Arte italiana del Medioevo e del Rinascimento. vol. I. Pittura


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Arte italiana del Medioevo e del Rinascimento. vol. I. Pittura

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COLLANA DEL KUNSTHISTORISCHES INSTITUT INEEORENZ MAX-PLANCK-INSTITUT

in memoria di Julie e Hélène

Max Seidel

Arte italiana del Medioevo e del Rinascimento Volume 1: Pittura

Marsilio

Traduzioni Marina Bistolfi: pp. 193-442, 489-707 (vol. 1); pp. 49-270, 289-418, 435-448, 565-638, 645-724, 821-862 (vol. 11)

Silvana Seidel Menchi: pp. 81-192 (vol. 1); pp. 271-288, 419-434, 449-564, 639-644 (vol. n1)

Maurizio Ghelardi: pp. 777-820 (vol. n) Romano Silva: pp. 725-744 (vol. 11) Redazione Guido Tigler (G. T.) Fotografie a colori Andrea Lensini, Luigi Artini

La presente pubblicazione è stata realizzata grazie al generoso finanziamento della “Drews-Stiftung”, della Mannesmann AG e di Rolf e Irene Becker

In copertina

Ambrogio Lorenzetti, Superbia, Siena, Palazzo Pubblico, Sala della Pace

Progetto grafico Tapiro, Venezia

© 2003 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia ISBN 83-317-8142-1 Prima edizione: aprile 2003

INDICE

Max Seidel ARTE ITALIANA DEL MEDIOEVO E DEL RINASCIMENTO VOLUME 1: PITTURA

RINASCIMENTO 455

TAVOLE LXIV-XCV

489

Contributo alla storia sociale della pittura senese del Rinascimento

557

La «Societas in arte pictorum» di Francesco di Giorgio e Neroccio de’ Landi

995)

Gli affreschi di Francesco di Giorgio in Sant'Agostino a Siena

645

Luca Signorelli intorno al 1490

Premessa

MEDIOEVO (CAVOTEST:SXITI Giotto: la Croce di Santa Maria Novella 161

«Castrum pingatur in palatio». Ricerche storiche e iconografiche sui castelli

dipinti nel Palazzo Pubblico di Siena 195

Iconografia e storiografia. «Conversatio angelorum in silvis»: immagini di eremiti di Simone Martini e Pietro Lorenzetti

245

«Dolce vita».

Il ritratto dello stato senese dipinto da Ambrogio Lorenzetti 295

Vanagloria. Studi sull’iconografia degli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nella “Sala della Pace”

341

Gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti in Sant Agostino a Siena

DIC)

Un capolavoro riemerso di Ambrogio Lorenzetti. A proposito dei restauri nel convento

di San Francesco a Siena 409

Studi sull’iconografia nuziale del Trecento

443

Riassunti di altri saggi sulla pittura gotica (G.T.) - L'attività giovanile di Pietro Lorenzetti - Per la comprensione del linguaggio figurativo di Pietro Lorenzetti - Affreschi gotici scoperti di recente in Sant'Agostino a Siena

ARTE ITALIANA DEL MEDIOEVO BIBI RINASCE NO VOLUMI RIME

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XXIV. Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo, Siena, Palazzo Pubblico, Sala della Pace

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argento (stagno); linea rossa = limite della parte ridipinta XXV. Allegoria del Buon Governo, r/costruzio? ve dei metalli: giallo = oro, celeste == argen da Andrea Vanni (a destra)

42

XXVI. Ambrogio Lorenzetti, Alle lo) oria del Buon Governo (Pace), Siena, Palazzo Pubblico, Sala della Pace (0,

XXVII. Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo, particolare (parte sinistra), Siena, Palazzo Pubblico, Sala della Pace

44

XXVIII. Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo, particolare (cittadini concordi), Siena, Palazzo Pubblico, Sala della Pace

XXIX. Ambrogio Lorenzetti, Città ideale (danzatrici), Siena, Palazzo Pubblico, Sala della Pace

XXX. Ambrogio Lorenzetti, Siena città ideale, Siena, Palazzo Pubblico, Sala della Pace

fra le parti di Ambrogio Lorenzetti XXXI. Città ideale, evidenziazione della tecnica pittorica (giallo = fresco, grigio = secco), della separazione e di Andrea Vanni (linea rossa) e delle parti ridipinte dal Vanni sopra l'intonaco precedente conservato (viola)

XXXII. Ambrogio Loren zetti, Citt à idea ](©) (d (eanzat ricii), Ste na

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XXXIII. Citt à ideale (una danzati vie (D]

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7 4. Giotto, Madonna di San Giorgio alla Costa, Firenze, Museo Diocesano di Santo Stefano al Ponte

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LA CROCE

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75. Giotto, Madonna, Firenze, Santa Maria Novella

morbidi tratti di pennello che creano effetti di luce e ombra (un analogo procedimento è stato accertato nell’analisi della Madonna di San Giorgio alla Costa; fig. 66).!

Proprio il gusto della sperimentazione, che indusse Giotto ad applicare molteplici tecniche di disegno alla sua opera giovanile di Santa Maria Novella — dallo schizzo abbozzante all’accurata trasposizione del modello precostituito, fino alla riproduzione del modello stesso tramite poche linee essenziali — contrassegna questa croce rispetto a tutte

le posteriori opere giottesche finora sottoposte a riflettografia a raggi infrarossi. Già nell'opera di Rimini Giotto si dimostra propenso ad adottare un procedimento operativo unitario, che tratta tutte le parti con una analoga pennellata (figg. 67-68). Questo tipo di disegno preparatorio viene sostanzialmente mantenuto tale e quale nel crocifisso padovano (fig. 69), il che prova ancora una volta lo stretto legame cronologico che lega le opere di Rimini e di Padova.

V. LE MADONNE E DI SAN

, Museo 76. Giotto, Madonna di San Giorgio alla Costa, Firenze Ponte al o Stefan Santo Diocesano di

DI BORGO

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I disegni preparatori riportati in luce dalla riflettografia a raggi infrarossi evidenziano l'analogia stilistica della Croce di Santa Maria Novella con la Madonna di Borgo San Lorenzo, cioè con il frammento di un’opera giovanile di Giotto scoperto fra il 1982 e il 1984 dall’Opificio delle Pietre Dure e Laboratori di Restauro al di sotto di una ridipintura posteriore che ne aveva completamente falsifica-

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78. Giotto, Madonna col Bambino, Assisi, San Francesco

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Mus eo Diocesano di Santo Stefano al Ponte 80. Giotto, Madonna di San Giorgio alla Costa, Firenze,

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81. Giotto, Croce, Firenze, Santa Maria Novella

GIOTTO.

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DI SANTA

MARIA

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83. Cimabue, Croce, Arezzo, San Domenico

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84. C tOtto, (Gi oce, Firenz e, Santa Marta | |ovella

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Marittima, Duomo 85. Giovanni Pisano, Crocifisso, Massa

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86. Giotto, Croce, Firenze, Santa Maria Novella

to i tratti (fig. 70). Questa attribuzione viene oggi accettata senza contraddizioni, così come si accetta la datazione al periodo degli affreschi assisiati delle Storze d'Isacco, che Luciano Bellosi propose per primo nel 1985.58° I disegni preparatori della Madonna di Borgo San Lorenzo e della Croce di Santa Maria Novella hanno caratteristiche identiche (figg. 71-73). Con pochi tratti veloci Giotto delinea la struttura delle pieghe. Nell'opera fiorentina (figg. 72-73) la mano fa l’effetto di essere un tantino più sicura, il che potrebbe essere interpretato come indizio di una origine appena più tarda. Il dato importante che emerge dalla scoperta è però la contiguità cronologica rispetto ai più antichi affreschi assisiati di Giotto e la conferma che ne consegue della datazione della Croce di Santa Maria Novella all’epoca degli affreschi d’Isacco. Questa ricostruzione cronologica risulta integrata e preci-

sata da una più attenta indagine della Madonna di San Giorgio alla Costa (fig. 74). Per quanto Lorenzo Ghiberti avesse già designato questo dipinto come opera di Giotto, la storia dell’arte è stata sorprendentemente lenta nel riscoprirla. Il primo ad attribuire la tavola a Giotto fu, nel

1937, Robert Oertel.? L'attribuzione ha incontrato ampio consenso, a prescindere da qualche voce dissonante. Varrà la pena di ricordare, a titolo di curiosità, che Richard Offner, pur respingendo la paternità di Giotto, attribuì l’opera al “Master of the Santa Maria Novella Cross” da lui inventato.88 Gli ultimi dubbi circa la paternità di Giotto dovrebbero essere stati dissipati dal restauro intrapreso nei laboratori dell’Opificio. La scrupolosa ripulitura ha riportato in luce quella plasticità nella trattazione del drappeggio che costituisce un tratto caratterizzante del maestro. Richiamo il lucido giudizio di Giorgio Bonsanti nella relazione a stampa sull'intervento di restauro: Il recupero di questo panneggio [del manto della Vergine] sotto la sorda, impenetrabile coltre marrone che omologava tutta la superficie della tavola, costituisce l’apporto specifico veramente fondamentale arrecato agli studi di storia dell’arte dal presente restauro. Le pieghe emergono rigonfie alla luce ed affondano nel blu più cupo, con un’esasperazione del plasticismo che manifesta l'intenzione dell’artista di gareggiare col mezzo della scultura, quasi volesse impadronirsi delle sue prerogative di restituzione tridimensionale. La gamba destra

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89. Giotto, Esaù davanti a Isacco, Assisi, San Francesco

della Vergine acquista così un’emergenza inaudita, stagliandosi sotto le pieghe del manto a guisa di una colonna, ferma, incrollabile.8

La datazione alla metà degli anni novanta proposta da Bonsanti, che colloca la Madonna di San Giorgio dopo le opere di Borgo San Lorenzo e di Santa Maria Novella, è molto convincente.” Gli argomenti addotti da Bonsanti a sostegno di questa tesi sono l’analogia nell’ornato fra la Madonna di San Giorgio e la Croce del Tempio Malatestiano in Rimini, e soprattutto le «numerose premonizioni

del momento giottesco padovano». Le informazioni acqui-

site grazie al recentissimo restauro della Croce di Santa Maria Novella confermano questa cronologia. Si contronti per esempio, nei due dipinti fiorentini, la forma del manto che ricade sopra il polso: a Santa Maria Novella questo canone di pieghe viene sperimentato in modo ancora esi-

tante (fis. 75), nell'opera posteriore di San Giorgio esso acquista sicura forza espressiva (fig. 76).

La ricostruzione di questa relazione cronologica fra i dipinti di Santa Maria Novella e di San Giorgio alla Costa è importante anche come convalida della tesi che il

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91. Giotto, Esaù davanti a Isacco, Asszsi, San Francesco

Crocifisso di Santa Maria Novella sia stato portato a compimento prima dell’inizio degli affreschi che illustrano la Vita di San Francesco (cfr. supra, p. 69). Infatti la Madonna di San Giorgio si presenta come l’esatto corrispettivo stilistico della centosessantottesima giornata del ciclo di San Francesco (figg. 77-78) ed è perciò sicuramente databile alla stessa fase produttiva di Giotto.”! L'evoluzione dell’artista dalla Madonna di Borgo San Lorenzo alla Madonna di San Giorgio, ricostruita nelle pagine precedenti, deve essersi compiuta nell’arco di un periodo relativamente breve, forse non più di cinque anni. Questa conclusione è suggerita dalla sorprendente costanza di alcuni stilemi. Forma ed espressione degli occhi della Madonna di Borgo San Lorenzo e del Gesù Bambino di San Giorgio (figg. 79-80) sono legati da una somiglianza così stretta che un osservatore all'oscuro del contesto dal quale questi due particolari sono stati presi potrebbe essere indotto a congetturare una provenienza dallo stesso dipinto.

VI. GIOVANNI

PISANO,

ARNOLFO

DI CAMBIO

La storiografia dell’arte suole rapportare il Crocifisso di Giotto (tavola 1) alle opere del suo maestro Cimabue. Da

questo confronto Giotto esce come un radicale innovatore («a change of this magnitude has seldom occurred»).? Ricordo ad esempio la già citata definizione di Giovanni Previtali nella sua monografia giottesca, che costituisce ancor oggi un’opera di riferimento: «Nella Croce di Santa Maria Novella Giotto supera di un balzo la tradizione iconografica Giunta-Cimabue, che faceva del crocifisso una sorta di simbolo araldico della Passione, e, per la prima volta nella storia, dipinge un uomo, un uomo vero, crocifisso».? Anche Bruce Cole — per citare un altro testo di larga consultazione, soprattutto nell’area di lingua inglese — apre il capitolo sull’opera giovanile di Giotto con il “classico confronto” fra il Crocifisso di Cimabue in Santa Croce e quello di Giotto in Santa Maria Novella: The basic conception of the two Christ figures is strikingly different. Cimabue’, although more naturalistic than anything produced up to the time, seems symbolic when compared with the stark realism of Giotto’, where the vestiges of the old abstraction have been done away with and the spectator is confronted with the awesome image of a dead, greenish Christ hanging from a cross. No longer does the figure share the majestic iconic conception of even the last of Cimabue’s Christs. The remote, heroic Son od God has been replaced by a very human image od a dead man divested

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92. Giotto, Croce, Firenze, Santa Maria Novella

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93. Giotto, Esaù davanti a Isacco, Assisi, San Francesco

of all the old associations of hierarchical grandeur which date back to the very beginning of Florentine art.”

Ma quanto più si accentua la distanza fra Giotto e Cimabue, tanto più diventa difficile spiegare la genesi di Giotto: Although the origins of Giotto” style can be assumed to be in Cimabue Florence, they have been so assimilated and transformed by his visual genius that they are almost unrecognizable [...]. There is no precise answer as to where Giotto's early style came from [...]. The reason for the great difference between Giotto’s art and that of his most immediate forerunners is an unsolved mystery?

Per uscire dal vicolo cieco dello «unsolved mystery» conviene allargare l'orizzonte dell'indagine, considerando, oltre alla storia della pittura toscana, altre possibili aree di riferimento. Molto promettente mi sembra la tesi proposta dallo storico d’arte viennese Gerhard Schmidt, che assegna a «fenomeni dell’arte plastica» un valore paradigmatico rispetto alla produzione di Giotto: Giotto ebbe un occhio molto attento per i fenomeni dell’arte plastica, che per via diretta o rielaborata potevano servire a dare espressione alla sua intenzione artistica, fortemente legata a valori tattili. Il suo obiettivo non era un “naturalimo” puro e semplice — come voleva Vasari —, ma una convincente rappresentazione dei volumi: nella situazione storica in cui

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94. Arnolfo di Cambio, Monumento a Carlo d'Angiò, Rorza, Musei Capitolini

95. Arnolfo di Cambio, Monumento De Braye, Orvieto, San Domenico

egli si trovava ad operare, questa dimensione poteva essere esplorata solo nelle opere della scultura. Perciò ai suoi occhi Arnolfo deve essere stato più importante di Cimabue [...]. Non vi è dubbio che anche altri pittori del suo tempo abbiano occasionalmente ammirato una scultura [...]. Nessuno di loro però sembra avere avuto l’intenzione, per non parlare della capacità, di creare nella propria opera pittorica l’impressione della plasticità servendosi di mezzi illusionistici.?°

modello di Giotto, il Crocfisso ligneo del Duomo di Pisa (fig. 82), è stato sostanzialmente ignorato fino al 1986, fino al suo restauro e al suo trasferimento nel Museo dell’Opera del Duomo, di recente apertura.” A partire dal xvm secolo la scultura era stata conservata dietro una grata, entro una nicchia assai elevata del monumento funebre dell’ar-

Il ruolo esemplare che rivestì la scultura di Arnolfo di Cambio è stato illustrato più volte. Se però Arnolfo sia stato agli occhi di Giotto più importante di Cimabue, come vuole Gerhard Schmidt, sembra almeno opinabile. Nel trattare il tema “Giotto e la scultura” converrebbe a mio avviso dedicare più attenzione al più grande scultore italiano contemporaneo di Giotto: a Giovanni Pisano. Il valore paradigmatico che l’arte di Giovanni Pisano assunse per la tavola di Santa Maria Novella non è stato finora riconosciuto perché le sue sculture che si possono rapportare a Giotto sono state indagate e pubblicate solo in tempi recentissimi. L’opera che — stando allo stato attuale delle conoscenze — risulta più vicina al presumibile

civescovo Francesco Pannocchieschi d’Elci, nel Duomo di

Pisa, e risultava di conseguenza inaccessibile allo sguardo dei visitatori. I pochi storici dell’arte che avevano avuto la possibilità di studiarla dall'alto di una scala o di una impalcatura, riuscirono solo a intuirne l’importanza, perché ridipinture posteriori e alterazioni falsificanti della composizione avevano deformato l’opera, quasi integralmente annerita.

Chi osservi oggi la scultura lignea del Duomo pisano nella policromia originale, quasi integralmente conservata e ri-

portata in luce dal recente restauro (fig. 82), riconosce immediatamente che una scultura di Giovanni Pisano deve avere avuto un ruolo decisivo come anello di congiunzione fra Cimabue (fig. 83) e Giotto (fig. 81, tavola rv). Nel periodo compreso fra il 1270 e il 1280, cioè nel decennio precedente alla realizzazione dell’opera giovanile di Giotto

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- MEDIOEVO

96. Cimabue, Croce, Firenze, Santa Croce (prima dell'alluvione)

97. Giotto, Croce, Firenze, Santa Maria Novella

in Santa Maria Novella, Giovanni aveva creato un’imma-

Rinascimento, del barocco e del classicismo questo genere non era apprezzato e dunque non era considerato meritevole di tutela. Presumo che Giotto conoscesse sculture di Giovanni risalenti al periodo attorno al 1290, che non ci sono pervenute, ma delle quali possiamo ricostruire l’aspetto per analogia con i capolavori della fine del xm secolo — come la scultura del Duomo di Massa Marittima;?5 che nella configurazione del torace fortemente prominente e nell’accentuazione delle costole appare straordinariamente vicino alla figura giottesca di Santa Maria Novella (figg. 84-85). Una ulteriore testimonianza del collegamento fra le sculture lignee di Giovanni e la Croce di Giotto è oggi dimostrabile solo per via indiretta. Nel corso del restauro del Crocifisso ligneo scolpito da Giovanni fra il 1270 e il 1280, oggi conservato nel Museo dell'Opera del Duomo di Siena, i tecnici e gli studiosi dell’Opificio delle Pietre Dure e Laboratori di Restauro scoprirono nel cartiglio iscrizioni in latino, in greco e in ebraico” — un’idea assolutamente eccezionale nell'arte medioevale, di cui Giotto per primo si appropriò nella Croce dipinta di Santa Maria Novella. Il restauro recente della croce giottesca ha avuto l’effetto

gine del Cristo crocifisso che — per riprendere la formula già citata di Previtali — non rappresentava più «un simbolo araldico della Passione», ma «un uomo, un uomo vero,

crocifisso». Soprattutto il confronto fra il volto di Cristo nell’interpretazione di Giotto e nella visione di Giovanni Pisano rivela l'intensità del dialogo formale che deve essere intercorso fra il pittore e lo scultore (figg. 81-82, tavola v). A fronte del “moderno” linguaggio della scultura pisana, il Cristo di Cimabue (fig. 83) parla una lingua dalle assonanze arcaiche. L’ammirazione di Giotto per i crocifissi lignei di Giovanni

Pisano conferma l’alto prestigio di cui essi godevano nell’ultimo quarto del xm e all’inizio del xtv secolo. Nell'iscrizione del suo pulpito del Duomo di Pisa Giovanni stesso attesta la fama di cui godeva questo genere artistico. Nessun altro scultore, nemmeno Arnolfo di Cambio, osò entrare in concorrenza con Giovanni in tale campo. Evidentemente l'artista poteva permettersi di selezionare i committenti di questo genere di opere. Infatti eseguì crocifissi lignei solo per chiese importanti, per le quali egli aveva realizzato anche sculture in marmo: per le cattedrali di Pisa, Siena, Massa Marittima e Prato, per la pieve di

Sant'Andrea in Pistoia (e per l’attiguo oratorio di Santa Maria a Ripalta) e con la bottega per un’unica chiesa parrocchiale della sua città natale (San Nicola in Pisa). Che nell’ambito della scultura lignea medioevale le perdite siano state ingenti è fuori dubbio: nell’età del

di mettere in evidenza l’alta qualità della raffigurazione del teschio di Adamo (fig. 86, tavola vi), che Bruno Zanardi celebra a ragione come «un dettaglio naturalistico degno d’un fiammingo di un secolo e mezzo dopo». Questo apprezzamento non deve però farci dimenticare che più di due decenni prima un altro artista toscano aveva raggiun-

to un analogo vertice di osservazione realistica. Il prece-

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trude 98. Crocifisso, Reliquiario di Santa Gertrude, Nivelles, Fabrique de l’Église collégiale Sainte-Ger

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- MEDIOEVO

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99. Andrea Pisano (2), Crocifisso, Massa Marittima, Duomo

100. Guccio di Mannaia, Calice, Assisi, Museo del Tesoro della Basilica di San Francesco

dente al quale Giotto fa riferimento è, in senso generale, l’impressionante ma poco realistica interpretazione che del teschio di Adamo aveva dato Cimabue ad Assisi (fig. 88). Molto più vicine alle sue intenzioni dovettero però essere le sculture realizzate da Nicola Pisano in collaborazione con Giovanni per il pulpito del Duomo di Siena (fig. 87). Il particolare del teschio nella Croce di Santa Maria Novella (fig. 86) costituisce, per usare una formula un po’ ardi-

gnificato, del suo messaggio spirituale. E ciò va detto, vedremo, non solo per i più complessi raggiungimenti della maturità, ma per l’intero sviluppo della sua arte, fin dalla sua prima sorgente. Giotto, sulla via aperta, in Italia, dai Pisani e da Arnolfo, nasce nella affermazione di quei nuovi valori, nella apertura verso quel mondo.!°

ta, un omaggio a Giovanni. L’ammirazione di Giotto per Arnolfo di Cambio si manifesta soprattutto nell'esecuzione del perizoma (figg. 90, 92). Nel capolavoro fiorentino il pittore recepisce il canone formale di Arnolfo (figg. 94-95), che funse da modello anche per le Storze d’Isacco in San Francesco d'Assisi (figg. 89, 91, 93), cioè per quelle creazioni che più palesemente risentono dell’influsso dell’allievo di Nicola Pisano (Cesa-

re Gnudi parlava, in termini lievemente iperbolici, di «una scultura di Arnolfo tradotta in pittura»).!®!

VII. GOTICO

EUROPEO

Rendiamoci conto che al modo stesso che sarebbe inconcepibile comprendere Dante senza tutto l’apporto della cultura letteraria e filosofica francese ed europea, così per Giotto sarebbe impossibile comprendere il significato e la portata della sua nuova sintesi senza l'acquisizione di quel mondo, non già in elementi marginali e parziali, ma nella totalità del suo si-

Con questi rilievi Cesare Gnudi propugnava la tesi, cara soprattutto a storici d’arte di lingua tedesca — Hermann Grimm,!® Axel Romdahl,!* Georg Weise,!% Hans Jantzen,!° Gerhard Schmidt! —, del ruolo paradigmatico che la scultura gotica francese avrebbe avuto per l’arte di Giotto. Per quanto convincenti fossero, in linea di massi-

ma, queste idee, tuttavia esse si concretizzarono in formulazioni sconcertanti. Quando per esempio Hans Jantzen

affermava che «ciò che differenzia Giotto dalla pittura del x secolo è proprio ciò che egli ha in comune con la scultura delle cattedrali del nord»,!9 l’asserzione suonava iperbolica. Tutti i sostenitori di questa tesi inoltre supponevano che Giotto avesse compiuto viaggi nella Francia del nord. Poiché non abbiamo testimonianze circa l’attività artistica di Giotto in Francia, i suoi viaggi avrebbero dovuto essere veri e propri viaggi di studio: un’idea poco verosimile in un pittore gravato da una tale mole di incarichi. Per di più, la maggior parte dei sostenitori della tesi francese erano dell’opinione che Giotto avesse apprezzato la scultura gotica classica, cioè soprattutto le sculture della catte-

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LA CROCE

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MARIA

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ISI

101. Guccio di Mannaia, Calice (particolare), Assisi, Museo del Tesoro della Basilica di San Francesco

102. Crocifisso, Beromzinster, St. Michael

drale di Reims della prima metà del xm secolo, non le opere a lui contemporanee del tardo xm secolo:

Fra le più alte testimonianze di questa oreficeria figura l’arca di santa Gertrude di Nivelles, eseguita fra il 1272 e il 1298 sotto l’influsso diretto dell’arte parigina.!!! Il minuzioso contratto del 1272 menziona come destinatari dell’incarico Colay de Donay, Jaquemon de Nivelle e Jakenez d’Anchin (quest’ultimo con il compito di eseguire il dise-

E ben si comprende perché i nostri artisti guardarono alle opere in cui si manifesta quella pienezza classica e in cui si attua quella sintesi, e non agli aspetti contemporanei di quella civiltà che ormai scendeva dalla grandezza di quell’ordine monumentale e di quel classico equilibrio verso gli aspetti del gotico manierato e prezioso, verso gli aspetti più diffusi e “in-

ternazionali” del gotico minore."

Lo studio del Crocifisso di Santa Maria Novella offre alcuni spunti che permettono di rettificare e ampliare quelle tesi. Non è necessario congetturare che Giotto affrontasse un lungo, disagevole e dispendioso viaggio per venire in contatto con la scultura gotica francese. Questo contatto poteva avvenire anche grazie alla mediazione di sculture portatili, soprattutto opere di oreficeria, che nel tardo Duecento circolavano anche in Italia. La supposizione di una esclusiva concentrazione dell'interesse di Giotto sullo stile classico della scultura francese della prima metà del x secolo è smentita dall’analogia che lega il crocifisso di Santa Maria Novella a capolavori dell’oreficeria francese del tardo Duecento (figg. 97-98, tavola 1).!!

gno: «selonc le pourtraiture ke maistre Jakenez d’Anchin,

li orfèvre, at fait»).!!° L’opera deve essere stata conclusa al più tardi nel 1298, data della traslazione delle reliquie di santa Gertrude, figlia di Pipino I e prima badessa del convento di Nivelles, morta nel 659, nell’arca stessa. Il 14 maggio 1940, nel corso di un bombardamento, l’arca subì gravi danni. La ricomposizione di alcune sue parti è iniziativa molto recente. I risultati del restauro sono stati esposti nel 1995 e nel 1996 in due mostre tenute rispettivamente nel Museo Schniitgen di Colonia e nel Musée National du Moyen-Age (Thermes de Cluny, Parigi). Quella che qui ci interessa è la figura del Cristo crocifisso, altezza cm 22, che ha potuto essere ricomposta in modo praticamente integrale." La presento qui non nelle immagini recenti, eseguite dopo il restauro, ma nell'antica

documentazione fotografica, anteriore al 1940, che la ri-

produce nel contesto dell’architettura originaria dell'arca.

PITTURA

- MEDIOEVO

152

103. Giotto, Madonna (infrarosso), Firenze, Santa Maria Novella

Propongo di allargare il classico dialogo fra il Crocifisso di Cimabue in Santa Croce (fig. 96) e quello di Giotto in Santa Maria Novella (fig. 97) — che si risolve sempre nella presa d’atto di una sorprendente distanza di concezione e di composizione — a un terzo interlocutore. Se si ammette la congettura che Giotto fosse venuto a contatto con un’opera di oreficeria francese del genere cui appartiene la piccola scultura di Nivelles (fig. 98), il passaggio dall’uno all’altro dei crocifissi fiorentini diventa più comprensibile. Non è soltanto nella composizione, nelle proporzioni e nell’accentuato vigore della struttura corporea che il crocifisso francese somiglia alla figura giottesca. Ancora più significativi per il nostro assunto mi sembrano alcuni connotati del crocifisso di Nivelles, che sono spesso rilevati (non senza una nota critica) nell'immagine di Giotto: «It represents a body of muscular build and bone, more suited to rustic exertion [...] The muscles are taut with physical strain and the lungs expanded in breathing» (Offner).1!4 La ricezione di un modello della scultura francese come

quello di Nivelles avrebbe probabilmente incontrato l’approvazione dei committenti di Giotto, i domenicani di Santa Maria Novella. Si tenga presente il seguente passo della terza parte della Surzzza tbeologica, nel quale Tommaso d'Aquino mette in risalto il peso del corpo di Cristo pendente dalla croce: Doloris sensibilis causa fuit laesio corporalis; quae acerbitatem habuit, tum propter generalitatem passionis, de qua dictum est art. praec., et quaest. 15, tum etiam ex genere passionis, quia mors confixorum in cruce est acerbissima,

quia configuntur in locis nervosis et maxime sensibilibus, scilicet in manibus et pedibus; ef ipsum pondus corporis pendentis continue auget dolorem!

Quanto probabile è la presunzione che Giotto abbia visto

in Italia un’opera di oreficeria francese? Nonostante l’immensa percentuale delle perdite, che probabilmente supera il 95% del patrimonio originario, ci restano testimonianze della diffusione dei prodotti di questa arte, che solo

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rescinde

104. Giotto, San Giovanni Evangelista (infrarosso), Firenze, Santa Maria Novella

per rispetto delle convenzioni continuiamo a definire minore, in tutta l'Europa. Una delle testimonianze più notevoli è costituita da un crocifisso di argento dorato, altezza cm 19,5, eseguito da un orafo parigino negli anni intorno al 1300, che poco dopo l’esecuzione fu acquistato per la cattedrale svedese di Visteras.!! Un altro esempio da menzionare è il reliquiario d’oro in forma di croce, altezza cm 37, realizzato a Praga per il re Ottokar n (1261-1278) da un orefice influenzato dal gotico francese.!!” La croce d’argento eseguita probabilmente da Andrea Pisano fra il 1320 e il 1330 per il Duomo di Massa Marittima (fig. 99)!!8 postula la presenza in Toscana di una scultura del genere del crocifisso di Nivelles (fig. 98). Si deve presumere che questi prodotti dell’oreficeria francese che arrivavano in Italia approdassero soprattutto in San Francesco d'Assisi, che nella seconda metà del xm secolo

rappresentava un centro del gotico europeo. A questo pro-

posito basterà citare il giudizio di Enrico Castelnuovo sull'apparato decorativo del transetto della chiesa superiore: «Nell’insieme, considerando vetrate e affreschi, che pur

spettano a maestranze diverse, si trattò di uno dei casi più

macroscopici, per la qualità, la dimensione e la collocazione, di penetrazione gotica transalpina in Italia».!!° È noto che il tesoro di San Francesco conserva importanti testi-

monianze della importazione di prodotti di piccole dimensioni dell’oreficeria francese.!0 Di particolare pertinenza per il nostro assunto appare il ca-

lice (fig. 100) commissionato per San Francesco d’Assisi dal primo papa francescano Nicolò rv (1288-1292), un’opera la cui nascita è contemporanea agli affreschi assisiati di Giotto (l'iscrizione attesta il nome del committente e dell’artista: NiccHoLavs Papa ovarTtvs Gvecivs MANAIE DE

Senis FECIT).!! Guccio di Siena si rivela come un fervido ammiratore della miniatura contemporanea, soprattutto delle miniature del Maître Honoré,!? e come un conoscitore dell’oreficeria francese o dell’oreficeria gotica influenzata dall’arte francese. La sua crocifissione, rappresentata alla base del calice (fig. 101), autorizza la congettura che egli avesse studiato anche capolavori della scultura transalpina di piccolo formato, della quale il crocifisso

PITTURA

- MEDIOEVO

105. Giotto, Madonna, Firenze, Santa Maria Novella

di Sankt Michael in Beromiinster (fig. 102)!?? offre un classico esempio.

Il confronto fra la Madonna rappresentata nel braccio sinistro della croce nel disegno preparatorio riportato in luce dalla riflettografia (fig. 103) e la stessa Madonna nell'esecuzione definitiva (tavola n) mette in piena luce V’attualità dei modelli francesi per Giotto. Dopo l'esecuzione del disegno su carta e dopo il trasferimento delle linee principali della composizione dal disegno alla preparazione in gesso del dipinto tramite rapidi tratti di pennello — vale a dire immediatamente prima dell’esecuzione pittorica — l'artista modificò di nuovo l'andamento del drappeggio (figg. 103, 105). Invece di rivestire la Madonna di un panneggio specularmente corrispondente a quello della contrapposta immagine di San Giovanni (fig. 104, tavola m), secondo il disegno originario, Giotto strutturò il manto di Maria in ampie pieghe semicircolari (fig. 105). Con questa rettifica Giotto recepì uno dei principali connotati del drappeggio francese del tardo Duecento. Per attribuirgliene la conoscenza non è affatto necessario postulare un viaggio in Francia, per esempio una visita alla cattedrale di Meaux (fig. 107), nel cui portale meridionale questo modello di panneggio è presente in diverse variazioni. Prodotti dell’arte francese di dimensioni portatili

diffondevano in tutta l'Europa i canoni della nuova moda gotica. Accanto ai prodotti dell’oreficeria, anche avori francesi e inglesi — un esempio ci è offerto dalla Madonna in trono, altezza cm 17,7, conservata nella Yale University Gallery (fig. 108) — avrebbero potuto fornire a Giotto precisi modelli.!?4 La modifica che Giotto apportò alla Madonna della Croce fiorentina per influsso diretto di un modello francese (fig. 105) è stilisticamente significativa. La generazione succes-

siva dei grandi pittori toscani — mi limiterò a ricordare la Madonna affrescata da Simone Martini in San Francesco d’Assisi (fig. 106) — attribuì valore canonico a questa struttura di pieghe. î

Pubblicato con il titolo «“Il crocifixo grande che fece Giotto”. Problemi stilistici», 27: M. Ciatti, M. Seidel (a cura di), Giotto. La

Croce di Santa Maria Novella, Firenze 2001, pp. 65-157. R. Oertel, «Wende der Giotto-Forschung», Kunstgeschichte, x1 (1943/44), p. 1.

in: Zestschrift. fir

? Idem, «Giotto-Ausstellung in Florenz», in: Zestschrift. fer Kunstgeschichte, vi (1937), pp. 218-238. ? C. Gnudi, «Su gli inizi di Giotto e i suoi rapporti col mondo goti-

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106. Simone

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San Francesco

PITTURA

- MEDIOEVO

107. Meaux, portale meridionale della cattedrale

co», in: G/otto e il suo tempo, Atti del Congresso internazionale per la celebrazione del vn centenario della nascita di Giotto, Roma 1971, PARLA 4 ].L. Cannon, Dorzinican Patronage of the Arts in Central Italy: the

Provincia Romana c. 1220-c. 1320, London 1970, p. 226 (Ms. Kunsthistorisches Institut in Florenz). ? R. Offner, A critical and historical Corpus of Florentine Painting, section ni, vol. vi, New York 1956, pp. 9-18. 6 Ibidem, pp. 15-17. ? Ibidem, p. 9. $ G. Previtali, Giotto e la sua bottega, Milano 1967, p. 31. ? B. Cole, Giotto and Florentine Painting 1280-1375, New YorkEvanston-San Francisco-London 1976, pp. 40-43. !0 Cfr. R. Lunardi, «Santa Maria Novella e la Croce di Giotto», in: M. Ciatti, M. Seidel (a cura di), Giotto. La Croce di Santa Maria Novella, Firenze 2001, pp. 159-178.

!! R. Offner, op. at. (vedi nota 5), p. 11. La notizia di V. Fineschi (Memorie Istoriche degli Uomini Illustri del Convento di S. Maria Novella di Firenze, Firenze 1790, p. 321) ripresa da R. Offner e da A. Smart (The Assisi Problem and the Art of Giotto, Oxford 1971, pp. 76 ss.) non è stata comprovata da alcun documento originale. ? H. Thode, Francesco d'Assisi e le origini dell’arte del Rinascimento in Italia (1 ed. Berlino 1885), a cura di L. Bellosi, Roma 1993, pp. 202, 209.

? R. Oertel, op. cit. (vedi nota 1); Idem, op. cit. (vedi nota 2). 4 P. Toesca, Giotto, Torino 1941, pp. 72-75. ° R. Salvini, Tutta la pittura di Giotto, Milano 1952, pp. 24-25. °C. Gnudi, Giotto, Milano 1959, pp. 58-62. M. Meiss, Grotto and Assisi, New York 1960, pp. 11-25. 5 F. Bologna, La pittura italiana delle origini, Roma-Dresda 1962, p. 155,

” M. Gosebruch, Giotto und die Entwicklung des neuzeitlichen

GIOTTO.

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DI SANTA

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157

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108. Madonna, New Haven, Connecticut, Yale University Art Gallery (Maitland F. Griggs 1896 Fund: 1956.17.5)

Kunstbewusstseins, K6ln 1962. 20 G. Previtali, op. cit. (vedi nota 8), pp. 300-301. 2! C. Volpe, «La formazione di Giotto nella cultura di Assisi», in: Giotto e i giotteschi in Assisi, Roma 1969, pp. 41-59.

2 C.L. Ragghianti, «Percorso di Giotto», in: Critica d'Arte, xvi, 101-

102 (1969), p. 13.

3 P. Venturoli, «Giotto», in: Storia dell’Arte, 1/2 (1969), pp. 148149.

2 M. Boskovits, «Nuovi studi su Giotto ad Assisi», in: Paragone, 261

(1971), p. 39.

8 G. Bonsanti, Grotto, Padova 19835. 26 L. Bellosi, La pecora di Giotto, Torino 1985. G. Ragionieri, «Pittura del Trecento a Firenze», in: La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, vol. 1, Milano 1986, p. 284. 28 E Todini, «Pittura del Duecento e del Trecento in Umbria e il cantiere di Assisi», in: La pittura in Italia, Il Duecento e il Trecento, vol.

ri, Milano 1986, pp. 387-388. 29 S. Bandera Bistoletti, Giotto. Catalogo completo dei dipinti, Firenze 1989, pp. 14-23. 30 A. Tartuferi, La pittura a Firenze nel Duecento, Firenze 1990, p. 65.

31 M, Ciatti, «La conservazione dei dipinti oggi: problemi, metodi e risultati», in: Problemi di restauro, a cura di M. Ciatti, Firenze 1992, DIzile

} 3 34 5

A. Busignani, Gvotto, Firenze 1993, pp. 32-37. F. D’Arcais, Gzotto, Milano 1995, pp. 24-25. L. Cavazzini, Grotto, Firenze 1996. M. Boskovits, «Giotto: un artista poco conosciuto?», in: Giotto —

Bilancio critico di sessant'anni di studi e ricerche, a cura di A. Tartuferi, Firenze 2000, pp. 75 ss. 3 I, Bellosi, «Giotto e la Basilica Superiore di Assisi», in: A. Tartuferi (a cura di), op. ci. (vedi nota 35), pp. 33 ss.

PITTURA

- MEDIOEVO

v G. Bonsanti, «La bottega di Giotto», in: A. Tartuferi (a cura di), op. cit. (vedi nota 35), p. 59. 38 L. Coletti, I prizzitivi, Novara 1941, p. x1.

9 E. Garrison, «A tentative reconstruction of a tabernacle and a group of romanizing florentine panels», in: Gazette des Beaux-Arts, xx1x, 1 (1946), pp. 321-346, alle pp. 335-336.

4 C. Brandi, «Giotto», in: Le Arti, 1, 1 (1938), pp. 13-14. 4 E Hermanin, L'arte in Roma dal vm al x1v secolo, Bologna 1945. 4 M, Salmi, «La “renovatio Romae” e Firenze», in: Rinascimento, 1

158

(1950), p. 19.

5 ]. White, The Birth and Rebirth of pictorial space, London 1957.

4 E Zeri, «Introduzione», in: B. Zanardi, I/ cantiere di Giotto. Le storie di San Francesco ad Assisi, Milano 1996. 5 ER. Pesenti, «Maestri arnolfiani ad Assisi», in: Studi di Storia delle Arti, 1977, pp. 45-93. 4 A.M. Romanini, «Gli occhi di Isacco. Classicismo e curiosità scientifica tra Arnolfo e Giotto», in: Arte Medievale, 1, 1-2 (1987),

pp. 1-56. Eadem, «Amolfo all'origine di Giotto: l'enigma del Maestro di Isacco», in: Storza dell'Arte, 65 (1989), pp. 5-26. 4 E, Simi Varanelli, Giotto e Tommaso. La “renovatio” delle arti nel Duecento italiano, Roma 1988.

48 A. Tomei, «Giotto», in: Enciclopedia dell'arte medievale, vol. rv, Roma 1995, pp. 649-675. 49 A. Smart, op. cit. (vedi nota 11), p. 118. 50 B. Zanardi, «Projet dessiné et “patrons” dans le chantier de la

peinture murale au Moyen Age», in: Revue de l'Art, 124 (1999), figg.

4-5, 10-11.

31 A. Smart, op. cit. (vedi nota 11), p. 80. 5 B. Zanardi, I/ cantiere di Giotto. Le storie di San Francesco ad

Assisi, Milano 1996. 3 R. Offner, «Giotto — Non Giotto», in: The Burlington Magazine, ica (UISBO)), op» 299 88; 3 A. Tomei, Pietro Cavallini, Milano 2000, pp. 11-12. % M. Boskovits, op. cit. (vedi nota 35), p. 81. 56 B. Zanardi, op. cit. (vedi nota 50), p. 20; L. Bellosi, op. cit. (vedi nota 36), p. 33.

M. Boskovits, op. cit. (vedi nota 35), p. 80. 38 L. Bellosi, op. cit. (vedi nota 26), figg. 67, 68. 99 R. Longhi, «Giudizio sul Duecento», in: Proporzioni, 1 (1948), p.

52 5 L, Coletti, «Note giottesche: Il Crocifisso di Rimini», in: Bollettino d'Arte, xxx (1936), pp. 350-362. 61 R, Oertel, op. cit. (vedi nota 2), p. 232. 6 C. Brandi, op. cit. (vedi nota 40). ® G. Sinibaldi, «Il Crocifisso del Tempio Malatestiano in Rimini», in: Zettschrift fiir Kunstgeschichte, x (1941-42), pp. 291-299. 64 G. Sinibaldi, G. Brunetti, Pittura italiana del Duecento e del Trecento, catalogo della mostra (Firenze 1937), Firenze 1943, p. 581. 5 FE. Zeri, «Due appunti su Giotto», in: Paragone, 85 (1957), pp. 7987. 6 R. Longhi, op. cit. (vedi nota 59).

Cfr. per esempio M. Boskovits, op. cit. (vedi nota 35), pp. 82-83. 6 E. Zeri, op. cit. (vedi nota 65).

9 A. Tartuferi, in: Grotto e il suo tempo, catalogo della mostra (Pa-

78 S. Thomae Aquinatis Summa Theologica, pars m, quaestio XIVI, arDa ticulus x (secondo S. Girolamo, comzzz. in ev.). 7° Jacopo da Varazze, Legenda aurea, a cura di G.P. Maggioni, Fi-

l

renze 1998, p. 343.

80 M. Seidel, «“Sculpens in ligno splendida”. Sculture lignee di Giovanni Pisano», in: Sacre Passioni. Scultura lignea a Pisa dal xIl al xv secolo, catalogo della mostra

(Pisa 2000-2001), a cura di M.

Burresi, Milano 2000, pp. 87-88 [qui pp. 375-380]. 81 Vedi nota 78. 8 Vedi nota 1. 8 Vedi nota 11.

84 Dialogus Beatae Mariae et Anselmi de Passione Domini, PL 159, col. 283.

85 M. Ciatti, C. Frosinini (a cura di), La Madonna di San Giorgio alla

Costa di Giotto, Firenze 1995. 86 L, Bellosi, op. cit. (vedi nota 26), p. 145.

87 R. Oertel, op. cit. (vedi nota 2). 88 R. Offner, op. cit. (vedi nota 5), pp. 3-7. 89 M. Ciatti, C. Frosinini (a cura di), op. cit. (vedi nota 85), p. 16. % G, Bonsanti, op. cit. (vedi nota 37), p. 60.

9 M. Boskovits, op. cit. (vedi nota 35), p. 78. ® B. Cole, op. cit. (vedi nota 9), p. 44. 9 Vedi nota 8. % B. Cole, op. cit. (vedi nota 9), p. 40. ® Ibidem, p. 44.

A

% G. Schmidt, «Giotto und die gotische Skulptur. Neue Uberlegungen zu einem alten Thema», in: Romzische Historische Mitteilungen,

xx (1979), pp. 136-137.

% M. Seidel, op. cit. (vedi nota 80). 9 Idem, «Un “Crocifisso” di Giovanni Pisano a Massa Marittima», in: Prospettiva, 62 (1991), pp. 67-77 [qui vol. n, pp. 449-462]. ® OPD Restauro, 11 (1988), pp. 30-35, 153-161. 100 B. Zanardi, «Il caso Giotto: Le rivelazioni della Croce», in: I/ Sole24 ore, n. 198, 23.7.2000, p. 38. 9 C. Gnudi, Giotto, Milano 1958 (citato in A.M. Romanini, op. cit.

[vedi nota 46], p. 4). ®© C. Gnudi, op. cit. (vedi nota 3), p. 8. ® Vedi M. Gosebruch, op. cit. (vedi nota 19), p. 47. % A. Romdahl, in: Jabrbuch der Preussischen Kunstsammlungen, 19M PRSISS % G. Weise, Die geistige Welt der Gotik und ibre Bedeutung fiir Italien, Halle 1939, pp. 28 ss. % H, Jantzen, «Giotto und der gotische Stil», in: Das Werk des Kiinstlers, 1 (1939/40), pp. 441-454. % G. Schmidt, op. cit. (vedi nota 96). 98 H. Jantzen, op. cit. (vedi nota 106), p. 454. ® C. Gnudi, op. cit. (vedi nota 3), p. 10. ° Per una trattazione del tema cfr. V. Pace, M. Bagnoli (a cura di), Il Gotico europeo in Italia, Napoli 1994. ! Schatz in Triimmern. Der Silberschrein von Nivelles und die europdische Hochgotik, catalogo della mostra, Schnùtgen-Museum, Kéln 1995/96. 2? HD. Bork, «Der Vertrag mit den Kiinstlern», in: Schatz in Triimmern ..., cit. (vedi nota 111), pp. 79-81.

dova 2000), a cura di M. Cisotto Nalon e V. Sgarbi, Milano 2000,

ì Schatz in Triimmern ..., cit. (vedi nota 111), fig. 5.

pp. 296-300 (con bibliografia completa). 7? M. Boskovits, op. cit. (vedi nota 35), pp. 82-83.

4 R. Offner, op. cit. (vedi nota 5), p. 9. Cfr. R. Oertel, op. cit. (vedi

7! R. Offner, op. cit. (vedi nota 5), p. 9. ?° Dialogus Beatae Mariae et Anselmi de Passione Domini, PL 159, col. 289. D S. Bonaventurae Opera omnia, vin, Ad Claras Aquas 1898, p. 79

(“Lignum vitae”). 74 S. Thomae Aquinatis Summa Theologica, pars m, quaestio x1vI, articulus 1v. ? Ephràm, De diversis Sermones 3; Assemani-Benedictus, Ephraemi Syri opera omnia, vol. m, Roma 1743, p. 607. 7 A. De Laborde, La Bible moralisée illustrée, vol. rv, Paris 1921, tav.

648, con la seguente citazione «Fluxerunt enim de latere Christi sanguis et aqua per quod sacramentum baptismi significatur». ? P. Riessler, Altjiidisches Schrifttum auRerbalb der Bibel, Augsburg

1928, p. 1005 (ricca antologia redatta nella cerchia di Efraem).

nota 2), p. 232.

> S. Thomae Aquinatis Summa Theologica, pars m, quaestio x1vI, articulus vi. ° L'Europe Gothique XIl° xIv° siècles, Douzième exposition du Conseil de l'Europe, Paris 1968, n. 422, pp. 271-272. Cfr. sull’argomento: D. Lùdke, Die Statuetten der gotischen Goldschmiede. Studien zu den “autonomen” und vollrunden Bildwerken der Goldschmiedeplastik und den Statuettenreliquaren in Europa zwischen 1230 und 1530, Munchen 1983. !7 J.M. Fritz, Go/dschmiedekunst der Gotik in Mitteleuropa, Miinchen 1982, pp. 194-195, tavola 72. !!8 G. Kreytenberg, Andrea Pisano und die toskanische Skulptur des 14. Jabrbunderts, Munchen 1984, pp. 42-44. 1° E. Castelnuovo, Vetrate medievali: officine, tecniche, maestri, Torino 1994, p. 353.

GIOTTO.

1% M.G. Ciardi Dupré Dal Poggetto (a cura di), I/ Tesoro della Basilica di San Francesco ad Assisi, Assisi 1980.

2! E. Cioni, Scultura e Smalto nell’Oreficeria Senese dei secoli xm e

XIV, Firenze 1998, p. 8.

122 Ibidem, pp. 39 ss. 1? L'Europe Gotbique ..., cit. (vedi nota 116), pp. 280-281, n. 437. ‘4 P. Brieger, Ph. Verdier, L’Art et la Court. France et Angleterre 1259-1328, catalogo della mostra (The National Gallery of Canada),

Ottawa 1972; n. 69, p. 120. D. Gaborit Chopin, E/fenbeinkunst im

Mittelalter, Berlin 1978, p. 159.

NOTA

LA CROCE

DI SANTA

MARIA

NOVELLA

DEL REDATTORE

Il libro Gvotto. La Croce di Santa Maria Novella si compone di vari saggi qui riassunti; riporta notizie sui vecchi restauri a Santa Maria Novella e contiene le relazioni tecniche sui risultati delle analisi e dei ritrovamenti condotti tanto sul supporto ligneo quanto sulla pellicola pittorica dell’opera. Si passa infine alle indagini propriamente scientifiche, da quelle fisiche a quelle condotte con i raggi X, all'esame chimico dei pigmenti. Il volume è concluso da un’utilissima e a quanto pare completa bibliografia, che il lettore potrà usare anche come integrazione di quella tuttora basilare di Cristina De Benedictis e Roberto Salvini su tutte le opere di Giotto. Gli studi di cui si dà un breve riassunto sono: M. Ciatti, «Il re-

stauro e gli studi», pp. 25-64; R. Lunardi, «Santa Maria Novella e la Croce di Giotto», pp. 159-178, e appendice: «Testamento di Riccuccio del fu Puccio», pp. 179-181; L. Melli, «La fortuna critica», pp. 183-190; G. Sarfatti, A. Pontani, Stefano Zamponi, «Titulus Crucis», pp. 191-202; S. Pettenati, «I vetri decorati», pp. 203-215; M.V. Fontana, «I caratteri pseudo epigrafici dell’alfabeto arabo», pp. 217-225; L. Melli, «I documenti», pp. 227-238. Il lungo restauro conoscitivo condotto dall’Opificio delle Pietre Dure sulla croce dipinta di Santa Maria Novella — durato assieme alle indagini preliminari ben dodici anni — ha permesso ai tecnici diretti da Marco Ciatti l'acquisizione di importanti informazioni sul modo di dipingere di Giotto, dati che si sommano ai risultati delle analisi condotte dalla stessa équipe sulla frammentaria Maestà di Borgo San Lorenzo e su quella di San Giorgio alla Costa (Firenze, Museo Diocesano di Santo Stefano al Ponte). A ciò si aggiungono osservazioni e ricerche sulla tecnica pittorica di numerose altre tavole del Due-Trecento, di Giotto e altrui. Ne è emersa l’altissima qualità della tecnica pittorica della mano — una sola, non due

come era stato ipotizzato da alcuni — cui si deve questo capolavoro: per i confronti con la tecnica usata da Giotto nelle sue altre opere, si tratta sicuramente del maestro stesso, che qui dimostra davvero di aver tratto profitto dalla lezione cimabuesca ma anche di aver superato in finezza tutti i pittori contemporanei. Per secoli le cattive condizioni conservative (sporco, ripassature, guasti) e la difficoltà di vedere l’opera da vicino l’avevano fatta sottovalutare dalla critica, che solo nel

1937 si accorse della sua importanza, in occasione della celebre Mostra Giottesca. È stata riscontrata la portata devastante di un vecchio intervento abrasivo; si è constatata la resecatura di un tondo in alto e di una cornice; ed è risultata un’aggiunta a olio l’effluvio del sangue che colava lungo le braccia del Cristo, passando poi al di sotto del perizoma e ricomparendo in basso fino alle ginocchia. E emerso che Giotto ha modificato in un secondo momento la forma del supporto ligneo, preparato come di consueto da un falegname, per adeguarlo alla sua innovativa interpretazione del tema, che richiedeva un allungamento del tabellone centrale e un conseguente spostamento in basso dell’allargamento in corrispondenza dei piedi: abbandonando la tradizione dell’arcuatura verso sinistra del corpo di Gesù, il pittore ne accentua il peso, rendendolo conseguentemente più verticale e più lungo. Il corpo del Cristo non è così più iscrivibile in un triangolo equilatero, come nelle croci dipinte da Giunta a Cimabue, e

viene a mancare in tal modo un simbolismo geometrico cui veniva conferito valore teologico; invece le proporzioni si avvicinano — salvo nella lunghezza delle braccia - maggiormente a quelle canoniche della classicità, come erano state teorizzate da Vitruvio. Un’altra novità dell'approccio realistico al tema da parte di Giotto è l’aggiunta della base trapezoidale,

159

PITTURA

160

- MEDIOEVO

pure inizialmente non prevista, attraverso la quale è evidenziata la materialità della croce, piantata sul terreno del Golsota. Si tratta della trasformazione di un elemento di supporto curvilineo, che già esisteva nella tradizione - come dimostrano gli affreschi assisiati dello stesso Giotto in cui sono rappresentati interni di chiese con croci dipinte fissate sui tramezzi —, in parte integrante della raffigurazione (una novità già avvertita dal Volpe). Ciatti tenta di spiegare congetturalmente i cambiamenti apportati in corso d’opera alla struttura stessa della croce immaginando che questa sia stata preparata per Cimabue, ma che poi l’incarico sia stato affidato all’allievo dopo la partenza di Cimabue per Assisi. Alcune particolarità rivelano comunque che la bottega di legnaiolo che ha costruito la Croce di Santa Maria Novella era diversa da quella che aveva realizzato la Croce di Cimabue a Santa Croce

e probabilmente invece era la stessa che poi avrebbe realizzato la tavola della Maestà di Ognissanti per Giotto, come dimostra in particolare la stesura di minio sul retro dei supporti e la presenza della modanatura sulle traverse. L'autore propone una datazione del crocifisso commissionato da Riccobaldo di Montecroce ancora entro gli anni ottanta del Duecento (1288-89). Grazie alla riflettografia IR si sono scoperti i disegni preparatori di Giotto, il quale ha schizzato anche le parti — come l’orecchio destro e l’ascella sinistra del Cristo — poi coperte dai capelli (qui fig. 46). Il procedimento tecnico è quello poi descritto dal Cennini: prima abbozzo a carboncino, poi ripassato a pennello con un acquerello di nero di carbone; poi incisione con punta sottile per separare il campo della pittura da quello destinato a essere dorato; poi ombreggiatura a pennello su cui si stende il verdaccio. Nei tabelloni laterali Giotto ha dipinto motivi decorativi ispirati alle stoffe islamiche spagnole e nordafricane. Lo studioso approfondisce infine problemi sollevati dalla documentazione indiretta sulla Croce e in particolare della sua collocazione. Nella prima parte del suo saggio Roberto Lunardi ripercorre le vicende delle eresie medioevali, in particolare del catarismo, e della conseguente istituzione dell'ordine domenicano, destinato a contrastarle; tratta inoltre della presenza dei domenicani a Firenze, del ruolo qui svolto da san Pietro Martire, nonché della Compagnia dei Laudesi, che commissionò la Maestà di Duccio nel 1285. Successivamente egli passa in rassegna le vicende costruttive — in larga parte ancora problematiche — della chiesa di Santa Maria Novella, ingrandita a partire del 1278, anche alla luce del nuovo ritrovamento di affreschi duecenteschi attribuiti da Luciano Bellosi a Duccio. Sono poi esaminati documenti e attestazioni relative a questa chiesa, e in particolare il testamento di Riccuccio del 1312, che dimostra inequivocabilmente che a quella data la croce dipinta era ritenuta opera di Giotto. Un altro filone d'indagine porta Lunardi a interrogarsi sui possibili legami concettuali fra la teologia anti-manichea dei domenicani e le scelte iconografiche di Giotto, che nel suo primo Crocifisso insiste sull’umanità e materialità del corpo di Gesù, solidamente e pesantemente legato alla croce e al Golgota. Lorenza Melli, che ha svolto anche approfondite ricerche

d'archivio sulla collocazione della Croce di Giotto e le sue vicende conservative e devozionali, approfondisce il problema di dove fosse appesa l’opera fra il Quattrocento e i tempi del Vasari. Data l'ambiguità dei relativi passi del Ghiberti e del Libro di Antonio Billi, le possibili soluzioni sono due: nei pressi della porta laterale d'accesso alla basilica o sopra la porta mediana della controfacciata. L'insolito titulus crucis con l’iscrizione I.N.R.I. in latino, greco ed ebraico (che compare anche nel crocifisso di Giovanni

Pisano del Museo dell'Opera del Duomo di Siena) attesta la raffinata cultura teologica e linguistica dell'ambiente domenicano. Se ne occupano Gad Sarfatti, Anna Pontani e Stefano Zamponi.

Dei vetri e di particolati elementi decorativi, tipici della pittura su tavola bassomedievale, ma qui sviluppati a un livello di alta raffinatezza, quali le ornamentazioni “pseudo-cufiche”, si occupano Silvana Pettinati e Maria Vittoria Fontana.

Infine Lorenza Melli analizza i documenti della Compagnia dei Laudesi, che aveva l’incarico di illuminare la Croce di Giotto e la Maestà di Duccio; da essi risulta che le due opere

nel 1421 si trovavano nei transetti rispettivamente sinistro e

destro della chiesa.

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«CASTRUM PINGATUR IN PALATIO» Ricerche storiche e iconografiche sui castelli dipinti nel Palazzo Pubblico di Siena

Con il gusto della sensazione, la stampa quotidiana ha annunciato nel 1980-1981 la presunta rettifica di un errore di attribuzione commesso dagli storici dell’arte: «Guidoriccio, uno splendido falso?»,' «Quel Guidoriccio è figlio di NN.» «Addio Guidoriccio».? Si è parlato di un «gial-

lo di Guidoriccio»* e di presunte “rivelazioni”, secondo le quali il famoso affresco del Palazzo Pubblico non sarebbe stato dipinto da Simone Martini e non rappresenterebbe Guidoriccio da Fogliano davanti al castello di Montemassi, da lui conquistato nel 1328 (tavola vin). Di volta in volta, la questione è stata trattata nello stile del romanzo polizie sco («Cosa c'è sotto il giallo di Guidoriccio?») in uno stile patetico-paradossale («Si scopre un grande ignoto: Simone Martini!»)° o ironico («Guidoriccio o Ricciarello da Panforte?»).” All’origine di questi titoli sensazionali vi è un breve articolo pubblicato nel 1977 da Gordon Moran in Paragone. Accade talvolta che una tesi arrischiata — e destinata a essere accantonata in breve giro di tempo — segni una ripresa delle indagini su un’opera d’arte che si riteneva ormai scientificamente chiarita nei suoi principali aspetti. Così l'articolo di Paragone ha rimesso in discussione il capolavoro del Palazzo Pubblico e ha dato occasione a un’analisi del suo stato di conservazione, la quale si è rivelata estremamente opportuna. Nel corso di tale analisi è venuto alla luce, immediatamente

al di sotto dell'affresco di Guido-

riccio, un altro capolavoro, che abbiamo validi motivi di attribuire a Duccio (fig. 2, tavole vm-x1). L'interpretazione storico-iconografica dell’affresco recentemente scoperto e la sua collocazione nel ciclo dei castelli della Sala del Mappamondo, considerato come complesso iconografico, formano l’oggetto del presente contributo. Nell’articolo pubblicato da Paragore, Gordon Moran posticipa di oltre 20 anni la datazione dell’affresco di Guidoriccio (tavola vm): la figura sarebbe stata dipinta in memoria del condottiero negli anni immediatamente successivi alla sua morte — avvenuta nel 1352 — da un pittore rimasto finora sconosciuto, Simone di Lorenzo. La dimostrazione di questa tesi (i più recenti sviluppi della quale propongono, a quanto pare, la datazione dell'affresco addirittura nel Quattrocento e assegnano un’altra identità al personaggio ivi rappresentato — ma su questo ritorneremo più avanti) poggia sostanzialmente su quattro argomenti: 1. Il nome di Simone Martini come autore di questo affre-

sco appare nella storia dell’arte solo verso la fine del Settecento, e precisamente negli scritti del Della Valle; precedentemente l’opera veniva attribuita a un maestro chiamato Simone di Lorenzo, della cui esistenza peraltro non si hanno prove documentarie. 2. Poiché il condottiero è rappresentato con le insegne di cavaliere — soprattutto con gli sproni d’oro — 11(1332%°cioè

l’anno in cui Guidoriccio ricevette il titolo di cavaliere, di-

venterebbe il teryzinus post quem per l'esecuzione dell’affresco. In tal modo verrebbe a cadere il rapporto di dipendenza che la storiografia tradizionale ha stabilito fra l'esecuzione di questa figura equestre e un pagamento fatto a Simone Martini dal Comune di Siena in data 2 maggio 1330 («al maestro Simone [...] per la dipentura che fece di Monte Massi et Sassoforte nel palacco del Comune»);!® anche un’annotazione di tenore analogo che si trova nella cronaca di Agnolo di Tura non potrebbe più essere collegata a questo dipinto. 3. Una datazione nel 1332 — cioè nel periodo immediatamente successivo alla nomina di Guidoriccio a cavaliere — è da escludere per ragioni storiche: ogni raffigurazione del condottiero trionfante nella sala maggiore del Palazzo Pubblico sarebbe apparsa come celebrazione di un odiato traditore e sarebbe stata inesorabilmente distrutta quando Guidoriccio fu espulso da Siena. 4. È poco probabile che questa imponente figura sia stata originariamente concepita sullo sfondo di Montemassi e sia stata fin dall'inizio messa in relazione con la conquista di un così insignificante castello: quella «modesta operazione di politica repressiva»,!! che fu di per sé la spedizione di Montemassi, non sarebbe bastata a giustificare l’inaudito tributo d’onore che una tale raffigurazione rappresentava per il personaggio raffigurato. Sottoposta a controllo critico, argomentazione di Moran rivela una singolare unilateralità metodologica. Il metodo primario della storia dell’arte, l’analisi stilistica, vi rimane lettera morta, per quanto la datazione e l’attribuzione tra-

dizionali dell’affresco senese fossero sostanzialmente fondate su argomenti stilistici. Sorprendente risulta anche la mancanza di un'analisi dello stato di conservazione dell'affresco, analisi nella quale sarebbe stato doveroso cerca-

re la conferma tecnica di conclusioni così radicali: un’analisi del genere avrebbe smontato la teoria della diversa data di nascita di cavaliere e paesaggio, avrebbe vanificato l’arsomento degli sproni d’oro (nella parte corrispondente dell’affresco non c'è traccia né di oro né di altra materia che ne imiti l’effetto), e avrebbe invece messo in luce e imposto all’attenzione del ricercatore una quantità di elementi che caratterizzano la tecnica pittorica di Simone (per esempio l’uso ricorrente dei punzoni). Mi sembra tuttavia che valga la pena di sottoporre la tesi di Moran a un’accurata discussione, non per superare il preteso conflitto fra la storia d’arte dei professori univer-

sitari e le misconosciute intuizioni di dilettanti coraggiosi

e illuminati — come si è scritto sui giornali! — ma per co-

gliere l'occasione di riprendere in esame l’intera questione

nella molteplicità dei suoi aspetti stilistici, iconografici e storici.

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PITTURA

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1. Siena, Palazzo Pubblico, Sala del Mappamondo. Stato anteriore al 1979

Dell’opportunità di una tale messa a punto non mi pare che si possa dubitare. Anche limitandosi — come faremo in questa parte del contributo — agli aspetti iconografici e storici della questione, il terreno intorno a Gwidoriccio è cosparso di trappole, nelle quali la letteratura specializzata è spesso caduta e continua a cadere. E bensì vero che l’erronea identificazione dell’edificio rappresentato a destra con il castello di Sassoforte — comprato dal Comune di Siena nel 1330 — pare oggi accantonata e che la corretta interpretazione di questo particolare come un accampamen-

to fortificato — in linguaggio tecnico, un “battifolle” — sembra essersi finalmente imposta.! L’identificazione del “battifolle” — per la quale non si richiedeva che un’attenta lettura dell’affresco e una certa familiarità con la storia dell’arte del Romagnoli! e con la cronaca di Agnolo di Tura! — si è peraltro affermata in data relativamente recente, dopo che generazioni e generazioni di storici dell’arte si erano estasiati per la bellezza di Sassoforte. Il “battifolle” era stato appena riconosciuto come tale, che già si voleva farlo passare per una rara testimonianza dell’attività di Lando di Pietro come architetto militare.! La proposta era basata sulla citazione di un documento segnalato dal Romagnoli!” e dal Milanesi.!8 Senonché il documento in questione!” menziona un Guido (non Lando) di Pace e lo menziona come beneficiario, in data 31 ottobre 1328, di

un modesto pagamento fattogli dal Comune, probabilmente in compenso della sua partecipazione alla demolizione del “battifolle”. A un errore affine potrebbe dare adito un passo dei regesti relativi alla vita di Simone Martini, dal quale risulta che il pittore, nell’ottobre del 1329, fu compensato, insieme a un Neri Mancini, «per essere stato xv di a l Ansedonia in servigio del comune in ragione di 15 soldi [...] il giorno».?° Poiché proprio in quei mesi Ansedonia fu conquistata da Guidoriccio — la resa avvenne il 30 agosto?! — lo studioso potrebbe essere indotto a mettere in relazione il viaggio di Simone ad Ansedonia con la raffigurazione di quel castello nel Palazzo Pubblico (Sigismondo Tizio vide questo dipinto «supra portam, que est inter primam et secundam Palatii aulam»).?? Ma come risulta da una più accurata lettura del documento, il Simone Martini che andò ad Ansedonia nell'ottobre del 1329 non era un pittore ma un falegname, il quale intraprese quel viaggio per incarico del Comune insieme a un gruppo di rappresentanti della stessa arte.?} Naturalmente la rettifica di questi e di altri particolari è solo un risultato marginale della ricerca. Senza insistere su tal genere di particolari, il presente contributo si propone di dare una risposta a tutta una serie di domande, le quali si pongono all’osservatore consapevole della enismaticità

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PINGATUR

IN PALATIO»

2. Siena, Palazzo Pubblico, Sala del Mappamondo. Stato attuale

di questo linguaggio figurativo. Perché il cavaliere Guidoriccio da Fogliano èè rappresentato in solitudine, al centro di un paesaggio spopolato? In altre parole, perché in questo scenario militare, descritto con dovizia di particolari, non compare neanche un soldato? Che significato si deve attribuire al solo tipo di vegetazione — le viti piantate a fianco delle tende — evocato in un paesaggio così brullo? L’osservatore dotato di preparazione storica si chiederà inoltre perché — in un periodo nel quale a Firenze la rappresentazione ufficiale di alti funzionari era così rigorosamente vietata, che era loro interdetto perfino di apporre il loro stemma agli edifici pubblici?* — nel Comune di Siena fosse invece possibile una rappresentazione che costituisce un tributo d’onore senza paralleli nel Trecento. L’idea di scoprire la chiave interpretativa della rappresentazione di Montemassi tramite la ricostruzione, dal punto di vista iconografico, del ciclo nel quale essa era inserita, non appare a prima vista molto promettente. In quel ciclo

figuravano infatti, accanto a castelli conquistati in gloriose spedizioni militari, altri castelli che il Comune aveva annesso in seguito a contratti di acquisto: mescolati gli uni

agli altri, questi castelli formavano un gruppo composito, He riesce difficile ricondurre a un denominatore comune. Dal punto di vista cronologico, le rappresentazioni dei diversi castelli che compongono il ciclo non si dispongono, come ci si potrebbe aspettare, in una successione più o

meno regolare. Dai documenti che ci sono pervenuti risulta invece che gli affreschi dei castelli furono commissionati dal Comune esclusivamente in due periodi: attorno all’anno 1314 e nel biennio 1330-1331. Ora, ambedue queste date corrispondono alla fase finale di una spedizione imperiale in Italia. Si pone dunque il problema se questi affreschi di castelli — il cui valore semantico oggi non è più immediatamente percepibile, a differenza del loro valore estetico — non siano da considerare come testimonianza di un preciso conflitto politico: il conflitto tra il fondamento

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3. Ricostruzione degli affreschi della Sala del Mappamondo nello stato anteriore al 1315

giuridico del dominio che la città esercitava sul contado — da una parte — e — dall'altra — i titoli di possesso che vantava la nobiltà feudale e che si fondavano su privilegi imperiali. Il principio che la rappresentazione iconografica di un castello è un titolo giuridico di possesso assimilabile a un documento, e che proprio come un documento deve essere tutelata dal pericolo di danneggiamenti e di distruzione, trova espressione formale nel protocollo di una seduta del Consiglio Generale del Comune di Siena? che analizzeremo più avanti e che risale appunto al periodo che ci inte-

ressa. L'iconografia profana medioevale, condizionata com'era

da combinazioni e istanze politiche molto eterogenee, non arrivò mai a elaborare formule iconografiche precise, sancite da una lunga tradizione. Perciò la decifrazione di questo tipo di linguaggio si pone ogni volta come un problema nuovo, privo di punti di riferimento, che deve essere risolto attraverso un paziente lavoro di confronto e integrazione fra tradizione scritta e tradizione figurativa. Prima di entrare nel vivo della trattazione, vorrei prendere in esame due momenti della argomentazione di Gordon Moran (altri aspetti della discussione saranno trattati nella parte centrale di questo contributo). Che l’attribuzione del Guidoriccio a Simone Martini risalga a una data relativamente recente e che la storiografia

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IN PALATIO»

4. Posizione del Mappamondo (A=primo centro, B=secondo centro)

più antica attribuisca unanimemente l’affresco a Simone di Lorenzo — già designato come autore verso la metà del Trecento da Agnolo di Tura? — sembra a prima vista un argomento di notevole peso. Ma il peso dell'argomento si riduce, se si esaminano criticamente le fonti più antiche addotte a sostegno di esso. Per quanto la cronaca di Agnolo di Tura sia da considerare — come di recente ha sottoli-

neato anche Bowsky? - una fonte di prim'ordine, estremamente attendibile anche nei particolari, conviene tutta-

via tenere presente che essa ci è pervenuta in copie non anteriori al Quattrocento, tutt'altro che immuni da errori di

trascrizione. Così nel testo edito dal Lisini si legge — tanto per scegliere qualche esempio pertinente al nostro tema —

che l’assedio di Montemassi durò sette anni, mentre la redazione originaria parlava certamente (come risulta dal contesto e come risponde alla verità storica) di sette mesi. Il medesimo testo, parlando della processione che trasportò in Duomo la Maestà di Duccio, designa questo pittore come Duccio di Niccolò e non come Duccio di Buoninsegna.8 Un errore del copista nella trascrizione del nome dell’autore del nostro affresco rientra perciò nell’ambito del possibile, tanto più che manca finora ogni prova documentaria dell’esistenza, nel periodo che ci interessa, di un Simone di Lorenzo pittore. Una cautela ancora maggiore si impone davanti al successivo svolgimento dell’argomentazione di Moran. Basandosi sul silenzio dei

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5. Scena di Giuncarico: stato dell'affresco prima del recupero delle parti nascoste sotto uno strato di azzurrite

grandi scrittori d’arte dei secoli xv-xvn1, nessuno dei quali annovera il Guidoriccio fra le opere di Simone Martini, Moran conclude che l’attribuzione dell’affresco al famoso pittore non risale più indietro del Settecento. Questo modo di argomentare non tiene alcun conto dei criteri ispiratori dei primi trattati d’arte e degli obiettivi che i loro autori si ponevano. Per quanto le conoscenze del Ghiberti sulla pittura senese del Trecento siano di sorprendente precisione, non si possono commisurare i Commzentarii

alle esigenze di un moderno catalogo di opere d’arte senza travisarne il carattere. Ghiberti concentrò la sua attenzione su opere che lo affascinavano anche e soprattutto in rapporto ai suoi interessi di artista, senza degnare di menzione altre opere, di valore artistico almeno pari, che gli erano sicuramente note. È significativo, per esempio, che il maestro, che aveva appena portato a termine i bassorilievi della Porta del Paradiso, menzioni fra le pitture di Ambrogio Lorenzetti che decoravano la chiesa di Sant'Agostino a Siena solo i grandi affreschi affollati di personaggi, passando sotto silenzio l’unica opera di quel ciclo pervenuta fino a noi, la Maestà. La stessa selettività caratterizza l'atteggiamento del Ghiberti davanti agli affreschi dei Lorenzetti nel convento di San Francesco: il racconto del viaggio in India di fra’ Pietro lo avvince al punto da fargli apparire irrilevanti le grandi scene eseguite dai due fratel-

li Lorenzetti nella sala capitolare. Per quel che riguarda le Vite vasariane, converrà tenere presente che le conoscenze del Vasari riguardo alle opere d’arte senesi sono notoriamente deficienti (le sue informazioni su Simone Martini provengono in pratica dai Comzzentarii del Ghiberti). Di tutt'altro tenore sono le testimonianze che ci tramandano gli antichi storici senesi. Quando Sigismondo Tizio designa gli affreschi di Montemzassi e di Sassoforte nella Sala del Mappamondo come eseguiti da «Simone senensi, pictore celebri»? sembra poco probabile che egli si riferisca a un non

meglio identificato Simone

di Lorenzo.

Un'interessante glossa marginale in un volume della “Biccherna” ci rivela esplicitamente a quale artista gli storici senesi del Cinque e del Seicento attribuissero l'affresco della Sala del Mappamondo. Integrando e commentando la notizia di un pagamento fatto in data 6 ottobre 1329 a favore di Guidoriccio, «de’ Conti di Fogliano da Reggio» dice la glossa, «dipinto a cavallo nella sala del Consiglio di mano di Simone Martini da Siena, celebrato dal Petrarca».?® Grazie a una serie di accurati confronti grafici,

Stefano Moscadelli ha potuto identificare l’autore di questa glossa: si tratta dello storico senese Celso Cittadini (1553-1627), noto per le sue ricerche genealogiche. L'accenno al sonetto del Petrarca potrebbe essere un’eco della

lettura del Vasari, il quale — come è noto — aveva scritto a

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6. Scena di Giuncarico: campanile prima del recupero della cuspide nascosta sotto uno strato di azzurrite

proposito dei versi petrarcheschi che essi «hanno dato più fama alla povera vita di maestro Simone, che non hanno fatto né faranno mai tutte l’opere sue».?! Il secondo argomento di Moran che vorrei sottoporre ad analisi è la tesi dell’espulsione di Guidoriccio da Siena nel settembre del 1333 per sospetto di tradimento. Poiché l’espulsione sarebbe stata inconciliabile con la sopravvivenza di un “monumento” dell’espulso nel palazzo comunale, l'affresco dovrebbe risalire a un periodo sensibilmente più tardo, cioè all’epoca della riabilitazione del condottiero,

intorno al 1350. Il passo della cronaca di Agnolo di Tura,’ addotto da Moran a sostegno di questa ricostruzione, parla di voci ostili a Guidoriccio che provenivano prevalentemente dagli ambienti del popolo minuto e che rinfacciavano al condottiero di essersi lasciato corrompere (Agnolo di Tura racconta il fatto in forma congetturale: «per li più si crede che muneta ricavasse da’ nemici»). Dall'esame dei protocolli del consiglio senese nel periodo corrispondente

non è però emerso nessun accenno a un procedimento ut-

ficiale contro il condottiero. L'unico fatto che Agnolo di Tura dà come sicuro è che Guidoriccio lasciò a Siena debiti per la somma di 2000 lire. L'indagine archivistica dimostra peraltro che il condottiero depose il suo ufficio in modo regolare e corretto, per scadenza del mandato.’ L’impopolarità della quale parla Agnolo di Tura non ha

niente di sorprendente, se si tiene conto che, dopo la prima nomina, Guidoriccio era stato confermato nel suo

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IN PALATIO»

7. Scena di Giuncarico: stato dell'affresco durante il recupero delle parti nascoste sotto uno strato di azzurrite

ufficio per ben 12 volte, per una durata complessiva di sei anni e mezzo. Nell’esercizio eccezionalmente lungo di una carica prestigiosa, che dava al suo detentore un potere enorme ma al tempo stesso lo esponeva a risentimenti e

rancori d’ogni genere, appare verosimile e quasi inevitabile che contro Guidoriccio si levassero voci ostili o calunniose, più o meno fondate che fossero. Se però il condottiero poté restare in carica fino alla scadenza del suo utficio, non c'è motivo di credere che quelle voci raggiungessero una tale intensità da mettere in moto contro di lui un procedimento ufficiale, come sarebbe stata la rimozione dell'immagine che documentava un grande successo militare della città. Perché l'assedio di Montemassi fu tutt’altro che «una modesta operazione di politica repressiva». La spedizione fu concepita e realizzata allo scopo di contrastare le rivendicazioni di predominio che l’imperatore Ludovico il Bavaro — e il suo più poderoso alleato in Toscana, Castruccio Castracani — avanzava su quell'area della Maremma, che Siena considerava come propria sfera d’influenza. A questa spedizione il Consiglio attribuiva una tale importanza, da stanziare per essa una citra che corri-

spondeva all’incirca all’intero introito annuo del Comunes Con queste osservazioni introduttive abbiamo anticipato alcuni temi del presente contributo. Esso si articola in quattro parti.

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8. Scena di Giuncarico: indicazione delle corde battute

La prima parte esporrà i risultati del restauro recentemente intrapreso nella Sala del Mappamondo. La seconda parte prenderà in esame le rappresentazioni dei quattro castelli (Montemassi, Sassoforte, Arcidosso, Castel del

Piano) conquistati da Guidoriccio o comprati durante la decorrenza del suo ufficio, per ricostruire il discorso politico che sottostava al ciclo e per stabilire le premesse iconografiche dell’interpretazione dell’opera di Duccio venuta in luce nel 1980-1981. La terza parte sarà dedicata all’interpretazione dell'affresco recentemente scoperto. Il contributo si conclude con un breve confronto tra il ciclo degli affreschi senesi e analoghe rappresentazioni fiorentine, oggi perdute.

I RISULTATI

DEI

RESTAURI

DEL

1980-1981

L'ipotesi di Moran, secondo la quale l’immagine del cavaliere avrebbe una data di nascita diversa rispetto alla rappresentazione dell'assedio di Montemassi, si è dimostrata insostenibile anche per motivi tecnici. 2. Il castello di Montemassi fu dipinto di nuovo verso il 1400, quando si dovette asportare la parte sinistra dell'affresco, danneggiata dall'umidità. 3. Un sondaggio compiuto nella zona sottostante all’affresco di Montemassi (più precisamente, a fianco della grande tavola della Madorna di Guido da Siena proveniente da San Domenico), metteva in luce trac-

ce di affreschi medioevali. Grazie all’iniziativa di un amico della città di Siena, Rolf Becker, e con la collaborazione di un comitato scientifico nominato dal sindaco di Siena, Mauro Barni (il comitato è composto da Luciano Bellosi, Aldo Cairola, Giovanni Previtali, Piero Torriti e dall'autore del presente contributo), il 9 ottobre 1980 poteva essere presentato alla stampa un

Nel 1979 il sindaco di Siena, la Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici per le Province di Siena e Grosseto e l’Istituto di Storia dell'Arte dell’Università di Siena affidarono a Leonetto Tintori l’incarico di eseguire un'analisi dell'affresco di Gwdoriccio da Fogliano (tavola vm), anche per sottoporre a un controllo tecnico le tesi proposte da Gordon Moran. Grazie all'intervento di Josef Polzer que-

sta analisi fu finanziata anche dalla Queens University e dalla Stewart Foundation di Montreal. I risultati del lavoro di Tintori possono essere riassunti in tre punti. 1.

affresco che il restauratore Giuseppe Gavazzi aveva riportato in luce al di sotto della scena di Montemassi (tavola 1x).?? Il restauro pittorico di questo nuovo affresco veniva portato a compimento il 26 marzo 1981. Per iniziativa del Comune, gli stessi restauratori (Giuseppe Gavazzi, Ama-

deo Lepri) intraprendevano subito dopo il lavoro di ripulitura dell'affresco di Simone Martini che si trova sulla stessa parete. L'affresco recentemente scoperto misura m 2,23 d'altezza e m 3,78 di larghezza. L'insieme della superficie affrescata

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9. Scena di Giuncarico: indicazione delle incisioni

misura m? 8,43. L'affresco di Simone Martini si sovrappone alla cornice della scena sottostante, determinando così un chiaro termzinus ante quem. La larghezza dell'affresco originale era sicuramente superiore all’attuale. Dal lato sinistro la cornice si prolunga ancora oggi di almeno cm 85 al di sotto della pittura del Sodoma (cfr. il disegno pubblicato nella fig. 3). Molti indizi inducono a ritenere che l’affresco recentemente scoperto si estendesse originariamente fino al limite sinistro della parete, per una larghezza complessiva di m 6,78. A favore di una tale ricostruzione parla non solo la semplice e chiara articolazione della parete nel rapporto di 2:1 che ne risulta (m 6,78:3,37, oppure braccia senesi 11:5,5), ma anche la posizione centrale che in tal modo verrebbe ad assumere nella scena il gesto decisivo della adlocutio, sul quale ritorneremo nell’ambito dell’analisi iconografica (cfr. fig. 3). Come è stato dimostrato pochi mesi fa grazie a un’indagi-

ne ecografica con ultrasuoni,’ al di sopra del nuovo aftresco (là dove oggi vediamo la rappresentazione dell’ Assedio

di Montemassi) si trovava un affresco più antico. Il resto

del muro invece non presentava nel Trecento altre pitture: al lato destro e al di sotto del nuovo affresco la parete di

mattoni era infatti, come hanno potuto stabilire i restaura-

tori, priva di intonaco. Certamente il progetto originario prevedeva il prolungamento della fascia inferiore attrescata fino al margine destro della parete e il completamento

della decorazione con una terza fascia di affreschi, al di sotto delle prime due; ma nel 1345, quando alla parete fu fissato il gigantesco disco del mappamondo, quel progetto fu abbandonato. La più antica notizia relativa al mappamondo si trova nella cronaca di Agnolo di Tura: «El Napamondo, che è in palazo de’ Segnori di Siena, fu fatto in questo anno [1345]; fecelo maestro Ambruogio Lorenzetti dipentore da Siena».? Dopo che nel 1393 Bartolo di Fredi e altri due maestri ebbero restaurato la grande tavola rotonda,’ troviamo testimonianze dell’esistenza del mappamondo in san Bernardino? Ghiberti, Tizio,!! Vasari,* Pecci e Della Valle#. Di questa rappresentazione di «tutta la terra abitabile» (per usare l’espressione del Ghiberti) sopravvivevano nel Settecento solo pochi resti della tela che ricopriva il disco ligneo (Della Valle: «qualche piccolo cencio»). È probabile che il globo che si vede in mano alla figura della Giustizia, dipinta da Taddeo di Bartolo nella cappella del Palazzo Pubblico, sia da considerare come una copia in piccolo del mappamondo. Il recente restauro ha riportato in luce i colori che erano stati applicati al margine esterno di questo disco di legno (nero e rosso, quest’ultimo

come preparazione) e ha consentito di ricostruire così le dimensioni del mappamondo. Il disco aveva un diametro di m 4,83, pari a 8 braccia senesi: di conseguenza esso oc-

cupava poco meno della metà della parete nella sua lunghezza complessiva (m 10,18). L’esame delle numerose

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# 10. Scena di Giuncarico: indicazione dei margini esterni del mappamondo nella prima e nella seconda posizione

abrasioni, che i movimenti di rotazione del mappamondo provocarono sulla superficie degli affreschi, ha permesso di inferire che la posizione del disco subì un cambiamento subito dopo che esso era stato applicato alla parete: il centro venne spostato di cm 15 verso destra e di cm 25 verso il basso (nella parete sono stati infatti individuati due diversi punti d’attacco).9 Lo spostamento del mappamondo che, come vedremo, non è privo di rilievo in rapporto alla datazione degli affreschi, è evidenziato nel disegno riprodotto nella fig. 4. Mentre la prima posizione del appamo do è indicata da un'incisione circolare rinforzata con pennellate color sinopia, le altre solcature sono tracce di rotazione che rinviano al secondo centro, come risulta chiaramente dalla fig. 4. La ragione per cui il disco ligneo del mappamondo fu cambiato di posizione è evidente. Nella prima posizione esso nascondeva proprio l'iscrizione apposta in margine all’affresco di Simone Martini, la data dell’assedio di Monte-

massi (1328). Sovrapponendosi alla cornice inferiore l'affresco di Montemassi, l’incisione corrispondente prima posizione del mappamondo conferma dunque di una conferma ci fosse bisogno — che la pittura in stione risale a una data anteriore al 1345.

delalla — se que-

Il mappamondo aveva dimensioni così imponenti da riem-

pire tutto lo spazio rimasto libero al di sotto dell’affresco

di Simone Martini. Solo il primo montaggio consentiva a

una persona di tenersi in posizione eretta al di sotto della gigantesca ruota (la distanza fra il pavimento e il punto più basso della ruota misurava nella prima posizione m 1,70, nella seconda e definitiva posizione m 1,45). Forse il disco fu ridotto di dimensioni già al momento dell'apertura della porta nella parete a destra del mappamondo; sicuramente qualche riduzione doveva essere intervenuta quando il Sodoma eseguì l’affresco di Sar Vittore (1529), che altrimenti sarebbe stato parzialmente coperto. Ma l'affresco recentemente scoperto era già stato manomesso e danneggiato prima del 1345, cioè prima del montaggio del mappamondo. In un momento compreso fra la data dell’esecuzione e il 1345, le due figure e la cuspide del campanile (figg. 5, 6) furono ricoperte con due diversi strati di colore: un morellone steso con pennellate incrociate, in modo da confondere completamente il disegno delle figure, e un’azzurrite di grande spessore. Questi due strati sovrapposti aderivano così tenacemente ai colori originali, che solo dopo molti tentativi i restauratori sono riusciti a rimuoverli (fig. 7), servendosi di applicazioni di polpa di legno imbevuta di carbonato di ammonio al 50%, con un lavoro estremamente lento e difficile (qualche volta la superficie di uno solo dei due strati, rimossa in un’intera giornata di lavoro, non era superiore a 4 cm?).

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171

11. Scena di Giuncarico: indicazione delle giornate

Un esame superficiale potrebbe indurre a credere che questo lavoro di ridipintura sia da mettere in relazione al montaggio del mappamondo e che avesse lo scopo di nascondere le parti dell’affresco che sporgevano al di sopra del margine superiore del disco di legno. Ma una tale congettura non regge per due ragioni. Prima di tutto l’accurato e radicale lavoro di ridipintura che abbiamo descritto venne eseguito anche e specialmente sulle parti dell’affresco che rimanevano nascoste dal mappamondo tanto nella sua prima posizione quanto nella seconda. Nella prima posizione, solo il busto della figura di sinistra oltrepassava il margine del disco; nella seconda e più duratura posizione sarebbero stati visibili anche il capo e la mano alzata della figura di destra (supponendo che le figure non fossero già state ridipinte). La cuspide del campanile sarebbe scomparsa totalmente sotto il disco, tanto nella prima quanto nella seconda posizione (cfr. fig. 10). Ma la ridipintura dell'affresco aveva evidentemente tutt'altro scopo. Si intendeva far sparire ogni traccia di queste figure, e si voleva che tale scomparsa fosse totale, tanto che ci si preoccupò

perfino di eliminare la punta della guaina portata dalla figura di destra (siccome la punta della guaina si sovrapponeva alla roccia, si modificò il contorno della roccia stessa). Ma un argomento ancora più stringente è rappresen-

tato dalla cancellazione della cuspide del campanile (fig.

6), nonché dalle numerose ammaccature che sono state riscontrate nella figura di destra e che possono essere spiegate come tracce di sassate. Presi nel complesso, questi ele-

menti autorizzano a ritenere che su questo affresco sia stata eseguita una condanna “in effigie” e rappresentano perciò preziosi indizi per l’identificazione della scena. Se si prescinde dalle vistose abrasioni prodotte dal mappamondo, lo stato di conservazione dell'affresco può essere considerato come molto buono. Questo si spiega con il fatto che, a parte l’azzurrite, nessun colore fu applicato a secco. Soltanto i volti, dipinti a velature, hanno subìto un notevole deterioramento (nell’interpretazione stilistica di questa parte dell’affresco è doveroso procedere con estrema cautela, perché in alcuni punti è rimasta solo la preparazione). I dati relativi alla tecnica pittorica che sono stati rilevati durante i lavori di restauro sono evidenziati nei grafici qui riprodotti (figg. 8, 9, 11). Nella lettura di tali grafici, s'im-

pone all’attenzione la grande accuratezza che caratterizza la fase di preparazione dell’affresco, delineato con l’aiuto di corde battute e graffiti. Anche le zone destinate a essere dipinte a oro furono delimitate con una linea incisa. A differenza dell’affresco sovrastante di Simone Martini, dove la tecnica della punzonatura è largamente applicata, qui non si sono trovate tracce di punzoni. I limiti delle

PITTURA

- MEDIOEVO

“giornate” (fig. 11) si possono fissare con una certa sicurezza solo nella zona delle figure.

Questi stessi criteri di analisi sono stati applicati anche all’Assedio di Montemassi affrescato da Simone Martini (figg. 13, 14). L'uso delle corde battute e delle incisioni si è qui rivelato più ridotto, come risulta chiaramente dal confronto fra le rappresentazioni degli steccati nei due affreschi adiacenti. 172

A una conclusione inattesa ha portato l’indagine relativa alla ripartizione dell’affresco in giornate: le giornate sono poche e grandi (fig. 13). I più importanti elementi compo-

sitivi — il cavaliere, il “battifolle”, l'accampamento — rien-

trano ognuno nell’ambito di una sola giornata. Un controllo accurato ha permesso di stabilire che la testa di Guidoriccio — contrariamente alle previsioni — non fu eseguita in una giornata a parte.

Come risulta da due disegni conservati nel Museo Stàdel di Francoforte,#” già nel primo Ottocento Ramboux aveva individuato una linea di demarcazione fra la parte destra dell’affresco di Simone Martini e l’immagine del castello di Montemassi, rifatta nel Quattrocento. Quella che in Ramboux era solo una intuizione, è diventata certezza in

seguito all’analisi della composizione dell’intonaco,** eseguita da Giuseppe Gavazzi. Una differenza nel carattere specifico dell’affrescatura è del resto percepibile anche a occhio, se si sale sull’impalcatura e si osserva la superficie del dipinto molto da vicino. Il termzinus ante quem di questo intervento integrativo cade verso il 1529, perché l’intonaco del sottostante affresco del Sodoma si sovrappone chiaramente al margine di questa pittura; ma considerazioni stilistiche suggeriscono una datazione notevolmente anteriore di questa copia del castello, l'esecuzione della quale s’impose per il deterioramento, causato dall'umidità (infiltrazione dell’acqua che ristagnava sulla terrazza sovrastante), dell’immagine dipinta da Simone. La persistenza dell'umidità nella parete determinò, all’inizio dell’Ottocento, un secondo intervento integrativo, e precisamen-

te in quella parte della collina di Montemassi che oggi si distacca dal resto dell’affresco per il tono più scuro della colorazione (le tracce della colorazione originaria rimaste in questa zona dimostrano che prima dell’intervento il decorso dello steccato, più ripido, cingeva la montagna in modo visivamente più efficace). Le ridipinture dell'Ottocento, oggi rimosse, riguardavano il cielo — che fu completamente ricoperto di uno strato di blu di Prussia — e la cornice, la cui colorazione originariamente chiara fu rifatta in tono scuro (un resto di tale ridipintura è stato lasciato a destra, sotto l'accampamento). Attualmente il cielo presenta in parte l’azzurrite originaria, in parte la sua preparazione grigia. La ridipintura del cielo all’inizio dell'Ottocento aveva determinato due piccole alterazioni della composizione originaria: era stato cambiato il formato (ma non gli stemmi) delle due bandiere che sventolano sul “battifolle”, e lo steccato che circondava l'accampamento posto sul monte era stato nascosto sotto una mano di colore. Si è potuto constatare che la parte centrale della data dipinta sulla cornice inferiore dell'affresco di Simone Martini (per la precisione, le quattro lettere MCCC) è stata

restaurata su un pezzo di intonaco dell’Ottocento (quando Ramboux disegnò la scena, questa integrazione non aveva ancora avuto luogo).#? Ma dal punto di vista dell’interpretazione, tale constatazione non è rilevante, dal momento che — come dimostra il disegno riprodotto nella fig. 15 -— la lacuna provocata dalla caduta dell’intonaco non consente altra integrazione che quella corrispondente alla data del 1328.

Nel corso dei recenti lavori di restauro, e anche durante la

conferenza stampa del 26 marzo 1981, voci autorevoli hanno sostenuto che, per motivi epigrafici, l’iscrizione

della cornice deve essere datata nel Quattrocento. Poiché è presumibile che l'argomento verrà rilanciato nel corso della discussione, desidero sottolineare che tutte le lettere che compongono quella data sono reperibili in forma pressoché identica nelle iscrizioni originali che corredano le opere di Simone Martini e della sua scuola? e che di conseguenza non c'è ragione di dubitare che la data sia stata apposta all’affresco nel 1330. Si è creduto inoltre — e anche questo è un argomento sicuramente destinato a essere ripreso — di individuare un punto, nel quale l'intonaco dell'affresco di Guidoriccio si sovrappone all’intonaco dell'affresco adiacente di Lippo Vanni (abbiamo accuratamente documentato questo particolare nella nostra campagna fotografica). Come risposta a una eventuale obiezione fondata su questo argomento, mi pare possa valere un'osservazione del restauratore, al quale si deve la scoperta del particolare stesso. Nella sua relazione di restauro datata giugno 1981, Giuseppe Gavazzi scriveva a proposito della pretesa sovrapposizione: «Purtroppo la chiarezza assoluta è compromessa da una antica caduta degli intonaci al loro estremo margine, nel punto esatto in cui si sarebbero dovuti incontrare». Degna di rilievo è la mancanza di qualsivoglia lacuna nell’opera di Simone Martini, dipinta quasi esclusivamente a buon fresco (dipinte a secco sono solo le bandiere bianconere, alcune lance e alcune lumeggiature delle rocce, oltre alle zone trattate coll’azzurrite).

LA RAPPRESENTAZIONE SASSOFORTE,

ARCIDOSSO

DEI CASTELLI E CASTEL

DI MONTEMASSI,

DEL

PIANO

Che Simone Martini ricevesse l’incarico di dipingere nel Palazzo Pubblico quattro castelli della Maremma è attestato soltanto da due note di pagamento del seguente tenore: «Anco al maestro Simone dipentore le quali sedici lire li demmo per la dipentura che fece di Monte Massi e Sassoforte nel palacco del Comune e avemmone polica da Signori Nove [...] lib. 16» (2 maggio 1330); «Anco al maestro Simone dipegnitore e quagli ebe per suo salaro e qualle tolse a rischio a dipegnare nel palagio del Chomune

Arcidoso e Chastello del Piano in sette fiorini d’oro, avene puliga da Nove [...] lib. 22 s. 8» (14 dicembre 1331).?? Come si vede, ognuno di questi due incarichi si riferisce alla rappresentazione di due castelli: Sassoforte e Montemassi erano figurativamente accoppiati, così come Arcidos-

so e Castel del Piano. Le associazioni appaiono a prima vista tutt'altro che ovvie.

«CASTRUM

PINGATUR

IN PALATIO»

Mentre Montemassi venne conquistato il 28 agosto 1328,

dopo un assedio di oltre sette mesi, il castello di Sassoforte fu comprato da Siena solo alla fine del febbraio 1330, circa un anno e mezzo più tardi. L'uso che la città fece dei due castelli non fu poi meno eterogeneo della loro acquisizione. La poderosa fortezza di Montemassi diventò una delle piazzeforti di cui Siena si valeva per mantenere sotto controllo la Maremma occidentale. Invece Sassoforte fu distrutto subito dopo l'acquisto, per evitare che la nobiltà feudale tornasse a utilizzarlo come base militare. Per vie altrettanto differenti caddero definitivamente nella sfera d'influenza del Comune di Siena i due paesi di Arcidosso e Castel del Piano, associati nel secondo incarico di Simone. La ben munita piazzaforte di Arcidosso si arrese il 12 agosto 1331 dopo un assedio piuttosto lungo. Invece Castel del Piano fu comprato per 8000 fiorini, in conco-

173

mitanza con un trattato di pace che il Comune di Siena

concluse con i conti di Santa Fiora il 18 novembre 1331. Nell’una e nell’altra occasione si aspettò la conclusione di un contratto d'acquisto che riguardava un castello meno importante, prima di affidare al pittore l’incarico di perpetuare la memoria di una conquista militare, che risaliva a qualche tempo addietro. Poiché l’associazione di determinati castelli e la data di conferimento dell’incarico diventano in questo contesto elementi molto significativi per la decifrazione del programma iconografico nel suo insieme, appare necessario

fissare con la maggior precisione possibile la data dell’incarico, integrando i dati contenuti nei documenti che abbiamo citato di sopra. La decisione di rappresentare il castello di Sassoforte nella sala grande del Palazzo Pubblico deve essere stata presa subito dopo il 1 marzo 1330. Già il 24 novembre 1329? i Nove avevano discusso l’acquisto di questo castello, legato a Siena da un trattato che risaliva al 1316. Nella seconda metà di febbraio del 1330 le trattative d'acquisto furono concluse. Le deleghe che i detentori di Sassoforte, i conti di Santa Fiora, rilasciarono per la conclusione del contratto portano le date del 17 e del 18 febbraio? Il 27 febbraio l’acquisto deciso dai Nove ottenne la ratifica del Consiglio Generale. Il primo marzo ebbe luogo a Sassoforte la solenne cerimonia della consegna del castello”: Siena era rappresentata da Bastardo di Canossa, il quale (particolare che si rivelerà assai significativo) era un membro della “famiglia” del capitano di guerra Guidoriccio da Fogliano. Il versamento del prezzo pattuito, 5500 fiorini, ebbe luogo quel giorno stesso. Se si calcola che l’esecuzione dell’affresco fu probabilmente preceduta (come i documenti attestano che avvenne nel caso di Arcidosso e Castel del Piano) da un viaggio dell’artista a Sassoforte e a Montemassi, e se si presume (in base all’entità del compenso) che l'esecuzione stessa richiedesse circa un mese di lavoro, si arriva alla conclusione che l’incarico dovette essere impartito a Simone subito dopo la conclusione del contratto d'acquisto ed esei guito al più tardi nel corso dell’aprile 1330. La conquista di Montemassi e la compra di Sassoforte diventano un tema unitario se le rappresentazioni dei due ca-

stelli vengono considerate non tanto come celebrazioni di

È ba

ss

12. Ricostruzione di un particolare della Scena di Giuncarico: base delle figure

questo o quel successo militare, quanto come documenti

dell’estendersi della sfera d’influenza di Siena (a questo proposito mi sembra importante sottolineare che nel Trecento i territori di Montemassi e Sassoforte erano imme-

diatamente adiacenti, come risulta fra l’altro dalle rilevazioni dei confini del 30 marzo 1330).?° Il progressivo estendersi della sfera d’influenza della città sarebbe dunque il filo tematico che collega fra loro le varie rappresentazioni del ciclo. La cronologia dell’incarico che abbiamo ricostruito qui sopra trova una precisa conferma nella cronaca di Agnolo di Tura: «Montemassi e Sassoforte li féro dipegnare i signori Nove di Siena, a l’esenplo come erano, [...] fu d’aprile 1330». Agnolo di Tura doveva disporre di fonti eccellenti: è probabile che nel caso specifico egli conoscesse dei documenti che oggi sono andati perduti. La dimostrazione dell’attendibilità storica delle notizie trasmesse da Agnolo di Tura è fondamentale per la dimo-

strazione che viene qui di seguito e che in alcuni punti si basa, per mancanza di fonti primarie, su questa fonte se-

condaria. Nel 1964 un articolo di William M. Bowsky®! ha segnato una fase di rivalutazione di questa fonte cronachistica, fino ad allora misconosciuta e che Alessandro Lisini nell'edizione del 19399 considerava ancora come una compilazione del Quattrocento. Bowsky ha dimostrato che l’autore della cronaca è da identificare con quell’A-

PITTURA

- MEDIOEVO

snolo di Tura detto il Grasso, menzionato in documenti

del 1348 e del 1355 come funzionario della “Biccherna” e che per ragioni d'ufficio aveva accesso ai documenti più importanti. Tutti gli studi d'archivio che stanno alla base della presente ricerca confermano che la narrazione di Agnolo di Tura presuppone in gran parte una conoscenza diretta e una precisa valutazione delle fonti primarie e che di conseguenza essa rappresenta per il periodo che ci inte-

174

ressa una testimonianza di prim'ordine.

2

Grazie alle ricerche di Enzo Carli? di Uta Feldges” e di Italo Moretti, tutti gli elementi figurativi dell'affresco di Montemassi sono oggi chiariti e identificati. A sinistra dell’immagine si vede il castello di Montemassi, a destra il baluardo costruito dai Senesi durante l'assedio e fatto prevalentemente di legno (il famoso “battifolle”), che venne abbattuto dopo la conquista del castello (tavola vin). Gli stemmi che decorano l’abito e la gualdrappa consentono — come Josef Polzer è tornato di recente a dimostrare‘ — di identificare inequivocabilmente nel cavaliere quel Guidoriccio da Fogliano, che nel periodo compreso fra il 1327 e il 1333 rivestì la carica di «Generalis Capitaneus Guerre Civitatis et Comitatus Senarum». Il suo stemma compare

altre due volte nell’affresco: nella bandiera che sventola sulla torre destra del “battifolle” e sull’accampamento rappresentato in primo piano. È stato anche chiarito che la data del 1328, che si vede dipinta sulla cornice inferiore della scena, si riferisce alla conquista di Montemassi e non all’esecuzione dell'affresco. Una più precisa comprensione del linguaggio figurativo di questi affreschi in rapporto alla loro simbologia politica è uno degli obiettivi che il presente contributo si propone di raggiungere. Facilmente accessibile alla maggior parte dei cittadini senesi dell’epoca, assolutamente perspicuo — nonostante l'assenza di un'iscrizione chiarificatrice — per i membri del Consiglio Generale, il messaggio politicoideologico contenuto nella scena deve essere oggi rico-

struito tramite l’indagine storica. Cominciamo con l’interpretazione del più vistoso segno figurativo, il “battifolle”. Anche se questo tipo di macchine d’assedio era spesso utilizzato nel Trecento, il “battifolle” di Montemassi divenne — per la sua poderosa struttura e per la sua funzione strategica determinante — una specie di simbolo di questo assedio. Alcuni pagamenti della “Biccherna” portano come indicazione topografica le parole «al battitolle», senza ulteriori specificazioni: esse bastavano a designare il campo dell'esercito senese presso Montemassi. Delle imponenti dimensioni di questo bastione te-

stimonia la cifra di 234 lire che il Comune dovette pagare il 18 settembre 1328, a conclusione dell’impresa, a titolo di compenso per la sua demolizione. Fin dall'inizio della narrazione dell'assedio di Montemassi, Agnolo di Tura mette l'accento sul “battifolle”, più avanti egli lo descrive come «grande et forte»®° e «murato d’uno castello». L’imponenza di questo fortilizio è anche comprovata dal fatto che i Senesi, dopo la conquista di Montemassi, presero in considerazione l’idea di fare di esso — e non del castello appena conquistato — la loro base militare nella Maremma occidentale.” Per Agnolo di Tura il “battifolle” significava che fin dall’i-

nizio dell’impresa i Senesi si erano preparati ad affrontare un assedio lungo e costoso, nel corso del quale il loro esercito avrebbe avuto bisogno di una base d’appoggio inattaccabile. Vale la pena di sottolineare che nello stesso senso va interpretato un altro segno figurativo che compare nella scena, cioè le due vigne piantate nell’accampamento senese. Mentre l'osservatore di oggi tenderà a vedere nelle vigne un motivo naturalistico inteso alla caratterizzazione del paesaggio, questo particolare assumeva, agli occhi dell’osservatore contemporaneo, un preciso valore semantico all’interno di un certo linguaggio politicomilitare. Per sapere quale fosse questo valore, lo studioso - la cui attenzione è stimolata proprio dall’isolamento delle vigne, dalla mancanza di ogni altro tipo di vegetazione nella scena — deve ricorrere ancora una volta ad Agnolo di Tura: due volte il cronista menziona le vigne come segno della lunghezza di questa spedizione militare e della costanza dell’esercito senese. «La detta oste a Montemassi vi stè gran tempo, in modo che quelli dell’oste posero una grande vigna in canpo, ed ebero del vino di quella vigna in canpo»,”2 così si apre la narrazione dell’assedio; e si chiude con la frase «eravi stato l’assedio sette mesi, che vi posero le vigne». Il linguaggio della cronaca e quello dell’affresco sono dunque legati da una stretta affinità. Testo e immagine adottano la stessa simbologia, attribuiscono la conquista di Montemassi agli stessi fattori determinanti. Questo vale anche per la palizzata che recinge i tre accampamenti, il “battifolle” e il castello di Montemassi. Più volte Agnolo di Tura ricorda questa palizzata: «grandi steccati [...], che chiudea il castello e el battifolle»,7 «battifolle, overo bastia, murato d’uno castello e fortificato con grossi stecati

in modo che da niuno canto potea entrare né uscire di Montemassi».? Diversi elementi figurativi della scena — imponenza del “battifolle”, presenza delle vigne — puntano verso lo stesso significato: la lunghezza e di conseguenza la costosità dell'assedio. A spiegare l’accentuazione di questo motivo contribuisce il protocollo di una seduta del Consiglio Generale, convocata il 1° settembre 13287 — tre giorni dopo la conquista di Montemassi — in quella stessa sala dove più tardi vennero dipinti gli affreschi. In questo protocollo il diritto di possesso che il Comune accampa su Montemassi non viene presentato solo come diritto di conquista, ma anche motivato con il costo dell’assedio, qui espresso nella vertiginosa cifra di 100.000 fiorini. La somma, corrispondente a circa 335.000 lire, equivale pressappoco alle entrate complessive della città di Siena e del contado nell’anno 1328 (348.887 lire).? È da notare che nel corso della seduta del 1° settembre venne contemplata la eventualità (che l’entità della cifra rendeva astratta) di restituire o cedere il castello appena conquistato ai feudatari che ne rivendicassero il possesso, a condizione che essi rimborsassero alla città le spese dell’assedio. E possibile che agli occhi dell’osservatore contemporaneo il “battifolle” si caricasse di un altro significato. Nella strategia di quella campagna, l’imponente bastione aveva funzioni non solo offensive ma anche difensive. Esso offriva agli assedianti rifugio e asilo, all'avvicinarsi dell'esercito

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13. Scena di Montemassi: indicazione delle giornate

imperiale, risparmiando loro il confronto diretto con un

gli statuti) dimostrano

nemico militarmente preponderante,

Guerre Civitatis et Comitatus

senza peraltro co-

che il «Generalis Senarum»

Capitaneus rappresentava

stringerli a togliere l'assedio.” Non bisogna dimenticare molto di più che un condottiero militare. Investito com’eche la ribellione di Montemassi contro Siena nel dicembre ra della funzione di giudice, dotato di una carica a decordel 1327 era avvenuta in concomitanza con il passaggio atrenza prestabilita5°di una sede ufficiale e di un gran nutraverso la Maremma di Ludovico il Bavaro, diretto a. mero di dipendenti8! (prerogative che lo equiparavano al Roma. Da questo punto di vista, l’azione militare che si. podestà),* il “Capitaneus” era il supremo protettore della svolse intorno a Montemassi era un aspetto del conflitto città e del contado. Gli statuti lo designavano come «salus, fra il diritto di possesso rivendicato dal Comune e il dosecuritas et defensio [...] totius Civitatis et Comitatus minio feudale fondato su privilegi imperiali. Senarum»,8 la sua nomina avveniva «pro conservatione et Ai membri del Consiglio Generale di Siena, che nel 1330 tuitione status pacifici et tranquilli Civitatis et Comitatus alzavano lo sguardo sull’affresco appena compiuto, questo —Senarum».8 Che queste formule avessero incidenza reale “battifolle” doveva perciò apparire come una permanente è dimostrato da un passo degli statuti del 1325, che obblicommemorazione della loro vittoriosa strategia contro legava il capitano di guerra a compiere ogni mese, insieme forze militari ghibelline, una specie di monumento eretto al podestà, un’indagine sistematica per scoprire e sventare a ricordo del contributo senese alla resistenza guelfa coneventuali congiure.® tro le pretese imperiali di predominio: e se è vero da un L'autorità del capitano di guerra di pronunciare sentenze lato che quel contributo era stato modesto, è vero anche e di farle eseguire — autorità contro la quale in molti casi d’altro lato che la ritirata di Ludovico il Bavaro dall'Italia, non vi era facoltà di appello — si estendeva particolarmente ai ribelli e a coloro che provocavano invasioni dall’ealla fine del 1329, nonché la morte recente del più potensterno o fornivano transito e ricovero a truppe straniere.* te ghibellino toscano, Castruccio Castracani, rendevano Inoltre il capitano di guerra aveva potestà su coloro che si attuale la celebrazione di quella vittoria. fossero macchiati del crimine di parlare in pubblico «conNell’interpretazione iconografica dell'affresco di Montetra statum pacificum Civitatis Senarum».” massi la più grande difficoltà era rappresentata finora dalla Questi accenni saranno sufficienti a indicare che figura del capitano Guidoriccio da Fogliano. A molti stu—Guidoriccio non è qui rappresentato soltanto come vincivendi diosi questa glorificazione di un “modesto capitano di Montemassi («intrò in Siena con gran festa e alletore conosi non tura” appariva incongruente. Effettivamente ma anche come protettore del territorio di Siena —greze»),* un di rappresentazione sce in questo periodo nessun’altra castelli che le facevano corona nel programma i tutti di e Ma celebrativa. ufficialmente così capitano di ventura ciclo. L'affresco celebra non solo la sua perdel originario vendi capitano un davvero era Fogliano da Guidoriccio il suo ufficio, che garantisce «salus, secuanche ma sona, personaggio del posizione l'effettiva erro, non Se tura? ritas et defensio totius civitatis et Comitatus Senarum». Da non è stata ancora definita con precisione. Dallo studio dei questo punto di vista è significativo che il suo nome ricordocumenti risulta che la carica di «Generalis Capitaneus ra anche nei documenti che riguardano la compra di Guerre Civitatis et Comitatus Senarum» non corrisponde-

va all’ufficio di un capitano di ventura. L'opinione piutto-

Sassoforte. Nel corso delle deliberazioni che portarono a

numenti equestri eretti in onore dei condottieri quattro-

vembre 1329 che il capitano di guerra doveva provvedere

sto diffusa che addita nel Guidoriccio il precursore dei mocenteschi è perciò di assai dubbia consistenza.

Non è questa la sede adatta per tentare di colmare le lacune che la storia degli uffici e delle cariche del Comune di Siena nel Trecento ancora presenta.” Ci limiteremo a sottolineare che un notevole numero di fonti (in particolare

quell’acquisto, il Consiglio Generale decise in data 24 no-

a sgombrare ilcampo da ogni compratore concorrente: i

metodi di cui egli era autorizzato a far uso andavano dalla devastazione dei possessi degli eventuali concorrenti fino alla consegna delle loro persone in mano al boia. Quando poi, alla fine del febbraio 1330, le trattative d'acquisto fu-

PITTURA

- MEDIOEVO

rono concluse, fu proprio il capitano di guerra che, tramite un suo delegato, prese formalmente possesso del castello in nome del Comune di Siena.” Quale importanza l’ufficio del capitano di guerra avesse raggiunto al tempo di Guidoriccio da Fogliano risulta non

soltanto dalla durata estremamente lunga del suo ufficio,

ma anche dal confronto fra il suo salario e quello che percepivano altri alti funzionari del Comune. Per i primi due mesi di carica, Guidoriccio ricevette per sé e per la sua —

peraltro assai numerosa — “famiglia” la somma di 3333 lire?! cioè molto di più di quello che il podestà (2000 lire) e il capitano del popolo (500 lire) percepirono nello stesso periodo. Vale la pena di sottolineare che subito dopo la conquista di Montemassi il salario di Guidoriccio s'impennò bruscamente. A partire dal mese di ottobre del 1328 egli percepì 6333 lire” e a partire dal mese di ottobre del 1329 egli percepì 6666 lire? ogni due mesi, cioè il doppio del salario con cui era entrato in carica (questo significa che a partire dal 1329 il salario del capitano di guerra ingoiava più del 10% del bilancio complessivo del Comune di Siena). Né il salario del capitano del popolo né quello del podestà subirono nello stesso periodo aumenti di entità paragonabile a questa. All’aumento del salario erano anche connessi compiti più gravosi, in parte determinati dall’ampliarsi della “famiglia”; d'altronde la crescita numerica della “famiglia” esprimeva la crescente importanza dell’ufficio. Non è certo un caso che Guidoriccio sia rappresentato davanti a Montemassi, la cui presa segnò, come confermano le testimonianze scritte, il suo più grande successo militare. Agnolo di Tura sottolinea, fin dalle prime righe del suo ritratto di Guidoriccio, due elementi: la durata straordinariamente lunga della sua carica e la vittoria di Montemassi.?* Occorre tuttavia connettere questa figura equestre non solo con Montemassi, ma con l’intero ciclo dei castel-

li affrescati, che comprendeva anche Arcidosso e Castel del Piano (probabilmente dipinti sulla parete settentrionale della sala). L'attacco senese contro i possessi dei conti di Santa Fiora scattò nell'aprile del 1331. Il 12 agosto di quell’anno, dopo la presa di Scanzano, Santa Fiora e Castel del Piano, cadde anche, alla fine di un assedio piuttosto lungo, il fortissimo Arcidosso.” I conti di Santa Fiora consegnarono Arcidosso nelle mani di Guidoriccio da Fogliano (come sappiamo da un documento del 18 novembre 1331).? Dopo la caduta di Arcidosso, Simone Martini fu inviato in Maremma per eseguire, nel corso di un viaggio della durata di 7 giorni, una serie di disegni dei tre castelli conquistati: Arcidosso, Castel del Piano e Scanzano.” Simone dovette mettersi in viaggio non più tardi del 30 agosto 1331, cioè due settimane dopo la resa di Arcidosso. Con la tempestività di questa partenza del pittore per la Maremma, contrasta il ritardo col quale gli venne impartito l’incarico di eseguire degli affreschi, i cui disegni preparatori risalivano quasi a tre mesi prima. La causa di que-

sto ritardo contribuisce a chiarire l’idea programmatica, alla quale si ispirava l’intero ciclo. Prima di impartire a Simone l’incarico di affrescare i castelli conquistati, il Comune attese che i nuovi possessi fossero consolidati

dalla conclusione di un trattato di pace con i conti di Santa Fiora. Evidentemente la conquista militare non era di per sé un motivo sufficiente per l’inclusione di un castello in questo ciclo figurativo. Come nel caso di Monterzassi e di Sassoforte, il significato di questi affreschi non era di celebrare dei successi militari, che potevano essere anche effimeri, ma di documentare annessioni territoriali di una

certa entità e di effetto duraturo. Non vogliamo appesantire il presente contributo con la dimostrazione ir extenso che l’incarico di affrescare i castelli conquistati nel 1331 fu effettivamente impartito a Simone soltanto nella seconda metà del mese di novembre. Ci limiteremo ad accennare al fatto che l’artista affrescò solo due dei tre castelli che aveva visitato nel mese di settembre. La ragione per cui il castello di Scanzano venne escluso dal programma degli affreschi, effettivamente commissionati a Simone Martini, va cercata nel tenore del con-

tratto che il Comune di Siena concluse con i conti di Santa Fiora il 18 novembre 1331.98 Con quel contratto i conti di Santa Fiora cedevano a Siena il castello di Arcidosso come preda di guerra e ottenevano dal Comune un indennizzo di 8000 fiorini per la consegna di Castel del Piano;” Scanzano invece veniva restituito al conte Enrico di Santa Fiora, anche se annientato come fortezza, «diruptis et dis-

sipatis cassaro muris fosseis et omnibus fortilitiis».!° Dopo la stipula del contratto del 18 novembre,!°! i Senesi dimostrarono una gran fretta di fissare anche nel linguaggio figurativo la validità del loro nuovo possesso. Il 14 dicembre infatti Simone Martini poteva già riscuotere il compenso che gli era dovuto per l’esecuzione del nuovo incarico, il quale, a giudicare dall’entità della cifra, aveva sicuramente richiesto più di 20 giorni di lavoro.!°® Così come erano associati nell’affresco di Simone, i due castelli di Arcidosso e Castel del Piano si ritrovano puntualmente connessi in tutti gli atti legali che li riguardano. Non solo l'elezione dei delegati dei due castelli, che dovevano prestare giuramento di fedeltà a Siena, ebbe luogo lo stesso giorno, ma il giuramento fu prestato con la stessa formula e con gli stessi testimoni.!® La solenne presa di possesso di Arcidosso e di Castel del Piano che seguì questo giuramento avvenne lo stesso giorno e per opera dello stesso delegato.!°% A questo punto non mi pare inopportuno fare una piccola precisazione circa la conquista di Arcidosso,!® dal momento che il nome di questo castello circolava con una certa insistenza durante i lavori di scopertura degli affreschi nella Sala del Mappamondo, negli anni 1980-1981. Da quali elementi si potrebbe riconoscere una rappresentazione dell’Assedio di Arcidosso, nell'eventualità che in futuro si dovessero scoprire in questa sala altri affreschi? I fattori che ebbero un ruolo strategicamente decisivo nella conquista di Arcidosso furono due “battifolle”, eretti di fronte al castello, e un passaggio sotterraneo che portava all'interno di esso. L'esattezza delle informazioni di cui, anche in questo caso, disponeva Agnolo di Tura,!® risulta da un controllo compiuto nei libri di conti della “Biccherna”, nei quali troviamo registrati due pagamenti ragguardevoli — rispettivamente di 436 e di 1127 lire — per i lavori di scavo di questo tunnel.!®” Arcidosso era una

«CASTRUM

PINGATUR

IN PALATIO»

177

14. Scena di Montemassi: indicazione delle corde battute e delle incisioni

piazzaforte così imponente (Agnolo di Tura: «molto forte co’ la rocha fortissima»)! che solo l’apertura di questo tunnel consentì ai senesi di conquistarla in un tempo ragionevole. E mentre il castello che si vede nell’affresco recentemente scoperto è recinto da una palizzata, Arcidosso era circondato da una forte cinta muraria.!®

L’AFFRESCO

RECENTEMENTE

SCOPERTO

Un viaggio nelle Maremme e il controllo de visu di tutti i paesi, i cui nomi erano stati messi in relazione con l’affresco recentemente scoperto, ha convinto chi scrive che il

problema dell’identificazione non può essere risolto per mezzo del semplice confronto fra il castello rappresentato nell’affresco (tavola x1) e questo o quel paese nella sua fisionomia attuale. Nel corso di sei secoli tutti questi paesi hanno subito profonde trasformazioni; le loro rocche e fortezze in particolare sono state sottoposte a ristrutturazioni così radicali — spesso esattamente documentabili anche a livello archivistico — da far apparire lievemente ingenuo un confronto con l'affresco recentemente scoperto.

Inoltre la fedeltà topografica dell’affresco stesso non è facile da valutare, sicché anche da questo punto di vista la soluzione del problema appare complicata da molte incognite.

In questa situazione ci è sembrato che la linea più ragionevole da seguire fosse di assumere come ipotesi di lavoro l’identificazione del nuovo affresco con un castello, che sia stato effettivamente dipinto nella Sala del Mappamondo prima dell'affresco di Monterzassi, cioè prima del terminus ante quem del 1330, emerso in modo inequivocabile dal. l’analisi tecnica. Un unico castello risponde a questo requisito di certezza documentaria: il castello di Giuncarico, la cui rappresentazione fu deliberata il 30 marzo 1314 dal Consiglio Generale. Prima di procedere nello sviluppo della mia argomentazione, mi sembra utile collocare a questo punto un’esposizione sommaria dei documenti del 29 e del 30 marzo 1314,!!9 che stanno alla base della nostra ipotesi.

Il 29 marzo 1314 Nello di Paganello, nella sua veste di sin-

daco di Giuncarico, fece atto di sottomissione a nome di

quel Comune di fronte al podestà di Siena, Carlo di Battifolle, in presenza dei Nove e del capitano del popolo.!!! Dal punto di vista giuridico, si trattava di una sottomissione incondizionata. In materia fiscale, giudiziaria e militare il castello cadeva sotto il dominio di Siena, che si riserva-

va, oltre al diritto di nominare il castellano, quello di vendere ad altri questo territorio. Nella cerimonia della sottomissione del 29 marzo 1314 queste durissime condizioni furono etichettate come tutela e protezione, che Siena si dichiarava pronta a fornire al popolo di Giuncarico. Il podestà di Siena consegnò al sindaco di Giuncarico la sua insegna di comando, il bastone, «in signum investiture beneficii defensionis et protectionis». I diritti del signore feudale, Nerio di Conte d’Elci, furono completamente ignorati; anzi, il popolo di Giuncarico dovette obbligarsi «Nerium Contis et suos sequaces, fratres et filios et nepotes, et pro inimicis habere, tenere et tractare et eis nullum auxilium,

consilium vel favorem prestare». Il Consiglio Generale, nella seduta del giorno successivo,!!? ratificò la sottomissione. Particolare interesse assume l’intervento di Mino de’ Tolomei, che voleva far inclu-

dere espressamente nel contratto il palazzo e gli altri beni che Nerio d’Elci possedeva a Giuncarico. In tal modo la linea politica adottata in questo periodo dal Comune di Siena nell’annessione dei castelli trovava un’espressione piuttosto chiara: la città perseguiva l'ampliamento della propria sfera d'influenza stipulando contratti con le popolazioni interessate, senza tenere conto della nobiltà feudale. In questa stessa seduta del Consiglio Generale fu letto il protocollo di un’assemblea dei Nove del 29 marzo 1314, che doveva aver avuto luogo subito dopo l’atto di sottomissione di Nello di Paganello. Nel protocollo troviamo ribadito il principio che la sottomissione di Giuncarico era stata un atto spontaneo, indipendente da azioni e pressioni militari. Nella loro seduta i Nove avevano anche discusso le misure da prendere per documentare i diritti acquisiti da Siena con l’atto di sottomissione. Si deliberò che Giuncarico venisse incluso nella lista dei territori appartenenti a Siena e che i documenti riguardanti la sottomissione venissero accuratamente conservati nell’archivio. Ma l’ansia di documentare il nuovo acquisto si espresse in primo luogo nella deliberazione «quod dictum castrum pin-

PITTURA

- MEDIOEVO

15. Iscrizione apposta sotto la Scena di Montemassi (;la ricostruzione della parte mancante è puntinata)

satur in palatio Comunis Senarum ubi fiunt Consilia, ubi

sunt picta alia castra acquistata per Comune Senarum, et

numquam possit talis pictura tolli, abradi, vel vituperari». Questo passaggio è di importanza decisiva per la comprensione dell’iconografia profana nel Trecento. Testimo-

nianza figurativa e testimonianza scritta possono essere considerate in questo periodo come aspetti diversi e com-

plementari della documentazione del diritto di possesso: per questa ragione esse venivano ambedue tutelate dal pericolo di danneggiamento o distruzione. Gli eventi che si svolsero nel Palazzo Pubblico il 29 e 30 marzo 1314 devono essere interpretati sullo sfondo del conflitto allora in corso fra la politica d'espansione dei Comuni e la difesa dei diritti feudali fondati su privilegi imperiali. Non era passato molto tempo da quando Arrigo vii aveva concepito il piano di liberare quelli che egli considerava come i territori imperiali usurpati dalle città italiane.l!

L’11 aprile 1312 l’imperatore aveva scritto a Siena una lettera, nella quale annunciava in tono di minaccia: «In Ytaliam accedere festinavimus, in qua propter Romanorum regum absentiam universe civitates ac comunitates regalia Romani imperii occupaverant».!! Nello stesso anno

la cancelleria imperiale aveva redatto un documento dal titolo molto esplicito: «Infrascripta sunt castra ad dominum imperatorem et ad Romanum imperium pertinentia, que

possidentur et detinentur a comuni et civitate Senarum».!! Ed effettivamente l’avvicinarsi dell’imperatore dette ai feudatari della Maremma il segnale della riscossa contro la supremazia di Siena. Per un tratto della spedizione, quello compreso fra Pisa e Roma, nel mese di aprile del 1312, fecero parte del corteo imperiale non solo i conti di Santa Fiora e di Sticciano, ma anche i conti di Elci, signori di Giuncarico,!!9 che già più di una volta, da ultimo nel 1282, avevano dovuto piegarsi davanti al potere senese. Il periodo nel quale vennero conclusi i contratti con Giuncarico che abbiamo appena ricordato — cioè i mesi di marzo e aprile del 1314 — fu contrassegnato dal tentativo di Siena di recuperare i territori perduti fra l’arrivo dell’imperatore in Toscana e la sua morte, avvenuta il 24 agosto 1313. La ribellione dei feudatari della Maremma non era stata ancora domata. Ci vollero mesi, in alcuni casi ad-

dirittura anni, per costringere i conti d’Elci!!” e i signori di Sticciano!!* a rinunciare formalmente ai privilegi conferiti

loro da Arrigo vii. La linea politico-giuridica che Siena sperimentò nella primavera del 1314 — la sottomissione dei castelli per dedizione volontaria dei loro abitanti — segnava il rovesciamento della politica imperiale. Così la rappresentazione di Giuncarico nella sala maggiore del Palazzo Pubblico dovette apparire come un monumento eretto alla vittoria sopra l'ordinamento feudale, poco prima rappresentato dall'imperatore. Il significato politico della scena non si limitava però alla polemica antimperiale. Nel corso di quella seduta, nella quale fu presa la decisione di dipingere Gruncarico, iNove fecero esplicito riferimento al loro obbligo — già espresso negli Statuti del 1291!! — di estendere il contado di Siena tramite l’acquisto o la compra di castelli o altre forme di annessione.!20 Il ciclo delle rappresentazioni dei castelli segnalava l’adempimento di un obbligo che i Nove si erano assunti, e che era espresso nella formula del loro giuramento d’ufficio: «Dovete procurare ad ampliare, accrescere et conservare... la ciptà di Siena, suo contado et distrecto».!2! Questo passo degli Statuti, che veniva regolarmente letto ai Nove e al quale i Nove si riferirono al momento dell’acquisto di Giuncarico, contiene la più precisa definizione del significato del ciclo dei castelli che si svolgeva sulle pareti della sala del consiglio: «Item statutum [...)] est quod domini Novem [...] debeant invenire [...] si possunt ampliare et augere civitatem et iurisdictionem Senarum tam in marittima quam in montana [...] erzerdo

vel alio modo acquirendo castrum seu castra vel in parte vel aliquid ius acquirendo».!? Poiché le nostre ricerche hanno chiarito che i volumi della “Biccherna” relativi al periodo luglio 1313 — giugno 1314 sono scomparsi, il nome dell’artista che eseguì l'affresco di Giuncarico non è archivisticamente documentabile. Abbiamo dovuto dunque concentrare l’indagine archivistica soprattutto su due punti. 1. La ricerca di eventi connessi a Giuncarico che possano spiegare l'esecuzione di una condanna “in effigie” come quella che evidentemente fu messa in atto sull’affresco recentemente scoperto, quando le due figure e la cuspide del campanile furono nascoste sotto due strati di colore. 2. La ricostruzione della situazione di Giuncarico nell’aprile del 1330 quando, nonostante l’allargamento del ciclo, l'affresco recentemente scoperto fu conservato nella sua integrità, il che può significare solo che la scena in esso rappresentata era per Siena ancora significa-

tiva o forse aveva addirittura una certa attualità.

«CASTRUM

Il primo problema si è rivelato di facile soluzione. Spinti anche dall’impulso di vendicare la distruzione del loro castello, imposta da Siena subito dopo la sottomissione,!? nel mese di giugno del 1314 gli abitanti di Giuncarico aprirono le porte a Binduccio da Sticciano! e a Ranieri di messer Rufredi de l’Incontri, consanguineo del signore feudale di Giuncarico il primo, cittadino senese messo al

bando il secondo.'? Quando questa notizia pervenne a Siena, essa dovette provocare nella città reazioni di risentimento, di delusione e di rabbia: l'episodio dimostrava infatti che il modello della sottomissione “spontanea” di un popolo, senza intervento del signore, non era praticabile. Lo smacco politico era tanto più doloroso, in quanto Giuncarico aveva fatto causa comune proprio con coloro che Siena considerava in quel momento come i suoi più accaniti nemici. I signori di Sticciano e la famiglia di Ranieri di Rufredi de l’Incontri avevano approfittato della debolezza di Siena all’epoca della spedizione di Arrigo vi in Italia per compiere gravi scorrerie e saccheggi nel contado della città.'2 Nella primavera del 1314 il risentimento dei cittadini contro i signori di Sticciano era ancora così vio-

lento che Siena non volle aderire a un trattato di pacificazione di tutte le città della Toscana patrocinato da Roberto d'Angiò, perché in questo trattato doveva essere incluso anche il conte di Sticciano.!?” Circa il secondo punto della nostra indagine, cioè circa la posizione di Giuncarico nell'aprile del 1330, risulta che il signore di questo borgo, Gaddo di Conte d’Elci, nel corso della spedizione di Ludovico il Bavaro in Italia si sottrasse al controllo di Siena, facendosi confermare dall’imperatore i suoi diritti feudali. Dopo la ritirata dell’imperatore dall’Italia, Gaddo dovette nuovamente sottomettersi a Siena. In occasione di questa sottomissione, che avvenne il 26

marzo 1330, il Comune recitò la parte del padre generoso e amorevole: «quod paterne pietatis offitium est filios deviantes non tractare atrociter sed ipsos benigne ad suam benevolentiam revocare et considerantes quod Gaddus olim Contis comes de Ilcio [...] vult et intendit redire ad benevolentiam Comunis Senarum [...]».!8 L’identificazione della scena recentemente scoperta con la Sottomissione di Giuncarico (tavola x) fatta da Nello di Paganello il 29 marzo 1314 risulta dunque consona agli eventi storici e alla cronaca. Si può trovare anche una con-

ferma iconografica di questa interpretazione? In quanto non rappresenta un'azione militare, ma un atto di dedizione spontanea, la scena della Sala del Mappamondo corrisponde esattamente agli eventi del 29 e 30 marzo 1314. Né armi né accampamenti introducono in

questo racconto l’accenno a un assedio. Le tre porte spalancate sono un chiaro segno di dedizione. Il delegato del borgo dialoga con i rappresentanti di Siena in posizione

eretta, armato e a capo coperto. Invece il delegato di una comunità costretta militarmente alla resa si presentava ai vincitori (come sappiamo da numerosissime relazioni contemporanee)! in ginocchio, a piedi scalzi e a capo scoperto. Non soltanto la sua posizione immediatamente frontale rispetto al castello e il gesto della adlocutio, ma

anche la spada caratterizza la figura di destra come il sindaco di una comunità che si sottomette spontaneamente.

PINGATUR

IN PALATIO»

Nella Siena del Trecento il diritto di portare armi era concesso — oltre che ai soldati — a un gruppo di persone estremamente ristretto. Tuttavia gli statuti ci dicono che ambasciatori e delegati avevano il diritto di portare armi, quando venivano a Siena.!?! Altri personaggi, verso i quali una ricerca di identificazione di questa figura potrebbe orientarsi, sarebbero stati contraddistinti in modo diverso. Il podestà dovrebbe portare il “baculus”, che anche il già citato documento del 29 marzo 1314! ricorda come suo contrassegno. Il capitano di guerra sarebbe contraddistinto dal bastone di comando e probabilmente anche dall’armatura. Che i signori feudali assumessero un atteggiamento del tutto diverso in questo genere di cerimonie risulta con sufficiente chiarezza dall’allegoria del Buor Governo di Ambrogio Lorenzetti,

che si trova nella sala adiacente del Palazzo Pubblico. Se si assume come base della ricostruzione il documento del 29 marzo 1314, la scena completa doveva rappresentare da un lato il sindaco di Giuncarico, dall'altro il podestà di Siena, accompagnato dai Nove (oggi è visibile nell’affresco solo uno dei Nove, il personaggio vestito di violetto a sinistra del sindaco di Giuncarico) e forse dal capitano del popolo. Castello e figure rappresentano evidentemente un'unità simbolica, non spaziale. Le figure si ergono su una roccia a parte, il cui disegno si prolunga dal lato destro fino alla cornice dell’affresco (fig. 12). Il confronto del castello affrescato (tavola x1) con l'odierno Giuncarico non è del tutto probante, perché sappiamo con sicurezza che la rocca di Giuncarico fu quasi totalmente distrutta nel 1314.53 Ma i pochi dati che si possono raccogliere parlano chiaramente a favore della nostra tesi: anche Giuncarico sorge su una collina molto ripida, la rocca ricostruita dopo il 1314 è situata al di sopra della pieve. Proprio questa pieve, tuttora esistente, mi pare che rappresenti la più

importante conferma topografica a nostro favore. Proprio come nell’affresco, l’importanza di questa pieve si esprime anche nelle sue dimensioni, che escludono preventivamente ogni confusione con la cappella di una rocca. Inoltre l’abside della pieve non è rivolta verso il castello, come nel caso di Sticciano, ma verso il ripido pendio della collina. Vale anche la pena di sottolineare che Giuncarico nel 1314 non era protetto ancora da una cinta di mura ma solo da un’alta palizzata,4 proprio come la località rappresentata nell’affresco. Un borgo di questo genere non avrebbe potuto fronteggiare un assedio come quello che subì Arcidosso, per il quale Siena mise in campo 4000 soldati ed eresse due “battifolle”.!?> Dal momento però che in questo caso la perdita degli atti della “Biccherna” e i cambiamenti topografici di Giuncarico riducono sensibilmente le nostre possibilità di controllo, è opportuno sottoporre a indagine anche le soluzioni alternative. Particolarmente interessante appare, da questo punto di vista, la proposta di Paolo Cammarosano,'?° uno dei migliori conoscitori dei castelli senesi.!” Cammarosano ritiene che l'affresco recentemente scoperto sia una rappresentazione di Sticciano, i cui signori presta-

rono giuramento di fedeltà a Siena il 20 ottobre 1314. Dal punto di vista geografico e cronologico, la tesi di Sticciano

I79

PITTURA

180

- MEDIOEVO

non si differenzia sostanzialmente dalla tesi Giuncarico. A mio avviso tuttavia un certo numero di elementi fa pendere la bilancia in favore di Giuncarico. In primo luogo la pieve di Sticciano — la quale ha, in rapporto alle rovine del castello, una posizione analoga alla pieve di Giuncarico — è orientata in senso inverso rispetto alla pieve che si vede nell’affresco. Anche in una rappresentazione approssimativa, come probabilmente fu questa, si può presumere che il pittore tenesse conto di un elemento così fondamentale come l’orientamento dell’abside, specialmente se la chiesa determinava in modo essenziale la fisionomia del borgo per il visitatore che si arrampicava sulla collina. Inoltre il trattato che i signori di Sticciano e il delegato di Siena stipularono il 20 ottobre 1314! non rientra nel programma degli affreschi della Sala del Mappamondo, tale quale l'abbiamo ricostruito di sopra. Secondo il tenore del documento del 30 marzo 1314," in questa sala erano rappresentati solo castelli che si trovavano effettivamente in possesso di Siena. Tutti i castelli rappresentati nella sala erano

possedimenti

senesi:

Giuncarico,

Montemassi,

Arcidosso e Castel del Piano. Invece il documento del 20 ottobre 1314 poneva Sticciano sotto il patronato, non

sotto il dominio di Siena. Quale chiara consapevolezza i contemporanei avessero di tali differenze giuridiche, risulta da un documento dell’ottobre 1324, che distingue il riconoscimento del patronato di Siena, risalente a dieci anni prima, dall’annessione di Sticciano al contado senese, avvenuta appunto in quell’anno: «Castrum et terra curia et districtus de Sticciano qui [...] iam sunt longa tempora per dominos dicte terre fuerunt subpositi [...] nunc plenarie et

in totum dictum castrum deveniat in comunis Senarum potentiam et baliam [...] et quod districtus ipsius castri sit deveniat et reducatur ad verum comitatum Comunis Senarum».!40 E da notare che ad ambedue gli eventi — sia al riconoscimento del patronato senese del 1314, sia all’annessione al contado senese del 1324 — corrispondeva una cerimonia specifica, che in una eventuale rappresentazione avrebbe trovato una espressione iconografica sua propria. Nel 1314 sulla torre del castello di Sticciano venne issata la bandiera di Siena.!#! Invece nel 1324 i signori di Sticciano dovettero chiedere in ginocchio la cittadinanza senese: «Petierunt se [...] recepi et admicti in cives et pro civibus senensibus [...] flexis genibus humiliter et devote».!4? Che questo tipo di cerimonie si riflettesse esattamente nell’iconografia risulta dalla scena del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti, dove i nobili offrono in ginocchio i loro castelli al Comune.

la politica guelfa (insegne del papa, del re di Francia, del re di Napoli, della parte guelfa, ecc.). Espressamente vietata era invece la rappresentazione di stemmi e insegne,

quando essa era da intendersi come celebrazione di questo o quel funzionario del Comune. Nell'ambito della pittura profana, viene espressamente ammessa la «pictura pro aliqua victoria vel apprehensione alicuius civitatis seu castri

facta pro Comune Florentie». Poco prima che Simone Martini ricevesse l’incarico di affrescare i castelli di Montemassi, Sassoforte, Arcidosso e

Castel del Piano, anche a Firenze si considerava la rappresentazione di castelli conquistati come il tema più appropriato per la decorazione di edifici pubblici, soprattutto del Bargello e di Palazzo Vecchio. Il programma di affreschi della Sala del Mappamondo non era dunque originariamente così isolato come si potrebbe giudicare oggi, per la mancanza di termini di confronto sia a Firenze sia in altre città della Toscana. La ricerca di testimonianze documentarie che provino l’esistenza di affreschi fiorentini tematicamente analoghi al ciclo senese si è però rivelata estremamente difficile. L'unica traccia fruttuosa è un accenno del Davidsohn nel capitolo dedicato alla pittura infamante della sua Sforza di Firenze. Nel suo benemerito tentativo di raccogliere la maggior quantità possibile di materiale, lo studioso tedesco cita qui due documenti, di per sé non molto pertinenti al suo tema, che costituiscono preziose testimonianze di rappresentazioni di castelli nella Firenze trecentesca. Il primo, conservato nella Biblioteca Laurenziana,!? contiene il protocollo di una testimonianza del 5 marzo 1349. Nel corso della deposizione il teste accenna a due affreschi che si trovavano nel Palazzo del Bargello («in sala palatii domini potestatis civitatis florentie»), e che rappresentavano il Castello di Montaccianico e la Città di Pistoia. Il terminus ante quem di questa rappresentazione è il 1306,

anno nel quale Montaccianico fu raso a terra e non più riedificato.!4 L'associazione rappresentativa di Montaccianico e di Pistoia depone a favore di una datazione di tali affreschi nel 1306, anno in cui queste due roccaforti dei Bianchi poterono finalmente essere conquistate. A una

data così antica risaliva anche un affresco che rappresentava il Castello di Pulicciano e che si trovava «in palatio Comunis», cioè o nel Bargello o in Palazzo Vecchio.!48 La data d'esecuzione di quest’ultimo affresco (1303) sembra peraltro troppo precoce per il Palazzo Vecchio, del quale solo nel 1299 fu iniziata la costruzione. Poiché dal punto di vista tematico l’affresco rappresentava anch'esso un trionfo sui Bianchi,! poteva essere associato alle già menzionate rappresentazioni di Montaccianico e di Pistora, sic-

MODELLI

FIORENTINI?

Un documento fiorentino del 20 giugno 1329, di notevole importanza per l'iconografia tardo-medioevale, stabilisce di quali temi era ammessa la rappresentazione negli edifici pubblici della città, incluse le porte.!# Ammesse erano in primo luogo immagini religiose, figure di Cristo, di Maria e dei santi. La rappresentazione di stemmi e insegne

era permessa solo nella misura in cui era conciliabile con

ché si può supporre che si trovasse nella stessa sala del Bargello.!50 A Firenze, ancora prima che a Siena, sono dunque attestate interpretazioni di un tema, che però solo in Siena doveva trovare il suo pieno sviluppo, impegnando i più famosi pittori disponibili. Proprio come l’allegoria del Buor Governo di Ambrogio Lorenzetti fu ispirata — lo si può dimostrare! — da modelli fiorentini, così anche nell’ambito dell'affresco topografico è probabile che a Siena siano state sviluppate idee provenienti da Firenze.

«CASTRUM

PINGATUR

IN PALATIO»

APPENDICE DOCUMENTARIA a cura di Stefano Moscadelli

offitio dominorum Novem placuerit, sive de eius Comunis vel otfitii processerit voluntate, habendo etiam omnes amicos

nos

Comunis Senarum pro amicis, et inimicos pro inimicis et cos sic tractare, ut tractaverit Comune Senarum iuxta posse dictorum Comunis et hominum de Gioncarico, et maxime Nerium Contis et suos [depennato: sequaces], fratres et filios et nepotes, et pro inimicis habere, tenere et tractare et cis

29 marzo 1314

Nello di Paganello a nome del Comune e degli abitanti di Giuncarico fa atto di sottomissione al Comune di Siena (Archivio di Stato di Siena [=ASS], Diplomatico Riformagioni, 1314 marzo 29).

In nomine Domini Amen. Anno Domini millesimo cccnn®, indictione x1*, die xxvmn° mensis margii. Ad honorem et reverentiam Omnipotentis Dei et Beate Marie Virginis Matris Eius et omnium Sanctorum Dei, et ad reverentiam Sancte Matris Ecclesie. Et ad honorem magnifici viri domini Karuli de Battefolle, Dei gratia, Comitis in Tuscia Palatini nec non

eadem gratia, Potestatis Senarum, domini Pagnonis de Cimis de Cingolo Capitanei dicte terre, et offitii dominorum Novem quod nunc est videlicet Peccie Venture, Massi Ranuccii, Bandini Guastelle de Tergerio Civitatis, Mei Ranuccii, Montanini Gerii et Naddi Lacci de Tergerio Sancti Martini, Mini Fortarrighi, Cerracchini Bindi et Simonis Ser Iacobi de Tergerio Camollie et [sic, 724: qui] pro tempore fuerit. Et ad statum prosperum et exaltationem totius Comunis et populi Civitatis Senarum et ad bonum et quietem Comunis Gioncarici. Ego Nellus Paganelli de Gioncarico Maritime syndicus et procurator Comunis et hominum dicte terre ad infrascripta nominatim et spetialiter constitutus, ut de syndacatu constat manu Dei Contis domini Orgesis notarii, syndacario et procuratorio nomine pro dictis Comuni et hominibus, et nicchilominus de assensu expresso et voluntate Cionis Paulini, Fagii Gherardini, Mini Biringuccii, Duccii Franchetti, Dini Mancini, Bindini Pepi, Vannini Fagii, Chelini Giraldi,

Cinarelli Adote, Petri Ghalli, Ugolini Mattaionis, Ariguccii Henrighi, Minuccii Bonfigli, Vannis Guillelmi et Guiduccii Guidonis massariorum dicte terre presentium et consentientium, existens in presentia dictorum Potestatis, Capitanei et

offittii pro bono, comodo et utilitate maxima dicti Comunis de Gioncarco, volens exequi mihi commissa in dicti sindacatus

instrumento,

iuro

ad Sancta

Dei

Evangelia,

corporaliter tactis Scripturis, et nichilominus promicto et convenio per stipulationem solempnem vobis domino Potestati tamquam persone publice et magistratui civitatis predicte recipienti pro vobis et successoribus vestris, pro domino Capitaneo et successoribus suis, pro otfitio dominorum Novem quod nunc est vel fuerit in futurum, et pro Comuni et populo dicte civitatis, parere et obbedire reverenter omnibus et singulis vestris et eorum et cuiusque vestrum et eorum mandatis et preceptis cuiuscumque tenoris

et condictionis fuerint. Item submicto, subpono et subbicio

me, sindacario nomine quo supra, ipsumque Comune, personas et homines singulares et eorum filios et discendentes sive subcessores in perpetuum et ipsam terram de Gioncarico, eiusque curiam, territorium et districtum vobis

domino Potestati recipienti pro Comuni civitatis predicte et

ipsi Comuni eiusque iurisdictioni. Et subicio me pro dicto Comuni et dictum Comune et homines et successores In perpetuum iudicio et cognitioni vestro et aliorum rectorum dicte terre et successorum vestrum et eorum tam in civilibus quam in criminalibus causis, et in omnibus que spectent etiam ad merum sive iustum imperium aut iurisdictionem. Item

promicto

et

convenio

nomine

antedicto,

vobis

recipienti[bus], ut dictum est, sequi Comune Senarum in pace et guerra, quomodocumque vel suis rectoribus sive

nullum auxilium, consilium vel favorem prestare directo vel per oblicum, palam vel occulte aliquo modo, sub pena infrascripta. Item promicto et convenio vobis recipientibus,

ut dictum est, facere exercitus et cavalcatas ad voluntatem dicti Comunis contra eius hostes et inimicos sicut de ipsius Comunis voluntate processerit vel mandato. Item facere quecumque servitia et portare et subire omnia et singula honera sive munera realia, personalia sive mixta et omnes

factiones que per Comune Senarum vel eius offitiales dicto Comuni de Gioncarico iniungentur sive indicentur. Convenio similiter et promicto quolibet anno in festo Beate Marie Virginis, mensis augusti, deferre unum

cereum

ad ipsum

festum et ibidem offerre, eius ponderis et valoris quod per dominos

Novem

fuerit ordinatum,

cum

illa quantitate

massariorum veniendo ad ipsum festum et cum illis cereis et per illum quod fuerit ordinatum per ipsos dominos Novem. Item promicto vobis dicto modo stipulanti[bus], solvere taxationem kabelle sive illam quantitatem pro taxatione kabelle que fuerit ordinata per dominos Novem sive alios quos ad hec duxerint ordinandos, et illam solvunt illis temporibus et terminis quolibet anno quibus solvitur per alias comunitates

comitatus

Senarum,

similiter

etiam

solvere

denarios Signorie ut alie comunitates, conferre etiam ad constructionem pontium, fontium et viarum et ad earum refectionem, et omnes impositas, que dicta de causa vel alicuius earum fierent, solvere cum effectu. Et illum recipere pro rectore, vicario sive offitiali, et ei obbedire, qui nobis

dabitur per offitium dominorum Novem, qui nunc est vel pro tempore fuerit, et nulli alii qui non procederet de voluntate Comunis Senarum et offitii prelibati. Et submicto in omnibus dictam terram iurisdictioni et comitatui dicti Comunis et Civitatis Senarum et volunta[ti] et obbedientie ipsius Comunis et suorum rectorum sive gubernatorum alte et basse prout eis placuerit nullo salario excepto vel subaddito. Que omnia et singula in perpetuum observare et etfectualiter adimplere et contra non facere vel venire promicto, nomine sepedicto, vobis domino Potestasti recipienti, nomine superius specificato, sub pena et ad penam decem milium

marcarum argenti, quam penam vobis dare, ut dictum est recipienti[bus], et solvere promicto si commissa fuerit et cotiens commissa fuerit, semper salvis nicchilominus supra

promissis remanentibus et inlesis. Pro quibus omnibus et singulis observandis et effectualiter adimplendis obligo me, nomine antedicto, et dictum Comune et homines et successores eorum et bona dicti Comunis et cuiusque predictorum pignori vobis recipienti[bus], ut dictum est. Quorum bonorum vos, dicto modo recipientte]s, et dictum Comune possitis vestra auctoritate corporalem possessionem accipere, vendere et alienare, pro libito voluntatis, qua me costituo pro vobis recipienti[bus], ut dictum est, et dicto Comuni interim precario possidere. Renumptians exceptioni

non facti et non celebrati contractus, ut dictum est, et exceptioni doli et metus et omni alii exceptioni et benefitio per quam vel quod possit predictis vel alicui premissorum in aliquo obviari. Demum cum reverentia suplico vobis domino Potestati pro dicto Comuni et domino Capitaneo et offitio dominorum Novem, quatenus dictam terram, Comune et homines recipiatis benigne sub protectione, guardia et

I8I

PITTURA

- MEDIOEVO

custodia vestra et Comunis Senarum, et quod me pro dictis Comuni et hominibus receptis investiatis de benefitio et custodia vestra et Comunis prefati. Qui dominus Comes Potestas pro dicto Comuni de voluntate dicti domini Capitanei et offitii et expressa licentia et assensu Generalis Consi[lili Campane et populi et L per tergerium de radota omnil[a] predicta acceptans, ipsum sindicum de Gioncarico

pro ipso Comuni et ipsum Comune, homines, territorium et

182

districtum recepit ad protectionem et defensionem Comunis Senarum et sub protectione et defensione eius. Et in signum investiture

benefitii, defensionis

et protectionis

predicte

posuit et dedit in manibus dicti syndaci baculum sive bachettam quam portat in manibus in signum offitii Potestarie dicte Civitatis. Actum in palatio Comunis Senarum in Generali Consilio Campane et populi Comunis Senarum coram domino Fredo Mei et domino Socco Dei de Tholomeis, domino Niccola Contis, Ser Mino Orlandi, Ser Petro Mei, Ser Simone Iacobi notariis testibus presentibus et rogatis.

(S) Ego Andreas notarius filius Ser Rossi notarii nunc scriba et offitialis dominorum Novem Gubernatorum et Defensorum Comunis et populi Senarum, dicto contractui et omnibus suprascriptis interfui et, ea omnia rogatus scribere, alteri notario scribere mandavi et de mandato dictorum dominorum Novem manu propria publicavi. (nel verso) Carte de’ patti del Comune di Gioncharico. ne?

30 marzo 1314

II Consiglio Generale del Comune di Siena approva una serie di disposizioni relative alla sottomissione del Comune di Giuncarico,deliberando tra l’altro di farlo raffigurare nella sala in cui avvengono le assemblee del Consiglio stesso (ASS, Consiglio Generale 83, fol. 119r-121v).

(119r) Pro terra Gioncarici reducta ad comitatum Senarum. In nomine

Domini

Amen.

Anno

Domini

Mm° ccc° xnn°,

indictione xn*, die trigesimo mensis Martii. Congregato Generali Consilio Campane Comunis et populi et quinquaginta per tercerium de radota Comunis Senarum, in palatio dicti Comunis, ad sonum campane et per bannum missum more solito de mandato potentium virorum domini Karoli de Battifolle Comitis in Tuscia Palatini, Dei gratia honorabilis Potestatis, et domini Pangnoni de Cimis de Cingulo, eadem gratia honorabilis Capitanei Comunis et populi, defensoris sotietatum, vicariatuum, pacis, iustitie et libertatis Civitatis et

iurisdictionis Senarum, facta prius imposita de infrascriptis de coscientia et consensu dominorum Camerarii et trium ex

quattuor Provisorum dicti Comunis, apud palatium dicti Comunis secundum formam statutorum Senarum, Nobilis et prudens vir dominus Bettinus domini Goggelli de Glancolo Vicarius generalis dicti Comitis domini Potestatis Senarum, in presentia et de voluntate ipsius domini Comitis Potestatis, et etiam in presentia dicti domini Capitanei et defensoris et prudentis et discreti viri domini Iacopini de Agrestis de Mevania Iudicis dicti domini Capitanei et defensoris ad hoc precipue deputati secundum formam statutorum Senarum, proposuit in prefato Consilio, et ab ipso Consilio consilium petiit, quod: Cum audiveritis legi in hoc presenti Consilio per me Fonem de Sancto Geminiano notarium Comunis Senarum ad consilia colligenda, quoddam stantiamentum dominorum Novem Defensorum et Gubernatorum Comunis et populi Senarum et aliorum Ordinum Civitatis Senarum, cuius tenor talis est, videlicet: In nomine Domini Amen, Anno Domini m°ccc°x1m°, indictione xn°, die xxvim® mensis

martii, Consilium dominorum Novem Gubernatorum et Defensorum Comunis et populi Civitatis Senarum, nec non Ordinum dicte Civitatis, videlicet octo ex Novem, et omnium

Consulum militum, et duorum ex quattuor Provisorum dicti

Comunis, et omnium Consulum Mercantie, coadunatum Senis (119v) in palatio dicti Comunis in Consistorio in quo

dicti domini Novem morantur ad eorum offitium exercendum, more solito, quod cum domini Novem una cum Consulibus militum et mercatorum et quattuor Provisoribus Comunis Senarum, teneantur et debeant inquirere et invenire diligenter omni modo quo melius possunt ampliare Civitatem

et iurisdictionem Senarum, ut ex forma capituli constituti, de

hac materia loquentis, plenius demostratur, et ipsi domini Novem cum Consilium sapientium predictorum secum habito, procuraverint et effectum operum adimpleverint quod Comune et castrum sive terra de Giuncarico et homines dicte terre et de cius districtu venerunt ad mandata et obbedientiam et reverentiam Comunis Senarum et dominorum Potestatis et Capitanei et Offitii dominorum Novem et se et dictam terram, curiam et districtum submiserint et supposuerint dicto Comuni et Civitati Senarum et se subiecerint et commiserint iurisdictioni dicte Civitatis et Comunis Senarum etiam in hiis que spectant ad merum et mistum imperium, et ad portandum omnes et singulas factiones que eis indicentur per Comune Senarum, ut de predictis et aliis latius patet publico instrumento manu Mei Andree Rossi notarii infrascripti, et non minor sit virtus secundum sententias sapientium servare quesita quam laborem ponere in querendis, cumque ad acquisitionem dicte terre fuerit labor non modicus, adhibitus personarum, viribus corporis et armorum insistentibus circa acqusitionem prefatam, et studium etiam sapientium, cum etiam dicta terra propter situm loci et fructum terreni sit utilissima et fructuosa speretur pro Comuni Senarum, voluit, firmavit, stantiavit et decrevit, facto scruptinio inter eos ad bussolos et palloctas secundum formam statutorum Senarum, quod prefata terra et castrum de Iuncharico et eius curia et districtus et homines dicte terre qui nunc sunt et eorum successores, sint et esse debeant ad obbedientiam et servitia et mandata Comunis

Senarum, et de ipsius Comunis (120r) Senarum Comitatu, iurisdictione et districtu; et quod dicti Comunis Senarum iurisdictioni subiaceant, et ipsi tam in taxatione Cabelle quam in omnibus aliis et singulis factionibus et in omnibus aliis perpetuo serviant dicto Comuni Senarum que promissa sunt per Nellum Paganelli Sindicum Comunis de Giuncharico domino Potestati Senarum recipienti pro ipso Comuni, de quibus apparet publicum instrumentum manu Mei Andree notarii supradicti; et quod dicta terra, castrum, curia sive districtus vel fructus, proventus sive redditus eius sive qui ex eis vel eorum occasione percipientur, vel aliquid ex eis perpetuo non possit alienari aliquo titulo vel restitui alicui vel pro dereliccta haberi vel alio aliquo modo alicui concedi, sed in perpetuum sint et remaneant in Comuni et apud Comune Senarum; et quod dictum castrum pingatur in palatio Comunis Senarum ubi fiunt Consilia, ubi sunt picta alia

castra acquistata per Comune Senarum, et numquam possit talis pictura tolli, abradi, vel vituperari; et quod scribatur dicta terra in Biccherna et Cabella ubi scripte sunt alie terre Comitatus Senarum pro terra Comunis Senarum, et instrumenta acquistus presentis mictantur in Archivio Sacrestie Comunis Senarum; et quod contra hec vel in eius fraudem non possit per dominum Potestatem, Capitaneum, Camerarium vel quattuor Provisores, dominos Novem vel aliquem oftitialem Comunis Senarum aliquid fieri directe vel indirecte consentiri vel permicti quod fiat, sub pena et ad

«CASTRUM

penam decem milium librarum denariorum Senensium pro quolibet contrafaciente; et nullus possit proponere, consulere, scribere vel aringare aliquid quod sit in preiudicium vel diminutionem presentis provisionis, sub eadem pena pro quolibet contrafaciente et pro qualibet vice; immo teneantur prefati dominus Potestas, Capitaneus, Novem

et ceteri alii

offitiales Comunis Senarum intendere pro posse circa conservationem dicte terre ad obbedientiam (120v) Comunis Senarum et ad observantiam omnium premissorum vinculo

iuramenti et sub pena predicta; et nichilominus teneantur et debeant quilibet dictorum rectorum et quodlibet offitium dominorum Novem et dicti quattuor et Notarius Reformationum qui nunc sunt infra tertiam diem post approbationem presentis stantiamenti, et successores eorum et cuiuslibet eorum in principio sui regiminis, iurare ad Sancta Dei Evangelia, corporaliter tacto libro, predicta omnia et singula sine diminutione servare; et nichilominus qui contra predicta vel aliquid premissorum veniret, ultra penas superius ordinatas, ipso iure sit infamis et exclusus ab omnibus civilibus actibus, et perpetuo non possit esse civis Senensis nec habere aliquod offitium dicti Comunis; et hoc stantiamentum sit precisum, trunchum et absolutum in qualibet parte sui et iuratum, et pro iurato debeat haberi et observari, et eas vires sive legamina habeat et habere intellisatur quantum ad impediendum omnem derogationem sive arrogationem sui sive diminutionem vel immutationem in omni et qualibet eius parte, quam habent ordinamenta facta contra non suppositos Comuni Senarum offendentes hominibus de Civitate, Comitatu et iurisdictione Senarum et alia capitula que sequntur, et maiorem si maiorem habere possunt; et hoc sit derogatorium omnibus et singulis aliis capitulis, statutis, ordinamentis, provisionibus et reformationibus Comunis Senarum factis et fiendis; et ut predicta maiorem sortiantur effectum, voluerunt quod de predictis fiat proposita per dominum Potestatem in Generali Consilio Campane, inde si videtur et placet dicto presenti Consilio quod ex nunc dictum stantiamentum et omnia et singula in dicto stantiamento contenta, specificata et declarata sint firma et rata fiant et executioni et effectui demandentur ad plenum, ex auctoritate dicti huius presentis Consilii (121r) prout et sicut in dicto stantiamento et in omni et qualibet parte sui plenius et seriosius continetur, in Dei nomine consulatis. Dominus Sogcus domini Dei de Tolomeis, super articulo dicte proposite et super hiis que in dicto stantiamento et dicta proposita cotinentur, dixit et consuluit, in nomine Dei, et ad

bonum initium et bonum medium et ad bonum finem ita quod residuum habeatur, quod sicut scriptum et lectum est et prout in dicta proposita continetur, ita sit firmum, fiat et ante vadat. Minus domini Mei Tavene da Tolomeis dixit et consuluit super articulo supradicto quod sibi placet quod est actum de negotio memorato, cum hac additione, si dicere vel consulere

PINGATUR

IN PALATIO»

siliarios in dicto Consilio existentes et se concordantes ad

predicta, in bussolo albo del si, centum sexaginta novem (12lv) pallocte, et in bussolo nigro del no, in contrarium misse

fuerunt quadraginte due pallocte. Et sic dictum Consilium fuit et est obtentum, firmatum et reformatum formam Statuti Senarum. Mb

13-20 aprile 1314

Deo di Goro e compagni assumono il compito di abbattere il cassero di Neri d'Elci posto a Giuncarico, ricevendo per

questo un compenso di duecento lire (ASS, Diplomatico Riformagioni, 1314 aprile 13 n.a. 1420).

Anno Domini millesimo trecentesimo quartadecimo, indictione duodecima, die xt aprelis. Appareat evidenter quod Deus Gori, Ceccholinus Pepi, Fedinus Sacchi et Guido Socci de Massa Maritme pro se ipsis et quolibet eorum et se ipsos et quenlibet ipsorum ad infrascripta omnia et singula in solidum obligando, pacto solempni et legittima stipulatione interpositis, promiserunt et convenerunt ser Deo Contis de Senis rectori et stipulanti vice et nomine Comunis Senarum et

pro ipso Comuni Senarum emergere funditus et totaliter dissipare cassarum Nerii de Ylcio et fratrum suorum filiorum et heredum Contis de Ylcio situm, hedificatum et constructum in terra et castro Gioncarici de Maritma Comitatus Senarum et dictam eversionem et dissipationem facere et complere hinc ad kalendas maii proxime venturas sub pena et ad penam decem librarum denariorum Senensium minutorum,

laboribus

et fatica suorum

Dei, Ceccholini,

Fedini et Guidonis et laboratorum suorum, ferramentis tamen stipa et munimentis omnibus et singulis Comunis Senarum necessariis et opportunis pro faciendis eversione vel dissipatione predictis, pro pretio et nomine pretii et mercedis CC librarum denariorum Senensium (...). Actum in castro Gioncarici coram Giunta Dietavive et ser Dota Iohannis (...) testibus presentibus et rogatis. (S) Ego Bandinus notarius filius Diti predictis omnibus interfui et ea rogatus scripsi et publicavi. Anno

Domini

millesimo

trecentesimo

quartadecimo,

indictione xn°, die vigesimo aprelis. Pateat evidenter quod Deus Gori, Ceccholinus Pepi, Fedinus Sacchi et Guido Sogci de Massa et quilibet eorum cum certa scientia et non per ‘errorem fuerunt confessi et recognoverunt Ser Deo Contis de Senis se a dicto Ser Deo dante et solvente et numerante pro Comuni Senarum habuisse et recepisse integre numeratas duecentas libras denariorum Senensium minutorum (...) pro eversione et dissipatione cassari Nerii de Ylcio et fratrum suorum filiorum et heredum Contis de Ylcio siti et costructi in terra de Gioncarico comitatus Senarum, ut de dicta promissione constat in publico instrumento (...). Et de predictis CC libris a dicto Ser Deo dante et numerante pro Comuni Senarum et dicto Comuni Senarum se vocaverunt

potest, quod palatium, possessiones et bona que Nerius de Ylcio habet in Giuncarico, eiusque fortia et districtu sint Comunis Senarum et quod ad Cabellam scribantur et quod deveniant ad Comune et ad utilitatem Comunis Senarum.

pagatos, tacitos et contentos (...).

secundum formam Statuti Senarum per duas partes et satis ultra dicti Consilii, super articulo dicte proposite et super hiis que in dicto stantiamento et dicta proposita continentur cum dicto et Consilio domini Soggi predicti. Et fuit dictum Consilium in concordia hoc modo, quia facto et misso solenni et diligenti scruptinio, ad bussolos et palloctas secundum formam statutorum Senarum, misse fuerunt per dictos Con-

interfui et ea rogatus scripsi et publicavi.

Summa et concordia prefati Consilii fuit, voluit et firmavit

secundum

Actum in castro Gioncarici comitatus Senarum coram Forte Guidonis de Belforte et Bello Pratisini de Florentia testibus presentibus et rogatis. (S) Ego Bandinus

notarius

filius Diti predictis omnibus

n.4 [QD I Nove, i Consoli dei Cavalieri, i Consoli della Mercanzia e

i Provveditori di Biccherna hanno l'obbligo di adoperarsi ad accrescere ed ingrandire il contado e la giurisdizione del

PITTURA - MEDIOEVO Comune di Siena (ASS, Statuti di Siena 5, fol. 290v).

De ampliando comitatum et iurisdictionem Senarum. Item statutum et ordinatum est quod domini Novem simul cum Consulibus militum et Consulibus mercatorum et nn°" Provisoribus Comunis Senarum debeant invenire et inquirere dilisenter omni modo quo melius poterunt (s/c), si possint ampliare et augere comitatum et iurisdictionem Senarum tam in Maritima quam in Montanea, et in alia quacumque parte emendo vel alio modo acquirendo castrum seu castra in totum vel in partem vel aliquid ius acquirendo. Et totum illud quod ipsi invenerint, firmaverint et ordinaverint faciendum, Potestas teneatur et debeat executioni mandare. Et predicta fiant non obstante aliquo capitulo constituti precedenti vel subsequenti per quod possit huic capitulo derogari.

1 settembre 1328 o) Il Consiglio Generale del Comune di Siena emana alcuni provvedimenti relativi alla sottomissione del territorio di Montemassi (ASS, Consiglio Generale 106, fol. 44r-48r). (44r) Quod terra et fortilitia Montis Massi pertinerint ad proprietatem Comunis Senarum et cetera. Approbatio evidentis necessitatis. In nomine Domini, amen. Anno m°ccc°xxvm?°, indictione x1°,

die kalendarum mensis septembris. Convocato et congregato Generali Consilio Campane Comunis et populi et quinquaginta per tercerium de radota, Capitaneo vexilliferorum et consiliariorum sotietatum et vicariatum Civitatis Senarum in palatio dicti Comunis, sono campane voceque preconis, more solito de mandato nobilis et potentis militis domini Albertacii de Vicedominis de Placentia, Dei gratia in offitio et regimine Potestarie Civitatis Senarum Vicarii serenissimi Principis domini Karoli Ducis Calabrie ac primogeniti illustris domini Roberti, Dei gratia Ierusalem et Sicilie Regis, et nobilis et etiam potentis militis domini Iohannis domini Aceti de Bithonio honorabilis Capitanei Comunis et populi ac defensoris sotietatum et vicariatuum Civitatis Senarum, facta tamen prius imposita de infrascriptis apud dictum palatium de coscientia et consensu trium ex dominis n°" Provisoribus Comunis Senarum secundum formam statutorum Senarum, idem dominus Albertaccius ducalis Vicarius antedictus in presentia dicti domini Capitanei suique Iudicis et sapientis viri domini Florelli de Macerata Maioris Sindici dicti Comunis, proposuit in dicto eodemque Consilio et a consiliariis dicti Consilii utile pro dicto Comuni consilium sibi petiit, exiberi quod, cum audiveritis legi et vulgaricari in presenti Consilio per Iohannem domini magistri Pelli medici de Sancto Geminiano notarium et offitialem Comunis Senarum ad collisendum consilia, quandam petitionem deductam coram offitio dominorum Novem Gubernatorum et Defensorum Comunis et populi Senarum, qui ad dictum offitium exercendum de mensibus Iulii et Augusti proxime preteris affuerunt seu residerunt, infrascripti tenoris videlicet: Coram vobis dominis Novem Gubernatoribus et. Defensoribus Comunis et populi Civitatis Senarum exponitur et narratur pro parte quorundam bonorum hominum civium Senarum, qui dilisunt honorem et libertatem Comunis Senarum, quod, quia terra et fortilitia de Montemassi devenit nuper ad mandata et in fortiam et (44v) dominium Comunis multis et variis laboribus et expensis dicti Comunis Senarum et suorum civium et comitatinorum et amicorum etiam dicti Comunis, et dicitur et asseritur a certis personis, que credunt

inde scire debite veritatem, quod aliqui intendunt per fas et

nefas tam quesitis iuribus quam acquirendis, occupare pro certa parte seu certis partibus dictam terram de Montemassi, seu de ea vel parte seu partibus eius litem vel controversiam facere in grave dampnum et preiudicium Comunis Senarum, et sic de multo sudore, rischio et expensis, quem et quas Comune Senarum tam in se quam in suis civibus et comitatinis substinuit pro expugnando et habendo dictam terram de Montemassi, intendunt quam pluries per abstutias metere que non seminaverunt, oportet ergo de necessitate tam per vos quam etiam per alios sapientes viros Civitatis

Senarum taliter in predictis providere et ante tempus occurrere quod predictorum intentio nullo modo sortiatur effectum. Quare petitur pro libertate et bono statu Comunis Senarum quod vobis placeat tam per vos ipsos quam etiam per oportuna consilia Comunis Senarum, provideri, stabiliri et reformari facere cum omnium statutorum obstantium derogationibus opportunis, quod nulla persona, quacumque et undecumque sit, audeat vel presumat petere vel tenere per se vel alium aliquam proprietatem, dominium, possessionem vel signoriam in terra, castro, fortilitia vel districtu de Montemassi, aliquo titulo sibi quesito vel querendo vel per aliquam subcessionem sibi delatam vel deferendam aut per aliquam alienationem sibi factam vel fiendam ab aliqua vel aliquibus personis quocumqgue modo, iure, causa aut aliquo alio titulo vel modo, iure, causa vel facto, qui dici vel excogitari posset; vel es inde questionem vel controversiam de iure vel de facto movere nisi talis petens (45r) vel tenens qui petere vel tenere vellet aut attentaret vel questionem vel controversiam moveret, primo satisfecerit et solverit Comuni

Senarum in pecunia cum effectu partem sibi contingentem vel que contingere posset aut deberet de omnibus et singulis expensis quocumque modo factis a Comuni Senarum vel pro ipso Comuni rationibus et causis obsessionis et expugnationis

cavalcatarum et aggressurarum que pro Comuni Senarum facte sunt pro habendo dictam terram de Montemassi ad obedientiam et mandata Comunis Senarum. De quibus expensis factis et parte contingente seu partibus contingentibus

illi vel illis qui petere vel tenere vellet aut attentaret aliquam proprietatem,

dominium,

possessionem

vel signoriam

in

dictis terra, castro, fortilitia vel districtu de Montemassi vel litem vel questionem vel controversiam inde faceret vel moveret, stetur semper et stari debeat et plena fides adhiberi declarationi offitii dominorum Novem et aliorum Ordinum Civitatis Senarum qui pro tempore fuerint; et quod aliter vel alio modo nulli petenti vel tenenti aut petere vel tenere volenti vel attententi seu litem vel questionem vel controversiam moventi, aliqua audientia vel fides non prebeatur vel adhibeatur ab aliquo rectore, iudice vel offitiale Comunis

Senarum, sed omnia instrumenta et probationes

que inducerentur vel allegarentur, pro vanis et inefficacibus sint et debeant

reputari, et tamquam

vana

et inefficacia

repelli; et nichilominus ille qui ea vel eas induceret vel allegaret vel'induci aut allegare faceret aliter quam dictum sit, condampnetur per dominum Potestatem vel dominum ducalem Vicarium Comunis Senarum in mille florenorum de auro dandis et solvendis Comuni Senarum pro pena et nomine pene pro qualibet vice. Et rector vel iudex aut offitialis qui contra predictam audientiam preberet vel fidem adhiberet, ipso iure privatus sit et privatus esse intelligatur toto suo salario ita quod nichil (45v) ex eo possit ab inde in antea percipere vel habere. Item quod dicta terra de Montemassi, castrum, fortilitia, iurisdictio et districtus ciusdem libere et plene perveniant et pertineant ad proprietatem Comunis Senarum pleno iure, et quod pro Comuni Senarum possideantur in perpetuum auctoritate presentis

«CASTRUM

reformationis. Et quod reformatio que super hiis fiet, habeat vim et robur statutorum, et pro statuto Comunis Senarum servetur a quacumque et in corporem statutorum Comunis Senarum ponatur et inviolabiliter observetur. Cumque etiam audiveritis quoddam stanciamentum factum per dominos Novem et Ordines Civitatis Senarum super dicta petitione legi et vulgarigari per me Iohannem notarium et offitialem predictum in presenti Consilio, scripta per Ser Nicholam Paltonerii notarium et offitialem dicti Comunis et dominorum Novem predictorum, tenoris et continentie infrascripte: die ultimo mensis Augusti, consilium prudentium virorum dominorum Novem Gubernatorum, absentibus duobus ex eis propter impedimentum, et aliorum Ordinum dicte Civitatis, videlicet duorum

ex Consulibus

Militum,

Consulum Mercantie et mn® Provisorum dicti Comunis et dominorum Novem de proximo subcessorum et plurium aliorum sapientium electorum et habitorum ad hec de quolibet tergero, et ipsi idem septem ex dominis Novem presentes, domini Novem subcessores, Ordines et alii sapientes predicti, convocati et congregati in Consistorio ipsorum dominorum Novem in quo ipsi domini Novem soliti sunt

morari

ad eorum

offitium

exercendum,

audita

et

intellecta suprascripta petitione et super ea habitis diligenti consideratione, colloquio et tractatu, fuerunt in plena concordia, voluerunt, firmaverunt et stangiaverunt, facto et misso inter eos solepni partito ad scruptinium ad bussolos et palloctas et obtento per duas partes et plus omnium predictorum, quod petitio ponatur et mictatur (46r) ad Consilium Campane et populi et alia dicti Comunis in quibus recipiat firmitatem cum hiis additionibus videlicet: Quod ex

nunc expense facte per Comune Senarum sint et esse intelligantur et debeant taxate et declarate in centum milibus florenorum de auro et ad ipsam rationem quilibet potens, tenens vel questionem vel controversiam movens, ut dictum

est, debeat solvere in pecunia numerata Comuni Senarum, qua solutione facta, eius instrumenta et iura micti debeant ad Consilium Campane ad comprobandum vel improbandum utrum sint vera et legiptima vel non. Et nisi fuerint pro veris et legiptimis approbata, nullo postmodum tempore, admictantur vel audiantur et pecunia ut dictum est soluta ipso tacto deveniat et applicetur Comuni Senarum et nil ex inde solventi vel alteri pro eo restituatur perpetuo. Et insuper quod nullus civis Senarum in dicto castro vel eius curia vel districtu, iurisdictione vel signoria possit, de iure vel de facto, aliquo modo querere vel acquistare aliquod ius vel actionem directe vel per obliquum vel quesito colore. Et quod Camerarius et Executores Kabelle vel quivis alius offitialis dicti Comuni non possit vel debeat dictum castrum, curtem,

iurisdictionem et signoriam vel aliquid ex inde aliquo titulo,

causa vel facto, dare, concedere vel locare alicui civi Senarum,

et si secus fieret in aliquo non valeat nec teneat, sed ipso iure sit irritum et inane, nisi fieret de licentia Generalis Consilii Campane dicti Comunis. Si dicto presenti Consilio videtur et placet approbare quod sit iuxta, necessaria et probabilis causa, evidens necessitas et pro Comuni Senarum utilitas quod suprascripta petitio et omnia et singula que continentur in ea et predictum stanciamentum super ea factum et omnia etiam et singula que continentur in

eo ponantur et mictantur ad hoc (46v) presens Consilium et de et super cis firmandis et stabilendis solepnis fiat et proposita super quibus et qua libere et impuni dici et consuli possit et solepne reformari. Et quod si dicti dominus ducalis Vicarius et dominus Capitaneus populi vel domini Novem aut domini mie Provisores vel aliquis alius offitialis dicti Comunis vel populi in aliquo tenerentur ad iuramentum vel

PINGATUR

IN PALATIO»

ad penam vel ad aliquid aliud propter predicta vel aliquod predictorum,

ex nunc

auctoritate

et potestate

presentis

Consilii sint et esse intelligantur in omnino liberi et totaliter absoluti, non obstantibus infrascriptis capitulis costituti Comunis Senarum (...). (47r) Dominus Lorellus de Macerata Maior Sindacus Comunis Senarum surgens in dicto Consilio dicens ea que dicta petitio et stangiamentum continent et que proposita sunt in dicta presenti proposita esse contra formam

statutorum Senarum eis et dicte proposite contradixit expresse et dixit quod super eis non procedatur. Summa et concordia dicti Consilii super contentis in dicta presenti proposita (...) fuit, voluit et firmavit se ad omnia et

singula in dicta presenti proposita contenta (...), hoc modo videlicet quia, facto super predictis inter consiliarios dicti Consilii diligenti partito et scruptinio ad bussolos et palloctas secundum formam statutorum Senarum, per consiliarios (...) concordantes misse fuerunt in bussulum album del si et in eodem bussolo reperte cixxwn pallocte et per consiliarios se a predictis discordantes, misse fuerunt in bussulum

(47v)

nigrum del non quinquaginta una pallocte in contrariaum predictorum (...). Post que (...) idem dominus Albertaccius ducalis Vicarius antedictus in presentia dicti domini Capitanei suique iudicis et dicti Maioris Sindaci proposuit in dicto Consilio et a consiliariis dicti Consilii utile pro dicto Comuni consilium petiit exiberi die eadem et in palatio supradicto, si dicto Consilio videtur et placet (...) providere, stabilire et firmare et solempniter reformare quod dicta petitio (...) ac etiam stanciamentum predictum supra dicta petitione factum et etiam additiones predicte ipso stanciamento comprehense et omnia et singula que continentur in eis et quolibet eorum, procedant et in presenti Consilio firmentur (...). (48r) Summa et concordia dicti Consilii super contentis in dicta presenti proposita (...) fuit, voluit et firmavit se ad omnia et singula in dicta presenti proposita contenta, hoc modo videlicet quia, facto super predictis inter consiliarios dicti Consilii diligenti partito et scruptinio, (...) misse fuerunt in bussulum album del si et in eodem bussulo reperte centum sexaginta tres pallocte et (...) in bussulum nigrum del non et in eodem bussolo reperte sexagintaquinque pallocte in contrarium predictorum. Et sic fuit et est contentum, finitum et reformatum secundum formam statutorum Senarum ut supra plenius continetur et patet.

n. 6 18 novembre 1331 I Conti di Santa Fiora sottomettono al Comune di Siena il territorio e la giurisdizione diArcidosso, dopo averne consegnato il cassero a Guidoriccio da Fogliano, Capitano di guerra del Comune stesso (ASS, Capitoli 2, Caleffo dell'Assunta,

fol. 334r-336r). (334r) In Christi nomine, amen. Anno Dominice Incarnationis millesimo trecentesimo trigesimo primo, indictione quintadecima, die octavo decimo mensis novembris. Nos Conticinus filius quondam bone memorie Comitis Guidonis et Herricus filius magnifici viri Comitis Herrigi quondam Comitis Ildobrandini de Sancta Flora, procuratores et numptii spetiales prefati Comitis Herrigi et spectabilium virorum Comitum Guidonis et Stephani fratrum filiorum quondam bone memorie Comitis Ildobrandini Novelli de Sancta Flora ad hec spetialiter constituti (...) confitemur et recognoscimus vobis Conti olim Mei Guidonis domini

PITTURA

186

- MEDIOEVO

Boncontis et Niccolino quondam Tacobini Bengi civibus Senarum sindicis Comunis Senarum ad hec et alia spetialiter constitutis (...) prefatum Comitem Stephanum et Iohannem fillum predicti Comitis Herrigi (...) dedisse, tradidisse et concessisse nobili viro Guidoni Riccio de Fogliano guerre Comunis Senarum Capitaneo Generali, recipienti pro dicto Comuni Senarum, terram, cassarum et castrum de Arcidosso situm in partibus de Montemiate et ipsius castri territorium, curiam et districtum, et quod perventio dictorum castri, casseri et terre ad manus dicti Capitanei et Comune Senarum processit de voluntate libera Comitum predictorum. Nunc etiam ad cautelam et maioris roboris firmitatem, nos predicti Conticinus et Herrigus procuratores (...) damus et concedimus vobis predictis Conti Mei et Niccolino Iacomi Bengi sindicis pro dicto Comuni Senarum recipientibus, ipsum idem castrum,

casserum

et terram

de Arcidosso

et territorium,

curiam et districtum ipsius castri et terre et merum et mixtum

imperium et plenam iurisdictionem ipsorum castri, casseri, curie et districtus et omnia supradicta pro partibus videlicet dictos Comites, quorum procuratores sumus, contingentibus,

que sunt dimidia pro diviso dictorum casseri, castri et terre de Arcidosso, ab alia dimidia ad Comitem Iacobum (334v) et Petrum fratrem eius vel alterum eorum pertinente, et etiam est dimidia pro indiviso territorii, curie et districtus dicti castri et

terre de Arcidosso. Ac etiam, procuratorio nomine, quo supra, damus et concedimus vobis dictis sindicis et cuilibet vestrum ut dictum est recipientibus, omnia et singula iura dictis Comitibus, quorum procuratores sumus, vel alicui eorum,

competentia

et competitura

et que

habent

in

hominibus et personis et contra homines et personas dicte terre et habitatores ipsius terre, ratione et occasione fidelitatis, census vel affictus, pensionum signorie et homagii et alia quacumque ratione vel causa. Ac etiam (...) damus et concedimus vobis dictis sindicis, ut dictum est recipientibus, omnes et singulas ipsorum Comitum, quorum procuratores

sumus, possessiones et omnia bona eorum tam rusticas quam urbanas positas et posita ac existentes in dictis castro seu

terra, curia et districtu, sub quibuscumque vocabulis et confinibus apparerent vel invenirentur et alia quascumque res et bona ipsorum vel alicuius eorum existentes vel existentia in dictis castro, cassero et terra et curia et districtu ad ipsos

Comites vel aliquem eorum quomodolibet et quacumque ratione vel causa pertinentia, cum omnibus et singulis iuribus

et pertinentiis suis (...). Et nominibus quibus supra promictibus vobis (...) dictas res, possessiones et bona, ut dictum est, concessas et concessa de cetero non tollere, non contendere et non molestare et nullam inde litem, questionem vel controversiam facere vel movere de iure vel de facto sed ipsum casserum, castrum et terram et eius curiam, territorium et districtum ex partibus supradictis concessis, et possessiones

et res predictas, ut dictum est concessas legiptime semper defendere, autoricare et disbrigare promictimus ab omni persona, loco, collegio vel universitate statim mota lite, questione vel controversia

propris expensis

iudicibus

et

advocatis Comitum predictorum, sub pena dupli extimationis possessionum et rerum predictorum (...), quam nominibus

quibus supra vobis dictis sindicis (...) dare et solvere promictimus si commissa fuerit (...), et reficere et restituere (...) omnia et singula dampna, interesse et expensas que, quas

seu quod dictum Comune Senarum fecerit vel substinuerit in curia vel extra. Et ex dicta causa et titulo transactionis nominibus quibus supra, damus et concedimus vobis, ut dictum est recipientibus, omnia iura et actiones, que et quas

dicti Comites (...) habent vel habere videntur et eis vel alicui eorum competunt seu competere videntur et possunt in dictis

cassero, castro et terra et eiusdem castri territorio, curia et

districtu et in possesionibus et rebus predictis, ut dictum est, concessis (...).. Damus et concedimus vobis dictis sindicis nomine quo supra recipientibus plenam licentiam et liberam potestatem (...) (335r) cassari, castri et terre et territorii curie et districtus predictorum pro partibus supradictis ac etiam possessionum et rerum predictarum supra concessarum, et cuilibet earum corporalem possessionem et tenutam ingrediendi et accipiendi quandocumque vobis vel alteri vestrum seu dicto Comuni Senarum placuerit et donec idem Comune dictam possessionem et tenutam adeptum fuerit (...). Quam quidem confessionem et recognitionem suprascriptam

ac etiam dationem et concessionem predictam, supra per nos ut dictum est factum et factas ex causa et titulo suprascriptis, et ipsam concessionem et dationem de novo titulo transactionis factam et omnia et singula suprascripta et infrascripta (...) attendere et observare promictimus, et contra predicta vel aliquod predictorum de cetero non facere vel venire promictimus sub pena et ad penam mille marcarum argenti pro quolibet capitulo suprascripto non servato, quam nominibus quibus supra vobis dictis sindicis ut dictum est,

recipientibus dare et solvere promictimus (...). Et pro predictis omnibus et singulis observandis et firmis tenendis et pro dictis penis et qualibet earum si committerentur solvendis obligamus, nominibus quibus supra, dictos Comites (...), dantes et concedentes (...) plenam licentiam, auctoritatem et potestatem, dicta bona et de eis corporalem possessionem et tenutam ingredienti et accipiendi et ea et ex eis vendendi et alienandi et in solutum retinendi in casum dictarum penarum et cuiuslibet vel alicuius earum commisse vel commissarum et pro ipsis penis et qualibet earum habendis et consequendis et usque ad satisfactionem expensarum, dampnorum et interesse dicti Comunis Senarum et per ipsum Comune Senarum pro predictis vel eorum vel alicuius eorum occasione fiendarum vel substinendarum seu recipiendarum vel substinendorum. Et predictam dationem et concessionem ex causa et titulo transactionis, et omnia et singula supradicta vobis dictis sindicis (...) facimus quia, nominibus quibus supra, confitemur et recognoscemus dictum Comune Senarum et vos sindacario nomine dicti Comunis Senarum nobis dictis procuratoribus pro dictis Comitibus, quorum procuratores sumus, et quolibet eorum recipientibus, fecisse plenam liberationem, absolutionem atque remissionem ex eadem causa et titulo transactionis ab omnibus infrascriptis et prout inferius continetur videlicet: in primis ab omni et de omni censu Comuni Senarum debito per dictos Comites (...) a die decima septima mensis octubris proxime preteriti retro, et de omni pecunia dicto Comuni Senarum debita ab ipsis Comitibus, quorum procuratores sumus, pro custodia et occasione custodie Castri plani actenus per Comune Senarum facte et facta de voluntate Comitum predictorum, et ab omni promissione et obligatione quam ipsi Comites vel aliquis eorum vel alter seu alius pro eis vel altero eorum fecerunt seu fecit Comuni Senarum vel alii recipienti pro ipso Comuni de depositione duorum milium florenorum auri et de causa ipsius depositionis, et de deponendo quantitatem predictam duorum milium florenorum, et de omni et ab omni pena in quam incidissent a supradicta die septimadecima dicti mensis octubris retro (...), et ab omni et de omni eo quod vel in quo tenerentur vel teneri possent pro robbariis, furtis et incendiis factis contra cives et comitatinos Senarum per ipsos Comites,

quorum sumus procuratores, vel alterum eorum vel eorum familiares, filios, fideles vel sequaces, et ab omni eo quod predicti Comites tenerentur pro receptis furtis vel robbariis in castris, terris, districtu sive territorio eorumdem vel alicuius

«CASTRUM

corum, salvo semper quod dicta liberatio non intelligatur extendi ad aliquas occupationes vel expoliationes per cos vel aliquem eorum factas de aliquibus terris vel possessionibus immobilibus et nullo modo obsit spoliatis predictis vel illis contra quos processit et facta fuit spoliatio vel occupatio supradicta. Item pro eo quia, nominibus quibus supra, confitemur (336v) dictum Comune Senarum et vos nomine dicti Comunis subscepisse et recepisse super dictum Comune honus robbariarum, furtorum et incendiorum factorum et factarum per ipsos Comites, quorum sumus procuratores, vel eorum filios, fideles, nepotes, familiares, vel sequaces sive aliquem vel alterum predictorum a tempore ultime pacis facte inter Comune Senarum ex una parte et Comites de Sancta Flora ex altera citra et ab anno proxime preterito retro, et omne honus satisfactionis et solutionis predictorum. Item pro eo quia confitemur, nominibus quibus supra, ipsum Comune Senarum et vos (...) suscepisse in dictum Comune et super

dictum Comune honus solutionis et satisfactionis petitionum

PINGATUR

IN PALATIO»

Ego Minus notarius filius olim Nini de Sancto Quirico in Osenna (...) manu propria publicavi. I Conti di Santa Fiora vendono al Comune di Siena il territo-

rio e la giurisdizione di Castel del Piano, al prezzo di ottomila fiorini d’oro (ASS., Capitoli 2, Caleffo dell’Assunta, fol. 336r330) (336r) In Christi nomine, amen. Anno Dominice Incarnationis millesimo trentesimo (sic) trigesimo primo,

indictione quintadecima, die octavodecimo mensis novembris. Nos Conticinus filius quondam bone memorie Comitis Guidonis et Herrigus filius magnifiici viri Comitis Herrigi quondam Comitis Ildobrandini de Sancta Flora, procuratores et numptii spetiales prefati Comitis Herrigi et spectabilium virorum Comitum Guidonis et Stephani fratrum filiorum quondam bone memorie Comitis

datarum contra ipsos Comites, quorum sumus procuratores

Ildobrandini Novelli de Sancta Flora (...) vendimus, damus et

sive eorum occasione prudentibus viris ad illa per Comune

tradimus vobis Conti olim Mei Guidonis Comitis Boncontis et Niccolino quondam Iacobini Bengi civibus Senarum sindicis Comunis Senarum ad hec constitutis presentibus, in presentia prudentis offitii dominorum Novem gubernatorum (...), pro dicto Comune Senarum ementibus et recipientibus, integre totum Castrum Plani situm in partibus de

Senarum actenus deputatis, sive ex sententie seu sententiarum declaratione que procederent ex predictis vel eorum occasione, et honus reprehensalearum et satisfactionum earum quocumque tempore actenus concessarum per Comune Senarum vel Consules Mercantie vel alium seu alios offitiales Comunis Senarum (...) illis qui derobbati vel expoliati invenirentur vel apparerent prout decens fuerit et honestum. Item pro eo quia (...) confitemur dictum Comune Senarum et vos (...) subscepisse super se honus robbariarum, furtorum et incendiorum ubicumque per ipsos Comites (...) commissorum

extra Comitatum

et iurisdictionem Senarum

(...).. Item pro eo quia (...) confitemur dictum Comune Senarum et vos (...) nobis pro dictis Comitibus recipientibus fecisse generalem et liberam remissionem de omnibus et singulis iniuriis et offensis quas ipsi Comites sive eorum filii, nepotes, fideles sive familiares eorum, ipsi Comuni Senarum ab hinc retro quomodolibet intulisset, dummodo predicta vel aliquod predictorum ad Comitem Iacobum et Petrum, fratres, filios olim Comitis Fatii de Sancta Flora vel alterum eorum vel in eorum vel alterius eorum favorem, nullatenus extendantur,

porrigantur vel intendantur, vel eorum filios, nepotes carnales, vel eorum

fideles,

familiares

vel sequaces,

et dummodo

propter predicta que confitemur esse per dictum Comune facta, vel aliquod predictorum non derogetur vel derogatum esse intellisatur in aliquo veteribus pactis, contractibus et obligationibus actenus factis per ipsos Comites vel eorum

antecessores (...) et maxime contractibus, promissionibus et

obbligationibus factis Comuni Senarum (...) de censu per eos annuatim in perpetuum solvendo Comuni predicto (...). Et pro eo quia confitemur (...) dictum Comune Senarum dictis Comitibus, quorum procuratores sumus, fecisse et concedisse in multis et pluribus postulatis ab cis iuxta beneplacitum eorundem Comitum multas liberalitates et gratias spetiales tam in cassationibus et cancellationibus condempnationum et bannorum suorum et suorum et filiorum familiarium et fidelium eorundem quam in aliis pluribus et diversiis servitiis et gratiis ab eisdem ut dicitur postulatis, que omnia ascendunt et excedunt et ascendere et excedere confitemur (...) ultra satis valorem et extimationem supradicte dimidie pro indiviso cassari et castri seu terre predictorum et dimidie pro indiviso territori, curie et districtus ipsius castri et terre et possessionum iurium, bonorum et rerum predictarum per nos, nominibus quibus supra, ut premictitur concessarum et datarum. Renumptiantes in hiis omnibus (...). (3361) Actum Senis in palatio Comunis Senarum (...).

Montemiato et ipsius castri territorium, curiam et districtum

ac etiam merum

et mixtum imperium et totam et plenam

iurisdictionem ipsius castri curie et districtus et omnes et singulas ipsorum Comitum quorum sumus procuratores, possessiones et cuiuslibet ipsorum tam rusticas quam urbanas sitas in dicto castro (...) et omnes fideles censitos et ascriptitios et iura quecumque ipsorum Comitum (...) pro pretio et nomine pretii octomilium florenorum de auro (...). Et nos habuisse et recepisse confitemur et ipsis Comitibus integre solutum esse a vobis dictis sindicis solventibus (...). Et si plus dicto pretio valerent res predicte vendite, id totum quod plus valerent (...) pure, libere et simpliciter donamus ita quod aliqua ingratitudine vel offensa vel alio quocumque modo revocari non possit (...). (336v) Deinceps dictum Comune

Senarum

dictum

castrum

et eius

curiam

et

districtum et merum et mixtum imperium et iurisdictionem cius et possessiones et res et iura predicta, venditas et vendita habeat, teneat et possideat et faciat inde et ex eis totum et quicquid sibi facere placuerit pleno iure dominii et plene proprietatis et possessionis. Et procuratorio nomine quo supra, promictimus vobis ut dictum est recipientibus, dictas res venditas vel aliquid ex eis de cetero non tollere, non

contendere et non molestare et nullam inde vel de pretio supradicto vel de aliquo predictorum litem, questionem vel controversiam facere vel movere set ipsas res venditas et quamlibet earum dicto Comuni Senarum legiptime semper defendere, auctoricare et disbrigare ab omni persona, loco et universitate seu collegio propris expensis (...), sub pena dupli dicti pretii (...). Promictimus vobis, ut dictum est recipientibus, reficere et restituere omnia dampna, expensas

et interesse que vel quas seu quod pro predictis vel eorum occasione fecerit vel substinuerit. Comune predictum Senarum in curia vel extra. Et ex dicta causa et titulo nobis quibus supra damus, cedimus, concedimus et mandamus vobis (...) omnia et singula iura et actiones et petitiones et pignorum obligationes reales ct personales, utiles et directas, tacitas et expressas atque mixtas et omnes alias que et quas dicti Comites vel aliquis eorum habent (...). Et vos, ut dictum est recipientes tanquam in rem propriam procuratores facimus, constituimus et substituimus et successores in locum

PITTURA

- MEDIOEVO

et ius universum dictorum Comitum et cuiuslibet eorum, asserentes nominibus quibus supra, ius dictorum Comitum

vel alicui eorum de predictis vel aliquo predictorum nulli alti fore datum, cessum, concessum vel alio modo alienatum in

totum vel in partem, quod si contra factum est vel esset seu apparuerit

188

promictimus,

nominibus

quibus

supra,

vos

recipientes ut dictum est pro dicto Comuni Senarum et ipsum idem Comune et eius bona ex inde indempnes et indempnia conservare sub pena dupli alienati vel cessi quam (...) dare et solvere promictimus si commissa fuerit (...). Concedimus vobis (...) plenam licentiam et liberam potestatem (...), corporalem

possessionem

et tenutam

dictarum

rerum

et

possessionum venditarum accipiendi et ingrediendi quandocumque vobis pro dicto Comuni Senarum vel ipsi Comuni Senarum placuerit (...). Concedimus vobis (...) plenam licentiam et liberam potestatem (337r) dicta bona et de eis corporalem possessionem et tenutam ingrediendi ct accipiendi et ex eis et ea vendendi et alienandi et in solidum retinendi in casu dictarum penarum vel alicuius carum commissarum et pro ipsis penis et qualibet earum habendis et consequendis et usque ad satisfactionem expensarum, dampnorum et interesse dicti Comunis Senarum (...). Renumptiantes in hiis omnibus (...). Actum Senis in palatio Comunis Senarum (...). Ego Minus notarius filius olim Nini de Sancto Quirico in

I Conti di Santa Fiora riconoscono di non derogare, con i

presenti patti, agli accordi ed alle convenzioni fatte nel passato con il Comune di Siena (ASS, Capitoli 2, Caleffo dell'Assunta, fol. 338rv). (338)

In Christi

nomine,

amen.

Anno

Dominice

In-

carnationis millesimo trecentesimo trigesimo primo, indictione (338v) quintadecima, die octavo decimo mensis novembris. Nos Conticinus (...) et Herrigus (...) paciscimur et convenimus vobis Conti (...) et Niccolino (...) quod propter aliquem vel aliquos contractus hodie inter nos, nominibus quibus sopra, factos et celebratos (...) nullo modo derogetur vel derogatum esse intelligatur tacite vel expresse in aliquo veteribus pactis et obbligationibus quandocumque actenus factis per ipsos Comites vel eorum antecessores Comuni et cum Comuni Senarum seu altero vel alteri pro dicto Comuni Senarum recipienti, set in sua solida efficacia et effectu remaneant et persistant et sic remanere et persistere,

nominibus quibus supra, volumus et confitemur, et maxime contractus, promissionis et obbligationis actenus facte et facti de censu Comuni Senarum annuatim solvendo (...). Actum Senis in palatio Comunis Senarum (...). Ego Minus notarius filius olim Nini de Sancto Quirico in Osenna (...) manu propria publicavi.

Osenna (...) manu propria publicavi.

I Conti di Santa Fiora dichiarano di fare pace perpetua con i cittadini e gli abitanti del contado di Siena, e specialmente con i Grossetani, i Poliziani, i Montalcinesi, gl'Ischietani, i Montelatronesi, i Monticellesi, i Signori di Cinigiano, Malia e Abatino dell'Abate di Grosseto, Guinizzello da Monteorgiali, Gaddo di Giuncarico, i Nobili di Cotone e i Nobili di casa Pannocchieschi (ASS, Capitoli 2, Caleffo dell’ Assunta, fol. 337v-338r).

(337v)

In

Christi

nomine,

amen.

Anno

Dominice

Incarnationis millesimo trecentesimo trigesimo, indictione quintadecima, die octavo decimo mensis novembris. Nos Conticinus (...) et Herrigus (...) facimus et reddimus vobis Conti (...) et Niccolino (...) recipientibus pro dicto Comuni Senarum suisque civibus, comitatinis et districtualibus seu sequacibus et maxime infrascriptis sequacibus videlicet Grossetanis, Montepulcianensibus, Montalcinensibus, Ischietanis, Montelatronensibus, Montecellensibus, Nobilibus

viris Dino domini Dini de Cinigiano, Malia et Abbatino domini Abbatis de Grosseto, Guinaggello de Monteorgiali, Gaddo de Gioncarico, Nobilibus de Cotono, Nobilibus de domo Pannocchiensium et eorum et cuiuslibet eorum filiis, fratribus, successoribus et sequacibus, veram, puram rectam et perpetuam (3381) pacem, finem et remissionem atque concordiam (...). Quam quidem pacem, finem, remissionem atque concordiam, nominibus quibus supra, promictimus et

convenimus vobis (...) perpetuo firmam et ratam habere et tenere et contra de cetero non facere vel venire aliqua ratione vel causa de iure vel de facto sub pena et ad penam mille marcarum de argento (...). Actum Senis in palatio Comunis Senarum (...). Ego Minus notarius filius olim Nini de Sancto Quirico in Osenna (...) manu propria publicavi.

I Conti di Santa Fiora promettono di non fare riparare il cassero di Scanzano, alla pena di mille marche d’argento (ASS, Capitoli 2, Caleffo dell'Assunta, fol. 338v-339r). (338v) In Christi nomine, amen. Anno Dominice Incarnationis millesimo trecentesimo trigesimo primo, indictione quintadecima, die octavo decimo mensis novembris. Nos Conticinus (...) et Herrigus (...) (339r) promictimus et convenimus vobis Conti (...) et Niccolino (...) in perpetuum non reparare vel reficere vel reparari vel refici

facere casserum seu palatium, muros, steccatos, foveas sive fossos vel aliquam fortilitiam sive aliquas fortilitias terre de Scangano posite in partibus Maritime, postquam predicta fuerint dissipata et post predictorum dissipationem et destructionem faciendam seu que fieri debet de predictis per Comune Senarum. Et predicta vobis, ut dictum est recipientibus, attendere et observare, nominibus quibus supra, promictimus, sub pena mille marcarum argenti (...).

Promictimus et convenimus vobis dictis sindicis (...) quod Comune de Schangano predictum singulis annis in perpetuum sine temporis prefinitione, deferet et apportabit vel deferri seu apportari faciet in festo Beate Marie Virginis de mense Augusti, pro censu et nomine census, ad Ecclesiam et in Ecclesiam Maiorem Civitatis Senarum, et in ea offerri, unum cereum de cera ponderis viginti librarum cere, ornatus floribus et foleis de cera onorifice (...). Et predicta (...) attendere et observare promictimus sub pena et ad penam quingentorum florenorum auri (...). (339v) Actum Senis in palatio Comunis Senarum (...). Ego Minus notarius filius olim Nini de Sancto Quirico in Osenna (...) manu propria publicavi.

n. 7 20 giugno 1329 I Priori delle Arti e il Gonfaloniere di Giustizia del Comune di Firenze deliberano che nessun ufficiale possa fare eseguire

pitture nei palazzi pubblici e nelle porte della città (Archivio di Stato di Firenze, Provvisioni Registri 25, cc. 42v-43r)

» Che pp:20672115 * PL xt, col. 1306: «Pax vobis, qui non conversationem hominum,

sed Angelorum in silvis et nemoribus adamatis». © Cfr. la nota bibliografica in M. C. Gozzoli, L'Opera completa di Simone Martini, Milano 1970, p. 96.

6 Nell’altare realizzato nel 1329 da Pietro Lorenzetti per la chiesa senese del Carmine si nota un programma tematicamente affine alla tavola del Beato Agostino Novello, nel senso che anche qui le questioni della coeva storiografia dell’ordine rivestono grande importanza per l'iconografia (cfr. H. van Os, Sienese Altarpieces 1215-1460, vol. 1, Groningen 1984, pp. 91 ss.). ? F. Schneider, Regesta Chartarum Italiae, Regestum Senense, vol. 1,

Roma 1911, n. 159. San Leonardo al Lago, che aveva aderito all’ordine eremitano prima del 1250, il 26 maggio 1252 fu unito con l’eremo di San Salvatore «de Fultignano», nel Trecento perlopiù chiamato San Salvatore di Lecceto (cfr. K. Elm, «Italienische Eremitengemeinschaften des 12. und 13. Jahrhunderts», in: L'Erenztismo in Occidente nei secoli XI e XI, Atti della seconda Settimana internazionale di studio, Mendola, 30 agosto — 6 settembre

1962,

Università Cattolica del Sacro Cuore, Miscellanea del Centro di Studi Medioevali, vol. rv, pp. 542 ss.). BICir, notrab: ? C. Stroick, Heinrich von Friemar, Freiburg i.B. 1954. 10 R, Arbesmann, «Henry of Friemar's “Treatise on the origin and development of the Order of the Heremit Friars and its true and real title’», in: Augustiniana, rv, 1956, p. 117. !! Siena, Archivio di Stato, Consiglio Generale 107, fol. 39v.

2 Cfr. nota 10. 3 «Diffinitiones capituli generali de Senis», in: Acta Augustiniana, rv, 1911-1912, pp. 177-183. I nomi dei diffinitores delle province ecclesiastiche partecipanti a questo capitolo generale a Siena si trovano in R. Maiocchi, N. Casacca, Codex Diplomaticus Ord. E. S. Augustini Papiae, Pavia 1905, pp. 74-75 (doc. 33). 4 R. Arbesmann, W. Hiimpfner, op. cit. (vedi nota 2), p. 153: «Claruit autem iste venerabils pater multis miraculis post mortem suam. Unde dominus episcopus Senarum venerandum corpus suum

235

PITTURA

- MEDIOEVO

5 Archivio Arcivescovile di Siena, n. 21, fol. 710v.

potentis militis domini Ranuccii domini Abrunamontis de Serra de Eugubio, Dei gratia honorabilis potestatis et domini Andree domini Salimbenis de Ragianis de Camerino honorabilis capitanei Comunis et populi ac defensoris sotietatum et vicariatuum civitatis eiusdem, facta tamen prius imposita de infrascriptis apud dictum palatium de conscentia et consensu trium ex dominis INIor provisoribus

16 ASS, Acta Sanctorum Maii, vol. rv, p. 623.

Comunis

non permisit in terra sepeliri, sed potius in quadam tumba decente reponi ipsum fecit et in ecclesia fratrum honorifice collocari; ubi etiam singulis annis in die depositionis suae solemne festum fit per communitatem civitatis ad laudem Dei et iugem memoriam viri sancti». v Die Kirchen von Siena, a cura di P. A. Riedl e M. Seidel, vol. 1, 1,

236

Miinchen 1985, p. 210. lelGhr notaio: ° H. Hager, Die Anfinge des italienischen Altarbildes, Munchen

1962, fig. 238. Per la combinazione di una tavola con scene della vita del santo con l’altare contenente le sue reliquie appare interessante, riguardo al monumento del beato Agostino Novello, la seguente osservazione di Hager (p. 97): «Come ipotizzato da Paatz (Die Kirchen von Florenz, vol. rv, p. 286, nota 181), la tavola di Sar Miniato — che

ancora tra il 1738 e il 1742 era collocata sopra l’altare della cripta di San Miniato a Firenze — era sin dall'inizio collocata sulla mensa sotto la quale sono conservate in un’urna le reliquie del santo. D'accordo con Offner, Paatz data pertanto la tavola al periodo intorno al 1335194245

29 Cfr. nota 17. A mio parere la collocazione al «muro di mezzo» ipotizzata da Monika Butzek è improbabile, dato che il monumento funerario era palesemente incorporato in una nicchia.

21 M. Seidel, «Studien zu Giovanni di Balduccio und Tino di Camaino», in: Stidel-Jabrbuch, nuova serie, v, 1975, pp. 71 ss. [qui riassunto nel vol. n alle pp. 760-769]. 2 Cfr. nota 15 e Archivio Arcivescovile di Siena (AAS), n. 5956, fol. 457v-457r (dichiarazioni del sacerdote Bartolomeo Amabert nell’anno 1757). 3 Simone Martini e “chompagni”,

catalogo della mostra

(Siena,

Pinacoteca Nazionale), Firenze 1985, p. 56.

24 Relazione del 28 marzo 1985 («L'importanza della tavola del Beato Agostino Novello per la storia della pala d’altare senese») al convegno senese su Simone Martini. % Cfr. la riproduzione di analoghi altari a nicchia in un dipinto del Sassetta al Bowes Museum di Barnard Castle (C. Brandi, Quaztrocentisti senesi, Milano 1949, fig. 48). Gf mora 16. Le reliquie erano peraltro state traslate già nel Cinquecento in una nuova cassa di pietra (cfr. Die Kirchen von Siena, cit. [vedi nota 17], p. 210). 28 M. Seidel, «Signorelli um 1490», in: Jabrbuch der Berliner Museen, xxvi, 1984, pp. 196 ss. [qui pp. 645-707]. 29 AAS, n. 5956, fol. 457v-458v. Subito dopo il processo, 11. 7. 1759

papa Clemente xm confermò il culto del beato Agostino Novello ab immemorabili. 30 R. Arbesmann, W. Hùmpfner, op. cit. (vedi nota 2), p. 153. 2 Cfr. nota 13. 3 R. Arbesmann, op. cit. (vedi nota 2), pp. 46-47. 3 R. Arbesmann, W. Hùmpfner, op. cit. (vedi nota 2), pp. 153-154 (i primi quattro miracoli nella Vita pubblicata negli Acta Sanctorum). Se confrontiamo i miracoli descritti nel codice della Biblioteca Mediceo-Laurenziana e da Giordano di Sassonia con i dipinti di Simone Martini, balza agli occhi che il committente di Simone voleva rivolgersi soprattutto alle madri in ansia per i loro piccoli. 4 Riproduco qui il documento in una trascrizione gentilmente redatta da Stefano Moscadelli, poiché quella pubblicata da André Vauchez (nel suo interessante saggio «La commune de Sienne, les ordres mendiants et le culte des saints. Histoire et enseignements d’une crise», in: Melanges de l’école francaise de Rome: Moyen Age — temps modernes, xxx,

1977, pp. 757-767) contiene numerosi er-

rori e soprattutto omette l'importante finale. Archivio di Stato di Siena (ASS), Consiglio Generale 107, fol. 39v4lv: «/39v/ Pro festivitate Sancti Augustini Novelli honoranda. In nomine Domini, amen. Anno Eiusdem millesimo ccco, xxvmo, indictione xn°, die xx* mensis februarii. Convocato et congregato generali consilio campane Comunis et populi et L per tercerium de radota, capitaneo vexilliferorum, consiliariorum sotietatum et vicariatuum civitatis Senarum, in palatio dicti Comunis, sono campane voceque preconis more solito, de mandato nobilis et

Senarum

secundum

formam

statuti

Senarum,

idem

dominus Potestas in presentia sapientis viri domini Andree de Sancto Elpidio iudicis collateralis et vicarii dicti domini capitanei et sapientis viri domini Iacobi Pieri de Prato maioris sindici dicti Comunis, proposuit in dicto consilio et a consiliariis dicti consilii utile pro dicto Comuni consilium sibi petiit exiberi, quod, cum audiveritis legi et vulgarigari in presenti consilio quamdam petitionem exibitam offitio dominorum Novem Gubernatorum et defensorum Comunis et populi Senarum infrascripti tenoris videlicet: Coram vobis prudentibus et discretis dominis Novem Gubernatoribus et defensoribus Comunis et populi civitatis Senarum, proponitur et dicitur pro parte prioris, fratrum et conventus heremitarum Sancti Augustini de Senis quod, sicuti est

omnibus Senensibus manifestum, beatus Augustinus Novellus de ordine supra dicto, cuius corpus est in ecclesia dicti loci de Senis, tam propter eius sanctitatem quam propter magnam dilectionem et affectationem quam habuit ad Comune Senarum et singulares homines et personas ipsius Comunis, est merito honorandus per Comune prefatum, maxime cum credi debeat, immo quasi a certo et civitate Senarum et statu eius pacifico in celesti curia continue sit maximus advocatus. Quare cum

teneri, quod pro dicto Comuni

dicatur factum esse noviter in Comuni Senarum quoddam /40r/ ordinamentum contra intentionem et mentem bonorum hominum civitatis Senarum quo prohibetur offitialibus ire ad aliquod festum nisi ad illa de quibus statutum loquitur, et statutum de festivitate aliqua non loquatur, suplicatur vobis humiliter et devote quod, ob Dei reverentiam et intuitu meritorum beati Augustini predicti, cuius nominis ethimologia est augere, velitis presentem petitionem ponere

seu poni et micti facere ad consilium generale campane, et in eo facere proponi et reformari quod vos et alii offitialis dicti Comunis tam presentes quam futuri possitis et possint licere, non obstante ordinamento predicto, ire ad dictum festum, et die qualibet dicti beati Augustini Novelli festivitatis dictam ecclesiam personaliter visitare cum illa sotietate et honore quibus videbitis melius convenire, ut Deus omnipotens meritis et precibus beati Augustini predicti Comune Senarum ab omnibus aversitatibus custodiat et eius statum pacificum conservet et de bono in melius augeat et accrescat. Si dicto presenti consilio videtur et placet approbare iustam fore necessariam et probabilem causam, evidentem necessitatem et pro Comuni Senarum utilitatem quod dicta presens petitio et omnia

singula que continentur in ea, ponantur et mictantur ad hoc presens consilium, et de et super eis firmandis solepnis fiat proposita super qua et quibus libere et impune consuli possit et solepniter reformari. Non ostantibus infrascriptis capitulis constituti et ordinamentorum Comunis Senarum videlicet: capitulo posito de electione xm emendatorum statuti Comunis et eorum offitio, capitulo sub rubrica

qualiter fieri debeant expense Comunis, capitulo sub rubrica de quolibet articulo partiendo per se, capitulo sub rubrica de consiliis executioni mandandis, capitulo sub rubrica quod it quod fuerit stabilitum in consilio non possit mutari nisi per duas partes consilii, capitulo sub rubrica de legendo capitulo a quo potestas petit absolvi, capitulo sub rubrica de consilio non dando potestati contra formam statuti, capitulo sub rubrica quod potestas non petat

absolutionem de eo quod facere teneretur, capitulo sub rubrica de modo iuris reddendi, /40v/ capitulo sub rubrica de statutis executioni mandandis et precipue maleficiorum, et generaliter non obstantibus quibuscumque aliis capitulis constituti, ordinamentis et reformationibus consiliorum dicti Comunis et maxime et spetialiter non obstante secundo capitulo quarumdam provisionum et ordinamenti Comunis Senarum scripti et publicati per Ser Blasium Nuccii sub anno Domini

m° ceco xxvmo,

indictione x,

die x

mensis octobris [sic!], quod secundum capitulum incipit: Item ad expensas superfluas resecandas, et finit: ullatenus debeant approbari alicui otfitiali dicti Comunis. Que capitula ordinamenti et reformationes tam specificatas quam etiam non specificatas in

ICONOGRAFIA

quantum alicui vel aliquibus de contentis in petitione predicta, aliquo modo vel iure, directe vel indirecte, contradicerent vel obstarent, ex nunc auctoritate et potestate presentis consilii sint et

esse intelligantur abrogata, subspensa et sublata in omni et qualibet parte sui et nullius efficacie vel valoris; in nomine Domini dicant et consulant. Dominus Nichola Contis, unus ex consiliariis dicti consilii, surgens in dicto consilio ad dicitorium, super contentis in dicta proposita dixit et consuluit quod de et super omnibus et singularis que in dicta presenti proposita veniunt consulenda et de quibus proponitur et consilium exiberi, plenarie approbetur, fiat et executioni mandetur prout et sicut in ipsa presenti proposita plenius et per singula continetur. Dominus Iacobus Pieri de Prato maior sindicus Comunis Senarum contenta in dicta proposita contradixit et dixit quod super eis non procedatur. Summa et concordia dicti consilii super contentis in dicta presenti

proposita fuit, voluit et firmavit se cum dicto et consilio et secundum dictum et consilium dicti domini Nichole consultoris hoc modo videlicet quia facto super predictis inter consiliarios dicti consilii diligenti partito et scruptinio /41r/ ad bussolos et palloctas secundum formam statuti Senarum, per consiliarios in dicto consilio existentes et se cum dicto et consilio dicti consultoris ad hoc se concordantes, misse fuerunt in bussulum album del sì et in eodem bussolo reperte centum quinquaginta quattuor pallocte, et per consiliarios se a predictis discordantes misse fuerunt in bussulum nigrum del non et in eodem bussolo reperte septuaginta septem pallocte in contrarium predictorum et sic fuit super predictis obtentum, firmatum et reformatum per duas partes dicti consilii ut supra plenius continetur et patet.

Post que quidem omnia et predictis omnibus sic peractis, facta tamen prius imposita de infrascriptis apud dictum palatium de conscentia et consensu

trium ex dictis IMIor provisoribus Comunis

Senarum

secundum formam statuti Senarum, idem dominus Ranuccius potestas predictus, in presentia dicti domini vicarii et dicti maioris sindici, proposuit in dicto consilio et a consiliariis dicti consilii utile pro dicto Comuni consilium sibi petit exiberi die cadem et in palatio supradicto, si dicto presenti consilio videtur et placet omni auctoritate, potestate et balia, iure et modo quibus magis et plenius potest, providere, statuere, firmare et solempniter reformare quod supradicta petitio et omnia et singula que continentur in ca procedant et in presenti consilio firmentur et statuantur ita et taliter quod valeant et teneant pleno iure et de iuris plenitudine, plenum et verum sortientur effectum et plenam et meram executionem in omni et qualibet parte sui, auctoritate et potestate presentis consilii, et quod de et super omnibus et singulis que continentur in petitione

predicta et quolibet eorum plenarie stabiliatur, firmetur et reformetur ac deinde observetur, fiat et executioni mandetur ad plenum, prout et sicut in dicta petitione et qualibet parte sui plenius

et per singula continetur; in nomine Domini dicant et consultant. /41v/ Caccia domini Spinelli de Cerretanis unus ex consiliariis dicti consilii surgens in dicto consilio ad dicitorium, super contentis in dicta proposita presenti, consuluit et dixit quod de et super eis omnibus et singulis et quolibet eorum, plenarie in presenti consilio stabiliatur, reformetur ac deinde subsequenter observetur, fiat et executioni effectibus demandetur ad plenum prout et sicut in dicta petitione et dicta presenti proposita plenius et per singula continetur. Summa et concordia dicti consilii super contentis in dicta presenti proposita fuit, voluit et firmavit se cum dicto et consilio et secun-

dum dictum et consilium dicti Caccie consultoris, hoc modo videlicet, quia facto super predictis inter consiliarios dicti consilii diligenti partito et scruptinio ad bussolos et palloctas secundum formam

statuti Senarum, per consiliarios in dicto consilio existentes et se

cum dicto et consilio dicti consultoris ad hoc se concordantes, misse fuerunt in bussulum album del sì et in eodem bussolo reperte centum sexaginta una pallocte et per consiliarios se a predictis discordantes misse fuerunt in bussulum nigrum del non, et in eodem bussolo reperte, septuaginta una pallocte in contrarium predictorum, et sic fuit et est in predictis obtentum, firmatum et reformatum secundum formam statuti Senarum ut supra plenius continetur et patet». Il passo degli statuti contro il quale si indirizzano le deliberazioni

E STORIOGRAFIA

citate non è dell’ottobre - come erroneamente indicato nel verbale del consiglio — bensì del novembre 1328. Per la comprensione del protocollo del 20 febbraio 1329 è fondamentale la conoscenza della seguente integrazione agli statuti del novembre 1328. ASS, Statuti di Siena 23, fol. 194r-196v [novembre 1328]: «/194r/ Unde pecunia veniat in Comuni per modum novorum civium. In nomine Domini, amen. Infrascripte sunt certe provisiones et ordinamenta facte et invente per quosdam sapientes viros tres

videlicet per quodlibet tercerium civitatis Senarum electos per dominos Novem Gubernatores et defensores Comunis et populi

civitatis predicte ad viam et modum inveniendum qualiter expense Comunis Senarum minuantur et introitus augeantur et scripte per

me Blasium Nuccii notarium ad hec deputatum sub anno Domini millesimo trecentesimo vigesimo octavo, indictione duodecima, de

mense novembris. [...] /195r/ Item ad expensas superfluas resecandas providerunt et ordinaverunt quod domini Novem Gubernatores et defensores Comunis et populi civitatis Senarum seu ipsorum aliquis nullo modo possint vel debeant personaliter ire vel mictere vel portari vel micti facere vel offerre aliquos dopplerios, ceros, ensenium, pecuniam vel aliquid aliud ad aliquam festivitatem seu solempnitatem nisi ad cas solum et prout et sicut per formam statuti et ordinamentorum Comunis Senarum concedetur. Et quicumque ipsorum contrafecerit puniatur et condempnetur Comuni Senarum in viginti quinque libras

denariorum Senensium /195v/ pro qualibet vice, et nicchilominus si contra fieret nulle expense, occasione predictorum vel alicuius eorum

facte, ullatenus debeant alicui offitiali Comunis Senarum [...]». 5 W. M. Bowsky, A medieval Italian Commune: Siena under the Nine, 1287-1335, University of California Press 1981, p. 263. ?6 Cfr. il documento riportato alla nota 37. 3 ASS, Consiglio Generale 107, fol. 33r-37v: «/33r/ Pro festivitate Sancti Ambrosii honoranda. In nomine Domini, amen. Anno Eiusdem millesimo coco xxvmo,

indictione xn*, die xvi, mensis februarii. Convocato et congregato generali consilio campane Comunis et populi et quinquaginta per tercerium de radota, capitaneo vexilliferorum et consiliariis sotietatum et vicariatuum civitatis Senarum in palatio dicti Comunis,

sono campane voceque preconis, more solito, de mandato nobilis et potentis militis domini Ranuccii de Serra de Eugubio, Dei gratia honorabilis potestatis et nobilis et etiam potentis militis domini Andree domini Salimbenis de Camerino, eadem gratia honorabilis capitanei Comunis et populi ac defensoris sotietatum et vicariatuum civitatis Senarum, facta tamen prius imposita de infrascriptis apud

dictum palatium de conscientia et consensu trium ex dominis HIIor provisoribus Comunis Senarum secundum formam statuti Senarum, idem dominus potestas in presentia dicti domini capitanei suique iudicis et sapientis viri domini Tacobi Pieri de Prato maioris sindici

dicti Comunis, proposuit in dicto consilio et a consiliariis dicti consilii utile pro dicto Comuni consilium sibi petiit exiberi quod, cum audiveritis legi et vulgaricari in presenti consilio per me Iohannem domini magistri Pelli medici de Sancto Geminiano notarium et offitialem Comunis Senarum ad colligendam consilia et super reformationibus supradictorum consiliorum pro memorato Comuni Senarum spetialiter deputatum, petitiones infrascripti

tenoris, videlicet, in primis unam petitionem exibitam offitio dominorum Novem Gubernatorum et defensorum Comunis et populi civitatis Senarum, infrascripti tenoris videlicet: Coram vobis dominis Novem Gubernatoribus et defensoribus Comunis et populi civitatis Senarum proponunt ac reverenter et humiliter rogant, prior

et fratres conventus ordinis predicatorum de Senis et quam plures immo multi boni homines civitatis Senarum quod sicut vestra reverentia clare novit pridie factum est quoddam stantiamentum, quo cavetur quod offitium dominorum Novem et alii offitiales dicti Comunis non possint ire ad aliquod festum nisi per formam statuti,

/33v/ quod vere fuit et est contra mentem et intentionem vestram et eorum qui dictum ordinamentum fecerunt et quasi omnium

Senensium, pro eo quod nullum est in Comuni Senarum statutum loquens quod officiales debeant ire ad aliquod festum, unde si dictum novum ordinamentum servaretur non possent ire dicti offitiales ad festum beate Marie Virginis de mense augusti, nec ad

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PITTURA

- MEDIOEVO

festum beati Ambrosii Senarum, sicut fuit iam sunt anni xt et plures retroactis temporibus consuetum, et sic vere patet et maniteste obstenditur cos qui fecerunt ordinamentum predictum novum contra mentem suam et omnium Senensium fecisse sicut ipsi nobis viva voce pluries dixerunt, addicientes dictum ordinamentum se numquam fecisse si scivissent vel imaginari potuissent predictis festivitatibus dictum ordinamentum quoguomodo in aliquo derogare, firmiter enim credentes ut asserunt quam plura statuta

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loqui quomodo offitium dominorum Novem et alii sepedicti officiales ad festivitates irent et maxime ad duas superius memoratas, cum veraciter non sit aliquod statutum quod loquatur de presenti materia sicut superius dictum est; preterea non est aliqua civitas in partibus Tuscie que aliquem Sanctum suum proprium non habeat quem non veneretur solepnitate aliqua spetiali. Quare cum credatur, speretur firmiter quod veneratio Sanctorum que facta est actenus in civitate Senarum per dictum Comune et offitiales ipsius multa commoda contulerit Comuni predicto et a multis maleficiis et periculis cessaverit et custudierit civitatem predictam, petunt et rogant humiliter quantum possunt tam pro bono quam etiam pro honore civitatis predicte quod presentem petitionem faciatis poni ad consilium generale et in eo proponi et reformari quod prefati offitiales possint et debeant ire, et consilium etiam ire possit, sicut fuit actenus consuetum ad festivitatem beati Ambrosii nobilissimi civis vestri, quem cognovistis, quem audivistis, quem puro corde et reverentia dilexistis, quem manus vestre contractaverunt, per quem verba vite eterne civitati isti gloriosissime manifestata et exposita sunt.

/34r/ Pro festivitate Sancti Petri Pectinarii honoranda. Item aliam petitionem exibitam dicto offitio dominorum Novem infrascripti tenoris, videlicet: Coram vobis prudentibus viris dominis

Novem Gubernatoribus et defensoribus Comunis et populi civitatis Senarum, proponitur et narratur pro parte fratrum et conventus fratrum minorum de Senis quod iam est longum tempus et a tempore videlicet quo infrascriptus beatus Petrus de terra transivit ad celica, offitium dominorum Novem et alii offitiales Comunis eiusdem, consideratis meritis Sancti Petri Pectinarii et sanctitate ac

miraculis que divinus Pater pro eo obstendit in publico, volentes in persona eius ipsum divinum Patrem spetialiter honorare, consueverunt in festo ipsius sancti ad audiendum divinum offitium ad ecclesiam dictorum fratrum accedere et ibidem devote ad sacrum offitium commorari. Quare cum ipse beatus Petrus fuerit de civitate ista nativus et ex eius orrigine et orriginali [sic!] amore spetialem curam ad civitatem habeat et ad cives, et sanctitate et meritis suis

Comunis Senarum videlicet capitulo posito sub rubrica de quolibet articulo partiendo per se, capitulo sub rubrica de consiliis executioni mandandis, capitulo sub rubrica quod id quod fuerit stabilitum in consilio non possit mutari nisi per duas partes consilii, capitulo sub rubrica quod potestas non petat absolutionem de eo quod facere teneretur, capitulo sub rubrica de legendo capitulo a quo potestas petit absolvi, capitulo sub rubrica de consilio non dando potestati contra formam statuti, capitulo sub rubrica qualiter fieri debeant expense Comunis, capitulo sub rubrica de modo iuris reddendi, capitulo sub rubrica de statutis executioni mandandis et precipue maleficiorum, et non obstante secundo capitulo quarumdam provisionum et ordinamenti Comunis Senarum scripti et publicati per Ser Blasium Nuccii sub anno Domini m° ccce xxvnre, indictione x, die x*, mensis novembris, quod secundum capitulum incipit: Idem ad expensas superfluas resecandas, et finit: ullatenus debeant approbari alicui offitialis dicti Comunis, et generaliter non obstantibus quibuscumque

aliis capitulis constituti, ordinamentis,

provisionibus, decretis et reformationibus consiliorum dicti Comunis tam supra specificatis quam etiam non specificatis, que pro lectis et specificatis habeantur et sint auctoritate et potestate presentis consilii, que predictis petitionibus vel alicui earum, aut alicui vel aliquibus de contentis in eis vel aliqua earum aut proposita fienda pro eis firmandis /35r/ vel alicui seu aliquibus de contentis seu continendis in eis vel aliqua earum, aliquo modo vel iure, directe vel indirecte, contradicerent vel obstarent, et que capitula, ordinamenta, decreta, provisiones et consiliorum reformationes tam specificatas quam etiam non specificatas in quantum predictis petitionibus vel alicui earum aut alicui vel aliquibus de contentis in eis vel aliqua earum, aut dictis propositis fiendis vel alicui seu aliquibus de contentis seu continendis in eis vel aliqua ipsarum aliquo modo vel iure, directe vel indirecte contradicerent vel obstarent, ex nunc auctoritate et potestate presentis consilii sint et esse intelligantur abrogata, subspensa et sublata in omni et qualibet parte sui et nullius efficacie vel valoris; in nomine Domini dicant et consulant. Caccia domini Spinelli de Cerretanis, unus ex consiliariis dicti consilii, surgens in dicto consilio ad dicitorium, super contentis in dicta proposita dixit et consuluit quod ipse approbat et quod per presens consilium etiam approbetur iustam esse, necessariam et probabilem causam, evidentem necessitatem et Comunis Senarum utilitatem, dictas petitiones, quarum tenor in dicta presenti proposita superius est insertus, poni et micti ad hoc presens consilium per dictas propositas super eis et pro eis firmandis

gratias, ut debemus credere, obtineat apud Deum, et tanto magis

fiendas, et quod tam supra specificatorum quam etiam non specificatorum capitulorum statuti, ordinamentorum et reformatio-

civitas serveretur incolumnis quot plures apud defensorem suum, scilicet ipsum Deum, magnos habuerit advocatos, et cum honor sit

num consiliorum derogatio, subspensio et sublatio fiant in hoc presenti consilio secundum quod in dicta presenti proposita

civitati et civibus quod ex eis provenerit tantus sanctus, petitur

continetur,

quod, in honorem maiestatis divine et Sancti Petri predicti, honorabilis consuetudo et bona que quodam modo transunt in legem, et debitus honor eidem sancto factus hucusque de bono augmentetur in melius et ad hoc ut eorum augmentatio infallibiliter assit, petitur quod placeat vobis, tam decreto vestro, quam, si

stabiliatur et reformetur prout in dicta presenti proposita plenius et per singula continetur. /35v/ Summa et concordia dicti consilii super contentis in dicta presenti proposita in quantum se referunt et plenius referre possunt

oportuerit, decreto consilii campane Comunis predicti, stangiare sive statuere quod domini Novem, qui pro tempore fuerint, cum

domino potestate et capitaneo et aliis offitialibus civitatis predicte, teneantur et debeant quolibet anno in die festivitatis Sancti Petri predicte, de mane venire ad audiendum offitium ad ecclesiam beati

Francisci et Sancti Petri predicti apud locum fratrum predictorum, honorifice veluti tanto offitio videbitis /34v/ convenire. Ipse quidem beatus, ut est, erit perpetuo civitatis istius apud Altissimum, precipuus advocatus. Si dicto presenti consilio videtur et placet approbare quod sit iusta, necessaria et probabilis causa, evidens necessitas et pro Comuni Senarum utilitas quod quelibet dictarum petitionum per se ponatur et mictatur ad presens consilium et de et super firmandis quibuslibet carum per se solepnis fiat proposita, super quibus et qualibet carum per se dici, arengari, consuli possit et solepniter reformari, et quod si dicti dominus potestas et capitaneus aut domini Novem in aliquo tenerentur ad iuramentum vel ad penam ex nunc auctoritate et potestate presentis consilii sint et esse intelligatur in omnino liberi et totaliter absoluti. Non obstantibus infrascriptis capitulis constituti

ac in ceteris in dicta presenti

proposita

contentis,

ad petitionem prioris et fratrum conventus ordinis predicatorum de Senis predictorum, et propositam super ea fiendam, et etiam ad contenta seu continenda in dicta proposita fienda pro firmando

petitionem predictam, fuit, voluit et firmavit se cum dicto et consilio et secundum dictum et consilium dicti Caccie consultoris hoc modo videlicet quia facto super predictis inter consiliarios dicti consilii diligenti partito et scruptinio ad bussolos et palloctas secundum formam statuti Senarum per consiliarios in dicto consilio existentes

et se ad hoc cum dicto et consilio dicti consultoris et concordantes, misse fuerunt in bussulum album del sì et in eodem bussolo reperte, dugente viginti tres pallocte et per consiliarios se ab hiis discordantes misse fuerunt in bussulum nigrum del non et in eodem bussolo reperte Lxxvimi pallocte in contrarium predictorum et sic fuit et est in predictis obtentum, firmatum et reformatum ut supra plenius continetur et patet. Summa et concordia dicti consilii super contentis in dicta presenti proposita in quantum se referunt et plenius referre possunt ad dictam

petitionem

fratrum

minorum

conventus

Senarum

et ad

propositam predictam fiendam pro et super ipsa petitione firmanda et etiam ad contenta in ipsa proposita fienda, fuit, voluit et firmavit

ICONOGRAFIA

se cum dicto et consilio et secundum dictum et consilium dicti Caccie consultoris hoc modo videlicet quia facto super predictis inter consiliarios dicti consilii dilisenti partito et scruptinio ad bussolos et palloctas secundum formam statuti Senarum per consiliarios in dicto consilio existentes et se ad hoc cum dicto et consilio dicti consultoris ad hoc se concordantes, misse fuerunt in bussulum album del sì et in eodem bussolo reperte, dugente viginti et una pallocte et per consiliarios se a predictis /36r/ discordantes misse fuerunt in bussulum nigrum del non et in eodem bussolo reperte LxxxI pallocte in contrarium predictorum et sic fuit et est in

predictis obtentum, firmatum et reformatum secundum formam statuti Senarum ut supra plenius continetur et patet. Post que quidem omnia et predictis omnibus sic peractis facta tamen prius imposita de infrascriptis apud dictum palatium de coscentia et consensu trium ex dominis IIor provisoribus Comunis Senarum

secundum formam statuti Senarum, idem dominus Ranuccius potestas predictus in presentia dicti domini capitanei populi suique iudicis et domini maioris sindici, in dicto consilio proposuit et a consiliariis dicti consilii utile pro dicto Comuni consilium sibi petiit exiberi die eadem et in palatio supradicto. Si dicto presenti consilio videtur et placet omni auctoritate, potestate et balia, iure et modo quibus magis et plenius potest providere, statuere, firmare et solepniter reformare quod dicta petitio exibita dicto offitio

E STORIOGRAFIA

/37r/ Summa et concordia dicti consilii super contentis in dicta presenti proposita referentibus se ad supradictam petitionem fratrum minorum conventus Senarum exibitam dicto offitio

dominorum Novem et ad contenta in ipsa petitione, fuit, voluit et firmavit se cum dicto et consilio et secundum dictum et consilium dicti Caccie consultoris hoc modo videlicet, quia facto super predictis inter consiliarios dicti consilii diligenti partito et scruptinio ad bussolos et palloctas secundum formam statuti Senarum per consiliarios in dicto consilio existentes et se ad hoc cum dicto et consilio dicti consultoris concordantes, misse fuerunt in bussolum album del sì et in eodem bussolo reperte, dugente quadraginta due pallocte et per consiliarios se a predictis discordantes, misse fuerunt in bussolum nigrum del non et in eodem bussolo reperte quinquaginta novem pallocte in contrarium predictorum et sic fuit et est super predictis obtentum, firmatum et reformatum secundum formam statuti Senarum ut supra plenius continetur et patet».

8 Cfr. il documento pubblicato alla nota 39. Per il monumento funerario di Giovacchino cfr. G. Bardotti Biasion, «Gano di Fazio e la tomba-altare di Santa Margherita da Cortona», in: Prospettiva, n. 37, 1984, pp. 2-19.

? ASS, Consiglio Generale 107, fol. 70v-74v: «/70v/ Pro honorando festum beati Nicholai apud fratres carmelitanos.

dominorum Novem pro parte prioris et fratrum conventus ordinis

In nomine Domini, amen. Anno Eiusdem me ccce xxvimo, indictione

predicatorum de Senis et etiam alia supradicta petitio fratrum minorum conventus Senarum, cuiuslibet quarum petitionum per se tenor super in proxima precedente proposita hodie facta in presenti consilio seriosius est insertus et quelibet ipsarum petitionum per se

xi, die xvi aprilis. Convocato et congregato generali consilio campane Comunis et populi et quadraginta per tercerium de radota, capitaneo vexilliferorum et consiliariis sotietatum et vicariatuum civitatis Senarum in palatio dicti Comunis, sono campane voceque preconis, more solito, de mandato nobilis et potentis militis domini Ranuccii domini Abrunamontis de Serra de Eugubio, Dei gratia honorabilis capitanei Comunis et populi ac defensoris sotietatum et vicariatuum civitatis Senarum, facta tamen prius imposita de infrascriptis apud dictum palatium de conscientia et consensu trium ex dominis IIIor provisoribus Comunis Senarum secundum formam statuti Senarum, idem dominus potestas in presentia dicti domini capitanei suique iudicis et domini Iacobi Pieri de Prato maioris

cum omnibus et singulis que continetur in ea procedant et in presenti consilio firmetur et ipsas petitionem et quamlibet earum per se cum omnibus et singulis que continentur in ea firmare ad plenum ita et taliter quod valeat et valeant pleno iure et de iuris

plenitudine, plenum et verum sortiatur et sortiantur effectum et plenam

et meram

executionem

in omni

et qualibet parte sui,

auctoritate et potestate presentis consilii, et quod de et super omnibus et singulis que in qualibet ipsarum petitionum per se continentur et quolibet eorum plenarie stabiliatur, statuatur, firmetur et reformetur, observetur, fiat et executioni effectibus demandetur ad plenum prout et sicut in dictis petitionibus et qualibet earum per se plenius et per singula continetur; in nomine

Domini dicant et consulant. /36v/ Caccia Domini Spinelli de Cerretanis, unus ex consiliariis dicti consilii, surgens in dicto consilio ad dicitorium, super contentis in dicta presenti proposita dixit et consuluit quod de omnibus et singulis

que

in dicta

presenti

proposita

tam

pro

processu,

stabilimento et firmamento omnium contentorum in dicta petitione exibita dicto offitio dominorum Novem pro parte prioris et fratrum conventus fratrum predicatorum de Senis quam etiam de et super omnibus et singulis contentis in dicta alia petitione exibita dicto offitio dominorum Novem pro parte fratrum et conventus fratrum minorum

predictorum

continentur

et quolibet

eorum

plenarie

stabiliatur, firmetur et reformetur in presenti consilio ac deinde subsequenter observetur, fiat et executionem effectibus demandetur ad plenum prout et sicut in qualibet dictarum petitionum per se et dicta presenti proposita plenius et per singula continetur. Summa et concordia dicti consilii super contentis in dicta proposita referentibus se ad supradictam petitionem exibitam offitio dominorum Novem pro parte prioris et fratrum predicatorum

conventus Senarum et ad contenta in ipsa petitione, fuit, voluit et

firmavit se cum dicto et consilio et secundum dictum et consilium dicti Caccie consultoris hoc modo videlicet quia facto super predictis inter consiliarios dicti consilii diligenti partito et scruptinio ad bussolos et palloctas secundum formam statuti Senarum per consiliarios in dicto consilio existentes et se ad hoc cum dicto et consilio dicti consultoris concordantes, misse fuerunt in bussolum album del sì et in eodem bussolo reperte, dugente quadraginta quactuor pallocte, et per consiliarios se ab hiis discordantes misse fuerunt in bussolum nigrum del non et in eodem bussolo reperte fuit quinquaginta septem pallocte in contrarium predictorum et sic statuti et est obtentum, firmatum et reformatum secundum formam Senarum ut supra plenius continetur et patet.

sindaci dicti Comunis, proposuit in dicto consilio et a consiliariis

dicti consilii utile pro dicto Comuni consilium sibi petiit exiberi quod, cum audiveritis legi et vulgarigari in presenti consilio per me Iohannem notarium domini magistri Pelli medici de Sancto Geminiano notarium et offitialem Comunis Senarum ad colligendam consilia quamdam petitionem exibitam offitio dominorum Novem Gubernatorum et defensorum Comunis et populi Senarum infrascripti tenoris videlicet: Coram vobis sapientibus et discretis viris dominis Novem Gubernatoribus et defensoribus Comunis et populi civitatis Senarum per priorem et conventum Senarum ordinis beate Marie de monte Carmelo, proponitur. quod, cum aliorum venerabilium religiosorum petitiones de exibenda per Comune reverentia confessoribus sacris, discretioni vestre placuerit merito

ducere ad mictendum cum eorum et aliorum sanctorum /71r/ meritis Comune prefatum in statu tranquillo et pacifico conservetur, et inter

confessores ceteros quos sancta solempnicat ecclesia, beatus et gloriosus pontifex Nicholaus, cui precipue prelibati conventus intitulatur basilica, ubigque per orbem celebris habeatur, ideo vestre sapientie suplicatur et petitur quod, ob reverentiam omnipotentis Dei et gloriose Virginis Marie et dicti sanctissimi presulis Nicholai, velitis et vobis placeat hanc petitionem poni et micti facere ad generale consilium campane Comunis et populi et L per tercerium de radota et in dicto consilio solempniter statui et reformari facere, quod domini Novem Gubernatores ct defensores Comunis et populi Senarum qui pro tempore fuerint una cum domino potestate et capitaneo et aliis offitialibus et ordinibus civitatis Senarum, libere possit et teneantur quolibet anno in futuris temporibus, die scilicet festivitatis ipsius beatissimi Nicholai ad ecclesiam dictorum fratrum personaliter accedere et dictum beatum Nicholaum et eius festivitatem

honorare, sicut pro honore tanti sancti et Comunis

Senarum ipsis dominis Novem melius videbitur convenire, ad hoc ut

ipse Deus, Beatissima Virgo et beatus Nicholaus confessor eximius, Comune et regimen in prosperis augceat et ab aversis protinus tueatur,

amen. Pro honorando festum beati Iohacchini, apud Servos Sancte Marie.

239

PITTURA

- MEDIOEVO

Item, aliam petitionem exibitam offitio dictorum dominorum Novem infrascripti tenoris videlicet: Coram vobis sapientibus et discretis viris dominis Novem Gubernatoribus et defensoribus Comunis et populi civitatis Senarum, proponunt et dicunt prior et

240

fratres conventus Senarum ordinis Servorum Sancte Marie, quod ipsi fratres singulis annis, die lune proxima post Resurrectionem Domini celebrant cum solepnitate festum beati /71v/ Iohacchini, cuius vita et sanctitas claruit civibus Senensibus in codem ordine longis temporibus perseverando in sanctis operibus, virtutibus et miraculis multis, in vita et post mortem illustratus, qui suam gloriosissimam animam Christo tradidit eo die quo pro omnibus in ligno Crucis mori voluit et ea ora, scilicet sexta, qua Christus Patri suum spiritum recommendavit. Quare predicti fratres, cum omni subiectione et reverentia, recurtunt ad vos, sicut ad suos dominos

singulares et patres beningnos, quod ob reverentiam Beate Marie, cuius Servi nuncupantur, placet vobis ordinare quod vos domini Novem, dominus potestas et capitaneus populi et alii offitiales Comunis Senarum venire debeatis singulis annis ad locum dictorum fratrum honorifice in die festi beati Iohacchini predicti, ad honorandum Deum et Beatam Virginem in suo predilecto servo, sicut actenus vestri gratia pluries venire consuevistis ad hoc ut Deus et Beata Virgo Maria meritis et intercessione sui dilecti servi beati Iohacchini, civitatem Senarum et offitium vestrum et cives omnes civitatis predicte in bono, pacifico et tranquillo statu semper custodiant et ab omni aversitate et periculo tueantur, amen.

Si dicto presenti consilio videtur et placet approbare quod sit iusta, necessaria et probabilis causa, evidens necessitas et pro Comuni Senarum utilitas quod quelibet dictarum petitionum per se cum sua solepni proposita super contentis in ea fienda ponatur et mictatur ad hoc presens consilium et quod de et super eis et qualibet earum, libere et impune consuli possit et solepniter reformari. Non obstantibus infrascriptis capitulis constituti Comunis Senarum videlicet: capitulo posito sub rubrica de non danda pecunia Comunis Senarum nisi primo fiat imposita, capitulo sub rubrica quod potestas non possit statuere penas /72r/ ultra formam statuti

Senarum, capitulo sub rubrica de quolibet articulo partiendo per se, capitulo sub rubrica de consiliis executioni mandandis, capitulo sub rubrica quod id quod fuerit stabilitum in consilio non possit mutari nisi per duas partes consilii, capitulo sub rubrica quod potestas non petat absolutionem de eo quod facere teneretur, capitulo sub rubrica de legendo capitulo a quo potestas petit absolvi, capitulo sub rubrica de consilio non dando potestati contra formam statuti, capitulo sub rubrica qualiter fieri debeant expense Comunis, capitulo sub rubrica de modo iuris reddendi, capitulo sub rubrica de condempnandis qui condempnandi sunt et absolvendis qui sunt absolvendi, capitulo sub rubrica de statutis executioni mandandis et precipue maleficiorum, et non obstante secundo capitulo quarumdam provisionum et ordinamenti Comunis Senarum scriptorum et publicatorum per Ser Blasium Nuccii notarium civem Senarum

sub anno

Domini

m° ccco xxvmo,

indictione xn*, die

decima, mensis novembris, quod capitulum incipit: Item ad expensas superfluas resecandas, et finit: ullatenus debeant approbari alicui offitialis dicti Comunis, et generaliter non obstantibus quibuscumque aliis. capitulis constituti, ordinamentis et reformationibus consiliorum dicti Comunis generalibus vel spetialibus, specificatis vel non specificatis que etiam pro lectis et specificatis habeantur et sint auctoritate et potestate presentis consilii, et in quantum dicta capitula tam specificata quam etiam non specificata dictis petitionibus vel alicui earum aut alicui vel aliquibus de contentis seu continendis in eis vel aliqua earum, aliquo modo vel iure contradicentur vel obstarent ex nunc auctoritate et potestate presentis consilii sint et esse intelligantur abrogata, subspensa et sublata in omni et qualibet parte sui ac etiam nullius efficacie vel valoris; in nomine Domini dicant et consulant. /72v/ Caccia domini Spinelli de Cerretanis, unus ex consiliariis dicti consilii, surgens in dicto consilio ad dicitorium, super contentis in dicta presenti proposita et tam in primo articulo ipsius quo de approbando evidentem necessitatem mictendi ad presens consilium dictam petitionem exibitam offitio dominorum Novem pro honoriticando festivitatem Sancti Nicholai confessoris Christi quam etiam in secundo articulo eiusdem proposite, quo mentio facta est de

approbando evidentem necessitatem mictendi ad hoc presens consilium aliam petitionem predictam exibitam offitio dominorum Novem pro honorificando festum Sancti Iohacchini predicti, et super quolibet dictorum articulorum, per se dixit et consuluit iustam, necessariam et probabilem causam evidentemque necessitatem et Comunis Senarum utilitatem fore, approbari in hic presenti consilio ac abrogatione, subspensione et sublationem dictorum capitulorum, ordinamentorum et reformationum obstantium dictis petitionibus fieri, ac in ceteris in dicta proposita contentis que secundum suam exigentiam ad presens veniunt consulenda stabiliri et executioni mandari prout et sicut in dicta presenti proposita plenius continetur. Summa et concordia dicti consilii super contentis in dicta presenti proposita tam pro prima quam etiam pro secunda petitionibus supradictis, fuit, voluit et firmavit se particulariter et distincte ad dictum et consilium et secundum dictum et consilium dicti Caccie consultoris sic videlicet quod facto diligenti partito et scruptinio ad bussolos et palloctas secundum formam statuti Senarum super contentis in dicta presenti proposita se referentibus ad petitionem seu factum petitionis dictorum prioris et conventus fratrum ordinis Sancte Marie de Monte Carmelo et dicto et consilio dicti consultoris ad eadem se referente /731r/ inter consiliarios dicti consilii, per ipsos consiliarios in dicto consilio existentes se cum dicto et consilio dicti consultoris ad hoc omnia concordantes, misse fuerunt in bussolum album del sì et in codem bussolo reperte ciwxwxam pallocte et per consiliarios se ab hiis discordantes misse fuerunt in bussulum nigrum del non xxx1 pallocte in contrarium predictorum, et facto etiam inter dictos consiliarios super contentis in dicta presenti proposita referentibus se ad supradictam petitionem exibitam offitio dominorum

Novem pro parte priores et fratrum dicti conventus

Servorum Sancte Marie et dicto et consilio dicti consultoris se referente etiam ad factum eiusdem petitionis Servorum Sancte Marie, diligenti partito et scruptinio ad bussolos et palloctas secundum formam statuti Senarum per consiliarios in dicto consilio existentes et se ad hoc cum dicto et consilio dicti consultoris concordantes, misse fuerunt in bussolum album del sì et in eodem bussolo reperte civi pallocte et per consiliarios se ab hiis discordantes misse fuerunt in bussulum nigrum del non et in eodem bussolo reperte quinquaginta octo pallocte in contrarium predictorum, et sic fuit et est obtentum, firmatum et reformatum secundum formam statuti, ut supra continetur et patet. Post que quidem omnia et predictis omnibus sic peractis facta tamen

prius imposita de infrascriptis apud dictum palatium de coscentia et consensu

trium

ex

dominis

quactuor

provisoribus

Comunis

Senarum secundum formam statuti Senarum, idem dominus Ranuccius potestas predictus in presentia dicti domini capitanei populi suique iudicis et domini maioris sindici, proposuit in dicto codemque consilio die eadem /73v/ et in palatio supradicto et a consiliariis dicti consilii utile pro dicto Comuni consilium sibi petiit exiberi, si dicto presenti consilio videtur et placet omni auctoritate, potestate et balia, iure et modo quibus magis et plenius potest providere, ordinare, stabilire, firmare et solepniter reformare quod suprascripta petitio exibita dicto offitio dominorum Novem pro parte dictorum prioris et conventus fratrum ordinis Sancte Marie de Monte Carmelo pro honorando dictam festivitatem beati Sancti Nicholai et omnia et singula que continentur in ea, procedant et in presenti consilio firmentur et quod obtineant plenum et perfectum robur atque valeant et teneant pleno iure et de iuris et iurium plenitudine plenum et verum sortiantur effectum et plenam et meram executionem in omni et qualibet parte sui, auctoritate et potestate presentis consilii, et quod de et super omnibus et singulis que in dicta petitione continentur et quolibet eorum plenarie stabilire, firmare et reformare quod observetur et executioni veris effectibus demandetur ad plenum prout et sicut in dicta petitione et qualibet parte sui plenius et per singula continetur; in nomine Domini dicant et consulant. Item, si dicto presenti consilio videtur et placet omni auctoritate, potestate et balia, iure et modo quibus magis plenius potest providere, ordinare, stabilire, firmare et solepniter reformare quod suprascripta alia petitio exibita pro parte dictorum prioris et fratrum Servorum Sancte Marie offitio dominorum Novem predictorum pro honorando Deum et Beatam Virginem Marie [sic!] in suo predilecto

ICONOGRAFIA

servo Sancto Iohacchino et omnia et singula in dicta petitione contenta procedant et obtineant plenum ac perfectum robur ita et taliter quod ea et quodlibet eorum /74r/ valeant et teneant pleno iure et de iure et iurium plenitudine plenum et verum sortiantur effectum et plenam et meram executionem in omni et qualibet parte sui, auctoritate et potestate presentis consilii et quod de et super omnibus et singulis que in ipsa petitione predicta continentur et quolibet eorum plenarie stabiliatur, firmetur et reformetur in presenti consilio ac deinde subsequenter observetur, fiat et executioni effectibus demandetur ad plenum prout et sicut in dicta petitione plenius et per singula continetur, in nomine Domini dicant et consulant. Caccia domini Spinelli de Cerretanis, unus ex consiliariis dicti consilii, surgens in dicto consilio ad dicitorium, super contentis in primo dicte presenti proposite articulo quo de dicta petitione prioris

et fratrum ordinis Sancte Marie de Monte Carmelo mentio facta est, dixit et consuluit quod de et super omnibus et singulis que tam in dicta petitione quam in dicto primo articulo continentur, plenarie stabiliatur, firmetur et reformetur in presenti consilio ac deinde

subsequenter observetur, fiat et executioni effectibus demandetur ad plenum prout et sicut in dicta petitione et dicto primo articulo plenius et per singula continetur. Super secundo dicte presentis proposite articulo quo de petitione dictorum prioris et fratrum Servorum Sancte Marie pro honorando Sanctum Iohacchinum mentio facta est, dixit et consuluit quod de et super omnibus et singulis in dicta petitione et dicto secundo articulo contentis et quolibet eorum, plenarie stabiliatur, firmetur, reformetur, observetur, fiat et executioni mandetur prout et sicut in dictis petitione et secundo articulo plenius et per singula continetur.

/TAv/ Summa et concordia dicti consilii super contentis tam in dicto primo quam etiam in secundo articulis supradictis et quolibet eorum per se particulariter et distincte, fuit, voluit et firmavit se cum dicto et consilio et secundum dictum et consilium dicti Caccie consultoris hoc modo videlicet quia facto super predictis contentis in dicto primo articulo inter consiliarios dicti consilii diligenti partiti et scruptinio ad bussolos et palloctas secundum formam statuti Senarum per consiliarios in dicto consilio existentes et se ad contenta in dicto primo articulo pro obtentu contentorum in dicta petitione prioris et fratrum ordinis Sancte Marie de Monte Carmelo concordantes, misse fuerunt in bussolum album del sì et in eodem bussolo reperte cuowxmn pallocte et per consiliarios se a predictis discordantes misse fuerunt in bussolum nigrum del non et in eodem bussolo reperte viginti una pallocte in contrarium predictorum; et etiam quia facto etiam super contentis in dicto secundo articulo inter consiliarios eosdem simili partito et scruptinio per consiliarios se ad contenta in dicto secundo articulo pro obtentu contentorum in dicta petitione prioris et fratrum Servorum Sancte Marie pro honorando festum Sancti Iohacchini predicti concordantes, misse fuerunt in bussulum album del sì et in eodem bussolo reperte cuoca pallocte et per consiliarios se ab hiis discordantes misse fuerunt in bussolum nigrum del non et in codem bussolo reperte trigintatres pallocte in contrarium predictorum, et sic fuit et est obtentum, firmatum et reformatum super quolibet dictorum articulorum per se secundum formam statuti Senarum, ut supra plenius continetur et patet». 40 ASS, Consiglio Generale 106, fol. 87v-93r. Cfr. anche gli Statuti di Siena riportati alla nota 34, fol. 194r-196v. 4! Documenti riportati alle note 34, 37 e 39. 4 Cfr. anche C. Frugoni, Una lontana città, Torino 1983, pp. 95 ss.

# Lo statuto riguardante il culto di San Nicola nella chiesa senese di Santa Maria del Carmine è datato 19 aprile 1329 (cfr. nota 39). 4 P. Bacci, Dipinti inediti e sconosciuti di Pietro Lorenzetti, Bernardo Daddi etc. in Siena e nel Contado, Siena 1939, pp. 84-85 (stupisce so-

prattutto che in questo passo non sia citato neppure Elia, il presunin to fondatore dell’ordine, raffigurato alla sinistra della Madonna

trono). 5 ASS, Consiglio Generale 38, fol. 64r-v. (19 dicembre 1289): «Item

cum ordinatum et firmum sit per dominos Novem L...] quod de fratribus minoribus et conventui ipsorum fratrum de Senis detur pecunia Comunis et solvatur usque quantitatem cc librarum sancti denariorum Senensium pro faciendo construi super tumulum nobile Petri Pettinari venerabilis civis senensis, unum sepulerum i cum ciborio et altari [...]» (cfr. G. Mengozzi, «Documenti dantesch

E STORIOGRAFIA

del R. Archivio di Stato di Siena», in: Bollettino Senese di Storia PaGiga vivai, SZ, joy, 1555)

4 ASS, Consiglio Generale 33, fol. 64r-65r: «/64r/ Die xx1° madii [1287]. In nomine Domini, amen.

Factum est generale consilium campane Comunis Senarum, cum adiuneta dominorum Novem Gubernatorum et defensorum Comunis et populi Senarum et dominorum quattuor provisorum dicti Comunis et dominorum consulum militum et consulum mercatorum et eorum consiliorum et cum adiuncta prudentem virorum quadraginta per tergerium de radota dicti consilii, cohadunatam in palatio dicti Comunis ad sonum campane et per

bannum missum, ut moris est, a magnifico et illustri viro domini Guidone de Modilliana Dei gratia in Tuscia comite palatino et nunc, eadem gratia, Senarum honorabili potestate, in quo proposuit et consilium pettit [...]. Item, cum per consilium dominorum Novem Gubernatorum et defensorum Comunis et populi Senarum, facto partito ad scruptinium per palloctas secundum formam statuti quod ad laudem et reverentiam divini nominis et corporis beati Ambrosii de pecunia Comunis Senarum in hedificanda et facienda hedificare sepultura,

in qua corpus

sanctissimum

ipsius beati Ambrosii

honorifice sepelliatur, debeat expendi per operarium operis Sancte Marie usque L libras denariorum et sequenti die, secundum formam statuti predicti, per consilium dictorum dominorum Novem et ordinum civitatis, facto partito ad scruptinium per palloctas, quod in dicta sepultura de pecunia Comunis expendatur dicto modo usque L libras denariorum, et quod hodie, que est dies tertia, de faciendis

dictis expensis fient consilium generale, ad hoc ut fiant secundum voluntatem consilii [...]. /64v/ In nomine Domini, amen.

Dominus Filippus de Malavoltis consuluit et dixit supra expensis fiendis in sepoltura corporis beati Ambrosii quod expense predicte fiant et fieri debeant de pecunia Comunis sicut in imposita continetur [...]. Dominus Minus Christofori supra expensis ordinatis et que fieri

debent in sepultura corporis beati Ambrosii et ad honorem et laudem ipsius, consuluit et dixit quod, cum provisio facta de dictis expensis sit parva, adeo quod opus honorabile fieri non possit, quod debeat supra hoc suprasedere et quod per dominos Novem fiat hodie eorum consilium ad scruptinium secundum formam statuti, et cras fiat alterum consilium secundum formam statuti de maiori provisione facienda, ita quod die tertia reducatur ad consilium [...]. Dominus Stricha Salembenis supra facto expensarum que fieri debent in sepultura corporis beati Ambrosii concordavit cum dicto domini Mini [...]. /65r/ Dominus Ciampolus Albiccii supra facto expensarum que fieri debent in sepultura corporis beati Ambrosii, consuluit et dixit quod super hiis debeat suprasederi secundum dictum aliorum arengatorum, rogando consilium et Comune quod ad honorem divini nominis et in laudem et memoriam corporis beati Ambrosii et in honorem

Comunis,

fiat et fieri debeat una

capella expensis

Comunis et quod omnia consilia que fieri debent pro expensis faciendis et solempnitas que fieri et servari debet ex forma statuti, fiant in nomine Domini, et quod per dominum comitem et Curiam et consules militum et mercatorum provideatur in quo loco fieri possit et de ipsius altitudine et longitudine provideant, et sicut ordinaverint vel viderint faciendum reducatur ad consilium et sicut consilio placuerit fiat [...]. Consilium fuit in concordia cum dicto domini Ciampoli.» ASS, Consiglio Generale 33, fol. 70r-72r: «/70r/ Die xxvmo madii [1287]. In nomine Domini, amen. Factum est generale consilium campane Comunis Senarum, cum adiuncta dominorum Novem Gubernatorum et defensorum Comunis et populi Senarum et dominorum quattuor provisorum dicti Comunis et consulum militum et consulum mercatorum et eorum consiliorum et cum adiuncta prudentum virorum quadraginta per tergerium de radota dicti consilii, cohadunatum in palatio dicti Comunis ad sonum campane et per bannum missum, ut moris est, a magnifico et illustri viro domino Guidone de Modilliana Dei gratia in Tuscia comite palatino et nunc, eadem gratia, Senarum

241

PITTURA

- MEDIOEVO

honorabili potestate, in quo proposuit et consilium petiît [...]. Item, cum per consilium dominorum Novem Gubernatorum et defensorum Comunis et populi Senarum, facto partito ad scruptinium per palloctas secundum formam statuti quod ad laudem et reverentiam divini nominis et corporis beati Ambrosii de pecunia

Comunis in hedificanda et facienda hedificare sepultura, in qua

corpus santissimum ipsius beati Ambrosii honorifice sepelliatur, per operarium operis Sancte Marie [debeat expendi] usque C libras

denariorum

242

et sequenti die, secundum

formam

statuti, per

consilium dictorum dominorum Novem et ordinum civitatis, facto

partito ad scruptinium per palloctas, quod in dicta sepultura fiant dicte expense usque dictam quantitatem c librarum, et quod die hodie, que est dies tertia, de faciendis dictis expensis fiat consilium generale, ut supra hiis procedatur ad voluntatem consilii. /70v/ [...] In nomine Domini, amen. Dominus Schacia de Talommeis super expensis ordinatis et que fieri debent ad reverentiam divini nominis in sepultura corporis beato Ambrosii consuluit et dixit quod dicte expense fiant ut ordinatum per dominos Novem et Ordines civitatis. 71r/ {...} Dominus Minus domini Guidonis Orlandi [...] concordavit cum dicto domini Schagie. Bartalomeus Mainetti super expensis ordinatis in sepoltura beati Ambrosii concordavit cum dicto domini Schagie [...). /71v/ Dominus Bandinus iudex super expensis ordinatis in sepultura beati Ambrosii consuluit et dixit quod fiant secundum formam imposite [....]. Dominus Filippus Malavolti super sepultura beati Ambrosii concordavit cum dicto aliorum arengatorum [...]. /72xr/ Item fuit in concordia dictum consilium ad scruptinium, facto partito per palloctas, quod dicte expense fiant et invente sunt in

pisside ordinato et constituto ad faciendum expensas omnes pallocte et nemine discordante, fuit in concordia quod dicte expense fiant». Cfr. ASS, Consiglio Generale 34, fol. 7r-8r (19 luglio 1287). # Die Kirchen von Siena, a cura di P. A. Riedl e M. Seidel, vol. 1, 1, Miinchen 1985, pp. 2-4. 48 Cfr. nota 34. 4‘ Rerum Italicarum Scriptores, vol. xv, parte vi, Bologna 1931, p.

307: «1310 — Sanesi seguivano la gran festa del beato Austino Novello, che morì come è detto d’ottobre passato, unde el terzo di Città comincioro di nuovo a fare gran festa per cagione di detto beato e nove contrade di quel terzo amaioro e féro vestimenti e nuovi giuochi e corsero un palio; per questo in Siena s’araunò molta

gente». 30 ASS, Consiglio Generale 100, fol. 10r-12r (16 giugno 1324; fol. 10v: «[...] in honorem et pro honorando festum Beati Sancti Augustini Novelli lib. quadragintaquactuor et sol. xvi denariorum Senensium parvorum»).

7! R. Arbesmann, W. Himpfner, op. cit. (vedi nota 2), p. 153. Le date citate dimostrano che è possibile postulare una relazione iconografica con il culto del beato Agostino Novello a prescindere dalla datazione del dipinto di Simone Martini all’inizio oppure alla fine degli anni venti del Trecento. °° Cfr. la nota 34. Il primo scrutinio si concluse con 154 voti favorevoli e 77 contrari. Alla seconda votazione il rapporto numerico migliorò di poco (161 sì, 71 no). ® Cfr. la nota 37. Primo scrutinio: 221 sì, 81 no. Secondo scrutinio: 242 sì, 59 no.

% Cfr. la nota 37. Primo scrutinio: 223 sì, 79 no. Secondo scrutinio: 244 sì, 57 no.

Cfr. la nota 39. Primo scrutinio: 156 sì, 58 no. Secondo scrutinio: 180 sì, 33 no.

% Cfr. la nota 39. Primo scrutinio: 183 sì, 31 no. Secondo scrutinio: 192 sì, 21 no. Rispetto all’ostilità incontrata dal culto comunale di santi locali, colpisce il numero esiguo di voti contrari nella votazione sul culto civico di san Nicola di Bari. © Cfr. la nota 34: «Dominus Tacobus Pieri de Prato maior sindicus Comunis Senarum contenta in dicta proposita contradixit et dixit

quod super eis non procedatur». 38 Cfr. la nota 34. °° Per la vita di Agostino Novello cfr. A. M. Giacomini, «Agostino

Novello», in: Bibliotheca Sanctorum, vol. 1, coll. 601-607. Nella me-

moria della città di Siena Agostino Novello doveva essere rimasto impresso soprattutto in quanto autore delle Constizutiones dello Spedale di Santa Maria della Scala. 6 Cfr. la nota 37. 61 Cfr. la nota 37. 6 ASS, Consiglio Generale 140, fol. 42-43 (8 giugno 1347); (GISMOLO, Vauchez, op. cit. (vedi nota 34), p. 758, nota 3. 6 R. Arbesmann, op. cit. (vedi nota 2), p. 47.

4 Firenze, Biblioteca Mediceo-Laurenziana, Ms. Plut. 90 sup. 48,

fol. 53r. [Il “solario” cadente non può essere uno sporto ligneo, come lo dipinse Simone, bensì un soffitto a travi, secondo il significato che ha tuttora in italiano la parola solaio (cfr. anche C. Du Cange [a cura di], Glossarium mediae et infimae latinitatis, vol. vI, coll. 510-511). E la “tabula” che sta per piombare sulla testa del bambino, di conseguenza, sarà una trave o un’asse di solaio, di quelle che tuttora nelle case toscane sostengono il soprastante pavimento in cotto. Dobbiamo immaginarci la scena che ha in mente l’agiografo simile all’affresco con la morte del fanciullo di Suessa (Sessa Aurunca) nel transetto ovest della basilica inferiore di San Francesco ad Assisi, della bottega di Giotto, dove si vede una casa di cui sono crollati i due piani superiori. Il bambino si era incautamente avventurato su un pavimento pericolante, e questo crolla insieme a lui; nella caduta rischia di finirgli sulla testa anche una trave, ma essa è arrestata miracolosamente in aria per il subitaneo intervento del santo. Se tale interpretazione è giusta, si dovrà concludere che qui il pittore non si è attenuto alla lettera alla sua fonte agiografica, evidentemente perché per ragioni compositive ha preferito far avvenire il miracolo per strada anziché all’interno di una casa (il che dava l’occasione — forse per volontà dei committenti — di mettere in risalto la pericolosità degli sporti, malvisti o addirittura vietati dalla legislazione comunale). L’essersi presa tale licenza costringe però Simone a cercare di rendere in qualche modo plausibile il fatto, contrario alle leggi fisiche, che l’asse inchiodata verticalmente sul balla-

toio cada dopo il bambino che vi era appoggiato. La dinamica suggerita allo spettatore è la seguente: il bambino curioso è salito su uno sgabello — visibile nell'oscurità dell'interno — perché altrimenti, data la bassa statura, non avrebbe potuto affacciarsi; nel far così urta con i piedi contro l’asse, ma prima che questa si stacchi precipita lui stesso, essendosi affacciato troppo; accorre poi la madre, che fa in tempo a vedere il figlio in volo e l’asse che lo segue dappresso (G. TOI: 6 M. Seidel, «Das Frihwerk von Pietro Lorenzetti», in: StadelJabrbuch, vi, 1981, figg. 81, 82 (cfr. anche figg. 83, 84, 96) [qui riassunto alle pp. 443-449]. 6 Bonaventura, Legenda Mator, in: «Legendae S. Francisci Assisiensis», Analecta Franciscana, x, pp. 631-632.

4 Cfr. la nota 34. 6 E, Carli, I capolavori dell’arte senese, Firenze 1947, p. 24. 9 Acta Sanctorum Mati, vol. rv, p. 621.

? G. Rowley, Ambrogio Lorenzetti, vol. n, Princeton 1958, fig. 92. "! Per orientarsi in questo campo ctr. K. Elm, «Neue Beitrage zur Geschichte des Augustiner-Eremitenordens im 13. und 14. Jahrhundert», in: Archiv fiir Kulturgeschichte, xxxx1, 1960, pp. 357387.

?? R. Arbesmann, op. cit. (vedi nota 10), p. 96. ® Idem, «The “Vita Aurelii Augustini Hipponensis Episcopi”» in Cod. Laurent. Plut. 90 sup. 48”, in: Traditio, xvm, 1962, pp. 319355 (specialmente pp. 341 ss.). Idem, op. cit. (vedi nota 10), p. 97. ? R. Arbesmann, W. Himpfner, op. ct. (vedi nota 2), p. 35. 7 R. Arbesmann, op. cit. (vedi nota 10), p. 108. " Ibidem, p. 109. î8 Ibidem, p. 96. i R Arbesmann, W. Hiimpfner, op. cit. (vedi nota 2), pp. 46 ss.

$ K. Elm, op. cit. (vedi nota 7), pp. 542 ss. Idem, «Gli Eremiti Neri nel Dugento (Ein neuer Beitrag zur Vorgeschichte des AugustinerEremitenordens)», in: Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, 1, 1971, pp. 67 ss. 5! R. Arbesmann, op. cit. (vedi nota 2), p. 8. “iPloacolMag2!

ICONOGRAFIA

E STORIOGRAFIA

® R. Arbesmann, W. Himpfner, op. cit. (vedi nota 2), p. 57. 84 Ibidem, p. 453, nota 14. 8 Ibidem, pp. 114-118. 8 «Acta Cap. gen. 1323», in: Aralecta Augustiniana, 11, 1909-1910, p. 468. Cfr. anche E. Ypma, La formation des professeurs chez les

! ]J. W. Goodison, G. H. Robertson, Fitzwilliam Museum Cambridge, Catalogue of Paintings, vol. n, Italian Schools, Cambridge

Ermes de Saint-Augustin de 1256 à 1354, Paris 1956, pp. 124-125.

} M. C. Gozzoli, op. cit. (vedi nota 5), p. 90. B. Klesse, op. cz. (vedi nota 110), p. 75. !4 C. de Benedictis, op. cit. (vedi nota 112), p. 50. ? R. Arbesmann, op. cit. (vedi nota 10). © Per esempio Correctorium libri de ortu et progressu ordinis fra-

? «Acta Cap. gen. 1312», in: Analecta Augustiniana, wu, 1909-1910,

pp. 152-153.

Cfr. «Acta Prov., Orvieto

1315», in: Amalecta

Augustiniana, n, 1909-1910, p. 174. % D. Gutiérrez, «De antiquis ordinis eremitarum Sancti Augustini bibliothecis», in: Amalecta Augustiniana, xx, 1954, pp. 297-308. 8 Acta Sanctorum Mati, vol. 1v, p. 619. % PL xt, col. 1306.

% E Schneider, Regesta Chartarum Italiae, Regestum Senense, vol. 1, Roma 1911, n. 159 (atto di donazione del conte dell’Ardinghesca,

LIO) ? «Vita S. P. Augustini Hipponensis Episcopi B. Jordano de Saxonia Eremita Augustiniano Scriptore», in: Jacobus Hommey, Supplementum Patrum, Lutetiae Parisiorum 1686, p. 605: «Ut bene nostis Fratres Charissimi, tria Monasteria apud Hypponem Dei gratia merui laudabiliter ad honorem Sanctae Trinitatis construere. Quorum primum hoc est, in quo jam multis annis modico pabulo contenti alacriter commoramini, bestiis associati, avibus ministrati,

ciborumque spernentes delicias, visus hominum fugientes; et ideo non solum ego miser, sed vos saepe Angelorum estis assueti colloquiis» (cfr. PL x1, col. 1257). 8 PL xt, col. 1272: «O fratres mei dilectissimi, clamate in eremo,

ululate in hac vasta solitudine [...] Ecce enim audistis semper aves in deserto cantantes, et laudantes Deum factorem suum». % R. Arbesmann, W. Himpfner, op. cit. (vedi nota 2), p. 106. 2 PI xx col. 1306. % Ibidem. % Ibidem, col. 1309. 98 Ibidem, col. 1240. 99 Ibidem, col. 1257: «[...] sed vos saepe Angelorum assueti estis colloquiis».

100 R, Arbesmann, W. Himpfner, op. cit. (vedi nota 2), p. 26. 101 Acta Sanctorum Mati, vol. rv, p. 619. 102 Ibidem, p. 623: «In ecclesia ejusdem Conventus vidi altare cum capsa lignea antiqua, in qua, ut asseruerunt dicti RR. Patres, jacebat corpus d. Beati, antequam missum fuisset in predictam capsam marmoream: in qua capsa lignea sunt quatuor picturae antiquae, sed

bona manu et bene conservatae, quas dixerunt esse in memoriam dicti Beati: prima videlicet, quando aegrotus jacebat in lecto, et suos servos mittebat vocaturos religiosos Religionis predictae, sed in actu discessionis eorum alter valde est humiliatus, alter respicit unde

discedit. In secunda videntur duo Patres, simul cum dictis servis, et D. Augustinus in aére, qui manibus retrudit illos ad d. Beatum

aegrotum. indutum

Tertia continet d. Beatum

tunica,

patientia ac capuccio

cum

splendoribus aureis,

albis, et corrigia nigra,

senuflexum ante altare, imo coram Religioso in ecclesia habitu Augustiniano induto, similante Superiorem d. Religionis; cumque recipientem ibi habitum nigrum multa cum humilitate, habentem retro suos servos, nunc aliis vestibus vestitos quam prius, quando

ducebant Religiosos ad aegrotum. In quarta pictura apparet d. Beatus

cum

suis aureis

splendoribus,

vestibus

sacris

indutus,

genuflexus ante Episcopum nigra veste vestitum, ponentem illi planetam: ex quibus apparet illius ad [Sacerdotium] ordinatio. Ibi adstantes videntur alii Fratres ejusdem Religionis». 15 R. Arbesmann, W. Hiimpfner, op. cit. (vedi nota 2), p. 174. 1 R, Arbesmann, op. cit. (vedi nota 2), pp. 49-46. 105 Acta Sanctorum Mati, vol. rv, p. 618. 106 Ibidem, p. 617. 107 Ibidem, p. 617. 1e/Ct la nota 102. 109 K_ Steinweg, «Beitràge zu Simone Martini und seiner Werkstatt», in: Mitteilungen

des Kunsthistorischen

1953/56, pp. 162-168.

Institutes in Florenz, vu,

10 B. Klesse, Katalog der italienischen, franzòsischen und spanischen Gemiilde bis 1800 im Wallraf-Richartz-Museum, K6ln 1973, pp. 7476 (n. inv. 880).

1967, pp. 158-162.

? C. de Benedictis, in: Syz0ne Martini e “chompagni”, cit. (vedi nota

23), p. 50.

trum hberemitarum Sancti Augustini, Biblioteca Vaticana, Ms. Reg.

leg. 569. 7 R. Arbesmann, op. cit. (vedi nota 10), pp. 92-93: «Quod autem habitum eremiticum Augustinus assumpserit et portaverit, patet per Ambrosium in “Sermone de baptismo et conversione sancti Augustini”, ubi dicit, quod eo baptizato per beatum Ambrosium Augustinus cuculla nigra indutus est desuper zona cincta. [p. 94] Et istum habitum videtur rationabiliter assumpsisse propter multa [...] [p. 95] Tertio, qui congruum fuit, ut ille, qui futurus erat pater et dux fratrum eremitarum pauperum per sacrae regulae conscriptionem et traditionem, etiam ipsis conformis existeret per sacrae religionis habitum et conversationem, ut sic ipsi tamquam eius filii et veri pauperes ipsum tamquam patrem [...] collaudarent». 118 R, Maiocchi, N. Casacca, Codex diplomaticus Ord. E.S. Augustini Papiae, vol. 1, Pavia 1905, pp. 13-19 (doc. vi). 19 R. Arbesmann, op. cit. (vedi nota 10), pp. 104-105: «Hoc idem patet tertio ex gestis sanctissimi patris et domini domini Johannis papae xx, qui ad devotam instantiam reverendi patris magistri

Guillelmi de Cremona primo anno generalatus sui officii sacro approbante collegio dominorum cardinalium locum et custodiam venerabilis corporis sanctissimi patris et patroni nostri beati Augustini in perpetuum nostro ordini commendavit, contulit et

donavit, confirmans

illam donationem

authentico privilegio et

gratioso, in quo sic ait: “Dignum quidem aestimavimus, ut pater suis

filiis, caput suis membris, magister suis discipulis, dux suis militibus sub tanto patre devote militantibus uniretur”. Ex quo patet evidenter, quod sancta mater ecclesia sanctissimum Augustinum nostro ordini pro vero patre et singulari capite recognoscit et per

consequens fratres huius ordinis eius veri fili et eius membra propria dici debent». Cfr. l’interpretazione di Giordano di Sassonia nel capitolo del suo trattato intitolato De reunione capitis ad membra in donatione corporis beati Augustini et loci in Papia (R. Arbesmann, W. Hiimpfner, op. cit. [vedi nota 2], pp. 62 ss.). 120 B, Santi, in: Mostra di Opere d'Arte restaurate nelle province di

Siena e Grosseto, Siena 1979, pp. 60-65. !21 M, Seidel, «Die Fresken des Ambrogio Lorenzetti in S. Agostino», in: Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz,

xo, 1978, pp. 216 ss. [qui pp. 341-398]. 122 E, Drachtenberg, K. J. Merecker, C. Schmidt, Die mittelalterliche

Glasmalerei in den Ordenskirchen und im Angermuseum zu Erfurt (Corpus Vitrearum Medii Aevi, Deutsche Demokratische Republik 1.1), Berlin 1976, pp. 213 ss. 13 M, Roosen Runge Mollwo, «Fin illustriertes Blatt in Cleveland aus dem Wettinger Graduale», in: Zeitschrift fiir Schweizerische Archdologie und Kunstgeschichte, x, 1974, pp. 97-109. Mostra Transformation of Court Style, Rhode Island, 1977, n. 52.

124 A, L. Mayer, Samzlung Fritz August v. Kaulbach, Miinchen, catalogo d’asta Hanno Helbing, Minchen 1929, p. 33, n. 150. Idem,

«Versteigerung der Sammlung Kaulbach», in: Pantheon, 1v, 1929, pp. 484-486.

15 Perizia del 31 agosto 1929; archivio della Fondazione Abegg, Riggisberg. Inoltre: A. Péter, «Contributi alla conoscenza di Pietro

Lorenzetti e della sua scuola», in: La Diana, vm, 1933, p. 171 («Il

quadro [...] deve essere posto [...] nella più stretta vicinanza di tempo all’altare [aretino], e cioè ai primi anni dopo il 1320»). — G Volpe, «Nuove proposte sui Lorenzetti», in: Arte antica e moderna,

n. 11, 1960, p. 2 («nello spirito del grande monumento della pala di Arezzo, dunque subito dopo il 20»). - M. Stettler, K. Otavsky, Abegg-Stiftung in Riggisberg, Bern 1971, voli 9% = 18615, JK Maginnis, «Pietro Lorenzetti: A Chronology», in: The Art Bulletin, ixvi, 1984, p. 199 («an important document of Pietro' style in the

243

PITTURA

- MEDIOEVO

early 1320°s [...] The “Saint Leonard” is a critical indication of sty-

listic transition, for it goes further than the Johnson “Madonna” in

bridging the gap between the Arezzo Polyptych and the fresco of the

“Crucifixion” in S. Francesco, Siena»).

26 M. Seidel, op. cit. (vedi nota 65), p. 112. H. B. J. Maginnis, op. crt. (vedi nota 125), p. 193. 2? M. Seidel, op. cit. (vedi nota 65), p. 117. 2 J. Stubblebine, Duccio di Buoninsegna and His School, Princeton

1979, pp. 109-110.

244

29 I] restauro è stato eseguito da Barbara Schleicher (Firenze), che vorrei ringraziare di cuore per la gentile collaborazione. Il mio lavoro a Riggisberg è stato notevolmente facilitato dall’aiuto di Karel Otavsky. I risultati dei miei studi sono stati presentati per la prima volta in una conferenza intitolata «Zum Bildnis des heiligen Leonhard von Pietro Lorenzetti in der Sammlung der AbeggStiftung», tenuta il 26 agosto 1983 a Riggisberg su invito di Werner Abegg e signora. 130 Cfr. la relazione sui restauri dell’aprile 1982, conservata nell’archivio della Fondazione Abegg. 131 AAS, n. 5956, fol. 393r.

15 «Jo ho ben considerato ed osservato la tavola che esiste nell’altare della Cappella sotterranea sotto il pavimento di questa Chiesa di S. Leonardo, la quale è una tavola dipinta e dorata all'antica, ed è composta di cinque figure o immagini di Santi, nel mezzo vi è l’immagine di Maria Vergine con il Bambino Gesù, e di qua e di là vi è S. Giovanni Battista e S. Agostino Dottore di S. Chiesa, e Vescovo, dalla parte del Vangelo accanto a S. Giovanni il beato Agostino Novello, e dalla parte dell’Epistola accanto a S. Agostino vi è S. Leonardo, tutti con l’iscrizione del loro nome, e sopra ad esse cinque altre immagini più piccole in mezzo delle quali vi è l’immagine del Salvatore, che sta sopra alla Madonna Santissima, e nell’altre quattro vi è l’immagine di altrettanti angeli, e dico che tutte le dette cinque immagini, angeli e Salvatore sono mano e pitture di Simone di Martino o Lippo Memmi, i quali dipingevano assieme, e che sia stata fatta circa l’anno milletrecentotrenta e il milletrecentoquaranta». 133 Acta Sanctorum Mati, vol. iv, p. 622: «Et descendentes de dicta

ecclesia [...] fuimus quoddam oratorium sive sacellum ingressi; vidimusque altare cum infrascriptis picturis, sive imaginibus antiquis in tabula, id est, B. Virgine Maria in medio, deinde S. Joanne

Baptista, S. Augustino, S. Leonardo induto formali habitu nigro dictae Religionis D. Augustini (etenim intus capuccium nigrum videtur

delineatum

album,

in medio

praecincto

corrigia, et in

manibus librum rubeum habente) ac B. Augustino Novello, cum Angelo ad aurem ut supra, et cum his verbis, S. AUGUSTINUS». 534 Arte nell’Aretino — Dipinti e sculture restaurati dal XII al XVII secolo (Soprintendenza per i Beni Ambientali, Architettonici, Artistici e Storici di Arezzo: Seconda mostra di restauri dal 1975 al 1979, Arezzo 1979/80), pp. 26-36 (A. M. Maetzke). Gli strati di una vernice scura stesa come un velo grigio sopra i colori originali (fig. 25) miravano a celare gli effetti di una pulitura eccessiva che aveva in parte leso lo strato superiore di colore. 135 Arte nell’Aretino, pp. 33-35. 136 A. Mariotti, «Modulo di progettazione del polittico di Arezzo di Pietro Lorenzetti», in: Critica d'Arte, C, 1968, p. 36. 17 H. B. J. Maginnis, op. cit. (vedi nota 125), p. 208. Il tentativo di Maginnis di assumere il 1319 come terminus ante quem è contrad-

detto dalle tesi di Eve Borsook (The Mural Painters of Tuscany from Cimabue to Andrea del Sarto, Oxford 1980?, p. 30) e di Enzo Carli (op. cit. [vedi nota 1], p. 143), i quali ritengono più probabile una data di ultimazione posteriore. Particolarmente degno di nota mi sembra il giudizio espresso da C. Volpe nel catalogo della mostra // Gotico a Siena (Siena, Palazzo Pubblico, 1982, pp. 145-146). 338 H, B. J. Maginnis, «The Passion cycle in the lower Church of San Francesco», in: Zestschrift fiir Kunstgeschichte, xxx1x, 1976, p. 194.

139 M, Seidel, op. cit. (vedi nota 65). 14° Con ciò non si vuole affermare che prima di questa fase stilistica il pittore non si fosse affatto confrontato con il linguaggio figurativo di Giotto; cfr. E. Carli, op. cit. (vedi nota 1), p. 138, dove a proposito dell'affresco nella Cappella Orsini — una delle prime opere di Pietro Lorenzetti — si legge: «[...] il San Francesco [...] è così intensamente e acerbamente giottesco».

4 1 Hueck, «Ein Dokument zur Magdalenen-Kapelle der Franziskuskirche von Assisi», in: Scritti di Storia dell'Arte in onore di

Roberto Salvini, Firenze 1984, pp. 191-197. 14 IL, Bellosi, Pietro Lorenzetti ad Assisi, Assisi 1982.

3 H, B. J. Maginnis, op. cit. (vedi nota 125), pp. 199, 200. In un saggio sugli affreschi di Ambrogio Lorenzetti ritrovati nel chiostro di San Francesco a Siena mi domandavo se i cicli di affreschi nel chiostro e nel capitolo, iconograficamente correlati, potessero essere coevi («Gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Chiostro di San Francesco a Siena: ricostruzione e datazione», in: Prospettiva, n. 18,

1979, p. 19). Come ha giustamente obiettato Carlo Volpe nel cata-

logo della mostra Il Gotico a Stena (vedi nota 137, pp. 145-146), e

come sosteniamo anche in questa sede, per la Crocifissione almeno deve essere confermata una datazione anteriore, alla metà degli anni

venti.

144 Cfr. la nota 137. 1 Nel giudicare questi affreschi occorre tenere conto del cattivo stato di conservazione, vale a dire della perdita di larga parte dell’ultimo strato di colore (cfr. la fotografia a colori in: E. Carlî, op. cit. [vedi nota 1], fig. 194). 46 H, B. J. Maginnis, op. cit. (vedi nota 125), pp. 195-196. 4 O, Demus, The Mosaics of San Marco in Venice, vol. 1, ChicagoLondon 1984, p. 109.

4 Jacopo da Varazze, Legenda aurea, a cura di G. P. Maggioni, Firenze 1998, p. 1054: «Cuius parentes primi in palatio regis Francie habebantur. Hic tantam gratiam a rege obtinuit quod omnes incarcerati quos ipse uisitabat protinus soluebantur». 149 O. Demus, «Zwei marmorne Altarikonen aus San Marco», in:

Jabrbuch der òsterreichischen byzantinischen Gesellschaft, rv, 1955,

pp. 99-121. Die Skulpturen von San Marco in Venedig, a cura di W. Wolters, Berlin 1979, p. 22, cat. 15. 30 R. Arbesmann, op. cit. (vedi nota 10). 31 Acta Sanctorum Mati, vol. rv, p. 622.

3 E. Carli, Lippo Vanni a San Leonardo al Lago, Firenze 1969. 3 Tavola della predella dell’altare maggiore di Sant'Agostino a Narni? E Zeri, «La riapertura della Alte Pinakothek di Monaco», in: Paragone, n. 95, 1957, pp. 64-68. Idem, «Un pittore di Narni del 1409», in: Paragone, n. 97, 1958, pp. 3-9. Ringrazio Cornelia Syre di Monaco per le informazioni relative a questo dipinto. % F. Flores d’Arcais, Guariento, Venezia s.d. (1974), tavola vi, pp. 62, 63.

5 56 5 38 59

Acta Sanctorum Legenda aurea, Acta Sanctorum Legenda aurea, Acta Sanctorum

Nov., vol. m, p. 153. cit. (vedi nota 148), p. 1055.

Nov., vol. m, p. 154. cit. (vedi nota 148), p. 1055. Nov., vol. n, p. 151, nota 2. r Early Italian Paintings in the Yale University Art 8 Ch. SeymouJr., Gallery, Yale University Press, New Haven and London 1970, pp. 10-11, n. 1 (forse proveniente, al pari dell’opera di Lorenzo di Niccolò Gerini riprodotta alla fig. 56, dalla chiesa fiorentina di San Leonardo in Arcetri). 6 Biblioteca Vaticana, Ms. Reg. leg. 565 (Correctorium libri de ortu et progressu ordinis fratrum heremitarum Sancti Augustini), fol. 2r.

Sulle questioni relative alla polemica e all’iconografia antieremitana intendo soffermarmi nel testo annunciato alla nota 1. © Acta Sanctorum Nov., vol. m, p. 156. 8 Legenda aurea, cit. (vedi nota 148), p. 1056. #4 Acta Sanctorum Nov., vol. m, p. 156. © Acta Sanctorum Nov., vol. m, p. 160. 66 Acta Sanctorum Nov., vol. m, p. 173. 9 Acta Sanctorum Nov., vol. m, Dbp. 176. 68 Acta Sanctorum Nov., vol. n, p p. 178. ® J. de Coo, Museum Mayer van der Bergh. Catalogus I, Antwerp IERI PRIS231558 170 G. Kaftal, Iconography of the Saints in Central and South Italian Schools of Painting, Firenze 1965, col. 687, fig. 813. 17! Ibidem, col. 689. ì

«DOLCE VITA»

Il ritratto dello stato senese dipinto da Ambrogio Lorenzetti

Nella prima metà del Trecento la raffigurazione del paesaggio si sviluppa in Toscana e in Umbria fino a diventare uno dei grandi temi dell’arte europea. Tre delle prime vedute decorano le sale consiliari del Palazzo Pubblico di Siena: la scena della Consegna del castello di Giuncarico, di-

pinta nel 1314 e attribuita a Duccio (tavola 1x), l'affresco dell’ Assedio di Montemassi completato nel 1330 da Simone Martini! (tavola vin) e l’immagine ideale dello stato se-

nese realizzata da Ambrogio Lorenzetti nel 1338-39 (figg. 4, 25, tavole xxx, xvi). La prima pittura paesistica senese non conosce principi

compositivi unitari, né un'evoluzione stilistica coerente. A seconda del compito specifico Duccio, Simone e Ambro-

gio danno una definizione diversa del “ritratto” del paesaggio. Per mezzo del modellino della rocca che si erge su un massiccio roccioso Duccio dimostra al Gran Consiglio l’importanza del castello di Giuncarico appena acquisito (tavola x1). Simone Martini trascura la varietà di forme e la ricchezza di vegetazione del paesaggio per concentrarsi sui quattro punti di importanza strategica: la grandezza e la posizione della rocca da conquistare, la struttura del castello eretto a protezione degli assedianti, la collocazione del campo senese e la personalità del capitano di Guerra, Guidoriccio da Fogliano (tavola vm). Il compito di glorificare lo stato senese ispira invece ad Ambrogio Lorenzetti l'invenzione di due nuove tipologie iconografiche: il panorama dell’aperta campagna (fig. 25, tavole xxxvnI, xLvI) e la veduta interna di una città (fig. 4, tavola xxx). Per comprendere la scelta di rappresentare un precoce ritratto del paesaggio senese con pretese di riconoscibilità è dunque essenziale conoscere il compito iconografico del pittore. L'interpretazione del paesaggio cambia in modo radicale a seconda che si tratti di tradurre visivamente un atto di acquisizione, di eternare un piano di assedio o di

raffisurare l’immagine ideale di uno stato (figg. 4, 25). Negli ultimi decenni l'esame iconografico degli affreschi della Sala della Pace si è perlopiù concentrato sull’interpretazione delle allegorie (fig. 1, tavola xx1v),° mentre Li conografia dei paesaggi di Ambrogio che qui ci interessa è stata finora studiata poco) e mai in maniera sistematica. Fondamentali per la ricostruzione del programma iconografico che ispirò le due coppie di vedute della città e della campagna (figg. 4, 25, tavole xxx, xxxVII, XLVI, LI) SONO,

oltre ai trattati di dottrina dello stato, soprattutto i documenti della politica interna, agraria, fiscale, commerciale, universitaria, urbanistica e dei trasporti di Siena. Sono stati inoltre esaminati gli statuti senesi redatti nel periodo in cui fu dipinta la Sala della Pace. Tali documenti rispecchiano i dibattiti che si svolgevano in questa sala, centro del governo cittadino, e nella adiacente Sala del Consiglio (fig.

3). Preziose indicazioni sulle idee su cui si fondava il programma si ricavano inoltre da un’accurata analisi delle parole chiave contenute nell’iscrizione della Sala della Pace (figg. 4, 25).

Nell’ambito di questi studi dedicati all’iconografia della Sala della Pace potrà essere riservata solo un'attenzione sporadica alla resa formale delle idee iconografiche. La mia analisi degli aspetti formali degli affreschi si limiterà all’individuazione degli elementi significativi per interpretare il simbolismo della luce e del colore e i tre livelli semantici del linguaggio visivo: a) la visualizzazione concreta della politica senese, b) la resa per simboli della dottrina dello stato e c) la sublimazione mitologico-astrologica di una dottrina politica.

GUARDATE

COME

È DOLCE

VITA E RIPOSATA

L'iscrizione spiega il contenuto dell'affresco della Sala della Pace: guardate come è dolce la vita nella città che è l’immagine ideale di Siena! Scegliendo il concetto guida di «dolce vita», il governo senese si propone un obiettivo ambizioso. Nella Divina Commedia questo termine è infatti utilizzato unicamente come sinonimo della Gerusalemme celeste.” «Di questa dolce vita e dell’opposta»: così l’Alighieri definisce nel Paradiso il contrasto fra Cielo e inferno.£ La terminologia di Dante segue la tradizione teologica, di cui citeremo due esempi. Sant Ambrogio parla di «dulcis illa vita quae non habet mortem», e Ildegarda di Bingen esclama: «O dulcis vita et o dulcis amplexio aeternae vitae». Per i teorici politici due- e trecenteschi la vita nello stato

perfetto è considerata «summa suavitas». Tolomeo da Lucca utilizza questo termine nella continuazione del De regimine principum di Tommaso d'Aquino per rispondere alla domanda «in quo consistat perfecta politia, ex qua accipitur felicitas politica».” Richiamandosi a sant'Agostino e ad Aristotele, Tolomeo indica come termini di confronto

della “dolce vita” «cantus suavis e ordinatus motus»:

Unde Augustinus dicit in tertio de civitate dei, quod respublica sive civitas bene disposita melodiae vocibus

comparatur, in qua diversis sonis proportionatis ad invicem fit cantus suavis [...]. Et hinc pythagorici moti fuerunt in

caclestibus corporibus ponere melodiam, ut philosophus [Aristotele] dicit in secundo de caelo, propter ordinatos motus quos habent [...], unde insurgit summa suavitas: [Ea ergo sic politice vivere perfectam et felicem vitam facto

Conformemente all'esempio di Agostino, Aristotele e Tolomeo da Lucca, il «cantus suavis» e l’«ordinatus motus»

245

PITTURA

- MEDIOEVO

1. Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo e Siena città ideale, Siena, Palazzo Pubblico, Sala della Pace

caratterizzano l’immagine simbolica della “dolce vita” raffisurata al centro della città ideale: il gruppo di fanciulle danzanti (figg. 4, 5, tavole xxx, xxx). Le danzatrici sono da collegare con la divinità planetaria Venere — raffigurata danzante sopra di esse nella cornice dell’affresco (fig. 4) — la quale, secondo il celebre astrologo del primo Trecento Cecco d’Ascoli, assicura le fortune politiche dello stato senese: «In civitatibus que sunt subposite sive edificate sub

ipso [sotto l’influsso del pianeta Venere e del segno del toro], ut [...] in civitate Senarum [...] populus regnat et regnabit in futurum [...] et nunquam destruetur [...]».! Nell'immagine delle figlie di Venere che incarnano la bellezza della “dolce vita” (fig. 5) il pittore immortala anche la bellezza delle donne senesi. Cecco d’Ascoli scrive infatti: «Domine sunt pulcre quia Venus significat mulieres; et in Civitate Senarum accidunt isti actus et precipue pulcritudo mulierum».!? Nell’Italia del Trecento il concetto di “dolce vita” non può prescindere dalla bellezza anche fisica.

Con le parole «volgiete gli occhi» l'iscrizione della Sala della Pace esorta a confrontare la veduta cittadina con l’allegoria del Buon Governo dipinta sulla parete adiacente (fig. 1, tavola xx1v). Pari in bellezza alle danzatrici (fig. 5) è soltanto la Pax (fig. 2, tavole xxrv, xxvi) raffigurata al centro dell’allegoria del Buon Governo, vestita con un abito candido e trasparente (sant Ambrogio: «nihil pulchrius dici potuit»).!# Con la formula «dolce vita e riposata» l'iscrizione invita a collegare l’allegoria della “dolce vita” con l’atteggiamento rilassato della Pax (figg. 2, 5). “Pace” e “riposo” sono infatti spesso sinonimi nel Trecento, come

attesta ad esempio l’antologia di arringhe diplomatiche di Matteo dei Libri e Giovanni di Vignano. Per augurare pace e bene, ai legati si consiglia la formula «bom sta’ e reponso de questo comune».!

Francesco da Barberino, poeta e iconografo toscano del

L'allegoria della “dolce vita” (fig. 5, tavola xxxn) e la figura della Pax (fig. 2, tavola xxvi) sono collegate nel programma iconografico della Sala della Pace dal superiore concetto di “concordia”. «Personae quae saltant et can-

primo Trecento, illustra pertanto l’allegoria della vita suave con il seguente appello al pubblico: «Guardate sua bellega quanto e grande!». E al suo illustratore ordina: «Tu qui pingere habes hoc loco figuras nota quod hanc dominam [l'incarnazione della “dolce vita”] habes pulcerimam pingere».!

«Chorus autem concordiam significat».!° E Isidoro, nella sua assai letta Etyzzologia, ribadisce: «Chorum dixerunt a concordia».! Gli statuti senesi individuano nella connessione tra pace e concordia il principale scopo del governo:

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di concordia:

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o: Pace 2. Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Govern

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3. Pianta del primo piano del Palazzo Pubblico. A = Sala della Pace (dove si riunivano i Nove). A 1= Allesoria del Buon Governo. A 2 = Siena città ideale. A 3 = Campagna senese. A 4 = Effetti del cattivo governo su città e campagna. A 5 = Allegoria del Mal Governo. B = Sala del Consiglio

«DOLCE

5. Città ideale: danzatrici

VITA»

PITTURA

- MEDIOEVO

«Dominus Potestas et domini Novem civitatem, Comune

et Populum Senarum ad veram pacem et rectam concor-

diam reducendi potestatem habeant et baliam».!$ Da qui il monito rivolto ai Nove al momento di prestare il loro giuramento: «Dovete provedere chel Commune et popolo della Magnifica ciptà de Siena sia et sia conservato in bona pace et concordia».!? Con questo obiettivo Siena segue la

dottrina dei più autorevoli teorici dello stato. La prima re-

250

gola per ottenere il bene comune («bona vita multitudinis») è per Tommaso d’Aquino l’unità nella pace, «ut multitudo in unitate pacis constituatur».?° Il fiorentino Remigio de’ Girolami formula nel primo Trecento il seguente principio politico: «Pax patrie est finis simpliciter ultimus et perfectus».?! Con la “dolce vita” il governo senese promette letteralmente il paradiso in terra. Il «cantus suavis» e l’«ordinatus motus» (fig. 5) annunciano la «summa suavitas», lo stato perfetto che prospera in eterno ed è protetto dalla divinità planetaria Venere. La «dolce vita e riposata» fa di Siena un regno di pace fondato sulla concordia (figg. 2, 5, tavola 0.6) Il tenore della propaganda per immagini corrisponde alla dichiarata coscienza di sé dei Nove, i quali, parallelamente alla decorazione pittorica della Sala della Pace, progettano un’altra immagine simbolo del «felice stato»: il grandioso ampliamento del Duomo. «Siena era in questo tenpo in grande e felice stato e per questo i Sanesi comincioro il grande e nobile acrescimento de la lor chiesa magior cattedrale del duomo», spiega il cronista Agnolo di Tura. L’aspirazione all’eternità annunciata dall’iconografia della Sala della Pace è ribadita dai Nove nei coevi statuti: «Hac lege incommutabili et in perpetuum valitura sancimus: quod officium dominorum Novem [...] sit et esse debeat in perpetuum in civitate Senarum pro gubernatione et defensione boni et pacifici status civitatis et comitatus et iurisdictionis Senarum».?* La forte coscienza di sé dei Nove si manifesta in maniera esemplare nella politica finanziaria. Mentre Firenze sul finire degli anni trenta combatte con un rapido aumento del debito pubblico, che nel 1338 raggiunge la cifra esorbitante di 450.000 fiorini (dieci volte gli oneri esistenti all’inizio del secolo) il 22 settembre 1338 Siena — molto più debole sul piano economico e politico ma tanto più millantatrice — formula il progetto, audace ma alla fine illusorio, di estinguere l’intero debito pubblico nell’arco di tre anni.?° Conformemente alla propaganda politica e iconografica

dei Nove, Agnolo di Tura — il cronista al loro servizio — descrive la Siena del 1337/38 come uno stato in cui regnano la pace, il benessere e la felicità: «La città di Siena era in questo tenpo pacifico e grande stato e felicità, e la pecunia erano abondanti per le più persone».?” GUARDATE QUANTI BEN’ VENGAN DA LEI «Quid est civitas?»: richiamandosi ad Aristotele, molti teorici due- e trecenteschi dello stato definiscono la natura della città. Le loro affermazioni si rivelano determinanti

per comprendere l’immagine di città dipinta da Ambrogio Lorenzetti (fig. 4). Il confronto tra testo e immagine qui proposto si basa sull’analisi del libro terzo del De regimi ne principum di Egidio Romano. Sia l’autore in persona che il suo trattato, uno dei libri più letti del tardo Medioevo, erano noti nella Siena due-trecentesca, dove

Egidio soggiornò nel 1295. Due suoi scritti sono dedicati a Tavena Tolomei, figura eminente di una delle più influenti famiglie senesi.? Una delle prime traduzioni italiane del De regimine principum è decorata con miniature del pittore Rinaldo da Siena, al quale è attribuita fra l’altro una

tavola di “Biccherna” (rilegature lignee dei libri contabili dello stato senese) datata 1278.?° Nell’iscrizione della Sala della Pace, le parole «dolce vita e riposata» sono precedute dal termine «beni». L'osservatore degli affreschi è invitato a prestare un'attenzione particolare ai “beni” raffigurati nell'immagine cittadina: «Guardate quanti ben vengan da lei [dalla buona signoria] e come è dolce vita e riposata quella de la città [...]». Anche Egidio Romano utilizza il termine «beni» per definire la natura della città: «Narrat quidem Philosophus [Aristotele] 3. Politica, volens diffinire quid sit civitas, sex

bona [nella traduzione italiana del tardo Duecento «sei beni»]?! ad quae civitas ordinatur».?? Iconografia e trattato politico coincidono non soltanto nella scelta del termine, ma anche nella sequenza e nella descrizione dei «beni».

Egidio Romano distingue fra «delectatio» e altri cinque «beni» che servono ai «necessaria vitae». Nell’iscrizione dell’affresco di Ambrogio Lorenzetti l’esito del buon governo è definito con le parole «utile, necessario e di diletto».

Al «primo bene» di Egidio — «il gran diletto e la grande allegrezza di vivare in comunità»? — fa riscontro l’immagine delle danzatrici simboleggianti la gioia della concordia (fig. 5, tavola xxx). Alla poesia della “dolce vita” segue la concretezza economica: «Secundo civitas est constituta non solum propter iocunde et delectabiliter conversari, sed propter ipsum vivere. Nam homines in eadem civitate existentes deserviunt sibi ad vitam, et unus alteri subvenit in iis quae sunt necessaria vitae».4 La descrizione del secondo «bene» contiene un elenco di mestieri. Egidio menziona i fabbri e gli operai tessili (figg. 8, 22, tavole xxx1v, xxxvi),} il fiorentino Remigio de’ Girolami — trattando lo stesso argomento — rimanda ai maestri di pietra e legname e ai sarti (figg. 4, 7)°° e il Lorenzetti integra la lista dipingendo calzolai e orafi (figg. 4, 6, tavola xxxv). Il «terzo bene», l'attitudine alla difesa,” è sottolineato nell'affresco dalla vistosa presenza delle mura cittadine (fig. 4, tavola xxx1v). «EI quarto bene per lo vendere e per lo comprare e per fare mercati, o somiglianti cose, le quali bisognano alli uomini ei quali non potrebbero fare se fussero o dimorassero soli».?* Alla raffigurazione del commercio è dato ampio spazio nell’affresco di Ambrogio. In primo piano si riconoscono calzolai e commercianti di generi alimentari (figg. 4, 6), sul mezzo fondo i banchi degli orafi e dei mercanti di stoffe (figg. 4, 9, tavola xxx1v). Della «commutatio» fa parte anche il commercio al minuto: una vecchia contadi-

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- MEDIOEVO

7. Città ideale: la costruzione della torre in mattoni

na si reca al mercato con un pollo e un contadino con un paniere di uova, mentre una ragazza di campagna porta in

equilibrio sul capo una cesta piena di lana (fig. 4). Il quinto punto mostra la coincidenza più sorprendente tra l'affresco di Ambrogio e il testo di Egidio: «El quinto bene, al quale le città [...] sono ordinate si è, per li matrimoni;

xxxv), alla cui importanza iconografica dedicheremo pertanto un capitolo a parte.#

CASAMENTI BISOGNEVOLI

BELLISSIMI

PIENI

DI MOLTE

ARTI

che stando gli uomini insieme per li matrimoni doventano

amici e parenti e benevoglienti».?? Simile è la motivazione data dai teorici dello stato e dal pittore al «bene» del matrimonio: Egidio sottolinea il potere di coesione che questo esercita sulla società urbana, e nell’affresco di Ambrogio la sposa a cavallo (fig. 4, tavola xxx) fa riscontro alle danzatrici simboleggianti la concordia (tavola xxx).!° «Il sesto bene si è [...] chè quando li uomini dimorano e stanno insieme, ei malfattori possono e sono meglio puniti e meglio costretti, dond’ellino s’astengono più di mal fare e s'accostumano a ben fare, per paura ch’elli anno d’essere puniti».4! Nell’iconografia della Sala della Pace la funzione intimidatoria della giustizia punitiva si incarna nella Securitas che si libra su città e campagna con una forca nella mano sinistra (fig. 25, tavola x1v). I sei «bona» elencati da Egidio Romano ci forniscono una descrizione completa dell’iconografia dell'immagine cittadina della Sala della Pace, con un’unica quanto significativa eccezione: manca l’Università (fig. 12, tavole xxxv,

Nell'immagine di Siena città ideale (fig. 4, tavola xxx) si possono individuare vari luoghi comuni del coevo genere letterario della /audatio urbis. La descrizione di Firenze redatta all’inizio del Trecento da Dino Compagni sottolinea, al pari dell'affresco del Lorenzetti, l’influsso del pianeta sotto il cui segno sarebbe stata fondata la città. Anche Dino, come Ambrogio, esalta la bellezza delle donne (fig. 5, tavola xx), ma il sommo elogio del pittore e del cronista va ai «casamenti bellissimi pieni di molte bisognevoli arti». Dino Compagni narra di “turisti” giunti a Firenze da molto lontano per studiare le bellezze architettoniche e il fiorente commercio: «Per la quale cosa molti di lontani paesi la vengono ad vedere, non per necessità, ma per bontà de’ mestieri e arti, e per bellezza e ornamento della Citta

Il topos, ricorrente nell’elogio delle città, dell’intensa attività edilizia è visualizzato da Ambrogio nella scena della costruzione di un'imponente torre in mattoni (figg. 7, 17),

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8. Citt à ideale: lanaloioli

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Ein 9. Città ideale: mercanti di stoffe

10. Mercante di stoffe fiorentino, Stratto delle Porte, Libro di Gabelle fiorentine, Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 2526, fol. lv

dove i muratori si distinguono così bene dai manovali e dalla giornaliera — riconoscibile dalla veste cinta sotto il seno — che a tutt'oggi potremmo, con l’ausilio dei libri contabili dell'Opera del Duomo senese scritti negli anni trenta del Trecento, calcolare l'ammontare giornaliero delle paghe (la donna manovale guadagnava la metà di un uomo

delle città, ma anche come un manifesto della politica economica senese. Negli anni trenta i Nove nominano un comitato di esperti, rinnovato periodicamente, con il compito «ad perquirendum et inveniendum vias et modos et formas inveniendum quibus artes civitatis Senarum et maxi-

manovale).4 Giovanni Villani, nel suo ritratto della città di

Firenze scritto nello stesso periodo in cui fu dipinta la Sala della Pace, elogia la situazione edilizia: «Ell’era dentro bene albergata di molti belli palagi e case, e al continovo in questi tempi s’edificava, migliorando i lavori di fargli agiati e ricchi».4? Significativamente, i cronisti senesi collegano l’intensa attività edilizia nella loro città al binomio “pax” — “concordia”: «E perchè la città stava in grande pace, molti begli palazi e chasamenti si principoro».# Al pari del Lorenzetti, anche l’iconografo e poeta Francesco da Barberino interpreta tale fervore costruttivo come un criterio per distinguere tra buon governo e tirannide (figg. 4,35, tavola xxx):

Nela terra del tiranno folli son quey che vi stanno e se pur vi vuoli stare non curar dedificare ma nascoso il tuo raccogli fa ragion cognor ti spogli fin che dio con sua potenga contro lui dra la sentenga.!”

I «casamenti bellissimi, pieni di molte bisognevoli arti» non vanno tuttavia intesi solo come un zopos dell’elogio

me ars lane aumententur et bonificentur».# Il sostegno maggiore va in primo luogo a quei mestieri che, come la corporazione dei tessitori (fig. 8, tavola xxxvI), assicurano posti di lavoro numerosi e produttivi: «Anco, conciò sia cosa che l’arte de la Lana molto sia utile ne la città di Siena, et molte povare persone per lo ministerio de la detta continuamente si sostentino [...]».!° Si stenta a cogliere appieno l’importanza dell'Arte della Lana nella Siena del secondo quarto del Trecento. Annualmente vengono prodotti da 2700 a 9000/10.000 panni larghi m 1,5 circa e lunghi m 30 circa. Il confronto con le

corrispondenti cifre fiorentine mostra quanto la produzione laniera senese fosse ancora in via di sviluppo e quanto l'Arte della Lana avesse bisogno di sostegno politico (e dunque anche iconografico). Firenze, il cui numero di abitanti nel primo Trecento è all’incirca il doppio di quello di Siena, alla fine degli anni trenta produce annualmente da 70.000 a 80.000 panni di formato simile e di qualità superiore, per un valore di 700.000 fiorini. I salari pagati dall’Arte della Lana fiorentina danno da vivere, riferisce Giovanni Villani, a oltre 30.000 abitanti. L'Arte della Lana gode a Siena di numerosi privilegi. È consentito lavorare nei giorni festivi.?? Vi sono poche pos-

sibilità di appellarsi contro le decisioni del tribunale della corporazione,” i cui verdetti vengono eseguiti, se necessa-

rio, con l’aiuto della milizia cittadina. L'Arte della Lana

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11. Città ideale: gruppo di case n el centro cittadino

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12. Città ideale: Università

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ha diritto di parola in alcuni importanti organi politici, per esempio nel comitato creato al fine di limitare la spesa pubblica. I legati senesi promuovono il commercio con l’estero della corporazione dei lanaiuoli «per onore, bene,

utilità et agevoleza de [...] li detti lanaiuoli, le quali cose tutte tornano a buono onore et agevoleza del comune di Siena e de’ sui cittadini».° Nel 1334 viene emanata una legge per rafforzare l'Arte della Lana, con la motivazione seguente: «Quia experentia, rerum

magistra, efficaciter

257

docet [...] quod ars lane [...] civitates [...] multipliciter exultat [...], ad hoc ut ex ea [...] civitas Senarum perfec-

tius aumentetur et ministerium artis lane augeatur [...] in civitate predicta, providerunt [...]». Questa norma viene successivamente inclusa negli statuti redatti negli anni 1337/39, cioè nello stesso periodo degli affreschi del Lorenzetti.”” Per incrementare il volume della produzione e il

peso della corporazione dei lanaiuoli, il nuovo decreto autorizza l’apertura esente da tasse di nuove manufatture. Con parole intenzionalmente complicate e oscure vengono prese misure protezionistiche volte a escludere la concorrenza, in particolare quella fiorentina, e sette anni più

tardi si dichiara apertamente : «[...] fullo conceduto ed essa università e lanaiuoli [...] che altri panni, come fiorentini e altri panni forestieri non potessero venire né es-

sere tenuti nela città di Siena». La strada raffigurata al centro della città dipinta nella Sala della Pace (fig. 4, tavola xxx) è totalmente dominata dall’Arte della Lana e dalle attività a essa affini. Accanto alla bottega dei lanaiuoli (fig. 8) si trova quella del tessitore di lino, che offre in vendita tele a righe nere. Il mercante di stoffe che, con le mani appoggiate a una pila di tele vario-

13. Sigillo del giurista Federico Petrucci (Siena, Archivio di Stato,

Diplomatico Riformagioni, 31. 3. 1327)

pinte, lavora davanti a un palazzo decorato da bifore,

protegge la sua preziosa merce dalla luce e dalla polvere della strada con un tendone grigio (fig. 9). Di fronte lavora un sarto, la cui bottega è segnalata dai pantaloni bianchi e dalle camicie rosse appese all’esterno (fig. 4, tavola XXX).

La posizione privilegiata dell'Arte della Lana è indicata nella scena cittadina anche da particolari significativi. Nella seconda bottega dei lanaiuoli posta nei pressi della porta (fig. 8, tavola xxxv1), è raffigurato l’intero processo produttivo, dalla cernita della lana grezza fino all'ultima fase della smollettatura (la correzione di piccoli difetti di tessitura con uno strumento simile a un coltello). L’artigiano che esamina le stoffe su una tavola messa di sbieco lavora, contrariamente a quanto prescritto dagli statuti senesi, sulla pubblica via («che neuno stia a lavorare fuore de la bottiga, di non tenere cose fuore de le finestre [...] ne le vie publiche»). Per ottenere questo privilegio, iconograficamente accordato negli affreschi della Sala della Pace (fig. 4, tavola xxx), l'Arte della Lana combatte fin dal 1298. Nel 1341, cioè due anni dopo il com-

pletamento degli affreschi, la corporazione rinnova l’istanza «quod ipsi lanifices ante apotecas [...] habere possint [...] discos et discarellos, vaglios et corbes».® All’osservatore odierno può apparire strano il diretto collegamento compositivo fra le danzatrici simboleggianti il binomio politico “pax” — “concordia”, poste in risalto dalle proporzioni maggiori (fig. 5, tavola xxxm), e le scene

14. Agostino di Giovanni, Lezione universitaria, Tomba di Cino da Pistoia, Pistoia, Duomo

di vita quotidiana dei mercanti e degli artigiani (fig. 4, tavola xxx). Ma nell’ottica degli statuti senesi la connessione fra “artes” e “pax” — “concordia” è densa di significato. I rappresentanti delle “artes” si impegnano, con un giuramento di fedeltà da rinnovare ogni anno, a proteggere e difendere “pax” e “concordia”: «Statuto [...] è, che li consoli de la Mercantia et li loro sottoposti et li signori de l’arti et li loro sottoposti, et li consoli de l’arte de la Lana et li loro sottoposti [...] debiano mantenere et difendere [...] l’officio de? Nove [...] et alloro dare aiutorio [...] con l’arme et

PITTURA

- MEDIOEVO

senza l’arme, di die et di notte, ne la città di Siena et di

258

fuore [...] et sieno tenuti et debiano la pace et la tranquillità et unità [...] difendere et mantenere». E l'Arte della Lana (fig. 8, xvi) promette nei suoi statuti «di dare studio et u6pera che pace sia ne la città di Siena». Trovano così un senso anche la predilezione iconografica per i calzolai — una “arte vile” — raffigurati in primo piano (fig. 6, tavola xxxv), e la vistosa assenza della ricca corporazione dei macellai. A Siena i beccai erano considerati dal 1318, cioè dal tentativo di sommossa attuato in combutta con i notai e con la ricca aristocrazia, i peggiori traditori.8 Poco dopo il fallimento della rivolta, i Nove redigono un dispaccio «quod quidam notarii et carnifices Senenses dei et hominum inimici cum suis complicibus [...] volentes statum pacificum Civitatis

subvertere

contra

Nos

et gentem

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Senarum bellum inierunt in Campo Fori, et tamquam prodictores clamantes moriantur Novem [...]».0® I beccai si proponevano di assegnare l’incarico di podestà non più a un cavaliere forestiero, come era avvenuto finora, bensì al nobile senese Sozzo di Deo Tolomei. La cadu-

ta dei Nove avrebbe prevedibilmente portato alla signoria di una famiglia senese, con ogni probabilità i Tolomei. In tal modo Siena, come già tanti stati italiani, sarebbe caduta in balìa di quella tirannide condannata come opera del demonio negli affreschi della Sala della Pace.”® I Nove distruggono il potere dei macellai in fatto di politica interna sciogliendo la loro corporazione.”! Dopo l’entrata in carica di ogni nuovo podestà il Consiglio Generale si dovrà riunire per discutere il punto «super facto carnificum [...] et super ipsorum malis operibus».?? Il capitano del Popolo interroga ogni mese sessanta cittadini in merito a eventuali malefatte di questi «delinquentes».?? I macellai, icui banchi occupavano a Siena le migliori posizioni prima della rivolta, non soltanto non compaiono più nell'immagine della città ideale della Sala della Pace (fig. 4, tavola xxx), ma dal 1318 vengono anche sempre più emarginati fisicamente dal centro («Nullus carnaiolus [...] possit stare [...] in Campo Fori [...] nec in via de Porrione ad ecclesia Sancti Martini circa versus dictum Campum [...]»).?4 Il ricordo delle atrocità commesse da questi «delinquentes» è ancora ben vivo all’epoca della decorazione della Sala della Pace, come attestano gli statuti senesi redatti nel 1337/39”: «Privati intelligantur omni nomine iuris et effectu universitatis nec possint in perpetuum facere aliquam cohadunationem, consilium, coniurationem, conventiculam seu septam [...]».7° I calzolai, la cui «arte vitoperosa» è disprezzata dai bor-

Si scuperse uno trattato in Siena che faceano certi carnaiuoli con misser Agnolo di misser Granello de’ Talomei e misser Nicholò di misser Curado de’ Talomei [...]. Il qual trattato fu scuperto da uno calzolaio che si chiamava Sanese [...], il quale andò a’ signori Nove segretamente a scuprire il detto trattato come i detti carnaiouli cogli altri doveano entrare in palazo e ucidare i signori Nove [...].8°

STUDIUM

GENERALE

Ambrogio Lorenzetti interrompe la sequenza delle “artes” dove meno ce lo aspetteremmo: fra la bottega del calzolaio e il banco dei generi alimentari non ci sono altri laboratori o botteghe, bensì l’Università (figg. 4, 12, tavola xxxv). L'assenza di un edificio segnatamente universitario non contraddice affatto tale lettura iconografica. Nella prima metà del Trecento a Siena tutte le lezioni si svolgono in case private. Il giurista Paolo Liazari insegna nella casa di Cecco di Bartolomeo, Tommaso Corsini nel palazzo di Riccardo Petroni, il filosofo Taddeo nella casa del notaio Duccio di Buonfigliolo, e così via.5! Che si tratti di una lezione universitaria e non, come più volte affermato, di una classe elementare si evince dal con-

fronto con altre due opere: il rilievo raffigurante una lezione del celebre giurista Cino da Pistoia — anch'egli per alcuni anni docente dello studio senese — realizzato dallo scultore senese Agostino di Giovanni quasi contempora-

neamente agli affreschi della Sala della Pace (fig. 14)® e l'impronta cerea del sigillo datato 1327 del giurista Federico Petrucci, docente “in decretabilibus” a Siena (fig. 13).® Si notino in particolare i rapporti proporzionali simili tra professore e studenti nel sigillo (figg. 12, 13), nonché la stessa disposizione degli studenti e l'abbigliamento simile del docente nel rilievo di Agostino di Giovanni (figg. 12, 14). Il sostegno a «scienza, virtù e beni temporali» è per Egidio Romano uno dei segni principali di buon governo.* Questi tre concetti svolgono un ruolo fondamentale nell’iconografia della Sala della Pace. Le Virtutes affiancano l’allegorica figura paterna del Buon Governo (fig. 1, tavola xx11), i«beni temporali» sono presenti nei «casamenti bellissimi pieni di molte bisognevoli arti» (fig. 4, tavola xxx) e la «scienza» è rappresentata sia nell’affresco di Ambrogio (fig. 12), sia nel trattato di Egidio dall'immagine dello Studium generale: «Donde e ‘l re die fare, che nel suo reame abbia molti savi uomini, e ched e’ v’abbia grande studio, e che vi si legga in diverse scienze».

ghesi come un lavoro sporco,” occupano invece una posi-

Quest'ultimo elemento è sottolineato nell’affresco della

zione iconograficamente dominante, in primissimo piano (figg. 4, 6, tavola xxxv). Fra gli altri è a loro che si deve infatti la salvezza del governo senese. In occasione del colpo di stato ordito dai macellai in combutta con i notai e la consorteria dei Tolomei è un calzolaio il primo ad avvertire della minaccia i Nove,” che lo ricompensano con una pensione onoraria di 200 fiorini, equivalente al valore di una piccola casa in città. Nel 1325 i macellai cospirano nuovamente con i Tolomei contro i Nove:”° e di nuovo è un calzolaio a salvare il governo:

Sala della Pace dalla rappresentazione delle discipline scientifiche. L'immagine dell’Università (fig. 12) si basa sulle Artes Zberales raffigurate nella cornice inferiore dell’immagine della città (fig. 4, tavola xxx), mentre l’affresco della tirannide sulla parete di fronte è incorniciato da scene di assassinio e di violenza (tavola Ln). Anche questo contrasto trova riscontro nell’argomentazione di Egidio Romano. Nel De reginzine principum si legge che il buon sovrano si distingue come amico dei sapienti e sostenitore dello studio, mentre il tiranno «sapientes destruit et inhi-

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20. Siena, Via Cecco Angiolieri 40

21. Siena, Via Cecco Angtolieri 8

bet studium».8° Si noti come anche in tale contesto svolga un ruolo centrale il concetto, determinante per l’iconografia della Sala della Pace, del “bonum commune”: «Rex [...] studium promovet et conservat, videns quod per ipsum, bonum commune et bonus status regni, quem principaliter intendit, meliorari habet». L'illustrazione di tesi riprese dalla dottrina dello stato è sempre attualizzata nella Sala della Pace attraverso la rappresentazione di problemi concreti. La città raffigurata è un'immagine ideale di un Comune ben governato e al contempo un ritratto di Siena. La combinazione di questi due piani iconografici fa sì che l’attualità acquisti un significato sovratemporale e le idee astratte un concreto contenuto politico. In tal senso l’immagine della “sapienza” (fig. 12) non rimanda solo alla teoria del buon governo, ma anche alla politica senese del momento nei confronti dello studio. All'epoca in cui viene dipinta la Sala della Pace l’interesse dei Nove si rivolge nuovamente all’Università, nella speranza di far rivivere quel periodo aureo tra il 1321 e il 1326 in cui i Nove si erano distinti per la prima volta come appassionati fautori dello Studio. Allora essi avevano saputo sfruttare abilmente il momento di crisi dell’Università di Bologna, in conflitto con la Curia,$8 per attirare l'interesse di professori e studenti su Siena. La trasformazione della modesta università di provincia nel celebre Studium generale fa promossa con ingenti mezzi finanziari. Soltanto nel 1321 i Nove spesero per l’università

«DOLCE

di Siena 6000 fiorini, cioè l'11,7 per cento di tutti i proventi dello stato.8? Furono assunti dei reclutatori,” acqui-

stati molti costosi libri di testo," promessi elevati compensi ai docenti, restaurati alloggi per studenti e professori, garantiti ai nuovi membri dello studio particolari privilegi.? Gli sforzi dei senesi furono coronati dal successo. Il risultato si può misurare non solo dal numero di professori e studenti passati da Bologna a Siena, ma anche dalla reazione dei bolognesi. Il 7 ottobre 1321 la politica senese nei confronti dello studio fu oggetto di dibattito nel Consiglio del Comune emiliano: «Quia Senenses, ut acquirant honorem Studii civitatis Bononie et quem obtinuerunt ferre mille annis decursis cum magno honore et augmento status bononiensis populi et comunis, multam pecuniam expendiderunt et expendant et tam in doctoribus quam aliis et credunt utile fare pro eorum statu et in diminutione tanti honoris habiti longissimo tempore per Comune Bononie [...]».® Tale fu l’ira dei bolognesi che si giunse alla persecuzione legale dei professori infedeli. Il giurista Paolo dei Liazari, trasferendosi a Siena, rischiò una condanna per alto tradimento. Se non fosse ritornato immediatamente non soltanto avrebbe perduto i propri beni, ma il suo ritratto sarebbe anche stato affisso con ignominia a tutte le porte della città e nel palazzo del Comune come «turbator Studii».?

Gli sforzi per rilanciare lo Studio senese, ricaduto dopo il 1326 a livelli provinciali, procedono in sincronia con la decorazione della Sala della Pace. Le date degli affreschi di Ambrogio Lorenzetti (fig. 1) sono ben documentate. Il contratto per l’opera non ci è pervenuto, ma esso deve necessariamente precedere il primo acconto del 26 febbraio 1338. Le ricevute dei pagamenti, effettuati con scadenza bi-trimestrale, sono invece tutte conservate. Il saldo finale reca la data 29 maggio 1339.” L'elaborazione del programma iconografico degli affreschi avviene all’inizio del 1338, cioè in esatta concomitanza con l’avvio della nuova politica nei confronti dello Studio. Le speranze senesi vengono rinfocolate da una nuova crisi dell’università bolognese: il 2 gennaio 1338 la Curia minaccia di revocare i privilegi a quell’università,” rea di aver cacciato il cardinale legato Bertrando del Poggetto (cosa che effettivamente avverrà due mesi dopo).” Siena reagisce con fulminea rapidità. Il 28/29 gennaio 1338 vengono stanziati 1000 fiorini per avviare trattative volte a ottenere una bolla papale per lo Studio senese. AI fine di realizzare immediatamente un'alternativa all’Università di Bologna, i Nove modificano di conseguenza la loro tradizionale dottrina. Fino a quel momento, forti delle tesi di

Paolo dei Liazari, Giovanni d'Andrea e Cino da Pistoia, i

Nove avevano infatti affermato di non avere bisogno di privilegi papali o imperiali, in quanto lo Studi generale di Siena sarebbe esistito «de antiqua consuetudine cuius contraria memoria non existit».”

Nella primavera 1338 hanno inizio le trattative fra Siena e gli studenti bolognesi. Il 6 maggio il “Consiglio Grande” di Siena ratifica un accordo in ventiquattro articoli con la «universitas scolarium qui studebant Bononie».!® A quel

VITA»

tempo il programma pittorico della Sala della Pace è ormai realizzato per almeno un quarto (il giorno prima della firma dell'accordo con gli studenti bolognesi Ambrogio riceve il secondo dei suoi sei pagamenti). Neanche il cambiamento intervenuto nell'ottobre 1338

nella politica della Curia!" comporta una rinuncia all’accentuazione di questo tema iconografico. Nonostante la revoca dell'interdetto contro Bologna e di conseguenza la mancata 72igratio di studenti e professori da Bologna a Siena, i Nove si mantengono tenacemente fedeli alle loro vecchie decisioni. Il 4 gennaio 1339 inviano Giovanni de Riparia e Fra Enea dei Tolomei presso la Curia «pro habendis privilegiis Studii»,!® facendo appello al gran numero di cittadini favorevoli alla loro politica: «Cum per multos bonos cives Senenses domini Novem predicti multum sollicitati sunt et rogamina eis facta quod fiat in civitate Senarum, sit et ordinetur generale Studium in omni facultate».!%

Nel periodo dell’ultimo pagamento al Lorenzetti, il Consiglio emana quattro statuti per il rafforzamento dello Studio. I professori originari di Siena sono tenuti a insegnare nella loro città (12. 2. 1339);'* vengono migliorati i privilegi degli studenti (19. 2. 1339);!® il canonico senese Vanni Paparoni, camarlengo del potente cardinale Napoleone Orsini, viene fatto intervenire presso la Curia in di-

fesa dei progetti per l’Università di Siena (20. 2. 1339);!9% i Nove rivolgono un'istanza al re Roberto d'Angiò «quod in favorem comunis Senarum de dicta materia dignetur scribere domino Pape quod privilegia Studii generalis dignetur concedere civitati Senarum» (26. 2. 1339).!”

LA BELLEZZA

DE LA CITTÀ

La cura dell'immagine cittadina (fig. 4, tavola xxx) è considerata nella Siena della prima metà del Trecento una delle priorità del governo: «Intra li studii et sollicitudini e’ quali procurare si debiano per coloro, e’ quali ànno ad intendere al governamento de la città, è quello massimamente che s'intende a la bellezza de la città».!° Una commissione valuta i progetti edilizi del Comune sotto l’aspetto della «maior pulcritudo civitatis». Persino la costruzione delle strade è giudicata sia sulla base della “utilitas”, sia secondo il criterio della “pulcritudo”.! Un esempio è la realizzazione, all’epoca in cui fu dipinta la Sala della Pace, della piazza del mercato presso Porta Camollia.!!° Il progetto è finalizzato allo sviluppo economico («prosperità et acrescimento [...] et guadagni»), ma deve anche creare un «luogo a deletto et gaudio de li cittadini et de’ forestieri». Siena pratica una “promozione turistica”. Il bel mercato («molto bello et dilettevole») non dovrà attirare solo i mercanti, ma anche «forestieri, e’ quali vanno a l'altrui cittadi per cagione di deletto et allegreza».!!! La connessione tra “utilitas” e “dilectio” è sintomatica della propaganda politica dei Nove. Il triplice intento — «onore et utilità de la città», nonché «deletto et gaudio de li cittadini»!!? — corrisponde alla dottrina del Buon Governo enunciata nella Sala della Pace: «utile, necessario e di diletto».

263

PITTURA

228 (città idleale: case nei pressi della porta

- MEDIOEVO

«DOLCE

VITA»

L'argomento della “pulcritudo civitatis” è centrale persino quando si tratta di valutare interventi edilizi minimi. Una «porticciuola murata di terra» davanti a Porta Camollia deve essere eliminata, in quanto secondo l’autorità edilizia disturba il bel panorama sulla città («non potest videri pulcritudo Civitatis et portarum»).!! Una breccia nelle mura cittadine, che induce al contrabbando, deve essere riparata «tum pro fortificatione et pulcritudine civitatis tum etiam pro reparando fraudibus cabellarum».!!4 Gruppi di cittadini che si aspettano particolari vantaggi dalla costruzione di una nuova strada si presentano abilmente al Consiglio come «buoni huomini della città e quali si dilectano e vorrebbero l’aconcio della città».!! Che cosa intendono concretamente i Nove per «bellezza de la città»? Una prima risposta a questa domanda, essenziale per valutare l’immagine cittadina della Sala della Pace, ci viene da una perizia del novembre 1334 sulla costruzione della strada nei pressi del Duomo oggi chiamata Costa Larga.!! Gli «offitiales super pulcritudine, ornamentis et acconciamentis civitatis»!!” che valutano il progetto non sono degli esperti di questioni architettoniche, bensì rappresentano famiglie influenti sul piano politico ed economico. Il banchiere Baratuccio di Mezolombardo Maconi viene da una delle più ricche famiglie aristocratiche, Mino di Teri è membro di una famiglia molto vicina al Consiglio dei Nove.!!8 Il parere dei periti rispecchia dunque gli obiettivi urbanistici diffusi in ambienti autore-

265

voli. Gli offitiales esigono la costruzione di una strada

quanto più possibile larga e luminosa. Il credo urbanistico IN

dice: «Vie ampie, clare et commoditate constructe inter

Na

alias pulcritudines civitatum magis appareant».!!° Già nel tardo Duecento il governo senese fa chiudere alcuni vicoli stretti e bui.!°° Sei braccia (m 3,5) sono la larghezza minima prescritta per le strade cittadine. Bella è considerata una strada larga da otto a dodici braccia (da m 4,7 a m 7,1), in cui nessun avancorpo (sporto) sia di ostacolo alla lnestgizetra tà Ma una strada non deve essere soltanto ampia e luminosa: deve anche essere per quanto possibile diritta. Un termine tecnico particolarmente gradito ai documenti edilizi senesi è il verbo «diricgare». Sulla base di tale criterio vengono corrette soprattutto le strade maestre urbane: «Cum in quolibet Tergerio Civitatis strata magistra sit non modicum diriccata et in Tergerio Camollie in populo Sancti Stefani et Sancti Andree sit tortuosa et obliqua [...] statuimus [...], quod dicta via diricgari debeat et exemplari recta linea... Il terzo principio della «bellezza de la città» è il buono stato degli edifici e la qualità del materiale utilizzato. In base agli statuti senesi redatti nel 1337/39, un comitato di

È » A RI i::

ù

d

«sapientes viri et experti magistri» è incaricato di segnalare le case in cattive condizioni.!? Quelle costruite con ma-

teriale scadente devono essere rivestite con mattoni alme-

no in facciata, «ut tales domus reddant pulcritudinem ci-

Vitatis». 12% Questi tre criteri della «bellezza de la città» contraddistinsuono anche l’immagine cittadina di Ambrogio Lorenzetti

(fig. 4, tavola x00x). Le strade ben illuminate si snodano diritte come fusi. La larghezza delle strade maestre che cor-

24. Siena, Via dei Montanini 104

PITTURA

- MEDIOEVO

266

3

paco

(CPELA) DES MOLINO] OARSONRITE DEDE

25. Ambrogio Lorenzetti, Campagna senese idealizzata

rono parallele alla base dell'affresco, sulle quali si incrociano comodamente due colonne di muli carichi di merci (fig. 22, tavola xxx1v), corrisponde alla misura ideale di

otto-dodici braccia. I vicoli in salita hanno almeno la larghezza standard di sei braccia. Tutte le case sono in per-

fette condizioni. Al contrario, la maggior parte degli edifici della città dominata dalla tirannide raffigurata sulla parete opposta sono rovinati (fig. 35, tavola LI). La corrispondenza tra architettura dipinta e pianificazione urbana senese è interrotta da un elemento minore e tuttavia significativo. In base agli statuti senesi redatti negli anni 1337/39, per motivi di sicurezza non possono essere esposti vasi alle finestre o sulle terrazze: «Teneatur Potestas Senarum per totum mensem februarii facere tolli et destrui omnes [...] ortos sive [...] cestones vel concas pro ortis faciendis vel pro erbis ibi plantandis [...], qui sunt ad altum in domibus super [...] vias in civitate Senarum [...]».!® Nella città ideale tuttavia, questi segni della gioia di vivere della cittadinanza — pericolosi dal punto di vista della sicurezza civile — paiono addirittura favoriti. In base all’interpretazione di Francesco da Barberino, i fiori e la gabbia per uccelli appesa alla finestra del palazzo in primo piano (figg. 4, 7, 22, tavola xxx1v) sono simboli della “dolce Vita zio Grazie al catasto descrittivo degli immobili del 1317/18,

conservati quasi integralmente, risulta evidente la differenza tra città reale e ideale. Nella città ideale (fig. 4, tavola xxx) manca qualunque accenno ai 15.000 «pauperzbus qui vivunt in civitate Senarum in miseria infinita».!”” Il pittore ci mostra una città irrealmente ricca, composta esclusiva-

mente di edifici di un valore tra le 200 e le 700 lire (25% del patrimonio immobiliare senese), tra le 700 e le 1000 lire (3%) e oltre le 1000 lire (5%; fig. 2). Di fatto però nel primo Trecento il 67% di tutte le case senesi appartiene a una categoria estremamente modesta, cioè di valore inferiore alle 200 lire (prezzo medio di acquisto di tre cavalli).!8 Mentre Ambrogio decora la città ideale fin sotto le mura con palazzi e belle case (figg. 4, 22, tavole xx, xxx1v), nella Siena reale i quartieri situati vicino alle mura sono pieni di «domunculae, casettae, casellinae» e «domus terrae».!° Queste zone periferiche sono poco edificate nella Siena trecentesca,!° e di norma prive di negozi.!! Ambrogio estende a tutta Siena l’aspetto di due o tre dei trentasei “Populi” complessivi.5? Nel Popolo di San Paolo, comprendente la zona di Piazza del Campo, il 35% degli immobili raggiunge valori favolosi nell'ordine delle 1000-3000 lire (il valore massimo è di 18.000 lire), mentre una sola casa è stimata meno di 200 lire. La stessa struttura sociale caratterizza il Popolo di San Desiderio, situato tra il Campo e il Duomo (32% nella categoria tra le 700

«DOLCE

VITA»

26. Campagna senese: scritta rTaLaM[oNE]

e le 2000 lire).!* Analogamente all’affresco del Lorenzetti (fig. 4, tavola xxx), nel registro degli immobili di entrambi i quartieri al piano terreno dei palazzi compaiono spesso

negozi.! Quanto più ci si allontana dal centro verso le mura, tanto più la Siena del primo Trecento si presenta

spoglia. Nei quartieri di periferia costruiti lungo la Via Francigena predominano ad esempio i seguenti valori: Popolo di San Bartolomeo, 58% sotto le 100 lire, 21% tra le 100 e le 200 lire; Popolo della Magione, 63% sotto le 100 lire, 18% tra le 100 e le 200 lire.!” Che Ambrogio Lorenzetti non intendesse però fornire un dettaglio dei quartieri più ricchi, bensì un'immagine il più possibile estesa della città, si evince dalla localizzazione dei tre emblemi. Ai margini dell'affresco sono raffigurati due monumenti molto distanti fra loro: il Duomo e la porta decorata con la lupa, probabilmente identificabile con Porta

Romana (fig. 4, tavola xxx). A quanto mi risulta la letteratura storico-artistica non ha finora riconosciuto il terzo monumento-simbolo di Siena raffigurato sulla destra del centro del dipinto, la Torre del Mangia, che era in costruzione nel 1338/39 (figg. 7, 17). L’identificazione si basa su quattro punti: la pari altezza della torre raffigurata nell’affresco e di quella del Palazzo Pubblico com'era nel 1338/39:18 l'osservazione della forma dell’edificio, coincidente fin nel numero delle buche pontaie (figg. 17, 18); l'assenza di altre torri in mattoni di grandezza simile in costruzione a Siena in quel periodo; la coerenza con il tenore del programma pittorico dell'importanza della Torre del Mangia, vistoso simbolo della considerazione di sé e dell’immenso entusiasmo edilizio dei Nove. Bellezza e ricchezza della città vengono idealizzate, mentre

27. Campagna senese: cartiglio della “Securitas”

i tre emblemi e l’architettura dei palazzi e delle case di Siena sono riprodotti fedelmente. Quattro esempi confermeranno il realismo con cui sono raffigurati i vari edifici. La finestra in cima alla torre in pietra raffigurata in primo piano (fig. 19) è del tutto somigliante a quella — di un tipo presente anche in altri edifici senesi — della casa in Via Cecco Angiolieri 40 (fig. 20): un’apertura rettangolare stretta e alta architravata, sormontata da un arco a sesto acuto, il cui timpano cieco è incorniciato da nove conci cu-

neiformi. Forma e proporzioni delle grandi finestre al pe-

PITTURA

- MEDIOEVO

nultimo piano della stessa torre (fig. 19) trovano un riscon-

tro in Via Cecco Angiolieri 8 (fig. 21). La casa addossata

268

alla porta (fig. 22, tavola xxx1v) è confrontabile con fotografie degli edifici in Via dei Montanini 104 (fig. 24) e in Via di Calzoleria 32-34 (fig. 23). La somiglianza tra l’affresco e l'architettura senese medioevale si basa sulla ripresa fedele dei particolari (figg. 19-24), sull’evidenziazione del materiale edilizio e dello spessore dei muri (figg. 19, 2224), nonché su un calcolo delle proporzioni straordinariamente esatto per un dipinto del primo Trecento (compreso il rapporto fra altezza del portale e altezza delle figure; fig. 22, 24). Politicamente significativo è il motivo ricorrente della

torre gentilizia in pietra rialzata in mattoni (cfr. ad esempio Via di Calzoleria 28-30; figg. 7, 16). La sovrastruttura in mattoni indica un riutilizzo per scopi borghesi e comunali? («La tore de’ Bandinelli e la tore de’ Rossi in Siena si guardavano per lo comuno di Siena, et stavavi su due

vista sulla pianura fertile e ricca d’acqua, delimitata da col-

line boscose, che si stende davanti alla città: «Ad hanc

autem amoenitatem pertinet quod sit locus camporum pla-

nitie distentus, arborum

ferax, montium

propinquitate

conspicuus, nemoribus gratus et aquis irrigatus».!”

Nei documenti senesi della prima metà del Trecento il ter-

mine «amoenitas» è inteso nel senso indicato da Tommaso

d'Aquino. Il citato progetto per la piazza del mercato presso Porta Camollia viene motivato con l'argomento «cum inter cetera que magis ad pulcritudinem civitatis pertineant sit quod civitas habeat aliqua loca vel locum precipium, delectabile et amenum».!# Nella sua richiesta di divenire cittadino senese Mero di Ghino utilizza l’efficace formula «considerans amenitatem et bonitatem, pacem et tranquillum statum civitatis Senarum», in cui sono presenti sia il fine politico dello stato senese (“pax” — “concordia”), sia l’ideale estetico della “amoenitas” (il Consiglio Generale di Siena approva la richiesta, problematica dal punto di vista

fanti per tore. E questo facevano i Sanesi per tramezare i Salinbeni e Talomei quando faceano quistione e romore»!49). Gli statuti senesi, redatti negli stessi anni dell’affresco del Lorenzetti, tutelano l’espropriazione comunale prevedendo sanzioni per qualunque tentativo di riacquisto

finanziario, con 236 voti favorevoli e 27 contrari).!4?

delle torri da parte delle famiglie:

In questa prima “veduta panoramica” dell’arte europea i Nove celebrano la grandezza del contado senese (fig. 25, tavola xxxvm). Alla fine del quarto decennio l'espansione del territorio senese è perlopiù conclusa. Uno dei compiti

Si qua turris quam Potestas faceret custodiri vel teneri pro Comuni Senarum fuerit ablata et exfortiata, puniatur dominus dicte turris cuius mandato vel facto fuisset ablata in ducentis libris denariorum [...]. Et si penam non solverit supradictam, destruatur de ipsa turri usque ad viginti brachia [m 12 circa] et tollens nichilominus puniatur in ducentis libris denariorum.!4!

LOCUS

QUI AMOENITATE

HABITATORES

DELECTET

RICCA

DI TERRENO

principali del governo dei Nove si è realizzato: «Domini Novem [...] debeant invenire et inquirere diligenter omni modo quo melius poterunt si possint ampliare [...] iurisdictionem Senarum, tam in Maritima quam in Montanea».!®

Siena possiede le più importanti rocche della Maremma;!! Massa Marittima fa parte dello stato senese dal 1335, Grosseto dal 1336. Mentre i cronisti deplorano l’angustia del territorio di Firenze («povera di terra»),!? che copre

appena la metà del fabbisogno di grano della città,!” Tommaso d'Aquino caratterizza nel De regimzine principum"* la posizione ideale per una città con i termini «locus excelsus», «copia rerum victualium» e «amoenitas». Locus excelsus: «Locus autem saluberrimus erit, ut Vitruvius!# tradit, excelsus, non nebulosus [...]. Eminentia

quidem loci solet ad aeris salubritatem conferre, quia locus eminens ventorum perflationibus patet, quibus redditur aer purus; vapores etiam, qui virtute radii solaris resolvantur a terra et ab aquis, multiplicantur magis in convallibus et in locis demissis quam in altis. Unde in locis altis aer subtilior invenitur».!44 Nell’affresco senese la città ideale, costruita su un'altura, è immersa in un’atmosfera limpida e luminosa (figg. 4, 25, tavola xxxvm), mentre la città do-

minata dalla tirannide raffigurata sulla parete opposta è rinserrata in una valle buia (fig. 35, tavola x1v1). Copia rerum victualium:! davanti alla città ideale si stende un paesaggio agricolo (fig. 25, tavola xxxvm), mentre il dominio del tiranno è desolato (fig. 35, tavola xLvim). Amoenitas: «Est etiam constituendis urbibus eligendus locus qui amoenitate habitatores delectet [...], eo quod absque amoenitate vita hominis diu durare non possit».!4 Al pari di Ambrogio Lorenzetti (fig. 25, tavola xxxv), Tommaso d'Aquino illustra la “amoenitas” con la bella

Ambrogio Lorenzetti elogia la vastità e fertilità del contado senese, che di norma assicura un raccolto più che sufficiente a nutrire i circa 50.000 abitanti della capitale (tavola xLIv). Per caratterizzare la campagna Ambrogio ci mostra formazioni e insediamenti tipici del contado senese, evitando invece coerentemente di identificare zone o luoghi precisi. Si obietterà che il porto senese a sud di Grosseto è evidenziato dall'iscrizione raLam[one] (fig. 26). Il paesaggio di Ambrogio raffigurerebbe dunque il territorio che da Siena si estende verso sud-ovest fino alla costa tirrenica. Ma nonostante la letteratura storico-artistica non lo abbia finora mai messo in dubbio, siamo proprio certi che si tratti di Talamone?! L'evidenziazione visiva e scritta di Talamone avrebbe avuto senso solo negli anni immediatamente successivi all’acquisizione del porto fortificato (1303), non però nel terzo e quarto decennio del Trecento, quando la località impestata dalla malaria, funestata da bande di briganti, malamente difesa e dunque spesso occupata da truppe straniere! è ormai considerata una grana politica. Nel Consiglio senese si parla sempre più apertamente di un investimento sbagliato: «De ipsa terra nulla quasi sive modica Comuni Senarum utilitas conse-

«DOLCE

28. Campagna senese: paese fortificato

VITA»

PITTURA

- MEDIOEVO

270

29. Campagna senese: villa

quatur» (1323);!97 «ex ipsa custodia ipsi Comuni Senarum non sit subsecutus honor, utilitas et profectus qui [...] sperabatur [...] sed pluries adlmodo prosumptione et invasione inimicorum dicti Comunis» (1328).198 Come ultimo espediente i Nove tentano di cedere Talamone in affitto (delibera del Consiglio Generale del 19. 10. 1328),5? ma poco tempo dopo i locatari, «inpotentes ad custodiam dicte terre et cassari»,!9° ricusano l’ingrato compito. All'epoca in cui viene dipinta la Sala della Pace Siena è talmente stanca di quel possedimento che finisce per proporne l’affitto a signori stranieri. In tali circostanze Tedigi del Fiesco osa avanzare un’offerta umiliante per Siena: «Vuole la guardia del cassaro e del castello e mette-

27, tavola x1v), le lettere T,

Lee M della parola raLam[onE]

si rivelano maldestre imitazioni, e la lettera A del tutto inventata (fig. 26). La soluzione dell’enigma potrebbe trovarsi in una traccia archivistica; nel 1518 il pittore Girolamo di Benvenuto riceve infatti un pagamento per lavori di restauro nella Sala della Pace: «Maestro Girolamo di Benvenuto dipintore de’ avere per infino questo dì ultimo di settembre lire quarantadue che sonno per la dipegnitura delo pezo di faccia ch'è conchaduta intu la sala dela pace di quelle figure antiche [...] e molti altri asetti e rifare lettare in essa sala [...]».1%4

re dentro e trarre fuore quelli che a Ilui piaciarà [...]. Vuole

TAVOLA

potere fare galee e altri navilii come a lui parrà [...]. Che esso non volendo stare a Talamone possa mettare in quello cassaro e castello colui che li piaciarà».! L'esito delle trattative con Tedigi del Fiesco non è noto. Sta di fatto che tre settimane prima dell'ultimo pagamento ad Ambrogio i Nove cedono Talamone in affitto a Giannotto di messer Manfredi del Fiesco.!9 La scritta raLam[onE] non è originale (fig. 26). Al più presto risale alla prima metà del Cinquecento, all’epoca cioè della fioritura della storiografia locale che si richiamava fiera alla citazione dantesca di Talamone.!8 Al confronto con l'iscrizione autentica nel cartiglio della Securitas (fig.

Nel 1317/18 i Nove fanno misurare e stimare tutti i terreni e le case entro i confini dello stato senese. Il primo censimento degli immobili eseguito da una città-stato europea si basa su un'idea affine a quella che ispira l’innovativa veduta dello stato senese (fig. 25, tavola xxxvm). La molla è in entrambi i casi il desiderio di acquisire una visione d’insieme dello stato. Il seguente confronto tra i registri dei terreni del 1317/18 (Tavola delle Possessioni)!® e l'affresco di Ambrogio (fig. 25) serve a definire il grado di realismo con cui è reso il

DELLE

paesaggio.

POSSESSIONI

«DOLCE

VITA»

Asa

PERITI AR

30. Campagna senese: la mietitura

Nella campagna raffigurata nella Sala della Pace si riconoscono tre forme di insediamenti: nei pressi della città piccoli appezzamenti di terreno fittamente coltivati a vigna, frumento e ulivi, con edifici isolati (figg. 25, 29, tavole xxxIx, xLIv); a maggiore distanza da Siena insediamenti co-

struiti in mezzo ad ampi pascoli e boschi e protetti da mura (fig. 28, tavola x1n1); sullo sfondo le rocche dall'alto

valore fiscale, in larga misura appartenenti — come attesta la Tavola delle Possessioni — alla ricca “aristocrazia” senese di banchieri e mercanti; le quali rocche, in base a una legge non scritta ma scrupolosamente osservata per man-

tenere la sicurezza dei Nove, dovevano essere tutte situate

a grande distanza dal cuore del governo senese (fio, Tutti i “Popoli” nelle immediate vicinanze di Siena registrati nella Tavola! presentano quelle parcelle ad alto sfruttamento agricolo esemplarmente raffigurate nella Sala della Pace (figg. 25, 29, tavola x0001x). Citerò a esempio il Popolo di Ravacciano, adiacente la città, nei cui 42 ettari di superficie la Tavola registra 1 villa, 27 case e 1 mulino. Le principali coltivazioni sono: «possessio vineata», «pos!98 sessio laboratoria» (campi arati), uliveti, orti e canneti.

Le zone molto distanti da Siena sono esemplificate dal tipo di insediamento della “terra murata” (fig. 23, tavola ad sooux). Nei 354 ettari del Popolo di Montepescali sestato dello onale meridi esempio, situato nella periferia ecnese non lontano da Grosseto, tutte le case, con l’unica

cezione di un edificio costruito vicino alla porta della rocca, sono collocate entro le mura del paese fortificato. Lo sfruttamento agricolo è, come si vede nell’affresco di Ambrogio, meno intensivo che nei “Popoli” più vicini a Siena. Due terzi della superficie sono registrati come bosco 0 come «possessio campia» (campi a maggese).'° Confrontando l’immagine della campagna e la Tavola si nota inoltre che gli edifici presentano una caratterizzazione simile. In quasi tutti i “Popoli” vicini alla città si trova, in piena corrispondenza con la raffigurazione di Ambrogio, un «palatium» (fig. 25, tavola x1v).!?° Nel registro dei terreni del citato Popolo di Ravacciano c’è una descrizione che ricalca vistosamente la disposizione dell’appezzamento con villa raffigurato davanti alla porta cittadina in posizione lievemente sopraelevata (fig. 29, tavola xLn): «unam

possessionem vineatam, ortalem, cannetum

cum

uno palatio de mactonibus et una domo de terra tegolata».!7! Nello stesso “Popolo” è descritto un podere praticamente identico a quello al centro del paesaggio del Lorenzetti (fig. 30, tavola xLrv): «unam possessionem vineatam,

ortalem, terram

laboratoriam

et cannetum

et

unam domum de mactonibus et terra tegulatam cum claustro». La presenza di un mulino circondato da una vigna, un appezzamento boschivo e campi a maggese (fig. 32) corrisponde alla seguente registrazione nel Popolo di San Giorgio a Papaiano: «unam possessionem vineatam,

PITTURA

- MEDIOEVO

|

la mietitura ZILC amp a gna senese:

G ampa gna

sene SE:

È

lume

mulino,

(9)

Itiv azionedel grano o

«DOLCE

smerletti [...]»!8 (fig. 25, tavola xxxvm). Nella vigna vicino alla porta cittadina (fig. 25, tavola xxx1x) vengono cacciati uccelli con la balestra: «bolze, balestre dritt'e ben portanti [...1».!5 Per il campo di stoppie galoppa il cacciatore (fig. 30, tavola xLIV):

E 1 sabato diletto ed allegrezza en uccellar e volar falconi,

[El corsier e palafren mettere a sproni, ed isgridar per gloria e per baldezza.!89

EX ABUNDANTIA

FRUMENTI

PAX ET UNITAS

ORIETUR

Raramente la pace interna di una città-stato italiana corre tanto pericolo quanto nei periodi di carestia. I poveri che dopo ripetuti cattivi raccolti si precipitano al Palazzo

Pubblico «con furia che parea che la terra s’aprisse»!*” sono fin troppo manovrabili dagli avversari politici («certi malvagi uomini e’ quai erano richi e non volevano vendere il grano per afamare la città per poter ghuidare la città e ‘1 popolo a uno loro modo»).!8 Quando si leva il grido di battaglia «viva el popolo e muoia chi ci afama», ispirato da Spilloccio de’ Tolomei per provocare la caduta dei Nove,!8? molti cittadini temono che anche a Siena sia ormai imminente il passaggio, già avvenuto nella maggior parte delle città-stato italiane, dalla repubblica all’autocrazia di un “tiranno”. Fedeli al loro motto «ex abundantia frumenti pax et unitas orietur»,!° i Nove si dotano di molteplici strumenti giuridici, economici e propagandistici per superare le crisi politiche nei periodi di carestia.!?! La loro abilità tattica si rivela ad esempio in occasione della carestia del 1322. Ai primi segnali di una carenza di frumento, consapevolmen-

te fomentata dagli avversari politici, i Nove ordinano di aprire i granai privati e di vendere la farina qui immagazzinata a un prezzo inferiore al valore di mercato. I congiurati potenziali ancora incerti sul da farsi si vedono costretti a dichiarare la propria fedeltà al governo. I Tolomei e i Salimbeni si recano perciò con i loro stendardi di famiglia in solenne processione alla piazza del mercato e, in segno

della loro fedeltà politica, offrono in vendita sul Campo le loro immense scorte di grano a un prezzo largamente inferiore ai valori indicativi stabiliti dal governo.!?? L'immagine della campagna nella Sala della Pace (fig. 25, tavola xxxvin) offre un'occasione unica per illustrare il motto «ex abundantia frumenti pax et unitas orietur». Quattro strategie iconografiche contribuiscono a porre in

risalto la cerealicoltura.!® L'affresco è sormontato dall’allegoria dell'Estate, recante gli attributi della falce e delle spighe di grano. La scena della mietitura domina il centro dell'affresco. Il lavoro dei contadini si concentra esclusivamente sui campi di grano (fig. 30, tavola xLiv), mentre le vigne (a parte i cacciatori che valicano le recinzioni), gli uliveti, i frutteti e gli orti sono deserti. Contravvenendo al principio per cui ognuno degli affreschi della Sala della in Pace sarebbe dovuto essere dedicato a una stagione, ciclo il illustra questa veduta agreste Ambrogio Lorenzetti

VITA»

lavorativo del grano lungo l’intero anno. Le scene della coltivazione del grano (fig. 32) e della mietitura (fig. 31, tavola xLIv) sono descritte con una precisione e una ricchezza di dettagli degne di un trattato di agraria.! E illustrata persino l’importanza del lavoro con la zappa, volto a distribuire uniformemente la terra sulle sementi (fig. 32). La scena della mietitura!? mostra la tecnica del taglio a mezzo fusto, che migliorava le possibilità di pascolo per le bestie (fig. 31).!° La trebbiatura si svolge su uno spiazzo — detto “ara” nei documenti dell’epoca!” — vicino alle case dei contadini (delizioso il particolare dei polli che ai margini dell’aia attendono avidamente i chicchi caduti; fig. 30, tavola xLIv). I campi di grano sono recintati con rami spinosi piegati ad arco (fig. 30), il cui uso è attestato anche dagli statuti («de poena accipientes steccones vel spinas existentes pro clausura alicuius possessionis»).!9

Il ciclo delle scene illustranti la cerealicoltura termina come è logico con il trasporto di sacchi colmi di grano verso la porta cittadina, a testimonianza del successo della politica della «abundantia frumenti» (figg. 25, 33, tavola xo oana)

Che queste raffigurazioni non siano innocue o addirittura idilliche immagini di genere è dimostrato dallo sfondo economico, di cui l'osservatore dell’epoca era fin troppo consapevole. La situazione dei mercati toscani del grano nei primi quattro decenni del Trecento è drammatica. A Siena i cattivi raccolti si susseguono a breve distanza l’uno dall’altro: 1303, 1306-07, 1308-10, 1318-19, 1323-24, 1328-

30, 1339-40.!9 Stando alla testimonianza dei documenti d’archivio dell'Opera del Duomo il prezzo della quantità mensile di grano necessaria a persona (1 staio) aumenta fra il 1320 e il 1329 da 8 a 21 soldi?® (il cronista Agnolo di Tura scrive di un prezzo massimo di 67 soldi per staio richiesto nel gennaio 1329)?" Di conseguenza nell’agosto 1329 la paga mensile di 80 soldi circa di un manovale occupato dall’Opera del Duomo di Siena non basta più neppure a coprire il fabbisogno di pane di una famiglia di quattro persone.?!

Per combattere la carestia i Nove mobilitano somme ingenti. Nel 1330 per l'acquisto di grano viene acceso un prestito forzoso di 15.000 fiorini (pari a un quarto delle entrate annue dello stato).2® Secondo Agnolo di Tura, mitigare la carestia del 1340 costa allo stato senese 40.000 fiorini2% Per giustificare le spese esorbitanti per l’importazione di grano il Consiglio Generale del 21 luglio 1340 si richiama nuovamente alla connessione tra «abundantia frumenti» e «pax» illustrata così esplicitamente nella Sala della Pace (fig. 25):

Cum tempus maxime carestie frumenti [...] in anno presenti invaluerit [...] et non fit spes restaurationis auxilio [...] recolte [..] grani [...] fiende pro sequenti anno et propterea de necessitate opporteat Comune Senarum [...] providere [...] quod in civitate Senarum non adveniat [...] grani [...] pessima et intollerabilis carestia, que si accideret posset maximum scandalum et periculum generare et statum pacificum perturbare [#2

275

PITTURA

- MEDIOEVO

274

34. Campagna senese: scena di strada

alquanto scarsa. In segno del “diletto” della vita agreste le mura, vistosamente basse, sono sormontate da un pergolato carico di uva da tavola: un'immagine che non a caso ricorda l'ambientazione della terza giornata del Decarzeron: Un bellissimo e ricco palagio, il quale alquanto rilevato dal piano sopra un poggetto era posto [...] l’ampissima e lieta corte [...] un giardino che di costa era al palagio, il quello, che tutto era da torno murato [...], vie [...] coperte di pergolati di viti, le quali facevano gran vista di dovere quello anno assai uve fare, e tutte allora fiorite si grande odore per lo giardin rendevano, che, mescolato insieme con quello di molte altre cose che per lo giardino olivano, parea loro essere tra tutta la spezieria che mai nacque in Oriente.!”°

Alla vista della villa dipinta da Ambrogio Lorenzetti (fig. 29, tavola xLn) vengono in mente le poesie, scritte nel

primo Trecento da Folgore di San Gimignano, che descrivono le gioie dei vari mesi: Di giugno dovvi una montagnetta coverta di bellissimi arboscelli, con trenta ville e dodici castelli,

che sian entorno ad una cittadetta,

e le gente vi sian tutte amorose e faccianvisi tante cortesie,

ch’a tutto ‘1 mondo siano graziose.

180

Le gioie del “vivere in villa” sono di gran moda in Toscana verso la fine degli anni trenta. Giovanni Villani descrive la vita dei ricchi fiorentini che ogni anno trascorrono quattro mesi «in villa in contado».!8! Le zone di Careggi e Rifredi, oggi ad alta concentrazione di edifici e di traffico, si presentano al cronista come «il più bello paese di villate e 1 meglio acasato e giardinato, e più nobilemente, per diletto de’ cittadini, che altrettanta terra che fosse al mondo».!8° Del “vivere in villa” fa parte il piacere della caccia, diffusamente illustrato da Ambrogio. Ognuna delle scene raffigurate nella Sala della Pace si può commentare con un verso delle poesie dei mesi e dei giorni di Folgore da San Gimignano. Il cavaliere accompagnato dalla sua dama («le gente vi sian tutte amorose»)!8 pregusta la caccia col falcone: «Di settembre vi do deletti tanti: falconi, astori,

«DOLCE

smerletti [...]»!8* (fig. 25, tavola xxxvm). Nella vigna vicino alla porta cittadina (fig. 25, tavola xxx1x) vengono cacciati uccelli con la balestra: «bolze, balestre dritt'e ben portanti [...1».!5 Per il campo di stoppie galoppa il cacciatore (fig. 30, tavola xLIv): E 1 sabato diletto ed allegrezza en uccellar e volar falconi,

Sl

FRUMENTI

PAX ET UNITAS

ORIETUR

Raramente la pace interna di una città-stato italiana corre tanto pericolo quanto nei periodi di carestia. I poveri che dopo ripetuti cattivi raccolti si precipitano al Palazzo

Pubblico «con furia che parea che la terra s’aprisse»!*” sono fin troppo manovrabili dagli avversari politici («certi malvagi uomini e’ quai erano richi e non volevano vendere il grano per afamare la città per poter ghuidare la città e ‘1 popolo a uno loro modo»).!8 Quando si leva il grido di battaglia «viva el popolo e muoia chi ci afama», ispirato da Spilloccio de’ Tolomei per provocare la caduta dei Nove,!8? molti cittadini temono

lavorativo del grano lungo l’intero anno. Le scene della coltivazione del grano (fig. 32) e della mietitura (fig. 31, tavola xLIv) sono descritte con una precisione e una ricchezza di dettagli degne di un trattato di agraria.! E illustrata persino l’importanza del lavoro con la zappa, volto a distribuire uniformemente la terra sulle sementi (fig. 32). La scena della mietitura!? mostra la tecni-

ca del taglio a mezzo fusto, che migliorava le possibilità di

corsier e palafren mettere a sproni, ed isgridar per gloria e per baldezza.!8°

EX ABUNDANTIA

VITA»

che anche a Siena sia

ormai imminente il passaggio, già avvenuto nella maggior parte delle città-stato italiane, dalla repubblica all’autocrazia di un “tiranno”. Fedeli al loro motto «ex abundantia frumenti pax et unitas orietur»,!° i Nove si dotano di molteplici strumenti giuridici, economici e propagandistici per superare le crisi

politiche nei periodi di carestia.!?! La loro abilità tattica si rivela ad esempio in occasione della carestia del 1322. Ai primi segnali di una carenza di frumento, consapevolmente fomentata dagli avversari politici, i Nove ordinano di aprire i granai privati e di vendere la farina qui immagaz-

zinata a un prezzo inferiore al valore di mercato. I congiu-

rati potenziali ancora incerti sul da farsi si vedono costretti a dichiarare la propria fedeltà al governo. I Tolomei e i Salimbeni si recano perciò con i loro stendardi di famiglia in solenne processione alla piazza del mercato e, in segno della loro fedeltà politica, offrono in vendita sul Campo le loro immense scorte di grano a un prezzo largamente inferiore ai valori indicativi stabiliti dal governo.!?? L'immagine della campagna nella Sala della Pace (fig. 25, tavola xxxvin) offre un'occasione unica per illustrare il motto «ex abundantia frumenti pax et unitas orietur». Quattro strategie iconografiche contribuiscono a porre in risalto la cerealicoltura.!? L'affresco è sormontato dall’allegoria dell'Estate, recante gli attributi della falce e delle spighe di grano. La scena della mietitura domina il centro dell'affresco. Il lavoro dei contadini si concentra esclusivamente sui campi di grano (fig. 30, tavola xLiv), mentre gli le vigne (a parte i cacciatori che valicano le recinzioni),

uliveti, i frutteti e gli orti sono deserti. Contravvenendo al principio per cui ognuno degli affreschi della Sala della

in Pace sarebbe dovuto essere dedicato a una stagione,

questa veduta agreste Ambrogio Lorenzetti illustra il ciclo

pascolo per le bestie (fig. 31).!° La trebbiatura si svolge su uno spiazzo — detto “ara” nei documenti dell’epoca!” — vicino alle case dei contadini (delizioso il particolare dei polli che ai margini dell’aia attendono avidamente i chicchi caduti; fig. 30, tavola xLIv). I campi di grano sono recintati con rami spinosi piegati ad arco (fig. 30), il cui uso è attestato anche dagli statuti («de poena accipientes steccones vel spinas existentes pro clausura alicuius possessiomis)e

Il ciclo delle scene illustranti la cerealicoltura termina come è logico con il trasporto di sacchi colmi di grano verso la porta cittadina, a testimonianza del successo della politica della «abundantia frumenti» (figg. 25, 33, tavola XXXTX): Che queste raffigurazioni non siano innocue o addirittura idilliche immagini di genere è dimostrato dallo sfondo economico, di cui l’osservatore dell’epoca era fin troppo consapevole. La situazione dei mercati toscani del grano nei primi quattro decenni del Trecento è drammatica. A Siena i cattivi raccolti si susseguono a breve distanza l’uno dall’altro: 1303, 1306-07, 1308-10, 1318-19, 1323-24, 132830, 1339-40.!9 Stando alla testimonianza dei documenti

d'archivio dell'Opera del Duomo il prezzo della quantità mensile di grano necessaria a persona (1 staio) aumenta fra il 1320 e il 1329 da 8 a 21 soldi? (il cronista Agnolo di Tura scrive di un prezzo massimo di 67 soldi per staio richiesto nel gennaio 1329)?" Di conseguenza nell’agosto 1329 la paga mensile di 80 soldi circa di un manovale occupato dall’Opera del Duomo di Siena non basta più neppure a coprire il fabbisogno di pane di una famiglia di quattro persone.

Per combattere la carestia i Nove mobilitano somme ingenti. Nel 1330 per l'acquisto di grano viene acceso un prestito forzoso di 15.000 fiorini (pari a un quarto delle entrate annue dello stato).2® Secondo Agnolo di Tura, mitigare la carestia del 1340 costa allo stato senese 40.000 fiorini.2° Per giustificare le spese esorbitanti per l’importazione di grano il Consiglio Generale del 21 luglio 1340 si richiama nuovamente alla connessione tra «abundantia frumenti» e «pax» illustrata così esplicitamente nella Sala della Pace (fig. 25): Cum tempus maxime carestie frumenti [...] in anno presenti invaluerit [...] et non fit spes restaurationis auxilio [...] recolte [...] grani [...] fiende pro sequenti anno et propterea de necessitate opporteat Comune Senarum [...] providere [...] quod in civitate Senarum non adveniat [...] grani [...] pessima et intollerabilis carestia, que si accideret posset maximum scandalum et periculum generare et statum pacificum perturbare [...].?®

275

PITTURA - MEDIOEVO mento «quod per ipsam viam, que est strata magistra,

PANE, VINO

Il prodotto agricolo secondo per importanza è il vino. Nell’affresco predominano i vigneti nei pressi della città (figg. 25, 29, tavola xxx1x). AI podere raffigurato al centro

della campagna appartiene una vigna di dimensioni considerevoli (fig. 30, tavola xLiv), e persino il paese cinto da alte mura lontano da Siena, in una zona a basso sfrutta-

276

mento agricolo, può vantare una vigna addossata alla porta

(fig. 28). I vigneti, ai quali l'affresco di Ambrogio Lorenzetti attribuisce un ruolo privilegiato accanto ai campi di grano, sono considerati nella prima metà del Trecento l’investimento agricolo più redditizio.” Ancora nel Quattrocento i prodotti più importanti di un podere sono farina e vino. Leon Battista Alberti consiglia pertanto nei Tre Libri della Famiglia «che la possessione in prima fusse apta a darci tutto quello bisognasse per pascere la famiglia, et se non tutto, almeno vino»,298

insieme

le più necessarie

cose:

pane,

Anche per lo stato la coltivazione delle viti è lucrativa. Nel ben documentato anno 1328 il dieci per cento delle entrate dello stato senese proviene dalla «gabella del vino».?®” Significativamente i prezzi del pane e del vino sono indici di riferimento per calcolare le paghe. Nell’agosto-settembre 1339 i “rectores et offitiales forenses” di Siena fanno passare un aumento delle paghe del dieci per cento, con la motivazione che nell’arco di pochi mesi il prezzo del pane era raddoppiato e quello del vino triplicato.?!0

SENZA

PAURA

OGN’UOMO

FRANCO

CAMINI

Prima dell’avvento dei Nove le vie commerciali del contado senese offrono un quadro desolante: «Cum vie magistre circum circa civitatem Senarum sint adeo dissipate et devastate, et pontes existentes in eis in tantum sint fracti [...] ex quo civitas Senarum magnum incommodum patitur de mercato et de aliis rebus victualibus, cum deferri non possint ad civitatem, viis impedientibus et pontibus supradictis [....]».211

Per decenni i Nove si dedicano quindi al miglioramento e all'ampliamento del sistema viario, elogiati come «opus magne memorie et necessitatis».?!? Sotto la supervisione dei “generales ofticiales et viarii”?!? le strade principali del contado?! vengono consolidate, livellate e allargate. Vecchi ponti di legno vengono sostituiti con altri costruiti in pietra e mattoni.?! La strada raffigurata in primo piano nel paesaggio di Ambrogio (fig. 25, tavola xxx1x) rappresenta un modello di una “strata magistra”. Il tracciato è chiaro e perlopiù diritto.2!9 La larghezza raggiunge a occhio e croce la misura ideale di 16 braccia (m 9,6 circa) auspicata dai viarii.2!? Nel

tratto che sale verso la città la strada è lastricata in pietra, indizio assai significativo di attenzione alla manutenzione della rete viaria (figg. 33, 34, tavola x11).2!8 La spiegazione per questo cambiamento della pavimentazione ci viene dallo Statuto dei Viari, dove una lastricatura simile della strada che sale alla Porta Montone è motivata con l’argo-

homines [...] habeant pulcrum introitum in Civitatem Senarum».?!? Il «pons cum volta de mactonibus» raffigurato da Ambrogio (fig. 32) costituisce il tipo di ponte più recente.?? Il trasporto di merci pesanti, quali le travi necessarie a costruire il tetto del Duomo e delle grandi chiese degli ordini

mendicanti,22 richiede la sostituzione dei vecchi ponti di

legno. I progressi nella costruzione di ponti si notano nell’attraversamento del fiume Arbia da parte della Via Francigena. Fino al tardo Duecento ogni tentativo di trasportare macine da mulino incontra ostacoli insormontabili in questo punto strategico del traffico del contado senese. All'epoca degli affreschi della Sala della Pace gli statuti registrano un progresso: ora è infatti possibile trasportare macine anche oltre questo ponte sull’Arbia, per quanto solo facendo rotolare una pietra alla volta.?? La costruzione di un ponte che il pittore ci presenta fiero nell’angolo in basso a destra dell'affresco (fig. 32) mostra con ogni evidenza tutti i progressi ottenuti nel rinnovamento

della rete viaria. Dedicandosi al miglioramento delle strade i Nove perseguono un duplice scopo: facilitare il trasporto del grano dal contado alla città e aumentare la sicurezza delle vie commerciali. Con un’argomentazione parallela a quella iconografica (fig. 33, tavola xL1), per giustificare i costi elevati degli in-

terventi sulle strade i Viarzi rimandano all'importanza del sufficiente vettovagliamento della città: [..] Cum via, que vadit de Asciano ad Sanctum Gimignanellum [...] sit adeo turpis et dissipata, quod homines cum bestiis per eam transire non possint [...]; quod dicta via debeat aptari [...], ita quod homines cum salmis possint libere transire [...]; cum dicatur quod per dictam viam apportaretur habundantia bladi ad Civitatem Senarum [...]? Item statuimus [...] quod via, qui itur a strata de Licignano Vallis Arbie versus Chisure, debeat actari et diricgari et exemplari [...], cum dicta via sit utilissima valde et per eandem victualia multa deferant ad Civitatem.??0

Il secondo scopo dei Viarzi, la maggiore sicurezza delle vie commerciali, viene richiamato da Ambrogio nel cartiglio della Securitas (fig. 25, tavola xLv): SENZA PAURA OGN’UOM FRANCO CAMINI [...] MENTRE CHE TAL COMUNO MANTERRÀ QUESTA DONNA [Iwst:1a] iN sienoRIA. “Securitas” e “Tusti-

tia” sono spesso citate nello stesso contesto nel Trecento. Il giurista Luca de Penna afferma che la «securitas» è conseguenza diretta del dominio della «iustitia».?? Tolomeo da Lucca, nella continuazione del trattato De regizzine principum iniziato da Tommaso d'Aquino, usa argomenti del tutto simili a quelli di Ambrogio Lorenzetti: «Ad bonum regimen regni sive cuiuscumque dominii pertinet

stratas [...] in regione vel provincia habere securas [...]. Viarum securitas [...] est fructuosa, quia illuc magis confluunt mercatores cum mercibus, unde et regnum in divitiis crescit».228 Gli statuti senesi redatti nel periodo degli affreschi della Sala della Pace concretizzano il precetto della sicurezza delle strade disponendo che ogni gennaio e luglio i Nove

«DOLCE

VITA»

277 tt BOTS pai

CD EFFETTO (Le INCH TIRAUNIAE EGR

36. Effetti del cattivo governo su città e campagna: rovine

PITTURA

- MEDIOEVO

Mv ATO coke

37. Effetti del cattivo governo su città e campagna: “Timor”

eleggano sei «sapientes homines [...] qui provideant quomodo [...] cives [...] Senarum in persone et cum mercantiis eorum libere et expedite ire possint et reverti usque ad mare per partes Maritime».?? Nell’assumere l’incarico il podestà si impegna a preservare la “securitas”.° Lo affiancano speciali forze dell'ordine che devono vigilare sulla «securtà de’ chamini».??!

Due sono i riferimenti del pittore al precetto della sicurezza delle vie commerciali. La Securitas regge una forca con la sinistra, un’allusione ai patiboli collocati in posizione sopraelevata ai lati della “strata magistra” per scoraggiare i briganti (fig. 25, tavola x1v).#? La struttura della strada maestra raffigurata da Ambrogio (fig. 25, tavola xxx1x) risponde ai criteri delle misure per la protezione dalle «violentie et roberie stratarum». Il tracciato è chiaro e luminoso. Nei pressi della strada il pittore evita pertanto di raffigurare alberi alti e frondosi dispensatori di ombra, benché per la sensibilità odierna le strade ombrose accrescano decisamente il “diletto” dell'estate toscana. Ma nel Trecento i gruppi di alberi accanto alle strade evocano un sentimento diametralmente opposto al “diletto”, di “timor” e “pavor”: [De via de Cerro Grosso, qua itur ad Brolium] Cum via [...] sit multum obscura propter boscos, qui sunt ex utraque parte dicte vie et propter dictam obscuritatem multa mala sint

propterea in ea facta et multi homines mortui infra dictos confines, statuimus [...] quod boschi, qui sunt ex utraque parte dicte vie, debeant deboscari inde ad ipsa via usque xxx brachia [m 18 circa] et quod dicta via debeat examplari, ita quod sit amplitudinis xn bracchiorum [m 7,2 circa] ad minus. [De via, qua itur ad Balneum de Petriuolo] Cum vie sint in locis pluribus desipate et obscure et tortuose et multum a Senensibus et forensibus frequententur, statuimus [...] quod dicte vie per totum debeant diricari, actari et exemplari usque ad dictum balneum, et quod arbores, sterpi et truncones, qui dictas vias impediunt et occupant et tenent

obscures, debeant incidi, tolli et evelli, ita quod sint lucide et aperte et amplitudinis xn brachiorum [m 7,2 circa].

GENTE

SATURNINA

All’immagine del “locus amoenus” senese (fig. 25, tavola XXXVIII) è contrapposta la descrizione del “locus horribilis” di uno stato governato dalla tirannide(fig. 35, tavola xiv). Anziché da «ville per diletto de’ cittadini», fertili campi, strade ampie e diritte (fig. 25), il paesaggio è caratterizzato da case diroccate (tavola xvi), colline brulle, sentieri stretti e bui, nonché da ponti crollati (figg. 35,36). Sulla desolazione regnano i guerrieri e dalla figura spettrale del Tizor(fig. 37, vga xLrx) proviene la minaccia:

«Per questa via non passa alcun senza dubbio di morte».

«DOLCE

La raffigurazione del “locus horribilis” è ispirata da descrizioni della sfera di influenza di Saturno note ai consulenti di Ambrogio Lorenzetti dalle traduzioni latine di scritti arabi o da testi astrologici di Michele Scoto, Guido Bonatti o Cecco d’Ascoli. Testi enciclopedici come Della composizione del mondo di Ristoro d'Arezzo? diffondono nel Trecento un sapere astrologico canonizzato che viene insegnato anche all'università (dal 1322 al 1325 ad esempio è docente a Siena il “doctor in phylosophia et astrologia” Taddeo de’ Ramponi).??° La figura della divinità planetaria Saturno che sovrasta il

VITA»

vastata dai soldati, dove si levano alte le fiamme dei villaggi incendiati (fig. 37, tavola x1v1). Nelle miniature del Liber Introductorius di Michele Scoto, realizzate nell'Italia settentrionale quasi contemporaneamente agli affreschi della

Sala della Pace, Saturno compare in veste di guerriero.??? Sotto il suo influsso regnano «pavor, timor, guerra».??? «L’aere stridendo chiama “guerra, guerra”» (Cecco d’Ascoli).?74 Nelle immagini della Sala della Pace, fortemente condizionate dall’astrologia, l’altro regno della “gente saturnina” governata dal tiranno rappresenta il cupo sfondo su

“locus horribilis” (fig. 35, tavola x1v1) è considerata dall’a-

cui risalta

strologia medioevale «stella damnabilis, furiosa, odiosa,

Venere. La città, fondata sotto il segno di Venere secondo le credenze medioevali? gode dei beni di Pax e Concordia, celebrati come doni della dea e simboleggiati nell'immagine delle fanciulle danzanti (figg. 4, 5, tavola xxx). Venere promette quella “abundantia” celebrata nell’affresco, protetta dalla Securitas (fig. 25, tavola x1v): «Si fuerit domina anni et domina ascendentis [...] significat annum securitatis et quietudinis» (Guido Bonatti);?” «significat [...] abundanciam omnium bonorum, ut panis, vini, olei, cere, mellis [...] pacem inter gentes locorum [...], leticiam» (Bartolomeo da Parma).?*

superba, impia, crudelis, malivola, multis nociva, sine misericordia, conservans malum, vitans bonum».??” Saturno è

la quintessenza di ogni vizio (Cecco d’Ascoli: «trista stella [...) di virtù nemica»)?$8 e il prototipo del tiranno (Abù Maar: «Egli significa [...] coloro che soggiogano gli uomini [...], nonché ogni atto ispirato da malvagità, violenza, tirannide e ira»). Ambrogio Lorenzetti caratterizza Saturno con gli stessi tratti fisiognomici del tiranno (tavola Li) che troneggia in mezzo ai vizi (sopracciglia nere e unite e occhi strabici; Francesco da Barberino mette in guardia «de istis qui vertunt oculos ex traverso [...] cuius supercilia nimia pilositate coniunguntur»).2!° Nella sfera di influenza di Saturno predominano il nero, il grigio e il giallo livido: «Color Saturni est fuscus (id est grisius) et niger» (Abù Ma’sar),”#! «pallidus aut lividus sicut plumbum» (Bartolomeo Anglico),? «e ‘l suo colore è terreo, scialbedo, plumbeo» (Ristoro d'Arezzo). La “gente saturnina”, dai capelli corvini e dalla pelle scura,°*# veste di scuro. Nel “locus horribilis” tutti gli animali, le pietre e

i metalli sono neri: «Et en sa partie des gens sont les Mors [...] des metaus de la terre sont le plonc noir [...] les pierres noires et tout marbre noir [...] des chiens noirs et les chats noirs [...] tout oisel que sa vision est noire» (traduzione del 1273 del trattato astrologico di Ibn Abraham Erza).26 L'atmosfera sinistra e cupa che qui regna è descritta da Alano di Lilla come un'alternanza di “tenebre lucenti” e di “luce ottenebrata”: «Hic tenebrae lucent, hic lux tenebrescit, et illic nox cum luce viget, et lux cum

nocte diescit».? L’influenza di tali testi sui colori nero, grigio e giallo livido del paesaggio dipinto è evidente (figg. 35-37, tavola x1vi). Una luce scialba che ricorda le parole di Alano rischiara le rovine (fig. 36, tavola x1vm). Vicino al ponte crollato si distinguono chiaramente guerrieri dalla pelle nera. Non a caso il cavaliere raffigurato accanto alla porta cittadina cavalca un morello, e i soldati che lo accompagnano recano scudi neri (fig. 35). A parte pochi alberi che fanno ombra ai sentieri dissestati, il paesaggio è brullo e sterile: «Insumpto falcis acumine, quicquid pulcrum, quicquid florigerum demetebat»

la (Bernardo Silvestre). Sulle strade incombe minacciosa

morte.9 Le rovine sono i segni di Saturno (fig. 36, tavola xvi); «Myn is the ruine of the hye halles, the fallyng of the toures and of the walles» (Chaucer, Canterbury Tales).

in Simile a un demone, Tizzor (tavola L) si libra avvolto

grigi stracci?! e con la spada insanguinata sulla terra de-

Siena,

illuminata

dalla divinità

planetaria

QUESTA VIRTÙ KE PIÙ D’ALTRA RISPRENDE

L’iscrizione della Sala della Pace descrive lo splendore delle Virtù (fig. 1). La luce più forte emana dalla Iustitia che illumina gli atti del Buon Governo (fig. 1, tavola xxvn1): UN

BEN

COMUN

LO QUAL, DI NON

PER LOR SIGNOR

PER GOVERNAR TENER

GIAMMA’

SUO

SI FANNO,

STATO,

GLI OCHI

ELEGGE

RIVOLTI

DA LO SPLENDOR

DE’ VOLTI

DE LE VIRTÙ

‘NTORNO A LLUI SI STANNO.

CHE

ia

Questa vIRTÙ [Iustitia] KE PIÙ D’ALTRA RISPRENDE DE LA SUO EL MERITAR

LUCIE

NASCIE

COLOR

C’OPERAN

BENE.

Il confronto con la simbologia della luce del più volte citato Francesco da Barberino presenta degli spunti interessanti. AI pari dell’ignoto poeta dell’iscrizione della Sala della Pace, l’autore dei Documenti d'Amore si considera un

ideatore di programmi pittorici allegorici e presta consiglio ad artisti figurativi, come ad esempio Tino di Ca-

maino,° nell’impostazione concettuale delle loro opere.

Francesco, di una generazione più anziano di Ambrogio Lorenzetti, è giurista, notaio, diplomatico, poeta e miniaturista dilettante, che illustra di suo pugno il manoscritto dei Documenti d'Amore come modello per il miniaturista di professione.?°! In piena corrispondenza con il testo dell'iscrizione citata («di non tener giamma’ gli ochi rivolti da lo splendor de’ volti de le virtù»), Francesco da Barberino descrive il volto della Virtù come circonfuso di raggi — «circuunt faciem

cius et capud radij multi»? - utilizzando la stessa metatora dello sguardo fisso sullo splendore ultraterreno delle

279

PITTURA

- MEDIOEVO

Virtù. Il suo commento si legge come una spiegazione dei versi senesi, che rimandano allo stesso contesto etico:

sce la Giustizia solo «praeclarissima virtutum», ma anche, in diretta corrispondenza con l'iconografia della Sala della

Et enim radiorum hec natura quia immaculati et diligentes

Pace, «lumen urbis».??? Sul regno del tiranno (tavole x1vi, 1) dominato dai vizi, i

veritatem, more aquile sine passione provenienti ex opposito

280

inradiatos iustos tute respiciunt. Maculati autem et ambulantes in tenebris more avium ob defectum visus nocte volantium cum vident radiis iustos splendere nequeunt in illos oculos suos dirigere [...]? Circuunt quoque faciem eius et capud radij multi [...] ad denotandum quod ipsa contra vitia est armata et optimam armaturam contra vitia induit qui

virtute refulget. Unde vide vitia facies habentia suas retro respicientes quia premulta splendiditate virtutis nequeunt in illam inspicere.? Della Giustizia l’iscrizione dice «ke più d'altra risprende», e Francesco da Barberino la definisce «praeclarissima virtutum».29 Sia l’autore dell’iscrizione, sia il dottore in legge Francesco da Barberino si richiamano a definizioni della giurisprudenza del tempo. Un celebre giurista del Trecento, Luca de Penna, utilizza ad esempio la formula «lex est lux»? (cfr. Proverbi, vi, 23: «quia mandatum lu-

cerna est et lex lux»). La scelta del termine «praeclarissima virtutum» rimanda alla “auctoritas” di Aristotele. Il passo corrispondente dell’Etica Nicomachea?” è citato spesso nell’Italia del tardo Duecento e del Trecento.? Tommaso d'Aquino scrive nella Surzzza theologica: «lustitia [...] est praeclarior inter omnes virtutes morales [...] et secundum hoc Philosophus [Aristotele] in 5. Ethic. cap. 1, ante fin., dicit quod praeclarissima virtutum videtur esse iustitia, et neque est Hesperus, neque Lucifer ita admirabilis».20°

Determinante per comprendere l'iconografia della Sala della Pace è la conoscenza dei commenti tardomedioevali a questo passo di Aristotele. Nel suo trattato De regirzine principum, ben noto a Siena,”° Egidio Romano interpreta

la distinzione aristotelica fra la luce dei pianeti e lo splendore della Giustizia nel senso del contrasto fra “lumen corporis” e “lumen spiritualis”: Unde 5. Ethic. dicitur, quod praeclarissima virtutum videtur esse Iustitia: et neque

Hesperus,

neque

Lucifer est ita

admirabilis, sicut ipsa. Hesperus enim et Lucifer est una et cadem stella, quae est valde pulchra et clara: et propter sui pulcritudinem et venustatem communi nomini appellatur Venus [...]. Est ergo intentio Philosophi dicere, quod Venus, quae est tam pulcherrima stella [...] non sit ita pulchra, nec ita praeclara, sicut est Iustitia [...]. Stellae enim pollent pulchritudine corporali, et illuminant nos lumine corporali: sed Iustitia pollet pulchritudine honesta et spirituali [...]. Quanto igitur pulchritudo spiritualis excellit pulchritudinem corporalem, tanto pulchritudo Iustitiae, et claritas eius admirabilior est claritate stellarum.?”!

Fedele a quanto indicato dall’ignoto autore dell’iscrizione, Ambrogio Lorenzetti illumina gli affreschi con due diverse fonti di luce. La città ideale, Siena (fig. 4, tavola xxx), è rischiarata dal “lumen spiritualis” della Giustizia raffigu-

rata sulla parete est (fig. 1, tavola xx1v), mentre il “lumen corporalis” proviene dalla finestra sulla parete ovest (fig. 3). Significativamente Francesco da Barberino non defini-

cui abitanti voltano le spalle allo splendore della «praecla-

rissima virtutum», cade solamente il “lumen corporalis”:

«Fili tenebrarum sunt privati sole iustitiae et splendore virtutis» (Sant Ambrogio).??? L’eterogeneità dello stato di conservazione degli affreschi ostacola oggi la percezione diretta della simbologia luminosa.?* Gli affreschi furono in parte ridipinti già nel tardo Trecento, probabilmente da Andrea Vanni. Cesare Bran-

di??? è stato il primo a riconoscere che Andrea rinnovò completamente la quinta parte di sinistra dell'immagine cittadina, fino alla linea verticale segnata in rosso nella tavola xxx1. L'intervento di Andrea, pur rivestendo le figure secondo l’ultima moda, sembra rispettare fedelmente l’o-

riginale. Eppure, come vedremo in seguito, non mancarono fraintendimenti. Una nuova verifica dello stato di conservazione, eseguita insieme al restauratore Giuseppe Gavazzi, ha evidenziato che Andrea Vanni non si limitò a rinnovare la zona in questione, arriccio compreso: ridipinse anche la parte subito a destra della linea rossa, indicata in viola nella tavola 004, sopra l'intonaco originale conservato.?”° Il risultato è inequivocabile: mentre Ambrogio Lorenzetti, nelle parti originali conservate, illumina con coerenza la città (figg. 4, 11, tavola xxx) da sinistra, cioè dalla direzione della Giustizia, Andrea Vanni, che evidentemente non riesce a seguirne i ragionamenti, nelle parti da lui dipinte o ridipinte corregge la geniale idea lorenzettiana della doppia fonte di luce. Accettando unicamente l'identità — canonica nel Trecento — fra luce naturale e luce immanente all'immagine, Andrea illumina la città da destra, cioè dal lato della finestra sulla parete ovest (figg. 4, 15). Lo stato di conservazione confonde in modo non meno grave un altro importante aspetto della simbologia luminosa. Di questo però non ha colpa Andrea Vanni. La causa è la scarsa coesione tra metalli e affresco. Nel corso dei secoli il metallo applicato da Ambrogio sull’intonaco si è distaccato dalla superficie dipinta, a parte pochi resti oggi visibili solo da molto vicino e a luce radente. Le tavole xxv e LI mostrano una ricostruzione delle parti originariamente dorate e argentate (l’oro è indicato in giallo, l’effetto argenteo?” in azzurro). Tra la simbologia luminosa dell’iscrizione e lo splendore degli affreschi esisteva dunque in origine una connessione diretta. L'allegoria del Buon Governo (tavola xxv) rifulgeva di «splendor de le virtù». «Iustitia — ke più d’altra risprende» brillava più di tutte, scintillante d’oro. I Docuzzenti d'Amore di Francesco da Barberino consigliano di raffigurare la Virtù «in veste aurea» («ad denotandum quod sicut aurum purificatum in fornace purum est et excellens, ita virtus aut est pura aut non est virtus»). Della «praeclarissima virtus» Francesco

dice: «Philosophi dixerunt ipsam iustitiam habere vultum aureum».?8°

Nel tenebroso regno della Tiranzide (tavola Ln) gli unici a brillare erano tre segni guerreschi: l’armatura del tiranno, l'elmo della Guerra e lo schidione dell’ Avarizia (tavo-

«DOLCE

la Liv). Ogni altro scintillio è pura apparenza: i gioielli d’oro della seducente Vanagloria (tavola Lv) sono imitazioni colorate di giallo; il tiranno ha in mano un calice dipinto di giallo a simulare loro (tavola Ln); l'armatura della Guerra non è di metallo ma nera, il colore che contraddi-

stingue la “gente saturnina”. «Auri nomine splendor sanctitatis accipitur, sicut iudaicum populum a splendore iustitiae ad nequitiae tenebras commutatum ieremias deplorat dicens: quomodo obscuratum est aurum [...]. Aurum obscuratur, cum subsequentibus iniquitatum tenebris, iustitiae pulchritudo deseritur» (Gregorio Magno) .?8!

VITA»

APPENDICE DOCUMENTARIA a cura di Stefano Moscadelli I documenti relativi ai pagamenti ricevuti da Ambrogio Lorenzetti per l'esecuzione degli affreschi della Sala della Pace sono stati da tempo oggetto di edizioni,* peraltro non sempre precise nella lettura e talora poco chiare nella presentazione dei documenti stessi.25 I documenti in questione permettono invece di seguire in modo lineare tutto l’iter burocratico che culminava nella consegna del denaro al pittore. A monte di tutta l'operazione contabile doveva probabilmente esistere un accordo, almeno orale, tra

le parti, accordo che poteva prevedere pagamenti cadenzati e fors’anche la cifra complessiva da corrispondere all’artista per tutto il lavoro 0, in alternativa, il meccanismo

di stima di quanto effettuato. Sulla base quindi di un contratto di questa natura, i Nove governatori di volta in volta in carica procedevano all’emissione di un'apotissa (apodixa, ovvero pulizia, puliza, ossia polizza), cioè un ordine di spesa agli ufficiali della “tesoreria” comunale (la Biccherna del Comune), affinché eseguissero il pagamento di quanto indicato nell’apotissa stessa. A questo punto la Biccherna affidava l'esecuzione a strutture amministrative dotate di maggiore liquidità di cassa (la Gabella generale? o l'operaio del Comune?8°) oppure procedeva direttamente al pagamento in questione.” La registrazione del movi-

mento del denaro avveniva tramite l’annotazione di quanto effettivamente sborsato nei registri — andati perduti — degli ufficiali delegati al pagamento, e quindi successivamente riportata nel Merzoriale dei debitori e creditori?8* e infine nell’Entrata e uscita della Biccherna (nella stesura in volgare?8? e in quella in lingua latina”), dove si procedeva a tener memoria di quanto pagato all'artista direttamente o per mezzo di uffici intermediari. La ricostruzione

del procedimento

amministrativo

che

soggiaceva all’uscita di denaro dalle casse comunali permette dunque di ricostruire con precisione, secondo lo schema che segue, la successione dei pagamenti per gli atfreschi eseguiti da Ambrogio Lorenzetti nella Sala della Pace. In considerazione della completezza delle serie archivistiche contabili prodotte dalla Biccherna negli ultimi anni del quarto decennio del Trecento ancora oggi conservate,! nonché del chiaro riferimento al saldo del lavo-

ro avvenuto nel maggio 13392 pare del tutto plausibile ritenere che la ricostruzione qui proposta possa corri-

spondere alla totalità di quanto ricevuto dall’artista per l'esecuzione degli affreschi:?” DATA CRONICA

AMMONTARE

IN FIORINI D’ORO E IN MONETA

SENESE (LIRE, SOLDI, DENARI)

1338 FEBBRAIO 26

10 FIORINI

=

31

15

1338 APRILE 29-MAGGIO 5 1338 GIUGNO 30

10 FIORINI 10 FIORINI

= =

31 al

15 8

1338 SETTEMBRE 24

10 FIORINI

=

Sil

10

1338 DICEMBRE 9

10 FIORINI

=

DI

15

1339 FEBBRAIO 19 1339 MAGGIO 29

6 FIORINI = 55 FIORINI =

19 75

il 14

6 2

Totale

111 FIORINI

350

[19

(0)

=

4

281

PITTURA

- MEDIOEVO

Non si collegano invece all’esecuzione degli affreschi della Sala della Pace altri documenti presenti nei registri contabili della Biccherna, talora ricondotti erroneamente a tali

lavori e relativi a pagamenti ricevuti da Ambrogio Lorenzetti tra il luglio 1338 e il novembre 1345. Se ne riassumono qui schematicamente i riferimenti cronici, l'ammontare e la motivazione: 282

DATA CRONICA

AMMONTARE

1338 LUGLIO 28-29 1340 GIUGNO 20 1345 NOVEMBRE 22

2 FIORINI 10 FIORINI 3 LIRE

MOTIVAZIONE

Raffigurazione di un sindaco del Comune Esecuzione di alcune dipigniture nel Palazzo comunale Esecuzione di alcune figure nelle carzeredei Nove

al cambio del 5 maggio a 31 lire e 15 soldi di moneta senese (docc. 5-6). [3] ASS, Biccherna 191 [Entrata e uscita in latino], fol. 116v [num. mod. 112v]. Cfr. Rowley, p.130 (che sbaglia l'indicazione della carta) e Maginnis, nota 8. Il documento non è citato da Milanesi.

[4] ASS, Biccherna 194 [Uscita in volgare], fol. 29v. Cfr. Milanesi, p.

195 (che riferisce erroneamente il documento all'anno Maginnis, nota 8. Il documento non è citato da Rowley.

1337) e

[5] ASS, Biccherna 404 [Memoriale], fol. 611, 65r [num. mod. 79

837] (riferimento al pagamento

ad Ambrogio

a fol. 65r). Cfr

Maginnis, doc. 7. Il documento non è citato né da Milanesi né da

Rowley. [6] ASS, Biccherna 404 [Memoriale], fol. 95r [num. mod. 113r]. Cfr.

Maginnis, doc. 6. Il documento non è citato né da Milanesi né da Rowley.

[3] “Die mercurii xxvimn aprelis [1338]. [...]. Item, magistro Ambrosio Lorengetti pittori pro parte pretii PAGAMENTI

AD AMBROGIO DELLA

LORENZETTI

SALA DELLA

PER GLI AFFRESCHI

picture palatii dominorum Novem x florenos, per eorum apotixam - xxx1 libras, xvi soldos, vi denarios”.

PACE

1-2. Pagamento del 26 febbraio 1338 Per ordine dei Nove governatori, Ambrogio Lorenzetti riceve dalla Gabella generale (doc. 1) tramite l'operaio del Comune Bono di Campuglia 10 fiorini, equivalenti a 31 lire e 15 soldi di moneta senese (doc. 2).2* [1] ASS, Biccherna 404 [Memoriale], fol. 61r, 62r [num. mod. 79%,

80r] (riferimento al pagamento ad Ambrogio a fol. 62r). Cfr. Maginnis, doc. 5. Il documento non è citato né da Milanesi né da Rowley. [2] ASS, Biccherna 404 [Memoriale], fol. 82r [num. mod. 100r]. Cfr.

Maginnis, doc. 4. Il documento non è citato né da Milanesi né da Rowley.

[1] “Debito di kabella. Donno Matteo di San Galghano, Mino di misser Bino, Niccolò di Lippo Ughurgieri, Buoninsegna di misser Sandro, camarlengo ed eseghutori di kabella da kalende giennaio anno meccxxxvi a kalende luglio anno Mmeccxxxvui debono avere [...]. E debono avere adì xxvi di febraio e quali trenta [r2a: trenta una] lire quindici soldi diero per noi [camzarlengo e provveditori di Biccherna) a Bono Campuglie per Bono [sic] Ambruogio Lorenzetti posti a ragione di Bono che abia avuto a sua ragione in questo livro in fo. ax - xxx lire, xv soldi”. [2] “Bono Campuglie de’ avere adì xx di febraio, e quali sono a scita per questo dì per pulizia de’ Nove - c lire. Anne auto adì xxvi di febraio e quali diero per noi camarlingo ed eseggutori di cabella per lui [ad] Ambrogio Lorenzi dipentore fo. 62 - xxx1 lire xv soldi. Anne auto e quali abiamo posto che abia avere innanzi in questo livro in fo. cxx1 - Lxvin lire, v soldi”.

3-6. Pagamento del 29 aprile-5 maggio 1338.

Per ordine dei Nove governatori del 29 aprile 1338, Ambrogio Lorenzetti riceve dalla Biccherna (docc. 3-4) tramite la Gabella generale 10 fiorini, equivalenti in base

[4] “Mezedima, xxvun d’aprile [1338]. [...].

Anco a maestro Ambruogio Lorenzetti dipengnitore per parte del prezo dala dipentura del palazo de’ singnori Nove diecie fiorini d’oro per loro pulizia - xxx1 lire, xvi soldi, vin denari”. [5] “Debito di kabella. Donno Matteo di San Galghano, Mino di misser Bino, Niccolò di Lippo Ughurgieri, Buoninsegna di misser Sandro, camarlengo ed eseghutori di kabella da kalende giennaio anno meccxxxva a kalende luglio anno MeccxxxvIi debono avere [...]. E debono avere adì V di maggio e quali diero per noi a maestro Ambruogio Lorenzetti in diecie fiorini d’oro com’apare in questo livro innanzi fo. Dooav - oo lire, xv soldi”.

[6] “Maestro Ambruogio Lorenzetti de’ avere adì xxv d’aprile e quali sono a scita per questo dì per pulizia de’ Nove x fiorini d’oro. Anne avuto adì v di maggio e quali diero camarlengo ed eseghutori di kabella in questo livro indietro fo. Lxv in xx lire xv soldi - x fiorini d’oro”.

7-10. Pagamento del 30 giugno 1338

Per ordine dei Nove governatori, Ambrogio Lorenzetti riceve dalla Biccherna (docc. 7-8) tramite la Gabella generale 10 fiorini, equivalenti a 31 lire, 8 soldi e 4 denari di moneta senese (docc. 9-10). [7] ASS, Biccherna 191 [Entrata e uscita in latino], fol. 135v-136r [num. mod. 131v-132r] (riferimento al pagamento ad Ambrogio a fol. 1361). Cfr. Rowley, p. 130 (che sbaglia l'indicazione della carta) e Maginnis, nota 10. Il documento non è citato da Milanesi.

[8] ASS, Biccherna 194 [Uscita in volgare], fol. 48v-49r (riferimento al pagamento ad Ambrogio a fol. 49v). Cfr. Milanesi, p.195 (che riferisce erroneamente il documento all'anno 1337) e Maginnis, nota 10. Il documento non è citato da Rowley. [9] ASS, Biccherna 404 [Memoriale], fol. 611, 67r [num. mod. 79 85r] (riferimento al pagamento ad Ambrogio a fol. 671). Cfr.

«DOLCE

Maginnis, doc. 9. Il documento non è citato né da Milanesi né da Rowley. [10] ASS, Biccherna 404 [Memoriale], fol. 115r [num. mod. 1331]. Cfr. Maginnis, doc. 8. Il documento non è citato né da Milanesi né da

Rovoley.

[ZI “Die xxx iunii [1338]. [...]. Item, magistro Ambrosio Laurentii pictori pro parte pretii picture palatii x florenos auri, de quibus habuimus apotixam

a dominis Novem - xxx1 libras, vm soldos, mi denarios”. [8] ‘xx di giungno [1338]. [...]. Anco a maestro Ambruogio Lorenzi dipentore per parte del prezo per la dipentura del palazzo diecie fiorini d’oro de’ quali avemo pulizia da’ singnori Nove - xxx1 lire, vin soldi, 1 denari”. [9] “Debito di kabella. Donno

VITA»

lengo e singiori aseguitori di chabella dieno avere [...]. E dieno avere e quali diecie fiorini d’oro diero per noi [ad] Abruogio Lorenzeti dipengitore sichome apare per nostra pulizia - xxx lire, x soldi”.

[14] “Anbruogio Lorenzeti dipentore e quali diecie fiorini d’oro furo per dipentura ch'è fatte nel palazo de’ singiori Nove sicome apare per pulizia de’ Nove - x fiorini. Ane auti e quali diecie fiorini li dié gli aseguitori per noi mesi che detti debino avere”.

15-19. Pagamento del 9 dicembre 1338 Per ordine dei Nove governatori, Ambrogio Lorenzetti riceve dalla Biccherna (docc. 15-17) tramite la Gabella generale 10 fiorini, equivalenti a 31 lire e 15 soldi di moneta senese (docc. 18-19).

Matteo di San Galghano,

Mino di misser Bino, Niccolò di Lippo Ughurgieri, Buoninsegna di misser Sandro, camarlengo ed eseghutori di kabella da kalende giennaio anno meccexxxvm a kalende luglio anno MmecoxxxvIi debono avere [...]. E debono avere el dì [30 giugno 1338] e quagli diero per noi al maestro Ambruogio Lorenzetti, come apare a sua ragione innanzi in fo. cxv - xx lire, vii soldi, nn denari”.

[15] ASS, Biccherna 195 [Entrata e uscita in latino], fol. 287r [num. mod. 189r]. Il documento non è citato né da Milanesi né da Rowley né da Maginnis.

[10] “Maestro Ambruogio Lorenzetti de’ avere adì xxx di giugno per pulizia de’ Nove - x fiorini d’oro. Anne avuto e quagli diero per noi camarlengo ed eseghutori di kabella in fo. Lxvn - x fiorini d’oro”.

non è citato né da Milanesi né da Rowley né da Maginnis.

11-14. Pagamento del 24 settembre 1338 Per ordine dei Nove governatori, Ambrogio Lorenzetti riceve dalla Biccherna (docc. 11-12) tramite la Gabella generale 10 fiorini, equivalenti a 31 lire e 10 soldi di moneta

[16] ASS, Biccherna 198 [Uscita in volgare], fol. 57r. Cfr Milanesi, p. 195 (che indica erroneamente il giorno 8), Rowley, p. 130 e Maginnis,

doc. 14 e nota 14. [17] ASS; Biccherna 199 [Uscita in volgare], fol 11r. Il documento

[18] ASS, Biccherna 405 [Memoriale], fol. 721, 79v [num. mod. 49r,

560] (riferimento al pagamento ad Ambrogio a fol. 79v). Cfr Maginnis, nota 15. Il documento non è citato né da Milanesi né da Rowley. [19] ASS, Biccherna 405 [Memoriale], fol. 146r [num. mod. 122r]. Cfr. Maginnis, doc. 15. Il documento non è citato né da Milanesi né da Rowley.

senese (docc. 13-14).

[15] “Die mercurii van decembris [1338]. [...]. Item, magistro Ambrosio Lorencetti pro picturis quas fecit in

[11] ASS, Biccherna 195 [Entrata e uscita in latino], fol. 259r [num.

palatio dominorum Novem, habita Novem - xxx libras, xv soldos”.

mod. 161r]. Il documento non è citato né da Milanesi né da Rowley né da Maginnis.

[12] ASS, Biccherna 198 [Uscita in volgare], fol. 29r. Cfr. Milanesi, p. 195, Rowley, p. 130 e Maginnis, doc. 12.

[13] ASS, Biccherna 405 [Memoriale], fol. 72r, 75v [num. mod. 497,

52v] (riferimento al pagamento ad Ambrogio a fol. 75v). Il documento non è citato né da Milanesi né da Rowley né da Maginnis.

[14] ASS, Biccherna 405 [Memoriale], fol. 115v [num. mod. 920]. Cfr. Maginnis, doc. 13. Il documento non è citato né da Milanesi né da Rowley.

n° [11] “Die Iovis xoam septembris [1338]. [...]. picturasalario suo pro tti Laurencge Ambrosio Item, magistro rum, habita apodixa dominorum Novem - o00x libras, x sol. dos”. [12] “Giuvedì, adì xx

di setenbre [1338]. [e

id

Ancho, al mastro Anbruogio Lorenzetti e quali diecie fiorini d’oro gli demo per pulizia de’ singiori Nove - xxx li soldi”. di Petrucio, [13] “Frate Chimento de’ frati de’ Servi, Bindo Giovanni Petroni, Petro di messer Mino Montanini, camar-

apodixa

dominorum

[16] “Medima, adì vin di dicienbre [1338]. [...]. Ancho, al mastro Anbruogio [scritto su: Petro, depennato]

Lorenzenti e quali diecie fiorini d’oro furo per dipengnitura che fece nel palazo de’ Nove chome apare per pulizia de’ Nove vagliono - xxx1 lire, xv soldi”. [17] “Mezedima, vin di diciembre [1338]. [...].

Anco, a maestro Abruogio Lorenzetti dipignittore i quali diecie fiorini d’oro demo per partte dela dipenttura che à fatta in casa de’ signori Nove - xxx lire, xv soldi”.

[18] “Frate Chimento de’ frati de’ Servi, Bindo di Petrucio, Giovanni Petroni, Petro di messer Mino Montanini, camar-

lengo e singiori aseguitori di chabella dieno avere [...]. E dieno avere e quali trenta una lire quindici soldi diero per noi al mastro Anbruogio Lorenzetti sicome apare per nostra pulizia - xo0x1 lire, xv soldi”.

[19] “Mastro Anbruogio Lorenzetti dipentore die avere adì vini di dicienbre e quali diecie fiorini furo per pulizia de’ Nove messi a scita per lo die - xxx1 libre, xv soldi. Detti denari ane auti e quali trenta una libra, quindici soldi lo demo per pulizia agli asiguitori - xxx1 libre, xv soldi”.

283

PITTURA - MEDIOEVO 20-21. Pagamento del 18-19 febbraio 1339

Per ordine dei Nove governatori (doc. 20), Ambrogio Lorenzetti riceve dalla Biccherna 6 fiorini, equivalenti a 19 lire, 1 soldo e 6 denari di moneta senese (doc. 21).

284

[24] ASS, Biccherna 198 [Uscita in volgare], fol. 10rv (riferimento al

pagamento ad Ambrogio a fol. 101). CfrRowley, p. 130 e Maginnis, doc.10 (che riferisce erroneamente il documento all'esecuzione degli affreschi della Sala della Pace, cfr. anche le pp.10-11). Il documento non é citato da Milanesi.

[25] ASS, Biccherna 195 [Entrata e uscita in latino], fol. 17v, 18v (ri-

[20] ASS, Concistoro 1 [Deliberazioni], fol. 69v. Cfr. Milanesi, p. 195 e Rowley, p.130. Il documento non è citato da Maginnis.

ferimento al pagamento fatto da Ambrogio a fol. 18v). Il documento non è citato né da Milanesi né da Rowley né da Maginnis.

[21] ASS, Biccherna 201 [Uscita in volgare], fol. 19r. Cfr. Milanesi, p.

[26] ASS, Biccherna 196 [Entrata in volgare], fol. 18v, 19v (riferi-

195 (che indica la data secondo lo stile ab incarnatione Domini),

Rowley, p. 130 (che segue Milanesi nell’indicare la datazione e sbaglia l'importo del pagamento) e Maginnis, doc. 16.

[20] “Magistri Ambrosii [apodixa]. Nos Novem gubernatores et defensores Comunis et populi civitatis Senarum significamus vobis camerario et quatuor

provisoribus dicti Comunis quod detis et solvatis sex florenos de auro magistro Ambrosio Lorencetti pictori pro remunera-

tione partis sui laboris picture facte per eum in nostro palatio. Datum Senis in nostro palatio die xvi februarii”.

[21] “Venerdì xvi di febraio [1339]. [...]. Anco a maestro Ambruogio Lorencetti dipentore per partte del suo salaro delle dipenture che fae nel palacco di singniori Nove, pulicia de’ Nove di sei fiorini d’oro - xvim lire, 1 soldo, vi denari”.

22. Pagamento del 29 maggio 1339

Per ordine dei Nove governatori, Ambrogio Lorenzetti riceve dalla Biccherna tramite l'operaio del Comune Bono di Campuglia 55 fiorini, equivalenti a 173 lire, 14 soldi e 2 denari di moneta senese, a saldo del lavoro svolto. [22] ASS, Biccherna 201 [Uscita in volgare], fol. 66r. Cfr Rowley, p.130 (che sbaglia l'indicazione della carta) e Maginnis, doc. 17. Il documento non è citato da Milanesi.

[22] “Sabato xxvun di maggio [1339]. In prima, a Bono Canpuglia operaio del Comune e quagli cinquantacinque fiorini d’oro demo a lui per paghare maestro Anbruogio Lorencetti dipentore per le dipenture che aveva fatte nel palacco di singniori Nove per risiduo del suo salaro, pulica de’ Nove - cixxm lire, x soldi, n denari”.

PAGAMENTO

AD AMBROGIO

PER LA RAFFIGURAZIONE

LORENZETTI

DI UN SINDACO

DEL COMUNE

23-28. Pagamento del 29 luglio 1338

mento al pagamento fatto da Ambrogio a fol. 19v). Il documento non è citato né da Milanesi né da Rowley né da Maginnis.

[27] ASS, Biccherna 197 [Entrata in volgare], fol. 181, 19v (riferi mento al pagamento fatto da Ambrogio a fol. 19v). Il documento non è citato né da Milanesi né da Rowley né da Maginnis. [28] ASS, Biccherna 405 [Memoriale], fol. 100r [num. mod. 771). Cfr. Maginnis. doc. 11. Il documento non é citato né da Milanesi né da Rowley.

[23] “Die Martis xxvm iulii [1338]. [...]. Item, magistro Ambroxio Laurentii pictori pro salario picturarum, habita apodixa dominorum Novem - vi libras, v soldos, vin denarios”.

[24] “Martedì, adì xxv di luglio [1338]. [...]. Ancho, al mastro Anbruogio dipeg[n]itore e quali due fiorini d’oro gli demo per pulizia de’ singiori Nove - vi lire, v soldi, vm denari”. [25] “Die Martis xxvm iulii [1338]. [...]. Item, a magistro Ambrosio pictore pro kabella sex librarum et v soldorum et vm denariorum quos habuit pro pingiendo Sindicum veterem - vi soldos, mi denarios”. [26] “Marteddì xxvm di luglio [1338]. [....]. Anco, da maestro Ambruogio dipignittore i quali sei soldi quattro denari furo per cabella di sei lire, cinque soldi, otto denari ch’ebe per dipegnare el sindacho - vi soldi, rm denari”. [27] “Martedì, adì xxvm di luglio [1338]. [...]. Ancho, dal mastro Anbruogio dipentore e quali sei soldi quattro denari e quali paghò per chabella di vi lire, v soldi, vi denari che ricievete di salario di dipengiare il sindacho che n’aln]dò - vi soldi, in denari”.

[28] “Mastro Anbruogio dipentore die avere adì xxvm di luglio e quali due fiorini d’oro gli demo per pulizia de’ singiori Nove - n fiorini. Detti denari ane auti in chabella di x denari per libra mesi a e[n]trata - vi soldi, nn denari. Ane auti contanti adì xxvun di luglio - n fiorini minus vi soldi, Imi denari”.

Per ordine dei Nove governatori, Ambrogio Lorenzetti riceve dalla Biccherna (docc. 23-24) per la raffigurazione di un sindaco 2 fiorini — equivalenti a 6 lire, 8 soldi e 5 denari di moneta senese — sui quali viene eseguita una trattenu-

ta fiscale nell’ordine di 12 denari per ogni lira ricevuta, ovvero 6 soldi e 4 denari (docc. 25-28). [23] ASS, Biccherna 195 [Entrata e uscita in latino], fol. 240rv [num.

mod. 142rv] (riferimento al pagamento ad Ambrogio a fol. 240v). Il documento non è citato né da Milanesi né da Rowley né da Maginmis.

PAGAMENTO

AD AMBROGIO

DI ALCUNE

DIPIGNITURE

LORENZETTI NEL

PALAZZO

PER L'ESECUZIONE COMUNALE

29-30. Pagamento del 20 giugno 1340

Per ordine dei Nove governatori, Ambrogio Lorenzetti riceve dalla Biccherna per la raffigurazione di piue dipigiture 10 fiorini, equivalenti a 31 lire, 16 soldi e 8 denari di moneta senese.

«DOLCE

VITA»

[29] ASS, Biccherna 205 [Entrata e uscita in latino], fol. 47v. Cfr. Rowley, p. 31 (che sbaglia l'indicazione della carta). Il documento non è citato né da Milanesi né da Maginnis.

Pubblicazione originale: M. Seidel, Dolce vita. Ambrogio Lorenzettis Portràt des Sieneser Staats (Vortrige der Aeneas-Silvius-Stiftung an

[30] ASS, Biccherna 206 [Uscita in volgare], fol. 59. Cfr. Milanesi, p. 105 (che riferisce erroneamente il documento all'anno 1339) e Maginnis, doc. 24 e pp.10-11). Il documento non è citato da Rowley.

Ringrazio per l’aiuto Stefano Moscadelli (trascrizioni effettuate presso l'Archivio di Stato di Siena e consulenza per i problemi di storia locale), Eike D. Schmidt (ricerche topologiche sulla base di archivi elettronici), Dario Melloni e Paola Morisani (computergrafica), Giuseppe Gavazzi (esame tecnico degli affreschi). Le idee su cui si fonda il presente saggio sono state da me esposte il 23 settembre 1997, nell’ambito delle celebrazioni per il centenario

[29] “Die Martis xx iunii [1340]. [...]. Magistro Ambrosio Laurentii pictori decem florenos auri pro suo salario plurium picturarum factarum in palacio Comunis sicut apparet per apodixam dominorum Novem - xxx1 libras, xvI soldos, vi denarios”. [30] “Martedì, adì xx di giugno [1340]. [...].

Ancho al mastro Anbruogio Lorenzetti dipentore e quali diecie fiorini furo per suo salario di piue dipig[n]iture fatte nel palazo del Comune, chome apare per pulizia de” Nove - xxx lire, xvi soldi, vin denari”.

PAGAMENTO

AD AMBROGIO

DI ALCUNE

LORENZETTI

FIGURE NELLE

CAMERE

PER L'ESECUZIONE DEI NOVE

31. Pagamento del 22 novembre 1345

Per ordine dei Nove governatori, Ambrogio Lorenzetti riceve dalla Biccherna 3 lire per l'esecuzione di alcune figure nelle loro carzere. [31] ASS, Biccherna 217, fol. 130r. Cfr. Milanesi, pp.195-197 (che riferisce erroneamente il documento all'anno 1339; Milanesi pubblica pure la sua versione in volgare da un registro oggi perduto, datando il documento all'anno 1345 ma senza indicazione del mese e del giorno), Rowley, p.131 e Maginnis, doc. 38.

[31] “Exitus die Martis xxx novembris [1345]. [...]. Item, magistro Ambrosio Lorengi pictori pro quibusdam figuris pictis et positis in cameris dominorum Novem m libras, apodixa a dominis Novem - m libras”.

der Universitàt Basel, xxx1m), Basel 1999.

del Kunsthistorisches Institut di Firenze, nella conferenza dal titolo

«Der Idealstaat. Eine toskanische Vision» (Lo stato ideale. Una visione toscana), tenuta nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio alla presenza del presidente della repubblica tedesco Roman Herzog e di quello italiano Oscar Luigi Scalfaro. Per una discussione approfondita della storia della letteratura sull'argomento si rimanda a uno studio monografico sulla Sala della Pace progettato dall’autore. Qui viene pertanto citata solo una ristretta selezione della ricca bibliografia. ! M. Seidel, «Castrum pingatur in palatio», in: Prospettiva, 28, 1982, pp. 17-41 [qui pp. 161-191] e L.Bellosi, «Duccio e Simone Martini pittori di castelli senesi “a l’esemplo come erano”», ibidem, pp. 4165 [qui riassunto a p. 192]. ? Buone riproduzioni, introduzione e fortuna critica in: E. Castelnuovo (a cura di), Ambrogio Lorenzetti — IL Buon Governo, Milano 1995. } Ad esempio U. Feldges Henning, «The pictorial programme of the Sala della Pace: a new interpretation», in: Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, xxxv, 1972, pp. 145-162. Ead., Landschaft als

topographisches Portrit — Der Wiederbeginn der europdischen Landschaftsmalerei in Siena, Bern 1980. 4 F. Brugnolo, «Le iscrizioni in volgare - Testo e commento», in: E.

Castelnuovo, op. cit. (vedi nota 2), pp. 381-391. © Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, rv, 4-35; xx, 48; xv,

93. Cfr. Enciclopedia dantesca, vol. 11, pp. 533-534. 6 Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, xx, 48.

7 Ambrosius Mediolanensis, Expositio evangelii secundum Lucam (Patrologia Latina [PL], vol. xv, col. 1709C). 8 Hildegardis Bingensis, Scivias (PL cxcvi, col. 590C). Cfr. Francesco da Barberino, I Documenti d'Amore, a cura di F. Egidi

(Barberino), vol. n, Roma 1924, pp. 253-281 (in particolare pp. 254290)! ° Ptolomaeus de Luca, De regizine principum continuatio, lib. 4, cap. 23, in: S. Thomae Aquinatis opera omnia, vol. vi: Aliorum medi aevi

auctorum scripta, a cura di R. Busa, 1980, pp. 568-569. 10 Ibidem, p. 569.

!! G, Boffito (a cura di), «Il Commento inedito di Cecco d’Ascoli

all’Alcabizzo», in: La Bibliofilia, vi, 1904, pp. 60-61. Cfr. M. Seidel, «Vanagloria. Studien zur Ikonographie der Fresken des Ambrogio Lorenzetti in der Sala della Pace», in: Stidel Jabrbuch, xvi, 1997, pp. 35-90 [qui pp. 293-340]. !? Cecco d’Ascoli, op. cit. (vedi nota 11), p. 123. 5 Barberino, vol. n, pp. 254-256. Gloria significa, nel commento del poeta, «vita suavis» nella Gerusalemme celeste. L'incipit della poesia dedicata alla Gloria recita: «Gloria ci manda Amor signor cortese / per far palese / l’alta allegrega chave / ciascun che degno di vita suave» (p. 253). 14 Ambrosius Mediolanensis, Expositio in psalmum cxvii (PL xv,

col. 1509A). Cfr. Isaia, 32, 18 («Et sedebit populus meus in pulcritudine pacis [...] et in requie opulenta»). Tra le molte affermazioni concordanti con Ambrogio citiamo dallo Speculum virginum: «O sancte pacis pulcritudo [...]» (Speculum virginum, a cura di Ji Seyfarth, Turnhout 1990, p. 228 [Corpus Christianorum, Continuatio Medievalis, v]). 5 Matteo dei Libri, Arringhe, a cura di E. Vincenti, Milano-Napoli 1974; p.298 (cre. pp:35; 37; 221-225, PS 255R20237296)

!6 Augustinus Hipponensis, Erarrationes in Psalmos, Ps. rxxxvuI, 1 (Corpus Christianorum, Series Latina, xxx1x, p. 1208, linao: ? Isidori Hispalensis Episcopi Etymologiarum sive originum libri XX;

285

PITTURA

- MEDIOEVO

lib. vi, cap. x1x, pars v. Una interpretazione specificamente politica dell'equazione chorus — concordia ebbe il suo principale sostenitore in sant'Agostino. Nel libro secondo del De civitate Dei il padre della Chiesa, citando alla lettera Cicerone, istituisce un parallelo tra armonia musicale e concordia politica, tra «harmonia in cantu» e

«concordia in civitate» (lib. 2, cap. 21; cfr. Cicerone, De re publica, lib. 2, cap. 42); un pensiero che ritroviamo nel libro diciassettesimo: «Diversorum enim sonorum rationabilis moderatus que concentus

286

# Paga giornaliera dei manovali negli anni 1337-39: da 3,6 a 4 soldi, eccezionalmente 5 soldi al giorno (cfr. Archivio dell'Opera della

Metropolitana di Siena [AOMS] 177 [già 330], fol. 27r, 32r, 37r, 42r, 47r, 52v; 178 [già 178], fol. 56r, 71r, 78r, 84r, 90r, 97). Nello stesso

periodo la manodopera femminile riceveva 2 soldi al giorno (cfr.

AOMS 177 [già 330], fol: 271, 32r, 37r, 42r, 47r, 52v; 178 [già 331], fol. 566, 705) 4 Giovanni Villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, Parma 1990

concordi varietate compactam bene ordinatae civitatis insinuat uni-

(Villani), vol. 1, p. 201 (lib. x, cap. xciv).

tatem» (cap. 14).

46 Cronache senesi, p. 112.

!8 Archivio di Stato di Siena (ASS), Statuti di Siena 26 (Constitutun Comunis Senarum 1337-1339), fol. 198r, distinctio rv, $ 7.

19 ASS, Statuti di Siena 21, fol. 27r. 20 Tommaso d'Aquino, De regine principum, 1, 16. 2! M. C. De Matteis, La «teologia politica comunale» di Remigio de’ Girolami, Bologna 1977, p. 66 (citazione dal trattato De boro pacis).

2 ASS, Consiglio Generale (CG) 125, fol. 18r-19r (23. 8. 1339). Posa della prima pietra nel febbraio 1340 (Archivio Opera Metropolitana di Siena 331, fol. 103v). 3 L. A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, nuova edizione, tomo xv, parte vi: Cronache senesi; a cura di A. Lisini e F. Iacometti,

Bologna 1931 (Cronache senesi), p. 522 (1338). 24 ASS, Constitutum Comunis Senarum 1337-1339, fol. 203r, distinc-

tio rv, $ 20.

W. M. Bowsky, Le Finanze del Comune di Siena 1287-1355, Firenze 1976 (Bowsky), p. 405. 26 ASS, Biccherna 1, fol. 285r-289v. 2 Cronache senesi, p. 523. 28 W. Berges, Die Furstenspiegel des hohen und spéten Mittelalters, Stuttgart 1938, p. 211. 2 FE Del Punta, S. Donati e C. Luna, «Egidio Romano», in: Dizionario biografico degli italiani, vol. 42, pp. 319-341. Per Siena: p. 323. Per Tavena Tolomei: p. 321 (cfr. anche R. Mucciarelli, I Tolomei banchieri di Siena, Siena 1995, tavole 4, 5, 5a). 30 Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. italien 233. F. Avril, M. T. Gousset e C. Rabel, Manuscrits enluminés d'origine italienne, vol. n:

xm° siècle, Paris 1984, n. 154. Catalogo della mostra Dix siècles d’enluminure italienne (vi-XVI® siècles), Paris 1984, n. 34. L. Borgia, È. Carli, M. A. Ceppari, U. Morandi, P. Sinibaldi e C. Zarrilli, Le

Biccherne — Tavole dipinte delle magistrature senesi (secoli XII-XVII), Roma 1984, pp. 58-59. Attribuzione delle miniature del ms. italien 233 a Rinaldo: L. Bellosi, «Approfondimenti in margine a Cimabue», relazione al convegno Studi Medievali del Kunsthistorisches Institut di Firenze (3. 5. 1999), in: Mzzteilungen des Kunsthistorischen Institutes, x1v, 2000, pp. 44-63 (alla p. 60). Cfr. Idem, «Per un contesto cimabuesco senese — Rinaldo da Siena e Guido di Graziano», in: Prospettiva, 62, 1991, pp. 15-17. 3! Egidio Romano, Reggimento de’ principi (volgarizzamento trascritto MCCLXXXVII), a cura di F. Corazzini, Firenze 1858 (Egidio), p. 274.

? Aegidius Romanus, De regimine principum libri n, Aalen 1967 (ristampa dell’edizione Roma 1607; Aegidius), p. 541 (nr pars, lib. m, Cap. XXXII). 8 Egidio, pp. 274-275; Aegidius, p. 542. 4 Aegidius, p. 542; Egidio, p. 275. Ptolomaeus de Luca, op. cit. (vedi nota 9), lib. 4, cap. 2. Egidio; p.215. 36 M. C. De Matteis, op. cit. (vedi nota 21), p. 29. ® Aegidius, p. 542; Egidio, p. 275. 38 Ibidem. 3° Ibidem. 4° Per le danzatrici simbolo della concordia cfr. M. Seidel, op. ci. (vedi nota 11), pp. 53-54 (simbologia del numero 10; concordia — chorus). Per la presenza di un corteo nuziale e di un gruppo di danzatrici nella raffigurazione di una città cfr. già Omero, Iliade, xvm, 490 ss. (M. Ghelardi, Jacob Burckbardt: L'arte italiana del Rinascimento; Pittura. I Generi, Venezia 1992, pp. 134-135).

4! Egidio, p. 275; Aegidius, pp. 542-543. 4 Il capitolo Studium generale, pp. 258-263. ® Dino Compagni, Crorzca, a cura di G. Luzzatto, Torino 1968, pp.

5-6llib-i

cap. 1)

# Barberino, vol. 1, Roma 1912, p. 219. 4 ASS, Capitano del Popolo 1, fol. 173r-175v (dicembre 1334). Ripreso in: ASS, Constitutum Comunis Senarum 1337-1339, distinctio 1v, $ 203.

4 Il Costituto del Comune di Siena volgarizzato nel MCCCIX-MCCCX, a cura di A. Lisini (Costituto), Siena 1903, vol. 1, p. 350 (distinzione 1, cap. DLXI).

50 S. Tortoli, «Per la storia della produzione laniera a Siena nel Trecento e nei primi anni del Quattrocento», in: Bullettino senese di storia patria, oxm-voxni, 1977, p. 225, nota 33 (informazioni più dettagliate sulle misure diversificate a seconda della qualità), p. 228 (la produzione degli anni 1342-1347 in cifre). 31 Villani, vol. 11, p. 199 (lib. 12, cap. 94). Per avere un termine di confronto, le imposte indirette (cioè la più importante fonte fiscale fiorentina) ammontano all’epoca a 300.000 fiorini (p. 191). 32 ASS, Statuti di Siena 23, fol. 305r (1331). % Costituto, vol. 1, p. 504 (distinzione 1, cap. ccLxvmi). 3 Costituto, vol. 1, p. 464 (distinzione n, cap. cLxv). 5 Costituto, vol. 1, p. 513 (distinzione vI, cap. xLIx). 56 Costituto, vol. 11, p. 509 (distinzione vi, cap. xL1). 5 ASS, Capitano del Popolo 1, fol. 173r (20. 12. 1334). ASS, Constitutum Comunis Senarum 1337-1339, distinctio rv, $ 197. ©8 Nota a margine dello stesso periodo ma di mano diversa: «De pannis florentinis». 59 ASS, Consiglio Generale 129, fol. 8r (20. 7. 1341).

60 Simile è la raffigurazione del mercante di stoffe (fig. 10) nello «Stratto delle Porte» fiorentino (fol. 1v); cfr. D. De Robertis, «Una proposta per Burchiello», in: Rimascizento, ser. 2, vi, 1968, pp. 3119, e S. Partsch, Profane Buchmalerei der biirgerlichen Gesellschaft im spitmittelalterlichen Florenz — Der Specchio Umano des Getreidehandlers Domenico Lenzi, Worms 1981, tavola 62, fig. 175. 6! Devo questa identificazione allo storico del tessuto Marco Ciatti di Prato. © Costituto, vol. n, p. 305 (distinzione v, cap. cuxxIv). 8 Costituto, vol. n, p. 295 (distinzione v, cap. cxt). 6 ASS, Consiglio Generale 54, fol. 36v-37r (24. 7. 1298): «Coram vobis providis et discretis viris dominis Novem [...] proponitur pro parte consulum Artis lane civitatis Senarum et suppositorum dicte Artis lane quod ipsis lanificibus civitatis expedit necessario ut in revidendis et decernendis lanis et multis aliis negotiis necessariis arti ipsorum faciendis et exercendis quod ipsi aliquando et quasi conti-

nue trahant lanas et alia et teneant ipsas super banchas apothecarum eorum propter necessitatem luminis et alias necessitates ingruentes eisdem, et aliquando extra fenestras. Nunc vero notarii domini potestatis qui vadunt scruptando stratas et vias ipsos inquietant et molestant propter quasdam lanas quas inveniunt ipsis lanificibus super eorum bancis et extra bancas, quas aliquis ibidem habet causa revidendi et aliquis causa decernendi et aliquis quia emit et aliquis quia vendit ut occurrerit in talibus negotiis. Unde cum dicta ars nisi sic fieret bene fieri et commode non posset, et ipsa sit utilis et necessaria civibus et civitati Senarum [...], supplicatur vobis et vostro digno offitio quod placeat vobis ac vestre discretioni providere et stabilire per vos vel per Consilium campane Comunis

Senarum, ut consuetum est, temporibus retroactis, quod dicte tali molestie et gravamini supersedeatur tote tempore presentis domini potestatis et in predictis et super ipsis agere et providere quicquid

honori vestro et ad statum et conservationem Artis lane civitatis Senarum videbitur expedire, ita quod ita locum habeat in factis

tempore presentis domini potestatis quam etiam in futuris usque ad

kalendas ianuarii proxime accessuras» (il Consiglio Generale di Siena approva la mozione con 183 voti favorevoli e 10 contrari)

«DOLCE

VITA»

© ASS, Consiglio Generale 129, fol. 57r-59v (18. 12. 1341): «Coram

224 voti favorevoli e 60 contrari). ASS, Consiglio Generale 207, fol.

vobis magnificis et prudentibus viris dominis Novem [...] exponitur

113r (23.9. 1415): «Con ciò to che e coiari non stessero per la strada maestra perché di qualunque s’acosta, e ora

pro parte lanificum universitatis Artis lane dicte civitatis quod ipsi et iurati eorum et suppositi eorum exercentes artem lane prefatam,

ipsam eorum

artem

commode

facere nequeunt

nec possunt,

quoniam ante apotecas eorum in stratis et viis publicis teneant pro dicta eorum arte et eorum pannis exercendis, nectandis et

gubernandis discos et discarellos, vaglios et corbas [...]. Quod quidem ipsi lanifices [...] eorum tenere neque facere possunt, obstante quodam statuto sive ordinamento Comunis Senarum. Set de hoc sepissime per sindicum dicti Comunis Senarum et eius notarios et offitiales molestantur et inquietantur in dampnum et preiudicium eorum et dicte eorum artis sconcium sive disagium et in

sia cosa che altra volta fusse provedudela Croce al travaglio ad porta salaia è arte vitoperosa e guastano e pan[n]i essi sieno tornati a stare a porta Salaia

per la via che va a Sancto Giovanni e a duomo, considerato che i due

terzi della città andando a duomo passano per la detta via e qualunque s’acosta alle loro banche si guasta e panni, e perché la detta arte non è honesta in quello luogho, providdero e ordinaro che i detti coiari non possino né debbano stare nel detto luogho né in niuna strada maestra della città per alchuno modo» (il Consiglio Generale approva con 167 voti favorevoli e 21 contrari). î8 Cronache senesi, pp. 113-114, 371.

ipsius Comunis sive civitatis Senarum nullum utile sive comodum. Quare vobis dominis per eos petitur et cum reverentia postulatur quod vobis et vestre dominationi placeat hoc poni facere ad consilia opportuna dicti Comunis et in eis facere reformari et solempniter provideri et ordinari quod ipsi lanifices et eorum quilibet ante apotecas eorum prefatas de cetero habere possint et continue

79 Ibidem, pp. 416-417. ASS, Statuti di Siena 23, fol. 128r-130v, 132r-

retinere, prout pro ipsa eorum arte fuerit opportunum, dictos discos

82 La tomba di Cino da Pistoia è degli anni 1337-1339. Cino insegna

et discarellos, vaglios et corbas commode et discrete et secundum voluntatem et discretionem dominorum Novem presentium et pro tempore futurorum» (il Consiglio Generale approva la mozione con 240 voti favorevoli e 44 contrari). 6 Costituto, vol. 11, pp. 513-514 (distinzione vi, cap. L). © FL. Polidori (a cura di), Statuti senesi scritti in volgare ne’ secoli xm e xiv, vol. 1, Bologna 1863, p. 189 (Statuto dell’Università ed Arte della Lana di Siena, 1298-1309). 6 Cronache senesi, pp. 113-115, 371-374. W. M. Bowsky, A Medieval Italian Commune — Siena under the Nine, 1287-1355, Berkeley-Los Angeles-London 1981, pp. 130-131. 9 W., M. Bowsky, «The Anatomy of Rebellion in fourteenth-century Siena - From Commune

to Signory?», in: L. Martines (a cura di),

Violence and Civil Disorder in Italian Cities 1200-1500, Berkeley-Los Angeles-London 1972, pp. 253-254, nota 68. 70 W. M. Bowsky, op. cit. (vedi nota 69), p. 256. 71 Idem, op. cit. (vedi nota 68), p. 133 (decreto del 21. 11. 1318). Id., op. cit. (vedi nota 69), pp. 263-264. 72 ASS, Consiglio Generale 92, fol. 77v (18. 8. 1319). 3 ASS, Constitutum Comunis Senarum 1337-39, fol. 232v, distinctio rv, $ 228.

74 ASS, Constitutum Comunis Senarum 1337-39, fol. 232r-v, distinctio rv, $ 227. Cfr. ASS, Consiglio Generale 92, fol. 71v (6. 8. 1319): «[...] dicitur pro parte quorundam bonorum hominum quod carni-

fices, qui quasi occupaverunt universos bonos reductus et stratas civitatis Senarum [...]». 75 ASS, Constitutum Comunis Senarum 1337-39, fol. 232r-v, distinc-

tio rv, $.227-229.

76 ASS, Constitutum Comunis Senarum 1337-39, fol. 232r-v, distincCO ANEZZE

7 ASS, Consiglio Generale 199, fol. 71r-v (29. 11. 1399): «Dinanzi a voi magnifici e potenti signori, signori priori [...], con reverentia expongono e ricordano buono numero di certi vostri servidori e cittadini per adorno utile e honore della vostra città di Siena che: con ciò

sia cosa che la Croce al travaglio si possa dire e sia de’ più begli e honorati luoghi della vostra città di Siena, nel quale per cagione della strada maestra capita tutta la forestaria di qualunche parte che pasviene alla città di Siena, et se mai ne capitò se n’aspecta hora nel sare del perdono [l’anno giubilare 1400], el quale luogho sono usati come sempre banchieri e mercatanti e altre arti honorevoli ala città lo premerita tal luogo et così sarebbe honore e utile costumare per luogo sente e per l’avenire. Et con ciò sia cosa che al presente in esso luogo, tal a e disonorat et vili arti altre e già sieno tornati più calcolari luogo acciò che nel passare del perdono la città sia e paia in esso profare degniate vi che o Supplican bella. e come si merita honorata ala Croce vedere e ordinare che in esso luogo, cioè da Porta Salaia agli orafi et al travaglio et per infino al chiasso de pellicciari al lato non possa a, maestr strada dalla Crocie al ridotto Cinughi in sulla

né altri che faccia stare a buttiga veruno calgolaio per veruno modo di

da tollarseli utile arte et disonorevole, sotto pena di cento fiorini con approva facto per misser lo podestà [...]» (il Consiglio Generale

135v. 80 Cronache senesi, pp. 416-417.

8! G, Prunai, «Lo studio senese dalla yzigratio bolognese alla fondazione della domus sapientiae (1321-1408)», in: Bullettino senese di storia patria, vv, 1950, pp. 30-31. all’Università di Siena dal 1321 al 1326 (P. Nardi, L'insegnamento su-

periore a Siena nei secoli XI-XIV, Milano 1996 [Nardi], pp. 153-154). 8 ASS, Diplomatico Riformagioni, 31. 3. 1327. Nardi, p. 126. L'Università di Siena — 750 anni di storia, Monte dei Paschi di Siena

1991, p. 113.

# Egidio, pp. 246-247 (lib. m, par. i, cap. vi); Aegidius, p. 471. $ Egidio, p. 247. 86 Aegidius, pp. 477-478 (lib. n, par. 11, cap. x): «Secunda cautela tyrannica est sapientes destruere. Vident enim se contra dictamen

rectae rationis agere, et non intendere bonum commune sed proprium: ideo vellent omnes

subditos esse ignorantes et inscios, ne

cognoscentes eorum nequitiam, incitent populum contra ipsos: semper enim qui male agit, odit lucem, et non diligit sapientes, ne

arguantur opera eius: quare tyrannus, cuius sunt opera mala,

sapientes pro posse destruit. Verus autem Rex e contrario sciens se

secundum rectam rationem agere, sapiente, salvat, promovet, et honorat, eo quod ipsi cognoscentes bona opera ipsius, populum commovent ad amorem eius. Tertia est disciplinam et studium non permittere. Tyrannus enim [...] non solum sapientes destruit, sed etiam truncat viam, et inhibet studium et disciplinam, ne efficiantur

aliqui sapientes: semper enim timet per sapientiam reprehendi. Verus autem rex e contrario studium promovet et conservat, videns quod per ipsum, bonum commune et bonus status regni, quem principaliter intendit, meliorari habet». Tommaso d'Aquino (De regimine principum, 1, 4) tratteggia un'immagine simile del tiranno: «Nec solum in corporalibus subditos gravat, sed etiam spiritualia eorum bona impedit [...] suspicantes omnem subditorum excellentiam suae iniquae dominationi praeiudicium esse». 87 Cfr. nota 86. Queste idee penetrano in altra forma nella lingua corrente senese, facilitando notevolmente la comprensione del linguaggio visivo di Ambrogio: «E° signori Nove ordinoro che nella città di Siena ci fusse chondotto lo Studio, perché s'atendesse a ‘nparare qualche vertù e non s’atendesse a stare tutto el dì oziosi e in ghattivi pensieri; inperoché l’uomo richo [...] sempre s'ingegnia di trovare qualche chosa che vengha a danno de’ povari et utilità a sè proprio [...]. E per tòrre via questi inchovenienti e’ signori Nove [...] mandoro per molti venerabili dottori [...]. E per l’avenire Lazlfati tendesi [...] al bene della repubricha» (Cronache senesi, pp. 120121).

88 Nardi, p. 114. 8° Ibidem, pp. 115 ss. G. Cecchini e G. Prunai, Cartularium studîi Senensis, vol. 1, Siena 1942, pp. 128-133 (n. 150), 136-138 (n. 152) Bowsky, Appendice r: entrate dello stato senese nel 1321 lire 164.635 (= 51.448 fiorini). % Nardi, p. 123. G. Cecchini e G. Prunai, cit., pp. 158-163 (n. 160): «offitiales super inveniendis scholaribus» (p. 161). 9 G. Cecchini e G. Prunai, cit., per esempio p. 164. 9 Nardi, p. 117; Appendice 12, pp. 236-238. % Nardi, pp. 129, 228-229. % Ibidem, pp. 124-125, 225-226. Ambrogio Lorenzetti riceve i seguenti pagamenti: 10 fiorini (26. 2.

287

PITTURA

- MEDIOEVO

1338). 10 fiorini (29. 4. — 5. 5. 1338), 10 fiorini (30. 6. 1338), 10 fiorini (24. 9. 1338), 10 fiorini (9. 12. 1338), 6 fiorini (18-19. 2. 1339), 55 fiorini (29. 5. 1339). I costi complessivi ammontano a 111 fiori-

ni, equivalenti a circa 350 lire. In dettaglio cfr. infra appendice documentaria a cura di Stefano Moscadelli. Nardi p:(1937 % 2.3. 1338 (sbider, p. 193).

288

98 Ibidem, p. 193. ® Ibidem, pp. 15, 149, 156. 0 Ibidem, pp. 193-194. 0 Ibidem, p. 194. 0 Ibidem, pp. 194-195. % Ibidem, p. 196 (20. 1. 1339). G. Cecchini e G. Prunai, op. cit. (vedi nota 89), pp. 445-447 (n. 355). % Nardi, pp. 197-198. 5 Ibidem, p. 198. 0 Ibidem, p. 195. Ibidem, pp. 195-196. G. Cecchini e G. Prunai, op. cit. (vedi nota

89), p. 461 (n. 363).

to di questi negozi). 136 Ibidem, p. 123. 157 Ibidem, pp. 122-123. 138 C, Brandi (a cura di), Palazzo Pubblico di Siena — Vicende costrut-

tive e decorazione, Milano 1983, pp. 35, 421-422. Nel 1338-39 la Torre del Mangia superava già in altezza la residenza del podestà. La costruzione fu completata nel 1348 circa. 159 Balestracci/Piccinni, pp. 99-101. 40 Cronache senesi, p. 502 (1331); cfr. p. 410 («la torre posta dentro al palazo de’ Talomei [...] la facea guardare el comune di Siena di dì e di notte»), p. 598 («su la torre de” Sansedoni e nel campanile del Duomo e nel palazzo Cerretani e nel torione de’ Buonsignori e [...] nel torione de’ Pieri stavano [...] più fanti e la guardia de la città»). ASS, Constitutum Comunis Senarum 1337-39, fol. 214v, distinctio 1v, $ 95: «De die autem nulla fiat custodia in civitate Senarum, nisi

super turrim de Sevaiuolis, que est iuxta portam Camollie, et super turrim Bonsignorum et super turrim olim Uguizzignorum veteringhi». 141 ASS, Constitutum Comunis Senaruwn 1337-39, fol. 160v, distinctio

9 Costituto, vol. 1, pp. 134-135.

mat SZ)

0 ASS, Constitutum Comunis Senarum 1337-39, fol. 2477, distinctio rv, $ 322. ASS, Consiglio Generale 116, fol. 41r-45v (4. 11. 1334).

14 Tommaso d'Aquino, De regimzine principum, vol. 1, 1-4. 143 Vitruviî De Architectura libri decem, liber primus, rv: «Primum electio loci saluberrimi. Is autem erit excelsus et non nebulosus [....].

110 ASS, Consiglio Generale 126, fol. 17r-18r (3. 2. 1340). Per l’inizio di questa costruzione ctr. nota 111. ! Costituto, vol. i, pp. 134-135. e Cirmota die ì D. Ciampoli e Th. Szabò, Viabilità e legislazione di uno stato cittadino nel Duecento — Lo Statuto dei Viarî di Siena, Siena 1992

Ciampoli/Szabò), p. 183. * ASS, Consiglio Generale 200, fol. 13rv (6. 8. 1401). 15 ASS, Consiglio Generale 137, fol. 33rv (14. 10. 1345). 116 ASS, Consiglio Generale 116, fol. 41r-45v (4. 11. 1334). ? Cfr. ASS, Constitutum Comunis Senarum 1337-39, distinctio 1v, $ 322) $ Bowsky, p. 374, nota 49 (Baratuccio e Mino vengono definiti nel settembre-ottobre 1334 «uficiali sopra le beleze de la città»). Per Baratuccio Mezolombardi cfr. Bowsky, p. 237; per Mino di Teri di Gualtieri cfr. W. M. Bowsky, op. cit. (vedi nota 68), p. 218, nota 100. 119 ASS, Consiglio Generale 116, fol. 42v (4. 11. 1334). 120 Ciampoli/Szabé, p. 194 (cfr. p. 259). 121 D. Balestracci e G. Piccinni, Siena nel Trecento — Assetto urbano

e strutture edilizie, Firenze 1997 (Balestracci/Piccinni), p. 45. Ciampoli/Szab6, p. 55. Per il problema degli sporti cfr. Ciampoli/Szabé, p. 191; ASS, Constitutum Comunis Senarum 1337-39, fol.

249r, distinctio 1v, $ 338. Per la Costa Larga citata alla nota 116 è richiesta una larghezza di dieci braccia. 2 Ciampoli/Szabé, p. 83. 23 ASS, Constitutum Comunis Senarum 1337-39, distinetio I, $ 185.

2 Costituto, vol. n, pp. 406-407.

ASS, Constitutum

Comunis

Senarum 1337-39, fol. 160v, distinctio m, $ 215. % ASS, Constitutum Comunis Senarum 1337-39, fol. 249v, distinctio rv, 341.

2 Barberino, vol. im, pp. 253-257. 2? ASS, Consiglio Generale 61, fol. 133v (21. 6. 1302). 2 Le percentuali sono calcolate in base ai valori indicati da Balestracci/Piccinni (p. 130). I calcoli si fondano sulla stima degli immobili realizzata sistematicamente dallo stato senese nel 1317-18 (Bowsky, pp. 119 ss.). Per il prezzo di acquisto dei cavalli cfr. Balestracci/Piccinni, p. 113, nota 1 (con ulteriori confronti con l’ammontare dei salari e delle ammende e con i prezzi di olio, cera, vino). °° Balestracci/Piccinni, p. 77. 30 Ibidem, pp. 37-38.

?! Ibidem, p. 116 (Popolo di San Marco), p. 121 (Popolo dell’Abbazia Nuova), p. 122 (Popolo di Sant'Angelo a Montone), p 123 (Popolo della Magione), p. 130 (Popolo di Sant'Antonio) ?° Per una panoramica dei “Popoli”: ibidewz, pianta n. 1. 3 Ibidem, p. 118. 34 Ibidem. 5 Ibidem, pp. 93, 118-120, 127, 134-135 (con riguardo all’immagine cittadina di Ambrogio Lorenzetti si noti l'ammontare sorprendentemente alto di alcuni di questi valori e l'elevato canone di affit-

Cum enim aurae matutinae cum sole oriente ad oppidum pervenient

et his ortae nebulae adiungentur spiritusque bestiarum palustrium venenatos cum nebula mixtos in habitatorum corpora flatu spargent, efficient locum pestilentem». 144 Tommaso d'Aquino, De regizine principum, vol. n, 2. 15 Tommaso d'Aquino, De regirine principum, vol. 1, 3: «Oportet

autem ut locus construendae urbi electus non solum talis sit, qui salubritate habitatores conservet, sed ubertate ad victum sufficiat, non enim est possibile multitudinem hominum habitare ubi victualium non suppetit copia. Unde, ut Vitruvius refert, cum Xenocrates architector peritissimus Alexandro Macedoni demonstraret in quodam monte civitatem egregie formae construi posse, interrogasse fertur Alexander si essent agri qui civitati possent frumentorum copiam ministrare, quod cum deficere inveniret, respondit vituperandum esse si quis in tali loco civitatem construeret».

Ctr. Vitruvii De Architectura libri decem, liber primus, v: «Cum ergo his rationibus erit salubritatis moenium conlocandorum explicatio regionesque electae fuerint fructibus ad alendam civitatem copiosae SSIS

4 Tommaso d'Aquino, De reginzine principum, vol. n, 4 (senza riferimento a Vitruvio). 4 Ibidem.

48 ASS, Statuti di Siena 8, fol. 216v (24. 5. 1324). 4 ASS, Consiglio Generale 118, fol. 39v-41r (19. 4. 1336). Mero di Ghino non possiede i requisiti finanziari minimi richiesti dagli statuti senesi per la concessione della cittadinanza. °° ASS, Constitutum Comunis Senarum 1337-39, fol. 198r, distinctio rv, $ 11 (cfr. fol. 208r, $ 56: all’inizio di ogni anno i Nove si riuni-

scono a porte chiuse con alcuni consulenti particolari per discutere la questione «quomodo [...] Comune Senarum possit se ampliare et suum brachium et potentiam extendere in partibus Maritime»). ” Per esempio Roccalbegna (1293), Civitella Ardenghesca (1317), Montemassi (1328), Sassoforte (1330); Arcidosso, Castel del Piano e Buriano (1331); cfr. il programma pittorico della Sala del Consiglio, adiacente la Sala della Pace (M. Seidel, op. cit. [vedi nota 1]). ? Dino Compagni, op. ci. (vedi nota 43), p. 5 (libro primo, capitolo primo). ? Poco dopo il completamento degli affreschi della Sala della Pace, Domenico Lenzi descrive nel Libro del Biadaiolo «[...] la detta mia patria, Firenze, a la quale nonn è contado che tanto la sostenesse di

suo grano quanto è uno spazio di v mesi e ove sempre più vale la vittuallia ch'a nulla parte di Ytalia [...]» (G. Pinto, I/ Libro del Biadaiolo — Carestie e annona a Firenze dalla metà del "200 al 1348, Firenze 1978 [Pinto], p. 317). PI primi dubbi sono stati espressi da G. Borghini, in: C. Brandi (a cura di), op. cit. (vedi nota 138), p. 446, nota 244. ‘ Durante la campagna d’Italia dell’imperatore Enrico vn Talamone sostituì il porto di Pisa, inaccessibile ai guelfi.

a 3 3 4 26 L. Banchi, «I Porti della Maremma senese», in: Archivio Storico Italiano, x/1, 1869, pp. 58-84; x/2, 1869, pp. 79-91; x1/2, 1870, pp. 713-106; xI/1,

1870,

pp.

92-105;

x1/2,

1870,

pp.

39-129;

A.

Turillazzi, Il porto di Talamone nei suoi rapporti con la Repubblica di Stena dal 1303 alla caduta di quest’ultima, tesi di laurea, Università di Siena, anno accademico 1956-57 (esemplare dattiloscritto in ASS); Bowsky, pp. 31-32; W. M. Bowsky, op. cit. (vedi nota 69), pp. 175-176; B. Sordini, I/ porto della “gente vana”. Lo scalo di Talamone tra il secolo xIl e il secolo XV, Siena 2000, in particolare le pp. 73112 e 125-172. Per la mancanzadi volontà del governo senese di difendere seriamente Talamone cfr. ASS, Capitano del Popolo 1, fol. 99r-103r (ottobre 1320): i Nove ritengono sufficiente una guarnigione composta da un castellano, sette guarde, un servo, un capitano e dieci soldati. 7 ASS, Statuti di Siena 23, fol. 30r (si riferisce principalmente a «fructus, redditus et proventus»). 58 ASS, Consiglio Generale 106, fol. 65v.

39 ASS, Consiglio Generale 106, fol. 65v-68r. 60 ASS, Consiglio Generale 109, fol. 37r-38r (21. 2. 1330). 161 ASS, Capitoli 35, fol. 10. 6 ASS, Consiglio Generale 124, fol. 54rv (7. 5. 1339). Cfr. Consiglio Generale 125, fol. 23v-27r (9. 9. 1339); 126, fol. 66v-67v (12. 5. 1340); 128, fol. 68v-70r (30. 4. 1341). Dopo il completamento degli affreschi della Sala della Pace, nel 1356 e nel 1360/61 si ridestano a Siena le mire su Talamone (cfr. A. Turillazzi, op. ci. [vedi nota 156], pp. 49-60; G. Cherubini, «Attività edilizia a Talamone (1357)», in: Ricerche storiche, 11, 1973, pp. 109-142; B. Sordini, op. cit. [vedi nota 156], pp. 107-112). 16 Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio xm, 450-452: «Tu gli vedrai tra quella gente vana / Che spera in Talamone, e perderagli / Più di speranza che a trovar la Diana». 164 ASS, Camera del Comune 15, fol. 162, cit. in A. Angelini, «I restauri di Pietro di Francesco Orioli agli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nella Sala della Pace», in: Prospettiva, 31, 1982, p. 82, nota 5. Nel corso del nostro esame degli affreschi della Sala della Pace, il restauratore Giuseppe Gavazzi ha espresso il giudizio che il castello in riva al mare (?) sia stato ridipinto in epoca successiva. ‘6 Fondamentali per l’analisi della “Tavola” sono gli studi di G. Cherubini (in particolare «Proprietari, contadini e campagna senesi all’inizio del Trecento», in: Signori, contadini, borghesi — Ricerche sulla società italiana del basso medioevo, Firenze 1974, pp. 231311). Per la valutazione della “Tavola” cfr. anche Bowsky, pp. 119-120. 16 G. Cherubini, op. cit. (vedi nota 165), pp. 289-294. G. Pinto, Toscana medievale — Paesaggi e realtà sociali, Firenze 1993, pp. 4345. Id. «I mercanti senesi e la terra», in: Città e spazi economici

nell'Italia comunale, Bologna 1996, pp. 145, 153-154. P. Cammarosano, «Le campagne senesi dalla fine del secolo xn agli inizi del

Trecento — Dinamica interna e forme del dominio cittadino», in:

Contadini e proprietari nella Toscana moderna (Atti del Convegno di studi in onore di G. Giorgetti), Firenze 1979, pp. 192-193. 167 Maggiano, Ravacciano, Tressa, Papaiano, Santa Regina; cfr. G. Cherubini, op. cit. (vedi nota 165), pp. 263-274. 168 Ibidem, pp. 267, 270-271.

169 Ibidem, pp. 266, 274.

170 Popolo di Maggiano: «unam possessionem vineatam et non 146, vineatam cum uno palatio et duabus domibus» (ASS, Estimo

et fol. 16r). Popolo di Santa Regina: «unam possessionem vineatam 42r). fol. 145, (Estimo us» mactonib de campiam et unum palatium

vineatam et Popolo di San Giorgio a Papaiano: «unam possessionem fol. 2r-5v). 147, (Estimo is» molendin et palatio cum non vineatam non vineatam Popolo di Capraia: «unam possessionem vineatam ct et laboratocum palatio»; «unam possessionem vineatam, lamam claustro, cum us mactonib de riam et buschum et unum palatium 147, fol. 11v). (Estimo lam» domuncu unam et cannetum et cisterna

vineatam et Popolo di Santa Petronilla: «unam possessionem us et unam campiam et cannetum et unum palatium de mactonib 148, fol. 351). domum de terra tegulatam et claustrum» (Estimo et

onem vineatam Popolo di San Pietro a Marciano: «unam possessi de in qua possessione est quoddam palatium campiam et cannetum

vinea et due domus mactonibus cum claustro et una fonte in dicta di San Nazzario: Popolo 28r). fol. 148, (Estimo tegulate» de terra

«DOLCE

VITA»

«unam possessionem vineatam et campiam cum uno palatio et una domo» (Estimo 148, fol. 41r). Popolo «de Chiaggiola»: «unam possessionem vineatam et campiam et buschum et sodatam et palatium seu casamentum cum claustro» (Estimo 148, fol. 47r). Popolo «Oppini»:

«unam

possessionem

vineatam

et terram

labo-

ratoriam et buschum et pratum et silvam et palatium seu casamentum cum claustro» (Estimo 148, fol. 49r). 71 ASS, Estimo 148, fol. 2v. 172 ASS, Estimo 148, fol. 3r. Le case coloniche costruite in pietra sono rare (ad esempio nel Popolo di San Giorgio a Papaiano; Estimo 148, fol. 7r: «unam possessionem vineatam et laboratoriam,

cannetum et domum de lapidibus»). 173 ASS, Estimo 148, fol. 39v.

174 G. Cherubini, op. ci. (vedi nota 165), p. 254. 1 W. M. Bowsky, «The “Buon Governo of Siena” (1287-1355) — A Medieval Italian Oligarchy», in: Speculurz, xvi, 1962, p. 377. 76 G, Cherubini, op. cit. (vedi nota 165), p. 254 (ad esempio: nel caso di proprietà immobiliari tra 200 e 500 lire, 45,8% di investimento del capitale in città e 54,2% nel contado; tra 500 e 1000 lire rispettivamente 31,6% e 68,4%; tra 1000 e 2000 lire 22,5% e 77,5%; tra

2000 e 5000 lire, 22,3% e 77,7%; oltre 5000 lire 14,7% e 85,3%).

siVillani, vol. n, p. 201. Il cronista parla del periodo fra il 1336 e il 1338.

178 G. Pinto, op. cit. (vedi nota 166, 1996), pp. 158-165. 17? Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Torino

1987, pp. 324-325.

180 M, Marti (a cura di), Poeti giocosi del tempo di Dante, Milano

1956, p. 366.

81 Villani, vol. m, p. 200. 8 Ibidem, vol. n, p. 486.

$ M, Marti (a cura di), op. cit. (vedi nota 180), p. 366. 184 Ibidem, p. 369.

85 Ibidem. 86 Ibidem, p. 380. Cfr. le novelle dello scrittore senese Gentile Sermini (G. Cherubini, op. cit. [vedi nota 165], pp. 192 ss.). 87 Cronache senesi, p. 484 (1329).

8 Ibidem, p. 78 (1296). Cfr. p. 125 (1322). Fatti simili avvengono a

Firenze; cfr. Pinto, pp. 127-128 e Id., «Firenze e la carestia del 1346-

47 — Aspetti e problemi delle crisi annonarie alla metà del 300», in: Archivio storico italiano, cxxx, 1972, p. 46.

189 Cronache senesi, p. 549 (1346). Il cronista senese Agnolo di Tura riferisce di un fatto simile accaduto a Roma nel 1328: «Roma romorò per la detta carestia dolendosi il popolo di Roma di re Ruberto, che non li forniva de’ regno di vittovaglia: si levoro a romore gridando: “muoia il senatore”; e corsero in Canpidolio assalendo aspramente il senatore che vera per lo re Ruberto [...], il quale con tutta sua gente, non potendo resistere si s'arendè e usci de la signoria con ver-

gogna e danno. E li romani féro loro senatore misser Stefano de la Colona e misser Pociello Orsini, i quali del loro grano e di quello degli altri potenti romani fecero venire in piaza e aquietarono il popolo» (Cronache senesi, pp. 493-484). 190 ASS, Statuti di Siena 23, fol. 35r. Cfr. ASS, Consiglio Generale

180, fol. 49r (21. 5. 1370): «Quoniam in habundantia grani et bladi est illud potissimum quod prebet securitatem magnam omni statui et a contrario carestia esset omnino nociva [...]»; cfr. anche Consiglio Generale 129, fol. 51 (10. 7. 1341). Simili le argomentazioni dei fiorentini. Nel febbraio 1303 i priori motivano così la loro politica cerealicola: «ad conservationem [...] pacifici et tranquilli status populi et comunis pro certo pertinere noscatur quod pro comuni prefato fiat quod grani et bladi et victualium copia, habundantia in civitate habeatur» (Pinto, p. 127, nota 234). 191 Bowsky, pp. 44-46. Fonti principali: ASS, Statuti di Siena 23, fol. 13r-15v, aprile 1323 (determinazione del limite massimo al giorno e a persona della quantità di frumento acquistabile; norme igieniche; sovvenzioni pet l'importazione di grano; concentrazione del mercato del grano in Piazza del Campo; misure contro la tesaurizzazione); Consiglio Generale 107, fol. 63v-65v, 11. 4. 1329 (obbligo di dichiarare i granai di capienza superiore a 12 staia); Statuti di Siena 23, fol. 2171-220v, giugno 1329 (misure contro la tesaurizzazione del frumento, incentivi all'importazione, divieto di esportazione, controllo dei mugnai); Statuti di Siena 23, fol. 222r-223r, settembre 1329 (il

289

PITTURA

- MEDIOEVO

1..8.1329 e il 1.8. 1330= 150.000 fiorini); Pinto, p. 121.

dell'ufficio senese per le costruzioni stradali lungo la Via Francigena nel 1306 (G. Venerosi Pesciolini, «La strada Francigena nel contado di Siena nei secoli xm-x1v», in: La Diana, vm, 1933, pp. 118-155). L'importanza attribuita alla realizzazione di strade si evince anche dal fatto che un membro rispettivamente delle famiglie Piccolomini e Tolomei partecipasse a questo viaggio di sei giorni. 216 Significativamente, già nel primo capitolo dello Statuturm Dominiorum viarum (Ciampoli/Szabé, p. 73) si legge: «Item cum sit utile et necessarium pro Comuni, quod vie incepte [...] per comitatum Senense [...] debeant finiri [...] et quod in locis ubi expedit quod vie [...] debeant dirigari [...]». Tipico il caso citato nel capitolo 273 (pp. 195-196): «Cum via, qui itur in Montaneam a Costa de Salto [...] usque ad Suveram et per Planum Lacus, sit arta et stricta et torta [...] statuimus [...] quod dicta via [...] debeat diriggari et actari [...]». 217 G. Venerosi Pesciolini, op. cit. (vedi nota 215), pp. 150, 151. 218 Ibidem, pp. 149, 151. Ciampoli/Szabò, p. 56. 219 Ciampoli/Szabé, p. 217 (capitolo 314). 220 Durante il viaggio di ispezione dell’ufficio per la manutenzione delle strade sulla Via Francigena nel 1306 viene ad esempio disposto: «Debet refieri dictus pons de le Valline al Salcio de lapidibus seu mactonibus ad calcinam cum volta de mactonibus magis altus et largus sicut strata requirit» (G. Venerosi Pesciolini, op. cit. [vedi nota 215], p. 147; cfr. anche pp. 143, 145, 146, 149-151). 221 ASS, Consiglio Generale 45, fol. 102rv (9. 6. 1293): «Item cum [..] domini fratres predicatores de Camporeggio nuper adduci faciant trabes de partibus Montis Ammiati pro eorum ecclesia [...] construenda et hedificanda, et dictos trabes non possint ad eorum locum conduci nisi adducantur per pontem et super pontem Arbie. Et ex forma ordinamentorum viarum per dictum pontem non possint cum curris adduci trabes nec mole, et recursum habuerint dicti fratres ad dominum iudicem viarum et pontium pro habenda licentia adducendi dictas trabes, cum ipsas iam adduci fecerint usque ad dictum pontem [...]. Et per dictum iudicem viarum et pontium dictis fratribus denegetur concedi et dari licentia per dictum pontem adducere dictas trabes nisi de licentia fieret consilii generalis, et ipsi domini fratres dicant velle promictere super dictum pontem ponere lisnamina et arenam in tanta quantitate, quod occasione adductionis dictarum trabium pons neque termini existentes et infixi super dicto ponte possint in aliquo ledi [...]» (il Consiglio Generale approva la richiesta). 22 Ciampoli/Szabé, p. 179 (capitolo 240).

20 Cronache senesi, p. 524.

23 ASS, Constitutum

209 ASS, Consiglio Generale 127, fol. 7r.

stinctio rv, $ 329 (cfr. fol. 248r, il $ 328 riguardo agli obblighi comunali di manutenzione di tutti i ponti lungo le strade principali del contado). 24 Anche la larghezza notevolmente minore del ponte rispetto alla strada corrisponde all’uso senese del tempo (G. Venerosi Pesciolini, op. cit. [vedi nota 215], p. 151 [Monterone Logriffi]: «[...] fiat pons de mactonibus seu lapidibus ad calcinam cum volta de mactonibus altitudinis duorum brachiorum et dimidi super fondamentum et amplitudinis duorum brachiorum et longitudinis sex brachiorum da i mictatur dicta strata [...] ampla ubilibet sedecim brachiis

frumento prodotto da cittadini di Siena può essere venduto esclusivamente in questa città); Statuti di Siena 23, fol. 429r-432r, luglio 1334 (divieto di tesaurizzazione del frumento). 192 Cronache senesi, p. 125. 19 Il più importante precedente iconografico è la personificazione di Chiusi che reca il proprio grano alla città di Perugia nella fontana perugina di Nicola e Giovanni Pisano (iscrizioni: «AUGUSTA PERUSIA

FERTILIS DE OMNIBUS HIS», «DOMINA CLUSII FERENS GRANUM PERUSIE»). % Trattato della Agricoltura di Piero de’ Crescenzi traslato nella fa-

290

vella Fiorentina, rivisto dallo Nferiguno, Accademia della Crusca, 2 voll., Bologna, Istituto delle Scienze 1784. ® Per le tecniche di mietitura cfr. A. Cortonesi, I/ lavoro del contadino — Uomini, tecniche, colture nella Tuscia tardomedioevale,

Bologna 1988, p. 125. % Nel Trecento esiste un diritto al pascolo nei campi di stoppie, detto spicaticum (A. Cortonesi, Ruralia - Economie e paesaggi del medioevo italiano, Roma 1995, p. 112).

197 198 19 201 10

Idem, op. cit. (vedi nota 195), p. 126. Ibidem, p. 54. Bowsky, p. 42. Marzo 1320: 1 staio = 8 soldi, 6 denari; maggio 1320: 25 staia = lire; febbraio 1324: 1 staio = 14 soldi; giugno 1326: 1 staio = 7

soldi, 6 denari; agosto 1329: 1 staio = 16 soldi, nonché 1 staio = 1

lira 1 soldo 9 denari (1 lira = 20 soldi = 240 denari). Cfr. AOMS 171 [già 327], fol. 5v, 9v; 172 [già 624], fol. 5r; 173 [già 328], fol. 13r; 491 [già 329], fol. 10r, 11v. 201 Cronache senesi, pp. 484-485: gennaio 1329: 1 staio = da 40 a 67

soldi; prezzo politico 1 staio = 60 soldi; giugno 1329: 1 staio = 40 soldi. Per i prezzi del grano a Firenze cfr. Pinto, pp. 54, 102: prezzo massimo nel 1329 1 staio = 66 soldi; aumento del prezzo dal 1320 al IB29) = FO2%6.

22 Confronta i calcoli del Pinto (p. 144) per Firenze (per mantenere una famiglia di quattro persone a un manovale fiorentino occorrerebbe nel 1329 il 135% [!] della sua paga; in tempi “normali”, come nel 1327, tale fabbisogno ammonta al 58%). 25 Bowsky, p. 50. 15.000 fiorini = 50.000 lire circa (cfr. Id., Appendice 1: entrate dello stato senese nella seconda metà del 1330 = 94.790 lire). Prestiti accesi in precedenza da Siena per l’acquisto di grano: 1296 = 10.000 fiorini, 1306 = 12.000 fiorini (Id., pp. 47, 49). Nel 1329 Firenze subisce un deficit di 60.000 fiorini per acquisti di grano (spese per l'acquisto di grano sostenute da Firenze tra il

2° Molto meno importante è nella Siena del Trecento l'olio d’oliva (A. Cortonesi, op. cit. [vedi nota 196], pp. 43-45). 207 A. I. Pini, «La viticultura italiana nel Medioevo — Coltura della

vite e consumo del vino a Bologna dal x al xv secolo», in: Studi medievali, xv, 1974, p. 843. 208 Leon Battista Alberti, Tre Libri della Famiglia, a cura di F.C. Pellegrini e R. Spongano, Firenze 1946, p. 302. 2° Bowsky, p. 205 (per la definizione di questa fonte fiscale cfr. p. 200). In altre città toscane come Firenze (1336-38), Prato (1338) e

Pistoia (1330) il contributo dell'imposta sul vino alle entrate dello stato raggiunge addirittura il 20-25% (D. Herlihy, «Direct and Indirect Taxation in Tuscan Finance, ca. 1200-1400», in: Firances et comptabilité urbaines du xu° au xvi siècle. Actes du colloque Blankenberge 1962, Bruxelles 1964, p. 392). 210 ASS, Consiglio Generale 125, fol. 16r-17r (20. 8. 1339); fol. 32r-

33v (24. 9. 1339). Cfr. ASS, Consiglio Generale 126, fol. 11r-16v (28.

1. 1340). 21! L. Zdekauer (a cura di), I/ Constituto del Comune di Siena intor-

no dell'anno 1262, Milano 1897, p. 297, distinctio m, $ 75, cit. da T. Szab6, Comuni e politica stradale in Toscana e in Italia, Bologna 1992, p. 190, nota 197. Cfr. Ciampoli/Szab6, p. 120 (capitolo 101) 212 Ciampoli/Szabé, p. 120. 25 ASS, Constitutum Comunis Senarum stinctio rv, $ 325-326.

1337-1339, fol. 247v, di-

214 Cfr. la definizione della strata magistra in ASS, Constitutum Comunis Senarum 1337-1339, distinctio 1v, $ 321.

2! Ricca di interesse è la documentazione di un viaggio di ispezione

Comunis Senarum

1337-1339, fol. 248r, di-

Aeetl22yt

2° Ciampoli/Szabò, p. 190 (capitolo 262). 226 Ibidem, pp. 142-143 (capitolo 158); cfr. p. 138 (capitolo 146).

27 W. Ullmann, The Medieval Idea of Law as represented by Lucas de

Penna. A Study in fourteenth-century Legal Scholarship, London

1946, p. 44.

228 Ptolomaeus de Luca, op. cit. (vedi nota 9), lib. 2, cap. 12.

22° ASS, Constitutum Comunis Senarum 1337-1339, fol. 207r, distinctio rv, $ 44. 2° Già in: I/ Constituto del Comune di Siena intorno dell’anno 1262,

a cura di L. Zdekauer, Milano 1897, p. 25. s G. Venerosi Pesciolini, op. cit. (vedi nota 215), pp. 133-135. La sicurezza delle strade è un argomento importante dei contratti commerciali. Nel quadro dell’accordo per la condivisione dell'uso del porto tirrenico di Talamone, il 17. 8. 1311 Siena garantisce a Firenze la sicurezza della strada maestra che da Talamone conduce, passando per Siena, fino ai confini fiorentini (L. Banchi, op. cit. [vedi nota

156], xn/2, pp. 72-74). A garanzia della securitas interviene in que-

«DOLCE

sto caso anche la messa a disposizione di luoghi di alloggio e ristoro lungo l’intero percorso. Conformemente a ciò Ambrogio Lorenzetti raffigura, presso la strada che nel mezzo fondo costeggia le colline, un edificio che il confronto con gli affreschi volterrani di Cenni di Francesco di ser Cenni consente di identificare chiaramente con una locanda. Cfr. anche Ciampoli/Szabò, p. 197 (capitolo 274). Per il problema delle garanzie di sicurezza fornite per evitare rappresaglie cfr. T. Szab6, op. cit. (vedi nota 211), p. 33. 22 G. Venerosi Pesciolini, op. cit. (vedi nota 215), p. 134. 23 Ciampoli/Szab6, p. 155 (capitolo 190). 24 Ibidem, p. 175 (capitolo 235). Cfr. p. 86. 25 Ristoro d'Arezzo, Della composizione del mondo, a cura di E. Narducci, Milano 1864.

26 Nardi, pp. 123, 128, 176-185, 235. Taddeo è impegnato per contratto a dedicare almeno un quarto delle sue lezioni all’astrologia. 27 Michael Scotus, Liber Introductorius (R. Klibansky, E. Panofsky e F. Saxl, Saturn und Melancholie, ediz. cons. Frankfurt a.M. 1992 [Klibansky], p. 287). 28 Francesco Stabili (Cecco d’Ascoli), L’Acerba, a cura di A. Crespi, Ascoli Piceno 1927, p. 126. Cfr. Bartolomeo da Parma, Tractatus Spherae (1297), a cura di E Narducci, in: Bullettino di bibliografia e di storia delle scienze matematiche e fisiche, xv, 1884, p. 178: «Significat [...] tristiciam, dolorem, lamentacionem, planctum [...],

tradimentum, deceptionem, fraudem, et alia multa mala [...]. Hic quidem planeta omnibus nocet, nemini proficit, quare dicitur esse malus». Ristoro d'Arezzo, op. cit. (vedi nota 235), pp. 92-93: «gente saturnina...] fannosi male insieme [...] non conoscono nè giustizia nè ragione, e sono senza legge; e la gente che non ha legge, e questa gente per ragione dee perire [...] gente ignarda e bestiale [...] petrosa, dura e pessima». 29 Klibansky, pp. 207-208. Cfr. Bernardus Silvestris, Cosmographia, a cura di P. Dronke, Leiden 1978, p. 128: «crudelioris quidem et detestande malitie, dirisque ac cruentis actibus efferatus». 240 Barberino, vol. mi, p. 62. Francesco Stabili (Cecco d’Ascoli), op.

cit. (vedi nota 238), pp. 182-183: «Non ti fidar delle raggiunte ciglie / nè delle folte, se guizza la luce: / Chiunque le porti, guarda non ti piglie. / Empio, d’animo falso e ladro e fello / col bel parlare suo tempo conduce / rapace lupo con vista d’agnello». Guido Bonatus, Astronomia Tractatus Decem, Venetiis 1506, tractatus tertius, capitu-

lum primum de Saturno quid significat: «[...] hominem valde pilosum corpore iunctis superciliis». Alcabitius, Introductorium matus (Klibansky, p. 209): «Nella figura umana egli rimanda al fatto che un neonato abbia capelli neri e crespi [...] e sopracciglia unite». 241 KJibansky, p. 204. 242 Ibidem, p. 282. 245 Ristoro d'Arezzo, op. cit. (vedi nota 235), p. 31. Cecco d’Ascoli, Commento all’Alcabizzo, cit. (vedi nota 11), p. 56: «[...] ut videtis

istos saturninos qui nigerrimi sunt». Arnoldus Saxo, De coelo et mundo, a cura di E. Stange, in: Beslage zum Jabresbericht des Kgl. Gymnasiums zu Erfurt 1904-05, p. 18: «color eius niger». 244 Alcabitius, Introductorium maius (Klibansky, pp. 208-209). 24 Vincentius Bellovacensis (Vincent de Beauvais), Speculum Naturale, lib. 15, cap. 45: «Saturnus [...] plumbeus, obscurus, amans vestes nigras». Alcabitius, Introductorium matus (Klibansky, p. 209). 246 R. Levy e E Cantera (a cura di), The Beginning of Wisdom — An Astrological Treatise by Abraham Ibn Erza, The Johns Hopkins Studies in Romance

Literatures

and Languages,

Baltimore-London-Oxford-Paris 1939, p. 82.

extra vol. xIv,

Î

«Daniels 2 Anticlaudianus iv, 8 (PL cex, col. 528). Cfr. K. Sudhoff,

der von Morley “Liber de naturis inferiorum et superiorum” nach zum Handschrift des Cod. Arundel 377 des Britischen Museums te der Abdruck gebracht», in: Archiv fiùr die Geschich cum sa«[...] 38: p. 1917, vin, Technik, der Naturwissenschaften und cit. (vedi nota turnus sit obscurus». Vincentius Bellovacensis, op.

Bartholo245), lib. 15, cap. 45: «Est ergo Saturnus [...] obscurus». ky, p. 281): maeus Anglicus, De proprietatibus rerum vm (Klibans cit. d'Arezzo, op. «Est autem [...] planeta [...] nocturnus». Ristoro

[...] di colore (vedi nota 235), p. 286: «Saturno si dee dimostrare palido». ab 28 Bernardus Silvestris, op. cit. (vedi nota 239), p. 129. Alanuspraealgore suo «Hic 528): col. cx, (PL 8 rv, dianus Anticlau Insulis,

VITA»

datur gaudia veris, furaturque decus pratis, et sidera florum». 249 R. Levy e F. Cantera (a cura di), op. cit. (vedi nota 246), p. 194. 250 KJibansky, p. 290. R. Levy e FE. Cantera (a cura di), op. cit. (vedi nota 246), p. 193 (cfr. p. 82: «tout lieu d’oscurité qui n’est mie habit). Giovanni Boccaccio, Genealogie deorum gentilium libri, lib. 8, cap. 1: «est [...] significator operis ad [...] destructionem». 2! Francesco Stabili (Cecco d’Ascoli), op. cit. (vedi nota 238), p. 126:

«quella triste stella [...] che mai suo raggio non fè cosa bella». Bartholomaeus Anglicus, De proprietatibus rerum vin (Klibansky, p. 282): «Subiecti Saturno [...] glauci sunt coloris et lividi in capillis, et in toto corpore asperi et inculti, turpia et fetida non abhorrent vestimenta».

22 U. Bauer, Der Liber Introductorius des Michael Scotus in der Abschrift Clm 10268 der Bayerischen Staatsbibliothek Minchen — Ein illustrierter astronomisch-astrologischer Codex aus Padua, 14. Jabrbundert, Minchen 1983, fig. 17 (fol. 85r). 23 Michael Scotus, Liber Introductorius (Klibansky, p. 287). Abù Maar (Klibansky, p. 208): «[Saturno] significa [...] timore, avversità, preoccupazioni». Alcabitius, Introductorium maius (Klibansky, p. 208): «[Saturno] significa [...] preoccupazione, dolore, lamenti, pianto». R. Levy e F. Cantera (a cura di), op. cit. (vedi nota 246), p.

83. Ristoro d'Arezzo, op. cit. (vedi nota 235), p. 31: «[...] significava [...] tribulazione ed angoscia». Alanus ab Insulis, Anziclaudianus wv, 8 (PL ccx, col. 528): «Hic [...] terror, tristities, pallor, planctus».

254 Francesco Stabili (Cecco d’Ascoli), op. cit. (vedi nota 238), p. 127. 25 M. Seidel, op. cit. (vedi nota 11), pp. 47-50 [qui pp. 301-305]. 26 Ibidem, p. 52 [qui pp. 306-307]. 27 Guidonis Bonati foroliviensis mathematici De Astronomia tracta-

tus, Basileae 1550, col. 577. 258 Bartolomeo da Parma, op. cit. (vedi nota 238), p. 182. 259 Tomba del vescovo Antonio d’Orso nella cattedrale fiorentina.

260 Francesco di Neri di Ranuccio, 1264-1348. I Docurzenti d'Amore

furono scritti nella loro parte maggiore tra il 1309 e il 1313, quando Francesco soggiornò in Provenza (i lavori preliminari risalgono fino al 1296, mentre i commenti impegnarono l’autore fino al 1325).

261 B, Degenhart e A. Schmitt, Corpus der italienischen Zeichnungen 1300-1450, 1/1, Berlin 1968, pp. 31-39. Con illustrazioni dello stesso Francesco: Biblioteca Vaticana, Ms. Barb. Lat. 4077; manoscritto decorato da un artista di professione: Biblioteca Vaticana, Ms. Barb. Lat. 4076. 262 26 264 26 266

Barberino, vol. 1, Roma 1905, p. 74. Ibidem, vol. 1, p. 286 (Iustitia). Ibidem, vol. 1, p. 74 (de virtute). Ibidem, vol. m, p. 285. \. Ullmann, op. cit. (vedi nota 227), p. 16. Cfr. Barberino, vol. m,

p. 310, dove la Giustizia dice: «Quintum ut nobis regnantibus sit lux

in terra». 267 Aristotele, Etica Nicomachea, v, 1, 15. 26 Aegidius, col. 80. Luca de Penna (W. Ullmann, op. cit. [vedi nota

227), p. 37). Barberino, vol. in, p. 285 (con erroneo riferimento a

«heticorum vi»). Brunetto Latini, Li Livres dou Tresor, a cura di F.

J. Carmody, Genève 1975, p. 273 (con riferimento a Seneca). 260 Quaestio LVII De Justitia, art. x. Cfr. art. m: «[...] ut Tullius dicit in I de Offic., in tit. de Justitia, circ. princ., ex justitia praecipue viri bono nominantur; unde, sicut ibidem dicit, in ea virtutis splendor

est maximus» (De offictis, 1, 20: «iustitia, in qua virtutis est splendor maximus»). 270 Cfr. note 29, 30. 271 Aegidius, col. 80. Il volgarizzamento italiano del 1287 distingue fra «clarità corporale» e «clarità spirituale» (Egidio, p. 42). Il lumen spirituale della Giustizia è spesso paragonato al lumen naturale del sole. Si veda ad esempio il ciclo di poesie L’Acerba redatto da Cecco d’Ascoli (op. cit. [vedi nota 238], p. 193): «Questa virtute vien dal quarto cielo / E come il Sole illuma l'orizzonte / Così fa questa con lo giusto zelo / Illuma il mondo dando a ciascun merto / E pena vendicando sopra l’onte». 272 Barberino, vol. n, p. 310. 273 Ambrosius Mediolanensis, De interpellatione Iob et David, tract. 3, cap. 8, $ 23 (PL xv, col. 846B). 24]. White (The Birth and Rebirth of Pictorial Space, London 1957, p. 96) e U. Feldges Henning (op. crt. [vedi nota 3], 1972, p. 159), in-

291

PITTURA

- MEDIOEVO

dotti in errore dallo stato di conservazione, interpretano così: «The

light of the picture proceeds from the centre in the town» (Feldges); «The pictorial lighting [...] shines to left and right out of the city centre» (White). 25 C. Brandi, «Chiarimenti sul “Buon Governo” di Ambrogio Lorenzetti», in: Bollettino d'Arte, x, 1955, pp. 119-123. 276 Nella tavola xxx1 è inoltre indicata la differenza tra i colori appli-

29 N

cati “a fresco”, in giallo, e “a secco” (in grigio). Grazie alla loro migliore conservazione, le parti dipinte “a fresco” sono testimoni più attendibili per la ricostruzione dell'incidenza della luce. 2? L'effetto argenteo fu ottenuto con lo stagno. Le parti decorate con metalli sono perfettamente identificabili a luce radente grazie ai contorni incisi.

278 Per questa interpretazione è significativo solo l’affresco a sinistra della linea rossa. La parte destra dell’allegoria del Buon Governo fu rinnovata da Andrea Vanni (tavole xxv, xXx1). 27° Barberino, vol. 1, p. 74. 280 Ibidem, vol. n, p. 285. La frase «aspectus in aurum letificat cor humanum sic et in virtuosos inspicere» (Barberino, vol. I, p. 74) ricorda il passo dell'iscrizione «di non tener giamma’ gli ochi rivolti da lo splendor de’ volti de le virtù». 281 Gregorius Magnus, Moralia in Iob, Lib. xxxv, $ 15 (Corpus Christianorum, Series Latina, cxLmB, p. 1753). Per questa icono-

cumenti in questione fa correre il rischio al lettore di moltiplicare il numero dei pagamenti ricevuti da Ambrogio. 284Se ne conserva una in data 18 febbraio 1339 (doc. 20). Riferimenti

all’effettuazione di apotisse da parte dei Nove governatori sono con-

tenute nei docc. 2-4, 6-8, 10-16, 18-19, 21-22. 28 Così per i pagamenti del 29 aprile-5 maggio 1338 (docc. 3-6), 30

giugno 1338 (doc. 7-10), 24 settembre 1338 (docc. 11-14) e 9 dicembre 1338 (docc. 15-19).

286 Così per il pagamento del 26 febbraio 1338 (docc. 1-2) e 29 maggio 1339 (doc. 22). 287 Così per i pagamenti del 18-19 febbraio 1339 (docce. 20-21).

288 Così per i pagamenti del 26 febbraio 1338 (docc. 1-2), 29 aprile5 maggio 1338 (docc. 5-6), 30 giugno 1338 (docc. 9-10), 24 settembre 1338 (docc. 13-14) e 9 dicembre 1338 (docc. 18-19). 289 Così per i pagamenti del 29 aprile-5 maggio 1338 (doc. 4), 30 giugno 1338 (doc. 8), 24 settembre 1338 (doc. 12), 9 dicembre 1338 (docc. 16-17), 18-18 febbraio 1339 (doc. 21) e 29 maggio 1339 (doc. 22) 29 Così per i pagamenti del 29 aprile-5 maggio 1338 (doc. 3), 30 giugno 1338 (doc. 7), 24 settembre 1338 (doc. 11) e 9 dicembre 1338 (dochilo)) 29! Relativamente al periodo che qui interessa si conservano (cfr. Archivio di Stato di Siena, Archivio della Biccherna del Comune di

(Maginnis). Mentre i lavori di Milanesi e Rowley risultano — come chiarito dalle note poste nella presentazione dei documenti qui editi

Siena. Inventario, Roma 1953, pp. 32-35 e 64-69): 1338 I SEMESTRE Entrata e uscita testo latino (ASS, Biccherna 191) Entrata testo volgare, due esemplari (ASS, Biccherna 192-193) Uscita testo volgare (ASS, Biccherna 194) Memoriale (ASS; Biccherna 404) 1338 11 SEMESTRE Entrata e uscita testo latino (ASS, Biccherna 195) Entrata testo volgare, due esemplari (ASS, Biccherna 196-197) Uscita testo volgare, due esemplari, di cui uno mutilo (ASS, Biccherna 198-199)

— infarciti di errori grossolani o di banali inesattezze, il contributo di

Memoriale (ASS, Biccherna 405)

Maginnis costituisce un intelligente e prezioso tentativo volto a razionalizzare e schematizzare una consistente mole di materiale documentario, peraltro non relativo soltanto ad Ambrogio Lorenzetti e alla Sala della Pace. Si può semmai muovere l'appunto a Maginnis di non aver proceduto — almeno in riferimento agli affreschi della Sala della Pace — a una ricognizione completa delle testimonianze disponibili. Così facendo si sarebbe non solo chiarito definitivamente — cosa che va a merito indubbio di Maginnis (cfr. p. 11) — che il lavoro di Ambrogio si svolse fra il febbraio 1338 e il maggio 1339, ma si sarebbe riportato la somma esatta corrisposta all’artista, ovvero

1339 1 SEMESTRE Entrata testo volgare (ASS, Biccherna 200) Uscita testo volgare (ASS, Biccherna 201) 1339 11 SEMESTRE Entrata e uscita testo latino (ASS, Biccherna 202) Entrata testo volgare, due esemplari (ASS, Biccherna 203-204) Memoriale (ASS, Biccherna 406). Non fanno menzione di pagamenti ad Ambrogio Lorenzetti i registri contabili di Biccherna relativi al m semestre 1337 (ASS,

111 e non 113 fiorini: una inesattezza certamente di lieve entità nu-

menti ad Ambrogio contenuti nei registri contabili di Biccherna del primo semestre 1340, non riferibili però agli affreschi della Sala della Pace, cfr. docc. 29-30, 22. Cfr doc:22: 2? Sulla cronologia dell'esecuzione degli affreschi della Sala della Pace si condivide dunque quanto limpidamente affermato da Maginnis, p. 11. Sulla lieve differenza di calcolo del compenso rispetto alla ricostruzione fornita da Maginnis cfr. supra la prima nota alla presente appendice. 24Il pagamento in questione non è registrato in modo autonomo nel volume dell’Entrata e uscita del camarlengo della Biccherna (ASS, Biccherna 191 e ASS, Biccherna 194) essendo parte del conto dell'operaio Bono con gli ufficiali della Gabella generale.

grafia in generale è determinante: «Quae enim participatio iustitiae cum iniquitate? Aut quae societas luci ad tenebras» (Lettera seconda ai Corinzi, 6, 14).

282 Si fa riferimento a: G. Milanesi, Documenti per la storia dell’arte senese, I, Siena 1854 (Milanesi), G. Rowley, Ambrogio Lorenzetti,

Princeton New Jersey 1958, in particolare appendice B, pp. 129-132 (Rowley) e H.B.J. Maginnis, «Chiarimenti documentari: Simone Martini, iMemmi e Ambrogio Lorenzetti», in: Rivista d'arte. Studi

documentari per la storia delle arti in Toscana, x11, 1989, pp. 3-23

merica, frutto però di un’erronea analisi di un documento (cfr. Maginnis, doc. 10), in quanto scollegata da altri riferimenti non considerati da Maginnis, per quanto presenti nelle fonti da lui stesso studiate (cfr. docc. 23-28). L'iter contabile tipico di un’amministrazione comunale d’età basso-medioevale trovava nella redazione dei registri dell’Ewtrata e uscita solo il momento conclusivo, in funzione dell’approvazione dell'operato dei responsabili dell’ufficio e per questa ragione destinati alla conservazione archivistica. Nella gestione corrente, al centro del meccanismo contabile medievale stava invece la produzione di altre tipologie documentarie, purtroppo assai spesso eliminate, che invece garantivano la continuità del procedimento amministrativo, ovvero quelle forme di registrazione di Debitori e creditori, alle quali appartengono anche i Memoriali del camarlengo di Biccherna. Si avverte che i documenti qui editi sono tutti conservati presso l'Archivio di Stato di Siena (ASS) e che le date espresse nei documenti stessi secondo lo stile ab incarmnatione Domini, sono state riportate nelle intitolazioni allo stile moderno. Per il cambio tra il fiorino d’oro e la lira senese cfr. anche C.M. Cipolla, «Studi di storia della moneta, 1: I movimenti dei cambi in

Italia dal secolo x al xv», in Università di Pavia. Studi nelle scienze giuridiche e sociali pubblicati dall'Istituto di esercitazioni presso la Facoltà di Giurisprudenza, xx1x, 1948, pp. 31-239, in particolare le

pp. 189-190. 25 In conseguenza infatti dell’alto numero di registrazioni che si ri-

feriscono in realtà a un solo evento, un’oscura correlazione fra i do-

Biccherna 187-189 [Extrata e uscita), 403 [Memoriale]). Per i paga-

VANAGLORIA Studi sull’iconografia degli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nella “Sala della Pace”

Per il cronista Giovanni Villani, un serio motivo della «punizione divina» che aveva colpito Firenze sotto forma della terribile alluvione del 1333 era la «vanagloria delle donne». I flutti non avevano trascinato via solo il Ponte Vecchio ma anche l'emblema di Firenze, l’antico monumento equestre di Marte. «Vanagloria delle donne» significa sconfinata predilezione per begli ornamenti e abiti costosi: Villani inveisce infatti contro «disordinate spese e ornamenti».!

Le città toscane combattono sin dal primo Trecento la «vanagloria delle donne», emanando una quantità di leggi suntuarie poi modificate dopo breve tempo, in quanto il continuo mutamento delle mode richiede un costante adeguamento delle norme. Astute manovre di aggiramento costringono a formulazioni sempre più precise e sempre

più prolisse. Giudizi discordanti sull'entità delle limitazioni necessarie contribuiscono inoltre a numerose revisioni. Mentre membri del governo fanatici sono urtati dal più piccolo bottone d’oro, legislatori più tolleranti approvano

l’uso di ornamenti e di belle stoffe, anche se in misura ragionevole.

Non tutti i decreti possono essere datati con certezza. Per

gli studi iconografici non è dunque sempre facile essere sicuri che, all’epoca della creazione dell’opera d’arte studiata, una certa norma fosse ancora in vigore nei termini esatti in cui si trova citata. Tale incertezza fortunatamente non

sussiste nel caso degli affreschi della Sala della Pace (tavo-

le xoiv, xxx, ovini, x1vI, Lu), realizzati tra l’inizio del 1338

e la metà del 1339. Le attestazioni dei pagamenti ad

Ambrogio Lorenzetti si sono tutte conservate, e vanno dal

26 febbraio 1338 al 29 maggio 1339. Il testo degli ordina-

menti allora in vigore, finora inedito, ci è stato tramanda-

to dal notaio Cecco di Tura in un fascicolo dal titolo Hec sunt nova

capitula ordinamentorum

Comunis Senarum

et

sue correctiones specialiter deputata offitio donarti et camparii offitialis Comunis

Senarum

(Archivio di Stato di

Siena, Campaio 1, fol. 13r-29r).

Cecco di Tura trascrisse il testo fra il giugno 1335 e il febbraio 1338. Le leggi che il notaio aveva davanti erano in vigore fra il 1332 e il 1343, date che risultano dai seguenti

cinque indizi: i, 1. Il testo di Cecco corrisponde, a parte piccole variant 28 il ta alla versione della legge del 4 giugno 1330 rivedu luglio 1330. e dal 2. Il serminus post quem del maggio 1332 si desum le nute conte più fatto che nel testo di Cecco non sono di i Statut dagli anni norme transitorie stabilite per due Siena 23. conten3. Le ultime pagine scritte da Cecco (fol. 29v-31r) ta emana lago» del a «Selv alla sono un'ordinanza relativa

nel giugno 1335.

4. Nel fascicolo in questione, al testo di Cecco segue un fo-

glio scritto dal notaio Ambrogio di Francesco (fol. 32r) con la delibera del 25 febbraio 1338 riguardante una generale riduzione delle ammende, di cui non c'è traccia

nella trascrizione di Cecco. 5. La revisione delle leggi suntuarie successiva ai decreti del giugno-luglio 1330, il cosiddetto Statuto del Donnato, risale al 1343.4 Nel valutare gli ordinamenti citati nei capitoli seguenti occorre tenere presente la severità dell’esecuzione e l’ammontare delle pene. Le ammende comminate nelle leggi del 1330 appaiono straordinariamente elevate. Ogni cittadino o cittadina senese che adorni il proprio cappello con bottoni d’oro o pelliccia di vaio rischia ad esempio un'ammenda di duecento lire” una somma corrispondente al compenso annuo del celebre capomastro dell'Opera del Duomo di Siena Lando di Pietro.‘ Il notaio, dipendente dal supremo organo di governo, il Consiglio dei Nove, deve accontentarsi di uno stipendio annuo di centoventi lire” Per il lavoro durato circa un anno e mezzo nella Sala della Pace, Ambrogio Lorenzetti riceve trecentocinquanta lire, meno del doppio dell'ammenda prevista per questa infrazione che a noi oggi appare banale. Che le multe fossero effettivamente comminate e le ammende incassate trova conferma nella motivazione della decisione unanime del febbraio 1338 di ridurre tutte le ammende a un massimo di venticinque lire (una somma

pur sempre spaventosamente alta): «Auditis multis murmurationibus factis de penis impositis per statuta seu ordinamenta offitii donarii dicti Comunis que graves et inconvenientes comuniter ultra debitum reputantur [...]».° Considerazioni economiche svolgono un ruolo importante nella emanazione di queste leggi: per questa via il governo senese si propone sia un aumento degli introiti statali, sia una riduzione delle spese private: «Cum satis videatur au-

geri Comunis Senarum introitus dum comoda suorum civium procurantur, ac etiam satis ostendatur expensas dicti

Comunis minui dum vitantur sumptus superflui civium predictorum [...}»>.!® Pubblicazione, denuncia, imputazione, condanna ed esazione dell’ammenda sono organizzate con efficienza nell'ambito delle leggi suntuarie. Due volte al mese viene data pubblica lettura della legge, fra l’altro anche in cinque chiese «de mane quando homines et mulieres magis erunt in dictis ecclesiis congregati». Il testo della legge è depositato tradotto in volgare presso la tesoreria comunale, in latino presso il Consiglio dei Nove e la guardia cittadina. La polizia è tenuta a controllare regolarmente la città in lungo e in largo. Ogni denuncia è ricompensata con il cinque per cento dell’ammenda riscossa. Due testimoni «de veritate», un testimone «de veritate» sostenuto da cinque testimoni

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PITTURA

- MEDIOEVO

294

1. Ambrogio Lorenzetti, Effetti del Mal Governo sulla città (particolare), Siena, Palazzo Pubblico

«de fama», dieci testimoni «de fama» oppure quindici testimoni «de credulitate» sono ritenuti sufficienti per provare un'infrazione. Al funzionario che trascuri di procedere contro un trasgressore è comminata una pena pecuniaria pari al mancato introito dello stato. Il procedimento d'accusa deve concludersi entro due settimane al massimo. I processi possono svolgersi anche in assenza degli accusati. L'ammenda deve essere corrisposta entro dieci giorni: scaduto questo termine viene aumentata di un quarto. Il pagamento può essere imposto mediante il pignoramento o la liquidazione dei beni. Il marito risponde delle infrazioni della moglie. Al fine di esercitare una pressione “pedagogica” su una moglie innamorata dei bei vestiti e degli ornamenti costosi, al marito è permesso compensare l'ammenda con la somma rimborsabile della dote. Le ammende di una figlia nubile o di un figlio minorenne sono a carico dei genitori. Degli orfani risponde il fratello maggiore.!!

Per dimostrare la rilevanza di questi decreti per l’interpretazione iconografica esamineremo cinque scene del ciclo di affreschi nella Sala della Pace: le donne importunate dagli sgherri nell’affresco della Città governata dalla tirannide; la celebre raffigurazione delle danzatrici al centro del Buon Governo; l’incontro tra cittadini ricchi e campagnoli poveri alle porte della città di Siena; la discussa allegoria dei ventiquattro uomini collegati da un canapo; e infine la coppia raffigurante Vanagloria e Avaritia.

2. Ambrogio Lorenzetti, Effetti del Mal Governo sulla città (particolare), Siena, Palazzo Pubblico

I. QUOD

MULIERES

NON

VADANT

CINTE

DE SUPER

Sul margine destro della Città in decadenza per il governo di un tiranno si vedono due giovani che assistono impassibili alle brutalità dei soldati. Due sgherri afferrano per le braccia una donna vestita di rosso, con i biondi capelli sciolti (figg. 1, 2, tavole 11, vi). La donna porta ricchi ornamenti: un diadema aureo tempestato di perle, una cintura d’oro e nastri d’oro al vestito. Allo stato originario degli affreschi questi ornamenti dorati, oggi quasi del tutto sbiaditi, dovevano essere particolarmente vistosi, perché in tutta la scena del Cattivo Governo che si estende sull’intera parete soltanto questa figura è adorna del prezioso metallo. Grazie alle leggi suntuarie di Siena è possibile determinare con precisione ceto e mestiere della donna, e con essi il significato moraleggiante della scena. Di particolare interesse sono la cintura alta, sottolineata dalla doratura, e l’assenza di un mantello. Nell’ordinanza tramandataci da Cecco di Tura troviamo per la prima volta una disposizione che vieta a tutte le cittadine e nobildonne, nonché a tutte le figlie sopra i dodici anni delle famiglie borghesi e aristocratiche, di cingersi le vesti sotto il seno. L'ordinanza reca il titolo «Quod mulieres non vadant cinte de super».! Il termine «cinte de super» è inequivocabile. Gli studiosi di storia del costume lo spiegano così: «esibire una cintura che stringe il busto sotto il seno».! Da questo divieto sono escluse le serve, le povere («salvo

VANAGLORIA

n)Ni:

EN À È % À ba

Di26S 3a

Nazionale 3. Simone Martini, Miracolo del Beato Agostino Novello, Siena, Pinacoteca

quod [...] in famulabus et servitialibus et in personis miserabilibus») e le meretrici («et etiam in meretricibus»).! La ricchezza degli ornamenti esclude che la donna dal vestito rosso faccia parte della servitù o della “povera gente”. Quest'ultima è definita meglio nella coeva glossa a margine di un anonimo scrivano: «Additum est quod illa intelligatur miserabilis persona que non habeat in bonis valentiam centum librarum».! Ne consegue che la donna con il vestito rosso € la cintura vialta è una meretrice che si è agghindata in quel modo et parva vel magna a person stoso e proibito. «Quod nulla tu Senarum cuiuscumque fuerit etatis in civitate vel comita

seu perin domo vel extra domum ferat aliquam perlam azione provoc una è perle di adorno las».!6 Un diadema

particolarmente grave. Qualunque forma di corona («facta in modo vel forma corone vel coronelle») era vietata; permessi erano unicamente cerchietti per capelli di forma semplicissima e del costo massimo di un fiorino.! La condizione di emarginazione dalla società si manifesta non solo negli eccessi ma anche nel divieto di portare determinati capi di vestiario. In quanto dissoluta, la meretrice non può portare mantelli: «Quod nulla meretrix vel ruffiana vel alia quacumque mulier inhoneste vite et condictionis et fame possit [...] per civitatem Senarum vel extra deferre, portare aut tenere ad dorsum [...] mantellum».!* Ciò che Ambrogio ci dice della tirannide è doppiamente distruttivo: un cattivo governo corrompe l’intera popolazione — anche la gioventù, che assiste impassibile allo stu-

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PITTURA

- MEDIOEVO

pro e all’uccisione di donne da parte di bande di soldati che saccheggiano indisturbati la città.

Uno sguardo alle altre raffigurazioni nella Sala della Pace ci insegna con quanta accuratezza si tenga conto del rap-

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porto tra ceto e abbigliamento. Nel Buon Goverro sono «cinte de super» solo le contadine e la manovale che lavora in cima ai tetti della città, in mezzo al gruppo di muratori. La novità della norma sulla cintura alta può forse aver contribuito alla pignoleria con cui essa è osservata. Prima che fosse emanato il Carzpazo, successivo al 1332," persino le Sante erano raffigurate «cinte de super»; tra l’altro nella Pala del Carmine terminata da Pietro Lorenzetti nel 132920 Nell'opera tarda di Ambrogio invece, ad esempio nella Piccola Maestà?! o nella Allegoria della Redenzione, non vi è traccia di questo particolare. In tale contesto è da rilevare che la Mzsericordia raffigurata in abiti contemporanei negli affreschi di Montesiepi,? la cui data è dibattuta, porta un abito cinto sotto il seno. Il miglior termine di paragone dell’esatta differenziazione lorenzettiana dell’abbigliamento a seconda del ceto sociale è il dipinto di Simone Martini raffigurante una Guarigione miracolosa operata

dal beato Agostino Novello, avvenuta a Siena (fig. 3, tavola x1x).2* Incomparabile è il modo in cui lo stesso gruppo di persone ci è mostrato dentro la casa e per la strada. La balia che porta alla chiesa senese di Sant'Agostino il bambino, vestito con la tonaca degli eremitani in segno dell'avvenuto miracolo, è la stessa donna che ha provocato l'incidente dondolando con troppa foga la culla appesa al soffitto. La madre che incede al centro della processione famigliare («Margarita uxor Mignuccii D. Joannis Paganelli de Senis»), nella scena dell'incidente si china piena di timore sul bambino sanguinante. La zia («Nera D. Joannis Paganelli»), che nella casa chiama in soccorso il beato Agostino Novello che scende dal cielo, nel vicolo porta una candela alla tomba del beato in segno di gratitudine. La balia, che per la strada esibisce il suo vestito più bello, color rosso acceso, è caratterizzata come persona di basso

rango da tre indizi. Non porta il mantello, il vestito non tocca terra («quod nulla famula possit trainare [...] pannos sui dorsi per terram»),? e il capo è coperto da un semplice panno bianco. La madre Margarita ha intrecciato con

cura i capelli, sciolti dentro casa, prima di andare in chiesa. La sua acconciatura alla moda non è coperta con un panno grezzo come i capelli della balia, bensì con un velo finissimo. In quanto ricca borghese, Margarita porta un

mantello foderato di pelliccia. Madre e zia sottolineano il loro rango con un lungo strascico. La zia Nera ha il capo avvolto nel mantello, tuttavia ha osservato attentamente le disposizioni emanate a Siena per motivi di ordine pubblico (tavola xx1): chi si copre il volto è infatti passibile di pena. Perciò il mantello può solo essere trattenuto con la mano ma non chiuso: «Nec intelligi debeat obturata [...] esse faciem contra formam predictam ea mulier que reperta fuisset [...] obturare faciem cum mantello quod teneret [...] simpliciter cum manu ad obturationem faciei, dum tamen cam partem mantelli cum qua sic obturaret non tenuerit [...] consutam vel aplicatam cum spillis vel alio modo nisi cum manu».

II. CIVITAS

VIRGINIS

- CIVITAS

VENERIS

Nell’affresco del Buon Governo, Ambrogio Lorenzetti accentua vistosamente l’importanza del gruppo di fanciulle danzanti (figg. 4, 5, tavole xxx, xxx). Le nove ragazze sono raffigurate in primissimo piano e all'incirca al centro della scena. Al confronto con i compratori e i contadini posti sullo stesso livello, la loro rilevanza semantica appare nettamente maggiore. Inoltre la danza non è inglobata nel contesto narrativo, perché nessuno dei cittadini o dei campagnoli osserva il gruppo. Il contrasto fra la composizione d'insieme che isola le ragazze in una sfera a sé e la reazione dell’osservatore, il cui sguardo è subito attratto da questo gruppo affascinante, suscita interesse per il significato della scena. La maggior parte degli storici dell’arte, degli storici e dei politologi che hanno commentato gli affreschi di Ambrogio interpretano la danza in senso simbolico. Alcuni vi vedono una raffigurazione delle principali idee guida del programma iconografico nella Sala della Pace, “pax” e “concordia”. Altri vi individuano una simbologia locale: nove danzatrici come metafora del governo dei Nove oppure il disegno della loro danza come immagine dell’iniziale di Siena.?? Altri ancora ritengono di aver trovato la soluzione ipotizzando che si tratti dell’illustrazione delle Theatrica nel contesto di un programma iconografico delle “Artes mechanicae”.?0 Ma anche quegli esegeti che tentano risolutamente di evitare un’interpretazione simbolica, in ultima analisi non riescono a sottrarsi alla suggestione di un contenuto di natura speciale. La generale perplessità si manifesta in modo sintomatico nella tesi estrema di Jane Bridgeman,? per la quale il fascino enigmatico della scena si spiegherebbe con il fatto che essa raffigurerebbe solo in apparenza delle giovani donne, mentre in realtà si tratterebbe di danzatori. La vera identità dei giullari, usi ad agghindarsi con abiti stravaganti, si rileverebbe dai capelli corti, dalla cintura bassa e dal petto piatto. Una scena di fanciulle danzanti al centro della città tardomedioevale sarebbe da escludere anche soltanto in ragione delle severe regole di comportamento. Delle brave ragazze toscane del Trecento non si sarebbero mai esibite come danzatrici sulla pubblica piazza: «The concept ot girls dancing in a public thoroughfare [...] would have seemed as alien an activity to a fourteenth-century inhabitant of Siena as to a present-day citizen of Mecca».}

I primi dubbi sulla tesi della Bridseman vengono dalla posizione socialmente emarginata dei giullari, la cui presenza nella città di Siena era tollerata con molte riserve. Perché proprio dei giullari dovrebbero essere raffigurati in posizione tanto eminente al centro dell'immagine della città ideale? Ma sono i confronti tematici a determinare la definitiva ricusazione della tesi: acconciatura e abbigliamento della Salomè nell’affresco quasi coevo realizzato da Taddeo Gaddi nel castello dei conti Guidi a Poppi (fig. 11) somigliano ad esempio fin nei dettagli a quelli delle belle senesi (figg. 5-9, tavole xxx, xxxt1, xxx). Si notino in particolare i capelli raccolti sul collo e la scollatura ampia, da

VANAGLORIA

una spalla all'altra. Persino la pancetta vezzosamente sottolineata dalla cintura, che secondo la Bridgeman non si ritroverebbe mai e poi mai nell'immagine di una fanciulla del Trecento, caratterizza la Salorzè di Poppi. Un aspetto accomuna le argomentazioni dei due orientamenti, sia di quello che (come fa Jane Bridgeman) si concentra esclusivamente sulla resa narrativa, sia di quello che accentua il contenuto simbolico. Punto di partenza di entrambe è il ravvisamento di una contraddizione fra V’immagine raffigurata e le norme di comportamento del Trecento. Mentre Jane Bridgeman elabora la tesi dei giullari dal fatto che per le giovani donne era sconveniente ballare sulle piazze e per le strade di Siena, gli studiosi che propendono per una interpretazione simbolica motivano il loro modello di soluzione con il contrasto fra l’immagine e

la realtà del Trecento: l'evidente impossibilità di concepire la scena come parte della vita quotidiana avrebbe per forza rinviato l'osservatore trecentesco a un piano inter-

pretativo simbolico. Questa argomentazione ha acquisito una posizione tal-

mente dominante negli studi sul Lorenzetti, che prima di procedere a una nuova interpretazione si impone una verifica dei dati di fatto. Se ne ricava che finora il dibattito storico-artistico ha frainteso l'intenzione delle leggi senesi. Scopo dei paragrafi in questione non era la severa educazione delle fanciulle, bensì il mantenimento dell’ordine pubblico. Il tenore del decreto del 1291 rimane sostanzialmente lo stesso in tutti gli statuti senesi dalla fine del Duecento alla metà del Trecento: «Statutum et ordinatum est quod nullus vadat ballando vel riddando vel aliquod aliut ludum faciendo per civitatem Senarum eques vel pedes cum pannis mulieris vel cum pannis clericorum vel religiosorum vel velatus ante faciem aliquo modo vel causa».? Nell'edizione in volgare del 1309/10 si legge: «Che neuno vada ballando o vero reddando con panni di chierici o vero di femene o vero velato anzi la faccia». Vietato non è il ballo in sé: ai danzatori è fatto divieto di travestirsi da donne o da chierici e inoltre di coprirsi il viso. Il senso del provvedimento non è dunque impedire divertimenti

innocenti,

bensì evitare

sgradevoli

conse-

guenze politiche. Ciò spiega perché questo paragrafo sia stato ripreso negli statuti emanati nel 1310 a protezione del governo dei Nove, e per l'esattezza nel capitolo in cui si parla anche della costituzione di una guardia civica «pro defensione status pacifici tempore rumoris»: il governo senese teme che simili spettacoli possano dar luogo a inopportuni assembramenti e nell'ipotesi peggiore trasformarsi in fattori scatenanti di disordini politici.” Ogni tentativo di costruire l’argomentazione iconografica su quel contrasto apparentemente insormontabile fra l’immagine raffigurata e le realtà del Trecento appare quindi bal fuorviante. A Siena non esiste un generico divieto di riil ne, questio della senso il chiamo lare. Se invece modifi

i sultato finale appare più plausibile: le fanciulle danzant felice. nte olarme partic ca un'epo simboleggiano mento e Nel trattato pedagogico del primo Trecento Reggi

lia di teCostumi di Donna, Francesco da Barberino consig , e anzi piazze e nere le ragazze da marito lontane da strade

di rinchiuderle in casa. Anche affacciarsi alla finestra è una concessione del tutto eccezionale che il severo autore fa alle giovani donne.?* Un capitolo della versione tardoduecentesca in volgare del noto trattato De regirzine principum di Egidio Romano affronta direttamente il problema del ballo nei vicoli e sulle piazze. A differenza dell'originale latino, il testo italiano, rivolto anche a lettori borghesi, è si-

gnificativamente intitolato Che cosa uno uomo die difendare a le figliuole, ch'elle non ballino, nè vadiano, nè stieno troppo ne le piazze? Analogamente, gli statuti senesi della prima metà del Trecento vietano che in occasione di feste private quali matrimoni o investiture a cavaliere si balli fuori della casa o di cortili o giardini separati dalla strada. Nelle feste celebrate in occasioni pubbliche le danze erano invece la regola. I cronisti senesi attestano ripetutamente che per festeggiare la visita di un principe! oppure un successo militare o politico! venivano organizzati «molti balli per tutte le contrade», come illustra con particolare presnanza la cronaca della festa del 1343 per l'inaugurazione della Fonte Gaia: «L’aqua de la fonte del Canpo di Siena vene la prima volta nel Canpo [...] in domenica la mattina di Paschua [...] de la Pentecoste; per la qual cosa i Sanesi per Siena si fe’ gran festa e fu tale che è incredibile a scri vere e narare le magnificienze che per ognuno era fatto. Sì per li Nove e così per li grandi e popolari e artefici d’ogni arte di per sè a gara più l’uno che l’altro di nuovi giuochi [...] senpre con canti e balli e gioia e festa omini, done e fanciulli [...] che sarebe incredibile a scrivare».!* Non dissimile è il significato del girotondo di fanciulle danzanti a Firenze. Giovanni Villani riferisce che in occasione di determinate feste si poteva ammirare un «ballo di donne» sulla piazza antistante la chiesa di Santa Trinita. Nel 1327 Firenze rese onore al duca di Calabria con una «grande festa e danze e allegrezza».? Nel nostro contesto è importante che Villani citi le allegre danze in pubblico come metafora di un’epoca particolarmente felice e pacifica: «Nel detto tempo [1300] essendo la nostra città di Firenze nel maggiore stato e più felice che mai fosse stata dapoi ch’ella fu redificata [...]. L’alegrezza de’ Fiorentini, che infino a que’tempi stavano in molte delizie, e morbidezze, e tranquillo, [...] e ogn’anno quasi per tutta la città per lo calen di maggio si faceano le brigate e le compagnie d’uomini e di donne, di sollazzi e balli».#°

Il risalto dato alle danzatrici è inoltre accentuato nell’affresco della Sala della Pace dalla scelta dei vestiti e degli ornamenti. Due fanciulle indossano ad esempio abiti decorati con libellule e bruchi, espressamente proibiti nella vita quotidiana (figg. 6, 7, tavole xx1x, xxxI1). Nello Statuto del Campaio, in vigore all’epoca in cui fu affrescata la Sala della Pace, è rigorosamente vietato l’uso di stoffe decorate con lettere, foglie o fiori e soprattutto con animali. Segnatamente è specificato che il divieto vale per qualunque persona e per qualunque fascia di età, in casa e fuori, nell’ambito cittadino e in campagna, a prescindere dalle differenze tecniche: le figure di animali sono tutte vietate, siano esse «picte», «contexte», «supraposite», «designate»

o «infixe». E nessun controllore doveva lasciarsi fuorviare dal pretesto che la stoffa contestata in realtà non mostrava

297

PITTURA

- MEDIOEVO

CIA IAA IAN PAROOCITESIIGII

5. Ambrogio Lorenzetti, Buon Governo, città (danzatrici), Siena, Palazzo Pubblico

VANAGLORIA

figure di animali ma soltanto «figure similitudinis animalis.”

Le stoffe indossate dalle danzatrici rappresentavano di certo i sogni reconditi di molte senesi. Altrettanto certo è che molte ragazze e giovani donne, confidando in tempi

più liberali, lavorassero in segreto alla realizzazione di quei desideri; quando infatti nel 1343 cade improvvisamente a Firenze l’analogo divieto, e l’uso di simili abiti — previa registrazione ufficiale connessa con il pagamento di una

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tassa speciale — viene consentito, quei tesori gelosamente

custoditi vengono alla luce: Ghilla, abitante nella parrocchia di Santa Reparata, esibisce un vestito con motivo a farfalle.#* Nello stesso quartiere, Agnola si gloria di una stoffa decorata «cum uccellinis viridibus et vermillis et litteris albis»,4° mentre una certa Niccholosa della parrocchia di San Pier Maggiore possiede addirittura un abito «cum visibus leonum albis et uccellinis et litteris».?° La fantasia delle facoltose patrizie fiorentine non conosce letteralmente limiti. Francesca degli Albizzi possiede «unum mantellum drappi rilevati in campo coloris gialli cum uccellinis pappagallis farfallis et rosis albis et vermiliis et aliis multis figuris vermiliis et viridibus et cum trabacchis et draconibus et cum litteris et arboribus giallis et nigris et cum multis aliis figuris cum diversis coloribus».?! Tona, la moglie di Francesco de’ Medici, tenta di offuscare la rivale di casa Albizzi con una stoffa decorata «cum litteris viridibus coronatis cum coronis albis et cum uccellinis albis [...] et cum arboribus viridibus et cum rosis albis et vermiliis».?? Bastano questi pochi esempi per illustrare l’importanza attribuita a quel tempo alle stoffe decorate. Tali dettagli sono dunque da prendere in attenta considerazione nell’analisi iconografica del problema qui esaminato. Nel 1338, l’anno in cui Ambrogio Lorenzetti inizia a dipingere la Sala della Pace, il piacere del lusso si traduce a Siena in vera e propria esaltazione. I cittadini affluiscono nelle botteghe dei Salimbeni, nelle quali è esposta una fornitura di beni dal prezzo esorbitante. In vendita ci sono merci di lusso del valore di 130.000 fiorini, tra cui stoffe

riccamente decorate (75.000 fiorini) e cinture d’argento

impreziosite d’oro (15.000 fiorini). Le merci non vengono

solo ammirate come «cose grande e nuove», annota il cronista Agnolo di Tura: nell’arco di un anno vengono anche vendute, benché i prezzi richiesti siano astronomici. Agnolo di Tura calcola in 100.000 fiorini le entrate annue di tutti i sedici rami della famiglia Salimbeni.” In base ai libri contabili conservati sappiamo che le entrate della Biccherna, l'ufficio di cassa principale del Comune senese, nella prima metà del 1338 raggiunsero un ammontare di

42.614 fiorini. Ma forse colpisce di più il confronto tra il ricavato della vendita di quelle stoffe e cinture e il costo complessivo degli affreschi dipinti da Ambrogio Lorenzetti nella Sala della Pace: stoffe e cinture resero 90.000 fiorini, gli affreschi ne costarono 111. Gli scettici obietteranno che Agnolo di Tura potrebbe aver esagerato nell’indicare il valore dei beni di lusso. Ma anche dimezzandone

il valore i prezzi sarebbero ancora abbastanza impressio-

ebbe incarinpanti. A un uomo come Agnolo di Tura, che

alto chi in seno all’amministrazione comunale fino al più livello dell’apparato contabile dello stato (“Provveditore

6. Ambrogio Lorenzetti, Danzatrici (particolare), Siena, Palazzo Pubblico

della Biccherna”), non possiamo comunque imputare errori troppo gravi quando cita somme di tale entità.” Lo sfarzo degli abiti delle danzatrici è accresciuto dagli ornamenti, anch'essi fuori del comune. Si riconoscono sei cinture d’oro, un nastro per capelli d’oro, bordi d’oro lungo l’attaccatura della spalla e una discreta quantità di bottoni d’oro. Lo strumento della cantante (un tamburello) è riccamente intarsiato d’oro e d’argento (figg. 5-9, tavole xx1x, XXXII, XXXIII). Le leggi senesi del giugno 1330 consentono unicamente bottoni d’argento del peso di un’oncia e mezza (gr 41,25). All’epoca in cui viene affrescata la Sala della Pace vigono le disposizioni un po’ più generose dello Statuto del Campaio, che permette anche l’uso di bottoni dorati.” Le cinture d’oro rimangono tuttavia una rarità. Significativamente, nella bottega di orefice riprodotta sul fondo della città ideale di Ambrogio Lorenzetti, tra le molte cinture esposte in vendita non ce n’è una decorata con il prezioso

metallo. L'unico elemento corrente nell'aspetto delle danzatrici è la forma dell’ampia scollatura. Le donne borghesi possono esibire scollature della circonferenza massima di «uno bracchio et uno quarro et medio quarro» (cm 82 circa), mentre ai ceti inferiori («camereria», «nutrix», «famula»,

«servitialis quecumque») è permessa una circonferenza massima di cm 60.”

Sommando questi dati storici si comprende meglio l’argomentazione di Ambrogio. Il contenuto simbolico è formu-

PITTURA

- MEDIOEVO

7. Ambrogio Lorenzetti, Danzatrici (particolare), Siena, Palazzo Pubblico

lato con chiarezza crescente nel progressivo allontanarsi dalla descrizione del quotidiano. Innanzi tutto il maggiore risalto sottolinea una distanza formale delle danzatrici dai mercanti e dai contadini. L’insolita scena di fanciulle danzanti trasmette poi la sensazione di un’accresciuta festosità tipica delle epoche politicamente felici. E la riproduzione dei vestiti e dei gioielli banditi dalla vita quotidiana rafforza infine l’impressione di eccezionalità. Ma veniamo alle questioni specifiche: che cosa significa il numero dieci delle fanciulle (nove danzatrici e una che suona e canta)? Perché gli ornamenti dei vestiti e i gioielli

mento visivo si trova invece nel quadrilobo della cornice sopra alla città: l’inconsueta raffigurazione della divinità planetaria Venere in veste di danzatrice (fig. 10) allude al significato del gruppo di fanciulle danzanti. All’osservatore di oggi questo riferimento non appare probabilmente né di grande interesse, né di facile comprensione. Anche un visitatore molto attento della Sala della Pace di norma si concentra prima sull’affascinante immagine della vita cittadina, per poi, nella migliore delle ipotesi, gettare una fugace occhiata alle figure della cornice,

sono messi così in risalto? Quale fu in ultima analisi il mo-

temporanei di Ambrogio valutavano in modo ben diverso il rapporto fra immagine e cornice. L'immagine della Venere danzante, nella quale essi riconoscevano l’enigmatico messaggio del destino politico del loro stato, doveva avere l’effetto di una calamita (fig. 10). Grazie alla familiarità con il mito della fondazione di Siena, essi capivano il nesso causale che collega il gruppo delle fanciulle con la figura della Venere danzante (fig. 4, tavola xxx). In questo contesto troviamo inoltre la chiave per comprendere le tre anomalie iconografiche che caratterizzano questa divinità planetaria. La prima singolarità è costituita dagli stemmi di Siena riprodotti nella cornice della Venere: la “Balzana” bianconera e il leone bianco in campo rosso segno del “Popolo”

tivo della scelta di un gruppo di fanciulle danzanti come fulcro compositivo dell’immagine di una città di artigiani, bottegai e mercanti? Per rispondere a queste domande non occorre avventurarsi sul terreno scivoloso delle speculazioni iconografiche: Ambrogio Lorenzetti ha infatti indicato all’interpretazione delle linee sicure fornendo la sua composizione non soltanto di un commento in forma di iscrizioni, ma anche — cosa raramente considerata’ — di un commento per im-

magini nella cornice (fig. 4, tavola xxx). L'iscrizione fa riferimento alle danzatrici con il termine «di diletto» citato nel contesto dell’elogio del buon governo («seguita poi ogni civile effetto — utile, necessario e di diletto»). Il com-

in apparenza meno eloquenti (fig. 4, tavola xxx). I con-

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8. Ambrogio Lorenzetti, Danzatrici (particolare), Siena, Palazzo

9. Ambrogio Lorenzetti, Danzatrici (particolare), Siena, Palazzo

Pubblico

Pubblico

(fig. 10). Le altre divinità planetarie sono invece convenzionalmente affiancate da segni zodiacali (figg. 13, 14).

non si tratta dell’originale, bensì di una copia dal modello di Ambrogio (fig. 10) realizzata da Andrea Vanni alcuni decenni dopo, ma sempre nel Trecento. Il rifacimento si era reso necessario a causa dei gravi danni provocati dall'umidità alla porzione sinistra dell'immagine della città. Le altre copie realizzate da Andrea negli affreschi della Sala della Pace presentano tutte lievi variazioni nello stile e nella moda, conformemente alle convenzioni vigenti nella seconda metà del Trecento, ma la configurazione iconografica dell’originale è sempre riprodotta fedelmente. Nel caso di un'immagine di Venere proclamante un dogma dell’“ideologia” senese, il governo avrà senz'altro tenuto in modo particolare all’esattezza iconografica del ripristino.

L’'anomalia compositiva ci segnala dunque in maniera inequivocabile un particolare collegamento tra Venere e Siena. In secondo luogo balza agli occhi l’inconsueto abbinamento tra pianeti e segni zodiacali. In base alle regole astrolo-

giche che valevano nell’antichità come nel Medioevo e nel Rinascimento, a Venere spettano i segni della bilancia e del toro. Ambrogio invece rompe con la tradizione e omette la bilancia. Il segno del toro ha un risalto inusitato, superando per grandezza la figura della dea (fig. 10). La terza anomalia è costituita dal movimento della dea (fig. 10). La Venere danzante non è — a quanto mi risulta — un'immagine canonica di questa divinità planetaria. Per quanto la figura non sia visibile per intero, è possibile determinarne con certezza il movimento sulla base di confronti iconografici. Si confronti l’analogo atteggiamento

della Salomè danzante dipinta da Taddeo Gaddi nel castello di Poppi (fig. 11)? Ancora più evidente è la posizione quasi identica delle braccia della Salomè dipinta dal fratello di Ambrogio Lorenzetti, Pietro, nella chiesa di Santa Maria dei Servi a Siena (fig. 12). Poiché la “giornata” della Venere nella Sala della Pace si è conservata bene e senza alcuna perdita delle parti dipinte a secco, è superfluo domandarci se la dea in origine avesse in mano un attributo. ario Prima di procedere nell'esame iconografico è necess noto Com'è fresco. dell’af tà tentici un chiarimento sull’au

A differenza di Firenze, dove poeti, scrittori e cronisti del

calibro di Dante! Brunetto Latini e Giovanni Villani® parlano esplicitamente dell’influsso del pianeta Marte sulle sorti della città sull'Arno, le fonti senesi del Trecento tacciono di un analogo “culto di Venere”. La Siena medioevale ricorda principalmente con le arti visive il mito della sua fondazione, nel quale il pianeta Venere svolge un ruolo determinante.

Questo diverso modo

di comunicare

ha

fatto sì che, mentre la storia della fondazione di Firenze è tuttora familiare agli storici e agli studiosi della letteratura, a Siena il mito medioevale è del tutto dimenticato persino nella tradizione locale. Ciò nonostante è stato possibile rintracciare cinque testimonianze scritte che permettono di ricostruire un “culto

di Venere” nella Siena medioevale. Le fonti sono in parte molto remote una dall’altra e dunque, se prese individual-

PITTURA

- MEDIOEVO

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10. Andrea Vanni (copia dell'affresco di Ambrogio Lorenzetti), Venere, Siena, Palazzo Pubblico

mente, poco probanti. Se messi in relazione tuttavia, que-

sti testi documentano una tradizione ininterrotta che va dal primo Trecento fino al tardo Cinquecento e offre una solida base per l’interpretazione iconografica. Il primo testimone è il poeta, medico e astrologo Cecco d’Ascoli, fino al 1324 docente all’Università di Bologna. Nel 1326 Cecco si reca a Firenze al seguito di Carlo d’Angiò, ma cade ben presto in disgrazia, viene processato per eresia e muore sul rogo il 16 settembre 1327. Le frasi seguenti sono tratte dal commento, probabilmente redatto a Bologna, al De principits astrologiae dell’ Alcabizzo.9 Cecco parla delle sorti delle città di Siena e Bologna, fondate entrambe sotto il segno del toro e dunque sotto l’influsso del pianeta Venere (ovviamente l’astrologo sa che «taurus et libra sunt domus Veneris»): Ostendit significata tauri [...] In civitatibus que sunt subposite sive edificate sub ipso, ut in Bononia et in Civitate Senarum® [...]. Et quia Bononia fuit edificata sub tauro, qui est exaltatio [...] domus veneris [...], idcirco hic populus regnat et regnabit in futurum [...]. Unde regnabit populus, deprimentur nobiles, vigebunt tripudia [...], cantus, et nunquam destruetur Bononia [...]. Venus est significator ipsorum, idcirco omnes sunt cantatores, tripudiatores et suppositores et domine sunt pulcre quia Venus significat mulieres;

et in Civitate

Senarum

accidunt

isti actus

et

precipue pulcritudo mulierum, ex qua de causa illa civitas vocatur a domino Cino pistoriensi Civitas ydearum.9

La citazione è illuminante per comprendere l’iconografia della Sala della Pace. Lo scritto di Cecco prova che il “culto di Venere” senese era noto a Bologna e a Firenze già decenni prima che Ambrogio iniziasse ad affrescare la Sala della Pace. Al pari del Lorenzetti, anche Cecco d’Ascoli in-

terpreta il mito della fondazione in senso politico. L'influsso del pianeta Venere assicura al governo del popolo eterna stabilità. La città, fondata sotto il segno del toro, non potrà mai essere distrutta, mai subire cioè la

sorte che Ambrogio illustra sulla parete opposta della Sala

della Pace con l’esempio dello Stato soggiogato dalla tirannide. In relazione al collegamento tra il commento di Cecco e il dipinto di Ambrogio, appare sbalorditivo che anche l’astrologo scelga le metafore della danza e del canto per rappresentare una situazione politica particolarmente

felice sotto il segno di Venere. Inoltre, l'elogio della bellezza delle abitanti della “Civitas Veneris” si può applicare direttamente all’interpretazione delle danzatrici di Ambrogio. Nel commento si trova infine anche un riferi-

mento alla parola chiave “di diletto” che nell’epigrate della Sala della Pace allude al gruppo delle danzatrici: «Venus dat [...] cantum et delectiones».”° Il nostro secondo testimone si chiama Bindino di Ciallo da Travale.”! Bindino è l’autore di una mediocre cronaca di scarso valore documentario. Conosciamo solo pochi dati sulla sua vita: nato tra il 1354 e il 1356 a Travale presso Siena, nel 1385 sposò Niccola di Maffeo Ghini e morì a Siena nel 1418.?? Qui gli fu eretto un monumento funerario nella chiesa di San Domenico.” Nel Breve dell’arte de’ pittori senesi, Bindino è definito un pittore.?* Ma finora non è stato possibile identificare un solo suo dipinto. Come artista Bindino apparteneva anco-

ra alla generazione dei nipoti di Ambrogio Lorenzetti. La sua testimonianza appare dunque di estremo interesse per l’interpretazione di un’opera d’arte del Trecento senese. «El significhatore di Siena è Venus, e l’asciendente è ’l tauro; el significhatore di Firenze è Marte e sciendente l’ariete».? Questa frase, priva di commento, è del tutto isolata nel testo di Bindino. Un autore che si accontenta di un’indicazione così concisa dà evidentemente per scontato che la storia sia ben nota al lettore senese. Se ne può pertanto dedurre che all’epoca anche l’iconografia planetaria di Ambrogio fosse comprensibile a tutti nella sua diretta relazione con la consapevolezza politica della città di Siena. Resta da sottolineare il parallelo tra il mito della fondazione di Siena e di Firenze, su cui ritorneremo tra poco analizzando il testo del Ghiberti.

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11. Taddeo Gaddi, Salomè, Poppi, Castello dei Conti Guidi

12. Pietro Lorenzetti, Salomè, Siena, Santa Maria dei Servi

La terza fonte, pur celeberrima, potrebbe facilmente essere ignorata nel nostro contesto. Quando Enea Silvio Piccolomini definisce Siena la «Civitas Veneris», a prima vista si limita a caratterizzare il contenuto della sua Historia de duobus amantibus del 1444. La formula si trova nella lettera di accompagnamento al romanzo indirizzata a Kaspar Schlick, che Enea considera non solo un

«Conditaque est ut astrologi quos novimus peritissimi tradidere vigiliis atque laboriosa indagine persercitati et rimati celum sub gradi Thauri decimo tertio quod ad multos annos experientia rerum magistra cobrobatum fuit; et

testimone, ma anche per così dire un comprimario della

storia svoltasi a Siena tra il 1432 e il 1433. L'incipit della lettera — «se le notizie che ho sono esatte, anche tu allora

hai molto amato» — doveva apparire alquanto audace in rapporto al rango del destinatario, il nobile cavaliere, consigliere imperiale e signore di Neustadt. Un'impressione tutt'altro che mitigata dalla frase seguente: «E invero Siena è la città di Venere» — cioè a dire: noi tutti, Enea Silvio, Kaspar Schlick e il protagonista della storia, il giovane cavaliere tedesco al seguito dell’imperatore Sigismondo, con le nostre avventure erotiche abbiamo reso omaggio alla si gnora di Siena, la dea Venere.” Il “mito medioevale”, che a Enea Silvio evidentemente

ispirava sollazzi grossolani, era invece profondamente inviso agli storiografi umanisti di Siena, i quali cercavano fonti apparentemente più autentiche, per quanto possibile “etrusche”, per ricostruire con rinnovata precisione gli albori della loro città. Soltanto l’ingenuo Sigismondo Tizio, famigerato per il suo latino prolisso ma utile a storici e storici dell’arte in quanto zelante compilatore, ritornò nel primo Cinquecento su quel mito della fondazione di Siena:

nos ex his que in presentia subnectemus verum esse didi-

cimus effectu comprobante».”8 Questa tradizione rimase viva fino al tardo Cinquecento. Il nostro ultimo testimone, Giugurta Tommasi, nella sua Historia di Siena redatta verso la fine del secolo riteneva ancora degno di fede l’influsso del pianeta Venere sulle sorti di Siena: «Per commune oppinione di tutti i Mathematici dominatore di Siena è Tauro, domicilio di Venefo

Ma il miglior commento al “mito di Venere” senese non ci viene dalla cronachistica, dalla letteratura o dall’astrologia, bensì dalla prima storiografia dell’arte. Il racconto di Lorenzo Ghiberti della distruzione della statua di Venere che fino al 1357 si trovava sulla Fonte Gaia, esattamente di fronte a quel Palazzo Pubblico decorato con gli affreschi di Ambrogio, si rivela una fonte essenziale per comprendere l’iconografia del Lorenzetti: Avendo la terra moltissime aversità di guerra con Fiorentini

et essendo nel consiglo ragunati el fiore de’loro cittadini, si levò uno cittadino et parlò sopra a questa statua in questo tenore: “Signori cittadini, avendo considerato [...] quanto la vdolatria è proibita alla nostra fede, doviamo credere tutte le adversità noi abbiamo, Iddio ce le manda per li nostri errori. Et veggiallo per effecto che da poi noi honoramo detta statua,

PITTURA

- MEDIOEVO

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14. Ambrogio Lorenzetti, Giove, Siena, Palazzo Pubblico

sempre siamo iti di male in peggio. Certo mi rendo che per

insino noi la terremo in sul nostro terreno, sempre arriveremo male. Sono uno di quelli consiglerei essa si ponesse et tutta si lacerasse et spezzassesi et mandassesi a soppellire in sul terreno de’ Fiorentini”. Tutti d’achordo raffermarono el detto del loro cittadino et così missono in essecutione et fu soppellita in su el nostro terreno.8 Il testo del Ghiberti è stato studiato così a fondo da Julius von Schlosser,! che posso limitarmi a un breve riassunto. Il Ghiberti apprese la storia da una fonte attendibile. A informarlo fu, durante il suo soggiorno a Siena nel 1416, l’orafo Jacomino del Tonghio, il quale possedeva un dise-

gno della statua di Venere realizzato da Ambrogio Lorenzetti (!). La prova della veridicità della storia è stata trovata da Alessandro Lisini in un verbale del Consiglio senese del 7 novembre 1357: «Pro statua fontis Campi. Item quod statua marmorea ad presens in Fonte Campi posita, quam citius potest tollatur ex inde eum [sic] inhonestum videatuta Sulla base del racconto del Ghiberti, degli studi archivisti-

ci del Lisini e dei testi citati di Cecco d’Ascoli, Bindino di Ciallo da Travale, Enea Silvio Piccolomini, Sigismondo Tizio e Giugurta Tommasi, la storia della statua senese di Venere può essere così ricostruita: oltre all’apprezzamento artistico per la statua antica, il motivo della sua collocazione privilegiata al centro della città era soprattutto la

VANAGLORIA

fede nel suo influsso benefico sulle sorti politiche del Comune (Ghiberti: «Et con molto honore la collocarono in su la loro fonte come cosa molta egregia. Tutti concorsono a porla con grandissima festa et honore et muroronla magnificamente sopra essa fonte»). Dopo la catastrofica pestilenza del 1348 e la caduta del governo dei Nove nel 1355, il timore di tutto ciò che era pagano prende il sopravvento sugli argomenti estetici. La paura del carattere demoniaco del culto degli astri e del peccato di idolatria induce a distruggere la statua fino a poco prima tanto ammirata. Considero attendibile anche il passo in cui il Ghiberti riferisce che i frammenti della statua di Verere furono seppelliti dai senesi, come per una sorta di fattura, in territorio fiorentino. I senesi sanno infatti con quanta suscettibilità i fiorentini reagiscano alla magia di una scultura pagana e alla fede negli astri. Come a Siena, anche nel centro di Firenze sorge un monumento a un'antica divinità planetaria. Sulle speranze e le angosce connesse dai fiorentini

alla statua di Marte sul Ponte Vecchio ci informa Giovanni Villani. Dante teme il potere esercitato su Firenze da Marte («[...] ond’ei per questo sempre con l’arte sua la farà trista»).® Brunetto Latini vede in Marte la causa della perenne discordia: «Car Mars, ki est une de vu planetes, est apelés deus de batailles [...]. Por ce n'est il mie merveille se li florentin sont tozjors en guerre et en descort, car celui planete regne sor aus. De ce doit maistre Brunet Latin savoir la verité, car il en est nés, et si estoit en exil lors K'il compli cest livre por achoison de la guerre as florentins».89 L’astio tra i fiorentini e quella divinità planetaria dalle connotazioni tanto negative deve aver notevolmente alimentato la gioia dei senesi per la loro patrona foriera di felicità. Con simili premesse, l'installazione della statua di Venere può essere intesa anche come diretta risposta alla ben più antica esposizione della statua di Marte nel centro di Firenze. Con un'occhiata beffarda all’eterna rivale, nei

periodi di maggior splendore del governo dei Nove i senesi si gloriano di essere i beniamini di Venere. Proprio il 1338, l’anno in cui Ambrogio Lorenzetti inizia ad affrescare la Sala della Pace, fu più che positivo in senso sia politico che economico: «La città di Siena era in questo tempo pacifico e grande stato e felicità, e le pecunia erano

abondanti per le più persone». Riassumendo i risultati finora raggiunti, appare innanzi tutto chiaro che l’immagine delle danzatrici (figg. 4, 5, tavole xxx, xxxI1) va intesa primariamente in senso simbolico. Evidenti argomenti iconografici e compositivi riman-

dano a questo piano interpretativo: la maggiore rilevanza semantica, gli abiti e gli ornamenti d’oro proibiti nella vita

quotidiana, l’eccezionalità delle pubbliche danze. In se-

condo luogo quella configurazione costituita da Venere, il segno del Toro e gli stemmi della città (fig. 10) si riterisce manifestamente al mito della fondazione di Siena e dun-

que al pronostico di un destino politico favorevole. In terzo luogo, come torneremo a dimostrare in seguito, estste un palese nesso tra la Venere danzante e il girotondo di fanciulle (fig. 4, tavola xxx).8* L'insieme delle due scene di danza simboleggia la condizione politica ideale: pace,

unità e giustizia. Anche sul piano concettuale le due immagini sono strettamente collegate. Il termine «di diletto»,

che nell’epigrafe nella Sala della Pace è riferito alle danzatrici, è un topos degli astrologhi medioevali quando descrivono il pianeta Venere. Ma non soltanto la danza delle fanciulle, anche il loro abbigliamento fuori del comune, i loro ornamenti d’oro, il canto e la musica che dà il ritmo rimandano a Venere.

Un esperto di astrologia potrebbe aver consigliato Ambrogio Lorenzetti nella scelta del motivo. L’astrologia è materia di insegnamento all’Università di Siena. Il docente in carica dal 1322 al 1325, pagato profumatamente, è il «doctor in phylosofia et astrologia» Taddeo de’ Ramponi, il quale è tenuto per contratto a dedicare almeno un quarto del suo impegno all'insegnamento dell'astrologia.” Ma non è affatto necessario ipotizzare l’aiuto di uno studioso specializzato nel commento degli scritti astrologici degli arabi, tutti tradotti in latino fin dal dodicesimo secolo. La conoscenza di uno dei numerosi testi divulgativi italiani del Due-Trecento era più che sufficiente per tradurre tali idee in immagini. Un esempio ideale è il libro Della composizione del mondo redatto nel tardo Duecento da Ristoro d'Arezzo. L'autore ricorre spesso a confronti con l’arte figurativa, così che il suo testo risulta particolarmente accattivante per i pittori e i consulenti iconografici. L'entusiasmo con cui Ristoro descrive i vasi antichi mostra inoltre una certa affinità con la concezione artistica del Lorenzetti.

Nel capitolo sulla divinità planetaria, Ristoro parla di quella predilezione dei «figli di Venere» per gli abiti riccamente decorati e i gioielli che caratterizza anche le danzatrici di Ambrogio (figg. 5-9, tavola xxx, ox, oca): «significa [...] tutti li adornamenti, come sono le gioie? [...] e venga colle corone, e colle gioie, e cogli ornamenti dell’oro e dell’argento, e colli preziosi vestimenti d’oro e d’arsento, e di gemme preziose, e questo è per cagione di dilettare [...]».? Immagini analoghe si ritrovano in poeti italiani trecenteschi quali ad esempio Goro Dati: Lucente stella e par che sempre rida; I suoi son tutti di Natura lieta Leali e chiari a chi di lor si fida: Vaghi di sè adornar d’oro e di seta.”

La chiarezza dell’iconografia influenzata da questi testi è dovuta soprattutto al numero relativamente esiguo di concetti stabiliti canonicamente nella letteratura astrologica, che nel tardo Medioevo lascia poco spazio all'invenzione. L’idea di Venere quale «domina ornamentorum, auri et ar-

genti» non si trova solo in Ristoro d'Arezzo e in Goro Dati, bensì in un’ampia gamma di testi che vanno dallo Speculum naturae di Vincenzo di Beauvais («amans vestimenta ornata»)? a uno dei più noti trattati italiani del Duecento (Guido Bonatti, Tractatus de Astronomia: «ibit coopertus pulchris indumentis [...] et sciet operari aurum

et argentum et facere monila») fino alla Genealogia Deorum Gentilium del Boccaccio («est huius significare [...] vestium indumenta, auro argentoque contexta»).”

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- MEDIOEVO

306

i

=

A

razze

15. Danzatrici rell’affresco del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti, disegno di C. Milner

Musica e danza sono considerate i segni più frequenti dell'influsso di Venere: «Significa tutte le generazioni de’suoni delli stormenti” [...] e de’venire nel regno con tutte le bellezze e con tutti li giuochi e li sollazzi, e con tutte l’allegrezze [...] e con cantatori d'amore e suonatori [...] e con tutte le generazioni di quelli stormenti che dilettano» (Ristoro d'Arezzo). È facile trovare riscontri nella letteratura italiana del Due-Trecento, ad esempio in Bartolomeo da Parma («significat cantum [...], balla»), Guido Bonatti (i figli di Venere «cupiunt audire sonos instrumentorum musicorum et valent in eis plus aliis homini-

la non giustizia; ed imperciò venne con due suoi segni nel mondo: l’un è segnato di segno di giustizia, come sono le bilancie: adunque pare che Venus fosse giustizia ed amasse giustizia, e questo segno è chiamato libra, ed il segno là ove sono le bilancie de’ essere per ragione segno e luogo di giustizia.!*

bus»;!9 Venere «faciet animam [...] amantem [...] saltatio-

ogni sorta:

nes»),!°! o ancora nel Boccaccio («est huius significare [...] delectionem plurimam circa cantum [...] saltationes»).!°? Nell'ambito del programma politico della Sala della Pace, l'armonia di musica e danza è da intendersi come segno di “concordia” e di “pax”, dell’unità dei cittadini e della loro convivenza armoniosa. In antitesi a ciò, l’affresco sulla parete opposta mostra una “Civitas Martis” distrutta dalle liti interne e dalla discordia. Tale interpretazione politica, come dimostra il testo di Cecco d’Ascoli su citato!” è sostenuta anche dagli astrologhi italiani del Due-Trecento. Ristoro d'Arezzo descrive esplicitamente la dea Venere come protettrice della giustizia e della concordia: E puosero ch’ella avia a significare dilezione, ed amore e giu-

stizia; e questo può essere: imperciò che [...] la generazione è

impedita per la discordia, e per la lite, e per la guerra, e per

Ancora più direttamente connesso con l'iconografia di Ambrogio è il Tractatus Sphaerae di Bartolomeo da Parma. L'autore descrive i pregi della “Civitas Veneris”, nella quale ognuno trova giovamento e felicità. Qui regnano la gioia di vivere e la pace, e grande abbondanza di cibi di Significat naturaliter pulcrum tempus, abundanciam omnium bonorum, ut panis, vini, olei, cere, mellis [...] sirici, frugum in omni specie sua, agros, edes, aves, pullos, ova [...] pacem inter gentes locorum [...], leticiam [...], monilia que spectant ad mulieres [...]. Cuius coniunctio est bona; et ideo dicitur planeta bonus, pius, misericors et servicialis, quoniam omnibus proficit et nemini nocet: unde dicitur fortuna.!®

Il principale parallelo con la connotazione politica data a Venere da Ambrogio si trova nel noto Tractatus de Astronomia di Guido Bonatti, un testo fondamentale per l’insegnamento dell’astronomia. Guido sottolinea che nel dominio della dea non regnano solo «dilectio» e «amor», ma anche «iustitia».!% Ai nati sotto il suo influsso Venere con-

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16. Andrea Vanni (copia dell'affresco di Ambrogio Lorenzetti), Effetti del Buon Governo sulla città (particolare), Siena, Palazzo Pubblico

cede «animam iustam».!° È significativo che tre delle principali idee guida del programma iconografico nella Sala della Pace — pace, giustizia e sicurezza — campeggino anche

in cima al “programma di governo” della dea: «Si fuerit domina anni at domina ascendentis [...] significat annum securitatis et quietudinis: [...] erit bonum in honoribus et iustitia et largitas et rectitudo atque pax».!®*

La connotazione politica delle danzatrici poste sotto la tutela di Venere (figg. 4, 5, tavole xxx, xxx) non si evince tuttavia solo dalla lettura di testi astrologici. A molti osservatori trecenteschi doveva essere altrettanto familiare l'equazione, tramandata nei testi teologici, tra “chorus” (nel senso di «cantus», di «saltatio cum cantu» o di «per-

sonae quae saltant et cantant») e “concordia”, una delle idee centrali dell’allegoria del Buon Governo.! Da questa ricca tradizione

citiamo tre esempi per tutti: «Chorus

autem concordiam significa» (Agostino);!!° «Quid per chorum nisi caritatis concordia designatur» (Gregorio Magno);!!! «Chorum dixerunt a concordia» (Isidoro).!!

Una interpretazione specificamente politica dell'equazione “chorus” = “concordia” è stata diffusa soprattutto da Agostino. Nel libro secondo del De citate Dei il dottore della Chiesa, citando alla lettera Cicerone, fa un parallelo tra armonia musicale e concordia politica, tra «harmonia in cantu» e «concordia in civitate»;!! un pensiero che ri-

troviamo nel libro diciassettesimo: «Diversorum enim sonorum rationabilis moderatus que concentus concordi varietate compactam bene ordinatae civitatis insinuat unitatem». !!4

Una terza via per interpretare il gruppo delle danzatrici in

senso politico parte dalla simbologia medioevale dei numeri. Sommando il nove e l’uno, corrispondenti alle danzatrici e alla musicista (fig. 5, tavola xxxn), si ottiene il nu-

mero dieci simboleggiante la “unitas”: «Unum si additur ad novem, quaedam effigies unitatis impletur».! Nel Trecento questa simbologia dei numeri diffusa negli scritti religiosi viene fatta propria dalla retorica politica, creando così una relazione diretta con l’iconografia politica. L'esempio migliore è una lettera del re Roberto d'Angiò al duca di Atene, dotato di poteri dittatoriali a Firenze, citata da Giovanni Villani nella sua cronaca: «T’ha fatto signore de’ Florentini [...] loro grande discordia e il loro grave stato [...]. Fortifica Giustizia e i loro ordini, e come per loro si governavano per sette, fa’ che per te si governi. no per diece, cioè numero comune, che lega in sé tutti i singulari numeri, ciò vuol dire nolli reggere per sette né divisi, ma a comune».!!° Re Roberto coniuga brillantemente termini assonanti: collega il numero sette con il concetto negativo di setta e, par-

PITTURA

- MEDIOEVO

tendo dalla nota equazione per cui il dieci è uguale a “unitas/concordia”, costruisce il seguente gioco di parole: anziché parlare direttamente di unità o di concordia, Rober-

to dice che il dieci, «numero comune», significa «reggere a Comune». Il dieci simboleggia pertanto una forma di governo contrapposta alla tirannide o al caos dei cittadini in discordia, legittimata da una maggioranza in consiglio e

ispirata agli ideali della concordia e del “ben comune”. 308

L’affinità di questa argomentazione con l’allegoria del Buon Governo è evidente. Il significato iconografico della danza è dunque direttamente deducibile da questa fonte: le danzatrici simboleggiano l’armonia e la concordia dei cittadini votati al “ben comune”, governati “a Comune” (fig. 5, tavola xxx). Ma Ambrogio Lorenzetti precisa: il Comune è Siena. Già Christine Milner ha giustamente rilevato che il movimento delle danzatrici configura una S (fig. 15). Le presunte discordanze che hanno intralciato la dimostrazione di questa tesi («there do not appear to be any instances for a monogrammic “$” used for the city»)!!” si possono chiarire facilmente. L'iniziale S non compare solo su alcune monete senesi:!!8 essa caratterizza anche l’allegoria della città. Sigismondo Tizio attesta la policromia delle statue nella lunetta del portale centrale del Duomo di Siena, probabilmente opera di Giovanni Pisano. Accanto alla Madonna in trono era inginocchiata l’allegoria della Ciztà di Siena, la cui veste era tutta cosparsa di S: In mediae Portae culmine Virginis Filium in ulnis tenentis Imago marmorea constituta est, a dextris Angelus, qui Bonaguidam Lucarium Equitem Senensem, a quo illi Civitas donata fuerat genuflexum commendat, a sinistris alter Mulierem, quae Sena est, ut litera sui nominis prima, qua vestis conspersa est, indicat [...]. Post terga sculptorum in pariete depictus, et in emicicli formam exaratus indicare videtur, ita loquens: Respice amenam.!!°

Virgo

Senam

veterem

quam.

signat

Il simbolismo di “unitas” nel numero dieci e nella danza è rafforzato dall’accostamento tra le danzatrici e il corteo nuziale (copia di Andrea Vanni dal modello di Ambrogio), simbolo della “concordia”, raffigurato sullo stesso piano e di dimensioni quasi uguali (figg. 4, 16, tavola xxx). In aggiunta ai documenti già citati! vorrei rimandare a crona che, testi di dottrina dello stato e trattati teologici che con-

cordano nel vedere nelle nozze un segno politico di “pax” e “concordia”. Giovanni Villani racconta che in occasione della riconciliazione tra guelfi neri e guelfi bianchi, una questione considerata vitale per Firenze, le nozze tra figli delle fazioni un tempo nemiche valsero come una sorta di suggello del trattato di pace: «Venne in Firenze [nel 1301] il legato del papa, messer Matteo d’Acquasparta cardinale, per pacificare i cittadini insieme, e fece fare la pace tra que’ della casa de’ Cerchi e gli Adimari e’ loro seguaci di parte bianca co’ Donati e’ Pazzi e’ loro seguaci di parte nera, ordinando matrimoni tra loro».!!

L'accentuazione oppure l’assenza di cerimonie nuziali ri corre negli scritti politici del Due-Trecento come indizio del buon governo o della tirannide. Nel De reginzine prin

cipum, Tommaso d'Aquino cita il divieto delle cerimonie nuziali come segno distintivo di una tirannide fondata sulla discordia e sul dissidio: «Propter quod inter ipsos discordias seminant, exortas nutriunt, et ea quae ad foedera-

tiones hominum pertinent, ut connubia et convivia, prohibent, et cetera huiusmodi, per quae inter homines solet familiaritas et fiducia generari».!?2 I trattati di dottrina dello stato avevano sostanzialmente ereditato queste idee dagli scritti teologici. Il seguente passo del commento di Filippo di Harvengt al Cantico dei cantici si può dunque leggere a buon diritto come un’illustrazione dell’iconografia di Ambrogio: «Videbat quippe quod nuptiarum beneficio ira, rixa, odium, simultas lon-

gius avocantur; gaudium, aequitas, grata societas, pax, dilectio revocantur, et ad hoc non soli duo, sed multa pariter

millia convocantur, qui diversi et quod nequius est adversi ad idem velle et idem nolle efficaciter provocantur».!? La nostra interpretazione iconografica parte dall’individuazione di una sintesi fra le linee di congiunzione formali e di contenuto nell’affresco di Ambrogio Lorenzetti: a) l’asse che dal gruppo di fanciulle sale fino alla divinità planetaria; b) il collegamento orizzontale fra le danzatrici e il

corteo nuziale; c) il triangolo “Venere — nozze — danza” come illustrazione del motto «Venus significat naturaliter nuptias» (fig. 4, tavola xxx). Questa lettura trova numero-

si riscontri nel programma iconografico della Sala della Pace. Nella cornice superiore dell’allegoria del Cattivo Governo ad esempio, in perfetta perpendicolarità con la raffigurazione della Guerra, è riprodotta la bellicosa divinità planetaria Marte, regolarmente citata come modello della sovranità della tirannide: «E Mars con questa sua gente [...] uccidono e fanno male fuor di ragione e senza colpa, per signoreggiare ed essere temuti dalla gente» (Ristoro d’Arezzo).!?4

Il sole raffigurato al centro della cornice superiore del Buon Governo — «li solans, ki est plus beaus et plus dignes des autres, siet enmi des planetes, car il en a m desus lui et in desous» (Brunetto Latini)! — conferisce a quest’ultimo suprema dignità. Esso simboleggia il governo saggio, gli «imperatores, regales, sapientes, dominatores, dignos, consilii celatores, sustinentes bonos et malos deprimentes» (Daniele di Morley).!?% Il terrigno Saturno domina invece su un paesaggio cupo, nerastro, nel quale alcuni soldati sono caratterizzati dalla faccia nera: «Saturnus est obscurus» (Daniele di Morley);!??

«Hic tenebrae lucent, hic lux tenebrescit, et illic nox cum luce viget, et lux cum

nocte diescit» (Alano di Lilla);!28

«Saturnios nigerrimi sunt» (Cecco d’Ascoli).!?° Sotto l’effige di Saturno dominano i guerrieri: «L’aere stridendo chiama “guerra, guerra» (Cecco d’Ascoli).!° Città e castelli sono distrutti: «Gente fannosi male insieme [...] e non conoscono né giustizia, nè ragione [...] e questa gente dee pe-

rite» (Ristoro d’Arezzo).!! Sulla landa si libra l'oscuro limor che, vestito di stracci, brandisce la spada: «Hic dolor et gemitus [...], terror, tristies, pallor» (Alano di Lilla):? «Stella superba [...] crudelis [...] sine misericordia» (Michele Scoto);' «Turpia et fetida non abhorrent vestimenta» (Bartolomeo Anglico).!34

VANAGLORIA

dC)

17. Ambrogio Lorenzetti, Effetti del Buon Governo sulla campagna, Siena, Palazzo Pubblico

III. “MAGNIFICENTIA”

DI SIENA

vale la regola: «Ordinatum cuiuscumgue

est quod nulla persona

fuerit etatis per civitatem

vel comitatum

proporzioni nettamente più piccole dei contadini raffigurati nella stessa scena. La donna dal vestito rosso acceso, che guida fiera il suo cavallo, spicca consapevolmente nella

Senarum in domo vel extra domum ferat in capite [...] vel super aliqua veste caputeo, cappellina vel cappello aliquod aurum [...] nec ferat [...] cappellum foderatum de vario».! Persino le imitazioni dell’oro quali la lega di rame e zinco chiamata «orpellum» sono vietate: «[...] quod nulla persona [...] ferat in aliqua veste [...] capellina [...] formam vel

composizione su quel mendicante minuscolo, terrigno, ac-

spetiem auream [...] in totum vel in partem, et etiam or-

Ambrogio Lorenzetti sottolinea il rango della dama che esce a cavallo dalla porta (figg. 17-19, tavole xwxxvIt, xxxIxX, xL). La sua importanza è accentuata semanticamente dalle

covacciato nel fosso proprio davanti a lei (fig. 20). Ma allo stato di conservazione attuale degli affreschi il segno distintivo principale del rango della cavallerizza è ormai quasi irriconoscibile. Bisogna osservare la figura da molto vicino e a luce radente per farsi un’idea, sulla base delle tracce di metallo ancora visibili, dell’originaria ricchezza dei suoi ornamenti d’oro. Il cappello era ornato da sfere d’oro, il vestito da bottoni d’oro (fig. 19, tavola xt)), e persino le briglie del cavallo erano dorate (fig. 20). In questo contesto acquista particolare rilievo anche il servitore che segue la coppia di cavalieri, in quanto porta uno scrigno con ricche applicazioni in metallo dorato (fig. 18, tavola xxxvI1). Secondo le leggi suntuarie in vigore a Siena all’epoca in cui fu affrescata la Sala della Pace, soltanto alla moglie di un cavaliere è consentito adornare il proprio cappello con oro e pelliccia di vaio (fig. 19, tavola x1). Per tutti gli altri ceti

pellum intelligatur speties deaurata».!?° Le briglie dorate dovevano essere un dono ambito peri cavalieri di fresca nomina. Anche il cavaliere senese Francesco di Sozo Bandinelli ricevette nel 1326, in occasione della sua investitura, «uno freno da uno palafreno ad oro fornito di seta» e «uno freno da destriere ad oro fornito di seta»,21 Come membro del ceto sociale più elevato, la nobildonna a cavallo indossa un mantello lungo anche nella stagione calda (fig. 18, tavola xxxvn). Alle cameriere sono rigorosamente vietate le vesti che toccano terra: «[...] quod nulla famula possit trainare [...] pannos sui dorsi per terram».!?5 Da giugno a metà settembre tale prescrizione vale anche per le borghesi.!?° Il cavaliere che accompagna la fiera dama indossa un abito bicolore diviso nel mezzo (fig. 18, tavola xxxvn). La frequente comparsa dei «panni dimidiati» nei dipinti del Tre-

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- MEDIOEVO

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310

18. Ambrogio Lorenzetti, Buon Governo, campagna (particolare), Siena, Palazzo Pubblico

cento ne prova la grande popolarità. Significativamente, il consiglio senese si preoccupò di includere anche questa moda nelle locali leggi suntuarie: Cum hodie familiares civium [...] sint se induere soliti de pannis dimidiatis talium manierorum et colorum quod vix reliquerint nobilibus posse honorabilia eorum vestimenta diversificare

ab ipsis familiaribus,

ad talem

indecentiam

corrigendam addiderunt [...] quod nullus familiaris alicuius civis [...] presumat [...] induere [...] aliquam vestem trameccatam sive de duobus variis pannis nisi saltim dimidia pars eius sit de panno vergato.!4°

La preziosità degli ornamenti e degli abiti della nobildonna appare ben poco adatta a una battuta di caccia (fig. 17, tavola xxx). Né un fazzoletto, né un velo protegge la dama dalla polvere della strada (fig. 18),!! e anche la presenza di uno scrigno dorato sembra piuttosto d’impedimento alla caccia (fig. 18, tavola xxxvm).

La scena dell'escursione è un buon pretesto per rendere omaggio alla nobiltà con un'immagine per quanto possibile ricca e sontuosa (figg. 17-18, tavole xxxvin-xxxrx). Tale

onore pare a prima vista poco conforme all’autocoscienza politica di Siena. Lo stato senese si definisce nei suoi statuti come governo dei mercanti e del ceto medio: «Domini

Novem [...] sint [...] de mercatoribus et de numero mercatorum civitatis predicte vel de media gente».! La nobiltà è esclusa dal governo sin dal 1277.!# La volontà di applicare con rigore tale norma si evince dal fatto che gli statuti redatti al tempo in cui fu affrescata la Sala della Pace riportano un elenco aggiornato di tutte le famiglie appartenenti ai “casati”, dunque non eleggibili nel Consiglio dei Nove.!4 La contraddizione fra il risalto iconografico e l’emarginazione politica è un chiaro incentivo a un’analisi più precisa dell'ordine sociale rispecchiato dagli affreschi di Ambrogio. Per compensare la limitazione dei diritti politici, le leggi suntuarie senesi accordano alle famiglie annoverate tra i “casati”, di norma appartenenti alla cavalleria, speciali diritti di rappresentanza: tra questi, l’uso di abiti lussuosi e di ornamenti esclusivi (figg. 18, 19, tavole xxxvi, xL). Tali privilegi non avevano come unico scopo l’autorappresentazione individuale, ma anche l’esaltazione

della «magnificentia di Siena». È questo il motto con cui il cronista senese Agnolo di Tura apre la sua lunga e detta-

VANAGLORIA

Un esempio paradigmatico è la carriera di Nello di Mino Tolomei, ritratto da Lippo Memmi nella Maestà del Palazzo Comunale di San Gimignano: nel 1311 capitano del popolo a Volterra, nel 1312 podestà a Casole e capitano del popolo a Perugia, nel 1317 podestà a Volterra e San Gimignano, nel 1318 capitano del popolo a San Gimignano, nel 1320 capitano del popolo a Bologna, nel 1322 podestà a San Miniato, nel 1325 podestà a Todi, nel 1337 capitano del popolo a San Gimignano.!?° Il pubblico dell’epoca, osservando il “dipinto di rappresentanza” di Ambrogio (fig. 18, tavola xxxv), ovviamen-

te sapeva che i magnati esclusi de iure dal centro del potere — il governo dei Nove - di fatto possedevano una grande influenza a Siena, non solo economica ma anche politica. La nobiltà è ampiamente rappresentata nel Consiglio Generale, e soprattutto nelle istituzioni che forniscono consulenza ai Nove: i “Provveditori di Biccherna”, gli “Esecutori di Gabella” e la potente corporazione della “Mercanzia”D!

19. Ambrogio Lorenzetti, Buon Governo, campagna (particolare), Siena, Palazzo Pubblico

gliata descrizione della nomina a cavaliere di Francesco di Sozo Bandinelli: «Questo è uno triunpho di una magnificentia di uno nobile omo antiquo Sanese savio, richo e potente [...]. Poremo dì per dì ordinatamente tutte le nobiltà, sentileze, triunfi e magnificentie che si farano in deta cavallaria [...] aciochè si possino conprendere e gustare, e di quanta magnificentia era Siena in quel tempo».!®

Per le loro cerimonie, lo stato senese concede ai cavalieri il luogo più signorile, il palcoscenico più bello e il periodo migliore: Francesco di Sozo Bandinelli viene nominato cavaliere il giorno di Natale del 1326 nel Duomo, sul pulpito di Nicola Pisano. Lo assistono le più alte cariche della città: il capitano del popolo e il podestà gli calzano gli speroni, il capitano di guerra gli cinge la spada.!4 I servigi resi dalla cavalleria alla «magnificentia di Siena» di culminano nell’accoglienza riservata a eminenti visite Francia stato. Nel 1301 Carlo di Valois, fratello del re di

In Filippo il Bello, alloggia nel palazzo dei Salimbeni. sceglie Valois di Carlo alità, segno di gratitudine per l'ospit della il padrone di casa, Sozo de Salimbeni, come padrino to Rober re 1310 Nel . Siena figlia Caterina, nata a fraIl ei." Tolom lo Granel di casa d'Angiò è ospite nella «cum tello del re, Pietro d'Angiò, nel 1314 viene alloggiato .!! ialupi Squarc degli o palazz nel grandissimo onore» ntia di SieI cavalieri rappresentano inoltre la «magnifice amiche. città na» in veste di legati e di alti funzionari nelle

L’affresco di Ambrogio con la coppia di nobili a cavallo (fig. 18, tavola xxxvm) è da intendersi anche come metafora dell’onnipresente Leitzotiv dell’elogio della pace interna. Balza agli occhi che il cavaliere senese, a differenza per esempio dei nobili nella Partita di caccia dipinta da Buffalmacco nel Camposanto di Pisa (fig. 21), è completa mente disarmato. La mancanza di un’arma doveva apparire singolare in quell’epoca di violentissime faide tra i magnati senesi. Quanto la paura di attentati tormentasse anche la gente semplice lo dimostrano varie petizioni di gruppi di cittadini spaventati. Mentre Ambrogio Lorenzetti dipinge gli affreschi nella Sala della Pace, viene richiesto di mitigare ulteriormente il divieto di detenzione di armi a scopo di difesa personale. Chiunque, cittadino o borghese, avrebbe dovuto ottenere il permesso, alla modica tariffa annua di un fiorino, di munirsi di un’arma da taglio o da punta, di guanti di ferro e di uno scudo. Pur consapevoli dei rischi che un tale mitisamento del divieto di detenzione di armi comportava, il 21 agosto 1338 i membri del consiglio approvano la richiesta con 192 voti favorevoli e 61 contrari.!° La principale minaccia alla pace interna viene proprio dai magnati. Nelle più pericolose congiure contro il governo dei Nove c'è sempre un Tolomei o un Salimbeni che agisce nell'ombra. Nella rivolta del 1318, i beccai e i notai vogliono elevare al governo Sozzo di Deo Tolomei.! E dietro l'insurrezione progettata dai macellai nel 1325 pare esserci Niccolò di Corrado Tolomei.! Ma il massimo pericolo per l'equilibrio politico difeso per decenni con successo dai Nove si cela nelle lotte tra le principali famiglie aristocratiche, i Tolomei e i Salimbeni. Il cronista Agnolo di Tura tratteggia un'immagine efficace di questa costan-

te fonte di rischio per la pace interna: «Salinbeni e Talomei, due casate grandissime in Siena, e in questo tempo [1326] erano nimici l'una casa contra l’altra, in modo che tutta la città stava in tremore ei signori di Siena non li potea afrenare per la loro gran potentia; inperochè ‘n Toscana non erano simili casate di potere d’omini e di richeze [...]. Per le dette casate era trapartita quasi tutta

3II

PITTURA

- MEDIOEVO

312

e

20. Ambrogio Lorenzetti, Buon Governo, campagna (particolare), Siena, Palazzo Pubblico

21. Buffalmacco, Trionfo della morte (particolare), Pisa, Camposanto

la città e gran parte del contado».!9 Ambrogio Lorenzetti non può trovare simbolo migliore per la pace interna della figura di un cavaliere disarzzato che in compagnia dell’amata si dedica ai piaceri della caccia (fig. 18, tavola xxxvn). La scena è resa ancora più pregnante dal successo appena ottenuto dai Nove nel riconci-

Il filosafo, nel quinto libro della Politica, dice che i tiranni ànno dieci condizioni e dieci cautele, per le quali ellino si sforzano di guardarsi nella lor signoria [...]. La settima condizione si è, che ‘l tiranno vuole che suoi soggietti siano poveri, ch’ellino abbiano tanto a fare di guadagnare per vivere, ched ellino non pensino di smuoversi contro di lui [...]. E dovemo sapere che le contrarie condizioni a quelle che noi avemo dette del tiranno, si à ‘l re, cioè [...] ne non vuole ched i suo’ sugietti sieno pòvari, ma ricchi? [...]. Dice il filosafo, che se ‘1 popolo ubbidisce al re [...] ed osserva e guarda le buone leggi e i buoni istatuti, e ‘ne l’avverrà tre beni grandissimi. Il primo ch’elli avranno la virtù delle buone operazioni. La seconda [...] che staranno in pace ed in concordia. La terza, ch’elli avranno abbondanza e divizia dei beni temporali.!90

liare imagnati: dopo anni di trattative, il 5 novembre 1337

i Salimbeni e i Tolomei concludono la pace nel Palazzo Pubblico davanti a un folto stuolo di cittadini felici («presentibus partibus infrascriptis [...] et coram [...] populi multitudine copiosa et leta»).! Nel trattato di pace suggellato dal notaio sono elencati tutti gli orrori subiti: «hodia, malivolentie, iniurie, homicidia, dampna, violen-

tie, incendia, capture», ecc.” Lo stemma papale scintillante d’oro che campeggia sopra Siena, Comune di pace, nel ciclo di affreschi di Ambrogio (tavola xxx), ricorda anche quell’intesa conclusa in virtù dell’autorità papale e alla presenza dei legati del pontefice. Il contrasto fra la ricchezza ostentata nell’affresco del Buon Governo (fig. 18, tavola xxxvm) e la miseria dei sudditi del Cattivo Governo raffigurata sulla parete opposta (fig. 22, tavola L1) va visto anche sullo sfondo delle teorie politiche allora in voga. Tommaso d'Aquino! e Egidio Romano dichiarano, richiamandosi ad Aristotele, che il benessere dei cittadini è segno del buon governo. Il tiranno invece favorisce consapevolmente la miseria. Egli deruba i sudditi (fig. 22, tavola 11) per privarli dei mezzi necessari a condurre una valida resistenza:

Egidio argomenta con l’idea aristotelica del contrasto fra tirannide e monarchia. Il lettore italiano del Trecento certo applicava automaticamente il senso di queste frasi al conflitto corrente fra tirannide e libero Comune. I magnati amanti della pace e scintillanti d’oro (fig. 18, tavola xxxvm) rappresentano pertanto il miglior contrasto con i cittadini privati dei loro beni sotto il Cattivo Governo (fig. 22, tavola LI). Nell'ottica dei teorici medioevali dello stato, questo esempio di tesi e antitesi è ben scelto, non foss’altro perché gli «excellentes et nobiles» celebrati nell’affresco del Buon Governo sono a priori invisi al tiranno: «I tiranni

uccidono e distruggono volentieri ei grandi e i gentili uomini del loro reame, e questo fanno, perciò ch’alle loro

mal’opere non sia chi contrasti».!6!

VANAGLORIA

313

22. Ambrogio Lorenzetti, Effetti del Cattivo Governo sulla città (particolare), Siena, Palazzo Pubblico

IV. BESTIALE

GENTACCIA

Al confronto con i magnati dalle proporzioni sovradimensionali e dagli abiti variopinti, i contadini vestiti di un uniforme color grigio-bruno paiono un popolo di nani (fig. 17, tavola xxx). Ambrogio accentua le differenze di ceto. I cittadini ben pettinati, sbarbati e vestiti all’ultima moda sono contrapposti a campagnoli che portano buffi cappelli e barbe incolte. L'occhio impietoso del pittore registra ogni difetto nell’abbigliamento dei villici: l'orlo sfilacciato, la corda usata a mo’ di giarrettiera, i calzoni dal taglio inelegante (figg. 23-24, tavole xxxv, xLI, xL01). I gruppi sociali evitano qualunque contatto. La dama a cavallo non sfiora neppure con lo sguardo i miseri bifolchi (fig. 17, tavola xxx1x), ma anche il contadino che fissa ostinatamente il suolo e spinge innanzi a sé un maiale disdegna lo sfarzo dei nobili (figg. 17, 23, tavole xooax, xt1). Quanto ai due lavoratori agricoli alle sue spalle, la loro conversazione non è affatto turbata dallo sfarzoso corteo

dei cittadini (figg. 17, 24, tavole xxx1x, xLIl). Nella letteratura coeva, il tema del confronto tra cittadini

e campagnoli è trattato con lo stesso tono pittoresco €

mordace. Nella Sacra Rappresentazione dedicata a sant'Onofrio ad esempio, il contadino Becco parla allo zappatore Randello con una amarezza che ricorda l’incontro fra il bifolco miseramente vestito, dallo sguardo cupo fisso al

suolo, e la fiera cavallerizza dall’abito rosso acceso (fig. 17, favola xocax): «Basta che gli hanno di dosso il mantel rosso, E di noi fanno strazio e vitupero».!®

Il discorso di Becco mostra quali tratti aggressivi possa assumere il contrasto fra cittadini e campagnoli raffigurato da Ambrogio: S’io potessi, Randel, com'io non posso, Io farei loro un dì mutar pensiero.

El Né tanto punge al trassinar l’ortica

Quant'io farei di lor proprio un macello.!®

Come tale contrasto sia percepito a Siena ce lo descrive con parole estreme Gentile Sermini, nato verso la fine del Trecento. I cittadini prendono le distanze dalla «bestiale gentaccia senza ragione»,!* mentre 1 campagnoli conside-

rano i proprietari terrieri fannulloni e sfruttatori: «Vuole la metìa d’ogno cosa come se morissero di fame; e vede ch'io crepo e scoppio di fatiga tutto l’anno a lavorare el so’ podere, e lui non vi dura fatiga niuna, e stassi tutto ‘l dì su per

le banche a gambeare, e di me ha quella pietà che d’uno !® cane».

Rispetto a Gentile Sermini, Ambrogio Lorenzetti appare più moderato. Ma al pari dello scrittore senese, anche il pittore descrive impietosamente il misero aspetto dei villici. Gentile storce il naso perché tutti i contadini sono «mal vestiti e peggio calzati».! I loro abiti sono fatti di un tessuto di lana grigia chiamato «romagnolaccio bigiegno».!” Gentile parla anche degli orli «con molte filacce pendenti»168 e delle calze trattenute sotto il ginocchio con pezzi di

PITTURA

- MEDIOEVO

. Ambrogio Lorenzetti, Effetti del Buon Governo sulla campagna (particolare), :

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VANAGLORIA

re), Siena, Palazzo Pubblico 24. Ambrogio Lorenzetti, Buon Governo, cam pagna (particola

PITTURA

- MEDIOEVO

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25. Ambrogio Lorenzetti, Buon Governo, campagna: “Securitas”, Sierra, Palazzo Pubblico

26. Ambrogio Lorenzetti, Buon Governo, campagna (particolare), Siena, Palazzo Pubblico

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corda o verghe di salice (figg. 23-24, tavole xxv, xLI, xLII). Particolare disgusto gli suscitano i capelli dei contadini (figg. 23, 24, tavole x11, xLm) che, come il vello delle pecore, vengono tosati solo due volte l’anno. Nelle barbe ispide e irregolari zampettano comodamente i pidocchi: «Le barbe loro, dalle pecore presone esempio, cioè l’anno due volte tosolate, e sì com'esse colle forbici castrate, simile loro facendo a’ pidocchi scaloni, per più agevole alle gote e alle cheriche salire».!°°

317

L'“affresco della pace” di Ambrogio non evita l’accenno al rischio di un inasprimento del conflitto sociale. Il delinquente impiccato dalla Securztas (forse un contadino scappato?)!?° è vestito come gli zappatori raffigurati mentre trebbiano il grano: una camicia chiara, svolazzante, aperta fino all'ombelico, con lunghe maniche e scollatura profonda, e un paio di brache dello stesso colore lunghe al ginocchio (figg. 25, 26, tavole xLIv, xLv). La figura del malfattore giustiziato nel segno della Securitas (fig. 25, tavola x1v) va vista in parallelo con il capitolo delle leggi penali senesi, coeve degli affreschi nella Sala della Pace, «De iniuriis et offensionibus et homicidiis commissis per comitatinos in cives Senenses».!! I «comi-

tatini» sono gli abitanti del territorio limitrofo alla città, fulero dell'affresco di Ambrogio. I Nove si dimostrano particolarmente severi in questo ambito. Un assassino cat-

turato nel circondario di Siena viene trascinato per le strade della città prima di essere decapitato. Sui villaggi che non perseguono con la dovuta rapidità ed energia un crimine commesso contro un cittadino, incombe la minaccia

di una pena equivalente al debito d'imposta di un intero anno. Tutte queste sanzioni sottostanno direttamente al

controllo del capitano di guerra.!”?

V. UNIVERSITAS

CIVIUM

I ventiquattro uomini raffigurati in primo piano nell’allegoria del Buon Governo collegano con una corda le figure allegoriche di Iustitia, Concordia e Ben Comun (fig. 28, tavola xx1v). Nell’epigrafe che illustra gli affreschi questi uomini sono definiti «animi molti» che eleggono a loro signore il bene comune:

DES

27. Ambrogio Lorenzetti, Buon Governo, città (particolare), Siena, Palazzo Pubblico

che cittadine: i Nove, il podestà, il capitano del popolo, il capitano di guerra, il “maggior sindaco”, quattro “Provi. sores in Biccherna”, tre “Consules militum” e quattro “Consules Mercantie”.!* Fin dalle prime interpretazioni degli affreschi, l'interesse maggiore è rivolto alla questione del significato dei ventiquattro e del loro signore. Il Seicento e il primo Settecento prediligono una lettura aneddotica: il gruppo raffigurerebbe la leggendaria famiglia di Tofo Pichi, padre di centoquaranta figli.!? La prima interpretazione simbolica risale invece, a quanto mi risulta, a Giovanni Antonio Pecci,

Questa sANTA VIRTÙ [Iustztia], LÀ DOVE REGGE, INDUCE AD UNITÀ GLI ANIMI MOLTI, E QUESTI, A CCIÒ RICOLTI, UN BEN COMUN PER LOR SIGNOR SI FANNO [...].

che nel 1730 suggerisce «un numero grande di popolo d’ogni condizione che domanda essergli rettamente ammini-

xxChi sono gli «animi molti» (figg. 29-32, tavole xxvII, la tesi: tre a o intorn ruota e recent vin)? Il dibattito più

raggruppamenti politici. Gli aspetti privilegiati nel presen-

ine processione viene intesa in primo luogo come immag

del governo dei Ventiquattro in carica dal 1236 al 1270, prima grazie al quale il “Popolo” aveva conquistato per la saone retazi interp a un’altr do Secon Siena. a volta il potere aggrelio rebbe ritratto il Concistoro, una sorta di consig

nella Sala della gato dei Nove, che si riuniva regolarmente

come un Pace! Una terza tesi vede i ventiquattro uomini carialte più delle e ritratto di gruppo del governo senese

strata giustizia». !/°

Un'interpretazione di questo tipo secondo me è tuttora da preferire ai tentativi di identificare determinate cariche o te studio — le norme delle leggi volte a limitare i consumi di lusso, la moda e le insegne di potere di determinati personaggi — evidenziano gravi discordanze in tutti i tre ten-

tativi di lettura su citati. Il podestà e il priore dei Nove (il “Prior dominorum novem”) portano una sorta di scettro chiamato “baculus”. Tale insegna è attestata da una serie di documenti. Durante la cerimonia di consegna del castello di Giuncarico ad esempio, il podestà porge il suo scettro al legato degli abi-

PITTURA

- MEDIOEVO

28. Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo, Siena, Palazzo Pubblico

tanti della rocca per significare che d’ora innanzi Giuncarico godrà della protezione di Siena («In signum investiture benefitii defensionis et protectionis [...] posuit et dedit in manibus dicti syndici baculum sive bachettam quam portat in manibus in signum offitii Podestarie dicte Civitatis»).!"? Quando il 12 febbraio 1332 Vanni di Puccio, legato degli abitanti della rocca di Castelpiano, si impegna dinanzi al Consiglio dei Nove a rispettare in avvenire la sovranità senese, il “Prior dominorum novem” gli sfiora la spalla con il bastone («Prior dominorum Novem [...] cum baculo, quem tenebat in manu ipsum paternaliter percutiendo in spatulis de huiusmodi comitatinatus benefitio solempniter investivit»).!78 L'assenza del “baculus” mette in dubbio sia la seconda, sia la terza tesi. L'unica raffigurazione “corretta” del Concistoro controllato dai Nove vedrebbe alla testa dell’assemblea il “Prior dominorum novem”, riconoscibile dallo scettro (fig. 32). Un ritratto di gruppo del governo senese e dei primi funzionari non potrebbe non includere il principale membro del governo, il capo dei Nove, e il funzionario più potente, il podestà insignito del bastone. Che la figura in testa alla processione non possa assoluta-

vietano tuttavia a cavalieri, giudici e medici l'elezione nel Consiglio dei Nove e dunque anche la nomina a “Prior dominorum novem”: «Domini Novem [...] esse debeant de mercatoribus et de numero mercatorum civitatis predicte vel de media gente!8° [...]. De numero dominorum Novem vel ipsius offitii offitialis esse non possit aliquis de casato civitatis Senarum nec aliquis miles nec aliquis iudex nec aliquis notarius nec aliquis medicus civitatis Senarum vel districtus».!5!

Un esame degli affreschi effettuato nel 1994 dai ponteggi

mente raffigurare il “Prior dominorum novem” è inoltre

insieme al restauratore Giuseppe Gavazzi ha rivelato che sull’abito del primo dei ventiquattro uomini vi è una fila di bottoni d’oro, oggi sbiaditi (figg. 32, 38). Anche questo prezioso ornamento è appannaggio esclusivo di cavalieri, giudici e medici.!* La tesi della raffigurazione del Concistoro non si salva neppure ipotizzando che il “Prior dominorum novem” e i suoi otto colleghi siano ritratti al centro e alla fine della processione. Nella prima metà del Trecento il primato dei Nove in tutte le faccende politiche, militari, economiche e diplomatiche è cosi evidente, che essi — i committenti di Ambrogio — non avrebbero mai accettato di vedere sminuito il proprio rango.

sottolineato dal suo copricapo (chiaramente identificabile grazie all’eccellente stato di conservazione di questa porzione dipinta esclusivamente “a fresco” [figg. 32, 38]): un berretto ornato di pelliccia di vaio. In base a un paragrafo inequivocabile delle leggi suntuarie, un copricapo del genere è consentito unicamente a cavalieri, giudici e medici («Nec ferat caputium, cappellinam vel cappellum foderatum de vario nisi talis ferens ipsum caputium, cappellinam vel cappellum de vario foderatum esset miles, iudex vel medicus vel uxor militis vel iudicis»).!?? Gli statuti senesi

La tesi della raffigurazione del Concistoro o di un “ritratto di gruppo” di membri del governo e alti funzionari è confutata anche da argomenti di storia costituzionale. Il dibattito tra gli studiosi stranamente non prende mai in considerazione un protocollo che rispecchia con estrema precisione la forma degli organi di governo senesi all’epoca in cui fu dipinta la Sala della Pace. Delle riunioni del governo senese nei quasi settant'anni di dominio dei Nove (1287-1355) si sono conservati solo i

VANAGLORIA

verbali relativi a tre legislazioni, ognuna delle quali della durata di otto settimane. Uno di essi, redatto nel gennaio-

pretazione è tuttavia confutata dalla prassi politica. Nella Siena della prima metà del Trecento, le cariche di governo

febbraio 1339,!5 documenta le riunioni del “Piccolo Con-

vengono conferite solo per periodi brévissimi. Durante i

siglio” durante la fase finale del lavoro di Ambrogio (le ri-

diciotto mesi scarsi in cui Ambrogio Lorenzetti lavora

cevute dei pagamenti a suo favore, tutte conservate, vanno

nella Sala della Pace si alternano nove governi,!5 nove generazioni di “Consules militum”!8° e tre classi di “Provisores in Biccherna”.!® Con una rotazione così rapida, ogni tentativo da parte di Ambrogio Lorenzetti di ritrarre determinati personaggi avrebbe necessariamente provocato la stizza dei membri del consiglio non immortalati, e anzi con buona probabilità un aperto conflitto fra ritratti e non ritratti. L'individualizzazione è piuttosto un mezzo per differenziare i livelli di realtà. L'immagine dei contemporanei, degli «animi molti» (figg. 36-38, tavola xxvm), viene così distinta dalla rappresentazione atemporale della giustizia,

dal 26 febbraio 1338 al 29 maggio 1339). Il secondo e il terzo verbale, riguardanti le sedute del Consiglio dei Nove, documentano rispettivamente i bimestri novembre-dicembre 1347 e settembre-ottobre 1351.!8 In nessuna delle oltre cento sedute del gennaio-febbraio 1339 risultano riunite ventiquattro persone! La frattura tra

speculazione iconografica e fatti storici non potrebbe dunque essere più profonda. L'esame degli statuti e dei protocolli redatti nel novembre-dicembre 1347 e nel settembreottobre 1351 conferma che il numero ventiquattro non ha alcuna importanza nel sistema consiliare senese. I protocolli registrano minuziosamente numero e compo-

sizione degli organismi coinvolti, argomenti all'ordine del giorno e risultati delle votazioni. Nel periodo che ci interessa, il gennaio-febbraio 1339, l'organismo che si riunisce con maggiore frequenza è l'esclusivo circolo dei Nove. Determinati ordini del giorno coinvolgono nel dibattito e nella deliberazione altri organismi o alti funzionari. Nell’arco del bimestre si riuniscono diciassette volte 20 persone, quattro volte 23, tre volte 13 e due volte 10 persone. Si registra inoltre una seduta ciascuna con 12, 16, 17, 25,36, 42, 43, 108, 112, 120, 154, 161 e 175 partecipanti.

Una così forte divergenza nel numero dei presenti si spiega con le norme previste dagli statuti per determinati punti all’ordine del giorno. Alla prima seduta del 1° gennaio 1339 del governo appena nominato sono ad esempio invitati i diciassette uomini ai quali spetta eleggere i “Consoli

della concordia, della pace, delle Virtutes e soprattutto del

Bene comune, personificato da un sovrano dalla barba bianca (fig. 41, tavola xx1t).

La terza tesi, che interpreta la processione come immagine del governo dei Ventiquattro in carica dal 1236 al 1270, convince altrettanto poco; viene infatti da domandarsi perché mai i Nove, guelfi, avrebbero dovuto raffigurare in posizione tanto eminente un regime ghibellino. Sopra l’immagine della Città ben governata campeggia lo stemma papale (fig. 4, tavola xxx), l’unico nella cornice a presentare una spiccata doratura; quando persino la figura planetaria del Sol è dipinta esclusivamente di giallo (fig. 28, tavola xxv). Questa vistosa doratura conferisce all'insieme un

connotato guelfo che esclude la glorificazione di un regime ghibellino del passato. Ulteriori argomenti contrari sono forniti dalle leggi sun-

di

tuarie e dalla moda, che sono al centro dell'attenzione in

Biccherna” e i quattro “Consoli della Mercanzia”.!® Per gli affari di governo che non hanno cadenza periodica, i Nove chiamano a consulto i funzionari di volta in volta

gliamento all’ultima moda (figg. 31, 37, tavole xx1v, xxvI).

dei Cavalieri”:

i Nove,

i quattro

“Provveditori

competenti: il 3 gennaio 1339 ad esempio, i Nove si in-

contrano con il capitano di guerra e i tre responsabili della rocca di Massa Marittima.!8 All'ordine del giorno c'è la nomina del comandante di Massa e il dibattito su una riduzione del numero dei soldati di stanza nella rocca. Le assemblee molto numerose sono convocate soprattutto quando appare auspicabile un ampio consenso per predisporre decreti e leggi importanti. I verbali delle sedute confutano anche l’ipotesi che i ventiquattro uomini raffigurino il cosiddetto Concistoro.

era Questo organismo, che si riuniva nella Sala della Pace, dai ovvero , membri venti da di solito costituito al massimo

componenti gli “Ordini della città”: 1 Nove, i quattro

ri” “Provveditori di Biccherna”, i tre “Consoli dei Cavalie

e i quattro “Consoli della Mercanzia”.! questo regime flessibile, il Concistoro non ne prestabilita. I Nove possono chiamarlo in molti casi discutono affari importanti esterni senza la presenza del Concistoro.

Nell’ambito di ha una funzioa consulto, ma con consiglieri Molte decisioni

sono prese unicamente dai Nove.

attro L’apparente personalizzazione dei volti dei ventiqu gruppo di o sembra offrire un appiglio alla tesi del “ritratt

Tale interdel governo senese” (figg. 36-38, tavola xxvi).

questo studio. L’ottavo uomo della processione vuole evidentemente impressionare i concittadini con il suo abbi

Invece delle «vestimenta larghe e oneste» predilette intorno al 1340 dagli italiani fedeli alle tradizioni, egli porta un corto mantello che copre appena il ginocchio. I lunghi manicotti a punta sono considerati una stramberia del momento. Il cronista fiorentino Giovanni Villani manifesta tutto il suo disprezzo per questa stravaganza: «E non è da lasciare di fare memoria della sformata mutazione d’abito [...) le punte de’ manicotti lunghe infino a terra [ed Questa stranianza d’abito non bello né onesto, fu di presente preso per gli giovani di Firenze [...] come per natu-

ra siamo disposti noi vani cittadini delle mutazioni de’ nuovi abiti».!! La descrizione dell’uomo vanitoso che con i suoi abiti alla moda si mescola fra i cittadini fedeli alla tradizione non avrebbe pertanto avuto alcun senso se l'affresco avesse inteso commemorare il governo dei Ventiquattro, anteriore

di oltre mezzo secolo. Ambrogio Lorenzetti vuole sottolineare la modernità in tutti imodi. Egli dota infatti questo

amante delle novità — diversamente da tutti i cavalieri, cit-

tadini e artigiani raffigurati nel ciclo di affreschi — di una vezzosa barbetta. Ascoltiamo le grida che si levano intorno al 1340 davanti a un comportamento così scandaloso. Il cronista Galvano Fiamma condanna la barba come uso

319

PITTURA

- MEDIOEVO

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PITTURA

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323

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PITTURA

- MEDIOEVO

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IRUPREANTII

33. Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo (particolare), Siena, Palazzo Pubblico

barbarico: «Isto tempore juvenes de Mediolano relinquen-

o di eremiti, per non dire di criminali:

tes suorum vestigia patruum se ipsos in alienas figuras et

species trasformaverunt. Ipsi enim ceperunt [...] barbam nutrire more barbarico».!? Giovanni Villani inveisce contro tutti i bellimbusti che vorrebbero darsi un’aria particolarmente audace facendosi crescere la barba secondo la moda del momento." L'autore romano della Vita di Cola di Rienzo non riesce a credere che degli italiani rispettabili vogliano assumere volontariamente l’aspetto di spagnoli

In questo tiempo comenzao la iente esmesuratamente a mutare abito [...]. Portavano varve granne e foite; como bene Jannetti e Spagnuoli [...]. Denanti a questo tiempo queste

cose non erano, anche se radevano le perzone la varva e portavano vestimenta larghe e oneste. E se alcuna perzona avessi portata varva, fora stato auto in sospietto de essere omo de pessima rascione, salvo non fusse spagnuolo, overo omo di penitenza. Ora ène mutata connizione, che a deletto portano

VANAGLORIA

34. Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo (Giustizia),

35. Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo (Concordia),

Siena, Palazzo Pubblico

Siena, Palazzo Pubblico

[...] varva foita a muodo de eremitano.!”*

Le prime quattro righe dell’epigrafe del Buon Governo corrispondono alla sequenza delle immagini (fig. 28, tavo-

Lo stesso cronista stigmatizza l’orribile moda con una storiella inventata ad hoc. La scena si svolge nel palazzo del re, dove si tiene un banchetto in onore di un grande filosofo. Tutt’a un tratto l’illustre ospite perde il dominio di sé: Più tenere non la poteva [...]. Guardava lo filosofo intorno allo muro e per terra, cercava lo luoco dove potessi sputare. Non vede luoco da ciò; ca [...] onne cosa era coperta de nuobili tappiti. Allora voize lo filosofo lo capo [...] dello re. Lo re aveva una varva moito nera, granne e larga [...]. Considerao lo filosofo che quella varva fussi lo più brutto luoco de quella sala e più atto a recipere lo sio sputo.!”

La storiella scandalosa conferma il fervore con cui intorno al 1340 si combatte l’avvento di una nuova moda. L’osservatore di allora doveva cogliere con vivo interesse ogni minimo accenno di mutamento. Ambrogio Lorenzetti

ricorre al tema di scottante attualità delle mode per far capire inequivocabilmente che i ventiquattro cittadini sono suoi contemporanei.

A differenza delle tesi che interpretano i ventiquattro o come come membri di determinati organi di governo lettura una darne di to pertan isco funzionari senesi, sugger one retazi interp mia La ”. civium simbolica di “universitas rafia, iconog e fe epigra tra segue che nto risulta dal confro da assunti da tesi esposte in testi di dottrina dello stato e della simbologia dei numeri.

la xxiv). L'inizio dei versi — «Questa santa virtù, là dove regge» — cita la regina “Iustitia” raffigurata per prima

(figg. 33,34, tavola xxv). A questa allegoria si riferiscono tutti i testi che illustrano il Buon Governo. Il commento alle immagini della città pacifica e della fertile campagna invita il lettore a rivolgere lo sguardo alla Iustitia raffigurata all’inizio della sequenza iconografica. Le parole «costei», «da lei», «questa virtù», «ella» si riferiscono tutte alla regale giustizia: VOLGIETE VO?’ CHE

GLI OCCHI

REGGIETE,

E PER SU’ ECIELLENZIA

LA QUAL SEMPR’

A RIMIRAR

COSTEI,

CH'È QUI FIGURATA CORONATA,

A CIASCUN

SUO

DRITTO

RENDE.

GUARDATE QUANTI BEN’ VENGAN DA LEI E COME È DOLCE VITA E RIPOSATA QUELLA DE LA CITTÀ DU’ È SERVATA QUESTA VIRTÙ KE PIÙ D'ALTRA RISPRENDE. FLLA GUARDA E DIFENDE CHI LEI ONORA E LOR NUTRICA E PASCIE; DA LA SUO LUCIE NASCIE EL MERITAR COLOR C'OPERAN BENE E AGL’INIQUI DAR DEBITE PENE.

Analogamente all’epigrafe, anche la prospettiva semantica dell'affresco dà risalto alla Iustitia (fig. 28, tavola xoav), che

PITTURA

- MEDIOEVO

36. Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo (particolare), Siena, Palazzo Pubblico

supera in grandezza tutte le Virtù. Soltanto Iustitta e Ber Comune sono perfettamente frontali ed esprimono un assoluto equilibrio fisico e psichico. Solo queste due personificazioni sono sormontate da allegorie disposte frontal-

prensione per il lettore che non abbia piena dimestichezza con l'italiano tardomedioevale: «E questi, a cciò ricolti, un ben comun per lor signor si fanno». Il filologo Furio Brugnolo spiega la parola «ricolti» rimandando a termini

mente (Sapientia, Caritas). Iustitia non è osservata dalla

attuali quali «radunati insieme» e «uniti strettamente». La

stessa angolazione delle altre figure dell’affresco. Analogamente alla figura del Ber Comune, essa ha un suo pro-

frase «un ben comun per lor signor si fanno» è plausibilmente tradotta da Brugnolo con «[gli animi molti] si isti-

prio centro prospettico (fig. 33, tavola xxv).

tuiscono per sé il Bene comune come proprio signore».!*

La seconda riga dell’epigrafe («Induce ad unità gli animi molti») rimanda appunto a quei ventiquattro uomini che collegano con una corda Iustitia e Concordia (figg. 28-33, tavole xxrv, xxvn). La Unztas è simboleggiata dalla compattezza della processione. L'attributo della Concordia, la pialla (fig. 35, tavola xxvn), simboleggia la “aequalitas”

Queste due righe sono dunque da intendersi in riferimen-

degli uomini, tutti vistosamente di uguale statura e vestiti

in modo simile. Questo attributo, finora ignoto — a quanto mi risulta — nell’iconografia della Concordia, è del tutto appropriato: 4equare si può tradurre con “livellare” © “spianare”. Il collegamento dei concetti di “concordia” e di “aequalitas” è previsto da tempo nella tradizione scritta. Raimondo Lullo scrive ad esempio: «Aequalitas et concordantia sunt amicae.!° [...]. Concordantia [habet] per aequalitatem res coaequantes».!” La terza e quarta riga dell’epigrafe sono di difficile com-

to ai ventiquattro uomini concretamente collegati da una

corda e al loro essere orientati verso l’allegoria del bene comune. Conformemente

all’equiparazione semantica, fre-

quente nel Trecento, fra Comune e Ben comune, la figura allegorica dall’abito bianco e nero che tiene in mano il sigillo di Siena ed è contrassegnata con le lettere CSCV (“Commune Senarum Civitas Virginis”) rappresenta sia il bene comune, sia lo stato senese (fig. 40, tavola xxm). Alla corda (figg. 29, 35, 40, tavole xxvI, xxvm) rimanda non soltanto la parola «ricolti», ma anche — benché ovviamente al negativo — una riga dell’epigrafe che illustra il Cattivo Governo: «Nessuno al ben comun già mai s’acorda, né tira a dritta corda» (al termine tardomedioevale «s'acorda» corrispondono gli odierni «si attacca, si avvolge, si raccor-

da»;

significativamente,

il predicatore fiorentino Re-

VANAGLORIA

327

37. Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo (particolare), Siena, Palazzo Pubblico

migio de’ Girolami descrive nel tardo Duecento la decadenza dello stato con le parole «Societates enim sunt dissociate [...] concordes sunt excordati»).?!® Nel capitolo quindicesimo del primo libro del De civitate Dei, Agostino definisce la civitas come «concors hominum

multitudo». La formula ricorda la processione dei ventiquattro che parte dalla Concordia (fig. 35, tavola xxvn1), nonché la seconda riga dell’epigrafe: «Induce ad unità gli animi molti». Il concetto di «molti» si ritrova in un contesto analogo anche in opere due- e trecentesche di dottrina dello stato, per esempio nella traduzione italiana del 1288 del trattato De reginzine principum di Egidio Romano: «I molti non possono bene signoreggiare [...] se non inquan-

to ellino sono uno, ed ànno pace e concordia infra loro».?!! La sequenza dei tre concetti centrali dell’epigrafe — «giusu due stizia», «animi molti», «ben comun» — è fondata

miteoremi di Aristotele. La sua tesi secondo cui la legge cobene gliore sarebbe quella che si pone al servizio del di e ci mune è continuamente ribadita nei testi etici, giuridi gli tra o Citiam dottrina dello stato del tardo Medioevo. debboaltri Egidio Romano («tutte le leggi dritte e buone no d'Aqui so Tomma no intendare al bene comune»),

(«[...] dicendum quod lex proprie, primo et principaliter

respicit ordinem a bonum

commune»),

Remigio de’

Girolami («lex enim pertinet a bonum commune

popu-

li»)2 Luca di Penna («lex enim nullo privato statuentis commodo, sed pro communi bono ponenda est»). Il secondo teorema di Aristotele afferma che il bene comune è l’unico criterio per valutare la qualità etica di qualunque forma di governo. In altri termini: “giuste” sono solamente quelle forme di governo che mirino a realizzare il bene comune. Egidio Romano definisce analogamente la «policia», di cui fa parte anche il governo senese dei Nove, «rectus principatus populi, bonum commune intendere».2% In questo contesto Marsilio da Padova cita l'ideale della concordia, importante per l’iconografia della Sala della Pace: «Policia [...] in quo civis quilibet participat aliqualiter principatu vel consiliativo vicissim iuxta gradum et facultatem seu condicionem ipsius, ad commune eciam conferens et civium voluntatem sive consensum».?” Ma Ambrogio Lorenzetti circoscrive meglio il termine “Civis”. “Unitas” e “aequalitas” sono accentuate dall’aspetto omogeneo di quei rappresentanti del ceto medio-alto che costituiscono la base politica del governo dei Nove. Pertanto i sei uomini a capo della processione, evidenziati dalla pelliccia di vaio (fig. 32, tavola xxm), ben difficilmente raffigurano dei cavalieri (ricordiamo la già citata disposi-

PITTURA

- MEDIOEVO

pare

328

zione delle leggi suntuarie: «Nec ferat caputium, cappellinam vel cappellum foderatum de vario nisi talis ferens ipsum caputium, cappellinam vel cappellum de vario foderatum esset miles, index vel medicus vel uxor militis vel iudicis»).2° Nel nostro contesto non appaiono plausibili neppure dei medici, mentre l’immagine dei giureconsulti che levano lo sguardo all’allegoria del Bene comune (figg. 38, 40) ben si adatta alle citate tesi di Egidio Romano, Tommaso d'Aquino, Remigio de’ Girolami e Luca di Penna?”

Le interpretazioni iconografiche qui proposte acquisterebbero una base ancora più solida se si potesse dimostrare che nella Siena del Trecento queste idee politiche erano note a un’ampia cerchia di cittadini. La situazione delle fonti a tale proposito non è delle migliori, dato che i protocolli del consiglio redatti da giuristi secondo schemi prestabiliti non riportano l’effettivo andamento della discussione. Da questi scritti non è purtroppo più possibile evincere quale posizione occupassero “iustitia”, “ben comun”,

39. Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo (sigillo di Siena), Siena, Palazzo Pubblico

“concordia”, “unitas” o “aequalitas” nel dibattito politico che si svolgeva nel Palazzo Pubblico di Siena. Con tali premesse appaiono più istruttive le petizioni di determinati gruppi di cittadini che i protocolli citano alla lettera. Ma la risposta più chiara ci viene dalle cronache. L'autore di quella cronaca trecentesca scritta a Siena che il

VANAGLORIA

DI

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t zz0 Pubblico 40. Ambrogio Lorenzetti, A ]legoria del Buon Gove no (particolare), Siena, Po ila

PITTURA

- MEDIOEVO

vena

41. Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo (particolare),

42. Iscrizione, con indicazione delle parti originali e di quelle

Siena, Palazzo Pubblico

aggiunte (cfr. fig. 41)

Muratori definisce «Cronaca di autore anonimo», si serve dello stesso sistema concettuale di Ambrogio Lorenzetti. Un lungo periodo di pace è così caratterizzato: «E stavano co’ molta giustizia [...] ed erano tutti uniti insieme al ben comune»?! — parole che corrispondono esattamente alla

litica diventa più comprensibile se si tiene presente la vasta eco del passo biblico dei «viginti quatuor seniores» nella letteratura in volgare del tardo Medioevo. Nel paradiso

sequenza ambrogiana di Iustitia, Universitas civium, Unitas e Ben comune (fig. 28, tavola xx1v). Si confrontino

in tal senso le prime quattro righe dell’epigrafe nella Sala della Pace: QUESTA SANTA VIRTÙ [zust/t1a], LÀ DOVE REGGE INDUCE AD UNITÀ LI ANIMI MOLTI, E QUESTI, A CCIÒ RICOLTI, UN BEN COMUN PER LOR SIGNOR SI FANNO [...].

La scelta del numero ventiquattro sottolinea il significato di “universitas civium” della processione dei cittadini: prototipo di un’assemblea di ventiquattro uomini sono nel Medioevo i biblici «viginti quatuor seniores» (Apocalisse, Iv, 4, 10; v, 8; x1, 16; x1x, 4). Anche i Senzores dell’Apocalisse vengono prevalentemente interpretati come simbo-

lo della “universitas”:?!! «Per viginti quatuor seniores universalis Ecclesia in praelatis et subjectis exprimitur:!° aperte ostenditur per cos universalem Ecclesiam designari; vidit super thronos viginti quatuor, ut ostenderet universitatem Dei Ecclesiam»,?!4 ecc. Il salto, a prima vista sorprendente, dalla simbologia teologica dei numeri al sistema numerico dell’iconografia po-

terrestre (Purgatorio x1x, 83-84), Dante descrive una pro-

cessione di ventiquattro uomini che, come nell’affresco della Sala della Pace, sono incolonnati a due a due: «Ventiquattro seniori, a due a due, coronati venien di fior-

daliso».?!5 Ma il passaggio all'iconografia politica della simbologia teologica del numero 24 avviene in Italia già cinquant’anni prima di Ambrogio Lorenzetti: la vasca superiore della Fontana Maggiore di Perugia realizzata da Nicola e Giovanni Pisano è ornata da ventiquattro figure e allegorie?! in cui è illustrata l’immagine che la città umbra voleva dare di sé. Verrebbe inoltre da pensare che Ambrogio Lorenzetti abbia progettato l’immagine dei cittadini collegati con una corda sotto l’effetto di una processione per celebrare la pace (fig. 28, tavola xx1v). La fonte genovese a cui mi riferisco qui di seguito risale al tardo Trecento. Il cronista Stella descrive una processione svoltasi nel luglio 1399, i cui partecipanti, in segno della ritrovata concordia, sono legati insieme con una fune: «Intra multos ex talibus secuta pax est; nam cum per urbem transirent [...] ibant simul in ipsis ceremoniis fune aut cingulo colligati».2!7 Si potrebbe obiettare che, a onta della suggestiva analogia tra la messinscena

politico-religiosa

e l’immagine

di

VANAGLORIA

Ambrogio, c’è differenza fra tenere un canapo ed essere legati insieme da una fune. Ma l’idea rimane la stessa: «Pax concordiae vinculum est». Questa frase ricorrente circola anche a Siena all’epoca in cui viene dipinta la Sala della Pace. Quando il 5 novembre 1337 viene siglata nel Palazzo Pubblico la pace fra i Tolomei e i Salimbeni, il notaio si appella con le parole «soliti erant in pacis et caritatis vinculo unanimiter conversari» all’armonia che un tempo regnava tra le due famiglie.?!$ Il termine «vinculum concordiae» ha un'importanza cruciale nell’iconografia della Sala della Pace. Conformemente ad Agostino, esso definisce lo stato: «Quid est autem civitas nisi hominum multitudo in quoddam vinculum redacta concordiae?». D'altro canto, sempre secondo Agostino, spezzare tali vincoli comporta il declino della so-

331

cietà: «Rupto concordiae vinculo civitas laberetur».?!° Tra le molte varianti di questa definizione citerò l’inizio del capitolo dedicato alla concordia ne Li Livres dou Tresor del fiorentino Brunetto Latini: «Concorde est une vertus ki lie en un droit et en une habitation ceaus d’une cité et d’un paîs».22° Anche Iustitia, dalla cui effigie parte la corda che unisce i ventiquattro, è definita con il termine «vinculum». Ricordiamo la frase di Seneca riferita ad esempio da Arnoldo Sassone: «Iustitia [...] divina lex est et vinculum societatis humane».??!

Nell'immagine dei ventiquattro cittadini riuniti in “unitas” per mezzo del «vinculum corcordiae» si percepisce una punta polemica nei confronti di autorevoli teorici dello stato (fig. 28, tavola xx1v). I Nove difendono l'ideale del Comune indipendente nella discussione sulla migliore forma di governo. L’ambito del dibattito tardomedioevale è delineato dalla bipartizione aristotelica tra forme di governo positive e negative. Positive sono considerate la mo-

narchia («rex bonum commune intendens»), l'aristocrazia («paucorum principatus bonorum et virtuosorum, bonum

commune intendens») e la “politia” («rectus principatus

populi, bonum commune intendere»). Negative sono giudicate la tirannide («omnia in bonum privatum ordinare»), l’oligarchia («paucorum principatus divitium; divites, alios opprimentes, proprium lucrum intendentes») e la democrazia («perversus principatus populi; bonum omnium non intendens, tyrannizarens, opprimens divites»).???

Tommaso

d'Aquino, mentre elogia la monarchia quale

forma di governo ottimale che assicura pace e giustizia, teme la discordia insita nella “politia”, dunque anche nella forma di governo senese, che porta non di rado all’instau-

rarsi di una tirannide: Quod utilius est multitudinem hominum simul viventium regi per unum quam plures [...]. Hoc etiam expermentis apparet. Nam

provinciae vel civitates quae non

reguntur ab uno,

dissensionibus laborant et absque pace fluctuant [...]. È con-

, trario vero provinciae et civitates quae sub uno rege reguntur

pace gaudent, iustitia florent, et affluentia rerum laetantur?? [..].. Quod in regimine plurimum magis saepe contingit

[AL Disdominium tyrannicum, quam ex regimine unius m, plurimu regimine ex sequitur m plurimu quae enim, sensio

ine contrariatur bono pacis, quod est praecipuum in multitud sociali.??*

43. Andrea Vanni (copia dell'affresco di Ambrogio Lorenzetti), Allegoria del Buon Governo (particolare), Siena, Palazzo Pubblico

Argomenti analoghi sono usati da Egidio Romano nel De regimine principum. La eco del trattato dedicato all’erede al trono di Francia Filippo il Bello fu straordinariamente vasta. Il Berges parla di «uno dei libri più letti del tardo Medioevo». L'edizione latina, più ancora della versione italiana lievemente modificata, destò certo l’attenzione dei senesi, non foss’altro perché conoscevano personalmente l’autore, avendo questi soggiornato a Siena nel 1295. Due suoi trattati (De praedestinatione, De formatione corporis

humani) sono dedicati a Tavena Tolomei, l’eminente membro di una delle principali famiglie della città.??° Le frasi seguenti devono aver irritato i senesi in modo particolare:

Appresso provaremo per quattro ragioni, che la migliore si-

gnoria che sia, si è quella d'un uomo solo, quand'elli intende principalmente al bene comune, e ch'elli è maggiore utilità alla città ed ai reami ed alle province, ched ellino sieno retti per un cotal signore, che per più; e la prima ragione si è, che ‘1 principale bene della città si è, che pace e concordia vi sia, e che i cittadini sieno tutto uno, donde perciò che questo può meglio fare uno che molti, se molti non sono tutto una cosa, e questo non può bene essere, chè l’uno impedisce l’altro?” [...]. Uno fa più gran pace e più gran concordia nella città che molti.??5

La risposta iconografica dei Nove (fig. 28, tavola xx1v)

verte esattamente su questi punti. Il “principatus populi”

di Siena è rappresentato come modello esemplare di una

PITTURA

- MEDIOEVO

cittadinanza concorde, animata da ur’urica volontà. Il nome dato alla figura principale può essere inteso come punta polemica contro Tommaso ed Egidio (figg. 40, 41,

tavola xx). Nonostante lo scettro e la veste regale infatti, essa non rappresenta un sovrano, bensì l’allegoria del “Bonum commune”. Sul trono non c’è il monarca, bensì

332

l'ideale aristotelico del bene comune che si identifica con l’immagine dello stato senese. La prima frase dell’iscrizione nella Sala della Pace («Questa santa virtù [Iust4], là dove regge, induce ad unità li animi molti») sembra rispondere direttamente all'affermazione di Egidio che il «principatus populi» sarebbe condannato al declino a causa della discordia insita in esso. Il fatto che la difesa del “principatus populi” sia affidata in prima istanza a un pittore, è tipico di Siena. La sistema-

ticità e la ricchezza di idee degli affreschi nella Sala della Pace sono incomparabilmente maggiori e più significative

di tutti i tentativi di motivare e difendere per iscritto la forma di governo senese. Al confronto, la parti teoriche degli statuti appaiono vistosamente misere. Allo stato attuale della conoscenza delle fonti, nella Siena del DueTrecento non sono stati redatti trattati politici o di dottrina dello stato. Nel suo saggio del 1958 che inaugura le indagini più recenti sull’iconografia della Sala della Pace, Nicolai Rubinstein dimostra che la figura del sovrano (fig. 40, tavola xx) ha il duplice significato di immagine del “Bonum commune” e del “Commune Senarum” 2° L'epigrafe attribuisce alla figura centrale il significato di “Bonum commune”, mentre l'iconografia conferma in vari modi l’immagine del “Commune Senarum”. L'abito bianco e nero rimanda ai colori dello stemma senese; il sigillo ingrandito che la personificazione dello stato senese tiene con la sinistra reca la scritta Saver VIRGO SENAM VETEREM QUAM

SIGNAT AMENAM (fig. 39); ai piedi del “signore” c’è l’emblema di Siena, la lupa che allatta i gemelli Senio e Aschio (fig. 40, tavola xx1m). Meno chiaro risulta finora il quarto accenno a Siena: all’altezza della testa della personificazione si vedono le lettere CSCCV (fig. 41). Gaetano Milanesi e Adolfo Venturi interpretano la scritta come «Commune Senarum cum civilibus virtutibus».?° Seguendo un suggerimento di Nicolai Rubinstein, gli studi più recenti ipotizzano la lettura CSCV («Commune Senarum Civitatis Virginis»).2?! Un esame della tecnica pittorica effettuato nel 1994 dall'autore insieme al restauratore Giuseppe Gavazzi ha confermato tale interpretazione. A luce radente è apparsa dapprima una sequenza di lettere ancora più lunga: CSCS[C]HVICV. Ma solo le quattro lettere centrali — CSCV - sovrapposte al cappello di pelliccia sono originali. Le quattro lettere esterne sono state aggiunte in epoca

successiva, quando le originali erano già sbiadite (fig. 42). La stretta connessione fra “Bonum commune” e “Commune Senarum” non si ritrova solo nei testi politici e di dottrina dello stato citati da Nicolai Rubinstein. Anche nel linguaggio corrente senese si può osservare una concordanza dei termini in diretta correlazione con l'iconografia.

Le parole “ben comune” e “Comune di Siena” sono spesso utilizzate come sinonimi. La trecentesca «Cronaca di autore anonimo» così commenta i festeggiamenti in occa-

44. Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo (Pace), Siena, Palazzo Pubblico

sione di una conquista militare: «chome è consueto quando s’aquista alchuna chosa al ben chomuno».? E lo scrivano del consiglio utilizza consapevolmente il termine «utilità del Comune» in luogo di “ben comune”: «Però che neuna cosa a maggiore dispendio e più grave dampno viene al Comune di Siena chel privato commodo et utilitade ponere innanci all’utilità del Comune». Il termine “ben comune” è uno degli slogan più importanti nel linguaggio politico della Siena del Trecento. Nel 1315, durante un grave conflitto, i Nove, temendo una rivolta, chiamano alle armi la guardia civica «a mantenere la libertà, el ben comune e regimento del popolo».?* La perspicuità del nesso tra “Bonum commune” e “Commune Senarum” viene infine incentivata dai testi religiosi e probabilmente anche dalle prediche. Nel Liber de virtutibus et peccatis, Raimondo Lullo scrive: «Caritas est virtus, quae regulat voluntatem pro amare commune bonum, videlicet communitatem civitatis, castri vel villae».?? Si ricorderà che nell’affresco di Ambrogio la figura del Bonunz commune è sormontata dalla Caritas. La scelta inconsueta di un vecchio dalla maestosa barba bianca come personificazione della Civitas (figg. 40, 41, ta-

vola xx) segue il modello di Giotto. Secondo la testimonianza del Vasari, in un affresco del Bargello andato per-

duto Giotto rappresenta il Comune «in forma di giudice con lo scettro in mano». Probabilmente la composizione del fiorentino era influenzata anche da modi di dire lo-

VANAGLORIA

305

».

TAI

A,

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VanENIT A TAVAY. AT. Co



o Pubb lico sOVEerno (P ace ), Sie na, Palazz 45. Ambrogio Loren zetti, A Ile goI ia del Buon G

PITTURA

334

- MEDIOEVO

cali. Dino Compagni, auspicando che il governo comunale di Firenze sia risparmiato dalla tirannide dei potenti, utilizza ad esempio le parole «che ‘l Comune rimanga signore».27 L'età della personificazione dello stato senese rimanda al termine “Sena vetera” nella scritta sul sigillo esibito dal sezex (SALVET VIRGO SENAM VETEREM QUAM SIGNAT AMENAM; fig. 39). La figura paterna dello stato senese appartiene alla retorica politica. I cavalieri in ginocchio davanti al serzex, costretti a offrire iloro Zali al “Comune Senarum” (figg. 40, 43, tavola xx1v), ricordano i protocolli della sottomissione dell’aristocrazia feudale. I principi d’Elci che nel 1330 si gettano ai piedi dei Nove vengono “consolati” con le parole: «Advertentes [...] quod paterne pietatis offitium est filios deviantes non tractare atrociter, sed ipsos benigne ad suam benevolentiam revocare».?* Dopo la conquista della rocca di Gerfalco nel 1318, i vinti devono riconoscere lo stato senese come «loro padre», sotto la cui «benigna protezione desiderano ritornare».??° Anche la scelta del sigillo ingrandito quale attributo del senex (fig. 39) prova la minuziosa progettazione dell’iconografia. L’attributo si accorda puntualmente con il citato dibattito sul primato della monarchia o della “politia”. Il tondo sigillo dello stato, simbolo della “politia”, sostituisce in AL evidente il globo che imperatori e re tengono nella stessa posizione. Per dimensioni e forma il sigillo ricorda inoltre uno scudo (fig. 40). La Vergine celeste rattigurata su di esso (fig. 39) è la sovrana ideale che protegge lo stato senese come uno scudo. Sigillo e scettro (fig. 40, tavola xx) sono gli emblemi dei reggenti della “politia”. I Nove iodlimiao la proprietà assoluta del sigillo dello stato, e negli statuti senesi si legge: «Sigillum Comunis Senarum stet aput dominos Novem». Parallelamente, l'insegna del “Prior dominorum Novem” è per l'appunto un bastone simile a uno scettro.

La complessità dell’iconografia si evince da un altro attributo, finora trascurato. Esaminando la tecnica dell’affresco, ho scoperto sul cappello del serzex evidenti tracce di una corona di ulivo (figg. 41, 42) le cui foglie, dipinte “a secco”, nel corso dei secoli sono quasi del tutto sbiadite, al pari delle lettere originali CSCV. “Bonum commune” e “pax” (figg. 44, 45, tavola xxv1) formano un binomio ricorrente. Intorno al 1330, il domenicano Remigio de’ Girolami parla del «bonum commune multitudinis, quod est pax».?#! Nel primo Trecento lo stesso

concetto

è espresso

in versi

da

Graziolo

de’

Bambaglione: Quanto è perfecto il ben, tanto più vale, Quant'egl'è più comune e generale; Perchè ciascun contenta e satisface, E nascene unione e dolce pace.?*

Il Bonum commune — Commune Senarum incoronato di ulivo rimanda allo scopo primario del Comune di Siena. Nel loro voto, i Nove giurano di mantenere la città «in statu pacifico et tranquillo». Nel quarto capitolo, dedicato ai compiti dei Nove, gli statuti senesi del 1337 citano

46. Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Mal Governo, Siena, Palazzo Pubblico

come sommo scopo del governo: «Dominus Potestas et domini Novem civitatem, Comune et Populum Senarum ad veram pacem et rectam concordiam reducendi potestatem habeant et baliam. Et teneantur procurare quod dicta pax et concordia sit et manuteneatur et defendatur inlesa [...]. Prevideant domini Novem [...] quod civitas et populus universus in statu pacifico conservetur».?4 Soprattutto prima dell’innovativo saggio di Nicolai Rubinstein,” la critica ha spesso rimproverato ad Ambrogio di usare un linguaggio iconografico sovraccarico di concetti, troppo astratto e pertanto di difficile comprensione. Tale giudizio misconosce l’importanza e la novità di questa iconografia. Ambrogio si serve di un linguaggio estremamente concreto: traduce in immagini idee note a tutti, utilizza sinonimi di uso corrente, argomenta con og-

getti reali, familiari a chiunque, quali la pialla del falegname (fig. 35, tavola xxvn) o gli “emblemi” del sigillo e del bastone (figg. 39, 40, tavola xx). Neanche i rami di ulivo o la corona (figg. 42, 44, 45) sono simboli astratti, bensì emblemi concreti della quotidianità politica: «Quando la giente del chomuno di Siena entrò in Montealcino, d’uomini e donne, grandi e picholini se lo’ fecie inchontra tutto el populo di Montealcino cho’ gli ulivi in testa e in mano, in segno di pacie» (Cromaca senese di autore anonimo)24

I presenti studi potrebbero indurre ad attribuire ad Ambrogio Lorenzetti l’aura del pittore erudito. Questa leg-

senda ha radici antiche. Già Lorenzo Ghiberti, poco

VANAGLORIA

335

47. Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Mal Governo (Avarizia), Siena, Palazzo Pubblico

48. Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Mal Governo (Vanagloria), Siena, Palazzo Pubblico

prima della metà del Quattrocento, parla di un «huomo di grande ingegno». Il Vasari esalta Ambrogio quale studioso e statista:

fici status et libertatis civitatis Senarum et pro salute et conservatione sotietatum et populi et status pacifici dicte civitatis»; 2) «ad fortificationem et corroborationem offitii

Finita quest'opera se ne tornò Ambruogio a Siena, dove visse onoratamente il rimanente della sua vita non solo per essere eccellente maestro nella pittura, ma ancora perché, avendo dato opera nella sua giovanezza alle lettere, gli furono utile e dolce compagnia nella pittura e di tanto ornamento in tutta la sua vita che lo renderono non meno amabile e grato che il mestiero della pittura si facesse; laonde non solo praticò sempre con letterati e virtuosi uomini, ma fu ancora con suo molto onore et utile adoperato ne’ maneggi della sua Republica. Furono i costumi d’Ambruogio in tutte le parti lodevoli e più tosto di gentiluomo e di filosofo che di artefiCet

Manca un giudizio trecentesco che confermi l’elogio del Vasari. Siena non conosce quel genere letterario della novella d’artista così brillantemente coltivato nella Firenze del Trecento, probabilmente il più prodigo di informazioni simili. E nei protocolli del consiglio senese si trova soltanto una traccia microscopica: 11 novembre 1347, nella grande sala del Palazzo Pubblico affrescata con la Maestà di Simone Martini e il suo ritratto equestre di Gwidoriccio da Fogliano (tavola vin) i membri del governo incontrano circa duecento rappresentanti dei tre quartieri della città.

All'ordine del giorno vi sono due punti formulati in modo

volutamente generico: 1) «pro conservatione boni et paci-

dominorum Novem et ad conservationem boni et pacifici status Comunis Senarum».?#° Sul primo punto intervengono due relatori. Memmo di Duccio di Robba propone di formare una commissione di «sapientes populares», in numero variabile da nove a dodici, che elabori proposte volte ad accrescere la sicurezza politica. Meo di Lando chiede una revisione dell’ordinanza già discussa due mesi prima. Quindi prende la parola Ambrogio Lorenzetti: «Magister Ambrosius Laurentii alius ex consiliariis dicti Consilii surgens in dicto Consilio

ad dicitorium circa dictas duas propositas dixit sua sapientia verba». Purtroppo lo scrivano è un maestro di sommarietà. Parrebbe che Ambrogio Lorenzetti non presenti alcuna proposta concreta, perché altrimenti vi sarebbe un pur breve accenno al contenuto. Il pittore dovrebbe piuttosto aver fatto una dichiarazione di principio sui due argomenti all'ordine del giorno, il mantenimento dello stato pacifico e libero e il rafforzamento del governo dei Nove. Ambrogio dunque parla dei contenuti trattati nei suoi affreschi. Con ogni evidenza le sue parole non soltanto trovano ascolto, ma anzi colpiscono per il loro contenuto: «sua sapientia

verba».

PITTURA VI. VANAGLORIA «PRIMO

- MEDIOEVO

consulere, anxie inspicere».?°

E AVARITIA:

EX SUPERABUNDANTIA,

SECUNDO

EX DEFECTU»

I trattati pedagogici, come anche le leggi suntuarie senesi,

perseguono gli ideali della convenevolezza e della misura. Nel nostro contesto, “convenevolezza” sta per abbigliamento conforme al rango: «Quando le donne il facciano convenevolmente secondo il loro stato e la loro condizio336

ne» (Egidio Romano).?® Ricorre spesso un esempio che

Ambrogio raffigura nella scena della nobildonna a cavallo (figg. 18, 19, tavole xxxvn, xL): «Decet enim uxorem mili-

tis magis esse ornatam vestibus quam uxorem civis simplicis».2?! «Misura» indica la via mediana tra il lusso sfrenato e un abbigliamento indecoroso, incurante delle regole sociali: «E lodo ch’ella prenda più tosto il men che ‘l più ad osservare, e più la via del mezzo??? [...]. Sta bene a donna d’aver bella vesta e anco tutta la sua ornatura, ma non con-

vien ch’ella passi misura» (Francesco da Barberino).?? A indurre in tentazione sono principalmente “Vanagloria” e “Avaritia”: «primo ex superabundantia, secundo ex defectu».??4 “Vanagloria” istiga al lusso, «quando la femmina è troppo curiosa in vestirsi». “Avaritia” induce al comportamento opposto, non meno lesivo dei precetti della “convenevolezza” e della “misura”: «L'uomo può peccare in troppo poco vestire [...] sì come sono alcune genti che, per pighertà e per loro avarezza non si vestono, nè non s'adornano, secondo ch’ellino dovrebbero e a loro istato s’avverrebbe»? Ambrogio Lorenzetti trasferisce questa massima nell’immagine del vizio (figg. 46-48, tavole Lu, LIV, Lv): “Vanagloria” incarna il vizio del lusso (fig. 48), e Ambro-

gio la interpreta seguendo l’uso linguistico del Trecento. Giovanni Villani ad esempio parla di «vanagloria delle donne e disordinate spese e ornamenti»? mentre Franco Sacchetti, citando Dante, ricorre allo stesso termine per criticare la stoltezza degli strascichi troppo lunghi: «E così non si finirebbe mai di dire delle donne, guardando allo smisurato traino de’ piedi [...]. “O vanagloria dell'umano posse”, che per te si perde la vera gloria!».298 L'immagine della Varaglorza scintillante di nastri, perle ed enormi bottoni d’oro (fig. 48, tavola 1v) corrisponde in larga misura allo spauracchio dei custodi toscani del decoro e della morale: «Come i Fiorentini per loro ordini tolsono tutti gli ornamenti a le loro donne: nel detto anno [1330], per calen d’aprile, essendo le donne di Firenze molto trascorse in soperchi ornamenti di corone e ghirlande d’oro e d’argento, e di perle e pietre preziose, e reti e intrecciatori di perle e altri divisati ornamenti di testa di gran costo [...]» (Giovanni Villani).29

La peggiore pecca della Vanagloria è il suo smisurato amore per le perle (fig. 48, tavola rv). Le passamanerie luccicanti di innumerevoli perle e i nastri disseminati di perle intrecciati nei capelli sono considerati a Siena un esempio di abissale, indecente lusso.290 Gli attributi accentuano questo aspetto della Vanagloria

(fig. 48, tavola rv). Con riferimento a scritti teologici, Francesco da Barberino dice che «Vanagloria» è «placendi desiderio mota».?4! Simbolo della «voluntas placendi» è

sin da Tertulliano lo specchio: «speculum omni occasione

Allo stesso modo, Ambrogio Lorenzetti non è certo il primo a collegare la metafora biblica della canna in balia del vento con il vizio del lusso: il riferimento alla vanagloria è infatti prefigurato nella esegesi delle Scritture.?2® Avaritia personifica l'estremo opposto (fig. 47, tavola LIV). Il Lorenzetti la mostra come una vecchia identificata come ricca grazie alle borse serrate, piene di denaro, ma vestita ben al di sotto della sua condizione. Gli abiti grigi, di foggia antiquata, non presentano il benché minimo ornamento, non un pur modesto monile, non un tocco di colore. Il berretto bianco, che mette in sgradevole evidenza l’orecchio troppo grande e dal quale spuntano i capelli incolti, ha un aspetto estremamente misero. Avarztia contravviene pertanto gravemente alle regole della convenevolezza e della misura.

VANAGLORIA

Pubblicazione originale: «Vanagloria. Studien zur Ikonographie der Fresken des Ambrogio Lorenzetti in der Sala della Pace», in: Stédel Jabrbuch, xv1, 1997, pp. 35-90. Per il loro aiuto ringrazio sentitamente Giuseppe Gavazzi (esame

tecnico degli affreschi), Dario Melloni e Paola Morisani (computergrafica), Stefano Moscadelli (trascrizioni effettuate presso l'Archivio di Stato di Siena e consulenza per i problemi di storia locale) e Fike D. Schmidt (ricerche topologiche sulla base di archivi elettronici). Data la vastità della letteratura critica, è stata operata una scelta molto ristretta. Un più approfondito esame della fortuna critica avverrà in uno studio monografico.

! Giovanni Villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, voll. 1-1, Parma 1990 (Villani); lib. xn, cap. 11; vol. m, p. 23. ? Statuto decretato dal Consiglio Generale il 4. 6. 1330: Archivio di Stato di Siena (ASS), Statuti di Siena 23, fol. 245r-251r. Versione riveduta del 28. 7. 1330: ASS, Statuti di Siena 23, fol. 252r-253v. ? Cfr. le rubriche 23 e 25 (ASS, Statuti di Siena 23, fol. 248). * M. A. Ceppari Ridolfi, P. Turrini, I! Mulino delle Vanità (Lusso e cerimonie nella Siena medievale), Siena 199; pubblicazione integrale dello “Statuto del Donnaio” del 1343. ? Statuto del 4 giugno 1330: ASS, Statuti di Siena 23, fol. 245r. ° G. Milanesi, Documenti per la Storia dell’arte senese, vol. 1, Siena

1854, pp. 228-230 (n. 50, datato 3. 12. 1339).

? ASS, Biccherna 187, fol. 132v (31. 12. 1337): «Item, ser Dino Acgini notario et cancellario dominorum Novem pro suo salario mensium novembris et decembris — xx libr». $ Ambrogio Lorenzetti riceve 111 fiorini, corrispondenti a circa 350 lire (cfr. [qui pp. 281-285] l’appendice documentaria curata da Ste-

Historiae Artium, xx1v, 1978, p. 85. C. Frugoni, Una lontana città,

Torino 1983, p. 173. °° C. Milner, «The Pattern of the Dance in Ambrogio Lorenzetti's

Peaceful City», in: Bu/lettino Senese di Storia Patria, 1c, 1992 [Siena

1994], pp. 232-248. ?° U. Feldges Henning, «The Pictorial Programme of the Sala della Pace: A New Interpretation», in: Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, xxxv, 1972, p. 155. 7! J. Bridgeman, «Ambrogio Lorenzetti’ dancing “Maidens” — A Case of mistaken Identity», in: Apollo, cxxxm, 1991, pp. 245-251. 3 Ibidem, p. 250. ® A. Brezzi (a cura di), Gt affreschi di Taddeo Gaddi nel Castello dei Conti Guidi di Poppi, Poppi 1991. # U. Feldges, op. cit. (vedi nota 30), p. 154. C. Frugoni, «Il governo dei Nove a Siena e il loro credo politico nell’affresco di Ambrogio Lorenzetti», in: Quaderni medievali, n. 8, 1979 (dicembre), pp. 8687. C. Milner, op. cit. (vedi nota 29), p. 237. A. Riklin, Ambrogio Lorenzettis politische Summe, Bern 1996, p. 19. P ASS, Statuti di Siena 8, fol. 5v. Cfr. Statuti di Siena 11 (1295) e 12, fol. 270r [rubr. v/356] (1296). °6 A. Lisini (a cura di), I{ Costituto del Comune di Siena volgarizzato nel MCCCIX-MCCCX, Siena 1903, p. 396 (distinzione v, rubrica 385). 3 ASS, Statuti di Siena 29, fol. 12r (1310). ? E. da Barberino, Reggimento e costumi di donna, a cura di E. Sansone, Torino 1957, p. 29. ?° Egidio Romano, Reggimento de’ principi (volgarizzamento trascritto nel MCCLXXXVINI), a cura di F. Corazzini, Firenze 1858 (Egidio), p. 184. Aegidius Romanus, De regimzine principum libri n, Aalen 1967 (ristampa dell'edizione Roma 1607; Aegidius), coll. 340 ss. Per itrattati pedagogici medioevali cfr. A. Giallongo, «La fanciulla cortese»,

fano Moscadelli a M. Seidel, Dolce vita. Il ritratto dello stato senese dipinto da Ambrogio Lorenzetti). Per il cambio (circa 63 soldi per fiorino) cfr. C.M. Cipolla, «Studi di storia della moneta, I: I movimenti dei cambi in Italia dal secolo xm al xv», in: Università di Pavia. Studi nelle scienze giuridiche e sociali pubblicati dall'Istituto di esercitazioni presso la Facoltà di Giurisprudenza, xx1x, 1948, pp. 31-239, in particolare alle pp. 189-190. ? ASS, Campaio 1, fol. 32r (25. 2. 1338). 10 ASS, Statuti di Siena 23 (decretata dal Consiglio Generale il 4. 6. 1330), fol. 245r.

* L. A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, nuova edizione, tomo xv, parte vi: Cronache senesi; a cura di A. Lisini e F. Iacometti, Bologna 1931-39 (Cronache senesi). Cronaca di autore anonimo, pp. 89, 103; Agnolo di Tura, pp. 311, 345, 346.

1 ASS, Campaio 1, fol. 21v, 24r-25v.

4 Ibidem, p. 931.

12 3 14 5

# Villani, n, p. 578 (libro undecimo, capitolo 50).

ASS, Campaio M. A. Ceppari ASS, Campaio ASS, Campaio

1, fol. 14v (rubr. x1vn). Ridolfi, P. Turrini, op. cit. (vedi nota 4), p. 173. 1, fol. 14v. 1, fol. 14v.

16 ASS, Campaio 1, fol. 14r (rubr. x1v). 7 ASS, Campaio 1, fol. 15r (rubr. xv).

18 ASS, Campaio 1, fol. 27r-27v (rubr. povm). !9 La rubrica 47 del “Campaio” (fol. 14v), intitolato Quod mulieres non vadant cinte de super, manca negli statuti del 4 luglio e del 28 luglio 1330 (ASS, Statuti di Siena 23, fol. 245r-253v). 20 P. Torriti, La Pinacoteca Nazionale di Siena: I dipinti dal xII al xv secolo, Genova 1977, p. 100. 21 Ibidem, pp. 122-123. 2 Ibidem, pp. 116-117. 2 E. Borsook, Gt affreschi di Montesiepi, Firenze 1969, p. 81. 2 Per un confronto tra l’immagine e la fonte agiografica vedi «M. Seidel, Ikonographie und Historiographie», in: Stàdel/-Jabrbuch, x,

1985, pp. 77-142 (in particolare pp. 96-99) [qui pp. 211-214].

2 ASS, Campaio 1, fol. 1v (statuto probabilmente anteriore al 1324). 26 ASS, Campaio 1, fol. 21r (rubr. 63: De longitudine trainorum et quo tempore non licet trainare): «Quod nulla mulier [...] induat aliquam vestem in qua trainum vel caudam trahat vel habeat ultra longitudinem unius brachii et dimidii ad cannam Senensem» (cm. 90 circa). dI -

Campaio 1, fol. 26v (rubr. 77: De mulieribus euntibus vela-

tis): «Quod nulla mulier cuiuscumque fuerit etatis possit [...] per civitatem Senarum vel extra ire [...] quoquo modo adeo velata vel obed turata quin facies sua clare et aperte videri possit». 28 Vedi ad esempio A. Eòrsi, «Donne danzanti sull’affresco: efficacia del Buon Governo in città di Ambrogio Lorenzetti», in: Acta

in: Storia e Dossier, v, n. 38, 1990, pp. 32-36.

4 M. A. Ceppari Ridolfi, P. Turrini, op. ct. (vedi nota 4), pp. 40, 144, N928

4 Cronache senesi. Cronaca di autore anonimo, p. 60; Agnolo di Tura, pp. 475, 476, 489, 490. # Cronache senesi. Agnolo di Tura, p. 490.

4 Ibidem, p. 62 (libro nono, capitolo 39). #7 ASS, Campaio 1, fol. 14v (rubr. xLvim). Sono esclusi i «milites de

corredo». 4 P. D'Ancona, Le vesti delle donne fiorentine nel secolo xIV, Perugia

1906, p. 14.

4° Ibidem, pp. 17-18.

20lbidem: pali 3! Ibidem, p. 17. °° Ibidem, p. 18. 3 Cronache senesi, p. 521. % ASS, Biccherna 191, fol. 82v (entrate totali nella prima metà del

1338: lire 133880 soldi 6 denari 3; al cambio, 1 fiorino equivaleva a

3 lire, 2 soldi, 10 denari). » Cronache senesi, p. xx, nota 2. I dubbi manifestati dal Lisini in merito alla paternità della cronaca non hanno influito sulla storiografia più recente. 56 ASS, Statuti di Siena 23, fol. 245r (4. 6. 1330) e ASS, Campaio 1,

fol. 13r (rubr. xLIv). 7 ASS, Campaio 1, fol. 28r-28v (rubr. vooam). 38 Tra le opere anticipatrici ricordiamo: J. M. Greenstein, «The Vision of Peace: Meaning and Representation in Ambrogio Loren-

zetti’s “Sala della Pace” Cityscapes», in: Art History, x1, 1988, pp. 492-510. S. M. Burke, Ambrogio Lorenzetti's Sala della Pace: Its historiography and its “Sensus Astrologicus’, Ph.D., New York University 1994. 39 A. Brezzi, op. cit. (vedi nota 33). 6% C. Brandi, «Chiarimenti sul Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti», in: Bollettino d'arte, xr, 1955, pp. 119-123. L. Bellosi, Buffalmacco e il Trionfo della Morte, Torino 1974, pp. 53 ss.

337

PITTURA

- MEDIOEVO

©! Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno xm, 143-145. © Brunetto Latini, Li livres dou tresor, a cura di F. J. Carmody, Genève 1975, p. 45 (1, 37).

338

% G. Boccaccio, op. cit. (vedi nota 89), vol. 1, p. 143. % Ristoro, pp. 32-33. 8 Ibidem, p.111.

® Villani, 1, pp. 7-8 (libro dodicesimo, capitolo primo). % Per Cecco d’Ascoli (alias Francesco Stabili) cfr. FE. Graus, in: Lexikon des Mittelalters, vol. u, Minchen-Zùrich 1983, coll.1599-

® «Tractatus Sphaerae di Bartolomeo da Parma (anno 1297)», a cura di E. Narducci, in: Bullettino di bibliografia e di storia delle scienze

1600.

% Bonatti, col. 110. 0 Ibidem, col. 711. 102 G. Boccaccio, op. cit. (vedi nota 89), vol. 1, p. 143. trp 3.027

9 G. Boffito (a cura di), «Il commento inedito di Cecco d’Ascoli all’Alcabizzo», in: La Bibliofilia, v, 1904, pp. 333-350; vi, 1904, pp. 1-124, 283-291. S. M. Burke, op. cit. (vedi nota 58). 6 G. Boffito, op. cit. (vedi nota 65), vi, 1904, p. 1. 97 Ibidem, p. 123. 68 Ibidem, pp. 60-61. 9 Ibidem, p. 123. î0 Ibidem, p. 5. ?! Per Bindino cfr. Cronache senesi, p. xx1v. ?? V. Lusini (a cura di), La Cronaca di Bindino da Travale, Siena 1900, PP. XVI-XVII. 3 P. A. Riedl, M. Seidel (a cura di), Die Kirchen von Siena, vol. 11. 1. 2, Miinchen 1992, p. 784 (I. Bahr). # V. Lusini, op. cit. (vedi nota 72), p. xvi. G. Milanesi, Documenti per la storia dell'arte senese, vol. 1, Siena 1854, p. 46. V. Lusini, op. cit. (vedi nota 72), p. 378. °° E. S. Piccolomini, Storza di due amanti, a cura di M. L. Doglio, L. Firpo, Torino 1972, p. 128. ” «Scripsi quoque duorum amantum casus, non finxi. Res acta Senis est, dum Sigismundus imperator illic degeret. Tu etiam aderas et si verum his auribus hausi, operam amori dedisti. Civitas Veneris est. Aiunt, qui te norant, vehementer quod arseristi, quodque nemo te gallior fuerit. Nihil ibi amatorie gestum te inscio putant. Ideo historiam hanc ut legas precor, et an vera scripserim videas nec reminisci te pudeat, si quid huiusmodi nonnunquam evenit tibi: homo enim fueras». # S. Tizio, Historiae Senenses, Biblioteca Comunale di Siena, ms. B. ut. 6, p. 378. S. M. Burke, op. cit. (vedi nota 58). Il Tizio interpreta così le sculture sulla facciata del Duomo: «Tauri effigies, cuius signi coelestis gradus tertiusdecimus moeniorum veteris castelli primo fundatorum est horoscopus» (M. Seidel, «Ubera matris», in: StidelJabrbuch, vi, 1977, p. 96, nota 243 [qui vol. n, p. 624, nota 243)). ? G. Tommasi, Dell'Historie di Siena, Venezia 1625, p. 55. 3° Lorenzo Ghibertis Denkwiirdigkeiten (I Commentariî), a cura di J. v. Schlosser, vol. 1, Berlin 1912, p. 63.

Sl Ibidem, pp. 189-192. * A. Lisini, «Una statua greca trovata in Siena nel sec. xiv», in: Miscellanea storica senese, v, 1898, pp. 175-176. Lorenzo Ghibertis Denkwiirdigkeiten, cit., vol. 1, p. 63. “ Villani, ni, pp. 7-8 (libro dodicesimo, capitolo primo). ® Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno x, 144-145, S© B. Latini, op. cit. (vedi nota 62), p. 45. Y Cronache senesi (Agnolo di Tura), p. 523. Agnolo così prosegue: «Avenne in Siena per la tanta felicità e grasseza la gente scoriva e svagliava senza il timore di Dio». W. M. Bowsky, Le finanze del Comune

di Siena 1287-1355, Firenze 1976, pp. 374-375. % J. M. Greenstein, op. ci. (vedi nota 58), p. 503. ® Ad esempio G. Boffito, op. cit. (vedi nota 65), vi, 1904, DEI Ristoro d'Arezzo, Della composizione del mondo (testo italiano del 1282), a cura di E. Narducci, Milano 1864 (Ristoro), 9, 32, 0,

111. Gwidonis Bonati foroliviensis matbematici De Astronomia tractatus, Basileae 1550 (Bonatti), col. 110. G. Boccaccio, Genealogie

deorum gentilium libri (liber n, cap. xxu1), a cura di V. Romano, Bari

1951 volt. 145.

" G. Cecchini, G. Prunai (a cura di), Chartularium Studi Senensis, Siena 1942, pp. 260-261, 269-270. P. Nardi, L'insegnamento superiore a Siena nei secoli XI-XIv, Milano 1996, pp. 123, 128, 176-185, 235. “Ristoro; ppi32-33; ? Ibidem, p. 111. ? G.C. Galletti (a cura di), La Sfera. Libri quattro in rima scritti nel sec. XIV da F. Leonardo Dati, Roma 1863, p. 7. % Vincentius Bellovacensis, Speculum naturale, liber xv, caput xLV; ristampa Graz 1964, p. 1119. ” Bonatti, col. 109,

matematiche e fisiche, vol 17, 1884 (Bartolomeo), p. 182.

LA RISto ro NoRINLOE

!© «Tractatus Sphaerae di Bartolomeo da Parma (anno 1297)», cit. (vedi nota 99), p. 182. 9% Bonatti, col. 110. 0 Ibidem, col. 710.

08 Ibidem, col. 577. 10° A. Eòrsi, op. cit. (vedi nota 28). ° Augustinus Hipponensis, Errarrationes in Psalmos, Ps. axxvII, 1 Corpus Christianorum [CC], Series Latina [SL], xxx1x, p. 1208, lin. SIL),

! Gregorius Magnus, Horzliae in Hiezechihelem prophetam, 1, homilia 8 (CC, SL, cxLn, p. 106, lin. 183 s.). ? Isidori Hispalensis Episcopi Etymologiarum sive originum libri Xx, ib. vI, cap. x1x, pars v. ? Agostino, De civitate Dei, lib. 2, cap. 21. Cfr. Cicerone, De re publica, lib. 2, cap. 42. 4 Agostino, De civitate Dei, lib. 17, cap. 14. ° H. Meyer, R. Suntrup, Lexskon der mittelalterlichen Zablenbedeutungen, Mùnchen 1987, col. 583 (vari esempi). ° Villani (lib. xn, cap. 1v), vol. m, p. 301. J. M. Greenstein, op. cit. vedi nota 58). ? C. Milner, op. cit. (vedi nota 29), p. 244. !!# F. Cardini, M. Cassandro, G. Cherubini, G. Pinto, M. Tangheroni, Banchieri e mercanti di Siena, Siena 1987, pp. 152, 155, e G. Toderi, «Le monete della Repubblica di Siena (1180-1559)», in Le monete della Repubblica senese, testi di B. Paolozzi Strozzi, G. Toderi, F. Vannel Toderi, Siena 1992, pp. 283-403, in particolare i n.ri 23 e 24. O Titii Sigismundi Historiarum Senensium ab initijs Senarum usque

ad annum 1528, Firenze, Biblioteca Nazionale, ms. pal. 11. v. 140, vol. 11, fol. 49r-v. M. Seidel, op. cit. (vedi nota 78), pp. 80-81. 2° M. Seidel, «Hochzeitsikonographie im Trecento», in: Mitteilungen des Kunstbistorischen Institutes in Florenz, xxxvm, 1994, pp. 31-35 [qui pp. 429-430]. 2! Villani (lib. 9, cap. 49), vol. 1, p.79. Cfr. vol. 1, p. 437 (lib. 8, cap. 15) e Cronache senesi, p. 263. °° Tommaso d'Aquino, De regimzine principum, lib. 1, cap. 1v. © Philippus de Harvengt, Commentaria in Cantica canticorum, proemium (Patrologia Latina [PL] 203, col. 184 C). 2 Ristoro, p. 100. © B. Latini, op. cit. (vedi nota 62), pr:

2° K. Sudhoff, «Daniels von Morley “Liber de naturis inferiorum et superiorum” nach der Handschrift Cod. Arundel 377 des Britischen Museums», in: Archiv fiîr die Geschichte der Naturwissenschaften und der Technik, vin, nn. 1-3, 1917, p. 39. 2? Ibidem, p. 38. 2 Alanus ab Insulis, Anticlaudianus, 1v, 8 (PL, vol. cex, col. 528): «Qui l'oscurità risplende, qui la luce si oscura, e là la notte regna insieme alla luce, e la luce sorge insieme alla notte». ©° Francesco Stabili (Cecco d’Ascoli), L’Acerba, a cura di A. Crespi, Ascoli Piceno 1927, p. 425. 0 Ibidem, p. 127. ? Ristoro, p. 92. ?? Alanus ab Insulis, Anziclaudianus, rv, 8 (PL ccx, col. 528). ? Michael Scotus, Liber introductorius, Oxford, ms. Bodley 266, fol.

150v ss. (cfr. R. Klibansky, E. Panofsky, E Saxl, Saturn und Melancholie, ediz. cons. Frankfurt a. M. 1992, p. 287). !4 Bartholomaeus Anglicus, De proprietatibus rerum, van 23,

Argentoratae 1485, fol. 20v.

‘? ASS, Campaio 1, fol. 13r-13v (rubr. xurv). Era privilegio della moglie di un cavaliere: «Salvo etiam quod militibus de corredo liceat

VANAGLORIA

impune non obstantibus ullis ordinamentis dicti Comunis habere et portare illas vestes [...] quas et prout pro honore et decore personarum suarum ipsi milites voluerint et cum illis ornamentis in eis et super cis cuiusque rei et manieriei quas cis placebunt et volent». Tale privilegio era espressamente precluso alle mogli dei giudici e dei medici, che ricorrono spesso nei decreti d’eccezione. 136 ASS, Campaio 1, fol. 13r (rubr. xLIv). 37 Cronache senesi (Agnolo di Tura), p. 451. 28 /ASS, Campaio 1, fol. lv (rubr. n). 139 ASS, Campaio 1, fol. 21r (rubr. vxm). 140 ASS, Statuti di Siena 23, fol. 253r-253v (statuto del 28. 7. 1330). HM! ASS, Campaio 1, fol. 26v-27r (rubr. voxvn). Cfr. il corteo di cavalieri dipinto da Buffalmacco nel Camposanto di Pisa (fig. 21). 142 ASS, Statuti di Siena 26, fol. 197r, dist. rv/1 (1337).

# U. G. Mondolfo, Il Populus a Siena nella vita della città e nel governo del Comune fino alla riforma antimagnatizia del 1277, Genova 1911, pp. 82-85. Cfr. ASS, Statuti 21, fol. 29r-30r (1313).

4 ASS, Statuti di Siena 26, fol. 197r-198r dist. 1v/4-6 (1337). All’inizio della rubrica si afferma: «Non possit [...] esse de Populo civitatis Senarum aliquis de casatis civitatis Senarum». ® Cronache senesi, p. 442.

4 # 4 4° 3 3!

Ibidem, p. 450. Ibidem (Agnolo di Tura), p. 261. Ibidem, p.311. Ibidem, pp. 345-346. R. Mucciarelli, I Tolomei banchieri di Siena, Siena 1995, p. 244. Ibidem, p. 238.

3? ASS, Consiglio Generale 123, fol. 14r-19r. La petizione viene così

motivata: «Dinanci da voi signori Nove [...] si prega con reverenca per parte di molti cittadini vostri che sono sottoposti a perigoli dele nemistà mortagli, che vi piaccia, acciò che possano più sicuramente schifare e rischi e danni a quali per esse brighe sono sottoposti [...]. E anco trare tanti vostri cittadini di pericolo di morte [...] non potendosi come bisogna guardare». % R. Mucciarelli, op. cit. (vedi nota 150), p. 270.

% Ibidem, p. 271. 155 Cronache senesi, p. 438. 56 G. Cecchini, La pacificazione fra Tolomei e Salimbeni, Quaderni dell’Accademia Chigiana n, Siena 1942, p. 73. Ibidem, p. 65. 58 De regimine principum, 1, 4: «[Tyranni] conantur etiam ne potentes aut divites fiant, quia de subditis secundum suae malitiae conscientiam suspicantes, sicut ipsi potentia et divitiis ad nocendum utuntur, ita timent ne potentia subditorum et divitiae eis nocivae reddantur». 159 Egidio, pp. 249-251 (lib. n, parte ni, cap. x). 160 Ibidem, p. 277 (lib. mn, parte n, cap. xxx1). 61 Ibidem, p. 249 (lib. m, parte ni, cap. x). 6 A, D'Ancona, Origini del teatro italiano, vol. 1, Roma 1891, p. 609.

16 Ibidem, p. 609.

6 Le novelle di G. Sermini, a cura di G. Vettori, Roma 1968 (novella

dodicesima). Cit. da G. Cherubini, Scritti toscani—L'urbanesimo medievale e la mezzadria, Firenze 1991, p. 336. 6 G. Cherubini, op. cit. (vedi nota 164), pp. 344-345. 66 Ibidem, p. 336. 9 Ibidem, p. 3371. 168 Ibidem, p. 337. 9 Ibidem, p. 336.

170 G. Cherubini, L'Italia rurale del basso medioevo, Roma-Bari 1984,

pp. 118-119.

71 ASS, Statuti di Siena 26, fol. 150r-150v, dist. 11/154 (1337). 172 ASS, Statuti di Siena 26, fol. 150v-151v, 152v, dist. 111/155-157,

Tel 1937) 3 La prima e la seconda tesi sono esaminate da Chiara Frugoni («Il Governo dei Nove a Siena e il loro credo politico nell’affresco di

Ambrogio Lorenzetti», in: Quaderni medievali, n 7, 1979, PP: 32-

33). Un altro importante esponente della medievistica italiana, Giovanni Cherubini, difende la prima tesi («I mercanti e il potere», in: Banchieri e mercanti di Siena, op. cit. (vedi nota 118), p. 183). [Il 17. 5. 1996 Nicolai Rubinstein ha tenuto nella Sala della Pace una

conferenza dal titolo Le allegorie di Ambrogio Lorenzetti nella Sala della Pace e il pensiero politico del suo tempo, sostenendo di nuovo l’ipotesi che i ventiquattro cittadini possono rappresentare i venti membri del Concistoro (cioè i Nove e gli Ordini) più i quattro Esecutori delle gabelle che si riunivano spesso con loro (Rivista Storica Italiana, cx, 1997, pp. 782-783)]]. " Ipotesi avanzata da A. Riklin, Ambrogio Lorenzettis politische

Summe, Bern 1996, pp. 80-81 (l’autore cita altri sostenitori della prima e della seconda tesi). ? Citata ancora nel primo Ottocento da Ettore Romagnoli (Biografia cronologica de’ Bellartisti Senesi, 1200-1800, ed. anastatica, vol. 1, Firenze 1976, p. 239). 7 G. A. Pecci, Raccolta universale di tutte le iscrizioni, ASS, ms. D.

5, vol. n, fol. 188v-189r. " ASS, Diplomatico Riformagioni 1314 marzo 29, edito in M. Seidel, «Castrum pingatur in palatio», in: Prospettiva, n. 28, 1982, p. 36, doc. 1 [qui pp. 181-182]. 78 ASS, Capitoli 2 (Caleffo dell’ Assunta), fol. 416r. ? ASS, Campaio 1, fol. 13r (rubr. x1Iv). 80 ASS, Statuti di Siena 26, fol. 197r, dist. rv/1 (1337). 81 ASS, Statuti di Siena 26, fol. 198v, dist. rv/15 (1337). & ASS, Campaio 1, fol. 13r-13v (rubr. x1Iv). 8 ASS, Concistoro 1.

8 ASS, Concistoro 2-3. 185 ASS, Concistoro 1, fol. 2r e 2bisr. 86 ASS, Concistoro 1, fol. 3v.

ST ASS, Concistoro 1. Cfr. anche W.M. Bowsky, op. cit. (vedi nota 87), pp. 4-5; M. Ascheri, Siena nel Rinascimento. Istituzioni e sistema politico, Siena 1985, p. 32 nota 44; Id., «Siena senza indipendenza: Repubblica continua», in I Libri dei Leoni. La nobiltà a Siena in età medicea (1557-1737), a cura di M. Ascheri, Siena 1996, pp. 1516 nota 18, e R. Mucciarelli, op. ct. (vedi nota 150), p. 277, nota 29. 88 I Nove rimangono in carica per due mesi (ASS, Statuti di Siena

5, fol. 289r, dist. vi/2 [1287]). 8 In carica per due mesi come i Nove (ASS, Statuti di Siena 26, fol. 223v).

% I “Provisores” rimangono in carica per sei mesi (ASS, Statuti di Siena 26, fol. 42r-42v). 191 Villani, libro xt, cap. 1v. ® Rerum Italicarum Scriptores (RIS), xt, Iv, p. 37.

2: Cfr; nota 191 % Anonimo Romano, Crowica, Vita di Cola di Rienzo, a cura di E.

Mazzali, Milano 1991, pp. 128-129. D Ibidem, p. 130. % Raimundus Lullus, Ars generalis ultima omnium artium, cap. 8 (CC, Continuatio Medievalis [CM] 75; p. 147, lin. 1102 s.). % Ibidem, p. 147, lin. 1098.

98 E. Brugnolo, «Le iscrizioni in volgare: testo e commento», in: È. Castelnuovo (a cura di), Ambrogio Lorenzetti — Il Buon Governo, Milano 1995, p. 386; viene confutata la traduzione proposta da Q. Skinner («Ambrogio Lorenzetti: The Artist as Political Philosopher», in: Proceedings of the British Academy, un, 1986, pp. 1-56). 99 F. Brugnolo, op. cit. (vedi nota 198), p. 387. 200 M, C. De Matteis, La “Teologia politica comunale” di Remigio de’ Girolami, Bologna 1977, p. 29 (‘De bono communi”). 201 Egidio, p. 241 (lib. m, parte ni, cap. Iv). 202 Ibidem, p. 267 (lib. ni, parte n, cap. xxm).

203 Summa theol., 1a, mae, q. 90 a, 3. 24 M, C. De Matteis, op. cit. (vedi nota 200), p. 9 (“De bono communi”). 205 W. Ullmann, The Medieval Idea of Law as represented by Lucas de Penna, London 1946, p. 56.

206 Aegidius, p. 455 (lib. m, pars 1, cap. 1): «Sed si populus sic do-

minans non intendit bonum omnium secundum suum statum, sed

vult tyrannizare et opprimere divites, est principatus perversus».

207 Marsilio da Padova, Defensor Pacis, a cura di H. Kusch, Berlin

1958, p. 76 (parte 1, cap. vu). 208 Cin nota 179; 209 Cfr. note 202-205. 210 Cronache senesi, p. 53. 21 H, Meyer, R. Suntrup,

Lexikon

der

mittelalterlichen

339

PITTURA

- MEDIOEVO

Zablenbedeutungen, Munchen 1987, coll. 679-684. 212 Alcuino, Commentaria in Apocalypsin, lib. m, cap. rv (PL c, col.

20 Egidio, p. 153 (lib. n, parte 1, cap. xvm). 5! Aegidius, col. 279 (pars 1, lib. n, cap. xx1).

MUD)

22 F. da Barberino, op. cit. (vedi nota 38), p. 27.

} Ibidem, col. 1122 D. * Rabano Mauro, Comzzentaria in libros l Paralipomenon, cap. xx1v PIL. Gr ad, 3850), N DO ° F. Brugnolo, op. cit. (vedi nota 198), p. 388.

216 K. Hoffmann Curtius, Das Programm der Fontana Maggiore in Perugia, Dusseldorf 1968, pp. 65-70. 217 Giorgti et lohannis Stellae Annales Genuenses, a cura di G. Petti Balbi, RIS, vol. xvn, parte n, Bologna 1975, p. 239. 218 G. Cecchini, op. cit. (vedi nota 156), p. 60. 219 Aurelius Augustinus, Epzstolae, ep. cxxxvi (Corpus Scriptorum

340

Ecclestasticorum Latinorum, vol. xv, p. 135, lin. 10 s. e lin. 17).

220 B, Latini, op. ct. (vedi nota 62), p. 291 (libro secondo, capitolo 108).

221 E, Stange (a cura di), Die EncyKlopadie des Arnoldus Saxo, “De coelo et mundo”, supplemento al Jahresbericht 1904/05 del Kénigliches Gymnasium di Erfurt, Erfurt 1905, p. 105. 22 P. Hibst,

Utlitas Publica — Gemeiner

Nutz — Gemeinwobl.

Untersuchungen zur Idee eines politischen Lettbegriffes von der Antike bis zum spàten Mittelalter, Europàische Hochschulschriften, serie mn, vol. 497, Bern-New York-Paris 1991, p. 322, nota 1349 (cit.

da Egidio Romano). 23 De regimine principum, lib. 1, cap. 3. 224 Ibidem, lib. 1, cap. 6. 22 W. Berges, Die Firstenspiegel des hohen und spiten Mittelalters, Stuttgart 1938, p. 211. 26 FE. Del Punta, S. Donati, C. Luna, «Egidio Romano», in: Dizionario biografico degli italiani, vol. 42, pp. 319-341. Per Siena vedi p. 323. Per Tavena Tolomei vedi p. 321 (cfr. anche R. Mucciarelli, op. cit. [vedi nota 150], tavole 4, 5, 5a).

27 Egidio, p. 238 (lib. m, parte ni, cap. m). 228 Ibidem, p. 241 (lib. m, parte ni, cap. rv). 2° N. Rubinstein, «Political Ideas in Sienese Art: the Frescoes of Ambrogio Lorenzetti and Taddeo di Bartolo in the Palazzo Pubblico», in: Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, xx1, 1958,

pp. 179-207.

230 Ibidem, p. 181, nota 18. 3! Ibidem, p. 181. 22 Cronache senesi, p. 104.

23 ASS, Biccherna 3, fol. 8v (luglio 1353). 24 Cronache senesi, p. 349 (Agnolo di Tura). ? R. Lullus, Liber de virtutibus et peccatis sive Ars maior praedicationis, 1, 7; Corpus Christianorum, Continuatio Mediaevalis, vol.

Lxxvi, a cura di F. D. Reboiras, A. S. Flores, 1987, p. 136. %© G. Vasari, Le Vite, a cura di R. Bettarini e P. Barocchi, vol. ni (testo), Firenze 1967, p. 116. 2? D. Compagni, Cronica, a cura di G. Luzzatto, Torino 1968, p. 94 (lib. n, cap. xvi). 2 ASS, Consiglio Generale 109, fol. 71v-72r (26. 3. 1330). 29 ASS, Consiglio Generale 91, fol. 39v-42r (1. 7. 1318): «[...] vo-

lunt Comune Senarum patrem suum, quem errando deserverant recognoscere et ad eius benevolentiam redire et per ipsum amplecti et filium et filios recipi ut solebant [...]. Et doctrina sit Sanete Matris ecclesie quod gremium redeuntibus non claudatur, ac etiam cuiuslibet patris intersit pie ac benigne filium recipere penitentem [...]» (fol. 40r). 240 ASS, Statuti di Siena 26, fol. 208r, dist. rv/55 (1337). 24! M. C. De Matteis, op. cit. (vedi nota 200), p. 4 (“De bono communi”). 24 L. Frati (a cura di), Rizatori bolognesi del Trecento, Bologna

1915, p. 19.

25 24 25 24° 2.

ASS, Statuti di Siena 21, fol. 27v. ASS, Statuti di Siena 26, fol. 198r, dist. rv/7-8 (1337). N. Rubinstein, op. cit. (vedi nota 229). Cronache senesi, p. 156 (anno 1361).

#7 J. v. Schlosser (a cura di), Lorenzo Gbibertis Denkiwiirdigketten (I

Commentarii), vol. 1, Berlin 1912, p. 41. 24 G. Vasari, op. cit. (vedi nota 236), pp. 181-182. 24° ASS, Concistoro 2, fol. 8r-9r.

23 Ibidem, p. 213. 24 Aegidius, col. 279. 25 Egidio, p. 154 (lib. n, parte 1, cap. xvm). 56 Ibidem. 37 Villani, vol. 1, p. 23 (lib. x11, cap. n). 28 F. Sacchetti, I/ Trecentonovelle, a cura di A. Lanza, Firenze 1984, p. 403 (novella 178). Cfr. Divina Commedia, Purgatorio, x1, 91. 2? Villani, vol.1n, p. 151 (ib.xg, cap. 51). 260 ASS, Campaio 1, fol. 14r (rubr. x1v). 261 F. da Barberino, I documenti d'amore, a cura di F. Egidi, vol. m, Roma 1924, p. 266: «Alanus expositor in tractatu suo de vitio et virtute vana gloria est placendi desiderio mota». Cfr. Speculum virginur, 1 (CC, CM, vol. 5, p. 90, lin. 172). 262 Tertulliano, De cultu feminarum, lib. 2, cap. 8 (CC, SL, vol. 1, p.

3620.1015): 25 Cfr. per esempio Petrus Chrysologus, Collectio sermonum, Sermo cLxx1x, 4 (CC, SL, vol. 24 B, p. 1087, lin. 67 s.): «Harundinem vento agitatam [...]: si inanis gloriae aut cupiditatis gereret studium».

GLI AFFRESCHI DI AMBROGIO LORENZETTI IN SANT'AGOSTINO A SIENA

Gli studi sull’affresco scoperto nel 1944 nella chiesa senese di Sant'Agostino (fig. 1, tavola rvn), oggi prevalente mente attribuito ad Ambrogio Lorenzetti, finora non hanno tenuto conto di un problema in apparenza connesso solo indirettamente con la sua interpretazione: quello della funzione e dell’aspetto originari del locale (fig. 2) in cui l’artista realizzò questo dipinto parietale. Le odierne definizioni di “Cappella Piccolomini” e di “Cappella del Sacramento” si riferiscono alla trasformazione del locale, avviata nel tardo Cinquecento dall'arcivescovo Ascanio Piccolomini, in cappella gentilizia dei Piccolomini. Il presente saggio si prefigge lo scopo di ricostruire per quanto possibile l'aspetto e gli arredi originari del locale gotico. Nel corso dell’indagine risulterà che in origine l’affresco di Ambrogio (fig. 1) non costituiva un’opera isolata, ma faceva parte di un grande complesso pittorico. Ed è solo in questo contesto che si potrà comprendere davvero l’inconsueta iconografia di questa Maestà (fig. 1).

I. IL CAPITOLO DI SANT’AGOSTINO La storia della costruzione della Cappella Piccolomini in Sant'Agostino (fig. 2) si articola essenzialmente in quattro capitoli: l'edificazione della sala capitolare nella prima

1. Ambrogio Lorenzetti, Maestà, Siena, Sant'Agostino

metà del Trecento, la sua trasformazione in cappella dei Piccolomini intorno al 1600, la ristrutturazione nel primo Ottocento e il “restauro” dopo la seconda guerra mondiale, che ne modificò in misura sostanziale l'arredo interno. Queste fasi edilizie ci interessano solo in quanto la loro conoscenza è importante al fine di ricostruire l’ambiente gotico decorato con gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti e l’identità, finora ignorata, della sala capitolare con la futura Cappella Piccolomini. Per i dettagli delle ristrutturazioni successive al Medioevo, nonché per l’analisi dell’architettura del primo Ottocento si rimanda all’esposizione di Hans Teubner nel primo volume del corpus delle chiese senesi. I restauri degli anni 1947-1951

La pianta e i prospetti riprodotti alle figg. 5 e 6 mostrano lo stato della Cappella Piccolomini nell’autunno 1944. Nella primavera di quell’anno l’Adorazione dei Magi del Sodoma era stata staccata dalla cornice dell’altare Piccolomini per preservarla da danni di guerra. In quell’occasione fu scoperto dietro una parete di mattoni, innalzata probabilmente per motivi conservativi nel 1596 (fig. 27), l’affresco gotico, la cui visione integrale era peraltro com-

341

PITTURA

- MEDIOEVO

2. Cappella Piccolomini, Siena, Sant'Agostino

4. Siena, Sant'Agostino (A = Sacrestia,

B= Cappella Piccolomini)

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23. Maestà, Sant'Agostino, Ricostruzione della tecnica pittorica di Ambrogio Lorenzetti (bianco = pittura a buon fresco, zone tratteggiate =

tempera applicata sull’intonaco asciutto)

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24. Stato attuale della Maestà di Ambrogio Lorenzetti in Sant Agostino (zone tratteggiate = parti tuttora conservate della tempera7 applicata 2 S sù i sull’intonaco asciutto)

GLI AFFRESCHI

DI A. LORENZETTI

IN SANT’AGOSTINO

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a io 26. Ricostruzione della cornice in stucco della Maestà di Ambrog > Loren 4 etti in Sant'Agostino

27. Cornice in stucco della Maestà di Ambrogio Lorenzetti (stato nel 1946), Siena, Sant'Agostino

PITTURA

- MEDIOEVO

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maggiori, nella quale sono state individuate solo nove o dieci “giornate”, in Sant'Agostino colpisce il numero ele-

vato — almeno sedici!” — delle giornate dell’affresco (fig.

22). La cura profusa da Ambrogio in questa opera senese si nota anche dal fatto che il maestro non dipinse mai più di una testa nella stessa giornata. L'ordine delle giornate si comprende al meglio esaminando lo schema (fig. 22) a partire dalle figure esterne, che si corrispondono specularmente, ciascuna suddivisa in due giornate. Il lavoro principale consisteva qui nel completare una testa con tecnica a fresco nello stesso giorno in cui era stato steso l'intonaco, mentre per lo sfondo azzurro bastava realizzare la preparazione. La giornata seguente comprende il corpo di una santa e una parte del mantello del santo inginocchiato dietro di lei. Nelle due sante più vicine alla

360

Madonna, Caterina e Lucia, questa simmetria speculare

28. Ambrogio Lorenzetti, Maestà, Siena, Sant'Agostino

Sulla base dei colori di cui in parte restano tracce minime, l’effetto cromatico d'insieme originario può essere così ricostruito: il centro dell'affresco era dominato dai toni dell'azzurro e del rosso. L'azzurro del manto della Madonna dai risvolti verdi contrastava con il rosso fuoco dei serafini e con il rosso uniforme degli abiti delle due martiri inginocchiate accanto alla Madonna (la veste del Bambino in origine era rosa).'* Al giallo steso a fresco e ancora ben conservato della santa Apollonia inginocchiata all'estrema destra corrispondeva sul lato opposto l'abito verde di sant Agata. L'eremita indossa un saio nero-grigio. Nero è anche il talare di sant'Agostino, coperto da un manto riccamente decorato. Il Tintori ha definito eccellente lo stato di conservazione delle teste del Bambino (fig. 35, tavola Lix), di Sant'Agata (fig. 38, tavola Lx), di Santa Lucia (fig. 50, tavola 1x1) e di Sant'Apollonia. Sotto l’incarnato di Santa Caterina (fig. 40, tavola rv)! traspare il fondo verde. Peggiori sono le condizioni dei volti di San Bartolomeo e di Sant'Agostino

(fig. 33, tavola Lx). Per il primo si è reso necessario, dopo

la scoperta dell'affresco, fissare l’intonaco che iniziava a distaccarsi. Intorno alla testa di Agostino (fig. 33, tavola Lx) si riconoscono tracce della sinopia sull’arriccio che affiora qua e là. Rispetto alla Maestà di Montesiepi, di dimensioni un poco

dei contorni si interrompe. Evidentemente l’artista voleva concentrarsi per un’intera giornata unicamente sulla difficile resa scorciata della testa di Santa Lucia (fig. 50, tavola 1x1),!8 mentre sperava che lo stesso tempo fosse sufficiente a realizzare il volto di Santa Caterina (fig. 40, tavola vvin), il bacile da lei offerto e una parte del panneggio. Nell’eseguire il busto di San Michele (fig. 46) l'artista fu costretto a limitare le dimensioni della giornata, dato che in questa zona gran parte della pittura doveva essere eseguita a fresco. Questo schema delle giornate (fig. 22) spiega anche una stranezza nella distribuzione dei colori. Oggi il manto della Madonna presenta in una porzione sola, sopra la spalla destra, un colore verde.!?° Nella prima giornata, mentre era impegnato a dipingere la Madonna, Ambrogio diede all’azzurro del manto un fondo verde che nella giornata seguente sostituì per qualche motivo con un fondo bruno. Oggi, con la perdita dell’azzurro di copertura, il manto della Madonna presenta pertanto tre colori diversi. Lo stato della cornice in stucco della Maestà è documentato da una foto scattata subito dopo il ritrovamento, probabilmente ancora nel 1944 (fig. 27). Sulla destra è ancora ben visibile il muro di mattoni eretto a protezione dell'affresco medioevale durante la costruzione dell’altare Piccolomini. Anche nel caso di questa decorazione di cornice ci si è limitati saggiamente a conservare i pochi resti, utilizzando l'integrazione grafica realizzata durante il restauro (fig. 26) unicamente per calcolare l'originaria profondità della nicchia (cm 71). Oltre al grande tondo, che si nota nella fotografia (fig. 27) e nel disegno (fig. 26), si sono conservati frammenti di altri quattro medaglioni in stucco che consentono di ricostruire tutto l'andamento di questa decorazione. Rimane un mistero il significato dell’intaccatura in basso a destra (figg. 1, 2, tavola 1vm). La sua larghezza (cm 73) esclude l'ipotesi di un’apertura di collegamento con il dormitorio, contraddetta anche da altri fattori (la posizione alle spalle dell’altare). L'interpretazione più plausibile potrebbe essere quella di una nicchia preesistente all’affresco, destinata a custodire strumenti liturgici o anche i testi utilizzati durante le adunanze nel capitolo.

GLI AFFRESCHI

DI A. LORENZETTI

IN SANT’AGOSTINO

29. Domenico di Agostino (2), Cristo, Siena, San Francesco, primo chiostro, portale Petroni

Iconografia Otto santi sono inginocchiati ai piedi della Madonna e del Bambino (figg. 1, 30, 31, tavola tvn): Agata, Caterina, Lucia (identificata anche con Maddalena o Chiara), Apollonia; Agostino, Bartolomeo, Michele, Guglielmo di Malavalle (oppure sant'Antonio Eremita). Quattro degli attributi qui raffigurati sono molto rari. L'offerta della propria testa da parte di Santa Caterina si ritrova a quanto mi risulta solo su una piccola tavola della metà del Trecento alla Pinacoteca di Siena.!° Quanto alla caratterizzazione di Santa Lucia (o Santa Maria Maddalena, figg. 31, 50, tavola Lx1) per mezzo di un vaso e di un serafino, non si è trovato alcun termine di confronto. Il libro fa sì parte dei consueti attributi di Agostino, ma la presentazione di tre vo-

lumi parrebbe costituire un’eccezione (fig. 33, tavola 1x). Né è stato finora possibile trovare una spiegazione per le erbe che San Guglielmo (o Sant'Antonio) tiene nella mano destra sollevata (fig. 31, tavola Lxn).! La Madonna e il Bambino sono circondati da Angeli appartenenti alla gerarchia più alta, i Serafini, i quali — secondo le parole dello pseudo-Dionigi! — aleggiano costantemente intorno alla divinità (fig. 28, tavola vm). Le loro ali incorniciano la Madonna in trono come una mandorla. Un confronto con il rilievo attribuito a Domenico di Agostino nel timpano del portale Petroni (datato da un'iscrizione al 1336) nel primo chiostro di San Francesco a

Siena (fig. 29)! chiarisce l'origine di questa gloria di angeli dall’iconografia cristica (in ultima analisi dalla tradizione veterotestamentaria del «rex Israel [...] qui sedet super cherubim»).!4 Nel corpus di Ambrogio troviamo preannunciato questo motivo nella Maestà di Massa Marittima. Il gesto dell’offertio di santa Caterina (fig. 32, tavola vini)! rimanda a quel passo che ricorre sostanzialmente in tutte le versioni della Passio, in cui la vergine — posta

dall’imperatore di fronte alla scelta tra sacrificare agli dei e morire — avrebbe risposto: «Fac quecumque animo concepisti; paratam enim me uidebis ad omnia sustinenda».!° L’offertio cristiana (fig. 32) viene dunque contrapposta all’offertio pagana raffigurata sul lato sud di questa stessa sala capitolare, alla sinistra della Crocifissione.”

L’identificazione della Santa dall’abito rosso che tiene sollevato nella destra un vaso con un serafino (fig. 31, tavola Lx1) è controversa. Due delle proposte finora avanzate si

possono confutare con relativa facilità. Che si tratti di Santa Chiara è impossibile già per l'abbigliamento di questa figura! e anche l’ipotesi di Santa Maria Maddalena! è poco convincente: come spiegare infatti la connessione

tra il vasetto per l’unguento della Maddalena e un serafino? Convince invece l’identificazione con Santa Lucia suggerita da Raffaello Niccoli, che però, non essendo purtroppo adeguatamente motivata, non è stata ripresa dagli studi successivi.!° Una sostituzione della fiamma portata

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30. Ambrogio Lorenzetti, Maestà (Santi Agata, Caterina, Agostino, Bartolomeo ), Siena

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32. Ambrogio Lorenzetti, Maestà (“offertio” di Santa Caterina), Siena, Sant'Agostino

da Lucia quale messaggera di luce («Lucia dicitur a luce [...] vel Lucia dicitur quasi lucis via»)!!! con il Serafino è del tutto plausibile, dato che — secondo lo pseudo-Dionigi — il rosso fiammeggiante del serafino illumina ogni oscurità e scaccia e annienta ogni tenebra dispensando il suo lume.!4 Come dimostra la seguente citazione dalla $772724 theologica di Tommaso d'Aquino, questa caratterizzazione

del serafino è stata largamente ripresa dall’angelologia medioevale: «Tertio consideratur in igne claritatis eius: et hoc significat quod huiusmodi Angeli in se ipsis habent inextinguibilem lucem, et quod alios perfecte illuminant».!4 Nel contesto dell’iconografia senese dei santi si incontra almeno un altro esempio in cui l’attributo della fiamma è sostituito da un serafino: in un dipinto di Giovanni di Paolo alla Pinacoteca di Siena Santa Chiara reca un vaso sopra il quale si libra un serafino, mentre in una tavola attribuita a Pietro Lorenzetti la stessa santa reca una cornu-

copia da cui si sprigionano delle fiamme.!# La posizione di Sant'Agata al margine sinistro accanto al Santo patrono di questa chiesa, Agostino (fig. 30, tavola Lx), si spiega con la circostanza che dal 1284 la chiesa parrocchiale di Sant'Agata era unita con Sant'Agostino! che da quel momento poté fregiarsi del titolo di «Ecclesia

sancti Augustini alias parocchiae sanctae Agatae».! In Sant'Agostino c'era un’altare consacrato a sant’Agata, nonché una statuetta lignea contenente reliquie di questa santa.!’

Sulla base della nostra conoscenza molto lacunosa degli arredi di Sant'Agostino nella prima metà del Trecento, non è possibile determinare se anche in altri casi l'inserimento di un santo nella Maestà fosse motivato dalla presenza in questa chiesa di reliquie o di un altare a esso consacrato. Motivi di tale genere potrebbero forse aver influito sulla raffigurazione di San Michele (fig. 46). Nell’inventario del tesoro della chiesa di Sant'Agostino redatto nel 1360 è infatti indicato un reliquiario con l'immagine di questo santo,5 e una cappella consacrata a san Michele fu ceduta nel Quattrocento alla famiglia Bichi.!4°

Per l'interpretazione delle figure di Agostino (fig. 33, tavola Lx) e dell’eremita identificato con Sant'Antonio!” o con Guglielmo di Malavalle!? (figg. 31, 45, tavola rxm) risulta utile la storiografia eremitana della prima metà del Trecento (ad esempio il Tractatus de origine et progressu ordinis fratrum beremitarum et vero ac proprio titulo eiu-

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35. Ambrogio Lorenzetti, Gesù Bambino, Siena, Sant'Agostino

GLI AFFRESCHI

DI A. LORENZETTI

IN SANT’AGOSTINO

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36. Ambrogio Lorenzetti, Gesù Bambino (particolare), Vico l'Abate,

37. Ambrogio Lorenzetti, Gesù Bambino (particolare della tavola

Sant'Angelo [ora San Casciano, Museo d'Arte Sacra]

un tempo collocata in San Procolo), Firenze, Uffizi

Vitasfratrum di Giordano di Sassonia, cominciato al più tardi negli anni quaranta del Trecento ma terminato solo nel 1357; la Vita di Agostino redatta tra il 1322 e il 1331 dal priore di Santo Spirito a Firenze;! la predica su Agostino tenuta a Parigi nel 1334 da Hermann von Schildesche!). E da notare che tutti questi scritti risalgono — almeno nella loro genesi — agli anni immediatamente precedenti il capitolo generale di Siena del 1338, al quale parteciparono Giordano di Sassonia e l’autore del non rintracciabile Tractatus de origine Ordinis Eremitarume, Nicola di Alessandria.!? Questi primi storiografi dell'ordine eremitano, costituito solo verso la metà del Duecento per ordine papale, tentavano di ovviare alla mancanza di un illustre fondatore e di una antica tradizione storica facendo risalire la storia dell’ordine, in larga parte fittizia, agli inizi del cristianesimo e

ipso beato Augustino nec specialiter nec singulariter sunt instituti».!9° Questo dibattito, in cui la questione del possesso della chiesa di Pavia era solo il fattore scatenante di un problema che riguardava il prestigio dell'intero ordine, deve aver avuto per varie ragioni un’eco particolare nel convento senese degli eremitani. Già nel 1331 è citato un senese fra i monaci del convento appena fondato a Pavia:!9! nel 1339, in occasione di un’autentica notarile a San Pietro in Ciel d'Oro, erano presenti come testimoni

definendo — su basi ancora più incerte — Agostino il loro

caput e fundator. Questa autocoscienza storica del giovane ordine doveva portare a uno scontro con i canonici che consideravano anch'essi Agostino il fondatore del loro ordine e della loro regola. Motivo diretto del conflitto era la questione di quale ordine fosse legittimato, in base alla propria tradizione storica, a custodire la presunta tomba del santo in San Pietro in Ciel d'Oro a Pavia. Gli scritti su citati degli eremitani vanno dunque intesi anche come tentativi di fondare storicamente i diritti, derivati da un privi-

legio papale del 1327,!7 su San Pietro in Ciel d'Oro.!”* A

queste tesi, formulate in primo luogo da Enrico di Friemar,!? i canonici replicarono polemicamente spiegando «quod beatus Augustinus non est praedictorum fra-

trum heremitarum singularis pater nec patronus, nec ipsi

fratres heremitae ipsius beati Augustini filti speciales nec singulares aliter quam sunt fratres praedicatores vel alii religiosi quicumque, qui regula beati Augustini innituntur, alii tamen a canonicis regularibus. Ita quod, breviter, ab

quattro eremitani senesi appartenenti al convento di Pavia,

tra i quali il priore «Francischo de Senis».!® Il capitolo generale riunito a Siena nel 1338 era presieduto da Guglielmo da Cremona, fondatore e divulgatore dell’insediamento eremitano presso San Pietro in Ciel d'Oro, convento da lui indicato come luogo in cui voleva essere sepolto. Il primo punto dibattuto dal capitolo generale senese riguardava l'istituzione di una nuova festività in memoria dell’unificazione di “capo e membra” attuata da papa Giovanni xx11 con la fondazione del convento eremitano presso la tomba del santo: In primis, quia ex divine dispensationis patrocinio singulari in adepta possessione loci beati patris nostri Augustini in Papia nostre Religionis membra unita sunt capiti, filii patri, Magistro discipuli, ut verba privilegi apostolici testantur,

diffinimus et ordinamus quod, in iugem memoriam tanti muneris adepti, dies in qua possessionem dicti loci ordo adeptus est, scilicet, quinta dies mensis Iunii, scribatur in kalendario Ordinis, et fiat officium de sanctissimo patre nostro Augustino sub minori duplici, et vocabitur festum Reunionis corporis beatissimi Augustini».!

L'ultimo paragrafo degli atti di questo capitolo generale ci ricorda ancora una volta l’importanza del convento eremitano di Pavia, chiamando l’intero ordine a una colletta per San Pietro in Ciel d’Oro.!*

PITTURA

- MEDIOEVO

38. Ambrogio Lorenzetti, Sant'Agata, Siena, Sant'Agostino

Alla luce di questi scritti e di questi dibattiti acquista un significato particolare una peculiarità della veste di Agostino nell’affresco senese (fig. 33, tavola Lx) che potrebbe altrimenti passare inosservata. Oltre alle consuete insegne ve-

scovili (la mitra, il piviale riccamente decorato e i guanti pontificali) si intravedono, nella zona mal conservata fra il collo e le spalle, i contorni di una tonaca nera. In tre punti della lacuna sotto il collo, dove l'intonaco si è in larga parte distaccato insieme alla pellicola pittorica applicata a fre-

sco, si sono inoltre conservate tracce dell’originario colore

nero. Come nella raffigurazione di Benozzo Gozzoli in Sant'Agostino a San Gimignano (fig. 34), Agostino indossa pertanto sotto il manto vescovile l’abito nero dell’ordine il cui cappuccio ricade su spalle e schiena.

Nel dibattito sull'ordine a cui sarebbe “appartenuto” Agostino la questione dell’abito indossato dal dottore della Chiesa non era affatto secondaria. Gli eremitani sostenevano che il santo dal quale avevano ricevuto la regola e che aveva vissuto nella loro comunità dal battesimo fino alla morte indossasse la loro tonaca nera. Le Vite scritte nell’ambito di questo ordine presentano quindi la seguente variante rispetto alle Confessiores: il Simpliciano citato nell’autobiografia è descritto come un eremita che dopo il battesimo di Agostino a Milano lo avrebbe rivestito con la tonaca nera dell’ordine.!9 Se dunque nell’affresco del capitolo di Sant'Agostino (fig. 33, tavola 1x) il dottore della Chiesa indossa sotto le vesti vescovili la tonaca nera, ciò equivale a una visualizzazione diretta delle tesi

GLI AFFRESCHI

DI A. LORENZETTI

IN SANT’AGOSTINO

369

39. Ambrogio Lorenzetti, Santa Dorotea (particolare della pala d'altare un tempo collocata in Santa Petronilla), Siena, Pinacoteca Nazionale

formulate pochi anni prima da Enrico di Friemar: Et istum habitum videtur rationabiliter assumpsisse propter multa. Primo, quia congruum fuit, ut habitum illorum patrum assumeret et portaret, quorum exemplis et doctrinis ad fidem catholicam est conversus et cum quibus fuit personaliter tanto tempore in eremo conversatus. Secundo, quia beatus Simplicianus, cuius persuasione et exemplis ad baptismum convolavit, ipsum ad humilitatem Christi maxime induxit: et ideo rationabile fuit, quod in exordio suae conversionis talem habitum humilitatis assumeret, ut magis conformaretur eis, quibus conviveret. Tertio, quia congruum

fuit, ut ille, qui futurus erat pater et dux fratrum eremitarum

pauperum per sacrae regulae conscriptionem et traditionem,

etiam ipsis conformis existeret per sacrae religionis habitum

et conversationem, ut sic ipsi tamquam eius fili et veri pauperes ipsum tamquam patrem, pauperitatis amatorem et institutorem merito collaudarent [...].!99

Questo affresco di Ambrogio Lorenzetti (fig. 33) è una delle prime, se non addirittura la prima testimonianza di una nuova iconografia agostiniana dettata dall’autocoscienza storica degli eremitani,!” 1 cui esempi più importanti sono i rilievi sulla tomba del santo a Pavia, gli affreschi di Guariento nella chiesa degli Eremitani a Padova!

e gli affreschi di Benozzo Gozzoli a San Gimignano. Questa nuova iconografia agostiniana si distingue anche per una raffigurazione dell'istituzione della regola che si discosta dalla tradizione. Facendo della consegna del libro

PITTURA

- MEDIOEVO

40. Ambrogio Lorenzetti, Santa Caterina, Siena, Sant'Agostino

GLI AFFRESCHI

DI A. LORENZETTI

IN SANT’AGOSTINO

della regola agli eremitani un evento unico,!°? si sottolinea infatti come a questi la regola spetti ex institutione, agli altri ordini invece solo ex devotione.!?® Nella sala in cui quotidianamente venivano letti capitoli della Regula S. Augustini è logico aspettarsi una raffigurazione di questo testo, ma a prima vista può sorprendere

che siano tre i volumi recati da Agostino (fig. 33). Solo i due libri superiori hanno conservato il colore originale, mentre i contorni della sinopia permettono di identificare sotto di essi un terzo volume. Questa soluzione iconografica corrisponde esattamente all’opinione sostenuta da Giordano di Sassonia, lo storico dell’ordine presente al capitolo generale del 1338. Giordano, la cui argomentazione è più fondata storicamente e al contempo più sottile di quella di Enrico di Friemar, non voleva tanto negare tout court la pretesa dei canonici di aver ricevuto la regola da Agostino, quanto includerla nelle sue riflessioni in modo tale da salvaguardare le prerogative degli eremitani senza per questo urtare del tutto i canonici. Così facendo egli cercava anche di giustificare il fatto che all’epoca circolassero tre diverse versioni della regola agostiniana, da lui stesso riportate nel codice 251 della Bibliothèque de l’Arsenal di Parigi.”! Secondo Giordano! Agostino avrebbe destinato le prime due regole (la cosiddetta Regula Consensoria!” e il testo che inizia con le parole Ante 41. Bottega di Ambrogio Lorenzetti, Santa Caterina (particolare), Siena, Museo dell'Opera del Duomo

42. Ambrogio Lorenzetti e allievi, Santa Caterina (particolare della Maestà), Massa Marittima, Palazzo Comunale

omnia‘) esclusivamente agli eremitani, mentre la terza re-

gola Haec sunt quae observetis! sarebbe stata scritta insieme per gli eremitani e i canonici.

43. Ambrogio Lorenzetti, Angelo (particolare della Maestà), Massa Marittima, Palazzo Comunale [Museo]

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PITTURA

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44. Ambrogio Lorenzetti, San Giovanni Evangelista (particolare della tavola un tempo collocata in San Procolo), Firenze, Uffizi

GLI AFFRESCHI

DI A. LORENZETTI

IN SANT’AGOSTINO

0) 73

45. Ambrogio Lorenzetti, San Guglielmo di Malavalle (particolare della Maestà), Siena, Sant'Agostino

PITTURA

- MEDIOEVO

46. Ambrogio Lorenzetti e allievi, San Michele (particolare della Maestà), Siena, Sant'Agostino

47. Ambrogio Lorenzetti e allievi, Angelo (particolare della Maestà), Massa Marittima, Palazzo Comunale [Museo]

Accanto a questi tentativi di introdurre una nuova imma-

ordine sarebbe stato in grado di rivaleggiare,!° bensì anche l’idea che la perfezione di quei precursori, che avrebbero costituito una categoria eletta all’interno del

gine di Agostino, i primi storiografi degli eremitani si occuparono soprattutto della questione dell’origine e della continuità del movimento eremitico toscano. Le opinioni al riguardo di Enrico di Friemar,!° di Giordano di Sassonia!” e dell’anonimo autore del codice laurenziano Plut. 90 Sup. 48! possono riassumersi così: dopo il battesimo, Agostino affidò la regola agli eremiti che vivevano in Toscana e si richiamavano a san Paolo e sant'Antonio quali «primarii nostrae religionis fundatores». Il movimento eremitico, trapiantato anche in Africa con il ritorno di Agostino in patria, fu disperso là dall’invasione vandalica, mentre gli eremiti rimasti in Toscana si mantennero co-

stantemente fedeli a un ideale di vita ascetica specificamente agostiniano, attenendovisi anche quando, con l’unione operata nel 1256 sotto papa Alessandro 1v, si associarono loro altri gruppi eremitici.!? Di fatto però nessuno dei conventi toscani poteva vantare neanche lontanamente la veneranda età sostenuta da questi storiografi. Tale artificiosa ricostruzione storica, avente per unico scopo la glorificazione del proprio ordine, ometteva inoltre accuratamente di ammettere che nel 1256 non era af-

fatto avvenuto un inglobamento di alcuni gruppi in un ordine eremitano esistente da tempo, bensì che questo ordine fu fondato solo allora dall’aggregarsi di congregazioni fino ad allora indipendenti. Ma il richiamo ai «primarii nostrae religionis fundatores» non doveva attestare solo la presunta vetustà degli eremitani, con i quali nessun altro

primo monachesimo cristiano, fosse garanzia di una parti-

colare benevolenza divina: «Et quia virtute radicis rami in longum et altum naturaliter producuntur, ideo virtute sanctitatis talium patrum, qui fuerunt sanctitatis eximiae et nostri ordini primarii fundatores, verisimiliter praesumendum est, quod super eorum filios et posteros per divinam clementiam benedictio copiosa descendat» (Enrico di Frlemar)3 In tal senso è significativo trovare qui, speculare e complementare ad Agostino, la figura di un santo eremita (figg. 31, 45, tavola Lx). La sua posizione sarebbe certo consona a sant'Antonio, il più importante dei «primarii nostrae

religionis fundatores»; tuttavia non è facile rintracciare un collegamento diretto fra il mazzo di erbe e la Vita di questo eremita. Tale attributo definirebbe meglio Guglielmo di Malavalle, finora preso in considerazione solo in via ipoteticae senza ulteriori argomentazioni. Questo nobile francese, morto nel 1157 in un’impervia valle presso Castiglion della Pescaia, era venerato soprattutto per la sua rigorosa ascesi. La sua biografia redatta verso la fine del ino

ispirandosi alla precedente Vita di Alberto da Siena, descrive in dettaglio i suoi digiuni. Per non concedere nulla

alla concupiscenza della carne il santo limitava al minimo persino l'assunzione di acqua, nutrendosi essenzialmente

di erbe selvatichee del pane che di tanto in tanto la gente

GLI AFFRESCHI

DI A. LORENZETTI

IN SANT’AGOSTINO

375

48. Ambrogio Lorenzetti, Veste di San Bartolomeo (particolare della Maestà), Siena, Sant'Agostino

49. Ambrogio Lorenzetti e allievi, Manto della Madonna (particolare della Maestà), Montesiepi, Cappella di San Galgano

di Buriano gli portava nel suo romitorio.! Le erbe erano d’altronde note agli eremitani come simbolo dell’ascesi più

Attribuzione e datazione

rigorosa. Giordano di Sassonia cita ad esempio uno scrit-

L'attribuzione ad Ambrogio Lorenzetti della Maestà in Sant'Agostino (fig. 1, tavola Lv), proposta dapprima da Raffaello Niccoli,! è stata ripetutamente contestata. Mentre George Rowley!? pensava a un maestro della seconda metà del Trecento, Serena Maria Setti! ha voluto vedere nell’affresco l’opera principale di un collaboratore di Ambrogio al quale sarebbero da attribuire anche quattro tavole al Museo dell'Opera del Duomo di Siena, la Madonna di Badia a Rofeno e gli affreschi di Montesiepi. Robert Oertel!® e Eve Borsook!* consideravano la Maestà senese (fig. 1, tavola rvn) opera di aiuti che avrebbero lavorato su disegno di Ambrogio. L’autografia del maestro è stata sostenuta, tra gli altri, soprattutto da Pietro Toesca!” e da Enzo Carli.!* A parte George Rowley, tutti gli studiosi propendono per una datazione tra il 1330 e il 1340, collocandone la genesi perlopiù nella seconda metà degli anni Uicniasa Da un confronto tra i volti del Gesù Bambino nella Madonna del 1319 a Vico l’Abate (fig. 36),! di quello nella tavola fiorentina proveniente da San Procolo dipinta nel 1332 (fig. 37)! e di quello nella Maestà senese (fig. 35, tavola LIx) si possono rilevare i mutamenti nel ductus pittorico di Ambrogio. Nella tavola giovanile (fig. 36) le forme sono delimitate da linee rigorosamente geometriche. Se si confrontano ad esempio la conformazione degli occhi o la resa dei capelli con l’opera realizzata nel perio-

to pseudoagostiniano che prescriveva agli eremiti di cibarsi nei giorni feriali di ortaggi crudi, pane nero e acqua.'* L'affresco di Ambrogio Lorenzetti (fig. 31, tavola Lxn) conterrebbe dunque una delle prime raffigurazioni di Guglielmo,!* in seguito perlopiù presentato in abiti cavallereschi in ragione di un equivoco con san Guglielmo di Tolosa o d'Aquitania, conte di Poitiers, detto “il Grande”, cugino di Carlo Magno.! Nel tardo Trecento incontriamo almeno un’altra immagine del santo — a Orvieto — in cui Guglielmo è raffigurato come un eremita, senza alcun connotato di cavaliere.!86 A favore dell’identificazione dell’eremita nella Maestà di Ambrogio Lorenzetti con Guglielmo di Malavalle si può osservare anche che — come segnalato da Peter Anselm Riedl — ancora nel 1620/26, nel transito di san Guglielmo dipinto da Pietro Antonio Ciapettini per Sant'Agostino a Siena, accanto alla corona ducale in primo piano compaiono delle erbe. Si potrebbe obiettare che i guglielmiti sono stati uniti agli eremitani soltanto per pochi mesi, e che all’epoca in cui

Ambrogio dipinse il suo affresco l'ordine era nuovamente autonomo.! Ma al più tardi dal 1291 Guglielmo di Mala-

valle era venerato anche come santo degli eremitani,!* e nel Trecento era considerato il riformatore di questo ordine, rifondatore in Toscana dell’ideale monastico introdotto da Agostino.!8°

PITTURA

A

- MEDIOEVO

). Ambrogio Loren 4 etti, Santa Luciz a (particolare della Mae stà), Siena, Sant'Ag

OSstino

GLI AFFRESCHI

do centrale del maestro (fig. 37)? si noterà come qui il di-

segno, più libero e sciolto, conferisca al volto una maggiore espressività. In Sant'Agostino (fig. 35, tavola Lx), dove Ambrogio lavorò con decise lumeggiature e pennellate larghe e brevi, queste differenze rispetto all’opera giovanile sono ancora più marcate. Già questo confronto induce

dunque a una datazione relativamente tarda dell’affresco in Sant'Agostino. Di fronte a questi tre volti di bambino, due dei quali sono datati e firmati, è ben difficile dubitare della paternità dell’opera senese (fig. 35). Oltre a eguagliare in qualità le due opere sicuramente di Ambrogio (figg. 36, 37), l'affresco in Sant'Agostino (fig. 35) si distingue anche per le forme tipiche del maestro senese (gli occhi espressivi, le labbra carnose, le guance piene, il tratteggio a pennellate fitte e di andamento arcuato del collo, il fine modellato delle tempie). Un confronto con le Madonne di Asciano?" e di Roccalbegna,® talora erroneamente indicate come opere di Ambrogio, chiarirà definitivamente la differenza che corre fra questi tre capolavori (figg. 35-37) e i dipinti eseguiti da allievi. Questa attribuzione, e la datazione dell’affresco di Sant'A-

gostino ai tardi anni trenta, trovano conferma nel confronto con la tavola proveniente da Santa Petronilla (fig. 39) che, secondo i recenti studi sulle punzonature, risale di certo a dopo la metà degli anni trenta, ma più probabilmente solo al 1342/44.°% Caratteristica inconfondibile dell’arte del nostro maestro è lo scorcio, unico nella pittura trecentesca, delle teste viste appena un po’ di sotto in su. La somiglianza tra l’Agata di Sant'Agostino (fig. 38, tavola Lx) e la Dorotea della tavola di Santa Petronilla (fig. 39) è accentuata dalle stesse proporzioni, dalla stretta affinità dei volti, nonché dall’identico modo di inserire le teste nel

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IN SANT’AGOSTINO

almeno per quanto riguarda la figura di Guglielmo (fig. 45, tavola Lx). Tale conclusione è confermata non soltanto dall’ampia concordanza di particolari caratteristici (le pieghe agli angoli degli occhi e le rughe sulla fronte, le basette lanuginose, le lumeggiature su guance, fronte e naso), ma ancor più dall’eccellente trasposizione dell’apostolo nella figura dell’eremita che volge lo sguardo assorto alla Madonna, caratterizzato dalle sopracciglia bianche e irsute e dal volto abbronzato e segnato da profonde rughe (fig. 45, tavola Lx). Dato lo stato di conservazione particolarmente sfavorevole della parte superiore sinistra dell’affresco (figg. 21, 23), risulta ormai difficile valutare la qualità delle fisure di Agostino (fig. 33, tavola Lx) e di Bartolomeo. Un’attribuzione ad aiuti sembrerebbe se mai più plausibile nel caso della figura più convenzionale di Michele (fig. 46), magari allo stesso allievo che dipinse l’angelo che regge il cuscino nella Maestà di Massa Marittima (fig. 47). Le importanti relazioni tra la Maestà in Sant'Agostino e gli affreschi di Montesiepi, all'incirca coevi,” sono già state rilevate da Raffaello Niccoli? e da Eve Borsook,°? i quali

hanno giustamente sottolineato soprattutto l’affinità tra la Lucia senese (figg. 31, 50, tavola Lx1) e la Carità nella cap-

pella di San Galgano. Tale connessione è confermata anche dalle decorazioni molto simili sulle vesti della Madonna di Montesiepi (fig. 49) e del Bartolomeo senese (fig. 48), che un grafologo potrebbe forse identificare come “segni grafici” della stessa mano.

IV. PROGRAMMI AFFRESCATE

TRA

ICONOGRAFICI

DI SALE CAPITOLARI

IL I250 E IL I330 IN ITALIA

cerchio interno dell’aureola. Non convince invece, date le

evidenti differenze tra l’affresco di Sant'Agostino (fig. 40, tavola rv) e la tavola con Santa Caterina al Museo dell'Opera del Duomo di Siena (fig. 41), l'attribuzione, avanzata da Serena Maria Setti” di queste due opere a uno stesso “Maestro della Maestà di Sant'Agostino”. La resa della treccia di capelli nella tavola (fig. 41) tradisce ad esempio in modo fin troppo palese la mano incerta di un allievo, privo del tratto sicuro e della visione plastica del maestro, e l’espressione distaccata della santa contrasta con lo sguardo appassionato della Caterina dell’affresco senese (fig. 40, tavola vm), di un'intensità che si trova raramente anche nell’altare di Massa Marittima del 1335 circa, considerato un capolavoro di Ambrogio. Qui sono

se mai gli angeli inginocchiati alla destra del trono (fig. 43) a possedere questa intensità espressiva, mentre la figura di Caterina (fig. 42) farebbe piuttosto pensare — come osservava già Eve Borsook?® — a un'esecuzione affidata ad aiuti. Rispetto alle sante martiri, le figure di Agostino (fig. 33, tavola Lx), di Bartolomeo (fig. 30) e di Guglielmo (fig. 45, tavola Lx) nella Maestà senese sono state generalmente giudicate con minor favore. Persino gli studiosi che, come Enzo Carli, sostenevano l’attribuzione ad Ambrogio di larga parte dell’affresco ascrivevano queste tre figure ad allievi. Il confronto con il San Giovanni della tavola firmata proveniente da San Procolo, ora agli Uffizi (fig. 44), depone tuttavia a mio parere a favore della mano di Ambrogio,

I cicli di affreschi in capitoli medioevali italiani sono stati finora studiati in modo puramente monografico — con l’eccezione del Cappellone degli Spagnoli a Santa Maria Novella — e soltanto nel quadro della storia dello stile. Occorrono dunque studi di più ampio respiro per riconoscere il ruolo eminente che spetta agli affreschi a Sant Agostino nell’ambito della storia dei programmi pittorici dei capitoli italiani. Il confronto tra gli affreschi dipinti intorno al 1250 a San Domenico a Pistoia (fig. 51)?!° e quelli dell’abbazia benedettina di Pomposa, databili al secondo decennio del Trecento (fig. 52)! dimostra come all’epoca fosse stato elaborato un preciso programma iconografico per la decorazione delle sale capitolari, in un primo tempo largamente indipendente dalle differenze regionali e cronologiche e dalle politiche dei vari ordini. Gli affreschi pistoiesi sono qui documentati per mezzo di fotografie di poco successive alla loro scoperta nei primi anni trenta! che riproducono anche le zone ai lati della Crocifissiore distrutte nella seconda guerra mondiale. Sulla destra era raffigurato un domenicano (san Domenico?) con al fianco un santo (fig. 53). Le due figure a sinistra dell'immagine centrale?! erano invece già talmente rovinate all’epoca della loro scoperta, da impedire ogni interpretazione iconografica. A Pomposa la concezione è sostanzialmente la stessa (fig. 52). La Crocifissione dipinta al centro della parete di fondo

377

PITTURA

- MEDIOEVO

51. Crocifissione (stato prima della seconda guerra mondiale), Pistoia, San Domenico, sala capitolare

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GLI AFFRESCHI

DI A. LORENZETTI

IN SANT’AGOSTINO

379

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53. Frammenti di un Santo domenicano e di un altro Santo (stato prima della seconda guerra mondiale), Pistoia, San Domenico, sala capitolare

54. Mosè, Davide, Pomposa, sala capitolare

è affiancata da quattro santi incorniciati da nicchie dipinte, e la sequenza pittorica è interrotta anche qui da due finestre. Ai lati della Crocifissione si riconoscono, oltre ai

lare non soltanto per la tripartizione della facciata, ma anche per la Crocifissione che si vede al centro della parete di fondo?! 2. La figura del fondatore dell’ordine, identificato dal libro nella mano sinistra come l’autore della regola di cui doveva venire data lettura durante le adunanze capitolari. 3. Il santo abate di questo convento, la cui autorità assicura l'osservanza e la corretta interpretazione della regola e la cui memoria viene celebrata con la Corzzemoratio fratrum?$ recitata durante le riunioni capitolari (nel capitolo di Montecassino erano appese delle fabellae sulle quali erano ritratti gli abati defunti).?!° 4. Pietro e Paolo, a simboleggiare l’idea, centrale per il monachesimo medioevale, della continuità tra “vita apostolica” e “vita communis” nel convento.?0 Il programma formulato a Pistoia e a Pomposa pervenne al suo massimo sviluppo nel capitolo del Santo a Padova. Gli affreschi padovani, ritenuti nel Quattro-Cinquecento opere di Giotto! vengono oggi perlopiù attribuiti alla scuola del maestro e datati al secondo decennio del Trecento.?? La riscoperta di questi affreschi, ridipinti intorno alla metà del Cinquecento in occasione della trasformazione del capitolo in cappella funeraria} avvenne in tre diverse tappe negli anni 1842, 1851 e seguenti,” e nel 1914.220 Con l’eccezione di un “coro di frati” dipinto sulla parete est, distrutto poco dopo il ritrovamento nell'Ottocento,”

principi degli apostoli, Benedetto e Guido, abate di Pomposa dal 998 al 1041. Le pitture sulle pareti laterali, conservate soltanto a Pomposa, raffigurano undici proteti, dipinti in monocromo e incorniciati a due a due da bifore dipinte (fig. 54), e san Giovanni Battista (sul cui cartiglio si legge: Ecce qui roLLiT PECcaTA MunpI).2!4 Sulla base delle iscrizioni si possono identificare Osea, Amos, Daniele, Zaccaria (SANGUINE TESTAMENTI TUI EDUXISTI VINCTOS pe LACU): Davide, Mosè, Isaia, Geremia, Gioele e

Abacuc. Sul lato interno della parete d’ingresso si trova come unica figura un'immagine dell’Agrus Der, che poi ritroveremo nella volta del capitolo di Santa Maria Novella. Il programma di Pomposa, conservato nella sua integrità, comprende pertanto quattro temi, tre dei quali erano probabilmente già anticipati in San Domenico a Pistoia: 1. La centralità della Crocifissione, alla quale rimandano i testi dei cartigli tenuti dai profeti e la figura dell’ Agnus Dei. Quanto l’immagine della Crocifissione, determinata da motivi liturgici,”!9 fosse strettamente connessa nel Tre-

cento con l’aspetto di una sala capitolare si evince per esempio dall’allegoria della Obedientia nella basilica inferiore di San Francesco ad Assisi (fig. 72), dove l’edificio nel quale siedono tre Virtù è connotato come sala capito-

PITTURA

- MEDIOEVO

380

Feid

| È I | bi

55. Bottega di Giotto, Santa Chiara, Padova, Basilica del Santo, sala capitolare

56. Bottega di Giotto, San Francesco di Assisi, Padova, Basilica del Santo, sala capitolare

a Padova il programma iconografico è riconoscibile nella sua interezza. Sulla parete di fondo del capitolo sono raffigurate tre scene: San Francesco che riceve le stimmate (fig.

Su ciascuna delle pareti laterali si vedono sei figure (lato nord: Santa Chiara, fig. 55; San Francesco, fig. 56; due fi-

61), la Crocifissione (di cui finora sono stati riportati in

Decapitazione dei missionari francescani in Africa setten-

un Profeta, fig. 58; San Giovanni Battista, fig. 59; Davide, fig. 60; lato sud: la Morte, fig. 67; Sant'Antonio da Padova. fig. 66; Dariele, fig. 65; Isaia, fig. 64 — le due figure centrali furono distrutte nel 1541 per inserire un altare). Come a Pomposa, i testi dei cartigli rimandano alla Crocifissione (Davide: FODERUNT MANUS MEAS ET PEDES MEOS,

epoca successiva (figg. 61, 62).

NERATUS

luce solo due frammenti, benché probabilmente sotto la ridipintura si celi ancora larga parte della scena; fis. 62) e la

trionale (fig. 63). L'affresco con la Crocifissione in origine era notevolmente più largo e probabilmente anche più alto delle due immagini laterali, tagliate da volte inserite in

gure conservate parzialmente di una Regira, fig. 57, e di

DINUMERAVERUNT OMNIA OSSA MEA;°°8 Isaia: IPsE AUTEM VULEST PROPTER

|INIQUITATES

NOSTRAS]:?2?

Daniele:

GLI AFFRESCHI

DI A. LORENZETTI

IN SANT’AGOSTINO

381

58. Bottega di Giotto, Profeta (2), Padova, Basilica del Santo,

57. Bottega di Giotto, Regina, Padova, Basilica del Santo, sala capitolare

sala capitolare

Post Lxx EBDOMADAS OCCIDETUR CHRISTUS ET NON ERIT

tolari più antiche. Se in Italia, a quanto mi risulta, non si

EIUS POPULUS QUI EUM [nEgaTURUS EsT];?° il Battista: [Ecce

conoscono termini di confronto, possiamo tuttavia ricor-

Aenus Del, Ecce qui TOLLIT) PEccATA MuNDI??!). Rispetto ai cicli di affreschi a Pistoia e a Pomposa, qui il programma è più focalizzato sull'idea della Passione, in quanto il

fondatore dell’ordine è raffigurato non solo come autore della regola ma anche come vero successore del Cristo sofferente. San Francesco (fig. 56) mostra le ferite ricevute nella scena della stigmatizzazione (fig. 61). Sul suo cartiglio si legge il verso 17 del sesto capitolo della Lettera a Galati: Eco ENIM sTIGMATA Domini IESU IN CORPORE MEO PORTO. Le figure di Sant'Antonio (fig. 66) e della personificazione della Morte (fig. 67) formano un'unità. Il santo indica la Morte con la mano destra. Sul suo cartiglio si legge: Homo IGITUR CONSUMPTUS ATQUE NUDATUS QUAESO UBI EST??? Lo scopritore degli affreschi, Bernardo

Gonzati,

tramanda

una seconda frase che veniva dopo questo testo tratto dal libro di Giobbe: Morruus EsT PRO NOBIS.??* Ormai illeggibile è anche il cartiglio della Morte, trascritto dal Gonzati: MEMOR ESTO IUDICII MEI, SIC ENIM ERIT ET TUUM. HERI MIHI HODIE TIBI-? Con l’aggiunta della frase «mortuus est pro nobis», la lamentazione di Giobbe sulla brevità della vita che «fugge come ombra»? e scorre via come le acque del lago?” si traduce in una profezia della Passione, 0 più precisamente in una predizione della vittoria della “vita aeterna” sulla morte. È possibile che questo tema fosse noto al pittore e ai suoi committenti dagli affreschi di sale capi-

dare la facciata romanica del capitolo dell'abbazia benedettina di Saint-Georges-de-Boscherville®* con sculture iconograficamente affini, qui riprodotte nei disegni realizzati da Darcel intorno alla metà dell'Ottocento (figg. 68, 69; gli originali sono ormai troppo consumati dalle intemperie).®° Alla Morte dai capelli ritti, raffigurata mentre si taglia la gola con un coltello, a Saint-Georges-de-Boscherville è contrapposta, in veste di dama incoronata, la Vita. Sulle iscrizioni si legge: (Morte:) Eco Mors HomineM rucuro corriPIio — (Vita:) Vira BEATA vocor. Nel nostro contesto, «vita beata» non può che significare “vita aeterna7.240

La disposizione degli affreschi nella parte nord del capitolo padovano evidenzia una connessione tra la scena delle Stimmate sulla parete di fondo (fig. 61) e la figura di Sar

Francesco (fig. 56) che apre la serie di personaggi dipinti

sulla parete settentrionale. Nella parte sud vi è probabilmente un analogo collegamento tra la raffigurazione del Martirio dei francescani (fig. 63) e la figura di Sant Antomo (fis. 66). Nella letteratura storico-artistica l’immagine a de-

stra della Crocifissione (fig. 63) è stata identificata o con il

martirio dei francescani Daniele, Samuele, Angelo, Domno di Montalcino, Leone, Niccolò di Sassoferrato e Ugolino a Ceuta (10 ottobre 1227)! oppure con la morte sacrificale dei primi martiri dell'ordine (Berardo, Pietro, Ottone, Accursio, Adiuto) il 16 gennaio 1220 a Marrakech?!

PITTURA

- MEDIOEVO

382

È

IO MERE

TIRA RSI TEN SAL FIS TO

59. Bottega di Giotto, San Giovanni Battista, Padova, Basilica del Santo, sala capitolare

60. Bottega di Giotto, Davide; Padova, Basilica del Santo, sala capitolare

L'agiografia francescana del Trecento? riporta concordemente che la vista delle reliquie dei primi cinque martiri dell’ordine francescano avrebbe indotto Antonio ad abbandonare la tonaca dei canonici agostiniani per entrare nell’ordine mendicante. Come francescano, Antonio voleva emulare l'esempio dei cinque martiri della fede nella missione nel Marocco musulmano. Nell’iconografia antoniana trecentesca questo episodio del suo farsi francescano svolge un ruolo importante. Il ciclo di vetrate della cappella di Sant'Antonio nella basilica inferiore assisiate, comprendente dodici episodi della Vita del santo, comincia con quattro scene (fig. 71): il Sultano che impartisce l’ordi-

l'ordine dei canonici agostiniani e due francescani con il nuovo abito religioso per il santo. Sull’iscrizione di queste scene si legge: MINORUM SUMIT HABITUM, QUI CELUM TRANSFERUNTUR.°* In una tavola di Taddeo Gaddi del 1333/34 circa (fig. 70), facente parte in origine dell’“armadio” per reliquie della sacrestia di Santa Croce a Firenze, Antonio, ritratto mentre medita sul martirio dei francescani, indos-

ne di giustiziare i francescani e il Martirio di Marrakech,

quindi Antonio che prega i suoi superiori di congedarlo dal-

sa ancora la tonaca dei canonici agostiniani ma è accompagnato da un francescano. La presenza di Francesco

potrebbe spiegarsi con la tradizione secondo cui il santo,

che aveva personalmente incaricato della missione i cinque

frati, alla notizia del martirio di Marrakech avrebbe esclamato: «Nunc possum veraciter dicere, quod habeo quinque fratres».2* A favore dell’identificazione del dipinto

GLI AFFRESCHI



E

DI A. LORENZETTI

rn

Basilica del Santo, sala capitolare 61. Bottega di Giotto, San Francesco riceve le stimmate, Padova,

IN SANT’AGOSTINO

PITTURA

- MEDIOEVO

Tenia

62. Bottega di Giotto, Crocifissione (frammento della metà destra dell'affresco), Padova, Basilica del Santo, sala capitolare

GLI AFFRESCHI

DI A. LORENZETTI

IN SANT’AGOSTINO

385

63. Bottega di Giotto, Martirio dei francescani a Marrakech, Padova, Basilica del Santo, sala capitolare

padovano (fig. 63) con una raffigurazione dei proto-martiri dell'ordine interviene anche il fatto che proprio all’epoca della genesi di questo affresco fossero in corso trattative per la canonizzazione dei primi martiri francescani. In una lettera del 12 luglio 1321 di Giacomo n a Giovanni xx ad esempio, il re d'Aragona raccomanda al papa tale canonizzazione.” Il francescano contraddistinto dall’aureola potrebbe essere Berardo, più volte citato come portavoce di questo gruppo di missionari.?* Il riferimento di Antonio (fig. 66) alla vittoria della “vita aeterna” sulla morte non è dunque da intendersi solo in rapporto alla Crocifissione (fig. 62) ma anche ai ProtoMartiri (fig. 63), i quali avevano scelto la morte per vivere: «O monache [...] prepara te, ut mortem timere non possis, ut post mortem vivere incipias, qui ante mortem moriendo vivebas» (Serzzones ad Fratres in Eremo). All’interno di questo processo, che durò ottanta-novanta anni e fu in sé piuttosto univoco — per quel che consentono di affermare i pochi cicli conservati integralmente — durante il quale si andò elaborando un programma icono-

ne la sua centralità, determinata da motivi liturgici, e il tema dell’analogia tra “vita apostolica” e “vita communis”, appena abbozzato a Pomposa (fig. 52), viene sviluppato

Sant'Agostino a Siena qui ricostruiti occupano una posizione particolare. Certo, anche qui la Crocifissione mantie-

! R. Niccoli, Scopertura di un capolavoro - La Maestà di Ambrogio Lorenzetti nella Chiesa di S. Agostino in Siena (Capolavori dell'Arte

grafico standard per le sale capitolari, gli affreschi di

appieno; ma a Sant'Agostino compaiono per la prima volta

motivi estranei al tema della Passione, legati alla consapevolezza della propria storia e agli specifici compiti dell’ordine. Essi segnano l’inizio di una nuova iconografia delle sale capitolari, che culminerà negli affreschi del Cappellone degli Spagnoli di Santa Maria Novella.??®

Pubblicazione originale: M. Seidel, «Die Fresken des Ambrogio Lorenzetti in S. Agostino», in: Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, xx, 1978, pp. 185-252.

Su questi temi cfr. anche: Die Kirchen von Siena, a cura di P. A. Riedl e M. Seidel, vol. 1, 1, Minchen 1985, pp. 28, 48-49, 112, 114-116, 230.

Devo a Monika Butzek la trascrizione della maggior parte dei documenti qui citati. L’esame della storia architettonica della Cappella Piccolomini è stato svolto insieme a Hans Teubner.

PITTURA

- MEDIOEVO

AA

PAPA,

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64. Bottega di G 10tt0 , Isai a ; Padova, Basilica del Santo sala capitolare é

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66. Bottega di Giotto, Sant'Antonio, Padova, Basilica del Santo, sala capitolare

67. Bottega di Giotto, Mors, Padova, Basilica del Santo, sala capitolare

Senese), Firenze 1946. ? Archivio della Soprintendenza per i beni artistici e storici per le province di Siena e Grosseto (ASSG), prot. n. 2299-1081 (20 ottobre 1944, con preventivo di spesa del restauratore Vasco Mazzuoli). è Secondo il documento citato alla nota 2, il restauratore Mazzuoli si limitò nel 1944 alla pulitura e al consolidamento dell’affresco. Le poche integrazioni sono di epoca successiva (cfr. figg. 41 e 42). ASSG, prot. nn. 2032-861 (13 giugno 1947) e 2042-865 (15 giugno 1947). Interessanti appaiono anche i riferimenti ai danni procurati all’affresco dall'installazione di un impianto di riscaldamento nel liceo adiacente la parete sud della cappella, e alle conseguenti misure precauzionali (rinforzamento della parete affrescata). ° ASSG, preventivi di spesa di R. Niccoli del 6. 10. 1947 e del 16.

corativi, fra i quali resti di tre statuette, di epoca coeva a quella dell'affresco. Tali frammenti, assai interessanti, data la presenza di numerosi tratti di costole di volte a crociera inducono alla persuasione che tutta l'architettura interna originale della Cappella fosse di stucco. Altri frammenti, come due capitelli con apposto lo stemma della famiglia Ruffaldi, ora scomparsa, sembrerebbero riferirsi al tabernacolo che, analogamente ad altri tabernacoli marmorei del Trecento [...], sormontavano altari [...]». ? ASSG, preventivo di spesa del 6. 12. 1949: «Pos. 1: Scavo di rinfianchi delle volte sottostanti alla cappella per il ritrovamento di elementi architettonici e scultorei in stucco delle antiche strutture della cappella, del secolo xrv, loro cernita e trasporto nei magazzini della Pinacoteca». * Il dottor Cornice e il dottor Borghini hanno setacciato invano i depositi della Pinacoteca alla ricerca di questi frammenti. ° N. Mengozzi, «Ascanio Piccolomini quinto Arcivescovo di Siena», in: Bullettino Senese di Storia Patria, xxx, 1912, p. 251 (cit. da Avvertimenti civili estratti da Mons. Ascanio Piccolomini Arcivescovo di Siena dai sei libri degli Annali di Cornelio Tacito dati in luce da Daniello Leremita in Firenze 1609 appresso Volemar Timan). ‘° Ibidem, p. 328. Altre iscrizioni e stemmi a testimonianza della fon-

11. 1948. Il Niccoli voleva trasformare la cappella in un piccolo museo dell’arte del Trecento sostituendo la statua di papa Pio n, un'opera del Duprè, con la tavola del Beato Agostino Novello di Simone Martini precedentemente conservata nel transetto di Sant AgOStino,

° ASSG, prot. n. 2042-865 (15 giugno 1947): «Durante l'esecuzione dei lavori, nel riempimento sotto l’arcone creato per sostegno dell’altare, sono stati ritrovati moltissimi frammenti architettonici e de-

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alla porta di da. Cappella. Il Breve di tale concessione è del di 21 gen.o 1612». ! Siena, Archivio arcivescovile (AAS), ms. 27, fol. 118r. ? Ascanius PrccoLomineEus / ArcHIEPISCOPUS SENARUM / QuintTUS / Der.O.M. CULTUI / AC GENTILIUM SUORUM / ORNAMENTO / M.D. XC.VI /.

* Gir pp1353 ss; 4 I. Ugurgieri Azzolini, Le Pompe Sanesi, vol. 11, Pistoia 1649, pp. 336-337. 5 E Montebuoni, Notizie de’ Pittori Sanesi (1717), Biblioteca Comunale di Siena, ms. L. v. 14, fol. 59v. Al pari dell’Ugurgieri, anche il Montebuoni parla di affreschi non nella Cappella Piccolomini, bensì nel capitolo. Se gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti fos-

sero ancora stati visibili dopo il 1600, la collocazione sarebbe stata corretta con il nuovo nome di questo locale. ‘6 Diario di A. Bandini (1798), Biblioteca Comunale di Siena, ms. D. ini. 14, fol. 94r. Nel corso della ristrutturazione di Sant'Agostino avvenuta intorno alla metà del Settecento su progetto del Vanvitelli, nella Cappella Piccolomini furono eseguiti solo lavori di ripristino di modesta entità. Il rendiconto di questi lavori, redatto dopo il marzo 1756 (Descrizione della Fabbrica della Chiesa di S. Agostino fatta da Antonio Spari, Biblioteca Comunale di Siena, ms. B. rx. 23, fol. 3032), riguardo alla cappella riporta unicamente, oltre a piccole spese per il restauro del portale, della porta verso la sacrestia e di alcune zone del pavimento: «Detta Cappella è stata imbiancata tutta, tanto volta, che muri, e fattoci più rappezzi, tanto volta, che muri [...]». 7 Le misure sono tratte dalla Descrizione citata alla nota 16. Che in origine la Cappella Piccolomini fosse più larga della sacrestia si evince anche dalla disposizione dello scantinato. lSCfrp:(355. !9 I. Ugurgieri Azzolini, op. cit. (vedi nota 14), pp. 336-337. 20 AAS 3560, fol. 59r: «Mona francescha donna di marcho del maestrello morj a di 18. dagosto 1524. fu sipulta in chiostro nello avello del marito adi 19 di detto nella trasanda del dormitorio nel quarto ordine rinconto aluscio del capitulo». Cfr. fol. 96v (5. 12. 1534), fol. Tav 8

15995)

21 AAS 3560, fol. 97v: «Lucretia figlia di Giovam Bap.ta Fideli, si seppellj alli 8. del sopradecto, nella loro sipoltura nel Claustro de mortj nella trasanda verso el Capitolo, appiej la finestra del capitolo inverso la porta della provincia». Cfr. fol. 98r (16. 5. 1553). 2 AAS 3560, fol. 38r: «Caterina donna gia di mo. Girolamo sarto in sancto salvadore mori adi trenta di dicembre 1553 e sepellisi adi 31 di detto nela sua sepultura nel chiostro [nella trasanda] del dormitorjo apresso ala finestra prima del capitulo». 2 Cfr. nota 20 (vedi anche nota 22). Cfr nota]: 25 ASS, Conventi, n. 1091. 26 ASS, Conventi, n. 1091, fol. 32v-33r: «In Dei nomine amen: Anno 69. Vita beata, capitolo di Saint-Georges-de-Boscherville, facciata (disegno di Darcel)

68. Mors, capitolo di SaintGeorges-de-Boscherville, facciata (disegno di Darcel)

dazione di Ascanio si trovavano sopra il portale d’ingresso e sulla parete esterna della cappella. Compendio, ovvero breve ragguaglio della Fondazione del Convento di S. Agostino di Siena [...] il tutto ricavato dalle notizie, che si conservano nell'Archivio di d. Convento in autentica forma l'anno 1744. Siena,

Archivio

di Stato

(ASS),

Conventi,

n.

1088,

fol. 64:

«Nell'anno 1596 Monsignor Arcivescovo Ascanio Piccolomini Aragona edificò in do. luogho l’Altare di Marmo, che si vede di presente, nel quale vi è il quadro, che è opera del famosissimo Sodoma Pittore, e fu da Silvio Piccolomini dotato in scudi dugento rinvestiti in una Casa in Via Maestri con magazzino posta al libro CD al no. 12 col peso d’una Messa quotidiana, e due offizi, come al libro quatsole tro Croci a £ 100. Quest'obblighi presentemente sono ridotti a indulconcesse Pontefice sommo V Paolo Messe quarantaquattro. della genza plenaria in perpetuo a tutti i Fedeli, che nel giorno detta la visitassero i comunicat e confessati, hania Festività dell’Epip vicino Cappella, come apparisce Memoria in pietra posta nel muro

ab ipsius Domini Nostri Jesucristi salutifera Incarnatione Millesimo quingentesimononagesimo quarto, Indictione octava stilo senense. Die autem Martis vigesima Decembris [...] Onofrius q. Antonij de

scudellinis de Cortona habitator Turritae stat. sen. Intabulator seu Mensurator Terrarum. Constitutus coram me Not.rio et testibus infrascriptis [...] Asseruit, affirmavit et confessus fuit, Mensurasse, et ritabulasse, retro et infrascripta bona R. dorum Fratruum, et Conventus Sancti Augustini de Senis. Bona retroscripta de quibus sup.a sunt infrascripta cum numero folij in quo sunt descripta, et designata videlicet: Vigne di Siena folio 1: 2 [segue elenco dei titoli delle altre piante]. Asseruit, et affirmavit d.as Designationes et numerationes stadiorum per numerum intus factas, esse ab co, et eius propria manu designatas, et intus numeratas [...] Et d.as Mensurationes, Designationes, et numerationes [...] fuisse et esse veras, et a se fideliter factas, omni

meliori modo ec. Acta fuerunt promissa Senis in Curia Regulatorum coram [...] testibus. Ego Matthias olim Bonaventurae de Burdonibus Not.s pub.s sen. [...]». ? Le finestre (bifore o trifore) ampie e poste molto in basso consentivano ai conversi e ai novizi che stavano nel chiostro (dunque nettamente separati dai monaci aventi diritto di voto) di assistere alle adunanze capitolari; cfr. M. Aubert, L'Architecture cistercienne en France, vol. n, Paris 19472, p. 51 e W. Braunfels, Abendlindische

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70. Taddeo Gaddi, Martirio dei francescani

a Marrakech, Firenze, Galleria dell’Accadenzia

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l at:i: :t laipn © A. Mettler, Mittelalterliche Klosterkirchen und Klòster der Hirsauer und Zisterzienser in Wiirttemberg, Stuttgart 1927, figg. 4, 10, 13, 73. Per la presenza di un altare nelle sale capitolari ctr. O. Lehmann Brockhaus, op. cit. (vedi nota 33), p. 28, n. 107. ? G. Bandmann, «Uber Pastophorien und verwandte Nebenriume im mittelalterlichen Kirchenbau», in: Kurstgeschicbtliche Studien fiir Hans Kauffmann, Berlin 1956, p. 56. ®* R. Offner, Corpus of Florentine Painting, vol. 1/5, New York

1947, p. 88.

” J. Wood Brown, The Dominican Church of S. Maria Novella at Florence, Edinburgh 1902, p. 146. Iscrizione tombale: «Hic jacet Michus, filius olim Lapii de Guidalottiis, Mercator, qui fecit fieri et dipingi istud Capitulum cum Cappella, in habitu ordinis, anno Doi 1355, die 4 sbris. Requiescat in Pace». Devo la segnalazione a G. Kreytenberg [del quale cfr. «Das “Capitulum Studentium” im Konvent von Santa Maria Novella», in: Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, xx, 1979, n. 3. pp. 225-238] " Larghezza della nicchia riprodotta alla fig. 3: m 2,84. '! Vaticano, Convento di Santa Monica, Archivio generale dell’ordine eremitano, cod. Aa, fol. 2v. Per la datazione di questo inventario ctr. D. Gutiérrez, «De antiquis ordinis eremitarum Sancti Augustini bibliothecis», in: Analecta Augustiniana, xx, 1954, palSp.

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4 Cfr. pp. 345-346. 4 AAS, ms. 3554, fol. 17v (redatto nel 1382).

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lum intrant, seu a capitulo egrediuntur, vel capitulum [...] pro qualicumque causa pertranseunt, detectis [...] capitibus medio loco ad crucifixum [...] obnixe inclinabunt [...]». CfrId., op. cit. (vedi nota

44 ASS, ms. A. 39 (Familie Nobili Estinti. Risieduti), fol. 57: «1317 Guiduccio di Cecco, di Mercanzia

33), p. 80 (n.361) e p. 281 (n. 1419).

1322 Guiduccio di Cecco, degli Esecutori 1323 Guiduccio di Cecco, degli Esecutori

® % 6 6 “

1324 Guiduccio di Cecco, di Biccherna

1332 Guiduccio di Cecco, di Mercanzia 1334 Guiduccio di Cecco, di Biccherna 1339 Guiduccio di Cecco, di Biccherna». ASS, ms. A. 39, fol. 57: «1333 Francesco

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I. Aramburu Cendoya, op. cit. (vedi nota 49), p. 35. Ibidem, pp. 35-36. Ibidem, p. 37. E, Carli, Il Museo di Pisa, Pisa 1974, p. 41, n.31. G. B. Bronzini, «La leggenda di S. Caterina d'Alessandria (Pas-

Biccherna».

sioni greche e latine)», in: Att; della Accadenzia Nazionale det Lincet. Memorie. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, ser. vi, vol. rx, fasc. 2, Roma 1960.

4 ASS, ms. A. 39, fol. 57:

6 Jacopo da Varazze, Legenda Aurea, a cura di G. P. Maggioni,

«1351 Domenico di Guiduccio di Ruffaldo, degli Esecutori 1387 Domenico di Guiduccio di Ruffaldo, dei Paschi». Nel 1370 Domenico di Guiduccio era “Sindaco Maggiore” del Comune di Perugia. # Già nel 1326 un Ruffaldi (Turino) aveva eletto Sant'Agostino a luogo della propria sepoltura, destinando al convento una cospicua donazione a tale scopo. Bibl. Vaticana, cod. chigiano 6.11.50, fol. 287v: «Turino figlio del q. Bindo Rufaldo sanese fa testamento d’esser sepolto in S. Agostino, e lassa lire 100 alla Sanese per spendere in Chiesa, come anco a ciascun frate del Convento lassa per carità cinque soldi alla sanese, acciò preghino Iddio per l’anima sua [...]». 48 ASSG, prot. 2299-1081: il restauratore Mazzuoli riferisce che l’affresco di Ambrogio Lorenzetti appena scoperto (fig. 1) era fortemente annerito dal fumo delle candele. Nell’inventario del tesoro di Sant Agostino redatto nel 1360, citato alla nota 41, al fol. 4v si parla di un paliotto per l’altare nella «cappella sancta Katerina», che molto probabilmente coincide con il capitolo (cfr. il commento all’iconografia nel secondo e terzo capitolo del presente saggio). 4 Risoluzioni del capitolo generale di Tolosa (1341), in: Aralecta

Firenze 1998, p. 1206.

di Guiduccio,

di

Augustiniana, rv, 1911-1912, p. 207. 1. Aramburu Cendoya, Las pri-

mitivas Constituciones de los Agustinos (Ratisbonenses del asio 1290), Valladolid 1966, p. 129 (Additio cap. 38). > «Diffinitiones capituli generalis de Senis», in: Acta Augustiniana, rv, 1911-1912, pp. 177-183. I nomi dei diffinitores provinciali partecipanti a questo capitolo generale sono citati in R. Maiocchi, N. Casacca, Codex Diplomaticus Ord. E. S. Augustini Papiae, Pavia

1905, pp. 74-75 (doc. 33).

© I. Aramburu Cendoya, op. cit. (vedi nota 49), p. 124: «Generale Capitulum de triennio in triennium fieri volumus et mandamus loco et die determinatis per Definitores praecedentis Capituli generalis»; p. 129: «Generalis autem vel unus Definitorum pronuntiet ubi et quando debeat sequens Capitulum celebrari». 52 ASS, Cons. Generale n. 121, fol. 27r-27v (3 aprile 1338). «Cit p:3/3. % J. v. Schlosser, Lorenzo Ghibertis Denkwiirdigkeiten, Berlin 1912, p.Al.

> Ibidem, pp. 48-49. 56 Ad esempio nelle celebri descrizioni della corniola incastonata dal maestro e delle antiche sculture in marmo citate nel terzo libro dei Commentarii (ibidem, pp. 47, 61 ss.). > Ibidem, pp. 40-41. M. Seidel, op. cit. (vedi nota 28). 38 J. v. Schlosser, op. cit., vol. n, p. 141. > "G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568. Testo a cura di R. Bettarini, commento secolare a cura di P. Barocchi (Vasari-Barocchi), vol. 11, Testo, Firenze 1967, p. 180. 60 11 21 marzo 1560 il Vasari scrisse da Siena ad Antonio dei Nobili e a Cosimo de’ Medici (K. Frey, Der literarische Nachlass Giorgio Vasaris, vol. 1, Miinchen 1923, pp. 545-549). In viaggio per Roma, il Vasari era accompagnato da Giovanni de’ Medici, il secondogenito ie. diciassettenne di Cosimo destinato a ricevere le insegne cardinaliz 61 Vasari-Barocchi, vol. n Testo, p. 150. zur Kunst in 62 O. Lehmann Brockhaus, Lazeinische Schriftquellen

1307, England, Wales und Schottland vom Jabre 901 bis zum Jabre pro recta vol. n, Miinchen 1956, p. 158, n. 2793: «Verumptamen hoc andum et antiqua consuetudine quasi pro regula est observ

[a. 1259-

capitu1283], quod, quandocumque fratres (Westmonasterienses)

G. B. Bronzini, op. cit., p. 347 (ms. A. 5, Archivio Capitolare di S. Pietro, Vaticano; undicesimo secolo; testo dello pseudo-Atanasio,

ms. 1133, Bayerische Staatsbibliothek, Monaco). 9 G. B. Bronzini, op. cit., p. 323. ? B. Mombritius, Sanctuarium seu Vitae Sanctorum, vol. 1, Paris 1910, p. 286: «Imperator autem obtulit in sacrificium tauros centum triginta. Similiter et principes illustres et magistri militum, praefecti, et tribuni offerebant tauros [...]: ita ut prae multitudine quadrupedum vel volucrum non possent simul esse in templo aut in civitate: quin etiam et magna vociferatione irrationabilium animalium movebatur locus et civitas Archori una canentes cum tybiis et cytharis: et pluribus instrumentis et plaudentibus manibus, etiam obtenebrabatur lux ex effusione sanguinum irrationabilium animalium». Cfr. Bibliotheca Casinensis seu Codicum Manuscriptorum qui in Tabulario Casinensi asservantur [...] cura et studio Monachorum Ordinis S. Benedicti Abbatiae Montis Casini, vol. m, Montecassino 1877, p. 74. G. B. Bronzini, op. cit., p. 333 (ms. 96, Biblioteca Alessandrina, Roma). 7! Jacopo da Varazze, op. cit. (vedi nota 68), p. 1207. ?? Op. cit. (vedi nota 41), fol. 3r: «Item una tabula pulcra seu yconia de ligno picta figura seu ymagine sancte Katerine et multis alijs ymaginibus atque figuris circumcirca et cum multis reliquijs sanctorum que in ipsa circa sunt infixae.

Item una sculptura seu statuncula lignea, figura sancte chaterine sculpta, et cum varijs feminea effigie picta coloribus tenens manu eneam rotam, capite coronata corona. Et cum ampulla liquoris reliquiarium ipsius».

? D. Gutiérrez, op. cit. (vedi nota 41), p. 308: «Infrascripti sunt libri dicti conventus et volumina adscripta sacristie pro officiando in ecclesia, chori usui deputata, videlicet: [...] Item unum volumen ubi est ystoria sancti Augustini et sancti Pauli primi heremite et sancte Katerine». Le parole «sancti Augustini» furono in seguito depennate e sostituite con «corporis Christi».

7 B. Mombritius, op. cit. (vedi nota 70), p. 284. 5 Jacopo da Varazze, op. cit. (vedi nota 68), p. 1208. H. Knust, Geschichte der Legenden der Katharina von Alexandrien und der Maria Aegyptica nebst unedierten Texten, Halle 1890, pp. 260-263 (edizione della versione più diffusa della leggenda, definita vu/gata). 76 In origine invece le leggende di santa Caterina distinguevano nettamente tra questi due concetti, sottolineando ripetutamente che la vergine, dopo la conversione, avrebbe disprezzato ogni umana saggezza. Cfr. B. Mombritius, op. cit. (vedi nota 70), p. 284 e H. Knust, op. cit. (vedi nota 75), pp. 246, 256-257. © R. Maiocchi, N. Casacca, op. cit. (vedi nota 50), p. 74. 78 I. de Saxonia, Opus sermonum, In Officina Damiani Hichman, s.

d. (Biblioteca Angelica, Ec - 5 - 21), p. 358: «Ex quod patet, quod potenter ex ipsa refulserit non solum radius sapientiae divinae,

verum etiam humanae: quia in omni scientia humana peritissima legitur et provecta. Propter quod etiam a toto clero super ceteras vir-

gines ci singularis reverentia exhibetur. Unde de hac duplici sapientia gloriari videtur per illud quod scribitur Eccl. xo [...]». 79 $. Thomae Aquinatis Opera Omnia, vol. xv, Parma 1864, pp. 230-

ZIA 80 Jacopo da Varazze, op. cit. (vedi nota 68), pp. 1212-1214. Per il si-

stema delle scienze cfr. L. Baur, Domzinicus Grundissalinus, De divisione philosophiae, Mister 1903 e A. Zumkeller, Schrifttum und Lebre des Hermann von Schildesche, Wiurzburg 1959, pp. 84-88. 8! A. Lang, «Die Katharinenpredigt Heinrichs von Langenstein», in:

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- MEDIOEVO

Divus Thomas, xxvi, 1948, pp. 123-159, 233-250 (predica del 25. 11. 1396).

S A. Lang, op. cit., p. 143. Cfr. l'iconografia di Caterina con i nomi delle sette Arti Liberali (Kaftal, Saz75s n, fig. 280). $ P. Tito da Ottone, La leggenda di Santa Caterina, Genova 1940, pp. 60-64.

# F. Roth, «Cardinal Richard Annibaldi — First Protector of the Augustinian Order (1243-1276)», in: Augustiniana, n- rv, 1952-54. K. Elm, «Neuere Beitrige zur Geschichte des Augustiner-Eremiten-

394

sumpta a porticu Salomonis constructa Juxta templum. In qua apostoli omnes unanimiter commanebant, et in templo ad orationem conveniebant, et multitudini credentium cor unum

et anima una

erat, et omnia communia habebant. Secundum hanc formam religiosi in claustro unanimiter degunt, nocte ac die in monasterium ad

servitium Dei conveniunt» (PL cLxxn, col. 590). Cfr. i passi di teno-

re simile nel Mizrale di Siccardo (PL ccxm, col. 25) e nel Razionale

divinorum officiorum (1, 1,42) di Durando (ed. Venetiis 1581, p. 6). W. Dynes, «The Medieval Cloister as Portico of Salomon», in: Gesta,

ordens im 13. und 14. Jahrhundert» (recensione), in: Archiv fiir

x11, 1973, pp. 61-69. J. Gutmann (a cura di), The Tersple of Salomon

Kulturgeschichte, xx, 1960, pp. 357-387. $ E. Ypma, La formation des professeurs chez les Ermites de SaintAugustin de 1256 à 1354, Paris 1956. D. Gutiérrez, «Los estudios en la Orden Augustiniana desde la Edad Media hasta la contemporànea», in: Analecta Augustiniana, xxx, 1970, pp. 75-149. A. Zumkeller, «Die Augustiner-Schule des Mittelalters: Vertreter und philosophisch-theologische Lehre», in: Analecta Agustiniana, xxvu,

-— Archaeological fact and medieval tradition in christian, islamic and jewish art, Missoula (University of Montana) 1976. In tale contesto,

1964, pp. 174-176.

86 Constitutiones Rat., cap. xL, Venetiis 1508, fol. 36r.

87 Sintomatico dell'importanza attribuita fin dall’inizio agli studia è il fatto che già tre anni dopo la fondazione dell'ordine venisse acquistato a Parigi un terreno per la costruzione di un convento. Nel

1285 Egidio Romano fu il primo eremitano a ottenere una cattedra all’Università di Parigi. 88 E. Ypma, op. cit. (vedi nota 85), pp. 22-23 (a Bologna, Padova e Napoli e presso la curia papale). 8 Ibidem, p. 33. % Ibidem, p. 39. Secondo le Constitutiones, di ognuno degli studia generalia dovevano far parte almeno due docenti, uno dei quali aveva il compito di spiegare le Sacre Scritture e di tenere dispute, mentre l’altro lector era incaricato di commentare il libro sequenziale e di tenere lezioni filosofiche (Acta Cap. Gen. 1321, in: Awalecta

Augustiniana, n, 1909, p. 247). 2 E. Ypma, op. cit., pp. 42-44. ® Acta Cap. Gen. 1312, in: Aralecta Augustiniana, 1, 1909-1910, pp. 152-153: «Item cum loca ubi sunt studia generalia sint, propter eorum temporis et plura alia, multipliciter aggravata, nos volentes dicta loca quantum possumus exonerare [...] De allevamentis autem studiorum Senensis et Florentini conventuum et de ordinatione ali-

quorum studiorum ordinandorum in aliquibus provinciis relinquimus Generali». 5 Acta Cap. Prov., Orvieto 1315, in: Analecta Augustiniana, n, 1909-1910, p. 174: «Item diffinitum fuit quod frater Iohannes de Ferraria esset studens pro Romana provincia in studio generali de Senis». % A. Zumkeller, op. cit. (vedi nota 85), pp. 208-209. ” D. Gutiérrez, op. cit. (vedi nota 41), pp. 297-308. Per l’acquisto di libri i conventi in patria mettevano a disposizione dei loro studenti a Parigi il quadruplo della somma destinata a coprire le spese annue di sostentamento; E. Ypma, op. cit. (vedi nota 85), pp. 124-125. Acta Cap. gen. 1323 (in: Aralecta Augustirmiana, m, 1909-1910, p. 468): «Item cum pro ordinis promotione, statu et honore nostra Religio libris aptis ad studium thesaurum non habeat cariorem, diffinimus al % Analecta Augustiniana, 11, p. 81. 7 Acta Cap. Gen. Senense an. 1338, in: Avalecta Augustiniana, w,

1911-12, pp. 177-183.

* S. Romano, «Due affreschi del Cappellone degli Spagnoli (Problemi iconologici)», in: Storia dell'Arte, xxv, 1976, pp. 181-213. ? J. v. Schlosser, «Giusto’s Fresken in Padua und die Vorliufer der

Stanza della Segnatura», in: Jabrbuch der Kunstbistorischen Sammlungen des allerhochsten Kaiserbauses, xvi, 1896, pp. 13-100. (0008395. ‘0! Bernardo di Chiaravalle, Serzzo de quadruplici debito: «Quid enim est quod vita vestra [monacalis] vitam apostolicam repraesentet?» (Recon tico 95590)) Questa idea traspare con la massima evidenza dalla derivazione del chiostro dal portico del tempio di Salomone dove erano soliti riunirsi gli apostoli. Riferendosi ai versi 32 ss. nel capitolo 1v degli Atti degli apostoli, Onorio di Autun scriveva ad esempio nel libro 1 del

suo Gemma animae: «Claustralis constructio juxta monasterium est

L. Pressouyre («St. Bernard to St. Francis: Monastic Ideals and Iconographic Programs in the Cloister», in: Gesta, xt, 1973, p. 74) rimandava ad esempio alle figure dei dodici apostoli nel chiostro di Saint-Donat-sur-l’Herbasse (Dròme).

102 Cfr. pp. 377-379.

® L. Seidel, «A romantic forgery: The romanesque “portal” of Saint-Étienne in Toulouse», in: Art Bulletin, L, 1968, pp. 33-42. LEI % R. Maiocchi, N. Casacca, op. cit. (vedi nota 50), p. 74. 106 Jordanus de Saxonia, Liber Vitasfratrum, a cura di R. Arbesmann e W. Hiimpfner, in: Cassiciacum, 1, New York 1943, p. 330.

9 J. de Saxonia, op. cit., p. 332 (cfr. p. 7). In questa sua esposizione Giordano si richiamava alla Regula Sancti Augustini secunda, le cui prime frasi contengono chiaramente un riferimento agli Atti degli apostoli: «Haec sunt quae observetis praecipimus in monasterio constituti: Primum propter quod in unum estis congregati, ut una-

nimes habitetis in domo et sit vobis anima una et cor unum in Deo. Et non dicatis aliquid proprium, sed sint vobis omnia communia [...] Sic enim legitis in Actibus Apostolorum [...]» (le tre “Regole” di Agostino note nel Medioevo sono riportate in appendice all’edizione del Liber Vitasfratrum a cura di Arbesmann e Himpfner). Cfr. il passo corrispondente nella Vita di Agostino, scritta dal suo allievo e primo biografo Possidio: «[...] monasterium [...] instituit, et cum Dei servis vivere coepit secundum modum et regulam sub sanctis Apostolis constitutam» (PL xxxn, col. 37). 105 P. Bacci, Fonti e commenti per la storia dell’arte senese, Siena 1944, p. 41. Qui si parla di una «tabula [...] ubi sunt scripti articuli Fidei». 1 G. Coor, «Bemerkungen zu einem ungewòhnlichen italienischen Triptychon in der Niedersachsischen Landesgalerie Hannover», in: Niederdeutsche Beitrige zur Kunstgeschichte, n, 1962, pp. 152-171. R. Offner, op. cit. (vedi nota 38), vol. 11/8, New York 1958, p. 108. ° G. B. Bronzini, op. it. (vedi nota:68), pp. 334, 337, 347-348, 351, \

80. H. Knust, op. cit. (vedi nota 75), pp. 242, 259, 260. ! A. Lang, op. cit. (vedi nota 81), pp. 134, 143, 159.

? C. E. Biihler, «The Apostles and the Creed», in: Specx/u72, xxvm, 1953, pp. 335-340.

? PL xxx, coll. 2188-2190 (Serzzores 240, 241). * D. Gutiérrez, op. cit. (vedi nota 41), p. 303: «Item unus volumen in quo est Augustinus de simbolo, de disciplina christianorum», ecc: p. 307: «Imprimis unum volumen in quo sunt infrascripti libri sancti Augustini [...] de symbolo». 1 J. e P. Courcelle, Iconographie de Saint Augustin — Les cycles du xIv° siècle, Paris 1965, figg. 53-54.

!!6 G. Coor, op. cit. (vedi nota 109). '” H. W. van Os, Vecchietta and the Sacristy of the Siena Hospital Church — A Study in Renaissance Religious Symbolism, Den Haag 1974. Nel ms. lat. 11907 del Credo di Joinville (Parigi, Bibliothèque Nationale; fine Duecento) troviamo significativamente una figura di Agostino (H. W. van Os, op. cit., fig. 53). Il programma degli affreschi del Vecchietta nel Battistero di Siena va visto nell’ambito del significato che il Credo assume per il battesimo. 18 PIL soon icol 2189; ! E. A. van Moé, «Recherches sur les Eremites de Saint-Augustin entre 1250 et 1350», in: Revue des questions historiques, GxVIMi95D2A

p. 304,

Acta Cap. Gen. Senense an. 1338, in: Avalecta Augustiniana, 1v,

1911-12, p. 177.

°! Foto neg. 49797. Delle riproduzioni fotografiche conservate a

GLI AFFRESCHI

Villa I Tatti a Settignano, gentilmente segnalatemi da Rona Goffen, mostrano l'affresco durante i lavori di pulitura nel 1944. Secondo il giudizio di Leonetto Tintori, da queste fotografie non si rilevano tracce di un “ravvivamento” che fosse andato oltre la rimessa in luce, né tanto meno di integrazioni degne di nota. 12° Relazione di Leonetto Tintori sullo stato di conservazione della Maestà di Ambrogio Lorenzetti in Sant Agostino: «Il grado di umidità contenuta negli intonaci affrescati risulta discontinuo nelle varie zone della lunetta. Per quanto il rilievo [fig. 25] non escluda l’apporto di acqua risalita per capillarità dal terreno, è chiaro che il danno maggiore è stato provocato da infiltrazioni dall’alto. A queste infiltrazioni sono dovute le cadute d’intonaco sopra e intorno alle teste di S. Agostino e di S. Bartolomeo. In molte altre parti l'intonaco è staccato dal muro, ma non presenta rigonfiamenti allarmanti. Anche la tumefazione, che di solito accompagna la presenza di umidità in eccesso, per ora è limitata alla veste di S. Caterina. La scarsa circolazione di aria nella Cappella frena l’attività del movimento idrico e le conseguenti, deleterie aggressioni. Tutta la metà destra della lunetta presenta la pittura più compatta e solida anche negli abbondanti residui a tempera. Di questo non è da ritenere responsabile soltanto l’infiltrazione che ha gravato maggiormente nella zona, ma il trattamento violento adottato nella pulitura che ha risparmiato i Santi di destra sui quali non soltanto le tempere sono solide ed abbondanti, ma anche i volti e le altre parti affrescate conservano integri lo smalto e la patina antica. Il manto e la sopraveste di S. Agata, che ora risultano quasi bianchi, erano completamente modellati in verde, mentre la S. Caterina in origine era vestita in tenero

rosa chiaroscurato con lacca rossa.

Anche il vestito del bambino era di un rosa analogo. Si rilevano poche tracce di oro, e queste soltanto nei raggi delle aureole che erano prima modellati in rilievo con pastiglia, e poi dorati. Abbonda invece l'argento, meglio conservato delle altre aggiunte a secco per una maggior consistenza del suo glutine molto oleoso. Oltre al bacile della Santa Caterina, alla spada di S. Michele e alle tenaglie di S. Apollonia, tutti gli ornamenti delle bordure delle vesti erano d’argento; ed anche il bordo rosso intorno alle aureole era filettato d’argento. Non è escluso che, in parte, il luccichio freddo del metallo fosse mitigato da velature di colori trasparenti, ma questo non è stato possibile chiarirlo in un semplice esame visivo.

Elenco dei pigmenti usati sul fresco: Bianco di S. Giovanni

— carbonato di calcio

Terra gialla

- ossido idrato di ferro

Terra rossa

— ossido di ferro Terra d'ombra naturale - silicato ed ossido di ferro con manganese É Terra d'ombra bruciata — silicato ferroso Terra verde - silicato ed ossido di ferro Morellone - legno carbonizzato Nero vite

Elenco dei pigmenti a Bianco di S. Giovanni Lapislazzulo Cinabro arancio, rosso Lacca rossa Malachite Verde rame Pastiglia Argento Oro

Leganti probabili: Tempera Adesivo per metalli

tempera usati sul secco: - carbonato di calcio - silicato feldspatico — solfuro di mercurio - lacca di acido chermisico (?) - carbonato basico di rame — acetato basico di rame — gesso e colla animale - metallo laminato -— metallo laminato - emulsione di uovo e olio di lino - soluzione di olio e di resina.

Tutti i colori sopraelencati, tanto quelli per il buon fresco, quanto quelli per le tempere, sono minerali naturali, ad eccezione della lacca rossa e del verderame che sono chimicamente artefatti. Il nero vite è sarmento di vite carbonizzato. L. T,, Firenze, 26 settembre 1977».

13 E. Borsook, Gli affreschi di Montesiepi, Firenze s. d. (1969).

DI A. LORENZETTI

IN SANT’AGOSTINO

4 Non è più possibile determinare il colore della veste della Madonna. !2 L’aureola della testa di Santa Caterina nel bacile in origine doveva essere, come risulta dalle linee incise tuttora visibili, della stessa grandezza di tutte le altre. Durante l’esecuzione tuttavia il diametro fu ridotto a cm 27,5 (anziché cm 30,5). Tutte le aureole sono dipinte con pigmento giallo e filettate d’argento. L’interno, in parte conservato, è in stucco dorato. 126 E. Borsook, op. ci. (vedi nota 123), fig. 17. Larghezza dell’affresco di Montesiepi: m 4,40; in Sant Agostino: m 4,24.

27 A Sant'Agostino il numero delle giornate non è determinabile con precisione a causa delle lacune nell’intonaco. Non è stato possibile ricostruire con certezza il contorno della giornata che corre lungo il corpo di Santa Caterina, per cui nella fig. 22 esso è indicato con una linea tratteggiata. 28 La tendenza a riservare giornate di dimensioni molto ridotte al-

l’esecuzione di teste connotate da particolari difficoltà artistiche o da un elevato contenuto simbolico si ritrova ad esempio anche negli affreschi delle Storie di San Francesco nella basilica superiore di Assisi (L. Tintori, M. Meiss, The Painting of the Life of St. Francis in Assisi,

New York 19672, pp. 73, 83, 87, 115, 122).

19 Cfr. la foto a colori, largamente attendibile, in: M. Meiss, The Great Age of Fresco, London 1970, p. 85.

130 P, Torriti, La Pinacoteca Nazionale di Siena — I dipinti dal xu al xv secolo, Siena 1977, n. 183. 1 Con l'eccezione di George Rowley (Ambrogio Lorenzetti, Princeton 1958, p. 65), la cui interpretazione di questo affresco nel contesto di una delle pestilenze degli anni 1348, 1363 oppure 1374 è da respingere non foss’altro per motivi cronologici, questa singolare iconografia non ha trovato finora spiegazione. 3? Dionysius Areopagita, Die Hierarchien der Engel und der Kirche, a cura di H. Ball e W. Tritsch, Miunchen-Planegg 1955, p. 122. 133 E. Carli, L'Arte nella Basilica di S. Francesco a Siena, Siena 1971, p. 16. 34 Ad esempio Salmi 79,1-2 e 99,1; Isaia 37,16; Daniele 3,55. A tale

riguardo occorre considerare che in tutto l'Occidente non c'è mai stata una netta distinzione tra cherubini e serafini (Real/lexikon zur Deutschen Kunstgeschichte, vol. m, coll. 431-432).

55 In questo affresco Caterina porta l'anello della promessa allo sposo celeste. La storia del fidanzamento con Gesù Cristo era già contenuta i nuce nella Passio. Nella Vulgata, la versione più diffusa della Passio, Caterina dice ad esempio all'imperatore: «Christus me sibi sponsam adoptavit. Ego me Christo sponsam indissociabili federe optavi. Ille gloria mea, ille generositas mea, ille amor meus, ille dulcedo et dilectio mea». H. Knust, op. cit. (vedi nota 75), p. 272; cfr. pp. 246, 289, 308, 311. La diffusione di una vera e propria storia della giovinezza della santa, la cosiddetta Converso, in cui que-

sta promessa di matrimonio è descritta minuziosamente, avvenne solo nel Trecento; cfr. tra gli altri A. Hilka, «Zur Katharinenlegende: Die Quelle der Jugendgeschichte», in: Archiv fiir das Studium der neueren Sprachen und Literaturen, cx, 1920, pp. 171-184. 36 H. Knust, op. cit. (vedi nota 75), p. 290 (cfr. pp. 272, 273). Jacopo da Varazze, op. cit. (vedi nota 68), p. 1210. G. B. Bronzini, op. cit.

(vedi nota 68), p. 381. 17 In tal modo anche il martirio di Caterina, assente nelle scene dalla sua leggenda sulla parete est, viene in un certo senso compreso nel programma iconografico di questa sala capitolare. La devozione medioevale attribuiva grande importanza al ricordo della passione e della morte di questa santa, a cui era collegata la promessa di un aiuto speciale. In risposta all'ultima preghiera di Caterina, una voce divina avrebbe infatti risposto: «Veni, dilecta mea, speciosa mea! Ecce, tibi celi ianua est aperta. Nam et hiis qui passionem tuam celebrauerint optata presidia promitto de celis». Jacopo da Varazze, op. cit. (vedi nota 68), p. 1211; cfr. H. Knust, op. cit. (vedi nota 75), pp. 309-311 e G. B. Bronzini, op. ci. (vedi nota 68), pp. 327, 340, 361, 382.

38 G. Rowley, op. cit. (vedi nota 131), p. 65. Chiara è caratterizzata dallo scapolare bianco e dal saio grigio, cinto da un cordone. 139 G, Kaftal, Iconography of the Saints in Tuscan Painting, Florence 1952 (Saints, 1), p. 718. E. Borsook, Ambrogio Lorenzetti, Firenze 1966, pp. 33-34. E. Carli, I Pittori Senesi, Milano 1971, p. 123.

395

PITTURA

- MEDIOEVO

40 R, Niccoli, op. cit. (vedi nota 1), p. 4, nota 4 (con questa inter-

pretazione iconografica il Niccoli si rifaceva a B. Berenson). Rona Goffen e Fabio Bisogni mi hanno gentilmente comunicato che anch’essi ritengono probabile tale identificazione. 41 Jacopo da Varazze, op. cit. (vedi nota 68), p. 49. 2 Dionysius Areopagita, op. cit. (vedi nota 132), pp. 122-123. 143 1, q. cvm, art. v. Cfr. Joannis Scoti versio operum S. Dionysti Areopagitae: Ibidem, pp. 485-488. Dopo il 1357 Giordano non accettò più la Regula Consensoria come opera di Agostino (pp. Lxxvi-Lxxvm). 174 Ibidem, pp. 491-493. 1 Ibidem, pp. 494-504. 176 R. Arbesmann, op. cit. (vedi nota 152), pp. 96-97. Secondo Enrico di Friemar Agostino avrebbe trascorso due anni presso gli eremiti toscani. 7 J. Hommey, op. cit. (vedi nota 165), p. 590. J. de Saxonia, op. cit. (vedi nota 106), pp. 23 ss. Giordano, più prudente a tale riguardo, non parlò tuttavia mai di una consegna della regola agli eremiti toscani. 178 R. Arbesmann, op. cit., 1963 (vedi nota 154), p. 95. 179 Mi attengo qui all'esposizione di R. Arbesmann, op. cit., 1963 (vedi nota 154), pp. 91-92. Per i principali elementi che contribuirono allo sviluppo di questa visione storica, come ad esempio la leg-

genda di Antonio l’Eremita che viveva sul «mons pisanus», nonché soprattutto per la comunità monastica dei «Fratres heremitae ordinis sancti Augustini de Tuscia» che, fondata nel 1241, prosperò con tale rapidità da possedere nel 1250 ben 61 insediamenti, ctr. Ibidem, pp. 97 ss. 180 R. Arbesmann, op. cit. (vedi nota 152), p. 109.

181 Ibidem, p. 108. Cfr. pp. 106-107: «[...] veritas est, quod principium originale fratrum eremitarum nostri ordinis ex sanctissimis pa-

tribus est deductum. Cuius ratio est, quia, licet status religionis communiter sit status perfectionis acquirendae, status tamen anachoritarum, sicut et ipsorum episcoporum, est status perfectionis acqui-

sitae. Quod patet per hoc, quod ille status non congruit cuilibet homini sed solum homini perfecto [...]». 82 Acta Sanctorum Februarii, vol. 1, p. 466: «Quotidie, etiam diebus festivis, jejunabat, et post protracta jejunia, modico et simplici cibo debilia membra refocillabat [...] aqua et pane vivebat, iis ad condimentum crudas herbas superaddens [...] Tantae abstinentiae virum, ministris ejus narrantibus, vix quispiam potuit invenire, etsi studeret orbis climata circuire». 183 J. de Saxonia, op. cit. (vedi nota 106), p. 418. 8 Kaftal, Sai1ts, 1, coll. 1031-1032; n, coll. 1155-1158. Lexikon der

Christlichen Ikonographie, a cura di E. Kirschbaum, vol. vm, coll. 607-612.

$ K. Elm, Beitrige zur Geschichte des Wilhelmitenordens, Koln Graz 1962, pp. 174 ss. 86 G. Kaftal, Iconography of the Saints in Central and Northern Italian Schools of Painting, Florence 1965, fig. 1347. i 87 K. Elm, op. cit. (vedi nota 185), pp. 114-115. 88 Ibidem, p. 189, nota 70. La celebrazione della festa di san Guglielmo quale «minora duplex» fu decisa dal capitolo generale I degli eremitani del 1291. indunque va Guglielmo san di one raffigurazi La 189 Ibidem, p. 188. tesa anche come una prova della ininterrotta continuità del movimento eremitico toscano: «Et sic illa sancta communio per beatum

Augustinum instituta et per cum semper [...] observata non omnino dirupta fuit et abolita, sed in aliquibus bonis patribus extitit conservata, donec novissimis temporibus illam dispersionem Deus digna]. tus est congregare, sicut olim dispersiones Israelis congregavit»; tentò eremitano L'ordine 45. p. 106), nota (vedi de Saxonia, op. cit. ovvero ancora nel Trecento di rispondere a entrambe le esigenze, nel ricevuto compito, nuovo al e eremitica alla propria tradizione cit. (vedi nota 1256, dell’apostolato nelle città; R. Arbesmann, op.

DI A. LORENZETTI

IN SANT’AGOSTINO

152), pp. 76-77, nota 156. Nel convento senese la personalità del priore generale ivi sepolto, il beato Agostino Novello che all’apice della carriera si era ritirato nell’eremo di San Leonardo al Lago, rimandava al primo aspetto (J. de Saxonia, op. cit., pp. 152-153). ” R. Niccoli, op. cit. (vedi nota 1), pp. 5, 7. Hayden B. J. Maginnis, «The Literature of Sienese Trecento Painting 1945-1975», in: Zeitschrift fiir Kunstgeschichte, x, 1977, pp. 290-292, 305-306.

2 G. Rowley, op. cit. (vedi nota 131), pp. 65-66. 12 S. M. Setti, «Il “Maestro di Sant'Agostino” e Ambrogio Lorenzetti», in: Commzentari, 1, 1950, pp. 207-210. 9 R. Oertel, Die Fribzett der italienischen Malerei, Stuttgart 19662, p. 165.

!% E. Borsook, op. cit. (vedi nota 123), p. 42, nota 58. ” P. Toesca, I/ Trecento, Torino 1951, p. 590.

% E. Carli, op. cit. (vedi nota 139), p. 123. !97 R, Niccoli, op. cit. (vedi nota 1), p. 8: verso il 1330. E. Carli, La

pittura senese, Milano 1955, p. 138: verso il 1340. P. Toesca, op. cit. (vedi nota 195), p. 590: «ultima fase dell’arte di Ambrogio». C. Volpe, «Ambrogio Lorenzetti e le congiunzioni fiorentine-senesi nel quarto decennio del Trecento», in: Paragore, n (n. 13), 1951, p. 48:

dopo il 1334. E. Borsook, op. cit. (vedi nota 139), p. 33: 1333-35. R. Oertel, op. cit. (vedi nota 193), p. 165: ultimo periodo dell’arte di Ambrogio. !98 L'iscrizione della tavola è riportata da E. Borsook, op. cit. (vedi nota 139), p. 26.

!99 L'iscrizione, andata perduta, è riportata da Bocchi Cinelli (Le bellezze della città di Firenze, Firenze 1677, p. 389). 200 L'ipotesi già diffusa della morte di Ambrogio nel periodo della peste del 1348 è stata di recente confermata dalla pubblicazione del testamento dell’artista (V. Wainwright, «The Will of Ambrogio Lorenzetti», in: Burlington Magazine, cxvu, 1975, pp. 543-544). 20! E. Borsook, op. cit. (vedi nota 139), p. 42, nota 58. 22 R, Niccoli, op. cit. (vedi nota 1), p. 5. La Madonna nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Roccalbegna (E. Borsook, op. cit. [vedi nota 139], tavola 75) dipende probabilmente dall’affresco in Sant'Agostino. 20 E, Skaug, «Notes on the chronology of Ambrogio Lorenzetti and a new painting from his shop», in: Mvzteilungen des Kunst historischen Institutes in Florenz, xx, 1976, pp. 301-332 (cfr. in particolare la tabella alle pp. 310-311 e la bibliografia a p. 308). P. Torriti, op. cit. (vedi nota 130), pp. 110 ss. 2 moia192; 25 E. Borsook, op. cit. (vedi nota 139), p. 32. 20 E, Carli, op. cit. (vedi nota 139), p. 123.

207 Sull’esatta datazione degli affreschi di Montesiepi non c'è finora consenso. Alla datazione precoce, motivata dal riferimento di Antonio Libanori (1645) a un altare a Montesiepi (oggi perduto) con l’iscrizione QUESTA TAVOLA, CON LA CAPPELLA FECE FARE RISTORO DA ServareLLA MCCCXXVI, € da un documento pubblicato di recente da A. Luchs («Ambrogio Lorenzetti at Montesiepi», in: Burlington Magazine, cxxx, 1977, pp. 187-188) su una permanenza di Ambrogio Lorenzetti a San Galgano nell'agosto 1334, se ne contrappone una

più tarda, che fa risalire l’inizio dei lavori di costruzione della cappella a dopo il 1340 (l’anno della donazione di Vanni di Messer Toso Salimbeni per una cappella «iuxta ecclesiam Sancti Galgani»). 208 R, Niccoli, op. cit. (vedi nota 1). 20 E, Borsook, op. cit. (vedi nota 123), pp. 26-27. 210 U. Procacci, «La pittura romanica», in: I/ rorzanico pistotese nei suoi rapporti con l’arte romanica dell'Occidente, atti del 1 congresso internazionale di studi medioevali di storia e d’arte (1964), Pistoia 1966, p. 363. The Great Age of Fresco: Giotto to Pontormo. An Exhibition of Mural Paintings and Monumental Drawings at the Metropolitan Museum of Art, 1968, pp. 50-53 (contenente anche una riproduzione della sinopia scoperta sotto la Crocifissione). M. Meiss, The Great Age of Fresco, London 1970, pp. 32-35. 211 M, Salmi, L'Abbazia di Pomposa, Milano 1966, p. 158 (ctr. le piante alle pp. 25, 70, 71). 2128. Orlandi, «La Chiesa di S. Domenico di Pistoia», in: Chiesa r0numentale di S. Domenico (supplemento alla Voce di S. Domenico per l'inaugurazione dei restauri), Pistoia, 16 ottobre 1932. 2 Foto Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Firenze, neg.

597

PITTURA

- MEDIOEVO

Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, 1x, 1960, pp.

20843. Saar)

SO Zgasaga, 9, Vl slee fin 208; 217 Anche la sala capitolare in San Francesco ad Assisi presenta un affresco con la Crocifissione (ai lati della croce qui troviamo: San Ludovico di Tolosa, San Paolo, la Madonna, San Francesco; Santa Chiara, San Giovanni, San Pietro, Sant'Antonio). Cfr. E. Zocca, Catalogo delle cose d'arte e di antichità d'Italia: Assisi, Roma 1936,

398

pp. 128-129. P. Scarpellini, «Di alcuni pittori giotteschi nella città e nel territorio di Assisi», in: Gyotto e i grotteschi in Assisi, Roma 1969,

pp. 211 ss. Devo il richiamo agli affreschi di Assisi alla dottoressa I. Hueck. 218 M. Aubert, op. cit. (vedi nota 27), vol. n, p.51. La «Commemoratio Fratrum, familiarium, propinquorum et benefactorum defunctorum Ordinis nostri» è espressamente citata nelle Consttutiones degli eremitani approvate nel 1290: I. Aramburu Cendoya, op. cit. (vedi

141-158. 246 Analecta Franciscana, 11, 1897, pp. 21, 593. 4 G. Golubovich, Biblioteca bio-bibliografica della Terra Santa e

dell'Oriente francescano, vol. n, Quaracchi 1913, pp. 282-283.

248 Analecta Franciscana, 11, 1897, pp. 17, 18. Il numero delle teste

nel dipinto di Taddeo Gaddi (fig. 70) potrebbe indurre a riconoscervi il Martirio di sette francescani. Poiché tuttavia l’aggiunta di sant'Antonio connota questa scena come raffigurazione del Martirio di Marrakech nel 1220, l’interpretazione più plausibile è che il pittore volesse mostrare sul margine inferiore del dipinto tutte le cinque teste venerate come reliquie. Il martirio di Marrakech ebbe un’importanza ben maggiore dell’esecuzione a Ceuta non soltanto nella biografia di Antonio, ma anche,

219 O. Lehmann Brockhaus, op. cit. (vedi nota 33), p. 476, n. 2275. Il dipinto citato in questo passo raffigurava Richerius 1, abate di Montecassino dal 1038 al 1055 (P. Guillaume, Description historique

più in generale, nella storiografia francescana del Trecento (si confronti la grande disparità di spazio che la Chronica xXIV Generalium Ordinis Minorum dedica alla descrizione di questi due eventi). Per la missione francescana in Marocco il martirio di Marrakech rivestiva un’importanza speciale. Il centro della comunità cristiana, la chiesa di Santa Maria a Marrakech, si dice sia stato edificato nel luogo in cui nel 1220 furono uccisi i cinque francescani. Il 17 marzo 1226

et artistique du Mont-Cassin, Montecassino 1874, p. 273). La sepoltura nelle sale capitolari era spesso riservata agli abati.

il sultano acconsentì, in memoria dei cinque protomartiri, alla costruzione di cinque chiese cristiane nel suo regno; G. Golubovich,

221 B. Gonzati, La Basilica di S. Antonio di Padova, vol. 1, Padova

op. cit. (vedi nota 247), p. 559. 249 PL xt, col. 1254. Cit. da J. de Saxonia, op. cit. (vedi nota 106), p.

nota 49), p. 36.

220 Cfr. pp. 355-356. 1852, p.xx.

149.

2° G. Previtali, Giotto e la sua bottega, Milano 1974?, p. 365. 2 2 B. Gonzati, op. cit. (vedi nota 221), p. 265. P. Cortese, «Gli affreschi di Giotto nella Sala del Capitolo del Convento del Santo in 1937, pp. 413-417

250 La figura della Madonna all’interno di un ciclo di affreschi in una sala capitolare si trova già alla fine del Duecento nel monastero benedettino di Montelabate presso Perugia (E. Ricci, La Chiesa di San Prospero e i pittori del Duecento in Perugia, Perugia 1929, pp. 67 ss;

(tomba di Cesare Riario; interessante parallelismo con la trasformazione del capitolo in Sant'Agostino a Siena). N. de Claricini,

M. Boskovits, Pittura umbra e marchigiana fra Medioevo e Rinascimento, Firenze 1973, p. 10, tavole 22-23).

2

Padova», in: Miscellanea Francescana,

xxxvn,

Ricerche sugli affreschi di Giotto nel Capitolo del Santo, Milano s. d.

224 Messa in luce della scena della Decapitazione dei missionari francescani (fig. 63). 25 Messa in luce degli affreschi sulle pareti sud e nord (figg. 55-60, 64-67) e della scena delle Stirzzate di San Francesco (fig. 61) per opera dei fratelli Gonzati. 226 Ritrovamento dei due frammenti della Croc:fissiore sulla parete

est (fig. 62). i 227 B. Gonzati, op. cit. (vedi nota 221), p. 265. 228 Salmi, 21, 17-18. Davide, il profeta più importante della Passione, è il più vicino alla Crocifissione (cfr. Salmi, 21, 2: «Deus, Deus meus [...] quare me dereliquisti?»; Sa/72, 21, 19: «Diviserunt sibi vestimenta mea et super vestem meam miserunt sortem»). 22 lma 5, Di 230 Daniele, 9, 26. 21 Giovanni, 1, 29.

22 Questa frase è da collegarsi con il verso 14: «Mihi autem absit gloriari, nisi in cruce Domini nostri Iesu Christi, per quem mihi mundus crucifixus est, et ego mundo». 23 Giobbe, 14, 10.

24 B. Gonzati, op. cit. (vedi nota 221), p. 267. 25 Ecclesiaste, 38, 23. 236 Giobbe, 14, 2. 237 Giobbe, 14, 11. 28 L. Pressouyre, op. cit. (vedi nota 101), pp. 78 ss., figg. 13 ss.

29 Annales archéologiques, xxv1, 1870, p. 398.

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2 Agostino, Serzzo 84 “De verbis Evangelti Matthaci: Si vis venire ad

vitam, serva mandata”: «Vita beata esse non potest, nisi aeterna» (PL

xxxvui, col. 520). 2! G. Previtali, op. cit. (vedi nota 222), p. 365. 2 B. Gonzati, op. cit. (vedi nota 221), p. 269. 25. Chronica xxrv Generalium Ordinis Minorum, in: Franciscana, m, 1897, p. 22: «Istorum autem Sanctorum beatus Antonius, tunc canonicus in eodem monasterio Crucis, qui Fernandus Martini vocabatur, zelo martyrii

Aralecta exemplo sanctae flagrans

Ordinem fratrum Minorum intravit, aetatis suae anno xxv [...]».

24 G. Marchini, Le Vetrate dell'Umbria (Corpus Vitrearum Medii Aevi), Roma 1973, pp. 108-109. 25 L. Marcucci, «Per gli “armarj” della sacrestia di Santa Croce», in:

UN CAPOLAVORO RIEMERSO DI AMBROGIO LORENZETTI A proposito dei restauri nel convento di San Francesco a Siena

Confrontando la descrizione delle opere di Ambrogio

cate a m 1,85 di altezza sopra l’attuale pavimento. Ulterio-

Lorenzetti redatta dal Ghiberti intorno alla metà del Quat-

ri danni derivarono agli affreschi dalle grappe di ferro in-

trocento' con più recenti cataloghi del suo corpus? balza agli occhi come, a eccezione degli affreschi nella Sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena, non ci sia giunto di questo artista nessuno di quei dipinti murali che, nella me-

serite diagonalmente nel muro in epoca successiva. Sulla base dei resti della incorniciatura dipinta di una trave nell'angolo superiore sinistro del frammento più esteso (tavola Lxm), si può ricostruire un tetto a capriate lignee. Pur ignorando l’esatto rapporto proporzionale fra la zoccolatura e la superficie dipinta, è possibile ricostruire, data l'altezza della parete originale di circa m 6,3, una scena di almeno m 4 di altezza. Nel frammento più esteso (fig. 1, tavola Lx), che misura m 1,68 x 3,60, si è pertanto conservato oltre un terzo della scena.!# Se prendiamo alla lettera l’affermazione del Ghiberti che l’opera di Ambrogio occupava l’intera parete di questo lato del chiostro lungo m 34 («una storia la quale è grandissima [...], tiene tutta la parete d’uno chiostro»), la larghezza dei due frammenti rinvenuti (m 5,42) corrisponderebbe appena a un sesto dell'estensione complessiva del ciclo. In questa ricostru-

desima città, erano tanto celebri nel Rinascimento (affre-

schi nella sala capitolare di Sant'Agostino, quelli sulla facciata di Santa Maria della Scala prospiciente il Duomo,

opere documentate di Ambrogio e Pietro Lorenzetti, e ancora quelli sulla facciata di San Pietro in Castelvecchio citati nel primo Cinquecento da Sigismondo Tizio). Soprattutto mancava fino a oggi qualunque traccia degli affreschi nel chiostro di San Francesco elogiati dal Vasari! come capolavori di Ambrogio, e definiti dal Ghiberti «marauiglosa cosa», «grandissima et egregiamente fatta»,° la cui descrizione occupa oltre metà della Vita dell'artista nei Cormentarti. L'ultima descrizione degli affreschi, danneggiati già durante la ristrutturazione del chiostro nel 1517 risaletal'17308 Nel 1976, nel corso dei restauri del convento di San Francesco (fig. 4) recentemente trasformato in sede della facoltà di Giurisprudenza, nel chiostro furono scoperti (fig. 6) due frammenti appartenenti al ciclo pittorico descritto da Ghiberti e Vasari (figg. 1, 3, tavola 1xm). Un caso fortunato ha lasciato intatta proprio quella parte degli affreschi cui i pionieri della storiografia dell’arte avevano prestato più attenzione. Ghiberti? e Vasari! esaltavano l’eccellente rappresentazione di un temporale nella penultima scena. E anche in seguito Ambrogio Lorenzetti sarebbe stato celebrato come il primo pittore capace di raffigurare in modo persuasivo una pioggia battente accompagnata da vento, grandine e fulmini. Karel van Mander scrive ad esempio nelle poche righe dedicate a questo maestro: «Hy was d’eerste die tempeest en reghen en derghelijcke dinghen wist uyt te beelden».!!

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Il luogo in cui i due frammenti di affresco sono stati scoperti (figg. 1, 3, tavola Lx), nella settima e ottava campata del lato est del chiostro che collega la chiesa con la sala capitolare (figg. 4-6), corrisponde alle indicazioni del cronista Sigismondo Tizio (+ 1528): «Horum autem

Martirium hystoria Sene in priore divi Francisci claustro

optime depicta est olim sinixtro in pariete ab ecclesia prodeuntibus capitulum versus».!? L'attuale delimitazione di questi frammenti corre lungo gli archi delle volte inserite

nel 1517. La parte inferiore degli affreschi venne distrutta con l’apertura di finestre rettangolari (m 1,9 x 1,5) collo-

zione occorre tuttavia considerare che l’area della parete nella terza campata è interrotta dal portale Petroni, eretto nel 1336 e largo m 3,70 (fig. 4).!° Anche per motivi iconografici!” è legittimo supporre che il ciclo pittorico cominciasse solo all'altezza di questo portale e pertanto fosse lungo solo m 21 circa. Nel tentare una lettura iconografica delle scene di cui facevano parte i due frammenti (figg. 1, 3, tavola bam), occorre partire dalle seguenti considerazioni: 1. Il frammento minore (fig. 3) faceva parte dell'ultima scena. È impossibile che gli affreschi proseguissero sulla

parete contigua, essendo questa interrotta per l’intera sua altezza dalle finestre e dal portale della sala capitolare che non lasciavano spazio ad affreschi (figg. 4, 5). 2. Nella veduta della città nel frammento più esteso balza agli occhi la raffigurazione della pioggia, rara a trovarsi negli affreschi medioevali. Un’atmosfera temporalesca incombe anche sul porto che si vede a sinistra sotto la città (fig. 1, tavola 1xm), nel quale a una più attenta osservazio-

ne si riconosce una nave semiaffondata in balia delle onde sferzate dalla burrasca. Il mare spumeggiante si frange in alti spruzzi contro la costa rocciosa sopra la quale si erge la città. 3. Nettamente distinta dalla città è la rocca che si vede sulla destra oltre l’acqua, sul cui fronte si apre un portone semicircolare. Sopra il porto cinto dalle rocce sorge una casa merlata e affiancata da una torre quadrangolare, accanto alla quale, sul terreno che declina ripido fino al mare, sorge un altro edificio. 4. Il frammento più esteso (tavola Lxm) è diviso in cinque “giornate” (fig. 2).!8 La “giornata” più estesa, pressoché intatta, comprende la raffigurazione della città, del porto e della collina in primo piano. Altre due “giornate” delimi-

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1. Ambrogio Lorenzetti, La città di Thanah in India, affresco, Siena, chiostro di San Francesco

tano la cornice e la rocca. Lungo i limiti delle due “giornate” inferiori lo strato di pittura, non sufficientemente legato con l’intonaco, è caduto. Nella “giornata” in basso a sinistra in origine continuava il paesaggio collinare. Alcuni residui di pittura e il singolare contorno della “giornata” in basso a destra possono fornirci informazioni su quanto vi fosse raffigurato. I toni del rosa e dell’azzurro indicano i colori del volto e del mantello di figure di cui si scorge il contorno della testa nella zona di confine della “giornata” sotto la rocca. Di difficile interpretazione appare per il momento il limite stranamente regolare, arcuato, della “giornata” sotto la città, al di sopra del quale è visibile un certo numero di punti di colore bianco appartenenti all’affresco originale.!?

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Punto di partenza per la ricostruzione e la lettura del ciclo pittorico nel chiostro di San Francesco sono le descrizioni

di Lorenzo Ghiberti?” e di Sigismondo Tizio! Le altre fonti, tra cui l'anonimo magliabechiano?? e il Vasari, si basano sulla descrizione del Ghiberti. A giudicare dall’esposizione del Vasari, dobbiamo presumere che egli non avesse mai visto gli affreschi in San Francesco.® Il passo corrispondente nei Comzzentarii è di importanza talmente fon-

damentale da meritare di essere citato per intero: Ebbe nella città di Siena excellentissimi et docti maestri, fra i quali ui fu Ambruogio Lorencetti, fu famosissimo et singolarissimo maestro, fece moltissime opere. Fu nobilissimo componitore, fra.lle quali opere è ne’ frati minori una storia la quale è grandissima et egregiamente fatta, tiene tutta la pariete d’uno chiostro, come uno giouane deliberò essere frate. Come el detto giouane si fa frate e il loro maggiore il ueste et come esso fatto frate con altri frati dal maggior loro con grandissimo feruore addimandano licentia di passare in Asia per predicare a’ Sarrayni la fede de’ Christiani et come e detti frati si partono et uanno al Soldano, come essi furon presi et menati innangi al Soldano, di subito comandò essi fussono legati a una colonna et fosseno battuti con uerghe. Subito essi furon legati et due cominciarono a battere e detti frati. Iui è dipinto come due gl’hanno battuti et colle uerghe in mano et scambiati altri due essi si riposano co’ capelli molli, gocciolanti di sudore et con tanta ansietà et con tanto affanno, pare una marauigla a uedere l’arte del maestro, ancora è tutto el popolo a uedere cogl’occhi adosso agli ignudi frati. Eui il Soldano a.ssedere al modo moresco et con uariate portature et con diuersi abiti, pare uedere essi essere certamente uiui et

come esso Soldano dà la sententia essi siano inpiccati a uno albero. Fui dipinto come essi ne inpiccano uno a uno albero. manifestamente tutto el popolo che c’è a uedere sente parlare et predicare el frate inpiccato all’albero. Come comanda al

giustitiere essi siano dicapitati. Euui come essi frati sono dica-

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CAPOLAVORO

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2. Ambrogio Lorenzetti, La città di Thanah in India, in evidenza i limiti delle “giornate”, Stena, chiostro di San Francesco

3. Ambrogio Lorenzetti, frammento di affresco, Siena, chiostro di San Francesco

pitati con grandissima turba a uedere a cauallo e a piede. Eui lo executore della giustitia con moltissima gente armata, èvi huomini et femine, et dicapitati e detti frati si muove una turbatione di tempo scuro con molta grandine saette tuoni tremuoti, pare a uederla dipinta pericoli el cielo e.lla terra, pare tutti cerchino di ricoprirsi con grande tremore, uenghossi gli huomini et le donne arrouersciarsi e panni in capo e gli armati porsi in capo e paluesi, essere la grandinata folta in su e paluesi, pare ueramente che.lla grandine balgi in su e paluesi con uenti marauiglosi. Vedesi piegare gli alberi insino in terra et quale specgarsi et ciascheduno pare che fugga, ognuno si uede fuggente. Vedesi el giustitiere cadergli sotto el cauallo et ucciderlo, per questo si battegcò moltissima gente. Per una storia picta mi pare una marauiglosa cosa.

Colpisce il fatto che il Ghiberti, nonostante l'ampiezza

della sua descrizione, non citi nomi di persone o di luoghi. Inoltre mancano indicazioni sulla delimitazione delle singole scene, cosicché il suo resoconto si legge come l’esposizione di una sequenza ininterrotta.? La stessa concentrazione sugli aspetti artistici, la stessa riproduzione preci-

sa di quanto raffigurato senza indicazioni iconografiche, caratterizzano anche altre celebri descrizioni nei Commentarii, come ad esempio quelle della corniola incasto-

nata dallo stesso Ghiberti? o di sculture antiche nel terzo libro.” Il frammento di affresco più esteso (fig. 1, tavola Lxm) si può identificare sulla base della descrizione del Ghiberti come parte della scena del temporale. Il confine arcuato della “giornata” sottostante la raffigurazione della città indica il contorno di uno scudo sollevato da un personaggio

PITTURA

- MEDIOEVO

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riprodotto nella tavola Lx, B affresco riprodotto nella fig. 3, C finestre della sala capitolare, D ingresso alla sala capitolare, E sala capitolare, F portale Petroni, G ingresso alla chiesa)

5. Siena, San Francesco, pianta e prospetto della parete est del primo chiostro (A affresco riprodotto nella tavola Lxm, B affresco riprodotto nella fig. 3, C finestre della sala capitolare, D ingresso alla sala capitolare)

per proteggersi dalla grandine, sul quale si abbattono, ancora ben visibili, i chicchi («[...] gli armati porsi in capo e paluesi, essere la grandine folta in su e paluesi, pare ueramente che’Ila grandine balgi in su paluesi [...]»).28 Stando al

denone,? il quale aveva traslato le reliquie a Zaiton. Alcune delle fonti più importanti sono state raccolte da un contemporaneo nella Passio sanctorum fratrum Minorum Thomae de Tolentino, Iacobi de Padua, Petri de Senis,

testo ghibertiano, l'architettura nel frammento minore (fig.

Demetrii (ex epistolis fratrum Iordani et Francisci Praedi-

3) incorniciava la scena della caduta mortale del saraceno. La concisa menzione di questo ciclo pittorico da parte di Sigismondo Tizio integra il citato passo dei Comzzentarii, in quanto il cronista senese, oltre a una più precisa indicazione dei luoghi, ha registrato anche l’iscrizione contenente il nome del martire:

catorum, Odorici, Petri, Iacobi, Hugolini Minorum compi-

4. Siena, San Francesco, planimetria del convento (A affresco

Protege Petre Senas, o martir prime Senensis Semper ab offensis protege Petre Senas.?®

L'esattezza della trascrizione è confermata dalla concordanza con quanto riferito da Giovanni Pecci nella Raccolta universale di tutte l'iscrizioni [...] esistenti in diversi luoghi pubblici [...] di Siena® Il francescano Pietro da Siena subì il martirio l'11 aprile 1321 a Thanah, l'odierna Bombay! Le più importanti cronache su Pietro furono redatte dal compagno del martire, il domenicano Giordano Catalani,’ e da Oderico da Por-

lata)* Un breve compendio degli eventi di Thanah ci è fornito da una lettera scritta a Caffa (Crimea) il 15 maggio 1323 e indirizzata al capitolo generale dei francescani Due testi scritti dopo il completamento degli affreschi nel chiostro di San Francesco (la Chronica xxIV Generalium Ordinis Minorum?$ redatta in larga parte prima del 1369 e uno scritto di Bartolomeo da Pisa della seconda metà del Trecento?) ci forniscono notizie che dovevano essere con-

tenute anche nel resoconto noto ad Ambrogio Lorenzetti

e al suoi committenti.

Dalla lettura di questi scritti si evince che nel comporre gli affreschi in San Francesco (figg. 1, 3, tavola rxrn) Ambrogio Lorenzetti si attenne fedelmente a una testimonianza scritta. Ciascuna delle scene descritte dal Ghiberti può essere spiegata fin nei minimi dettagli attraverso queste fonti. In tutti i testi si trova ad esempio la scena in cui Pietro da Siena impiccato annuncia persino dalla forca il Vangelo

UN

CAPOLAVORO

RIEMERSO

DI AMBROGIO

LORENZETTI

6. Siena, San Francesco, primo chiostro e fronte della sala capitolare

ai miscredenti.? Gli sgherri che nelle parole del Ghiberti, «co’ capelli molli, gocciolanti di sudore et con tanta ansie-

del sito perfettamente corrispondente all’affresco di Ambrogio. La città di Thanah era circondata dal mare «in mo-

tà et con tanto affanno», sono costretti a riposarsi, svolgo-

dum insulae».* Sulla terraferma, non lontano dalla città, sorgeva la rocca dove i francescani avevano trascorso la notte precedente il martirio e davanti alla quale avevano subito la morte. Durante il temporale la nave di Pietro e dei suoi compagni di viaggio era affondata nel porto, considerato particolarmente sicuro.4# Secondo la Passio? la caduta del saraceno corresponsabile della morte di Pietro era

no anche in queste fonti un ruolo di testimoni dell’incrollabile fede di Pietro, al quale neppure giorni e giorni di fustigazioni riuscirono a estorcere il ripudio della fede cristiana.?? Queste fonti ci aiutano soprattutto nell’interpretazione del frammento più esteso (tavola 1xm). Tutti i testi fin qui citati contengono una descrizione del temporale scoppiato dopo il martirio che, accompagnato da fulmini e grandine, aveva suscitato grande spavento. Prima che cominciasse a

piovere era stata notata una luce meravigliosamente chiara; ciò spiega forse perché la città è qui posta in piena luce: «[...] tot et tanta fulgura et tonitrua, innundatio pluviarum et horribilium tempestatum fuerunt in illa terra, ut nunguam similia fuerant ibi audita sive visa» (Serzes sacri martirii, da un resoconto di Giordano Catalani);!° «in ipsa autem hora mox ut Christi Martyres fuerunt occisi, in tantum luna resplenduit et claritatem tantam dedit, ut omnibus esset in prodigium et stuporem. Et subito tanta tonitrua, coruscationes, grandines et fulgura evenerunt, ut nunguam similia ibi fuerint visa et pene omnes mori se aestimarent» (Passi0).4! I testi forniscono una descrizione

avvenuta nella città. L'architettura visibile nel frammento minore (fig. 3) doveva dunque far parte della raffigurazione di una piazza o di una strada di Thanah. Stando all'iscrizione riportata da Tizio e dal Pecci, il ciclo pittorico nel chiostro di San Francesco a Siena doveva commemorare

il «martir primus senensis». Nella scelta

delle scene da rappresentare si dovette pertanto effettuare una modifica rispetto agli scritti citati, in quanto tali cronache ponevano in risalto soprattutto il capo del gruppo di missionari, il beato Tommaso da Tolentino, e il sacerdote Iacopo da Padova, distintosi per la prova del fuoco (vistosamente assente a Siena), mentre Pietro da Siena, che non fu presente ai primi interrogatori e subì il martirio solo due giorni dopo i suoi confratelli, in questi testi aveva un ruolo secondario.

PITTURA

- MEDIOEVO

complessivo per entrambe le opere. I dipinti murali del chiostro erano in relazione con il programma iconografico della sala capitolare? Anche sotto questo aspetto i risultati dei recenti restauri nella sala capitolare rivelano elementi di notevole interesse.6 Tre affreschi erano stati trasferiti già nel 1857 nelle cappelle del coro di San Francesco: la Crocifissione e le due scene del Martirio dei missionari francescani e di San Ludovico da Tolosa in ginocchio davanti a papa Bonifacio vi?

404

Nella seconda metà dell'Ottocento inoltre, alcuni fram-

7. Bottega di Ambrogio Lorenzetti, frammento di affresco. In origine sala capitolare di San Francesco. Siena, deposito della Pinacoteca

UE

Da quando nel 1855 Gaetano Milanesi annunciò la scoperta di dipinti murali nella sala capitolare di San Francesco (fig. 4, E)?” si è sostenuto più volte che tali ope-

re coincidessero con gli affreschi descritti dal Ghiberti. Pietro Toesca in particolare indicava evidenti parallelismi iconografici (anche nel capitolo fu scoperta una raffigurazione, oggi conservata in una cappella del coro di San Francesco, di un martirio di missionari francescani), fa-

cendo notare come il Ghiberti e il Vasari conoscessero 7 solo ciclo pittorico del Lorenzetti in San Francesco. Il Ghiberti si era forse sbagliato nell’indicarne l'ubicazione? D'altronde saltava agli occhi che la descrizione del Ghiberti differiva in alcuni punti essenziali dall’affresco nella sala capitolare?! E non solo il Ghiberti, ma anche Sigismondo Tizio? e Giovanni Pecci,” il cui giudizio (diversamente da quello del Vasari e dell’autore del codice magliabechiano) era basato sulla conoscenza diretta dell’ori-

ginale, avevano menzionato affreschi nel chiostro. Dipinti murali di Ambrogio Lorenzetti nella sala del capitolo di San Francesco sono noti agli eruditi senesi al più tardi dalla prima metà del Seicento. Con i recenti ritrovamen-

ti (fig. 3, tavola Lx) la questione dovrebbe essersi dunque risolta: nel convento di San Francesco a Siena esistevano due cicli pittorici dei Lorenzetti.

Data la parziale coincidenza iconografica dei due cicli pittorici, sorge la domanda se non vi fosse un programma

menti di affreschi passarono dal convento alla National Gallery di Londra.* Si sapeva che nella sala capitolare erano rimasti altri dipinti murali, il cui stato di conservazione non consentiva tuttavia una lettura sufficientemente accurata.?? Dopo i recenti restauri, la da sempre postulata attribuzione dell’imponente Cristo risorto (fig. 9) a Pietro Lorenzetti appare ancora più plausibile. Nel volto (fig. 8) è evidente la cattiva conservazione dei dettagli,°! ma è stupefacente quanto esso abbia comunque mantenuto la sua forza espressiva. Più difficile è l’attribuzione del Re, ottimamente conservato, che fa parte di una porzione di cornice di m 1,33 x 0,93 staccata dal centro della parete est della sala capitolare (fig. 7). La composizione ricorda la figura di Giove nella cornice superiore del Cattivo Governo di Palazzo Pubblico. La tecnica pittorica miniaturistica rimanda a un valente collaboratore di Ambrogio Lorenzetti. Una particolarità nella planimetria del convento di San Francesco (fig. 4) permette di ricomporre idealmente questo interessante programma pittorico: la sala capitolare non è situata come di consueto sul lato del chiostro adiacente la chiesa, bensì sul lato meridionale. Il tratto relativamente lungo fra la chiesa e la sala capitolare serviva per preparare l’osservatore al ricco programma iconografico svolto nella sala capitolare. La processione dei frati, varcando il portale sul lato sud della navata di San Francesco (fig. 4, G) e procedendo verso il capitolo posto nel chiostro, incontrava innanzi tutto il portale Petroni completato nel 1336 (fig. 4, F) e raffigurante nella lunetta Pietro da Siena difronte a San Francesco, primo accenno all’invito all’attività missionaria formulato dal fondatore dell’ordine.® Immediatamente dopo, i frati scorgevano la raffigurazione del martirio di Thanah, che ornava il resto della parete su quel lato del chiostro. Già prima di entrare nella sala capitolare (fig. 4, E), l'ampia finestra (oggi murata) situata in fondo al chiostro svelava alla vista la scena del Martirio dei missionari francescani raffigurata nella sala, che appariva

come un proseguimento del programma pittorico del chiostro. Dai purtroppo laconici accenni di Milanesi sulla collocazione delle scene® si può evincere che la Crocifissione e il Cristo risorto (fig. 9) si trovassero sulla parete di fondo, il Martirio dei francescani e la scena di San Ludovico in ginocchio davanti al Papa sulla parete corta orientale.” Crocifissione e Martirio dei missionari francescani erano già

stati posti in relazione nel programma pittorico della sala capitolare nella basilica del Santo a Padova. La rappre-

sentazione della Resurrezione (fig. 9) rimanda ai dipinti del Cappellone degli Spagnoli in Santa Maria Novella a Firenze, anch'esso adibito prima del Cinquecento a capitolo di quella comunità di frati domenicani.

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8. Pietro Lorenzetti, Cristo risorto, affresco. In origine sala capitolare di San Francesco. Siena, Museo dell'Opera del Duomo

Con l'eccezione dei dipinti nel Palazzo Pubblico di Siena, gli affreschi conservati di Ambrogio Lorenzetti non sono datati. Considerando i frammenti finora rinvenuti (figg. 1, 3, tavola Lx), la data del 1340 attribuita da Fabio Chigi agli affreschi nel chiostro di San Francesco appare degna di considerazione. L’anno 1331, che ricorre spesso nella letteratura storico-artistica e talvolta viene anche messo in relazione con le opere nel capitolo di San Francesco, si basa su un errore interpretativo commesso per primo da Guglielmo della Valle.?® In realtà Tizio non scrive mai che gli affreschi con la storia di Pietro siano del 1331; sotto questa data il cronista senese riporta unicamente la morte

di Odorico da Pordenone, che aveva descritto il martirio a Thanah .”!

Il compito affidato ad Ambrogio Lorenzetti dai francescani senesi appare unico nell’arte del tardo Medioevo. Il pittore era infatti un contemporaneo dell'evento che doveva raffigurare e probabilmente conosceva addirittura di persona il concittadino alla cui biografia avrebbe conferito per la prima volta forma iconografica. Ad Ambrogio si richiedeva di descrivere una contrada esotica mai vista con una precisione tale da rendere riconoscibile la situazione geografica, nota dai resoconti che giungevano dall'India, della città di Thanah circondata dal mare, della rocca si-

tuata sulla terraferma in una zona ricca di vegetazione e del

porto considerato particolarmente sicuro. Per un artista

del Trecento il problema più arduo doveva consistere nella

9. Pietro Lorenzetti, Cristo risorto, affresco. In origine sala capitolare

di San Francesco. Siena, Museo dell'Opera del Duomo

rappresentazione, senza precedenti cui rifarsi, di uno spet-

tacolo della natura con prodigiosi fenomeni luminosi e il terrore di una tempesta in grado di mettere in fuga persino gli sgherri del boia. Lo stato frammentario in cui ci è giunto l’affresco nel chiostro di San Francesco (fig. 1, tavola rx) rende difficile giudicare se e fino a che punto Ambrogio abbia assolto in modo soddisfacente tale arduo compito. Dalla descrizione del Ghiberti sappiamo che la violenza del temporale si percepiva soprattutto nei movimenti di riflesso delle numerose figure, andate perdute. Ma la scelta dei committenti fu felice, in quanto Ambrogio si rivelò anche in altre opere uno dei primi pittori in grado di raffigurare simili fenomeni meteorologici. La scena dell'inverno nel Palazzo Pubblico di Siena”? ci trasmette con i suoi rapidi tocchi di pennello una vivida impressione del cadere della neve. La superficie pittorica, in particolare i ritocchi applicati “a secco”, è troppo mal conservata negli affreschi del chiostro (tavola Lx)

per potervi riconoscere il ductus pittorico.

PITTURA

406

- MEDIOEVO

Occorre integrare l’effetto delle linee diagonali parallele della pioggia scrosciante con i chicchi di grandine, oggi quasi del tutto sbiaditi. L'atmosfera esotica si manifestava, come nell’affresco di Ambrogio per la sala capitolare”? nei costumi e nei volti degli spettatori e degli sgherri, mentre l’immagine della città corrisponde alle convenzioni della pittura senese nel secondo quarto del Trecento.” In considerazione delle vaste superfici murali non ancora esaminate sul lato est del primo chiostro di San Francesco a Siena (fig. 4), è lecito sperare nel ritrovamento di altri frammenti degli affreschi di Ambrogio.

! Vedi nota 1, p. 40. 6 Il portale è riprodotto in E. Carli, L'Arte nella Basilica di S. Francesco a Siena, Siena 1971, fig. 45. Altre misure relative a questa parete del chiostro: altezza della parete fino alla lastra di copertura dei capitelli: m 3,75; altezza dei timpani degli archi dalla lastra di copertura dei capitelli: m 2,20; luce dei timpani degli archi: m 4. In merito alla pianta riprodotta nella fig. 4 occorre considerare che sono indicati soltanto gli edifici oggi appartenenti alla facoltà di Giurisprudenza. Mancano pertanto i muri perimetrali della chiesa e della cappella situata dietro il portale Petroni. Nell’ala orientale del chiostro non sono indicate le finestre che si aprono verso la chiesa (la porta a destra del portale Petroni oggi è murata). Sulla pianta non compare neppure il terzo chiostro sul lato occidentale, oggi annesso alla caserma dei Carabinieri. 7 Cfr. la descrizione dell’iconografia del portale Petroni a p. 123. 8 L’evidenziazione dei limiti delle “giornate” nella fig. 2 è avvenuta su indicazione del professor L. Tintori. Dall’affresco staccato tali li-

Pubblicazione originale: M. Seidel, «Wiedergefundene Fragmente eines Hauptwerks von Ambrogio Lorenzetti», in: Pantheon, xoavi,

miti non si evincono sempre con certezza; i limiti ricostruiti in via

1978, pp. 119-127.

Per l’autorizzazione a pubblicare per primo questo ritrovamento ringrazio il professor Torriti (Soprintendente alle Gallerie di Siena) e l'ingegnere Pin (Ufficio tecnico dell’Università di Siena). Su questi temi cfr. anche: M. Seidel, «Gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Chiostro di San Francesco a Siena — Ricostruzione e datazione», in: Prospettiva, n. 18, 1979, pp. 10-20; Id., in: Catalogo della Mostra di Opere d'Arte restaurate nelle Provincie di Siena e Grosseto, pp. 49-60, 152-159 (in particolare pp. 58-60).

! JT. v. Schlosser, Lorenzo Ghibertis Denkwiirdigkeiten

(I Com-

ipotetica sono indicati con linee tratteggiate. !9 Questi punti di colore bianco non devono essere confusi con le numerose macchie diffuse su tutta la superficie dell’affresco, dovute alla scalpellatura effettuata nel primo Settecento in previsione della nuova intonacatura. 20 Vedi nota 1. 2! Vedi nota 12. 2 C. Frey, Il Codice Magliabechiano cl. xvIi. 17, Berlin 1892, p. 83. 8 Vedi nota 4, pp. 179-180. Come si dimostrerà qui di seguito sulla base delle fonti, in San Francesco era raffigurata l’impiccagione di un solo francescano. La descrizione del Ghiberti è esatta anche sotto questo aspetto, ma la formulazione può dare adito a qualche malinteso (p. 40): «[...] et come esso Soldano dà la sententia essi siano inpiccati a uno albero. Evi dipinto come essi ne inpiccano 470 a uno

mentari), vol. 1, Berlin 1912, pp. 40-42. ? E. Borsook, Ambrogio Lorenzetti, Firenze 1966.

? G. Rowley, Ambrogio Lorenzetti, Princeton 1958, p. 135. 4 G. Vasari, Le Vite, a cura di R. Bettarini e P. Barocchi (Vasari-Barocchi), vol. n, Firenze 1967, pp. 179-180.

? Vedi nota 1, p. 41. 6 Vedi nota 1, p. 40. ? V. Lusini, Storia della Basilica in S. Francesco in Siena, Siena 1894, p. 144. 8 G. Pecci, Raccolta universale di tutte l'iscrizioni [...] esistenti in di-

albero, manifestamente tutto el popolo che v'è a vedere sente parlare et predicare el frate inpiccato all'albero». Il Vasari interpretò erroneamente (p. 179): «[...] dove è figurato in che maniera un giova-

ne si fa frate et in che modo egli et alcuni altri vanno al Soldano, e quivi soro battuti e sentenziati alle forche et d7piccati a un albero e finalmente decapitati [...]». Il testo del Vasari si legge come uno scialbo riassunto del resoconto del Ghiberti, ricco di osservazioni precise. A proposito della conoscenza che il Vasari aveva dell’arte senese, J. v. Schlosser scrive (v. nota 1, vol. 11, p. 141): «[...] Vasari è

versi luoghi pubblici [...] di Siena (1730). Archivio di Stato di Siena, Manoscritti, D. 4, vol. m, fol. 26v: «Si vedeva in detto claustro un'antica Pittura, alla quale scioccamente poch’anni or sono fu dato

particolarmente male informato sull’arte senese antica; un suo soggiorno a Siena è attestato solo in un'epoca talmente precoce (il 1530, quando Vasari aveva 19 anni) da non poter essere preso in conside-

di bianco, lavorata a fresco da Ambrogio di Lorenzo da Siena, con-

razione per i suoi studi. Nel 1560 vi aveva trascorso una sola giornata, in compagnia del cardinale Giovanni de’ Medici». 24 Vedi nota 1. 2 A. L. Rowley (op. cit. [vedi nota 3], pp. 79-85) ha erroneamente dedotto da questa descrizione che il ciclo non fosse suddiviso in singoli scomparti. Su entrambi i frammenti di affresco (tavola am, figg. 1,3) si notano invece elementi verticali di cornice. 2% Vedi nota 24, pp. 76-77. 2? Vedi nota 1, pp. 61-63. 28 Vedi nota 1, p. 41. 29 Vedi nota 12, fol. 84v. 30 Vedi nota 8. ?! Per il viaggio del missionario Pietro cfr. G. Golubovich, Biblioteca biografica della Terra Santa e dell'Oriente francescano, vol. nm, Quaracchi 1919, pp. 219-221 (cartine geografiche in vol. n, n. 2-3). A. Matanié, «Tommaso da Tolentino e m compagni», in: Bibliotheca Sanctorum, x1, 1969, pp. 587-589. ?° Per Giordano Catalani cfr. G. Golubovich (op. cit. [vedi nota 31]), vol. 1, pp. 211-212. R. Loenertz, «Les missions domenicaines en Orient au xv siècle et la Société des Frères Pérégrinants pour le Christ», in: Archivum Fratrum Praedicatorum, n, 1932, pp. 50-55. La prima notizia del martirio, riferita da Giordano in data 12 ottobre 1321, contiene solo brevi accenni (G. Golubovich, cit., vol. 11, pp. 69-70). La Passio, così come si sarebbe andata configurando negli anni seguenti sulla base di vari resoconti, si fonda essenzial-

temporanea all’istoria, nella quale veniva espresso al naturale il martirio e morte del Beato Pietro da Siena Francescano, accaduta nel paese de’ Mori ne 1322 conforme tutti gl’ Autori Francescani ne parlano, sotto la quale si leggevano i seguenti versi: Protege Petre Senas o Martyr prime Senensis, Semper ad infensis [sic!] protege Petre Senas». L’autore deve la conoscenza di questo passo al dottor G. Corti di Firenze. ? Vedi nota 1, p. 41. !0 Vedi nota 4, pp. 179-180: «Nella quale pittura con molt’arte e destrezza contrafece il rabbuffamento dell’aria, e la furia della pioggia e de’ venti ne’ travagli delle figure, dalle quali i moderni maestri hanno imparato il modo e ‘l principio di questa invenzione, per la quale, come inusitata innanzi, meritò egli comendazione infinita». ! K. v. Mander, Her Schilder-Boeck, Amsterdam

(J. P. Wachter)

1618, p. 34r. G. Mancini, Considerazioni sulla Pittura, a cura di A. Marucchi, Roma 1956, p. 178: «Fu huomo ch’espresse molto ben gl’affetti, come si vede nel portico di S. Francesco di Siena in quel Martirio al quale sopraviene una tempesta qual, fuggendola, quelle figure dimostran spavento e moto». ‘2 Sigismondi Titiù Historiarum Senensium Tom. i, Biblioteca Vaticana, Ms. Chigi G. 1. 33, fol. 84v. 3 L'altezza attuale della parete (m 5,95) va integrata con il dislivello di cm 35 circa tra il livello odierno del pavimento e quello originale, riportato a nudo davanti al portale Petroni. 44 Il frammento minore misura m 0,73 x 1,82 (fig. 3).

mente sulle cosiddette Series sacri martirii, contenenti una versione della testimonianza di Giordano riportata da Francesco da Pisa, che

UN

deve essere messa in rapporto con la relazione che Bartolomeo inviò da Trebisonda al vicario apostolico dei francescani d’Oriente, Salone, residente a Costantinopoli (G. Golubovich, vol. 1, pp. 7076, Pp. 110-112). Per la datazione delle Serzes cfr. M. Bihl, «De dua-

bus epistolis Fratrum Minorum Tartariae Aquilonaris an. 1323», in:

Archivum Franciscanum Historicum, xvi, 1923, pp. 96-99. ? «Itinera et relationes fratrum minorum saeculi xm et XIV», a Cura

CAPOLAVORO

RIEMERSO

DI AMBROGIO

LORENZETTI

suum [...]». La differenza si spiega con l’intenzione di Oderico e di altri di far seguire alla Passio vera e propria un capitolo sull’esecuzione dei primi cittadini di Thanah. 4 Vedi nota 12. # G. Milanesi, «Gli avanzi delle pitture di Ambrogio Lorenzetti nel Capitolo di S. Francesco di Siena», in: Sulla storia dell’arte toscana,

(op. cit. [vedi nota 31]), vol. m, pp. 211-212. » M. Bihl (op. cit. [vedi nota 32]). A. C. Moule, «Textus duarum epistolarum Fr. Minorum Tartariae Aquilonaris an. 1323», in: Archiv

Siena 1873, pp. 357-361 (prima edizione in: Monitore Toscano, 27.1.1855). La scoperta avvenne nel contesto della ristrutturazione del convento, sede del seminario vescovile dal 1853. 4 G. Milanesi, pp. 359-361. G. Golubovich (op. cit. [vedi nota 31]), vol. n, p. 222. Fuorviante è anche G. H. Edgell, «Le martyre du frère Pierre de Sienne et de ses compagnons à Tana», in: Gazette des Beaux Arts, vi, 1929, pp. 307-311.

Franciscanum Historicum, xvi, 1923, pp. 104-112.

4° P, Toesca, I/ Trecento, Torino 1951, p. 588, nota 106.

36 Analecta Franciscana, n, 1898, pp. 474-479.

°° A. Rowley (op. ci-.[vedi nota 3]), fig. 112. Con l’identificazione della scena con il martirio a Ceuta (Marocco) contrastano i costumi e i tratti somatici delle figure rappresentate. ?! Tutti i resoconti confermano la morte di tre francescani fuori dalle mura di Thanah, mentre nell’affresco proveniente dalla sala capitolare è raffigurata l’esecuzione di un numero maggiore di martiri davanti al palazzo del sultano. ?? Vedi nota 12, fol. 84v. 9 Vedi nota 8, fol. 26v. 2 Vedi nota 22. Cfr. i seguenti manoscritti conservati alla Biblioteca Comunale di Siena: H. Ninni Sernini, Trattato delle Famiglie Nobili et Huomini

di A. van den Wyngaert, in: Sinica Franciscana, 1, 1929, pp. 381 ss., in particolare pp. 424-439. Lo scritto di Oderico è del 1330. 3 Analecta Franciscana, n, 1898, pp. 597-613. Cfr. G. Golubovich

® Ibidem, rv, 1906, pp. 332-333. ?* Bartholomeus de Pisis (op. cit. [vedi nota 37]), p. 333: «Petrus de Senis [...] duobus aliis diebus in patibulo cum chorda in gutture suspensus, ubi vivens semper populo praedicabat». Series (op. ci. [vedi nota 32]), p. 71. Passio (op. cit. [vedi nota 34]), p. 605. A. C. Moule (op. cit. [vedi nota 35]), p. 106. Chrorzica xXIV Generalium (op. cit. [vedi nota 361), p. 477. Oderico da Pordenone (op. cit. [vedi nota 33]), p. 433. 39 Passio (op. cit. [vedi nota 34]), p. 605: «Nam iussus est durissime verberari. Qui stans imperterritus inter verbera, a Saracenis inducebatur, ut Allah, Ylal, id est unus Deus, diceret quasi profanum pu-

tantes Trinitatem ponere. Qui hoc dicere renuens quasi usque ad exhalationem spiritus verberatur. Videntes autem satellites diaboli immobilem Dei athletam in fide Christi, Mellico nuntiaverunt dicentes, fratrum Petrum nullo modo posse a fide averti nec Saracenismo velle aliqualiter consentire. At ille iratus iussit, Sanctum Dei per collum suspendi, sed prius gravius et diutius caedi». Bartholomeus de Pisis (op. cit. [vedi nota 371), p. 333: «Petrus de Senis [...] captus, cum in confessione verae fidei immobilis permaneret, primo duobus diebus fortissime caesus [...]». “Vedi nota 32;p. 71. 41 Vedi nota 34, p. 604. A. C. Moule (op. cit. [vedi nota 35]), p. 106. Chronica xx1v Generalium (op. cit. [vedi nota 36]), p. 476. Oderico da Pordenone (op. cit. [vedi nota 33]), p. 432: «Dum autem sic ex martirio suo animas Deo dedissent, statim aer clarus et lucidus est effectus, quod cuncti fortissime mirabantur; et similiter luna maximam ostendit claritatem et splendorem. Statim autem post hoc, tot et tanta tonitrua et fulmina atque coruscationes evenerunt quod pene omnes mori finaliter se credebant». 4 Passio (op. cit. [vedi nota 34]), p. 603.

5 Ibidem, p. 603: «Tunc Lomelic fecit illos tres fratres portari ultra quoddam brachium maris; circumdat autem mare civitatem in modum insulae, modicum distans a terra firma, et ultra illud flumen, ubi portati fuerunt, est quidam burgus [...]. In illo autem burgo in domo cuiusdam idololatrae, illo viro procurante, hospitium acceperunt [...]. Circa vero mediam noctem surrexerunt fratres, ut dicerent Matutinum, et tunc ipsos illi armati homines invenerunt et eos extra

burgum duxerunt». Oderico da Pordenone (op. cit. [vedi nota 33]), pp. 430-431.

# Passio (op. cit. [vedi nota 34]), p. 604: «Navis etiam, quae dictos

sanctos fratres portare debuerat Polumbum [...] et ipsos fraudulenter portaverat Tanam contra ipsorum voluntatem, totaliter fuit submersa, sic quod de ipsa vel quae intus erant ex tunc nihil fuit inventum; quod alias nunquam fuit auditum, quod aliqua navis in illo optimo portu periret». Serzes (op. cit. [vedi nota 32]), p. 71; Chronica xxIv Generalium (op. cit. [vedi nota 361), p. 476; Oderico da i Pordenone (op. cit. [vedi nota 331), pp. 432-433. 4 Vedi nota 34, p. 607: «Post Sanctorum necem In crastinum soctus collateralis Mellici, qui in omnibus fuerat consentiens, conscius et consulens, per civitatem equitans de equo cecidit concussus miserabiliter expiravit. Quod populus cernens, in vindictam Sanctorum factum esse penitus non dubitavit». Il nome dell’uomo caduto da cavallo viene riferito in vari modi: Series (op. cit. [vedi nota 32]), p. 71: «Melic civitatis, idest dominus terre [...]»; A. C. Moule (op. cit. [vedi nota 35]), p. 106: «Et melich civitatis cadens de equo et equus super Cady, simul migraverunt in infernum ad makometum dominum

Riguardevoli della Città di Siena (1637-1642), B. 1v. 27, fol. 120. E. Montebuoni, Notizie de? Pittori Sanesi (1717), L. v. 14, fol. 30v. G.

G. Carli, Selva di notizie e riflessioni per la Storia de’ Pittori, Scultori e Architetti Senensi (seconda metà del Settecento), L. v. 16, fol. 94v, % Gli affreschi nella sala capitolare sono stati restaurati nel 1970 sotto la direzione di Giuseppe Rosi, mentre i lavori nel chiostro del 1976/77 furono affidati al professor Del Serra. A. Rowley (op. cit. [vedi nota 3]), figg. 104, 112. E. Carli (op. cit. [vedi nota 16]), fig. 56. 38 M. Davies, National Gallery Catalogues: The earlier italian schools, London 1961°, pp. 298-302, nn. 1147, 3071, 3072. °° Immagini precedenti i restauri in: E. Cecchi, Pietro Lorenzetti, Milano 1930, tavole 99, 100. Istruttiva è anche la foto neg. 108 126

conservata al Kunsthistorisches Institut di Firenze. 60 Pubblicazione del Cristo risorto dopo il restauro in E. Carli (op. cit. [vedi nota 16]), fig. 103. Dimensioni: m 1,79 x 1,06. 6! Cfr. la Resurrezione di Pietro Lorenzetti nella basilica inferiore di San Francesco ad Assisi. 6 Dimensioni della figura: cm 42 x 34. Altri frammenti della cornice degli affreschi nella sala capitolare di San Francesco si trovano alla National Gallery di Londra: M. Davies (op. ct. [vedi nota 58]), nn. 3071, 3072; le dimensioni corrispondono all’opera qui riprodotta nella fig. 6. 6 A. Rowley (op. cit. [vedi nota 3]), fig. 194. 6 Cfr. ad esempio W. Braunfels, Abendlindische Klosterbaukunst, Kòln 1969. 6 E. Carli (op. cit. [vedi nota 16]), figg. 45-49. Il Santo a sinistra della Madonna non può essere identificato, come afferma Carlî, con Sant'Antonio, dato che la foglia di palma indica un martire. G. Kaftal (Iconography of the Saints in Tuscan Painting, Florence 1952, p. 838) ha giustamente interpretato il francescano giovane e glabro con la foglia di palma nell’affresco di Lippo Vanni nella cappella situata dietro il portale Petroni (fig. 950) come Pietro da Siena (l'i scrizione con il nome del santo citata da Kaftal oggi non è più visibile). 66 G. Milanesi (op. cit. [vedi nota 47]), p. 360: «In due pareti [...] della detta stanza, le sole che ancora conservino di quelle pitture sono state scoperte quattro storie. Le due che sono nella parete di fondo rappresentano la Crocifissione e la Resurrezione, tagliate in basso da due finestre apertevi posteriormente: e nelle altre, della parete a destra di chi entra, è figurato, quando S. Lodovico [...] riceve da Bonifacio vin i primi ordini del chiericato [...]. E nell'altra che

segue, è il Soldano parimente in trono, in mezzo ai suoi ministri [...]». Per quanto riguarda le due finestre aperte in epoca successi va, può trattarsi solo di aperture nella parete sud della sala capitola-

407

PITTURA

- MEDIOEVO

re, adiacente il secondo chiostro. Tre porte conducono oggi nella sala. Poiché tuttavia è da escludere che affreschi di una certa dimensione fossero collocati sulla parete nord, quasi completamente interrotta da due finestre e dal portale, la «parete a destra di chi entra» deve riferirsi alla parete est, la cui larghezza (m 10,5 circa) corrisponde alla larghezza complessiva degli affreschi (senza cornice) di m 8.

408

9 Non conosciamo la provenienza del dipinto con le Clarisse alla National Gallery (M. Davies, op. cit. [vedi nota 58], n. 1147); cfr. G. Milanesi (op. est. [vedi nota 661), p. 361: «Qualche altro avanzo di pittura si vede ancora nella parete sinistra di una seconda stanza, che in antico era parte dello stesso Capitolo». G. B. Cavalcaselle, J. A. Crowe, Storia della Pittura in Italia dal secolo l al secolo XVI, vol. 11, Firenze 1885, p. 174, nota 1: «Molti anni sono abbiamo veduto nella casa del signor Corvisieri in Roma un pezzo d’affresco con una mezza figura allegorica, ed un Santo Vescovo col pastorale nella sinistra e in atto di benedire colla destra. Proviene il dipinto da Siena ed ha tutti i caratteri d'una pittura dei Lorenzetti, come infatti affermavasi che avesse fatto parte dei dipinti da essi eseguiti nel Capitolo di San Francesco». Le opere citate da Crowe e Cavalcaselle a quanto mi risulta sono andate perdute. 6 G. Previtali, Giotto e la sua bottega, Milano 1967, fig. 489. P. Cortese, «Gli affreschi di Giotto nella Sala del Capitolo del Convento del Santo in Padova», in: Miscellanea Francescana, xxxvu, 1937, pp. 413-417. B. Gonzati, La Basilica di S. Antonio di Padova, vol. 1, Padova 1852, p. 269 (= I cinque protomartiri francescani). 9 P. Bacci, «L'elenco delle Pitture, Sculture e Architetture di Siena compilato nel 1625-26 da Mons. Fabio Chigi poi Alessandro vn secondo il ms. Chigiano 1. 1. 11», in: Bullettino Senese di Storia Patria, MISS,

SUS,

î° Lettere sanesi, vol. n, Roma 1785, p. 213. Anche A. Rowley (op. cit. [vedi nota 3]), p. 135, cita della Valle. Solo E. v. Meyenburg (Ambrogio Lorenzetti, Zurich 1903, pp. 14-15) corresse l’errore di

della Valle. La sua rettifica non fu peraltro presa in considerazione negli studi successivi. 7! Vedi nota 12, fol. 79r ss. ?? A. Gonzales Palacios, Ambrogio Lorenzetti alla Sala della Pace,

Milano 1965, tavola 24. ? A. Rowley (op. cit. [vedi nota 3]), figg. 112-116. # Cfr. ad esempio gli edifici delle città raffigurate nella Entrata di Cristo in Gerusalemme e nel Cristo portacroce di Pietro Lorenzetti nella basilica inferiore di San Francesco ad Assisi.

STUDI SULL’ICONOGRAFIA NUZIALE DEL TRECENTO

ICONOGRAFIA

RELIGIOSA

E RITUALE

PROFANO

L'affresco di Cimabue raffigurante il Corteo nuziale di Giuseppe e Maria nell'abside della basilica superiore di San Francesco ad Assisi! presenta sorprendenti affinità con il rituale profano (fig. 1). Il modello di una cerimonia nuziale borghese era talmente importante per l'artista che egli non esitò a discostarsi in misura considerevole dai testi apocrifi. Di nessuna delle tre fonti determinanti per l’iconografia della giovinezza di Maria si trovano tracce in questo affresco molto sbiadito, la cui lettura è facilitata da un disegno di Johann Anton Ramboux (fig. 2) — né del Protovangelo di Giacomo, ritenuto nel Medioevo la cronaca di un testimone oculare (un figlio di primo letto di Giuseppe), né del Vangelo dello Pseudo-Matteo, la cui traduzione in latino era attribuita a san Girolamo, né del De nativitate Mariae, ripreso dalla Legenda aurea, che godeva di ampia diffusione. Nel Protovangelo e nel Vangelo dello Pseudo-Matteo non si fa parola di un matrimonio nel Tempio di Gerusalemme. Incalzato dal sommo sacerdote, Giuseppe si limita a dichiararsi pronto ad accogliere nella propria casa la vergine allevata nel Tempio: «Maria, ti ho ricevuta dal Tempio del Signore e adesso ti lascio nella mia casa e me ne vado a lavorare alle mie costruzioni, ma tornerò da te; il Signore ti

custodirà».? Solo il De nativitate Mariae parla del matrimonio celebrato nel Tempio. Ma neppure questo testo può essere stato

la fonte di Cimabue, dato che non parla di alcuna solenne processione della sposa accompagnata dallo sposo. Stando al De nativitate Mariae i due sposi novelli si sarebbero subito separati. Maria avrebbe lasciato il Tempio in compagnia di sette vergini per fare subito ritorno nella casa dei genitori a Nazaret, mentre Giuseppe da Gerusalemme si sarebbe recato a Betlemme.® Il distacco di Cimabue dalla tradizione testuale acquista particolare evidenza nel confronto con opere d’arte bizantine oppure occidentali influenzate da Bisanzio.’ La scena raffigurata nella chiesa di Chora (Kariye Gamii) a Istanbul, in cui Maria esce dal Tempio con Giuseppe, è assai lontana dalla rappresentazione di un corteo nuziale (tig. 3). Lo sguardo ansioso con cui Giuseppe si volge verso una Maria

stranamente piccola non sembra tanto rivolto a una sposa, quanto a una giovinetta che corre dietro a un vecchio. Ad Assisi invece Giuseppe e Maria si tengono teneramente per mano ed escono dal Tempio in un solenne corteo nu-

ziale, sotto un baldacchino sorretto da quattro giovani

(figg. 1, 2). i Ma non è stato Cimabue, che ha dato l’immagine per not più credibile del matrimonio di Giuseppe e Maria, l’inter-

prete più fedele del Protovangelo, bensì l’artista bizantino

che degrada Maria a una bambina, accentuando così la disparità tra l’anziano vedovo e la ragazza appena dodicenne. Stando a questo testo Giuseppe avrebbe persino espresso serie perplessità nei confronti del matrimonio che gli veniva imposto: «Allora il sacerdote disse a Giuseppe: “Giuseppe, tu sei stato prescelto a ricevere la vergine del Signore in tua custodia!”. Ma Giuseppe gli rispose: “Io ho già dei figli e sono vecchio, mentre essa è una fanciulla. Che io non abbia a diventare oggetto di scherno per i figli d’Israele!”».$ Cimabue si ispirò al rituale nuziale in uso a Roma e forse anche in altre città dell’Italia centrale. Lo svolgimento della cerimonia è riportato nel trattato di Marco Antonio Altieri, che all’inizio del Cinquecento studiò i costumi nuziali romani. Come in tutta Italia, anche a Roma il corteo

nuziale si svolgeva nel giorno della “domumductio”. Il rito del trasferimento della sposa dalla casa paterna a quella dello sposo costituiva il punto culminante e insieme la conclusione delle celebrazioni, che si protraevano spesso per mesi interi. Secondo il canone del rituale romano la “domumductio” iniziava con la partecipazione alla messa nuziale, che nell’Italia tardomedioevale serviva unicamente a benedire gli sposi; il matrimonio giuridicamente vincolante- il cosiddetto “sposalitio per verba de presenti” — di solito si era già svolto molto tempo prima nella casa del padre della sposa, alla presenza del notaio e dei testimoni (figg. 9-13). Dopo l’uscita dalla chiesa la coppia, stando alla testimonianza dell’Altieri, si incamminava

verso la casa dello

sposo sotto un baldacchino sorretto da quattro giovani: «Con grandissima alegria el sposo pigliavase la sposa per la mano, et reoscendose de chiesa, ce compareva uno or-

nato panno de oro portato da iovini più degni in forma de baldacchino pontificale, sotto del quale de compagnia se adducevano fine alla casa per le nozze deputata».! L'affresco di Cimabue rispecchia la scena appena descritta: Giuseppe e Maria escono dalla chiesa in solenne processione sotto un baldacchino. Persino certi dettagli, come il gesto del prendere per mano la sposa, sono resi fedelmente. L'immagine della santa coppia si distingue da quella di due sposi dell’epoca unicamente per la presenza delle aureole e della verga recata da Giuseppe in segno della sua elezione. Il riferimento diretto al rituale profano si fonda sulla tesi, sostenuta da teologi e giuristi, della uguaglianza di principio tra le nozze della Madonna e quelle di ogni cristiano. Graziano ad esempio attribuì formalmente alle nozze di Giuseppe e Maria un valore normativo per il diritto matrimoniale.!! Di conseguenza i notai italiani dell’epoca pretridentina in presenza dei quali si svolgeva lo “sposalitio per verba de presenti” citavano le nozze della Vergine

409

PITTURA

- MEDIOEVO

410

1. Cimabue, Vita di Maria, / 1SSZS7, San Francesco, abside della Basilica superiore

STUDI

SULL’ICONOGRAFIA

NUZIALE

DEL TRECENTO

4II

v

sei e PAT RR

2. Johann Anton Ramboux, disegno tratto dall’affresco di Cimabue raffigurante il Corteo nuziale di Giuseppe e Maria, Francoforte sul Meno, Stidelsches Kunstinstitut

Maria come un modello che santificava il matrimonio. Nel Contractus di Rolandino de’ Passeggeri si consigliava al notaio di introdurre l’interrogazione degli sposi (fig. 9) con la frase: «In nomine domini nostri Iesu Christi qui primi matrimonii regulam ordinavit, et beate Marie virginis sue

matris que etiam voluntate divina fuit sponsa Ioseph [...] domine N., placet vobis et vultis dominam Bertham pro

vestra sponsa et in eam consentitis tamquam in veram et

legitimam uxorem?».!? Alla domanda «quare dominus matrem suam voluit desponsari», la Legenda aurea rispondeva fra l’altro con l'argomento «ut matrimonii bonum comprobaretur».! L’interpretazione dell’affresco di Cimabue sulla base del rituale nuziale profano consente di comprendere meglio la composizione iconografica del Corteo nuziale di Maria nella Cappella degli Scrovegni (fig. 4). Finora questo cele-

bre affresco di Giotto è stato perlopiù interpretato rimandando esclusivamente a un passo della Legenda aurea tratto dal De nativitate sancte Marie Virginis:!* «Desponsata

igitur uirgine Ioseph ipse quidem in ciuitate sua Betlehem resedit domum suam dispositurus et nuptiis necessaria

prouisurus. Virgo autem Maria cum vu uirginibus coeuis

et collactaneis suis quas ob ostensionem miraculi a sacerdote acceperat ad domum parentum in Nazareth reuersa est: in diebus autem illis angelus Gabriel ei oranti apparuit et de ea nasciturum dei filium nuntiauit».!?

3. Maria esce dal Tempio insieme a Giuseppe, Istanbul, chiesa di Chora

A favore della Legenda aurea come una delle fonti iconografiche interviene in primo luogo la presenza delle sette vergini che accompagnano Maria. Un’interpretazione basata unicamente sui Vangeli apocrifi e sulla Legenda aurea

mi pare tuttavia troppo limitante. Se confrontiamo il tenore delle frasi citate dalla Legenda aurea con la scena nella Cappella degli Scrovegni, parlare di una presunta «comunione spirituale tra Giotto e Jacopo da Varazze»!° appare alquanto esagerato. La composizione del testo e dell’immagine non potrebbero essere più diverse. Mentre la Legenda aurea registra con poche parole il ritorno della Vergine alla casa paterna, Giotto amplia la scena trasformandola in un corteo trionfale ricco di figure. L’interpretazione

iconografica della composizione

giot-

tesca non può basarsi solo su un semplice confronto tra immagine e testo. Il pittore inserì infatti nella sua interpretazione del testo numerose citazioni dal rituale delle feste nuziali profane. «Tanti suoni» caratterizzavano il corteo nuziale stando a una predica di san Bernardino,!” e a quanto riferisce l’Altieri la sposa veniva condotta per le vie di Roma «al suon de trombe».!8 Gli statuti trecenteschi consentono in via eccezionale, in occasione della “domumductio”, la presenza di un piccolo complesso musicale formato da strumenti a corde e a fiati;!° ed è proprio una banda simile che Giotto raffigura sul lato destro dell’affresco. La Vergine accompagnata da un gruppo di fanciul-

PITTURA

- MEDIOEVO

4. Giotto, Corteo nuziale di Maria, Padova, Cappella degli Scrovegni

le doveva certo ricordare all’osservatore del tempo non soltanto il testo della Legenda aurea, ma anche i cortei nuziali che si vedevano ogni giorno. Da un passo dello Statuto del Capitano del Popolo di Firenze si evince che spesso durante la “domumductio” la sposa era accompagnata da molte donne e fanciulle.?° L'assenza di Giuseppe non costituisce una prova dell’ispirazione alla sola Legenda aurea, né impedisce di leggere la composizione giottesca come un'immagine speculare del rituale profano. Di norma infatti nel Trecento lo sposo non partecipava al corteo nuziale, bensì aspettava la sposa nella propria casa o sulla soglia. Il “rituale romano” a cui si ispirò Cimabue per l'affresco di Assisi rappresenta un’eccezione non soltanto sotto questo aspetto (figg. 1, 2): anche l’onore reso agli

sposi di camminare sotto un baldacchino non rappresenta la regola nell'Italia centrosettentrionale, bensì un privilegio delle nozze dei principi.” Quanto i contemporanei di Giotto considerassero il suo affresco padovano un'immagine della “domumductio” è dimostrato sia dalla storia della recezione, sia dall’evoluzione iconografica dell'idea compositiva nel prosieguo del Trecento. Sul foglio 56r della parte conservata alla British Library di un codice veterotestamentario redatto alla fine del Trecento e riccamente illustrato sono raffigurate le Nozze delle figlie di Selofad (fig. 5). La scena in alto a sinistra mostra Mosè nell’atto di emanare le leggi matrimoniali, mentre a destra sono raffigurate le nozze delle cinque figlie. La terza miniatura, che occupa la parte inferiore del

STUDI

SULL’ICONOGRAFIA

NUZIALE

DEL TRECENTO



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British Library, 5. Nozze delle figlie di Selofad, Bibbia istoriata padovana, Londra,

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PITTURA

- MEDIOEVO

414

6. Ugolino di Prete Ilario, Corteo nuziale di Maria, Orvieto, Duomo, cappella del coro se

foglio, rattigura, stando all'iscrizione, il corteo nuziale: «Como Maala, Thersa, Egla, Melcha, Noa, fiole de Salphaad del tribo de Manasse, vene tute cinque menà a mario».

Un confronto tra la didascalia sotto la miniatura raffigurante il matrimonio e il testo biblico” rivela che lo scrivano padovano si attenne essenzialmente al Libro dei Numeri: Como quelle cinque serore, Maala, Thersa, Egla, Melcha, Noa, le quale tute cinque serore fo fiole de Salphaad del tribo de Manasse tiolo de Joseph, se marida tute cinque in un trato e qui sì ven spoxà: e sì tolse cinque homini del tribu e del parentà de Manasse, del quale parentà sì era stà so pare

Salphaad, acò che le possession le quale ge era tochà per heredità de so pare Salphaad no andesse in altro tribo né in altro parentà cha in lo so parentà.

Totalmente diverso fu il metodo seguito dall’illustratore, il quale non concepì l'evento secondo la lettera della Bibbia, bensì sulla base degli usi dell’epoca. In analogia al rituale trecentesco, egli suddivise le nozze in due diverse scene, separate nel tempo e nello spazio. In alto a destra si vede svolgersi nella casa privata lo “sposalitio per verba de presenti”, durante il quale gli sposi, interrogati da Mosè (che qui occupa la posizione riservata nel Trecento al notaio [cfr. fig. 9]), dichiarano davanti a testimoni il loro consenso al matrimonio, e lo sposo infila l'anello al dito della sposa. Allo “sposalitio” segue la solenne processione della “domumductio”, che rappresenta l’obbligatoria conclusione ufficiale della cerimonia nuziale. L'illustratore padovano seguì pertanto uno schema compositivo che era stato utilizzato per la prima volta, sotto forma di un dittico con lo “sposalitio” e il corteo trionfale, da Giotto nella Cappella degli Scrovegni (figg. 4, 7), rendendo più perspicuo l’intendimento di Giotto con la scelta di raggruppare

STUDI

SULL’ICONOGRAFIA

NUZIALE

DEI WIIRECENTO

415

9 Taddeo Gaddi, Sposalizio di Giuseppe e Maria, Firenze, Santa Croce, Cappe Ila Baroncelli

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LXXI. Matteo di Giovanni, Pala di Santa Barbara (Adorazione dei Magi), Siena, San Domenico

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LXXX. Neroccio de Landi, Arcangelo Gabriele (volto), collezione privata

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LXXXV. Francesco di Giorgio, Adorazione dei pastori, Siena, Sant'Agostino, Cappella Bichi

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LXXXIX. Luca Signorelli, Sibilla Tiburtina, Siena, Sant'Agostino, Cappella Bichi

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XC. Luca Signorelli, Sibilla Tiburtina (particolare), Siena, Sant Agostino

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487

XCIV. Luca Signorelli, tavola destra dell'altare Bichi, Berlino, Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz

CONTRIBUTO ALLA STORIA SOCIALE DELLA PITTURA SENESE DEL RINASC IMENTO

La mostra d’arte di maggior successo a New York nell’inverno 1988/89 riguardava un argomento che fuori dell’Italia è perlopiù considerato di pertinenza di pochi specialisti: Painting in Renaissance Siena. La scelta di questo tema era dettata dalla notevole consistenza di dipinti senesi nei musei nordamericani,

i cui inizi risalgono alla seconda

metà dell’Ottocento (si veda ad esempio l’acquisizione della Collezione Jarves da parte dell’Università di Yale a New Haven nel 1871).! Alla concentrazione su questo tipo

di collezionismo contribuì in misura sostanziale la predilezione di Berenson per la pittura senese del Quattrocento: nella prima metà del ventesimo secolo molti dipinti senesi si sono imbarcati per l'America con un visto rilasciato da Villa i Tatti. Fondamentale per l’interesse per questo tema negli Stati Uniti è inoltre l’attività didattica di alcuni dei migliori specialisti della storia dell’arte senese; valga per tutti l'esempio di John Pope Hennessy a New York (a lui i suoi ex allievi e collaboratori hanno dedicato il catalogo della mostra Painting in Renaissance Siena; ma Sir John ha saputo evitare di lasciarsi coinvolgere troppo dall’entusiasmo collettivo per Siena — indimenticabile è infatti la sua battuta ironica durante una conversazione prandiale a Firenze: «I hate Siena»). All’attualità scientifica di questo tema dovrebbe contribuire in misura notevole anche l’interesse metodico per la correlazione tra una scuola pittorica locale chiusa ed esclusiva e le realtà sociali di un sistema politico governato da un Comune. Nel Quattrocento i pittori forestieri riuscivano solo in casi eccezionali a penetrare nella fortezza senese: Gentile da Fabriano nel 1425/26; Girolamo da Cremona e Liberale da Verona in quanto specialisti nell’illustrazione libraria; nell'ultimo decennio del secolo il Signorelli, che preannunciava la successiva apertura soprattutto agli artisti umbri. Nel Quattrocento sono relativamente rare anche

le opere realizzate da pittori senesi al di fuori del loro territorio (a quanto pare a Urbino Francesco di Giorgio non operò come pittore). All’interno di questi confini così ben definiti è possibile osservare un ricco intreccio di relazioni fra gli artisti e le principali categorie di committenti: autorità comunali, Opera del Duomo, Spedale di Santa Ma-

ria della Scala, abitanti del “contado”, ordini religiosi, chiese parrocchiali, confraternite, corporazioni, famiglie influenti, organizzazioni di artigiani stranieri, etc. Pasntng in Renaissance Siena affascinerà soprattutto quegli studiosi che sono alla ricerca di un paradigma per la relazione tra studi stilistici, iconografici e storico-sociali entro un ambito di lavoro ben delimitato, ricco di materiale ed eccellen-

temente documentato da fonti scritte. Alcuni dei testi del catalogo Painting in Renaissance Siena

sono consapevolmente orientati su questi interessi. Ma nonostante gli sforzi per trattare in modo equilibrato i pro-

blemi stilistici e quelli storico-sociali, il risultato appare comunque piuttosto sbilanciato. In decenni di ricerche il fondamentale lavoro di attribuzione, datazione e ricostru-

zione ha compiuto passi da giganti, ed è in questo ambito che la mostra ha i suoi momenti più alti: la ricostruzione completa della predella della Pala dell'Arte della Lana dipinta dal Sassetta} qualitativamente una delle opere più eccelse della pittura del primo Rinascimento italiano; la felice riunificazione di due frammenti di un capolavoro di Francesco di Giorgio conservati a Washington e a New York (fig. 35);* la serie delle otto tavole con la Leggenda di Sant'Antonio del Maestro dell’Osservanza’? e quella della Leggenda di Santa Caterina dipinta da Giovanni di Paolo.£ Mala vasta problematica del “contesto storico” non è stata ancora esplorata con continuità dagli studiosi. Tanto più coraggioso appare il tentativo di Carl Brandon Strehlke di fornire, nel saggio introduttivo al catalogo, una prima visione d'insieme della problematica di una storia sociale della pittura rinascimentale senese.” Nel presente studio sono stati presi in considerazione alcuni casi particolarmente significativi, adatti a illustrare la problematica della storia sociale della pittura senese del Rinascimento. Nei primi quattro capitoli mi sono concen-

trato sulle commissioni di privati cittadini, famiglie e confraternite nell'ultimo quarto del Quattrocento. Punto di partenza è la trattazione di un caso esemplare, una tavola fatta dipingere da una famiglia di ricchi mercanti, i Borghesi (capitolo 1). Questa opera (fig. 1) è qui confrontata con le commissioni di un gruppo di persone socialmente agli antipodi, una compagnia formata esclusivamente da artigiani stranieri (fig. 13, tavola Lxvm), che — dato interessante — si richiamava esplicitamente al citato modello rappresentativo del ceto superiore, con l’intento di superarlo non solo per le dimensioni, ma anche attraverso un ideale di bellezza precisamente formulato dagli artigiani e un messaggio iconografico insolito (capitolo n). La questione se sia possibile individuare un caso paradigmatico viene poi verificata in un confronto con la tavola commissionata da Lodovico Tancredi, che sembra spezzare tali convenzioni (fig. 17, tavola voan; capitolo m). Alla

problematica dei committenti che prevale in questi primi tre capitoli si contrappongono, nei capitoli rv e v, degli aspetti particolari della problematica sugli artisti: la relazione tra condizione sociale e linguaggio artistico (sull’e-

sempio della carriera di Francesco di Giorgio) e alcune questioni riguardanti l’organizzazione del lavoro nelle botteghe [per quest’ultimo aspetto si veda il riassunto alle

pp. 530-531].

489

PITTURA

- RINASCIMENTO

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1. Fotomontaggio della Pala Borghesi di Benvenuto di Giovanni

CONTRIBUTO

ALLA

STORIA

SOCIALE

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7 Arcangelo lo a Montepertuso. Vescovado di Murlo, parrocchiale a Montepe Arcange

PITTURA

- RINASCIMENTO

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3. Ricostruzione della Pala Borghesi di Benvenuto di Giovanni

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CONTRIBUTO

ALLA

STORIA

SOCIALE

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4. Benvenuto di

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PITTURA

- RINASCIMENTO

scutere è la differenza tra due tipologie di pala che, sempli-

ficando, potremmo definire “tradizionale” e “moderna”.

A Murlo la suddivisione del dipinto in tre arcate sormontate da archi carenati ricorda il tipo del trittico gotico (fig. 2). L'effetto arcaizzante è rafforzato dalla definizione poco netta dello spazio: i piedi dei Santi schierati ai lati della Madonna in trono poggiano su una striscia di pavimento composta da due file di mattonelle che confina direttamente con il fondo oro. Nella “moderna” pala di San Domenico, dalla composizione unitaria, il pavimento marmoreo, costruito secondo la prospettiva centrale, evoca l’idea di un ambiente pieno di luce la cui estensione è definita dal tramezzo in marmo collocato davanti al fondo oro (fisg. 1, 4, tavola xv). Contrariamente alla composizione additiva di Murlo, la struttura della pala senese si fonda sulla forma base di un triangolo equilatero che collega le tre figure principali (la Madonna e i Santi Giacomo e Gio-

494

vanni).!”

Queste differenze nello stile e nella forma dei dipinti sono state spiegate soprattutto in senso evolutivo, ipotizzando che tra la pala di Montepertuso (fig. 2) e il più “moderno” dipinto senese (figg. 1, 4) intercorressero circa dieci anni.

Le date della pala di Montepertuso sono note: durante il recente restauro l'iscrizione dipinta lungo il bordo inferiore della tavola centrale è risultata interamente originale (fig. 8); il nome di Benvenuto di Giovanni (Opus Bemve-

5. San Michele Arcangelo, Montepertuso I. CENTRO

E PROVINCIA:

CONFRONTO

“CITTADINA”

ESPRESSIONE

DI MERCANTI

E TRADIZIONE

DEL

DI UNA

TRA ARTE

FAMIGLIA

ICONOGRAFICA

“CONTADO”

Attribuzione, provenienza e aspetto originale dei due dipinti di Benvenuto di Giovanni che sono al centro di questo primo studio (1436 - 1509/17) sono certi: l’indagine sociologica poggia pertanto su solide basi. La pala d’altare firmata di Vescovado di Murlo (fig. 2, tavole Lx1v, Lxv,

LxviI) si trovava fino a pochi anni fa nella sua collocazione originaria,$ sull’altare della chiesa di San Michele Arcangelo a Montepertuso (il fatto che fosse destinata a questo luogo si rileva anche dall’iconografia: l Arcangelo Michele raffigurato al posto d’onore alla destra della Madonna rimanda al nome della chiesa); la provenienza del dipinto senese unanimemente considerato un capolavoro di Benvenuto (fig. 1) dalla Cappella Borghesi, quella più a sinistra fra le cappelle del transetto sud di San Domenico, è documentata.’ La pala di Montepertuso è conservata integralmente (fig. 2),!° mentre la pala Borghesi può essere ricostruita con precisione (fig. 1): oltre ai due elementi centrali che si trovano a Siena (fig. 4, tavola Lxv),!! in origine ne facevano parte nove tavole conservate nelle seguenti collezioni: Isaac Delgado Museum of Art di New Orleans, Bucknell University (Study Collection) a Lewisburg, Musée du Petit Palais di Avignone,!* collezione privata di Capesthorne Hall (Chelford, Cheshire).! Per gli argomenti a sostegno della ricostruzione qui presentata per la prima volta in forma di disegno e di fotomontaggio (figg. 1, 3) rimando ai fatti descritti in nota.'° Fondamentale per la problematica che ci accingiamo a di-

NUTI JoHANNIS DE SENIS) è seguito dal numero Meccerxx, nonché, subito dopo, da un frammento chiaramente iden-

tificabile di una V sul margine del colore originale. Pertanto è certo che il dipinto è stato completato nel 1475. Finora si è ritenuto che il fernzizus post quem per la realizzazione della pala Borghesi (fig. 1) fosse il massacro di Otranto (1480), a cui si riferirebbe l'iconografia della strage degli innocenti al centro della predella.! Sulla base di argomenti stilistici il ferrzrus ante quem è stato fissato al

1490.!° La maggior parte degli studiosi data il dipinto «intorno al 1483».20 Con tale datazione contrasta la notizia documentaria che l’opera di Benvenuto di Giovanni si sarebbe trovata in San Domenico già nell’autunno 1478. Il 30 novembre di quell’anno la Compagnia di Santa Barbara incaricò infatti Matteo di Giovanni di realizzare una tavola simile a quella dipinta per Jacopo Borghesi: «[...] la detta tavola da farsi sia et esser debbi richa e grande, e largha per ogni verso tanto quanto è la tavola che fece fare Jacomo di Mariano Borghesi a l’altare de la terza cappella de le nuove di San Domenico predetto, a man dritta, andando verso l’altare maggiore d’essa Chiesa».?! Il nome del committente e l’indicazione del luogo consentono di identificare con certezza il modello con il dipinto senese di Benvenuto di Giovanni qui esaminato (fig. 1).?? Se per la realizzazione ipotizziamo — in analogia ai tempi di esecuzione di tavole senesi dello stesso periodo e di dimensioni simili attestati da documenti” — un periodo di un anno circa, la pala Borghesi di Benvenuto (fig. 1) dovrebbe essere stata iniziata al più tardi nel 1477: pertanto il divario cronologico rispetto al dipinto conservato a Murlo (fig. 2) è al massimo di due anni. La rettifica della datazione impone di spiegare le differen-

CONTRIBUTO

ALLA

STORIA

SOCIALE

495

6. San Michele Arcangelo, Montepertuso

ze formali e compositive tra le due opere con ragioni non prettamente evolutive. Nel formulare una spiegazione si

dovrebbe considerare anche la diversa destinazione: nel primo caso una chiesetta di campagna fuori mano (figg. 5, 6), nel secondo una cappella di famiglia fondata da ricchi mercanti in una delle chiese più rappresentative della città (fio. 7). Nei limiti consentiti dalla relativa scarsità di fonti documentarie del tardo Quattrocento, tenteremo di foca-

lizzare l'indagine che segue sulla competenza dei committenti in fatto di estetica e di iconografia, sulla funzione rappresentativa dei dipinti e sull’abilità del pittore nell’esprimersi contemporaneamente con linguaggi diversi.

La zona di Montepertuso, isolata e non ancora scoperta dal turismo, è qui illustrata con due fotografie scattate nella primavera 1988 durante un'escursione (figg. 5, 6).

Accanto alla chiesa di San Michele Arcangelo, situata sulle boscose colline ai margini della Val d'Arbia, nel Quattrocento si trovavano una rocca e un piccolo borgo. Il castello, di cui oggi non rimangono che le fondamenta, faceva parte almeno dal Duecento dei possedimenti del vescovo di Siena: il ricordo di tale signoria affiora ancora in alcuni toponimi della regione, ad esempio nel nome di Vescovado di Murlo, il paese a soli pochi chilometri da Monte-

pertuso dove oggi si trova il dipinto di Benvenuto di

Giovanni. La situazione geografica indica un “pubblico” potenziale della pala d’altare assai limitato: il castellano e la sua famiglia, i soldati acquartierati nel castello, gli abitanti del borgo, i contadini dei poderi circostanti. L’inquadramento sociologico della tavola Borghesi (fig. 1) può avvalersi di una ricca documentazione. Già nel 1468, vari anni prima che fosse completata la nuova parte orientale di San Domenico (fig. 7), la famiglia Borghesi, attiva soprattutto nel settore bancario e nel commercio di stoffe, si era assicurata il patronato su una delle sette cappelle del coro. Dopo l'abbattimento nel 1478 della parete provvisoria che separava la navata dal transetto appena costruito, le cappelle divennero luoghi privilegiati per le sepolture delle più influenti famiglie senesi, cui appartenevano senza dubbio anche i Borghesi. Agostino di Niccolò Borghesi (1390-1462) aveva servito la sua città nelle cariche più alte (Gonfaloniere, Capitano del Popolo) e in veste di legato a Venezia, nonché presso la Curia (all’epoca dei papi Callisto im e Pio 1). Suo figlio Borghese di Agostino percorse una carriera simile: anche lui fu legato presso due papi, nonché Gonfaloniere e Capitano del Popolo (1468, 1478). Inoltre, a partire dai tardi anni settanta l’importanza politica dei Borghesi crebbe ulteriormente grazie alla loro appartenenza all’autorevole partito del “Monte dei

PITTURA

- RINASCIMENTO

In donare una somma uguale a quella versata dal padre.” all’epo to: cresciu e seguito il contributo di Jacopo sarebb marzo (31 la cappel sulla ca del conferimento del patronato

1468) egli aumentò la donazione fino a 200 fiorini, il dop-

pio della somma prevista in origine, mentre l’apporto del padre rimase fermo alla somma fissata un anno e mezzo prima nel testamento. Ora Jacopo è il garante unico del pagamento degli arredi della cappella (pala d’altare, vetrata, paramenti).0!

496

È piuttosto interessante esaminare le somme citate in rap-

porto a quelle con cui i Borghesi avevano a che fare nei loro affari. L'ammontare della donazione ad esempio (100 fiorini di Mariano più 200 di Jacopo) equivale al valore,

stimato nel 1466 in 300 fiorini, del “banco”, situato nei

pressi del cuore del commercio senese (la “Mercanzia”), dove Mariano Borghesi esercitava la sua attività finanzia Tian

Nel febbraio 1469, undici mesi dopo il conferimento del

7. Cappelle del coro, Siena, San Domenico

Nove”: a quell'epoca Niccolò di Bartolomeo Borghesi era uno dei politici più influenti di Siena.?” Il vero monumento della famiglia era la grande tavola dipinta su fondo oro, sfolgorante di colori (fig. 1), che doveva risultare di grande effetto al centro della sobria cappella intonacata (fig. 7). Significativamente, in occasione del conferimento dei diritti di patronato (31 marzo 1468) la tavola fu citata per prima tra le opere che avrebbero dovuto decorare la cappella.?8 Da casi analoghi è possibile dedurre che la tavola fosse anche l'elemento di gran lunga più costoso dell’apparato decorativo della cappella (ivi compresi i preziosi paramenti): che fosse cioè costato circa

due terzi dell'intera somma messa a disposizione per gli ar-

redi? Di altri dipinti, ad esempio affreschi, o di un pavimento decorato con emblemi araldici non si fa menzione né nel contratto del 1468, né in alcuno degli altri documenti del Quattro- e Cinquecento. Le sepolture dei membri della famiglia dovevano essere sobrie, sotto forma di semplici lastre terragne. Tuttavia, se vogliamo decodificare correttamente il signifi-

cato del dipinto è necessario precisare il concetto di cappella di famiglia. Il patronato della cappella era conferito a un ramo ben determinato dei Borghesi, e cioè alla famiglia di Mariano, in cui spicca la personalità del committente: Jacopo di Mariano Borghesi. Vedremo infatti come la tavola di Benvenuto di Giovanni (fig. 1) sia da intendere essenzialmente come donazione di Jacopo, e dunque anche come monumento allo stesso Jacopo. Nel corso della storia della commissione dei Borghesi il nome di Jacopo si incontra per la prima volta il 15 novembre 1467, nel testamento di suo padre Mariano. Tra i sette figli maschi Mariano scelse Jacopo come operarius della cappella famigliare, ovvero come responsabile della realizzazione dell’iniziativa. Già a quell'epoca Jacopo — di nuovo, unico dei sette figli — dovette inoltre impegnarsi a

patronato sulla cappella in San Domenico, morì Mariano Borghesi. All’epoca dell'incarico a Benvenuto di Giovanni (non prima del 1475) il figlio Jacopo era dunque l’unico rappresentante della famiglia committente. Per comprendere l'iconografia della pala d’altare (fig. 1) è importante sapere che Mariano non fu sepolto nella cappella, bensì nel chiostro di San Domenico.” La genealogia di questo ramo della famiglia è abbastanza nota da consentirci di affermare con certezza che uno solo dei dieci santi raffigurati nella tavola centrale e nei pannelli laterali può essere interpretato come patrono di un Borghesi: San Giacomo, il patrono di Jacopo Borghesi, genuflesso nella posizione più prestigiosa alla destra della Madonna (fig. 1), reso con dimensioni particolarmente cospicue e fulcro ideale dell'intera composizione (fig. 4, tavola xvi). Dall’altro lato sta San Giovanni Evangelista, così che — come si legge in Marco, 10,35-41 — i due santi fratelli stanno alla destra e alla sinistra del Signore (si confronti in proposito la Legenda aurea, dove è detto che Giacomo e Giovanni «Eiusdem uoti ad obtinendum quia sessionem Christi ad dextram et sinistram ambo habere uoluerunt»).} Di ausilio alla comprensione della struttura iconografica è inoltre l’uso dei termini titulus e nomen nel contratto di fondazione stipulato il 31 marzo 1468: «[capella] sit intitulata [...] sub titulo [...] gloriosissime Virginis Mariae et Sanctorum Fabiani et Sebastiani et nominetur la cappella di Mariano di Niccolò Borghesi et di Iacomo suo figliuolo et loro heredi».?° Dietro ai due fratelli inginocchiati che rimandano al rorzer sono raffigurati in piedi i santi titolari: Fabiano e Sebastiano, la cui festa si celebrava nello stesso giorno (fig. 4, tavola rxvn).?? Il numero delle due coppie di santi è determinante per la composizione del dipinto: quattro angeli stanno dietro il trono della Vergine, quattro angeli sorreggono il corpo del Cristo, quattro santi sono raffigurati su ciascuno dei due pannelli laterali, quattro scene della Vita dei santi Giacomo, Giovanni, Fabiano e Sebastiano erano raffigurate nella predella (fig. 1). La forma della “tavola quadrata”, scelta a Siena (figg. 1, 4) diversamente da Montepertuso (fig. 2), offriva i migliori presupposti per una adeguata traduzione iconografica

CONTRIBUTO

ALLA STORIA

SOCIALE

39]

8. Benvenuto di Giovanni, pala d'altare della chiesa di San Michele Arcangelo a Montepertuso (particolare), Vescovado di Murlo, parrocchiale

della formula basata sul binomio titulus-nomen attestata dal contratto di conferimento dei diritti di patronato. La struttura prospettica imposta allo spazio unitario del dipinto ha consentito di distribuire le figure dei santi nella profondità, accentuando l’importanza dei due santi patroni posti in primo piano. Anche le componenti cromatiche sono graduate conformemente alla disposizione spaziale: sullo sfondo e sul mezzo fondo prevalgono i toni del bianco e dell’azzurro, in primo piano invece — a dare ulteriore risalto al committente — il rosso acceso (Giacomo e Giovanni indossano quasi esclusivamente vesti rosse). Un ritratto del committente, quale ci si aspetterebbe considerata la focalizzazione sulla figura di Jacopo Borghesi, non compare né qui, né in alcuna delle pale d’altare senesi dipinte per San Domenico nel corso del Quattrocento. Evidentemente la competizione tra i comittenti si svolgeva entro regole ben precise (forse controllate dai domenicani), che ponevano dei limiti all’autocelebrazione. Probabilmente a questa ostilità nei confronti dei ritratti contribuiva anche il fatto che questo tema era in generale poco diffuso nella pittura senese del Quattrocento. Ma la scelta di due diverse forme di pala da parte di Benvenuto di Giovanni per Siena e Montepertuso (figg. 1, 2) non può essere ricondotta soltanto a condizionamenti iconografici imposti dai committenti. Altrettanto importante fu — secondo la nostra tesi — il tentativo di adattarsi alle diverse aspettative in fatto di arte in città e nel “con-

tado”. Nella tavola per Montepertuso Benvenuto isolò ogni singola figura di santo, ponendola — quasi fosse una statua — su una stretta base anteposta al fondo oro (fig. 2).

Tale scelta stilistica tiene conto delle preferenze estetiche degli spettatori più tradizionali, abituati a tavole trecentesche se non addirittura, in concreto, a una precisa pala d'altare più antica collocata in San Michele Arcangelo. Sull’osservatore cittadino — in primo luogo sul mercante che, come ha dimostrato Baxandall5 aveva generalmente dimestichezza con la geometria — Benvenuto cercò invece di fare presa con gli effetti della costruzione prospettica, con il contrasto fra l’audace, sorprendente visione dal

basso della lunetta e l'assetto spaziale chiaro e ben definito della tavola centrale (fig. 4, tavola Lxvn). Il rapportarsi alla familiarità del mercante con il calcolo esatto si manifesta anche nel seguente particolare: a Montepertuso i piani su cui stanno i santi nei pannelli laterali hanno tutti la stessa inclinazione (fig. 2), mentre a Siena Benvenuto ha calcolato esattamente per ogni figura lo scorcio dal punto di vista dell’osservatore. L'altezza a cui era collocata ognuna di queste figure è determinata con una tale precisione

dalla prospettiva del pavimento da consentire — come mostra il fotomontaggio (fig. 1) — una ricostruzione certa della posizione delle tavolette della cornice. Rispetto alla committenza artistica, le parole “centro” e “periferia” fanno probabilmente pensare in primo luogo alla disparità tra committenti ricchi e meno abbienti. Tale differenza non si rileva nel nostro esempio: l’ignoto committente di Montepertuso (forse il castellano insediato dal vescovo di Siena?) non ha certo voluto risparmiare sui costi

della pala, e Benvenuto di Giovanni dipinse la tavola destinata alla provincia con la stessa cura e con colori costosi

quanto quelli usati per l’opera esposta a Siena (figg. 1, 2). La differenza non sta nel grado, bensì nel tipo di prezio-

PITTURA

- RINASCIMENTO

10. Benvenuto di Giovanni, pala d'altare della chiesa di San Michele Arcangelo a Montepertuso (particolare), Vescovado di Murlo, parrocchiale

mente dai frati (fig. 4). Il trono della Vergine è decorato con cornucopie d’oro fiammeggianti (fig. 11, tavola Lxrx).

9. Benvenuto di Giovanni, Pala Borghesi (particolare della veste di San Fabiano), Sena, San Domenico

Le lingue di fuoco che si levano dalle due aperture della cornucopia sono un simbolo, noto già nell’iconografia trecentesca ma poco utilizzato a causa della sua non immediata comprensibilità, della “gemina caritas”, l’unità di “caritas Dei” e “caritas proximi”.? La Carità di Tino di Camaino (Museo dell'Opera del Duomo di Firenze) tiene

sità. Un buon esempio in tal senso ci viene dal confronto delle tecniche di esecuzione dei bordi ricamati dei manti. Le “immagini tessili” della pala creata per Montepertuso hanno uno scarso effetto illusionistico (fig. 10, tavola Lxx),

tra le mani una cornucopia dalle cui estremità si sprigio-

mentre a Siena Benvenuto ha imitato con estrema preci-

currit ad summa». Questo significato iconografico trova

sione lo sforzo del ricamatore di rendere lo spazio e la plasticità delle figure in modo paragonabile alla pittura su ta-

conferma in una seconda scultura, anch'essa realizzata da Tino: sulla tomba di Maria di Valois a Santa Chiara a Napoli la Carità è raffigurata come una donna che regge due candele accese, una rivolta verso l'alto (“caritas Dei”) e una verso il basso (“caritas proximi”).! Sopra ciascuna delle cornucopie d’oro fiammeggianti appare un serafino, che nel linguaggio simbolico equivale a una ripetizione dell’elogio della Vergine quale “Mater mi-

vola (fig. 9). Il suo ingegnoso “paragone” fra le potenzia-

lità illusionistiche delle arti che si imitavano a vicenda era rivolto alle acute facoltà percettive dell’esperto, dal quale Benvenuto poteva aspettarsi che comprendesse il messaggio sotteso, l’implicito “elogio della pittura”. I due dipinti si distinguono inoltre nel livello del linguaggio simbolico. A Montepertuso l’iconografia è concepita in un modo chiaro e semplice che potremmo anche definire unidimensionale (fig. 2), mentre nella tavola collocata nella chiesa dei domenicani a Siena Benvenuto optò per un linguaggio colto, i cui elementi sono stati formulati probabil-

nano fiamme (fig. 12): «Tunc enim mirabiliter ad altum charitas surgit, cum ad ima proximorum se misericorditer

inclinat: et cum benigne descendit ad infima, valenter re-

sericordiae” (fig. 11, tavola Lx1x). I serafini, scriveva infatti Gregorio Magno, «ardent amore».*

Non è un caso che i serafini si trovino esattamente all’altezza della testa del Bambino Gesù e vicinissimi alla Madonna (fig. 4, tavola Lxvn): «Seraphim namque ardentes

CONTRIBUTO

ALLA

STORIA

SOCIALE

vel incendentes vocantur. Quae, quia ita Deo conjuncta sunt ut inter haec et Deum nulli alii spiritus intersint, tanto

magis ardent, quanto hunc vicinius vident».# Anche il simbolismo cromatico offre più piani semantici e complessità di riferimenti che a Montepertuso. La veste

bianca dell'angelo raffigurato come vessillifero dei “lilia virginitatis”* va vista in relazione con l’abbigliamento, piuttosto insolito e dunque degno di nota della Madonna, che allarga il manto per mostrare la sua veste bianca (fig. 4, tavola Lxv11).# Il colore complementare al bianco della

Vergine immacolata è il rosso delle vesti dei martiri in ginocchio ai suoi piedi. Il successo della pala Borghesi (figg. 1, 4, tavola Lxvm) come modello per commissioni di famiglie senesi si evince

dalla storia della sua recezione. Matteo di Giovanni ad esempio ne riprese la composizione quasi alla lettera in

una delle sue opere mature (Pinacoteca di Siena, inv. 432),'° e Girolamo di Benvenuto si rifece a questo modello ancora tre decenni dopo, nella Madonna della neve realizzata nel 1508 per la Cappella Sozzini in San Domenico.” Benvenuto variò la sua composizione originaria in una ta-

11. Benvenuto di Giovanni, Pala Borghesi (particolare), Siena, San Domenico

vola proveniente da Acquapendente (realizzata insieme al figlio Girolamo?) oggi al Fogg Art Museum di Cambridge, Massachusetts.4 Ma la prova più interessante della considerazione di cui godeva la pala Borghesi la fornisce il contratto di allogagione stipulato nel 1478 tra Matteo di Giovanni e la Compagnia di Santa Barbara, che sarà esaminato nel prossimo capitolo (fig. 13, tavola Lxvim). La specificità tipologica della tavola senese di una cappella di famiglia, qui rappresentata dalla pala Borghesi, può infine essere definita anche enucleando gli elementi che la distinguono da un dipinto destinato non all’autorappresentazione di un gruppo di laici, bensì principalmente alla “propaganda” di un ordine religioso. Mi riferisco a una recente pubblicazione di Ingeborg Bahr, che è riuscita a identificare in modo a mio parere convincente il dipinto di Giovanni di Paolo agli Uffizi (datato 1445) con la pala d’altare del convento di San Domenico a Siena. L’opera di Giovanni di Paolo era costituita da una tavola centrale (la Madonna col Bambino), quattro pannelli laterali (con i Santi Pietro, Paolo, Domenico e Tommaso d'Aquino) e una predella avente per tema — come attestato dall’Ugurgieri — «il giudizio finale, il diluvio e la creazione del mondo», al-

12. Tino di Camaino, Carità, Firenze, Museo dell'Opera del Duomo

cuni frammenti della quale sono conservati al Metropoli tan Museum?! e nella Lehman Collection di New York.? La pala d'altare del convento aveva pertanto per tema — anziché la sequenza di santi patroni del “dipinto privato” — la parità di rango tra santi fondatori dell’ordine e principi degli apostoli, oppure — per usare una formulazione più prudente — la legittimazione dell’importanza universale dei santi dell’ordine in virtù della loro equiparazione visiva ai principi degli apostoli. La predella non rimandava a episodi specifici della storia di una famiglia, bensì alla storia universale dalla Creazione fino al Giudizio — una storia universale in cui i domenicani sono tra gli eletti ai quali dopo il Giudizio si spalancheranno le porte del Paradiso. AI confronto con questi concetti elevati ci sorprende la tematica oltremodo circoscritta dell’opera di Benvenuto di Giovanni (figg. 1, 4, tavola Lxvn), il quale, obbedendo alla

490)

PITTURA

- RINASCIMENTO

volontà del committente, dovette limitarsi a una sola idea di fondo: l’intercessione dei santi per il committente Jacopo Borghesi.

II. LE AMBIZIONI

DI UN

GRUPPO

DI ARTIGIANI

TEDESCHI

Il patronato su una cappella del coro di una delle chiese degli ordini mendicanti di Siena era di norma riservato alle ricche e potenti famiglie della città. Astraendo dal significato religioso primario, si trattava di veri e propri status syrbols, di monumenti al rango sociale e politico di una famiglia. L'acquisizione dei diritti di patronato poteva segnalare - come nel caso della cappella dei Bichi in Sant'Agostino? — la riconquista di un ruolo politico di spicco dopo il ritorno dall’esilio, oppure un eccezionale successo economico quale quello che nel 1471 consentì ad esempio ad Ambrogio Spannocchi di scambiare i suoi precedenti diritti su una cappella laterale con la proprietà della cappella principale del coro di San Domenico (fig. 7). Anche altri gruppi sociali tentarono in casi eccezionali di inserirsi nell’establishment senese attraverso la proprietà di una cappella. Nel 1478 ad esempio una associazione di artigiani tedeschi, la Compagnia di Santa Barbara, acquisì i diritti di patronato della cappella di San Domenico contisua alle cappelle famigliari dei Borghesi e dei Piccolomini. «In medium inter cappellam heredum olim Mariani de Burgesis et cappellam heredum olim domini Bindocii de Piccolominibus de Senis»: così è specificata la collocazione nel contratto stipulato in occasione del conferimento dei diritti di patronato. Nella decorazione della loro cappella gli artigiani volevano misurarsi consapevolmente con le commissioni dei più ricchi mercanti senesi. La loro pala d’altare (fig. 13, tavola xvi) doveva essere bella e ricca di preziosi colori quanto quella realizzata da Benvenuto di Giovanni per i Borghesi (figg. 1, 4, tavola Lxvmi). Sintomatico delle ambizioni della compagnia è soprattutto l'accordo stipulato con Matteo di Giovanni relativamente alle dimensioni della tavola e alla sua iconografia. La tavola di santa Barbara — così stabiliva il contratto — avrebbe dovuto superare in altezza la pala d’altare della Cappella Borghesi e distinguersi per un’iconogratia“nazionale”, nuova per Siena.” Il concetto di “artigiani tedeschi” non va ovviamente inteso nel senso moderno dei confini nazionali, bensì secondo

la definizione dell’epoca di «huomini et persone della Natione oltramontana di lingua tedesca», che poteva ri-

ferirsi tanto a un fornaio di Colonia, quanto a un tessitore fiammingo. Purtroppo siamo molto meno informati sulla «Natione oltramontana» quattrocentesca a Siena che non sulla Compagnia di Santa Barbara di Firenze, ottimamente documentata. Nell’Archivio di Stato di Siena non esiste alcuna busta degli atti della compagnia, e neppure la storiografia si è finora occupata di questo problema. Perciò possiamo solo tentare di farci un’idea approssima-

tiva della sua struttura sociale sulla base degli atti notarili. Si nota così quanto fosse omogeneo il gruppo degli “Ultramontani”, accomunati da interessi economici e rapporti di parentela. Vi si incontrano quasi esclusivamente

artigiani: in primo luogo lavoratori tessili, quindi osti, col-

tellinai, fornai, cuochi, falegnami, calzolai, servitori di alti

funzionari, conciatori e cordai. Anche le persone che contribuirono alla fondazione e alla decorazione della Cappella di Santa Barbara in San Domenico erano tutte di basso rango: Domina Margarita, la figlia di un tedesco sposata in prime nozze con un coltellinaio tedesco e in seconde con un fornaio, anch'egli tedesco; Matteus de Alamania, uno scapolo appestato che lavorava come cuoco all’Università («in domo Sapientie civitatis Senarum»):?5 il fornaio Pietrus olim Pauli de Alemania,

abitante nella non propriamente signorile Via delle Donzelle: il «magister racamator» Johannes olim Georgi de Alamania:6® i tessitori Arrigus Raymugni e Vaiantes Vaiantis de Alamania.®! La fondazione e la decorazione della Cappella di Santa Barbara in San Domenico sono relativamente ben docu-

mentate. L’atto del 23 novembre 1478, in cui sono stabili-

te le modalità di consegna della cappella alla Compagnia di Santa Barbara, informa su diritti e doveri dei contraen-

ti e sui privilegi accordati alla compagnia. Di particolare interesse è il contratto stipulato tra la compagnia e Matteo di Giovanni già una settimana dopo la presa in consegna della cappella, il 30 novembre, che fornisce informazioni

su una serie di questioni a cui raramente si trovano rispo-

ste altrettanto precise nella Siena del Quattrocento.® Si

viene a sapere quanto fosse importante per i committenti e l’artista il riferimento a un modello, quali particolari ri-

chieste estetiche ponesse il committente e in che modo ve-

nissero brevemente sintetizzati i programmi iconografici.

Dal contratto con l’artista si evince inoltre quanto il canone delle proporzioni di un dipinto del Rinascimento potesse dipendere da determinati criteri graditi al committente. Il documento testimonia di una spiccata abilità mercantile della confraternita straniera: all'artista veniva concessa una serie di scadenze di pagamento esattamente prestabilite, ma in cambio veniva richiesto — a fronte di una

chiara pretesa di qualità — un ritmo di lavoro straordinariamente rapido. Per consentirgli di superare tutte le prevedibili difficoltà, a Matteo di Giovanni fu assegnato un ruolo di imprenditore generale, ovvero la competenza pratica e finanziaria su tutti i lavori, dalla realizzazione delle tavole lignee all'acquisto dei colori, dell’oro e dell'argento, fino al montaggio definitivo del dipinto sull'altare della Cappella di Santa Barbara in San Domenico. Un terzo documento, in cui viene confermato il pagamento della prebenda avvenuto il 10 aprile 1481, consente di comprendere meglio le condizioni finanziarie in cui si inquadrava la fondazione e l'origine del denaro di cui la compagnia di artigiani tedeschi disponeva per tale scopo. Prima di entrare nel merito di altre questioni particolari occorre porsi una domanda di principio: come fu possibile l’accendersi di una emulazione tra la tavola commissionata dagli artigiani tedeschi e quelle dipinte per influenti famiglie senesi? Se si confronta il contratto di fondazione della Cappella di Santa Barbara con documenti analoghi, ad esempio il conferimento alla famiglia Borghesi dei diritti di patronato sulla cappella adiacente, si nota quanto l'iniziativa della confraternita straniera fosse sostenuta dal

CONTRIBUTO

convento. Contrariamente ai Borghesi, che dovettero pa-

gare la prebenda di 150 fiorini contestualmente all’acqui-

sizione della cappella, agli artigiani tedeschi fu concesso di versare in un prossimo futuro — «infra discretum tempus»

— una somma per il momento imprecisata. In tutte le que-

stioni relative alla decorazione della cappella la compagnia

ebbe perlopiù carta bianca: «[...] quod dicti socii disciplinati dicte societatis teneantur [...] facere [...] unam tabulam honoratam ad altare ipsius cappelle, cum illis figuris et picturis et eo modo et forma prout eis videbitur et placebit. Et similiter teneantur et debeant fieri facere fenestram vetream [...] et hoc infra condecens et discretum tempus, prout placuerit ipsis sociis, in quorum discretione hec fienda remiserunt».0 Il convento assicurò agli artigiani tedeschi una protezione legale che a quanto mi risulta manca negli equivalenti accordi con famiglie senesi. I diritti di patronato della Compagnia di Santa Barbara sarebbero dovuti essere difesi dai domenicani contro chiunque e per tutti i tempi, e questo, significativamente, «eorum fratrum capituli et conventus propriis sumptibus et expensis».98 La forza propulsiva era molto probabilmente il “partito tedesco” del convento senese dei domenicani. All’assemblea

capitolare del 23 novembre 1478, durante la quale fu deciso il conferimento dei diritti di patronato alla Compagnia di Santa Barbara, parteciparono quattordici frati, di quattro dei quali era espressamente citata l’origine germanica. La “solidarietà nazionale” dei frati tedeschi verso gli artigiani loro conterranei residenti a Siena si manifesta chiaramente nel testamento del cuoco Matteus de Alamania. Poiché nessun notaio senese osava avvicinarsi al capezzale del cuoco tedesco malato di peste, nel settembre 1478 il domenicano Nicolaus de Saxonia — incurante del rischio di contagio — ne recepì le ultime volontà. Non è certo un caso che frate Nicolaus abbia scelto proprio il 23 novembre 1478- e cioè il giorno in cui gli artigiani tedeschi ottennero i diritti di patronato sulla loro cappella in San Domenico — per far registrare il testamento da un notaio senese. Il lascito del cuoco, che aveva nominato suo erede

universale la Compagnia di Santa Barbara, doveva evidentemente servire per pagare gli arredi della cappella appena acquisita.” In un altro caso soltanto si è potuto appurare la provenienza dei capitali confluiti nella fondazione della Cappella di Santa Barbara: il 5 novembre 1478, dunque 18 giorni prima del conferimento dei diritti di patronato alla compagnia, Domina Margarita, figlia di un tedesco, consegnò a quest'ultima l'eredità del suo defunto marito Iohannes Antonii de Alamania.”! La condizione sociale della donna conferma le nostre precedenti osservazioni sulla struttura sociale della Compagnia di Santa Barbara: il primo marito era stato un coltellinaio, e all’epoca della registrazione del contratto che qui ci interessa Margarita era risposata con un fornaio tedesco con il quale abitava «in furno sub ecclesia Sancti Vigilii de Senis», ovvero in un luogo probabilmente assai modesto.

Possiamo seguire passo dopo passo l’utilizzo della donazione di Domina Margarita, consistente in sostanza in una

casa «in tercerio Kamollie in contrada vocata Provenga-

ALLA STORIA

SOCIALE

no»: nel 1481, quando la compagnia dovette adempiere ai suoi obblighi finanziari nei confronti del convento di San Domenico, questa casa servì da capitale a garanzia del pa-

gamento della prebenda annua.” Queste informazioni sulla situazione patrimoniale della confraternita tedesca e sul finanziamento della costosa proprietà di una cappella in San Domenico dimostrano come le somme fossero probabilmente donate solo da gente umile. Dei capitali importanti, come la casa di Domina Margarita, la compagnia poté disporre solo poco prima di impossessarsi della cappella.?? Per lo storico dell’arte risulta particolarmente interessante soprattutto la sequenza in cui gli artigiani tedeschi adempirono agli obblighi connessi con il conferimento dei diritti di patronato. Sorprendentemente, la prima preoccupazione della compagnia non riguardò il pagamento della prebenda, che garantiva regolarità alle funzioni liturgiche nella Cappella di santa Barbara, bensì l’ingaggio di un pittore. Già una settimana dopo l'acquisizione dei diritti di patronato, il 30 novembre 1478, gli artigiani tedeschi stipularono con Matteo di Giovanni un contratto per la realizzazione della grande pala d’altare (fig. 13, tavola 1Lxvi): un intervallo temporale che appare straordinariamente breve, se si pensa che in quei pochi giorni un gruppo di artigiani stranieri doveva discutere e deliberare in assemblea tutta una serie di problemi — dalla scelta dell’artista alle questioni relative alle dimensioni della tavola e all'iconografia, fino all’ammontare del compenso e alle rate di pagamento. Già la sola definizione dell’innovativa iconografia richiedeva, come vedremo, un dibattito approfondito. La realizzazione del dipinto coincise con l’inaugurazione del transetto di San Domenico appena completato. L’abbattimento della parete divisoria fra la navata e il transetto lasciò per la prima volta libera la vista sulle cappelle del coro (fig. 7). Evidentemente gli artigiani tedeschi volevano sfruttare questo momento di intensa attenzione verso la loro cappella per presentare la tavola (fig. 13, tavola Lxvii). Il pittore avrebbe dovuto completare la grande opera nel tempo record di otto mesi; un prolungamento dei lavori fu escluso 4 priori: «[...] che decto maestro Matteo debbi far fare essa tavola di legname [...] et quella havere dipenta [...] et haverla messa in sull’altare di sancta Barbara [...] per tempo di mesi octo proximi advenire, remossa ogni exceptione».? Per consentire tale ritmo, gli artigiani

tedeschi si impegnarono a effettuare quattro pagamenti a scadenze ben precise: il 30 novembre 1478, alla stipula del

contratto, furono subito pagati al pittore i primi 25 fiorini; una somma uguale fu promessa per la Pasqua del 1479; un terzo pagamento di 20 fiorini era previsto per la Pentecoste seguente, e il saldo di 20 fiorini sarebbe stato pagato al pittore non al completamento del dipinto, bensì solo dopo il suo definitivo montaggio sull'altare di santa Barbara in San Domenico. Soltanto nel linguaggio figurativo del dipinto si presentava agli artigiani tedeschi l'opportunità di competere con il messaggio autorappresentativo analogamente visualizzato da influenti famiglie senesi, un processo emulativo che il

SOI

- RINASCIMENTO

Vai

PITTURA

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113, Matteo di GiTLOL vanni, Pala di Sant a Barbara, Ste na, San Dome

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RENDE

CONTRIBUTO

ALLA

STORIA

SOCIALE

14. Matteo di Giovanni, Pala di Santa Barbara (particolare), Siena, San Domenico

contratto con Matteo di Giovanni prevedeva espressamente: «la detta tavola da farsi sia [...] richa e grande, e largha per ogni verso tanto quanto è la tavola che fece fare

della Pala di Santa Barbara) : 91,5 (altezza della lunetta della pala Borghesi), corrispondente all’incirca a 2 : 1! braccia senesi; il che collima con la prescrizione «più alto

Jacomo di Mariano Borghesi [...] Maestro Matteo debbi

[...] un quarro». Il testo del contratto tra la Compagnia di Santa Barbara e Matteo di Giovanni conferma in alcuni punti essenziali la ricostruzione della pala Borghesi qui proposta (figg. 1, 3): a Matteo fu richiesto di raffigurare quattro santi su ciascuno dei pilastri laterali («nelle colonne [...] debbino essere dipinti quattro Santi per colonna») e di realizzare una predella composta da cinque tavole («nel mezo de la predella debbi essere dipento un Crocifisso [...] ed ad ogniuno de’ canti d’esso Crocifixo sieno dipente due storie di sancta Barbara»).?® Poiché nel contratto era esplicitamente previsto un riferimento al modello della pala Borghesi,

far fare essa tavola [...] dipenta e adornata d’oro fino, et di tutti e colori richamente, ad giuditio d’ogni buon maestro, come sta quella di Jacomo Borghesi».” Pur riprendendo in linea di massima le dimensioni del modello di Benvenuto di Giovanni (fig. 1), la Pala di Santa Barbara (fig. 13, tavo-

la xvi) avrebbe dovuto superarlo in altezza grazie a una lunetta decisamente più alta: «che al colmo di decta tavola debbi essere [...] più alto che quella che fe’ fare decto Jacomo, un quarro, per lo meno». La ricostruzione della pala Borghesi (fig. 1) consente di verificare con facilità se Matteo di Giovanni si sia effettivamente attenuto a tali richieste. Le dimensioni dei pannelli centrali coincidono abbastanza: quello della Pala di Santa Barbara (fig. 13, tavola xvi) misura cm 167,5 X 186, quello della pala Borghesi (fig. 1) cm 161 x 189. Nel confronto bisogna tenere conto che la lunetta della Pala di Santa Barbara (alta cm 105,5) deve essere integrata con una cornice equivalente (cm 16 di altezza) a quella della pala Borghesi idealmente ricostruita (figg. 1, 3): si ottiene così un rapporto di cm 121,5 (altezza ricostruita della lunetta

la corrispondenza numerica tra queste sequenze di imma-

gini e il fotomontaggio qui pubblicato (fig. 1) attesta la correttezza della ricostruzione. Nel loro intento di emulare le committenze delle famiglie senesi, gli artigiani tedeschi attribuivano grande importanza alla qualità dei colori e dei metalli preziosi. A Matteo di Giovanni fu prescritto di rendere la sua opera ricca quanto il modello dei Borghesi (figg. 1, 4, tavola Lxvn); in concreto: «sia dipenta la figura di sancta Barbara sedente in

PITTURA

- RINASCIMENTO

Rispetto al modello (fig. 4, tavola Lxvn), il fondo oro della Pala di Santa Barbara (fig. 13, tavola Lxvin) si amplia in alrezza fino alla metà esatta della tavola. Per gli artigiani tedeschi il fascino della lucente superficie dorata era più importante delle leggi della prospettiva centrale, a cui il disegno delle piastrelle di un pavimento di marmo che si estende in profondità offriva un'eccellente opportunità esemplificativa. In tale contesto si ricorderà che Michael Baxandall8° ha confrontato dei modelli di esercizi prospettici - come quelli della pala Borghesi (fig. 4, tavola LxvIl) - con problemi di geometria che nel Quattrocento erano particolarmente familiari ai mercanti (c dunque probabilmente anche a Jacopo Borghesi). Viene da pensare che la Compagnia di Santa Barbara si sia lasciata guidare già nella scelta dell'artista dalla sua immagine ideale di un “pittore-orafo”. Con ogni probabilità gli artigiani tedeschi conoscevano la tavola realizzata pochi anni prima da Matteo di Giovanni per l’altare Della Ciaia nella chiesa senese di Santa Maria dei Servi, in cui la Madonna —- come più tardi la santa patrona della compagnia (fig. 13, tavola Lxvin) — è raffigurata seduta su un trono d’oro." Nella competizione con le committenze di influenti fami-

glie senesi, la tavola della “Natione oltramontana di lingua

15. Matteo di Giovanni, Pala di Santa Barbara (particolare), Siena, San Domenico

sur una sedia d’oro e lei sia vestita d’uno mantello di brochato cremisi» (figg. 13, 15, tavola Lxvm).?°

Matteo non si limitò a stendere la foglia d’oro sotto l’inte-

ra figura della santa, ma adottò lo stesso procedimento

anche per altre parti della tavola, come si nota particolarmente bene nei Re Magi inginocchiati davanti alla Madonna: nell’attuale stato di conservazione, la caduta del

colore rosso rivela la foglia d’oro sotto il manto del re più giovane (fig. 13, tavola Lxx1). La torre che la santa regge con la sinistra, e che oggi si presenta nei toni bruno-rossastri del bolo, va immaginata luccicante dell’argento originario; e originali non sono neppure le strane ombreggiature sulla veste dorata di Santa Caterina, formatesi con l’affiorare della preparazione di

fondo (fig. 13, tavola Lxvm). Evidentemente Matteo voleva aderire fin nei minimi dettagli all'idea di qualità degli artigiani tedeschi, che sembravano alla ricerca più di un orafo che di un pittore. Le basi e i capitelli della recinzione presbiteriale marmorea sullo sfondo del dipinto, che nella pala Borghesi (fig. 4, tavola Lxv) erano dipinti di giallo a imitazione del metallo prezioso, furono realizzati da Matteo in oro puro (fig. 13, tavola Lxvi); ai colori chiari l'artista mescolò tinte più scure, per far risaltare maggiormente la lucentezza dell'oro nel contrasto ad esempio con un bianco ombreggiato di grigio. I motivi ornamentali delle aureole, che significativamente sono anche molto più grandi di quelle di Benvenuto (fig. 4), sono assai più ricchi, così che l’oro — soprattutto al lume

delle candele — si accende di potenti riflessi.

tedesca” (fig. 13, tavola rxvm) doveva inoltre distinguersi per la sua “iconografia nazionale”. La Compagnia di Santa Barbara si era fatta assicurare dal convento ampia libertà riguardo agli aspetti iconografici: l’atto stilato il 23 novembre 1478 in occasione del conferimento dei diritti di patronato prevede espressamente che ai tedeschi fosse consentito di ornare la loro tavola «cum illis figuris et picturis et eo modo et forma prout eis videbitur et placebit».® Molti osservatori dell’epoca dovevano sapere che le associazioni di artigiani tedeschi residenti in Italia veneravano santa Barbara come loro patrona. Sulla cornice dell’immagine della santa dipinta da Cosimo Rosselli e collocata nel 1469 nella chiesa fiorentina della Santissima Annunziata si legge: BARBARA DIVA TIBI TABULAM SANCTISSIMA CETUS THEUTONICUS POSUIT QUI TUA FESTA COLIT.® L’affinità tra la tavo-

la fiorentina e quella senese (fig. 13, tavola Lxvim), entrambe raffiguranti la patrona con due santi, rimanda a uno specifico canone della “iconografia nazionale”. Nella scelta delle due sante raffigurate ai lati del trono la compagnia senese si attenne ancor più a criteri nazionali

degli “oltramontani” di Firenze, i quali, dedicando a San Giovanni Battista il posto d’onore alla destra di Santa Barbara, volevano evidentemente rendere omaggio alla città che li ospitava. In quella posizione Matteo di Giovanni avrebbe invece dovuto dipingere, stando al contratto, «la figura di sancta Caterina Tedesca» (fig. 13, tavola Lxvm). Il tentativo più interessante di introdurre a Siena un linguaggio iconografico “nazionale” si nota nella composizione della lunetta (figg. 13, 14, tavole La, Lexi). Dal contratto stipulato con Matteo di Giovanni alla fine del novembre 1478 si evince che i committenti tenevano in modo particolare alla scena dell’Incontro dei Re Magi. In linea di massima il contratto è concepito in modo tale da supplire alla definizione di molti dettagli con il rimando al model-

lo. Le figure principali vengono elencate brevemente, e la determinazione di quelle secondarie — come ad esempio gli otto Santi dei pilastri delle cornici laterali — è rinviata a un

CONTRIBUTO

ALLA

STORIA

SOCIALE

successivo accordo verbale.® In un unico caso — che significativamente non riguardava la caratterizzazione di una figura principale, bensì una scena apparentemente secondaria sullo sfondo (fig. 14, tavola Lxxn) — gli artigiani tedeschi dettarono al notaio una “nota di regia” più particolareggiata: l’incontro dei Re Magi a un trivio davanti alle

505

porte di Gerusalemme è descritto con estrema precisione: «[...] che nel colmo de la decta tavola debbi essere, € sia

dipenta la storia de’ tre Magi, li quali venghino per tre di-

verse vie, e che in chapo d’esse tre vie, si riscontrino, essi

Magi insieme, e vadino ad offerire a la Natività».86 Non mi risulta che esista alcun dipinto senese 0 toscano più antico raffigurante una scena analoga (si confronti la tipica interpretazione italiana del Viaggio dei Re Magi nella tavola del Sassetta al Metropolitan Museum di New York, nella predella di Sano di Pietro alla Yale University Art Gallery, nella pala Strozzi di Gentile da Fabriano (Firenze, Uffizi) o anche nei dipinti di Filippo Lippi, Botticelli, Benozzo

Gozzoli,

Cosimo

Rosselli

e Domenico

Ghirlandaio). Non è da escludere che i rappresentanti della Compagnia di Santa Barbara avessero mostrato a Matteo di Giovanni un modello tedesco. Tuttavia vi è una tale corrispondenza, non solo in alcuni singoli aspetti ma anche nell’idea di fondo, fra la tavola senese e il trattato di Giovanni di Hildesheim, scritto in latino fra il 1364 e il 1375 e celebre nel tardo Quattrocento (prima traduzione in tedesco nel 1389; prima edizione a stampa nel 1477 a Colonia), da lasciar supporre che gli artigiani e frati tedeschi di San Domenico ne conoscessero almeno dei passi.8° Il luogo dell'incontro è raffigurato da Matteo esattamente come lo descrive Giovanni di Hildesheim (figg. 13, 14, tavole La, Lxxn): «Il Calvario è una rupe alta quasi dodici gradini [...] Lì vicino confluivano tre strade [...] A questo

16. Pietro di Giovanni, gonfalone della Compagnia di Santa Caterina, Parigi, Musée Jacquemart-André

Le considerazioni precedenti sull’iconografia della Pala di Santa Barbara ci consentono di dedurre che la scelta del testo di riferimento fosse determinata dai suoi connotati nazionali, che alla fine del trattato tornano a manifestarsi con grande evidenza nell’elogio di Colonia, città di grande importanza anche per i domenicani a causa della celebre scuola teologica dell’ordine:

trivio si incontrarono i Magi, che non si erano mai visti

prima di allora». La fedeltà al testo si nota particolarmente bene nel risalto dato al monte Calvario, che spesso manca nei dipinti tedeschi corrispondenti. La raffigurazione del monte nell’esatto centro della lunetta (figg. 13, 14, tavole Lxx1, Lxx11) va intesa nel contesto della composizione originaria complessiva della pala d'altare. La composizione iconografica è determinata da un asse verticale che dalla base — dalla Crocifissione raffigurata al centro della predella”! — sale fino alla prefigurazione della Passione che appare, all'apice della lunetta, nella scena dell'Infanzia di Gesù (fig. 14, tavola Lxx11). Che gli artigiani tedeschi attribuissero grande importanza

alla fedeltà al testo e dunque alla riconoscibilità dell’illustrazione del passo del trattato si evince anche da una serie di particolari significativi. Le distanze ad esempio riprendono alla lettera il testo di Giovanni di Hildesheim. Conformemente a questa descrizione, la città di Gerusalemme (figg. 13, 14, tavole Lxvmi, LXXI, Lxxt1) si trova a metà stra-

da fra il Calvario e Betlemme (Giovanni parla di una distanza di due miglia in entrambe le direzioni).

Nessun'altra città si distingue per la dignità del suo popolo e per la devozione dei suoi religiosi quanto quella di Colonia. Il Signore, nella sua infinita saggezza, ha disposto così affinché i santissimi Magi, i primi credenti e puri tra i pagani, vi trovassero per sempre l’estrema dimora” [...] per essi tu [beata Colonia] sei in tutto il mondo stimata e venerata dalle genti! Più di tutte le altre città del mondo il tuo nome è sulla bocca di popoli e re, di principi e nobili!

Non dobbiamo tuttavia sopravvalutare la componente etnica dell’iconografia. Gli artigiani tedeschi volevano anche conformarsi consapevolmente al linguaggio formale senese. La loro tavola (fig. 13, tavole Lxvim, Lxx1) riprende in alcuni tratti essenziali la tipologia senese del gonfalone di una confraternita: citeremo come esempio quello della Compagnia di Santa Caterina ora al Musée JacquemartAndré di Parigi, datato 1444 (fig. 16).® Come si può notare, anche questo gonfalone mostra al centro la grande fi-

gura della santa patrona in trono, vestita di un prezioso manto di broccato. Due Angeli in volo tengono una corona sopra la sua testa, come espressamente richiesto anche

PITTURA

- RINASCIMENTO

dalla Compagnia di Santa Barbara: «che in decta tavola sieno dipenti due Angeli volanti, demostrando che tenghino la corona sopra la testa di sancta Barbara». Una corrispondenza fondamentale è riscontrabile a mio parere soprattutto nella “composizione ieratica”, che non inserisce

le figure in uno spazio tridimensionale ma le presenta in primissimo piano (si noti la disposizione degli angeli in volo; figg. 13, 16, tavola Lxvm).

506

L’esame di questa tavola mi pare infine interessante anche sotto un altro aspetto: questo caso relativamente ben documentato dimostra quanto le specifiche idee del commit.

tente in fatto di iconografia potessero condizionare le dimensioni e lo stile di un dipinto del Rinascimento. La scel-

ta di una raffigurazione “rialzata” del paesaggio, da libro illustrato, tiene conto del desiderio della compagnia di mostrare sullo sfondo una scena con molte figure e di importanza cruciale. Tale idea era più facilmente attuabile aumentando sensibilmente l’altezza della lunetta (fig. 13, tavola ixvm) rispetto al modello (figg. 1, 4, tavola Lxvn),

creando così uno spazio ben maggiore per dispiegare la

narrazione visiva. Né l’artista, né il committente erano ur-

tati da una simile “deformazione” delle proporzioni del modello, dovuta all’ingrandimento unilaterale di una sola parte della tavola (si ricorderà come il committente attribuisse al contrario grande importanza alla esatta replica delle misure della tavola centrale del modello, la pala Borghesi; figg. 1, 13, tavola Lxvin).”

III.

I TRE

PITTORI

DI LODOVICO

TANCREDI

Lo studio della pala Tancredi di San Domenico (fig. 17, tavola Lxx1n1) — il «capolavoro tra tutte le pale d’altare senesi del tardo Quattrocento» (John Pope Hennessy)? — si è finora concentrato essenzialmente su questioni di attribuzione, di datazione e di identificazione dei modelli. A un parere unanime si è finora pervenuti unicamente riguardo

all'attribuzione: a partire dalla New History of Painting pubblicata nel 1864-66 da G. B. Cavalcaselle e J. A. Crowe, la scena della Natività (in precedenza attribuita al Sionorelli) è considerata una delle opere principali di Francesco di Giorgio.” Altrettanto indiscusse sono le attribuzioni della lunetta a Matteo di Giovanni e della predella a Bernardino Fungai, mentre le proposte di datazio-

ne divergono fortemente, oscillando dagli anni intorno al 1475/80 fino al 1500 circa.!% Come fonti di ispirazione di Francesco di Giorgio sono stati menzionati alcuni maestri

della scuola fiorentina e umbra, in particolare il Botticelli, il Signorelli e Filippino Lippi. Non sono stati invece presi in considerazione i problemi di ordine storico-sociale: la personalità del committente Lodovico Tancredi, la ricostruzione della cronistoria dell’incarico e le questioni che si delineano quando si tenta di interpretare il dipinto dal punto di vista del committente. La modalità di collaborazione fra i tre pittori, singolare sotto molti aspetti, a quanto mi risulta non è mai stata dibattuta. Lo specialista di Matteo di Giovanni si è interes-

sato esclusivamente alla lunetta, il biografo del Fungai ha preso in considerazione solo la predella e gli studiosi di

Francesco di Giorgio si sono concentrati unicamente sulla tavola centrale. L'analisi che segue prende spunto dalla composizione atipica di questo dipinto (fig. 17, tavola Lam), che si discosta in alcuni aspetti essenziali dal modello il cui tipo è qui esemplificato attraverso la pala Borghesi (fig. 1; il rimando a questa tavola appare fra l’altro motivato non solo perché entrambi i dipinti erano collocati in San Domenico, ma anche perché alcuni aspetti dell’opera di Benvenuto di Giovanni — l'iconografia della lunetta, la raffigurazione della Strage degli Innocenti al centro della predella — potrebbero essere stati recepiti direttamente). Sorprende soprattutto l’assenza di qualunque riferimento iconogratico diretto o indiretto al committente, quel Lodovico Tancredi che aveva profuso nel completamento della costruzione e nell’arricchimento degli arredi di San Domenico un impegno ben superiore a quello di Jacopo Borghesi, tanto esaltato tramite i mezzi espressivi adottati nel dipinto da lui commissionato. Sorprende inoltre la posizione subordinata attribuita al santo patrono, Vincenzo Ferrer, che non compare né nella tavola centrale, né nella lunetta, ma soltanto in una piccola scena della predella (fig. 19) che a prima vista risulta di non facile lettura (e che infatti finora è stata male interpretata dagli studiosi).!"" La Natività è raffigurata come una semplice “storia” (fig. 26), ovvero senza quella presenza di santi che era consueta nel contesto delle pale d'altare senesi (si confronti la tavola dipinta nel 1475 da Francesco di Giorgio per l’altare maggiore del monastero olivetano presso Porta Tufi, che raffigura lAdorazione del Bambino alla presenza dei santi “S. BERNARDUS Aspas” (Tolomei?) e Tommaso d'Aquino; fig. 28). Inconsueta appare la modalità della collaborazione tra botteghe che qui si osserva. A ciascuno dei tre pittori fu assegnata una precisa parte della pala perché la realizzasse autonomamente, senza che si capisca chi dei tre abbia coordinato la progettazione dell’insieme. Manca un disegno unitario capace di armonizzare i singoli contributi: il paesaggio e le figure sono concepiti in modo molto diverso nella lunetta, nella tavola centrale e nella predella; la composizione del sarcofago raffigurato nella lunetta non tiene minimamente conto dell’architettura del vicino arco di trionfo, e persino i compiti di coordinamento più semplici e ovvi (come l’armonizzazione delle forme delle aureole) rimangono inadempiuti (fig. 17, tavola xxm).!°

Nella discussione che segue si potrebbero assumere due posizioni: da un lato, richiamandosi al mancato rispetto delle regole citate, si potrebbe contestare che la pala Tancredi così come la vediamo oggi conservi la composizione originale del tardo Quattrocento; d’altro canto, a conferma dell’autenticità dell’assemblaggio attuale, si può citare la testimonianza della visita pastorale che nel 1575 ha descritto la tavola con la Natività in San Domenico come opera commissionata da Lodovico Tancredi.!% L'Archivio di Stato di Siena possiede ampio materiale documentario su questo episodio; mancano tuttavia, come è spesso il caso nel Quattrocento, i documenti più espliciti,

e cioè i contratti stipulati tra il committente e gli artisti. I fatti di rilevanza storico-artistica devono essere desunti in-

CONTRIBUTO

direttamente dai contratti riguardanti la fondazione e la dotazione della cappella, dai testamenti di Lodovico Tancredi e dal sepoltuario di San Domenico. Il fascino della ricerca sta nella ricostruzione della cronistoria di un incarico inconsueto e nell’investigazione di documenti che non rispondono all’idea convenzionale di fonti della storia dell’arte. Il metodo scelto è quello dell’analisi dettagliata dei documenti ordinati in sequenza cronologica, che offre la migliore opportunità di farsi un’idea della struttura e della valenza espressiva delle fonti. Da un punto di vista prettamente storico-artistico, il documento redatto il 7 settembre 1493 in occasione della fondazione della Cappella Tancredi non appare di particolare interesse.!* Non vi si parla infatti di singoli elementi di arredo, ma soltanto di generici «ornamenta ad divinum officium consueta». La “cappella” (che non aveva una propria struttura architettonica definita ma era costituita unicamente da un altare e dal luogo di sepoltura) si trovava in fondo alla parete destra della navata (vista dall’entrata della chiesa), dunque vicino al luogo dove oggi la tavola è nuovamente esposta. Come fondatori l'atto notarile non cita genericamente la famiglia Tancredi, né un particolare ramo della famiglia, bensì i fratelli Lodovico e Francesco,

intimamente legati da interessi commerciali e da mutuo soccorso. Lo stesso notaio che redasse questo atto (Benedetto Biliotti) registrò anche numerose operazioni dei soci d’affari Lodovico e Francesco, come la nomina di procuratori, l'acquisto di stoffe (i due fratelli erano membri dell’“Arte della Lana”, la potente corporazione dei mercanti di tessuti), nonché varie transazioni bancarie e ac-

quisti di terreni. Gli altri due fratelli e le due sorelle!” erano esclusi dalla fondazione della cappella in San Domenico. Il concetto di “cappella di famiglia” rinascimentale, perlopiù utilizzato in modo indifferenziato nella storia dell’arte, sarebbe dunque da precisare caso per caso. L'unica notizia sulla Cappella Tancredi nel decennio successivo alla sua fondazione è una breve nota nel sepoltuario di San Domenico: il 24 settembre 1495 viene registrata la sepoltura di Onorata Porcari, la moglie di Francesco Tancredi, «dinangi ala lor capella sotto al pergolo».!° Possiamo dunque supporre che a quell'epoca l’altare della cappella fosse già stato eretto. Dobbiamo le informazioni precise sulla storia della realizzazione della pala d’altare allo zelo con cui lo scapolo Lodovico Tancredi scrisse testamenti particolareggiati con elenchi minuziosi delle sue proprietà e dei suoi debiti. Nel testamento redatto il 3 agosto 1505 da Benedetto Biliotti vale la pena di leggere anche le parti di non immediata rilevanza storico-artistica, per comprendere il contesto in

cui si situa il passo sulla pala d’altare della cappella di famiglia.!°” In primo luogo si vede confermata l’alleanza tra i due fratelli Lodovico e Francesco già sottolineata nell’interpretazione dell’atto di fondazione. I quattro figli maschi di Francesco, morto nel 1497, sono nominati eredi universa-

li.! Rispetto alle somme citate nel testamento, l’ammontare della prebenda di 200 fiorini, interamente a carico di Lodovico, e delle spese per gli arredi (che, in analogia alle fondazioni dei Borghesi e della Compagnia di Santa

ALLA STORIA

SOCIALE

Barbara, si possono stimare all’incirca in 150 fiorini) appare modesto. Lodovico poteva permettersi di promettere a una delle figlie di suo fratello Francesco! una dote di

1000 fiorini e di dare in legato al Comune di Siena 400 fio-

rini. Il valore di una delle sue tenute di campagna (che nel testamento è citata in modo quasi accidentale a causa di un diritto di riscatto che gli eredi avrebbero dovuto rispettare)!!° è stimato in 1200 fiorini. Cito queste somme anche per chiarire come da un punto di vista strettamente finanziario la donazione di una pala d’altare per un costo massimo di 100 fiorini non dovesse rappresentare un problema per Lodovico. Le difficoltà incontrate nella realizzazione di questo progetto devono essere ricercate in altre

direzioni. In questo lunghissimo testamento Lodovico Tancredi si rivela un esperto del calcolo e un cronista scrupoloso. Si ricorda anche dei più piccoli obblighi dei suoi parenti, ad esempio di un legato di 16 lire (equivalenti a soli 4 fiorini) che sua sorella non aveva ancora pagato dall’eredità del figlio morto prematuramente,!!! e registra con estrema pre-

cisione anche le transazioni di scarsa entità, come ad esempio la vendita di un bue in cui un contadino era stato defraudato di 34 lire.!!? Chi, come suo nipote Giovanni, riceve in eredità un letto e dei vestiti, può stare certo che tutti i pezzi di biancheria e ogni elemento di vestiario sono elencati uno per uno. Riguardo alla cappella in San Domenico si parla in primo luogo del pagamento della prebenda di 200 fiorini, che sarebbe stata messa a disposizione del convento non in contanti, bensì — al fine di garantire un utile a lungo termine — sotto forma di capitale investito in beni immobili. La dotazione è vincolata alla condizione dell’intercessione eterna: se i frati non avessero officiato regolarmente, a sca-

denze prefissate, delle messe nella Cappella Tancredi per la salvezza dell'anima di Lodovico, avrebbero perduto la prebenda, che sarebbe stata devoluta all’arcivescovo di

Sicnato L'occasione per ripercorrere le vicende legate alla realizzazione della pala d’altare!! è fornita dal mancato regolamento dei conti con il pittore Lodovico Scotti, finora sco-

nosciuto alla storiografia dell’arte. Bernardino Fungai (che stando a quanto dichiarato da Lodovico Tancredi terminò la tavola dopo la morte dello Scotti) riceve l’incarico di stimare i costi del lavoro effettuato dal suo predecessore, escludendo dal conteggio i materiali messi a disposizione dal committente, nonché il lavoro alla lunetta, opera di Matteo di Giovanni. Gli aspetti che questo testo consente di ricostruire con maggiore facilità sono il volume del lavoro e il momento storico dell'intervento di Matteo di Giovanni. Probabilmente Matteo fu incaricato da Lodovico Tancredi di realizzare la pala d'altare nell’anno della fondazione della cappella o in quello successivo, il 1494. Fino alla sua morte, avvenuta nel 1497,!! il pittore riuscì a completare soltanto il «tondo da capo dela decta tavola». L'attribuzione della lunetta a Matteo di Giovanni, finora fondata unica-

mente sull’analisi stilistica, può dunque essere dimostrata anche a livello documentario.!!° Viene invece corretta la datazione della tavola, finora notevolmente retrodatata

507

PITTURA

- RINASCIMENTO

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17. Matteo di Giovanni, Francesco di Giorgio, Bernardino Fungai, Pala Tancredi, Siena, San Domenico

CONTRIBUTO

ALLA

STORIA

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18. Francesco di Giorgio, tavola centrale della Pala Tancredi (con indicazione delle diverse tecniche pittoriche)

dagli studiosi agli anni tra il 1470 e il 1480.!!” Interessante per comprendere il modo in cui operavano le botteghe dell’epoca è lo sviluppo del lavoro che si evince dal testamento. Come per un affresco, il pittore iniziava dalla parte più alta del dipinto; la tavola centrale veniva eseguita solo dopo il completamento della lunetta, mentre la realizzazione della predella costituiva l’ultima fase del lavoro. Anche il ruolo di Bernardino Fungai può essere ben definito: dopo la morte del misterioso Lodovico Scotti, che fu sepolto in San Domenico il 19 giugno 1498,!! Lodovico Tancredi si vide costretto a cercare un terzo pittore che portasse finalmente a termine l’opera, in lavorazione da almeno quattro anni. Prendendo come riferimento i tempi lavorativi che si desumono dal contratto stipulato fra Matteo di Giovanni e la Compagnia di Santa Barbara,!!° probabilmente a Bernardino Fungai occorsero solo pochi mesi. Con una certa cautela la predella del Fungai può dunque essere datata al 1500 circa. Termzinus ante quem è

il 3 agosto 1505: nel testamento di Lodovico Tancredi ro-

gato in tale data è infatti detto espressamente che la pala d’altare era finita: «[...] el quale finì di dipignare detta tavola doppo la morte di decto Lodovico Scotti». Risulta invece oscuro perché nel documento compaia, invece del nome di Francesco di Giorgio, quello di Lodovico Scotti. Lo Scotti visse dal 1462 al 1498, e i documenti scritti che su di lui è stato possibile reperire riguardano solo le sue attività commerciali, non la sua attività di pittore: lo si trova citato nel 1484 e nel 1489 a Siena nel contesto di alcune vendite di terreni!° e nel 1485, sempre a Siena, in occasione della consegna della dote a sua sorella Francesca.!?! In tutti e tre i documenti accanto a Lodovico è menzionato il fratello Magio, i cui testamenti del 9 agosto 1509 e del 12 maggio 1512 non forniscono alcuna informazione sull’attività di Lodovico.!?2 Uno dei motivi dell’allogagione allo Scotti doveva essere la sua appartenenza alla cerchia più stretta di Lodovico Tancredi. Dai documenti si evince infatti che le famiglie Tancredi e Scotti erano legate in più modi: a Siena abita-

PITTURA

- RINASCIMENTO

v SPa < a | Le ni CAT

19. Bernardino Fungai, Disputa di San Vincenzo Ferrer (predella della Pala Tancredi), Siena, San Domenico

vano vicinissime; entrambe erano imparentate con l’influente famiglia Saracini; esponenti di entrambe erano membri dell’“Arte della Lana”.!? Nel testamento di Lodovico Tancredi si legge che Lodovico Scotti avrebbe proseguito il lavoro di Matteo di Giovanni. Pertanto lo Scotti può aver dipinto solo nella tavola centrale. L’analisi della lunetta e della predella rivela infatti con certezza che la prima è opera esclusivamente di Matteo di Giovanni, mentre nella seconda si riconosce solo la mano di Bernardino Fungai (figg. 17, 19, tavola Laxm). Di importanza decisiva non soltanto per rendersi conto del lavoro svolto da Lodovico Scotti, ma ancor più riguardo la questione dell’autenticità della pala d’altare è la frase del testamento sui materiali pagati direttamente da Lodovico Tancredi: «Item, affermando che già più anni passati sono che lui allocò a Lodovico di Ristoro di Notto Scotti ad dipegnare la tavola del’altare di decta cappella, cioè di colori tanto che l’oro afferma havere messo decto testatore [...] unde vuole e lassa che per Bernardino Fungai dipentore [...] si vegha la manifattura di decto Lodovico dipentore, cioè la dipentura sola perché di bianco e di gesso e d’oro la fece fare decto testatore [...]». In tale contesto il verbo «fece fare» va forse interpretato nel senso che già Matteo di Giovanni era stato incaricato

di stendere sulla tavola centrale la campitura di fondo e, in certe parti, la foglia d’oro che a quell'epoca veniva regolarmente applicata prima del colore. Ma nella nostra argomentazione l'aspetto determinante non è la precisazione del punto esatto in cui lo Scotti cominciò a lavorare, bensì il fatto che nel documento siano citate due volte delle spese per una doratura nella tavola centrale di cui non si rilevano tracce nella Natività così come si presenta oggi

(anche le sottili linee dorate delle aureole sono aggiunte successive: le recenti analisi della tavola nel laboratorio di restauro dell’Opificio delle Pietre Dure a Firenze hanno evidenziato come in origine i santi e gli angeli raffigurati nella tavola centrale non avessero aureole; figg. 20, 23, 26, 31, tavole Laxv, Laxvin). Due sono le tesi in discussione: o gli storici dell’arte sono incorsi in un grave errore dichiarando l’opera di un certo Lodovico Scotti un capolavoro di Francesco di Giorgio, oppure l’opera dello Scotti è stata sostituita già prima della visita pastorale del 1575 (in cui si parla già di una «icona cum misterio Sanctissime Nativitatis in tabula perpulcre depicte»)!* con un’opera di Francesco di Giorgio in origine destinata a un altro luogo. Altre ipotesi sono secondo me da escludere. Con quella di

CONTRIBUTO

ALLA STORIA

SOCIALE

SII

20. Francesco di Giorgio, tavola centrale della Pala Tancredi (particolare), Siena, San Domenico

PITTURA

- RINASCIMENTO

21. Francesco di Giorgio, tavola centrale della Pala Tancredi (particolare), Siena, San Domenico

un completamento, una rielaborazione o una sostituzione

dell’opera dello Scotti da parte di Francesco di Giorgio contrasta il testamento rogato tre anni dopo la morte di Francesco, in cui Lodovico Tancredi afferma chiaro e

tondo che Bernardino Fungai aveva portato a termine la tavola dopo la morte dello Scotti. Due anni dopo, il 27 maggio 1507, in un codicillo aggiunto al testamento in occasione del saldo di una cifra residua agli eredi dello Scotti, il committente ribadisce che la pala d’altare collocata nella sua cappella di famiglia in San Domenico è sostanzialmente opera di questo misterioso pittore: «[...] annullavit et cassavit particulam dicti testamenti in qua fit mentio de tabula altaris eorum in ecclesia Sancti Dominici picta per Lodovicum de Scottis, quia ex inde post dictum conditum testamentum [e cioè dal 3 agosto 1505] saldavit computum dicti Lodovici et sibi integre satisfecit ut asseruit de suo labore dicte picture».! Per inciso va sottolineato come il lavoro dello Scotti dovesse essere di proporzioni notevoli, dato che il pittore ricevette varie rate di pagamento da Lodovico Tancredi («[...] et per tale dipentura decto dipentore hebbe più volte denari dal decto testatore et etiam per lui dal erede d’Ambruogio Spannocchi e da’ compagni banchieri di Siena»). Confrontando ad

esempio con il ritmo delle rate concordate dalla Compa-

gnia di Santa Barbara con Matteo di Giovanni,!° appare chiaro come la presenza di una serie di pagamenti parziali significhi un lavoro durato almeno molti mesi. Nel porre la questione se la pala Tancredi si sia conservata nel suo stato originale o sotto forma di “pasticcio” cinquecentesco acquistano importanza anche certe peculiarità iconografiche. Il programma iconografico della pala d’altare (fig. 17, tavola rxxm) può essere verificato sulla base del contratto di dotazione dell’11 dicembre 1506, in cui sono elencati tutti i giorni in cui si sarebbe dovuto dire messa nella cappella di San Domenico per la salvezza dell’anima di Lodovico Tancredi e dei suoi eredi.!” L'iconografia della lunetta e della predella corrisponde ampiamente a questo calendario, in cui sono segnalate le feste di Maria Maddalena, prevista come santa titolare al momento della fondazione della cappella nel 1493!°8 (e raffigurata sia nella lunetta, sia nella quinta tavola della predella), dell’Arcangelo Michele (raffigurato nella lunetta) e dei Santi Sebastiano e Vincenzo Ferrer!?? (seconda e quarta ta-

vola della predella). Tanto più sorprende che tra il ciclo delle festività e l'iconografia della tavola centrale non sussista alcuna corrispondenza: nel “calendario Tancredi” si cercherà invano la festa della Natività. Un'altra incongruenza tra liturgia e iconografia si osserva

CONTRIBUTO

ALLA STORIA

SOCIALE

533

22. Francesco di Giorgio, tavola centrale della Pala Tancredi (particolare), Siena, San Domenico

23. Francesco di Giorgio, tavola centrale della Pala Tancredi (particolare), Siena,

San Domenico

rispetto al ruolo di san Vincenzo Ferrer. Nel calendario delle festività da osservare nella Cappella Tancredi il momento culminante è chiaramente costituito dal giorno dedicato a questo santo:

la Vita di San Vincenzo redatta da Petrus Ranzanus nell’anno della canonizzazione (1455), e nel cui libro secondo

In prima sieno tenuti et obligati essi frati per vinculo di iuramento e sotto pena di scomunicatione, nela vigilia di Sancto Vincenti ciascuno anno hornare decta cappella honorevolmente come meglio potranno, et al hore competenti cantare el vespro solemne, facendo commemoratione del predecto Sancto. Et la mattina dela sua festività al hora competente sieno tenuti cantare la Messa con diacono e subdiacono honorevolmente et così in decto dì dela sua festa sieno tenuti cantare el vespro solemnemente al hora competente con li paramenti honorifici, facendo commemoratione del Sancto predetto, et lo dì sequente, ciascuno anno in perpetuo, dopo decta festa, sieno tenuti in essa cappella cantare la Messa de’ morti con paramenti neri honorevoli.!5°

Quam vero acutus, acer, copiosusque disputator contra Judaeorum perfidiam fuerit, ac quam clare Scripturarum aenigmata eis aperire consueverit, illud vel maxime de-

Cito per intero questo passo del contratto di dotazione per evidenziare quanto poco, rispetto alla liturgia, l’importanza del santo patrono sia sottolineata nell’iconografia della pala d’altare così come la vediamo oggi. A livello visivo San Vincenzo Ferrer, citato quasi di sfuggita in una delle tavolette della predella (fig. 19), è chiaramente subordinato ai due santi raffigurati nella lunetta.

(capitolo terzo) la conversione di ebrei e musulmani spagnoli viene così descritta:

monstrat, quod in diversis utriusque Hispaniae urbibus, su-

pra viginti quinque millia ex eis ad suscipiendam Christianam adduxerit religionem, et eorum templa in Christi ecclesias

dedicari fecerit. Nec minus

multi Saraceni, quorum

in

Hispania magna copia est, ejus ignitis eloquiis incitati, sacrilegam Mahometis sectam detestantes, sacrum baptisma

perceperunt, quorum numerus octo millium fuit.!?

In piena corrispondenza con il testo, nella tavola del Fungai si vede in primo piano la Disputa di San Vincenzo con gli ebrei. La sicurezza del santo contrasta con l’incertezza degli ebrei, che si scambiano sguardi dubbiosi. Nel mezzo fondo è raffigurata la scena storicamente successiva del battesimo di un fanciullo ebreo, che esemplifica il trionfo di Vincenzo. Il riferimento diretto alla fonte scritta trova infine conferma nei Saraceni dalla pelle scura raffigurati nel mezzo fondo e sullo sfondo, i quali, stando alla Vita scritta da Petrus Ranzanus, sarebbero stati convertiti da san Vincenzo in Spagna. La prossimità dei Saraceni con

A questo punto occorre inserire un'aggiunta sull’icono-

grafia della predella di San Vincenzo. Nelle precedenti considerazioni

si è infatti ipotizzato,

contrariamente

il fonte battesimale indica probabilmente il loro avvicinamento al cristianesimo (fig. 19).

a

quanto finora sostenuto dagli studiosi,!! che la quarta tavola della predella non raffiguri una Predica di San Domenico, bensì un episodio della Vita di San Vincenzo Ferrer (fig. 19). Tale nuova interpretazione si basa sulla corrispondenza, esatta fino nei dettagli, tra l'iconografia e

Leggendo il contratto di dotazione dell’11 dicembre 1506 ci si aspetterebbe non solo un'immagine particolarmente grande di San Vincenzo Ferrer, ma anche una raffigurazione del santo patrono del committente Lodovico Tancredi, per la salvezza della cui anima i domenicani

PITTURA

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Francesco di Giorgio, tavola centrale della Pala Tancredi (particolare), Siena, San Domenico

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STORIA

SOCIALE

9I5

25. Francesco di Giorgio, tavola centrale della Pala Tancredi (foto a luce radente), Siena, San Domenico

avrebbero dovuto pregare davanti alla pala d’altare nelle festività dei santi citati e in otto feste di Maria: «E decti fratri e convento sieno tenuti a ogni celebrationi e Messe [...] pregare Dio per tutti li passati di decto Lodovico e suoi heredi».! Con questo testo si accorderebbe al meglio una Maestà su fondo oro della Madonna in trono con ai lati i due santi del #tulus e del nomen (cfr. fig. 1). Ma una pala con una simile composizione potrebbe essere sopravvissuta al massimo fino al 1573, anno in cui il sepoltuario di San Domenico cita per la prima volta la pala Tancredi come «altare Nativitatis»;!?4 tutte le otto precedenti menzioni

della Cappella Tancredi, redatte tra il 1498 e il 1558, riportano invece laconicamente la definizione «altare Sancti Vincentii».! Il nuovo titolo della pala d’altare — e la nuova tavola centrale? — vengono definitivamente stabiliti dalla visita pastorale del 6 ottobre 1575: «Visitavit altare sub ti-

tulo Nativitatis Domini nostri Iesu Christi [...] iconam [habebat] cum misterio Sanctissime Nativitatis in tabula per-

pulcre depicte. Quod est dotatum a familia de Tancre-

dis».!5 Per inciso si segnala che Monsignor Bossio accordò all'opera di Francesco di Giorgio l’aggettivo «perpulcra», mentre ad esempio la pala Borghesi di Benvenuto di Giovanni (fig. 1) fu definita solo «pulcra».!”

La conferma decisiva della tesi che la pala Tancredi non si è conservata nella sua composizione originaria del tardo Quattrocento è fornita secondo me dalle considerazioni

sulla paternità di Francesco di Giorgio esposte nel capitolo seguente e dai risultati delle analisi scientifiche della tavola. Grazie all’aiuto di amici e colleghi italiani, nel 1987 si è potuto trasferire la pala Tancredi (fig. 17, tavola Lxxm) nel laboratorio di restauro dell’Opificio delle Pietre Dure alla Fortezza da Basso di Firenze, dove un gruppo di restauratori (Paola Bracco), chimici (Angelo Moles, Mauro Matteini), tecnici (radiografie di Ottavio Ciappi, riflettografie di Roberto Bellucci e Alfredo Aldrovandi) ed esperti del legno (Ciro Castelli) ha esaminato l’opera con la collaborazione di storici dell’arte (Marco Ciatti e chi scrive). Sulla base di tale analisi è in programma per il 1990 il restauro presso lo stesso laboratorio. Una pubblicazione esauriente delle relazioni degli esperti e delle analisi scientifiche uscirà nei Quaderni dell’Opificio delle Pietre Dure e Laboratori di Restauro di Firenze; nelle pagine che seguono posso dunque limitarmi a prendere in esame gli elementi rilevanti ai fini della problematica che qui ci interessa. Fondamentali per la ricostruzione della genesi della tavola della Natività (fig. 26) si sono rivelate la precisa differenziazione e datazione relativa delle tecniche pittoriche.

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- RINASCIMENTO

516

26. Francesco di Giorgio, tavola centrale della Pala Tancredi, Siena, San Domenico

In sostanza si distinguono quattro tecniche, la cui localizzazione è indicata nella fig. 18: 1) La maggior parte della tavola — gli elementi architettonici, il paesaggio sul fondo e le figure (senza i pastori) — è eseguita con un'accurata

tecnica a tempera. 2) I Pastori (con l'eccezione del mantello rosso dipinto a tempera del Pastore in primo piano), il cane, il tetto inserito nel fornice dell’arco di trionfo, il bue e l’asino, nonché il bastone nella mano sinistra di San Giuseppe sono dipinti a olio. 3) Il prato in primo piano si distingue dal paesaggio sullo sfondo, di qualità eccellente e dipinto con cura minuziosa, per una tecnica pastosa e un

po’ trascurata; il viottolo marrone chiaro che attraversa il prato e i frammenti di edifici che vi sono disseminati sono invece resi con la tecnica a tempera di cui al primo punto.

4) Sul piano della tecnica pittorica il manto azzurro della Madonna si distingue chiaramente dalla sua veste rossa. Una caratteristica della tecnica a tempera citata al punto 1, che si distingue facilmente anche nelle foto in bianco e nero, è la modellazione delle parti in ombra mediante sot-

tili linee parallele realizzate con un pennello assai fine e un tratteggio a linee incrociate che si osserva di rado nella pittura senese del Quattrocento (ad esempio nel mantello del pastore, ma non nella veste dipinta a olio; fig. 21, tavola LxxIv). Questo tratteggio può essere usato come criterio

per distinguere non soltanto le parti a tempera da quelle a olio, ma anche i due tipi di paesaggio. Nelle parti eseguite più grossolanamente le ombre sono rese con macchie nere (ad esempio lungo il contorno del corpo del Bambino o nel piede sinistro di San Giuseppe; fig. 23, tavola Lxxv), mentre nelle zone a tempera il tratteggio evoca una gamma differenziata di gradi di luminosità (si vedano i piedi degli angeli o il piede destro di san Giuseppe appoggiato al blocco di marmo; fig. 22, cfr. anche figg. 24, 31, tavole LxxVII, LXXVII). Le diverse tecniche pittoriche vanno anche intese come se-

gnali delle differenze cronologiche. I tratti del volto di San Giuseppe, realizzato a tempera, si definiscono per lo stile

lineare, disegnativo, prevalente a Siena fino al tardo

CONTRIBUTO

ALLA

STORIA

SOCIALE

917

27. Domenico Beccafumi, Adorazione del Bambino, Siena, San Martino

PITTURA

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Quattrocento (fig. 20, tavola Laxv); le teste dei pastori, di-

pinte con pastosi colori a olio, presentano invece uno stile radicalmente diverso (fig. 21, tavola uoav). Le differenze formali si notano ancora più chiaramente nella fig. 24 (ta-

518

vola vom): il tetto di paglia dipinto con pennellate vigorose sembra un corpo estraneo nel contesto della riproduzione minuziosa delle architetture e del paesaggio da parte di Francesco di Giorgio: la resa prospettica imprecisa della struttura in legno la percepiamo quasi come una stonatu-

ra nel rigore geometrico della composizione di carattere quattrocentesco. Solo una prolungata interruzione dei lavori, solo un generale allontanamento dal modo di pensare di Francesco di Giorgio può spiegare una tale incomprensione dello stile originario.

Sulla base delle citate differenze nelle tecniche pittoriche è possibile ricostruire una sequenza di tre fasi: Prima fase. Quando la bottega di Francesco di Giorgio abbandonàò il lavoro la tavola era stata dipinta per circa due terzi con la tecnica a tempera citata al primo punto. In questa fase nella parte restante della superficie erano visibili solo il fondo bianco a gesso e le linee di contorno trasferite dal cartone. Il pittore aveva appena cominciato a dipingere i vestiti dei Pastori, che presentano una sottile campitura di fondo a tempera. La prova della corretta ricostruzione della prima fase è fornita dalle analisi chimiche e microscopiche di sezioni di campioni di colore prelevati nei seguenti punti: A) dall’incarnato dei pastori; B) dai vestiti marroni e verde scuro dei pastori; C) dalla figura del cane. I campioni A e C presentano un solo strato di colore a olio steso direttamente sul fondo a gesso, mentre nel campione B si osserva, tra il fondo a gesso e il colore a olio, un sottilissimo strato di tempera che va probabilmente interpretato come una prima mano di fondo. Seconda fase. A mio parere il completamento del dipinto con colori a olio può essere avvenuto solo dopo un intervallo di tempo piuttosto lungo. Il tentativo di datare con maggiore precisione la seconda fase mediante argomenti stilistici si rivela assai difficile, dato che gli unici criteri di valutazione sono la stesura del colore e il ductus pittorico (le linee di contorno e il disegno delle forme interne erano infatti già stati definiti nella prima fase). I metodi scientifici consentono unicamente di rilevare la sequenza tempera-olio, ma non l’ampiezza dell'intervallo temporale. Nelle zone di confine tra le campiture cromatiche si nota chiaramente come la pittura a olio, più recente, si sovrapponga alla tempera. L'artista incaricato di portare a termine il dipinto si attenne ovunque fedelmente al disegno preparatorio di Francesco

di Giorgio, visibile sul fondo a gesso sotto

forma di linee punteggiate (le figure) e incise (gli elementi architettonici). Occorre ricostruire la procedura lavorativa di Francesco di Giorgio per capire in base a quali criteri sia possibile verificare la fedeltà all’originale delle integrazioni a olio. Il lavoro alla tavola preparata iniziava dal trasferimento del disegno delle figure dal cartone mediante il procedimento dello “spolvero”. Solo dopo veniva eseguito il disegno delle architetture mediante linee incise nel

fondo a gesso (fig. 20, tavola vo). La foto a luce radente qui riprodotta (fig. 25) mostra chiaramente che le linee incise delle architetture terminano esattamente in corrispondenza sia dei contorni degli animali dipinti a olio — pertanto previsti già in origine — sia di quelli delle figure dipinte a tempera. Risultati analoghi si ottengono dall’esame delle altre parti della tavola (si noti che le linee incise delle architetture vengono interrotte anche dal contorno del bastone del pastore dipinto a olio; fig. 21, tavola Lxxiv). La composizione di Francesco di Giorgio ci è pervenuta inalterata, come dimostrano anche quei punti in cui man-

cano le linee incise riservate agli elementi architettonici.

Lo strato di tempera termina ad esempio in corrisponden-

za dei contorni del tetto di paglia dipinto a olio, che dunque era stato già progettato in quella stessa forma da Francesco (fig. 24, tavola baxvmi). Terza fase. Rispetto alla cronologia del paesaggio in primo piano e nel mezzo fondo dipinto con colori pastosi e del manto della Madonna, i tecnici del laboratorio di restauro

si sono riservati di assumere una posizione definitiva solo dopo un'analisi più approfondita nel contesto del restauro del dipinto. Sulla base della sovrapposizione degli strati di colore ai margini degli oggetti raffigurati si è constatato unicamente che i toni del verde («verde rame e bianco di piombo a grossa macinazione in tempera grassa») risalgo-

no in parte a una fase ancora successiva alla dipintura a olio. La conclusione del lungo processo pittorico fu dunque molto probabilmente segnata dal completamento di ampie porzioni del paesaggio. Dalla differenziazione delle tecniche pittoriche si evince a mio parere anche un indizio importante per precisare la datazione controversa dell’opera (le proposte vanno dagli anni tra il 1475 e il 1480 fino al 1500 circa, l’ipotesi più convincente dal punto di vista stilistico). La brusca interruzione della prima fase del processo pittorico trova la spiegazione più plausibile nella chiusura della bottega nel 1502 a seguito della morte di Francesco di Giorgio. Altri tentativi di spiegazione mi paiono meno fondati. Un abbandono del lavoro a seguito di un incarico fuori Siena ap-

pare improbabile, dato che negli ultimi quindici anni circa della sua attività Francesco di Giorgio mantenne costantemente il proprio domicilio a Siena. Con la possibilità di una conclusione del lavoro più o meno concordata con il committente contrastano non solo i rigidi vincoli a cui un artista del Quattrocento era sottoposto per contratto, ma anche l’osservazione tecnica di una conclusione non programmata del lavoro. Evidentemente al momento dell’interruzione mancava la possibilità di colmare lacune anche minime nella stesura del colore, ad esempio nel tetto di paglia o nel bastone che san Giuseppe tiene con la sinistra (fig. 18). Una interruzione brusca è suggerita anche dal fatto che il mantello del Pastore fu lasciato allo stadio della stesura della prima mano di fondo. Per concludere la mia argomentazione vorrei far notare espressamente le lacune nella documentazione e le possi-

bilità di una tesi contraria. Non è stato possibile scoprire per quale committente e per quale luogo Francesco di Giorgio abbia dipinto la scena della Natività (fig. 26) che

secondo la nostra tesi sarebbe stata inserita solo in un secondo tempo nella pala Tancredi (fig. 17, tavola Lxxm). Una importante replica, con varianti, senese — il dipinto nella chiesa di San Martino realizzato dal Beccafumi verso il 1523/24 su incarico di Anastasia Marsili (es27) 021 testa che nel terzo decennio del Cinquecento il capolavoro di Francesco (forse completato proprio in quegli anni da un’altra mano?) era celebre ed evidentemente accessibile con facilità, almeno per gli artisti. Le questioni più irritanti sono quelle connesse con la sostituzione della tavola centrale della pala Tancredi: perché la vecchia tavola dipinta da Lodovico Scotti non era più gradita a una generazione successiva dei Tancredi? In che modo questa famiglia si assicurò la celebre opera di Francesco di Giorgio, le cui dimensioni si adattavano abbastanza all’altare composito di San Domenico (fig. 17, tavola Lxxtm)?!4° Ma l’incognita maggiore è costituita dalla mancanza di qualsiasi informazione sull’attività pittorica di Lodovico Scotti. La principale tesi che si può opporre alla nostra è che Lodovico Scotti abbia realizzato il dipinto nella bottega di Francesco di Giorgio su cartoni disegnati da quest’ultimo.!! Ma la problematicità di tale possibile obiezione non sta solo nella difficoltà a spiegare le incongruenze compositive e iconografiche menzionate, che andrebbero attribuite unicamente al mancato coordinamento tra i pittori e all’ignoranza iconografica del committente: occorrerebbe anche insinuare che l'esperto di calcolo e pedante cronista Lodovico Tancredi non si sia più ricordato di aver commissionato la tavola a quello che all’epoca era il più cele-

bre artista della sua città. Infatti il committente non dice che lo Scotti avrebbe collaborato alla realizzazione della sua tavola: lo indica espressamente come il maestro a cui era stato affidato l’incarico di dipingerla: «lui [Lodovico Tancredi] allocò a Lodovico di Ristoro di Notto Scotti ad dipegnare la tavola dell’altare».!# Nella Toscana del Quattrocento il committente regola i conti sempre e solo direttamente con il maestro, mai con un garzone. Pertanto il problema non riguarda solo la memoria più o meno buona di un committente, ma anche la corretta ammini-

strazione di un mercante. Compiere un passo ulteriore e affermare che la Natività (fig. 26) sia stata disegnata e realizzata da Lodovico Scotti significherebbe tuttavia mettere radicalmente in discussione delle valutazioni stilistiche ben fondate. Nel prossimo capitolo si cercherà di dimostrare — per limitarsi a un aspetto specifico — che gli elementi architettonici di questa tavola sono una sigla inconfondibile di Francesco di Giorgio.

IV. IL LINGUAGGIO

PITTORICO

DELL’ARCHITETTO

DI CORTE

La carriera di Francesco di Giorgio si può riassumere, semplificando molto, in tre fasi: una prima, fino al trentaseiesimo anno di età dell’artista (1475), in cui Francesco lavorò come pittore, scultore e architetto noto a livello regionale, nonché come ingegnere responsabile dell’approv-

CONTRIBUTO

ALLA STORIA

SOCIALE

tutti gli artisti senesi del Quattrocento: la chiamata alla corte di Urbino; la terza fase, dal 1486 fino alla morte nel 1501, corrisponde all'attività di architetto della repubblica

di Siena: l’epoca della massima fama, in cui vari principi si contendevano l’artista.

Il riconoscimento di uno status particolare dell’architetto di corte celebre in tutta Italia si evince fra l’altro anche dagli atti relativi al richiamo a Siena. Nel dicembre 1485 il governo senese si attivò per individuare una adeguata carica nell’amministrazione della repubblica per l’artista di corte.! La carica sarebbe stata assegnata a vita («mentre che vive») — un privilegio raro nei centri artistici del Quattrocento governati da un Comune. Al momento dell’entrata in carica fu promesso il pagamento di un’unica somma di 800 fiorini, straordinariamente elevata rispetto agli abituali compensi degli artisti dell’epoca: si confrontino i pagamenti su citati, ad esempio la somma di 90 fiorini ricevuta pochi anni prima da Matteo di Giovanni dalla Compagnia di Santa Barbara per otto mesi di lavoro, comprese le spese per i materiali necessari a completare una tavola alta più di tre metri e dipinta su fondo oro. Il valore di una tavola alta circa due metri, dipinta da Francesco di Giorgio poco prima della partenza per Urbino, nel 1475 fu stimato tra i 50 ei 60 fiorini (fig. 28).!4° La carica di “architectore de la repubblica”! implicava per Francesco una generica attività di consulente e perito per lo stato senese che non era specificata in dettaglio, probabilmente perché si sperava di approfittare in ogni possibile occasione del sapere e della competenza del geniale concittadino: «per [...] li bisogni de le terre et roche et altre occorrentie pubbliche de la città, contado et iurisdictione di Siena [...] Et sia obligato a andare per lo contado et iurisdictione di Siena dove e quante volte per alcuno de’ decti Magistrati li fusse ordenato».!” La carica lasciava a Francesco di Giorgio molte libertà: la possibilità di accettare numerosi incarichi e anche di lavorare al di fuori dello stato senese. Ma il governo della città attribuiva grande importanza al carattere ufficiale della carica: anche per impegni fuori Siena assai limitati nel tempo Francesco doveva presentare una richiesta formale al governo senese. Nell'agosto 1490 gli furono ad esempio concessi per un soggiorno a Urbino solo 15 giorni esatti, con la precisazione che il duca Guidobaldo non avrebbe potuto contare su una presenza più lunga dell’artista urgentemente richiesto a Siena.!# Il governo senese era molto scrupoloso nell’esigere il riconoscimento dello status di un “architectore de la repubblica”: Alfonso, duca di Calabria, rispettò l’orgo-

glio dei senesi e pregò con diplomatica abilità di mandare per qualche tempo alla corte di Napoli «maestro Francisco architecto de questa magnifica città de Sena»; Giangaleazzo Maria Sforza, il quale, pensando al suo status di artista di corte a Urbino che a lui appariva più rilevante, aveva definito Francesco di Giorgio «urbinatis»,!50 fu invece redarguito dal governo senese: «[...] Franciscum, haud urbinatem, verum senensem, concivem nostrum di-

lectum, nostreque etatis optimum architectum».!?! Nella sua cronaca in versi delle gesta del duca Federico da

vigionamento idrico della città di Siena; tra il 1475 e il

Montefeltro, Giovanni Santi, il padre di Raffaello, ci for-

1477 si colloca il salto di carriera decisivo, caso unico tra

nisce un quadro interessante — benché purtroppo appena

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28. Francesco di Giorgio, Adorazione del Bambino, Siena, Pinacoteca Nazionale

accennato in poche righe — della personalità dell’artista di corte.! E stata la sua poliedricità, fa capire Giovanni Santi, ad aver predestinato Francesco di Giorgio al ruolo di artista di corte. A ciascuna delle sue attività viene reso omaggio: all'architetto, al pittore, allo scultore e all’ingegnere celebre per aver inventato «bellici instrumenti». A corte gode di alta considerazione quell’artista che si dedica a studi liberamente scelti, paragonabili a quelli degli umanisti. Nelle parole di Giovanni Santi, Francesco di Giorgio aspirava alla fama come «restaurator delle ruyne antiche e delle spente un supremo inventore». Il confronto con le dichiarazioni dello stesso Francesco

mostra con quanta precisione il Santi avesse compreso le

ambizioni di questo artista di corte: mi riferisco all’excursus sull’architettura antica in appendice alla seconda versione del trattato di Francesco (Codice Saluzziano 148 a Torino). Il testo citato si trova nella prima pagina, intesa come una sorta di frontespizio, che con intenti program-

matici mostra da tre prospettive un edificio ritenuto sin dal Medioevo rappresentativo della città di Roma: la pianta, l’esterno e l'interno visto a volo d'uccello del Colosseo: Poi che l'antica cictà di Roma per li continovi assedioni et ghuerre cominciò a manchare e grandi hedifitii spogliando

CONTRIBUTO

ALLA STORIA

SOCIALE

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ZI LE ICE delTAR ticolare), Siena, Sie ‘nacoteca Nazionale 29. Francesco diIAGRIOIE Bambino (particolare), Giorgio, Adorazione Nazioni Pinacoteca

PITTURA

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$22

30. Francesco di Giorgio, Adorazione del Bambino (particolare), Siena, Pinacoteca Nazionale

e diruendo et in più parti ruinare in modo che al presente tucti manchati sonno. Unde m20sso da huno aceso desiderio di volere quelle innovare, il che hessendo presso al fine in poco tenpo in tucto spente verranno, sì per la vetustà loro ed anco per li molti et continovi ghuastatori et pertanto el meglio ched ò possuto non con picola fatica investighando in Roma et fuore molti vari et dengni edifitii ho raccholto perbenché molto ruinati sieno et la dengnità degli ornamenti loro poco se ne vede.!” La definizione «restaurator delle ruyne antiche e delle spente un supremo inventore» offre lo spunto decisivo per connotare l’evoluzione del linguaggio pittorico di Francesco intervenuta in seguito alla carriera di architetto di corte a Urbino e Napoli.! La differenza tra le modalità espressive dell’artista locale senese e il linguaggio del maestro celebre in tutta Italia è illustrata dal confronto tra la tavola dipinta nel 1475 poco prima della chiamata a Urbino (figg. 28-30)! e la pala Tancredi (fig. 26), la surzzzza del pensiero del «nostreque etatis optimus architectus». L'effetto della pala Tancredi è segnato dalla predominanza degli elementi architettonici, con il grande arco di trionfo che si erge come una larga parete divisoria tra le figure e il paesaggio sullo sfondo. Una dominante assente nella tavo-

la del 1475, il cui scenario si compone per addizione di vari motivi: l'arco scavato nella roccia, la capanna, il tempio circolare e la città in riva a un lago (fig. 28). Il significato simbolico dell’arco di trionfo (fig. 26) è accentuato dalla separazione spaziale dal gruppo delle figure e dalla raffigurazione inconsueta della rovina: da un lato, contrariamente ai dipinti rinascimentali dello stesso tipo, essa non è intesa come luogo di rifugio della Sacra Famiglia; dall’altro mancano gli elementi che nella pittura del tempo caratterizzavano normalmente una rovina: le tracce di degrado, le erbacce che infestano l’edificio (fig. 29), l'irregolarità della distruzione. La rovina disegnata da Francesco di Giorgio si presenta come un edificio decomposto con metodo per metterne a nudo la struttura. Due colonne e il capitello di un semipilastro sono stati eliminati in modo così netto (fig. 33, tavola Lxxrv) da mostrare in tutta la sua evidenza l'articolazione spaziale dell’architettura. Con precisione simmetrica vengono mostrate due diverse condizioni: nella metà sinistra l’architettura intatta

(fig. 32, tavola rxxv), nella destra l’edificio in parte distrutto (fig. 33, tavola LxxIv): un contrasto che si percepisce come un appello all’osservatore a ricostruire mentalmente l'arco di trionfo attraverso il confronto tra parti distrutte e conservate.

CONTRIBUTO

ALLA STORIA

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31. Francesco di Giorgio, tavola centrale della Pala Tancredi (particolare), Siena, San Domenico

Della struttura architettonica si distinguono bene tutti gli elementi essenziali: l'intervallo tra la figura del pastore di sinistra e la Madonna è calcolato in modo da lasciare completamente in vista il plinto della colonna distrutta (fig. 34, tavola Lxx1v); accanto alla figura di San Giuseppe si vede una porzione, piccola ma decisiva per la comprensione della struttura architettonica, della base del semipilastro

(fig. 20, tavola Lxxv); segnando visivamente il punto di fuga l'architettura diventa più facilmente comprensibile, e dunque anche ricostruibile nella sua forma originaria. L'artista guida lo sguardo verso la barca che si intravede sull'asse centrale del fornice — o meglio verso il primo rematore (fig. 24, tavola xxv), la cui figura indica il punto di fuga prospettico (il metodo della costruzione prospetti-

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32. Francesco di Giorgio, tavola centrale della Pala Tancredi (particolare), Siena, San Domenico

ca è facilmente verificabile: nel trasferire sulla tavola la composizione, sicuramente predisposta mediante disegni preparatori, fu piantato nel punto di fuga, secondo una consolidata prassi di bottega, un chiodo a cui venivano fissate delle corde tese che consentivano di controllare la costruzione prospettica).

Esaminando la superficie pittorica a luce radente si nota una particolarità nella tecnica del disegno che illustra con un interessante dettaglio il principio di decomposizione su descritto. Dopo la preparazione del fondo, Francesco di Giorgio disegnò con estrema cura i profili dei due fianchi dell’arco di trionfo, in modo da avere chiara l’idea dell’architettura intatta (fig. 25). Solo nella fase successiva della stesura dei colori viene rilevata la parziale distruzione dell’edificio, e cioè la sovrapposizione al fianco destro dell’arco di blocchi di marmo accatastati irregolarmente. La veduta della rovina ideale immaginata dall’architetto rinascimentale! si fonda sulla ben nota leggenda del crollo del Templum Pacis riferita dalla Legenda aurea, dal Petrarca!8 e, nel Quattrocento, da Giovanni Rucellai!” e Niklaus Muffel (un accompagnatore originario di Norimberga dell’imperatore Federico m a Roma).!9 Il passo centrale — «in ipsa nocte qua virgo peperit, templum funditus corruit»!9! — rimanda alla contemporaneità della nascita di Gesù e del crollo del Temzplum Pacis. Diversamente dalla raffigurazione tradizionale, a rigore incongruente, di

una rovina distrutta da molto tempo e coperta di vegetazione, la tavola di Francesco di Giorgio trasmette il senso di unità temporale corrispondente al testo di riferimento (fig. 26). L'importanza attribuita dal pittore alla simbologia architettonica si manifesta soprattutto nella chiara evidenziazione del rapporto tra il crollo dell’antico arco di trionfo e la nascita del Trionfatore. La testa del Bambino non poggia — come nelle raffigurazioni senesi an-

teriori e anche nelle precedenti opere di Francesco di Giorgio — su un cuscino, bensì su una pietra assai vistosa, coperta da poca paglia, i cui profili la rendono chiaramente identificabile con un frammento della trabeazione dell’arco di trionfo (fig. 23, tavola Lxxv). Quanto inconsueto dovesse apparire a Siena il linguaggio pittorico dell’architetto di corte si evince dal confronto con le interpretazioni di questo tema da parte di Bernardino Fungai, tipiche del tardo Quattrocento. Vorrei rimandare ad esempio all’Adorazione del Bambino del Wadsworth Atheneum di Hartford,!9 un dipinto di tipo puramente paesistico (fig. 36). Il Fungai si orientò su composizioni precedenti tra le quali sono sicuramente da annoverare anche opere giovanili di Francesco di Giorgio, ad esempio la tavola realizzata intorno al 1470 che purtroppo è giunta fino a noi in uno stato di barbaro smembramento, sotto forma di frammenti conservati a Washington e New York. Di recente l’opera, in una ricomposizione di

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33. Francesco di Giorgio, tavola centrale della Pala Tancredi (particolare), Siena, San Domenico

tutte le parti conservate, è stata presentata nell’ambito della mostra Painting in Renaissance Siena (fig. 35).!4 La ricostruzione evidenzia lo scarso valore che Francesco di Giorgio, nel raffigurare la Natività, attribuiva inizialmente all'architettura, ridotta a un segno marginale, alla raffigurazione di un pilastro in mattoni storicamente non meglio definibile e all’accenno di due archi a tutto sesto. L'eccellenza, spesso misconosciuta, di Francesco di Giorgio pittore a mio parere risiede soprattutto nella sintesi, raggiunta nelle opere della maturità, tra concezione architettonica e pittorica. Il sistema di relazioni ottenuto mediante l’evidente corrispondenza tra la composizione delle figure e l'elemento architettonico consente una resa dei gruppi di persone più libera e dinamica rispetto alle precedenti versioni di questo tema realizzate da Francesco (fig. 26). L’architetto e il pittore contribuiscono in uguale misura all’eccellente raffigurazione del paesaggio (figg. 24, 31, tavole Lxxvi, Laxvm): l’architetto disegna tre modelli di edifici a pianta centrale che recano chiaramente la sua firma, e che il suo talento di pittore — contrariamente alle critiche negative continuamente espresse sin dal Vasari — inserisce in un delicato paesaggio di colline e monti (riguardo al problema dell'evoluzione del linguaggio pittorico si confronti la raffigurazione, ancora totalmente soggetta alla tradizione senese, del paesaggio nella tavola dipinta da Francesco nel 1475; fig. 30).

A Siena il linguaggio pittorico dell’architetto di corte era ammirato — valga per tutti l'esempio del dipinto del Beccafumi del 1523/24 circa a San Martino (fig. 27)!9 — ma in fondo non pienamente compreso. Il Beccafumi replicò molto fedelmente la composizione della pala Tancredi (con la riproduzione in controparte dei gruppi di figure tipica delle copie rinascimentali), rigettando però tutti i punti a cui Francesco teneva in modo particolare

(fig. 26) e soprattutto pretendendo di correggerne la fantasia architettonica. L'arco di trionfo è nuovamente trasformato in una rovina pittoresca, ricoperta di vegetazione, il cui degrado è descritto con tono aneddotico: una colonna variopinta spezzata; un tronco d’albero ricurvo, la cui funzione di sostegno convince poco; una struttura di tavole incomprensibile dal punto di vista tettonico, e così via. Non vi è separazione spaziale tra l'architettura e la composizione delle figure: l'arco di trionfo ha perduto gran parte del suo significato simbolico. La rinuncia a un’ampia vista sul paesaggio indica scarsa stima per la costruzione prospettica e i geniali edifici modello di Francesco di Giorgio. Il collegamento tra il nuovo linguaggio visivo e gli studi del «restaurator delle ruyne antiche» elogiati da Giovanni Santi si manifesta con sorprendente immediatezza osser-

vando i fogli del Codice Saluzziano 148 che illustrano ar-

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4. Francesco di €y107:g10 , tavola centrale della Pala Tancredi (particolare), Siena, San Domenico

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35. Francesco di Giorgio, Adorazione del Bambino, montaggio dei frammenti conservati a Washington (National Gallery of Art) ea New York (Metropolitan Museum of Art)

36. Bernardino Fungai, Adorazione del Bambino, Hartford, Wadsworth Atheneum

chitetture antiche. Prendiamo ad esempio il fol. 78 con la veduta delle cosiddette “colonnacce” del Foro di Nerva (fig. 37).!9 L'edificio riprodotto — una parte delle mura di cinta del Foro di Nerva — è ancora in larga parte conservato;!” per comprendere il metodo archeologico di

“colonnacce”, e che il Dosio abbozza espressamente un terzo semipilastro davanti al quale dobbiamo immaginare un’altra colonna (fig. 38). Francesco di Giorgio è l’unico a interpretare la decorazione murale come un arco di trionfo (fig. 37), negando in tal modo — di certo molto consapevolmente — la continuità di un sistema decorativo che costituiva una parte dell’assetto monumentale di una strada. Pertanto la sua ricostruzione risulta in molti punti inconciliabile con i dati archeologici (ovviamente il muro non poteva poggiare su una base; l’articolazione della parte inferiore non era adatta alla struttura di un arco di trionfo; non c’era un portale centrale ma

Francesco

di Giorgio

occorre

tuttavia

considerare

in

primo luogo le vedute rinascimentali, che non mostrano la costruzione nell’odierno stato, cioè riportata interamente alla luce, bensì coperta di terra fino a metà delle colonne. Sia il Codex Escurialensis (fig. 39),! sia ad esempio l’incisione di Giovan Battista de’ Cavaleri che riproduce dei disegni del Dosio (fig. 38),!° mostrano l'antica costruzione, facente parte delle mura di cinta del Foro di Nerva, come frammento di un grande sistema decorativo (composto di colonne sporgenti, di trabeazioni e attici aggettanti) a cui è accostato — con un’angolazione di 110 gradi — una sorta di ponte in muratura. Nel Codex Escursalensis è inoltre indicata la posizione del portale raffigurato anche da Francesco di Giorgio, che stranamente non è in rapporto con la posizione delle colonne (non sta cioè al centro di un intercolunnio), bensì è spostato lateralmente e addossato a un semipilastro (fig. 39). Il dato importante è che tutte le vedute rinascimentali indicano una continuità tra il muro di cinta e il fregio decorato con rilievi sul lato destro delle

solo — come si diceva — una porta inserita in posizione

asimmetrica). Anche le proporzioni hanno subito modifiche sostanziali: le colonne sono più vicine, come osserva il Dosio (fig. 38); la forma dell’intercolunnio ricostruito non è quasi quadrata, bensì spiccatamente rettangolare verticale. La struttura architettonica è vista in modo sostanzial-

mente diverso dal Codex Escurialensis e dall’incisione di Giovan Battista de’ Cavaleri (figg. 37 e 38; e anche molto diverso dalla veduta disegnata da Heemskerck nel 1532/35)!" L’accento non è posto sul peso delle masse murarie, né sulla monumentalità delle colonne, bensì sulla finezza del sistema decorativo. Dice bene Giovanni Santi:

PITTURA

- RINASCIMENTO

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37. Francesco di Giorgio, muro di cinta del Foro di Nerva, Torino, Biblioteca Reale, Cod. Saluzziano 148, fol. 78

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ALLA STORIA

SOCIALE

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38. Giovanni Antonio Dosio, muro di cinta del Foro di Nerva (incisione su rame di Ioh. Baptista de Cavalertis, 1569)

39. Foro di Nerva, Cod. Escurialensis, fol. 57v

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PITTURA

530

- RINASCIMENTO

sia «restaurator» che «inventore». La trasferibilità alle architetture della pala Tancredi (fig. 26) di quanto osservato riguardo alla rielaborazione dell’antico è così palese che bastano pochi accenni: la predilezione per gli archi di trionfo (anche quando in realtà si tratta della decorazione di una strada; anche quando non si conoscono modelli per questo tema iconografico); l'osservazione dell’edificio riportato integralmente alla luce da un punto di vista lievemente sopraelevato in corrispondenza dell’asse centrale dell’edificio; la raffigurazione nitida e completa di un sistema architettonico; la libera interpretazione (fino all'invenzione) delle tipologie architettoniche; il primato del proprio canone di proporzioni rispetto a quello rilevato mediante misurazione; l’instancabile elogio dell’antico — sopra il disegno delle “colonnacce” è scritto: «difitio dengnissimo in Roma di sopra a Scto Adriano. È di grandissima circumferentia hornato di mirabili scolture» (fig. 37).

PROBLEMI

SOCIETÀ

DI UNA

DI TEMPERAMENTO

DI BOTTEGA: DUE ARTISTI DIPINGONO UNA PALA

ANTITETICO

[riassunto del capitolo v a cura di G. T.]

Dal 1469 circa al 1475, quando si sono separati a seguito di dissidi, Francesco di Giorgio e Neroccio de’ Landi avevano la bottega insieme, quali soci di pari diritti, come per esempio dal 1421 nella stessa Siena era avvenuto per i pittori Taddeo di Bartolo e Gregorio di Cecco. In casi del genere lo storico dell’arte si vede confrontato con il problema, psicologicamente davvero stimolante, che si era posto agli stessi due soci, di armonizzare in qualche modo i loro linguaggi figurativi e le loro emozioni artistiche divergenti in opere di collaborazione. Francesco di Giorgio era per natura drammatico ed espressivo, e guardava a modelli di Donatello e dei Pollaiuolo, mentre Neroccio si rivela calmo, equilibrato, grazioso. Entrambi sono stati attivi tanto come pittori quanto, 0ccasionalmente, come scultori (nei confronti è inclusa la deli-

cata statua lignea policroma di santa Caterina da Siena di Neroccio all’oratorio della casa della santa a Siena). Visto che la documentazione pervenuta è laconica e frammentaria, tocca all’analisi stilistica ripartire fra i due maestri le opere nate in questi anni di comune bottega. Attraverso raffronti con opere firmate o attribuibili con maggiore sicurezza ai due pittori, l’autore giunge a riconoscere nella lunetta con l'An-

nunciazione di Yale (New Haven), databile sul 1470, la parte di Neroccio nella delicata e timida Vergine, quella di Francesco nelle figure in movimento, cioè nel risoluto Angelo annunciante e nei finti bassorilievi monocromi all'antica in secondo piano. La serie di confronti di dettaglio include angeli del Vecchietta, il comune maestro dei due soci. L'elemento

nuovo che consente di proporre una soluzione all’annosa questione critica è dato dalla presa in considerazione di una copia ottocentesca — un disegno acquerellato di J. A. Ramboux a Diisseldorf — da un affresco tripartito che si trovava nella chiesetta di Santa Regina fuori Porta Pispini a

Siena. Solo la parte centrale dell’affresco, con la Maestà fra

Angeli, si è conservata, staccata, alla Pinacoteca Nazionale di Siena, e consente agevolmente l'attribuzione a Francesco di Giorgio. Gli Angeli della porzione conservata dell'affresco e, ancor più, quelli inginocchiati delle due perdute porzioni laterali, noti solo tramite la copia di Ramboux, si lasciano porre a confronto con il Gabriele di Yale, attribuibile così allo stesso pittore. Per approfondimenti dello stesso tema si rimanda, in questo libro, al saggio «La “Societas in arte pictorum” di Francesco di Giorgio e Neroccio de’ Landi», pp. 537-558.

RETROSPETTIVA

SUGLI

STUDI

SULLA

CAPPELLA

BICHI

[riassunto del capitolo VI a cura di G. T.]

La Cappella Bichi in Sant'Agostino, la cui importanza è riemersa grazie alla scoperta (1977-82) degli affreschi di Luca Signorelli e di Francesco di Giorgio, merita particolare attenzione nel contesto della problematica sociologica affrontata nel saggio, a causa della sua eccezionalità. In confronto alle commissioni standard del secondo Quattrocento senese, essa,

fondata nel 1487, spiccava infatti per la qualità e la ricchezza degli arredi conservati — atfreschi, pavimento — e perduti — stalli, cancellata — che suscitavano certamente l'ammirazione dei contemporanei: nel 1494, ad esempio, il cardinale Francesco Todeschini Piccolomini diede atto ai Bichi di aver decorato la loro cappella «magna impensa, specioso opere et singularibus ornamentis». Con questa sua fondazione Antonio Bichi perseguì scopi di autorappresentazione non solo

CONTRIBUTO

famigliare (riappropriazione del possesso di parte della zona presbiteriale della chiesa), ma anche politica. Ciò risulta dall'iconografia dell’altare, in cui figuravano come presenze chiave, oltre al santo patrono del committente Antonio, Maria Maddalena, proclamata patrona del regime del Monte dei Nove -dal momento che il 22 luglio 1487, giorno della sua festa, imembri esiliati di quella fazione, cui appartenevano i Bichi, erano riusciti a rientrare in città e prendervi il potere — nonché San Cristoforo, patrono del genero del committente, Cristoforo Bellanti, morto in esilio nel 1482, membro di un influente casato strettamente alleato ai Bichi.

ALLA STORIA SOCIALE

Pubblicazione originale: M. Seidel, «Sozialgeschichte des Sieneser Renaissance-Bildes (Studien zu Francesco di Giorgio, Neroccio de’ Landi, Benvenuto di Giovanni, Matteo di Giovanni und Bernardino

Fungai)», in: Stàdel-Jabrbuch, xu, 1989, pp. 71-138. Su questi temi cfr. anche: Die Kirchen von Siena, a cura di P. A. Riedl e M. Seidel, vol. 1, 2, Minchen

1992, pp. 593-598, 638-645, 749-

150, 752-754. M. Seidel, «Francesco di Giorgio o Ludovico Scotti?», in: OPD Restauro (Rivista dell’Opificio delle Pietre Dure e Laboratori di Restauro), 1, 1989, pp. 31-36; id., «The Social Status of

Patronage and its Impact on Pictorial Language in FifteentàhCentury Siena», in: Italian Altarpieces 1250-1550 — Function and Design, Oxford 1994, pp. 119-137.

' Ch. Seymour Jr., Early Italian Painting in the Yale University Art Gallery, New Haven-London 1970, pp. 1-8. ° E. Samuels, Bernard Berenson — The Making of a Legend, Cambridge-London 1987. ? Painting in Renaissance Siena 1420-1500, New York 1988, pp. 64791

4 ? ° ?

Ibidem, pp. 320-322. Ibidem, pp. 104-123. Ibidem, pp. 218-242. Ibidem, pp. 33-60. E. Brogi, Inventario generale degli oggetti d’arte della provincia di Siena, Siena 1897, p. 375. ? Cfr. qui di seguito fino a p. 497. !° Integrazioni di scarsa entità nella cornice (i profili delle basi della predella e della tavola centrale, la semicolonna della tavola di sinistra, gli ornamenti al vertice degli archi carenati). !! Per lo stato di conservazione cfr. Mostra di Opere d'Arte restaurate nelle province di Siena e Grosseto I (Pinacoteca Nazionale, Siena), Genova 1983, pp. 144-145. Questa relazione viene integrata dalle seguenti fotografie conservate nella fototeca della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici delle Province di Siena e Grosseto: negg. 25870 (lacune della tavola centrale riportate alla luce), 25301 (retro della tavola centrale); inoltre negg. 25297-25300, 25873, 25882.

Inv. 61.69 a, b, c. Figure di San Giovanni Battista (lato sinistro), di Santa Margherita e del Beato Ambrogio Sansedoni (lato destro). Cfr. FE Rusk Shapley, Pazntings from the Samuel H. Kress Collection: Italian Schools XIl-Xv century, London 1966, p. 161. } Inv. BL-K 5. Figure di San Girolamo e di San Tommaso d'Aquino o Sant Alberto Magno (lato sinistro) e di Sant'Agostino (lato destro). Cfr. F. Rusk Shapley, cit., p. 161. 4 Scene della predella: Strage degli Innocenti, Martirio di San Fabiano. Cfr. M. Laclotte, E. Mognetti, Musée du Petit Palats, Avignon — Peinture italienne, Paris 1976, nn. 28/29.

© B. Berenson, Italian Pictures of the Renaissance, vol. 1: Central Italian and Nortb Italian Schools, London 1968, p. 39. M. C. Bande-

ra, «Variazioni ai Cataloghi Berensoniani di Benvenuto di Giovanni», in: Scrztti di Storia dell'Arte in onore di Ugo Procacci, vol. 1, Mi-

lano 19 p 3 LE !é 1. Corrispondenza tra le misure della cornice della lunetta, conservata quasi nella sua larghezza originaria, e la larghezza ricostruita dei due pilastri ai lati della tavola centrale recanti ciascuno quattro figure di Santi (larghezza della cornice della lunetta cm 16,5; cfr. Mostra di Opere d'Arte restaurate nelle province di Siena e Grosseto III, cit., pp. 144-145. Larghezza delle figure di santi sui pilastri laterali cm 18,3-18,6. Il numero di quattro santi per ciascun pilastro laterale è attestato dalla recezione della pala Borghesi prescritta come modello; G. Milanesi, Documenti per la Storia dell'Arte Senese, vol. ni, Siena 1854, p. 365, documento n. 260 del 30. 11. 1478: «che nelle

colonne de la decta tavola debbino essere dipinti quattro Santi per colonna, quali saranno detti al decto maestro Matteo». La ricostru-

zione della sequenza delle figure laterali tiene conto della resa prospettica delle superfici di appoggio, ognuna delle quali è rapportata allo specifico punto di vista dell’osservatore. Essa si fonda inoltre su una serie di argomenti iconografici: il volgersi del Battista verso il Bambino; il tradizionale collegamento fra i due penitenti Girolamo e Giovanni; il risalto dato a sant'Agostino, raffigurato al vertice del pilastro di destra, in quanto autore della regola dell'ordine dei domenicani).

931

PITTURA

- RINASCIMENTO

2. La ricostruzione di una predella in cinque parti trova conferma nella recezione della pala Borghesi (G. Milanesi, cit., p. 365: «che nel mezo de la predella debbi essere dipento un Crocifisso con la figu-

ra della Nostra Donna dall'uno lato, et san Giovanni dall’altro; ed

532

ad ogniuno de’ canti d’esso Crocifixo sieno dipente due storie di sancta Barbara»). 3. Le principali misure ricostruite sono convertibili in unità di misura plausibili, e cioè intere o frazionate in modo semplice, del Quattrocento senese: i 3 metri circa dell'altezza complessiva corrispondono ad esempio a 5 braccia senesi (nella ricostruzione è stata calcolata un'altezza di m 3,06, ipotizzando un'altezza della cornice superiore e inferiore della predella di cm 7,5); la larghezza complessiva calcolata in m 2,26 corrisponde a 3% braccia senesi.

4. Corrispondenza iconografica tra i Santi della tavola centrale e le scene della predella (per il miracolo di Giacomo cfr. Legenda aurea, a cura di G. P. Maggioni, Firenze 1998, p. 657, e B. Berenson, op.

cit. [vedi nota 15), fig. 644). 5. L’iconografia dei Santi della cornice rimanda all’ordine domenicano, e in particolare al culto locale a San Domenico a Siena (beato Ambrogio Sansedoni). Ipotesi di integrazione diverse dalla nostra ricostruzione: F. Bologna («Miniature di Benvenuto di Giovanni», in: Paragone, n. 51, 1954,

p. 17); E Rusk Shapley, op. cit. (vedi nota 12), p. 161; M. C. Bandera,

«Qualche osservazione su Benvenuto di Giovanni», in: Antichità viva, vol. xi, n. 1, 1974, pp. 3-17; L. B. Kanter, in: Parntng in Renaissance Siena 1420-1500, New York 1988, pp. 305-313.

La pala di Montepertuso è più larga e anche più alta della pala Borghesi (larghezza ricostruita della predella della pala Borghesi: m 2,27; larghezza della predella della tavola di Montepertuso: m 2,73). !8 M. Laclotte, E. Mognetti, op. cit. (vedi nota 14), n. 29. !9 Mostra di Opere d’Arte...t, cit. (vedi nota 11), p. 144. 20 M, Laclotte, E. Mognetti, op. cit. (vedi nota 14), n. 29. M. C.

Bandera, op. cit. (vedi nota 16), p. 11. J. Pope Hennessy, «Die Maler von Siena», in: DU, 1983, n. 5, p. 63. 2! G. Milanesi, op. cit. (vedi nota 16), p. 364. 2 Cfr. pp. 495-497. 3 G. Milanesi, op. cit. (vedi nota 16), p. 365 (sulla tavola dipinta da Matteo di Giovanni per la Compagnia di Santa Barbara): «[...] che decto maestro Matteo debbi far fare essa tavola [...] et haverla messa in sull'altare di sancta Barbara in san Domenico [...] per tempo di mesi octo proximi advenire». La tavola fu portata a termine nei tempi prescritti (il contratto tra la compagnia e il pittore è del 30. 11. 1478; la data della tavola è attestata da un'iscrizione: Opus MATEI DE SENIS MCCCCLXXVIII). 24 P. Cammarosano, V. Passeri, I castelli del Senese, vol. n, Milano

1976 (a c. del Monte dei Paschi di Siena), p.346. ® C. Gennaro, «Agostino Borghese», in: Dizionario degli italiani, x1, Roma 1970, pp. 580-581. Allo stretto legame tra le famiglie di Agostino e di Mariano Borghesi (il committente della cappella in San Domenico) rimanda fra l’altro la nomina dei due figli di Agostino a esecutori testamentari di Mariano: «Item suos fidei commissarios et exequtores presentis testamenti reliquit et esse voluit dominum Galganum et dominum Burghesium domini Augustini de Burghesiis [...]» (Archivio di Stato di Siena [ASS], Patrimonio dei Resti Ecclesiastici [P.R.] n. 2144, fol. 56r).

26 C. Gennaro, «Borghese Borghese», in: Dizionario degli italiani, x11, Roma 1970, pp. 583-584. Dizionario degli italiani, xx, Roma 1970, pp. 605-609. 28 ASS, P.R. n. 2144, fol. 57v: «Item quod dictus Iacobus teneatur et

obligatus sit fieri facere dictae cappellae tabulam honorabilem, unam fenestram vitream et paramenta [...]». ? Nell’atto di fondazione del 31. 3. 1468 è detto che i Borghesi avrebbero dovuto calcolare un costo di almeno 600 lire per la tavola, la vetrata e i paramenti (fol. 57v). 600 lire corrispondono a 150 fiorini (cfr. il criterio di conversione citato nello stesso foglio: «ad rationem librarum 4 denariorum Senensium pro singulo floreno»). A 150 fiorini viene fissato anche l'ammontare della prebenda per la cappella; gli arredi e la prebenda avevano pertanto lo stesso costo (fol. 57v: «Item quod dicta cappella intelligatur esse et sit dotata a dictis Mariano et Iacobo de florenis centum quinquaginta»). L'ipotesi che la tavola costasse circa due terzi della somma di 150 fio-

rini prevista per gli arredi si basa sui 90 fiorini che la Compagnia di Santa Barbara pagò nel 1478/79 a Matteo di Giovanni per un’opera analoga, per dimensioni e colori, alla pala Borghese (G. Milanesi, op. cit. [vedi nota 16], p. 365). Un testamento non pubblicato di un Borghesi consente di farsi un’idea delle differenze di prezzo tra una pala d’altare “grande”, come quelle commissionate da Iacopo Borghesi e dalla Compagnia di Santa Barbara, e una “piccola”, costituita da un’unica tavola raffigurante la Madonna con due santi; il rapporto è di 90 a 25 fiorini (testamento di Francesco di Bonaventura Borghesi rogato il 24 ottobre 1496: ASS, Notarile ante-cosimiano 816, n. 24: «Item voluit

quod per infrascriptos cius heredes construatur ibi penes dictum sepulcrum unum altarem cum una tabula picta, cum figura beate Virginis in medio et ex uno latere figura Sancti Benedicti et ex alio figura Sancti Bernardini, valoris et stimationis florenorum xxv ld

0 I figli di Mariano di Niccolò Borghesi si chiamavano: Iacopo,

Cristofano, Onofrio, Tommaso, Niccolò, Ambrogio, Borghese (ASS,

PR. 2144, fol. 55v). Tommaso e Onofrio sono noti — al pari del padre Mariano — come «cansores» (cambiavalute). Per Tommaso ctr. ASS, Notarile antec. 509, n. 100, 9. 1. 1476 st. com.: «Petrus olim Johannis de Turaminis de Senis [...] vendidit [...] venerabili viro domino Antonio [...] quartam partem pro indiviso unius apotece sive banci site Senis sub domo heredum olim Bindini de Saracinis in loco dicto dala loggia deli officiali, quam totam apotecam sive bancum tenet ad pensionem Tomasus Mariani de Burgestis de Senis [aba Per Onofrio cfr. ASS, Notarile antec. 500, n. 109, 7. 10. 1466 (cam-

bio di una lettera di credito per un ammontare di 700 fiorini); Notarile antec. 503, n. 44, 20. 7. 1469 («Actum Senis in banco Honofri de Burgesis et Nicolai Ser Gardi et sociorum cansorum sito in strata publica in loco dicto tra banchi [...]»); inoltre Notarile antec. 506, DOO

14725 038200

RA 695

RZ

Testamento di Mariano di Niccolò Borghesi del 15. 11. 1467: ASS, PR. n. 2144, fol. 55r-56r. Per la nomina a operarius ctr. fol. 55r-55v: «Et de dicta cappella reliquit operarium Iacobum filium suum predictum. Qui Iacobus in termino decem annorum a tempore mortis dicti Mariani tunc proxime futurorum, de dictis denariis et lucris teneatur edificare et fieri facere dictam cappellam, et cam dotare modo et forma qua sibi videbitur et placebit; et in dicta cappella fieri faciat arma seu insignia et signum dicti Mariani et dicti Iacobi». Per il finanziamento cfr. fol. 55r: «Item legavit et reliquit quod per infrascriptos suos heredes fiat una Cappella in ecclesia conventus S. Dominici de Senis [...] Quod infrascripti eius heredes solvant pro predictis florenos centum [...] et lacobus filius dicti Mariani promisit pro predictis solvere alios florenos centum [...]». ì1 ASS, PR. n. 2144, fol. 57v: «Item quod dicta cappella intelligatur esse et sit dotata a dictis Mariano et Iacobo de florenis centum quinquaginta [...] videlicet a dicto Mariano florenos centum et a dicto Iacobo florenos quinquaginta [...] Item quod dictus Iacobus teneatur et obligatus sit fieri facere dictae cappellae tabulam honorabilem, unam fenestram vitream et paramenta, in quibus rebus expendat ad minus libras sexcentas [= 150 fiorini]» fol. 58r: «Et hoc pro satisfactione cuiusdam relicti facti ad pias causas per Christoforum, fratrem carnalem dicti Tacobi, ac etiam pro devotione ipsius Iacobi» (al legato di Cristoforo rimanda anche il testamento di Mariano Borghesi del 15. 11. 1467, ASS, PR. n. 2144, fol. 55r; non si sa quale parte della somma di 150 fiorini pagata da Iacopo per gli arredi potesse essere finanziata attraverso il legato di Cristoforo). } ASS, Notarile ante-cosimiano 500, n. 55: «Anno Domini mccccLXviI, indictione xnm, die vero vu iulii [...] Antonius olim Credi de Credis de Senis [...] vendidit [...] domino Antonio olim Jacobi alias Bacci, canonico senensi [...] unam ipsius Antonii apotecam sive bancum, quam apotecam seu quod bancum ad presens tenent ad pensionem Marianus de Burgesiis et heredes Antonii de Pinis et socii, sitam Senis in strata publica prope loggiam officialum Mercantie [...] pro pretio florenorum trecentorum [...]». ® Cfr. l'annotazione nel sepoltuario di San Domenico (Biblioteca Comunale di Siena, C.11.2, fol. 100v-101r). % Cfr. i nomi dei sette figli di Mariano di Niccolò Borghesi citati alla nota 30.

© Legenda aurea, cit. (vedi nota 16), p. 650.

CONTRIBUTO

REASS,P.RE012144/fol 577 3 Solo B. Berenson, op. cit. (vedi nota 15), p. 41, identifica correttamente i santi. M. Laclotte, E. Mognetti, op. cit. (vedi nota 14), n. 29: Fabiano, Giacomo, Girolamo, Sebastiano. Mostra di Opere

d'Arte...IIl, cit. (vedi nota 11), p. 144: Agostino (?), Giacomo, Giovanni, Sebastiano. M. C. Bandera, op. cit. (vedi nota 16), p. 9:

Sebastiano, Giovanni, Giacomo, un santo vescovo.

? M. Baxandall, Die Wirklichkeit der Bilder, Frankfurt a.M. 1984

(Suhrkamp Taschenbuch Wissenschaft 442), pp. 112 ss.

3? M. Seidel, «Ubera Matris», in: Stidel-Jabrbuch, n.s. vi, 1977, pp.

61 ss. [qui vol. ni, pp. 594 ss.]. * PL Lxxxvi, col. 600 (Defensor, Scintillorum liber).

ca Pope Hennessy, Italian Gothic Sculpture, London 19722, tavola

4 Gregorio Magno, xL Homziliarum in Evangelia, lib. n, Homil. xv;

PL LxxvI, col. 1252.

4 Ibidem. 4 L. Behling, Die Pflanze in der mittelalterlichen Tafelmalerei, Weimar 1957, p. 43. Idem, Die Pflanzenwelt der mittelalterlichen Kathedralen, Kòln-Graz 1964, p. 114. ? Cfr. la scelta dei colori nella pala di Pietro Lorenzetti proveniente dalla chiesa del Carmine (P. Torriti, La Pinacoteca Nazionale di Siena: I dipinti dal xu al Xv secolo, Genova 1977, p. 97). spie) Lortiti, cit. p. 371. * P. Torriti, La Pinacoteca Nazionale di Siena: I dipinti dal xv al xvm secolo, Genova 1979, p. 22. # B. B. Fredericksen, D. D. Davisson, Benvenuto di Giovanni, Girolamo di Benvenuto — Their Altarpieces in the J. Paul Getty Museum and a Summary Catalogue of Their Paintings in America, J. Paul Getty Museum Publication n. 2, 1966, p. 31, fig. 30 (inv. 1927.206). Cfr. anche la Madonna di Benvenuto di Giovanni che replica la pala Borghesi, nello Art Institute di Chicago (prestito della Mrs. Marshall Ludington Brown Collection). * I. Bahr, «Die Altarretabel des Giovanni di Paolo aus S. Domenico

in Siena — Uberlegungen zu den Auftraggebern», in: Mizteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, xxx1, 1987, p. 363. La precedente opinione che si trattti di una commissione della famiglia Guelfi è stata ripresa anche di recente da Carl Brandon Strehlke, in: Painting in Renaissance Siena 1420-1500, New York 1988, pp. 192 ss. (con foto di tutte le parti di questa pala che si sono conservate). 4 v9255) 0 Painting in Renaissance Siena 1420-1500, pp. 198-200 (n. 32 b). > Painting in Renaissance Siena 1420-1500, pp. 193-198 (n. 32 a). © M. Seidel, «Die Fresken des Francesco di Giorgio in S. Agostino in Siena»,

in: Mttteilungen

des Kunsthistorischen

Institutes

in

Florenz, xx, 1979, p. 23 [qui pp. 573 ss.]. 2 ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 655, fol. 167. © G. Milanesi, op. cit. (vedi nota 16), pp. 364-365. La problematica esposta in questo saggio è stata finora trascurata dalla letteratura storico-artistica a causa della notizia sbagliata di Gaetano Milanesi, che identificava la tavola della Compagnia di Santa Barbara con un incarico dell'Arte dei Fornai di Siena. La correzione nel catalogo della mostra Pa:nting in Renaissance Siena 1420-1500 (p. 21 e p. 31, nota 22) fa riferimento alla mia conferenza citata all’inizio (30. 6. 1988, Harvard University Center for Italian Renaissance Studies). 56 M. Battistini, La confrérie de Sainte-Barbe des Flamands à Florence

Documents relatifs aux tisserands et aux tapissiers), Bruxelles 1931, p. 69 (documento della Compagnia di Santa Barbara di Firenze del 1° aprile 1448). 7 ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 655, fol. 159 (5. 11. 1478). 38 ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 655, fol. 166 (23. 11. 1478). ? G. Milanesi, op. cit. (vedi nota 16), p. 364 e ASS, Notarile antecosimiano, n. 655, fol. 182 (8. 1. 1478, st. sen.), n. 657, fol. 14 (10. 4. 1481).

6 6! 6 8 6%

G, Milanesi, cit., p. 365. ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 657, fol. 14 (11. 4. 1481). ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 655, fol. 167. G. Milanesi, cit., pp. 364-365. ) ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 657, fol. 14.

6 ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 655, fol. 167 (23. 11. 1478). 6 ASS, PR. n. 2144, fol. 57r-59r (31. 3. 1468).

ALLA STORIA

SOCIALE

% ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 655, fol. 167.

® ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 655, fol. 167: «Inprimis quod dicti fratres capitulum et conventus teneantur et obligati sint in perpetuum eisdem sociis dicte societatis presentibus et futuris, eorum fratrum capituli et conventus propriis sumptibus et expensis,

ipsam cappellam defendere auctorizare et disbrigare, si quo unguam tempore ab aliquo quoquo modo tolleretur contenderetur vel molestaretur aliqua ratione iure modo vel causa». °° Questo l’elenco dei frati (ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 655, fol. 167): «Nomina vero dictorum venerabilis prioris et fratrum qui in dicta congregatione intervenerunt, sunt videlicet: Frater Bonagionta Petri de Senis prior, Magister Marianus Martini de Senis,

Magister Simon Angeli de Senis, Frater Laurentius Antoni de Senis [cassato], Frater Antonius Laurentii de Senis, Frater Nicolaus de Saxonio bachalarius, Frater Johannes de Eugubio bachalarius, Frater Johannes de Alamania biblicus, Frater Arcangelus Bartholomei de Senis, Frater Antonius de Urbino, Frater Dominicus Johannis de Senis, Frater Martinus de Alamania, Frater Simon de Alamania, Frater Tommas de Senis et Frater Bartholomeus de Sancto Miniato.

Actum

Senis in ecclesia Sancti Dominici

in quadam

cappella ubi convenerunt ad capitulum omnes fratres predicti [...]». La presenza di quattro confratelli tedeschi a questa assemblea capitolare non costituiva un'eccezione, infatti si ritrova negli elenchi dei partecipanti ad altre assemblee. Anche in una lista dei membri del convento di San Domenico redatta il 22 agosto 1481 e contenente ventuno nomi, ad esempio, compaiono quattro frati di origini tedesche (ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 657, fol. 67). 70 ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 655, fol. 166: «Pro societate Sancte Barbare. Anno Domini

1478, indictione x, die vero xx

novembris. Reverendus in Christo patre frater Nicolaus de Saxonio ordinis predicatorum inpresentiarum habitator in conventu Sancti Dominici de Camporegio civitatis Senarum, coram me notario et testibus infrascriptis personaliter constitutus ad exgravationem sue conscientie in verbo veritatis, dixit, asseruit et affirmavit quod, cum

Matteus olim alterius Mattei de Alamania, quondam coquus in domo Sapientie civitatis Senarum, de anno presenti et mense septembris proxime decursi egrotaret peste et appropinquaret se ad

ultimum sue vite finem et vellet de bonis suis per nuncupativum testamentum disponere, nec posset ad hunc effectum aliquem habere notarium qui se illuc conferret propter metum contagionis sui morbi, rogavit suprascriptum fratrem Nicolaum, ibidem presentem in domo dicte Sapientie et in camera ubi ipse iacebat infirmus, ad hoc ne decederet intestatus et sine dispositione suorum bonorum [...]. Qui frater Nicolaus volens ipsius Mathei annuere voluntati, coram et presentibus fratre Nicolaio de pulcro campo, fratre Simone Saxon ordinis predicatorum, Petro de Traietto et Katerina de Prucia testibus ibidem ad id spetialiter adhibitis et rogatis, suprascriptum testamentum et ultimam voluntatem ipsius Mattei condidit et scripsit atque rogavit prout et sicut sibi ordinavit et dictavit [...] videlicet: In primis quod gloriose Virginis Marie apud fontem iustum civitatis Senarum de bonis suis, iure legati, reliquit et legavit ducatos duos auri pro anima ipsius testatoris. Item societati Sancte Barbare que congregatur in dicta ecclesia Sancti Dominici de dictis suis bonis iure legati reliquit et legavit alios ducatos duos auri pro uno officio fiendo pro anima ipsius testatoris. Item fratri Nicolao de pulero campo ordinis predicatorum eius Mattei confexo-

ri dicto iure legati reliquit et legavit ducatos quinque auri pro anima ipsius testatoris. Item de dictis suis bonis iure legati reliquit et legavit Caterine Iacobi de Prucia eius testatoris gubernatrici ducatos xvi auri largos de quibus valeat disponere et eos expendere ut sibi

placuerit. Item Petro de Traiecto dicto iure legati reliquit et legavit de dictis suis bonis ducatos duos auri largos pro anima ipsius testatoris. Item fratri Simoni Saxon ordinis predicatorum de dictis suis bonis reliquit et legavit iure legati unum ducatum auri pro anima ipsius testatoris. Et in omnibus aliis suis bonis mobilibus et immobilibus, iuribus et actionibus [...] suam heredem universalem instituit et esse voluit suprascriptam societatem Sancte Barbare [...]. Actum Senis in claustro dicte ecclesie Sancti Dominici, coram et presentibus magistro Iohanne Iacobi carpentario de Senis et Mariano Franci del Tondo de Castro novo Berardinghe comitatus Senarum testibus. Ego Benedictus Biliocti notarius rogatus scripsi».

533

PITTURA

- RINASCIMENTO

71 ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 655, fol. 159: «Pro societate Sancte Barbare. Anno Domini 1478, indictione x11, die vero quinto

novembris. Domina Margarita filia olim [vacat] de Alamania, uxor relicta olim magistri Iohannis Antonii de Alamania coltellinarii ha-

bitatoris civitatis Senarum et inpresentiarum uxor Gerardi Pauli de

Alamania predicta fornarii habitatoris in civitate Senarum in furno sub ecclesia Sancti Vigilii de Senis [...] causa donationis inter vivos

etc. dedit et donavit, cessit et concessit Bartholomeo Gulielmi de

Alamania habitatori civitatis Senarum, uni ex quatuor prioribus so-

534

cietatis Sancte Barbare, que congregatur in ecclesia Sancti Dominici de Senis, presenti et recipienti vice et nomine dicte societatis ISAk omnia et singula iura et actiones [...], quas ipsa habet et habere videtur et potest [...] vigore testamenti conditi per dictum olim magistrum Tohannem eius primum maritum et vigore cuiusdam legati sibi

facti in dicto testamento de quo constare asseruit manu [...] Ser Pauli Pietri Pauli notarii publici et civis Senarum, in et super quadam domo Senis in tercerio Kamollie et in contrada vocata Provencano [...], cum hac inde conditione [...]: quod ipsa societas et disciplinati ipsius teneantur et obligati sint ad satisfactionem et solutionem illorum debitorum in supradicto legato facto [...]. Actum Senis in domo suprascripti furni sita sub ecclesia Sancti Vigilii coram et presentibus Pierfrancisco Bartolomei Iohannis de Lutis et Bartolomeo Ristori barbitonsoris de Senis testibus. Ego Benedictus Biliocti notarius rogavi». 72 ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 657, fol. 14 (10. 4. 1481). L'identità della casa con l'immobile citato nel documento del 5. 11. 1478 (cfr. trascrizione alla nota 71) risulta dalla seguente descrizione: «unam ipsius societatis domum, sitam Senis in terzerio Kamollie

et populo S. Petri ad Ovile desubtus, in contrata vocata di Provenzano, que fuit olim magistri Iohannis Antonii coltellinarii, habitatoris civitatis Senarum». ? Quando il 23. 11. 1478 i domenicani conferirono loro il patronato della cappella, gli artigiani tedeschi furono abbastanza accorti da avere già tra le mani il capitale, donato da Domina Margarita, per la prebenda (pagata solo il 10. 4. 1481). 7 G. Milanesi, op. cit. (vedi nota 16), pp. 364-365. D Ibidem, p. 365. 76 Ibidem, pp. 364-363. © Ibidem, p. 364. ?s Ibidem, p. 365. Nessuno dei tentativi finora intrapresi di identificare le tavole dei pannelli laterali e della predella della Pala di Santa Barbara ha condotto a risultati convincenti. La tesi di E. Trimpi (Matteo di Giovanni: Documents and a critical Catalogue of his panel paintings, tesi di laurea Michigan 1987, University Microfilms International, Ann Arbor, pp. 130-131, 157-158, 214-215, 231-233), per cui ne farebbe parte una serie di Santi della Collezione Kress e di una collezione privata milanese finora attribuiti a Guidoccio Cozzarelli, è improbabile per motivi compositivi, iconografici, stilistici e di dimensioni. La tesi precedente di un’appartenenza alla predella delle quattro tavole di Santa Barbara dei Musei Vaticani dipinte da Guidoccio Cozzarelli (inv. 308, 308 A; E. Trimpi, cit., pp. 264-266) rimane ipotetica, non foss’altro per la paternità del Cozzarelli. ? G. Milanesi, op. cit. (vedi nota 16), p. 364.

80 M. Baxandall, op. cit. (vedi nota 38), pp. 112 ss. 8! P. Torriti, op. cit. (vedi nota 45), pp. 364-365. 82 ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 655, fol. 16. 8 Inv. 8635 del Museo dell’Accademia di Firenze. P. Nuttall, «“La tavele Sinte Barberen”: New documents for Cosimo Rosselli and Giuliano da Maiano», in: The Burlington Magazine, cxxvn, n. 987, 1985, pp. 367-372. A. Padoa Rizzo, «La Cappella della Compagnia di Santa Barbara della “Nazione Tedesca” alla Santissima Annunziata di Firenze nel secolo xv — Cosimo Rosselli e la sua “impresa” artistica», in: Antichità viva, xxv1, n. 3, 1987, pp. 3-18. #4 G. Milanesi, op. cit. (vedi nota 16), p. 364. 8 «[...] che nelle colonne de la decta tavola debbino essere dipinti

quattro Santi per colonna, quali saranno detti al decto maestro Matteo».

8 G. Milanesi, op. cit. (vedi nota 16), p. 365. # Catalogo della mostra Painting in Renaissance Siena 1420-1500, New York 1988, p. 81. 88 Ch. Seymour, op. cit. (vedi nota 1), pp. 200-202 (inv. 1871.61).

8 Johannes von Hildesheim, Die Legende von den H ciligen Kònigen, iibertragen von E. Christern, Munchen 1963. — Cfr. H. Hofmann, Die Heiligen Drei Konige, Bonn 1975, pp. 111-113. % Ibidem, pp. 29-30. 9! G. Milanesi, op. cit. (vedi nota 16), p. 365: «[...] che nel mezo de la predella debbi essere dipento un Crocifisso con la figura della Nostra Donna dall'uno lato, et san Giovanni dall’altro». ® Johannes von Hildesheim, op. cit. (vedi nota 89), pp. 2934. 9 Ibidem, p. 118. i % Ibidem, p. 121. Senis de Ambrosii Iohannis «Petrus % La scritta sul gonfalone recita: pinxit MCCCCXXXXIND. % G. Milanesi, op. cit. (vedi nota 16), p. 364. v Ibidem, p. 364: «[...] la detta tavola da farsi sia [...] largha per ogni verso tanto quanto è la tavola che fece fare Jacomo di Mariano Borghese [...] con questa agionta, che al colmo di decta tavola [...] sia più alto che quella che fè fare decto Jacomo, un quarro, per lo meno». 9 J. Pope Hennessy, op. cit. (vedi nota 20), p. 63. 9 Di tanto in tanto è stata postulata la collaborazione di aiuti (ad esempio E. Carli, Capolavori dell’arte senese, Firenze 1946, p. 77; È, Christiansen, in: Painting in Renaissance Siena 1420-1500, New York

1988, p.30).

100 Per la fortuna critica cfr. R. Toledano, Francesco di Giorgio Martini — pittore e scultore, Milano 1987, p. 102. Cfr ppi 9195: 102 Significativamente, sono simili soltanto le aureole della lunetta e della predella (fig. 19). 1% Archivio Arcivescovile di Siena (AAS), n. 21, fol. 684r (6. 10. 1575): «Visitavit altare sub titulo Nativitatis Domini nostri Tesu Christi, lapideum, cum mensa lignea [...] iconam [habebat] cum misterio Sanctissime Nativitatis in tabula perpulcre depicte. Quod est dotatum a familia de Tancredis, cum onere celebrandi missas et officium [...]». 10 ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 660, fol. 48: «Anno Domini 1493, indictione x1, die vero 7 septembris. Comvocatis et congregatis ad capitulum venerabili priore et fratribus conventus ecclesie S. Dominici de Camporegio civitatis Senarum [...] auditis et intellectis spectabilibus viris Francisco et Lodovico, fratribus carnalibus et filiis olim Tancredis Angeli domini Tancredis de Senis, qui tanquam habentes devotionem in dicta ecclesia S. Dominici et cupientes thesauricare in celo, ex gratia postulaverunt eis dari et concedi unam cappellam sive situm pro una cappella hedificanda in ecclesia predicta, eam se obferentes de presenti hornamentis ad divinum offi-

cium consuetis et oportunis hornaturos et ad tempus debita et decenti dote dotaturos. Et volentes dicti venerabilis prior et fratres prefatorum Francisci et Lodovici devotioni annuere et consentire: habito primo inter se maturo colloquio et diligenti tractatu super omnibus et singulis supra et infra scriptis, unanimiter et concorditer [...] concesserunt et confirmaverunt dictis Francisco et Lodovico, presentibus et pro se et eorum et cuiusque ipsorum heredibus et successoribus recipientibus et stipulantibus, unam cappellam sive locum et situm ad hedificandum et construendum unam cappellam in ecclesia predicta, in loco videlicet inter pulpitum super quo cantatur Epistola et Evangelia, et cappellam intitulatam S. Trinitatis, a latere sinistro dicte ecclesie videlicet versus sacristiam illius. Quam cappellam ut supra noviter hedificandum voluerunt et contente fuerunt partes predicte vocari et nuncupari [...] sub titulo beatissime S.

Marie Magdalene. Quam concessionem etc. firmatam et omnia et singula suprascripta dicte partes [...] perpetuo attendere et observa-

re promiserunt et contra non facere etc. sub pena dupli eius [...] Nomina vero dictorum prioris et fratrum de quibus supra fit mentio, hec sunt videlicet [...] Actum Senis, in capitulo predicto [...] Ego Benedictus Biliocti notarius rogatus subscripsi».

® I figli di Tancredi d'Agnolo Tancredi si chiamavano: Francesco, Angiolo, Neroccia, Lodovico, Bernardino e Camilla. % Siena, Biblioteca Comunale, ms. C.11.2, fol. 118. % ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 663, fol. 33. 9% «[...] suoi heredi universali fa [...] Girolamo, Piero, Angelo e Bernardino, suoi nepoti, figli legittimi e naturali di decto già Francesco Tancredi, suo fratello carnale [...]».

CONTRIBUTO

Vettoria di Francesco Tancredi. 1! «Una possessione chiamata Bolzano [...] posta nel corte di Pogibonzi». !! Legato di Girolamo, figlio di Neroccia, a favore del Comune di Sovana. ! Legato per Simone del Troglo da Filetta. !? «[...] con la condictione exprexa e nominata ch'e frati e capitolo di decta chiesa e convento di San Domenico di Siena sieno tenuti e obligati in decta chiesa, ciascun anno doppo la vita mia, celebrar e certe Messe e offitii per l’anima mia. Et decti fiorini 200 afferma havere lassati in deposito in sul banco di decti Ugo d’Azolino e de’ compagni banchieri et quelli lassa ni si possino pagare a decti frati nè per loro richiesta nè del’infrascripti suoi here[di] nè d’alcuno di loro, se non quando si rinvestischino in cose e beni stabili in dota di decta cappella, la quale investitione vuole si facci infra ‘l tempo d’uno anno proximo ad venire doppo la sua vita. Et quando per decti frati e suoi heredi non si exequisca quanto di sopra è decto, vuole e lassa decti fiorini 200 si paghino per decti Ugo e compagni al’arcivescovado di Siena». 1! «Item, affermando che già più anni passati sono che lui allocò a Lodovico di Ristoro di Notto Scotti ad dipegnare la tavola del’altare di decta cappella, cioè di colori tanto che l'oro afferma havere messo decto testatore, et per tale dipentura decto dipentore hebbe più volte denari dal decto testatore et etiam per lui dal erede d’Ambruogio Spannocchi e da’ compagni banchieri di Siena, unde vuole e lassa che per Bernardino Fungai dipentore, el quale finì di dipignare detta tavola doppo la morte di decto Lodovico Scotti, si vegha la manifattura di decto Lodovico dipentore, cioè la dipentura sola perchè di bianco e di gesso e d’oro la fece fare decto testatore, et di quello lui havesse meritato per sua manifattura, cioè di quello havesse dipento lui difalcatone e detrattone tutti e denari ha havuti da lui, se resto vi sarà, vuole e lassa dali suoi heredi infrascripti sia pagato e interamente satisfatto ali heredi del decto dipentore. Ricordando però che del tondo da capo dela decta tavola, decto Lodovico dipentore non ne ha havere nulla, perchè pare lo dipegnesse maestro Matteo da Arezo, cognato di Goro del Taya, e lui ne fu pagato dal decto Lodovico testatore». !D Stando a G. Milanesi, op. cit. (vedi nota 16), p. 372, Matteo di Giovanni sarebbe morto nel giugno 1495. Le ricerche d’archivio di E. Trimpi (op. cit. [vedi nota 78], pp. 21, 22) hanno tuttavia rivelato che il 23 maggio 1497 Matteo compariva ancora tra i contribuen-

ti di Siena; nel 1498 i registri senesi delle imposte citano invece i suoi eredi. In relazione al documento citato alle note 107 e 114 è dunque possibile calcolare il 1497 come anno di morte di Matteo di Giovanni. L'identificazione del maestro «Matteo da Arezo, cognato di Goro del Taya» è indubbia, essendo accertati il nome del suocero e la città di origine di Matteo. 116 Indipendentemente dalla nostra indagine all'Archivio di Stato, nel corso della quale questo importante documento è stato trascritto nel 1984 da Gino Corti, Erica Trimpi lo ha utilizzato per la sua eccellente tesi di laurea su Matteo di Giovanni (op. cit. [vedi nota 78], pp. 215 ss.), il cui microfilm è pervenuto al Kunsthistorisches Institut di Firenze nell’autunno 1988, quando il manoscritto del presente saggio stava ormai andando in stampa. 17 M. L. Gengaro, «Matteo di Giovanni», in: La Diana, rx, 1934, p. DI,

118 Siena, Biblioteca Comunale, ms. C. 11.2, fol. 119v. DICH p.503, 120 ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 657, fol. 146; n. 659, fol. 50. !21 ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 658, fol. 76: Magio e Lodovico Scotti consegnano a Sozzino di Niccolò Saracini la dote della loro sorella Francesca; poiché Lodovico era minore di 25 anni, il contratto dovette essere registrato davanti ai consoli della Mercanzia con l’assenso dei parenti.

ALLA STORIA

SOCIALE

gresso di Margherita Tancredi nel convento di San Paolo, Antonio Saracini viene definito «ex suis proximioribus consanguineis». All'ingresso di Elisabetta Tancredi nel convento di Sant'Abbondio (n. 662, fol. 66, 4. 1. 1503) vengono definiti allo stesso modo Orlando e Danese Saracini. Anche i Tancredi abitavano nel chiasso (vicolo) che portava il nome della famiglia Saracini; cfr. ad esempio i seguenti indirizzi negli atti del notaio Biliotti: «in domo filiorum et heredum dicti olim Francisci Tancredis sita in tercerio Kamollie et loco dicto chiasso

Saracini» (n. 661, fol. 67, 29. 11. 1497); «in domo habitationis dicti Lodovici sita in strata publica in loco dieto de Saracini» (n. 662, fol. 60, 18. 1. 1502).

124 Cfr. nota 103. 1 ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 663, fol. 33.

126 Cfr. p. 503.

#7 ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 664, fol. 60: «E decti frati e con-

vento sieno tenuti a ogni celebrationi e Messe di sopra e di sotto scritte pregare Dio per tutti li passati di decto Lodovico e suoi he-

redi e successori et così di mano in mano per li vivi presenti e per li passati o da passare morti et li dì dele Messe e le celebrationi sono queste qui di sotto scritti e prima: EI dì dela purificatione dela Beata Vergine Maria, ogni anno in perpetuo adì 2 di ferraio. El dì del’anuntiatione dela Vergine Maria, adì 25 di marzo in perpetuo ogni anno. EI dì dela visitatione dela Vergine Maria, adì 2 di luglio ogni anno in perpetuo. EI dì di Sancta Maria dela nieve, adì 5 d’agosto ogni anno in perpetuo. El dì del’assumptione dela Vergine Maria, adì 15 d'agosto ogni anno in perpetuo. El dì dela Natività dela Vergine Maria, adì 8 di settembre ogni anno in perpetuo. EI dì de la presentatione dela Vergine Maria, adì 21 di novembre ogni anno in perpetuo. EI dì dela conceptione dela Vergine Maria, adì 8 di dicembre ogni anno in perpetuo. Item sieno tenuti e obligati decti frati e convento, sotto la pena et obligatione infrascripta, in dicta cappella celebrare leggendo al hore competenti, neli dì infrascripti deli infrascripte festività e solemnità la Messa, cioè ogni dì di sabbato la Messa dela Vergine Maria, ogni lunedì la Messa de’ morti, et se accadesse che in decti dì di sabbati e lunedì fussero feste solemni che impedissero decte Messe, sieno tenuti quelle rimettare e celebrare ne’ primi dì sequenti che dire e celebrare si possino. El dì di San Bastiano, al hore competenti, ogni anno in perpetuo. El dì di S. Michele Arcangelo, come di sopra. El dì di S. Maria Madalena, come

di sopra. El dì di S. Antonio da Padova, come di sopra. El dì di S. Teronimo, come di sopra. El dì dela commemoratione generale di tutti e morti, al hore competenti, ogni anno, come di sopra, in perpetuo».

28 Cfr. nota 104. ? Per le celebrazioni nel giorno di san Vincenzo Ferrer cfr. nota 130.

30 ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 664, fol. 60. ?! P, Torriti, La Casa di Santa Caterina e la Basilica di San Domenico a Siena, Genova 1983, pp. 48-49. B. Berenson, op. cit. (vedi nota 15), jd DI

?? Acta Sanctorum, Aprilis, rv, p. 495. 4Chrnota 12! 34 Siena, Biblioteca Comunale, ms. C. 11.2, fol. 203v (8. 11. 1573): «Dominus Scipio Tancredus tumulatur cum suis in tumulo iuxta ipsorum altare Nativitatis nuncupatum». > Ms. C.1.2, fol. 120 (23. 8. 1498): «Domina Margarita uxor Porrine sepulta inter altare Sancte Trinitatis et Sancti Vincentii»; fol. 120v (5. 11. 1499): «Ser Ansanus Nicolai Ser Sani [Molandi] de

Torrita sepultus est [...] infra altare Trinitatis et Sancti Vincentii»; fol. 133 (16. 5. 1514): «Joannes de Tancredis [...] sepultus est in tumulo suorum ante altare Sancti Vincentii»; fol. 138v (9. 1. 1520): «Leodina filia Porrine sepulta est in ecclesia inter altare Trinitatis et Sancti Vincentii»; fol. 172 (9. 2. 1546): «Alexander Jeronimi de

122 ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 816, fol. 156 e 221.

Tancredis

23 I] 24. 1. 1484 Elena Scotti, la vedova di Attilio Tolomei, sposò in seconde nozze Giovanni di Niccolò Saracini; il contratto di matrimonio fu registrato nella casa di Michelangelo Scotti, sita nella con-

Vincentii»; fol. 185 (29. 11. 1553): «Francisca uxor Petri Jusii [...]

trada “de’ Saracini” (ASS, Notarile ante-cosimiano, n. 657, fol. 145). Per la parentela tra i Saracini e i Tancredi cfr. ASS, Notarile ante-c0-

simiano, n. 661, fol. 80 (6. 1. 1498): nel documento relativo all’in-

[...] sepultus in sepolcro suorum

ante altare Sancti

sita in sepulcro suorum iuxta capellam Sancti Vincenti»: fol. 191v (16. 3. 1557): «Jeronima Febi de Porrinis [...] sepulta est in ecclesia inter altare Sancti Vincentii e Sanctissime Trinitatis sub pulpito predicationis»; fol. 192 (2. 1. 1558): «Febus de generosa et nobili familia de Porrinis [...] sepultum est in ecclesia ante altare Trinitatis et

935

PITTURA

536

- RINASCIMENTO

Sancti Vincentii sub pulpito in quo predicatur». 36 AAS, n. 21, fol. 684. 37 AAS, n. 21, fol. 684v. 38 La stesura del colore e il ductus pittorico sono largamente omogenei in questa parte. Solo nella raffigurazione della quasi miniaturistica scena dell’Annuncio ai Pastori a destra sullo sfondo appare evidente la mano di un pittore non direttamente proveniente dalla scuola di Francesco di Giorgio (avvicinamento allo stile di Bernardino Fungai?). 59 G. Briganti, E. Baccheschi, L'opera completa del Beccafumi, Milano 1977, p. 91 (n. 44).

0 Nel valutare la composizione attuale occorre considerare alcune

modifiche di epoca più recente: rifilatura laterale della base della cornice della lunetta, successivamente dipinta di azzurro; rifacimen-

to di tutte le cornici della predella; aggiunta della cornice decorata con candelabre della tavola centrale (per lo stato prima dell’ultimo restauro cfr. foto Anderson n. 21678). All’inizio dei presenti studi pensavo che in origine la tavola di Francesco di Giorgio potesse avere una forma simile alla libera replica del Beccafumi (fig. 27); la maggior parte dei dipinti senesi con questo tema presenta infatti una

gloria di angeli e la colomba dello Spirito Santo, che stranamente mancano entrambe nella pala Tancredi. Le recenti analisi nel laboratorio di restauro della Fortezza da Basso hanno tuttavia chiaramente escluso quella prima ipotesi. Il chimico Angelo Moles ha trovato sul bordo superiore della tavola (cioè in corrispondenza del presunto taglio) tracce delle sostanze utilizzate per la preparazione del fondo, la cui presenza in quel punto si spiega solo con la caduta accidentale, durante la preparazione, di alcune gocce della sostanza

anche su questo margine superiore, pertanto originale. L'esperto del legno Ciro Castelli è stato inoltre in grado di dimostrare, sulla base della posizione perfettamente ricostruibile dei rinforzi orizzontali originali sul retro della tavola, che essa ci è pervenuta integra. I tre rinforzi orizzontali che tengono insieme le sei tavole verticali presentavano, nella loro disposizione originaria, un disegno simmetrico

(in caso di rifilatura del dipinto lungo il bordo superiore il rinforzo di mezzo si troverebbe chiaramente al di sopra della metà della tavola). 41 Secondo questa tesi opposta, il maestro che finì la tavola a olio sarebbe dunque da identificare con Bernardino Fungai. "2 (Gir. DIL, 13 AS. Weller, Francesco di Giorgio 1439-1501, p. 355, doc. 50. Cfr. doc. 46, 49, 93.

1 Questa pensione onoraria comprendeva il pagamento dell'attività di perito. Nel documento citato alla nota 143 viene infatti detto espressamente che Francesco avrebbe esercitato tale attività «senza alchuno paghamento». Cfr. A. S. Weller, cit., p. 363 (doc. 65). 14 R, Toledano, op. cit. (vedi nota 100), p. 93 (n. 34).

4 La denominazione della carica è tratta da una lettera del 18. 1. 1492 del governo senese al duca Alfonso di Calabria (A. S. Weller, cit., p. 380). 47 A. S. Weller, cit., p. 355 (doc. 50).

148 Ibidem, p. 374 (doc. 86). 4° Ibidem, pp. 378-379 (doc. 96). 50 Ibidem, p. 366-367 (doc. 76). Ancora il 10. 5. 1487 il duca Guidobaldo di Urbino definiva Francesco di Giorgio «mio architector» (doc. 55). 3! Ibidem, p. 367-368 (doc. 77). ° R. Papini, Francesco di Giorgio architetto, vol. n, Firenze 1946, p. 286. © Francesco di Giorgio Martini, Trattati di Architettura Ingegneria e Arte militare, a cura di C. Maltese e L. Maltese Degrassi, vol. 1, Milano 1967, tavola 129 (trascrizione a p. 275). Nell’introduzione al suo trattato Francesco di Giorgio si vanta di possedere ampie nozioni di archeologia (C. Maltese, L. Maltese Degrassi, cit., vol. 11, p. 296: «E questa mia fatiga tanto meno grave mi parea, massime avendo io concordato li ditti soi [gli scritti di Vitruvio] con quelle poche di reliquie delli antiqui edifici e sculture che per Italia sono rimaste, delle quali io stimo avere visto e considerato la maggiore parte»). Per l’importanza dei disegni di edifici antichi realizzati da Francesco di Giorgio e per la bibliografia più recente su questo trattato cfr. A. Nesselrath, «I libri di disegno di antichità (Tentativo di una tipolo-

di S. Settis, vol. gia)», in: Memoria dell'antico nell'arte italiana, a cura

della siin, Torino 1986, pp. 103 ss., 108-109. Per un compendio m der Studiu Das r, Giinthe H. lare partico in tuazione degli studi cfr. naissance, antiken Architektur in den Zeichnungen der Hochre Tiibingen 1988, pp. 29 ss. 154 Per l’importanza di Alfonso di Calabria per Francesco di Giorgio cfr. H. Gunther, cit., p. 34. 155 R, Toledano, op. cit. (vedi nota 100), pp. 92-93. nei 156 Il frequente confronto con vedute di archi di trionfo romani (per esteriori te puramen analogie dipinti del Quattrocento riguarda il problema della veduta cfr. H. Giinther, op. a. [vedi nota 153], pp. 37 ss.).

157 Legenda aurea, cit. (vedi nota 16), pp. 66-67. Cfr. A. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo, Torino 1923, pp. 253 ss. È interessante che nell’ambito delle raffigurazioni quattro-cinquecentesche della Adorazione del Bambino manchi, a quanto mi risulta, un tentativo di identificare iconograficamente la rovi-

si na con la Basilica di Costantino, nota come “Templum Pacis”. Ci

sarebbe aspettati una tale identificazione soprattutto da Francesco di Giorgio, che per primo disegnò una riproduzione archeologica della basilica (T. Buddensieg, «Die Konstantinsbasilika in einer Zeichnung Francescos di Giorgio und der Marmorkoloss Konstantins des Grossen», in: Minchner Jabrbuch, xm, 1962, pp. 37-48).

158 R. Valentini, G. Zucchetti, Codice topografico della Città di Roma, vol. rv, Roma 1953, p. 8. 59 Ibidem, p. 416. 160 Ibidem, p. 366. ‘61 Legenda aurea, cit. (vedi nota 16), pp. 66-67.

16 È questa la differenza decisiva nel confronto, per il resto suggestivo, proposto da A. Pinelli («Feste e trionfi: continuità e meta-

morfosi di un tema», in: Memoria dell’antico nell'arte italiana, a cura

di S. Settis, vol. 1, Torino 1985, figg. 236, 237) tra la pala Tancredi e il dipinto di Amico Aspertini agli Uffizi, databile al 1536 circa (H. Kropfinger v. Kiigelgen, Arzico Aspertinis malerisches Werk, tesi di dottorato Bonn 1973, pp. 340-343). 16 Acc. n. 1962.445 (cm 77 x 55,6). Cfr. fra l’altro anche la tavola con l'Adorazione del Bambino di Bernardino Fungai al Metropolitan Museum di New York (inv. 26.109. F. Zeri, E. E. Gardner,

Italian Paintings — A Catalogue of the Collection of the Metropolitan Museum of Art: Sienese and Central Italian Schools, Vicenza 1980, pp. 14-15, fig. 78). 18*Cfr nota)3.\cat.65): ‘5 G. Briganti, E. Baccheschi, L'opera completa del Beccafumi, Milano 1977, p. 91 (n. 44), tavola 15. Il Beccafumi ha adeguato il suo dipinto al modello di Francesco di Giorgio anche per quanto riguarda le dimensioni. 166 Francesco di Giorgio, op. cit. (vedi nota 153), vol. 1, tavola 143. Cfr. C. H. Ericsson, Roman Architecture expressed in sketches by Francesco di Giorgio Martini (Societas Scientiarum Fennica; Commentationes Humanarum Litterarum, vol. xvi), Helsinki 1980, pp. 187 ss. 16 PH. v. Blanckenhagen, Flavische Architektur und ihre Dekoration untersucht am Nervaforum, Berlin 1940. 168 H, Egger, Codex Escurialensis — Ein Skizzenbuch aus der Werkstatt Domenico Ghirlandaios, Wien 1906, p. 142 (fol. 57v). Per la collocazione storico-artistica e la datazione del codice cfr. A. Nesselrath, op. cit. (vedi nota 153), pp. 129 ss.

169 Giovanni Antonio Dosio, Le antichità di Roma (Aedificiorum illustrium quae supersunt reliquiae summa cum diligentia a Ioanne Antonio

Dosio stilo ferreo ut hodie cernuntur

descriptae et a I.

Baptista de Cavaleriis aeneis tabulis incisis repraesentatae MDLXIX Kal Mai), nota introduttiva di FE. Borsi, Roma 1970, tavola 13. 170 Ch. Hiilsen, H. Egger, Die ròmzischen Skizzenbiicher von Marten van Heemskerck im Kòniglichen Kupferkabinett zu Berlin, Berlin 1912, tavola 44.

LÀ «SOCIETAS IN ARTE PICTORUM» DI FRANCESCO DI GIORG IO E NEROCCIO DE’ LANDI

La mostra in due sezioni Francesco di Giorgio e il Rinascimento a Siena 1450-1500 /Francesco di Giorgio architetto, ospitata dall’aprile al luglio 1993 nella chiesa di Sant'Agostino e nel Palazzo Pubblico di Siena,! sarà probabilmente l'evento artistico più importante dell’anno in Italia. Nell'occasione vorrei illustrare qui una scoperta recente e insieme presentare alla discussione un problema centrale nella produzione di Francesco: la sua pluriennale collaborazione con Neroccio de’ Landi.

La definizione precisa del corpus di Francesco di Giorgio (1439-1501) è uno dei compiti più difficili per gli studiosi

del Rinascimento. Particolari problemi derivano dalla poliedrica attività dell’artista, che fu pittore, scultore, architetto, costruttore di fortezze, ingegnere, diplomatico e teorico. Ogni settore della storia dell’arte si è creato, indipendentemente dalle altre discipline, la propria idea su Francesco di Giorgio, e neppure nell’ambito della mostra senese si instaura un vero dialogo fra storici dell’architettura ed esperti di storia della pittura e della scultura. All’interno dei singoli settori si svolge invece un dibattito stimolante e poco convenzionale che non rifugge da valutazioni radicalmente nuove. I curatori della sezione Dipinti, disegni e sculture intendono provocare mediante audaci ipotesi una riflessione sostanzialmente nuova sulla datazione delle opere di Francesco di Giorgio. Essi tratteggiano un quadro dell’opera giovanile che si discosta da tutte le ipotesi finora avanzate, non da ultimo contestando anche alcune definizioni standard del Rinascimento senese, per esempio il luogo comune del sostanziale rifiuto del ritratto. Di particolare rilievo sono i contributi al catalogo relativi alla storia sociale e della civiltà e l'edizione critica dei documenti, che aprono importanti prospettive per gli studi futuri. Il terremoto storico-artistico allestito a Siena ha inoltre l’effetto di rendere più evidenti le esili fondamenta su cui sono edificate sia le tesi oggi criticate, sia le nuove proposte. Fino alla sua chiamata alla corte ducale di Urbino, avvenuta poco prima del 1477, i primi trentotto anni dell’artista sono documentati sorprendentemente male da fonti scritte. Soprattutto riguardo a questa epoca regna pertan-

to la massima incertezza sull’attribuzione e la datazione di un gran numero di opere messe in relazione con Francesco. Particolarmente infelice è la situazione delle fonti riguardo al problema discusso in questa sede, il sodalizio di bottega con Neroccio de’ Landi. Di tale contesto si è conservato un unico documento, redatto il 6 luglio 1475 dal tribunale della mercanzia di Siena} dunque in epoca successiva allo scioglimento della società. Nel documento vengono nominati due periti per valutare le «lites, causae et questiones» sorte în seguito alla fine della colla-

borazione: il Vecchietta, maestro dei due contendenti, su

proposta di Francesco di Giorgio, e Sano di Pietro, il secondo patriarca della corporazione senese dei pittori, su richiesta di Neroccio. Il documento delude per la mancanza di informazioni più esaurienti. Non viene detto né quale fosse il reale oggetto della disputa, né come funzionasse effettivamente il sodalizio di bottega, definito in ter-

mini alquanto vaghi «Societas quam simul habuerunt in arte pictorum». Inutile cercare informazioni più precise sulla cronologia della “ditta”. Persino la data di fondazione della società viene taciuta. Se oggi nelle pubblicazioni storico-artistiche relative si legge che la collaborazione con Neroccio iniziò verso il 1468, occorre sapere che tale ipotesi si basa unicamente sulla notizia di un’alleanza tra famiglie: l'adempimento, avvenuto il 26 gennaio 1469, delle condizioni economiche del contratto di matrimonio tra Francesco di Giorgio e Agnese di Antonio di Benedetto di Neroccio, forse parente di Neroccio de’ Landi. Di esito deludente è anche ogni tentativo di desumere dai documenti un'idea più precisa almeno degli antefatti del sodalizio di bottega, ovvero della produzione di Neroccio e di Francesco anteriore al 1468 circa. In quegli anni Neroccio non è ben inquadrabile come artista. Mancano del tutto opere firmate di sua mano o databili su base documentaria. Sulla vita di Neroccio fino al 1468 abbiamo solo quattro notizie: la registrazione battesimale il 4 giugno 1447; un conto datato 1461 per lavori non meglio specificati eseguiti su commissione dell'Opera del Duomo di Siena; testimonianze del 1468 relative a un dipinto su tavola e a una statua in terracotta di San Girolamo, di cui oggi si è persa ogni traccia.’

Un po’ più confortante appare la documentazione del primo periodo produttivo di Francesco di Giorgio. Almeno esistono due punti fermi sui quali ci si può orientare nel vagliare il numero sorprendentemente elevato delle recenti attribuzioni di opere giovanili: le iniziali miniate datate 1463 del codice dell’Osservanza De anirzalibus® e la scultura lignea di San Giovanni Battista, attestata

come opera di Francesco e datata 1464 (fig. 28, oggi al Museo dell'Opera del Duomo di Siena), realizzata dall'artista su commissione della “Compagnia di San Giovanni Battista della morte”, la confraternita che forni-

va assistenza spirituale ai condannati a morte. Quanto sia in realtà labile la conoscenza della prima attività di Francesco è dimostrato con grande evidenza dal fatto che per gli anni tra il 1465 e il 1472 manca una qualunque opera di datazione certa, sia essa un dipinto, un disegno, una miniatura, una illustrazione per un trattato © una scultura. Prima del 1469 esistono solo due notizie riguardanti la sua produzione artistica: la quietanza di pa-

gamento del 1464 per la suddetta statua di Sar Giovanni Battista (fig. 28)} e una registrazione del 1460, scoperta di

Dori

PITTURA

538

- RINASCIMENTO

recente, nel libro contabile dell'Opera del Duomo di Siena, in cui il Vecchietta è citato insieme a Francesco (di Giorgio?) e a Benvenuto (di Giovanni?).° Questa esiguità di fonti costringe ad applicare risolutamente il metodo della critica stilistica. Lo studio della «Societas in arte pictorum» diventa così anche un modo per verificare la forza probatoria dell’argomentazione storico-stilistica. Il dibattito sul tema del sodalizio di bottega si concentrava finora soprattutto su quattro capolavori: la lunetta raffigurante l’Annunciazione alla Yale University Art Gallery, che a mio avviso mostra con la massima evidenza la concreta collaborazione dei due artisti alla stessa opera;!° l’Incoronazione di Maria che secondo i documenti Francesco di Giorgio dipinse tra il 1472 e il 1474 per la cappella di Santa Caterina nella chiesa dell'abbazia di Monteoliveto (fis. 18); la statua lignea di Sarza Cazerina da Siena attestata come opera di Neroccio e datata 1474 (figg.

6-8), in origine collocata sull’altare dell’oratorio situato al

piano inferiore del complesso di Santa Caterina in Fontebranda; inoltre l’unico dipinto mai firmato da Francesco, la Natività, commissionata il 12 aprile 1475, pochi mesi prima dello scioglimento della società (figg. 24-26, oggi alla Pinacoteca di Siena). Vorrei qui ampliare questo esiguo gruppo con un ritrovamento che a mio avviso ci infor-

ma in maniera eloquente sul dialogo tra i partreers Neroccio de’ Landi e Francesco di Giorgio negli anni dal 1472 circa al 1475.

UN

CEPPO

DELLA

DI NOCE

PER FARE

L’ANGNOLO

NUNZIATA

Nel 1991, visitando una collezione privata, mi sono imbattuto in una scultura inedita e, per quanto ne sappia, ignota agli specialisti di scultura rinascimentale, attribuibile a Neroccio e al periodo della famosa società (fig. 1, tavole Lxx1x, xxx). Iconografia, materiale, autore e datazio-

ne della statua sulla base dell'esame stilistico richiamano subito alla memoria un documento del 1474, in cui si parla di una piccola somma pagata dall’amministrazione dello Spedale della Scala di Siena a Francesco di Giorgio, socio anziano della ditta “Francesco-Neroccio”, per l'acquisto di un «ceppo di noce». Il ceppo, stando al documento, doveva servire a realizzare una statua dell’Arcangelo Gabriele da collocare nella chiesa della Santissima Annunziata, la chiesa dello Spedale.!! Per capire il significato di tale incarico e dunque della identificazione qui proposta, per il momento ancora ipotetica, della statua lignea scoperta di recente con l'’«Angnolo della Nunziata» ordinato nel 1474 dall’amministrazione dello Spedale, è necessario premettere una breve informazione sulla struttura e sull’arredo rinascimentale dell’ Annunziata. L’elevato rango storico-artistico della chiesa, che un tempo possedeva a Siena il complesso più ricco di opere rinascimentali pittoriche e scultoree di prim'ordine, ormai è riconoscibile solo mediante una ricostruzione storica. Ornata di finestre di stili diversi, la facciata ricorda un

palazzo piuttosto che una chiesa (fig. 2) ed è dunque priva di rimandi diretti all'edificio religioso probabilmente dise-

1. Neroccio de'Landi, Arcangelo Gabriele, 1474/75, legno, altezza m 1,62, collezione privata

LA «SOCIETAS

2. Facciata della chiesa della Santissima Annunziata a Siena

IN ARTE

PICTORUM»

3. Facciata della chiesa della Santissima Annunziata a Siena

(da E. Fontani, Viaggio pittorico della Toscana, Firenze 1827)

gnato da Francesco di Giorgio!? e magnificamente decora-

to dall’artista insieme al Vecchietta. L'aspetto odierno d’altronde è di epoca sorprendentemente recente. Solo durante i “restauri” eseguiti tra il 1905 e il 1907 sotto la direzione di Vittorio Mariani furono messe a nudo le bifore gotiche! che in origine appartenevano alla struttura della facciata di un orfanotrofio costruito nel tardo Duecento. Il muro esterno fu in parte riutilizzato dall’architetto della chiesa rinascimentale, il quale si premurò di celare le finestre gotiche sotto spessi strati di intonaco. L'incisione pub-

blicata nel 1827 dal Fontani (fig. 3),!' in sostanza riproduce ancora lo stato tardo quattrocentesco di un edificio modulato unicamente da alte finestre arcuate a tutto sesto e portali. Per renderci conto dell'aspetto tardo quattrocentesco della facciata della chiesa dobbiamo eliminare le bifore gotiche e immaginare, immediatamente al di sotto delle finestre ad arco, un’alta banda di affreschi rinasci-

mentali che affiancavano gli affreschi di Simone Martini e dei fratelli Lorenzetti, lodati da Ghiberti e Vasari e visibili fino al 1720 nella zona sopra il portale della chiesa.! All’interno della chiesa, i muri perimetrali e il soffitto ligneo a cassettoni si sono conservati nella loro forma originaria, così che l’effetto dello spazio rinascimentale è rima-

sto pressoché intatto (fig. 4). Anche l’alta scala che conduce all’abside corrisponde allo stato primitivo. Del tutto mutato è invece l’effetto dell’abside stessa, dove Sebastiano Conca dipinse nel 1731/32 il suo scenografico affresco raffigurante la Miracolosa guarigione presso la piscina pro-

batica. La disposizione originaria, che probabilmente risaliva a un progetto di Francesco di Giorgio e che ci è stata tramandata da un disegno seicentesco (fig. 6),!° presentava una struttura tripartita in cui i due semipilastri centrali incorniciavano uno scomparto di parete alto e stretto, chiu-

so da un arco. Le opere più importanti dell'arredo rinascimentale dell'Annunziata si sono in massima parte conservate, ma nessuna purtroppo nella sede originaria. Sull’altare c'era il capolavoro del Vecchietta, il ciborio eucaristico in bronzo

completato nel 1472 e trasferito, già nel 1506 per ordine di Pandolfo Petrucci, nel Duomo, dove è andato a occupare

il posto della Maestà di Duccio. Nel disegno seicentesco citato (fig. 6) si distingue sopra l’altare la statua in bronzo del Cristo risorto, anch'essa del Vecchietta. L’opera, di importanza cruciale nella storia dei monumenti autocommemorativi di un artista, ornava in origine, insieme a una ta-

vola oggi conservata alla Pinacoteca di Siena, la cappella sepolcrale del Vecchietta, la cui foggia originaria ci è nota dall’atto di fondazione dettato dall’artista: «Voglio mettare in detta cappella un Cristo ho fatto e non n'è anco fenito di bronzo di statura di braccia tre o circa in sul l’altare di detta cappella e doppo l’altare vi voglio fare una tavola dipinta di larghezza di braccia tre e alta quattro braccia e mezzo dietro al Cristo».!” Il complemento più importante alle opere del Vecchietta era costituito dal grande affresco eseguito nel 1471 da Francesco di Giorgio nel catino absidale (fig. 6), la cui configurazione iconografica fu per così dire registrata ufficialmente prima di scomparire sotto il nuovo affresco di Sebastiano Conca: 10,61

Nella media apertura formata in arco di tutto sesto [...] faceva mostra in una gloria di angeli sostenuta da un rosseggiante ed oscuro nuvolato Maria Santissima in atto di essere co-

ronata dal suo Divinissimo Figlio, sotto la quale fra due colonnati d'ordine dorico, quasi in un aperto rurale cortile rimiravasi il di lei sepolcro ricoperto di molti, e diversi fiori, circondato dalli dodici SS. Apostoli, delli quali altri genuflessi veneravano il luogo sepolcrale della loro regina, altri con devota meraviglia contemplavano il prodigio de ritrovati fiori invece del Corpo purissimo di Maria.!8

Un altro capolavoro dell'arredo rinascimentale era il gruppo ligneo dell’Annunciazione citato all’inizio, investito di un ruolo iconologico e liturgico centrale in quanto rimando figurativo al nome della chiesa dello Spedale, la Santissima Annunziata. Il disegno settecentesco di un dilet-

PITTURA

- RINASCIMENTO

tante qui riprodotto (fig. 5),!° pur non raffigurando più le statue degli anni settanta del Quattrocento, bensì un gruppo di epoca successiva,’ ci trasmette comunque una

540

certa idea dell'importanza del gruppo dell’Annunciazione all’interno dell’arredo del coro. Collegando un documento trascritto nel Settecento, oggi perduto, con una annotazione scoperta di recente nei libri contabili dello Spedale di Santa Maria della Scala, è possibile stabilire con certezza la data dell’allogagione della statua lignea dell’Arcangelo Gabriele. Alla data del 24 dicembre 1474, nel libro contabile oggi conservato all’Archivio di Stato di Siena si trova la nota di un pagamento di 5 lire e 12 soldi a Francesco di Giorgio, con un rimando al foglio 38 di un libro verde con la segnatura T («A Francesco di Giorgio dipentore a dì detto lire cinque e soldi dodici contanti e sonno posti a libro verde T a foglio 38»). Questa nota rivestirebbe ben poca importanza per la storia dell’arte se non fosse collegabile con la trascrizione di un documento eseguita nel Settecento da C. C. Carli. In proposito Carli comunica espressamente di averla tratta dal «libro verde T di Conti correnti a 38»: «Francesco di Giorgio di Martino dipentore el quale dipinge la cappella grande die dare [...] lire cinque e soldi dodici per comprare un Ceppo di noce per fare lAngnolo della Nunziata di chiesa». La relazione con il citato affresco nell'abside dell'Annunziata, raffigurante l’Assunzione della Vergine, è evidente. Se consideriamo la discreta frequenza con cui nella seconda metà del Quattrocento si commissionavano a maestri

toscani Annunciazioni lignee, la possibilità che la scultura scoperta di recente (fig. 1, tavola Lxx1x) sia identificabile con l’«Angnolo della Nunziata» della chiesa dello Spedale parrebbe scarsa. La figura, alta m 1,62 compreso lo zoc-

colo e conservata nei suoi colori originali,’ corrisponde per dimensioni ad analoghi esemplari toscani del gotico e del Rinascimento. La statua in effetti è intagliata in legno di noce, ma neanche questo è particolarmente significati-

vo in quanto quel tipo di legno è molto usato per le sculture quattrocentesche della zona. Di maggior peso appare invece l'osservazione che l’angelo è cavo nella parte posteriore, e dunque non era destinato a una presentazione a tutto tondo. Ciò corrisponde alla funzione dell’«Angnolo della Nunziata», poiché sappiamo che nella chiesa della Santissima Annunziata l’Angelo doveva essere collocato

dentro un tabernacolo.?* L'idea di collegare la scultura scoperta di recente con la notizia sull’«Angnolo della Nunziata», dunque con la bottega “Francesco di Giorgio - Neroccio de’ Landi” e con la data della primavera 1475, si è affacciata notando strette concordanze formali con la statua di Santa Caterina dell’oratorio in Fontebranda, terminata pochi mesi prima (figg. 7-9). Essa rappresenta sotto ogni aspetto un termine

di confronto sicuro, in quanto è documentata come opera di Neroccio, e due documenti, rispettivamente del 31 marzo e del maggio 1474, la datano con certezza al 1474?

L'elevata qualità della scultura le assicura il posto d’onore nel corpus di Neroccio de’ Landi. A prima vista, la stretta affinità stilistica fra l'angelo scoperto di recente (fig. 1, tavola Lxx1x) e la statua di santa Ca-

5. Disegno del coro della Santissima Annunziata a Siena, Biblioteca Comunale di Siena, ms. E. V. 14, fol. 78

terina da Siena (figg. 7, 8) non risulta affatto evidente. Lo strano abbigliamento dell'angelo, un po’ anticheggiante, un po simile all’abito di un diacono, appare troppo inconfrontabile con la santa senese, la cui figura si rifà al normativo “ritratto ufficiale” dipinto dal Vecchietta nella Sala del Mappamondo di Palazzo Pubblico. Se tuttavia si astrae da queste differenze iconografiche e ci si concentra unica-

mente sugli aspetti storico-stilistici, l'identità della mano dell'artista si manifesta con tutta evidenza. I due profili (figg. 10, 11) sono caratterizzati da proporzioni e contorni

LA «SOCIETAS

IN ARTE

PICTORUM»

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Se 6. Disegno dell’abside della Santissima Annunziata a Siena, Biblioteca Comunale di Siena, ms. $. IL1, fol. 10

PITTURA

- RINASCIMENTO

542

7.-8. Neroccio de’ Landi, Santa Caterina da Siena, 1474, legno, altezza m 1,98, Stena, Oratorio di Santa Caterina in Fontebranda

quasi sovrapponibili, nonché da tratti peculiari perfettamente concordanti (si noti in particolare il labbro superiore lievemente sporgente, la morbida rotondità di guan-

LA «SOCIETAS

IN ARTE

PICTORUM»

ce e mento, lo sguardo trasognato). Se osserviamo ingran-

dimenti di dettagli quali i particolari qui riprodotti del mento e della bocca (figg. 12, 13), l'orlo frastagliato della veste (figg. 14, 15) e le pieghe rilevate disposte ad anello

intorno alle braccia (figg. 16, 17), non è difficile riconosce-

re la stessa “sigla”. Per quanto evidente possa apparire l'attribuzione alla so-

943

cietà di Neroccio e Francesco di Giorgio negli anni 1474/75, in ultima analisi la provenienza della scultura ora

riemersa (fig. 1, tavola xxx) dalla Santissima Annunziata non è dimostrabile con assoluta certezza. Manca, come ultimo elemento della sequenza probatoria, un accenno al committente, per esempio sotto forma di stemma dipinto sullo zoccolo della statua. L’identificazione di uno stemma

del genere escluderebbe del tutto l'eventualità, teoricamente possibile, che nella stessa bottega e all’incirca nello stesso periodo siano state ordinate varie statue in legno di noce dell’Arcangelo Gabriele incorniciate da tabernacoli. Perciò per il momento vorrei limitarmi per prudenza a constatare che la conoscenza della scultura di Neroccio scoperta di recente precisa almeno indirettamente — in quanto lavoro coevo della stessa bottega — la nostra idea dell’arredo rinascimentale dell’ Annunziata.

IL DIALOGO

TRA I SOCI

Davanti al compito di definire in poche parole l’arte di Francesco di Giorgio e di Neroccio de’ Landi, si accentueranno soprattutto i contrasti che distinguono le maniere dei due maestri. Neroccio è «statico», «spirituale», «stilizza la forma con rigore», «un mistico che trasfigura le sue

9. Neroccio de’ Landi, Santa Caterina da Siena (particolare), 1474, Siena, Oratorio di Santa Caterina in Fontebranda

immagini sacre in un chiarore soprannaturale». Francesco

po divenuto celebre in tutta Italia, che Neroccio continuò a ignorare anche dopo il ritorno di questi a Siena, bensì, retrospettivamente, con il partner degli anni sessanta e dei

è «drammatico»,

talvolta

primi anni settanta. È dunque la prima maniera di France-

anche «un rozzo che non teme le esagerazioni nel riprodurre movimenti violenti, scorci prospettici e caratterizzazioni fisiognomiche». Se consideriamo la relazione tra Siena e Firenze, collegheremo Francesco soprattutto con Donatello e Neroccio in particolare con Domenico Veneziano — forti contrasti anche questi. Ma come era possibile una stretta collaborazione fra artisti di indole tanto diversa nell’ambito della stessa bottega? Le considerazioni che seguono mostreranno come l’attività in comune fosse facilitata soprattutto dalla natura duttile di Neroccio, minore di otto anni, il quale, senza rinnegare il proprio talento, seppe adeguarsi abilmente allo stile

sco che Neroccio cercò di rinnovare con lo sguardo rivolto agli esordi, evidentemente importanti per lui, della

«sperimentatore»,

«realista»,

dominante di Francesco di Giorgio. In questa acquiescen-

za si crede di percepire anche una forte ammirazione per l’arte di Francesco. Ma tutto ciò trova una brusca conclusione con lo scioglimento, carico di conflitti probabilmente non solo giuridici, della ditta. Dopo la metà del 1475,

Neroccio assunse nei confronti di Francesco una posizio-

ne di aspro contrasto che avrebbe cancellato ogni ricordo

della produzione creata insieme. Solo parecchi anni dopo Neroccio riprese il dialogo con Francesco, ma — tentamo a sottolineare subito — non con l'artista di corte nel frattem-

«Societas in arte pictorum».

Il dialogo tra i soci si rileva al meglio dal confronto di Neroccio con uno dei capolavori di Francesco, l'Ircoronazione della Vergine creata per i benedettini di Monteoliveto (fig. 18). La ricostruzione del dialogo artistico è notevolmente facilitata da documenti ritrovati di recente nel corso

dei preparativi

per la mostra

di quest'anno

su

Francesco di Giorgio,”° poiché ora conosciamo finalmente date precise riferibili al dipinto. Il 24 marzo 1472 l’abbazia di Monteoliveto acquistò cinquecento foglie d’oro destinate alla Incoronazione della Vergine? Possiamo dunque stabilire con certezza che il dipinto fu commissionato a Francesco di Giorgio prima di tale data. La tavola fu completata solo poco prima del 18 settembre 1474, giorno in cui un certo Antonio ricevette 19 lire e 12 soldi come compenso per il trasporto da Siena a Monteoliveto di una grande tavola destinata alla cappella di Santa Caterina nella chiesa monastica. Si trattava senz'altro del trasferi mento della Incoronazione della Vergine di Francesco di Giorgio, che a Monteoliveto venne sistemata, come sap-

PITTURA

- RINASCIMENTO

544

10. Neroccio de Landi, Arcangelo Gabriele (particolare), 1474/75, collezione privata

DE gMenone Ei Pl pa 12. Neroccio de' Landi, Arcangelo Gabriele (particolare), 1474/75, collezione privata

11. Neroccio de’ Landi, Santa Caterina da Siena (particolare), 1474, Siena, Oratorio di Santa Caterina in Fontebranda

SE as ar = 13. Neroccio de’ Landi, Santa Caterina da Siena (particolare), 1474 Siena, Oratorio di Santa Caterina in Fontebranda

LA «SOCIETAS

IN ARTE

PICTORUM»

34)

14. Neroccio de’ Landi, Arcangelo Gabriele (particolare), 1474/75, collezione privata

16. Neroccio de’ Landi, Arcangelo Gabriele (particolare), 1474/75, i collezione privata

piamo da attestazioni successive, nella cappella dedicata ai santi Sebastiano e Caterina. La collocazione si rileva anche dall'iconografia: Caterina e Sebastiano non sono solo gli unici di tutta la schiera dei santi ratfigurati in ginocchio: a essi è anche riservata una posizione eminente in

15. Neroccio de’ Landi, Santa Caterina da Siena (particolare), 1474, Siena, Oratorio di Santa Caterina in Fontebranda

17. Neroccio de Landi, Santa Caterina da Siena (particolare), 1474, Siena, Oratorio di Santa Caterina in Fontebranda

primissimo piano. La ricevuta di pagamento citata costituisce un esempio così interessante della multiformità della documentazione storico-artistica nel i italiano, che vorrei riportare tale fonte mao a badi fra l’altro anche alla precisione con cui si esprime i

PITTURA

- RINASCIMENTO

546

Di

18. Francesco di Giorgio, Incoronazione di Maria, 1472/74, tempera su legno, cm 340 x 00, Siena, Pinacoteca Nazionale

LA «SOCIETAS

monaco che esercitava la funzione di contabile, il quale,

IN ARTE

PICTORUM»

per giustificare i costi, a rendere l’idea della maestria del trasportatore. Costui era riuscito a far superare senza danni a una tavola di m 3,37 x 2 dipinta su un supporto ligneo spesso e dunque di notevole peso, la distanza relati-

un intelligente iconografo, in quanto conferisce all’immagine della patrona di Siena, il cui culto era stato riconosciuto dalla chiesa solo da pochi decenni, i tratti della santa omonima venerata da molti secoli: la auctoritas di Caterina di Alessandria getta riflessi iconografici sulla Caterina senese.

Voltolina a dì 18 di settembre 1474 lire dicionove, soldi

SCIOGLIMENTO

nonostante la formulazione più che concisa, riesce, anche

vamente elevata tra la bottega senese e la chiesa dell’abbazia di Monteoliveto: «A maestro Antonio di Iacomo da

dodici contanti in sua mano qui ne la cella nostra, sono per sua fadiga e magisterio di fare condure da Siena a qui, a Monteoliveto la tavola de la capella di Sancta Katerina da Siena».?°

A rimuovere gli ultimi dubbi sull'identità dell'oggetto del trasporto con la tavola dell’Incororazione interviene un pagamento del 15 febbraio 1475, con cui Francesco di

DELLA

SOCIETÀ

- NUOVO

ORIENTAMENTO

STILISTICO

Il caso dello scioglimento della società artistica tra Francesco di Giorgio e Neroccio de’ Landi offre un elemento di riscontro esemplare alla teoria della relazione fra le cesure nella storia economica e i nuovi orientamenti stilistici. Come in un manuale di “storia sociale dell’arte”, al crollo della ditta segue subito, e con netta evidenza, l’e-

Giorgio è ricompensato per l’esecuzione già avvenuta del tendaggio dipinto destinato a celare l’Incoronazione nei giorni feriali.?° All'epoca la tavola doveva dunque già trovarsi nella chiesa del monastero. Il termine del 18 settembre 1474 citato nella ricevuta del trasporto è determinante ai fini del nostro discorso: ora sappiamo con certezza che l’Incoronazione della Vergine

autonoma è rappresentato al meglio dalla Natività commissionata il 12 aprile 1475," dunque appena tre mesi prima della nomina dei giudici incaricati di sedare le

(fig. 18) si trovava ancora nella bottega avviata congiunta-

«lites» tra i soci in disaccordo, opera che, in base alle con-

mente da Francesco di Giorgio e Neroccio de’ Landi quando quest’ultimo, nella prima metà del 1474, creava la statua di Sarta Caterina destinata all'oratorio in Fontebranda (figg. 7-9). Mentre Francesco dava gli ultimi tocchi di colore all’Incoronazione, nella stessa bottega Neroccio intagliava e dipingeva il suo capolavoro. A un’analoga contiguità con l’Incoronazione verrebbe da attribuire anche la realizzazione della statua dell’ Angelo Annunciante scoperta di recente (fig. 1, tavola Lxx1x). In base alla sistemazione cronologica desumibile dall’analisi stilistica, si può pre-

dizioni dell’allogagione, avrebbe dovuto essere completata entro un anno (figg. 24-26). Lo stile di Neroccio nel periodo successivo al fallimento della «societas» si manifesta con particolare chiarezza nella Madonna della Pinacoteca di Siena recante il numero di inventario 281 (fig. 23),}° unanimemente datata dagli studiosi intorno al 1476 in ragione della stretta affinità stilistica con il trittico firmato

sumere che Neroccio, realizzando tale statua nell’atelier

della «Societas in arte pictorum», avesse costantemente davanti agli occhi l’Incoronazione, oppure, se l’identificazione con l’«Angnolo della Nunziata» è corretta, ne avesse almeno un ricordo freschissimo. Il confronto diretto con il capolavoro di Francesco appare evidente osservando le due statue di Neroccio. L'Arcangelo Gabriele si presenta come un'immagine speculare della Santa Agnese raffigurata in primo piano a sinistra

nella Incoronazione (figg. 19, 20, tavola Lxxx). Con alcune correzioni iconografiche — per esempio un’acconciatura meno artificiosa e l’omissione della corona — Neroccio riprende la figura di Francesco sia nella fisionomia, sia nella lieve rotazione della testa e nell'espressione malinconica dello sguardo. L'impronta personale di Neroccio si manifesta con particolare evidenza solo nella maggiore idealizzazione, nella rinuncia al marcato realismo dei particolari tipico di Francesco (si veda ad esempio la precisione ben

più dettagliata con cui Francesco evidenzia gli occhi; figg. 19, 20, tavola Lxxx).

Ancora più stretto è forse il rapporto fra la Sanza Caterina da Siena di Neroccio (figg. 7, 8) e una delle figure più eminenti della Incoronazione (figg. 21, 22), un rapporto

che finora, nonostante la sua evidenza, è stato stranamen-

te trascurato dagli studiosi. Qui Neroccio si rivela anche

straneamento stilistico fra gli ex soci. Lo stile di Francesco di Giorgio nel periodo tra la crisi del sodalizio e la ricostruzione di una posizione economica

Opus Nerocci BartaLoNnMEI BENEDICTI DE SENIS MCCCGIXXVI:2

Il linguaggio formale della celebre Natività di Francesco (fig. 24) rivela chiaramente la perfetta conoscenza della coeva pittura fiorentina. Le qualità artistiche sono, molto in generale, le stesse dei fiorentini: impianto prospettico, volumi plastici dei corpi, differenziazione dell’espressione individuale. Specificamente fiorentina appare la predilezione per i virtuosismi ottici e prospettici, come ad esem-

pio l’effetto singolare delle teste calve dei santi specchiate dai nimbi configurati come lucidi dischi di metallo, oppure l’ardita rotazione del corpo di San Bernardo (Tolomei?) che si volge verso l’osservatore (fig. 25). Il dipinto di Neroccio invece non è solo del tutto estraneo allo spirito fiorentino; esso è anche, almeno nell'ottica fio-

rentina, inattuale (fig. 23). Dopo il fallimento della collaborazione con Francesco, Neroccio cercò un nuovo orien-

tamento rivolgendosi a un passato sorprendentemente remoto: l’arte senese del Trecento. Sotto molti aspetti, la tavola numero 281 della Pinacoteca di Siena si presenta come la testimonianza di un tentativo di infondere nuova vita all’arte di Simone Martini. A Neroccio appaiono attuali proprio quelle qualità dell’arte trecentesca che a Firenze erano da tempo considerate obsolete: la ricchezza ornamentale del fondo oro e l'assenza di spazialità.

547

PITTURA

- RINASCIMENTO

19. Neroccio de’ Landi, Arcangelo Gabriele (particolare), 1474/75, collezione privata

20. Francesco di Giorgio, Incoronazione di Maria, Santa Agnese, 1472/74, Siena, Pinacoteca Nazionale

21. Neroccio de Landi, Santa Caterina da Siena (particolare), 1474,

22. Francesco di Giorgio, Incoronazione di Maria (particolare), 1472/74, Siena, Pinacoteca Nazionale

Siena, Oratorio di Santa Caterina in Fontebranda

LA « Alla fine del 1465 la costruzione delle cinque cappelle del coro era già a buon punto, visto che il 13 novembre 1465 gli archi di ingresso erano stati completati e le volte delle cappelle erano già in costruzione (ASS, Consistoro, 1683, fol. 319v). L'altare di santa Agata era stato assegnato ai Bichi già nel 1408. 36 Stando a G. Pecci, Raccolta universale di tutte l’iscrizioni [...] eststenti in diversi luoghi pubblici [...] di Siena (1730), un'iscrizione della Cappella Bichi diceva: EusrocHia BicHia Ant. F. SaceLLUM Hoc AN. MCDLXXXVII SIBI, SUISQUE SUCCESSORIBUS EXORNAVIT, ET DITAVIT, ANNIBAL ET FiRMANUS BIGHII EIUSDEM ANTONII ABNEPOTES E MEDIO TEMPLI PARENTIUM OSSA HUC TRANSTULERUNT, SIBIQUE AC POSTERIS MONUMENTUM PARARUNT AN. Domini mpxcni (ASS, ms. D. 4, vol. I, fol. 30). 37 ASS, Balia, 26, fol. 36v. Titti Sigismundi Historiarum Senensium ab initiis Senarum usque ad ann. 1528 [...], Firenze, Biblioteca Nazionale, ms. pal. n. v. 140, vol. v, p. 313. 38 ASS, Balia, 29, fol. 46r-47r (21. 7. 1483). «Admonitio plurum de ordine Novem: Ac etiam attenta inobedientia infrascriptorum et corum gestis et quod noluerunt adire ad civitatem per totum mensem maii [...] declaraverunt infrascriptos [...] esse amonitos in perpetuum ab omni officio et honore Comunis et bona ipsorum confiscari [...]:

Magister Antonius, Bernardinus et Matteus — Petri de Bichis Niccolaus et Hieronymus — Iohannes Nerii de Bichis, et Iohannes, dicti Niccolai filius». ?7:S. Titus, op. at. (vedi nota 37), volv,p. 259: 49 G. A. Pecci, Memorie storico-critiche della Città di Siena che servono alla vitacivile di Pandolfo Petrucci dal MCCCCLXXX al MDXII, vol. 1, Siena 1755, p. 51. Per la restituzione dei beni confiscati a Cristoforo Bellanti, morto nel 1482, cfr. ASS, ms. B. 75, fol. 260v-261r (19 agosto 1487).

4! O. Malavolti, Dell’Historia di Siena, vol. m, parte sesta, Venezia 1599, p. 94v.

4 Ibidem, p. 94v. ® Ibidem, p. 971. G. A. Pecci, op. cit. (vedi nota 40), p. 78. # Un attentato progettato nel 1496 dagli avversari politici dei “Nove” banditi da Siena era significativamente rivolto contro Giacopo e Pandolfo Petrucci, Neri Placidi, Antonio e Firmano Bichi e Niccolò Borghesi (G. A. Pecci, op. cit. [vedi nota 40], p. 134). Nel 1502 Antonio Bichi accompagnò Pandolfo Petrucci in esilio (ibidem,

GLI AFFRESCHI

p. 185; cfr. ibidem, p. 164, la descrizione dello stretto lesame tra Antonio Bichi e il tiranno di Siena) i # ASS, Balia, 36, fol. 43r, 4 S. Titius, op. cit. (vedi nota 37), p. 236.

diSiDore di Antonio Bichi sichiamava Naddina o Naldina. i er ilculto di santa Caterina in Sant'Agostino a Siena cfr. M. Seidel, op. cit. (vedi nota 27), p. 203 [qui p. 355]. Per santa Eustochia cfr. G. Kaftal, Iconography of the Saints in Tuscan Painting, Florence 1952, col. 360; Lexikon der christlichen Ikonographie, ed. E. Kirschbaum, Freiburg i.Br. 1968-76 (LCI), vol. vi, coll. 199-200; Brbliothe-

ca Sanctorum, vol. v, coll. 302-304. Le ante della pala Bichi sono riprodotte in: M. Ingendaay, «Rekonstruktionsversuch der “Pala Bichi” in San Agostino in Siena», in: Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, xx, 1979, pp. 109-126. * O. Malavolti, op. cit. (vedi nota 41), p. 93v. G. A. Pecci, op. cit. (vedi nota 40), p. 43. 2 S. Titius, op. cit. (vedi nota 37), p.311. 7 O. Malavolti, op. cit. (vedi nota 41), p. 94v. ? F. Bandini Piccolomini, op. cit. (vedi nota 32), p. 124. ? ASS, Diplom., S. Agostino di Siena, 18 marzo 1493.

«ALEXANDER Episcopus Servus Servorum Dei Universis Christifidelibus presentes litteras inspecturis salutem et apostolicam benedictionem. Ecclesias et loca ecclesiastica pia devotione frequentare et ad eorum conservationem et manutentionem manus adiutrices porrigere pium et meritorium apud Deum existimantes, fideles singulos ad hec et alia caritatis opera exercenda muneribus, indulgentiis videlicet et remissionibus, frequenter invitamus ut per temporalia que illis exhibuerint auxilia premia consequi mereantur felicitatis eterne. Cum itaque, sicut accepimus, dilecta in Christo filia nobilis mulier Eustochia de Bichis, vidua, dilecti filii nobilis viri Antonii Iohannis etiam de Bichis, equitis senensis, nata, singulari devotione ducta, cupiens temporalia in spiritualia et transitoria in eterna felici comertio convitare, pro sue ac quondam Cristoferi de Bellantibus equitis senensis, olim eius mariti, nec non progenitorum et successorum suorum ac aliorum fidelium animarum salute, quandam Capellam sub invocatione Sancti Cristoferi in ecclesia domus Sancti Augustini Senensi, ordinis fratrum Heremitarum eiusdem Sancti Augustini, suis propriis sumptibus et expensis digno et laudabili opere a fundamentis construi et edificari facere ceperit, quam infra paucos menses absolvi posse sperat ipsamque capellam paramentis et ornamentis ecclesiasticis ad divinum cultum necessariis muniverit

et ornaverit ac pro Christifidelium animarum salute summopere desideret, dictam capellam etiam spiritualibus muneribus decorari. Nos cupientes ut dicta Capella a Christifidelibus frequentetur et in debita veneratione habeatur ac in suis structuris, edificiis et ornamentis conservetur et manuteneatur fidelesque ipsi eo libentius devotionis causa, ad eandem capellam confluant ac ad conservationem et manutentionem predictas manus promptius porrigant adiutrices quo [lacuna di alcune parole] ibidem dono celestis gratie uberius conspexerint se refectos, de Omnipotentis misericordia ac beatorum Petri et Pauli apostolorum, eius auctoritate confisi, omnibus et singulis fidelibus ipsis vere penitentibus et confessis, qui capellam predictam in festo eiusdem Sancti Cristofori a primis vesperis usque ad secundas vesperas eiusdem festi inclusive, devote visitaverint et ad conservationem et manutentionem predictas manus porrexerint adiutrices, ut prefertur, decem annos et totidem quadragenas de iniunctis eis penitentils misericorditer in Domino

relaxamus, pre-

sentibus perpetuo valituris. Volumus autem quod si dictam Capellam visitantibus et ad premissa manus adiutrices porrigentibus seu inibi pias elemosinas erogantibus seu alias aliqua alia indulgentia in perpetuum vel ad certum tempus nondum elapsum duratura per nos concessa fuerit, nullius sint roboris vel momenti. Datum Rome apud Sanctum Petrum, anno Incarnationis dominice millesimo quadringentesimo nonagesimo tertio, quintodecimo Kalendas aprilis, pontificatus nostri anno secundo». 5 L’autore di questa bolla evidentemente non sapeva che il 15 ottobre 1487 la cappella in Sant'Agostino era stata consegnata a Eustachia Bichi praticamente finita. Il passo «suis propriis sumptibus et expensis digno et laudabili opere a fundamentis construi et edificari facere ceperit» è peraltro esatto se non lo si riferisce — come nella bolla di Alessandro vi — solo a Eustachia Bichi, bensì anche alla con-

DI FRANCESCO

DI GIORGIO

venzione dell'8 maggio 1464 tra i frati di Sant Agostino e la famiglia

Bichi (cfr. nota 34).

? Una seconda bolla dal contenuto simile fu emanata il 1° novembre 1494 a Siena dal cardinale diacono di Sant'Eustachio, Francesco Todeschini Piccolomini (il futuro papa Pio n). ASS, Dipl., S. Agostino di Siena, 1° novembre 1494;

«Picolhomineus Sancte Romane Ecclesie Sancti Fustachii Diaconus Cardinalis senensis, per universa[m] Italiam apostolice Sedis Legatus universis Christifidelibus presentes nostras inspecturis salutem in Domino sempiternam. Splendor paterne glorie qui sua mundum illuminat inefabili claritate, pia vota fidelium ac clementissima ipsius maiestate sperantium tunc precipue benigno favore prosequitur

cum devota ipsorum humilitas Sanctorum meritis et precibus adiuvator. Et quoniam inter Sanctos et electos Dei gloriosus Christi martir eximius Sanctus Cristoforus cuius humera Redemptorem

nostrum Christum Yesum portare eciam meruerunt, vellud stella radiat matutina, dignum quim pocius debitum reputamus ut ecclesias in quibus tam preclari martiris memoria veneratur, quantum

cum Deo possumus quamur. Cupientes qua est venerabilis Eustochia de Bichis

spetialis favoris dono et honoris gratia proseigitur ut ecclesia Sancti Augustini de Senis, in Capella Sancti Cristofori quam nobilis domina magna impensa, specioso opere et singularibus fieri procuravit, congruis frequentetur honoribus et

ornamentis Christifideles eo libentius devotionis causa confluant, ad eandem

quo ibidem dono celestis conspexerint se refectos, auctoritate apostolica specialiter nobis in hac parte concessa de omnipotentis Dei misericordia et beatorum Petri et Pauli apostolorum, eius precibus et auctoritate confisi ac magnifici et generosi militis domini Antonii de Bichis, patris prefate domine Eustochie, inclinati, omnibus et singulis Christifidelibus utriusque sexus vere penitentibus et confessis, qui in festo Sancti Cristofori a primis vesperis usque ad secundas, et in die Veneris Sancte vi Parasceve dictam ecclesiam et Capellam devotionis causa visitaverint et pro illius fabrica et ornamentis manus porrexerint adiutrices singulis annis quotiens id fecerit, decem annos et totidem quadragenas de iniunctis sibi penitentiis in Domino misericorditer relaxamus presentibus perpetuis futuris temporibus duraturis. In quorum omnium et singulorum fidem et testimonium

premissorum

presentes litteras fieri et per secretarium

nostrum infrascriptum subscribi nostrique pontificalis sigilli iussimus et fecimus appensione communiri. Datum Senis, in domibus

nostris, anno a Nativitate Domini millesimo quadringentesimo nonagesimoquarto, indictione duodecima, die vero prima novem-

bris, pontificatus Sanctissimi in Christo patris et domini nostri, domini Alexandri pape sexti anno tertio. A. de Alberiis». 36 Vasari-Milanesi, m, p. 688. 7 ASS, Notarile ante-cosimiano 968 (ser Cristofano Fungari, 14921496), 25. 7. 1494:

«Anno Domini mecconaxxam, Indictione x, die vero xxv mensis Iulii, Alexandro papa vi et Massimiliano Romanorum rege. Cum hoc sit quod de anno Domini meccerxxxvI et die quintodecimo mensis octobris per fratres capitulum et conventum Sancti Augustini de Senis, ex una, et clarissimum equitem dominum Antonium domini Iohannis de Bichis, procuratorem et procuratorio nomine egregie domine Eustochie, eius domini Antonii filie et relicte uxoris bone memorie domini Christofori Petri Ghini de Bellantiis de Senis, ex alia parte, fuerunt facta quedam pacta et transactiones et conventiones, inter quas prior et fratres solempni convocatione dederunt [et] concesserunt eidem domino Antonio procuratori prefate domine Eustochie eius filie et suis heredibus et successoribus unam ex quinque cappellis novis, positam in facie et pariete maioris altaris dicte ecclesie, videlicet unam positam in angulo ex destro et sempitem post cappellam de Tegl[i]accis. Et vice versa dictus Antonius dicto procuratorio nomine promisit dictis fratribus et capitulo fulcire et ornare dictam cappellam de dupplicibus paramentis, pro

uso continuo ac etiam paramento pro uso festivo, prout de predictis transactionibus et pluribus aliis late patet manu prudentis tabellionis ser Iohannis Danielis notarii publici senensis instrumentum, ad quod habeatur relatio. Et cum sit quod in dicta cappella, in ornamentis cius, multe expense sint facte per dictam dominam Eustochiam et ipsum dominum Antonium et quam plurime quam fuerit

64I

PITTURA

- RINASCIMENTO

animus eorum in primo dicte concessionis, et libenter dictas expensas facent in ornatu ipsius cappelle, ut ex [seguono tre parole illeggibili] ut dicta cappella ordine regatur, dicti infrascripti fratres convochati et congregati in sacristia ecclesie dicti conventus ubi dicti capitulariter pro celebrandi huiusmodi [segue una parola illeggibile] et aliorum negotiorum dicti conventus congregari consueverunt ad sonum campanelle ut moris est, de mandato venerabilis prioris, sacre pagine professoris fratris Francisci Leonardi de Senis, prioris dictorum fratrum et conventus. In quo quidem capitulo intervene-

642

runt fratres infrascripti, qui ut asseruerunt sunt due partes et ultra fratrum dicti conventus vocem habentes in dicto capitulo [etc.] addiderunt infrascripta pacta et conventiones. In primis promiserunt magnifico equiti domino Antonio domini Iohannis de Bichis, presenti recipienti et stipulanti pro dicta domina Eustochia eius filia et eius heredibus et successoribus, qualibet die semper in dicta cappella concessa eidem domine dicto nomine, cele-

brare unam missam et in die sabbati celebrare et dicere seu dicere facere missam dive Virginis et in die Lune missam Mortuorum. Item quod dicte domine Eustochie et eius successoribus pertineat electio unius qui habeat curam de paramentis dicte cappelle et de dicta cappella clavem detineat, que electio debeat fieri de fratribus dicte ecclesie Sancti Augustini, videlicet de fratribus magistris seu maioribus. Que omnia etc. dicti fratres obligaverunt. Nomina fratrum sunt hi [...] Actum in dicto Capitulo, coram ser Tacobo Christofori et Leonardo Filippi alias Lucignano». 58 Cfr. nota 34. 39 M. Ingendaay, op. cit. (vedi nota 48), p. 112. 60 ASS, ms. B. 25, vol. ur; 13. 7. 1534.

61 ASS, ms. 3597, fol. 29r. 6 ASS, ms. B. 25, vol. 1; 12. 10. 1501 (testamento di Antonio Bichi, in cui viene nuovamente promessa una prebenda annua di dodici fiorini per la Cappella Bichi). 8 G. Pecci, op. cit. (vedi nota 15), p. 55. 64 AAS, Visite pastorali, n. 21, fol. 713v. 6bis M. Ingendaay, op. cit. (vedi nota 48). © Vasari-Milanesi, m, pp. 688-689. V. Turapilli (+ 1522) era attivo a Siena e Napoli come intagliatore e architetto. Tra i suoi lavori figura anche un incarico per la casa di Eustachia Bichi presso Campansi (Thieme-Becker, xxx, col. 483). 6 G. Pecci, op. cit. (vedi nota 36), vol. I, fol. 19, sotto il titolo: «no. 87 — Nella Cappella di Casa Bichi ne i Sedilij all’intorno di Legname si legge». 9 BCS, B. rx. 23, n. 215: «Due pilastri dell’imboccatura di detta Cap-

pella sono stati ripresi per l'altezza di B.* 5. - Con muro ove era il Cancello» (per gentile indicazione di Hans Teubner). SES 23101889: 5 Sul bordo del manto della Sibilla già parzialmente riportata alla luce sulla lunetta settentrionale è dipinta un'iscrizione di cui oggi sono chiaramente leggibili solo le parole Orto e AvtoR. UHBCS, 15), 109 25) 01 ZI8, IRC nota 52: 2iCkr nota 57. 3 In caso contrario le operazioni di fissaggio della cancellata avrebbero danneggiato le pitture. Cir. pp. 619 ss. ® Su questo tema in generale cfr.: J. Lafontaine Dosogne, Icono-

graphie de l’Enfance de la Vierge dans l’Empire byzantin et en Occident, Bruxelles 1964-65. 7 J. Pope Hennessy, Sassetta, London 1939, pp. 62-63 (datazione:

1432-36). E. Carli, Sassetta, Milano 1957, p. 129 (attribuzione al “Maestro dell’Osservanza”, datazione: dopo il 1436). ? Vangelo dello Pseudo-Matteo (C. de Tischendorf, Evangelia apocrypha, vol. I, Leipzig 18762, pp. 56-57): «Et dum nimis fleret in viridiario domus suae, in oratione elevans oculos suos ad dominum vidit nidum passerum in arbore lauri, et emisit vocem cum gemitu ad dominum dicens: Domine deus omnipotens, qui omni creaturae

donasti filios, et bestiis et iumentis et serpentibus et piscibus et volucribus, et omnes super filios gaudent, me solum a benignitatis tuae

dono excludis? [...] Et dum ista diceret, subito ante faciem eius

apparuit angelus domini dicens: Noli timere Anna, quoniam in consilio dei est germen tuum; et quod ex te natum fuerit, erit in admirationem omnibus seculis usque in finem» (cfr. Protovangelo di Giacomo, ed. W. Michaelis, Die apokryphen Schriften zum Neuen Testament, Bremen 19587, pp. 74-75).

78 Questa fantesca, nella stessa posizione, compare spesso nella pittura senese: cfr. ad esempio R. van Marle, The Development of the

Italian Schools of Painting, Den Haag 1923-38, vol. 1x, p. 329, fig. 205 (Basilea, Kunstmuseum; qui attribuito al Sassetta). J. Pope Hennessy, Giovanni di Paolo, London 1937, p. 172, n. 355 (Mister i.W., Landesmuseum). 72 LCI, vol. 11, coll. 120-125.

80 Poiché questo gruppo dei due uomini ai quali va incontro un fanciullo risponde a una precisa tradizione iconografica senese, un chiarimento si potrebbe se mai trovare in qualche passo della letteratura locale senese (ad esempio in una “Lauda” o in una “Sacra rappresentazione”). Infatti né i Vangeli apocrifi, che dedicano uno spazio sorprendentemente esiguo alla Natività di Maria, né i testi medioevali più noti contengono un riferimento specifico. Che anche a Siena questo gruppo non fosse considerato prettamente attinente alla scena della Natività di Maria si evince fra l’altro dal dipinto dei Musei Vaticani attribuito a Pellegrino di Mariano (P. D’Archiardi, I Quadri primitivi della Pinacoteca Vaticana, Roma 1929, tavola xciva) che, pur rifacendosi chiaramente alla pala d’altare compiuta nel 1342 da Pietro Lorenzetti per il Duomo di Siena (fig. 44), raffigura Gioacchino in piedi e senza compagno.

8! La raffigurazione esclusivamente parallela al dipinto del letto di Sant'Anna nella pittura fiorentina fino alla fine del Quattrocento, probabilmente è da ricondurre all'influenza determinante di un modello di Giotto (G. Marchini, «Gli affreschi perduti di Giotto in una Cappella di S. Croce», in: Rivista d'Arte, xx, 1938, pp. 215 ss.). 8 Per una bibliografia su questi affreschi cfr. B. Degenhart, A. Schmitt, Corpus der italienischen Zeichnungen 1300-1450, parte prima, vol. 1, Berlino 1968, p. 157, nota 3. 8 A. Péter, «Pietro és Ambrogio Lorenzetti egy elpusztult freskéciklusa», in: Szépmiivészeti Mizeum Evkònyvei, vi, 1929/30, pp. 3281, 256-260 (cfr. la recensione di G. Marchini in: Rivista d'Arte, x, 1938, pp. 304-314). Alinari, nes. 959539. 8 P. Torriti, op. cit. (vedi nota 28), n. 99. Ctr. la stretta corrispon-

denza iconografica del dipinto di Andrea di Bartolo alla National Gallery di Washington D.C. (F. Rusk Shapley, Paintings from the Samuel H. Kress Collection — Italian Schools XII-XV century, London 1966, p. 66, fig. 176). $ Di questo ciclo di affreschi si conoscono solo i temi e l’iscrizione (Hoc opus recit Petrus LAURENTII ET AMBROSIUS EIUS FRATER meccxxxv); cfr. G. Rowley, Ambrogio Lorenzetti, Princeton 1958, pp. 85-56. 87 P. Toesca, Monumenti e Studi per la Storia della Miniatura Italiana

— La Collezione Hoepli, Milano 1930, pp. 66-68, n. Lxv, fig. LV; Id., Miniature italiane della Fondazione Giorgio Cini dal Medioevo al Rinascimento, Venezia 1968, cat. 28. 8 F. Bologna, «Miniature rare del Trecento senese», in: Prospettiva,

11, 1977, pp. 47-55. Per la bibliografia precedente cfr. in particolare H. W. van Os, «Lippo Vanni as a miniaturist», in: St7/0/us, vu, 1974, p. 75; C. De Benedictis, «I Corali di San Gimignano», in: Paragone, xxvi, 1976, pp. 91-92. SJ. Pope Hennessy, op. cit., (vedi nota 78), pp. 30 ss. % Una rielaborazione del dipinto di Asciano si ritrova in una tavoletta di predella del Palazzo Pubblico di Siena pubblicata da Federico Zeri («Appunti sul Lindenau-Museum di Altenburg», in: Bollettino d'Arte, x1x, 1964, p. 47, fig. 10), dipinta da Sano di Pietro tra il 1448 e il 1451 (già nella Collezione Fenwick, oggi nello University of Michigan Museum of Art). Cfr. anche la predella della tavola di Sano di Pietro nella Collegiata di San Quirico d'Orcia (Foto Grassi, Siena; neg. 258). } B. Degenhart, «Unbekannte Zeichnungen Francescos di Giorgio», in: Zeitschrift fir Kunstgeschichte, vm, 1939, p. 122. Per questo disegno cfr. infra, pp. 611 ss. ?? Gentile indicazione di Ulrich Middeldorf. ” G. Milanesi, Documenti per la Storia dell'Arte Senese, vol. n, Siena

GLI AFFRESCHI

1854, pp. 390-392. Cfr. anche A. S. Weller, op. cit. (vedi nota 8), pp.

247-252, e G. Fiocco, «Un affresco melozzesco nel Battistero di Siena», in: Rivista d'Arte, x1, 1929, pp. 153-171.

AS. Weller (op. cit. [vedi nota 8], pp. 339-394) riproduce 138 documenti redatti quando l’artista era in vita. ? P. Torriti, op. cit. (vedi nota 28), pp. 394-397. % Ibidem, pp. 402-403. 7 Questi confronti a sostegno dell’attribuzione a Francesco di Giorgio si potrebbero ampliare ulteriormente. Sarebbero da segnalare ad esempio la somiglianza tra il volto di Maria bambina (fig. 40, tavola vooiv) nell’affresco Bichi e le teste degli Angeli nella zona superiore dell’Incoronazione della Vergine del 1472, oppure l'affinità del drappeggio delle vesti della fantesca vista di spalle nello stesso affresco Bichi e degli Angel sull’altare maggiore del Duomo di Siena. Se in questa serie di confronti si comprendono anche opere che, pur in assenza di documenti scritti che ne attestino la paternità di Francesco, sono oggi comunemente considerate di sua mano sulla base di considerazioni stilistiche, si dovrebbero considerare in particolare: il volto dell'Angelo annunciante nella tavola inv. 277 della Pinacoteca di Siena (P. Torriti, op. cit. [vedi nota 28], pp. 398-399) e quello della fantesca vista di spalle appena citata; il panneggio del manto della Vergine ad Avignone (M. Laclotte, E. Mognetti, Avignon, Musée du Petit Palais, Peinture italienne, Paris 1976, n. 74) e le pieghe della coperta stesa sul corpo di sant'Anna (fig. 49). «Cir-p. 588. ® C. Ricci, Pintoricchio, Paris 1903, pp. 82 ss. E. Carli, I/ Pintoriechio, Milano 1960, pp. 34-37 (affresco in una lunetta, raffigurante la Natività di Maria). 100 E, Carli, Il Sodoma a Sant'Anna in Camprena, Firenze 1974. Commissione del 10 luglio 1503. 101 Altezza di questo affresco cm 80. 102 M, Salmi, «Inizi senesi del Sodoma», in: Comzzentari, xvm, 1967, pp. 159-169.

1 Madonna col Bambino e storie della vita di S. Anna (Firenze, Palazzo Pitti, inv. 343; G. Marchini, Filippo Lippi, Milano 1975, p. 209, fig. 67). Ma cfr. anche la donna recante un canestro nell’affre-

sco della sacrestia del Duomo di Siena (fig. 45). 10 P. Torriti, op. cit. (vedi nota 28), pp. 156-161. © Devo a Peter Anselm Riedl la segnalazione di questo dipinto del Riccio a Lucca. 106 M. Lumini, G. Monaco, L. Bertolini Campetti, S. Meloni Trkulja, Museo di Villa Guinigi, Lucca. La villa e le collezioni, Lucca 1968, pp. 185-186, n. 346.

107 E. Carli (a cura di), catalogo della «Mostra delle Opere di Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma», Siena 1950, n. 38. 108 C. Monbeig Goguel, Musée du Louvre (Cabinet des dessins). Inventaire général des dessins italiens, vol. 1: Maîtres toscans nés après 1500, morts avant 1600. Vasari et son temps, Paris 1972, pp. 91-94 (n. 100). Particolarmente acuta appare, dopo la scoperta del significato di questo disegno del Louvre, la seguente considerazione: «La composition répond encore à une conception du xv siècle, plus proche de Girolamo della Pacchia ou de Vincenzo Tamagni que de Beccafumi». 109 A. S. Weller, op. cit. (vedi nota 8), p. 355 (documento n. 50; cfr. anche documenti nn. 46 e 49). 110 Ibidem, p. 375 (documento n. 89; cfr. anche documento n. 88). !!! Cfr. ad esempio la lettera del Consiglio di Siena a Virginio Orsini (ibidem, documento n. 91). Le reazioni dei senesi erano particolarmente suscettibili quando qualcuno, ignorando questa nuova posi-

DI FRANCESCO

DI GIORGIO

!!7 Ibidem, p. 392 (documento n. 129). 118 Ibidem, pp. 24-26. 119 Ibidem, p. 27. 120 Ibidem, pp. 31-33. 2! Ibidem, p. 364 (documento n. 69). 22 Ibidem, pp. 27-28. 3 Ibidem, p. 29. 2 Ibidem, p. 30. 2Cfr pp. 992-994, 2° B. Degenhart, op. cit. (vedi nota 91). ? A. S. Weller (op. cit. [vedi nota 8]) esprime a p. 129 le sue riserve sulle attribuzioni a Francesco di Giorgio di Degenhart. Simile è il giudizio di C. Brandi, op. cit. (vedi nota 1), p. 234, nota 11. ‘25 Hundert Meisterzeichnungen der Hamburger Kunsthballe 15001800. Bilderbefte der Hamburger Kunsthalle, v, 1967, n. 10.

° Né B. Berenson (I disegni dei pittori fiorentini, Milano 1961), né M. Bacci (Piero di Cosimo, Milano 1966) citano il disegno di Ambur-

go. 7° Inv. 21320. Ringrazio Hanna Hohl per le informazioni sullo stato di conservazione di questo disegno, nonché per l’invio delle fotografie di tale foglio qui riprodotte. ?! F. Lugt, Les Marques de Collections de Dessins et d’Estampes, Amsterdam 1921, pp. 406-407. ? Ibidem, pp. 454-456. 133 Trascrizione di Gino Corti: «Amato chongnato S S S S d’agosto addì di Nicholò di Domenicho e chompagni di Roma de’ [dare per una] addì vi di novembre lire trentaquatro e soldi —, chome scritta fatta per mano di Sere Buonsingnore di [...] e chompagni di Vinexia, chome e per mia mano Al nome di Dio dix Charo quanto fratello, salute. Questa per richo[rdarti] chome già più fa ti mandamo le lane per Giovan[ni] e chompagni di Roma di Roma e per Vinexia

di Ro di Roma Giovanni di Iacopo e per Valenzia Sere Giovanni Giovanni Amicho karo, salute. Questa lettera vi scriviamo] di Pietro Pavolo Polo di Dionixi Dionixi Bartol[omeo] [Bar]tolomeo di Baldo Beccharini Bolongnexi Baldo Baldo Richordo chome addì vi d’ottobre mandai a Ro[ma] [a] Gano Malachaxa libbre libbre libbre 1569 [di lana] [fran]ciesscha franciescha Alexandro Venturi e chompagni e chompagni di Roma del[ono] avere avere per per una scritta di mano di Giulia[no] Gondi di Firenze Augustino di Piero di Pavolo da Monte Piero Giovanni Giovanni di Bartolomeo Benintendi di Augustino Benintendi di Giovanni Giovanni

BUONAGIONTA Buonaventura di Giovanni di Iacopo pl...] e chompagni di Lione de’ dare addì xvi di novembre duchati x d’oro in G oro larghi cioè lire settanta di muneta». 3 B. Degenhart, A. Schmitt, op. cit. (vedi nota 82), vol. I/4, tavola 301 (cat. 357). Cfr. ad esempio anche B. Berenson, op. cit. (vedi nota

129), figg. 271, 272.

» B. Berenson, op. cit. (vedi nota 129), n. 1385, fig. 176 (Filippo

Lippi, 1457).

è B. Degenhart, A. Schmitt, op. cit. (vedi nota 82), vol. 1/1, cat. 54. 37 1 br. sen. = cm 60,03 (H. Doursther, Dictionnaire universel des

nate, dal nome della città dove l’artista aveva creato alcuni dei suoi

poids et mesures anciens et modernes, Bruxelles 1840, p. 72). D. Balestracci e G. Piccini (Siera nel Trecento, Firenze 1977, p. 68, nota 39)

capolavori. A Giangaleazzo Sforza ad esempio il Consiglio di Siena

riportano invece 1 br. sen. = cm 59.

zione di Francesco di Giorgio nella sua città natale, lo definiva urbimandò a dire: «Franciscum, haud urbinatem, verum senensem, concivem nostrum dilectum, nostreque etatis optimum architectum,

accersiri iussimus [...]» (‘brderz, p. 367, documento n. 77).

112 Ibidem, pp. 388-389 (documento n. 116; cfr. documenti nn. 113, 115).

18 4 1 Ue

Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem,

pp. 24-26. pp. 28-29. p.380 (documento n. 99). pp. 36-37.

!38 B. Degenhart, op. cit. (vedi nota 91), p. 122. 139 B. Degenhart, «Francescos di Giorgio Entwicklung als Zeichner», in: Zeztschrift fiir Kunstgeschichte, IV, 1935, pp. 104 ss. A. S. Weller, op. cit. (vedi nota 8), pp. 132 ss. M. Salmi, Disegni di Francesco di Giorgio nella Collezione Chigi Saracini, Siena 1947, fig. 24. In particolare il verso di questo disegno è interessante per il rapporto con le sculture di Francesco di Giorgio. 140 A, S. Weller, op. cit. (vedi nota 8), fig. 9. 141 Ibidem, fig. 10.

643

PITTURA

- RINASCIMENTO

142 Ibidem, fig. 94. 3 Le rovine classicheggianti raffigurate nell’Adorazione dei pastori (fis. 6, tavola voxv) vanno intese nel contesto della tradizione per cui il crollo del “Templum Pacis” (ovvero la Basilica di Costantino a Roma) nella notte di Natale avrebbe annunciato la fine del mondo pagano (Legenda Aurea, a cura di G. P. Maggioni, Firenze 1998, pp.

644

66-67). Osservando gli affreschi Bichi si ricorderà che nelle descrizioni quattrocentesche di Roma venivano sottolineate in particolare Valtezza e la bellezza dell’unica colonna del “Templum Pacis” rimasta in piedi (R. Valentini, G. Zucchetti, Codice Topografico della Città di Roma, vol. rv, Roma 1953, pp. 234, 366, 446. A. Perosa, Giovan-

ni Rucellai ed il suo Zibaldone, London 1960, p. 76).

14 Francesco di Giorgio Martini, Trattati di Architettura, Ingegneria

e Arte Militare, a cura di C. Maltese e L. Maltese Degrassi, vol. I,

Milano 1967, p. 139, tavola 61. S. Y. Edgerton Jr., The Renazssance

Rediscovery of Linear Perspective, New York 1975, fig. rv/4. !45 In tal senso questa costruzione prospettica si differenzia in misu-

ra sostanziale ad esempio dalla Nazività di Maria del Carpaccio (Accademia Carrara, Bergamo), dove i punti di fuga delle linee convergenti in profondità del soffitto a cassettoni e delle mattonelle del pavimento divergono notevolmente (J. Lauts, Carpaccio, London

1962, p. 234, fig. 127).

46 D, de Chapeaurouge, «Der Konflikt zwischen Zentralperspektive

und Bedeutungsmasstab», in: Festschrift fiir Georg Scheja, Sigmaringen 1975, pp. 108-118.

47 Cfr. p.568 e fig. 25. HET pd80: 9 Anche i putti ritti sulle ali di queste grottesche, un po’ grossolani (fis. 87), ricordano solo molto lontanamente gli angeli raffigurati nella stessa posizione nell’Incoronazione della Vergine di Francesco di Giorgio del 1472. 50 Per la storia della scoperta della Domus Aurea ctr. N. Dacos, La

découverte de la Domus Aurea et la formation des grotesques à la Renaissance, London-Leiden 1969, p. 4.

3 T. Buddensieg, «Die Konstantinsbasilika in einer Zeichnung Francescos di Giorgio und der Marmorkoloss Konstantins des Grossen», in: Ménchner Jabrbuch, x, 1962, pp. 37-48. 32 A. S. Weller, op. cit. (vedi nota 8), p. 29. 5 Ibidem, pp. 31-33. 4 E. Weege, «Das Goldene Haus des Nero», in: Jahrbuch des Deut-

schen Archdologischen Institutes, xxvm, 1913, p. 18. > N. Dacos, op. cit. (vedi nota 150), p. 158.

56 Ibidem, figg. 78,79. 3 M. Fossi (a cura di), Catalogo della Mostra di Disegni di Filippino Lippi e Piero di Cosimo, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Firenze 1955, p. 11, n. 29. I. H. Shoemaker, Filippino Lippi as a Draughtsman, Columbia University Ph. D. 1975 (Xerox University Microfilms, Ann Arbor, Michigan), pp. 273-274. Id., «Drawings after the Antique by Filippino Lippi», in: Master Drawings, xvi, 1978, pp. 35-43. N. Dacos, op. cit. (vedi nota 150), tavole xx, xx1.

158 H, Egger, Codex Escurialensis — Ein Skizzenbuch aus der Werkstatt Domenico Ghirlandaios, Wien 1905. N. Dacos, op. cit. (vedi nota

150), pp. 61-62. 59 N. Dacos, op. cit. (vedi nota 150), p. 63.

160 Ibidem, pp. 65-66. !61 In tale contesto sarebbero da citare anche i cicli (di cui qui non è riportata alcuna riproduzione) nell Appartamento Borgia (Pinturicchio, 1492-94) e nella Cappella di San Girolamo in Santa Maria del Popolo a Roma (1488 circa?). !62 Pinacoteca di Siena, inv. 428. Il dipinto è ben conservato, per quanto una sottile striscia su entrambi i margini laterali appaia inte-

grata in epoca successiva. Per l'iconografia ctr. Reallexikon zur Deutschen Kunstgeschichte, v, coll. 761-788. 18 Ultimo in ordine di tempo P. Torriti, op. cit. (vedi nota 28), p. 405

(bottega di Francesco di Giorgio). !6 J. Pope Hennessy, «Francesco di Giorgio, Neroccio: Two Madonnas and an altarpiece», in: Burlington Magazine, rxxv, 1939, pp. 229DID, 165 C. L. Frommel, Baldassare Peruzzi als Maler und Zeichner, Wien-

Miinchen 1967/68 (supplemento al Rorzisches Jabrbuch fiir Kunst geschichte, x1), pp. 93-56.

16 G. Coor, Neroccio de’ Landi 1447-1500, Princeton 1961, pp. 206-

uomini 207. La Coor ritiene che le Marie, il San Giovanni e i due

all'estrema destra della Spoliazione siano opera di un aiuto di Neroccio, che avrebbe dipinto anche la Madonna inv. 287 della Pinacoteca di Siena. 6 C. Brandi, La Regia Pinacoteca di Siena, Roma 1933, pp. 194-195. Brandi propone l’attribuzione delle Marie della Spoliazione di Cristo al maestro della Madonna inv. 287 della Pinacoteca di Siena (P. Torriti, op. cit. [vedi nota 28], pp. 388-389). 168 C, L. Frommel, op. cit. (vedi nota 165), fig. via. A mio parere tale confronto non dimostra la paternità del Peruzzi; se ne evince però

chiaramente il suo interesse per la composizione della Spoliazione, compiuta poco prima della sua partenza per Roma. 9 Ibidem, figg. ub, na. 170J.Pope Hennessy, op. cit. (vedi nota 164), p. 235 (ultima opera di Neroccio, morto nel 1500). 71 A. S. Weller, op. cit. (vedi nota 8), p. 247. ? G. Coor, op. cit. (vedi nota 166), p. 206 (incarico a Francesco di Giorgio, che cominciò a dipingere la tavola poco prima della sua morte, avvenuta nel novembre 1501). 3 C. L. Frommel, op. cit. (vedi nota 165), p. 56 (realizzata immediatamente prima della partenza del Peruzzi per Roma). 74 P. Torriti, op. cit. (vedi nota 28), p. 405. 5 Ibidem, pp. 392-393.

Cfr. p. 631

77 G. Coor, op. cit. (vedi nota 166), pp. 206-207. 78 C. Brandi, op. cit. (vedi nota 167), p. 194: le Marie dipinte dal maestro della Madonna inv. 287 della Pinacoteca di Siena, le altre parti da allievi di Francesco di Giorgio. 79 Il confronto tra la donna vista di fronte all’estrema sinistra della Spoliazione (fig. 105) e la Sant'Anna dell’affresco Bichi (fig. 11) evidenzia al meglio il collegamento tra le due opere, ma anche il grande divario qualitativo che le separa. Li Volervait972 Npe2576 181 P, Torriti, op. cit. (vedi nota 28), p. 404. 182 A. S. Weller, op. cit. (vedi nota 8), pp. 82-97. 18 A] periodo “intorno al 1472” è da datare anche la Madonna della

Collezione Salomon R. Guggenheim (1biderz, fig. 24), dove si possono riscontrare precise analogie con i tipi di visi raffigurati nell’Incoronazione della Vergine del 1472. 184 F. Rusk Sharpley, Paintings from the Samuel H. Kress Collection: Italian Schools xIm-XV century, London 1966, p. 153. 189 A. S. Weller, op. cit. (vedi nota 8), pp. 79-80. P. Torriti, op. cit.

(vedi nota 28), p. 400.

LUCA SIGNORELLI INTORNO AL 1490

Il 5 aprile 1499, il consiglio dell'Opera del Duomo di Orvieto si riunì per deliberare sul completamento della deco-

razione pittorica, iniziata dal Beato Angelico, nella Cappella di San Brizio.' Il tesoriere aprì la seduta dichiarando che, mentre Pietro Perugino — almeno per l'immediato futuro — aveva declinato tale incarico, si era detto disponibile Luca Signorelli, un «famosissimus pictor in tota Italia». Molti dei presenti si unirono all’elogio, ricordando i bellissimi dipinti realizzati dal Signorelli in varie città italiane, prima fra tutte Siena: «[...] et dixerunt fecisse multas pulcherrimas picturas in diversis civitatibus et presertim Senis».? Proviamo a considerare la scena sulla base delle nostre attuali conoscenze su Luca Signorelli. Nell’anticamera dell'Opera del Duomo di Orvieto attendeva un artista sulla cinquantina celebre in tutta Italia, il quale poteva vantare un cospicuo numero di capolavori creati per Sisto 1v nella cappella papale in Vaticano, nella sagrestia della Basilica di Loreto per il cardinale Girolamo Basso, nipote del papa, a Perugia su commissione dell’influente arcivescovo Jacopo Vannucci e a Firenze per Lorenzo il Magnifico. Numerose altre testimonianze della sua maestria in molte città dell’Italia centrale - Cortona, Urbino, Volterra e Città di Castello — avrebbero pure meritato di essere ricordate prima di decidere sull’assegnazione di un incarico di tale importanza. I sostenitori del Signorelli probabilmente sapevano già allora che il loro candidato incontrava una certa opposizione, della quale purtroppo ignoriamo gli argomenti, dato che i tre voti contrari nella votazione finale? furono messi a verbale senza alcun commento. Se consideriamo inoltre che fino ad allora il Signorelli non aveva mai dipinto a Orvieto, e che dunque le sue qualità artistiche non potevano essere note a tutti i consiglieri, stupisce che a principale sostegno della sua candidatura si fosse scelto l’esplicito riferimento alle opere realizzate a Siena, e che

per i suoi sostenitori (e probabilmente per l’artista stesso, sulle cui dichiarazioni era forse basata la laudatio) tali

opere bastassero come biglietto da visita, senza bisogno di segnalare i capolavori di Roma, Loreto, Perugia o Firenze. Contrariamente a questo giudizio infatti, gli storici dell’arte hanno attribuito alle opere senesi del Signorelli finora note un'importanza piuttosto marginale. La prima notizia riguardante un’opera del Signorelli a Siena si trova nelle coeve Historiae Senenses di Sigismondo Tizio, il quale riferisce di una pala d’altare dipinta nel 1498 in Sant'Agostino su commissione di Antonio Bichi e della

figlia Eustachia (fig. 29). Già nella prima edizione delle Vite il Vasari ricorda l’importanza dell'incarico che avrebbe arrecato al Signorelli molte ricchezze e molto onore. Una descrizione (corredata di misure) redatta da Galgano Bichi6 nella prima metà del Settecento ci informa sull’aspetto dell’altare.

La seconda serie di testimonianze su affreschi senesi del Signorelli comincia con il Discorso di Pittura scritto fra il 1617 e il 1619 a Roma da Giulio Mancini, in cui si parla per la prima volta di affreschi monocromi nella Cappella Bichi in Sant'Agostino.” La notizia fu ripresa nel 1625 da Fabio Chigi nell’Elenco delle pitture, sculture e architetture di Siena ®una delle più importanti fonti storico-artistiche senesi. Galgano Bichi fece disegnare delle copie, oggi perdute, di questi affreschi.? Inizialmente però, dopo un primo accurato esame, tali notizie apparvero poco credibili. Nel 1977 furono sì riscoperti nella Cappella Bichi (come abbiamo già riferito in un precedente studio),!° sotto varie mani di bianco, due grandi affreschi raffiguranti la Natività di Maria e lAdorazione dei pastori, che corrispondevano — almeno approssimativamente — al soggetto delle perdute copie di Galgano Bichi di cui parla Milanesi:!! ma già le prime porzioni riportate alla luce mostrarono chiaramente che non si trattava di affreschi del Signorelli, bensì di opere della scuola senese — molto probabilmente di Francesco di Giorgio. Inoltre, dopo aver rilevato notevoli differenze tra le misure indicate da Galgano Bichi e quelle dei frammenti conservati a Berlino (figg. 10, 13, tavole xcm, xciv),! venne da domandarsi se quella descrizione settecentesca, apparentemente non del tutto affidabile, sarebbe mai potuta servire

per ottenere una ricostruzione soddisfacente dell’altare senese del Signorelli. Alcune copie databili con certezza di singole figure dell’altare Bichi, nonché la storia abbastanza ben documentata dell'arredo della cappella, dimostrarono inoltre che la datazione riferita da Sigismondo Tizio, il 1498, era errata. Una serie di colpi di fortuna ha permesso di trovare una via di uscita da questa situazione alquanto confusa. Il confronto tra le misure delle pareti esterne, non modificate dalla ristrutturazione del 1750 circa, e l'altezza attuale, de-

cisamente inferiore, dell'interno della Cappella Bichi, ha portato alla scoperta, al di sopra della volta a botte di

epoca barocca, della volta a crociera appartenente all’originaria costruzione quattrocentesca (fig. 3); sia questa, sia

le lunette (figg. 4, 5, tavole Lxxx1x, xcn) sono completamente dipinte — e proprio con affreschi del Signorelli!!* Indagini radiografiche effettuate nel laboratorio di restauro della Gemaldegalerie di Berlino (figg. 11, 14) hanno inoltre consentito di risolvere il problema delle presunte differenze tra le misure indicate da Galgano Bichi e le dimensioni delle tavole Bichi di Berlino (figg. 10, 13, tavole xcm, xciv). Il confronto tra i dipinti del Signorelli conservati a Volterra e quelli della Cappella Bichi ha prodotto una sostanziale revisione dell'ordine cronologico delle opere del Cortonese, imponendo all'attenzione l’importanza del periodo intorno al 1490 come uno dei vertici

645

PITTURA

- RINASCIMENTO

Alte Pinakothek (figg. 76, 83), le pale d’altare di Volterra (fis. 57, 64) e le Madonne della National Gallery di Londra e della Collezione Pallavicini (fig. 82), ma anche la pala d’altare e gli affreschi della Cappella Bichi (figg. 4,5, 29, tavole LxxxIx, xCII).

Il presente studio mira anche a fornire un contributo al re-

cente, vivace dibattito sul valore dell’arte del Signorelli. L'importanza di questo artista non è mai stata tanto di-

scussa come negli ultimi decenni. La grande mostra del 1953! suscitò violente polemiche. Nella recensione su Paragone! si rimproverava al Signorelli una grave mancanza di forza espressiva.” Nel complesso — scriveva il critico — le sue opere rivelerebbero, dopo i promettenti esordi esemplificati dalla Pala Vannucci di Perugia, una qua-

646

lità sempre più scadente e, nella maturità, addirittura una

2. Scoprimento della volta originaria, Cappella Bichi

creativi dell’artista. Fra il 1487 e il 1492 circa il maestro

non dipinse solo il Par distrutto a Berlino nel 1945 (fig. 88) — una delle più eminenti testimonianze artistiche dell’umanesimo fiorentino — i celebri tondi degli Uffizi e della

totale decadenza («E il resto è silenzio»).!8 Anche quei recensori della mostra che nei dipinti del Cortonese vedevano qualcosa di più di un ammasso di «giganti in cemento armato»,!° definivano il pittore un provinciale le cui abilità artigianali, indubbiamente notevoli, non sempre sarebbero state guidate da un'adeguata inventiva.?® In queste critiche si manifesta il distacco, delineatosi già alcuni decenni prima (per esempio nel giudizio di Bernard Berenson)! dall’alta stima tributata fino ad allora al Signorelli da tutti gli scrittori e gli artisti sulla scia del Vasari. Quest'ultimo, nella seconda edizione delle Vite, elogiava il Signorelli quale ispiratore di Michelangelo”? e pertanto precursore dell'estrema perfezione. Il capitolo a lui dedicato chiudeva non a caso il secondo libro: «Così col fine della Vita di costui [...] porremo fine alla Seconda Parte di queste Vite, terminando in Luca come in quella persona che col fondamento del disegno e delli ignudi particolarmente, e con la grazia della invenzione e disposizione delle istorie, aperse alla maggior parte delli artefici la via all’ultima perfezzione dell’arte».?? La letteratura dei secoli successivi (ad esempio Guglielmo della Valle nella sua Storia del Duomo d'Orvieto del 1791)? intese alla lettera quel ruolo di antesignano, facendo non solo. di Michelangelo ma anche di Raffaello degli aiuti del Signorelli nella decorazione della Cappella di San Brizio. Soprattutto i Nazareni ammiravano il Cortonese (Cornelius a Overbeck, lettera da Orvieto del 19 agosto 1813: «[...] solo questo ti dico: Luca Signorelli è un pittore di prima qualità. Qui ha dipinto cose che possono competere con le migliori di Raffaello»).® Più originali dell’immagine poetica del Signorelli?° ispirata all’aneddotica vasariana, o dei monotoni omaggi dei conoscitori alla Cappella di San Brizio come a «one of the greatest masterpieces-of Art», appaiono nell’Ottocento le interpretazioni dei pittori. Sarebbe interessante studiare più da vicino tutti gli effetti del tema della lotta tra diavoli e dannati così come lo svolse il Signorelli a Orvieto sull'opera di Fussli, Delacroix o Cézanne. Tali omaggi si riferiscono sempre in primo luogo agli affreschi orvietani. Possiamo dire senza tema di esagerare che a partire dal Vasari questo ciclo ha conferito un’impronta unilaterale all'immagine dell’arte signorelliana. Il resto delle opere godeva invece spesso di una considerazione sorprendentemente scarsa, persino nel periodo in

LUCA

n

Rei Ù eo

SIGNORELLI

INTORNO

AL 1490

ogg LG ge È LPD

647

3. Volta della Cappella Bichi

cui il Signorelli era all'apice della fama. Appare sintomatico che nei primi anni settanta del’Ottocento la National Gallery di Londra rifiutasse l'acquisto del Par (fig. 88), oggi considerato un capolavoro del Rinascimento italiano — una decisione già allora tanto clamorosa da provocare una rapida correzione di rotta con l’acquisto da parte dei musei di Berlino. La secolare noncuranza nei confronti degli altri periodi dell’attività del Signorelli ha certo contribuito alla mancanza a tutt'oggi delle basi per una catalogazione scientificamente esauriente delle sue opere.” Persino i dipinti creati per Lorenzo il Magnifico, ai quali negli ultimi tempi è stata giustamente dedicata grande attenzione,

sono

sempre

stati considerati

unicamente

in

un'ottica iconografica.?® Tali indagini iconografiche hanno

peraltro suggerito — e in questo vedo la loro importanza più profonda - una nuova immagine del Signorelli: quella di un “poeta della pittura” al quale, soprattutto nel Par

(fig. 88), riuscì l’ardito connubio fra il tradizionale impianto compositivo della “Sacra Conversazione” e certe fantasie mitologiche tramandate fin dal primo umanesimo esclusivamente in forma scritta. Per quanto nell’interpretazione di questa “Arcadia medicea” vi siano ancora molti punti controversi,’ 1 suoi contenuti accertati sono già più che sufficienti a confutare recisamente la parola d’ordine del “provinciale insulso” che circolava tra i critici della mostra del 1953. Questi studi iconografici si sono inoltre

posti per la prima volta il problema del ruolo del committente, un tema ripreso nel nostro contesto non solo in relazione al collegamento — evidente dal punto di vista della storia politica — tra gli incarichi di Firenze e di Volterra, ma anche al chiarimento del perché secondo Galgano Bichi l’altro grande committente senese del Signorelli si chiamasse Pandolfo Petrucci.”

PITTURA

- RINASCIMENTO

648

NASCEVECHRI UN: RETHILEM

|

5. Luca Signorelli, Sibilla Eritrea, Cappella Bichi

LUCA SIGNORELLI

INTORNO

AL 1490

649

cm

6. Prospetto della Cappella Bichi

PITTURA

- RINASCIMENTO

eng:

7. Stemma della famiglia Bichi, Cappella Bichi

I. GLI AFFRESCHI

DELLA

CAPPELLA

BICHI

La fig. 1 mostra lo stato della Cappella Bichi in Sant'Agostino a Siena alla fine del novembre 1978. Il recupero e il restauro dei due grandi affreschi di Francesco di Giorgio, l'Adorazione dei pastori e la Natività di Maria, scoperti nell’estate 1977 durante i lavori preliminari del progetto di ricerca Le chiese di Siena avviato dal Kunsthistorisches Institut di Firenze, all’epoca erano già completati. Sopra l’impalcatura sul lato sinistro della cappella si nota il foro praticato il 24 novembre 1978 nella volta a botte in cerca di altri affreschi. Da questa piccola apertura rettangolare si rilevarono sulla volta a crociera e sulle lunette tracce di colore affioranti sotto la scialbatura che si era in parte distaccata in più punti. Questi affreschi dovevano essere stati imbiancati già prima della ristrutturazione della cappella nel 1750 circa, prima cioè della costruzione della volta a botte; quando infatti nel primo Settecento Galgano Bichi fece riprodurre tutte le immagini della cappella’? gli unici affreschi erano quelli di Francesco di Giorgio. Il restauro risultò alquanto complicato dall’insolita posizione del ritrovamento. L'ossatura lignea della volta a botte (fig. 2) doveva rimanere integra, al fine di consenti-

re in qualunque momento — nel rispetto del principio di reversibilità di questo genere di interventi, in ultima analisi sempre discutibili - un completo ripristino degli elementi architettonici barocchi. Contemporaneamente si provvide a risanare la copertura del tetto per evitare ulte-

8. Stemma della famiglia Bellanti, Cappella Bichi

riori infiltrazioni di umidità. Grazie al sottile strato di calce steso sugli affreschi del Signorelli prima dell’imbiancatura, quest’ultima si staccò abbastanza facilmente, cosicché le cromie originali riatfiorarono in eccellenti condizioni. Le lunette non presentavano quasi lacune (figg. 4, 5, tavole LxxxIX, XC, xCI, xCHI), mentre i danni agli affreschi sulla volta, causati da infiltrazioni di umidità, erano progrediti tanto da provocare in alcuni punti il completo distacco dell’intonaco (fig. 3). Un altro fattore di disturbo era inoltre costituito dalla mancanza degli elementi decorativi plastici (stelle dorate in stucco o terracotta i cui punti di attacco sono ancora visi-

bili sull’azzurro delle vele, medaglioni in materiale analogo nelle fasce ornamentali; fig. 3). Del programma iconografico originario faceva parte, oltre alle due Srbille (figg. 4,5, tavole Lxxx1x, xcn), una Crocifissione sulla parete dell’altare, sopra la grande finestra ogivale. Di questo affresco si sono conservati solo due frammenti delle mani del Redentore. Le vicende del giuspatronato della cappella, su cui ritorneremo in seguito,” spiegano la presenza di due stemmi:

all'estremità inferiore delle vele si alternano gli stemmi delle famiglie Bichi (fig. 7) e Bellanti (fig. 8), mentre sulla chiave di volta è riprodotto lo stemma dei Bichi cinto da un serto di alloro dorato (fig. 9). Alla tonalità grigio-bruna dominante si aggiungono l’azzurro dello sfondo delle grottesche e il giallo, con lumeggiature d’oro, dei frutti nelle ghirlande e delle rosette nelle cornici dei tondi. Il rosso che oggi affiora a tratti costitui-

LUCA SIGNORELLI

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lo di tempo tra l'esecuzione delle due lunette. Nella Cappella Bichi il Signorelli non utilizzò ancora, per il disegno preparatorio dei contorni, le linee incise che si notano negli affreschi orvietani (una tecnica che gli permetteva di passare da un piccolo schizzo compositivo alla scala desiderata appena prima di stendere i colori). Per le

Stbille senesi aveva infatti preparato due tradizionali cartoni da trasferire sull’intonaco, come provano ancora oggi

numerose tracce di “spolvero” (evidenti ad esempio nelle dita dell’Eritrea; fig. 59). Spesso però le linee predisposte sul cartone sono poi state interpretate molto liberamente nell’affresco; in più punti, ad esempio nell'orecchio destro della Tiburtina (figg. 44, 47, tavola xc1), si notano “pentimenti”. Le foto qui pubblicate riproducono lo stato degli affreschi immediatamente dopo il recupero, senza quei ritocchi o quelle integrazioni delle lacune che si eseguiranno solo nel 1984 nella fase conclusiva dei restauri nella Cappella Bichi.?8

Il rapporto tra l'altezza delle Sibz/le e le dimensioni dei sottostanti affreschi di Francesco di Giorgio è rappresentato graficamente nel prospetto alla fig. 6. La larghezza di m 5,3 dei riquadri raffiguranti la Nazvità di Maria e lAdorazione dei pastori corrisponde a quella delle lunette delimitate dalle decorazioni a grottesche. Il diametro dei tondi comprese le cornici (m 2,7) equivale all’incirca alla metà della larghezza delle lunette (peraltro si registrano lievi differenze nelle misure delle zone dipinte tra lato sinistro e lato destro della cappella).?° Mancano punti di riferimento precisi per ricostruire la zona dipinta fra le lunette e gli affreschi di Francesco di Giorgio, distrutta durante la ristrutturazione barocca. In teoria possiamo immaginare in quel punto una cornice dipinta o un prolungamento orizzontale della decorazione a grottesche. Gli altri problemi che presenta la ricostruzione dell’aspetto originario della cappella (altare, pala, stalli lignei, cancellata d’ingresso e finestra ogivale sulla parete dell’altare) sono stati già discussi da chi scrive presentando gli affreschi di Francesco di Giorgio.* L'assonometria pubblicata in tale occasione per illustrare l’aspetto di questo Gesamtkunstwerk intorno all’anno 1500 necessita di alcune modifiche: oltre alle aggiunte divenute necessarie dopo la scoperta degli affreschi del Signorelli, esse riguardano soprattutto la ricostruzione della pala. 9. Chiave di volta con lo stemma della famiglia Bichi, Cappella Bichi

va in origine il fondo di preparazione dell’azzurro. L'effetto di maggiore opacità della lunetta di sinistra (fig. 4, tavole Lxxx1x, xC, xC1) si spiega con la struttura granulosa dell’intonaco, mentre l’intonaco della lunetta sud (fig. 5, tavola xcni), più fine e caratterizzato da una superficie più dura e liscia, esalta maggiormente i colori. Sul lato nord il tracciato preparatorio dei contorni è realizzato con il pennello, sul lato sud è inciso a “graffito”; anche la coloritura

delle “corde battute” è diversa nelle due lunette. Tali differenze — come confermerà l’analisi stilistica - non devono tuttavia essere lette come spie di una diversità di mani fra maestro e aiuti: farebbero piuttosto pensare a un interval-

II. RICOSTRUZIONE

DELL’ALTARE

BICHI

I disegni del primo Settecento che riproducevano la pala senese del Signorelli nella sua forma originaria sono andati perduti: grazie alla pubblicazione del 1879 di Robert Vischer! conosciamo tuttavia per esteso il testo che Galgano Bichi aveva posto a commento di quei disegni. La descrizione è talmente precisa e ricca di dettagli, che con il suo ausilio si sono potute identificare chiaramente tutte le parti dell’altare Bichi. A conferire a tale fonte un valore ancora maggiore intervengono inoltre le indicazioni delle misure di ogni singolo elemento.# I risultati di recenti restauri** e le indagini iconografiche illustrate nel prossimo capitolo!” hanno confermato l’appar-

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10). Luca S:ignorelli,

tavola sinistra dell’altare Bichi, Berlino, Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz

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11. Immagine radiografica della tavola sinistra

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12. Ripresa all'infrarosso della tavola sinistra

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13. Luca Signorelli, tavola destra dell’altare Bichi, Berlino, Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz

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14. Immagine radiografica della tavola destra

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15. Ripresa all'infrarosso della tavola destra

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tenenza all’altare Bichi, accertata già nel 1913 da Tancred

Borenius,* delle seguenti opere: la statua lignea di Sar Crestoforo, oggi al Louvre, attribuita a Francesco di Giorgio; le due ante alla Gemaldegalerie di Berlino raffiguranti rispettivamente Sant'Eustachia con San Girolamo e Santa Maria Maddalena, e Sant'Antonio da Padova con Sant'Agostino e Santa Caterina d'Alessandria (figg. 10, 13, tavole xcm, xciv);48 le tre parti della predella con la Cera in casa

656

di Simone il Fariseo?® il Compianto sul Cristo morto” e il

Martirio di Santa Caterina d'Alessandria” (National Gallery of Ireland, Collezione Stirling-Maxwell a Pollockshaws, Sterling and Francine Clark Institute a Williamstown); due frammenti della tavola raffigurante un paesaggio fluviale con due gruppi di figure, in origine collocata dietro la statua di San Cristoforo (figg. 36, 89; Toledo,

Ohio, Museum of Art).??

Nonostante lo stato relativamente favorevole della documentazione, nel 1979 il primo tentativo di realizzare una precisa ricostruzione in scala” incontrò difficoltà non indifferenti, derivanti in primo luogo dalla mancanza di notizie precise su aspetto e misure delle cornici. Ulteriori problemi si presentarono al momento di calcolare le dimensioni originarie dei dipinti. Se per le tavole berlinesi ipotizziamo — come fa l’autrice del tentativo di ricostruzione del 1979 — una larghezza originaria di almeno cm 81 (figg. 10 e 13, tavole xcm, xcrv: la larghezza attuale delle due tavole, segate lateralmente, è di cm 76), ci discostiamo

notevolmente dal testo di Galgano Bichi, che parla di una larghezza di soli cm 72. Questa discrepanza di oltre il dieci per cento mette in dubbio in ultima analisi l’intera proposta di ricostruzione. Tutte le parti dell’altare si sono infatti conservate solo in forma di frammenti, per cui si rende sempre necessaria un’integrazione secondo le misure indicate da Galgano Bichi (lungo i margini laterali, vistosamente irregolari, delle due tavole berlinesi si riconoscono fori di tarlo tagliati a metà, segno di una rifilatura eseguita fra lo smembramento dell’altare verso la metà del Settecento e l’acquisto delle tavole da parte dei musei berlinesi nel 1821). Quattro elementi emergenti da osservazioni fatte sugli originali berlinesi, verificabili sulle immagini qui riprodotte (figg. 10, 13, tavole xcm, xciv), lasciano pensare che nonostante queste apparenti divergenze Galgano Bichi avesse misurato l’altare con estrema precisione, e che pertanto

la ricostruzione possa senz'altro basarsi sul suo resoconto. Innanzi tutto si notano due strisce laterali più scure, in buona parte parallele ai bordi verticali, che nella zona dove è dipinta una volta si allargano a formare un arco. Altrettanto singolare è l’ingiustificata curvatura nel contorno del mantello della Santa di sinistra, Sant Eustachia (fig. 10, tavola xcm). Sorprende inoltre la disposizione delle due figurette sullo sfondo della tavola di sinistra (figg. 10, 24, tavola xcm), stranamente addossate alla figura di Maria Maddalena nonostante rimanga parecchio spazio fra queste e il margine destro (uno spazio corrispon-

dente, fra l’altro, alla larghezza delle strisce laterali più scure). Nell’angolo in basso a destra si intravede infine, come un'ombra, una replica del piede sinistro di Santa Caterina (figg. 13, 19, tavola xcrv).

Grazie alla gentile collaborazione della direzione della Gemildegalerie di Berlino è stato possibile verificare mediante indagini radiografiche (figg. 11, 14) e all’infrarosso (figg. 12, 15) la tesi risultante dalle suddette osservazioni: che cioè le strisce laterali delle due tavole siano state dipinte solo dopo lo smantellamento delle cornici che in origine le nascondevano (dunque probabilmente intorno al 1800). Nell’assemblaggio delle lastre radiografiche (figg. 11, 14), le strisce laterali scure mostrano chiaramente che

in effetti il colore originale non copriva per intero le tavole, i cui margini presentavano solo la preparazione di fondo (come ha confermato una prova di pulitura eseguita dal restauratore Gerhard Pieh; cfr. figg. 25, 26). Dagli ingrandimenti delle riprese radiografiche si evince che il Signorelli aveva marcato tale limite con pennellate verticali (fig. 22). Vi si riconoscono inoltre le lesioni prodotte nello strato di colore dall’attrito della cornice originaria (fig. 21), che forniscono altri punti di riferimento per calcolare la larghezza della superficie dipinta visibile in origine. Quanto il Signorelli avesse tenuto conto dello spessore della cornice appare evidente sul margine sinistro della tavola di sinistra, dove il limite della superficie da dipingere è marcato da una linea incisa (fig. 23). Sulla base di tutti questi indizi si perviene a una larghezza originaria di cm 72 della superficie dipinta visibile entro i margini della cornice: esattamente la misura indicata da Galgano Bichi. Gli elementi di disturbo nelle zone marginali delle tavole berlinesi sono pertanto maldestre aggiunte degli anni intorno al 1800. Estendendo il paesaggio a lato delle due figurette sullo sfondo (fig. 24), il restauratore di allora “corresse” la compattezza compositiva voluta dal Signorelli. Con l’allargamento del mantello di Sant'Eustachia (figg. 10, 68, tavola xcm) il pittore incaricato dei ritocchi intese trarsi d’impaccio, visto che l’esiguità della striscia — anch’essa un tempo coperta dalla cornice — non gli consentiva di riprendere lo sfondo paesaggistico. Il “pentimento” riguardante il piede sinistro di santa Caterina, evidente nelle riprese all’infrarosso e radiografiche (figg. 19, 20), è invece da ricondurre senza dubbio a una correzione dello stesso Signorelli, il quale deve essersi accorto, poco prima di completare la tavola, che il piede dipinto nella prima versione sarebbe stato troppo contiguo alla cornice e anzi avrebbe rischiato di esserne in parte coperto. Perciò spostò un poco il piede verso sinistra, senza peraltro — e questo la dice lunga sul suo metodo di lavoro spesso improvvisato — modificare di conseguenza anche la posizione originaria della gamba sinistra e l'andamento dell’orlo del mantello, giustificato solo nella prima versione. Il Signorelli corresse poi la rappresentazione della compagine architettonica (figg. 16, 17). I “pentimenti” mostrano

in entrambe le tavole, oltre alla modifica dei capitelli, uno spostamento laterale di vari centimetri dell'intero sfondo architettonico, anch'esso probabilmente dovuto all’adeguamento agli archi della cornice (cfr. anche i disegni che evidenziano i “pentimenti”, figg. 27, 28). Al contempo il Signorelli ridipinse la testa di Santa Caterina. L'immagine radiografica rivela una deliziosa prima versione (fig. 18) in cui la testa della principessa è raffigurata eretta e con riccioli che ricordano il disegno della capigliatura del San

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17. Immagine radiografica della tavola destra

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18. Immagine radiografica di Santa Caterina, tavola destra dell'altare Bichi

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19. Ripresa all'infrarosso del piede sinistro di Santa Caterina

20. Immagine radiografica del piede sinistro di Santa Caterina

Girolamo nella tavola di sinistra (fig. 71). Se i primi “pen-

ra di cornice a forma di arco di trionfo, ovvero una incorniciatura delle tre arcate di diversa altezza mediante quattro semipilastri sostenenti la trabeazione.®! Abbiamo ri-

timenti” erano determinati da motivi esterni, quest’ultima

correzione può essere dovuta solo a scelte di carattere formale. Correzioni nel portamento del capo dei personaggi principali eseguite all'ultimo momento si ritrovano anche in altre opere del Signorelli. Nel tondo di Monaco ad esempio (fig. 76) ho individuato ben tre diverse versioni della testa della Madonna, che è stato possibile documentare con precisione grazie all’aiuto dell'Istituto Doerner (fig. 77) Il numero sorprendente di “pentimenti” nella Circoncisione alla National Gallery di Londra sarà oggetto, insieme a un disegno preparatorio recentemente scoperto da Sylvia Ferino Pagden, di uno studio separato.” La nostra ricostruzione (fig. 29) si basa sulla comprovata esattezza delle misure riportate da Galgano Bichi. Nella fig. 30 sono indicate le dimensioni fornite da Galgano* in-

sieme con quelle dei dipinti conservati.” La delimitazione semicircolare delle tre tavole principali è documentata dalla descrizione del primo Settecento®® e dalle riprese ra-

diografiche delle tavole berlinesi, sulle quali sono ben riconoscibili gli avvii di questi archi a tutto sesto (figg. 16,

17). Le immagini radiografiche mostrano peraltro anche che in origine i supporti lignei dei dipinti erano rettangolari, e che quindi gli archi della cornice erano solo anteposti. Se insistiamo sui dettagli tecnici è perché sulla base di questo assemblaggio si può ricostruire — contrariamente a

quanto suggerito dalla Ingendaay - soltanto un’architettu-

nunciato a inserire la cornice nel fotomontaggio qui pub-

blicato (fig. 29), in quanto è possibile intuirne unicamente le caratteristiche generali, ma non i dettagli formali o le misure. Nell’inserire i tre frammenti della predella si è tenuto conto soprattutto della diversa rifilatura delle candelabre laterali. L'integrazione grafica degli archi delle tre tavole principali (figg. 29, 30) si è fondata sulle misure indicate da Galgano Bichi® e sugli avvii degli archi rilevabili dalle immagini radiografiche (figg. 16, 17).9 La ricostruzione consente di comprendere meglio i nessi

iconografici (fig. 29). San Cristoforo, titolare della cappella e patrono del marito prematuramente defunto della donatrice, supera nettamente in altezza i santi dipinti sulle ante. L’asse centrale della composizione sale dal Cristo della Deposizione nel Sepolcro ratfigurata nella predella al Gesù Bambino che un tempo San Cristoforo portava sulle spalle, e il cui culto è sottolineato come soggetto centrale dell’iconografia della cappella negli affreschi delle Profezie sibilline (figg. 4, 5, tavole LxK0aXx, xcn) e dell’Adorazione dei pastori (tavola 1xxxv). I temi della passione e dell’assunzione tra le schiere celesti sono unificati da una linea compositiva verticale che collega la testa della martire decapitata con la gloria celeste di Santa Caterina.

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3. Immagine radiografica della tavola sinistra (particolare)

24. Tavola sinistra (particolare)

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25. Tavola sinistra: linee di demarcazione

26. Tavola destra: linee di demarcazione

del colore originale

del colore originale

27. Tavola sinistra: evidenziazione del primo stato

28. Tavola destra: evidenziazione del primo stato

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29. Ricostruzione dell'altare Bichi

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30. Prospetto dell’altare Bichi

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32. Francesco Botticini, Pala di San Girolamo, Londra, National Gallery

La Maddalena con il vasetto di unguento nella tavola di sinistra rimanda alla predella sottostante, dove lo stesso gesto è ripetuto specularmente. Le figurette sullo sfondo della tavola di sinistra (fig. 10, tavola xcm) in origine contrassegnavano il basso punto di vista del sacerdote celebrante sovrastato dalle possenti figure dei santi. Il risalto dei nudi nella tavola centrale (dovuto non soltanto alla predilezione del Signorelli per i nudi

fisure hanno misure diverse; attraverso la disparità proporzionale, motivata dalla gerarchia dei personaggi, e la disposizione allineata delle (Ra. in primo piano, l’attenzione viene indirizzata sulla scena centrale del Compianto sul Cristo morto. La combinazione di una statua liignea e° di sportelli dipinti potrebbe apparire oggi come un'eccezione nell’ambito

ma anche — come dimostreremo in seguito — a una ben

ricerche d'archivio di Monika Butzek e di Gino Corti hanno tuttavia appurato che nella sola chiesa senese di Sant'Agostino si trovavano in origine altri tre altari quattrocenteschi di questo tipo. La statua lignea della Madonna in trono tuttora conservata nella chiesa faceva parte di un altare composito donato nel 1427 dalla famiglia Marescotti

precisa tradizione iconografica) è attenuato dal loro parziale occultamento da parte della statua. Le tavole della pala composita non sono raccordate né da uguali proporzioni delle figure, né da una costruzione prospettica uniforme. Persino nelle tre scene della predella le

della storia dell’altare italiano nel tardo Quattrocento. Le

LUCA

e descritto, in occasione della visita pastorale del 1575, come «L...] imago gloriosissime Virginis Mariae, opere elevato, et auro ornato, cum figuris non nullorum Sanctorum circumcirca in tabula depictis». Della pala d’altare di Santa Monica la stessa fonte riferisce: «Icona vero cum imagine Sancte Monace, opere elevato, cum

figuris non

nullorum sanctorum in tabula». Analogamente all'altare Bichi, quello dedicato a san Nicola da Tolentino era composto da figure di santi sulle ante e da una statua del santo patrono collocata al centro; la predella era probabilmente decorata, come nell’altare Bichi (fig. 29), con scene della

vita dei santi raffigurati sulle ante: «Icona vero erat cum statua Sancti Niccolai de Tollentino, opere elevato, ac imaginibus Sanctorum Cosme et Damiani et miraculis per cos

factis in tabula depictis».®

III. ICONOGRAFIA

DELL’ALTARE

BICHI

Il significato famigliare e politico connesso con la valenza primariamente religiosa di questa pala composita non rappresenta certo un caso isolato nella storia dell’altare italiano del Rinascimento; raramente però è possibile dimostrare in dettaglio e con tanta precisione l’intera gamma semantica. Fondamentale per la comprensione dell’iconografia è il testo dell'atto di donazione del 15 ottobre 14876 in cui Antonio di Giovanni Bichi assicura per conto della figlia Eustachia® il pagamento degli arredi per la cappella all’estremità del braccio meridionale del transetto di Sant'Agostino, nonché una prebenda annua di dodici fiorini. La donazione avveniva, secondo il documento, per la salvezza dell’anima di Eustachia Bichi e del marito Cristoforo di Pietro Bellanti, morto in esilio il 9 gennaio 1482,70

Il motivo della donazione è ben riscontrabile nell’iconografia del polittico. Lo sguardo dei santi omonimi dei due donatori, Antonio ed Eustachia Bichi, è rivolto verso la

statua di san Cristoforo collocata al centro dell’altare in memoria di Cristoforo Bellanti (fig. 29). L'importante ruolo attribuito ad Antonio Bichi nell'atto del 15 ottobre 1487 si manifesta nell’atteggiamento e nella gestualità di Sant'Antonio da Padova, corrispondenti alla tradizionale iconografia del donatore. Attributo e abito permettono di identificare chiaramente la vergine con il giglio, finora erroneamente interpretata come Santa Caterina da Siena, con Sant'Eustachia (fig. 31)?! Il velo bianco e il candido giglio simboleggiano la verginità della santa. Nell’iconografia cromatica del polittico, il bianco è complementare al rosso e viola della Santa Caterina d’Alessandria raffigurata sull’anta destra (fig. 13, tavola xcrv): «Non soltanto lo spargimento del proprio sangue» scriveva infatti Girolamo a Eustachia nell’epistola 1087? «viene considerato professione di fede: anche l’immacolato servizio di un'anima devota è un martirio quotidiano. Quella corona è intrecciata di rose e di violette, questa invece di gigli. Perciò è scritto nel Cantico dei Cantici: “Bianco e rosso è il mio amato».

Una delle opere dei dottori della Chiesa più lette nel Medioevo e nel Rinascimento, il De custodia virginitatis” che Girolamo aveva dedicato anch'esso a Eustachia, spie-

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AL 1490

ga il collegamento delle figure di Girolamo penitente e di Eustachia (fig. 10, tavola xcm): dedica e allocuzione si ri-

volgono a Eustachia come alla “testimone” degli atti di pe-

nitenza di Girolamo, e soprattutto della frequente scena del santo che si percuote il petto nudo con un sasso.” Altre combinazioni di singoli santi dotate di analogo fondamento storico sono determinanti per l'iconografia quattrocentesca di Girolamo.” Francesco Botticini?® raggruppò per esempio intorno alla figura di Girolamo penitente non soltanto Eustachia con la madre Paola, ma anche due amici del dottore della Chiesa, Eusebio da Cremona e papa Damaso, fautore della versione latina della Bibbia

(fig. 32).7

L'inusuale presenza di figure nude sullo sfondo della statua di San Cristoforo (fig. 36) aveva sorpreso già Luitpold Dussler: «L'invenzione è da attribuire senza dubbio al Signorelli, dato che non si conoscono modelli iconografici analoghi per raffigurazioni di San Cristoforo. [...] Le figure [...] sono state inserite dall’artista nella composizione in ragione della loro pura concretezza di nudi». Diversamente da quanto sembra presumere Dussler tuttavia, queste figure non sono una pura invenzione del Signorelli. Esse furono piuttosto desunte dall’iconografia del Battesimo di Cristo,” e anzi — come dimostra il confronto con

l’affresco di Masolino a Castiglione d’Olona (fig. 37) — così precisamente da far pensare a un’allusione consapevole.8° La raffigurazione di Sant'Agostino e di Santa Caterina d'Alessandria (fig. 13, tavola xcrv) doveva stare particolarmente a cuore ai frati eremitani del convento. Agostino, che sovrasta con atteggiamento protettivo il Sant'Antonio inginocchiato, è rappresentato quale santo patrono della chiesa e — per mezzo dell’abito nero — presunto fondatore dell’ordine degli eremitani, nonché redattore della loro regola, secondo una tradizione storiografica leggendaria vivacemente contestata a partire dal 1330 circa e per questo difesa e propagata con fervore tanto maggiore dagli eremitani. Secondo la loro tradizione, Agostino avrebbe aderito subito dopo il battesimo, avvenuto a Milano, a questo ordine fondato in epoca paleocristiana da gruppi di eremiti, e sarebbe stato vestito con la tonaca nera che avreb-

be continuato a indossare anche dopo l’ascesa alla cattedra vescovile.?! Accanto a lui è raffigurata Caterina d’Alessandria (fig. 13, tavola xciv), che era ovunque la santa patrona degli studi, e quindi anche dello Studium generale vanto del convento senese, una scuola importante nell’am-

bito della provincia ecclesiastica dell’ordine,* alla quale era annessa una biblioteca relativamente ricca* (nessun membro della famiglia Bichi portava all’epoca il nome Caterina, il che esclude diverse interpretazioni in tal senso). In questa stessa accezione la principessa egiziana compare già in un affresco trecentesco presso l’originario

ingresso principale dell’edificio monastico; quale protettrice delle scienze era stata raffigurata da Ambrogio Lorenzetti in un grande ciclo di affreschi sulla parete est

del capitolo di Sant'Agostino.

I ricami sulla stola e sulla mitra di Agostino (fig. 35) formano un programma iconografico in miniatura che si può

leggere come una 54774 iconologica dell’intera cappella.

L'Annunciazione e lAdorazione dei pastori non compaiono

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33. Piero della Francesca, Sant'Agostino (particolare), Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga

34. Piero della Francesca, Sant'Agostino (particolare), Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga

certo per caso su una pala d'altare al cui centro troneggia il Gesù Bambino sulle spalle di San Cristoforo (fig. 29), cir-

pittura fiamminga — di questa tavola oggi conservata a Lisbona, come per esempio i riflessi nel pastorale di cristallo (fig. 33). Mentre nelle prime opere conservate degli anni intorno al 1474 appare evidente il debito del Signorelli verso i modi espressivi di Piero,’ le opere degli anni novanta presentano raramente rimandi diretti al maestro — tanto più sorprendente appare dunque questo

condata da affreschi raffiguranti la Profezia sibillina del-

l’avvento del Redentore (figg. 4, 5, tavole rxxxIx, xcm) e l’Adorazione del Bambino.8 Il Cristo ricamato sulla mitra, il cui sangue cade dalla ferita al costato nel calice, costituisce un importante accenno al sacrificio eucaristico; in

tal senso occorre ricordare che nella composizione originaria, dal punto di vista del sacerdote officiante, Agostino pareva chinarsi in avanti verso l’altare (fig. 29). Nell’iconografia di sant'Agostino questa tipologia della Imago Pietatis, risalente a modelli del primo Quattrocento, è rara.88 Analogamente, come decorazione della mitra del santo vescovo, essa compare nel Quattrocento — a quanto mi risulta — solamente nella pala d’altare dipinta da Piero della Francesca per Sant'Agostino a San Sepolcro (fig. 33).8° L'analisi iconografica getta dunque anche una luce interessante sui dibattuti rapporti tra Piero della Francesca e Luca Signorelli, definito da Luca Pacioli”! e più tardi dal Vasari? un allievo del maestro di San Sepolcro. Se la nascita del Signorelli — come è ormai opinione comune - è da collocarsi intorno al 1450,” il nostro artista, collaborando con Piero” tra il 1465 e il 1470, potrebbe aver subito il fascino dei ricami scintillanti (fig. 34)° e di tutte le altre preziosità pittoriche — che richiamano non a caso la

omaggio tardivo (fig. 35). La presenza della figura di Santa Maria Maddalena (fig. 10, tavola xcm), con la mano destra rivolta con atteggiamento protettivo al santo omonimo di Antonio Bichi, non si spiega né con la storia famigliare (nessun membro della famiglia Bichi portava all’epoca quel nome), né con un suo particolare culto praticato nel convento senese, che a quanto ci risulta non possedeva reliquie della santa. Essa è piuttosto la “patrona politica” di Antonio Bichi, uno dei personaggi più eminenti del partito senese del “Monte dei

Nove”. Nel giorno della festa di santa Maria Maddalena, il 22 luglio 1487, il “Monte dei Nove” riuscì a riconquistare il potere con un colpo di stato.” Per Antonio Bichi quel giorno non significò solo il ritorno da cinque anni di esilio e il recupero dei beni confiscati, ma anche la prospettiva di un lungo periodo di governo che, al fianco di Pandolfo Petrucci, sarebbe durato quasi ininterrottamente fino all’inizio del Cinquecento. Per la figlia Eustachia quel giorno

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