante degli antichi dèi, gli occhi rivolti per sempre a una luce ormai spenta. Perciò la poesia moderna non può che riflettere nei suoi punti più alti, e nelle sue stesse segrete movenze, come una nostalgia di quella luce e di quella musica ferma e perfetta che ancora tramanda,
dalle sue ir-
raggiungibili lontananze, un mondo (che ormai ci appare) definitivamente concluso e immobile.
1925-1930 161
Antichi e moderni
La «querelle des anciens et des modernes» non si può spiegare con le antitesi tradizionali di «classicismo» e «romanticismo», 0 coll’opposizione schilleriana di poesia ingenua e sentimentale. O forse tali spiegazioni hanno una loro piccola parte di verità, di
per sé insufficiente a dar luce a un problema che involge la natura stessa fondamentale dell’arte e della realtà. Probabilmente serve di più a questo scopo il mito del peccato originale, e dello scadimento da un'origine beata ed integra in cui l’essere e l’apparire erano ancora indivisi, e l’individuo tendeva all’ar-
chetipo con l’armoniosa inconsapevolezza del germoglio che aspira ad esser pianta. In quel mondo senza frattura, di cui l’intimità si manifestava alla su-
perficie indivisibilmente come l’anima nel corpo, i modi della poesia potevano assurgere a toni grandiosi e quasi sovrumani senza perdere per nulla in sincerità e senza cadere in rettorica. Stanchi di quelle nudità sublimi, che ancora oggi ci guardano dall’altezza immutabile dei piedestalli col vuoto sguardo delle statue, gli uomini inventarono le vesti, e da
allora cominciò la corruzione. Il mondo cominciò allora a popolarsi di simboli indecifrabili, perché s’era perduta la cifra, l'anello di Gige che rendeva visibile l’invisibile. La grandezza della poesia e dell’arte moderna (e poesia ed arte moderna hanno avuto inizio ben più tardi di quanto comunemente si creda) consiste più
che in altro nella faticosa ricostituzione intima della prima unità, che una volta si dava tutta in un attimo, natura naturata. Il mondo della poesia moderna sorge e sì esaurisce nell’individuo, o, per parlare in metafora, insiste sopra un filo di rasoio, ritrovato per vie cieche, attraverso ponti subito crollati dopo .il
passaggio. Una luce di cataclisma bagna le nostre disperate creazioni, che ravviva come uno stanco anelito di nostalgia a un passato che non può più ritor162
lid
nare perché fissato per sempre nella sua marmorea immortalità.
Giunti
sulle nostre
squallide cime, ci
basta contemplare dall’alto le bianche città disabitate, i sepolcreti, i boschi di lauri fissati per sempre nella loro primavera eterna, le fronde immobili.
1925-1930
163
SULLA PROSA
P M
Caratteri della prosa italiana La prosa, dice Alain nel suo Systéme des beaux-arts, è fatta per la vista, e non per l’udito. Perciò il romanzo e la storia sono grandi costruzioni immobili, mentrela natura dell’epica e della poesia lirica consiste in un movimento ritmico che consuma sé stesso ad ogni attimo, in un vertiginoso passaggio dove non è possibile distinguere stati o soste che quando sono già oltrepassati, e formano così quelle vaste prospettive nostalgiche e favolose, che il tempo continuamente distrugge appena create. Il movimento della prosa, se tale può chiamarsi, è invece di riportarsi continuamente su sé stessa, al modo della pittura e delle costruzioni architettoniche, in cui la
fine implica il principio. A tutti è dato vedere come questo concetto, non privo di qualche suggestiva verità, s'appoggi a una distinzione basata a sua volta sopra una tradizione elaborata ed astratta, com'è
quella della lingua francese, che, ove non è eloquente, è grammaticale e accademica, e per la qua-
le s'è sempre nutrita l’illusione che le parole possa164
no essere in ogni caso convertite a significati conclusi e precisi, tanto da costituire entità definite e concrete, e perciò ferme, come sono i segni grafici
che le rappresentano. Nei grandi scrittori della nostra letteratura, che ha invece carattere popolare e primitivo, anche quando tocca il figurato e l’astratto, i valori dell’accento e del gesto sono sempre preponderanti, e danno alla loro prosa quel tono trascorrente e miracoloso ch'è proprio della creazione lirica. Il gesto dei nostri scrittori classici è di rado tuttavia eloquente o predicatorio, e non è mai quello convenzionale della conversazione mondana, ma piuttosto
l’antico e nobile del discorso e della narrazione orale. Così si spiega come la nostra lingua letteraria abbia sempre mal resistito ai tentativi di forzarne le architetture ornative e rettoriche appesantite della tradizione, e di piegarne la natura a seguire gli sviluppi formali dell’analisi e della deduzione psicologica. Il lavoro d’astrazione e di composizione del romanzo, che finisce col trattare la lingua come una materia statica e puramente rappresentativa, è ri-
masto sempre in qualche modo estraneo alla nostra tradizione, nonostante il grande e felice equivoco manzoniano. I nostri scrittori non sanno mai dimenticare il tono vivo e presente della voce, e persino il complesso periodare boccaccesco, ripreso dagli eloquenti modelli latini, riflette nelle sue movenze il gesto misurato e l’accento del narratore, le prospettive e gli spazi che l’atteggiarsi di chi discorre interpone tra le cose narrate, richiamandoci così
ad ogni tratto a quelle estatiche pause in cui ritornano i motivi dell’ora e della stagione, e i lieti trattenimenti della comitiva villereccia. Nonostante la tradizione platonica del Rinascimento, la nostra letteratura non ha mai potuto esimersi, anche nei
grandi esempi, da una sana e tutta popolare diffidenza delle idee. Perciò la parola e il ritmo finiscono sempre col determinare l’andamento della 165
prosa come determinano quello del verso. Le figurazioni vengono così suscitate dalla parola e vivono nel suo respiro, che, dove si ritiri, non
lascia che
fragili spoglie disseccate. 1920 Stile e romanzo
Le osservazioni svolte da Giuseppe Gorgerino in questo giornale sul tema «prosa lirica» e «prosa di romanzi» sono atte a provocare discussioni sempre giovevoli e chiarificatrici. Giustamente il Gorgerino ha osservato che certo tipo di prosa che è stato definito «evocativo», e che trae origine dall’esperienza insieme lirico-critica iniziatasi negli anni precedenti alla guerra, sia inadatta alla narrazione come è concepita oggi, insieme psicologica e storica (storica, ben s'intende, in senso formale) e aliena dalle stasi e dalle effusioni della li-
rica. Tale prosa infatti — se può generalizzarsi in materia così delicata e squisitamente individuale come sono le opere letterarie - non è che un surrogato della lirica, una lirica in tono minore, schiva dall’as-
sumersi le responsabilità del canto e troppo carica per converso di intenti gnomici e ragionativi per adeguarsi al necessario movimento temporale della narrazione. Ciò vale, naturalmente, per le opere riuscite, che si salvano sempre come sempre si salva l’arte vera. Ché, se si tratta invece di «sottoprodotti» (e, parlandosi di un generico tipo di prosa, non può aversi di mira che un sottoprodotto) non v’ha chi non sia stufo di certi esempi di «bello scrivere», di
certe monotone divagazioni descrittive e liricheggianti, che scorrono alla superficie della pagina sulle rotelle di uno stile genericamente canoro. Infinito tedio di queste prose tirate a lustro, levigate colla pietra pomice, senza scosse, senza un moto di vita,
166
senza un segno che colga in profondo, siano esse poetiche o narrative. Non si tratta naturalmente, in
questi casi, né di lirica né di «evocazione»: ché nulla infatti esse riescono ad evocare se non un’atmosfera di disperatissima noia. E ben si comprende come, dinanzi a tali diligenti «pensi», si possa invocare un alito di fresca barbarie, quale sembra effondersi
da alcuni esempi di recente letteratura romanzesca che ci vengono particolarmente di Germania, d’Inghilterra e d'America: esempi che, sebbene taciuti,
sono spesso sottintesi dalle odierne polemiche. Mi sembrano invece tali da suscitare equivoci le parole del Massis che il Gorgerino riporta nel suo articolo apparso sull’«Ambrosiano» del 14 novembre scorso. L’acuto autore delle Ré/lexions sur l’art du roman appare ubbidire al pregiudizio naturalistico e oggettivistico ch'è di molta critica francese, rimasta impermeabile all’estetica moderna. Egli si chiede, fra l’altro, come mai lo scrittore più manifestamente dotato per l’invenzione romanzesca, più atto a creare immagini di vita vivente (e qui adduce l’esempio di Balzac),
così spesso manchi,
nella fattura delle
opere sue, alle «esigenze dell’arte». Dove è chiaro che il critico francese prende le mosse da un concetto di «arte» del tutto sorpassato, com'è quello di
un assieme di regole, di rapporti, di canoni di bellezza pura, ai quali l’«artista», e non il romanziere,
dovrebbe adeguare la sua creazione. Concetto che, come non è valido per il romanzo, così non lo è nep-
pure per la lirica. «Il compito del romanziere» soggiunge il Massis «è quello di portarsi tutto intiero verso le cose ... Componendo le sue opere, non pensa a quel che racconta. E la vita che lo conduce ... Come inventa senza preoccuparsi dello stile, il suo linguaggio ha da essere diretto, naturale, tutto in movimento; il romanziere mostra, fa vedere, l'artista
suggerisce, evoca, dà il senso dell’oggetto più che lo descriva». A me questa distinzione fra «romanziere» e «arti167
ERE P Pt
sta letterario» sembra più immaginaria che reale. Non dirò che le parole del Massis non siano vere: ma sono vere di una verità, per così dire, di primo piano, che deve essere risolta ed integrata in un «secondo piano» di più concreta e inoppugnabile verità. Anzi tutto non è esatto che il romanziere «faccia vedere» e non «evochi». Se per evocazione deve intendersi, oltre la pura e semplice descrizione dei fatti, quello «sfumato», quell’alone che lascia intravvedere il legame delle cose narrate con l’insieme della vita universa, che è la «vita» senz'altro, l’arte del
romanziere è supremamente evocativa. Si pensi, per fare un esempio appariscente, a quanto siano evocative le migliori novelle di un Cechov. Per restare nel campo
della letteratura russa, da cui comune-
mente sì traggono i maggiori esempi di «oggettività» narrativa, si pensi alle allucinanti atmosfere
di Do-
stoevskij, al respiro cosmico di certe pagine tolstoiane. Evocazione tanto più sensibile, tanto più stringente quanto più appare nascere dall’anonimità dei fatti narrati («l’arte che tutto fa, nulla si scopre»), sen-
za il personale commento del romanziere. Ma non perciò meno suggestiva di quanto non sia nel lirico. Né si parli, infine, di Balzac, in cui la critica mo-
derna ha riconosciuto con ragione non già un realista, ma uno straordinario «deformatore» della realtà: ché, se un difetto può imputarsi a Balzac, è ap-
punto quella sua inconscia volontà disperatamente tesa all’idealizzazione ed al mito, tenacemente sovrapposta allo scrupolo realistico e documentario: che è, scendendo di un piano, l’equivoco di uno Zo-
la, oggi perfettamente chiarito. Un'altra illusione, determinata dallo stesso erroneo concetto dell’arte come «artificio», «bello scrivere», suggestione di parole e di ritmi, è che il ro-
manziere non curi il proprio stile. Mentre è chiaro che esiste un vero e proprio stile narrativo
(0, me-
glio, tanti quanti sono i romanzieri) e che il narratore, per quanto ispirato, è soggetto a necessità si168
mili a quelle a cui è sottoposto il poeta lirico. La scelta di una frase, di una battuta di dialogo, di un brano descrittivo ubbidisce, in una pagina di romanzo, a quelle medesime leggi interne per cui il lirico sceglie una parola, un accento, una pausa, una metafora. Se l'atteggiamento del lirico di fronte alla vita è, in sede psicologica, alquanto diverso (più intenso puntualmente, più breve e sfolgorante, più vicino al momento
del sentimento puro, senza intrusioni do-
cumentarie o riflessive), non è detto che il modo di
operare dell’uno e dell’altro differiscano sostanzialmente. Si pretende dal romanziere la semplicità, ed è bene; si pretende il movimento narrativo, ed è giu-
sto. Ma non si creda che tale semplicità, che tale progressione vadano da sé,e basti aprire gli occhi sulle cose per procurarsele. E stato detto, e con ragione, che per raggiungere la limpidezza, la semplicità più scarna è necessaria l’arte più laboriosa e consumata;
e il Leopardi notava alcunché di simile comparando l’ingenua poesia degli antichi e la riflessa dei moderni. Un esempio impressionante del lavoro di stile in un romanziere può aversi analizzando una qualsiasi pagina di Flaubert, e considerando la minuziosa industria che appare aver presieduto al congegno delle frasi, al modo di stacco fra la narrazione
e il dialogato, ai passaggi fra i pezzi descrittivi e l’analisi interna. Ma si dirà che Flaubert è un esempio dubbio, che uno
scrupolo faticoso e lancinante di
«artista letterario» ha presieduto anche alla formazione dei suoi romanzi «borghesi». Si dirà, anzi, che
Flaubert è uno dei pochi romanzieri che abbiano sentito la necessità di uno «stile». Mentre la difficoltà di Flaubert — se è possibile, anche qui, ge-
neralizzare — non fu che quella frequentissima nei temperamenti dubitosi e dotati di sottile intelligenza critica. E, se ed in quanto essa menoma
in lui il
romanziere (ciò che in verità avviene più d’una vol-
ta) menoma anche l’artista, che non sono in lui, come in nessuno, scindibili. I problemi che Flaubert si
169
poneva davanti alla pagina e che gli apparivano talvolta insolubili, appartengono allo stesso ordine di quelli che il narratore d’indole più facile e felice risolve magari senza accorgersene, senza che per questo meno sussistano. Come esistono poeti d’istinto e di pronta vena ed altri travagliati e difficili, così è dei romanzieri. Il pregiudizio, cui obbedisce il Massis, dell’assen-
za di stile nel romanzo trae origine dal fatto che lo scrittore parte dall’idea di uno stile come di un canone già fissato e immutabile, nel senso del classico «decoro» e delle classiche «decenza» e «convenien-
za». Ora, in una pagina di narrazione (come, perché no? in una lirica) l'inserzione di un brano di cronaca, una parolaccia, che so io, una frase colta a volo
per istrada possono assumere un altissimo valore espressivo ed emotivo, diventare, cioè, perfettamen-
te «convenienti».
In un romanzo
che ci narri, ad
esempio, la vita di una azienda industriale, le aride cifre di un bilancio diventeranno elementi di stile,
precisamente come la più lucida definizione psicologica, come la più culminante notazione lirica. Un romanzo che non sia vivo anche nella singola pagina, nella singola frase, nella singola parola, è un romanzo morto.
Infine — e ciò in conseguenza di quanto si è già detto — non è vera l’immagine del romanziere unicamente condotto per mano
dalla vita, unicamente ri-
volto verso l’«esterno», sia pure tale esterno «l’aspetto umano, reale, sociale degli esseri e delle cose». Se
l’ispirazione del lirico si rivolge di norma ad un certo ordine di fatti, e quella del romanziere ad un diverso ordine, entrambe ubbidiscono ad una sola leg-
ge: ed è che l’esterno diventi interno, e il cosiddetto «interno», sempre più interno. È inutile che il romanziere si mescoli alla vita vissuta, alla realtà collettiva e sociale, se di questa vita e di questa realtà non fa vita e sangue proprio, come è del più recondito
dei pensieri del lirico. Chi, senza possedere attitudi170
ne e forza d'artista, scriverà un romanzo pieno di fatti, pieno di cose, pieno di belle intenzioni, scriverà
un romanzo indigesto e nullo non soltanto come arte, ma persino (oserei dire, per quella profonda legge di coerenza fra le diverse attività umane, che è la stessa vita morale di necessità circolante nelle crea-
zioni dell’arte) inutilizzabile o poco-utilizzabile come polemica o come documento del suo tempo. Perché lo «stile», nel suo significato più reale, che è poi, a ben vedere, l’unico suo significato, non è che l’interiore, e perciò individuale, e perciò duramente conquistata, «verità» dell’atteggiamento del-
l’artista di fronte alla vita. Ed è in pari tempo «scavo», ossia eliminazione del falso e del superfluo, e costruzione morale: non potendo esistere moralità se non dove è verità.
1933
Romanzo e frammento
Vent’anni fa Ardengo Soffici, con la logica paradossale cara ai gusti intellettuali del tempo e dell’ambiente, e con quella baldanza che sembra oramai aver perduta (la gioventù non ritorna due vol
te!) si proponeva di «dimostrare» in un appunto del Giornale di bordo, «Ja necessità del prossimo fallimento del romanzo, della novella e del teatro»: «Sono generi ibridi; storia, psicologia e lirica, ep-
pure né l’una cosa né l’altra. Fatti diversi rimpolpettati di poesia... frammenti
di sensazioni dirette, te-
nuti assieme da un cemento di zavorra...». E la condanna finale: «letteratura amena, fatta per passare il tempo». i
Negli stessi anni Giovanni Boine, in una delle sue svagate e pur penetrantissime recensioni della «Riviera Ligure», usciva in questa curiosa sortita contro
il romanzo, che oggi val la pena di rileggere: «Mi sia 171
s d
dunque permesso di dir finalmente la mia opinione sugli ottimi romanzi, vivi e veri e quadratamente rappresentati. Ed è che, non so come, ci soffoco
dentro, ma proprio ci soffoco, ma proprio non cl colgo da ultimo che pena e desiderio di scattare pazzamente fuori, fuori d’ogni quadratura e d’ogni regolare verità. Che ciò non è arte, o è quell’arte di cui non so assolutamente più che farmi; che è un con-
gelare, un rifinire fotografico (un ripetere la vita), uno sperperare narrativamente una emozione la quale, nuda, era un grido, od un lamento, un ba-
gliore o una interiore colorazione». E concludeva così: «Bisogna esser maschi davvero. Rigettare la schiavitù dell’apparente mondo e l'ordine della matematica materialità. Signori scrittori, siamo uomini: lasciamo la letteratura e facciam della lirica». Non sarà il caso d’insistere troppo sulle parole del Soffici, le quali, ispirate ad un notevole semplicismo e ad una certa dose di simpatica fumisterie, sì commentano facilmente da sé. Mentre converrà porre attenzione a quelle del Boine: scrittore che fu tra le menti più appassionate e sincere di quel periodo: le cui pagine, a rileggerle oggi, non sai se ti dèstino più vivo il rimpianto per una forza così immaturamente stroncata, o la consolazione di trovarti di fronte ad
una realtà rara nei letterati anche d’ingegno: ossia a un uomo.
Molti dei suoi giudizi critici, raccolti po-
stumi nelle pagine di Plausti e botte, meritano revisione. Alcuni sono senz’altro avventati, altri riflettono problemi che il tempo ha eliminato; spesso la ne-
cessaria obbiettività critica è tradita e sforzata dalle cocenti preoccupazioni personali. Ma la tempra dell’uomo non vi si smentisce mai.
E evidente, oggi, l’errore teorico che sta alla base di una tale avversione al romanzo. L'atteggiamento del romanziere non è né più né meno innato di quello del lirico. «Le romancier» dice ancora il Massis nelle Réflexions già da me citate nel precedente 172
articolo «c’est l’homme qui aime à raconter des histoires». Mi sembra che poco ci sia da aggiungere ad una definizione in pari tempo così semplice e così felice. Nativo, ossia puro, è l’atteggiamento del romanziere come quello del lirico: come il poeta canta, così il romanziere narra. L’intrusione di elementi eterogenei, la «costruzione», il «cemento», la «zavorra», tutto ciò che di volontario e di sforzato entra
nella composizione di un romanzo (come può indifferentemente entrare in quella di un poema o di una lirica) potrà riscontrarsi semmai nel romanziere di fiacca ispirazione, o in quel residuo passivo, in
quella scoria che è spesso ineliminabile anche nell’opera più ricca e felicemente risolta. Esso non è certo inerente al genere «romanzo», che, quando è
riuscito, brucia e dissolve ogni elemento in apparenza estraneo nella continuità del flusso narrativo. Non si tentò proprio in Francia, qualche anno fa, di
porre accanto all’idea di una «lirica pura», quella di un «romanzo puro»? Anche l’avversione al cosiddetto «realistico» e «fotografico» nasconde un errore. Non riuscì forse la migliore pittura dell’Ottocento — quella dei grandi impressionisti e macchiaioli — ad intuizioni perfettamente liberate e «liriche», proprio ubbidendo al pregiudizio «realistico» e «fotografico»? L’errore, anche qui, consiste nel tenersi all’apparenza piuttosto che alla sostanza delle cose, alla superficie dell’opera piuttosto che alla disposizione interna dello scrittore, che tutto giustifica o tutto compromette. Ma al Boine, autore di un ispirato racconto psicologico, capace come pochi di apprezzare la grandezza di un Verga o di condannare senza remissione le falsità e le melensaggini di molti romanzi del suo tempo, non può certo muoversi l’appunto di non intendere il romanzo.
Le sue parole, dettate da uno
scatto d’umore, da un soprassalto di generosa impazienza, sono tuttavia il prezioso indice d’un bisogno,
173
d’una tendenza che non fu di lui solo: e da esse possono trarsi alcune considerazioni sullo sviluppo degli ideali della nostra letteratura negli ultimi vent'anni. E curioso infatti notare che il Boine condannava il romanzo come «letteratura» e «divertimento» proprio in nome della vita e dell’eticità: di quella vita e di quell’eticità per cui oggi si tenta da qualche parte condannare,
come
ozioso e sterile gioco lettera-
rio, proprio la cosiddetta «lirica pura». Vita ed eticità intese in senso individualistico, con forte acce-
zione religiosa ed in un certo senso mistica, dal Boine, il quale dichiarava di «sondare l’Italia letteraria»
in cerca appunto «di sostanza umana, d’uomini e di vita»; in senso d’interesse collettivo e sociale dagli
odierni assertori della narrativa a fondo morale e «contenutistico». Gli è che l’ideale della «lirica pura» nacque infatti, in alcuni dei migliori spiriti di quel tempo, non
già — come ulteriori indirizzi secondari e recenti polemiche possono far credere — quale tendenza ad un’arte svuotata di sostanza umana, isolata in un’astratta purezza formale: bensì, in reazione alle rettoriche dannunziane, veristiche o di altro tipo, come riconquista d’una più viva e diretta umanità, d’una
parola che, spogliata delle sue convenzionali incrostazioni sentimentali e letterarie, ripossedesse finalmente intero il suo peso di realtà e di sangue. L’ideale letterario del cosiddetto «frammento», troppo sbrigativamente oggi condannato, rispecchiò, nei
suoi esempi migliori, questo bisogno di semplicità ed essenzialità, insomma,
di «verità» psicologica e
umana. Bisogno di «verità» spinto al punto di fare addirittura respingere — come s’è visto dalle parole del Boine sopra riportate — come finzione letteraria e dilettantesco gioco l’«invenzione» di fatti e personaggi che è propria dell’arte narrativa. Ho parlato di «ideale letterario» a ragion veduta: perché l’ideale letterario è una specie di «falso sco174
po» critico, e poco ha da vedere con l’opera una volta realizzata, alla quale non ci si può avvicinare per via di generiche approssimazioni, ma si deve affrontare muovendo proprio dal suo interno, e, meglio, astraendo
addirittura,
per quanto
è possibile, dal
movimento culturale che solo «negativamente» — se è permessa l’apparente contraddizione — le ha dato vita. Facendo, cioè, questione di uomini e di perso-
nalità singole. Lo spirito opera sempre al coperto, per vie segrete ed imprevedibili. Come nella vita morale, anche nell’arte le anime si conoscono
«ai var-
chi visibili ed attivi». Un atto non si giustifica mai con una teoria, per quanto aderente e precisa: ma è sempre giustificato da sé medesimo. Ideale critico fu quindi quello del «frammento»: che, nelle sue realizzazioni concrete, uscì dalla generica determinazione teorica, superò il «falso sco-
po», per diventare semplicemente poesia, e sopratutto lirica. Si tratta di vedere, ora, quale valore for-
mativo e morale abbia avuto aspetto della realtà artistica prevalenza l’accento. Le sue origini culturali non gine. Ad una interpretazione del concetto
quell’ideale, su quale abbia fatto cadere di sono di difficile indarestrittiva e letterale
crociano di «intuizione
pura», ad un
pizzico di bergsonismo e di pragmatismo, devono aggiungersi gli allora di fresco scoperti esempi della poesia francese della seconda metà del secolo scorso. Poesia che aveva, o pareva aver affermato, in due
o tre forti personalità liriche cresciute proprio attraverso al ciarpame estetizzante del movimento simbolista, un concetto «totale» della creazione lirica: intesa talora addirittura, ad esempio in un Rimbaud,
come esperienza mistica, impegnativa di tutto l’uomo.
L’accento,
quindi, veniva di ragione a cadere
sul momento istintivo, più profondamente genuino della creazione: concepito così rigorosamente da fare considerare come congelamento e inutile superstruttura tutto quanto potesse apparire sviluppo e ri175
petizione di quel puro principio. Una simile concezione comportava di necessità l'esigenza della critica più attenta e consapevole, concomitante all’operare artistico: per eliminare i «residui» estranei, d’indole così pratica come intellettuale, che avessero potuto inserirsi nell'atto della creazione. Accanto all’idea di una poesia supremamente nativa, in un certo senso selvaggia, veniva così a porsi la necessità della coscienza critica più lucida, colta e raffinata. Quanto, nelle sue premesse, un simile concetto
dell’arte acuisse le responsabilità dello scrittore, si convertisse per taluni spiriti, in un tentativo di ardua ascesi morale, non immune da alcunché di giansenistico, si può constatare nello stesso Boine, o negli inizi di altri scrittori, come l’Onofri delle Liriche o il
Savarese di Altibiano, come il Cardarelli dei Prologhi o il Bacchelli dei Poemi lirici; scrittori che nell’eserci-
zio di un’arte del tutto spoglia e mortificata sembravano portare gli scrupoli e le scontentezze della più sottile coscienza morale: ispirandosi addirittura, taluno di essi, alle difficili analisi di un filosofo come
il Royce.
Sui limiti di questa concezione della poesia metteva in guardia lo spirito avvertito dello stesso Boine, al quale accadeva di notare, in margine al libro di un «frammentista», la seguente osservazione: «che
non basta la sincerità in arte. Se anche uno giungesse a darmi pura e com'è la sua nuda intimità, dico che ciò non basta... Bisogna infine credere alla grazia; ci sono gli eletti e ci sono i maledetti»: venendo con ciò a riconoscere all’operare artistico il suo naturale agio, la sua parte di felice e fertile irresponsabilità, di libero svago e d’invenzione. Pur con una certa complicità, e forse proprio in virtù di questa, il Boine acutamente sottolineava il carattere di «rimuginii psicologici», di «fachiresche scarnificazioni», di
certi pur rispettabili tentativi: «Io non conosco altra arte che l’arte, e per aggrovigliati che siate e profon176
di, arte non farete se questa profondità non me la ridate comunque in immediatezza». L'inevitabile sbocco di una simile disposizione era, com’è chiaro, la critica. La poesia che quell’at-
tento travaglio lasciava dietro di sé avrebbe, in un
certo senso, potuto anche non essere. L’attenzione andava a poco a poco spostandosi, dall’oggetto del-
la creazione, al modo di operare di questa. A poco a poco, la rigorosa autocritica implicata nell’atteggiamento «frammentista» si sviluppava in critica vera e propria. Tale è il significato più vero dell’esperienza letteraria che va sotto l’improprio nome di «frammento». Perché, se oggi consideriamo i libri e le raccolte che sogliono così denominarsi, ci sorprenderà la profonda differenza che intercede fra di essi. Alcuni di quei componimenti non sono che frutti della vecchia tradizione nostrana del bozzetto; in altri casi, si
tratta di brani di diario e di autobiografia psicologica e morale; in altri, di autentiche liriche. Infine nei
veri e propri «saggi» — che nulla tengono, neppure esteriormente del frammento — è percepibile a nudo il momento più caratteristico di quell’esperienza: il coincidere dell’ispirazione e del sentimento con la riflessione intellettuale. Come sopra si diceva, l’originalità della tendenza, in sé presa, è essenzialmen-
te critica: e rappresenta il duplice momento dell’arte che prende più intima e piena coscienza di sé e della critica che tende a verificarsi puntualmente sulla stessa poesia nel suo sorgere. Visto sotto questa luce, l'ideale del «frammento» appare aver dato luogo, sia pure attraverso le inevitabili falsificazioni, deviazioni e insufficienze, ad una
concreta e fertile esperienza letteraria. Sotto questa luce, anche lo stesso edonismo e scetticismo critico
di un Serra lascia intravvedere la sua profonda serietà di motivi: l'esigenza di una tradizione intesa come equilibrio di saggezza, e, insieme, di una «scelta» diretta ad identificare, nell’opera d’arte, i momenti
177
di assoluta riuscita e sincerità (e se nei suoi seguaci, e nel Serra stesso, tale ricerca si convertì spesso in «maniera», in una dilettantesca delibazione di belle
frasi e parole separate dal loro contesto, ciò poco toglie alla serietà dell’esigenza). Così l'avventura «rondista» non altro significò, su di un piano più riposato e maturo, che quella medesima esigenza di scelta: e, insieme, il bisogno di superare quanto di anarchicamente individuale persisteva nella esperienza precedente, ricollegando modernità e tradizione e ponendo l’esigenza di uno «stile», inteso come coscienza critica e morale coesistenti all'operazione estetica. Anche se, è uopo riconoscerlo, tale scrupo-
lo si convertì spesso in una sorta di gelida preoccupazione «grammaticale». L'esperienza del «frammento»
è, in buona parte,
cosa di ieri. Ma non tanto ch’essa non faccia ancora intimamente parte di noi, e di coloro stessi che oggi s’affrettano a condannarla. L’avversione per il romanzo, per la narrazione spiegata, si dimostra oggi frutto di un equivoco. La troppo tesa preoccupazione della «sincerità», dell’«autobiografia», della poesia «sofferta» si va distendendo a favore della libera invenzione e del latente contenuto di pensiero. Con tutto ciò, non è difficile scorgere i segni di quella tormentosa e un po’ umiliata coscienza nella nuova narrativa che va in questi anni sorgendo, o almeno nei suoi prodotti più significativi. Mentre al rigorismo estetico, ed implicitamente etico, che fu il portato d’una tale coscienza, non ci sentiamo, neppur
oggi, di dover rinunciare. Perché se l’esperienza «frammentista», che meglio sì direbbe lirico-critica, appare non aver lasciato
agio a svolgersi, in chi la attraversò e la sofferse, altro che ad un’arte in qualche modo grigia e mortificata, di scarsa «materia», a volte quasi intraducibile per eccesso di interiorità (e tuttavia, tra la inevi-
tabile zavorra, si possono contare quattro o cinque 178
libri che resteranno) lo spirito critico che ne sorse non fu affatto alieno dall’intendere uomini ed opere maturatisi all’infuori di essa, poeti e romanzieri. E, come esso seppe giovarsi dei portati delle ultime filosofie idealistiche, così ebbe il merito di approfittare dell’insegnamento crociano cum grano salis, e di tener fermo alla necessaria filologia e psicologia, mentre i discepoli ortodossi del Croce si affannavano a svaporare ogni concreto interesse critico in una vaga nebbietta di formule. Egualmente, ad
esso si deve la vigorosa affermazione di quel senso moderno ed attuale della tradizione, che per tanto tempo ha difettato alle nostre lettere. Superfluo poi aggiungere che questo medesimo spirito critico — di cui sopra s'è accennato, troppo sommariamente,
alle caratteristiche
—
è tutt’altro
che inetto ad intendere le reali novità di «contenuto», concepito quest’ultimo come pensiero o corrente di pensiero. Poiché, se esso appare avere talvolta limitato con troppo rigore le proprie indagini ai cosidetti «problemi formali», ossia allo stile, al tono, alle concrete figurazioni di uno scrittore, tale li-
mitazione, negli esempi migliori, era anch’essa dettata da uno scrupolo di verità e di eticità, e per null’affatto da un sorpassato concetto estetizzante della «bella forma». Era, cioè, suscitata dal bisogno di son-
dare la necessità e sincerità d’un’opera, necessità e sincerità che non possono apparire da un esame del «contenuto» astrattamente considerato, bensì proprio dall’esame del tono e dello stile di essa, di quella sua forma vivente che è il sentimento, e che sola rende vero o falso il contenuto, cioè il pensiero, che
vi si esprime. È appunto a questo spirito critico, che ci ha educati all’esame diretto della pagina, a leggere, per così dire, fra le righe di un autore, che oggi dobbiamo il nostro sospetto verso le dubbie esemplificazioni che, sotto scusa del contenuto, e dell’interesse uma-
no e sociale, tentano da qualche parte di riproporre 179
alla nostra attenzione vieti spurghi del tramontato estetismo crepuscolare, opere impregnate di false filosofie, poesia tanto in apparenza vistosa quanto sostanzialmente povera di motivi schietti e di reale esperienza umana. Quanto all’auspicato romanzo sociale e di costume, al romanzo che agiti passioni e problemi «di tutti», esso verrà, se verrà. Noi non chiediamo di meglio. Ma, occorre ripeterlo ancora una volta, non
è compito della critica il prescrivere nuovi «contenuti».
E compito, senz'altro, della vita, che insensi-
bilmente opera nei sottosuoli della cultura e trova di volta in volta imprevedibili sbocchi. Non si può tuttavia fare a meno di rammentare che quando cent'anni fa il gran Vittore, con la prefazione al Cromwell,
dettava
il credo
dell’arte
romantica,
le
opere dei romantici già pullulavano, sicché le parole del maestro non suonarono altrimenti che come un eloquente appello per richiamare gli irregolari sotto la nuova bandiera. Da noi oggi le prefazioni escono ogni giorno, ma non s’è ancora visto neppure l’ombra di un Cromwell. Ciò amenoché tali scontentezze e vaticinii non significhino piuttosto disgusto di ogni poesia e letteratura, e bisogno di qualcos’altro. Che è, infine, un
atteggiamento anch'esso legittimo, e talvolta fertile per la stessa letteratura. 1934
180
SULLA POESIA
La poesia oggi
A parlare di poesia, oggi, si prova quasi un senso di rimorso. Né sono sufficienti a sopirlo i consolanti proverbi per cui si afferma che l’uomo non vive di solo pane e che anche la fantasia è, come
l’aria, indi-
spensabile alla vita. Oggi i duri imperativi della storia ci prescrivono compiti tanto più urgenti quanto più umili. Oggi l’uomo, dopo la tempesta distruggitrice, è chinato sulle rovine per cercar di salvare il salvabile, di ricostruire il ricostruibile. Oggi impariamo, purtroppo, e duramente, che è sempre il più basso a reggere il più alto, e che si vive sopratutto di pane. Inoltre, noi usciamo da un lungo periodo oscuro, in cui l’impedita fiducia negli uomini ha indotto i migliori a considerare la poesia come la soluzione di un problema personale, una via segreta e appartata per ritrovare, ciascuno per proprio conto, l’umanità co-
mune. In pari tempo, essi hanno rinunciato a cercare quell’almeno potenziale capacità di partecipazione che è propria dell’arte nelle grandi epoche di civiltà. La verità è che mancavano all’epoca moderna i piani 181
essenziali su cui una tale partecipazione avrebbe potuto svilupparsi. Il languire del sentimento religioso, ridotto oramai soltanto a un’alta e pietosissima terapeutica dell’anima, a una chiusa preoccupazione della salvezza individuale; i particolarismi della politica, e, infine, l'uniformità imposta dall’alto, l’idea scadu-
ta a propaganda. Tutto ha congiurato per dissolvere a poco a poco i vincoli di una spiritualità comune e per rendere l’uomo ad un senso di angosciosa solitudine. In pari tempo, i vincoli materiali ci hanno stretto sempre di più, e mentre l’industrialismo rinnovava sotto diverse forme la schiavitù antica, lo stato, la società av-
viluppavano sempre più dappresso l’individuo in una rete di obbligazioni tanto più ferrea quanto più le forme della vita associata diventavano più complesse e interdipendenti. E, infine, abbiamo avuto lo stato totalitario, di fronte a cui l’interiorità individuale, la li-
bertà della persona, per quanto insopprimibile, finiva, almeno
potenzialmente,
col rivelarsi come
una
specie di deformazione, di peccato originale in attesa del riscatto che avrebbe dovuto operarvi l’assoluto conformismo, l'obbedienza più disperata e grigia.
In questo clima, era naturale che i valori dell’arte e della poesia, sempre in un certo grado dubitosi, come quelli che si concentrano in azioni e in opere che si dimostrano immediatamente vantaggiose alla vita dell’uomo, ma in una lenta e faticosa elaborazione di
certi significati della civiltà, in ciò che si suole chiamare un approfondimento della coscienza, si sarebbero trovati più che mai in gioco. L'artista, una volta,
trovava conforto e sicurezza nell’adeguarsi a un canone, a una regola prestabilita, quali una tradizione
universalmente accettata gli proponeva. Nel mito di una humanitas, di una misteriosa corrispondenza tra
gli spiriti di ogni tempo, sopra e al di là del piano della storia, trovava una specie di mistica giustificazione del proprio lavoro. Oggi questa sicurezza non è più. Crollati i miti della natura e della tradizione, ricon-
dotta la certezza e la validità di un’opera di poesia ad 182
un sottile, opinabile criterio interiore, l’artista è preso talvolta da un senso di vertigine. Qual è dunque la distinzione tra l’opera vera e compiuta, la quale, anche se al suo sorgere è incompresa dai più, dà voce e senso alla comune
umanità, la svela nei suoi recessi
inconsapevoli, la obbiettiva e le offre uno specchio in cui essa potrà eternamente riconoscersi, e i vagheggiamenti dell’illuso dilettante, che, nell’espressione di sensazioni artificiose, trova unicamente una sod-
disfazione a una sua piccola insulsa vanità? Che cosa potrà mai offrirci una certezza? Non il consenso del pubblico, che così spesso erra, in attesa che il lento lavorio critico del tempo discrimini, vagli, scelga;
non la corrispondenza a uno scopo esterno, per quanto alto esso sia; e neppure il giudizio degli affini o degli amici, che così compiacentemente suole ingannare sé medesimo. Quanto a quello della propria coscienza, esso è il più incerto e pericolante di tutti. Se la coscienza si arrestasse un momento solo dal suo dubitare, poggiandosi su una immobile e orgogliosa sicurezza, con ciò stesso l’opera si interdirebbe qual
siasi progresso, si fossilizzerebbe in una di quelle morte accademie di cui son piene le storie letterarie e artistiche di ogni tempo. Così, sopratutto oggi, vive il poeta, diviso tra essere e non
essere, diviso tra il
senso di una irresistibile fatalità interna e la perenne dubitazione di una definitiva vanità dell’opera propria. Tra l’esigenza di inserirsi in un’opera che sia un filo del tessuto della profonda umanità comune, e il
sospetto di restare per sempre una sterile anomalia della natura, irreducibile a una seria misura umana,
nulla più che un «cervello bizzarro e un po’ balzano»,
secondo
la definizione
che dava del poeta il
contado milanese al tempo dei Promessi Sposi. Eppure, gli basterà uscire per istrada, mescolarsi alla folla, indugiare per le strade e nelle osterie, por-
gere orecchio sul treno ai discorsi della gente, e il poeta troverà oscuramente un senso e una giustificazione alla sua fatica. La radio, fuori dai caffè aperti,
183
ronza l’ultima canzonetta di moda e la facile musica
fa più rapido e vivace il nostro passo e infonde al nostro sentimento di vivere un senso di aderenza al cosmo. Un canto di donna alla finestra, non con le sue
volgari e inintelligibili parole, ma con l’accorata grazia della sua inflessione, ci confida un umano segreto, che ascoltando facciamo nostro. L'uomo in treno, che racconta un fatto dell’esistenza particolare, descrive un carattere, lancia un fiorito scherzo ver-
bale, esprime anch’egli una fugace, ma non perciò meno intensa e concreta poesia. In questa diffusa e informe esteticità dell’esistenza individuale e sociale
d’ogni minuto, principio e fondamento dell’opera destinata a durare, poco o molto che sia, nell’animo
del lettore o nel corso della storia, in questo ramificarsi dell'espressione universale spontanea,
at-
traverso i piani più diversi, fino alla nascita della lirica più elaborata, dell'immagine più densa di significati, il poeta può di tanto in tanto ritrovare la
necessaria armonia con se stesso e con gli uomini. La miglior poesia contemporanea esprime, a mio modo di vedere, il dramma di questa solitudine e l’ansia di questo ritrovamento. In un senso più lar-
go, la solitudine e l'angoscia della poesia sono proceduti di pari passo col dissolversi delle fedi comuni, col progressivo disgregarsi di quella coltura unitaria, che dall’eredità classica, cristiana e rinascimentale si era affaticata a trarre le linee di un immenso unico
edificio. Più volte abbiamo pensato di trovarci davanti a un arresto nel processo di sfaldamento e di
atomizzazione iniziatosi con l’esperienza romantica. Il ciclo doveva invece concludersi fino in fondo.
D'altra parte bisogna pur riconoscere, per quanto riguarda il nostro paese, che il senso di limite e di misura connaturato alla nostra tradizione, e la stessa difficoltà del formarsi, nella nostra letteratura degli
ultimi cent'anni, di una coscienza europea e moderna, ci hanno finora trattenuti dal toccare il fondo di questa disgregazione. Mentre, ad esempio, il carattere
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più avventuroso e sperimentale dell’arte francese ha condotto quest’ultima, col surrealismo, a raggiungere l'estremo di una poesia di pura materia, dove non sussiste neppur più l’ombra vaghissima di un qualsiasi disegno ragionativo e discorsivo, e, rovesciata qualsiasi arginatura formale, tutto si dissolve in un polverio di immagini alogiche, o tenute assieme da una specie di mitica suggestione. Una poesia destinata ad accogliere i trasalimenti dell’inconscio al loro primo pullulare sulla soglia della coscienza, alle frontiere dell’inumano. Una poesia che, nella sua estrema for-
ma, persegue lo stesso palpito incosciente dell’esistere e finisce col risolversi in una inarticolata passività. Siamo,
così, all’accusa
di ermetismo
formulata
contro la nostra poesia recente. Ma il termine di ermetismo, storicamente preso, può secondo noi applicarsi con piena proprietà soltanto a taluni critici d’oggi, che concepiscono il lavoro del critico non tanto come il rivivere una poesia nella sua storia, o come analisi o giudizio staccato, ma piuttosto come una specie di ineffabile avventura interiore, mirante a rintracciare, in uno sforzo di identificazione, le segrete ragioni di un’opera, unicamente concepita co-
me una specie di mistica risposta dell’uomo alla sua collocazione nel cosmo, davanti alla morte e a Dio.
Fatalmente, per un tale genere di critica, l’estetica tende a trasformarsi in metafisica, volta, in una esperienza mistica.
e questa, a sua
La definizione di ermetismo applicata alla poesia è qualcosa di molto più generico, che riguarda anzi tutto quanto si diceva in principio circa la tragica solitudine del poeta moderno, conseguenza del deca-
dere delle grandi fedi collettive del passato e dell’eccessivo particolarismo delle moderne. Certo, l’accusa di oscurità fatta alla lirica moderna ha un buon fondamento. Tuttavia, come si sa, l’oscu-
rità non è un fatto nuovo nella poesia. Dagli stilnovisti fino a Foscolo e a Leopardi la tradizione della no-
stra lirica «dotta» conosce vette, se non impervie, cer-
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to molto ripide. D'altronde,
com’è
ovvio, esistono
oscurità di due specie: la prima è l’oscurità gratuita del poeta pretenzioso, che cura di nascondere con parole solenni, con cabalistici giri di frase la vuotezza del sentimento e la povertà dell’immaginazione. La seconda, è l’oscurità di chi si avventura nella penombra di un’intuizione ancora inedita, di un senti-
mento appena portato alla luce: e quell’intuizione, per esprimersi intera,
e non smarrire la sua essenza
più ricca nell’anonimità di un’espressione resa logora e consunta dall’uso, recherà inevitabilmente in sé
i segni della sua difficile nascita, quel tanto di mistero che è inseparabile dalla sua scoperta. La funzione dell’oscurità nella poesia potrebbe anche, in certo modo, paragonarsi a quella delle om-
bre in un quadro: essa è, per così dire, destinata a mettere in più vivida luce un frammento di realtà, fa-
cendolo emergere dalle tenebre e lasciandone così indovinare i complessi e misteriosi legami che lo avvincono alla vita universa. In pari tempo, la difficoltà di un testo trattiene l’attenzione del lettore, che al-
trimenti sarebbe tentata di scivolare alla superficie stingendo la vivezza delle sue impressioni sulle altre infinite impressioni che la sua esperienza ha già incasellate e esautorate nella memoria. Nell’impegno appassionato dell’intelligenza, il testo a poco a poco dissolve le sue asperità, si anima di vita rinnovata e cede il suo segreto. Infine, più importante di tutti questi elementi, e pur tuttavia strettamente implicato in essi tutti, tanto da poter esserne considerato la ragione profonda, è quello che inerisce alla stessa condizione della
poesia moderna come confidenza umana. In una confidenza la parte di segreto è ineliminabile, è la misura d’intimità della confidenza stessa. È il «segreto» ad avvicinare il confidente a colui che raccoglie la confidenza, è il segreto, dunque, ad avvicina-
re il poeta al suo lettore. E tanto più una confidenza è vera, intima, viva, quanto più essa esclude gli
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«altri» e isola nel suo cerchio chi dice e chi raccoglie il segreto. Il confidente mira ad escludere la stanca e generica disposizione dell’ascoltatore, esigendone invece una di commossa e partecipe attenzione, di fiducia, quasi di complicità.
In un’epoca di civiltà dissipata ed estrinseca, nella cui aria marciscono i grandi miti del passato e i nuovi non riescono a trovar forza, dove pertanto difetta il necessario fondo di spiritualità comune, dove la «comunicazione» con gli altri si fa vuota e superficiale e la parola tende a scorrere lungo un piano ovvio e uniforme, si svuota d’ogni intimità riducendosi ad un richiamo alle passioni elementari, la confidenza
necessariamente si restringe in una zona isolata e profonda, tende a raccogliersi all’interno del poema,
che attende di essere aperto con l’intelligenza e l’amore. Sembra non esservi scampo, oggi, a questo destino di solitudine, che imprime la sua tristezza alle espressioni della poesia nuova e ne svolge i sensi come quelli di una corrosione critica dell’esistenza. Comunque, affinché essa possa incidere in una realtà viva, sembra che le sia necessario muoversi, in grado maggiore o minore, in una zona d’ombra, fino a pro-
porsi, al suo estremo, come un vago enigma da decifrare. La poesia si sprofonda con la sua lanterna cieca di minatore per rintracciare, in qualche sotterra-
nea regione, quella comunicatività almeno virtualmente universale che essa ha smarrito alla superficie. Perciò, alla domanda di moda «dove va la poesia?»,
potremo rispondere che la poesia non va, evidentemente, in nessuna direzione, almeno da sola. Il destino della poesia, diretta emanazione della vita nel suo fluire, si identifica col destino stesso dell’uomo.
La solitudine e l’angoscia del poeta moderno cesseranno soltanto con una ritornata confidenza dell’uomo nell’uomo: quella confidenza che la miglior lirica d’oggi disperatamente afferma, anche e forse in modo particolare, laddove meglio sembra difendersene dietro la sua colorita armatura di parole. 187
Certo, noi tutti auspichiamo che la poesia torni ad essere, come sempre fu nelle sue epoche più alte, una voce universalmente fraterna. Ma non è da-
to a noi, non è dato al poeta di ritrovare di punto in bianco questa fraternità, perché ciò non è soltanto il compito del poeta, e del filosofo, e del politico, ma della buona volontà, della fede e della speranza d’ogni uomo e d’ogni giorno in ogni campo della vita. 1946
Poesia di ieri, oggi e domani
La poesia è un’espressione naturale della vita dell’uomo. I programmi, le intenzioni, le poetiche di scuola che intendono imprimerle una direzione, sono destinati sempre a fallire, a meno che non asse-
condino intimamente le disposizioni che già si manifestano in essa. Oggi sembra segnare, e non soltanto in Italia, un tempo d'arresto. E raro che sorgano nuovi nomi in aggiunta a quelli che si sono rivelati prima e tutt'al più alla fine dell’ultima guerra. In Francia, la grande ondata del surrealismo sta
languendo. I poeti di ieri già si riprovano a disegnare, sul fondo brulicante dell’analogia surrealista, un più netto disegno melodico e razionale, o ri-
tentano l’adombramento di temi più pressanti e le-
gati alla vita dell’uomo attuale. Quando non saltino addirittura il fosso, come ha fatto da qualche anno Aragon,
risuscitando
le vecchie
cadenze
e i ritmi
della canzone popolare e finanche della Chanson de geste: col rischio, tuttavia, di cadere in puri svolgi-
menti eloquenti, o negli orti azzimati dell’Arcadia letteraria.
Eluard,
la grande
perdita della poesia
francese dell’anno testé decorso, ha impresso alle sue ultime composizioni (famosa è rimasta la patetica enumerazione di Liberté) un caldo empito di fratellanza umana, che rimarrà uno dei suoi accenti distintivi più sicuri e profondi: ma, nel far ciò,
188
non ha rinunciato alla disposizione mistica della poetica del surrealismo, basata sul vago e labile in-
canto dell’analogia casuale: e, laddove egli cede agli effetti troppo scontati dell’occasione propagan-
distica, diradando il tessuto delle immagini, si ridu-
ce a semplici enunciazioni, incapaci dei complessi svolgimenti tematici dei poeti «di pensiero». Degli anziani, forse soltanto Supervielle mostra di aver sviluppato la sua precedente poesia con un deciso progresso nel senso d’una superiore essenzialità e concisione di pensiero poetico. Nei più giovani, il clima di transizione è ancora più sensibile. In Italia, Montale
sembra
aver
definitivamente
chiuso la fase più ermetica della sua poesia, quella di Finisterre, con le sue trasposizioni mediate e simboliche, e si riavvicina ora ai modi delle Occasioni, con
brevi cose perfettissime dove ritornano più pacati e distesi gli scabri lineamenti e i bagliori della visione naturale. E parso a qualcuno, tuttavia, che egli fac-
cia ora del Montale su Montale, e perfezioni la propria stessa
maniera:
cosa,
peraltro,
legittima,
che
forse implica un segnare il passo in attesa di nuovi svolgimenti. Ungaretti, nel recente
Monologhetto,
tenta una commistione tra i modi della sua poesia e quelli impressionistici e frammentari delle sue prose di viaggio e di ricordo, con risultati interessanti e forse capaci di sviluppo, ma la sua parola più alta rimane ancora affidata alle pure accorate cadenze del Dolore. Saba si affida sempre alla grazia patetica ed epigrammatica che raggiunse in Parole la sua piena misura, e continua a darci alcune delle sue cose più belle: cosa potremmo chiedere di più alla sua ricca maturità? Fra i più giovani, Penna ci dà qualche raro frammento; Sereni tace; gli svolgimenti recentissimi, documentatici nel decorso anno, di poeti co-
me Luzi, Parronchi, Bigongiari, Caproni, Borlenghi, destano molto interesse, ma si tratta sempre di scrittori già affermati, e tutti più vicini, credo, ai quaran-
ta che ai trenta. Degli appartenenti alle generazioni 189
più giovani, di coloro da cui forse è da attendersi la rivelazione di domani, e che possono contarsi sulle
dita della mano, non oseremmo fare i nomi senza la
premessa di un diffuso e cauto discorso critico. L'impressione generale è sempre quella d’un tempo d’arresto e di raccoglimento della poesia europea. Forse, una qualche suggestione potrà ancora derivarci dal vicino mondo anglosassone. Dalla lirica inglese, che, attraverso
poeti come
Eliot, Spender,
Auden e gli altri, ha resistito agli incantesimi, che hanno affascinato per lungo tempo gli scrittori di Francia e d’Italia, della poesia pura, macerata, autocritica, scarnita nella sua essenza lirica e patetica, o
rovesciata integralmente
sulla vaga materia
della
realtà inconscia, e ha avuto il coraggio di ombreg-
giare i confusi lineamenti di un’epica, sia pure negativa, del mondo
moderno,
non
arretrando
i suoi
campioni dall’inserire nei loro componimenti ideologia, cronaca
e humour, e rimescolando
questi in-
gredienti con l’uso dell’analogia ermetica ed imagista, con effetti di discorsività e di prosasticità a volte
sconcertanti, a volte profondi. E, se anche la divagazione onirico-fiabesca di uno squisito neoromantico come Dylan Thomas sembrerebbe indicare una tutt'altra direzione, alla poesia inglese spetta pur sempre il merito di aver richiamato imperiosamente il poeta a una considerazione più coscientemente e drammaticamente aperta dell’uomo d’oggi e del suo destino. E sembra che un discorso non troppo diverso possa farsi per la lirica nord-americana, la quale mostra anche una diretta implicazione coi modi e i sensi della sua grande narrativa moderna. Altre suggestioni ci sono già derivate dal mondo iberico, che,
anch'esso rimasto in notevole parte immune dal travaglio autocritico della lirica italiana e francese, ha tentato, con poeti come Garcia Lorca e Alberti, altre
sintesi, stavolta tra il folklore popolare e la «poesia dotta», del decadentismo e del surrealismo, con aper-
ture insospettate su nuove possibilità di immediatez190
za e d’impeto. E lasciamo agli specialisti di dirci quali nuove voci si vadano delineando nella Germania d’oggi, tra le ombre del suo tragico dopoguerra. Suggestioni, e sta bene: la lirica italiana del nostro secolo ne ha assorbite molte, ma, a dire il vero, sem-
pre trasformandole profondamente a contatto con una tradizione che, è opportuno riconoscerlo, è stata sempre, per noi, qualcosa di più di una convenzione, sia pure aurea. Allorché i nostri scrittori hanno accolto passivamente tali suggestioni e influenze, cercando di riprodurre certi fascini esotici di crudezza, di istantaneità e di oggettività prosastica, unicamente
giustificati dai presupposti di diversissime formazioni di cultura nazionale, hanno solitamente fallito, ottenendo, nei loro risultati, soltanto un ingrato e smorto colore di traduzione, o un involontario ricalco di
qualche lontano tentativo versilibrista o futurista. La verità è che, alla radice di ogni poesia, c'è un problema di linguaggio che non può essere eluso o aggirato, perché esso non è già, come potrebbe parere, di astratta portata stilistica o formale, ma implica l’atteggiamento fondamentale dell’artista di fronte alla vita, il raggiungimento di quel segreto accordo con se stesso e con gli altri che è, a ben vedere, la ragione, la necessità stessa iniziale dell'operazione poetica. Il problema della scoperta e della formazione del proprio linguaggio è, per il poeta, il problema di riconoscere se stesso nella propria concreta formazione umana e storica, la verificazione della propria sincerità. E un linguaggio d’accatto è un linguaggio approssimativo e insincero, in senso proprio inesistente. Abbiamo detto in principio che la poesia ubbidisce alla propria segreta inclinazione, ed è insensibile ai programmi e alle polemiche che tale inclinazione non assecondino. La poesia fa tutt'uno con l’uomo e la sua storia e non è perciò astrattamente isolabile da questa. Il suo avvenire è l'avvenire stesso dell’uomo, ed è perciò ben difficile fare pronostici sul suo sviluppo, che dovrebbero investire il destino stesso del-
191
l’uomo e risulterebbero quindi terribilmente ipotetici e vaghi. Tuttavia, poiché ciascuno di noi ha in men-
te un proprio ideale di poesia futura, e talora fantastica di possibili piani e forme in cui esso potrebbe svilupparsi, mi proverò a dire quali svolgimenti mi sembrano possibili alla nostra poesia, disposto fin d’ora ad ammettere che i miei auspici e previsioni possano essere dal primo all’ultimo sbagliati. E prenderò come punto di partenza il fatto che, per più segni, la grande fase della lirica moderna che,
iniziatasi all’ingrosso col simbolismo in Francia, si è sviluppata poi con l’esperienza surrealista, e, da noi, attraverso esperienze diverse e parallele, ultimamente
col fenomeno che si è convenuto di chiamare ermetismo, sembra sia per chiudersi. Questa fase è stata caratterizzata soprattutto dal tentativo della poesia di porsi come una conoscenza a sé sufficiente, una conoscenza «separata»: essa anzi, in una delle sue prime supreme vette, in Mallarmé, ambi addirittura a costi-
tuirsi come organo di una conoscenza assoluta, proseguendo in ciò una delle grandi aspirazioni del romanticismo. Ma, come amava dire Leopardi, la poesia si nutre di prosa, e in questa sua fase la poesia si è
troppo a lungo nutrita di sé medesima, o dei pascoli ombrosi e sfuggenti dell’incosciente e del sogno. Può darsi che il domani della nostra lirica sarà dominato da questo suo ritorno alla prosa, cioè al pensiero, riavvicinandosi in ciò ad uno degli aspetti della nostra grande tradizione classica, da Dante a Leopardi: e nella sua nuova sintesi essa potrà apportare l’approfondimento di sensibilità che un secolo d’interiorizzazione post-romantica e simbolista le ha assicurato. La nuova poesia potrà tornare ad essere discorsiva. Il che non vuol dire eloquente ed oratoria. Cinquant’anni di erosione critica hanno da tempo infranto la crosta di aulicità classica che troppo a lungo ha aduggiato lo svolgimento della nostra lirica durante il corso dell'Ottocento fino al nostro secolo, ancorandola spesso a moduli illustri ma irrigiditi, sic192
ché questo nuovo discorso non avrà alcuna necessità di avvolgersi in panneggiamenti e pieghe rettoriche, pur evitando in pari tempo di cadere nei toni di famigliarità un po’ smancerosa dei crepuscolari, o in quelli falsamente modernizzanti dei futuristi. D’altra parte, quel discorso potrà ritornare allo svolgimento dei nessi logici, in luogo di continuare a fissarsi su quadri d’estasi inarticolata e a disporsi come una costellazione d’immagini, collegate unicamente da una rete di corrispondenze puramente intuitive. Ciò vale anche a dire che un tale discorso, pur piegan-
dosi a tutti i soffi del sentimento e della musica, potrà riprodurre in tutto il suo agevole timbro la naturale sfumatura d’una voce, accogliendo anche i mezzi toni della riflessione e dell’ironia. Quanto alla materia che questa vagheggiata poesia sarà chiamata ad esplorare, già s'è detto tutto affermando che si trat-
ta di riconquistare alla lirica la difficile prosa dei nostri giorni: di accettare in modo spiegato, pur con tutto il suo peso d’inquietudine, di problematicità e di dolore, la nostra condizione umana su questo estremo
margine
della storia, che finora la poesia
contemporanea non ha fatto che adombrare in modi trasposti, per simboli e per grandi immagini, esprimendone un riflesso splendido e solitario. 1953 Neorealismo lirico moderno
Perché
di questo
esilissimo
libretto di versi di
Franco Fortini (Una facile allegoria, edito dalla Meridiana, «Quaderni di poesia», Milano 1954) più mi
persuadono gli accenti «sociali» di quelli intimistici, pur fini, ma che mi ricordano altri poeti? Perché mi sembrano un tentativo serio di integrare alla poesia un mondo di pensieri e di immagini suscitati da una situazione
genuinamente
reale
(reale, s'intende,
sempre in senso poetico). Il neorealismo lirico mo-
ico,
derno, che si interessa alle istanze sociali, ha il difetto fondamentale di assumere la sua materia astrattamente, dall’esterno, dai temi della politica e
della propaganda, e di atteggiarsi, così, fatalmente in rettorica. Per questo è costretto a rinunciare ad elaborarsi un linguaggio proprio, e a prendere in
prestito, egualmente dall'esterno, moduli non suoi,
applicando a un «contenuto» (qui, veramente «contenuto») convenzionalmente progressista vuoi il versetto biblico di Claudel, vuoi il vocabolario dialettaleggiante e tecnicheggiante degli ultimi americani.
Né può invocare a sua giustificazione la sincerità di una convinzione, perché non è con la sincerità né con la convinzione che si fa poesia, la quale, come
ogni opera umana, nasce da un approfondimento di un’esperienza concreta, al di là di ogni sincerità e
di ogni convinzione. Per questo avviene che la gran
massa della poesia «sociale» che si fa oggigiorno non sfugga all’equazione goethiana «poesia politica, cattiva poesia». L’ottimismo giacobino non può di per sé produrre poesia, così come
non
la possono
produrre,
di
per sé, il pessimismo reazionario e la stessa concezione liberale del mondo
e della storia, o qualsiasi
idealismo politico o religioso. L’opera di poesia ha sempre un lato che sfugge a queste qualificazioni, il poeta definisce la sua materia, anche la più sentimentalmente convinta, da una sorta di vuoto soprastorico, che è lo stesso indifferenziato sospiro dell’esistenza, il gusto, antico e sempre nuovo, dell’espri-
mersi. Così, alla massima intensità e impegno del movimento vitale, corrisponde puntualmente il massimo distacco e disimpegno, che finisce con lo
«schiacciare»
il mondo
delle immaginazioni
del
poeta, pur con tutto il suo peso storico di interessi e di passioni, in una dimensione in cui questi diventano indifferenti, puro movimento e stile, esperienza
pura. Di qui la fondamentale ambiguità di ogni creazione dell’arte in rapporto ai fini della politica. 194
Di qui la tragica contraddizione del «realismo socialista» sovietico, il quale, pretendendo di subordinare l’arte al fine sociale, ne sacrifica, con l’autonomia, la stessa efficienza, non ammettendo il finale
gesto d’indifferenza e di distacco, l’indispensabile stratosfera di «ironia» romantica che la compie. Il Giudizio Universale della poesia non ha nulla a che fare con quello del Padreterno. Il poeta può forse salvarsi, oggi, sfuggendo all'ambiguità dell’ «engagement», e affidandosi all’autobiografia. In questo senso, le poesie scritte da Rafael Alberti durante la guerra di Spagna, e quelle di Stephen Spender nate dalla stessa occasione — scelgo due esempi a caso — fanno eccezione alla massima goethiana, proprio perché il fatto politico è per questi poeti, in pari tempo, fatto personale, con la stessa prospettiva ed evidenza di un giorno d’estate, di un amore o di un delitto. 1954
Morte e resurrezione dell'avanguardia Una diecina d’anni fa, Cesare Brandi scrisse un
penetrante saggio su La fine dell'avanguardia. Nonostante la particolareggiata constatazione del decesso, ecco che, da parte di giovani critici, poeti e pit-
tori, si torna a parlare dell’avanguardia come di una realtà attuale
e consistente,
anzi dell’unica
consi-
stente dell’arte e della poesia contemporanea, le si attribuisce in certo modo una coerente strutturazione, e si tende a rintracciarvi un linguaggio comune, l’unico linguaggio proprio della nostra epoca. Per quanto in particolare riguarda la poesia, la recente versione del libro del Friedrich su La lirica moderna,
nella tendenziosità parecchio equivoca del suo as-
sunto, rivolto a fare, come
si dice, di ogni erba fa-
scio, è arrivata al momento giusto per servire al tentativo di rivitalizzazione del mito. 199
La verità è che l’avanguardia, al pari di tante altre
etichette applicate a sezioni spesso arbitrariamente operate sul processo storico, è uno di quei termini così polisensi da attivare all’infinito fervide quanto
inutili discussioni. In realtà, quanto una volta si denominò, parecchio vagamente, avanguardia, come le denominazioni anch’esse vaghe, sebbene un po’ meno incerte, di «impressionismo», «simbolismo», «futurismo», «espressionismo», «surrealismo» ecc., che nella prima di volta in volta si riassunsero incarnandola, non ha necessariamente alcun senso se non risolta nella concre-
tezza di uno sviluppo, per la maggior parte operante fuori dalla definizione, enucleantesi in opere indivi due, ed irraggiante nel tempo i riflessi equivoci e fascinosi di una moda. E solo tali sviluppi, storicamente circoscrivibili non più per definizioni, ma solo per caute approssimazioni, possono acquistare un senso reale nella memoria.
Il concetto di «avanguardia» può rappresentare abbastanza efficacemente, dei movimenti che abbiamo indicato, e di altri numerosi, il lato, per co-
sì dire, formalistico e negativo. Quei movimenti furono, di volta in volta, «avanguardie» — coerentemente alla metafora militare che il termine racchiude — in quanto operarono una rottura violenta, una dissoluzione dei canoni artistici tradizionali. E la storia di ieri, dal romanticismo in poi, con-
siderata sotto l’aspetto astrattamente formalistico. Oggi, che i limiti sono stati raggiunti e abbondantemente superati, sappiamo ormai che in arte, in poesia, «con tutto si può far di tutto», l’avanguar-
dia è finita. L’atteggiamento eversivo dei canoni tradizionali è oggi démodé proprio perché non c’è
più nulla da distruggere. L’ultima esperienza in quel senso, il «Jettrisme» di Isidore Isou, non stupì
più nessuno, ed ebbe tutto il sapore d’una innocua trovata. Ciò non significa, naturalmente, che non vi debbano più essere novità formali, le quali, anzi,
196
ci saranno sempre, anche se qualche volta avranno l’aspetto del vecchio. Ma quelle novità saranno ormai più soltanto — come, del resto, sono state sem-
pre — il naturale svolgimento delle forme dell’arte, modellate dalla sempre nuova e imprevedibile coscienza della realtà storica nel suo farsi sempre nuovo. Il senso di effrazione, e di conseguente scandalo, che fu proprio delle «avanguardie», è ormai finito per sempre. Il «ritorno all’avanguardia» di cui oggi si parla, è ancora un'espressione dello smarrimento dell’artista, che si affatica a cercare un appoggio esterno, una garanzia di sicurezza, una verifica oggettiva della propria autenticità in un mito di ieri. Contraddittoriamente, cerca di estrarre un canone regolatore dalla negazione stessa d’ogni canone. In un mondo di forme andate in frantumi, dove non c’è neppur
più da «ricostruire» (come pure fu di moda una volta), né da «ritornare» a qualcosa, mai l’artista è stato più solo, più condannato all’incertezza.
Il poeta, oggi, non può assolutamente prevedere a priori se la voce autentica ch’egli cerca, e che potrà essere la sua, dovrà esprimersi, poniamo, in endecasillabi regolari, o in versi liberi, in prosa, o median-
te puri procedimenti analogici. La legittimità del suo mezzo potrà soltanto essergli garantita dalla diuturna
prova diretta, dall’assiduo
scontare,
ora per
ora, le angosce dell’approssimativo, e dell’ingombrante, dalla continua e puntuale presa di coscienza
del proprio
esistere
e del proprio
imparare,
o,
infine, dall’inequivocabile e pur sempre dubitosa ri-
velazione. Appunto perché non si tratta di un mezzo, ma della sostanza stessa del suo esprimersi. E il
«nuovo linguaggio» non lo ritroverà in alcun vocabolario avanguardistico, ma esso sarà una risultante collettiva cui contribuirà, con altri, il suo sforzo soli-
tario di conquista di una parola che lo accordi con sé e col mondo. Insomma, oggi meno che mai per il concreto ope197
rare dell’artista valgono le poetiche, di qualsiasi origine e natura, formalistiche, contenutistiche o avan-
guardistiche esse siano. Oggi, nell’animo profondo di chi si attenta ad esprimere quella che ritiene essere una genuina reazione di fronte alle cose, convinto così di adempiere a una forma del proprio esistere, sono di attualità infinitamente
superiore, in
quanto possono essere proiettate su un piano mondano, le vecchie questioni teologiche sulla predestinazione e la grazia. In poesia, come in tutto, del re-
sto, nella vita, si decide e si paga sempre e soltanto di persona. 1963 Come l’arretramento nello spazio...
Come l’arretramento nello spazio semplifica e riassume le linee di un panorama, così l’arretramento nel tempo, rendendo incerti i contorni troppo individuati, rivela nelle strutture della storia rap-
porti profondi e aspetti comuni che prima potevano passare inosservati. Lo «stile d’un’epoca» è fra queste astrazioni generali, che purtuttavia non sono prive di senso. Un tale arretramento, con la provviden-
ziale miopia ch’esso comporta, suole pure rivelare la sostanziale novità di movimenti e rivolgimenti culturali, che, visti troppo a ridosso, potevano invece mostrare con più netta evidenza le pur sempre insopprimibili linee di continuità col passato. Il nuovo punto di vista ci consente ad esempio di apprezzare, meglio che ieri non fosse possibile, la sostanziale frattura che si verificò nello svolgimento della poesia italiana (e non soltanto nella poesia) al-
l'epoca in cui cominciò a declinare l’influsso dei «tre grandi» — Carducci, D'Annunzio
e Pascoli — e
che fu caratterizzata dal frantumarsi della convenzione classicistica e dall’irruzione in profondo delle poetiche del decadentismo europeo. Aggiungerei 198
che questo arretramento
ci consentirà, forse, una
più equilibrata — e comunque diversa — valutazione della poesia dei «grandi», e magari di attenuare, se non di risolvere, certe tradizionali ambivalenze, co-
me quella che ha sempre più o meno travagliato la critica pascoliana, specie dopo la rigorosa «messa a punto» del Croce. La dimensione metastorica in cui vive la poesia ha, difatti, natura tutta ideale, di concettualizzazio-
ne filosofica del carattere di immediatezza — e pertanto di eterna attualità — della comunicazione estetica, che non vieta di dover considerare, per un al-
tro verso, la poesia come integralmente immersa nella sua dimensione storico-culturale. Un Leopardi, con la sua perfezione di linee spoglie e stremate, con la squisita genericità delle sue indicazioni descrittive, potrà magari offrirci l’illusione di una metastoricità addirittura oggettiva, quale venne espressa fin dall’inizio, col suo accostamento ai greci. D'altra parte, neppure lo stilizzatissimo neoclassicismo del Foscolo nelle Grazie, o l’altrettanto rilevato
«secondo Impero» di Baudelaire in poesie come Le serpent qui danse, L'invitation au voyage ecc., rappresentano reali ostacoli all’intendimento del lettore, che trova risolti, o risolve nell’atto stesso della lettu-
ra, quei modi e stili oggi sorpassati nella propria storia culturale, assorbendo la storicità oggettiva della poesia nell’aria senza tempo della comunicazione attuale. E si parla di stili, di mode, ma si potrebbe
egualmente alludere alle più fonde strutture storiche ch’essi sottintendono. Ciò che oggi forse occorre per l’intendere poeti come Pascoli — che ci sono in un certo senso più lontani di Foscolo, Leopardi e
Baudelaire — è tentare di risolverli per un momento nella storia-ambiente,
di metterne
in evidenza
la
partecipazione ad uno stile e a miti diffusi, che ci si mostrano più opachi e resistenti fors’anche in ragione dell’opposizione implicitamente polemica che ogni epoca non manca di assumere verso il gu99
sto e gli ideali dell’epoca precedente. Oggi, poemetti come I due fanciulli possono farci pensare — a parte ogni determinazione di valore — a certo simbolismo un po’ raggelato delle sculture bistolfiane del tempo. In genere, la spiritualità e la tecnica del Pascoli più tipico possono ricondursi a una sorta di esornatività sentimentale, con quel misto particolare di sincerità e di affettazione, che ha bene 1 carat-
teri distintivi dello stile di vita del periodo a cavallo dei due secoli: e quei caratteri, pur se trasformati e indugianti in zone profonde, sopravvivono oggi ancora, come testimonia la tenace fedeltà pascoliana che sopravvive in certe zone specie di provincia. Si pensi, soprattutto, alla particolare indole del classi-
cismo pascoliano, quale meglio si esprime nei Conviviali: a quella sua deformazione della visione classica della vita in malinconia positivistica, e, sotto l’a-
spetto formale, sempre più rivelatore, a quel costante pericolare verso il «floreale»
(Myrrhine, I ge-
melli). Pascoli poeta liberty? Può sembrare una boutade, ma una rinnovata considerazione del Pascoli non può prescindere, oggi, da una indagine storica della spiritualità dell’epoca, che restituisca agli ideali e alle forme della sua poesia la loro pienezza di significato e di timbro. E certe rivalutazioni recenti del liberty architettonico e decorativo, come quella che ci ha testé dato Italo Cremona, toglierebbero alla definizione qualsiasi sospetto di irriverenza. La frattura si operò in un senso decisamente realistico, di immediatezza sensibile, di crudezza icastica ed evocatoria, di presa di coscienza dissolvitrice
degli ideali del tempo, e pertanto di frammentarietà. Si assisteva ad un crollo di grandi convinzioni, morali e formali, ed era inevitabile che l’arte che ne residuava avesse un precipuo carattere critico e an-
tirettorico, talora con punte risolutamente polemiche. Era pure inevitabile che essa poggiasse su di un 200
fondo eminentemente autobiografico e documentario. Sintomatica fu la messa in crisi della narrativa,
ossia della forma letteraria che, per i suoi arbitrî di fantasia, e per il suo modo più diretto di riflettere gli ideali di costume del tempo, ha, certo più della liri-
ca, necessità di poggiare su convenzioni. Così avvenne che una nuova narrativa rigermogliasse assai più tardi, dopo il bagno autocritico e l’esperienza della lirica nuova, e con «tecniche» profondamente mutate...
1964 o 1965 Mi ha sempre disturbato...
Mi ha sempre disturbato l’idea odierna, sottoprodotto diffuso della grande concezione romantica, che fa della poesia una sorta di conoscenza esoterica e privilegiata, e ne avvolge l’idea di una sublime nebulosità, dove spesso si nasconde il vuoto e alligna la ciarlataneria. Il nome stesso di poeta mi lascia a disagio, e vorrei riservarlo ai grandi e agli illustri, o usarlo strettamente, per necessità di definizione, nel
discorso critico. Il mio ideale è quello di una poesia che inerisca integralmente all'uomo, la cui musica sia il respiro stesso della voce, il cui ritmo sia il gioco stesso dei muscoli, il pulsare del sangue, l’ampliarsi del torace nel respiro. Di una poesia energicamente
definita,
fatta di parole precise, nel giro delle cui frasi si delinei un sentimento, si accenni un pensiero appassionato e attivo. Poesia che non può fare a meno della tradizione, perché questa si è elaborata attra-
verso la struttura stessa dell’uomo nel corso della storia, ma sia nello stesso tempo ad un totale livello moderno. Una tale poesia dovrebbe essere, poi, tutto il con-
trario della poesia autobiografica
o documentaria,
anche se, indirettamente, essa non possa che docu-
201
mentare il senso dell’epoca, che rendere il proprio clima storico; e, geneticamente, non possa che SOr‘ gere dal «ratto», accidentale e imprevedibile, che
coglie il poeta ai nodi, alle svolte della sua vicenda privata, e che solo garantisce l’autenticità della sua parola.
So, infine, che solo i risultati contano, che il poe-
ta gioca il tutto per tutto, e che l'esito è incertissimo. Mi valgano, comunque, la fatica e la buona intenzione. 1958 Ho sempre pensato...
Ho sempre pensato che la poesia coincida con la linea di un destino, che tutti gli uomini siano potenzialmente poeti, e che la creazione lirica, in verso o in prosa, sia nell’aria che tutti respiriamo.
Valéry è stato indubbiamente un poeta: ma non mi convince la sua estetica, parecchio fumiste, per cui la poesia sarebbe un fatto di intelligenza e di elaborazione. Nessuno è padrone della propria vena lirica. Ad un certo punto il destino mette il tappo, e la vena è definitivamente inaridita. I critici si affannano a ricercare derivazioni, a soppesare fonemi e
ritmi riannodandoli da un poeta all’altro. Si tratta di ricerche intelligenti e fini, ma in certa misura gra-
tuite. Il lirico non può che esprimersi nelle forme e misure del tempo in cui vive. E facile rintracciare,
anche di fronte alla poesia dall’aspetto più originale, i rapporti con l'immenso tessuto della tela di ragno che è l’espressione lirica di determinati anni. Sono stato sempre convinto in linea generale — in contrasto con Eliot — che più il poeta parla a se stesso, e più parla agli altri (s'intende, se la sua voce è
sincera). L'estrema intimità coincide con la maggiore comunicabilità. Al poeta che s'impanca ad oratore credo poco (almeno per il nostro tempo). 202
Penso che ai nostri giorni la memoria sia un elemento essenziale della poesia, mentre il fantasticare
diventi sempre più difficile (a meno che non sia suscitato dalla disperazione). Il pubblico della poesia mi sembra sempre più scarso. 1980
203
SUL CINEMATOGRAFO
Appunti sul cinematografo
Alcuni vorrebbero auspicare nel cinematografo l’unica epica possibile dei nostri tempi, senza avvedersi che il nostro tempo, in cui la poesia e l’arte in
genere sembrano tendere addirittura a una specie di scienza, non compatisce epica. Altri affiderebbero al
cinematografo il compito di creare nuove e inusitate espressioni d’arte, e hanno fatto appello ad una particolare sensibilità cinematografica. È qui s'è posto il problema: può il cinematografo essere arte? La domanda mi pare oziosa. Infatti, astrattamen-
te parlando, non v'è alcuna ragione perché il cinematografo non possa essere arte, attesoché ogni forma d’espressione può essere arte, cosa vera anche per quelle forme dove il mezzo naturale appare soverchiante, e l’opera dell’uomo si limita alla semplice scelta, come avviene per il giardinaggio, e, in grado minore, per la danza. In questo, come in tutti i problemi umani, non è possibile prescindere dal lato concreto e storico, dalla considerazione diretta di
quell’insieme di espressioni effettive che s'è conve204
nuto di chiamare, per il loro lato comune, che è l’ausilio di un particolare mezzo meccanico, cine-
matografo. Così delimitato il campo, resterà a vede-
re se, nelle espressioni cinematografiche, si riscon-
tra almeno il principio di quel sottile elemento creatore e trasfiguratore che è propriamente l'elemento estetico. In altre parole, proponiamo un esame psicologico dell’emozione cinematografica, una sorta di critica al secondo grado dell’espressione «cinematografo», anzitutto per chiarirne l’eventuale carattere estetico, e in secondo luogo per accertare se tale carattere estetico si trova ad essere in qualche modo implicito al particolare mezzo espressivo «cinematografo», oppure si riscontra nell’opera solamente quale riflesso sbiadito, approssimazione e copia, di altre conosciute espressioni d’arte. E cosa nota che, più assai delle trattazioni dei puri filosofi, hanno giovato allo sviluppo degli studî estetici le confessioni dirette degli artisti e dei creatori attorno all’arte loro. Ora non sappiamo se le confidenze delle attrici o dei «metteurs en scène» potrebbero giovarci; certo è che non varcheremo le soglie delle Case di films, degli ateliers cinematografici, orti conclusi e templi dove giornalmente si svolgono i misteri della Decima Musa. Ci limiteremo a fare appello alle nostre modeste
impressioni di spettatori, utiliz-
zando gli attimi di riflessione colti al volo nel rallentarsi dell’attenzione fissata sullo schermo. Alcuni psicologi hanno chiamato «sentimenti apparenti» le particolari emozioni suscitate nello spettatore dall’opera d’arte. Il termine di cui è dubbia l’applicabilità ad arti come la pittura o l’architettura, si presta benissimo
a definire l'emozione
cine-
matografica. Nel cinematografo le passioni illusorie dello spettatore appaiono tese all’estremo, più che nella stessa tragedia, dove l’attenzione è in qualche modo allentata e distratta nel seguire le parole dei personaggi, riposata dalle particolari «convenzioni» di cui il teatro non potrà mai fare a meno. Il cine205
matografo non esige neppure il più elementare sforzo dell’attenzione, lo spettatore vive pienamente la vita dei personaggi riflessi sulla tela, accompagnando con una sorta di vivacissima mimica interna i loro gesti e le loro passioni, anticipando gli episodi con una tensione a volte quasi dolorosa di tutto il suo essere. Tale completa adesione tocca il suo culmine in quelle espressioni che sono più di altre particolari allo schermo, come fughe precipitose, inseguimenti, sospensioni nel vuoto ecc. Allora l’illusio-
ne sembra addirittura raggiungere come una assurda realtà, fino a determinare nello spettatore quei sensi di vertigine, quei soprassalti subitanei che son propri di certi sogni. Si tratta però, sempre, di senti menti apparenti. Dileguate le visioni, rifatta la luce nella sala, usciti per istrada, le emozioni si disperdono istantaneamente in un polverio impalpabile, e, di tutto quel complesso di azioni e di reazioni interne, di moti abbandonati e trattenuti non rimane nel nostro organismo che una lieve stanchezza visiva. A questa estrema evidenza, a questa «corposità» dell’espressione cinematografica, che s’accompagna, come
s’è visto, a una labilità e illusorietà estre-
me, deve aggiungersi il carattere semplice e inarticolato delle emozioni destate. Il cinematografo, che
sembra avere il campo più vasto e svariato di espressioni, è invece limitatissimo nella varietà dei «senti-
menti illusori» che riesce a suscitare: il che deriva probabilmente dalla sua attitudine a spingere all’estremo qualsiasi impressione, togliendo completamente allo spettatore quella capacità di riflessione e di sosta che tutte le arti, compresa la musica, più o
meno gli concedono. Per questo le emozioni nel dramma cinematografico ci appaiono sempre, in qualche modo, al loro stato puro: terrore, ansietà, curiosità, dolcezza, ilarità dominano e si susseguono
nell’animo del riguardante sempre coi medesimi caratteri e come allo stato di semplici «qualità» che escludono del tutto determinazioni particolari. 206
Sono state probabilmente queste caratteristiche
dell’emozione cinematografica, assieme a una con-
siderazione della materia solitamente trattata nei films, a indurre taluni a imparentare il cinematografo col romanzo d’appendice. Anche nel romanzo d’appendice l’«avvenimento» appare soverchiare l’attenzione del lettore, la cui collaborazione viene
ridotta al minimo; anche il romanzo di appendice si risolve in una specie di energico «massaggio» di sensazioni che il lettore subisce passivamente, senza possibilità di padroneggiamento e di sosta contemplativa. Però il cinematografo non esige dallo spettatore quella collaborazione che l’indole schematica del romanzo d’appendice necessariamente richiede dal suo lettore. Queste sparse osservazioni, a nostro vedere, valgo-
no a mettere in luce una differenza fondamentale fra il cinematografo e le arti fino ad oggi riconosciute, ossia la mancanza, nell'espressione cinematografica, di quel calmo dominio della materia che si ravvisa nelle forme di espressione propriamente estetiche. La bellezza delle cose naturali, riflessa sullo schermo,
ha sempre quella lo di natura, dove fondo puramente zione. Perciò un
tinta emotiva che è propria del bella spiritualità pena a sciogliersi dal materiale e fisiologico della sensacielo cangiante di nubi, visto sullo
schermo, non ci soddisfa completamente,
destando
in noi il segreto bisogno d’una ulteriore definizione, quasi come lo spettacolo d’un cielo vero. Il verso dantesco «dolce color d’oriental zaffiro», in tutta la
sua indeterminatezza, ci rende immortalmente sente una visione d’aurora. Il «toit tranquille, marchent des colombes,» di Valéry, immagine sembra toccare soltanto tangenzialmente la cosa
preoù che che
vuole significare, riassume invece concretamente la diffusa bellezza del mare palpitante di luci, cosparso
di vele. E che in queste immagini di poesia la naturalità della sensazione appare completamente sciolta attraverso l’intima storia della parola. 207
Decadenza del cinematografo? A rischio di esser definito un passatista, dirò che,
pur apprezzando il cinematografo, e il suo significato e la sua importanza nella vita moderna, non sono mai riuscito a convincermi compiutamente della sua autonomia e purezza qualitativa come arte. Esco stropicciandomi gli occhi dalla sala buia, e, fuor dalla ressa dei «sentimenti apparenti», fuor dal brulichio delle emozioni illusorie, dagli urti feltrati di una vicenda nella quale sono fluito per un paio d’ore — quasi come sul carrello del «castello degli spettri» alla fiera —, coincidendo profondamente con essa, mi riesce difficile ritagliare un'immagine illimpidita fino in fondo, identificare un sentimento integralmente dissolto e divenuto pura musica e pura energia vitale, come
sanno suscitarmi una lirica,
un quadro o un romanzo. Il senso, anche nel più bel film, resta sempre come un po’ velato, troppo ingombro di materiale, e, nell’esaltarcelo mentalmen-
te, finiamo per accorgerci che dobbiamo insieme integrarlo e sfrondarlo, introdurvi qualcosa che non c’era ed eliminarvi quel troppo che c’era, insomma «essenzializzarlo»: un po’ come facciamo del paesaggio e degli altri aspetti della realtà naturale. Emilio Cecchi, quando s’interessava di cinematografo, ma non era ancora diventato un cineasta, 0sservò qualcosa, se non ricordo troppo male, circa l’i-
nevitabile imprecisione e approssimazione del mezzo meccanico, auspicando un giorno in cui la macchina da presa diventasse sensibile e individualizzante come la matita di un Hokusai o di un Utamaro. Sono passati molti anni, ma mi pare dicesse pres-
so a poco così. Certo, il problema è questo, ma non penso che possa risolversi con un perfezionamento del mezzo meccanico, ma piuttosto con la sua inte-
riorizzazione, il suo graduale articolarsi da meccanismo in linguaggio... che è progresso tutto spirituale, laddove
il perfezionamento
208
tecnico, semmai,
non
fa che aggiornarlo sempre più, rendendo il mezzo sempre più esterno, sempre più impenetrabile, sempre più lontano dalla sua necessaria dissoluzione in linguaggio. Direi addirittura che il cinematografo come arte abbia finora, in un certo senso, approfittato più che altro delle proprie insufficienze tecniche, mentre l’introduzione, ad esempio, del «parlato» — staremo
a vedere, domani, gli esperimenti stereoscopici — più che ampliarne il campo d’espressione, l’ha straordinariamente ristretto e pregiudicato, costringendolo a svilupparsi a ridosso del teatro. Se penso ai più bei film che ricordi d’aver mai veduto — La feb bre dell’oro, Ombre bianche, Il Vampiro di Dreyer, i primi di Clair, e pochi altri — sono anteriori al «parlato» o
appartengono alla sua primissima epoca. Insomma, fatalmente una eccessiva ricchezza e perfezionamento dei mezzi a disposizione finisce con l’uccidere un’arte, indirizzandola, sulla china d’una invinci-
bile facilità, a una foltezza di effetti in superficie che si neutralizzano fra loro, a un eccesso d’espressione che paralizza l’espressione. In quella superficie pesante, tutta piena, troppo «realizzata», non esistono
più fenditure da cui possa erompere la vera aria della vita. Sembra che l’arte giovanissima dello schermo, in
un giro brevissimo d’anni, stia oggi compiendo la medesima parabola della più antica arte e madre delle arti, l'architettura: anch'essa in crisi per aver trovato finalmente mezzi in grado di piegarsi docilmente a tutti i suoi sogni — cemento armato, cristallo — eliminando quella lotta contro la materia da cui soltanto può scaturire una forma valida; e costretta nei suoi
esemplari più consapevoli a riflettere, in modo inef-
fettuale o puramente descrittivo ed evocativo, nostal-
gico dell’arte passata o ad orientarsi coraggiosamente verso un’assoluta «funzionalità», unicamente ubbidiente alla necessità del «razionale» completamente esterna a sé medesima, la pura «macchina per Vi
209
vere»;
o ad una delicata contaminazione
delle due
tendenze. Forse, un giorno, quando l’immagine riflessa sulla pellicola ci sarà diventata così naturale, ovvia, familiare come il dagherrotipo ottocentesco, il fluire
della visione si sarà articolato come un linguaggio, sarà diventato insieme ovvio ed estremamente difficile come un linguaggio, da assoggettarsi momento per momento alla pericolosa intimità d’una scelta puntuale, forse allora il cinematografo ritornerà a vivere come arte. Per ora, esso mi sembra in decaden-
za: se sbaglio, gli amici cineasti mi perdonino. 1946
210
SULLA CRITICA MARXISTA
Pseudo-marxismo
Bisognerebbe aver tempo e voglia per denunciare l’abuso dell’attuale critica di soluzioni pseudomarxistiche insieme troppo vistose e troppo facili. I rapporti fra struttura e sovrastruttura sono sempre complessi, indiretti
e mediati per consentire tali co-
struzioni a effetto, basate su interpretazioni della storia contemporanea del tutto momentanee e cronachistiche, spesso erronee quanto inconferenti. Ne
vien fuori qualcosa come il gioco cui si abbandonavano, la sera, i genitori nell’autobiografia puerile di Edmund
Gosse
(in quel magnifico libro Padre e Fi-
glio): ossia di identificare nelle profezie dell’Apocalisse i triti fatterelli della cronaca, magari letti la mat-
tina sul giornale. Ad esempio l’identificazione, che si fa da più parti, dell’arte e della letteratura che va
sotto il nome di neo-avanguardia come arte tipica del neo-capitalismo, mi pare una ingenuità e una fatuità del genere. Il neo-capitalismo non è fenomeno passeggero, iniziato ieri e destinato a finire domattina, tanto è vero che Marx fece in tempo a ricono-
211
scerne gli inizi nella seconda metà del secolo scorso. L’attuale avanguardia, invece, è un fenomeno
che
data da pochi anni e di cui già si comincia a sentire la decrepitezza. Legato, sì, a certi aspetti del neo-
capitalismo (e come potrebbe essere diversamente, dato che esso è la dimensione economica in cui viviamo?), e in particolare al boom dell’industria culturale (che è di recente giunta al suo colmo; quello
di vendere in quantità massicce libri che nessuno legge), ma non ne è la sua espressione artistica definitiva e necessaria: ne abbiamo viste altre, in un secolo, e altre saremo destinati a vedere. Pierpaolo Pasolini in un suo saggio su «Nuovi argomenti» (luglio-dicembre 1966) non cade in un simile errore, e annuncia nuovamente la fine dell’a-
vanguardia
(dico nuovamente,
perché già Cesare
Brandi, una ventina di anni addietro, in un suo bel
libretto di quel titolo, ne aveva prognosticato la morte: ma era stato, a quanto pare, cattivo, o quanto me-
no frettoloso profeta). Il saggio è pieno di osservazioni acute, per quanto svolga un discorso, come lo definisce lo stesso Pasolini, un po’ «stravagante» (anche perché imperniato, direi io, su detti e asserzio-
ni di maestri alquanto dubbi, come
Goldmann
e
Barthes). Alla fine Pasolini elenca alcuni grandi fatti
della storia contemporanea (prodromi di guerra civile negli USA, presenza del terzo mondo,
consoli-
damento e arresto del socialismo nei Paesi sociali sti), qualificandoli «momenti di realtà così forti da sostituire i vecchi fatti che motivava il vecchio impegno». Sembrerebbe,
secondo
Pasolini,
che
tra avan-
guardia e impegno non esista altra alternativa. A distanza di decenni si potrà vedere più chiaro. A me sembra che quella che è entrata in crisi non sia una particolare forma di «impegno», ma la nozione stessa di «impegno», quale è stata definita, vagheg-
giata, esaltata negli anni dopo la guerra, nozione che risentiva dello stalinismo e zdanovismo di que-
212
gli anni, ma che sta poco in piedi anche se sostenuta da men rozze ragioni, come quelle che potrebbe oppormi Pasolini. Guardiamo un momento l'aspetto inverso a quello del consapevole impegno, ossia quello della «necessità». Indubbiamente, quanto posso esprimere scrivendo, dipingendo o componendo musica, implica la struttura economico-sociale di un determinato momento di un mondo determinato. Ma questa si svelerà fatalmente in
quanto scrivo, o dipingo, o compongo: anche se dipingo un paesaggio, la semplice riva di un lago, la mia pittura implicherà,
al suo fondo, per il com-
patto legamento interno della sezione del blocco storico a cui partecipo, la civiltà neo-capitalistica nella quale vivo, col suo welfare state e la sua mise-
ria, con la sua bomba atomica e magari la guerra del Vietnam. Dal condizionamento
storico non
posso sfuggire. Lo scheletro della struttura sottende a ogni mia emozione, a ogni mio pensiero. Ma, nello stesso tempo, non posso estrarre lo scheletro
strutturale dalla polpa concreta del mondo
(s’in-
tende che si parla figurato: non esiste, a rigore, struttura e sovrastruttura, ma soltanto, come aveva ben visto Gramsci interpretando rettamente Marx, il blocco storico, in cui ogni elemento condiziona l’altro e ne è a sua volta condizionato), che comprende, e risolve in sé, oltre la dimensione politicoeconomica, anche, ad esempio, il tedio di questa mattina di Marzo, che svaria dal verde smorto del-
le piante al grigio sporco del cielo, il cattivo sapore della malattia in bocca (di me malato, microcosmo trascurabilissimo, ma paradossalmente coincidente con l’intero universo). E gli innumerevoli micro-
cosmi del pianeta Terra, ciascuno coincidente per conto suo con l’intero universo, e con sentimenti, problemi, cattivi sapori in bocca, sudori, lacrime, risa, diversi e incomparabili l’uno con l’altro, nel
cui complesso viene a fondersi anche la dimensione politico-economica, ma al di là, o meglio al di Dio
qua, delle ideologie, dei programmi, dei giornali, come saliva, sangue, convenienza, odio e amore, che sono, momento per momento, la sola realtà concreta, in contrasto con la realtà astratta degli
astratti sdegni e delle buone intenzioni. Non si vuol dire, con questo, che non si debba cantare la guerra del Vietnam ma soltanto le gambe di Clori; o, con Goethe, che la poesia politica sia per forza cattiva poesia. Si vuol dire soltanto che tutto quanto è verità, in arte, va scontato su di un piano di realtà, in una situazione concreta che ne formi la
base, come quella che ci offre la vita d’ogni giorno, con la sua infinita possibilità di trasposizioni fantastiche. Bisogna che io senta la guerra del Vietnam e la bomba atomica con la stessa urgenza dell’amore o del mal di denti. Per fare un esempio estremo, il primo che mi viene a caso alla mente, le poesie di Rafaei Alberti sulla guerra civile spagnola sono belle, perché suscitate da un’occasione viva di combattente, mentre l’oratoria patriottica carducciana
risente troppo spesso del distacco retorico di chi non sentì per nulla il bisogno, in un’epoca di guerra d'indipendenza, di accorrere a impugnare le armi. Si è fatto, come s’è detto, un esempio estremo,
in quanto le situazioni, al pari delle trasposizioni, sono infinite, mentre neppure la realtà di un comportamento ci dice nulla sull’autenticità di una espressione d’arte: altrimenti Mameli e Mercantini sarebbero dei grandi poeti, e il D'Annunzio civile il più grande di tutti. Voglio dire soltanto che, men-
tre da una parte, il novantanove per cento dell’odierna poesia e letteratura engagée è pura oratoria e polemica, letteratura di pretesto più che di protesta, destinata a svanire con l’occasione che l’ha suscitata, il poeta non ha da temere la taccia di ci-
devant o di antiprogressista se magari parla d’altro. L’eterno progresso, in arte, si compie, come del re-
sto aveva visto il De Sanctis, scavando a fondo la propria autenticità,
su tutti i piani possibili, così
214
strenuamente eliminando la menzogna e la mistificazione che continuamente risorgono a ottenebrare il mondo. 1° marzo 1967
Materialismo storico
Essere malati è condizione propizia agli esami di coscienza. Ma questo è un esame di coscienza che, per me, non dura soltanto da oggi. Alla mia generazione difettò la cognizione men che superficiale del materialismo storico. Le cause furono molte, ma principalmente il fatto che Croce ci aveva dato l’illusione — fra tante — di averlo «superato». Come felicemente viene incontro alla nostra pigrizia il pensatore che ha «superato». Sui vent’anni, più portato, evidentemente, agli studi letterari che a quelli storico-politici, ma appartenente al gruppo gobettiano, e simpatizzante delle idee di sinistra, pensai di essermela cavata con la lettura della riduzione di Lassalle del Capitale, e, più tardi, con
quella di un volume di Morceaux choisis dei soliti abilissimi francesi della «N.R.F.». Troppo poco, evidentemente. Dimenticavo di dire che, sempre sui vent’anni, avevamo ‘assorbito qualche ia marxista da maestri piuttosto infidi, come Sorel. Più tardi, negli anni Trenta, provato dal fascismo, scrissi, a pro-
posito di Sorel, una specie di palinodia. Dopo la seconda guerra mondiale stentai, dapprincipio, a rendermi conto dell’attualità del marxismo nella critica letteraria. Vero è che i nuovi esempi italiani, emergenti in clima stalinista-zdanoviano, erano in genere tutt ‘altro che allettanti. Né mi convinse la sintesi, tentata da alcuni, di crocianesimo e marxismo, che riproduceva la posizione di Gramsci, ma senza l’ingegno di questi e il preciso impegno che la giustificava. Nei francesi ritrovavo, con un più DIR
di novità, ma un accento non molto diverso, le idee dello storicismo, che, da noi, erano andate sopratut-
to sotto il nome di Croce. Lessi un po’ di Lukacs, con l’animo diviso tra l'ammirazione per le forti qualità del critico (ad es. le pagine su Balzac nei Saggi sul realismo) e il senso d’angustia di una concezione dell’arte come «rispecchiamento», che mi pareva intellettualistica (di qui anche la distinzione, di sa-
pore moralistico, fra realismo critico e decadenti smo).
Il primo autore che mi abbia veramente fatto intendere quanto il materialismo storico tenda a raffigurare un’idea della realtà (e quindi dei modi dell’arte e della letteratura di innestarvisi) assai più
concreta e sfumata e circostanziata di quella che può offrirmi l’idealismo crociano, il quale, scindendola in ordini distinti, la affievolisce, è stato Benjamin. Benjamin, anche per la modestia dei suoi assunti,
che, tendendo a rintracciare pure concordanze perfettamente controllabili, evita le petizioni di princi-
pio facili a riscontrarsi nei critici d’ispirazione marxista.
Nel primo libro da me letto, Angelus novus, tale visione s’esprimeva attraverso il delinearsi di corrispondenze illuminanti, come, per la poesia di Baudelaire, la folla cittadina o le strutture architettoni-
che della Parigi alla metà dell’Ottocento, 0, per Leskov, le origini mercantili della invenzione narrativa.
Nei saggi che sto leggendo, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, l'assunto è più deliberatamente storico-sociale (quindi i motivi del materialismo storico, che nell’altro volume si compone-
vano in modo estremamente complesso ed originale con altre influenze e correnti di pensiero, da Dilthey a Bergson e Valéry, si delineano qui con maggiore evidenza): così trattando della nuova di-
mensione che l’arte è andata acquistando per effetto della sua riproduzione divulgativa, o della fotografia come arte, 0, a proposito del grande storico e 216
collezionista Eduard Fuchs, del carattere popolare, e «di massa», della caricatura. Può darsi, mi viene da pensare, che abbia scelto
male il mio esempio, e che, proprio per la complessità e ricchezza prismatica di questo scrittore, per la confluenza in lui di altri motivi di pensiero a me familiari,
i fondamenti
del materialismo
storico
in
Benjamin mi siano parsi più accettabili e convincenti che in altri critici. Cerco, ad ogni modo, di chiarire a me stesso qualcosa, stavolta non più con riferi-
mento a Benjamin, ma su un piano generale. In parole povere, come appunto non può che fare un malato, che parla con sé stesso. Cerco di vedere, allora, dove
marxismo in fatto di smo storico mi aiuta mento storico-sociale tere in luce il legame
sono
i limiti del
critica letteraria. Il materialiad identificare il condizionadi un’opera. Mi offre di metche intercorre fra un modo di
produzione — quindi, una certa strutturazione del-
la vita sociale, con gli ideali alla stessa connessi — ed un certo ordine di immagini della vita, ossia d’arte e di letteratura. Mi fa compiere un notevole passo in là, da una
concezione
dell’arte priva di radici,
proiettata su uno schermo astrattamente soggettivo, che mi sopprime ogni passaggio fra l’opera e il
riguardante o lettore o ascoltatore, rendendosi puramente ineffabile, mero episodio culturale e tutt'al più pezzo di un ideale museo. E bensì vero che, nella migliore critica idealistica, spesso l’esame della struttura-ambiente è implicito, o sottinteso, o alluso. Si può anche dire che Croce, in prati
ca, dimostra spesso un’ottima filologia: ma questo è un altro discorso. Però, per quante caratterizzazioni possano esservi
aggiunte, le definizioni che può offrirmi il materialismo storico valgono, sì, fino a un certo punto, ma
non vanno oltre. Mi fanno salire parecchi gradini, salvo l’ultimo. Tali caratterizzazioni restano, infatti,
di carattere generale, anche quando pretendono al217
l’individuazione (per la quale soccorrono, negli stessi critici marxisti, magari inconsciamente, criteri d’altra natura: è qui che Croce, intendendo per Croce la critica idealistica, o romantica, si prende la sua rivincita). Infatti, la corrispondenza alla struttura, il
rispecchiamento di una situazione tipica, la sintomaticità storico-sociale non costituiscono ancora quanto si chiamava, una volta, la bellezza, oggi si potrebbe dire l’efficienza estetica, io preferirei dire la
«vivibilità» in profondo d’un’opera d’arte o di poesia. Né ha molto senso dire che il «rispecchiamento» abbia ad essere fatto di intuizione appassionata e poetica, e non di precostituita elaborazione intellettuale. Si compie, così affermando, una petizione di
principio, perché i «tagli» della realtà che un artista può affrontare, sono, praticamente, infiniti, né egli,
per quanto faccia, dalla realtà può mai uscire; e la «sintomaticità» è il suo retaggio, né egli può sfuggire al condizionamento storico. In altre parole, la realtà che lo condiziona
è il suo presupposto,
più
che il suo punto d’arrivo: non è, comunque, uno scheletro strutturale che egli debba reperire sia pure per rivestirlo di fantasia e di passione, o, inversa-
mente, che la fantasia e la passione debbano per forza rivelare. Quanto al termine di «realismo», attorno a cui tanto si è scritto in questi anni, anche fuori dall’area marxistica attuale (che Marx, peraltro, avrebbe difficilmente
riconosciuta
come
propria;
tanta
li-
bertà e spregiudicatezza dimostrano i suoi sparsi pensieri sull’arte), mi viene a mente uno scrittore non marxista, l’Auerbach, il quale, nel suo bellissimo libro di saggi sul realismo occidentale, Mimesis, si ado-
pera a circoscrivere un concetto di «realismo», non vi riesce che in un modo puramente descrittivo, quindi estremamente incerto. Si esce da quella pur appassionante lettura con l’idea della finale vanità della definizione di un «realismo», la quale voglia essere ri-
gorosa, che non sia una perfetta equivalenza della 218
«positività» estetica. Ad esempio, il critico assume Corneille e Racine a giusta comprova di un’arte no-
bile, aristocratica, idealistica, sublime. Ma ciò esclude
forse il realismo? Egli giunge a sottolineare trionfalmente il bel verso di Bérénice: Dans l’orient désert quel devini mon ennui! a dimostrazione di una sublime indeterminatezza irrealistica. In un certo senso ha ragione, ma, a non
accontentarsi di parole, si può osservare che tale indeterminatezza è caratteristica del particolare realismo di Racine, che si appunta fermamente sulla linea psicologica e morale, e di fronte a cui le determinazioni locali e temporali non rappresenterebbero altro che elementi esornativi e di disturbo. Se Racine oblitera, cancella, al più evoca somma-
riamente ambienti e sfondi, o fa parlare personaggi di storia e di tragedia antica col linguaggio di corte del proprio tempo, o riduce le lotte politiche e le guerre a puri supremi apici morali, è proprio perché tale obliterazione gli è necessaria per non lasciarsi sfuggire il «taglio» di realtà che intende rappresentare, e che insistenze o indugi particolari offuscherebbero. Come un disegno di Matisse al semplice tratto, magari formato da un’unica linea flessuosa, può essere più espressivo (leggi «realistico») che un disegno carico di tratteggi e di ombreggiature. Naturalmente, tutto questo è implicito nel discorso dell’Auerbach, e sarebbe inintelligente tradurre in termini rigidi di dialettica quanto ha per lui soltanto un valore descrittivo-storico, per cui è libero di ricorrere alle nomenclature che meglio crede. Occorre tener presente, sempre, l’approssimazione empirica dei termini. Ecco un excursus di oziante ammalato. Per tornare al materialismo storico, mi pare si tratti di un me-
todo per collocare, angolare e illuminare l’opera in modo da consentirne una lettura più aderente e
consapevole, ma che non costituisce, ancora, la let-
219:
tura. Analoghi ragionamenti potrebbero farsi per la iù recente critica semantica, o per quella strutturalistica (fatta la tara, per quest’ultima, di tante sforza-
ture e ricerca di falsa originalità). E, penso, per quella psicanalitica. Si tratta, insomma, di strumenti: importantissimi, ma pur sempre strumenti. A un
certo momento, non mi soccorrono più le caratterizzazioni economico-storiche, o sociologiche, o filo-
logiche, o psicologiche, perché non si tratta più di una esperienza generica, tipica, bensì della «mia»
esperienza, che non posso far altro che raccontare. Ma le approssimazioni descrittive di un’esperienza critica non sono ancora ragioni. E non esiste nessuna ragione razionale perché un’opera sia bella o brutta, intelligente o cretina (valga la disparità dei pareri della critica di tutti i tempi). Né il fedele riflettere, in un’opera, di un contesto storico-sociale,
né il suo collocarsi a un certo livello di strutture linguistiche e stilistiche (strano, questo ritorno ai «modelli» del classicismo da parte dei critici della neoavanguardia!),
né, infine, il suo
documentare
un
complesso tipico (la Gradiva di Jensen, studiata da Freud, è, dal punto di vista letterario, un ben modesto esemplare) possono offrirci un parametro, una
certezza purchessia. Insomma, la pretesa di una critica come «scienza esatta», che oggi si formula da tante parti, ripetendo l’errore di Taine, non regge. Arriva, alla fine del lavoro di avvicinamento, cui tut-
ti gli strumenti possono soccorrere, il momento in cui ci troviamo a tu per tu con l’opera, a coglierne l'elemento individuale, irripetibile, che solo ne fon-
da il valore, e per captare il quale soccorre non soltanto un'esperienza specifica di cultura, ma l’esperienza totale di una vita, diversa e inconfondibile co-
me diversa e inconfondibile è l’opera. Per questo si dice che il critico ha da essere,
anche, un
artista.
Nessuna struttura di per sé presa implica, infatti, quel valore, bensì, come
per ogni individuum,
oc-
corre riferirsi all’inafferrabile condizionamento co220
smico. Come di una persona incontrata per istrada, il colore degli occhi, la venatura del sangue, la piega del sorriso, quello che non è ancora storia ma natura, natura inesplicabile che sola spiega tutto.
1967 (?)
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LA POESIA DI GUIDO GOZZANO
Son cinque mesi che è morto Guido Gozzano. La sua scomparsa non ha fatto un grande rumore, poiché letterariamente, era già morto da un pezzo.
Dopo la pubblicazione dei Colloqui apparvero in riviste una o due poesie, alcune novelle, parecchi ar-
ticoli di impressioni di viaggi compiuti in Oriente, poi tacque del tutto. Si credeva che stesse riposando, e che un giorno o l’altro sarebbe riapparso a parlarci. Invece, è morto. E ci ha lasciato, si può dire, que-
st'unico volume dove è tutta la sua breve ma pura fioritura poetica: / colloqui. Non credo sia male rivolgere un po’ lo sguardo addietro, e vedere con chiarezza qual posto occupasse il Gozzano nella nostra modernissima letteratura. Venuto dopo il Pascoli e il D'Annunzio, da un la-
to non si poté sottrarre completamente all’influenza di questi grandi (per quanto quest’influenza non
appaia visibile nei Colloqui); dall’altro, la sua
stessa natura di poeta lo conduceva a negarli. Infatti, si notò da alcuni, com’egli sia stato il più an-
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tidannunziano di tutti i giovani poeti. E credo che il Borgese erri di molto, col volere avvicinare la poesia del Gozzano a quella del Poema paradisiaco. Tra D'Annunzio e Gozzano vi sono radicali differenze. La prima e principale è una questione di coscienza poetica. Il dolce e fine vecchio mondo del Poema paradisiaco non è il dolce e fine vecchio mondo dei Colloqui. Il D'Annunzio è sempre e solamente esteta. Nel Gozzano l’estetismo non appare affatto. Non ha forse egli cantato le ridicole mode del milleottocentocinquanta, i vecchi caminetti, i dagherrotipi, le buone cose di pessimo gusto? E tutto ciò,
attraverso il velo della sua melanconia un po’ ironica, è uno dei caratteri fondamentali della sua poesia, che non permetterà mai d’avvicinarla, an-
che soltanto, a quella, di tutt'altro genere, del Poema paradisiaco. Quanto alle influenze pascoliane, nei Colloqui ve ne sono pochissime. Ma se qualcuno volesse accostare il poeta del Ciocco al poeta di Nonna Speranza per l’amore alle piccole cose umili che si dice abbiano in comune, il confonderli sarebbe cosa
facile. Il Pascoli ama le piccole cose umili, gli uccelli, i fiori, i fili d’erba, gli insetti, e via via la scopa, lo staccio, il girarrosto, per quello spirito di poeta cri-
stiano che v'è in lui, per quello spirito d’àgape e d’amore universale che dà a tutte le cose una particola d’anima e di divinità poiché tutte le cose, anche più umili, esistono per uno scopo ed hanno una profonda bellezza ed un significato. Però un leggitore attento non vorrà confondere questo colla poesia che fa il Gozzano sui vecchi salotti borghesi, sulle cucine provinciali, e sulle suppellettili abbandonate dei solai! Ma dal D'Annunzio e dal Pascoli il Gozzano dif1. Invece, in alcuni frammenti del Poema delle Farfalle che han visto la luce, nel 1912 o 1913, si sentivano assai spiccate.
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ferisce sopratutto per una cosa. Che il poeta delle Laudi e il poeta delle Myricae sono due classici, mentre il Gozzano non ha in sé la minima briciola di classicismo; cosa strana nella nostra poesia, che, per tradizione, è assolutamente classica. Se, dopo
la lettura dei Colloqui, pensiamo alla poesia del Carducci, ad esempio, questa ci fa un effetto stranissi-
mo; ci appare lontana lontana, quasi contemporanea a quella d’Omero e di Virgilio, quando gli uomini erano ancor capaci d’entusiasmarsi e di combattere per la patria e per la libertà... La mitologia, in Gozzano, la troviamo solo negli arazzi della vecchia Vill’Amarena, e «il tempo sacro del risveglio», come nota, mi pare, il Borgese, si fa ricordare da
lui solo per le crinoline, per i salotti, e per le vecchie stampe.
Se vogliamo seguitare l’analisi delle influenze che si possono sentire nella poesia del Gozzano, un
nome ci viene alle labbra, per primo: Francis Jammes. Ed infatti è cosa molto più ragionevole paragonare il Gozzano agli ultimi poeti francesi, che ai nostri,
poiché la sua arte è senz’altro un’arte di decadenza. Se Gozzano ha dei fratelli, questi vanno cercati, piuttosto che nella nostra letteratura, fra i simbolisti francesi, fra quei tipi scettici e malati, sentimentali e
ironici, che ci hanno data tanta nuova e profonda poesia, come Verlaine, Corbière, Laforgue, Samain,
André Gide... Ma se vi pensiamo sopra, ci accorgiamo facilmente, che, piuttosto di una vera influenza di uno sul-
l’altro, si può parlare di somiglianze fra i due. Anche il primo Jammes, il Jammes non ancora mistico e cristiano (al tempo di De l’angelus de l’aube à l’angelus du soir) ha la sua stessa nostalgia delle vecchie case provinciali, dove è trascorsa la sua vita in-
fantile, dei vecchi parenti che si conobbero nei primi anni:
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Je me souviens de quand on allait voir à Orthez, les grand’ tantes vétues de noir qui avaient nom Clémence et Célanire Elles étaient huguenotes... Anch’egli, come il Gozzano, ricorda la sua infanzia, il suo villaggio nativo, la scuola, il museo, collo stesso sentimento col quale anche il Gozzano ricorda, benché con meno dolore e meno amarezza (ricordate Dolce tristezza, pur t’aveva seco...?, colla stessa
nostalgia colla quale il Gozzano contempla la vecchia fotografia dell’amica di nonna Speranza: Stai come rapita in un cantico: lo sguardo al cielo [profondo,
e l’indice al labbro, secondo l’atteggiamento [romantico... anche il Jammes rilegge le lettere dell’avo dall’abito di piantatore, che è stato dottore alla Guadalupa, e che oramai dort au pied de la goyave bleue, parmi les cris de l’Océan et les ciseux des grèves
oppure considera lo scialle a fiori e ad uccelli della nonna paterna, che non ha mai conosciuta, o sogna le quattro cugine di Saint-Pierre, vestite di bianco e «riant
de quelque gàteau mal réussi». Jammes è più divagatore, fantastico e idillico di Gozzano, che in compenso ha più solidità e più purezza. Ma dove io trovo che i due poeti si assomigliano di più, è nella dolcezza del verso, nel canto, nella freschezza delle sensazioni. Gozzano:
fresca come una prugna al gelo mattutino... E Jammes:
Ta chair était pareille à celle des cocos... Gozzano: Bellezza riposata dei solai dove il rifiuto secolare dorme...
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E Jammes: L’Océan bruit comme un harmonica...
Si potrebbero fare mille altri raffronti. Vi sono sempre fondamentali diversità, poiché Jammes è francese e Gozzano è italiano, ma ad ogni modo è piaciuto ad alcuni avvicinarli e costoro non han tutto il torto. I versi di Gozzano, a prima vista, fanno una strana impressione. Lì per lì, sembrano versi abbastanza comuni, benché buttati giù con abilità, con nulla di
particolare all’infuori di quella cascaggine che parer prosa e che conferisce loro una certa qual zia. Solo a una lettura più attenta ci si accorge l’arte magnifica colla quale son costruiti, della
li fa gradelfre-
schezza di sensibilità chi vi è sparsa, della loro dol-
cezza cantante, melodica e piena. Credo che si possa dir poco ormai su ciò, dopo l’esegesi che ne ha fatta il Serra. Da quel lettore di tatto squisito che era, l’autore delle Lettere fece notare tutta l’arte e la
felicità verbale della poesia di Gozzano. La stessa cosa si riscontra nell’intima essenza della sua poesia. Come nei suoi versi dalla cascaggine, dai ritmi trascurati e dalle rime fiacche nascono quegli effetti così nuovi e limpidi, così egli ha saputo render
poesia le cose più banali e comuni, i vecchi salotti e gli odori d’aglio e di basilico, il farmacista e la farmacia e tutto il suo piccolo mondo mediocre e provinciale, grigio e tetro. Ed in ciò differisce dagli altri «crepuscolari», dai suoi imitatori, che forse sono an-
che più gozzanisti di lui. Che mentre negli altri (per esempio nel Moretti) il gozzanismo, cioè la nostalgia dell’infanzia tetra e malata e del passato non troppo remoto e l’aspirazione al più umile e modesto sentimentalismo, alle piccole felicità mediocri, e alla san-
ta semplicità dei poveri di spirito, del sognatore scettico e stanco
di esser troppo raffinato e moderno,
non ha saputo suggerir altro che versi facili e medio229
cri, non è stato altro che un nuovo «motivo» letterario da sfruttarsi, in Gozzano è un sentimento
trasfigurato e idealizzato dall'emozione poetica. Ricordate il ritratto della signorina Felicita, i di-
scorsi di Carlotta e di Speranza, la descrizione del
paesaggio alpestre nelle Due, strade:
I greggi, sparsi a picco, in lenti beli e mugli brucavano ai cespugli di menta il latte ricco, e prossimi e lontani univan sonnolenti al ritmo dei torrenti un ritmo di campani... Sono arte pura, pura poesia. E quella squisita ironia sentimentale, colla quale il poeta svela che quello ch’egli dice, non è né realtà, né sogno, ma impressione letteraria, libresca (in Paolo e Virginia, per
esempio, il tropico è «un poco falso, come piace a me», non è il vero tropico, ma il tropico del romanzo di Bernardino di Saint-Pierre; la tempesta è «bella e artificiosa come il diluvio delle vecchie tele»), è
di un incanto nuovo a contatto colla nostra raffinata sensibilità moderna. Insomma, dalla sua stanchezza e dalla sua malattia,
il Gozzano ha tratta un’opera di freschezza e di vita. L’hanno chiamata, la sua poesia, «morboso vellicamento della sensibilità», e, senza volerlo, le hanno
fatto la più gran lode. Una poesia, che si rivolge soltanto alla sensibilità, al sentimento artistico del let-
tore, cioè, pura poesia, priva di qualsiasi elemento estraneo ad essa. Il Gozzano, infatti, nella sua modestia letteraria,
ha avuto il tempo di studiarsi, di approfondirsi e di misurarsi. Nei Colloqui non v'è affatto enfasi e niente declamazione, non v'è, insomma, la minima bri-
ciola di letteratura. Seguendo il precetto dell’ Art poétique di Verlaine, ha torto il collo all’eloquenza, ha
preso a calci la retorica. Ed è restata la pura essenza, la poesia. Il Gozzano è forse un precursore. Assieme a pochi
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altri segna una purezza e un lirismo nuovi nella nostra poesia. La sua opera testimonia di un approfondimento di sensibilità paragonabile (intendetemi con discrezione)
a quello di alcuni dei simbolisti
francesi. Non bisogna credere che la sua strada sia finita. La sua poesia non è soltanto una bell’opera d’arte, che non si dimenticherà tanto facilmente. E anche una parte della nostra coscienza moderna, scettica e ironica, e nello stesso tempo sentimentale e appassionata. Ciascuno di noi ha sentito in sé l’incanto della sua dolce malattia. Ciascuno di noi ha sognato sui vecchi albums di fotografie e ha visitato i cimiteri al chiaro di luna «come s’usa nei libri dei poeti», o s'è sentito incapace di passione e pieno di nostalgia verso la bella vita reale, chiusa agl’indolenti e ai sognatori. Ed io ho voluto ricordare qui, dopo cinque mesi dalla sua scomparsa,
la poesia che abbiamo
amata e che è stata parte di noi poiché, colla sua morte, è morta anche un po’ della nostra giovinezza.
1917
psi
ARTURO
ONOFRI:
«ARIOSO»
L’Onofri non si presenta con un riconoscibile e delimitato contenuto d’atteggiamenti umani, come accade invece per tanti altri. Ma questa potrebbe essere, per un poeta, una posizione di forza e di sicu-
rezza. Consideriamo la maggior parte della poesia che si fa oggi, la sua volontaria limitazione ad alcuni motivi di estrema tenuità, coi quali si tenta invano di costruire un saldo ambiente di poesia, e come spes-
so tali motivi rimangano puramente intenzionali, e, tutt'al più, programmatici e illustrativi. Queste poesie dell’Onofri sono paesaggi, fantasie naturali, descrizioni di figure e «stati d'animo». Cose, in fondo,
generiche, pensando alle quali si stenta però talvolta a persuadersi d’una vera necessità lirica. Un certo squilibrio è qui indotto come da una continua volontà di documentazione, che sembra trattenere l’i-
spirazione del poeta, tesa piuttosto verso concezioni più armoniose e piene, in cui certi ben notati particolari di paesaggio dovrebbero sfumare e dissolvere i loro contorni un po’ rigidi in un complesso sviluppo musicale. E questo anzi il maggior difetto dell’Onofri, difetto da cui sta liberandosi, come testimonia
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questo libretto, che rappresenta un indubbio progresso sulla sua produzione anteriore. Ma i residui della sua esperienza trascorsa, che pure ci aveva dato tempo fa qualche bella pagina, turbano in canti d’intonazione più semplice e sfogata, appesantendo con disegni e tratti troppo lavorati e minuti le fragili architetture di questo Arioso. Per ambientare le quali, e ricercarne i precedenti, vien fatto di pensare ad alcuni momenti dannunziani (che nell’ Alcione si situerebbero come atmosfe-
ra vagamente lirica indeterminatamente sonora ad avvolgere e sfumare gli altri canti, di figure e d’impeti. Basterà ricordare la Pioggia nel pineto e il Novilunio) per il respiro del canto nelle sue più belle modulazioni. E al Pascoli delle Myricae (che, è bene rammentarlo,
fu commentato
dall’Onofri
nella «Voce»
di De Robertis)
per certe notazioni
anni fa,
campestri e certi incisi sentimentali di vita intima. S’intende che tali accostamenti non hanno qui altro compito che di circoscrivere il carattere intimo di tale poesia. Temperamento d’artista onesto e tenace, l’Onofri
non può ancora dire d’essersi completamente trovato e gran parte dell’opera sua risente del lavoro a freddo. Ritroviamo il poeta in certe albe e passeggiate silvestri, in cui il ritmo nobilmente appassionato che risolve le immagini nella sua onda melodica, rie-
sce a fiorire in brani lirici di commossa limpidezza. 1922
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CORRADO GOVONI: «LA TERRA CONTRO IL CIELO»
Poco tempo fa G.A. Borgese, considerando in un breve articolo le condizioni presenti delle lettere italiane, traeva buoni auspici dal fatto che gli sembrava scorgere dal loro recente sviluppo una tendenza verso una più compiuta e ricca maturità interiore, desiderosa di stendersi in opere complesse e compatte, di vasto interesse umano.
«Sintesi, architettura, libro, queste le
parole con cui approssimativamente si può contrassegnare il nuovo gusto. Il frammentismo è cosa oltrepassata, e non c’è voluto meno della magia di d’Annunzio per trattenerne ancora il pulviscolo dentro l'involucro epico ed eloquente del Notturno». Noi, che osiamo dirci più scettici dell’illustre critico siciliano, e che crediamo pure, in questo caso, d’andar più cauti,
confessiamo di non vedere ancora per questo i segni del rinnovamento. Forse perché non crediamo ai rinnovamenti, se non forse a quelli che si compiono in înteriore homine e di cui i critici s'accorgon di rado e tardi. E perché ci sembra di notar nella ricca attività critica del Borgese, interessi vasti ed umani bensì, ma be-
ne spesso sconfinanti dal campo dell’arte, dove son limiti molto delicati e precisi. 234
Quello del frammentismo è poi un altro discorso, trattandosi di faccendaa cui non abbiam mai dato soverchia importanza. È anche questo un problema messo in ballo da certa disgraziata setta di critici che non può veder gli artisti e le opere che accatastati e pigiati entro catastrofici schemi come le acciughe nei barili;
e non conosce che condanne o esaltazio-
ni in massa. Problema che, come gli altri messi in circolazione da simile sorta di profeti e astrologi delle patrie lettere, nel modo
in cui vien formulato, è
assolutamente inesistente. Uno di questi estrinseci rinnovamenti, preso ad esempio dal Borgese stesso, e che, secondo
noi, è
destinato a lasciare il tempo che trova, è quello di Govoni. Di cui abbiamo sott'occhio il secondo volume d’un suo poderoso romanzo, che ci servirà se non altro per chiarificare e confermare la nostra opinione sullo scrittore romagnolo. Perché Govoni, nonostante l’uggia in cui ce l’han fatto venire alcuni troppo zelanti e precipitosi seguaci, resta, come si dice, una personalità vera d’artista, che, pur attraverso i suoi numerosi e cronici er-
ramenti, e la molta sterpaglia che cresce rigogliosa nei campi da lui lavorati, rivela un coerente centro di creazione, quel nucleo vitale ed organico che costituisce, per una poesia, la sua necessità d’essere.
Ad alcuni tale centro è sembrato ritrovarsi nel georgismo e regionalismo generici della sua ultima produzione; a noi pare sia altro, più raccolto e sensuale, e consista nel semplice incanto d’una visione ric-
ca e selvatica, diremmo quasi anteriore ad ogni interesse propriamente passionale, pura gioia colorita e intensamente fresca che allontana da sé ogni sforzo di rendere una più profonda e impegnativa realtà interiore, contentandosi di vivere e fiorire in imma-
gini su un quadro di sentimento lievemente meravigliato, semplice trama su cui il poeta è libero di tessere le sue fantasie. Solo in questo senso approviamo chi ha parlato d’«infantilismo» a proposito di 235
Govoni. Nel continuo distrarsi di questo poeta nelle cose, nel suo abbandonar subito la esperienza umana un istante appena approfondita per sperdersi gioiosamente nel mondo festoso delle apparenze e delle forme, c’è qualcosa della psicologia del fanciullo, tutta sensuale, per cui ogni vera commozione è solo l’attimo di pianto che il colore del cielo o la vista del nuovo giocattolo tosto disperdono. È pure indovinata quindi la osservazione di coloro che hanno trovato scarsezza d’umanità nella poesia del nostro scrittore. E da questo pure hanno origine i difetti d’armonia e di costruzione che si notano nelle sue liriche, che non conoscono altro ritmo che quello dell’enumerazione e dello stacco d’immagine da immagine. Umanità è anche questione di limite e di misura. Ora leggete una qualunque poesia di Govoni, e vi sembrerà, salvo rari casi, che il poeta avrebbe potuto troncarla a metà, a un terzo, a due terzi, sen-
za che il significato e la compiutezza di quel vistoso florealismo ne venisse a perdere. Pure, nell’ Inaugurazione della Primavera e nella Santa verde che restano per ora i suoi due migliori libri, era facile accorgersi di un approfondimento, dato da
una maggior accortezza critica del poeta, che non si accontentava più di gettar sulla tela i suoi ricchi e smaglianti colori, ma intendeva disporli, coordinarli e sfumarli attorno a un centro lirico. Specialmente nel primo dei due volumi, anche in certi poemi puramente descrittivi ed enumerativi, come in Casa pa-
terna o nella Vita nel bosco, più che negli altri più prettamente futuristi, l’incanto delle immagini creava per successivi tocchi giustapposti quella visione organica, l’ambiente fantastico senza incrinature, tanto
da poter darci la misura completa di questa poesia. Poesia d’ordine inferiore, però (ci si conceda di far
gradazioni, a scopo pratico, in una cosa così profondamente individuale e senza riferimenti com'è l’arte). Poesia tutta istintiva, popolare diremmo, se non
temessimo fraintendimenti. Certe semplici mitologie 236
create da una immagine unica e solitaria hanno il lampo umido e gioioso delle meraviglie nate senza sforzo né studio, come per un insospettabile miracolo. Poesia che potrà stancarci, che non potrà mai inserirsi profondamente nello sviluppo della nostra vita intellettiva, né costituire per il critico uno di quei problemi appassionanti come solo può far sorgere l’opera cresciutasu un profondo e ricco terreno d’esperienza spirituale. Ma che, se ci proviamo a respingerla e a rinnegarla, potrà tornarci a cuore. Ora immaginate quest’artista semplice, maldestro e istintivo affrontare un’opera complessa, un romanzo, ove si richiede ben altro oltre la facoltà festosa-
mente descrittiva e ambientatrice che gli riconosciamo con piacere. Per questa il primo dei due volumi, ove l’autore s’attardava nel dipingere aspetti e cose della campagna, e le prime crisi puramente naturali e sensuali dell’infanzia, non mancava di qualche significazione e di pagine d’arte autentica. Riguardo a quest’ultimo, dove il Govoni abbandona il terreno a
lui proprio, non possiamo astenerci dall’esprimere con sincerità il nostro parere: che si tratti d’opera completamente fallita. Uno sviluppo drammatico falso e tutto esteriore, che persino, nell'ultima parte, acquista un tono clamoroso da romanzo poliziesco, e per altro pessimamente sostenuto, a cui non riesce d’aderire la figura del protagonista, mal confezionata con resti d’estetismo provinciale e di lontana provenienza dannunziana, lamentevolmente fantoccesca; una ricerca anfanante di false bravure, che de-
genera a volte nella favolosa sciatteria formale della cosidetta «letteratura corrente». E poi una cosa ci addolora che non attendevamo da quest'artista: che a furia di voler correr dietro ai romanzi di moda disperda sempre di più quelle doti di visione particolare e di lirismo descrittivo che avrebbero potuto qua e là salvarlo. 1922 20
GIOVANNI BELLINI: «ARCIVIAGGIO»
Fernando Agnoletti ha raccolto le poche pagine lasciate da Giovanni Bellini, caduto a Plava il 7 luglio
1915. Sulla figura spirituale del Bellini, giovenilmente e severamente eroica, resta poco da dire, dopo le
appassionate parole con cui l’Agnoletti ne annunziò la morte nella «Voce» e che ora ripubblica in testa al libro. Passiamo alla sua opera. Il Bellini, incolto acetaio, s'era fatto da sé. E le po-
che composizioni frammentarie che arrivò a conseguire ci testimoniano d’una bella natura di lirico, che avrebbe potuto svolgersi fino a portar buoni frutti, se la morte non l’avesse stroncata innanzi tem-
po. Son bocci anche questi di quell’antica fioritura fiorentina che ha pur lasciato qualcosa a questo combattuto scorcio di secoio. Si fece un gran parlare, tempo fa, di arte e di poesia popolare. Ad essa si
dovrebbe pensare innanzi ad alcune delle pagine del Bellini, dove, tra la palese imitazione dei quaderni sofficiani e la moda allora in corso dell’illuminazione violenta e provvisoria, si rivela in pochi tratti squarciati un'immediata ispirazione colorita e rude di canzonista popolano. Così nelle poche liriche 238
amorose, dove questa polla ci sembra più evidente, l’invito fantastico alla «casa degli archi baleni» o la favola dell’usignuolo che ha rapito al poeta il nome della bella per ridirselo ai boschi e ai venti, son ric-
chi di spunti cantanti e appassionati («Ti volevo scordare e ancora del tutto non c'ero riuscito. Non mi rimaneva altro che il tuo nome nel cuore dove lo sentivo come una rosa spinosa») che, senza pregiudizio di un talento originale in formazione, fan pen-
sare nella loro accorata immediatezza persino a certi canti anonimi del Due o del Trecento. S’intende che qui si parla solo di spunti e d’intenzioni, che forse il Bellini avrebbe sviluppati in seguito, all’infuori della «maniera» troppo evidente in cui era ancora immerso. Ma sempre sincera e genuina è l’emozione a base di questi scritti, per quanto non si realizzi che a barlumi di rara forza tra molti tentativi d’ingenua e ansiosa ricerca. E curioso poi, e sa-
rebbe assai interessante approfondire il problema, notare come le avventure della nostra poesia ultima, che si vorrebbero da alcuni disperatamente intellettualistiche, abbiano in buon senso influito su tem-
peramenti incolti invece e sensitivi come questo del Bellini. Il che starebbe a dimostrare che certe apparenti disgregazioni in un’arte matura e letterariamente esausta non siano, come si crede, raffinatezze d’una squisita retorica spinta al suo estremo limite,
ma l’espressione del sentito bisogno, rinnovantesi in date epoche, di calarsi a stretto contatto colla vita,
rompendo le grandi architetture ritmiche e ideali appesantite dalla tradizione per sorprendere nuovamente l’impressione nel suo valore primitivo e germinale. E come in tali periodi ci si avvicini a quell’arte che potrebbe dirsi senza storia, che è l’impressionismo, in senso largo, o l’arte popolare. Ma questo esigerebbe ben altra trattazione, né d’altron-
de pretendiamo addirittura rinchiudere lo svolgersi dell’arte in un sistema di corsi e ricorsi formalistici. Notiamo di sfuggita come le cose ora dette sul Belli2539
Arcroitonadi ese.
:
» imenio-chem radicitonicadr pace ci
GIUSEPPE RAIMONDI: «STAGIONI, SEGUITE DA ORFEO ALL’INFERNO E ALTRE FAVOLE»
Riconoscere a Giuseppe Raimondi un carattere intimo di poesia, quello che si dice un’individualità
poetica, non si potrebbe senza premunirsi, avanti la lettura, d’una buona dose di simpatia e di capacità
d’attenzione, per scartare quanto di generico questi scritti possono presentarci alla mente. Sforzo però fruttuoso, poiché le dodici prosette lirico-discorsive raccolte sotto il titolo di Stagioni, e riunite da un lievissimo filo narrativo, o meglio biografico, possono
convincerci come un buon esempio di quell’arte pulita e schiva, fatta di rinuncie e di sospensioni, di
pause e d’abbandoni espertamente sostenuti, che sembra sia voluta nascere tra noi, più che da un bisogno, come vorrebbero taluni, d’astratta disciplina formale, da un delicato riconoscimento, direi quasi etico, dei limiti dello stile e della tradizione. Riconoscimento che, come canone critico, serve e non
serve, sopratutto quando sia preso con eccessiva rigidezza dogmatica, ma si può dimostrar utile nella pratica diretta dall’arte. Non si vuol dire con questo che l’equilibrio di queste pagine non sia piuttosto tutto illusivo e provCAI
visorio, perché in realtà si tratta d’una ispirazione ancora turbata e incerta, e qua e là permangono dei toni sordi e grezzi, a cui è spiegabile che l’autore, sprovveduto, abbia cercato di rimediare con certi espedienti psicologici e ragionativi, e certe scappate ironiche, di cui son presto chiare le provenienze e la formula. Per trovare il punto vivo di questa sensibilità, è meglio soffermarsi ai tratti patetici ed elegiaci, alle visioni naturali, dove l’intimo senso contem-
plativo e staccato del passare delle stagioni e della vita chiusa mette come una melanconica patina di quadro antico. La sera che declina e fa le cose stanche ed immemori, mentre una donna parla; una petraia nella luce effusa dell’estate; ricordi campestri e
famigliari, sospesi in un’onda d’armonia tranquilla e misurata, ci rivelano nel Raimondi un vero temperamento, più idillico e musicale che altro. E venendo alla seconda parte del libretto, diremo che questi divertimenti mitici e favolosi debbono essere apparsi nell’intenzione dell’autore altra cosa di quello che in realtà non siano. Tanto più che siamo ben lontani, riguardo a caratteri e risultati, da quelli, ad esempio, di un Laforgue. Qui lo sforzo d’illu-
minare il rovescio meschino e paradossale delle situazioni sente di maniera e di premeditazione lontano un miglio. E i semplici esercizî di stile non ci hanno mai persuasi troppo. I modelli, del resto sempre presenti al nostro autore, son qui Cardarelli e Montano, ma non è il caso di parlare a questo proposito della fattura numerosa e ricchissima di riferimenti e sottintesi dei miti cardarelliani.
Siamo, mi
pare, davanti ad un caso non unico oggigiorno. Di nature portate all’idillio paesista e alla lirica ingenua e documentaria, che credono d’aver raggiunto certe capacità superiori di svago metafisico e d’ironia dalle quali non son mai state invece così lontane.
1925 242
PAOLO BUZZI: «POEMA DFI QUARANTANNI»
Di diretta derivazione lombarda e luciniana è in fondo Paolo Buzzi, poeta futurista della prima ora, che salda adesso uno dei suoi numerosi debiti verso l’avvenire (vedere l’elenco dei di prossima pubblicazione in capo ai suoi volumi) con un Poema dei quarantanni, versi liberi divisi in diciannove sinfonie, destinate, parrebbe, a fare una tremenda concor-
renza alle annunciate sinfonie di Francesco Pastonchi. Basta vedere la fotografia del buon Buzzi in testa al libro
(aspetto striminzito di attore da caffè
concerto con piglio di console sdegnoso) per accorgerci che abbiamo da fare con un epico, e dei più indomabili. Mentre i contemporanei si davano a magre caccie entomologiche sui prati della «lirica pura» felici se accadeva loro di infilare adagio adagio in punta di spillo qualche meschinello insetto poetico da riporsi poi nel museo famigliare, il Buzzi ha seguitato imperterrito a dar fiato nell’epica tromba, anche quando
l’os rotondum lo costringeva
alle inevitabili stonature. Dapprima ha cominciato col riprendere i modi versilibristi del Lucini colla stessa magniloquenza 243
bravaccia per quanto con minor distinzione, sostituendo all’anticlericalismo e all’esaltazione per le lotte sociali e l'amor pandemio la passione futurista delle macchine e degli aeroplani e avviluppando il tutto in una veste immaginifica e panteistica di stampo vittorughiano e borghese. Ma nella natura ingrata e bisbetica del Lucini, sepolti sotto la farragine oratoria, esistevano e apparivano, per quanto solo a brevi tratti e specie nelle prose, un gusto e una passione veri. Uno di questi armoniosi abbandoni, l’Autunno della Prima ora dell’Accademia, accol-
to nell’antologia dei Poeti d’oggi, non so quanti di quei quarantasei poeti avrebbero potuto scriverlo. Ora non sappiamo se il nostro Buzzi potrà ripiegarsi qualche volta su di sé e trovare i propri limiti. Per ora sembra li ignori. Sappiamo che qualche volta ha abbandonata la forma sinfonica ed eroica del verso libero per certi tentativi di «bel canto» in forme chiuse che vorremmo non aver mai letti. La necessità di chiudere e di modulare il proprio canto in modi obbligati, non nasceva da altro che da un bisogno tutto esteriore, e senza neppure bravura e facilità. Oggi è la volta di questo poema, dove l’autore eroicizza in forma abbastanza burlesca i fatti della sua vita, una specie di enorme autobiografia lirica composta d’inni sballati all'amore, alla poesia, ai morti, ai vivi, ecc., ecc. Una delle caratteristiche
principali del suo stile informe e tumultuoso è la ricerca, che si ritrova, ad esempio, tra i poeti moderni, in Claudel, di serbare il tono epico affogandolo
di particolari meschini e realistici. Però al Buzzi tale ricerca gli si volge irrimediabilmente in parodia. Il Buzzi non è per ora che un ingegnaccio scaruffato, e temiamo forte che non gli riesca mai d’es-
ser altro. Benché con qualche cautela e molta autocritica potrebbe far forse meglio di tanti che a furia di voltare e rivoltare il loro magro orticello son riusciti alla fine a fargli produrre qualcosa d’almeno
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decente o discreto. Incontriamo qua e là nei suoi libri, fra girandole colorate e innocue bombette di marca futurista, certe figure vive e immediate che ci
dan da pensare. E certe trascrizioni immaginose, ad esempio della musica di Strawinsky, sono di un decorativo fantastico non senza pregi. 1925
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PIRANDELLO
Abbiamo assistito alle rappresentazioni pirandelliane che hanno avuto luogo le scorse settimane ai Filodrammatici. Durante tali recite ci è avvenuto di fare alcune considerazioni su Pirandello e le sue commedie, considerazioni che son destinate a spiacere a molti, se pure le leggeranno. Non fa bisogno di dirlo, non abbiamo alcun partito preso di denigrazione. Abbiamo scarse simpatie per lo stile polemico, e non apparteniamo a quella categoria di tremendi cannibali letterari che non si sentono a posto se non hanno divorato giornalmente almeno un romanziere a colazione, e un commediografo a cena. Colla sorpresa d’incontrare il giorno dopo a spasso la vittima resuscitata, col sigaro in bocca come se nulla fosse. Soltanto, non abbiamo potuto trattenerci dal fare
questa semplice considerazione: «Perché il pubblico va a sentire le commedie di Pirandello?». Noi, ci pia-
ce dirlo, non ci fidiamo gran che degli osanna collettivi che imbrodano le cronache teatrali dei vari giornali d’oggigiorno. La Verità, che una volta stava nel pozzo, adesso è addirittura nella tomba. E sopra, al posto dell’epitaffio, un fascio di decreti prefettizî. 246
Stando così le cose, abbiamo rimesso i giornali consultati alla loro natural destinazione nel cieco lòculo di cui è provvista ogni casa perbene, e abbiamo preferito tendere l’orecchio ai commenti degli entr’actes. Sistema indubitatamente più igienico e sicuro. E ci siamo fatti l’idea che il teatro di Pirandello,
se piace, se va, è per parecchie ragioni, e, manco a dirlo, assolutamente indipendenti dal maggiore o minor valore artistico di detto teatro. Il teatro di Pirandello ha l’indiscutibile merito di essere tagliato su misura per la intelligenza della media e piccola borghesia che oggigiorno detta la moda in fatto d’arte e di spiritualità in genere, e di teatro in particolare. A questa borghesia cosiddetta intellettuale il teatro di Pirandello ha l’inestimabile vantaggio di fornire importantissimi servizî. Per questa classe, che gli affari e gli impieghi, particolarmente nel nostro paese, tengono nella sfera della più crassa incultura, mentre la vita del pensiero e de’ libri resta affidata alle cure di pochi malinconici e di parecchi ciarlatani, nulla ha più l’aria di un provvidenziale servizio che un autore il quale si prenda la briga di fornirle, con poca spesa e poca fatica di cervello, gli ultimi figurini della corrente sta-
gione culturale. Il teatro di Pirandello, con queste fabbricazioni in serie, minaccia di fare una grave concorrenza alla «Rinascente», e segnaliamo il caso
alla ponderosa meditazione di Senatore Borletti. Troppo ardua è infatti la vera profondità del pensiero a chi ha per il capo pratiche o scadenze, ed esige troppi inutili sacrifici. La falsa profondità è molto più comoda,
e una filosofia formato
tascabile è
quel che Dio fece per chi non ha tempo da perdere. Il relativismo, che è òstico se affrontato nei libri di
Einstein o di Spengler, è invece piacevolissimo se vien presentato con tanta buona grazia su quattro tavole di palcoscenico, da quattro divertenti fantocci drammatici. Una volta il buon borghese al caffè si occupava di 247
politica, o a dir male dei preti. Adesso alla politica ci pensa il Governo, e coi preti s'è rifatta la pace. Il buon borghese avrebbe corso il rischio di restar confinato per sempre alla partita di scopone e all’operetta viennese, se non fosse intervenuto, provvidenziale, il teatro di Pirandello. Con questo la pos-
sibilità di écraseri compagni d’ufficio e di ritrovo con
eleganti disquisizioni sull'essere e l'apparire è ormai per sempre assicurata. E chi portava con languido atteggiamento l’incolta zazzera da novelliere dell’«Amore Illustrato», oggi inaugura il sarcastico sorriso di Laudisi in Così è (se vî pare), medita sulla molteplicità dell’io, e tenta indurre la portinaia a serî
dubbi sulla propria esistenza. Queste sono le impressioni raccolte nel foyer dei Filodrammatici durante il ciclo delle serate pirandelliane a cui abbiamo assistito le sere scorse. Ci sembra che spieghino molte cose, e si potrebbe far punto e a capo. Non senza però prima aver parlato della fortuna che il teatro di Pirandello sembra vada incontrando negli altri paesi. C’è giunta una eco degli straordinarî trionfi americani e inglesi. In Germania pare furoreggi. Abbiamo visto nelle vetrine delle librerie che quel gentile ebreo cosmopolita di Benjamin Crémieux ha intrapreso la traduzione del teatro completo in lingua francese, e nelle edizioni della «Nouvelle Revue Francaise». Noi aggiungeremo solamente che ancora una volta tutto il mondo è paese, e che non è detto che ciò che vale per la borghesia italiana non debba valere per la borghesia delle altre nazioni. Ma dopo avere parlato della fortuna di questo teatro, vogliamo accennare
un momento a ciò che ci
sembra la vera natura del teatro stesso. Non siamo così pessimisti da credere che la ciarlataneria sia sempre e in ogni caso ragion necessaria e sufficiente di successo. Non condanneremo che dopo previo esame. Ma egualmente non abbiamo intenzione di tediare i nostri lettori con un «saggio critico». A tale 248
scopo dovremmo prenderci la briga di rileggerci tut-
ti i drammi di Pirandello, e, ahimè, anche i romanzi e le novelle. Francamente, non ce ne sentiamo vo-
glia. Due virtù nessuno avrà il coraggio di negare a Pirandello. La prima è il pregio di novità dell’invenzione. La seconda, una scienza impeccabile degli effetti e della tecnica teatrali. Ma oggigiorno anche i sassi sanno che l’invenzione non è la fantasia, che al-
tro è combinare un trucco stupefacente e altro è dar vita a una creazione poetica. L’originalità non si esaurisce nella trovata, ma deve reggere e dar senso, in un’opera d’arte, a ogni forma, a ogni immagine,
che deve apparire scavata nell'animo, rampollante direttamente dalle latebre vive della coscienza alla luce dell’armonia. Invece nel teatro di Pirandello abbiamo
da una parte lo schema, la trovata dram-
matica, la «moralità», e dall’altra una materia greggia e informe che a questo schema non riesce ad aderire, e che si afferma qua e là in colpi di scena ingegnosamente combinati, e per questo atti a impressionare lo spettatore. Dicono alcuni critici che Pirandello si ripete perché si è solo espresso parzialmente; che nella fedeltà
ai suoi temi l’artista che prio mondo si. Nei suoi
favoriti deve riconoscersi l’angoscia delvuole esprimere compiutamente il proecc. ecc. Noi non crediamo a questa teultimi lavori, più che un progresso arti-
stico, riconosciamo dei progressi di trucco, di invenzione — d’umorismo, se mai. Sotto la trovata sma-
gliante è sempre la solita materia scarsa di significazione, programmatica, senza sviluppi interiori. Se Pirandello insiste sul proprio tema, è perché non ha
altro da dirci. Dicono altri critici che Pirandello è grande perché esprime le angoscie del nostro io d’oggi, è un segno inconfondibile del tempo in cui viviamo. A noi,
questo, non pare affatto un elogio. Anche Guido da
Verona, anche Bottecchia sono segni del nostro tem-
249
po, e utilizzando questo le gambe e l’altro la penna a lor modo ne danno una espressione. Altro è l’arte e altro il documento. E, a parte gli scherzi, questa fa-
mosa questione dello «spirito del tempo», non è probabilmente altro che un’astrazione, o una illusione
critica. In ogni caso, un’inutile tautologia. Non si può non essere del proprio tempo, qual sia la via che si segue. Tra l’arte e la pratica vi è un gioco di azione e reazione che può dare curiose illusioni. Siccome più un artista è grande più dà l’impronta al proprio tempo, avviene spesso che i posteri intendano la sua voce come espressione del suo tempo, mentre invece è il contrario. Tanto è vero che i contemporanei si sono spesso meglio riconosciuti in artisti mediocri. Sostengono invece altri che Pirandello è grande... perché il suo teatro è frutto della rivoluzione fascista. Se è così, ne prendiamo volentieri atto; perché
veramente molti dei motivi che ci spiegano il trionfo dell’una ci spiegano anche il trionfo dell’altro. Come
artista, ci sembra che Pirandello abbia un
difetto che ne invalida grandemente l’opera. Manca di leggerezza. Ignora assolutamente il divino «piè leggero» di cui parlava Nietzsche, la misura aurea della grande arte. Il motivo, lo schema nelle sue commedie schiaccia, invade le situazioni, irrigidisce
i personaggi in mosse da burattini. Il senso di un’opera non è qualche cosa che esista al di là di quest'opera. Deve vivere, sciolto e fluido, a fiore di ogni
parola e di ogni colore, dev'essere adombrato in ogni situazione, deve affermarsi nel cuore stesso del lavoro con la immortale necessità delle creazioni. In Pirandello
nulla
di tutto
questo.
Prendiamo,
per
esempio, /l piacere dell'onestà. Nel suo protagonista dovrebbe esprimersi, se mal non
intendiamo, l’an-
goscioso contrasto tra la volontaria scelta di una vuota forma di vita sociale e una ribellione dell’umanità dell’individuo, che alla fine, di fronte al confessato
amore di una donna, si dà per vinto. Schema astrat250
to, che in mano d'’altri avrebbe potuto essere ferace. Guardate invece come il protagonista in questione, Angelo Baldovino, nel prim’atto s’impanca a professore, fa la sua brava lezione
di relativismo
fra gli
«oh!» di stupore degli altri fantocci, e tira agevolmente le fila della commedia, da padreterno compiacente, fino all’ultim’atto. Questi personaggi sospesi fra cielo e terra, che non
hanno
idee chiare
neppure intorno alla loro identità, non mancano invece di una convinzione ferrea delle proprie teorie, tanto che non lasciano passare occasione per ammanircele, con una deplorabile mancanza di ritegno. Come se ciò non bastasse, in molti drammi abbiamo per soprammercato un personaggio, chiamato a far la parte del coro greco, che ha il compito esclusivo di commentare e sostenere l’azione sentenziando
a tutto spiano, come
se questo compito
non fosse già svolto (e ahimè, quanto ampiamente!)
dagli altri suoi fratelli. Così Laudisi in Cost è (se vi pare) e Diego Cinci in Ciascuno a suo modo. La significazione della commedia, invece di provenire dall’interno,
viene
appiccicata
dall’infuori,
e certo
con
maggiore abilità che consistenza vitale. Il teatro di Pirandello manca di quello sviluppo interiore che è la vita, e la vita dell’arte. Si limita all’e-
nunciazione di una situazione drammatica. Resta perciò puramente teatro nel senso più ingrato della parola, cioè un’arida combinazione d’ingegnosi meccanismi senz'anima. Tanto è vero che l’autore, alla fine, non ha saputo far di meglio che portarci il suo
teatro stesso sulla scena, coi Sei personaggi în cerca d'autore. Per concludere, a questo scrittore non sapremmo certo negare una non comune ingegnosità. Vi sono in lui delle doti che hanno però il torto di essere approssimative. Tra gli elementi della sua materia non si stabilisce mai quella equazione che è l’arte, ma so-
lo una specie di sintesi provvisoria a base di effetti, che una demoniaca abilità della scena gli suggerisce. 251
Mancando la concreta visione artistica, tutte le più belle doti equivalgono a zero. E se oggi si considera questo uomo come l’incontrastato signore e padrone del teatro italiano, bisogna proprio dire che questo teatro non ha mai navigato in così cattive acque. 1925
ed)
E A
LA POESIA DI EUGENIA MARTINET
Uno dei primi rilievi consentiti da una attenta considerazione del nostro tempo riguarda questa specie di progressivo inaridimento dei motivi della poesia lirica, che si è andata assottigliando fino a
non lasciare che poche testimonianze di sé che sia più possibile considerare come effettive ed attuali. Verrebbe fatto di chiedere quali siano le cause che hanno operato questa disgregazione, la quale non ha lasciato sussistere che pochi esemplari di una poesia considerata ormai come una mortificata espressione di semplice verità. Dopo l’ultima celebre triade, che per un verso o per l’altro seppe organare i motivi schiettamente lirici in grandiose propagande civiche o morali e, in qualche modo, portare in un mondo destituito i classici paramenti del vate con indiscutibile nobiltà, si è assistito a un lento di-
sfarsi e decadere della materia rettorica, la quale ha finito col trovare naturale impiego nei dibattiti della politica e nei resoconti dei giornali. Se da un lato la cronaca s'è andata rimpolpando, la poesia ha perso di peso, e, per vie diverse, va egualmente tenden-
do a spogliare il vecchio tessuto poetico e a ridurre 209
la traccia al primo disegno sopra la realtà offerta dall'intuizione. Sotto la corrosione dell’acido critico, ben poco ha resistito di quel vecchio mondo di ideali e di parole in cui altra volta i poeti amavano chiudersi, quasi a testimonianza d’un’antica sovranità. Se altra volta l’artista era colui che credeva a tutto,
ora è colui che non crede più a nulla: non ha più templi da costruire, il puro cristallo tratto dal sottosuolo della vita vivente egli dedica all’attimo fuggitivo, e il precario non può che toccare direttamente l’eterno o dissolversi. Una che crede ancora è invece Eugenia Dolchi Martinet della quale abbiamo sott’occhi un libretto di versi, che ci ha suggerito queste considerazioni. Il libro è, come
si conviene, stampato a cura dell’au-
trice, e incontra il nostro segreto gusto per quel genere di pubblicazioni sperse, che, non inquadrandosi nei comodi
cataloghi
di una
casa d’edizioni,
serbano ancora qualcosa della vita raccolta che le vide nascere. La poesia intesa come arte di vita e consolazione delle ore perse; come testimonianza delle ingenue fedi di una giovinezza trascorsa in provincia e limitata alle letture care e ai mutamenti di un mondo
ancora
famigliare
e sicuro.
Insomma,
una
propaggine di quell’antico mondo carducciano e pascoliano, che ha ancora più fedeli che non si creda, anche in coloro che di quegli esempi hanno amato più di altro il lato minore e che vivono ancora di quell’esperienza lontana. Per conto nostro, se-
guiteremo a preferire questi prodotti agli altri, veroniani o futuristi, che mancano comunque dei pregi che lascia la poesia così intesa come autobiografia o praxis idillica: amore dell’onesto lavoro formale e chiaro compiacimento di ideali e di fedi che la vita non seppe sfiorire. Libretto primo rappresentativo sotto ogni riguardo, in luogo di trovarne cenno nelle terze pagine dei grandi quotidiani, non ci stupiremo di vederlo spesso aperto sul tavolo di molti lettori in provincia. Perché veramente,
254
attraverso for-
me che risentono forse un poco del Pascoli e della prima Negri, qui si rivelano freschezze di abbandoni sentimentali e un modo schietto di canto inteso come consolazione e sublimazione degli eventi minimi della vita quotidiana, che è pur l’unico modo in cui la donna abbia mai inteso la poesia. Quando si è detto che abbiamo da fare con una ispirazione che intende a risolvere in sé senza tentativi di limitazione e di autocritica l’intero complesso dell’esperienza personale dell’autrice, si è già detto tutto, e se ne è insieme indicato i pregi e i difetti,
che sono quelli della poesia cosidetta di vena, la quale, senza tener conto alcuno dell’origine degli elementi di cui si serve, che sono vari e spesso appena riecheggiati, vuol essere apprezzata più che altro nella pienezza e nella vivacità dell’ispirazione che la muove. Le liriche sono disposte nel volumetto in ordine cronologico, e vanno dalle prime esperienze di fanciulla, attraverso quelle sanguinose del tempo di guerra, fino a quelle dell'amore
e della maternità,
come in un diario intimo mai tralasciato. I migliori componimenti sono, a nostro avviso, certi quadretti
d’ispirazione idillica che ci richiamano, più come atteggiamento lirico, che per ispirazione letteraria, al
Pascoli delle Myricae e a Severino Ferrari. Di questi tratti che traducono con tecnica semplice e amorosa casti momenti di vita, potremo citare, Il Tè, Dove nasce il vento, L'ora buona, quartine queste ultime di vivace intensità patetica, e fra tutti, il sonetto intitolato Il bucato e Piccole minestre, dove la nativa fre-
schezza di sensazioni si fonde perfettamente col respiro esatto e leggero del verso, in una rara compiutezza di visione poetica. 1925
255
PREFAZIONE A 12 POESIE
Eugenia Martinet è da tempo riconosciuta come una personalità di primo piano nel campo della poesia dialettale. Già un poeta e critico dell’autorità di un Montale, in un articolo sul «Corriere della Sera» del
15 gennaio 1953 (ora raccolto in Su/la poesia, Monda-
dori, 1976) l’aveva definita «squisita artista» e in una recensione del «Corriere della Sera», del 20 giugno 1965, al suo libro Meison de berio, meison de gllièse (Case
di pietra, case d’argilla), confermandone il forte temperamento, qualificava la sua poetica «casalinga e magica, valligiana e aperta al senso dell'universo». Tra gli altri, si sono occupati di lei con particolare interesse e favore Franco Antonicelli e Barberi Squarotti. La scrittrice è ampiamente rappresentata nella Antologia a cura del compianto Pasolini e di Mario dell’Arco Poesia dialettale del Novecento (Guanda Editore, Par-
ma, 1952), pp. 227 sgg., ed è abituale collaboratrice
delle più importanti pubblicazioni periodiche di dialetti francofoni, sia italiane che francesi e della Sviz-
zera romanda. Ancor oggi la poetessa continua a scrivere con la medesima freschezza ispirativa dei tempi della giovinezza. 256
Si legga, ad esempio, La malleuvrà (L’incompiuta), dove identifica se stessa in una Penelope in attesa di un Ulisse che non ritornerà mai. Fare, disfare lavori di ricamo ormai sola con se stessa, simbo-
leggiando in tali ricami la propria poesia solitaria. Ma si ascolti: O Penelope, fere... Lo crotzet é le lane de totte le coleur,
fine come de pei... (O Penelope, fare... L’uncino e le lane di tutti i colori, fini come capelli...). Certo, il patois valdosta-
no non è come il dialetto romanesco o napoletano, una variante della lingua italiana. E piuttosto imparentato con la vecchia «lingua d’oc», e perciò si presenta assai arduo. Ma qui siamo assolutamente lontani dal popolare tradizionale, dal dialetto proverbiale. Il linguaggio della Martinet è piegato a tutte le finezze dell’analisi introspettiva, qualità che oggi la lingua, ormai lisa, non
consente
più. (E invero la
poesia dei più giovani sembra fatta d’arabeschi discontinui, senza significato fuorché vagamente simbolico, nei casi migliori, ma non di parole comuni-
canti). Un linguaggio, peraltro, capace di assumere variegature
inattese e subitanee,
colorite illumina-
zioni sulla linea della più avanzata poesia moderna. La nostra poetessa resuscita talora la forma francese
classica del rondeau,
particolarmente
difficile
nella chiusura del suo schema metrico: a quanto può vedersi nella nostra scelta, ad esempio nel secondo di quelli dedicati al figlio e rievocante gli anni di guerra: Vo-s-atre le canon, no le siréne, é eun urlemèn de tsasse se detséine
pe la reuve é tsanté, lé tanque î bor di bouque...
(Voialtri i cannoni, noi le sirene, / e un urlo di
DE7
caccia si scatena / per le vie e i rialti, là, fino all’orlo / del bosco...). Nella poesia della Martinet si alternano serenità, malinconia e fierezza come ne Lo scavo:
Deura couta di mon t’an déqueverta que, griffa e grafo, tà pelissa verta grousse patte de fer l'an équarcha... (Dura costa di monte
ti hanno
scoperta / che,
griffa e granfia, la tua pelliccia verde / grossi artigli di ferro hanno squarciato...). Più oltre, nella poesia, questa roccia cruda viene
paragonata a «una grandiosa basilica offerta all’uomo ansioso d’entrare do». E conclude:
nell’aperta anima
del mon-
amour é sacreledzo, euna souferta pachòn me pren per la rotse déserta pouissenta é ferma i souterren di pra. Mé comme a eun mur di plauro bazardà gremelle maque euna petsouda berta a per d’an deura couta. (amore e sacrilegio, una sofferta / passione mi prende per la roccia deserta / potente e ferma nel
sotterraneo del prato. / Ma come un muro del pian-
to sprecato / soltanto bela una piccola agnella / presso la dura costa).
In poesie come queste la Martinet assurge a qualcosa rassomigliante a un’istintiva metafisica, in cui l’intuizione del mondo si fa cosmica, riassumendo in sé la passione e il dolore delle sue creature.
Analogamente sì può dire per altre poesie qui riprodotte, ad esempio Le seison (Le stagioni), in cui la vita di un alpigiano è colta sinteticamente nei suoi periodi fondamentali. Ma, nel finale, chi scrive sem-
bra identificarsi col protagonista: Ara m’achato, ouè, tooteun dze si cheur de tenì todzor la téta dreite
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comme lo tseun de garda di-s-armaille. Fa avèi de force pe se souvent. (Ora mi siedo, sì, eppure sono / sicuro di tener la
testa dritta / come il cane da guardia delle greggi. / Ci vuole forza / per ricordare). Anche l’anziana poetessa può tenere la testa diritta. Ha tutta la forza per il ricordo, l’unica cosa che rimane, passata una certa età, e per trasfigurarlo in lirica. Pensiamo che la presente scelta possa dare un’idea a un pubblico più vasto di questa singolare poesia che P.P. Pasolini, scrivendone in «Nuovi argomenti» definì «severamente neo-romantica». 1979
259
C.V. LODOVICI: «LA DONNA DI NESSUNO»
Di fronte alle commedie che Cesare V. Lodovici ha raccolto oggi in volume, sarebbe agevole ad un competente discorrere di teatro del silenzio, d’intimismo, di sottinteso scenico e d’altri consimili pro-
grammi e teoriche. Lo stesso autore, a giudicare dal| l’epigrafe shakespeariana che ha posta in capo al libro, sembrerebbe
autorizzare
una
generica
inter-
pretazione in quel senso. Ma noi sappiamo che, se un’opera può sperar di salvarsi dal flusso livellatore del tempo, non sarà mai in virtù di teorie, che, per
quanto stimabili, resteranno pur sempre teorie. Di fatto, un’opera è tanto più concreta quanto più in essa s’incarna, nelle sue linee ben definite, nelle sue
stesse acredini e limitazioni, la particolare linea di un temperamento.
E a Cesare Vico Lodovici, che è
uno dei nostri più interessanti scrittori di teatro, il temperamento non si potrà negarlo. E, giacché si parla di teatro, diciamo subito che si
ha da fare con un temperamento drammatico. Specie che si va facendo sempre più rara, a giudicare dalle preoccupazioni degli interessati, che hanno recentemente, in questa stessa rivista, indetto un con-
260
gresso di medici per un consulto grave sulla pericolante salute di questo gran malato ch’è il Teatro Italiano. Quello che è certo, tali preoccupazioni non sono infondate. Oggi che son di moda psicoanalisi e relativismo, che il romanzo sta dissolvendo le proprie linee nei lenti trapassi, nelle tinte velate, nei ri-
torni e nelle giustificazioni cui dà luogo necessariamente quella letteratura che anela a scomporre indefinitamente i toni della vita e della personalità, era naturale che il teatro dovesse risentirne in modo profondo. Di tutto potrà fare a meno il teatro, fuorché dei caratteri e della natura classicamente intesi. L’iniziale finzione che sta a fondamento dello spettacolo teatrale è soltanto possibile a patto di prendere come verità ab aeterno tutto ciò che vien dopo, maschere e scenari di cartapesta. La concretezza delle figure e la rigida necessità delle situazioni sono il contrappeso inevitabile di tale finzione. Il teatro è la forma meno ingenua e più intellettiva della fantasia: presuppone, più di ogni altro genere letterario, una selezione e un’architettura di elementi primitivi, troncati alle radici dal terreno della vita vivente,
sollevati in un’aria rarefatta e vibrante. Esprimere un’intuizione drammatica vuol dire appunto astrarre alcuni moti della vita dal resto del mobile e indefinito tessuto di essa, ed isolarli in una opposizione cruda e implacabile. Sul palcoscenico le ferite non possono più saldarsi, le parole sono sempre ultime e irreparabili come dette sull’orlo di un abisso,
i gesti e i silenzi sono fissati una volta per sempre. Tutto è possibile fuorché portare il relativo e irrazionale nel teatro, che non per nulla ha origini mitiche e religiose. Se l’impalcatura drammatica è riuscita a sopportare a malapena le dispersioni e le superfluità aneddotiche e documentarie del teatro verista e borghese, sotto le superstrutture fantastiche o filosofiche di quello pirandelliano o grottesco, finirà col crollare definitivamente. Merito del Lodovici è stato quello di scartare senz’at 261
tro le forme parassitarie e letterarie che infestano la produzione d’oggidì, e di trarre in certo modo partito dallo stesso indebolimento della concezione drammatica, sopravvenuto dopo la fioritura rappresentativa e discorsiva del teatro realista. Mettendosi su cotesta strada, ardua invero e difficile, al Lodovi-
ci è riuscito di darci alcune scene di schiettissima ispirazione, com’è raro trovarne nel nostro teatro d'oggi. Scene in cui l’urto drammatico non vive fuor dal dialogo in cui s'è concretato, com'è richiesto da certa critica che va per la maggiore, la quale non sa
sviluppare un’opera senza fastidiosi richiami a una generica «umanità» integrale e assoluta a cui la composizione teatrale dovrebbe tendere come ad un apice posto fuori dall’opera stessa, ma dissolto a fior d’ogni battuta, vivente in ogni parola, sottinteso e
presente in ogni parte, fa sì che la scintilla lirica nasca dal più semplice contrasto e dalla minima reazione fra i personaggi. Nel teatro classico, che presupponeva una materia già nobile e tragica per sé stessa, e in quello recente, che sostituì al mito la tesi e il costume, forme di mito moderno scaduto dalle sue beate origini favolose, potevano trovar luogo
il discorso lirico e la confessione con altissimi effetti scenici. In questo dei Lodovici è evidente che tali elementi non avrebbero potuto essere utilizzati senza grave pregiudizio della schietta ispirazione da cui nasce. Operando sopra una materia così compromessa come quella teatrale, egli ha compreso che c'era tutto da guadagnare a mantenersi in una linea di estrema purezza e semplicità, limitando i contrasti alle sospese sensazioni del loro sorgere, e trovan-
do in questa atmosfera germinale di urti lievissimi e quasi soffocati il proprio particolare timbro. E non sarà il caso di pronunciare, come altri ha fatto, e sia pure colle dovute distanze, il nome di Ce-
chov. In genere, come accade del resto per tutti i veri temperamenti,
le influenze e i risentimenti si ri-
ducono soltanto per il Lodovici a stimoli per la crea262
zione, a motivi d’ispirazione legittimi e insindacabili. Mentre Cechov. ha la dote magica dei grandi nordici, bastevole a sprigionare nelle battute del dialogo tutta un'atmosfera desolata e inquietante che colma le linee del dramma e le rompe in prospettive indeterminate, nel nostro la maggiore limitatezza di significati serve soltanto a dare un singolare rilievo alle figure, rilievo tutto intimo, e a volte d’una
incisività mordente. Il nostro Lodovici avrà anche potuto credere, scrivendo La donna di nessuno, alla
sublimità quasi disumana di Anna e della moralità generosa di Cusano. Ma a scartare questi significati troppo pesanti, basta pensare a ciò che di un tema simile avrebbe potuto fare un Ibsen, colle sue preoc-
cupazioni morali e il suo kantismo iperboreo. Nei personaggi di Lodovici, idee e doveri morali si riducono
alla loro forma più scarnita e naturale, sono
disposizioni e linee del carattere, fisime caparbie sulle quali essi son capaci di giocare la vita. Quando teorizzano non possono esimersi da un tono d’ingenuità un po’ rettorica, dal quale si difendono essi stessi con una sorta di reticenza e d’ironia appassionata. Per loro, le idee sarebbero qualcosa di terribilmente ingenuo, se non corrispondessero appunto a ciò che di più acido e istintivo è nel loro temperamento. E Lodovici, che è toscano, e per di più apuano, serba nei suoi tratti migliori, quando cioè
non si lascia prender la mano da una generica teatralità, una grande acutezza e stringatezza di visione ‘eminentemente realista. La donna di nessuno rappresenta la storia di una donna che affronta le conseguenze del proprio fallo, fino a sposare l’amante imbecille al quale si è data in un momento
di cecità, a rinunciare all’amore
che le viene offerto dal generoso Cusano, e a ricostituire alla fine una vuota forma di famiglia, conscia di non poter mai amare il marito né di poter mai essere amata dal figlio, al quale confesserà un giorno di averne attentato alla nascita. Donna di nessuno,
263
finisce col chiudersi in una rigida calma, simile alla morte, sacrificando sé stessa nell’accettazione di un
dovere inumano. Le parole dette sopra varranno a dissuadere chi davanti a un argomento di questo genere vorrà cercare significati etici o comunque trascendenti. La ragione del sacrificio di Anna va piuttosto ricercata nella superbia e nella caparbietà dei suoi istinti, in una sorta di speciosa vendetta contro sé stessa (tutto deve essere giusto, ella dice) piuttosto che nell’accettazione libera di un dovere. Ed è in questo che il lavoro, il migliore senza dubbio di quelli qui raccolti, trova la sua concretezza e il suo tono più schietto. 1926
264
TENDENZE NUOVE
Diverse interpretazioni sono
state affacciate del
carattere prevalentemente critico della letteratura del nostro tempo, senza che la maggior parte di esse abbiano, sia pure in modo indiretto, toccato l’es-
senziale del problema. Dalla lettura del dibattito che si svolse recentemente sulle colonne di un giornale
letterario, era facile accorgersi che i termini della questione vertevano
sopra questo fondamento
co-
mune: la critica veniva sempre concepita, da ciascu-
no dei polemisti, come una attività eminentemente storica e concettuale,
come
una forma di constata-
zione della realtà poetica posta all’infuori della mente del critico, che ad essa non
dovrebbe
che ade-
guarsi per accoglierla. Bisogna invece riconoscere, nell’arricchita sensibilità critica del nostro tempo, cui fa riscontro d’altra parte un impoverimento dei temi, per così dire, di diretta creazione artistica, non solo un compenso inevitabile a questa deficienza, ma anche una sorta di trasformazione, attraverso
modi meditati e riflessi, degli stessi motivi sentimentali e fantastici che altra volta forse si sarebbero direttamente incorporati nelle forme immediate e in-
265
genue del discorso lirico o romanzesco. Ciò si dice, beninteso, di pochi uomini e di poche opere: ché, naturalmente,
non
si vogliono includere nella no-
stra definizione né gli studî eruditi o di pura informazione, e neppure, in senso lato, le opere di mera
storia letteraria: e particolarmente ci riferiamo ai saggi degli scrittori giovani. Un esempio di quanto abbiamo detto troviamo appunto nell’atteggiamento di mortificata e quasi delusa attenzione con cui alcuni di questi scrittori affrontano la materia anche più calda e diretta del poema e della narrazione: atteggiamento dominato e quasi sperimentale, inteso a sfuggire ogni diretto impegno coll’argomento e a sostituire all’abbandono e all’ispirazione dell’artista le cautele esatte del critico. Atteggiamento che ha il suo contrapposto nel colore e nel calore che quegli stessi scrittori portano nell’esame dei fatti letterari: tono di lirica solidarietà con quanto di più intimo e istintivo ha l’opera esaminata, quasiché compito del critico fosse una sorta di riflessa integrazione e di prolungamento dell’opera d’arte, che verrebbe in tal modo ad essere rivissuta e spiegata, attraverso una luce nuova e tutta personale, in ciò che essa opera ha di più vergine ed unico, nel sottile ritmo, quasi fisico, della prima ispirazione. — «Approssimazione», «equivalenza», sono termini ancora inesatti. — Una sorta di
nostalgia della pagina scritta sembra animare il saggio letterario, portarvi un sentimento estraneo all’opera studiata, assai simile a quello che, nel puro artista, suscita la commossa considerazione della vita. Così, nei fogli ingialliti dei libri, ci rifugiamo a cer-
care le figure della nostra malinconia. Queste,
e consimili
riflessioni, può suggerire
la
lettura del libretto di prose di Giuseppe Raimondi, Galileo, ovvero dell’aria. Lo spirito logico e costruttivo che opera nelle grandi immaginazioni scientifiche di Galileo,
il senso
terrestre
266
del sepolcro
che ac-
compagna, insistente come una musica bassa, le notturne meditazioni di Pascal, formano qui pretesto a divagazioni di tono lirico e nostalgico, in cui il lungo amore di quelle antiche pagine sbocca e si risolve in chiare e composte fantasie. Sarebbe fuori luogo accusare il Raimondi d’infedeltà ai suoi motivi e ai suoi spunti. Ché evidente è l’indole sentimentale, più che ragionativa, di questi suoi scritti. E se anche non sarà il caso di citare l'esempio del Leopardi, che, nelle Operette morali, s’ispirò spesso, con sottile
intenzione
paradossale,
alle favole greche e agli
scrittori dell’antichità, si potrà fare il nome
di Paul
Valéry, che ci dette tempo fa un’ideal figura di Leonardo ben poco storicamente rassomigliante al figlio di ser Piero da Vinci, e, negli ultimi Dialoghi,
introdusse un arguto Socrate bergsoniano e mallarmista in cui assai difficilmente si sarebbe potuto riconoscere il divino maestro di Platone. Anche il Raimondi ha composto un trasognato dialogo autunnale fra Galileo e Cesare Marsili,
e ha condotto Bia-
gio Pascal a ragionare con un amletico costruttore di tombe sopra uno sfondo rigido e chiaro di bianchi marmi e di cielo. Tuttavia, a differenza di quan-
to successe al Valéry, una sorta d’intima fedeltà, e quasi un controllo agli arbitri della fantasia è rimasto al nostro: fedeltà al segreto tono di armonie e figurazioni antiche, lungamente vagheggiate nell’adolescenza e serbate fra le memorie più istintive e care di quel tempo. Se si vuol riconoscere qualche verità all’espressione dello stesso Valéry che «Le réel d’un discours c’est après tout cette chanson, et cette couleur d’une voix, que nous traitons à tort comme détails et accidents», anche la schiettezza dei
motivi ispiratori di queste prose apparirà palese.
Nella precedente Notizia su Baudelaire sì ritrovava,
seppure più documentata, e limitata da precisi intenti critici, una disposizione consimile. Qui il materiale riflesso è assunto invece a pretesto di delicate variazioni poetiche, che ci riconducono a quanto al267
tra volta avemmo a scrivere della particolare indole di questo scrittore. Indole elegiaca e contemplativa, che trova il suo equilibrio in una grave, idillica fedeltà alla terra. Non per nulla a fronte del libretto il Raimondi ha posto il ritratto del padre, componendo così, colla più eloquente delle dediche, un pio omaggio alla memoria del.genitore. E non per nulla le pagine più liriche e sciolte del volumetto sono quelle che ci parlano delle acque nella regione emiliana, della quale questo scrittore bolognese ha colto, all'infuori d’ogni facile amplificazione coloristica, l’aspetto locale e familiare e il misterioso senso
delle sepolte origini naturali. Scrittore lento ed elaborato, il Raimondi aspira nelle sue prose a una delicata perfezione, quasi unicamente sostenuta dalle ragioni musicali e poetiche dello stile. Questo, pur attraverso le complessità del-
la sua formazione, raggiunge in molte pagine una chiarezza ed una persuasione che solo il senso acre e turbato di appartenere alla nostra scaduta modernità rattiene da quel sereno equilibrio che può chiamarsi classico. Si potrà forse notare che questa perfezione è ottenuta a prezzo di gravi rinuncie; e che forse il continuo scrupolo di essa ha impedito finora il Raimondi di affrontare temi più vasti e tramati di più varie esperienze. Si potrà pure osservare che, dove manca il «tono fondamentale»,
che gli abbia-
mo riconosciuto, il tessuto stilistico si fa povero e il tratto si svigorisce in una morbidezza un po’ leziosa. Ma anche a volergli fare questi appunti, si dovrà convenire che ogni nuovo lavoro di questo autore rappresenta una lenta ma sicura conquista, tale da indurre alla più tranquilla certezza circa i futuri frutti del suo ingegno.
La disposizione inversa, sopra una trama mentale più larga e avventurosa quanto forse meno nativa e determinata, troviamo in Amedeo ed altri racconti di
Giacomo Debenedetti. A proposito di quest’operet268
ta, uno dei più significativi saggi di narrazione che siano apparsi da qualche anno in Italia, è stato fatto da qualche parte il nome di Proust. E, come spesso avviene quando il critico, riconoscendo in un libro un'aria e un aspetto già noti, s’illude d’aver toccato terra, si credette, definendo Amedeo come un esem-
pio di letteratura analitica, e indicandone la supposta derivazione, di essersela sbrigati col libro stesso e col suo autore. Mentre, a proposito dell’accenno a Proust, era invece interessante notare la singolare affinità di temperamento col nostro, che in qualche parte dell’opera del francese ebbe semmai a riconoscersi, più che venirne influenzato. E già dai primi saggi critici del Debenedetti, pubblicati sulla rivista «Primo Tempo», considerando quella sua maniera diffusa e compatta, sdegnosa di riferimenti esteriori e di sistemazioni, per così dire, didattiche, tutta
intesa a raccogliere e a coordinare
dall’interno
qualsiasi sistema di pensieri e di sensazioni, in un
lento discorso deduttivo e musicale, riusciva palese che, in simile natura, l’arte non sarebbe potuta na-
scere che dalla riflessione. A quei vecchi scritti faceva tuttavia difetto, in qualche punto, il tono un
po’ sostenuto e una certa mancanza di pause e di spazi: difetto scomparso negli ultimi articoli originalissimi su Proust e Radiguet, apparsi sul «Baretti»
e nelle migliori pagine di questi racconti. Una formazione culturale assai complessa, che, a
differenza di quella di quasi tutti i nostri giovani scrittori, non manca neppure di un’ampia inquadratura classica: un senso severo della linea intellettuale, un pieno possesso delle forze istintive dell’immaginazione tale da rendere agevole l’attenzione a lungo applicata e sostenuta all’analisi e alla deduzione: ecco, per tratti sommari, il temperamento di
questo scrittore. Nel quale potrà forse notarsi una
sorta di predominio delle facoltà riflesse su quelle,
pur vivaci, dell’immaginativa — predominio che ad ogni modo non guasta, dato che spesso non riesce 269
che ad una resa più concreta delle stesse qualità di fondo. L’estrema coscienza critica è tuttavia palese nell’atteggiamento dell’artista di fronte alla sua materia: che a volte sembra scelta a caso, quasi indifferentemente, come semplice «motivo per variazioni». Ad esempio, nel racconto Suor Virginia, la storia di una povera suora che, smarritasi in una città sconosciuta, rievoca il suo passato e l’unica sua illusione amorosa, viene assunta a soggetto d’esperimento, quasi pretesto a una complessa orchestrazione di sottilissimi stati sensuali e sentimentali. Il calore umano,
nella preziosità squisita ma troppo svagata dei risultati, si smarrisce. Invece nel racconto che dà il titolo
al volume, Amedeo, il lumeggiamento delle plaghe fondamentali e segrete della coscienza, e la complessa intonazione ch’è uno dei pregi più sensibili di questo autore appaiono più strettamente fusi, e riescono a darci, attraverso il delinearsi di puri sviluppi interiori, il senso drammatico delle disposizioni inconsapevoli in conflitto nello spirito di un adolescente precoce ed egoista. In Cinema Liberty e in Riviera, amici si respira un’aria più sciolta e colorita, che è quella del ricordo e della divagazione a sfondo autobiografico. Illusorie ricchezze il cui possesso non si compie che negli abbandoni del pensiero, melanconiche Kermesses del-
la fantasia, fastose florescenze che germina la vita addormentata e stagnante come la fanghiglia di certi acquitrini. Operando sopra una materia più vicina, seppure più indeterminata, la composizione stilistica si complica e si arricchisce, acquista toni impreveduti, si fa più aderente ai liberi moti della fantasia. Più ancora che Proust, cui pure ci richiamano
certe delicate trasposizioni di miti e letture nel corpo vivo del soliloquio interiore, può venire a mente il D'Annunzio
della Leda e dei diarî, al quale per
qualche lato il Debenedetti sembra ricollegarsi, ma portato in un'atmosfera più sorvegliata e fredda, in cui l'abbandono nostalgico e sensuale sembra come 270
dominato dalla calma disincantata della riflessione.
E se anche qui non mancano tratti sordi e non più che ingegnosi, nel primo dei racconti citati, la rievocazione di certi ingenui sensi dell’infanzia scolastica, e, in Riviera, amici, una luminosa visione di paesi marini, sono fra le pagine più alte del libro.
Seguendo l’incitamento di Jacques Rivière, cui il compito vivo delle letterature moderne sembrava es-
sere principalmente l’esplorazione sempre più cauta e sottile dell’uomo
interiore, il Debenedetti
ha
trovato in questi racconti la naturale applicazione delle sue complesse facoltà intuitive e critiche. Nel
senso vivo della nostra tradizione stilistica egli ha saputo oggettivare la nuova materia, evitando quanto in queste tendenze modernissime si possa riscontra-
re di generico e programmatico, e quanto, in quest’arte che tende a rallentare il ritmo della vita in una indefinita analisi, quasi facendo della vita stessa
un puro oggetto di conoscenza, possa tenere dell’aridità del referto e del documento.
1927
271
«ORESTE» A CURA DI PILADE
Segnalando all’attenzione del lettore questo libretto singolare come un «divertimento» o un’esercitazione, sia pure di tono e di portata assai sottili, non intendiamo far dubitare dell’intima, a volte dolente
e consapevole, sincerità letteraria del suo autore. Vogliamo soltanto mettere in evidenza le qualità d’una ispirazione ancora incerta, che sembra aver lavorato intorno al minuscolo romanzo a saltuarie riprese, al-
meno ideali, apportandovi il frutto di esperienze complesse e contrastanti. Verosimilmente qualcosa di estrinseco, che si fa palese in quel tanto di discorsivo e di moraleggiante che rompe ad ogni passo il filo del racconto, e ne forma il fondamento e la chiave, sembra aver presieduto alla sua concezione. Sicché vengono a mente certi quadri, ai quali il pittore
scontento sembra aver lavorato a più riprese, colmando di nuove tinte e di particolari minuziosi gli spazî bianchi della tela da tempo interrotta. Non ci stupiremmo di apprendere, ad esempio, che la favola di Taddeo, la quale forma il nucleo evidente del racconto, sia stata concepita a parte, e che il filo di
essa, ripreso al principio e alla fine su di un piano di272
verso, cioè quello della vita e delle crisi di Oreste,
suo immaginario autore, debba ricondurci senz’altro alle stesse stanchezze e difficoltà che provò l’au-
tore vero sul continuarla, venendone così indotto a
trasportarla in un secondo tempo sul piano riflesso e figuratamente autobiografico. Ma queste supposizioni, oltre che azzardate e gra-
tuite, potrebbero
sembrare
addirittura
indiscrete,
sopratutto di fronte al segreto richiesto dallo pseudonimo leggendario che troviamo in testa al volumetto, se non insistessimo sul carattere di storia tut-
ta ideale e simbolica ch’esse nella specie debbono assumere. Alla delicata malizia dell’autore occorre che il critico opponga una malizia non meno accorta, se non vuole lasciarsi sfuggire l’intima natura e il pregio di questa operetta non semplice. A chiarimento del lettore potremmo riportarne, alla meglio, l’esile trama: l’amico Pilade, appena ab-
bozzato un ironico e fuggevole ritratto del giovine Oreste scomparso,
che per delicati accenni sembra
rivelarsi a volte come una precedente personificazione dell’autore stesso, ne riporta l’inizio d’un romanzo che questi lasciò incompiuto. Il romanzo è l’incredibile storia di Taddeo e della morte di Veneranda, storia che, da un tono di curioso umorismo
stupefatto, precipita alla fine in una specie di tragico metafisico che coinvolge lo stesso immaginario autore, divenuto addirittura complice del personaggio nato dalla sua fantasia. Il libretto termina con una lettera di Oreste a Pilade, in cui il primo narra appunto le conseguenze in cui è incorso per aver messo al mondo l’inquietante eroe del suo racconto. Nella pluralità dei sottili significati che si sprigionano
da questo
romanzetto
a chiave,
fatto come
quelle uova giapponesi lustre e chiuse l’una nell’altra che si trovano ancora nei vecchi bazar, uno sembra delinearsi sugli altri. Non è forse qui tentata una figurazione allegorica del dramma dell’ispirazione nascente, e dei rapporti fra la creazione dell’arte e
273
l’artista stesso? Dramma singolare e tutto moderno dell’esperienza estetica, che sembra voler sostituire quello antico dell’esperienza mistica, e che si compie anch'esso, forse, su quella «estrema punta dell’anima» dove le figure del linguaggio comune si rarefanno e si dissolvono, e dove tutto è vinto o perduto senza ripari. Questo è evidentemente il senso principale adombrato nella chiusa, dove il personaggio della favola scritta da Oreste, Taddeo,
im-
pazzisce, trascinando nel rimorso e nella caduta lo stesso suo imprudente inventore. Nell’ambiguità inevitabile di taglio cui doveva condurre una simile concezione, e nella molteplicità e coesistenza delle allusioni, era naturale che
l’autore si fosse ricordato del Gide di Paludes o del Cocteau del Potomak; del primo, per la grazia equivoca di certi tratti psicologici
e morali, del secondo
per il gioco estremo e leggero dei sottintesi. E si parla opportunamente di semplice ricordo, perché di certo l’autore s'è trovato a dovere uscire dal generico, e a dover risolvere una materia fluida e sfuggente in termini ben concreti. E deve anzi essersi accorto che la concretezza e la solidità dei risultati erano destinate a far da contrappeso inevitabile alla sottigliezza delle intenzioni. Così, mentre
in certe fles-
sioni del linguaggio pare richiamarsi ai tradizionali modelli dell’Ottonieri leopardiano e del Didimo Chierico, che dovevano riuscir presenti, almeno pa-
radossalmente, in un’opéretta di questo tipo, in molte pagine l’autore raggiunge una pienezza calma di stile, un «gusto di pittura pulita e lustra» che in qualche punto arieggia perfino il ricordo d’una natura morta fiamminga. Si veda, ad esempio, il desinare sotto la pergola, o la scena di Veneranda morta, che
ha le tinte accese e stupite e la linearità d’una allucinazione fissa. Linearità e precisione quasi di stampa che in tutta la favola di Taddeo riesce, anche nella descrizione di certi stati fisici e psicologici, a una
nettezza di significati a volte quasi crudele. Laddove 274
invece s’attutisce e s'annebbia quando il bisogno d’alleggerire il tono e di sfiorare allusioni astratte e distanti rende la scrittura più affrettata e gracile. I versi che chiudono il volume ci riconducono a considerare la personalità del misterioso scrittore, che, dopo essersi chiuso volta a volta nella triplice veste dei suoi personaggi, sembra anelare a rompere il guscio delle finzioni troppo consapevoli, e ad affidarsi all’inconscio e beato scorrere della vita rinnovellatrice. Quest'ultimo accento autobiografico fa sì che l’operetta, attraverso l’ambigua e a volte contrastante molteplicità delle intenzioni e dei significati, venga a situarsi dove deve esser situata, sul quadro
delle crisi acerbe e delle avventure intellettuali del suo autore, quadro che solo può spiegarla e compierla. La potremmo
considerare,
in certo modo,
come il tentativo di un piccolo Werther surrealista e metafisico, come un caratteristico testamento mora-
le di questa nostra adolescenza che troppo presto sembrò aver esaurito quella vita ch'è materia dell’arte, risolvendosi a cercare nello stesso gioco astratto e supremo dell’intelligenza e della sensibilità l’oggetto delle proprie figurazioni. Ora occorre ridiscendere; e l’autore non ridiscenderà a mani vuote; ma portando con sé una innegabile esperienza di stile, e un dono di visione esatta e lucida, che si tratta sol-
tanto di far fruttare. 1927
HO
ITALO SVEVO: «SENILITÀ»
Tutto lascia supporre che la polemica attorno al
«caso Svevo» non sia così presto terminata. La stessa necessità in cui si sono trovati i critici più avvertiti di «prender posizione», sia pure negativa, ci dà la diretta conferma di un interesse vivo e non transitorio.
Così la nuova edizione di Senzlità giunge opportunamente, a distanza di quasi trent'anni dalla prima, da
tempo introvabile, ad illuminarci sul valore della rivendicazione forse più singolare che sia avvenuta in questi tempi. La difficoltà, per l’opera di Svevo, di
un adeguato riconoscimento critico, deriva in parte dall’impossibilità di inquadrarla negli schemi del romanzo contemporaneo italiano, d’inclinazioni così diverse, in parte dalla sua formazione del tutto anti-
letteraria, che ci interdice di compiervi attorno quel lavoro di comparazioni, legamenti e raffronti che, per quanto in fondo indifferente al giudizio, ne è
spesso la necessaria preparazione. Peccato tuttavia che, dopo il saggio acuto ed esatto col quale Eugenio Montale, sull’ «Esame» (novembre 1925), rivelò al pubblico italiano questo scrittore,
i nostri critici e giornalisti si sien lasciati trascinare, il 276
più delle volte, da interessi polemici. Peccato, dicevamo, perché la stessa «antiletterarietà» dell’opera di Svevo, il suo accento di modernità senza legami con la tradizione, potevano offrire lo spunto ad interessanti considerazioni sul fatto che al nostro paese sia sempre mancato il romanzo, almeno inteso nel suo significato moderno e borghese. Allorché gli spiriti e i modi delle grandi letterature europee cominciarono a premere sulla sonnolenta provincia della terza Italia, essi non seppero dare che prodotti deteriori e rapidamente perituri, finché per opera di qualche raro avveduto non riuscirono talvolta ad innestarsi cautamente nel delicato fusto della nostra tradizione stilistica. E, in parte, quel che successe al
Verga e al miglior Fogazzaro. Così il romanzo, tipica forma letteraria moderna, non raggiunse che casualmente presso di noi la perfezione significativa e formale. A parte il fatto che una società nuova e priva di strati definiti, di gerarchie e di «ambienti» chiaramente riconoscibili non poteva costituire bastevole materia a una forma d’arte nata necessariamente come rappresentativa del costume e del fondamento psicologico di una nazione, l’indole stessa insieme
popolare
e aristocratica della nostra prosa, av-
vezza al tono aulico del discorso o a quello flessibile e famigliare della narrazione orale, mal resisteva ai
tentativi di forzarne le architetture ornative e rettoriche, di distruggerne i rilievi in un tono più sommesso e comune, di piegarla a seguire gli sviluppi formali dell’analisi e della descrizione interiore, gli stacchi, i ritorni, le necessità di composizione parti
colari al romanzo. La maggiore singolarità di Italo Svevo, scrittore triestino, sta appunto nel non aver sentito, neppure
inconsapevolmente, la necessità di un qualsiasi ricollegamento alla tradizione formale della lingua in cui ha scritto, forse per caso, i suoi libri. Se allo Stendhal bastarono a modello per la sua prosa gli articoli del Code civil, lo Svevo s’è accontentato
VATI
di
molto meno, del linguaggio scolorito e approssimativo degli impiegati di banca e dei commercianti triestini. Il fondamento che presso altri scrittori è rappresentato solitamente dall’elaborazione letteraria, dallo studio dei classici e dei moderni, sembra esser stato sostituito, per lui, da una riposata e attenta esperienza della vita, da una lucida, corrosiva scienza del cuore umano. Sicché, a ben guardare, le scorrettezze stilistiche, e a volte addirittura sintatti-
che e grammaticali del linguaggio senza storia di cui s'è servito, ci appaiono in certo modo indifferenti, di fronte alla forza vergine della rappresentazione quale si esprime nelle sue migliori pagine, davanti alla felicità di tono e d’impostazione, tutta inconscia, della sua narrativa, al tocco preciso e leggero con cui, in pochi tratti, egli riesce ad equilibrare
moti e situazioni psicologiche complicatissime. Giungeremmo perfino ad affermare, riferendoci alle osservazioni fatte più sopra, che questa inconsapevolezza, questa mancanza di radici sono state in qualche modo una fortuna per il nostro scrittore, avendo costituito per lui una semplificazione della materia che s'è trovato ad elaborare in forma d’arte. Egli è potuto in tal modo sfuggire completamente al pericolo rettorico, se non sempre a quello au-
tobiografico e documentario. Parlando di Una vita, il primo romanzo di Svevo, venne fatto al Montale di accennare addirittura, e sia
pure con le dovute riserve, al nome di Balzac. Ma se il richiamo era giusto, considerando l’ampiezza d’impostazione e la ricchezza davvero sorprendente delle figure secondarie di quel romanzo, non ritroviamo nulla, in quell’intimità mortificata e schiva, in quel
gusto di sviluppi segreti e di lente e insospettate erosioni psicologiche, che faccia pensare alle maestose amplificazioni dell’autore della Comédie humaine. Senilità, che potrebbe invece far ricordare Flaubert a chi ne considerasse astrattamente la materia, è invece lontanissima dallo spirito dello scrittore francese 278
per l'assoluta assenza, nel nostro, di qualsiasi preoccupazione d'’insistito realismo, anche se non si voglia tener conto di quanto nel Flaubert sia pertinace volontà di stile, e di come il suo verismo si risolva, il più
delle volte, in grandi quadri statici ed eloquenti. A noi sembra che i tentativi di qualche critico diretti a situare senz'altro questo libro nell’atmosfera naturalista che dominò nettamente nel romanzo europeo durante la seconda metà del secolo scorso non siano del tutto felici. Nulla, nello Svevo, che ci riconduca all’ideale prettamente romantico che, in un modo o nell’altro, si riscontra in tutti i naturalisti, e per il
quale azioni, caratteri e sentimenti si trasfiguravano il più delle volte in esemplificazioni e paradigmi di grandiosi principî naturali. Nulla nello Svevo che trascenda il gusto acre, e quasi diremmo
calligrafico,
della interpretazione psicologica, la notazione estremamente mobile e sinuosa delle azioni e reazioni più sottili dello spirito dei suoi eroi. Il gioco psicologico, fin dal primo romanzo, ci appare dissolvere le salde e inconfondibili
distinzioni
della natura,
re-
gnare solo in un'atmosfera creata attimo per attimo dal suo svolgersi. Ma l’ «analismo» di Svevo, più di costituire, come è stato detto, un esempio consapevole di quella letteratura «integralista» che, sotto diverse forme, s'è andata affermando in Europa con le tra-
giche allucinazioni di un Dostoevskij, con le figurazioni nostalgiche e fiorite di un Proust, con la gigantesca epica carnale di un Joyce, ci appare, almeno nei suoi due primi romanzi, del tutto nativo e involontario. I suoi eroi si confessano, insistendo sulle ombre
più segrete e impalpabili che sfumano i loro sentimenti, sulle più delicate contraddizioni della fantasia
e del desiderio, con la stessa semplicità con cui racconterebbero un affare o un’avventura di caccia. È l’autore li segue, intento a tradurre il più rigorosamente possibile la loro intima storia, coll’atteggiamento disilluso, staccato e fermo di colui che «guarda e dice».
279
Per ritornare a Senilità, siamo d’accordo con l’a-
mico Montale nel ritenere che si tratti del più riuscito fra i libri di Svevo. Fin dalle prime pagine l’accento, il tono compatto ed ispirato ci fanno convinti di una totale adesione al motivo, senza scarti e di-
vagazioni che lo eccedano. La storia dell'amore del suo protagonista Emilio Brentani per la bella e corrotta Angiolina vi è tracciata con mano ferma, attraverso i meandri
dell’illusione tardiva che, non
po-
tendo più dissolversi a contatto con una realtà fresca e variabile, finisce col cristallizzarsi in un pietoso ideale. Lo scrittore penetra col suo sguardo insieme commosso e implacabile nell’anima di questa sua creatura, ne sorprende gli ambigui trapassi, gl’inconsapevoli travestimenti d’ogni attimo, ia sua disperata volontà d’ingannarsi, creata dall’amore. Le altre figure del romanzo, benché spesso di un rilievo indimenticabile, vi appaiono sempre, per così dire, in funzione del protagonista: così Angiolina, che vi è idoleggiata nella sua perfezione fisica coll’occhio dell’innamorato
Emilio, e la cui natura inco-
sciente e malfida vi è appena sapientemente accennata quel tanto che valga a render più sensibile la capacità d’inganno e d’accecamento del suo amante; così lo scultore Balli, bell’uomo amato dalle donne,
amico e consigliere d’Emilio, di cui tuttavia questi ha talvolta motivo di ritenersi geloso; così la sorella Amalia, zitella sfiorita nella solitudine e nelle cure casalinghe, che segretamente s’accende del Balli, e,
non potendo tradurre nella realtà il sogno, si spinge fino a materiarlo nell’ebbrezza dell’etere, e sì spegne in un calmo delirio. Duplice senilità irreparabile, del Brentani e della sorella. La vita pertinace-
mente suscita ì suoi inganni come nella gioventù, ma ne rimane prigioniera, né può più liberarsene; l'illusione smarrisce la sua rigogliosa forza ma non rinuncia a vivere, appigliandosi ad ogni frattura della realtà per cercar vanamente di riprendere il suo perduto slancio. 280
Ma ogni tentativo di riassumere questo romanzo, che, spoglio di tutti gli ornamenti superflui di genere letterario, ha il naturale respiro della vita stessa immediatamente rispecchiata nella coscienza, sarebbe fatica vana. Qui, come in pochissimi libri moderni, gli arbitrî dell’invenzione appaiono perfettamente sciolti da un soffio di fantasia piena, che investe caratteri, figure ed episodi dando loro un mu-
sicale accento di convinzione, un senso di compiutezza plastica che non lasciano spazî o fratture fra l’atteggiamento del narratore e la materia narrata. Come
s’è detto, l’attenzione
dello scrittore insiste
principalmente sul rovescio e sul riflesso d’ogni sentimento, ma questo sottile interesse che prevale in tutto il libro non raggiunge mai quel disgregamento indefinito degli aspetti della personalità in cui affonda tanta parte della cosiddetta letteratura introspettiva, quando non la sostengano ragioni particolarmente liriche. L’umano atteggiamento di Svevo, la forza tutta inconscia della sua rappresentazio-
ne, la sua stessa povertà letteraria gl’interdicono di diventare un dilettante del caso psicologico, alla maniera, per esempio, elegante e tendenziosa del-
l’ultimo Gide. Nulla è così assente da questo romanzo come la tesi o la dimostrazione, anche vela-
ta. L'arte dello Svevo è appunto di accennare e di svolgere senza insistere, con una estrema castità e prudenza di tocco, anche quando la novità e la deli-
catezza della materia messa in luce indurrebbe altri scrittori a soverchie accentuazioni. Si leggano, a riprova, la storia del primo tentativo di Emilio di abbandonare Angiolina (cap. v1) e della successiva riconciliazione (cap. x), la scena di Emilio invocante
aiuto al Balli dopo aver sorpreso il delirio di Amalia (cap. xI1), e la finale idealizzazione di Angiolina, dove il tono, sollevatosi dalle insistenze dell’analisi, si
fa straordinariamente lirico e leggero, concludendo il romanzo in un’atmosfera di patetica e accorata sospensione. 281
L’accento appassionato e convinto di Senilità sì trasformerà,
a distanza
di venticinque
anni, nella
cordiale e squallida ironia della Coscienza di Zeno. Ma, se quest’ultimo romanzo è certamente il più singolare dei libri di Svevo, e se è pertanto facilmente spiegabile il successo avuto oltr’alpe dalla sua recente traduzione francese, successo già preparato dalla illuminata presentazione di scrittori come Benjamin Crémieux e Valery Larbaud, ci sembra che parecchio della forza rappresentativa, del tono compatto e musicale dei due primi libri sia andato smarrito in questa curiosa epopea dell’uomo moderno, preda ai mostri della scienza, nuova mitologia, ai succubi im-
maginarî che insidiano ad ogni minuto una coscienza troppo lucida e disfatta, divenuta unicamente spec-
chio a sé medesima. Il suo maggior difetto consiste in quel falso bisogno di totalità, inerente a tutte le forme autobiografiche, che ignorano i delicati limi-
ti della scelta estetica, troppo spesso riducendosi all’analisi arida e al «documento». Tuttavia non si può dimenticare che in questo romanzo, oltre a figure di bellissimo rilievo, esistono cinque o sei tratti che, as-
sieme a Senilità, costituiscono quanto di più riuscito abbia dato il nostro scrittore: sono appunto quelli dove il gioco dell’ironia si fa più mosso e drammatico, giungendo in qualche punto fino a toccare un comico arioso d’alta commedia, e ciò servendosi degli elementi più irrilevanti, alla maniera, tanto per
intendersi, di un Meredith. Ma si tratta di un comico a doppia faccia, di un sorriso ambiguo che vela
appena la paurosa immagine di una vita scoperta nelle sue segrete origini, scomposta nel suo inconsapevole meccanismo che ce la mostra tesa a fini irrealizzabili, e bisognosa, ad ogni istante, di gigantesche illusioni e di «falsi scopi» per procedere del più breve passo. Sopra questo flusso di sentimenti e di visioni ingannevoli, sopra il gioco perenne dei sottintesi e dei fantastici mascheramenti che assume ad ogni attimo la più semplice ragione per imporsi e 282
per trionfare, nessuna realtà essenziale, nessuna prospettiva immobile. Zeno, che teme d’aver offeso il padre durante la malattia che doveva condurlo alla tomba, ritorna ai conforti della religione: «Ritornai, e per molto tempo rimasi nella religione della mia infanzia. Immaginavo che mio padre mi sentisse e potessi dirgli che la colpa non era stata mia, ma del dottore. La bugia non aveva importanza perché egli oramai intendeva tutto ed io pure. È per parecchio tempo i colloquî con mio padre continuarono dolci e velati come un amore illecito, perché io
dinanzi a tutti continuai a ridere di ogni pratica religiosa, mentre è vero — e qui voglio confessarlo — che io a qualcuno giornalmente e ferventemente raccomandai l’anima di mio padre. E proprio la religione vera quella che non occorre professare ad alta voce per averne il conforto di cui qualche volta — raramente — non si può fare a meno». Così anche l’aspirazione ad una realtà assoluta, ad uno
stato di cose immutabile,
dove tutto abbia
un significato fermo e intelligibile, dove tutto si possa capire, non diviene altro che un moto dell’anima fra gli altri infiniti moti, uno smarrimento del cuore, una perduta nostalgia del sangue che dalla nascita è stanco di portarsi. E il fondo morale di Svevo,
l’acredine dolente e spietata del suo scetticismo ebraico, incapace di accogliere la vita se non dopo averla spogliata d’ogni ordine umano e razionale. Talvolta, attraverso la rattenutezza del romanziere,
che si è soltanto preoccupato di metterci innanzi volti e figure, e aspetti dell'animo individuale, giun-
giamo a respirare la desolata atmosfera da cui nacquero i suoi miseri eroi. Su questa informe marea di pensieri ingannevoli, d’illusioni enormi e necessarie, di vita che si esaurisce al di qua del bene e del male, del vero e del falso, ogni valore sommergendo
nel suo flutto instabile, non possiamo immaginare
un altro mondo, di forme e di certezze salde. Forse,
oltre la calma e disillusa attenzione con cui lo scrit283
tore l’ha fermata nelle sue parole, non possiamo concederle
di nostro
che una eguale, ottenebrata
pietà. 1927
NOTA 1929 Altra volta, scrivendo di Senilità, mi era avvenuto di ragio-
nare attorno al linguaggio dei romanzi di Svevo, e alla sua mancanza di radici tradizionali: m’illudevo così di spiegare la sua apparente povertà, le sue scorrettezze formali, il suo carattere dialettale, se dialettale poteva mai chiamarsi una ma-
teria verbale così sottile e duttile, e capace di riguadagnare in aderenza e mobilità espressiva le mancanze di esteriore risalto. Compresi allora che occorreva andare più in là: e intendere quale sia stata la fortuna di Svevo, per essere rimasta in-
differente nel modo più assoluto alla grande esperienza neoclassica che si chiuse, nella nostra letteratura, col D’Annunzio. Svevo restò triestino e moderno: si fermò, senza sforzo, al
punto dove la grazia del nativo color veneto confluiva con le delicatezze della psicologia nordica, e la profondità intuitiva slava. Egli non ebbe nessuna tradizione da disseppellire per esistere come scrittore: o, meglio, gii bastò la tradizione del-
la sua città, viva e operante intorno a lui: non provinciale né lontana nel tempo, bensì internazionale e attuale, d’una in-
ternazionale intimità che ben ci spiega la fortuna europea della sua opera. Così, lungi dal negarne lo stile (tanto varrebbe dunque negarne l’arte, se lo stile, per parlar metafisico, non è che il modo d'’esistenza dell’arte), occorre spiegar-
lo nella sua schiettezza antiletteraria, nella sua accettata povertà. L'origine dello stile di Svevo sembra consistere unicamente in una sostenuta attenzione, in un rifiuto a trascendere il
grigio mondo delle sue creature nella decorazione e nell’approssimazione letteraria. La chiaroveggenza di Svevo non è mai intellettuale, come in Stendhal, né istintiva o mistica al-
la maniera dei russi: il pathos e l’ironia le derivano da un tono di semplice constatazione, che lascia parlare i fatti narrati: tutt'al più, dove lo scrittore si scopre, è in una sorta di di-
vertita curiosità, come avviene allo scioglimento imprevisto e spettacoloso di alcuni dei suoi grandi episodi sentimentali: ad esempio, nella Coscienza di Zeno, la morte del cognato Guido. Più la sua materia sembra indifferente, e più potente se
ne rivela il senso di necessità: le infinite ramificazioni della
284
sua psicologia, il complesso gioco intenzionale su cui s’impernia il suo senso tragico della vita hanno l’accento della ve-
rità: a Svevo artista è bastato vivere e guardare. Potranno, è Vero, esser ricercate, anche nei suoi romanzi, influenze e de-
rivazioni; ma soprattutto ci colpirà il tono felice e nativo in cul essì sono scritti: tono, in tutti i sensi necessario, di un uo-
mo in cui l’esperienza meditativa si matura istantaneamente in immagini e in figure. In questo processo consiste, se non andiamo errati, la fantasia, intesa nella sua forma concreta.
La maggior singolarità dello stile di Svevo mi sembra consistere in quel suo modo di narrazione pacata e modesta, per cui la profondità espressiva rimane come velata sotto un’apparenza obbiettiva e familiare. In Proust l’arabesco psicologico è pretesto a una vasta orchestrazione musicale e pittorica, dove il ricordo vive per sé stesso, assunto in un ampio mo-
vimento di sinfonia: il «secondo piano» della narrazione è investito dalla piena luce dell’interesse dello scrittore, e mag-
giormente si concreta là dove la vibrazione del tono lirico è più intensa. In Svevo il procedimento è del tutto diverso: i suoi movimenti più suggestivi hanno sempre qualcosa d’inconsapevole: probabilmente lo scrittore non ebbe altra preoccupazione che di mettersi innanzi volti e figure, sentimenti e pensieri che si spiegassero obbiettivamente: e questi recavano impliciti in sé, fin dalla loro nascita, le loro ragioni
più profonde. La forza dell’arte di Svevo è tutta nella sua prodigiosa intensità di sguardo. A ben riflettere, sia il tono tragico che quello ironico le derivano dal contrasto fra l’atteggiamento d’una attenzione disillusa e ferma, e la gravità di
una materia vergine, portata per la prima volta alla luce. In questo atteggiamento a taluni è sembrato ravvisare una disposizione critica: avvezzi a una scrittura inarticolata e di puro risalto, com’è quella, essenzialmente lirica e descrittiva,
che dominò quasi tutta la letteratura romanzesca della terza Italia, scambiarono la maniera meditativa, la complessa mu-
sica sveviana per una sorta di capillare anatomia compiuta da uno spirito di psicologo dilettante sul corpo inanimato della realtà. In questo eterno paese dell’idillio, dove si trova sem-
pre qualche ingenuo per rivendicare i diritti del «cuore» nell’arte, conculcati
dall’intelligenza,
dove
non
c’è nulla che
faccia più paura dello spirito virile di critica e di distinzione, la finezza di Svevo, la sua compiuta assenza di rettorica, la consapevole ironia di cui il suo istintivo pudore d’artista si è compiaciuto di velare il suo fondo dolente e tragico, dovevano per forza parere a molti fredda analisi e tortuosa psicologia. Laddove io conosco pochi romanzi moderni dove, come in Senilità, i desolati inganni dell'amore
si esprimano
con
una musica più profonda e accorata, musica che ha fatto per-
285
sino pensare,
e a ragione, al melodramma
ottocentesco.
E
nella Coscienza di Zeno, dove i trasalimenti delle passioni e il loro illusorio fiorire in pensieri si riflettono con una chiarezza quasi lenticolare, e la linea psicologica sembra vivere per sé stessa con un rigore quasi direi calligrafico, si respira un’aria di grande commedia sentimentale, con svolgimenti addirittura scenici, che trovano
nella loro imprevedibilità una
sorta di stupefatto incanto. Commedia minuziosa della coscienza in solitudine, svolta sul piano diffuso e lento dell’analisi, ma dove il senso drammatico dei contrasti non è me-
no appassionante che se si svolgesse sopra le tavole d’un palcoscenico. Chi ideò il felice parallelo fra Svevo e Charlot non sapeva forse neppur lui di toccare così a fondo.
286
ADRIANO GRANDE: «AVVENTURE»
Ecco un volumetto destinato a scandalizzare i profeti del «costruttivismo», cioè di quell’arte che aspira ad organizzare e ad edificare, non importa se sul vuoto: un libro frammentario per eccellenza, dove si troveranno versi e prose, ritratti e narrazioni, pezzi
di bravura e di colore, assieme a osservazioni psicologiche e morali e a svaghi liricheggianti. Il Grande lavora, al pari d’altri giovani, sopra una materia in certo modo indifferente, mirando, più
che a costituirsi un «ambiente» poetico caratteristi-
co e riconoscibile per colore e risalto, alla semplice individualità del tono e dell’atteggiamento lirico. Aspirazione classica questa, propria, per un curioso paradosso, del nostro tempo travagliato e difficile, e particolarmente di quegli scrittori che hanno, come
il Grande, sentito il bisogno di piegare la loro indole nativa alle necessità dell’elaborazione critica. La quale appare evidente in lui, e perfettamente compatibile, checché si creda, con una natura giovanile
ed ispirata, che tuttavia ne abbisognava per limitarsi e riconoscersi. Materia indifferente e convenuta: non vorremmo DS
che si equivocasse su queste parole. Il rilievo fatto di sopra, anziché rivolgersi esclusivamente al lato formale, investe lo stesso atteggiamento del Grande di fronte alla vita, il fondo essenziale della sua poesia. Il Grande ci appare, come artista, in uno stato di perenne disponibilità, di accettata «vacanza», ch'egli stesso riconosce come l’unico compatibile con la sua ispirazione. Il senso più vivo in lui è quello del provvisorio, dell’avventura quotidiana, dove il fatto più semplice e consueto, come il sasso che affonda nell’acqua, increspa l’addormentato specchio del vivere in misteriosi cerchi. «Ed in fondo io vivo d’incidenti». Ogni limite che si opponga a questa sbandata adesione alla mobile realtà non può che venire dall’esterno, non può che essere obbligo e costrizione, «l’obbedire inutili comandi», dal quale il poeta,
ansioso di riconoscersi nei più fuggevoli segni delle cose, irresistibilmente portato ad «abitare l’istante»,
rifuggirà. «Ah se per vivere bastasse campare!». La poesia del «campare», la rassegnata riflessione musicale sopra le occasioni d’una vita perfettamente abbandonata al suo fluire, cioè passiva e contemplativa, nella quale il desiderio e la volontà stessa ap-
paiono indeboliti fin dall’origine, allo stato di affievolite velleità, questo è appunto il motivo dal quale il Grande trae le sue variazioni più delicate. E l’elaborazione ne sarà tanto più felice quanto più questi vaghi movimenti verranno colti alla loro naturale origine, nella loro istintività. Il che vale a dire che il
Grande — caso notevole fra gli altri giovani scrittori, nei quali si manifesta più facilmente il contrario — ci appare ancor più felice nei versi che nelle prose. Così in Autunno, dove la materia un po’ stancata e sfatta, in ragione
appunto
della sua labilità, aderisce
perfettamente al disegno del verso, il quale, pur non contravvenendo,
o quasi, alla misura
tradizionale,
acquista un respiro e una musica personalissimi. Così in Da riva, in Pazienza, nella Tomba verde, nell’ Allegoria dell'amore, e in altri componimenti, dove ci sor-
288
prende un insolito timbro di voce lieve e sfogata, prova della giusta intonazione del poeta col suo sentimento. E ci asteniamo dal citare, trattandosi in parte di liriche che i lettori del «Convegno» hanno già avuto la fortuna di leggere sulle pagine della rivista. Certo qualcosa come un pericolo d’eccessiva gracilità sembra insidiare questa poesia: pericolo tanto maggiore quanto più alte sono le mire del poeta, e quanto più egli sdegna di farvi fronte cogl’ingredienti della «letteratura» anche meglio intesa. Ma non son pochi i componimenti che ci si rivelano incompiuti, o nei quali, dopo inizii di bellissima ispi-
razione («Gorgoglian, strozzate dal gelo / fontane, le ore nel cuore», «Conosco notti quete come stanze / vi sognano le stelle ad occhi aperti»), si assiste
ad un improvviso ripiegamento, dove la voce si vela e s’assorda, e la conclusione ci sorprende come uno spegnersi inevitabile. Così in altre liriche, accanto a schiettissimi accenti, si nota qualche non lieve disu-
guaglianza di tono (Sosta, Notti d'estate). In altre ancora, come in Saluto, la rarefazione della materia poetica, venendo a toccare il suo culmine, il Grande
cade in immagini un po’ generiche («Giovinezza, danzante leggerezza / del tempo...») che alcune perspicaci risoluzioni gnomiche non valgono a sol levare. S’intende quali presupposti particolarmente rigorosi abbiano questi appunti. Poiché d’altra parte, se consideriamo le gravissime difficoltà che il nostro tempo oppone a chi s’accinge a crear poesia in versi, e il complicarsi delle approssimazioni letterarie a cui ci hanno assuefatti tanti poeti in difetto di vena,
ci verrà fatto di apprezzare ancor più la forza di limitazione del Grande, il suo atteggiamento onesto e scoperto nei riguardi dell’arte. Infatti è soltanto mercé l’attenersi ai motivi della prima ispirazione, e l’evitare scrupolosamente ogni forzatura in senso rettorico e amplificativo, che le sue migliori cose serbano una misteriosa grazia d’immagini e di movi289
menti, e quell’accento d’intima convinzione
che è
inseparabile da ogni poesia. Ci premeva però notare come sia stata indubbiamente la difficoltà di sostenersi a lungo all’altezza del canto pieno a indurre il Grande a ricorrere a quelle forme di divagazione prosastica che son quasi il naturale ripiegamento della lirica nelle epoche critiche e dissolvitrici. E chi voglia rendersi conto della fattura insieme leggera e complessa della sua prosa, dove si fondono spesso con eguale felicità il tono idillico e il meditativo, non avrà che a riportarsi ai «pezzi» più lirici, come Pastorale oppure Orizzonte in un caffé, o a certi «ritratti» come L’ineffabile o Il gaudente, dove l’ironia assume un'aria festevole e colorita, a volte quasi popolare, alla buona maniera classica. Meno fortunato
ci sembra invece il Grande nelle «moralità» del genere di EZiodoro, dove le grazie dello stile presuppor-
rebbero una materia più ricca, riferimenti e sottintesi più numerosi, e che, così come sono, non vanno
esenti da un certo qual sospetto d’«esercitazione». Da tutto il volume, di cui s’è già notato il semplice carattere di «raccolta», ci si rivela alla fine una fi-
gura singolarmente unita e significativa di scrittore, e, ciò che più importa, capace di sviluppi e di arricchimenti forse ancora insospettabili. Trattandosi di una personalità viva, se ne potranno anche ricerca-
re somiglianze e derivazioni, pur tenendo presente che, nel Grande, le influenze particolari appaiono quasi sempre dissolte e assorbite dalla forza nativa del temperamento.
Ma se, a ben vedere, Saba appa-
re presente nei versi, in qualche lieve modulazione, e se la lindura della prosa, più ancora che ai classici,
può fare in qualche modo pensare agli scrittori della «Ronda», lo spirito più fraterno a questo giovane ligure è senza dubbio lo Sbarbaro. Qualche spunto sbarbariano troviamo infatti nella prosa intitolata Specchi, che è, assieme a cinque o sei poesie, la cosa più bella del volume. Sono pagine colorite e mosse, dove la confessione si mantiene senza sforzo all’al290
tezza del canto, e dove il Grande giunge a comporre i suoi prediletti motivi autobiografici in una sorta di appassionata giustificazione della sua poesia e del suo destino. 1928
291
APPUNTI SULLA POESIA DI SABA
Se, come diceva Baudelaire, la maggiore preoccu-
pazione di un artista deve essere quella di «créer un poncif», e se è inevitabile, infatti, che ogni vera crea-
zione di poesia finisca col lasciar dietro di sé un insieme di schemi e di figure riconoscibili, le formule
e gli stampi in cui sembra sia stata per la prima volta colata la pura materia poetica, si sarebbe detto ad
un primo momento che l’opera di Saba facesse eccezione a questa regola. La quale tuttavia deve intendersi nel suo vero senso, perché, come
tutti san-
no, né schemi né formule stilistiche preesistono alla poesia. Essi non sono che i prodotti della ispirazione, la quale forma da sé le sue sponde e consolida le sue barriere, al modo dei fiumi, che si scavano len-
tamente l’alveo in cui scorrere. I primi libri di liriche di Saba davano l’impressione di una voce inesperta e volubile, di un «mezzo espressivo» ridotto al minimo, tenue vetro da cui si
sprigionava, unicamente alimentata dai succhi acerbi della vita, la fiammella dell’ispirazione. Puro atteggiamento autobiografico e passionale, spogliato d’ogni riflessione di carattere critico o estetico, che 292
culminava in Trieste e una donna, dove spariva persino quel leggero velo scolastico e classicheggiante che aveva soccorso il poeta nei suoi primi incontri con la Musa. Tuttavia, quel che perdeva in risalto e in colore, la sua voce acquistava in sottigliezza d’accento, in purezza di tono. E sono soltanto i misteriosi moti del sentimento a modulare frasi e versi che sembrerebbero presi nella loro forma più stracca e comune, ed invece son pieni di delicate inflessioni, quasi di una pudica testimonianza fatta dal poeta a sé medesimo, per cui la parola s’illumina d’ogni più fuggevole riflesso, come nella prima volta che fu pronunciata: Mio tenero germoglio che non amo perché sulla mia pianta sei rifiorita, ma perché sei tanto debole, e un caso t’ha concesso a me; o mia figliola, tu non sei dei sogni
miei la speranza; e non più che per ogni altro germoglio è il mio amore per te. Più tardi, con le Canzonette e le Fanciulle, il Saba ri-
tornerà al vago colorito neoclassico delle sue prime composizioni,
assunto
stavolta consapevolmente
e
divenuto stile e grazia figurativa. Questa è tutta la sua «letteratura», ed è agevole accorgersi di quanto essa sia in fondo innocente, e perfettamente articolata sull’ispirazione originale. Nelle cose inferiori,
come ad esempio nei Prigioni, qualche soverchia staticità descrittiva, rara in questo poeta tutto di trapassi e di movimenti, varrà a confermarci il caratte-
re paradossale e un po’ barbaro del suo «tradizionalismo», il quale potrà tutt'al più essere inteso nel suo
significato scolastico di nostalgia neoclassica. Questi rilievi non mirano che a circoscrivere il carattere immediato e concluso in sé di una poesia la quale, più di qualsiasi altra del nostro tempo, sembra esser stata maturata direttamente dalla vita, e in
cui la trasposizione del «dato» primitivo in realtà 295
fantastica è a volte quasi insensibile, tanto è affidata,
più che ai rigorosi sviluppi d’un particolare stile lirico, all’atteggiamento fondamentale del poeta di fronte alle cose, e come a una piena, ingenua convinzione nella innata nobiltà dei propri soggetti. Così si spiega quella specie di misterioso alone che irradia dalle sue più profonde composizioni, per cui
nasce nel lettore quasi un delicato dubbio che, più di un incanto dell’arte, si tratti di una inafferrabile
«qualità», e come di un singolare dono di trasparenza insito nello stesso contenuto poetico. Così sì spiega pure il tono del tutto umiliato e prosastico, privo di qualsiasi sonorità eloquente e letteraria, di ciò che nel Saba permane al di sotto del canto, elemento greggio e pura materia. L’autobiografia sembra esser stata assunta in lui, senza ulteriori elabora-
zioni, e quasi senza scelta, alla dignità di quel «luogo comune» classico, da cui solo può sorgere la lucida illusione del verso. Trieste, gli amori, gl’incontri e le figure della vita, le ambascie e le gioie, tutto in lui si ordina secondo la linea d’una continuata epopea lirica, tutto per lui deve acquistare quell’accento elementare e stupefatto che è proprio del motivo necessario di poesia. Colle
Canzonette l’opera del Saba, che è, nono-
stante le apparenze, tutt'altro che facile, e che opporrà sempre sottili difficoltà al critico che voglia rendersi conto del suo formarsi ed organarsi, sem-
brava essersi definita, aver raggiunto risultati più concretamente letterari e tali da offrire una immagine più netta e meno misteriosa e sfuggente del suo autore.
La spirituale compostezza,
la luce eguale
della maturità erano il clima adatto al nascere di quegli «scherzi» e di quelle figurazioni che, adagiandosi nel ritmo andante della canzonetta, vi ser-
bavano la grazia precisa e attenta, il gusto laborioso delle vecchie stampe. Ma, per quanto riguarda il la-
to più intimo di quella ispirazione, venne già notato quanto ingannevole fosse la saggezza luminosa e 294
giuocante che il poeta sembrava aver raggiunto: il suo carnale pessimismo, il suo senso fondamentale
di una esistenza umana rosa alle radici, vegetante sotto
il cielo basso
d’una
desolazione
millenaria,
mordevano da ogni parte le immagini del desiderio pacato e consapevole, rivelavano quanto pericolante fosse quel compiaciuto equilibrio, quella serena accettazione della vita nei suoi sapori insieme più amabili e più acri. Breve stagione: già gli ultimi componimenti di Figure e canti lasciavano intravvedere che un nuovo ciclo s’apriva per la poesia di Saba, dove si sarebbe assistito a qualcosa come una sintetica riassunzione, e quasi si direbbe a una trasposizione metafisica dei suoi primi temi, dove l’occasione e il mo-
tivo autobiografico rimanevano pur sempre lo spunto necessario alla creazione. Siamo così alla Brama, al Borgo, alla Cantata a due voci, al Canto a tre voci, all’ Uomo che oggi «Solaria» of-
fre ai suoi lettori. E la fase più alta e misteriosa che la poesia del Saba abbia mai attraversata. Il canto aleggia sopra una materia paurosamente esausta, dove la stessa gioia e la stessa ansia di liberazione sono ormai previste e definite fin dall’inizio, amaramente accolte come l’infinita tristezza della carne, retaggio inevitabile dell’uomo. Le «voci» che s’inseguono e contrastano nel cuore del poeta, insieme «antro di casti-
go» e chiaro specchio alle apparenze del mondo, dicono cose diverse, ma sono in fondo la stessa voce, quella della vita «viva eternamente», che nella breve
dell’uomo fugacemente si riflette. E l’avvenire e il passato s’identificano in un’attenzione crudele e ferma, che scopre d’ogni cosa l’aspetto immutabile, e
riconosce l’eguale ragione nell’errore come nella verità. La singolare passività che i migliori critici hanno riconosciuto nell’atteggiamento etico e poetico del Saba, il suo accento di biblica rassegnazione raggiungono qui il loro limite estremo, dove la passione più intensa agghiaccia e trascolora in un senso di quasi inumana sommissione al destino: 29
Le foglie morte non fanno a me paura, e agli uomini io penso come a foglie. Oggi i tuoi occhi vedono il cielo ed il mare, del nero
antro al contrasto, di un azzurro ancora più fascinoso; pensa che saranno chiusi domani. Ed altri s’apriranno simili ai miei, simili ai tuoi...
E il verso chiamato a sostenere questi gnificati, senza rinunciare all’acutezza e mo acerbità di definizione ch’è una delle lità del nostro poeta, si compone ora in
altissimi siquasi direprime quafrasi arcate
e solenni, che ne dissolvono la misura tradizionale in un tono di cui l’altezza è tutta interiore, e di cui
l’eco incantata e diffusa ricercheremmo invano nel puro suono delle parole. Sapienza di pause, di stacchi, di riprese, di rallentamenti: accorta semplicità di mezzi che è il naturale risultato di una esperienza umana e poetica così ricca e complessa, e che nel Canto a tre voci, attraverso la grazia stavolta davvero tassesca degli accenti, sembra addirittura toccare quell’assoluto, vagheggiato dalla poesia moderna, dove l’ispirazione, divenuta oggetto a sé medesima,
giunge a contemplarsi nel suo stesso movimento come in uno specchio. Anche a proposito di queste ultime composizioni al critico toccherà il compito non semplice di delimitarne i tratti più alti, e di notare quanto vi è in esse di pienamente raggiunto e quanto ancora vi permane di passivo e di puramente documentale. A noi non sembrerà di aver oltrepassato i limiti di questo omaggio se abbiamo indicato ancora una volta, e sia pure con tanta insufficienza, quali ci sembrano esse-
re i lineamenti sempre più chiari di un’opera che abbiamo affidata con sicurezza al Tempo. 1928 296
LORENZO MONTANO:
«IL PERDIGIORNO»
In questo libretto, che apre una eloquente lettera a Vincenzo Cardarelli e agli amici della «Ronda», Lorenzo Montano ha raccolto alcuni scritti d’occasione, in maggior parte pubblicati su quella rivista nei primi anni del dopoguerra. Moralità, apologhi,
«commenti alla cronaca», come dice appunto il sottotitolo di alcuni fra essi: pretesti ad argute divagazioni sulle cose di quel tempo ormai lontano, ani-
mate da uno spirito d’illuminato conservatorismo letterario e morale, che si rispecchia nella eleganza di uno stile cui una leggiera patina antica conferisce gravità senza appesantirlo. Per parlare compiutamente di Lorenzo Montano occorrerebbe distendersi a lungo: né qui è possibile. Bisognerebbe esaminare come, fra gli scrittori della «Ronda», egli sia riuscito forse, se non il maggiore, quello che più di
tutti doveva beneficiare di quella rinnovata coscienza della tradizione alla cui rinascita tanto ebbe a contribuire la rivista romana. Tuttavia la ricerca dello stile e l’aspirazione alla pagina perfetta non sopraffecero mai, nel nostro, l’attenzione umana e il
fecondo senso di modernità. Anzi, della fusione di 297
questi diversi interessi, e del tentativo di piegare un linguaggio di esigenze classiche all’espressione di una materia viva e attuale, com’è quella del romanzo di costume contemporaneo, è rimasto buon esempio quel Viaggio attraverso la gioventù, che è una delle cose migliori che ci abbia dato il neoclassicismo rondesco, e la nostra letteratura di quegli anni.
Per ora il tono più personale di questo scrittore, più che in un insieme d’ispirazioni ben definite, o in un particolare atteggiamento lirico che investa alle radici la materia della sua arte, ci sembra vivere a fio-
re dello stile, bisognoso di stendersi in figurazioni sciolte e pacate, ove psicologia e colore si adeguino alle esigenze d’un linguaggio composto e tradizionale. E l'aspirazione a un’arte riposata, espressa in forme destinate a durare, si confonde quasi nel
Montano colla sottile nostalgia di un’epoca lontana nel passato, e tuttavia presente in quella stessa aspirazione: epoca più che altro ideale, dove il senso innato del limite e del costume fioriva a quella naturale saggezza, cui poco giovano le predicazioni esorbitanti dei tempi moderni. Da questa idealità, per così dire, immanente, nasce l’accento di garbata iro-
nia politica e morale delle pagine del Perdigiorno (si leggano, in particolare, la Storia del ricco Michele o La morte della Sirena), che si concreta in una prosa pulita e attenta, forse un po’ sostenuta, non immemore delle precise eleganze di quel Magalotti che il Montano, come
sì sa, ebbe una volta a trascegliere e a
commentare. Ma nel Perdigiorno non mancano neppure pagine dettate da ragioni più intime e pressanti che non sia, per un artista, il commento disincantato e un po’ di-
lettantesco ai costumi del tempo. Per questo lo scritto Di noi superstiti, che chiude il libro, e che si richiama a un duro ricordo, come quello della guer-
ra, a noi sembra fra i più riusciti: l’accento di vita sofferta che spira dalle sue parole, e il senso d’una virile esperienza conquistata, fanno sì che il volu-
298
ma * PRESO.
E DI i.
299
# 7A
GIACOMO PRAMPOLINI: «DALL’ALTO SILENZIO»
Giacomo Prampolini, che è quel critico ed informatore di letterature straniere che ben conoscono i
lettori delle nostre migliori riviste letterarie, si rivela, con questo libretto, anche poeta. Né la cosa può destar meraviglia in coloro che sanno come ai nostri giorni l’esercizio della critica si accompagni volen-
tieri, negli scrittori giovani, con quello della poesia, quasiché l’artista, al suo primo affacciarsi alla vita delle parole, sentisse la necessità di chiarire a sé medesimo, attraverso l’esame riflesso delle altre opere,
le ragioni della propria stessa creazione. Questa consapevolezza è ben palese nelle composizioni del Prampolini, le quali, senza che ciò nuoccia per altro alla personalità del loro accento, rivelano nell’autore una vasta conoscenza della moderna lirica europea, nelle sue tendenze più avanzate, e sono im-
prontate a quello spirito di ricerca espressiva — evidente persino in alcune esteriori particolarità tipografiche — che è ancora ben lontano dal tramontare sul nostro panorama letterario.
La lirica del Prampolini si può in qualche modo avvicinare, per la sottigliezza delle vibrazioni di cui si
300
compiace, e la verginità delle sensazioni che anela
ad esprimere, a quella di alcuni surrealisti e intimisti francesi, come Fargue o Réverdy: benché rimanga in un campo d’espressioni assai più modeste e concrete, e si limiti a una sorta di commento
auto-
biografico di delicato sapore idillico ed elegiaco. Se in qualche punto essa può anche ricordare il primo Ungaretti, ancora lontano dall’organizzare le sue notazioni impressioniste nelle sontuosità funeree di un’ispirazione mallarmeana e petrarchesca, nulla ri-
troviamo, nel nostro, del particolare senso della parola che anima le prime liriche dell’Ungaretti, con-
ferendo loro un alone estatico e remoto che sembra isolare la sensazione nella sua purezza originaria. Se il Prampolini infrange lo schema del verso serbandone appena qualche vago accento melodico, e, rifuggendo da ogni eloquenza ritmica e verbale, riduce il tessuto del poema a una trama di sottili evocazioni, ciò non è che per liberare una vena delicata-
mente nostalgica, che si risolve in una specie di pudico commento
musicale alla vita vissuta: sicché, al-
la fine, questa poesia d’apparenze così moderne e outrées, come spesso avviene, si chiarisce nella schiet-
tezza d’una ispirazione idillica e descrittiva. Se avessimo maggiore spazio a disposizione, potremmo riportare per intero alcuni di questi brevi componimenti, dove la rassegnata malinconia di vi-
vere si è effusa in una pacata ed immaginosa musica. Poesia è anzitutto, nel Prampolini, potere di trasfi-
gurazione fantastica, placarsi dei moti del cuore in una sognante contemplazione delle cose: ma questa trasfigurazione deve, in qualche modo, imporsi al poeta, nascere
senza
sforzo dal seno
della vita
com’egli la sente. Così si spiega la sottile timidezza degli inizî e delle riprese del suo canto, che si riflette persino, all’esterno, nell’abolizione delle maiuscole, quasi a render più sensibile, con un espedien-
te tipografico, il tono di trasognato sottovoce con cui dev'essere pronunciato («questa è la notte che 301
s’intenerisce / per tutti i fiori nascosti; / le acque presenti nell’erba / fuggono via, cantano querule / come le gioie che non afferrai...»). E tutto il volumetto ha questo accento di fantasticante abbandono, e la grazia d’un’intimità che non ha nulla di forzato e di programmatico. Anche questa poesia ha i suoi pericoli: che sono quelli in cui spesso cade la lirica di forme moderne, e risalgono al verslibrisme. La stessa arricchita facoltà di suggestione induce talvolta il poeta a cercar d’esprimere troppo, e, per ciò solo, a esprimere troppo poco. Talvolta l'incanto d’una immagine, di una evocazione isolata, e come sospesa nel foglio bianco, è ingannatore: ed è bene diffidare dell’arte che condensa in un segno sul muro tutto l’azzurro dei cieli e tutto il giallo dei deserti. Da questi pericoli il Prampolini, artista avvertito, si guarda a dovere: non senza però qualche volta cadervi, quando la scarsa sensualità della sua materia verbale ve lo induce. Perciò preferiamo, nel volumetto, le poesie dove la
trama espressiva
è meno
diradata, e vi è maggior
coesione di ritmo e d'immagine. Vi sono, fra queste,
cose riuscitissime, e tali da porre il Prampolini in ottima posizione nella piccola schiera dei superstiti favoriti delle Muse. Non sì può infine passare sotto silenzio l'elegante edizioncina, che, limitata a poco più di cento esemplari, è stata curata con amore da Giovanni Scheiwiller, ed è, nella sua semplicità, un buon esempio di
quella rinnovata arte editoriale che si va auspicando per il nostro paese. 1928
302
GIACOMO PRAMPOLINI: «SEGNI»
Uno degli esteriori — e non solo esteriori — caratteri distintivi dell’opera di Giacomo Prampolini è la modestia. Qualità abbastanza rara, oggi, tra i letterati: tanto rara che, pur essendo oggetto d’un giudizio che spetta piuttosto al moralista che al critico, non è possibile fare a meno, ove la si ritrovi, di segnalarla. Del resto, non è detto che la modestia, al pari delle altre virtù cristiane, debba per forza vivere confinata nella sfera dell’etica, ed essere del tutto indiffe-
rente a quella della poesia. In questi tempi in cui anche l’artista più riservato indulge oltre il dovuto al reclamismo, il Prampolini si mostra del tutto incurante di attirare sopra di sé l’attenzione: che non è
certo una buona ragione per negargliela. L’opera creativa di questo scrittore — un volumet-
to di brevi liriche e uno di frammenti — ci appare in qualche modo fiorire all’ombra della sua folta produzione di storico e d’impeccabile traduttore, quasi sottile arbusto che, pur nella genuinità dei suoi frut-
ti, reca il sapore indefinibile delle più diverse e lontane culture che hanno impregnato il suolo da cui trae le sue radici, dei molti innesti che l’hanno fe-
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condato. Ma non si fraintenda: nulla, in questa poesia timida e casta a volte come un sospiro, ha il benché minimo sapore di esotismo. Del resto lo stesso Prampolini traduttore e poliglotta, se anche oggi lo troviamo in compagnia degli Olandesi o addirittura degli Islandesi, e domani lo troveremo fra gli Aztechi o magari fra gli Ottentotti, ha il dono di render tutto vicino e familiare. Le canzoni latine medievali ch’egli ha raccolto per un elegante volumetto della collezione Scheiwiller (Quinquaginta carmina medi aevi) sembrano,
nella sua scelta, dettate ieri. E, se
l’Unione tipografico-editrice torinese gli ha affidato il compito di una vasta Storia universale della letteratura (di cui sono già apparse le prime dispense dedicate alle letterature orientali), potete star sicuri che i lirici della dinastia Han o gli epici indiani, nella sua chiara e arguta esposizione, vi riveleranno un volto umano e fraterno che distanza di tempi e singolarità di razza e di tradizione non varranno ad oscurare. Gli è che nel limpido e ordinato intelletto del Prampolini difficilmente può trovar posto la manîa moderna dello strano e del mostruoso, la febbre di eso-
tismo che agita ancor oggi tutte le letterature, fino a farle ricorrere all’aiuto del microscopio per cercare l’esotico nel quotidiano e comune, quando quello del raro e del lontano non basta più. Così, se anche
le liriche del precedente volumetto, Dall'alto silenzio, rivelavano, nel gusto e nelle particolarità tecniche, lo studio e l’influenza della poesia europea — e non sol europea — più moderna
ed ardita, la sua ispira-
zione finiva col chiarirsi in un clima di idillio nostalgico e familiare del tutto privo d’intellettualismi. Questo nuovo libretto, Segni è concepito in forma di diario,
e composto
di frammenti,
annotazioni,
brevi liriche, poemetti in prosa. Esso può anche ricordarci — oggi che il frammento è fuori moda — scrittori come il Soffici e lo Sbarbaro, dove il gusto dell’impressione immediata e mordente, il senso del
paesaggio — intendendosi paesaggio nell’accezione 304
più raccolta e sensuale del termine -, meglio si espresse. Segni: semplici orme del tempo sulla spiaggia del vivere, testimonianze d’una solitudine calma e contemplante, rovesciata al di fuori, che soltanto
nelle forme della natura e nel variare delle stagioni e delle apparenze sensibili ritrova, quasi fissata in simboli, la propria essenza. Essi ci narrano d’una serena convalescenza marina, abbandonata al fluire dei lenti pensieri, al lento trapasso delle ore; inten-
ta ad accogliere senza impazienze le voci del mondo esterno nella loro più sottile, indefinita vibrazione. Un diario, insomma:
ma un diario da cui si trova
bandito tutto ciò che di troppo autobiografico ed accidentale, di «troppo umano», è solitamente legato ad una tale forma letteraria. In cui la vita, anziché realisticamente fissata nel «fatto personale», si trova
liricamente scomposta nelle sue pure tonalità sentimentali: il che appunto le consente di raggiungere quel particolarissimo accento di verità e d’intimità. Perché l’intimità è appunto il dono di questo libro modesto: un delicato accordo del sentimento con se stesso, che violenza di passioni o contraddizioni del pensiero non turbano, e perciò meglio dispone la sensibilità all’imprimersi pacato delle immagini, al diffondersi del loro tenue alone di medi-
tazione e di favola: «Sotto la luna bianche figure danzano agli scogli, bianche mani s’aggrappano e ricadono. Sul mare è posato un giglio. Un calice s’apre all’orizzonte,
lo stelo s’allunga sino alla riva»;
«Grappoli sonnacchiosi di apine rosse e nere curvano gli steli sul ciglio della strada. Fiorisce il rovo, co-
pre il vecchio muro e profuma intorno. Rovo rovente, muoiono le rose dei giardini, muore lo stesso languore del sonno; tu solo cresci e luccichi nell’alito infuocato della roccia. Pigrizia addormentata,
biso-
gno di vedere steli diritti e crescere con loro...». Il paesaggio marino domina in queste pagine còlto in tutti i suoi aspetti, con tutta la violenza dei suoi colori, del suo sole e del suo salso, con tutto il vago
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sperdimento in cui sa indurre l’anima: «Il mare invoglia, persuade col potere di ciò ch’è barbaro e primitivo. Alla riduzione delle vesti necessaria per accettare l’invito a comunicare con lui, segue la semplificazione dei pensieri: una linea retta, il solco del nuotatore, per le acutezze profonde; una linea cur-
va, sinuosa, contorno di acque, pei riposi delle indolenze e divagazioni. Ma lè ore marine covano lentamente le sterilità. Molto si scopre di vano nella vita propria e degli altri, e a ciò si rinuncia, come inu-
tile a dirsi; ma la semplicità essenziale, per parte sua rimane inesprimibile». Ed anche ciò che non è paesaggio o meditazione sul paesaggio, certe brevi poesie in versi che ci richiamano a Dall'alto silenzio, certe favolette, dialoghi e aforismi, appaiono in sostanza ispirati anch’essi dalla vasta presenza dell’elemento marino, dalle tacite realtà naturali, dalle va-
riazioni del cielo e dell’ora. La giustezza del tocco, la capacità di confidenza con se stessi — che è in pari tempo scrupolo estetico e qualità morale — costituiscono dunque il miglior pregio di questo libretto. Intimità rara al nostro tempo, in cui predomina il gusto d’un’arte volitiva e programmatica, spesso sforzata nei suoi risultati: sic-
ché può avvenirci di stabilire un rapido raffronto fra certe recenti forme narrative e liriche, dove l’impe-
gno, il cosciente «sfruttamento», da parte dell’autore, della propria materia, è così insistito e palese, e
questa tranquilla felicità paga di sé, per cui l’arte, più che fatta per un «lettore», anche anonimo ed astratto, appare bisogno del cuore che in sé s’appaga e s’esaurisce: diario, notazione breve, semplice modo di commemorare a se stessi il sereno incanto delle horae subsecivae. Con tutte le limitazioni che questa concezione estetica comporta, non è chi non provi un certo refrigerio — stanco della crisi, della questione sessuale, dell’introspezione o magari del-
l'inversione — a seguire, dette da una voce così discreta, queste solitarie e assorte «avventure dell’ani-
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ma», che ci riportano, oltre la commedia o la tragedia della storia e del tempo, alla semplice quiete dello spirito immerso nella fresca natura, alla grazia sia pur fuggitiva della contemplazione. Non tutte le pagine del Prampolini, ad onor del vero, sono egualmente felici. Talvolta la linearità dell’espressione, il suo appagarsi di rapidi enunciati, conferisce una certa stanchezza al tono complessivo. Così la gracilità di certi ricami lirici e fiabeschi — echi,
a momenti, di poesia orientale o di moderne
letterature nordiche — appare un po’ leziosa e pericolante verso il genere sentimentale. Allora la parola, che nel miglior Prampolini dà sempre suono esatto ed efficace, si fa incolore e generica, e quasi di una
poeticità presupposta, come quella di certe traduzioni prosastiche di liriche straniere. Perciò preferiamo, nel libro, le pagine di diario marino e la coloritissima Guida e storia del villaggio, mentre meno ci convincono i poemetti in prosa e in genere i tratti più elaborati e compositi. La tendenza ad una sorta di ricercatezza un po’ mièvre è il maggior pericolo da cui il Prampolini debba guardarsi. Ma son difetti: e nessuno ne va immune. Quanto al lettore, esso non potrà non ritornare al breve volume, dove innegabil-
mente si esprime un’anima di poeta. 1932
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POETI ITALIANI IN FRANCIA
L’ Antologia di Jean Chuzeville; il Panorama di Crémieux; ora questa nuova Anthologie de la poésie italienne contemporaine, dovuta alle sagaci cure di Lionello Fiumi e di Armand Henneuse, nonché di altri benemeriti italianisants, come Pierre de Nolhac, Eugène Bestaux, Paul Guiton, Marthe-Yvonne Lenoir, Henri Marchand, Alfred Mortier, Maurice Muret, Edouard Schneider. Con questi libri, ed altri saggi e traduzioni, pubblicati a distanza di tempo, si
va annunciando in Francia un interessamento alle cose nostre che non
è soltanto dilettantesco, ed è
probabilmente destinato a dar nuovi frutti. Non staremo a distinguere quanto in tale interessamento sia determinato da profonde esigenze e affinità culturali, e quanto invece debba in esso genericamente
attribuirsi alla febbrile attività che si nota da qualche anno, in quel paese, nel campo degli studi stranieri, per cui sono andati sorgendo specialisti d’ogni sorta e d’ogni colore, intenti a dissodare i terreni più diversi: fenomeno che, se è segno d’una vasta civiltà letteraria, non dà molto affidamento per quanto riguarda la durata e l’impegno dei suoi molteplici in308
teressi. Ad ogni modo traduzioni e antologie, monografie e saggi, oltre al particolare contributo critico che possono arrecare ai nostri studi, hanno, per noi italiani, un’altra e più singolare importanza: essi ci offrono nuovi punti di vista, prospettive d’assieme insospettate, ci danno la misura di quella che potrebbe chiamarsi la vitalità internazionale della nostra
letteratura
contemporanea.
E, sopratutto,
ci
portano l’eco di giudizi e di preferenze disinteressate nel senso pieno della parola. Dura ancor oggi lo scalpore destato dal Panorama di Crémieux. Eppure, a parte le inevitabili manchevolezze, si trattava di un libro onesto, oltre che singolarmente acuto nelle li-
nee generali e in molti giudizi. Stavolta bisogna andar riconoscenti a un italiano trapiantato a Parigi, che è anche quel delicato poeta che ben conoscono i lettori delle nostre vecchie riviste d'avanguardia, Lionello Fiumi. Ed è bene estendere la nostra riconoscenza anche ai suoi collaboratori francesi, che hanno contribuito coscien-
ziosamente a tradurre, in questo grosso volume giallo, liriche di ben quarantatré poeti contemporanei. Compito dei redattori di questa Antologia è stato di offrire un panorama, il più possibilmente largo e compiuto, della «merveilleuse floraison lyrique», che sarebbe sorta, in Italia, nel primo quarto del presente secolo. Non staremo a discutere, qui, se ta-
le espressione si addimostri o meno esagerata, in relazione agli effettivi risultati delle scuole di poesia che si contesero l’eredità della triade famosa, Carducci, Pascoli e D'Annunzio, la quale ebbe la funzione di perpetuare, nei primi anni del ‘900, la grande tradizione umanistica, rettorica e decorativa dell’ultimo Ottocento italiano. Certo si è che, almeno fino alla guerra, la «lirica pura», in versi o in prosa,
serbò nella nostra letteratura la posizione predominante che del resto ebbe sempre nel passato: e il senso troppo letterale in cui vennero interpretate le
nuove
idee estetiche
contribuì,
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in sede
teorica, a
mantenere quel primato che soltanto oggi sembra compromesso dal risorto interesse dei nostri scrittori giovani verso le forme narrative, interesse determinato almeno in parte da esempi stranieri, e dalla moda, di solito transitoria nel nostro paese, dell’oggettività e della psicologia. Com'era facile prevedere, dall’ Antologia è stato escluso anche il D'Annunzio. Esclusione naturale, se
si tiene presente, oltre al discutibile criterio cronologico, l’indifferenza dei nostri giovani verso l’opera dell’Abruzzese, e la profonda diversità di clima morale che ci divide ormai irreparabilmente da essa. E che tuttavia apparirebbe non del tutto giustificata se si pensasse all’ultimo D'Annunzio, quello della Leda e dei diarî, scritti che ci hanno rivelato, libero alme-
no in parte dalle imponenti superstrutture estetizzanti e decorative, il nucleo più intimo dell’ispirazione dannunziana,
scoprendovi insieme i suoi sot-
tili legami con le preoccupazioni più vitali della nostra nuova poesia. Qualche pagina, scelta fra le più ispirate e leggere di quei volumi, avrebbe trovato, nell’ Antologia, il suo posto adatto, e avrebbe contribuito ad illuminare lo svolgimento della nostra lirica dai primi anni del secolo ad oggi. E vero che i compilatori hanno preferito attenersi alla sola «poesia in versi», escludendo rigorosamente, con la sola eccezione dello Sbarbaro, le forme della prosa liri-
ca e del «saggio»; a noi sembra però che la regola avrebbe potuto sopportare qualche eccezione ulteriore, anche senza cadere nelle esagerazioni di una famosa antologia nostrana, la quale accolse, com’è
noto, pagine e frammenti di prosa che con la lirica nulla avevano a che vedere. Il Fiumi e i suoi collaboratori fanno risalire la data d’inizio della nuova poesia italiana approssimativamente al 1903, ossia alla pubblicazione della Armonta in grigio et in silenzio del Govoni; e basta invero la scelta dal punto di partenza a farci consapevoli dei criteri che li hanno guidati nella loro opera. Del 310
resto nella stessa prefazione essi insistono nel rivendicare le benemerenze dei cosiddetti «crepuscolari» nel rinnovamento della nostra lirica: corrosione degli schemi metrici e dei luoghi comuni tradizionali, uso dei timbri attutiti, delle tinte velate; inaugurazione del verso libero; abbassamento dei toni soste-
nuti e difficoltosi della nostra poesia classica, ed eliminazione dei suoi surrogati eloquenti; riavvicinamento del verso all’immediatezza della sensazione e ai motivi della vita reale. E certamente bisogna riconoscere questo allargamento dei confini della poesia, e dargli il suo giusto valore, come inizio d’una
esperienza ch’è ancora ben lontana dall’esser terminata. Bisogna però aggiungere che si trattò di un rinnovamento rimasto in buona parte nell’ambito «culturale», e che soltanto di rado acconsentì a tra-
dursi in forme concrete e durature. Le convenzioni di carattere letterario che guidarono i «crepuscolari» furono spesso della specie peggiore: e i loro libri, sotto apparenza di novità, spesso non rappresentarono che una liquidazione degli scampoli, spolverati e rimessi a nuovo, del dannunzianesimo e del pascolismo. Fenomeno provinciale, soltanto pochi dei poeti che ad esso contribuirono riuscirono a superare la fondamentale passività della loro ispirazione. La loro più grave malattia fu la debolezza di quella fibra che invece non mancò ai loro successori futuristi, ai quali bisogna se non
altro riconoscere
un
certo potere vivificante. Questo spostamento del punto di vista, leggermente arretrato in modo da colpire in piena luce un fenomeno letterario che devesi considerare ormai esaurito e chiuso, è forse il maggior difetto di questa Antologia, pregevolissima per altri versi. Inoltre la troppo larga parte fatta al «crepuscolarismo» e suoi derivati è atta a diffondere, sul panorama generale della nostra lirica contemporanea, una certa blanda
atmosfera di letteratura provinciale e di vecchie influenze simboliste che non corrisponde del tutto a 311
realtà. D'altro lato, bisogna pur riconoscere che l’influsso dei crepuscolari è stato fino ad oggi l’unico che si sia fatto sentire, dopo quello di Carducci, Pascoli e D'Annunzio, sopra una larga zona della nostra cultura: dovendosi invece circoscrivere d’assai quello della «scapigliatura futurista». Perciò l’angolo visuale di cui abbiamo parlato, se da una parte induce, per così dire, a un abbassamento e un appiattimento di rilievi, e falsa perciò la fisonomia del panorama, si dimostra dall’altra abbastanza esatto per quanto riguarda, continuando nella metafora, le li-
nee di superficie. Naturalmente, i criteri con cui poteva esser com-
pilata un’antologia di poesia straniera tradotta dovevano inevitabilmente esser dettati più da ragioni culturali che da ragioni puramente estetiche: né qui è d’uopo insistere sulla vecchia questione della minore o maggior possibilità delle traduzioni, quando, trattandosi
della lirica, ossia della forma
letteraria
più strettamente aderente al mezzo sensibile con cui si esprime, tale impossibilità risulta nel modo più assoluto. Piuttosto, a voler introdurre nel campo della
poesia una distinzione schematica del genere di quella inaugurata dal Berenson per la pittura, si potrebbe affermare che, in una traduzione, serbano qualche rilievo i valori illustrativi, mentre si smarriscono totalmente ivalori «tattili», cioè, nella specie,
quelli propriamente lirici. Perciò un’antologia come quella del Fiumi, diretta a fornire al pubblico francese un’idea approssimativa della nostra poesia in questo primo quarto di secolo, e dei suoi generici toni e coloriti, assolve, sal-
va la riserva fatta sopra, egregiamente il suo compito. Offrendo per ogni parte larghezza di documentazione, il libro dà al lettore avveduto il modo di se-
guire, nelle sue linee principali, lo svolgimento della lirica postdannunziana, e il sorgere e il decadere tanto dei suoi schemi formali quanto dei suoi motivi morali e sentimentali. Troviamo
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così, accanto ai
crepuscolari, la pleiade dei nostri vecchi futuristi, i quali, per aver perso qualche recluta per istrada, non si dimostrano meno baldanzosi. Non mancano le poetesse, la Negri, la Guglielminetti, la Aleramo; e i poeti della vecchia scuola che si sono in seguito orientati verso l’«esprit nouveau», Bontempelli, Novaro, Borgese, Lipparini. Il movimento della «Voce» è rappresentato principalmente da Sbarbaro e da Jahier; quello «avanguardista» da Fiumi, Ravegnani, D'Alba, Villaroel, ecc.; il «ritorno alla tradizione» da
Mastri e da Gerace. Infine è documentata quella poesia attenta e difficile, frutto di una complessa disposizione lirico-discorsiva, che nacque nel nostro paese dall’approfondita coscienza del problema critico, e che aspira a ritrovare il limite della tradizione attraverso le forme indirette e i toni evasivi dei moderni. Così, accanto a Cardarelli (di cui però è stata dimenticata
Adolescente),
troviamo
il Bacchelli
dei
Poemi lirici e di certe brevi poesie gnomiche: e infine alcune delle rare composizioni in versi del Cecchi, dove le qualità di essayste ironico e fantastico di questo scrittore si concentrano in una sorta di rigoroso ed estatico florealismo. Come era tuttavia inevitabile, sono proprio i poeti di maggior impegno, e perciò più scarsi di elementi documentari e illustrativi, quelli destinati fatalmente, attraverso la traduzione, a rimanere in pe-
nombra. Saba, ad esempio, per quanto tradotto con attenzione (ma non abbastanza rappresentato), smarrisce del tutto i suoi accenti più alti, riducendosi addirittura a un compositore di «quadretti di genere». Meglio si salva Palazzeschi, che resta però
affidato alle qualità secondarie ed esteriori del suo talento di fantaisiste. Ungaretti, nella sua duplice ve-
ste di poeta franco-italiano, è rappresentato da alcune liriche stese direttamente in francese e pubblicate su «Commerce»: e ci ripropone ancora una volta il problema complesso della sua poesia, che, partita da una sorta di impressionismo metafisico, si va
DI
orientando verso le risoluzioni supreme della Musa classica idealmente ricongiungendo Mallarmé a Petrarca. Uno dei pregi non minori dell’ Antologia è poi costituito dal fatto ch’essa ha saputo evadere dall’ambito delle forme consolidate, e, a render più vivace
e denso d’avvenire il panorama della nostra lirica contemporanea, vi ha incluso i rappresentanti delle ultime tendenze, i nomi più nuovi e più discussi. Possiamo così renderci conto di come i nostri lirici più recenti abbiano assorbito ed elaborato i modi tecnici e la materia sentimentale dei loro predecessori, tentando di elevare alla sintesi del canto i toni
smorzati e prosastici delle esperienze ultime. Consapevolezza critica e aspirazione a una classicità difficile e tutta interiore, questi sono i segni da cui sì pos-
sono approssimativamente riconoscere le nuove aspirazioni. Scorrendo il volume, il nostro sguardo si sofferma, tra gli altri, sui nomi di Grande e di Tit-
ta Rosa, quest’ultimo ancora ondeggiante tra l’esperienza avanguardista e gl’incanti pacati d’una ispirazione bucolica; e infine su quello di Montale, che, partendo dai modi della nostra lirica frammentaria,
è giunto a conseguire una poesia d’intensa concentrazione espressiva, dove il canto acquista essenzialità attraverso la corrosione, e dove si libera un sen-
so fondamentale di ansietà cosmica che vale a porla fin d’ora tra le più significative del nostro tempo. I poeti esclusi dall’ Antologia non sono numerosi. Né possiamo farne troppo grave appunto agli egregi compilatori, che, nella prefazione, non mancano di intrattenerci sulle difficoltà incontrate nel loro non lieve compito. Segnaliamo tuttavia, per debito di recensori, i principali: Boine e Onofri tra gli scomparsi. Fra i viventi Rebora, Papini, Soffici, Malaparte e qualche altro. Ma, anche coi difetti che abbiamo segnalato, e che erano in buona parte inevitabili, l’antologia di
Fiumi e Henneuse non cessa di essere un libro de85,
gnissimo d’attenzione anche in Italia, oltreché oseremmo dire indispensabile per il francese colto che voglia procurarsi un primo largo orientamento nel
campo della lirica italiana contemporanea. 1929
FI
G. TITTA ROSA: «IDILLI RUSTICI»
Dopo le Feste delle stagioni, gli Idilli rustici. Davanti alla prosa di un poeta, è naturale che il critico cerchi di identificare il punto d’innesto della prosa stessa col verso, e cerchi di stabilire quale funzione, nel modo d’operare del poeta, abbia rappresentato il ri-
correre al tono oggettivo e descrittivo della narrazione. In questi ultimi tempi i lirici si sono rivolti di solito alla prosa come ad una forma «di ripiego», co-
me ad un modo minore di sviluppare la loro ispirazione, cui l’epoca difficile interdiceva, nella maggior parte dei casi, il distendersi sull’alto registro del canto. L'origine della nostra critica più avvertita e sensibile, che sembra quasi collaborare con la poesia come coscienza delle sue più nuove e complesse tonalità, non ha origine diversa. E alcuni poeti, pur di
saltare il fosso della critica, non hanno esitato a gettarsi in braccio all’arte narrativa, al romanzo o alla
storia. Il Titta Rosa è uno di questi: e le osservazioni fatte sopra devono intendersi anzitutto rivolte a dare un primo abbozzo del suo peculiare carattere d’artista: e ad avvertirci che si tratta di uno scrittore estremamente consapevole del proprio stile e del 316
proprio ideale d’arte, i cui risultati mirano evidentemente più in là di quanto sogliano mirare quelli dello scrittore di semplice vena e istinto. Se il termine non fosse oggi così sospetto, al Titta Rosa bene spetterebbe la qualifica di letterato, nel senso antico e nobile della parola. Con le Feste delle stagioni il poeta tentava di uscire dall’esperienza avanguardista, che pure aveva dato fresche vibrazioni ai suoi precedenti volumi di liriche, per distendersi in forme più elaborate, in com-
posizioni dove il periodo ritmico più unito e complesso sembrava a momenti anticipare il ritorno agli schemi metrici tradizionali, e un pacato senso della
natura era assunto in ampi quadri di georgica solennità, che lasciavano intravvedere un’aspirazione
a quel «luogo comune» classico, da cui le acerbe determinazioni della nostra poesia moderna, a fondo strettamente autobiografico, ci tengono ancora lon-
tani. Libro di trapasso, pieno d’oscillazioni, ubbidiente a modi espressivi a volte nettamente contrastanti, le Feste delle stagioni testimoniavano di una crisi. Il poeta lavorava in superficie, rinunciando a de-
terminare più strettamente la sua personalità stilistica e morale, e appagandosi di addolcire la sua vena a fonti diverse. Da questo atteggiamento un po’ svagato derivava al volume un’attenuazione del tono poetico complessivo, che finiva collo sminuire gli effettivi risultati conseguiti, diffondendovi
un che di
sperimentale. Con gli /dilli rustici siamo ancora, sotto un certo aspetto, nel campo sperimentale, ossia assistiamo ad
una preparazione di elementi che sembrano esigere sviluppi ulteriori: ma il segno dello scrittore vi è forte quanto nelle sue migliori poesie. Nutrito di classicità, preoccupato della tradizione, attaccato alla sua terra abruzzese, era ovvio che il Titta Rosa dovesse
guardarsi dalle invenzioni sottili e dai complessi arabeschi psicologici della nostra ultima narrativa, su
cui influiscono potentemente i grandi esempi stra317
nieri moderni, e si restringesse ad un campo più limitato quanto per lui più effettuale. Una certa precisione naturalistica, che a volte giunge fino alla minuzia, era probabilmente necessaria a dargli il senso di lavorare sopra una materia più compatta, e a dargli modo di porre le prime fondamenta alla sua futura opera di prosatore. Fin dalle prime pagine ci sorprende una rappresentazione acutamente insistita e colorita, fatta di robusti rilievi, di notazioni particolareggiate, dove il «tempo» del raccontare è come sospeso, e l’evocazione tende al quadro. Nelle prime prose che compongono il volume la narrazione è più che altro un pretesto per rendere la fisonomia e il valore del paese d’Abruzzi ove si svolgeranno le vicende dei due o tre racconti propriamente detti. E dal paesaggio, spesso colto con una precisione di dettagli addirittura topografica, sì sviluppano a poco a poco figure che tengono ancora qualcosa della rigidità naturalistica degli alberi e delle case. Ecco Il malincontro, Il paese assediato, La
morte dell’asina, ambienti e personaggi liberati in un’atmosfera chiara e cruda, dove, come avviene in certe pitture moderne, la descrizione tende al rilie-
vo statico e al senso del volume. Vengono a mente, per la grazia delle evocazioni naturali, il Linati della prima maniera, e, per il fondo regionalistico, i clas-
sici esempi del Verga. I significati lirici sono ancora quelli delle poesie, ma appaiono avvantaggiati dal mezzo più denso in cui sono costretti ad esprimersi, e che, se talvolta sembra soverchiarli, spesso conferi-
sce loro maggior concretezza. Così il senso della pace agreste e l’amore per la sua montagna d’Abruzzi sono toccati dal poeta in pagine evocanti i lavori della terra e il giro delle stagioni; e gli spettacoli della vita affaticata degli umili gli dettano accenti di chiusa malinconia. Con
La nonna il Titta Rosa, senza rinunciare al
forte ambientamento descrittivo, esce dal bozzetto regionale per affrontare una realtà psicologica più 318
profonda: e la scarsa novità del tema non fa che rendere più evidenti le doti del narratore, che ha sapu-
to staccarsi dal suo personaggio in modo da mirarlo nella sua verità compiuta, la quale dissipa quanto può in esso apparirci di convenzionale per lasciarci
soltanto il suo vivente rilievo, e un senso delicatissi-
mo di pietà umana. E nel racconto più lungo del libro, Lazzarone e l’Americana, lo scrittore raggiunge fi-
nalmente la narrazione vera e propria, con una vera e propria trama complessa d’avvenimenti, sacrificando in parte l'evidenza icastica del «quadro», per
ciò che è proprio del modo narrativo: il senso dello svolgimento temporale. E la storia amara di un giovane contadino scapestrato e un po’ semplice, che, raggirato dallo zio imbroglione, finisce con lo sposare la bella vedova americana di cui s'è innamorato, perdendo il suo patrimonio. Lazzarone e l’Americana, a cui non può rimproverarsi che qualche lieve difetto di composizione, è il racconto in cui Titta Rosa ci dà la più alta misura delle sue qualità di narratore, lasciandoci intravve-
dere ricche possibilità di sviluppi futuri in tal senso. Di fronte all’essenzialità di quelle pagine, e all’interesse umano
che vi si esprime, non potrà non appa-
rirci invece un po’ stanca e letteraria la fantasia di Amelio, che chiude
il libro, dove il fondo
autobio-
grafico appare debole e svagato, pretesto più che altro a sostenere il giro armonioso di una prosa elaborata e classicheggiante, che risente qualcosa delle preoccupazioni «rondiste». Scrittore, come s’è visto, travagliato e consapevole, passato attraverso il lungo tirocinio della critica, Titta Rosa si orienterà direttamente, come vogliono i tempi, verso la narrazione e il romanzo, o la prosa
sarà destinata a rappresentare per lui il modo minore, di «ripiegamento», della sua ispirazione? Non sta a noi l’anticipare simili domande. Ma, comunque
sia, sta di fatto che Titta Rosa appare, fra i nostri «giovani», uno dei più pensosi dei problemi vivi del919
la nostra letteratura, e forse il più ansioso di conci-
liare modernità e tradizione: ed è chiaro pure che il «genere regionale» in cui sembra chiudersi, diversamente da quanto avviene per altri scrittori, non è per lui che un modo di essere nella storia, e di aderire sempre più strettamente alla sua reale natura d’artista. In tal modo egli è'fin da ora destinato a superare quanto ancora nella sua arte sembra permanere di volontario e di sperimentale, per diffondere sui volti delle sue figure e sulle linee dei suoi paesi quel lume di verità poetica che è senza paese né tempo. 1929
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G. TITTA ROSA: «PIETÀ DELL'UOMO»
Ho conosciuto Titta Rosa nel lontano 1925 - fu, ricordo, ad una conferenza di Piero Gobetti — e di lì
a poco dovevo ritrovarlo nelle salette della «Fiera letteraria» in Piazza San Carlo a Milano, dove, insie-
me a Fracchia ed Angioletti, dava la sua opera animatrice e solerte al giornale che, se così può dirsi,
costituì la principale e più grossa zattera su cui la nostra letteratura militante ebbe a varcare, bene o male, il tempestoso mare del «ventennio nero». Che
poi la zattera dovesse naufragare a mezza strada, prima ancora che si profilasse l’opposta riva, ciò non poteva riguardar più Titta Rosa, dato che la «Fiera» si era ormai trasferita da molti anni a Roma, ed era
passata in mano d’altri nocchieri. A quei tempi Titta amava autodefinirsi il «negro della letteratura», e certo nessuno più di lui si era dato, anima e corpo,
al giornale, di cui fu per anni il più assiduo e rappresentativo collaboratore. E il nome di Titta Rosa restò, per noi, significativo di quegli anni e di quello sforzo, e legato a un ideale di sensibile e informato giornalismo letterario che, anche mercé sua, eb-
be sempre più ad affermarsi. 321
Ho voluto ricordare quei nostri primi lontani incontri perché, se a fondo d’ogni poesia vi ha per prima cosa da ricercarsi l’uomo, l’immagine dell’uomo Titta Rosa che prima balza alla mente è quella del letterato e del critico «militante», di colui che per prima cosa ha a che fare col mondo della carta stampata, sia quella consacrata dal tempo, sia l’altra, del giornale e della rivista, che fluisce nel tempo e ne
costituisce il cangiante specchio in divenire. Letterato in ogni senso del termine, da quello aulico a quello quotidiano — possiamo pensare a lui, se vogliamo, persino con un riferimento all’irritabile ge nus, come provano certi suoi vivaci atteggiamenti polemici —, Titta ha per prima cosa il rispetto e perfino il culto della parola, e le esperienze attraverso cui è passato, che risalgono addirittura ai tempi di «Lacerba» e del primo futurismo, non hanno mai
stancato in lui lo scrupolo formale in senso tradizionale. Vale a dire ch’egli si dimostrò sempre, nei suoi saggi poetici e in quelli narrativi, ansioso di unificare modernità e tradizione, agendo, cioè, nella dire-
zione generale in cui si mosse la nostra letteratura dopo la prima guerra mondiale. Ciò significa pure che la vera intimità della sua vocazione poetica è da ricercarsi alla radice degli innesti formali su di una disposizione per cui l’esperienza letteraria è anche sangue e vita. Così nel Plaustro istoriato, fu l’esperienza avanguardista, che si espresse in visioni di fresco naturalismo, attraverso modi di sfogata levità e grazia. Diremo, anzi, che il
più intimo filone della poesia successiva è già racchiuso in quei primi saggi. Più tardi, le Feste delle stagioni testimoniarono di un periodo di travaglio e di crisi. All’abbandono delle apparenze naturali si sostituì il tentativo di fissare nelle apparenze i motivi dello «stato d’animo» mentre, insieme, si andava determinando, oltre l’esperienza avanguardistica, il ritorno, cui abbiamo già accennato, ai modi tradizionali, attraverso cui una nitida e melodiosa linea di
SZ
canto doveva trovare le sue più esatte misure in Alta luna. Su quella strada Titta Rosa si è messo, e, con Pietà dell’uomo, egli si colloca alla ideale «destra» di un
ipotetico «panorama» della poesia contemporanea (e s’intenda «destra» in senso strettamente lettera-
rio, perché sono all’inverso note le simpatie «sinistre» dello scrittore), e più precisamente in quella zona i cui confini potrebbero determinarsi coi nomi di Saba e di Ungaretti (almeno, dell’Ungaretti meno composito e gongorista). E trova i suoi accenti più giusti e commossi in una intimità «in margine alla vita», dove l’uomo affaticato si distacca dalle sue
miserie riscattandosi nel linguaggio insieme aulico e familiare di una poesia cara al cuore, che è insieme tradizione letteraria fatta propria e come decantata nell’intimo: così, specialmente, nelle parti intitolate
Romanzo e Paese sembrare che le biziose, in saggi mento ai tempi,
e memoria. Altrove, al lettore potrà mire del poeta si facciano più amdi lirica civile o religiosa o di comcon una minor aderenza puntuale
ai propri oggetti: ma
sarà costretto
a riconoscere,
anche qui, la perspicuità di sensi e di immagini e la coscienza stilistica cui Titta Rosa informa la trama eloquente che sostiene i suoi assunti poetici. 1952
920
«POESIA» DI GIROLAMO COMI
L’aspirazione ad una lirica cosmica e metafisica è riconoscibile anche in Girolamo Comi, che intitola senz'altro Poesia i componimenti raccolti in un ele-
gante volumetto della stessa collezione «Al tempo della fortuna» dov'è stato pubblicato il libretto di Onofri. E che qualche notevole influenza onofriana
si risenta nel Comi mi sembra pure indubitabile, e non solo nelle pretese universaleggianti della sua li-
rica, bensì anche nell’uso di un linguaggio ermetico e barocco, dove galleggiano qua e là accostamenti analogici del più arbitrario futurismo («archi-violadi-suoni», «parole-essenze», «volere-luce», «porpora-
cantico» ecc.). Anche la poesia del Comi appare prender le mosse da un senso panteistico dell’uni-
verso, intento a cogliere negli aspetti naturali simboliche e misteriose «corrispondenze», in un’aura di trionfante panismo magico. Siamo tuttavia lontani da risultati che autorizzino a identificare, sotto la stranezza del «caso», qualche motivo esteticamente
legittimo. Da questa mistica e sensualistica comunione col cosmo non nasce che un’informe e astru-
sa congerie di parole, della quale, con la migliore 324
volontà, bisogna il più spesso rinunciare a trarre un costrutto possibile. Quanto a movimento ritmico, dove questo non difetta totalmente non siamo molto lontani dalle slogature metriche dell’ Opera prima papiniana: Io albero tutto midollo
incluso nei corporei calici dei climi lievitati da calde fibre di mattini
riorganizzo in squilli di rigoglio la deserta unità dei mondi primi.
Sarebbe però ingiusto negare addirittura al Comi ogni qualità: e talune sue immagini d’un acceso impressionismo (come in certe abbarbaglianti apparizioni di giardini mattinali) danno da pensare. Così, nel Cantico dell’albero, il tentativo di rendere per via d’approssimazioni intellettuali il segreto travaglio delle forze fisiche, quasi immedesimandosi
in una
remota intelligenza elementarmente informe e vegetativa, ci richiama alle più raffinate ricerche della poesia moderna, e ai delicati equilibri del Valéry. Ma l’arbitrio stilistico è tale che anche questi spunti rimangono allo stato di semplici intenzioni. E l’esempio del Valéry dovrebbe far riflettere che una poesia di questa sorta, figlia del caos e della distruzione,
non può realizzarsi che sostenuta dal più assoluto, matematico rigore formale. 1929
325
PIERO GADDA: «MOZZO»
L’arte di Piero Gadda — che è stata testé designata all’attenzione del pubblico dal conferimento d’un importante premio letterario — si distacca notevolmente, nelle sue peculiari caratteristiche, da quello che sembra essere lo spirito comune della nostra giovane narrativa. Mentre quest’ultima aspira a riacquistare il senso del «tempo» drammatico e psicologico del racconto, atto alla creazione di figure mobili e sciolte, e finisce col dissolvere nello svolgimento le qualità di colore e di rilievo proprie del «diario» e delle forme immediate d’espressione che furono di moda fino a ieri, il Gadda, cui non sarà
difficile trovar parentele nel primo Linati e in altri esempi di certo laborioso neoclassicismo lombardo,
compone i suoi bozzetti e i suoi racconti con un’industria minuziosa e attenta, tendendo piuttosto alla
statica fissità del «quadretto» e al massimo risalto stilistico di superficie. Arte che serba dunque forti legami con
quel «frammentarismo»
descrittivo
che,
negli anni precedenti alla guerra, parve assorbire la nostra prosa degna di qualche nome. Soltanto, mentre quei tentativi erano sovente mossi da iniziali ra326
gioni liriche, e si concretavano appunto come ripiegamento prosastico dagli alti modi lirici tradizionali, il nostro, che incominciò
con quel libretto del-
l'Entusiastica estate, dove le linee del racconto apparivano ancora impigliate nell’effusione poetica e autobiografica, cerca di organare le sue doti di visione nitida e precisa e di aderenza stilistica negli schemi della vera e propria narrazione distaccata e obbiettiva. Nel che è indubbiamente da ravvisarsi un merito,
inquantoché il Gadda, in luogo di affidarsi alle tentazioni spesso ingannatrici di una fantasia casuale e senza freno, com’è quella che si riscontra nelle aspirazioni di molti giovani improvvisati novellieri, viene ad approfittare d’una laboriosa esperienza, che ha dato i suoi frutti e che solo i facili profeti delle terze pagine possono ritenere ormai trapassata e senza conseguenze. E tuttavia, e per la medesima ragione, giusta l’osservazione di coloro che hanno notato, in quest’ul-
timo romanzetto del nostro, un certo squilibrio tra l’esistenza corposa e rilevata della superficie e la fragilità del fondo. La storia dell’infanzia di Giò, figlio di un casellante ferroviario, della sua fuga sulla Santa Cunegonda e del suo apprentissage marittimo è apparsa a molti «di maniera», e, difatti, sarà vano ri-
cercare nel suo motivo e nel suo svolgimento qual cosa di più di un garbato pretesto letterario. Ma senza dubbio la «maniera», o meglio ancora una certa indifferenza della materia, scelta fra le più consuete
e pacifiche, è inevitabile in un’arte di questo genere, che grava con tanto impegno sulla sua determinazione
esteriore.
Albe
e tramonti,
immagini
del
paesaggio ligure, e scene di lavori e di feste popolari, e su tutto ciò il respiro, l’odore e il colore del ma-
re, formano il fresco e variopinto tessuto di questo libretto, e gli conferiscono il luminoso alone con cui, dopo la lettura, riesce a durare nel nostro ricordo. Meno, naturalmente, si ricordano le figure: quel-
la della madre, in cui ricercheremmo invano qual927
che preciso tratto individuante; quella di Salvatore Marò, il «vecchio capitano» bonario e fanciullone,
macchietta familiare a tutti i lettori di romanzi d’avventure per ragazzi; quella del padre Matteo, operaio laborioso e onesto; quelle dei giovinetti compagni di Mozzo. Lo stesso personaggio di Mozzo, per quanto disegnato con innegabile grazia di linee, come splendido esemplare d’un’infanzia vergine e incorrotta a fiore dell’incantevole specchio marino, non esce molto dal tipo generico del «monello» impetuoso e di buon cuore, in cui la vocazione alla vita marinara, contrastatagli dalla madre, giunge a trionfare senza eccessive crisi di coscienza. È stato anche notato, e a ragione, che il Gadda s’induce tal-
volta a prestare a queste sue umili figure di pescatori e di contadini sensi e sentimenti che sono invece dell’autore, e che la semplicità dei personaggi male comporterebbe: il che va pure riferito a quella indifferenza di materia cui si accennava sopra, e di cui lo stesso Gadda sembra avvantaggiarsi per raggiungere la perfezione liscia ed eguale del rilievo rappresentativo. In un solo punto la sua festosa e colorita egloga piscatoria sembra compatire un improvviso approfondimento drammatico: nel capitolo della morte
del padre, dove sembra
pure accennarsi
una ripresa più energica e movimentata del racconto. Ma è un punto: e la successiva gita in barca, con le sue sparse notazioni descrittive, ci riporta nell’at-
mosfera cristallina e un po’ fredda d’idillio letterario che avvolge il breve romanzo. L’arte del Gadda,
iniziatasi nei modi
d’un’auto-
biografia trasposta su piano liricheggiante, ha finora trovato nelle forme narrative il semplice riflesso d’un senso fondamentale di commozione pacata e gentile di fronte alle apparenze d’una natura florida e benigna agli umani, ignara di contrasti; e nella determinazione di quel senso nativo in figure di superficie ha toccato il suo particolare equilibrio. Per questo, allorché il suo racconto s’amplia in delicate 328
visioni naturali, o indugia a caratterizzare dall’esterno, in maniera prevalentemente bozzettistica, personaggi ed episodi, riesce a figurazioni aderenti e persuasive. Mentre per lo stesso motivo la sua fantasia psicologica ci si manifesterà sempre un po’ inarticolata e inerte, intenta a progredire attraverso svolgimenti consueti e preveduti, e incline a trattare la materia umana come semplice pretesto letterario alla narrazione. Non mancano, neppure in questo Mozzo, quelle esemplari pagine di prosa saporosa che si era soliti trovare negli altri libri del Gadda, e dove il giro armonioso e pieno del periodo, illuminandosi di quiete luci descrittive, giunge a far vivere ambienti e fi-
gure con giustezza di toni e di coloriti. E sarà inutile citare, ché tutti i lettori di Mozzo sapranno facilmente trovarle da sé. Ciò che ora si desidererebbe dal Gadda, giunto a un tale possesso dei suoi mezzi esteriori, sarebbe un approfondimento della materia narrativa, anche se dovesse costargli qualche sacrificio di quello stesso perfetto ma un po’ artificioso equilibrio formale ch’egli dimostra d’aver conseguito. E qui vorremmo riferirci a quel racconto di Liuba, apparso qualche anno fa, dove l'ispirazione
più calda e mossa riuscì per un momento a dissolvere in un solo coerente respiro la configurazione esterna e il motivo drammatico e umano. Ci augureremmo che il giovane romanziere si rifacesse da quel punto, apportandovi la sua maggiore e più vigilata esperienza, e le felici qualità espressive che, pienamente schiarite nella nitida favola di Mozzo, gli
hanno ottenuto l’attuale riconoscimento. 1930
29
GIUSEPPE LANZA: «ESILIO - RITORNI»
Premetto di essere, in cose di teatro, press’a poco un incompetente. Non so se una simile confessione varrà a mandarmi assolto, specie dai «teatranti» e
dai fautori del «puro spettacolo», che oggi, come sempre avviene nelle religioni in decadenza, hanno
incredibilmente complicato i loro riti e le loro teologie, inasprendo le questioni più semplici in un chiuso gergo da iniziati. Ma il riflettere che non è
poi detto che gli ingenui debbano
sempre ed in
ogni caso veder male, varrà a sollevarmi la coscienza
di quanto sto per confessare. E cioè che nelle recenti numerose discussioni che si son fatte sulla cosiddetta «crisi del teatro», sull’esistenza o meno di
un teatro italiano moderno, sulle ragioni che hanno allontanato il pubblico dal teatro, stato veduto tutto ciò che andava senziale del problema. Il difetto partenza delle discussioni stesse,
mi sembra che sia veduto, salvo l’esstava nel punto di intese a considera-
re l’arte teatrale non già nella sua purezza, ma nella sua successiva incarnazione in «spettacolo», e perciò sottoposta a tutte le diverse e complesse contingenze favorevoli e sfavorevoli che toccano alla poesia al-
330
lorché questa, allontanata dalla sua sfera ideale, en-
tra nel campo delle realizzazioni pratiche e sociali. In un dibattito che si svolse anni fa sulle colonne di un giornale letterario, che chiamò a consulto diver-
si specialisti al capezzale del teatro italiano, ciascuno s'adoperò del suo meglio a spiegarle cause del male e a proporre rimedi. Vennero così tirati successi vamente in ballo la concorrenza del cinematografo, l’insufficienza delle compagnie, la nostra scarsa mo-
dernità scenografica, le «atmosfere psicologiche» e
i balletti russi, Bragaglia e il suo «teatro d’arte». Fra i medici vi fu solo un altro ingenuo, di cui non ricordo il nome, che a un certo punto si lasciò scappare una frase di questo genere: «dateci delle buone commedie e il teatro italiano sarà salvo». Perché la crisi del teatro italiano non è limitata soltanto alla realizzazione scenica, ma investe un al-
tro e ben più delicato campo, per il quale è vano proporre rimedi, trattandosi di una sfera del tutto sottratta alla volontà, e in cui domina soltanto quello spirito, che soffia dalla parte che vuole. La crisi del teatro è anzitutto crisi della forma teatrale, della intuizione drammatica. La letteratura moderna, che
si orienta oggi in massima parte verso il romanzo come verso la sua forma tipica, essenzialmente diffusi-
va e prosastica, analitica e sinuosa, procedente per lenti sviluppi e motivazioni, male sembra adeguarsi al necessario
lirismo, agli scorci vibranti, alla con-
centrazione e contrazione che son propri dell'idea drammatica, essenzialmente chiamata ad esprimere
l’acmé dei sentimenti puri in conflitto. L'ispirazione drammatica è difatti inconfondibile, a lumi di sem-
plice psicologia, sia con quella lirica che con quella romanzesca come oggi comunemente s'intendono. Ricondotto il problema nei suoi veri termini, si com-
prende tanto il perché principale del languire del teatro come fenomeno sociale, quanto dei vari tentativi fatti per riavvicinarlo indirizzandolo verso regioni marginali, come furono appunto il grottesco,
Wori
la favola o l’«avventura colorata», dove l’elemento
esteriore e spettacoloso nascondeva l’assenza quasi sempre assoluta della schietta ispirazione comica o tragica. L'unico avvenimento saliente del nostro teatro di questi ultimi dieci anni, ossia l’opera del Pirandello, meriterebbe un esame a parte. Ma a ben riflettere troppi motivi appaiono sopraffare, specie nelle sue ultime manifestazioni, quella vena accesa ed amara, ironica e spietata che animava i primi lavori del Pirandello regionale e verghiano. Mentre i giochetti pseudo-filosofici del Pirandello «europeo», la fastidiosa progressiva meccanizzazione dei personaggi e del dialogo, e, infine, l’intrusione di miti vieti e rettorici, come nel recente Lazzaro, fan sì che l’o-
pera più nota del siciliano finisca col non costituire altro che una sorta di faticosa e arida caricatura, se pure imponente, di ciò che dovrebbe intendersi co-
me grande teatro. E naturale quindi che il vedere un giovane d’ingegno come il Lanza avventurarsi in simili lande inospiti, e tentar di sfruttarne laboriosamente il difficile terreno, debba tenere in più d’una apprensione l’animo degli amici. Bisogna tuttavia dir subito che questo scrittore appare distinguersi per una coscienza assai viva delle difficoltà insite oggi alla concezione drammatica, e inteso a lavorare onestamen-
te nell'unica direzione in cui soltanto sembra possibile — se nuova materia e nuove inclinazioni non offrirà la vita avvenire — un teatro che non sia un salto nel buio o una falsa sopravvivenza. Nelle due commedie oggi pubblicate, Esilio e Ritorni, scritte a distanza di quattro anni una dall’altra, si possono apprezzare la tenacia di questo sforzo e i suoi frutti non indegni. Il Lanza scarta senz’altro le comode evasioni verso il simbolico e il fiabesco, e tenta il tea-
tro umano e psicologico nel solo modo in cui oggi possa tentarsi, ossia approfittando dello stesso indebolimento e della stessa mortificazione imposti alla forma teatrale, abbassando il tono normale di essa e
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diffondendo, per così dire, la vis drammatica sotto
la superficie del dialogo, in luogo di contrarla in supreme e decisive risoluzioni sceniche. Egli salva in tal modo l’esigenza teatrale, che poggia sul nudo contrasto dei sentimenti, sull’alterno urto e pacifi-
cazione di situazioni spirituali opposte e tese, senza pertanto rinunciare al bisogno di esprimere quella vita fluente e ricca d’implicite puntuali contraddizioni, che è proprio della sensibilità del nostro tempo. Non a caso questi drammi ricordano un poco il più alto esempio in cui questa tendenza ebbe anni fa a concretarsi: voglio alludere alla Donna di nessuno di C.V. Lodovici. Temperamento arduo e ripiegato su di sé, il Lanza, in luogo di abbandonarsi ad una dispersiva felicità scenica, e d’altra parte salvato, per la sua formazione eminentemente teatrale, dal pericolo dell’approssimazione letteraria, ci appare dunque intento a scavare nel vivo della sostanza drammatica, traen-
done intuizioni centrali d’innegabile vigore. In Esilio, ad esempio, è il senso della feroce ineluttabilità
della passione, a cui Luciano Vergati s’illude invano di sottrarsi sposando una creatura ignara e felice, e che prorompe inaspettatamente nell’incontro con la donna un tempo amata, moglie di un amico. Ma i personaggi del Lanza, che svela sotto le sue invenzioni una sorta di chiusa e tormentata preoccupazione morale, sanno sempre riprendersi e rinunciare.
Questo della «rinuncia» è anzi uno dei motivi cari allo scrittore, che si compiace spesso di disegnare, nei
suoi drammi, figure di rassegnati superatori, capaci di ripudiare la felicità stessa piuttosto che violare la legge d’un’altra creatura o la logica immanente della vita. Anche i personaggi di Esilo sono di questa specie: essi vivranno senza più vivere, esiliati dalla terra promessa che la passione lasciò loro per un istante intravvedere,
e forse non
era che inconsi-
stente miraggio. A questa commedia, di fondo umano così denso e stringente, può forse muoversi l’ap333
punto di non rispondere del tutto, dal lato formale,
alle così ricche esigenze del sentimento che la sommuove. Lo schema appare per qualche parte estrinseco, e ripreso passivamente dai comuni modelli del
teatro borghese. Come qualcuno ha giustamente osservato, tale non compiuta liberazione viene anche denunciata da certi modi un po’ consunti di dialogo, e dall’essere il Lanza ricorso ad un ambiente e a personaggi di certo mondo artistico e nobiliare, che, nonostante l’approfondimento tentato in senso psicologico e interiore, mantengono ancora alcunché di generico e di stantîo. Se la commedia si salva al giudizio è dunque più che altro in virtù della sua intuizione profonda, che vi si manifesta viva e sentita. Ritorni, che è la seconda commedia del volume, e
la più recente, testimonia di un indubbio progresso in senso formale, che ci conferma, se ce ne fosse bi-
sogno, la sincerità e la tenacia del giovane scrittore. Il Lanza vi dimostra un più pieno possesso dei propri mezzi, tale da consentirgli di abbandonare la conclusa linearità di Esilio e di ricorrere a modi più sciolti e variati, frantumando la linea drammatica in
un più colorito e abile gioco scenico. Difficile sarebbe riassumere, senza tradirne lo spirito, la trama del lavoro, che è complicata e sottile, oltre che condot-
ta su diversi piani. Ci limitiamo a dire che Ritorni s'iImpernia sopra una situazione drammatica complessa e reversibile, tale che avrebbe senz’altro disarcionato un autore di minor impegno: due sposi, il benefattore d’una famiglia che chiede la mano della ragazza beneficata, e, preso dallo scrupolo di
avere col suo atto virtuoso violentato la volontà della donna, consuma la vita in uno sterile rimorso e avvelena la propria e la di lei felicità; la donna, stanca di esser considerata tacitamente come una vittima, insofferente della malaticcia pietà del marito, biso-
gnosa del suo amore soprattutto, che tenta la salvezza in un colpo di testa che non le riesce. Conflitto di nature nobili ed elette, e senza sfocio. Perché il
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dramma, e il delicato marivaudage di questa doppia incomprensione, non finiscono in modo vero e proprio. L’autore sembra avvertirci che la commedia, al pari della vita, continua anche oltre la scena: e, in
qualche punto, sembra addirittura diffondere un lontano lume d’ironia su quella stessa materia morale che forma il fondo della sua ispirazione. Segno anche questo d’uno stacco maggiore, d’una visione più controllata: Ritorni, a parte qualche breve tratto meno approfondito, è dunque una commedia riuscita; ed entrambe sono tali da autorizzare le più vi-
ve speranze nell’avvenire di questo giovane, che con tanta umiltà ed ardore lavora per il teatro italiano. 1930
3
«DONNE NELLA VITA DI STEFANO PREMUDA»
Giani Stuparich è uno dei pochi scrittori ch'io conosca la cui figura d’uomo ricorra prepotentemente, sotto la penna del critico che s’accinge a parlarne, prima ancora di quella, pur compiuta e degnissima, dell’artista. Con ciò non
si vuole insi-
stere ancora sull’interezza e coerenza di quella fi-
gura d’uomo, in guerra come in pace. Lo Stuparich, che ci offre egli stesso un esempio di alto, scrupoloso riserbo, sarebbe il primo a dolersi di una simile confusione. Ma la figura dell’uomo deve, comunque, riflettersi sulla sua arte: e che sarebbe l’arte, se non fosse l’esatta, la più vera proiezione dell’uomo, della sua formazione morale, del
suo modo di essere? Il quesito dell’unità, della coesione dell’uomoartista ci si ripresenta nella considerazione dei due
diversi aspetti dello Stuparich scrittore, aspetti il cui punto d’inserzione può forse darci la chiave del tono, estetico e morale,
dell’intera opera sua. Fra i
due momenti della sua ispirazione letteraria, quello diaristico (Colloqui con mio fratello, Guerra del ’15) e quello oggettivo e narrativo
336
(Racconti e Donne nella
vita di Stefano Premuda), deve appunto trovarsi una saldatura, un sensibile punto di trapasso. Nei due libri di guerra l’atteggiamento morale, «il problema di coscienza» (taluno ha voluto rintracciare, e non a torto, in quel senso acuto e un po’ rigoristico della realtà morale, del «dovere», alcunché
di kantiano) prevale decisamente su tutto il resto. Da un simile punto di vista, esclusivamente
diretto
sul proprio interno, inteso a controllare la più o meno perfetta aderenza dell’azione alla sua linea ideale, al «dovere», era naturale che l’interesse per i per-
sonaggi, per le figure che si trovavano a far parte di una simile esperienza, dovesse passare in terzo 0 quar-
to piano, o addirittura scomparire. È stato osservato dal Pancrazi come lo Stuparich, il quale, nella Guerra del ’15, ha pagine descrittive di fortissimo rilievo,
sa imprimere vividamente nel sentimento del lettore gli aspetti più imperiosi della realtà della guerra — con un senso di assoluta verità, più che storica, sof-
ferta —, non ci presenta figure se non, appunto, per via di descrizione. Egli manca dell’interesse psicologico, bozzettistico su cui poggiano altri scrittori di cose di guerra, italiani o stranieri. Gli è che il suo
punto di partenza è un altro, che le sue mire sono diverse. L’intensità dell’esperienza interiore e la stessa discriminazione morale sempre vigile e presente, per la profonda unità ch’è legge di ogni vero uomo come di ogni vero scrittore, sanno anche farsi, in quei diari, tono d’arte, vibrazione lirica.
Come poi lo Stuparich sia passato dal diario alla narrazione oggettiva, al «racconto», affrontando una
materia dove spesso quel vigile discernimento etico non può esercitarsi che con somma difficoltà — come quella torbida e cangevole delle passioni e degli inganni d’amore — può parer misteriosa unicamente a chi abbia un concetto quanto mai elementare e superficiale di simili distinzioni, a chi ignori che la vera origine dei personaggi di racconto non consiste già in uno specifico spirito d'osservazione della realtà 337
esterna, ma proprio nell’esteriorizzarsi, nel prender
volto e figura di stati d’animo e sentimenti propri del narratore. Insomma, l’«esplorazione del proprio petto» è del romanziere come del lirico, e il romanziere perciò appunto è poeta e non storico. Però nello Stuparich il trapasso tra l'immediatezza autobiografica e l’oggettivazione delle «figure» non è del tutto compiuto: meglio può dirsi che la sua narrativa si svolge in una zona intermedia tra l’uno e l’altro momento, quella della confessione, della me-
moria: dove le figure, a parte il protagonista sempre presente, più che vivere di vita propria, dovranno apparirci a metà soffuse dal ricordo, e quasi sorpre-
se in sul nascere da esso. Donne nella vita di Stefano Premuda è composto di otto racconti legati da un filo unico, otto episodi nella vita d’un uomo che è, più di altri personaggi romanzeschi, un alter ego, una trasposizione fantastica del narratore. Lo schema del racconto, che
non esige i rapidi scorci, i trapassi sintetici della novella, e in pari tempo neppure il maggior distacco e riposo formale che son propri del romanzo, era quello che meglio si prestava alle divagazioni, alle soste, alle riflessioni del tono autobiografico e rievocativo. Così il libro si configura come un’unica autobiografia intima, che va dalle prime esperienze
senti-
mentali dell’infanzia del protagonista fino a quella più profonda, serena e pacata, e pur non immune da turbamenti e da tempeste, dell’amor coniugale.
Tra l’uno e l’altro estremo, diverse figure di donna: dalla piccola e viziata Mirella, acerbo amore degli undici anni, prima sconfitta del cuore sensibile di fronte alla femminile ambiguità e civetteria, all’appassionata Silvia, che prima induce nell’animo del
pensoso protagonista il senso della pietà verso la colpa e della remissione del peccato; da Tina, dolente equivoco dell’amicizia con l’amore, alla donna di Tristano e Isotta, studio del lento, sotterraneo decor-
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so d’una passione, delle sue reviviscenze e del suo definitivo spegnersi. Stefano Premuda,
dunque, non ha che da ricor-
dare. Egli è un uomo per cui l’esperienza amorosa ha un senso, lascia un’impronta ben riconoscibile. Il che non vuol dire ch’egli sia un sensuale: per lui la donna non è un oggetto di conquista, un semplice frutto da cogliersi nel giardino della vita; e, come del
resto giustamente fu detto, i conquistatori sono gli uomini che meno conoscono le donne. Alcune di queste creature femminili non fanno che attraversare il suo cammino,
di alcune di queste anime e di
queste intime tragedie, come nel caso di Silvia o della giovane tedesca di Una mattina di marzo a Miramare, Stefano si rassegna a rimanere pietoso, attento spettatore, senza violarne il mistero. Egli non è, in-
fatti, neppure un appassionato. L’appassionato non può ricordare: per lui la passione è, ogni volta, una partita unica e decisiva, una bufera, una combustio-
ne che si compie violenta senza lasciare macerie; egli ne esce o distrutto per sempre o rinnovato e immemore come se avesse bevuto l’acqua letèa. Ogni amore, per l’appassionato, è un circolo che si chiude su sé medesimo: in esso la donna è Sfinge, Arpia, Chimera, un’ossessione della fantasia, un miraggio del cuore solitario contro cui egli lotta sino allo stremo delle sue forze, nel sonno dell’anima, come av-
venne a Giacobbe con l'Angelo nel sonno della carne. La disposizione con cui Stefano affronta l’amoroso labirinto è più pacata e comprensiva. A differenza del Don Giovanni e dell’appassionato, per lui la donna veramente esiste come donna, come creatura che si può anche fraintendere, ma che, trovandosi sempre, compagna o nemica, sullo stesso piano
del protagonista, può anche essere compresa. Stefano è, in definitiva, una di quelle nature felici per cui
l’amore rappresenta sempre un’esperienza fruttuosa, un arricchirsi e un approfondirsi del senso della vita. Anche nella sofferenza egli può studiarsi e li959
mitarsi, e il dolore, per quanto intenso, non è mai
tale da soggiogarne la lucida coscienza. In questa sottigliezza e delicatezza della psicologia erotica egli tiene effettivamente alcunché di nordico, e per la facoltà di trovare nell’amore un nutrimento vivo dello spirito può anche far pensare al Meister goethiano, ove si prescinda da un che di più stanco e riflesso, quasi di troppo maturo e ragionato, che lascia intravvedere l’epigono triestino. Ma Stefano è anche, come s’è detto, un alter ego del suo autore, e la ricettività amorosa trova in lui un
limite e un controllo nella sottile discriminazione di bene e di male, nella vigile coscienza ch’è propria dell’atteggiamento morale dello Stuparich. Si guardi al delicato pudore, alla infinita comprensione del giovinetto diciassettenne di fronte alla confessione della colpa di Silvia; dove la casta e inesperta adolescenza, levatasi a giudice d’una torbida colpa, sa tro-
vare nell’assolverla una pietà e un distacco simili a quelli dell’età matura e delusa. O, in Addzo alla Tina, il rimorso di Stefano, che si accorge di avere, nel suo
orgoglio di maestro e di guida spirituale della giovane studentessa, tradito la segreta attesa di lei e la sua felicità. Lo Stuparich è estremamente sensibile alla lealtà, al delicato rigore che, come
nelle più com-
plesse questioni d’onore, deve regolare i segreti conflitti e duelli della relazione amorosa. Alcune delle pagine dove questo riserbo, questa sottile e insieme
risentita coscienza s’esprimono sono tra le più profonde, tra le più illuminanti del libro.
Il quale, nel suo determinarsi di autobiografia immaginaria, o per meglio dire «trasposta», trova il suo tono e la sua giustificazione estetica: pur non riuscendo del tutto immune dai difetti inerenti al genere. Una soverchia diffusione nei particolari, una
insistenza un po’ compiaciuta nell’ambientazione del «ricordo» e una conseguente debolezza di risalto, che si riflette anche in certa monotonia e grigio-
re dello stile, sembrano a me gli appunti principali 340
che sì possano muovere alla narrativa dello Stuparich. Per salvare, in ogni suo momento, la giustezza del tono, per evitare quanto fosse potuto parere troppo definito e sforzato, lontano dalle sue intime corde, lo Stuparich ha spesso sacrificato quella decisione del segno, quella essenzialità del contrasto psicologico che avrebbero forse conferito ad alcuno dei suoi racconti un più intenso effetto espressivo. Ciò non toglie che questi appunti rappresentino più che altro semplici «desiderata» del critico, perché le pagine dello Stuparich, ciò che più importa, non suonano mai false, e, una volta incominciato il libro,
il difficile accordo fra il lettore e l’autore non soffre delusioni. La promessa della zia Nene e Un'estate a Isola, riprendono un tema caro allo Stuparich, quello dei primi trasalimenti e avvisaglie d’Eros nell’infanzia: e non è probabilmente colpa dello scrittore se, dopo il bellissimo Anno di scuola dei Racconti, tale ispirazione appaia qui, forse, più sfocata. Nel primo racconto,
che ci narra la crudele delusione del fanciullo in attesa di prender parte ad una scampagnata di «grandi», che viene all’ultimo momento
lasciato a casa
dalla bella zia amata in segreto, qualche indugio e insistenza nella prima parte sono pienamente compensati dalle pagine sulla disperazione di Stefano, che possono addirittura rammentare quelle memorabili di Proust sulle angoscie del bimbo a letto in attesa del bacio materno durante la serata di ricevimento.
Un'estate a Isola tocca una materia più trouble,
quella delle prime esperienze sentimentali e sensuali di un gruppo di fanciulli dodicenni al mare: ma,
nonostante che lo Stuparich sappia resuscitarvi il nostalgico colorito della lontana estate marina, si vede che il vero accento dello scrittore non cade qui, che la sua gamma manca del tono atto a dar rilievo alla naturale acredine e primitività di quelle infanti li scoperte. Soltanto con Silvia, di cui già s'è parlato, entriamo nella materia più viva e propria dello StuOi
parich, con quella sua particolare, dolente curiosità morale di fronte al peccato e al dolore. Ma, senza dubbio, la figura di Tina è la più compiuta, la più rilevata e indimenticabile del libro: «Come parlavo e vedevo i suoi piccoli occhi bruni, tondi e stupiti, fis-
si su di me e tutta la sua faccia, specialmente espressiva intorno alla bocca, protesa alle mie parole, il mio scetticismo sfumava e le mie stesse parole, ini-
zialmente leggere, acquistavano peso e serietà. Ella aveva il potere di far nascere in me la persuasione ed io stesso mi meravigliavo del calore con cui m’esprimevo». Il trasformarsi della studentessa intellettuale nella giovane madre, il rivelarsi dei suoi ingenui fervori di pensiero e d’ideale in semplice bisogno d’amore e di maternità, hanno quella suprema natura-
lezza in cui l’arte si confonde veramente con l’evidenza della vita. Se, poi, in Ospite a «Gli Ulivi», abbiamo uno Stuparich un po’ diverso, che può anche ricordarci, nel
modo divertito con cui è condotto il gioco psicologico, lo Svevo delle novelle minori, nell’ultima, La
casa tranquilla, il tono finalmente s’innalza fino alla vibrazione lirica particolare del nostro scrittore, affidata, più che all’accento delle parole, sempre ugua-
le e sommesso, al semplice, pacato calore della confessione. Confessione, intimità: l’arte dello Stuparich, che anche in questa caratteristica è ben triestino, e sem-
bra aspirare a fondere l’acutezza psicologica degli Svevo e dei Saba con lo scrupolo etico, il senso d’i-
dealità degli Slataper e dei Michelstaedter, è tutta qui. Mentre nei Racconti egli sembrava con più insistenza tendere
al limite oggettivo,
«indifferente»
della narrazione (specialmente in Una famiglia), que-
st ultimo libro rappresenta ancora un ripiegamento in senso autobiografico, interiore, o per meglio dire
un tentativo di fusione tra la vena appunto oggettiva e narrativa e quella intima e autobiografica. Di qui quel tanto di grigio e di diffuso che, a voler consi-
DA2
derare il libro come semplice assieme di racconti, può anche rappresentare una limitazione. Ma è probabilmente solo attraverso una tale ripresa e fusione che lo Stuparich, acquistando sempre maggior coscienza del suo più vero fondo di scrittore, potrà domani staccare ancor più da sé la sua materia e farla vivere di per sé stessa, in forme e figure dove l’intimità sia tutta ed in ogni suo punto riassorbita dall’arte. 1933
DA
POESIA D’OGGI
Poeta che può considerarsi di ieri è Pietro Mastri, di cui sono usciti, raccolti postumi a cura dell’amico Bruno Cicognani, questi Ultimi canti. Nata sotto evidenti influenze pascoliane, la lirica del Mastri,
da una iniziale felicità bozzettistica e parnassiana, da una predilezione per i brevi temi idillici e georgici (L’Arcobaleno, Lo specchio e la falce) s'è andata in se-
guito svolgendo verso una maggiore interiorità, verso un piano simbolismo chiamato ad esprimere il breve e tragico destino dell’uomo, il contrasto degli affetti familiari, e i sensi d’una cristiana pietà e rassegnazione (La meridiana, La fronda oscillante, La via
delle stelle). Forse, quanto la poesia del Mastri ha guadagnato in intimità, in coerenza umana e morale, ha in parte perduto in quel più fresco e netto risalto che avevano le liriche dei primi volumi. Al confronto, l’ultima poesia del Mastri può apparire grigia, di espressione meno intensa, anche ove non si voglia tener conto dell’influenza «crepuscolare», che è rintracciabile nel tono più umile e snodato del discorso poetico, nell’adozione, in molti componimenti, di quel verso libero, di andatura parlata e un po’
344
stanca, che i crepuscolari avevano a loro volta ereditato dai simbolisti francesi. Ma la rinuncia ad un più ricco risalto formale,
l'abbandono di una concezione più rigorosa della poesia per questa semplice e casta «oratoria» intima, finiscono col renderci comunque più vicina e ammirevole la figura del Mastri uomo e poeta. Anche in questi Ultimi canti, l’appassionato riepilogo dell’esistenza trascorsa, il vibrare attutito degli antichi dolori sull’anima rassegnata (La figlia che non ho, La mia sorella risuona il piano), la calma prescienza della morte, del «porto di pace» ove definitiva-
mente si plachi il tumultuare degli affetti; e le supreme consolazioni della fede: Presto noi lo vedremo quel mare ignoto e inaccesso, con altra vela, con altro remo,
navigheremo per esso: risaliremo alla superna sorgente... Il tentativo più notevole dell’ultimo volume, che ci rivela, nel Mastri, anche qualità narrative e drammatiche, è il poemetto // vecchio padron di tartana, ri-
masto purtroppo racconto
incompiuto. Nelle intenzioni, il
di Padron
Sempronio,
umile marinaio
li-
vornese, avrebbe dovuto raffigurare allegoricamente la vita dell’uomo e il travaglio delle sue passioni: i vecchi simboli delle sirene, del gabbiano ferito, del
vascello fantasma sono assai chiari: ma né l’allegoria, forse sovraccarica,
sembra
riuscita, né il poe-
metto si riscatta sempre da una certa patina letteraria, che troppo facilmente ci richiama ai suoi prece-
denti illustri, da Omero
a Coleridge. Rimangono
squarci assai belli, specie dove il realistico e il fantastico riescono a fondersi, e la trama letteraria è meglio dimenticata.
Il Mastri potrebbe definirsi un poeta minore che, non pago di attenersi al campo che è solito del poéta minor, quello della breve e delimitata
345
«riuscita»
formale, anelò a svolgersi su di un piano più vasto, anche a costo di rimanere approssimativo, a costo di dare spesso alla pagina, più che poesia raggiunta, passione e poeticità. Per lui anzi, specie nelle ultime opere, la poesia non rappresentò forse soltanto poesia, ma attiva consolazione interiore e viva forma di
religiosità. Ma è per questo che le sue liriche più intense, ad esempio Espero o la Canzone ermetica de La via delle stelle, ci impediscono di considerare il Ma-
stri, come pur si potrebbe sulla scorta dei primi volumi, un tardo epigono del Pascoli o di Severino Ferrari: il loro accento umano e cristiano è ben profondamente suo, inconfondibile.
Se il Mastri ci riconduce ad una visione rassegnata e pacata della vita, e, insieme, ad un gusto poetico che possono apparire d’altri tempi, la poesia di Umberto Saba — anch'essa, al pari di quella del Mastri, e forse più, rimasta insensibile al varia-
re delle mode e alle tormentose ricerche formali del trentennio — va di giorno in giorno meglio rivelandoci la sua profonda attualità e modernità. Oggi che le esperienze rare e capillari vanno perdendo fortuna in favore di un più vivo e ricco senso dell’uomo, oggi che la poesia del «quotidiano» sembra affermarsi non già, come avvenne per i crepuscolari, in forme di estetismo paradossale, ma
come rinnovata esigenza classica e «totale», la lirica del solitario triestino, ieri di volta in volta variamente giudicata, di volta in volta iscritta nelle ca-
selle meno adeguate della poesia di moda, può apparirci finalmente in piena luce. Quest'ultimo libro, Tre composizioni, contiene al-
cune delle liriche più alte del nostro poeta. Dopo il giovanile miracolo di Trieste e una donna, e, in genere, del Canzoniere, poesia autobiografica e d’oc-
casione, quasi semplice riflessione della vita nell’arte (ma quale trasparenza, quale giustezza di modulazioni, quale eco schietta ed umana),
sia del Saba maturo
la poe-
tende alle espressioni d’una 346
delusa saggezza, dove i conflitti della vita si plachino nella favola, nella figurazione plastica, nell’abbandono musicale. Il poemetto L'Uomo, sintesi del-
l’umana esistenza, nel suo ciclo duramente predestinato, ha tratti di grandioso risalto. Preludio e fughe rappresenta l’altro polo dell’ispirazione di Saba, quello musicale: il poeta si ripiega sul proprio sentimento, ascolta, nel silenzio della vita circostante,
come le voci segrete contrastino per accordarsi, alla fine, nell’unica voce, che in sé riassorbe e confon-
de le altre, della poesia: in pace vi componete negli estremi accordi, voci invano discordi. La luce e l’ombra, la gioia e il dolore s'amano in voi. Oh, ritornate a noi
care voci d’un tempo! Nel Piccolo Berto ritorna il Saba autobiografico del Canzoniere, con la sua più esperta grazia narrativa e figurativa: il ritorno all’infanzia dell’uomo maturo non è però qui, come in altri poeti, pretesto a idilliche nostalgie, ma tragico riconoscimento e dolorosa
accettazione del destino. Nel dramma puerile del Piccolo Bertoviene per il poeta a prefigurarsi, come in un magico specchio, la insoddisfatta scissione della
sua vita successiva, la frattura spirituale che la poesia è chiamata invano a colmare. Armonia originaria per sempre spezzata, beata condizione d’innocenza,
di cui solo qualche riflesso può ricuperarsi attraverso la nostalgia del canto, i «verdi paradisi dell’infan-
zia» vengono a colorirsi, in quest’ultima suite di Saba, della mitica luce dei paradisi perduti. Le liriche raccolte da Angelo Barile in Primasera si alimentano ad una diversa vena. Il Barile, ligure, ha notevoli affinità con altri poeti della sua terra, dal vecchio Ceccardo al Novaro, dallo Sbarbaro al Mon-
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tale e al Grande: così nell’evidenza accesa e come allucinata di certe sue immagini, nell’attitudine ad incarnare i sentimenti in fuggevoli miti naturali, contemperando la classicheggiante flessuosità del verso col caldo impressionismo della materia: affinità tutte che, senza togliere all’originalità della sua ispirazione, meglio ce ne garantiscono la genuinità. Il fondo di questa poesia è in una sorta di dolente remissione alla vita, sulla quale passivamente s’imprimono gli aspetti del mondo, e dal cui flusso affiorano i ricordi del passato, e, più in là ancora, i volti ca-
ri e perduti, le anime ancestrali che fanno parte della nostra, le immemoriali inclinazioni del sangue. L’opera del Barile, se pure esigua, è il frutto d’una
ispirazione tenace e complessa, d’un lungo e macerato travaglio formale: ed è stato ingiustizia il confonderla, come taluno ha fatto, colle espressioni insipide e frettolose di certa recente «poesia pura». Forse la sua stessa maestrìa tecnica, la sua sapienza nell’incidere impressioni e stati d'animo ambigui e latenti, la sua stessa ricca immaginosità inclinano questo poeta, qua e là, a qualche eccessiva sottigliezza e trasposizione metaforica, che non convincono: ivi la poesia, come in altri moderni, sbocca ad una specie
di mistica, ad un informe naufragio sentimentale. Quando il suo tema è più segnato e circoscritto,
questa ispirazione trova i suoi momenti migliori. Così nella bella lirica Transito, dove è detto in commosse parole lo sfiorire della bellezza della donna amata, e il raccogliersi nel suo cuore d’ogni sensibile dolcezza. Così in Il pianto di Xenia, in Primasera, in
Uscire dalla vita e in molte altre. Così in questa «foglia», quasi emblema dello smarrito sentimento che agita la poesia del Barile, di questa sensibilità patita,
abbandonata al soffio dell’esistenza che la scarnisce e rivela a nudo:
Orfana foglia che l’aprile in un soffio sospinge 348
e indifesa l’avvia alle soglie della prim’estate: già straziate di luce, incendiate di papaveri. Ostile alla sua scarna pagina, un raggio la trafigge d’un bacio la spoglia in una viva geometria di nervi. Ma s’è parlato, finora, di poeti appartenenti a generazioni giunte oggi alla loro maturità. Quali gli ideali, le ambizioni della poesia giovane? A dire il vero, sembra che anche da questa parte spiri aria di quaresima. Delle due schiere testé scese in lizza nel campo letterario, quella dei «contenutisti» e quella dei «poeti puri», la prima ha l’indiscutibile vantaggio di limitarsi agli articoli polemici, e di guardarsi bene dal tradurre in pratica le nuove frettolose teorie del romanzo collettivo e dell’arte sociale. Quanto ai poeti puri, essi prendono fin troppo sul serio la loro missione e c’ingombrano i tavoli di volumi e volumetti da cui, a semplice apertura di pagina, spira un'aria d’implacabile noia. Queste pioggerelle di versiciattoli stenti, dove non
luce un’immagine,
non
trema un brivido d’i-
spirazione, fabbricate in serie secondo un’identica formula di derivazione italo-francese, non devono giustificarsi, agli occhi dei loro stessi autori, che in
virtù d’una singolarissima autosuggestione. Tutto si giustifica e si manda giù, è vero, con la scusa dell’ «intimità». Ma una simile intimità, che consiste nel tan-
talizzarsi su di una parola, nello sdilinquirsi su di un frigido concettino, è piuttosto una specie di concentrazione nel vuoto mentale: ciò spiega come la nuova poesia ci venga servita a carrettate. Sarebbe tuttavia un peccato non salvare, da questi ammassi anonimi di carta versificata, buoni per il macero, il volumetto di Attilio Bertolucci, Fuochi în Novembre. Il Bertolucci è un giovane, studente e se-
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condo premiato ai recenti Littoriali della Cultura. Nel libretto, assieme ad alcune ingenuità, ci son co-
se sentite, fresche immagini naturali, talvolta ispirate a una sottile grazia un po’ lunatica, che può ricordarci qualche francese, come il Toulet (Inverno, Questo sole, Autunno). Ma questa, ed altre influenze, sono del resto scarsamente avvertibili in Bertolucci,
che ha un fare già suo, e la cui voce un po’ agra d’adolescente non ha nulla di affatturato:
Mi ha svegliato il tuo canto solitario Triste amica dell’ottobre, innocente civetta...
oppure: Emilia, ormai scurisce il tuo frumento
E il papavero esce a fare il bullo E le viti mettono teneri ricci E la sera i biancospini illuminano le stradette...
Accenti, si dirà, semplici accenti sparsi, che non si
fondono in compiuti organismi poetici. Ma chi sappia come sia cosa difficile, come, in un certo senso, sia tutto, raggiungere, in una poesia, un accento intonato, coerente alla verità del sentire, leggero e
preciso, dovrà trarre i migliori auspici per l’avvenire del giovane poeta. 1934
350
LA POESIA NEL 1938
Il grande lutto della poesia italiana è stato, questa primavera, la morte di D'Annunzio. Ma in altra sede
che non questa, di semplice cronaca spicciola, spetterà di commemorare degnamente un’opera che rappresenta, oltre all’ispirazione di un uomo, un’intera fase di storia poetica e di civiltà letteraria italiana. Del resto un dannunzianesimo,
come influenza
letteraria, non esistendo più da gran tempo, almeno in poesia. Per converso l’esperienza dannunziana, specie l’acceso naturalismo della grande lirica di Alcione, e la prodigiosa analisi sensuale dei diari ultimi, ha continuato ad operare, seppure in forme trasposte e indirette non agevolmente riconoscibili, i moltissime espressioni della nostra lirica moderna,
che pur sembra, ed è, così lontana e fino opposta al D’Annunzio nelle sue posizioni estetiche e morali. Come possano riferirsi all’esperienza suddetta, intesa in senso lato, certa musicale estenuazione della li-
rica di un Cardarelli, ad esempio, o la suprema astrazione sensuale di certi poemi ungarettiani, o certi aspetti naturalistici della prima poesia di un Montale (e non parliamo che dei maggiori e più originali 351
nostri poeti), sono temi che potranno tentare i più attenti critici italiani, e già se ne vedono accenni. Il bilancio dell’annata poetica si chiude, è bene dirlo subito, con un certo attivo. La mancanza di «ri-
velazioni» è compensata dalle riaffermazioni di autori già noti, anziani e giovani, come Govoni, Grande, Quasimodo, Sinisgalli ecc. Qualche interessante
ristampa, come quella dei Frantumi di Boine (Guanda, Modena) o dei Murmuri ed echi di Mario Novaro (Ricciardi, Napoli) sta ad attestare la continuità, consolante e rassicurante, dei nostri ideali lirici moderni. E il contributo delle migliori riviste letterarie
è stato anche quest'anno notevole. Con le sue Canzoni a bocca chiusa (Vallecchi, Firenze) Corrado Govoni, chiuso l’intermezzo del
Flauto magico, che per questo poeta elementare, esuberante ed intemperante ha evidentemente voluto significare una specie di «ritorno alla regola», rispolvera i modi e i temi della sua prima poesia, e, rinnegando le mortificazioni della «forma chiusa» e
l’uggia dell’endecasillabo a doccia continua, riprende ad allineare le sue carovane di versi liberi e d’immagini incatenate, riapre finalmente al pubblico il
suo portentoso spettacolo pirotecnico. Della poesia di Govoni ho un ottimo ricordo. Risale a una lontana estate solitaria che, ragazzo ancora, passavo a casa dei miei, in una campagna dell’E-
milia non molto lontana da quella bassa ferrarese che ha offerto tanti spunti e coloriti alla prima lirica govoniana. Arsura in cielo e in terra, frinire ossessio-
nato d’insetti, i grappoli d’uva ancora acerbi eran caldi sotto i pergolati. Un sole immenso e dorato schiacciava la pianura, e più intensa, più raccolta, fa-
ceva la siesta nell'ombra nelle grandi stanze, a scuretti chiusi, fresche come cantine. In quelle ore di calura pomeridiana aprivo il cassetto, indugiavo a con-
templare la copertina dell'ultimo «Quaderno della Voce»,
ancora
fresca di stampa,
352
la bella copertina
multicolore di Soffici. Inaugurazione della primavera: per me, scolaro, appena uscito dalla frequentazione dei classici e dalla scarlattina dannunziana,
il libro
era davvero una primaverile inaugurazione della poesia italiana «d'avanguardia», come allora si chiamava. La valle padana immersa nelle fantastiche nebbie mattinali, la ruota dell’arrotino che sprizza arcobaleni, il mendicante di Bordighera e il ronzio della macroglossa, l’altalena della doppia voce del cuculo; e gli aghi lucenti della pioggia, i fiorellini sul prato come azzurri fiammiferi di legno, e le malinconiche ma-
scherette delle viole del pensiero. L'ombra s’illudeva di queste immagini stagliate e brillanti, il mondo diventava giardino. E i colombi di mollica tubavano nella pace meridiana, sul vecchio tetto.
Cito a memoria, da quel tempo. Più tardi, quella vergine rivelazione, quel rugiadoso incanto mi si at-
tenuarono, e d’assai. Lo stupefacente dono immaginifico, la freschezza sensibile di quei piccoli splendenti miti naturali mi parve ben circoscritta. Oltre il quadro di lieve, attonita meraviglia in cui il poeta li disponeva, il sentimento si rivelava convenzionale e
falsamente ingenuo, senza ragioni e articolazioni reali: lontano dalle sue elencazioni d'immagini brillanti e oggettive, da quel tono indicativo d’infantile stupefazione, nei suoi componimenti più ambiziosi il poeta si faceva sforzato e inarmonico. Il nuovo libro non modifica questo nostro giudizio complessivo. Del resto da un artista istintivo, popolare diremmo, come Govoni, non era lecito aspettarsi delle trasformazioni sensibili. Anche qui, attra-
verso il ciarpame grottesco e falso-ingenuo che imbottisce il più delle composizioni, il poeta si salva nell’umida meraviglia delle immagini sparse, cui la
barocca arricciatura conferisce talvolta un fascino di secentesca curiosità: o quando un vago colorito di sentimento più intonato ci riporta alle più genuine origini — quelle crepuscolari — della sua poesia. Così in Dentro la pioggia di Febbraio: 355
In questa calma pioggia di Febbraio vedo tremare già l’erba verdognola col suo vento leggero come un fumo sento picchiare i cori delle rane e filare la nota melodiosa dal suo flauto di vecchia bava il rospo: tra pausa e pausa come un fiore vuoto nella fedele trama odo la voce del cuculo che chiama amore e morte.
Qualcosa del vecchio incanto rinasce in noi, come sfocato e appannato dal tempo. Ma è Govoni, o noi, che siamo invecchiati? Perdonate,
amici,
il lungo
excursus govoniano,
ch’era forse fuori posto. Ma poiché questo vostro originale almanacco vuol essere sede di assoluta libertà, dove il capriccio, la scivolata fuori tema, le ir-
regolarità, per così dire, siano la regola, mi manderete buona anche questa distrazione autobiografica. Salvatore Quasimodo, in Poeste (Primi piani, Mila-
no) raccoglie,
a documentazione
della sua prece-
dente attività, le sue migliori liriche, dal primo libro
Acque e terre fino al più recente Frato e Apollion. Il volume è preceduto da un saggio introduttivo di Oreste Macri sulla Poetica della parola, che ci ripropone il
problema di questa ispirazione, forse la più appassionata, la più ansiosa di «totalità», della nostra liri-
ca recentissima. «Poetica della parola», in opposizione all’oggettivismo classico, chiama Macri lo sforzo della poesia moderna, iniziatosi con D'Annunzio
e Pascoli, di «trapassare la cerchia delle rappresentazioni e delle immagini in quanto dati e di penetrare consapevolmente entro il clima stesso del sangue e dell’anima, muoversi di qui cogliendo il mo-
mentaneo e il transitorio entro la parola unica e assoluta... che sorge non come commento e spiegazione a un mito preordinato, ma mito essa stessa». Co994
me questo principio, questa poetica operi nella lirica nuova, e in quella di Quasimodo particolarmente, dove si fa quasi esemplare, il Macrî ci mostra attraverso una lunga ed attenta analisi, strettamente aderente al suo testo. Ad essa rimandiamo il lettore,
limitandoci noi, per questa volta, a constatare come nelle sue nuove poesie Quasimodo, pur senza tradire il suo nativo accento, mostri qua e là una nuova scioltezza, più articolato discorso poetico, che potranno forse consentirgli altri sviluppi. È l’«amor dei suoni», la smarrita musica che già animava Vento a Tindari ed altre delle sue liriche migliori, che oggi si
riafferma in modi più organizzati e complessi. Nel sereno colore che qui risale a morte della luna e affila i colli di Brianza,
tu ancora vaga muovendo hai pause di foglia... È un gesto più pacato, meno contratto, dove si scioglie il fondo quasi fisico di oscure mutazioni e patimenti che è proprio di questa ispirazione, e dove si riassorbe quasi senza residui l’inventività verbale e analogica del suo strumento tecnico. Anche Leonardo Sinisgalli, in Poesie (Edizioni del Cavallino, Venezia), raccoglie le /8 poesie già pubblicate nella bella edizioncina di Scheiwiller, assieme
ad altre nuove. Sinisgalli ha subito l’influenza delle poetiche recenti, da Ungaretti a Montale a Quasi modo e, senza lasciarsene soggiogare, l’ha piegata ad espressioni di grazia ben sue, con un piglio, una fermezza, una giustezza di tocco che hanno giustamente colpito gl’intenditori. Il suo preteso ermetismo è gusto del segno essenziale, abilità di trarre dalla puntura della sensazione brevi e illuminanti miti di un attimo:
A bel vedere sull’aia tante notti abbiamo dormito > 2]
le mani affondate nel grano, il sonno guardato dai cani. Più mansueti erano i tuoi piedi dei colombi fatti per burla col panno bianco dei fazzoletti. Avevi fili di paglia nei capelli: alle spalle movevi il prato a una trepida suoneria. Ma il mito dei miti, anche per Sinisgalli, come per tanta della nostra poesia ultima, e forse d’ogni epoca, è quello dell’infanzia, del paradiso remoto nel tempo e presente fuori del tempo, della sempre viva in noi e sempre irraggiungibile terra natale. Ma anche a contatto con questo tema Sinisgalli è poeta che non si abbandona mai, e, più che alla apertura del canto, tende all’acerbezza, all’incisività della definizione analogica. Tanto che talora, come nei Versi
per album, sembra aspiri addirittura a consolidare le sue evocazioni in piccoli divertimenti plastici, quasi in un aggraziato parnassianesimo. Una diffidenza verso il canto, ancor più radicale, si mostra in Testa di Libero De Libero (Edizioni della Cometa, Roma), il cui caso, trattandosi di uno
scrittore d’ingegno, è assai istruttivo. Il gusto della definizione sensuale e analogica — non molto lonta-
no da quello di un Sinisgalli — che si affermava in Solstizio, qui sì fa più sciolto, più corrente, più figurati-
vo. Ma, nell’intento di perseguire i suoi simboli, le sue mitologie georgiche e naturali, la compiutezza illustrativa e gnomica del suo «mondo»,
il poeta si
dimentica per istrada addirittura la poesia: la sua è prosa, che risulta ancor più prosaica e scabra proprio perché si esprime in linee spezzettate di versi. Della poesia resta un’eco lontana, come
nella ordi-
naria traduzione d’una lirica straniera suol rimanere quasi una spenta vibrazione dell’originale. Anche il caso di Adriano Grande è significativo. Da una lirica assolutamente interiore, diradata dal-
356
l’autocritica, come quella della Tomba verde e di Nuvole sul greto, dove l’artista esprimeva, attraverso una
sua sottile modulazione musicale, un pensoso sapore amaro e umano, egli si è più tardi fiduciosamente volto a temi di più vasta risonanza, e addirittura d’ispirazione civile. Queste Poesie in Africa (Vallecchi, Firenze) raccolgono impressioni e ricordi della guerra abissina, canti di guerra e di marcia, stasi di nostalgìa e d’idillio. Il coraggio di affrontare una poesia sfogata e diretta, in un artista ben consapevole dei suoi mezzi espressivi, come il Grande, è in un certo senso am-
mirevole. La sua eloquenza casta e schietta, la sua sapienza di modulate
riflessioni, la sua bravura nel
campire paesaggi e orizzonti lo servono mente:
egregia-
La boscaglia si stende come un lago confuso, senza meta c’inoltriamo,
gli sciacalli si appiattano, le jene ammutoliscono, uccelli notturni si chiamano con voci d’allarme: e noi nuotiamo in un incanto
incandescente, ci guidan le stelle brucianti e i lumi dell’accampamento. Ma poiché verso uno scrittore come Grande è doverosa la più stretta verità, dirò che in questa fase un
po’ svagata della sua ispirazione mi piace vedere più che altro una libera vacanza, uno sfogo di vita, un assorbimento, magari, di temi e di motivi in vista di un
approfondimento ulteriore. Vorrei che di questa sua esperienza nuova il poeta si servisse domani per una
lirica più oggettivamente elaborata, più raccolta e sensibile in ogni suo punto, pari in altezza alla mi-
gliore e più densa dei suoi primi libri. Qui, con tutte le sue belle qualità, mi sembra che il Grande scivoli alla superficie della poesia senza inciderla. C'è il gesto poetico, c’è l’immagine, c'è l’effusione lirica: ma al punto di scavo, ove soltanto scocca la «freccia
307
di delizia» di cui parlava William Blake, egli non giunge più. Uno schietto accento d’umana inquietudine e desolazione pervade le poche reliquie liriche del pittore Scipione, troppo presto spentosi (Le civette gridano, Scheiwiller, Milano). Esse, come
dice Enrico
Falqui nell’affettuosa prefazione al volumetto, «sono come l’appunto scritto, il folgorato e scheggiato soggetto di quadri più tardi eseguiti o dalla morte sottratti. Una eguale ispirazione li percorre e signoreggia». Giovanni Descalzo, ligure, rivela sempre meglio le sue doti più genuine nell’impressionismo rivierasco delle liriche di Paese e mito (Scheiwiller, Mi-
lano). Non si possono infine passare sotto silenzio le popolaresche Cantate del pittore Cesetti (Edizioni del Cavallino, Venezia) né le Poesie di Renato Mucci (Edizioni del Cavallino, Venezia). Quanto ai giova-
nissimi segnaleremo le Poesie di Francesco Tropeano, littore di Poesia dell’anno XVI (Edizioni GUF,
Messina), e Ballo a Fontanigorda di Giorgio Caproni, che ha vinto il premio Emiliano degli Orfini di Genova, ed è pubblicato presso lo stesso editore: entrambi rappresentano egregie promesse. E, poiché siamo in tema di premi, aggiungeremo che questanno il premio «Poeti del tempo di Mussolini» è toccato meritatamente a Giuseppe Valentini. Se infine è permesso citare libri ancor freschi di stampa e che non si è fatto in tempo a leggere (mi
valga la sincerità), citerò La Valletta di Antonio Rinaldi (Guanda, Modena) che, ad apertura di pagina, promette e interessa, e L’Oceano della mezzanotte
di Roberto
Zerboni
(Libreria Internazionale
Mo-
dernissima, Roma). In questo momento il postino porta anche
Marsia ed Apollo (Vallecchi, Firenze),
dove Ardengo Soffici raccoglie le sue poesie complete, da quelle del periodo futurista alle più recen-
ti neoclassiche e foscoliane: e qui s'imporrebbe un lungo discorso. 358
Un lungo discorso meriterebbero pure le liriche apparse, quest'anno, nelle principali riviste letterarie. Non da oggi, la poesia italiana che più conta si è profetata, creata, elaborata, salutata e dibattuta sulle rivi-
ste. Se la critica ha la sua più naturale sede sulle cattedre, al caffè o nelle colonne del quotidiano, se al romanzo è necessario il libro stampato, il laboratorio adatto alla poesia, più ancora del quaderno, è la rivi-
sta. Ma, dovendo chiudere un rapporto che minaccia di farsi lungo, ci limiteremo alle citazioni.
I lettori di «Circoli» e di «Letteratura» avranno ap-
prezzate le belle poesie di Saba, in particolare I morti amici («Circoli») e Bocca («Letteratura»). Né saran-
no loro sfuggite le poesie di Montale apparse in «Letteratura»; specie Barche sulla Marna, così significativa
della seconda maniera (che è poi una seconda maniera?) di questo poeta. Sempre in «Letteratura», Betocchi, Pavolini, Fallacara e i primi saggi poetici,
degni di particolare nota, di Beniamino Dal Fabbro. In «Circoli», Grande, Barile, Ortolani, Laurano; in «Frontespizio», ancora Betocchi, Vittorio Sereni, Gatto, Luzi e Parronchi. In «Campo di Marte», ancora
questi ultimi e Sandro Penna, per le cui imminenti Poesie (Edizioni di Letteratura) formuliamo un caloroso augurio.
Per finire questa rassegna, che va arenandosi in un arido elenco di nomi (e fortuna che parecchi son rimasti nella penna), menzioneremo due traduzioni
di poeti stranieri che, per esser vere e specchiate traduzioni, sono anche opera di poesia: le Elegie Duinesi di R.M. Rilke, tradotte da Leone Traverso (Paren-
ti, Firenze) e il Canto Liturgico di Sergio Essenin, tradotto da Giacomo Prampolini (Scheiwiller, Milano). 1939
999
TRE GIOVANI
A giudicare dalla frequenza con cui, in questi tempi, si vanno pubblicando libri di liriche - e non sono neppure rarissimi, nel numero, i degni d’interesse — si dovrebbe inferire che c’è toccato di vivere in un’epoca ricca di poesia. Più prudentemente, diremo di vivere in un’epoca che sente il bisogno della poesia: che è sempre bisogno d’interiorità, di dare un senso alla vita, e anche questo non è poco. Quanto ai poeti, chi, dei molti chiamati, riuscirà a
passare per la porta stretta? Intanto, ecco tre libri di giovani, o che possiamo considerare per tali. Voce sola, di Cesare Brandi; Care ombre, di Libero Bigiaretti; Maternità della notte, di AI-
berto Imbornone. Del Brandi conoscevamo già un libretto di Poeste, dove sorprendeva un poco, trattandosi appunto di un giovane, la severa rinuncia ad ogni compiacimento sentimentale e musicale, e s’effondeva una
vena di spoglia meditazione, che poteva far vagamente ricordare il Cardarelli discorsivo delle prime liriche dei Prologhi, a parte il tono più dimesso e del tutto privo della risentita oratoria del poeta di Adole360
scente. Il senso del trascorrere dell’età, la fatica quotidiana, la monotonia del vivere meschino, i moderni miti sportivi, trovavano, in quel libretto, un ac-
cento spesso esatto, forse un po’ freddo e pacato, ma di timbro sincero.
Con Voce sola il Brandi, forse insofferente di quel.
la sua meditativa nudità, appena qua e là variata da immagini di paesaggio, tenta canzonette ed epigrammi,
fiorettature
canore,
innestando
modi po-
polareschi e cadenze di villotte e ballate sulla sua gracile e raccolta tristezza intellettuale: e vi raggiunge risultati d’un gusto forse non inedito, ma in lui singolare. A dire il vero, un certo equivoco ci sembra sussistere al fondo di questa sua ispirazione: la levità del simbolo, le rapide analogie spesso non si fondono con la semplice cadenza popolaresca e la facile rima: e l’effetto si perde. Resta, nelle liriche più riuscite, l’idea, lo spunto:
Ricordi le terse mattine nella palestra gelata, alla faccia sudata batteva l’aria fine: forse già tocca alla fine la nostra giornata sudata,
discende la sera gelata, la sera di quelle mattine. In genere il Brandi meglio convince quanto più si attiene alla sua pura linea gnomica e riflessiva. Certi suoi divertimenti melodici e immaginosi, come
i
Registri, intendono meno. Ma Voce sola, più del primo libro, testimonia di una vena in elaborazione. Attraverso qualche eco montaliana e quasimodiana,
una necessità poetica, una voce intonata si presentono. Non manca che una maggiore rinuncia agli svolgimenti inessenziali, una più salda presa di possesso, per rivelarle. 361
Più limitato nel campo delle sue esperienze e ricerche, ma anche più concreto come risultato stilistico, Libero Bigiaretti, in queste sue Care ombre, aspira alla purezza di quella linea melodica, di quelle immagini aperte e ariose, che rappresentano la nostalgia classica, e più particolarmente leopardiana, che vive al fondo di tanta lirica contemporanea. Per certe definizioni epigrammatiche e sentenziose, si penserebbe a Grande; a Penna, per certe vivaci im-
pressioni sensuali e di colore. Più addietro, a Saba. Richiami validi più che altro a titolo d’orientamento, che non come indici di derivazioni. E il gesto esatto, la grazia leggera che ha il Bigiaretti nel co-
gliere in un breve giro di versi una fugace fermentazione sentimentale, un bel pensiero, sono il risulta-
to di una esperienza individualmente maturata:
... questa isolata dolcezza di un respiro calmo; questo tranquillo disamore onde, da me staccandosi,
il mondo mi si mostra con l’incanto remoto della luna, che veleggia, carica di sue fiabe, lentamente. Sopratutto ci colpisce, trattandosi di un giovane, la misura, l’equilibrio morale e formale di questa poe-
sia. Accettazione di sé e della vita, rassegnazione meditata, dove l’amaro
delle scontentezze
e dei rim-
pianti, i brividi del turbamento si placano nella grazia d'una immagine insistita con scrupolo classico, in un ordine sereno che esclude gli urti, le fratture violente, e si appaga di fiorire in definite armonie, in rit-
mi attenti e flessuosi. Le colline marchigiane evocate nel ricordo, il giro delle stagioni, il canto della com-
pagna d’ogni giorno nell’altra stanza: una tenue, ma schietta consolazione si esprime in questa poesia; e quasi ci fa pensare all’ignota musica di cui parla il poeta, udita per caso in istrada una sera lontana: 362
Riudendoti, la rara
armonia di quel giorno ritroverò: fuggita con te per una strada romita. Se il Brandi ed il Bigiaretti ci testimoniano di due nature poetiche, se pure tra loro diversissime, entrambe sorvegliate e ricercatrici, Alberto Imbornone, in questa sua Maternità della notte, ci offre invece
l'esempio di una ispirazione esuberante e impetuosa, ricca di una baldanza giovanile che è divenuta assai rara ai nostri tempi. Certo, il ciarpame delle
reminiscenze vi è notevole, da quella crepuscolare (vi ritroviamo addirittura l’esile Pierrot, il poeta malato, il cuore «inguaribilmente romantico») a quella versilibrista e futurista («spiralici abbraccia-
menti / d’amanti elettriche... l’aria è canora / come la carlinga / d’un aeroplano»). Ed è tale la fiducia del poeta nel suo estro da indurlo persino ad affrontare, e non senza una certa efficacia descrittiva, il tema d’un naufragio... Ma, dopo tanto tor-
mentato scrupolo formale, dopo la faticata rarefazione e mortificazione di tanti giovani poeti, ci sorprendiamo talora a seguire questa vena aperta e sfogata con uno stupore simile a quello che può colpirci al vedere un sonnambulo passeggiare sui tetti di casa nostra. Buona parte di questa lirica non è probabilmente che sfogo immediato di un senti mento indeterminatamente
poetico, che porta con
sé ogni sorta di detriti sentimentali, letterari e provinciali,
e non giunge allo stile. Ma, ove si sormonti
quanto di ingenuo e generico essa presenta, ove non ci s'impunti di fronte alle numerose improprietà e stonature, e ci si soffermi invece sui momenti in cui il poeta, meno disposto a scivolare lun-
go la china del semplice sfogo versificato, guarda ed esprime la semplice vita intorno a sé, riconoscere-
363
mo un’intonazione genuina, e qualcosa come un caldo colorito meridionale: Molle l'autunno col tepido profumo delle caldarroste s'annuncia; rassettate dalle prime piogge le lucide strade . s’offrono al frettoloso passante coi margini dilatati dalle ombre. Odor di campagna e in certe ore crepuscolari odore di lontano mare. Svelta la giovinetta col collo fasciato dalla pelliccia ancora odorante di chiuso le vetrine eleganti ammira con più golosa malinconia... Parrà poco, per chi minaccia di far precipitare dal cielo «l’infocata pioggia dei suoi canti». Ma vi riconosciamo il delinearsi d'immagini vive, lo scandirsi d’un sentimento giusto: che, in poesia, sono il prin-
cipio di tutto il resto.
1940
364
«POESIE» DI DE PISIS
Quando un poeta è anche pittore, e un fortissimo pittore, come nel caso di De Pisis, sembra naturale al critico di dover insistere a rintracciare, nella sua
pittura e nella sua poesia, un fondo di comune ispirazione. E, certo, nelle ardue
rime michelangiole-
sche, ci sarà dato ritrovare il senso incomparabile di quel sommo risalto figurativo, di quella costretta potenza. Mentre, per scendere più vicino a noi, gli appunti e le lettere di un Signorini e d’un Cecioni ci appariranno sature, in moltissimi tratti, di quel sapore immediato,
frammentario
e mordente,
di realtà
quotidiana, in cui si concretò la loro ispirazione di «macchiaioli».
E, nei primi diari di Soffici, il gusto
del colore ci parve un tempo vincere in freschezza e fluidità quello dei quadri ad essi paralleli. Ma per altri artisti — e fra questi si può annoverare De Pisis — l’esercizio della poesia, più che richia-
marci alle stesse fonti della loro pittura, sembra piuttosto destinato ad integrare la loro arte principale, a esprimere, sia pure in modi minori, proprio ciò che a quella, per la sua particolare natura, deve forzatamente sfuggire. In un lontano libretto di prose poe365
tiche, La città dalle cento meraviglie, il senso del colore, di un vibrante e incantato colore, predominava
ancora: e certe verzure e cieli e vie di città e di campagna ferraresi durano ancora nella nostra memoria. In queste Poesie il colorista dei forti pezzi di pittura si apparta, e si affermano in sua vece i toni grigi (in altro senso, ben s’intende, di quello per cui
De Pisis riesce talora elegantissimo pittore di pure tonalità grige e in sordina), il disegno appena accennato: il rovescio, insomma, della plasticità e del-
l’evidenza figurativa. La derivazione «crepuscolare» e di quanto nel «crepuscolo» si conservò di più propriamente pascoliano, il trepido e ingenuo candore, vi è palese.
Vi si respira ancora qualcosa dell’aura sentimentale che fu cara a Corazzini, a Moretti, al primo Govoni
e al primo Palazzeschi. E caduto, invece, tutto l’armamentario della vecchia poesia crepuscolare, i temi obbligati, i luoghi comuni di questa. E il tono ne risulta più terso, la scrittura «a lapis» più spoglia ed essenziale: AI nostro cuore talora poca cosa basta! Un'ora incerta in mezzo al cielo appena azzurro in un paese straniero
un giorno di tedio, d’oblio vedrai sospesa leggera la luna. Il che vale quanto dire che la poesia di De Pisis è immune, sostanzialmente, da influenze letterarie, al-
l’infuori di quel gusto di echi e timbri appena accennati, come una semplice andatura cantabile impressa alla voce, la ricerca di un tono quasi di prosa, appena increspato da vaghe cadenze di novenario, che fu,
per così dire, il portato tecnico della poesia crepuscolare. Modulo
estremamente
impreciso, che con-
sente al De Pisis di coltivare la sua lirica in margine, 366
la sua poesia «da taccuino», con tanta grazia e levità di tocco, senza mai eccedere nel tono, senza mai tra-
scendere la imposta modestia dell’annotazione rapida, della musica in sordina. E al lettore frettoloso, che
possa scambiare la sua apparente sprezzatura per facilità, sarà agevole mostrare quale delicatezza e giustezza d’aggettivi e d'immagini si celi sotto il grigiore della prima superficie, sotto la semplicità dell’annotazione. Quel «ramo verdino, casto, fiorito» che tremola oltre ivetri aperti; quella «rosa sola / attenta in un angolo», quel «dolce fluir di sangue nuovo, / lin-
fa vegetale», quel «cuore con le sue belle ali di vento». E le sue figure, così ben colte in pochi tratti, il giovinetto Boris, che «dritto, gentile come un atleta» guar-
da «il cielo parigino / grigio, sopra un orto intirizzito», e, ancor più toccante, quella di Suor Teresa in un lontano ricordo materno. Momenti di scontentezza e di scoramento, e mo-
menti di riscatto, di rinascita: più frequenti, a dire il vero, i primi. Improvvise malinconie, riflesse appun-
to nel loro momento di più immediato, infantile abbandono.
Il rovescio,
si direbbe,
di quella sciolta
«gioia di dipingere», di quello smarrirsi nelle festose apparenze sensibili che noi, costretti ad esprimerci unicamente con la penna e le stanche parole, più sogliamo invidiare ai felici pittori. Per questo accennavamo alla poesia di De Pisis quasi ad una delicata integrazione della sua personalità d'artista: a un modo di colmare gli interstizi, le necessarie lacune
espressive della sua arte maggiore. 1940
367
LA POESIA NEL 1940
1940, anno di guerra. — A costo di parer cinico, confesserò che sono sempre stato tentato d’istituire, tra guerra e poesia, un sottile rapporto, e di documentarlo magari con esempi. Ma in che consista questo rapporto, se in una semplice analogia o in qualcosa di più profondo, mi sfugge. Forse nel fatto che all’affiorare della poesia lirica, come
a quello
d’una vena d’acqua profonda, è necessaria una frattura,
una
scossa
violenta,
lontanamente
simile
a
quella che la guerra opera sulla compagine nervosa d’un gruppo sociale. Forse nell’altro fatto che la guerra e la poesia, con l’amore, sono i soli tre mezzi di esaltazione naturale concessi all’uomo (e, a ben vedere, l’esaltazione che è coessenziaie ad ogni forma di attività, ideale o pratica, è sempre tinta d’uno
di quei tre coloriti fondamentali). E il divertimento
analogico potrebbe continuare. Si pensi alla parte probabilmente decisiva, come «dimensione» di destino, avuta dalla crisi del ’70 nel fenomeno Rim-
baud: nello spicciare di quel «grido di sangue» che ha tanto contribuito alla nascita della poesia moderna. Le Illuminations furono scritte nel 1872-73. 368
Degli stessi anni sono le Romances sans paroles, gli Amours jaunes, i Chants de Maldoror: cioè le premesse di mezzo secolo di poesia francese. E si pensi alla nostra poesia italiana contemporanea, alla formazione della personalità di un Ungaretti o di un Saba, agli inizi d’un Montale, che furono in parte coevi, e non
probabilmente per puro caso, agli anni della grande guerra. Ma tralasciamo queste suggestioni, limitandoci a constatare come questo 1940 sia stato un anno particolarmente fruttuoso per la poesia italiana, con una dozzina di libri importanti o almeno notevoli: cifra che, trattandosi di poesia lirica, è indub-
biamente assai elevata. Nelle Occasioni (Einaudi, Torino, 2° ediz.) Euge-
nio Montale ha raccolto la sua produzione successiva agli Ossi di seppia, ossia le liriche scritte dal 19283 al 1940, di cui peraltro gli intenditori conoscevano la più gran parte, per averle via via lette e apprezzate sulle riviste letterarie. Le attentissime esegesi dei nostri maggiori critici, e dei giovani, ermetici o meno, hanno potuto così subito salutare
l’apparire del nuovo volume, che rappresenta la seconda stagione dell’arte di Montale. E si è persino assistito a cordiali certami polemici fra i nostalgici assertori degli Ossi di seppia, che nel nuovo libro han voluto ravvisare un decadimento, in senso tec-
nico e prezioso, della vena più aperta e canora degli Ossi, e gli ammiratori esclusivi del nuovo Montale. Così abbiamo addirittura visto l’introduttore degli Ossi di seppia, Alfredo Gargiulo, assumere una cautissima posizione verso le Occasioni, per limitar-
ne il valore di «canto» e per riconoscervi piuttosto i modi d’evocazione indiretta di certa «prosa d’arte». Per contro, il sottile e sensibile Contini addita-
re il «residuo» autobiografico e psicologico degli Ossi a tutto vantaggio della maggior liberazione poetica e fantastica delle Occasioni. La verità ci sembra, piuttosto, che una poesia cre-
369
sce e si sviluppa come una persona viva, e che, se è lecito preferire l’impeto dell’età giovanile, o il più sciolto agio della maturità, bisogna cominciare con l’accettarla umanamente nelle sue radici fondamentali, nel suo accento
insostituibile e necessario.
In
questo senso, lungi dal vedere uno stacco netto fra i due libri, preferiamo constatare una cosa assai semplice: che le Occasioni continuano gli Ossi. Nelle nuove poesie circola, è vero, più aria, vi troviamo una
maggior suggestione di pause, una più fascinosa scienza di appena indicate, balenanti evocazioni. È altrettanto vero che in esse s'è attenuata un poco quella pur cauta fiducia nel canto che si liberava nel libro precedente. Ma, alle accuse di tecnicismo e di gioco stilistico rivolte al nuovo Montale, si potrà rispondere additando poesie come Punta del Mesco, Corrispondenze, Costa S. Giorgio, pari, per la forza della lacerazione patetica, alle meno dimenticabili degli Ossi. Mentre nelle forme scorciate e allusive dei «Mottetti» vedremo, proprio in grazia del supremo affinamento dello strumento
tecnico, quanto il me-
desimo sentimento, appunto perché così cautamente rattenuto e quasi suggerito, guadagni nella sua segreta intensità. L'inizio dell’anno ci ha portato, con le Poesie di Sandro Penna (Parenti, Firenze), un libro nato
sotto l’inequivocabile segno della grazia poetica. Un candore sensuale che a torto potrebbe parer malizioso — per quanto, in ogni senso, al di là del
bene e del male — ombreggiato a tratti d’una chiara malinconia; e limpidi paesi e leggiadre figurette campiti nel giro di componimenti il più spesso brevissimi,
con
una
essenzialità
di segno
degna
dell’ Antologia. Questa parentela con un alessandrinismo per nulla elaborato ed intellettuale, anzi primitivo e vagheggiante talora cadenze quasi popolaresche,
è già stata notata dai critici; e quella
sua avvertitissima ingenuità espressiva. Così pure 370
la sua parentela con la prosa primesautière del miglior Comisso, con l’ultima poesia di Saba, o la pittura di un De Pisis. Le nere scale della mia taverna tu discendi tutto intriso di vento.
I bei capelli caduti tu hai sugli occhi vivi in un mio firmamento remoto. Nella fumosa taverna
ora è l’odore del porto e del vento. Libero vento che modella i corpi e muove il passo ai bianchi marinai.
Certo, vien fatto di pensare che la miracolosa perfezione di certe sue cose, la vergine rivelazione di certi suoi versi, che, la prima volta, ci fecero pensare addirittura al giovinetto Rimbaud (Penna non è
più così giovane, ma estremamente giovanile è la sua immagine di poeta), i limiti stessi di quel suo affettuoso e trasparente mondo poetico non compor-
tino svolgimenti e arricchimenti di sorta. Penna è quello che è: un dono, da prendersi o da lasciarsi, come le cose della natura.
Alfonso Gatto, con queste Poesie (Edizioni di Panorama, Milano), dov’egli ha raccolto le migliori liriche di Isola e di Morto ai paesi insieme ad altre ine-
dite (ed ha meritatamente ottenuto il premio Savini), è indole d’artista più tormentata e complessa. In lui la sensualità espressiva, la vivacità coloristica, che potrebbero magari avvicinarlo a Penna — ma
con una qualità specificatamente meridionale, che ha indotto i critici
a ricondurne
le origini a poeti
come Gaeta e Di Giacomo — apparvero agli inizi in qualche modo complicate e mortificate dalla preoccupazione tecnica. Mente critica e riflessiva, il Gatto
ha trovato la sua strada scorporando, per così dire,
sempre più la materia della sua poesia, e riprenden-
do, ma come stancate e rese estremamente aeree e
371
sfuggenti, con una grazia particolarissima, le forme
tradizionali della quartina rimata, e il settenario e addirittura l’ottonario:
Torna povera d’amore nel ricordo l’erba e a sera reca solo quest'odore della morta primavera, questi prati freschi al velo della corsa che negli occhi dei bambini è quasi il cielo... Un delicatissimo sfacimento, che giunge a coloriti esangui, madreperlacei e lunari, in cui i volubili si-
gnificati della poesia, gli stati d'animo più impalpabili appaiono e spaiono, di volta in volta sommersi
nella dolcezza melica, nella musica struggente. Se il limite estremo cui sembra tendere la poesia di Gatto (e insieme il suo pericolo) è questo dissolvimento in sogno e musica, appena arginato da un felice e virgineo ritrovamento della forma «chiusa», un Sinisgalli appare, per converso, invidiare l’icasticità, il mordente dell’espressione plastica e pittorica. Queste Muse che il poeta, nell’ultima lirica del
suo volumetto
/ Campi Elisi (Scheiwiller, Milano),
sorprende a gracchiare e mangiare ghiande fra le larghe foglie delle querce, sembrerebbero inventate da un De Chirico, o da un Savinio. E mentre il pesce
che s’illumina nella boccia di vetro in Via Velasca fa magari pensare a un Matisse, il «fatuo alone della veste / rossa nel fumo delle nebbie d’un tempo» ci rie-
vocherà addirittura qualche elegante effetto di bruma di De Nittis o di Boldini. Questa capacità di trarre dall’aculeo della sensazione brevi e illuminanti miti d’un attimo, plasticamente raffigurati, già ven-
ne da noi notata come la qualità più persuasiva di Sinisgalli. Certo, anche questa grazia d’incisione e di «macchia» comporta più d’un pericolo: principale fra tutti quello dell’appagarsi nella piccola perfezione d’un puro divertimento lirico. Ma Sinisgalli, per
372
più d’un segno, dimostra di non volersi arrestare lì. Nella recente poesia apparsa su «Primato»: Muore il ragazzo un poco..., non è più soltanto il luogo comune della poesia moderna, la «favolosa infanzia», pretesto alla piccola illuminazione, ma l’acuità della de-
finizione figurativa che si fa stavolta definizione psicologica in un quadro di annoiata perplessità puerile. E i sensi di Eros, in altre liriche recenti, som-
muovono
e sciolgono la ferma estaticità del qua-
dretto, animando e fiorendo la esatta e colorita rosa
di Gerico di questa ispirazione. Eros ha avuto pure il merito di intonare e di chiarire la vena di un altro giovane poeta d’alto ingegno, Libero De Libero, nel suo volumetto Eclisse (Edizioni della Cometa, Roma). Il suo precedente libro, Testa,
mi sembrò a suo tempo tradire un'ispirazione discordante fra un mondo denso di figurazioni e di simboli e un tono di voce intimo e smorzato di confessione: e che la resa ne fosse in definitiva prosastica. Forse, rileggendolo dopo Eclisse, quell’impressione potrà modificarsi. Qui, in questa specie di appassionato colloquio a due, che farà magari lontanamente pensare a un Eluard italiano, il senso immagi-
noso e favolistico s'accorda appieno col tono basso della voce, col lento gesto evocativo. La poesia non è più sostanzialmente descrittiva, ma, sul suo più pre-
ciso strumento, sorge in delicate modulazioni: Di te mi lamento che m'hai ferito,
e vado per monti, ai fiumi domando: m'è celata la tua frontiera. Un bosco per dove passasti, è bello il bosco che hai guardato. Ora m’appaga una fonte che racconta il tuo volto e nel fresco suo volo la colomba. Il libretto, più che una raccolta di liriche, può con-
siderarsi un poemetto in più frammenti, va letto in 373
ordine, attentamente, e scaldato con la fantasia: sve-
lerà al lettore una voce inconfondibile e di lunga eco. Con Voce sola (Edizioni della Cometa, Roma) Cesare Brandi, del quale conoscevamo un volumetto di
Poesie dove si disegnava una vena di spoglia e sottile meditazione, tenta canzonette ed epigrammi, fiorettature canore, innestando modi popolareschi e ca-
denze di villotte e ballate sopra un fondo di gracile e raccolta tristezza intellettuale: e vi raggiunge risul tati di un gusto assai singolare: Ricordi le terse mattine nella palestra gelata, alla faccia sudata batteva l’aria fine:
forse gia tocca alla fine la nostra giornata sudata,
discende la sera gelata la sera di quelle mattine. Libero Bigiaretti, con Care ombre (Augustea, Roma), aspira alla purezza di quella linea melodica, di quelle immagini aperte e ariose, che rappresentano la nostalgia classica, e più particolarmente leopardiana, che vive al fondo di tanta lirica contempora-
nea. Ma il gesto esatto, la grazia leggera che mostra il Bigiaretti nel cogliere in un breve giro di versi una fugace fermentazione
sentimentale, un bel pensie-
ro, sono il risultato d’una esperienza individualmente maturata. Alberto Imbornone, infine, in Ma-
ternità della notte (Edizioni Bodoniane, Palermo), at-
traverso il ciarpame variopinto di disparate reminiscenze giovanili, ha tratti d'ispirazione genuina, sof-
fusa a volte d’un caldo colorito meridionale. Mario Luzi, nel suo Avvento notturno (Vallecchi, Fi-
renze), realizza, in modo non si potrebbe più compiuto, le aspirazioni che appaiono muovere molti giovani poeti «ermetici». Una poesia che esclude la con374
fidenza, i toni sfumati, e tende a liberarsi in equilibri
d’immagini dense e preziose, in «costellazioni» di pa-
role e di ritmi, dove si concreti e si definisca nel suo
aspetto singolare la genericità del sentimento iniziale che la muove, l’idoleggiamento d’una giovinezza come fastoso mito fiabesco. Se anche, in certi tratti, i
suoi modi possono ricordarci Montale o Gatto, la sua materia linguistica e ritmica può farsi risalire a D’Annunzio, mentre per certe ideazioni astratte, sviluppantisi, per così dire, a spirale sull’oggetto, si pensa a un ricordo di Mallarmé
(le «inattuate rose», il collo
che «raggia nell’aria la defunta ebbrezza / di sorgere così casto e dolente»). Altrove, al Valéry, e magari a
qualche moderno poeta spagnolo. Questa poesia riesce anche a creare accesi panorami di sogno e di miraggio, materiati di vaghe memorie: Irruenti di rondini sui fiumi sgomenti le città avverse alla luna aprono i ponti, imbianca di frantumi l’onda le luminose arci d’infanzia.
A voler immaginare una natura di poeta agli antipodi di quella del Luzi, non si potrebbe trovare di meglio di Orazio Napoli con queste Poesie (Primi piani, Milano).
Lungi
dall’addensarsi
in colorite
musiche e astrazioni verbali, la Musa del Napoli cerca aspri sapori di vita, e non si arresta di fronte alle stonature, ai paradossi d’una involontaria ironia, neppure, direi, alle gomitate nello stomaco. Ma quell’accento duro, perentorio e discorde, è ben suo, anche se, per l’esteriore veste di sensazioni e
d’immagini, può far talvolta rammentare Quasimodo e Sinisgalli. Quel suo risentito scontento, quel gusto d’amaro in bocca, ci persuadono che non a caso, come semplice riempitivo, per compiere il volumetto, il Napoli ha fatto seguire le sue poesie da un Saggio sulla poetica di Jacopone. E non so quanti dei
375
poeti che stiamo passando in rassegna sarebbero capaci del pathos contratto della sua lirica Madre: Ella è sanata, è madre.
Spento il grido che riscuoteva i vetri:
dal cortile la quiete è giunta in alto. Infinite sono le vie della poesia, come quelle del Signore. E la scontrosa Musa del Napoli («compagna lacera / pungente di sdegno») ha tratti assai curiosi. Questo peloso fiore d’aridità ha, di tanto in tanto, momenti d’uno strano profumo. A parte bisogna ricordare le Poesie di De Pisis (Libreria Internazionale Modernissima, Roma), dove il
colorista dei forti pezzi di pittura si apparta, e si affermano in sua vece i toni grigi e il disegno appena accennato. Poesia in margine, «da taccuino», che trae le sue origini dall'esperienza crepuscolare, pur lasciando dietro di sé i temi obbligati e i luoghi comuni di questa e raggiungendo un tono assai più terso, una scrittura più spoglia ed essenziale. Al lettore frettoloso, che possa scambiare la sua apparente sprezzatura per facilità, sarà agevole mostrare quale delicatezza e giustezza d'immagini si celi sotto il grigiore della prima superficie, sotto la semplicità della notazione. Quel «ramo verdino, casto, fiorito»
che tremola oltre i vetri aperti; quel «cuore con le sue belle ali di vento». E le sue figure, così ben colte in pochi tratti, il giovinetto Boris, che «dritto, gentile come un atleta», guarda «il cielo parigino / gri-
gio, sopra un orto intirizzito». Si pensa alla poesia di De Pisis come ad una delicata integrazione della sua personalità di artista: a un modo di alternare al colore le parole, di colmare gli interstizi, le necessarie
lacune espressive della sua arte maggiore. Altri poeti attendono alla porta col biglietto d’ingresso alla mano.
Alcuni di essi meriterebbero
376
un
cenno ben più ampio di quello che saremo costretti a fare. Ma la tirannia dello spazio è implacabile, e sarà colpa della fatalità, o del disordine della scrivania, se
sì sono presentati al momento della ressa inevitabile che precede il non meno inevitabile «si chiude». Così Roberto Rebora, indole raccolta e meditativa di lirico,
che può ricordare, per quel suo sepolto e desolato bisogno d’intimità umana, l’altro Rebora (Clemente) e, nei coloriti descrittivi, Ungaretti e Montale. Ma in queste sue Misure (Guanda, Modena) già si dimostra, oltre quegli echi, una natura originale, più interes-
sante ancora per il suo patito senso dell’esperienza singola che si fa universale: specie in certe liriche ispirate alla guerra, con quel suo eterno colore terroso e sanguigno, con quel ritrovamento di umane radici. Così Glauco Natoli, con Poesia (Parenti, Firenze) dove
la dominante influenza di Montale si ammorbidisce di qualche eco classica, e riesce ad alcuni componimenti la cui chiarezza espressiva già preannuncia l’originalità. Così Giovanni Cavicchioli con Parole fuggitive (Guanda, Modena), dove questo finissimo e appartato prosatore raccoglie poesie discorsive e «in margine», da cui si sprigiona un senso di maturata saggezza e di religiosa armonia dell’uomo con gli esseri e con le cose della vita. E giovani come Lanfranco Caretti, littore di Poesia per l’anno XVIII. Le sue Poesie (Testa, Bologna) recano poche tracce delle mode correnti, e
si affidano alla grazia d’un accento originalmente ripreso dai classici, ad una sospirata modulazione: Così svagata oblia. Rapidamente scende nel verde e assorta vi procede: quindi è dritta nel campo, e ascolta il vento che fra i capelli le si fa parola. Si può pensare a Saba, a Penna: non tanto perché vi si noti una precisa influenza di costoro, quanto
per il ritrovamento schietto dell’endecasillabo, per
la tendenza a far sbocciare dalla sensazione un’idea poetica: il Caretti è in ciò lontano dai suoi coetanei,
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che dalla sensazione aspirano unicamente a trarre l’immagine, l’illuminazione, il mito.
Menzioneremo anche Gaetano Arcangeli, che alterna in questo suo Dal vivere (Testa, Bologna) liri-
che in versi e divagazioni prosastiche. Qualche lontano spunto cardarelliano, che però decade subito dall’accento definitorio ed eloquente in un tono più agevole di appassionata e meditativa confidenza giovanile, da «diario». Sono pagine che si potranno rivedere con attenzione. Altri, altri libri di versi a carrettate. Scegliamo, nel mucchio, le Poesie di Caterina Lelj (Roma, a cura di Mario Seno), Nel mio eterno di Giuseppe Gerini (Ter-
mini, Fiume), Amara fonte di Luigi Capelli (La Grafica, Lecco), Il turno di Biagio Zagarrio (Guanda, Modena), Chiaroscuri di Luciana Pettorelli-Lalatta (La Prora, Milano),
Veglia a Getsemani di Bruno
Fattori
(Tipografia Grifani-Donati, Città di Castello). Delle traduzioni apparse quest'anno, ci limiteremo
a menzionare quella dei Lirici greci di Salvatore Quasimodo (Edizioni di Corrente, Milano), pur facendo notare che, più che di una traduzione, sì tratta di
un’opera di vera e propria poesia, di un originale ricreamento, da parte di uno dei nostri poeti più significativi
e moderni, dei sensi e dei modi di quella re-
mota prodigiosa fioritura. Ma qui non è sede per un'analisi compiuta del libro, dove Alceo, Saffo, Alc-
mane e gli altri rivivono nella parola e nel respiro di un poeta d’oggi, d’uno di noi. Sono da segnalarsi altresì, tutte meritevoli, le Poesie di Federico Garcia Lorca, tradotte da Carlo Bo (Guanda, Modena) che ha fatto precedere il volume da un interessante saggio critico; le Poesie della Mansfield, tradotte da Gilberto Altichieri (Guanda, Modena), e Liriche e Frammenti di Sergio Essenin tradotti da Renato Poggioli (Parenti, Firenze).
1941 378
LA POESIA ITALIANA CONTEMPORANEA
Il panorama della poesia italiana contemporanea può oggi sembrare, a paragonarlo con quello d’una
diecina
d’anni
fa, meno
evidente
e rilevato,
magari un qualche poco stinto e nebbioso. Ciò dipende in buona parte dall’attenuarsi delle battaglie polemiche che nel nostro Paese, in questo primo terzo di secolo, hanno solitamente accompagnato il sorgere di nuovi modi di poesia: trent'anni fa, la polemica futurista o liricista; dopo la guerra, quella neoclassica; più tardi, magari, il contrasto di
«strapaese» e «stracittà». La più recente, quella degli «ermetici» e dei «contenutisti», ha avuto, in pa-
ragone, una ben scarsa risonanza. Oggi i poeti, intendo i migliori, e anche i più giovani, lavorano in solitudine; il fuoco cova sotto la cenere dei pro-
grammi e delle polemiche passate. La morte di D'Annunzio,
due anni fa, ha orbato
la nostra poesia della sua più gran fama moderna e internazionale. Ma sul nostro orizzonte letterario non si profilava ormai più che in lontananza questo immenso
palazzo incantato e sontuoso labirinto, in
cui più o meno tutti i poeti che hanno oggi varcato, D79
da poco o da molto, la quarantina, si sono in gioventù smarriti, e buon per chi è potuto uscirne sano e salvo. Il D'Annunzio,
come
influenza
letteraria,
poteva già allora paragonarsi ad una di quelle stelle lontane che continuano a brillare nel firmamento anche dopo la loro scomparsa: un dannunzianesimo, in senso proprio, non esisteva più da gran tempo, almeno in poesia. Per converso l’esperienza dannunziana, nella sua parte più concreta, intendo l’acceso naturalismo della poesia di A/cione e la prodigiosa analisi sensuale
dei diari ultimi, ha conti-
nuato ad operare, se pure in forme trasposte o indirette, non agevolmente riconoscibili, in moltissime
espressioni nella nostra lirica moderna: pur così lontana, e direi opposta, al D'Annunzio come posizione
estetica e morale. Ma si tratta di un’esperienza assimilata, divenuta carne e sangue, e privata ormai del virus che aveva fatto strage al suo primo affermarsi. Le scuole poetiche succedute, in ordine di tempo, al dannunzianesimo (e di cui oggi ci appaiono chiari i legami con quest’ultimo) sono anche esse da tempo tramontate.
Persino
il futurismo,
che illuminò
dei
suoi pirotecnici bagliori il primo scorcio del secolo, ed ebbe notevoli influssi anche fuori d’Italia, non è
oggi più che un modestissimo focherello in via di spegnersi. Le sue ultime reclute restano anonime, o quasi. Il suo inventore ed assertore, F.T. Marinetti, è forse il solo rimasto fedele all’antico programma, ed ha composto in questi ultimi anni, col suo Poema africano della Divisione 28 ottobre, un rutilante e impetuoso do-
cumentario della guerra d'Africa, vissuta dall’autore come combattente: riaffermando, se ce ne fosse biso-
gno, il carattere precipuo della poesia futurista, che aspira a confondersi con l’azione, e addirittura a far-
si azione. Corrado Govoni, che pubblicò come futurista i suoi primi volumi, tenta oggi di far rivivere, in
forme più chiuse e castigate, il prodigioso polverio immaginistico dei Fuochi d’artifizio e della Inaugura zione della primavera. Ma le sue ultime Canzoni a bocca 380
chiusa non ci danno che il riflesso del variopinto incantesimo, magari superficiale ma genuino, di quella lontana fioritura. Luciano Folgore, altro dei futuristi meglio dotati, si è da tempo rivolto alla poesia parodistica e scherzosa. Il «crepuscolo»,
«l’avanguardia»..., vecchie inse-
gne che qua e là rispuntano sotto quelle, presto anch’esse scolorite, della poesia nuova. Anche l’ideale che fu dei crepuscolari, in opposizione ai modi eroici del dannunzianesimo e al meccanicismo futurista,
di giungere ad una poesia dimessa, il più possibile vicina all’umiltà della prosa e del tono parlato, atta ad esprimere le mezze tinte e i grigiori della vita di tutti i giorni, ha esaurito da tempo il suo ciclo. Restano, unico capolavoro, i Colloqui di Gozzano: che peraltro, nella loro stessa sensualità canora e verba-
le, contraddicevano a quel principio. Restano qualche musicale lamento di Corazzini, qualche accento
di Valsecchi, morti giovani entrambi. Gli altri crepuscolari di stretta osservanza,
i Moretti, i Civinini, i
F.M. Martini, ben presto dovevano finire per abbandonare la lirica per le forme narrative, più consone al loro temperamento, e già implicite nelle loro stesse espressioni verseggiate. Ai crepuscolari, tuttavia, come al Pascoli (che ne
fu certamente, col D'Annunzio del Poema paradisiaco, il precursore), può ricollegarsi Pietro Mastri, il quale, nella Via delle stelle e negli Ultimi canti, ha
complicato la poesia delle tonalità smorzate e grigie coi sensi drammatici e i simbolismi di una tormentata religiosità. Così pure al Pascoli e ai crepuscolari possono, in definitiva, farsi risalire Angiolo Silvio Novaro, il meglio del quale è tuttavia da ricercarsi
nelle poesie per l’infanzia e nella rievocazione di leggende religiose;
e Mario Novaro, in cui sono più
vivaci ipresentimenti del nuovo, e che in Murmuri ed echi ha trasfuso i sensi di una delicata intimità a contatto dei ricordi infantili e delle leggiadre visioni della sua Liguria. 381
Nell’orbita crepuscolare, intesa con la necessaria estensione, potrebbe farsi rientrare anche Diego Valeri, poeta colto, buon conoscitore dei francesi, che in liriche di nitida fattura ha musicalmente cantato
aspetti della sua Venezia e temi di sentimentale malinconia. Ma questi cui abbiamo accennato sono tutti, più o meno, poeti di ieri. In Ugo Betti, che meglio potrebbe ascriversi alla poesia giovane, e che ha attinto a varie fonti con grande versatilità letteraria, è ancora l’accento «crepuscolare» quello che meglio con-
vince, mentre certe più recenti e ambiziose espressioni di lirica umanistica e «sociale» risentono piuttosto della genericità di una poesia programmatica e volontaria. Ma l’ultima genuina eco, forse, il «cre-
puscolo» appare aver reso nelle liriche del torinese C. Meano, che ha rinverdito con musicale abbando-
no alcuni di quei temi e di quegli atteggiamenti poetici. Anche l’«avanguardia», tendenza lirica che si ma-
nifestò verso gli anni della grande guerra, e conci liò la malinconica egloga urbana del «crepuscolo» con le crudezze e arditezze futuristiche, sorse e si
spense rapidamente ma non fu senza effetti sulla poesia successiva. Resta il ricordo di una rivista ferrarese «Poesia e Arte», l’eco lontana di qualche nome, come Baganzani, qualche autore che ha continuato a produrre, come Lionello Fiumi, Villaroel,
Ravegnani. Pur restando fedeli al nostro proposito di disporre questo panorama, per comodità ed economia di discorso, a larghe zone, per così dire topografiche e
climateriche, nelle quali le singole personalità dovrebbero trovare l’opportuno ambientamento più che in un’arida successione cronologica, non vorremmo d’altra parte sacrificare soverchiamente a questo pur pratico schematismo. Un Enrico Thovez, ad esempio, rientra nella storia poetica del nostro primo Novecento come un solitario romantico pie382
montese, non agevolmente ricollegabile alle preferenze e ai gusti dei suoi contemporanei: ma se in lui la poesia, per quanto meditata, restò più che altro intenzionale, il suo versilibrismo un po’ programmatico ebbe pure qualche influenza, se non altro teorica,
sulla poesia successiva.
Un
Francesco
Pa-
stonchi perpetua ancor oggi certo estetismo di provenienza dannunziana, che in lui si raggela di preziose rifiniture parnassiane. Versi torniti con una industre e un po’ distante pazienza d’orafo, sapienti incroci di rime, verbali ricercatezze e sonorità: il me-
glio è ancora da riconoscersi in certa vena di elegante mondanità amorosa. Un posto a parte deve pure assegnarsi a Francesco Gaeta, che, se per un verso potrebbe far pensare ai
crepuscolari, si apparenta piuttosto ai poeti dialettali napoletani — e specie al maggiore, Salvatore Di Giacomo — coi quali ha in comune il fondo di sensuale morbidezza melanconica e alcuni caratteristici modi formali, ad esempio certo stacco cantabile della strofa, o l’uso delle finali tronche, ormai scomparso dalla metrica moderna, ma di necessità ine-
rente al dialetto. E per quanto il Gaeta, spentosi, come il Thovez, una dozzina d’anni fa, esca un poco
dal nostro panorama, si è voluto qui egualmente rammentarlo sia per il suo schietto sentimento poetico, sia come esponente di una qualità di lirismo, per così dire, meridionale, destinato a sicure revivi-
scenze. Nell’accingerci ora a rintracciare, attraverso gli scrittori della «Voce» e della «Ronda», la formazio-
ne degli ideali e dei modi della nostra poesia giovane, daremo la doverosa precedenza alle due nostre
maggiori poetesse, che tuttora tengono il campo fra le loro pur numerose e vivaci consorelle: Ada Negri e Sibilla Aleramo. La Negri, partita da una focosa ispirazione sociale e di appassionata pietà umana, ha più tardi piegato, col Libro di Marae coi Canti dell’Isola, verso
un
estetismo
383
di marca
lontanamente
dannunziana. Nella sua ultima poesia l'equilibrio della maturità, la pensosa esperienza di donna al tramonto si esprimono in forme più classicamente misurate, in immagini intonatissime, in ritmi armonio-
si e sicuri. Ma ci sarà permesso di preferire ancora a questi componimenti impeccabili la foga, il fervore magari ingenuo, ma schietto, delle sue cose giovanili? Quanto a Sibilla Aleramo, che prese anch'essa le mosse da una esperienza vagamente sociale e femminista (il romanzo Una donna fece ai suoi tempi un certo rumore), appare aver subìto più davvicino, oltre al clima dannunziano, gli influssi della poesia giovane e del frammentismo. Le sue liriche, di solito brevissime,
intensamente
concentrate
su di un
punto di sentimento, senza trapassi temporali né chiaroscuri, si concentrano il più delie volte nel giro d’un’unica immagine, nell’hai-ka:. L'amore, inteso nella sua accezione più calda e appassionata, come delirante trionfo dei sensi e totale abbandono di sé,
cÒlto nella pienezza dei suoi attimi, è il tema naturale di questa lirica scorciata e vibrante. E, specie nelle sue ultime cose, dove un’ombra di rimpianto e
di stanchezza si insinua nel mondo ardente e concluso del desiderio, la Aleramo ben si apparenta al-
le anime femminili più fervide che, in ogni tempo, hanno reso nel verso i mutevoli tormenti del cuore. Il movimento che fu della «Voce», e attorno al quale ecletticamente si raccolse, negli anni che pre-
cedettero la guerra, il meglio delle tendenze nuove, ci servirà di segnacolo per raccogliere alcuni degli scrittori, pur diversissimi, che in quel clima si for-
marono. Di Clemente Rebora, presto taciuto alle lettere, il libro dei Frammenti lirici, diseguali e scabri, impressi d’una stringente ansia spirituale, rimane vi-
vo tuttora. Mentre rivivono, con singolarissima freschezza, le marce e le canzoni alpine e d’emigranti di Jahier, che si stagliano nella sua prosa con cadenze impressionistiche e popolaresche, e per il loro accento scabro e antiletterario, per il loro sapore di vi384
ta immediata, sembrano perfino anticipare certi modi della più recente poesia moderna, specie nordamericana. Le Fole di Enrico Pea, attinte alla fonda ve-
na popolaresca apuana, e come intrise d’un colore remoto, oltre a valere di per sé, preparano il terreno dei futuri racconti e romanzi di questo scrittore. Giovanni Papini, che, con l’Opera prima, in qualche moto di amaro scontento e di desolata riflessione toccò pure la poesia, con Pane e vino riprende a scivolare per la china polemica, salvandosi qua e là in accenti di fresco carduccianesimo. Quanto a Soffici, che coi Chimismi lirici indulse all’esperienza futurista, raggiungendo saporite «illuminazioni» pittori che, oggi non ci dà più, di tanto in tanto, che qual-
che aulico e compassato componimento letterario, di movenze classiche e foscoliane: ma anche questo scrittore, come il Papini, rientra soltanto di scorcio nella storia della poesia. Camillo Sbarbaro, nei versi di Pianissimo e nelle prose liriche di 7rucioli, ha reso i sensi di una vita
spersa, sazia della propria attonita vacuità, con una ispirazione per qualche riguardo analoga a quella dei francesi «poètes maudits»: dove le evocazioni di paesaggio e di momenti del vivere quotidiano diventano sensuale, colorita materializzazione di stati
d’animo. Per questa sua allucinata vividezza evocati va, per questo suo diretto incarnarsi nei momenti e nei volti della natura, divenuti quasi concrete manifestazioni del sentimento, la poesia dello Sbarbaro,
pur cresciuta in penombra, è da considerarsi fra le più formative nei riguardi della lirica nuova. E giungiamo così a Campana, il cui unico libro, Canti Orfici, stampato la prima volta nel 1914, è andato sem-
pre più acquistando importanza e influenza sulla letteratura giovane. Anche Campana, nella sua arte
e nel suo eccezionale e doloroso destino (morì paz-
zo dopo una vita di vagabondaggi in Europa ed in
America), sembra reincarnare il destino e l’estro dei
«poeti maledetti»: si potrebbe pensare a una sorta di 385
Rimbaud o di Lautréamont italiano, simile sopratut-
to al primo per la virginea forza lirica e per la rara e difficile esperienza che gli toccò in sorte, d’una poesia che, varcando il limite della semplice espressione estetica, aspirò ad essere una specie di conoscenza primordiale, sciolta da ogni legame intellettivo per meglio tuffarsi nell’emozione pura, per cogliere il flusso della realtà alla sua prima sorgente. Gorghi di parole febbrili e scampananti, profetiche oscurità tra cui s’àrcano frammenti di miracolosa purezza, prospettive d’aereo incantesimo. Fu diverso dai francesi, invece, per il tronco di diversa tradizione su cui s’innestò la sua poesia. Le sue più luminose riuscite
evocano appunto pacati paesi e limpide architetture italiane, figure arcaiche, come emerse dall’atmosfera di riti immemoriali. Ideale italicità, fatta di salute e di forza primitiva, avvolta di olimpica luce mediterranea, che ha fatto pensare, assieme ad altre ana-
logie, all’ideale grecità di un Hòlderlin. Poeta d’ispirazione diversissima, Aldo Palazzeschi, pur formatosi nel clima della «Voce», si riallaccia anche ai crepuscolari, ed è stato considerato, in un cer-
to senso, un paradossale risolutore del mondo dannunziano e crepuscolare in termini di limpido umorismo. La verità è piuttosto che Palazzeschi ha tratto da quel mondo, occasionalmente, l’armamentario e
lo scenario, facendolo oggetto di una ispirazione genuina ben sua, e tutt'altro che parodistica come si è voluto da alcuni. Figurazioni di fiaba irreale, come
sorte da un limbo originario di nostalgie infantili, stupefatti maliziosi dialoghi, musiche
leggere dove
interviene, a momenti, lo strappo prosastico d’una garbatissima stonatura. Ma la sua ironia sa spesso d’amaro, e dietro lo scherzo si intravede l’intima la-
cerazione. Questa lirica delicata e lunatica è la fase giovanile dell’arte palazzeschiana, la quale s’incorporerà più tardi senza residui in prose di novelle,
confessioni e romanzi fra i più alti del nostro tempo. Alla «Voce» deve pure farsi risalire Arturo Onofri,
386
che ai suoi inizi si presentò anche come teorico ed esegeta della poesia pura e del frammento, di cui diede in Arioso alcuni schietti ed elaborati esempi. Più tardi egli rinnegò questa concezione rigorosamente estetica, e volse la sua vena ad illustrazione e
commento di un complicato sistema teosofico e cosmologico al quale il poeta s’era nel frattempo con-
vertito. Ma anche il ridurre la poesia ad ancella, in questo caso, della teosofia, non valse a soffocare
completamente l’ispirazione: e nei numerosi e folti volumi in cui egli raccolse i suoi nuovi componimenti, non
è raro scoprire, attraverso la selvaggia
selva religiosa e didascalica, squarci di intenso lirismo. Forse vicino, negli inizi, alle prime preoccupazioni di un Onofri, ma destinato ad un diversissimo svolgimento, Vincenzo Cardarelli, nonostante la pre-
ziosa scarsità della sua opera poetica, può considerarsi tra i poeti più significativi della nostra letteratura attuale. L’aspirazione all’assoluto dello stile costituì fin dal principio, in Cardarelli, un sottile e arduo problema morale: in un certo senso l’ispirazione rappresentava, per lui e per qualche altro, anche un caso di coscienza. Poesia gnomica e discorsiva, nutrita di cultura, che in qualche lirica, come Adolescente, s'irida degli smaglianti coloriti d’un’alta decadenza baudelairiana e nietzschiana. Più tardi, l’in-
quieto moralismo alla Péguy si risolverà in una aspirazione neoclassica, e, nelle polemiche della «Ron-
da» — rivista di cui fu il fondatore e l’animatore — Cardarelli farà di Leopardi il nume tutelare della moderna poesia italiana. Egualmente il mito d’una Italia popolare e antica, aulica e rusticana nello stes-
so tempo, che in un Campana resta istintivo e intuitivo, quasi carnale, diventerà per Cardarelli insieme ragione critica e costume morale e letterario. Nelle sue ultime poesie e nelle sue prose liriche la grazia del discorso poetico, sostenuto sempre da un sa-
pientissimo contrappunto, delicatamente pausato sul
387
naturale respiro della voce, sfuma in musiche prostrate, suggerendo l’immagine, cara ai suoi versi, d’un languido e umoroso autunno. Il movimento della «Ronda», che significò, per la cultura italiana, insieme
«un ritorno all’ordine»
e
una misurata presa di contatto con le maggiori correnti europee del dopoguerra, non fu peraltro, data la sua intonazione prevalentemente critica, molto fertile nei riguardi della poesia. Riccardo Bacchelli, che, coi Poemi lirici, aveva mostrato disposizioni in-
trospettive e musicali vicine a quelle d’un Cardarelli, si volse presto al romanzo e alla storia, dove la sua
vena feconda e le sue attitudini di descrittore e di moralista dovevano fare maggiori prove. Qualche verso, sonetti e canzoni d’intonazione classicheggiante, egli va di tanto in tanto scrivendo. Ma, se anche
notevoli, si tratta pur sempre di espressioni di una vena marginale, quasi di preziosi svaghi letterari. Anche Emilio Cecchi, per gli essays fantastici e lirici dei Pesci rossi e delle raccolte successive, potrebbe a buon diritto considerarsi poeta. Ma qui si parla di poesia in senso
stretto, poesia in versi: altri-
menti non sapremo perdonarci di aver tralasciato, ad esempio, i Frantumi di un Boine, di così contratta e rilevata espressione, di così intenso lirismo.
Tuttavia, attraverso l’esperienza della «Voce» della «Ronda»
e
(alludiamo, come s’è già detto, a va-
ghe tendenze e climi, non già a consapevoli programmi che s’incarnassero in quelle due riviste), si
può assistere al tardo corso, cui accennavo più sopra, ad un impoverimento progressivo della materia poetica astrattamente considerata, ad una lenta cor-
rosione critica di quelle armature eloquenti, di quei «miti» oratori, di quei «fissativi letterari» su cui la
poesia ottocentesca amava appoggiarsi, e che in gran parte formarono la popolarità di poeti come Carducci, D'Annunzio e Pascoli. Lo stesso crepuscolarismo, se da un lato aveva contribuito a distrug-
gere la mitologia eroica del carduccianesimo e del 388
dannunzianesimo,
finì, per la sua irresistibile ten-
denza verso la prosa e la narrazione, per le sue soprastrutture aneddotiche e descrittive, coll’offrirsi all'erosione della nuova coscienza critica che in alcuno dei poeti cui abbiamo accennato, ed in altri di cui parleremo in seguito, è vivace e operante al punto da costituire una delle più vitali caratteristiche della poesia giovane. Al principio si parlò di frammento, di «poesia pura»... La stanchezza della rettorica, del fasto estetiz-
zante, della prosa eloquente si annunciò, con gli inizi di un Cardarelli, di un Bacchelli, di un Onofri,
quasi come uno scrupolo etico, un imperativo di non trascendere mai il calore emotivo, il dato inter-
no, il nudo diagramma sentimentale dell’ispirazione. Come uno specchio ustorio, la coscienza autocritica distruggeva tutto quanto di accidentale, di marginale, di narrativo persistesse ad ingombrare la linea del canto puro: la poesia si liberava nell’immagine, nell’evocazione, nella clausola gnomica e riflessiva. Più tardi, in questo bisogno di essenzialità e
di purezza si ravvisò un’aspirazione classica: la complessa linea melodica di un Leopardi si propose a modello supremo, e, rinnegato il classicismo di maniera, gli accenti di un Petrarca, o più addietro an-
cora degli stilnovisti, parvero i più consoni agli ideali della nuova poesia, che in quegli illustri esempi trovava conforto alle sue stesse asprezze e al suo gusto dell’oscuroe del difficile. Questa diffusa formazione di un nuovo «gusto» poetico ci aiuterà ad intendere come il panorama del periodo fra le due guerre mondiali appaia dominato dall’opera di tre scrittori, verso i quali, pur d’ispirazione diversissima, s’indirizzano di preferenza l’interesse e il fervore dei giovani: Saba, Ungaretti, Montale. Quanto a Saba, è bene avvertire subito che, se dei
tre è il più complesso e ricco di varia umanità e di fi-
gure, è anche quello che meno rientra nello schema
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cui accennavamo. Formatosi nella solitudine della sua Trieste, lontano dalle correnti teoriche e polemiche, la sua prima poesia poté venire confusa, da critici frettolosi, con un attardato naturalismo bor-
ghese o con i modi dimessi del crepuscolo. Anche i classici accenti ch’essa ingenuamente riecheggiava, petrarcheschi, foscoliani o leopardiani, poterono apparire un residuo scolastico. In realtà, Saba è poe-
ta di istinto, ma d’un istinto troppo profondo e complesso per essere agevolmente compreso. Ai luoghi comuni e alle aride ricerche formali della poesia di moda egli già opponeva una scavata umanità, un gusto sottile delle più ombrose intimità del sentimento, dei delicati meandri della psicologia. Il panorama della sua Trieste, i primi affetti, il sapore e il do-
lore dell’esistenza quotidiana: la lirica del Canzoniere si svolge nei termini d’una puntuale autobiografia, che tocca il suo punto più alto nei canti di 7rieste e una donna e della Serena disperazione. A momenti, questa poesia sembra farsi musica, ma una musica
dell’anima più che delle parole: in essa il «mezzo espressivo» appare rarefatto, sino a non essere più che un tenue vetro, e l’incanto è tutto affidato alle
pure modulazioni del sentimento e della voce familiare e grave che ce lo esprime. La successiva poesia di Saba alterna al momento musicale (Preludio e fughe) quello figurativo e drammatico (I Prigioni, L'Uomo, Il piccolo Berto). La melanconica saggezza, la faticata realtà umana colta nella
sua esperienza più comune e necessaria, nella sua più nascosta acerbezza, riflessa da un occhio pacato e implacabile, nutrono dei loro succhi quest'opera che, della nostra poesia moderna, è quella che meglio ci esprime nella sua interezza un uomo, l’uomo.
Attraverso di essa Saba si è sempre più andato liberando dei residui di prosastico autobiografismo, l’artista si è fatto in lui più esperto e consapevole: così fino a Parole e alle sue ultime cose dove s'impone una maggiore attenzione formale, e l’espressione 390
più umile e spoglia crea atmosfere di sospeso incanto. Sobborgo, Inverno sono risultati che, pur sorti
da un'esperienza solitaria, si situano in quell’ordine di valori che è suprema ambizione della poesia moderna. Più tormentata e ineguale, più consapevole delle proprie mire, la lirica di Ungaretti, in ragione delle stesse difficoltà autocritiche da cui sorge, può considerarsi esemplare del nuovo clima poetico. Formatosi ai movimenti della «Voce» e di «Lacerba», a giorno delle ricerche francesi, Ungaretti, fin dagli inizi,
sembra essersi proposto di conciliare l’impressionismo più intenso e frammentario con l’assoluto classico dello stile, di giungere a qualcosa come la proiezione dell’attimo nell’eternità. Nel Porto sepolto le liriche ispirate dalla guerra danno questo senso di puntuale eternità. Brevissime poesie, dove il verso, la
parola isolati sulla pagina bianca, quasi ad esaurire la loro indefinita vibrazione, appaiono veramente «sca-
vati» nel fondo sentimentale, come promananti da un’intimità remota. Il lamento della creatura, nell’universo fatto minaccioso e vuoto, acquista una mi-
steriosa e dolente risonanza. La più recente poesia di Ungaretti, pur senza rinnegare la sua origine, mostra di organizzarsi in forme più complesse, più ricche di elementi coordinatori e intellettuali. Anche l’aspirazione classica, implicita nel suo impressionismo iniziale, qui si rivela in piena luce. I motivi d’ispirazione, non più legati all’occasione autobiografica, valgono ormai di per sé stessi, quasi a modo di motivi di pensiero. In questi elaboratissimi poemi, dove idealmente Mallarmé
si ricongiunge a Petrarca, e dove s’uniscono il barocco trascendentale di Gongora e il fasto immaginoso e appassionato dei sonetti shakespeariani, le fugaci visioni naturali, i sensi e i ricordi s'incarnano in delicate immagini plastiche, in evanescenti miti, soffusi di classica nostalgia. Altrove la poesia, spogliata anche dell’amabile veste del mito, sembra
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aspirare a farsi meditazione pura, circoscritta al religioso sentimento dell’eterno. Eugenio Montale, partito dalle generiche esperienze dell’avanguardia, e dal colorito frammentari smo dei poeti della sua Liguria (Roccatagliata Ceccardi, Sbarbaro)
ha subito assunto
quei modi for-
mali in una sfera di superiore necessità lirica. Se la poesia di Saba si esprime nei momenti di una dolente autobiografia, quella di Ungaretti nel flessuoso adombramento di miti, l’ispirazione di Montale si raddensa nel paesaggio e nel ricordo come in realtà simboliche: purché s’intendano simboli concreti, una sorta d’alfabeto vivente. Lo scabro paesaggio ligure, il mare attorno, sbarrato da solchi, e l’agave
sullo scoglio, il torrente che si scava la via verso il mare, la vasca che riflette un volto passeggero, il fischio del rimorchiatore nella bruma; ogni immagine è un moto di sentimento, che s’intride dei colori della natura; un volo d’uccello, uno sparo di fucile
nella campagna sono trasalimenti interni, risvegli di tutto l’essere, misteriosi avvertimenti. Di qui la «petrosità», la «scabrosità» della poesia di Montale, o al-
meno di quella degli Ossi di seppia, in cui è così urgente e necessaria la presenza delle «cose». Di queste apparenze terrestri, pur così incantevolmente colorite, il poeta è prigioniero. L’immensa macchina
cosmica, l’infinito cristallo dell’essere
lo chiude da ogni parte, come un improvviso congelamento immobilizza l’insetto fluviale. Ogni via di scampo è preclusa; eppure, talora, l’illusione appare possibile, una fenditura sembra aprirsi nel muro implacabile, un fantasma indicare la via della liberazione, uno squarcio nell’azzurro rivelare le «leve del
mondo». Fuggevoli miraggi, verso cui il cuore un attimo s’apre, per ripiombare quindi nell’immobilità, nell’indifferenza atona del fluire necessario d’ogni cosa. La poesia di Montale, per questo suo profondo senso, sia pur negativo, ma elementare e fondamenDR
tale, della vita, incarnato in espressioni profondamente
intuitive,
e, nonostante
il tenace
scrupolo
espressivo, per nulla letterarie, si è oggi posta in primo piano. Nelle Occasioni, che rappresentano la sua più matura stagione, la pur vigilata fiducia nel canto che si liberava negli Ossî si attenua un poco: per converso, il supremo affinamento dello strumento tecnico consente a Montale una nuova e suggestiva sapienza di balenanti evocazioni e allusioni. Così fino a Finisterre, che rappresenta l’estremo della facoltà di trasposizione della poesia di Montale: la sua esperienza petrarchesca, in risposta, in un certo senso, a quella
di Ungaretti, dove la breve fermentazione sentimentale aspira ad assumersi in immagini astratte ed esemplari, a concludersi in una soluzione di puro stile. E sopratutto la fase delle Occasioni che ha creato al nostro poeta innumerevoli imitatori. Ma, più an-
cora, l’attenta e amorosa critica ed esegesi che è andata crescendo negli ultimi anni attorno a questa poesia, ad opera specialmente di giovani, è chiara testimonianza della sua vitalità. Ligure come
Montale,
come
Sbarbaro, Adriano
Grande ha reso nella sua prima poesia il senso del provvisorio, dell’avventura quotidiana, dove il fatto più semplice e consueto, come il sasso che affonda
nell’acqua, increspa l’addormentato specchio del vivere in misteriosi cerchi. Nella Tomba verde, in Nuvo-
le sul greto, questa ispirazione in sordina giunge a una sorta di sottile e modulata perfezione musicale. Oggi Grande cerca di evadere dal campo chiuso della lirica personale, diradata dall’autocritica, per af-
frontare fiduciosamente temi di più vasto interesse umano, e addirittura civile. Nelle più recenti Poeste în Africa egli ha raccolto espressioni e ricordi della guerra abissina: ma anche in questo libro il meglio è da cercarsi, più che negli accenti eroici, pur sostenuti da una esperta trama eloquente, in quelli idillici e paesistici, pei quali, talvolta, egli sembra acco-
393
starsi a Saba. Un fondo idillico è pure in Titta Rosa, che, dopo la fase un po’ dispersa, ma ricca di colore e di musica, delle Feste delle Stagioni, con Alta luna,
raccogliendosi nell’interno di una pacata e malinconica riflessione su di sé e sulle cose, ritrova una me-
lodiosa tradizionale linea di canto. Anche Corrado Pavolini, con Odor di terra e Patria d'acque, ritorna, attraverso ‘l’esperienza della lirica ultima (Ungaretti), all’endecasillabo nella sua tessitura strofica tradizionale, rinfrescando miti classici
con sensi moderni e vivo nitore d’immagini, o componendo estatici quadretti e traendone, con una pacatezza e incisività un po’ distanti, poetiche moralità. Giorgio Vigolo, che, con Canto fermo e Conclave dei sogni, sembrerebbe talvolta accostarsi ad Onofri per la trascendente accesa fantasia, se ne stacca per
la preoccupazione unicamente lirica che presiede alle sue
vertiginose
illuminazioni,
dove
tramonti
gonfi di nubi o selvosi dorsi montani destano imma-
gini di cattedrali di sogno, clangori di trombe argentee, o visioni d’arcaiche folle tumultuanti, tratti balena, come sotto una luce di romantico gano, una Roma piranesiana, imbevuta della sua ria più remota. Poeta tutto esternato in fantasia,
e a urastotut-
to immaginazioni e allucinazioni visive, ma ogni frammento di questo suo mondo caotico reca un segno inconfondibile. Sergio Ortolani, con Selva, ha attinto alle fonti anche più segrete e umbràtili della nostra tradizione classica per trarne espertissimi «ricercari». Girolamo Comi s’ispira a una concezione cosmica e panteistica che ricorda Onofri. Mentre ad uno spiritualismo di accento più tradizionalmente religioso si sono avviati anche due vecchi futuristi e «lacerbiani», Moscardelli e Fallacara: che rammen-
tiamo qui assieme per questa loro simile parabola, non perché fra i due vi sia qualcosa di comune. In Betocchi, toscano e più concreto, la vena religio-
sa riesce ad un clima poetico di grazia spoglia e pacata, d'un gusto esperto e primitivo nello stesso tempo. 394
A espressioni dense, più plastiche che musicali, perviene la musa di un Raffaello Prati, e ne trae accenti meditativi e sentimentali ben suoi; mentre il
pittore De Pisis, partito dall’avanguardia ferrarese e da Govoni, raggiunge, nelle sue poesie più recenti, un vibrante e affettuoso impressionismo lirico. Un estro talvolta polemico, più.spesso intinto di color popolaresco o atteggiato a modi classicheggianti, perseguono gli strapaesani, o almeno coloro che altra volta si compiacquero di chiamarsi tali. Più elegante, raffinato e letterario il Malaparte, più toscanamente spavaldo il Maccari, mentre Berto Ricci per qualche robusto accento si riallaccia al Papini, e di là magari al Carducci. Ma il più genuino di costoro è probabilmente Luigi Bartolini, di cui certi crucci e dispetti versificati, certi accorati lamenti ci ren-
dono qualche eco di antica poesia popolare italiana. Ad una poesia di casta intimità torniamo con Virgilio Giotti, che però soltanto con le cose in dialetto triestino ha toccato una sua particolarissima grazia. In Angelo Barile, ligure (la Liguria presenta forse per la prima volta, nella storia della poesia italiana, una piccola tradizione ben riconoscibile), si afferma di nuovo un'ispirazione più composita e riflessa. La breve opera del Barile è frutto d’un macerato travaglio formale: essa ci esprime, in immagini di una accesa e sottile evidenza, una sensibilità patita, abban-
donata ai soffi dell’esistenza che la denuda e scarnisce, ai trasalimenti dell’amaro ricordo. Liguri sono anche Laurano, Descalzo, Bianchi, Capasso. Il primo, di lontana derivazione pastonchiana, porta nel-
le forme scorciate e impressionistiche della poesia nuova una sconcertante abilità ed eleganza di tocco, una vena sensuale e amorosa non immune da una sottile punta di piccola corruzione formale e sentimentale. Descalzo sta uscendo dalla poesia generica e sempre più accentua le sue doti migliori in certo impressionismo solare e piscatorio. Bianchi trae dal tema del monotono vivere quotidiano pungenti no295.
stalgie di vasti spazi e d’avventure. Capasso, infine, patina di versi flessuosi una sensualità eloquente che vibra dei letterari echi di D'Annunzio, Valéry e Ungaretti. Giunti, con questi ultimi scrittori, alle soglie della poesia giovane e ancora in formazione, il primo nome che ci si presenta alla mente è quello di Salvatore Quasimodo, la cui opera poetica, pur presentando caratteri già definiti e maturi, ci sembra significativa di una delle più riconoscibili tendenze. L’ispirazione di Quasimodo, tenacemente concentrata su
di un solo punto, tesa all’altezza del canto totale, appare, persino nei suoi difetti, fra le più convinte e appassionate della nostra nuova lirica. Essa ci esprime un senso elementare e quasi fisico di chiusa e scontrosa desolazione, di squallido patimento, che a tratti si libera in musicali aperture di nostalgia verso una specie d’incorrotto Eden primitivo, dorata isola dell’infanzia, mito irritornabile. Si può pensare ad Ungaretti e a Montale come a generici punti di riferimento. Anche Quasimodo tende a diradare e a sfaldare il discorso poetico, isolandolo nei suoi toni
più alti; e anche la sua ispirazione procede quasi sempre da un momento,
da un aspetto del mondo
sensibile come segno e simbolo dell’interiore fondamentale contrasto. Negli ultimi anni egli si è rivelato un delicato interprete dei poeti greci e latini, da Saffo a Virgilio e a Catullo, e tale frequentazione
ha anche contribuito a schiarire e a liberare la sua vena. E poiché la parola «ermetismo» parlando di questa nuova poesia, da Ungaretti a Quasimodo fino ai più giovani, è di moda (resterebbe a vedere quanto vi sia propriamente di ermetico in una tale lirica d’intensa concentrazione espressiva, certo più difficile che deliberatamente oscura, e in ogni caso me-
no di quanto si creda indifferente alla coerenza del discorso
poetico),
ce ne
serviremo
anche
noi, se
non altro per comodità di classificazione. Leonardo 396
Sinisgalli è un delicato aggiustatore d'immagini e di segreti sensi, un leggiadro evocatore d’istantanee mitologie naturali. La misura, l’icasticità mordente dei suoi brevi idilli e «illuminazioni» pongono le sue cose fra i risultati più concreti della lirica nuova. Alfonso Gatto, natura più tormentata, ha trovato la
sua via affinando il suo fondo di canora sensualità meridionale in una sorta di melica struggente (che fa rivivere con estrema levità le forme tradizionali della quartina rimata, e il settenario e persino l’ottonario) dove raggiunge coloriti esangui, madreperlacei e lunari. Nelle sue ultime cose egli ha tenuto a imprimere a questa svagata felicità immaginosa e cantabile una generosa passione umana e civile. Libero De Libero ritrova i temi antichissimi della terra e dell'amore in una espressione folta e immaginosa, carica come d’un remoto senso favolistico. La poesia di Mario Luzi tende a librarsi in equilibri d'immagini dense e preziose, in «costellazioni» di parole e ritmi, in accesi panorami di miraggio, materiati di vaghe memorie. Altri nomi ci vengono alla memoria,
«ermetici» e «non ermetici»: Vittorio Se-
reni, Guglielmo Petroni, Giuseppe Valentini, Cesare Brandi, Aldo Borlenghi, Libero Bigiaretti; e Attilio Bertolucci, che ha accenti d’una sottile grazia luna-
tica già ben riconoscibili. In questi giovani l’intelligenza critica, l’attitudine,
l’impegno espressivo sono rilevanti. Essi respingono una poesia concepita come letteratura, o come sfogo, o come patetico ragionamento, per affrontare un rapporto istintivo e vero dell’anima con le cose, e per renderlo in una forma concreta, assoluta. La poesia è dunque, per essi, una cosa straordinaria-
mente seria, e anche la risoluzione d’un problema morale. Chi più chi meno realizzato, chi più chi meno predestinato, essi hanno in Ungaretti, in Monta-
le, magari in Cardarelli e in Campana i loro maestri: ed è naturale che ne risentano, specie dei due primi. Ma il fatto che questa lirica nuova abbia anche i suoi 997
contraffattori e imitatori a freddo, pronti a riempire con indifferente prolificità illeggibili volumi di poesia «ermetica», come
altra volta petrarchesca, arca-
dica o dannunziana, nulla toglie alla consistenza ed effettualità delle aspirazioni dei pochi serî. Piuttosto, almeno
per taluno di essi, il pericolo
sembra sussistere nell’eccesso medesimo di essenzialità espressiva, che minaccia talora di tradurre il linguaggio poetico in cifra e semplice allusione, facendogli perdere ogni contatto con la lingua comune, con la «prosa», eterna rinnovatrice anche della
poesia. Nelle espressioni della nuova lirica si nota spesso una certa mancanza di articolazioni, di modulazioni, di mezzi toni e di passaggi, e una tendenza verso un solitario misticismo estetico. In altri termini, il vagheggiamento d’una poesia fatta più di sforzo e di chiara passione che dell’altro elemento,
di cui pure ogni vera poesia è costituita, che è la felice irresponsabile grazia. Per questo inequivocabile segno della grazia poetica si distingue fra questi giovani (ha varcato la trentina, ma estremamente giovanile è la sua immagine
di poeta) Sandro Penna. Un candore sensuale che a
torto potrebbe sembrare malizioso — per quanto in ogni senso al di là del bene e del male — ombreggiato a tratti d’una chiara malinconia; e limpidi paesi e leggiadre figurette campiti nel giro di componimenti il più spesso brevissimi, con una essenzialità di segno degna dell’Antologia. Qui lo sforzo, lo scrupolo
formale — e ci sono — riescono a farsi dimenticare nel tono naturale e sfumato d’una voce. E non baderemo ai limiti di quel suo trasparente e affettuoso mondo poetico: Penna rappresenta una qualità, un dono, da prendersi o da lasciarsi, come le cose della
natura.
Queste tendenze ad una nuova, elaborata e pen-
sosa «semplicità», ad un «ritorno alla grazia», che si accennano nell’opera di alcuno di questi poeti, è sintomo che la nostra lirica non è destinata a chiu398
dersi nella crisalide di una nuova specie di petrarchismo o «culteranismo», sia pure surrealistico, co-
me certi suoi aspetti potrebbero, e non senza fondamento, lasciar supporre. Viva è infatti, nei migliori, la coscienza che la poesia è sufficiente a sé medesima, quando sinceramente si modelli sui moti profondi della realtà: mentre vana è la ricerca d’una formula
intellettuale,
sia pur
sontuosa,
che
non
comporterebbe altro se non paralisi e morte della poesia stessa; come vano è il vagheggiamento d’una «ultrapoesia» di specie mistica o surrealista, la quale finirebbe col non costituire altro che l’approssimativo, tumultuario e provvisorio concretamento di aspirazioni, di slanci, di scontentezze per la più parte re-
mote dalla schietta necessità espressiva. Fuga l’una e l’altra via. Il vero artista, oggi come sempre, si riconoscerà dal suo apparire impegnato in un compito che non offre altro scampo che quello di assolverlo. Una situazione sperimentata e sofferta, cui solo perciò è dato di realizzarsi in una forma obbiettiva, precisa ed incomparabile. 1941
399
«ELEGIE» DI FADIN
Il mio primo ricordo di Sergio risale a tredici o quattordici anni fa, al tempo della «Fiera letteraria». Mi pare di rivederlo ancora diciottenne, gli occhi ombreggiati dalle lunghe ciglia sul morbido volto ancora infantile, signorilmente vestito di lana grigiochiara. E in piedi sugli scalini del porticato della vecchia piazza San Carlo, toccata da un sole non ricordo se primaverile o autunnale, vicino alle ceste della
fioraia, al banchetto del venditore di spartiti musicali usati. La «Fiera» si trasferì più tardi a Roma; più tardi ancora, partì Pescarzoli che in quei locali aveva
allogato la sua Bibliofila. Da quanti mai anni non ho più risalito quegli scalini, non ho più percorso il portico neoclassico della severa piazzetta. Arriva un momento che anche i luoghi della città in cui viviamo e che rasentiamo ogni giorno, non più materiati della nostra vita, muoiono per assumersi unicamente nel ricordo, e la loro stessa fisica presenza diventa un'ombra quasi scancellata e senza senso. Sergio aveva pubblicato da un anno o poco più un libretto di versi puerili, Prima fiorita, cui era toccato, sulla «Fiera», l’onore di una recensione di Montale.
400
Il padre, commosso dalla rivelazione del destino letterario del figliolo, lo aveva accompagnato alla «Fiera» e raccomandato ad Angioletti e a Titta Rosa, che
redigevano il foglio letterario milanese. Fu così che il giovinetto venne introdotto nella cucina del giornale, a cui diede per qualche tempo delle noticine, assai intonate, di critica poetica: e-fu, credo, tutto. Quando alle sette di sera, lasciato l’ufficio, mi recavo
a fare visita agli amici della «Fiera», lo incontravo talvolta mentre in contegno timido e severo, un po’ assorto, si accompagnava ai suoi maggiori d’età, sorridendo ai loro scherzi, spesso affettuosamente susci-
tati dalla sua stessa estrema giovinezza. Fu così che diventammo amici. Sergio ripartì per il suo collegio a Venezia, dove stava terminando gli studi liceali. Conservo alcune lettere di quegli anni, e il libretto dei primi versi, dove, pur nelle forme orecchiate e
approssimative proprie dell’adolescenza e attraverso le reminiscenze scolastiche, si liberavano già quel respiro d’intimità, quell’accento giusto e fermo con cui quest’anima provata seppe reagire ai colpi del destino tragico che l’accompagnò fin dagli anni innocenti. A Venezia, e più tardi a Milano e a Perugia, dove
studiò presso la Facoltà di scienze politiche e sociali, Sergio continuò a lavorare. Egli non apparteneva a quella razza di giovani letterati che, dopo un breve scintillîo dei doni inerenti alla giovinezza, impossessatisi delle formule e dei vezzi stilistici alla moda e limitato il loro mondo al breve orizzonte delle discussioni e dei pettegolezzi di caffè e alla conoscenza di pochi contemporanei, finiscono col chiudersi
in un arido bozzolo di idee e di forme fatte. Tra l’altro, a lui, nato da ricca famiglia d’industriali veneti,
s'erano aperti fin dai primi anni orizzonti ben più vasti di quelli che solitamente cadono in sorte ai migliori ingegni, la cui adolescenza si trova così confinata alle sole esperienze libresche e a quelle aride delle frequentazioni scolastiche e del meschino am401
biente borghese. Egli mi accennò una volta alle grandi pianure del suo Polesine natale, alle sue passeggiate a cavallo, e, altra volta, alle sue vacanze sul-
la Costa Azzurra e in Isvizzera, ai suoi viaggi in Jugoslavia, Grecia, Turchia, Spagna. Ciò malgrado, alla sua cultura d’allora avrebbe potuto semmai muoversi l'appunto di essere troppo ortodossa e unicamente formata sui classici: Sergio non fu, o non fu quasi mai, tentato dalla conoscenza di quei poeti e pensatori che, in dati periodi, si sogliono considerare eretici e maledetti, e hanno tuttavia di tanto in tanto il
compito di rompere l’aria chiusa e il muffo della scuola. Anche i contemporanei, egli non cominciò ad apprezzarli, credo, che varcata la ventina. Piuttosto, dal suo ambiente e dalle sue frequenta-
zioni derivava a Sergio giovinetto una punta d’estetismo, la quale peraltro non faceva a quell’epoca che accentuare la genuinità della sua natura: un certo gusto del fasto e dell’orpello letterario, di marca dannunziana ed eroica, di cui i «versi puerili» erano quasi immuni, ma che più tardi minacciò di arenarlo in sontuose formule sorpassate, fino a che egli giunse, seppure a fatica, a liberarsene completamente. Ma non è questo, forse, il destino dell’artista giovane, di ritrovare la sua sincerità attraverso le maschere? La punta estetizzante e decadente, pur vinta, ebbe in lui una funzione reattiva: gli creò una divisione, una difficoltà interna che lo aiutò indiretta-
mente ad approfondirsi. Ma sebbene, in fondo, la sua vocazione fosse essenzialmente poetica, i suoi interessi apparvero pre-
sto sconfinare oltre la letteratura. Della molteplicità e freschezza di essi ci testimonia la collaborazione ch’egli diede al foglio letterario del Guf di Venezia, «Il Ventuno» (del cui comitato direttivo fece anche parte per qualche tempo), nel 1932 e ’33 e anche dopo. Accanto a note su Pea, C.E. Gadda, Grande,
ecc. che ci attestano della schiettezza delle sue reazioni ai primi contatti con la letteratura contempo402
ranea, e del suo tutto giovanile disprezzo per le «convenienze» verso i gruppi e le mode, egli vi pubblicò, oltre ad uno studio sulla Poesia amorosa del Du-
gento, certi articoli sugli aspetti e sugli ideali del nostro tempo (o, meglio, del «nostro tempo» di quegli anni), che ce lo mostrano curioso di tutte le espressioni della vita e del costume d’oggi: il teatro, il cinematografo, l’architettura razionale, il posto dell'artista nella società moderna, il «problema dei gio-
vani». E, fatto strano, mentre
le poesie dell’adole-
scenza apparivano così «stanche di dolore» e tradivano con così toccante abbandono il lamento della puerizia offesa, dagli scritti di Sergio ventenne traspariva un coraggioso ottimismo, una fede animosa nelle inclinazioni del tempo, il sogno d’un mondo rinnovato e più sano, che vanno ben oltre l’entusia-
smo generico della gioventù per il nuovo e per il «futuro». Certo, è permesso sorridere di questa baldanza giovanile, che ad ogni generazione si affaccia per far piazza pulita del passato e per instaurare un regno di beatitudine, stato di natura, Icaria o Città del Sole. E proprio infatti della gioventù del singolo,
come di quella dei popoli, il fissare, il materializzare la felicità in un ordine immobile e perfetto. Né essa si rassegnerà mai a credere che le idee non sono che semplici ombre, che noi riempiamo e rendiamo so-
lide di volta in volta unicamente con la nostra passione e la nostra buona volontà: perpetuamente in pericolo, perpetuamente
tradite, che non possono
realizzarsi effettivamente mai, ma tutt'al più giungono a impregnare confusamente la realtà del loro barlume. Ma Sergio questa passione, questa volontà,
la metteva nelle idee che andava tracciando. Forse la stessa precoce esperienza del male e del dolore lo induceva a trasferire sul piano sociale e del costume quella fede nell’avvenire, quel bisogno di felicità di cui era stato intimamente deluso. Ma certo è che in poche pagine di giovani ho trovato un accento così persuaso, un’aspirazione
così intensamente
403
sentita
verso un senso più sciolto e felice della vita collettiva, verso una funzione largamente educatrice dell’arte, verso quel «concetto di essenzialità» («un costume, un modo di vivere dove solo il necessario esista e
necessariamente») che a lui sembrava comportasse un più esatto, leggero aderire alla «natura», oltre le convenzioni d’ogni sorta, etiche o politiche («abbiamo una pienezza: essere cittadini del mondo»), di cui gli sembrava d’intravvedere un principio nell’architettura «razionale» o «funzionale», e che gli face-
va pensare a un definitivo esaurimento dell’esperienza romantica e a una nuova classicità d’indole collettiva o corale, a una nuova suprema e ricca semplicità del vivere e del pensare. Idee, si osserverà, ingenue e troppo in luce, in-
conscie del peso di delusa storia ch’esse si trascinano inevitabilmente dietro. E forse, più tardi, Sergio
vi sarebbe tornato sopra per correggerle e sfumarle, per riannodarle a una più complessa esperienza del passato. Ma fu allora che, ubbidendo in parte a va-
ghe aspirazioni in tal senso «costruttive» — oltre che ad un insofferente spirito d’avventura nonché ad una punta di gusto pioniero e coloniale ch'egli si riconosceva, e che a momenti gli faceva vagheggiare una incarnazione dei suoi ideali di salute e di ritorno alla natura in una vita all’aperto, di farmere di co-
lonizzatore —, Sergio partì per la guerra d’Africa, in cui doveva contrarre il terribile male che l’avrebbe spento di lì a pochi anni. Fu così che Sergio conobbe le aurore esaltate di luci sul paese selvaggio, i soli infiammati sulle ambe e sulle «euforbie fiorite del lago Ascianghi»; le im-
boscate, il frullo della pallottola spersa nelle ore notturne di vedetta; e le lunghe marce che inducono i deliri della stanchezza; e gli assalti. E le soste dietro il muretto d’un fortino, sotto le nubi vaganti nel cie-
lo equatoriale, quando doveva urgergli in cuore, da troppo tempo trascurato, un anelito informe di poe-
sia. In qualche sua lettera e frammento di quell’epo-
404
ca, più che un simile abbandono, trovo un’attenzione precisa al paesaggio e alla vita degli uomini, un tentativo di presa di possesso piena, plastica, di quella sua nuova esperienza. A una tale maturità del tratto descrittivo non era forse alieno un suo cosciente impegno di «farsi la mano» al mestiere giornalistico che egli, laureando in scienze politiche e sociali, si ri-
prometteva di praticare almeno marginalmente: e, come in ogni cosa che intraprendeva, Sergio vi portava quella sua volontà tenace, quella sua serietà pensosa cui erano ignoti i comodi deviamenti così come lo spirito amplificatorio e la pur tentante inclinazione all’approssimativo che, in quel campo, sogliono precocemente gelare le migliori promesse. Lo vidi di ritorno dall'Africa apparentemente tranquillo e sicuro di sé, nonostante il male che gli s'era improvvisamente rivelato durante il viaggio di ritorno. Pochi mesi appresso, la morte del padre, e,
subito dopo, il profilarsi della rovina economica. Sergio accoglieva i nuovi durissimi colpi del dolore con animo forte e ostinato. Oggi, a ripensarci, stupisco d’una simile forza d’animo consapevole e serena. Oserei dire che sul suo volto non si scorgesse altra ombra di tristezza che quella ingenua e adolescente che gli avevo sempre conosciuta. Egli mi appariva sempre nell’atteggiamento fermo e paziente di chi ogni volta si adopera ad eludere un avverso disegno, a dipanare, a riannodare le maglie ogni volta aggrovigliate o spezzate dal destino, ogni volta intento a quell’essenziale compito umano che è di trarre bene dal male, e dalla mortale fatica il «lembo di terra per
l’approdo» sotto la tempesta imperversante:
Quanto fango! Ne faremo Una capanna In riva a un fiume profondo.
E Sergio pensava a costruirsi una casa, un rifugio, con una fede ferma nelle forze perpetuamente ri405
zampillanti della vita, con una paziente ostinazione contro il male. Dopo un breve soggiorno estivo a Nova Levante, nella speranza di un rapido miglioramento, egli tornò a Perugia dove si laureò in scienze politiche e sociali. Nel 1935, se ben ricordo,
egli era entrato alla redazione dell’«Ambrosiano», dove aveva fatto pratica e dato al foglio milanese alcune meditate noticine sui problemi del giorno. Dopo la laurea egli riprese la collaborazione a quel giornale. Ma l’aggravarsi del male ben presto lo costrinse a lasciare qualsiasi lavoro seguito, ed egli si ritirò per qualche tempo con la madre a Cernobbio, sul lago di Como, in un continuo alternarsi di
preoccupazioni e di speranze. Direi che quanto più duro fosse il combattimento contro il male tanto più in Sergio sembrava rassodarsi la fede. La sua dura volontà di vivere sembrava inattaccabile, più
forte d’ogni avvertimento. Schietta fiducia o segreto bisogno d’illusione, che gli permettesse di spremere all’estremo, prima della troppo sollecita scadenza,
il succo
dolceamaro
dell’esistere?
Chi, se
non rimanga fermo al gioco delle pur giustificabili convenienze umane,
ma si inoltri anche soltanto
di qualche passo nella corrente dei sentimenti profondi, dove il bene indissolubilmente s’unisce col male, chi, dico, vorrà giudicare? Fatto sta che Sergio andò a vivere a Rapallo, con la madre e la giovanissima sposa. Dalla finestra aperta, sui suoi libri, sulla macchina da scrivere, l’arancio spandeva le sue foglie lucide e il suo odoroso fiorire, si levava la
parete turchina del mare. Fui poco più tardi ospite in quella sua stanza, quando, chiusa la sua bre-
vissima esaltata stagione, egli giaceva, vinto ma non
rassegnato
ancora,
all’Ospedale
di Chiavari,
dove lo vidi il giorno dopo (era il settembre del 1940). Egli appariva sorridente, solerte, s’informa-
va della salute del figlioletto che da poco gli era nato, si dimostrava attento alle proprie cure e al proprio vitto d’ammalato,
come
406
un
atleta in riposo,
che attenda il giorno immancabile in cui ritornerà sull’arena. Quant’era profonda quell’ostentata convinzione, lo stesso giorno in cui il medico, da me richiesto in segreto, mi aveva palesato l’inguaribilità del suo male? Proprio in quei mesi egli dava a «Primato» una serie di cronache di libri di poesia dove si dimostravano ancora una volta le suè qualità di lettore penetrante, fatte più sicure e attente dalla maggiore età ed esperienza. Forse, accanto agli altri recensori di «Primato», Fadin poteva apparire meno puntiglioso, meno attento alle qualificazioni stilistiche e tecniche, alle derivazioni formali degli autori che studia-
va: in compenso eccelleva nel saggiarne, a prima vista, la novità e la sostanziale disposizione lirica. E le sue note avevano un timbro più appassionato di naturale compartecipazione. Egli le scriveva dall’ospedale, talvolta nel giardino, quando poteva alzarsi, oppure da letto. In una di esse, dedicata al libro postumo del giovane poeta Giuseppe Cosmi, morto ventiquattrenne, e soprattutto in un’altra — se non erro l’ultima che scrisse — sulle liriche e frammenti di Sergio Essenin, che apparivano allora tradotti da Renato Poggioli, egli tracciava alcune melanconiche
considerazioni sul morir giovane, nei poeti, che 0ggi ci fanno confusamente intendere quanto fosse in lui presente l’intima rassegnata consapevolezza della fine precoce: «I poeti anche con la morte obbediscono al loro destino. Non che la morte, come peri martiri, sia la sospirata corona dell’esistenza, ma fatto umano, episodio, un ultimo atto tessuto con ifili
stessi dei versi. Così è destino il morir giovane o vecchio. Né alludo alla facile profezia che può trarsi dal fisico inerme, già quasi distrutto, unito alla vita da
un nodo leggero, come di Leopardi o di Maurice de Guérin; dei quali la morte non interessa per la precocità, che è la naturale fine di un organismo inguaribile, bensì per il tenue ricamo delle ultime ore, l'umanità, il modo del trapasso. Per altri il morir
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giovane è veramente fatale: la scomparsa di Nievo, l’ultimo viaggio di Shelley, la disdetta di Byron...». «Unito alla vita da un nodo leggero». Così, durante quel suo «ultimo atto», doveva sentirsi Sergio, sotto il tutto intellettuale e volontario proposito di guarire e di vivere. Magari la stessa rimessione di responsabilità, il senso d’assoluzione che suol dare la malat-
tia, gli erano valsi a quella calma sicura che egli, pur attraverso a difficoltà e traversie, conservò negli ultimi anni. Fra gli scritti che ci lasciò inediti — un paio di scenari cinematografici, qualche novella e traduzione, oltre a numerose poesie e altre pagine degli anni immaturi — ho letto due lunghi frammenti del diario «romanzato» d’un soggiorno a Venezia e a Bolzano. Sotto l’aspetto letterario, l'interesse ne è scarso: per
quanto esso riveli un attento esercitarsi allo studio «dal vero» che può lasciar presagire un talento di narratore, il suo carattere esclusivamente «privato» gli toglie risonanza. Ma, trasportato sul piano biografico, come quel suo bisogno di fissare, lungo il filo delle ore, i volti incontrati, i ricordi del suo tempo veneziano, una passeggiata, una figura di donna, una fase del cielo, e tutto ciò non già a frammenti e sprazzi, come suole lo scrittore di diari, che isola sulla monotonia del quotidiano l'evento, l’impressione memorabile,
ma in un fluire tranquillo di narrazione, dove ogni momento della vita appare riscattato, redento, e perciò puro e degno di storia: come,
dicevo, tutto ciò
può apparire rivelatore! La vita trascorsa e la vita presente sullo stesso piano imperturbabile, e la penna tranquilla che vorrebbe esaurirle entrambe, e neppure sente il bisogno di celebrarle, perché esse sono già di per sé stesse integralmente da accogliersi e da giustificarsi nella loro semplicità ed innocenza supreme di «fatti». Chiusi nell’arena della nostra lotta vitale, imprigionati nella forma del nostro destino, noi abbandoniamo continuamente le scorie dell’esistenza,
affannosamente
pulsante per reintegrarsi non sap-
piamo bene in che cosa. Ciò che conta, ciò che sol-
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tanto vale, oltre la silenziosa realtà e gli affetti che rappresentano le nostre radici in questa terra, è quanto ad un certo momento ci esalta e ci riempie d’anelito: e più ci riempie e ci esalta, più esso consuma la nostra vita, ce ne svaluta interi aspetti e li confonde in un unico
senso
d’impazienza
mortale.
Ancora
scorie,
scorie che abbandoniamo a prezzo di menzogna con nol stessi; scontentezze, amari rigurgiti, a ripagare un momento
di volontà e d’esaltazione, uno slancio di
speranza: e questo perenne scompenso noi diciamo esistere. Ma Sergio, «unito alla vita con un nodo leggero», era forse giunto ad una giustificazione istintiva, vorrei dire fisiologica, che, pur senza sminuirgliene l’intensità, doveva consentirgli quella visione innocente e assolta, come di chi ha lasciato sul proprio
cammino ogni troppo pesante fardello: Dolcemente la vita Ancora mi tiene. Porta Il mio peso leggero con un passo Che la neve raccoglie senza stridere. Tarde le mani e tenue il respiro, palpita Nel petto un’ala; nell’aria Come dietro a un cristallo vedo l’anima... Che ne sappiamo noi delle segrete compensazioni che la vita opera nel suo profondo, di quel dramma inenarrabile
con le nostre parole umane,
che,
laggiù, inverte per misteriosissime vie i lineamenti del bene e del male? Noi vogliamo credere che Sergio Fadin, che conobbe fanciullo gli agi e il dolore,
e più tardi ancora il dolore, e la guerra e la poesia, e l’amore e la paternità, abbia vissuto.
Sergio Fadin, nato a Badia Polesine il 22 Gennaio 1911, si spegneva di mal sottile all'Ospedale di Chiavari, nella sala comune, 1’ 11 Gennaio 1942.
Quindici brevi poesie, un leggero fascicolo di versi. Avremmo potuto, trascegliendo qua e là fra i manoscritti e gli articoli pubblicati, mettere assieme un
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volume tipograficamente più consistente. A che pro? Di molti scrittori presto scomparsi si son raccolti e si vanno raccogliendo, anche ad anni di di-
stanza dalla morte, articoli ed appunti, lettere e testimonianze: un pio bisogno sospinge le famiglie e gli amici, e ne escono libri che destano al lettore un confuso senso di rispetto, di commozione e di pietà
per una fine immatura, che generalmente non arriva mai a trascendere il piano biografico e umano e in cui, nella
maggior
parte
dei
casi, finisce
col
confondersi anche l’interesse sostanziale che taluno degli scritti raccolti potrebbe suscitare. Abbiamo preferito risparmiare a Sergio, così difficile con sé stesso, questa generica pietà postuma. Del resto egli, persino nelle aspirazioni, poco tenne dello scrittore
professionale: talora l’interesse per la politica, il costume, magari il cinematografo o le questioni sociali, sembrò sopraffare in lui quello più propriamente letterario: se anche dello scrittore nato egli rivelava le qualità genuine, l’uso di un discorso aderente ai moti dell’animo e del pensiero, la superiore atten-
zione alla parola e alla frase, il senso di responsabilità di fronte alla pagina. Né del resto sappiamo rimproverarlo se, così pieno d'amore per gli aspetti della vita, egli si astenne dal raggelarsi precocemente in pagine forbite, e non fece in tempo a lasciarci, oltre
a questi pochi versi, altro che appunti intimi o abbozzi e tentativi in diverse direzioni. Ci siamo dunque limitati alle quindici Elegie che, incoraggiato dagli amici, pensava, negli ultimi tem-
pi, di dare alle stampe, e per cui anzi aveva già trovato il titolo. Egli le scrisse negli ultimi anni, dopo il ritorno dall'Africa, e, specie le ultime, sono già per-
vase dal presentimento della fine e come toccate da un senso di traslucido gelo. Attraverso le altre esperienze pur seriamente perseguite, egli vi appare aver finalmente trovato l’eco genuina del suo sommesso accento interiore, quella che, in forme inadeguate,
già vibrava negli antichi «versi puerili». In esse egli 410
ha riflesso la sua ultima più pura immagine, ha trasfuso il tono più nativo, segreto e pensoso della sua vita: così in esse, e in esse soltanto, abbiamo preferi-
to fissarlo. Il dattiloscritto che abbiamo davanti porta, di pugno di Sergio, alcuni pentimenti e correzioni. Dove la correzione appariva decifrabile, l'abbiamo senz’altro sostituita alla lezione primitiva. Non abbiamo invece potuto tener conto dei tratti di cancellatura che rappresentavano, nell’intenzione del poeta, velleità di miglioramenti ch’egli non fece in tempo ad attuare. Abbiamo così cercato di essere, per quanto possibile, fedeli. Certo, a chi cerchi in un libro di versi la cifra e la
formula, un mondo di figurazioni immediatamente attribuibili ad un dato scrittore, o a chi prediliga i ri-
girati e variopinti giocattoli del surrealismo di moda, questa lirica potrà apparire troppo «umana», troppo implicata nella sua dolorosa sostanza autobiografica. Ma per chi faccia consistere l’essenza della poesia principalmente nella scoperta purezza dell’accento, nel superamento musicale dello stato d’animo, nella delicata architettura formale
che ferma-
mente imprigioni e trascenda l'occasione che può averle dato vita — rivelando per tal via, più persuasivamente che attraverso uno sforzato poncif, una fisionomia, una voce inconfondibile in ogni sua sfumatura — le scarse, sensibili parole di Sergio Fadin non potranno che imporsi all’attenzione, e durare
lungamente nella memoria. Autobiografia, si dirà. Sergio, una volta, aveva pensato di intitolare queste liriche, forse troppo documentariamente, Mal sottile. E certo qualcosa della gracilità, dello struggimento della malattia appare inerente a queste sottili trame di versi, a questo dolente,
pesato sospiro. Talora l’accenno ad intime situazioni appare rarefatto all’estremo, esclusivamente affidato alla flessione del sentimento, privo del sostegno del pensiero e dell’immagine. Ma la fermezza pur delica411
ta del canto riscatta la cecità del lamento mortale, se anche talora — come in alcuna delle ultime, che sono
d’altronde le più intense — l'emozione poetica non ardisce a lungo sostenersi nella sua pacata presa di possesso, e il grido umano prorompe. Così alla fine della xm, dove all’inizio l’antica immagine della luce lunare che attraversa la finestra dell'ospedale ritorna con così bella e stringente evidenza: Oh sei tornata, luna! Dei dormenti
Io solo ti aspettavo. Non sanno Che sotto il tuo velo Sembrano morti. Giaci Soavemente tu pigra e la veste Morbida spieghi e a me ne serbi un lembo Estremo e penso Quanta spietata pace La tua mano distende... Povero Sergio, cos'altro avremmo potuto fare per te che ricantarci nell’intimo queste tue umane e dolenti estreme parole? Siamo stati così poco assieme. La ricchezza della vita, a ben vedere, consiste più
che altro in una miriade di cose mancate. Il pensiero inespresso, la lettera rimasta senza risposta, il li-
bro non letto, il viaggio rinunciato. E in altre abbozzate o incompiute, che il ricordo tenta invano di avvivare e di approfondire per trarne qualcosa che abbia un significato: e la pia memoria degli uomini integra con l’irrealtà del mito questi attimi corrosi e ne fa monumenti. Dal finestrino del treno ho riveduto quest'anno la città di Chiavari, e ho scorto per un momento la «rocca» vicina al tuo ospedale, da te evocata in una poesia, e ho rammentato l’ultima visita che ti ho fatto, e
che non pensavo dovesse esser l’ultima. E la tua ferma, ironica serenità, i neri capelli madidi sul guanciale, le mani pallide sulle carte, sui libri sparsi. Ero sicuro che sarei tornato a rivederti, che avremmo più a lungo parlato assieme, che l’«occasione» si sarebbe 412
ripresentata. Così baldanzosamente la speranza ipoteca l'avvenire, lo imprigiona, compiacentemente spiana gli ostacoli, gl’impegni di quest’esistenza perpetuamente rapita a noi stessi: e sembra cosa fatta. Il disappunto e il rimpianto, più tardi, suoneranno eternamente puerili. La morte entra bruscamente nel gioco, strappa le carte di mano, e chiude la partita prima che le parole importanti siano state dette, prima che sia chiarito il senso che un amore, un’amicizia, un qualsiasi incontro umano sembrano dare
alla nostra vita. Milano, Ottobre 1942
#13
«UOMINI E NO» DI ELIO VITTORINI
Sono lieto di dovere a Elio Vittorini il primo libro — o il primo che mi sia accaduto di leggere — ispirato alla «resistenza» italiana: e che si tratti perciò di un libro di alta qualità letteraria, non indegno di figurare in quell’ideale raggio della mia biblioteca che potrebbe accogliere le opere degli scrittori contemporanei che hanno assunto a forme di fantasia la cospirazione e la guerra civile: dove potrebbero primeggiare Ville conquise di Victor Serge, L'été 1914 di R. Martin du Gard, La condition humaine di Mal-
raux 0 For Whom the Bell Tolls di Hemingway: cito a caso. Certo, le preoccupazioni che muovono questi scrittori, come i loro risultati, sono ben diverse e tra
loro incomparabili: ciò che può dimostrare la vanità di un accostamento così determinatamente contenutistico, ove non si limiti a servire, come nel nostro caso, a un del tutto provvisorio orientamento.
Quanto a Vittorini, egli non persegue né l’agitato «documentario» di un Serge, né il tentativo di grandioso affresco della moralità di un’epoca che Martin du Gard ha messo in opera nei 7hibault, e
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tanto meno quel senso di vita fluida e indifferenziata che un Hemingway sembra trarre da esseri e avvenimenti con l’acutezza registratrice d’una perfetta puntina di grammofono. L'autore, in questo libro, è in primo piano, e il
suo atteggiamento, quale già si accennava nei racconti di Piccola borghesia, per affermarsi in seguito,
più compiutamente, nella Conversazione in Sicilia, si rivela, a differenza di quello degli scrittori suaccennati, di natura personale e lirica, idealmente auto-
biografica. Vittorini non appartiene a quella specie di autori il cui sforzo è di costituirsi, per così dire,
anonimo luogo d’incontro di sensazioni e figurazioni, occhio contemplante e giudicante della realtà. Non appena superato il momento indeterminatamente sperimentale dei primi racconti, l’esperienza dell’arte s’è per lui strettamente identificata con l’esperienza della vita, in un impegno unico. Nella Conversazione în Sicilia era il tuffarsi dell’uomo ormai fatto maturo in un frammento di vita anteriore — l’infanzia perduta — che a sua volta costituiva il veicolo per il ritrovamento di una fondamentale uma-
nità dolorante: gli uomini e le donne di una ideale Sicilia d’istinto e di miseria. In questo libro è un altro frammento di realtà vitale — la guerra civile a Milano, la lotta dei Gap contro i tedeschi e i fascisti — in cui l’autore vive immerso, risentendone fino in
fondo l’accesa passione. Né con ciò vogliamo tanto alludere al fatto che Vittorini, militante comunista,
abbia conosciuta davvicino quella realtà — piano psicologico e piano artistico sono ben distinti, anche se
per avventura possono coincidere — quanto insistere ancora sulla natura almeno idealmente autobiogra-
fica del suo impegno di scrittore. Impegno in cui bruciano e si fondono, innanzitutto, le particolarità stilistiche che Vittorini, natura
la cui originalità fondamentale ben compatisce una sensibile apertura a diversi influssi, appare aver as-
sorbito soprattutto dalla sua lunga e delicata espe415
rienza di traduttore degli inglesi e americani. Una certa compiaciuta ripresa di ingenui dialoghi, che può ricordarci Hemingway o Saroyan, come, all’opposto, un gusto quasi allegorico delle figurazioni del sogno e della memoria che, almeno indicativamente, può fare risalire a un T.F. Powys o a un Thornton Wilder. Segni di quel clima «internazionale» che la nostra narrativa è andata affrontando negli ultimi decenni, e che nel nostro autore si è ormai così inti-
mamente connaturata da liberarlo in modo compiuto da quei vezzi imitativi che ci molestano in scrittori meno avvertiti. Il suo modo di narrare scorciato, essenziale, per rapide illuminazioni, è oggi in tutto ben riconoscibile. Egli viene così ad assumere una realtà a noi prossima, da noi vissuta, con le sue precise determinazioni locali — Milano, Porta Romana e Porta Vittoria,
Largo Augusto, il Parco — in un’atmosfera che nulla ha più a che vedere con le particolarità della cronaca, pur tentatrici in questo caso. In una tale atmo-
sfera, limpida e pur leggermente irreale, si muovono gli eroi del racconto. Enne 2, il protagonista, l’intellettuale che ha lasciato la penna per la pistola, e organizza i colpi di mano d’un gruppo d’azione partigiana. Accanto a lui il Gracco, vecchio reduce del-
la guerra di Spagna, spirito di meditabondo, curioso osservatore. E figure di onesti e coraggiosi operai. Attraverso il racconto, il riprodursi statico di una situazione amorosa: Berta, la donna vicina e innamorata, e pure irraggiungibile, prigioniera del proprio destino. Un filo di vita intensissimo, e tutto attorno
strapiombante l’abisso della realtà sociale e umana spogliata a nudo e dilacerata: la follia, la tortura, la morte. Sul piano superiore, i dominatori, che si sentono minacciati ad ogni istante, e cercano di mante-
nersi reagendo disperatamente col terrore: gli uomini dell’imperio e della violenza, Cane Nero e il ca-
pitano Clemm, i giudici del tribunale speciale, i tedeschi dell’Albergo Regina. Sul piano inferiore, il 416
popolo oscuramente consapevole e ribelle, che manda i suoi figli migliori alla morte. Tra questi due termini estremi del dramma, nessun compromesso, nessuna sfumatura, nessuna comoda finzione. L’uo-
mo ha le spalle al muro, e lotta per sopravvivere. Tutto è stabilito e senza progressione: uomini e no. Lo stesso eroe reca in sé fin dall’inizio i termini del contrasto che lo porterà ad immolarsi in un attentato. E soltanto alla fine, nell’esitazione del giovane
«gappista» ad uccidere il soldato tedesco nella trattoria, balugina il lume commosso del riconoscimen-
to d’una umanità comune, d’una superiore riconciliazione. La stessa narrazione si svolge in un piano duplice, che lo scrittore ha voluto distinguere persino graficamente: come un contrasto di voci alternate. Il piano dei fatti apparenti e quello, interno, della riflessione su quei fatti, delle persuasioni morali, della
memoria e del sogno, che a volte sembra acquistare vaghi significati simbolici. Questa parte del libro ci offre come uno spaccato delle radici che legano l’autore al suo protagonista, e in genere alle figurazioni del suo racconto, e ci testimonia vieppiù del suo impegno autobiografico, di una materia ancora ribollente, talora di significato ambiguo, ancora semisepolto nel segreto interiore; e, insieme, di un travaglio autocritico, diretto alla «messa a fuoco» del
protagonista e degli avvenimenti narrati, affinché essi rendano il loro suono più giusto secondo l’animo dell’autore. Ma è qui dove il racconto lascia intravvedere una certa duplicità d’intenti, e qualcosa come un residuo irrisolto. Si direbbe che Vittorini, nel
suo stesso bisogno di sincerità, abbia leggermente equivocato, prestando al suo personaggio un’altra dimensione, una storia latente in definitiva inessenziale al suo tema: con tutto il vago, l’implicito e il
compiaciuto che una simile intromissione comportava. La figura del suo protagonista, così folta di legami segreti col suo autore, ne è perciò risultata un #17
po’ sfocata e nebulosa. Lo scrittore avrebbe forse guadagnato a compiere un ulteriore passo, risolvendo tutto questo residuo alla superficie della sua storia, la cui schiettezza di timbro sarebbe riuscita sempre pari a quella delle sue pagine più belle. Fra cui sono, mi pare, quelle sulla Milano notturna, percorsa dalla insonne guerriglia: quelle sui fucilati di Porta Vittoria, le finali sulle azioni dei Gap nelle cam-
pagne milanesi: e tante altre ancora. Poche parole, infine, sulla qualità morale del racconto, cui Vittorini particolarmente tiene, tanto da aver concluso con una breve nota, dove accenna al-
le sue convinzioni politiche e sociali, e ai compiti dell’arte e della cultura del tempo presente, per porsi infine un commosso interrogativo sui rapporti tra la sua narrazione e la sua fede politica di comunista. Sulla sua prima preoccupazione lo rassicureremo subito: il suo libro è, sì, un libro appassionato (e vano sarebbe chiedere a una natura di scrittore come Vittorini l’«obbiettività»
di un
moderno
realista),
ma, come espressione d’arte, si situa all'estremo opposto dell’opera di comune propaganda, destinata a produrre un fuggevole esaltamento nel lettore. E l’arte, che non vuol dire vuota esteticità, ma frutto di
umana passione e pensiero, ha sempre una implicita funzione di elevazione, un risultato, per ripetere
l’abusata parola, «progressivo». Quanto al suo eroe, «che mette al servizio della propria fede la forza della propria disperazione d’uomo», più che ad un comunista, all’assertore di una società migliore, il che
implicherebbe, mi sembra, una certa misura di robusto ottimismo («noi per questo lotteremo: perché gli uomini siano felici»), fa piuttosto pensare ad un nuovo figlio del romanticismo novecentesco, caratteristico di una società in crisi di sviluppo, dove la
stessa fede può porsi come l’alibi di una fondamentale disperazione senza illusioni né rimedio. Veri comunisti, secondo le stesse intenzioni dello scrittore,
sembrano essere piuttosto nel libro gli ingenui ope418
rai che combattono e muoiono con l’anima piena di serenità, affermando la vita fino in fondo.
Ma, quali che possano essere i suoi significati morali, impliciti od espliciti, si tratta pur sempre di un racconto pieno di poetica suggestione, che ci testimonia della profondità e schiettezza della nostra tormentata rinascita, la quale mostra di avere già trovato una voce nei suoi poeti e nei suoi romanzieri, come nei momenti più densi d’avvenire della nostra storia. 1945
419
VITTORINI: «CONVERSAZIONE IN SICILIA»
Conversazione în Sicilia segna un momento della storia della giovane narrativa italiana, che è un momento di maturazione e di trasformazione. Spesso i critici hanno fatto risalire la mancanza di una tradizione continuativa del romanzo italiano al difetto di una società unitaria, basata su strutture sal-
de e consolidate nel tempo. E i grandi narratori moderni, da Manzoni a Nievo a Verga a Fogazzaro a Svevo, hanno potuto apparire come culmini isolati sul tranquillo fluire delle singole tradizioni regionali. Quella unità, per quanto ancora grezza e imperfetta, la società italiana ebbe a toccarla dopo la crisi della prima guerra mondiale, a un momento in cui, si può
dire, soltanto la poesia e la critica avevano anticipato, con un lavorîìo di scavo introspettivo e morale e un parallelo logorio delle strutture rettoriche della convenzione classicistica, il nuovo clima «europeo» della
letteratura nazionale. Da quel tempo, la nuova narrativa cominciò a germogliare, per così dire, accosto alla poesia lirica, e risentì di quello stesso bisogno di
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sincerità nuda, di escavazione intima, di immediatez-
za sensibile: si espresse, quindi, più facilmente nelle forme del diario, della memoria, del frammento: re-
stìàa ad una libera invenzione che fosse potuta apparire in qualsiasi modo arbitraria. Si può aggiungere che il clima della dittatura, sopraggiunto poco dopo, non era certo il più favorevole a un suo dispiegarsi in modi aperti e oggettivati, a una sua presa di contatto con i grandi temi del tempo. Aiutò, per la sua parte, l'esempio
straniero, e soprattutto,
a un
certo mo-
mento, quello che giungeva dall'America, e non per nulla due dei nostri scrittori più rappresentativi della «generazione di mezzo», lo stesso Vittorini e Pavese, furono entrambi traduttori e introduttori, da noi,
della moderna narrativa americana. Conversazione in Sicilia rappresentò così una fusione della recente esperienza lirica intimista delle nostre lettere con l’obbiettivazione realistica, esternata in casi e figure, cui aspira naturalmente il romanzo.
Entrambi gli aspetti caratteristici del Vittorini scrittore, quello realistico e quello lirico — che ne fanno poi in realtà uno solo —, hanno radice in quella combattuta origine. Dopo il momento idillico espresso dai delicati studi e bozzetti di Piccola borghesia, dopo
il più travagliato e complesso esperimento del Garofano rosso, pittura di adolescenze irrequiete sullo sfondo acceso del primo fascismo,
Conversazione în
Sicilia sopravvenne come la risoluzione felice, l’opera compiuta. Esemplare, anche, del modo in cui l’in-
timità di una storia personale si rovescia senza residui sull’oggettività realistica, senza alcuna superfluità documentaria,
e attingendo,
piuttosto,
alla
gravità dell’allusione simbolica. Quella «piccola Sicilia ammonticchiata, di nespoli e tegole, di buchi nella roccia, di terra nera, di capre, con musica di zampogne che si allontanava dietro a noi, e diventa-
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va nuvola o neve, in alto», ritrovata in un remoto paesuccio montano dell’isola, diventa così insieme
un luogo storico e un luogo interiore, e il viaggio insieme un viaggio reale e un viaggio compiuto — come dice lo scrittore — nella «quarta dimensione». Così la figura della madre, campeggiante sul racconto col suo misto di atavica saggezza e di maliziosa fantasia e grazia, e i personaggi minori, il padre, il nonno, il Gran Lombardo, Coi baffi e Senza baffi,
l’arrotino, Ezechiele ecc. son come figure di una metope primitiva in cui il segno caratteristico e regionale, pur presente e pungente, sfuma di continuo in segno di umanità senza attributi. E il senso di fraterna pietà, l’anelito di giustizia e di rivolta sorgono naturalmente dagli incontri e dai dialoghi senza nulla di preordinato e programmatico, e tanto più determinato è lo spunto naturalistico quanto più emerge da quell’aria di sogno, che può perfino giustificare, verso la chiusa, uno spettrale colloquio con un morto. Certo, Vittorini ha compiuto molta strada dopo la Conversazione, e, con Il Sempione strizza l’occhio al Frejus e Le donne di Messina, è andato incontro a nuove e
più complesse esperienze. Ma questo libro resta il frutto di un felice incontro, e di un incontro in qual-
che modo irripetibile. Le stesse costrizioni della censura, la stessa necessità di dire e non dire, di insinuare, di sfiorare senza insistere, furono, una volta
tanto, favorevoli ad uno scrittore. Come egli stesso ci ha confidato in una sua recente confessione lettera-
ria: «avevo bisogno di dire una certa cosa che solo a dirla come dice le cose la musica, o come le dice il melodramma, come le dice la poesia, si poteva arrischiare, nel regno fascista d’Italia, di dirle in faccia al pubblico, in faccia al re, in faccia al duce...».
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E quella «certa cosa», ossia un ritrovato amore e giustificazione degli uomini, con un accento di desolata e sommessa speranza, non si può dire che Vittorini non l’abbia detta con verità e con commovente grazia. 1948
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UN POEMETTO DI BACCHELLI
Le testimonianze, narrative e poetiche, di questi anni drammatici vanno qua e là sorgendo. Buon segno? A noi non importa certo in modo particolare di arricchire la nostra tanto calunniata letteratura di nuovi generi di poesia e prosa «civile», al modo del defunto regime, che non si dava pace di non veder spuntare liriche eroiche e romanzi a sfondo imperiale a somiglianza di funghi dopo gli acquazzoni oratori e giornalistici. Ci è però caro che queste testimonianze abbiano ora a mostrarsi, inattese
e non
sollecitate e soprattutto non più prescritte «dall’alto», per la prova che esse ci offrono che la letteratura, quella vera, non può che riflettere sentimenti veri, realtà essenziali,
e che sono vane le artificiali con-
cimazioni e i programmi e le strettoie. E né la cosìdetta rivoluzione fascista né la guerra etiopica né quella dell’asse suscitarono mai, infatti, un solo can-
to popolare o una sola opera d’arte spontanea. Sintomo che fin da allora poteva apparire decisivo della separazione esistente fra l'apparenza politica e la realtà profonda dell’anima italiana. La lacerazione violenta della sconfitta e del crollo,
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i bagliori sanguinosi della lotta clandestina e partigiana non potevano lasciare insensibile la mente dei nostri migliori scrittori; la tragica «moralità» che veniva a concludere l’infatuazione del ventennio doveva necessariamente indurli agli esami di coscienza e alle commosse lamentazioni. Il poemetto di Bacchelli La notte dell’8 settembre 1943, steso in quel convulso e allucinato
settembre,
ci offre un notevole
esempio di queste risposte della poesia alle imponenti sollecitazioni dell’ora. Si tratta di una «meditazione» di un migliaio di endecasillabi sciolti, di un vero e proprio poemetto che Bacchelli ha composto «sotto l’angoscia delle settimane
dell’autunno
del ’43», «nell’atto di affi-
darsi alla parola e all'espressione come ad invocarne vita e salvezza». Questo commosso atteggiamento dell'anima, che l’autore assomiglia «alle più ingenue e autobiografiche disposizioni della giovinezza», quelle dei tempi dei Poemi lirici e delle Memorie del tempo presente, vale a scartare fin dall’inizio il sospetto, dati il genere letterario oggi dissueto e certe movenze formali, di un compiaciuto richiamarsi agli
alti modelli tradizionali di questa sorta di poetica confessione e riflessione, foscoliani e leopardiani, di
una prevalenza cioè dell’intento letterario su quello ispirato e nativo. A chi sia familiare con l’opera di Bacchelli, e abbia assistito al maturarsi del suo ideale di tradizione, e a come esso sia venuto strettamente a connaturarsi col suo sanguigno, frondoso,
esuberante e composito temperamento di scrittore, quelle movenze e inflessioni del suo discorso non appariranno certo formule estrinseche, ma modi spontanei di quella sua penna, che anche l’artefatto
sa trasformare in impetuosa natura. E l’assenza di letterario compiacimento risulterà a chi solamente confronti il verso bacchelliano a quello dei modelli a cui dianzi accennavo, e rifletta al gusto tutto moderno, se anche monotono, di quel susseguirsi di endecasillabi mortificati, all'assenza delle ampie e
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lente volute, delle ferme architetture armoniche di
quei poeti, mentre in lui lo spunto aulico, non appena accennato, si spegne in un diffondersi raziocinante che sembra insidiare le giunture del verso e quasi anelare a stendersi in prosa: in quella sua prosa di fisiologia così ben riconoscibile,
coi suoi co-
strutti insieme pletorici e nervosi, ramificati e pieni di delicate forzature sintattiche. Il poemetto s’inizia con una veemente apostrofe all'Europa e ai suoi errori, che l’hanno condotta a tanta rovina. La notte serena di fine estate non sa placare l’angoscia del poeta: le estreme consolazioni ch’egli si prospetta ricadono vane una dopo l’altra. Lo strazio della terra italiana, tornata alla sua antica
condizione di paese di conquista e di campo di battaglia aperto alle armi straniere, il rapido disfarsi di un esercito che pure aveva conosciuto tradizioni di fermezza e di gloria, a tratti gli si mostrano senza riparo, e quasi gli si confondono con una sua umiliata disfatta personale di uomo. Alla fine, pur temendo, in tanto scoramento, di troppo sperare, la fiducia in quella italica virtù «dimessa e pure strenua»,
«naturata d’antico», fatta di religiosa pazienza e semplicità, di civiltà nativa, che si conservò intatta anche sotto gli anni dell'errore, allorché «la gloria e la sa-
pienza antiche / vanagloria e insipienza in noi fruttarono» e nonostante l’acquiescenza «improvvida e accidiosa / all’andazzo del mondo come viene», gli
si affaccia come un filo di luce in tanto tenebrore. E in simile atto di speranza e di preghiera l’affannoso ondeggiamento dell'animo del poeta, pur presago di nuovi vaneggiamenti e sconforti, si placa: e il canto si chiude, foscolianamente, riconoscendosi quale
momento della perenne catarsi della poesia, in cui si contempla,
e pietosamente
si nobilita,
ogni
cosa
umana «marcita e fecondata dalla pena». Chi abbia presente l’opera di Bacchelli, e in particolare i tre volumi del Mulino del Po, non tarderà a
riconoscere in questa vivace reazione poetica, insie426
me caritatevole e orgogliosa, in quel concetto di un'antica e naturale virtù della gente italiana, destinata a sopravvivere alle offese degli eventi, in quel pessimismo
scettico e cristiano, dubitoso
dell’idea
stessa di progresso, di risonanza vagamente leopardiana o baudelairiana, l’animo di illuminato conser-
vatore — qui non si parla, per carità, di politica — del nostro scrittore, per cui la civiltà non è tanto un ur-
gere di idee e di speranze verso un avvenire sempre aperto e sempre rinviato, ma soprattutto il consolidarsi segreto di valori, che possono sussistere anche quando in apparenza dimenticati e traditi, e per cui ogni miglioramento è sostanzialmente un ritorno e un ritrovamento di origini. Per questo il poemetto
costituisce,
anzitutto,
il documento
prezioso
d’un’inclinazione e d’uno stato d’animo, rassegnatamente umano e disilluso, e d’una tradizione mo-
rale e letteraria che Bacchelli può oggi degnamente impersonare. Questo diciamo anche perché altre reazioni furono possibili a quella tragica data dell’8 settembre: quella in particolare che, pur pietosa e rivoltata davanti a tanta sofferenza, vi ravvisò il fata-
le crollo delle tarlate impalcature costruite sul corpo d’Italia nei lunghi anni di costrizione e di menzogna, e in quell’aurora di sangue intravide, forse ingenuamente ma non certo ingenerosamente, la dubbiosa ma già esaltante promessa di un avvenire migliore. E certo quell’esercito sabaudo, che pur aveva conosciuto i suoi giorni di grandezza, e ora co-
sì ingloriosamente si disfaceva, riassorbito in seno al suo popolo dolorante e confuso, si era già perduto e virtualmente disfatto al momento in cui follia di reggitori l’aveva sospinto, male armato e peggio vestito ed equipaggiato, a una guerra ingiusta e rovinosa. Ma, in cambio, altra guerra, stavolta spontanea e VItale, si riaccendeva sulle montagne, nelle città e nei
paesi d’Italia: una guerra che, per non essere com-
battuta da un’armata, ma da sbandati e da cittadini
quasi inermi contro il potente esercito dell’oppres427
sore, s’illuminava delle luci di un fosco eroismo e
grandezza, e riannodava essa pure care tradizioni risorgimentali e garibaldine. Per cui in quell’8 settembre, che apriva il periodo dell’occupazione tedesca e concedeva all’Italia il doloroso onore di partecipare al martirio che da anni la più gran parte d’Europa stava soffrendo, poteva anche ravvisarsi l'occasione, offerta dalla provvidenza storica, di una
fruttuosa espiazione, col ritorno attivo a quegli «scabri veri» che, appunto perché scabri e amari, non possono,
alla fine, che rinvigorire ciò che è consi-
stente e vitale. Se poi chi così stimava fosse nel giusto, soltanto l’avvenire dirà.
E ora occorrerà riprendere il volumetto, la cui materia attuale e scottante ci ha suscitato queste digressioni, per riconsiderarlo sotto il suo più adatto angolo visuale dell’arte letteraria, e vedere quanto esso partecipi della lirica e quanto di una fervida e moraleggiante oratoria. E, benché la poesia non rappresenti mai una qualità materialmente isolabile sul foglio, e separabile d’un taglio netto — e meno che mai in Bacchelli — dall’eloquenza e dal concetto che la sostanziano, il poemetto sembrerà piuttosto esser
nato ai confini della poesia da un atteggiamento appassionatamente autobiografico, nutrito di antiche persuasioni e pensieri. In esso mancano le aperture e le soste liriche dei giovanili Poemi — qui immagini e momenti di intensità lirica, pur belli, appaiono appena accennati e fuggevoli, incalzati e dissolti dal di-
scorso —, ma si potrà dire che esso nasce da una ispirazione consimile, concettosa e raziocinante, di patetico moralista, e tuttavia con una fusione più stret-
ta del sentimento e della riflessione morale. 1945
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DUE «VIAGGI IN GRECIA» DI BACCHELLI
Il Bacchelli, che dalla sorgiva omerica fa discendere il fiume della storia, e che ancora nelle figure dell’ultimo suo romanzo ha dato espressione lirica alla convergenza della grecità e del romanesimo nell’annunzio imminente della rivelazione cristiana, doveva, quasi naturalmente, ripercorrere le vie della Grecia — e ripercorrerle da umanista, da storico, e
soprattutto da poeta. Il suo pellegrinaggio non conosce indugi in Arcadia, né si dissocia mai dalla concretezza dell’esperienza storica. In queste pagine il lettore ritroverà
perciò il filo della perenne tradizione che alimenta la nostra combattuta civiltà.
1959
Le Cicladi, le Sporadi, Delo, Jos, Santorino, Cite-
ra...: e soprattutto Creta. Questo «secondo viaggio», di Riccardo Bacchelli si compie nella Grecia insulare, «la innumerabile», e anche qui, come nel primo
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viaggio ellenico, e come, del resto, in tutto Bacchel-
li viaggiatore e paesista, fin dalle pagine indimenti-
cabili della Ruota del tempo, ricchezza d’erudizione classica, sentimento della natura e del mito e della storia a questa integrati, lume di scoperta poetica, si
fondono in un singolare e saporoso impasto, nella complessità pur agile di un periodare svariante ai moti dell’animo e dell’umore, e secondato dalla sno-
datezza di polso di una mano espertissima. Così, dietro l’immagine di questa Grecia insulare, colta nelle sue tinte vivide o bruciate, nel suo lumi-
noso sorriso marino, nel suo aspetto rustico e popolare come nella bellezza illustre dei suoi monumenti d’arte, è costante il senso della continuità ideale
che unisce quelle pure scaturigini a tutta la nostra storia: e la penna dello scrittore continuamente tra-
passa dalle evidenze sensibili ai ricordi mitici e stori ci, e a quelli poetici, da Archiloco a Goethe: ma senza alcuna insistenza, fissati com’essi sono attraverso
l’esperienza di viaggio di una mente che di tale storia e poesia s'è fatta come una seconda natura, sic-
ché ci appaiono spontanei e liberi quasi «ombre... di fuggevoli pensieri, simili a quelle che le nuvole gettano sui paesi e sulle vallate e sui vasti monti di Creta ventosa e solatia».
1963
430
UNGARETTI E LA CRITICA
Poche
opere, come
quelle di Ungaretti, si sono
svolte fin dall’inizio sotto il fuoco d’un’appassionata attenzione critica. Che è destino forse migliore, per un poeta, di quello che procede sotto il generico segno d’una fama esteriore e strepitosa, alla quale concorrono solitamente tanti motivi estranei, bio-
grafici e sociali, che finiscono quasi sempre col tradire le profonde ragioni comunicative di una poesia, irrigidendola in uno
schema di convenzionale
sublimità che è giocoforza rompere ogni volta che ci si voglia ravvicinare alla sua viva sostanza. Una tale attenzione critica, del tutto disinteressa-
ta, non è soltanto indice della vitalità della poesia d’Ungaretti nell’epoca nostra: ma insistendo essa, nelle sue ricerche più consapevoli e serie, su quanto
forma il fondo di umanità schietta e dolente di quella ispirazione, ci sembra
possa valere anche
come
una testimonianza dei contemporanei per gli anni a venire. Come tutte le opere germogliate da strati complessi di esperienze di vita e letterarie, quella di Ungaretti sembrerebbe compatire un discorso critico ST
inesauribile. Alcuno dei suoi motivi d’origine, alcuna delle sue ragioni di concordanza con la spiritualità del nostro tempo, restano forse ancora da spiegare. Se la critica ha insistito sui suoi rapporti con la poesia francese, decadente e post-decadente, da Mallarmé ad Apollinaire fino ai surrealisti, sul suo spontaneo e quasi miracoloso ritrovamento di certi altissimi valori tradizionali di suono
e d’immagine,
da Petrarca a Leopardi, non mi sembra sia stato ancora sviluppato il motivo della sua toscanità apuana, delle sue più istintive radici. Ungaretti e Pea? Ancora, se anche il Gargiulo ed altri hanno svolto osservazioni appropriate sulla funzione dell’analogia nella poesia di Ungaretti, molto resta ancora da fare su quella strada. Le recenti traduzioni da Shakespeare e da GOngora possono offrire l’avvio a singolari accostamenti, e l’esperienza attuale di un poeta nostro contemporaneo può valere ad illuminarci sulla genesi dei modi di certo superiore barocco letterario. E che più? Non sarebbe difficile allineare suggestioni consimili. Direzioni appena abbozzate alla critica di domani, per cui la poesia di Ungaretti è sempre un problema aperto di interesse vivacissimo. fine anni ’40
432
ANTOLOGIA DI POETI NUOVI
L'iniziativa di raccogliere in volume versi di poeti praticamente sconosciuti reca sempre con sé, quando non esprima un intento polemico — e non è questo il caso —, un tanto di paradossale. Tanto più nell’occasione di questa antologia, costituita da testi il cui primo requisito era la qualità di inediti in volume dei poeti prescelti. Si antologizza l’ignoto? Il fatto non è nuovo: trova anzi la propria giustificazione editoriale nella sempre minore probabilità,
offerta a un giovane poeta, di incontrare un editore, e persino una rivista disposta a ospitare 1 risultati del suo lavoro. Si pensi, per quanto riguarda i precedenti, ai «Poeti Scelti» del Premio S. Vincent 1948 (a cura di Giuseppe Ungaretti e Davide Laiolo; Mondadori — «Lo Specchio», 1949), ai «Poeti Nuovi» (a cura di Ugo Fasolo; Vallecchi, 1950) e, in queste stesse edizioni, alla «Prima Antologia di Poe-
ti Nuovi»
(1950).
I fedeli stretti della poesia ve-
dranno anzi ripresentarsi in queste pagine nomi già incontrati in qualcuna delle tre raccolte citate: un modo magari un po’ avventuroso di seguire nel suo progresso il lavoro di taluno che abbia già sollecita499
to — con pochi versi e un'immagine — l’interesse del lettore. Il Premio «San Babila 1950-inediti» ha, com’è no-
to, offerto lo spunto e la materia di questo volume. E qui torna opportuno ricordare come l’istituzione del Premio sia da riferire a un atto di generosa protesta contro la consuetudine che dei libri di poesia faceva — e ancora fa, in parte — le cenerentole dei Premi letterari di grosso e medio calibro. Germana Marucelli,
la gentile promotrice, può senz'altro ascrivere a proprio onore il fatto che il Premio assegnato nel 1948 al volume Il dolore di Giuseppe Ungaretti sia stato il primo, di notevole entità e risonanza, totalmente devo-
luto, nel dopoguerra, a un’opera poetica; e che ad altra opera di poesia, a La vita non è sogno di Salvatore Quasimodo, sia stato aggiudicato lo stesso Premio, giunto nel ‘50 alla seconda edizione. Al Premio maggiore, riservato a un’opera edita in volume, si affiancò in entrambe le occasioni un Premio minore — non meno, anzi, per certi aspetti, più interessante — destinato a un gruppo di versi inediti o addirittura, secondo il bando del ’50, a un gruppo di poesie inedite di autore inedito in volume. (La quale specificazione, omessa o non sufficientemente posta in rilievo dalla stampa di informazione o non rilevata da alcuni tra gli interessati, non impedì l’afflusso di versi inediti sì,
ma dovuti ad autori precedentemente editi in volume. Di ciò ebbe a dolersi esplicitamente la giuria,’ dispiaciuta di non poter prendere in considerazione — a scanso d’infrazioni ai termini del bando — almeno tre giovani poeti di singolare rilievo che avrebbero reso più serrata la lotta in vista dello striscione d’arrivo).
Il significato e il valore di questo secondo Premio (tipicamente un Premio per «juniores») non richie-
dono particolare illustrazione. Se una tradizione e 1. Composta da Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Vittorio Sereni, Leonardo Sinisgalli, Giuseppe Ungaretti e Germana Marucelli, segretaria.
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una continuità sono da vedere tra l’una e l’altra edizione del «San Babila», è appunto in questo Premio minore che esse vanno cercate. Non è un caso che ad Andrea Zanzotto, già fatto oggetto di particolare attenzione da parte della giuria del «San Babila 1948-inediti», sia stato assegnato, da giuria diversamente composta, il corrispondente Premio del ’50. Si osserva comunemente che mai un Premio letterario ha rivelato uno scrittore, ma non si tien conto della situazione e del costume mutati, onde quella di siffatti tornei e competizioni sta diventando, per
le ragioni accennate e per altre più complesse e non liete, la sola sede accessibile a giovani e ad ignoti. Anche la più naturale? Certamente sì e in qualche modo (perché non dirlo?) purtroppo sì, se si pensa ai molti che insensibilmente sono portati a lavorare non più avendo bene in vista la poesia, o meglio le
ragioni che li spingono a dare in poesia un’immagine di sé, bensì la circostanza del Premio e il suo ine-
vitabile contorno pratico e mondano. Trascurando questa e altre considerazioni che esorbitano dall’occasione attuale, non ci si potrà esi-
mere dal segnalare lo straordinario interesse che questo «San Babila» minore ha riscosso un po’ dovunque: da ogni parte d’Italia mille e più testi poetici affluirono a suo tempo alla segreteria del Premio in seguito alla divulgazione del bando. Un ottimo spunto, come si vede — purché l’iniziativa abbia vita e futu-
ro —, per accertare periodicamente gli umori, le suggestioni e inclinazioni dei giovani, per trarre qualche chiaro indizio su un’eventuale poesia in divenire — che altrimenti stenterebbe a uscire dalla zona segreta — rispetto alla poesia ufficiale, così spesso soggetta ad accusa di stasi dal momento in cui comincia ad essere vista come tale. S’immaginerà facilmente come, agli occhi dei giudici, la folla degli aspiranti al Premio sia apparsa, dopo una prima selezione, genericamen-
te divisa in due campi: i quieti e relativamente abili artigiani che si valgono di una materia già data e di una 430
buona conoscenza di strumenti predisposti, da una
parte; gli insoddisfatti e inquieti aspiranti pionieri, che sembrano innanzi tutto preoccupati di foggiarsi nuovi mezzi di lavoro, dall’altra. La lettura di queste pagine riproporrà il contrasto. E il lettore cercherà da sé le ulteriori specificazioni, e insieme i successi, i li-
miti e i pericoli nell’una e nell’altra direzione. Giacché la presente raccolta tende — né potrebbe essere diversamente — a offrire la più larga messe possibile d’indizi e di stimoli piuttosto che a fissare un ben riconoscibile risultato. La presenza del quale andrà semmai ricercata nel volume che il vincitore del Premio ha dato nel frattempo alle stampe.! Ispirandosi a tale criterio e valendosi della disponibilità dei testi partecipanti al Premio, gli editori hanno ritenuto di poter allargare un poco il contorno della pur nutrita rosa di nomi? nella quale si era espressa la decisione finale dei giudici.® E parso infatti che in materia così fluida e opinabile il miglior conforto a voci tanto varie per timbro e per intonazione potesse nascere dalla più larga ospitalità. 1951
1. Andrea Zanzotto: Dietro il paesaggio, Lo Specchio Mondadori, 1951. 2. Precisamente, secondo l’ordine alfabetico: Ninya Anfossi, Gino Baglìo, Silvio Bertoldi, Armando Biselli, Gian Piero Bona, Giancarlo Buzzi, Orlando Pier Capponi, Toti Mannuzzu, Biagia Marniti, Geri Morra, Graziana Pentich, Luciano Rocca, Fiore Torrisi, A.M.Z. Tomsich, Andrea Zanzotto.
3. Non sarà forse superfluo avvertire che, superata con tale rifusione della materia disponibile ogni ragione protocollare di precedenza, il numero delle pagine e delle poesie scelte e
riportate dai singoli manoscritti non è in alcun modo determinato da gerarchie o ordini di merito. Particolarmente in questo caso, lo spazio è in diretta relazione con la possibilità
di caratterizzare antologicamente i singoli poeti nei limiti suggeriti dalla natura di ognuno di essi.
436
ANONIMO NAPOLITANO:
«POESIA»
Continua a dominare nel giudizio comune, in Italia, una concezione tutta esterna e letteraria della
poesia, per cui questa viene intesa unicamente come il risultato eccezionale e culminante dell’esperienza più propriamente estetica. Sfugge invece a un tale giudizio la poesia nell’altra più sottile accezione di espressione di una concordanza armonica con sé e col mondo, spontaneità e pienezza di vita morale e
quindi intimamente «poetica», per cui essa diventa una sorta di segreta dimensione della vita, naturale all'uomo come quella religiosa e quella morale. Per questo, via via spegnendosi nel mondo moderno la poesia spontanea e popolare, la lirica diventa sempre più, da noi, cosa rara e difficile, da «specialisti». Nelle espressioni diffuse, la letteratura, vecchio baco
degli italiani, appare quasi sempre bruciare in germe ogni reale sforzo di comunicazione umana, e l’inclinazione poetica, fin dal suo primo sorgere, si dimostra quasi sempre viziata nel senso del gesto vuoto e dell’esteriorità formale. Singolare pertanto può apparirci il caso di questo «Anonimo», che spinge il pudore letterario fino a 157
celare la propria identità anagrafica, e raccoglie in un libretto, edito in squisita veste dall’editore Ricciardi, una trentina di componimenti fra poesie ed epigrammi,
che vanno
dal 1909 al 1950; il frutto,
cioè, di oltre quarant'anni del meditativo raccoglimento del suo autore. «I poeti della parola / pascolanti dietro il bel motto / nulla intendono
della vita», dice l’Anonimo,
con pensiero forse non peregrino, ma esprimente con energia uno scatto polemico in difesa di questo suo esercizio delicato e solitario della propria intimità morale. Questa poesia, che si vuole sdegnosamente appartata dalle correnti della facile moda, ha, difatti, il peso e il valore d’un risultato d’umana
saggezza, tratto da una semplice, accettata e sofferta esperienza di vita. A volerle ad ogni modo trovare parentele letterarie, si potrebbe forse pensare, con notevole rischio di errore, a qualche poeta del tempo della giovinezza dell’Anonimo,
forse al Pascoli
del Ciocco e dei Conviviali per l’atteggiarsi del tono meditativo, e forse al Gaeta per certo gusto di ritmi cadenzati e incrocio di rime. Ma ciò si dice a puro titolo di largo orientamento, e non per indicare vere derivazioni. E forse conviene meglio rifarsi a certa inclinazione raziocinativa della mente poetica meridionale d’ogni tempo (quella che ebbe nel frate di Stilo la sua più alta espressione), a contrasto con l’altra, sensuale e morbida, che ha avuto caratteristiche
reviviscenze in tempi recenti. Nella sua voluta riservatezza e tenuità, la poesia
dell’Anonimo ha una pensosa risonanza di riflessioni e di accenti che toccano in profondo. La vita, nella sua accezione più ovvia e quotidiana, di comune destino terreno; e, ad essa sovrastante, coi suoi segni
perenni e multisensi, l'enigma cosmico; e lo stupore, a volte doloroso a volte gioioso, del nascere e cre-
scere e morire ed eterno ripetersi e corrispondersi delle cose; e la dolcezza della quiete domestica e l’amore
per la città natìa e il confortarsi nell’antica,
438
consolidata saggezza dei padri. Questa sorta di religiosa rassegnazione, schiva del nuovo, carica di anti-
ca esperienza, dà il timbro segreto di questa poesia, maturata «nei lunghi silenzi, pei quali va come perplessa la vita», e la costituisce, fra l’altro, anche documento di una tradizione e di una civiltà. Essa, in
quei suoi voli di ritornanti pensieri familiari, lentamente meditati ed elaborati, anche a costo, talvolta, di qualche stridore e oscurità, sa insinuare, di tratto
in tratto, immagini naturali piene di garbo. E si legga la lirica che chiude il volumetto, Quiete, dove perspicuità psicologica e giustificazione morale, nell’essenzialità del dettato, si congiungono,
e che può
considerarsi come esemplare di questa raccolta e umanissima ispirazione. 1951
439
e
NIETZSCHE E D'ANNUNZIO
Giuseppe Toffanin, nel suo recente libro sul Carducci, dà senz'altro per ammessa un'influenza di
Nietzsche sul poeta delle Od: barbare. Che Carducci abbia avuto una qualche conoscenza delle opere di Nietzsche, almeno nel suo ultimo periodo — l’autore dello Zarathustra cominciò a penetrare in Italia verso il ’90 — è cosa che eruditi e biografi potranno, al caso, stabilire. Che tracce appena sensibili dell’insegnamento nietzschiano si possano reperire nel pensiero e nell’atteggiamento del Carducci — a parte anche le valide ragioni in contrario che possono trarsi dalla sfasatura temporale — direi sia comunque da escludere. Per la «rivolta dei Greci eterni al semitico nume» non è necessario pensare alla Nascita della tragedia, dato che, all’uscita di quel libro (1872), il
tema era già da lungo tempo arcinoto al parnassianesimo e postromanticismo paganeggiante dell’epoca. Ad esempio, la famosa immagine del «Galileo di rosse chiome», che butta la croce, simbolo di servitù e di dolore, in braccio a Roma, con la fuga del-
le ninfe in lacrime all’apparire dei processionanti incappucciati,
risale addirittura
440
ai Reisebilder dello
Heine (e il D'Annunzio a sua volta la riprenderà, invertendola, dal Carducci, nel Saluto ad Enotrio che
precede la chiusa della Laus vitae:
e la croce del Galileo di rosse chiome gittata sarà ne le oscure favisse del Campidoglio, e finito nel mondo il suo regno per sempre). Carducci si ricollega anzitutto allo Heine, e magari al Goethe, ma non certo al filosofo dell’ Anticristo, il cui anticristianesimo si poneva, fra l’altro, in
termini infinitamente più complessi, delicati e contraddittori di quelli del paganesimo letterario di moda nel secondo Ottocento, che confluirà, poco più tardi, nell’estetismo e decadentismo fin di secolo,
nell’aggraziato scetticismo di France o nell’immoralismo di Wilde. E il D'Annunzio, pronunciando, nel-
l’ Ode per la morte di un distruttore, l'elogio funebre del Barbaro enorme che risollevò gli iddii sereni dell’Ellade su le vaste porte dell’Avvenire, non farà a sua volta che intrecciare il filo di Zara-
thustra con quello della tradizione carducciana. Bisogna perciò tener ben fermo che, nella storia
della fortuna di Nietzsche in Italia, il capitolo D’Annunzio rimane.ilprimo e più importante. Importante, com’è noto, più dal punto di vista della storia della cultura e del costume che da quello più schiettamente critico. L’incontro di D'Annunzio con Nietz-
sche non suscita alcuno degli appassionanti problemi psicologici e critici che furono sollevati, ad esem-
pio, nel caso di un Charles-Louis Philippe o di un André Gide: anime in cui la suggestione del filosofo della volontà di potenza e della «vita ascendente» trovò un terreno particolarmente predisposto, per la loro stessa sinuosità e ricchezza di contraddizioni,
441
che le apparentavano, in qualche modo, a quella dell’occasionale maestro. D'Annunzio finì invece con l’assorbire la dottrina di Nietzsche in poche idee-forza esteriori ed emblematiche.
Sul piano letterario,
egli arricchì di una nuova preziosa spoglia il suo bottino di esteta e di inesausto cacciatore di temi, di forme e di atteggiamenti, facendo subire all’autore del-
lo Zarathustralo stesso destino di Dostoevskij, di Maupassant, di Huysmans, di Henri de Régnier e di tanti altri autori moderni e antichi; di essere, cioè, nel-
lo stesso tempo saccheggiato e radicalmente trasformato dall’energia di un artista tanto profondamente istintivo quanto in massimo grado mimetico: sebbene di un mimetismo, come fu pure notato, eminente-
mente attivo e maschio, che trasforma la preda nell’atto stesso di appropriarsene. Questo, dicevamo, sul piano dell’arte: perché, nell’irraggiamento che l’opera e l’esempio del D'Annunzio ebbero su quello dell’esperienza di vita, la suggestione di Nietzsche, 0, se meglio si vuole, il fraintendimento
di Nietzsche,
o, meglio ancora, gli ideali che il poeta inizialmente affermò nel nome di Nietzsche, ebbero implicazioni
e svolgimenti di ben altra portata. Il D'Annunzio lesse la prima volta Nietzsche tra il 1892 e il 1894, facendone argomento di alcuni articoli di giornale. Il primo, intitolato La bestia elettiva,
e uscito sul «Mattino» di Napoli del 26 settembre 1892,' offre lo spunto al futuro deputato di Ortona per una delle sue prime affermazioni di aristocratico dispregio per il sistema parlamentare e il suffragio universale. Un gruppo di tre articoli, apparsi l’anno successivo sulla «Tribuna» (23 luglio, 3 e 9 agosto 1893), sono dedicati al «caso Wagner»,? e il
primo di essi offre un riassunto per linee generali 1. Vedi G. D’A., Pagine disperse, coordinate e annotate da Alighieri Castelli, Bernardo Lux, Roma, 1913, p. 544.
2. Op. cit., pp. 572 e sgg.
442
del pensiero di Nietzsche cui non possono negarsi qualità di chiarezza e di buona informazione giornalistica, considerando
che il «bizzarro filosofo te-
desco» era a quel tempo, in Italia, pressoché ignoto. Insistiamo su questi articoli, oggi dimenticati, perché ci documentano la prima, e più genuina, reazione del D’Annunzio a Nietzsche. In quegli anni, l’autore del Trionfo della morte (il libro suo che do-
veva per la prima volta evocare l’immagine di Zarathustra), non si era ancora isolato nella sua orgo-
gliosa solitudine di «asceta inimitabile», e il modesto esercizio dell’informazione letteraria, e magari della cronaca mondana, giovava a mantenerlo aperto ad un dialogo, in certa misura attento e sensibile, con
le correnti della cultura di moda. La stessa futilità
inerente al suo esercizio di cronista mondano gli schiudeva qualche pur tenue possibilità di giuoco e d’ironia che, più tardi, gli fu rigorosamente preclu-
sa dal pesante e prezioso modello umano e stilistico cui gradatamente s’uniformò, e a cui rimase fedele, attraverso varie vicende, fino alla fine.
La coincidenza dell’incontro con Nietzsche e del
susseguente
progressivo
richiudersi
del poeta in
quel modello, con la correlativa «alzata di tono» stilistica e il vagheggiamento, da allora ininterrotto, di attitudini eroiche ed esemplari (ma già forti accenni ne esistevano fin nel primissimo D'Annunzio), ha
indotto i suoi maggiori critici, dal Borgese al Gargiulo, a porre in stretta relazione i due fatti, e a ricondurre essenzialmente sotto il segno di Nietzsche il nuovo indirizzo dannunziano, che fu, infatti, definito del «superuomo». Ma è facile denunciare, a
questo proposito, una sorta di abuso di terminologia. Per Nietzsche, com'è noto, quello del superuomo fu una sorta di concetto-limite, che egli si
guardò bene dal definire altro che in termini e metafore estremamente vaghi ed astratti, e principal mente negativi, ove si eccettuino, forse, certi traslati lirici dello Zarathustra: del libro, cioè, che nell’ope-
443
ra sua ha un significato più che altro marginale, quasi di decantazione lirico-letteraria del più puntuale, mordente e incisivo pensiero degli altri suoi scritti. E resterà sempre difficile, in un pensiero come quello di Nietzsche,
estremamente
frammentario,
mo-
bile, sfuggente, modellato sull’ispirazione momentanea, a modo di quello dell’artista, compiere la «triangolazione» precisa di un concetto. In Nietzsche, l’idea del superuomo non può isolarsi da quel concreto senso della forza traboccante, della «vita ascendente», a contrasto con la decadenza dei valo-
ri vitali ch’egli ravvisava nel vertiginoso panorama del mondo moderno, offrentegli una visione di una società composita e informe, priva di stile, incerta
sugli scopi. Né può isolarsi da quella sua estrema ricettività profetica, che l’avvertiva, con l’evidenza di
uno spasmo, dei punti di frizione, del pungere dei contrasti irrisolti nel flusso della storia urgente verso l'avvenire: sicché l’immagine, a tratti balenante,
«del più misterioso, del più diverso tra gli uomini», di quello «che si sarà collocato oltre i confini del bene e del male, che sarà il dominatore della propria
virtù, che sarà traboccante di volontà»! diviene quasi una figura sensibile del suo «amor fati», di quella sua ebbra accettazione di un avvenire tragico, in cui
le forze del mondo, che apparivano confuse e dormienti attorno
a lui, si sarebbero
finalmente
spri-
gionate. Né bisogna, infine, dimenticare l’attivo fermento dell’ironia, che riscatta sempre il pensiero di Nietz-
sche da ogni interpretazione troppo ristretta, sospingendolo continuamente alla punta, per così dire, più sottile dei suoi significati, in modo che l’in-
tero ragionamento ne acquista un’andatura allusiva e elusiva, che modella e sposa le anfrattuosità delle
sue motivazioni impedendo che esso possa mai soli1. F. Nietzsche, A/ di là del Bene e del Male, Af. 212, trad. Weisel, Bocca, Torino, 1943.
444
dificarsi, senza esserne tradito, in una definizione o
in una formula valida fuori da quel suo mobile determinarsi e giustificarsi. L’ambiguità rimane così essenziale al pensiero di Nietzsche, ed è essa che permette l'estremo divaricarsi della sua presa e quella cangiante ricchezza di sfumature. E una tale ambiguità varrà pure a consentire, accanto a un’interpretazione più spirituale, libera e metaforica, un’altra essenzialmente vitalistica e barbarica: e sarà quella su cui, più tardi, faranno leva gli interessati assertori del nazismo e del razzismo, studiatamente immemori, fra l’altro, di come il filosofo reagisse con violenza alle illazioni che vollero trarsi, dal suo pensiero, in senso antisemita. Non può in verità affermarsi, come fece a suo
tempo il Borgese, che la lettura di Nietzsche «abbia strappato alla rovina» il D'Annunzio, inducendolo a riconoscere e a giustificare la sua vera natura e distogliendolo dal vagheggiamento ineffettuale di altre soluzioni di vita e d’arte a lui estranee, come, ad
esempio, quella della «bontà», che aveva fatto i suoi conati nel Poema paradisiaco e nell’Innocente. Ciò potrebbe apparire, semmai, esatto, se la scoperta di Nietzsche, e il correlativo «avvento del superuomo», avessero segnato, per l’arte dannunziana, una sta-
gione di più profonda sincerità artistica. Ma oggi ormai sappiamo che è vano cercare, nello svolgimento del poeta, crisi e superamenti, e che egli, come dis-
se a suo tempo il Croce, «non ha avuto quello che si dice evoluzione o progresso, ma un mutare apparente e un persistere reale». Come sappiamo che tutti i miti e ideali dannunziani in definitiva si equivalsero, in quanto non costituirono volta a volta che simboli e temi colti nell’aria e in fondo indifferenti,
sostitutivi di un pensiero assente. E che la vera sincerità dell’arte dannunziana si è in ogni tempo rivelata in una zona più fonda, nei punti in cui dietro l’ornata veste letteraria affiorano le figure immediate nate dalla sensazione, la quale potrà essere, di vol-
445
ta in volta, esaltante ed eroica, come depressa e ne-
gativa: esprimere l’estro violento della brama e dell’azione, come la languidezza della malattia. E la fase «superumana» del D’Annunzio fu di tutte la più insistita e la più falsa. Il D'Annunzio, in realtà, non interpretò Nietzsche, ma si limitò a cogliere, dall’indeterminatezza ed evasività del mito nietzschiano del superuomo,
un’aura, uno slancio, poco più di qualche accenno dello Zarathustra e di altri libri. Su questi elementi, con un ingenuo, istintivo procedimento sincretistico,
egli inserì gli ideali e i moduli di vita dell’estetismo fin di secolo. Si sovrapposero, così, al superuomo nietzschiano l’immagine dell’eroe romantico, quella del sottile epicureo e amatore d’arte alla Pater o alla Ruskin, quella dell’esteta raffinato e molle alla Wilde, alla Huysmans o alla Sar Péladan, si sovrap-
pose la figura del conquistatore barbaro o quella dell’avventuriero rinascimentale con la sua irrefrenata potenza d’istinti, o il mito dell’aristocratico esiliato nel mondo moderno, il cui sangue s’agita ancora all’ancestrale memoria di orge fastose e di belle stragi. A queste immagini immote ed esemplari, piegate secondo la solennità di vuoti atteggiamenti decorativi, veniva a mancare a poco a poco l’aura della vita, che pur aveva potentemente alitato nel Canto Novo, nelle novelle abruzzesi e in qualche parte del Piacere e del Trionfo della morte. Mentre il medesimo cliché estetizzante veniva ad imprimersi sull’eredità risorgimentale e carducciana della vena patriottica. Vale a dire che la vita veniva a poco a poco a disertare completamente il «pensiero» dannunziano, sempre più pri-
gioniero nelle linee anchilosate dell’enfasi estatica e celebrativa, lasciando alla inesausta mimesi d’azione
che costituisce il fondo di quest'arte una sola via aperta verso quel latente mondo della sensualità elementare,
da cui dovranno,
più tardi, sbocciare
il
grande fiore musicale di Alcione o le prose più sinuose e umbratili della Leda e del Notturno.
446
Ma
questo,
del cosiddetto
«superuomo»,
è un
processo che la critica, dopo aver dato a quella formula la più ampia estensione, fino a farla coincidere col vizio stesso e la negatività dell’arte dannunziana, ha ormai chiuso e archiviato da un pezzo. Né,
oggi, occorre più spender parole per dimostrare l’artificiosità di personaggi come il Claudio Cantelmo delle Vergini delle rocce, o lo Stelio Effrena del Fuoco, o il Ruggero Flamma della Gloria; o per analizzare la vuotezza dello pseudo-problema morale che sta a fondamento della vicenda di Corrado Brando in Più che l’amore. Il «superomismo» dannunziano non avrebbe per noi più alcun senso, se in genere l’arte, e tanto più l’arte «negativa», quando si mostra così potentemente
e
insistentemente
«emblematica»,
non fosse sempre chiara indicazione di qualcosa che trascende positivamente la figura e l’opera dell’artista per incarnare, sia pure con la particolare determinatezza e fuggevolezza d’una moda, il segnacolo,
il simbolo d’una tendenza collettiva. Nel caso nostro, quanto più astratti, irreali e privi d'anima erano gli eroi superumani del D’Annunzio, tanto più
resta da spiegare il perché della loro innegabile rispondenza in un ambiente sociale che, sia pur mostrando
tratto tratto di ribellarvisi, e sia pur defe-
rendone la intera responsabilità a una bizzarria di grande
artista,
finiva
sostanzialmente
con
l’acco-
glierli. Che il medio borghese italiano, sfogliando distrattamente
Le vergini delle rocce, o assistendo,
a
teatro, alla Città morta o alla Gloria, potesse rispecchiarsi nei raffinati e compositi personaggi dell’Imaginifico, è certamente da escludersi. Ma, in essi,
fermentava alcunché di estremamente significativo, s’imponeva una tensione, una mira confusa — e la
stessa indeterminatezza di quella mira, con quella correlativa oscura ansia e dilatazione verso una direzione «ignota», di avventura e di potenza, di cui era
segno sensibile la stessa astrattezza del traslato retorico, rifletteva innegabilmente una delle forme del-
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l’irrequietudine della società italiana nel primo scorcio del nostro secolo. Cadute, a poco a poco, le morte spoglie dell’estetismo decadente in cui quell’informe anelito si era provvisoriamente incarnato — ma non senza che di esse restassero segni indelebili nei nuovi tipi esemplari che si andavano elaborando —, ove si risalga via via per il tronco del nazionalismo corradiniano e del colonialismo libico, si ve-
drà a poco a poco precisarsi quella figura dell’ «eroe mediterraneo», che dovrà presto tradursi in ispiccioli di moneta piccolo-borghese e colorire di sé l’aspetto più vistoso e retorico — ma anche più diffuso — del volontarismo e dell’arditismo della prima guerra mondiale. L’eroismo della poesia civile carducciana,
derivata dal puro filone risorgimentale,
trovava umane motivazioni nella storia e nell’idealità etico-politica. Il modulo dell’eroismo dannunziano, perseguibile dalle lontane Odi navali attraverso il libro di Merope fino agli scritti e ai discorsi della guerra, isola gli atti e le figure in una sorta di alone estatico e solenne, vagheggia la volontà e il coraggio come qualità più che umane e in pari tempo preziosamente fisiche, celebra l’amor di patria come in
un rito feticistico, e interpreta la bellezza del sacrificio attraverso una sorta di pesante mistero del sangue. Cosa mai, in questo idoleggiamento della volontà, della violenza e del sacrificio fine a se stessi,
potesse permanere della lontana suggestione nietzschiana, è forse vano cercare sul piano letterario e filologico. Ma è ben permesso di rintracciare, in questa esplosione degli istinti di potenza e di rischio,
nella loro espressione più grezzamente fisiologica, che veniva a sommuovere dal profondo le strutture ottimistiche della mentalità democratica e «progressiva» dell’inizio del nostro
secolo, una
delle linee
tragiche della storia che il genio profetico del filosofo della Volontà di potenza aveva chiaramente individuato nella trama confusa del suo tempo. Certo, quel modello di vita seppe, da noi, salvarsi
448
fino ad un certo punto dallo sprofondamento nei miti paludosi della terra e del sangue — così come invece avvenne più tardi nella patria di Nietzsche — e conservare perfino, anche ad opera dello stesso D'Annunzio, un certo senso di latina spregiudicatezza: del D'Annunzio, la cui partecipazione alla vicenda bellica, con quel valore e quel rilievo che sappiamo, veniva finalmente a svelare in tutta la sua ampiezza l’ansia di azione diretta che si celava nelle apparentemente astratte e gratuite elaborazioni «superumane», e a dare un senso quanto mai preciso alla
indeterminatezza evocatoria degli atteggiamenti e dei sogni «inimitabili» e «inenarrabili». E per capacitarci di come, più tardi ancora, i modi e i miti del-
la poesia e della finzione dannunziana si traducessero in forme insospettatamente diffuse, che portavano a galla anche gli strati più fondi della sensibilità del poeta, ad esempio quella sorta di felice e immemore «amoralità», quasi di innocenza «al di qua del bene e del male», che costituiva una delle radici del-
la sua robusta natura paesana, si pensi a certi aspetti dell'impresa di Fiume, che fu per tanti qualcosa come una eroica ed orgiastica vacanza (così, ad esempio, al diffondersi della stessa fraseologia eletta e simbolica del Comandante, che, ripresa dai suoi devoti, acquistava una levità tra di rito cameratesco e di commedia): vacanza di cui ci hanno lasciato il ricordo, nei modi più diretti e spontanei, il Comisso
del Porto dell’amore e il Kotchnitzki del Ba! des ardents. Col fascismo — il D'Annunzio ormai quasi assente e disinteressato — quel modello fu destinato a subire altre trasformazioni,
e, quindi, una sorta di consa-
crazione ufficiale e di conseguente propagandistica standardizzazione. Esso venne a poco a poco a perdere la punta di individualismo che il poeta delle Laudi,
cresciuto
in tempi
di democrazia
liberale,
aveva finito col salvargli (e che fu sostituita, magari, con iniezioni di meccanicismo futurista alla Mari netti), e giunse a coincidere, finalmente, con la fi-
449
gura dello zelante Giannettino totalitario. I nuovi «superuomini» ed «eroi mediterranei» in divisa d’orbace saltarono nel cerchio di fuoco, traversaro-
no a volo l'Atlantico, portarono guerra sui campi di Etiopia e di Spagna, impersonando per due decenni, in quella che oggi può apparirci una sorta di sarabanda spettrale, lo spirito già fallito sul nascere del tardivo nazionalismo e imperialismo italiano. Se si vuole a tutti i costi, nella tragica avventura di quello spirito, riconoscere ancora un sottile filo nietzschiano,
finirà con
l’acquistare
un
sapore
strana-
mente simbolico, quasi del chiudersi d’una traiettoria, l'episodio del dono delle opere complete di Nietzsche, fatto da Hitler a Mussolini prigioniero all’isola della Maddalena dopo il 25 luglio. Subito dopo, nel decomporsi di quegli ideali e costumi e moduli di vita «eroica» cui assistemmo, quasi come ad un'esperienza «in vitro», durante l’agonia del fascismo al tempo della repubblica di Salò, non soltanto Nietzsche,
ma
neppure
D'Annunzio
potevano
più
soccorrerci. Se anche un estremo stanco riflesso del «bal des ardents» sembrava languire sulla desolazione dei muri diroccati dai bombardamenti, eravamo, ormai, ai sottoprodotti dei miti letterari che avevano
animato per mezzo secolo l’avventura imperialistica italiana: all’imitazione degli eroi cattivelli della Cena delle beffe, o addirittura ai film con Osvaldo Valenti e
ai «tigrotti di Mompracem» raffigurati sui manifesti di Boccasile. Un mondo si stava definitivamente chiudendo. TYL
450
IL GRANDE POETA DEL NATURALISMO
Appartengo a una generazione che subì, nella prima adolescenza, la «malattia» dannunziana
(la sof-
fersero anche generazioni più giovani, ma sporadicamente). Mi riesce perciò difficile considerare in
astratto «quel che è vivo e quel che è morto» nell’opera del D'Annunzio (compito che la critica, trattandosi di un artista in fondo semplice, ha del resto
assolto egregiamente), prescindendo dall’imponenza del fenomeno
dannunziano
nei suoi riflessi sul
costume (gusti, forme sociali, fraseologia, ideali politici, ecc.) di alcuni decenni di vita italiana. Come si
sa, è in genere il lato negativo di un’opera quello che meglio si presta a fornire l’elemento catalizzatore dei miti collettivi e delle mode estetiche. Nel caso
del D'Annunzio è poi singolare il contrasto fra l’astrattezza e l’aristocratica «letterarietà» dei modelli di vita, volta a volta estetistici, superumani ed eroici, ch’egli vagheggiò,
e la violenza e l’operatività dei
miti ch’essi seppero permeare e colorire. D'Annunzio
resta così, come
pochi artisti lo fu-
rono nella storia, rappresentativo in sommo grado di un’epoca di vita italiana, quella che fu caratte-
451
rizzata dal moto ascendente della nuova borghesia nata dall’Unità, e della sua tardiva avventura nazio-
nalistica e imperialistica, destinata al fallimento. Questi motivi di volitività e di orgoglio vitale, sempre presenti nell’opera dannunziana, smentiscono le conclusioni di certi critici che fanno del complesso di esse l'equivalente nostrano — ritardato — delle esperienze decadentistiche della letteratura europea, in ispecie francese, nella seconda metà del secolo scorso. Al D'Annunzio sovrabbondò la salute, e difettarono all’opposto il delicato intellettualismo,
il misticismo
conoscitivo
e la coscienza
critica che furono in fondo a quelle esperienze, almeno nei loro aspetti positivi. Egli si limitò a saccheggiare gli elementi più grezzi del basso decadentismo europeo (compiacimento sensualistico, gusto dell’orpello e del décor archeologico, vita interpretata secondo eterni moduli estetizzanti, ecc.)
per farne oggetto del gioioso impeto celebrativo che sta alla radice della sua arte. Per le stesse complesse ragioni D'Annunzio doveva diventare invece il grande poeta del naturalismo italiano. La sua fresca avidità e curiosità per gli aspetti della natura e della vita sensibile aprì davvero un orizzonte nuovo a una poesia tradizionalmente racchiusa in un clima di alta musica e di meditazione sentimentale, e
che, in quegli anni, stava assistendo allo sfiorire dei generosi miti civili del carduccianesimo. Il mondo sensibile, che si era appena accennato nel Carducci «macchiaiolo», ora, con lui e col Pascoli, entrava in pieno, stillante di colori, di odori, di sapori, nella lirica italiana, sforzandone i moduli tradizionali.
Dalle Canto zione giato
novelle del San Pantaleone e dalle liriche del novo fino al libro di Alcyone (dove la celebranaturalistica si sublima in un lirismo attega grazia decorativa) e fino alle prose più tar-
de della Leda e del Notturno (dove si vela e si om-
breggia di malinconia sensuale), oggi pressoché tutti concordano nel riconoscere il filone duraturo 452
dell’opera dannunziana, scorrente per entro il fatras delle espressioni estetiche e superumane, che sono diventate per noi impartecipabili fuor che nei modi indiretti della rievocazione storica. 1952
405
SERGIO ANTONIELLI
Difendo la tigre Leggo sul «Contemporaneo» un’affrettata stroncatura del racconto di S. Antonielli, La tigre viziosa,
edito quest'anno da Einaudi. La nota mi sembra un buon esempio dei pericoli cui può indurre una critica ideologica, che prescinda dal gusto e dall’esperienza particolareggiata delle correnti letterarie. Al libretto di Antonielli si può muovere l’appunto di una certa quale lungaggine e insistenza, determinata, sembra, da una sfiducia, a tratti ricorrente, sulla
certezza della sua intuizione centrale e nella evidenza del simbolo primitivo in cui questa vuole concretarsi. Ma, nell’assieme, si tratta di un buon racconto,
che si situa nella linea della miglior tradizione kiplinghiana, ed esprime, nei termini di una garbata favola, un’idea del peccato e della corruzione quale può sentirla un uomo moderno, privo di consolazioni e di riscatti carismatici, nella sua naturale e de-
solata effettività. E un fare colorito e circostanziato nelle descrizioni animalistiche e paesistiche, che rivela un’esperienza diretta d’osservatore (l’Antonielli, durante la guerra, fu prigioniero in India), vale
454
ad evitare la pàtina letteraria che è il pericolo costante di queste narrazioni. Comunque, peraltro, si voglia giudicare il volumetto, che diamine c’entrino i babau del decadenti-
smo e del dannunzianesimo,
evocati di punto in
bianco dal recensore, non si riesce in nessun modo
a vedere. In Antonielli ci sarà qualche fatica e insistenza, ma non c’è compiacimento. Si deve dedurre che certi critici di scuola marxistica (non tutti, fortunatamente) abbiano adottato schemi e classifica-
zioni quanto mai semplicistici realismo,
e grossolani, e che
per essi, debba coincidere
per forza col
documentario e il cronachistico. In ciò svisando l’insegnamento dello stesso Marx, che si guardò sempre dall’affermare un rapporto così puntuale e pedantesco tra poesia e struttura economico-sociale, e apprezzava sommamente
Balzac, romanziere che mirò
sempre alle grandi semplificazioni, al tipico e al simbolico, e addirittura, come nella Peau de chagrin, al
simbolo fantastico e fiabesco: esprimendo così con più forza, proprio attraverso quelle figurazioni immaginarie, un'idea morale della sua società e del suo tempo. Quanto a noi, pur sembrandoci in definitiva sterili gli sforzi di situare il valore dell’arte in questo suo significato documentario, sia pur inteso in modo co-
sì largo e comprensivo, e tenendo fermo al principio che quel valore si realizzi essenzialmente nel rapporto diretto opera-lettore, ossia in un concetto di universale comunicabilità e traducibilità di situazioni intuitive e concrete, saremmo invece disposti a considerare la verificazione del rapporto fra l’opera e il tempo e la società che lo esprime (rapporto peraltro assai ambiguo e spesso inestricabile) come una specie di intellettualistica prova per nove di uella validità. Va da sé, infatti, che l’arte si radica nella vita, e che l’artista, ove sia veramente tale, non
può, nelle sue stesse espressioni più indirette e trasposte, che significare il tempo suo, e, a sua volta, in-
455
fluenzarlo: avendosi in caso diverso il passivo ripeti tore di temi sorpassati o l’ineffettuale introduttore di miti astratti e velleitari. Giova ricordare questi princìpi, anche perché rimanga bene individuato il maggior pericolo che insidi la nostra narrativa neorealistica, la quale costituisce peraltro il più vitale e valido fenomeno letterario manifestatosi dopo la ‘guerra. Il pericolo è quello di tenere eccessivamente d’occhiola cronaca dei nostri recenti anni, scambiando la necessaria de-
terminazione e qualificazione dell’immagine nata dalla presa di coscienza diretta di sé e del mondo, per la puntualità d’una corrispondenza esterna all'avvenimento e al costume. Sono note da ogni tempo le insidie del lavorare «sul vero». Con la possibile conseguenza di ripetere stavolta, da un canto, le
piccinerie del caratteristico e del soggettistico che viziano buona parte della nostra narrativa del secondo Ottocento, e di ricadere, dall’altro, al livello, appunto, del semplice documento, buono per la ricostruzione di una storia del costume, ma inefficiente
ai fini di quella apertura di comunicazione spontanea e perenne, in cui più propriamente si riconosce la presenza della poesia. Quante di queste narrazioni, di qui a qualche anno, saranno ancora leggibili? Insomma, mi pare giunto il momento di difendere la tigre. 1955
La tigre viziosa
Credo di conoscere tutti i racconti e romanzi di Sergio Antonielli, e anche quasi tutta la sua critica: tra cui la Poesia del Pascoli, importante saggio sul poeta, che presentai io stesso per le Edizioni della Meri-
diana, nonché i saggi su Giuseppe Parini e Aspetti e 456
figure del Novecento. Scrissi de La tigre viziosa, nella rivista «Nuovi Argomenti» nel lontano 1955, sia pure in modo del tutto inadeguato, in polemica col recensore del «Contemporaneo», che evocava balordamente, a proposito del nostro scrittore, dannunzianesimo e decadentismo. Battaglie che oggi hanno perduto qualsiasi senso. Eppure, anche nel modo inadeguato che s’è detto, fin da allora sottolineavo il significato morale della favola che lo scrittore aveva adombrato nel suo racconto, e la presenza, in essa, di un soffio di vera
poesia. Generalizzando il caso Antonielli, lo confrontavo col facile neorealismo del tempo: «Insomma, mi par giunto il momento di difendere la tigre». La tigre, in questo caso la poesia, sia in versi, sia in
prosa, come nel romanzo del nostro autore.
Esistono esperienze fondamentali nella vita di un uomo e di uno scrittore; quando, come nel caso nostro, uomo e scrittore si identificano.
Per Antonielli, simile esperienza fondamentale fu la guerra, e la conseguente prigionia in India, come si vede dal suo primo romanzo /l campo 29, di recen-
te ristampato con una pertinente prefazione di Vittorio Sereni. Da tale avventura egli trasse alcuni racconti, tra cui il più importante è senza dubbio La tigre viziosa. Superata la fase fiabesca e «allegorica», scrisse il suo romanzo più maturo: Oppure, niente; qui un fondo indirettamente autobiografico, come nel primo rac-
conto. Mi durano sempre nella memoria le commosse immagini della morte del padre. La tigre viziosa è una sorta di favola raramente tentata nel nostro paese. Avevo parlato di influenza kiplinghiana, ma occorre stare attenti: in Kipling predomina il senso dell’avventura indirettamente
documentaria,
come
in Kim, nel Libro del-
la giungla, o nella Luce che si spense. Kipling parla nella veste dell’inglese che si appassiona al paese 457
conquistato. La posizione nel nostro è semplicemente rovesciata: vediamo l’italiano prigioniero che, più tardi, scrive in silenzio, su di uno sfondo
paesistico rivissuto nella fantasia, la sua favola dolorosamente allegorica. Anzitutto, il colore. Anche Antonielli, come ogni altro romanziere, avvolge la sua narrazione nei suoi
colori prediletti: qui, sono quelli di una giungla indiana a lungo covata nella memoria. Anche più tardi ritenterà quel ricordo: così in // venerabile Orango, altra favola, per quanto meno
intensa, ma dove le tin-
te evocative vieppiù si accendono. E la storia di uno scoiattolo, che vive in un mondo terribilmente nemico, sotto la tirannia di un Orango, nominato Venera-
bile dalle scimmie e dai serpenti, e che pretende per sé adorazione. Lo scoiattolo appartiene ai «piccoli popoli» della giungla, si sente estraneo alla venerazione generale per l’Orango, e dubbioso della buona fede dei serpenti. Anche in questa fiaba Antonielli persegue, oltre al suo radicale pessimismo, maturato sotto la menzogna fascistica, la guerra d’Africa e la
prigionia, la sua visione di sincero democratico.
E torniamo alla Tigre. Ecco l'argomento del romanzo: qui, come nel successivo Orango, lo scoiattolo, è la tigre che parla in prima persona. Diversamente dalle altre tigri, che generalmente uccidono, per cibarsene, altri animali (bufali, cerbiatti, cervi, ecc.), e che, se uccidono l’uomo che le
assale, non è certo per far banchetto delle sue carni, la tigre ideata da Antonielli prende gusto a divorare gli uomini. Di qui la denominazione di «vizio» applicata al selvaggio animale, di qui l’ «allegoria»: il nostro autore colpisce indirettamente, nella sua favola, le persone che s’imbestiano: vuoi nell’amore, vuoi nell’ebbrezza del vino, nel gioco, nel furto; vuoi, infine, nel delitto. Come dice Antonin Artaud, in modo penetrante: «La tartufferie [nel senso di mistificazione] est la
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coupure, le point de suture d’un monde abject qui n’a jamais vécu que dans l’érotisme des charniers: sans lui la mort n’aurait jamais commencé». Il senso della morte: ecco quanto Antonielli ha ricavato dalla sua iniziale esperienza della guerra e della prigionia. Il «Campo 29» del suo primo romanzo autobiografico non esisteva tra i baraccamenti dei prigionieri italiani in India, che si arrestavano al 28: il 29 era, nel gergo dei reclusi, una metafora dell’Aldilà. Tutta la sua narrativa sottende questo oscuro rivo sotterraneo, che scaturisce dall’Erebo; fin nell’ultimo romanzo che ho letto, Oppure, niente.
Ed è un tale senso — questa volta putrescente — che si afferma lungo il racconto della Tigre viziosa. Putredine del fondo della giungla umida, dei cadaveri semi-sbranati degli animali e degli uomini, sui quali si avvicendano gli avvoltoi, si aggirano gli sciacalli e le jene, si crogiolano i serpenti. L'esperienza personale dell’artista conferisce un accento di colorita verità all’assunto della favola. Alla fine, la tigre ci parla dell’Oltretomba. Racconta come, dopo l’ultimo pasto umano, tratta in inganno dallo zufolo d’un cacciatore, che imita il richiamo della sua femmina, l’indimenticata Moss, ca-
de sotto la fucilata. Così il libro si chiude. Possiamo così concludere il nostro discorso. Pen-
siamo che la ristampa della Tigre viziosa, nella veste che le compete, valga a mettere ancor meglio in luce, sul panorama della letteratura contemporanea, lo scrittore originalissimo e ricco di fantasia che è
Sergio Antonielli. 1979
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SIBILLA ALERAMO: «LUCI DELLA MIA SERA»
Gli ottant'anni di Sibilla, compiuti quest'estate, esigerebbero un adeguato discorso, che fosse una
progressiva illuminazione del lungo cammino percorso da colei che potrebbe ben chiamarsi la maggiore e «decana» delle nostre scrittrici. Molto di più, insomma,
di quanto
lo consentano i limiti di una
semplice nota. La carriera della narratrice di Una donna e del Passaggio, della poetessa di Momenti e di Sì alla terra, della memorialista di Gioie d’occasione e di Dal mio diario (1940-44), è scorsa durante un intero mezzo
secolo di letteratura italiana ed europea;
s'è accesa, sia pure in quel modo istintivo e spontaneo che è nel temperamento della scrittrice, a molti dei fuochi più vivaci e intensi che abbiano illuminato la vita e il costume italiano, e, in primo luogo, la realtà letteraria. Come, agli inizi, la problematica morale e sociale del teatro di Ibsen, col nuovo mito
della libertà ed eguaglianza della donna; poco più tardi, la luce del gran meriggio dannunziano: entrambe le esperienze accolte come messaggi di liberazione e pienezza vitale. Erano, ancora, i tempi in
cui certe francesi, da Rachilde a Colette alla Signora 460
di Noailles, offrivano crudezze di trascrizione sen-
suale o slanci di indiscriminato abbandono. Mentre di lì a poco sopravvennero il liricismo e frammentismo nostrani, riduzione, negazione e continuazione insieme del grande naturalismo alcionico. Perché occorre anzitutto riconoscere il tempera-
mento di ribelle spontaneità della Aleramo, che, a differenza di altre sue coetanee, destinate, magari
dopo inizi di corrucciata vivacità e scontrosità anarchica, a placarsi nel conformismo morale e accademico, le consentì di tenersi, fino alla sommità
del
suo arco biografico e ideale, a quel livello che Ortega y Gasset definiva come «altura de los tiempos»: e ciò proprio in virtù di quella sua spigliata e irriflessa immediatezza, che pure sembrò magari con-
trastare più tardi con la successiva nostra fase letteraria, di ripiegamento e raccoglimento autocritico,
o di assoluta oggettività e spersonalizzazione narrativa. Può comunque dirsi che Sibilla sia passata attraverso i più vistosi fuochi del cinquantennio letterario senza scottarsi. Né il felice inizio rappresentato da Una donna la fece insistere, come sarebbe pur sembrato possibile, in una professione di romanziera a tinte problematiche
e sociali; né l’astro dan-
nunziano, che bruciò le penne a troppi incauti, seppe trattenerla nelle sontuose paludi dell’estetismo, bensì ella si limitò, come già nell’altro caso, a trar-
ne quanto poteva rivelarla a se stessa, aiutandola a circoscrivere l’ispirazione nell’ambito di quel suo caratteristico autobiografismo e soggettivismo, del resto tipicamente femminile, intento a celebrarsi e a risolversi
nell’esaltazione
lirica.
Né,
infine,
le
esperienze del successivo liricismo e frammenti smo, cui essa contribuì nel più spontaneo dei modi, la invogliarono ai labirinti di un’arte composta e riflessa, estranea, d’altronde, alla sua natura: bensì le
insegnarono a frenarsi e a porre argini all’abbandono effusivo, inducendola a concentrare l’impressione lirica nella grazia della breve composizione, o 461
dell’hai-kai, anziché lasciarla sommergere nell’onda dissolvitrice dello sfogo canoro. I fedeli suoi lettori hanno ben presente allo spirito un'immagine quasi, per dir così, proverbiale di Sibilla, nel quadro della nostra recente storia lettera-
ria: che ad un certo momento apparve impersonare, nel campo più proprio della letteratura femminile, l’anelito della piena libertà sentimentale e sessuale,
intervenuto a infrangere le incrostazioni e gli impacci dell’antica servitù e ipocrisia sociale: ideale che era sembrato, fino ad allora, appannaggio esclusivo di certe sue spregiudicate consorelle d’oltr’alpe. La sua più caratteristica poesia in versi si espresse, infatti, come esaltazione dei momenti intensi della vita, quali solo l’amore, nella sua accezione di for-
za spontanea, cieca e irrompente, al di là di ogni disciplinamento sociale e tradizionale, sa concedere.
Eppure, qualcosa già distingueva ben nettamente, fin dagli inizi, Sibilla da quelle scrittrici che mostravano di appagarsi dell’irraggiamento di una tale forza spontanea, il quale avrebbe dovuto necessariamente concludersi, una volta spentosene l’incanto,
nella crudezza della mera constatazione psicologica e fisiologica. Per Sibilla, il mito letterario dell’amore, anziché restringersi all’idoleggiamento di un impeto immemore e distruttivo, rappresentava qualco-
sa di più: in esso confluivano l’iniziale giovanile senso di un’ingiustizia subita, un confuso bisogno di maternità inappagata, e, ad essi commisto, un lievito di ideali di umanità e fraternità, anch’esso di ori-
gini lontane, dai tempi in cui, con Giovanni Cena, la scrittrice s'era votata alla istituzione di scuole popolari nell’Agro Romano. Mi pare che a ragione Emilio Cecchi abbia di recente osservato questo bisogno di sublimazione implicito nell’idea d’amore di Sibilla, soggiungendo: «Con altre tradizioni, in altri tempi e civiltà, ella forse sarebbe riuscita qualcosa come
una mistica, una
santa, che nel trascendente trovava il compenso d’o462
gni vissuta insoddisfazione». Nel presente libro di versi c'è una lirica, Potenza d’amore, dove la poetessa sembra prender coscienza di questa sublimazione e trasposizione, e le luci che, nel bel titolo di esso, il-
luminano la sua sera, sono quelle d’una grande speranza umana, l’immagine di un armonioso paradiso
su questa terra, che, per essere proiettato in un futuro storico,
è nondimeno una visione trascendente
questo nostro tempo difficile di lotte e di trasformazioni. Biograficamente, il passaggio è documentato dalle pagine mosse e spigliate del Diario: dove con la sua caratteristica sincerità, che in qualche punto sa giungere addirittura a sconcertanti lacerazioni, erano detti l’addio all’amore, e la cronaca del feroce
purgatorio rappresentato dagli anni della guerra e dell’occupazione. La scrittrice, ora, ci affida un umano e generoso messaggio. L'emozione che, nelle
sue liriche d’un tempo, si concentrava in brevi moduli di patetica intensità, è, qui, dissolta e sparsa lun-
go le linee di una casta e semplice oratoria: e quanto, nel genere,
fatalmente
concede
alle occasioni
della politica, e, come oggi si dice, alla «propaganda», appare riscattato dalla esattezza dell’accento, che, nella rinnovata comunione con gli umili, trova
la spinta al canto. 1956
463
«POESIE» DI ALESSANDRO PEREGALLI
Non sono ancora riuscito a farmi chiaramente un’idea delle posizioni su cui muove la cosidetta «poesia giovane», anche perché la mia formazione mi rende forse meno sensibile a quei problemi culturali di natura «collettiva», che pur esistono e con-
dizionano il resto, ma la cui soluzione, sul piano creativo, è sempre opera della personalità singola, ove riesca vittoriosa. Questa, poi, sembra abbia per destino di rispondere in modi sempre in qualche misura elusivi e per così dire laterali alle sollecitazioni della storia, perché la sua risposta porta, anzitutto, il peso di un’altra storia, quella individuale,
sempre in definitiva irreducibile, per via d’analisi, ai termini generali, dei quali è certamente un riflesso (ma fino a quale punto essi sono rintracciabili, non sconfinano nell’inafferrabile «tutto»?).
Come impostazione generale mi sembra felice il termine di «neo-sperimentalismo» adottato da P.P. Pasolini in un suo recente articolo su «Officina» dedicato alla poesia «del dopoguerra». A giudicarlo. dall'esterno, sembra un momento straordinariamente folto di echi, di suggestioni, di riesumazioni, di an-
464
ticipazioni: anche se gli esemplari della poesia nuova rechino assai di rado quei segni di autenticità stilistica che l'atmosfera stremata e rarefatta del «ventennio» ci aveva pur avvezzi a cogliere, quasi disperata riscossa dell’individuo contro la marea conformista. Il poeta tenta oggi nuovi compromessi tra vecchio e nuovo, sia riducendo all’osso della spregiudicatezza e dell’ironia l’esperienza della negative knowledge toccata in sorte ai suoi maggiori, sia tentando di iniettare, il più spesso in forma grezza e approssimativa, i
nuovi «contenuti» ideologici e morali. Il sincretismo dei modi e degli stili di mezzo secolo di poesia, dal futurismo all'avanguardia all’ermetismo, è inevitabi-
le in una simile congiuntura di transizione e confusione. Nell'attesa di un primo provvisorio bilancio (cui potrà giovare la recente folta antologia del Falqui), e avendo mente, più che agli astratti moduli formali e alle non meno astratte etichette letterarie e ideologiche, alle particolarità dell’atteggiamento iniziale, della forza di slancio, di questi giovani poeti, ci azzarderemo a dire che uno dei più rassicuranti di tali atteggiamenti, in una situazione così confusa e com-
promessa, è proprio l’innocenza. Alessandro Peregalli, nel suo Altopiano, già notato favorevolmente, sia pure con riserve, da uomini come Montale e Pasoli-
ni, si rifà all’ideale di una poesia semi-prosastica e celebrativa, a lunghe lasse di versi «liberi», le cui radici, non solo formali, sono in Whitman, e nelle correnti che ne derivarono, in America e altrove. Siamo al polo opposto della «poesia di precisione», critica e au-
tocritica, basata sulla «messa a fuoco» puntuale dello scatto interiore a contatto col mondo e con la storia,
che è stata la mira ambiziosa ed estenuante degli anziani. Però, in questa vaga aura celebrativa e commemorativa,
può ben entrare
l’intero orizzonte
delle
preoccupazioni estetiche e morali di un giovane d’oggi, urgere quella «prosa», che, secondo Leopardi, era compito della poesia di trasformare. In Pere465
galli, tante declamazioni su Dio, la libertà e la giustizia, nella loro originaria acerbezza, possono apparire ispirate a una fiducia da rasentare l’ingenuità, sia pure in senso buono. Ma l’accento vi è sincero, e, al-
meno psicologicamente, autentico, come meglio si vede da certe commosse aperture descrittive o visioni fantastiche. In questo grande brassement di stili e di poetiche, dove lottano astuzia e approssimazione, impulsi caotici e necessità vera, forse non ci vuol meno dell’innocenza di Peregalli per rompere il cerchio incantato. 1956
466
IL POETA BLOTTO
Singolare tra i molti meriti di Umberto Eco è di aver richiamato l’attenzione su questo poeta, in uno dei recenti numeri de «L'Espresso». Ma già Yvelise Ghione, anni fa, sul medesimo giornale, in una sua
indagine sul «sottobosco» della poesia in Italia, aveva, se ben rammento, parlato di Augusto Blotto, for-
nendoci anche qualche dato biografico. Ma né Eco, né la Ghione, sono entrati nel merito dell’opera sua.
Dal canto mio confesso di aver guardato, sulle prime, con supremo fastidio ai numerosissimi e voluminosi libri del Blotto (l’ultimo da me ricevuto, anni fa, che ho qui sul mio tavolo, reca il n. XXXIV),
come in genere ai prodotti della versificazione moderna che non si possono capire, sia pure nel senso più ampio della parola, né che richiedono, peraltro,
d’essere capiti. I libri del Blotto sono composti di interminabili carovane di frasi versificate, apparentemente sterilizzate da un qualsiasi plausibile senso. I titoli stessi di questi «messaggi poetici» (ad es. Autorevole e tanto disperso, Il maneggio per erti, senza sugo,
Tranquillità e presto atroce ecc.), nonché quello dei singoli poemi che li compongono, sono esponenti 467
di questa non-semanticità. Ma occorre andare adagio: qualcosa avrebbe dovuto mettermi in guardia. In particolare, la serietà del Blotto. Ecco il caso più unico che raro di un poeta che non piatisce giudizi dalla critica, che mostra una superiore totale indifferenza al successo. Né si preoccupa di imbonire personalmente il pubblico illuminandolo sulle proprie mire e procedimenti. Né, infine, fa parte di nes-
suna delle numerose conventicole neo-avanguardistiche che si disputano il vanto di interpretare il nostro tempo. Per quanto abbia studiato lettere, e sia stato in quegli anni, a quanto mi si dice, il miglior allievo di Terracini, fa «un altro mestiere», e si limita (o si è limitato), a sfornare uno o più volumi all’anno, sospetto a proprie spese, non trattandosi evi-
dentemente di libri di successo. Si presenta come un caso enigmatico e del tutto degno di rispetto. Non sarei probabilmente riuscito a superare la prima e infastidita reazione ai poemi del Blotto se non mi fosse capitato fra le mani, anni fa, il libro del Dot-
tor Hubert Benoit: Lacher prise, théorie et pratique du détachement selon le Zen. Immunizzato come mi sento verso lo Zen come moda dilettantesca e svago mondano furoreggiante ai nostri giorni, ma profondamente affascinato, per quel poco che ne conosco, dell’antica saggezza orientale, ho letto spregiudicatamente la pregevole opera del Dottor Benoit, che, nella sua ultima parte, tratta della «scrittura divergente», racco-
mandandola altresì come pratica terapeutica. Il Dottor Benoit, esaminando la totalità del mondo verbale, in analogia, che è anche identità, con la totalità cosmica, ne distingue un elemento come «struttura generale, armonica»: la sintassi, universale
al pari delle matematiche, riposante sul principio d’identità; e due strutture particolari, una convergente, ego-centrata, relativamente armonica; l’altra diver-
gente, non ego-centrata, relativamente disarmonica. La prima corrisponde all’Integrazione, che noi accettiamo;
la seconda
alla Disintegrazione,
468
che noi
non accettiamo. Si tratta comunque di due modi del linguaggio, entrambi contenuti nella possibilità del mentale: «Mon mental contient une indéfinité de phrases divergentes possibles, comme il contient une indéfinité de phrases convergentes possibles». È l’altra metà del linguaggio, che noi rifiutiamo, e che purtuttavia esiste. Una fine coscienza letteraria permette al Dottor Benoit di identificare l'elemento «divergente» nella poesia: «Si le langage du poète fròle souvent la divergence, c’est en un jeu subtil où il s’éloigne de la convergence chérie pour jouir plus fortement de la retrouver». Fa, tra l’altro, osservazioni assai pertinenti su
Mallarmé. Distingue acutamente la differenza fra la scrittura divergente Zen e la scrittura automatica dei surrealisti. La seconda mira infatti ad esprimere uno stato di passività, lasciando libero campo a quelle associazioni emergenti dall’inconscio, che la scrittura
Zen tende al contrario a sopprimere: «Les associations libres» che, diremo noi, stanno alla base della
scrittura automatica «représentent le fonctionnement convergent le plus simple, le plus élémentaire de ma pensée». Laddove la scrittura non-convergente, al contrario, esige, almeno agli inizi, un notevole sforzo intellettuale: si tratta di vincere, di disarticolare mo-
mento per momento i meccanismi mentali che ci porterebbero infallantemente all’associazione, vuoi con-
scia vuoi inconscia, i quali escludono il «modo divergente», considerandolo come «ne devant pas étre». Così, sempre secondo il Dottor Benoit, «en refoulant
le mode divergent de mon intellect, je l’isole du mode convergent, je l’oppose è lui, et je transforme la qualité structurale de mon monde verbal en un dualisme inconcilié.Je vis dès lors dans un monde de contradictions, où le vrai et le faux s’opposent, et où ces
oppositions me cachent la Réalité Une conciliatrice». Il Dottor Benoit dichiara che gli studi i quali compongono il suo libro sono concepiti nella prospettiva dello Zen puro, dello Zen di Hui-neng e di Huang-
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po. E, per quanto limitate siano le mie conoscenze in questo campo — del resto, mi ci aiuta lo stesso Dottor Benoit —, penso che il suo «linguaggio divergente» vada direttamente collegato alle risposte assurde e incongrue che gli antichi maestri Zen solevano dare alle domande dei loro discepoli intese ad avere chiarimenti su punti della dottrina, magari accompagnandole con uno scappellotto o un colpo di ramazza, anch'essi atti a risvegliare nel discepolo il prajna, se non vado errato, l’intuizione intellettuale del «tut-
to insieme», scardinando le categorie logiche del ragionamento ordinario (quello che il Dottor Benoit chiama «modo convergente del linguaggio») .' Ma ho il sospetto che si potrebbe andare ancora più in là, alle fonti del più antico pensiero
cinese, come,
ad
esempio, a Chuang-tzu, dove spesso, con apparente identico fine, un ragionamento all’inizio perfettamente coerente viene fatto terminare in una sorta di burlesca inanità. Mentre nessun rapporto mi sembrano avere col «linguaggio divergente» i detti in uso presso i retori del suo tempo, che il Maestro criticava, tipo «un pulcino ha tre gambe», «un cane può essere considerato una pecora», «i cavalli fanno uova» ecc., che devono considerarsi piuttosto indovinelli logici, rientranti pertanto, con la loro spiegazione,
nell’ordinario procedimento razionale.’ Chi scrive ha per qualche tempo praticato la scrittura divergente a scopo, peraltro, per nulla letterario, bensì terapeutico; e può perciò testimoniare personalmente delle estreme difficoltà inerenti a tale esercizio: la faticosissima necessità di vincere, scardinan-
do i processi mentali abitudinari, i tre automatismi di convergenza che il Dottor Benoit elenca come asso1. Cfr. Daiset T. Suzuki, Zen and the Japanese culture, Pantheon Books, Inc., N.Y., 1959.
2. The complete Works of Chuang-Tzu, translated by Richard Watson, Columbia University Press, N.Y. and London, 1968.
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ciazione di senso, di consonanza e di ripetizione. La scelta delle singole parole, contrariamente a quanto si potrebbe pensare a prima vista, appare compito disseminato di ostacoli e di trabocchetti. Al punto che chi scrive ritenne necessario di far seguire ai primi saggi una sorta di autocritica per rilevare il tenace persistere, qua e là, di associazioni inconscie. L’esito
terapeutico fu nullo, ma ciò può anche esser dipeso dall’aver tralasciato quasi subito gli esperimenti. I libri del Blotto offrono esempi purissimi di scrittura divergente Zen. Analizzandone interi brani, non mi è riuscito di reperire traccia alcuna di automatismi convergenti. Ad ogni passo, l’estraneità, l’alterità più assolute: si è, davvero, in un altro mondo. Se anche, in certi tratti, sembra delinearsi il contesto di un pae-
saggio, o una successione di elementi, o enuclearsi il riflesso puntuale
d’una rappresentazione
sensibile,
occorre stare attenti, perché tali effetti, che potrebbero sembrare sulle prime intenzionalmente predisposti dall’autore, si rivelano a più attenta indagine immagini illusorie, provocate dall’abitudine associativa del lettore, così come avviene nella contemplazione delle macchie su di un muro, o delle venature e pezzature di un marmo, o nella decifrazione di un test Rorschach. Ad apertura di libro, poiché, a rigore,
tutto sarebbe ad egual titolo citabile: Il premere e la derivazione dell’accumulo porta a stabilire di un’eco stranissima le occupazioni, che hanno posto di riferimento vivandieri, e per pesare affrontano olfattamente la cotta tortue che, per esempio, [una cittadina,
quanto rotto-oggetti studiarne la manteca con la vista rosa e di tagliandini a furia di stare in ambito quieto come un legno fiena il verde del rugghio quatto del linoleum! Mercé un tirocinio che suppongo tenace e prolungatissimo, il Blotto ha raggiunto vertici di insigni471
ficanza pura. Che se, qua e là, all’infuori delle significazioni «illusorie» già notate, persistono ammiccamenti, rari points de répère significanti, magari allu-
sioni alla cronaca (una di queste poesie, ad esempio, si intitola a Genco Russo: ma tutto si ferma lì), si
comprende benissimo che si tratta di fulminei exita dal modo divergente e ingressi momentanei in quello convergente, perfettatmente volontari e consapevoli, non già, come nei miei faticati «esercizi»,
di un persistente tenace detrito di associazioni inconscie. Penso impresa vana rintracciare precedenti letterari all’opera del Blotto. Caso mai, più che con gli esemplari del surrealismo — e proprio per le ragioni addotte dal Dottor Benoit — essa mi sembrerebbe avere un qualche del tutto inintenzionale punto di contatto con certi testi del primo ermetismo italiano degli anni ’30, come il primo Luzi o il primo Gatto,
dove si effettuava un qualche esperimento di divergenza, non già, come nelle parallele esperienze surrealiste — pullulanti, almeno per programma, dall’acqua madre del sogno e del delirio, in un clima di eversione convulsa e di scandalo, sempre sotto il segno dell’associazione inconscia (quindi divergenza soltanto apparente) —, ma, più propriamente, sotto quello di una vera e propria divaricazione logica del linguaggio. Ma una tale divaricazione appariva limitata al senso, e anche ciò incompletamente, mentre consonanze e ripetizioni (ad esempio, spesso l’uso
della rima, o il ritorno su qualche immagine fondamentale) persistevano nel flusso poetico. Gli è che, mentre il diverso destino storico dell’Italia non avrebbe
mai consentito,
e ciò per ovvî motivi, un
esperimento diretto di poesia surrealista, giovani poeti d’avvenire avrebbero potuto vagheggiare, in un clima, all'opposto, di clausura, una poesia contemplativamente statica, impressa a una sorta di idealismo platoneggiante o petrarcheggiante (quello che fu detto il «platonismo fiorentino»: con in più, alme472
no per Luzi, l'esempio di Mallarmé), esprimentesi in
sospese costellazioni d'immagini mute. Finalità, comunque, la bellezza letteraria del ritmo e del colore, quello che ordinariamente si chiama la poesia. Il Blotto appare invece perseguire, adottando radicalmente la divergenza, più che una vocazione estetica, un’esperienza di carattere fisiologico-meta-
fisico, di natura non dissimile nel suo fondo a quei
modelli del misticismo orientale cui abbiamo accennato. Piace supporre che, attraverso questa pratica, egli abbia potuto raggiungere l’auto-condizionamento di cui parla il Dottor Benoit, ottenendo di porsi in
quella prospettiva da cui ogni opposizione di senso e di «controsenso» scompare. In tal modo, Blotto sarebbe giunto a padroneggiare entrambi gli automatismi che ci sono consentiti, integrandosi anche l’ «altra metà» del proprio universo verbale, e diventando così «l’automa perfetto, che realizza in sé i due aspetti dello Yang — convergenza e divergenza — conciliabili con lo Yin nel Tao». E forse troppo pretendere che, attraverso questo tirocinio, il Blotto abbia potuto raggiungere l’illuminazione, lo stato di satori alla pari del Budda o del Maharshi. Avrebbe, evidentemente, cessato di scri-
vere. Egli ha necessariamente scelto l’altra e più lunga via, secondo il Dottor Benoit la sola consentita alla comune dei mortali. È augurabile comunque che, attraverso questo assiduo «contro-lavoro interiore»,
egli abbia potuto raggiungere il «distacco» che propone la saggezza Zen (/@cher prise), conciliando in sé essere e non essere, vita e morte, ed eliminando
il
doloroso senso di attaccamento ad una sola delle parti della Struttura Cosmica e la conseguente tenace impressione di «vivere nelle tenebre esterne». Ne potrebbe essere indice la riservatezza estrema, il to-
tale disinteresse pratico per la propria opera: la cui pubblicazione rappresenterebbe, quindi, una superiore ironia destinata a concludersi nella propria enigmaticità.
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La poesia del Blotto presenta vantaggi. Il primo è che non è almeno in extenso. E sufficiente dei campioni, così come hanno
alcuni altri meriti, o necessario leggerla, prelevarne qua e là fatto gli astronauti
sulla Luna, e lo faranno, domani, su qualche piane-
ta ignoto. Un’attenta analisi di prelievi appartenenti a diverse stratificazioni potrebbe fornire indicazioni preziose. Ad esempio, nell'ultimo e già citato volume, che è anche il solo che mi trovi ad avere a
disposizione, mi pare, se non vado errato, che il Blotto abbia fatto ulteriori passi, moltiplicando neologismi assai curiosi e leggermente violentando, qua e là, la costruzione sintattica (ma si tratta prevalentemente di semplici constructiones ad sensum, anzi, sa-
rebbe più preciso dire, ad non sensum). L’altro è quello di bruciare in partenza la più gran parte della neoavanguardia poetica che da noi, come in Francia, tende ad una consimile insignificanza, senza tuttavia raggiungerla nella sua purezza, an-
zi pretendendo di giustificarla con teoriche psico-socio-strutturalistiche quanto mai confuse e traballanti, che verrebbero ad assegnarle dall’esterno, e contradittoriamente, un valore, per l'appunto, semantico. Per cui questi poeti si situerebbero, in un ideale
diagramma della lirica contemporanea, come involontari zoppicanti seguaci del Blotto, senza possederne in misura anche minima la coerenza, il rigo-
re, e, presuppongo, la consapevolezza. Anche per tale motivo l’opera di questo poeta meriterebbe di uscire dal «sottobosco» e formare oggetto di utili meditazioni. 1970
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HELLE BUSACCA: «I QUANTI DEL KARMA»
Helle Busacca. Una poetessa singolare, e ben difficilmente raffrontabile ad esemplari noti della poesia nostra contemporanea, o, per dir meglio, postmontaliana. Ha pubblicato tre libri: Giuoco nella memoria (1949); Ritmi (1965); I quanti del suicidio (1972). Tuttavia, avendo mente alla data dei libri scritti, si
può notare il rapporto, o i rapporti, con l’attuale lirica italiana. In primo luogo l’uso ormai costante
del verso libero (dagli endecasillabi e canzoncine che nei due primi volumetti si alternavano al metro libero, la scrittrice ricorre unicamente ad esso nel suo terzo libro).
In questo, oltre al deciso passaggio al verso libero, abbiamo l’andatura colloquiale, prosastica (che
tuttavia si rompe di continuo in impennate di lirismo), l’inserzione di citazioni massime, di notizie di cronaca. logo ininterrotto si succedono no, è vero, tutti elementi che
in prosa e versi, di Le battute di un diada canto a canto. Sonoi possiamo riscon-
trare nella poesia d’oggi. La Busacca li utilizza però a modo
suo: tutto confluisce, per essa, a un senso
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della lirica come dimensione unica, come «totalità».
I quanti del suicidio, riflettenti una tragica circostanza familiare, sono un folto volume di liriche dedicate al fratello morto. È una sorta di lungo dialogo in tono minore, che tuttavia non esclude improvvise impennate e aperture, imprecazioni disperate e violente. Questo lungo dialogo col defunto rappresenta un deciso approfondimento sul piano psicologico, in confronto alla svagata réverie delle prime raccolte. Possiamo citare una breve poesia (LKXxv): Non è il sole che tramonta
là a metà della terra dietro i promontori della Spagna è la terra che ruota su sé, non è il sole che tramonta, è la terra che ritorna alla sua essenza d’ombra non sei tu che sei morto ma io sono che mi affronto col mio stesso buio che è il mio io [reale. Non è che questa poesia si distacchi molto, nell’accento e nel tono, dalle altre del libro. L'abbiamo
scelta un po’ a caso, un po’ per la sua brevità. Ci sembra esprimere, in modo riassuntivo, paradigmatico, quel nuovo scavo verso il profondo.
Anche nel libro che presentiamo ai nostri lettori domina il ricordo del fratello morto
(aldo lontano e
solo / ad aldo non giungerò mai): il tema continua a di-
ramarsi come una fatalità irreversibile e sempre presente nella vita come nella poesia dell’autrice. Già abbiamo accennato alla sua ambizione di «totalità». Questo vuol dire, da una parte, che la poetessa fa confluire nella sua poesia tutta la propria realtà vitale, dai minuti fatti dell’esistenza quotidiana ai motivi della sua ampia cultura di infaticabile lettrice di autori classici e moderni d’ogni paese, fino agli in-
teressi un po’ speciosi per la filosofia orientale, l’a476
strologia e magari la fantascienza. Questo significa pure, dall’altra parte, la presenza d’una «ganga» da cui il lettore deve estrarre, talora attraverso compli-
cate mediazioni, il prezioso minerale lirico.
Incominciamo, dunque, come occorre spesso fare
di fronte a qualsiasi libro di poesia, ad esaminarlo dall'esterno, prima di approfondirne l’intima essenza. Anche su questa superficie ritroviamo i valori del libro precedente: così la bellezza dei paesaggi che fanno da sfondo al tormento irrequieto della poetessa, paesaggi spagnoli e greci, il colore e l’odore marino: ... la mareggiata nel ciclone delle cicale che si scatena
e il muglio di pini sul vento etèsio, (54) e sei tutta kafthor, un’arroventata
conchiglia che ha le onde del mare dentro: e i falchi e i rocchi, un labirinto e un cielo.
Oppure:
... O era il mare a due passi, lastre d’insopportabile platino, e i vulcani su incendi d’acque e la selva di mimose fitta di grappoli mi stendevo su un letto fatto di acini d’oro... Insomma, Helle Busacca è uno di quei poeti per cui veramente può dirsi «che il mondo esteriore esiste». Rose di Valencia e scogli di Cnosso, il bagliore e l’odore marino attorniante i luoghi dei viaggi estivi ormai solitari della donna, priva dell’amato fratel-
lo perduto, e tuttavia ricordato ad ogni istante. Secondo
l’età matura vuole, e la tragedia vitale
che ha irrimediabilmente segnato l’anima della poetessa, è l’idea della morte che ormai le incombe più
di ogni altra.
A Valencia, la processione della Vergine. Nella
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poesia, Maria Vergine s’identifica, si direbbe, con le
madri più antiche, diventa una sorta di Iside-Persefone incoronata di teschi:
... lei col suo bronzeo peso che polverizza fiumane d’ossa su tutta la terra, lei, e intorno
i cieli che fuggono in nere onde. L’idea della morte si ripresenta in una scena di pranzo di nozze in una trattoria di Brindisi, con quel bel volto di donna alla cassa «che s’inteschia». E già,
in un’altra scena nuziale in un ristorante di Cagliari, in una delle prime poesie, in cui s’intesse un dialogo col fratello morto, evocante ricordi familiari, la
poetessa immagina che nel cuore oscuro della sposa possa balenare l’idea inconscia ch’essa sta firmando «un’ennesima cambiale in bianco alla morte». Fino a che, nell’ultima lirica del libro, finisce col
configurarla in un camion della nettezza urbana, col suo motto: «per una terra meno sporca». Un'altra immagine che può lasciarci Helle Busacca è quella della sua poetica passione per l’astrologia. Per questa ha preso in mano i pennelli e si diletta a comporre oroscopi per gli amici, i quali, disponendo di un certificato di nascita anagraficamente dettagliato, possono indicarle non soltanto il giorno, ma anche l’ora della propria nascita. Il Ritratto per oroscopo, è la vita del fratello Aldo che
la poetessa cerca d’interpretare nelle sue cruciali contraddizioni e nel suo tragico epilogo: Ma importa alcunché calcolarle,
le cifre, se già sul tuo primo entrare ti dà il buon giorno con la sua gran falce il Vecchio, e annotta della sua tartarea , ombra, la tua ultima e la tua prima casa, e se Artemide appunta l’arco mortale contro Giove, e Afrodite calpesta Marte?
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Sono lacerazioni contraddittorie, che i dilettanti
di astrologia (non dico per la Busacca, che ha approfondito negli ultimi anni questa nobile antica scienza sprofondata nel volgere dei secoli) non penano ad interpretare. Le figure dei pianeti, che s’in-
casellano nella grande fascia zodiacale, possono disporsi, nel cielo della nascita, in modo favorevole o sfavorevole. Per il fratello Aldo, evidentemente, pia-
neti e costellazioni erano maligni. Saturno con la sua falce al principio e alla fine, la luna, Diana, che
saetta Giove, Venere che calpesta Marte (il principio femminile che sopraffà quello maschile). L’astrologia viene così ad offrire un nuovo tocco di colore a questa poesia assorta, nutrita di esperienza di vita e di cultura, che, come abbiamo accennato, rappresenta ormai l’unica «vera dimensio-
ne» entro cui opera Helle Busacca. 1974
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UN POETA IGNOTO
Si narra che Baudelaire si recasse un giorno a trovare un amico ufficiale di marina, reduce da una lun-
ga navigazione in Polinesia. L'amico aveva portato con sé un gran numero d’idoli polinesiani, in pietra e in legno. Semplice curiosità, s'intende, dato che a
quel tempo simili feticci non avevano alcun valore commerciale. Non era ancora nato Picasso e la passione per l’arte dei selvaggi. All'epoca, il gusto si divideva tra il «pompierismo» dell’arte ufficiale, e quella nuova che stava sorgendo, la quale si chiamava Delacroix, Courbet, Manet...: e si sa con quanta penetrazione il poeta delle Fleurs du mal ne abbia scritto. Ora, l’ufficiale di marina andava disponendo su di un tavolo i vari idoli, che estraeva via via da una
disordinata catasta, dove qualcuno di essi aveva magari perso un braccio o la testa. I due amici si divertivano a contemplare le ridicole fattezze di quei fantocci, che tuttavia, si voglia o non si voglia, potevano
pur sempre vantare la rispettabile dignità di dèi, di numi dell’innumere Olimpo oceanico. Ad un certo momento,
l’amico ne trasse fuori uno,
più buffo,
goffo e ripugnante di tutti gli altri. Mentre stava per 480
scaraventarlo nel mucchio, Baudelaire improvvisamente gli fermò il braccio: «No» gli disse «potrebbe essere quello vero». Anch'io, in questioni di poesia, come di tante altre cose, non sono lontano dal pensare al modo di Baudelaire. A parte il fatto che, se sono un appassionato divoratore di romanzi e di saggi, sono invece un assai parco lettore di poesie, della quantità di libretti o libroni, dovuti a poetini o poetastri, che mi
piovono sul tavolo ogni settimana, nonostante che da gran tempo abbia cessato di fare quello che una volta si diceva il «critico militante», esito a sbaraz-
zarmi. So che non basta l’occhiata fuggevole, la lettura «diagonale». Uno di loro potrebbe essere quello «vero». Di tanto in tanto s’incontra un poeta vero, né prima né poi mai sentito nominare. Sfogliando le pagine di un vecchio settimanale, rovistando su qualche bancarella. Ma si ha fretta, si è distratti, si passa via.
Ho già raccolto tre o quattro poesie, e ne cerco altre: le terrò in serbo per un’occasione prossima. Per ora, mi limito ad una. In un certo senso, il poeta vero è come l’amico vero, l’amore vero, che nella vita abbiamo forse sfiorato
senza accorgercene. Penso ancora a Baudelaire, al suo sonetto A une passante, in cui descrive l’ignota bella in gramaglie da lui incontrata in mezzo alla strada assordante di urli e fragori, «agile et noble, avec
sa jambe de statue», nei cui occhi beve «la douceur qui fascine et le plaisir qui tue». Ma i due non fanno che sfiorarsi, riconoscersi
per un attimo. Non
s’incon-
treranno mai più: O toi que j’eusse aîmée, 6 toi qui le savais! L’autore della poesia che oggi presentiamo ai nostri lettori è senza dubbio un poeta «vero». Ho in mano un vecchio ingiallito ritaglio di giornale. Non reca alcuna data né altro segno di riconoscimento. Soltanto la mia memoria, e, sul retro, no-
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tizie di cronaca, mi permettono di identificarlo nel «Corriere dell’Adda e del Ticino», organo del Partito Liberale di Lodi. L’epoca della pubblicazione dev'essere attorno all’anno Cinquanta. Il settimanale conteneva allora una assai discreta pagina letteraria. Poi il titolo si è cambiato in un semplice «Corriere dell'Adda», e la pagina letteraria a poco a poco è scomparsa. ; Quando, dopo molti anni, il ritaglio è riemerso in mie mani da un disordine di vecchie carte, la poesia mi è parsa ancora una volta bellissima. Non rammentando di aver letto mai altro di questo autore, mi sono affrettato a consultare storie delle varie letterature, nonché enciclopedie sotto l’apposita voce;
ma, con mio grande stupore, il nome di Balthasar Salins non figurava in alcun luogo. Ho interpellato amici specialisti, col medesimo risultato negativo. Evidentemente,
mi ero
limitato
a ritagliare
pura-
mente e semplicemente la poesia, senza apporre alcuna data né altra indicazione, proprio perché supponevo si trattasse di un poeta illustre, come la bellezza del carme induceva a presumere. Svolsi allora le mie ricerche in altra direzione. Telefonai all'amico, e poeta, Giampiero Draghi, fratel-
lo di Gianfranco Draghi, all’epoca direttore della pagina letteraria del settimanale lodigiano. Di lì ad alcuni giorni l’amico mi rispose, dicendomi
che il
fratello aveva attentamente sfogliato le annate del giornale, e, manco
a farlo apposta, nella sua colle-
zione, che riteneva completa, proprio quel numero, e quello solo, mancava. Circa l’autore, e il tradutto-
re F.M., non seppe che fornire qualche vaga supposizione. Era così destino che il mistero restasse inviolato. E sì che, come il lettore potrà constatare, la poe-
sia è eccezionale, ed egregia la traduzione. Mi sono scervellato a pensare a quale letteratura potrebbe ascriversi. Per conto mio, oserei azzardare l’ipotesi
che si tratti di un poeta anglosassone del nostro se482
colo. Ma potrebbe magari essere un francese, un tedesco, uno spagnolo, un sudamericano, chissà? Si potrebbe persino sospettare uno pseudonimo dell’enigmatico F.M., che, preso da un accesso di modestia, avrebbe voluto figurare unicamente come traduttore. Un poeta ignoto, dunque. Verrebbe voglia di stabilire un premio a favore di chi sapesse darci qualche lume in proposito. Tre chili di caramelle, o tre bottiglie di vino di Porto. Non desidererei di meglio che vedermi preso in giro da parte di un competente. Credo che nessun poeta moderno abbia mai saputo esprimere con più intenso lirismo l’angoscia, la desolazione del «sentirsi nulla». Pensavo a un anglosassone per una segreta familiarità con la Bibbia che la poesia rivela: sembra risuonarvi, nel profondo, una eco dell’Ecclesiaste. Accostando alle più belle cose della vita la parola «nulla», le fa meglio vibrare e brillare di tutti i loro sensi, colori e suoni destinati a dissolversi nell’inesistenza. Così il fiore, il
colore della spiga, la pupilla degli adolescenti, la «carne scavata dal nulla come un paese bianco dalla sera». Gli stessi poeti «che dissetano l’ozio stillando il miele delle favole», sono destinati a precipitare nell’abisso. Leggiamo, dunque, e ripetiamo con l’irreperibile
Balthasar Salins: E così scrivi senza disgusto tu che cresci sul nulla come la piccola piaga [sulle labbra accanto a tutte le cose la parola nulla.
1973
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TESTIMONIANZA SU SOFFICI
La mia testimonianza non ha carattere personale. Non ho quasi conosciuto Ardengo Soffici, incontrato fuggevolmente ad un paio di sue mostre, negli an-
ni tardi. Posso invece dire dell’importanza che, nel gruppo dei nuovi scrittori, Soffici ebbe negli anni della nostra adolescenza, di noi giovani nati intorno all’i-
nizio del nuovo secolo. Finito il periodo dei rimasticaticci scolastici, usciti dalla breve, ma intensa scar-
lattina dannunziana, la «Voce» e poi «Lacerba» ci aprirono al mondo della poesia e dell’arte nuova, di una «modernità» prima insospettata, che, aprendoci fra l’altro la via verso i francesi ultimi, veniva a
spiegare davanti ai nostri occhi i suoi fascini inediti. Soffici esercitò, per noi, una funzione insostituibile,
anche per quel suo particolare spirito di chiarezza didattica e polemica, che gli fu riconosciuto. Saggi poi raccolti in libri come Scoperte e massacri, Statue e fantocci, che giungevano a demolire fame consacrate. e a rivelarci nomi del tutto nuovi, furono fra le no-
stre letture più vivaci di quegli anni. Né possiamo dimenticare che la nostra prima conoscenza di Rim-
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baud avvenne attraverso il suo libro. Parlo, natural-
mente, di una prima spinta, negli anni fra il 1915 e il 1920. Più tardi, riandammo su parecchi suoi giudizi, procedendo per conto nostro: ma il debito verso di lui persiste fino ad ora. Se mi provo, a distanza di tanti anni, e trascurate
le velleità di critico d’arte, di un tempo, a riconoscere un'immagine del Soffici della mia giovinezza, penso a lui come a un ideale mediatore, teorico e «pratico», della cultura italiana con l’arte nuova nata e cresciuta a Parigi. Se ricontemplo le riproduzioni dei suoi quadri d’allora, da quelli dipinti al principio del secolo fino al periodo futurista incluso (che per lui, a rigore, fu più cubista che futurista), penso a un fortunato originale innesto fra Cézanne e la tradizione toscana. Così come i suoi libri che risfoglio più volentieri appartengono allo stesso periodo. Questo è rimasto il «mio» Soffici. Per dopo, risento, con un considerevole
sbalzo temporale, la
punta di delusione che provò aprés-coup il suo amico Sbarbaro, quando andò a trovarlo dopo il suo ritorno dalla guerra, e ci lasciò il ricordo di quella visita in una pagina memorabile di Liquidazione. Tanto il Soffici successivo, il «novecentista», e quello più tardo, rimase senza dubbio un pittore (e uno scrittore) di rilievo, anche dopo essersi unifor-
mato al rappel à l’ordre, e degno di figurare in buona luce nelle storie dell’arte moderna. Ma preferisco lasciare il discorso agli storici e critici competenti. 1975
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ARNALDO DI BENEDETTO: «GRAFFITI MERANESI»
I versi che presentiamo ai nostri lettori sono dovuti a un eccellente italianista, studioso del Tasso e dell’Alfieri, introduttore e curatore di un bel volu-
me dedicato alle prose del Della Casa, nonché autore di un altro libro, Stile e linguaggio, che va dalla Nen-
cia di Barberino, attraverso poeti e prosatori d’ogni secolo, fino ai modernissimi. Il fatto che un cattedratico universitario, e un cri-
tico di vaglia, sia anche un poeta, mi sembra un buon segno. Soltanto un critico e storico della letteratura, che ha esperimentato tutte le forme della poesia altrui, è in grado di controllare e di approfondire la propria. Ma si ingannerebbe chi, pensando ai versi di un professore, s’aspettasse di trovarsi di fronte a pur degnissime cadenze classicheggianti, e comunque mémori della tradizione. Al contrario, la poesia di Di Benedetto è decisamente moderna. Da essa trapelano esperienze complesse, quali possono essere quelle di un tirolese nato da genitori casertani. Il giovanile soggiorno in Tirolo gli ha permesso di im486
parare in modo eccellente la lingua tedesca. Si legga nei Graffiti meranesi: Christel pattinatrice tracciava i suoi arabeschi ogni sera, d’inverno, in una luce gialla.
L’ombra sul ghiaccio scivolava svelta. Apprendisti e campioni come potevano con noncuranza passarle accanto, anche parlarle, ognuno
chiuso in un suo gioco privato?... E difficile trovargli delle parentele. Forse Erba, cui ha dedicato alcuni studi nel già citato Stile e linguaggio. E certamente anche Montale, padre di tutta la poesia moderna. L'influenza di Erba trapela nella poesia In provincia: Pallida, bionda, un po’ d’ombretto agli occhi,
sedeva nel giardino del Municipio attenta al ricciutello nipote che correva
sulla ghiaia sonora sotto 1 tigli... Di Benedetto si distingue anche nella nota sentimentale, come nel Baiser de la fée, con l’evocazione
finale della giovane sposa mugnaia che può far ricordare un racconto svizzero di Gottfried Keller; e,
soprattutto in Stazione centrale, dove, assistendo alla partenza dell’amata, la vede dietro al finestrino del
treno come una «farfalla sotto vetro» e «forse immagine / della morte che guardi silenziosa» (e si riaffaccia l’antico tema leopardiano di «amore e morte»).
Ma in tutta la sua poesia, sia nei suoi richiami culturali, sia nel voluto presentarsi come un provinciale, trapela spesso, direi quasi sempre, un accento ironico — anche come difesa dalla nota sentimentale. Un altro dei meriti della poesia di Di Benedetto è la vastità della cultura che vi è sottesa. Conoscitore 487
di varie lingue, dell’inglese e soprattutto del tedesco. Nella sua Variazione sul tema risveglio, ad esempio conclude col titolo del miglior dramma di Ernst Toller, Oplà, noi viviamo!, o, in Turismo di massa, cita G.A.
Borgese, e assume a poesia il ricordo di una lettera di Modigliani un tempo letta a proposito di un ciliegio di rue Lepic. Il Di Benedetto che, come abbiamo visto, è anche
un critico e uno storico della letteratura, appartiene, come Valéry, alla razza dei poeti autocritici. Si vedano Quasi una poetica, e Miei versi. In Quasi una poetica c’è una punta di civetteria in queste asserzioni: Scrivere per chi mente, per chi anche un’unica volta ha mentito. Perché la poesia non sia conoscenza ma gioco. Per chi rincasa, la sera, stanco
perché ha lottato con l’angelo, come ogni giorno, [e l’ha messo al tappeto (la vittoria è sempre più facile) ancora una volta. Così in Mîtei versi, ma con un senso di dolente serietà: Miei versi non nati per analisi crociomarxiste, storiciste o strutturaliste. Sola traccia, forse, del mio transito nell’hic et nunc...
Vediamo nel Di Benedetto un’originalità nativa. Le influenze, già accennate, sono lieve cosa di fronte al nucleo di una ispirazione che nasce diretta-
mente dalla vita, come sempre la poesia vera, non ricopiando la realtà, ma rivivendola e trasponendola dall’interno dell’anima. mo
Naturalmente, a voler sofisticare, ci troveremanche i suoi difetti. Si rivelano, a volte, nel-
l’inserzione letteraria (in senso verlainiano) sulla
genuinità della sensazione. Ad esempio i suoi ri488
chiami culturalistici, che pure abbiamo dianzi lodato, hanno talora un sapore leggermente esibizionistico. Il Di Benedetto è un giovane, se anche da lungo laborioso nel campo della poesia (una della presente raccolta è stata scritta a sedici anni). Si può avanzare l’augurio di una continuazione sulla linea intrapresa, e di trovarci un giorno di fronte a un poeta di primo piano. 19977
489
LUCIANO MARRUCCI: «LUCI DEL SAGITTARIO»
Fra le poche gioie che possono essere concesse ad un critico, è senza dubbio la scoperta d’un poeta del
tutto inedito. Quando, nel 1973, presentai Luciano Marrucci nell’«Almanacco dello Specchio» mondadoriano, provai una di quelle soddisfazioni. Ora di
buon grado mi accingo a riprendere il mio discorso per introdurre il lettore al suo primo volume di ver-
si, che porta il bel titolo di Luci del sagittario. Circa la scelta di questo titolo Marrucci mi fa presente alcune annotazioni che il sottoscritto, profano com'è di scienza ritualistica, non può che trascrive-
re tali e quali: «Sagittario (o Saittia) è un rudimentale
candela-
bro su cui vengono infisse 15 candele corrispondenti ai 15 salmi che venivano recitati nella vecchia li-
turgia della settimana santa. Recitato un salmo, veniva spenta una candela e così fino a che non si faceva buio assoluto in chiesa». Marrucci mi fa altresì osservare che le sue poesie
non sono disposte in ordine cronologico, come si potrebbe dedurre dalla distribuzione in quattro par-
ti, ma che si tratta piuttosto di situazioni tematiche.
490
Anzitutto, occorre fornire qualche dato biografico: Luciano Marrucci è nato a San Miniato nel 1929. Ha studiato in seminario, rivelandosi presto uno scolaro eccezionale.
Una educazione
formalistica,
seppure condotta con criteri moderni, desta nel giovanetto, per reazione, più larghi interessi di ca-
rattere sociale. Più tardi, compiuti gli studi teologici superiori, si laureerà a Roma,
magna cum laude,
con una tesi sugli stupefacenti e il comportamento umano. Come egli mi scrive «fu l’inevitabile crisi di tutto ciò che avevo costruito in me. Ritornai più umile e più vero». E probabile che, anche tenuto conto degli studi compiuti in seminario, fosse anche scritto, nella li-
nea più profonda del destino, che Marrucci dovesse prendere gli ordini. Tuttavia, nella sua stessa poesia, si rivela un gusto avventuroso, un interesse per gli aspetti più diversi della vita, che sembrerebbero male accordarsi con una vocazione esclusiva, di raccoglimento e di contemplatività,
o magari di azione a
direttiva unica. Di come tale vocazione ebbe a determinarsi, durante un viaggio in Africa Orientale alla ricerca del padre, racconterà forse un giorno egli stesso. Attendeva Don Marrucci una carriera d’insegnante. Già prima aveva insegnato per sette anni, in seminario, italiano al ginnasio superiore, logica e psicologia teoretica al liceo. Nel 1963 venne a Milano, dove insegnò religione nei licei. Infine accettò una parrocchia di campagna, Moriolo, presso San Miniato, il paese natio, dove, a quanto egli scrive «ho
ritrovato l’orticello di cui parla Voltaire in Candide» e «tiro avanti le mie viti e i miei ulivi». Quel «San Miniato al Tedesco» caro ai ricordi carducciani:
«Oh,
come strillavano le cicale...». Natura socievole e ricca d’iniziative, Luciano Marrucci è, fra l’altro, un appassionato del libro. Non voglio qui accennare alle sue vaste letture, antiche e mo-
derne, ma proprio alla attività editoriale che Egli svol49]
ge con la collaborazione di altri appassionati all’insegna «dell’Orcio», volumi di lusso in bella stampa, arricchiti da illustrazioni di amici incisori e pittori. Nella poesia di Marrucci si legge in filigrana il destino del poeta. Essa dà al lettore un curioso senso di genuinità,
di nature, qualcosa come
l’idea di una
poesia terrosa, nata dalla zolla su cui cresce l’ulivo e la vigna in cui si scava la fossa funebre. Non sono chiari i suoi precedenti. Indubbiamente sono riconoscibili ricordi classici e biblici - più come sostanza che come forma — mentre appaiono meno chiari i suoi precedenti moderni. Dall’uso costante del verso libero, si deduce la conoscenza dei poeti contem-
poranei. Non so se Leopardi sia tra i poeti di Marrucci. Certo, l’eco non vi si risente. E tuttavia nei suoi li-
miti, anche la poesia del nostro, come la poesia di ogni tempo, è una poesia d’amore e di morte. Mi parve, appena la lessi, che avesse qualche sin-
golare parentela con quella di Jude Stéfan, il poeta francese di cui prossimamente uscirà un libro di traduzioni curato da Perla Cacciaguerra. Lo stesso Marrucci si è riconosciuto in alcune delle sue liriche in un poeta che non aveva mai letto. Ci sono differenze fondamentali. Anzitutto Stéfan appare un poeta «dotto», formicolante di reminiscenze letterarie e pittoriche, esperto probabilmente, come il nostro, di lingue antiche e di poesie antiche, ma anche di poesie moderne. In Marrucci, al contrario, se anche vi sono reminiscenze, sono così ben di-
gerite e assimilate da non farsi sentire. Anche per questo egli dà l’impressione di un poeta nature. Inol-
tre, la poesia di Stéfan non rifugge da toni di accesa carnalità, da cui, ovviamente, si astiene il prete italiano. Terza differenza: la poesia di Marrucci è profondamente impressa alla speranza cristiana, mentre quella di Stéfan al senso di un definitivo nulla. Ciò che li accomuna è soprattutto il sentimento della morte. Tout n’a-t-il pour fond le noir de la mort?, si 492
chiede Stéfan. Nella sua poesia sono frequenti i neri filari di tassi e cipressi, gli «alberi del vero» ancora in piedi e domani destinati a cadere, come gli uomini stessi, in quel «gioco di birilli» che è il processo medesimo della vita: Cyprés arbres amers comme des màts de Charon signalant la chiourme dans la plaine sans fin des tombes aux Enfers acheminant leurs ombres... Sembra fargli eco Marrucci, nella breve poesia Cipresso, priva però dell’amaro sarcasmo pagano del francese, bensì imbevuta di cristiana pietas: Non calpestare l’ombra dei cipressi a mezzogiorno;
è un gorgo profondo, è un baratro nero
a mezzogiorno.
O si pensi al Dies îrae, sia pure personale, cui s’intitola una delle poesie qui contenute. Ma, al polo opposto, l’amore, sia pure evocato in
castissimi accenti, come nella bella poesia Umido fiore della primavera: Non posso toccarti con le mie dita intrise di bava di piccoli nati e schiuma dei morti. MS asi Posso solo guardarti,
umido fiore della primavera, ed aspettar che asciughi dai tuoi cigli la rugiada,
umido fiore della primavera. Quindi il Marrucci animalista, come, nei suoi ricordi abissini, l'apparizione del branco di gazzelle sorprese
nella foresta vergine:
«Ma come
vidi neri
disegni / sugli occhi bistrati di donna...» col doppio doo
senso finale di «una terra proibita e profanata». O il cammello, il mite animale cui per un tratto si lega il by destino del poeta (A/ cammello) .
O il Marrucci viaggiatore, nei viaggi estivi che usava compiere come cappellano sulle navi-passegger!, viaggi cui lo sospinge la sua natura avventurosa d’artista,
e durante
i quali, paradossalmente,
si sente
soffocato nella rete implacabile dei meridiani e dei paralleli. Ancora una volta, la poesia di Marrucci nasce dalla vita, e pur nelle sue trasposizioni immaginose, fa tutt'uno con la sua vita. Questa poesia è, e non è, una poesia religiosa.
Non lo è, per il suo disperdersi fantastico, implicante un assecondare i più diversi aspetti della natura e della vita. Lo è invece, e profondamente, per il suo
senso della morte e della resurrezione. Vien fatto di raffrontarla ad esempi moderni di poesia religiosa. Se la memoria non m’inganna, scar-
si essi sono in Italia nel corso dell’Ottocento. A parte quello grandissimo del Manzoni, penso al Tommaseo e allo Zanella, nonché al debolissimo Giulio Salvadori. Nel nostro secolo, oltre a qualcosa di Un-
garetti, abbiamo principalmente quello, supremo, di Clemente Rebora, e l’altro di Carlo Betocchi. Ma, quanto a Marrucci, mi verrebbe piuttosto fatto di avvicinarlo, per la freschezza del risalto coloristico, al
gesuita inglese G.M. Hopkins, e alla sua Pied Beauty, così egregiamente tradotta dal nostro Montale (La bellezza cangiante). Anche Marrucci loderebbe Iddio per «i cieli bicolori, pezzati come vacche, / la striscia roseo-biliottata della / trota in acqua...», e «tutto ch'è / fuor di squadra, difforme, impari e strambo...».
Ma nulla, in Marrucci, della pacata contemplatività dell'inglese. La poesia del nostro resta, nel suo fondo, spasimosa, tragica. Inoltre, nulla trapela in essa
di una raffinata letterarietà come quella che Hopkins apprese a Oxford. Anche il suo colore rimane spontaneo, per così dire paesano. Al suo fondo l’odore persistente della zolla genitrice.
494
P.S. Da una lettera di Don Marrucci trascelgo alcuni pensieri sul suo modo di poetare: «Tutti possono essere poeti: si tratta solo di esprimere in un linguaggio originario i momenti forti della propria esistenza». «Originario non sta per originale e nemmeno per primitivo, per me significa soltanto autentico». «La formazione culturale, positiva quando serva ad affinare la nostra sensibilità e a dilatare la nostra conoscenza, è negativa quando porta a costruirci una maniera o a riferirci ai contenuti che valevano per altri». «Niente è così espansivo quanto ciò che è incomunicabile». «La poesia non è un prodotto grafico, un’ostentazione di dati culturali, pretesto culturale, manipo-
lazione lessicale, o trasposizione semantica. «E absoluta parola. Intuita dall'uomo e pronunciata dall'uomo,
percepita e trasmessa
— comunicata
nell’emozione lucida con cui è stata percepita. «Narra ciò che la prosa descrive, descrive ciò che
la prosa narra: ecco perché, mentre può essere l’espansione lirica della prosa, questa ne è il compimento e l’elaborazione razionale, infatti è in grado di sviluppare le cesure di silenzio proprie del primo linguaggio». «L'intervento dell’intelligenza ha un senso nella poesia in quanto confluisce in una emozione che ne risulta sostentata. La stessa elaborazione ha un senso in quanto mira a tradurre un contenuto nella forma più originaria e in quanto porta ad una maggiore spontaneità». «Un’emozione si può descriverla senza trasmetterla. Per farlo occorre ricrearla in noi attraverso un'esperienza interiore». 1977
#05
ORESTE FERRARI: «ARIADNE»
Ho conosciuto Oreste Ferrari nell'ambiente della Banca Commerciale Italiana, dove, per le sue speci-
fiche doti di germanista, collaborava all'Ufficio Studi, compulsando diligentemente libri e riviste tedesche di economia. A quel tempo dirigeva l'Ufficio Studi Ugo La Malfa, e Ferrari fu uno dei primi aderenti al Partito d'Azione: di lì a poco, avrebbe partecipato attivamente alla Resistenza. Posseggo un suo volume, Liriche di Goethe, con una gentile dedica, edito da Ricciardi, con testo a fronte,
dove il poeta tedesco appare tradotto con irreprensibile competenza e finezza. Posseggo altresì le sue traduzioni delle Poesie dî Nietzsche, nonché una eccellente versione del Werther di Goethe, in un libret-
to comparativo in cui la narrazione goethiana è posta a raffronto con Le ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo, che ne è, pur con fondamentali differenze, una riconosciuta derivazione. Raffaele Mattioli, che aveva in alta estimazione Ferrari, volle ancora una volta essere suo editore, e, così come aveva accolto le liriche goethiane, accolse
una rarità:J.Heinrich Jung-Stilling: Giovinezza di En496
rico Stilling, anch’esso edito da Ricciardi. Il libro venne prefato dal vecchio gentiluomo napoletano Riccardo Ricciardi in persona. Ricciardi, fondatore del-
la Casa, intitolò la sua prefazione Omaggio a Goethe editore. L’opera venne da me recensita ne «La Gazzetta del Popolo», con titolo Un amico di Goethe, e il mio
scritto gli fece piacere. Un libro che meriterebbe una ristampa, perché senza avanti né dopo, opera unica dell’ex sarto Stilling — una sorta di romanzo autobiografico — che venne edito da Goethe, con opportuni emendamenti, e, dopo di lui, piacque ai ro-
mantici e a Nietzsche. Volontario trentino, amico di Cesare Battisti, Fer-
rari mi condusse una volta in casa della vedova Battisti, la quale mi raccontò di aver conosciuto mio padre a Firenze nel lontano 1898. Il comune antifascismo e l’amore per le cose letterarie non potevano che suscitare tra di noi una spontanea simpatia e amicizia. Uomo di spirito e di compagnia, Oreste Ferrari era ricercatissimo alle mense degli amici. Sapeva raccontare con vivacità episodi e circostanze della propria vita e degli ambienti conosciuti. Ma singolare è il destino delle esistenze. La Moira crudele infierisce ciecamente senza distinguere fra innocenti e malvagi. La sciagura si abbatté di colpo sul povero Oreste, che si trovò annientata l’intera famiglia (che conoscevo bene, frequentando io la casa del pittore Cesare Tallone, di cui la signora Ferrari era figlia, e la «Bottega di poesia» del cognato Enrico Somarè). Moglie e figlia perirono nel bombardamento di Alpignano, dove si trovavano sfollate. Il figlio che gli restava, Mimmo,
precipitò in un
burrone nel tentativo di traversare le montagne per trovare scampo in Svizzera dalla infuriante persecuzione nazista. 497
Così Oreste rimase solo, fulminato dalla atroce fa-
talità. Per anni si sforzò di reagire e di lavorare. Lo soccorse la sua lucidità di intellettuale, e il lavoro dette buoni frutti, come si vede dalle sue traduzioni e dalle sue poesie. Cercò consolazione nella musica;
ma il sorriso era morto sulle sue labbra. Andato in pensione, lo trovavo qualche volta, uscendo di Banca: ma provavo una penosa impressione vedendolo in condizioni di così pauroso abbandono e smarrimento. Mi accompagnavo ancora con lui a prendere l’aperitivo, riannodando le con-
versazioni di una volta. Seppi solo più tardi che era morto in un ospedale a Bellinzona. Le poesie che offriamo al lettore rappresentano l’ultima difesa di un’anima che si sforza di ritrovare una estrema luce di speranza. Queste liriche, come si vedrà, sono ispirate a un sogno d’amore ideale e in esse ritornano le qualità della sua prima poesia, naturalmente aliena dalle formule modernistiche oggi in uso, e piuttosto memori, nel loro decoro formale, delle sue ampie frequentazioni letterarie, so-
prattutto di Goethe e Heine. Delle sue liriche pubblicate da Alberto Tallone, mi piace riportare la seguente, in cui il dramma individuale appare trasposto in un’immagine simbolica di squallore autunnale: Alberi d’autunno
Oggi la mia tristezza sono gli alberi d’autunno, all’acquivento
che li squassa e li spoglia. Dentro di me ogni foglia, che si stacca dal ramo sotto il lento gocciare della pioggia, cade come una sillaba del tempo fugace, che segnala ormai l’avvento dell’autunno perenne. 498
E, tra le ultime, anch’esse ricche di armonia nella loro cadenza elegiaca, offro a titolo di esempio, la xVII della sezione Scherzi e malumori di Dioniso:
Vivi sempre in attesa che appaia sul quadrante l’ora unica; bruciante, che ti colga indifesa,
e in cui possa aver sfogo l’antica nostalgia di evadere, e tu sia
sottratta al tristo giogo. 1977
499
ALBERTO VIGEVANI: «FATA MORGANA»
Credo di aver letto quasi tutti i libri di Vigevani. Rammento,
fra i più lontani, oltre Estate al lago, Un
certo Ramondès, che mi colpì perché resuscitò straordinariamente ai miei occhi certi ambienti letterari milanesi dell’immediato anteguerra, che io stesso avevo frequentato. Per quanto scritto dopo, il libro è tutto pervaso dal senso dell’imminente catastrofe. Certo, la letteratura di Vigevani non appartiene al gusto sperimentalistico di moda oggigiorno. Potrebbe invece definirsi, secondo una denominazione della critica di ieri, ispirata ad una poetica «della memoria» (ad esempio il primo Bonsanti, il primo
Bilenchi). Si potrebbe pensare, iniziale scaturigine, a Proust, padre, diretto o più spesso indiretto, dei fi-
loni di narrativa moventesi intorno al recupero dei ricordi, in un’aura estetica di ritrovamento e di vita
rivissuta. Ma l’Italia aveva avuto Nievo, e più di recente Svevo, che dovrà magari qualcosa a Joyce, ma a Proust mi pare nulla. Si tratta di semplici points de repére (molta acqua è passata sotto i ponti dal tempo delle «intermittences du coeur»).
Il precedente romanzo 500
di Vigevani —- o meglio
trittico di racconti fra loro legati dal filo autobiografico —, La Lucia dei giardini, bagnava appunto in questo clima di rievocazione interiore: vi si muovono personaggi dell’infanzia dell’autore, tra cui una fantesca — diversa certo dalla eroina del flaubertiano Un coeur simple—, colta nella sua fondamentale innocenza e bontà popolana, quasi in contrasto con l’artificio del mondo borghese. Ma alla «poetica della memoria» appartiene anche il nuovo romanzo, Fata morgana, dedicato alla fi-
gura della madre adottiva dei suoi primi anni. Vi ritrovo i profili di una Modena più giovane di quella che
ho
conosciuto
da bambino,
ma
una
Milano
identica a quella che ho preso ad abitare poi. Un «album di famiglia» inquadrante i nonni, prozii, fratelli, e le loro storie individuali, a volte tragiche. Ma, su tutto, domina il romanzo l’incantevole fi-
gura della madre adottiva, che il figlio, con penna pietosa, accompagna dai primi ricordi fino alla morte, rivolgendosi a lei con un «tu colloquiale». La «fata morgana» che la madre-fata suscita agli occhi dello stupito bambino, riappare sulla tomba dopo la sepoltura, assieme ai fantasmi della folla dei morti, parenti o no. Così si chiude il romanzo, forse il più poetico che Vigevani abbia mai scritto. 1978
501
DARIA MENICANTI: «POESIE PER UN PASSANTE»
Nella lirica moderna possono distinguersi due filoni principali. L'uno, cosiddetto «sperimentalistico», che, a dire il vero
(data anche l’età del sotto-
scritto) mi persuade solo fino ad un certo punto. Per quanto ingegnoso esso possa apparire, e per quanto occorra talvolta tener conto delle sottese intenzioni di genere politico-satirico, mi sembra, più che altro, di «maniera» e di «giochi». L’altro è quello della poesia d’ogni tempo, dai primi lirici greci fino a Leopardi, nei suoi poli fondamentali di amore-morte. La lirica di Daria Menicanti appartiene a questo secondo filone. Mi colpì, fin dal suo primo libro, Città come, L'Antenata (la statua di un museo etrusco). In essa, l’idea
della morte (il fatale divenire di pietra) insinua nel lettore un sottile brivido, che è il brivido dell’auten-
tica poesia. Quella impressione favorevole
continuò col se-
condo libro Un nero d'ombra. Anche
lì, nessun
gra-
tuito ermetismo, ma «un cuore messo a nudo» (per usare un'espressione di Baudelaire). Si continua nei 502
medesimi poli di amore-morte. Potrei citare, ma le citazioni a che servirebbero? Ma dove la Musa della Menicanti fa la sua prova più alta è in quest’ultimo, di cui ho sott'occhio le bozze, Poesie per un passante. Qui gli estremi di attesa dell’amore e di vertigine della morte, toccano il loro apice, con una punta di strazio. Mi pare, se non vado errato, che ci sia un ritorno ai modi della sua prima lirica (Città come), cioè estre-
mamente semplici, con la rinuncia anche all’accenno politico (il massacro degli ebrei), che trovavamo in Un nero d’ombra. Naturalmente la sua vena, attra-
verso gli anni, s’è fatta più esperta. I primi critici, per la poesia della Menicanti, hanno avanzato e giustamente, i nomi di Saba e di Sandro Penna. Anche qui, evito le citazioni, perché il lettore po-
trà cercare da sé la lirica in cui meglio si esprimono i due poli cui abbiamo accennato. La mia conclusione è un ritorno al principio. La poesia di Daria Menicanti, priva degli strombazzamenti critici di cui godono invece normalmente i poeti del primo filone, pare a me, nella sua nuda semplicità e sincerità, una delle più vive e schiette dei nostri giorni. 1978
503
GIUSEPPE MESIRCA: «TACCUINO D’ORIENTE»
Giuseppe Mesirca, narratore e saggista su cose d’arte, ci offre in questo Taccuino d’Onente una sin-
tesi persuasiva delle suddette qualità. I ricchi e coloriti sapori delle regioni thailandesi, indonesiane e singalesi paiono fatti apposta per tentare il suo duplice estro. E la frase, insieme sinuosa e vivace, si svi-
luppa armoniosamente nella attenta descrizione, paesistica e di costume. In questo viaggio in Oriente, egli si sofferma soprattutto a Bali e a Ceylon, la odierna Sri Lanka,
l’«isola splendente», a suo tempo meta di pellegrini buddisti alla ricerca del gigantesco «dente di Buddha»
colà conservato
(si veda il romanzo
del
monaco cinese Wu Ch’èng-én: Lo Scimmiotto, risalente al °500, e il pellegrinaggio di Tripitaka in India, sulle orme del Buddha). Ed è alla figura del Principe indù, la cui commo-
vente storia aveva già rapito d’incanto Marco Polo, che il volumetto
del Mesirca viene dedicato, a co-
minciare dalla prima pagina, dove è riprodotta una lirica di Hermann Hesse, ispirata al poeta tedesco dal rinvenimento in una forra boschiva giapponese 504
di un’antichissima immagine, scolorita dalle piogge e dalle intemperie, raffigurante il divino Maestro. Siamo lieti di presentare al lettore questo libro, in
cui una narrazione di viaggio (ben diversa dalle attuali, dettate più che altro da vano compiacimento autobiografico), è trattata con profonda comprensione dei paesi visitati, e con autentico spirito di poe-
sia. 1979
505
VICO FAGGI: «CORNO ALLE SCALE»
Vico Faggi è lo pseudonimo di un magistrato di alto grado. Ma egli ha molte corde al suo arco. E noto come traduttore di tragedie classiche e autore di opere teatrali. Tra i suoi drammi ricordiamo /l processo di Savona del 1965 e Un certo giorno di un certo anno în Aulide del 1966 e inoltre i due scritti in collaborazione con Luigi Squarzina: Cinque giorni al porto e Rosa Luxemburg (quest’ultimo del 1975, egregiamente
svolto in modo
moderno,
con
continui
flashes deliberatamente intercalanti volta a volta passato e presente, ha ottenuto il meritato successo nella rappresentazione scenica).
Cultore di letteratura, Vico Faggi condirige la rivista ligure «Resine» sulla quale ha anticipato anche alcune sue liriche. Come poeta tuttavia è solo con questo Corno alle Scale, che egli si presenta per la prima volta al pubblico. Sì tratta di una raccolta che abbraccia un lungo periodo: dai versi ispiratigli dalla esperienza partigiana che ha lasciato in lui una traccia indelebile,
ravvisabile anche nell’impegno civile del suo teatro, fino alle composizioni degli anni più recenti. 506
Pur trattandosi d’una esperienza così protratta nel tempo, colpisce in essa una fondamentale coerenza di stile, che, partendo da un gusto classico di
base, ovunque presente nella esigenza di una forma semplice e nitida, si svolge in movenze
e metri mo-
dernamente liberi, o nella ricerca di un linguaggio in cui si fondono gli elementi di una cultura composita (dai classici greci e latini) alla lezione dei più autorevoli autori moderni. Tra le caratteristiche principali della poesia di Faggi è il vivo senso del paesaggio, non già in funzione descrittiva o pittorica, bensì rintracciato fra le pieghe dell’anima sulle orme del passato. Si veda ad esempio Pieve di Paule in cui alle immagini presenti si sovrappongono quelle dell'adolescenza e della giovinezza: ... Le bagnano cieli nascenti da triplice evo. Adolescente lo vedo, poi giovane, e oggi.
Mentre lo stesso Corno alle Scale (monte a cui il
libro è intitolato) gli detta versi intrisi di nostalgica memoria: A sud la luce la neve modellano il Corno alle Scale che irridente luccica... (lt)
Su sterpi e stocchi impervio incredibile cielo
colore di nostalgia. Il ricordo si fa desiderio. Principalmente dalla memoria, infatti, scaturisce la vena del nostro autore, dalle commosse evocazioni di Dalla casa paterna a Via Emilia, secondo una
poetica che appare riassunta in Città dei ricordi: La pietà, l’ira, l'ironia mi dettano parole, mi riportano
507
(mia città dei ricordi)
gli anni perduti, i non perduti giorni e i volti, i fatti, gli attimi in cui la vita scorse,
si rapprese, tremò. Le parole trascrivo fedelmente,
il senso ne indago. Mi risponde: altro senso non ho che questo mio fluire. In questo controllato libretto il poeta ha appunto rispecchiato il fluire della propria esistenza, da cui emergono gli imperativi morali che ne hanno regolato il corso: Non serviam, dissi, non. Non serviam, non serviam ripetevo, giurando ripetei...
(Il giovane V.F.) fino all’ Examen, che costituisce la penultima sezione
della sua raccolta poetica, dove l’autore si riscopre ... Non
portato al comando, all’ubbidire renitente.
AI di sopra del variare delle mode, che riducono
la poesia a giochi di stile artificiosi e programmatici, la poesia di Faggi si staglia per la propria sofferta e vitale autenticità. 1981
508
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VOLONTÀ CLASSICA DEL NOVECENTO
Ritorna sempre attuale la vecchia tesi che si compendia nel titolo del noto libro — noto più che letto — di Gina Martegiani: // romanticismo italiano non esiste... Potrebbe forse meglio dirsi che il romanticismo italiano è bensì esistito, ma in forme misurate e dominate, necessariamente contenute in quei delicati limiti che sono il vanto, e insieme l’impaccio, della
nostra tradizione letteraria. Basti pensare, per dir tutto, che il fiore estremo dell’idealismo romantico
s'è dischiuso tra noi in una filosofia come quella di Benedetto Croce, che per tanti versi ben possiamo definire classica. Presso altre nazioni, dove la rivoluzione romanti-
ca non ha trovato così resistenti e istintive arginature, il problema d’una classicità moderna si pone di tanto in tanto con una acuità ben più sensibile: talora, con l’affannosa esigenza d’una via di salvazio-
ne, quanto più le aspirazioni ad un ordine si trovano ad essere minacciate da novelle insorgenze romantiche, vadano esse sotto il nome di surrealismo, esistenzialismo o altre etichette. La Francia ripren-
de ora la polemica razionalistica e classicistica di un 511
Benda; mentre è appena tramontato all’orizzonte, inimitato e probabilmente inimitabile, l'esempio di
classicità paradossale della poesia di Valéry; mentre alcuni persistono ancora ad aggrapparsi alla navicella del «buon senso» artigiano e proletario di un Alain, e Gide offre ancora, in, cambio di una delica-
ta e bene educata anarchia morale, le grazie di uno stile e le forme di una meditazione impressionistica, temperate, le une e le altre, sui più eletti moduli tra-
dizionali. Son tutti scrittori di ieri, ché i giovani appaiono divincolarsi alle nuove ventate che fiatano dall’abisso, ma
c’è sicuramente
da attendersi che,
per una via o per l’altra, l'esigenza di un approdo, di una terraferma
torni ad affermarsi.
In Inghilterra,
un esempio di questa esigenza può trovarsi incarnato nell’opera, e particolarmente nell’opera critica,
del poeta T.S. Eliot. Americano di nazionalità, formatosi nel clima del-
la poesia degli îmagisti, era naturale che Eliot dovesse risentire fortemente l'influenza simbolista, spiegatasi nei paesi anglosassoni, come del resto da noi, nei due primi decenni del secolo. Essa per lui s’era identificata in modo particolare nell’ironia stremata e sorridente di Laforgue, in quell’agra voce d’elegia umoresca e composita che il poeta, presago della sua morte giovanile, si era compiaciuto di far echeggiare su di un mondo inerte, da domenica provinciale, inutilmente roteante in un universo privo di
senso, quale gl’ispiravano le desolate filosofie orientaleggianti di Schopenhauer e di Hartmann. E fu l'esempio anche formale di Laforgue, addizionato a quello degli imagisti e alle reminiscenze delle splendide e nere crudezze degli ultimi elisabettiani, che
spinse il giovane Eliot a bruciare le tappe, e a portarsi, nel giro di pochi anni, attraverso una combustione
dei modi consueti, ad una poesia d’apparenza prosastica, spezzata, piena di cose, d’allusioni, di riferimenti, d’accidentalità, priva di legamenti logici e di-
scorsivi, addensata nel particolare suggestivo e nella 512
.
sfuggente allegoria. Insomma, una poesia che più tardi egli definì nella ricerca di quel correlativo obbiettivo del sentimento e del pensiero, ottenuto mediante l’evocazione diretta, e consistente in «un di-
chiararsi di eventi in azioni umane o in oggetti del mondo esterno» che l’emozionesstessa siano atti a ridestare. Egli finirà anzi col mettere, paradossalmen-
te, questa forma di realismo evocativo addirittura sotto il segno di Dante. Ma, lasciando agli specialisti un’analisi particolare della poesia di Eliot, dei suoi svolgimenti e dei suoi aspetti più propriamente estetici, quel che per ora ci interessa è il senso, l’umana portata del suo messaggio. La disarticolazione del linguaggio poetico tradizionale, le fratture, le brusche trasposizioni, le ana-
logie distanti - comuni a tanta lirica d’oggi - sono in Eliot, più che in qualsiasi altro poeta moderno, rivelatrici, sotto l’aspetto stilistico e tecnico, di un atteggiamento fondamentale di critica e di negazione dell’esistenza moderna. Come ha ben osservato Luigi Berti, il poeta «presenta il caos del mondo e dell’anima col caos sapiente e calcolato d’un metodo poetico». Il rifiuto del mondo è il primo atto della lirica di Eliot, fino dal giovanile Love Song ofJ. Alfred Prufrock. La stanchezza ironica di Laforgue aveva operato alcunché di simile, allorché rievocava, negli accenti distaccati della cantilena e della complainte, il
pallore di agghiaccianti prospettive cosmiche, la povera fisiologia dei sentimenti umani e il pauroso automatismo d’una realtà senza scopo. Ma spesso, no-
nostante le difese del tono prosastico e fumiste, ripiegava su posizioni di malinconia romantica, di provenienza heiniana, o attutiva il suo mordente in
una vaga ebbrezza verbale tra popolaresca e giornalistica. Insomma Laforgue, a parte l’indiscutibile altezza dei suoi momenti
di grido umano,
non isfug-
giva sempre al generico delle qualità tipiche dell’opera dei poeti morti giovani e minati dalla malattia, 913
da Samain a Corazzini. Eliot affrontò invece la sua desolata materia con una puntigliosa tenacia, con uno spirito di rigoroso calcolo e sforzo. E se anche nel suo primo periodo appare aver indugiato, sulle tracce di Laforgue, in una sorta di ironismo «cosmico», raggiungendovi effetti di stralunata ossessività, il suo impegno si dimostrò presto più diretto: e in esso confluirono esperienze assai complesse, principali fra le altre quella dei lirici «metafisici» inglesi, Donne o Marvell, o quella del linguaggio violento e fiorito degli ultimi elisabettiani. Di una esistenza decaduta,
allontanata come
in
uno specchio, considerata da quel punto supremo in cui la nausea si trasforma in lirismo, non residua-
no che riflessi, brandelli, frammenti carichi di suggestione emotiva e di remota simbologia. Immagini di un mondo spento. Personaggi appena accennati, fantocci d’una civiltà in isfacelo, tenuti in piedi da un interno
meccanismo;
oggetti, come
il ramo,
il
lampione, la molla rotta della Rapsodia d’una notte di vento; e figure sfuggenti di mito e di leggenda, che compongono,
in The Waste Land, con gli squallidi
paesaggi e le più squallide figurazioni della vita quotidiana del mondo di oggi, una specie di atroce diorama
di un'esistenza sopravvissuta a se stessa, insi-
diata e corrosa da ogni parte da una decrepitezza mortale; e i leopardi e gli alberi di bosso, le ossa nu-
de e lucenti: il paesaggio cimiteriale, aperto sull’Inconcepibile, del Mercoledì delle Ceneri. Le immagini dell’inumano, dell’aldilà senza nome
né figura, mi-
nacciano da ogni parte una realtà stremata e reversibile nella morte, quel «breve crepuscolo, tra nasci-
ta e morte, dove i sogni s’incrociano». Sembra che più oltre, in questa scarnificazione, in questo diradamento e sfacimento d’ogni senso vitale, non sia possibile andare. L'immagine e la parola poetica sono anch'esse al loro limite, si isolano nell’inesprimibile, troncate e sospese sul foglio bianco, si smarriscono nell’invocazione. Ma è soltanto qui, all’estre-
OVE
mo di una tale nausea e corrosione, condotte appunto all’estremo perché ne sia possibile il rovesciamento (e il Mercoledì delle Ceneri è appunto il poema di questo rovesciamento), che può rinascere l’inumano e assurdo lume della speranza. Tanta poesia moderna — ma quella di Eliot con più evidenza di tutti - potrebbe inalberare il motto colombiano: buscar el levante por el poniente. L'ordine, l’ubi consistere è al di là del disordine definitivo, al di
là del supremo annichilimento, del dissolvimento d'ogni significato della vita. Quali terre impreviste, quali Americhe si scopriranno domani alla desolata navigazione? Per ora le Atlantidi sconosciute non accennano ad emergere dall’oceano del tempo, e il marinaio dall’alto della coffa altro non scorge che l’arido innumerevole flutto. Un critico d’ispirazione marxista, D.S. Mirskij, ha
visto nell’opera di Eliot una estrema espressione della poesia borghese, una specie di canto del cigno d’una élite sfinita e prossima a sommergere sotto le ondate d’una umanità fresca e barbara. E tuttavia, di
fronte alla crisi del nostro tempo, Eliot stesso ha assunto un atteggiamento, ha dato una risposta. La sua rinuncia alla cittadinanza americana per quella inglese, e la sua conversione al ramo anglo-cattolico della Chiesa Anglicana, sono state due tappe di quel ritorno alla casa del padre cui egli si è sentito spinto dal grandioso naufragio di valori rivelatosi all’indomani della prima guerra mondiale. Ma la preoccupazione conservatrice di Eliot non ha nulla della posizione comoda, rinunciataria o retriva, di tanti intellettuali eu-
ropei convertiti a cavallo tra i due secoli. Se anche i cori di The Rock e tanti passi delle sue opere drammatiche e dei suoi saggi critici possono far pensare al ritrovamento di un equilibrio statico e definitivo, troppo egli è spirito aperto e turbato per acquetarvisi. La sua aspirazione, più che quella di uno sterile «ritorno»,
è quella di mantenere
vivo, struttural-
mente vivo in ogni sua parte, l’intero passato della 515
tradizione nel comune spirito di civiltà. «La mente dell'Europa» — egli scrive nel saggio Tradizione e talento individuale — «è una mente che cambia sviluppandosi senza nulla abbandonare en route, sicché non fa invecchiare né Shakespeare, né Omero, né le
rocce dipinte dei disegnatori della Maddalena». Il saggio da cui abbiamo tratto questa citazione, e altri scritti del primo Eliot, possono leggersi nel volume 7! bosco sacro (The Sacred Wood), edito quest’an-
no per i tipi dell'Editore Muggiani nella traduzione di Luciano Anceschi, che l’ha fatto precedere da un importante saggio introduttivo. Anche Anceschi ve-
de in Eliot un campione di questo disperato classicismo novecentesco, contrassegnato «dallo sforzo volontario
e come
“arbitrario” di creare una zona a-
stratta e intellettuale superiore alle inquietudini e alle discordie, di definire un ordine di idee chiare e distinte...». E ne ricerca i motivi, oltre che nel suo mondo morale, nella sua idea della poesia, per cui, secondo le parole dello stesso Eliot, «il poeta» non
ha una personalità da esprimere, «ma un mezzo (medium) particolare», che è solo un mezzo, e non una personalità, «in cui impressioni ed esperienze si uni-
scono in modi peculiari ed impensati»; e ancora: «La poesia non è un libero movimento dell’emozione, ma una fuga dall’emozione; non è l’espressione
della personalità, ma la fuga dalla personalità». Posizione, come si vede, nettamente antiromantica; fi-
no alle pagine su Dante, dove la più alta qualità della poesia è vista addirittura come la percezione di un
sistema di pensiero fatto sensibile. Certo, quando Anceschi parla, a proposito di Eliot, di classicità, egli la intende, come io la intendo, in una accezione tutta particolare, che non è certo quella che il medesimo Eliot, in una recente conferenza What îs a Classic? (1944), attribuisce a Virgilio,
riservando quel termine alle supreme maturazioni d’una civiltà, oltre le quali si delinea l’inevitabile decadenza. La paradossale classicità, o meglio volontà 516
classica, di Eliot e degli altri scrittori citati al principio di quest'articolo, consiste soprattutto in una suggestione di disperata salvezza, nello sforzo di non lasciarsi sommergere dal flusso incalzante, e in pari tempo di dominarlo, comprendendolo nelle sue segrete ragioni. Eliot, nel suo compito di critico letterario, appare aiutato dal suo solido empirismo di britannico, che,
mentre lo trattiene dall’addentrarsi in quelle disquisizioni teoriche che sembrano refrattarie al genio del suo popolo, si affida completamente ad una attenta ed industriosa organizzazione delle sue esperienze culturali e di vita. Quanto a definizioni, egli sa adattare e rendere
sensibili, nella finezza delle
sue accezioni, le più apparentemente semplici e viete. Così, egli saprà non cadere in un facile edonismo allorché, avventurandosi in una provvisoria defini-
zione della poesia, la qualifica, con una punta di compiaciuto paradosso, come un superiore divertimento: «Se pensate alla natura del divertimento, allora la poesia non è divertimento, ma se voi pensate a qualsiasi altra cosa la poesia possa sembrare di essere, ecco, vi trovate in un intreccio di difficoltà ben
più grandi». E la concezione che Eliot ha della poesia dovremo ricercarla, fin nelle sue minime striature, nell’intero complesso della sua opera critica e
poetica. Tutta la nostra critica più recente, di ispirazione
idealistica anche quando meno crede di esserlo, mira ad una definizione delle caratteristiche indivi duali d’una poesia, di ciò che in essa è inconfondibile, isolando il poeta sul quadro d’una complessa esperienza vitale, dove la poesia precedente, i pre-
supposti morali e formali d’un’opera, decadono al rango di semplice materia. AI contrario, lo sforzo di Eliot, particolarmente nei suoi magistrali studi sugli
elisabettiani, tende a far risultare l’individualità poetica dal raffronto con le altre individualità poetiche,
da uno studio degli elementi comuni: quelli che noi DZ
siamo inclini a dissolvere nell’anonimità della cultu-
ra ambiente. Egli ricerca e delinea le strutture dei modi formali, dei linguaggi poetici, delle idee morali, e il loro formarsi e trasformarsi e decadere e ri-
sorgere in relazione ad un periodo di civiltà. Laddove il nostro scetticismo impressionista ci fa riluttanti a istituire gerarchie di valori — il valore poetico assoluto è, di volta in volta, quello che noi apprendiamo nella nostra esperienza momentanea, immersi in un mondo di poesia senza fenditure con l’esterno —, Eliot si adopera a costruire ordini e prospettive esatte in seno alla storia letteraria, dosando e raffrontando
minuziosamente
— e, se vogliamo,
con un’ombra di astrattezza — le sottili qualità costitutive dell’opera dei suoi autori, o precisando i vaghi limiti di un
gusto. Egli tuttavia, così facendo,
non appesantisce mai i suoi svolgimenti, immune da quello spirito naturalistico che dominò la critica ufficiale del secondo Ottocento, e che, nella sua pre-
tesa di istituire sviluppi e derivazioni di generi e di forme, giungeva ad anchilosare la storia letteraria in schematismi inerti. Al contrario, egli ha un’acutissima coscienza dell’estrema relatività e idealità delle sue prospettive, che possono soltanto formarsi nella calda coscienza di una tradizione vivente. L'artista, secondo Eliot, scrive «con il sentimento che tutta la letteratura d'Europa, dopo Omero, e con essa tutta la letteratura del nostro paese, ha una simultanea esistenza e forma un ordine simultaneo». Viene così affermato un senso storico che
dev'essere insieme senso del senza tempo e senso del temporale. E tuttavia la nuova opera d’arte, inserendosi nell’ordine esistente delle opere, lo modifica, «e così le relazioni, le proporzioni, i giudizi di cia-
scuna opera d’arte rispetto alle altre vengono ordinati di nuovo: e questo è l’accordo tra il vecchio e il nuovo». I lineamenti del mondo di Eliot critico, attraverso il giovanile Bosco sacro e le successive raccolte di sag-
518
gi, possono, a grandissime linee, riassumersi così: motivato e soppesato distacco, non immune da punte polemiche, dalla dominante tradizione dell’Ottocento inglese, di cui tanti aspetti d’improvvisazione romantica,
di abbandonato
sensibilismo, di ottimi-
stico ripudio delle fedi del passato non possono che essere profondamente alieni dalla visione dello scrittore; riavvicinamento agli elisabettiani, e particolarmente ai successori di Shakespeare, che nelle loro
immagini di crudele e disperata violenza riflettono un mondo sconvolto e decaduto di cui il critico addita alcune somiglianze col nostro; riavvicinamento a Donne e ai poeti metafisici del Cinque e Seicento inglese, che Eliot in qualche modo riallaccia, per la loro esperienza d’un linguaggio poetico immaginoso e composito, ai simbolisti francesi, Baudelaire e
Laforgue in primo luogo. In direzione d’un passato più remoto, reviviscenza della classica filosofia cri-
stiana, e di Dante, modello poetico d’ogni tempo. Verso l’avvenire, tentativo di coesistenza e di sintesi fra la tradizione cristiana e il moderno umanesimo vagheggiato da recenti pensatori anglo-americani. Solida piattaforma, come si vede, nei suoi complessi
elementi costitutivi, e vasta apertura d’orizzonte spirituale, mantenuta
con lucidità e tenacia contro la
minacciosa notte dei tempi. 1946
63 14)
ORTEGA Y GASSET: «IL TEMA DEL NOSTRO TEMPO»
Dopo la morte di Miguel de Unamuno, è giusto riconoscere in Ortega y Gasset il pensatore più rappresentativo della Spagna moderna. E qualificandolo, all’inizio, come
spagnolo, non
intendiamo
sol
tanto compiere una localizzazione geografica e nazionale, ma riassumere in una parola una serie di
qualificazioni, caratterizzazioni e magari limitazioni di carattere nettamente individuante. Ortega appartiene alla generazione immediatamente successiva a quella che fu chiamata del ’98 e ne ha in qualche modo ereditato lo spirito e le esigenze, se pur sembri talora opporsi agli accenti d’idealistico moralismo che contrassegnarono quel primo generoso risveglio della cultura spagnola alla fine del secolo scorso. Anche l’opera di Ortega è una finestra spalancata dalla Spagna sull'Europa, e il suo pensiero si situa anch’esso sul piano del processo di «europeizzazione» della Spagna moderna susseguente alla decadenza provinciale dell'Ottocento, pur rappresentando nello stesso tempo una messa in luce dei valori specificamente spagnoli. Ma laddove Unamuno, dopo aver indotto nell’opera sua ricche 520
venature di filosofia romantica, di storia francese del
cristianesimo, di pragmatismo anglosassone e maga-
ri d’idealismo italiano, rientrava fatalmente nella si-
tuazione di uomo della sua terra, impegnato a viver-
ne fino in fondo le drammatiche contraddizioni, e fi-
niva così col risolvere i temi del pensiero moderno in un’angoscia religiosa e poetica che resuscita gli accenti dei grandi mistici della tradizione spagnola, Ortega mantiene la sua posizione, diremo così, «eu-
ropeista», di distacco contemplante e giudicante — non scevro d’una amabile vena di dilettantismo -—, di
ariosa introduzione e sistemazione d’idee nuove. Come lo stesso Ortega ci racconta in una patetica rievocazione nella sua Meditazione sull’Escuniale, al
suo lungo soggiorno giovanile a Marburgo, e più tardi a Berlino, egli deve «almeno la metà delle sue speranze e quasi tutta la sua disciplina». La germanica «filosofia della cultura» del primo Novecento ha senz'altro costituito la sua scuola formativa e il suo energico punto d’avvio. Poco più tardi l’influenza di Nietzsche, e in particolare della interpretazione «vitalistica» di Nietzsche, quale fu elaborata da pensatori come Simmel e Scheler, sarà destinata a forma-
re il tessuto delle sue più appassionate e insistite convinzioni. Essa è molto sensibile in questo Tema del nostro tempo (1923), che offriamo tradotto ai nostri lettori, e che può in qualche modo considerarsi l’opera-chiave per la conoscenza del pensiero orteghiano. Il quale appare infatti dominato fin dall’inizio da quella concezione della vita come forza pura e valore autonomo,
come
prepotere dell’irrazionale, che
se anche qua e là, in certe divagazioni di sapore biologico e psicologico, può far pensare a suggestioni bergsoniane, si pone chiaramente sotto il segno di Nietzsche. Da Nietzsche gli derivano l’esaltazione delle virtù aristocratiche, il disprezzo per la morale
degli schiavi e lo spirito di massa, l’idea della storia umana come conflitto e guerra perenne. Da Nietz94.41
sche il concetto di vita «ascendente» e vita «discendente», vita piena e vita logorata, applicazione di evidenza per altro impressionante dell’affermazione della vita come
valore autonomo,
situato su di un
piano diverso da quello dei valori di cultura. Il tema, il compito che il nostro tempo è chiama-
to a svolgere, e che implicitamente già svolge nelle espressioni più nuove della filosofia e dell’arte, è appunto, secondo Ortega, la consacrazione dei «valori vitali», in opposizione e in correlazione assieme coi valori della cultura. Delle due dimensioni della vita,
cultura e spontaneità, il pensiero occidentale ha affermato la prima a tutto scapito della seconda, fino
a dissociare la ragione dalla vita spontanea, ad opporla anzi a questa in un drammatico
contrasto, in
cui lo scrittore sembra ad un certo punto ravvisare il segreto dell’incomparabile dinamismo della civiltà europea.
Ora,
sempre
secondo
Ortega,
il nostro
tempo avrebbe compiuto — auspici Goethe e soprattutto Nietzsche — una scoperta opposta a quella con cui Socrate aveva inaugurato lo svolgimento del pensiero occidentale. Socrate aveva scoperto la potenza della ragione, laddove noi stiamo scoprendo i suoi limiti e il suo carattere di semplice funzione vitale, ossia, in altre parole, che la ragione «è soltanto una
breve isola fluttuante sul mare della vitalità primaria». Siamo ancora entro i grandi termini del moderno irrazionalismo filosofico. E tuttavia si deve riconoscere che in Ortega il punto di partenza irrazionalistico, ben lungi dal condurlo alle soluzioni di catastrofico pessimismo di certi recenti pensatori germanici, o ad avallare imprudentemente le rozze
ideologie aristocratiche, razzistiche e nazionalistiche alla cui tragica esplosione e conseguente sfacelo abbiamo or ora assistito, finisce invece col trattener-
lo su posizioni che possono definirsi in largo senso umanistiche: «I valori della cultura restano intatti: si nega unicamente
il loro esclusivismo»; «Entrambi i
SS)
poteri, quello immanente del biologico e quello trascendente della cultura, rimangono in questo modo faccia a faccia, con egual titolo, senza che l’uno sia sottomesso all’altro». Si prepara così una sintesi in cui «culturalismo e vitalismo, fondendosi, scom-
paiono». Se non possiamo accettare il razionalismo, anche il relativismo, che esclude la possibilità stessa della conoscenza, è egualmente in torto. E qui si innesta quella teoria del «punto di vista», che, deriva-
ta principalmente a Ortega dalla fenomenologia tedesca, è svolta nell’ultimo capitolo del suo saggio. Il vitalismo di Ortega sfocia a questo punto in una teoria della conoscenza, che, in polemica contro le due posizioni estreme, ravvisa la verità concreta come condizionata a una situazione vitale, a una prospettiva storica, a un «punto di vista». La realtà assoluta, Dio, ossia la corrente stessa della vita cosmica, è la
somma ideale, l’agglomerato delle infinite prospettive vitali, che costituiscono l’immenso prisma in cui
si rifrange l'universo. Può dirsi che tutto il pensiero di Ortega — e non soltanto i saggi più esemplificativi della teoria del «punto di vista», tradotti in questo volume — si muove entro questo grande schema, attraverso cui l’irrazionalismo vitalistico ottunde a poco a poco la sua punta dissolvitrice, maturandosi, e, per così dire, addolcendosi, in un umanesimo moderno. Così, la
concezione nietzschiana della vita come guerra e violenza si tradurrà per lui, più idillicamente, in una
esaltazione dello sport come eccesso di ricchezza biologica, gioco e grazia vitale, contrassegno della no-
stra epoca come
delle origini stesse della società
umana (El origen deportivo del estado). Il suo aristocra-
ticismo, nel libro Espania invertebrada (1922), gli detterà una critica approfondita della carenza di élites di cui ha sempre sofferto la Spagna, la cui storia è storia unicamente
di popolo, avendo
ignorato a suo
tempo le differenziazioni delle società a forte struttura feudale. Ma una tale critica si concluderà più D29
tardi, nel suo ormai famoso libro La rebelibn de las
masas (1930) — in opposizione alle forme del mo-
derno totalitarismo fondate sulla mistica della «mas sa» e sulla mediocrità dell’uomo-massa, e in vista del-
l’urgente pericolo che già Rathenau aveva definito come «l’invasione verticale dei barbari» — in una difesa del liberalismo, inteso come «suprema genero-
sità», «diritto che la maggioranza concede alla minoranza», e che è pertanto «il più nobile grido che sia mai echeggiato sul pianeta». Con tutto ciò permane forte in Ortega la critica contro il democraticismo ottocentesco e gl’ideali romantici. Talora questa sua polemica in favore del «moderno» in ogni campo e dello svecchiamento della cultura, e contro le ingenue ideologie ottocentesche, è talmente acre che potrebbe sembrare
ingenerosa — soprattutto ove si pensi che essa si è prevalentemente svolta negli anni successivi alla prima guerra mondiale — ove non la sì giustifichi come reazione a certo persistente provincialismo della cultura spagnola. Il suo atteggiamento — soprattutto in materia estetica — è così radicalmente d la page, così
puntualmente legato alle esperienze degli anni in cui egli scriveva i suoi saggi, che può forse apparirci, oggi che i rapporti, ad esempio, fra arte e cultura, arte e vita sociale, ritornano a proporsi con tanta urgenza, leggermente arretrato. Così il suo bellissimo saggio sulla Deshumanizacion del arte (1925) o l’altro
sul romanzo tengono evidentemente di vista, più ancora che gli esemplari della poesia e delia musica simboliste, o del romanzo psicologico cui più direttamente si riferiscono, le forme del cubismo decorativo o del balletto russo, o i testi del surrealismo lirico-ironico, o magari le greguerias di Rambn G6mez de la Serna, e in genere le espressioni, soprattutto francesi, che costituirono l’estremo limite astrattivo
dell’arte e della poesia fra le due guerre. Quanto a noi, meno saremo disposti, oggi, ad accettare questo
svuotamento dell’espressione artistica da ogni senso 524
e contenuto umano, e una soluzione dell’arte come
puro gioco ironico che riecheggia, a distanza di un secolo, la concezione ultraromantica di uno Schle-
gel: oggi che lo stesso Picasso complica i suoi deliranti capricci stilistici di sottintesi atroci riferimenti allo spirito dei tempi, e che i surrealisti di ieri mo-
strano di ambire a un’arte impegnata nel vivo travaglio della storia sociale e politica. Il più recente pensiero di Ortega approfondisce gli svolgimenti del Tema del nostro tempo. Da una parte esso inclina a una posizione di umanesimo storicistico, che elabora, in forme naturalmente più em-
piriche e psicologistiche, concetti che possono in qualche modo avvicinarsi a quelli del nostro storicismo assoluto: benché Ortega non sembri giungere ad una totale identificazione di storia e di filosofia. Troppo acuto infatti è in lui l’assillo della trascendenza, sia pure concepita come puro limite negativo. La storia rimane per lui «sistema», «scienza sistematica della vita», «storiologia», e, per quanto sembri a tratti identificarsi con la coscienza della vita stessa, esistere come funzione ineliminabile di essa vita, continua ad affermarsi come costruzione a
pretese organiche, con precise interdipendenze di strutture e di ritmi: rivelando una punta, quindi, di distacco e di astrattezza scientifica. D'altra parte,
l’ultimo pensiero di Ortega mostra di aver assorbito i grandi temi dell’esistenzialismo. Ma il tema solitudine-compagnia, i temi trascendenza, smarrimento vitale, disperazione, anziché indurlo ad una forma
di intuizione mistica della vita, sul tipo di quella di un Unamuno, si delineano nei suoi saggi ultimi piuttosto come sviluppi di obbiettiva psicologia, a in-
tegrazione e approfondimento del nucleo delle sue convinzioni fondamentali. E, per quanto un recente studioso italiano di Ortega, il Meregalli, auspichi al pensiero di Ortega uno sviluppo in senso esistenzialistico e «religioso», a noi non sembra che la riposata meditazione dello scrittore spagnolo, il suo cultu-
IZI
ralismo che aspira a rinnovellarsi nell’eterna corrente vitale, la sua divertita curiosità per le ideali strutture del mondo e della storia, lo predispongano a quella esperienza del negativo, dell’angoscia e della morte, a quella situazione di dramma senza progresso che forma il fondo delle più schiette filosofie esistenzialistiche. Se per filosofo si deve intendere un creatore d’idee astrattamente nuove, forse non potremo considerare Ortega come un filosofo in senso stretto. Né d’altronde la Spagna può vantare l’apporto di una corrente autonoma e riconoscibile in seno al pensiero moderno. Ma bisogna riconoscere che le influenze subite da Ortega riescono profondamente modificate da una originale rielaborazione, e, attra-
verso le oscillazioni e le contraddizioni di un ricchissimo sviluppo, si incorporano in un contesto di esperienze vive e dirette. Del resto, se la parola d’or-
dine della filosofia moderna è l’abbandono dei sistemi definitivi, delle verità pensate una volta per sempre, la ricerca di una puntuale, fluida verificazione della realtà destinata a manifestarsi come soluzione di problemi contingenti, ben può dirsi che Ortega abbia scelto una delle strade più feconde che si presentino oggi ad un filosofo il quale non voglia accontentarsi di generiche invocazioni ad una storicità o ad una concretezza non mai esemplate. Egli è diventato in tutti i sensi del termine un «saggista»: scrittore di saggi e in pari tempo sperimentatore, «saggiatore» d’idee sul complesso tessuto del nostro tempo. Così, non ha particolare rilievo se la sua ispirazione di pensiero, oltre che alla maggior fonte nietzschiana, ci sembrerà spesso attingere a linee e sche-. mi fenomenologici, o magari esistenzialistici, se ci ricorreranno di volta in volta alla mente Bergson e Husserl, Simmel o Scheler, o addirittura Heidegger.
Ciò che importa, è che queste suggestioni, tutte pe526
raltro fluttuanti nell’aria del tempo, entrano a solle-
citare un mondo di interessi vivi, se anche in apparenza capricciosi e magari divergenti: e a costituire un temperamento, un «tono» spiccatamente «Ortega», inconfondibile nella sua qualità e nel suo timbro. Particolarmente fertile nei riguardi della sua esperienza di saggista è l’impostazione che in largo senso potremo chiamare «metodologica» del suo pensiero: né l’apparenza divagante e paradossale di questo vuol dire infatti mancanza di un metodo, sia pure estremamente libero e fluttuante. A noi, educati
ai principî del moderno storicismo, intento a dissolvere le prospettive storiche nell’attuale interesse del pensante, alla ricerca di una realtà che può soltanto delinearsi attraverso ad un tale interesse, e che è pertanto destinata ad apparirci come infinitamente mobile e sfumata, soggetta a tutto il peso di relatività inerente ad una verità in perpetuo farsi, la pretesa di Ortega, che «il corpo della realtà storica possiede un’anatomia perfettamente gerarchicizzata, un ordine di subordinazione,
di dipendenza tra le diverse
classi di fatti», e la conseguente istanza ad una «metastoria» o l’altra ad una previsione scientifica del futuro, potranno un qualche poco scandalizzarci. Ma se ci proviamo a legittimare l’arbitrio del nostro pensatore, sopprimendovi ogni ambizione di assolutezza, risolvendolo anzi nella peculiarità della sua posi-
zione di «saggista», potremo riconoscere che gli schemi e le strutture ideali ch’egli ravvisa nella realtà storica (a modo delle «essenze» husserliane e scheleriane)
possiedono,
nel loro stesso paradossale ri-
gorismo, una funzione concreta di conoscenza. Così i «saggi» di Ortega si possono definire come una sorta di colpi di sonda in quelle zone fluide della psicologia collettiva, delle idee e degli ideali morali, poli-
tici e estetici delle epoche e dei loro cangiamenti, delle variazioni dei climi e dei paesaggi storici, delle culture e delle mode, che, pur sottraendosi alle os-
527
servazioni di una storiografia in senso stretto, o di
una sociologia a pretese scientifiche, costituiscono pur sempre «qualità», se anche sotto un certo aspetto imponderabili. Per l'appunto rivelazioni delle «essenze» e dei coloriti ineffabili, ma pur sempre confusamente percepibili, che imbevono la realtà storica. Ci accorgiamo, spesso, di quanto vi sia di astratto e di premeditato nel modo con cui Ortega vi appone i suoi contorni fermi e calcati, i suoi compiaciuti scheletri ideografici. Sappiamo che si tratta di verità, per così dire, a mezz'aria, che un’indagine rigorosa, una ricerca delle «eccezioni» spesso facilmente dissolverebbe nelle nebbie dell’impreciso. Sappiamo che a quelle strutture altre infinite si potrebbero intersecare,
e magari opporre, a seconda del diverso
«punto di vista», del diverso interesse da cui sì prendano le mosse. Ciò peraltro nulla toglie all’alta suggestività né alla sostanziale concretezza degli svolgimenti orteghiani. In ogni senso, adunque, un «saggista»: e in questa definizione può considerarsi incluso il sospetto, altra volta da taluno affacciato, che Ortega sia sostan-
zialmente una specie di poeta, un artista, un fascinoso giocoliere d’idee. Quanto a noi, in certa misura, potremo anche ammettere un tale sospetto, purché si tenga presente che l’arte, il gioco non escludono la verità, e neppure, in molti casi, le verità ge-
nerali. Del resto il pensiero moderno ha oggi eroso le rigide categorie tradizionali, e le nuove ricerche,
come alle origini della speculazione, amano spesso colorirsi degli incarnati del sentimento e della poesia. Lo stile di Ortega, familiare e immaginoso, garbatamente descrittivo, argutamente paradossale, di timbro ampio e pacato, non immune da un certo
lievito baroccheggiante di gusto tipicamente spagnolo, può costituire un modello di prosa saggistica. Si leggano di lui, accanto alle pagine filosofiche e critiche, come
quelle qui pubblicate, le altre di de-
scrizione e di rievocazione sui castelli spagnoli o sul 528
paesaggio castigliano o francese, o quelle che traggono lo spunto da un quadro o da uno spettacolo: e si vedrà come naturalmente la riflessione si sviluppa dall’immagine e armoniosamente ritorna a quest'ultima, nutrita dalle sue più sensibili determinazioni. E soprattutto per questa facoltà della speculazione di incarnarsi in una continua, urgente esemplificazione, nei mutevoli problemi che la realtà del tempo, politica, arte, costume, ad ogni passo ci propon-
gono — il che costituisce la più tentatrice avventura filosofica dell’epoca nostra — che ad Ortega può assegnarsi un posto assai onorevole nella non numerosa schiera dei maestri del pensiero moderno. 1946
DZ29
GARCÎA LORCA: «ROMANCERO GITANO»
È il titolo della più importante raccolta poetica di Federico Garcia Lorca, nato nel 1898 a Fuente-Vaqueros (Granada) e fucilato nel luglio 1936 dai fran-
chisti, allo scoppio della guerra civile spagnola. La prima edizione del libro apparve nel 1928. Federico Garcia Lorca emerge tra i poeti della sua generazione (Alberti, Guillén, Altolaguirre ecc.), per
il singolare impasto di vena popolaresca e di ispirazione dotta, per la sua naturalissima sintesi tra la spontaneità di certo folklore spagnolo, e più specificamente andaluso, e la ricerca di trasposizioni metaforiche, il
gusto delle analogie remote e pericolanti, in una parola, la mistica delle «corrispondenze»
propria della
recente poesia mondiale, e particolarmente francese, da Apollinaire ai surrealisti, che a sua volta ha per santi padri i grandi lirici del decadentismo e del simbolismo. La ricchezza e vivacità di ispirazione di Garcia Lorca fa sì che, nelle zone più felici della sua opera, i due elementi si fondano in modo perfetto, e quanto
potrebbe parere gioco intellettualistico o puro automatismo verbale risulti riscattato dalla naturalezza del sentimento e del gesto poetico. 530
Lorca, fin dai suoi inizi, sembra accogliere senza
discriminazione e senza ironia una materia convenzionale — abbiamo parlato di «folklore» — fatta di luoghi comuni sentimentali e pittoreschi — l’Andalusfa, i gitani, le vendette amorose, i duelli rusticani,
la danza e la canzonetta —, tutta-la Spagna proverbiale di passione e di colore, di cui Mérimée offerse all'Europa il primo romantico cliché. E vero che meno della poesia francese, e ancor meno di quella italiana, la poesia spagnola d’oggi conobbe i limiti di quella coscienza autocritica che macerò e rese scarna e preziosa l’opera di poeti come Valéry, Ungaretti e Montale. D'altra parte, bisogna tener presente che la poesia spagnola ebbe la fortuna, anche nelle sue esperienze più raffinate, di non perdere mai completamente il contatto con la fonda spontaneità di quella ispirazione popolare, che nell’opera anonima del romancero ebbe, e forse ha tuttora, la sua
continuità storica. Per cui la fedeltà di Lorca a questo suo mondo iniziale di pittoresca convenzione va interpretata in un senso molto più serio che non sia quello di una facile utilizzazione di motivi. Inoltre, a
differenza dei poeti che, per qualche aspetto, possono considerarsi suoi maestri, come Jiménez e Antonio Machado, egli ignora le trasposizioni meditative o platonizzanti, e rimane ancorato alla realtà ‘delle apparenze immediate, violente e sensibili, a un piano di naturalismo impressionista, se pure liricamen-
te allucinato: come si vede specialmente dal suo teatro più valido, quello delle Nozze d: sangue e della Casa di Bernarda Alba: per cui meglio ancora si comprende la sua necessità iniziale di un repertorio di immagini precostituite. Col Romancero gitano — ove si faccia eccezione per qualche grande ode e lirica successiva — Garcia Lorca ha toccato la stagione più felice e più fusa della sua ispirazione. Il mondo dei gitani andalusi, assun-
to in un clima di deformazione fantastica e d’invenzione irreale, diventa per Lorca il simbolo della na-
531
turalità e dell'innocenza primeve che sono il paradiso stesso della poesia. L'amore, nella sua accezione più immediata e sensuale, e la morte, anch'essa in-
terpretata come violenza di vita, prestano al quadro i loro coloriti accesi e funerei. La trasognata cadenza del romance, il ritmo cantilenato del suo verso, le
sue vaghe assonanze, gli consentono la liberazione di visioni un po’ indefinite, figure ed episodi rintracciati per la tangente di una continuata esplosione d’invenzioni immaginose e verbali: e su una tale indefinitezza la clausola acre, il segno sensuale inci-
dono con più evidenza, e le determinazioni prosastiche e grottesche, che lascerebbero talora pensare a intenzioni caricaturali, si fondono in una eguale impressione di realtà insieme sognata e traslucida,
effervescente d’infiniti riferimenti sensibili. Fra i romances più abbandonatamente lirici, si leggano il Romance de la luna, luna..., col suo alone di addormentata fiaba e, soprattutto, il Romance sonambulo («verde che ti voglio verde / verde vento, verdi rami / la barca sopra il mare / e il cavallo sulla mon-
tagna...») dove in una fredda penombra verde s’intravvede, appena
delineata, una
storia tragica d’a-
more. In altri romances più mossi e realistici, come nella Rissa, nella Sposa infedele, nella Morte di Antoni-
to el Camborio, nel Romance della guardia civile spagnola ecc., la vita dei gitani, l’amore e la vendetta, gli scontri coi militi della «benemerita» spagnola — ingigantiti a grotteschi spauracchi - ambiscono a una sorta di fresca epica popolare e decorativa. A una decorazione di gusto quasi surrealista giungono i romances ispirati a leggende locali (San Miguel, San Ga-
briel), o a episodi apologetici o biblici (77 martirio di Santa Olalla, Thamar e Ammon), dove gli acri coloriti
sensuali si precisano e si raggelano in pura stilizzazione fantastica. Nei Romances gli elementi convenzionali e tradizionali della poesia di Lorca, trasfigurati da quella sua immaginazione
ricca e febbrile, perdono
DIS
ogni
determinazione troppo adusata e sono assunti al distacco, all’esemplarità, all’eleganza dell’alta poesia. Più tardi, il poeta porrà al suo canto mire ancor più ambiziose, aprirà ancor più la vena brulicante dell’analogia surrealistica, e, in Poeta a New York, farà
udire, tra le immagini di un mondo convulso ed esasperato, il grido dell’angoscia sociale di fronte alla nostra epoca tormentata. Ma forse soltanto col Lamento în morte di Ignacio Sanchez Mejias (1935), ossia
un motivo di tipica tradizione spagnola — la morte di un torero sull’arena —, toccherà ancora la perfezione poetica, con un accento di desolata elegia e di pietoso orrore in cui si può leggere quasi il presentimento del proprio tragico destino. 1958
os,
LE NUOVE ORTODOSSIE
Riesce difficile pensare a una versione, in termini
di figure e cose italiane, di questo nuovo libro di Stephen Spender (The Creative Element), dedicato ad un raffronto fra le due grandi mitologie individualistiche di alcuni scrittori della fine Ottocento e del primo Novecento, soprattutto inglese (le eccezioni di Rimbaud e Rilke), e l’attuale progressivo prevalere d’un nuovo spirito d’ortodossia, religioso o politico, negli scrittori del tempo attuale. In parte si tratta d’una differenza d’impostazione critica. Da noi l’estetica crociana e, soprattutto, le interpretazioni
che ne diede la critica militante, pensarono per tempo ad alleviare la responsabilità ideologica e morale dello scrittore, riducendo a concretezza d’espressione e relegando all’astratto contenuto quanto si suole chiamare la sua «visione della vita» o il suo «messaggio», e mettendo in primo piano proprio quella verità per cui «la poesia, prima di ogni altra cosa ..._ balza elementarmente dalla passione e violenza della vita vissuta» (anche se non è la vita biograficamente e circostanziatamente vissuta): verità di cui lo
Spender sembra ricordarsi soltanto incidentalmente Dod
e per caso. Nei suoi protagonisti, H. James, Rilke, E.M. Forster, Yeats, Joyce o D.H. Lawrence, Spender non ravvisa tanto poeti o romanzieri quanto maestri di vita, o addirittura visionari e profeti, cui possa essere legittimo richiedere il segreto della storia o il senso dell’avvenire: trasformatori individuali aventi il compito di «svolgere i fenomeni visibili della società industrializzata entro l’invisibile spirito». In The Destructive Element, uscito una quindicina d’anni fa, e che si radicava sullo stato d’animo
di
«conversione al sociale» che agitò molti giovani scrittori inglesi attorno al 1930, culminando con l’esperienza della guerra di Spagna, lo Spender si occupava del «punto di vista politico» che gli sembrava implicito nella visione di alcuni scrittori, e parti-
colarmente di H. James: la rivelazione di un principio distruttivo nella società moderna, leggibile nelle espressioni della sua arte e letteratura, gli pareva implicasse la necessità di una affermazione politica. Il nuovo libro suona un po’ come una palinodia, per aver allora tradotto in termini politicizzati quanto in quegli scrittori doveva piuttosto spiegarsi come la denuncia di una situazione morale. D'altra parte, il
graduale scomparire delle costruzioni individuali stiche e «visionarie» dell’estremo romanticismo o il farsi avanti d’un nuovo
«spirito d’ortodossia»,
cui
appaiono uniformarsi, senza più reazioni attivamente personali, alcuni dei più significativi scrittori contemporanei, non cessa d’allarmarlo. Se un ottimismo
sociale
imposto
da una
«linea di partito»,
che rappresenta la prima forma d’ortodossia, gli sembra giustamente sterile e inoperante, il dogmatismo dell’ultimo Eliot, con l’implicito suo ripudio di ogni ispirazione derivata dalla vita presente, e il suo totale rivolgersi al «Death's other Kingdom»,
gli si
mostra come un vicolo chiuso. E ad un’eguale sterilità condurrebbero il dilettantismo teologico e «esoterismo di classe» che sostituiscono il pensiero in scrittori come Graham Greene ed E. Waugh, 50)
esempi anch'essi di un «ritrarsi dalla vita nelle ombre e nell’accettazione della morte». D'altra parte, rifiutando sia le conclusioni disperatamente nichilistiche di un ex progressista come Orwell, sia la costruzione intellettualistica di un or-
dine insieme dogmatico e razionale, escogitata da un altro ex progressista come Auden, intento ad «iniettare metafisica in ciò che rimane della sua posizione isolata», Spender appare piuttosto dedicarsi allo studio dei grandi individualisti letterari della prima parte del secolo per estrarne un comune insegnamento che possa esser valido anche oggi. Per quanto
di valido, sotto questo particolare aspetto,
sembra a noi rimanga soprattutto l’esempio: che fu di un sottrarsi alla vertigine del collettivo per rintracciare a caso vergine, sul limite di una esperienza irripetibile, negli aspetti di un mondo gravato di negatività, un senso morale o quanto meno strutturale della vita. Impegno che può oggi apparirci eroico, anche se le loro risposte, legate come furono ad esperienze così perdutamente individuali, non pos-
sono più esaurire le nostre domande. Così, garbatamente polemizzando con lo stesso Auden, il quale,
nel suo recente saggio sulle figurazioni romantiche del mare, The Enchafèd Flood, oppone alla figura del viatore errante sull’oceano e sui deserti, che fu cara al romanticismo, la figura del costruttore, o meglio del ricostruttore «che restaura le mura della Città»,
e afferma in pari tempo che la tentazione dell’artista d’oggi non può esser quella del prometeico orgoglio romantico, ma quella di «farsi vile di fronte al tiranno che vuole costringerlo a mentire al servizio della Falsa Città», osserva, mi pare con ragione, che questi costruttori non potrebbero oggi che mentire al servizio della Falsa Città, «dal momento
che ne
stanno ricostruendo le mura». Le conclusioni del suo libro sono, in questo senso, liberali, e, anche se
l’auspicata sintesi di pianificazione marxista e di personalismo
cristiano non
536
è nuova,
l’additare ad
esempio i grandi artisti del primo Novecento suona come un generoso richiamo all’eterna fertilità dell’esperienza spregiudicata e spontanea, e come un appello di riscossa dalla paurosa ondata conformistica che investe ogni giorno più il mondo. Dicevo, all’inizio, della difficile «traducibilità» del-
le idee e preoccupazioni di Spender in termini italiani
(non del tutto impossibile,
forse, in termini
francesi). Da noi, l’ultima grande mitologia individualistica della nostra letteratura, per sterile che fos-
se, e per quanto morta ci possa oggi parere, fu rappresentata dall’estetismo e dal superomismo dannunziani. Si deve pensare, forse, a un naturale e tradizionale conformismo dello scrittore italiano, per
cui il cattolicismo dei cattolici è qualcosa di sottinteso e di ovvio, al pari del «progressismo» dei neorealisti, che trae il suo maggior mordente dalla nudità anonima della cronaca quotidiana e dei fatti della storia recente. Insomma, per trovare un problemismo cattolico nella nostra narrativa bisogna risalire all'esempio, peraltro ambiguo, del Fogazzaro, men-
tre i programmi neorealistici non vanno al di là dei termini del naturalismo verghiano. Forse in questa sorta di reticenza, di modestia ideologica, di rifiuto a
dedurre dal seno stesso dell’esperienza poetica un insegnamento,
un messaggio di natura estetico-mo-
rale, il quale trovi giustificazione esclusiva in quell’esperienza stessa, e la cui singolarità si ponga in pari tempo come potenziale universalità, è da riconoscere una vocazione classica, nel senso di una discrezio-
ne di costume e di stile, di repugnanza ad impegnare in deduzioni di natura eterogenea la genuinità dell’operazione fantastica. Fatto sta che da noi non si sono avuti né un Yeats né un D.H. Lawrence, e neppure un Gide o un Bernanos, e che gli anni del fascismo, col circoscrivere a una zona di dolente interiorità, e per così dire senza peso, la libertà letteraria,
recisero alle radici fino la tentazione di simili sviluppi. Perciò se si è parlato, ad esempio, di un cristiane-
537
simo di Ungaretti, o di un esistenzialismo di Montale, si volle alludere non più che ai dati di una situa-
zione di vita, o ad un pensiero organico, completamente dissolto nel canto, e che sembra rifiutarsi ad illazioni e sviluppi che vadano al di là della severa,
patetica constatazione: pur con tutta l’apertura di suggestioni che può lasciare l’intuitivo aderire all’esperienza del poeta. E si pensi agli infruttuosi sforzi dei critici di sinistra per ricavare dall’opera di un Pavese, al di là del suo «pensiero organico», un giudizio morale o sociale
o anche semplici implicazioni
ideologiche. Si può, forse, pensare a una sotterranea persi stenza della vocazione classica, divenuta costume e sangue (e recentemente avallata da un'estetica illustre, e dalla critica assai affinata che ne sorse), per
cui l’opera dell’artista sembra debba inevitabilmente appoggiarsi a un mondo dato, preformato (quale un tempo poteva fornire l’universalismo cattolico e
umanistico, e più tardi la controriforma o il razionalismo, mentre oggi ha tutti i caratteri ambigui e mutevoli della crisi e della dissoluzione), e ciò senza trascenderlo, anzi imponendo allo stesso giudizio su di esso, o alla ribellione ad esso, la piena oggettività della forma, il che significa estraniarli dalla concreta responsabilità umana collocandoli nella luce d’e-
ternità indifferente di ciò che è così perché è così, ossia dello stile. Per cui, ove volessimo rifarci, secondo l’esempio dello Spender, ad artisti come maestri di vita, che si siano sforzati in qualche modo di
riassumere un'esperienza individuale di poesia in significati d'ordine generale, in «messaggi», dovremmo risalire ai grandi del primo Ottocento, Foscolo, Manzoni, Leopardi, in cui così potentemente fermentò la ventata preromantica e romantica, che da noi ebbe scarso domani.
1954
538
«IL LIBRO DEL TÈ»
Ripenso al romanzetto della Sagan, al povero osso di questa realtà immiserita cui arrivano oggi anche i ragazzini, e, per contrasto,
alla sapienza dei
vecchi orientali, cui è dedicato il saggio del moderno giapponese Okakura Kakuzo, Il libro del tè, da po-
co uscito in traduzione italiana nella collana Prisma dell’editore Bocca. Un saggio scritto in inglese, di ta-
glio inglese, e di un’eleganza che fa pensare ai migliori modelli della tradizione britannica, da Lamb a
Beerbohm. I vecchi Cinesi di cui ci parla Okakura Kakuzo, cui più tardi seguirono i Giapponesi, furono maestri nelle difese da costruire contro l’Informe, nei modi di scongiurare la notte del Sesso, della Morte, del Caos. Essi sapevano che non era assolutamente necessaria l’intercapedine di un fanatismo religioso, e nemmeno le armature di una com-
plessa metafisica, ma poteva essere sufficiente una semplice Forma, o Formalità, la grazia di un Cerimoniale; sapevano che, per mascherare la Voragine,
un leggerissimo velo ricamato poteva valere quanto il più spesso coltrone: quel che importava era che il Cerimoniale venisse eseguito con assoluta serietà e SOI
rigore. E, con una ironia che tradisce una saggezza divenuta oggi incommensurabile, vi posero al centro la cosa più futile, il servizio del tè, questa sciapa bevanda che non altera, non inebria, ma si limita ad
essere consumata sotto specie di un profumato calore. Attorno al servizio del tè, ebbe vita a poco a poco il Cerimoniale, coi suoi riti e le sue regole di carattere mondano, morale, politico; si formarono una letteratura, una pittura, un’architettura del tè. I
«maestri del tè» elaborarono uno stile delicato e rigorosissimo, uniformandosi al quale l’uomo poteva calmare
la passione, logorare l’impazienza ed elu-
dere il vecchio Tempo. Crearono, attorno a un nocciolo pressoché vuoto, una forma complicatissima, ricchissima, affascinante. Nei nostri termini occi-
dentali, e a prescindere dalle implicazioni che il culto del tè ebbe con le filosofie del Tao e dello Zen, si potrebbe parlare di uno stoicismo doubdlé di estetismo, ma, di fronte all’esemplarità e al rigore del mo-
dello di vita creato dai saggi Orientali, buono a imprimere di sé una intera civiltà, che figura può mai
fare la religione del dandysmo di romantica e baudelairiana memoria, col suo carattere irrazionale, ca-
priccioso, outré? Tanto più che la forza e l’efficienza di un modello di vita si provano particolarmente nell’occasione della morte: e si legga, in proposito, alla fine del saggio, la narrazione della fine esemplare,
per «karakiri», del «maestro del tè» Rikiu. Oggi, in questo tempo in preda ai deliqui dell’Indeterminazione, chi saprebbe ancora morire a quella maniera, in pace con sé e con gli altri, senza sgarrare su un so-
lo punto del cerimoniale? Possiamo ancora conoscere l’eroismo, ma non più lo stile; il contenuto ci
trabocca da ogni parte, ma non possiamo più contare sulle difese di una forma. 1955
540
MUSIL
Nessuna somiglianza con Proust, o con Joyce, con cui stranamente si prende oggi ad accomunarlo, evidentemente per caratteri esteriori, come la mole delle rispettive opere, e l’apparente «ingigantimento» dei particolari in confronto all’ordinaria narrativa. In Proust, i tracciati delle stratificazioni mnemoniche, esistenziali, sociali, mondane, sono controlla-
ti, ineccepibili. Nulla di «inventato»: una scienza che scende per li rami da Montaigne, passa per SaintSimon, costeggia gli inglesi, Meredith, James, ingloba Ruskin in chiave bergsoniana, traversa il simboli-
smo ed elabora le sue rilevazioni para-autobiografiche con la lucidità razionale di chi sa di avventurarsi sulle rive dell’informe, dell’ambiguo e del polisenso, di modo che la complicata esattezza della sua
grande frase ramificata e prensile giunge a conservare alle prede più sfuggenti il lirico umidore dello smarrimento e dell’angoscia vitale che ne bagnarono l’emersione originaria. In Joyce, il narratore lirico-naturalista dei Dubliners, il lirico intimista di Chamber Music, che si amplificano a poco a poco fino all’epica del processo temporale SAI
atomizzato e dilatato lenticolarmente, senza bisogno di passare per il romanzo. Ulysses non è un romanzo, ma un grandioso centone di racconti e di poemi in prosa ricuciti assieme, senz’altra vera ossatura che quella del puzzle erudito e maccheronico, ordito sul ricalco omerico inapparente, e quello intellettualemusicale dei /eit-motive offerti dall’esistenza frantumata nella memoria, dell’interiorità puntuale esterioriz-
zata in decalcomania filologica. Il «monologo interiore» direttamente giocato sugli incontri nelle situazioni predisposte, e sulle libere associazioni d’idee,
ha le incantevoli trovate delle fioriture spontanee, di quel che si dice ispirazione. Quanto a Finnegans Wake, bisognerebbe arrivare a leggerlo... Joyce è il più «poeta» dei prosatori moderni, il fiore supremo
cui egli
aspira è la parola, il microcosmo destinato a riflettere nelle sue ricche proliferazioni le multiple, vertiginose prospettive del macrocosmo. Musil è ancora diverso da questi due tra loro incomparabili. E tutto commedia morale e invenzione dialettica: invenzione che giunge a suscitare, spesso, il forte sospetto dell’arbitrio. Singolare l’inizio di Musil, con quel romanzetto del Giovane Tòrless di cui non riesco a scorgere bene i rapporti con l’opera successiva. Una «crisi di coscienza» complicata da una scabrosa esperienza di collegio. Giorgio Zampa, nell’introduzione all’edizione Lerici, accenna al gi-
diano Immoraliste di pochi anni precedente, e ne nota giustamente la differenza fondamentale e il profondo decalage storico. Ma l’Immoraliste è ancora l’estetismo di Wilde, goduto e insieme sofferto dal gio-
vane protestante francese (diviso elementarmente tra il rigore della norma e la sconfinata libertà dei sensi), e stemperato nelle patetiche nebbie simboli-
ste: mentre i forti sbattimenti di luce-ombra, gli scalfimenti rudi e neri del 7òrless sono già precocemente in chiave espressionistica, e la incisività di alcune situazioni e progressioni mi ricorda, piuttosto, l’insistita crudeltà intellettuale di certo Thomas Mann. E 542
dietro non
c’è più Wilde, ma Weininger, e magari
già Freud. Scarso rapporto comunque, mi pare, con l’ Uomo senza qualità: tanto Musil, nel Tòrless, è concentrato,
sospeso, impegnato sul «caso», tanto nel grande romanzo è libero, aereo, divagante. In questa foltissi-
ma commedia storica della cultura mitteleuropea ed europea dell’inizio del secolo, tutti i personaggi moraleggiano, intrecciano aforismi e sentenze, dissertano sui sentimenti e sugli eventi come affetti da una gioiosa febbre delle idee generali. Un’effervescenza dialettica che tocca talora l’ebrezza,
e sembra man-
tenere il contatto col fondo romanzesco per un punto solo, come il cerchio con la tangente. Eppure questo fondo è ben reale. Tutti gli uomini della mia generazione hanno conosciuto in gioventù, magari rapetissés a dimensioni provinciali, personaggi del ti-
po di Walter e di Clarisse, e magari di Diotima, i quali non sanno vivere che trasponendosi continuamente in miti culturali: lusso che apparirebbe tra impacciante e favoloso in questi nostri tempi di «cultura di massa». Lo stesso protagonista, l’ «uomo senza qualità»,
l’agevole,
disponibile
Ulrich,
sembra
astenersi dall’avere qualità per riassumere la possi bilità dialettica di tutte le qualità, per esprimere in moralità panoramiche una scienza della vita di una universalità vertiginosa quanto illusoria, legata com'è, sia pure per un sottile ma tenace filo, alle ca-
sualità dell’azione e allo svariare delle psicologie. E, in fondo, tutti qui sono consapevoli, anche gl’inconsapevoli come il rozzo Siegmund, anche i candidi come il generale Stumm von Bordwehr, anche i
sospettosi come l’ironico capodivisione Tuzzi. Dei consapevoli che sembrano prestarsi unicamente per decoro e finzione alla grande tragicommedia storica. La storia atroce e pietosa del bruto Moosbrugger,
con gli interessi inconsci e ambigui che vi si intrecciano (e che possono richiamarci, almeno lontana343
mente, all'atmosfera del Térless), contrappunta col basso profondo dell’oscura fisiologia, della cieca de-
littuosa natura, le trasposizioni tra patetiche e comiche della cultura e della moda intellettuale, fino agli «acuti» più liberi e gratuiti delle serate mondane dedicate all’Azione Parallela. Contrappunto, mi pare, è il termine giusto. Se si sostituisce al contrappunto musicale il contrappunto morale e aforistico della tematica narrativa, direi che in Musil, in questa sua
Vienna imperiale al crepuscolo, si rinnova qualcosa del grande gioco di Mozart. 1959
544
RICHARD HUGHES: «LA VOLPE NELLA SOFFITTA»
Ho aperto con un certo sospetto il recente romanzo di Richard Hughes, uscito a tanti anni di distanza dai due precedenti racconti, A High Wind in Jamaica e In Hazard. Il nuovo libro, The Fox în the Attic, è, più precisamente, il primo volume di un romanzo ciclico, il cui titolo generale, The Human Pre-
dicament, dal curioso sapore malrauxiano, appare altresì esprimere un intento di riassunzione filosoficomorale,
secondo
un modo
ben noto
di alcuni ro-
manzieri classici, ma che oggi non può non apparirci un po’ anacronistico. Intento, per giunta, stranamente
contrastante,
sulle prime,
con
la figura di
questo scrittore, i cui precedenti brevi romanzi ci offrivano due vividi tagli di fantasia intensa e ingenua in sé conclusi, perfettamente articolati nel loro fondo umano e naturale, ma come isolati un po’ rara della loro scelta, e quasi, in so, «caduti dalla luna». La perplessità prendendo che il libro ha un fondo
nella cornice un certo senaumenta apstorico, ed è
ambientato parte in un angolo tradizionale di provincia gallese, parte nella Baviera convulsa degli anni susseguenti alla prima guerra mondiale: più pre545
cisamente del 1923, tempo di ripresa delle rivendicazioni legittimistiche o nazionalistiche; e che tra i protagonisti figurano addirittura alcuni personaggi storici, niente di meno che Hitler, Ludendorff, Goe-
ring... Aggiungo che la cautela, pur sostanzialmente approbativa, con cui da noi ha parlato per primo di questo libro, nelle colonne
del «Corriere», Emilio
Cecchi — pur vivissimo estimatore dell’Hughes —, poteva aumentare il sospetto. Bisogna, credo, orientarsi attraverso il primo cen-
tinaio di pagine perché una tale perplessità scompaia, dando gradatamente luogo a quella intensità di interesse e schietta meraviglia che sono il privilegio di rare opere. E bensì vero che questo folto polittico formicolante di figure postula una continuazione e un compimento, quasi di una complicata co-
struzione gotica (qui, più che nei precedenti racconti, si svela l’aggrumato, primitivistico goticismo dell’Hughes), e che certi apparenti iati e squilibri del volume attuale sembrano destinati ad armonizzarsi e colmarsi attraverso i successivi sviluppi della narrazione: ma la vivacità, la forza del colore e del
segno, il gusto acre e spesso crudele della notazione caratteristica e psicologica sono tali da suscitare fin da ora un’adesione sincera. L’intrusione dell’elemento storico e documentale in quello fantastico non suole andare, persino nei massimi, senza qualche stridore. Però direi che l’Hughes, attenendosi al fare cronachistico rilevato dal Cecchi
(e tuttavia si tratta, tutto sommato,
di
personaggi e di eventi di cui l’autore, come noi stessi, siamo stati contemporanei e testimoni, e per tanto non ancora emergenti sul fondu di un passato ormai concluso), abbia imbroccato la via giusta. Il con-
torno, non tanto polemico, quanto sottilmente caricaturale, che traccia quei personaggi e quei casi, finisce con l’armonizzarli con le figure e i casi immaginari che si svolgono parallelamente ad essi e vi si intrecciano. Infatti,
a ben vedere, una lieve forzatu-
546
ra caricaturale è sempre caratteristica dei personaggi di Hughes, qui tanto del protagonista Augustine — eroe di un «noviziato» che sembra riprendere e sviluppare in altra situazione quello del giovane ufficiale di marina di In Hazard —, come delle figure secondarie: né ad essa sfugge neppure quella purissima di Mitzi, prima quasi cieca poi cieca del tutto, di
cui Augustine si innamora, e il cui acceso misticismo religioso acquista via via aspetti disumani e quasi folli. Del resto, poiché neppure la storia più severa può darci, dei grandi personaggi della scena politica, al-
tro che il loro riflesso collettivo, l’inserzione e gli effetti della loro azione pubblica, oltreché i «fatti» della vita, e la loro interiorità non può consistere che di supposizioni — e quindi, in definitiva, di mito e di romanzo
-—, direi che l’Hughes, attenendosi sì ai dati
documentali, ma anche e soprattutto al colorito della cronaca popolare, e affidandosi per il resto coraggiosamente all’onda fantastica del probabile, abbia seguito la via più naturale. E non ci voleva meno dell’arditissima ingenuità di questo autore per raccontarci l’assurdo soliloquio di Ludendorff mentre continua imperturbabile a marciare, dopo la sparatoria della polizia che fece fallire il «putsch» di Monaco, finché viene fermato gentilmente da un poli-
ziotto che lo accompagna al posto di guardia; 0, poco più tardi, il delirio di Hitler febbricitante per un braccio slogato durante la medesima sparatoria, nella casa in cui si è rifugiato presso la frontiera austriaca. Dovunque, nei brevi quadri che compongono l’affastellato polittico, si riconoscono la forza del segno, la trasparenza e la liquidità del colore evocativo dei due precedenti racconti. E il tratto della verità, che talora ci colpisce per i suoi impromptus quasi stendhaliani: come quando, durante un affollato ricevimento, la già semicieca Mitzi diventa di colpo
cieca, e urla di terrore — ma il suo grido non viene compreso —, e subito dopo, all'osservazione fattale,
547
si reinserisce nella maschera mondana e scoppia a ridere. E a pari altezza sono le pagine che ci descrivono la sbornia dell’innamorato Augustine nella birreria intellettuale di Monaco, o il finale vagabondaggio dello stesso Augustine attraverso la foresta di Lorienburg, con la subitanea apparizione del Danu-.
|
bio gelato.
Pare che il romanzo abbia riscosso viva approvazione in Inghilterra, per lo scrupolo documentario che ne è a fondamento. Né, a questo proposito, s0no in grado dal canto mio di interloquire. Quel che è certo, è che il libro porta i segni della lunga macerazione in un clima storico e di cultura, pur senza
lasciarsene in alcun momento sopraffare, do anzi intatto lo slancio della ricreazione venzione. L’aura esagitata e tumida entro de a maturare la grande follia ideologica
e serbane dell’incui prendel nazi-
smo, e la catastrofe che essa implica, si enuclea in
dialoghi, in figure, specie in quella, quasi riassuntiva e simbolica, del giovane reduce nazionalista perseguitato e rifugiato nella soffitta del castello, il quale,
chiuso notte e giorno nel rimuginamento solitario del suo delirio omicida, rivolge, alla fine, la propria
follia contro sé medesimo, sopprimendosi. Qui lo scrittore, di suo, par metterci soltanto la lucidità e
precisione di uno sguardo disposto a scendere spregiudicatamente nei peggiori abissi della condizione umana: quell’attenzione suprema e libera, ma distaccata, che è l’unica forma
di partecipazione
la
quale sia consentita dall’arte. Senza perciò alcuna necessità di ricorrere a mimesi formali, come fanno
certi scrittori di oggi, risorse che non costituiscono spesso, in realtà, una partecipazione, ma una como-
da approssimazione intellettualistica. Con Hughes siamo, insomma, sia lontani dalle elaborazioni a programma, neorealistiche o meno, e dai paraocchi
ideologici, sia dalla astrattezza dei nuovi oggettivisti, i quali, difettando di una chiara coscienza delle direzioni verso cui li condurrebbe il loro sforzo, han-
548
no finito, dopo interessanti inizî, con l’irretirsi in
uno sterile gioco di tecnicismi (vedere invece come, tanti anni prima, aveva saputo riempire di una reale angoscia visionaria un’analoga ricerca di ritmi e miti extratemporali, il giovane persiano Sadegh Hedayat, di recente scomparso, nel.suo breve romanzo The Blind Owl). E, peraltro, sommamente
indicativo
di come l’attenzione degli italiani si trovi sviata verso un gusto sterile di pure astratte novità, formalistiche e scandalistiche, il fatto che, in così grande folla di traduzioni, il nuovo romanzo di Hughes, a quanto mi si dice, abbia stentato, da noi, a trovare
un editore.
1962
549
SALINGER: «IL GIOVANE HOLDEN»
Ho letto, nella versione italiana, il garbato roman-
zetto di Salinger, // giovane Holden. Il mondo che vi si descrive è quello di uno studente sedicenne americano dei nostri giorni, con «aspirazioni adulte». Vi figurano colleges, alberghi e night-clubs: un mondo che, evidentemente, non presenta alcun punto di contatto con quello della mia adolescenza e dei liceali miei coetanei, i cui inferni, conosciuti e fantasticati, erano
circoscritti al varietà e al postribolo. Eppure, proseguendo nella lettura, non potevo sottrarmi a una strana impressione di «già vissuto», a una lontanissima aura familiare. Ad un certo punto, giunsi a precisare l’origine di quel confuso sentimento: ossia, il linguaggio. Quel linguaggio studentesco americano, che Salinger riproduce, pare, con tanta fedeltà, e di cui i recensori del romanzo hanno sottolineato la brutalità, la crudezza del traslato
osceno
(aggiungerei la sua realistica, dolorosa in-
fantilità), infine, la sua pretesa originalità statunitense, era invece né più né meno, nelle sue caratteristiche fondamentali, nel suo tessuto generale, lo
stesso linguaggio degli studenti italiani di mezzo se550
colo addietro, rimasto intatto attraverso il tempo nel tessuto di altra lingua. Non ho confrontato con l’originale americano, ma, per quanto sia sempre cosa difficile la versione di un particolare slang, non posso pensare ad arbitrî del traduttore. Lo slang del romanzo di Salinger, nelle sue deformazioni verbali, e, soprattutto, nella sua crudezza,
mi sembra riflettere molto genuinamente più ancora che un particolare condizionamento americano, l’immemorabile situazione goliardica, caratterizzata
da una parte dal compito dell’apprendere, dell’acquisire la cultura: e quindi dal relativo sforzo per cui, nel linguaggio goliardico, tale cultura viene vendicativamente caricaturata come erudizione pedantesca (donde il «maccheronico», peraltro molto più
sensibile, per ovvie ragioni, nel gergo neolatino che in quello americano); dall’altra parte, dal parallelo schiudersi alla vita sessuale, per cui la platitude oscena può leggersi, in questo caso, anche come un’elementare difesa infantile contro i terrori incombenti del sesso e dell’amore. Né sarebbe difficile ad un linguista, risalendo
i rami
della cultura
occidentale,
istituire gli opportuni raffronti. Invece, per quanto ho potuto constatare attraverso le esperienze dei miei figli e di altri giovani, notevole mutamento avrebbe subìto il gergo studentesco italiano nel corso degli ultimi decenni. Non che la deformazione verbale e il traslato osceno siano scomparsi,
tutt'altro: ma, specialmente
il secondo,
sembra siano venuti attenuandosi in modo stranamente contrastante con la liberalizzazione dei costumi attuatasi attraverso il nostro secolo. Insomma,
gli studenti italiani d’oggi considererebbero probabilmente con piglio high-brow le ingenue platealità e scurrilità del gergo studentesco di cinquant'anni addietro, mentre, a giudicare dal libro di Salinger, es-
sa ancora perdurerebbe nell’attuale americano. Una maggior riservatezza e suffisance, una più maliziosa ironia di allusioni, sembrano caratteristici del
DAL
linguaggio studentesco italiano, negli stessi aspetti blasés che esso acquista in gerghi particolari, ad esempio quello milanese di via Montenapoleone. Probabilmente, non abbiamo misurato ancora inte-
ramente la curvatura imposta alla spiritualità e al costume
italiano dal fascismo
(che anchilosò
a suo
tempo nel senso della vanteria e del «gallismo» adulto la bravata puerile), e, soprattutto, dalla influenza cattolica, riaffermatasi con la Conciliazione per dila-
gare poi coi governi democristiani del dopoguerra, e a cui si deve eminentemente una repressione nel senso della buona educazione conformista e la conseguente velatura maliziosa della scurrilità. Un interessante parallelo potrebbe essere costituito da un raffronto con gli spettacoli del varietà. La grossolanità e crudezza dei traslati e dei doppisensi del vecchio varietà si è senza dubbio immensamente attenuata nel varietà di oggi, anche se il fine della captatio rimane il medesimo. Ma, insomma, 0g-
gi non sarebbero più pensabili epigrammi e filastrocche del tipo di molti che il grande Petrolini raccolse nel famoso libro 7? ha piaciato? Inoltre, il gergo dell’antico varietà si apparentava, per alcuni aspetti, a quello delle caserme. È mutato, e in quanto, il gergo casermesco? Sarebbe interessante registrare in un disco i discorsi di una mensa ufficiali in campagna di oggigiorno, e raffrontarli con la ripresa, stupefacente di precisione, che ci ha lasciato un
altro scrittore americano di una mensa ufficiali al fronte italiano 1917: ossia Hemingway nelle prime pagine di Addio alle armi. 1962
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: CE PERITI
TAVOLA
DELLE
SIGLE
delle opere in volume di Sergio Solmi citate nelle note Lio, È
La letteratura italiana contemporanea, tomo 1. Seritton negli anni, Adelphi, Milano, 1992.
LUL.
La luna di Laforgue e altri scnitti di letteratura francese, Mondadori, Milano, 1976.
PA.
Il pensiero di Alain, Scheiwiller, Milano, 1930.
‘Puri
Poesie, meditazioni e ricordi, tomo I. Poeste e versioni poe-
tiche, Adelphi, Milano, 1983. Pm.r., I
Q,L.R.
Poesie, meditazioni e ricordi, tomo II. Meditazioni e ricordi, Adelphi, Milano, 1984. Quadernetto di letture e ricordi, Edizioni il Polifilo, Mi-
lano, 1979.
Sl.
Studi leopardiani, Adelphi, Milano, 1987.
S.M.
La salute di Montaigne e altri scritti di letteratura francese, Ricciardi, Milano-Napoli, 1952.
S.n.a.
Scrittori negli anni, Il Saggiatore, Milano, 1963.
S.s.E
Saggi sul Fantastico, Einaudi, Torino, 1978.
S.s.R
Saggio su Rimbaud, Einaudi, Torino, 1974.
La presente edizione raccoglie in volume gli scritti sparsi e inediti di Sergio Solmi riguardanti critici, scrittori e pensatori italiani del Novecento, non raccolti in L.i.c., I, e datati tra il 1917 (Solmi aveva allora poco più di 17 anni!) e il 1981, lo
stesso anno della morte (con l’aggiunta di una sezione finale che comprende scritti critici su autori stranieri contemporanei). Va ricordato che, mentre per L.i.c., I Solmi aveva lasciato
disposizioni bastevoli, indicando gli scritti da aggiungere al corpo originario del volume, costituito da Scrittori negli anni, nel caso del presente volume è da riferirsi alla specifica volontà di Solmi solo l'accantonamento, in vista di un’eventua-
le futura pubblicazione in più complesso volume, degli scritti qui riuniti nella sezione «Critici e pensatori». Si intende dunque che l’organizzazione generale del libro, soprattutto per ciò che riguarda le sezioni «Frammenti di estetica e di teoria letteraria», «Scrittori italiani contemporanei» e «Note su autori stranieri», è da attribuirsi alle decisioni del curato-
re, consigliato dai famigliari di Solmi. Occorre anche precisare che, mentre i titoli delle quattro sezioni in cui si divide il volume sono stati apposti dal curatore (come pure allo stesso si devono i titoli delle diverse sottosezioni secondo le quali si articolano i «Frammenti di estetica e di teoria letteraria»), i titoli dei singoli scritti sono quelli originali dell’autore; salvo che, per titoli di articoli di rivista o di giornale, l’au-
tore medesimo, rivedendoli in vista di un'eventuale pubbli cazione in volume, abbia dato indicazioni e disposizioni diverse. In assenza di titolo, infine, lo stesso è stato attribuito
dal curatore. Le poche note a piè pagina sono dell’autore.
DIS
NOTE A «CRITICI E PENSATORI» (pp. 11-149) p. 13 Debenedetti: «Saggi critici» (il titolo è del curatore), già Saggi critici, in «L'Italia letteraria», V, 32, 10 novembre 1929, p.-8
. 14 «presso Giacomo Debenedetti»: Giacomo Debenedetti (Biella 1901-Roma 1967) fu uno dei maggiori critici del Novecento. Assieme a Solmi, M. Gromo e E.F. Sacerdote, diede vita a
Torino, dal maggio 1922 al dicembre 1923, alla rivista «Primo Tempo». Anche dopo il trasferimento di Solmi a Milano, nel 1924, e di Debenedetti
a Roma,
nel 1936, la loro amicizia
non venne meno. Fu Debenedetti (al quale si deve pure l’anonima quarta di copertina del libro) a proporre a Solmi di raccogliere e pubblicare, nel 1963, i saggi di Scrittori negli anni (ora in L.i.c., I, pp. 11-409). E si veda, sotto, alle pp. 22-27 quanto scritto da Solmi nel primo anniversario della scomparsa dell’amico.
« “Saggi critici”»: cfr. G. Debenedetti, Saggi critici (Serie prima), Edizioni di Solaria, Firenze, 1929 (le citazioni tratte dalla Pre-
fazione ad essi si trovano a p. 15). p. 15 « “direttamente e senza simboli intellettualistici...*»: cfr. Saggi critici, cit., p. 17.
«il “caso Radiguet”»: il giovanissimo scrittore francese Raymond Radiguet (1903-1923), autore altresì di versi e pagine critiche, legò la sua fama soprattutto al suo primo romanzo, Le diable au corps (1923), cui seguì, postumo, Le dal du comte
d’Orgel (1924). «in un saggio ... aderentissimo alla sua materia»: cfr. Cauto omaggio a Radiguet, seguito da Vera natura dei romanzi di Radiguet, in
Saggi critici, cit., pp. 49-78.
pp. 15-16 «:/ problema delle “intermittences du ceur*»: sulle prou-
stiane «intermittenze del cuore» (per le quali si veda l’ultima sezione del cap. Ix di Sodome et Gomorrhe, in M. Proust, A la recherche du temps perdu, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1954, t. II pp. 751-81), cfr. Commemorazione di Proust, in Saggi critici,
cit., pp. 236 sgg.
i
p. 17 «“Il gusto dei primitivi” del Venturi»: ibidem, alle pp. 25785, la recensione a Il gusto dei primitivi (Zanichelli, Bologna, 1926) di Lionello Venturi.
556
«il richiamo a Nietzsche»: «Il genere a cui appartiene è quello di certe opere di suggestione morale e altamente pedagogica, tra cui le Considerazioni inattuali del Nietzsche tengono il primato» (ibidem, p. 280). p. 18 «nei primi saggi ... sul Michelstaedter e sul Croce»: cfr. Sullo
«stile» di Benedetto Croce e Michelstaedter, în Saggi critici, cit., pp. 17-29 e 31-46. I due saggi erano apparsi la prima volta rispettivamente nel numero mo Tempo», cit.
4-5 e nel numero 6 della rivista «Pri-
«i grandi saggi ... dedicati al Saba e al Proust»: cfr. La poesia di Saba e Per Saba, ancora, in Saggi critici, cit., pp. 91-137 e 139-74;
nonché i saggi proustiani subito dopo citati da Solmi: Proust 1925, Proust e la musica, Commemorazione di Proust, ibidem, pp.
1777-98, 199-219 e 221-55.
p. 20 «nello studio che chiude il volume»: cfr. Critica ed autobiografia, ibidem, pp. 287-98; le due citazioni tratte da esso si trovano a p. 290. «in “Amedeo”»: cfr., sotto, la recensione fatta da Solmi a questo libro, in Tendenze nuove, alle pp. 268-71.
p. 21 «ciò ch'egli dice di quella del Proust»: cfr. Proust 1925, cit.,
DELTA
p. 22 Ricordo di Giacomo Debenedetti, già Curioso ma fedele, in «La Fiera letteraria», XLIII, 5, 1° febbraio 1968, p. 11; quindi in
Giacomo Debenedetti,
a cura di C. Garboli, Il Saggiatore, Mila-
no, 1968, pp. 107-12.
«alla “Lega Latina”, assieme a Jean Luchaire»: Jean Luchaire, figlio dello storico francese Julien (1876-1962) specialista del Medioevo italiano e direttore dell’Institut Francais a Firenze,
svolse gli studi in Italia dove fondò e diresse della «Lega latina per la gioventù». Trasferitosi dicò al giornalismo. Fu fucilato alla fine della ra mondiale per l’attività collaborazionistica l’occupazione tedesca della Francia.
il movimento a Parigi, si deseconda guersvolta durante
p. 23 «alla rivistina “Primo Tempo*: cfr., sopra, la nota su Debenedetti a p. 14. «nel più vasto movimento cui aveva dato ... vita Piero Gobetti»: Piero Gobetti (Torino 1901-Parigi 1926), nonostante la sua breve esistenza, attraverso i suoi scritti e le riviste da lui fondate e dirette — il quindicinale «Energie Nove» (novembre 1918-
557
febbraio
1920)
e il settimanale
«La Rivoluzione
liberale»
(febbraio 1922-novembre 1925), alle quali si aggiunse il periodico letterario «Il Baretti» (iniziato il 23 dicembre 1924 e sopravvissuto al suo fondatore fino al 1928) — condusse una
battaglia ideologico-culturale, improntata ai principi di un liberalismo accentuatamente democratico, destinata a lasciare
un segno indelebile. Prima di tutto nei coetanei che, come Solmi, ne compresero pienamente il valore intellettuale e morale. Strenuo oppositore del fascismo, per cui fu vittima di una violenta aggressione da parte dei sicari di Mussolini, all’inizio del 1926 emigrò a Parigi, dove morì poco tempo dopo il suo arrivo per le conseguenze delle lesioni subite. «nell’accogliente casa di corso San Maurizio»: la casa torinese della famiglia Debenedetti, in corso San Maurizio 52. «nella prefazione alla ristampa dei suoî primi “Saggi cnitici*»: cfr. Probabile autobiografia di una generazione, in Saggi critici, Mondadori, Milano, 1952, p. 7. «non solo Croce e Gentile, ma anche Bergson, William James, Thi-
baudet: i due maggiori esponenti dell’idealismo italiano, Benedetto Croce (Pescasseroli, L'Aquila, 1866-Napoli 1952) e Giovanni Gentile (Castelvetrano, Trapani, 1875-Firenze 1944); il filosofo intuizionista francese Henri Bergson (1859-1941); il filosofo americano William James (1842-1910), fondatore del
cosiddetto «pragmatismo»; nonché Albert Thibaudet (18741936), maestro della critica francese primonovecentesca. «all'incontro ... di Giacomino con l’opera dì Proust»: per i primi saggi di Debenedetti su Proust, cfr., sopra, la nota a p. 18. Il critico dedicò a questo autore prediletto altri studi successivi e una parte notevole de /l romanzo del Novecento, uscito postumo nel 1971 presso l’editore Garzanti (Milano).
p. 24 «di “Amedeo e altri racconti*»: cfr., sopra, la nota a p. 20. (Amedeo fu ripubblicato autonomamente nel 1967, a Milano, presso Scheiwiller). «Spitzer e Debenedetti»: anche il linguista e critico austriaco Leo Spitzer (1887-1960), maestro della critica stilistica, rivolse il
suo interesse, come Debenedetti, a Proust (cfr. Marcel Proust
e altri saggi di letteratura francese, 1959).
«Oggi, in cui si compie l’anno della morte di Giacomino»: il critico
era morto il 20 gennaio 1967. «Quanto al comunismo»: Partito comunista.
Debenedetti,
558
dal 1944, fu iscritto al
p- 25 «delle nostre lontane frequentazioni gramsciane e gobettiano»:
per Gramsci e Gobetti cfr. rispettivamente, sotto, la nota a p. 124 e, sopra, la nota a p. 23.
«Il suo Croce ... îl suo Proust ... il suo Saba»: per i saggi di Debenedetti su di essi cfr., sopra, le rispettive note a p. 18.
«in un breve scritto, “Critica ed autobiografia”»: cfr. Critica ed autobiografia, cit., pp. 291-98. p. 26 «La critica di Debenedetti ... dal Gargiulo, definita “psicologica”: cfr. A. Gargiulo, Umberto Saba, in Letteratura italiana del Novecento, Le Monnier, Firenze, 1940, pp. 155-63, dove il con-
cetto è ribadito più volte.
«la sua opera ... di consulente editoriale»: essa si svolse nell’ambito della casa editrice milanese Il Saggiatore di Alberto Mondadori. p. 28 Filippo Burzio, già Filippo Burzio, «Ritratti». «Discorso sul demiurgo - L'inverno», in «Pegaso», I, 9, settembre 1929, pp. 369-73.
«di Filippo Burzio»: Filippo Burzio (Torino 1891-Ivrea 1948), ingegnere ed esperto di tecnica balistica, insegnò all’Accademia militare di Torino, ma fu soprattutto noto come giornalista e scrittore
(collaborò, tra l’altro, a «La Stampa», della
quale fu anche direttore dal 1945 al ’48). p. 29 «nei “Ritratti” ... nelle ironiche divagazioni naturali dell’“Inverno” ... nel lungo “Discorso sul demiurgo»: cfr. F. Burzio, Ritratti, Ribet, Torino,
1929, e Discorso sul demiurgo - L'inverno,
Ribet, Torino, 1929.
«egli ci indica ... i suoì primi maestri»: cfr. Pareto e altri, in Ritratti, cit., p. 11: «Se, giunto quasi al mezzo del cammino della vita,
io mi volga un istante a considerarne le tappe, trovo che cinque nomi possono rappresentarle ... . Quei nomi sono, cronologicamente, Rousseau, Croce, Bergson, Goethe, Pareto».
«nel saggio dedicato ... a quei maestri»: cfr. Cinque maestri, in Pareto e altri, cit., pp. 11-22. «del saggio su Giolitti ... di “Ginevra - Vita nuova ”: cfr. Giolitti,
in F. Burzio, Politica demiurgica, Laterza, Bari, 1923, pp. 41-79; e Ginevra - Vita nuova, Treves, Milano, 1920. p. 30 «I “ritratti” di Machiavelli, di Rousseau, di Talleyrand»: cfr.
Talleyrand e Machiavelli, in Ritratti, cit., pp. 35-48 e 49-73; e, per Rousseau, le pp. 12-15 a lui dedicate in Cinque maestri, cit.
359
« Vilfredo Pareto nel suo romitaggio svizzero»: cfr. La personalità di
Pareto, in Pareto e altri, cit., pp. 23-34, e in particolare le pp. 27 e 30. Vilfredo Pareto (Parigi 1848-Céligny, Ginevra, 1923), sebbene laureatosi in ingegneria e divenuto direttore della Società delle Ferriere italiane di San Giovanni Valdarno, coltivò
soprattutto i suoi interessi di economista e sociologo, fino a ottenere la cattedra di Economia politica presso l’Università di Losanna, dove insegnò dal 1893 al 1906, contribuendo alla for-
mazione della cosiddetta «scuola di Losanna». «Bernard
Groethuysen a spasso per i viali di Pontignw:
cfr.
Groethuysen e il borghese, in Ritratti, cit., p. 90. Lo storico tedesco Bernard Groethuysen (1887-1946) scrisse sia in francese
sia in tedesco la sua opera principale, Origines de l’esprit bourgeoîs en France, da Solmi sottocitata, la cui prima parte era uscita nel 1927. Per Pontigny, cfr., sotto, la nota a p. 141.
«“A ogni istante, inquadrati in un disegno sintetico...”»: cfr. La personalità di Pareto, cit., pp. 24-25.
«Le note sulle “Origines de l’esprit bourgeois en France” del Groethuysen e sul “Borghese” di Sombarb»: cfr. Groethuysen e il borghese e Sombart e il capitalismo, in Ritratti, cit., pp. 87-99 e 11540. Werner Sombart (1863-1941), economista, sociologo e storico tedesco, autore, fra l’altro, di Der Bourgeois (1920), og-
getto dello studio del Burzio. «l'interessante saggio finale sul libro del Meyerson»: cfr. il saggio Neopositivismo, in Ritratti, cit., pp. 1'72-82, vertente su De l’explication dans les sciences (1921),
opera del filosofo francese
Emile
Meyerson (1859-1933). p. 31 «del problema della Natura ... attorno a cui tanto si affaticò ... la mente dello Hegeb: alla Filosofia della natura è dedicata la seconda parte dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio del filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831). «negato ... dal Croce, sulle orme degli spiritualisti francesi»: cfr. il capitolo dedicato a Le scienze naturali, in B. Croce, Logica come
scienza del concetto puro, Laterza, Bari, 1942, pp. 212-32. «questo meditativo passeggiatore alla Rousseau»: quale il Burzio appare in L'inverno da Solmi sottocitato. Quanto all’allusione a J.]. Rousseau, di cui sono noti i vagabondaggi, essa si riferisce in particolare alle sue Réveries du promeneur solitaire (1'782). «Nelle pagine dell’“Inverno*»: cfr. L'inverno, nel Discorso sul demiurgo - L'inverno, cit., pp. 99-181.
560
p. 32 «l’idea, disegnata nel suo “demiurgo”»: cfr. Discorso sul de-
miurgo, ibidem, pp. 7-98.
«il Valéry ... col suo signor Teste e col suo Leonardo»: cfr. Paul Valéry, Monsieur Teste, in Euvres, t. II, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1960, pp. 9-75; e Introduction à la méthode de Léo-
nard de Vinci, nonché Note et digression e Léonard et les philosophes, in CEuvres, cit., t. I, 1957, pp. 1153-269.
«“che il mondo moderno debba ancora costruirsi ... la propria felicità”»: cfr. l’Avvertenza apposta a Ritratti, cit., p..7, nella quale
sì fa riferimento anche al Discorso sul demiurgo. «la polemica ... di un Bend@: il filosofo e romanziere francese Julien Benda (1867-1956) nel suo libro La trahison des cleres (1927) aveva accusato gli intellettuali di aver tradito l’univer-
salismo della cultura per lasciarsi coinvolgere nei particolari smi della politica contingente, quale soprattutto il nazionalismo. p. 33 «assumere la vita in un’atmosfera ... “goethiana”»: cfr., ad
esempio, Discorso sul demiurgo, cit., p. 96: «“Chi ha l’arte e la scienza, costui ha la religione” diceva Goethe, e il demiur-
go aggiunge: chi ha il distacco e il magico, costui ha la felicità». « “ove, inventando, l’attività si basta”»: cfr. il Discorso sul demiurgo, cit., p. 98. pp. 33-34 « “restare nel tempo, ma con animo eterno»: ibidem.
p. 34 «l’antica saggezza di Marc’Aurelio»: l’imperatore romano Marco Aurelio (121-180 d.C.) scrisse in greco i suoi Pensieri (tà. eis éavtov), improntati a un disincantato stoicismo.
p. 35 L'estetica di Tilgher, già Adriano Tilgher, «Estetica», in «Pegaso», III, 6, giugno 1931, pp. 742-48. «attorno all’opera del Croce»: cfr., sotto, alle pp. 85-94, la posi-
zione di Solmi in proposito esposta in /l Croce e not. p. 36 «le recenti speculazioni di un Gentile»: La filosofia dell’arte di G. Gentile era uscita nel 1931. «questa “Estetica” di Adriano Tilgher»: cfr. A. Tilgher, Estetica, Libreria di Scienze
e Lettere, Roma,
1931. L’autore
(Resina,
Napoli, 1887-Roma 1941) fu pensatore e saggista fecondo (qualche altra delle sue numerose opere è citata da Solmi
più avanti).
561
«le “voci del tempo”»: cfr. A. Tilgher, Voci del tempo, Libreria di Scienze e Lettere, Roma, 1921.
p. 37 «dal primo fichtismo rammodernato al recente irrazionalismo e idealismo relativistico»: dalla suggestione dell’idealismo trascendentale di Fichte a quella di pensatori otto-novecenteschi, quali H. Vaihinger, A. Einstein e O. Spengler, dal Tilgher studiati in Relativisti contemporanei, Libreria di Scienze e Lettere, Roma, 1921?.
«come îl teatro di Pirandello ... abbia ... trovato in lui ... il suo autorizzato interprete filosofico»: cfr. Il teatro di Luigi Pirandello, in A. Tilgher, Studi sul teatro contemporaneo, Libreria di Scienze e Lettere, Roma, 1923?, pp. 157-218. «del tipo di Missiroli»: Mario Missiroli (Bologna 1886-Roma 1974), giornalista e scrittore, fu direttore di vari quotidiani, fra cui, dal 1952 al ’61, il «Corriere della Sera». Dopo aver avversato il fascismo (fino a sostenere, nel 1922, un duello con
Mussolini), finì per aderirvi dopo la Conciliazione, nel 1929.
«nella introduzione agli “Studi sul teatro contemporaneo”: cfr. L’arte come originalità e i problemi dell’arte, in Studi sul teatro contemporaneo, cit., pp. 5-42. p. 38 «quel concetto della “catarsi” ... attorno a cui il pensiero del Croce s'è così tormentosamente esercitato»: dall’ Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, Laterza, Bari, 1908 (terza edizione riveduta), pp. 24-25, ai Nuovi saggi di Estetica, Later-
za, Bari, 1919, pp. 121 sgg. «nella vecchia “Estetica”»: Croce stesso, nell’ Avvertenza apposta
ai Nuovi saggi di Estetica, cit., p. VI, definì «prima Estetica» l Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale. «il “contenuto” ... da lui additato una volta nell’effettivo sentimento pratico dell’artista»: cfr. B. Croce, Filosofia della pratica, Laterza, Bari, 1909, pp. 183-89. p. 39 « “individuale e universale come ogni forma ed atto dello spirito”»: cfr. B. Croce, Nuovi saggi di Estetica, cit., p. 123. Solmi riprende la citazione dal Burzio (cfr. Estetica, cit., pp. 17-18), ma veramente nel testo del Croce è scritto «del reale», e non
«dello spirito». p. 40 « “per speculum et in aenigmate*»: cfr. Paolo, Prima Epistola ai Corinzi, 13, 12. p. 41 « “tensione verso qualcosa che le manca... ’»: cfr. Estetica, cit., p.33.
562
p. 42 « “sine labe pratica” ... “sine labe intellectuali*»: «senza contaminazione pratica» ... «senza contaminazione intellettuale». p. 43 « “L'estrinsecazione fisica non è, dunque, inessenziale al processo estetico...”»: cfr. Estetica, cit., p. 115 (da «almeno» fino alla fine della citazione il corsivo è di Solmi).
p. 44 « “Un’arte al di qua della coscienza critica e riflessa...”»: ibidem, p. 99. p. 47 Francesco Flora: «I miti della parola», in «Pegaso», III, 9, di-
cembre 1931, pp. 367-71.
p. 48 «in una specie di iperuranio platonico 0 matematico»: ovvero nella sfera della pura astrazione (nell’«iperuranio» Platone voleva avessero dimora le idee). «Francesco Flora»: Francesco Flora (Colle Sannita, Benevento,
1891-Bologna 1962) fu critico di stretta osservanza crociana, ma anche dotato di gusto sensibile e attento ai valori formali. Compose un’ampia Storia della letteratura italiana (19401945) e dedicò studi, fra l’altro, al Tasso, al Leopardi e al D’Annunzio, interessandosi anche di letteratura contemporanea, nonostante la globale condanna di essa da parte del
Croce. Fondò e diresse «La Rassegna d’Italia», rivista che uscì a Milano dal 1946 al 1949 (nell’ultimo anno sotto la direzione di Solmi).
«il suo primo libro ... sì chiudeva ... con una appassionata apologia del Croce»: cfr. F. Flora, Benedetto Croce, in Dal romanticismo al futurismo, Porta, Piacenza, 1921, pp. 255-300. p. 49 «il recente libretto della collezione “Athena*»: cfr. F. Flora, Croce, Athena, Milano, 1927.
«come l’Ariosto ... il D'Annunzio ... come il Leopardi della “Ginestra” e delle “Operette”»: cfr. B. Croce, Ariosto, in Ariosto, Shakespeare e Corneille, Laterza, Bari, 1920, pp. 1-72; D'Annunzio, in La letteratura della nuova Italia, vol. IV, Laterza, Bari, 1915, pp. 7-70; Leopardi, in Poesia e non poesia, Laterza, Bari, 1946*, pp. 97-113.
p. 50 «la negazione della fondamentale unità ... della “Commedia”»: cfr. B. Croce, La poesia di Dante, Laterza, Bari, 19589,
pp. 67-68. «“I miti della parola”: cfr. F. Flora, I miti della parola, Vecchi e C., Trani, 1931.
563
«il saggio che dà il titolo al libro»: cfr. I miti della parola, nel libro omonimo, cit., pp. 5-46.
p. 51 «il “Aluido spazio”: anche se questa espressione precisa non è del Flora, essa ne echeggia altre consimili e ne rende il concetto. « “nessuna immagine sarebbe comprensibile..."»: cfr. I miti della parola, cit., p. 16.
« “dolce color d’oriental zaffiro”»: Purgatorio, 1, 13. «riprendendo oggi la polemica crociana contro le distinzioni e gli schemi classici e retorici»: cfr. La creazione artistica, in I miti della
parola, cit., pp. 216-17; e, per quanto riguarda B. Croce, la sua Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, cit., pp. 40-44 e 490-506, nonché i Nuovi saggi di Estetica, cit., pp. 49
sgg. p. 52 «che filosofia non si dà se non sui vivi problemi...»: secondo la fondamentale identità tra filosofia e storia sancita dal Croce.
p. 54 « “Quanti sanno comprendere che anche un grande poeta... ”»: cfr. Tradizione e classici, in I miti della parola, cit., pp. 275-87. «la musica di Clorinda e di Erminia, e il mito delle isole della For-
tuna®: i due celebri personaggi femminili della Gerusalemme liberata tassesca e il favoloso luogo in cui si svolgono, nel canto XXVI del poema, gli amori di Armida e Rinaldo. «del poeta della “Gerusalemme” te del Tasso sul Leopardi
su quello degli “Idilli”»: ovviamen(del quale, subito dopo, è citato
L'infinito).
p. 55 «dell'autore dell’“Estetica”»: per antonomasia, B. Croce, autore dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, cit.
p. 56 «Galleria» di Cajumi, in «L'Italia letteraria», VII, 11, 15 marzo 1931, p. 8.
«Arrigo Cajumi»: il saggista e scrittore Arrigo Cajumi (Torino 1899-Milano
1955), non avendo aderito al fascismo, dovette
interrompere nel 1928 la sua collaborazione di critico letterario a «La Stampa», e quando, nel 1935, il regime soppresse la rivista «La Cultura», di cui era stato condirettore dal 1930, si astenne per un decennio dal pubblicare alcunché. Le sue note e riflessioni di quel periodo videro la luce, con il
titolo Pensieri di un libertino, solo nel 1947. Il Cajumi pubblicò
564
anche un romanzo, /l passaggio di Venere (1948), e tre raccolte di saggi, fra cui quella qui recensita da Solmi (cfr. altresì, sotto, il Ricordo di Arrigo Cajumi, alle pp. 63-68). «della propria “inattualità” in senso nietzschiano»: allusione alle Considerazioni inattuali (18'73-1876) di F. Nietzsche. « “L'Arte del ritratto” ... “Parabola di venticinque anni»: cfr. i due
saggi in A. MAR I cancelli d’oro, Corbaccio, Milano, 1926, pp. 13-20 e 117-95.
p. 57 «gli addebiti fatti al Croce»: cfr. Parabola di venticinque anni, cit., pp. 179-84. «in “Galleria”»: cfr. A. Cajumi, Galleria, Buratti, Torino, 1930.
«Nel saggio che concludeva il suo precedente libro»: cfr. Parabola di venticinque anni, cit., p. 195.
«nell’opera del Carducci»: s'intende, in quella del Carducci critico che, muovendo dal dato storico e filologico, rivolse la sua attenzione al fatto letterario in sé, a prescindere da impostazioni estetico-filosofiche, cui rispondeva invece la criti-
ca di F. De Sanctis e della sua scuola, ricordata subito dopo. «questo “ritorno al Carducci”, già caldeggiato dal Croce: cfr. B. Croce, Carducci, in Poesia e non poesia, cit., pp. 326-33.
p. 58 «della psicologia alla Sainte-Beuve»: lo scrittore e critico letterario francese Charles-Augustin de Sainte-Beuve (18041869) fu autore di alcune raccolte di Portraits letterari a cui il
Cajumi sembra essersi ispirato per i «ritratti» della sua Galleria. Di Sainte-Beuve Solmi cita in appresso anche Mes poîsons, riflessioni diaristiche pubblicate postume nel 1926, il romanzo autobiografico Volupté (1834) e il monumentale Port-Royal (1840-1859), storia della celebre abbazia di questo nome
e
del movimento spirituale di cui fu il fulcro nel Seicento. «il commosso omaggio dedicato ... al Sainte-Beuve»: cfr. Ex-voto, in Galleria, cit., pp. 11-20.
«l’uomo che non seppe comprendere Baudelaire: pur apprezzandone alcuni aspetti, Sainte-Beuve misconobbe la grandezza della poesia di Baudelaire (cfr., ad esempio, Les prochaines élections de l’Académie, in Nouveaux Lundis, Lévy Frères, Paris,
1870?, t. I°, pp. 400-402). pp. 58-59 « “un uomo, un nostro fratello”»: cfr. Galleria, cit., p.
20. La citazione è tratta dalla conclusione di The History of
Pendennis (1848-1850), romanzo di W.M. Thackeray.
565
p. 59 «Restif anziché Laclos, Pindemonte invece di Foscolo, Mérimée in luogo di Stendhab: cfr. Un maniaco, Il Cavaliere Ippolito, Mérimée e la coscienza del Romanticismo, in Galleria, cit., pp. 52-59, 115-25
e 153-72, saggi dedicati rispettivamente allo scrittore francese Restif de La Bretonne
(1734-1806), autore di romanzi e no-
velle prevalentemente licenziosi; al poeta Ippolito Pindemonte (Verona 1753-1828), e a Prosper Mérimée (1803-1870), lo scrittore francese noto soprattutto ‘per i suoi racconti, fra cui . Colomba (1840) e Carmen (1845). A questa triade Solmi contrappone un’altra di autori coevi e affini per nazionalità e ambiti letterari, ma molto più complessi: Pierre Choderlos de Laclos (1741-1803), il descrittore delle sottili perversioni dei per-
sonaggi di Les liaisons dangereuses (1782), Ugo Foscolo (Zante 17778-Turnham Green, Londra, 1827), e un romanziere come Stendhal, pseudonimo di Henri Beyle (1783-1842).
p. 60 «di Lauzun e del principe di Ligne ... della Staél ... di Carlo Bini ... della Sand ... del Mérimée»: cfr., oltre a quello già citato su Mérimée, i saggi Lauzun lo sfortunato, Un mondo perduto, Ancora la Staél, Un amore di provincia, La Sand cinquant'anni dopo, in Galleria, cit., pp. 31-39, 83-92, 61-81 e 127-38 e 173-92, concernenti rispettivamente l’ufficiale francese Antonin Nompar de Caumont La Force, duca di Lauzun (1633-1723), il maresciallo austriaco Charles Joseph, principe di Ligne (1735-1814), la scrittrice francese Madame de Staél (17661817), il patriota e scrittore Carlo Bini (Livorno 1806-Carrara 1842), la romanziera francese George Sand, pseudonimo
di Aurore Dupin Dudevant (1804-1876).
p. 61 «la sua analisi della poesia del Monti»: cfr. Monti, 0 l’occasione perduta, ibidem, pp. 103-14, saggio dedicato al poeta neoclassico Vincenzo Monti (Alfonsine, Ravenna, 1754-Milano 1828).
«come Rivarol, Galiani o Courier»: cfr. Fuochi d'artificio e La Signora e l'Abate, ibidem, pp. 41-49 e 21-29, saggi nei quali si parla rispettivamente dello scrittore francese Antoine Rivaroli, detto il conte di Rivarol (1753-1801), e dell’economista e let-
terato abate Ferdinando Galiani (Chieti 1728-Napoli 1787). Quanto al polemista francese Paul-Louis Courier (17721825), cfr. Un libellista, in I cancelli d’oro, cit., pp. 143-50.
«del tipo di un Suarès»: sullo scrittore francese André Suarès, pseudonimo di Félix-André-Yves Scantrel (1868-1948), Gli eroi di Suarès, in Galleria, cit., pp. 225-52.
cfr.
«Benda nella sua denuncia del “tradimento degli intellettuali”»: cfr. La morale degli intellettuali, ibidem, pp. 253-67, e, sopra, la nota su Benda a p. 32.
566
«di Maurras e di Daudet: per gli scrittori francesi Charles Maurras (1868-1952) e Alphonse Daudet (1840-1897) cfr. JI sordo e il fanfarone, in Galleria, cit., pp. 233-52. pp. 61-62 «del libro di Thibaudet»: cfr., in La morale degli intellettuali, cit., le pp. 263-67, dedicate a La République des professeurs (1928) di Albert Thibaudet.
«d'uno Strachey e d’un Maurois»: lo scrittore inglese Giles Lytton Strachey (1880-1932), autore di schizzi biografici di personaggi contemporanei e di una biografia della Regina Vittoria (1921), e il francese
André
Maurois,
pseudonimo
di Emile
Herzog
(1885-1967), soprattutto noto per le sue biografie romanzate.
« “Settembre a Coppet”»: cfr. la seconda parte, così intitolata, del saggio Ancora la Staél, cit., pp. 73-81.
p- 63 Ricordo di Arrigo Cajumi, in «L’Illustrazione Italiana», 82, 11, novembre 1955, p. 83. «La morte di Arrigo Cajumi»: era avvenuta il 7 ottobre 1955.
p. 64 «a un Gourmont o a un Léautaud»: gli scrittori francesi Remy de Gourmont (1858-1915), autore di opere di narrativa, poesia e critica, nonché di saggi letterari e filosofici dallo stile antilibresco e dal carattere anticonformista; e Paul Léautaud (1872-1956), qui ricordato per il suo voluminoso Diario
letterario (1954-1965), composto di osservazioni e ritratti critici vivaci e generalmente caustici. «amministratore delegato della Cokitalia»: durante il periodo del-
l’inattività giornalistica, il Cajumi fece carriera nell’ambito dell’amministrazione industriale.
p. 65 «della “Stampa” e del “Mondo”: dopo la caduta del fascismo, nel 1945, il Cajumi aveva ripreso la sua collaborazione
a «La Stampa» di Torino, pubblicando articoli anche su periodici, quali «Il Mondo».
pp. 65-66 «di “bouquiniste”»: ricercatore di libri usati. p. 66 «Nei “Cancelli d’oro” ... e in “Galleria”»: cfr., sopra, le ri-
spettive note a pp. 56 e 57. «il modello supremo fu per lui Sainte-Beuve»: cfr., sopra, la nota a p. 58.
«nei “Pensieri di un libertino”»: cfr. A. Cajumi, Pensieri di un libertino, Einaudi, Torino, 1950 (prima edizione integrale).
567
«dopo la soppressione de “La Cultura”: la rivista, fondata nel 1882 a Roma da Ruggero Bonghi (per cui cfr., sotto, la nota a p. 147) e da lui diretta fino alla morte, proseguì le sue pubblicazioni fino al 1913, e poi dal 1921 al 1935, quando fu sop-
pressa dal regime fascista. «sul modello del “libertino” seicentesco»: ovvero quello del «libero pensatore», secondo l’accezione che il termine «libertino»
assunse, nel Seicento, in Francia e in altri paesi europei. pp. 66-67 «del piemontese di formazione risorgimentale e cavouriana»: quale era il Cajumi, che si autodefinì «Cavouriano tenace» (cfr. Pensieri di un libertino, cit., p. 166).
p. 67 «l'ammirazione ... per l’opera di D'Annunzio, e l’abbassamento di Verga»: cfr. rispettivamente, ibidem, pp. 34 e 323-24. «anteporre Mérimée a Stendhal, Tommaseo a Manzoni, la canzonetta settecentesca a Verlaine: ibidem, pp. 34, 162 e 403.
«la “buona amministrazione” giolittiana»: ibidem, pp. 14041. «ciò ch'egli ... dice del Carducci»: ibidem, p. 418. «a Bayle e a Voltaire ... all’idolatrato Hugo degli “Chàtiments”»: sia lo scrittore e pensatore francese Pierre Bayle (1647-1706),
che con il suo Dizionario storico e critico (1696-1697) precorse lo spirito dell'Illuminismo e dell’Enciclopedia settecentesca,
sia Voltaire stesso (1694-1778) sono evocati sovente nei Pen-
steri di un libertino, cit. Anche l'ammirazione per Victor Hugo (per cui cfr., sotto, la nota a p. 180) soprattutto in quanto autore di Les chatiments (1853), vi ricorre più di una volta (cfr.,
ad esempio, le pp. 89 e 123).
«a un Veuillot e a un Barbey d’Aurevilly»: Louis Veuillot (18131883) fu giornalista e scrittore francese, cattolico militante e
grande polemista. Di Jules Barbey d’Aurevilly (1808-1889), narratore francese ed esempio di cattolicesimo reazionario,
si ricordano soprattutto i racconti di Le diaboliche (1874).
«persino De Maistre»: all’antilluminista e teorico della Restaurazione Joseph de Maistre (1753-1821), scrittore e uomo politico savoiardo, sono dedicate le pp. 486-88 dei Pensieri dì un libertino, cit.; mentre la citazione successiva si trova a p. 420.
p. 68 «il sottoscritto ... gli fu ... vicino nella condirezione de “La Cultura”»: Solmi fu redattore di «La Cultura» dal 1933 al ’35. p. 69 «La fede dei nostri padri», in «L’Ambrosiano», bre 1934, p. 3.
568
1° dicem-
«Il corso ... tenuto da Ernesto Buonaiuti»: Ernesto Buonaiuti (Roma 1881-1946), sacerdote e studioso di storia e filosofia religiosa, autore, fra l’altro, di una Storia del Cristianesimo
(1942-1943), fu l'esponente di maggior rilievo del modernismo religioso in Italia, fino a subire la scomunica nel 1926. Nel 1931, a causa della sua avversione al fascismo, fu anche destituito dall’insegnamento di Storia-del cristianesimo, da
lui svolto dal 1915 presso l’Università di Roma. Le dieci le-
zioni del corso su La fede dei nostri padri, da lui tenuto nell'autunno del ’34 al teatro Arcimboldi di Milano, vennero riunite in un volume dallo stesso titolo (presso Guanda, Modena) solo nel 1944.
«su sant'Agostino e la Città di Dio»: cfr. La città di Dio, ultimo capitolo di La fede dei nostri padri, cit., pp. 281-83.
p. 70 «si rivela ancora qualcosa dell’“habitus” ecclesiastico»: il Buonaiuti aveva dovuto abbandonare il sacerdozio in seguito alla scomunica. p. 71 «un insonne lavorîo di madrepore»: l’immagine dei celenterati produttori di coralli richiama il Solmi «naturalista» di certe poesie, come, ad esempio, Prato (in P.m.r., I, p. 55), e di
alcune pagine in prosa (cfr. Pm.r, II, pp. 16-17, 27 sgg., 5356, 59-60, 67, 78, 163).
p. 72 «Il primo ... viene affermato nell’insegnamento di Zarathustra»: cfr. Il profeta del dualismo, in La fede dei nostri padn,, cit., pp. 77-116. Zarathustra (o Zoroastro), antico riformatore della religione persiana, vissuto fra il X e il VII secolo a.C., fu
l’iniziatore del mazdeismo, religione basata sul dualismo fra il principio del bene (Ormudz) e quello del male (Arhiman).
«impregna ... il teatro tragico e l’insegnamento presocratico»: cfr. Sulle coste ioniche, ibidem, pp. 141-79.
«nell’aspetto eracliteo della filosofia platonica»: ovvero in quanto essa ritiene del pensiero di Eraclito di Efeso, il filosofo presocratico vissuto all’incirca fra il 540 e il 480 a.C., e considerato il padre della dialettica per la sua convinzione che alla
base di ogni cosa stiano il contrasto e la lotta fra gli opposti. «nello stoicismo»: la scuola filosofica fondata da Zenone di Ci-
zio (circa 335-264 a.C.).
«Il secondo motivo ... trionfa nell’insegnamento aristotelico»: cfr. L'atto puro, in La fede dei nostri padri, cit., pp. 224 sgg. «riesumato dalla Chiesa Cattolica»: s'intende, attraverso la filosofia scolastica e tomistica.
569
p. 74 Una storia universale della letteratura, in «L'Italia letteraria», XI, 4, 26 gennaio 1935, p. 1.
«Oltre un secolo fa Federico Schlegel ... dichiarava»: cfr. F. Schlegel, Storia della letteratura antica e moderna, tradotta da F. Ambrosoli, Soc. tip. dei classici italiani, Milano, 18572, p. 3.
«il Prampolini»:
Giacomo
Prampolini
(Milano
1898-Pisa
1975), forte della sua vastissima conoscenza delle lingue (da quelle classiche e romanze a quelle slave, orientali e scandi-
nave), compose opere di ampia sintesi storica e grande erudizione, quali quelle da Solmi sottocitate. «questa sua “Storia universale della letteratura*»: cfr. G. Prampolini, Storia universale della letteratura, UTET, Torino, voll. I e II,
1933-1934 (a essi se ne aggiunse un terzo, in tre tomi, negli anni 1935-1938).
p. 75 «agli Schlegel in particolare»: i fratelli August Wilhelm (1767-1845) e Friedrich Schlegel (1772-1829), due fraimaggiori teorici e promotori del romanticismo tedesco ed europeo in genere. p. 76 «dei recenti zelatori di una letteratura a programma: allusione alle pretese del regime fascista di imporre le sue direttive anche alla cultura, scopo per cui aveva istituito, nel 1935,
il Ministero della Cultura popolare. «Chi, come il sottoscritto ... ha avuto occasione di vedere il Prampolini...»: sui rapporti fra Solmi e Prampolini cfr., sotto, il Ricordo di Giacomo Prampolini, alle pp. 82-84.
p. 77 «le pagine sulla poesia latina cristiana del medioevo»: cfr. Storia universale della letteratura, cit., vol. II, pp. 206-502.
«dalla recente metodologia îdealistica»: com'è noto, B. Croce aveva delegittimato la distinzione dei generi letterari (cfr., sopra, la nota a p. 51). «facendone delle categorie pseudo-naturalistiche alla Brunetière»: lo scrittore francese Ferdinand Brunetière (1849-1906), in prevalenza autore di opere di storia e critica letterarie, fondate
su princìpi dogmatici, quale quello delle rigide distinzioni dei generi letterari e dei loro sviluppi. «della “tanka” giapponese»: cfr. la Storia universale della letteratura, cit., vol. I, pp. 112 sgg. «accanto ai Veda e ai canoni buddisti»: ibidem, pp. 184-97 e 23460.
570
p. 78 «il sistema propugnato dalla scuola crociana...»: sulla base del saggio di B. Croce La riforma della storia artistica e letteraria, in Nuovi saggi di Estetica, cit., pp. 157-97. «una storia complessiva del teatro elisabettiano»: cfr. Storia universale della letteratura, cit., vol. III, t.1 (1935), pp. 763-819. «di Kalidasa»: cfr. Storia universale della letteratura, cit., vol. I,
pp. 302-308. Il poeta epico indiano Kalidasa visse presumibilmente fra il IV e il V secolo d.C.
p. 79 «il fior di loto di Valmiki richiama la rosa mistica»: i simboli del Ramaiana, antico poema indiano attribuito al leggendario saggio e poeta Valmiki, evocano quelli cristiani. «delle battaglie del Mahabharata ... delle pugne dell’“Iliade”»: V'epos dell’antico poema indiano Mahabharata non è lontano da quello dell’ Iliade omerica. «all’usignolo di Hafiz contrasta il corno di Rolando»: al lirismo di Hafiz, soprannome del poeta persiano Shams al-Din (circa 1320-1390), si contrappone l’epos della Chanson de Roland (X o XI secolo).
«gli amorosi sospiri del povero pescatore malgascio...»: l'antica poesia popolare del Madagascar sembra anticipare la raffinatissima lirica greco-latina di Saffo (VII-VI secolo a.C.) e di Catullo (circa 84-54 a.C.).
pp. 80-81 «Limitiamoci ad un raccontino filosofico ... dopo tanto idealismo, relativismo e pirandellismo»: Solmi contrappone la saggezza dell’apologo (in Storia universale della letteratura, cit., vol. I, p. 32)
all’intellettualismo delle correnti filosofiche e della cultura contemporanea, di cui una manifestazione gli appare il cosiddetto «pirandellismo» o cerebralismo dell’opera di Pirandello. p. 82 Ricordo di Giacomo Prampolini, già Un uomo per tutte le letterature, in «Il Giorno», 5 agosto 1975, p. 3.
«uno stelloncino sulla “Stampa”»: cfr. «La Stampa», 26 aprile
1975, p. 17.
«perché collaboratore dell’UTET>»: la nota Casa editrice torinese, oltre alla Storia universale della letteratura, cit., pubblicò pure la Letteratura universale, antologia di testi, in tre volumi, 1974, da Solmi sottocitata.
«a breve distanza da casa nostra»: Solmi abitò, dal 1935 al 61, in via Fogazzaro 27: come via Besana, nel quartiere milanese di Porta Vittoria.
DIE
«alcuni delicati volumetti di poesie»: cfr. G. Prampolini, Dall'alto silenzio, Scheiwiller, Milano, 1928; Segni, Artigianelli, Pavia, 1981; e Porticello, Scheiwiller, Milano, 1959; nonché, sotto, le recensioni di Solmi alle prime due raccolte, alle pp. 300-307.
p. 83 «Benedetto Croce ... ne fece ... un elogio senza riserve»: cfr. B. Croce, Giacomo Prampolini, «Storia universale della letteratura»,
in «La Critica», XXXIII (1935), pp. 301-302 (poi in Nuove pagine sparse, vol. II, Ricciardi, Napoli, 1949, pp. 122-23).
«Logan Pearsall Smith»: il filologo inglese di questo nome (1865-1946), autore altresì di raccolte di brevi riflessioni e aneddoti, quali Trivia (1918) e More Trivia (1922). «altri libri di lui»: cfr. G. Prampolini, Cosecha, Antologia della lìrica castellana, Scheiwiller, Milano, 1934; Quinquaginta carmi na latina Medi Aevi, Scheiwiller, Milano, 1930. « “Il tesoro nascosto”»: cfr. G. Prampolini, Il tesoro nascosto, Hoepli, Milano, 1934. «“Panciatantra”
...
“Mille e una
notte”»:
raccolte,
rispettiva-
mente della novellistica sanscrita e di quella araba. « “Mitologia nella vita dei popoli”»: altra opera ponderosa di Prampolini, in due volumi, Hoepli, Milano, 1937-1938.
«sulle orme del Frazen: di James George Frazer (1854-1941), lo studioso di storia delle religioni ed etnologo inglese, la cui opera più nota è Il ramo d’oro (1890).
p. 84 «A Spello ... dedicò un libretto»: cfr. G. Prampolini, Spello, Tipografia Porziuncola-Santa Maria degli Angeli, Assisi, s.d. (ma 1968). «a un convegno tenutosi a Venezia verso la fine del 1945»: non si è riusciti a trovarne notizia: forse Solmi equivoca con quello del settembre 1949, per cui cfr., sotto, la nota a p. 101.
p. 85 Il Croce e noi, in «La Rassegna d’Italia», I, 2-3, febbraiomarzo 1946, pp. 255-60.
«alla scuola del Croce»: sull’influenza esercitata sulla cultura italiana del primo Novecento dal pensiero di Benedetto Croce (Pescasseroli, l'Aquila, 1866-Napoli 1952), esposto in opere capitali, quali Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, Filosofia della pratica e Logica come scienza del concetto puro, già citate, nonché Teoria e storia della storiografia (1917), La poesia (1936), La storia come pensiero e come azione (1938), e altre, cfr. anche, sotto, La critica letteraria in Italia, alle pp. 100-
SO.
dD72
«che Ortega y Gasset ha definito l’“uomo-massa”»: cfr., sotto, Il te-
ma del nostro tempo, alle pp. 520-59, e la nota a p. 520.
p. 86 «l'influenza della moderna cultura francese»: essa costituì, fino alla seconda guerra mondiale, un punto di riferimento e un modello per la cultura italiana e, come dice Solmi poco sotto, non solo italiana.
p. 87 « “esprit de finesse”»: 0 «spirito intuitivo», secondo la celebre definizione pascaliana, per cui cfr. Pensées, in L’euvre de
Pascal, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1950, pp. 826-277. p. 89 «Superstite mitologia hegeliana...»: per il rapporto CroceHegel cfr. B. Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel, Laterza, Bari, 1907 (poi Saggio sullo Hegel, Laterza,
Bari, 1913). «il nostro indimenticabile Eugenio Colorni»: Eugenio Colorni (Milano 1909-Roma 1944), nobile figura di studioso e patriota, insegnò filosofia all’Università di Trieste. Arrestato nel settembre
1938 e inviato al confino, dopo 1’8 settembre del
1943 divenne uno degli animatori e protagonisti della Resistenza, nella quale trovò la morte.
«la prima “Estetica”»: cfr., sopra, la nota a p. 38. p. 90 «Ja distinzione fra poesia e letteratura»: cfr. B. Croce, La poesta e la letteratura, in La poesia, Laterza, Bari, 1946‘, pp. 1-63.
«riprendemmo a distinguere le singole arti»: sulla condanna crociana dei generi artistici e letterari cfr., sopra, la nota a p. 51.
«come Boileau di Malherbe»: «Enfin Malherbe vint...», cfr. Art poétique, in Nicolas Boileau-Déspreaux, Euvres completes, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1950, p. 160, v. 131.
. 91 «dei tempi di crisi in cui c’è toccato di vivere: quello, s’intende, delle due guerre mondiali e del fascismo a esse frap-
posto. «come ebbe a chiamarlo il Colorni»: cfr. E. Colorni, L'estetica di Benedetto Croce, in «La Cultura», Milano, 1932, p. 2.
p. 93 «Nella definizione della storia come infinito progresso»: cfr. La storia come pensiero e come azione, nel volume dallo stesso titolo, Laterza, Bari, 1952°, p. 33.
«L'irriduaibilità al pensiero del Croce...»: per questa presa di distanza dalle impostazioni crociane cfr. anche P.m.r., II, pp. 13940.
73
p. 94 Nota 1952 (in morte di Croce), già È giunta l’ora di ristudiare la sua opera, in «Milano Sera», 22-23 novembre 1952,
p.-3 «la morte di Benedetto Croce»: il filosofo si era spento il 20 novembre 1952. «quel concetto dell’“unità nella distinzione >» acfrad esempio, Bi Croce, Breviario di Estetica, in Nuovi saggi di Estetica, cit., pp. 61-63.
p. 95 Relazione sulla critica, in «La Rassegna d’Italia», I, 9, settembre 1946, pp. 101-103. (Si tratta dell'intervento di Solmi al Congresso Lombardo delle Lettere e delle Arti, tenutosi a Milano dal 16 al 24 marzo 1946).
«l’infaticata opera ... del Croce»: cfr., sopra, Il Croce e noi, alle pp. 85-94.
p. 97 «in un gruppo di giovani scrittori»: fra di essi Carlo Bo e Oreste Macri (per cui cfr., sotto, le rispettive note a p. 118),
i due maggiori rappresentanti della critica ermetica. p. 99 «come vent'anni fa Leopardi...»: cfr. Leopardi e «La Ronda», in S.l., pp. 165-84. «al De Sanctis»: ovvero alla lezione di Francesco
De Sanctis
(Morra Irpina, Avellino, 1817-Napoli 1883), il maggiore critico dell'Ottocento italiano.
p.- 100 La critica letteraria in Italia, in «Inventario», V, 1-4, gen-
naio-settembre 1953, pp. 36-49. Questo saggio, riprodotto qui nella sua redazione definitiva, era stato precedentemente pubblicato
in traduzione
inglese
e francese,
rispettiva-
mente col titolo Criticism e La critique littéraire, sulla rivista londinese «Mandrake», vol. VII, December-April 1951, pp. 8696, e, rimaneggiato, sul parigino «L’Age nouveau», 63-64-65,
Juillet-Aoùt-Septembre 1951, pp. 106-17. Si veda inoltre la nota posta da Solmi in calce al presente testo. «Albert Thibaudet, nella sua “Physiologie de la critique”»: cfr. A. Thibaudet, Physiologie de la critique, Editions de La Nouvelle Revue Critique, Paris, 1930, p. 23.
p. 101 «L'estetica crociana ... il criticismo liricista e “rondista” ... gli influssi esistenzialistici»: per l’insegnamento svolto dalla prima, cfr., sopra, il precedente saggio // Croce e noi, alle pp. 35-
94. Anche sulle pagine delle riviste «Lirica» «La Ronda»
(1912-1913)
e
(per cui cfr., sotto, la nota a p. 112) il dibattito
DIA
critico fu assai vivace. Quanto alla filosofia esistenzialistica, essa si diffuse nel secondo dopoguerra. «l’altra opposizione, notata dal Thibaudei»: cfr. Physiologie de la critique, cit., pp. 10 sgg.
«alla “terza pagina” dei quotidiani»: quella tradizionalmente dedicata agli argomenti culturali. «come avrebbe detto il Thibaudet»: cfr. Physiologie de la critique, cit., pp. 18-19. «ad un recente congresso del PE.N. Club ... dedicato alla critica»: esso si era tenuto fra il 10 e il 16 settembre 1949. p. 102 «dopo la morte del Maestro»: cfr., sopra, la nota a p. 94 «dall'idealismo di Croce e di Gentile»: cfr., sopra, la nota a p. 23.
«in una sorta di diffuso “senso comune”: cfr. A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino, 1948, p. 180.
«Poco fa il Momigliano rivolgeva un sospiro di nostalgia...»: cfr. A. Momigliano, L'età di un indice, in «La Rassegna d’Italia», IV, 7-8,
luglio-agosto 1949, pp. 766-69. Lo scritto è dedicato al volume degli Indici del Giornale storico della letteratura italiana (dal 1883 al 1932), uscito l’anno precedente presso Chiantore, a Torino. «dal Gentile, dal Tilgher, dal Banfi, dal Baratono, dal Calogero»:
per Gentile cfr., sopra, la nota a p. 23, e per Tilgher, L'estetica di Tilgher, alle pp. 35-46. Antonio Banfi (Vimercate, Milano, 1886-Milano
1957), filosofo marxista, si pose in aperto con-
trasto con l’idealismo di Croce e di Gentile; del problema estetico si occupò in Vita dell’Arte (1947). Adelchi Baratono (Firenze 1875-Genova 1947), muovendo dal criticismo kan-
tiano, elaborò una concezione personale esposta in opere quali IZ mondo sensibile, introduzione all'estetica (1934) e Arte e poesia (1945). Guido Calogero (Roma 1904-1986), dopo un’iniziale adesione all’attualismo di Gentile, si staccò dall’idea-
lismo in nome di una filosofia concretamente realtà e all'esperienza.
legata alla
p. 103 «il compianto Benjamin Crémieux»: l’esimio italianista francese Benjamin Crémieux (1888-1944), autore di un molto apprezzato Panorama de la littérature italienne contemporaine (1928) e di un singolare romanzo sull’adolescenza, Le premier de la classe (1922), morì a Buchenwald.
«da quella dei “generi letterari” a quella degli “stili*»: cfr., sopra, la nota a p. 51.
vY9)
«elaboratasi per successive addizioni»: dalla «prima Estetica» (per cui cfr., sopra, la nota a p. 38) ai Nuovi saggi di Estetica, cit. «col cosiddetto “frammentismo lirico”»: così venne definito lo stile frammentario e impressionistico che si sviluppò nella prosa primonovecentesca in conformità all’identificazione crociana di poesia e intuizione lirica, come
all’irrazionalismo
delle poetiche decadentistiche. «tali coincidenze furono ... rinnegate dallo stesso maestro»: cfr. B. Croce, La «poesia pura», in La poesia, cit., pp. 54-58. p. 104 «L’opera critica del Croce»: com'è noto, il Croce compo-
se saggi critici (fra cui quelli da Solmi sottocitati) coerenti con i princìpi della propria estetica.
«Shakespeare e Ariosto»: cfr. Ariosto e Shakespeare, in Ariosto, Shakespeare e Corneille, cit., pp. 1-69 e pp. 71-204.
«lo portò a negare la fondamentale unità della “Commedia”»: cfr., sopra, la nota a p. 50. «di lirici come Leopardi e Baudelaire»: cfr. Leopardi e Baudelaire, in Poesia e non poesia, cit., pp. 97-113 e pp. 246-59. «La distinzione palmare fra “poesia” e “non poesia”»: cfr. La poesta, cit., pp. 58-63.
p. 105 «2/ suo sollecito straniarsi dalle esperienze dell’arte e della letteratura contemporanee: è nota l’avversione del Croce nei confronti della letteratura decadentistica, da lui giudicata una forma deteriore e dissolutoria della grande poesia romantica. «della “tmnade”, Carducci, Pascoli e D'Annunzio»: cfr. B. Croce, Giosue Carducci, nuova ed., Laterza, Bari, 1920; Pascoli, Laterza, Bari, 19474; e D'Annunzio, cit.
«Julien Benda: cfr., sopra, la nota a p. 32. «o Verga»: cfr. Giovanni Verga, in La letteratura della nuova Italia, cit., vol. III, 1915, pp. 5-32.
p. 106 «il Croce aveva negato la storicità della poesia»: cfr. B. Croce, La cnitica e la storia della poesia, in La poesia, cit., pp. 128 Sgg.
«la tradizione Vico-Hegel-De Sanctis»: cfr. B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Laterza, Bari, 1947, Saggio su Hegel, cit.; e Francesco De Sanctis, in La letteratura della nuova Italia, cit., vol.
I, 1914, pp. 359-79; nonché Contributo alla critica di me stesso, nuova ed., Laterza, Bari, 1945, pp. 36-51.
576
«la tradizione della vecchia “critica storica”»: quella sviluppatasi alla fine dell’Ottocento nell’ambito della cultura positivistica. p. 107 «Michele Barbi, Santorre Debenedetti, E.G. Parodi e Cesare De Lollis»: Michele Barbi (Sambuca Pistoiese 1867-Firenze 1941) e Ernesto Giacomo Parodi (Genova 1862-Firenze 1923) furo-
no insigni dantisti e maestri della critica-filologica novecentesca; Santorre Debenedetti
(Acqui Terme, Alessandria, 1878-
Giaveno, Torino, 1948) fu uno dei maggiori filologi romanzi del nostro secolo; anche Cesare De Lollis (Casalincontrada, Chieti, 1863-1928) fu filologo e critico, autore di molteplici
saggi sulle letterature italiana e straniera; diresse la rivista «La Cultura» dal 1907 al 1913 e dal 1921 al 1928. «un
maestro come Ferdinando Neri»: Ferdinando
Neri
(Chiu-
saforte, Udine, 1880-Torino 1954), uno dei maggiori francesisti del Novecento, fu anche ottimo conoscitore e critico della letteratura italiana, nonché direttore di «La Cultura» nel 1929.
«P.P. Trompeo, A. Zottoli, M. Praz, U. Bosco...»: Pier Paolo Trompeo (Roma 1886-1958), francesista e italianista, fu allievo di C. De Lollis e condirettore di «La Cultura» dal 1930 al ’33; Angelandrea Zottoli (Salerno 1879-Roma 1956), critico letterario non accademico, scrisse alcuni notevoli saggi, tra cui
più noti quelli sul Leopardi e sul Manzoni; l’anglista Mario Praz (Roma 1896-1982) fu autore anche di saggi esorbitanti dalla sua specializzazione, fra cui, più noto, La carne, la morte e îl diavolo nella letteratura romantica (1930); Umberto Bosco (Catanzaro 1900-Roma 1987) fu critico e filologo, studioso di Dante e del Petrarca, nonché del romanticismo. Per Fubini, Sapegno e Contini cfr., sotto, le note a loro inerenti alle pp. 115, 107 e 111.
«Attilio Momigliano»: Attilio Momigliano (Ceva, Cuneo, 1883- Firenze 1952), noto critico e storico della letteratura italiana, fu
insegnante di Solmi al liceo D'Azeglio di Torino. «dalla scuola del Graf e del Renier»: Arturo Graf (Atene 1848-Torino 1913), letterato e critico eclettico, fu nel 1883, con il cri-
tico ed erudito Rodolfo Renier (Treviso 1857-Torino 1915), tra i fondatori del «Giornale storico della letteratura italia-
na», allora organo editoriale della scuola positivistica. «Francesco Flora»: cfr., sopra, Francesco Flora: «I miti della paro-
la», alle pp. 47-55, e la nota a p. 48.
«Natalino
Sapegno»:
Natalino
Sapegno
(Aosta
1901-Roma
1990), fra i maggiori critici e storici novecenteschi della let-
teratura italiana, appartenne, come Solmi, al gruppo dei gio-
DI
vani gobettiani; subì inoltre l’influenza del Croce, accostandosi, infine, alla critica marxista.
«Luigi Russo»: Luigi Russo (Delia, Caltanissetta, 1892-Marina di Pietrasanta, Lucca, 1961), una delle personalità di mag-
gior rilievo della critica postcrociana, diresse varie riviste culturali, fra cui «Belfagor», da lui fondata nel 1946 assieme ad
A. Omodeo; fra i suoi studi più noti vi sono quelli sul Machiavelli, sul Manzoni e sul Verga. p. 108 «S. Battaglia, G. Billanovich, V. Pernicone, R. Spongano, V.
Branca»: i filologi e critici Salvatore Battaglia (Catania 1904-Napoli 1971), autore di molteplici studi, dalla letteratura medioevale
a quella novecentesca,
nonché
direttore,
fino alla
morte, del Grande Dizionario della Lingua Italiana (UTET, Torino, 1961...); Giuseppe Billanovich (Cittadella, Padova, 1913), studioso di filosofia medioevale e umanistica; Vincenzo
Pernicone (Regalbuto, Enna, 1903-Genova 1982), curatore di
edizioni critiche delle opere del Boccaccio e di altri autori tre e quattrocenteschi, nonché studioso di Dante; Raffaele Spongano (Cellino San Marco, Brindisi, 1904), studioso del Parini e della letteratura rinascimentale; Vittore Branca (Savona
1913), autore di vari studi, fra cui più noti quelli sul Boccaccio. «alla memoria di Giorgio Pasquali»: l’insigne filologo classico Giorgio Pasquali (Roma 1885-Belluno 1952), autore altresì di quattro volumi di «pagine stravaganti» che ne attestano la vastità degli interessi intellettuali.
«Concetto Marchesi»: latinista fra i maggiori del Novecento (Catania 1878-Roma 1957), fu autore di numerosi saggi (fra cui più celebri le monografie su Seneca e su Tacito) e di un’importantissima Storia della letteratura latina (1925-1927).
p. 109 «il caso di Renato Serra»: il giovane critico morto nella prima guerra mondiale (Cesena, Forlì, 1884-Podgora 1915), dopo aver acquisito una solida preparazione classica alla scuola bolognese del Carducci e di Severino Ferrari, rivolse il suo interesse alla letteratura contemporanea italiana e straniera; in
particolare in Le lettere (1914) tracciò un panorama della letteratura italiana di quel periodo. Il suo Esame di coscienza di un letterato (1916, postumo), rendiconto morale di una generazione
di fronte alla guerra, resta una delle testimonianze moralmente più alte del primo Novecento letterario. «Giovanni Boine»: Giovanni Boine (Finalmarina, Savona, 1887-Porto Maurizio, Imperia, 1917) fu tra i primi a cogliere
i nuovi valori della giovane letteratura italiana nella rassegna critica di Plausi e botte (1919, postumo).
578
«della nivista “La Voce”: la rivista politico-culturale, fondata a
Firenze nel 1908 da Prezzolini e da lui diretta fino al 1914 (a
eccezione dell’annata 1912 che ebbe a direttore Papini), proseguì le pubblicazioni fino al 1916, sotto la direzione di G. De
Robertis e assumendo un carattere esclusivamente letterario.
«la ribellione “contenutistica” di G.A. Borgese»: Giuseppe Antonio Borgese (Polizzi Generosa, Palermo, 1882-Fiesole, Firenze, 1952), critico e scrittore (autore fra l’altro del fortunato romanzo Rube, 1921), in contrasto con l’estetica crociana e la
cultura d’avanguardia, sostenne un’idea dell’arte come totalità, ovvero come comprendente anche l’elemento razionale.
«il compianto Alfredo Gargiulo»: Alfredo Gargiulo (Napoli 1876Roma
1949), autore, fra l’altro, di una fondamentale
mono-
grafia su Gabriele D'Annunzio (1912) e di un altrettanto importante volume di saggi, Letteratura italiana del Novecento (1940), fu il critico più autorevole della rivista «La Ronda». p. 110 «Emilio Cecchi»: sulle qualità di scrittore di Emilio Cecchi (Firenze 1884-Roma 1966), il più autorevole critico della letteratura novecentesca, cfr. Solmi, Qualche cosa di Cecchi, in
L.i.c., 1, pp. 159-68. «Pietro Pancrazi»: il critico letterario Pietro Pancrazi (Cortona, Arezzo, 1893-Firenze 1952), collaboratore di quotidiani quali «Il Resto del Carlino» e il «Corriere della Sera», nonché redattore delle riviste «Pegaso» e «Pan», raccolse i suoi
saggi nelle sei serie degli Scrittori d’oggi (1942-1953). « “emunctae naris”»: cfr. Orazio, Satire, Libro I, IV, v. 8.
p. 111 «Giuseppe De Robertis»: Giuseppe De Robertis (Matera 1888-Firenze
1963) fu direttore di «La Voce» dal dicembre
1914 al 1916, nonché redattore di «Pegaso» e di «Pan». Svolse
una critica sensibile agli aspetti stilistici della poesia e scrisse numerosi studi su autori classici (da Petrarca a Leopardi) e su
poeti e prosatori del Novecento.
«Gianfranco Contini»: il noto filologo e critico (Domodossola 1912-1990), studioso della letteratura medioevale
(e in parti-
colare di Dante), si occupò anche di quella contemporanea
e soprattutto di Montale.
«Enrico Falqui»: critico e giornalista (Frattamaggiore, Napoli, 1901-Roma
1974), si occupò soprattutto di letteratura del
Novecento, intorno alla quale scrisse vari saggi, componendo altresì repertori bibliografici e opere erudite (fra le quali l’Antologia della prosa scientifica del Seicento, 1943).
049
«A. Bocelli»: Arnaldo Bocelli (Roma 1900-1974), critico lette-
rario caro a Solmi anche per il suo impegno civile di antifascista, collaborò a diversi quotidiani e riviste, tra cui «Nuova
Antologia», «Il Mondo» e «La Stampa», e fu autore di saggi sulla letteratura italiana moderna e contemporanea.
p. 112 «dell’affermazione di Valéry: è citazione a memoria da P. Valéry, Situation de Baudelaire, in CEuvres, cit., vol. I, 1957, p-
604, dove peraltro costituisce la definizione dello scrittore classico: «classique est l’écrivain qui...» ecc.
«della definizione, data dal Thibaudet»: cfr. A. Thibaudet, Phy
stologie de la critique, cit., p. 24. «L'opera della rivista “La Ronda”»:
«La Ronda», che uscì dal-
l’aprile 1919 al novembre 1922 (con l’aggiunta di un numero straordinario nel dicembre
1923), in contrasto con i mo-
vimenti dell'avanguardia contemporanea, promosse un «ritorno all’ordine», soprattutto nel senso di un recupero dei valori stilistici e tecnici della letteratura.
«Cardarelli»: il poeta Vincenzo Cardarelli, pseudonimo di Nazareno Caldarelli (Corneto Tarquinia, Viterbo, 1887-Roma 1959), che fu tra i fondatori di «La Ronda», fu anche il principale promotore della sua rivendicazione di un classicismo
stilistico il cui modello indicò in quello del Leopardi prosatore. (Cfr. il saggio dedicatogli da Solmi, Le «Poesie di Cardarelli, in L.i.c.,1, pp. 264-71).
«un Bacchelli ... un Baldini ... un Raimondi»: i primi due redattori e il terzo collaboratore di «La Ronda»; per Bacchelli e Raimondi cfr., sotto, le rispettive note a pp. 424 e 241. Lo scrittore Antonio Baldini (Roma 1889-1962), che diede il me-
glio di sé nelle pagine saggistiche (ad esempio su Ariosto, Leopardi e Manzoni), dopo l’esperienza rondesca, fu, a partire dal 1931, redattore capo, e in seguito direttore letterario di «Nuova Antologia». «il poeta Eugenio Montale»: le prose di critica letteraria di Montale (per cui cfr., sotto, la nota a p. 189) si trovano raccolte nei due tomi di // secondo mestiere, Mondadori, Milano 1996. «Pavese, Angtoletti, Bontempelli, Tecchi, Moravia, Piovene, Vittori-
ni»: Solmi dedicò qualche suo studio a quasi tutti questi scrittori: cfr., in L.i.c., I, per Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, Cuneo, 1908-Torino 1950), pp. 316-33; per Giovanni Battista
Angioletti (Milano 1896-Napoli 1961), pp. 49-54; per Bonaventura Tecchi (Bagnoregio, Viterbo, 1896-Roma 1968), pp. 108-10; per Alberto Moravia, pseudonimo di Alberto Pincherle (Roma 1907-1990), pp. 116-21; per Elio Vittorini (per
580
cui cfr., sotto, la nota a p. 414), pp. 153-58 e 480-86, nonché la recensione, in questo volume, a Uomini e no e la Prefazione
a Conversazione in Sicilia, alle pp. 414-23. Massimo Bontempelli (Como 1878-Roma 1960), narratore e saggista estroso e ironico, diresse la rivista «900» (1926-1929), fulcro del movimento culturale omonimo inteso a inserire la letteratura ita-
liana nell’ambito di quella europea; Guido Piovene (Vicenza 1907-Londra 1974), romanziere e giornalista, fu per molti anni redattore e collaboratore del «Corriere della Sera», ma scrisse anche su altri quotidiani e periodici, come «La Stam-
pa» e «L'Espresso»; raccolse la sua opera saggistica in La coda di paglia (1962).
p. 113 «di Vittorio Lugli, di Diego Valeri, di Carlo Cordi®&: gli insigni francesisti, tutti e tre molto apprezzati da Solmi e a lui cari, Vittorio Lugli (Novi, Modena, 1885-Rapallo, Genova, 1968), che si occupò anche di italianistica, così come Diego Valeri (Piove di Sacco, Padova, 1887-Roma 1976), e Carlo Cordié (Gazzada Schianno, Varese, 1910), da Solmi rievoca-
to come compagno di mensa nei Ricordi di Raffaele Mattioli (cfr. P.m.r., II, p. 297). «di G. Macchia, e di Glauco Natoli»: Giovanni Macchia (Trani, Bari, 1912), anch’egli francesista emerito e insieme studioso di ambiti diversi della letteratura italiana ed europea; Glauco Natoli (Teramo 1908-Firenze 1965), oltre che francesista, fu
autore di due raccolte poetiche: Risvegli e altri versi (1934) e Poesia (1939). «Lavinia Mazzucchetti, Barbara Allason, Leone Traverso ... B. Tecchi
... Alessandro Pellegrini, Giovanni Necco»: i germanisti Lavinia Mazzucchetti (Milano 1889-1965), che svolse anche una preziosa opera di traduttrice di scrittori tedeschi del Novecento,
quali Th. Mann, Kafka e Rilke; Barbara Allason (Pecetto Torinese 1880-Torino 1968), traduttrice di classici tedeschi e autri-
ce, fra l’altro, delle biografie di Caroline Schlegel (1919) e di Bettina Brentano (1928); Leone Traverso (Bagnoli di Sopra, Padova, 1910-Milano 1968), anch’egli saggista e traduttore; Alessandro Pellegrini (Rovenno di Cernobbio, Como, 1897-Mila-
no 1987), saggista e traduttore da Nietzsche a Strindberg; Giovanni Necco, morto nel 1961, autore, fra l’altro, di una Storia
della letteratura tedesca (1953). Per Bonaventura Tecchi (per cui cfr., sopra, la nota a p. 112), quale studioso di letteratura tede-
sca, cfr. la recensione fatta da Solmi alle opere di Wackenroder da lui curate e introdotte, in S.., pp. 305-11. «di Emilio Cecchi ... di Salvatore Rosati, di Luigi Berti, di Paolo Mi-
lano ... di A. Guidi e di G. Baldini»: i saggi di anglistica di E.
581
Cecchi (per cui cfr., sopra, la nota a p. 110) sono stati raccolti nei due volumi degli Scrittori inglesi e americani (1962-1964). Pure anglisti furono Salvatore Rosati, morto a Roma nel 1965, autore, fra l’altro di una Storia della letteratura americana (19672); Luigi Berti (Rio Marina, Livorno, 1904-Milano
1964), altresì fondatore e direttore della rivista «Inventario» (1946 e 1949-1964); Augusto Guidi (1914) e Gabriele Baldini (Roma 1919-1969), traduttore del teatro di Shakespeare. Paolo Milano (Roma 1904-Torino 1988) fu critico letterario
e traduttore dai molteplici interessi. «di E. Lo Gatto, di Renato Poggioli, e di Leone Ginzburg»: Ettore Lo Gatto (Napoli 1890-Roma 1983), considerato il fondatore della russistica scientifica italiana, fu autore, fra l’altro, di una monumentale Storia della letteratura russa (1928-1939), ri-
masta incompiuta. Anche gli slavisti Renato Poggioli (Firenze
1906-Massachusetts
1963)
e Leone
Ginzburg
(Odessa
1909-Roma 1944) contribuirono con la loro saggistica e le loro traduzioni a diffondere russa in Italia.
la conoscenza
«Arrigo Cajumi»: cfr., sopra, «Galleria»
della letteratura
di Cajumi e Ricordo di
Arrigo Cajumi, alle pp. 56-68, e la nota a p. 56. «Goffredo Bellonci»: il letterato e giornalista Goffredo Bellonci (Bologna 1882-Lido di Camaiore, Lucca, 1964), promotore,
con la moglie Maria, del premio letterario Strega. pp. 113-14 «dal Pancrazi ... a Cecchi ... a Montale»: per i primi due, cfr., sopra, le rispettive note, a p. 110. Montale entrò a
far parte della redazione del «Corriere della Sera» nel 1946. p. 114 «Lorenzo Gigli»: giornalista e scrittore (Brescia 1889-Torino 1971), fu critico letterario della «Gazzetta del Popolo»
di Torino e autore di opere narrative e teatrali.
«Debenedetti e Muscetta»: per il primo cfr., sopra, Debenedetti: «Saggi critici» e Ricordo di Debenedetti, alle pp. 13-27, e la nota a p. 14; Carlo Muscetta (Avellino 1912), collaboratore, oltre che dell’«Unità», delle riviste «Primato», «Rinascita» e «Società», muovendo
da una formazione
crociana, andò in se-
guito accostandosi sempre più al marxismo. «Il nome di Titta Rosa»: per Giovanni Titta Rosa cfr., sotto, « Vita letteraria del Novecento», alle pp. 144-49, e la nota a p. 144.
«Guglielmo Alberti e Alberto Rossi»: cfr., per il primo, Lo stile di Alberti, sotto, alle pp. 139-43, e la nota a p. 139; e, per Alberto Rossi (Induno Olona, Varese, 1893-Torino 1956), quanto scritto da Solmi in S./., pp. 317-18, nota 2.
582
;
«alla memoria di Silvio Benco»: letterato e giornalista (Trieste
1874-Turriaco, Gorizia, 1949), collaborò a diversi quotidiani e fu redattore del «Piccolo» di Trieste; oltre a romanzi e a monografie storiche, scrisse articoli critici che furono in par-
te raccolti da U. Saba con il titolo Corsa del tempo (1922).
«Il concetto unitario dell'attività estetica, affermato dal Croce»: cfr. Cnitica delle teorie estetiche delle singole arti, in B. Croce, Estetica
come scienza dell'espressione e linguistica generale, cit., pp. 125 sgg., e Nuovi saggi di estetica, cit., pp. 44 sgg. «come Cecchi»: Emilio Cecchi, più volte sopracitato, per quanto prevalentemente impegnato nell’attività di critico letterario, scrisse anche saggi di critica d’arte (e si occupò pure di cinematografo).
«come Roberto Longhi e Lionello Venturi»: il critico d’arte Roberto Longhi (Alba, Cuneo, 1890-Firenze 1970) e lo storico del-
l’arte Lionello Venturi (Modena 1885-Roma 1961). «G. Argan, C.L. Ragghianti, C. Brandi, E. Arcangeli, E. Carli, Mar-
co Valsecchi, Gillo Dorfles»: gli studiosi e critici d’arte Giulio Carlo Argan (Torino 1909-Roma 1992), Carlo Ludovico Ragghianti (Lucca 1910-Firenze 1987), Cesare Brandi (per cui cfr., sotto, Tre giovani, alle pp. 360-64, e la nota a p. 360), Francesco Arcangeli (Bologna 1915-1974), Enzo Carli (Pisa 1910), Marco Valsecchi (1913-1980) e Gillo Dorfles (Trieste 1910).
p. 115 «Bergson, Thibaudet, Rivière, Alain, gli esistenzialist»: per Henri Bergson e Albert Thibaudet cfr., sopra, la nota, a p. 23;
Jacques Rivière (1886-1925),
scrittore e saggista francese, fu re-
dattore e, dal 1919 alla morte, direttore della «Nouvelle Revue Francaise»; su Alain, pseudonimo del filosofo Emile-Auguste
Chartier (1868-1951), si veda il saggio di Solmi /l pensiero di Alain (1930, 1945? e 1976*); quanto agli esistenzialisti, Solmi
vorrà presumibilmente alludere soprattutto aJ.-P. Sartre. «come Fubini»: Mario Fubini (Torino 1900-1977), critico e sto-
rico della letteratura italiana fra i maggiori del Novecento, da Solmi conosciuto fin dalla giovinezza torinese e nel gruppo dei giovani gobettiani, di cui entrambi fecero parte, diffuse in Italia le teorie della critica stilistica. Insegnò nelle Università di Palermo, Trieste, Milano. Dal 1965 ebbe la cattedra di
Storia della Critica alla Scuola Normale Superiore di Pisa. pp. 115-16 «gli studi ... che va svolgendo Walter Binnò: su Walter Binni (Perugia 1913), uno dei maggiori studiosi e critici contemporanei della letteratura italiana, cfr. Solmi, La poetica del decadentismo italiano, in L.i.c., I, pp. 223-33.
583
p. 116 «dai recentissimi scritti di ... Cesare Brandi»: cfr. C. Brandi, La fine dell’avanguardia e L'arte d'oggi, Edizioni della Meridiana, Milano, 1951. «neppure quella ... del Gentile»: su Giovanni Gentile cfr., sopra,
la nota a p. 23. «E neppure l’altra, vitalistica, del Tilgher»: cfr., sopra, L'estetica di Tilgher, alle pp. 35-46. «il problematicismo di A. Banfi»: Antonio Banfi (per cui cfr., sopra, la nota a p. 102) elaborò una filosofia di tipo razionali stico in opposizione alla pretesa dogmatica di raggiungere un sapere assoluto di tipo metafisico.
«quella di Enzo Paci»: il filosofo Enzo Paci (Monterado, Ancona, 1911-Milano 1976), in Esistenza e immagine (Tarantola, Milano, 1947), aveva affrontato lo studio di alcuni fra i maggio-
ri scrittori del Novecento, quali Mann, Eliot, Rilke, Valéry e Proust.
p. 117 «(Gide ... Du Bos)»: gli scrittori e critici francesi André Gide (1869-1951), a cui Solmi dedicò i saggi /mmagine di André Gidee Gide e la guerra (ora in S.M., pp. 36-54 e 196-200); e Charles Du Bos (1882-1939).
p. 118 «dalla più importante ... “Solaria”, al cattolico “Frontespizio”, a “Campo di Marte”, a “Corrente”, a “Prospettive”*»: le riviste fiorentine «Solaria», che uscì dal 1926 al 1934 sotto la direzione di Alberto Carocci; «Il Frontespizio» (1929-1940), a cui collaborarono gli scrittori cattolici, da Piero Bargellini (che ne fu, assieme al primo direttore, Enrico Lucatello, il fondatore e in seguito il direttore dal 1931 fino al 1938) e Giovan-
ni Papini a Carlo Bo, Mario Luzi e molti altri; «Campo di Marte» (agosto 1938-agosto 1939), di cui furono redattori Alfonso Gatto e Vasco Pratolini; la milanese «Corrente di Vita Giovanile» (1938-1940), fondata da Ernesto Treccani e indirizzata, grazie all’influenza di Antonio Banfi, verso una fronda culturale nei confronti del fascismo, fino a venire sop-
pressa dal regime; nonché «Prospettive», che uscì a Roma dal 1936 al marzo 1943 sotto la direzione di Curzio Malaparte ed ebbe un’impronta chiaramente fascista. «Carlo Bo»: il noto critico e francesista (Sestri Levante, Geno-
va, 1911), oggi senatore a vita, nel settembre 1938 stampò su «Il Frontespizio» il saggio Letteratura come vita, considerato uno dei manifesti dell’ermetismo. «Manto Luzi ... Piero Bigongiari e Alessandro Parronchi»: Mario Luzi (per cui cfr., sotto, la nota a p. 189), Piero Bigongiari
584
(Navacchio, Pisa, 1914-Firenze 1997) e Alessandro Parronchi
(Firenze 1914) risentirono dell’esperienza ermetica nella loro opera poetica come in quella saggistica. « Oreste Macrb.: il critico Oreste Macri (Maglie, Lecce, 1913),
studioso di letteratura italiana e straniera (soprattutto spagnola) del Novecento. «Giansiro Ferrata»: il critico e scrittore Giansiro Ferrata (Milano 1907-1986), amico fra i più cari di Solmi, fu collaboratore
(e negli anni 1929-1930 condirettore) di «Solaria», come di molte altre riviste, fra cui «Campo di Marte», «Corrente», e,
dopo la seconda guerra mondiale, si avvicinò alle posizioni marxiste di «Il Politecnico» e di «Rinascita». «Luciano Anceschi»: il critico e teorico dell’arte Luciano An-
ceschi (Milano 1911-Bologna 1995), collaboratore di varie riviste e direttore, dal 1956, di «Il Verri», da lui fondato.
p. 119 «Aldo Borlenghè»: il critico e poeta Aldo Borlenghi (Firenze 1913-Milano 1976), studioso della letteratura italiana dell’Otto e Novecento ed autore di alcune raccolte di liriche fra cui Versi e prosa (1943), Poesie (1952) e Nuove poesie (1965).
«lo stesso Croce aveva ... compiuto la sua brava esperienza marxista»: cfr. B. Croce, Materialismo storico ed economia Sandron, Milano-Palermo, 1900.
marxista,
p. 120 «come Muscetta o Salinari»: Carlo Salinari (Montescaglioso, Matera, 1919-Roma 1977), direttore di «Il Contempo-
raneo», fu, come il sopracitato Carlo Muscetta, fra i maggiori esponenti della critica marxista. «negli scrittori di “Società”»: la rivista «Società» (1945-1961) fu fondata a Firenze da Ranuccio Bianchi Bandinelli, affiancato dai redattori R. Bilenchi, M. Chiesi, M.B. Gallinaro, C. Luporini, ed ebbe un orientamento espressamente marxista.
«in Mario Bonfantini ... Remo Cantoni ... Franco Fortini»: il francesista
e
critico
Mario
Bonfantini
(Novara
1978); il filosofo e saggista Remo Cantoni
1904-Torino
(Milano 1914-
1978); Franco Fortini, pseudonimo di Franco Lattes (Firenze
1917-Milano marxista.
1994), scrittore, poeta e saggista di tendenza
«da Vico a De Sanctis a Croce»: cfr., sopra, la nota a p. 106.
«l’esperimento della rivista “Il Politecnico”»: la rivista, fondata e
diretta da Elio Vittorini, uscì a Milano dapprima come setti-
manale, e poi mensile, dal 1945 al 1947: rifacendosi all’omonimo periodico ottocentesco di Carlo Cattaneo, si propone-
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va, sotto l’egida del Partito comunista italiano, di diffondere una cultura non astrattamente umanistica ed elitaria, ma insieme letteraria e tecnico-scientifica di vario livello, aderente
ai problemi della società contemporanea e accessibile alla più varia tipologia di lettori. «nei quaderni letterari postumi scritti ... da A. Gramsci»: i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci (per cui cfr., sotto, la recen-
sione di Solmi a Letteratura e vita nazionale, alle pp. 124-33), uscirono a Torino, presso Einaudi, dal 1947 al 1951.
p. 121 «Come ha a suo tempo affermato ... FO. Matthiessen»: il saggista e critico statunitense Francis Otto Matthiessen (1902-1950), sostenitore dell’idea di una letteratura legata ai grandi temi sociali: la sua citazione è tratta da The Responsabilities of the Critic (1949), primo saggio del volume omonimo (cfr. FO. Matthiessen, Milano, 1966, p. 16).
La responsabilità del critico, Feltrinelli,
p. 122 «Claudio Varese ... Sergio Antoniell»: gli italianisti Claudio Varese (Sassari 1909); Lanfranco Caretti (Ferrara 1915-Firen-
ze 1995), autore, fra l’altro, di un importante saggio sulla poesia di Solmi (cfr. Introduzione a S. Solmi, Poesie, Oscar Mondadori, Milano, 1978, pp. Ix-xxxI); Adelia Noferi (Firenze 1922), Adriano Seroni (Firenze 1918-Roma 1990), Ettore Bonora (Mantova 1915), storico e critico della letteratura dai vasti in-
teressi (fra cui anche la poesia di Montale); Ferruccio Ulivi (Borgo San Lorenzo 1912); e il critico letterario Geno Pampaloni (Roma 1918). Per Sergio Antonielli, Glauco Natoli e Giovanni Macchia cfr. le rispettive note a pp. 454-55 e 113. p. 124 «Letteratura e vita nazionale», in «Lo Spettatore Italia-
no», IV, 7, luglio 1951, pp. 187-90.
«Questo sesto volume ... “Letteratura e vita nazionale*»: cfr. A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, in Opere, vol. VI, Einaudi, Torino, 1950.
«da un forte intelletto come quello di Gramsci»: l’intellettuale e uomo politico Antonio Gramsci (Ales, Cagliari, 1891-Roma 1937), trasferitosi nel 1911 a Torino per compiervi gli studi universitari, entrò presto a far parte del Partito socialista in cui militò fino alla scissione operatasi nel congresso di Livorno del 1921 e alla conseguente formazione del Partito comunista italiano, di cui fu fondatore assieme ad Amadeo Bordiga, e di cui, dal 1924, divenne il principale esponente. Arrestato nel 1926 e condannato a vent’anni di carcere, morì a Roma nel 1937, in una clinica nella quale era stato trasferito,
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ormai in condizioni disperate, sotto la pressione dell’opinione pubblica internazionale. Dopo un’intensa attività pubbli-
cistica, svolta sui giornali da lui fondati e diretti, «L'Ordine
nuovo» e «l’Unità», durante gli anni della prigionia compose, pur nelle condizioni psicofisiche più precarie e con scarsissimi sussidi culturali, i memorabili saggi poi raccolti nei Quaderni del carcere (per cui cfr., sopra, la nota a p. 120). p. 125 «dalle cronache ch'egli scrisse per l’edizione torinese dell’“Avantil”: cfr. in Letteratura e vita nazionale, cit., le pp. 223-390. «quelle ... trascelte poi nella “Frusta teatrale”»: cfr. P. Gobetti, La frusta teatrale, Corbaccio, Milano, 1923.
«del suo Croce»: cfr. La filosofia di Benedetto Croce e Benedetto Croce e il materialismo storico, in A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino, 1948, pp. 169204 e 205-54.
pp. 125-26 «nelle “note del carcere»: la prima parte di Letteratura e vita nazionale, cit., pp. 1-221, è interamente costituita da
note tratte dai Quaderni del carcere. p. 126 « “Il concetto che l’arte è arte...”»: per questa citazione e quelle immediatamente successive cfr. Letteratura e vita nazionale, cit., pp. 11-12.
p. 127 «Più avanti ... egli sottolinea il tema marxista della “coercizione sociale”»: ibidem, p. 28. «discutendo delle idee di Paul Nizan ... egli osservava»: ibidem, p.
13. Paul Nizan (1905-1940), scrittore francese antiborghese le cui opere figurano tra quelle più vive della letteratura militante dell’anteguerra.
pp. 127-28 «il problema della mancanza ... d'una letteratura nazionale-popolare»: cfr. Carattere non nazionale-popolare della lette ratura italiana, ibidem, pp. 55-99.
p. 128 «della sua interpretazione del Risorgimento»: cfr. A. Gramsci, Il Risorgimento, Einaudi, Torino, 1949.
«prende le mosse dalle ultime pagine della “Storia” del De Sanctis...»: cfr. Letteratura e vita nazionale, cit., pp. 5-9.
« “rifacendo l’uomo”»: secondo l’insegnamento di Benedetto Croce da Gramsci esplicitamente citato, ibidem, pp. 10-11. « “Lottare per una nuova arte...»: ibidem, p. 9.
587
p. 129 «in questo campo della “letteratura popolare*»: cfr. Letteratura popolare, ibidem, pp. 101-42. «accennando alla “irresistibilità” di un nuovo mondo morale e cul-
turale: ibidem, p. 12. p. 130 «di una dottrina che ... offre un senso e un piano “a priori»: come appunto quella del materialismo storico marxista condivisa da Gramsci.
pp. 130-31 «sotto l’etichetta di “secentismo” o di “neolalismo*»: ctr. Letteratura e vita nazionale, cit., pp. 96 e 24-25. . 131 «la “Divina Commedia” come il “canto del cigno medioevale..."»: ibidem, p. 11. «si pensi a Mirskij per Eliot, o a Max Raphael per Picasso»: cfr. D.S. Mirskij, 7.S. Eliot et la fin de la pensée bourgeoise, in «Exchanges», December 1932; e Max Raphael, Proudhon, Marx, Picasso. Trois études sur la sociologie de l’art, Paris, 1933. «“I nipotini di padre Bresciani”»: cfr. Letteratura e vita nazionale, cit., pp. 143-94. Antonio Bresciani (Ala, Trento, 17798-Roma 1862), sacerdote e scrittore, fu esponente della corrente antiromantica e antiliberale dell’Ottocento.
«ancora richiamando il De Sanctis»: ibidem, pp. 172-73. p. 133 «una letteratura “funzionale” e “pianificata”»: per il concetto gramsciano di «letteratura funzionale», ibidem, pp. 28-29.
«l'esempio russo»: quello cioè della produzione letteraria dell’epoca staliniana. «dal fortunato equivoco positivista»: il carattere scientifico attri-
buito dagli scrittori positivisti ottocenteschi anche alla letteratura aveva favorito il sorgere di una narrativa, come quella naturalista e verista, intesa allo studio del fenomeno
umano
nelle sue forme più genuine, ovvero nell’ambito popolare, mentre le opere del «neorealismo» italiano novecentesco, come Solmi rileva subito dopo, non esorbitavano dalla di-
mensione borghese. p. 134 Nota su Roberto Bazlen, già Nota introduttiva a R. Bazlen, Lettere editoriali, Adelphi, Milano, 1968, pp. 3-9.
«Roberto Bazlen»: Roberto Bazlen, «Bobi» per gli amici (Trieste 1902-Milano 1965), fu una singolare figura di intellettuale. Dotato di acutissima intelligenza e sensibilità critica, unita a una vasta cultura e conoscenza delle lingue,
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svolse una preziosa opera di apertura e di stimolo, sia co-
me consigliere di varie imprese editoriali (da «Comunità»
di Adriano Olivetti, all’Einaudi e all’Adelphi), sia nei con-
fronti degli scrittori suoi amici (tra cui in primis Solmi che lo conobbe verso la metà degli anni Venti). Da parte sua Bazlen non pubblicò neanche una riga; solo dopo la sua scomparsa, furono ritrovati alcuni suoi scritti in italiano e
in tedesco. Oltre a quello già citato, la casa editrice Adelphi ha pubblicato altri suoi libri, riuniti in seguito in un solo volume: R. Bazlen, Scritti. Il capitano di lungo corso, cid senza testo, Lettere editoriali, Lettere a Montale, Milano,
p. 135 «si era adoperato ... a far conoscere in Italia alcuni grandi scrittori stranieri»: ad esempio Alain-Fournier, Aldous Huxley, Valery Larbaud, Raymond
Roussel, Hermann
Bang, Roger
Martin du Gard. «sotto l'influenza dei Gemelli, segno di Mercurio»: Mercurio, nella
mitologia greca, era considerato dio dei traffici. p. 136 «quella che va oggigiorno definendosi all'insegna dello strutturalismo»: ovvero l’antropologia strutturalistica di cui è stato maestro il francese Claude Lévy-Strauss (1908).
p. 137 «le sue stesse traduzioni di saggi e racconti»: Bazlen tradusse, ad esempio, di S. Freud, L’'interpretazione dei sogni; di C.G. Jung, Psicologia e alchimia e Psicologia e educazione. p. 138 «in un invito a mantenere, sempre, la massima apertura del
compasso»: cfr. P.m.r., II, p. 168: «Mantenere sempre il compasso alla sua massima apertura, anche a costo di slogarsi le gambe della mente. Davanti a idee e proposizioni contraddittorie, mantenere la coesistenza, anche se l’esclusione di una,
o la sintesi di entrambe, appare per il momento impossibile». p. 139 Lo stile di Alberti, in Omaggio a Guglielmo Alberti, a cura di P.P. Benedetto, Tip. Unione Biellese, Biella, 1970, pp. 41-48.
«Guglielmo Alberti»: lo scrittore e critico letterario Guglielmo degli Alberti La Marmora (Biella, Vercelli, 1900-Firenze 1964), discendente da due antiche famiglie comitali, rispetti vamente fiorentina e biellese, si formò, come Solmi, nella To-
rino protonovecentesca, entrando a far parte del gruppo di giovani che facevano capo a P. Gobetti (cfr., sopra, la nota a p. 23).
589
«del Liceo D’Azeglio, a Torino»: il liceo dove studiò anche Solmi. «se Giacomino Debenedetti o Gobetti 0 ... d'Entrèves»: per i primi due, cfr., sopra, le rispettive note a p. 14 e a p. 23. Alessandro Passerin d’Entrèves (Torino 1902-1985), poi giurista e professore di studi italiani a Oxford, fu compagno di Solmi alla
facoltà torinese di Legge e fece parte lui pure del gruppo dei giovani gobettiani. «Io ero orfano di padre: Edmondo Solmi era morto il 29 luglio 1912 (cfr. Ricordi familiari, in P.m.r., I, pp. 189-201).
p. 140 «nella mia povera casa di via Belfiore»: in via Belfiore 68, a Torino, Solmi visse, assieme alla madre e alla sorella, dal
1912 al 1924. «quando ... iniziammo
“Primo Tempo”, Alberti vi collaborò»: Al
berti collaborò al numero 4-5, agosto-settembre 1922, di «Primo Tempo», pp. 142-43, con una recensione e i due poemetti in prosa sottocitati da Solmi, Tantalo e Morte di Proteo.
«alla “Rivoluzione liberale” e al “Baretti”»: per queste due riviste di Gobetti cfr. la nota a p. 23. «persino ai tempi della guerra etiopica»: quella combattutasi nel 1935-1936 nell’ambito dell’espansionismo dell’Italia fascista, e conclusasi con l’occupazione dell'Etiopia. «al miraggio dei “destini imperiali»: quelli strombazzati da Mussolini e dalla propaganda fascista. «quel libretto di “Oreste”»: cfr., sotto, la recensione di Solmi, al-
le pp. 272-75.
«di un “estetismo portato alle sue estreme conseguenze»: cfr. G. AIberti, Trent'anni dopo, in Fatti personali, Sansoni, Firenze, 1958, Pdl.
«del Gide di “Paludes” e del Leopardi del “Filippo Ottonieri”*»: cfr. André Gide, Paludes, in Romans, Récits et Soties, Euvres lyriques, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1958, pp. 87-149, e i Detti
memorabili di Filippo Ottonieri, una delle Operette morali di G. Leopardi.
«un Leopardi ... filtrato attraverso “La Ronda”»: cfr. in proposito il più tardo saggio di Solmi Leopardi e «La Ronda», in S.Ì., pp. 165-84. p. 141 «come Gide, Du Bos, Berenson»: per Gide e Du Bos, cfr.,
sopra, la nota a p. 117; Bernhard Berenson (1865-1959), il
590
critico e storico dell’arte di origine lituana, autore di saggi fondamentali sulla pittura italiana del Rinascimento e di altri scritti teorici e autobiografici.
«le sue frequentazioni degli “Entretiens” di Pontigny»: le famose «Décades», o incontri di dieci giorni svoltisi ogni estate fra le due guerre mondiali, presso l'Abbazia di Pontigny in Borgogna, e frequentati da scrittori e pensatori francesi e di altre nazionalità. «le nostre cene estive sotto la pergola...»: è luogo topico della poesia e della memoria di Solmi: cfr., ad esempio, Sera sull’Adda e Lamento di un vecchio astronauta, vv. 44-48, in P.m.r., I, pp. 19 e 87, nonché Trent'anni di vita milanese, ibidem, II, pp. 257-58.
«le sue prime esperienze cinematografiche ... nel citato libro di saggi»: cfr. Fatti personali, cit., pp. 59-113. «la sua introduzione ad una scelta di poesie di Baudelaire»: cfr. Ch. Baudelaire, Liriche scelte, Introduzione di G. Alberti,
Scheiwiller, Milano, 1931, pp. 7-55 (ora riprodotta col titolo A Baudelaire nell’ Appendice all’Omaggio a Guglielmo Alberti, cit., pp. 153-78). p. 142 «il “casalingo” Pancrazi»: cfr., sopra, la nota a p. 110. «la tormentata religiosità»: allusione alla crisi che, maturata durante la seconda guerra mondiale, aveva riportato G. Alberti alla fede religiosa. «al Manzoni, cui ... dedicò uno studio assai importante»: cfr. G. Alberti, Alessandro Manzoni, Garzanti, Milano, 1964.
«il mio particolarmente gravoso»: con gli anni il lavoro di Solmi alla Banca Commerciale Italiana si era fatto di sempre maggiore responsabilità.
p. 143 «Bobi Bazlen e Giacomino Debenedetti ... Alberto C. Rossi»: cfr., sopra, la Nota su Roberto Bazlen, alle pp. 134-38 e gli scritti dedicati al Debenedetti, alle pp. 13-27, nonché per Alberto Rossi la nota a p. 114. «Don Giovanni minore”: la lirica si trova oggi inclusa nell Appendice all’ Omaggio a Guglielmo Alberti, cit., pp. 139-42.
p. 144 «Vita letteraria del Novecento», già Prefazione a G. Titta Rosa,
Vita letteraria del Novecento, Ceschina,
Milano,
1972, 3
voll.; essa fu riprodotta con il titolo Documenti per la storia, in «L'Osservatore politico e letterario», XVIII, 2, febbraio 1972,
Ppirat 25.
591
«Titta Rosa»: Giovanni Titta Rosa
(Santa Maria del Ponte,
L’Aquila, 1891-Milano 1972) dopo aver collaborato alle riviste dell’avanguardia primonovecentesca, fra cui «Lacerba», proseguì la sua attività di critico letterario su «La Fiera letteraria» e altri periodici e giornali. Autore di saggi, tra i quali ricordiamo quelli sul Manzoni (Aria di casa Manzoni, del 1946, e Il nostro Manzoni, del 1959), pubblicò pure raccolte di liriche e prose narrative (su quest’ultimo aspetto dell'attività dell’autore cfr., sotto, la recensione di Solmi a /dilli rustici, e la sua prefazione a Pietà dell’uomo, alle pp. 316-23).
«ad una conferenza che Gobetti teneva al Castello Sforzesco»: cfr., per Gobetti, la nota, sopra, a p. 23. La conferenza, come spe-
cifica Solmi subito dopo, riguardava l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, che era stato prelevato e ucciso il 10 giugno 1924 dagli scherani di Mussolini. p. 145 «un nostro umbratile gruppetto di ventenni ... ne aveva richiesto la collaborazione»: Titta Rosa collaborò al numero 78, s.d. (ma 1923), pp. 231-36, di «Primo Tempo» (per cui cfr., sopra, la nota a p. 14) con un articolo su Antonio Bal-
dini.
«alla “Fiera letterania” ... assieme ad Angioletti»: i due scrittori furono redattori del settimanale «La Fiera letteraria» dal 1925 al 1935, mentre ne era direttore Umberto Fracchia (Lucca 1889-Roma 1930); dopo la sua morte e il trasferimento a Roma della redazione
del settimanale, che assunse
il titolo di
«Italia letteraria», la direzione passò a G.B. Angioletti (per cui cfr., sopra, la nota a p. 112). «nella condirezione della “Cultura”...»: Titta Rosa fu condirettore di «La Cultura» dal 1931 al 1933.
«il tempo ... si trova ad essere einsteinianamente più elastico»: allusione alla teoria della relatività temporale di Einstein (per cui
cfr., sotto, la nota a p. 247).
«al Caffé della Galleria De Cristoforis, di fronte alla vecchia Libreria Hoepli»: cfr. Solmi, Trent'anni di vita milanese, cit., p. 251.
«le poesie ... di uno per altri versi assai rispettabile scrittore»: cfr., ibidem, un’analoga allusione. Essa si riferisce all’ingegner Mario Viscardini
(Milano
1889-Rapallo
1963),
che unì ai
suoi interessi di scienziato (fu il primo espositore in Italia della teoria di Finstein) quelli letterari. Autore di alcuni romanzi
(fra cui più noto Giovannino o la vita romantica, 1930
e 1959), pubblicò anche raccolte di poesie, quali Occhi sere ni (1938).
992
pp. 145-46 «alla redazione della “Fiera” in piazza San Carlo»: la «Fiera letteraria» aveva la sua sede nel centro di Milano, in
piazza San Carlo 2.
p. 146 «Bacchelli, Cardarelli, Cecchi ... Pastonchi»: per i primi tre cfr., sopra, le rispettive note, alle pp. 112 e 110; Francesco Pa-
stonchi (Riva, Imperia, 1877-Torino 1953) fu critico del «Corriere della Sera» e pubblicò varie raccolte di poesie, nonché opere narrative e saggistiche. «il libraio Pescarzoli»: Antonio Pescarzoli, direttore della «Libreria del Polifilo» e autore, con lo pseudonimo di Sariette,
della rubrica La fiera del bibliofilo su «La Fiera letteraria». «la figura di un giovinetto poeta ... Sergio Fadin»: cfr., sotto, «Elegie» di Fadin, alle pp. 400-413, e la nota a p. 400.
p. 147 «Il primo ... intitolato “1914”: cfr. Gioventù 1914, in Vi-
ta letteraria del Novecento, cit., vol. I, pp. 17-50. «dei movimenti di “La Voce” e di “Lacerba*»: per «La Voce», cfr.,
sopra, la nota a p. 109. La rivista «Lacerba» (1913-1915), fondata a Firenze da G. Papini e A. Soffici, fiancheggiò il futurismo. «le considerazioni del Bonghi sulla mancanza di una letteratura popolare in Italia»: Ruggero Bonghi (Napoli 1826-Torre del Greco 1895), letterato e uomo
politico vicino al Manzoni e al
gruppo cattolico-liberale lombardo, scrisse, fra l’altro, il saggio Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia (1855). Fondò la rivista «La Cultura» (per cui cfr., sopra, la nota a p. 66), che diresse fino alla morte.
«lo sbrigativo giudizio del Papini»: cfr. Su questa letteratura (1928), in G. Papini, Eresie letterarie, Vallecchi, Firenze, 1947, p. 321. «le positive analisi di un Gramsci»: cfr., sopra, «Letteratura e vita
nazionale», alle pp. 124-33. «sul cosiddetto “frammentismo” e sulla “prosa d’arte”»: cfr., sopra,
la nota a p. 103. p. 148 «da Comisso a Moravia»: cfr. Giovanni Comisso e Alberto Moravia, in Vita letteraria del Novecento, cit., vol. III, pp. 315-23 e 281-90. «La trattazione ... del romanzo
ha un carattere unitario»: ctr.
Fra frammento e romanzo, Ricerche sul romanzo, personaggio, La prosa del primo Novecento,
593
Creazione del
ibidem, vol. I, pp.
«Croce, anzitutto»: per l’influenza del pensiero di B. Croce sulla critica novecentesca, cfr., sopra, oltre a /l Croce e noi, alle
pp. 85-94, in particolare La critica letteraria in Italia, alle pp. 100-23. «di fronte alla recisa esclusione ... della possibilità d’una storia letteraria»: cfr. Vita letteraria del Novecento, cit., vol. I, pp. 62-63. «Thibaudet in primo luogo»: cfr., sopra, la nota a p. 23. p. 149 «come Saba, Onofri, Cardarelli, Ungaretti ... Campana: cfr., in Vita letteraria del Novecento, cit., Umberto Saba, vol. I,
pp. 209-21, e vol. II, pp. 281-96; Arturo Onofri, vol. I, pp. 16984; Vincenzo Cardarelli, vol. I, pp. 191-207; Giuseppe Ungaretti,
vol. I, pp. 237-45; Dino Campana, vol. I, pp. 185-89. «Montale e Quasimodo»: cfr. Eugenio Montale, in Vita letteraria del Novecento, cit., vol. I, pp. 247-50, e vol. III, pp. 393-96; e Sa
vatore Quasimodo, vol. I, pp. 251-54. NOTE A «FRAMMENTI DI ESTETICA E DI TEORIA LETTERARIA»
(pp. 151-221) p. 153 Pensieri sull’arte: il titolo (che è stato posto dal curatore) riprende quello della rubrica dove, in «La Fiera letteraria» 1928, Solmi pubblicò i primi due saggi sottocitati. A essi sono stati aggiunti tre inediti circa dello stesso periodo. Occorre inoltre ricordare che lo stesso identico titolo, Pensieri sull’arte, fa adoperato più volte da Solmi tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta come titolo generale di una serie di articoli pubblicati su riviste diverse. Di essi,
quelli che non compaiono in questa sede sono già apparsi, per il loro carattere più specificamente legato alla meditazione, nella sezione «Meditazioni inedite e sparse», in P.m.r., II, pp. 135-40. Si tratta delle seguenti prose: Estremi dell’arte (precedentemente in «La Fiera letteraria», 8 aprile
1928, p. 3, a seguito del sottocitato Della costruzione), La facoltà di comprendere (già in «Solaria», IV, 11, novembre 1929, p. 3), Questo trovarsi (già in «Solaria», IV, 11, novembre 1929, p. 3), La musica promette (già in «Solaria», IV, 11, novembre 1929, p. 4), Omero cieco (già in «Solaria», IV, 11, no-
vembre 1929, p. 4), Definizione dell’opera (già in «Solaria», IV, 11, novembre
1929, p. 4), L’aria tranquilla (già in «So-
laria», IV, 11, novembre 1929, pp. 4-5), In genere, la pittura (già in «Fronte», I, 1, giugno 1931, p. 49).
d94
Esperienza e teoria, in Pensieri sull’arte, in «La Fiera letteraria», IV, 12, 18 marzo 1928, p. 3.
p. 155 «di un Benda o di un Lasserre»: il critico letterario francese Pierre Lasserre (1867-1930). Per J. Benda cfr., sopra, la
nota a p. 32.
«dei fautori del “costruttivismo”»: sull’uso del termine «costruttivismo», cfr., sotto, p. 156 sgg., il brano successivo.
«una “lingua illustre”»: ovvero altamente letteraria, secondo la definizione datane da Dante nel suo De vulgari eloquentia. p. 156 Della costruzione, in Pensieri sull’arte, in «La Fiera letteraria», IV, 15, 8 aprile 1928, p. 3.
«il Croce»: cfr., sopra, Il Croce e noi, alle pp. 85-94. p. 157 «di Cervantes o di Stendhab: cfr. il saggio di Solmi sull’autore del Don Chisciotte, Centenario di Cervantes, in S.l., pp. 2779-84; e, per Stendhal, sopra, la nota a p. 59.
p. 158 La parola creatrice, una pagina autografa di bloc-notes grande a righe ingiallita dal tempo e ascrivibile agli anni 1925-1930. «la Francesca di Dante»: il celebre personaggio del canto v dell'Inferno dantesco. «i personaggi di Shakespeare»: quali Amleto e Otello, da Solmi sottocitati, protagonisti delle tragedie omonime. p. 159 «di Poe»: lo scrittore americano Edgar Allan Poe (18091849), maestro del racconto misterico e macabro.
p. 160 Sopravvivenza del mito, una pagina autografa di bloc-notes grande a righe ingiallita dal tempo e ascrivibile agli anni 1925-1930. «Nei “Sepolcri” ... nelle “Grazie*»: Solmi assume i due capolavori foscoliani a emblemi del mitologismo moderno. p. 161 «del Canova: lo scultore neoclassico Antonio Canova
(Possagno, Treviso, 1‘757-Venezia 1822) a cui sono dedicate Le Grazie del Foscolo.
«un deluso canto alle favole antiche»: cfr. Alla Primavera o delle favole antiche, settimo dei Canti leopardiani.
«“Prends l’éloquence et tords-lui son cou ”»: cfr. Art poétique, v. 21,
12)
in P. Verlaine, Euvres poétiques complètes, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1948, pp. 206-207.
«Mallarm&:
il poeta francese
Stéphane
Mallarmé
(1842-
1898), ultimo dei «poeti maledetti» (per cui cfr., sotto, la no-
ta a p. 385) e precursore dell’ermetismo. p. 162 Antichi e moderni, foglio manoscritto di bloc-notes grande a righe, ingiallito dal tempo e, presumibilmente, dello stesso periodo dei due scritti precedenti. «La “querelle des anciens et des modernes”: la questione de-
gli antichi e dei moderni: Solmi vi fa riferimento usando la definizione data alla celebre polemica, svoltasi nel Seicento in Francia, riguardo alla superiorità degli uni o degli altri.
«coll’opposizione schilleriana di poesia ingenua e sentimentale»: l'opposizione teorizzata dal drammaturgo e poeta tedesco Friedrich Schiller (1’759-1805) nel saggio Della poesia ingenua e sentimentale, la prima concepita come propria degli antichi, e la seconda dei moderni. «l’anello di Gige»: la leggenda attribuiva a Gige, re di Lidia all’incirca dal 685 al 652 a.C., il possesso di un anello che rendeva invisibili. «natura naturata»:
la definizione
filosofica
(v. Spinoza),
sta
qui a significare uno stato di natura acritico e pago di sé.
p. 164 Sulla prosa: il titolo è del curatore Caratteri della prosa italiana, in Studti, in «Il Baretti», IV, 2, febbraio 1927, p. 10.
«La prosa ... è fatta per la vista, e non per l’udito»: cfr. l’inizio del capitolo «De la poésie et de la prose» del Système des beauxarts, in Alain, Les arts et les dieux, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1958, pp. 441-43. p. 166 Stile e romanzo, in «L’Ambrosiano»,
12 dicembre 1933,
p. 3. «Le osservazioni svolte ... sul tema “prosa lirica” e “prosa di romanzi»: cfr. G. Gorgerino, Prosa di romanzo, in «L’Ambrosiano»,
21 novembre 1933, p. 3. p. 167 «del Massi», il saggista francese Henri Massis (18861970), di cui Solmi cita in appresso le Réflexions sur l’art du roman, Plon, Paris, 1927.
596
«l'esempio di Balza®: il romanziere francese Honoré de Balzac (1799-1850), considerato il padre del realismo ottocentesco.
p. 168 «di un Cechov ... di Dostoevskij ... di certe pagine tolstoiane: gli scrittori russi Anton Cechov (1860-1904), drammaturgo, oltre che narratore, e Fédor Dostoevskij (1821-1881).
Per Lev Tolstoj (1828-1910) cfr. il saggio di Solmi, Naturalità di Tolstoi, in S.l., pp. 333-37. « “l’arte che tutto fa, nulla si scopre”»: cfr. T. Tasso, Gerusalemme liberata, canto XVI, s. Ix, v. 72. «di uno Zola»: (1840-1902).
lo scrittore
naturalista
francese
Émile
Zola
p. 169 «il Leopardi notava alcunché di simile...»: cfr. Zibaldone,
pp. 3047 sgg.
«di Flaubert»: il romanziere francese Gustave Flaubert (1821-
1880). Qui Solmi si riferisce, senza eplicitamente nominarli, a Madame Bovary (1857) e a L'educazione sentimentale (1869). p. 171 Romanzo e frammento, in «L’Ambrosiano», 1934; p.3.
7 febbraio
«Ardengo Soffici ... in un appunto del “Giornale di bordo”: cfr. A. Soffici, Giornale di bordo, Vallecchi, Firenze, 19215, pp. 169-70.
«Giovanni Boine, in una delle sue ... recensioni della “Riviera Ligure»: cfr. G. Boine, Plausi e botte, Guanda, 1939, pp. 119-20. Si
tratta della raccolta delle recensioni che l’autore pubblicò su «Riviera Ligure» (1899-1919) dal marzo 1914 all’ottobre 1916.
pp. 172-73 «dice ancora il Massis ... nel precedente articolo»: cfr., sopra, Stile e romanzo, alle pp. 166-71, e la nota a p. 167. p. 173 «al Boine, autore di un ispirato racconto psicologico»: cfr. G. Boine, /l peccato, in Il peccato ed altre cose, Guanda,
Modena,
1938’, pp. 11-152. p. 174 «di “sondare l’Italia letteraria”»: cfr. Plausi e botte, cit., p. 9. . 175 «in un Rimbaud»: il poeta simbolista francese Arthur Rimbaud (1854-1891), su cui Solmi scrisse una monografia (Cfr. S.5.R.}-
p. 176 «nello stesso Boine, 0 negli inizi di altri scrittori...»: cfr. G.
Boine, Frantumi, Guanda, Modena, 1938’; A. Onofri, Liriche, Vita letteraria, Roma, 1907; N. Savarese, L’altipiano, Soc. di
397
«Novissima», Roma, 1915; V. Cardarelli, Prologhi, Studio Ed. Lombardo, Milano, 1916; R. Bacchelli, Poemi lirici, Zanichelli, Bologna, 1914.
«come il Royce»: il filosofo statunitense Josiah Royce (18551916), massimo rappresentante dell’idealismo americano. «in margine al libro di un “frammentista*»: cfr. Nino Savarese, L'altipiano, in Plausi e botte, cit., pî 184.
«di “rimuginti psicologici”, di “fachiresche scarnificazioni”»: queste citazioni, come le successive, sono tratte dalla recensione di Boine ai Poemi lirici, cit., di Bacchelli, in Plausi e botte, cit., pp. 211-12 e 213.
p. 177 «di un Serra: cfr., sopra, la nota a p. 109. p. 178 «l'avventura “rondista*: cfr., sopra, per «La Ronda», la
nota a p. 112. p. 180 «il gran Vittore ... dettava il credo dell’arte romantica»: nella prefazione al suo dramma Cromwell (1827), Victor Hugo (1802-1885) stese il manifesto della scuola romantica france-
se, di cui fu il maggior rappresentante. p. 181 Sulla poesia: il titolo è del curatore La poesia oggi, conferenza tenuta all’«Unione culturale» di Torino e pubblicata nel bollettino omonimo, luglio 1946, pp. 1-2.
I, 4-5, giugno-
«la tempesta distruggitrice»: la seconda guerra mondiale.
«da un lungo periodo oscuro»: quello del fascismo (1922-1945). p. 183 «un “cervello bizzarro e un po’ balzano*»: cfr. I promessi sposì, Cap. XIV.
p. 184 «Un canto di donna alla finestra»: cfr. la lirica Canto di donna, in P.m.r., I, p. 10.
p. 188 Poesia di ieri, oggi e domani, titolo di due «lezioni» trasmesse dalla Radio Svizzera al principio del 1953 (come si evince dai riferimenti interni), conservate
in dieci cartelle
dattiloscritte. Se ne riproduce solo la seconda, dato che la prima, a parte qualche taglio e aggiustamento, corrisponde al testo precedente. «la grande ondata del surrealismo»: il movimento artistico-letterario sviluppatosi in Francia dopo la prima guerra mon-
598
diale e di cui furono rappresentanti scrittori quali Louis Aragon (1897-1982) e Paul Eluard (1895-1952) da Solmi in appresso citati. «la patetica enumerazione di “Liberté”*»: cfr. Liberté, in P. Éluard,
Choix de Poèmes, Gallimard, Paris, 1951, pp. 277-80.
p. 189 «Supervielle»: il poeta e scrittore francese Jules Supervielle (1884-1960). «Montale»: cfr. i saggi dedicati da Solmi alla poesia di Eugenio Montale
(Genova 1896-Milano
1981) in L.i.c., I, pp. 23-30,
251-63, 363-409, 448-50, 454-57, 487-89. «“Finisterre” ... “Occasioni*»: cfr., sotto, le rispettive note a p+993.
«Ungaretti, nel recente “Monologhetto”»: esso apriva la raccolta Un grido e paesaggi, Schwarz, Milano, 1952. Per /7 dolore, citato
in appresso, cfr., sotto, la nota a p. 433. «Saba ... in “Parole”»: cfr. U. Saba, Parole, Carabba, Lanciano, 1934.
«Penna»: su Sandro Penna (Perugia 1906-Roma 1977), considerato oggi fra i poeti più rappresentativi del Novecento, cfr., sotto, il giudizio di Solmi in La poesia nel 1940, alle pp. 370 sg. «Sereni tace: Vittorio Sereni
(per cui cfr., sotto, la nota a p.
397), dopo Frontiera (1941) e Diario di Algeria (1947), avrebbe pubblicato la sua terza raccolta di liriche, Gl strumenti umani, solo nel 1965.
«Luzi ... Borlenghi»: Mario Luzi (Castello, Firenze, 1914), poeta e critico formatosi nel cuore della cultura ermetica fioren-
tina degli anni Trenta, si occupò più di una volta dell’opera di Solmi. Per Parronchi e Bigongiari, cfr., sopra, le rispettive note a p. 118 e per Caproni, cfr., sotto, la nota a p. 358; per
Aldo Borlenghi cfr., sopra, la nota a p. 119. p. 190 «Eliot, Spender, Auden»: cfr., sotto, per i primi due, i sag-
gi Volontà classica del Novecento, alle pp. 511-19 e la nota a p. 512 e Le nuove ortodossie, alle pp. 534-38 e la nota a p. 534. Il
poeta e saggista inglese Wystan Hugh Auden (1907-1973), di cui Solmi tradusse alcune liriche (cfr. Pm.r., I, pp. 169-71). «di uno squisito neoromantico come Dylan Thomas»: il poeta inglese Dylan Thomas (1914-1953), noto anche per i racconti a sfondo autobiografico compresi in Portrait of an Artist as a Young Dog (1940).
399
«come Garcia Lorca e Alberti»: cfr., sotto, per il primo, Garcia
Lorca: Romancero gitano, alle pp. 530-533, e la nota a p. 530. Di lui, come del poeta spagnolo Rafael Alberti (1902), Solmi tradusse alcune liriche (cfr. Pm.r, I, pp. 240-43 e 160-162).
p. 192 «in Mallarmb: cfr., sopra, la nota a p. 161. «come amava dire Leopardi»: cfr. Zibaldone, p. 29, 3. p. 193 Neorealismo lirico moderno, manoscritto su due fogli a righe di bloc-notes grande, ascrivibile al 1954. Il titolo è del curatore. «di Franco Fortini»: cfr., sopra, la nota a p. 120.
p. 194 «di Claudeb: lo scrittore francese Paul Claudel (18681955), che fu una delle voci più significative del rinnovamento cattolico in Francia nella prima metà del secolo. «all’equazione goethiana “poesia politica, cattiva poesia»: si veda, ad esempio, G.P. Eckermann,
Colloqui col Goethe, Laterza, Ba-
ri, 1914, vol. II, pp. 125-26, dove, fra l’altro, si legge: «guardiamoci dal dire coi nostri letterati, che la politica è la poesia, o che la politica è un argomento buono per i poeti ... Come un poeta vuol fare della politica, gli conviene iscriversi ad un partito, ed allora, come poeta, egli è perduto».
p. 195 «Rafael Alberti ... Stephen Spender»: cfr., sopra, le rispettive note a p. 190. Morte e resurrezione dell'avanguardia, tre fogli a righe di blocnotes grande, ascrivibili al 1963 sulla base dei riferimenti interni. «un penetrante saggio su “La fine dell'avanguardia»: cfr., sopra, la nota a p. 116. «la recente versione del libro del Friedrich»: cfr. Hugo Friedrich, La lirica moderna, Garzanti, Milano, 1958.
p. 196 stente modo guerra
«il “Vettrisme”»: la concezione della poesia come consiesclusivamente nella sonorità delle lettere disposte in più o meno arbitrario, teorizzata nel secondo dopoda Isidore Isou, pseudonimo di Jean Goldstein.
p. 198 Come l’arretramento nello spazio..., due pagine autografe di bloc-notes grande, da ascriversi, per ragioni interne, al 1964 o 1965. Si tratta di una specie di introduzione alla poesia novecentesca.
600
p. 199 «dopo la rigorosa “messa a punto” del Croce»: cfr. B. Croce,
Giovanni Pascoli, Laterza, Bari, 1920 (il primo saggio conte-
nuto in questa monografia risale al 1907).
«col suo accostamento ai greci»: «da paragonare solamente coi greci» disse, ad esempio, del Leopardi P. Giordani nell’epi-
grafe da lui dettata per la tomba del poeta. «come “Le serpent qui danse”, “L’invitation au voyage”: cfr. le due liriche in Ch. Baudelaire,
Quvres completes, Bibliotèque
de la Pléiade, Paris, 1951, pp. 102-103 e 125-26.
p. 200 «“ due fanciulli*»: cfr. Primi poemetti (1897), in G. Pascoli, Poesie, Mondadori, Milano, 1939, pp. 233-35.
«delle sculture bistolfiane»: ovvero dello scultore Leonardo Bistolfi (Casale Monferrato, Alessandria, 1859-Torino 1933).
«nei “Conviviali” ... (“Myrrhine”, “I gemelli)»: cfr. L’etera e I ge-
melli nei Poemi conviviali (1904), in Poesie, cit., pp. 772-78 e 800-803. «come quella che ci ha testé dato Italo Cremona»: cfr. Italo Cremona, /l tempo dell’Art Nouveau, Vallecchi, Firenze, 1964.
p. 201 Mi ha sempre disturbato..., in Poesia italiana contemporanea, a cura di G. Spagnoletti, Guanda, Bologna, 1959, p. 479. p. 202 Ho sempre pensato..., in «Immagini e versi», 2, giugno 1980, p. 2.
«Valéry»: lo scrittore francese Paul Valéry (1871-1945), poeta, critico e pensatore, di cui Solmi tradusse due liriche (ora in P.m.x., I, pp. 151-53) e sul quale scrisse i saggi Un commentario e Valéry teorico e critico, raccolti in S.M., pp. 55-84. «in contrasto con Eliot»: cfr., sotto, il saggio su Eliot, alle pp. 511-19, e la nota a p. 512.
p. 204 Sul cinematografo: il titolo è del curatore. Appunti sul cinematografo, due pagine e mezza di bloc-notes grande a righe, autografe, incompiute e di datazione incerta (forse, tra la metà e la fine degli anni Trenta).
p. 207 «dolce color d’oriental zaffiro»: cfr., Purgatorio, 1, 13. «il “toit tranquille, où marchent des colombes, ”»: cfr. Le cimetière marin, v. 1, in P. Valéry, Euvres, t. I (Poésies, Mélange, Vanété), Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1957, pp. 1497-51.
601
. 208 Decadenza del cinematografo?, in «Costume», II, gennaiofebbraio 1946, pp. 57-58. «Emilio Cecchi, quando ... non era ancora diventato un cineasta...»: il critico (per cui cfr., sopra, la nota a p. 110), dal 1932 al 1953, fu legato, dapprima come direttore di produzione e
poi come collaboratore, alla società Cines. «di un Hokusai o di un Utamaro»: î pittori e incisori giappone-
si Katsushika
Hokusai
(1760-1849)
e Kitagawa
Utamaro
(1753-1806).
p. 209 «gli esperimenti stereoscopici»: cfr. in proposito Ho visto il cinerama, in S.s.F, pp. 117-20. «ai più bei film che ricordi d'aver mai veduto...»: cfr. La febbre dell’oro (1925) di Charlie Chaplin, Ombre bianche (1928) di Ro-
bert Flaherty, IZ Vampiro (1931) di Theodor Dreyer e, per il primo René Clair, le opere del periodo surrealista. p. 211 Sulla critica marxista: il titolo è del curatore. Pseudo-marxismo, in Quadernetto giallo, in «La Fiera letteraria»,
XLII, 48, 30 novembre 1967, pp. 22-24.
«nell’autobiografia puerile di Edmund Gosse»: cfr. E. Gosse, Padre e Figlio, Adelphi, Milano, 1965, p. 54.
p. 212 «in un suo saggio su “Nuovi argomenti»: cfr. P.P. Pasolini, La fine dell'avanguardia, in «Nuovi argomenti», n.s., 3-4, luglio-dicembre
1966, pp. 3-28, e, per la citazione trattane da
Solmi (con qualche approssimazione), la p. 28. «già Cesare Brandi ... în un ... bel libretto di quel titolo»: cfr., sopra, la nota a p. 116. «come Goldmann e Barthes»: i critici francesi Lucien Goldmann (1913-1970) e Roland Barthes (1915-1980), rispettivamente
maestri della critica sociologica e di quella strutturalistica e semeiotica.
pp. 212-13 «dello stalinismo e dello zdanovismo di quegli anni»: allusione al condizionamento operato dallo stalinismo nell'ambito culturale soprattutto ad opera di Andrej Zdanov (1896-1948), uno dei più stretti collaboratori di Stalin (1879-
1953).
p. 213 « “welfare state”»: lo stato sociale. «la guerra del Vietnam»: la trentennale guerra combattuta dal po-
602
polo vietnamita, prima contro la Francia e poi contro gli Stati Uniti, si sarebbe conclusa vittoriosamente il 30 aprile 1975. «come aveva ben visto Gramsci»: cfr., sopra, la recensione di Solmi a Letteratura e vita nazionale, alle pp. 124-33.
p. 214 «di Clori»: tipico nome femminile della poesia arcadica settecentesca. «con Goethe»: cfr., sopra, la nota a p- 194
«le poesie di Rafael Alberti ... l’oratoria patriottica carducciana»: mentre Rafael Alberti
(per cui cfr., sopra, la nota a p. 190)
combatté per la difesa della Repubblica durante la guerra civile spagnola (per cui cfr., sotto, la nota a p. 416), Giosue Carducci (Valdicastello, Lucca, 1835-Bologna 1907) non prese
parte alla seconda guerra d’indipendenza (1859) né ad altri fatti d’arme del Risorgimento italiano. «Mameli e Mercantini»: Goffredo Mameli (Genova 1827-Roma 1849) e Luigi Mercantini (Ripatransone, Ascoli Piceno, 1821-
Palermo 1872), entrambi patrioti e poeti risorgimentali. «il D'Annunzio
civile»: cfr., sotto, quanto
Solmi
ne dice in
Nietzsche e D'Annunzio, alle pp. 440-50, ultima parte. « “ci-devant’»: arretrato, passatista. «il De Sanctis»: cfr., sopra, la nota a p. 99.
p. 215 Materialismo storico, sei fogli autografi di bloc-notes grande, presumibilmente della stessa epoca dello scritto precedente. Di questo testo, per il resto inedito, Solmi pubblicò solo un pas-
so in Q.L.R., intitolandolo Walter Benjamin, L'opera d'arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (ora in Pm.r.,, II, pp. 150-51).
«con la lettura ... del “Capitale”, e ... di “Morceaux choîsis*»: cfr. F. Lassalle, Capitale e lavoro, Libreria La Cultura, Marx, Morceaux choisis, Gallimard, Paris, 1934.
1926; e K.
«maestri ... come Soreb: lo scrittore e uomo politico francese Georges Sorel (1847-1922), le cui idee, influenzate da Proudhon e Marx, ma improntate a un confuso volontarismo, si prestarono a essere sfruttate anche dal fascismo.
«una specie di palinodia»: cfr. la recensione di Solmi ai Propos
di Sorel (Gallimard, Paris, 1935°), in Pensieri e immagini, in «Corrente», 15 aprile 1940, p. 3. «la posizione di Gramsa»: cfr., sopra, «Letteratura e vita nazionale», alle pp. 124-33.
603
p. 216 «sotto il nome di Croce»: cfr., sopra, Il Croce e noi, alle pp. 85-94. «Lessi un po’ di Lukacs»: del filosofo e critico ungherese Gyòrgy Lukacs (1885-1971) Solmi cita in appresso Saggi sul realismo (Einaudi, Torino, 1950) e in particolare quelli su Bal-
zac (ibidem, pp. 37-115).
«Benjamin»: il filosofo e critico’ tedesco Walter Benjamin (1892-1940), di cui Solmi cita in appresso Angelus Novus, da lui letto nell’edizione curata dal figlio Renato, presso Einau-
di, Torino, 1962, e L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966.
«per la poesia di Baudelatre ... 0 per Leskow: cfr. Baudelaire e Parigi e Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus Novus, cit., pp. 85-153 e 235-60. Nikolaj Leskov (18311895) fu uno dei più insigni narratori dell’Ottocento russo;
notevole per l’originalità dello stile e per il carattere non convenzionale delle sue tematiche realistico-popolaresche. «da Dilthey a Bergson e Valéry: il filosofo e storico tedesco Wilhelm Dilthey (1833-1911), con la sua concezione del «relativismo storico», esercitò una grande influenza sulla cultu-
ra della sua epoca. Per Bergson e Valéry cfr., sopra, le rispettive note alle pp. 23 e 202. pp. 216-17 «a proposito del grande critico e collezionista Eduard Fuchs»: cfr. Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, in L’opera
d’arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., pp. 79-123. . 218 «l’Auerbach»: il romanista e critico letterario tedesco
Frich Auerbach (1892-1957), di cui Solmi cita in appresso Mimesìs. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino, 1956.
p. 219 «Corneille e Racine»: i due maggiori drammaturghi della letteratura francese, Pierre Corneille (1606-1684) e Jean Racine (1639-1699), del quale ultimo è citata in appresso la tragedia Bérénice, atto I, scena IV, v. 100.
«di Matisse»: il pittore francese Henri Matisse (1869-1954) ai cui disegni Solmi aveva dedicato lo scritto Disegni di Matisse,
in «Domus», 207, marzo 1946, p. 20.
p. 220 «la “Gradiva” di Jensen, studiata da Freud»: cfr. Il delirio e è sogni nella «Gradiva» di Wilhelm Jensen, in Opere di S. Freud,
Boringhieri, Torino, vol. V, 1972, pp. 259-336. «di Taine:
il filosofo positivista, storico e critico letterario
francese Hippolyte-Adolphe Taine (1828-1893).
604
NOTE A «SCRITTORI ITALIANI CONTEMPORANEI» (pp. 223-508) p. 225 La poesia di Guido Gozzano, in «Cronache Latine», I, 1,
15 gennaio 1917, pp. 16-18.
«Son cinque mesi che è morto Guido Gozzano...»: il maggiore dei poeti crepuscolari (Agliè, Torino, 1883-1916), spentosi il 9 agosto, aveva pubblicato solo La via del Rifugio (1907) e I collo qui (1911); anche Verso la cuna del mondo, raccolta delle prose
ispirate al viaggio in Oriente, da lui compiuto nel 1912, e uscite su «La Stampa» nel 1914, vide la luce postumo nel 1917. «quest’unico volume ... “I colloqui”»: cfr. G. Gozzano, I colloqui, Treves, Milano, 1911. Solmi mostra di trascurare La via del Rifugio, ritenendo definitiva l’ultima raccolta, comprensiva di
alcune liriche della precedente.
pp. 225-26 «il più “antidannunziano” di tutti î giovani poeti»: com’è noto, nonostante l’influenza del Poema paradisiaco (1893), qui da Solmi negata (ma cfr. quanto da lui scritto più tardi in proposito, in L.2.c., I, pp. 215 e 359), la poesia di Gozzano, come dei crepuscolari in genere, si contrapponeva a
quella prevalentemente D'Annunzio.
declamatoria
e superominica
del
p. 226 «credo che il Borgese erri di molto...»: cfr. G.A. Borgese, La poesia di Gozzano, in La vita e il libro, seconda serie, Bocca, To-
rino, 1911, pp. 403 sgg. «Non ha forse egli cantato le ridicole mode del milleottocentocinquanta... %: cfr. L'amica di Nonna Speranza, in G. Gozzano, Opere, a cura di C. Calcaterra e A. De Marchi, Garzanti, Milano, 1953, pp. 124-29.
«del “Poema delle Farfalle”»: cfr. Le Farfalle, ibidem, pp. 1101-38. «il poeta del “Ciocco”»: ovvero il Pascoli: cfr. Il ciocco, in Canti di Castelvecchio (1903), in G. Pascoli, Poesie, cit., pp. 1011-29.
«sui vecchi salotti borghesi ... sulle suppellettili abbandonate dei solai!»: il primo cenno si riferisce a L'amica di Nonna Speranza,
cit.; gli altri due a La signorina Felicita, ovvero La Felicità, in Opere, cit., pp. 106-23, I, vv. 37-54, e IV, vv. l sgg.
p. 227 «il poeta delle “Laudi” e il poeta delle “Myricae”»: D’Annunzio e Pascoli. I primi tre libri delle Laudi erano usciti nel
1903-1904, e le Myricae nel 1891.
605
«pensiamo alla poesia del Carducci»: Solmi avverte il maggior distacco, rispetto a quello dal Pascoli e dal D'Annunzio, che se-
para Gozzano dal Carducci, e in particolare dalla sua poesia civile. «negli arazzi della vecchia “Vill’Amarena*: sì tratta veramente dei dipinti delle «sovrapporte»: cfr. La signorina Felicita, ovvero La Felicità, cit., 1, vv. 30-36.
P
«“il tempo sacro del risveglio”»: cfr. Torino, in Opere, cit., p. 150, I, v. ll.
«come nota ... il Borgese»: cfr. G.A. Borgese, La poesia di Gozzano, cit., p. 411.
«un nome ... Francis fammes»: il poeta francese Francis Jammes (1868-1938) che, con la sua poesia dai toni smorzati e familia-
ri, aveva già influenzato il D'Annunzio del Poema paradisiaco. «come Verlaine, Corbière, Laforgue, Samain, André Gide...»: i poeti simbolisti francesi Paul Verlaine (1844-1896), Tristan Cor-
bière (1845-1875), Jules Laforgue (per cui cfr., sotto, la nota a p. 242) e Albert Samain (1858-1900). Anche i versi giovani li di André Gide (per cui cfr., sopra, la nota a p. 117), Poésies de André Walter (1892), risentono ancora del clima simbolista.
«al tempo di “De l’angelus de l’aube a l’angelus du soir*»: cfr. F. Jammes, De l’Angelus de l’aube à l’Angelus du soir, Mercure de France, Paris, 1898 e 1921" (edizione dalla quale sono tratte le citazioni).
p. 228 «“Je me souviens de quand on allaît voir... »: cfr. Souvenirs d’enfance, in F. Jammes, vol. I, 1913, p. 285.
@uvres, Mercure
de France,
Paris,
«Dolce tristezza, pur t’aveva seco...»: cfr. L'ultima infedeltà, in OpeTcl, pistogalo
«Stai come rapita în un cantico: lo sguardo al cielo profondo...»: cfr. L'amica di Nonna Speranza, cit., p. 129, v, vv. 7-8.
«“dort au pied de la goyave bleue...*»: cfr. Elegie seconde, m, in F. Jammes,
Le deuil des primevères,
Mercure
de France,
Paris,
1917, p. 25, w. 55-56. «fresca come una prugna al gelo mattutino...»: cfr. Totò Merumeni, in Opere, cit., p. 138, II, v. 6. «“Ta
chair
était pareille à celle des
cocos...’»:
cfr.
C'est
au-
Jourd’hui..., in De l’Angelus de l’aube à l’Angelus du sor, cit., p. 218785:
606
«Bellezza riposata dei solai...»: cfr. La signorina Felicita, ovvero La
Felicità, cit., p. 111, Vv, w. 1-2.
p. 229 « “L’Océan bruit comme un harmonica”*: cfr. Aujourd’hui, le long de la nuit..., in De l‘Angelus de l’aube à l‘Angelus du soîr,
cit., pp. 129-30, v. 23.
«dopo l’esegesi che ne ha fatta il Serra»: cfr. R. Serra, Le lettere, in Scritti, a cura di G. De Robertis e A. Grilli, vol. I, Le Monnier,
Firenze, 1938, pp. 292 sgg. «(per esempio nel Moretti)»: Marino Moretti (Cesenatico, Forlì, 1885-1979) fu scrittore rappresentativo del crepuscolarismo sia nell’opera poetica che in quella narrativa.
p. 230 «2
ritratto della signorina Felicita, i discorsi di Carlotta e di
Speranza»: cfr. La signorina Felicita, ovvero La Felicità, cit., p. 109, m, vv. 1-12, e L'amica di Nonna Speranza, cit., pp. 128-29, IV, vv. 5 sgg.
«I greggi, sparsi a picco, in lenti beli e mugli...»: cfr. Le due strade, in Opere, cit., p. 81, m, vv. 3-6.
«“un poco falso, come piace a me*»: cfr. Paolo e Virginia, ibidem, p. 100, n, v. 12.
«del romanzo di Bernardino di Saint-Pierre»: il celebre Paul et Virginie (1787) dello scrittore francese Henri Bernardin de Saint-Pierre (1737-1814).
« “bella e artificiosa come il diluvio delle vecchie tele*»: cfr. Paolo e Virginia, cit., p. 103, VII, vv. 5-6.
«il precetto dell’“Art poétique” di Verlaine: «Prends l’éloquence et tords-lui son cou», per cui cfr., sopra, la nota a p. 161.
p. 231 «di alcuni dei simbolisti francesi»: quali quelli da Solmi sopracitati. « “come s’usa nei libri dei poeti»: cfr. La signorina Felicita, ovvero La Felicità, cit., p. 120, vu, v. 36. p. 232 Arturo Onofri: «Arioso», in «Primo Tempo», serie I, 2, 15
giugno 1922, pp. 59-60. «L’Onofri»: Arturo Onofri (Roma 1885-1928) fu poeta e saggista di formazione crociana, passato poi alla poetica del frammento lirico e alla teoria del significato mistico e visionario dell’arte. Solmi gli dedicò nel 1929 un altro breve scritto, Appunto sull’ultimo Onofri (ora in L.i.c., I, pp. 111-15).
607
«Queste poesie dell’Onofri»: cfr. A. Onofri, Arioso, Casa d’arte
Bragaglia, Roma, 1921. p. 233 «sulla sua produzione anteriore»: cfr. A. Onofri, Liriche, Ricciardi, Napoli, 1914, e Orchestrine, Libreria della Diana, Napoli, 1917.
«la “Pioggia nel pineto” e il “Novilunio”»: cfr. le due note liriche dell’ Alcyone, in G. D'Annunzio, Laudi del cielo del mare della ter-
ra e degli eroi, Mondadori, Milano, 1952, pp. 619-23 e 825-32. «al Pascoli delle “Myricae” ... commentato dall’Onofri»: i commenti pascoliani, usciti in «La Voce» nel 1916 (nn. 1, 2, 5, 6, 7 e 8), si trovano ora raccolti in A. Onofri, Letture poetiche del Pascoli, Edizioni de «L'albero», Bari, 1953.
p. 234 Corrado Govoni: «La terra contro il cielo», in «Primo Tempo», serie I, 3, 15 luglio 1922, pp. 94-96. «G.A. Borgese ... in un breve articolo»: cfr. Venti e Ventuno, n (datato dicembre 1921), in G.A. Borgese, Tempo di edificare, Treves, Milano, 1923, p. 255. «dell’illustre critico siciliano»: per G.A. Borgese cfr., sopra, la nota a p. 109.
p. 235 «del frammentismo»: cfr., sopra, la nota a p. 103. «di Govoni»:
Corrado
Govoni
(Tamara, Ferrara,
1884-Roma
1965), il fecondo poeta a cui Solmi dedicò il più tardo saggio Govoni e le immagini (cfr. L.i.c., I, pp. 334-42), scrisse anche opere di narrativa, come quella qui recensita. «il secondo volume d’un suo poderoso romanzo»: cfr. C. Govoni, La terra contro il cielo, Mondadori, Milano-Roma, 1921.
p. 236 «nell’“Inaugurazione della Primavera” e nella “Santa verde*»: cfr. C. Govoni, Inaugurazione della primavera, Libreria della Voce, Firenze, 1915 e Taddei, Ferrara, 1920 (da cui si traggono le citazioni); e La santa verde, Taddei, Ferrara, 1919.
«in “Casa paterna” o nella “Vita nel bosco”: cfr. Casa paterna e La vita nel bosco, in Inaugurazione della primavera, cit., pp. 10519 e 186-90. p. 238 Giovanni Bellini: «Arciviaggio», in «Primo Tempo», se-
rie I, 6, 15 ottobre 1922, pp. 1772-73.
«Fernando Agnoletti ha raccolto le poche pagine lasciate da Giovanni Bellin»: Fernando Agnoletti (Firenze 1875-1933), collaborato-
608
re di «La Voce» e di «Lacerba», dopo aver commemorato Gio-
vanni Bellini (Poggio a Caiano, Firenze, 1891-Plava, Gorizia, 1915) in «La Voce», VII, 14, 15 agosto 1915, pp. 865-69, ne raccolse gli scritti in Arciviaggio, Vallecchi, Firenze, 1921.
«dei quaderni sofficiani»: allusione a Giornale di bordo (1913) di Ardengo Soffici, per cui cfr., sotto, Testimonianza su Soffici, al-
le pp. 484-85, e la nota a p. 484.
p. 239 «L'invito fantastico alla “casa degli archi baleni” o la favola dell’usignuolo...»: cfr. Invito, in Arciviaggio, cit., p.67,v. 1; e L'u-
signuolo, ibidem, pp. 71-72, di cui Solmi cita l’inizio.
«a certi canti anonimi del Due o del Trecento»: quali quelli conservati nei Memoriali bolognesi (1265-1436).
p. 241 Giuseppe Raimondi: «Stagioni, seguite da Orfeo all'Inferno e altre favole», in «Primo Tempo», serie I, 7-8, s.d. (ma 1923),
pp. 237-38.
«Giuseppe Raimond»: fecondo autore di opere di narrativa e saggistica (Bologna 1898-1985), dopo aver fondato e diretto la rivista «La Raccolta», fu collaboratore di «La Ronda». Sol-
mi si occupò di lui a più riprese: cfr. Operette di Raimondi, in L.i.c., 1, pp. 85-88, e Tendenze nuove, sotto, alle pp. 266-68. «“Stagioni”»: cfr. G. Raimondi, Stagioni, seguite da Orfeo all’Inferno e altre favole, Il Convegno, Milano, 1922.
p. 242 «di un Laforgue»: sul poeta simbolista francese Jules Laforgue (1860-1887), uno dei creatori del verso libero, Sol-
mi scrisse nel 1965 il saggio La luna di Laforgue, ora in L.L.L., pp. 13-51. «Cardarelli e Montano»: cfr., sopra, per il primo, la nota a p. 112, e Lorenzo Montano: «Il Perdigiorno», sotto, alle pp. 2947-99.
p. 243 Paolo Buzzi: «Poema dei quarantannè», in «Primo Tempo», serie I, 7-8, s.d. (ma 1923), pp. 238-40. «Di diretta derivazione lombarda e luciniana ... Paolo Buzzi»: l’o-
pera dello scrittore futurista Paolo Buzzi (Milano 1874-1956), autore di raccolte di poesie, tra cui Aeroplani (1909) e Atomiche (1952), viene fatta da Solmi derivare dalla tarda Scapi-
gliatura lombarda, e in particolare da Gian Pietro Lucini (Milano 1867-Villa di Breglia, Como, 1914), che se ne staccò inserendosi nel clima del simbolismo e decadentismo europeo, fino ad accostarsi, con l’adozione del verso libero e con Revolverate (1909), al Futurismo (cfr. il ue dedicatogli da Solmi, Le bonheur d’admirer, in S.l., pp. 273-78).
609
«un “Poema dei quarantanni”»: cfr. P. Buzzi, Poema dei quarantanni, Edizioni Futuriste di «Poesia», Milano, 1922. «di Francesco Pastonchi»: cfr., sopra, la nota a p. 146.
p. 244 «di stampo vittorughiano»: ossia dai toni magniloquenti propri della poesia di Victor Hugo (per cui cfr., sopra, la nota a p. 180). «l’“Autunno” ... accolto nell'antologia dei “Poeti d’oggi”»: cfr. G.P. Lucini, Autunno, dalla Prima Ora della Academia (1902), in G. Papini e P. Pancrazi, Poeti d’oggi, Vallecchi, Firenze, 1925°, pp. 83-84.
«certi tentativi di “bel canto” in forme chiuse: cfr. P. Buzzi, Bel canto, Studio Editoriale Lombardo, Milano, 1916.
«in Claudeb: cfr., sopra, la nota a p. 194. p. 245 «certe trascrizioni immaginose ... della musica di Strawinsky: cfr. Strawinsky, in Poema dei quarantanni, cit., pp. 132-33.
p. 246 Pirandello, in «l'Unità», 9 ottobre 1925, p. 2. «ai Filodrammatici»: il teatro milanese sito nella via omonima.
«su Pirandello e le sue commedie: il teatro di Luigi Pirandello (Girgenti 1867-Roma 1936), iniziato con Pensaci, Giacomino! (1916), superati i primi anche violenti contrasti, godeva ormai di fama internazionale. «La Verità, che una volta stava nel pozzo...»: si avverte, sottesa qui e altrove nel presente articolo, la polemica di Solmi nei confronti del fascismo.
p. 247 «alla “Rinascente”: il noto emporio milanese, di cui era allora proprietario Senatore Borletti (Milano 1880-1939),
fondatore della società omonima per l’esercizio dei grandi magazzini. «Il relativismo ... nei libri di Einstein 0 di Spengler»: Albert Einstein (1879-1955) aveva formulato definitivamente, nel 1916,
la sua teoria della relatività generale nella memoria intitolata Die Grundlagen der allgemeinen Relativitàtstheorie; e il filosofo tedesco Oswald Spengler (1880-1936), nella sua opera principale, Il declino dell'Occidente (1918-1922), aveva esposto la sua concezione relativistica e irrazionalistica della storia.
p. 248 «sull’“essere”el’“apparire*»: la loro contrapposizione costituisce un tema fondamentale dell’opera di Pirandello.
610
«dell’“Amore Illustrato”»: si tratta di un settimanale che uscì a Milano dal 1897 al 1939. «in “Così è (se vi pare)”»: dramma pirandelliano, del 1917.
«Benjamin Crémieux»: cfr., sopra, la nota a p. 103.
p. 249 «Guido da Verona ... Bottecchia»: il primo (Saliceto sul
Panaro, Modena, 1881-Milano 1939) autore di romanzi d’au-
ra dannunziana, che ebbero all’epoca gran successo di pub-
blico; Ottavio
Bottecchia
(Pordenone
1894-1927),
celebre
corridore ciclista, vincitore di ben due giri di Francia nel 1924 e 1925. p. 250 «il suo teatro è frutto della rivoluzione fascista»: si ricordi che Pirandello aveva aderito al fascismo. «il divino “piè leggero” di cuì parlava Nietzsche: ad esempio, in Così parlò Zarathustra, cit., passim, e anche altrove.
«“Il piacere dell’onestà”*: altro dramma composto da Pirandel-
lo nel 1917.
p. 251 «in “Ciascuno a suo modo” ... coi “Sei personaggi in cerca d’autore*»: rispettivamente secondo e primo dramma pirandelliani (1924 e 1921) della cosiddetta «trilogia del teatro nel teatro».
p. 253 La poesia di Eugenia Martinet, tre pagine dattiloscritte, ingiallite, senza titolo e data, ma da ascriversi all’anno 1925.
«Dopo l’ultima celebre triade: quella di Carducci, Pascoli e D'Annunzio. p. 254 «Eugenia Dolchi Martine: Eugenia Martinet in Dolchi (Aosta 1896-1983), dopo un primo volume di poesie in lingua (di cui qui parla Solmi), si dedicò prevalentemente alla composizione di liriche in patois valdostano, che le valsero i maggiori riconoscimenti anche nell’area della poesia francoprovenzale. Parte della sua produzione, soprattutto dialettale (ma essa comprende pure versi francesi), si trova raccolta nel volume postumo Poémes choîsis, Tipografia Valdostana, Aosta, 1990. L’autrice, che trascorse molti anni della sua esistenza a Milano, era cognata di Solmi. «un libretto di versi»: cfr. E. Martinet Dolchi, Primo Dono, Tipo-
grafia F. Balzaretti, Milano, s.d. (ma 1925). «veroniani»: ovvero degli autori, quali Baganzani, Fiumi, ecc.,
appartenenti al cenacolo dei «poeti di Verona e di Ferrara», per cui cfr., sotto, la nota a p. 382.
611
p. 255 «della prima Negri»: Ada Negri (Lodi 1870-Milano 1945), autrice di raccolte di versi (fra le quali Il libro di Mara, Treves, Milano, 1919 e / canti dell’isola, Mondadori, Milano,
1924), nonché di prose narrative e autobiografiche. «del tempo di guerra»: quello della prima guerra mondiale. «al Pascoli delle “Myricae” e a Severino Ferrari»: cfr. G. Pascoli, Myricae, in Poesie, cit., pp. 1-146; Sevefino Ferrari (Alberino di Molinella, Bologna, 1856-Collegigliato, Pistoia, 1905) fu, come il Pascoli (San Mauro di Romagna, Forlì, 1855-Bologna 1912), allievo di G. Carducci, subendo l’influenza di entrambi.
« “Il Tè”, “Dove nasce il vento”, “L'ora buona” ... “Il bucato” e “Piccole minestre»: cfr. le poesie così intitolate in Primo Dono, cit., pp. 30-31, 72-73, 61-62, 23 e 81.
p. 256 Prefazione a 12 poesie, scritta nel 1979 come presentazione
a dodici poesie della Martinet
e rimasta inedita, fu
stampata postuma nel volume sopracitato di Poémes choiîsis dell’autrice, pp. 173-77. «un articolo ... ora raccolto in “Sulla poesia”»: cfr. E. Montale, La musa dialettale, in Sulla poesia, Mondadori, Milano, 1976, p. 179.
«al suo libro “Meison de beiro, meison de gllièse”»: cfr. E. Martinet, Meison de beiro, meîson de glliése, Il nuovo Cracas, Roma, 1964.
«Franco Antonicelli e Barberi Squarotti»: cfr. G. Barberi Squarotti, Poesia, in «Letteratura», XXIX, nuova serie, 74-75, marzo-
giugno 1965, p. 138; e il cenno elogiativo di F. Antonicelli, in Fiore della poesia dialettale, nel «Radiocorriere» del 20-26 novembre 1964, p. 23.
i
p. 257 «Si legga ... “La malleuvrà”»: cfr. Poèmes choisis, cit., pp. 66-67, vv. 1-4.
«la forma francese classica del “rondeau’»: componimento di tre strofe costituite rispettivamente da 5 endecasillabi, 3 endecasillabi e 1 ternario, 5 endecasillabi e 1 ternario, e con lo schema di rime AABBA/AABc/AABBAc. «“Vo-s-atre le canon, no le sirène...”»: cfr: questa lirica in Poèmes choisis, cit., p. 72, vv. 1-4.
p. 258 «come ne “Lo scavo”»: questa lirica e la sottocitata Le seison sono tuttora inedite. p. 259 «P.P. Pasolini ... in “Nuovi argomenti»: cfr. P.P. Pasolini,
612
Ah, Italia disunita!, in «Nuovi Argomenti», nuova serie, 10,
aprile-giugno 1968, pp. 255-56.
p: 260 C.V. Lodovici: «La donna di nessuno», manoscritto ine-
dito su tre fogli di bloc-notes grande a righe, da ascrivere alla fine del 1926. «alle commedie che Cesare V. Lodovici ha raccolto ... in volume: cfr. Cesare Vico Lodovici, La donna di nessuno, Vallecchi, Firenze, 1926. L'autore (Carrara 1885-Roma 1968), drammaturgo, critico e traduttore del teatro di Shakespeare, nonché direttore
della rivista «Il quindicinale», fu tra 1 primi letterati con cui Solmi strinse amicizia dopo il suo arrivo a Milano nel 1924. «dall’epigrafe shakespeariana che ha posta în capo al libro»: «To name is to destroy, to suggest is to create». «in questa stessa rivista»: «La Fiera letteraria», promotrice di un’inchiesta sull’arte drammatica, svoltasi sulle sue pagine dal 31 ottobre al 21 novembre 1926 (e ancora sui numeri del 19 dicembre e del 2 gennaio successivi).
p. 262 «il nome di Cechow:: cfr., sopra, la nota a p. 168. p. 263 «di Anna... di Cusano»: protagonisti di La donna di nessuno, cit.
«un Ibsen»: l’autore drammatico (1828-1906)
norvegese
Heinrik Ibsen
che esercitò una grande influenza sulla dram-
maturgia europea della fine Ottocento e del primo Novecento.
p. 265 Tendenze nuove, in «Giornale di Genova», 22 gennaio 19277 p. 3: «Dalla lettura del dibattito che si svolse ... sulle colonne di un giornale letterario»: al dibattito sulla critica svoltosi su «La Fiera letteraria» dal 14 febbraio al 28 marzo 1926, parteciparono L. Montano, G. Titta Rosa, F. Flora, A. Momigliano e altri, non-
ché A. Gargiulo con un intervento «a posteriori» uscito sulla rivista il 9 maggio.
p. 266 «del libretto di prose di Giuseppe Raimond»: cfr. G. Raimondi, Galileo, ovvero dell’aria, Il Convegno, Milano, 1926. Per Raimondi cfr., sopra, Giuseppe Raimondi: «Stagioni, seguite da Or-
feo all'Inferno e altre favole», alle pp. 241-42, e la nota a p. 241.
«nelle grandi immaginazioni scientifiche di Galileo»: quali quelle del Dialogo sopra î due massimi sistemi del mondo (1632).
613
p. 267 «le notturne meditazioni di Pascab: probabile allusione ai pensieri di Pascal ispirati alla piccolezza dell’uomo, sperso entro gli spazi siderali, in rapporto all’infinità della natura: cfr. Pensées, Première partie, passim, in B. Pascal, L'euvre, Bi
bliothèque de la Pléiade, Paris, 1950, pp. 838-922. «l’esempio del Leopardi ... nelle “Operette morali*»: cfr. quanto scritto da Solmi su di esse in La poesia di Leopardi, in S.l., pp. 24-28.
«Paul Valéry ... ci dette ... un'ideal figura di Leonardo»: cfr. P. Valéry, Introduction à la methode de Léonard de Vinci, cit. «negli ultimi “Dialoghi”, introdusse un arguto Socrate...»: cfr. Eupalinos ou l’architecte, e L’Ame et la Dance, in P. Valéry, Euvres, t. II, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1960, pp. 79-147 e
148-76.
«un trasognato dialogo autunnale»: cfr. Conversazione di Galileo con Cesare Marsili, in Galileo, ovvero dell’aria, cit., pp. 12-26.
«ha condotto Biagio Pascal a ragionare...»: cfr. Dialogo di Pascal e di un costruttore di tombe, ibidem, pp. 49-59.
«“Le réel d'un discours c'est après tout cette chanson...*»: cfr. P. Valéry, Eupalinos ou l’architecte, cit., p. 85.
«Nella precedente “Notizia su Baudelaîre”*»: cfr. G. Raimondi, Notizia su Baudelaire, Il Convegno, Milano, 1924. pp. 267-68 «quanto altra volta avemmo a scrivere ...»: cfr., sopra,
alle pp. 241-42 Giuseppe Raimondi: «Stagioni, seguite da Orfeo all'Inferno e altre favole», cit.
p. 268 «le pagine più liriche e sciolte del volumetto...»: cfr. Acque nella regione emiliana, in Galileo, ovvero dell’aria, cit., pp. 3947. « “Amedeo ed altri racconti»: cfr. G. Debenedetti, Amedeo ed altri racconti, Edizioni del Baretti, Torino, 1926, nonché, sopra, i
precedenti saggi sull’autore alle pp. 13 e 22, e la nota a p. 14. p. 269 «sulla rivista “Primo Tempo”: cfr., sopra, la nota a p.14 su G. Debenedetti.
«negli ultimi articoli originalissimi su Proust e Radiguet»: il primo. saggio di Debenedetti su Proust e quelli su Radiguet, per cui cfr., sopra, le note a pp. 18 e 15, erano usciti la prima volta su «Il Baretti»
(II, 6-7, aprile 1925, pp. 1-2; II, 2, 1° febbraio
1925, pp. 1-2; II, 4-5, marzo 1925, p. 15).
614
p.- 270 «nel racconto “Suor Virginia”: cfr. Amedeo ed altri racconti, cit., pp. 51-107.
«nel racconto che dà il titolo al volume»: cfr. Amedeo, ibidem, pp. 9dd «In “Cinema Liberty” e in “Riviera, amici’»: cfr. i due racconti così intitolati, ibidem, pp. 35-50 e 109-58. «il D'Annunzio della “Leda” e dei diarò>: cfr. G. D'Annunzio, La Leda senza cigno, Treves, Milano, 1916; e Faville del maglio, Mondadori, Milano, 1924-1928.
p. 271 «l’incitamento di Jacques Rivière»: cfr., per esempio,J.Rivière, La crise du concept de la littérature, in «La Nouvelle Revue Francaise», XI, 125, n.s., 1er Février, 1924, pp. 159-70; nonché, sopra, sull’autore la nota a p. 115.
p. 272 «Oreste» a cura di Pilade, in «Il Convegno», VIII, 9, 25 settembre 1927, pp. 532-35. «questo libretto singolare»: cfr. «Oreste», Cronache di moralità provvisoria, a cura di Pilade, Edizioni del Baretti, Torino, 1926. «del suo autore»: ovvero Guglielmo Alberti, per cui cfr., sopra,
Lo stile di Alberti, alle pp. 139-43, e la nota a p. 139.
p. 273 «con una lettera di Oreste a Pilade»: cfr. Lettera di Oreste, in «Oreste», cit., pp. 81-91. p. 274 «del Gide di “Paludes” o del Cocteau del “Potomak”»: cfr.,
sopra, per il romanzo di Gide, la nota a p. 140, e Jean Cocteau, Le Potomak, Librairie Stock, Paris, 1924.
«ai tradizionali modelli dell’Ottonieri leopardiano e del Didimo Chierico»: cfr. G. Leopardi, Detti memorabili di Filippo Ottomeni, cit., e U. Foscolo, Notizia intorno a Didimo Chierico (1813).
«St veda ... il desinare sotto la pergola, 0 la scena di Veneranda morta»: cfr. «Oreste», cit., pp. 25-28 e 43-44. p. 275 «I versi che chiudono il volume»: ctr. Licenza, ibidem, p. 93: «Pure, umano sarebbe al dolce incanto/cedere dei mattini in riva al fiume,/tra germogli e pispigli al novo lume, /e a cupe
lotte rinunziare e al pianto». «di un piccolo “Werther” surrealista e metafisico»: allusione a I dolori del giovane Werther (1774) di Goethe. p. 276 Italo Svevo: «Senilità», in «Il Convegno», VIII, 11-12, 25
novembre-25 dicembre 1927, pp. 671-77.
615
«al “caso Svevo”: cfr. su Italo Svevo, pseudonimo di Ettore
Schmitz (Trieste 1861-Motta di Livenza, Treviso, 1928), il posteriore Ricordo di Svevo, in L.i.c., I, pp. 461-66. «la nuova edizione di “Senilità”»: cfr. I. Svevo, Senilità, Morreale, Milano, 1927 (la prima edizione era uscita nel 1898).
«dopo il saggio acuto ed esatto...»: cfr. E. Montale, Omaggio a Italo Svevo, in «L’Esame», novembre-dicembre 1925, pp. 804-13 (ora in I. Svevo - E. Montale, Lettere, cit., pp. 93-106).
p. 277 «della terza Italia»: quella postunitaria. «quel che successe al Verga e al miglior Fogazzaro»: al Verga, s’intende, delle opere veristiche, e al Fogazzaro di Piccolo mondo antico (1895).
«Così il romanzo ... non raggiunse ... presso di noi la perfezione significativa e formale»: cfr., sopra, sullo stesso argomento, «Letteratura e vita nazionale», alle pp. 124-33.
«allo Stendhal bastarono ... gli articoli del “Code civil»: Solmi ha presumibilmente desunto la notizia da B. Croce, Stendhal, in
Poesia e non poesia, cit., p. 96: «a lui bastò lo stile quotidiano e di conversazione, semplice e disadorno, ai quale ... egli dice-
va di aver posto a modello la prosa del Codice Civile». p. 278 «Parlando di “Una vita” ... venne fatto al Montale di accennare ... al nome di Balza©:
cfr. I. Svevo,
Una vita, Vram,
Trieste, 1892; e E. Montale, Omaggio a Italo Svevo, cit., p. 97:
«Notevole libro, questo Una vita: ricorda Balzac come, io credo, nessun
altro romanzo
italiano: lo stesso dono
ele-
mentare e profondo, ed un affine procedimento realistico che qui appare, tuttavia, depurato e alleviato in modo singolare».
«dell'autore della “Comédie humaine*: com'è noto, questo è il titolo che Balzac (per cui cfr., sopra, la nota a p. 167) dette alla raccolta dei suoi romanzi
(1842-1848). Oltre a Balzac,
Solmi cita in appresso, fra gli antecedenti di Svevo, altri espo-
nenti della maggior narrativa europea dell’Ottocento e del primo Novecento: dai francesi Gustave Flaubert (1821-1880)
e Marcel Proust (1871-1922) al russo Fèdor Dostoevskij (1821-1881) e all’irlandese James Joyce (1882-1941). p. 279 «che “guarda e dice”»: è riecheggiamento del verso dantesco «dirò come colui che piange e dice» (Inferno, v, 126). p. 280 «siamo d’accordo con l’amico Montale»: cfr. E. Montale,
Omaggio a Italo Svevo, cit., p. 98: «Di Senilità ... si può dire che
616
non soltanto è forse il capolavoro di Svevo, ma è anche un libro di veramente rara potenza». p. 281 «alla maniera ... dell’ultimo Gide: cfr., sopra, per André
Gide la nota a p. 117.
p. 282 «della “Coscienza di Zeno”: cfr. I. Svevo, La coscienza di Zeno, Cappelli, Bologna, 1923. «dalla sua recente traduzione francese: la traduzione, col titolo di Zéno, e per opera di P.H. Michel, era apparsa nel 1927 nelle edizioni della «Nouvelle Revue Francaise».
«di scrittori come Benjamin Crémieux e Valery Larbaud»: i due italianisti francesi (per il primo dei quali cfr., sopra, la nota a p.
103) avevano scritto di Svevo su «Le Navire d’Argent» del 1° febbraio 1926, numero quasi interamente a lui dedicato e sul quale Larbaud pubblicò anche le sue traduzioni di due frammenti di Senilità. «alla maniera ... di un Meredith»: lo scrittore inglese George Meredith (1828-1909), autore di libri di narrativa (fra cui, più noto, L'’egoista, del 1879), precursore del romanzo nove-
centesco per il gusto analitico della sua prosa. p. 283 «Zeno ... ritorna ai conforti della religione»: cfr. La coscienza di Zeno, cit., p. 71 (il corsivo nella citazione è di Solmi).
p. 284 Nota 1929, manoscritto su tre fogli di bloc-notes grande a righe. All’inizio del Ricordo di Svevo, cit., Solmi accennava a un tentativo, poi abbandonato, di «elaborare certe note
sulla Coscienza di Zeno». Dei «fogli sparsi» riflessioni sull'opera di Italo Svevo ha quelli riguardanti lo stile dello scrittore brato opportuno pubblicarli a corollario colo a cui espressamente si rifanno.
dove annotava le sue peraltro conservato triestino. Ci è semdel precedente arti-
«come în Stendhab: cfr., sopra, la nota a p. 59.
«la morte del cognato Guido»: cfr. La coscienza di Zeno, cit., pp. 455 sgg.
p. 285 «in Proust»: ovvero nel ciclo di La recherche du temps perdu, cit.
p. 286 «Chi ideò il felice parallelo fra Svevo e Charlot...»: ctr. B. Crémieux, Uno scrittore italiano scoperto in Francia, in «La Fiera letteraria», 28 febbraio 1925, pp. 1-2: «Il primo grande merito di Svevo è ... quello di aver creato un tipo che non manca
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di affinità collo Charlot di Charlie Chaplin. Lo Charlot triestino che ci presenta Svevo sotto il nome di Alfonso o di Zeno ha la stessa inesauribile buona volontà; la stessa aspirazione verso la saggezza e verso l’eroismo dello Charlot cinematografico, e, come lui, mostra una ingegnosità, un’intelligen-
za smisurata nel vincere i più piccoli ostacoli e cade in tutto quanto intraprende con lo stesso candore». p. 287 Adriano Grande: «Avventure», in «Il Convegno», IX, 2,
25 febbraio 1928, pp. 100-103. «Ecco un volumetto»: cfr. Adriano Grande, Avventure, Edizioni del Baretti, Torino, 1927. Si tratta del primo libro di questo poeta (Genova 1897-Roma 1972), esponente della «linea li-
gure» della poesia novecentesca
e fondatore
delle riviste
«Circoli» e «Maestrale». Solmi, che ne era amico ed estimatore, ne recensì anche il secondo, La tomba verde (cfr. L.i.c., I,
pp. 134-38), e, nel 1966, scrisse la prefazione alla riedizione di entrambi (ibidem, pp. 433-42). p. 288 « “Ed in fondo io vivo d'incidenti’»: cfr. Specchi, in Avventure, cit., p. 150. « “l’obbedire inutili comandi”»: cfr. Autunno, ibidem, p. 64, ultimo verso.
« “abitare l'istante»: cfr. Specchi, cit., p. 157.
« “Ah se per vivere bastasse campare!”»: cfr. Pastorale, in Avventure, cit., p. 38.
«in “Autunno”: ibidem, p. 64. «in “Da Riva” ... nell’“Allegoria dell’amore”»: cfr. Da Riva, Pazienza, La tomba verde, Allegoria dell’amore, ibidem, pp. 86-87, 8485, 65, 70.
p. 289 «del “Convegno”»: la rivista «Il Convegno», fondata e diretta da Enzo Ferrieri, uscì dal 1920 al 1939.
« “Gorgoglian, strozzate dal gelo...”»: cfr. Gelo, in Avventure, cit., p. 56, vv. 1-2. « “Conosco notti quete come stanze...”»: cfr. Luna, ibidem, p. 68, vv.
12. «(“Sosta”, “Notti d’estate”)»: cfr. le liriche così intitolate, ibidem, pp. 82-83 e 58-60.
« “Giovinezza, danzante leggerezza...”»: cfr. Saluto, ibidem, pp. 7980, vv. 17-18.
618
p. 290 «come “Pastorale” ... o “Il gaudente”»: cfr. Pastorale, Orizzonti in un caffe, L'ineffabile, Il gaudente, ibidem, pp. 33-38, 8999, 19-20, 31-32.
«del genere di “Eliodoro”»: cfr. Eliodoro, ibidem, pp. 101-21.
«agli scrittori della “Ronda”: cfr., sopra, la nota a p. 112. «lo Sbarbaro»: il poeta Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure, Genova, 1888-Savona 1967), autore di raccolte di liriche, quali Resine (1911) e Pianissimo (1914), nonché delle
prose liriche di Trucioli (1920) di cui Solmi recensì l'edizione definitiva del 1948 (cfr. I «Trucioli» di Sbarbaro e la Nota 1954,
in L.i.c., I, pp. 302-308). «nella
prosa intitolata “Specchi*»: cfr. Specchi, in Avventure, cit.,
pp. 147-58.
p. 292 Appunti sulla poesia di Saba, in «Solaria», III, 5, maggio 1928, pp. 33-36. Solmi stesso ha spiegato la ragione per cui non ha accolto questo scritto, assieme agli altri su Saba, in S.n.a. (Saba 1926, Umberto Saba: «Preludio e fughe», Umberto Saba: «Tre composizioni», Conclusioni su Saba, ora in L.i.c., I, pp. 40-48, 94-100, 177-83, 275-86): «C’è anche chi ha voluto, se-
condo me a torto, vedere un progresso nell’opera di Saba, nell’avvicinamento ai modi della poesia giovane. Io stesso sacrificai
un
articolo
pubblicato
altra volta in “Solaria”,
in
quanto attribuivo alla poesia di Saba un carattere intellettualistico da cui essa è quanto mai aliena. Mi è sempre parso ... che in Trieste e una donna, libro che resta il suo capolavoro, ci
sia già tutto Saba, presente e futuro». (Cfr. Due ricordi di Saba,
II, in L.i.c., I, pp. 477-78 e anche, sotto, le pp. 346-47 dedicate a Saba in Poesia d’oggi). «come diceva Baudelaire»: «Créer un poncif, c'est le génie. Je dois créer un poncif». (Cfr. Ch. Baudelaire, Journaux intimes, Fusées, XX, in Euvres, cit., p. 1192).
. 293 «in “Trieste e una donna”: cfr. U. Saba, Trieste e una donna (1910-1912), in Jl Canzoniere, La libreria antica e moderna, Trieste, 1921, pp. 103-47.
«Mio tenero germoglio...»: cfr. A mia figlia, in Trieste e una donna, cit., p. 106, vv. 1-7. «con le “Canzonette” e le “Fanciulle”»: cfr. Preludio e Canzonette e Fanciulle, in U. Saba, Figure e canti, Treves, Milano, 1926, pp.
5-40 e 85-98.
«nei “Prigioni*»: cfr. I Prigioni, ibidem, pp. 61-77.
619
p. 295 «gli ultimi componimenti di “Figure e canti”»: cfr. Cuor morituro, ibidem, pp. 99-130.
«alla “Brama” ... all’“Uomo”»: cfr. La brama e Il borgo, ibidem, pp. 118-28; la Prima e la Sesta delle Fughe, in Preludio e Fughe, Edizioni di Solaria, Firenze, 1928, pp. 17-21 e 41-59; L'Uomo,
nel numero di «Solaria» del maggio 1928, cit., pp. 3-20. « “antro di castigo” ... “viva eternamente”»: cfr. la Prima delle Fu‘ghe, city p.19, v.vfep..21v 4°
p. 296 « “Le foglie...”»: ibidem, pp. 19-20, vv. 16-23 (di cui peraltro Solmi cita una stesura anteriore).
«i limiti di questo “omaggio”: il citato fascicolo di «Solaria» del maggio 1928 era dedicato a Saba. p. 297 Lorenzo Montano: «Il perdigiorno»: in «Il Convegno», IX, 9-10, 25 settembre-25 ottobre 1928, pp. 502-503. «In questo libretto, che apre una eloquente lettera...»: cfr. la dedica: A Vincenzo Cardarelli e agli amici della «Ronda», in L. Montano, /l perdigiorno, L’Italiano editore, Bologna, 1928, pp. 9-20. «Lorenzo Montano: pseudonimo di Danilo Lebrecht (Verona
1893-Milano 1958), autore di versi e di pagine narrative e collaboratore di «La Ronda», nonché studioso del Sei e Sette-
cento. Parte della sua opera si trova raccolta nel volume Carte al vento (1956).
p. 298 « “Viaggio attraverso la gioventù»: cfr. L. Montano, Viaggio attraverso la gioventù, secondo un itinerario recente, Mondadori, Milano, 1923. «la “Storia del ricco Michele” o “La morte della Sirena”: cfr. in Il perdigiorno, cit., pp. 29-44 e 101-108.
«di quel Magalotti che il Montano ... ebbe a commentare»: cfr. L. Magalotti, Le più belle pagine, scelte da L. Montano, Milano, 1925.
Treves,
«“Di noi superstiti»: cfr. in Il perdigiorno, cit., pp. 109-33. p. 299 «del Longanesi»: lo scrittore e editore Leo Longanesi (Bagnacavallo, Ravenna, 1905-Milano 1957), fondatore e direttore della rivista «L’Italiano» (1926-1942). p. 300 Giacomo Prampolini: «Dall'alto silenzio», in «Il Convegno», IX, 9-10, 25 settembre-25 ottobre 1928, pp. 503-505.
620
«Giacomo Prampolini»: cfr., sopra, i precedenti scritti dedicati
da Solmi a questo autore, alle pp.
74-84, e la nota a p. 74.
«con questo libretto»: Dall'alto silenzio, per cui cfr., sopra, la no-
ta a p. 82.
p. 301 «come Fargue o Réverdy»: i poeti francesi Léon-Paul Fargue (1876-1947) e Pierre Réverdy (1889-1960). «il primo Ungaretti»: ovvero l’autore del Porto sepolto (1916) e di Allegria di naufragi (1919). «nelle sontuosità funeree di un'ispirazione mallarmeana e petrarchesca»: allusione al nuovo indirizzo stilistico assunto dalla poesia ungarettiana nelle liriche che sarebbero poi confluite in Sentimento del tempo (1919-1935).
pp. 301-302 « “questa è la notte che s’intenerisce...’»: cfr. questa poesia in Dall'alto silenzio, cit., p. 71, vv. 1-5.
p. 302 «da Giovanni Scheiwiller: Giovanni Scheiwiller (Milano 1889-1965), fondatore, nel 1925, della Casa editrice omoni-
ma (ora perpetuata dal figlio Vanni), amico e sostegno di scrittori e artisti, e primo editore di Solmi. p. 303
Giacomo Prampolini:
«Segni», in «Pegaso», IV, 12, di-
cembre 1932, pp. 755-58. «un volumetto di brevi liriche e uno di frammenti»: Dall'alto silenzio, e Segni, per i quali cfr., sopra, la nota a p. 82. p. 304 «Lo stesso Prampolini traduttore e poliglotta»: cfr., sopra, la
nota a p. 74. «“Quinquaginta carmina medii aevi”»: cfr., sopra, la nota a p. 83. « “Storia universale della letteratura”»: cfr., sopra, Una storia uni-
versale della letteratura, alle pp. 74-81, e la nota a p. 74. «della dinastia Han»: dinastia imperiale cinese che regnò dal 206 a.C. al 220 d.C. «scrittori come il Soffici e lo Sbarbaro»: cfr., sotto, Testimonianza su
Soffici, alle pp. 484-85, e, sopra, per Camillo Sbarbaro, la nota a p. 290. p. 305 « “Sotto la luna bianche figure danzano agli scogli..."»: cfr. Segni, cit., p. 20. «“Grappoli sonnacchiosi di apine rosse e nere..."»: ibidem, p. 61.
621
p. 306 «Il mare invoglia, persuade...»: ibidem, p. 151.
pp. 306-307 « “avventure dell'anima”: secondo la definizione data da Leopardi dei suoi idilli come esprimenti «avventure
del mio animo». (Cfr. G. Leopardi, Disegni letterari, in Le poesie e le prose, a cura di F. Flora, Mondadori, 1949°, p. 705).
Milano, vol. I,
p. 307 «la coloratissima “Guida e storia del villaggio”»: cfr. Guida e storia del villaggio, in Segni, cit., pp. 105-22. « “mièure’»: affettata, artificiosa. p. 308 Poeti italiani in Francia, in «La Fiera letteraria», V, 5, 3 febbraio 1929, p. 2.
«L'“Antologia” ... il “Panorama” ... questa nuova “Anthologie”...»: cfr. Jean Chuzeville, Anthologie des Poétes italiens contemporains, Editions de la Bibliothèque Universelle, Paris, 1921; Benjamin Crémieux, Panorama de la littérature italienne contemporaine, Kra,
Paris, 1928; e Anthologie de la Poésie italienne contemporaine, établie et traduite par Lionello Fiumi et Armand Henneuse, avec la collaboration de Pierre de Nolhac de l’Académie Francaise, Eugène Bestaux, Paul Guiton, M.-Y Lenoir, Henri Marchand, Alfred Mortier, Maurice Muret, Edouard Schneider, «Les Ecrivains Réunis», Paris, 1928.
p.309 «Lionello Fiumi»: Lionello Fiumi (Rovereto, Trento, 1894-Verona 1973), poeta, critico e narratore, nonché diffusore della letteratura italiana in Francia, oltre alla citata
Anthologie de la Poésie italienne contemporaine, ne curò una in collaborazione con E. Bestaux di Narrateurs italiens contemporains (1933).
«della “merveilleuse floraison lyrique»: cfr. 1’Avertissement preposto all’ Anthologie de la Poésie italienne contemporaine, cit., p. 5. p. 310 «quello della “Leda” e dei diarò: cfr., sopra, la nota a p. 270.
«con la sola eccezione dello Sbarbaro»: per C. Sbarbaro cfr., sopra, la nota a p. 290. «di una famosa antologia nostrana»: probabile allusione a Poeti d'oggi, per cui cfr., sopra, la nota a p. 244. « “Armonia in grigio et in silenzio”»: cfr. C. Govoni, Armonia in grigio et in silenzio, Lumachi, Firenze, 1903.
622
p- 312 «del genere di quella inaugurata dal Berenson per la pittura»: per B. Berenson cfr., sopra, la nota a p. 141.
p- 313 «la Negri, la Guglielminetti, la Aleramo»: le poetesse Ada Negri (per cui cfr., sopra, la nota a p. 255), Amalia Guglielminetti (Torino 1881-1941) e Sibilla Aleramo, per la quale cfr., sotto, Sibilla Aleramo: «Luci della mia sera», alle pp. 460-63,
e la nota a p. 460.
«Bontempelli, Novaro, Borgese, Lipparini»: cfr., sopra, per M. Bontempelli, la nota a p. 112; per A.S. Novaro, sotto, la nota a p. 381 e per G.A. Borgese, sopra, la nota a p. 109. Giusep-
pe Lipparini (Bologna 1877-1951), noto autore di antologie e testi scolastici, scrisse anche poesie.
«da Jahier»: lo scrittore vociano Piero Jahier (Genova 1884-Firenze 1966), il cui libro più noto resta Con me e con gli alpini, La Voce, Firenze, 1919.
«Ravegnani, D'Alba,
Villaroeb: il critico letterario Giuseppe
Ravegnani (San Patrignano di Romagna, Forlì, 1895-Ferrara 1964), autore altresì di versi e prose; lo scrittore e poeta Au-
ro D'Alba, pseudonimo di Umberto Bottone (Roma 18881965); Giuseppe Villaroel (Catania 1889-Roma 1968), autore di poesie, saggi e libri per ragazzi. «da Mastri e da Gerace»: cfr., sotto, per il primo, in Poesia d’oggi le pp. 344-46, e la nota a p. 344; Vincenzo Gerace (Cittanova, Reggio Calabria,
1876-Roma
1930) fu poeta, come
il
Mastri, ancora legato alla tradizione. «accanto a Cardarelli ... il Bacchelli dei “Poemi hrici*»: cfr., sopra, per il primo, la nota a p. 112, e, per il secondo, sotto, Un poemetto di Bacchelli, alle pp. 424-28, e, a p. 425, la nota ai Poemi lirici.
«Saba ... Palazzeschi ... Ungaretti»: cfr., sopra, per il primo, la nota a p. 292, e, per gli altri, le rispettive note, sotto, alle pp. 366 e 431.
«alcune liriche ... pubblicate su “Commerce”: le poesie francesi di Ungaretti figurano alle pp. 360-64 della citata antologia di Fiumi e Henneuse. p. 314 «idealmente ricongiungendo Mallarmé a Petrarca»: ovvero innestando l’intellettualismo del poeta francese Stéphane Mallarmé (per cui cfr., sopra, la nota a p. 161) sulla più alta tradizione della lirica italiana. «di Grande ... di Titta Rosa ... di Montale»: cfr., sopra, le rispet-
tive note alle pp. 287, 144 e 189.
623
«Boine e Onofri ... Malaparte»: cfr., sopra, per i primi due, le
note alle pp. 109 e 232, e, per Clemente Rebora, Papini e Soffici, sotto, le note alle pp. 377, 385, 484. Curzio Malaparte, pseudonimo di Kurt Suckert (Prato, Firenze, 1898-Roma 1957), scrittore e polemista, fondatore di «900» e sostenitore
del movimento di «Strapaese»; lo si ricorda ancora per romanzi come Kaputt (1944) e La pelle (1948). p. 316 G. Titta Rosa: «Idilli ai
in «Il Convegno», X, 3, 25
marzo 1929, pp. 137-40. «Dopo le “Feste delle stagioni”, gli “Idilli rustici*»: cfr. G. Titta Rosa, Le feste delle stagioni, Edizioni di Solaria, Firenze, 1928; e Idilli rustici, Ribet, Torino, 1928. «Il Titta Rosa»: per Giovanni Titta Rosa cfr., sopra, «Vita lette
raria del Novecento», alle pp. 144-49, e la nota a p. 144. p. 318 « “Il malincontro”, “Il paese assediato”, “La morte dell’asina”: cfr. questi racconti in /dilli rustici, cit., pp. 41-53, 27-40 e 55-74.
«il Linati della prima maniera»: per Carlo Linati (Como 1878Rebbio, Como, 1949), cfr. Nuvole e paesi, in L.i.c., 1, pp. 309-
15, «1 classici esempi del Verga»: di quello, s'intende, verista e siciliano. «con “La nonna*»: cfr. La nonna, in Idilli rustici, cit., pp. 75-91.
p. 319 « “Lazzarone e l’Americana”»: ibidem, pp. 105-53. «la fantasia di “Amelio”»: cfr. Ritratto di Amelio giovane solitario e La passeggiata di Amelio ovvero Addio alla giovinezza, ibidem, pp. 155-80 e 181-91. «delle preoccupazioni “rondiste’»: cfr., sopra, la nota su «La Ronda» a p. 112. p. 321 G. Titta Rosa: «Pietà dell’uomo», già Prefazione a G. Titta Rosa, Pietà dell’uomo, Maia, Siena, 1952.
«Ho conosciuto Titta Rosa ... ad una conferenza di Piero Gobetti»: cfr., sopra, l’inizio di «Vita letteraria del Novecento», p. 144 e le note inerenti.
«nelle salette della “Fiera letteraria” ... insieme a Fracchia ed Angioletti»: cfr., sopra, le note a p. 145.
«il tempestoso mare del “ventennio nero”»: ovvero il periodo fascista.
624
p. 322 «ai tempi di “Lacerba*»: Titta Rosa collaborò alla rivista
(per cui cfr., sopra, la nota a p. 147) sui numeri del 1° luglio 1914 e del 3 e 24 aprile del 1915.
«nel “Plaustro istoriato”»: cfr. G. Titta Rosa, Plaustro istoriato, Zanichelli, Bologna, 1919.
«le “Feste delle stagioni”»: cfr., sopra, la nota a p. 316. p- 323 «in “Alta luna”»: cfr. G. Titta Rosa, Alta Luna, Carabba, Lanciano, 1935.
«di Saba poesia di retti, le Ebe, pal.
e di Ungaretti»: per Saba cfr., sopra, gli Appunti sulla Saba, alle pp. 292-96, e la nota a p. 292; e, per UngaNote sulla poesia di Ungaretti, in L.i.c., I, pp. 184-98, sotto, Ungaretti e la critica alle pp. 431-32 e la nota a
« “Romanzo” e “Paese e memoria»: cfr., in Pietà dell’uomo, cit., pp.
19-22 e 23-43. «Altrove»: ovvero in Pietà dell’uomo, ibidem, pp. 45-61, sezione da cui è tratto il titolo del libro intero.
p- 324 «Poesia» di Girolamo Comi, già in Poesia cosmica, in «L’Italia letteraria», I, 9, 2 giugno 1929, p. 8. «in Girolamo
Comi»:
Girolamo
Comi
(Casamassella,
Lecce,
1890-Lucugnano, Lecce, 1968), dopo gli esordi simbolisti ed ermetici, andò atteggiando la sua lirica, permeata da un forte sentimento religioso, in forme sempre più limpide. «“Poesia”»: cfr. G. Comi, Poesia, Al tempo della fortuna, Roma, 1929.
«il libretto di Onofri»: cfr. A. Onofri, Simili a melodie rapprese în mondo, Al tempo della fortuna, Roma, 1923. A questo libro, e
alla poesia in genere dell’Onofri (per cui cfr., sopra, Arturo Onofri: «Arioso», alle pp. 232-33, e la nota a p. 232), era dedi-
cata la prima parte dell’articolo Poesia cosmica, cit. (poi inserita, col titolo Appunto sull'ultimo Onofri, in S.n.a., e ora in L.i.c., 4, pp..441-15). «(“archi-viola-di-suoni” ... “porpora-cantico”)»: cfr. Sento î violini del sole..., in G. Comi, Opera poetica, Longo, Ravenna, I9775 p. 17, v. 2; Io questa sera sono poche ed arse..., ibidem, p. 26, v. 2; Al
veari affluiti: di rose..., ibidem, p. 16, v. 9.
p. 325 «dell’“Opera prima” papiniana»: cfr. G. Papini, Opera prima, Libreria della Voce, Firenze, 1917.
625
«Io albero tutto midollo...»: cfr. Cantico dell’albero, in Opera poetica, cit., pp. 22-23, vv. 5-9.
«ai delicati equilibri del Valér»: per Paul Valéry cfr., sopra, la nota a p. 202. p. 326 Piero Gadda: «Mozzo», in «Solaria», V, 2, febbraio 1930,
pp. 44-46.
i
«L’arte di Piero Gadda»: Piero Gadda Conti (Milano 1902),
autore di numerose opere narrative, ancora prevalente mente legate alla tradizione ottocentesca lombarda, alle quali non mancarono
riconoscimenti, fra cui, nel 1929, il
premio della «Fiera letteraria», e ancora, nel 1971, quello Bagutta. «nel primo Linati»: cfr., sopra, la nota a p. 318.
«con quel “frammentarismo” descrittivo»: cfr., sopra, la nota a p. 103. p. 327 «quel libretto dell’“Entusiastica estate”»: cfr. P. Gadda, L’entusiastica estate, Il Convegno, Milano, 1924.
«i facili profeti delle terze pagine: i critici letterari dei quotidiani. «in quest’ultimo romanzetto»: cfr. Piero Gadda, Mozzo, Ceschina, Milano, 1930.
p. 328 «nel capitolo della morte del padre»: cfr. il cap. va, Alla Cantoniera, in Mozzo, cit., pp. 99-112.
p. 329 «quel racconto di “Liuba*: cfr. P. Gadda, Liuba, Il Convegno, Milano, 1926. p. 330 Giuseppe Lanza: «Esilio - Ritorni», in «Solaria», V, 7/8, luglio-agosto 1930, pp. 51-55.
p. 331 «In un dibattito che sì svolse ... sulle colonne di un giornale letterario»: cfr., sopra, la nota a p. 260.
«Bragaglia e il suo “teatro d’arte*»: lo scrittore e regista teatrale Anton Giulio Bragaglia (Frosinone 1890-Roma 1960) aveva fondato a Roma, nel 1922, il teatro degli Indipendenti, inteso alla rappresentazione di testi di avanguardia e alle sperimentazioni sceniche.
«un altro ingenuo»: cfr. Fausto Maria Martini in «La Fiera letteraria», 19 dicembre 1926, p. 6.
626
p. 332«l’opera del Pirandello»: cfr., sopra, Pirandello, alle pp. 246-52, e la nota a p. 246. «come nelrecente “Lazzaro”»: cfr. L. Pirandello, Lazzaro, Mondadori, Milano-Roma, 1930.
«un giovane d’ingegno come il Lanz»: il drammaturgo, narratore e critico Giuseppe Lanza (Valguarnera, Enna, 1900-Milano 1988), amico fraterno di Solmi, che ne recensì pure la
prima raccolta di racconti, All’albergo del Sole, del 1932 (cfr. Racconti di Lanza, in L.i.c., 1, pp. 169-74). «Nelle due commedie oggi pubblicate»: cfr. G. Lanza, Esilio - Ritorni, Buratti, Torino, 1930.
p. 333 «voglio alludere alla “Donna di nessuno” di C.V. Lodovici»: cfr., sopra, C.V. Lodovici: «La donna di nessuno», alle pp. 260-64.
«In “Esilio”»: cfr. Esilio, in Esilio - Ritorni, cit., pp. 7-79. p. 334 « “Ritorni”»: cfr. Ritorni, ibidem, pp. 81-172.
p. 335 « “marivaudage”»: schermaglia amorosa
(dal dramma-
turgo francese Pierre de Marivaux, 1688-1763, autore di com-
medie di analisi psicologica imperniate sull’intrigo amoroso). p. 336 «Donne nella vita di Stefano Premuda», in «L'Illustrazione Italiana», LX, 8, 19 febbraio 1933, p. 286.
«Giani Stuparich»:
per questo
autore
(Trieste
1891-Roma
1961), volontario nella prima guerra mondiale, assieme al fratello Carlo e a Scipio Slataper, che in essa trovarono la morte, cfr. anche la recensione di Solmi a «Racconti» di Stu-
parich, in L.i.c., I, pp. 129-33. pp. 336-37 « “Colloqui con mio fratello” ... e “Donne nella vita di Stefano Premuda”: cfr. G. Stuparich, Colloqui con mio fratello, Treves, Milano, 1925; Guerra del ’15, Treves, Milano, 1931?; Racconti, Buratti, Torino, 1929; e Donne nella vita di Stefano Premuda, Treves-Treccani-Tumminelli, Milano-Roma, 1932. p. 337 «taluno ha voluto rintracciare...»: cfr. P. Pancrazi, Giani Stuparich triestino, in Scrittori italiani del Novecento, Laterza, Ba-
ri, 1934, p. 218: «Nella forza di Stuparich, in quello che oggi possiamo dire il suo eroismo c’è un accento kantiano».
«È stato osservato dal Pancrazi...»: cfr. Guerra del ’15, ibidem, pp.
215-20, passim.
627
p. 338 «l’“esplorazione del proprio petto”»: è reminiscenza leopardiana: cfr. Palinodia a Gino Capponi, vv. 235-36, «Il proprio petto esplorar / che ti val?». «di “Tristano e Isotta”»: cfr. Al «Tristano e Isotta», in Donne nella
vita di Stefano Premuda, cit., pp. 213-37. p. 339 «nel caso di Silvia o della giovane tedesca»: rispettivamente protagoniste dei racconti L'incontro di Silvia e Una mattina di marzo
a Miramare, ibidem, pp. 81-135 e 239-64.
«la donna è Sfinge, Arpia, Chimera»: i mitici mostri qui citati vogliono evocare gli aspetti enigmatici, perfidi e sfuggenti del carattere femminile. «come avvenne a Giacobbe con l’Angelo»: cfr. Genesi, 32, 24-30. p. 340 «può ... far pensare al Meister goethiano»: ovvero al protagonista di Anni di apprendistato di Wilhelm Meister (1796) di
Goethe. «di fronte alla confessione della colpa di Silvia»: cfr. L'incontro di Silvia, cit., pp. 124 sgg. «in “Addio alla Tina”: cfr. Addio alla Tina, in Donne nella vita
di Stefano Premuda, cit., pp. 137-78.
p. 341 « “La promessa della zia Nene” e “Un'estate a Isola”: cfr. i
racconti così intitolati, ibidem, pp. 1-39 e 41-80.
«dopo il bellissimo “Anno di scuola”»: cfr. Un anno di scuola, in Racconti, cit., pp. 31-80. «quelle memorabili di Proust...»: cfr. M. Proust, Du còté de chez Swann, in A la recherche du temps perdu, cit., t. I, pp. 27 sgg.
p. 342 «“Come parlavo e vedevo i suoi piccoli occhi...”»: cfr. Addio alla Tina, cit., p. 143.
«in “Ospite a ‘Gli Ulivi””»: cfr. Ospite a «Gli Ulivi», in Donne nella vita di Stefano Premuda, cit., pp. 179-212. «Lo Svevo delle novelle minori»: cfr. I. Svevo, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla, ed altri scritti, Morreale, Milano,
1929.
«“La casa tranquilla”»: ultimo racconto di Donne nella vita di Stefano Premuda, cit., pp. 265-89. «degli Svevo e dei Saba ... degli Slataper e dei Michelstaedter»: per Svevo e Saba cfr., sopra, Italo Svevo: «Senilità» e Appunti sulla
poesia di Saba, alle pp. 276-86 e 292-96, e, per gli altri scritti di
628
Solmi su questi autori, rispettivamente,
sopra, le note alle
Pp. 276 e 292. Lo scrittore e critico Scipio Slataper (Trieste 1888-Podgora
1915), fervido irredentista morto
durante
la
prima guerra mondiale, fu collaboratore di «La Voce» e autore di un capolavoro della prosa primonovecentesca, /l mio
Carso (1912). Carlo Michelstaedter (Gorizia 1887-1910), autore di Poesie (1912) e delle dissertazioni Dialogo della salute e
La persuasione e la rettorica, pubblicate anch’esse postume nel 1913, morì suicida giovanissimo in conformità a quanto da lui teorizzato nel primo dei due ultimi scritti. «in “Una famiglia*: cfr. Famiglia, in Racconti, cit., pp. 121-68. p. 344 Poesia d’oggi, in «L’Illustrazione Italiana», LXI, 28, 15 luglio 1934, p. 94.
«Pietro Mastri»: Pietro Mastri, pseudonimo del poeta Pirro Masetti (Firenze 1868-1932), pubblicò le raccolte di liriche da Solmi sottocitate: L’Arcobaleno, Zanichelli, Bologna, 1900; Lo Specchio e laFalce, Treves, Milano, 1907; La Meridiana, Taddei, Ferrara, 1920; La Fronda Oscillante, Bemporad, Firenze, 1923; La via delle stelle, Alpes, Milano, 1927; Ultimi canti, Treves-Treccani-Tumminelli, Milano-Roma 1933.
«dell’amico Bruno Cicognanè»: il romanziere e narratore Bruno Cicognani (Firenze 1879-1971), su cui Solmi aveva scritto nel 1927 il saggio Racconti di Cicognani (ora in L.i.c., I, pp. 55-58). p. 345 « “La figlia che non ho”, “La mia sorella risuona il piano»: cfr. Ultimi canti, cit., pp. 3-7 e 27-32.
«del “porto di pace”»: cfr. Verso il porto di pace, in La via delle stelle, cit., pp. 113-45. «Presto noi lo vedremo...»: cfr. La giovinezza eterna, in Ultimi can-
ti, cit., pp. 57-67, vv. 129-33. « “Il vecchio padron di tartana*»: ibidem, pp. 69-96. «da Omero a Coleridg@: ovvero dall’ Odissea a La ballata del vecchio marinaio del poeta romantico inglese Samuel Taylor
Coleridge (1772-1834). .346 « “Espero” o la “Canzone ermetica»: cfr. La via delle stelle, cit., pp. 191-94 e 133-39. «del Pascoli o di Severino Ferrari»: cfr., sopra, la nota a p. 255.
«la poesia di Umberto Saba»: cfr., sopra, Appunti sulla poesia di Saba, alle pp. 292-96, e la nota a p. 292.
629
« “Tre composizioni»: cfr. U. Saba, Tre composizioni, Treves-Treccani-Tumminelli, Milano-Roma, sione di Solmi. «di “Trieste e una donna”
1933, e la già citata recen-
... del “Canzoniere”»: cfr., sopra, la no-
ta a p. 292. p. 347 «Il poemetto “L'Uomo” ... “Preludio e fughe*»: cfr. L'Uomo e Preludio e fughe, in Tre composizioni, cit., pp. 39-60 e 61-110. «in pace...»: cfr. Preludio, in Preludio e fughe, cit., pp. 63-64, ultima strofa. «Nel “Piccolo Berto”»: cfr. Il piccolo Berto, in Tre composizioni, cit.,
pp. 111-46. «i “verdi paradisi dell’infanzia”»: cfr. Tre poesie alla ma balia, 1, in Il piccolo Berto, cit., p. 113, ultimo verso. «Le liriche raccolte ... in “Primasera”»: cfr. A. Barile, Primasera, Edizioni di Circoli, Genova, 1933. Il poeta Angelo Barile (Albissola Marina, Savona, 1888-1967), fondatore, assieme ad Adriano Grande, della rivista «Circoli», ed esponente della
cosiddetta «linea ligure». pp. 347-48 «dal vecchio Ceccardo ... al Grande»: i poeti Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (Ortonovo, La Spezia, 1871-Genova 1919), Mario Novaro (Diano Marina, Imperia, 1868-Forte di Nava, Imperia, 1944), Camillo Sbarbaro ed Eugenio Mon-
tale (per i quali cfr., sopra, le rispettive note alle pp. 290 e 189) erano tutti liguri. p. 348 «nella bella lirica “Transito”»: cfr. Transito, in Primasera,
cit., pp. 33-35. «in “Il pianto di Xenia”, in “Primasera”, in “Uscire dalla vita”»: cfr. le liriche così intitolate, ibidem, pp. 63-65, 99-102 e 103105. «in questa “foglia”: cfr. Una foglia, ibidem, pp. 45-46 e il v. 18.
p. 349 «Quali gli ideali, le ambizioni della poesia giovane?...»: il brano del presente articolo, che s’inizia con questa domanda, fino a «ciò spiega come la nuova poesia ci venga servita a carrettate»,
1934, pe33.
fu riprodotto
in «Circoli»,
IV, 4, luglio-agosto
«di Attilio Bertolucci»: oggi considerato fra i migliori poeti italiani del Novecento, Attilio Bertolucci (San Lazzaro, Parma, 1911) era al suo secondo libro di versi.
630
p.- 350 «ai recenti Littoriali della Cultura»: così erano detti i concorsi annuali a carattere culturale organizzati durante il fascismo nell’ambito del GUF (Gruppo Universitario Fascista). «come il Touleb: il poeta francese Paul-Jean Toulet
(1867-
1920), di cui Solmi tradusse alcune delle Contrerimes (1921), ora in P.m.r., I, pp. 182-85 e 252.
«( “Inverno”, “Questo sole”, “Autunno”)»: cfr. queste liriche in A. Bertolucci, Fuochi in novembre, A. Minardi, Parma, 37,40 e 43.
1934, pp.
«Mi ha svegliato il tuo canto solitario...»: cfr. La notte d’ottobre, ibidem, p. 21, vv. 1-2.
«Emilia, ormai scurisce îl tuo frumento...»: cfr. Emilia, ibidem, p. 34, vv. 14. p. 351 La poesia nel 1938, in «Il Tesoretto», Primi piani, Mila-
no, 1939, pp. 236-44. «la morte di D'Annunzio»: Gabriele D'Annunzio il 1° marzo 1938.
si era spento
«di “Alcione” ... dei diari ultimi»: cfr. Alcyone, in G. D'Annunzio, Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, Mondadori, Milano, 1952°, pp. 553-841, e Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D'Annunzio tentato di morire, in Prose di ricerca, di lotta, ecc., vol. II, Mondadori, Milano, 1962?, pp. 639926.
«di un Cardarelli ... di certi poemi ungarettiani ... di un Montale»: cfr., sopra, per Cardarelli, la nota a p. 112, e, per Ungaretti e Montale, le note, sotto, a p. 431 e, sopra, a p. 189. p. 352 «come Govoni, Grande, Quasimodo, Sinisgalli»: cfr., sopra, per i primi due, Corrado Govoni: «La terra contro il cielo» e Adriano Grande: «Avventure»: alle pp. 234-37 e 287-91, e le rispettive
note alle pp. 235 e 287; per Salvatore Quasimodo (Modica, Ragusa, 1901-Napoli 1968), Quasimodo e la lirica moderna, in L.i.c., I, pp. 212-22. Leonardo Sinisgalli (Montemurro, Potenza, 1908-Roma 1981), noto poeta del periodo ermetico, co-
nobbe e frequentò Solmi durante gli anni trascorsi a Milano. «Qualche interessante ristampa ... di Boine ... di Mario Novaro»: cfr. G. Boine, Frantumi, terza edizione con aggiunte inedite, Guanda, Modena,
1938; M. Novaro, Murmuri ed echi, Ricciar-
di, Napoli, 1938*. «chiuso l’intermezzo del “Flauto magico»: cfr. C. Govoni, Il flauto magico, Al tempo della fortuna, Roma, 1932.
631
«a casa dei miei»: a Santa Liberata (presso Spilamberto, Modena), casa di campagna dei nonni materni di Solmi, per la quale cfr. Ricordi familiari, in P.m.r.,, II, pp. 192-93, e l’inizio della
memorabile prosa Meditazione sullo Scorpione, ibidem, pp. 27-38. pp. 352-53 «la bella copertina multicolore di Soffici»: quella che adornava la prima edizione dell’ Inaugurazione della primavera (per cui cfr., sopra, la nota a p. 236) di C. Govoni. p. 353 «La valle padana immersa nelle fantastiche nebbie mattinali...»: per queste evocazioni, a parte il tema della nebbia che ricorre in più liriche dell’Inaugurazione della primavera, cit., cfr., ibidem, L’arrotino e l'arcobaleno, p. 131, Il malato e îl mare, p. 141, Cercate la primavera, p. 103, vv. 1-4, Primavera, p. 136, v. 5, Le cose che fanno la primavera, pp. 161-62, ultimi versi, e / sob borghi, pp. 45-55, v. 233.
« “Dentro la pioggia di Febbraio”»: cfr. C. Govoni, Canzoni a bocca chiusa, Vallecchi, Firenze, 1938, p. 247.
p. 354 «dal primo libro ... al più recente “Erato e Apollion*»: cfr. S. Quasimodo, Acque e terre, Edizioni di Solaria, Firenze, 1930; e Frato e Apollion, Scheiwiller, Milano, 1936 (con prefazione di
Solmi, ora Quasimodo e la lirica moderna, cit.).
«un saggio introduttivo di Oreste Macri>: cfr. O. Macri, La poeti ca della parola e Salvatore Quasimodo, in S. Quasimodo, Poesie, Primi piani, Milano, 1938, pp. 9-61.
« “trapassare la cerchia delle rappresentazioni... ”»: cfr. La poetica della parola e Salvatore Quasimodo, cit., pp. 19-20. p. 355 « “Vento a Tindari*: cfr. la celebre lirica di Acque e terre,
cit., in Poesie, cit., p. 87. «Nel sereno colore...»: cfr. Sulle rive del Lambro, ibidem, p. 65, vv. 8-12.
«le “18 poesie*»: cfr. L. Sinisgalli, 18 poesie, Scheiwiller, Milano, 1936.
«A bel vedere sull’aia»: cfr. questa lirica in L. Sinisgalli, Poesie, Edizioni del Cavallino, Venezia, 1938, p. 31.
p. 356 « “Versi per album*: ibidem, pp. 71-81. «di Libero De Libero»: su Libero De Libero
(Fondi, Latina,
1906-Roma 1981), poeta di formazione ermetica e narratore stimato da Solmi, cfr. De Libero: «Il libro del forestiero», in L.i.c.,
I, pp. 293-96, e P.m.r., II, pp. 175 e 184.
632
p- 357 «della “Tomba verde”edi “Nuvole sul greto”*»: cfr. A. Grande, La tomba verde, cit., e Nuvole sul greto, Edizioni di Circoli,
Genova, 1932.
«La boscaglia si stende come un lago...»: cfr. Plenilunio, in A. Grande, Poesie in Africa, Vallecchi, Firenze, 1938, pp. 13-15, vv. 21-28.
« la “freccia di delizia” di cui parlava William Blake»: cfr. lo stesso riferimento al poeta, pittore e incisore inglese (1757-1827), in L.i.c., I, pp. 253-54.
p. 358 «del pittore Scipione»: il pittore Scipione, pseudonimo di Gino Bonichi (Macerata 1904-Arco, Trento, 1933), fu anche
letterato e poeta.
«come dice Enrico Falqui»: cfr. E. Falqui, prefazione a Scipione, Le civette gridano, Scheiwiller, Milano, 1938, p. 2.
«Giovanni Descalzo»: gran parte della produzione poetica di questo autore (Sestri Levante, Genova, 1902-1951), che fu anche romanziere e giornalista, si trova raccolta in Risacca, Vallecchi, Firenze, 1952.
«del pittore Cesetti»: Giuseppe Cesetti (Tuscania, Viterbo, 19021990). «di Renato Mucci»: oltre che traduttore di Mallarmé, Verlaine e Proust, R. Mucci fu musicista, poeta e commediografo.
«di Francesco Tropeano»: Francesco Tropeano (Pisa 1914-1960) nutrì svariati interessi culturali, dalla letteratura alla pittura, alla musica, al teatro e al cinematografo.
«di Giorgio Caproni»: Giorgio Caproni (Livorno 1912-Roma 1990), considerato fra i poeti più notevoli del Novecento, raccolse la sua opera in versi in Poesie (1932-1988), Garzanti, Milano, 1989.
«il premio “Poeti del tempo di Mussolini” ... a Giuseppe Valentini»: il premio era stato assegnato al libro di G. Valentini /l fiore sul fucile, Emiliano degli Orfini, Genova, 1938.
« “La Valletta” di Antonio Rinaldi»: questo primo libro di Antonio Rinaldi (Potenza 1914) fu ripubblicato, assieme al secondo, La Notte (1949), in Poesie, Lo Specchio Mondadori, Milano, 1958.
«di Roberto Zerboni»: non risulta aver pubblicato altri libri oltre a quello da Solmi citato. «Ardengo Soffici»: cfr., sotto, Testimonianza su Soffici, alle pp. 484-85, e la nota a p. 484.
633
p. 359 « “I morti amici” ... e “Bocca*»: cfr. queste liriche di U. Saba rispettivamente in «Circoli», VII, serie m, 7-8, luglio-agosto 1938, p. 503, e in «Letteratura», II, 7, luglio 1938, p. 54. « “Barche sulla Marna”: cfr. «Letteratura», II, 5, gennaio 1938,
pp. 66-67. «Sempre in “Letteratura”, Betocchi, Pavolini, Fallacara ... Beniamino Dal Fabbro»: cfr., per Carlo Betocchi, ibidem, II, 6, pp. 65-66; per Corrado Pavolini e Luigi Fallacara, ibidem, II, 8, pp. 4446 e 53-55; per B. Dal Fabbro, ibidem, II, 7, pp. 67-70.
«In “Circoli”, Grande, Barile, Ortolani, Lauranw»: cfr., in «Circoli», VII, serie m, per A. Grande, pp. 565-66; per A. Barile, DE: 341-42; per S. Ortolani, pp. 15-23; per R. Laurano, pp. 343-47. «în “Frontespizio” ... Betocchi, Vittorio Sereni, Gatto, Luzi e Parron-
chi»: cfr., in «Il Frontespizio», X, per C. Betocchi, pp. 484 e 672; per Sereni, p. 673; per A. Gatto, pp. 28 e 167; per M. Lu-
zi, pp. 168 e 174; per A. Parronchi, pp. 234 e p. 423.
«In “Campo di Marte” ... questi ultimi e Sandro Penna»: cfr., in «Campo di Marte», I, per Penna, il n. 7 (1° novembre 1938), p. 3; per Parronchi, il n. 8 (15 novembre 1938), p. 3; per Lu-
zi e Gatto, il n. 10-11 (1° gennaio 1939), pp. 3 e 5; per Sereni e Betocchi, II, n. 4-5-6 (15 marzo 1939), p. 5, e n. 10 (1-15
giugno 1939), p. 2. «di R.M. Rilke ... di Sergio Essenîn»: lo scrittore tedesco Rainer Maria
Rilke
(1875-1926)
e il poeta
russo
Sergej
Essenin
(1895-1925). Per i rispettivi traduttori cfr., sopra, le note alle
pp. 113 e 74.
p. 360 Tre giovani, in «Primato», I, 5, 1° maggio 1940, pp. 1415. «per la porta stretta»: 24).
è reminiscenza evangelica (cfr. Luca, 13,
«tre libri di giovani»: cfr. C. Brandi, Voce sola, Edizioni della Cometa, Roma, 1939; L. Bigiaretti, Care ombre, Augustea, Roma, 1940; A. Imbornone, Maternità della notte, Edizioni Bodoniane, Palermo, 1939. Quanto ai loro autori, in Cesare Brandi (Siena 1906-1988) prevalsero in seguito gli interessi di studioso e di critico d’arte; Libero Bigiaretti (Matelica, Macera-
ta, 1906-Roma 1993), dopo gli esordi poetici, si dedicò alla narrativa; di Alberto Imbornone risulta un altro libro di versi, Prometeo silente (1943). «un libretto di “Poesie*»: cfr. G. Brandi, Poesie, Giuliani, Siena, 1935.
634
«il Cardarelli ... dei “Prologhi*»: cfr. V. Cardarelli, Prologhi, Studio editoriale Lombardo, Milano, 1916.
pp. 360-61 «del poeta di “Adolescente*»: cfr. Adolescente, in V. Cardarelli, Poesie, Mondadori, Milano, 1942, pp. 37-39.
p. 361 «di villotte e ballate»: Villotte e Ballate sono i titoli di due sezioni di Voce sola, cit., pp. 19-41.e 43-52.
«Ricordi le terse mattine...»: cfr. Villotte, cit., p. 35.
«“Registri*»: è il titolo di un’altra sezione di Voce sola, cit., pp. 53-63. p. 362 «si penserebbe a Grande; a Penna ... a Saba»: cfr., sopra,
per Grande e Sabai saggi a essi dedicati alle pp. 287-91 e 29296, e le rispettive note alle pp. 287 e 292; e, per Sandro Penna, cfr., sotto, quanto scritto da Solmi in La poesia nel 1940, al-
le pp. 370-71, e la nota a p. 189.
«... questa...»: cfr. In un placido ritmo, in Care ombre, cit., pp. 3334, ultimi versi.
«Le colline marchigiane ... il giro delle stagioni, il canto della compagna»: cfr. Campagna marchigiana, ibidem, pp. 20-21, v. 8 («di massiccio turchino ondosi monti»), Stagioni, pp. 23-29, e Al-
l'improvviso, pp. 67-68.
p. 363 «Riudendoti, la rara...»: cfr. Bella musica, in Care ombre, cit., p. 59, ultimi versi.
«l’esile Pierrot, il poeta malato, il cuore “inguaribilmente romantico”»: cfr. A. Imbornone, Silenzio, in Maternità della notte, cit., p. 62, v. 4, e, ibidem, Musica di parole, p. 92, ultimo verso, e Stra-
de popolari, pp. 45-46, vv. 36-37. « “spiralici abbracciamenti...”»: cfr. Atmosfera di città, in Maternità della notte, cit., p. 56, vv. 1-2 e 9-10.
«il tema d’un naufragio»: cfr. S.O.S., ibidem, pp. 32-35.
p. 364 «Molle l’autunno...»: cfr. Autunno, ibidem, pp. 52-53, w. 1-15. « “l’infocata pioggia dei suoi canti”»: cfr. Canto di sfida, ibidem, pp. 97-99, ultimo verso. . 365 «Poesie» di De Pisis, in «Primato», I, 18, 15 novembre 1940, p. 15.
«come nel caso di De Pisis»: sull’arte di Filippo De Pisis, pseu-
635
donimo
di Luigi Filippo Tibertelli
(Ferrara
1896-Milano
1956), uno dei maggiori rappresentanti del Novecento pittorico italiano, Solmi aveva scritto un saggio (cfr. Filippo De Pisîs, Hoepli, Milano, 1931), più volte ripubblicato.
«nelle ardue rime michelangiolesche»: quelle composte da Michelangelo Buonarroti
(Caprese, Arezzo, 1475-Roma
1564), in
margine al suo prevalente impegno di scultore, pittore e architetto. «di un Signorini e d’un Cecioni»: cfr. del pittore macchiaiolo Telemaco Signorini (Firenze 1835-1901) Riomaggiore, Le Monnier, Firenze, 1942; e dello scultore, pittore e critico d’arte Adriano Cecioni (Fontebuona, Firenze, 1836-1886) Opere e scritti, a cura di E. Somaré, L’Esame, Milano, 1932.
«nei primi diari di Soffici»: cfr., sopra, la nota a p. 238. p. 366 « “La città dalle cento meraviglie”»: cfr. F. De Pisis, La città dalle cento meraviglie ovverosia «I misteri della città pentagona», Casa d’arte Bragaglia, Roma, 1921. «In queste “Poesie*»: cfr. F. De Pisis, Poesie, Libreria Internazionale Modernissima, Roma, 1939. «a Corazzini, a Moretti, al primo Govoni e al primo Palazzeschè»: cfr., sopra, per Moretti e Govoni le note alle pp. 229 e 235;
per il poeta crepuscolare Sergio Corazzini (Roma 1886-1907) il saggio Corazzini e le origini della poesia contemporanea, in L.i.c., I, pp. 343-62, nonché, per Aldo Palazzeschi (Firenze 1885-Ro-
ma 1974), Palazzeschi poeta e romanziere e Palazzeschi e il suo uomo di fumo, ibidem, pp. 199-211 e 451-53. «la scenttura “a lapis”»: allusione (1910) di Marino Moretti.
alle Poesie scritte col lapis
«Al nostro cuore talora...»: cfr. La luna di giorno, in Poesie, cit., p25, vv. 1-8.
p. 367 «Quel “ramo verdino, casto, fiorito”»: cfr. Primavera velata, ibidem, p. 101, v. 14.
«quella “rosa sola / attenta in un angolo”: cfr. Una rosa, ibidem, p. 15, w. 1-2.
«quel “dolce fluir di sangue nuovo, / linfa vegetale»: cfr. Primavera, ibidem, p. 11, vv. 3-4. «quel “cuore con le sue belle ali di vento”: cfr. L’alloro, ibidem, p. 129, ultimi versi. «il giovinetto Boris ... Suor Teresa»: cfr. Il «bouquet» russo, ibidem,
636
pp. 57-58, ultimi versi, e Scena di convento, pp. 125-26. p. 368 La poesia nel 1940, in «Il Tesoretto», Mondadori, Milano, 1941, pp. 360-71.
«St pensi alla parte ... avuta dalla crisi del ’70 nel fenomeno Rimbaud»: cfr. S.s.R., p. 43, in cui, a proposito dei «rapporti di Rimbaud con la Comune», Solmi parla di «un esempio di de-
stino storico riflesso in un destino personale». Di Arthur Rimbaud
(per cui cfr., sopra, la nota a p. 175) sono citate in
appresso Les illuminations. p. 369 «le “Romances sans paroles”, gli “Amours jaunes”, i “Chants de Maldoror*»: raccolte poetiche rispettivamente di Paul Verlaine, Tristan Corbière e Lautréamont, per i quali cfr. le no-
te, sopra, a p. 227 e, sotto, alle pp. 385-86. «alla formazione della personalità di un Ungaretti o di un Saba, agli inizi d'un Montale: cfr., per i primi due, le note, sotto, a p. 431 e, sopra, a p. 292; quanto a Montale (per cui cfr., so-
pra, la nota a p. 189), si ricordi che la più antica lirica dei sottocitati Ossi dî seppia (Edizioni del Baretti, Torino, 1925) è del 1916.
«Nelle “Occasioni”»: la prima edizione del libro era uscita nel 1939. «l’introduttore degli “Ossi di seppia”, Alfredo Gargiulo»: il critico (per cui cfr., sopra, la nota a p. 109) aveva prefato la seconda
edizione degli Ossi di seppia (Ribet, Torino, 1928); quanto al suo giudizio su Le occasioni, cfr. Le occasioni, in A. Gargiulo, Letteratura italiana del Novecento, nuova edizione accresciuta, Le Monnier, Firenze, 1958, pp. 633-41.
«il sottile e sensibile Contini»: cfr. Dagli «Ossi» alle « Occasioni», in
G.F. Contini, Una lunga fedeltà, Einaudi, Torino, 1974, pp. 1745. p. 370 « “Punta del Mesco”, “Corrispondenze”, “Costa S. Giorgio”»: cfr. E. Montale, Le occasioni, Einaudi, Torino, 1940?, pp. 78-79,
86, 80-31. «dei “Mottetti”»: ibidem, pp. 37-60. «di Sandro Penna: cfr., sopra, la nota a p. 189.
«degna dell’“Antologia”»: per antonomasia, l’Antologia Palatina.
p. 371 «la prosa ... del miglior Comisso ..., 0 la pittura di un De Pisis»: cfr., per il primo (Treviso 1895-1969), Comisso 1927 e Tre
637
narratori, in L.i.c., I, pp. 59-65 e 102-104; e, per De Pisis, la no-
ta, sopra, a p. 365. «Le nere scale della mia taverna»: cfr. la poesia omonima, in S. Penna, Poesie, Parenti, Firenze, 1939, p. 32.
«Alfonso Gatto»: il poeta Alfonso Gatto (Salerno 1909-Orbetello, Grosseto, 1976), fondatore con Vasco Pratolini della ri-
vista ermetica «Campo di Marte», frequentò Solmi negli anni trascorsi a Milano. «di “Isola” e di “Morto ai paesi”»: cfr. A. Gatto, Isola, Libreria del "900, Napoli, 1932, e Morto ai paesi, Guanda, Parma, 1937.
«il premio Savini»: premio letterario intitolato all'omonimo caffè milanese (nella Galleria Vittorio Emanuele), luogo d’incontro di letterati e artisti dall’ultimo Ottocento fino alla seconda guerra mondiale.
«a poeti come Gaeta e Di Giacomo»: Francesco Gaeta (Napoli 1879-1927), autore di raccolte di poesie e di novelle; e Salvatore Di Giacomo (Napoli 1860-1934), autore altresì di novelle e di libri di storia napoletana, ma noto soprattutto per i suoi versi e drammi dialettali. p. 372 «Torna povera d’amore...»: cfr. A. Gatto, Povertà come la sera, in Poesie, Edizioni di Panorama, Milano, 1939, pp. 101-102,
vw. 1-7. «un Sinisgalli»: per Leonardo Sinisgalli cfr., sopra, la nota a p. 352.
«nell’ultima lirica del suo volumetto»: cfr. L. Sinisgalli, Vidi le Muse, in Campi Elisi, Scheiwiller, Milano, 1940, pp. 37-38.
«da un De Chirico, 0 da un Savinio»: i pittori Giorgio De Chirico (Volos, Grecia, 1888-Roma
1978), e il fratello Alberto Sa-
vinio, pseudonimo di Andrea De Chirico (Atene 1891-Roma 1952), noto anche come scrittore. «in “Via Velasca”»: cfr. Via Velasca, in Campi Elisi, cit., pp. 1516, ultimi versi. «a un Matisse»: a un quadro di Henri Matisse, per cui cfr., so-
pra, la nota a p. 219.
«il “fatuo alone della veste...”»: cfr. Lo stesso fatuo alone, in Campi Elisi, cit., pp. 31-32, vv. 1-2. «di De Nittis o di Boldini»: i pittori Giuseppe De Nittis (Barletta 1846-Saint-Germain-en-Laye, Parigi, 1884) e Giovanni Boldini (Ferrara 1842-Parigi 1931).
638
«Questa capacità ... già venne da noi notata»: cfr., sopra, La poesia nel 1938, p. 355. p. 373 « “Muore il ragazzo un poco... »: cfr. questa poesia in «Primato», I, 15, 1° ottobre 1940, p. 9.
«la esatta e colorita rosa di Gerico»: la pietra di questo nome, dal colore rosato. «Libero De Libero»: cfr., sopra, la nota a pasbbi
« “Testa”»: cfr. Libero De Libero, Testa, Edizioni della Cometa, Roma, 1938. «un Éluard italiano»: su Paul Eluard, cfr., sopra, la nota a p. 188 sul surrealismo.
«Di te mi lamento che m'hai ferito»: cfr. questa poesia in L. De Libero, Eclisse, Edizioni della Cometa, Roma, 1940, p. 37.
p. 374 «Cesare Brandi»: per C. Brandi e i sottocitati Bigiaretti e Imbornone, cfr., sopra, Tre giovani, alle pp. 360-64, e, per le citazioni successive, le note alle stesse pagine. «Manto Luzi»: cfr., sopra, la nota a p. 189.
p. 375 «a D'Annunzio ... a un ricordo di Mallarm&: cfr. il saggio L'«Alcione
e noi, in L.i.c., I, pp. 234-50, e, sotto, Nietzsche e
D'Annunzio e Il grande poeta del naturalismo, alle pp. 440-53; per Stéphane Mallarmé cfr., sopra, la nota a p. 161. «(le “inattuate rose”, il collo che “raggia nell’aria la defunta ebbrezza...”)»: cfr. La musica è la donna amata, in M. Luzi, Avvento notturno, Vallecchi, Firenze, 1940, pp. 13-14, ultimo verso, e Est
tavano a Eleusi i bei cipressi, ibidem, pp. 15-16, vv. 23-24.
«al Valéry»: cfr., sopra, la nota a p. 202. «Irruenti di rondini sui fiumi...»: cfr. Europa, in Avvento notturno, cit., pp. 29-30, vv. 1-4.
«Orazio Napoli»: Orazio Napoli (Mazara del Vallo, Trapani, 1901-Milano 1970) pubblicò, oltre a due romanzi, varie raccolte di poesie, fra le quali Notte, Legame, Mare (1956) nello
Specchio Mondadori. «Quasimodo e Sinisgalli»: per il primo cfr., sopra, quanto scritto da Solmi in La poesia nel 1938, alle pp. 354 sg., e la nota a p. 352, e per Sinisgalli la stessa nota.
«un “Saggio sulla poetica di Jacopone”*»: cfr. Poetica di Jacopone, in O. Napoli, Poesie, Primi piani, Milano, 1940, pp. 43-75.
639
vv. p. 376 «Ella è sanata, è madre...» cfr. Madre, ibidem, pp. 7-8, 6-10.
« “compagna lacera...*»: cfr. Sposa, ibidem, p. 16, vv. 7-8. PP. «le “Poesie” di De Pisis»: cfr., sopra, «Poesie» di De Pisis, alle ve, successi citazioni le per nonché, 365, p. a nota la e 365-67,
le note a esse inerenti, alle stesse: pagine.
p. 377 «Roberto Rebora»: il poeta Roberto Rebora (Milano 1910-
1992), uno degli esponenti della cosiddetta «linea lombarda». «l’altro Rebora (Clemente)»: Clemente Rebora (Milano 1885Stresa, Novara, 1957), zio del precedente, collaboratore di «La Voce» e autore di alcune intense raccolte di liriche, do-
po l’esperienza della prima guerra mondiale andò maturando una crisi spirituale, culminata negli anni 1928-1931 e con-
clusasi nel silenzio del sacerdozio, interrotto solo verso la fi-
ne dell’esistenza. La sua opera poetica si trova raccolta in Le poesie, Scheiwiller, Milano, 1961 e 1982°, accresciuta. «Glauco Natoli»: cfr., sopra, la nota a p. 113.
«Giovanni Cavicchioli»: poeta, drammaturgo e narratore (Mirandola, Modena, 1894-1964). Notevoli le liriche di Palazzi incantati (1916), riscrittura liberty dei temi dell’inconscio.
«Lanfranco Caretti, littore di Poesia per l’anno XVII: per L. Caretti cfr., sopra, la nota a p. 122, e per i «Littoriali della Poesia», la nota a p. 350 (l’anno indicato è il 1940, diciottesimo dell’èra fascista).
«Così svagata oblia. Rapidamente...»: cfr. Risveglio di donna, in L. Caretti, Poesie, Testa, Bologna, 1939, pp. 47-48, ultimi versi.
p. 378 «Gaetano Arcangeli ... “Dal vivere”: si tratta della prima
opera (1939) dell’Arcangeli (Bologna 1910-1970) blicò ulteriori volumi di poesie.
che pub-
« Qualche lontano spunto cardarelliano»: cfr., sopra, per Carda-
relli la nota a p. 112. «Caterina Lelj ... Giuseppe Gerini ... Luigi Capelli ... garno ... Luciana Pettorelli-Lalatta ... Bruno Fattori»: prima, figlia dello scrittore Massimo Lelj, distintasi nell’ambito degli studi e della critica d’arte, della Lalatta e di Biagio Zagarrio non si conoscono altre
Biagio Zaa parte la in seguito Pettorellipubblica-
zioni; dei rimanenti, che ottennero tutti e tre riconoscimenti nella loro attività poetica, il più noto fu Bruno Fattori (San
Giustino, Perugia, 1891-Pisa 1985), autore di numerose rac-
colte, fra cui anche una in versi latini.
640
«quella dei “Lirici greci” di Salvatore Quasimodo»: cfr. Lirici greci
nano no,
daSalvatore Quasimodo, Edizioni di Corrente, Mila:
«Alceo, Saffo, Alemane»: i due lirici lesbici del VII-VI secolo a.C., e Alcmane (VII secolo a.C.), considerato uno dei fondatori della melica corale.
«di Federico Garcia Lorca ... della Mansfield ... di Sergio Essenin»: cfr., sotto, per il primo, Garcia Lorca: «Romancero gitano» alle pp. 530-33, e la nota a p. 530; e per Essenin, sopra, la nota a p. 359. La scrittrice inglese, d’origine neozelandese, Katherine
Mansfield, pseudonimo di Kathleen Beauchamp (1888-1923),
fu autrice di memorabili racconti. Quanto ai loro traduttori, per C. Bo e R. Poggioli cfr., sopra, le rispettive note alle pp. 118 e 113; Gilberto Altichieri (Oppeano, Verona, 1904-Verona
1979) si dedicò soprattutto al giornalismo.
p. 379 La poesia italiana contemporanea, in «Il libro italiano nel mondo», II, 7, luglio 1941, pp. 13-29. L'articolo, salvo lievi varianti, è la copia conforme di quello, dallo stesso titolo, uscito
in «Circoli», VIII, 1, gennaio 1939, pp. 15-33. Ne riproduciamo l’ultima versione, tenendo anche presenti le successive correzioni autografe apportate da Solmi alla stampa, e trascrivendo qui in nota il N.B. apposto in calce alla prima edizione: «Il presente “panorama” è stato in origine scritto per una rivista straniera. Ciò spiega il suo carattere prevalentemente informativo, e la ragione di certi chiarimenti e insistenze che potranno apparire superflui al lettore italiano. Un panorama d’intonazione “critica”, anche mantenuto sullo stesso registro, si sarebbe dovuto delineare con più approfondito rigore. I nomi, ad ogni modo -— ciò che più conta — mi paion quelli che ho fatti: salve le inevitabili dimenticanze dovute alla distrazione e alla fretta. Per i più giovani e i più di recente affermatisi, mi son tenuto sul generico. Non è prudente ipotecare l’avvenire, e la poesia
è il terreno più fertile di sorprese. Auguriamoci che taluno di essi spicchi tant’alto il volo da consentirci di vedere, dall’altez-
za della nuova posizione raggiunta, ancor più semplificate le linee di questo panorama, del tutto relativo e provvisorio come di necessità ogni scritto del genere». «la polemica futurista o liricista ... quella neoclassica ... il contrasto di “strapaese” e “stracittà” ... quella degli “ermetici” e dei “contenutisti”»: Solmi allude alle principali polemiche del primo Novecento letterario: da quelle dei futuristi a quelle degli scrittori della rivista «Lirica» o di «La Ronda»
(per le quali cfr.,
sopra, le note alle pp. 101 e 112), a quella svoltasi fra imovimenti di «Strapaese» e «Stracittà», facenti rispettivamente ca-
641
o alle riviste «Il Selvaggio» (1924-1943), fondata e diretta da Mino Maccari, (per cui cfr., sotto, la nota a p. 395), e «900» (per cui cfr., sopra, la nota a p. 112 su Bontempelli), nonché
fra gli ermetici e i difensori del contenuto. «La morte di D’Annunzio»: cfr., sopra, l’inizio di La poesia nel 1938, alle pp. 351-59, e le prime tre note a p. 351.
p- 380 «Il suo inventore ed assertore, F.T. Marinetti». Filippo Tommaso
Marinetti
(Alessandria d’Egitto 1876-Bellagio, Como,
1944), col Manifesto del futurismo, pubblicato il 20 febbraio 1909 sul «Figaro» di Parigi, diede inizio al movimento omo-
nimo, promuovendone poi la diffusione in Italia, in Europa
e in America. «col suo “Poema africano della Divisione 28 ottobre»: uscì a Milano nel 1937, presso Mondadori. «Corrado Govoni»: cfr., sopra, Corrado Govoni: «La terra contro il
cielo», alle pp. 234-37, e la nota a p. 235; nonché, sopra, in La poesia nel 1938, le pp. 352 sgg., dedicate a Govoni, di cui Sol-
mi cita in appresso Fuochi d’artifizio (Ganguzza-Lajosa, Palermo, 1905), Inaugurazione della primavera e Canzoni a bocca chiu-
sa, per cui cfr., sopra, le note alle pp. 236 e 352-53. p. 381 «Luciano Folgore: Luciano Folgore, pseudonimo
di
Omero Vecchi (Roma 1888-1966), dopo l’esperienza futurista di Città veloce (1919) si dedicò alla composizione di versi
parodistici, quali quelli di Poeti controluce (1922) e di Poeti allo specchio (1926). «Il “crepuscolo”, “l’avanguardia”»: per il primo s’intende la poesia crepuscolare e, per la seconda, si veda quanto Solmi
ne dice in appresso.
«1 “Colloqui” di Gozzano»: cfr., sopra, La poesia di Guido Gozza-
no, alle pp. 225-31, e la nota a p. 225.
«di Corazzini ... di Valsecchi»: per Sergio Corazzini cfr., sopra,
la nota a p. 366. Fausto Valsecchi (Lecco 1891-Milano 1914), la cui opera è stata raccolta nel volume Versi e novelle (1966),
scrisse originali poesie visionarie, regressive, pervase da ossessioni di morte.
«1 Moretti, i Civinini, iEM. Martini»: per Marino Moretti cfr.,
sopra, la nota a p. 229. Lo scrittore e giornalista Guelfo Civi-
nini (Livorno 1873-Roma
1954) fu autore di poesie e prose
crepuscolari; Fausto Maria Martini (Roma 1886-1931), poeta formatosi nel gruppo di Corazzini e dei crepuscolari romani,
fu anche narratore e drammaturgo.
642
«col D'Annunzio del “Poema paradisiaco”»: cfr. G. D'Annunzio, Poema paradisiaco, Treves, Milano, 1893.
«Pietro Mastri»: per l’autore e le sue opere in appresso citate cfr., sopra, in Poesia d’oggi, le pp. 344-46, e la nota a p. 344. «Angiolo Silvio Novaro ... e Mario Novaro»: il primo (Diano Marina, Imperia, 1866-Imperia 1938) fu poeta dai toni elegiaci e pascoliani, maggiormente noto per i versi composti per l’infanzia (JI! cestello, 1910); per il fratello Mario cfr., sopra, le
note alle pp. 347-48 e 352.
p. 382 «Diego Valeri»: l’esimio francesista e critico e studioso di altri ambiti della letteratura italiana ed europea (per cui cfr., sopra, la nota a p. 113), fu raffinato poeta, prosatore e traduttore di poesia. «Ugo Betti»: sebbene più noto come autore drammatico, Ugo Betti (Camerino,
Macerata,
1892-Roma
1953) pubblicò an-
che volumi di poesia e di narrativa. «C. Mean»: lo scrittore Cesare Meano (Torino 1899-Palermo 1957), autore di poesie, romanzi e commedie, oltre che di
soggetti cinematografici e radiofonici, fu amico di Solmi durante la giovinezza torinese.
« “Poesia e Arte”*»: rivista mensile pubblicata a Ferrara dal 1919 al 1922 sotto la direzione di Antonio Scolari, suo fondatore,
e poi di Giuseppe Ravegnani. «come Baganzani ... Lionello Fiumi,
Villaroel, Ravegnan»:
San-
dro Baganzani (Verona 1899-1950) appartenne alla corrente dei cosiddetti poeti di Verona e di Ferrara, così come
Lio-
nello Fiumi e Giuseppe Ravegnani, per i quali cfr., sopra, le rispettive note alle pp. 309 e 313. Anche per Villaroel cfr., so-
pra, la nota a p. 313. «Un Enrico Thove»: critico, poeta e pittore (Torino 18691925), in polemica con Carducci e D'Annunzio, sostenne un
ideale di poesia, precorritore dei tempi, quale assoluta purezza lirica.
p. 383 «Un Francesco Pastonchi»: cfr., sopra, la nota a p. 146. «Francesco Gaeta ... Salvatore Di Giacom®»: cfr., sopra, la nota a
p. 371. «gli scrittori della “Voce” e della “Ronda”: cfr., sopra, le note alle pp. 109 e 112. «Ada Negri e Sibilla Aleramo»: per la prima e le sue due raccol-
643
te di versi da Solmi citate in appresso, cfr., sopra, la nota a p. 255; per la seconda, cfr., sotto, Sibilla Aleramo: «Luci della ma
sera», alle pp. 460-63, e la nota a p. 460.
p. 384 «(il romanzo “Una donna” fece ... un certo rumore)»: cfr. Si-
billa Aleramo, Una donna, Sten, Torino-Roma, 1906, e Treves,
Milano, 1912?: il libro è oggi considerato antesignano della letteratura femminista. «nell’“hai-kai*»: Vhai-kai (o haiku) è un componimento poetico giapponese di 17 sillabe, che possono essere distribuite
in tre gruppi di 5, ‘7 e 5. Nato verso il XIV secolo come gene-
re comico e satirico, fu nobilitato a genere lirico nel XVII secolo da Matzuo Bashò. «il libro dei “Frammenti lirici”»: cfr. C. Rebora, Frammenti lirici, La Voce, Firenze, 1913; e, sopra, la nota a p. 377 sull’autore.
«le marce ... di Jahier»: cfr., sopra, la nota a p. 313. p. 385 «Le “Fole” di Enrico Pea»: cfr. E. Pea, Fole, Industrie Grafiche, Pescara, 1910. Si tratta del primo libro di Enrico Pea (Serravezza, Lucca, 1881-Forte dei Marmi 1958), che, dopo
altri due libri di poesie, Montignoso (1912) e Lo Spaventacchio (1914), scrisse opere di narrativa, fra le quali Vita in Egitto,
prefata da Solmi (cfr. L.i.c., I, pp. 297-301).
«Giovanni Papini ... con l’“Opera prima”... con “Pane e vino”»: cfr. G. Papini, Opera prima, cit. e Pane e vino, Vallecchi, Firen-
ze, 1926; nonché la recensione di Solmi a quest’ultimo libro,
in L.i.c., I, pp.-31-39. Giovanni Papini (Firenze 1881-1956), attraverso riviste quali «Il Leonardo» (da lui fondato nel 1903 assieme a Prezzolini), «La Voce» (di cui fu direttore nel 1912), «Lacerba» (per cui cfr., sopra, la nota a p. 147), par-
tecipò al rinnovamento della cultura italiana del primo Novecento. Autore prolifico, pubblicò saggi, opere narrative e
raccolte di poesie.
«coi “Chimismi lirici*»: cfr. A. Soffici, Bif$zf+18. Simultaneità e chimismi lirici, Vallecchi, Firenze, 1915. «di “Pianissimo "e... di “Trucioli*»: cfr. C. Sbarbaro, Pianissimo,
Neri Pozza, Venezia, 1954 (edizione definitiva); e Trucioli, AIORGAGOnI Milano, 1946; nonché la nota, sopra, a p. 290 sulautore. |
«dei francesi “poètes maudits*: così furono detti, dal titolo della raccolta di saggi di Paul Verlaine, J poeti maledetti (1884), poeti quali il sottocitato Tristan Corbière (per cui cfr., sopra, la nota
a p. 227), Arthur Rimbaud, Stéphane Mallarmé, e altri.
644
«Canti Orfici”»: cfr. Dino Campana,
Canti Orfici, Ravagli,
Marradi, 1914; nonché il saggio di Solmi su di essi, in L.i.c.,
I, pp. 66-77.
pp. 385-86 «a una sorta di Rimbaud o di Lautréamont italiano»: il «poeta maledetto», per cui cfr., sopra, la nota a p. 175, e il conte di Lautréamont, pseudonimo di Isidore Ducasse
(1846-1870), precursore della poesia surrealista.
p. 386 «all'ideale grecità di un Hòlderlin»: il poeta tedesco Friedrich Hélderlin (1770-1843), che esaltò l’antichità greca con intensa sensibilità romantica.
1
«Aldo Palazzeschi»: cfr., sopra, la nota a p. 366. «come si è voluto da alcuni»: cfr., ad esempio, G.A. Borgese, Un umorista, in Studi di letterature moderne, Treves, Milano, 1915,
pp. 80-87. pp. 386-87 «Arturo Onofri ... in “Arioso”»: cfr., sopra, A. Onofri: «Arioso», alle pp. 232-33, e la nota a p. 232.
p. 387 «Vincenzo Cardarelli»: cfr., sopra, la nota a p. 112. «come
“Adolescente”»:
cfr. Adolescente, in V. Cardarelli,
Poesie,
Mondadori, Milano, 1942, pp. 37-39. «l’inquieto moralismo alla Péguy»: lo scrittore francese Charles Péguy (1873-1914), fondatore, nel 1900, dei «Cahiers de la Quinzaine»,
fulcro di uno
dei più vivi movimenti
spirituali
dell’epoca. «nelle polemiche della “Ronda” ... Cardarelli farà di Leopardi il nume tutelare della moderna poesia italiana»: cfr. il saggio di Solmi Leopardi e «La Ronde, in S.l., pp. 165-84.
p. 388 «Riccardo Bacchelli ... coi “Poemi lirici”»: cfr. R. Bacchelli, Poemi lirici, Zanichelli, Bologna, 1914; nonché
Un poemetto
di Bacchelli, sotto, alle pp. 424-28, e la nota a p. 424. «gli “essays” fantastici e lirici dei “Pesci rossi*»: cfr. E. Cecchi, Pesci rossi, Vallecchi, Firenze, 1920. «i “Frantumi” di un Boîne»: cfr. Giovanni Boine, Frantumi, terza edizione, cit.
p. 389 «st parlò di frammento,
di “poesia pura”: cfr., sopra, la
nota a p. 103. «Saba, Ungaretti, Montale»: cfr., sopra, per Montale, la nota a
645
.189 e, DS =
per Saba, Appunti sulla poesia di Saba, alle PP. 292-96, p:292; Si ngaretti, cfr., sotto, Ungaretti e la crit-
ca, alle pp. 431-32, e la nota a p. 431.
p. 390 «nei canti di “Trieste e una donna” e della “Serena dispera
zione»: cfr. Trieste e una donna e La serena disperazione, in Il Canzoniere, cit., pp. 103-47 e 149-70.
«(“Preludio e fughe”) ... (“I Prigioni”, “L'Uomo”, “Il piccolo Berto”)»: cfr., sopra, le note alle pp. 292 e 295, e, per Il piccolo Berto, U. Saba, Il Canzoniere (1900-1945), Einaudi, Roma, 1945,
pp. 461-91. «fino a “Parole”»: cfr., sopra, la nota a p. 189. p. 391 « “Sobborgo”, “Inverno”: cfr. le due liriche in Parole, cit.,
pp. 101 e 71. «ai movimenti della “Voce” e di “Lacerba”»: cfr. le rispettive note alle pp. 109 e 147.
«Nel “Porto sepolto”»: cfr. G. Ungaretti, Il porto sepolto, Ettore Serra, Udine, 1916.
«La più recente poesia di Ungaretti»: cfr. G. Ungaretti, Sentimento del tempo, Vallecchi, Firenze, 1933.
«dove idealmente Mallarmé si ricongiunge a Petrarca»: cfr., sopra, la nota a p. 314. «il barocco trascendentale di Gongora e il fasto ... dei sonetti shakespearian»: su Luis de Gongora y Argote (1561-1627), uno dei maggiori esponenti del «secolo d’oro» della letteratura spagnola, cfr. il breve saggio di Solmi Appunti su G6ngora, in S.l., pp. 285-97. I centocinquantaquattro Sonnets di William Shakespeare (1564-1616) furono pubblicati nel 1609. Per le
traduzioni ungarettiane da Gongora e Shakespeare, cfr., sotto la nota a p. 432.
p. 392 «(Roccatagliata Ceccardi, Sbarbaro)»: cfr., sopra, le rispettive note alle pp. 347-48 e 290. «il mare attorno, sbarrato da solchi ... uno sparo di fucile nella campagna»: cfr. in Ossi di seppia, Ribet, Torino, 1928?, «un mare
pulsante, sbarrato da solchi», in Fine dell infanzia, p. 85, v. 3; L'agave sullo scoglio, pp. 91-96; Vasca, pp. 97-98; «il fischio del rimorchiatore / che dalle brume approda al golfo», in Delta,
p. 127, ultimi versi; e la fine di Mia vita, a te non chiedo lineamenti, p. 44. «le “leve del mondo”: cfr. «la piccola stortura / d’una leva che
646
arresta / l’ordegno universale», in Avrei voluto sentirmi scabro
ed essenziale, in Ossi di seppia, cit., pp. 75-76, vv. 11-13.
P. 393 «Nelle “Occasioni”»: cfr. E. Montale, Le occasioni, Einaudi, Torino, 1939. «fino a “Finisterre*»: cfr. E. Montale, Finisterre, Collana di Lugano, s.d. (ma 1943), e Barbera, Firenze, 1945?. (Il riferi-
mento a questo libro è stato aggiunto in margine da Solmi posteriormente alla pubblicazione dell’articolo). «Adriano Grande: cfr., sopra, Adriano Grande: «Avventure», al-
le pp. 287-91, e la nota a p. 287.
p. 394 «in Titta Rosa»: cfr., sopra, G. Titta Rosa: «Pietà dell’uomo», alle pp. 321-23, e la nota a p. 144.
«Corrado Pavolini, con “Odor di terra” e “Patria d’acque”»: cfr. C. Pavolini, Odor di terra, Ribet, Torino, Vallecchi, Firenze, 1933.
1928; e Patria d’acque,
«Giorgio Vigolo ... con “Canto fermo” e “Conclave dei sogni»: cfr. G. Vigolo, Canto fermo, Formiggini, Roma, 1931; e Conclave dei sogni, Quaderni di Novissima, Roma, 1935. «Sergio Ortolani, con “Selva”»: cfr. S. Ortolani, Selva, Tip. Richter, Napoli, 1928. «Girolamo Comi»: cfr., sopra, «Poesia» di Girolamo Comi, alle pp. 324-25, e la nota a p. 324. «Moscardelli e Fallacara»: Nicola Moscardelli (Ofena, L'Aquila, 1894-Roma 1943), collaboratore di «Lacerba» e critico lette-
rario di vari giornali romani, e Luigi Fallacara (Bari 1980-Firenze 1963), collaboratore di «Il Frontespizio», pubblicarono numerosi volumi di poesie.
«In Betocchi»: il poeta Carlo Betocchi (Torino 1899-Firenze 1986), che ebbe legami di amicizia con Solmi, pur muovendo dall’esperienza dell’ermetismo fiorentino connesso a «Il Frontespizio», elaborò una sua inconfondibile voce poetica. La sua opera in versi è raccolta in Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1984. p. 395 «la musa di un Raffaello Prati»: Raffaello Prati (Trento 1895) pubblicò tre raccolte di poesie, Figure della pietra e dell’aria
(1930),
Cuor
dell’estate
(1958)
e
Saluto
ai paesi
(1967). «il pittore De Pisis, partito dall’avanguardia ferrarese: cfr., sopra, «Poesie» di De Pisis, alle pp. 365-67, e la nota a p. 365, nonché,
647
per l'avanguardia ferrarese, la nota, sopra, su S. Baganzani, ecc. a p. 382.
«gli strapaesani»: ovvero gli esponenti del movimento artistico-letterario di «Strapaese» da Solmi sottocitati: Curzio Ma-
laparte, (per cui cfr., sopra, le note a p. 314), l’incisore, pittore e disegnatore Mino Maccari (Siena 1898-Roma 1989) e lo scrittore Berto Ricci (Firenze 1905-Bir Gandula, Cirenaica,
1941). «Luigi Bartolini»: Luigi Bartolini
(Cupramontana,
Ancona,
1892-Roma 1963), oltre che pittore e incisore, fu fecondo autore di poesie, romanzi, satire, saggi critici e polemici. «Virgilio Giotti»: il poeta, il cui vero cognome era Schònbeck (Trieste 1885-1957), con i suoi versi in dialetto triestino si im-
pose fra i rappresentanti di maggior rilievo della poesia italiana del Novecento, e non solo di quella vernacola.
«In Angelo Barile»: cfr., sopra, Poesia d’oggi, alle pp. 347-49, e la nota a p. 347. «Laurano, Descalzo, Bianchi, Capasso»: i poeti Renzo Laurano (San Remo 1909), Giovanni Descalzo (per cui cfr., sopra, la
nota a p. 358), Guglielmo Bianchi, che fu anche giornalista e condirettore dal 1932 al 1934 di «Circoli», e Aldo Capasso (Venezia 1909), più noto quale critico letterario.
«di lontana derivazione pastonchiana»: per Francesco Pastonchi cfr., sopra, la nota a p. 146. p. 396 «di D'Annunzio, Valéry e Ungaretti»: cfr., sotto, per il primo, Nietzsche e D'Annunzio, alle pp. 440-50, e per Valéry e Ungaretti le rispettive note, sopra, a p. 202 e, sotto, a p. 431.
«di Salvatore Quasimodo»: cfr., sopra, La poesia nel 1938, alle
pp. 354-55, e la nota a p. 352.
pp. 396-97 «Leonardo Sinisgalli»: cfr., sopra, la nota a p. 352. p. 397 «Alfonso Gatto»: cfr., sopra, la nota a p. 371. «Libero De Libero ... Mario Luzi»: cfr., sopra, le rispettive note
alle pp. 356 e 189.
« Vittorio Sereni ... e Attilio Bertolucci»: cfr., sopra, per gli ultimi cinque, le rispettive note alle pp. 358, 360, 119, 360, 349. Vittorio Sereni (Luino, Varese, 1913-Milano 1983), uno dei
maggiori poeti del nostro Novecento, fu, a partire dal secondo dopoguerra, fra gli amici più cari di Solmi. Quanto a Guglielmo Petroni (Lucca 1911-Roma 1993), più noto come
648
narratore, la sua opera poetica si trova raccolta in Terra segreta, Amadeus, Montebelluna, 1987.
«magari în Cardarelli e in Campan: cfr., sopra, per il primo,
la nota a p. 112, e per il secondo (Marradi, Firenze, 1885-Castel Pulci, Firenze, 1932), la nota a p. 385 sui Canti Orfici.
p. 398 «si distingue ... Sandro Penna»: cfr. S. Penna, Poesie, Parenti, Firenze, 1939 e, sopra, quanto Solmi ne dice in La poesia nel 1940, alle pp.370-71.
«dell’“Antologia*»: cfr., sopra, la nota a p. 370.
p. 400 «Elegie» di Fadin, già Introduzione a Sergio Fadin, Elegie, Scheiwiller, Milano, 1943, pp. 5-29.
«Il mio primo ricordo di Sergio»: lo scrittore Sergio Fadin (Badia Polesine, Rovigo, 1911-Chiavari, Genova, 1942) morì stroncato dalla tubercolosi. Alla sua memoria E. Montale dedicò la prosa Visita a Fadin, in La bufera e altro, Neri Pozza, Venezia,
1956, pp. 53-54. Su Fadin e la sua amicizia con Solmi e Montale cfr. L.M. Dentone e P. Bolzone, Visite a Fadin, da Montale a Solmi, Tipografia Colombo, Chiavari, 1992.
«al tempo della “Fiera letteraria”: cfr., sopra, la nota a p. 145. «della vecchia piazza San Carlo»: in essa, al n. 2, aveva sede la Libreria della «Fiera letteraria» (Soc. An. «La Bibliofila») di Antonio Pescarzoli, da Solmi sottocitata.
« “Prima fiorita*»: cfr. S. Fadin, Prima fiorita, Tipografia A. Gal lati, Milano, 1928. «di una recensione di Montale»: cfr. E. Montale, Libri di poesia, in «La Fiera letteraria», 9 settembre 1928, p. 6.
p. 401 «ad Angioletti e a Titta Rosa»: cfr., sopra, le rispettive no-
te alle pp. 112 e 144. p. 402 « “Il Ventuno”: la rivista uscì dal 1932 al 1941. pp. 402-403 «note su Pea, C.E. Gadda, Grande, ecc. ... sulla “Poesia amorosa del Dugento”»: cfr. Castità di Enrico Pea, Grande e Poesia amorosa del Dugento, rispettivamente in «Il Ventuno», I,
3, 3 aprile 1932, p. 8; I, 7, 7-28 agosto 1932, pp. 7-8;I, 1, 21 febbraio 1932, pp. 1-2. Non risulta invece nel periodico uno scritto su C.E. Gadda. p. 403 « “stanche di dolore ”»: cfr. Alla sorella morta, in Prima fio-
rita, cit., p. 4, v. 7.
649
«Icaria o Città del Sole: le società utopiche così denominate, descritte da Étienne Cabet in Viaggio in Icaria (1842) e da Tommaso Campanella nella sua Città del Sole (1623). p. 404 « “un costume, un modo di vivere... *»: questa citazione e la seguente sono tratte da Razionalismo, vita pratica, in «Il Ventuno», II, 5, 26 marzo 1933, p. 1.
«partì per la guerra d’Africa»: ovvero quella etiopica (3 ottobre 1935-5 maggio 1936). «sulle “euforbie fiorite del lago Ascianghi”»: cfr. Elegie, cit., 11, p. 35, vw. 1-2. p. 405 «il “lembo di terra per l’approdo”»: ibidem, VI, p. 41, vv. 6-7; e, per la citazione successiva, vv. 9-12.
p. 406 «alla redazione dell’“Ambrosiano”»: il quotidiano milanese uscì dal 1922 al 1938. «di spremere all’estremo ... il succo dolceamaro dell’esistere*»: cfr. la chiusa della poesia Il limone, in P.m.r.,, I, pp. 130-31: «Com'’eri agro nell’adolescenza / biondo limone della vita... / Ora, ch’è fatto molle, / verdastro, marcescente, / avidamente ne strizzo / l’ultime gocce, beato / ad occhi chiusi assaporo la sua / dolcezza estrema».
«con la madre e la giovanissima sposa»: Fadin si era sposato nel luglio 1939 con la diciannovenne Carla Galli; un anno dopo era nato il figlio Luca, al quale Solmi accenna in appresso. «all’Ospedale di Chiavari»: Fadin vi era stato ricoverato il 12 settembre 1940.
p. 407 «a “Primato*»: la rivista, diretta da G. Bottai e G. Vec- _ chietti, uscì
a Roma negli anni 1940-1943.
«In una di esse, dedicata al libro postumo del ... poeta Giuseppe Cosmi»: cfr. S. Fadin, Liriche di Cosmi, in «Primato», I, 13, 1° settembre 1940, p. 12.
«in un'altra ... sulle liriche e frammenti di Sergio Essenin»: cfr. S.
Fadin, Essenin, ibidem, 14, 15 settembre 1940, p. 12.
pp. 407-408 « “I poeti anche con la morte obbediscono al loro destino...»:Sergio Essenin (per cui cfr., sopra, la nota a p. 359)
morì suicida, Giacomo Leopardi (Recanati, Macerata, 17798-
Napoli 1837) a causa della malattia che l’aveva afflitto fin dal-
l'adolescenza, e lo scrittore francese Maurice de Guérin (1810-1839) consumato dalla tisi. Ippolito Nievo (per cui cfr.,
650
sotto, la nota a p. 420) e i romantici inglesi Percey B. Shelley (1792-1822) e George G. Byron (1788-1824) perirono, invece, i primi due affogati, e il terzo per le febbri contratte a Missolungi, dove era accorso con il generoso proposito di combattere per la libertà della Grecia insorta contro il dominio turco. p. 409 «Dolcemente la vita...»: cfr. Elegie, cit., x11, p. 47, w. 1-7.
p. 410 «alle quindici “Elegie” che ... pensava ... di dare alle stampe»: tre di esse erano già apparse in «Letteratura», IV, 16, ot-
tobre-dicembre 1940, pp.
74-75.
p. 412 «Oh sei tornata, luna! Dei dormenti...»: cfr. Elegie, cit.,
xIMI, pp. 48-49, vv. 1-9. «la “rocca”... da te evocata în una poesia»: ibidem, v. 15. p. 414 «Uomini e no» di Elio Vittorini, già Uomini e no, in «L’Illustrazione Italiana», nuova serie, 9, 16 settembre 1945, p. 152.
«il primo libro ... ispirato alla “resistenza” italiana»: cfr. E. Vittorini, Uomini e no, Bompiani, Milano, 1945. A Elio Vittorini (Si-
racusa 1908-Milano 1966), a cui fu legato da una lunga e cara amicizia, Solmi ha dedicato altri scritti: cfr. Il primo Vittori-
ni e Memoria di un contemporaneo, in L.i.c., I, pp. 153-58 e 48086, nonché pp. 420-23.
la Prefazione a Conversazione in Sicilia, sotto, alle
« “Ville conquise” ... “L'été 1914” ... “La condition humaine”
... 0
“For Whom the Bell Tolls*»: tre romanzi francesi — il primo (1932) di Victor Serge (1890-1947); il secondo (1935), penultimo degli otto volumi del ciclo Les Thibault (1922-1940), di Roger Martin du Gard (1881-1958); il terzo (1933), ispirato alla rivoluzione cinese, di André Malraux (1901-1976) — e il noto Per chi suona la campana (1940) dello statunitense Ernest Hemingway (1898-1961). p. 415 «nei racconti di “Piccola borghesia»: cfr. E. Vittorini, Piccola borghesia, Edizioni di Solaria, Firenze, 1931, nonché la recensione fattane da Solmi, Il primo Vittorini, cit. «nella “Conversazione in Sicilia”: cfr. E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, Bompiani, Milano, 1941, e Einaudi, Torino, 1966?.
«la lotta dei Gap»: ovvero dei «Gruppi di azione patriottica», costituiti da civili armati sotto l’egida del Partito comunista italiano, che durante la Resistenza compirono, soprattutto
651
nelle città del Nord, azioni di sabotaggio contro i fascisti e i tedeschi invasori, o, come i «Gap d’officina», di salvaguardia
degli impianti industriali.
«Vittorini, militante comunista»: Vittorini partecipò alla Resistenza nelle file del Partito comunista, dal quale si allontanò alla fine del 1947.
p. 416 «Hemingway o Saroyan»: opere dei due scrittori statunitensi, il sopracitato Ernest Hemingway e William Saroyan (1908-1981), furono tradotte da Vittorini.
«a un T.F. Powys o a un Thornton Wilder»: lo scrittore inglese Theodor Francis Powys (1875-1953), e il narratore e dram-
maturgo statunitense Thornton Wilder (1897-1975). «della guerra di Spagna»: quella civile combattutasi nel 19361939 tra le forze della Repubblica spagnola (instaurata nel 1931) e quelle della reazione capitanata dal generale Franci sco Franco, sostenuto da Hitler e da Mussolini.
«gli uomini dell’imperio e della violenza»: i membri della milizia fascista. «i giudici del tribunale speciale»: il «Tribunale speciale per la difesa dello Stato», istituito dal fascismo nel 1926, celebrava i pro-
cessi contro i dissidenti politici. «1 tedeschi dell’Albergo Regina»: i tedeschi occupanti avevano a Milano il loro quartier generale all'Hotel Regina, nella centralissima via Santa Margherita.
p. 417 «nell’esitazione del giovane “gappista”»: cfr. Uomini e no, cit., pp. 263-64. p. 418 «con una breve nota»: ibidem, p. 265 (da essa è tratta la citazione successiva).
«“noî per questo lotteremo: perché gli uomini siano felici”»: ibidem, p. 15 (dove però è scritto: «Noi lavoriamo perché gli uomini siano felici»).
p. 420 Vittorini: «Conversazione in Sicilia», già Prefazione alla seconda edizione francese (Les belles lectures, Paris, 1954) del
romanzo di Vittorini sopracitato.
« da Manzoni a Nievo a Verga a Fogazzaro a Svevo»: dall'autore dei Promessi Sposi (Milano 1785-1873) a quello delle Confessioni di un Italiano (Padova 1831-Mar Tirreno 1861), al mae-
stro del verismo Giovanni Verga (Catania 1840-1922), ad
652
Antonio Fogazzaro (Vicenza 1842-1911), a Italo Svevo (per cui cfr., sopra, Italo Svevo: «Senilità», alle pp- 276-86, e la no-
ta a p. 276).
p. 421 «il clima della dittatura, sopraggiunto poco dopo»: il fascismo si era imposto solo quattro anni dopo la fine della prima guerra mondiale.
«lo stesso Vittorini e Pavese»: di Vittorini si veda soprattutto l’antologia Americana (Bompiani, Milano, 1942), e di Cesare Pave-
se (per cui cfr., sopra, la nota a p. 112) La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino, 1951.
«del “Garofano rosso*»: cfr. E. Vittorini, /l garofano rosso, Mondadori, Milano, 1948.
«Quella “piccola Sicilia ammonticchiata...”»: cfr. Conversazione in Sicilia, seconda ed. cit., p. 88.
p. 422 «nella “quarta dimensione”: ibidem, p. 46. «con “Il Sempione strizza l’occhio al Frejus” e “Le donne di Messina”: cfr. E. Vittorini, /{ Sempione strizza l'occhio al Frejus, Bomiani, Milano, 1947; e Le donne di Messina, Bompiani, Milano, 1949 (quindi, parzialmente rifatto, 1964). «Le stesse costrizioni della censura»:
Conversazione in Sicilia era
comparso dapprima a puntate, tra il 1938 e il 1939, su «Letteratura», con continui attriti con la censura fascista.
« “avevo bisogno di dire una certa cosa...”»: cfr. la Prefazione a Il garofano rosso, cit., p. 27. p. 424 Un poemetto di Bacchelli, in «L’Illustrazione Italiana», nuova serie, 14, 21 ottobre 1945, p. 246. Si vedano gli altri
saggi dedicati da Solmi a Riccardo Bacchelli (Bologna 1891Monza, Milano, 1985), narratore e poeta, oltre che saggista: Bacchelli 1930 e Bacchelli poeta (ora in L.i.c., I, pp. 139-52 e 424-31); nonché, sotto, Due « Viaggi in Grecia» di Bacchelli, alle
pp. 429-30. «di questi anni drammatici»: quelli dell'occupazione tedesca e
della Resistenza (8 settembre 1943-25 aprile 1945).
«del defunto regime»: quello fascista.
p- 425 «Il poemetto di Bacchelli»: cfr. R. Bacchelli, La notte dell’8 settembre 1943, Garzanti, Milano, 1945 (quindi in Memorie del tempo presente, vol. I di Tutte le opere, Mondadori, Milano, 1961,
pp. 147-84, al quale ci si riferisce per le citazioni).
653
«“sotto l’angoscia delle settimane dell’autunno del ‘43: per questa e per le citazioni seguenti, cfr. la Nota alla prima edizione di La notte dell’8 settembre 1943, cit., p. 149.
«dei “Poemi lirici” e delle “Memorie del tempo presente”: cfr. R. Bac-
chelli, Poemi lirici, Zanichelli, Bologna, 1914; e Memone del tempo presente, in «La Ronda», 1919-1920 (indi in Memone del tempo presente, cit., pp. 13-88 e 103-45).
p.- 426 «Il poemetto s’inizia con una veemente apostrofe all'Europa»: cfr. La notte dell’8 settembre 1943, cit., pp. 153-56, vv. 1-124. « “dimessa e pure strenua”, “naturata d'antico ”»: ibidem, p. 171, vv. 621 e 622.
« “la gloria e la sapienza antiche...”»: ibidem, p. 172, vv. 648-49. « “improvvida e accidiosa...”»: ibidem, vv. 650-51.
«“marcita e fecondata dalla pena”: ibidem, p. 184, terzultimo verso. «1 tre volumi del “Mulino del Po”»: cfr. R. Bacchelli, Il mulino del Po, Rizzoli, Milano, 1938.
p. 428 «dei giovanili “Poemi”*»: i Poemi lirici, cit. p. 429 Due «Viaggi în Grecia» di Bacchelli, già presentazioni editoriali, anonime, a R. Bacchelli, Viaggio in Grecia, Ricciardi, Milano-Napoli, 1959, e Secondo viaggio in Grecia, Ricciardi, Milano-Napoli, 1963.
«dell’ultimo suo romanzo»: cfr. R. Bacchelli, / tre schiavi di Giulio Cesare, Mondadori, Milano, 1957.
«non conosce indugi în Arcadia»: ovvero non si abbandona al classicismo accademico. «Delo, Jos, Santorino,
Citera ... Creta»: isole greche, tra cui le
prime tre dell’arcipelago delle Cicladi. « “la innumerabile”»: cfr. Secondo viaggio în Grecia, cit., p. 8.
p. 430 «della “Ruota del tempo”: cfr. R. Bacchelli, La ruota del tempo, L'Italiano, Bologna, 1928.
«da Archiloco a Goethe»: oltre che a rifarsi a lui in molti altri
luoghi, il Bacchelli ha dedicato interamente al lirico greco
del VI sec. a.C. l’ultima parte (La mano di Neobule) del Secondo viaggio în Grecia, cit., pp. 93-99. Quanto al riferimento a
Goethe, cfr., ibidem, pp. 43-44 e 84-85.
654
p- 431 Ungaretti e la critica, una pagina dattiloscritta da ascriversi alla fine degli anni Quaranta. «di Ungaretti»: su Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto 1888-Milano 1970) cfr. il saggio di Solmi Note sulla poesia di Ungaretti, in L.i.c., I, pp. 184-98.
p. 432 «da Mallarmé ad Apollinaire»: cfr., sopra, per il primo, la nota a p. 161; e, sul poeta francese Guillaume Apollinaire (1880-1918) il saggio di Solmi Apollinaire, in L.LL., pp. 84-130.
«Ungaretti e Pea®: anche Ungaretti aveva, come Pea (per cui cfr., sopra, la nota a p. 385), origini lucchesi.
«il Gargiulo ed altri»: cfr. A. Gargiulo, Essenzialità lirica e valori fonici in Ungaretti, in Letteratura italiana del Novecento, Le Mon-
nier, Firenze, 1940, pp. 327-28.
«Le recenti traduzioni da Shakespeare e da Gongora»: cfr. G. Ungaretti, Vita di un uomo: 40 sonetti di Shakespeare tradotti, Mondadori, Milano, 1946; e Vita di un uomo: Da Gongora e da Mallarmé, Mondadori, Milano, 1948.
p- 433 Antologia di Poeti Nuovi, già nota introduttiva anonima a Seconda Antologia di Poeti Nuovi, Edizioni della Meridiana, Milano, 1951, pp. 7-11. (Solmi collaborò alle milanesi Edizioni della Meridiana, che uscirono dal 1947 al 1956).
«nell’occasione di questa antologia»: il sottocitato Premio «San Babila 1950-inediti».
«alla “Prima Antologia di Poeti Nuovi»: cfr. Prima Antologia di Poeti Nuovi, Edizioni
della Meridiana,
Milano,
1950. Solmi
aveva brevemente introdotto a essa: «L'attenzione che la nostra “Meridiana” ha sempre rivolto alla poesia, vuole tradursi
anche in questo primo volume che raduna alcuni giovani poeti d’oggi. Provveduto ognuno di essi di una particolare fisionomia, intento alla ricerca di una propria necessaria espressione, il criterio che ci ha guidati, di necessità antolo-
gico, ha unicamente cercato di assicurare alla raccolta un livello degno e rappresentativo. Il nostro impegno non ha nessuna intenzione panoramica, d’altronde ben difficile a sod-
disfare quando, come nel caso nostro, l’attenzione è data a giovani voci, anche se alcune certo di sicuro avvenire.
p. 434 «Germana Marucelli»: nota sarta milanese dell’epoca. «al volume “Il dolore” di Giuseppe Ungaretti»: cfr. G. Ungaretti, Il dolore, Mondadori, Milano, 1947.
655
«a “La vita non è sogno” di Salvatore Quasimodo»: cfr. $. Quasi
modo, La vita non è sogno, Mondadori, Milano, 1949.
di Solip. 435 «ad Andrea Zanzotto»: Andrea Zanzotto (Pieve
go, Treviso, 1921), destinato a emergere fra i poeti più notevoli del secondo Novecento.
p. 437 Anonimo Napolitano: «Poesia», in «Lo Spettatore Italiano», IV, 3, marzo 1951, p. 72.
«il caso di questo “Anonimo”»: da identificarsi con l'avvocato napoletano Mario Grieco. p. 438 «in un libretto, edito ... dall’editore Ricciardi»: cfr. Anonimo Napolitano, Poesia, Ricciardi, Napoli, 1950. «“I poeti della parola... ’»: cfr. Epigrammi, rv, in Poesia, cit., p. 23: «al Pascoli del “Ciocco” e dei “Conviviali”»: cfr. la nota poesia dei
Canti di Castelvecchio, in G. Pascoli, Poesie, cit., pp. 1011-29, e i Poemi Conviviali, ibidem, pp. 679-837. «al Gaeta»: per Francesco Gaeta cfr., sopra, la nota a p. 371.
«nel frate di Stilo»: Tommaso Campanella (Stilo, Reggio Calabria, 1568-Parigi 1639), oltre che filosofo, fu autore di poesie
filosofiche che sono fra le espressioni più alte della lirica italiana del Seicento. «con l’altra, sensuale e morbida»: come quella del Gaeta sopra-
citato, o del Di Giacomo (per cui cfr., sopra, la nota a p. 371).
p. 439 « “nei lunghi silenzi, pei quali va come perplessa la vita”: cfr. Limite, 1, in Poesia, cit., p. 32, v. 1.
«“Quiete*»: cfr. Quiete, ibidem, p. 48. p. 440 Nietzsche e D’Annunzio, in «Il pensiero critico», I, 3, aprile-giugno 1951, pp. 251-59. (Su D'Annunzio Solmi aveva già scritto, nel 1939, il saggio L’«Alcione» e noi, ora in L.i.c., I,
pp. 23446).
«Giuseppe Toffanin ... sul Carducci»: Giuseppe Toffanin (Padova 1891-1980),
critico letterario oltre che di Carducci (per cui cfr.
Carducci poeta dell’Ottocento, Libreria scientifica editrice, Napoli, 1950), s’occupò soprattutto dell’età rinascimentale.
«l’autore dello “Zarathustra”»: Friedrich Nietzsche (1844-1900) che, in Così parlò Zarathustra (1883-1885), esaltò la potenza vitale del «Superuomo». Del filosofo tedesco Solmi cita subito
dopo anche La nascita della tragedia (1872).
656
«la “rivolta dei Greci eterni al semitico nume”: cfr. G. Toffanin,
Carducci poeta dell’Ottocento, cit, p. 53.
«la famosa immagine del “Galileo di rosse chiome*»: cfr. Alle fonti del Clitumno, in G. Carducci, Poesie, Zanichelli, Bologna, 1902?, pp.
801-807, vv. 113-24.
pp. 44041 «ai “Reisebilder” dello Heine»: il poeta tedesco Heinrich Heine (1797-1856), autore anche dei Reisebilder (1826-1831) in prosa, che fu, non meno di Goethe (da Solmi poco più avanti
ricordato), tradotto e imitato dal Carducci.
p. 441 «e la croce del Galileo...»: cfr. Saluto al Maestro, in G. D'Annunzio, Maia o Laus vitae, nelle Laudi, cit., p. 336, xx, fi-
ne della penultima strofa.
«al filosofo dell’“Anticristo”»: ovvero Nietzsche, autore di L’anticristo (1888).
«di France o ... di Wilde»: il romanziere francese Anatole France, pseudonimo di Francois-Anatole Thibault (1844-1924); e Oscar Wilde (1854-1900), il poeta, drammaturgo e narratore
inglese, autore del romanzo /l ritratto di Dorian Gray (1890), considerato una delle «bibbie» dell’estetismo decadentistico. «Barbaro enorme...»: cfr. Per la morte di un distruttore, in G. D’'An-
nunzio, Elettra, nelle Laudi, cit., p. 476, vv. 291-94.
«nel caso di un Charles-Louis Philippe o di un André Gide»: gli scrittori francesi Charles-Louis Philippe (1874-1909), autore del celebre romanzo Bubu de Montparnasse (1901), e André Gide, per cui cfr., sopra, la nota a p. 117.
p. 442 «di Dostoevskij, di Maupassant, di Huysmans, di Henri de Régnier»: i due maestri del realismo, rispettivamente russo e
francese, Fedor Dostoevskij (1821-1881) e Guy de Maupassant (1850-1893), e gli scrittori francesi Joris-Karl Huysmans (1848-1907),
che, con il romanzo
A rebours (1884), fu an-
ch'egli, come il sopracitato O. Wilde, un antesignano del decadentismo estetizzante, e Henri de Régnier (1864-1936),
poeta parnassiano.
«sul “Mattino” di Napoli»: il quotidiano fondato da E. Scarfoglio nel 1892. «al futuro deputato di Ortona»: D'Annunzio fu eletto al Parlamento, nel 1897, per i suffragi degli elettori di Ortona a Mare (Chieti).
«sulla “Tribuna”: D'Annunzio collaborò regolarmente al quotidiano romano «La Tribuna» dal 1884 al 1888 con vari pseu-
657
donimi e articoli di diverso genere, e saltuariamente anche in seguito.
p. 443 «l’autore del “Trionfo della morte”: cioè D'Annunzio; Il trionfo della morte, ultimo del ciclo dei «romanzi della rosa», dopo /l piacere (1889) e L'Innocente (1892) sottocitati, uscì nel
1894.
«di “asceta inimitabile»: allusione al ritiro di D'Annunzio nel Vittoriale, a Gardone, dove lo scrittore trascorse l’ultima parte della sua vita, dal 1921 al 1938.
«i suoi maggiori critici, dal Borgese al Gargiulo»: cfr. G.A. Borgese, Gabriele D'Annunzio (da «Primo Vere» a «Fedra»), Bompiani, Milano, 1932?; e A. Gargiulo, Gabriele D'Annunzio, Sansoni, Firenze, 1941?.
p. 445 «come fece a suo tempo il Borgese»: cfr. G.A. Borgese, Gabriele D'Annunzio, cit., p. 91.
«nel “Poema paradisiaco”»: cfr., sopra, la nota a p. 381. «il correlativo “avvento del superuomo”: cfr. L'avvento del superuomo, in G.A. Borgese, Gabriele D'Annunzio, cit., pp. 83-105.
«come disse ... Croce»: cfr. B. Croce, Gabriele D'Annunzio (1903), in La letteratura della nuova Italia, Laterza, Bari, vol. IV, 19424,
passa: p. 446 «alla Pater o alla Ruskin ... alla Sar Péeladan»: il critico e saggista Walter Horatio Pater (1839-1894) e il critico d’arte e sociologo John Ruskin (1819-1900), entrambi inglesi e legati al movimento
dei Preraffaeliti, nonché lo scrittore francese
Joseph Péladan letterario.
(1859-1918), esponente del decadentismo
«nel “Canto Novo”, nelle novelle abruzzesi»: cfr. Canto Novo (1881), in G. D'Annunzio, Versi d’amore e di gloria, Mondadoe 1950, pp. 165-207; e Le novelle della Pescara, del 1902.
« di “Alcione” ... della “Leda”
e del “Notturno”: cfr. G. D’Annun-
zio, Alcyone, cit., e le raccolte di prose La Leda senza cigno, cit., e Notturno, Treves, Milano, 1916-1921.
p. 447 «Claudio Cantelmo ... Stelio Effrena ... Ruggero Flamma ... Corrado Brando»: rispettivi protagonisti dei romanzi dannun-
ziani Le vergini delle rocce (1896) e Il fuoco (1900), e dei drammi La gloria (1899) e Più che l’amore (1906).
658
«alla “Città morta”: cfr. La città morta, Aramma dannunziano del 1898.
«dell'Immaginifico»: usuale antonomasia per D'Annunzio. p. 448 «del nazionalismo corradiniano e del colonialismo libico»: il letterato e uomo politico Enrico Corradini (Samminiatello, Firenze, 1865-Roma 1931), assertore di un acceso nazionalismo, fondò nel 1903 la rivista «Il Regno», scrisse nel
1911 l’/dea nazionale a sostegno della guerra libica (19111912), propugnò l’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale e aderì al fascismo nel 1922, divenendo senatore
e ministro.
«della poesia civile carducciana»: quella rappresentata soprattutto dalla raccolta dei Giambi ed epodi (1867-1879). «dalle lontane “Odi navali” ... fino agli scritti e ai discorsi della guerra»: cfr. G. D'Annunzio, Odi navali, cit.; Merope (19111912), quarto libro delle Laudi, cit., pp. 843-990; e gli scritti contenuti in Prose di ricerca, di lotta ecc., cit., vol. I.
«del filosofo della “Volontà di potenza”»: naturalmente Nietzsche. p. 449 «Ia ... partecipazione alla vicenda bellica»: tra le imprese più note di D’Annunzio durante la prima guerra mondiale ci furono il forzamento del porto di Buccari e il volo su Vienna,
entrambe compiute nel 1918.
« “superumane”, ... “inimitabili” e “inenarrabili’»: aggettivi del vocabolario superominico dannunziano. « “al di qua’ del bene e del male”»: riferimento al nietzschiano A/ di là del bene e del male (1886).
«dell'impresa di Fiume»: l'occupazione della città istriana (dal settembre
1819 al gennaio 1921), effettuata da D'Annunzio
e dai suoi «legionari» per protestare contro il trattato di pace di Versailles (28 giugno 1919) che non l’aveva assegnata all’Italia. «il Comisso del “Porto dell’amore” e il Kotchnitzki del “Bal des ardents”: cfr. Giovanni Comisso, Il porto dell’amore, Vianello, Treviso, 1925; e Léon Kotchnitzki, La quinta stagione o I centauri di Fiume (Zanichelli, Bologna, 1922), traduzione del
Bal des ardents ou les saisons fiumanes, allora ancora mano-
scritto. «di meccanicismo futurista alla Mannetti»: cfr., sopra, la nota a p. 380.
659
pp. 449-50 «con la figura dello zelante Giannettino totalitario»: il benpensante conformista e fascista. p. 450 «in divisa d’orbace saltarono nel cerchio di fuoco ... sui campi di Etiopia e di Spagna»: rispettive allusioni alle esibizioni ginniche dei gerarchi fascisti, alla trasvolata dell'Atlantico meri-
dionale compiuta da Italo Balbo nel gennaio del 1931, e alle guerre d’Etiopia e di Spagna (per cui cfr., sopra, le note alle pp. 404 e 416). «all’isola della Maddalena»: in quest'isola (presso la costa nordorientale della Sardegna) Mussolini fu detenuto per qual che tempo dopo la sua deposizione da capo dello Stato e il suo arresto, avvenuti il 25 luglio 1943.
«al tempo della repubblica di Salò»: ovvero della Repubblica Sociale Italiana (settembre 1943-aprile 1945), instaurata da Mussolini grazie al sostegno dei tedeschi (che l’avevano liberato dopo l'armistizio dell’8 settembre), e cosiddetta dalla località sul lago di Garda dove risiedette il suo governo. «degli eroi cattivelli della “Cena delle beffe” ... sui manifesti di Boccasile»: i personaggi del noto dramma di Sem Benelli (Prato, Firenze, 1877-Zoagli, Genova, 1949); l'attore cinematografi-
co Osvaldo Valenti (Istanbul 1906-Milano 1945), che venne fucilato dai partigiani per le sue gravissime compromissioni col nazifascismo; e il pittore e illustratore Gino Boccasile (Bari 1901-Milano 1952), noto soprattutto come cartellonista pubblicitario (i «tigrotti di Mompracem» sono naturalmente i celebri eroi dei romanzi di E. Salgari).
p. 451 /l grande poeta del naturalismo, in «Epoca», II, 72, 23 febbraio 1952, p. 5. Queste righe uscirono nella rubrica «Italia domanda», in risposta al seguente quesito di un lettore:
«Vorrei che qualche critico di riconosciuto valore mi indicasse quel che è vivo e quel che è morto nell’opera di D’Annunzio».
« “quel che è vivo e quel che è morto” nell'opera del D'Annunzio»: calco del titolo dell’opera di B. Croce Ciò che è vivo e ciò che è morto nel pensiero di Giambattista Vico.
p. 452 «nel Carducci “macchiaiolo”»: ovvero quello dei paesaggi delle Rime Nuove evocati impressionisticamente, un po’ alla maniera dei contemporanei pittori macchiaioli toscani. «Dalle novelle del “San Pantaleone*: volume pubblicato da D'Annunzio nel 1886 presso l’editore Barbera di Firenze.
660
p. 453 «il fatras*»: guazzabuglio, confusione. p. 454 Sergio Antonielli, il titolo è del curatore. Difendo la tigre, in Letture, in «Nuovi Argomenti»,
aprile 1955, pp. 94-95.
13, marzo-
«un'affrettata stroncatura»: cfr. Donato Barbone, Il tigre vizioso,
in «Il Contemporaneo», 17 luglio 1954, p. 11.
«Al libretto di Antonielli»: cfr. Sergio Antonielli, La tigre viziosa, Einaudi, Torino, 1954, nonché, sotto, l’ Introduzione di Solmi
alla seconda edizione del libro, alle pp. 456-59. «nella linea della miglior tradizione kiplinghiana»: ovvero quella dei racconti animaleschi di // libro della giungla (1894) e Il se-
condo libro della giungla (1895) dello scrittore inglese Rudyard Kipling (1865-1936). pp. 454-55 «l’Antonielli ... fu prigioniero in India»: Sergio Antonielli (Roma 1920-Milano 1982) fu narratore e critico, studioso del Pascoli, del Parini e della letteratura del Novecen-
to. Prima del racconto qui recensito da Solmi aveva pubblicato Il campo 29 (1949) ispirato alla lunga prigionia trascorsa in India durante la seconda guerra mondiale, e La dinastia
(1952). Nel dopoguerra, stabilitosi a Milano, insegnò Letteratura italiana presso l’Università Statale. p. 455 «Marx... apprezzava sommamente Balzac»: cfr. i giudizi di Marx sul romanziere francese (per cui cfr., sopra, la nota a p. 167) in Karl Marx e Friedrich Engels, Sull’arte e la letteratura, Universale Economica, Milano, 1954, pp. 92-93, e quanto
scritto in proposito da Paul Lafargue in Dai «Ricordì su Karl Marx», ibidem, p. 96.
«nella “Peau de chagrin”»: il romanzo di Honoré de Balzac La pelle di zigrino (1831).
p. 456 «la nostra narrativa neorealistica»: quella intesa all’impegno civile e imperniata sui problemi del vivere comune, che prevalse nel secondo dopoguerra. La tigre viziosa, già Introduzione a S. Antonielli, La tigre viziosa,
2 edizione, Mondadori, Milano, 1979, pp. 5-7.
pp. 456-57 «la “Poesia del Pascoli” ... e “Aspetti e figure del Nove-
cento»: cfr. S. Antonielli, La poesia del Pascoli, Edizioni della Meridiana, Milano, 1955; e Aspetti e figure del Novecento, Guanda, Parma, 1955.
661
p. 457 «Scrissi de “La tigre viziosa” ... nel lontano 1955»: cfr. lo scritto precedente. «in polemica col recensore del “Contemporaneo”: cfr., sopra, la nota a p. 454.
«“Il campo 29”, di recente ristampato»: cfr. S. Antonielli, Il campo 29, nuova edizione con prefazione di Vittorio Sereni, Editori Riuniti, Roma, 1976.
« “Oppure, niente*»: cfr. S. Antonielli, Oppure, niente, Mondadori, Milano, 1971. «le commosse immagini della morte del padre»: cfr. Oppure, niente, cit., pp. 19-23.
«Avevo parlato di influenza kiplinghiana»: cfr., sopra, la nota a p. 454. «come in “Kim” ... o nella “Luce che si spense*»: come i Libri della giungla, cit., anche Kim (1901) e La luce che si spense (1891) sono tra i capolavori di Kipling. p. 458 « “Il venerabile Orango”»: cfr. S. Antonielli, Il venerabile Orango, Mondadori, Milano, 1962. p. 459 « “La tartufferie [nel senso di mistificazione]...*»: è citazione a memoria da Antonin Artaud, (Eeuvres completes, vol. XII, Gallimard, Paris, 1974, p. 229. «dall’Erebo»: ovvero dalla tenebra della morte, nel senso che
la parola Erebo, che designava anche il regno dei morti, aveva per i Greci. «nella veste che le compete»: quella prestigiosa degli Oscar Mondadori. p. 460 Sibilla Aleramo: «Luci della mia sera», già Nota introduttiva alla raccolta di liriche di questo titolo, Editori Riuniti, Roma, 1956, pp. 5-8. «Gli ottant'anni di Sibilla»: della poetessa e romanziera Sibilla Aleramo, pseudonimo di Rina Faccio (Alessandria 1876-Ro-
ma 1960), Solmi aveva già recensito le Poesie del 1929 (cfr.
L.i.c., 1, pp. 78-84).
«“Una donna” ... “Dal mio diario (1940-44)”»: cfr. S. Aleramo, Una donna, cit.; Il passaggio, Treves, Milano, 1919; Momenti, Bemporad, Firenze, 1921; Sì alla terra, Mondadori, Milano, 1935; Gioie d’occasione, Mondadori, Milano, 1930; Dal mio diario (1940-44), Tumminelli, Roma, 1945.
662
«del teatro di Ibsen»: per il drammaturgo norvegese cfr., sopra, la nota a p. 263, e, per il suo apporto alla questione femminile, la celeberrima Casa di bambola (1879).
«la luce del gran meriggio dannunziano»: cfr., sopra, gli scritti di cin su D'Annunzio, alle pp. 440-53, e la prima nota a p. pp. 460-61 «certe francesi, da Rachilde ... alla Signora di Noailles»: le scrittrici francesi Marguerite Eymery, detta Rachilde (1860-1953), Sidonie-Gabrielle Colette (1873-1954) e Anne de Noailles (1876-1933). p. 461 «4/ liricismo e frammentismo»: cfr., sopra, la nota a p. 103. «del grande naturalismo
alcionico»:
quello,
ovviamente,
del-
l’Aleyone di D'Annunzio. «come “altura de los tiempos»: cfr. La altura de los tiempos, in J. Ortega y Gasset, La rebelion de las masas, Revista de Occidente, Madrid, 1951"°, pp. 41-47; e cfr., sotto, il saggio di Solmi
Ortega y Gasset: «Il tema del nostro tempo», alle pp. 520-29. «o dell’“hai-kai”»: cfr., sopra, la nota a p. 384. p. 462 «con Giovanni Cena»: il poeta e narratore Giovanni Cena (Montanaro, Torino, 1870-Roma 1917), che fu per alcuni
anni compagno di vita dell’Aleramo, svolse un generoso apostolato sociale fondando scuole nel Lazio.
«Mi pare che a ragione Emilio Cecchi abbia di recente osservato...»: cfr. «Una donna» di Sibilla Aleramo (1950), in E. Cecchi, Letteratura italiana del Novecento, Mondadori, Milano, 1972, vol. I, p. 405.
p. 463 « “Potenza d’amore*»: cfr. S. Aleramo, Potenza in me d’amore, in Luci della mia sera, cit., pp. 19-20.
p. 464 «Poesie» di Alessandro Peregalli, già nota introduttiva ad A. Peregalli, Poesie, in «Letteratura», IV, 21-22, maggio-agosto 1956, p. 115.
«il termine di “neo-sperimentalismo*»: cfr. P.P. Pasolini, Il neo-sperimentalismo, in «Officina», 5, febbraio 1956, pp. 169-82, poi raccolto in Passione e ideologia, Garzanti, Milano, 1960, pp. 470-83.
p. 465 «del “ventennio: 1945).
ovvero
dell’epoca fascista
« “negative knowledge”*»: conoscenza negativa.
663
(1922-
«la recente folta antologia del Falqui»: cfr. E. Falqui, La giovane poesia, Colombo, Roma, 1956.
«Alessandro Peregalli; nel suo “Altopiano”: Alessandro Peregalli
(Milano 1923-1992) pubblicò nel 1955, presso Guanda, Par-
ma, la raccolta di poesie qui citata da Solmi, e sempre presso
Guanda, nei Quaderni della Fenice, 12, 1976, il poemetto La
cronaca. In seguito i suoi interessi: si rivolsero anche alla psicoanalisi con indirizzo junghiano, ambito nel quale esercitò la professione.
«da uomini come Montale e Pasolini»: cfr. E. Montale, Il secondo mestiere (Prose 1920-1979), Mondadori, Milano, 1996, tomo II,
pp. 1946-47, e P.P. Pasolini, Il neo-sperimentalismo, cit., p. 472.
«le cui radici ... sono in Whitman»: il poeta americano Walt Whitman (1819-1892), precursore del verso libero.
«secondo Leopardi»: cfr. Zibaldone, 29. p. 466 « “brassement*»: rimescolio, rimestamento.
p. 467 Il poeta Blotto, in «Dal “Quadernetto giallo”», in «Paragone», XXII, 252, febbraio 1971, pp. 116-21.
«Umberto Eco ... Yvelise Ghione»: cfr. U. Eco, L'industria del genio italico, in «L’Espresso/colore», 18, 3 maggio 1970, p. 19; e Ivelise Ghione, La rima comincia a quarant'anni, in «L’Espres-
so», XII, 15, 10 aprile 1966, p. 17.
«Augusto Blotto»: Augusto Blotto (Torino 1933) ha stampato varie raccolte poetiche per un ammontare di circa diecimila versi. Nell'autunno del 1968 Solmi aveva scritto: «Scoprire il poeta Blotto. Esempio purissimo di linguaggio Zen “non convergente > (cfr. Dal piccolo Notes, in P.m.r., II, p. 171). «(l’ultimo da me ricevuto...)»: cfr. A. Blotto, Il clamoroso non incominciar neppure, Rebellato, Padova, 1968. « “Autorevole e tanto disperso” ... ecc.»: cfr. A. Blotto, Autorevole e tanto disperso, Rebellato, Padova, 1960, e Tranquillità e presto atroce, Rebellato, Padova, 1963. J7 maneggio per erti, senza sugo
è forse titolo di un libro solo progettato.
p. 468 «di Terracini»: il celebre linguista Benvenuto Terracini
(Torino 1886-1968), professore di Glottologia all’Università di Torino e autore anche di saggi di critica filologica e stilistica. «fa “un altro mestiere”»: quello del funzionario di industria. « illibro del Dottor Hubert Benoit»: cfr. H. Benoit, Lécher prise, théo-
ne et pratique du détachement selon le Zen, La Colombe, Paris, 1954.
664
«verso lo Zen»: ovvero la dottrina della setta buddhista di que-
sto nome, introdotta in Cina dall’India verso il 525 d.C., e
quindi in Giappone nel XII secolo, e annoverante oggi milioni di adepti. «Il Dottor Benoit ... ne distingue un elemento come “struttura generale armonica”: cfr. Hubert Benoit, Lécher prise, cit., pp. 196-97.
p. 469 « “Mon mental contient une indéfinité de phrases divergentes possibles...”»: ibidem, p. 197.
si le langage du poète fròle souvent la divergence...”»: ibidem, p. «Fa ... osservazioni assai pertinenti su Mallarmé»: ibidem.
«Distingue acutamente la differenza»: ibidem, p. 250. «“Les associations libres ... représentent le fonctionnement convergent...”»: ibidem, p. 223.
« “ne devant pas étre ... en refoulant le mode divergent de mon intel lect...”»: ibidem, p. 199.
pp. 469-70 «Il Dottor Benoit dichiara ... di Huang-po»: ibidem, p. 205:
p.- 470 «a Chuang-tzu»: il filosofo cinese Chuang-tzu (369?-286 a.C.), detto «il maestro Chuang», uno dei tre grandi della scuola taoista. «i tre automatismi di convergenza che il Dottor Benott elenca»: cfr. Lacher prise, cit., p. 242.
p. 471 «di un “test” Rorschach»: quello per lo studio della personalità, ideato dal neuropsichiatra svizzero Hermann
Ror-
schach (1884-1922) e basato sull’interpretazione di dieci tavole riproducenti macchie simmetriche d’inchiostro. «Il premere e la derivazione dell’accumulo...»: cfr. la poesia omonima in // clamoroso non incominciar neppure, cit., pp. 163-67, vv. 1-9.
p. 472 «a “Genco Russo”: cfr. Genco Russo, ibidem, pp. 493-94. «come il primo Luzi 0 il primo Gatto»: ovvero le poesie della fase ermetica di questi poeti, per cui cfr., sopra, le rispettive no-
te alle pp. 189 e 371. p. 473 «“l’automa perfetto, che realizza in sé i due aspetti dello Yang...*»: cfr. H. Benoit, Lacher prise, cit., p. 209.
665
«lo stato di “satori” ... del Budda 0 del Maharshi»: cfr. L'approche du satori, ibidem, pp. 261-66.
«“contro-lavoro interiore»: ibidem, p. 210 (per esso il Benoit intende l’acquisizione degli automatismi intellettuali divergenti). « “vivere nelle tenebre esterne”»: ibidem.
p. 474 «come hanno fatto gli astronauti sulla Luna»: il primo sbarco di esseri umani sulla Luna era avvenuto il 21 luglio 1969.
p. 475 Helle Busacca: «I quanti del Karma»: già Prefazionea H. Busacca, I quanti del Karma, Seledizioni, Bologna, 1974, pp. 7-9. «Helle Busacca»: la scrittrice Helle Busacca (Sampiero-Patti, Messina), collaboratrice di varie riviste letterarie e autrice,
fra l’altro, delle raccolte di poesie da Solmi sottocitate: Giuoco nella memoria, Guanda, Modena, 1949; Ritmi, Magenta, Varese, 1965; / quanti del suicidio, Tip. S.E.T.I., Roma, 1972.
p. 476 «al fratello morto»: l’ingegner Aldo Busacca (Bergamo 1921-Milano 1965). «Possiamo citare una breve poesia (LXXXV)»: cfr. Non è il sole che tra-
monta..., in I quanti del suicidio, cit., p. 215. « “aldo lontano e solo...*»: cfr. Prado, in I quanti del Karma, cit., p. 20, ultimi versi.
p. 477 «... la mareggiata... »: cfr. Minos, ibidem, p. 29, vv. 5-7 e 11-13. «... O era il mare...»: cfr. Inumazione, ibidem, p. 36, vv. 16-23.
«A Valencia, la processione della Vergine»: cfr. Divinae matris imago, ibidem, p. 19.
p. 478 «una sorta di Iside-Persefone»: le due antiche divinità egizia e greca del destino e della morte: cfr. Divinae matris imago, cit., ultimi versi.
«in una scena di pranzo di nozze...»: cfr. Porto di mare, in I quanti del Karma, cit., p. 24, v. 29 (dove però è scritto «lo inteschia»). « “un ‘ennesima cambiale in bianco alla morte”: cfr. Cagliari, andando, ibidem, pp. 15-16, ultimi versi.
«im un camion della nettezza urbana»: cfr. Borgo Pinti, 61, ibidem, p. 51, ultimi versi.
«Ma importa alcunché calcolarle...»: cfr. Ritratto per oroscopo, îbidem, pp. 37-38, vv. 19-25.
666
p: 480 Un poeta ignoto, in «Almanacco 1974, pp. 135-40.
dello Specchio»,
3,
«St narra che Baudelaire...» non si è trovata la fonte dell’aneddoto. Per uno spunto analogo cfr. Baudelaire devant ses contemporains, Textes recueillis et publiés par W.T. Bandy et Claude Pichois, Editions du Rocher, Monaco, 1957, p_2D0. «Non era ancora nato Picasso...»: è nota l’influenza esercitata dal-
la scultura negra sulla pittura di Pablo Picasso (1881-1973). «Delacroix, Courbet, Manet»: i pittori francesi Eugène Delacroix (1798-1863), Gustave Courbet (1819-1877) e Edouard Manet (1832-1883). i
«con quanta penetrazione ... ne abbia scritto»: cfr. gli scritti sull’arte di Baudelaire nelle sue @Euvres complètes, cit., pp. 547926, e in particolare su Delacroix, da lui prediletto, le pp.
608-23, 695-701, 826-28 e 843-72.
p. 481 «al suo sonetto “À une passante”»: cfr. Ch. Baudelaire, ibidem, pp. 162-63 e i vv. 5, 8 e ultimo.
«della poesia che oggi presentiamo»: cfr. Nulla, in «Almanacco dello Specchio», cit., pp. 140-41. Ne riproduciamo qui il testo: «Metti accanto al fiore la parola nulla/metti accanto a tutte le cose la parola nulla/mettila accanto all’amore/mettila accanto
all’ira della giustizia/all’orgoglio della fame ai grandi libri della saggezza/come il vuoto dell’aria che ammorza la fiamma/come il vuoto del silenzio che distrugge la memoria/come il limite dell’anticipazione/questo nulla che è soltanto nulla/e non è neppure il «tuo» nulla - è il nulla//Anno-
da ai labirinti della libidine e del sogno/questo filo di seta che attraversa i polsi/questa definizione della vita che brucia l’e-
pilogo della nascita/e la corona dei re non avrà più diademi/perché il nulla cancella tutta la scrittura della pagina./Hai dato il tuo corpo ai demoni/- mangiatevi - hai detto -
ma su questa giostra/e hai chiamato nella tua mente come in una rocca/i cortigiani del passato sui bianchi cavalli i poeti/che dissetano l’ozio stillando il miele delle favole/le vo-
ci familiari dell’infanzia le musiche ebbre della maturità/le penombre gelose e dolci dell’amore la malinconia/questo piacere d’essere uomo come piacere d’essere mare/o riva di mare o autunno//Ma metti accanto a quella lingua eloquente la pa-
rola nulla/mettila nelle radici nella duplice pausa del respi-
ro/nell’essenza della follia nello stupore del possesso/nel fondamento che non è fondamento/nella morte che è carnevale
o sarcasmo o pietà/ma non ancora «nulla»//Metti quest'om-
bra nel chiarore della spiga/nella pupilla degli adolescenti nel-
667
la delizia del frutto/in tutte le cose vive perché si consumino/come il fuoco salino sull’orlo delle mareggiate/tu uomo abitato dal nulla/ti stringi alla tua fatica come al morso del ven-
to dissennato/gloria di cenere che si solleva//Se attenti a tut-
te le cose con la parola nulla/ non varrà neppure che ti ubbriachi di lotta/non varrà neppure che provochi contro di te lo spasimo delle generazioni//- questo flusso e riflusso/non è che uno stormo d’ali selvagge sopra un naufragio/un corteo nuziale accecato dalla putrescenza/carne scavata dal nulla come un paese bianco dalla sera.//E così scrivi senza disgusto /tu che cresci sul nulla come la piccola piaga sulle labbra/accanto
a tutte le cose la parola nulla. p. 482 «il nome di Balthasar Salins»: si rivelò in seguito uno pseudonimo di Ferruccio Masini (Firenze 1928-1988), eclet-
tica figura di germanista e poeta, studioso anche della letteratura spagnola e autore di quadri. «Giampiero Draghi ... Gianfranco Draghi»: il primo autore di versi e il secondo scrittore, pittore e psicanalista.
p. 483 «dell’“Ecclesiaste”»: uno dei libri sapienziali dell'Antico Testamento. «la “carne scavata dal nulla come un paese bianco dalla sera”»: cfr. Nulla, v. 44.
« “che dissetano l’ozio stillando il miele delle favole”»: ibidem, v. 20. «E così scrivi senza disgusto...»: ibidem, ultimi versi.
p. 484 Testimonianza su Soffici, in Ardengo Soffici, L'artista e lo scrittore nella cultura del Novecento, Centro Di, Firenze,
pp. 42-43.
1975,
«Ardengo Soffici»: scrittore e pittore (Rignano sull'Arno, Firenze, 1879-Forte dei Marmi, Lucca, 1964), collaboratore di «La Voce» e fondatore, con G. Papini, di «Lacerba», aderì al
movimento futurista e poi a quello di Novecento. sn “Voce” e poi “Lacerba”»: cfr., sopra, le note alle pp. 109 e
«in libri come “Scoperte e massacri...”»: cfr. A. Soffici, Scoperte e
massacri, Vallecchi, Firenze, 1919 e 19292, e Statue e fantocci, Vallecchi, Firenze, 1919.
pp. 484-85 «la nostra prima conoscenza di Rimbaud»: cfr. A. Soffici, Arthur Rimbaud, Quaderni della Voce, Casa Editrice Italiana, Firenze, 1911.
668
p. 485 «Canne: il pittore francese Paul Cézanne (18391906), tra imaggiori del secondo Ottocento. «il suo amico Sbarbaro ... în una pagina ... di “Liquidazione”: cfr. C. Sbarbaro, Sproloquio d’estate, 3, in Liquidazione, Ribet, Tori-
no, 1928, pp. 145-48.
«Tanto il Soffici successivo, il “novecentista”»: quest'ultima parte non è stata pubblicata, ma figura nel dattiloscritto conservato nell’archivio di Solmi. p- 486 Arnaldo Di Benedetto: «Graffiti meranesi», già Introduzione
a A. Di Benedetto,
Graffiti meranesi, in «Almanacco
Specchio», 6, 1977, pp. 287-91.
dello
«a un eccellente italianista»: Arnaldo Di Benedetto (Malles Venosta, Bolzano, 1940), docente di Lingua e Letteratura italiana all’Università di Torino e autore di diversi studi, fra cui quelli ricordati da Solmi: Tasso, minori e minimi a Ferrara, Nistri-Lischi, Pisa, 1970; nonché le Opere dell’Alfieri (tomo I,
Ricciardi, Milano-Napoli, 19777) e le Prose di Giovanni della Casa e di altri trattatisti del comportamento (Torino, UTET, 1970) da lui curate. Di Benedetto è, attualmente, presidente del Centro Nazionale di Studi Alfieriani di Asti.
«un altro libro ... che va dalla “Nencia di Barberino”: cfr. A. Di Benedetto, Stile e linguaggio, Bonacci, Roma, 1974. L’opera si
apre con un saggio sul celebre poemetto attribuito a Lorenzo de’ Medici.
p- 487 «Christel pattinatrice tracciava i suoi arabeschi...»: cfr. Graf fiti meranesi nella raccolta omonima, cit., p. 296, vv. 24-30. «Forse Erba, cui ha dedicato alcuni studi»: cfr. Lettura în due tem-
pi di Luciano Erba, in Stile e linguaggio, cit., pp. 361-86, dedicata
al noto
poeta
e francesista
Luciano
Erba
(Milano,
1922). « “In provincia”: cfr. la poesia così intitolata in Graffiti meranesî, cit., pp. 298-99, vv. 1-5.
«nel “Baiser de la fée”»: cfr. Le baiser de la fee, ibidem, p. 294, ultimi versi: «S’affaccia inutilmente/la sposa alla finestra del mulino». «un racconto svizzero di Gottfried Keller»: Solmi vuole forse alludere ad Hadlaub (cfr. G. Keller, Tutte le novelle, Adelphi, Milano, 1964, vol. II, pp. 17-93).
« “Stazione centrale”»: cfr. la poesia così intitolata in Graffiti meranesi, cit., p. 299, vv. 1-2.
669
—
«l’antico tema leopardiano»: cfr. G. Leopardi, Amore e morte, se-
condo dei canti del cosiddetto «ciclo di Aspasia».
p. 488 « “Variazione sul tema risveglio”»: cfr. la poesia così intitolata in Graffiti meranesi, cit., p. 300.
«del miglior dramma di Ernst Toller»: lo scrittore tedesco Ernst
Toller (1893-1939), autore di drammi espressionistici, tra cul più noto Oplà, noi viviamo!
«in “Turismo di massa”: cfr. la poesia omonima in Graffiti meranesi, cit., p. 293, ultimo verso: «“Quest’Austria da operetta”, diceva Borgese». «Modigliani»: cfr. la poesia omonima, ibidem, p. 298.
«come Valéry»: per Paul Valéry cfr., sopra, la nota a p. 202. «Scrivere per chi mente, per chi...»: cfr. Quasi una poetica, in Graf fiti meranesi, cit., p. 301, ultimi versi. «Miei versi non nati per analisi crociomarxiste...»: cfr. Miei versi, ibidem, p. 302, vv. 1-3.
p. 490 Luciano Marrucci: «Luci del sagittario», già Prefazione a L. Marrucci, Luci del sagittario, Scheiwiller, Milano, 1977, pp. 7-
15. Essa riprendeva, con alcune modifiche e aggiunte, l’/ntroduzione apposta a L. Marrucci, Dieci poesie, in «Almanacco
dello Specchio», 2, 1973, pp. 595-99. «Luciano Marrucci»: su Luciano Marrucci (San Miniato, Pisa,
1929), sacerdote, poeta e editore, si vedano i ragguagli dati da Solmi in appresso. p. 491 «l’orticello di cui parla Voltaire in Candide: cfr. la conclusione di Candide ou l’optimisme, in Voltaire, Romans et contes, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1950, pp. 236-37. «caro ai ricordi carducciani»: cfr. Le «risorse» di San Miniato al Tedesco, in G. Carducci, Prose (1859-1903), Zanichelli, Bologna,
1905, p. 941 (dove però non compare l’interiezione iniziale).
p. 492 «anche la poesia del nostro ... è una poesia d’amore e di morte»: riferimento al già citato Amore e morte di Leopardi.
«con quella di Jude Stéfan»: lo scrittore francese Jude Stéfan (1936), autore di saggi e di varie raccolte di liriche, dalle quali sono state tratte quelle pubblicate in Poesie (con Introduzione di S. Solmi e versioni a fronte di P. Cacciaguerra e S. Solmi, Guanda, Milano, 1978).
670
« “Tout n’a-t-il pour fond le noir de la mort?”*»: cfr. Carpe diem, in Jude Stéfan, Libères, Gallimard, Paris, 1970, p. 16, vv. 3-4.
p. 493 « “Cyprés arbres amers comme des màts...*»: cfr. Toussaint, :
in Poeste, cit., p. 42, vv. 1-4.
«Non calpestare l’ombra dei cipressi...»: cfr: Cipresso, in Luci del sagittano, cit., p. 86.
« “Dies irae*»: ibidem, pp. 46-47. «Non posso toccarti...»: cfr. Umido fiore della
41, vv. 5-8 e 17-21.
primavera, ibidem,
%
p.
"
ig come vidi neri disegni... ”»: cfr. Gazzelle, ibidem, p. 60, vv. 6215. p. 494 «(“Al cammello”)»: cfr. Al cammello, ibidem, p. 63.
«nella rete implacabile dei meridiani e dei paralleli»: cfr. La bussola, ibidem, p. 65, ultimi versi: «Quando guardai l’ago di ferro
dove volgesse / sentii una gabbia di meridiani / chiudermi dentro. / Essere solo e prigioniero». «al Tommaseo e allo Zanella ... al debolissimo Giulio Salvadori»: Niccolò Tommaseo (Sebenico, Dalmazia, 1802-Firenze 1874), l’abate Giacomo Zanella (Chiampo, Vicenza, 1820-Cavazzale, Vicenza, 1888), Giulio Salvadori (Monte San Savino, Arezzo, 1862-Roma 1928), tutti e tre scrittori di impronta cattolica. «di Clemente Rebora ... di Carlo Betocchi»: cfr., sopra, le rispetti-
ve note alle pp. 377 e 394. «al gesuita inglese GM. Hopkins»: il poeta inglese Gerard Manley Hopkins (1844-1889), dopo aver studiato a Oxford, si convertì nel 1866 dal protestantesimo al cattolicesimo, entrando
in seguito nella Compagnia di Gesù. Le sue liriche furono pubblicate postume nel 1918. Solmi ne cita The Pied Beauty, vv. 2-3, nella traduzione di Montale (cfr. E. Montale, L'opera în versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, vol. I, Einaudi, Torino,
1980, p. 723; e cfr. anche The Pied Beauty, in Pm.r., II, p. 78). p. 496
Oreste Ferrari:
«Ariadne»,
già Prefazione a O. Ferrari,
Ariadne, Capriolo, Milano, 1977, pp. rx-xHI. «Oreste Ferrari»: Oreste Ferrari (Locca di Ledro, Trento, 1890Bellinzona 1962) fu germanista e traduttore in prosa e in versi, soprattutto dal tedesco, ma anche dal francese e dallo spagnolo, nonché autore di alcune raccolte di liriche, fra cui, postuma, quella da Solmi prefata.
671
«Ugo La Malfa»: Ugo La Malfa (Palermo 1903-Roma 1979), antifascista della prima ora e fondatore nel 1941 del Partito d’A-
zione, dopo il suo scioglimento nel ’46 aderì al Partito repubblicano di cui divenne il leader indiscusso. Eletto nel 1946 alla Costituente e poi al Parlamento in tutte le legislature, fu più volte ministro e, nel 1978, candidato alla presidenza della Repub-
blica. Fu per qualche anno collega di Solmi (militante anch’egli nel P. d’A. clandestino) alla Banca Commerciale Italiana. « “Liriche di Goethe»: cfr. W. Goethe, Poesie liriche, Ricciardi, Napoli, 1951. «le sue traduzioni delle “Poesie di Nietzsche”»: cfr. F. Nietzsche, Poesie, Edizioni dell’Esame, Milano, 1947.
«una eccellente versione del “Werther”»: cfr. Goethe, I dolori del
giovane Werther (seguiti da Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis), Edizioni dell’Esame, Milano, 1949. «Raffaele Mattioli»: il celebre banchiere umanista (Vasto, Chieti, 1895-Roma 1973), per cui cfr. i Ricordî su Raffaele Mattioli, in P.m.r., II, pp. 288-301, dal 1942 era associato alle edizioni Ricciardi.
«una rarità»: cfr. ].H. Jung-Stilling, Giovinezza di Enrico Stilling, Ricciardi, Napoli, 1949, e la recensione fattane da Solmi, poco sotto ricordata, Un amico di Goethe, ora in S.l., pp. 299-303.
p. 497 «Riccardo Ricciardi»: l'editore Riccardo Ricciardi (Na-
poli 1879-1973), fondatore nel 1907 della casa editrice omonima, con sede a Napoli e poi anche a Milano, soprattutto
benemerita per la collana dei classici italiani (La letteratura italiana. Storia e testî) iniziata nel 1951 sotto la direzione di P. Pancrazi, A. Schiaffini e R. Mattioli.
«Omaggio a Goethe editore*»: cfr. Giovinezza di Enrico Stilling, cit., pp. 7-9.
«venne edito da Goethe ... e, dopo di lui, piacque ... a Nietzsche»: cfr. Un amico di Goethe, cit., p. 302. «amico di Cesare Battisti»: fervente irredentista, prima di trasferirsi nel 1914 a Milano e di arruolarsi volontario nell’esercito italiano durante la prima guerra mondiale, O. Ferrari
aveva collaborato al giornale «Il Popolo», fondato nel 1900 dal patriota e martire C. Battisti (Trento 1875-1916).
«in casa della vedova Battisti»: cfr. Ricordi familiari, in P.m.r., I,
pp. 194-95.
«La Moira crudele»: la Moira, nome greco della Parca.
672
«Cesare Tallone»: il pittore Cesare Tallone (Savona 1853-Milano 1919), noto soprattutto per i suoi ritratti veristici e i suoi paesaggi.
«la “Bottega di poesia” del cognato Enrico Somarò>: Enrico Somarè (Monate, Varese, 1889-Milano 1953) fu critico d’arte e poeta, nonché direttore della rivista «I Esame» (1922-1925,
1933, 1939-1942). La sua «Bottega di poesia», sita a Milano in via del Monte Napoleone 14, era insieme «Casa editrice, Li-
breria e Casa d’Arte». «nel bombardamento di Alpignano»: ad Alpignano (Torino) aveva sede la prestigiosa tipografia di Alberto Tallone (Bergamo 1898-Alpignano, Torino, 1968), cognato di Ferrari e ricordato in appresso come suo editore. p. 498 « “Alberi d’autunno”»: cfr. questa lirica in O. Ferrari, Poesie, Tallone, Parigi, 1956, p. 77. p- 499 «Vivi sempre in attesa...»: cfr. Ariadne, cit., p. 63.
p- 500 Alberto Vigevani: «Fata morgana», già risvolto di copertina per il romanzo
di A. Vigevani, Fata morgana, Mondadori,
Milano, 1978.
«i libri di Vigevani»: Alberto Vigevani (Milano 1918), fondatore e direttore della casa editrice Il Polifilo, e autore, oltre che di alcune raccolte di poesie, di romanzi e racconti, fra cui i da Solmi sottocitati Estate al lago, Feltrinelli, Milano, 1957, Un certo Ramondès, Feltrinelli, Milano, 1966 e La Lucia dei giardini, Mondadori, Milano, 1977.
«al gusto sperimentalistico di moda oggigiorno»: quello affermatosi nella narrativa dopo la crisi del neorealismo. «il primo Bonsanti, il primo Bilenchi»: per Alessandro Bonsanti (Firenze 1904-1984), autore di numerosi romanzi e racconti, cfr. Bonsanti, in L.i.c., I, pp. 413-15; Romano Bilenchi (Colle Val d’Elsa, Siena, 1909-Firenze 1989) scrisse racconti e ro-
manzi attingendone la materia alle sue esperienze autobiografiche. «Si potrebbe pensare ... a Proust»: ovvero al ciclo di À la recherche du temps perdu (1913-1927) di Marcel Proust. «Nievo ... Svevo»: cfr., sopra, per Ippolito Nievo la nota a p. 420, e, per Svevo, Italo Svevo: «Senilità», alle pp. 276-86, e la
nota a p. 276.
« “points de repère*»: punti di riferimento.
673
«delle “intermittences du coeur*»: cfr., sopra, la nota alle pp. 15-16. p. 501 « “Un coeur simple*»: è il primo dei Trois contes (1877) di
Gustave Flaubert e narra la storia di una povera serva di campagna. «di una Modena ... una Milano»: sebbene non sia mai risieduto a Modena, Solmi era di famiglia modenese; a Milano visse dal 1924 in poi.
p. 502 Daria Menicanti: «Poesie per un passante», già fondo di copertina del libro cenza 1914-Firenze 1978. La Menicanti riche, fra cui quelle dori, Milano, 1964, 1969.
dello stesso titolo di D. Menicanti (Pia1995), edito da Mondadori, Milano, fu autrice di diverse altre raccolte di lida Solmi sottocitate: Città come, Mondae Un nero d’ombra, Mondadori, Milano,
«“L’Antenata*»: cfr. la poesia così intitolata in Città come, cit., pp. 91-92. « “un cuore messo a nudo”: cfr. Mon coeur mis à nu, titolo della seconda sezione dei /ournaux întimes, cit., di Charles Baudelaire. p. 503 «i nomi di Saba e di Sandro Penna»: cfr., sopra, Appunti
sulla poesia di Saba, alle pp. 292-96, e la nota a p. 292; e, per Penna, la nota a p. 189. p. 504 Giuseppe Mesirca: «Taccuino d’Oriente», già risvolto di copertina di G. Mesirca, 1979.
«Giuseppe Mesirca»:
Taccuino d’Oriente, Nistri-Lischi, Pisa,
Giuseppe
Mesirca
(Cittadella, Padova,
1910-Galliera Veneta, Padova, 1995), narratore e critico d’arte e di letteratura, ha svolto questa attività accanto all’impe-
gno della professione di medico da lui costantemente esercitata. La sua narrativa appartiene alla temperie della prosa d’arte anni Trenta, per la finezza del lirismo trasognato e ma-
gico. Si vedano, tra l’altro, Un uomo solitario (1941), Una vec-
chia signora (1967), La Rosina innamorata (1970), Un velo bianco (1993).
«il romanzo del monaco cinese Wu Ch’'éng-én»: cfr. Lo scimmiotto (Adelphi, Milano, 1971) di Wu Ch’èng-èn (circa 1505-1580), romanzo in cui si narra il leggendario pellegrinaggio in India compiuto nel VII sec. d.C. dal monaco Hsùan Tsang, detto Tripitaka, per raccogliervi scritture sacre buddhiste da introdurre in Cina.
674
«alla figura del Principe indù»: cfr. in Il libro di Marco Polo detto
Milione (con Introduzione di Sergio Solmi), Einaudi, Torino,
b le pp. 200-202 dedicate a Sagamoni Borcan detto il uddha. «una lirica di Hermann Hesse»: la lirica dello scrittore tedesco,
naturalizzato svizzero, Hermann Hesse-(1877-1962), Antichissima figura del Buddha trovata în via di decomposizione in una for-
ra boschiva giapponese, posta a epigrafe del Taccuino d’Oriente, cit., vi figura nella traduzione di Solmi (cfr. Pm.r, I, p. 201).
p. 506 Vico Faggi: «Corno alle Scale», già Prefazione a Vico Faggi, Corno alle Scale, Scheiwiller, Milano, 1981. (E questo l’ultimo scritto critico di Solmi).
«Vico Faggi»: lo scrittore e critico Vico Faggi, pseudonimo di Alessandro Orengo (Pavullo, Modena, 1922), autore di opere drammatiche, tra le quali quelle da Solmi sottocitate: Il processo di Savona, Teatro Stabile di Genova, Genova,
1965; Un certo giorno di un certo anno in Aulide, Teatro Stabile di Genova, Genova, 1966; nonché, in collaborazione con
Luigi Squarzina, Cinque giorni al porto, Teatro Stabile di Genova, Genova, 1969, e Rosa Luxemburg, Laterza, Roma-Bari, 1975.
«la rivista ligure “Resine”»: la rivista trimestrale, fondata a Genova da A. Guerrini nel 1972, e poi diretta da Vico Faggi. «egli si presenta per la prima volta al pubblico»: in realtà alcune delle poesie di Corno alle Scale erano già apparse nella raccolta di poesie e prose di V. Faggi intitolata Quaderno partigiano e facente parte della collana «Proposte di poesia teatro arte e critica», Sabatelli, Genova, 1969.
p. 507 «... Le bagnano cieli...»: cfr. Pieve di Paule, in Corno alle Scale, cit., p. 58, vv. 3-5.
«lo stesso Corno alle Scale»: cfr. A sud la luce la neve..., ibidem, p. 57, vv. 1-3 e 8-11. «“Dalla casa paterna” ... “Via Emilia”: cfr. le due liriche, ibi
dem, rispettivamente alle pp. 63-64 e 51-52. «La pietà, l'ira, l’ironia...»: cfr. Città dei ricordi, ibidem, p. 11.
p. 508 «Non serviam, dissi, non...»: cfr. Il giovane V.F,, ibidem, p. 41, vv. 1-3.
«... Non / portato al comando...»: cfr. Examen, ibidem, p. 53, vv. 3-5.
675
NOTE A «NOTE SU AUTORI STRANIERI» (pp. 509-52) p- 511 Volontà classica del Novecento, in «La lettura», II, 40, 5 ottobre 1946, pp. 7-8.
«del noto libro ... di Gina Martegiani»: cfr. G. Martegiani, Il romanticismo italiano non esiste, Seeber, Firenze, 1908.
«în una filosofia come quella di Benedetto Croce»: cfr., sopra, Il Croce e noi, alle pp. 85-93. pp. 511-12 «di un Benda»: perJ.Benda cfr., sopra, la nota a p. Sd p. 512 «di Valéry ... di un Alain, e Gide»: cfr., sopra, le rispetti-
ve note alle pp. 202, 115 e 117. «T.S. Eliot»: lo scrittore inglese di origine americana Thomas Stearns Eliot (1888-1965) che, con la sua opera poetica, liri-
ca e drammatica, e saggistica, ha esercitato un indiscutibile magistero sulla letteratura anglosassone ed europea in genere del Novecento. «degli “imagisti”»: ovvero i rappresentanti dell’«imagismo», movimento poetico angloamericano primonovecentesco. «di Laforgue»: perJ.Laforgue cfr., sopra, la nota a p. 242. «di Schopenhauer e di Hartmann»:
i filosofi tedeschi Arthur
Schopenhauer (1788-1860) e Eduard von Hartmann
(1842-
1906), che dal precedente derivò i fondamenti del suo pensiero. «degli ultimi elisabettiani»: agli autori del «periodo aureo» della letteratura inglese Eliot dedicò gli Elizabethan Essays (1934), da Solmi citati in appresso.
p. 513 «“un dichiararsi di eventi in azioni umane...”»; la citazione è tratta dal saggio Possibilità di un teatro di poesia, in T.S. Eliot, /l bosco sacro, Muggiani, Milano, 1946, pi iSz.
« Come ha ben osservato Luigi Berti»: cfr. L. Berti, Prefazione a T.S. Eliot, Poesie, Guanda, Modena, 194], p. 10.
« “Love Song ofJ. Alfred Prufrock”»: cfr. questa lirica in T.S. Eliot, e
pp.
11-15.
(1909-1935), Faber & Faber, London,
« “complainte*»: lamento. « “fumiste”»: mistificatorio.
676
1951",
«di provenienza heiniana»: cfr., sopra, per Heine, la nota alle pp. 440-41. p. 514 «da Samain a Corazzini»: cfr., sopra, le rispettive note
alle pp. 227 e 366.
«Donne o Marvell»: i poeti inglesi John Donne (1572-1631) e Andrew Marvell (1621-1678). «la molla rotta della “Rapsodia d’una notte di vento”: cfr. Rhapsody on a Windy Night, in Collected Poems, cit., pp. 24-26, v. 30.
«“The Waste Land”»: ibidem, pp. 59-77. «una specie di atroce diorama»: cfr., all’opposto, il «il diorama fiorito» della lirica solmiana Giardini di Vercelli, v. 16 in Pm.r.
I, p. 47 (la precitata lirica - del 1947 - è quasi coeva al saggio
su T.S. Eliot).
«il paesaggio cimiteriale ... del “Mercoledì delle Ceneri*»: cfr. AshWednesday, ibidem, pp. 91-103. «quel “breve crepuscolo, tra nascita e morte, dove î sogni s’incrociano”»: ibidem, p. 102, VI, v. 6.
p. 515 « “buscar el levante por el poniente”»: cercare l'Oriente attraverso l'Occidente. «Un critico d'ispirazione marxista»: per il saggio di D.S. Mirski] su Eliot cfr., sopra, la nota a p. 131.
«i cori di “The Rock”»: cfr. Choruses from «The Rock», in Collected Poems, cit., pp. 155-81. p. 516 «nel saggio “Tradizione e talento individuale”»: cfr. Il bosco
sacro, cit., pp. 113-15 e, in particolare, p. 118. «un importante saggio introduttivo»: cfr. L. Anceschi, Primo tem-
po estetico di Eliot, ibidem, pp. 9-42, e, per le citazioni trattene da Solmi, pp. 38-39.
«secondo le parole dello stesso Eliot»: cfr. Tradizione e talento indi viduale, cit., pp. 122 e 124. «fino alle pagine su Dante»: cfr. Dante, in Il bosco sacro, cit., pp. 239-51.
« “What is a Classic?*»: cfr. Che cos'è un classico? (1945), in T.S.
Eliot, Sulla poesia e sui poeti, Bompiani, Milano, 1960, pp. 5575. p. 517 «nello sforzo di non lasciarsi sommergere: cfr. Giardini di
677
Vercelli, cit., vv. 10-11: «Per non sommergere/mi sforzo a nominarvi, cose».
«“Se pensate alla natura del divertimento... ”»: cfr. Prefazione all’edizione del 1928, in Il bosco sacro, cit., p. 56.
p. 518 «L'artista ... scrive “con il sentimento che tutta la letteratura d'Europa... ”»: cfr. Tradizione e talento individuale, cit., pp. 116-17. «il giovanile “Bosco sacro”»: The Sacred Wood era apparso nel 1920. p. 520 Ortega y Gasset: «Il tema del nostro tempo», già Introduzione a Ortega y Gasset, I tema del nostro tempo, a cura di Sergio Solmi, Rosa e Ballo, Milano, 1947, pp. vI-xv.
«Miguel de Unamuno ... Ortega y Gasset»: il primo (1864-1936), poeta, saggista, romanziere e drammaturgo, fu uno dei mag-
giori scrittori della Spagna primonovecentesca. José Ortega y Gasset (1883-1955), considerato ancor oggi un maestro del pensiero spagnolo del Novecento, fu autore di numerosi saggi filosofici, tra i quali, oltre a E! tema de nuestro tiempo, Espasa-Calpe, Buenos Aires, 1938‘, tradotto da Solmi, gli altri da
lui citati in questa Introduzione. «alla generazione ... che fu chiamata del ’98»: tale definizione designa gli scrittori spagnoli che raggiunsero a quella data la piena maturità: oltre a Unamuno, Azoriîn, Pio Baroja, Rambn
del Valle-Inclan e Antonio Machado.
p. 521 «nella sua “Meditazione sull'Escuriale”»: cfr. Meditacion del Escorial, in J. Ortega y Gasset, E! Espectador, IV, V y VI, Revista de Occidente, Madrid, 1936, nueva ediciòn, tomo II, p. 451.
«della interpretazione “vitalistica” di Nietzsche ... elaborata da pensatori come Simmel e Scheler»: i filosofi tedeschi Georg Simmel (1858-1918), autore, tra l’altro, dell’opera Nietzsche (1907), e Max Scheler (1874-1928).
Schopenhauer
e
«a suggestioni bergsoniane»: cfr., sopra, per Bergson, la nota a PS25:
p. 522 «il concetto di vita “ascendente” e vita “discendente”»: cfr. Il tema del nostro tempo, cit., p. 70; ma tale concetto ricorre anche
altrove in questa come in altre opere di Ortega y Gasset.
«la consacrazione dei “valori vitali»: ctr. il capitolo dedicato ai
Valori vitali, ibidem, pp. 65-72. «il nostro tempo avrebbe compiuto ... una scoperta opposta a quella
678
con cui Socrate aveva inaugurato lo svolgimento del pensiero occi-
dentale»: cfr. il capitolo Le due îronie, 0 Socrate e Don Giovanni, ibidem, pp. 45-52, e in particolare p. 51, nonché, per quanto concerne Goethe e Nietzsche, l’inizio del capitolo Nuovi sintomi, ibidem, p. 73.
«la ragione “è soltanto una breve isola fluttuante... »: ibidem, p. 50. «“I valori della cultura restano intatti... *»: per questa e le due citazioni seguenti, ibidem, p. 81.
p. 523 «nell'ultimo capitolo del suo saggio»: cfr. La dottrina del punto di vista, ibidem, pp. 81-90. | «1 saggî ... tradotti in questo volume»: esso contiene, oltre a Il tema del nostro tempo a cui è intitolato, e alle sue Appendici (Il tramon-
to delle rivoluzioni e Il significato storico della filosofia di Einstein), i saggi Kant 1794-1924. Riflessioni di centenario (pp. 147-82) e Sul punto di vista delle arti (pp. 183-206).
«(“El origen deportivo del estado”)»: il saggio, del 1924, si trova in El Espectador, VII, Revista de Occidente, Madrid, 1963, pp. 607-23.
« “Espania invertebrada”»: cfr. J. Ortega y Gasset, Espana inverte brada, Revista de Occidente, Madrid, 1934,
p. 524 « “La rebelion de las masas”»: cfr. Ortega y Gasset, La rebelion de las masas, Revista de Occidente, Madrid, 1951”,
«“l’invasione verticale dei barbari”»: la citazione di Walther Rathenau (1867-1922), l’uomo politico tedesco ed autore di
opere di economia politica che cadde vittima dell’estremismo di destra, è fatta dallo stesso Ortega y Gasset a p. 58 di La rebelion de las masas, cit.
«una difesa del liberalismo, inteso come “suprema generosità»: ibi-
dem, p. 74. «il suo ... saggio sulla “Deshumanizacion del arte ”... 0 l’altro sul romanzo»: cfr. La deshumanizaciòn del arte e Ideas sobre la novela in
J. Ortega y Gasset, Misiòn de la Universidad - Kant - La deshumanizaciòn del arte, Revista de Occidente, Madrid, 1936, nue-
va edici6n, pp. 117-67 e 169-217.
«le “greguerias” di Ramon Gomez de la Serna»: lo scrittore spagnolo Ram6n G6mez de la Serna (1891-1963), autore di una multiforme opera letteraria e iniziatore, con le sue Greguerias (1917), ovvero Fracassi, costituite da aforismi poetici e caricaturali su cose e persone, del genere letterario dello stesso
nome.
679
. 525 «la concezione ... di uno Schlegeb»: quella enunciata da Wilhelm August Schlegel (per cui cfr., sopra, la nota a p. 75) nelle Lezioni sull’arte e la letteratura drammatica (1809).
«lo stesso Picasso»: cfr., sopra, la nota a p. 480. «i surrealisti di ieri»: ad esempio Paul Eluard e Louis Aragon
(per cui cfr., sopra, le note a p. 188), divenuti cantori della
Resistenza e autori di versi politici.
«“sistema”, “scienza ‘sistematica’ della vita”, “storiologia”»: cfr. La
«Filosofia de la historia», de Hegel, y la historiologia, in J. Ortega y Gasset, Goethe desde dentro, Espasa-Calpe, Madrid, 1940, pp. 190-222.
«il Meregalli»: cfr. F. Meregalli, Ortega y Gasset, Libreria La Lampada, Milano, 1943. p. 526 «Husserl ... o addirittura Heidegger»: i filosofi tedeschi Edmund Husserl (1859-1938), fondatore della moderna «feno-
menologia pura», e l’esistenzialista Martin Heidegger (18891976). p. 527 «che “il corpo della realtà storica possiede un’anatomia perfettamente gerarchicizzata...”»: cfr. Il tema del nostro tempo, cit.,
pid «la conseguente istanza ad una “metastoria” 0 ... ad una previsione scientifica del futuro»: ibidem, pp. 10 e 11-19.
pp. 5283-29 «le altre di descrizione e di rievocazione ... 0 quelle che traggono lo spunto da un quadro o da uno spettacolo»: si vedano ad esempio, per le prime, le Notas del vago estio, in El Espectador, cit., tomo II, pp. 163-234, e, per le seconde, Sul punto di vista delle arti, cit., passim.
p. 530 Garcia Lorca: «Romancero gitano», «voce» del Dizionario letterario Bompiani delle Opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature, Bompiani, Milano, 1958, vol. VI, pp. 352-53.
«di Federico Garcia Lorca»: il noto poeta e drammaturgo spagnolo (1898-1936). Solmi tradusse alcune sue liriche (ora in
P.m.r., I, pp. 240-43).
«Alberti, Guillén, Altolaguirre»: i poeti spagnoli Rafael Alberti (per cui cfr., sopra, la nota a p. 191), Jorge Guillén (18931984) e Manuel Altolaguirre (1905-1959).
«delle “corrispondenze*»: le segrete relazioni fra le cose e i sentimenti di cui parla Baudelaire nel sonetto Correspondances.
680
«da Apollinaire ai surrealisti»: su Apollinaire e sul surrealismo cfr., sopra, le rispettive note alle pp. 432 e 188. p. 531 «di cui Mérimee offerse all'Europa il primo romantico cliché»:
con Carmen, per cui, come per il suo autore, cfr., sopra, la no-
ta a p. 59.
«Valéry, Ungaretti e Montale»: cfr., sopra, le rispettive note alle pp. 202, 431 e 189. «nell'opera anonima del “romancero”»: ovvero l’insieme dei romances spagnoli, composizioni popolari anonime, le più antiche delle quali si fanno risalire alla fine del XIV secolo o all’inizio di quello successivo. «Jiménez e Antonio Machado»: i poeti spagnoli Juan Ramén Jiménez (1881-1958) e Antonio Machado y Ruiz (1875-1939), del quale ultimo Solmi tradusse alcune liriche (cfr. Pm.r, I, pp. 155-58, 191-92 e 244). | «quello delle “Nozze di sangue” e della “Casa di Bernarda Alba”»: cfr. Bodas de sangre, in F. Garcia Lorca, Obras completas, Editorial Losada, Buenos Aires, 1938?, vol. I, pp. 21-136, e La casa de Bernarda Alba (1936).
p. 532 «i “Romance de la luna, luna”
... il “Romance sonambu-
”»: cfr. queste poesie del Romancero gitano (1924-1928), in Obras completas, cit., vol. IV, pp. 13-14 e 20-23, vv. 1-4.
«In altri “romances’»: cfr. Reyerta, La casada infiel, Muerte de Antonito el Camborio, Romance de la Guardia Civil Espaniola, ibidem,
pp. 18-19, 26-28, 44-46 e 53-58.
«(“San Miguel”, “San Gabriel”)»: ibidem, pp. 31-33 e 37-40. « “Il martirio di Santa Olalla”, “Thamar e Ammon”»: cfr. Martirio
de Santa Olalla e Thamar y Amnòn, ibidem, pp. 59-62 e 67-70. p. 533 «in “Poeta a New York”»: cfr. Poeta en Nueva York, in Obras completas, cit., vol. VI, pp. 141-68.
«col “Lamento in morte di Ignacio Sanchez Mejtas*»: cfr. Llanto por Ignacio Sanchez Mejtas, ibidem, vol. IV, pp. 151-64. p. 534 Le nuove ortodossie, in Letture, in «La Chimera», I, 6, set-
tembre 1954, pp. 1-2. «questo nuovo libro di Stephen Spender»: cfr. S. Spender, The Creative Element, Hamish
Hamilton, London,
1953. Di que-
sto poeta e saggista inglese (1909-1995), Solmi tradusse alcune liriche (cfr. P.m.r., I, pp. 172-73 e 205-206).
681
«Rimbaud e Rilke»: cfr., sopra, rispettivamente le note alle pp. 1701359; «LV’estetica crociana»: cfr., sopra, il saggio di Solmi Il Croce e noi, alle pp. 85-93. «“la poesia, prima di ogni altra cosa...’»: cfr. S. Spender, The Creative Element, cit., p. 184.
p. 535 «Nei suoi protagonisti»: i romanzieri inglesi Edward
Morgan Forster (1879-1970), David Herbert Lawrence (18851930), l'americano Henry James (1843-1916), l’irlandese
James Joyce (1882-1941), e il poeta e drammaturgo irlandese William Butler Yeats (1865-1939), di cui Solmi tradusse due
liriche (cfr. Pm.r., I, pp. 209-10). « “svolgere ifenomeni visibili... ’»: cfr. The Creative Elementi, cit., p. 76.
«In “The Destructive Element”»: questo saggio di Spender era apparso nel 1935. «molti giovani scrittori inglesi attorno al 1930»: cfr. il capitolo The Theme of Political Ortodoxy in the “Thirties”, in The Creative Elemeni, cit., pp. 140-58, riguardante i cosiddetti «trentisti». «l’esperienza della guerra di Spagna»: cfr., sopra, la nota a p. 416. «il farsi avanti d'un nuovo “spirito d’ortodossia”»: cfr. The New Orthodoxies, ultimo capitolo di The Creative Element, cit., pp. 175-909.
« “Death's other Kingdom”: cfr. T.S. Eliot, The Hollow Men, n, in Collected Poems (1909-1935), cit., p. 88, v. 8 e, sopra, il saggio di
Solmi sull'opera di Eliot alle pp. 511-19, e la nota a p. 512. «in scrittori come Graham Greene ed E. Waugh»: cfr. The Creative Elemeni, cit., p. 193 e, per la citazione successiva, p. 139. Gli scrittori inglesi Graham Greene (1904-1991) e Evelyn Waugh (1903-1966), entrambi convertitisi al cattolicesimo, riflessero
nella loro opera il loro credo religioso. p. 536 «come Orwell ... come Auden»: sia il romanziere e saggista inglese George Orwell (1903-1950), l’autore di La fattoria
degli animali (1945) e di 1984 (1949), sia W.H. Auden (per cui cfr., sopra, la nota a p. 190) si accostarono nella giovinezza al marxismo e combatterono nella guerra di Spagna a difesa della repubblica. «intento ad “iniettare metafisica... ”»: cfr. The Creative Element, cit... p_1955
682
«polemizzando con lo stesso Auden»: ibidem, pp. 157-58 (dalla prima sono tratte anche le citazioni dal saggio di Auden, The Enchaféd Flood, Faber & Faber, London, 1951).
p. 537 «del Fogazzaro ... del naturalismo verghiano»: cfr., sopra, la nota a p. 420. «un Gide o un Bernanos»: gli scrittori cattolici francesi André Gide (per cui cfr., sopra, la nota a p. 117) e Georges Bernanos (1888-1948), autore di romanzi e di opere teatrali.
p. 538 «di Ungaretti ... di Montale»: cfr., sopra, le rispettive note alle pp. 431 e 189. «di un Pavese»: cfr., sopra, la nota a p. 112. «recentemente avallata da un'estetica illustre»: quella crociana. p. 539 «Il libro del tè, in Letture, in «Nuovi Argomenti»,
13,
marzo-aprile 1955, pp. 105-106. «al romanzetto della Sagan»: il presente scritto era preceduto da una breve recensione (poi in L./.L., pp. 253-54) a Bonjour, tristesse (1954), primo romanzo della scrittrice francese Francoise Sagan, pseudonimo di Francoise Quoirez (1935).
«il saggio del moderno giapponese Okakura Kakuzo»: cfr. O. Kakuzo, Il libro del tè, Bocca, Roma, 1954. Okakura Kakuzo (1862-
1913), autore di origine e cultura giapponese, scrisse questo e altri libri in inglese. «da Lamb a Beerbohm»: gli scrittori e saggisti inglesi Charles Lamb (1775-1834) e Max Beerbohm (1872-1956). . 540 «I “maestri del tè”»: a essi è dedicato l’ultimo capitolo del Libro del tè, cit., pp. 101-107.
«le filosofie del Tao e dello Zen»: il taoismo, che si rifà al Tao té ching, libro attribuito a Lao-tzu (VI o V secolo a.C.), e lo Zen,
per cui cfr., sopra, la nota a p. 467. « “doublé’”»: foderato.
«del dandysmo di ... baudelairiana memoria»: è nota l’eccentricità del padre del simbolismo francese, Charles Baudelaire
(1821-1867). «“outré”»: spinto all’estremo.
«la narrazione della fine esemplare ... del “maestro del tè” Rikiw: cfr. Il libro del tè, cit., pp. 105-107.
683
p. 541 Musil, in Letture, in «Palatina», IV, 16, ottobre-dicem-
bre 1960, pp. 61-63.
«con Proust, 0 con Joyce»: cfr., sopra, la nota a p. 278. «scende ... da Montaigne, passa per Saint-Simon, costeggia gli inglesi...»: il grande moralista francese Michel de Montaigne (1533-1592), su cui Solmi scrisse nel 1933 il saggio La salute di Montaigne, poi raccolto in S.M. e più volte ristampato (di recente anche in Francia), e il filosofo e sociologo francese Claude-Henri de Saint-Simon (1760-1825). Per Meredith, ames, Ruskin e Bergson cfr., sopra, le rispettive note alle pp. 282, 535, 446 e 23.
pp. 541-42 « Dubliners”... “Chamber Music” ... “Ulysses” ... “Finnegans Wake”»: i Dublinesi, Musica da camera, Ulisse e La veglia di Finnegan (scritta in un linguaggio di difficile decifrazione) furono
pubblicati rispettivamente
nel 1914,
1907,
1922 e
1939. p. 542 «Musil»: lo scrittore austriaco Robert von Musil (18801942), ingegnere, matematico e filosofo, oltre che narratore. Solmi parla qui del suo racconto giovanile / turbamenti del giovane Torless (1906), a lui noto nella sottocitata edizione italiana a cura di Giorgio Zampa (Lerici, Torino, 1959), e di L'uomo senza qualità, in tre parti uscite nel 1930, 1933 e 1943,
la cui edizione italiana era in corso di pubblicazione presso Einaudi, Torino, 1957, 1958 e 1962.
«al gidiano “Immoraliste*»: cfr. L’immoraliste (1902), in A. Gide, Romans, Récits et Soties, Euvres lyriques, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1958, pp. 365-472.
« “décalage’”»: scarto. «l’estetismo di Wilde»: cfr., sopra, per Oscar Wilde, la nota a p. 341° «di certo Thomas Mann»: il noto scrittore tedesco (1875-1955), autore di numerosi romanzi, da / Buddenbrook, del 1901, alle Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull, del 1954, e racconti, fra cui il celeberrimo La morte a Venezia (1913).
p. 543 «Weininger ... Freud»: il filosofo e psicologo austriaco Otto Weininger (1880-1903), e il padre della psicanalisi Sigmund Freud (1856-1939), anch'egli austriaco.
« “‘rapetissés’»: rimpiccioliti. «di Walter ... Clarisse ... Diotima»: personaggi dell’ Uomo senza
684
qualità, come gli altri citati in seguito, tra i quali Siegmund compare solo nella seconda parte del romanzo.
p. 544 «all’Azione Parallela»: così è definito nel romanzo il progetto delle celebrazioni, sul quale si impernia la trama, per il settantesimo anniversario dell’ascesa al trono dell’imperatore Francesco Giuseppe. «del grande gioco di Mozart»: cfr. la poesia Ascoltando Mozart, in P.m.r., I, p. 62.
p. 545 Richard Hughes: «La volpe nella soffitta», in Letture e altro, in «Questo e altro», 2, s.d. (ma 1962), pp. 69-70. «il recente romanzo ... uscito a tanti anni di distanza dai due precedenti racconti»: cfr. R. Hughes,
The Fox in the Attic, Chatto &
Windus, London, 1961. A High Wind in Jamaica e In Hazard erano usciti rispettivamente nel 1929 e nel 1938. Lo scrittore inglese Richard Hughes (1900-1976), noto soprattutto per le sue opere narrative, fu anche drammaturgo e poeta. «“The Human Predicament”»: ovvero La condizione umana, titolo che riprende quello del romanzo La condition humaine di André Malraux (per cui cfr., sopra, la nota a p. 414). Il ciclo
narrativo progettato dallo Hughes si arrestò al secondo volume, The Wooden Shepherdess, edito nel 1973.
p. 546 «Hitler Ludendorff, Goering»: il futuro dittatore nazista (1889-1945), il generale tedesco Erich Ludendorff (1864 1937) e Hermann Goering (1893-1946), destinato a diventa-
re uno dei maggiori esponenti del nazismo, furono protagonisti, nel 1923, del putsch di Monaco
(il fallito tentativo di ro-
vesciare il governo della Baviera). «nelle colonne del “Corriere”»: cfr. E. Cecchi, La volpe nella soffitta, nel «Corriere della Sera», 24 marzo 1962, p. 3.
« fondu”»: amalgama. p. 547 «l’assurdo soliloquio di Ludendorff ... il delirio di Hitler»: cfr. The Fox in the Attic, cit., pp. 226 e 265 sgg. « “impromptus”
quasi
stendhaliani»:
improvvisazioni.
Per
Stendhal cfr., sopra, la nota a p. 59. «come quando ... Mitzi diventa di colpo cieca»: cfr. The Fox în the Attic, cit., p. 200.
p. 548 «la sbornia dell’innamorato Augustine ... 0 il finale vagabondaggio dello stesso»: ibidem, pp. 336-37 e 342 sgg.
685
«del giovane ... rifugiato nella soffitta del castello»: a questo personaggio allude il titolo del romanzo.
p. 549 «The Blind Owl»: cfr. Sadegh Hedayat, The Blind Owl, John Calder, London, 1957, traduzione inglese del romanzo dallo stesso titolo (La civetta cieca) dello scrittore e filologo
persiano Sadegh Hedayat (1903-1951). «il fatto che ... il nuovo romanzo ... abbia stentato, da noi, a trovare un editore»: la traduzione italiana di La volpe nella soffitta uscì presso Rizzoli, Milano, nel 1963.
p. 550 Salinger: «Il giovane Holden», già Salinger, in Letture e altro, in «Questo e altro», 2, s.d. (ma 1962), p. 71.
«il... romanzetto di Salinger»: cfr. J.D. Salinger, Il giovane Holden, Einaudi, Torino, 1961. Si tratta della traduzione del pri-
mo libro (1951) del narratore statunitense Jerome David Salinger (1919).
p. 551 « “slang*: gergo.
« “platitude*»: trivialità. « “high-brow*»: sopracciglioso. « “suffisance”»: sussiego.
p. 552 « “blasés*»: snobistici. « “captatio”»: cattura dello spettatore.
«che îl grande Petrolini raccolse nel famoso libro “Ti ha piaciato?”»: l’attore e autore comico Ettore Petrolini (Roma 1886-1936)
raccolse in Ti ha piaciato? (1916) monologhi e battute del suo repertorio.
«nelle prime pagine di “Addio alle armi*»: cfr. E. Hemingway, A
Farewell to Arms (1929).
686
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