La letteratura italiana del Medioevo 8843025341, 9788843025343

Il volume traccia la storia della Letteratura italiana dai suoi albori fino alla fine del secolo XIV. È stato concepito

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Italian Pages 366/364 [364] Year 2003

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La letteratura italiana del Medioevo
 8843025341, 9788843025343

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Carocci editore via Sardegna 50, oo187 Roma, telefono o6 42 8 I 84 I 7, fax o6 42 74 79 31

Visitateci sul nostro sito Internet: http://www.carocci.it

Stefano Carrai

Giorgio Inglese

La letteratura italiana del Medioevo Con la collaborazione di Luigi Trenti

Carocci editore

Sono di Stefano Carrai i cap}toli 2, 3, 4, 5, I I, u. Sono di Giorgio Inglese capitoli 1, 6, 7, 8, 9, 10, 14. E di Luigi Trenti il capitolo 13.

1"

© copyright

edizione, aprile 2003 by Carocci editore S.p.A., Roma

2003

Finito di stampare nell'aprile 2003 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali S rl , Urbino ISBN

88-430-2534-1

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Premessa

13

I.

Antiche tracce dei volgari italiani (secoli rx-xn)

15

r.r . 1.2 .

L'indovinello veronese I piaciti campani L'iscrizione di San Clemente in Roma Il motto di Travale Letture consigliate

15 r6 r6 I7 I7

2.

I primi centri letterari

2.!.

Il Settentrione 2.1.r. Poesia lirica l 2.r.2. Poesia didattica dell'Italia padana l 2.1.3 . L'A­ nonimo genovese

2.2.

L'Italia mediana 2.2.r.

2.3.

Francesco d'Assisi l

27 2.2.2.

Iacopone da Todi

La Sicilia 2.3.1. 2.3.3·

Lingua e metrica dei "siciliani" l Altri autori

2.3.2.

Giacomo da Lentini l

La Toscana 2.4.1.

3· 3·!.

Rimatori fiorentini l

2.4.2.

Pisani e lucchesi

Letture consigliate

45

La Toscana dopo Montaperti (n6o-8o)

47

Guittone d'Arezzo e i guittoniani

47

r. r. Evoluzione della tematica l 3 ·!.3· Cultura poetica di Guittone l 3·

7

3 · r.2. 3 -L4.

Linguaggio e metrica l Emuli di Guittone

LA LETTERATURA ITALIANA DEL MEDIOEVO

3· 3 ·

Brunetto Latini Il Fiore Letture consigliate



La scoperta dello «stil novo»

3.2 .

4·!. 4.2 . 4· 3 ·

6r

Prodromi bolognesi: Guido Guinizzelli Fondamenti teorici dello «stil novo» I protagonisti 4·3·I.

Guido Cavalcanti l

4-3.2.

Dante l

4·3·3·

Cino da Pistoia

Letture consigliate La poesia comico-realistica

77

Letture consigliate

So

6.

La prosa del Duecento

8r

6.I.

Ars dictandi e volgarizzamenti Compilazioni, enciclopedie, scritture di viaggio



6.2.

6.2.1.

lione

6. 3 .

Il Tresor di Brunetto l 6.2.2. Restoro d'Arezzo l

6.2.3.

Il Mi­

La narrativa 6.3.1.

88

Le raccolte di exempla l

6.3.2.

Il Novellino l 6.3.3. Il romanzo

I cronisti 6.4.r.

Salimbene da Parma l

6-4-2.

Dino Compagni

6.5

Letteratura teologico-filosofica e spirituale Letture consigliate

7.

Dante Alighieri: Vita nova, rime della maturità e trattati

7·I. 7.2.

Vicende biografiche La Vita nova

93

99 99 IOO

Un'idea dell'amore l 7.2.2. Il libro della memçria l 7.2.3. La poesia della lode l 7.2-4- La Donna della salute l 7.2.5. Beatrice e il n11nwro nove l 7.2.6. La donna l 7.2.7. Ritorno a Beatrice

7.2.1.

/. �-

Le rime della maturità

III

INDICE

7+

1 13

Il Convivio L'amore per la Sapienza l 7-4-2. Il primo trattato l 7+3· La prosa del Convivio l 7·4+ Il secondo trattato l 7-4-5· Il terzo trattato l 7.4.6. Il quarto trattato 7-4-r.

7 ·5·

123

Il De vulgari eloquentia 7-5-L 7.5.3.

Origine e natura delle lingue l Lo stile «tragico>>

7.5.2.

I volgari italiani l

7.6. 7 -7 -

Le epistole civili La Monarchia Letture consigliate

!2 8 129 132

8.

La Commedia

133

8 . r.

L'invenzione strutturale

133

Data di composizione l 8.1.2. "Titolo" e genere l 8.1.3. Mo­ delli: la letteratura visionaria e l'Eneide l 8.r.4. L'Aldilà dantesco l 8.1.5. Antichi e moderni l 8.r.6. L"'io" cristiano l 8.r.7. Simbolismo numerico e architettura del poema 8.r.r.

8.2.

La narrazione 8.2.r.

8.3 .

I canti proemiali (l/ r e

2)

l

8.2.2.

Il viaggio

Storia e profezia

153

8.3. r.

Senso letterale e senso mistico l 8.3.2. Visio e /ictio l 8.3.3 Fi­ renze e l'Italia l 8.3.4 La Chiesa e l'Impero l 8.3.5· Gli ultimi giorni

Questioni di dottrina 8.4.r. 8+3·

denza

Il desiderio naturale di conoscere l 8.4.2. Il sistema del mondo l L'anima umana l 8.4-4- Il libero arbitrio l 8.4.5· La Provvi­

172

Poesia della Commedia La funzione "personaggio"/ molteplice concreto 8.5.r.

8.6.

8.5.2.

La rappresentazione del

181

Il viaggio del letterato 8.6.r. 8.6.3.

l

«Sesto fra cotanto Conclusione

8.6.2.

L'uso

moderno

l

Letture consigliate 9·

Da un secolo all ' altro Albertino Mussato e il "preumanesimo" Poesia didattica: l'Intelligenza, Francesco da Barberi­ no, Cecco d'Ascoli Letture consigliate 9

193 1 97

LA LETTERATURA ITALIANA DEL MEDIOEVO

IO.

Coscienza storica e coscienza religiosa nel Trecento

I99

I O. I . I0.2. I 0. 3 . I O+

Giovanni Villani Cronisti minori L'Anonimo romano Caterina da Siena e altri scrittori religiosi Letture consigliate

I99 200 2oi 202 205

I 1.

Francesco Petrarca

2 07

I I. I . I I .2 . I I .}.

Vicende biografiche L'Africa I Rerum vulgarium /ragmenta

207 214 22I

r r.3.r. La genesi l rr.3.2. La struttura l poetica l rr.3 + La cultura poetica

Lingua e tecnica

rr.3.3·

II+ I 1 . 5. r r.6.

n Secretum m eu m Le raccolte epistolari in prosa e in versi I Triumphi Letture consigliate

I2.

L a lirica minore del Trecento

I2. I. 12.2. 12.3.

Tardo stilnovismo fiorentino La diffusione dei modelli toscani Ampiamente d'orizzonti della lirica. Le rime per musica Letture consigliate

I 3.

Giovanni Boccaccio

13. r. 13. 2.

Vicende biografiche Le opere del periodo napoletano r3.2.r. '3·2+

, �· ·�.

Le rime l Filostrato l

Caccia Teseida

13.2.2. 13.2.5.

di Diana

l

13.2.3.

247 252 257 2 59

Filocolo

l

Le opere fiorentine o l· l· '· o H· l·

26I 263

285

Comedia delle Ninfe fiorentine l 13·3.2. Amorosa vùione l Elegia di madonna Fiammetta l 13.3-4- Ninfa/e fiesolano

IO

INDICE

1 3 -4-

Lettura del Decameron 13.4·r. Composizione e struttura del libro l I3+2. Il titolo e il Proe­ mio l 13+3· L'Introduzione alla prima giornata l 13.4+ La brigata dei novellatori l 13·4·5· Temi e tipologia dei racconti l 13.4.6. Lingua e stile l r 3+7. Le giornate di racconto

1 3 .5.

La produzione tarda 13.5.I.

erudite

14. 1 . I4.2 · 1 4·3 · I 4·4·

Il Corbaccio l

13.5.2.

327 Gli scritti danteschi l I3·5·3· Le opere

Letture consigliate

33 1

Letteratura "borghese"

333

Antonio Pucci Franco Sacchetti Ser Giovanni Fiorentino Andrea da Barberino Letture consigliate

333 3 34 336 337 338

Bibliografia

339

Indice degli autori, delle opere anonimé e delle cose notevoli

359

II

Premessa

Questo volume intende tracciare un profilo della storia della lettera­ t:ura italiana dai suoi albori fino alla fine del secolo XIV. La scelta di isolare tale periodo si giustifica a partire da varie considerazioni. Si tratta infatti della fase aurorale delle patrie lettere, coincidente con una crescita della società e della cultura che - sullo sfondo della lun­ ga disputa tra papato e impero - vede svilupparsi nell'Italia centro­ settentrionale la civiltà dei comuni e fiorire nell'Italia meridionale lo stato dinastico prima degli Svevi, poi degli Angiò. In seguito, con il mutare della scena politico-sociale e l'imporsi delle corti signorili nel­ l'Italia padana, anche le vicende letterarie acquisteranno caratteristi­ che significativamente diverse. Questo tratto medievale della nostra storia letteraria, coerente pur nella molteplicità delle esperienze, è del resto quello in cui, per così dire, la letteratura italiana raggiunge la piena maturità con scrittori di somma grandezza come Dante, Petrar­ ca e Boccaccio, sui quali si fonderà di lì in poi la tradizione naziona­ le. Uomini e testi di cui qui si parla, insomma, chiudono una stagio­ ne, quella del Medioevo, e contemporaneamente ne aprono una nuo­ va e rigogliosa. Anche tenendo conto delle implicazioni con la nascita della cultura umanistica e del fatto che la letteratura italiana è per parecchi secoli una letteratura bilingue, si è cercato di non ridurre il discorso al solo Medioevo volgare, allargandolo, nei limiti del possibi­ le, alle principali opere in latino. Il libro è stato concepito per lo studio universitario, come sup­ porto ai corsi di Letteratura italiana o di Filologia italiana; di conse­ guenza è necessariamente conciso senza peraltro trascurare nessun elemento davvero significativo del panorama letterario italiano nel Medioevo. Il racconto delle vicende di cui autori e testi sono prota­ gonisti mira tuttavia a non perdere mai il contatto con la concretezza dei testi stessi, fatti spesso oggetto di analisi ravvicinata. Nell'attuale stato di incertezza e di instabilità normativa in cui versano gli studi universitari, un volume così concepito intende anche ribadire l'impreI}

LA LETTERATURA ITALIANA DEL MEDIOEVO

scindibilità di una solida formazione di base, che consenta allo stu­ dente la possibilità, altrimenti preclusa, di una lettura non ingenua, ma storicamente consapevole e appassionata al tempo stesso, dei testi letterari. n criterio che ordina la trattazione è intenzionalmente misto: la trama costituita dai salti più o meno bruschi della storia e delle gene­ razioni si combina infatti con quella fornita dai generi letterari e dalla loro evoluzione, facendo tuttavia spazio, com'è giusto, a grandi meda­ glioni dedicati agli autori di maggior rilievo. L'aggiornamento non re­ sta un semplice fatto bibliografico, ma fa sì che le più recenti sco­ perte e indagini critiche interagiscano con la trattazione; l'essenziale informazione bibliografica posta alla fine di ogni sezione orienta rapi­ damente l'eventuale approfondimento. Al di là della destinazione universitaria e professionale, ci augu­ riamo che il volume possa interessare anche un più largo pubblico di lettori, a cominciare dai migliori docenti di lettere nelle scuole su­ periori: interessare, insomma, anche chi voglia acquisire un'informa­ zione essenziale e non superficiale su scrittori e scritture dei primi due secoli della letteratura italiana, attenta al contesto generale non meno che alla storia dei singoli testi e alla loro fisionomia linguistica e stilistica. Le abbreviazioni sono state ridotte al minimo. Opere di Dante: Vn Vita nova, Cv Convivio, DVE = De vu!gari eloquentia, Mn Mo­ narchia, I/ Inferno, Pg = Purgatorio, Pd Paradùo. Opere di Pe­ trarca: A/r. Africa, RVF = Rerum vu!garium /ragmenta, Fam. Fa­ miliarium rerum libri, Epyst. Epystolae. =

=

=

=

=

=

=

=

14

I

Antiche tracce dei volgari italiani (secoli Ix-xn )

I. I

L'indovinello veronese

Il ptu antico esperimento conosciuto di rappresentazione grafica di una parlata volgare italiana è tracciato sui margini di un codice li­ turgico dell'viii secolo (oggi conservato nella Biblioteca Capitolare di Verona) . All a fine dell'viii secolo o agli inizi del IX, il manoscritto di origine spagnola - è già in Veneto, e qui uno scrivano sconosciuto ne utilizza uno spazio bianco per provare la penna. Prima di una for­ mula latina di ringraziamento («gratias tibi agimus omnipotens sempi­ terne deus»), egli mette per iscritto un indovinello relativo alla pro­ pria professione: Se pareba boves alba pratalia araba et albo versorio teneba et negro semen seminaba.

Il taciuto soggetto della descrizione ('spingeva buoi davanti a sé, ara­ va un prato bianco, teneva un aratro bianco, seminava un seme nero') è infatti lo scriba, che spinge avanti le dita, percorre la pagina bianca, tiene la penna d'oca e deposita segni d'inchiostro. L'indovinello è in versi (una strofa tetrastica non regolarizzabile, secondo l'ipotesi più persuasiva) . Osserviamo - con Monteverdi (195 2 ) - che lo scrivente mostra di essere «pienamente consapevole della differenza» fra parlata volgare e lingua latina; e che egli è «un dotto» che lascia i). latino per un «puro capriccio letterario, perché nessuno scopo pratico lo spinge [. .. ] all'u­ so del volgare». Probabilmente, dato che la composizione è giocata sul confronto tra lo scrivano e il villa no, l'autore ha rimodellato una formula latina preesistente sulla parlata rustica: «ciò che ne risulta potrebbe quasi esser considerato un testo di letteratura dialettale ri­ flessa» (Castellani, 1976). 15

LA L ETTE RATURA I T A L I A N A DEL M EDIOEVO

Il Castellani segnala questi tratti fonomorfologici come volgari: le desinenze in -o e -a (invece che -UM e -AT ) , négro da NIGRUM, se per SIBI, pareba da PARABAT. 1.2

I piaciti campani

Quattro documenti redatti fra il 960 e il 963 , in area capuano-bene­ ventana (e tuttora conservati nell'Archivio di Montecassino) , conten­ gono, all'interno del testo latino, formule di giuramento in volgare. Tale scelta risponde probabilmente a un «ideale» giuridico di «pub­ blicità» dell'atto (Petrucci) . La formula più antica: «Sao ko kelle ter­ re, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti» (traduzione: 'so che quelle terre, in quei confini che qui [=in una cartina allegata] sono registrati, le ha possedute trenta anni il monastero di San Benedetto'; cfr. Castellani, 1976) è inclusa in una sentenza (placito) del marzo 960, che sancisce i diritti del monastero di Montecassino su certe terre. Il notaio che ha composto la formula unisce la trascrizione del parlato locale (sao analogico, ko da QUOD, contene [da pronunciare condene] ) all'uso di sintagmi latini (parte Sancti Benedicti) . 1.3

L'iscrizione di San Clemente in Roma

Nella basilica sotterranea di San Clemente si conserva un affresco della fine del secolo XI, raffigurante una scena della passione del santo: il pa­ trizio Sisinnio ordina ai suoi servi di arrestare Clemente, ma essi, per un miracolo, legano e trascinano in vece sua una colonna. Il pittore ha inol­ tre scritto le "battute" dei personaggi: in un latino con qualche scorret­ tezza, quella del santo («Duritiam cordis vestris saxa traere meruistis»; traduzione: 'Per la durezza del vostro cuore meritaste di trascinare pie­ tre'); in volgare romanesco, quelle dei persecutori: [Aibertello e Gosmari :] «Fàlite dereto colo palo, Carvoncelle ! » !Carboncello:] «Albertel, Gosmari, tràite ! » Sisinium: «Fili dele pute, tràite». (traduzione: 'Fàgliti dietro col palo, Carboncello' ; 'Albertello, Gosma­ rio, tirate'; 'Figli di puttana, tirate' Nel testo, la punteggiatura e gli :H 'l't'Il ti sono a ggi u n t i dagli editori moderni: cfr. Castellani, 1 976). r6

ANTICHE TRACCE DEl VOLGARI ITALIANI

(SECOLI IX-Xli)

Anche in questo caso, il ricorso al volgare ha un intento espressi­ vo: segnare i personaggi negativi con un «iperrealistico turpiloquio» (Trifone, 1992 ) . La grafia antica non sempre corrisponde alla moder­ na: si deve infatti leggere figli e putte.

I .4

ll motto di T ravale Fra le " tracce" riferibili al secolo XII, ha carattere paraletterario sol­ tanto il motto di un guardiano malpagato, raccolto da un notaio vol­ terrano nel 1 1 5 8 : «Guaita, guaita male: non mangiai ma mezo pane» ('Sentinella, fa' male la guardia: non ho mangiato altro che mezzo pane' ; Testimonianze di Travale, Castellani, 1976). Per i " ritmi" com­ posti alla fine del secolo, si veda il PAR. 2 . 2 . Letture consigliate I più antichi testi italiani sono presentati, pubblicati e ampiamente

commentati in Castellani ( 1 976); per l'approfondimento e l'aggiorna­ mento della discussione cfr. Roncaglia ( 1 993 ) e Petrucci ( 1 994).

17

2

I primi centri letterari

2.!

Il Settentrione 2. I. I. POESIA LIRICA

In Italia, la produzione di lirica provenzale fu prerogativa della marca trevigiana, delle corti venete e padane, del Piemonte, della Liguria e della Lunigiana. Richiamati dall'accoglienza dei signori italiani, nume­ rosi trovatori vi si trasferirono dalla Provenza favorendo la scrittura di testi in lingua d'oc. Poeti come i genovesi Bonifacio Calvo e Lan­ franco Cigala, il bolognese Rambertino Buvalelli, il mantovano (di Goito) Sordello, il veneziano Bartolomeo Zorzi e altri cresciuti a que­ sta scuola si guadagnarono una reputazione adottando quella che al­ lora era considerata la lingua della poesia lirica. Fosse questo o altro il motivo, è un fatto che la produzione lirica in volgare autoctono rimasta ci non è copiosa. Tuttavia, come ha scrit­ to Stussi, «la fisionomia della poesia cortese duecentesca nei volgari dell'Italia settentrionale sta subendo significativi ritocchi» in ragione di «tre fatti nuovi: primo, la scoperta da parte di Giuseppina Brunetti d'una porzione iniziale della canzone Isplendi"ente l stella d'albore di Giacomino Pugliese giunta nell'Italia settentrionale assai precocemen­ te e al di fuori del tramite toscano; secondo, la rilettura cui Furio Brugnolo, certo stimolato anche da quella scoperta, ha sottoposto la ballata Eu ò la plu fina druderia, mettendone in luce la componente siciliana piuttosto che provenzale; terzo, il ritrovamento della canzone Quando eu stava in le tu' cathene» (Stussi, 2ooo, p. 28r; cfr. Brunetti, 2000 e Brugnolo, 1 995 ) . A giudicare da questi dati la fioritura di poe­ sia lirica potrebbe dunque essere stata precoce e anteriore addirittura ai testi di san Francesco e dei siciliani. Specie lo straordinario reperto fatto conoscere da Stussi ( 1 999), Quando eu stava in le tu ' cathene, 19

LA LETTERATURA ITALIANA DEL MEDIOEVO

indurrebbe a pensarlo. Si tratta del più esteso dei due testi poetlct conservati in una pergamena ravennate (databile, come pare, tra il u 8o e i primissimi del nuovo secolo: ma si tenga conto anche delle osservazioni di Castellani, 2 ooo, pp. 524-3 6 ) , una canzone d'amore in cinque stanze di dieci decasillabi ciascuna, legate dalla rima finale, che è fissa. Basta leggere la prima stanza del componimento per ren­ dersi conto che si tratta di un prodotto di buona fattura: Quando eu stava in le tu' cathene, oi Amor, me fisti demandare s'eu volesse sufirir le pene ou le tu' rechize abandunare, k'ènno grand'e de sperança piene, cun ver dire, sempre voln'andare. Non respus' a vui diritamente ch 'eu fithança non avea niente de vinire ad unu cun la çente a cui far fistinanza non plasea.

La gotica eleganza di questi versi sembra quasi precorrere i tempi. L'immagine dell'innamorato in catene e il suo dialogo con Amore anticipano difatti un atteggiamento psicologico tipico della lirica amorosa duecentesca, anche se si noterà che il colloquio è qui di­ chiaratamente condotto per interposta persona («me fisti demandare [ .] Non respus'a vui diritamente») . E notevole è che l'amante, con­ scio del fatto che le ricchezze elargite dal suo signore sono grandi, ma a patto che si abbia piena speranza in lui («de speranza plene [ .. ] voln'andare») , preferisca anch'egli non rispondere direttamente perché non ha fiducia («fitanza non avea niente», avverbiale, come a dire 'nient'affatto') di accordarsi («de vinire ad unu») con la bella ( «cun la çente») cui non piace fare alla svelta («cui far fistinanza non plasea») , ovvero cui piace attendere e fare attendere. Perciò ritiene sia meglio invitare tutti, nell'inizio della stanza successiva, ad asse­ condarlo: «Null'om non cunsillo de penare l contra quel ke plas'al so signore». Oltre a questo e allo scambio di enuegz tra Girardo Parecchio e Ugo di Perso, di stretta imitazione trobadorica, su cui si tornerà poco più avanti, qualche altro componimento affiora tra Veneto e Lombar­ dia: la canzone di un rimatore trevigiano di nome Auliver (in stanze di dieci endecasillabi su schema ABABABCCDD), la danza mantovana Venite, polcel'amorosa, alcuni sirventesi (tra cui quello già attribuito a Sorclello, su cui cfr. Stussi, 2ooo) , alcune ballatine trascritte dai notai ..

.

20

l PRIMI CENTRI LETTERARI

bolognesi nei loro memoriali per riempire gli spazi bianchi tra un ro­ gito e l'altro onde evitare interpolazioni indebite. 2.1.2.

POESIA DIDArfiCA DELL'ITALIA PADANA

Più robusta e fiorente si sviluppò tuttavia nell'Italia settentrionale una poesia d'altro genere, didattica e allegorica, affidata perlopiù a testi di un certo respiro. Un corpus cospicuo di questa produzione è stato conservato nel celebre codice detto Saibante dalla famiglia che ne fu proprietaria, ora Hamilton 3 90 della Deutsche Staatsbibliothek di Berlino, che, accanto a poeti come Uguccione da Lodi e Girardo Pa­ tecchio, fa spazio a testi adespoti come i volgarizzamenti dei Disticha Catonis e del Pamphilus o come i Proverbia quae dicuntur super natu­ ra /eminarum. Proprio la compilazione misogina dei Proverbia - mutila alla fine, ma, anche così, distesa in più di 750 versi organizzati in quartine mo­ norime di alessandrini - lascia distinguere assai bene i caratteri demo­ tici intrinseci a questo filone. Opera di un autore anonimo, certamen­ te veneto, essa mette subito in guardia il proprio pubblico circa le malizie muliebri ill u strate nella lunga serie di detti proverbiali: «Bona çent, entendetelo, perqué 'sto libro ai fato: l per le malvasie femene l'aio en rime trovato, l quele qe ver' li omini no tien complito pato; l cui plui ad elle servene, plui lo tien fol e mato». In area veneta va riportato anche il Liber Antichristi che una volta si attribuiva a Uguc­ cione da Lodi, composto anche questo in quartine monorime di ales­ sandrini, notevole per la commistione di elementi epico-romanzeschi e di elementi profetico-escatologici. Dichiaratamente devozionale è l'i­ spirazione dei testi composti da un altro veneto, Giacomino da Vero­ na, frate minore osservante. Mi riferisco ai due sermoni, anch'essi in quartine monorime (o anche solo assonanzate) di alessandrini, dedica­ ti alla città celeste (De Ierusalem celesti) e a quella infernale (De Bab�·­ lonia civitate infernali) . Insieme, essi formano un dittico edificante mirato, evidentemente, a un uditorio di fedeli, come testimoniano le rispettive allocuzioni iniziali: «D'una cità santa ki ne voi oldir, l co­ m'd'è fata dentro, un poco ge n'ò dir, l e ço ke ge'n dirò se ben vol retenir, l gran pro ge farà, sença nesun mentir» e «A l'onor de Cristo, segnor e re de gloria, l et a tenor de l'om cuitar voio un'ystoria, Ila qual spese fiae, ki ben l'avrà in memoria, l contra falso enemigo ell'à far gran victoria». Il contrasto fra la bellezza e le delizie celestiali, da un lato, e gli orrori e i tormenti infernali, dall'altro, evoca scenari che 2I

LA LETTERATURA ITALIANA DEL MEDIOEVO

miravano a procurare forti suggestioni ed emozioni negli ascoltatori più ancora che nei lettori dell'epoca. Più ricco e articolato si dimostra comunque il panorama della poesia lombarda, e in particolare di quella milanese, anch'essa legata a temi morali e in parte all'apostolato cristiano, come nel caso di un altro sermone scritto da Pietro da Bescapé, alle porte di Milano, in versi fortemente e irrimediabilmente anisosillabici (Contini, r96r). Qui la poesia trovò del resto un maestro di ben altro prestigio e fi­ nezza rispetto ai poeti veneti, non a caso rimasti perlopiù anonimi. Intendo dire di Bonvesin da la Riva, originario, secondo l'identifica­ zione più convincente, della Ripa di Porta Ticinese. Morto fra il r 3 I 3 e il I 3 I 5, Bonvesin domina la scena della poesia settentrionale fra la fine del Duecento e l'inizio del secolo successivo. Autore anche di carmi latini (e latina è anche la prosa del trattato De magnalibus urbis Medio/ani), egli scrisse numerosi poemetti nel proprio volgare milane­ se perlopiù sul metro della quartina monorima di alessandrini. Ad una fase giovanile risale il breve galateo in versi De quinqua­ ginta curialitatibus ad mensam, scritto durante il soggiorno a Legna­ no, quando già Bonvesin, tuttavia, era entrato nel terzo ordine degli Umiliati, come informa subito l'esordio: Fra Bonvesin dra Riva, de le cortesie da desco de le cortesie cinquanta fra Bonvesin dra Riva

ke sta im borgo Legnian, quilò ve dise perman; ke se dén servar al desco ve;n parla mo de fresco.

L'elenco delle cinquanta regole da osservare a tavola, che seguono, ordinate una per ogni strofa, rivela un evidente carattere pedagogico che potrebbe essere collegato all'attività di maestro di grammatica, e quindi di istitutore, esercitata da Bonvesin. Caratteristici del suo repertorio sono poi alcuni contrasti fra inter­ locutori simbolici come la mosca e la formica, la rosa e la viola, i mesi dell'anno, o entità dottrinarie come l'anima e il corpo, il pecca­ tore e la Vergine, Satana e la Vergine (dr. Corti, I 9 7 3). Si oscilla in questa serie dai temi morali, come l'esaltazione di virtù borghesi quali l'operosità (della formica) e l'umiltà (della viola) , a quelli politici, al­ lusivi alla realtà comunale, come la necessità che i mesi riconoscano un'autorità suprema (Re Gennaio) , a quelli propriamente religiosi, come la supremazia dell'anima, la condanna del peccato, le tentazioni del demonio. Sembra giusto peraltro mettere in rilievo le probabili connessioni di questa vena poetica con le istanze allora vive di un rinnovamento 22

1. PRIMI CENTRI LETTERARI

spirituale. Come ha scritto Zambon ( r993 , p. 4 7 3 ) , «la poesia didatti­ ca lombarda e veneta sembra nascere proprio dalla volontà di inter­ pretare quegli ideali di ritorno a un cristianesimo evangelico che si andavano diffondendo allora e che si trovavano in netta antitesi con il vecchio dottrinarismo clericale, legato alla lingua latina». L' evange­ lismo che nella fiorente civiltà comunale faceva parecchi proseliti pare essere stato, in effetti, il terreno di coltura di una poesia fondata pro­ prio su questo bisogno di rigenerazione interiore. Sul piano dell'impegno religioso sono notevoli le Laudes de Virgine Maria di Bonvesin e soprattutto il suo Libro delle Tre Scritture, struttu­ rato in tre parti, la prima delle quali (De scriptura nigra) tratta dell'infer­ no e l'ultima (De scriptura aurea) del paradiso, mentre quella intermedia (De scriptura rubra) è dedicata al racconto della passione. L'organizza­ zione ha fatto pensare a quella della Commedia dantesca, ma le analogie non sono maggiori rispetto a quelle riscontrabili nel dittico di Giacomi­ no da Verona, fungendo il secondo tratto del Libro quasi da intermezzo e da raccordo fra i due di argomento ultramondano . Vale la pena di sottolineare inoltre un'osservazione di Contini ( r96o, I, p. 667 ) , che «quale autore in volgare Bonvesin è eminente­ mente un traduttore». Contini pensava anzitutto al volgarizzamento dei Dieta Catonis, ma la constatazione vale anche per altri «volgari» bonvesiniani. Basti ricordare il rapporto, segnalato da Segre ( r968), che uno dei suoi testi sui quindici segni premonitori del giudizio uni­ versale intrattiene con un inno mediolatino sul medesimo tema. Per rendersi conto della rifunzionalizzazione del modello· basterà il con­ fronto fra le strofe che l'uno e l'altro dedicano al primo prodigio: tale signum dabit: Prima dies saeculo undasque levabit, mare surget tumidum montes superabit, quadraginta cubitis sed ut murus stabit. terram nec operiet, Lo premeran miraculo il premer dì serà, in alt se drizarà, ke l'aqua de la mare e sor tut le montanie plu olta parirà a moho de mur starà. e ferma in so logo

Si noterà che 1' aderenza alla fonte era facilitata dall'affinità del metro. Bonvesin aveva saputo scegliere bene il testo da trasporre quasi ver­ bum de verbo. Garantita la rima dalle forme del futuro, pochissimo si perde dell'originale (nella fattispecie solo la misura dei «quadraginta cubitis» di altezza del mare rispetto alla cima dei monti) , che fornisce anche qualche suggerimento stilistico e lessicale (probabile, ad esem-

LA LETTERATURA ITA L I A N A DEL MEDI OEVO

pio, che la voce proparossitona in cesura del primo verso, «miracu­ lo», serbi memoria del «saeculo» che occupava identica posizione) . n tema, tipico della predicazione (cfr. Carrai, I 995 a) , induce di per sé a riconnettere questa operazione all'apostolato di fra' Bonve­ sin, e lo stesso inàpit con l'appello all'uditorio («Aprov la fìn del mondo, s'el è ki'n voia adire») rivela la natura di sermone in versi del volgarizzamento. Altra personalità di grande rilievo in ambito lombardo fu Uguc­ cione da Lodi, di cui il codice Saibante ci ha tramandato un lungo poemetto in lasse monorime che alternano alessandrini e versi che a norma francese sarebbero decasill abi epici. Detto nella rubrica Libro, esso si diffonde per 702 versi in precetti religiosi e morali, disquisì­ zioni swla bontà divina e sulla nequizia del mondo. L'intonazione di­ dattica è evidente già dall'impostazione iniziale con un modulo di in­ vocazione che risuonerà più tardi in tanti cantari di piazza: Al to nome començo, pare Deu creator, divina maiestà, verasìo salvator: a Ti prega et adora li grandi e li menor, lì principi e lì re, li marqes e i contor.

Più che originario propriamente di Lodi, Uguccione potrebbe essere appartenuto ad una ben nota famiglia cremonese, ed essere stato quindi concittadino di Girardo Patecchio, autore anch'egli di un poe­ metto di analoga natura: lo Splanamento de li proverbii de Salamone (esposizione in versi dello pseudo-Salomone) , tutto in coppie monori­ me di alessandrini. Al medesimo autore si deve peraltro quella Frotu­ la noiae moralis che rappresenta il primo adattamento ad un volgare italiano del genere dell' enueg provenzale. Metricamente si tratta di una canzone in stanze di dieci versi, che si lasciano ricondurre alla misura del decasillabo, su schema abababcccc, e un congedo di sei versi di schema xxxxyy. In omaggio al genere, il procedimento anafo­ rico ad inizio di stanza sulle voci-chiave costituite da noia e derivati fa da connettivo dell'intero componimento. Identiche caratteristiche contraddistinguono le due risposte per le rime inviate a Girardo da nn non meglio identificato Ugo di Perso. 2. 1.3. L'ANONIMO GENOVESE

Squarci lirici compaiono anche nella più vasta raccolta poetica di au­ lor"t· Sl'llcntrionale, il cosiddetto Anonimo genovese, attivo tra l'ulti­ rnn qnnrlo del Duecento c l'inizio del secolo successivo. La sua sillo-

l PRIMI CENTRI LETTERARI

ge, trasmessaci dal codice Molfino (Genova, Archivio Comunale) , comprende 147 componimenti in volgare e 34 in latino, perlopiù di intonazione moraleggiante e didattica, ma fa spazio anche ad argo­ menti propriamente religiosi oltre che a temi storico-politici e civili connessi alla città di Genova (come nel caso della poesia per la vitto­ ria di Corciola sui veneziani nel 1 2 88) e all'impegno diretto del poeta nella gestione del comune, se non altro come incaricato di ambascerie ufficiali. Dal punto di vista metrico è interessante la relativa libertà che l'Anonimo si concede. I suoi otto-novenari si raccolgono perlopiù in quartine a rime incrociate (abba) o alternate (abab), in qualche caso anche monorime o di schema diverso (aaax) oppure strutturate come distici a rima baciata, e sporadicamente egli fa ricorso a un verso come il senario, sempre organizzato in quartine (di schema aaax) . Tale mancanza di rigidi vincoli metrici e di genere fa sì che la poesia dell'Anonimo si risolva talora nella semplice illustrazione di una mas­ sima, come è per il proverbiale esametro «Asperius nihil est humili, si surget in altum» che dà luogo ad una quartina di gusto epigrammati­ co, non per nulla detta in rubrica «moto»: Vilan chi monta in aoto grao per noxer a soi vexim, dé per raxom in la perfìm strabucar vituperao.

L'uomo di bassa condizione che salga in alto per vessare il prossimo necessariamente alla fine precipiterà e sarà ingiuriato: si noterà che la sentenza latina risulta discretamente ma significativamente amplificata con l'inevitabile rovina e giusta punizione di tanta arroganza. li gusto e lo spirito dell'Anonimo è ben rappresentato nelle sei quartine dedicate al motivo «De non confidendo in hac vita seu in iuventute». Si leggano intanto le prime due: Tu, homo chi vai per via san e zovem e fresco [e forte] , non andar per vi·e torte como nave senza guìa. Ché, se lo mundo par che ria e vita longa deporte, aspeita de doe xorte: o vejeza o marotia.

25

LA LETTERATURA ITALIANA DEL MEDIOEVO

Il monito rivolto all'uomo che è nella sua stagione più florida esordi­ sce non a caso con un modulo da epitafio, tipico del memento mori che il defunto rivolge al viator di passaggio davanti alla tomba; tant'è che iniziava in modo quasi identico l'epigrafe posta sul sarcofago pi­ sano del giudice Giratto (morto tra il I I 7 0 e il I q6) : «Homo ke vai per via prega Deo dell'anima mia, sì come tu se' ego fui, sicus ego sum tu dei essere» (Stussi, 1990; Petrucci, 2ooo, pp. 20-2 ) . Dopo aver contrapposto all'allegria (ria rida) e all'apparente lunghezza della vita la vecchiaia e la malattia che ci attendono, il poeta chiude in ef­ fetti sul motivo della ineluttabilità della morte: ==

E' no te digo boxia chi vanamenti te conorte: se poi tornam gente morte, quelli chi sum passai ne spia.

Ovvero: 'non ti dico una pietosa bugia che ti dia speranza invano: fai un'inchiesta tra coloro che sono trapassati per sapere se dei morti ri­ tornano' Come ha scritto Bologna ( I98 7 , p. 104): «In ampia misura le ori­ gini delle lettere volgari nell'Italia del Nord dipendono strutturalmen­ te e funzionalmente da questa irrequieta, dialettica coesistenza della civiltà feudale-cortese e cavalleresca con la civiltà pragmatica, borghe­ se, mercantile dei liberi municipi padani». Ciò si spiega anche con la facilità di una ricezione diretta, dalla vicina Provenza e dalla vicina Francia, dei testi che costituivano i vettori principali degli ideali cor­ tesi e cavallereschi. Si pensi che le noie di Girardo Parecchio e di Ugo di Perso attingono evidentemente agli enuegz del Monaco di . Montaudon e che un componimento dell'Anonimo genovese è, a par­ tire dalla seconda stanza e per esplicita dichiarazione della rubrica («De quodam provinciali traslato in lingua nostra») , il volgarizzamen­ to di una canzone religiosa del trovatore Folquet de Romans (cfr. Roncaglia, 1 975 ) ; che i Proverbia quae dicuntur super natura /emina­ rum rimontano in larga parte ad una redazione del poemetto francese Chastiemusart e alcuni brani del Libro di Uguccione da Lodi riecheg­ giano i Vers de la Mort di Hélinand de Froidmont e le due preghiere di Carlo Magno in una versione assonanzata francoveneta della Chan­ .wn de Roland (Contini, 1960, I, pp. 597-8). Si aggiunga la presenza dd l�oland nel Liber Antichristi, intuita da Zambon ( I993, p. 4 7 5 : «Il 1\ol,llul era forse noto anche all'autore del poemetto sull'Anticristo») , uvvnloral:l da un primo sondaggio, se, ad esempio, i versi dell'ano­ llllltH t•tJgaJwo: «Turbate sun le etc e finite sun le tenpe, Ila fin de lo

l PRIM I CENTRI LETTERARI

mundo nui l'avenmo enpresente» (vv. 172 - 1 7 3 ) sembrano risentire di Roland 1434- 143 5 : «ço est li definement, l la fin del sede ki nus es ten present». 2 .2

L'Italia mediana

L'attività poetica fruì in Umbria di una sorta di prologo in cielo, come è stato detto a proposito del cantico di san Francesco (Sicilia­ no, 1986) prendendo a prestito l'espressione dal Faust di Goethe. Per la verità, già verso la fine del XII secolo doveva essere sorta un'attività poetica in volgare di carattere giullaresco, a sfondo morale, testimo­ niata da pochi ma significativi testi: uno di questi, di area marchigia­ na, narra la storia di sant'Alessio in lasse di otto-novenari (e perciò è convenzionalmente intitolato Ritmo su Sant'Alessio); un altro, simile nel metro, affronta il tema della vita attiva e della vita contemplativa in una lingua che presenta tratti caratteristici dell'area di Montecassi­ no (e perciò è convenzionalmente intitolato Ritmo cassinese) ; anche più antico è il ritmo in cui un giullare volterrano si rivolge ossequio­ samente al vescovo di lesi, in lasse monorime di versi a base ottonaria (Ritmo laurenziano) . Caratteristica dei primi due è l' oralità rivelata dall'allocuzione ad un pubblico di ascoltatori: «et ore o dite certanza», si legge infatti al v. 3 del Sant'Alessio marchigiano; «Eo, sinjuri, s'eo fabello, l lo bostru audire campello», in esordio del testo cassinese. 2.2.r.

FRANCESCO D'ASSISI

Intorno al 1 2 25 , ad Assisi, san Francesco scrisse le parole - e stando alla cosiddetta Legenda perusina anche la musica - delle sue Laudes creaturarum, dette altrimenti Cantico delle creature oppure Cantico di /rate Sole: Altissimu, onnipotente, bon Signore, tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione. Ad te solo, Altissimo, se konfano, et nullu homo ène dignu te mentovare. Laudato sie, mi' Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui. ·Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de te, Altissimo, porta significatione.

LA LETTERATURA ITALIANA DEL MEDIOEVO

Laudato si' , mi' Signore, per sora luna e le stelle: in celo l'ài formate clarite et pretiose et belle. Laudato si' , mi' Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le tue creature dài sustentamento. Laudato si', mi' Signore, per sor'aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta. Laudato si' , mi' Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte: ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte. Laudato si' , mi' Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba. Laudato si', mi' Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore et sostengo infirmitate et tribulatione. Beati quelli ke 'l sosterrano in pace, ka da te, Altissimo, sirano incoronati. Laudato si', mi' Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente po' skappare: guai a ·cquelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda no 'l farrà male. Laudate et benedicete mi' Signore et rengratiate et serviateli cum grande humilitate.

La poesia, col suo accompagnamento musicale, secondava il disegno del santo di fare di sé e dei suoi fraticelli dei veri e propri giullari di Dio. Già la scelta del volgare (tutti gli altri scritti superstiti di France­ sco sono rigorosamente in latino) rivela un chiaro intento di proseliti­ smo e l'apertura ad un pubblico che si auspicava vasto. In questa di­ rezione va la stessa organizzazione metrico-ritmica del componimen­ to , in versi di varia misura «che si ripartiscono in membri di estensio­ ne affine, riuniti da identità o somiglianza [. .] dell'ultima vocale ac­ centata, per lo più anche della finale» (Contini, 1 960, I, p. 2 9 ) . Pur dando ricetta a voci popolareggianti quali mentovare ('nomi­ nare'), skappare ('fuggire') , ennallumini ('illumini' ) , il testo rivela una evidente familiarità con il latino delle Scritture e, più in generale, con qtdlo della Chiesa. La tematica dell'elogio a Dio mediante le lodi 1 rihttlate agli elementi del creato rivela la propria matrice biblica, an­ dw nell'andamento an aforico (su AltiJJimu/o e sulla formula di pre.

l PRIMI CE NTRI LETTERARI.

ghiera Laudato si', mi' Signore) , da ricondurre prevalentemente a un brano del Libro di Daniele e ai Salmi (particolarmente il 1 3 6 e il 148 ) . Gli accenni escatologici presenti soprattutto nel finale (la «morte se­ cunda») confermano l'incidenza sicura anche dell'Apocalisse e dell'a­ pocrifa Visio Sancti Pauli (cfr. Paset;o, 1992 ) . V n a lettura attenta ottiene peraltro di contestualizzare l ' assunzio­ ne del tema della bontà della natura nel quadro della polemica con­ tro l'eresia catara (cfr. Pasero, 1992 ) . I versi del cantico tendono di­ fatti a riaffermare che tutto è manifestazione dell'attività creatrice e dell'immensa bontà di Dio: ciò non può essere privo di implicazioni con il propagarsi di tendenze eretiche in cui era insita una contrappo­ sizione insanabile fra spirito divino e natura, considerata come espressione del demonio. Come ha scritto Manselli ( 1 9 8 2 , p. 3 1 7 ) , «la lode per Dio creatore e per quel che egli ha creato colpisce al cuore una delle posizioni di base del catarismo, quella per cui creatore del mondo fisico, o, almeno, il suo ordinatore è Satana, secondo i molti e vari miti dell'eresia». La sintonia fra Dio e il mondo che Francesco sostiene è in aperto contrasto, insomma, con tale visione manichea del creato.

2.2.2.

IACOPONE DA TODI

Non dovette passare che qualche decennio prima che in questa stessa area geografica giungesse, per imitazione dei siciliani, la lirica profana in volgare. Di un non meglio noto Ciuccio, verosimilmente perugino, il Vaticano latino 3 793 ci tramanda alcune ballate sicilianeggianti per temi e per stile; un'altra ballata d'amore perugina, datata 1 2 89 , ha fatto conoscere Baldelli ( 1987, pp. 55-6). Anche nel todino si svilup­ pò, nella seconda metà del secolo , una certa attività poetica, come testimoniano i due sonetti di Massarello da Todi copiati nel citato canzoniere Vaticano (cfr. Mancini, 1985 ) e alcune ballate anonime, scritte probabilmente in quella zona, ill u strate anch'esse da Baldelli ( 1966). Non si spiega facilmente senza un suo personale tirocinio in am­ bito profano, non documentato ma legittimamente ipotizzabile, la straordinaria finezza poetica raggiunta da Iacopone da Todi. Di lui ci è nota soltanto la cospicua raccolta di laude, che si inquadra nella fioritura di poesia religiosa suscitata, nella seconda metà del Duecen­ to, dal movimento dei Flagellanti e dall'operato del suo iniziatore Rainerio Fasani. Non meraviglierebbe tuttavia che, una volta divenuto 29

LA LETTERATURA ITALIANA DEL MED IOEVO

fra' Iacopone e votatosi alla scrittura laudistica, egli avesse ripudiato e magari distrutto le sue poesie precedenti. Non è certo se la decisione di prendere il saio francescano deri­ vasse dalla morte accidentale della moglie e dal ritrovamento di un cilicio sul cadavere di lei; sicuro è invece che, dopo l'ingresso nell'or­ dine, Iacopone, già anziano ed autorevole, recitò un ruolo di primo piano nella lotta che gli Spirituali francescani condussero contro Bo­ nifacio VIII sullo scorcio del Duecento. Il IO maggio I 2 97 egli compa­ re tra i firmatari del manifesto di Lunghezza con il quale si intendeva deporre il papa e si chiedeva la convocazione del concilio; tant'è che alla caduta della roccaforte di Palestrina nel settembre dell'anno suc­ cessivo anche lui, che vi era stato assediato dall'esercito pontificio, fu incarcerato da allora fino alla morte del papa nel I 303 . Di questa vicenda testimonia una laude come O papa Bonz/azio, molt' ài iocato al monno e ancor di più il testo, tramandato insieme con le laudi, che è piuttosto una sorta di epistola in settenari a rima baciata rivolta al pontefice in persona: O papa Bonifazio eo porto el tuo prefazio e la maledezzone e scommunicazione. Co la lengua forcuta m'hai fatta esta feruta: che co la lengua ligne e la piaga ne stigne; ca questa mia ferita non pò esser guarita per altra condezione senza assoluzi"one:

L'invettiva antipapale, calandosi nelle forme proprie all'epistolografia, crea un effetto di intenzionale contrasto con la cortesia in esse impli­ cita, che nel finale caratterizza ancora meglio Iacopone come colui che sopporta cristianamente l'iniquità dell'avversario: Vale, vale, vale, Deo te tolla onne male e dièlome per grazia, ch'io el porto en leta fazia.

Gli altri componimenti del fascicolo personale di Iacopone rientrano invece a pieno titolo entro il genere laudistico, configurandosi come

l L'RIMI CENTRI LETTERARI

poesie legate ad una esecuzione canora, costruite generalmente sul metro della ballata. L'elogio di Cristo, del divino amore, della castità e della povertà, l'esortazione a guardarsi dal peccato, la meditazione della morte, l'invocazione della misericordia di Dio sono i temi ri­ correnti in questi componimenti indirizzati ai fedeli, ai confratelli, a sé stesso. Spesso essi danno luogo ad una forte rappresentazione della passione religiosa, come nel pianto della Chiesa (Flange la Chesia, piange e dolora) largamente intessuto sul motivo di ascendenza biblica dell'ubi sunt («0' so' li patri plini de fede? [. .. ] O' so' i profeti plin de speranza? [. ..] O' so' l'appostali plin de fervore? [ .. .] O' so' li martri plin de fortezza? [ ] O' so' i prelati iusti e fervente, l che la lor vita sanava la gente? [...] O' so' i dotturi plin de prudenza? [ ]») . Da questo punto di vista il suo testo di maggior presa resta, comunque, quello dedicato al pianto della Vergine, tematicamente contiguo al fortunatissimo Stabat mater in latino che pure gli si attri­ buisce. Basterà citare la ripresa e le stanze iniziali per rendere l'idea di quanto si è detto: .. .

. . .

«Donna de Paradiso, lo tuo figliolo è preso, Iesù Cristo beato. Accurre, donna, e vide che la gente l' allide: credo che lo s' occide, tanto l'ho flagellato». «Com'essere porria, che non fece follia, Cristo, la spene mia, o m l'avesse pigliato?» «Madonna, ell'è traduto: Iuda sì l'ha venduto; trenta denar n'ha avuto, fatto n'ha gran mercato». «Soccurri, Maddalena! ionta m'è adosso piena: Cristo figlio se mena, com'è annunziato».

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LA L ETT E R A T U R A n·A L l A N A D E L M E D I O E V O

«Soccurre, donna, adiuta, ca 'l tuo figlio se sputa e la gente lo muta; hòlo dato a Pilato».

L'impianto dialogico incrementa, ovviamente, la drammaticità del te­ sto, che sullo sfondo della scena evangelica pone in primo piano lo strazio di Maria e il suo dolore di madre. I toni vivi e realistici del concitato dialogo tra costei ed un non meglio precisato fedele affiora­ no proprio nelle battute che Iacopone le ha assegnato, a cominciare dalla sorpresa per la cattura di quel figlio scevro dal peccato («che non fece follia»), ch'essa dice essere la propria speranza («Cristo, la spene mia»). Anche la consapevolezza della disgrazia che, nonostante le fosse stata preannunciata, l'ha colpita d'improvviso quasi fosse un'alluvione («ionta m'è adosso piena») rivela l'umanità che il poeta ha saputo attribuire al personaggio. Ciò che distingue questi testi da altri raccolti in laudari anonimi è comunque, oltre all'alto tasso di cultura, un elevato livello stilistico, talora ricercato e artificioso tanto da avvicinarsi, in qualche misura, a quello di Guittone d'Arezzo. Si faccia solo l'esempio di riprese come: «0 amor, devino amore, l amor, che non se' amato», oppure: «0 dolze amore l c'hai morto l'Amore l prego che m'occidi d'amore», dove il gusto per la ripetizione e per la figura etimologica non vuoi essere un semplice gioco di parole, ma sta ad enfatizzare l'intrinseco rapporto fra l'amore come sentimento e quello personificato nella fi­ gura di Cristo. E il fascino sta anche nell'impasto linguistico ricco di cultismi (si è visto sopra ligne per 'lecca' , allide per 'batte' ecc. ) , che talora cedono a quegli sbrigativi volgarizzamenti di formule latine, come «lengua angeloro», cui accennava Contini ( r96o, n; p. 66) . 2 .3

La Sicilia 2 . 3 . I . LINGUA E METRICA DEI " SICILIANI"

Durante la prima metà del Duecento nel Regno di Sicilia, intorno alla figura di un monarca colto e potente come Federico n di Svevia ( 1 194- 1 250), si sviluppò una fiorente attività letteraria in latino e in volgare. L'eleganza formale delle epistole di Pietro, o Pier, delle Vi­ gne, segretario del re, il poema sui Bagni di Pozzuoli composto da Pietro da Eboli (De balneis puteolanis) e il trattato sulla caccia col fal cone (De arte venandi cum avibus) di Federico stesso fanno fede,

2 . l PRIMI C E NTRI L ETTERARI

con altri esempi, dell'attenzione che inevitabilmente la Magna Curia, come si è soliti denominare l'ambiente di quella corte, riservò ad una produzione letteraria in lingua latina, varia per i generi adottati e per i temi affrontati. Essa si inscriveva nel quadro di una cultura ricca e raffinata, in cui confluivano interessi molteplici (scientifici, letterari, giuridici, filosofici ecc.) e tradizioni che andavano da quella araba a quella normanna, da quella tedesca a quella bizantina, richiamando così a corte intellettuali di grande prestigio provenienti da varie parti d'Italia e d'Europa, tra cui il matematico Leonardo Fibonacci e l'a c strologo Michele Scoto. A quanto risulta dai non molti, ma sicuri indizi di cui siamo a conoscenza, fu verso la fine degli anni venti o più probabilmente all ' i­ nizio degli anni trenta del secolo xm che la corte federiciana comin­ ciò a coltivare, a fianco delle scritture latine, anche la poesia in volga­ re. La lingua materna dovette anzi divenire presto il veicolo che con­ sentì all'attività poetica di diffondersi e di progredire non solo per l'entità dei risultati, ma anche per la qualità dei . rimatori coinvolti; tant'è che il fenomeno raggiunse proporzioni e traguardi maggiori di quelli ottenuti, in tale ambito, dalla poesia latina. Benché le più antiche raccolte manoscritte datino alla fine del Duecento, già in via congetturale era facile far risalire le rime dei sici­ liani agli anni trenta e quaranta, per le allusioni a fatti precisi conte­ nute in alcuni testi. In particolare, la canzone Ben m'è venuto prima cordoglienza e il sonetto Angelica figura e comprobata, entrambi di Giacomo da Lentini, sembrano rinviare ad eventi politico-militari ri­ salenti, rispettivamente, al 1 2 34 e al 12 3 6 ; e la tenzone in sonetti del medesimo poeta con l'abate di Tivoli parrebbe riportarci al 124 1 , quando Federico e alcuni dignitari di corte si fermarono proprio a Tivoli. Per la canzone Giamai non mi conforto di Rinaldo d'Aquino, poi, trattandosi di un lamento per la partenza del crociato, si è ipo­ tizzata addirittura, e con argomenti non trascurabili, una datazione relativa alla Crociata del 1227-2 8 . A confermare in maniera incontro­ vertibile che alla metà degli anni trenta questo filone poetico era già fiorente, perché se ne divulgavano i testi lontano dal luogo della loro origine, è venuto di recente il ritrovamento di un cospicuo frammen­ to della canzone Resplendiente di Giacomino Pugliese, conservato in un manoscritto (C 88) della Biblioteca Centrale di Zurigo. L'ignoto copista lo trascrisse difatti in un periodo delimitabile �ntro il biennio 1 2 34-3 5 · L'importante reperto non reca purtroppo novità circa il problema della lingua in cui i poeti federiciani composero le loro rime. Per al­ cuni secoli tali testi furono letti solo in raccolte manoscritte copiate

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LA LETTERAT U R A ITAL I A N A DEL MEDIOEVO

da amanuensi toscani, talché lo stesso Dante, nel De vulgari eloquen­ tia, si mostrava convinto che quella lingua apparentemente poco gra­ vata di tratti municipali - per la scomparsa dei fenomeni siciliani ed il sovrapporsi, durante la trascrizione, di una patina toscana - fosse la più adatta ad una poesia di stile alto. Solo nel Cinquecento il filologo bolognese Giovanni Maria Barbieri risollevò la questione trascrivendo nella propria Arte del rimare, da un testimone andato poi perduto, la canzone Pir meu cori allegrari e alcuni frammenti poetici di re Enzo e di Guido delle Colonne in una versione con forti tratti siciliani. Il nuovo manoscritto zurighese mostra invece una patina genericamente settentrionale, fatto che documenta una precoce diffusione, ma non aggiunge informazioni, appunto, al poco che si sa della lingua dell'o­ riginale. Assai istruttivo risulta peraltro il confronto, prospettato da Folena ( r 965 , pp. 3 42 - 3 ) limitatamente ad una stanza della canzone S'eo tro­ vasse; incarnata la Pietanza di re Enzo, fra la testimonianza toscaneg­ giata e quella siciliana riportata da Barbieri. Così si presentano difatti 1 w. 5 7 - 63 secondo la tradizione toscana: La virtute ch'ell'ave d' ancidermi e guarire a lingua dir non l'oso per gran temenza ch'aggio non la sdigni; onde prego soave pietà , che mova a gire, e faccia in lei riposo, e merzé umilmente se gli alligni, sì che sia pietosa ver me, che non m'è noia morir, s'ella n'à gioia; che sol viver mi piace per lei servir verace, e non per altro bene che m'avegna.

Questa invece la versione secondo il testo siciliano cui Barbieri diceva di attingere: La virtuti ch'ili' avi d'alcirim'e guariri a lingua dir nu l' ausu pir gran timanza ch' aio nu Ili sdigni; pirò preco suavi piatà, chi mov' a giri, e faza in lei ripausu

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l PRI M I C E N T R I L ETTERARI

e merzi umilmenti si li aligni, sì chi sia piatusa ver mi, chi nu m'è noia murir s'illa 'nd'à gioia, chi sol vivri mi piaci pir lei sirvir viraci, plui chi pir altru beni chi m'avegna.

Si noterà la morfologia siciliana di molte voci: virtuti singolare, avt per 'ha' , guarirz. per 'guarire', ausu per 'oso', aio per 'ho', sdigni per 'sdegni' , suavi per 'soave' avverbiale, giri per 'gire' (andare), ripausu per 'riposo' , merzi per 'mercé', e poi umilimenti, piatusa, murir, vivri (oltretutto sincopato) e così via. Si osservi però anche la concomi­ tante tendenza ad una sorta di ipercorrettismo in alcirim(i) , per 'ucci­ dermi' , in luogo della forma velarizzata; oppure il consonantismo lati­ neggiante di placi, laddove il normale esito siculo era chiaci. Occorre avvertire infatti che la lingua in cui i rimatori della Ma­ gna Curia si espressero era un siciliano "illustre" , connotato sì, sul piano fonomorfologico, dal sostrato locale, ma assai ricercato nel les­ sico, che ammetteva voci locali come abento (riposo) o astutare (spe­ gnere) accanto a latinismi e soprattutto gallicismi quali: allegranza, parlamento, coraggio, disianza, piagente, adastiamento, clero, visaggio, talento, donneare ecc. Un elevato senso linguistico e stilistico si confaceva del resto alla stessa estrazione sociale di questi poeti, perlopiù funzionari di corte e giuristi . Notai furono - ad esempio - Giacomo da Lentini, Pier delle Vigne, Guido delle Colonne. Si capisce che trovandosi a forgiare una lingua per la poesia essi si lasciassero guidare da un gusto aristocrati­ co. D'altronde a tale altezza di tempo essi non avevano altri modelli praticabili che quelli della lirica cortese sviluppatasi nei due secoli precedenti in Francia e in Provenza; sicché naturale dovette sorgere nella cerchia dei siciliani l'intento di elevare il proprio volgare alla dignità dei precedenti francesi e soprattutto provenzali. L'appartenenza dei rimatori ad un medesimo ambiente sociale e culturale spiega anche la sostanziale omogeneità delle singole espe­ rienze poetiche. Essa si mostra evidente anzi tutto sul piano della te­ matica, generalmente ristretta all'argomento amoroso nella sua acce­ zione cortese. L'amata viene blandita o biasimata, sempre celebrando­ ne però la bellezza; la richiesta d'amore si manifesta quasi nei termini di un rapporto di diritto feudale, come se la donna fosse il signore che può - ovvero deve - accordare la ricompensa o la grazia al pro­ prio vassallo fedele. E molta parte del repertorio più trito di immagi35

LA L ETTERATURA I T A L I A N A D.E L M E D I O E V O

ni e metafore sono patrimonio comune, anche perché derivano dalla

lirica provenzale. Tale coerenza non è meno evidente sul piano stilistico. Nonostan­ te la disparità numerica dei corpora dei vari rimatori, è facile con­ statare in ognuno il gusto per un ornato retoricamente assai studiato, tra dittologie sinonimiche (il tipo sospiri e pianti o mi compiango e doglio) ed antitesi (Giacomo da Lentini: «lo foca donde ardea stutò con foca») , e l'attenzione dedicata, inoltre, all'impasto sonoro del componimento. Anche dal punto di vista della metrica il repertorio dei siciliani mostra una grande coesione. Con la sola eccezione del contrasto di Cielo d'Alcamo e del discordo di Giacomo da Lentini e di Giacomi­ no Pugliese, la gamma è limitata difatti al seletto binomio di canzoni e sonetti. Per forgiare le proprie canzoni (o «canzonette», come essi dissero) i siciliani presero le mosse dal modello della canso provenza­ le, ma in generale ne rinnovarono la configurazione sia allungando i singoli piedi e la durata delle stanze nel loro complesso, sia biparten­ do di frequente la sirma in volte, sul tipo della fronte, ed eliminando la tornada o congedo, la cui funzione di commiato fu spesso destinata all a stanza finale. Sul piano strettamente metrico, l'elemento di mag­ giore novità e insieme di maggiore successo fu rappresentato tuttavia dal sonetto, la cui invenzione si è soliti attribuire al caposcuola Gia­ como da Lentini. Nonostante le molte ipotesi che sono state fatte, la genesi di questo genere metrico resta assai misteriosa. Sia nato come cristallizzazione di una stanza di canzone (o cobbola), o sia stato concepito in altra maniera, comunque, quel che importa è che la concisione e la leggerezza del sonetto ne fecero subito un componi­ mento di rara efficacia, per la possibilità che offriva al poeta di con­ centrare in quattordici endecasillabi un vero e proprio microcosmo lirico. Anche la paternità di Giacomo è tutt'altro che sicura e va in­ tesa quale convenzione acquisita. È un fatto peraltro che egli si di­ mostra, oltre che il più prolifico di questi rimatori, anche la persona­ lità senz'altro più cospicua sia sul piano dell'inventività, sia su quello propriamente tecnico. 2.3.2.

GIACOMO DA LENTINI

L'entità della personale silloge ascritta al Notaro per antonomasia 14 canzoni, un discordo e 24 sonetti - lo colloca di per sé in posi­ zione eminente all'interno del gruppo. Nessun altro rimatore siciliano può vantare così tanti componimenti al proprio attivo. A parte que-

I PRIMI C E N TRI L ETTERARI

sto, la ragnatela di rispondenze che lega i suoi testi ad alcuni degli altri poeti dimostra che a lui si guardò, in quel contesto, come ad un maestro, e lo conferma il fatto di trovarlo al centro di due dispute in sonetti (tenzoni) , sostenute l'una con un non meglio noto Abate di Tivoli, l'altra con Iacopo Mostacci e con il grande Pier delle Vigne. Si aggiunga poi che anche � primi lettori toscani dovevano avere chiara tale supremazia, dal momento che proprio le sue poesie inau­ gurano quel grande collettore di rime che è il codice Vaticano lat. 3 793 · Del resto la stessa memorabilità di certi inizi di canzone dovette contribuire al consolidarsi del suo primato. Si pensi a quella che, ap­ punto, apre la raccolta del Vaticano: Madonna, dir vo voglio como l'amor m'à priso, inver' lo grande orgoglio che voi bella mostrate, e no m'aita. Oi lasso, lo meo -core, che 'n tante pene è miso che vive quando more per bene amare, e teneselo a vita. Dunque mor'e viv'eo? No, ma lo core meo more più spesso e forte che no faria di morte - naturale, per voi, donna, cui ama, più che se stesso brama, e voi pur lo sdegnate: amor, vostra 'mistate - vidi male.

Il testo della canzone rielabora - traducendolo spesso alla lettera, ma anche sfrondando qua e là - qu�llo della canzone di Falchetto di Marsiglia A vos, midontç, voi/l rettair' en cantan (cfr. Roncaglia, 1975 ) . Basta questa prima stanza a mostrare come il racconto cortese delle pene d'amore sia, nell'esecuzione del Notaro, agile ed essenzia­ le. Giacomo dichiara subito l'intento del componimento, che è quello di rendere noto alla dama lo stato di vera e propria soggezione al sentimento amoroso in cui versa il poeta, a fronte dell'atteggiamento superbo che essa esibisce e senza che l'amore vi ponga riparo. Pur evitando di cedere al patetico, egli dà sfogo poi al lamento per la contraddizione insanabile che domina il proprio cuore, il quale si sente vivo proprio quando la passione lo strugge, e considera quella 37

LA L E TT E RATU I( A I T A L I A N A D E L M E D I O E V O

la sua vera vita. Lo sviluppo cui dà voce la seconda parte (sirma) è avviato, con non minore efficacia, dalla semplice interrogativa: «Dun­ que mor'e viv'eo?». La mossa consente di disambiguare il discorso, precisando che tale insanabile schizofrenia affligge non la persona in­ tera, ma solo il cuore, che si consuma in un dolore frequente e più acre di quello della morte vera e propria, per una donna che ama e desidera sopra ogni cosa, mentre essa lo disprezza. Chiude la stanza l'amara sentenza sull'inganno di cui l'innamorato si sente vittima. Di segno opposto, ma non meno memorabile, l'esordio di un'altra celebre canzone: Meravigliosa-mente un amor mi distringe e mi tene ad ogn' ora. Com'om che pone mente in altro exemplo pinge la simile pintur a, così, bella, facc' eo, che 'nfra lo core meo porto la tua figura. n canto dell'amore felice evolve da una immagine analoga a quella

iniziale della canzone precedente, che rende omaggio alla potenza soggiogante dell'amore; ma prende presto altra strada mediante la si­ militudine tra il pittore che, guardando un diverso modello, torna sempre a dipingere lo stesso soggetto e l'innamorato che reca con sé, nel segreto del proprio cuore, l'immagine della donna amata. La cantabilità di questi versi, tutti settenari, raggiunge il culmine nell'ultima strofa, in- forma di congedo, e per maggior rispondenza al tema, se il poeta si rivolge alla propria canzone per esortarla giustap­ punto a cantare da mane a sera l'invito all'amore rivolto alla migliore delle donne («fiore d'ogn'amorosa») che è anche una vera e propria firma: Canzonetta novella, va' canta nova cosa; lèvati da maitino davanti a la più bella, fiore d' ogn' amorosa, bionda più c'auro fino: «Lo vostro amor, ch'è caro, donatelo al Notaro ch'è nato da Lentino».

l PRI M I C E N T R I LETT E R A R I

È caratteristico della poesia del Notaro, come degli altri siciliani, ruo­ tare intorno a pochi temi, di forte presa, selezionati entro il più vasto repertorio della lirica cortese specie occitanica, dei quali egli sembra voler esperire ogni possibile articolazione. Si veda difatti come con­ suoni la stanza or ora letta con quella che inaugura un'altra delle can­ zoni più note di Giacomo: Dolce coninzamento canto per la più fina che sia al mio parimento, d'Agri infino in Mesina; cioè la più avenente: o stella rilucente che levi la maitina ! quando m'apar davanti, li suo' dolzi sembianti m'incendon la corina.

Si noterà - oltre alla forma di coninzamento (inizio) , dovuta al copista fiorentino, e all'analogico parimento (parere) - l'attrazione di lessico gallicizzante in posizione di rima: fina (perfetta) , avenente (bella) , ca­ rina (cuore). Per contro, alla venustà della donna viene assegnata la palma limitatamente al territorio di sua pertinenza, localizzato fra Agri (toponimo di incerta identificazione) e Messina. La stessa eleganza formale il Notaro raggiunse nei sonetti, ove però la maggiore concisione implica a volte un dettato più contratto. Spesso la tematica è quella della disquisizione intorno alla fenomeno­ logia del sentimento amoroso. Si prenda, ad esempio, il seguente: Ogn'omo c'ama de' amar so 'nore e de la donna che prende ad amare; e foll' è chi non è soferitore, che la natura - de' orno isforzare; . e non de' dire ciò ch'egli ave in core, che la parola non pò ritornare: da tutta gente tenut'è migliore chi à misura - ne lo so parlare. Dunque, madonna, mi voglio sofrire di far sembianti a la vostra contrata, che la gente si sforza di maldire; però lo faccio, non siate blasmata, che l'orno si diletta più di dire lo male che lo bene a la fiata. 39

LA LETTERAT U R A ITA L I A N A DEL MEDIO E V O

L'argomento, diffuso nei trovatori, è quello della doverosa discrezio­ ne dell'amante per cautelare l'amata contro le chiacchiere e la maldi­ cenza della gente. li notaro lo tratta qui con estrema coerenza di pen­ siero, riservando una certa originalità all'impiego di immagini come quella della parola che, una volta pronunciata, non si può ritirare fa­ cendola rientrare dentro la bocca (v. 6 «la parola non pò ritornare») , o quella della simulazione di un contrasto con la donna (v. r o «far sembianti a la vostra contrata») che immediatamente provoca l'avver­ timento del v. 1 2 : 'perciò lo faccio, (affinché) non siate biasimata' Appena accennato, inoltre, è un tratto stilistico che avrà più spazio in altri sonetti del Notaro. Mi riferisco alla tendenza verso un ornato artificioso, marcata qui dalla rima interna in fine delle due quartine che compongono la prima parte (fronte) e dall'insistenza sulla ripeti­ zione (vv. 1 -2 ama, amar, amare) come su espedienti retorici consimili quali le figure etimologiche dei vv . 6-8 (parola [. .. ] parlare) e 3 -9 (so­ feritore [ . . . ] sofrz're) o quella antinomica dei vv . 4- 1 1 (t'sforzare 'repri­ mere' [ . . . ] si sforza 'cerca') o ancora parallelismi come quello che lega i vv. 1 1 e 1 3 (che la gente si sforza di maldire [ . . . ] che l'amo si diletta più di dire) . In altri sonetti questo elemento artificioso risulta accentuato. Si pensi a quello sul paragone tra l'amore e la luce St' come il sol che manda la sua spera, costruito interamente su rime identiche o equivo­ che; oppure a A l'aire clara ò vista pioggia dare, tutto intessuto di antitesi; o ancora alla coppia sul viso, Lo viso mi fa andare a/egra­ mente e Eo viso e san diviso da lo viso, poggiata, al pari di Angelica figura e comprobata, su un ampio reticolo di rime interne. 2-3·3·

ALTRI AUTORI

L'esperienza poetica di Giacomo da Lentini si sviluppò a stretto con­ tatto con la corte e con gli altri poeti di corte, come lascia intuire la stessa corrispondenza in versi con il cancelliere Pier delle Vigne e con Iacopo Mostacci, identificato con un falconiere di Federico n, che risulta presente a Palermo nel 1 240. Federico e suo figlio Enzo del resto scrissero poesie vicine allo stile del Notaro, né se ne allonta­ narono, in genere, gli altri rimatori siciliani. Tra questi si segnalano come più prolifici Rinaldo d'Aquino (dieci canzoni e un sonetto) , Giacomino Pugliese (sei canzoni e un discordo), il menzionato Mo­ stacci (quattro canzoni) , Stefano Protonotaro e Guido delle Colonne ( t re canzoni ciascuno) ; ma componimenti assai interessanti hanno au­ tori di due canzoni ciascuno come Tommaso di Sasso .e lo stesso Pier

2.

I P RI M I CENTR I LETTERARI

delle Vigne (cui potrebbero spettare anche altri testi oltre alle due canzoni certe) . Piero e Giacomino sono legati peraltro dall'adozione (rispettivamente nelle canzoni Amando con fin core e co speranza e Morte, perché m'ài fatta sz' gran guerra) del genere occitanico del planh o compianto per la scomparsa dell'amata. Intorno a tali più rilevate figure si dispongono poi autori di un solo testo come Odo delle Colonne, Iacopo d'Aquino, Ruggerone da Palermo, Filippo da Messina, Folco di Calabria e Cielo d'Alcamo. A quest'ultimo spetta il merito di aver scritto l'unico componimento di carattere parodico, se non propriamente comico, rimastoci di questo ambiente. Alludo al celebre contrasto fra uomo e donna di cui basti qui dprodurre le prime due stanze: «Rosa fresca aulentis[s] ima ch' apari inver' la state, le donne ti disiano, pulzell' e maritate: tràgemi d'este focora, se t'este a bolontate; per te non ajo abento notte e dia, penzando pur di voi, madonna mia». «Se di meve trabàgliti, follia lo ti fa fare. Lo mar potresti arompere, a venti asemenare, l'abere d'esto secolo tut [t]o quanto asembrare: avere me non pòteri a esto monno; avanti li cavelli m'aritonno».

Il testo è congegnato in stanze di tre alessandrini monorimi (con il primo emistichio rigorosamente sdrucciolo) più un distico di endeca­ sillabi a rima baciata, e concepito come scambio di battute, una stan­ za per ciascuno, fra un non meglio caratterizzato corteggiatore e una contadina che lo respinge. L'uomo cerca di blandirla con una metafo­ ra floreale piuttosto diffusa (la rosa di maggio fresca e profumatissi­ ma, gradita ad ogni donna) e le chiede di sottrarlo al fuoco amoroso che lo divora, se lo vuole («se t'este a bolontate»), perché pensando a lei non ha riposo né giorno né notte. L'altra risponde invitandolo a non farsi illusioni: 'Se soffri per me sei un matto' , dice nel primo ver­ so, cui segue la serie di imprese disperate che egli potrebbe anche compiere (arare il mare, seminare nel vento, diventare il più ricco del mondo) , ma non riuscirebbe a compiere quella di avere lei, che piut­ tosto di darsi a lui si taglierebbe tutti i capelli, ovvero si farebbe suora. Il nome dell'autore ci è noto solo grazie alle postille apposte da Angelo Colocci, nel Cinquecento, sul margine del codice Vaticano lat. 3793· Che il testo sia anteriore al 1 250, data della morte di Fede-

LA �ETT E R A T U RA I T A L I A N A DEL M E D IOEVO

rico II, si ricava dal v. 24, ove egli risulta essere in vita («Viva lo 'mperadore, graz [i']a Deo ! ») , e lo conferma, al v. 2 2 , l'accenno all'i­ stituto della defensa ed alla moneta augustale («Una difenza mèt [t] oci di dumili'agostari») . Stilisticamente il componimento si pone in un rapporto di complementarità rispetto alla produzione degli altri poeti siciliani: «mentre il loro linguaggio è aulico, esso introduce forme e formule curiali in un complesso molto più vernacolare e in servizio di una situazione che non ha nulla di platonico o cortese» (Contini) . Ad elementi siciliani consueti, di fonetica (bolontate) , di morfologia (joco­ ra, este) e di lessico (abento 'riposo'), se ne aggiungono altri (come l'assimilazione di -nd- a -nn- in m 'aritonno) tesi a connotare il lin­ guaggio in senso popolareggiante, secondo una linea di poesia espres­ sionistica che continuerà a lungo in tutta Italia tra Medioevo e Rina­ scimento.

2 .4

La Toscana 2 .4 . 1 .

RIMATORI FIORENTINI

Uno dei centri di irradiazione della poesia siciliana in terra toscana fu situato entro le mura della ghibellina Prato, come conferma il fatto che proprio di questa città fosse uno dei primi poeti - un giullare di nome Compagnetto - che fecero versi in lingua volgare. A lui sono assegnate infatti due canzonette dialogate in ottonari, di stile vicino a quello di Giacomo da Lentini e degli altri siciliani. Inevitabile effetto di questa presenza del potere svevo e della cultura federiciana nella vicina Prato fu che anche a Firenze si cominciò presto a fare poesia secondo un gusto sicilianeggiante, proprio di poeti come Neri Popo­ ni, Neri de' Visdomini, Pietro Morovelli, Incontrino de' Fabbrucci, Guglielmo Beroardi, Bondie Dietaiuti e il non meglio specificato Maestro Francesco. Alle loro rime molte se ne dovrebbero aggiungere di autori anonimi come quello del discordo Rosa aulente conservato nel Vaticano lat. 3 7 93 , che, per la rima non siciliana core sentore, dei vv . 43 -47 , in effetti «ci porta con ogni probabilità in Toscana» (Falena, 1 970, p. 1 4 ) , e riecheggia non a caso nell'incipit quello del contrasto di Cielo d'Alcamo. Da questa schiera si stacca peraltro Bondie Dietaiuti, corrispondente in canzoni con il grande Brunetto Latini, che gli aveva indirizzato la propria 5'eo san distretto inamora­ tamente. Lo stesso testo di Brunetto - sebbene composto probabil­ mente du rante il periodo dell'esilio in Francia tra il 1 2 60 e il 1 2 66 -

I P R I M I C E NTRI LETTERA RI

si legava del resto al filone proveniente dalla Sicilia. A darne un'idea basterà la prima stanza: S'eo son distretto inamoratamente e messo in grave affanno assai più ch'io non posso soferire, non mi dispero né smago neiente, membrando che mi danno una buona speranza li martire, com'eo deg [g] ia guerire: ché lo bon soferente riceve usatamente buon compimento de lo suo disire.

Lo stesso impasto linguistico, pur scevro da sicilianismi veri e propri, sembra risentire dell'esempio dei siciliani. Si noterà l'impiego di peri­ frasi nei versi iniziali ('Se io sono in cattività per effetto dell'innamo­ ramento e provo un dolore più grande di quanto riesca a sopportare [. ] ') o di un provenzalismo come smago ( 'mi confondo') abbinato a neiente usato avverbialmente, di membrando per 'considerando' e del francesismo guerire. La fraseologia amorosa, applicata probabilmente ad un amore omosessuale, secondo che ha rilevato Avalle ( 1 977, pp. 87- 1 06 ) , rientra nel repertorio tradizionale della lirica erotica e fa capo ancora ad una mentalità feudale se non altro per il criterio della pazienza cui l'amante («bon soferente») deve conformarsi se vuole at­ tendersi, secondo consuetudine, la debita ricompensa («buon compi­ mento de lo suo disire»). Se l'esperienza poetica di Brunetto, come si vedrà, fu articolata e si esplicò in generi diversi, anche altri nmatori fiorentini della sua ge­ nerazione - in particolare Camino Ghiberti e Pacino Angiolieri mostrarono un'evoluzione dai modi sicilianeggianti dei loro inizi ver­ so una maniera nuova, di poesia ragionativa e difficile, in cui avrebbe conquistato il primato Guittone d'Arezzo. ..

2 .4 . 2 .

Più e meglio giante alcuni liziani, Ciolo il caposcuola te stesso, nel

PISAN I E LUCCI-JESI

dei fiorentini svilupparono tuttavia la matrice sicilianeg­ rimatori della Toscana occidentale, pisani (Tiberto Gal­ dalla Barba, Betto Mettefuoco e Gallo) e lucchesi. Qui fu senz' altro Bonagiunta Orbicciani da Lucca, cui Dan­ XXIV del Purgatorio, riconoscerà dignità di maestro pa-

43

LA L E T T E R A T U R A I T A L IANA DEL M E D I O E V O

ragonabile a Giacomo da Lentini e a Guittone medesimo. Se anche non fu lui, come ha scritto Contini, «l'autentico trapiantatore dei modi siciliani in Toscana», certo fu il primo rimatore di alto livello a porsi su quella scia. Stando ad una rubrica del codice Vaticano lat. 3 2 1 4, un sonetto di attribuzione incerta - forse di Maestro Francesco, forse di Chiaro Davanzati - lo accusava addirittura di plagio nei con­ fronti dello stile del Notaro Giacomo («che ti vesti le penne del No­ taro l e vai furando lo detto stranero»). E in effetti il suo sonetto sul tema della ferita amorosa (Feruto sono) e chi di me è ferente) non è che una imitazione della risposta del Notaro all'Abate di Tivoli (Feru­ la sono isvari'atamente) . Si pensi inoltre che nella sua piccola raccolta personale compaiono tutti e tre i metri caratteristici dei siciliani: non solo i normali sonetto e canzone, ma anche il discordo (due volte) ; e la canzone si distende solitamente su di una teoria di versi brevi se­ condo l'uso, appunto, siciliano. Si prendano, per esempio, le stanze iniziali di un testo che ebbe una certa fortuna: Quando apar l'aulente fiore, lo tempo dolze e sereno, gli auscielletti infra gli albòre ciascun canta in suo latino; per lo dolze canto e fino si confortan gli amadore, quegli che amano lealmente. Eo, lasso, no rifino per quella che 'l meo core va pensoso infra la gente. Per quella che m'à in balia e d'amore conquiso, vao pensoso riott' e dia, per quella col chiaro viso, co riguardi e dolci riso; m'à lanciato e mi distringe: la più dolz' è criatura. Lasso, quando m'ebe priso ! D'amore tutora mi si 'nfinge, pare di me non à cura.

Proprio a Bonagiunta del resto sarebbe toccato farsi alfiere, come ve­ dremo, della linea siciliana di poesia lieve (trobar leu) di fronte all'ur­ to prima del guittonismo, poi della poesia guinizzelliana; tant'è che sicilianeggiando e nel solco tracciato dal componimento che abb�amo 44

l PRIMI C E NTRI LETTERA RI

or ora visto avrebbe esordito alla poesia addirittura il Cavalcanti della ballata Fresca rosa novella. Letture consigliate 2 .0. Il più recente repertorio biografico degli scrittori italiani è quello di Asor Rosa, Inglese ( 1 990-9 I ) . 2 . 1 . Per i testi dei poeti italiani che scrissero in provenzale s i veda Bertoni ( I 9 I 5 ) ; la canzone di Auliver e la danza mantovana si leggono in Contini ( I 96o) ; le rime dei Memoriali bolognesi nell'edizione di Orlando ( I 98 I ) . I testi dei Proverbia quae dicuntur super natura /eminarum, di Giacomino da Verona, Girardo Parecchio e Ugo di Perso si leggono in Contini ( r 96o) ; del Libro di Uguccione da Lodi e del Liber Antichristi si ha l'edizione di Broggi­ ni ( I 956); per il sermone di Pietro Da Bescapé conviene ricorrere alla prima edizione di Keller ( I 90 I ) , scartando quella successiva ( I 934-3 5 ) in cui sbno arbitrariamente regolarizzati i versi; i testi di Bonvesin si leggono nell'ediz,io­ ne di Contini ( 1 94 1 ) e ora anche in quella di Gokçen ( I 996 e 2oo r ) , tenendo conto che una scelta commentata è in Contini ( I 96o) e ricordando l'edizione del De cruce ritrovato dalla !sella Brusamolino ( 1 979); per l'Anonimo Geno­ vese l'edizione della Cocito ( 1 970) è stata ora sostituita da quella di Nicolas ( 1 994) . Per uno studio complessivo si vedano Bologna ( 1 9 87 e 1 994) , e Zam­ bon ( I 99 3 ) . Su Bonvesin, oltre agli studi di Segre ( I 968) e Corti ( 1 97 3 ) , si ricordi quello di De Bartholomaeis ( 1 901 ) ; per Uguccione sono ancora utili Tobler ( r 884) e Levi ( I 92 I ) (con il correttivo della recensione di Montever­ di, 1 9 2 3 ) . 2 . 2 . U n quadro d'insieme è tratteggiato d a Baldelli ( I 987). Il testo d i san Francesco si legge in Contini ( r 96o) . Studi importanti, oltre a quello di Pase­ ro ( 1 99 2 ) , sono quelli di Branca ( 1 95 0 ) , Baldelli ( 1 976), Pozzi ( 1 9 8 1 , 19 85 e I992 ) , Cardini ( 1 982), Garzena ( 1 997). Su Ciuccio si veda Sahlem Elsheik ( 1 980). Per i testi di lacopone si hanno le edizioni Ageno ( 1 95 3 ) e Mancini ( 1 974) . Per i problemi ecdotici si vedano inoltre Varanini ( 1 9 85) e Leonardi ( r 9 88a). Tra gli studi critici si ricordino almeno Monteverdi ( 1 95 9 ) , Contini ( 1 960, n, pp. 6 1 - 6), Cudini ( 1 968), Sapegno ( 1 926), Bettarini ( 1 969a e 1 974) , Canettieri ( 1 992 ) , Suitner ( I 999). Sulla produzione laudistica più in generale si veda la messa a punto di Bruni ( I 99ob) e di Leonardi, Santi ( 1 994), da integrare per il Laudario di Cortona con Mancini ( 1 996). Sulle origini della lauda si vedano infine le interessanti riflessioni di Suitner ( 1 996). 2.3. Per le rime di Giacomo da Lentini disponiamo dell 'edizione Antonelli ( 1 979), mentre per gli altri poeti siciliani, in attesa di una vera e propria. edizione critica, si deve ricorrere alla scelta antologica di Contini ( r 96o) e, per i testi non compresi in quest'ultima, alla discutibile e discussa edizione

45

LA LETT E R A T U R A ITAL I A N A DEL M E D I O E V O

di Panvini ( 1 962 ) . Per un aggiornato quadro d'insieme si vedano Bruni ( 1 99ob), Di Girolamo ( 1 99 3 ) e Brugnolo ( 1 994) , senza peraltro trascurare Folena ( 1 965 ) . Sull'ambiente della corte di Federico n basti qui il rinvio a Roncaglia ( r 982, pp. 1 2 2-47). Sulla tradizione manoscritta si vedano Folena ( r 964) e Bologna ( 1 993, pp. 5 7 - 1 3 0), con l'importante acquisizione del fram­ mento zurighese in Brunetti (2ooo) . Per la questione linguistica basta rinviare qui ai cenni recenti di Coletti ( 1 993 , pp. 5 - 1 7 ) , e di Baldelli ( 1 993, pp. 5 8 1 -609) , e alle ricerche lessicali di Beretta Spampinato ( 1 977). Sui rapporti con le fonti transalpine si ricordino almeno Roncaglia ( 1975 ), Beretta Spam­ pinato ( 1 99 1 ) e Meneghetti ( 1 992); su quelli tra poesia e musica, Roncaglia ( 1 978) e Pirrotta ( 1 9 8o) . Indispensabile per le questioni di tecnica versifìca­ toria il ricorso al repertorio metrico di Antonelli ( 1 984). Un utile repertorio tematico è stato approntato da Pagani ( 1 968). Più in generale si veda ora Coluccia, Gualdo ( 1 999) e Fassò, Formisano ( 1 999), e per il Notaio in parti­ colare, Arqués (2ooo). Per la fortuna del genere contrasto si veda la raccolta di Arveda ( 1 992). 2 .4. I testi di alcuni poeti fiorentini di tendenza sicilianeggiante sono raccolti in Catenazzi ( r 977a) , qualche altro toscano della prima generazione è incluso nell'edizione dei siciliani procurata da Panvini ( 1 962); per gli altri bisogna ricorrere all'edizione di Zaccagnini-Parducci ( 1 9 1 5 ) o a quella dei canzonieri duecenteschi allestita da Avalle ( 1 992 ) . Su Brunetto rimatore si veda Avalle ( 1 977, pp. 87- 1 06). Per i testi di Bonagiuma, in attesa di una edizione criti­ ca, si possono vedere le anticipazioni di Menichetti ( 1 978 e 1 998) e Chessa ( 1 995). Per uno studio d'insieme, Carrai ( 1 997, pp. 8-5 2 ) , e per i fiorentini in particolare si aggiunga Folena ( 1 970).

3

La Toscana dopo Montaperti

( r 2 6o- 8o)

3·1

Guittone d 'Arezzo e i guittoniani

3.r.r.

EVOLUZIONE DELLA TEMATICA

In Toscana la base sociale della lirica volgare fu tutt'altra rispetto a quanto si era verificato nella corte di Federico IL In luogo della soli­ da quanto rigida struttura dello stato feudale, lo sfondo politico di­ venne quello del comune, animato dalla lotta fra le fazioni dei ghi­ bellini e dei guelfi, favorevoli, rispettivamente, all'impero e al papato nella disputa per il potere temporale. L'altalena di successi dei due partiti ebbe notevoli ripercussioni sulla vita civile delle città toscane, dalla morte dell'imperatore ( r 250) alla vittoria ghibellina nella batta­ glia di Montaperti ( ! 2 6o) e a quella guelfa nella battaglia di Bene­ vento ( 1 2 66). Né meno combattuta divenne la scena dopo che la par­ te guelfa ebbe il sopravvento, poiché presto subentrò la rivalità fra guelfi bianchi e neri. Il diverso assetto politico non mancò di proiettare i propri riflessi sulla storia della poesia. Si tenga presente anzitutto che i rimatori to­ scani non furono funzionari di corte, come erano stati il Notaro e gli altri siciliani, né si riunirono intorno ad un unico centro di potere. Essi furono perlopiù notai, medici, giudici, banchieri, sovente impe­ gnati nella gestione della vita comunale. La base stessa di ricezione della lirica divenne, di conseguenza, più ampia, coinvolgendo ampi strati della borghesia mercantile come infine dimostra la foggia mercantesca appunto (Petrucci, 2oo r ) - del grande canzoniere Vati­ cano lat. 3793 (vedi PAR. 9 . 2 ) . Ciò implicò, specie dopo Montaperti, un 'evoluzione della tematica ed un'apertura verso argomenti politici, sull'esempio del sirventese provenzale: con la differenza che, mentre in ambito trobadorico il 47

LA L E TT E I\ A T U I < A I T A LI A N A D E L M I:: D I O E V O

poeta si era limitato ad esprimere il proprio appoggio alla politica feudale del signore, in ambito comunale egli entra giocoforza nel me­ rito della viva realtà cittadina e della gara fra le parti. Per fare qual­ che esempio, intorno al 1 2 67 i fiorentini Orlanduccio Orafo e Palla­ midesse di Bellindote si scambiano sonetti sull'imminente discesa di Corradino di Svevia in Italia; verso il 1 2 70 altri rimatori fiorentini Monte Andrea, Cione Baglioni, ser Beroardo, Federico Gualterotti, Chiaro Davanzati e Lambertuccio Frescobaldi - s'indugiano a discu­ tere, pure in sonetti, su Carlo r d'Angiò e sulla sua candidatura al titolo imperiale, con le inevitabili ripercussioni sullo scontro fra le fa­ zioni cittadine; più tardi frate Guglielmo dei Romitani e Guido Or­ landi si scambieranno altri sonetti sulla situazione che prelude all' en­ trata di Carlo di Valois in Firenze nel novembre del 1 3 o r . Anche a prescindere dal genere della tenzone, certi temi entrano stabilmente nel repertorio della lirica toscana. Il più attivo in questo campo è certo Guittone che, lontano dalla sua Arezzo, avvia la can­ zone-serventese Gente noiosa e villana con la denuncia nei confronti dei concittadini malvagi e disonesti, e per la rotta di Montaperti com­ pone un'altra canzone, Ahi lasso, or è stagion de doler tanto, in cui stigmatizza l'operato dei ghibellini fiorentini che hanno asservito la loro città alle mire degli svevi; e ancora un'altra ne avrebbe scritto, O dolce terra aretina, per dare sfogo all'invettiva contro i concittadini folli e crudeli. Il prestigio di Guittone nella Toscana di quegli anni avrà contribuito peraltro alla diffusione di questa tematica, se Chiaro Davanzati compose ad imitazione di quest'ultimo testo la sua O dolce e gaia terra fiorentina e il pisano Panuccio del Bagno scrisse una can­ zone-serventese, La dolorosa noia, ad imitazione della citata Gente noiosa e villana. Sul piano contenutistico, tuttavia, la novità di maggior rilievo va considerata quella dell'ingresso della tematica religiosa e spirituale nel repertorio della lirica volgare. Anche qui il ruolo di Guittone si rivela tutt'altro che secondario. Dopo la conversione, al fascicolo delle pro­ prie rime il frate accluse ball ate rivolte a Cristo e alla Vergine Maria, altre dedicate a san Domenico e a san Francesco. Può darsi che l'in­ novazione già risentisse dell'incipiente produzione laudistica. Sta di fatto, comunque, che tali ballate dovettero contribuire a creare i pre­ supposti per uno sconfinamento di temi consimili in altri generi me­ trici, specie a Firenze, ove il notaio Pace rivolse alla Vergine un so­ netto ( Virgo benigna e madre gloriosa) e la poetessa nota con lo pseu­ donimo di Compiuta Donzella compose un dittico, pure di sonetti, per invocare la monacazione contro un matrimonio odioso.

3 · LA TOSCANA D O PO M O N T A PERTI

3 . 1 .2.

( I 2 6o - 8 o )

LINGUAGGIO E METRICA

li diverso contesto sociale e culturale implicava del resto che i rima­ tori adeguassero e aggiornassero il proprio linguaggio poetico rispetto a quello ereditato dalla recente tradizione siciliana. A questo riguar­ do, va ricordato che una legittimazione veniva dalla stessa veste in cui essi avevano letto i testi dei siciliani, trascritti da copisti che vi aveva­ no sovrapposto i propri usi linguistici, coprendoli così di una lieve patina toscana sotto la quale dell'originale si intravedevano solo alcu­ ni tratti conservati perlopiù in sede di rima. Molti rimatori però an­ darono ben oltre ciò che tali modelli sembravano autorizzare. È si­ gnificativa, a questo proposito, la polemica di Dante in una pagina giustamente celebre del suo De vulgari eloquentia (r,xm) in cui rim­ proverava a Guittone d'Arezzo, Bonagiunta Orbicciani da Lucca, Gallo da Pisa, Mino Mocati da Siena e Brunetto Latini, fiorentino, di avere usato lingua e stile municipali. Dante mirava, nella fattispecie, ad avallare un più elevato modello di lingua poetica, fondato sull'e­ sempio dei siciliani letti, appunto, in trascrizione toscana e quindi de­ purati di molti tratti dialettali: una lingua «curiale» proponibile per tutti i rimatori italiani. Nei campioni della generazione precedente alla sua dovettero spiacergli, in realtà, soprattutto la durezza del det­ tato e la spesso sovrabbondante ornamentazione retorica; ma anche certi aspetti idiomatici avranno contribuito a respingerlo. Si pensi, per Guittone, al passaggio, normale in antico aretino, di u lunga ad o in posizione tonica (alcano, niono, ono ecc.); o, per lucchesi e pisani, al tipo -nde della particella pronominale che continua il latino - INDE (vivande 'vivone', dammende 'dammene' ecc.) e soprattutto alla pres­ soché costante riduzione del gruppo -str- a -ss- e anche al passaggio di z(z) sorda a s(s) , che istituivano possibilità rimiche come, rispetti­ vamente, vosso 'vostro' in rima con adosso : mosso : posso e prodesse e arditesse in rima con stesse. Ma anche a Firenze un Monte Andrea poteva permettersi l'adozione di una morfologia che, specie in rima, sconfina sovente nell'espressionismo più o meno dialettale, e sul pia­ no lessicale l'impiego di deverbali come dispàro o scoppio (sinonimi per ' divisione, separazione') o anche formazioni prefissali guittoneg­ gianti del tipo per/ascia ('grande benda ' ) , persorto ('completamente as­ sorto'), pertrave ('grossa trave' ) e simili. Rispetto ali a prima generazione dei poeti toscani, sostanzialmente imitatori dei siciliani, la successiva introdusse mutamenti rilevanti an­ che nel canone metrico della lirica. In questo campo si constata una generale tendenza allo sperimentalismo, per cui a fianco della canzo­ netta sicilianeggiante compaiono, presso Guittone e i suoi emuli, can-

49

1 . /1 I . ETT E H /I T U R /1 1 '1 ' /I L I !I N /1 D lòL M E D I O E V O

zoni con stanze di grande respiro, che fanno ampio spazio all'endeca­ sillabo e divengono anche laboratorio per più ardite prove. A Firen­ ze, Chiaro Davanzati sperimenta la possibilità di introdurre variazioni fra una stanza e l'altra di una medesima canzone (una rima irrelata, cioè isolata, che diviene relata, cioè ripetuta; oppure un endecasillabo che diviene un settenario e viceversa) e Noffo di Bonaguida infittisce la propria canzone In un gioioso stato mi ritrovo di rime irrelate. Inol­ tre, da Guittone in poi, si fissa la consuetudine di dotare la canzone di un congedo. Quanto al sonetto, il solito Guittone e Monte Andrea mettono in repertorio una forma con fronte allungata a dieci versi (portando così l'intero componimento alla lunghezza di sedici) e anche presso altri rimatori si diffonde l'impiego del sonetto doppio, vale a dire con lo schema di quattordici endecasillabi farcito mediante l'inserzione di al ­ tri versi, sia endecasill abi che settenari. Lo stesso Guittone legittime­ rà, con le sue corone di sonetti amorosi, un uso strofìco di tale gene­ re metrico. Sempre guardando al bagaglio in uso presso i siciliani, sarà da re­ gistrare poi la scomparsa, dopo Bonagiunta, del discordo: genere di origine provenzale costituito da stanze di lunghezza variabile, certo affossato dall'aspirazione alle forme chiuse connaturata al guittoni­ smo. Per contro, lo stesso Bonagiunta e Guittone, con altri, introdu­ cono fra le loro rime un metro nuovo come la ballata, destinato a grande e durevole fortuna.

3.r.3.

CULTURA POETICA DI GUITTONE

Occorrè inoltre registrare, per la prima volta nella storia della lirica italiana, l'aspirazione di un poeta a costruire un vero e proprio libro di versi. Allu do a quello di Guittone, secondo che suggerisce l'ordi­ namento delle sue rime nel canzoniere Laurenziano Rediano 9· La se­ zione delle canzoni si apre difatti con un vero e proprio proemio rap­ presentato dalla canzone Ora parrà J'eo saverò cantare. Vi si distingue poi una prima serie di ventiquattro canzoni morali seguite da altret­ tante che la rubrica definisce «chansone d'amore», mentre nella se­ zione apposita del codice, con disposizione chiastica, i sonetti morali (novanta più sei di corrispondenti) chiudono facendo seguito a quelli erotici (ottantacinque più uno di Mastro Bandino a Guittone) . Che la strutturazione di alcuni cicli di sonetti si debba all'autore è cosa ovvia e si è persino avanzata la proposta di considerare tutti quelli amorosi 50

3 · LA TOSCA N A DOPO MO NTAPERTI ( ! 2 6o - 8 o )

del Laurenziano come legati tra loro a comporre un'unica grande co­ rona (Leonardi, 1 9 88b, 1 994) . Anche nella sezione delle canzoni, del resto, certe contiguità tematiche fra i singoli pezzi e il ricorso di Guittone a vere e proprie autocitazioni (Altra fiata aggio già, donne, parlato rinvia subito il lettore alla difesa delle donne consegnata a Ahi lasso, che li boni e li malvagi) creano quanto meno l'impressione di un discorso legato e danno il senso della progressione interiore dal Guittone amoroso verso quello morale. La doppia bipartizione di canzoni e sonetti assegnava all'istanza religiosa e spirituale un primato reso più evidente dall'andamento di tipo circolare che essa veniva a stabilire. In tal modo Guittone inten­ deva marcare la frattura tra la vita condotta prima della conversione e l'impegno successivo all'ingresso nei Cavalieri di Santa Maria, o frati Godenti, avvenuto verso il 1 265 . La fictio sembra rispecchiare del re­ sto, oltre che un itinerario spirituale, anche un'evoluzione stilistica, se non altro nel passaggio dalla canzone isometrica e amorosa di matrice sicilianeggiante alla estesa canzone di endecasillabi e settenari, a con­ tenuto più marcatamente speculativo e dottrinale. Il fascino che la poesia di Guittone esercitò sui lettori e sugli altri rimatori risiedeva peraltro, oltre che in questi aspetti macrote­ stuali, nella sua cultura poetica che, a dispetto di Dante, bisogna dire, fu tutt'altro che angusta_ Egli infatti, oltre a conoscere i poeti siciliani, risulta esperto di lirica trobadorica più di chiunque altro nella propria epoca. Specie autori come Bernart de Ventadorn e Folquet de Marselha, P eire Vi dal e P eire d' Alvernhe dovettero es­ sergli familiari. A riprova di questa apertura, si aggiunga che car­ teggiò direttamente con il messinese Mazzeo di Ricco e fu in con­ tatto anche con il marchigiano Corrado da Sterleto, principale committente della grammatica provenzale di «Uc faidit» (da identi­ ficare probabilmente con Uc de Saint Circ) che circolò sotto il ti­ tolo di Donat proensal. Il marchio più evidente della poesia di Guittone tuttavia fu sen­ z'altro la te.n denza ad un discorso in versi prevalentemente ragionati­ va, che procede per antitesi o per ipotesi. Alfredo Schiaffini ( 1 94 3 , p. 46) osservò che «la stessa poesia amorosa da cortese si trasforma, nel Canzoniere guittoniano, in ragionante». Si tratta in effetti di uno sfor­ zo organizzativo che comportava anche un preciso atteggiamento gnoseologico nei riguardi della materia trattata, come ad ingabbiarla in forme legate ad un rigoroso procedimento deduttivo e perciò me­ glio atte a padroneggiarla. Si veda, ad esempio, la prima stanza della citata canzone proemiale:

LA LETTERATURA ITALIANA DEL M E D I O E V O

Ora parrà s 'eo saverò cantare e s'eo varrò quanto valer già soglio, poi che del tutto Amor fug[g] h'e disvoglio, e più che cosa mai forte mi spare: ch'a om tenuto saggio audo contare che trovare - non sa né valer punto orno d'Amor non punto; ma' che digiunto - da vertà mi pare, se lo pensare - a lo parlare sembra, ché 'n tutte parte ove distringe Amore regge follore in loco di savere: donque como valere pò, né piacer - di guisa alcuna fiore, poi dal Fattor - d'ogni valor - disembra e al contrar d'ogni mainer'asembra? �

-

Si noterà che la sfida rivolta a sé stesso, in esordio, è anche una sfida lanciata nei confronti della tradizione lirica. Guittone dichiara infatti di volersi mettere alla prova abbandonando la tematica amorosa che gli era consueta e che ora gli ripugna («mi spare») più di ogni altra cosa: ciò che equivaleva a prendere le distanze, appunto, da quella stessa tradizione, identificata nel non meglio specificato saggio che so­ steneva che non era possibile far poesia senza essere innamorati («ch'a om tenuto saggio audo contare l che trovare - non sa né valer punto l orno d'Amor non punto») ; forse allusione all'attacco di Ber­ nart de Ventadorn «Chantars no pot gaire valer, l si d'ins dal cor no mou lo chans: l ni chans no pot del cor mover, l si no i es fin'amors coraus» ('Non può valere nulla cantare se il canto non muove dall'in­ terno del cuore, né il canto può muovere dal cuore se non c'è perfet­ to amore corale'). Ma quel che più importa qui rilevare è la confuta­ zione di detta teoria, ottenuta mediante il ragionamento dei vv. 8- u : 'sennonché egli mi sembra lontano dal vero, s e il pensiero si accorda alla parola, dal momento che ovunque regna Amore ci si lascia guida­ re dalla follia piuttosto che dalla saggezza' . Da cui deriva l'interroga­ tiva retorica dei vv. r 2 - r 5 : 'dunque colui che è innamorato come può aver .forza («valere») o appena un po' («fiore» avverbiale) di piacere in alcun modo («di guisa alcuna») dato che diverge («disembra») dal creatore di ogni virtù («val or») e si avvicina del tutto all'avversario («contrar») ? ' Il nuovo corso guittoniano prendeva avvio, insomma, dalla condanna della poesia amorosa come pratica che allontana da Dio e milita direttamente dalla parte del demonio. L'ornato è impreziosito, secondo le abitudini di Guittone, da una p recisa trama di rime interne e dal gusto della ripetizione (su valere e 52

3 · LA TOSCANA DOPO M O N TAPERT I ( 1 2 6 0 - 8 0 )

derivati, su savere) , oltre che dalla rima equivoca dei vv . 6- 7 (punto nell'accezione di 'alcunché' e di 'trafitto' ) ; e nel prosieguo del testo l'impiego di figure retoriche più o meno raffinate ·si infittisce, inclu­ dendo allitterazioni, bisticci, antitesi e ossimori. Il connubio fra anda­ mento sillogizzante e stile ricercato non poteva che approdare così ad una programmatica oscurità del discorso lirico, già esperita dai trova­ tori di Provenza (trobar clus) . Guittone del resto, al pari di certi suoi seguaci, ne era perfettamente conscio se ai vv . 6 r -67 della canzone Tuttor, s'eo veglio o dormo scriveva: Scuro saccio che par lo mio detto, ma' che parlo a chi s'entend'ed ame: ché lo 'ngegno mio dàme ch'i' me pur provi d'onne mainera, e talento ònne. Il brano è assai significativo, anche perché Guittone vi esprimeva la

propria coazione a tentare strade sempre nuove e il diletto che ne ricavava («ch'i' me pur provi d'onne l mainera, e talento ònne»), nonostante il rischio di risultare incomprensibile a chi non fosse ini­ ziato alla sua poesia: «ma' che parlo l a chi s'entend'ed ame» ('sen­ nonché mi rivolgo a chi è esperto in materia erotica' ) . Più in gene­ rale, il testo, tutto intessuto su rime identiche, equivoche e compo­ ste, mostra in modo eccellente la consapevole commistione di artifi­ cio e oscurità. 3 · 1 .4. EMULI DI GUITTONE

Muovendo da Arezzo e peregrinando verso altri comuni toscani, Guittone esportò sia un modello psicologico, che equivaleva ad una risemantizzazione su base religiosa della lirica cortese, sia un modello stilistico, caratterizzato dallo sfoggio di una grande abilità tecnica. Folena ( 1 970, p. 2 2 ) ha scritto che «Guittone spacca in due presso­ ché dovunque la storia della poesia siculo-toscana». In effetti, il pas­ saggio di Guittone per Pisa lasciò tracce evide;nti in due sue lettere (una in prosà, l'altra in versi) a Marzucco degli Scornigiani, giure­ consulto e uomo di governo illustre, e nella canzone Magni baron ' certo e regi quasi, sorta di epistola metrica rivolta nel 1 2 85 al conte Ugolino e al nipote di lui Nino Visconti. Più significative ancora le altre due missive in prosa spedite al domenicano frate Manente con cui Guittone, «venuto in Pisa» appunto quale emissario dell'ordine 53

L/\ L ET T E I \ /\ T ll ll /1 I T /\ L I /\ N /1 D E

M t:: D I O E

d e i Godenti, entrò in polemica probabilmente nella seconda metà de­ gli anni sessanta. E gli indizi di dispute relative agli scritti dell'aretino si colgono nella canzone Degno è che dice amo el de/enda, in cui, fon­ dandosi sull'autorità di Aristotele, egli sosteneva che per un animo non traviato è più facile operare il bene che il male. Nel congedo così si rivolgeva a tre amici: Iacomo, Giovanni amici, e Meo, me piace onni dir meo interpretare e difendere in Pisa deggiate a vostra guisa, e come piace a voi mel calognate.

Guittone invitava qui Giacomo d' Architano, un Giovanni (forse Gio­ vanni dall'Orto) e Meo Abbracciavacca a discutere i suoi testi, difen­ dendoli oppure riprovandoli («mel calognate») , proprio entro le mura pisane. A propugnare la lettura del frate poeta dovevano essere, in effetti, soprattutto suoi confratelli come il pistoiese Meo, di stanza a Pisa per un lungo periodo, o il pisano Bacciarone di messer Bacone, autori entrambi di rime che risentono in maniera vistosa di tale esem­ pio. Questi ed altri emuli di Guittone - fra i quali si distinsero Pa­ nuccio del Bagno e Pucciandone Martelli - affiancarono perciò i pro­ pri versi a quelli di altri poeti, più legati al modello siciliano, come Tiberto Galliziani, Betto Mettefuoco e Ciolo dalla Barba; mentre la dicotomia tra lirica cortese tradizionale e guittoneggiante si riverbera­ va palesemente nelle poche rime rimasteci di quel Gallo scelto da Dante nel De vulgari eloquentia, si è visto, a rappresentare Pisa: vici­ no alla maniera del Notaro nella canzone In alta donna ho miso mia 'ntendanza, ma attratto nella sfera stilistica di Guittone nell'altra Cre­ deam'essere, lasso, tutta su rime ricche o equivoche, che provocò la risposta per le rime di un Lunardo del Guallacca (Sì come 'l p escio al lasso) . Non meno evidente fu questa coesistenza d i poesia sicilianeggian­ te e guittoneggiante a Firenze. Anche qui difatti i rimatori della vec­ chia scuola vengono affiancati da altri che, pur avendo esordito sulla linea del Notaro e dei suoi sodali, si mostrano disponibili verso la moda guittoniana, e da altri ancora che si orientano più decisamente verso lo stile dell'aretino. In questo senso la figura centrale fu senz'al­ tro quella di Monte Andrea. Nella quartina iniziale di un sonetto a lui rivolto, Guittone gli assegnava il primato entro un gruppo di adepti i cui nomi taceva per brevità, anche se a malincuore («A te, Montuccio, ed algli altri, il cui nomo l non già volontier molto agio 'n 54



LA T O S C A N A DOPO M O N T AP ERTI

( I 2 6o - 8 o )

obrio, l a cui intendo che savoro h a ' l mi' pomo, l che mena il piccio­ letto arboscel mio [. ]»), e lo individuava quale interlocutore privile­ giato in Firenze anche inviandogli un'epistola in prosa in cui gli par­ tecipava il proprio dolore per una disgrazia, probabilmente di ordine economico, di cui aveva avuto notizia da un comune amico e poeta anch'esso: ser Monaldo da Sofena. Se ne veda l'esordio: ..

Dolor mi porse e gioia, diletto mio, ciò che di voi addussemi ser Monaldo. Dolor m' addusse prima, vostro dolore, amico, participando, ché grave è non dolere u' dole amico, e disamoroso e villan certo. Se tutto non degnamente l'amico dole, degno è co · llui dolere, non già di ciò che dole, ma perché dole. E io sì con voi doglio, bel dolce amico, non già de la ragion di vostra doglia, ma di voi che dolete, tutto non degno. Gioia addusseme appresso, en la ra­ zionale anima mia, razionale amore che porto voi, non già carne ma spirito, non volere ma ragione considerando, ché no ama chi ama d'altra mainera. E se doglio con voi, e allegro in matera de vostra doglia, la quale gioiosa aviso; e forse savrea come mostrare. Ma acciò che voi non me fuggiate, schifando el mio giudicio siccome di vile una persona, verace poco e sapiente meno, per grandi e cari molti sommi sapienti e sommi veri farò voi dimostrare pro­ caccio vero ciò che perta contate, e matera gioiosa in che dolete.

Mfine alla tecnica del Guittone lirico si palesa qui il fitto reticolo in­ trecciato, dopo l'avvio anaforico («Dolor [ ] Dolor [ ] ») , da ripeti­ zioni e figure etimologiche su dolere, dolore, doglia, in quanto voci tematiche, ma anche su addurre, su amore e amare, su razionale e ra­ gione, su gioia e gioiosa, su verace e vero: sempre nel rispetto del cur­ sus, ovvero delle cadenze ritmiche in fine di frase previste dalla reto­ rica medievale (vedi PAR. 6. r ) . Specie s u Monte insomma il messaggio guittoniano dovette fare presa, sia per l'artificiosità stilisti ca sia per l'incedere raziocinante e moraleggiante. Non solo su di lui, però, ché anche un poeta di note­ vole statura come Chiaro Davanzati, guittoniano non ortodosso, anzi incline talora ad un linguaggio più tradizionale, spesso si compiacque nell'emulazione dell'aretino. Oltre al già ricordato episodio di O dolce e gaia terra fiorentina, scoperta imitazione di O dolze terra aretina, basti il caso della fronte di un suo sonetto: . . .

Chi 'ntende intenda ciò che 'n carta impetro: che 'l ben d'amor mi piace e no m'adagro; e lo sperar m'avanza, e non m'aretro, ma pur d'atender mi corono e sagro. E tutor mi ramiro d'amor vetro e, chi ne cresce, ch'io pur ne dimagro; 55

. . .

L/1 L ETT E H /\ T U L\ 11 I T /\ L I /\ N /1 D E L M E D IO E V O

tal condizion no-l soferia san Petro: s'amore larga altrui, me è pur agro.

Si tratta, in effetti, di una sapiente variazione della fronte di un so­ netto di Guittone ove ricorrono rime in tutto simili: De coralmente amar mai non dimagra la voglia mia, né di servir s'arretra, lei, ver' cui de bellezza ogn' altr'è magra, per che ciascun ver' me sementa 'n petra: ch'Amor di gioia mi corona e sagra; ond'ò di ben più c'altr'oro, più che metra; dunqu'è ragion de servir lei m'adagra , poi son d'amore a maggior don ch'a metra.

Si noterà come il rapporto esistente fra dimagra, s'arretra, in p etra e m'adagra riviva nella serie davanzatiana (impetro, m'adagro, m'aretro, dimagro) , e soprattutto la lievissima metamorfosi della dittologia mi corona e sagra posta nel secondo emistichio anche da Chiaro (mi coro­ no e sagra). Senza una stagione guittoniana del resto, a Firenze, non si spie­ gherebbe la stessa reazione stilnovistica, con le sue condanne e le sue rimozioni. Il silenzio di Dante, nel De vulgari eloquentia, «intorno ai due maggiori e diversi rappresentanti del guittonismo intra maenza, Monte Andrea e Chiaro Davanzati» (Falena, 1 970, p. zo) appare non meno eloquente della stroncatura riservata al maestro Brunetto quale autore di canzoni (I,xm) . 3 ·2

Brunetto Latini

Spetta a Brunetto, nato nel terzo decennio del secolo e morto nel 1 294, il merito di aver introdotto in terra fiorentina un genere poeti­ co altrimenti non coltivato come l'epistola in versi, con l'incompiuto Favolello in distici di settenari a rima baciata, inviato al concittadino Rustico Filippi per disquisire sulla vera e falsa amicizia. li metro era tipico del poemetto didattico, lo stesso in cui Brunetto compose - in Francia, ove si era autoesiliato durante i sei anni intercorsi fra la bat­ taglia di Montaperti e quella di Benevento - il suo Tesoretto, rimasto anch'esso, nonostante i quasi tremila versi di cui consta, largamente i ncompiuto. Il progetto, che avrebbe dovuto far posto anche a parti i n prosa, era quello di una narrazione enciclopedica in forma di visio-

3 · LA TOSCANA DOPO MONTAPERTI ( I 2 6 o - 8 o )

ne. Dopo i primi r 1 2 versi, che si configurano come epistola dedica­ toria ad un non meglio specificato personaggio, Brunetto raccontava come fosse stato inviato dal comune di Firenze in veste di ambascia­ tore al re di Spagna e sulla via del ritorno avesse incontrato uno stu­ dente bolognese che lo aveva informato della sconfitta dei guelfi. Da qui ha inizio un altro viaggio che lo conduce di fronte all'allegoria della natura (vv. 1 9 1 -208) : Ma tornando a la mente, mi volsi e posi mente intorno a la montagna; e vidi turba magna di diversi animali, che non so ben dir quali: ma omini e moglieri, bestie serpent' e fiere, e pesci a grandi schiere, e di molte maniere ucelli voladori, ed erbi e frutti e fiori, e pietre e margarite che son molto gradite, e altre cose tante che null' orno parlante le porria nominare né 'n parte divisare.

La mossa iniziale - che prefigura l'attacco del poema dantesco con la mole sovrastante della montagna, il volgersi indietro e quel «non so ben dir» - prelude alla fluviale serie di insegnamenti che la Natura impartisce al protagonista, spaziando dalla materia del Genesi a que­ stioni di filosofia naturale e così via; dopodiché Brunetto personaggio continua il proprio cammino tra i sapienti e le personificazioni delle Virtù, visitando anche la corte d'Amore prima che il testo, appena inaugurato l'argomento delle sette arti liberali, s'interrompa. Sempre però i versi racchiudono i precetti più vari, morali o di comporta­ mento, che spesso riflettono un'etica comunale. Si vedano, a proposi­ to, i vv. 1 939- 1 9 5 4: E vo' ch'al tuo Comune, rimossa ogne cagione, sie diritto e leale, e già per nullo male 57

LA L ETT E R A T U R A I T A L I A N A D E L M E D I O E V O

che ne poss'avenire no·llo lasciar perire. E quando se' 'n consiglio, sempre ti tieni al meglio: né prego né temenza ti mova i· rria sentenza. Se fai testimonianza, sia piena di leanza; e se giudichi altrui, guarda sì abondui [ambedue] che già da nulla parte non falli l'una parte.

Con questo bel bagaglio e piena consapevolezza Brunetto si prepara­ va del resto a riprendere il proprio posto in Firenze, ove sarebbe tor­ nato nel 1 2 66 , partecipando di lì in poi attivamente e con incarichi d'importanza alla vita politica della città (vedi PAR. 6. 2 . 1 ) .

3 ·3

Il

Fiore

In ambito francese riconduce un altro poemetto composto in lingua toscana, sullo stesso metro del Tesoretto, che si è soliti indicare col titolo convenzionale di Detto d'amore e che costituisce una sorta di compendio del Roman de la Rose. Il testo fu copiato insieme con un'altra lunga parafrasi (232 sonetti) della medesima Rose, nota come Fiore, in un manoscritto oggi smembrato in due tronconi conservati rispettivamente nella: Biblioteca Laurenziana di Firenze e nella Biblio­ teca interuniversitaria (Section Médecine) di Montpellier. Resta da stabilire con esattezza, comunque, l'epoca della loro stesura; mentre, quanto alla paternità, Contini ( 197 3 , pp. 245 -83) ha proposto per en­ trambi, con argomenti non trascurabili, ma che non è qui il caso di riepilogare, quella di Dante. li testo si rivela degno di tutto interesse non soltanto per la propensione verso la poesia francese che esso ri­ vela, ma anche per la resa del modello entro un genere autoctono come quello della corona di sonetti (ovvero impiegando il sonetto come strofa narrativa) e per gli esiti stilistici spesso in bilico fra quelli della lirica cortese e altri di gusto realistico per cui, tra l'altro, Ardi­ mento e Paura si azzuffano «com'e fosser cani» (2 r 3 , 14) e Venere «si montò sus'un ronzino» (2 q , r ) . Si faccia l'esempio del terzo sonetto, recitato dal personaggio dell'Amante:



LA TOS C A N A DOPO MONTAPERTI

( l 2 6o-8o)

Del mese d i genaio, e non d i mag[g]io, fu quand'i' presi Amor a signoria, e ch'i' mi misi al tutto in sua baglìa e saramento gli feci e omaggio; e per più sicurtà gli diedi in gaggio il cor, ch'e' non avesse gelosia ched i' fedel e puro i' no·gli sia, e sempre lui tener a segno maggio. Allor que' prese il cor e disse: «Amico, i' son segnor assa' forte a servire; ma chi mi serve, per certo ti dico ch'a la mia grazia non può già fallire, e di buona speranza il mi notrico insin ch'i' gli fornisca su' disire».

N el finale l'Amore awerte l'Amante di quanto sia duro («forte») m et­ tersi in suo potere («baglìa») , dicendogli anche che ciò garantisce tut­ tavia una ricompensa, poiché egli sostenta il proprio fedele con la speranza fino a condurlo al soddisfacimento del proprio desiderio. Il dialogo, di ascendenza cortese, si inquadra in un contesto segnato dal ribaltamento iniziale della stagione dell'innamoramento, che nell'ori­ ginale di Guillaume de Lorris era normalmente la primavera. La scel­ ta di gennaio in contrapposizione al canonico mese di maggio «prelu­ de qui alle sventure dell'Amante» (Contini), con una mossa che lascia presagire anche l'adozione di un tono intenzionalmente colloquiale e più basso rispetto a quello della lirica d'amore. L'effetto di espressivi­ tà che ne risulta è poi enfatizzato dal massiccio ricorso a gallicismi come, nella fattispecie, saramento (giuramento) o gaggio (pegno), che costellano l'intera serie di sonetti. Letture consigliate Un'edizione delle rime di Guittone, dopo quella, non del tutto soddisfacen­ te, di Egidi ( 1 940) , è promessa da Michelangelo Picone; una scelta si ha co­ munque in Contini ( 1 96o) e per i sonetti amorosi si veda l'edizione di Leo­ nardi ( 1 994) . Per le lettere si fa riferimento a quella di Margueron ( 1 990) . Chiaro Davanzati si legge nell'edizione di Menichetti ( 1 965 ) ; Monte Andrea, sia pur con una certa difficoltà, in quella di Minetti ( 1 979). Fra le rime degli altri rimatori di quella cerchia si ricordino quelle di Maestro Rinuccino nel­ l'edizione Carrai ( 1 9 8 1 ) . Per Panuccio del Bagno si veda l'edizione della Ageno ( 1 97 7 ) ; le rime di Bartolomeo Mocati si leggono in Buzzelli ( 1 952); quelle di Noffo di Bonaguida in Gambino ( 1 996); per quelle di Bonagiunta 59

LA L E T T E R AT U R A ITA L I A N A

DEL MEDIOEVO

si veda la bibliografia del CAP. 2 . Per gli altri toscani, oltre alla scelta di Con­ tini ( r 96o) , si veda la raccolta di Zaccagnini, Parducci ( 1 9 1 5 ) . e l'edizione dei canzonieri di Avalle ( 1 99 2 ) . Il Tesoretto e il Favolello di Brunetto Latini si leggono in Contini ( 1 9 60) , il Fiore e il Detto d'amore, a cura dello stesso Contini, in Dante, Opere minori. Per uno studio d'insieme si vedano Quaglio ( 1 970) , Petrocchi ( 1 9 87), Carrai ( I 997 P P · 8-5 2 ) , Giunta ( 1 998 e 2002 ) . Sulle fonti provenzali Cate­ nazzi ( 1 977b). Su Guittone, oltre a Margueron ( 1 966), Tartaro ( 1 974) e Leo­ nardi ( 1 9 88b e 1 99 3 ) , si veda Picone ( 1 995 ) . Sulla Compiuta Donzella si ve­ dano Crespo ( r 9 88) e Carrai ( 1 9 9 1 ) . Per Panuccio e l'ambiente pisano, Car­ rai ( 1 992 ) . S u alcuni dei più antichi manoscritti d i lirica volgare si vedano almeno gli studi di Barbi ( 1 9 1 5 ) , De Robertis ( 1 9 5 4 ), Avalle ( 1985 ) , Petrucci ( r 9 88), Antonelli ( 1 992), Bologna ( 1 993 ), Giunta ( 1 995 ) , Borriero ( 1 997 e 1998) e Leonardi (2ooo-or ) . Per il Fiore e per il Detto d'amore s i vedano rispettivamente Contini ( 1 97 3 ) e Contini ( 1 966); e sul primo anche Fiore ( 1 997). • .

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4

La scoperta dello «stil novo»

4· !

Prodromi bolognesi: Guido Guinizzelli

Nel corso della storia, si sa, i mutamenti non avvengono di soprassal­ to, ma sono il risultato di un processo lento e graduale. Così fu anche per la novità rappresentata, nella Toscana dello scordo del secolo xm, dalla maniera poetica che si è soliti indicare con la formula dan­ tesca di «stil novo». La generazione di rimatori fiorentini nata durante gli anni sessan­ ta o al principio del decennio successivo era cresciuta in un'aura in­ trisa di guittonismo. Se alcuni, come Dante da Maiano o Guido Ore landi, non pensarono di affrancarsi da quella poetica, altri ne sentiro­ no prepotentemente il bisogno a partire almeno dagli anni ottanta. Mancavano però modelli alternativi, essendo anche l'intellettuale fio­ rentino di maggior prestigio, Brunetto Latini, ancorato, come lirico, ad un 'orbita stilisti ca arcaica e, agli occhi dello stesso Dante (De vul­ gari eloquentia, I, xiii) , non aliena dal municipalismo che contrasse­ gnava la produzione guittoniana. Si spiega dunque che la spinta a su­ perare l'impostazione, poniamo, di un Chiaro Davanzati e a progredi­ re verso nuove conquiste venisse da fuori. A Bologna in effetti, dove pure era penetrato l'esempio poetico di Guittone (specie, ma non solo, presso il bolognese Onesto), un rima­ tore era riuscito a liberarsi da tale condizionamento, come da quello cortese e sicilianeggiante. Mi riferisco a Guido Guinizzelli, che si è soliti identificare con un personaggio di fede ghibellina, del quale i documenti d'archivio non ci fanno sapere altro se. non che fu bandito nel 1 2 74 e morì prima del 14 novembre r 276. A parte questo, certi suoi componimenti ci lasciano intravedere un apprendistato legato alla tradizione siciliana (la canzone Donna, l'amor mi sforza) e osse­ quioso dell'autorità di Guittone (il sonetto O caro padre meo, de vo6r

LA LETTERAT U R A l TA L I A N A D E L M E D I O E V O

stra laude) . Altri tuttavia provocarono presto reazioni più o meno vio­ lente da parte dei maestri toscani. Probabilmente verso l'incondizio­ nato elogio muliebre dei suoi sonetti Io vogl' del ver la mia donna laudare e Vedut'ho la lucente stella diana, Guittone stesso rivolse la reprimenda del proprio S'eo tale fosse ch 'eo potesse stare. E Bona­ giunta Orbicciani lo rimproverava, nel sonetto Voi ch 'avete mutata la mainera, di aver stravolto i modi della lirica d'amore, rinfacciandogli altresì un eccesso di sottigliezza e avvertendolo tuttavia che non avrebbe fatto breccia in Toscana. L'attacco si chiudeva con una di­ chiarazione di meraviglia, in senso negativo, per la fattura di canzoni tanto dotte quanto astruse, composte con materiali prelevati dalla let­ teratura dottrinale. E va detto che Bonagiunta, a tale riguardo, vede­ va giusto. «Dietro Guinizzelli - ha scritto Bologna ( r 9 87, p. r62) s'intravede inoltre lo studium bolognese, l'irreggimentato schema di­ dattico-disciplinare che plasma al contempo il sapere e le materie che ne articolano l'apprendimento, le /orme culturali (grafiche, ideologi­ che, letterarie) dei libri su cui maestri e allievi lavorano insieme, le personalità degli intellettuali che all'auctoritas universitaria si richia­ mano». L'accenno alla testura dottrinale fa pensare che il bersaglio di Bo­ nagiunta fosse costituito dal testo più celebre di Guinizzelli, ovvero dalla canzone programmatica che fin dalla prima stanza poneva la no­ biltà di cuore a fondamento del sentimento e del discorso amoroso: Al cor gentil rempaira sempre amore come l' ausello inselva a la verdura; né fe' amor anti che gentil core, né gentil core anti ch'amor natura: ch'adesso con' fu !l sole, sì tosto lo splendore fu lucente, né fu davanti 'l sole; e prende amore in gentilezza loco così propi"amente come calore in clarità di foco.

Dire che l'amore si annida nel cuore nobile («gentil») come fa l'uc­ cellino che si rifugia tra le fronde verdeggianti del bosco equivaleva a creare le basi di una nuova filosofia amorosa, fondata sull'aristocrazia dello spirito piuttosto che su quella del lignaggio o del censo. Ag­ giungere poi, sulla falsariga dell'inizio del Vangelo di Giovanni («In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum») , che amore e cuore nobile erano nati ad un parto, così come la luce e il sole o il calore e il fuoco, significava appropriarsi di

4 · LA SCOPE RTA DELLO «STIL N O V O »

un linguaggio solenne e misticheggiante con modalità e finalità inusi­ tate. E le strofe seguenti insistevano su analoghe similitudini: Foco d'amore in gentil cor s'aprende come vertute in petra prezi'osa, che da la stella valor no i discende anti che 'l sol la faccia gentil cosa; poi che n'ha tratto fore per sua forza lo sol ciò che li è vile, stella li dà valore: così lo cor ch'è fatto da natura asletto, pur, gentile, donna a guisa di stella lo 'nnamora. Amor per tal ragion sta 'n cor gentile per qual lo foco in cima del doplero: splendeli al su' diletto, dar, sottile; no li stari' altra guisa, tant'è fero. Così prava natura recontra amor come fa l' aigua il foco caldo, per la freddura. Amore in gentil cor prende rivera per suo consimel loco com'adamàs del ferro in la minera.

Trova qui puntuale giustificazione il paragone tra l'amata e la stella, perché il cuore che sia di natura eletto, puro e nobile («asletto, pur, gentile») s'innamora della donna proprio come è affascinato da un astro luminoso. E a ribadire la naturale ubicazione del sentimento amoroso in un cuore elevato, si insiste nella similitudine col fuoco che brucia normalmente in cima ad una torcia accesa («doplero») , sicché un animo malvagio ( «prava natura») contrasta con l'amore come farebbe acqua fredda col calore del fuoco stesso; accludendo poi un nuovo paragone, col dire che l'amore fissa la propria dimora («prende rivera») nel cuore nobile come in un luogo a sé appro­ priato («per suo consimel loco») analogamente a quanto accade per il diamante («adamàs») in un giacimento di ferro («del ferro in la minera») . n prosieguo del componimento disponeva l a figura della donna angelicata, di cui si hanno vari precedenti dal Notaro fino a Guittone, ad assumere nuovi connotati. Il paragone meramente esornativo si mutava qui in equivalenza ricca di implicazioni ideologiche, funziona­ le all'identificazione di una figura che proietta il discorso lirico verso

LA L E TTE R A T U R A l T A L l A N A DEL MEDIOEVO

altezze paradisiache. Nel finale, difatti, Guinizzelli immaginava che l'anima dell'innamorato - al momento di rendere conto a Dio del peccato di aver trasferito all'amore gli attributi divini - si discolpasse dicendo di essere stato tratto in inganno proprio dalle fattezze angeli­ che della donna: Dir li porò: - Tenne d'angel sembianza che fosse del tuo regno, non me fu fallo s'in lei posi amanza.

L'impatto di una poesia come questa con i rimatori affezionati alla vecchia scuola, in Toscana come a Bologna, non poteva essere facile. Non fu però sempre traumatico. Anche prima che scendesse in cam­ po la generazione di Dante, su qualcuno il nuovo verbo fece presa. Lo dimostra, a Firenze, l'esempio del non meglio specificato ser Pace, autore perlopiù di sonetti di stampo arcaico, intenzionalmente co­ struiti sull' o�curità del linguaggio, ma anche titolare della ballata 5'eo son gioioso amante senza pare, ove allude al progetto di cantare se­ condo una nuova maniera (v. 2 «conven ch'eo canti di nova mane­ ra»), che nel finale sembra configurarsi con i tratti della poetica gui­ nizzelliana, se Pace sostiene che Dio, creando la donna priva di mac­ chia, intese conferirle le caratteristiche degli angeli («Senza peccagio, di natura umana l formata fue da la Somma Potenza, l spirata per essenza: l ad angelo la volse asimilire») . 4-2

Fondamenti teorici dello «stil novo»

Nell'ultimo quarto del Duecento un problema in particolare si era imposto all'attenzione dei lirici in volgare. Già Guittone aveva avver­ tito la difficoltà di coniugare l'esperienza della lirica d'amore con la società comunale e soprattutto con la spiritualità cristiana, da cui il ripudio delle rime amorose e la confezione dei versi morali. Nasce da qui la spiritualizzazione dell'amore che si avvia proprio con la genera­ zione dei guittoniani e che otterrà di salvare, rinnovandolo dall'inter­ no, quel codice della tradizione lirica che la radicale reazione di Guit­ tone rischiava di sovvertire. La generazione che in Toscana si affac­ ciava alla scena poetica negli anni ottanta era pronta in effetti al su­ peramento della mentalità, legittimata dalla lettura del De amore di Andrea Cappellano, per cui scopo ultimo delle attenzioni dell' amante era il piacere carnale: ossia un peccato capitale, se fruito al di fuori



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SCOP ERTA DELLO «S'fiL N O V O »

dell'amore coniugale. Dante avrebbe rimosso anche concettualmente l'ostacolo che si frapponeva tra il poeta e il suo canto d'amore, senza abbracciare la soluzione fratesca bensì instaurando lo stile della lode (come si spiega in Vita nova, XVIII): ovvero tratteggiando un nuovo tipo psicologico di innamorato, che non si prefigge di ottenere ricom­ pensa alcuna se non quella di tessere l'elogio della propria donna. Su questo terreno si sviluppa la riforma stilnovista, tempestiva­ mente avvalendosi delle acquisizioni guinizzelliane. Non è escluso tuttavia che il dispregio per la maniera precedente, considerata ple­ bea, e l'aspirazione a costituire una aristocrazia intellettuale siano da connettere con le tensioni sociali e politiche presenti nella Firenze di fine secolo. Sullo sfondo della scoperta del nuovo stile si accam­ pano difatti la contesa della classe magnatizia con quella dei popola­ ni e l'ascesa di questi ultimi culminata negli Ordinamenti di giustizia promulgati da Giano della Bella nel 1 2 9 3 . La figura di Cavalcanti, sulla base anche del sonetto inviatogli da Dino Compagni (Se mia laude scusasse te sovente) e della descrizione che questi ne dava nel­ la sua Cronica come di giovane «cortese e ardito ma sdegnoso e so­ litario e intento allo studio» (1,20) , si presta in effetti a una lettura in chiave sociologica, come di un magnate deluso. La stessa polemi­ ca di Dante contro la nobiltà di schiatta e la sua partecipazione al governo democratico di Firenze (vedi PAR. 7 . r ) non erano incompa­ tibili con il disprezzo del ceto mercantile che emerge in più luoghi della Commedia. Ad ogni modo, la nozione di «dolce stil novo» risale ad un passo famoso del Purgatorio (24.49 ss.; vedi PAR. 8.6.2) nel quale Dante, im­ maginando d'incontrare, tra i golosi del sesto girone, Bonagiunta Or­ bicciani, si fa chiedere da lui se davanti gli sia veramente l'autore del­ la straordinaria canzone Donne ch'avete intelletto d'amore. All'invito, Dante replica con la dichiarazione di poetica che lo vuole trascrittore dei dettami di Amore (vv. 5 2 -54): E i o a lui: I' m i son u n che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch'e' ditta dentro vo significando. -

E il concetto viene ribadito nelle successive parole di Bonagiunta stesso (vv. 5 5 -6 3 ) : O frate, issa vegg'io - diss'elli - il nodo che 'l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch'i' odo !

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LETTERAT U R A I T A LI A N A

DEL M E D I O E V O

Io veggio ben come le vostre penne di retro al dittator sen vanno strette, che de le nostre certo non avvenne; e qual più a gradire oltre si mette, non vede più da l'uno a l'altro stilo e, quasi contentato, si tacette.

Sono versi sui quali per secoli si è esercitata l'acribia dei lettori e che di recente Lino Pertile ( 1 994) e poi Lucia Lazzerini ( 1 996) hanno proposto persuasivamente di leggere interpretando il «nodo» non come 'impedimento' , ma quale metafora ispirata alla terminologia tec­ nica della falconeria (con riferimento cioè al nodo che trattiene il fal­ cone dal volo) , e le «penne», di conseguenza, non come strumento dello scrittore, ma quale metonimia per 'ali'. Comunque sia, è certo che Dante fa pronunciare qui al poeta lucchese l'ammissione di uno scacco stilistico che lo accomuna ai siciliani, rappresentati dal capo­ scuola Giacomo da Lentini, e ai guittoniani, bollati tutti nella figura del maestro aretino. Oltre il nodo che essi non seppero sciogliere confessa Bonagiunta - sta la brillante invenzione stilnovistica. La straordinaria novità della lode disinteressata, con cui Dante si propo­ neva di superare il problema dell'immoralità della lirica erotica, sem­ brerebbe taciuta nel dialogo con il penitente, ma viene evocata dall'e­ splicita citazione del testo che aveva segnato, nella Vita nova, l'inizio di quella fase poetica: Donne ch'avete. La qualifica di scuola, nata in epoca romantica, è al giorno d'oggi improponibile. Certo è però che i poeti che, intorno a Dante, si fece­ ro portavoce delle nuove tendenze avvertirono il bisogno di identifi­ carsi in un gruppo. A parte il quadrumvirato formato da Guido Ca­ valcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia e Dante stesso, stabilito nel De vulgari eloquentia, si pensi all'ideale dell'amicizia su cui si fonda il sonetto dantesco Guido, i' vorrei che viene a confermarlo. E Dante allude chiaramente, per bocca di Bonagiunta, ad un'accolita di nuovi poeti («le vostre penne»), non solo dunque all a propria poesia; né sembra plausibile spiegare l'impiego del plurale in riferimento ad una schiera di «vulgares eloquentes», inclusiva di trovatori, trovieri e sici­ liani, che si erano attenuti ai dettami di Amore. TI nesso istituito fra le «nove rime» e il possessivo «vostre» indica in effetti che più rima­ tori si accordarono a tale novità. Come esigenza avvertita da un ma­ nipolo di poeti - in un arco di tempo circoscritto - di contrapporsi alla tradizione lirica pregressa, la definizione dantesca di «stil novo» risulta insomma accettabile e funzionale. 66

4 · LA SCOP ERTA DELLO «STIL N O V O »

In verità, l'elemento principalmente vantato dall'Alighieri non era

inedito. A cominciare da Ovidio per scendere fino a provenzali e sici­ liani, secondo una tradizione sagacemente indagata da Roncaglia ( 1 967 ) , molti poeti si erano richiamati ad una sorta di coazione a ri­ petere derivante da Amore: ispirazione non modernamente soggetti­ va, bensì oggettiva. Fu merito di Dante e dei suoi amici rivitalizzare l'immagine inquadrandola in una cornice misticheggiante, sicché Amore diveniva un principio trascendente di cui il poeta è mero tra­ scrittore. A tale proposito del resto Contini ( 1 976a, p. 9) con sintesi esemplare ebbe a osservare che «il classico crede da buon operaio a un canone di ars, lavorativo, e lo stilnovista crede a un 'ispirazione as­ soluta, si tiene, secondo l'espressione dantesca, stretto con la sua pen­ na al dittatore». La stessa immagine della donna-angelo, idea guida della lode, de­ riva ai novatori dalla lirica pregressa, ma passa, per usare le parole di Roncaglia ( 1 967, p. z6), «dal piano metaforico al piano metafisica», assumendo un valore connotante che assimila, secondo l'etimologia, la funzione dell'amata a quella degli alati messaggeri divini. La donna diviene, in questa logica, il tramite fra il poeta e Amore, intermedia­ rio concesso dal dio ai suoi eletti in virtù della loro nobiltà di cuore. Si spiega così, ad esempib, anche il ricorrere nella tematica stilnovi­ stica della scena, di ascendenza guinizzelliana, del saluto salvifico del­ la donna. Tale fervore ideologico rispecchiava un'esigenza di rinnovamento sentita, all'epoca, in ogni campo dell'attività intellettuale: dalla pittura di Giotto al pensiero di Tommaso d'Aquino o, di lì a poco, all 'Ars nova musicae di Philippe de Vitry ( 1 3 1 9 ) . È possibile altresì che il titolo della Vita nova e forse l'etichetta di «stil novo» serbino memo­ ria dello scritturale «canticum novum», effetto della rigenerazione del cristiano e dello spirare in lui della grazia divina. Sicuramente peral­ tro l'aggettivo «dolce» denota la ricerca di una sintassi .lineare e di un lessico privo di asprezza, teorizzata nel De vulgari eloquentia sotto la specie della lingua curiale. n divario con la generazione precedente risulta netto in effetti sul piano linguistico, per la tendenza ad evita­ re la sovrabbondante ornamentazione retorica, il periodo involuto, provenzalismi spesso ossessivi come i sostantivi in -ore (tipo bellore per 'bellezza') o le rime desinenziali in -enza e in -anza. Pur reimpie­ gando alcune volte stilemi e t6poi vigenti presso i rimatori più anzia­ ni, gli stilnovisti mirarono insomma a svincolare il discorso da uno stile sillogizzante e rigido, cercando invece un andamento sintatticac mente semplice e armonico, scegliendo entro una gamma lessicale

LA LETTERA T U R A ITALIANA DEL MEDIOEVO

regolata da quel principio dell'eufonia che Dante avrebbe esposto con chiarezza ancora nel De vulgari (n,vn, 5 ) . In questo gusto tenue rientra anche il ricorso, che diviene straordinariamente frequente, ai diminutivi. Per contro, la sensibilità esasperata nei confronti del dolore come del diletto che deriva dall'amore favoriva il ricorso a un codice entro il quale una certa rosa di termini ricorrenti finisce per fossilizzarsi, e la raffinata selezione contribuiva a ridurre l'escursione lessicale; sicché certe voci divengono veri e propri tecnicismi: ad esempio umile, men­ te, spirti, oppure aggettivi come dolce, soave, sottile, gentile, angelico, vile, e ancora sostantivi come gentilezza, intelletto, figura, immaginare sostantivato ecc. La lirica acquisiva così sempre più l'aspetto di un discorso per iniziati, ristretto all'eletta schiera dei cuori gentili. Tale aristocratico atteggiamento non poteva non ripercuotersi sul terreno della metrica. Per quanto riguarda il sonetto, Dante, Lapo Gianni e Cino adottarono, accanto a quello consueto, il sonetto dop­ pio di tradizione guittoniana, ma è significativo che nella Vita nova esso figuri solo nella prima parte, corrispondente a una fase precoce della biografia artistica dell'autore. Con gli stilnovisti, inoltre, inizia a consolidarsi la consuetudine di incrociare le rime nella fronte (AB­ BAABBA) e a rarefarsi il più arcaico schema a rime alternate (ABABA­ BAB). Quanto alla canzone, possediamo l'ampia trattazione del De vulgari eloquentia, da cui risulta esplicitamente il divieto dell'apertura con un settenario, normale in antico; ma anche nel corpo della stanza si constata che l'endecasillabo prende il sopravvento sui versi brevi. n precetto dantesco relativo all'uso di una sirma indivisa fu general­ mente accolto dagli stilnovisti. Viceversa, l'altro precetto relativo al verso di diesi (DVE n,xm), ossia alla ripresa dell'ultima rima della fronte nella prima sede della sirma, non sembra una conquista collet­ tiva, dal momento che i pochi esemplari cavalcantiani non vi si accor­ dano mai. n fatto metricamente più rilevante va considerato, comun­ que, il lancio su vasta scala della ballata, che . si spiegherà anche con la collaborazione di alcuni stilnovisti con musici come Casella, Sco­ chetto, Mino d'Arezzo e altri. Sul piano tematico, si registra una certa restrizione del repertorio alla materia amorosa, cui può intrecciarsi quello dell'amicizia proprio perché costitutivo di una poetica di gruppo o, con Contini ( r 976a, p. 9 ) , «elemento patetico definitorio di Stil Novo». Le stesse canzoni dottrinali di Dante si aggiungeranno al bagaglio delle sue rime dopo il consuntivo dell'esperienza propriamente stilnovistica consegnato alla Vita nova (vedi PARR. 7 . 2 e 7 . 3 ) . 68



LA

SCOP ERTA DELLO «STIL NOVO»

4·3

I protagonisti 4· 3 · 1 . GUIDO CAVALCANTI

Lo «Stil novo» fu fenomeno essenzialmente fiorentino, eventualmente aperto al contributo di Pistoia, ove la fioritura di Cino era stata lieve­ mente anticipata da certe rime di Lemmo Orlandi e di Paolo Lan­ franchi. Quando si allarghi lo sguardo all'intero panorama toscano, colpisce l'assenza di testi stilnovistici prodotti altrove. Come poetica di gruppo, peraltro, essa non varcò i limiti del secolo in cui aveva visto la luce, anche per la parziale diaspora provocata dalle lotte fra Bianchi e Neri (le fazioni in cui dopo il 1 2 95 , intorno rispettivamente alle famiglie dei Cerchi e dei Donati, si era divisa a Firenze la parte guelfa) . Cavalcanti muore in esilio l'anno q oo; Dante, con il bilancio consegnato alla Vita nova, mette fine alla sua produzione propriamen­ te stilnovistica già alla metà degli anni novanta; neppure l'attività poe­ tica di Lapo Gianni pare essersi protesa molto oltre la fine del Due­ cento. Quando si consideri che anche un immediato continuatore come Dino Frescobaldi muore intorno al 1 3 1 6 , la bandiera di quella esperienza stilistica sembrerebbe essere affidata dunque, nella prima metà del secolo successivo, soprattutto a Cino, il quale peraltro, dopo la Lectura in Codicem e il dottorato bolognese ( r 3 q) , dovette dedi­ carsi più di rado alla lirica amorosa per seguire la strada di giurista e di professore (vedi PAR. r 2 . r ) . li brill ante milieu della Firenze stilnovista ci balza incontro sfo­ gliando le carte del canzoniere Chigiano L. VIII . 3 05 . Pur accogliendo una quota limitata di siciliani e di tosco-emiliani più arcaici e perfino una piccola appendice petrarchesca, il codice assembla principalmen­ te le rime degli artefici di quella stagione poetica, precedute, come in linea genetica, da alcuni testi guinizzelliani. Cavalcanti, Dante e Cino da Pistoia ci appaiono in corrispondenza fra loro o con altri rimatori che fecero loro corteggio. Specie Guido si rivela al centro di un nu­ trito scambio di missive in versi: con Dante, Cino, Gianni Alfani, Guido Orlandi, Bernardo da Bologna, con i consanguinei Iacopo e Nerone Cavalcanti, con l'altro suo parente Lapo Farinata degli Uber­ ti. Ai corrispondenti cavalcantiani, per inciso, tenendo conto del Vati­ cano lat. 3 2 14 è poi da aggiungere Dino Compagni. Ma anche l'ami­ cizia fra Dante e Cino è assai ben documentata nel Chigiano. In questo quadro la figura di Dante spicca, ovviamente, per impor­ tanza e carisma. Non si può dimenticare tuttavia che, diciottenne o

LA LETTERAT URA I T A L I A N A DEL MEDIOEVO

poco più, egli dovette accogliere il sonetto cavalcantiano Vedeste, al mio parere, onne valore, risposta al proprio A ciascun'alma presa e gentil core, quale pronunciamento autorevole e di poeta già affermato. Figlio del nobile Cavalcante di Schiatta Cavalcanti, Guido era nato, come sembra, nella prima metà degli anni cinquanta. Era dun­ que più anziano di una decina di anni abbondante rispetto a Dante (nato nel 1 2 65 ) ; quanto bastava per essersi guadagnato una reputazio­ ne di rimatore muovendosi ancora nel solco dei siciliani e di Bona­ giunta, come nella celebre ballata composta probabilmente per una festa di Calendimaggio: Fresca rosa novella, piacente primavera, per prata e per rivera gaiamente cantando, vostro fin presio mando - a la verdura. Lo vostro presio fino in gio' si rinovelli da grandi e da zitelli per ciascuno camino; e cantin [n]e gli auselli ciascuno in suo latino da sera e da matino su li verdi arbuscelli. Tutto lo mondo canti, po' che lo tempo vène, sì come si convene, vostr' altezza presiata: ché siete angelicata - cri"atura. Angelica sembranza in voi, donna, riposa: Dio, quanto aventurosa fue la mia distanza ! Vostra cera gioiosa, poi che passa e avanza natura e costumanza, ben è mirabil cosa. Fra lor le donne dea vi chiaman, come sète; tanto adorna parete, ch'eo non saccio contare; e chi poria pensare - oltra natura?

4· LA SCOPERTA D E L L O «STIL N O V O »

Oltra natura umana vostra fina piasenza fece Dio, per essenza che voi foste sovrana: per che vostra parvenza ver' me non sia luntana; or non mi sia villana la dolce provedenza ! E se vi pare oltraggio ch'ad amarvi sia dato, non sia da voi blasmato: ché solo Amor mi sforza, contra cui non val forza - né misura.

L'apertura, memore forse di Cielo d'Alcamo («Rosa fresca aulentissi­ ma»), prelude al primaverile invito all'amore che risente palesemente, ai vv. r o- n , di un sonetto di Bonagiunta ( Quando apar l'aulente fiore, vv. 3 -4 «agli auscelletti infra gli albore l ciascun canta in suo latino») . L e connessioni fra stanza e stanza mediante l a ripresa d i una parola, del tipo di quelle applicate nelle provenzali coblas capfinidas, danno la misura del tasso di arcaismo del testo, scarsamente compatibile con l'evoluzione stilnovistica. Nella Vita nova Dante ci fa sapere che Guido era stato il primo dei suoi amici. Poiché Fresca rosa è dedicata proprio a Dante, risulta chiaro che tale amicizia ebbe inizio - successivamente alla risposta cavalcantia­ na a A ciascun 'alma presa e gentil core, che è del 1 2 8 3 circa - su un terreno di poetica ancora in buona parte tradizionale, per evolvere poi verso un programma comune. Della partecipazione di Guido alla poeti­ ca stilnovistica fa fede, ad esempio, un sonetto come il seguente: Chi è questa che vèn, ch'ogn'om la mira, che fa tremar di claritate l'are e mena seco Amor, sì che parlare null'om non può, ma ciascun ne sospira? Deo, che rasembra quando li occhi gira ! Dical Amor, ch'i' nol savria contare: cotanto d'umiltà donna mi pare, ch'ogn'altra ver' di lei i' la chiam'ira. Non si poria contar la sua piagenza: ch'a ile' s'inchin'ogni gentil Vertute, e la Beltate per sua dea la mostra. Non fu sì alta già la mente nostra e non si pose 'n noi tanta salute, che propriamente n'aviàn canoscenza. 71

LA LETTERA T U RA ITALI A N A DEL M ED I O E V O

La fedeltà all'insegnamento di Guinizzelli è qui evidente non foss'al­ tro per le rime l.n -are e in -ute che il sonetto ha in comune con I' vogl(io) del ver la mia donna laudare del bolognese, col quale condivi­ de per giunta quattro rimanti: pare, virtute, salute e il non frequente are. Il tema dell'apparizione salvifìca dell'amata cui Cavalcanti dava voce altro non era del resto che uno sviluppo iperbolico di quello dell'elogio della donna. L'incerta cronologia di molte rime cavalcantiane non consente di fare piena luce sul succedersi delle varie fasi della sua lirica. Tra queste bisogna contemplare, ad ogni modo, anche una presa di distanze da Dante, di cui fa fede il sonetto di biasimo rivolto proprio a lui I' vegno 'l giorno a te 'nfinite volte. Qualcuno (Tanturli, 1 994; Malato, 1 997) ha visto poi nella vasta canzone dottrinale Donna me prega, perch 'eo voglio dire, vero e proprio trattatello sull'amore, una replica polemica alla Vita nova. Comunque lo si voglia intendere, d'altronde, il testo si allontana decisamente dalla poetica della dulcedo in favore di un tessuto formale artificioso (reso irto dall'obbligo a un fitto graticcio di rime interne) che riflette la densità e la durezza del ragionamento. Parimenti estranea all'i­ deologia stilnovistica è la teoria dell'amore come passione dell'anima sensitiva che sovverte le facoltà dell'intelletto, sulla quale il lungo testo si incentra. Il contenuto filosofico, di matrice averroistica, ha poi le sue implicazioni sul piano del lessico, con i tecnicismi attinti alla terminolo­ gia della filosofia naturale (accidente, provare, essenza, sensato, possibile intelletto ecc. ) , come è evidente anche altrove. Basti pensare agli spiriti, ipostasi dei sentimenti e dei processi vitali dell'animo, di cui Cavalcanti si fece un mito poetico capace di sostenere l'ispirazione di interi compo­ nimenti come i sonetti Deh, spiriti miez; quando mi vedete e Pegli occhi /ere un spirito sottile. Ridurre la produzione lirica cavalcantiana ad esperienza unitaria anche a prescindere dall'isolato esercizio in stile umile del sonetto Gua­ ta, Manetto, questa scrignutuzza - sarebbe comunque sforzo vano. Come ha scritto Contini ( 1 9 7 6a, p. 5 ) , «Cavalcanti sapeva rifare con un virtuo­ sismo del resto freschissimo un po' tutti i 'generi' della lirica». Proprio per questa sorta di sperimentalismo, la pur suggestiva lettura di lui come poeta della leggerezza data da Itala Calvino nella prima delle sue Lezioni americane tende a rispecchiare solo un lato del prisma. 4 · 3 · 2 · DANTE

Quanto a Dante, un discorso sulla sua formazione poetica non può non prendere avvio dalla questione del cosiddetto Fiore (vedi PAR. 72

4· LA SCOP ERTA D E L L O «STIL NOVO»

3. 3 ) , autorevolmente accreditatogli da Contini. Se davvero lui fosse l'autore che si firma ser Durante, la lunga corona di sonetti ( 2 3 2 ) , parafrasi del Roman de la Rose, rivelerebbe un apprendistato galli­ cizzante e guittoniano (con intermezzi fortemente realistici) , coerente in qualche modo con alcune rime giovanili. A riscattarlo da questa fase iniziale - più che l'esempio del padre ideale, Guinizzelli, o di quello putativo, Brunetto - sarebbe venuto l'incontro con quello che egli chiamò, appunto, suo primo amico, Come Dante si modellasse in parte sulla figura di Guido ha magistralmente illu strato ancora Conti­ ni ( 1 976a, pp. 143-5 7 ) . Attorno al loro sodalizio il gruppo cominciò ad allargarsi, dapprima aggiungendosi un terzo amico, come risulta dal celebre sonetto dantesco rivolto a Cavalcanti: Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento, e messi in un vasel ch'ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio, sì che fortuna od altro tempo rio non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un talento, di stare insieme crescesse 'l disio. E monna V anna e monna Lagia poi con quella ch'è sul numer de le trenta con noi ponesse il buono incantatore: e quivi ragionar sempre d'amore, e ciascuna di lor fosse contenta, sì come i' credo che saremmo noi.

Il testo dà voce al vagheggiamento - come in un provenzale plazer di un viaggio per mare, sopra un vascello incantato che accolga la tema di amici, sicché la vita in comune accresca il piacere e la voglia di stare insieme; e con loro si vorrebbe che il vagheggiato incantatore (con probabile allusione al mago Merlino) uni�se, a render più bella la compagnia, le donne amate da Guido (Vanna) e da Lapo (Lagia) , più una terza donna che, stando alle persuasive deduzioni di Barbi ( 1 9 1 5 ) , indicherebbe quella che nella Vita nova sarà la prima donna dello schermo. Relativamente al terzo amico, tradizionalmente considerato il no­ taio Lapo Gianni, Gorni ( r 98 r , pp. 99- 1 24) ha proposto una diversa identificazione con Lippo Pasci de' Bardi, sulla base della lezione «Lippo» nell'in cipit recata da un manoscritto (n. iv. 14 della Bibliote­ ca Nazionale di Firenze) . In mancanza di più consistenti argomenti, -

73

LA LETTERATURA I T A LI A N A DEL M E D I O E V O

basterà dire qui che Lapo, autore di ballate e sonetti di gusto stilno­ vista, meglio si confà a figurare al fianco di Dante e di Cavalcanti, rispetto al decisamente arcaizzante Lippo. n clima idillico, di amicizia fra poeti, che il sonetto dantesco ci ha trasmesso dovette durare, in verità, abbastanza poco. La fine sarà stata segnata probabilmente dal distacco fra Cavalcanti e Dante, dovuto a più motivi, non ultimo il ritegno verso la metamorfosi teologica di Beatrice che era già in nuce nella Vita nova e cui sembra alludere Ca­ valcante nell'episodio celebre del decimo canto dell'Inferno. n "libel­ lo" , la cui stesura rimonta agli anni 1 2 9 3 -94, già allude a quel sodalizio in tono apertamente rievocativo. La stessa concezione di un'operetta che facesse il bilancio di un itinerario spirituale e poetico degli anni giovanili indica che tale esperienza era da considerarsi tramontata. n ritratto del poeta da giovane consegnato alle pagine della Vita no­ va nasceva del resto da istanze estranee a Guido, come l'esigenza di riu­ nire i pezzi scelti della propria produzione lirica - insieme, s'intuisce, con qualcuno composto per l'occasione - raccordandoli mediante prose esplicative e narrative sul modello delle razos che nei canzonieri pro­ venzali accompagnavano i testi poetici e sull'altro, scontato, di un prosi­ metro di grande fortuna come la Consolatio Philosophiae di Boezio. Il libro (vedi PAR. 7 .2) seguiva così le varie fasi dell'amore per Beatrice e al tempo stesso intendeva ripercorrere i momenti principali dell'evoluzio­ ne della lirica dantesca nel decennio che va dal 1 2 83 al 1 293 . La svolta è illu strata nel brano prosastico che precede la canzone Donne ch'avete intelletto d'amore, indicato così quale primo componimento scritto nel­ la nuova maniera. Si innestano a questo punto, non a caso, alcuni fra i temi più consueti dello stilnovismo. Fra gli altri quello della nobiltà del cuore, affidato al seguente sonetto: Amore e 'l cor gentil sono una cosa, sì come il saggio in suo dittare pone, e . così esser l'un sanza l'altro osa com'alma razionai sanza ragione. Falli natura quand'è amorosa, Amor per sire e 'l cor per sua magione, dentro la qual dormendo si riposa tal volta poca e tal lunga stagione. Bieltate appare in saggia donna pui, che piace a li occhi sì che dentro al core nasce un disio de la cosa piacente; e tanto dura talora in costui che fa svegliar lo spirito d'Amore. E simil face in donna orno valente.

74



LA SCOPERTA D ELLO «STIL NOVO»

La ripresa della tematica di Al cor gentil rempaira sempre amore ha il sapore di un omaggio preciso. Ciò non significa però che il 46 -J I )

In casi come questi, la coerenza fra oggetto della elaborazione fanta­ stica e occasione strutturale (la bolgia degli scismatici, quella dei fal­ sari) è evidente; ma non è poi meccanicamente vero che a ogni situa­ zione infernale sia correlata un'immagine di contenuto repulsivo: Come 'l ramarro sotto la gran fersa ['sferza'] dei dì canicular, cangiando sèpe, folgore par se la via attraversa (If 25 ,79-8 1 )

Ciascuno dei brani segnalati in questo capitolo andrebbe riletto nel suo contesto, per coglierne con miglior precisione la sfumatura pateti­ ca. La visione del cielo color zaffiro, ad esempio, corrisponde nella dimensione narrativa all ' aprirsi del cuore del pellegrino che s'è lascia­ to alle spalle «l'aura morta» dell'inferno. L'evocazione del «novo pe­ regrino», al principio di Pg 8, si lega a un tema peculiare della canti­ ca, quale l'amicizia. E così via. Né le similitudini dantesche potranno essere sottratte, quasi liri­ che del tutto autosufficienti, all a situazione cui appartengono. È evi­ dente, per esempio, che la similitudine del «cicognino>>, in Pg 2 5 , an­ che prepari all'atmosfera " scolastica" del discorso di Stazio, rispetto al quale l'animus del personaggio discente ritiene qualcosa di fanciul­ lesco. O che nel vento, da cui si disperde «la sentenza di Sibilla», anche sia quel sentimento del ritorno al mondo da cui, purtroppo, si disperde la visione mistica del sommo vero.

8.6

Il viaggio del letterato 8.6. 1 . «SESTO FRA COTANTO SENNO»

Attraverso il personaggio del pellegrino oltremondano, l'autore della Commedia ha anche costituito una figura di sé che, al di là del poe-

r8r

LA

ma,

LETT E R A T U R A I T A L I A N A D E L M E D IOEVO

unisce in una rete di senso tutta l'opera dantesca. In particolare,

d personaggio narratore è un poeta e nel suo viaggio incontra altri

poeti, o - comunque ciò avvenga - si confronta con essi. Questo con­ fronto entra a far parte del flusso narrativo e contemporaneamente istituisce una dimensione di critica e autocritica letteraria, in cui il poema riflette su sé stesso. S'è già detto come sia determinante, per l'impresa dantesca, il rapporto di imitazione ed aemulatio nei confronti di Virgilio e degli altri epici antichi. Dichiarato solennemente in I/ 1 ,82-8]: Tu [Virgilio] sè lo mio maestro e 'l mio autore, tu sè solo colui da eu' io tolsi lo bello stilo che m'ha fatto onore

il rapporto con gli antichi è celebrato in I/ 4, allorché Virgilio e Dan­ te sono accolti, dinanzi al «nobile castello», da una schiera di poeti, che rappresenta certamente un ideale scolastico. Con l'irraggiungibile Omero, «poeta sovrano», ci sono infatti «Orazio satira» - ma, per Dante, essenzialmente l'autore dell'Ars poetica -, Ovidio e Lucano. Manca Stazio, perché cristiano e quindi salvo, ma la sua presenza nel canone dei migliori è indubitabile. Dal canto 2 1 alla fine della secon­ da cantica, Stazio assume addirittura funzioni di guida per il pelle­ grino Dante (e a lui tocca affrontare un tema rilevante come quello della formazione dell'anima umana: vedi PAR. 8 -4- 3 ) . Dante presenta sé stesso come il poeta volgare che meglio è riu­ scito a entrare in contatto con l'arte dei sommi maestri: .

volsersi a me cop salutevol cenno, e 'l mio maestro sorrise di tanto; e più d'onore ancora assai mi fenno ['fecero'], ch'esser mi fecer de la loro schiera, sì ch'io fui sesto tra cotanto senno. (lj 4,98- 102)

E perciò si candida all'incoronazione poetica, in compettz10ne con i latinisti veneti (segnatamente, con Albertino Mussato), che avevano da poco restaurato quella cerimonia: con altra voce, ornai, con altro vello ritornerò poeta, ed in sul fonte del mio battesmo prenderò 'l cappello ( Pd 25 ,7-9).

1 82

!l.

LA COMMBDIA

8 . 6 . 2 . L ' USO MODERNO

È possibile che vada letto in questa ottica anche l'ambiguo accenno al «disdegno» di Guido Cavalcanti, in I/ 1 0 . Quando l'ombra di Ca­ valcante Cavalcanti chiede come mai il figlio Guido non partecipi al viaggio straordinario, Dante risponde: [. .. ] Da me stesso non vegno: colui ch'attende là, per qui mi mena, forse cui Guido vostro ebbe a disdegno.

Nella lettera del verso, non riesce chiaro se il disdegno si riferisce a colui che per qui mi mena (Virgilio) oppure a cui (colui al quale, o colei al quale) Virgilio mi mena (Dio o Beatrice) . Questa seconda let­ tura è di certo compatibile con quel che sappiamo della filosofia ca­ valcantiana: l'impronta averroistica in Donna me prega, la verosimile adesione alla dottrina dell'intelletto unico (a sua volta in certo modo collegabile con l"' eresia" di Cavalcante) possono ben figurarsi come rifiuto di un percorso spirituale illuminato dall a verità rivelata. Non­ dimeno l'economia drammatica farebbe propendere per un riferimen­ to del disdegno direttamente a Virgilio. Dante ritiene di aver dato a Cavalcante una «risposta piena» (v. 66) , cioè completa ma anche in­ telligibile: e a questo fine era naturale dire che il viaggio straordinario - da Cavalcante concepito solo come iter per In/eros - avveniva gra­ zie a un «duca», cui Guido aveva guardato, invece, col suo prover­ biale «disdegno». Il «disdegno» del Cavalcanti sarebbe così l'esatto contrapposto del «lungo studio e grande amore» di Dante per Virgi­ lio (Ij r , 8 J ) . In concreto, la scelta classicistica avrebbe consentito a Dante di sviluppare la propria scrittura poetica, dal nitore rarefatto della lirica al respiro universale dell'epos, mentre Cavalcanti si sareb­ be negato tale possibilità di crescita. La divaricazione tra sé e Gu ido è posta da Dante in un momento determinato, quello in cui l'am i co «ebbe a disdegno» di prendere Virgilio per maestro, o Beatrice per meta. A parte il problema consistente nel collocare tale momen to n e l ­ la biografia storica dei due poeti fiorentini, non c'è dubbio che la d i ­ varicazione letteraria abbia coinciso con (o sia stata il corollario di) una profonda divaricazione di ordine dottrinario, come quell a docu­ mentata dal contrasto di tesi sull'amore fra Vita nova e Donna me prega (rievocato anche in Pg 25 ,63-66). Quale che sia il signi fi.cato let­ terale del v. 63 , un «disdegno» di Guido per Virgilio e per la poesia epico-profetica già conterrebbe il rifiuto di ogni finalità e dimensione

LA LETT E R A T U RA IT A L I A N A DEL MEDIOEVO

soprannaturale, e si estenderebbe così obiettivamente alla stessa Bea­ trice. Il nome del Cavalcanti torna in Pg r r. Nella cornice dei superbi, il miniatore Oderisi da Gubbio depreca la «vana gloria de l'umane posse» - vana gloria di cui egli ha peccato tanto da doverla ora espia­ re. Oderisi avverte tutti gli interessati che la gloria mondana è di bre­ ve durata, come dimostra la veloce successione delle primazìe, sia fra i pittori, sia fra i poeti: Credette Cimabue ne la pittura tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, sì che la fama di colui è scura; così ha tolto l'uno a l'altro Guido la gloria de la lingua; e forse è nato chi l'uno e l'altro caccerà del nido.

Come Giotto ha tolto a Cimabue la gloria della pittura, così, da una generazione all'altra, il secondo Guido (il Cavalcanti) ha tolto al pri­ mo (il Guinizzelli) la gloria della poesia; ma forse son già nati il pitto­ re e il poeta che di Giotto e del Cavalcanti prenderanno il posto. Pur pronunziato entro un discorso che pone decisamente al di là del mondo la meta dello spirito umano, il riconoscimento è importan­ te, e delinea una tradizione Guinizzelli-Cavalcanti-Dante che verrà ul­ teriormente valorizzata nel corso del Purgatorio. Nella cornice dei go­ losi, si smagrisce una vecchia conoscenza dei cultori di poesia due­ centesca: Bonagiunta da Lucca (già censurato nel De vulgari eloquen­ tia come verseggiatore di lingua non eletta) . Bonagiunta sollecita l'in­ tervento di Dante, riconoscendolo come «colui che fare l trasse le nove rime, cominciando l Donne ch'avete intelletto d'amore» (preci­ sissimo rinvio a Vn XIX) ; e ne ottiene la celebre autodefinizione: [ ] I' mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch'e' ditta dentro vo significando. (Pg 24,5 2 -54) . . .

Le «nove rime» sono quelle la cui caratteristica il Dante della Vita nova pone nel contenuto più puro (la «lode» di Beatrice, senza con­ tropartita) rispetto a quello dei componimenti più antichi, ancora vi­ ziato da un'ombra di desiderio. Il Dante del Purgatorio, invece, ri­ porta la novità e l'identità delle sue rime alla fedeltà della scrittura rispetto all'ispirazione, addirittura oggettivata come "Amore-dittato-

8.

LA COMMEDIA

re" : si direbbe che stia trasferendo sulle rime giovanili l'esperienza del poema, in quanto, essenzialmente, "trascrizione" di una visione ispirata («e quel che vedi [ ] fa che tu scrive» [Pg 3 2 , 1 05 ] ; «quella materia ond'io son fatto scriba» [Pd 1 0,27] ; e vedi anche Pd 2 6 , 1 7 - 1 8 ) . Tocca quindi a Bonagiunta tirare le somme e stabilire una demarcazione storiografica tra i letterati di vecchia generazione e il «dolce stil novo» (vedi PAR. 4.2) di cui s'è ora udita la formula: ...

«0 frate, issa [ora] vegg'io», diss' elli, «il nodo che 'l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch'i' odo ! Io veggio ben come le vostre penne di retro al dittator [colui che detta] sen vanno strette, che de le nostre certo non awenne [. .. ]».

Rispetto ai quadri del De vulgari, la differenza è notevole: gli antichi sono respinti indietro, senza distinzioni fra «illustri» e «municipali» («il Notaro e Guittone e me») , e la linea del «novo» è collocata all'al­ tezza di Donne ch'avete intelletto d'amore. I due Guidi «gloriosi» non solo restano innominati, ma nemmeno si saprebbe dove immaginarli: «di qua» o di là dal «nodo»? In parte questo interrogativo si scioglie nel canto 2 6 , dove Guido Guinizzelli sconta nel fuoco la sua lussuria. Dante corona qui una se­ rie di omaggi, cominciata, almeno una ventina d'anni prima, col so­ netto Amore e cor gentil sono una cosa (vedi PAR. 7.2 .4). L'incontro purgatoriale col primo Guido è simmetrico, sul versante lirico, a quello con Virgilio, sul versante epico: io odo nomar sé stesso il padre mio e degli altri, miei miglior [migliori di me] , che mai rime d'amor usar dolci e leggiadre [ . . ] . .

S e Dante è «colui che fore trasse le nove rime», di cui s i ribadiscono il contenuto («amor») e la tonalità («dolci») , Guido Guinizzelli è il «padre» suo: uno statuto speciale tra il vecchio e il nuovo, che gli assicura pregio per «quanto durerà l'uso moderno», per il tempo che durerà la poesia in volgare. All'alta lode, il Guinizzelli replica con modestia additando un compagno di pena che «fu miglior fabbro del parlar materno», ossia il provenzale Arnaut Daniel: citazione al meri­ to che completa il repertorio delle grandi auctoritates liriche dante­ sche, ponendo, accanto al maestro delle rime «dolci», il maestro delle «aspre» (le cosiddette "petrose" ) .

LA L ETT E R A T U RA ITALIA N A DEL M E D IOEVO

In questo finale rendiconto il Cavalcanti resta innominato: non escluso, ma in certo modo confuso nel gruppo dei "figli" del poeta bolognese («padre mio e degli altri») , e tra le «più persone» che han­ no collaborato a far vincere il «vero» sulla fama di Guittone. Sono parole del Guinizzelli: li stolti [. .] [a] voce più ch'al ver drizzan li volti, e così ferman sua oppinione prima ch'arte o ragion per lor s'ascolti. Così fer molti antichi di Guittone, di grido in grido pur lui dando pregio, finché l'ha vinto il ver con più persone. .

Stavolta la difficoltà di Dante a risolvere, dentro sé stesso, il "pro­ blema" Cavalcanti si traduce in una singolare alterazione dei fatti. Dante conosceva la professione guittoniana del Guinizzelli storico, il sonetto O caro padre meo de vostra laude (vedi PAR. 4. r ) , che nelle terzine di Pg 2 6 è addirittura citato (73 -75 : marche imbarche < 'm barchi Marchi, a sua volta da Arnaut, Si m fos Amor, embarc mare, pure presente a Dante: descarc > scarche) , e certamente cono­ sceva il feroce sonetto del Cavalcanti al Frate, Da più a uno /ace un sollegismo: ma, per sostanziare il profilo "paterno" del Bolognese, gli ha attribuito un antiguittonismo postumo che, nella realtà, era pro­ prio del Fiorentino. 8 . 6 . 3 . CONCLUSIONE

Tutte le componenti dell'esperienza lirica dantesca hanno voce nel­ l' orchestrazione stilisti ca del poema. Vi si ritrova, come è owio, l'atti­ tudine argomentativa delle canzoni morali. Ma anche la melodia stil­ novistica svolge una funzione molto significativa, soprattutto per la pittura del mondo edenico di cui è protagonista Matelda: e là m'apparve [. ] una donna soletta che si gìa ['andava'] e cantando e scegliendo fior da fiore ond' era pinta tutta la sua via. «Deh, bella donna, che a' raggi d'amore ti scaldi [. .]». ..

.

(Pg 2 8 ,37-43)

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8 . LA COMMEDIA

Il gusto "petroso " delle perifrasi ardue e dotte è onnipresente: «Ne l'ora che non può 'l calor diurno l intepidar più 'l freddo de la luna, l vinto da terra e talor da Saturno [ . . . ]» (Pg r 9 , r -3 ) ; «E se stati non fossero acqua d'Elsa l li pensier vani intorno a la tua mente, l e 'l piacer loro un Piramo a la gelsa [ . . . ]» (Pg 3 3 ,67-69); «Quando ambe­ due li figli di Latona, l coperti del Montone e de la Libra, l fanno de l'orizzonte insieme zona, l quant'è dal punto che 'l cenìt i' nlibra, l infin che l'uno e l'altro da quel cinto, l cambiando l'emisperio, si diii­ bra [ . .. ] » (Pd 2 9 , r -6: 'quando il sole e la luna, l'uno in Ariete e l'altra in Bilancia, vedono il proprio disco tagliato a metà dal cerchio dell'o­ rizzonte, dal momento in cui lo zenit li tiene in perfetto equilibrio a quello [immediatamente successivo] in cui, tramontando l'uno e sor­ gendo l'altra, se ne sciolgono') ecc. E perviene a nodi di ermetismo tuttora insoluti: «Così si fa la pelle bianca nera l nel primo aspetto de la bella figlia l di quel ch'apporta mane e lascia sera» (Pd 27, r 3 6- r 3 8 ; forse 'il candore dell'anima s i annerisce, al primo apparire della figlia del Sole, Circe, immagine delle tentazioni mondane') . Anche lo sfruttamento di motivi e forme comico-realistiche è mol­ to più ampio di quanto non possano documentare i pochi testi del genere arrivati a noi con la firma di Dante (ma vedi PARR . 3 · 3 e 4.3 . 2 ) . Un intero episodio infernale, il battibecco fra Maestro Adamo e Sinone, è dedicato a rievocare quei modi, resi espressivi da una si­ tuazione morale appropriatamente degradata: «S'i' dissi falso, e tu falsasti il conio», disse Sinon; «e son qui per un fallo, e tu per più ch'alcun altro demonio ! » «Ricorditi, spergiuro, del cavallo», rispuose quel ch'avea infìata l'epa ['pancia'] ; «e sieti reo che tutto il mondo sallo» «E te sia rea la sete [. .. ] ». (If 30, I I 5 - 1 2 I )

Lo si confronti col sonetto di Cecco Angiolieri: Dante Alleghier, s'i' so' buon begolardo, tu me ne tien' ben la lancia a le reni; s'i' desno con altrui, e tu vi ceni; s'io mordo 'l grasso, e tu vi sughi el lardo [. .. ] .

Tenuto conto d i tutte le tradizioni che sono vive nella memoria lette­ raria dantesca, caratteristica della Commedia è l'arte della composizio­ ne fra " accordi" che, senza essere deprivati della propria tonalità ori-

I .. A I . E T' I ' E I \ A T U H A I T A L I A N A D E L M E D I O E V O

g i n a ria, si ritrovano fusi in una nuova misura coerente e inconfondi­ bile. La misura dell'accostamento può essere ravvicinatissima, produ­

cendosi in tal modo gli effetti più tipici del " dantesco in Dante" Ora si tratta di un'irruzione di realismo (nel caso, tra Rustico Filippi e il profeta Ezechiele) dopo terzine di tenore elevato: una donna apparve santa e presta, . lunghesso ['accanto a'] me, per far colei confusa. [. . . ] L'altra prendea, e dinanzi l'apria fendendo i drappi, e mostravami 'l ventre; quel mi svegliò col puz zo che n'uscìa. (Pg 1 9 ,26-3 3 )

Ora è lo svolgimento di una posizione morale in un'immagine d i sor­ prendente concretezza (ma ben intonata al sermo humilis della Scrit­ tura sacra) : non v'accorgete voi che noi siam vermi, nati a formar l'angelica farfalla, che vola a la giustizia senza schermi? (Pg 1 0 , 1 24- 1 2 6 3) Ben fiorisce ne li uomini il volere: ma la pioggia continua converte in bozzacchioni le sosine vere. (Pd 27, 1 24 - 1 2 6 4)

La lettura del poema è insomma costante esperienza di varietà - degli oggetti e dei toni - e. unità - dell'ispirazione e del "ritmo " Quest'ul­ tima espressione si usa qui in senso traslato, più ampio di quello pro­ priamente metrico, per alludere all'effetto d'insieme che l'andamento del discorso dantesco produce. È un discorso di cui non si smarrisce mai la nervatura, sulla traccia dei parallelismi verbali, delle anafore, delle antitesi, dei chia­ smi, delle salde architetture di pensiero che reggono l'unità logica della terzina o (meno frequentemente) giocano sulla dissonanza fra ritmo del verso e andamento della frase (enjambement con valore enfatico: «la prima radice l del nostro amor», «Se per questo cieco l 3· Lo spunto è in un testo di Agostino, In Iohannem 1, 1 3 : gli uomini sono vermi che Dio trasforma in angeli. 4· Da Isaia 5 , 2 : Dio pianta una vigna [Israele] e, invece che uva, ottiene lam­ brusca.

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8.

LA COMMEDIA

carcere», «dal fiero pasto l quel peccator, forbendola a' capelli l del capo», «Tu vuo' ch'io rinovelli l disperato dolor», «lo novo peregrin d'amore l punge»). È un discorso che continuamente si allarga, si amplifica (similitu­ dini, perifrasi, digressioni, descriptiones ecc.), per poi concentrarsi e addensare la sua energia in un traslato («li occhi rivolgi al logoro che gira l lo rege eterno» [Pg 1 9 , 6 1 -62 ; il logoro. è un richiamo per falco­ ni, qui sta per 'il cielo'] ) , in un'espressione ellittica («E io li aggiunsi: "E morte di tua schiatta! " » ; I/ 2 8 , ro9) o in una sola parola culmi­ nante («L'oltracotata schiatta che s'indraca»; Pd r 6 ; u 5 ) . Autentica "firma " dantesca è , appunto, la scelta di un vocabolo di sonorità consistente, raro o inedito (almeno nella lingua poetica), per un traslato dal concreto all'astratto, dal tecnico-pratico allo spirituale: «a riguardar s'alcun se ne sciorina» (I/ 2 r , r r 6 ) ; «Se l'ira sovra 'l mal­ voler s'aggue/fa» (I/ 2 3 , r 6 ; termine della filatura, 's'ammatassa, si ag­ giunge') ; «di vera luce tenebre dispicchi» (Pg I 5 ,66) ; «secondo l che buoni e rei amori accoglie e viglia» (Pg I 8 ,66; significa la pulitura del grano dopo la trebbiatura) ecc. Si intende bene, dunque, l'estrema rilevanza stilistica della ricerca lessicale dantesca. Dante ha creato la lingua della Commedia integran­ do il dizionario fiorentino - utilizzato senza limiti, finò al «municipa­ le» introcque - con estratti dal latino, sia classico sia biblico (cive, agricola, iaculi, libito, licito ecc.), sia letterario sia tecnico (zona, emi­ sperio, geomètra, antòmata, epa, oppilazion ecc. ) ; da volgari italiani di­ versi dal fiorentino (spesso per caratterizzare dei personaggi: lucchese issa [Pg 24,5 5 ] , sardo danno [I/ 2 2 , 83 ] , bolognese sipa U/ I 8 , 6 I ] ecc. ) ; dai volgari transalpini (baccialier, beninanza, caribo, croio, fallen­ za, gabbare ecc. ) . Vi sono, per esigenze speciali, inserti di espressioni e frasi latine (pensiamo a Pg 30, I I ss., o a Pd r 5 ,2 8-30: «0 sanguis meus, o superinfusa l gratia Dei, sicut tibi cui l bis unquam coeli ia­ nua reclusa?», con cui Cacciaguida solennizza la missione dantesca) e i versi provenzali di Arnaut (Pg 2 6 , r 3 9- I 47 ) , oltre agli esperimenti " comici" di intraducibili lingue infernali (Ij 7 , I : «Papé Satàn, Papé Satàn, aleppe ! ») o, comunque, di punizione (Ij 3 1 ,67, dove parla Nembrot: «Raphèl maì amècche zabì almi») . Significativamente alto è il numero delle neoformazioni dantesche, perlopiù di tipo parasinteti­ co, secondo modalità non prive di antecedenti nella lirica romanza (Guittone ha i(n)membrare, 'penetrare' ; inamare, 'prendere all'amo' ) , m a qui in spirito d i precisione concettuale e brevitas espressiva: «Lor corso in questa valle si diroccia» (I/ r 4, r r 5 : 'scende di roccia in roc­ cia') ;