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Italian Pages 448 [450] Year 2017
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studi e testi collana diretta da Simone Magherini, Anna Nozzoli, Gino Tellini
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La collana «Studi e Testi» intende promuovere e diffondere, in campo nazionale e internazionale, studi e ricerche sulla civiltà letteraria italiana, nonché edizioni critiche e commentate di testi della nostra letteratura, dalle origini alla contemporaneità. La qualità scientifica delle pubblicazioni della collana «Studi e Testi» è garantita da un processo di revisione tra pari (peer review) e dal Comitato scientifico internazionale. La collana «Studi e Testi» prevede pubblicazioni in formato cartaceo e digitale con un modello di diffusione a pagamento o ad accesso aperto (open access).
comitato scientifico internazionale Andrea Dini (Montclair University), Marc Föcking (Università di Amburgo), Gianfranca Lavezzi (Università di Pavia), Paul Geyer (Università di Bonn), Elizabeth Leake (Columbia University), Alessandro Polcri (Fordham University), Pasquale Sabbatino (Università di Napoli “Federico II”), William Spaggiari (Università di Milano), Gino Ruozzi (Università di Bologna), Michael Schwarze (Università di Costanza).
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Lo schermo di carta Pagine letterarie e giornalistiche sul cinema (1905-1924) a cura di Irene Gambacorti
Società
Editrice Fiorentina
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Il volume è frutto di una ricerca svolta presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze e beneficia per la pubblicazione di un contributo a carico dei fondi amministrati dallo stesso Dipartimento
© 2017 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 [email protected] www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-222-7 ebook isbn: 978-88-6032-448-1 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata
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Indice
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Introduzione. Cinema, letteratura, editoria parte prima pagine letterarie
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Lo schermo e il pubblico Luigia Cortesi, Al cinematografo Gualtiero Fabbri, Al cinematografo. Novella Emilio Salgari, Le meraviglie del Duemila. Avventure Umberto Lanna, Ar cinematogrifo Jarro, Al cinematografo (un delitto in un baule) Gian Pietro Lucini, La solita canzone del Melibeo Libero Altomare, Proiezioni Dino Campana, La notte francesco meriano, Prosa cinematografica Pio Vanzi, Lungo metraggio Onorato Fava, La principessa del sogno Pier Maria Rosso di San Secondo, Pur che non si parli… Attrici e attori Aldo Borelli, Il duello di Miopetti Ugo Menichelli, Il ritorno Guido Gozzano, Il riflesso delle cesoie francesco cangiullo, Francesca Bertini Trilussa, Basta la mossa! Pier Maria Rosso di San Secondo, Vita, teatro di vetro Enrico Roma, La repubblica del silenzio. Racconto di costumi cinematografici Massimo Bontempelli, La mia morte civile
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Si gira! Guido Gozzano, Pamela-Films Luigi Pirandello, Si gira… Ettore Veo, Fantasio-film. Romanzo del cinematografo Bruno Corra, Io ti amo. Il romanzo dell’amore moderno Federigo Tozzi, Una recita cinematografica Il cinema a teatro Nino Berrini, Sandro Camasio, Il cuore dell’amante. Commedia in tre atti Nino Martoglio, L’arte di Giufà. Bizzarria comica in tre atti Alfredo Testoni, Arte nuova. Commedia in tre atti di là da venire parte seconda scritti giornalistici
193 200 203 207 213 215 222 226 228 232 236 238 241 243 247 251 256 258 265 267 269 272
Il fenomeno cinema Giustino L. Ferri, Tra le quinte del cinematografo Giovanni papini, La filosofia del cinematografo Gajo [Adolfo Orvieto], Spettacoli estivi. Il cinematografo Crainquebille [Enrico Thovez], L’arte di celluloide Giulio De Frenzi [Luigi Federzoni], L’abolizione della parola Ricciotto Canudo, Trionfo del cinematografo Lucio D’Ambra, «Salomè» all’aria aperta Il cinematofono Giuseppe Prezzolini, Per un cinematografo nazionale Fausto M. Martini, La morte della parola G. Pr. [Giuseppe Prezzolini], La guerra e il cinematografo Fraka [Arnaldo Fraccaroli], Dietro al cinematografo La Voce [Giuseppe Prezzolini], La censura ai cinematografi Edoardo Boutet, Rassegna drammatica. Il cinematografo Attrice cinematografica ferita da un leopardo nell’esecuzione d’una film La fuga di tre leoni a Torino Corriere teatrale. La «Cabiria» di D’Annunzio al cinematografo Nino Oxilia, Attori che non parlano Scrittori e cinema: inchieste e interviste ettore janni, Un colloquio con Gabriele D’Annunzio Carlo Casella, Poesia e cinematografo. Conversando col poeta Guido Gozzano E.D., Corriere teatrale. Tra scene e pellicole La nostra inchiesta-referendum fra gli Autori drammatici italiani
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La nostra inchiesta sul cinematografo Renato La Valle, Il teatro e il cinematografo: «ceci tuera cela». Di Giacomo, Bracco, Verga, D’Annunzio scrivono per il cinematografo A colloquio con D’Annunzio S.A., Conversando con Matilde Serao di arte e cinematografo Saverio Procida, «Sperduti nel buio» al cinematografo (Intervista con Roberto Bracco) Lucio d’Ambra, Conversando con l’altro me stesso
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Cinema e teatro luciano zuccoli, Cinematografo e teatro Sebastiano Arturo Luciani, Il cinematografo e l’arte Oberon [Umberto Bozzini], Cinematografo e scena di prosa Giuseppe Prezzolini, Viva il cinematografo! Giuseppe Prezzolini, Problemi del cinematografo Antonio Gramsci, Teatro e cinematografo
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333 338 342 346 352 358 363 368 373 374 377 384 387 389 391
Ma il cinema, cos’è? Guido Gozzano, Il nastro di celluloide e i serpi di Laocoonte Roberto Bracco, Cinematografo (Geremiata) Filippo Tommaso Marinetti, Bruno Corra, Emilio Settimelli, Arnaldo Ginna, Giacomo Balla, Remo Chiti, Cinematografia futurista. Manifesto Annie Vivanti, Il cinematografo Ugo Falena, Si cominciò a girare un po’ d’arte Pasquale Parisi, Alla ricerca del trucco Ettore Cozzani, La rupe e la statua Silvio D’Amico, Il cinematografo non esiste Gabriele D’Annunzio, La Cinematografia e l’ora presente Bruno Barilli, «Fantasia bianca» di Vittorio Gui al Costanzi Lucio D’Ambra, Il mio “Credo” cinematografico Giuseppe Prezzolini, Il bello cinematografico Filippo De Pisis, Il ridicolo nel cinematografo Massimo Bontempelli, Il nuovo spettacolo Alberto Savinio, Rivista del cinematografo appendice
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Gabriele D’Annunzio, Del cinematografo considerato come strumento di liberazione e come arte di trasfigurazione
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Bibliografia
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Indice dei nomi
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Introduzione Cinema, letteratura, editoria
1. Dagli albori del secolo attraverso gli anni Dieci, anni d’oro per volume d’affari e prestigio internazionale, il cinema conosce in Italia un consenso di pubblico e un peso sociale crescente. Da spettacolo da baraccone per fanciulli e serve, arriva ad occupare i principali teatri cittadini, a scritturare attori drammatici celebri, coinvolge come soggettisti e sceneggiatori firme famose del panorama letterario. Fra contrasti, snobistici rifiuti e polemiche feroci, aspira allo status di nuova arte; si impone all’attenzione dell’opinione pubblica come l’invenzione del secolo, emblema dei tempi moderni. Letteratura, giornalismo, editoria forniscono allo sviluppo del nuovo spettacolo un contrappunto costante. Il rapporto non è pacifico, ma spesso conflittuale, polemico; o ambiguamente amichevole, in grazia delle convincenti elargizioni pubblicitarie. La carta stampata rende un quadro pertinente di entusiasmi, paure, riflessioni e idiosincrasie. Illumina un capitolo curioso della vicenda culturale primonovecentesca, quando l’affermarsi di nuovi media chiama in causa la definizione di arte e il mutato rapporto tra società e letteratura nella moderna civiltà industriale. Documenta l’atteggiamento di scrittori e intellettuali di fronte a una forma di spettacolo che agisce in profondo su abitudini e costumi di vita, e forte del favore popolare aspira ad ottenere patente di arte. Che smuove interessi economici enormi, promette guadagni insperati; ma anche avvince con le nuove possibilità espressive offerte dall’alfabeto delle immagini in movimento, dal gioco della trascodifica dei testi in nuovi linguaggi espressivi. Gli scritti raccolti in questo volume intendono mostrare come il fenomeno cinema è vissuto e raccontato dal mondo letterario italiano di quegli anni, con particolare riguardo al rapporto tra cinema e letteratura, cinema e arti, cinema e società. Tra le Pagine letterarie, figurano racconti, brani di romanzi, commedie, poesie ispirati al mondo del grande schermo, alla vita sul set e nelle Case cinematografiche, agli attori e alle dive, o al variopinto pubblico dell’epoca. Gli Scritti giornalistici, insieme a interviste a scrittori e drammaturghi posti a confronto con la nuova arte, comprendono articoli, inchieste,
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introduzione. Cinema, letteratura, editoria
commenti spesso dovuti a nomi noti della stampa periodica e della critica letteraria e teatrale. La scelta antologica attinge di preferenza a quotidiani e periodici a larga diffusione o di riconosciuto prestigio culturale. Si escludono di proposito le voci degli addetti ai lavori, la stampa di settore, le molte riviste cinematografiche che prosperano in Italia nei primi decenni del secolo, fatta eccezione per quei periodici nati nella seconda metà degli anni Dieci con lo specifico intento di inserire il cinema all’interno della coeva discussione estetica e artistica, come «Apollon» e «L’Arte muta», e poi «In penombra», che programmaticamente cerca di coinvolgere letterati e artisti già attivi in altri campi. Volutamente si escludono anche quei testi letterari che non parlano di cinema, ma sono stati trovati a vario titolo “cinematografici”, talvolta così etichettati dall’autore stesso: caso più celebre, il racconto Cinematografo cerebrale di De Amicis, del 1907, dove si assiste al flusso di pensieri, desideri e immagini che emerge per libera associazione dall’inconscio di un rispettabile Cavaliere, e onesto padre di famiglia: un film di ricordi cancellati, immaginazioni riprovevoli, apparizioni inesplicabili, aspetti di un io sconosciuto sfuggito ai freni della coscienza. Ma l’uso metaforico dell’aggettivo «cinematografico» ha grande voga, nei contesti più vari, in questi anni – come sinonimo di descrizione, o di galleria di ritratti, o di racconto tout court –, senza si debba presupporre per questo una qualche novità narrativa. La ricerca di suggestioni cinematografiche nello stile narrativo di testi letterari d’epoca, del resto, è terreno affascinante ma infido; mentre dal canto suo il primo cinema struttura il racconto su collaudati procedimenti letterari, teatrali o narrativi, e cerca l’appoggio della letteratura per avvalorare la propria dignità d’arte, nelle didascalie, nei paratesti, nei “libretti” dei film, nell’apparato pubblicitario talvolta. Fra i testi proposti in questa antologia ve ne sono di ben noti, ma imprescindibili; altri sono stati recuperati durante lo studio sui materiali d’epoca nell’ambito di un più vasto progetto di ricerca su cinema e letteratura negli anni Dieci in Italia1. Alcune testimonianze mancano, con rammarico, per difficoltà contingenti: come per le straordinarie serie di tavole parolibere di Cineamore di Carlo Carrà, del 1914, inedite, sparse in collezioni private, parzialmente esposte in alcune recenti mostre2. Il campo della letteratura cinematografica, e più in generale il rapporto tra letteratura e cinema, ha conosciuto del resto negli ultimi quindici anni un rinnovato interesse, con studi di serio impegno filologico e documentario, estesi anche alla coeva situazione europea, di cui ho cercato di far tesoro; quasi eclusivamente 1
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Da cui il mio Storie di cinema e letteratura: Verga, Gozzano, D’Annunzio, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2003, e il saggio Lo schermo di carta. Letteratura sul cinema negli anni Dieci, in «Paragone. Letteratura», LX, 81-82-83, febbraio-giugno 2009, pp. 86-98, che esamina alcuni dei testi adesso riproposti. Per i dati bibliografici dei testi citati in questa introduzione, antologizzati o meno nel presente volume, rimando alla sezione Scritti d’epoca della Bibliografia finale.
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introduzione. Cinema, letteratura, editoria
xi
da parte di studiosi di cinema, va detto3. Mi auguro che questa antologia, che intende semplicemente dar conto di un panorama vasto, variegato e stimolante, possa offrire un utile sostegno documentario per la ricerca e la didattica, anche in ambito letterario. Perché un fenomeno di così vaste implicazioni sociali, espressive e artistiche come il cinema è spesso curiosamente assente nelle ricostruzioni storico-letterarie dell’inqueto panorama italiano dei primi decenni del ventesimo secolo. La scelta, che si è voluta ampia, alterna pagine di indubbio valore artistico a prove di onesta letteratura di consumo, e, tra le pagine giornalistiche, testi di diverso spessore, genere e stile, dal saggio all’inchiesta, all’intervista, alla polemica, fino alla cronaca e alla curiosità; tutti rendono, in modo aperto o implicito, una lettura, una interpretazione del nuovo fenomeno artistico. Nella selezione il gusto personale ha avuto, s’intende, la sua parte. La speranza è di aver proposto pagine godibili, quanto possibile non noiose. I testi sono raggruppati per argomento (e seguono all’interno della singola sezione l’ordine cronologico). Si è così voluto dare evidenza allo sviluppo dell’interesse e del dibattito sui grandi temi che appaiono tenere il campo. Tra le Pagine letterarie, la sezione Lo schermo e il pubblico punta l’attenzione sul modo in cui il pubblico partecipa agli spettacoli cinematografici: sulle sue reazioni, sui suoi commenti, sugli effetti positivi o deleteri delle proiezioni, dando spazio anche alla figura del musicista che accompagna le pellicole, “invisibile” tra lo schermo e la platea. In Attrici e attori, al centro è il nuovo mestiere dell’attore cinematografico, in particolare il problematico nuovo rapporto che pare instaurarsi tra vita e finzione: con la finzione che arriva a condizionare o sovrastare l’identità reale, specie per le figure emblematiche della diva e del comico. I brani raccolti nella sezione Si gira! guardano ai meccanismi della produzione cinematografica, in particolare al lavoro sul set durante le riprese, attenti agli aspetti più originali e curiosi del nuovo ambiente, ma anche alle loro ripercussioni sull’identità dell’uomo moderno e dell’artista. Il cinema a teatro presenta infine alcuni testi teatrali che portano il cinema sul palcoscenico, nella misura della farsa, del dramma borghese o della commedia di salotto. Negli Scritti giornalistici, la prima ampia sezione è dedicata al Fenomeno cinema: con articoli e saggi che con tinte diverse – con sdegno, con entusiasmo, con timore o con stupefazione – raccontano la sua novità, il suo successo, i suoi usi bizzarri, i suoi risvolti curiosi o allarmanti, considerandone le implicazioni morali e sociali. Si dà poi spazio alle voci di scrittori, drammaturghi e letterati (Scrittori e cinema: inchieste e interviste), interpellati in inchieste giornalistiche o chiamati a esprimere pareri e intenti in interviste promozionali per film in maniera diversa legati al loro nome. Nella sezione dedicata alla querelle tra Cinema e teatro si pre3
Doveroso ricordare gli studi sulla letteratura cinematografica condotti soprattutto da Luca Mazzei, e quelli portati avanti da Silvio Alovisio nel campo affine della sceneggiatura: per queste e altre recenti ricerche rimando alla sezione Studi della Bibliografia.
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introduzione. Cinema, letteratura, editoria
sentano alcuni dei numerosi interventi scaturiti dalla concorrenza tra le due forme di spettacolo, che comporta un confronto tra le rispettive identità e presunzioni artistiche. Si chiude con una carrellata di opinioni, interpretazioni e prime elaborazioni teoriche sul nuovo mezzo espressivo (Ma il cinema, cos’è?), privilegiando anche in questo caso le voci di scrittori e letterati. In Appendice è posto uno scritto teorico di D’Annunzio, ottenuto dalla rielaborazione di una sua precedente intervista, rimasto al tempo inedito. Oltre a dar conto degli studi moderni in argomento, la Bibliografia finale riporta in ordine cronologico i dati degli scritti letterari e giornalistici antologizzati, e aggiunge un elenco di ulteriori opere letterarie, teatrali e musicali di argomento cinematografico, e di ulteriori articoli su giornali e riviste d’epoca. Non si mira naturalmente all’esaustività, ma a segnalare altri interventi rilevanti sul rapporto tra cinema e letteratura in questo arco di anni: si allarga perciò il campo a libretti di film, e a soggetti e sceneggiature editi, quando questi coinvolgano letterati; ai volumi sul cinema usciti all’epoca, e agli articoli sulle riduzioni cinematografiche di alcune opere letterarie. Mostrare come il cinema è narrato, messo in scena, raccontato in libri, riviste, quotidiani, o sulle tavole dei palcoscenici, vuol dire infatti concentrarsi consapevolmente su uno solo dei variegati aspetti dell’incontro fra cinema e letteratura (e editoria) in questi anni. Nel panorama letterario-commerciale compaiono manuali tecnici e pubblicazioni divulgative, biografie di attori e attrici, volumi di ricordi e aneddoti, “libretti” dei film e opuscoli del più vario tipo, fogli volanti e canzonette, tante riviste specializzate, sceneggiature, novellizzazioni di film. Se all’inizio della sua avventura il cinema si nutre di carta, di romanzi e racconti “ridotti” per lo schermo, esso alimenta a sua volta editoria e carta stampata. Intorno all’«arte del silenzio» la parola prolifera. Nello schermo di carta il giovane cinema cerca uno specchio meno effimero su cui fissare le sue labili ombre, dove proiettare e definire i caratteri di un’identità ancora incerta e sfuggente. 2. Tra il 1896 e il 1897 si incontrano sulle pagine di molti quotidiani brevi resoconti dei primi spettacoli cinematografici nelle principali città italiane. La novità tecnica genera curiosità; ma rimane poi per anni attrazione da fiera, senza nessuna possibile cittadinanza nelle cronache della vita culturale. L’attenzione della stampa riprende nel 1906-1907: il numero delle sale cinematografiche stabili è in costante crescita; il favore del pubblico minuto verso il nuovo spettacolo, dove la fiction ormai prevale sull’iniziale indirizzo documentario, è unanime e incontrastato. Quotidiani e riviste di varietà prendono bonariamente atto del fenomeno. Battono sugli aspetti più curiosi e bizzarri del cinema, con aria di sufficienza divertita e condiscendente verso le ingenue esigenze dell’intrattenimento popolare: esemplare l’articolo di Ferri su «La Lettura» del settembre 1906, Tra le quinte del cinematografo. O irridono con snobistico sdegno alle sue pretese artistiche, di fronte ai primi maldestri tentativi di portare sullo schermo i grandi capolavori letterari. Di questo tono i commenti
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introduzione. Cinema, letteratura, editoria
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di Enrico Thovez e Luigi Federzoni, dalle colonne della «Stampa» e del «Giornale d’Italia» del 1908, o di Adolfo Orvieto sul «Corriere della sera», dove anche compaiono curiose considerazioni anonime sul Cinematofono, cioè sui primi goffi esperimenti di cinema sonoro. Arrivano però anche le dichiarazioni favorevoli di D’Annunzio, attento e vorace consumatore delle moderne tendenze di gusto, raccolte nel 1908 da Ettore Janni in un’intervista allo scrittore sul «Corriere della sera» (e anch’esse bersaglio del sarcasmo di Thovez). Cui fanno seguito quelle simili di Gozzano, raccolte da Carlo Casella nel 1910 sulla torinese «Vita cinematografica». Ponderati riconoscimenti della serietà e delle potenzialità del nuovo mezzo espressivo vengono da Giovanni Papini che in modo tempestivo, dalla prima pagina della «Stampa» del 18 maggio 1907, invita i «filosofi» a studiare il fenomeno con seria attenzione. I primi risultati della riflessione estetica sul cinema «settima arte», avviata in Francia da Ricciotto Canudo, appaiono nel dicembre 1908 sulle pagine del «Nuovo Giornale». Nascono in questi anni le prime riviste cinematografiche, espressione degli interessi di categoria: «La Rivista fono-cinematografica», «La Cinematografia italiana», «La Cine-fono» a Milano, «Lux» a Napoli, «La Vita cinematografica» a Torino, per ricordare solo le prime e di più prospero avvenire. Insieme a queste, e ancor più negli anni successivi, fino alla crisi degli anni Venti, le testate cinematografiche nascono (e muoiono) in gran numero e con grande celerità. Sono, all’inizio, poco più che cataloghi delle principali case produttrici (attive in Italia dal 1905), veicoli pubblicitari e commerciali, intente alla discussione dei problemi tecnici in materia di produzione, proiezione e commercio. Intorno al 1910, alla guida di molte società cinematografiche i capitali dell’aristocrazia subentrano ai tecnici e agli artigiani pionieri del nuovo spettacolo. Si dà alle imprese una più solida organizzazione imprenditoriale; si mira ad allargare il consenso al pubblico borghese e alle classi più elevate. Occorre rinnovare l’offerta rispetto a un repertorio ormai ripetitivo e usurato: prende campo il «film d’arte», con le trascrizioni cinematografiche di opere celebri della letteratura e del teatro, interpretate da attori della scena di prosa. Le riviste di categoria si impegnano per una migliore qualità del prodotto; iniziano un contraddittorio con la stampa quotidiana e periodica, accusata di snobbare il cinema mantenendo nei suoi riguardi un ostile premeditato silenzio. Si chiedeva per le pellicole una critica puntuale e obiettiva, come per la letteratura e il teatro – domanda costante ma raramente evasa per tutto il periodo del muto. Alla richiesta si opponeva non essere il cinema, al momento, nient’altro che prodotto dell’industria e speculazione commerciale; certo non arte. Di fatto, il pubblico dei cinematografi non è quello dei lettori di riviste e giornali; che dunque non se ne occupano. Il pubblico colto, se mette piede talvolta nelle sale, un po’ se ne vergogna e non ama che gli si ricordi: il suo spettacolo è il teatro, in esso si riconosce e vuole essere riconosciuto.
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introduzione. Cinema, letteratura, editoria
Gli interventi sulla stampa, fino al 1913, guardano generalmente al cinema solo come fenomeno sociale, fatto curioso, preoccupante o pericoloso. Il problema è quello dell’educazione popolare: la relazione dei film con l’attualità politica, la salvaguardia della pubblica moralità, l’ausilio del cinema per l’istruzione pubblica, perché lo schermo non sia scuola di vizio ma di virtù. Pure, il favore di pubblico è imponente: su di esso si interroga, ad esempio, sulla «Tribuna», nel febbraio 1912, Fausto Maria Martini. I primi volumi sul cinema, dal 1907, rispecchiano questo stato di cose. Sono all’inizio manuali che spiegano il funzionamento e le caratteristiche tecniche della nuova invenzione. Ma compaiono presto anche racconti ispirati al mondo cinematografico. Hanno, come le novelle di Fabbri e Jarro, carattere eminentemente divulgativo: raccontano come si fa un film, le trame delle pellicole, le reazioni del pubblico, esaltando le potenzialità morali, educative e sanamente ricreative del cinema. Sono testi senza pretese che si rivolgono alla cerchia degli affezionati. Esemplare è il caso del lungo racconto di Gualtiero Fabbri Al cinematografo, che racconta la “conversione” al cinema di un giovane intellettuale: mosso da un evidente intento apologetico, presenta grande interesse documentario per le molte notizie sulle pellicole del tempo. Non è il primo racconto sul cinema, come a lungo si è ritenuto: dal paziente lavoro di scavo, soprattutto ad opera di Luca Mazzei, altri documenti sono emersi, spesso di qualità modesta. Attenzione merita, per l’eccezionale precocità (1898), la commediola educativa di Anna Vertua Gentile Cinematografo. Scene famigliari per fanciulle (non antologizzata), che legge la nuova invenzione in chiave assolutamente positiva; ma soprattutto il racconto di Luigia Cortesi Al cinematografo, apparso nel 1905 sulla «Rassegna nazionale», che con la malinconica figura del suo pianista di sala presenta il primo di una lunga serie di esempi di artisti falliti che popolano la narrativa di argomento cinematografico. Le futuribili applicazioni della scoperta affascinano la penna di Emilio Salgari, che inserisce nelle pagine del romanzo Le meraviglie del Duemila, del 1907, una sorta di televisore ante litteram («un gran quadro che occupava la parete di fronte al letto», che s’illumina e mostra video di fatti d’attualità, mentre la voce che commenta giunge da dietro il cuscino, quasi in cuffia). Nel 1910, nella Solita canzone del Melibeo di Gian Pietro Lucini, «un cinematografo, perfezionato e brevettato» compare nel «Paviglione» della fiera tra «l’ultime scoperte della scienza»: «Un teatro mecanico, dei quadri dissolventi, / projettati nel vuoto, fatti rivivere, così, per giuoco»; «un’arte che si inganna»... 3. Qualche anno più avanti, verso il 1913, il cinema si impone come fenomeno da prendere ormai in seria considerazione. Si affina la tecnica. Si afferma, novità vincente, il lungometraggio, di una, due, tre ore di proiezione, frutto di un più massiccio impegno produttivo e distributivo e di scaltrita esperienza nella sceneggiatura e nell’interpretazione. Il racconto cinematografico tende a strutturarsi, acquista una sua sintassi. Le polemiche sulla presunta immoralità del
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introduzione. Cinema, letteratura, editoria
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cinema, pernicioso per il popolo, si acuiscono intorno alla proposta della revisione obbligatoria per le pellicole: del maggio 1913 è l’istituzione dell’ufficio centrale di censura. Ma è soprattutto il danno economico che la concorrenza del cinema porta al botteghino del teatro di prosa ad alzare il tono della discussione, che coinvolge adesso gli ambienti letterari e più prestigiose sedi di dibattito. I contrasti tra stampa cinematografica e riviste teatrali si fanno roventi. Gli organi di categoria hanno ormai abbracciato risolutamente la causa della promozione culturale del cinema, con spirito di crociata, per conquistargli la qualifica di arte e il favore del pubblico colto. Ma anche i quotidiani e le maggiori riviste di cultura dibattono il problema. Agli aspetti morali, politici e sociali della questione dedica costante attenzione Prezzolini, dalle pagine della «Voce» (ma non solo), occupandosi del rapporto fra cinema e propaganda bellica, istruzione, moralità popolare, e dell’inutilità della censura. Cinematografo e moralità pubblica è il titolo di un lungo intervento anonimo (non antologizzato) comparso nel novembre del 1914 sulla stessa «Civiltà cattolica»; ma si veda anche, un anno prima, l’intervento di Edoardo Boutet nella Rassegna drammatica della «Nuova Antologia». La questione che tiene banco è però la disputa fra teatro e cinematografo: il cinema ucciderà il teatro? quali le affinità e le differenze tra i due mezzi? Sull’argomento intervengono, fra il ’13 e il ’16, letterati e critici teatrali: tra questi Sabatino Lopez, direttore della Società degli Autori, in un’intervista rilasciata al «Corriere della sera» (E.D., Corriere teatrale. Tra scene e pellicole), Luciano Zuccoli sul «Marzocco» (sulle stesse colonne gli risponde Sebastiano Arturo Luciani), Oberon (ovvero Umberto Bozzini) sul «Giornale d’Italia», Prezzolini sul «Secolo» e sulla «Stampa», poi Gramsci sull’«Avanti!». Il tema è al centro di due importanti inchieste-referendum promosse nel 1913 dalla rivista «La Vita cinematografica» e dal quotidiano fiorentino «Il Nuovo giornale», in cui sono chiamati a pronunciarsi scrittori, drammaturghi, critici, attori, giornalisti (se ne trascrivono qui gli interventi più significativi). A smuovere le acque, sono state le iniziative prese dalle associazioni dei lavoratori teatrali italiane e francesi tra 1912 e 1913 in difesa della categoria, minacciata dall’esodo sempre più massiccio di attori, autori e pubblico dal teatro al cinema; mentre i principali teatri delle grandi città ospitano anch’essi, per stagioni più o meno lunghe, proiezioni cinematografiche. Presto si distinguono le ragioni economiche dalle ragioni artistiche. Occorre ricercare i veri motivi della crisi del teatro, si ammette; riflettere serenamente sugli elementi di contiguità e di differenza tra questo e il cinema (e che si tratti di mezzi espressivi diversi, è presto chiaro). Il film può anche svolgere un benefico compito di “purificazione” nei confronti della scena teatrale, liberandola dalla preoccupazione di divertire il popolo e restituendola ai suoi nobili intenti d’arte, fa notare Prezzolini (e anche D’Annunzio, nel saggio al tempo inedito offerto in Appendice). Ma la questione del preteso conflitto con la scena di prosa diviene un luogo comune longevo nel dibattito sul cinema. Ancora nel marzo 1927, nel numero monografico dedicato al
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cinema da «Solaria», agli scrittori è rivolta la fatidica domanda: il cinema è un surrogato del teatro? Il nuovo interesse degli ambienti colti verso il mondo del cinema suscita anche interventi di carattere divulgativo, particolarmente suggestivi per il lettore d’oggi. La rassegna di Arnaldo Fraccaroli sul «Corriere della sera» (Dietro al cinematografo), nel febbraio del 1913, tratteggia con accenti di sincero stupore lo sviluppo formidabile dell’industria cinematografica. Nino Oxilia, giovane drammaturgo di successo (con la fortunata commedia Addio giovinezza!, del 1911, scritta in collaborazione con Sandro Camasio), poeta di ispirazione crepuscolare e stimato regista cinematografico, racconta in tono brillante nel 1914 sulla «Lettura», il mensile del «Corriere della sera», la vita e il lavoro degli attori “muti”. Qualche anno prima, sul giornale teatrale «Il Tirso», Lucio D’Ambra aveva vivacemente narrato le riprese en plein air di Salomè. Il cinema tiene banco anche per i suoi aspetti bizzarri ed esotici: affascina per il meccanismo di produzione, per il complesso apparato che richiede, per quella finzione così evidentemente falsa al momento della messa in scena e così evidentemente reale sul telone dello schermo. Ma anche il lusso e le bizzarrie delle dive, l’ostentazione di ricchezza e di modernità propria dell’ambiente (un mondo di macchine, dove l’automobile è presenza costante), colpiscono la fantasia. Ancor più la colpiscono le belve, impiegate in larga misura nei colossal storici di ambientazione romana che trionfano nel 1913. Alcuni episodi di cronaca che le vedono protagoniste, come i due trascritti in questa raccolta, ricevono ampia eco sui quotidiani del tempo. In un caso l’operatore riprende la scena dell’incidente; ed è immediato per noi il richiamo alla tragica conclusione del romanzo cinematografico di Pirandello, Si gira... (poi Quaderni di Serafino Gubbio operatore), ideato e steso proprio in questi anni. 4. Nelle inchieste della «Vita cinematografica» e del «Nuovo giornale», a scrittori e drammaturghi si chiedeva pure di esprimersi in merito alla possibilità per il letterato di lavorare nel cinema salvaguardando il proprio decoro professionale. L’industria cinematografica, con l’obiettivo di ampliare e qualificare il pubblico, cerca infatti adesso il contributo di attori e autori illustri. Nel 1914 compaiono le prime firme di spicco, con Sperduti nel buio di Bracco e Martoglio e Cabiria di D’Annunzio (cioè di Giovanni Pastrone; ma al Poeta si attribuiva al tempo ogni merito, nella réclame e negli ampi spazi che grazie al suo nome al film dedicano i giornali, primo fra tutti il «Corriere della sera»). Si interessano attivamente al cinema, con riduzioni da proprie opere o soggetti originali, Verga, Gozzano, Salvatore Di Giacomo, Roberto Bracco, Marco Praga, Pirandello, Fausto Maria Martini, Sem Benelli. Dal ’16 la pratica diviene comune, e varie pellicole si fregiano di nomi di letterati noti. L’uscita di questi film è spesso accompagnata da interviste promozionali all’autore celebre. Riportiamo quelle rilasciate da D’Annunzio per Cabiria, da Roberto Bracco per la prima di Sperduti nel buio, da Salvatore Di Giacomo (nell’articolo di Renato La Valle sul
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«Giornale d’Italia»), da Matilde Serao; mentre Lucio D’Ambra (Renato Eduardo Manganella), prolifico «cineletterato», ma anche drammaturgo, conversa con «l’altro me stesso» in un’autointervista autoanalitica. Negli anni Dieci, il successo degli adattamenti da narrativa e teatro è del resto costante. Interi repertori di commediografi italiani e francesi passano sullo schermo; non c’è capolavoro che non subisca almeno una riduzione cinematografica (ma saranno tre per i Promessi sposi; tre per Cavalleria rusticana; due per la Signora delle camelie...). E si chiedono ai letterati soggetti nuovi, confezionati ad hoc: le disavventure del soggettista cinematografico sono comicamente raccontate da Annie Vivanti (Il cinematografo), che con il consueto taglio di invenzione autobiografica, a metà tra pagina letteraria e giornalismo, narra una paradossale esperienza di autrice agli ordini di una volubile primattrice americana. La capitale dell’industria cinematografica si è spostata intanto da Torino a Roma. Qui, giornali come «La Tribuna» e «Il Giornale d’Italia» cominciano a dedicare spazio regolare al cinema. Specie in occasione delle grandi “prime”, compaiono interviste, inchieste, lunghi resoconti delle trame dei film, insieme ad elzeviri galanti ed enfatici per le dive. Sono scritti promozionali smaccatamente elogiativi, lontani dal serio esercizio critico invocato dalle riviste di categoria; ma hanno grande risalto e si fregiano di firme famose: fra gli altri, attivissimo, Lucio D’Ambra, e poi Fausto Maria Martini, Emilio Calvi, Ettore Veo, Mario Corsi, Umberto Fracchia. Le riviste cinematografiche, puntuali nel segnalare e commentare quanto sull’argomento appaia nella stampa quotidiana e periodica, pur deprecando l’origine venale di questi scritti, sono comunque pronte a registrarli come punti a favore della giovane arte, raffigurata in epica lotta contro la preconcetta ostilità degli ambienti letterari e culturali. Numerosi cronisti teatrali si dedicano adesso anche (o prevalentemente) al proficuo campo del giornalismo cinematografico. Nel ’16 nascono nuove riviste di cinema, che si distinguono dai vecchi organi di categoria (con cui non mancheranno le polemiche) per l’eleganza tipografica, la dovizia di foto, xilografie, disegni di illustratori di fama, la cura dei testi. Assai ricca nella veste grafica e nelle illustrazioni è «L’Arte muta», fondata a Napoli da Antonio Scarfoglio e Francesco Bufi. La romana «Apollon», nata ad opera di Goffredo Bellonci e Sebastiano Arturo Luciani, unisce all’eleganza nuovi contenuti: aspira a porsi come «prezioso breviario di estetica» della nuova arte (così recitano gli annunci pubblicitari), promuovendo una riflessione teorica meno estemporanea e frammentaria e un rigoroso esercizio di critica. L’interesse verso l’identità e i caratteri del linguaggio cinematografico ora si consolida e si approfondisce. Il cinema non è teatro. Ma il cinema, cos’è? La riflessione di Gozzano (Il nastro di celluloide e i serpi di Laocoonte), in aria apparentemente svagata, come si addice al luogo di pubblicazione, il settimanale torinese «La donna», affronta una questione di non poco conto, destinata a divenire luogo comune nella discussione, lo status del cinema: arte o industria? Quale il rapporto tra i due fattori? La “macchina”, elemento principe nella produzione e ri-
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produzione cinematografica, è presenza inquietante. Il legame con la modernità industriale sembra di per sé negare al cinema ogni qualifica d’arte. Legame valutato in tutt’altra chiave dall’irrequieto gruppo futurista: il 1916 è anche l’anno del manifesto della Cinematografia futurista, comparso nel novembre sul periodico «L’Italia Futurista», documento unico nel suo genere in questi anni, perché inquadra il cinema all’interno di una coerente teoria e prassi dell’espressione artistica in tutte le sue forme. Nell’analogia e nel montaggio si colgono i caratteri propri del linguaggio cinematografico, indicati come promettenti mezzi di innovazione espressiva in ogni campo dell’arte. Mentre per Roberto Bracco essenza del cinema non è che l’antica arte della pantomima, come dichiara in una paradossale «geremiata» comparsa sull’«Arte muta» nello stesso anno, in cui depreca con divertita ironia la «iattura» della libera critica sui film e il tormento della discussione sulla sua artisticità, che ha per sempre posto fine alla beata pace industriale di cui l’attività godeva. Ampi orizzonti divulgativi e culturali abbraccia il mensile romano «Penombra», poi «In penombra», diretto, tra la fine del 1917 e il 1919, da Tomaso Monicelli, con Mario Corsi, Umberto Fracchia, Ettore Veo. Nato con l’intento di avvicinare letterati ed intellettuali al mondo cinematografico, pubblica interessanti articoli divulgativi (si riportano quelli di Ugo Falena e Pasquale Parisi), insieme a scritti e racconti di Pirandello, Tozzi, Rosso di San Secondo, Antonio Beltramelli, Fausto Maria Martini, Roberto Bracco, Salvatore Di Giacomo, Antonio Baldini, Lucio D’Ambra; ivi comprese pagine di soggetti e sceneggiature per lo schermo. La rivista, corredata da un ricco apparato iconografico, con la collaborazione di illustratori di grido, tratta comunemente del cinema nel contesto delle altre arti “moderne”: non solo letteratura, musica, spettacolo, arti figurative, ma anche architettura, arredamento, moda. Valutazioni estetiche sul cinema in rapporto alle arti figurative e al teatro offrono gli interventi di Ettore Cozzani e Silvio D’Amico, qui riproposti. Il legame tra il cinema e le altre arti è costante oggetto di riflessione alla fine degli anni Dieci: il «credo» di Lucio D’Ambra (Il mio “credo” cinematografico, 1920) vede nel film la somma di tutte le arti, il libero spazio dove ogni artista (romanziere, drammaturgo, pittore, scultore, architetto, musicista, poeta) può esprimere al meglio la propria creatività. Ma non mancano d’altro canto stroncature veementi: come quella riservata da Bruno Barilli non solo al film Fantasia bianca, con musiche sinfoniche originali di Vittorio Gui, ma al mondo del cinema nel suo complesso. 5. La produzione narrativa e teatrale ispirata al cinematografo segue, dopo il ’13, la parabola della sua fortuna. Ai raccontini ingenui dei primi anni si aggiungono romanzi e prove narrative di maggiore consapevolezza letteraria, dovuti talvolta a penne famose. Prende campo la rappresentazione del curioso ambiente degli attori e dei teatri di posa, con il suo eterogeneo campionario di tipi umani, nei suoi risvolti comici o tragici. Romanzi come Fantasio-Film di Ettore Veo, modesto per pregi letterari, e il più convincente La repubblica del silenzio di Enrico Ro-
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ma (drammaturgo, attore e regista), ricchi di informazioni, presentano un interessante spaccato di costume, con riferimenti appena velati a persone, luoghi, società, film del tempo. Mentre in Io ti amo, romanzo di Bruno Corra, il cinema è l’attività moderna per antonomasia, quella che permette di far soldi nel modo più veloce e moralmente disinvolto, campo d’azione dei due giovani ambiziosi protagonisti per il loro progetto di scalata sociale ed economica e insieme specchio di una drammatica crisi morale. Sul vivace milieu cinematografico puntano anche le commedie L’amante del cuore di Sandro Camasio (completata da Nino Berrini dopo la morte dell’autore e rappresentata nel 1914, poi in volume con il titolo Il cuore dell’amante), e L’arte di Giufà di Nino Martoglio, in dialetto siciliano, del 1916, parodia del mondo del cinema in tono farsesco. Esempi scelti fra altri di cui è rimasta traccia più labile, nel vasto ambito della letteratura di consumo: operette (come La signorina del cinematografo di Karl Weinberger, di buon successo nell’adattamento italiano), e farse, pochade, canzonette, spettacoli di rivista, varietà e cafè chantant trovano fin dai primi anni nell’ambiente del cinema, e nella figura della diva, facili spunti. L’alta poesia pare per il momento non accorgersi della novità. In Proiezioni di Libero Altomare, le nuvole sono «cinematografo bizzarro» della Fantasia suscitata da un «Sole elettrico» sulla «gran tela diafana / del cielo»: unica ricorrenza del cinema, in chiave piuttosto tradizionale, nell’antologia dei Poeti futuristi del 1912. Ma fioriscono versi encomiastici per le dive del momento, sulle riviste di categoria e negli opuscoli promozionali, e l’argomento offre spunti ghiotti alla lirica dialettale. La poesia di Trilussa Basta la mossa!, assai popolare al tempo, era dedicata alla scimmia Jack, “attrice”, protagonista di un film del 1916 (L’impronta della piccola mano), e fu utilizzata per pubblicizzare la pellicola. Già nel 1908, sulla «Gazzetta del popolo della domenica», la collana di sonetti in romanesco di Umberto Lanna Ar cinematogrifo raccontava il film che si svolgeva sullo schermo attraverso i coloriti commenti di uno spettatore. Ma affiorano anche problematiche più complesse. Il cinema come fenomeno sociale, i suoi riflessi sulla vita quotidiana e familiare, l’entusiasmo che solleva nel pubblico, soprattutto femminile, si specchiano nella commedia Arte nuova di Alfredo Testoni e nella novella di Pio Vanzi Lungo metraggio, dove l’affascinante protagonista di un grande film sulla guerra, di successo trionfale, monopolizza gli applausi del pubblico e l’ammirazione delle ragazze, negata al soldato davvero reduce dal fronte con una medaglia al valore. Il racconto Pur che non si parli... di Rosso di San Secondo ricorda le emozioni lasciate dalle «care damine» dello schermo nell’animo di un ragazzo e legge il fascino del cinema come incanto dei sogni dell’adolescenza. La futurista Prosa cinematografica di Francesco Meriano presenta al contrario la frustrazione dello spettatore irriverente, intimamente ribelle ma impotente di fronte alle melensaggini dello schermo. Gozzano (autore anche di una sceneggiatura completa per un film su San Francesco d’Assisi, nel 1916) nella novella Pamela-Films indulge al vivace quadro d’ambiente nel narrare la disavventura grottesca in cui incorre una scandalizza-
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ta e coriacea avversaria del cinema. Un altro suo racconto illumina invece il fondo drammatico e la sofferenza intima che si celano sotto l’apparente spensieratezza di un mondo fatuo. Il pittore e l’attrice del Riflesso delle cesoie, passati al cinema, «dannato mestiere», dopo una giovanile luminosa illusione d’arte, vivono con malinconia tenera e amara la consapevolezza del proprio fallimento esistenziale. L’alienazione dell’uomo servo della macchina cinematografica si ritrova nella Principessa del sogno di Onorato Fava. Il protagonista è un anonimo suonatore di violino nell’orchestrina di un cinema: neppure i sogni che passano sullo schermo offrono luce alla sua esistenza grigia e solitaria. In Vita, teatro di vetro di Rosso di San Secondo, il teatro di posa è un intristito «mondo posticcio» di «camuffature sceniche» e sentimenti contraffatti: ma in un incidente di scena, su «un ghiacciaio di legno, che fa ridere», sfondato, ha perso la vita la donna che il protagonista disperatamente inseguiva come unica àncora di salvezza, e potrà rivedere ora solo nella pellicola che quel momento ha fissato per sempre. La figura del comico si presta ai contrasti patetici. Il protagonista della novella Il ritorno di Ugo Menichelli, «buffo» di una troupe cinematografica costretto anche fuori della scena alla misura del suo personaggio, un essere destinato a suscitare ilarità e nient’altro, si suicida per il riso sprezzante cui va incontro la manifestazione dei suoi sentimenti più profondi. Nel Duello di Miopetti di Aldo Borelli, il comico di successo Claudio Xilo alias Miopetti, vedendosi sullo schermo, inveisce contro il suo «stupido» personaggio e contro il pubblico che ride sguaiatamente, fino a sfidare a duello uno degli spettatori; che quando capisce con chi ha a che fare, crede a uno scherzo, e Miopetti è portato in trionfo da una folla plaudente. Il duello mancato sancisce la sua identità di mimo: ogni cosa intorno a lui muta irrimediabilmente in farsa. La dignità degli affetti, la drammaticità delle passioni sono corrose dalle sciocche e volgari buffonate della finzione filmica: e così è impossibile il suicidio per il ciabattino Calepodio della novella di Tozzi Una recita cinematografica, dopo aver visto il tragico gesto cui si accingeva riprodotto davanti ai suoi occhi durante le riprese di un film (un fantoccio si getta dal ponte; e fra una prova e l’altra, gli attori fumano e ridono). Il cinema, emblema di modernità, diviene così motivo di riflessione sulla crisi dell’uomo moderno nella società meccanizzata. Il romanzo Si gira… di Pirandello, poi Quaderni di Serafino Gubbio operatore, pur sensibile al quadro d’ambiente umoristico, indica nella macchina da presa una presenza inquietante, ostile, simbolo di tutte le macchine che «mangiano» la vita dell’uomo. Il cinema riflette l’immagine degradata e grottesca della vita moderna. Ma offre anche altri spunti congeniali alla poetica pirandelliana: annulla la distinzione tra realtà e finzione, ne mescola i confini; accelera il movimento di scomposizione dell’individuo, rivela la sua frammentazione in un enigmatico universo a più dimensioni. L’idea dell’attore fagogitato dalla macchina, che novello Satana ne possiede l’anima, è sottesa alla surreale avventura narrata da Bontempelli nel raccon-
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to La morte civile, del 1924, dove un attore è condannato a rivivere ad ogni nuova proiezione del film che ha interpretato (La morte civile appunto, dall’omonimo dramma di Giacometti), le stesse azioni e le stesse emozioni vissute sul set. In una pagina di parole in libertà dedicate da Cangiullo a Francesca Bertini, del 1916, il cinema addirittura dissolve la realtà fisica dell’attrice famosa, ridotta pura ombra o spettro che incombe dalle enormi affiches. Manichini senza vita si incontravano già nella Notte, la prosa d’apertura dei Canti orfici di Campana: nel baraccone cinematografico di una fiera di provincia lo schermo restituisce, scarnificato, «il panorama scheletrico del mondo», e figure di «morti bizzarri» in «pose legnose», riverberando sugli spettatori allucinate valenze mortuarie. Dal 1918 l’editoria cinematografica si arricchisce di titoli: manuali teoricopratici per attori e soggettisti, studi sul «teatro muto» e sull’«arte silenziosa», profili di dive, raccolte di scritti critici, repertori giuridici, rassegne e annali dell’industria cinematografica. Ma già da alcuni anni il lavoro cinematografico alimenta una peculiare produzione editoriale con la stampa dei “libretti” dei maggiori film, opuscoli elegantemente illustrati con incisioni e foto di scena, distribuiti a scopo promozionale o venduti nelle sale, contenenti la trama del film, i testi delle didascalie o componimenti variamente ispirati alle vicende dello schermo. Si cominciano anche a pubblicare alcune sceneggiature, cui si riconosce dignità di testo letterario sui generis, a prescindere dalla loro realizzazione cinematografica (si occupa di questo nuovo genere Prezzolini nel 1921, nell’ultimo suo articolo qui riproposto). Nel novembre del 1920 nasce il quindicinale «Il Romanzo Film», diretto da Lucio D’Ambra, rivista espressamente dedicata alla pubblicazione di romanzi tratti da film ridotti in forma narrativa. Ogni numero contiene un «romanzo cinematografico» (compaiono testi dello stesso D’Ambra e di Amleto Palermi, Luciano Doria, Enrico Roma, Mario Camerini, Augusto Genina, Ugo Falena e altri), con foto di scena e ritratti degli interpreti, un’introduzione curata dall’attrice o dall’attore protagonista e rubriche di notizie e pettegolezzi sul mondo dello schermo. Nel 1922 vi si affianca, con propositi simili, «Al cinemà»: sono i primi periodici italiani di fictionized stories, già diffusi in America e in Europa. In Francia la collana dei «Romans du Cinéma» (affiancata poi dalla «Cinéma Bibliothèque» e dalla «Société d’éditions cinématographiques») pubblicava già in volume romanzi desunti dai film di successo. E sull’interazione tra schermo e pagina si fondava il successo dei serial polizieschi e avventurosi, i film a episodi di tradizione francese e americana (Arsenio Lupin, Fantomas, I misteri di New York...), presto prodotti anche in Italia, dove dal ’16 conoscono fortuna crescente (fra le serie più celebri, I topi grigi di Emilio Ghione). Ogni episodio era proiettato sullo schermo e contemporaneamente pubblicato in appendice su un quotidiano cittadino, o venduto in fascicoli illustrati, in edicola o negli stessi cinema. Romanzo popolare e film si rivolgono allo stesso pubblico e finiscono per sfruttare gli stessi canali. Anche i classici della letteratura rimessi in auge dal
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passaggio sullo schermo (come il Quo vadis? di Sienkiewicz nel 1913, o i Promessi sposi) sono ristampati in edizioni illustrate con i fotogrammi del film. 6. Con la profonda crisi in cui precipita l’industria cinematografica nazionale all’inizio degli anni Venti, i letterati italiani si ritirano da un’attività non più proficua. Non tutti, certo: Pirandello sviluppa adesso il suo interesse per lo schermo attraverso contatti con le avanguardie francesi e tedesche, e progetta all’estero la riduzione cinematografica delle sue opere. Diminuisce l’attenzione degli organi di stampa, non più stimolati dall’imponente giro economico alimentato dal cinema. Ma non diminuisce il favore del pubblico, anche se rivolto adesso in massima parte agli eroi dei film americani. Tra gli ultimi interventi antologizzati, l’articolo di De Pisis registra l’allontanamento del gusto dagli stereotipi stancamente riproposti dal cinema nostrano: è l’involontario senso del ridicolo il valore primario ancorché inconscio della cinematografia nazionale (Il ridicolo nel cinematografo, 1922). Nello stesso anno, Massimo Bontempelli intona il deprofundis: il cinema non ha saputo trovare un proprio campo di applicazione artistica, e solo pasce stancanente una folla «brutalmente incapace di ogni movimento di fantasia». Mentre la Rivista del cinematografo curata da Savinio per «Galleria» nel 1924, con cui il nostro volume termina, se sancisce la fine di un’epoca, apre anche prospettive nuove: il cinema, non riproduzione della realtà ma suo «riflesso lontano e mnemonico», è affine al sogno, «terribile svelatore di secreti, incosciente e però crudelissimo»; «Una mitologia in atto […]. Questa è appunto la magia del cinematografo». Diversi sono negli anni Venti i temi all’attenzione di letterati e scrittori, che prendono parte attiva al dibattito: l’affermazione del cinema americano sui nostri schermi; le sperimentazioni d’avanguardia, all’estero; l’infatuazione per Charlot; poi i tentativi di rinascita del cinema nazionale in epoca fascista; fino al dibattito sull’identità del cinema di nuovo acceso dall’avvento del sonoro. Ma questa è materia per un altro libro. Irene Gambacorti Nota ai testi Il volume raccoglie 28 brani letterari (pagine di romanzi, racconti, brani di commedie, poesie) e 50 scritti giornalistici sul cinema (articoli, saggi, interviste, inchieste, pubblicati su quotidiani e riviste), comparsi in Italia tra il 1905 e il 1924. I testi sono normalmente trascritti dalla prima edizione in volume, rivista o giornale; si è comunque preferito per alcuni testi letterari la prima edizione in volume rispetto alla prima comparsa su periodico, quando il testo in volume, pubblicato a breve distanza di tempo, presentasse limitate correzioni tese a migliorarne la forma.
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introduzione. Cinema, letteratura, editoria
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La nota in calce a ciascun testo dà conto della sua prima edizione, delle successive nuove pubblicazioni d’epoca, e delle eventuali edizioni moderne di riferimento; indica da quale edizione si cita il testo; fornisce, per i brani letterari, ulteriori informazioni sull’autore (quando poco noto) e sulle sue relazioni con l’ambiente cinematografico; offre un breve sunto della trama, in caso di antologizzazione parziale; o altri elementi comunque utili alla comprensione del contenuto. La trascrizione rispetta le caratteristiche grafiche dell’originale, ma si uniformano accenti e apostrofi all’uso corrente, si sostituisce la h all’accento nelle forme del presente indicativo del verbo avere (ò > ho) e si correggono alcuni evidenti refusi.
Nel congedarmi da questo lavoro desidero ringraziare Gino Tellini, che fin dagli inizi ne ha seguito la troppo lunga storia; insieme a lui, Anna Nozzoli e Simone Magherini, che lo hanno accolto nella nuova collana «Studi e testi» della Società Editrice Fiorentina; infine mia sorella Chiara, per il paziente aiuto fornito per la trascrizione dei testi.
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parte prima
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PAGINE LETTERARIE
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LO SCHERMO E IL PUBBLICO
Luigia Cortesi
Al cinematografo*
Il campanello elettrico squillò; il maestro di musica entrò nella sala, sedé al pianoforte e principiò a suonare un waltzer. Erano già tre mesi che aveva avuto quel posto al cinematografo e tutti i giorni ripeteva per ore ed ore lo stesso waltzer, gli stessi pezzi di musica, mentre innanzi a lui si muovevano sulla tela le medesime scene. Il programma aveva avuto successo ed era gran tempo che non si cambiava più. Durante la rappresentazione la sala rimaneva al buio; una sola lampadina elettrica, velata da un globo viola scuro, illuminava la carta da musica, ed illuminava la fronte del maestro di un tetro colore di cimitero. Nessuno si occupava di lui. Le persone che si trovavano nella sala erano intente allo spettacolo, solo qualcuna, vedendolo entrare, notava un uomo alto, di una cinquantina d’anni, con le spalle molto curve e con la testa piegata. Nel breve tragitto, quando sedeva al pianoforte, quando provava il primo accordo, quel capo si sollevava improvvisamente con un vigore giovanile. Si sarebbe potuto vedere negli occhi, come un lampo, come se afferrassero il miraggio luminoso di un sogno… poi subito la testa si piegava e rimaneva curva, pallida, consunta, con gli occhi dallo sguardo spento attraverso le lenti degli occhiali. Se l’avessero osservato, avrebbero visto che di tanto in tanto sotto il riflesso violaceo, la testa si sollevava ancora e ricadeva sul petto con una pesantezza piena di sconforto… e l’eterno waltzer ripetuto centinaia di volte, e gli eterni brani di musica, sempre i medesimi, sembravano trasformarsi sotto le sue mani ed acquistare suoni nuovi… *
Luigia Cortesi, Al cinematografo, in «La Rassegna Nazionale», xxvii, vol. 142, 1o aprile 1905, pp. 444-447. Scarse le notizie sull’autrice, che collabora con la fiorentina «Rassegna Nazionale» con racconti e romanzi poi editi in volume (Verso la gloria, Milano, Cogliati, 1904; Diana Vannelli, Milano, Cogliati, 1906), e lavora forse successivamente per il cinema (nel 1917 figura soggettista del film L’uomo in frak, regia e sceneggiatura di Nino Oxilia per la Cines).
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Luigia Cortesi
Innanzi a lui passava venti volte al giorno, una storia di piccole mousmés1, a colori. Tutti i giorni vedeva la stessa pagoda variopinta, le stesse cinque donnine dagli occhi oblunghi e dalle chiome di viola, ridere prendendo il thè. Ce n’era una vestita di rosa che sembrava ogni volta guardarlo, schiudendo la piccola bocca di corallo ad un sorriso maligno. Poi seguiva sempre la stessa storia, gli stessi rapimenti, gli stessi ostacoli, ed il trionfo della mousmé vestita di rosa che ritrovava il suo innamorato che veniva a salvarla dopo pericoli inverosimili. Lo spettacolo durava trentacinque minuti, ed il maestro lo dimenticava completamente. Suonava meccanicamente, ma nel chiarore violaceo, come richiamato dai suoni del pianoforte, il passato ed il presente si congiungevano insieme. Nel silenzio non era più la storia delle piccole mousmés variopinte, con le loro fantastiche avventure che gli passavano d’innanzi, ma la storia del suo passato dove non c’era nulla di fantastico, nulla di lieto… Erano ricordi che gli facevano di tanto in tanto sollevare la testa, brillare la pupilla… e poi… il povero maestro girava intorno lo sguardo, si sarebbe detto che avesse coscienza della realtà e la testa ricadeva sul petto. Era una morte morale che provava ogni volta quando pensava a ciò che un giorno aveva sorriso nella sua vita e a ciò che adesso non sorrideva più. Alle volte dopo il primo waltzer, c’era qualcheduno che applaudiva. Era uno scherzo, e nessuno notava quale sguardo doloroso si accendesse dietro le lenti degli occhiali, e che espressione disfatta prendesse il viso del maestro… ma la sala diveniva buia, lo spettacolo cominciava. Ecco le cinque piccole mousmés civettine nelle mosse e nei sorrisi… e le sue mani correvano incoscientemente sulla tastiera, mentre la strana fantasia dei ricordi l’avvolgeva. Il piccolo, il meschino applauso che sapeva d’ironia e di scherno, gli aveva scosso ogni fibra… e ricordava… Quanti anni erano passati!!!… Quanti!… ma un giorno lontano che fremito d’avvenire e di gloria aveva scosso tutte le sue vene!… Il passato?!… Nel buio, al suono della musica, come compariva luminoso davanti a lui!… Ed allora la testa si sollevava… oh! ai suoi tempi, era stato un grande artista anche lui, aveva sentite tutte le lotte e l’angoscie dell’arte, e la sua grande opera era stata scritta lottando cogli stenti, con la miseria, arrabattandosi nella piccola pensione paterna. Era una musica nella quale l’anima sua si era tutta versata. Tutte le sensazioni più fine che aveva provato, le aveva trasfuse nella sua opera d’arte. Poiché l’ebbe finita, sentì che aveva dato al suo lavoro, tutta la parte più intensa della vita sua, tutto il fiore della sua giovinezza, tutto lo splendore dei suoi ideali… e sognò di farla eseguire. 1
Il termine francese mousmé (o musmé, o mousmée; anche italianizzato musmè), adattamento dal giapponese musume (“fanciulla”, “figlia”), diffuso in Francia nella seconda metà dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, indicava una giovane ragazza giapponese, ma passò popolarmente a indicare anche una ragazza leggera o un’amante.
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Al cinematografo
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Povero, oscuro, aveva pochi amici e non conosceva relazioni potenti. Eppure cercò di conoscere, di parlare, lavorò anni ed anni per la realizzazione del suo ideale. Quante umiliazioni dové subire! quanta miseria con il piccolo guadagno delle lezioni di pianoforte, e quanta diffidenza da parte dei maestri già arrivati, che ascoltavano la sua musica con un tenue sorriso di compassione!… Innanzi a lui sulla tela due ufficiali tartari s’innamoravano della mousmé vestita di rosa e la rapivano malgrado le sue proteste… Senza veder nulla il maestro ricordava… Il giorno arrivò… Arrivò il giorno che la sua opera sarebbe stata data, meschinamente sì, in un piccolo teatro, con cattivi cantanti, ma sarebbe stata data a Roma. Era la piccola eredità paterna che sagrificava al suo sogno; il meschino lascito di cinque mila lire, frutto di lunghe economie di un povero organista di provincia… e l’opera fu data. Le mani correvano sulla tastiera, le mousmés passavano sulla tela e china la testa sul petto, il maestro ricordava… Che serata fu mai quella!… Tutto aveva sacrificato al suo ideale. Tutto… fino l’amore di una fanciulla!… La sua anima di artista si era cullata nella carezza di una dolce speranza, ma impose silenzio alla musica del suo cuore per il suo sogno d’arte. E come fu salutata dal pubblico la sua grande opera?… I cantanti stonarono, l’orchestra fu trascurata… centinaia di persone andate lì per demolirlo, fischiarono, urlarono, risero tanto che al secondo atto fu calata la tela… I pochi amici tentarono un applauso, un piccolo e meschino applauso che fra quell’uragano pareva come un riso, uno scherno, come il piccolo applauso di pochi minuti prima… I fantastici pericoli della piccola mousmé seguitavano a passare sulla tela; dopo il rapimento degli ufficiali tartari, un ufficiale americano innamorato di lei la cercava dovunque; ed il maestro col capo sempre chino ricordava… e la musica sembrava cambiarsi e vibrare sotto il tocco delle sue mani… Scappò fra le quinte, uscì per una porticina segreta… Oh! la sua fuga di notte!… Solo!… Erano crollate tutte le sue speranze; spezzato il suo avvenire!… Che fischi!… Ancora gli risuonavano negli orecchi e sopra di lui sembravano ridere le stelle in un cielo azzurro di fredda notte d’inverno… La sua musica non l’avevano capita, l’originalità delle sue sensazioni non l’avevano intuite e la povera opera frutto delle sue fatiche, sangue del suo sangue era stata calpestata al suolo!… La piccola mousmé è rinchiusa dagli ufficiali tartari in una casina di legno alla quale danno fuoco… Che atti disperati, sempre gli stessi, che fa quella bimba giapponese la cui piccola bocca non riesce ad avere un sorriso meno maligno, ed il maestro ricordava… Ricordava la sua fuga dalla capitale, il suo abbattimento morale, il suo sconforto… la sensazione della disperazione che l’aveva spinto quasi al suicidio… Il mondo non l’aveva capito, ed allora desiderò di essere dimenticato… Diventò un povero organista di paese com’era stato il padre… sposò una contadina, e visse triste, avvilito nel suo silenzio e nel suo dolore… e poi… gli anni passaro-
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Luigia Cortesi
no, gli morì una bambina di pochi anni… morì la moglie, ed il desiderio della capitale dove aveva tanto lavorato, tanto vissuto e sofferto, l’assalse di nuovo e ritornò… Ritornò povero, oscuro, dimenticato com’era sempre stato ed ottenne quel posto a condizioni irrisorie. Per tre mesi lo stesso waltzer, gli stessi pezzi di musica, lo stesso programma delle piccole mousmés. Chi l’aveva riconosciuto? Nessuno!… Chi badava a lui? Nessuno!… Chi lo notava? Nessuno!… Suonava tutto il giorno nella luce funerea della lampadina elettrica, mutato, irriconoscibile… dal giorno che un sogno di gloria aveva arriso al suo cuore… suonava… Alle volte gli pareva che i suoni del pianoforte rispondessero come in un singhiozzo sommesso al dolore dell’animo suo… Non evocavano quei suoni mai un sorriso, mai un ricordo sereno, mai!… L’ufficiale americano trionfante, salvava la mousmé dall’incendio e la riconduceva fra le sue compagne esultanti e baciava la piccola bocca maligna… Lo spettacolo era finito. La luce empiva di nuovo la sala, la gente usciva via via… ed il maestro si alzava, rimanendo sempre un po’ curvo, con gli occhi umidi come di lagrime dietro le lenti degli occhiali e spariva come un’ombra bruna e silenziosa.
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Gualtiero Fabbri
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Al cinematografo. novella*
[…] – Ah! un Cinematografo!… E se entrassi?… Ma a che prò?… Roba da ragazzi, niente altro. Così parlo a sé stesso Gastone Fedi. Ma, quasi che la realtà volesse dargli una smentita, proprio in quel punto, un vecchio signore, «bianco per antico pelo», e rispettabilissimo in tutto il suo maintien, oltre possedere un viso rimarchevole per nobile quiete e non comune regolarità di tratti, e con a braccio una matrona di molto più giovane, ma pur sempre matrona: età media, voglio dire, tra quella della Perpetua del fin troppo famoso Don Abbondio e l’altra della rispettabile governess della Margherita faustiana, entrò, e bravamente, cioè col passo sicuro di chi sa il fatto suo, nell’indicato Cinematografo. – Già! roba da ragazzi e da vecchi rimbambiti!… – chiosò, per rimediare alla deficienza o negazione del primo asserto, il pensiero di Gastone Fedi. Vedendo poi una corrente di gente minuta staccarsi dalla pesantezza caliginosa del nebbione esterno per penetrare nella blanda luce elettrico-lunare e punto rarefatta dell’ambiente cinematografico soggiunse: – Roba da popolino ancora. In quel punto gli passò accanto, e quasi lo urtò, una splendida giovinetta, *
Gualtiero Fabbri, Al cinematografo. Novella, Milano, Tonini, 1907; si cita dall’edizione curata da Sergio Raffaelli, Roma, Associazione italiana per le ricerche di storia del cinema, 1993, pp. 12-14, 16-29 (brani dai capp. i, iv-vii), da cui si ricavano anche le notizie sui film ricordati, poste in nota. Gualtiero Ildebrando Fabbri (1861-1929) è fra i pionieri della stampa cinematografica in Italia, come redattore-capo della milanese «Rivista fono-cinematografica, e poi come fondatore e direttore del quindicinale milanese «La Cinematografia italiana ed estera». Con la novella Al cinematografo vinse nel 1907 un concorso bandito da Pietro Tonini, proprietario del Cinematografo Marconi di Milano, per un racconto di argomento cinematografico da distribuire al pubblico del locale. Il volumetto fu distribuito gratuitamente anche in molte altre sale ed ebbe una diffusione straordinaria, raggiungendo le 40.000 copie. Vi si narra di un giovane intellettuale annoiato, Gastone Fedi, che entra una sera per curiosità in un cinema, nonostante l’avversione pregiudiziale verso il nuovo genere di spettacolo. Qui conosce una bella e brava ragazza, abituale cliente della sala insieme alla sua famiglia. Nell’arco di tre serate trascorse in quel locale, Gastone diventa convinto assertore del cinema, amico della famiglia e fidanzato della ragazza, da lui difesa contro le audaci avances di giovinastri malintenzionati. La storia è un semplice pretesto per parlare del cinema: se ne illustrano gli aspetti tecnici ed economici, se ne esalta il valore educativo per le classi umili, si descrive il comportamento del pubblico, e soprattutto si raccontano con ricchezza di particolari le pellicole proiettate (veri cortometraggi d’epoca, in prevalenza prodotti delle case francesi Pathé o Gaumont; ma anche il primo film a soggetto prodotto in Italia, La presa di Roma di Filoteo Alberini, del 1905).
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Gualtiero Fabbri
bionda come un raggio di sole, e dagli occhi azzurri vieppiù luminosamente sereni sotto la opalina luce elettrica. Le era accanto, promessa larga di un avvenire fiorentissimo, un garzoncello bruno, quindicenne, seguito da una servotta tarchiata sì e rosea tanto da parere uscita là per là e tutta viva e polputa, nonché sorridente, da un autentico quadro di Rubens. – Facciamo presto, Arturo…, Cosima…; i nonni sono già a posto… – Oh! c’è tempo!… – dichiarò il ragazzo. – Ed io perdo il fiato… a correre così!… scoppio nel busto… – bofonchiò la servotta rubensiana. Ma gli occhi e la voce della fanciulla risposero dolcemente: – Fa il tuo comodo, tu; noi andiamo, intanto. – Che fiore!… – sospirò Gastone Fedi, e meditò: – Se entrassi anch’io?… Ma era sempre irresoluto. – Roba da ragazzi e da vecchi, – ripeteva a sé stesso, – o, se da giovani, da giovani inesperti, che si contentano di poco. Del resto, la gran massa è costituita dal popolino, che è di tutte le età, e che beve grosso. Ma, quasi la realtà volesse, sin d’allora, dargli una smentita, una voce stentorea, che partiva da un bell’uomo con un’elegante divisa, gridò, stando in piena luce sul limitare del Cinematografo: – Signori, entrino, di grazia! Vedranno l’esatta riproduzione del Venti settembre, ossia la Presa di Roma1, la più bella pagina della storia patria. Verrà quindi l’emozionante fatto dal titolo: Il buon giudice2. Poi assisteranno alla tremenda scena sociale dello Sciopero3, e per ultimo Le avventure di un pompiere4, che proprio fanno smascellare dalle risa. Favoriscano, signori!… Comincia subito. Ce n’è per tutti i gusti. – Uhm! la cosa promette qualche interesse… Via, oramai ci siamo!… Difatti una nuova ondata di popolo misto aveva, di sano colpo, reso avvenimento compiuto la già quasi decisione di Gastone Fedi: si trovò sospinto, o meglio trascinato dentro l’antisala – chiamiamola così – del Cinematografo. Gli convenne di pagare allora il suo biglietto, e dopo, a suo agio, ché la rappresentazione, se così può chiamarsi, non era ancora incominciata, poté esaminare l’ambiente in cui si trovava. Era vario d’assai all’invero. Da una parte una coppia di provinciali, evidentemente innamorata, e forse anche di sposi recenti, venuta in tale caso a passare la luna di miele in città, e che per certo si trovava lì senza sapere cosa avrebbe veduto. 1
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La Presa di Roma, regia di Filoteo Alberini, casa di produzione Alberini e Santoni, Italia 1905, è il primo film di fiction prodotto in Italia, dove si erano girate fino ad allora solo pellicole di carattere documentario. Il buon giudice, titolo originale Le bon juge, casa di produzione Pathé, Francia 1906. Lo sciopero, titolo originale La grève, regia di Ferdinand Zecca, casa di produzione Pathé, Francia 1904. Le avventure di un pompiere, titolo originale Tribulations d’un pompier, casa di produzione Pathé, Francia 1906.
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Al cinematografo. novella
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Dall’altra parte un ragazzaccio, alle spalle di un amico, si divertiva mezzo mondo a fargli cadere il cappello. Chinandosi poscia sino alle ginocchia della vittima, non è a dire come facesse restar questa, che punto così non riusciva a scoprire l’autore del maledetto tiro. Più su una signora consumava occhi, fiato e carezze a calmare due amori di bimbi, che, ad ogni costo, volevano vedere subito subito lo spettacolo. All’opposto lato un Cicerone, con frasi da lui credute in buona fede scelte, ma che erano l’opposto, in mezzo ad un circolo di persone, animatamente descriveva la scena del primo quadro, perché lui, il bravo uomo, l’aveva già vista il giorno innanzi. A breve distanza un semi-ubbriaco solitario rivolgeva alla propria pipa un’enfatica e non so quanto autentica narrazione di certe prodezze garibaldine; più in giù un signore «in falda e collo stajo», per dirla alla Carducci, spiegava, con terso dire, le maraviglie della Cinematografia ad un operaio dabbene, sgranante però un par d’occhi punto illuminato dal vivo raggio della comprensione. Alle terga del signore e dell’operaio, due agghindate giovanette, belloccie anzichenò, occhieggiavano, con incoraggiante sorriso, un impiegato del Cinematografo, nella dolce speranza che desso, come primo passo, fornisse loro un buon posto. Il tutto poi costituiva un insieme così vario, così nuovo, così multiforme che lo stesso Gastone non sapeva se si trovasse tra l’alto, il medio, o il basso ceto; tra tutti quanti, dico io. […] – Signori, s’incomincia!… Biglietti in mano… Entrino adagio e senza spingere. Questo l’avvertimento del bigliettaio, pronunciato colla solita voce stentorea, e fa girare tutte le teste e il passo ancora a quella volta […]. Era la sala di prescrizione: tappezzata tutta di rosso, con lampadari, che si potevano spegnere e accendere a volontà col semplice premere di un apposito bottone; del resto una lucerna era disposta alla porta d’uscita, di maniera che, avvenendo una interruzione qualsiasi, per una qualunque causa, della luce elettrica, al buio folto si poteva di subito rimediare. Delle pesanti cortine seriche mascheravano i due ingressi, questi così larghi e di tanto facile apertura e chiusura da permettere, in pochi momenti, sì di empire che di vuotare l’ambiente. Una doppia fila di poltroncine correva da una estremità all’altra del locale, lasciando nel mezzo un comodo passaggio. Le poltroncine, dalla parte dell’ingresso, erano più elevate delle altre, e costituivano i primi posti; nello sfondo un grande quadro, formato da una ben tesa tela di calicot e da una bellissima cornice. Di fronte, dall’altra parte, ed in alto, la cabina dell’operatore. Tutti hanno preso posto, con un silenzio quasi solenne. Il vecchio signore rispettabile, un professore, come si saprà poi, si colloca, colla sua signora, i nipoti e la serva, nella penultima fila di poltroncine. Dietro, e precisamente alle spalle della serva, si mette il Giuliano, punto apostata, ma assai libertino5. Diagonalmente, in un canto, in piedi dopo l’ultima fila, in maniera da 5
Si tratta di un ex compagno di scuola di Gastone incontrato al momento di entrare in sala, che si è seduto alle spalle della ragazza e della servetta con intenzioni “libertine”.
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Gualtiero Fabbri
poter dominare il tutto e scorgere la faccia e le mosse di ognuno, Gastone Fedi. Il resto della sala affollatissima di gente di ogni posizione sociale, età e sesso. Difatti c’è il signore col cappello a cilindro e lo stifelius6, ma non più a latere dell’operaio, il quale è, al presente, nei secondi posti, e guarda con occhi che ritengono un po’ della vecchia imbambolatura, più il raggio di un’ansiosa aspettazione. Il signore in discorso è invece accanto alla dama dai bimbi un tempo irrequieti, ma ora zitti come l’olio e con certi occhioni che fanno da senno una gran concorrenza, nella loro ansia, con quelli dell’operaio di cui sopra. Le due giovinette agghindate non sono riuscite, malgrado gli sguardi ed i sorrisi, ad intenerire quel cuore di macigno dell’impiegato cinematografico (eh sì! bada al suo dovere, lui!…); e però sono, poverine, modestamente nei secondi posti, colle labbra serrate, le pupille dimesse, e… aspettano. Il Cicerone improvvisato, adesso che lo spettacolo sta per incominciare, ha perduto naturalmente l’impiego avventizio, e di conseguenza la parlantina: mogio mogio raccoglie le ginocchia tra le braccia e tutto ingobbito in una quasi sonnolenza d’uomo che sa a fondo di che si tratta, e che, appunto per ciò, volentieri sarebbe pronto a schiacciare un bravo sonnellino. Coloro, che formavano il suo uditorio, lo hanno, colla più nera delle ingratitudini, abbandonato, e si sono dispersi qua e colà, secondo il lor talento e la possanza del borsellino. L’uomo, che teneva quella tale eroica concione alla propria pipa spenta, tace ora, ma ha tutta l’aria di un Fabio Massimo nell’attesa di chi sa quali mirabolanti avvenimenti, mai però all’altezza della sua garibaldina fantasia. E il ragazzaccio, quello che giuocava dei tiri birboni al compagno?… Non dubitate: egli è là, col suo dabbene Pilade accanto, ma ha procreati tanti e tanti Sosia, voglio dire un due serque di pari suoi, che si agitano, vociferano, pestano i piedi, si scambiano cento puerili sberleffi; ma pur castigano il frasario, né fanno atti sconci. Così pure degli artigiani e alcuni del popolo bottegaio si lanciano qualche frizzo, ma scarsamente mordace, anzi innocuo affatto, e punto lubrico o scurrile. Una tra le tante virtù dell’ambiente cinematografico si è, appunto, di sopprimere il turpiloquio, l’intercalare triviale ed il gesto osceno in chi abitualmente vi si abbandona; e si capisce: il contatto prossimo e alquanto prolungato con persone educate, sì di medio che di alto ceto, e di sesso prevalentemente gentile, impone e opera la moderazione e la convenienza, tanto nelle parole come negli atti. Ma dimenticava gli amanti, o sposi che fossero!… Via, fra breve faranno parlare di loro, povere anime in ardore!… Improvvisamente, non so per quale collettivo impulso, si fa un sepolcrale silenzio, poi un gran buio: il bottone elettrico, che toglie la luce, ha funzionato. E sul gran quadro, nel vasto campo della tela di calicot, appare vivamente illuminata dal projettore della cabina, e a lettere cubitali rossiccie, la scritta seguente: La Presa di Roma. Poi la scritta scompare, e, al suo posto, emerge nitidissimamente, con una grande vivezza di realtà, e con punto o pochi tremolii, la marziale figura del gene6
Redingote maschile.
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Al cinematografo. novella
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rale Carchidio, conte di Malavolta, quegli che, il 18 settembre 1870, è stato inviato dal generale Cadorna agli avamposti. Accanto gli è l’ufficiale di Stato maggiore pontificio, Carlo Bartolini, e il tenente dei dragoni Cesare Visconti. A tal punto il Carchidio, come già è stato fatto ad un suo predecessore, il colonnello Caccialupi, viene bendato, e, in carrozza chiusa, scortata da dragoni, condotto al Ministero delle Armi, in Piazza della Pilotta. Questo il primo quadro, sparito il quale, fattasi la luce, e poi tornate le tenebre, risuonano due strilli acutissimi… Potenza in terra!… è quel birbone di ragazzaccio, il solito, che, alla chetichella, approfittando del bujo, è sgattajolato tra i sedili, ed è andato a pizzicare, senz’altro e senza intermittenza, il fondo della vita ad ambidue le ragazze agghindate; poi via, alla sordina, come se nulla fosse. Per fortuna le due fanciulle sono, a quello che pare, avvezze ai pizzicotti; così, meno il doppio strillo, la cosa non ha conseguenza; e il quadro secondo si annuncia colla campeggiante scritta: Il generale Carchidio e il generale Kanzler al Ministero delle Armi. Infatti, svanita, di lì a poco, la scritta, risalta vivamente la tipica figura del generale Ermanno Kanzler, proministro delle Armi e capo dell’armata pontificia. Egli riceve convenevolmente, nel suo gabinetto di lavoro, il generale Carchidio; ma respinge l’ultimatum presentatogli a nome del Cadorna, e, ostinato nel volere opporre una tenace resistenza alle truppe assedianti, congeda il parlamentario italiano con la frase famosa, più volte ripetuta con vibrato gesto: – Niente resa!… Altra luce, altra tenebra, e stavolta senza inconvenienti…; ma… un momento!… l’inconveniente, uno solo, c’è pur troppo, e lo si vede subito al comparire della luce: sono i due provinciali, amanti o sposi che siano, che hanno approfittato dell’oscurità per baciarsi; e – beati loro! – si sono baciati così a lungo e così intensamente, cogli occhi chiusi e con tanta voluttà reciproca, che, dimentichi di tutti e di tutto, e sempre colle pupille serrate, continuano a baciarsi in piena luce. – Oh! oh!… – si grida da ogni parte, più qualche fischio sonoro; e gli sposi (chiamiamoli così) ad aprire finalmente gli occhi, e a capire, arrossendo sino allo scarlatto, di averla fatta grossa veramente. Ma il pubblico è di manica larga, e così la cinematografia si svolge… Ed è meravigliosa tanto che un mormorìo di ammirazione sfugge da ogni petto: È l’Alba del Venti Settembre al campo dei bersaglieri. Ecco la livida aurora, ecco la brigata Modena accampata nella villa Bonacci, sulla Nomentana, ed ecco il XII battaglione bersaglieri, che ne è parte, ancora tutto immerso nel sonno. Ad un tratto il trombettiere squilla l’allarmi: tutti i militi sorgono in piedi, e si vedono levare il campo. Essi comprendono che l’ora della battaglia è imminente, e al grido di Viva l’Italia!… Viva Roma!… si slanciano all’assalto. A questo punto la commozione del pubblico, che assiste, è estrema. Un applauso prorompe spontaneo dal petto di ognuno. Gastone Fedi mormora convinto: – Perdiana!… questo è spettacolo patriottico, moralissimo, educatore per eccellenza. – Solo Giuliano, il libertino, non l’apostata, dietro la servotta, anzi soffiandole l’alito caldo e fumoso di tabacco e cognac sulla nuca, ghigna, ghigna,
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Gualtiero Fabbri
ghigna, mentre il suo grosso volto lentiginoso e dalla barbetta caprina ha tutti i caratteri somatici del fauno soddisfatto. Cessato l’applauso, tornato il silenzio, e fattosi il buio, la scritta fiammeggiante riappare: L’ultima cannonata. E, subito, dopo, si [sic]: la batteria di villa Albani, comandata dal ferreo ed eroico Luigi Pelloux, è quella che apre la breccia nelle mura di Porta Pia. Ed il quadro rappresenta appunto, con una successione mirabile ed una vivezza affascinante, rappresenta uno dei pezzi d’artiglieria che spara l’estrema cannonata. Subito dopo appare, segno di resa, sulla croce della cupola di S. Pietro, la bandiera bianca. Altro applauso, commozione viva in tutti. Anche Gastone Fedi ha il cuore palpitante; ma, all’improvviso un altro sentimento lo occupa. Ha visto Giuliano, l’ex suo compagno di scuola, curvarsi più che mai, col viso illuminato dall’erotico baleno della concupiscenza, sul collo della servotta, la quale, tutta rossa, si volge, ed emette anzi un piccol grido, che gli applausi, più che mai vivi, del pubblico soffocano. – Villano impudente!… – mormora Gastone Fedi, stringendo le pugna. Ma l’oscurità di nuovo incombe; di nuovo la luminosa forma delle lettere del quinto quadro si disegna sulla tesa superficie del calicot: L’assalto della breccia. Già! il XII battaglione dei bersaglieri, l’eroico, l’indimenticabile, al comando del valorosissimo maggiore Pagliari, si slancia coraggiosamente all’assalto della breccia, difesa dagli zuavi pontifici, e – orribile a dirsi – si vede lo stesso maggiore Pagliari, colpito dal piombo nemico, cadere esanime sotto le mura della città. – Povero eroe!… – esclama Gastone Fedi; ma quasi tosto, indignatissimo, prorompe: – Brutto satiro!… La frase ultima, manco a dirlo, è indirizzata a quell’ortodosso in foja di Giuliano. Egli sfiora, colle labbra polpacciute e paonazze di fauno impenitente, la nuca della servotta. La quale, ad un tratto, caccia un urlo, e si volta inviperita… Ma che!… Giuliano, svelto più d’una anguilla, ha abbandonato il posto, e quando la luce si fa, ecco: egli è tranquillissimo e con una faccia da santusse autentico dietro il vecchio signore rispettabile, il quale, sollecito, ed eziandio un tantinello turbato, chiede alla serva: – Cosima, benedetta, perché urlare?… E la benedetta, per quanto Cosima: – Ma… ma… padrone!… Sì, dietro di me c’era un coso… un signore, voglio dire… che… non teneva le mani a posto insomma… – Via!… te lo sei sognato… Cosima, guarda: dietro di te non vi è nessuno. – Eppure il coso… no, il signore… le sue mani… ho sentito, dico… – replica convinta, e sempre rossa meglio di un papavero, la benedetta Cosima. E Gastone Fedi non ha sentito, ma ha veduto, lui, e così si porta sollecito accanto all’intraprendente Giuliano, e chinandosi su di esso, che continua, curvo curvo, a fare lo gnorri, gli soffia minaccioso e truce nelle orecchie: – Giuliano, se t’azzardi a fare consimili manovre alla signorina qui accosto, in fede di galantuomo, ti levo di peso dalla poltrona, e ti caccio fuori!…
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L’altro non risponde, anzi sogghigna… Un sinistro sogghigno di tristo, il suo. Infrattanto il direttore del Cinematografo si è messo dietro le spalle di Gastone, e, subodorando in questi una futura pratica efficacissima, intavola secolui amichevole conversazione: – Ella, signore, non s’immagina quanto è costata l’esecuzione tecnica e pratica di questa cinematografia. La Società Cines di Roma di cui è fattura, – continuava il sullodato direttore, mentre Gastone Fedi, pur ascoltando, non mancava, colla coda dell’occhio, a tener in controllo tutte le mosse di quel certo Giuliano, – la Società Cines di Roma, dico, si è fatta tesoro dei più minuti particolari storici, desumendoli dai giornali, dalle cronache del tempo, e dal ricordo personale degli attori principali di questa sublime tragedia del patriottismo. L’attuale Ministero della Guerra ha gentilmente concorso, accordando fanteria, bersaglieri, cavalleria, artiglieria, uniformi ed armi. Nulla, insomma, è stato trascurato acciò questa ricostruzione storica riuscisse degna dell’eminente soggetto. Adesso, di grazia, presti la sua attenzione all’ultimo quadro… S’intitola Apoteosi, e difatti è. Sì, il sogno di Cavour, di Vittorio Emanuele II, di Garibaldi, di Mazzini si è avverato, gloriosamente. Ecco: la fulgida Stella sabauda irradia il Campidoglio e il Quirinale; e l’Italia, una, libera e indipendente, tributa ai suoi Grandi Fattori la palma della vittoria e il plauso del popolo, al quale la gloriosa data del Venti Settembre ha schiusa una novella e certa era di prosperità, di pace, di fratellanza. E il rappresentare, in ogni sua parte, il memorabile fatto è opera del tutto degna del Cinematografo, la più alta delle scoperte odierne. Non è egli vero, signore?… Gastone. – Sì, sì… ma purché… (tra sé) purché quel sudicione lì continui a tenere le mani a posto… Il direttore. – Non ne sarebbe forse convinto?… voglio dire non crede forse che gli spettacoli che si vedono al Cinematografo, non tutti però, i più, intendo, siano di incremento allo sviluppo morale del popolo, educativi in sommo grado per i fanciulli, e di vantaggio a tutti?… Si era fatta intanto la luce, perché un intervallo tra una riproduzione e l’altra correva; ed il vecchio rispettabile, che aveva udito quello che il direttore del Cinematografo aveva detto, si voltava benevolo e benevolmente diceva: – Ha ragione!… perciò io e i miei, ed ella lo sa e vede, veniamo spesso al Cinematografo. Gli spettacoli, che esso presenta, meriterebbero un concorso pari a quello di cui usufruiscono i teatri; e la loro esplicazione è efficace, e della stessa, se non maggiore, importanza del ballo, della commedia e della musica, che non sempre raggiungono l’intento che si propongono o che dovrebbero proporsi. E, a proposito di teatro, la classe operaia, ognun lo comprende, non può darsi il lusso di andarvi bene spesso, eziandio per lo spreco di un tempo sì necessario al riposo di chi s’affatica durante un giorno sano; ebbene, il Cinematografo, in venti minuti, al più in una mezz’ora, e con una spesa relativamente tenuissima, presenta e svolge un tre o quattro commedie, o d’ordine morale od esilarante, sanissimo sempre, di non fuggevole impressione, e spesso riformatore per eccellenza. Io so, a cagion d’esempio, di più d’uno che ha giurato di mutar vita, e ha mante-
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nuto il giuramento, almeno sino ad ora, dopo che ha assistito, al Cinematografo, ai tristi effetti che risultano da una esistenza debosciata o almeno anormale. Certo un giuocatore e un ubbriacone, vedendo cogli occhi proprii le funeste conseguenze del tappeto verde e dell’alcool, non possono non sentirsi turbati nella coscienza intima e trovare anche loro la propria via di Damasco, vale a dire il ravvedimento. Ho visto qui, in questa sala, più di un occhio fosco e truce illuminarsi e riempirsi di lagrime: certo era luce dell’alto e pianto di rigenerazione: una palingenesia improvvisa aveva mutata un’anima nera in candidissima. Ma a che valgono le parole, che sono femmine?… i fatti occorrono, maschi addirittura, e che tagliano la testa al toro. Ecco: in Valparaiso fu presa, da quel savio Municipio, la decisione di dare delle projezioni cinematografiche pubbliche, e ad ingresso libero, per la comune istruzione e l’educazione morale. Ebbene, là, sulla Piazza della Vittoria, dopo le allegre note della musica cittadina, un pubblico di oltre cinquemila persone, tutto raccolto, attento tutto, e nell’intimo dei precordi viemmeglio commosso, poté assistere al doloroso, verace, ma eziandio solennemente ammaestrativo spettacolo variato dei Drammi della miseria7 e della Fine dell’alcoolista8… Sentimentalismo di passata?… raggio minimo di sole, presto ottenebrato da sopravvenenti elevatissime e spesse brume opache?… No, mille volte no: colaggiù, dopo una settimana di siffatti spettacoli, si verificò che oltre una metà degli ubbriaconi, ed erano numerosissimi, non si era più lasciata trascinare dal maltalento, e ancora i delitti e quasi delitti, che il pauperismo produce, erano di assai diminuiti. Signore, le statistiche sono inesorabili nella loro aridità di cifre arabiche. Ancora: io mi so che il governo della Francia presente è sì consapevole della forza morale della molla cinematografica che ha stabilito vari ufficiali cinematografisti, adibendoli a speciali, e tutte delicatissime mansioni. Per conto mio, ripeto, preferisco, tutto considerato, il Cinematografo al teatro. Certe riproduzioni non mi stancherei mai di vederle: dal complesso discendo così ai particolari, dalla sintesi all’analisi, ed ogni volta scorgo ed ammiro cose nuove in un quadro più fiate riveduto. Infatti i più guardano all’insieme, o meglio ai personaggi principali, che sono due o tre, e non scorgono i secondari, che sempre sono di una realtà, di una esattezza, di una minuziosaggine così particolareggiata da sbalordire e trascinare all’applauso. E non sono il solo ad essere sottoposto a siffatto desiderio di rivedere il già contemplato: conosco un signore, un esteta, manco a dirlo, che, per rinnovellare le impressioni suscitategli da una certa cinematografia, non si peritò di correre dalla città natia a Milano, da Milano a Torino, e da Torino a Firenze: il vero Ebreo errante della Cinematografia. Del resto chi ha tempo non aspetti tempo: non approfittare di vedere un soggetto quando è annunciato, forse significa lasciarsi sfuggire l’unica occasione, poiché le pellicole deperiscono a vista d’occhio, molte abbruciano, e la produzione sempre nuova non permette, né consi7 8
Drammi della miseria, titolo originale Drame de la misère, casa di produzione Gaumont, Francia 1907. Fine dell’alcoolista, titolo originale L’alcool engendre la tubercolose, regia di Ferdinand Zecca, casa di produzione Pathé, Francia 1905.
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glia ai cinematografisti la ripresentazione di relativamente antiquati soggetti. Pazienti, non ho ancora finito. Il pubblico profano non comprende poi le difficoltà fotografiche, i trucchi, chiamiamoli così, che conviene porre in opera. Oh! chi prova l’onda di sensazione benefica alla vista di un bel panorama, riprodotto nei suoi più minimi particolari, ritorna a contemplarlo con entusiasmo novello. E la spesa per siffatta riproduzione?!… e la valentia di chi prende le istantanee?!… Oh se si sapesse!… Non è egli vero, signor direttore, che la sola riproduzione, quella che abbiam veduta, per esempio costa dalle cinquecento alle mille lire?… – Per una riproduzione cinquecento… mille lire?!… – esclamò la moglie rispettabile del dabbene signore, alzando le mani grassoccie al cielo. – Quanti libri si potrebbero comprare!… però anche il Cinematografo mi garba… – osservò, con fanciullesca prontezza, il bruno ragazzo promettente. E il direttore del Cinematografo: – Il signor professore ha detto la media del costo delle pellicole. Ve ne sono delle assai più care. Per esempio: La leggenda di Rip Van Vinckle9, il felice scopritore del tesoro di Hudson, colui che crede di avere dormito venti anni, ritenendosi vecchio, abbandonato ed evitato da tutti mentre è l’opposto, La leggenda di Rip, una pellicola lunga quattrocentocinque metri e in diciassette quadri, costa circa duemila lire. Né meno costosa è la proiezione I due soci Robert Macaire e Bertrand10. E questi prezzi s’intendono per le riproduzioni, poiché talvolta la prima pellicola originale, cioè il negativo, costa anche cinquanta mila lire. La signorina, nipote del professore, che sino allora non aveva parlato, non poté, a tal punto, frenarsi dal dire: – Ed io che credeva, sino ad ora, che le pellicole costassero una bagatella!… – e timidamente azzardava un’occhiata a Gastone, pur voltando la faccia angelica verso il direttore del Cinematografo. E il Fedi, alla sua volta, balenò il più vivido dei suoi sguardi, e volle il caso che la fanciulla lo guardasse di nuovo: due fluidi che si incontrarono, provocando nella donzella il più pudico, ma nel contempo il meglio intenso dei rossori, mentre Gastone, per conto suo, provava un ineffabile turbamento interno. E buttò là, tanto per dire qualche cosa anche lui, questa frase: – Davvero non avrei mai creduto che una pellicola costasse tanto!… – In cognac sarebbe danaro meglio speso, – bofonchiò una voce rozza: era quel tal Giuliano che così entrava in campo. Il vecchio rispettabile lo guardò a stracciasacco, ma non gli rispose, mentre il direttore del Cinematografo ripigliava: – Si figuri, signore, che certe pellicole danno, per il loro prezzo, dei seri gratta-
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La leggenda di Rip Van Winkle, titolo originale La légende de Rip van Winkle, casa di produzione Méliès, Francia 1905. I due soci Robert Macaire e Bertrand, titolo originale Robert Macaire et Bertrand. Les rois des cambrioleurs, casa di produzione Méliès, Francia 1906.
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capi a noi poveri cinematografisti. Ma silenzio… si rifà il bujo… se non erro si rappresenta Il buon giudice. Vedrà, signore… Infatti si è rinnovellata l’oscurità, ed in quella, sul gran rettangolo di tela, appare, nitidamente e con una squisitezza estrema di particolari, un gruppo di bimbetti: bimbetti laceri, scarni, tremanti di freddo, in pieno inverno. In casa non c’è legna, e c’è un ammalato, anzi una ammalata: la madre… la quale, sotto le grame coperte, trema per l’incombente algore. Che pensano allora quei derelitti?… Occorre che la mamma non abbia freddo, occorre!… Ah! il bosco è vicino… E il bosco è pieno di legna, lui… il bosco fornirà la legna… glie la si ruberà, al bosco… E via di corsa al bosco, tutti. Questo il primo quadro. Il secondo si svolge, appunto, nel bosco. Il quale dà il suo tributo di legna, non volontario però… Ecco la bimba, ecco i bimbi strappare, colle piccole mani intirizzite e rosse, i rami men grossi del bosco. Ma in esso non ci sono per niente i gendarmi, i terribili gendarmi, i babau autentici, e così quando i tre fasci di rami sono lì, a terra, belli e pronti per essere trasportati… quando, anzi, già gravitano sulle piccole spalle esili e mal coperte, ecco i gendarmi terribili, i fieri babau!… Scappano allora i garzoncelli e la bimba, colla legna, per loro preziosa, sul dorso, beninteso, e dietro, attraverso torrenti e fratte, i gendarmi… Breve: i fanciulli sono soprappresi e portati, colla personale refurtiva, davanti al signor delegato, altro babau per eccellenza. Ora è la volta dell’ultimo quadro. Ecco i piccoli delinquenti in ginocchio, cogli occhi piccoli pieni di lagrime, perorare la propria causa: la causa della loro povera mamma, dopo tutto: della mamma, che trema di freddo, sotto le grame coperte, nel misero letto, laggiù, nella vasta stanza ignuda. E il grosso babau, il delegato, fa la voce grossa, fa egualmente degli occhi grossi, pieni di grosse lacrime eziandio… Anche gli altri babau, i gendarmi tremendi, sono quasi commossi. Infine il delegato fa un gran gesto: novello giudice Magnaud assolve i piccoli colpevoli, e al più grande, sì, al più grande, offre anche uno scudo… per la mamma… e un bacio per lui, mentre il bravo uomo terribile, con un chilometro di fazzoletto, si asciuga gli occhi piangenti. I fanciulli fanno per uscire; gli altri babau, i gendarmi, sentono la necessità di imitare il loro superiore, e… una liretta per ciascuno, un bacio al più grande dei piccoli colpevoli: infine fervide strette di mano tra il babau superiore e gli inferiori… e la tela di calicot riappare, nella rinnovata luce, candidissima. La seconda parte del programma è esaurita. – Questa è una cosa che fa bene al cuore, moralissima, ed educativa in sommo grado, – dice commosso Gastone Fedi. – Per me, avrei dato di bei scapaccioni a quei ladruncoli… – grugnisce il solito Giuliano. Nessuno gli risponde, mentre la fanciulla bionda e gentile fa come il delegato, come i gendarmi: si terge dagli occhi belli delle lagrime che una sensibilità ben naturale, ben giustificata ha fatte scaturire.
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Anche Arturo, il bruno giovinetto promettente, ha le pupille lustre e umide, e così la servotta, la quale, inoltre, contrae la rorida bocca carnosa come chi, appunto, sta per piangere o trattiene il pianto con sforzo supremo. Del resto più di un fazzoletto è tra le mani del pubblico. La commozione, questa nobile cosa rigeneratrice e salvatrice, s’impone. Opera, stavolta, del Cinematografo. Ma, oramai, la terza parte del programma incombe. Le lettere luminose, che riappaiono nell’oscurità, dicono: Lo sciopero. È difatti questa potente ed inevitabile manifestazione del lavoro indefesso, e non giustamente ricompensato, contro le esigenze o la creduta legalità dell’industriale. Sono cose dolorose, anzi dolorosissime, e però taglio corto: nel primo e nel secondo quadro si riproducono delle scene di penosa convenzionalità voluta e di disdegnosa ripulsa, che talfiata, come nel caso odierno, apportano delle letali conseguenze: la commissione operaia, che porge umile, ma risoluta i desiderata all’industriale, che sprezzantemente, non li accoglie; il radunamento tumultuoso davanti all’opificio; gli operai decisi all’estremo; le donne, più decise ancora, anzi virulente affatto. Intervento della truppa: squilli di tromba, intimazioni di delegati, sassi che volano… A quel punto le cariche di cavalleria si succedono, con calpestati e feriti; ma non monta: gli scioperanti si riordinano, furibondi. Allora la fanteria, colle baionette inastate, si avanza, e… i sassi non interrompono la non sempre innocua trajettoria, sino a che… purtroppo!… all’estremo della pazienza, i soldati sparano… morti e feriti, e confusione suprema di strage imminente. Se non che l’industriale, pentito forse, o piuttosto atterrito, si presenta per impedire la ulteriore conflagrazione; e, in quel momento, una vedova con figli, e, tra le donne, la più inviperita, scorgendo quel responsabile unico del dramma funesto, raccoglie da terra una grossa selce, e, con tutte le sue forze, la lancia alla testa dell’industriale, che, col cranio spaccato, cade rinverso… morto. A tal punto, fuga generale, e fine del quadro secondo. – È atroce!… – mormora, atterrita, la bionda fanciulla dolcissima. – Per certo, – appoggia suo nonno; – ma, pon mente, dalla fonte di certi orrori scaturisce poi la giustizia. Olga, bimba mia; e tu, Giuseppina, cara moglie, attente al terzo quadro… Rappresenta la povera casa della vedova-madre. Essa si stringe al cuore i tre figli, che non hanno pane, né più a lungo protezione, perché, essa lo sa, tra breve sarà arrestata. Di fatti, quasi subito, si bussa alla porta… anzi questa, poco dopo, si spalanca violentemente, ed entrano i gendarmi. Il facile arresto è fatto appunto in un batter d’occhio, lasciando i poveri figli imploranti invano, impotenti, e disperati. – Povera madre!… miseri bimbi!… – balbetta la signora Giuseppina, la moglie del professore, con un sospiro grosso grosso.
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La nipote si terge la pupilla, e anche la servotta si pressa maledettamente un grande fazzoletto colorato agli incavi degli occhi larghi, sporgenti. Gli altri, se non piangono, tacciono, ma con un bel groppo in gola, per commozione. Il Cinematografo, infatti, procura delle emozioni più sensazionali di quelle del teatro. Ne è prova l’uomo dalla pipa, o meglio colui che teneva la famosa concione garibaldina alla medesima: difatti egli scaglia violentemente il proprio cappello – un misero cencio – contro i gendarmi, gridando un grido che pare un ululo di fiera ferita a morte; ma oramai gli agenti sono spariti, e non resta che la candida tela di calicot, che, in santa pace, riceve e rimbalza il cappello. E, quasi subito, il quarto quadro si presenta. È la Corte d’Assise, con tutti i suoi terrori, ma anche con le intere sue giustizie: la vedova-madre viene assolta. E il cuore di ognuno si solleva, e se vi è una eccezione è quella di chi non ha cuore. E il cuore di ognuno, meno quello dell’eccezione in discorso, si solleva ancora più quando, nel quinto e ultimo quadro, si vede, da una parte, l’operaio, un fabbro, che indefesso lavora, e, dall’altra, un industriale, il figlio o il nipote dell’ucciso, che versa, da un capace sacco, l’oro, non si sa se per agevolare l’industria, o se per altro. Ma, nell’un caso e nel secondo, troneggia, in mezzo di loro, fiammeggiante, solenne, la Dea Giustizia, questa Temi sì benefica quando è equanime; e, nei piatti della sua bilancia, l’operaio getta il martello, l’industriale il sacco d’oro, ed ecco: martello e oro pesano egualmente: il braccio vale bene il capitale, il lavoro la fortuna, e questa non può fare senza di quello. Operaio e industriale, dopo ciò, si stringono la mano, calorosamente, lealmente… – Baggianate!… – mormora, a tal punto, una voce rauca alle orecchie di Olga, la nipote del professore: – Nei panni dell’industriale, io… Oh! ella è un angelo, dolcissima signorina mia… Dica: dove abita?… È l’impudente Giuliano, che così s’indirizza alla fanciulla bionda, tutta modestia e interamente pura. E l’Olga non risponde, per la modestia appunto e purità sue; ma sente come un brivido, prova come un senso di disgusto… Gastone, intanto, si è avvisto che l’altro ha parlato, però non ha inteso il di lui dire. Non sa quindi di che si tratta. Egli è pronto ad intervenire; tuttavia, per tema di uno scandalo, si trattiene: stringe solo le pugna, freneticamente. E, indi a poco, il professore, con la consueta benevolenza, nell’attesa dell’ultima rappresentazione, si volge a lui, per il quale ha una evidente simpatia: – La cinematografia, che abbiamo vista, meno i primi quadri, i quali, del resto, sono necessari per trarne la conseguenza finale, è cosa che fa bene al cuore, giusta, e di evidente realtà avvenire. E non è questo il solo soggetto del genere che ci ammanisce il Cinematografo. Io, che sono un habitué, posso dirle che vi sono molti e molti altri soggetti egualmente reali ed efficaci, nonché di soluzione che contenta tutti, quindi sommamente di conforto, educatrice, e fomento non trascurabile di bene. Varie altre cinematografie, con l’esposizione viva e colpevole dei funesti risultati della passione, possono impedire il sinistro esplicarsi del male, quando non
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sono di lezione suprema a coloro che permettono l’attuarsi di miserie inenarrabili. A cagion d’esempio, – proseguì il vecchio a bassa voce e in maniera che solo Gastone l’udisse – nella Tragedia d’amore, una cinematografia passionevolissima, si rappresenta la tresca di due adulteri. Il marito scopre i colpevoli, li insegue per monti e per valli, uccide la infedele consorte ed il di lei amante, e, alla sua volta, si getta in un fiume, ove perisce. Caro signore, questo, che sembra un fattaccio, e di biasimevole riproduzione, costituisce, invece, un esempio alto, una severa lezione, che, per sempre, allontana da certi cervelli e cuori cattivi (occhiata espressiva a quel tal Giuliano) l’idea di pensare, caldeggiare, compiere gli atti, di incalcolabile conseguenza funesta, di una turpe passione. – E, sempre sottovoce, il vecchio continuò: – Estremamente morale e di edificante insegnamento, sebbene non appaia in sulle prime alla menti ottuse, si è la cinematografia Dramma passionale11: fanciulla sedotta e abbandonata; diventa madre; impara che il seduttore sta per sposare una ricca ereditiera; è incaricata, anzi, di fare a questa il corredo nuziale… e… e porta il corredo, sì, ma ancora una palla di rivoltella nella fronte allo sposo, no, al vile ingannatore, proprio nel momento che sta per impalmarsi… – Chi non vede che tutto ciò non è punto adatto ad incoraggiare le intraprese di quegli, che, con non oneste intenzioni, cerca l’amore di una povera ragazza?… (seconda occhiata significante al signor Giuliano, che, per niente turbato, sogghigna alla maledetta). Altro soggetto commoventissimo e di ottimo significato sociale, nonché splendido per risultato panoramico, è quello intitolato Disperata12, una sedotta anche questa, la quale però alla fine, riesce ad ammansire il padre del seduttore, che, per nulla, voleva saperne di lei: un bel maschiotto ha fatto il miracolo. (Poi ad alta voce): Un bel soggetto è pure Vita proletaria: una interessantissima e soprattutto affatto efficace esposizione di realtà sociali. Nei Drammi della miseria, una famiglia, in seguito alla disgraziata morte del suo capo e per le belle gesta di un tal vagheggino (occhiata severa a quel certo Giuliano), precipita di abisso in abisso. Un’altra cinematografia, dal titolo Rivalità13, contiene un edificante ammaestramento sul valore della parola data, nonché una prova palmare di quello che possa una brava donna quando, anziché di disunione, diventa istrumento dell’opposto. Mi dica, signore, un soggetto simile non è egli ben adatto a sopire il livore, che, puta il caso, esistesse tra due spettatori per una causa analoga?… – Certo che sì; ma puta il caso eziandio… – obbiettò, ma non finì Gastone Fedi, mentre lanciava una certa occhiata al suo vicino, il signor Giuliano, il quale, da qualche mossa, palesava un possibile ritorno ad alcune sue non decenti intenzioni. Ma, oramai, l’ultima parte del programma incombe. Le lettere luminose, che riappaiono nell’oscurità, dicono: Le avventure di un pompiere; e, subito dopo, la 11
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Dramma passionale, titolo originale Drame passionnel, regia di Albert Cappellani, casa di produzione Pathé, Francia 1906. Disperata, titolo originale La désesperée, casa di produzione Pathé, Francia 1906. Rivalità, titolo originale Rivalité tragique, casa di produzione Pathé, Francia 1907.
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più esilarante delle farse si svolge: è un intreccio di fatti, uno più comico dell’altro: l’eroe vi fa una figura ora felice, ora no, ma, nella sostanza, risibile sempre. E in uno dei punti più salienti, e mentre tutti ridono sino a farsi saltare i bottoni, un’anima sola sfugge a quella spontanea ilarità enorme: è l’anima torva di Giuliano; essa, o meglio chi l’impersona, si curva sulla nipote del professore, la pura Olga gentile, e sussurra: – Quanto è bella!… come vorrei essere il suo pompiere, fosse solo per un’ora, celestiale creatura!… Ma Gastone Fedi ha udito, ed ha pure udito il vecchio… – Basta! – grida il primo con voce repressa, in cui sibila però tutto il cruccio della collera più violenta, mentre le mani convulse si appoggiano, formidabili di possa, sulle spalle inoperose, largamente vili, dell’abbietto… – Esci, mascalzone!… – prorompe con voce stentorea, nel frattanto, il professore, respingendo in sul petto, con mano ancor virile, il miserabile. Altri intervengono, attratti dalle voci irate, tra cui il direttore del Cinematografo. Egli ha capito, e, alla sua volta, con fermo accento, con gesto vieppiù fermo, inesorabile anzi: – Fuori di qui, signore, o chiamo le guardie!… L’altro balbetta, vorrebbe scusarsi; ma, a quelle voci giustamente irate, contro quelle mani forti, tese verso di lui, biascica: – Sì, vado…; ma ci rivedremo… Una bieca occhiata all’ingiro, ed esce… impotentemente inviperito. All’aperto, a rappresentazione finita, il nobile vecchio disse a Gastone: – Grazie!… le debbo molto… Senza di lei, quel tipo, forse, avrebbe agito con ardimento pari al turpe animo. Io sono troppo avanzato in età, e mi capisce… Grazie, ripeto!… E la moglie, candidamente: – Io pure la ringrazio, signore; – quindi, volgendosi al marito: – Chi l’avrebbe mai pensato?!… un giovanotto così ben vestito, con tanti brillanti, e sì grossi!… – Ingenua sempre!… – esclamò il professore; poscia a Gastone, con un largo sorriso di benevolenza: – Spero rivederla, signore: qui, o a casa mia: Piazza…, n. 13. Alla buona, sa… – Grazie!… – balbettò a stento il giovane. Volse uno sguardo riconoscente al vecchio, un altro rispettoso alla signora Giuseppina, ma, in buona parte, ancora rivolto all’Olga incantevole, che, dal canto suo, lo guardava con occhi non del tutto indifferenti; poi salutò, e via… Era contentissimo. Altro che teatro, altro che club, altro che Casa X, altro che l’altre cose!… Aveva trovato, in quel Cinematografo, sì varie e copiose nuove sensazioni, ineffabili tutte!… […]
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Emilio Salgari
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Le meraviglie del Duemila. avventure*
[…] Otto ore dopo il dottor Toby veniva svegliato da un sibilo leggiero, che pareva venisse dal disotto del guanciale. Assai sorpreso, s’era alzato a sedere, gettando intorno a sé uno sguardo meravigliato. Nella stanza non vi era nessuno e Brandok continuava a russare nell’altro letto. – Chi mi ha fischiato agli orecchi? – si chiese. – Che io abbia sognato? – Stava per chiamare Brandok, quando udì una voce che pareva umana, sussurrargli agli orecchi: «Gravi avvenimenti sono avvenuti ieri nella città di Cadice. Gli anarchici della città sottomarina di Bressak, impadronitisi della nave Hollendorf, sono sbarcati nella notte, facendo saltare parecchie case, con bombe. La popolazione è fuggita e gli anarchici hanno saccheggiata la città. «Si chiamano sotto le armi i volontari di Malaga e di Alicante che si trasporteranno sul luogo dell’invasione con flotte aeree. «Si dice che Bressak sia stata distrutta e che molte famiglie anarchiche siano rimaste annegate». Il dottore aveva ascoltato, con uno stupore facile ad indovinarsi, quella voce che annunziava uno spaventevole disastro, poi aveva sollevato rapidamente il guanciale, poiché la voce s’era fatta udire precisamente dietro la sponda del letto, e scorse una specie di tubo sul cui orlo era scritto: «Abbonamento al World». – Una meraviglia del 2000! – esclamò. – I giornali comunicano direttamente le notizie a casa degli abbonati. Che abbiano soppressa la carta e le macchine per stamparle? Ai nostri tempi queste comodità non si conoscevano ancora. Come è progredito il mondo! – *
Emilio Salgari, Le meraviglie del Duemila. Avventure, illustrate da 10 disegni di Carlo Chiostri, Firenze, R. Bemporad & figlio, 1907: Parte seconda, cap. ii, Le prime meraviglie del Duemila, pp. 43-45. Il dottor Toby ha scoperto una sostanza che permette di dormire cento anni e svegliarsi nel futuro; la assume insieme all’amico Brandok. Al risveglio, un secolo dopo, nella sua casa, un pronipote si prende cura di lui e opera in modo da riportare alla perfetta funzionalità i loro corpi. Infine somministra loro un sonnifero per indurre un benefico sonno ristoratore. Ma il dottor Toby è svegliato da un fenomeno incomprensibile… La breve Parte prima dell’opera narra l’antefatto (Il fiore della Risurrezione, pp. 3-28: il dottore e l’amico decidono di usare il filtro per “addormentarsi” e predispongono le cose in modo che, dopo cent’anni, qualche erede li svegli); la Parte seconda racconta la vita dei protagonisti nel 2003, con larghezza di particolari (pp. 28-234).
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Emilio Salgari
Stava per chiamare l’amico, che non si decideva ad aprire gli occhi, quando udì uscire dal tubo un altro fischio, poi la medesima voce che diceva: «Guardate la scena». Nel medesimo istante il dottore vide illuminarsi un gran quadro che occupava la parete di fronte al letto e svolgersi una scena orribile e d’una verità straordinaria. Degli uomini erano comparsi in mezzo a delle case e si vedevano correre all’impazzata, lanciando delle bombe che scoppiavano con lampi vivissimi. I muri si sfasciavano, i tetti crollavano; uomini, donne e fanciulli precipitavano nelle vie, mentre larghe lingue di fuoco si alzavano sopra quegli ammassi di macerie, tingendo tutto il quadro di rosso. Gli anarchici continuavano intanto la loro opera di distruzione, e le scene si succedevano alle scene con vertiginosa rapidità e senza la minima interruzione. Era una specie di cinematografo d’una perfezione straordinaria, veramente stupefacente, che riproduceva con meravigliosa esattezza la terribile strage annunciata poco prima dal giornale. Per dieci buoni minuti quel rovinio continuò, poi finì con una fuga disordinata di gente, che si rovesciava verso una spiaggia, mentre il cielo rifletteva la luce degli incendi. – Straordinario, – ripeteva il dottore, quando la parete tornò bianca. – Che progresso ha fatto il giornalismo in questi cento anni! E chissà quante meraviglie dovremo vedere ancora. Brandok, hai finito il tuo sonno? – Udendo quella chiamata sonora, il giovane aprì finalmente gli occhi, sbadigliando come un orso che si sveglia dopo il lungo sonno invernale. – Come ti senti, amico mio? – chiese Toby. – Benissimo. […]
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Umberto Lanna
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Ar cinematogrifo*
I. – Che c’è da vede? Legge un po’ er programma. – Gita sul Garda. – Er treno sempre. E appresso? – Romanzo d’una giovane. Successo d’alta attualità. Quadri del dramma: Nell’agiatezza. A caccia. Sole, o mamma! In cerca di lavoro. Cuore oppresso. Notte fatale. Vinta. Onesta fiamma… – Le buatte! Ma er fatto indo’ è successo? – Pare alla casa de Paté a Pariggi. – Sarà preso dar vero? – E chi lo sa? – Ma stamo sempre là. Friggi e rifriggi so’ cose ormai più antiche de San Pietro. Oh! se fa scuro. Sta pe’ comincià. A Nina, fija… (statte attenta dietro). II. Ce semo. Quanta gente, li signori! Che stanno a pranzo? Ah, no; in conversazione. Quell’omo colla barba è lui er padrone, e già, perché se scarma a fa’ l’onori. L’antra è la moje, e quella co li fiori sarà la fija. Guarda quer babbione quante ’je ne sta a fa’. Però ha ragione. È troppo bella. È troppo rubbacori. *
Umberto Lanna, Ar cinematogrifo, in «Gazzetta del popolo della domenica», xxvi, 43, 25 ottobre 1908, p. 2.
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Umberto Lanna
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Pur’ er vecchio s’ingegna. E mo’ che fanno? S’arzano. Guarda lui come se sbraccia a da’ la mano a tutti. Se ne vanno. Ma pare che ’je dice che l’aspetta… Come ’n’appuntamento. Ah, già, la caccia! Scannito er vecchio, come la tiè stretta! III. Che bella macchia! È presa bene assai. Vedi? Viè gente. So’ li cacciatori. So’ sempre li medesimi signori: er barbone, er vecchietto, er patirai. Quell’antri dichi? So’ li battitori. Già, tu ste’ caccie nun l’hai viste mai. Se metteno de posta. Vederai che pirole ar cinghiale che vie’ fori! Guarda, guarda, Ninè, sbuca er cinghiale. S’è rinfrattato. Eh, propio, cara Nina. M’è parso pure a me ch’era un majale. Un antro. Pure questo nun me garba. Foco! Bhum! Quanto fumo. Pe’ cristina, hanno ammazzato quello colla barba. IV. L’hanno ammazzato propio, poveraccio! Ha lassato lo schioppo e s’è buttato a parte addietro come furminato. Sai chi dev’èsse stato? Quer tipaccio ch’era rimasto tonto e po’ è scappato. Viengheno l’antri. Guarda sì che straccio de confusione adesso. L’hanno arzato e lo porteno via su un carettaccio. Figurete la moje co’ la fija
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Ar cinematogrifo
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perde er padre così sì che dolore! Eh! che ce vo’ ’annà giù pe’ ’na famija! – Ma lei che cerca, d’attaccà quistione? Oh questa è bella! Nun se po’ discore. Ce vede coll’orecchia, sor frescone?!… V. Du’ poverelle a lavorà e discore… So’ loro sì, so’ loro. Ah, che calata dopo la sbiossa che ’je capitata! Che casa, che miseria, che squallore! Senteno da bussà. Va ’oprì, è ’n signore. Che brutta grinta d’anima addannata. ’Je fa vedè ’na carta. È ’n creditore. Sarà quarche cambiale protestata. Varda li pianti loro! Eh, so’ dolori! Ma quello invece è peggio de Caino. Che fa? Chiama antra gente… Li cursori! Povera casa, come va a soqquadro! Addio credenza, sedie, tavolino. Oh! pure la Madonna drento ar quadro. VI. Te pare quer villino che sta in Prati? Vie’ lei. Che gira? Va pe’ carità? Bussa in d’un modo che te fa pietà. S’apre er cancello. Drento! Semo entrati. La padrona, er padrone, du’ sordati… ’Je chiederà servizio, a me me sta. Già… E pare che se sieno contentati. Mo’ stanno a dije quer che deve fa. Faje da pranzo, rassettà la casa, lustrà li pavimenti, sporverà.
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Umberto Lanna
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Lei guarda attorno, ’n pare persuasa. Da quer che d’era – er monno come gira – mo’ deve sta’ soggetta e lavorà. Guarda er padrone come l’arimira! VII. Mo’ che ciavemo? Lei che sta a dormì. (Che bojeria che già s’è messa sotto!) Percrilla, ecco er padrone. Ah, galeotto! Vedi come s’accosta, guarda, Nì?! Volevo dillo prima ch’era cotto… La sveja, er boja. E mo’ ’jaresta lì. Che sarto ha dato! Hai visto sì che botto? La moje, dichi? Eh! Nun potrà sentì. Ce litica. Madonna, s’è svenuta. E lui mica la pianta, er mascarzone. La bacia… – Bona notte, addio veduta. Er mejo punto è stato troppo corto. Che vie’? C’è un morto. Quello cor barbone. Ah! È lei che s’arivede er padre morto!… VIII. Povera fija, com’è diventata! Se vede bene che quer mascarzone de prepotenza l’ha ’ndisonorata. Ce piagne, sfido, piagne co’ ragione. E mo’ che cerca tutta affaccennata? Ah! fa fagotto. Eh, già, pija er fugone. Lo possino scansà. Riecco er padrone. E magnetece er core e la corata! Ce s’agginocchia; la trattie’; la prega. Se caccia er portafojo! Ah birbaccione! Li quatrinacci tua mo’ se li sega.
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Ar cinematogrifo
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Bene quer carcio! Daje ancora! È poco! E mo’ se pija i sordi? Ah, no, benone. ’Je l’ha buttati tutti sopra er foco. IX. Segne le scale. Fa pietà a guardalla. A Nì, vedi chi incontra? Quer signore che prima ce voleva fa l’amore. Sarà venuto apposta pe’ trovalla. Guarda co’ che rispetto ce discore! ’Je fa vede’ ’n’anello. Vo’ sposalla. Ma lei dice de no. Sai co’ che core! Ha voja a ’nsiste, ha voja de pregalla. Eh! Lei capisce bene che oramai, ’ndello stato che sta, pôra fijola, nun potrà di’ de sì mai e po’ mai. Adesso pure lui s’è scoraggiato. La saluta. Va via. È rimasta sola. Madonna, sì che pianto ch’ha sbottato! X. ’Ndo stamo? Ar Lungotevere, me pare. Si, ma ciarissomija forte. È notte. Rotta de collo! Vola quella botte! Passa ’na rondinella cor compare. ’Ste coppie indove vai nun so’ mai rare. Er cicchettaro. Daje, antre cocotte! Ma da ’ste parte fanno un magro affare. Nun passa più gnisuno. Bona notte. A Nì, guarda… Me sbajo o nun me sbajo? Ma sì che è lei. Sta ancora cor fagotto. Pare ’na matta, sola, allo sbarajo. Misura er parapetto. Se fa croce.
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Umberto Lanna
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Pe’ Gesucristo! E che vo’ annà de sotto? Ah! s’è buttata! Dio, che fine atroce!
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Jarro
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Al cinematografo (un delitto in un baule)*
I. Al grande cinematografo Lux-Ars, da giorni, attirava migliaia di spettatori la riproduzione, in varî quadri, di un atroce delitto. Si diceva da alcuni, era, in parte, almeno in certi ragguagli, una cosa fantastica. Ma la gente ne parlava, uscita dalle rappresentazioni e si infervorava in raffronti, commentava quella serie di scene, che facevano rabbrividire, suscitavano a paragoni con quanto era stato propalato sul delitto recente. Ecco di che si trattava. La cinematografia riproduceva l’interno di un sontuoso Albergo: tre facchini calavano per lo sfarzoso scalone un grosso baule giallo. Ogni tanto si fermavano; come se volessero esprimere quanta fatica era lor cagionata da un peso soverchio. Al secondo quadro si vedevano: una Stazione ferroviaria: il deposito de’ bagagli: una signora elegantissima si presentava a pagare la spedizione del grosso baule, che i facchini avevano preso all’Albergo; e ritirava lo scontrino. Terzo quadro: un vagone di prima classe. La bella signora, proprietaria del baule, parlava con un gentiluomo, di aspetto molto ragguardevole, serio, composto nei modi. Ad un tratto alla signora era presentato un telegramma. E sulla tela bianca (sullo schermo) del Cinematografo si leggeva: Tornate addietro. Il vostro nemico si trova sulla stessa linea. Quarto quadro: siamo di nuovo nel vagone. Il signore e la signora parlano assai concitati: la signora toglie dalla borsa lo scontrino della spedizione del baule e, ad un tratto, si leggeva sulla tela bianca: Abbiate la bontà di accettare la consegna del mio baule, che è indirizzato ad A… dove voi pure siete diretto… Lo farò poi ritirare. *
Jarro [Giulio Piccini], Al cinematografo (un delitto in un baule), in Le novelle del cinematografo, Firenze, Bemporad, 1910, pp. 3-30. Giulio Piccini (1849-1915), con lo pseudonimo di Jarro, è prolifico autore di lavori eruditi di letteratura e storia, di opere critiche e aneddotiche sul teatro del suo tempo, romanziere, umorista, giallista ante litteram; dagli anni Ottanta dell’Ottocento collabora assiduamente alla «Nazione» di Firenze con articoli teatrali e bozzetti umoristici. Il volume del 1910 Le novelle del cinematografo, ristampato l’anno successivo, contiene cinque racconti ispirati al cinema, ai suoi protagonisti e alle sue trame, con l’intento di metterne in risalto l’utilità sociale e educativa, e i possibili impieghi pratici (a quello qui parzialmente antologizzato, seguono Nuovi quadri cinematografici; Una lettera perduta al cinematografo; Cinematografisti fra i cannibali: o come si può diventare milionari al cinematografo; Il mistero del manoscritto). Nel racconto Al cinematografo (un delitto in un baule), l’ispettore Berne ricorre al cinema per risolvere un misterioso caso di omicidio; si propone solo la prima parte del lungo racconto, con la descrizione della trappola “cinematografica” escogitata dall’investigatore.
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Jarro
Quinto quadro: un’altra Stazione ferroviaria: la signora scende dal vagone, aiutata dal gentiluomo: si scambiano saluti cordiali. Il treno riparte. Sesto quadro: Stazione ferroviaria sul confine. Gli ufficiali della Dogana dovean visitar i bagagli; il gentiluomo, già visto negli altri quadri, protestava col gesto, come per opporsi a quella visita, inutile, quasi offensiva alla rispettabilità della persona, che avean dinanzi, ma i rigidi impiegati insistendo, si affrettava a consegnar loro la chiave del grosso baule giallo. Profonda, immensa commozione; segni di terrore, di orrore, esclamazioni. Molte persone gesticolavano, si raccoglievano intorno al baule. Vi era dentro il cadavere di un giovane, vestito con eleganza. E si leggevano sulla tela queste parole: Il signore riconosce nel giovane, morto, chiuso nel baule, il suo nipote Jack Peter, di cui egli è l’unico erede e che lascia un vistosissimo patrimonio. Egli si scusa, dicendo che il baule non è suo: gli fu consegnato da una signora… È arrestato. La sala del Cinematografo era gremita. Un altro quadro si offriva agli spettatori. Sopraggiungevano alcuni ufficiali della polizia: sollevavano alquanto il cadavere dal baule. E tutti ne scorgevano la faccia. Allora, nella oscurità della sala, si udì un grido acutissimo, un grido di dolore, di spavento, di strazio. Subito ricomparve la luce. La gente era atterrita. Un uomo di piccola statura, snello, rapido ne’ movimenti, passò in fretta da una parte all’altra della sala. Nello spettacolo, alla riproduzione della tragedia, doveva succedere una scena comica. Il grido udito aveva lasciato nel pubblico un po’ di sorpresa e si era alzato da un angolo della sala ove erano raccolte varie donne. Tutti aveano riconosciuto una voce femminile. Ma le stesse donne le quali erano accanto a colei, che aveva gridato, sarebbero state perplesse nell’indicarla, perché tutte erano agitatissime, in preda a commozione: la verità de’ quadri cinematografici da esse veduti, la riproduzione efficace, le aveano sconvolte. L’uomo di piccola statura che avea attraversato la sala nel momento in cui si era udito il grido, appena fu tornata la luce, si dette a scrutare nel gruppo delle donne. Tutte parlavano fra loro con eccitazione, appassionate del fatto. Egli, però, ne squadrava le fisionomie, ad una ad una, ne riteneva, ne classificava i tratti nella sua mente, un archivio in cui aveano posto i lineamenti di centinaia di persone e non ne sgarrava una, quando gli occorea di ricordarsene. Era costui il famoso Ispettore della polizia Adamo Berne, conosciuto popolarmente col nomignolo di «Saettuzza». Come abbiamo rilevato, il delitto, secondo si svolgeva ne’ quadri cinematografici, era stato commesso: i ragguagli erano veri nella sostanza, ed importanti ragguagli: uno de’ cinematografisti, il cui zelo, la cui operosità, la cui intelligenza e prontezza non conosceano posa, era riuscito, in breve, a ricomporre tutti que’ quadri e, servendosi di fotografie, avea fatto truccare a meraviglia da un abile artista, colui, che dovea raffigurar il morto nel baule.
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Al cinematografo (un delitto in un baule)
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Il delitto avea levato gran rumore per la condizione, le qualità del giovane ucciso, perché il cadavere non presentava traccia di ferite, o di violenze. Da certe contrazioni del cadavere i medici aveano arguito che il giovane dovesse essere stato posto nel baule, in un momento nel quale, non essendo a dirittura padrone della sua ragione, o delle sue forze, rimanevano ancora in lui spiriti di vita. Il giovane sì barbaramente e misteriosamente ucciso era il conte Peter: prodigo sino alla follia, sperperatore del suo denaro in modo che era riuscito ad irritare il suo parente e tutore Frantz Peter; e rimaneva ucciso proprio mentre stava per toccare l’età maggiore. E i non pochi milioni rimasti intatti andavano ad arricchire il suo zio e tutore. Era pur’egli molto ricco, in una condizione delle più onorevoli, reputatissimo, ed era stato arrestato come presunto assassino. Nessuno lo credeva colpevole, ma tutte le apparenze erano contro di lui. E il magistrato, che pur stava molto dubbioso rispetto a certe accuse e avea tanto messo in opera per salvarlo, dovea riconoscere che una terribile circostanza gravava su di lui; oltre l’essere stato trovato in possesso del baule, contenente il cadavere, si buccinava ch’egli fosse innamorato veementemente di una donna, che era pure amata da suo nipote. Questo risultava da certe minute, segrete indagini. Frantz Peter veniva, in conseguenza dell’assassinio, a goder maggiori ricchezze, ad esser liberato da un rivale, più giovane, quindi pericoloso e forse più accetto di lui. Non aveva saputo dare su la donna, che lo aveva pregato di accettar in consegna il baule, spiegazioni concludenti, né dirne l’indirizzo, affinché ella si potesse interrogare, stabilirne la identità, secondo il termine riconosciuto. Il grande Cinematografo avea la privativa di questi quadri; avea per essi interrotto una importantissima serie di riproduzioni, molto istruttive, di lontani, pittoreschi paesi, di fatti storici luminosi, di classici lavori drammatici. Il Cinematografo è un inesauribile divulgatore di cognizioni: è un mezzo di far apprendere, a buon mercato, in modo gradevole, alle classi più umili, la storia, la geografia: di render vivi agl’intelletti anche più incolti certi capolavori della letteratura: di far passare dinanzi agli occhi di chi non ha il modo d’imprendere lunghi viaggi ciò che i più sommi artisti han dato nella pittura e nella scultura. E il Cinematografo, co’ suoi drammi di fantasia, educativi, di soggetto popolare può essere scuola di morale, suscitatore di buoni sentimenti. È, insomma, una gran forza nella vita moderna, che può essere indirizzata al bene; è una efficace propagazione di coltura; può servire a distrarre, con loro utile, migliaia di uomini. È il volgarizzatore immediato, fulmineo di molte meraviglie della natura, della industria, dell’arte, della scienza. II. La polizia di quella città avea avuto un’idea, che forse apre al Cinematografo una via nuova: servirsene ad un alto scopo sociale, alla scoperta della verità, ad un trionfo della giustizia, a punire un complice, o, forse, il solo colpevole, che volea tenersi nell’ombra, combatteva una lotta accanita contro i sostenitori della legge.
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Jarro
Un uomo facoltoso, fin allora onoratissimo, era stato arrestato per un delitto, di cui mancavano le prove sicure: l’Ispettore Adamo Berne avea consigliato un espediente per arrivare al segno, cui miravano le ricerche delle autorità; valersi della riproduzione del delitto; senza che si potesse subodorare, stabilire una rigida, attenta sorveglianza: qualcuno poteva tradirsi con un grido, con un atto, durante lo spettacolo. Dar la viva riproduzione di un delitto; eccitar con essa lo spavento, il rimorso nella coscienza del colpevole, o dei colpevoli, è l’espediente cui ricorre Amleto nella celebre tragedia shakespeariana. Ma nulla si scuopriva durante le numerose, frequentate rappresentazioni del Cinematografo. I colpevoli eran molto avveduti: sapevano schermirsi: si mostravano ben agguerriti nel loro aspro conflitto di astuzie contro l’autorità. La signora che aveva sospeso il suo viaggio, e avea pregato Frantz Peter di accettare per breve tempo la consegna del baule, era conosciuta con un titolo principesco: secondo alcuni doveva essere stata canzonettista, per un dissidio con la sua nobil famiglia, poi cantante in grandi Teatri, sposata, civilmente, negli StatiUniti, ad un milionario americano, con cui avea avuto terribili screzî. Il suo passaggio sulle scene de’ Teatri era stato rapidissimo: poi s’era ridotta a vita misteriosa e si eran perdute le sue traccie. Avvenimenti de’ più impreveduti si compievano ad inasprire la curiosità del pubblico, a sfrenare le fantasie, a confondere l’autorità. Come succede sovente, il vero sfidava l’inverosimile. In una città, un duecento chilometri da quella ove accaddero i fatti sin ora narrati erano accorse migliaia e migliaia di persone per assistere ad un esperimento d’aviazione: il primo esperimento di tal genere. Tutti i Cinematografi se ne disputavano le riproduzioni. Molti ricordano il grave infortunio che avvenne: il primo che si ebbe a lamentare e cui ne seguirono tanti: è lunga la lista degli ardimentosi, vittime del lor desiderio d’inalzarsi. Un giovane, com’è noto, cadeva da un aereoplano, a non grande distanza dalla terra, ed era raccolto cadavere; ferito in una tempia. Sarebbe stato colto da vertigini, mentre l’aereoplano faceva i suoi primi movimenti. Il clamore fu immenso per tale vittima. Era il primo volo che si eseguiva. Già, innanzi che l’aereoplano si elevasse da terra, erano stati cinematografati l’aereonauta e il suo compagno, fin allora a tutti sconosciuto: e arrivato in quella città da poche ore. Ma la meraviglia fu immensa, quando, cercando di appurare la identità del giovane, fu affermato che egli era Jack Peter, quello stesso, il cui cadavere era stato trovato nel baule ed era stato da tanti riconosciuto! Il giovane, caduto dall’aereoplano, aveva indosso biglietti di visita, col nome di Jack Peter, lettere indirizzate a tal nome, un portasigarette con tali cifre, ripetute anche nel medaglione appeso alla catena dell’orologio, sormontate dalla corona di conte. Il volto, la statura eran quelli di Jack Peter. Gli furon trovati pure indosso un libretto in cui aveva scritto varî appunti; la copia di un telegramma che da quella città avea indirizzato al suo parente Frantz Peter e che la polizia, all’ufficio di recapito, avea creduto una simulazione.
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Al cinematografo (un delitto in un baule)
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Come spiegar ormai un tale enigma? Fu liberato dalla prigione Frantz Peter: e fu chiamato ad osservar il cadavere. Egli strabiliava. Ma dové riconoscere che quello era il cadavere di suo nipote: riconobbe la catena dell’orologio, gli altri oggetti. Il giovane, all’Albergo, in cui avea preso stanza poco prima, non avea dato ancora il suo nome: però in una valigia fu trovata una piccola cassetta, contenente gioielli di gran valore. Vi mancava soltanto una collana per la quale eran nel velluto della cassetta gl’incavi che avrebbe dovuto occupare. Nella seta sotto il coperchio era scritto in oro il casato del gioielliere. Anch’egli fu invitato dalla autorità a recarsi a riconoscere il cadavere: partiva immediatamente: arrivato, e interrogato, disse esser quello il cadavere del conte Jack Peter e aver dinanzi a sé la persona con la quale aveva parlato più volte e cui aveva venduto i gioielli! Furon chiamati varî uomini d’affari, con cui il giovane Peter avea contratto gli enormi suoi debiti: sola occupazione seria della sua vita e a moltiplicare i quali, con ogni mezzo possibile, volgeva il suo animo ogni giorno, appena svegliato: tutti lo riconobbero: tutti sostennero esser quello il giovane che ognuno s’aspettava avrebbe dato, in pochi anni, fondo al suo immenso patrimonio e ad altri, se avesse potuto procurarseli. Quella morte improvvisa lo rapiva all’affetto, al desiderio insaziabile degli usurai. Furon riconosciuti gli abiti fornitigli da un sarto, che l’avea avuto per cliente da anni e che da anni lo avea sempre per suo costantissimo debitore. I Cinematografi non ebber mai in quel vasto paese periodo più glorioso. Non vi si vide accorrere mai tanta folla, la curiosità si accendeva sino al parossismo. In tutti i Cinematografi, ormai vinta col denaro la gara di concorrenza, si eseguiva la riproduzione dei quadri, che spiegavano sino ad un certo punto il delitto dell’uomo ucciso e chiuso nel baule e la riproduzione de’ quadri, in cui erano ritratti i preparativi per la partenza dell’aereoplano: i due uomini che vi salivano: la caduta, la morte del giovane. E i due cadaveri erano in tutto così somiglianti! Lo stesso Frantz Peter non sapeva ormai dire a sé, con certezza, qual fosse il suo parente, da quale dei due giovani egli avesse ereditato: a quale de’ cadaveri dovea render gli onori di un mausoleo. Il cadavere, trovato nel baule, era stato già posto nella cappella di famiglia: ma, sin allora, senza alcun segno esteriore di ricordanza. Chi spiegherebbe – si ripeteva da tutti – l’enigma? Come uscire da tale viluppo? Il pubblico de’ Cinematografi si disputava, con la massima vivacità, sulla rassomiglianza de’ due giovani, sulla concordia con cui l’uno e l’altro erano stati riconosciuti per la medesima persona. E turbava, più di tutto, dava appicco alle supposizioni più strane, il doppio riconoscimento fatto, in buona fede, dal parente del morto: Frantz Peter. Nella sala del gran Cinematografo Lux-Ars, la sera stessa in cui si era udito il grido, durante lo spettacolo, mentre si sollevava la testa del cadavere dal baule, era stato trovato un cartoncino, che conteneva l’indirizzo di un orefice, famoso, dimo-
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Jarro
rante in una città vicina. L’agente di polizia Adamo Berne, quella sera, mentre il Cinematografo stava per chiudersi, poco dopo le undici e mezzo, ricomparve e domandò del proprietario. Si chiamava Pietro Torrini1: era uomo fino, destro, intelligentissimo: aveva pubblicato il primo giornale cinematografico e se ne teneva. Adamo Berne aveva voluto, all’uscita, riguardar bene, ad una ad una, alla spicciolata, le donne dal cui gruppo era uscito il grido: e ne aveva dinanzi le fisionomie. Aveva studiato per quali strade si erano indirizzate. Ora tornava per chiedere di visitar di nuovo la sala. Era già tutto spento. Il proprietario fece riaccendere la luce elettrica. Il Berne andò nel punto ov’era stato il gruppo delle donne: volle sapere se, durante la serata, era stato trovato qualche oggetto. Ad un tratto si chinò: raccolse da terra il cartoncino. Vi erano il nome, il cognome, l’indirizzo del gioielliere. Era lo stesso gioielliere, il cui nome si dovea legger più tardi nella scatola trovata fra gli oggetti appartenuti al giovane caduto dall’aereoplano, durante il concorso di aviazione. Adamo aveva sempre conservato quel cartoncino. Frantz Peter, che nutriva molta stima di lui, poiché egli si era sempre dichiarato contrario al suo arresto, non ostante tutti gl’indizî, cospiranti a provare la sua colpevolezza, lo aveva richiesto di recarsi ad esercitare l’acume professionale, per cui era noto, nella città ove, fatte le debite verificazioni sul cadavere del secondo Peter, la innocenza di lui era stata riconosciuta. E, appena Adamo ebbe visto nella scatola il casato del gioielliere dette in uno scatto di allegrezza. Ricordò il gruppo delle spettatrici al Cinematografo: ricordò il cartoncino da lui ritrovato in quel punto ed esclamò: – Ci siamo! Anche qui bisogna ricercare la donna! – Se ne andò nella città dove dimorava l’orefice che aveva venduto al giovane Peter i gioielli. Sapeva che la collana mancante nella scatola doveva esser certo oggetto preziosissimo, a giudicar anche dagli orecchini, dal diadema, dalle spille, che rimanevano nel grosso astuccio; ragionava che, forse, tale collana poteva essere stata rubata e, forse, si offrirebbe all’orefice stesso, che l’aveva venduta. Ammetteva pure che l’orefice fosse in grado di sapere a chi quella collana e gli altri gioielli fosser destinati. E da ciò poteva aversi il bandolo per distrigare la avviluppata matassa. Sentiva, col suo infallibile istinto, che ogni ricerca addirizzata a tal fine, avrebbe dovuto arrecare il suo frutto. Fu nella bottega dell’orefice: costui gli disse che i gioielli trovati nella valigia del Peter sormontavano in valore le centomila lire: la sola collana di perle ne valea settantamila. Si meravigliava che il giovane milionario avesse ancora con sé quei gioielli, poiché gli aveva detto doveano esser consegnati ad una donna, per la quale nutriva una focosa passione. Egli avea ricevuto quietanza della somma che gli spettava. – Giorni sono, una monaca è venuta ad offrirmi la collana di perle… 1
Si allude a Pietro Tonini, proprietario del cinema Sala Marconi di Milano, fondatore con Gualtiero Fabbri e direttore del primo mensile cinematografico italiano, la milanese «Rivista fono-cinematografica», che esce nell’aprile 1907, nonché promotore del concorso per un racconto cinematografico vinto da Fabbri con Al cinematografo (in questa antologia, alle pp. 7-20).
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Al cinematografo (un delitto in un baule)
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– Una monaca?… – Sì: era una curiosa monaca…. Era molto imbarazzata e aveva due occhi… Non mandavan certo sguardi da angiolo… Non ci trovammo d’accordo sul prezzo… Mi promise però di tornare. Da ieri ho riflettuto su questo fatto, e mi sembra inesplicabile… La monaca mi offrì la collana due giorni prima che il giovane Peter trovasse la morte al Concorso di Aviazione… – Dopo aver dato all’orefice alcune istruzioni, e dopo esser entrato con lui in accordo su varî punti, il Berne si allontanò. La sua fede nel Cinematografo era sempre viva. Con tal mezzo si dovea arrivar a scuoprir il vero, a ottener luce su un sì profondo mistero. Già era stato per toccar la meta: il grido udito in quella sera, nella sala del Cinematografo, era un grido strappato ad una coscienza inquieta, mal sicura, dall’irresistibile aspetto della verità. Egli avrebbe dovuto esser più pronto nello scuoprire chi avea proferito tal grido: n’era crucciato. Mentre pensava ad un nuovo strattagemma e mulinava sul modo di attirar la folla ad uno spettacolo cinematografico con un quadro suggestivo che dovesse influire sull’animo di due o tre persone, le quali sarebbero state involontariamente attratte dall’argomento e, loro malgrado, si sarebbero, in un modo o nell’altro rivelate, ricevette una lettera dall’orefice, che aveva venduto gli splendidi gioielli al giovane Peter. L’orefice gli diceva che, andato una sera al Cinematografo Apollo nella sua città vi aveva veduto la riproduzione di una rivista militare. Fra le persone, nella folla che assisteva alla rivista, aveva notato due donne: una alta, di forme rigogliose, vestita con raffinata eleganza, l’altra di minore statura, in tutto più modesta; sembravano padrona e cameriera; e nella cameriera gli sembrava aver riconosciuto, indubitatamente, la monaca che era venuta, giorni prima, ad offrirle la collana. Adamo Berne partì per quella città: andò ad assistere alla rappresentazione cinematografica. E questa volta egli dette un grido. Aveva riconosciuto nella cameriera una delle donne, che formavano il gruppo da cui era uscito il grido penoso, mentre si sollevava la testa del giovane ucciso, al Cinematografo Lux-Ars. – È lei – diceva fra sé – che ha gridato: è lei, che ha perduto il biglietto con l’indirizzo del gioielliere! E, con quella facoltà, unica più che rara, da lui posseduta, di ricordarsi, eziandio dopo lungo tratto di tempo, le fisionomie scorte anche fuggevolmente, si richiamava dinanzi i volti delle donne che aveva mandato a memoria nella sera, ormai da noi sovente designata. Si dette alle più assidue indagini: batteva di continuo le vie della città, cercava e rifrustava ogni angolo; la donna che possedeva la collana, o si era contraffatta o, secondo rivelava la figura riprodotta dal Cinematografo, andata nella città vicina, dopo breve dimora, avea tentato fortuna altrove. Pensava: – Se la donna si trovava fra coloro che assistevano alla rivista militare – come palesava la riproduzione cinematografica – dove avrà abitato in quel giorno? –
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Jarro
Un certo numero di persone: proprietarî, camerieri d’Albergo, di Pensioni, affittacamere, proprietarî e camerieri di Caffè, di Trattorie ricevettero biglietti gratuiti per assistere ad una straordinaria rappresentazione cinematografica. Il Direttore del vasto locale annunziava che avrebbe dato un premio a chi riconoscesse una delle quattro persone che erano innanzi alla folla, la quale assisteva, in un certo punto, alla rivista militare, riprodotta nella splendida Cinematografia. Queste persone non erano del paese: nessuno degli addetti al Cinematografo, che pur conoscevano tanta gente, aveva potuto darne notizia. L’annunzio fu preso come una nuova fantasia del proprietario del Cinematografo. Piacque l’idea e la gente si accalcò alla rappresentazione nella vasta sala. Ma, ohimè, quando si arrivò al quadro della rivista militare, le fisionomie delle due donne apparvero cancellate: la pellicola era stata sciupata, ad arte, in quel tratto. Il pubblico credette ad una burla per ingrossare il richiamo, per esilarare gl’intervenuti. Si trattava, per i più, di una dolce burla. In città chi sa quanto se ne sarebbe parlato! E il Direttore del Cinematografo ne avrebbe profittato per far un altro gran colpo. Mentre tanta attenzione era rivolta al suo Stabilimento, ecco sarebbe stato posto fuori l’annunzio di un programma meraviglioso! L’ingegno industriale, le astuzie per illudere, deludere, attirar il pubblico non hanno oggi confini. Adamo Berne era molto irritato. Fece un cenno al proprietario del Cinematografo, che sorrideva. Egli, di carattere amenissimo, propenso alla deferenza, seguì subito l’ufficiale della polizia. Entrarono nella stanza di direzione, tutta tappezzata di manifesti di cinematografie, a colori smaglianti. – Volete voi – gli disse burbero, arcigno il Berne – che il vostro locale sia presto chiuso per provvedimento d’ordine pubblico? – L’altro impallidì. – Come si spiega il caso avvenuto? Come voi frapponete ostacoli all’opera della polizia giudiziaria invece di servirla? – Io? Ma, tutt’altro: appassionato del Cinematografo, in cui vedo tante feconde applicazioni, ero desideroso si facesse l’esperimento di un tentativo anche in questo ramo… È mia colpa se è fallito? Si deve certo ad una combinazione impreveduta, prettamente materiale. L’operatore non avrà avuto abbastanza cura della pellicola; forse qualcuno l’ha toccata, malmenata, a sua insaputa. – E chi è questo operatore?… – Un giovane, entrato ieri al nostro servizio per improvvisa malattia di un altro operatore… Egli venne da sé a profferir l’opera sua, dicendosi esperto meccanico. – Ah! – E l’ufficiale della polizia, mentre picchiettava sul tavolo con un astuccio da matite, sembrò concentrarsi ne’ suoi pensieri. – Questo nuovo operatore – domandò ad un tratto – rimarrà qui stasera sino alla fine delle rappresentazioni? – Di certo. – Si alzò, si avvicinò al telefono: scambiò poche parole: dieci minuti dopo arrivava al Cinematografo e chiedeva del suo superiore uno tra i più meticolosi agen-
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Al cinematografo (un delitto in un baule)
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ti della Pubblica Sicurezza. Ebbero un rapido colloquio. E Adamo Berne uscì, salutando molto accigliato. Verso le due del mattino Adamo Berne riceveva la visita del suo sottoposto. Il Berne non si era ancora coricato e, da alcune ore, studiava varie carte: tornava su delitti, di cui l’autorità avea abbandonato le traccie, non credendo poter pervenire a scuoprirli. Egli vi si ostinava, spingeva sempre più oltre le sue analisi, rivisitava luoghi, interrogava di nuovo persone, ristabiliva e confrontava certi insieme; avea ottenuto fragorose insperate vittorie. – E bene? – disse il Berne, quando gli fu innanzi l’umile agente. – L’operatore è certo Aroldo Discarri: personaggio piuttosto sinistro. Egli è giunto qui da pochi giorni insieme con una donna che si crede sua sorella. Abitano, a non piccola distanza dalla città, nella casa di un prete. La donna, di cui il prete è lontano parente, non è quasi mai uscita di casa. Spendono, però, si sa, molto denaro. E non si capisce come il giovane Discarri abbia cercato di esser operatore al Cinematografo… – Adamo Berne, dopo rapida riflessione, aveva tutto compreso. Costui, tratto da non si sa quale sua idea, era andato a farsi mostrare, sotto colore di essere uno specialista, la riproduzione cinematografica sulla quale si richiamava l’attenzione: aveva pensato, certo con serio motivo, prima che fosse vista dal pubblico di quella città, a distruggere le fisionomie delle due donne e intanto preparare la fuga. Tutto il suo disegno, ardito, ma male architettato, rivelava un esordiente nella delinquenza, più temerario che destro. La donna, che era con lui, doveva esser quella che aveva in suo potere la preziosissima collana: ella dovea possedere tutto il segreto relativo alla uccisione del giovane Peter. – E avete lasciato, come vi avevo prescritto, un altro agente a sorvegliare la casa? – Vi è rimasto l’Aldobrandi… – Ah… – Il Berne non voleva operar in modo precipitoso: il suo disegno era che la vigilanza su i due non fosse più interrotta: cogliendoli all’improvviso, potea perdersi la collana, chi sa dove da essi riposta. Occorreva lasciarli liberi, seguirli in ogni loro movimento, era l’unico modo che essi rivelassero, non volendo, tutto quello che intendevan fare: se avessero complici. Circa le tre del mattino, Adamo Berne si era coricato e, sicuro ormai della piena riuscita del suo disegno, s’addormentava placidamente. Forse sognava un’altra grande vittoria: si vedeva già arrivato a spiegar l’equivoco che tuttora dava perplessità a migliaia di menti: come mai due cadaveri, quello trovato rinchiuso nel baule e quello del giovane caduto dall’aereoplano, fossero stati identificati per la stessa persona. L’autorità, in tanti giorni, non aveva fatto un passo innanzi… […]
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Gian Pietro Lucini
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La solita canzone del Melibeo*
[…] Lia. Sì, fatemi ridere, fatemi allegra! Il Melibeo. Fatela ridere, Uomo – Filosofo; fatela ridere come un galantuomo, ché le canaglie non ridono mai! Eccitate il gorgheggio delle risa; sommovete la limpida cascata delle liquide risa dal basalto ferrigno della roccia, nuovo Mosè; e goccia sotto al vostro bastone taumaturgo una fontana d’ilarità! Lia. Mosè-Uomo-Filosofo, Padre, anche, se vuoi; fammi ridere, via, inventa una facezia colla tua prosodia. Il Melibeo. Fatela ridere! – Fatela piangere! – Ecco, il Bardassa perora dal trespolo; un Poeta s’abbassa a fargli il paraninfo: *
La solita canzone del Melibeo, a cura di Gian Pietro Lucini, Milano, Edizioni futuriste di Poesia, 1910. Lucini finge di essere solo il curatore dell’edizione di questo lungo poema del Melibeo, in cinque libri, a loro volta divisi in capitoli, cui premette una Notizia del Melibeo, pp. 7-30, in prosa, firmata G. P. Lucini e datata «Il vj Gennaio, cmiij, al Dosso Pisani». Il cinema, nella forma dello spettacolo da baraccone di fiera, vi compare nel Libro terzo (pp. 167-243), Istoria di Lia (introdotto, pp. 169-174, da alcune pagine in prosa, Glossa al proposito e Nota doverosa, firmate G. P. Lucini e datate «Varazze il x di Febbrajo cmx»), nel «Capitolo Settimo / dove si avvicenda il Dialogo dei Motivi isterici d’Aprile», per usare le parole dell’autore (pp. 215-235). Il contesto è un dialogo tra il Melibeo e Lia (figura nella quale si deve riconoscere una giovane cugina, di cui Lucini si era invaghito): nel passo in questione, pp. 222-225, il Melibeo fa il «pagliaccio» per far ridere Lia: come un imbonitore, invita Lia a entrare in un «paviglione» delle meraviglie da fiera di paese, e una di queste meraviglie è il cinema. (Il divertimento cessa per Lia quando il Melibeo le mostra l’ultima meraviglia del padiglione, «una bella ragazza, una bella sfacciata», «ruffianella» da «lupanare»).
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La solita canzone del Melibeo
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ed ecco il Giuocoliero e il Saltimbanco malato e stanco, quasi ferito a morte, che fa a Lia l’inchino inorpellato a festa. Egli ti alletta nella sua baracca, e con te tutto il mondo: fa i complimenti, li attucci e il preambolo; increspa il muso, fa il capitombolo: fatela ridere, o deforme Pagliaccio. Io mi umilio e mi impaccio dentro la mota del sobborgo, perché Mimì Pinson n’abbia piacere, perché Colette, emula di Manon, arsa dal troppo ridere, avida venga a bere il coco al rubinetto del vagante acquajuolo. – Su! un colpo di gran cassa. Lia. Così, incominci bene. Il Melibeo. Ti pare? Optime il continuare. «Olà; ciascuno sia il benvenuto; non svoltolate via, è scortesia; l’invito è cordiale. Vi abbiamo aperte tutte le porte, tutte le porte, nessuna esclusa, ed anche la più nera e la più ascosa, la porta della Morte. Il Paviglione è tutto gioja e festa; è una protesta contro al pessimismo; non abbiate paura, la baracca è sicura dalle intemperie. Perché, Signore e Signori, nella baracca s’apparecchia il fulmine, la dinamite, il detonante serio e profittevole, la giustizia del cielo e delli uomini, il diamante puro, dalla storta, critica e sintesi di Lemoine; tutti i prodotti che si consumano, la ricchezza per l’Uomo e la Natura; vi si distilla e si distribuisce anche il semplice Amore. Il Paviglione è angusto ed è capace, come il cervello, e come il mondo, e come il cuore, Paviglione rotondo a rizzarsi, sopra ai due poli arsi dell’etra, il Male e il Bene; il catodo e l’anodo della morale in corso;
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Gian Pietro Lucini
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colomba o nottola, il dì o la sera, idee, fuochi fatui e sciocchezze, tenerezze di bimbe e studiate perversità;…» Lia, su, ridi… uno squillo di tromba! Lia. Ah! Ah! Il Melibeo. Non m’applaudire, aspetta la fine: «Ma dentro al Paviglione, con maggiore ragione, batterete le mani. Vi mostrerò l’ultime scoperte della scienza: ecco un cinematografo, perfezionato e brevettato – materia grigia, sensibile ai segni, simpatico e squisito diaframma, a conservar la luce, i colori ed il moto. Un teatro mecanico, dei quadri dissolventi, projettati nel vuoto, fatti rivivere, così, per giuoco; cinematografo, cervello ed arte, un’arte che si inganna, che riveste d’ogni preziosità questa tua fragile perversità.» Lia, su, ridi! Lia. Continua, benissimo. Ah! ah! […]
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Libero Altomare
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Proiezioni*
Sulla gran tela diafana del cielo, che ha un palpito impercettibile, nuvole, nuvole, nuvole, scivolano silenzïose, ad intervalli. Sono le proiezioni della Fantasia che il Sole elettrico suscita, incalza e sconvolge dalle pupille torbide occhieggianti ne la pellicola terrestre, dai fiumi obliqui che interrogano l’algebra celeste, dai mari, imperiosi sguardi o voluttuosi, o ambigui; dai laghi estatici e fascinanti: Visioni d’incubo, intime evocazioni d’attimi trascorsi, ricami e fiori di sogno, sbocciati da tutti gli scrigni dell’Anima violentati da un desiderio furtivo.
*
Libero Altomare [Remo Mannoni], Proiezioni, in I poeti futuristi, con un proclama di F.T. Marinetti e uno studio sul Verso libero di Paolo Buzzi, Milano, Edizioni futuriste di Poesia, 1912, pp. 84-85. Il poeta Libero Altomare, pseudonimo imposto da Marinetti a Remo Mannoni (18831966), dopo un esordio dannunziano (Rime dell’urbe e del suburbio, Roma 1908), con la raccolta Procellarie (Santa Maria Capuavetere 1909) fu accolto da Marinetti nel movimento futurista, cui prese attivamente parte, fondando il gruppo romano, e allontanandosene solo con l’avvicinamento del futurismo al regime fascista: cfr. il suo Incontri con Marinetti e il Futurismo, Roma, Corso, 1954.
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Libero Altomare
Passano, convogli zingareschi che trainano velli di fiere esotiche, funebri torpediniere cariche d’orchidee mostruose, cupole di moschee gravide d’arabeschi fiammanti. Passano, materializzazioni istantanee e volubili, grottesche o sublimi, d’occulti pensieri che naufragano nella dissoluzione. Cinematografo bizzarro, che le foreste arcigne, sui monti, nelle loro sedie millenarie di macigno, e le Città clamorose fumanti e le campagne, rosee come bimbe, infiocchettate di lilla, ammirano in coro finché la Pioggia – orchestra – intona il commiato sonoro.
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Dino Campana
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La notte*
Ne la sera dei fuochi de la festa d’estate, ne la luce deliziosa e bianca, quando i nostri orecchi riposavano appena nel silenzio e i nostri occhi erano stanchi de le girandole di fuoco, de le stelle multicolori che avevano lasciato un odore pirico, una vaga gravezza rossa nell’aria, e il camminare accanto ci aveva illanguiditi esaltandoci di una nostra troppo diversa bellezza, lei fine e bruna, pura negli occhi e nel viso, perduto il barbaglio della collana dal collo ignudo, camminava ora a tratti inesperta stringendo il ventaglio. Fu attratta verso la baracca: la sua vestaglia bianca a fini strappi azzurri ondeggiò nella luce diffusa, ed io seguii il suo pallore segnato sulla sua fronte dalla frangia notturna dei suoi capelli. Entrammo. Dei visi bruni di autocrati, rasserenati dalla fanciullezza e dalla festa, si volsero verso di noi, profondamente limpidi nella luce. E guardammo le vedute. Tutto era di un’irrealtà spettrale. C’erano dei panorami scheletrici di città. Dei morti bizzarri guardavano il cielo in pose legnose. Una odalisca di gomma respirava sommessamente e volgeva attorno gli occhi d’idolo. E l’odore acuto della segatura che felpava i passi e il sussurrio delle signorine del paese attonite di quel mistero. «È così Parigi? Ecco Londra. La battaglia di Muckden»1. Noi guardavamo intorno: doveva essere tardi. Tutte quelle cose viste per gli occhi magnetici delle lenti in quella luce di sogno! Immobile presso a me io la sentivo divenire lontana e straniera mentre il suo fascino si approfondiva sotto la frangia notturna dei suoi capelli. Si mosse. Ed io sentii con una punta d’amarezza tosto consolata che mai più le sarei stato vicino. La seguii dunque come si segue un sogno che si ama vano: così eravamo divenuti a un tratto lontani e stranieri dopo lo strepito della festa, davanti al panorama scheletrico del mondo. *
1
Dino Campana, La notte, in Canti Orfici, Marradi, Tipografia F. Ravagli, 1914, pp. 14-16; si cita dall’edizione anastatica Canti Orfici, presentazione di Rodolfo Ridolfi, Introduzione di Pedro Luis Ladrón de Guevara, Firenze, Libreria Chiari, 1994. Si tratta del dodicesimo brano della prosa La notte: che si riferisca a uno spettacolo di proiezioni cinematografiche, e non di lanterna magica, come intende Fiorenza Ceragioli nella sua edizione dei Canti Orfici (Firenze, Vallecchi, 1985), è persuasivamente dimostrato da Luca Mazzei, Dino Campana o della morte al cinema, in Cinema e letteratura: percorsi di confine, a cura di Ivelise Perniola, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 143-159. Il titolo della prosa della Notte nel Più lungo giorno – il primo manoscritto consegnato da Campana a Soffici nel 1913 – era del resto La notte mistica dell’amore e del dolore – Scorci bizantini e morti cinematografiche, corretto sopra un più antico Cinematografia sentimentale: cfr. l’edizione del manoscritto a cura di Domenico De Robertis, Roma, Archivi; Firenze, Vallecchi, 1973. Non vi sono tra le due stesure varianti di rilievo riguardo a questo brano. La battaglia di Mukden, in Manciuria, dal 21 febbraio all’11 marzo 1905, nella guerra russo-giapponese. Nei programmi cinematografici del 1905 figuravano vari cortometraggi su quel conflitto: cfr. Pedro Luis Ladrón de Guevara Mellado, Cinema e velocità: due aspetti della modernità nella poesia di Campana, in «O poesia tu più non tornerai». Campana moderno, a cura di Marcello Verdenelli, Macerata, Quodlibet, 2003, pp. 226-229.
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Francesco Meriano
*
Francesco Meriano, Prosa cinematografica, in Equatore notturno, Milano, Edizioni futuriste di Poesia, 1916, pp. 23-24, qui riprodotto; poi in Mario Verdone, Poemi e scenari cinematografici d’avanguardia, Roma, Officina, 1975, p. 42. Equatore notturno è il volume che sancisce l’adesione al Futurismo dell’appena ventenne Francesco Meriano (1896-1934), che dal giugno 1916 al 1919 fonda e dirige a Bologna con Bino Binazzi la rivista «La Brigata», sulla quale teorizza tra l’altro l’uso delle parole in libertà per esprimere «ciò che non è esprimibile con altri mezzi» (Dall’ideogramma al simbolo e più in là, in «La Brigata», i, 2, luglio 1916, p. 29).
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prosa cinematografica
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Pio Vanzi
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Lungo metraggio*
Le lettere di Nino dal fronte si somigliavano tutte: Cara mamma, ti fo sapere che qui si sta tutti bene e si aspetta con ansia il momento di potere sgominare per sempre l’infame nemico secolare... Oppure: Cara mamma, qui la solita vita. Il nemico si nasconde e non si lascia ancora sorprendere dalle nostre armi che sono pronte a dargli quella lezione che merita per la vittoria finale della nostra cara Patria... O anche: Cara mamma, ti prego di non stare in pena per me, che ho salute e coraggio da venderne. Ogni tanto ci arriva qualche confettino, ma scoppiano tutti bassi e noi siamo bene riparati dalla roccia... Questa piana, monotona e pur dolce letteratura epistolare metteva, ad ogni giro di posta, un nuovo tumulto nel cuore della madre, sempre in apprensione. Per lei, che era la mamma, che aveva dato la vita a quel figlio ora conteso dalla morte, per lei no, che quelle lettere non erano tutte uguali. Poiché non era mai uguale lo stato del suo animo, su cui andavano a scolpirsi. Oggi un brutto sogno fatto nella notte, domani una buona notizia letta sul giornale, poi la vista di una madre – un’altra madre come lei – vestita a lutto pel figlio caduto, erano tutte cose che la tenevano continuamente fra gli alti e i bassi della speranza e del presentimento, della sfiducia e dello sconforto, della rosea illusione e del nero presagio. Ma per le sorelle di Nino, oramai, le notizie che venivano dal fratello combattente così, sempre uguali, da settimane e settimane, non avevano già più l’interesse dei primi giorni. E, nella loro beata tranquillità, le due ragazze cercavano di infondere coraggio e fede e serenità nella signora Rosa, che certe volte, sì, via bisogna riconoscerlo, esagerava la visione dei rischi che Nino poteva correre. – Ma se ce lo scrive lui stesso – diceva Lilla – che in quella posizione dove si trova non c’è gran pericolo... – Capirai – soggiungeva Lella – che in quattro mesi se veramente fosse in un posto pericoloso, qualcosa gli sarebbe già successo... Invece, tutte le settimane scrive, e tutte le settimane si vede che fa la solita vita... Possiamo dirci fortunate, *
Pio Vanzi, Lungo metraggio, in «Noi e il mondo», vi, 3, marzo 1916, pp. 245-250, da cui si cita; poi in «La Vita cinematografica», ix, numero speciale, dicembre 1918, pp. 152-156, ma privo della pagina iniziale (comincia con l’ottavo capoverso: «Le ragazze! Quelle ora, ...»). Pio Vanzi (1884-1957), giornalista della «Tribuna» di Roma, tra il 1914 e il 1920 collabora al mensile «Noi e il mondo» e al settimanale «La Tribuna illustrata», oltre che al «Travaso delle idee» e al «Pasquino», per fondare poi il settimanale satirico «Serenissimo» (1921-1925). Scrive per il teatro (Carambola, 1913), ma è anche attivo come soggettista cinematografico (ad esempio per I topi grigi di Emilio Ghione, 1918), e come sceneggiatore e regista, soprattutto tra il 1917 e il 1922.
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Lungo metraggio
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che ce lo hanno destinato in una posizione dove certo non c’è da fare come altrove. Fosse sull’Isonzo, direi: lì sì, poveretti, che ne vedono di battaglie e ne corron di pericoli. Ma lassù... – Con quelle nevi – riprendeva Lilla – che vuoi che combattano? Ci fa freddo: ma lui ci scrive che non lo sente, ch’è ben coperto, che è tutta salute... La signora Rosa, intimamente, si addolorava un po’ di quella che poteva sembrare troppa spensieratezza delle sue ragazze, ma tuttavia si scaldava a quel conforto. Le ragazze! Quelle ora, insieme alla loro cugina, Marietta, avevano la testa altrove che al fronte, dove pure Nino sfidava ogni giorno il suo rischio terribile. Ma Nino, per cui pure, un tempo, Marietta mostrava qualche cosa di più che affetto di cugina, era lontano. E gli assenti hanno sempre torto. Mentre invece Marco, suo fratello, era vicino, sempre presente, e le sorelle e la cugina si interessavano enormemente alla sua personalità, alla sua vita, ai suoi racconti. E, certo, fra la vita di Marco e quella di Nino, fra le lettere di Nino e i racconti fatti a viva voce da Marco c’era un abisso. Quello, il soldatino vero, faceva la guerra vera, sì, ma monotona, grigia come l’uniforme dei combattenti, lenta, senz’altra manifestazione rappresentativa che le letterine settimanali, tutte intonate ad una sempre uguale monotonia. Marco invece, riempiva quotidianamente la casa delle sue gesta eroiche, con narrazioni piene di colore, di pathos, di movimento, di sorpresa... Via, siamo giusti, le ragazze di vent’anni non hanno, non possono avere la stessa mentalità, lo stesso gusto, gli stessi fremiti passionali di una mamma di cinquanta. La mamma stava a sentire, anche lei, Marco quando intratteneva le ragazze coi suoi racconti quotidiani: lo stava a sentire e si interessava, sì, perché dopo tutto era suo figlio e gli voleva bene come a Nino, come a Lilla, come a Lella; ma, in fondo in fondo, con gli occhi dell’anima, non vedeva che l’altro, solo lassù fra la neve, davanti alla morte, e le parevano un’irriverenza tutte quelle feste fatte a Marco, tutto quell’interesse per lui. E Marco trafelato, infatuato, raccontava, raccontava alle ragazze che si entusiasmavano, che bevevano con gli occhi ogni suo gesto, che correvano con la fantasia al di là di quanto egli narrava... – Ah! stamani, stamani sì che abbiamo lavorato! Io dovevo mantenere una posizione dentro la casa di una città redenta. Di sotto alla collina salivano gli austriaci, con le mitragliatrici e un cannone. Noi avevamo anche un cannone, mascherato dietro la persiana della camera dove io stavo, e dove, svenuta sul divano, era la figlia del signor Zagadin. – Chi? Zagadin? e chi è? – chiese la Lilla. – Zagadin? Il proprietario della villa: ve lo dissi ieri. Quello con cui io ho già avuto la famosa questione perché i nostri lo ritenevano persona sospetta e volevano farlo prigioniero... Dunque: qui a destra il divano con lei svenuta. A sinistra la finestra, col cannone pronto a sparare. Sotto, nel giardino, venti dei miei uomini, appostati con le mitragliatrici... – Ecco, gli austriaci spuntano dalla collina. Le mitragliatrici incominciano a lavorare. Prr... tatatà... tatatatatà... E poi: boum! boum! il cannone loro che entra in azione. E allora io, mentre con una mano sorreggo la
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testa di lei che ha aperto gli occhi e mi guarda, con l’altra tiro la cordicella e boum! sparo il cannone... Un fumo! un trambusto!... Ma quelli incalzano; sono nel giardino... I miei venti uomini si son ritirati dentro la casa e sparano, sparano... Vi assicuro io che le orecchie, in quel momento, non le avevo più... Allora io do l’ordine: Via tutti giù in cantina, per il tunnel segreto che porta in salvo. Io prendo lei sulle braccia, e giù, a precipizio. Infiliamo la galleria sotterranea, e via, via, trascinandoci dietro le mitragliatrici e il cannone. E lei, sempre mezza svenuta, sulle mie braccia. Ecco, accendiamo la miccia, come fece Pietro Micca, e via di corsa... Gli austriaci intanto sono penetrati nella casa e frugano dappertutto, cercando i documenti. Ma i documenti sono con me, nella mia giberna... Poi burubùm! La casa salta in aria e tutti gli austriaci sono ridotti a brandelli. Se vedeste che spettacolo!... – E lei? – Lei poi rinviene sotto la tenda, e lì c’è la grande scena d’amore..... Siamo giusti, via: tutto ciò poteva non impressionare la signora Rosa, che – fra l’altre cose – non aveva mai avuta una grande passione per il cinematografo; ma sulle ragazze, che avevano il delirio del lungo metraggio, che seguivano nei cento e più cinematografi di Roma ogni nuova produzione, che sapevano a memoria tutti gli abiti di Lyda Borelli nel Velivolo della fatalità o nello Spasimo che redime, in quattro atti e centosessanta quadri, i racconti di Marco passavano con brividi profondi di una voluttà tutta speciale, che non ha ancora un aggettivo nel dizionario della psicologia borghese, ma lo meriterebbe: la voluttà cinedrammatica. Voluttà materiata con le tante piccole e grosse soddisfazioni di grandi e minuscoli desideri eternamente repressi. Il teatro a buon mercato; le toilettes mai avute che si vedon passare a dozzine, e che si possono, alla meglio, anche imitare nei particolari meno costosi; e poi l’amore, l’amore diffuso a piene mani, così, come lo sognano le ragazze della piccola borghesia, l’amore che nasce nel contrasto, si ingigantisce nel dramma, fiammeggia nella disperazione e si sazia nel lieto fine. E poi l’ambiente, il grande ambiente: le duchesse, le principesse, le ville, i parchi, le automobili... Lilla, Lella e Marietta non sognavano altro. Le loro discussioni, le loro passioni, eran tutte lì. La guerra, quella vera, quella che Nino combatteva, non le aveva mai così afferrate, come le afferrava ora, da qualche tempo, la meno cruenta ma più passionale vicenda di Marco, riformato della classe 83, che la patria rifiutava, ma che il cinematografo aveva accolto a braccia aperte, dandogli perfino... il grado di tenente. E Marco non era un tenente come ce ne possono essere tanti: era «il tenente» della meravigliosa pellicola di soggetto guerresco-lirico-romantico-trascendentale che egli stesso aveva ideato e che la Rotofilm stava allestendo nel suo grande teatro fuori Porta, con scene di battaglie combinate così bene, con squarci di passione così sublimi, in cui non mancava proprio nulla per toccare il cuore delle ragazze. Marco era «lui», il «lui» del dramma. Lui che amava la patria, sì, ma a mezza strada, fra l’amor di patria e il dovere di soldato incontrava «lei», ed amava subito anche quella. Eh! l’amore, quando è grande, quando è cinematografica-
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mente sentito, ha posto per tutti. E lui, mentre con una mano sparava sul nemico, con l’altra portava a salvamento «lei» – che poi nella scena era nientedimeno che Ausonia, la famosa, la bellissima Ausonia, conosciuta su tutti i manifesti come la «stella del muto gesto che dice» – lei, Ausonia, che porgeva alle folle di tutto il mondo, col silenzio della sua mimica laboriosa, i più deliranti fremiti d’amore, le più cupe maschere di odio represso, le più strazianti o prorompenti vampe di complesso delirio psicologico... Così, da due mesi circa, Marco era l’eroe di casa. Anzi, del casamento. Perché Lella, Lilla e la Marietta facevano un gran parlare, dalla portineria all’ultimo piano, con le amiche, con le famiglie delle amiche, della film di Marco, della sua parte di tenente, delle toilettes di Ausonia, delle scene di battaglia e della rappresentazione che quanto prima nel nuovo cinematografo della Vittoria, avrebbe rivelato al grande pubblico quei duemila metri di pellicola, destinati al più clamoroso successo. L’eroe! la parola è un po’ grossa. Ma insomma, oramai molti del casamento lo chiamavano così. Certo per scherzo. Ma nel tono scherzoso c’era un fondo di ammirazione. E di invidia... Più di una volta Marietta, sentendo dalla finestra la cornetta dell’automobile che si fermava davanti al portone, si affacciava alla finestra, e provava un non so che, vedendo Marco discendere dalla bella vettura della Rotofilm, fare un gesto signorile di saluto allo chauffeur, ed infilare il portone sotto gli sguardi dei passanti che sapevano assai se quel giovanotto elegante era un attore cinematografico o un principe, o un duca, mettiamo pure un marchese, che ritornava alla sua garçonnière dopo la passeggiata mattutina... Quell’automobile a disposizione era l’ammirazione di tutto il casamento. Lo stesso portinaio, che ricordava il Marco di qualche mese avanti, il Marco impiegato d’amministrazione di una farmaceutica ai Banchi Vecchi, ora che se lo vedeva arrivare a suon di tromba, era portato istintivamente a dedicargli certe sberrettate che – non foss’altro per evidente ragion di esempio – non potevano essere da meno di quelle in cui si profondeva lo chauffeur. E quando un giorno Marco tornò ferito, col braccio al collo, il portinaio volle che si fermasse in portineria, per salir su lui, dalla signora, dalle signorine, a «prepararle», a dir loro che non si impressionassero, ch’era cosa da nulla, una scalfittura alla mano... La ferita era leggera, infatti. Uno strappo alla pelle, sul dorso del polso destro, in seguito a un incidente occorso durante una delle scene più indiavolate della film. Nella più prossima farmacia gli avevano messi tre punti, e poi l’avevano fasciato a quel modo, che pareva trattarsi di chi sa che frattura. Marco tranquillizzò subito, appena in casa, la signora Rosa e le tre ragazze. – Oh! roba da niente. In un assalto alla baionetta, una mossa falsa mia, la poca presenza di spirito di un cachettista, e la lama mi ha sfiorato il polso... Niente di grave: tre punti. Tre punti! Ferito! E lui lo raccontava così: «roba da niente...».
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Marietta sentiva dentro qualcosa più che l’ammirazione per l’attore cinematografico. Quanti, dopo tutto, alla guerra vera, non avevano avuto che due punti alla ferita? E lui tre! E come niente fosse. Ora ci fumava sopra una sigaretta. Marco, accesa la sigaretta, sfasciò il braccio, e mostrò la ferita. Le ragazze non avevano mai visto i punti, non avevano mai visto un taglio di quel genere nella carne viva. Sulla garza c’era anche qualche stilla di sangue. La signora Rosa guardava e scuoteva il capo, desolata. – Marco mio! Che hai fatto? Sta un po’ attento, per carità... Iddio mi ha risparmiato la pena di sapere anche te alla guerra, e ci mancherebbe altro, ora, che dovessi stare in pensiero anche per questo, per le tue finte battaglie... Andiamo, rifasciati, non tener così all’aria la ferita... Lella, Lilla e Marietta corsero all’armadio di camera, e portarono altro cotone, altra garza, e il sublimato e la tintura di jodio... Un pronto soccorso improvvisato. E Marco, a braccio teso, fumando la sigaretta, beato, si lasciò medicare dalle tre infermiere, gareggianti di premura. Pareva davvero l’eroe colpito. Certo Marietta pensò al «Gladiatore morente» nel fargli il nodo alla fascia. Per molti giorni fu così. L’ora della medicazione fu il momento più solenne della giornata, per Marietta, Lella e Lilla. La signora Rosa, dal suo angolo verso la finestra, guardava e meditava. Si sentiva triste. Vedeva Marietta affaccendarsi, imporporata, affettuosa, delicatamente civettuola attorno al suo Marco, e dentro di sé rivedeva qualcosa di un passato non troppo lontano. Rivedeva Marietta, durante la ultima villeggiatura di Cineto Romano, corrispondere con la stessa civetteria alle premure di Nino innamorato, e si domandava – le mamme hanno nel cuore il cuore dei loro figlioli! – se la fine improvvisa di quella villeggiatura non avesse spento sulle labbra del suo Nino una dichiarazione che stava per esprimersi... Poi Nino andò soldato... Ed ora eccola là, Marietta, innamorata di Marco. Oh! le mamme vedono sempre, anche dove non guardano. E la signora Rosa, pur guardando la calza di lana grigio-verde che stava intessendo, vedeva Marietta e Marco avvicinarsi sempre di più una all’altro, sentiva il focherello che li scaldava. Più di una volta, per seguire il corso di questi suoi pensieri, e fors’anche per lanciare un’occhiata furtiva verso l’altro angolo della stanza, dove Marco e le ragazze parlavano della prossima rappresentazione al Cinema Vittoria, le era accaduto di lasciare una maglia alla calza di lana. Ma Nino, infilandola non se ne sarebbe accorto. Che cos’è, in un giro di calza, una maglia di più o di meno? E che cos’è, per un cuore di madre, un sospiro di meno o di più? E venne la gran giornata. La film, annunziata dai cartelloni su tutte le cantonate, sarebbe stata proiettata quella sera al Cinema Vittoria. Marietta, Lilla e Lella, non si tenevano più. Avevano «propagandato» tutto il casamento, tutto il vicinato, tutto il cerchio delle amicizie e delle conoscenze. E avevano distribuito biglietti d’invito a destra e a sinistra. La parola d’ordine era
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lanciata: quella sera, alle nove, tutti al Vittoria. Inaugurazione di locale e debutto di pellicola: il grande, il meraviglioso lungo metraggio patriottico-sentimentale La sorella irredenta, nella superba interpretazione di Ausonia «la stella del muto gesto che dice» e di Marco de Fuego – nome d’arte! – autore ed attore. E, per di più, con accompagnamento di orchestra: trenta professori... Lilla, Lella e Marietta avevan cominciato la mattina alle otto a pettinarsi per la sera alle nove. Lella ondulava Lilla, Lilla ondulava Marietta, Marietta ondulava Lella. E poi i vestiti e le scarpe, e i cappelli e le unghie. Un da fare, un da fare, quella mattina... A mezzogiorno Marco arrivò, per la colazione, e trovò le sorelle e la cugina in vestaglia, con le teste ondulate a metà. L’altra metà dell’ondulazione avrebbe occupato le ore del pomeriggio. Si misero a tavola così, le ragazze, che parevan tre matte – diceva la signora Rosa. La colazione stava per finire quando la donna portò un telegramma. La signora Rosa impallidì... Eh! il cuore delle mamme... Le ragazze e Marco ammutolirono. Guardavan la mamma che apriva il telegramma, bianca più della tovaglia, con le mani tremanti come per febbre. La videro spianare il foglio, leggere in un baleno... – Nino! Nino mio! Arriva stasera! Ha avuto la licenza! E la signora Rosa baciò il telegramma, non più pallida, ma fatta di fuoco, come se lì, in quel pezzo di carta gialla ci fosse stato il suo ragazzo, il suo soldatino, vivo, sano, salvo dalla morte, in licenza! Si alzò, corse di là, chiamò la donna, chiamò Marco, le ragazze, volle subito preparare la camera per Nino. Tutto, tutto doveva essere messo a posto al più presto. Le lenzuola, le coperte, l’acqua, il sapone... Animo, su, svelti! Povero Nino! Chi sa che viaggio, che stanchezza! E che gioia, per lui, ritrovare un letto, il suo letto, rifatto dalla sua mamma, dopo quattro mesi di tenda fra le nevi! Le ragazze aiutavano, sì, andavano avanti e indietro anche loro, ma quando si incontravano nel corridoio, fuori della portata degli sguardi materni, si scambiavano certe occhiate, che volevano dire: – E ora? Sì, il ritorno di Nino, va bene... siamo felici anche noi. Lo riabbracceremo con tutto l’affetto... Ma Nino starà certo qui qualche tempo, mentre la serata al Vittoria è stasera e non un’altra volta. E le ondulazioni da finire? E le centomila e una cosa da fare ancora per le toilettes? E Marietta che deve ancora lustrarsi le unghie? Marco, messo a parte di queste legittime preoccupazioni, si assunse l’incarico di risolvere la situazione. – Mamma – le disse, mentre la signora Rosa, quasi inginocchiata per terra, stava spolverando le gambe della poltroncina a piè del letto di Nino – chi sa a che ora arriverà?
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– Stasera, dice il telegramma. Ma non c’è l’ora. Si vede che non poteva precisarla. – E... come si fa, noialtri, ad aspettarlo, se tarda? Noi, alle nove, ci abbiamo il Vittoria... Così Marco, con quel diplomaticissimo «noialtri» insinuò bravamente il suo programma. Noialtri – voleva dir Marco – se Nino tardasse, andremmo egualmente, giunta l’ora impellente, al cinematografo. E tu, mamma, l’aspetteresti a casa... La mamma afferrò a volo il programma strategico del figlio. E non tentò un’obbiezione. Che farci? Capiva bene che la gioventù non può pensarla come le povere vecchie... – Sì, sì, voi andate pure. Io l’aspetto. – Chi sa? – aggiunse Marco – potrebbe darsi che Nino arrivasse in tempo per venire anche lui con noi tutti. – Ma sarà chi sa come stanco! Vorrà andare a letto presto... Ci verrà un’altra sera. – No, mamma: ci tengo. Facciamo così: se arriva per tempo, in giornata, lo portiamo con noi. Se arriva che so, verso le nove, ce lo porti tu, dopo che s’è data una ripulita. Se arrivasse molto tardi, allora, pazienza... – Sì, sì – rispose la signora Rosa con la testa altrove – va bene. Sta’ tranquillo, ci penserò io... Alle otto e mezzo Nino non era ancora giunto. Le ragazze eran pronte. Marco si affacciava ogni cinque minuti alla finestra. Aspettava con impazienza l’automobile della Rotofilm, ordinato per quell’ora. Finalmente – pòooooo, pòoooo, pòooo – lo chauffeur avvertì dal basso che la vettura attendeva. Con un volo di allodole liberate dalla prigionìa, le ragazze filarono, con Marco, che ancora, dalle scale, raccomandava alla mamma: – Diglielo, mammina, che ci tengo. Se arriva in tempo e non è troppo stanco, portalo là. Ricordati i biglietti per le poltrone: sulla credenza in stanza da pranzo. Addio... – Addio... Sì, sì, non dubitate... La signora Rosa andò alla finestra. Ma non per vedere chi partiva: per scoprire lontano, fino in fondo alla strada, se l’altro arrivava. E Nino arrivò, giusto pochi minuti dopo. La carrozza non era ancora ferma sul portone, che la signora Rosa scendeva le scale con passo anche più svelto di quello con cui, un quarto d’ora avanti, le avevan fatte le ragazze. – Nino! Nino mio! – Mamma! Il portinaio, con il berretto in mano, aveva le lacrime agli occhi. Rimasero così, abbracciati, sulla soglia, senza dirsi nulla, con l’abbandono di chi, dopo lungo e periglioso viaggio, approda alla meta dolce d’ogni riposo. Salirono le scale tenendosi per la vita, col nodo alla gola che impediva alle
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parole di venir su. Entrarono in casa, si sedettero sul divanetto della stanza da pranzo, si guardarono a lungo, sorridendo a traverso un velo di lacrime... Poi, finalmente, le parole vennero, a torrenti. Nino raccontò. Disse tutto quello che le lettere non potevano dire. La sua vita di quei mesi, le battaglie, la ferita... – Ferito? dove, Nino? quando? Oh! cosa lieve. Una leggera ferita al polpaccio. Non l’aveva mai scritto, per non far stare in pena. E non aveva mai scritto anche un’altra cosa. Una cosa che aveva taciuto per fare una sorpresa alla mamma... Nino, raccontando, si era alzato, era andato alla valigetta, ed ecco. Ora, come a conclusione del discorso, ne cavava fuori un oggetto luccicante. – La medaglia! Hai avuto la medaglia! Nino se l’appuntò sul petto, con gesto di comico orgoglio. – Ecco qua! signora madre: eccovi il ritratto del perfetto eroe! presentate le armi! La signora Rosa gli saltò al collo, con amore feroce, e lo tempestò di baci... Alle dieci erano tutt’e due all’ingresso del Vittoria. Nino aveva sul petto la medaglia, e al braccio sua madre. Ma portava questa più in trionfo di quella. Un inserviente, ritirati i biglietti, li introdusse nell’ultima fila di poltrone, in due posti vicini, trovati a tentoni, più che scorti, nell’oscurità della sala. Sulla grande tela l’azione era nel suo pieno. A Nino fece un’impressione curiosa, appena seduto, di riveder suo fratello là, enorme, sulla tela, in uniforme di tenente, la rivoltella in pugno, alla testa di un manipolo d’eroi... cinematografici. Lo disse piano, alla mamma: – Dopo tanti mesi, ecco, rivedo ora Marco. Ma non lo posso abbracciare... Anzi, gli dovrei fare il saluto, perché lui è ufficiale, e io sono un caporalaccio qualunque... La signora Rosa strinse a sé il braccio del figlio e non replicò. Frugò, con gli occhi, nelle file avanti, e scorse Marco, vicino a Marietta; vide Lella e Lilla, e tutte le loro amiche... Anche Nino, li scorse. Tossì, due o tre volte, per farli voltare, ma l’orchestra coprì il suo timido richiamo. – C’è Marietta... disse alla mamma. – Sì... – Come sta? – Bene... – Mi ricordava, in tutto questo tempo? – Sì... ma, sai, è leggerina leggerina... Che stretta, al cuore, per la mamma! Oh! i cuori delle mamme, come dolorano, anche senza sapere – quando gemono, anche senza dire, i cuori dei figlioli.
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Pio Vanzi
L’azione, sulla tela, volgeva al culmine. L’entusiasmo della folla si andava manifestando sempre più sensibile. Mormorii, boati, applausi. Sicuro, anche l’applauso, ci fu, scrosciante, delirante, quando sull’alto di una collina, a passo di carica, arrivò il bel tenente, seguito dai bersaglieri, e piantò garrula al vento la bandiera italiana. L’orchestra intonò la marcia reale. Allora l’urlo della folla fu imponente... Il bel tenentino era là, grande, sulla tela luminosa, e pareva prendersi lui tutti quegli applausi. La signora Rosa, istintivamente, si strinse ancora più al suo Nino, gli appoggiò la testa sul petto, e nel buio della sala, non vista da alcuno, baciò piangendo quella medaglia che nessuno vedeva.
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Onorato Fava
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La principessa del sogno*
Il mio eroe non è propriamente un eroe. Sono mortificatissimo, signore mie, di non potervi dare nulla di meglio. Il fiore della gioventù è al fronte e in ciò che resta c’è molto poco da scegliere. Il mio eroe non ha di eroico che il cognome, quello di uno dei gloriosi vincitori della battaglia di Lepanto. Si chiama Doria, e, più precisamente, Bonaventura Doria. E, guardate un po’ l’ironia del destino: anche nel nome non può dirsi che la ventura gli sia stata molto propizia, non essendo riuscito in quaranta anni di vita che ad ottenere un modestissimo posto in uno dei tanti Cinematografi della nostra città. Nel suo fisico non c’è nulla che possa menomamente attrarre l’attenzione della gente. Non è un bell’uomo e nemmeno brutto. Anche le persone brutte possono essere interessanti, e voi, così esperte nell’osservare questi bipedi implumi che ambulano da mattina a sera sui marciapiedi della città, potete dire che anche fra i brutti vi sono di quelli, i quali posseggono una loro particolare attrattiva capace di fermare la vostra attenzione, di interessarvi e qualche volta di far battere più forte il vostro cuore. Bonaventura Doria è un uomo insignificante: il più mortificante aggettivo che possa darsi ad una creatura umana. Convenite con me che sarebbe anche preferibile essere brutto che essere insignificante. Egli non è una personalità, è uno dei tanti, come ce n’ha in tutti i regni della natura, uno di quei fiori senza nome che sbocciano fra i crepacci di un muro, sull’orlo di un fosso, ai piedi di una siepe, senza bellezza e senza profumo, che nessuno raccoglie; ovvero di quei pesciolini che il pescatore napoletano trova talvolta in fondo alla sua rete e che mette da parte e ai quali dà il nome collettivo di fragaglie. Esso è né alto né basso, né grasso né magro, né bruno né biondo, coi baffi di colore incerto, con gli occhi smorti: è sorpreso egli stesso del sorriso che qualche
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Onorato Fava, La principessa del sogno, in «L’Arte muta», i, 8-9, 30 marzo - 30 aprile 1917, pp. 16-21, da cui si cita; poi, con lievi varianti e il titolo La principessa azzurra, in Id. Torna la primavera. Novelle, Milano, Vallardi, 1919, pp. 211-226: nel volume, il titolo del film è mutato da La principessa del sogno in La principessa azzurra; la vicenda si dice accaduta «un anno fa», invece di «quattro mesi fa»; e la terza frase del testo suona: «Quando lo conobbi, il fiore della gioventù era al fronte e in ciò che restava c’era poco da scegliere». Onorato Fava (1859-1941), insegnante di lettere nelle scuole napoletane, prolifico novelliere, con predilezione per il bozzetto sentimentale e moraleggiante, pubblicò su quotidiani e periodici di tutta Italia testi poi raccolti in numerosi volumi di racconti, da Prime follie (Milano 1881), a Serenità (Milano 1939), oltre ad alcuni romanzi, e a una vastissima produzione di letteratura per l’infanzia. Questo racconto compare sull’elegante quindicinale cinematografico napoletano «L’Arte Muta», fondato e diretto a Napoli nel 1916-1917 da Antonio Scarfoglio e Francesco Bufi.
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Onorato Fava
volta appare sulle sue labbra senza colore e che fugge via subito, come se non valga la pena di rischiarare quella faccia indifferente. Eppure Bonaventura Doria, fino a poco tempo fa, era una creatura umana che non solo mangiava e vestiva panni, ma pensava e sentiva, che lavorando per vivere come tanti altri, trovava nel lavoro la soddisfazione di vivere. La sua anima, perché non vorrete dubitare che, per quanto insignificante, non abbia anch’egli un’anima, non osava avventurarsi verso le vette di desiderii febbrili, di aspirazioni inappagabili. Egli non sognava neppure di prender parte al banchetto della vita, ma si accontentava di restarsene in un cantuccio a sbocconcellare il suo tozzo di pane. Il Cinematografo, nel quale Bonaventura Doria prestava servizio, era allora uno dei più modesti della città, eppure portava (per ironia anch’esso) il nome di Cinematografo Mondiale. E il proprietario aveva pronta la sua giustificazione contro i critici: era mondiale perché sul suo schermo bianco passavano, in visioni tragiche o comiche, cose e persone di ogni parte del mondo. Come ogni cinematografo che si rispetta, aveva la sua orchestrina formata da un pianoforte, un violoncello e un contrabbasso. E ai tre umili sonatori, che strimpellavano quegli strumenti da mattina a sera, il pubblico dava generosamente il nome di professori (ironia anche questa come le altre). Il violoncello era Bonaventura Doria e si può ben dire che era proprio lui nel senso preciso della parola, perché i due formavano una persona sola. Avevano la medesima età, il medesimo placido e sereno modo di intendere la vita. Così, quando Bonaventura aveva perduto un dente molare, consumato dalla carie più che dal soverchio uso del cibo, se lo aveva fatto strappare, e quando al violoncello si era rotta una corda, lo strumento si era rassegnato a vedersela portar via senza nessuna sostituzione. Nessuno protestava perché l’abile archetto del sonatore sapeva trarre mirabili effetti dalle corde superstiti. La sala si apriva al pubblico a mezzogiorno e si chiudeva alle dieci di sera: la domenica si anticipava di un’ora l’apertura e si prorogava di altrettanto la chiusura. Così, per dieci ore al giorno e dodici la domenica, Bonaventura e i suoi due compagni di catena grattavano i loro strumenti, con le sole brevi interruzioni dei cinque minuti fra spettacolo e spettacolo, abbreviate talvolta dalle vive impazienze del pubblico. Il repertorio era limitato. Dei pot-pourris sul Rigoletto, sulla Cavalleria rusticana, sulla Vedova allegra, che si alternavano con qualche valzer di Strauss o con qualche marcia militare. Del resto non era necessario cambiare, poiché la gente non veniva per la musica e si accontentava di quella che le davano. I sonatori avevano finito per non guardare più le loro carte, e i tasti del piano e le corde dei due strumenti ad arco sonavano, si può dire, da sé, come animali ammaestrati, sotto le dita dei loro padroni. Così Bonaventura Doria, senza cessare di muovere l’archetto, alzava spesso il viso in su a guardare che cosa avvenisse sullo schermo, o volgeva gli occhi sul mutevole pubblico che si avvicendava di ora in ora in platea. Ciò che vedeva sulla bianca parete non era invero troppo divertente. Voi, signore, che ve ne state comodamente laggiù in poltrona e osservate lo svolgersi dell’azione in un’armonica fusione di linee, d’interni, di panorami, di visi, non potete neppure immaginare che cosa diventino quelle linee e quei visi, visti dal
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La principessa del sogno
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punto da dove li vedono i sonatori. È qualche cosa di peggio che assistere a una commedia dalle quinte. Le figure appaiono deformate, grottesche, con delle teste enormi, degli occhi bovini, delle bocche che si aprono come forni, dalle mani che si allungano come tentacoli di polipi, le case sembra che sieno per cadere addosso all’osservatore, gl’immancabili automobili sembra che siano lì lì per investirlo. A Bonaventura ciò appariva come una formidabile caricatura della vita, e quei personaggi come creature in convulsione, pur avendo il buon senso di comprendere, che, da lontano, lo spettacolo doveva essere diverso. Più interessante era per lui il pubblico, perché formato di suoi simili che si divertivano e al divertimento dei quali portava egli pure, con un certo orgoglio, il suo contributo. Signore e popolane, vecchi e giovani, brillanti ufficiali e panciuti borghesi, facce stupefatte di provinciali, visetti commossi di sartine, occhi curiosi di monelli, bocche strette dalla commozione o aperte alla risata clamorosa, era tutto un mondo vario di espressione, di atteggiamenti, di colori che gli appariva a tratti quando si accendeva la luce elettrica, o che indovinava nella penombra, durante lo svolgimento della film, un mondo dal quale egli viveva fuori come uno spettatore indifferente, un mondo che non si curava di lui ed era esclusivamente assorto nel seguire i casi lieti o tristi che si succedevano sulla tela. Il mondo non si curava di lui, ma egli non se ne accorava. Forse, visto da vicino, era grottesco, come i quadri del cinematografo. E poi egli sapeva di essere uno dei tanti, una vite minuscola di una grande macchina, una di quelle viterelle che si possono anche togliere senza che la macchina si arresti. Non aveva parenti, non aveva amici, tranne quei due compagni di fatica che non potevano interessarsi ai casi suoi, perché egli non aveva casi meritevoli di interessamento. Viveva perché era vivo, suonava perché sapeva suonare, veniva lì ogni mattina perché era il suo dovere e avrebbe continuato a compierlo finché non fosse giunto il momento di sparire inosservato come era vissuto. Si volgeva talvolta indietro per cercare nel passato il ricordo di qualche ora più luminosa, senza riuscire a trovarvi che un grigio uniforme punto diverso dal presente. Qualcuno gli aveva detto che la più grande gioia della vita è l’amore, che, per un uomo, l’essere più interessante della creazione è la donna e che bisogna saper afferrare l’occasione pei capelli. Ma egli, pur persuaso che nell’amore e nella donna fosse il vero fascino della vita, si domandava come fosse possibile afferrare l’occasione pei capelli quando l’occasione è calva e finiva per convincersi che quella suprema gioia fosse riserbata ai più fortunati e meno timidi di lui. Così lasciava andare la gente per le vie larghe e luminose ed egli continuava a trotterellare tranquillamente per il suo sentieruolo solitario. Eppure anche sui sentieruoli solitari può capitare di incontrarsi inaspettatamente con qualcuno che viene a sconvolgere da cima a fondo la nostra vita! La cosa avvenne quattro mesi fa. Il nuovo cartellone annunziava La Principessa del sogno in 3 parti e 80 quadri. Era un’azione fantastica che aveva per protagonista un cavaliere nobile e bello, il quale
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Onorato Fava
compiva le più eroiche imprese, ma era sempre scontento. Ad ogni nuova vittoria, gli appariva in sogno una leggiadra figura che lo ammoniva: – «L’unico fiore della vita è l’amore. Finché non lo avrai colto non sarai felice» – Il nobile cavaliere sorrideva del sogno e chiedeva alla gloria la felicità. Ma ad ogni nuova impresa la leggiadra figura lo ammoniva: – «Una vita senz’amore è come una giornata senza sole» – Ed egli, che vantava ricchezze e potenza, comprese che, se non avesse conquistata colei che diceva di possedere il fiore della vita, non avrebbe avuto pace. Si mise a girare il mondo, non più alla caccia di nuove terre e castella, ma col solo intento di raggiungere la Principessa dei suoi sogni. Per lei rinunziò alla ricchezza e al potere, per lei rinunziò alla gloria. Andò come l’assetato pellegrino a traverso il deserto in cerca della fonte viva, finché al termine del lungo ed aspro cammino, la Principessa ebbe pietà dello stanco pellegrino, ed in premio delle sue fatiche, gli porse il desiato fiore della vita. I professori di orchestra avevano adattato all’azione alcuni motivi della Manon e di Madama Butterfly, e la suggestiva musica pucciniana rendeva in molti punti tutto l’ansioso desiderio della eterna sete di amore. Il violoncello aveva fremiti che non aveva mai avuti, come se le corde fossero toccate da un’altra mano, e Bonaventura Doria levava di tanto in tanto lo sguardo allo schermo bianco, sorpreso dalla visione di un mondo sconosciuto. I suoi occhi vedevano ora, dietro le grottesche immagini che si agitavano sulla tela, la figura lontana e vaporosa della Principessa del sogno, che pareva lo fissasse coi suoi grandi occhi neri e offrisse a lui il misterioso fiore. Abbassò il capo come preso da vertigine e si volse a guardare nella penombra in cui era immersa la sala. E gli sembrò come se, in quella penombra, la bella creatura si ergesse dinanzi a lui e lo guardasse coi suoi grandi occhi neri. Credette in uno scherzo della fantasia e sorrise, e l’archetto, che gli aveva tremato nelle mani, riprese il suo cammino. Quando, in un intermezzo dell’azione, le lampade si riaccesero improvvisamente e la sala fu inondata di luce, Bonaventura si levò in piedi e si volse di nuovo ad osservare il pubblico. Essa era ancora là, viva, nella terza fila di sedie, con le pupille umide di commozione, con le labbra dischiuse come i petali di un giglio. Ella lo guardò per un istante, e Bonaventura sentì uno sconvolgimento in tutto il suo essere. Il mondo non si era mai curato di lui, ma il momento era pur venuto in cui una leggiadra creatura lo aveva guardato per un istante. La luce si spense, l’archetto riprese il suo cammino. Poi l’ultimo quadro svanì e il pubblico si levò per uscire. Era l’ultimo spettacolo della giornata e anche i sonatori, deposti i loro strumenti, si separarono. La serata era umida e fredda. Bonaventura Doria si calcò il cappello in testa, si abbottonò la giacca, alzò il bavero, osservò il cielo nuvoloso, da cui venivano giù i primi goccioloni di pioggia, guardò da un lato all’altro del marciapiede nella vana ricerca di qualche cosa o di qualcuno: poi, rassegnato, affrettò il passo verso casa. All’angolo di via S. Giacomo la pioggia crebbe in maniera inquietante. Il povero violoncellista non aveva paracqua, e cercò rifugio sotto l’atrio di un portone, dove già una ventina di persone si erano riparate. Qualche minuto dopo una gio-
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La principessa del sogno
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vine donna apparve sul marciapiede, si fermò dinanzi al portone, chiuse il paracqua grondante, entrò. Era lei. Bonaventura si ricordò d’aver pensato un giorno non essere possibile afferrare l’occasione pei capelli quando l’occasione è calva. Ma questa volta essa li aveva i capelli, e che capelli! E gli parve di rivedere davanti a sé la Principessa del sogno. Rimase qualche minuto come rapito, quindi abbassò gli occhi, esaminò la propria persona, la giacca stinta, i calzoni rimboccati, le scarpe inzaccherate ed arrossì della sua miseria. La furia dell’acqua era scemata. La giovine donna riaprì il paracqua e uscì dal portone. Egli la lasciò andare, poi anche lui si decise. La pioggia era diminuita, ma non cessata. Bonaventura andava rasente i muri delle case, ma ogni tanto l’acqua delle grondaie lo investiva senza che egli badasse a scansarla. E la Principessa del sogno ebbe pietà del timido pellegrino. – Se volete approfittare del mio ombrello… – propose con la voce carezzosa. Egli si riscosse. – Oh grazie! – mormorò. – Voi siete professore di orchestra al Cinema Mondiale? – Sì. – Suonate il violoncello? – Sì – ripetette lui. – Vi ho riconosciuto. Io ero in platea. Non mi avete visto? – Si, vi ho visto. – Com’è bella quella film. Mi è piaciuta tanto. – Ah sicuro, è molto interessante. – E quella principessa quanto è graziosa! – Sì – sospirò lui. Voleva soggiungere: – Anche voi siete graziosa! – ma non osò. – E voi pure suonate bene. – Grazie. La gente non bada alla nostra musica. – È vero, ma quando è buona, piace sempre. Bonaventura non rispose. Pensava dentro di sé al motivo che aveva spinto quella creatura giovane e bella a mettersi sul suo sentiero, a mostrare interesse verso un uomo insignificante, non giovane né bello. Povero illuso! Aveva sognato che ella gli porgesse il fiore dell’amore, l’unico fiore della vita, ed ella non gli aveva porto che il suo paracqua per ripararlo dalla pioggia. In quell’atto non vi era forse altro che un senso di pietà. – Dove abitate? – chiese lei. – A San Potito. – Benissimo. Io vado più lontano, ma faremo Toledo insieme. – Quanto disturbo per me! – Che disturbo? Se il caso fosse capitato a me, non avreste fatto lo stesso? – Oh, certamente! Continuarono il cammino in silenzio. Ogni tanto lei esclamava: – Che tempaccio orribile! – ed egli non ardiva toccare un argomento più interessante del tempo. Eppure l’occasione aveva dei capelli così belli!
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Onorato Fava
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All’angolo di via Salvator Rosa si fermarono. Egli non ebbe il coraggio di domandarle dove abitasse e solo le chiese: – Verrete qualche altra volta al Cinematografo? – Sì, a rivederci – rispose lei lietamente e si separarono. I giorni trascorsero uno dopo l’altro, e poi le settimane, ma la gentile creatura non ricomparve. Invano Bonaventura Doria figgeva gli occhi nella penombra, scrutando le facce degli spettatori che riempivano la sala senza poter ritrovare il viso noto. Non gli restò per un po’ di tempo che il magro conforto di quell’altra Principessa emergente dal fondo dello schermo bianco, poi mutò spettacolo e disparve anche quella. Ricordava la memorabile sera di pioggia, la leggiadra figura che camminava svelta al suo fianco, la testina bruna, i grandi occhi pieni di bontà, la voce affettuosa che rievocava nell’anima intorpidita di lui la dolcezza di carezze materne da gran tempo svanite. Ricordava i moniti che apparivano in grossi caratteri sulla candida tela: «L’unico fiore della vita è l’amore» «Una vita senza amore è come una giornata senza sole». Egli aveva per un momento creduto che per tutti sbocciasse questo fiore e non capiva che ormai era troppo tardi, che egli non lo aveva coltivato a tempo ed esso era inaridito prima di schiudersi, che era ridotto come quegli scheletrini di rose che si trovano dimenticati tra le pagine dei libri e che cadono in polvere al minimo tocco. Ella non sarebbe tornata più. La sua vita non sarebbe stata ormai sino alla fine che una lunga giornata senza sole. Una mattina Bonaventura si avviò come al solito al suo lavoro laggiù, dove lo aspettava il violoncello, l’unica cosa fedele che gli fosse rimasta. Giunto dinanzi alla porta del Cinematografo, si fermò sorpreso. La porta era chiusa e vi era appiccicato un cartello rosso sul quale lesse: Per ampliamento la Sala resterà chiusa otto giorni. Ricordò che il proprietario, incoraggiato dal discreto successo, pensava da qualche tempo di prendere in fitto un locale limitrofo, per ingrandire la sala divenuta insufficiente. Se ne compiacque perché il secondo pensiero che gli venne fu che le sue condizioni sarebbero migliorate. Il proprietario aveva promesso che, se le cose andavano bene, non avrebbe trascurato l’orchestra, e l’assegno di Bonaventura da tre lire sarebbe stato aumentato a quattro lire il giorno. Intanto aveva una settimana di vacanza. Come l’avrebbe impiegata? Si trovò imbarazzato e quasi quasi gli rincrebbe di non poter ritornare al suo posto a strimpellare il fedele strumento. Ma ad un tratto la molla nascosta in fondo al suo cuore addormentato vibrò e gl’infuse nelle membra un vigore nuovo. Anch’egli aveva diritto al sole, anch’egli voleva assidersi al banchetto della vita. La Principessa del suo sogno l’attendeva ed egli sarebbe andato a raggiungerla. E consacrò quegli otto giorni alla laboriosa ricerca. Napoli è grande, ma anche il suo desiderio era grande. Andò come l’assetato pellegrino a traverso il deserto in cerca della fonte viva, e all’ottavo giorno la trovò. Fu su di un tram della linea di Posillipo. La leggiadra persona era chiusa in una sopravveste grigia, la chioma bruna era
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La principessa del sogno
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costretta in un berrettino nero a falde rotonde, fregiato di una coccarda tricolore e di un monogramma dorato. – Il biglietto, signore. Alla voce nota, egli diè un balzo. – Oh voi! – disse lei. – Vi ritrovo finalmente. Come state? – Bene, grazie. – E sentite… potrei domandarvi?… – Ora non possiamo parlare. Lo vieta il Regolamento. Al termine della corsa… – Va bene, va bene. E Bonaventura stette a guardare la graziosa fattorina, che andava e veniva nel corridoio del tram, distribuendo i biglietti, seria, corretta, contegnosa. – Perché non siete venuta più al Cinematografo? I passeggeri erano tutti discesi. Egli era rimasto sulla piattaforma dinanzi a lei, poggiata allo sportello. – Da quella sera non vi sono più tornata. Sto in pena per mio fratello militare. – Avete un fratello sotto le armi? – Sì, nei bersaglieri. Non ho che lui al mondo. Era tramviere e, da quando lo hanno richiamato, io ho preso il suo posto qui. – Ma tornerà, tornerà certamente. – Speriamo. – E così siete sola? – Sì. – Come me! – Anche voi? e aggiunse: – Perché non vi siete ammogliato? – Non ci ho pensato mai. – Potete pensarci ancora. Gli uomini sono sempre a tempo. Egli la guardò e aprì le labbra per parlare, ma non emise che un – Eh, eh – che non voleva dir nulla. – Chi sa che cosa diceste di me quella sera? – osservò ancora lei. – Che volete che dicessi? che foste molto gentile. – Pioveva in quel modo! Eravate bagnato come un pulcino. Pensai a mio fratello lassù in mezzo all’acqua e alla neve… – E aveste pietà di me. Bonaventura tacque, ora che aveva avuto la prova di quel sentimento che aveva mosso lei quella sera. Il tram riprese la via del ritorno. La fattorina lo lasciò ed egli restò sulla piattaforma a guardarla andare e venire, seria, corretta, contegnosa. E così anche questa volta non le aveva detto nulla di ciò che gli tumultuava dentro. Si irritò con se stesso, si diede dell’imbecille. Lei era sola, era libera, glielo aveva detto, gli aveva detto pure: – Potete pensarci ancora. – Che voleva di più? che aspettava? Si decise. Al termine della corsa avrebbe parlato, le avrebbe confidato il suo
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Onorato Fava
tormento. Forse ella avrebbe riso di lui, avrebbe crudelmente distrutto il suo sogno. Meglio così, meglio questo brusco risveglio che l’incertezza penosa che gli aveva tolto la pace. Sì, avrebbe parlato. Si sentiva forte. In ogni uomo, anche il più insignificante, ci è sempre un po’ dell’eroe. E parlò. Le disse tante cose. Si meravigliò, dopo, di aver parlato tanto. Le disse che aveva pensato a ciò che lei gli aveva detto, che si era deciso ad ammogliarsi, che gli avrebbero aumentato lo stipendio, che non era più tanto giovane, ma non aveva mai fatto all’amore, che si sentiva assai triste nella sua stanzetta fredda e solitaria, che sotto il paracqua di lei avrebbe affrontato qualunque intemperie, che degli uomini troppo giovani non si può essere sempre sicuri, che nel cammino della vita un trotto regolare affida meglio del galoppo sfrenato, che lei era la Principessa del suo sogno, la sola sua speranza. Gli occhi smorti dell’uomo insignificante erano ora come illuminati da una luce interna, la persona era eretta, il viso trasfigurato dalla commozione. Lei stette ad ascoltarlo in silenzio, tranquillamente, come se già sapesse tutto ciò che egli le diceva, poi un sorriso apparve sulle sue labbra. E Bonaventura Doria s’illuse che, in quel momento, entrasse finalmente il sole nella sua grigia esistenza. – Siete un brav’uomo – ella disse – Ma io non penso per ora a maritarmi. Io debbo pensare a mio fratello, la sola persona cara che mi resti al mondo. Lavoro per lui, lavorerò per lui finché, se Dio vuole, potrà tornare al suo posto. – Concedetemi di aspettarlo insieme con voi. Lei non rispose e lui non osò più dirle nulla. Aveva atteso per quarant’anni la sua giornata di sole e aspettò ancora in silenzio. In una triste mattina d’inverno giunse la notizia che tra i feriti reduci dal fronte c’era il bersagliere. Si era battuto come un leone, come sanno battersi gl’italiani. Aveva preso la medaglia, ma la mitragliatrice austriaca gli aveva portata via una gamba. E la pietosa fanciulla, atterrita, col cuore infranto, era accorsa all’ospedale, si era gettata, piangendo, fra le braccia del fratello. – Resterò con te, solo con te, sempre. Davanti a quei due eroi del dovere, Bonaventura Doria sentì tutta la miseria della sua vita tapina. Una profonda vergogna di sé gli soffocò definitivamente in fondo al cuore inaridito ogni desiderio. Con quale diritto egli osava dunque chiedere il fiore che la Principessa del sogno aveva porto al nobile e valoroso cavaliere? Che cosa aveva egli fatto per meritarlo? E che restava da fare all’uomo insignificante se non ritornare nella grigia mediocrità, dalla quale si era permesso di uscire? Il Cinematografo Mondiale ha preso il nome di Cinematografo Universale. Tutto vi è stato mutato, rinnovato, abbellito. Il solo violoncellista non è mutato. Egli è sempre là, al suo posto da mezzogiorno alle dieci di sera. Vive perché è vivo, suona perché sa suonare, viene lì ogni mattina perché è l’obbligo suo e continuerà a venirvi finché non sia giunto il momento di sparire inosservato come è vissuto, e la piccola vite cadrà al suolo consunta, senza che la grande macchina del mondo si arresti.
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Pier Maria Rosso di San Secondo
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Pur che non si parli…*
Ora non più, ché, se m’adagio e socchiudo gli occhi, lo schermo dell’animo mio brulica di così intense angosce, da costringermi a distoglier lo sguardo a spaziare, per riposo, sul prato verde, sui monti turchini lontani, sul cielo azzurro, o sulle aiuole della vita così rare che quando una se n’è trovata, vi si vorrebbe dormire e morire avvelenati dal suo profumo… Ma allora non avevo anche appreso a sbirciare, traverso la mala lente della coscienza, quel che m’avveniva in cuore; e perciò andavo smaniando tra gli uomini, e tra gli uomini andavo soffrendo, senza tuttavia comprendere… senza trovarne il senso… Ed ecco che l’esistenza con le sue necessità mi pungeva i fianchi, mi maltrattava d’ogni lato, non mi lasciava pace. Ero nel mondo come in una ressa con i gomiti della folla appuntati contro le mie deboli membra: non volevo che sognare allora, trarmi fuori nel sogno per foggiarmi, a mio modo, una più vaporosa atmosfera… Per questa ragione l’ultima mia adolescenza, viaggiai ogni sera, immancabilmente, da un cinematografo all’altro della città… Come mi parvero dolci le dame sullo schermo, quando la sala s’abbuiava! Quelle che non trovavo per istrada, al caffè, nel salotto, ecco, le vedevo, le adoravo, irreali sulla tela, senza parola. Mi pareva che smorzandosi le lampadine, il mondo tutto, il mondo della trista necessità, si smorzasse intero, precipitasse in un baratro di dimenticanza, che non vivessero davvero se non quelle, se non quelle dame di sogno piene d’amore, di passione, or piangenti, ora ridenti, ora sconsolate, ora gioconde, ora perfide di voluttà, ora miti e divine; come proprio si sognan le donne quando si ha tanta tanta sete di baci veri, e si dilatan le narici per respirare l’alito di colei che non può respirare, creatura di fantasia, creatura nata dal desiderio dell’anima nostra che non trova, Dio mio! che non trova… Le conoscevo tutte le care damine. Uscendo di casa, che gli ultimi bagliori del *
Pier Maria Rosso di San Secondo, Pur che non si parli…, in «Penombra», i, 2, gennaio-febbraio 1918, pp. 8-10, da cui si cita; poi in Id., Io commemoro Loletta. Novelle, Milano, Fratelli Treves, 1919, pp. 11-18. Rosso di San Secondo (1887-1956), drammaturgo dai tratti pirandelliani (La sirena ricanta, 1908; Marionette che passione!, 1918; La bella addormentata, 1919), è autore anche di vari volumi di racconti (primo fra questi Ponentino, 1916) e romanzi (La fuga, 1917). La novella compare, illustrata da disegni di Sto (Sergio Tofano), sul secondo numero di «Penombra» (poi, dopo breve interruzione, «In penombra»), «rivista di arte cinematografica» diretta a Roma da Tomaso Monicelli, che intendeva occuparsi di cinema nel contesto delle altre arti moderne (non solo letteratura, musica, spettacolo, ma anche architettura, arredamento, moda), e a cui sono invitati a collaborare nomi prestigiosi: vi figurano scritti di Pirandello, Tozzi, Antonio Beltramelli, Fausto Maria Martini, Roberto Bracco, Antonio Baldini, Salvatore Di Giacomo, Lucio D’Ambra.
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Pier Maria Rosso di San Secondo
tramonto salutavano con tenera mestizia le facciate delle case, il via-vai dei pedoni, la corsa dei tram, il brulichìo vario delle folle di prima sera – mi pareva di aver l’anima sospesa e leggera, impalpabile come una nota dispersa nell’aria. Oh, ch’io l’avrei vedute, tra poco, le care damine! Me, proprio me aspettavano: non aspettavan che me!… Sotto la luna, alcune in parchi notturni misteriosi. Altre vestite di esotiche vesti in pagode di regioni fatate: o tra palmizi immobili sotto l’occhio del Dio celato nei vulcani: o su spiagge tremule con sorrisi di spuma, fiocchi di nuvola in cielo, farfalle di vela sul mare… O pure, in ricchissime case con atri di marmo, con scaloni regali, con vestiboli dalle grandi vetrate istoriate, con saloni doviziosi, e ridotte inattese, morbide di pelli rarissime, di cuscini trapunti, di sete cinesi, di molte altre cose fatte per l’amore a bassa voce, per l’amore eterno di tutti i tempi, per il solo scopo per cui valga la pena di sopportarlo questo terreno passaggio… Quando fin l’ultima sala si chiudeva, né s’udivano più le orchestrine invitanti e si smorzavano gran parte delle lampade elettriche nelle strade quasi deserte, mi smarrivo in giro senza meta dietro fantasticherie romanzesche, ponendole ora in quel palazzo chiuso dinanzi a cui passavo, ora in un giardino buio serrato, dove pur giungeva un chioccolìo di fontane che pur sembravami un canto tra singhiozzi, l’invito disperato della notte per un godimento indefinito, inafferrabile… E solo solo mi sentivo; solo, che avrei invece avuto tanto bisogno di carezzine tenere, di manine morbide, di sospiri, e di labbra odorose come petali… Una volta, nel bujo, nel bujo della sala, mentre il mondo vero non esisteva più per me, e solo invece esisteva quello irreale di luci e d’ombre sulla tela – una volta sentii per davvero sospirarmi accanto. Non potei vedere altro che lo splendore di certi nastri azzurri su una camicia bianca. E fu tutto. Non vissi che per quei nastri azzurri. E le parlai. Aveva le manine guantate di bianco, nervose; e gli occhietti che le guizzavano tra il pallore del volto; però era caldo il suo fiato come se le sue piccole narici nere fossero profumate, e le parole sbocciassero dalla sua bocca come da un garofano molle che s’aprisse… Noi non si voleva fare come fanno tutti. Quasi, similmente alle ombre sullo schermo, non si voleva nemmen parlare. Si voleva star accanto, e magari prendersi per le mani, guardarsi, indovinarsi, e magari, poi, pian pianino baciarsi… Ma non come gli altri, no!… Dietro, ad esempio, un palmizio, circondato da macchie folte di salvia con i fiori rossi splendenti, tra ajuole luminose, in un viale solitario; oppure a piè d’una antica statua corrosa dal tempo, con la base avvolta d’edera in un’annosa villa di quercie; oppure alla sponda d’un laghetto solcato da cigni bianchissimi, nel silenzio rotto solo dal tonfo della ghianda. Noi cercavamo, senza dircelo, i nostri luoghi cari. Mi diceva, lei: – Domani, mio dolce signore… – Domani, mia perla… – Sarò presso una fontana che intorno intorno è cinta di gerani rossi e bianchi…
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pur che non si parli…
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Dovevo, perciò cercarla, indovinar la fontana ch’ella diceva… Oh, indovinavo! oh, la trovavo la tenera damina che amava celarsi… Tra un alberello d’alloro e un altro fresco e tremulo di gaggìa, con una cuffietta di seta bianca tuberosa, chiudeva il suo libretto tutto fregi ed oro, e sorrideva appena: come non fosse terrena lei, ma fatta di spirito solo; un soffio e un’apparenza di paradiso. Una carezza di mano, soltanto, un lieve bacio d’occhi, un bisbiglio di parola… e più nulla… Ascoltammo il sussurro d’un’ape su una campanula viola, il fruscìo d’una foglia che cadeva, il chioccolìo improvviso d’un merlo che sbucava innamorato da un folto roseto… E quando s’era colmi, colmi di tenerezza, elle piegava su me, e odorava più di tutti gli altri fiori… Un pezzo durammo così, senza dirci che monosillabi, bisbigliati appena come per non disturbare il silenzio, temendo di fare diverso della irrealtà delle figure sullo schermo. E fummo felici davvero, dicendoci nulla. Si posò la luna una notte in mezzo al prato, sì che non potendo trattenere in cuore la dolcezza del sentimento, traboccai: – Mi pare un lume di rugiada che bagni la distesa erbosa – le dissi, e tremai sfiorandole con la mano la spalla nuda. Rabbrividì anch’ella, ma di scontento. – Questa immagine non mi piace – soffiò. E non dicemmo più nulla. Mi preoccupai, dopo, di dir qualcosa che le piacesse, e osservai tutt’intorno cercando. Ma ogni volta titubavo pensando che forse le mie parole non sarebbero quelle care al suo cuore. Una farfalla bianca venne a lambirle l’ala del cappello leggero, un pomeriggio d’aprile, ch’intorno tutto era fiori e profumo. Spontaneamente susurrai: – È la tua sorellina dell’aria che ti reca il suo bacio… E subito tremai che forse non le sarebbe piaciuto. E infatti si adombrò in viso, rispose: – Io non ho sorelline dell’aria. Questa immagine non mi piace. Tacqui un’altra volta, ma mi restò nell’anima non so che amarezza. Non aspettavo che l’ora di vederla; ma l’ora venuta, un senso d’oppressura e di tristezza m’invadeva. M’invadeva anche un bisogno di piangere, perché tante cose avendo da dire, nessuna più potevo dirne come mi fioriva dall’anima. E così la colsi distratta, da allora, qualche volta mentre s’era insieme. Mi distrassi anch’io. Seguii la libertà del volo d’una rondine nel cielo azzurro, il capriccioso sfilacciarsi in cirri rosa d’una nube attonita nel tramonto. Passò una fanciulla in corsa con la treccia d’oro sul celeste del vestito; palpitai come al frullìo inatteso d’una tortora fuor della siepe. Mi disse rabbiosa: – Va!… Va!… La guardai, e conclusi la sua esclamazione dentro di me: «Va, va, tanto è finito ormai, che abbiamo parlato».
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Pier Maria Rosso di San Secondo
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Non me n’andai tuttavia sull’istante. Tornammo insieme nei giardini, nelle ville, nel prato e parlammo, parlammo sempre. Ma non c’intendemmo più. Perciò non ci vedemmo più. Solitario, come una volta, mi videro vagare le strade notturne della città; ma non come prima m’aleggiava intorno con la brezza il palpito della speranza, né un’abbandonata chioma di roselline fuor del muro d’un giardino, o il misterioso alto verone del palazzo di marmo nascosto in parte da un’estatica cima, suggerivano fantasie al cuore anelante. Anzi eran punture, ormai quelle cose, al mio cuore; come se le vedessi e le avessi tuttavia perdute, come se non appartenessero più al mio sogno. E mi provai anche a tornare nel buio del mondo sommerso, dinanzi alla sola realtà irreale dello schermo su cui si muovevano, sorridevano, piangevano, amavano, doloravano le damine che m’avevano confortato un tempo. Ma ohimè!… ch’esse oramai parlavano, parlavano anch’esse per me… ne sentivo la voce; ben distinte tutte le parole… Si toglievano anch’esse dal fascino del silenzio, sì ch’io cominciavo a dissentire anche da loro… Ora non parlo più io. Se voglio soffrendo sognare, mi raccoccolo sulla poltrona azzurra del mio studio; e, mentre il venticello scherza con il nespolo ed il pesco contro le griglie della finestra nel giardino, socchiudo gli occhi e sullo schermo dell’anima mia passa, in figure vane, il dolore.
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ATTRICI E ATTORI
Aldo Borelli
Il duello di Miopetti*
Claudio Xilo perché quel giorno non doveva andare alle prove si permise il lusso di alzarsi a mezzogiorno, dopo aver fatto colazione a letto ed essersi annoiato parecchio sfogliando i giornali. Vestitosi riprovò immediatamente il bisogno di sdraiarsi di nuovo, perché il lungo sonno gli aveva intorpidito del tutto le membra. Si recò perciò nella stanza di studio tentando di scuotere di dosso quella sonnolenza, occupando la mente in qualche lavoro. Era già venuta primavera; dalle finestre ampie entravano ventate d’aria cariche dei profumi dei prossimi giardini che si profilavano sullo sfondo bianco delle facciate come favolosi scenari dipinti di fresco, densi di ombra, con qualche statua e qualche fontanella che si mostravano a mezzo tra la verzura. Claudio Xilo guardò tutto questo attentamente, notò quella curiosa espressione di falso e di manierato che la luce calda del meriggio dava ai giardini e mormorò: «Che meraviglioso sfondo per una films di amore. Bisognerebbe chiedere il permesso di farla, al proprietario!». Si indispettì subito del suo pensiero: «Queste maledette films non mi lasciano più pace, neanche nelle mie giornate di riposo! C’era bisogno che io pensassi ad esse prima di godermi schiettamente e tranquillamente questo dolce spettacolo?». Si allontanò dalla finestra sprofondandosi in una poltrona e proponendosi un problema molto increscioso: «Che cosa farò oggi? Lavorare no, perché è giorno di riposo e me lo voglio godere interamente; alle prove non ci vado per la medesima ragione. Quindi… divertiamoci!». Tirò un gran sospiro stendendosi ancora meglio nella poltrona e non decidendosi a nulla. Già, gli accadeva sempre *
Aldo Borelli, Il duello di Miopetti, in «La Tribuna Illustrata», xx, 16, 21-28 aprile 1912, pp. 242-244. Aldo Borelli (1890-1965), a Roma dal 1906, redattore del quotidiano «L’Alfiere» e dell’Agenzia Stefani, e corrispondente da Roma del «Mattino» di Napoli dal 1912 al 1914, inizia nello stesso periodo la collaborazione con «La Nazione» di Firenze, di cui diventa nel 1914 redattore capo e nel 1915 direttore; dirigerà poi dal 1929 al 1943 il «Corriere della sera».
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così nelle giornate di riposo. Le desiderava ardentemente prima di averle; quando giungevano non sapeva che farsene; ma poiché erano giornate di riposo non avrebbe lavorato neanche a morire di noia. Chiamò il cameriere tanto per scambiar quattro chiacchiere con qualcheduno: «Portami del cognac. C’è molta gente per le strade? Com’è andata a finire quella faccenda di tuo fratello?». Il cameriere compitissimo, che aveva al suo attivo un lungo servizio in una casa principesca, rispose con molta degnazione, recando il vassoio col cognac. – Ecco un vassoio che non sarò almeno obbligato a buttar per terra, pensò Claudio Xilo, e si sentì soddisfatto di poter centellinare il suo bicchierino e del cameriere così corretto che non gli avrebbe infine dato delle pedate e della poltrona così soffice, resa anche così solida che non si sarebbe sfondata a un certo punto per diletto del pubblico. Fatti questi che non avrebbero recato nessuna gioia agli altri uomini, ma che davano a Claudio Xilo la sensazione curiosa di trovare alfine se medesimo e di poter vivere almeno per pochi istanti sinceramente. Claudio Xilo era infatti solito di compire tutti quegli atti dinanzi ad una macchina cinematografica che li registrava scrupolosamente e mutatili in proiezioni luminose allietava per molti giorni i folti pubblici dei cinematografi. Claudio Xilo esercitava il suo mestiere da più di cinque anni. Attore brillante di una delle principali case cinematografiche, con l’obbligo di comporre egli medesimo le films che poi interpretava, era vissuto da quel tempo di una doppia vita molto curiosa, i cui limiti non aveva mai potuto nettamente segnare. La sua psicologia si deformava continuamente; l’attore faceva spesso capolino nella vita dell’uomo privato; l’uomo con i suoi nervi, i suoi scatti improvvisi turbava spesso la maschera dell’attore comico. Claudio Xilo avea fatto nella sua prima gioventù il letterato. Poiché stava per morir di fame avea messo a profitto le sue qualità di mimo. Da allora aveva guadagnato tanto da poter fare il signore. Ma Claudio Xilo, disgraziatamente aveva il torto di analizzare troppo di frequente la sua vita e di considerare la irreducibile duplicità che esisteva in lui, traendone motivo d’un riso che era più spesso amaro che soddisfatto. A forza di ridere continuamente dinanzi alla macchina, aveva dimenticato di far lo stesso ma sinceramente per sé solo. E viveva con un tremito nascosto ma continuo, che nessuna abitudine della scena era valsa a vincere, sorvegliando sempre i suoi atti, invigilando i moti delle braccia e delle gambe come se l’inesorabile macchina fosse sempre lì a registrarli. Gli accadeva di fermarsi talvolta a mezzo di un’occupazione per fare la sua smorfia usuale, la smorfia tipica e comicissima che era la delizia del pubblico ed aveva procurato alle sue films il successo entusiasta. Quando Claudio Xilo si accorgeva di questo rimaneva irritato per tutto il giorno: «Evidentemente, pensava, non posso più ridiventare un uomo come tutti gli altri». La films era diventata per lui un’ossessione, e nello stesso tempo egli odiava quella creazione brutale della comicità. Una vetrina colma di vasellame lo riconduceva subito all’idea di quell’innocue e fantasmagoriche catastrofi, che era spesso obbligato a determinare sulla
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Il duello di Miopetti
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scena. Una scala lo induceva in tentazione di buttarla passando, un corso d’acqua gli ricordava i frequenti bagni che faceva negli inseguimenti. Guardia di questura, ladro, signore del bel mondo, stallino, fattorino, soldato, operaio, Claudio Xilo indossava tutti gli abiti e tutte le divise; ma le sue parti che sembravano a prima vista così varie si riducevano in fondo a una sola: a quella del cretino maldestro che determina le più impossibili e inverosimili avventure e riceve in fine una bastonatura solenne. La parte del comico di cinematografi è immutabile come quella delle vecchie maschere. Claudio Xilo guadagnava il diritto di aver una casa signorile e di poter comandare a un cameriere, ricevendo ogni giorno parecchie pedate da una folla enorme di camerieri per burla, poteva sedere su una comoda poltrona solo a costo di fare due o tre volte a films un comico capitombolo da una sedia di cartapesta e si permetteva il lusso di andare in carrozza che filava tranquillamente e senza intoppi per le vie dopo aver finto chissà quanti ribaltamenti, sull’orlo di un fosso acquitrinoso. Claudio Xilo a furia di recitar sempre quella parte, aveva finito per non poter godere più la sua vita reale. Pian piano gli si era insinuato nell’animo un nascosto timore della folla, come se questa stesse sempre lì lì per bastonarlo dopo le solite marachelle; e provava un’indefinibile malessere nello stare in mezzo agli altri uomini come se temesse di dover sempre produrre in mezzo a loro uno di quei grossi guai che la sua fantasia fingeva sulla scena. S’era perciò appartato vivendo solitario; ma la solitudine volontaria gli inacerbiva ogni giorno di più il carattere. Con la sua lucidezza abituale egli si era accorto di tendere alla misantropia e se ne addolorava senza però poter vincere quell’istintivo moto di difesa che lo allontanava dalla società. Chiacchierava poco con i suoi compagni attori, che gli apparivano più frequentemente nelle truccature occasionali, che nella vita reale, e perciò non erano per lui delle vere persone vive, ma semplici mezzi, macchine produttrici di pianto o di riso; non aveva nessun amico, avendo interrotto tutte le relazioni col suo mondo letterario, e parlava solamente a lungo col suo cameriere, che, pareva, gli volesse bene. Quel cameriere così corretto e compito, che si muoveva per la casa con tanta dignità ossequiosa, serviva a rialzargli il morale nei suoi momenti di abbattimento. Non che Claudio Xilo fosse stupidamente vanitoso, ma tornando da quelle recite, in cui aveva dovuto subire per burla tante piccole e grandi umiliazioni, il suo spirito traeva materia di un umoristico conforto nel considerare l’eleganza della casa e nelle maniere di quel servo, che aveva servito con la medesima correttezza un principe di sangue reale. «Dinanzi al mio cameriere, pensava, tanto io che il suo ex-padrone e principe siamo uguali, ed egli ci accomuna nello stesso pensiero di rispettosa devozione». Claudio Xilo gli si era quasi affezionato, e non notava che anche il suo servo accoglieva con un certo senso di meraviglia alcune sue familiarità. Certamente quel bravo domestico aveva delle idee molto serie e ferme sulla gerarchia e non poteva ammettere un padrone che scendeva alcune volte sino a lui.
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Claudio Xilo decise finalmente di utilizzare il suo meriggio uscendo: «Andiamo a vedere come vivono gli altri e come sanno godere la loro vita». Si disse così, non senza una certa punta d’invidia per quell’umanità che trascorreva la propria esistenza in modo unico e continuo. «Io, pensava, sono come un libro in partita doppia tenuto da un contabile maldestro che confonde spesso le due rubriche». Le strade erano fitte di gente che strisciava più che camminare sui marciapiedi, indugiandosi dovunque, dinanzi ad una signora o ad una mostra, godendo il sole tiepido che spargeva una luce mite e tenue come una carezza. Abituato alla finzione scenica, Claudio Xilo, aveva l’impressione che tutti manifestassero i propri sentimenti con una ingenuità quasi brutale; un vecchietto ammiccava senza vergogna con gli occhietti lustri al passaggio delle donnine provocanti nella freschezza e trasparenza degli abiti primaverili, un gruppo di giovanotti rideva alle spalle del vecchio senza ritegno, le donne si compiacevano palesemente delle esclamazioni ammirative e grasse destate dal loro passaggio, né alcuno sembrava curarsi dei mille testimoni che aveva d’intorno, e offriva con tranquilla indifferenza la propria sensazione in pascolo dell’altrui curiosità. Claudio Xilo si divertì per un pezzo a notare quell’infinita varietà di atteggiamenti, si fisse nella memoria molte delle più caratteristiche smorfie, istintivamente, pensando di rifarle. Poi si irritò, al solito, di quel lavorare spontaneo, che lo riconduceva fatalmente a pensare al suo mestiere. Si fece trascinare dalla folla, senza più guardar nulla, senza pensare, godendo fisicamente quel piovere dolce di raggi solari che gli scioglievano le membra come un bagno benefico. Si fermò come gli altri dinanzi all’enorme cartellone di un cinematografo. Il suo nome vi brillava scritto a lettere da scatole: «Il duello di Miopetti - esilarantissima films, interpretata dal più grande degli attori comici: Claudio Xilo». Provò un improvviso moto di repulsione dinanzi a quel pseudonimo così stupido che del resto era così adatto alla stupidità di quel Claudio Xilo che recitava; e vide una lunga fila di altri Claudi Xilo travestiti da Cretinetti, da Stupidini, da Bietolini, tutti ugualmente miseri nella loro comicità chiassosa, riconoscibili tutti da quella smorfia caratteristica, quella smorfia che gli era venuta spontanea in un momento di dolore, ed egli aveva adattata a maschera comica. La smorfia era infatti una di quelle che preludono al pianto, stirando dolorosamente i muscoli facciali. Claudio Xilo l’usava nelle sue films quando era in procinto di ricevere una delle solite bastonature; e lo stridulo contrasto tra la maschera dolorosa e gli avvenimenti ridevoli diveniva fonte di una comicità senza fine. La folla si riversava a fiotti nel Cinematografo; l’attore seguì la corrente: «Andiamo a vederci vivere» pensò, «una soddisfazione che pochi possono avere». Sedé in un angolo, accanto ad alcuni placidi signori che s’erano inteneriti già seguendo la sorte di una povera orfana e si apprestavano a sommergere la commozione in un salutare bagno di risate. Passarono ancora sul bianco schermo alcune ridenti visioni di paesi, poi apparve l’avviso: «Il duello di Miopetti: Scena comica finale, ecc.». Il pubblico mandò un oh! di piacere leggendo il nome dell’attore favorito. Claudio Xilo sentì risuonar quell’oh! come uno scherno. Adesso gli erano d’un
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Il duello di Miopetti
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tratto rivenute alla memoria le tristi peripezie della sua antica vita letteraria, quando nessuno aveva emesso una esclamazione di compiacente meraviglia ascoltando una sua novella o una sua commediola. Eppure non erano così brutte, eppure là dentro c’era il meglio di se stesso, il fiore del suo spirito e del suo ingegno. Ma il pubblico preferiva quelle idiozie di films che egli faceva e recitava per mestiere come un automa, e piuttosto che la sua anima aveva preferito conoscere la sua smorfia. La films cominciò a svolgersi sullo schermo; il pubblico rideva continuamente. Miopetti era davvero impagabile e la sua miopia produceva ad ogni istante un disastro sullo schermo e una risata omerica nella sala. Claudio Xilo si guardava, tentando riconoscersi; come se si vedesse per la prima volta, meravigliato, furibondo contro se stesso: «Io sono lo stesso imbecille che si muove lassù!». Sentiva amore ed odio per quel Miopetti che gli metteva crudelmente sott’occhio se medesimo, obbligandolo a riconoscere la falsità meschina della sua arte comica. S’era illuso alcune volte di essere ancora artista malgrado la films, adesso s’accorgeva smarrito della volgarità di certi suoi atteggiamenti, della miseria della sua fantasia inventrice. «Stupido, mormorò in tono abbastanza alto, stupido». I signori che gli stavano accanto pronunciarono degli psit energici scandolezzati di quell’iconoclasta che voleva abbassare il loro idolo. Ma Claudio Xilo ormai non ragionava più, era indignato anche contro quel pubblico che si divertiva alle sue smorfie, abbandonandosi ad una ilarità grossolana che l’offendeva nelle sue più nascoste fibre di artista. «Stupido, ripeté, idiotissimo, basta!». Si udirono degli urli di protesta: «Fuori il disturbatore! Ma chi è? Ma che vuole? Fuori! Alla porta!». Un signore che gli stava accanto seccato gli disse: «Ma non disturbi lo spettacolo, ma la smetta!». Claudio Xilo si rivoltò insorgendo: «Taccia lei piuttosto; è stupido, stupidissimo il vostro Miopetti, lo capisce? o è stupido anche lei?» «Io, badi come parla imbecille!» «Oh! oh! Che c’è? Finitela, basta!». Molti s’erano alzati in piedi, le signore mettevano dei piccoli gridi di paura, la films fu interrotta improvvisamente e la luce tornò nella sala. I due litiganti furono subito circondati, premuti, interrogati. Claudio Xilo si divincolava urlando: «Imbecilli, idioti, idiota, parlo a lei sa, signore!». Colpito dal movimento che gli si faceva d’intorno ebbe per un momento l’illusione di trovarsi sul palcoscenico davanti alla macchina. Questo pensiero lo rese quasi frenetico. «Ci ritroveremo, signore, sa». E prese il suo biglietto da visita lanciandolo all’altro che lo raccolse con molta dignità preparando la risposta pungente. «Ma lei è Claudio Xilo, esclamò dopo un momento, ma allora è uno scherzo. Signore, sono felice di conoscerla!». Il pubblico assisteva meravigliato alla scena. «Ma chi è? Claudio Xilo! Miopetti! Proprio lui!». Un gruppo di buontemponi si mise ad urlare «Viva Miopetti, viva Miopetti!». Molti si serrarono intorno all’attore per vederlo bene, poi in un improvviso accesso d’ilarità lo sollevarono sulle braccia portandolo in trionfo per la sala e per le anticamere tra una folla plaudente. Claudio Xilo voleva divincolarsi, si dibatteva urlando. Voleva battersi ad ogni costo, sul serio, vivere schiettamente con i suoi nervi almeno quella volta. Sentiva di divenir brutale, feroce in un risveglio di animalità repressa per lungo tempo.
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Aldo Borelli
Gli pareva che il sangue solo avrebbe almeno per un istante lavato quelle labe di istrionismo che sentiva di avere addosso. Voleva la tragedia e si accorgeva disperandosi che questa precipitava in farsa irrimediabilmente. Vide da lontano dileguarsi il signore che l’aveva offeso e allora si abbandonò senza più resistere, vinto da quell’enorme desiderio di buffoneria che sentiva emanare della folla esaltata dalla straordinaria avventura. Finalmente lo posarono su una sedia; la folla piano piano diminuiva, poi non rimanevano accanto a lui che due custodi e il proprietario del cinematografo il quale gli offriva gentilmente i suoi servigi. Claudio Xilo si sentiva sfinito, affranto fisicamente e moralmente. Quel duello sfuggito, quel fatto di vera vita che s’era mutato in una specie di recita straordinaria assunse in lui un’importanza simbolica. Gli parve che quella fosse l’irrevocabile ratifica della sua vita da mimo. Ormai ogni sincerità di un’esistenza propria gli era vietata. Non gli rimaneva che recitare sempre, dentro e fuori del palcoscenico. Accasciato, provò quasi il bisogno di piangere, cercò trattenersi e fece la smorfia solita, la smorfia caratteristica e dolorosa fonte di tanta comicità. I custodi la videro e riconoscendola sorrisero soddisfatti pensando che l’attore manifestasse così la sua letizia per l’inaspettato trionfo di pochi momenti prima.
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Ugo Menichelli
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Il ritorno*
I Mario Landi uscì dall’atrio della stazione e nel piazzale si arrestò immobile. Genova, avvolta nell’ombra densa della sera, che i numerosi globi di luce elettrica diradava a tratti, spiegava al viaggiatore che giungeva, tutta la sua vita febbrile di attività e di lavoro. Ed egli provò un accoramento infinito nel rivedere quei luoghi noti, per i quali nella mente sua mai non era impallidito il ricordo in quella volontaria lontananza. La folla gli passava accanto frettolosa, urtandolo senza che egli se ne accorgesse, assorto com’era in una dolorosa meditazione. Era tornato! Ma perché? Per quale scopo? Egli non sapeva trovare una spiegazione a quelle domande, che si rivolgeva. Era tornato, ricondotto lì da un desiderio intenso di rivedere i luoghi dove era vissuto un tempo. E Mario Landi si scosse ed inoltrò nella grande metropoli. Nessun timore lo tratteneva. Era ben certo che non uno degli amici d’un tempo avrebbe riconosciuto in lui Mario Landi d’allora. Un anno egli aveva passato lontano, ed in quel breve periodo di tempo erasi operato in lui un cambiamento assoluto. Sul volto giovanile l’alcool, nel quale egli aveva cercato annegare la memoria, chiedendogli quell’oblio chiesto invano alle cose, al tempo, aveva messo indelebili le stigme del vizio sformandolo, e nei grandi occhi neri aveva spento il bagliore dell’intelligenza. Molteplici rughe gli attraversavano la fronte spaziosa. La miseria, cagionatagli dall’inerzia in cui si era abbandonato e dall’abuso dell’alcool, l’aveva invecchiato innanzi tempo e ridotto un essere ripudiato dalla società simile ad un paria. Ed erasi ridotto così, senza un senso di rivolta in cuore, e senza neppure provare disgusto. Infatti perché lottare quando nulla più gli prometteva l’avvenire, che altro non era per lui che un susseguirsi di sofferenze e di tristezze? Chi avrebbe gioito con lui nella vittoria? Con lui, che nessuno mai aveva compreso, che nessuno aveva riguardato in *
Ugo Menichelli, Il ritorno, in «La Vita cinematografica», iv, numero speciale, dicembre 1913, pp. 94-97. Giornalista teatrale e cinematografico, Menichelli collabora alla «Vita cinematografica» come corrispondente da Milano. Il racconto compare nel numero speciale pubblicato ogni anno in occasione del Natale, arricchito da racconti e poesie.
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Ugo Menichelli
diverso modo d’un buffo della troupe cinematografica, alla quale apparteneva, un essere destinato a suscitare le risa e null’altro? Non glielo avevano forse rammentato, quando in un momento di follia, aveva voluto espandere i suoi sentimenti? A quel ricordo Mario Landi dovette comprimersi le mani sul cuore, che pareva volergli scoppiare in petto dall’ambascia. Sempre così! Quand’egli rammentava quell’ora della sua vita, quell’ora che gli aveva messo nell’anima tanto amaro e tanta tristezza, provava un’impressione così dolorosa, come se gli strappassero a brani le carni, e gli sembrava di riudire la medesima voce sussurrargli ancora quella frase piena d’ironia e di disprezzo che l’aveva ferito nel più profondo dell’anima, che l’aveva colpito come una scudisciata in pieno viso: «Voi?… Voi?… Lo champagne vi ha dato stasera alla testa, buffo?…». II Mario Landi si ritrovò ora davanti ad una villetta, a lui nota, che si ergeva tutta sola in quel luogo abbastanza lontano dalla città, di fronte al mare immenso. Era la notte di Natale quella, ma nulla gli parlava della stagione invernale. L’aria era quasi mite, il mare tranquillissimo veniva a sfasciare pianamente l’onda a riva, e quasi non si udiva il lieve risucchio dell’acqua; su nel cielo adamantino era tutta una fiorita di stelle d’oro, che avevano luminosi scintillii, simili a pietre preziose incastonate in uno sterminato drappo, i raggi argentei della luna illuminavano debolmente il paesaggio, ed in quell’ombra lieve la villetta bianca si profilava nettamente nella sua civettuola costruzione tutta a trine di marmo, a colonnine esili ed ardite. Mario Landi si appoggiò al cancello dorato, che circondava la villa, osservandola per qualche istante con fissità dolorosa. Solamente il primo piano della casa era illuminato, lo si scorgeva dalle finestre. Egli si provò poi a decifrare i caratteri incisi sulla targhetta del cancello. «Villa Grazia!» lesse. Era sempre lì adunque! Ora ne aveva la certezza. «Grazia! Grazia!» mormorò pianamente, e un’onda di amarezza gli annegò il cuore. Sulla strada che si snodava seguendo il mare, interminabile e bianca, erano dei mucchi di sassi ad ogni tratto e Mario Landi s’abbandonò s’uno d’essi, vinto, sfinito. Rivisse così nella mente sua quell’indimenticabile periodo della sua esistenza nei più minimi particolari. III Grazia David, la prima artista della troupe cinematografica della quale Mario Landi era il buffo, era bellissima.
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Il ritorno
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Alta, sottile, pieghevole come un giunco, aveva in sé tutta la grazia fascinatrice della parigina. Un casco di capelli d’un biondo ardente, ch’ella raccoglieva con studiata negligenza in grosse treccie, che le giravano attorno alla nuca in graziose spire, facevano corona al suo viso d’un ovale purissimo, dove la bocca, audacemente rossa, era un contrasto vivissimo col pallore quasi esangue delle gote. Gli occhi d’un azzurro cupo, profondamente cerchiati, che dicevano tutta la passionalità di quell’anima, avevano talora la dolcezza e l’ingenuità di una bambina, tal’altra invece avevano lampi d’indomabile fierezza, tosto attutiti dalla frangia vellutata delle lunghe ciglia bionde. E Mario Landi erasi subito sentito irresistibilmente attratto da quella meravigliosa bellezza muliebre, e l’aveva poi amata quella donna nella più completa dedizione di tutto se stesso, nulla chiedendo in cambio di quell’amore immenso, pazzamente prodigato. Grazia David non erasi mai accorta d’aver suscitato un tale sentimento in quell’uomo ch’ella riguardava come un essere ridicolo quasi, e si divertiva a stuzzicarlo quando gliene capitava l’occasione. Un giorno che Mario Landi era entrato nel suo camerino, incaricato d’una commissione dal direttore, Grazia David gli aveva detto, trattenendolo quando stava per uscire: «Buffo, dite, ce l’avete voi l’amorosa? No, vero? Siete saggio voi! Ma sentite, io vi proporrò una cosa. La mia abbigliatrice litiga continuamente col suo bello, e riempie poi la testa a me con tutte le sue storie, che, in confidenza, mi annoiano mortalmente… Volete voi surrogarlo? Mi procurereste così un po’ di pace, giacché io spero che non vorrete anche voi atteggiarvi a geloso, e ve ne sarei infinitamente grata. Volete, buffo?». Ed aveva riso poi della sua trovata, mentre Mario Landi triste, scorato, la guardava con una muta preghiera di non farlo soffrire così, nei grandi occhi buoni. Grazia David aveva un protettore. Un ricco banchiere della città, che le aveva acquistato il villino, ch’ella abitava e che da lei aveva preso il nome: «Villa Grazia!». Mario Landi sapeva tutto questo e la scusava. L’amava troppo lui per poterla giudicare! E l’anno prima, precisamente alla sera della vigilia di Natale, l’intera troupe cinematografica si era radunata a Villa Grazia. Mario Landi rivedeva ora cogli occhi della mente quel salotto artisticamente addobbato che li aveva accolti e Grazia David che indossava uno sfarzoso abito di seta azzurra, che avvolgendola, disegnava appena i morbidi contorni della sua persona snella. E ricordava quel senso d’infinita amarezza provato nell’ammirare quel lusso, degna corona a quella superba bellezza, e che gli faceva comprendere più crudamente ancora l’abisso profondo che lo divideva da lei, che gliela mostrava inarrivabile. «Buffo, che avete?» ella gli aveva chiesto durante la serata. «Si direbbe che meditate cose ben tristi, tanto siete taciturno ed ammusonito. Suvvia porgetemi la coppa. Io stessa vi verserò dello champagne!». A lui però proprio non riusciva di bandire quella malinconia dolorosa che gli era entrata nell’anima, e colto un istante in cui nessuno badava a lui, erasi ritirato nel fumoir, dove tutto solo, s’era abbandonato alle sue desolanti riflessioni.
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Ugo Menichelli
Com’era bella Grazia quella sera… Com’era felice di vivere, di godere… Il fruscio d’un passo lieve, che si avvicinava, l’aveva scosso; egli erasi rialzato di scatto. Grazia David gli stava dinanzi. «Che fate qui, così solo?». Mario Landi incapace più di contenersi, fissandola perdutamente nell’iridi azzurre, aveva mormorato il suo nome pianamente, con tenerezza infinita, in un’ardente invocazione: «Grazia!… Grazia!…». Ella lo fissava sorpresa. «Grazia, – egli le aveva detto allora – Grazia! oh, perdonatemi! Io dovevo fuggirvi il giorno in cui m’accorsi d’amarvi, andarmene lontano, seppellire in fondo al cuore il mio sogno d’amore; ma mi sembrava che non avrei potuto vivere senza rivedervi più, e rimasi invece, felice d’esservi vicino. Vi amo tanto, Grazia!…». La medesima frase che Grazia David gli aveva sussurrato con mordace ironia, gli risuonò nuovamente all’orecchio: «Voi?… Voi?… Lo champagne vi ha dato stasera alla testa, buffo?». A lui in quell’istante era sembrato che gli s’infrangesse veramente qualcosa in petto, che nell’animo gli ruinassero i sentimenti buoni. Aveva abbandonata la villa come un pazzo, era tornato alla sua stanzetta, guidatovi più che d’altro dall’istinto, come un essere ferito a morte. Il suo sogno… il sogno più bello della sua vita… era ineluttabilmente sfiorito al desolante soffio della realtà tristissima!!! Aveva pensato d’abbandonare la troupe, fuggire lontano da tutti, nascondere al mondo indifferente la sua disperazione, il suo dolore, e l’aveva invece trattenuto la speranza folle di riuscire a vincere, malgrado tutto, quella donna che lo sprezzava. Ed erano trascorse le feste Natalizie. La troupe aveva ripreso a lavorare. Dovevano terminare una film ed il quadro restato da fare era quello riproducente i cristiani dati in pasto alle belve. Mario Landi ricordava ancora la scena nei suoi più minimi particolari. Nel vasto anfiteatro, già apprestato, era un’infinità di personaggi, la più parte comparse, raffiguranti vestali, senatori, littori, gladiatori, popolani, che s’aggiravano qua e là per le gradinate in attesa che il direttore, col noto fischio, avvertisse che si cominciava la scena. Anche la troupe, i di cui artisti avrebbero dovuto sostenere le parti principali, era al posto. Tutti erano pronti nei loro fantasmagorici costumi romani. L’atteso segnale aveva troncato ogni discorso, i personaggi avevano prese le pose convenute, gli operatori cominciato il loro lavoro. Grazia David, avvolta in un peplo bianco, coi lunghi capelli d’un biondo ardente sciolti sulle spalle, aveva preso la posa ispirata dei martiri confessanti la loro fede, e, fremendo, Mario Landi, disgustoso nel suo costume di bestiaro, l’aveva solidamente legata ad un palo. Dopo qualche istante di assenza, egli era ricomparso in scena guidando un meraviglioso orso bianco, ed erasi avvicinato alla donna trattenendo a stento la belva, che si dibatteva furiosamente.
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Il ritorno
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Grazia David attendeva impavida. E Mario Landi le aveva allora sussurrato con accento appassionato: «Grazia, uditemi ora! Vi amo, capite? Vi amo e quest’amore immenso che vi porto mi fa soffrire l’impossibile, mi brucia il sangue, mi rende folle. Grazia, oh! Grazia, abbiate pietà di me! Voi sapeste le lunghe notti insonni che passo singhiozzando, chiamandovi a nome, l’eterne mie giornate di dolore, d’affanno, ore d’angoscia inenarrabile che mi annientano!!!». Uno sguardo freddo freddo, tagliente più d’una lama, gli aveva arrestato la parola sulle labbra: «Buffo, impazzite?». Egli aveva arretrato d’un passo: «Grazia! Grazia! Per voi, per me, non spingetemi agli estremi!». Grazia David aveva accolto la sua preghiera con un sorriso sprezzante. «Ebbene, io scateno l’orso», Mario Landi le aveva sibilato all’orecchio con un lampo di follia negli occhi. «È digiuno da due giorni, ho voluto io così, e l’ho fatto anche bastonare. Ha fame, è furioso, capite?… Grazia, mi ascolterete voi mai?». «Mai! mai!» ella aveva avuta ancora la forza di protestare. «Aiuto!… Soccorso!…». Con un rapido gesto egli aveva slegato l’orso, e la belva slanciatasi sulla vittima aveva soffocato il suo grido. L’operatore aveva presa la scena, ch’era d’un verismo, d’una naturalezza che lo stupiva, specie quando Grazia, abbandonandosi pallida, inanimata, era caduta in deliquio. Ora Mario Landi non ricordava più con precisione quello ch’era successo, solo rammentava che nel momento in cui l’orso stava per piantare i suoi artigli nelle spalle dell’artista, l’aveva vinto un sentimento di grande pietà per quella donna ch’egli adorava. Una rapida, desolante visione gli aveva mostrato un avvenire di rimorsi e di rimpianti infiniti. Aveva afferrata allora la belva stringendola forte nelle sue braccia muscolose, rotolando poi entrambi per terra in una lotta suprema. Era stato un accorrere di gente da tutte le parti, e l’orso era stato domato. Grazia David aveva poi voluto far credere ad una fatalità, e Mario Landi, riavutosi, ben presto aveva lasciato Genova. Era quello l’ultimo giorno dell’anno! Milano l’aveva accolto disilluso, sfiduciato, con un dolore insanabile nel cuore, che gli rendeva l’esistenza insopportabile. Un anno aveva passato in quella città, ed un anno era bastato a renderlo quel reietto ch’era divenuto. Un anno! E lo riconduceva nuovamente alla sua Genova, in quella ricorrenza, quell’amore ch’era stato la sua rovina, che non aveva saputo svellersi dal cuore! Mario Landi ora singhiozzava dolorosamente. «Oh! dormire, egli pensava, dormire… non destarsi più… non sentire nel
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Ugo Menichelli
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cervello che una calma di morte, senza il tormento assillante dei ricordi! Dormire… obliare…». Una pace altissima regnava intorno… Villa Grazia era completamente immersa nel buio adesso… Il silenzio solenne della notte venne turbato ad un tratto da uno scampanio festoso, che annunziava agli uomini la nascita del Redentore. Quell’armonioso suono, che parlava al cuore di pace, di fratellanza, d’amore, Mario Landi non l’udiva più… …Il mare grande l’aveva accolto e portato così pianamente, dolcemente cullandolo, nei suoi profondi, impenetrabili abissi…
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Guido Gozzano
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Il riflesso delle cesoie*
Quanti anni poteva avere Albina Albini? (si chiamava veramente così?) trentadue? trentacinque? forse più. Certo ne dimostrava moltissimi di meno. E continuava ad essere, da tempo, l’attrice più ambita delle grandi case cinematografiche. La sua bellezza resisteva alla pellicola, la quale è la più crudele rivelatrice nella prima decadenza femminile. Albina aveva una maschera bella, e più che bella, espressiva, bene scolpita, con una fronte, un mento, un profilo che s’avvaloravano d’ogni gioco di luce anche violento; e la sua persona svelta vestiva con grazia intelligente il robone della dogaressa e il peplo della cortigiana, l’amazzone moderna e il grembiulino dell’educanda. Perché Albina era intelligentissima, e portava nell’estetica, nella mimica dell’arte muta un’anima ed un buon gusto che molte attrici drammatiche le potevano invidiare. Perché dunque sul teatro non aveva fatto carriera? Bastava per capirlo, sentirla parlare. Quale voce! Una voce brutta come una brutta voce maschile; ed era penoso il sentirla dire le cose più aggraziate con quella voce roca come quella d’un moribondo o d’un beone. A Tito Verri che molto ingenuamente, nei primi giorni di conoscenza, insisteva perché curasse la sua afonia, Albina aveva risposto in pieno teatro che non c’era scampo, poi, impazientita, aveva anche specificato a voce alta, con una sola parola, la causa del malanno irrimediabile. E non aveva arrossito. Aveva arrossito invece, novizio all’ambiente, il giovine pittore. E le comparse, gli operatori, i direttori di scena, i meccanici, avevano fatto sulla scenetta le matte risa. – Che spirito indiavolato! E Tito s’era sentito attrarre da quello scetticismo spaventoso. Alcuni giorni *
Guido Gozzano, Il riflesso delle cesoie, in L’ultima traccia. Novelle, Milano, Treves, 1919, pp. 49-62, da cui si cita; poi in Id., I sandali della diva. Tutte le novelle, Milano, Serra e Riva, 1983, pp. 136-143. Non si è trovata traccia di una eventuale precedente edizione in periodici della novella, che è databile al 1915-1916. È noto l’interesse di Gozzano per il cinema, anche se i termini effettivi del suo impegno nel settore si conservano in parte ancora incerti, dall’iniziale collaborazione con la casa torinese Ambrosio, nel 1911, al lavoro per il documentario La vita delle farfalle di Roberto Omegna, premiato all’Esposizione nazionale torinese nello stesso anno. La bellissima sceneggiatura scritta per il mai realizzato San Francesco d’Assisi, nel 1916, conferma del resto un autentico interesse artistico per il nuovo mezzo e una discreta conoscenza delle sue peculiari risorse espressive. Vedi anche, nella seconda parte di questa antologia, l’intervista rilasciata a Carlo Casella per la «Vita cinematografica» (pp. 267-268), e il suo saggio Il nastro di celluloide e i serpi di Laocoonte (pp. 333-337).
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Guido Gozzano
dopo era l’amante dell’Albini, episodio tutt’altro che raro e quasi trascurabile, ma ne era anche l’amico, cosa più delicata assai, l’amico non d’elezione, ma d’affinità, quello che la sorte destina forse dal tempo prenatale, ed offre, a conforto, nell’ora più stanca. Li attraeva l’uno all’altro un’affinità strana di sentimenti e di vicende. Si erano confidati la propria vita, senza veli, ostentando quasi con una specie di acre voluttà la più crudele schiettezza. La sorte dell’Albina aveva seguìta una parabola diversa da quella delle altre signore sue pari. Era stata una signora autentica, usciva da una famiglia provinciale, signorile e ricchissima. Rimasta sola troppo presto, la piccola, sotto tutela, aveva pellegrinato per vari educatorii, crescendo in un ardore strano, dal misticismo della prima adolescenza, era passata ad una predilezione esaltata per la lettura e per l’arte, poi ad una dichiarata passione per il teatro. Aveva lasciato il collegio per esordire a diciott’anni, ultima in una compagnia primaria, poi era passata a compagnie di terz’ordine per poter primeggiare; poi, con l’impazienza ingenua ed indisciplinata dei principianti, aveva voluto metter su compagnie, aveva chiesto danaro e danaro al tutore allibito. Non aveva avuto fortuna. Il danaro andava e il successo non veniva. In possesso del patrimonio che le restava aveva commesso l’errore massimo per un’attrice: si era sposata ad un compagno di ventura che doveva essere il suo collaboratore verso la mèta ormai certa. Ed era stato invece la sua rovina ultima, rovina finanziaria e morale, ed il primo passo verso un vagabondaggio artistico e più ancora galante. Le anime sensibili non hanno resistenza nell’ora dello sfacelo, precipitano allibite e rassegnate, più rapidamente che quelle cresciute nel vizio, immunizzate dall’ambiente. Il cinematografo aveva salvato in parte Albina Albini dalla galanteria mercenaria. Anche Tito Verri aveva nella parabola grigia della sua giovinezza una fase luminosa d’illusione d’arte. Poco più che ventenne, il suo nome era stato fatto con grandi speranze a Monaco, a Venezia. Poi le vicende, e l’autocritica morbosa, l’innato pessimismo avevano paralizzata la giovine fibra; all’aridità s’era aggiunto il bisogno; e lunghi anni erano passati, asserviti all’illustrazione, al cartello, a tutti gli sperperi commerciali dell’ispirazione; il cinematografo utilizzava ora quanto restava dell’artista d’un tempo; i suoi cartelli larvavano con una certa pretesa di stile l’efferatezza poliziesca dei soggetti; e nessuno più di Verri sapeva improvvisare uno scenario urgente, un arredo complicato, scegliere i luoghi migliori, inquadrare l’azione in pittoreschi paesaggi di ruine e di piante. Erano molto ben pagati, il pittore e l’attrice; ma il danaro non li consolava; in fondo alla loro amarezza c’era un tormento eguale e non confessato, che li faceva fraterni più di ogni altra cosa: l’artista deluso. Poiché nessun bene terreno può consolare d’un ideale d’arte tramontato per sempre. Questo si leggevano negli occhi, l’un l’altro, quando nei teatri vetrati, durante i giorni canicolari, in un’atmosfera torrida di follia o durante i geli sulle ruine nevose d’un castello l’Albini doveva ripetere per la decima volta una scena, e Verri
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Il riflesso delle cesoie
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vigilava operatori, impartiva ordini, correndo. Allora si passavano vicino, si fissavano un istante con un sorriso esausto, sussurrandosi con tenerezza amara: – Vita dannata! – Mestieraccio infame! Ed era il loro modo di dirsi che si volevano bene. Un operatore discuteva a voce alta, con Tito Verri, tratteggiando un manoscritto a grandi segni di matita azzurra. – Manca il secondo ed il quinto quadro, il primo piano dell’undecimo, i tre ultimi della seconda parte. E Fior di chiostro dev’essere in positiva per il mese venturo. – Il direttore aveva detto di fare la scena in cortile. – Il direttore è matto. Ci vuol mattone vero, ferro vero, alberi veri. Costano meno e figurano di più. Come si fa? Caro Verri, lei sa bene che a queste cose deve pensar lei! Albina Albini, che stava tormentando con l’ombrello una leonessa prigioniera, s’avanzò nella discussione, tolse di mano al direttore di scena il manoscritto, lo percorse un secondo: – Monastero del settecento? autentico? mattoni greggi, balaustri muscosi, grande vetrata a telaietti sul giardino incolto, siepe di busso, tabernacolo con edera… Io so dove trovare tutto questo. Il direttore l’ascoltò con attenzione: tutti conoscevano l’intelligenza ed il buon gusto dell’Albini. – In luce favorevole? adatto al caso nostro? – Ne dò garanzia. – Allora si vada subito. Lontano? – A Varellio Pellice. Due ore d’auto. Arriveremo a mezzogiorno. Nel pomeriggio si fa tutto. E l’automobile con l’attrice, il pittore, gli operatori ed il carrozzone con poche comparse – la film era una tenue cosa sentimentale – giungevano due ore dopo nel paese ridente. Il direttore scese, informato dall’Albini, s’adoperò subito alle ricerche, ma ritornò all’albergo mezz’ora dopo, desolato. – Il monastero c’è, ed è magnifico. Sembra fatto pel caso nostro. Ma la madre superiora è irremovibile. Devono già essere stati provati da altri colleghi nostri. – Ha fatto il mio nome? – Sì. Ha risposto che non si ricorda d’averla mai conosciuta. – Verri, andiamo noi due? vedremo un poco? E l’Albini uscì coll’amico, attraversarono il paese, presero una grande strada in declivio, fiancheggiata da tigli centenari. Giunsero dove il folto s’apriva su un sagrato erboso che dominava il paese sottostante da una parte, dall’altra era chiuso da un alto terrapieno decrepito, dai mattoni viventi di felci e di capillarie. Una scalea circolare di marmo lucido e consunto saliva ad un’immensa porta di noce
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Guido Gozzano
scolpita a pannelli che il pittore accarezzò voluttuosamente, da buon intenditore. Suonarono. Nell’attesa non s’udiva che il coro assordante delle passere nel folto dei tigli, ed un garrito più lontano di voci giovanili: e l’uno e l’altro formavano una sola armonia. S’udì un passo malfermo, un tinnire di chiavi e di medaglie. Quale tanfo di chiuso e di buio secolare doveva regnare oltre la porta! Ma la porta s’aprì, ed una luce tremula salutò i visitatori, filtrata dai pergolati di un immenso cortile, ed in mezzo il cielo era azzurro come un velo moresco. – La madre superiora? – Eccola. Una suora di mezza età, imponente, s’avanzò con fredda cortesia. – Lei? Lei la superiora? Ma Suor Candida? Morta? – Cieca. La conosce lei? – Madre, sono stata qui cinque anni. – Quando? Albina esitò un poco. – Diciott’anni fa. La suora li accompagnò. Attraversarono le arcate, i chioschi, salirono nel parco che si spiegava lungo il colle a grandi terrazzi. Il candore del marmo si alternava al verde opaco dei cipressi, al verde lustro dei bussi. Su una panca stavano sedute tre suore. – Ecco le tre più anziane… suor Candida… una sua figliuola d’un tempo! – Albina Albini: mi ricorda? La vecchia sollevò il velo dagli occhi spenti, strinse con le mani ossute le belle mani protese. – Albina Albini? Certo! Ti ricordo, benché non ti veda più! Albina Albini: quella che allestiva così bene le feste di carnevale. – Proprio quella! E questo è mio marito. Tito s’avanzò con un inchino, senza ironia. La menzogna necessaria era creduta senza esitare da quelle buone decrepite anime candide. – Siamo artisti. Ho seguito la mia vocazione. Facciamo cinematografie. Ma tutto repertorio lecito ed onesto, soggetti tolti dalla Bibbia o dalle buone letture. Tito riconfermò: – Per collegi e famiglie. Oggi si avrebbe desiderio di ritrarre qualche paesaggio del parco e del convento. La madre acconsentì pienamente col gesto e col sorriso. – Puoi girare da per tutto, come un tempo. Fa da guida a tuo marito. Noi restiamo qui per la meditazione del pomeriggio. Albina e Tito esplorarono il parco. Il pittore era entusiasta e meditava il paesaggio, afferrando motivi ed inquadrando scene nella memoria. – Sembra fatto apposta per la nostra film. In due ore avremo tutti gli episodi mancanti… allontanati, avvicinati, avanza tutta di profilo: ti disegni meglio sullo sfondo verde…
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Il riflesso delle cesoie
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Era il lavoro di prova al quale erano avvezzi da anni, e che l’operatore eseguiva poi come un dettato meccanico. Salirono fino ai confini a monte, ridiscesero al terzo terrazzo. Dal balaustro videro le tre suore immobili sempre, e le educande che sciamavano garrendo. – La ricreazione delle quattro. Come tutto è immutato! La donna si sedette sul marmo osservando le giovinette dall’alto, coll’occhialino: – Ma quella è Rosa Isnardi! e quella Ida Gaudenzi! e quella è Gina Vitale, la piccola morta il giorno di Pasqua. – Che cosa farnetichi? – Niente. Osservo come gli stessi tipi di donna ritornano nel tempo… – mormorava Albina colla sua voce più cupa. – Ecco un vivaio d’anime in incubazione il quale produrrà spose e madri e attrici e donne perdute… e tutto questo senza tregua… com’è buffa la vita! – Sei triste? La donna si volse verso l’amico con il sogghigno più amaro: – Triste? vorrei esserlo, ma non posso più. La tristezza, mio caro, è un lusso riservato alle anime felici. – Scendiamo. Ora che abbiamo libero il passo e preparato ogni cosa, bisogna avvertire gli altri e cominciare… – Dannato mestiere! – Vitaccia infame! E scesero verso l’ultimo terrazzo, tra la folla delle anime gaie, che tacquero sbigottite da quell’apparizione mondana. Sulla panca le tre suore decrepite, sedute a distanze eguali, muovevano macchinalmente il rosario fra le dita ossute, ma sembravano reggere il fuso, le cesoie, il filo.
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*
Francesco Cangiullo, Francesca Bertini, in «Vela latina», iv, 7 [ma 8], 4 marzo 1916, p. 30, qui riprodotto; poi parzialmente in Mario Verdone, Poemi e scenari cinematografici d’avanguardia, cit., p. 42. Francesco Cangiullo (1884-1977), aderente al movimento futurista dal 1912, è attivo negli anni Dieci come poeta (Le cocottesche, 1912; Caffeconcerto, 1918; Il debutto del sole, 1919), ma anche nel campo del romanzo, delle arti figurative e del teatro (firma nel 1921 con Marinetti il manifesto del Teatro della sorpresa); tra il 1915 e il 1916 cura sul settimanale napoletano di Ferdinando Russo «Vela latina» l’importante «Pagina futurista».
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Trilussa
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Basta la mossa!*
La Scimmia un giorno agnede dar fotografo. Dice: – Vorrei sapé’ se so’ capace de fa’ l’artista ner cinematografo. Me piacerebbe tanto a fa’ la traggica ne la lanterna maggica! – Eh, – disse lui – bisognerà che provi: devo prima vedé come te metti eppoi come te mòvi. Fingi, presempio, d’esse una bestiola in una posa un po’ sentimentale, che pensa a l’ideale senza che sappia dì’ mezza parola… La Scimmia, con un’aria d’importanza, se mise a sede, fece la svenevole, guardò er soffitto e se grattò la panza. – Brava! – strillò er fotografo – Benone! Questo, pe’ fa’ cariera basta e avanza, sei nata propio co’ la vocazzione! Se allarghi mejo certi movimenti chissà che artista celebre diventi! Trilussa (A “Jack” artista: sinceramente bestia.) *
Trilussa, Basta la mossa!, in «La Cine-fono», x, 327, 11-25 giugno 1916, p. 65, da cui si cita (riproduce in facsimile l’autografo, con la data 18 giugno 1916); poi in Id., Lupi e agnelli, Roma, Voghera, 1919 e in Id., Tutte le poesie, a cura di Pietro Pancrazi e Luigi Huetter, Milano, Mondadori, 1959, p. 475. Il poeta dialettale romano Trilussa (Carlo Alberto Salustri, 1871-1950) era presenza abituale negli ambienti cinematografici romani intorno alla metà degli anni Dieci. Da una sua novella è tratto, nel 1916, il film Il romanzo di un cane povero, e suo è il soggetto della commedia L’ultimo dei Cognac, girato nel 1917 da Riccardo Cassano. La favoletta in versi Basta la mossa! è dedicata alla scimmia Jack, protagonista del film L’impronta della piccola mano, una delle prime pellicole basate sulla “recitazione” di animali, lanciata nel 1916 con grande clamore pubblicitario. Dell’apparato promozionale fanno parte anche i versi di Trilussa, comparsi a questo scopo, in fac-simile di autografo, su varie riviste cinematografiche.
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Pier Maria Rosso di San Secondo
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Vita, teatro di vetro*
[…] Era notte quando arrivai; un vento furibondo scagliava la pioggia sotto la tettoia e bagnava le gambe a quelli che si schiacciavano contro il muro, aspettando il loro destino. M’avventurai per la città come in un bosco, fiutando l’aria, per saper s’ella era passata. Suonai ad un primo albergo, per saper se vi dimorava una dama bionda così e così. «Sì… forse, c’era stata; una francese…». «Ma no, no, che francese!…». E passai oltre; un secondo, un terzo, un quarto albergo, finché mi si disse precisamente di sì; ma si sosteneva fosse attrice di cinematografo, l’anima mia! La cittadina viveva di cinematografo, le dame bionde che giungevano erano tutte attrici di cinematografo. Volli la stessa camera dov’ella aveva dormito; frugai tutti gli angoli, le cassette, gli armadi, per ritrovare un indizio di lei; poi mi gettai sul letto, riflettendo ch’ella certamente vi aveva posato le membra. Il mattino uscii dall’albergo quando ancora rimanevano dietro le porte chiuse, nei corridoi silenziosi, le file degli stivaletti dei passeggeri; e girai a caso per la cittadina, che, lavata dalla pioggia della notte, splendeva al sole chiaro delle prime ore del giorno, festosa di teneri colori sotto un cielo intensamente azzurro. Non so perché, ma tutta quella gioia, parendomi nata per me, mi faceva sospirar di speranza ad ogni passo; e, come io stessi per toccare finalmente un culmine di felicità vera, mi sentivo divenir lo spirito così leggero, che, ecco, lasciando la mia miseria corporale da un canto, se ne fuggiva ad aliar come farfalla, tra le verdi *
Pier Maria Rosso di San Secondo, Vita, teatro di vetro, in «Il Secolo XX», xvii, 1, 1o gennaio 1919, pp. 815-819; poi in Id., Il bene e il male, Milano, Vitagliano, 1920, pp. 77-101, da cui si cita. Si pubblica la parte conclusiva del lungo racconto, pp. 94-101. In apertura, il narratore dichiara la propria estraneità alla vita, che vede «Ormai […] come il fondo del mare, quando, tuffandomi, lo rasentavo con occhi rigidi […]», «come fantasie di sogno, o come il ricordo di un mondo, o parte di mondo, veduto da bimbo da dietro un vetro spesso, ghiacciato, e dal quale non giungeva rumore» (pp. 7980). La città, con l’affannoso agitarsi degli uomini, gli pare «che sia anch’essa interamente sepolta in fondo all’oceano, un oceano terso e trasparente come cristallo», in una «profonda sordità d’acquario» (p. 80). Narra quindi la sua vicenda: giovane ufficiale dalla vita apparentemente felice, circondato da splendide donne, non si sente appagato; sotto la «maschera» della propria «superiorità noncurante», avverte «il pungolo di una tristezza desolata, l’avvertimento di una irreparabile solitudine» (p. 84). Tanto che una sera di punto in bianco si precipita su un treno e parte verso il confine, senza una meta precisa. Rimane affascinato dalla bionda passeggera che gli siede accanto, perché gli appare creatura sofferente; anch’essa è fuggita da una vita volgare e gretta abbandonando tutto. Si crea tra loro un’istintiva sintonia; ma quando lei scende, lui non la segue, lasciandola delusa. Il pensiero della sconosciuta però non lo abbandona, e dopo aver ancora viaggiato a lungo, «senza più pace» (p. 94), torna infine a cercarla.
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Vita, teatro di vetro
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chiome degli alberelli nella strada, sotto i davanzali delle finestre pulite con le persianucce verdi e una piantina fiorita nel vaso, o più su, più su, sotto i cornicioni dove facevano il nido le rondini che garrivano festose nella purità chiara dell’aria, per ricordare alla cittadina, che intraprendeva le sue giornaliere faccende, che la vita era bella, e che i cittadini non la bestemmiassero, e che sapessero goderne. Oh, come eran savie le rondini quantunque sembrassero impazzite di gioia! E quanta insania v’era, invece, in me, che ero passato sino allora tra il fervore dell’esistenza, senza saperne cogliere l’ebrezza essenziale! Quanti propositi, allora, per le vie febbrili della cittadina d’amore! Avrei costruito anch’io il mio nido, lì, proprio lì, sotto quelli delle rondini, in una casettina color di rosa, con tanti garofani sui davanzali: e non sarei partito più, più! Con lei accanto, con la mia rondinella, avrei trascorso gli anni in una pace blanda, senza sussulti; si sarebbero rimarginate le mie cicatrici, le sue, tutto l’amaro cinematografo del passato si sarebbe affievolito nel pensiero, l’avremmo dimenticato… Ma sì, sì, era proprio lì; m’avevano detto che era proprio all’uscita d’una porta della città con un ponticello come ai tempi antichi; una porta dal nome strano d’un guerriero, d’un guerriero… il quale, non so perché, appariva alla mia opaca memoria storica, come uno sventurato che pure era stato così bravo in vita! E gli uomini moderni proprio lì accanto, in mezzo ad una vigna, avevano innalzato un gran teatro di vetro, dove tutti i sentimenti umani venivano contraffatti in un gestir meccanico e muto, tra le più arrischiate camuffature sceniche. Entrando, il passaggio dall’aria libera dei campi a quella chiusa delle vetrate, avvertiva del mondo posticcio in cui si giungeva; e invadeva subito l’anima un senso di malinconia e di nausea, in cui si spegneva la gioia ingenua della vita di fuori. Pareva, tra l’odor del colore fresco delle scene, della vernice, del trucco, del profumo delle attrici, che il sole, filtrando lì dentro, prendesse un’aria smorta e disillusa, si intristisse come dinanzi a uno spettacolo miserevole. Parve a me, subito, che tutto il sogno di cui m’ero colmato, venendo, cadesse schiacciato da quell’aria grave. E poi che sul palcoscenico v’eran dame in vesti scollate e signori in marsina che svenivano nelle mosse più svisceratamente false, dichiarandosi, senza parole, i più insinceri sentimenti, io, che mi ero tolto il cappello, mi ritrassi da un lato, aspettando, e quasi pauroso di scoprir lei, la mia anima bionda, tra quei falsi signori in abito da sera. No, no, non c’era per fortuna. Ella non prendeva parte a quella commedia, non avrebbe più preso parte a nessuna commedia, perché avrebbe vissuto accanto a me, senza più aver bisogno di portare il sorriso del suo cuore a intristirsi tra quella orribile finzione. E mi diedi a guardare intorno, e fissai non so che strana impalcatura altissima, che forse voleva figurare la cima di un ghiacciaio, perché era tutta tinta di bianco, e, in certi punti, era coperta di vetri; anzi, proprio lì in cima, dove la tela o la carta, che copriva una scaletta simulante un sentiero, si slargava in una venatura di vetro, la finta roccia era squarciata, sfondata. Io mi misi a tremare. Quello squarcio non v’era, no, nella commedia, perché infatti rivelava la travatura, il posticcio! Ma
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Pier Maria Rosso di San Secondo
come era dunque avvenuto che la roccia s’era così squarciata, come se un uomo, salendo, avesse sentito ceder la tavola sotto il piede e fosse precipitato di lassù sul pavimento del teatro?… Quando il quadro fu finito, e gli attori scesero con un’aria dimessa, contrastante con la loro acconciatura, m’accorsi che essi avevano sul volto l’ombra d’una qualche tristezza. E poiché io mi avvicinai, sempre con il cappello in mano, e domandai, quanto più cortesemente mi fu possibile, di una dama bionda così e così… giunta nella cittadina il giorno tale del mese tale… e che, avendo cantato per qualche tempo da soprano, s’era dedicata infine all’arte muta, essi non risposero, ed anzi ad uno ad uno si diradarono, lasciandomi solo, stupito, con gli occhi vaghi ed il cappello in mano… Era dunque vero! Lo squarcio di quella macchina d’inferno mi aveva detto tutto… Doveva salir lassù lei, per la commedia, e saliva, saliva, poverina, sul ghiacciaio finto, come sul calvario, portando la croce della sua malinconia, della tristezza di dover sobbarcarsi a quel giuoco per vivere. E a un tratto una tavola ecco cedere, una sola tavola del ghiacciaio finto, ed era stata inghiottita: sì, sì, inghiottita da quella finzione, per stramazzare al suolo ferita in tutto il corpo dalle travi, dai chiodi, per boccheggiare e versare il suo sangue a fiotti dalla bocca… E sullo schermo sì, la vera sventura appariva nelle sale della città, dinanzi al pubblico, ora, così vera, che la commedia aveva una gran voga, una gran voga, sebbene, nel concetto di chi l’aveva pensata, non doveva aver quella fine… Ripresi il treno la sera stessa, e viaggiai ancora senza mai posarmi. Solo più tardi mi prese una così forte angoscia e un desiderio così folle che mi fermai, e girai per le sale dei cinematografi finché la vidi, la rividi, lei, l’anima mia perduta, che saliva sul ghiacciaio finto e a un tratto, ecco… era inghiottita dal destino!… Io non so se ho smarrito il senno, e mi illuda ancora di ragionare. Ma certo la vita è per me simile al fondo del mare, come quando fanciullo lo rasentavo con occhi rigidi, o meglio, come un teatro di vetro, dove la finzione non si riesce a distinguere dalla realtà, e i signori in marsina e le dame in veste scollata hanno gli sguardi tristi d’un funerale, e un ghiacciaio di legno, che fa ridere, d’un tratto si squarcia per lasciar comparire la morte.
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Enrico Roma
La repubblica del silenzio. racconto di costumi cinematografici*
[…] Il «Signor Cavaliere» era un uomo sui cinquant’anni, piccolo, magro, brutto, con due baffetti biondi anzi giallognoli, tagliati a spazzola. Guardava fissamente coi suoi occhietti microscopici al disopra delle lenti a pince-nez, che toglieva e rimetteva sulla punta del naso enorme, continuamente, nervosamente. – S’accomodi. Dunque lei sarebbe disposto a posare per il cinematografo… – E mi scrutava, mi analizzava senza simulazione, come fossi in vendita e dovesse acquistare la mia modesta persona per farsene un bibelot pel salotto… – Sarei disposto, sissignore… – La figura c’è. Un po’ troppo magro… Bisognerebbe ingrassare un poco… *
Enrico Roma, La Repubblica del silenzio. Racconto di costumi cinematografici, Roma, Impresa Editoriale Ugoletti, 1919, pp. 32-45, 47-57, 97-114. Enrico Roma (1888-1941), attore di teatro e commediografo (Gente che passa, dramma in un atto, 1905; Per lei!, commedia in 2 atti, 1907; Un bel frak, commedia in 3 atti, 1919; cfr. poi Mantello d’Arlecchino. Teatro, con una introduzione di Lucio D’Ambra, Milano, Quaderni di Poesia, 1938), prende parte come attore cinematografico ad almeno venticinque pellicole, dal 1916 al 1923: è Andrea Sperelli nel Piacere, dal romanzo di D’Annunzio, con Vittoria Lepanto (regia di Amleto Palermi per la Teatro Lombardo Film, 1918); recita nella dannunziana Leda senza cigno, con Leda Gys e Ignazio Lupi (regia di Giulio Antamoro per la Polifilms, 1918); interpreta il marchese d’Apré in Il Re, le Torri, gli Alfieri di Lucio D’Ambra (Medusa Film, 1917), prende parte a Emir cavallo da circo, su soggetto di Lucio D’Ambra e regia di Ivo Illuminati (Medusa Film, 1917), a La commedia dal mio palco di Lucio D’Ambra (Do.Re.Mi., 1918); a Lucciola di Augusto Genina (Società Anonima Ambrosio, 1917), e ad Adriana Lecouvrer di Ugo Falena (1918). Gli sono attribuite la sceneggiatura o la direzione di una decina di pellicole, dal 1919 (I due zoccoletti, Tespi Film) al 1923 (Sovranetta di Dario Niccodemi, per la Flegrea Film). Ha in parte caratteri autobiografici dunque il protagonista della Repubblica del silenzio, Giorgio Corra: giovane di buona famiglia che diventa attore di cinema, e crede di riconoscere nella sofisticata prima attrice della Casa per cui lavora una sua vecchia amante popolana. Riuscirà infine a salvare la donna da due loschi individui che la sfruttano. Si riproduce il racconto dell’ingresso di Corra nel mondo del cinema, seguito da alcune pagine di riflessioni ed episodi relativi alla propria esperienza cinematografica. Il romanzo si apre (pp. 7-9) con una lettera A Trilussa, datata «Roma, fine del 1918», che cita il sonetto dell’amico Basta la mossa! (qui antologizzato, p. 85), e il suo soggetto per il film L’ultimo dei Cognac (regia di Riccardo Cassano, Medusa Film 1918): «Mio caro Amico, a te che hai avuto la bella audacia di promuovere una semplice scimmia a Diva del cinematografo, dedicandole uno dei tuoi più beffardi sonetti, di cui s’ornarono lungamente i muri delle città italiane […], a te, nemico giurato della cinematografia offro questo racconto […]». Afferma di aver scritto il libro «con molta tristezza»: «Con la stessa tristezza che, senza che tu la scorgessi, m’invase una sera in cui ti ero compagno in una sala cinematografica del centro, ove si proiettava una tua film: L’ultimo dei Cognac ricordi? film che stolti criteri commerciali e improvvisazioni direttoriali, avevano orrendamente manomessa. A un tratto mi domandasti: “Credi che questa roba mi possa danneggiare?” Ed io ti risposi sorridendo di no, mentre pensavo alle innumerevoli films balorde che avevano oramai diffusa, prodigata la mia povera effige, e avevano definitivamente irrimediabilmente compromesso il mio nome di navigante senz’àncora».
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Enrico Roma
– Provvederò. – Bravo. Mangia molto? – Ho mangiato settantamila lire a mio padre. – Ah! è di buon appetito – Mi disse divertendosi alla mia risposta inaspettata… Ma quei baffi, quei baffi no, bisogna toglierli… C’è appunto un articolo del nostro contratto che prescrive questo sacrificio. Prese tra le carte un foglio e lesse: «Il signor… s’impegna di non portare baffi né qualsiasi altra pelurie onor del mento»… Confesso. Non avevo mai supposto che anche il mento avesse un onore da difendere e da perdere, perché il suo possessore potesse specularci sopra. E mi accarezzai il mento già accuratamente raso, assai lieto per non dover subire di fronte a lui, l’umiliazione di chiedergli questo sacrificio. – Anche per i baffi siamo d’accordo… – Insomma, concluse il «Signor Cavaliere» – entrando la mattina nel mio stabilimento, lei deve lasciare alla porta insieme al cappello, la sua personalità! Questa è condizione essenziale per poter riuscire buon attore. Per la strada, nella vita, lei continuerà a vivere – finché le sarà possibile – da Giorgio Corra. Ma qui dentro lei sarà Giorgio Aurispa se interpreterà Il trionfo della morte, «L’Innominato» se interpreterà invece il personaggio omonimo nei Promessi Sposi. – Scusi, chiesi timidamente – perché dice che potrò vivere nella vita da Giorgio Corra, finché mi sarà possibile. E chi me lo impedirà? – La consuetudine – rispose sorridendo maliziosamente il direttore e assumendo l’attitudine di psicologo consumato. – L’abitudine di indossar vestiti non suoi – di avere atteggiamenti non suoi, nomi presi a prestito, fisionomie, temperamenti, scatti, parole di personaggi astratti che si sovrapporranno col fascino della loro esistenza romantica alla sua propria psiche. E lentamente, insensibilmente, involontariamente, lei finirà come tutti gli attori – ed omai io ne conosco a centinaia – col servirsi nella vita di tutto il materiale del suo lavoro – e benché vestito come ora, dei suoi abiti, al caffè o a passeggio un giorno o l’altro lei nel rispondere a un amico o nel comandare un’aranciata avrà perfettamente la fisionomia e il gesto, mettiamo, di «Don Rodrigo». – Speriamo di no! – esclamai spaventato. – Glie lo auguro, e glie lo consiglio. Niente di più goffo e di meno simpatico [che] rinunziare al nostro temperamento, non esser più noi stessi, vigilare accanitamente il nostro io nella preoccupazione continua di non dimenticare un solo istante l’imitazione di un qualche personaggio che ci piacque. Trovai che il direttore aveva perfettamente ragione, che è quanto mai giusto che un attore che si rispetta non sfrutti il suo repertorio gratuitamente, al caffè o per la strada. Meglio ancora, che quando il pubblico si reca a teatro a sentirlo recitare o al cinematografo a vederlo smerciare la sua mimica chilometrica, non riconosca affatto attraverso l’interpretazione l’uomo che abitualmente avvicina nella vita; che lo trovi quanto più sia possibile artificioso, istrione, commediante. Infatti perché se sulla scena l’attore deve scrivere una lettera, dovrebbe scriverla, semplicemente, allo stesso modo di come è abituato a scriverla tra le pareti domestiche? L’arte non è la vita…
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La repubblica del silenzio. racconto di costumi cinematografici
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Oscar Wilde diceva che «non è l’arte che imita la vita, bensì è la vita che imita l’arte». Saggia sentenza che può sembrare un paradosso, ma di cui è facilissimo convincersi andando a sentir recitare nei vari teatri o a vedere delle films nei mille cinematografi – dove nessuna attrice come nessun attore saranno un solo momento veri e sinceri, mentre mettendo piede in un qualche salotto o in un qualche restaurant si può facilmente accorgersi di come tutti – le donne specialmente – indossino, al disopra del vestito, gli atteggiamenti di questa o quell’attrice famosa, sforzandosi di parlare forbito con tale fatica da far impallidire Ercole stesso, che pure di fatiche se ne intendeva. La mia cuoca, cui avevo regalato una volta un biglietto perché si recasse a udir Ermete Novelli di cui era curiosa per averne sentito molto parlare da me, tornando, alla mia domanda se si fosse divertita, rispose testualmente: «Tante storie per un uomo che fa sul palcoscenico né più né meno di quello che fanno tutti a casa propria! Bella bravura!». Ora, siccome le cuoche, vuoi in attività di servizio, vuoi in posizione ausiliaria, abbondano, sarà bene per un neo-attore far tesoro del saggio critico della mia ex cuoca… *** Passeggiando nel pomeriggio, come al solito, non so perché provavo in me un senso d’inquietudine senza che sapessi pur indagando scrupolosamente, trovarne la cagione. Avviene alle volte di essere scontenti senza che ci sia accaduto nulla di grave o di straordinario; non abbiamo trattato affari, non abbiamo veduto nessuna persona molesta… Alla fine, dopo tanto martoriarmi, trovai… Mi sembrava di aver commessa una cattiva azione, ancora ignorata dalle persone che mi conoscono, e ancora impunita. Ma presto o tardi – pensavo, senza però formulare con precisione questo pensiero, attorno si saprà. E allora? Incontrai un amico, un viveur impenitente, che mi stimava solo perché non facevo nulla al mondo come lui, il quale nel vedermi sconcertato insolitamente, m’investì di domande bestiali: – Che hai? hai perduto al giuoco? ami una donna che non ti ama? maritata? Sei geloso del marito?… – No, no, niente di tutto questo, caro. Un po’ d’emicrania. Scusa. Ti lascio. Arrivederci. – Scusami tu la mia indiscrezione. E mi strinse forte la mano in segno di vera amicizia, senza imaginare che io ne venivo dall’aver scaraventato il mio casato quasi illustre nella «bolgia cinematografica», di aver disonorato i miei famosissimi avi che dormono da secoli, tranquilli, ignari che al mondo esista un pronipote talmente degenere! (Eppure questa è la vita d’oggigiorno, o miei integerrimi parenti! Se voi sapeste come anche le battaglie che voi amaste non siano ridotte che a un giuoco di bussolotto!). Domani, posdomani il mio amico saprà la mia abiezione, glie la diranno, mi vedrà su l’écran e mi saluterà, così, passando, con un cenno faticoso della mano!
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Enrico Roma
È veramente triste quando si possiede una reputazione, e sopratutto una reputazione come la mia, di sfaccendato danaroso, vederla naufragare per colpa di questa benedetta società che presto o tardi, sotto una forma o l’altra, pretende che ciascuno dei suoi componenti si adoperi a fare qualche cosa di comune utilità!… Ed io, vittima del fato comune – per gli altri mi trasformerò, mi moltiplicherò, mi falsificherò, perché essi ridano di me e si divertano alle mie spalle! Io, che in verità – per quanto non lo sappia quasi nessuno, non era nato che poeta… Non c’è niente da ridere…! Poeta, poeta, ma di quelli seri, di quelli che non scrivono versi… Poeta, ma di quelli che non inviano manoscritti ai direttori di teatro o ai direttori delle riviste letterarie, poeta di quelli che vivono e pensano con poesia, per i quali le cose belle assumono un aspetto musicale, e sono loro necessarie come la luce; per i quali le brutture di questa breve e interminabile vita, sono martirio e continua prova di coraggio. Ecco. Ero nato poeta così – per amare la poesia e per nudrirmi di poesia, perché è giusto che ci sia al mondo oltre chi crea qualcuno che sia capace di comprendere – cosa altrettanto difficile… Ma io somiglio al voltairiano Candido e il cinematografo comincia ad essere il mio dottor Pangloss! È strano però – pensavo seguitando a riflettere alla mia situazione attuale – è strano come le professioni s’impadroniscono degli uomini, s’insinuano con dolcezza, senza ch’essi neppure se ne accorgano… Si presentano sotto forma di un divago, di un diversivo, di un dilettantismo simpatico, in attesa di diventare il loro martirio! Fino a stamane, dicevo tra me, se una guardia di città avesse potuto infliggermi una contravvenzione per aver trasgredito a una qualunque legge comunale, e mi avesse richiesto nome e professione, non avrei potuto rispondergli che «poeta» o «possidente» che sono un poco la stessa cosa e non costituiscono per una guardia di città delle professioni. Ma ora sì, ora ero timbrato anch’io come le altre bestie… E pensando a questo m’avvidi che la decisione presa era molto più grave di quanto non supponessi… *** Poche settimane dopo incominciammo a posare. – Si metta un abito nero – mi aveva detto il direttore. Ed avevo messo un abito nero. Dopo alcune ore da quella fissata per la posa, trascorse alla meglio in un boreale camerino – (era venuto l’inverno) finalmente il segretario chiamò: – La signora de Valleroy, il signor Corra… Recito con una francese, pensai. Non mi dispiace. Siccome non saprà una parola di italiano, mi divertirò a parlare il francese e magari l’argot montmartrois, dato che, come le altre sue connazionali attrici che ho conosciute, sarà anche questa più o meno una nobile figlia di Montmartre. Ma quale non fu la mia sorpresa, quando, trovandomi di fronte a lei, presen-
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tati l’uno all’altra dal direttore, riconobbi subito in quella donnina ossigenata e maquillé la piccola bruna Giuseppina Cantone, regina del mercato – trasteverina puro sangue. Sono lieto però, dissi con me stesso, sono lieto che o francese o italiana non si salga di grado sociale. Montmartre o Trastevere, son un po’ la stessa cosa… In luogo di qualche «chut», di qualche «zut», udrò qualche «va a mor…» o qualche «accidenti!». In luogo d’amare «les papiers bluets de la Banque de France» questa amerà «li boni della Banca d’Italia», ma le qualità affettive di due piccole figlie del popolo, divenute regine del Cinema, di rado oltrepasseranno i confini della zecca nazionale, e i portafogli dei fortunati distributori. Pathé-frères o Deliziosa films sono in fondo la stessa cosa. Nella prima ci sarà certamente un po’ più di buon gusto che nella seconda, ma c’est du cinéma e nient’altro… Una baraonda assurda, un viavai di gente che non facendo nulla finge di lavorare come facchini, un vociare confuso, un incrociarsi interminabile di pettegolezzi e di cattiverie, donne e uomini con gli occhi bistrati che si danno l’aria di principi del sangue o di principesse decadute, amorazzi che nascono e che muoiono nell’istesso attimo, e frecciate e lazzi di pessimo gusto, un mondo dove tutto è passeggero e fittizio, dove le persone sono come gli scenarii, di cartapesta e frammentari; dove neppure con la più buona volontà si può credere che un salotto sia un salotto, poi che in alto, al disopra delle pareti, si vede il cielo… E in mezzo a questa baraonda, a questo miscuglio di gente in cerca di ideali e di gente che ogni ideale ha perduto per via prima di giungere lì, vi è sempre una donna, la védette, la diva, che non si degna di rivolger la parola a nessuno, emula in cuor suo di Sarah Bernhardt o di Eleonora Duse, sempre con tra le mani un libro per lei incomprensibile ma che finge di leggere con grande attenzione, e un vecchio mecenate (oggi si chiama così il vecchio Menelào) arricchito fabbricando scarpe o sifoni d’acqua di soda – che innamorato di lei come un idiota, sperpera il denaro ammassato in tanti anni di fatiche, per lanciarla, per innalzarla, per erigerle altari d’orpello, mettendo continuamente a dura prova per lei il vocabolario incapace di fornire un soddisfacente numero di aggettivi laudativi da far precedere o seguire al nome della diva, nei giornali di réclame. Tutta l’azienda, tutto il macchinario tumultuoso, tutte le persone che vi sono impegnate e compromesse, subiscono le alternative gaie o burrascose, le perturbazioni atmosferiche di quest’amore basato sull’imbecillità e sul ridicolo. La produzione prospera o pericola a misura delle carezze più o meno sincere che la prima attrice si degna di elargire al suo mecenate, il quale preferisce i drammi d’avventure fatti di cavalcate e di scalate, di canottaggio e di nuoto, alle commedie psicologiche dove nelle scene d’amore, il primo attor giovane deve necessariamente appoggiare le labbra sulle labbra della sua donna… E ad ogni bacio rifiutato, ad ogni convegno rimandato, la fabbricazione della film viene sospesa, gli attori licenziati, la cinematografia maledetta, e il tempo passa passa passa inesorabilmente, e il film esce di moda, altri si impadroniscono del soggetto, qualche attore muore di vecchiaia, mentre i giornali continuano im-
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Enrico Roma
perterriti ad annunziare: «Deliziosa film – in preparazione – ??… Il più grande successo della stagione ventura…».
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*** Anch’ella mi riconobbe, ma mi porse la mano con tale serietà, e mi guardò chinando il capo senza sorridere, che compresi subito come non volesse essere riconosciuta. Fortunatissimo – dissi. E la fissai un momento, ma ella fece un mezzo giro su sé stessa, e: «Vous permettez, monsieur? Je vois qu’il faut encore attendre…», disse, e si allontanò. Rimasi lì, di sasso, preso da un dubbio atroce… È lei o non è lei? Possibile che, se fosse lei, parlerebbe il francese con me? E quella pronunzia dell’erre, così parigina! No, non è lei, è impossibile! Quella era bruna, questa è bionda. Mi sembra ossigenata, ma potrebbe darsi che m’inganni, e che il colore dei suoi capelli sia perfettamente naturale… Eppoi come avrebbe potuto avere la sfrontatezza di mentire così, di recitare così, con me, dopo quello ch’è accaduto tra noi…? […] E in questa banale imitazione d’Amleto torturato stupidamente da un dubbio che in fondo, una volta risolto, non mi avrebbe che dato una delusione di più, trascorsi i tre quarti d’ora che erano occorsi per disporre alcuni bibelots e qualche mobile polveroso. A un certo punto fui distratto dalla mia indagine meditativa dalla voce brusca del direttore che, richiamando all’ordine un servo di scena il quale s’era permesso di appoggiare un gatto di porcellana sul pianoforte, gli dava dell’idiota gratuitamente. – Qui si fa dell’arte, dell’arte! aggiunse, calcando sulla parola dietro la quale si trincerano quasi sempre tutti coloro che non vedono al di là della partita doppia… Ma il servo non si commosse granché alle parole villane, né tanto meno alle parole solenni del direttore. Pensai: E se questo signore dovesse mettere in scena la Walkiria, e in un teatro sul serio? Dopo mezz’ora bisognerebbe mettergli la camicia di forza! Incominciò la prova. – Lei, signor Corra è un gentiluomo andato in rovina… – La parte mi va a pennello, osservai timidamente. – Meglio così, soggiunse il «cavaliere»… – La signorina de Valleroy è la sua amante da tre anni… – Non lo è più da un pezzo… pensai e sorrisi. Ella mi guardò seria, senza turbarsi affatto… (Non può esser lei, è impossibile!… Mi guarda in faccia così, senz’arrossire… ma quel pallore può esser dovuto al cold-cream…). – E vuole abbandonarlo, dopo averlo ridotto alla miseria, in preda alla disperazione, senza pietà. Ella supplica la signorina, si prostra alle sue ginocchia, la stringe fra le braccia e le mormora parole d’amore nei capelli, carezzandola dol-
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cemente… Le ricorderà probabilmente il passato, nella speranza che i ricordi abbiano potere sull’animo tristo della donna da lei amata… Ha capito? pochi gesti, pochissime parole… muova le labbra due o tre volte, ma appena, così come le aprirebbe per proferir un monosillabo. E non faccia smorfie che le guastano il viso. Non copra mai la signorina. Volti la faccia dalla parte del sole, illuminandosi bene. E nel momento della disperazione guardi fissamente l’obbiettivo, con intenzione dolorosa. Proviamo. Provammo. Sul principio mi dominava una certa timidezza, una certa soggezione per la mia compagna forse sconosciuta. Ma poi mi vinsi facilmente e nel dover inventare parole d’amore, allorché la strinsi tra le braccia prendendole le sue mani morbidissime e serrandole forte tra le mie, nel doverle parlare tra i capelli che avevano il profumo preferito anche da Giuseppina Cantoni: (Eau Lustrale de Guerlain) – le dissi piano: – Non m’ingannate più! Siete voi… Sono prudente… Perché non vi rivelate? Ho tanto piacere di ritrovarvi qui, e di abbracciarvi ancora, sia pure di fronte a tutti, fingendo di fingere, mentre una macchina inesorabile fotografa a centinaia di esemplari le nostre faccie, l’una vicina all’altra! Non avrei mai pensato che quest’attitudine che vorrei nascondere gelosamente, questa attitudine di tenerezza e di malinconia sarebbe stata venduta un bel giorno all’asta, per alcune lire il metro… Badate che è triste ed è grottesco, amica mia! Ma non vi crucciate… Diranno che per la prima volta io recito bene… – Corra, lasci la signorina, guardi la macchina. Pianga se può! gridò il direttore. Io guardai la macchina così come guardavo l’invisibile verità. La mano dell’operatore che continuava a girare, mi sembrava la mano del mio destino che girava la film della mia vita, dove tutto era preventivamente stabilito, dove – per quanto io mi potessi ribellare dentro di me – a quel dato punto dovevo essere felice, a quel tal’altro dovevo sorridere a quel tal’altro ancora dovevo piangere… E due lagrime sincere autentiche mi sgorgarono dai cigli e si misero a ruzzolare giù per la mia faccia a precipizio, come se non avessi fatto in vita mia che piangere quando qualcuno me lo comandava, come se il dolore lo avessi lì, a portata di cuore, come a portata di mano avevo il gatto di porcellana, grazioso bibelot… E in dieci minuti, con gli elogi più vivi da parte del direttore, per me e per la mia deliziosa compagna, la scena era eseguita… – Tanti preparativi, un’attesa così lunga, dissi alla signorina Georgette, facchini che un paio d’ore non hanno fatto che correr in qua e in là, trasportando mobilia, tappeti, soprammobili; sarti hanno lavorato delle settimane ai nostri vestiti, calzolai alle nostre scarpe, scenografi alla mise en scène, e in dieci minuti tutto è finito… Non vi sembra ridicolo tutto ciò? – No, affatto. È normale. Ditemi voi – soggiunse la dubbia transalpina, non trascurando di accentuare tutti gli erre del suo discorso, alla maniera francese – ditemi voi qual è la cosa di questo mondo per la quale non occorrano infiniti preparativi, in attesa della quale non ci si affatichi acciocché essa non devii, non
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Enrico Roma
si perda, non sfumi – e che una volta raggiunta non abbia la durata di un baleno? […] Il nostro destino è la continua corsa, la continua sofferenza, l’interminabile attesa! Lavorare, dolorare, per niente, per dieci minuti di felicità, per un attimo di realtà, per intravedere e non per vedere, per un breve riposo tra l’una e l’altra strada, tra l’uno e l’altro sogno, l’una e l’altra volontà… Dovunque, come al cinematografo… – È giusto. Ed è anche delizioso quello che voi dite. Vi confesso che vi avevo giudicato ben altrimenti… Vi avevo posta al livello di molte altre attrici che ho conosciute prima di voi, le quali, maniache di sproloquiare, finiscono col non capire neppure la psicologia dei personaggi ch’esse incarnano sulla scena… – Ah, ma quelle, vedete, sono attrici sul serio – rispose Georgette sorridendo – sono donne cioè nate apposta per fare l’attrice, così come c’è chi nasce per fare il marinaio, tal’altro per studiare astronomia; hanno il cosiddetto physique du rôle. Nessuno bada ad avere l’intelligenza du rôle, ma le physique… Comprenez vous? Mentre io… – Voi possedete tutte le virtù necessarie: bellezza, intelligenza, eleganza… […] – Io, […] io non sono un’attrice… Intendete. Non ero nata per fare l’attrice… ho finito col darmi a questo mestiere per calcolo, per volontà, e se volete per fatalità… […] Volevo dirvi questo; nella vita è necessario che si faccia un po’ tutti il nostro pezzo di bravura. Se no, si può avere il cervello di Leonardo da Vinci, per la folla non si conta nulla… In politica, come in letteratura, come in finanza, in qualunque campo. Come il giocoliere in un palcoscenico di Café-concert o come l’acrobata nel bel mezzo del circo equestre i quali, eseguito l’esercizio più difficile, più audace del loro numero, si rivolgono al pubblico e con un largo gesto dicono: «Voilà», così ciascuno di noi può vantarsi di esser veramente uomo, uomo serio, utile, «arrivato al traguardo», quando, esercitandosi in un qualsiasi giuoco apparentemente difficile, dall’alto di una piattaforma, di un palco, di un balcone, dall’alto di un ideale da giorno di fiera, rivolto al pubblico attonito, col suo largo gesto, può dire il suo «voilà» e inchinarsi in un’attitudine di esagerata modestia, di fronte agli applausi della folla che s’è divertita… E il mio pezzo di bravura amico mio, ormai è questo: Védette du cinéma. C’est drôle, n’est-ce pas? Ma alla fin dei conti, ça m’amuse. Convenitene, che tra tutte le buffonate serie della terra, questa è in fondo la più divertente! Ridemmo tutt’e due, poi tacemmo. – Non vi dispiace, vero, che io demolisca con due sole parole questo castello di carte che chiamo «il regno del silenzio?». – Di cui, voi, bene o male, siete una delle regine… – Per quante ore? È un regno di breve durata… Si regna un mese un anno, eppoi ci succede al trono qualcuna che ci equivale. Capisco ancora quei popoli che stanchi di una forma di governo fanno le rivoluzioni per avere un governo peggiore… Ma mutar di regina, così, quando la regina è simpatica e innocua non riesco davvero a capirlo… Come cambia la moda nei cap-
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pelli e nelle vesti, così cambia la moda nella bellezza femminile… Ogni stagione vuole il suo mannequin, come ogni generazione ha il suo tipo di bellezza ufficiale, intorno al quale si esercita la fantasia degli sfaccendati, si fabbricano romanzi popolari, cartoline illustrate, e tutto quel bric-à-brac che costituisce il lanciamento di una donna. E da un pezzo questa follia collettiva dal teatro di prosa e dal Café-concert si è gettata a capofitto, anche con maggiore accanimento, sul cinematografo. E si creano idoli, e con la stessa facilità si distruggono. Gli incensatori e gli iconoclasti si confondono. È la corrida delle donne fatali… Quindi non «regno del silenzio» ma meglio ancora «repubblica del silenzio», non vi sembra? Ogni repubblica che si rispetti può vantarsi di veder popolati i marciapiedi delle sue metropoli di un numero infinito di ex-presidenti… La repubblica cinematografica, non indegna delle altre, avrà anch’essa domani i suoi marciapiedi popolati delle sue ex-presidentesse. […] *** L’indomani mattina alla fabbrica mi attendeva una notizia penosa. Era morta la mia controfigura. Se ne parlava negli uffici con indifferente compassione, come si parlerebbe d’un cane morto. – Povero diavolo! disse il segretario. – Bisogna cercarne subito un altro, aggiunse il direttore, guardandomi sopra gli occhiali – uno che assomigli quanto lui al signor Corra. È una disdetta! non c’era rimasto che un quadro da fare!… – Poteva morire tra quindici giorni, comentò il cassiere, sorridendo… – Vuol dar qualche cosa per la corona? mi chiese il segretario. – Tutto quello che ho su di me, risposi. Cento lire. Ecco. Aveva famiglia quest’uomo? – No, era solo, viveva solo. E la mattina dopo seguendo il carro funebre provai una tristezza infinita, un profondo compianto per quel pover’uomo che se ne andava verso la terra… Ricordavo d’aver parlato con lui appena un paio di volte. Cinque giorni prima avevo dovuto cedergli il mio vestito per compiere la sua simulazione. Si doveva gettare a capofitto da un ponte, per me. Mi ricordo che avevo fatto osservare al direttore come la stagione fosse poco propizia per eseguire una scena di quel genere. L’acqua del fiume alle otto del mattino doveva essere diaccia. «C’è abituato, mi aveva risposto, additando quel povero uomo macilento che mi somigliava. Eppoi se si dovesse badare alla stagione, ci mancherebbe altro! L’essenziale è che la luce sia buona!» E la luce quella mattina era buona. Non avevo voluto assistere all’esecuzione di quel quadro. So che quando tornarono il disgraziato era intirizzito. Tremava. Batteva i denti. Poi incominciò a tossire. Gli regalarono dieci lire dicendogli: «Bravo Giovanni! Sei un eroe!» e lo accompagnarono a casa ché si sentiva male. In tre giorni una polmonite se lo portò via. E ora lo andavano a sotterrare. Mi sembrava di dover sotterrare un altro me
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Enrico Roma
stesso, quel me stesso che disprezzo, che non considero nulla; quel me stesso «attore di cinematografo». L’altro, foggiato a somiglianza di un Enrico Heine flagellatore, lo seguiva passo passo, col cuore ferito… «La controfigura!» Ecco che quell’uomo, per poche lire, aveva eseguito per me le scene più difficili e più pericolose, perché io, maggiormente retribuito, non corressi pericolo. Si vantava di «somigliarmi», ne era quasi fiero, poveretto! Qualcuno, se indossava un mio abito dimesso, lo scambiava per me. Ed ecco che quella somiglianza gli era costata la vita. Ora mi domandavo: Ed io a chi somiglio? di chi sono io la «controfigura?». Quando parlo e credo di parlar per mio conto, chi sostituisco in verità, chi è che muove i fili della marionetta ch’io sono?… E perché mai non sarebbe stato Giovanni il primo attore ed io la sua controfigura? Non ero forse io che eseguivo per lui le scene più istrioniche, più facili, più ridicole, più menzognere, mentre egli non degnava della sua opera che le più audaci più coraggiose più difficili? E anche nell’amore di Georgette non rappresentavo forse una controfigura, in merito a una somiglianza, in merito a una bassa capacità di adattamento, di accattonaggio, e non ero forse pagato con la miserabile moneta della compassione? E quante persone non seguivano con me quel funerale, il carro funebre di quel collega morto? Mi guardo attorno. Una moltitudine d’uomini vestiti di nero, dal capo chino… Li riconosco. C’è accanto a me un famoso uomo politico, un vero mannequin del ministero. Se gli scoperchiassi il cranio non potrei veder meglio il suo cervello vuoto e acquoso. Fu lanciato al potere da un sogno, il sogno di centinaia d’uomini ch’egli finse di comprendere, ch’egli promise di voler difendere… Non appena lontano da quella folla, credette prudente mettersi al servizio di un altro mannequin, più popolare di lui, più potente di lui, che sostiene idee risolutamente opposte alle idee del suo gruppo di sostenitori. Quando quest’uomo parla, finge di parlare per conto proprio mentre non è che il portavoce, la controfigura del suo padrone. E vedo alla mia sinistra un famoso poeta «gran traduttor dei traduttor d’Omero». Conosco la sua opera intera: non vi trovereste un’idea originale a pagarla un occhio. Ogni suo poema è un bodino preparato, una charlotte contenente l’opera di tutti i poeti dimenticati o ignoti, è la fusione di tutte le letterature. Eppure quand’egli canta l’umanità lo ammira e lo applaude. E veggo vicino a questo poeta e a quest’uomo politico, falsi mariti, finti amanti, supposti guerrieri, pecore scambiate per tori, vigliacchi per audaci, timidi per superbi, mi volto e mi avvedo che la folla, man mano che il funerale passa aumenta, aumenta, si moltiplica, s’addensa. Vedo che tra poco dietro quel feretro ci sarà tutta l’umanità a capo chino, vestita di nero… Ho la sensazione che sia giunta l’ora della polmonite universale, e che tutti quei presunti vivi, non siano in realtà che morti camminanti, e quel povero Gianni, controfigura di cinematografo, mi appare il portabandiera di un esercito di controfigure cadute in esercizii troppo pericolosi, uccise da troppo audaci tuffi. E vedo galleggiare sul fiume del ridicolo milioni di annegati, mentre un’invisibile operatore gira gira la sua manovella per incarico del Pathé Journal… ***
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«Signore, vi seguo di quassù, dal mio paesello sperduto, vi ammiro nelle vostre interpretazioni superbe, e senza che voi mi conosciate, da un pezzo vi ho affidato gran parte della mia anima, di guisa che» (bello questo di guisa! mi ricorda un discorso di Pio X!) «ormai il mio angoluccio di mondo mi sembra piccino piccino e la salubre aria di questi monti, tanto decantata da coloro che ci vengono a villeggiare, sia divenuta per me irrespirabile… Mosso Santa Maria (Biella) Andreina T.». (Povera Andreina! mi dispiace che proprio per causa mia tu non possa respirare come respiravi prima. E spero che i villeggianti non sappiano mai la grave trasformazione avvenuta nell’aria del tuo paese. Gli albergatori non ce lo perdonerebbero così facilmente!!! Per guarire, ti consiglio, quando vedi un mio film annunziato sull’uscio del tuo piccolo cinema montano, di recarti invece a fare una bella passeggiata ad Oropa o a Biella. Sappi che anch’io fui in quei luoghi prima di te…, mi sedetti ad una panchina del giardinetto della stazione in attesa del tram a vapore che doveva condurmi a Valle Mosso, due passi da Mosso S. Maria. A Valle Mosso dormii cinque notti in quell’albergo che è di contro alla fermata del tram. Ci dev’essere la lapide. Recati colà in pellegrinaggio e non temere di nulla, poiché pagai la nota). «Gentile amico che purtroppo non conosco: Vi ho ammirato nella Signora delle Camelie. Come vorrei essere al posto della signorina de Valleroy nella parte di Margherita! Invece non sono che una Giovannina, e se volete una Gina, come mi chiamano i miei. Qui si dicono di voi molte cose. Che avete moglie e che portate il parrucchino; ma io non voglio credere né all’una cosa né all’altra. Perché non venite una volta quassù? Locarno (Svizzera) Gina Favre – poste restante». – (Carissima amica sconosciuta. Purtoppo è la verità; per il sindaco e per il parroco sono ammogliato da un pezzo. Per il prossimo non lo sono più, poi che mia moglie fuggì una sera senza luna, con un sottotenente delle guardie di finanza. Eppoi parlatemi di contrabbandieri! In quanto al mio cranio devo confessarvi che è talmente privo di capelli da sembrare una palla di bigliardo. Ebbi il tifo qualche anno fa, ed ora ne porto il dolce ricordo. Sono cose che càpitano a chi vive nella vita tumultuosa. Scusatemi per le delusioni che vi dò e non mi dimenticate nelle vostre preghiere… A Locarno fui all’età di ventiquattro anni. Perdetti la somma di seicento franchi svizzeri al giuoco dei cavallini nel vostro elegante Kursaal. Non spero che vogliate restituirmeli per conto della Confederazione). *** Ed ancora altre lettere di donne lontane ed ignote nella mia posta del mezzogiorno. Avevo inteso molte volte parlare di queste povere pazze che scrivono agli attori veduti sul bianco dello schermo della propria malinconia. Ma non vi prestavo fede. E invece era vero. Anch’io ormai avevo la mia platea di ammiratrici, anch’io potevo sperare in un buon matrimonio. Un giorno o l’altro, pensai, mi sposo con una di queste isteriche provinciali. Prendo il primo treno e mi presen-
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to a lei. Già vedo la scena. «Abita qui la signorina tal dei tali? Sì? Ditele che il signor Armando Duval, quello della Signora dalle Camelie deve parlarle». Il salottino l’ho già veduto altra volta – dove? – Ah! all’esposizione del cattivo gusto, a Milano. Trofei di cartoline postali alle pareti, una ballerina dipinta, dalle vesti di carta velina rossa, una pendola di metallo dorato sotto la campana di vetro. Ritratti di famiglia: brutti ceffi, senza espressione, mal vestiti. Un’alzata per le frutta carica di garofani. Una macchina per cucire vicino alla finestra. – Signorina, buongiorno. Sono io, ho fatto un viaggio apposta per lei. Vuole sposarmi? Ella mi guarda istupidita, aggiustandosi il grembiale. È paffuta e colorata come una lattaia. I pomelli rossi sembrano due mele messe a maturare sullo spigolo d’un armadio. Le mani sono gonfie come cuscinetti per gli spilli… Poi mi dice: «Mi perdoni, sa, era uno scherzo… ossia no, non uno scherzo, perché veramente io ero sincera nello scriverle quelle parole… ma non credevo mai… Sono maritata… mio marito è il farmacista del paese. Per carità, non mi comprometta!…». «Controfigure! controfigure!…». *** – Sapete che le nostre films furoreggiano ovunque?… La fine di Pierrot è andato a ruba. Sessanta copie soltanto in Inghilterra! È la popolarità… – Mi fa piacere, risposi a Georgette che mi riferiva la notizia datale dal «cavaliere», poiché finalmente ho l’impressione di non rubare il denaro che guadagno. – Soltanto per questo?… – E anche per altro, forse. Dato che a quest’ora non godo altra considerazione se non quella di un «bravo attore» così non mi dispiace che almeno questa considerazione sia universale… – Orgoglioso!… – Sì, orgoglioso, ditelo pure… D’altre parte, perché elemosinare la stima pubblica quando lo stimar noi stessi ci costa più fatica e ci dà maggiore gioia…? Non ho mai desiderato di conseguir delle lauree come non ho mai domandato la licenza di porto d’arme o la licenza di caccia… Mi chiedo perché la società non abbia mai pensato d’istituirne una per il libero uso della penna da scrivere che è forse un’arma più insidiosa che una rivoltella «browning»? Quando siedo allo scrittoio, uccido più persone sulla carta bianca che non ne abbia uccise un rinomato giustiziere nel corso dell’intera sua vita, sul palco della ghigliottina… Ha certo trucidate più persone Federico Nietzsche che non un terribile brigante calabrese… Forse un giorno scriverò un libro velenoso con l’unico scopo di riuscire a far perdere la bussola a qualcuna delle ben quadrate persone che conosco. Dunque dicevate amica mia che La fine di Pierrot, è piaciuta? – Infinitamente. Guardate i giornali… – Ah! se lo dicono i giornali… – Non credete neppure ai giornali? – Quella è la prima fede che si perde… Del resto è logico che La fine di Pierrot
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sia piaciuta. Quando una persona molesta è in agonia inspira sempre la pietà in chi l’assiste… E Pierrot è veramente molesto. Sono tutti un po’ stanchi della sua pallida faccia sentimentale, del suo lirismo, del suo candore, della sua incapacità di seguire i tempi… Pierrot è diventato una specie di accusa. Sembra che dica all’uomo: «Così tu eri una volta. Così tu dovresti essere ancora. Cosa hai fatto invece della tua Pierrette?… e perché hai messo una maschera incomprensibile sulla tua bianca faccia?» Ed ecco che la Deliziosa Film si è intesa in dovere, per appagare i voti del suo pubblico, di uccidere questa istituzione antica, questo simbolo fuori moda, questo lagrimante burattino… E il colpo di grazia è piaciuto. Sarebbe divertente ora lanciare una Risurrezione di Pierrot! …Fare di Pierrot un anarchico dal grande cuore, dalle larghe vedute… Porgli nella mano uno scudiscio, vederlo fustigare a sangue gl’innumerevoli nemici della bontà e della poesia… Le guardie del sepolcro cadrebbero ancora una volta faccia a terra, e si udrebbe forse nell’aria un formidabile rombo… – Surge et ambula, Pierrot!… – Vediamo i giornali: «Madrid – salón Cataluña: El éxito ha sido muy grande, costituyendo la pelicula para la De Valleroy, la protagonista francesa e Giorgio Corra, la confirmación de gran fama. El protagonista «Pierrot» ha sido muy elogiado en ésta pelicula que nos occupa, por su trabajo». E simili corrispondenze sono giunte da Londra, da New York, dal Cairo, da Parigi e persino da Tokyo!… – Ed ora, mi ha detto il direttore, gli altri nostri films si venderanno, come si dice, a boïte fermée, cioè senz’esser visionati. Unica garanzia, i nostri nomi. Vedete che ormai, vogliate o no, siete riuscito ad avere un valore commerciale… – La gente mi compra ad occhi chiusi… Chissà quante lire il metro si vale noi due? Ah! Ah! – Ho letto un telegramma stamattina concepito così: «De Valleroy, Corra, duemilacinquecento metri, quattro franchi metro, oro». – E ci pagano in oro. Ricordate Cristoforo Colombo che disceso sulla nuova terra scambiò le sue piccole cianfrusaglie con le gemme dei selvaggi? E viaggeremo il mondo, in una boïte fermée. Nòmadi in scatola chiusa…! Come farò io, curioso di lontani paesaggi, a rassegnarmi al buio della nostra scatola, senza poter vedere né fiumi né monti né città né deserti? Viaggeremo su piroscafi, su treni primitivi, su camelli forse, senza poter vedere mai nulla! È triste sapete! – Ma ci terremo compagnia a vicenda, e saremo finalmente soli e vivremo per noi soli… – Lì finalmente non potrete chiudere i vostri bauli e andarvene per esempio a Lyon… – Il nostro viaggio, il nostro viaggio di piacere!… – Attraverso le tenebre… – Io ti domanderò ogni tanto: dove credi che ci troviamo ora? – Ed io ti risponderò a caso: sull’Oceano, in una stiva, accanto a una cassa di Paquin… e il mio dolore sarà di non poterti regalare gli abiti ch’essa conterrà…
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Enrico Roma
– Poi presto o tardi ignote mani violeranno il nostro rifugio… Torneremo alla luce, e ci ritroveremo chissà dove… – Udremo parlare una lingua ignota… forse l’Esperanto o in Volapük… E qualcuno vedendoti ti farà dei complimenti, senza badare a me presente, ed io ne sarò geloso… Se qualcuno metterà mano alla forbice per defraudarti d’un gesto io anche ti difenderò… Saremo uniti come si desidera d’esserlo a vent’anni, quando il primo amore ci tiene… – E forse in alto mare un siluro nemico affonderà la nostra nave, e noi precipiteremo avvinti nell’abisso… Annegheremo assieme, come due amanti infelici cui i genitori non vogliano accordare il consenso per le nozze… – E se anche nel fondo del mare (perché no?) il cinematografo è in onore come sulla terra, continueremo a fare le nostre smorfie gaie o tristi alla presenza di uno strano pubblico formato di pesci e di molluschi… – Di me s’innamorerà un delfino, di te, forse una balena… – E flirterò con lei purché non mi mangi!… Confessate che le conversazioni tra Georgette e me erano deliziose, degne veramente di essere continuate all’infinito. Il più lieve pretesto ci bastava per ricamarvi su tutta una storia pazzesca che aveva il sapore della verità… Che squisita ginnastica dell’intelligenza e del sentimento! E quante cose profonde talvolta non ci dicevamo con le nostre metaforiche osservazioni…! – Pensate, pensate amica mia: noi abbiamo il dono dell’ubiquità! Possiamo nello stesso momento vivere in mille luoghi diversi. Individui delle più opposte razze dai più varii linguaggi ci conoscono di persona, ci trovano simpatici o detestabili, forse parlano di noi qualche volta. E quante felicità che sarebbero per noi, che sono moralmente già nostre, non ignoriamo? Ecco forse l’unico vantaggio della nostra strana professione: la possibilità di vivere almeno in effige una vita internazionale… Non vi sembra magnifico?… Pensate, pensate ai milioni di persone che sanno il nostro nome, il nostro modo di vestire, i nostri gesti abituali, i nostri difetti fisici!… Solamente Enrico Stanley può competere con noi in popolarità. E forse nemmeno. Probabilmente il suo nome è più noto nell’alto Congo, tra i negri, che nel popolino londinese. Ci vuole addirittura Napoleone per batterci! Se il libro velenoso che ho intenzione di scrivere lo intitolassi: Aspetto morale dell’attore cinematografico Giorgio Corra noto per i seguenti films: ecc. ecc. ecc., e ne facessi tante belle edizioni per quante sono le lingue che si parlano sulla terra, con un mio ritratto sulla copertina? Non credete che sarebbe una magnifica trovata per lanciarlo e per sfatare le leggende che si siano potute creare sul mio conto?… In questo libro racconterei la mia vita dettagliatamente, senza nulla omettere. E in fondo darei il mio indirizzo permanente: Milano, caffè Savini, Galleria Vittorio Emanuele. Che ne dite?… Forse riceverei sul serio una buona offerta. Oppure se, terminate le innumerevoli guerre che ci deliziano, mi mettessi a fare il commesso viaggiatore di me stesso? Lancerei innumerevoli avvisi di passaggio, servendomi di tutte le guide esistenti… Figuratevi l’enorme biblioteca! Che coltura di nomi e di strade mi potrei formare così! Che orizzonte per l’autodidatti-
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ca!… E di porta in porta, domandando a tutti «mi riconoscete? Volete che sosti qui…», chissà che una buona volta… – Non fareste in tempo! Morreste di fatica e di vecchiaia ai primi passi…! – No! Ecco che sono già, supponete a… nell’Isola incantata di Ceylon… Entro in una città ridicola abbrutita stupida: Colombo. M’addentro in Slave-Island; a Pettah… Un bimbo di dodici anni, già vecchio, mi fa cenno con la mano. Sulla porta è scritto: Association tropical. Entro. Mi riceve un uomo orribile dalle gengive bruciate dalla noce d’areck e dai denti giallognoli e neri per le molte carie, che appena mi vede mi salta al collo e mi dice: «Oh! eccovi finalmente! All right! Stasera vi presenterò a mia figlia che vi ama!»… Avevo inteso molte volte parlare di queste povere pazze che scrivono agli attori cinematografici veduti sul bianco schermo della propria malinconia… *** E probabilmente con tutte queste sciocchezze dicevo il mio amore, il mio amore che ingigantiva, alla bionda Georgette… Forse aspettavo ch’ella si facesse su la soglia della sua porta e vedendomi peregrinare così, stanco e sfiduciato, mi trattenesse col grido del vecchio Cynghalese: «All right! Eccovi finalmente! Vi attendevo…». […]
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Massimo Bontempelli
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La mia morte civile*
Perché, buon Dio, mi avete fatto tanto sensitivo? Senza questa imperfezione, oggi sarei ricco a milioni. E ricchissimo fui, per qualche giorno; ma per troppo sentire ho dovuto rinunziarvi. Fui ricco, dopo l’improvviso trionfo della mia interpretazione cinematografica della Morte civile. Per caso entrai nell’Olimpo muto, e per necessità ne uscii. Vivevo in un villaggio della Calabria. Un giorno, nel caffè di quel villaggio, ebbi una discussione col cameriere. Appena questi se ne fu andato, un gentiluomo ch’era seduto al tavolino accanto, con accento americano mi si presentò: – Sono il direttore della Dumbplay Celestial Company: appena ho sentito la vostra voce col cameriere, ho indovinato in voi la stoffa d’un eccellente attore muto. Continuò, che in modo particolare gli sembrava il mio fisico fosse adatto per fare il protagonista in una riduzione filmica della Morte civile. Per girar questa era appunto venuto in Calabria, scena del dramma giacomettiano. Esitavo, insistette, mi offerse una somma prodigiosa. Cominciammo dopo pochi giorni il lavoro. Entrai sùbito a maraviglia nella psicologia vulcanesca di Corrado, pittore siciliano e furibondo amante e cognaticida appassionato. Troppo v’entrai. Mi ci consumavo. Il dramma è, per Corrado, una serie di eventi esasperati: amore, gelosia, odio, omicidio, prigionia, fuga, strazio coniugale e paterno, coscienza della morte civile, suicidio. Io, recitando, provavo ognuna di quelle tempeste in me come vere. Dopo ognuno di quegli sforzi – cioè dopo ogni scena – mi occorreva uno sforzo più grande, e lunghi riposi, per sgombrare l’animo da *
Massimo Bontempelli, La mia morte civile, in «Corriere della sera», 21 ottobre 1924, p. 3; poi, con alcune aggiunte, in Id., La donna dei miei sogni e altre avventure moderne, Milano, Mondadori, 1925, pp. 87-102, da cui si cita; con ulteriori varianti, in Id., Miracoli (1923-1929). La donna dei miei sogni, Donna nel sole, Mia vita morte e miracoli, Milano, Mondadori, 1938, pp. 48-57. Il racconto si colloca nell’alveo del “realismo magico” bontempelliano (del 1922 è il romanzo La scacchiera davanti allo specchio, del 1923 Eva ultima, dopo le prove di ambito futurista dei racconti della Vita intensa, 1920, e della Vita operosa, 1921). Per i primi interventi di Bontempelli sul cinema, si veda, nella seconda parte di questa antologia, Il nuovo spettacolo, pp. 389-390; sarà lui a fondare, il 10 maggio 1929, all’Hotel de Russie di Roma, il primo cineclub italiano. Il dramma La morte civile di Paolo Giacometti, del 1861 (cavallo di battaglia dei mattatori di secondo Ottocento, come Ermete Novelli, Ermete Zacconi, Tommaso Salvini), ha per protagonista un ergastolano, Corrado, che fuggito dal carcere ritrova la moglie Rosalia, stabilitasi con la figlia a casa di un medico presso cui lavora. Quando scopre che la moglie ha nascosto alla figlia la sua esistenza, e le ha fatto credere che suo padre sia il dottor Palmieri, Corrado si suicida, teatralmente. Un primo cortometraggio tratto dal dramma fu girato nel 1910 per la Film d’Arte Italiana, con l’interpretazione appunto di Ermete Novelli; seguirono nel 1913 un lungometraggio diretto da Ubaldo Maria Del Colle per la torinese Savoia Film, protagonista Dillo Lombardi, e nel 1919 uno diretto da Edoardo Bencivenga per la Caesar Film di Roma, interprete Amleto Novelli.
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quella condizione e potervi sostituire la nuova. Si perdeva con ciò molto tempo, ma la mia interpretazione riusciva così fenomenale che il direttore di buon grado vi si assoggettò. La cosa procedé tranquillamente fin che si trattava di rappresentare la vita di Corrado pittore davanti al cavalletto in mezzo ai selvaggi scenari della natura, o i primi momenti del suo idillio con Rosalia. Ma la famiglia di lei non mi voleva. Io per un bel po’ rimasi veramente torbido contro il gentile attore che impersonava il fratello di Rosalia; pure, finita la scena, in breve riuscii a tranquillarmi. Poi commisi il ratto della fanciulla portandomela sulle braccia davanti all’occhio polifemico della macchina da presa. Dovettero i miei compagni rincorrermi, perché di tanto ardore m’ero invasato, che continuai a correre, fuori e lontano ormai dal campo di posa: a correre, e ora stavo scavalcando una siepe mentre la prima attrice tra le mie braccia strillava. Chi sa dove l’avrei portata se non m’avessero raggiunto e svegliato, rituffandomi nell’innocente realtà. La gran tortura cominciò con la scena dell’uccisione di mio cognato. Lo odiai in pieno, quel giorno. Lo uccidevo con una gran bastonata sul cranio. (Per fortuna lo schermo non doveva presentare che la prima parte di tale mio gesto.) Perché ero diventato una belva, mi portarono a casa e mi misero in cura. Per più settimane fremei d’odio. Non ero pazzo. Sapevo perfettamente che il mio buon compagno non era il fratello di Mara d’Ayala (il nome della prima attrice) e che non gli sarebbe importato niente se me la fossi sposata anche due volte al giorno. Sentivo in me, nei nervi, nel sangue, tutti i fremiti dell’odio di Corrado per il cognato, ma dentro il cervello sapevo bene di essere io, non Corrado: e questa sovrapposizione di sostanze, e quella condizione d’odio senza oggetto, anzi movimento d’odio senza l’odio, era ancora più lacerante. Tornato al lavoro, mimai la scena seguente, ove gli sbirri mi colgono, legano, strascinano; e fui buttato in prigione. I tredici anni della prigionia di Corrado (una mattinata di lavoro) m’abbatterono molto – ma qualche settimana di supernutrizione mi rimise in forze per eseguire la celebre fuga dalla prigione: e quando scesi, lungo le classiche lenzuola attorcigliate, lo scabro spigolo d’un torrione, e posto piede in terra mi trovai libero e solo nell’aperta pianura, allargando di gioia le braccia davanti all’obiettivo sentii dalla lente di quello soffiarmi in volto impetuosa tutta l’aria del creato. E cominciai, torace gonfio, occhi al cielo, a camminare la sterminata pianura. – Alt! – gridò dopo qualche passo il direttore. – Ora mostri d’essere molto stanco. Ubbidii. Allora rapidissima una stanchezza conquistò tutte le mie membra, m’invase, m’accasciò. – Va bene. Si rialzi. Può farmi qualche controscena di fame? Cominciai i gesti e le svenie dell’affamato. Sùbito una fame asprissima mi torturò i visceri. Mi sentivo tutto svuotato; e come una vescica ripiegai e caddi. Si precipitarono a rialzarmi, ma oramai non mi reggevo più. Balbettai fioco fioco:
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Massimo Bontempelli
– Man... giare... Correvano al baraccone delle cucine: mi portarono piatti colmi di carni rosolate e sanguinanti, smisurati blocchi di formaggio, e vino e pane; e tutto – Corrado da due giorni non mangiava – tutto bevvi e mangiai: mangiai voracemente, a precipizio, per non so quanto tempo senza interrompermi. Ritrovavo vita e forza. – Ora riprendiamo la scena, presto, prima che la luce vada giù. M’alzai di sui piatti, rifatto e colmo, e trangugiando l’ultimo boccone corsi alla macchina. Il direttore disse: – Facciamo un primo piano di quelle espressioni di fame, che andavano benissimo. Vuol riprovarle? Fu portata avanti la macchina. A un metro dall’obiettivo, tra due schermi bianchi che gli aiuti reggevano sotto il mio viso per accumularvi i riflessi, rifeci le smorfie. Durarono un minuto: e già ne risentivo in me gli effetti. – Benissimo – diceva l’americano. – Basta. Ma ero nuovamente caduto in terra per inedia: ancora, in suggestione di quegli stiramenti famelici del mio volto, una lunga fame vera mi dilaniava: il mio ventre sussultava vacuo, morso, roso, infelicissimo. Imploravo. Dopo qualche perplessità, dovettero portarmi altri cibi, e per un bel pezzo ancora divorai, come un diluvio, come un incendio. Non occorre che io ripercorra tutto il dramma fino alla spasmodica morte per stricnina. A me tarda raccontare fatti più maravigliosi, che m’accaddero più tardi, quando il lavoro già da tempo era finito, quando si cominciò a mandarlo in giro per il mondo. Fatti meravigliosi. Incredibili, forse. Certo se qualcuno me li raccontasse stenterei a crederli. Ma devo ben credere a me stesso. Finito il tormentoso lavoro, forse non mi sentivo stanco; vuoto, piuttosto, e quasi annullato. Gli attori se n’erano andati chi qua chi là: anche l’americano partì, con le macchine e con non so quanti chilometri di pellicola, non senza avermi lasciata una gran somma di danaro e promettendone altre per quando si sarebbero vendute le copie. Era entusiasta. Passò qualche tempo: non ci pensavo più. Perdurava in me quel senso di vuoto e di interiore nulla. Non avevo più desiderii né sentimenti né quasi sensazioni di sorta. (Ma ogni tanto, a intervalli, qualche raro e breve accesso di disordine e affanno nervoso al tutto inesplicabile: sùbito passava.) Un giorno, ai primi di settembre, ricevo una lettera molto affabile dell’americano, che mi dice di trovarsi a Roma. Aggiunge: – la pellicola è stata montata, è riuscita maravigliosa. La proietteremo in prova il 15 di questo mese: avrà un gran successo. Spero che quel giorno lei venga a vedersi. – Questa lettera mi lasciò indifferente. Dopo qualche giorno risposi che mi era impossibile recarmi a Roma per il 15. Il 14 presi il treno e andai a Roma. L’americano m’accolse con effusione; ma a me non riuscì, nonostante ogni mio buon volere, vincere la mia freddezza. Lo pregai molto fermamente di non
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La mia morte civile
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presentarmi a nessuno. Arrivato con lui alla sala, mi cacciai in fondo, solo, in un angolo oscuro. Non c’erano che una ventina d’invitati, nelle poltrone centrali. Si fece buio, e sullo schermo cominciò la storia di Corrado. Io non avevo preveduto. Da principio non m’interessava; ma appena – dopo le prime scene – fu apparso sullo schermo Corrado, io sentii me stesso ribalzare su e fuori dalla scolorata atonia in cui ero rimasto immerso da quando era finito il lavoro sino a quel punto. Fui come uno svenuto che rinvenga tutt’a un tratto; o come una sostanza che d’improvviso a un gesto divino trabalza dal nulla nell’essere. Tutto questo fu in un istante: l’istante in cui vidi l’immagine di Corrado, cioè la mia, ch’era sua, tranquillamente seduta davanti a un cavalletto in mezzo alla campagna. Ma similmente in un successivo istante, un lampo, mi resi conto che quel mio risentirmi esistente non era in me, era in lui: in colui, che ora guardava Rosalia con radiosa ammirazione: e questa s’esprimeva nello sguardo della figura, ma io la sentivo in me tutta: ora mi sorpresi a tendere le braccia nel buio della sala con l’impeto della nostra anima innamorata. Poi la mia immagine scomparve, rifui vacuo. Ora d’un tratto m’invase un gran furore, mentre sullo schermo Corrado, cioè io, ferocemente disputavo contro l’ostinata famiglia di lei. Di qui, fu un crescendo di spasimi rotti da brevi plaghe di vuoto: tutto ciò che Corrado aveva sofferto vivendolo in vent’anni, e io recitandolo in alcuni mesi, ed era atrocemente ora costretto in due ore. Quando, all’ultimo, Corrado là si rotola e dà scatti sotto l’influsso della stricnina, mi trovai tra le poltrone riverso sul pavimento a sbalzare e quasi morire. Improvvisamente si fece la luce, ed ero vuoto e inerte. Gli spettatori s’affollavano intorno al direttore. Prima che mi cercassero, dalla tenebra del mio angolo per una porticina fuggii all’albergo. La sera stessa l’americano mi scovò, e mi raccontò l’ammirazione di tutti. – Abbiamo già venduto una copia per Roma, una per Milano, e una in Francia. A Roma si proietterà al pubblico lunedì, alla sala Splendor; e il mese venturo a Milano. Mi consegnò un assegno. Il giorno dopo tornò con due nuovi contratti che mi costrinse a firmare, e mi lasciò altri dollari, molti. Io ripartii, ma senza fiducia di guarigione, per il mio paese. Ero vuoto. E ora sapevo benissimo qual era il mio male. Non sperai troppo di liberarmene con l’astenermi dal vedere il mio film. Avevo capito perfettamente che la mia vita e la mia sensibilità erano oramai passate intere là dentro, in quei due chilometri di pellicola, e là erano rimaste, pur legate in misterioso nesso alla fonte loro, che era il mio cuore; capii, senza dubbio possibile, che ormai ogni qual volta il film si fosse rappresentato, in una parte qualunque del mondo, io, durante il tempo del suo svolgersi, ne avrei sentito ripetersi in me le fasi e gli effetti. Infatti, pochi giorni più tardi, alle quattro del pomeriggio, chiuso nella mia camera non mi maravigliai di sentirmi d’un tratto attorno al capo l’aria vivace della campagna (quella ove stavo dipingendo, laggiù sullo schermo della sala
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Massimo Bontempelli
Splendor a Roma), e sùbito di poi gl’impeti amorosi per Rosalia, e i litigi, e la collera folle, la prigione, la fuga. Quanto piansi e gioii, solo, davanti al tavolino, riabbracciando mia moglie! E tutta l’orribile sequela di strazi, gelosia, dignità umana lacerata: come singhiozzai, contro la parete vuota, quando la mia figliola ha paura e orrore di me! e qualche minuto più tardi mi rotolavo a scatti sul pavimento. Due ore così, e poi quasi sùbito ricominciò; quattro volte così, tra le quattro e la mezzanotte, a intervalli regolari, come le rappresentazioni della sala Splendor a cinquecento chilometri di là. E il giorno appresso, e tutti i giorni appresso, dalle quattro a mezzanotte, quattro serie ogni giorno, entrata continua. Presi un treno e tornai a Roma. (Ebbi cura di viaggiare la notte e la mattinata per non essere colto dalla ridicola crisi – all’ora dei cinematografi – in luogo pubblico e aperto.) Il medico celeberrimo cui mi rivolsi, volle assistere più volte alla mia crisi quotidiana: poté riconoscere il perfetto sincronismo dei miei movimenti, interni ed esterni, con lo svolgersi d’ogni rappresentazione. Il 6 ottobre si presentò una complicazione. Alle quattro di quel giorno mi parve d’avvertire, sul principio, una maggiore intensità delle mie sensazioni: dopo qualche minuto le sentii come confondersi in modi strani; a un certo punto erano tutte mescolate e intricate balordamente. Il medico celeberrimo dice: – Ecco un principio di crisi benefica. – Io invece d’un tratto capii e gridai: – Oggi, oggi si proietta anche a Milano. Ricominciò, ricominciarono. Le due rappresentazioni entro me si accavallavano. A Milano ecco, facevano gl’intervalli più corti e giravano un po’ più presto. Mentre (con Roma) le mie braccia stavano assestando il colpo cognaticida, le mie ginocchia (con Milano) si stringevano frenetiche di libertà nella discesa lungo lo spigolo della prigione. Poco più tardi il mio corpo sussultava sul pavimento, mentre il mio viso rideva di gioia contemplando la mia bambina appena nata. Dopo la mezzanotte fu finito: il medico celeberrimo volle che uscissi con lui. A piazza Colonna incontriamo l’americano, che delirò di gioia al vedermi: – Dieci copie vendute: in America, in Svezia. Farà furore, dappertutto. Tra un paio di settimane si proietterà contemporaneamente, tra Italia e fuori, in venti sale. Detti un urlo di paura. Sono guarito ricorrendo al solo rimedio possibile: ho comperato tutte le copie della mia Morte civile, e la negativa. L’americano ne fece una malattia. Le ho bruciate, e sono tornato io. Per mettere insieme la somma necessaria, non bastando i dollari avuti dall’americano, ho venduto a una scuola medica – per quando sarò morto s’intende – il mio sensitivo cuore. Il medico celeberrimo asserisce che sarà interessantissimo farne l’autopsia, e mi ha fatto dare un prezzo formidabile. Non mi vergogno, no, di raccontarlo: anzi desidero lo sappiano tutti, che il mio sensitivo cuore è già venduto e non è più disponibile.
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SI GIRA!
Guido Gozzano
Pamela-Films*
Madamigella Ottempati (in paese da molti anni i maligni sostituivano la O con un’A), aveva un delicato nome goldoniano: si chiamava Pamela. Pamela! Un viso a fossette, un profilo alla Watteau, due occhi profondi, due labbra rosse, dal sorriso triangolare… Ohimè! Pamela aveva sessant’anni e non possedeva nulla di tutto questo. Il tempo non l’aveva potuta imbruttire. Chi la ricordava ventenne, la ricordava così: orrida e maschia, angolosa ed ossuta, leggermente gibbosa e leggermente claudicante, col profilo grottesco di certi palmipedi esotici: il naso enorme complicato di strane protuberanze, la bocca fessa fino agli orecchi, gli occhi piccolini e verdi protetti dai sopraccigli congiunti in un sopracciglio solo, densissimo, prominente come certi mustacchi… In molti casi la natura è perversa. Nessuna vista è più pietosa di certe anime condannate a soggiornare tutta una vita in un corpo deforme, come prigionieri espianti in una prigione spaventosa una colpa non loro. Eppure a vent’anni Pamela Ottempati aveva avuto il suo raggio di sole. Era stata fidanzata con il segretario di un notaio. Il destino crudele le aveva rapito il promesso sposo quasi alla vigilia delle nozze, con una polmonite fulminante. Da quel giorno la vergine vedova non si era più depilato il mento villoso, né aveva più cosparsa di cipria la lucentezza livida del naso. Il tempo, le pratiche religiose l’avevano consolata di quella spina. Ma più tardi Pamela aveva avuto il secondo e, forse, più grave dolore della sua vita: la lite col fratello, un fratello molto più giovane di lei, bell’uomo, di temperamento opposto, nato al guadagno, al piacere, all’avventura. La lite era stata tremenda per la povera zitella che s’era visto carpire *
Guido Gozzano, Pamela-Films, in «La Stampa», 21 febbraio 1915; poi in Id., L’ultima traccia. Novelle, Milano, Treves, 1919, pp. 135-149, da cui si cita, e in Id., I sandali della diva. Tutte le novelle, Milano, Serra e Riva, 1983, pp. 136-143.
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Guido Gozzano
gran parte dei suoi beni ed era rimasta sola nella vecchia casa provinciale, col suo cane, il suo gatto, le sue galline, la sua fantesca. Gli anni le avevano inacidito il carattere, l’avevano fatta implacabile con tutti e con tutto, non tenera che per le cose di religione e di beneficenza. Non aveva più rivisto il fratello da quindici anni, ma ne aveva notizie indirette, di quando in quando. Era stato all’estero, in Francia, in Inghilterra, aveva accresciuta la sua fortuna, poi s’era rovinato, poi s’era arricchito ancora come impresario teatrale, poi come fabbricante di films. Una vita fortunata e fortunosa, sregolata e peccaminosa, della quale Pamela non voleva nemmeno sentir raccontare i particolari. E da tre anni la vecchia zitella viveva in angoscia più grande; il fratello era ritornato in Italia, si era stabilito a Torino fondandovi una grande Casa cinematografica. E in tre anni la Casa aveva prosperato incredibilmente, gareggiando tra le prime sul mercato della pellicola. Ormai Pamela era rassegnata a vedere il suo cognome illibato sui giornali, accanto ai titoli più scellerati; qualche films della Casa giungeva anche al cinematografo di Vareglio e allora, passando accanto ai grandi cartelli murali effigianti delitti ed amplessi, uomini efferati e donne discinte, Pamela abbassava gli occhi e corrugava i sopraccigli enormi, mormorando feroce: – Anche il disonore! Il danno, lo scorno e il disonore! E aveva quasi rinunciato da tre anni alle sue già rarissime gite in città. E non aveva rivisto il fratello, né gli aveva perdonato più mai. Non gli perdonò nemmeno quando improvvisamente morì. La morte del grande industriale fece scalpore ovunque, fu commentata dai giornali, commentatissima nel mondo cinematografico. Nella piccola città di provincia, poi, non si parlava d’altro: – Quarantatré anni! – Un uomo bellissimo! – Quasi milionario! – Gaudente! – Sano e robusto! – Troppo sanguigno! – Apoplessia! – Fulminante! La morte l’aveva infatti ghermito in ferrovia, tra Genova e Nizza, mentre si concedeva alcuni giorni di riposo, di vacanza rosea con la sua amica di quel momento, la divinamente bella Diana Carmeli, una stella della pellicola, quella che un poeta famelico, sfamato dalla Casa, aveva detta «la Duse del silenzio». Madamigella Pamela non aveva voluto sentire, non aveva voluto sapere. Inorridiva. Non piangeva il fratello, ma non sapeva darsi pace di quella morte sciagurata che chiudeva una vita sciaguratissima, rabbrividiva nella certezza di quell’anima perduta. – Preghi, preghi per la sua pace. Sarà un gran conforto per lei. – Pregare per la sua pace? Ma è morto in dannazione!
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Pamela-Films
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– Nessuno ha il diritto di dir questo, signorina – osservava un sacerdote meno severo ed implacabile della sua devota. – Nessuno può sapere che cosa avvenga di un’anima nell’ora dell’ultimo addio. Madamigella Ottempati non si consolava. Accomodava i falsi bandeaux bluastri sui sopraccigli baffuti, accarezzava Bob, il cagnolino decrepito, sospirando senza conforto, ripetendo a se stessa: – Dannato! Dannato per l’eternità! Una settimana dopo quella morte Pamela ebbe una lettera dall’avvocato Quinteri. Era costui un vecchio amico di famiglia, leale e fidatissimo, che già l’aveva assistita, con non brillante successo, nelle vicende col fratello, molti anni prima. L’avvocato, dopo qualche parola di condoglianza, si permetteva – data la confidenza e l’amicizia antichissima – di domandarle se pensava a provvedere per le formalità legali, e profferiva ancora una volta, qualora ne occorresse, tutti i suoi servigi e tutti i suoi consigli nella difficile circostanza. – La difficile circostanza? – L’eredità, signorina – commentava la vecchia serva. – Lei è l’unica erede. Vede che avevo ragione io… L’eredità di quello sciagurato… Pamela non dormì tutta la notte e all’alba si alzò più spaventosa che mai. – Parto. È necessario ch’io veda l’avvocato, che io gli parli subito. Dammi la roba. Dinanzi alla lastra offuscata del grande specchio dell’Impero, Pamela indossava i suoi indumenti cittadini: una camicetta a pizzi e a perline, una gonna larghissima – non aveva rinunziato mai, per volger di anni o mutar di foggie, alle tre sottane inamidate e al busto ad imbuto – s’adattava sulle spalle una mantellina cardinalizia, tipo 1890, s’accomodava sulle false chiome stoppose un cappellino gracile dove tremavano tre squallide penne di pavone fermate dalla testa di un pappagallo. – Bisognerà che la signorina pensi al lutto. – Ci penserò in città. Tanto prevedo di doverci stare per qualche giorno. Chissà che novità m’aspettano! – Novità consolanti! Vorrei essere io nei suoi panni, signorina! – Ma chissà quanti guai! – Con l’avvocato Quinteri può esser sicura di tutto. Pamela Ottempati adattò a Bob la collarina e la catenella di gala ed uscì sospirando: – Dio me la mandi buona! Pamela non aveva mai saputo spiegarsi l’attenzione della quale era fatta segno nelle vie cittadine. – Tanta curiosità per una forestiera di più! Sono più pettegoli in città che in
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Guido Gozzano
provincia! – mormorava feroce, sogguardando i monelli, i giovanotti, le signore che si fermavano, si volgevano al suo passaggio. – Dopo tutto non sono un mostro e non mi vesto come queste svergognate… Per sfuggire a quella scìa d’ammirazione inesplicabile, prese una carrozza. Nello studio dell’avvocato Quinteri, in attesa, aspirò con voluttà l’atmosfera notarile: l’odore dell’inchiostro inacidito, il fetore putrido della carta bollata la riportavano ai suoi vent’anni, alle sue speranze, al suo amore defunto. Ohimè! Aveva dinnanzi il panciuto avvocato Quinteri che le parlava in tono solenne, gli occhi al soffitto, le cinque dita dell’una mano appuntate sulle cinque dell’altra: – …Lei non deve dunque inquietarsi. Ha quattro mesi di tempo per la denuncia di successione, per le attestazioni giudiziarie necessarie ad immetterla nel quieto possesso delle sostanze dismesse morendo dal povero suo signor fratello. Il destino le rende ad usura ciò che altra volta le aveva tolto. – Va bene, ma dove sono questi quattrini? – Il danaro sciolto non è molto: forse quarantamila. Quasi tutto il capitale, ottocento mila lire circa, è investito nella fabbrica. – Allora liquidi subito. – Liquidare? Ma sarebbe una pazzia! Lei non realizzerebbe la quinta parte. – Trovi un compratore. Io non voglio essere la proprietaria di un luogo turpe. – Un luogo turpe… ha torto, mia cara signorina. L’Ottempati-Films gode fama di essere una rinnovatrice morale ed artistica fra le altre Case del genere. Vuol pensarci intanto? E degnarsi prima di una visita? – M’accompagna lei? – L’accompagno io. Lei alloggia all’Albergo Concordia, vicinissimo alla fabbrica. Troviamoci domani, alle nove e mezzo dinanzi alla Casa. Va bene così? Alle nove dell’indomani Madamigella Ottempati già misurava a grandi passi la piazzetta dinanzi ai cancelli aperti, roteando nell’una mano l’ombrello massiccio, reggendo con l’altra la catenella di Bob. Azzardava uno sguardo negli immensi cortili: varie cose l’incuriosivano: una gabbia di scimmie, un gran rosaio fiorito, due bimbi vestiti da paggio che riposavano giocando con un levriere. S’avventurò timidamente, visitò le consorelle prigioniere, aspirò una rosa senza raccoglierla, accarezzò un bimbo che fuggì ridendo. Quando si volse per uscire, il cancello era ingombro da una serie di automobili, dalle quali scendeva un drappello di soldati napoleonici. Questi parvero rivolgersi verso di lei, salutarla di lontano: – Tulipier! – Ciao Tulipier! – Bravo Tulipier!… Ridevano, schiamazzavano. Parlavano di lei? Sbigottita, si rifugiò in una porticina, seguì un andito buio, riuscì in un corridoio luminoso, per fuggire dall’altro cancello; ma l’altro cancello era chiuso. Tornò indietro, passò tra due fondali settecenteschi, si smarrì.
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Pamela-Films
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– Tulipier, ascolta!… Le voci echeggiavano, la seguivano. Essa fuggì, quasi di corsa, passò altri corridoi, riuscì in una immensa gabbia vetrata, divisa a piccoli teatri, a quinte, ingombra e complicata come un labirinto. Alcuni soldati romani le impedivano il passo. Sfuggì. Si trovò in un salone da ballo, tra signore scollate e gentiluomini in isparato. Un operatore l’investì con violenza: – Tulipier! Passa via! Mi guasti la scena, buffone! Pamela arretrò a destra, tra un gruppo di fachiri e di baiadere. Ebbe chiuso ogni scampo, si vide perduta, s’addossò ad un’ara di Visnù, volgendosi alle difese, con Bob che abbaiava furiosamente, stretto sotto l’ascella, l’ombrello massiccio roteante nella destra. Il tremito le scuoteva il mento barbuto, le agitava gli enormi sopraccigli, il cappellino dalle tre penne squallide. I soldati di Giulio Cesare, i soldati di Napoleone, i Bramini, le fecero cerchio, acclamandola: – È Tulipier! Che artista! – Come si trucca! – Non si direbbe truccato! – Sembra una strega autentica! – Bravo Tulipier! Evviva Tulipier! E un sacerdote di Brama, più entusiasta degli altri, la ghermì alle ginocchia, la sollevò in alto, sulla turba conclamante. Pamela gettò un grido e svenne tra le braccia dell’avvocato Quinteri, sopraggiunto. – Mascalzoni! Che cosa fanno? È la signorina Ottempati, loro legittima proprietaria. Confortata di cordiali e di parole, Madamigella Ottempati rinvenne poco dopo nelle quete sale della Direzione. Rifiutò di visitare la fabbrica, rifiutò l’automobile profferto. E volle lasciar subito la Casa dell’oltraggio. A nulla valsero le scuse degli artisti, a nulla le parole persuasive dell’avvocato Quinteri. E l’indomani e il giorno dopo e sempre Pamela fu irremovibile. – Liquidare, liquidare a qualunque costo. Una Casa anglo-americana fiutò il buon colpo. Ebbe la fabbrica nella settimana per 300 mila lire. Pamela ricevette quel tesoro con un brivido di gioia e di paura. Ma si mondò di ogni scrupolo offrendone 25 mila all’erigendo Ospedale di Vareglio, ed altre 25 mila alla «Protezione della Giovane». Così si verificò ancora una volta, nell’oscillare delle cose umane – secondo che i teosofi insegnano – la legge del perfetto equilibrio.
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Luigi Pirandello
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Si gira…*
Fascicolo primo de le Note di Serafino Gubbio operatore. § 1. […] Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo in cui vivo e di cui vivo, non vuol mica dire operare. Io non opero nulla. Ecco qua. Colloco sul treppiedi a gambe rientranti la mia macchinetta. Uno o due apparatori, secondo le mie indicazioni, tracciano sul tappeto o su la piattaforma con una lunga pertica e un lapis turchino i limiti entro i quali gli attori debbono muoversi per tenere in fuoco la scena. Questo si chiama segnare il campo. Lo segnano gli altri; non io: io non faccio altro che prestare i miei occhi alla macchinetta perché possa indicare fin dove arriva a prendere. Apparecchiata la scena, il direttore vi dispone gli attori e suggerisce loro l’azione da svolgere. Io domando al direttore: – Quanti metri? Il direttore, secondo la lunghezza della scena, mi dice approssimativamente il numero dei metri di pellicola che abbisognano, poi grida agli attori: – Attenti, si gira! E io mi metto a girar la manovella. Potrei farmi l’illusione che, girando la manovella, faccia muover io quegli at*
Luigi Pirandello, Si gira…, in «Nuova Antologia», 1o giugno - 16 agosto 1915; poi in volume, Milano, Treves, 1916, da cui si cita, pp. 4-9, 52-54, 66-77, 92-96, 110-113, 290-298; quindi, con lievi varianti e il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Firenze, Bemporad, 1925. Già dal 1913, l’anno della stesura di Si gira…, Pirandello cerca di vendere soggetti tratti da sue opere, prima di dedicarsi direttamente, negli anni Venti e Trenta, alla sceneggiatura dei propri lavori letterari e teatrali. Nei primi anni Dieci, a Roma, con Lucio D’Ambra, avrebbe frequentato gli studi della Film d’Arte Italiana, sulla via Nomentana, nei pressi della sua abitazione, che sarebbero sfondo del suo celebre romanzo cinematografico. In esso il protagonista, il cameraman Serafino Gubbio, assiste a un dramma di amore e gelosia che si sviluppa intorno a Varia Nestoroff, esotica prima attrice della Kosmograph. Annota la vicenda nei suoi «quaderni» e, come operatore cinematografico, ne gira il tragico epilogo che ha luogo durante le riprese di un film. Si antologizzano i passi del romanzo dedicati in modo più diretto alla riflessione sul cinema e alla descrizione del suo ambiente, e le drammatiche pagine finali.
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si gira…
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tori, press’a poco come un sonatore d’organetto fa la sonata girando il manubrio. Ma non mi faccio né questa né altra illusione, e séguito a girare finché la scena non è compiuta; poi guardo nella macchinetta e annunzio al direttore: – Diciotto metri, – oppure: – trentacinque. E tutto è qui. Un signore, venuto a curiosare, una volta mi domandò: – Scusi, non si è trovato ancor modo di far girare la macchinetta da sé? Vedo ancora la testa di questo signore: gracile, pallida, con radi capelli biondi; occhi cilestri, acuti; barbetta a punta, gialliccia, sotto la quale si nascondeva un sorrisetto, che voleva parer timido e cortese, ma era malizioso. Perché con quella domanda voleva dirmi: – Siete proprio necessario voi? Che cosa siete voi? Una mano che gira la manovella. Non si potrebbe fare a meno di questa mano? Non potreste esser soppresso, sostituito da un qualche meccanismo? Sorrisi e risposi: – Forse col tempo, signore. A dir vero, la qualità precipua, che si richiede in uno che faccia la mia professione, è l’impassibilità di fronte all’azione che si svolge innanzi alla macchina. Un meccanismo, per questo riguardo, sarebbe senza dubbio più adatto e da preferire a un uomo. Ma la difficoltà più grave, per ora, è questa: trovare un meccanismo, che possa regolare il movimento secondo l’azione che si svolge innanzi alla macchina. Giacché io, caro signore, non giro sempre allo stesso modo la manovella, ma ora più presto ora più piano, secondo il bisogno. Non dubito però, che col tempo – sissignore – si arriverà a sopprimermi. La macchinetta – anche questa macchinetta, come tante altre macchinette – girerà da sé. Ma che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore, resta ancora da vedere. § 2. Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come me a non esser altro, che una mano che gira una manovella. Questo doveva avvenire, e questo è finalmente avvenuto! L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, ecco qua: doveva fabbricarsi di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità e divenir servo e schiavo di esse. Viva la Macchina che meccanizza la vita! Vi resta ancora, o signori, un po’ d’anima, un po’ di cuore e di mente? Date, date qua alle macchine voraci, che aspettano! Vedrete e sentirete, che prodotto di deliziose stupidità ne sapranno cavare. Per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete estrarre da voi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto?
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Luigi Pirandello
È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio spesi per la creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti invece, per forza, i nostri padroni. La macchina è fatta; per agire, per muoversi, ha bisogno d’ingojarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce le ridiano, l’anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini, tutti d’uno stampo, stupidi e precisi, da farne, a metterli su, uno su l’altro, una piramide che potrebbe arrivare alle stelle. Ma che stelle, no, signori! Non ci credete. Neppure all’altezza d’un palo telegrafico. Un soffio li abbatte e li ròtola giù, e tal altro ingombro, non più dentro ma fuori, ce ne fa, che – Dio, vedete quante scatole, scatolette, scatolone, scatoline? – non sappiamo più dove mettere i piedi, come muovere un passo. Ecco le produzioni dell’anima nostra, le scatolette della nostra vita! Che volete farci? Io sono qua. Servo la mia macchinetta, in quanto la giro perché possa mangiare. Ma l’anima, a me, non mi serve. Mi serve la mano; cioè serve alla macchina. L’anima in pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi, signori, alla macchinetta ch’io giro. Mi divertirò a vedere, se permettete, il prodotto che ne verrà fuori. Un bel prodotto e un bel divertimento, ve lo dico io. Già i miei occhi, e anche le mie orecchie, per la lunga abitudine, cominciano a vedere e a sentir tutto sotto la specie di questa rapida tremula ticchettante riproduzione meccanica. Non dico di no: l’apparenza è lieve e vivace. Si va, si vola: e il vento della corsa dà un’ansia vigile ilare acuta, e si porta via tutti i pensieri. Avanti? Avanti perché non s’abbia tempo né modo d’avvertire il peso della tristezza, l’avvilimento della vergogna, che restano dentro, in fondo. Fuori, è un balenìo continuo, uno sbarbàglio incessante: tutto guizza e scompare. Che cos’è? Niente, è passato! Era forse una cosa triste; ma niente, ora è passata. C’è una molestia, però, che non passa. La sentite? Un calabrone che ronza sempre, cupo, fosco, brusco, sotto sotto, sempre. Che è? Il ronzìo dei pali telegrafici? lo strìscio continuo della carrucola del troller lungo il filo dei tram elettrici? il fremito incalzante di tante macchine, vicine, lontane? quello del motore dell’automobile? quello dell’apparecchio cinematografico? Il bàttito del cuore non s’avverte; non s’avverte il pulsar delle arterie. Guaj, se s’avvertisse! Ma questo ronzìo, questo ticchettìo perpetuo, sì, e dice che non è naturale tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e scomparire d’immagini; ma che c’è sotto un meccanismo, il quale pare lo insegua, stridendo precipitosamente. Si spezzerà? Ah, non bisogna fissarci l’udito. Darebbe una smania di punto in punto crescente, un’esasperazione a lungo insopportabile; farebbe impazzire… In nulla, più in nulla, in mezzo a questo tramenìo vertiginoso, che investe e travolge, bisognerebbe fissarsi! Cogliere, attimo per attimo, questo rapido passaggio d’aspetti e di casi, e via, fino al punto che il ronzìo per ciascuno di noi non cesserà. […]
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si gira…
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Fascicolo secondo de le Note di Serafino Gubbio operatore.
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§ 4. […] Ha in sé qualche cosa, questa donna, che gli altri non riescono a comprendere, perché bene non lo comprende neppure lei stessa. Si indovina però dalle violente espressioni che assume, senza volerlo, senza saperlo, nelle parti che le sono assegnate. Ella sola le prende sul serio, e tanto più quanto più sono illogiche e strampalate, grottescamente eroiche e contraddittorie. E non c’è verso di tenerla in freno, di farle attenuare la violenza di quelle espressioni. Manda a monte ella sola più pellicole, che non tutti gli altri attori delle quattro compagnie presi insieme. Già esce dal campo ogni volta; quando per caso non ne esce, è così scomposta la sua azione, così stranamente alterata e contraffatta la sua figura, che nella sala di prova quasi tutte le scene a cui ella ha preso parte, resultano inaccettabili e da rifare. Qualunque altra attrice, che non avesse goduto e non godesse come lei la benevolenza del magnanimo commendator Borgalli, sarebbe stata già da un pezzo licenziata. – Là là là… – esclama invece il magnanimo commendatore, senza inquietarsi, vedendo sfilar su lo schermo della sala di prova quelle immagini da ossessa, – là là là… ma via… ma no… ma com’è possibile?… oh Dio, che orrore… via via via… E se la piglia con Polacco e, in generale, con tutti i direttori di scena, i quali si tengono per sé gli scenarii, contentandosi di suggerire volta per volta agli attori l’azione da svolgere in ogni singola scena, spesso saltuariamente, perché non tutte le scene possono eseguirsi con ordine, una dopo l’altra, in un teatro di posa. Ne viene, che quelli spesso non sanno neppure che parte stieno a rappresentare nell’insieme, e che si senta qualche attore domandare a un certo punto: – Ma scusi, Polacco, io sono il marito o l’amante? Invano Polacco protesta d’avere spiegato bene alla Nestoroff tutta intera la parte. Il commendator Borgalli sa che la colpa non è del Polacco; tant’è vero, che gli ha dato un’altra prima attrice, la Sgrelli, per non fargli andare a monte tutti i films affidati alla sua compagnia. Ma la Nestoroff protesta dal canto suo, se Polacco si serve soltanto della Sgrelli o più della Sgrelli che di lei, vera prima attrice della compagnia. I maligni dicono che lo fa per rovinare il Polacco, e il Polacco stesso crede così e lo va dicendo. Non è vero: non c’è altra rovina, qua, che di pellicole; e la Nestoroff è veramente disperata di ciò che le avviene; ripeto, senza volerlo e senza saperlo. Resta ella stessa sbalordita e quasi atterrita delle apparizioni della propria immagine su lo schermo così alterata, scomposta, contraffatta. Vede lì una, che è lei, ma che ella non conosce. Vorrebbe non riconoscersi in quella; ma almeno conoscerla.
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Luigi Pirandello
Forse da anni e anni e anni, a traverso tutte le avventure misteriose della sua vita, ella va inseguendo questa ossessa che è in lei e che le sfugge, per trattenerla, per domandarle che cosa voglia, perché soffra, che cosa ella dovrebbe fare per ammansarla, per placarla, per darle pace. Nessuno, che non abbia gli occhi velati da una passione contraria e l’abbia vista uscire dalla sala di prova dopo l’apparizione di quelle sue immagini, può aver più dubbii su ciò. Ella è veramente tragica: spaventata e rapita, con negli occhi quello stupor tenebroso che si scorge negli agonizzanti, e a stento riesce a frenare il fremito convulso di tutta la persona. […] Fascicolo terzo de le Note di Serafino Gubbio operatore. § 1. Un lieve sterzo… C’è una carrozzella che corre avanti. – Pò, pòpòòò, pòòò. Che? La tromba dell’automobile la tira indietro? Ma sì! Ecco pare che la faccia proprio andare indietro, comicamente. Le tre signore dell’automobile ridono, si voltano, alzano le braccia a salutare con molta vivacità, tra un confuso e gajo svolazzìo di veli variopinti; e la povera carrozzella, avvolta in una nuvola alida, nauseante, di fumo e di polvere, per quanto il cavalluccio sfiancato si sforzi di tirarla col suo trotterello stracco, séguita a dare indietro, indietro, indietro, con le case, gli alberi, i rari passanti, finché non scompare in fondo al lungo viale fuor di porta. Scompare? No: che! È scomparsa l’automobile. La carrozzella, invece, eccola qua, che va avanti ancora, pian piano, col trotterello stracco, uguale, del suo cavalluccio sfiancato. E tutto il viale pare che rivenga avanti, pian piano, con essa. Avete inventato le macchine? E ora godetevi questa e consimili sensazioni di leggiadra vertigine. Le tre signore dell’automobile sono tre attrici della Kosmograph, e hanno salutato con tanta vivacità la carrozzella strappata indietro dalla loro corsa meccanica non perché nella carrozzella ci sia qualcuno molto caro a loro; ma perché l’automobile, il meccanismo le inebria e sùscita in loro una così sfrenata vivacità. Le hanno a disposizione: servizio gratis; paga la Kosmograph. Nella carrozzella ci sono io. M’han veduto scomparire in un attimo, dando indietro comicamente, in fondo al viale; hanno riso di me; a quest’ora sono già arrivate. Ma ecco che io rivengo avanti, care mie. Pian pianino, sì; ma che avete veduto voi? una carrozzella dare indietro, come tirata da un filo, e tutto il viale assaettarsi avanti in uno striscio lungo confuso violento vertiginoso. Io, invece, ecco qua, posso consolarmi della lentezza ammirando a uno a uno, riposatamente, questi grandi platani verdi
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del viale, non strappati dalla vostra furia, ma ben piantati qua, che volgono a un soffio d’aria nell’oro del sole tra i bigi rami un fresco d’ombra violacea: giganti della strada, in fila, tanti, aprono e reggono con poderose braccia le immense corone palpitanti al cielo… Caccia, sì, ma non forte, vetturino! È così stanco codesto tuo vecchio cavalluccio sfiancato… Tutti gli passano avanti: automobili, biciclette, tram elettrici; e la furia di tanto moto per le strade sospinge anche lui, senza ch’esso lo sappia o lo voglia, gli sforza irresistibilmente le povere gambe anchilosate, affaticate nel trasporto, da un punto all’altro della grande città, di tanta gente afflitta, oppressa e smaniosa, per bisogni, miserie, faccende, aspirazioni, ch’esso non può capire! E forse più di tutti lo stancano quei pochi che montano su la carrozzella con la voglia di divertirsi, e non sanno dove né come. Povero cavalluccio, la testa gli s’abbassa di mano in mano, e non la rialza più, neanche se tu lo frusti a sangue, vetturino! – Ecco, a destra… volta a destra! La Kosmograph è qua, in questa traversa remota, fuor di porta. § 2. Affossata, polverosa, appena tracciata in principio, ha l’aria e la mala grazia di chi, aspettandosi di star tranquillo, si veda, al contrario, seccato di continuo. Ma se non ha diritto a qualche fresco cespuglietto d’erba, a tutti quei fili di suono sottili vaganti, con cui il silenzio nelle solitudini tesse la pace, al quacquà di qualche ranocchietta quando piove e le pozze d’acqua piovana rispecchiano nella notte rasserenata le stelle; insomma a tutte le delizie della natura aperta e deserta, una strada di campagna, parecchi chilometri fuor di porta, non so chi l’abbia, veramente. Invece: automobili, carrozze, carri, biciclette, e tutto il giorno un trànsito ininterrotto d’attori, d’operatori, di macchinisti, d’operaj, di comparse, di fattorini, e frastuono di martelli, di seghe, di pialle, e polverone e puzzo di benzina. Gli edificii, alti e bassi, della grande Casa cinematografica si levano in fondo alla strada, da una parte e dall’altra; ne sorgono alcuni più là, senz’ordine, entro il vastissimo recinto, che si estende e spazia nella campagna: uno, più alto di tutti, è sovrastato come da una torre vetrata, di vetri opachi, che sfolgorano al sole; e nel muro in vista dalla strada e dal viale, su la bianchezza allucinante della calce, a lettere nude, cubitali, sta scritto: LA «KOSMOGRAPH» L’entrata è a sinistra, da una porticina accanto al cancello, che s’apre di rado. Dirimpetto è un’osteria di campagna, battezzata pomposamente Trattoria della Kosmograph, con una bella pergola su l’incannicciata, che ingabbia tutto il così detto giardino e vi fa dentro un’aria verde. Cinque o sei tavole rustiche, dentro, non molto ferme su i quattro piedi, e seggiole e panchette. Parecchi attori, trucca-
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ti e parati di strani costumi, vi seggono e discutono animatamente; uno grida più forte di tutti, battendosi con furia una mano su la coscia: – E io vi dico che bisogna prenderla qua, qua, qua! E le manate, su i calzoni di pelle, pajono spari. Parlano certo della tigre, comperata or è poco dalla Kosmograph; del modo come dev’essere uccisa; del punto preciso in cui dev’essere colpita. Se ne son fatta una fissazione. A sentirli, pare che siano tutti di professione cacciatori di bestie feroci. Affollati innanzi all’entrata, stanno ad ascoltarli con visi risolenti gli chauffeurs delle vetturette automobili, logore, impolverate; i vetturini delle carrozzelle in attesa, là in fondo, ove la traversa è chiusa da una siepe di stecchi e spuntoni; e tant’altra povera gente, la più miserabile ch’io mi conosca, sebbene vestita con una certa decenza. Sono (chiedo scusa, ma qui tutto ha nome francese o inglese) sono i cachets avventizii, coloro cioè che vengono a profferirsi, a un bisogno, per comparse. La loro petulanza è insoffribile, peggio di quella dei mendicanti; perché qua si viene a esibire una miseria, che non chiede la carità d’un soldo, ma cinque lire, per mascherarsi spesso grottescamente. Bisogna vedere che ressa, certi giorni, nel magazzino vestiario per ghermire e indossar subito qualche straccio vistoso, e con quali arie se lo portano a spasso per le piattaforme e gli sterrati, sapendo bene che, quando riescano a vestirsi, anche se non posano, tiran la mezza paga. Due, tre attori vengono fuori dalla trattoria, facendosi largo tra la ressa. Son coperti d’una maglia color zafferano, col viso e le braccia impiastricciati di giallo sporco e una specie di cresta di penne colorate in capo. Indiani. Mi salutano: – Ciao, Gubbio. – Ciao, Si gira… Si gira è il mio nomignolo. Già! Càpita a una pacifica tartaruga d’acquattarsi proprio là, dove un ragazzaccio maleducato si china per fare un suo bisogno. Poco dopo, la povera bestiola ignara riprende pacificamente il suo tardo andare con su la scaglia il bisogno di quel ragazzaccio, torre inopinata. Intoppi della vita! Voi ci avete perduto un occhio, e il caso è stato grave. Ma siamo tutti, chi più chi meno, segnati, e non ce n’accorgiamo. La vita ci segna; e a chi attacca un vezzo, a chi una smorfia. No? Ma scusate, voi, proprio voi che dite di no… ecco, magnificamente… non inzeppate di continuo tutti i vostri discorsi di questo avverbio in -mente? – Andai magnificamente dove m’indicarono: lo vidi e gli dissi magnificamente: Ma come, tu, magnificamente… Abbiate pazienza! Nessuno ancora vi chiama Signor Magnificamente… Serafino Gubbio (Si gira…) è stato più disgraziato. Senza accorgermene, mi sarà avvenuto forse qualche volta, o più volte di seguito, di ripetere, dopo il direttore di scena, la frase sacramentale: – Si gira… –; l’avrò ripetuta con la faccia composta
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a quell’aria che mi è propria, di professionale impassibilità, ed è bastato questo, perché tutti ora qua, per suggerimento di Fantappiè, mi chiamino Si gira… Tutti i pubblici d’Italia conoscono Fantappiè, l’attore comico della Kosmograph, che s’è specializzato nella caricatura della vita militare: Fantappiè consegnato in caserma e Fantappiè al campo di tiro; Fantappiè alle grandi manovre e Fantappiè ariostiere; Fantappiè di sentinella e Fantappiè soldato coloniale… Egli se l’è appiccicato da sé, il nomignolo: un nomignolo che quadra bene alla sua specialità. Allo stato civile si chiama Roberto Chismicò. – Cicchetto, te ne sei avuto a male, che t’ho messo Si gira? – mi domandò, tempo fa. – No, caro. – gli risposi sorridendo. – M’hai bollato. – Mi son bollato anch’io, veh! Ma sì! Siamo tutti bollati. E più di tutti, quelli che meno se ne accorgono, caro Fantappiè. § 3. Entro nel vestibolo a sinistra, e riesco nella rampa del cancello, inghiajata e incassata tra i fabbricati del secondo reparto, il Reparto Fotografico o del Positivo. In qualità d’operatore ho il privilegio d’aver un piede in questo reparto e l’altro nel Reparto Artistico o del Negativo. E tutte le meraviglie della complicazione industriale e così detta artistica mi sono familiari. Qua si compie misteriosamente l’opera delle macchine. Quanto di vita le macchine han mangiato con la voracità delle bestie afflitte da un verme solitario, si rovescia qua, nelle ampie stanze sotterranee, stenebrate appena da cupe lanterne rosse, che alluciano sinistramente d’una lieve tinta sanguigna le enormi bacinelle preparate per il bagno. La vita ingojata dalle macchine è lì, in quei vermi solitarii, dico nelle pellicole già avvolte nei telaj. Bisogna fissare questa vita, che non è più vita, perché un’altra macchina possa ridarle il movimento qui in tanti attimi sospeso. Siamo come in un ventre, nel quale si stia sviluppando e formando una mostruosa gestazione meccanica. E quante mani nell’ombra vi lavorano! C’è qui un intero esercito d’uomini e di donne: operatori, tecnici, custodi, addetti alle dinamo e agli altri macchinarii, ai prosciugatoj, all’imbibizione, ai viraggi, alla coloritura, alla perforatura della pellicola, alla legatura dei pezzi. Basta ch’io entri qui, in quest’oscurità appestata dal fiato delle macchine, dalle esalazioni delle sostanze chimiche, perché tutto il mio superfluo svapori. Mani, non vedo altro che mani, in queste camere oscure; mani affaccendate su le bacinelle; mani, cui il tetro lucore delle lanterne rosse dà un’apparenza spettrale. Penso che queste mani appartengono ad uomini che non sono più; che qui
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sono condannati ad esser mani soltanto: queste mani, strumenti. Hanno un cuore? A che serve? Qua non serve. Solo come strumento anch’esso di macchina, può servire, per muovere queste mani. E così la testa: solo per pensare ciò che a queste mani può servire. E a poco a poco m’invade tutto l’orrore della necessità che mi s’impone, di diventare anch’io una mano e nient’altro. Vado dal magazziniere a provvedermi di pellicola vergine, e preparo per il pasto la mia macchinetta. Assumo subito, con essa in mano, la mia maschera d’impassibilità. Anzi, ecco: non sono più. Cammina lei, adesso, con le mie gambe. Da capo a piedi, son cosa sua: faccio parte del suo congegno. La mia testa è qua, nella macchinetta, e me la porto in mano. Fuori, alla luce, per tutto il vastissimo recinto, è l’animazione gaja delle imprese che prosperano e compensano puntualmente e lautamente ogni lavoro; quello scorrer facile dell’opera nella sicurezza che non ci saranno intoppi e che ogni difficoltà, per la gran copia dei mezzi, sarà agevolmente superata; una febbre anzi di porsi, quasi per sfida, le difficoltà più strane e insolite, senza badare a spese, con la certezza che il danaro, speso adesso senza contarlo, ritornerà tra poco centuplicato. Scenografi, macchinisti, apparatori, falegnami, muratori e stuccatori, elettricisti, sarti e sarte, modiste, fioraj, tant’altri operaj addetti alla calzoleria, alla cappelleria, all’armeria, ai magazzini della mobilia antica e moderna, al guardaroba, son tutti affaccendati, ma non sul serio e neppure per giuoco. Solo i fanciulli han la divina fortuna di prendere sul serio i loro giuochi. La meraviglia è in loro; la rovesciano su le cose con cui giuocano, e se ne lasciano ingannare. Non è più un giuoco; è una realtà meravigliosa. Qui è tutto il contrario. Non si lavora per giuoco, perché nessuno ha voglia di giocare. Ma come prendere sul serio un lavoro, che altro scopo non ha, se non d’ingannare – non se stessi – ma gli altri? E ingannare, mettendo su le più stupide finzioni, a cui la macchina è incaricata di dare la realtà meravigliosa? Ne vien fuori, per forza e senza possibilità d’inganno, un ibrido gioco. Ibrido, perché in esso la stupidità della finzione tanto più si scopre e avventa, in quanto si vede attuata appunto col mezzo, che meno si presta all’inganno: la riproduzione fotografica. Si dovrebbe capire, che il fantastico non può acquistare realtà, se non per mezzo dell’arte, e che quella realtà, che può dargli una macchina, lo uccide, per il solo fatto che gli è data da una macchina, cioè con un mezzo che ne scopre e dimostra la finzione per il fatto stesso che lo dà e presenta come reale. Ma se è meccanismo, come può esser vita, come può esser arte? È quasi come entrare in uno di quei musei di statue viventi, di cera, vestite e dipinte. Non si prova altro che la sorpresa (che qui può essere anche ribrezzo) del movimento, dove non è possibile l’illusione d’una realtà materiale. E nessuno crede sul serio di poterla creare, quest’illusione. Si fa alla meglio per dar roba da prendere alla macchina, qua nei cantieri, là nei quattro teatri di
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posa o nelle piattaforme. Il pubblico, come la macchina, prende tutto. Si fan denari a palate, e migliaja e migliaja di lire si possono spendere allegramente per la costruzione d’una scena, che su lo schermo non durerà più di due minuti. Apparatori, macchinisti, attori si dànno tutti l’aria d’ingannare la macchina, che darà apparenza di realtà a tutte le loro finzioni. Che sono io per essi, io che con molta serietà assisto impassibile, girando la manovella, a quel loro stupido giuoco? […] § 6. Non è tanto per me – Gubbio – l’antipatia, quanto per la mia macchinetta. Si ritorce su me, perché io sono quello che la gira. Essi non se ne rendono conto chiaramente, ma io, con la manovella in mano, sono in realtà per loro una specie d’esecutore. Ciascun d’essi – parlo, s’intende, dei veri attori, cioè di quelli che amano veramente la loro arte, qualunque sia il loro valore – è qui di mala voglia, è qui perché pagato meglio, e per un lavoro che non gli costa alcuna fatica, né alcuno sforzo d’intelligenza. Spesso, ripeto, non sanno neppure che parte stiano a rappresentare. La macchina, con gli enormi guadagni che produce, se li assolda, può compensarli molto meglio che qualunque impresario o direttore proprietario di compagnia drammatica. Non solo; ma essa, con le sue riproduzioni meccaniche, potendo offrire a buon mercato al gran pubblico uno spettacolo sempre nuovo, riempie le sale dei cinematografi e lascia vuoti i teatri, sicché tutte, o quasi, le compagnie drammatiche fanno ormai meschini affari; e gli attori, per non languire, si vedono costretti a picchiare alle porte delle Case di cinematografia. Ma non odiano la macchina soltanto per l’avvilimento del lavoro stupido e muto a cui li condanna; la odiano sopra tutto perché si vedono allontanati, si sentono strappati dalla comunione diretta col pubblico, da cui prima traevano il miglior compenso e la maggior soddisfazione: quella di vedere, di sentire dal palcoscenico, in un teatro, una moltitudine intenta e sospesa seguire la loro azione viva, commuoversi, fremere, ridere, accendersi, prorompere in applausi. Qua si sentono come in esilio. In esilio, non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da se stessi. Perché la loro azione, l’azione viva del loro corpo vivo, là, su la tela dei cinematografi, non c’è più: c’è la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in una espressione, che guizza e scompare. Avvertono confusamente, con un senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di votamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del rumore ch’esso produce movendosi, per diventare soltanto un’immagine muta, che trèmola per un momento su lo schermo e scompare in silenzio, d’un tratto, come un’ombra inconsistente, giuoco d’illusione su uno squallido pezzo di tela.
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Si sentono schiavi anch’essi di questa macchinetta stridula, che pare sul treppiedi a gambe rientranti un grosso ragno in agguato, un ragno che succhia e assorbe la loro realtà viva per renderla parvenza evanescente, momentanea, giuoco d’illusione meccanica innanzi al pubblico. E colui che li spoglia della loro realtà e la dà a mangiare alla macchinetta; che riduce ombra il loro corpo, chi è? Sono io, Gubbio. Mi possono voler bene? Essi restano qua, come su un palcoscenico di giorno, quando provano. La sera della rappresentazione per essi non viene mai. Il pubblico non lo vedono più. Pensa la macchinetta alla rappresentazione davanti al pubblico, con le loro ombre; ed essi debbono contentarsi di rappresentare innanzi a lei. Quando hanno rappresentato, la loro rappresentazione non è più azione, non più vita: ecco qua, è pellicola. Mi possono voler bene? Un certo rinfranco all’avvilimento lo hanno nel non vedersi essi solo mortificati al servizio di questa macchinetta, che muove, agita, attrae tanto mondo attorno a sé. Scrittori illustri, commediografi, poeti, romanzieri, vengono qua, tutti al solito dignitosamente proponendo la «rigenerazione artistica» dell’industria. E a tutti il commendator Borgalli parla d’un modo, e Cocò Polacco d’un altro: quello, coi guanti, da direttore generale; questo, sbottonato, da direttore di scena. Ascolta paziente tutte le proposte di scenarii, Cocò Polacco; ma a un certo punto alza una mano, dice: – Oh… quest’è un po’ crudo… Niente, lo so; ma, caro mio… gl’Inglesi… gl’Inglesi… Trovata genialissima, questa degli Inglesi. Veramente la maggior parte delle pellicole prodotte dalla Kosmograph va in Inghilterra. Bisogna dunque per la scelta degli argomenti adattarsi al gusto inglese. E quante cose allora non vogliono gl’Inglesi nelle pellicole, secondo Cocò Polacco! – La pruderie… la pruderie inglese, tu capisci! Basta che dicano shocking, e tutto è finito! Se le pellicole andassero direttamente al giudizio del pubblico, forse forse tante cose passerebbero; ma no: per l’importazione delle pellicole in Inghilterra ci sono gli agenti, c’è lo scoglio, c’è la piaga degli agenti. Decidono loro, gli agenti, inappellabilmente: questo va, questo non va. E per ogni film che non vada, sono migliaja e migliaja di lire perdute o che vengono meno. Oppure Cocò Polacco esclama: – Bellissimo! Ma questo, caro mio, è un dramma, un dramma perfetto! Successone sicuro! Vuoi farne una pellicola? Non te lo permetterò mai! Come pellicola non va: te l’ho detto, caro, troppo fino… troppo fino… Qua ci vuol altro! Tu sei troppo intelligente, e capisci. In fondo, Cocò Polacco, se rifiuta loro i soggetti, fa pure un elogio: dice loro che non sono stupidi abbastanza per scrivere per il cinematografo. Da un canto, perciò, essi vorrebbero capire, si rassegnerebbero a capire; ma, dall’altro, vorrebbero anche accettati i soggetti. Cento, duecento cinquanta, trecento lire, in certi
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momenti… Il dubbio, che l’elogio della loro intelligenza e il disprezzo del cinematografo quale strumento d’arte siano messi avanti per rifiutare con un certo garbo i soggetti, balena a qualcuno di loro; ma la dignità è salva e se ne possono andar via a testa alta. Da lontano gli attori li salutano come compagni di sventura. – Tutti bisogna che passino di qua! – pensano tra loro con gioja maligna. – Anche le teste coronate! Tutti di qua, stampati per un momento su un lenzuolo! […] Fascicolo quarto de le Note di Serafino Gubbio operatore. § 1. […] Ebbene, questa mattina, mentre giravo la macchinetta, ho avuto a un tratto il terribile sospetto, ch’ella [la primattrice Varia Nestoroff] – rappresentando, al solito, come una forsennata, la sua parte – volesse uccidersi: sì, sì, proprio uccidersi, innanzi a me. Non so com’abbia fatto a conservare la mia impassibilità; a dire a me stesso: – Tu sei una mano, gira! Ella ti guarda, ti guarda fiso, non guarda che te, per farti intendere qualche cosa; ma tu non sai nulla, tu non devi intender nulla; gira! S’è cominciato a iscenare il film della tigre, che sarà lunghissimo e a cui prenderanno parte tutt’e quattro le compagnie. Non mi curerò minimamente di cercare il bandolo di quest’arruffata matassa di volgari, stupidissime scene. So che la Nestoroff non vi prenderà parte, non avendo ottenuto che le fosse assegnata quella della protagonista. Solo, questa mattina, per una particolare concessione al Bertini, ha posato per una breve scena di «colore», in una particina secondaria, ma non facile, di giovane indiana, selvaggia e fanatica, che s’uccide eseguendo «la danza dei pugnali». Segnato il campo nello sterrato, Bertini ha disposto in semicerchio una ventina di comparse, camuffate da selvaggi indiani. S’è fatta avanti la Nestoroff quasi tutta nuda, con una sola fascia sui fianchi a righe gialle verdi rosse turchine. Ma la nudità meravigliosa del saldo corpo esile e pieno era quasi coperta dalla sdegnosa noncuranza di esso, con cui ella si è presentata in mezzo a tutti quegli uomini, a testa alta, giù le braccia coi due pugnali affilatissimi, uno per pugno. Bertini ha spiegato brevemente l’azione: – Ella danza. È come un rito. Tutti stanno ad assistere religiosamente. A un tratto, a un mio grido, in mezzo alla danza, ella si trafigge il seno coi due pugnali e stramazza. Tutti accorrono e le si fanno sopra, stupiti e sgomenti. Su, su, attenti, attenti al campo! Voi di là, avete capito? state prima, serii, a guardare; appena la signora stramazza, accorrete tutti! Attenti, attenti al campo per ora! La Nestoroff, facendosi in mezzo al semicerchio coi due pugnali branditi, ha
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preso a guardarmi con una così acuta e dura fissità, ch’io dietro al mio grosso ragno nero in agguato sul treppiedi a gambe rientranti, mi sono sentito vagellar gli occhi e intorbidare la vista. Per miracolo ho potuto obbedire al comando di Bertini: – Si gira! E mi son messo, come un automa, a girar la manovella. Tra i penosi contorcimenti di quella sua strana danza màcabra, tra il luccichìo sinistro dei due pugnali, ella non staccò un minuto gli occhi da’ miei, che la seguivano, affascinati. Le vidi sul seno anelante il sudore rigar di solchi la manteca giallastra, di cui era tutto impiastricciato. Senza darsi pensiero della sua nudità, elle si dimenava come frenetica, ansava, e pian piano, con voce affannosa, sempre con gli occhi fissi ne’ miei, domandava ogni tanto: – Bien comme ça? bien comme ça? Come se volesse saperlo da me; e gli occhi erano quelli d’una pazza. Certo, ne’ miei leggevano, oltre la maraviglia, uno sgomento prossimo a cangiarsi in terrore nell’attesa trepidante del grido del Bertini. Quando il grido uscì ed ella si ritorse contro il seno la punta de’ due pugnali e stramazzò a terra, io ebbi veramente per un attimo l’impressione che si fosse trafitta, e fui per accorrere anch’io, lasciando la manovella, allorché Bertini su le furie incitò le comparse: – A vojaltri, perdio! accorrete! fatemi la controparte!… Così… così… basta! Ero sfinito; la mano m’era diventata come di piombo, seguitando da sé, meccanicamente, a girar la manovella. Ho visto Carlo Ferro accorrer fosco, pieno di collera e di tenerezza, con un lungo mantello violaceo, ajutar la donna a rialzarsi, avvolgerla in quel mantello e portarsela via, quasi di peso, nel camerino. Ho guardato nella macchinetta, e mi sono trovata in gola una curiosa voce sonnolenta per annunziare al Bertini: – Ventidue metri. […] Fascicolo settimo de le Note di Serafino Gubbio operatore. § 4. Girare, ho girato. Ho mantenuto la parola: fino all’ultimo. Ma la vendetta che ho voluto compiere dell’obbligo che m’è fatto, come servitore d’una macchina, di dare in pasto a questa macchina la vita, sul più bello la vita ha voluto ritorcerla contro me. Sta bene. Nessuno intanto potrà negare ch’io non abbia ora raggiunto la mia perfezione. Sono ora – come operatore – perfetto. Dopo circa un mese dal fatto atrocissimo, di cui ancora si parla da per tutto, conchiudo queste mie note.
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Una penna e un pezzo di carta: non mi resta più altro mezzo per comunicare con gli uomini. Ho perduto la voce; non ho più la parola; son rimasto muto per sempre. Operatore perfetto. In una parte di queste mie note sta scritto: «Soffro di questo mio silenzio, in cui tutti entrano come in un luogo di sicura ospitalità. Vorrei ora che il mio silenzio si chiudesse intorno a me». Ecco, s’è chiuso. Non potrei meglio di così impostarmi servitore d’una macchina. Ma ecco tutta la scena, come s’è svolta. Quello sciagurato [Aldo Nuti], la mattina appresso, si recò dal Borgalli a protestare fieramente contro il Polacco per la figura ridicola a cui questi a suo credere intendeva esporlo con quella misura di precauzione, di cui si sarebbe fatto a meno se nella gabbia fosse entrato l’attore Carlo Ferro. Pretese a ogni costo che fosse revocata, dando un saggio a tutti, se occorreva, della sua ben nota valentia di tiratore. Il Polacco si scusò davanti al Borgalli dicendo d’aver preso quella misura non per poca fiducia nel coraggio o nell’occhio del Nuti, ma per prudenza, conoscendo il Nuti molto nervoso, come del resto ne dava or ora la prova con quella protesta così concitata, in luogo del doveroso, amichevole ringraziamento ch’egli s’aspettava. – Poi, – soggiunse infelicemente, indicando me, – ecco, commendatore, c’è anche Gubbio qua, che deve entrar nella gabbia… Mi guardò con tale disprezzo quel disgraziato, che subito io scattai, rivolto a Polacco: – Ma no, caro! Non dire per me, ti prego! Tu sai bene ch’io starò a girare tranquillo, anche se vedo questo signore in bocca e tra le zampe della bestia! Risero gli attori accorsi ad assistere alla scena; e allora Polacco si strinse nelle spalle e si rimise, o piuttosto, finse di rimettersi. Per mia fortuna, com’ho saputo dopo, pregò segretamente Fantappiè e un altro di tenersi di nascosto armati e pronti al bisogno. Il Nuti andò nel suo camerino a vestirsi da cacciatore; io andai nel Reparto del Negativo a preparare per il pasto la macchinetta. Per fortuna della Casa, tolsi là di pellicola vergine molto più che non bisognasse, a giudicare approssimativamente della durata della scena. Quando ritornai su lo spiazzo ingombro, in mezzo, dal gabbione enorme iscenato da bosco, l’altra gabbia, con la tigre dentro, era già stata trasportata e accostata per modo che le due gabbie s’inserivano l’una nell’altra. Non c’era che da tirar su lo sportello della gabbia più piccola. Moltissimi attori delle quattro compagnie s’erano disposti di qua e di là, da presso, per poter vedere dentro la gabbia di fra i tronchi e le fronde che nascondevano le sbarre. Sperai per un momento che la Nestoroff, ottenuto l’intento che s’era proposto, avesse avuto almeno la prudenza di non venire. Ma eccola là, purtroppo. Si teneva fuori della ressa, discosta, in disparte, con Carlo Ferro, vestita di verde gajo, e sorrideva chinando frequentemente il capo alle parole che il Ferro le diceva, benché dall’atteggiamento fosco con cui il Ferro le stava accanto apparisse chiaro che a quelle parole ella non avrebbe dovuto rispondere con quel sorriso.
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Ma era per gli altri, quel sorriso, per tutti coloro che stavano a guardarla, e fu anche per me, più vivo, quando la fissai; e mi disse ancora una volta, che non temeva di nulla, perché quale fosse per lei il maggior male io lo sapevo: ella lo aveva accanto – eccolo là – il Ferro; era la sua condanna, e fino all’ultimo con quel sorriso voleva assaporarlo nelle parole villane, ch’egli forse in quel punto le diceva. Distogliendo gli occhi da lei, cercai quelli del Nuti. Erano torbidi. Evidentemente anche lui aveva scorto la Nestoroff là in distanza; ma volle finger di no. Tutto il viso gli s’era come stirato. Si sforzava di sorridere, ma sorrideva con le sole labbra, appena, nervosamente, alle parole che qualcuno gli rivolgeva. Il berretto di velluto nero in capo, dalla lunga visiera, la giubba rossa, una tromba da caccia, d’ottone, a tracolla, i calzoni bianchi, di pelle, aderenti alle cosce, gli stivali con gli sproni, il fucile in mano: ecco, era pronto. Fu sollevato di qua lo sportello del gabbione, per cui dovevamo introdurci io e lui; a facilitarci la salita, due apparatori accostarono uno sgabello a due gradi. S’introdusse prima lui, poi io. Mentre disponevo la macchina sul treppiedi, che m’era stato porto attraverso lo sportello, notai che il Nuti prima s’inginocchiò nel punto segnato per il suo appostamento, poi si alzò e andò a scostare un po’ in una parte del gabbione le fronde, come per aprirvi uno spiraglio. Io solo avrei potuto domandargli: – Perché? Ma la disposizione d’animo stabilitasi tra noi non ammetteva che ci scambiassimo in quel punto neppure una parola. Quell’atto poi poteva essere da me interpretato in più modi, che m’avrebbero tenuto incerto in un momento che la certezza più sicura e precisa m’era necessaria. E allora fu per me come se il Nuti non si fosse proprio mosso; non solo non pensai più a quel suo atto, ma fu proprio come se io non lo avessi affatto notato. Egli si riappostò al punto segnato, imbracciando il fucile; io dissi: – Pronti. S’udì dall’altra gabbia il rumore dello sportello che s’alzava. Polacco, forse vedendo la belva muoversi per entrare attraverso lo sportello alzato, gridò nel silenzio: – Attenti, si gira! E io mi misi a girare la manovella, con gli occhi ai tronchi in fondo, da cui già spuntava la testa della belva, bassa, come protesa a spiare in agguato: vidi quella testa piano ritrarsi indietro, le due zampe davanti restar ferme, unite, e quelle di dietro a poco a poco silenziosamente raccogliersi e la schiena tendersi ad arco per spiccare il salto. La mia mano obbediva impassibile alla misura che io imponevo al movimento, più presto, più piano, pianissimo, come se la volontà mi fosse scesa – ferma, lucida, inflessibile – nel polso, e da qui governasse lei sola, lasciandomi libero il cervello di pensare, il cuore di sentire; così che seguitò la mano a obbedire anche quando con terrore io vidi il Nuti distrarre dalla belva la mira e volgere lentamente la punta del fucile là dove poc’anzi aveva aperto tra le fronde lo spiraglio, e sparare, e la tigre subito dopo lanciarsi su lui e con lui mescolarsi, sotto gli
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occhi miei, in un orribile groviglio. Più forti delle grida altissime levate da tutti gli attori fuori della gabbia accorrenti istintivamente verso la Nestoroff caduta al colpo, più forti degli urli di Carlo Ferro, io udivo qua nella gabbia il sordo ruglio della belva e l’affanno orrendo dell’uomo che s’era abbandonato alle zanne, agli artigli di quella, che gli squarciavano la gola e il petto, udivo, udivo, seguitavo a udire su quel ruglio, su quell’affanno là, il ticchettìo continuo della macchinetta, di cui la mia mano, sola, da sé, ancora, seguitava a girare la manovella; e m’aspettavo che la belva ora si sarebbe lanciata addosso a me, atterrato quello; e gli attimi di quell’attesa mi parevano eterni e mi pareva che per l’eternità io li scandissi girando, girando ancora la manovella, senza poterne fare a meno, quando un braccio alla fine s’introdusse tra le sbarre armato di rivoltella e tirò un colpo a bruciapelo in un’orecchia della tigre sul Nuti già sbranato; e io fui tratto indietro, strappato dalla gabbia con la manovella della macchinetta così serrata nel pugno, che non fu possibile in prima strapparmela. Non gemevo, non gridavo: la voce, dal terrore, mi s’era spenta in gola, per sempre. Ecco. Ho reso alla Casa un servizio che frutterà tesori. Appena ho potuto, alla gente che mi stava attorno atterrita, ho prima significato con cenni, poi per iscritto, che fosse ben custodita la macchina, che a stento m’era stata strappata dalla mano: aveva in corpo quella macchina la vita d’un uomo; gliel’avevo data da mangiare fino all’ultimo, fino al punto che quel braccio s’era proteso a uccidere la tigre. Tesori si sarebbero cavati da quel film, col chiasso enorme e la curiosità morbosa, che la volgare atrocità del dramma di quei due uccisi avrebbe suscitato da per tutto. Ah, che dovesse toccarmi di dare in pasto anche materialmente la vita d’un uomo a una delle tante macchine dall’uomo inventate per sua delizia, non avrei supposto. La vita, che questa macchina s’è divorata, era naturalmente quale poteva essere in un tempo come questo, tempo di macchine; produzione stupida da un canto, pazza dall’altro, per forza, e quella più e questa un po’ meno bollate da un marchio di volgarità. Io mi salvo, io solo, nel mio silenzio, col mio silenzio, che m’ha reso così – come il tempo vuole – perfetto. Non vuole intenderlo il mio amico Simone Pau, che sempre più s’ostina ad annegarsi nel superfluo, inquilino perpetuo d’un ospizio di mendicità. Io ho già conquistato l’agiatezza con la retribuzione che la Casa m’ha dato per il servizio che le ho reso, e sarò ricco domani con le percentuali che mi sono assegnate sui noli del film mostruoso. È vero che non saprò che farmi di questa ricchezza; ma non lo darò a vedere a nessuno; meno che a tutti, a Simone Pau che viene ogni giorno a scrollarmi, e ingiuriarmi per smuovermi da questo mio silenzio di cosa ormai assoluto, che lo rende furente. Vorrebbe ch’io ne piangessi, ch’io almeno con gli occhi me ne mostrassi afflitto o adirato; che gli facessi capire per segni che sono con lui, che credo anch’io che la vita è là, in quel suo superfluo. Non batto ciglio; resto a guardarlo rigido, immobile, e lo faccio scappar via su le furie. Il povero Cavalena da un altro canto studia per me trattati di patologia nervosa, mi propone scosse e punture elettriche, mi sta attorno per persua-
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Luigi Pirandello
dermi a un’operazione chirurgica sulle corde vocali; e la signorina Luisetta, pentita, addolorata per la mia sciagura, nella quale vuol sentire per forza un sapor d’eroismo, timidamente mi dà ora a vedere che avrebbe caro m’uscisse, se non più dalle labbra, almeno dal cuore un sì per lei. – No, grazie. Grazie a tutti. Ora basta. Voglio restare così. Il tempo è questo; la vita è questa; e nel senso che do alla mia professione, voglio seguitare così – solo, muto e impassibile – a far l’operatore. La scena è pronta? – Attenti, si gira…
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Ettore Veo
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Fantasio-Film. Romanzo del cinematografo*
I Il cavalier Romualdo Ferrantina era da quindici giorni appena alla «Fantasiofilm» nella qualità – beninteso – di direttore artistico, e già sentiva dentro parecchia inquietudine. Tuttavia, facendo appello alla sua antica esperienza di uomo e di artista e respingendo ogni impeto di protesta che gli veniva su, dai fondacci suscettibili, sapeva resistere e qualche volta tacere persuaso così di vincere ogni ostacolo ed ogni resistenza non già per la sua quiete e per il suo interesse, ma – come faceva capir lui – per omaggio alla verità e – nientemeno – al diritto! La «Fantasio-film» era stata fondata da un bel tipo di vecchio mattoide, ricchissimo e vizioso, tale Stefanoni, il quale con la scusa di voler porre sul telone bianco un ciclo di sue opere mimoliriche per sole donne aveva trasformata la Casa cinematografica in un vero e proprio harem naturalmente per suo piacevole uso e per suo ampio consumo. In quattro mesi di vita la «Fantasio-film» non aveva fatto uscire un sol metro di pellicola lavorata, ma era uscito, verso la fine di questo periodo, diciamo, incubatore, un sottile ricatto contro lo Stefanoni che s’era lasciato trascinare, evidentemente *
Ettore Veo, Fantasio-film. Il romanzo del cinematografo, in «Penombra», i, 1, novembre-dicembre 1917, pp. 46-48; i, 2, gennaio-febbraio 1918, pp. 30-32; continua in «In penombra», i, 1, giugno 1918, pp. 43-46; i, 2, luglio 1918, pp. 83-86; i, 3, agosto 1918, pp. 124-126; i, 4, settembre 1918, pp. 164-157; poi, con lievi varianti, in volume, Fantasio-film. Romanzo del cinematografo, Milano, Modernissima, 1921, da cui si cita (si riportano i capp. i e iii, pp. 5-11, 19-25). Pietro Silli, trentenne commediografo alla moda e soggettista della Fantasio-film, stringe un legame sentimentale con la giovane attrice Pierina Serrani, ingaggiata per una piccola parte nel film scritto da Silli, La donna dei miei pensieri, prima pellicola della neonata casa di produzione. Si illustrano le fasi di lavorazione, distribuzione e promozione di questa pellicola e del secondo film prodotto dalla casa, una riduzione del Nerone di Pietro Cossa, per cui la Fantasio-film deve subire la concorrenza della Mirifica-film, che allestisce lo stesso lavoro in contemporanea. Ma quando Silli è richiamato alle armi, Pierina, nel frattempo promossa prima attrice, diventa l’amante del commendator Paltrinieri, ricco e morfinomane finanziatore della Casa di produzione, che poi si suicida lasciandola sua erede: la propria storia con la Serrani, conclude Silli, non era stata altro che “cinematografia”, come tutto quanto intorno a loro. Alle prese con i disagi della guerra e le ambizioni personali, la Fantasio-film chiude infine, e Pierina sposa il suo primo, antico amante. La storia è un pretesto per presentare usi, costumi e personaggi del cinema del tempo, compresa la figura dell’interessato e becero “gazzettiere” cinematografico, con riferimenti precisi a fatti e protagonisti reali, da Lucio D’Ambra a Enrico Guazzoni, da Dario Niccodemi a Tomaso Monicelli, e gli attori Tullio Carminati, Francesca Bertini e Lyda Borelli. Un ambiente ben conosciuto da Ettore Veo (1888-1956), redattore e animatore di «In penombra» insieme a Mario Corsi e Umberto Fracchia, e in seguito studioso di tradizioni e poesia dialettale romana.
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Ettore Veo
dal suo sentimento mimolirico, verso le carni tenerelle d’un’attrice minorenne. La madre di costei, un accidente di portieraccia che di estate e di inverno esponeva, semiaperto, da un portone di via Nazionale ove domiciliava, il suo inverosimile seno di mucca svizzera alla cupidigia degli adolescenti, tuonò come marzo e minacciò lo scandalo più fiero se il vecchio satiro non avesse e di subito riparato. Avvenne l’ira di Dio. Lo Stefanoni, insomma, sborsò ventimila lire e lo scandalo se non tacque lì per lì deviò in sordina sino a sfumare, come sfumano tutte le cose gravi o quasi, a cui, per rimedio energico, si oppone il denaro. Ma sfumò con lo scandalo anche il ciclo dei lavori perché lo Stefanoni, dopo una simile avventura e dopo l’intervento risoluto dei suoi parenti che volevano porlo – a quell’età! – sulla buona via, volle chiudere i battenti della «Fantasio» e vendette i locali di sua proprietà – una ridente villa sulla via Flaminia sotto i Parioli, con una piccola pineta, un mirabile viale di mortella e uno spiazzo da osservatorio ov’erano stati costruiti due ariosi teatrini da posa – ad un gruppo di capitalisti o speculatori che fossero capitanati dall’ingegnere Silvio Pisa, un ebreo pieno d’ingegno e di risorse. Al Pisa e ai compagni piacque assai l’antico titolo dell’azienda «Fantasiofilm» e il titolo – benché un tantino pregiudicato – rimase alla nuova combinazione finanziaria ed artistica. In breve tempo il Pisa seppe riunire intorno a sé – un po’ lecitamente e un po’ togliendo agli altri – un simpatico gruppo di attori cinematografici che potevano dare un non spregevole contributo all’impresa. Per dirigere questa compagnia fu chiamato, con un contratto cospicuo, il cav. Romualdo Ferrantina ch’era libero in quel tempo. Qualcuno aveva detto che il Ferrantina allora era a spasso ma qualche altro, meno maligno, aveva assicurato che il cavaliere riposava. La parola «libero» ad ogni modo, poiché non compromettente, risolveva la situazione precaria del Ferrantina. Romualdo Ferrantina si congratulò anzitutto col Pisa per aver scelto proprio lui come guida e anima dei lavori che la Casa si riprometteva di «girare». Il cinematografo italiano – egli aggiunse – era nato con lui (di anni ne aveva cinquantatré, ed aveva un bel paio di baffi, due occhi grossi uno dei quali come posto in vetrina per via della caramella e una pancia rispettabile che ben s’addiceva alla sua bassa statura) e non v’era grande pellicola e non v’era grande artista dell’arte muta che non avesse avuto bisogno dei suoi giudizi e dei suoi consigli. Il resto, dove non c’era stato lui, nel mondo del cinematografo non esisteva. Era zero. Anzi meno. – Noi – gli rispose l’ing. Pisa – abbiamo scelto lei perché lei è quel maestro che è! – Ed io – ribatté il Ferrantina con piglio austero – darò alla «Fantasio» tutto me stesso. Si compiacque quindi, con qualche riserva, per la scelta degli artisti: vi era la Regina Campelli, la Giuliani, il Nardi, il Fossani e la piccola Vettrice. Buoni figliuoli, animati dal massimo buon volere; sicuro, sicuro… ma qualcuno gli zoppicava nella mente. Basta, avrebbe raddrizzato le gambe lui a chi di gambe difettava.
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Fantasio-Film. Romanzo del cinematografo
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Si doveva cominciare con un lavoro scritto da un autore drammatico che aveva ottenuto, a breve distanza, due rumorosi successi a teatro: il Silli. Pietro Silli non voleva saperne di cinematografo, ma il denaro offertogli dal Pisa per uno scenario originale aveva vinto la sua riluttanza. Ciò nonostante nel pensiero del Silli era rimasta la convinzione ch’egli con tale concessione si diminuiva e si umiliava. E ciò ebbe il prurito di dire al Pisa il quale alzò le spalle, perché a lui premeva il lavoro e non lo scrupolo dell’autore, e ciò disse anche al Ferrantina il quale, naturalmente, rimase seccatissimo. – Idiota! – brontolò il Ferrantina – Non è ancor venuto al mondo e già sente di diminuirsi. Ma chi crede di essere? Venne il lavoro: La donna dei miei pensieri. Il Pisa lo passò senza leggerlo al Ferrantina che lo esaminò a lungo concludendo che non era gran cosa. Ad ogni modo ci avrebbe messo lui – come sempre – la sua esperienza e i suoi rimedi per tenerlo in piedi! Furono distribuite le parti della Donna dei miei pensieri. Il Silli non obbiettò gran che. Soltanto non volle che una particina di scorcio, una fanciulla tra l’ingenua e la maliziosa, fosse affidata ad una giovinetta ch’egli riteneva incolore. – Per carità, cavaliere. La mia fanciulla quella? No, no. Occorre ben altro. Occorre una giovinetta garrula e profumata. Il Ferrantina spalancò gli occhi sorpreso: – Una giovinetta garrula e profumata? E dove trovarla? – Bisogna trovarla. Quel «bisogna trovarla» urtò moltissimo il cav. Romualdo Ferrantina ma egli seppe ancora una volta respingere l’impeto di ribellione che gli veniva da quei benedetti fondacci e che gli accaldava il volto, e lo respinse per contributo a quella sua convinzione che gli ammoniva come un uomo del suo temperamento e della sua educazione, non poteva trovar ragione se non nei fatti, ché le parole eran poi parole. Ma la sua dignità, però, gli impose di rispondere con calma al Silli che la giovinetta la trovasse lui, l’autore. Perché lui, Ferrantina, s’infischiava delle piccole cose. E gli voltò le spalle con garbo ma pure con freddezza. Dal Pisa il cavaliere sfogò un po’ meglio: – Intendiamoci, ingegnere: io non ammetto, né accetto osservazioni da chicchessia, fosse il Padre Eterno, quando faccio il mio mestiere. Io non ho bisogno d’imparare. Io insegno. Il Silli è l’autore? E che m’importa? Io sono il direttore. Chi crea il lavoro per lo schermo sono io, non lui. Ciò sento il dovere di dirle a scanso di equivoci oggi e di equivoci domani. La settimana prossima «girerò» i primi quadri e non voglio gente inutile tra i piedi. Rispondo delle responsabilità che assumo direttamente e non da oggi. Lei lo sa. Tutti lo sanno. Intendiamoci bene, dunque. L’ing. Pisa si grattò la testa perplesso. – Per carità, cavaliere – disse poi – non esageriamo. Se noi, (e insisté su quel
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Ettore Veo
«noi») se noi che dirigiamo la baracca non siamo concilianti, chi dovrà esserlo? Vediamo un po’. Il Silli vuole un’altra interprete per quella particina? Ebbene, accontentiamolo. Casca il mondo, forse? È una particina. Dunque… – Guardi non è il desiderio del Silli che mi urta; mi urta il tono delle sue osservazioni. – È un autore, cavaliere. È, anzi, un autore fortunato. Lei sa che cosa sono gli autori! – Eh! se lo so. Ma so pure che a darla vinta una volta, a costoro, è finita per sempre. Io del resto, ed in sostanza, volevo avvertirla che del mio operato non devo dar conto che a lei, perché lei è il padrone. Faccia poi quello che crede. – Non dubiti cavaliere ch’io non agisco se non nell’interesse generale. Il Pisa corse subito dal Silli: – Ma che succede? Ma che cos’è? Vuole un’altra giovinetta? Una? Ma anche dieci se ne vuol dieci. Stia tranquillo. L’opera sua sarà rispettata come si deve. Il Ferrantina ha i suoi difetti, ma è un buon uomo. Un uomo che sa il fatto suo: ha esperienza, ha gusto, ha fantasia. Lei dev’essere felice d’aver incontrato un direttore di tal forza per mettere in scena il suo lavoro. È un po’ suscettibile è vero, ma bisogna compatirlo. Il Silli si contentò di rispondere ch’egli non andava pel sottile, tanto vero che nella distribuzione delle parti non aveva fiatato, che il Ferrantina era senza dubbio un ottimo direttore artistico ma ciò non escludeva ch’egli non fosse anche un tantino villano. Per cercar questa giovinetta fu dato incarico ad Armando Salvia, detto il «marchese», un gazzettiere napoletano che aveva di suo un giornaletto cinematografico a tanto il rigo ed un’agenzia semiclandestina di collocamento d’artisti del telone; un’espertissima volpe dell’ambiente che tutti conosceva e che da tutti traeva profitto. – L’autore – gli disse il Ferrantina sghignazzando – la vuole garrula e profumata. Garrula per lo schermo muto e profumata per il telone che non odora nemmeno di bucato. – ’Nce penzo io! – aveva assicurato il Salvia, con la massima serietà – Sarà garrula e sarà profumata. E ci aveva pensato sul serio. L’indomani difatti traeva negli uffici della «Fantasio» – ch’erano in via della Mercede – dal Ferrantina, una graziosa giovinetta, sottile ed elegante, nera di occhi e di capelli, con un visetto da baci e da schiaffetti e con un naso impertinente. Pierina Serrani, diciotto primavere, animo aperto e bocca giuliva. Libera come una cingallegra ché l’unica parente, una zia, non si curava che della sua scuola elementare ove insegnava da anni molteplici e della chiesa di Santa Maria sopra Minerva ove si confessava quotidianamente. Accorsero a veder la Pierina il Silli e il Pisa, che rimasero estasiati. – Cara, cara! Il Silli poi disse: – È proprio lei! Mi pare di averla creata io.
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Fantasio-Film. Romanzo del cinematografo
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E il Ferrantina, di subito: – Un momento signori. Non ci esaltiamo. Qui si fanno le cose sul serio. Praticamente. Senza impressioni. Il Silli fece finta di non sentire. Il Ferrantina si rivolse quindi alla giovinetta: – Dove avete lavorato sin ora? – In nessuna parte! – Si comincia male! – e guardò il Silli di sottecchi. – Però – riprese subito la Serrani – ho studiato molto in una scuola di cinematografia. Ho qui gli attestati della maestra. – Maestra, maestra… Peggio che mai. Del resto la particina che forse vi affiderò non ha grande consistenza. Ad ogni modo, se non vi dispiace, vi sottoporrò ad un esame. – Quando? – Ora. – Qui? – E dove: in paradiso? Sembrava che la pancia del Ferrantina si fosse arrotondata più che mai e d’improvviso, e che i baffi minacciassero di più con le punte a ventola. Tutta la sua figura aveva poi acquistata qualcosa d’insolito e di monumentale. Il Silli, il Pisa ed il Salvia sedettero un po’ incuriositi. Il cav. Romualdo Ferrantina fece camminare la giovinetta per la stanza dell’ufficio, in andatura svelta e in andatura stanca. Le fece fare quindi un inchino. – Ed ora sorrida! – aggiunse. La giovinetta sorrise. – Ed ora rida. E quella giù a ridere che parea sentirsi lì dentro un gran getto d’acqua in una vasca colma. Gli altri erano incantati. – Cara, cara. Solo il Ferrantina era imperturbabile. – Si segga – S’alzi con indolenza – Faccia un gesto di noia – Risegga – S’alzi con impeto – Sospiri – Si turbi – Eccole un foglio di carta – Legga in questo foglio una notizia dolorosa ed esprima lo stato dell’animo suo. La Pierina eseguiva la prova con una mirabile disinvoltura. V’era nei suoi gesti e nelle sue espressioni più che la finzione dello studio un certo che d’istintivo che la rendeva quasi sincera. Il risultato dell’esame naturalmente fu buono. – Voi signorina – disse il Ferrantina – promettete molto e sono sicuro che ascoltando i miei consigli in breve tempo raggiungerete un posto rispettabile nel cinematografo. Mettetevi d’accordo con l’ing. Pisa, ora, per la vostra scrittura con la «Fantasio-film». Nella prossima settimana cominceremo a lavorare. Voi intan-
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Ettore Veo
to fatevi vedere ogni giorno per gli accordi sull’interpretazione della vostra parte. Con elementi come voi La donna dei miei pensieri significherà un grande avvenimento cinematografico, giacché il lavoro del signor Silli è di un interesse senza eguali. E guardò il Silli che fu per alzarsi e per dire con la medesima convinzione: «Grazie, maestro» o «grazie imbecille!» Nel tempo stesso il cav. Romualdo Ferrantina strizzò gli occhi al Pisa come per dirgli: – Come vedete io sono, in fondo, un uomo conciliante. Anche con gli autori presuntuosi come il Silli. […]1 III La Regina Campelli fece scatenare il fulmine – ch’era stato previsto e rigettato dietro sue stesse dichiarazioni – quando la «Fantasio film» meno se l’aspettava. Proprio a metà lavoro la Campelli si eclissò. Disparve in modo che per ottenere sue tracce occorse l’uscita della gazzetta di Salvia che annunciava come la «Regina Campelli, sublime interprete ecc.» fosse stata scritturata da una nuova casa milanese a condizioni veramente straordinarie. Immaginarsi un po’ che cosa avvenne. Il Pisa a momenti avrebbe voluto ucciderla a revolverate! E sarebbe stato un peccato poiché la Campelli era davvero una bella donna: trentatré anni raggianti e una leggerissima linea di pinguedine che l’età le apportava e che la rendeva più piacente che mai. Riflettendo dipoi, il Pisa trovò che ad ucciderla non avrebbe risoluto nulla ma che traendola dinnanzi ai magistrati avrebbe potuto ricavare qualcosa su quanto quella fuga, finanziariamente, poteva danneggiarlo. Consulti quindi con avvocati e proposito di estendere la causa alla Casa cinematografica milanese che aveva giuocato il tiro. Ma all’inizio degli atti giudiziari tra gli avvocati dell’una parte e dell’altra sorse il pensiero di esaminare se il caso non poteva dar motivo ad un bonario componimento. E si finì col ritenere il componimento bonario la via migliore e si trovò quindi la soluzione. Questa: la Campelli avrebbe lavorato contemporaneamente nelle due Case sino a compimento della Donna dei miei pensieri. Erano trascorsi così una diecina di giorni inoperosi.
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Il cap. ii, non riportato, narra l’inizio della relazione sentimentale tra Silli e la Serrani, suggellato da una lettera romantica del Silli. Intanto le riprese della Donna dei miei pensieri sono ritardate dalla presunta indisposizione della protagonista, Regina Campelli, che si sospetta voglia in realtà lasciare la Fantasio-film per un’altra casa di produzione. Rientrato l’allarme, la lavorazione riprende: si descrivono in particolare le riprese di un’importante scena passionale sulla spiaggia di Santa Marinella, utilizzando i bagnanti come comparse.
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Il cav. Ferrantina era diventato rauco a furia di scagliar fulmini, e su tutti i toni, contro il modo di procedere della Campelli. – Si dice male del cinematografo? Ma si capisce, ma si sa. Gente dappoco, avariati senz’arte e senza parte? Ma di certo, ma sicuro. Fanno bene, dicono bene. Peggio dovrebbero dire. Mancano le leggi, ecco tutto. Questa nostra categoria di artisti… ma che artisti?… delinquenti bisogna dire!… esiste formalmente, ma nella sostanza chi l’ammonisce? Chi la disciplina? Chi la governa? Ah! poveri noi, poveri noi. Dove s’andrà a finire così? Né si calmò quando seppe della soluzione data alla vertenza. – E che cosa significa questo? Peggio, fratel mio. Significa che la Campelli ha colto due piccioni ad una fava, infischiandosi d’ogni senso di pudore, ricattando quei mascalzoni lassù e i nostri cretini quaggiù. Fu ripreso il lavoro alacremente. La Campelli con la faccia più dura di questo mondo s’era ripresentata dal Pisa in compagnia d’un nuovo amante che s’era procurato a Milano: il figlio d’un ricchissimo fabbricante di birra, il quale aveva due occhi che guardavano ognuno per conto proprio. – Avvocato mio bello, lei mi deve perdonare. Ma sul serio, veh! Capirà: si lavora per vivere. Non è forse vero? – Ma si figuri, si figuri! – aveva risposto il Pisa tra i denti. – Lei ha perfettamente ragione. A me premeva che il lavoro non rimanesse a mezzo. Capirà anche lei, non è vero? Abbiamo trovato il modo d’intendersi… E allora non ne parliamo più! – Non vorrei che mi serbasse rancore. – Rancore di che? Mi faccia il piacere. – E allora mi dia la mano. – Eccole la mano. Al cav. Ferrantina la Regina Campelli aveva recitata la particina con maggior sentimento, e gli aveva dato del «maestro» invece che del «cavaliere». – Già, già – aveva brontolato il Ferrantina – non dico di no. Non posso dire di no. Purtroppo, si vive. Ed ora signorina bando al passato e poniamoci con tutto il fervore per l’adempimento del nostro dovere. – Oh! vedrà, per questo. La Campelli dimorava una settimana a Roma e una settimana a Milano. Alle maggiori spese – di viaggio o d’altro – pensava naturalmente lei o il birraio per lei. Verso la fine della seconda parte della Donna dei miei pensieri venne al Ferrantina l’idea geniale, come diceva lui, e che non gli mancava mai, un giorno o l’altro, durante un’opera che intraprendeva. E stavolta – come assicurava – l’idea era più geniale del consueto. Immaginarsi: alla messa in iscena d’un quadro grandioso – il finale della seconda parte del lavoro del Silli – quadro grandioso non solo per il galoppante interesse ma per la partecipazione in esso d’un numero straordinario di comparse, dovevano assistere, per gentile invito della «Fantasio-film» le più spiccate personalità della capitale.
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Ettore Veo
Spiegava il Ferrantina: – Regolarmente s’invitano le persone d’intelletto e di censo ad una prima e privata proiezione d’una pellicola. È di moda. Ma la moda è femmina: quindi variabile. O perché dunque non essere innovatori anche in questa forma di avvenimento? Epperò invitiamo sì il ministro Tizio e la contessa Sempronio, ma ad uno spettacolo nuovo. Con i personaggi in carne ed ossa, perché il pubblico conosca come si svolge un quadro… – …e come si fa a dirigerlo! – interruppe ironicamente il Pisa. – E perché no? – gridò il Ferrantina. – Anche per questo: sicuro! Il progetto piacque al Pisa in quanto egli vedeva in questa partecipazione di personalità romane una efficace via di pubblicità alla sua Casa o, ad ogni modo, un vantaggio qualsiasi, sia pure minimo, ma che nulla però gli costava. Si formò quindi una lista di persone che probabilmente avrebbero accolto l’invito: ministri, deputati, molta aristocrazia, letterati, artisti d’ogni genere e giornalisti e si scelse anche il giorno per dar sfogo all’avvenimento. Il giorno venne. La ridente villa di via Flaminia, sotto i Parioli, col suo bel viale di mortella, fu presa d’assalto da centinaia d’automobili ed ogni automobile era un tuffo al cuore di Romualdo Ferrantina. Il ministro della Marina, l’ambasciatore degli Stati Uniti, la principessa di Fonteriva, l’onorevole Di Bitonto, lo scrittore Giunteni, il duca Casaminima, donna Paola Violante, il Prefetto e tanti altri i cui nomi la sera stessa – e come! – comparvero nei quotidiani della capitale. Quanta gente, quanto fasto, che meraviglia di colori e di profumi sotto la pineta ove gli invitati s’erano riuniti per scambiar convenevoli e in attesa di passar sullo spiazzo ov’erano stati costruiti dei palchi alla meglio ma ben ricoperti di drappi e dove si doveva svolgere il quadro! Il quale s’iniziò con l’improvvisa apparizione della Campelli in abiti sgargianti di zingara, col seno sussultante e col viso stravolto, di subito raggiunta dal Nardi, il primo attore. – Ah! tu mi sfuggi. Dunque non mi ami più? E il Ferrantina, ch’era sopra una specie di scanno: – Più acceso Nardi, più disinvolto. Bravo; così! Il Marchioni girava lentamente il manubrio della macchina posta sopra un enorme treppiede e faceva delle boccacce. E la Campelli: – Ti amo, ti amo! Tu lo sai. Ma è bene… E sospirava la poverina e si premeva il seno dalle linee abbastanza cospicue ma non per questo meno attraente. E quello, il Nardi, a inginocchiarsi, a chiudere e a spalancar gli occhi, a gesticolare con tutte le dieci dita aperte… – Alzatevi ora Nardi! Indietreggiate. La destra, mi raccomando, la destra. Voi signorina irrigiditevi. Così, così. Tornate avanti Nardi – strillava concitato e sudato, il buon Ferrantina. Nei palchi le signore seguivano la scena con molta curiosità, mentre gli uomi-
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ni guardavano attraverso i binocoli o le caramelle ripulite il seno della Campelli. […] Ma c’era qualcuno che doveva guastare la festa. O non diceva ad ogni canto di strada il Salvia, quello che pubblicava il giornaletto di cinematografo, che il vecchio Stefanoni, il primo proprietario della «Fantasio» era jettatore e che aveva lasciato con la villa anche un po’ di jettatura? Dunque qualcuno guastò la festa. S’era giunto al momento in cui la Campelli ed il Nardi dopo amare riflessioni sul loro amore adultero erano tornati a riamarsi. E si abbracciavano e si baciavano e si torcevano nel dolce calore. Qui doveva irrompere il tradito e non già solo ma con tutta una colonia di zingari suoi dipendenti per dir loro: – Vedete questa donna? Riconoscetela. È la mia donna. È la vostra padrona. Era la donna dei miei pensieri. Afferratela, laceratela, bruciatela dinanzi ai miei occhi. E quello, l’infame, colui che, ecc. Il tradito irruppe. Ferrantina, sullo scanno, era congestionato come un maestro di musica anelante in una prova difficile sulla massa orchestrale. Proprio in quel mentre sibilò un grido di donna ed una voce gridò: – Brutto vijacco, m’hai menato! E subito, in fondo, nella massa delle comparse successe l’ira di Dio. Dapprima fu un agglomerarsi di persone, un sospingersi, un ribollire. E poi un interrogarsi, un bestemmiare, un gridio indicibile. Nei palchi gl’invitati s’erano alzati più incuriositi che mai per questo numero che evidentemente non era nel programma. Quello che faceva il tradito era rimasto col braccio levato nel gesto della condanna. Come un bolide il Ferrantina s’era precipitato verso la massa delle comparse. Nella quale massa s’aprì d’improvviso un varco per farne uscire una giovine donna, mezza patita, una comparsa, sorretta da due individui, due altre comparse, vestiti da zingari. Che cosa era successo? Era successo il fattaccio. Un «cachet»2 ex amante di quella sventurata, le aveva sfregiato il volto con un colpo di coltello. La scenata s’era svolta d’improvviso. Quel mascalzone che faceva il «cachet» per ricoprire il suo ignobile mestiere di Alfonso s’era avvicinato alla poveretta e buttandole in faccia una turpe parola le aveva vibrata la coltellata. E quella dopo aver ritratta dal volto la destra bagnata di sangue aveva gridato: – Brutto vijacco!… Il Pisa correva da un ministro ad un titolato chiedendo mille scuse. Ché lui colpa non ne aveva. E dietro il Pisa s’affannava il Ferrantina che passava da un invitato ad uno chauffeur3 con l’istesso piagnucolamento: – Perdoni eccellenza. Quel birbante!… Ma poteva aspettare un altro poco! Proprio in questo momento! Alla fine gli invitati se ne andarono uno alla volta né soddisfatti né insoddi-
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cachet: comparsa scritturata e pagata a giornata. chauffeur: autista.
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Ettore Veo
sfatti. La comparsa ferita fu trasportata all’ospedale di San Giacomo ed il «cachet» feritore fu consegnato ai carabinieri. La sera i giornali s’impossessarono del fatto ed i cronisti colsero l’occasione per diluire un diluvio di personali considerazioni cinematografiche. Il Giornale d’Italia pubblicò anzi tre illustrazioni a corredo del fatto: il luogo dove si era svolta la scena, il ritratto del Ferrantina e quello della Campelli. L’ing. Pisa davanti a tanta réclame che non gli costava nemmeno un soldo, si fregò le mani e ringraziò tacitamente il suo Dio. […]
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Bruno Corra
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Io ti amo. Il romanzo dell’amore moderno*
[…] Il nuovo studio De Rosa occupava non più due ma ben cinque locali, era tutto arredato di fresco con larga e sobria signorilità ed era fornito di tre impiegati e di due dattilografe. L’ineffabile dottor Pasquale vi appariva, in una ampia sala luminosa e volutamente disadorna, trincerato dietro una monumentale scrivania, sempre vestito di scuro con panciotto chiaro, grave, tranquillo e soddisfatto, con l’attitudine un po’ menimpipesca dell’uomo che, dopo decenni di sforzi strenui e di preoccupazioni dissimulate, ha finalmente la sensazione di esser riuscito ad arrampicarsi sopra una piattaforma solida. E chi non sarebbe rimasto a bocca aperta, assistendo all’affollarsi della nuova clientela? Erano, adesso, giovanetti elegantissimi, attillati, incravattati e caramellati, erano signori grigi e bianchi che arrivavano e ripartivano in limousines lucide come anelli, erano, qualche volta, grossi uomini pletorici che davano subito l’impressione di esser forniti di portafogli altrettanto pletorici, erano, spesso, giovani pallidi e capelluti, dall’aria un po’ bohème, ed erano sempre, soprattutto, donne e donnine, con pretese di eleganza più o meno riescite, quasi tutte dipinte ed ossigenate, vivaci, rumorose e pretenziose, spargentisi dietro ed intorno scìe ed atmosfere di profumi alla moda. La spiegazione poteva esser data, intera, da due parole che figuravano in grosse lettere su una targa fissata alla porta d’ingresso: MONDIAL FILMS. […] *
Bruno Corra, Io ti amo. Il romanzo dell’amore moderno, Milano, Studio Editoriale Lombardo, 1918, pp. 43-44, 47-49, 59-63, 80-84. Bruno Corra (Bruno Ginanni Corradini, 1892-1976), con il fratello Arnaldo, pittore (che si firma con lo pesudonimo di Arnaldo Ginna, 1890-1982), aveva condotto intorno al 1910 alcuni esperimenti di «cinepittura», con la realizzazione di sei brevi film ottenuti dipingendo direttamente sulla pellicola (perduti, ma descritti nel saggio Musica cromatica, del 1912). Entrambi lavorano nel 1916 al film Vita futurista, girato da Ginna e interpretato dal gruppo futurista fiorentino insieme a Marinetti; nello stesso anno firmano il manifesto della Cinematografia futurista (in questa antologia, pp. 342-345), comparso sul periodico fiorentino del movimento, «L’Italia futurista». Corra è autore negli stessi anni di “sintesi” teatrali futuriste, in collaborazione con Emilio Settimelli, e del «romanzo futurista sintetico» Sam Dunn è morto (1915, 19172). Con i romanzi successivi si avvicina progressivamente a una narrativa di intrattenimento, anche stilisticamente lontana dalle istanze futuriste. Così già nel romanzo Io ti amo: di cui sono protagonisti due giovani sposi, Carlo ed Anna Serena, che vedono nel cinema il mezzo più rapido e moderno per attuare i loro progetti di ascesa economica e sociale. Carlo inizia con il dirigere un giornale cinematografico, poi diventa socio della Mondial Films; Anna ne diventa la prima attrice. I due alla fine lasceranno questa vita arida, esclusivamente tesa alla ricerca del successo, per valori più autentici: Carlo parte volontario per la guerra e muore al fronte; Anna diventa buona madre di famiglia. Si antologizzano le pagine dedicate alla descrizione della Mondial Films.
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Bruno Corra
Il giornalismo ed il teatro sono stati sempre, nelle nostre grandi città, due potenti raccoglitori di queste energie finanziarie-erotiche. Vi si accentravano, tra i due poli donna e denaro, mille commerci strambi, mille interessi oscuri: erotismi impastati con ambizioni artistiche, squilibri sessuali con addentellati nella politica, mecenatismi idioti senza scopi e senza programmi, megalomanie e brigantaggi, ricatti e idealismi. Ma da dieci anni in qua, giornalismo e teatro, sono stati decisamente superati e battuti in tutto ciò che è stravaganza, mescolanza di genialità e di idiozia, caotismo di interessi, trucco di intellettualità, inversione e deviazioni di valori, dal Cinematografo. La trionfante esplosione dell’Arte muta è uno dei fenomeni più ricchi di assurdità tragico-divertente della vita attuale. Tragica per quelli che hanno tendenza a credere nella consistenza logica e nella saldezza morale della nostra vita; divertente per coloro che sono avvezzi a non pigliar troppo sul serio nessuna delle sue manifestazioni. Il Cinematografo come industria doveva per forza attirare a sé l’attività dell’avvocato Pasquale De Rosa. Gli era capitato di considerarlo con interesse per la prima volta, una sera al caffè, discorrendone con un suo amico ragioniere il quale da oltre un anno vi navigava a vele spiegate con risultati finanziari, pareva, ottimi. Quella sera era tornato a casa tardi, meditabondo. Continuò ad interessarsi della cosa e prese conoscenza in pochi giorni del meccanismo commerciale dell’industria cinematografica. Arrivò presto alla convinzione che quella era proprio la sua industria. Intuì con lucidità definitiva che in quel campo avrebbe potuto spiegare tutte le sue qualità di maneggìo senza scrupoli ed ottenere la grande vittoria che la vita certamente gli riservava come premio alla sua duttile e paziente tenacia. Da quello che faceva il suo amico ragioniere misurò la grandezza di ciò che avrebbe potuto fare lui, Pasquale De Rosa. Vide la possibilità di costruire, in base a un piccolo capitale combinato con la indispensabile bella donna, un gigantesco e confuso vortice di trucchi reclamistici, tenuto in moto da un vasto giro di cambiali, che avrebbe finito per attirare dopo un po’ di tempo qualche pesce importante. Questa visione arrivò nel suo cervello ad una intensità ossessionante. Sentiva di essere di fronte alla Fortuna. Fu ben deciso a non lasciarla passare. Fondò, dopo sei mesi di strombazzamenti giornalistici, la grande Casa cinematografica Mondial Films. Il grosso pesce c’era. Si chiamava Galeazzo Morelli. Aveva quarantanove anni e una diecina di milioni. Portava due grosse lenti sul naso appiccicato sulla larga faccia pletorica. Era stato, tutta la sua vita, un gran lavoratore, un uomo di tenacia, di volontà e di sforzo. Come intelligenza, mediocre: testa priva di fantasia ed incapace di elevazioni, nuda, schematica, chiusa in due o tre formule sempliciste. La quantità e la qualità di intelligenza necessaria (non più, non meno) per intonarsi con la realtà materiale della vita, sempre banale, pigra, terra terra, mediocre. Ma quel cervello quasi insignificante era piantato sopra un organismo eccezionale. Dal torace profondo, dalle spalle poderose, dal collo breve erompeva un impeto vitale continuo, stupefacente, inesauribile, che scagliava avanti e sosteneva
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Io ti amo. Il romanzo dell’amore moderno
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quelle poche e povere idee con tale massiccia intensità da renderle, per il senso di formidabile saldezza che ne acquistavano, pienamente convincenti e quasi affascinanti. Galeazzo Morelli era un tipico industriale lombardo, un genuino rappresentante di quella sana e quadrata energia buonsensaia, tutta improntata a un senso di realtà grette e vaste nel medesimo tempo, che rende i nostri uomini d’affari milanesi tanto simili ai businessmen londinesi e newyorkesi. Ristrettezza mentale (in parte voluta e ostentata), ostinazione, spirito di sopraffazione, culto del denaro, disprezzo di tutto ciò che sa di ideale, sicurezza granitica di non far mai errori, assenza di scrupoli, stomaco sano, buon umore, socievolezza, semplicità di modi. Uomini fatti apposta per tenere in pugno folle di macchine e di operai. Uomini destinati alle grandi vittorie concrete che culminano nella potenza finanziaria. […] È necessario aggiungere che Galeazzo Morelli era, da parecchi anni, commendatore? Il primo film edito dalla Mondial fu un vero capolavoro d’arte. Ne scrisse l’intreccio un maturo romanziere il quale si riteneva pari d’ingegno a tutti i grandi scrittori dei tempi passati presenti e futuri perché aveva in comune con essi il fatto tipico di esser carico di debiti. Egli escogitò, per questo suo millesimo parto cerebrale, un titolo fiammeggiante di originalità: Il trionfo dell’amore. Pasquale De Rosa approvò, in massima, l’intreccio. Quanto al titolo, volle introdurvi una modificazione di capitale importanza: volle che amore fosse scritto Amore, con l’A maiuscola. Fu interprete principale del capolavoro una divetta di caffè concerto, di purissima nascita torinese, la quale, naturalmente, parlava con l’r roulé e ostentava un nome parigino: Jany Deschamps. Il lavoro si svolse febbrilmente, approfittando di una serie di magnifiche giornate autunnali, in un teatro di posa preso in affitto, e poi, per certi esterni, sui laghi e in riviera. Pasquale De Rosa fu presente a tutte le pose importanti, infaticabile. A poco a poco tagliò via dalla visione scenica del romanziere illustre novantacinque dei centodieci quadri[: ai] superstiti ne aggiunse un centinaio di sua invenzione. Lo scrittore non fu, dentro di sé, troppo scosso dalla massacrante mutilazione della sua creatura artistica, ma seppe così bene fingere scoppi di orgoglio, escandescenze sdegnose e propositi di ritirare alteramente l’autorizzazione a servirsi del suo nome, che il famigerato direttore-proprietario giudicò necessario di placarlo aggiungendo ancora cinquecento franchi ai duemila che già gli aveva sborsati. De Rosa gli spiegò che doveva pure aggiungere dieci o dodici quadri rappresentanti paesaggi italiani se voleva che il film avesse successo in Russia e in Inghilterra, che doveva pure introdurre nell’azione un acrobata che mostrasse la sua abilità nel dar la scalata alle finestre di un palazzo, nel far salti in mare e nello scavalcare fulmineamente tutti i tavolini di un caffè, se voleva che il film avesse
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successo in America, e che doveva pure far mettere in mostra da quella donnina pagata a tremila franchi al mese tutte le sue pellicce, le sue toilettes e i suoi cappelli, nonché le sue gambe, le sue braccia e le sue spalle, se voleva che il film avesse successo in Italia, in Francia e in Ispagna. De Rosa investì, cumulativamente, nel film, settantamila franchi. Ne stanziò altri cinquantamila per lanciarlo con un réclame intensiva. Questo capitale era per un quinto suo, per un quinto fornito da un ricco mercante di fieni il quale aveva così ottenuto di far interpretare una piccola parte da una sua innamorata bolognese, bruttina e bramosa di celebrità cinematografica, per i rimanenti tre quinti era preso a credito mediante un ben distribuito giro di cambiali. Il film fu venduto a forfait, appena ultimato, per centocinquantacinquemila franchi. L’affare non era ottimo, ma De Rosa conosceva la forza penetrativa del dumb, ed era deciso a contentarsi magari, le prime volte, di andare alla pari. La fortuna diede ragione alla sua pazienza prima di quanto egli stesso non si aspettasse. Il trionfo dell’Amore, lanciato con grande lusso di affissioni da un abile monopolista ebbe un successo entusiastico. Il maturo illustre e indebitato romanziere ricevette per questa sua opera più felicitazioni di quanto non avesse mai avute durante la sua laboriosa carriera. Tutti gli affermarono, stringendogli la mano con calore, che quella magnifica visione segnava proprio il culmine della sua evoluzione artistica: e gli lodarono specialmente i cento quadri impostigli da De Rosa. Egli era, letteratura a parte, un uomo intelligente, scettico ed arguto: accettò quindi le universali congratulazioni e spiegò nei crocchi attenti dei discepoli e delle ammiratrici le sottili ragioni teoriche che avevano presieduto nella sua trionfante creazione alla scelta di quei tali quadri. Ma «il trionfo dell’Amore» ebbe un altro successo che, riferito in seguito al Direttore Pasquale De Rosa, lo entusiasmò alla pazzia. Accadde, per caso, alle cinque di un qualunque pomeriggio, che la signorina Jany Deschamps si trovasse al thè del Cova, sola, seduta ad un tavolo accanto al quale seduto, eccezionalmente solo, ad un altro tavolo, si trovava il Commendator Galeazzo Morelli. Egli l’aveva sentita cantare diverse volte e le chiese: – Avete una scrittura al San Martino? Jany Deschamps rispose con sdegno: – Io? Al San Martino? Ma io sono prima attrice alla Mondial Films! Piglio seimila franchi al mese! Figuratevi! Andate al Centrale! Vedrete come riesco! Andarono al Cinema Centrale quella sera stessa, ad ammirare, insieme, il Trionfo dell’Amore. […] Un crepuscolo piovoso, sporco, quasi freddo scendeva sulla campagna lombarda. Sotto la vasta tettoia di vetro risonavano forte i colpi di martello degli operai che stavano montando le scene per le pose del giorno appresso. Sui divani e sulle poltrone disposte in cerchio in un angolo del teatro cinematografico, dietro un tramezzo di legno che ne faceva come un salottino a parte, fumando, chiac-
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Io ti amo. Il romanzo dell’amore moderno
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cherando e sbadigliando, gli attori e le attrici della Mondial Films attendevano che lo scoccare delle sei, secondo l’orario ancora estivo malgrado il settembre avanzato, permettesse loro di andarsene. Erano le protagoniste e i protagonisti, le dive e i divi. Gli altri (il gregge degli interpreti minori e dei cachets) non eran stati convocati, quel giorno, dovendosi eseguire solamente scene di sapiente psicologia a due, a tre, a quattro e a cinque. C’era, coricata come in un letto sul divano più comodo, secondo il suo diritto di prima donna, succeduta da due mesi a Jany Deschamps, la bella polacca Mania Pusckevitch, bionda, lunga, snella, fumatrice assidua di sigarette oppiate e notoriamente appassionata di amori eclettici. C’era, seduta sopra una poltrona, coi due piedi, calzati di buffi stivali alla cosacca in cuoio rossastro, appoggiati sopra un’altra poltrona, Giorgina Redaelli, interprete specialista di parti birichinesche, con la sua piccola faccia sempre pullulante di smorfie, col suo agile corpo intero come una goccia d’acqua, irrequieta, ostinata e stupida come una mosca. C’era Giulio Valandi, ex chauffeur, primo attore, eroe insuperabile di drammi polizieschi e di avventure di malavita, magro ma robusto, agile e dinoccolato come un clown, faccia quasi volgare, ma resa interessante dal logorio cesellatore di una vita oscuramente avventurosa. C’era Andrea Sartori il caratterista, piccolo, grasso, gonfio e panciuto a cui l’immancabile virginia all’angolo della bocca dava una strana aria di foca che avesse perduto l’altro dente. C’era infine Luigino Carozzi, noto ai pubblici sotto il nome di Cri-Cri, il minuscolo uomo che da anni faceva scoppiare dalle risate centinaia di migliaia di persone, con le smorfie grottesche della sua faccia munita dalla natura provvidenziale di un naso lungo cinque centimetri, di una bocca spropositata e di due orecchi aperti come vele avide di vento, con i gesti scimmieschi delle sue braccia lunghissime, con le danze esilaranti dei suoi piedi enormi attaccati a due gambette corte corte, magre magre, torte torte: il povero Luigino che quantunque pagato a tremila franchi al mese, era l’uomo più tetro del mondo, taciturno, nevrastenico, maniaco di persecuzione, malato di stomaco. Nessuno parlava. Fumavano immobili e stanchi, immalinconiti ed esauriti dal lavoro di quella giornata incostante, lavoro dovuto fare a pezzetti, interrottamente, nei rari dieci minuti nei quali il sole s’era mostrato. Attendevano le sei. De Rosa aveva istituita nella sua azienda una disciplina ferrea e tutti dovevano osservare l’orario, sotto pena di multe trattenute sulla paga. Gigi Brini, il metteur en scène, sorvegliava il lavoro degli operai, timoroso di una improvvisa visita del direttore il quale aveva l’abitudine di capitare spesso, pochi minuti avanti le sei, a ispezionare. Nella vasta vuotezza della sala di cristallo, piena della luce umida del crepuscolo piovigginoso, gravava sui nervi la piatta, sfinita, indefinibile tristezza, propria dei teatri, delle platee, dei circhi e di tutti i luoghi fatti per gli spettacoli, nelle ore in cui lo spettacolo manca; la tetraggine floscia del dopo recita quando la ribalta si spegne, le scene si arrotolano, i mobili si ricoprono, i costumi si ripongono e i trucchi si stingono, quando nel palcoscenico subitamente oscurato si assiste al disfacimento polveroso e cencioso della individualità suggestiva del dramma.
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Bruno Corra
Mancavano forse cinque minuti alle sei quando il rombo lontano di un automobile scosse dal loro letargo le dive insonnolite e i comici stanchi. Mania Pusckevitch disse: – Eccolo qua che arriva. Giulio Valandi, Sartori e Cri-Cri si alzarono in piedi stirandosi. Giorgina Redaelli lasciò ricadere i piedi dalla poltrona sul tappeto. Gigi Brini, metteur en scène, cominciò ad interessarsi più intensamente delle martellate degli operai. Mania Pusckevitch restò coricata, senza muovere un dito, con l’aria sicura di chi, per una particolare situazione, può permettersi qualche maggiore libertà. Un rumore di voci e di passi sul viale pozzangheroso che riuniva il teatro alla strada provinciale, arrivava, rapidamente più vicino e più vicino, attraverso la porta di cristallo socchiusa. Tra alcune voci gravi di uomini, si udì sgranarsi una chiara e nervosa risata femminile. Allora, anche Mania Pusckevitch si mosse, stupita, rizzandosi in piedi con un movimento istintivo ed agile che fu quasi un balzo. Ebbe appena il tempo di aggiustarsi con pochi gesti meccanici le pieghe della sciolta toilette e di passarsi sulla faccia il piumino del portacipria tascabile. Sulla soglia apparve Anna Serena. La seguirono, prima il Commendator Morelli, poi Carlo, poi De Rosa. Indossava, sopra uno dei soliti suoi tailleurs semplicissimi, un leggero mantello impermeabile di un color verde scurissimo, quasi nero: in testa un piccolo cappello a casco senz’altro ornamento che un nastro largo e liscio. Anna Serena e Mania Pusckevitch s’incontravano per la prima volta. Anna sapeva che la polacca era o era stata, come Giorgina Redaelli e come tutte le attrici della Mondial Films più o meno, amica del neo mecenate cinematografico commendator Galeazzo Morelli. Mania e Giorgina avevano sentito molte volte da molte persone parlare con interesse della bella e purtroppo fedele consorte di Carlo Serena. Mania Pusckevitch ed Anna Serena si guardarono come si guardano le belle donne da brave belve gentili e compite, con occhiate distratte che vedono tutto. I tre uomini entrati salutarono il gruppo degli attori. De Rosa, complimentoso ed affaccendato, si spinse in avanti a far gli onori di casa. – Ecco – diceva ad Anna che osservava con interesse, questo è il nostro teatro più grande. Ne abbiamo un altro dietro più piccolo. Vedete? quelle sono le scene che devono servire per le pose di domani. Là abbiamo gli apparecchi per la luce artificiale. Ma avreste dovuto venire più presto, mentre lavoravano: allora avreste potuto farvi una idea… – Due ore e mezzo ci ha fatto aspettare la signora Anna! – disse Morelli grosso sbuffante e allegro. – Se volete che vi rinnovi le mie scuse; ditemelo. Mio Dio! Non mi sentivo bene. – Non ci credo, non ci credo. È la toilette, sempre la toilette! Scommetto che solo per le unghie vi ci vuole un’ora! – replicò Morelli. – Ditelo voi Carlo. – Cinquantacinque minuti, esattamente, li ho contati. Ma io non posso che approvarla, del resto. Anche oggi, aspettando, vi ho vinto qualche cosa al macao,
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Io ti amo. Il romanzo dell’amore moderno
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caro commendatore! – rispose Carlo sorridendo. – Sinché mi durerà la vena, mia moglie non sarà mai puntuale! Non avete ancora capito che siamo d’accordo!? Il commendator Morelli scoppiò in una risata che si distese fragorosamente per tutto il teatro. Carlo, appena lanciata la sua boutade, si staccò da loro per andare a salutare gli attori che uscivano. Morelli, seguendo Anna e De Rosa, si diresse verso il fondo del teatro ai camerini degli attori, non senza voltarsi indietro due volte, con una piccola ira sospettosa a guardare Carlo che baciava con troppo affettuoso ossequio la mano di Mania Pusckevitch e di Giorgina Redaelli. Le dive e i divi uscirono. Si udì, poco dopo, il rombo dell’automobile posto al loro servizio dalla munifica casa cinematografica Mondial-De Rosa-Morelli. […]
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Federigo Tozzi
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Una recita cinematografica*
Il portiere Calepodio fa anche il ciabattino. Non ci ha né meno uno stambugio, dove ficcarsi; ma si mette a sedere dentro la porta; e, quando esce o entra qualcuno, deve sempre, se è in tempo, tirare in dietro le ginocchia perché l’ingresso è troppo stretto, e non potrebbe passare nessuno. C’è una signora grassa che, quando lo vede lì, si ferma sempre a un passo di distanza perché si scansi più del solito. A lei, naturalmente, dà noia; e lo guarda indignata e crucciata. Il ciabattino se ne accorge e le chiede, senza aversene a male, pronto magari ad alzarsi: – Non passa, signora Pia? Ella non gli risponde né meno; tenta di spianare il viso, ma si volta dall’altra parte e basta; e la collera le dura fin quando è giunta in casa ansando; e, allora, per un niente, fa una sfuriata alla donna di servizio o alla figlia. Il ciabattino arrossisce e abbassa la testa. Egli, perciò, è amico di tutte le magre della casa; ed è quasi sicuro che lo risalutano. Gli uomini sono, per lo più, quasi tutti gentili; e passano un poco di fianco perché non ci si sia bisogno che egli si scansi. Ma anch’essi lo tollerano più per abitudine che per altro. Ce l’hanno sempre trovato, in quell’andito buio e sudicio; distribuisce bene la posta; e hanno il comodo di mandare giù la donna di servizio con una scarpa in mano perché egli la ricucia senza fare attendere. Se mangia, mette la scodella in terra con il cucchiaio dentro; e, sorridendo della fretta, piglia la lesina e gli spaghi in mano. La serva, per ordine del padrone, è lì ritta che non toglie gli occhi da lui e dalla scarpa. Egli tenta di scherzare e le dice, sapendo che non è possibile: – Si metta a sedere. La serva, un poco sgarbata, ma contenta di stare giù, senza fare nulla, s’aggiusta i capelli, guarda se la sottana non scende troppo da una parte e gli risponde: – Tiri via, Calepodio! Ho ancora da rimettere a sesto la cucina. Il ciabattino sorride anche di più e obbedisce. Ha un berrettone con la tesa di cuoio lucido e un bordo bianco; e la sua testa sembra un quadrato brignoccoluto. Egli, dinanzi alle donne, sta volentieri a testa bassa; perché sa che è brutto e ne ha *
Federigo Tozzi, Una recita cinematografica, in «In penombra», i, 6, novembre 1918, pp. 241-243, da cui si cita; poi, con poche varianti grafiche e di punteggiatura, in Id., Giovani, Milano, Treves, 1920, pp. 97-111; ora in Opere, a cura di Marco Marchi, Milano, Mondadori, 1987, pp. 825-832. L’uscita del racconto, illustrato da disegni di Oppo, sulla rivista «In penombra» si inserisce nel programma di promozione culturale del cinema portato avanti dal periodico romano. Secondo la testimonianza del figlio dello scrittore, Glauco, nel 1920, negli ultimi mesi della sua vita, Tozzi era impegnato nella scrittura di alcuni soggetti cinematografici in collaborazione con Orio Vergani.
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Una recita cinematografica
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paura. Da ragazzo, è stato il divertimento dei compagni. Magro e pallido, con le guance sparse di ceci rossicci, i baffi biondastri, quasi trasparenti; con gli occhiali così grossi che gli lasciano il segno nella carne; le pupille grigie e sporgenti come quelle dei granchi; un collo che pare deformato a posta. Quel sorriso d’idiota, sebbene buono e timido, toglie a tutti l’istinto di parlargli; tutti pensano che si possa fare a meno di parlargli; però, quando qualcuno, chiunque sia, ha dentro di sé una cosa che non confiderebbe agli altri, allora senza volere, se si trova alla porta, cerca il pretesto di dire una parola a Calepodio; che non capisce, ma picchia più forte su le suola delle scarpe. Perfino la signora Pia, quella grassa, quando aveva trovato la donna di servizio a rubare nella dispensa, ebbe questo bisogno; ma si tenne, e la stizza mancò poco che non le facesse venire un colpo. Ella pensò sopra a questa debolezza, che aveva avuta; e siccome le pareva quasi un’onta, odiò Calepodio. Fino ad ora sapeva soltanto che egli dormiva in una stanzucola senza finestra e che perciò era costretto a lavorare in mezzo all’andito. Ella aveva sempre arricciato il naso a vederlo sudicio come le pareti e come l’impiantito; con un grembiule lacero e nero; con quegli occhiali che gli facevano gli occhi più piccoli di due capi di spillo; che parevano anch’essi sudici e loschi. Quando, la mattina dopo, escì di casa, per andare a farsi tingere i capelli, a una Maison de beauté, finse di soffermarsi per cercare qualche cosa dentro la borsetta di seta verde. Già Calepodio s’era preparato a farle posto, e aspettava che passasse; con i piedi tirati su senza guardarla, e attento con gli orecchi. Allora ella gli disse: – Calepodio, vuol domandare alla mia donna di servizio se ho lasciato sopra la toilette il mio braccialetto con il topazio? Egli, al solito, sorrise; e si alzò da sedere. La signora Pia vide che era come imbarazzato e ne provò piacere. Allora, aggiunse: – Le scale mi fanno venire l’asma! La signora Pia non solo era grassa, ma aveva un aspetto tanto delicato che le sue esigenze parevano giustificatissime. Egli smise di sorridere, alzò gli occhi soltanto fino alle spalle di lei e rispose: – Vado subito, signora! Ha detto un braccialetto d’oro… – Con il topazio. Aspetti: guardo meglio se è qui dentro: così le risparmio di salire. – Non importa, signora. Vado volentieri. E andò. La signora Pia, allora, richiuse la borsetta; dove c’era il braccialetto. Sentì suonare il campanello e fare la domanda alla donna di servizio; che, dopo cinque minuti, sporgendosi dalle scale, disse da sé: – Non l’ho trovato. Credo che l’abbia preso. Calepodio riscese; e, senza dir niente, aspettava che la sua inquilina se ne andasse. Ma ella gli disse: – Grazie. Almeno che non l’abbia perso giù per le scale! Egli, come se cercasse di sfuggirla, non si moveva da dove era rimasto, ancora con una mano su la ringhiera delle scale. E la signora non poté dirgli altro.
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Federigo Tozzi
Ma, quando scese giù la donna di servizio, egli le domandò: – Che ha di nuovo la vostra padrona? Prima non mi rivolgeva mai la parola e oggi mi ha parlato. – Lei parla quando le fa piacere. – Ne ho avuto la prova! Ma anche la donna, vedendogli quel sorriso andò subito via. Egli, intanto, non può più dimenticare che la signora Pia gli ha parlato; e se ne compiace come se gli fosse capitata una fortuna. Ma quando ella passa, egli perde la testa; e, per alzarsi in piedi, inciampa nella sedia o nelle scarpe sparse in terra vicino al muro. Non è simpatia, ma un sentimento che lo sconcerta a fondo. Una mattina, ella gli dice: – Vive solo, signor Calepodio? Non ha né meno una parente? Egli si arrischia a guardarla, riabbassa subito la testa e si mette a lavorare. Poi risponde: – Perché me lo domanda? – Credevo che avesse moglie. – Non ci mancherebbe altro! – E perché? – Non la prendo moglie, io! – Ci sono tante brave donne! Ci vuol poco a trovarla! – Ma io non la voglio. Allora la signora Pia lo saluta, e sale in casa. C’è restato il suo profumo, ed egli alza gli occhi per vedere se ella è sempre lì. Poi si dice, ridendo da solo: «Ci vuole sfacciataggine a farmi certe domande!». Egli non ricorda niente di quando era ragazzo; non ricorda né meno come è fatto Frascati, dove è nato. È rimasto solo da tanto tempo ed è tanto tempo che fa il portiere e il ciabattino in quella vecchia casa di Via dei Greci; da dove non esce mai altro che per bevere un quarto all’osteria che è lì a due passi. Per colazione, compra le frutta ai carretti; il fornaio è vicino; e all’osteria cucinano bene il baccalà e la cicoria. Degli altri uomini egli conosce soltanto le scarpe, quando sono rotte. È buono e di una timidezza che sembra una malattia. Egli conosce tutti i suoi inquilini, ma gli è addirittura indifferente quel che facciano. Quando ce n’è uno nuovo, i primi giorni per lui è un supplizio; perché deve rispondere a tutte le domande che gli rivolgono. Quando un altro va via, egli è impaziente che lo sgombero sia finito; per evitare che gli diano qualche commissione. E non si potrebbe dire quel che prova di spiacevole quando gli lasciano il nuovo indirizzo o quando qualche persona gli chiede uno schiarimento. Non può ascoltare a lungo; sovente1 inquieto, impallidisce come se gli venisse male; e, alla fine, smette di rispondere. Non è orgoglio, ma umiltà. Lo dovrebbero sapere gli altri! Pare, invece, che nessuno lo sappia; ed egli, dentro di sé, ne soffre e fa di tutto per evitare queste occasioni insopportabili, quasi crudeli. Per lui, gli uomini sono le loro scarpe: non gl’importa d’altro. Ma anche se non 1
sovente: forse un refuso: il testo in volume reca «doventa».
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Una recita cinematografica
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gli portassero le scarpe, gli dispiacerebbe solo perché non avrebbe più modo di mangiare. Preferisce prendere due soldi di meno piuttosto che seguitare a discorrere. E prende i soldi, senza guardare in faccia; ritornando tranquillo quando lo lasciano stare. E pure, contro il suo desiderio, egli potrebbe raccontare la vita d’ogni famiglia che abita in quella casa. S’arrabbia e si rivolta se una donna di servizio tenta di sapere qualche cosa. – Non so niente io! Se ne vada! E le guarda le scarpe, per vedere se le sue toppe reggono ancora. Per lui le scarpe non sono soltanto cuoio tagliato e cucito insieme: egli, dalla forma che prendono, quando è un pezzo che sono portate capisce bene come è fatto il piede. E il piede è tutto. Quando, perciò, conosce il piede di una persona, allora si sente suo amico; altrimenti, no. Ecco anche perché egli non può essere amico della signora Pia, che non gli ha mai fatto risolare né meno una ciabatta. Egli ne ha una curiosità, che non può vincere; e non riesce a rassegnarsi. Vuol perfino bene ai suoi clienti; perché ha cominciato a voler bene ai loro piedi. Calepodio vive pensando ai loro piedi; e gli uomini, in fatti, senza nessuna eccezione, non si sono curati di fargli conoscere altro di loro stessi. La mano, per esempio, non gliel’ha data mai nessuno. Ed egli non la guarda né meno. E nessuno gli ha mai domandato chi è: vanno da lui soltanto quando ne hanno bisogno per le scarpe. Egli non s’intende d’altro. E siccome la signora Pia seguita a fingere d’essergli gentile, facendogli però sentire nella voce la voglia che ha di gabbarlo, egli un giorno pensa: «È innamorata di me. Bisogna che io mi nasconda quando passa. Non voglio che una donna s’innamori di me». E si convince che sia vero. Allora, comincia per lui una vita nuova; che lo ripugna e lo impaccia. Qualche volta, smette di lavorare e va su la porta; perché non può né meno pensare che la signora Pia stia nella stessa casa come lui. Ma né meno la domenica, per quanto non lavori, va a spasso: sta nella sua camera, a spazzarla e a spolverarla. La Via dei Greci è deserta lo stesso; ma Calepodio vede un pezzetto del Corso, tutto pieno di gente con le carrozze nel mezzo. Però, la domenica, fuma; e legge qualche giornale. Si diverte perfino a sentire il vocio dell’osteria vicina, che gli piace tanto, che ci passa ore intere senza annoiarsi mai. Però, quando si fa sera, il buio lo rattrista come se egli diventasse cieco. Le persiane che si chiudono, i lumi che si accendono gli mettono un’ansia insopportabile; che gli cessa soltanto quando rientra nella sua camera; dove il padrone di casa gli tiene una lampadina, che pare un nodo rosso che non si può più accendere. Fuori, almeno, se alza gli occhi, vede un’altra strada di stelle su nel cielo, dove forse camminerebbe meglio che in Via dei Greci. Una strada che egli vorrebbe conoscere, come se un giorno ci dovesse passare; per non tornare mai più. Che silenzio ci deve essere! Gli pare di starci; e, se non lo distrae qualcuno che passa, urtandolo, egli non ricorda più né meno dove si trova. Se bastasse risolare le scarpe per salire lassù! Ci vogliono gambe e piedi buoni! E perché non gli dovrebbe riescire ad andarci? Forse non c’è né meno bisogno di mettersi il pane in tasca; ed egli camminerà tanto, senza stancarsi, che alla fine il suo desiderio sarà appagato. Non basta fare tanti passi per quante mar-
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Federigo Tozzi
tellate ha dato su le suola? Peccato che non le abbia contate! Vorrebbe farne la somma. Ma egli ha paura di non poter continuare a vivere in quel modo: sente una insidia indefinibile, nascosta, che non si fa vedere abbastanza da capire di quel che si tratta. Un giorno, la serva della signora Pia scende giù le scale a salti, scarmigliata, gridando: – Madonna! La mia signora muore! E corre al Corso, dove può trovare una farmacia. Calepodio si fa bianco e smette di lavorare; ma non sa se debba salire. A buon conto, leva via dall’andito il seggiolino e il deschetto; perché non dia noia a nessuno. Giunge il medico, un signore vestito bene e con la catena d’oro; e, dopo una mezz’ora, Calepodio sa che la signora Pia è morta di una sincope. Egli diventa triste; non perché gli rincresca, ma perché la morte gli fa questo effetto. È così triste che non ne può più. Gli viene da piangere, e si spaventa quando quella donna di servizio gli dice che salga a prendere la misura ai piedi della signora Pia, per farle un paio di scarpe; con le quali sarà messa dentro la bara. Egli non vedrà mai quei piedi! E risponde, facendosi pigliare per uno sciocco: – Andate da un altro. – Ma perché? – Gli domanda la serva, a cui trema la voce dall’ira e dall’emozione. – Il perché non lo dico. – Egli risponde con aria d’astuzia. Ma ha un malessere nell’animo come non mai. Anche questo malessere lo spaventa; perché non sa di quel che si tratti. Ed è così triste che anch’egli vuol morire. Andrà a buttarsi nel Tevere. Gli pare che la signora Pia non debba morire sola: egli non l’ama; ma pensa che, quando muore una persona, muoiano tutti gli altri; che dovranno sparire lo stesso; o prima o dopo, non significa niente. La morte non è individuale, ma di tutti. Forse, morendo, egli troverà quella strada delle stelle; perché ci vuole coraggio a passare quel punto! Poi, il resto viene da sé. Egli ha fatto una magnifica trovata! È una trovata, che lo esalta e lo innalza; dove non sa, ma si sente più buono e più dolce; si sente già vivere in un altro modo, e non vuol tornare a dietro. Bisogna obbedire. Già è in Piazza del Popolo, perché andrà ad annegarsi dove il Tevere è più deserto; di là dal Ponte Margherita. In Piazza del Popolo, c’è un sole che pesa giù dal Pincio. Il selciato arde. Calepodio si sente stordire. Tutta quella luce, che egli non ricordava più, lo atterrisce, e gli sbarra il passo. Ma la volontà della morte non cessa; perché troppo, tutti i giorni, egli l’ha avuta. Svolta dalla Via Flaminia e, si trova al parapetto del fiume; sotto la fila dei platani. C’è la campagna arsiccia, con Monte Mario boscoso; ci sono le villette, con i loro giardini. A lui non importa niente; ma, contro quella sua volontà, vede, poco lontano, un mucchio di gente vestita come sessant’anni a dietro. Egli stupisce; e, allora, si mette a guardare. Sono attori cinematografici; e uno mette un fantoccio sul parapetto del fiume, perché dovrà fingere l’uomo che si annega: gli attori, che prima debbono chiac-
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Una recita cinematografica
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chierare tra sé, quando esso precipita, fingono di accorgersene; e accorrono gridando e spenzolandosi a guardare giù nel fiume. Si tratta, per ora, di una prova; e, quando è finita così, essi ridacchiano. Le donne, con quelle acconciature pittoresche, passeggiano; imbellettate e impazienti. Qualcuna sghignazza, nervosa. Un cerchio di curiosi si diverte e tiene gli sguardi alle più belle. Qualche attore, soddisfatto della sua parte, fuma un mezzo sigaro. Ma un signore grida, e si rimettono tutti al posto: il fantoccio è pronto, un’altra volta, sul parapetto; e pare proprio uno che vi si è arrampicato disperatamente. Un carrettiere, dopo aver bevuto a una fontanella, chiama un suo compagno: – Vieni a vedere questi scherzi! Allora, Calepodio sente una scossa in tutta la persona; gli occhi gli si gonfiano di pianto; e torna a dietro, con l’angoscia di non potersi uccidere mai più.
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IL CINEMA A TEATRO
Nino Berrini, Sandro Camasio
Il cuore dell’amante. commedia in tre atti*
persone Emma – 25 anni Ortensia, sua madre – 60 anni Nina – 19 anni Cecilia – 20 anni La «Contessa» – 30 anni Zingara – 22 anni Nannetta, cameriera di Emma *
La sarta Marco Ferranti – 25 anni Carlito – 35 anni Enrico Rivalta – 45 anni Il Cavaliere – 50 anni Il Direttore – 50 anni Richetto – 25 anni
Nino Berrini, Sandro Camasio, L’amante del cuore. Tre atti (1914), in «Comoedia», x, 9, 15 settembre - 15 ottobre 1928, pp. 32-41; poi, con il titolo Il cuore dell’amante. Commedia in tre atti, Torino, Luigi Cruetto Editore, 1931, da cui si cita (pp. 7-71). Nino Berrini (1880-1962), avvocato e commediografo, critico drammatico della «Gazzetta del popolo», poi della «Stampa» e del «Popolo d’Italia», è autore di commedie leggere di ambiente moderno, e di più fortunati drammi storici in versi (Il tramonto di un re, 1912; Il beffardo, 1919; Rambaldo de Vaqueiras, 1921), sulla scia di Sem Benelli. Sandro Camasio (1886-1913), redattore mondano della «Gazzetta di Torino», con l’appoggio di Berrini esordì a teatro nel 1909 con la commedia La zingara, scritta in collaborazione con l’amico Nino Oxilia, insieme a cui compose poi la pièce che ne consacrò il successo, la commedia Addio, giovinezza!, rappresentata a Milano il 27 marzo 1911, da cui furono ricavati nel 1915 un’operetta, con musiche di Giuseppe Pietri, e, nel periodo del muto, tre film. Alla regia del primo, firmata da Nino Oxilia (Itala Film, 1913), collaborò lo stesso Camasio. Dopo la sua prematura scomparsa, Berrini ne portò a termine la commedia incompiuta L’amante del cuore, in tre atti, rappresentata con caloroso successo al teatro Carignano di Torino il 27 aprile 1914. Il volume postumo di Camasio Faville, a cura di O. Quaglia (Torino, Lattes e C., 1921), raccoglie altri due componimenti scenici in un atto e otto bozzetti. La protagonista del Cuore dell’amante, Emma, attrice di punta di una casa cinematografica, si invaghisce del giovane metteur en scène, l’avvocato Marco Ferranti, e va a vivere con lui lasciando il suo ricco attempato protettore, Enrico Rivalta, con disappunto della madre e delle sorelle che vivono alle sue spalle. Ma l’abitudine al lusso e a una vita dispendiosa la spinge a tornare dall’amante, nonostante le intenzioni di Marco che vorrebbe sposarla. Il primo atto, riportato per intero, si svolge all’interno di un teatro di posa cinematografico durante una normale giornata di lavoro.
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Il cuore dell’amante. commedia in tre atti
Boggi – 55 anni Douglas – 25 anni Il Conte Saroldi – 25 anni Il Marchese dell’Argine – 25 anni Un vecchio
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Una bambina Una ragazza della sarta Comparse Un operatore cinematografico Macchinisti
Epoca presente – A Roma Rappresentata la prima volta al Teatro Carignano di Torino dalla compagnia di Amedeo Chiantoni il 28 Aprile 1914 per serata commemorativa di Sandro Camasio. ATTO PRIMO L’interno di un teatro di posa cinematografica. Ampie vetrate disposte a ottagono. Porte laterali. Apertura nel fondo, a mezzo. A sinistra il décor di un salotto, fatto da due spezzate. A destra un fondalino, vicino ad una grossa stufa accesa. Una macchina da presa davanti al décor. Scena prima Carlito con due macchinisti è intento a piazzare il décor. L’operatore prepara la macchina. Richetto, un bel giovinastro, in marsina, e Boggi, un ex attore imbacuccato in una stinta pelliccia, passeggiano sul davanti della scena. Douglas in marsina, fuma una sigaretta seduto cavalcioni di una sedia. La contessa in grande scollatura, colla zingara, una giovinetta dai capelli corti, arruffati, pure in décolleté, e con due comparse vestite goffamente da ballo, fanno cerchio sedute attorno alla stufa. Ridono ogni tanto sguaiatamente. A destra, accoccolato per terra, un vecchio, vestito miseramente. Vicino, una bambina, pallida, dall’aria malaticcia. Comparse vanno e vengono. Carlito (ai macchinisti che dispongono i mobili) – Più a destra… piano, piano perdio!… parlo turco?! (all’operatore) segnamo il campo? L’operatore (guardando nell’obbiettivo) – Pronto. Carlito (con un pezzo di gesso segna il campo sotto gli ordini dell’operatore che lo fa spostare a destra e a sinistra, avanti o indietro – Ai macchinisti) – Le strisce. (I due macchinisti estraggono delle strisce di fettuccia nera e le inchiodano sopra le righe tracciate dal gesso.) Boggi (a Richetto) – E quello sarebbe il campo cinematografico? Richetto – Appunto, mio caro grande attore.
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Nino Berrini, Sandro Camasio
Boggi – E gli artisti come fanno a muoversi su quel piccolo spazio? Richetto – Si arrangiano… (parla male) E poi, ci pensa il mettore in scena. Boggi – E come si fa per tagliare le gambe? Richetto – È semplicissimo. (indica) Si viene più avanti di quella prima striscia. Boggi – Dite un po’… quando si lavora si dicono delle frasi? Richetto – Perdio! Si può dire quello che si vuole, basta che lo si dica con passione. Io per esempio, quando faccio delle dichiarazioni d’amore pronunzio spesso con enfasi «quanto mi piace la pasta asciutta!». Boggi – E questa vorrebbe essere arte? Richetto – E come! State a sentire la definizione… è l’arte della plastica movimentata… L’arte di far comprendere le nostre sensazioni psichiche (pronuncia male) mediante opportuni e adorni movimenti. Boggi – Povero me! Richetto – Ringrazia S. Gervasio. Eri senza scrittura e hai trovato questa casa benefica. (Il vecchio, che ha parlato sottovoce alla bambina, la costringe ad alzarsi. La piccola si avanza verso Richetto con paura.) Bambina – Signor Richetto potrebbe farmi lavorare oggi?… (quasi piangendo) Ne ho tanto bisogno. Richetto – Birichina! «Ne ho tanto bisogno». Con quel musino lì?! (sottovoce con intenzione) Mi verrai a trovare? Bambina – Come vuole lei. Richetto – Brava… Farai carriera… ti faccio fare la gran dama… vatti a vestire subito. Bambina – Grazie… grazie… corro (dà un’occhiata al vecchio che sorride ed esce.) Boggi – Ma sei qualche cosa, tu, qui? Richetto – Io?!… Non ti accorgi dell’autorità che mi do? Sono il capo comparse. E sono pieno zeppo di noie e di donne. Boggi – E prima cosa facevi? Richetto – Ero dedito al vizio: giocavo. Ma appena surse l’arte della pellicola, la mia bella figura fece colpo e, fui ingaggiato come primo attore… E ti assicuro che ho già vestito le spoglie di personaggi celebrissimi… ho fatto due Napoleoni… ben quattro Gesù Cristi e un Pietro da Vinci. Ci vuole istruzione, mio caro, per fare il cinematografo. Boggi (accennando a Carlito) – Non te l’ho chiesto… chi è? Richetto – Come? Non lo hai riconosciuto? È Carlito, il famoso comico, filosofo gonfio di studi profondi – dice lui –. Ti fa ridere anche se non hai voglia. Guadagna come un Ministro. (a Douglas) N’est pas? Il gagne beaucoup Carlito. Douglas – Plus que moi! Et c’est une chose abominable! Richetto – Ma che abominable! Il est Italien… Et les Italiens sont toujours plus que les François. Douglas – Tu es fou! Richetto – J’ai le cerveau a post moi!
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Il cuore dell’amante. commedia in tre atti
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Scena seconda Detti e il Cavaliere Entra in scena, dal fondo, il Cavaliere, tipo di vecchio attore panciuto. Guarda affannato intorno. Fischia comicamente con un fischietto appeso al panciotto. Gli si avvicinano le quattro donne, e Douglas. Il Cavaliere – Dov’è Emma? Zingara – La prima donna non c’è ancora. La Contessa – E noi siamo già truccate dalle nove. Zingara – Già si sa… È la beniamina. Douglas – C’est la (pronunciando male) Galina de la checa…! Il Cavaliere – Ma che checca! Se tra dieci minuti non viene, la multo… Voci – Bravo! Bene! Il Cavaliere – Sono stufo… Non c’è disciplina. Carlito – Non si arrabbi, cavaliere. Boggi (a Richetto) – Cavaliere? Richetto – Gli fa piacere… e lo chiamiamo così. Il Cavaliere – Io sono padrone, anche di arrabbiarmi. Carlito – Tanto, non può lavorare. Non c’è abbastanza sole per condur fuori «la troupe». Il Cavaliere – Ma io voglio vedere i miei artisti qui, pronti ai comodi miei… e del sole… (esce) La Contessa – Emma deve sottostare… a qualche altro comodo! Zingara – Che rende più del cinematografo! (risate) Scena terza Ortensia, Nina e detti Entrano da destra Ortensia, Nina, mamma e sorella di Emma. Due tipi sfacciati. La Contessa – Oh! Ecco la mamma e la sorella… (con ironia) Signora, saprebbe dirci come mai Emma non è ancora qui? Ortensia – Non sono fatti che vi riguardano. Zingara (alla contessa) – Ma non sapete contessa che Emma non vive colla famiglia… ma in un bell’appartamentino del suo fidanzato? La Contessa (rapido) – Ah sì?… e a quando le nozze? Ortensia – Streghe! Nina – Perché voi non riuscite a trovare un amante? Zingara – Ne ho tre, mia cara! La Contessa – E non abbiamo bisogno che gli amanti delle nostre sorelle ci mantengano!
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Nina – Vipere! Ortensia – Rispettate la mia figliola! Carlito – Finitela! La Contessa – Povera madre! Zingara – Così affaticata nel fare la réclame delle sue figliole! Carlito – Basta adesso! Contessa – Toh! Il Cavaliere difensore! Zingara – Tutti innamorati di Emma… Mi fate pena! Douglas – Emma c’est la plus belle! Contessa – Sentilo il francesino… Zingara – Carlito, non vai in sollucchero? Contessa – Tu che sei il suo cane bouldok! Carlito – Se non la finite donnette, la va malino… (a Douglas) J’ai la volonté pazza (sbagliando ed infiammandosi) de la ciaper par la gorge e de la fracassé per la terre come una frittata di uova marce! Zingara – Amen! Contessa – Don Chisciotte! Carlito – Contessa abusiva e fuori quadro. Contessa – Villano! Rispettate i miei titoli. Carlito – Quali! Quelli che ha lasciato sul biglietto da visita uno dei tuoi cento… mariti? Contessa – Mascalzone! Io faccio del cinematografo per guadagnarmi il pane con onestà…! Carlito – E il companatico, senza. Contessa – Vigliacco! Farabutto! Carlito – Contessa… arrivano due sberle democratiche!… (La contessa si slancia su Carlito che l’afferra per la vita e l’alza da terra. Zingara per volere aiutare l’amica, ha la stessa sorte con Richetto. Le due donne sgambettano ed urlano. Gli altri le deridono.) Scena quarta Il Direttore e detti Entra il Direttore di teatro, dall’aspetto imponente. Tutti si fermano. Silenzio. Il Direttore – Cosa c’è? Boggi (a Douglas) – Chi è? Douglas – C’est le Directeur du theatre. Il Direttore – Lasciatele andare, su… Contessa – Ci hanno insultate… Zingara – Con chi credono di trattare?
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Il cuore dell’amante. commedia in tre atti
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Il Direttore – Basta! basta! Vi ho già detto che non voglio baccano e pettegolezzi… E basta. (silenzio) Voi, Carlito, non «girate?». Carlito – Sì, termino il decoro e vado a vestirmi. Il Direttore – Fate presto… Ho bisogno dei macchinisti (esce – Le ragazze, dopo essersi scambiate con Carlito dei gesti comicamente minacciosi ritornano vicino alla stufa.) Carlito (a Ortensia e a Nina) – Non dite niente a Emma… Ma sul serio. Non fate le chiacchierone come al solito eh?! (si accinge a terminare il décor.) Scena quinta Emma e detti Entra dal fondo Emma, elegantissima, in pelliccia. È vivace, ansante per la corsa fatta. Tutti gli uomini le si affollano attorno. La fanciulla li saluta con dei «buon giorno». Douglas le bacia una mano, Carlito l’altra. Emma – Grazie… grazie. Mi soffocate! (vedendo la mamma e la sorella) Come mai siete qui? Ve l’ho già detto mille volte che non voglio che veniate nello stabilimento… Poi quando vengo a casa, non è mai pronto niente di caldo. Ortensia – Emmuccia, non essere cattiva! Nina – Noi siamo così buone con te! Carlito (a Emma) – Perché sei così in ritardo? Emma – In ritardo? Ma di quanto? Carlito – Perché sei così rossa? Emma – Ho corso… sono venuta a piedi. Carlito – Perché sei venuta a piedi? Emma – Perché? perché? sei il mio confessore tu? Carlito – Il cavaliere è furibondo. Emma – Lo affronterò… e mi difenderò… Douglas – Et moi! Emma – Bravo! Richetto – E anch’io! Emma – Bravissimo! Il Cavaliere (entrando) – Dov’è, dov’è? Ch’io le tiri le orecchie… Emma – Eccomi qua. (velocissima) È vero che Lei è furibondo? È vero che mi vuole sgridare? È vero che mi vuole multare? Ma non sa, che se Lei si permette di far questo a me, io non le vorrò mai più neppure una briciola di bene e… e non le farò mai più neppure una carezza… e mai mai mai più un bacino…? (lo accarezza a poco a poco. Il cavaliere si confonde ed Emma finisce per tirargli quasi il naso e scoppiare in una bella risata.) Il Cavaliere – Furfantella! Su, presto, prepàrati…
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Emma – Lavoriamo? Il Cavaliere – Sì, se viene fuori il sole… (esce) Emma – Mammetta, Nina… andatemi ad aprire il camerino e preparatemi tutto… la vestaglia, i riccioli…, i nastri… (le spinge via) Ma presto, presto… Voi, Richetto, fatemi dare dal direttore una scatola di trucco, ché non ne ho più… e portatemela in camerino… subito… subito eh! E voi Douglas fatemi il piacere, andate dalla sarta e fatevi dare due spille da balia… portatele alla mamma, ma tout de suite (li ha allontanati ad uno ad uno con gran velocità. Douglas rimane, non capisce) Non capite? Mon Dieu! Comment dit’on? Carlito – Chi lo sa? Regardez. Comme ça… comprenez vous? (spiega a Douglas come sono fatti gli spilli da balia con gesti comici. Douglas comprende e se ne va) Enfin! Scena sesta Carlito e Emma Emma – Ah! Eccoci quasi soli. (a Carlito) Manda via i macchinisti e l’operatore… Carlito – Ho ha lavorare. Emma – Due minuti. Bè, lasciali stare e vieni qui (Lo conduce in avanti e lo fa sedere su di una sedia. Si siede anch’essa accanto.) Non sono mica allegra sai. Tutt’altro. Avrei voglia di piangere di rabbia. Carlito – Che cosa ti hanno fatto? Emma – Una cosa terribile. Carlito – Mi spaventi, parla, su… Emma – Mi hanno fatto un affronto. Tu devi vendicarmi. Carlito – Un affronto? Spiegati. Emma – Sai, l’avvocato Marco… Carlito – Chi? il nuovo metteur en scène? Emma – Sì. Lui. Ieri sera ha distribuito le parti della prima film che mette in scena. Sai chi ha scelto per protagonista? La «zingara», quella là (l’accenna) con tutti quei capelli corti color carota… Ma dimmi tu come può fare una principessa?… Ed io chi sono? Perché mi ha scartata? Che cosa si crede? Perché è un avvocato, forse? Parla malissimo… È un villano, proprio un villano… E si dà delle arie… Ha un sorriso così, da Mefistofele (fa una smorfia comica) che fa ridere… non lo posso vedere, mi è antipaticissimo… Carlito (ride e si frega le mani) – Bene… bene… Emma – Che hai? Carlito – Nulla… è la fatalità… c’est la fatalité, toujours la fatalité… (continua a ridere) Emma – Impazzisci? Carlito – Doveva essere così. Ed io ne godo. Tu non puoi capire… Vedi: io sono brutto e non piaccio alle donne. Ma sono convinto che l’amore non è
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Il cuore dell’amante. commedia in tre atti
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che una tortura per gli uomini. Così, quando una di voi attira nel suo regno un mio simile, io rido, e ne godo perché penso: «tu credi di essere fortunato perché una donna ti apre il suo paradiso? Disgraziato… soffrirai come un dannato, non avrai un minuto di pace, urlerai dal dolore…; ma sei bello… ma piaci… ma sei amato…». Ah? Che bella cosa essere brutti! Emma – Impazzisci sul serio? Carlito – Sei proprio innamorata dell’avvocato? Emma – Ma cosa dici? Carlito – Su, via, non fare l’ingenua. Io sono uno psicologo. Le fiuto certe cose. Emma – Prendi un granchio. Carlito – Vedi? Hai gli occhietti che brillano… Ci siamo. Povero ragazzo! Me lo innamori e tu, forse, non hai che un capriccio. Emma – No, non è un capriccio. Hai indovinato prima. Penso sempre a lui. Non mi annoio più. Vivevo come una bestiola senza cuore e senza desiderii, ed ora mi sento un’altra, rinata, rinata sono… tu sai che io voglio bene a Enrico? Ebbene, da che mi sembra di amare, lo tratto con una freddezza! Carlito – Pensa, pensa a quello che fai. Emma – Per carità, per carità non farmi pensare… È così bello lasciarsi andare nella corrente senza scrutare mai troppo avanti, senza pensare soprattutto… non vengono le rughe… Dimmi: gli potrò piacere? Carlito – Domàndalo agli specchi che hai consumati. Emma – Stupido… Voglio, che s’innamori di me… Carlito – Credi proprio che tutti ti cadano ai piedi? Emma – Io mi accontento di uno solo. E gli darai tu la spinta. Carlito – E come? Emma – Gli dirai intanto che sono addoloratissima per l’affronto. Carlito – E poi? Emma – E poi lo preghi di dare a me la parte. Carlito – E poi? Emma – E poi… se mi vuoi bene… Carlito – Vi aiuto a fare la bestialità. Emma – Che? Carlito – A consumare un tradimento… Bene… doveva essere così… Tu eri troppo un bel pomo d’oro pendulo sopra questo semenzaio di farfalle inzaccherate… e Adamo ti coglierà… c’est la fatalité… Emma – Mi accontenti? Carlito – Sì. Emma – Buono! Carlito – Non ringraziarmi. Ti faccio questo bel servizio, per una vendetta personale contro l’umanità… Nell’unirvi, vi faccio del male: soffrirete anche voi! Emma – Zitto! Eccolo…
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Scena settima Marco e detti
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Entra Marco. Si avvicina alle quattro ragazze. Emma – Non mi guarda neppure, cretino! Carlito – Cretino? Emma – Si fa così per dire… Il resto è tutto sottinteso: volevo dire: genio, tesoro, amore…: mi raccomando…! Carlito – Lascia fare a me… lo abbindolo… Il Direttore (comparendo a destra) – Signorina Emma, è pronta? Emma – Pronta! Ma guarda come fa la civetta la contessa… Carlito – Vatti a vestire… Emma – Mi raccomando… la parte a me… se no, guai. (Esce guardando Marco) Carlito (ai Macchinisti, che nel frattempo hanno finito) – Siete liberi… andate dal direttore… Carlito (parla da sé, studiando la scena) – Dunque… io faccio così… poi così… non mi scompongo… oh! no! Rimango imperturbabile… respiro con fatica… e… Scena ultima Carlito e Marco Carlito (si ferma, vedendo Marco che si è avvicinato e lo guarda) – Avvocato non si spaventi. Marco – E perché? Carlito – Per i miei gesti… Preparo la scena… C’entro io solo… E lei quando incomincia la sua film? Marco – Presto, spero fra due o tre giorni. Carlito – E si trova bene in questa baraonda? Marco – Sì, è un lavoro geniale, mi piace… Carlito (pausa) – È strano però che un avvocato faccia del cinematografo… mi perdoni! Marco – Non è strano. Sono solo al mondo. Debbo vivere. Non ho rendite. Come faccio? Carlito – E perché non esercita le sua professione? Marco – Perché, mio caro, l’ho già esercitata per due anni… e se continuavo, il mio capo ufficio era disposto a darmi, dopo l’esame teorico-pratico, uno stipendio fisso di… fame, ogni mese! Per mia fortuna avevo già fatto rappresentare qualche commedia… avevo fatto studi di arte drammatica; sapevo mettere in scena: e venni qui… a migliori condizioni! Carlito – Ma potrà abituarsi a rimanere in quest’ambiente?
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Il cuore dell’amante. commedia in tre atti
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Marco – E perché no? Carlito – Ha guardato bene intorno? Ogni volta che si esce di qui, bisognerebbe fare un bagno nel sublimato. Questo è il rifugio di tutti i rifiuti e di tutti i disastri morali, artistici, fisici e finanziari… È l’asilo di ricovero dei vecchi attori e la villeggiatura dei grandi e piccoli artisti che vogliono far quattrini… È lo scolatoio di tutte le donnine cui la vita allegra non può soddisfare tutti i capricci o tutta la fame… È il ricettacolo dei falliti, di stranieri dai nomi falsi, di nobiltà posticcia… Vede, qui, abbiamo delle demi-mondaines che per vanità di vedersi sulle réclame fanno di tutto… le sirene, le donne serpenti, si gettano in acqua d’inverno e fanno esercizi sui trapezi… Abbiamo dei «Bel-ami» dalla pelle dura, che si scaraventano da un treno in corsa o da un secondo piano, con la massima semplicità… E abbiamo poi un miscuglio di sventurati che fanno dei «cachets» cioè delle comparse…1 Insomma questa è una tettoia dove tutti quelli che hanno i piedi sporchi o il resto, vi si riparano, perché non le esigenze dell’industria, ma perché l’arte – dicono loro – li chiama con tutti i suoi fascini voluttuosi. Marco – Allora secondo voi… qui non c’è che della marmaglia? Carlito – Ci sono delle eccezioni… Io… Lei… la signorina Emma per esempio! Non le pare? Emma è un fiore così delicato, che talvolta, nel vederla lambita da tutta questa acqua sporca, ho paura che un colpo di vento la trascini via. Sarebbe un delitto… Marco – Fatele la guardia! Carlito – Ho paura ripeto… come di un tesoro non troppo ben custodito e facile ad essere rubato. (si ferma di colpo) Pardon, lasci ch’io la osservi bene… (un tempo. Guarda Marco con intensità comicamente severa. Sospira) C’est la fatalité… Lei ha tutti i requisiti per essere un meraviglioso ladro. Marco – Cosa dite? Carlito – Bel giovane, aria alla Jacopo Ortis, intelligente, pochi denari: Un ladro tipo. Marco – Scherzate? Carlito – No! Dico che Lei è della razza dei ladri d’amore. Ed io godo e rido. Lei appartiene a quella categoria di uomini che rubano, ai signori, le loro amanti, vendicando in tal modo il popolo. Sì, perché, quasi sempre queste stelle, queste meteore, queste mondane… erano in origine delle sarte, delle modiste, delle stiratrici alle quali il barbaglio del lusso ha fatto fare il tonfo…; ma tutte queste belle creature, che sono state tolte alla bassa borghesia, sentono una strana nostalgia, uno strano, indefinibile desiderio di vendetta contro i loro padroni… e li tradiscono, li tradiscono in un modo delizioso… Ora, io, quando mi trovo dinnanzi a un furto di tal genere, gioisco tutto… e dico al ladro: «ruba! ruba! ché l’amore rubato è il più bello… ché l’amore senza responsabilità è il più saporito… e quan-
1
L’edizione in rivista del 1928 aggiunge: «comparse; hanno una religione, sono tutti ardenti feticci cioè adorano il sole perché senza di esso non sbarcano – oh ironia! – il lunario…!».
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do vedi passare in automobile la donnina che hai in società cooperativa, pensa: lui dà l’automobile, il lusso… ma io do l’anima, do l’amore… sono il più forte…»! Marco – Avete fatto un bel discorso, ma io non ne ho capito niente. Carlito – Una domanda ancora: Lei è un sentimentale? Marco – Che razza di domande! Carlito – Voglio dirle questo. Se Lei è un giovane che prende l’amore sul serio, rubando, probabilmente, si farà certe lacerazioni…; quanto sangue… vedo…; sarà una cosa divertentissima…! Marco – Volete finire di parlare a enigmi?! Carlito – Ebbene attento, parlo chiaro: la signorina Emma crede di essere innamorata di Lei. Marco – Mi piace quel crede! Carlito – Santo Dio. È nervosa perché non le ha dato la parte… è furibonda perché Lei non la guarda mai… insomma vuole e riuscirà…! e sarebbe da idioti perdere un frugolino così. Marco – Vuol dire che cercheremo di non essere idioti… Carlito – Da bravo… faccia la bestialità… Marco – La bestialità? Carlito – Perché innamorarsi è sempre una bestialità. Si soffre troppo. Ma io non so che tipo Lei sia e non parlo più. Mi auguro solamente che il furto avvenga e sono pronto a mettermi alla finestra per stare attento alle guardie… e far lume, se occorre. Marco – Adesso basta! Parliamo seriamente (una pausa) E, ditemi: voi la conoscete bene, che tipo è? Carlito – È una buona ragazza che ha un amante serio, più che quarantenne, molto ricco… un padre accidentato, due fratelli fannulloni, una madre noiosissima, una sorella terribile, tutte e due amoralissime, con due lingue che nessun sistema metrico potrebbe misurare, circondata da una schiera di corvi, che dilapidano il guadagno artistico e non… artistico di Emma… Marco – E la Signorina Emma non vede… non sente… non ne soffre? Carlito – Non credo. È leggera… leggera… È un bel vuoto, una eco, sì, un’eco… Se Lei dice: amore, risponde amore… un altro dice: oro, risponde: oro! oro! (pronuncia in fretta) Marco – Siete feroce! Carlito – No! Sono leggi della fatalità… Ma Lei non ci pensi e rubi, rubi e si diverta… Marco (mutando) – Io credo che fin’ora avremo scherzato. Carlito – Ho parlato sul serio. Emma è invaghita di Lei… Marco – Mi dispiace, ma non faccio il don Giovanni di professione; abbiamo parlato così accademicamente, ma ora basta; e vi prego di non insistere più su queste sciocchezze. Carlito – Davvero? (con ironia) Marco – Davvero. Carlito – Io ho lanciata la freccia… vedremo…
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Marco (al vecchio che mangia con avidità del pane) – Buon appetito. Il Vecchio – Non le dico: posso offrire… Marco – Oh! grazie… Come mai tanto appetito? Il Vecchio – Veramente, è quasi fame…: ieri speravo di fare il Re di Francia, quello vecchio e invece mi hanno messo da parte, non ho guadagnato ed ho dovuto saltare… ecco perché ho fame… Marco (a Carlito) – Non capisco! Carlito – È un saltimbanco gastronomico… salta i pasti… non ci badi: è la miseria. Operatore (a Carlito) – Giriamo questa scena? Carlito – Subito. Vado a vestirmi. (a Marco) Pardon (esce; da destra esce la bambina vestita goffamente da dama. Le donne la beffano.) Zingara – Questo vestito è troppo stretto per te! Una Comparsa – Quanti anni hai! Sette? Contessa – Poverina… si vedono troppo gli ossicini! Bambina – Oh! Lasciatemi stare… Il Vecchio – Non ci badare piccola! scherzano… qui si fa tutto per finta…! hanno uccisa la verità, perché parlava troppo e dava noia…! Il Cavaliere (entra) – Venite qua. (tutti si avvicinano) Dunque voi siete dei gran signori… faccio così per dire, s’intende… Siete nel giardino del castello… Quando a un tratto sulla balaustra compare la duchessina tisica… coi capelli sciolti… che cammina come un’allucinata… vi prende un tremore e ognuno di voi fa «ah! che vedo!» e correte verso di lei terrorizzati… Mi raccomando quell’«ah! che vedo!» che si debba capire col gesto eh! Ma proveremo sul posto… andate pure… c’è l’automobile… (forte) Emma! Ortensia (uscendo da destra) – Viene subito cavaliere. Il Cavaliere – Ma io non posso aspettarla… (a Marco) Mi faccia il piacere, le dica che la manderò a prendere fra una mezz’ora… Tanto prima debbo fare un’altra scena. (esce. La zingara, la contessa, le due comparse, il vecchio e Douglas son usciti dal fondo parodiando i gesti del cavaliere.) Ortensia (a Marco) – Vedesse com’è carina! Un angelo! Nina (uscendo) – Andiamo mamma?… Ortensia (a Marco) – E qui la pagano poco (accelerando sempre più il dialogo) Nina – Oh! niente! Ortensia – E mette certe toilette che costano un occhio della testa! Nina – La mamma fa dei sacrifizi! Ortensia – Oh! Io son tutta per le mie figliole! Nina – Anch’io lavorerei… ma voglio fare la prima donna! Ortensia – Sicuro. O ti prendono come prima donna o ti tengo a casa… Nina – Capirà, è un mestiere faticoso! Ortensia – Lavorare mezze nude e all’aria aperta! Nina – Se non c’è un po’ di soddisfazione morale! Ortensia – Ma sì, povere piccole… (entra Emma; guarda Ortensia e Nina che sono vicine a Marco.)
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Nina – Andiamo mamma? Ortensia – Subito. (a Emma) Ti preparo il risotto, Emmuccia. (Emma non risponde; le due donne escono.) Marco – Il cavaliere mi ha incaricato di dirvi, che vi manderà a prendere tra mezz’ora. Emma – Grazie. Meglio così… debbo ancora truccarmi… vorreste essere così gentile di aiutarmi? (Emma consegna al giovane la scatola dei trucchi. Si ritirano nell’interno del décor.) Marco – Che cosa debbo farvi? Emma – Gli occhi. Marco – Farò i più belli occhi che abbia veduto. Copierò i vostri. Emma – Siete gentile… per la prima volta! Marco – Vi sbagliate. Lo sono sempre. Lavoriamo. Un buon metteur en scène deve saper truccare… (eseguisce collo sfumino) Così? Emma – Piano, piano, mi fate il solletico. Marco – Non ne avevo l’intenzione! Emma – Ora mi fate lacrimare… Marco – Lo vorrei… Sono così indefinibili i vostri occhi quando piangono! Emma – E come lo sapete? Marco – L’altra sera, a teatro, eravate in un palchetto di destra… All’ultimo atto, quando i due amanti si lasciano… vi siete stretta nelle spalle, come se un brivido di nostalgia vi strisciasse nell’anima e i vostri occhi piangevano senza che una vostra mano li asciugasse… ed eravate bella, ed io non so che avrei dato per essere nell’ombra, vicino a voi per… Emma (protesa) – Per?… Marco (mutando) – Per contare il numero delle vostre lacrime e giocarle al lotto. Porta fortuna, non sapete? Emma – Sciocco… Dicevate delle cose così graziose e le avete troncate con una banalità. Marco – Perdonatemi… continuiamo? Emma – Aspettate, mi sciolgo i capelli… debbo comparire coi capelli sciolti… (eseguisce avvicinandoli a Marco) Non vi piace il mio profumo? Marco – No! È troppo forte! Emma – Volete che lo cambi…? Anche a me non piace più. Marco – Tutti i profumi m’irritano. Emma – Anche a me… Li abolirò tutti. Marco (sorride) – Come siete bambina! Emma – Su, fatemi le gote infossate… Debbo essere ammalata. (con intenzione) E lo sono! Marco – Non si direbbe. Emma – Di cuore! Marco (indifferente) – State ferma. (eseguisce) Va bene così? Emma – Sì, benissimo… Marco – E allora vi lascio.
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Il cuore dell’amante. commedia in tre atti
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Emma – No: tenetemi ancora compagnia. Marco – Non posso. Emma – Vi prego… vi prego a mani giunte… Marco – Ma che cosa volete da me? Emma – Voi lo sapete? Mi avete scartata nella vostra film. Marco – Ah! Mi chiedete una parte…! Emma (con passione) – Zitto… Non vi chiedo nulla… Sono io che soffro invece e che vi dico: vi voglio bene! Marco – Non dite sciocchezze! Emma – Sarò una povera sciocca! ma è così! Marco – Voi siete un meraviglioso oggetto di lusso raro, attraente, squisito, sul quale si fermano gli occhi accesi degli uomini e davanti a cui pulsa il cuore agitato dai desideri… Ma non siete per me. Emma – Ditemi che mi amerete. Marco – Come siete civetta! Come siete donna! Ma non capite che noi percorriamo due strade diverse: io un piccolo sentiero modesto e in ombra, e voi una bella via soleggiata dal lusso, dalla ricchezza e dal piacere? Sì, sarebbe un bel sogno. Ma io non voglio sognare. Emma – Ebbene io, che non so che cosa sia la volontà e che non penso mai, che cammino bendata, pure tutte le sere, prima di addormentarmi riesco ad impormi un sogno così bello, così bello se sapeste?… Lo volete? Marco – Se è così bello non bisogna raccontarlo… Emma – Per voi faccio un’eccezione… E poi è breve! Tutte le notti una bocca mi dà un bacio, uno di quei baci che dànno la sensazione doppia; della felicità e del nulla… quella bocca è la vostra… no, non allontanatevi… io sono una povera ragazza sfacciata, immorale se volete, vorrei pregarvi… sì… di realizzare il mio sogno… datemi un bacio… uno solo, uno di quelli che mi date tutte le notti… Marco – Siete pazza. Emma – O forse non sapreste darmelo così bello… e dal confronto ci perdereste troppo…? (lo guarda con tenerezza e con ironia.) Marco (si allontana poi ritorna inavvertito e la bacia violentemente. Carlito li sorprende. Tossisce, ride.) Carlito – Bene… bene… bravi… la bestialità incomincia… C’est la fatalité… Toujours la fatalité…! Operatore, pronti… Largo signori… tocca a me! (giunge l’operatore che si prepara a girare. Marco e Emma si mettono da parte. Si avvicinano altre comparse. Fanno ala intorno al décor.) La mania della disinfezione! Pellicola comica – Tupinetti è igienista, disinfetta tutto! (Carlito che è vestito comicamente ha un soffietto contenente della polvere giallognola… Egli disinfetta tutto: la sigaretta, gli abiti, il cappello, ecc… con movimenti grotteschi… perfino la maniglia della porta.) tela […]
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Nino Martoglio
L’arte di Giufà. bizzarria comica in tre atti*
Personaggi Pepè Moscardino (Giufà) Mimì, sua moglie Liberino, suo cognato La Signora Rachele, sua suocera Il Direttore della Sicula Films La Sparapaoli, diva dello schermo Caciotta, divo come sopra Il Conte Smiciaciato, grande metteur en scène cinematografico. Romeo, usciere Sciurtinisi, attore di posa L’Almarosa, attrice id. La Gianfrè id. id. La Tuppini id. id. La Ciolli id. id. L’Avvocato Sbenta Pinetti, direttore di scena Una serva di casa Moscardino L’Agente inglese (non parla) La scena si svolge in una grande città siciliana, ai giorni nostri. *
Nino Martoglio, L’arte di Giufà. Bizzarria comica in tre atti (1916), in Teatro dialettale siciliano, vol. V, Catania, Giannotta, 1919; si cita dalla 2a ed., 1928, pp. 111-118, 133-151, 201-210, 224-242 (atto I, sc. vvi; a. III, sc. vii, xiii-xiv). Scritta per Angelo Musco, la commedia andò in scena al teatro Argentina di Roma l’11 novembre 1916. Pepè Moscardino, detto Giufà, è scritturato come attore comico dalla Sicula Film, dopo un insolito provino, per le sue eccezionali capacità umoristiche. Con lui è assunto anche il cognato, mediocre letterato, come soggettista. Giufà diventa presto l’uomo di punta della Casa. Ma piombano nello stabilimento la suocera e la moglie, risolute a fargli lasciare il lavoro, dopo aver saputo dell’atteggiamento dongiovannesco del congiunto verso le belle colleghe. Per salvare la situazione, il Direttore propone di scritturare anche loro due; Giufà va oltre: fonderà la Moscardino Film, in cui lavoreranno tutti insieme. Nino Martoglio (1871-1921) ha diretta esperienza del lavoro cinematografico: in anni di grande successo per lui come drammaturgo (San Giuvanni decullatu, 1907; L’aria del continente, 1915) e come direttore della Compagnia teatrale siciliana, con attori come Giovanni Grasso e Angelo Musco, aveva fondato nel 1914 a Roma la Morgana Film, con l’intento di mettere in scena opere dei maggiori scrittori italiani (di quell’anno è Sperduti nel buio, dal dramma omonimo di Roberto Bracco, ma la Casa ha breve esistenza).
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L’arte di Giufà. bizzarria comica in tre atti
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Note illustrative sui personaggi della Commedia Giufà In Sicilia si dice Giufà a uomo soro1 e nello stesso tempo lepido e bizzarro, allo scemo scaltro e furbesco. Alcuni vogliono che il nome derivi dall’arabo, e appartenga a una vecchia maschera dell’Arabia Felice. È più probabile, però, ch’esso derivi da qualche celebre scioccone detto Giovanni, indi Giuvà e per corruzione Giufà. L’autore ha voluto, con queste scene, parodiare la cosiddetta arte cinematografica, fatta, secondo lui, di goffaggini e di trucchi, esercitata in genere, da tronfie nullità prive di gusto e ricche di volgari risorse. Pepè Moscardino (Giufà) Tipo di perfetto imbecille – nel primo e nel second’atto – è, non di meno, capace di pensate e motti lepidi e furbacchiotti. Trasandato nel vestire e nella toilette, attaccaticcio con la moglie e, in genere, con tutte le donne, che guarda con occhio cupido, come volesse possederle tutte con lo sguardo. Nel terz’atto diventa un altro: elegante, disinvolto, si dà delle arie da grand’uomo e da conquistatore… Non di meno ama sempre la moglie, benché la tradisca sfacciatamente, ma senza malizia. Sincero per tendenza e arrendevole, lepido e grassoccio. Mimì Bella e giovane signora, ma di carattere debole e nervoso. Si lascia influenzare e trascinare dalla madre. Parla sempre con enfasi e gesticola con gesto largo, a uso degli attori melodrammatici e di quelli di posa, esagerando la realtà di tutte le cose, per tendenza all’iperbole. Liberino Giovane vuoto e vanesio. Si atteggia a letterato e si reputa un Padreterno. Veste con ricercatezza ed è pieno di sufficence [sic], nel gesto e nel parlare; ma, in fondo, un povero di spirito, di nessun ingegno e di nessuna capacità. Donna Rachele Donnone sui cinquant’anni, autoritaria e enfatica come la figlia. Essa è il capo riconosciuto e tiranno della casa. Il Direttore generale della Sicula Film Uomo spregiudicato, sulla cinquantina, elegante e cortese, buon parlatore, senza fumi, senza cerimonie, che va sempre al sodo. Pronto alla parata, furbo, scettico, scaltro, abituato a sfruttare i suoi scritturati, pur facendo vedere di colmarli d’oro, 1
soro: sprovveduto, ingenuo.
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Nino Martoglio
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facile a lodarli e a incensarli per ottenerne favori, o a trattarli duramente, come a subirne i ricatti con filosofica rassegnazione, o a gittarli alle ortiche quando più non gli servono. Sa simulare e recitare superbamente, e sa darla a bere a tutti. La Sparapaoli Diva dello schermo, venuta su dai bassi fondi e assurta ai fastigi della gloria effimera della cinematografia. Veste con grande sfarzo, ma con poco gusto; è la vera villana rifatta, presuntuosa e sguaiata. Ha un incedere da sovrana e un grande disprezzo per tutto ciò che non la riguarda e per tutti quelli che non sono alla sua altezza o non la incensano… Parla affettando la erre francese e tira sfondoni da fare accapponar la pelle. Caciotta Bel giovane attore di posa, elegante e ricercato, che ha lasciati gli studii per la cinematografia, dove ha fatto voli giganteschi che lo hanno insuperbito e reso vano e stucchevole. Il Conte Smiciaciato Grande metteur en scène della Sicula film. Nobile spiantato e ignorante che, a furia di consumar pellicole, si è fatta una competenza in materia di inscenature e di trucchi, ottenendo un successo tale da ubriacarlo e convincerlo d’essere un grande artista che il mondo intero ammira e segue nelle sue nobili fatiche. Romeo Tipo di popolano siciliano, cui il contatto continuo con gente del Continente, che parla l’italiano, ha dato in testa. Egli vuole e crede di parlare la lingua, e per il posto che occupa, di usciere addetto alla direzione generale, pensa di essere un’autorità e di dover esercitare rigore. Sciurtinisi Tipo di giovane allegro e faceto, che fa l’attore di posa per scanzare [sic] fatica ed è sempre disposto a ridere alle altrui spalle. Pinetti Direttore di scena. Toscano cui piace lo scherzo, ma cui preme molto il quieto vivere. L’Almarosa e la Gianfrè Simpatiche ragazze, più o meno allegre, piovute da Torino in Sicilia, scritturate come generiche utilité presso la Sicula film. Spregiudicate e generose, specialmente coi compagni d’arte.
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L’arte di Giufà. bizzarria comica in tre atti
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La Tappini e la Ciolli Figuranti siciliane, ma da lunga pezza evolute e assimilate alle due di sopra. Sono, però, di quelle, meno facili e più interessate. L’Avvocato Sbenta Distinto, giovane signore pieno di spirito e d’ironia, che frequenta lo stabilimento della Sicula film a scopo di curiosità e di studio d’ambiente. Egli è mal compreso perché troppo fine ed acuto. Donna Rosa Serva di casa Moscardino. Sempliciona e modesta. L’agente inglese Questo personaggio, che non parla, è il tipo comune del viaggiatore di commercio inglese. Veste correttamente e senza speciali indumenti, allo infuori dell’eterna pipetta in bocca. Esso è completamente sbarbato, calza i guanti e porta le ghette. atto primo Tinello in casa Moscardino – Comune in fondo, uscio sulla sinistra e uscio sulla destra – Una tavola in centro, una credenza, un buffet, un’ottomana, una scrivanietta da signora; tutto mobilio comune, ma nuovo, e ben tenuto. […] Scena V Pepè e detti [Donna Rachele, Mimì, Liberino] Mimì (rientrando, con Pepè, tutto impolverato, rosso come un pomodoro, madido di sudore) – Ma chi ti successi? Pirchì torni a ’st’ura? Unni ha’ statu?… Pepè (senza rispondere e senza togliersi il grande cappello tosto, si butta a sedere sull’ottomana, stanco morto). Mimì (osservandolo bene) – Madonna mia, comu si’ stancu e sudatu!… Ma chi ti successi?… Cc’ha’ fattu? (non ottiene alcuna risposta e corre a prendere un asciugamani, mentre Liberino, osservando il cognato, ride, ride). Donna Rachele – Levati ’ssu cappiddazzu, dintra! (fa per levarglielo). Pepè (scostandola, premuroso) – No, ca m’arrifriddu!… Mimì (mentre gli asciuga il sudore, coll’asciugamani, e lo spolvera, sopra sopra) – Ccu ’stu caluri?… Tutti cosi chiusi ci su’ (fa per levargli il cappello, alla sua volta).
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Nino Martoglio
Pepè (scostandola e calcandosi il cappello sulle orecchie con difficoltà, come se incontrasse ostacolo). – M’arrifriddu, vi dissi. Mimì – Quantu sentu: dici ca ti vìttiru ’nt’a strata ritta, c’assicutavi ’n’automobili?… Dimmi ’a virità, oh!?… (lo guarda negli occhi). Donna Rachele – Quardalu ’nt’ ’o nasu, Mimì… Mimì – Già divi essiri veru, pirchì si’ riduttu ca pari un pagghiazzu!… Liberino – Pari c’ha fattu ’a cursa d’ ’i ’imbriachi!… Pepè (guarda prima Liberino, poi Mimì, facendo un sorriso mezzo idiota e mezzo malizioso). Mimì – Ridi, ma non rispunni!… Va, assèttati a tavula, ca cridu ca ’a dibulizza è tali ca mancu hai armu di parrari. Pepè – Non mangiu. Donna Rachele – Non mangi? Dopu dicerott’uri ca non tasti l’acqua? Pepè – Non mi cala… Mimì – E chi ci pigghiò, chi appi?… Ma ’nsumma, si po’ sapiri chi ti successi?… Senza diri minzogni, oh, ca ti staiu guardannu ’nt’ ’o nasu!… Pepè (dopo breve silenzio, col solito sorriso idiota) – Facili ca trasu!… Donna Rachele (con gioja) – Daveru?!… Quantu sentu, quantu sentu?… (a Mimì) ’U vidi, tu ca ti pinnavi tutta!… Senza nesciri fora di casa, ’stu criaturi, unni avìa a tràsiri?… (a Pepè) Bravu!… E unn’ è, ca trasi, ’nt’ ’o ghiacciu?… Liberino – Già, ca era pisci!… Pepè – No. Donna Rachele – E allura unni, ’nt’ ’o petroliu?… Liberino – Bonu!… Ca era quasetta di lumi!… Mimì – Senti, ’nt’ ’o petroliu ci putissi tràsiri tu, comu un stuppinu di balluni, ca poi ci damu a focu e accussì sulu po’ acchianari autu, comu vo’ tu!… Liberino – Pirchì parri ccu mia: ’a mamà, ’u voli fari trasiri ’nt’ ’o ghiacciu e ’nt’ ’o petroliu!… Iu, ppi mia, a Pepè, ’u mittissi ’nt’ ’o gileppu, comu ’i pira ’ncunfittati!… Donna Rachele (mentre Pepè guarda Liberino con occhio torvo) – Quantu siti ’nsursi, tutti dui!… Sentu diri ’nt’ ’a fabbrica d’ ’u ghiacciu o ’nt’ ’a raffinaria d’ ’u petroliu (a Pepè). ’Nt’ ’a raffinaria? Pepè – No. Mimì (impaziente) – E allura unni? Pepè – ’Ntà ’na fabbrica artistica. Mimì – Mobili Ducrot?… Donna Rachele – Fabbrica di mandolini?… Liberino – Nenti, nenti, ’u ’nzertu iu: Ceramica di Cartagiruni. Pepè (seccato) – No, artistica d’arte, caru cugnatu… Fabbrica d’arte. Liberino (incredulo) – Tu? Pepè – Pirchì, non sugnu bonu? Mimì – Ma ’nsumma, chi fabbrica è?… Pepè – Di cinematografia.
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L’arte di Giufà. bizzarria comica in tre atti
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Liberino – Sicula Film? Pepè – Precisamente. Donna Rachele – Chi fetu di codda!… Di unni veni?… Mimì – Quantu sentu: mamà, làssalu parrari. Liberino – Un mumentu… Allura industriale, no artistica!… Pepè – Pirchì?… ’A cinematografia non è arti?… Liberino (sprezzante e sentenzioso) – Non ci può essiri arte, mio caro, laddove manca il divino ausilio della parola! Donna Rachele – Liberinu, làssalu parrari… Mimì (annusando) – Veru è, mamà, c’è fetu di codda e di trimintina. Cc’ ’u purtasti tu, Pepè? Liberino – E lassatilu parrari!… Tutti ’i feti ora, stati sintennu? Parlate, illustre cognato! Pepè – Tu m’ ’u dici ppi smaccu, e tantu assai non passa ca mi l’ha’ a diri ppi daveru! Liberino – Guarda chi spiritu ca pigghiò Giufà!… Mimì – Liberinu, ti pregu di chiamallu cc’ ’u so’ nomu!… (a Pepè) – Quantu sentu: veru è ca pigghiasti ’n’autru spiritu!… Cunta. Pepè – Stamatina, niscennu di casa ppi la centesima vota in cerca di arriminàrimi, e tràsiri a quarche banna (a Rach.), comu dici so’ figghia, ’i pedi mi purtaru sutta ’i bastiuni d’ ’a Marina… Aveva un malumuri!… ’Na ’utta!… E ripiteva a me’ stissu: «Pepè, arrimìniti!… Pepè non siari tenchia morta!… Pepè, vidi di trasiri a quarche banna!…» (sempre a Rach.) comu mi dici so’ figghia. E siccomu a parrari semu tutti boni, ma a ura di fari è ’n’autra cosa… arristava ddà, comu un fanali astutatu!… Unni puteva tràsiri?… A’ Piscaria, o ’nnunca a’ Villa d’ ’i guadagghi, ca su’ sempri aperti!… (risa di Liberino, frenate dalle donne). Ppi fari qualche cosa, doppu un pezzu, m’avvicinai a ’na bancarella di ficudinnia e mi nni fici munnari du’ soldi, di chiddi bastarduni… Ma l’intellettu non si grapeva!… Liberino – Sfidu iu, ’ntupparisi puteva!… Mimì – Liberinu, ti dicu!… Non fari ’u spiritusu!… Pepè – Da poi, mi misi a caminari ranti ranti ’u bastiuni, ppi qualche ura… nenti!… E allura turnai ’nt’ ’a bancarella: ’n’autri du’ soldi di ficudinnia, di chiddi muscareddi!… Mimì – Bravu!… Pirchissu non hai chiù appetitu!… Sfidu iu!… Liberino – Lassa parrari a Giufà, ca è interessanti!… Pepè – Ora vedrai, chi sappi fari Giufà!… Era all’urtimi quattru ficudinnia, e siccomu ’u ficudinniaru era lestu di manu, nn’aveva una ’nvucca, una ’nta ’na manu e una ’nta ’n’autra, ca m’affuddava a mangiari… Quannu arriva, di tutta cursa, ’n’automobili, e si ferma ’nta ddu puntu unn’era iu, di bottu. ’Na signura, elegantissima, ca era dda supra ccu un signuri, si lotta ccu chistu, ca la trattineva, si svincula, sauta di l’automobili e’, ’nta ’nvidiri e svidiri scavalca ’a cancillata d’ ’a Cala e si jetta a mari, ccu tutti ’i robi!…
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Nino Martoglio
Donna Rachele – Gesù, gesù!… Mimì – E pirchì?… Chi ci diceva, a ’ddu signuri, mentri si luttava?… Ora ti chiamanu ppi tistimoniu!… Liberino (sorridendo) – Zitti, ’gnuranti, lassàtilu parrari. Pepè – Nenti, non ci diceva nenti, non parlavanu… Scena muta!… Ju, ppi diri ’a virità, mi pigghiai un spaventu tali, ca mi vinni ’a tussi; senza vulillu, ’dda ficurinnia c’aveva ’nvucca, mi trasiu nel sòfico, e fazzu ’na sbruffata ca ’mpannai ’na vanedda!… E a cu’ è, ca ’ncucciai, propriu ’mpettu?: a un signuri ca scinneva d’ ’a calata di San Placidu, sunannu un friscalettu comu a chiddu d’ ’i tramveri… Liberino (guardando le donne, che restano stupite) – Non avete capito niente!… Ju tuttu cosi. Pepè – Viremu! Liberino – Chiddi di l’automobile facevano un quadro cinematografico, e ’ssu signori cc’ ’u friscalettu, ca scinneva friscannu, era il direttore di scena che dava lo stop alla macchina (a Pepè, che assente) – E la macchina? Pepè – Poi vitti ca era piazzata supra ’u marciapiedi di ddà ’nfacci. Mimì – E ’dda signura ca si jttò a mari?… Pepè – Omu era, omu vistutu fimmina!… Ma tantu perfettu ca pareva fimmina ppi daveru!… Liberino – Controfigura. Mimì (a Pepè) – E tu? Pepè – Ju, doppu ’dda sbruffata ’nfacci a ’ddu signuri, dissi: Ora è ura d’ ’i corpa!… E difatti chiddu, ccu l’occhi di fora e ’na speci di frustinu ca purtava a manu, jsatu ’nta l’aria, s’avia avvicinatu e si stava partennu… Ma, appena mi guardau ’nfacci: e chi fu, scupittata?… Sbruffa a ridiri macari iddu, e mi dici: ha ragione lei!… E stèsimu menz’ura ridennu, iu e iddu!… Ma menz’ura di secuto, va?… Mimì (seccata e ironica) – Oh chi bella avventura!… Pepè – Aspetta, ca ora veni ’u megghiu, cara moglie!… ’Nta ’ddu mumentu mi ’ntisi grapiri l’intellettu; dicu curaggiu, mi fazzu avanti, bellu, sprontu, e ci dicu: scusa, per entrare in cinematografia, chi ci volunu, esami?… Mi guardò un pocu, poi mi dissi: Eh si… Sa correre, lei? – Io? – ci rispusi – ppi curriri sugnu un saittuni – Beni – dici – il primo esame è quello che lei deve correre fino allo stabilimento, appresso alla nostra vettura, senza perderla di vista, se vincerà questa prova, le faremo un provino e se il provino riuscirà lei sarà scritturato. Mimì (indignata) – E non capisti ca ti pigghiava in giru? Pepè – A cui?… Va, statti muta!… Appena foru tutti in carrozza e parteru, m’affigghiu ’a giacca e appizzu arreri, ca parsi un cani livreri! Passannu d’ ’u Cursu chiddi di ’ncarrozza a ridiri, a dirimi paroli curiusi, ppi farimi abbarruari, ma iu, ’a testa o’ funnu, a cùrriri, senza guardari a nuddu!… Non ci desi mancu ducentu metri di vantaggiu. Si pò diri c’arrivamu o’ stabilimentu ’nsemi!… E
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L’arte di Giufà. bizzarria comica in tre atti
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ddocu applausi!… Scinneru chiddi di ’ncarrozza, nisceru l’autri ca eranu o’ stabilimentu: – Beni, bravu! lei è cinematografista!… Lei è gagliardo!… Lei è magnificu!… – Poi vinni ’ddu signuri d’ ’a sbruffata e mi fici truccari. Doppu ca fui truccatu, piazzaru ’a machina dintra un teatru tuttu di vitru e chiddu mi dissi: scusi, lei ha moglie? – Si. – Ha la suocera? – Si – Sta bene?… benissimo… Mimì (fiotta) – Dio, dio, chi vergogna!… Donna Rachele – Comu si fici sbintari, ’stu Giufà ppi daveru!… Pepè – Sta bene, allora faccia una scena a piacere, fingendo di letigare con sua suocera. Donna Rachele – E tu ’a facisti?… Pepè – Si capisci!… Mi vineva tanta facili!… Risati, mamà, Mimì… si ficiru risati, ca ancora si stannu tinennu ’i cianchi, tutti!… Dici ca sugnu attore ridicolo nato! Mimì – Si, è veru, si’ lu veru Giufà natu e crisciutu!… Donna Rachele (sconsolata, si segna) – Oh! chi razza d’imbecilli!… Pepè – Si ficiru dari nomu, cugnomu, paternità, indirizzu e stato di famiglia e poi mi dissiru: – torni posdomani. Lei è facile che entra con cinquecento lire al mese. Mimì – Unni? Pepè – In cinematografia. Mimì – E com’è ca non ti persuadi ca ti sbintaru?… Unn’è ca vo’ turnari, unni, ca si t’arrìsichi ti fazzu vìdiri iu!… Pepè – ’A risposta mi l’ha’ a pigghiari, si o no? Donna Rachele – Ca quali risposta, Giufà!… Com’è ca non capisci ca t’abbuffuniaru?… Fu uno scherzo di cattivo genere, da mascalzoni!… Pepè – Scherzu?… Sbagghiu c’è. Iu doppu dumani ci vaju! Mimì – Ti dicu di non ti risicari, Pepè!… Non ti risicari pirchì va si no nni spartemu ppi sempri!… Vidi chi ti dicu!… E sai ca sugnu fimmina di fallu! Pepè (irato) – Ah si?… Prima mi punci, mi punci, pp’arriminàrimi, e doppu ca m’arrimìnu e rinesciu ’nta ’na cosa, mi vo’ fari turnari nn’arreri?… E chi ti pari, ca sugnu Giufà ppi daveru?… Badati ca iu sugnu bonu e caru, ma si mi faciti satari ’a musca cavaddina!… Mimì – Ti persuadi, ti persuadi, mamà?… ’U vidi comu si ribella?… ’U vidi comu divintò?… (a Pepè) – Senti, si fai chissa, ca cci torni, pripàriti a stari sulu pirchì iu mi nni vaiu!… (andando via per la sinistra) E si a vuautri non v’accomuda, stativi ccu iddu, ma iu mi nni vaiu!… Tantu, ora ca m’ ’u sbirsastuu, me’ maritu non è chiù iddu!… Ve lo regalo! (via). Donna Rachele (seguendo la figlia) – Mimì!… Ma chi ti pigghiò?… Sempri ccu mia, sempri ccu mia?… ’A curpa di tuttu l’haju iu?… (scompare anch’essa).
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Scena VI Pepè e Liberino Pepè – (si accascia un’altra volta sull’ottomana). Liberino (dopo breve silenzio) – Ma tu supra ’u seriu hai spiranza di tràsiri alla Sicula film? Pepè – Spiranza?… Mi pari cirtizza!… Ma si to’ soru fa accussì!… Liberino – Scusa… e nella Sicula film, che tu sappia, hanno un autore fisso?… Un soggettista?… Uno che scrive gli scenarii?… Pepè – Chi sacciu?… Sacciu ca è ’n paisi!… Granni, chinu di genti, chinu di machini, ca a vidilli macari firrìa ’a testa!… Liberino – Ascuta a mia… Posdomani, quannu ci torni… Pepè – Cu’ è ca ci torna?… Liberino – Tu. Pepè – N’ ’o vidi comu hannu fattu, Mimì e to’ matri? Liberino – E tu chi duni, cuntu ’e fimmini?… Allura daveru si’ un Giufà qualunchi?… Trattannusi d’affari e del tuo avvenire, tira drittu e cu’ parra parra!… Poi si persuaderanno, a cosi fatti. Pepè – Allura chi dici, ca ci tornu? Liberino – Certamenti. E iu t’accumpagnu. Pepè – Pirchì? Liberino – T’ ’u dicu ’n cunfidenza: vogghiu tentari di trasìrici comu soggettista. Pepè – Tu? Liberino – Pirchì non sugu bonu? Pepè – E comu!… Finìu che la cinematografia non è arte, pirchì ci manca il divino esilio della parola?… Liberino – Non importa: quando però quest’arte diventasse lo strumento di un uomo di genio, po’ rinesciri ’na cosa seria; anzi, l’arte più suggestiva, l’arte muta, del silenzio!… Pepè (melenso) – L’omu di geniu cu’ fussi, tu?… Liberino – Pirchì, non pozzu essiri?… Pepè – Ca comu!… Tuttu cosi po’ essiri, tu!… Liberino (che capisce la canzonatura) – Senti, si’ chiù lisciu d’ ’a pagghia longa!… Pepè – Ca quali lisciu, sugnu ’mpurugghiatu!… Anzi, senti, mentri ca semu suli… veni cca, aiùtimi a livarimi ’stu cappeddu. Liberino (incuriosito) – E tu non t’ ’u po’ livari?… Pepè (facendo sforzi per staccarsi di testa il cappello) – E chi sacciu, cridu ca ’mpiccicau cch’ ’i capiddi… Attempu, oh, adaciu!… Ahi!… ahi!… ahi!… (all’udire questi ahi, tornano in scena Mimì e d. Rachele, e si fermano, non viste, ad osservare, presso l’uscio). Liberino – Ma chi diavulu ci hai?… (nota la madre e la sorella e con un ultimo sforzo, stacca il cappello di testa a Pepè, il quale fa un ultimo urlo di dolore e appare coi capelli tutti impiastrati e incollati a foggia di corna irte, piatte e ruvide).
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L’arte di Giufà. bizzarria comica in tre atti
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Mimì (e d. Rachele, a vederlo così, cacciano un grido di spavento e di collera, mentre Liberino ride, ride). Pepè (dopo la prima sorpresa e dopo che gli s’è calmato il dolore alla testa per lo strappo violento, sedendosi) – Mi scurdai di dimannaricci com’è ca si sciogghi ’sta codda ca mi misiru ’nt’ ’e capiddi!… Parunu petri, botta di vilenu!… Chi codda è, Liberinu? Liberino (osservandolo bene) – Ca quali codda, chistu cementu armatu, è!… Mimì (furibonda) – Eccu di unni vineva ’u fetu di codda e di trimintina!… E chi ci ficiru, in testa?… Pepè – Mi truccaru!… Mimì – Ha’ capitu, mamà?… Hai capitu, ppi causa tua?… ’U sta’ vidennu chi cosa nni ficiru di me’ maritu?… Ci ’a stai vidennu ’a testa? Quest’orrore, lo vedi?… Pepè (cercando di accostarsele) – Ppi finzioni, babba!… Per finzione!… Mimì – Vattinni, non t’avvicinari!… Mi fai schifo!… Mi fai schifo!… Tuttu maniàtu, tuttu impiastrato, tutto manomesso e puzzolente!… Pepè (c.s.) – Truccu è, truccu!… Mimì – Luntanu di mia, ti dissi!… Non ti risicari d’avvicinarimi ppi ’na simana!… Anzi, ppi quinnici jorna!… P’un misi!… (torna nella sua camera, mentre Pepè vorrebbe scongiurarla a non compiere la minaccia). Pepè (dopo aver guardato con aria melensa Liberino, che ride) – Ti persuari? Cala la tela […] ATTO TERZO (La stessa scena del second’atto. Un anno dopo). Salone di direzione della Sicula Film. – Comune a destra, due usci in fondo e uscio e sinistra. – Un pianoforte, una scrivania, canapè, poltrone, tavoli, sedie, molti cuscini e soprammobili, ricchi tappeti, molti quadri e ritratti in cornice alle pareti, sia di singoli artisti che di gruppi. Ambiente ricco, anzi di lusso, se non di molto gusto. […] Scena VII Il direttore generale e detti [Donna Rachele, Liberino, Pepè] Il Direttore (rientrando e vedendo la signora Rachele, resta per un po’ interdetto, poi) – Scusi, signora, desidera di me?…
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Nino Martoglio
Liberino (pronto) – Il signor direttore generale, mia madre. Il Direttore (galante) – Ah, la madre di Pagliuca… dunque, parmi, la suocera fortunata di Moscardino… Donna Rachele – Non tanto fortunata, signor direttore… Pepè – Ecco, vede, commendatore?… ’U signuri manna ’u viscottu a cu’ non avi anghi!… Donna Rachele (lo guarda con occhio torvo). Pepè (fa delle mosse da guerriero, per farla ridere, ma non vi riesce). Donna Rachele – Liberinu, guarda chi fai, vo’ chiama a to’ soru, e falla veniri cca. Ma prima informala di tuttu. Pepè – Pirchì, chi è, pazza?… Non ti moviri, oh?… Donna Rachele (a Liberino) – Va, va, làssalu parrari!… Lei permetti, è veru, direttore, che faccia venire mia figlia?… Avi desideriu di visitari lo stabilimento. Pepè – Non si può… È vero, direttore?… (a donna Rachele) – Non liggìu, vossia, fora, ’ddu cartellu granni, ca dici: È proibito l’ingresso alle persone non addette ai lavori?… Il Direttore – Ma si, ma si, venga pure, la sua figliuola, sarò lieto di conoscerla. Liberino – Con permesso, allora, signor direttore… Il Direttore – Vada, vada pure (a Rachele, mentre Liberino esce) – S’accomodi, signora… È venuta anche lei per visitare lo stabilimento?… Donna Rachele – No, veramente venni per tutt’altro scopo, e mentre ho la fortuna di trovarmi con lei, le vorrei fare certe domande. Il Direttore – Dica, dica pure. Donna Rachele (a Pepè) – Ti nni po’ jri, tu, si hai chi fari!… Pepè – No, ancora non è ura. Donna Rachele – Comu, pocu fa avevi tanta primura?… Pepè – Si non prima sona ’u friscalettu, ppi truvarini in teatru, è inutili ca ci vaiu… Il Direttore – Beh, Moscardino, ma se la signora vuole restare sola con me… Pepè – E non sta beni!… Donna Rachele – Chi dici?… Pepè – Non sta beni!… (piano a D. Rachele) – Vossia vidi ca ’u cummendaturi è sarvaggiu… ’u sapi sentiri?… Donna Rachele (segnandosi) – Gesù e Maria!… Vattinni ti dissi!… Pepè – No, non mi nni vaju!… In mancanza di so’ maritu, ca è mortu, e di so’ figghiu, ca è fora, il rappresentante del decoro della famiglia sugnu iu, e non mi movu!… Suli a tutti dui, non vi lassu, mancu? So io il perché! Il Direttore (ridendo) – Che matto!… Lo lasci stare, signora!… Donna Rachele – Matto? Mattu birbanti, però… Ma ora ’u capizzu t’ ’u conzu iu, Giufà!… (al Direttore) – Mi dicissi ’na cosa, signur diretturi: Quantu fimmini ci sunnu, nel suo stabilimento?… Il Direttore – Eh, tra le scritturate, i cachets fissi, le avventizie, le dattilografe, le
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impiegate alla contabilità e alla spedizione, le addette al negativo, al positivo, alla stampa, all’imbibizione, al viraggio, al lavaggio, al prosciugamento, alla numerazione, all’imbobinaggio, all’imballaggio, alla pulitura… saranno in tutto un centoventi… Donna Rachele (che intanto ha guardato Pepè con occhi di fuoco, mentre questi fa i soliti gesti da guerriero, come ripassandosi la parte) – Caspita!… Un reggimentu, nn’avi!… Il Direttore – Un momento: ho dimenticato quelle addette al montaggio. Donna Rachele – Come?… Il Direttore – Al montaggio. Pepè – Si, ma chistu è repartu speciali… Donna Rachele – Ah, repartu speciali!… Sfacciatu!… Il Direttore – Tutti sono reparti speciali, in cinematografia!… Donna Rachele – E già… mi persuadu!… E mi dicissi ’n’autra cosa, scusi: Ccu quali criterii le ingaggia, lei?… Il Direttore – Perché mi fa tutte queste domande, signora? Vuole metter su stabilimento cinematografico?… Donna Rachele – Iu?… Scusi per chi m’ha preso, lei?… Il Direttore – Non ho avuto intenzione di offenderla. Donna Rachele – Ci fazzu ’sti dumanni, pirchì m’haju persuasu che il suo non è uno stabilimentu… Il Direttore – E che è, scusi?… Donna Rachele – È l’harem di ’stu scimiuni di me’ jenniru!… E lei che lascia fare!… Il Direttore – Senta signora, per la partita donne, io non ho occhi!… Donna Rachele – Bravu!… Bella moralità!… Il Direttore – Eh, signora mia, se si dovesse cercare la moralità in cinematografia, si starebbe freschi!… Donna Rachele – La cinematografia è una porcheria, caro signore!… E se io avessi saputo questo non avrei acconsentito mai a farici trasiri tantu a me’ figghiu quantu a mio genero. Il Direttore – Senta, quanto a suo figlio, non si offenda, ma se non lo avesse fatto entrare qui mi avrebbe fatto un regalo. Pepè – Oh, lu bestia!… Il Direttore – Quanto a suo genero, si becca tremila lire al mese, che non li ha un ministro… E l’appetito viene mangiando – non è vero Moscardino? Pepè – Parola d’onuri! Quannu sugnu cca haju un appetitu!… Donna Rachele (al genero) – Sfacciatu!… (al Direttore) – Ho capito, lei è un cinico, che corrompe la gioventù (si ode un fischietto dall’interno). Il Direttore – Quale gioventù, signora, scusi?… Tanto suo figlio che suo genero sono uomini adulti!… Che mi va contando, lei? Donna Rachele – Ad ogni modo questo scandalo deve finire, e deve tornare la pace nelle famiglie oneste…
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Nino Martoglio
Il Direttore – Signora, se avessi potuto prevedere che lo scopo della sua visita era quello di dirmi delle male parole! Donna Rachele – Dal momento che lei mi provoca!… Il Direttore – Io?… Ma se non ho fatto che rispondere alle sue domande!… Donna Rachele – Si, ma mi ha rispostu dicennumi cosi orribili, ccu ’na bella sfacciataggini!… (si riode il fischietto). Il Direttore – Moscardino, vada, non ode il fischietto?… Donna Rachele – Vada, vada!?… Unn’è ca divi jri?… (facendosi verso l’uscio che mette nel teatro e guardando) – Gesù, gesù!… Guarda chi vergogna, quantu fimmini nudi!… Il Direttore – Ma che nude, sono vestite alla romana!… Pepè (facendosi presso l’uscio, tutto arzillo, dopo d’essersi aggiustato l’elmo) – Va, vossia mi lassa passari! Donna Rachele – Unni?… Unni è ca ha’ a jri?… ’Mmenzu a chissi?… Pazzu si’! Il Direttore – Signora, lo lasci lavorare. Deve finire la scena comica!… Donna Rachele – Mi dici ’a testa ca oggi finisci a scena tragica!… Ccu ’ssi strascinati è, ca ha’ a fari scena?… Pepè – No, sulu sugnu… Chiddi su’ ddà ppi guardari. Donna Rachele – E ppi guardari si nni venunu nudi?… Pepè – Non su’ nudi, sunnu in costumi anticu, ca hannu fattu scena a’ n’autru teatru e ora si divertunu a guardari a mia. Donna Rachele – Allura, si ponnu guardari iddi, pozzu guardari puru iu. – Passa… Pepè (al direttore) – Po’ trasiri?… Il Direttore – Si diverta!… Ma mi raccomando, Moscardino, non facciamo storie. Qui si lavora, non si fanno pettegolezzi. Pepè (alla suocera) – Vossia passa!… Donna Rachele (prima di entrare di là, al direttore) – Avi ’na facci tosta, lei!… (all’usciere che rientra in quel punto, imperiosamente) – Appena veni me’ figghia, mi chiamati, aviti capitu?… (passa di là. Pepè la segue, gesticolando). […] Scena XIII Detti [Liberino, Mimì, il Direttore], poi Donna Rachele, Pepè e Romeo, voce della Sparapaoli. (si ode, dentro le quinte, un grido di donna Rachele, poi uno della Sparapaoli, e ne segue il rumore d’un tafferuglio). Romeo (dall’interno) – Signora, signora, ma che fa? Accussì, lei, è un carrabinieri, non è una signora!
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L’arte di Giufà. bizzarria comica in tre atti
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La Sparapaoli – Le dò querela!… Le dò querela!… Io non so chi sia lei, ed io sono la Sparapaoli!… Donna Rachele – Lei è ’na strascinata qualunchi! Romeo – Signori, prego, non facemu catunii!… Pepè – Ahi!… Ahi!… E comu, accussì, mentri ca sugnu nudu?… Donna Rachele – Passa, sfurcatu, passa!… Mimì (alzandosi) – Chi fu?… Il Direttore (id.) – Oh davvero, che accade?… (forte) Romeo!… – (preme il bottone del campanello). Romeo – Signor Muscardino!… Signore!… Pinsamo al dicoro dello stabilimento!… (forte) – Veni, veni, signor direttore!… Avanti, avanti, passunu in dirizioni, tutti!… Donna Rachele – Si, si, camina, svergognatu!… Mimì (andando incontro alla madre, che torna in iscena, trascinandosi Pepè in accappatoio a spugna) – Ma chi fu mamà? Donna Rachele – Niscemu, niscemu, figghia mia, jemuninni!… Non ti fermari chiù mancu un minutu in questo locale innominabile!… Il Direttore – Ma che avviene, signora? Che le è accaduto?… Moscardino, parli lei!… Pepè (tenendosi la testa) – Aspetti un poco, signor diretturi, quanto m’aggiustu l’ossa, ca mi pari ca l’haju sdulicati!… Donna Rachele – Mi dispiaci che non l’ammazzai!… Mimì – Ma pirchì, mamà, chi fici?… Pepè – Nenti, cc’aveva a fari… Sa chi ci passau pp’ ’a testa!… Donna Rachele – Sfacciatu, nenti, ah?… L’ho colto in fregante, ccu dda Sparapaula d’ ’a prima donna… Tutti dui s’avevanu chiusu ’nt’ ’o cammarinu, sutta l’occhi mei, svergognati!… Mimì – A ’stu puntu?… Liberino – Con la Sparapaoli?!… Donna Rachele – Ca comu!… Ci spalancai ’a porta, ccu ’na spaddata, e ’i truvai ’nsemi, iddu d’accussì, quasi nudu e idda che lo fregava, lo fregava!… Pepè – Ma si mi stava facennu un massaggiu!… Parola d’onuri, Mimì!… (Mimì si scosta come per schifo) – Guardimi, guardimi nt’ ’o nasu: lisciu comu na petra d’ammulari… Signor diretturi, cci ’u dicissi lei. È veru ca ci ’u dissi, un mumentu fa, ca doppu ’a scena d’ ’ajttata nt’ ’o ciumi, mi faceva fari un massaggiu?… Il Direttore – Ah, questo posso testimoniarlo io… Donna Rachele – Lei è un bellu cummugghieddu, signor direttore, mi nui cungratulu, assai! Ma cca non tratta ccu imbecilli, sa! (parlano tutti insieme). Mimì (a Pepè) – Bruttu scimiuni stupidu e imbecilli, non ti risicari a parrarimi chiù, sai! Liberino – Almenu ppi rispettu d’ ’a mamà, ca era cca, purcidduzzu, ca non si’ autru!…
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Nino Martoglio
Donna Rachele – Niscemu, di ’stu catoiu!… Mimì – Catoiu?… Bolgia!… Donna Rachele – Ma ci nni desi ’na para, a ’dda svergognata!… Il Direttore (alzando le braccia in aria) – Per carità, signori, per carità, correranno i pompieri!… Mimì – Oh, chi jurnata, chi jurnata!… Chi cosi ca succedunu, cca dintra!… E unn’è, ora, ’ssa svergognata? Il Direttore (a Mimì) – Si calmi, signora, si calmi e si accomodi, sono qua per darle tutte le soddisfazioni… Mimì (risoluta) – Qua la soddisfazione è una sola! Il Direttore – Mandar via la Sparapaoli… Ebbene, le dò parola di onore che da domani non farà più parte del nostro personale artistico. Mimì (c.s.) – No, nenti affattu!… Se la tenga, la sua Sparapaoli. Deve mandar via mio marito… Il Direttore – Ma che dice, lei? Pepè – Ma che dice, lei? Mimì – Oh, Giufà!… (lo minaccia) – E si non nn’ ’u manna lei nn’ ’u facemu jri nuautri. Donna Rachele – Ah, si capisci!… Il Direttore – Ma loro scherzano!… Lo sanno che poco fa l’ho portato da tremila a cinquemila lire al mese?… Pepè – Sul mio onore, eh? Anzi sul suo onore; testimoniu iu!… Mimì – Non m’importa nenti. Il Direttore (a donna Rachele, che tace e riflette) – Signora, parli lei. Donna Rachele – Caro signore… a me mi preme la tranquillità di me’ figghia, chiù di qualunchi tesoru! Cinquemila lire, comprendo, ma ’ntantu… Il Direttore – E lei non parla, signor Pagliuca?… Liberino – Che vuole che le dica?… Anch’io, tra la salute di mia sorella e l’interesse materiale… Il Direttore – Materiale soltanto?… E l’arte?… Dove la mette, lei, artista, l’arte?… (a Mimì). – E lei, signora, che deve avere un’anima d’artista?… Giufà, oramai non appartiene più a se stesso, o a lei, o a me!… Appartiene all’arte mondiale!… Pepè – Alla storia! Orazio Coppula! Il Direttore – Egli non è più padrone di ritirarsi!… (a Mimì) – Cosa crede, signora, che un artista della celebrità di suo marito, possa dare, da un momento all’altro, un addio all’arte, così, per una gelosia di donna?… Ah no… Ah no!… Lei si sbaglia!… Mimì (seccata) – Ma che arte e arte, mi faccia il piacere!… Qual è, l’arte, chidda ca ci faciti fari l’ova comu fussi ’na gaddina? Chidda ca ’u faciti satari di ’na finestra longu comu un citrolu e arriva ’nterra largu comu ’na lasagna? Chidda ca ’u faciti curriri e assicutari di tutti?… Chista è purcaria, non è arti!…
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L’arte di Giufà. bizzarria comica in tre atti
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Pepè divi lassari ’stu mestieraccio schifoso, vasinnò iu e me’ matri, cca, facemu uno scandalo al giorno, ha capito?… Il Direttore (cambiando tattica) – E sta bene, signora, non si scalmani tanto… Lo manderemo via. Donna Rachele – Bravu! Mimì – Benissimu! Liberino – È l’unica soluzione, creda… Pepè – Sì pirchì poi si teni a tia!… Liberino – Pirchì?… Il Direttore – Eh, mio caro, il perché dovrebbe capirlo da sé… Via Caciotta, via la Sparapaoli, via Giufà… io chiudo stabilimento!… Donna Rachele – Benissimu, chiuda! Così si leva lo scandalo dal paese!… Liberino – Un mumentu, mamà… Chiuda… chiuda!… E si chiudi, iu, comu restu?… L’Usciere – Comu ristamu tutti!… Donna Rachele – …Già, chistu è veru… Comu ristamu?… Mimì (dopo averli guardati negli occhi, irritata) – Eccu… si capisci… comu ristati, tu e iddu?… Pirchì iu resterei meno male!… Ma eccu ca ppi causa vostra, sempre, io devo subìre tutte le umiliazioni e tutti gli strazii!… Pepè – Ma chi c’entra, babba, non ci sugnu iu?… Mimì – Io devo essere la vittima della famiglia! Ero vittima da zitella, mi maritai per emanciparmi e sugnu sempri ’nta ’mpuntu!… (parlando si atteggia a vittima, con gesti larghi e tragicomici. Pepè si alza per guardarla, sorpreso, il direttore la segue con vivo interesse) – E bravo, signore, lei ha trovato la molla per aprire il cuore dei miei parenti e schierarli dalla parte sua. Ora sono sola contro tutti. Pepè – Comu Orazio Coppula… Ora ora ’u fici… Ma tu nt’ ’o ciumi non ti ci jetti!… Mimì – Pepè deve restare qui perché se va via lui, lei licenzia anche mio fratello. Il Direttore – Signora mia, che me ne farei?… Mimì – E già!… (a Liberino) – Allura tu, ppi non perdiri ’u to’ postu m’ha’ a custringiri a perdiri a me’ maritu!… Liberino – ’U sai ca si’ curiusa!… Com’è ca perdu seicentu liri o’ misi d’un mumentu all’autru?… E doppu chi fazzu?… Chi facemu, io e ’sta povira gentildonna vedova di to’ matri?… Donna Rachele – Giustu, dici, figghia mia!… Bisogna riflittilli tutti, ’i cosi!… Chi facemu, nuautri?… (rivolta verso Pepè, minacciosa) – Ah, boja!… Mimì (c.s.) – Ecco, vede, signore?… Ha udito?… Fino a quando ero io, che perdevo cinquemila lire al mese, andava bene tutto, ma quando invece sono loro che ne perdono seicento, casca il mondo!… Che ne pensa? – Che ne dice?… Il Direttore (con volto illuminato, raggiante) – Dico, cara signora, che lei è straordinaria!… Oh, che rivelazione!… Che gesto!… Che maschera!… Mimì – Ma che dici?…
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Nino Martoglio
Il Direttore – Dico che ho trovato il mezzo di salvare ogni cosa (tutti lo guardano meravigliati) – Suo marito è un libertino, è vero!… Donna Rachele – Un mandrillo!… Il Direttore – Un mandrillo… Mimì – Un porco!… Il Direttore – Un porco… Pepè – Diretturi, e chi fu?… Il Direttore – Stia zitto!… (alle donne) – Però non può e non deve lasciare l’arte, perché sarebbe un suicidio e una sventura per la famiglia. Suo marito, dunque, deve restare qua… Ma deve essere sorvegliato… E sa da chi?… Liberino – Da me. Pepè – Zittiti, sceccu!… Mimì – Già, comu l’ha’ survegliatu finu ad oggi! Il Direttore – Niente affatto, signora: da lei!… Da lei che deve stare sempre quì… E con quale veste?… Con quella di prima donna assoluta; perché mi ha palesato delle attitudini superbe… Lei, tra un paio d’anni, darà le pacche a tutte le Dive del teatro di posa! Pepè – Ma chi, commentaturi, lei scherza?… Il Direttore – Tanto vero che non scherzo ch’io offro subito alla sua signora una scrittura con mille e cinquecento lire al mese. Non abbiamo che d’andar di là, redigere il contratto e firmarlo!… Pepè – E chi mmi sta danno, ’i nummira, diretturi?… (guarda Mimì, che resta perplessa, e anche Rachele e Liberino la guardano, da trasognati). Donna Rachele (dopo breve silenzio) – Figghia mia… lassamu stari ’i milli e cincucentu liri, ca non su’ di jttarisi… ma il vantaggio di stari sempri accantu a to’ maritu e non farlu gaddiari, c’è!… Liberino – Chiddu di non farimi lincinziari a mia, c’è macari… Mimì – E iu, propriu iu, mamà, divu entrari in cinematografia?… Doppu c’avemu capitu chi purcaria è? Doppu ca l’avemu chiamatu bolgia?… Donna Rachele – Bonu, autru sunnu ’i paroli ca si diciunu nt’ ’a còlira, autru è la rialtà… Dopu tuttu è un’arte… Liberino – E che arte!… Arte muta!… Pepè – Ca quali muta, c’aviti fattu un catuniu!… Donna Rachele – Ci su’ conti, baruni, commendaturi… fiore di nobiltà… Liberino – E soddisfazioni da re!… Pepè – Si, comu chiddi c’ha’ avutu tu!… Il Direttore – Dunque è deciso?… Facciamo la scrittura?… Mimì (guarda la madre, come ad interrogarla). Donna Rachele – Ma si, figghia! Mimì – E tu, poi, comu resti?… Sula sula, in casa, d’a matina ’a sira!… Donna Rachele (enfatica, dopo breve riflessione) – Senta, signor direttore: dal momento che lei è così provvidenziale, che con quest’arte nobile e sublime della cinematografia sa scoprire tanti genii nascosti o incompresi, perché non
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L’arte di Giufà. bizzarria comica in tre atti
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completa l’opera e scrittura anche me?… Leverà un’anima buona dalla solitudine!… Il Direttore – Beh… vedremo di contentare anche lei!… (preme il bott. del campanello). Scena XIV Romeo e detti. Romeo (sulla soglia) – Comandi? Il Direttore – C’è Pinetti? Romeo – Sissignori, dda banna è. Il Direttore – Digli che si prepari a fare un bel provino alla signora – (accenna a donna Rachele). Romeo – Fatto. Il Direttore – Che, il provino? Romeo – Sissignori. Il Direttore – Ma che dici?… Dove, come, quando?… Romeo – Anturazza, signor dirittori, quannu ci fu quel sobbuglio, che la signora chiantau corpa, il signor Pinetti si truvava con la macchina a tiru, e nni girau ’na vintina di metri ca vinni una scena comica distinta daveru, vah!… Donna Rachele – Chi fu?… Comu? A mia, mi pigghiau? Romeo – A lei sula?… A tutti. Ci sugnu macari iu, ma lei vinni spruìbita, va!… Il Direttore – Ma dove l’hai vista?… Romeo – In priizioni… Il Direttore – Impossibile, non c’era il tempo di stampare… Romeo – Non signori, il signor Pinetti ha passatu il negativu!… Si lei lo vidi, signor diritturi, arresta ammaluccutu!… Si la signora fora artista non ci nni fussi una uguali. Donna Rachele (sorride e si segna, tutti la guardano meravigliati). Il Direttore – Signora mia, se è così la scritturo con doppio piacere… Mimì – Mamà, e tu farai l’artista? Donna Rachele – Figlia mia, che cosa non sa fare una madre, per amore delle sue creature?… (al direttore) – E di stipendio, quantu mi duna, lei?… Il Direttore – Su ciò concorderemo. Contenti tutti vi voglio!… Vedrete come si starà bene qui… E lei, Moscardino, non parla?… Pepè – Ca comu non parru!… Iu sugnu Giufà, è veru? E lei è omu spertu (alla suocera) – Lei è fimmina scaltra e iu sugnu Giufà (alla moglie) – Tu si’ intelligenti e iu sugnu Giufà… (guarda Liberino). Liberino – Prosegui e conchiudi: iu sugnu intelligenti e tu si’ Giufà… Pepè – No, sbagghiasti: iu sugnu Giufà e tu si Peppi Nnappa!… (a tutti) – Ora Giufà vi fa arristari ccu a vucca aperta (al direttore) – Diretturi, iu mi nni vaju di cca.
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Nino Martoglio
Il Direttore (meravigliato) – Se ne va?… Come, ora che s’è accomodata ogni cosa?… Pepè – E pirchissu, mi nni vaiu! Il Direttore – E il contratto?… Pepè – Pago la penale. Il Direttore – E la parola datami?… Pepè – Chi ci dissi iu, scusi?… Ca non jeva ’nta ’n’autra casa… E iu non ci vaiu!… Il Direttore – E dove va, allora? Pepè – ’A me’ casa!… Fazzu casa ppi cuntu miu!… Il Direttore – Dice sul serio?… Pepè – Si capisci!… Caru lei, ora mi scannaliastuu a testa e canusciu ’a chiazza e’ morti!… ’U conti mi voli ccu iddu, ’a Sparapaoli mi voli ccu idda, e mi fa mìlafii, lei m’aumenta migghiara di liri senza dimannariccilli, si pigghia a me’ cugnatu ca è bestia, a me’ muggheri, a me’ soggira… e stagghia, stagghia pirchì? pirchì a pezza è longa. Ma siccomu haiu vistu ca ’a pezza sugnu iu, m’ammogghiu e tagghiu ppi me stissu. A me’ cugnatu,… e macari a lei, si voli, vi scritturu iu… E fondo la Moscardino Film. Romeo – A mia mi voli signor Muscardino?… Pepè – Macari!… E ti fazzu un berretto ccu ’na scrizioni di menza canna, comu vo’ tu. Il Direttore (dopo averlo guardato per un bel po’, con intenzione) – Ah… e lei era lo scemo!… Lei era il Giufà?… Pepè – E Giufà accussì è, ca pari babbu e poi è spertu… Dunca, ’a Suciità è fatta: Non mancunu autru ca ’i capitali; ma ccu ’sta marca si trovanu subitu, basta ca ci vannìu… Mimì – Sugnu morta!… E tu si’ ’me maritu?… Non ti riconosciu chiù!… Guarda chi malizia!… Donna Rachele – Non t’ ’u diceva, iu, fallu arriminari!… Il Direttore – E se è così, Moscardino, le spiace che i capitali li metta io?… Vuole diventare mio socio d’industria?… Le garentisco, dentro un paio d’anni, mezzo milione d’utili. Donna Rachele – Sugnu morta!… Pepè (piano) – Macari Diu!… (al direttore) Ecco, ora lei parra assinnatu! Qua c’è la mano. Oggi è nata la Moscardino Film. Tutti – E viva la Moscardino Film!… Sipario.
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Alfredo Testoni
Arte nuova. Commedia in tre atti di là da venire (Una scena del Primo Atto)*
Un giardino. – «Nadia» è la padroncina di casa. «Anita» è la giovane istitutrice. «Arnaldo Beato», di età incerta, redingote molto sciupata e non perfettamente a suo dosso; calzoni idem; guanti gialli. Accento meridionale; modi esageratamente untuosi. Si fa avanti e presenta un biglietto da visita a Nadia. Nadia – (legge): «Arnaldo Beato, già direttore generale della Casa Beato e Compagni. Commissionario in tutti i generi». Beato – Prego di leggere più giù, dove ha il dito sopra. Nadia – «Ars et labor». Beato – Arte e lavoro. Il motto mio e de’ miei antenati. Nadia – S’accomodi. Lei desidera…? Beato – Ecco. So che in questa magnifica villa ci sta un bellissimo prato. Chiedo umilmente il permesso di usufruirne per un duello. Anita – Un duello? Beato – Mi spiego. Un duello cinematografico. È l’affare di dieci minuti, tanto più che appena in posizione, uno dei duellanti scappa, gli altri lo inseguono, tutti escono di campo e basta. *
Alfredo Testoni, Arte nuova. Commedia in tre atti di là da venire, in «In penombra», i, 7, dicembre 1918, pp. 274-275. Non risulta che la commedia sia mai stata pubblicata per intero né rappresentata. Il cinema compariva già in un lavoro che l’autore aveva fatto rappresentare due anni prima, il 21 luglio 1916, a Milano al teatro Diana, dalla compagnia Di Lorenzo-Falconi, la commedia in tre atti La spada di Damocle (poi edita: Bologna, Zanichelli, 1919). Nel I atto di questa, nella villa della contessa Adele, si assiste infatti alla preparazione delle riprese di un film in costume, da eseguire in giardino: una pellicola girata in famiglia, da attori dilettanti, sotto la direzione di Tepozzi, celebre attore cinematografico, come regalo a sorpresa per il compleanno del generale Torre. Ma presto la trama prende tutt’altra direzione e le riprese rimangono sullo sfondo, per tornare in primo piano solo alla fine dell’atto I, per un siparietto comico con l’attendente del generale Torre, Filippo, che scambia l’azione in corso in giardino con una vera scena di rapimento facendo irruzione sul set. Alla fine del terzo atto, durante la festa di compleanno, viene proiettato (fuori scena) il film prodotto, Il ratto di Giulia («ovvero “Il soldato Filippo che salva la sua padroncina”»), che contiene anche l’involontaria “scena comica”. Ma al centro della commedia è in realtà l’astuta rivalsa di una vivace modista, Rosetta, contro l’ingegnere, genero del generale Torre, dongiovanni fedifrago (a questo allude il titolo; la ragazza poi rinuncia alla vendetta e rivolge il suo affetto, ricambiato, all’attendente Filippo). Alfredo Testoni (1859-1931), commediografo in dialetto bolognese e in lingua (Il cardinale Lambertini, 1905), è dal 1916 al 1920 socio della Silentium Film, fondata a Milano da Luigi Grabinski Broglio e diretta da Marco Praga, insieme ad altri nomi importanti del teatro di quegli anni, Giuseppe Adami, Renato Simoni, Dario Niccodemi, Salvatore Di Giacomo, e Giovanni Verga; per questa ed altre case di produzione, Testoni scrive tra il 1916 e il 1921 riduzioni e soggetti originali.
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Alfredo Testoni
Nadia (che si diverte) – E, scusi, lei sarebbe quello che scappa? Beato (con aria di sconforto) – Appena appena uno dei testimoni, tanto per risparmiare un cachet… Nadia – Come dice? Beato – Termine tecnico. (Con disprezzo) «Cachet», un attore pagato a giornata, quasi una comparsa, una quantità trascurabile! (sospira) Io, io che, si può dire, ho dato il latte alla Borelli, alla Bertini, alla Jacobini… Anita – Oh guarda, guarda! Beato – Già: io, che le ho scoperte davanti allo schermo! (estrae di tasca varie fotografie) Guardino che collezione di belle donne, con dediche calorose a me… e da altri. Eppure, ad onta di tutto questo, la «Casa Beato e Compagni» si sfasciò per causa di sventure domestiche! Nadia – Ma come mai? Beato – La mia signora se ne andò… con Compagni, e io, a poco a poco, giù, giù… E così sono obbligato a fare il galoppino, a cercare i mobili, gli attori, i cachets… Nadia (con sdegno) – Quella sua signora! Beato – Non le si può dare tutta la colpa! Capiranno: temperamento drammatico, obbligata ad eseguire scene emozionanti, sempre in mezzo a fughe, a tradimenti… Nadia – Con Compagni… Beato – Già… cioè… La conclusione è che devo vedere gli altri salire e procurare agli altri la gloria e la ricchezza, mentre io… Nadia – Ma perché non fa l’artista cinematografico? Beato – Sono stato sfortunato anche in questo… Potevo essere un attore dalle grandi linee, per le parti passionali, ma ho un tic nervoso, che per solito mi dà una espressione contraria al sentimento che provo… E capiranno! in un film, il pubblico si disorienta. E me ce metto solo quando capita qualche parte… Nadia – Di fianco? Beato – No; di dietro addirittura, con la schiena voltata! Nadia – Peccato! Beato – Colpa del fato! Sarei già milionario se tutto fosse dipeso da me; ma il male si è che si deve dipendere anche dagli altri! Anita – Eh, scusi… bisogna studiare molto per… Beato – Posare? Che! C’è da piangere? Piangere. C’è da ridere? Ridere. È tutto qui. Anita – E si può far fortuna? Beato – In pochi anni. Uomini e donne! Nadia – Riuscirei io? Beato – Alla perfezione. Fisionomia mobile e poi capelli neri, occhi neri… Riescono bene le donne brune. Anita – E allora io? Beato (subito) – E bene le bionde. Nadia (esaltandosi) – Perché non son libera io, come sei libera tu, Anita mia?
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arte nuova. commedia in tre atti di là da venire
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Senti. Vuoi un consiglio da amica? Getta via tutti i libri! Che ci guadagni a fare la maestrina di piano, la damina di compagnia e a passare la vita fra le bizze di una ragazza viziata o i rimproveri di qualche signora brontolona? Ci vogliono idee larghe e moderne, come quelle del signor Beato! Beato – Sicuro! Nadia – Scusi… È una cosa disonorevole posare per il cinematografo? Beato – Disonorevole? (con un gesto dignitoso) Se si hanno i maggiori onori! Anita – Questo è vero. Beato – E si guadagnano quattrini a cappellate, posando in case cinematografiche o anche… fuori di casa. Nadia – Come, fuori? Beato (subito) – Eseguendo films per conto proprio… Un esempio. Il suo papà è ricco, ma così per passatempo vuol guadagnare cinquanta, centomila lire? Semplicissimo. Fa eseguire un film da un uomo pratico, coscienzioso, intelligentissimo… Nadia – Come lei… Beato – Come me, ed è un affare d’oro! La signorina Anita prima attrice, io scritturo artisti a cottimo… Nadia – Ci vogliono altri artisti? Beato – Uno per lo meno, maschio… Eh! Bisogna pure che la prima donna faccia all’amore con qualcuno! Nadia – Già, già… Anita – Ma io non sono capace… Nadia – Un film di prova, per burla… Beato – Ecco, per ischerzo… Basta solo che l’eccellentissimo genitore faccia le opere sul serio. (A poco a poco, si accalora, si esalta, si entusiasma). Sarebbe la fortuna di… tutti! Lei, signorina Anita, potrebbe prendere il posto vacante della Borelli… Eh! Nella vita, quando meno te l’aspetti, te capita l’occasione! Guardi me, per esempio. Da ragazzo uscivo dalla scuola insieme a un mio compagno. In fondo alla via egli andava a sinistra e io a dritta. – Arrivederci! – Te saluto! – Sono passati molti anni. L’ex-mio compagno è, nientemeno, console al Perù e io sono… qui. Se invece egli fosse andato a dritta e io a sinistra, sarei forse io al Perù e lui qui! Nadia – Ha perfettamente ragione! Non c’è tempo da perdere! Bisogna convincere papà! (si entusiasma anche lei). Assolutamente… Oh, che bella idea! E io assisterò, vedrò, mi divertirò… Beato – Mentre si lavorerà per l’ideale dell’arte. Ecco il mio fine! Ma mi mancano i mezzi! Nadia – Li troveremo da papà. Deve arrivare fra poco. Ha fatto colazione, lei? Beato – Ho preso il caffè… Nadia – Peccato! Avrei potuta offerire… Beato – Accetto, accetto!
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Alfredo Testoni
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Ed ecco come la signorina Anita nel secondo atto divenne artista cinematografica e nel terz’atto… Ma adesso basta. Bologna, ottobre 1918
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parte seconda
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SCRITTI GIORNALISTICI
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IL FENOMENO CINEMA
Giustino L. Ferri
Tra le quinte del cinematografo*
Nella penombra della piccola sala correvano mormorii di curiosità e d’interesse; brevi frasi, a bassa voce, commentavano: – Ah, ecco lui, adesso! Che faccia d’impunito! – Io lo piglierei a scapaccioni. – E nell’ampia riquadratura della scena illusoria il dramma si svolgeva. Si allungavano le linee prospettiche di una via alberata, si avanzavano persone dall’andatura frettolosa o di aspetto indifferente, fresche e azzimate ragazze, un facchino con la carriuola a mano, un tram elettrico, un gruppo di ufficiali, due preti che scomparivano rapidamente al momento di uscire dalla tela e precipitar in platea, diventati enormi per la vicinanza, spaventevoli quasi. Ma laggiù, in fondo alla contrada, sinistro e sospettoso, egli sbucava improvvisamente da un angolo di chiosco, traversava la via guardandosi attorno, entrava in un portone. Immediatamente la via dileguava. L’uomo sinistro saliva ora un nitido scalone signorile, e, come egli saliva, la scala saliva con lui o meglio discendeva, nascondendo successivamente, nel nero della cornice, le branche oltrepassate e presentando ai passi cauti e leggeri dell’intruso altre branche, altri pianerottoli, altre porte di appartamenti. Siamo al terzo piano, l’uomo picchia, la porta si apre; compare una cameriera. Poche parole, vale a dire pochi gesti: sono d’accordo. La cameriera prende il denaro che egli le porge e lo lascia entrare. Una istantanea vibrazione, e al posto della scala è una camera sontuosa; nella camera una culla coperta di veli e di merletti. L’estraneo vi corre diritto, rapisce il bambino, lo nasconde sotto il pastrano, se ne va con un ghigno trionfale. – Infame! – grida qualcuno dalla platea. Altre volte l’azione è più vasta, dura molti anni, un po’ meno tuttavia di quella Vita di un giocatore, che ne comprendeva trenta nei suoi cinque atti, ed ebbe l’onore della lode di Giuseppe Mazzini, quando l’indomito agitatore italiano, per disciplinarsi probabilmente alla pazienza, faceva il critico drammatico. Così ulti*
Giustino L. Ferri, Tra le quinte del cinematografo, in «La Lettura», vi, 9, settembre 1906, pp. 794-800.
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Giustino L. Ferri
mamente mi capitò di assistere alla lunga e commovente istoria d’una bella figliuola dell’Agro Romano, sedotta dal padrone. In assenza del padre l’ingenua villanella permette al signore di entrare nel tugurio; il vecchio ritorna improvvisamente, e il padrone se la svigna da una finestra. Ma nella fretta egli ha lasciato un indizio d’accusa, il suo carniere da cacciatore. Il vecchio maledice e scaccia l’imprudente figliuola, che ripara a Roma, dove il signore, giovine e ricco mercante di campagna, largheggia con lei in tutte le soddisfazioni della vanità e del lusso. Intanto è nata una bambina. Sarebbero felici, ma il signore deve prender moglie. Per liberarsi di lei, le offre un fascio di biglietti di banca, naturalmente rifiutati con quel nobile disprezzo che a teatro piace tanto alle persone più avide e meno scrupolose. Sopraggiungono i guai: la soffitta, la penuria, la malattia mortale della bambina. Il pensiero della derelitta vola angosciato all’infedele, che si apparecchia alle nozze. Una proiezione sulla parete di fondo della soffitta precisa questo pensiero in un salottino elegante, dove il traditore fa la corte alla ricca fidanzata. La bambina muore, e il coltello della tradita, che colpisce il seduttore mentre esce dalla chiesa dando il braccio alla sposa, giustifica il titolo di Nozze tragiche imposto alla composizione. Mentre i quadri si succedevano, una brava donnetta popolana spiegava al marito le varie parti e le ragioni del dramma, dandogli anche notizie che rivelavano l’assidua frequentatrice di cinematografi. – Guarda la sposa, – gli aveva detto alla scena della firma dei capitoli, – è quella che l’altra sera faceva Pierrot. Alla fine, dopo la pugnalata, riassunse il suo giudizio in un’esclamazione sincera: – Poveretta! E che doveva fare con un assassino come quello lì? Per lei l’assassino era l’assassinato. La sua pietà per la tradita era inesorabile per l’ucciso. Ma io ripensavo alla osservazione precedente: «La sposa è quella lì che l’altra sera faceva il Pierrot». Come in un vero teatro, gli spettatori del cinematografo dividono la loro simpatica attenzione fra il personaggio e l’attore, si abituano a distinguere l’artista dalla parte; finiranno presto, Dio ci scampi e liberi tutti, col creare una nuova critica teatrale. E poiché ogni critica presuppone un’arte, abbiamo dunque una nuova arte rappresentativa co’ suoi diversi stadi di concezione, di elaborazione, di esecuzione: l’identità personale della sposa delle Nozze tragiche e del Pierrot di uno spettacolo precedente, affermata dalla popolana romanesca, mi ci aveva fatto badare. Il fatto era ovvio, naturalissimo: non era la scoperta dell’America, ma gareggiava almeno coll’uovo del suo scopritore. Per simulare le parvenze di un palcoscenico, bisogna che ce ne sia uno vero, con gente che vi faccia a un dipresso ciò che durante le prove fanno ordinariamente attori, attrici, mimi, mime e ballerine, fra la ribalta e la tela fondo. Ma che gente era, dove stava, donde veniva, come era disciplinata e allenata? Sul manifestino trovai un’indicazione: Società Cines, prima casa italiana di cinematografia. Domandandone, seppi che bisognava andare fuori di porta, in un sentiero ancora campestre, presso la via Appia nuova. Così, il giorno appresso, mi trovai dinanzi a un piccolo
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Tra le quinte del cinematografo
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avancorpo di muratura che metteva in una vasta sala di vetri e di ferro; quaranta gradi alle undici del mattino. La cortesia dell’ingegnere Pouchain e del signor Alberini mi fece presto passare alle siberiane temperature dei sotterranei per gli sviluppi e lavaggi, dove al barlume rosso d’infernali lampade elettriche s’intravvedono ombre maschili aggirantisi nell’ombra, forme incerte femminili curve sopra misteriosi telai e stretti banchi per la colorazione. Ma risalendo verso i quaranta gradi, scorsi in una cameretta, da una porta socchiusa, una donna che finiva di stringersi alla fronte una benda monacale e si assestava un soggolo, guardandosi nello specchio: la cameretta era un camerino di attrice. Rientrati nella sala di vetri e di ferro, lessi in un cartello: «È severamente vietato di fumare in teatro». Finalmente! Quella proibizione mi riportava in paese di conoscenza. Anche lì, con tanto ferro, con tanto vetro! Il signor Velle, noto prestigiatore francese che ha scambiato il trucco dei bussolotti col trucco della cinematografia d’invenzione, mi fece capire che il fumo era pericoloso per le sue nuvolette, che passando dinanzi all’obbiettivo, potevano alterare la precisione dei quadri. Tuttavia la spiegazione terminò con l’offerta ospitale di una sigaretta. Cercai d’informarmi sulle fonti delle composizioni. E seppi così che son quasi sempre letterarie; novelle fantastiche, libri di viaggi, racconti storici, romanzi d’appendice: Giulio Verne o il Welles danno lo spunto, il resto viene più o meno spontaneamente secondo le possibilità della tecnica, la quale è costretta ad arrestarsi talora dove la penna dello scrittore con una goccia d’inchiostro riesce a dar consistenza all’assurdo, e in compenso vince spesso il barone di Munkhausen nelle più audaci sfide a senso comune. Esempio, l’ascensione a una stella in una gigantesca bolla di sapone. Gli errori giudiziari, i furti più sbalorditoi, gli incantesimi e le trasformazioni a vista di luoghi e di persone, le fiabe e le leggende, il possibile e l’impossibile, l’esistente e l’inesistente, tutto passa dall’immaginazione alla pellicola, purché si riesca a inventare il trucco. Questo è il segreto del mestiere, e il mestiere non può esercitarsi senza la collaborazione intelligente di abilissimi fotografi capaci, mercè ingegnose, imprevedibili sostituzioni e sovrapposizioni, di evocare dal fondo di un carciofo l’imperatore della Cina, o di trar fuori da una busta da lettere un comizio di tramvieri scioperanti. Le corse sfrenate, le fughe anelanti per città e campagne, per tetti e montagne, appartengono oramai alla topica comune del genere. Tutti vi ricorrono come i poeti da dozzina al rimario. Ma per riuscire a far il sonetto con un bel botto, il rimario non basta. E al cinematografo bisogna saper rinnovare il vecchio motivo della fuga affannata con inattese variazioni. La sala s’era andata popolando. Oltre gli operai e gli artisti di casa che dipingevano scenari, martellavano, inchiodavano, trasportavano quinte e cantinelle, entravano e uscivano continuamente altre persone dall’aspetto strano e annoiato; uomini pallidi, rasi, con qualche affettazione di accuratezza o di studiata negligenza nel vestire, donne dagli occhi ingranditi col bistro, le labbra troppo rosse, il volto coperto di cipria, messe con eleganza vistosa o con la sciatteria di chi si sveglia tardi e non ha tempo da perdere alla toilette. Una signorina che recitava in
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Giustino L. Ferri
un teatro della città aveva mandata una lettera di scusa per ricusare una parte alquanto leggera… di abbigliamento. Gli altri e le altre andavano a vestirsi o a svestirsi con filosofica lentezza di gente abituata. Erano gli attori e le attrici, per lo più attori o attrici di professione, che profittano dei giorni e delle ore di libertà o delle involontarie vacanze o pure abbandonano la prosa, l’operetta per scritturarsi al cinematografo. La scena in fondo alla sala si allestiva con diligenza minuziosa. In un bricco, sopra un vassoio, fumava della cicoria autentica che doveva essere bevuta con una sincera smorfia di disgusto. Il direttore stesso s’era cincischiata una testa grottesca di troupier francese per una macchietta buffa. In mezzo al teatro, a poca distanza dalla scena, dietro un riparo triangolare di legno bianco, erano il cinematografo sul cavalletto, e l’operatore pronto, nel suo lungo camiciotto di tela. E la prova cominciò. Il signor Velle esponeva prima il soggetto, nel suo italiano facile e rapido lievemente orlato di pronunzia e parole francesi, accennando i gesti della mimica, ripetuti dagli attori e modificati via via, quando non apparivano abbastanza significanti e sicuri. Occorrendo, il direttore ricominciava, si metteva al posto occupato dal personaggio, faceva le controscene. Poi, quando tutto procedeva regolarmente, entrava anch’egli nel triangolo con l’operatore fotografo, e la macchina si metteva a girare. Se il quadretto appariva bene riuscito, con un’altra macchina fotografica ordinaria lo si fissava per i cataloghi da spedire nelle città italiane e all’estero. La Spagna e l’America latina sono molto aficionadas di cinematografie. È difficile immaginare quanta pazienza sia necessaria per ottenere qualcuno di quegli intermezzi comici che passano quasi inosservati. C’è il caso che l’attore, dopo averci ripensato, ricusi di ricevere sulle spalle la secchia d’acqua che espone la sua immagine alle risate dei bambini e la sua persona a un’infreddatura. C’è il caso che un’attrice sia presa da scrupoli, come quelli di cui ho già fatto menzione. La gelosia di mestiere imperversa anche dinanzi alle pellicole: ci sono ombrosità di prima donna e pretese di ruolo come all’Argentina o al Manzoni. In conclusione, come dicevamo, una vera arte nuova, sebbene di ambizioni estetiche modestissime, abbreviazione e contraffazione d’altri spettacoli, ma insomma nuova, e giunta all’ora sua, perché i nostri contemporanei se ne contentano come di tutto ciò che è rapido ed economico. Il cinematografo sta al teatro, come il bar al caffè di vecchia maniera; né il teatro, né il caffè risentono troppo i danni della concorrenza. Chi si ferma un momento al banco di un bar non è l’avventore abituale di un caffè, dove non si va solo per prendere una ghiacciata; chi ha una mezz’ora solo da perdere e venti centesimi da spendere, non andrebbe mai allo spettacolo che dura tre ore e costa tre lire. La cinematografia d’invenzione è un dramma per gli occhi; deve quindi fuggire tutte le complicazioni psicologiche. I mezzi di cui si serve col sostituire l’immagine muta e impalpabile alla concretezza tangibile dei personaggi dialoganti e delle cose solide e consistenti, l’obbligano a non uscire da certi schemi convenzionali, ma gli permettono pure di rincarar la dose dell’illusione e di spingersi fi-
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Tra le quinte del cinematografo
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no agli ultimi limiti dell’inverosimile, sebbene dall’altro lato possa poi correre a sorprendere le realtà della cronaca nell’atto stesso che si formano: cerimonie ufficiali, inaugurazioni e cortei, feste e funerali, disastri e processioni. Ma lasciamo da parte la cronaca e la realtà. Il progresso tecnico riuscirà a stupefacenti risultati in questo ramo principale della cinematografia quando si sarà ottenuto di sopprimere il tremolio, aumentando il numero delle battute (che per ora è di sedici al minuto secondo, salvo i casi di condizioni particolari in cui si può arrivare a venti e anche venticinque), e conseguentemente anche la velocità di svolgimento agli occhi dello spettatore (che adesso percepisce venti figurazioni successive ogni minuto primo). Anche ai drammi e alle commedie cinematografiche gioverà il progresso tecnico, se non altro a rendere più fermi e risoluti i movimenti del corpo umano, che per ora non di rado appare sulla tela in un parossismo d’imitazione forsennata di Ermete Zacconi negli Spettri. Però l’arte di costruire azioni fantastiche, drammatiche, comiche per il cinematografo non può esser modificata nella sua sostanza dalla possibilità di moltiplicare le battute e le percezioni visive dello spettatore. I suoi mezzi d’espressione non muteranno col miglioramento dei mezzi di riproduzione. I suoi caratteri e i suoi elementi essenziali rimarranno gli stessi: argomenti semplici, d’immediata intelligenza, rapidità estrema di condotta, parsimonia di mimica per evitare confusioni, esagerazione di pochi gesti necessari per conseguire la maggiore evidenza. Tutt’al più un perfezionamento ancora lontano e problematico del fonografo permetterebbe una gesticolazione meno esagerata, associandosi, meglio che non sia stato finora tentato in qualche parziale imitazione del teatro lirico, al cinematografo, con la parola, parlata o cantata. Allora dalla mimica si risalirebbe verso il dramma vero o la vera commedia, nonché all’operetta e, se Dio vuole, magari a un completo Barbiere di Siviglia o a un’intera Traviata. Ma la pura cinematografia, nell’ambito suo speciale, non può proporsi che la finzione mimica, anzi la finzione della finzione, risuscitando la pantomima dei romani, ignota ai greci e quasi abbandonata da noi, almeno per gli argomenti seri. L’unico spettacolo di larghe proporzioni al quale può pretendere il cinematografo, senza contaminazioni di espedienti alieni, è il ballo. Con rotoli enormi di alcuni o parecchi chilometri di pellicole, invece del massimo di cinquecento metri o poco più a cui intanto si è arrischiato, si sosterrebbe senza difficoltà uno spettacolo coreografico della durata di una, due ore o più, per un gran teatro, con una magnificenza d’apparato che non metterebbe in pericolo la cassetta dell’impresario. Una forte macchina di proiezioni, quattro, cinque, seimila metri di films, una discreta orchestra, e non occorrerebbe altro. Ma ne sarebbero soddisfatti gli abbonati delle poltrone? Si rassicurino le ballerine. I teatri, dove il ballo è ancora una rispettata tradizione secolare, hanno buone ragioni di conservarla nella sua positiva integrità di polpe naturali o posticce; negli altri è dubbio che l’entusiasmo, negato ai passi a due di carne e d’ossa, si ridesti per le proiezioni. Avevo assistito la mattina alla gestazione dello spettacolo; volli far la controprova di sera. Mi accadde su per giù quello che accade a chi, fra un atto e l’altro,
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Giustino L. Ferri
torna al suo posto dopo aver fatto una visita al protagonista o alla protagonista di una prima rappresentazione. Se la commedia è buona, poco monta di aver visto i barattoli del bianco, del nero, del rosa e l’attore che si veste. Io sapevo oramai come e in qual modo il vizio sia punito e l’innocenza trionfi anche al cinematografo, ma le peripezie di un pover’uomo accusato dalle apparenze di un delitto commesso da un altro mi sembrarono egualmente piene di movimento e di colore. Pittoreschi paesaggi si avvicendavano, spaventevoli scalate, discese vertiginose, ostacoli impreveduti tenevano sospesa e acuivano la curiosità popolare, che seguiva ansiosa l’innocente fra balze e dirupi, insidie e burroni, abissi e agguati. Lo credono colpevole, lo vogliono morto, nessuno ha pietà di lui. La polizia gli si accanisce contro, aizzata dal vero uccisore, che è un uomo ricco, stimato e ossequiato da tutti. L’infelice si arrampica, salta, si getta giù da alture raccapriccianti. Invano! Dinanzi a lui, sulle sue orme, da per tutto è la vendetta sociale, è la cieca giustizia degli uomini che lo ha giudicato e condannato prima di sapere se egli sia o no l’autore del misfatto. Egli è preso. Io credo che il silenzio in cui si agitano le varie figure, in un momento simile, giovi piuttosto che nuocere all’effetto. Le voci umane, le parole, se non hanno il vigore e la potenza di rafforzare la situazione, spesso con l’enfasi che fa cecca e la volgarità che guasta, distruggono la sensazione che si vuol produrre. Lo sproposito dell’autore, la papera dell’attore attendono al varco il dramma da arene, nell’ora trepida della crisi. Qui per contrario ogni personaggio agisce; nessun timore di tirate ridicole e pistolotti a contrattempo. Il deus ex machina arriva modestamente senza strepito da una porticina che si schiude per lasciar passare un fanciullo. Non visto, il fanciullo ha assistito all’orribile delitto. Egli riconosce il reo, egli sa che l’accusato è innocente. Il giurato colpevole, atterrito, si alza per fuggire, ma i carabinieri lo afferrano. L’innocente dalla fisionomia torva alza gli occhi al cielo e ringrazia Iddio, tendendo le mani verso il fanciullo salvatore. Le due innocenze si abbracciano. Oh, gioia! Tutto sparisce, e la luce risplende nella sala come nei cuori. Una signorina accanto a me ha gli occhi pieni di lacrime e le labbra aperte al più dolce sorriso. Va via, verosimiglianza! Che c’importa di te, al cinematografo? Finché ci saranno a questo mondo anime tenere, signorine i cui occhi si empiano di lacrime a coteste trasposizioni grafiche del vecchio romanzo di appendice, è inutile che tu brontoli, verosimiglianza! Purtroppo quella sensibile fanciulla ti ritroverà al canto della via e dovrà piegarsi alle leggi della vita che l’obbligano forse a passar dieci ore in un’amministrazione di commercio, al banco di un negozio, nell’aridità delle cifre, nella monotonia di un ufficio di copiatura a macchina; ma lascia che per venti minuti, ogni tanto, ella si esalti e si creda in un mondo diverso nel quale i fiori aprono i loro calici per effondere nell’aria piccole fate, nel quale le ingiustizie si riparano col solo incomodo del crepitio che scandisce lo svolgimento di una pellicola. Verrà l’ora del tramonto anche per questo repertorio così bonariamente ottimista, così ingenuo, così primitivo. E quando gl’incantesimi avranno perduta la loro magia, quando gli eroismi di maniera, le sventure convenzionali, i
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Tra le quinte del cinematografo
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lieti fini fittizi avranno stancato il pubblico, bisognerà pure che questo repertorio si trovi dinanzi al dilemma: rinnovarsi o morire. Per ora lasciamolo vivere, o verosimiglianza invidiosa! Tanto, non ti fa nessun torto. Roma, agosto 1906.
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Giovanni papini
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La filosofia del cinematografo*
Da pochissimo tempo, in ogni grossa città d’Italia, assistiamo a una quasi miracolosa moltiplicazione di cinematografi. Nella sola città di cui sappia il numero preciso, in Firenze, ve ne sono già dodici, vale a dire uno per ogni diciottomila abitanti. I cinematografi, con la loro petulanza luminosa, coi loro grandiosi manifesti tricolori e quotidianamente rinnovati, colle rauche romanze dei loro fonografi, gli stanchi appelli delle loro orchestrine, i richiami stridenti dei loro boys rossovestiti, invadono le vie principali, scacciano i caffè, s’insediano dove già erano gli halls di un restaurant o le sale di un bigliardo, si associano ai bars, illuminano ad un tratto colla sfacciataggine delle lampade ad arco le misteriose piazze vecchie, e minacciano, a poco a poco, di spodestare i teatri, come le tranvie hanno spodestato le vetture pubbliche; come i giornali hanno spodestato i libri, e i bars hanno spodestato i caffè. I filosofi, per quanto uomini ritirati e nemici del chiasso, farebbero molto male a lasciare codesti nuovi stabilimenti di passatempo alla semplice curiosità dei ragazzi, delle signore e degli uomini comuni. Una simile fortuna, in tempo così corto, deve aver le sue cause, e il filosofo, quando le avesse scoperte, potrebbe forse trovare negli spettacoli cinematografici nuovi motivi di pensiero, e chissà?, persino nuove emozioni morali e suggerimenti di nuove metafisiche. Per il filosofo vero – non per quello che sta fra mezzo ai libri e si potrebbe piuttosto chiamare il rivendugliolo della filosofia – non c’è nessuna cosa nel mondo, per quanto umile, piccola e ridicola sembri, che non possa divenir materia di pensiero, e quelli che sanno filosofare soltanto quando si tratta dell’esistenza del mondo esterno o dei giudizi sintetici, a priori rassomigliano ad un anatomico, che non sapesse parlare che degli esseri mostruosi e dei casi teratologici. Anche i cinematografi, dunque, sono oggetto degno di riflessione, ed io consiglio vivamente gli uomini gravi e sapienti ad andarci più spesso. Essi potranno cominciare col chiedersi per quali ragioni questi luminosi spettacoli incontrino così presto il favore della gente. Chi ha pensato un po’ ai caratteri della civiltà moderna non durerà fatica a ricollegare il cinematografo con altri fatti, che rivelano le stesse tendenze. Rispetto al teatro – che in parte esso tende a sostituire – il cinematografo ha il vantaggio di esser uno spettacolo più lieve, meno faticoso e *
Giovanni Papini, La filosofia del cinematografo, in «La Stampa», 18 maggio 1907, pp. 1-2.
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La filosofia del cinematografo
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meno costoso, di esigere, cioè, meno tempo, meno sforzo e meno denaro. Ora, uno dei caratteri che vanno sempre più accentuandosi nella vita nostra, è quello della tendenza all’economia, non già per stanchezza e per avarizia – che, anzi, gli uomini moderni fanno più cose e sono più ricchi, – ma appunto per ottenere, colla stessa quantità di tempo, di fatica e di denaro, un maggior numero di cose. Il cinematografo soddisfa, nello stesso tempo, tutte queste tendenze al risparmio. Esso è una breve fantasmagoria di venti minuti, alla quale tutti possono assistere per trenta o venti centesimi. Non esige troppa cultura, troppa attenzione, troppo sforzo per tenervi dietro. Esso ha il vantaggio di occupare un solo senso, la vista, – giacché alle mediocri e monotone musiche che accompagnano lo svolgersi delle pellicole, nessuno sta attento, – e questo unico senso viene artificialmente sottratto alle distrazioni per mezzo della wagneriana oscurità della sala, la quale impedisce quei fuorviamenti di attenzione, quei cenni e quegli sguardi, che tanto frequentemente si osservano nei teatri troppo illuminati. Ma il favore presente del cinematografo non si spiega soltanto con queste ragioni, un po’ grette, di economia. Esso è dovuto pure, in buona parte, ad altre superiorità che il cinematografo ha sul teatro, al quale è certo, per tanti lati, inferiore. La più importante di queste superiorità consiste nella riproduzione nel tempo di avvenimenti vasti e complicati, che non potrebbero esser riprodotti sopra un palcoscenico neppure dai più abili macchinisti. Una caccia con tutte le sue peripezie, un’avventura di selvaggi, il varo di una nave, un viaggio nelle regioni polari sono spettacoli che richiederebbero incessanti mutamenti di scena e spazi grandissimi per dare l’apparenza della verosimiglianza. Invece dinanzi alla bianca tela di un cinematografo noi abbiamo la sensazione che quegli avvenimenti sono i veri avvenimenti veduti come si potrebbero vedere in uno specchio che potesse seguirli vertiginosamente nello spazio. Sono delle immagini, – piccole immagini luminose a due dimensioni, – ma che dànno l’impressione della realtà più delle quinte e degli scenari dipinti di un teatro di prim’ordine. Il cinematografo ha poi il vantaggio sul teatro di offrirci lo spettacolo di grandi avvenimenti reali pochissimi giorni dopo ch’essi sono accaduti, e non solo come descrizione di parole o come illustrazione immobile, ma come successione di movimenti presi dal vero e pieni di vita. In questo caso il cinematografo riunisce le proprietà dei giornali quotidiani e delle riviste illustrate: i giornali ci descrivono i fatti nel tempo, ma senza darcene le immagini; le riviste ci dànno le immagini, ma immote e fisse nello spazio, mentre il cinematografo ci dà le figure visibili svolgentisi nel tempo. Esso può offrire alla nostra curiosità ciò che nessun’altra cosa può darci: le scene di trasformazioni. Grazie ai segreti ed ai trucchi della fotografia che già ci avevan dato le fotografie inverosimili (un uomo con la propria testa in mano, ecc.) e le false fotografie spiritiche (esseri umani nebbiosi o trasparenti), si possono ottenere delle pellicole dove accadono le cose più inverosimili e straordinarie: uomini che scompaiono ad un tratto nel pavimento; personaggi di quadri che scendono dalla cornice e vengono in una stanza a danzare un minuetto; divisioni miracolose di corpi;
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Giovanni papini
processioni di teste senza corpo o di corpi senza teste; statue che si animano e si mettono a suonare; animali che si tramutano in uomini; uomini che passano attraverso le pareti, e tutto quanto può immaginare l’uomo nei suoi sogni più pazzi o nelle sue favole più strane. Il cinematografo è, per questo, un aiuto nello sviluppo dell’immaginazione; una specie di oppio senza cattive conseguenze; una realizzazione visiva delle fantasie più inverosimili. Grazie ai suoi stratagemmi fotografici esso ci permette di pensare a un mondo a due dimensioni assai più meraviglioso del nostro. Ma se queste osservazioni spiegano, sia pure in parte, la fortuna improvvisa dell’ingegnosa invenzione di Lumière, non giustificano ancora il mio consiglio ai filosofi. Eppure anche i filosofi, anche i moralisti, anche i metafisici possono venire ad ispirarsi in questi saloni oscuri invece di aggirarsi nei mercati e nelle piazze, come Socrate, o fra i sepolcri, come Amleto, o sulle montagne, come Nietzsche. Il mondo quale ce lo presenta il cinematografo è pieno di un grande insegnamento di umiltà. Esso è fatto soltanto di piccole immagini di luce, di piccole immagini a due dimensioni, e che danno, nonostante ciò, l’impressione del moto e della vita. Esso è il mondo spiritualizzato ridotto al minimo, fatto colla materia più eterea ed angelica, senza profondità, senza solidità, simile al sogno, rapido, fantastico, irreale. Ecco come può ridursi la vita degli uomini senza toglierle la verosimiglianza! Contemplando quelle immagini effimere e luminose di noi stessi ci sentiamo quasi come dèi che contemplino le loro creazioni, fatte a loro immagine e somiglianza. Involontariamente vien fatto di pensare che c’è qualcuno che ci guarda come noi guardiamo le figurine dei cinematografi e dinanzi al quale noi – che ci stimiamo concreti, reali, eterni – non saremmo che immagini colorate che corrono velocemente alla morte per dar piacere ai suoi occhi. Non potrebbe esser l’universo un grandioso spettacolo cinematografico, con pochi mutamenti di programma, fatto per il passatempo di una folla di potenti sconosciuti? E come noi scopriamo, grazie alla fotografia, l’imperfezione di certi movimenti, il ridicolo di certi gesti meccanici, la grottesca vanità delle smorfie umane, così quei divini spettatori sorrideranno di noi, che ci agitiamo furiosamente in ogni senso, inquieti, stupidi, avidi, buffi, finché la nostra parte finisce e scendiamo ad uno ad uno nella silenziosa oscurità della morte.
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Gajo [Adolfo Orvieto]
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spettacoli estivi. Il cinematografo*
Il cinematografo non è uno spettacolo speciale dell’estate: il cinematografo è di tutti i tempi e di tutti i luoghi, come la bicicletta o come il bar automatico. Soltanto, quando la canicola infierisce e i teatri di musica sono chiusi a doppia mandata e quelli di prosa, decimati, appena appena sopravvivono qua e là boccheggiando e perfino i teatrini di varietà agonizzano, mentre le stelle e i divi, tornati momentaneamente alla terra, riposano sui metaforici allori e fra gli scogli o fra le sorgenti non metaforiche, il cinematografo rimane, imperturbato e superstite, lo spettacolo estivo per eccellenza. Alle films è ignoto il riposo: la loro corsa frenetica si perpetua nelle stagioni, senza tregua: precisamente come l’ugola del cantante a traverso la tromba del grammofono diventa capace dei più sinistri prodigi di resistenza. Dardeggi pure il solleone, le films non reclamano vacanze, l’ugola del cantante, come dire? grammofonizzato, non si secca mai: tutt’al più secca il prossimo. Così, in pieno agosto, accade spesso di vedere i più acerbi nemici dell’arte meccanica, prima esitanti sulla soglia che dischiude i nuovi dominî dell’illusione teatrale; poi mescolati ai clienti abituali che aspettano il turno con beata placidità, al rezzo dei ventilatori. Siamo giusti: la spettabile corporazione dei cinematografisti pare che si prefigga lo scopo di tener lontani dai suoi recinti quanti soffrano o si dian vanto di qualche delicatezza di gusto. Affiches gaglioffe, manifesti «sensazionali», lampade ad arco che sbattono o friggono in anguste salette: suoni indiavolati di pianoforti meccanici, vociferazioni di chiamatori, trilli e gorgheggi di grammofoni, campanelli elettrici che lanciano allarmi insistenti annunziando sempre una fine che non finisce od un principio che non comincia mai. L’aspettativa, bisogna riconoscerlo, è piuttosto tormentosa. Ho visto, talvolta, qualche neofita sgomentato dalla nuova Babele, darsi alla fuga prima che i cancelletti fossero aperti al pubblico. Anch’io, neofita, ho provato questi momenti di penosa incertezza. Voi sapete che nella sala dello spettacolo è proibito di fumare: or bene, nel vestibolo si direbbe che fosse piuttosto proibito di non fumare: tanta è la rabbia con la quale si lanciano buffate di fumo a destra e a sinistra, in previsione dell’imminente astinenza momentanea: né manca, ahimè, con tante nuvole, un po’ di pioggia… Tutto ha fine quaggiù, anche l’aspettativa al cinematografo. Come Dio vuole, *
Gajo [Adolfo Orvieto], Spettacoli estivi. Il cinematografo, in «Corriere della sera», 21 agosto 1907, p. 3 (ed. del pomeriggio).
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Gajo [Adolfo Orvieto]
entriamo: ed entriamo quietamente, senza lo scompigliato pigia pigia che caratterizza la folla latina quando muove con ansia alla conquista del miglior posto. Nelle piccole sale del cinematografo i posti sono stabiliti con molto maggior discernimento che non nei teatri della tradizione. Salvo il rispetto dovuto a Riccardo Wagner, pare che qui si sia fatto tesoro dei suoi canoni. Da ogni punto della sala si deve vedere bene, egualmente bene, tutta la scena. È difficile che un cappello di signora sia così stravagante e monumentale da guastare il piacere dello spettacolo. Il pubblico lo sa e perciò non si affretta: entra senza smanie, sicuro di essere ben collocato, checché avvenga. Qualche squillo di campanello, ultima eco di sciagure ormai dimenticate: qualche battuta d’aspetto e poi silenzio e poi l’oscurità. (Ancora Wagner!). Che silenzio! Quello stesso pubblico che chiacchiera, tossisce e si agita nei teatri dove si va per sentire e per vedere, spesso più per sentire che per vedere, qui, dove si va soltanto per vedere, non rifiata. Appena qualche soffocata esclamazione di meraviglia, appena qualche flebile bisbiglio di commiserazione sottolineano i momenti di pathos: l’eccidio, il disastro, il finimondo. I commenti assai brevi sono riserbati ai brevissimi intermezzi fra un «numero» e l’altro. Soltanto verso la fine, quando le bizzarrie della farsa cinematografica si succedono con frenetico crescendo, qualche franca risata rompe il dignitoso silenzio. E quando i lumi si riaccendono definitivamente, con la solita tranquilla compostezza gli spettatori si alzano e se ne vanno, molto soddisfatti, per questa triplice eccellente ragione; che si sono divertiti ad uno spettacolo breve, di minimo costo. Tre requisiti rarissimi che fanno del cinematografo non soltanto un eccellente succedaneo degli altri teatri, nella così detta stagione morta, ma anche un formidabile concorrente quando la stagione è arzilla e viva della sua maggiore vitalità. Vedete infatti come si moltiplicano. Crescono in progressione geometrica, si diffondono dai quartieri centrali della città alla periferia, invadono gli antichi caffè, le antiche trattorie, perfino i vecchi teatri, messi così fuori d’uso. Pare che l’avvenire debba esser per loro. Non è neppure da escludere che a furia di moltiplicarsi non abbiano, prima o poi, anche a perfezionarsi là dove di perfezionamenti sembrano più suscettibili. Per esempio nella composizione cinematografica, nella così detta «azione» che non può esser confusa con la riproduzione dei paesi o dei costumi esotici, della vita vissuta o degli eventi reali. Questa seconda categoria di spettacoli cinematografici deve raccogliere per forza l’unanimità dei suffragi. Un viaggio al Giappone, un’escursione nell’alto Nilo che costano pochi centesimi e durano pochi minuti sono, sotto un certo aspetto, provvedimenti di giustizia distributiva. Per virtù di macchine, fra le tante vagheggiate impossibili eguaglianze, una se ne stabilisce affatto impreveduta dalla sociologia: l’eguaglianza degli uomini nei viaggi. La stessa cosa, mutate le parole, si potrebbe ripetere per l’«avvenimento del giorno»: varo di corazzate, incontro di Sovrani, corse di automobili, scoppio di mine, e chi più ne ha più ne metta. Con l’«azione» cinematografica, dramma, commedia o farsa, usciamo dallo stato di necessità ed entriamo nello stato di possibilità. Si può far meglio, si può
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spettacoli estivi. Il cinematografo
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far peggio. Qui la critica accampa di nuovo i suoi diritti: come i cinematografisti (lo rilevo dall’ultimo Bollettino della Società degli Autori), che vogliono i propri tutelati dalla legge… L’«azione» cinematografica in sostanza è retta dalle stesse norme che governano la pantomima: un genere teatrale, sia detto in parentesi, ch’è passato di moda da un pezzo. Il mimo, l’uomo che parla con gli occhi, ragiona con le mani e si dispera con tutti e quattro gli arti, ai nostri giorni è considerato piuttosto come un oggetto da museo. Eppure persone che si addormenterebbero in piedi assistendo ad una pantomima, restano sveglie, per quanto sedute, e prendono anzi vivo interesse ad un’azione cinematografica ben combinata. Perché? Perché l’«azione» cinematografica ha sulla pantomima comune un vantaggio specialissimo, inapprezzabile. Può essere – nientemeno – collocata nell’ambiente vero. Un dramma d’amore? E sta bene: vi mostreremo il protagonista o fra la folla delle vie cittadine o nei viali solitarî di un giardino pubblico o sulla spiaggia del mare. E saranno vere vie, veri giardini, vero mare. Un delitto in treno? Maglio che mai: noi proietteremo sulla tela un treno autentico che arriva, che riparte, che si vuota e si riempie di viaggiatori. La vita animerà la finzione scenica in mille modi che sfuggono all’arte. Al diavolo i fondali, gli alberi di cartapesta, le cascate di truciolo, i fuochi di bengala e il sole elettrico! La vita coi suoi piccoli drammi innumerevoli e con le sue piccole innumerevoli commedie accompagnerà nel largo ritmo inimitabile gli eventi preordinati e fittizî. Col rapidissimo avvicendarsi dei quadri, ignoto alla pantomima, questa vita diffusa e quasi impalpabile manifesterà (suprema illusione), il suo carattere essenziale, come se fosse riprodotta nelle sue forme dinamiche. Così avviene che nelle «azioni» cinematografiche, anche in quelle più ingegnosamente combinate, lo spettatore di buon gusto è tratto spesso a perder di vista le gesticolazioni frenetiche dei «personaggi» per seguire con l’occhio la figurina ignara che traversa la strada, il piccolo gruppo di quelli che si sono fermati ad osservare di lontano, magari il cane che scodinzolando corre su e giù per la scena improvvisata… La vita! Il cinematografo è e deve essere il trionfo della vita. Se le «azioni» cinematografiche sono opportune e magari necessarie per contentare i gusti del pubblico un po’ grosso, si collochino almeno nell’ambiente vero. Il rotear degli occhi, le scosse convulse, le disperate gesticolazioni dei «personaggi» saranno più facilmente accettate se intorno ad essi circoli e palpiti la vita. Fino al giorno (ahimè, non sembra prossimo), nel quale l’ingegno dei cinematografisti riesca a dar forma adeguata a un sogno d’arte e a tradurre meccanicamente sulla tela le più alte e meravigliose fantasie. Per ora gli spettacoli fantastici e le féeries del cinematografo sono fredde riproduzioni di modeste azioni coreografiche: il mirabile ordigno discende qui fatalmente al di sotto della pantomima. Le films nella loro ridda vertiginosa ci danno l’immagine esatta di quei fondali, di quegli alberi di
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Gajo [Adolfo Orvieto]
cartapesta, di quelle cascate di truciolo, di quei fuochi di bengala, di quei soli elettrici che sono patrimonio, né invidiato né invidiabile, del vero teatro. Abbiamo così l’immagine fedele di un’imitazione più o meno fedele: qualche cosa come un’imitazione alla seconda potenza. Ecco perché in quello che dovrebbe essere il regno dell’illusione, l’illusione è, di regola, assente. Ma nessuno può prevedere dove andremo a finire nei beati dominî dell’arte meccanica. Soltanto, non bisogna aver fretta. Pensate: il principio elementare di ottica sul quale è fiorito l’odierno cinematografo (ce l’ha ricordato proprio in questi giorni uno scienziato francese), non era ignoto a Lucrezio e fu ampiamente illustrato da Tolomeo: venti e diciassette secoli fa. Ma allora il cinematografo era, tutt’al più, un tizzone acceso che rotando nell’aria descriveva una curva luminosa. Voi sapete quello che è oggi. Vogliamo scommettere che fra diciassette o venti secoli sarà riuscito a dar forma adeguata a un sogno d’arte e a tradurre sulla tela le più alte e meravigliose fantasie?
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Crainquebille [Enrico Thovez]
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L’arte di celluloide*
Su lo scorcio del secolo scorso si accese una disputa grave: qual fosse l’uomo o la cosa o l’idea chiamata all’onore di conferire il proprio nome al secolo morituro. La cronologia e la storia si giovano di tali designazioni: i secoli, non meno delle scatole verdi dei notai, hanno bisogno di un’etichetta. Si sa che il Cinquecento è il secolo di Leone X, il Seicento quello del Re Sole, il Settecento quello dell’Arcadia: designazioni arbitrarie, irrazionali, false, ma eminentemente mnemoniche, e come tali possentemente educative. Sarebbe l’Ottocento il secolo del vapore o di Herbert Spencer, dell’elettricità o di Riccardo Wagner? I patrioti italiani, che non dormono, affermarono senza ombra di dubbio che sarebbe il secolo di Giuseppe Verdi. La questione non fu risolta, e di essa avrà ad occuparsi la posterità, ma nessuna dubbiezza essa avrà nel nominare il secolo nuovo. Se a dare il nome ad un periodo di tempo è chiamata la creatura o l’idea che maggiore influenza ebbe sugli spiriti, che più profondamente dominò l’esistenza umana, si può anticipare fin d’ora il giudizio: il secolo attuale non potrà ricevere che un nome: non sarà cioè né il secolo di Marconi, né di Santos Dumont, né delle suffragette, né di Alceste De Ambris, e né meno il secolo del busto refouleur o di Gabriele D’Annunzio: sarà semplicemente il secolo del cinematografo. Poiché nessuna opera d’arte, invenzione scientifica, tendenza economica, speculazione ideale, forma di moda potrà contendere per vastità di azione, profondità di penetrazione, universalità di consenso con l’umile cassetta di legno di cui un disgraziato, eretto su di un trespolo nell’ombra di un retrobottega, gira la manovella, e nella quale si svolge con un ronzio di arnia popolosa l’interminabile nastro di celluloide seminato di microscopiche immaginette. Come una striscia di polvere pirica sparsa ai quattro venti e accesa a l’uno dei capi, il cinematografo si è sparso con velocità spaventosa per il mondo, ed ha invaso i recessi più impervi. Potrete forse scovare a furia di sforzi e di tenacia caparbia qualche angolo perduto in cui non fiorisca la pianta parassitaria della cartolina postale, ma alcuno non ne troverete in cui non risuoni il ticchettio di orologeria delle ruote dentate di un cinematografo. Si citarono in altri tempi come esempi inauditi di penetrazione pacifica della civiltà in contrade selvaggie, il nome del lucido Nubian scritto sopra la sacra roccia di un ipogeo egiziano all’altezza della *
Crainquebille [Enrico Thovez], L’arte di celluloide, in «La Stampa», 29 luglio 1908, p. 3, da cui si cita; poi, con lievi varianti, in Id., L’arco d’Ulisse: prose di combattimento, Napoli, Ricciardi, 1921, pp. 206-215.
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Crainquebille [Enrico Thovez]
terza cateratta del Nilo, o la scatola di latta di biscotti Huntley e Palmers adorata come un feticcio prodigioso da una tribù della Papuasia; ma il cinematografo ha compiuto ben altri prodigi: io sono certo che esso, messo in azione con olio di tricheco, allieta, mentre scrivo, le lunghe veglie degli eschimesi nelle capanne di ghiaccio della Baia di Baffin e dei Ciutci della Nuova Siberia, o facilita le digestioni laboriose degli antropofagi della Tasmania o del Baghirmi. Differenze cutanee, suntuarie, etniche, estetiche, giuridiche, sociali cedono dinanzi alla solidarietà nel sacro culto dello schermo di tela e del cono di luce. Si poté anni sono convocare a Chicago un congresso di tutte le religioni, e dicono che fu spettacolo capace di fare scorrere le lagrime dalle ghiandole lagrimali più inaridite ed indurite dalla miscredenza, ma nulla sarà più commovente della scena di fratellanza umana data da un prossimo congresso di cultori del cinematografo. I filosofi hanno finora disconosciuto l’importanza del fenomeno: lo hanno sdegnato come la semplice diffusione di un divertimento volgare; non hanno visto che è più denso di filosofia sociale di un’enciclica rerum novarum. La storia del cinematografo ha due stadi nettamente distinti e quasi antitetici: fu dapprima ingegnosa e fedele ricomposizione meccanica della realtà in movimento, una realtà un po’ tremula di infanzia malsicura, e malata di una strana malattia cutanea, come di un’eruzione di bolle luminose, ma realtà sincera, e come tale piacque agli spiriti colti ed agli artisti, ma non fu troppo gustata dalla folla: l’amore sviscerato della folla nacque quando esso abbandonò la realtà vera e si fece artificio, quando coi sussidi della fantasia, dell’illusione scenica, della mimica, della truccatura, contraffece la natura: creò farse e tragedie, idilli e commedie, visioni e misteri, quando si pose, cioè, sulle stesse vie dell’arte, quando ne divenne il fac-simile a buon mercato. Il carattere più spiccato della civiltà moderna è la creazione dei surrogati. Fra i diamanti di carbonio puro e quelli di silicato di piombo non v’è differenza sensibile pei profani, tanto è vero che le aste e le liquidazioni giudiziarie riserbano spesso sorprese spiacevoli ai creditori ed agli eredi: fra le fibbie, i pendenti, gli spilloni cesellati da un Lalique e quelli che ostentano per una lira e settantacinque centesimi il loro scintillio seducente dai coni giranti dei bazars a prezzo fisso, dietro i cristalli stellati di lampadine elettriche colpite da epilessia, non vi è differenza estetica proporzionata all’abisso del costo: è più dal viso che dalle stoffe che possiamo oramai distinguere una sartina che ha speso una quindicina di lire e molto fiato di apostrofi energiche presso il bancherottolo all’aria aperta, dalla signora che mediterà affannosamente sulle tre o quattro cifre, senza contare i decimali, della nota scritta in termini francesi e stemmata di un qualche monogramma reale. È la tendenza egualitaria, che prima ancora del trionfo del collettivismo in politica, tende al pareggiamento estetico ed edonistico delle gioie e delle vanità; è essa che vuol fornire a tutti, almeno in apparenza, la stessa somma o la stessa forma di piaceri; e poiché i piaceri non esistono di per sé, ma sono il frutto dell’illusione nostra o il riflesso dell’invidia altrui, li fornisce in realtà. L’arte e l’elegan-
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L’arte di celluloide
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za furono un tempo cose aristocratiche, a cui si poteva giungere soltanto con la coltura, con la nascita o con la ricchezza: ora esse sono messe alla portata di tutte le borse; anzi, di tutte le borsette, da quelle catenate di oro e di argento a quelle altre di metallo giallo e di nichel. Fra tutti questi surrogati in cui si appunta il genio inesauribile e mirabile dell’industria moderna, non c’è elemento più duttile, agile, destro a plasmarsi in tutte le forme ed a tramutarsi in tutte le nature dell’umile prodotto della pasta di legno, trattata con acido nitrico ed impregnata di canfora: del celluloide. Nel suo parere e non essere, nel suo ingannare con lucida disinvoltura, nel suo docile piegarsi a tutte le occorrenze, esso è veramente simbolo della mentalità e della vita moderna. Assai più del modernismo biblico, che rovesciando i dogmi come un vecchio guanto rinsecchito, li rende morbidi e pieghevoli ai bisogni dell’oggi, assai più del socialismo riformista, che col pacifico contatto di persuasione orale dirime magicamente i conflitti per la libertà del lavoro, il celluloide è un apostolo di conciliazione fra le classi e le fedi, un cospicuo creatore di benessere e di pacificazione sociale. Esso fornisce una gioia pura e senza rimorsi a quanti, o più a quante, non possono procurarsi l’avorio e l’agata, lo smalto e l’ambra, la tartaruga e il corallo: lenisce il dolore per la perdita di un pettine caduto dietro un sofà in un istante di agitazione, in qualche sito in cui non è agevole ritornare; fa considerare con tranquillità morale la rottura di una stecca di un ventaglio, sbattuto imprudentemente in un moto di dispetto contro la balaustra di una terrazza; rende meno grave il dono di un chicco di una collana, che verrà conservato religiosamente come purissima ambra del Baltico in fondo ad un cassetto, fra un guanto ed una giarrettiera; consente anche alle gole più umili di adornarsi di un cammeo antico, che non sarà inciso da quel Pirgotele che intagliò il suggello di Alessandro, ma che potrà impunemente cadere in terra senza andare in frantumi. Il miracolo operato nel campo materiale dalle chincaglierie, il celluloide lo ha pur compiuto in quello ideale dell’arte e della commozione. Come la duttile pasta ha provveduto il fac-simile dell’adornamento lussuoso, la strisciolina elastica e trasparente che porta su di sé disseccata in stasi infinite la grottesca anatomia del movimento, ha fornito il succedaneo a buon mercato delle faticate costruzioni del genio: della commedia e del dramma, della tragedia e del poema: col sussidio del fratello in democrazia, il grammofono, sostituisce anche l’opera in musica. Li ha sostituiti, e li debella dal loro soglio, perché la visione cinematografica ha superiorità incontestabili. Per provocare la commozione della folla anche il più sbrigativo dei manipolatori di drammi da arena era pur costretto ad una certa fatica di trapassi verbali per la concatenazione logica degli avvenimenti. Il cinematografo ha alleggerito l’azione scenica da questo peso: ridotta al suo puro schema drammatico, essa trasporta lo spettatore con la velocità di un automobile in pista dalla causa all’effetto: egli non ha più da correre a leggere l’ultima pagina del romanzo, o da aspettare con impazienza la scena finale del dramma per sapere lo scioglimento della favola. Dell’azione non è rimasto che l’intreccio, il che è a dire l’unica cosa che interessa i novantanove centesimi di coloro che aprono un libro od entrano in un teatro. Ciò che prima richiedeva da tre o quattro ore di seduta
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Crainquebille [Enrico Thovez]
penosa, con privazione del sigaro, noia di entr’actes interminabili, fastidio di orchestrina stonata, si ottiene in pochi istanti. Le gesta del più fantasioso dei delinquenti sono sbrigate in cinque minuti. In cinque minuti il ladro può entrare nella casa di campagna, uccidere la serva, legare un asciugamano al collo della padrona, svaligiare la cassa-forte, fuggire dalla finestra, esser acciuffato dai gendarmi, tradotto in prigione, giudicato dalla Assise, trasportato alla nuova Caledonia, può segare le sbarre del carcere, evadere dal penitenziario, rivoltellare i guardiani, vagare nelle foreste vergini, assassinare un viandante, fuggire all’inseguimento dei cow-boys, essere colto col lazos come un cavallo riottoso, venir linciato ad un albero. Ma c’è di meglio: nell’arte scenica di altri tempi gli avvenimenti si svolgevano col ritmo naturale della vita: tutt’al più si poteva affrettarne la soluzione, saltando qualche mese, anno, lustro, decennio da un atto all’altro. Ma ora, imprimendo agli aspi del cinematografo una velocità conveniente, gli avvenimenti stessi si svolgono con velocità fulminea: la gente si muove, gestisce, agisce come pervasa da una quintessenza di vita: un’ora passa in un secondo, due o tre mesi in pochi minuti: all’occhio non è concesso che il puro tempo necessario per percepire l’azione: col minimo mezzo di attenzione si raggiunge la massima somma di commozione. Il cinematografo potrebbe a buon diritto assumere per emblema quello stesso simbolo usato dalle case americane, produttrici di estratto di carne: «un bue in una pentola». Al fatto umano sono state tolte le cose inutili alla nutrizione intensiva: le ossa, la pelle, i muscoli, i nervi, le corna, le unghie, i tendini: non rimane che un po’ di sedimento salato in un vasetto: l’intreccio: e non c’è nemmeno bisogno di scioglierlo nell’acqua come il cucchiaino di liebig; lo si deglutisce tale e quale: l’acqua la si aggiungerà all’uscita: il brodo lungo lo si farà con agio nei commenti, tornando a casa. Poiché la visione cinematografica abolisce la noia del pensiero, sopprime la fatica del ragionamento, inibisce il controllo logico dell’istinto; nessun accorgimento geniale potrebbe riuscir più persuasivo del suo realismo fotografico: essa è reale nella falsità e falsa nella realità; concilia cioè i due termini antitetici della rappresentazione estetica: il carattere e l’ideale: è la forma suprema dell’arte democratica e socializzatrice, depurata d’ogni aristocrazia feudale di pensiero, d’ogni preziosità decadente di espressione, d’ogni astrusità di simbolo, dell’arte messa alla portata di tutte le intelligenze e di tutte le borse, contingente e trascendente, universale ed eterna. Grave è perciò il torto dei critici drammatici, dei drammaturghi e degli attori che protestano contro l’invadenza del cinematografo e si dolgono che le sale buie e disadorne del nuovo culto si stipino di folla che diserta quelle illuminate e sfarzose dell’antico rito scenico. Ma pregno di insegnamento e di rampogna è il mònito che loro viene dall’adesione sincera ed entusiastica che alla magica macchinetta ha dato un grande artista. Il divino Gabriele1 non poteva rimanere 1
Gabriele D’Annunzio. Bersaglio polemico di Thovez è la possibilità di un suo impegno «novatore» nella nuova arte prospettata nell’intervista rilasciata pochi mesi avanti a Ettore Janni e comparsa sul «Corriere della sera» il 29 maggio 1908 (antologizzata in questo volume, pp. 265-266).
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L’arte di celluloide
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estraneo e indifferente a questo supremo rinnovamento dell’arte: egli che «va verso la vita», egli che ha preso per emblema della sua attività il «o rinnovarsi o morire», egli che ha scritto di sé: «tutto fu ambito e tutto fu tentato», egli che nella sua multanime anima ha invidiato il gesto di colui che aggioga il toro e di quegli che intride la farina, invidiò il gesto assai più rimunerativo di chi gira o fa girare la manovella del cinematografo. Egli che aprì nuovi cieli alla pittura col favoloso quadro delle Parche dipinto pel Salon di Parigi, egli che fornì con l’Acqua Nunzia l’ambrosia pel mattutino lavacro ristoratore alle sue esauste lettrici, egli che col teatro d’Albano provvide alfine alla Musa tragica la sede degna, che con la ruota elastica per automobili mise gli chauffers al riparo dalle pannes fastidiose, annunzia ora la rieducazione dell’anima popolare con gli impacchi taumaturgici dei miti di celluloide. Per verità, a questo ideale d’arte cinematografica il poeta già si era avvicinato nella sua ultima opera La Nave. In essa già si avverte chiaramente il predominio trionfante dell’azione sull’espressione. La vociferazione verbale, se è apprezzata alla lettura dalle menti raffinate dei letterati, non ha sulla scena, per la sua astrusità semassiologica, altro valore per gli spettatori plaudenti che quello di un rombo sonoro, facilmente sostituibile col fragore della ruota di legno piena di sassi che dietro le quinte simula il tuono. Non era questa che una forma transitoria: vedremo presto il tipo puro. La dignità tragica ed il mistero mitico entreranno col poeta nel cono di luce evocatore di immagini. Non più soltanto la serva che spenna il cappone e nasconde il caporale nella cassa della lingeria sudicia, l’attendente che lascia scappare di gabbia il canerino e lo sostituisce con un anitrotto, il prete che insidia la cameriera e si trova in mutande nella via: vedremo in veste da camera Numa in colloquio con la Ninfa Egeria, e San Francesco a cui il lupo pone nella palma la zampa. Grazie alla rapidità meccanica dell’ordigno moderno, tutto il ginepraio di parentele dell’Olimpo ellenico sarà dipanato in cinque minuti: le astrusità della filosofia indiana, il mistero bramanico della metempsicosi e quello buddistico del nirvana diverranno plasticamente tangibili e comprensibili anche alla psiche del pompiere di servizio o del negro in giacchetta scarlatta che distribuisce il programma. E già i segni annunziatori di quest’alba gloriosa appaiono all’orizzonte. Già il cinematografo si volge alle supreme creazioni della fantasia umana: già è comparso nella magica striscia Amleto, depurato dalle esorbitanze verbali di Guglielmo Shakespeare, già Don Giovanni mette ogni sera nel sacco, senza fatica di fiato, le sue mille e tre amanti: vedremo presto, senza dubbio, Tristano e Isotta tracannare il filtro e dimostrarne tacitamente, con cinematografica rapidità, gli effetti. Riccardo Wagner è morto troppo presto: gli è mancato questo supremo strumento di evocazione: con l’aiuto del nastro trasparente e della lampada ad acetilene avrebbe girato l’unico scoglio della sua opera colossale: la lunghezza. In un quarto d’ora gli dei e gli eroi sarebbero sorti dall’informe fluttuare delle cellule vaganti e precipitati nell’ombra misteriosa del crepuscolo. Mancherebbe la musica, ma per i più farebbe lo stesso. O anche se ne potrebbe
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Crainquebille [Enrico Thovez]
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fare un pot-pourri cinematografico, un brodo ristretto musicale. Quanti wagneriani proverebbero per la prima volta un qualche piacere sincero! Il maestro di Lipsia diverrebbe quasi degno di sedersi accanto al Puccini, persino agli occhi degli editori di musica…
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Giulio De Frenzi [Luigi Federzoni]
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L’abolizione della parola*
Alcuni cinematografi annunciano su tutte le cantonate la rappresentazione della «Arlesienne, magistrale capolavoro della casa X…, tratto dal testo di Alfonso Daudet». Ci possono essere, a quanto pare, capolavori non magistrali e magari mediocri, quelli ad esempio, come Jack o Les Rois en exil, che non furono sinora tradotti in pellicole: ma per i capolavori magistrali ha il monopolio della fabbricazione la casa X…: ed è un’industria molto fruttifera, la quale consiste nel togliere a un’opera di poesia ciò che questa ha di vano e di noioso, la organizzazione psicologica delle figure, la profondità del pensiero, l’arguzia dell’osservazione, la magia dello stile, nel ridurre il dramma o il romanzo al nudo schematismo del «fatto», alla inanimata esteriorità delle contingenze, a ciò insomma che solo ha una significazione e un’importanza, proiettandolo su una tela bianca in una rapida serie d’immagini ballonzolanti e abbaglianti dinanzi a una «élite» di intellettuali che hanno pagato venti centesimi… Fino a poco tempo fa, i cinematografi dovevano contentarsi delle scenette comiche del Bagno involontario o di Mia moglie me l’ha fatta: caricature in azione che non potevano soddisfare il buon gusto delle persone distinte. Ma adesso, come sapete, parecchi autori drammatici parigini, fra i più noti e applauditi, preoccupati dalla minacciosa concorrenza dei cinematografi, hanno pensato che il miglior modo di combatterla sia il volgerla a proprio vantaggio, e si sono fatti fornitori di «magistrali capolavori» alle varie case X… Anche in Italia si prepara qualche cosa di simile. Un giornale teatrale milanese porta oggi il programma di un concorso per una commedia cinematografica con trecento lire di premi. E c’è chi si lamenta ancora dello stato di abbandono in cui è lasciato il teatro italiano!… La nostra età assiste al trionfo di tutte le forme di progresso e di elevazione. Che cos’è, dirò meglio, che cos’era la letteratura? Parole, parole, parole… ossia menzogne, ciance, vacuità, ridicolezze. La civiltà meccanica, ch’è gloria del secolo in cui abbiamo l’immensa fortuna di vivere, non poteva permettere il perpetuarsi di questa inutilità vuota di senso. Il teatro, sì, è compatibile con le conquiste della civiltà, perché il popolo ha bisogno di ridere e di commuoversi un po’, ogni tanto, per digerir bene; ma conviene condensarlo nella muta celerità d’una
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Giulio de Frenzi [Luigi Federzoni], L’abolizione della parola, in «Giornale d’Italia», 28 ottobre 1908, p. 3.
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Giulio De Frenzi [Luigi Federzoni]
cinematografia: conviene far vedere, non far pensare: dare delle pure sensazioni, e non altro, non altro, per carità! Così, in sostanza, è ritornata in onore la pantomima. E quanto più si estenderanno e perfezioneranno le applicazioni del cinematografo, l’evidenza dell’immagine mobile tenderà sempre più a sostituire la opacità della parola scritta: finché non saremo indotti ad abolire del tutto, come un’anticaglia superflua, l’alfabeto. E quella poi, sarà la vittoria suprema del progresso.
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Ricciotto Canudo
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Trionfo del cinematografo*
Una domenica fiorentina piovosa e mite, mi ha dato la gioia di riconoscere una verità. Solo, e pervaso da quella tristezza particolare e da quel malessere fisico che proviene dalle notti passate in treno, tristezza e malessere singolarmente addolciti dall’atmosfera spirituale in che Firenze avviluppa lo spirito di chi resti molto tempo lontano, io seguivo alcune folle vestite a festa e animate dalla volontà lenta di prolungare la volontà della loro sortita ebdomadaria. Seguii così alcuni gruppi in una prima sala di Cinematografo. Là i ritmi delle canzoni parigine mi scossero. Notai subito che a Parigi suonano di preferenza in quei luoghi le sensuali musiche newyorkesi, mentre qui sentivo le leggiere armonie francesi. L’orchestra era povera certo, ma non infame, e mi piacque notare questi scambi di ritmi popolari, cioè essenziali di un popolo, in città così diverse e in luoghi identici. Molta gente aspettava, con me. Ed aspettava con grande pazienza. Ed aspettava gioconda, tanta appariva l’ansia dello spettacolo a cui dovevamo assistere, lo spettacolo cinematografico. Noi eravamo nel vestibolo di un teatro, certo, di un teatro nuovo. Ma l’impressione spontanea dell’attesa in un pronao mi occupava e mi faceva guardare tutte quelle faccie per scoprirne lo spirito. E questo spirito non era religioso, ma in quelle fisionomie di popolani rudi, fieri o feroci anche alcuni, o di piccoli borghesi soddisfatti, appariva per me simile a quello degli artisti e degli amatori di musiche che aspettano durante qualche ora l’apertura dei concerti domenicali, a Parigi. E compresi che gli uni e gli altri erano gli uomini nuovi che non hanno più un tempio, perché non hanno più la fede che animava per gli uomini i vecchi tempî, e cercano una forma nuova e profetica dello spirito templare, aperto nei tempi moderni nell’espressione duale del Teatro e del Museo. La volontà spirituale che anima gli artisti dei concerti sinfonici mi sembrava identica a quella di quel popolo domenicale. Gli uni e gli altri avevano da qualche generazione disertato il Tempio, e disertavano il Museo ed il Teatro. Non analizzo qui la gioia dell’oblio estetico elargita agli ansiosi dalle grandi espressioni orchestrali. Ma voglio dire di quello che il cinematografo dà ad uomini nuovi. Fra le maraviglie dell’invenzione moderna, il Cinematografo appare subito come la suprema. Esso le riassume tutte, in simbolo od in realtà. Noi abbiamo *
Ricciotto Canudo, Trionfo del cinematografo, in «Il Nuovo giornale», 25 dicembre 1908, p. 3; poi in due puntate, con tagli, senza il nome dell’autore («un distinto scrittore») e senza indicazione della fonte, in «La Rivista fono-cinematografica», iii, 3/4 - 5, 20-26 gennaio - 5 febbraio 1909, e da qui in Tra una film e l’altra. Materiali sul cinema muto italiano 1907-1920, Venezia, Marsilio, 1980, pp. 65-72.
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Ricciotto Canudo
creato una dea nuova, per l’Olimpo nostro. Questa dea è la Velocità, degna in tutto dell’adorazione che gli Antichi ebbero per la Forza, degna sopratutto della nostra più grande, più complessa, più fine sensibilità. Il misticismo profondo diffuso riconoscibile per mille segni, se pur non anche concentrato nella volontà di un messia o di uomini messianici, crea lentamente il tempio spirituale della nuova dea. Noi non possiamo intravedere in nessuna estasi apocalittica ciò che sarà il tempio futuro. Non pensiamo che i nostri Santi saranno i nostri Eroi del ritmo, i nostri più grandi creatori di armonie estetiche. Non pensiamo anche che l’essentia di una nuova religione sarà la musica che è la sola arte in continua incessante evoluzione, cioè in accrescersi di complessità, e che è l’arte sviluppatasi solo in un tempo straordinariamente recente. Per la musica infatti l’uomo comunica con tutta la natura, con l’universale, cioè direttamente con la conoscenza sintetica dell’Universo che è Dio. La musica determinerà l’èra dell’unione diretta con Dio, senza l’intervento della grazia, il regno dello Spirito Santo. E la nuova religione sarà essenzialmente musicale, così come la religione pagana fu scultoria e la cristiana pittorica. Questo noi pensiamo oggi e quindi sappiamo, e possiamo solo pensare e sapere. Ma quale sarà il Tempio nuovo? In quali forme si adagerà lo spirito religioso nuovo che riunirà novamente il Teatro ed il Museo, la gioia dello Spettacolo e la gioia della contemplazione estetica, la rappresentazione mobile e la rappresentazione immobile della vita? E quali saranno le forme dell’arte nuova, che sorgerà, come sempre, da un mito nuovo? Nella sala in cui un movimento meravigliosamente pocubinato [sic] d’imagini fotografiche e di luce, la vita è rappresentata al culmine dell’azione in una vera convulsione parossistica dell’azione, vi è intanto l’indizio dell’arte nuova. È singolare infatti che tutti i popoli della terra, per fatalità universale o per telepatia spirituale, non abbian concepito che l’identica maniera d’essere in estetica. Noi possiamo analizzare in ogni paese, dell’antichissimo Oriente come del più recente popolo scoperto dagli eroi geografici, gli stessi genera di arte: dalla Musica, con il suo complemento di Poesia, all’Architettura, con i suoi due complementi di Pittura e di Scultura. Cinque espressioni di arte, non più, in cui l’anima estetica del mondo si è sempre manifestata e si manifesta. Una sesta espressione di arte, sembrerebbe assurda, anzi inconcepibile. Infatti, nessun popolo l’ha mai concepita, da millennî. Ma noi forse assistiamo al sorgere di questa sesta impressione, per quanto ogni uomo ragionante crederà di poter sorridere ad una tale affermazione fatta in un’ora crepuscolare come la nostra – crepuscolo dell’alba! – in cui ogni forma è confusa e poco riconoscibile se gli occhi non sian fatti acuti dalla volontà e dalla possibilità di scoprire. E questa espressione d’arte sarà una conciliazione tra i Ritmi dello Spazio (Arti plastiche) ed i Ritmi del Tempo (Musica e Poesia). Il teatro ha realizzato sinora questa conciliazione; ma essa era effimera, perché la plastica del Teatro dipende strettamente da quella degli attori ed è quindi sempre diversissima. La nuova espressione di arte dovrebbe essere invece precisamente una Pittura e una Scoltura svolgendosi nel tempo, come la Musica e la Poesia che hanno vita, ritmano l’aria durante il tempo della loro esecuzione.
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Trionfo del cinematografo
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Il cinematografo – è inutile cambiarne il nome non bello – indica la via. Un genio – il genio è sempre un miracolo; così come la bellezza è sorpresa – potrebbe compiere l’opera di conciliazione oggi appena concepibile, trovare i modi, oggi quasi inverosimili, di un’arte che sembra certo ai più favolosa e grottesca, e creare una corrente enorme di emozione estetica nuova, con un’Arte plastica in movimento. Il Cinematografo è composto di elementi significativi, «rappresentativi», nel senso emersoniano e non nel senso teatrale, che è necessario ordinare diggià. Ho detto che esso ha due aspetti: uno simbolico ed uno reale, tutti due modernissimi, cioè possibili solo sul nostro tempo. L’aspetto simbolico è quello della velocità. Tutto, è offerto alla velocità che lo realizza. Lo spettacolo si ottiene solo con un eccesso di movimento delle film dinnanzi e dentro alla luce, e dura poco, la rappresentazione è rapida. Nessun teatro mai potrebbe dare una così strabiliante rapidità di cambiamenti di scenarî, per quanta meraviglia di macchine avesse. Ma più del movimento delle imagini e di questa rapidità della rappresentazione, ciò che è veramente simbolico della velocità moderna è il Gesto dei personaggi. Le scene più tumultuose, le più inverosimilmente movimentate, si svolgono precipitosamente con una rapidità impossibile nella realtà, e con una precisione matematica di orologio, che soddisfa l’ansia organica del più esasperato corridore di distanze. Tutto il nostro tempo, per mille demeriti di complessività, ha distrutto l’amore della lentezza che fu simboleggiato dai nostri padri patriarcali col segno familiare della pipa accanto al fuoco. Il Cinematografo soddisfa ogni più accanito odiatore della lentezza. L’automobilista che assiste ad uno spettacolo cinematografico appena giunto dalla più pazza corsa attraverso gli spazî, non avrà il senso della lentezza, anzi le figurazioni della vita gli appariranno rapide come quelle degli spazî percorsi. E il Cinematografo gli darà anche la visione dei paesi più lontani, degli uomini più sconosciuti, dell’espressioni umane più ignote, moventesi, agenti, palpitanti dinnanzi agli sguardi del contemplatore trascinato nella rapidità della figurazione. E questi è il secondo simbolo della vita moderna, simbolo istruttivo, che le mostre di «fenomeni» delle vecchie fiere, contenevano in rozzissimo embrione: la distruzione delle distanze, con la conoscenza vibrante dei paesi più diversi, così come fanno sempre di più le creazioni di ferro e di acciaio degli uomini, dal secolo scorso. L’aspetto reale del cinematografo è poi composto di elementi che interessano meravigliosamente la psicologia del pubblico e la realizzazione dello Spettacolo moderno. Stanco dello eterno teatro dell’adulterio, base, essentia, del teatro borghese, e nell’attesa di un teatro nuovo dei Poeti, la rinascita tragica, verso cui tende, ancora oscuramente o disordinatamente, la istituzione degli spettacoli all’aria libera, l’umanità cerca per altre vie il suo spettacolo, la rappresentazione di se stessa. Inaspettatamente e assumendo tutti i valori di un’epoca ancora eminentemente scientifica, liberata al calcolo e non al Sogno, un teatro nuovo, scientifico, fatto di
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Ricciotto Canudo
calcolo preciso, di espressione meccanica, è sorto e si è diffuso. L’umanità lo ha accolto con gioia. Esso ha dato la nuova Festa, quella oscuramente attesa. L’ha dato scientificamente, e non esteticamente, ed il Cinematografo trionfa. E là l’umanità ridiviene fanciulla come in ogni festa. Gli spettacoli si svolgono tra due estremi: l’emozionantissimo ed il comicissimo. Il patetico ed il comico occupano e eccitano già spiriti, contemporaneamente, come fa la vita. E l’umanità fanciulla solleva se stessa, dimentica se stessa, nello incalzare delle rappresentazioni rapidissime. E il gesto rapido, che si afferma con una precisione di mostruoso orologio a figure, esalta lo spirito degli spettatori moderni, abituati già a vivere con rapidità. La vita «reale» è rappresentata in modo supremo, ed è appunto «stilizzata» nella rapidità. L’arte è stata sempre essenzialmente la stilizzazione della vita nell’immobilità: un artista è sempre stato tanto più grande quanto più ha potuto esprimere gli stati tipici dell’anima e delle forme. Il Cinematografo, realizza invece il maximum di mobilità nella vita, epperò fa sognare a un’arte nuova, diversa da ogni manifestazione già esistente. Forse gli oscuri disegnatori delle caverne preistoriche, che riproducevano su ossa di renne le convulsioni del cavallo che galoppa, o gli artisti che scolpivano le severe corse dei fregi del Partenone, ebbero la volontà di stilizzare qualche aspetto della vita in un movimento massimo. Il Cinematografo non riproduce solo un aspetto, bensì tutta la vita in azione e in un’azione, che se pur lenta, nella catena dei suoi aspetti tipici, è rapidissimamente svolta. Esso esaspera così ad un grado estremo il carattere fondamentale della vita psichica occidentale, che si manifesta in azione, così come l’orientale si è manifestata in contemplazione. Tutti i secoli della vita occidentale si aprono nell’azione caratteristica del nostro tempo. E l’umanità ridivenuta fanciulla in una festa, ne è gioiosa. Non potrebbe concepire una più complessa e più sicura azione. Tutto lo sforzo del suo pensiero scientifico, mettendo a profitto scoperte ed invenzioni, le ha composto questo spettacolo supremo di se stessa. E i fantasmi cinematografici passano dinanzi a lei con tutte le vibrazioni elettriche della luce, e con tutte le manifestazioni esteriori della sua vita intima. Il Cinematografo è dunque un teatro di Pantomima nuova. Esso è considerato alla [sic] pittura in movimento, e contiene il pieno manifestarsi di una creazione singolarissima, realizzata da uomini perciò stesso veramente nuovi: Una nuova Pantomima, una nuova danza dell’espressione. Ora è necessario chiedersi se il Cinematografo è arte. Io dico: non è ancora arte, poiché gli mancano gli elementi di scelta tipica, di interpretazione plastica e non di copia di un soggetto, che faranno sempre che la fotografia non sarà mai un’arte. Componendo la forma di un altro sulla tela un pittore compone veramente, e inconsciamente certo, in una forma evidente e determinata tutta la sua interpretazione dell’anima vegetale, tutti gli elementi spirituali suggeritigli dalla visione di tutti gli alberi che ha potuti vedere «con occhi di Sogno», come direbbe Poe. In una forma fa una sintesi di anime analoghe, e la sua arte, ho già detto,
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Trionfo del cinematografo
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sarà tanto più profonda, quanto più l’artista saprà immobilizzare di animi di significati profondi, in una forma determinata e evidente. Il cattivo pittore copia le linee e imita i colori; il grande artista adagia un’anima cosmica in una forma plastica. Ed è così per tutte le arti, tanto più grandi quanto meno imitative e più sinteticamente evocatrici. Mentre il fotografo non ha la facoltà di scelta e di composizione, ciò che forma la base dell’Estetica, se non che per le forme che vuol far riprodurre, ch’egli stesso nemmeno riproduce, affidandole alla meccanica luminosa di una lente e di una composizione chimica. Il Cinematografo, non è dunque arte, oggi. Ma esso è la prima casa dell’Arte nuova, di quella che sarà, e che noi concepiamo appena. Una volontà di organizzazione estetica anima intanto i facitori di spettacoli. Fu un tempo di esteriorità e di documentazione ad oltranza, piuttosto che di creazione. Il Cinematografo offre lo spettacolo parossistico della vita esteriore, tutta vista esteriormente, in mimica veloce, e della documentazione. Le favole del passato vi sono riprese, mimate da attori ad hoc. E le realità della vita contemporanea vi sono largamente rappresentate, dalla pesca delle sarde nel Mediterraneo, alle supreme feste moderne dell’acciaio alacre e del coraggio umano indomabile, con le corse del circuito di Dieppe… Ma i facitori di spettacoli tendono già ad altro: tendono puramente e semplicemente all’affermazione sempre più potente della nuova Mimica rappresentativa della «vita totale». Il sogno di un grandissimo artista, che ha la qualità di essere paracronistico nel suo Paese e la facoltà di rinnovarsi continuamente nel senso della vita estetica del mondo epperò di essere sempre più giovane di falangi di giovani nati vecchi, sarà presto realizzato: Gabriele d’Annunzio ha sognato una pantomima eroica, e italicamente tragica, pel Cinematografo. Ed a Parigi sono già sorte due Società, che metton capo a due notissimi facitori di drammi, di cui uno almeno è accademico, che organizzano tra gli scrittori un trust delle composizioni per Cinematografi. La Società Le Film d’Art diffonde già i suoi prodotti pel mondo. Il Teatro offriva sin’ora più di ogni altro «genere», la ricchezza immediata. Ma il Cinematografo paga assai di più, e centinaia di fronti ardenti si curvano già sul pallore delle carte, consacrate alle creazioni che i poeti nuovi destinano alle film ed al proprio immediatissimo successo. Centinaia di ingegni, affascinati dal mistico oro, concentrano le loro forze alla creazione della Pantomima moderna. E questa sarà data al mondo, e sarà un’Arte nuova. D’altronde, il Cinematografo, oltre che essere la risultante perfetta della ricchezza scientifica moderna, che si è magnificamente riassunta, rappresenta in modo sovrano l’ultimo prodotto del Teatro contemporaneo: non l’esagerazione di un principio, ma il suo più logico ed estremo sviluppo. I dramaturgi borghesi, tutti i nostri dramaturgi, del dramma quotidiano, dovevano necessariamente riconoscere nel Cinematografo il loro più diretto rappresentante, e dovevano quindi disporsi a servirlo, servendosene. Poiché il drama dello psicologico sociale ecc., altro non è se non la degenerazione del teatro comico originario, Aristofanesco o Plautesco. Vitruvio, che ci descrive da architetto le divine scene che avviluppava-
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Ricciotto Canudo
no le azioni antiche, ci parla della solennità di colonne e di templi per le Tragedie, dei boschi per i drammi satirici, dei Satiri, e delle case per le comoediae… Queste ultime erano la rappresentazione della vita cotidiana, nelle sue fisionomie individuali e collettive, oggi diremmo psicologiche e sociali, di caratteri e di costumi. Shakespeare, che riassunse una volontà ed uno sforzo dei fortissimi ingegni della sua razza che l’avevano preceduto nella stessa via, fu il precursore del nostro teatro «psicologico», ma soprattutto il grande affermatore del teatro senza musica. Un tale teatro è assurdo, se è tragico (ed in ciò l’arte importante ma punto geniale di Racine, e quella, certo più veramente tragica nel senso collettivo religioso, di Corneille, è un’arte di degenerazione); ma un teatro senza musica, non è più assurdo se riproduca la vita effimera e ne fissi alcuni aspetti, senza volerne, o in ogni modo senza poterne, fissare «l’eternità», l’anima profonda. Ecco perché la commedia, da quella di Aristofane all’ultima francese, a quella di Becque, vive e piace, e piace anche nella sua forma degenerata della comedia a fine e a fine serii, del drama ordinario. Ora la base di tale drama essendo la rappresentazione della vita contemporanea, questo teatro è essenzialmente realista, o, come si dice in Italia, verista. È necessario rappresentare il più esattamente la vita, copiandola. Tutti i nostri drammaturgi di sala chiusa (in contrapposto al breve manipolo dei nuovi creatori per l’aria libera) fanno questo. Il Cinematografo non fa se non esaltare il loro principio, rappresentare la vita nella sua totale, tutta esteriore, «verità». È la gloria di quell’occhio artistico che uno dei più grandi precursori dell’estetica di domani, il pittore Cézanne, chiamava con disdegno sacro: l’occhio fotografico. Ma il Cinematografo aggiunge l’elemento della rapidità assolutamente precisa e rivela però una gioia nuova, che proviene dalla sicurezza che ha lo spettatore, alla massima precisione dello spettacolo. Difatti, nessuno degli attori che si muovono sulla scena illusoria mancherà alla sua parte, o mancherà di un solo attimo allo svolgimento di essa. Tutto è regolato con movimento di orologeria. Tutta la vita si rivela regolata da un ritmo di orologeria: è il trionfo del principio scientifico moderno, del nuovo dominio di Ahriman, sovrano, nel pensiero manicheo, della meccanica del mondo. Inoltre la rapida comunione della vita, tra i due estremi elementari dell’emozionantissimo e del comicissimo, riposa lo spirito degli spettatori. Tutto ciò che è ostacolo nella realtà, la lentezza ineluttabile degli avvenimenti nel tempo e dei gesti nello spazio, è soppresso al Cinematografo. E per di più il comicissimo riposa lo spirito, togliendo alla vita tutto il peso del suo mantello di solennità, dove sono impresse tutte le gerarchie sociali, e mostrandolo vestito di facilità. La vita vi è semplificata dal grottesco, che consiste appunto nella deformazione per excessum o per defectum, delle forme stabilite. Il grottesco compreso almeno in questo senso, distrugge la terribilità dell’esistenza, l’apre in un riso. E la caricatura, oltre che riposare lo spirito, basandosi nella esibizione e sulla combinazione sagace dei lati minimi dell’anima umana, dei lati deboli da cui scorre l’ironia della vita (la quale è tutta profondamente ironica e pazza) nelle convulsioni del riso, sviluppa nell’uomo il senso dell’ironia, principio di ogni saviezza. Gli antichi conobbero questa
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Trionfo del cinematografo
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verità e coronarono di riso, nella Farsa, lo spettacolo tragico. I moderni, che hanno perduto il senso delle necessità scoperte dagli antichi, fanno ora invece precedere il lever de rideau, ma la volontà resta la stessa. E la Farsa della Tetralogia di Oreste, di Eschilo, che è andata perduta, doveva essere forse immensamente ricca di riso potenziale, per sollevare lo spirito delle eleganti Ateniesi sopraffatte dal terrore costandrico [sic]. Ora io non so nulla di più superbamente grottesco degli spettacoli comicissimi del Cinematografo. Poi ché là vi sono apparizioni stravaganti che nessun prestigidatore potrebbe mai creare, e trasformazioni repentine di movimento e di figurazioni impossibili a realizzarsi da uomini dinnanzi a uomini, senza l’ausilio incredibilmente abile della meccanica e della chimica. La complessità dello spettacolo nuovo appare dunque meravigliosa. Tutti i secoli dell’attività umana l’hanno composta. Quando artisti geniali la svilupperanno in ritmi vasti, in veri ritmi d’arte, l’Estetica nuova sarà affermata là. Il teatro Cinematografico è il primo teatro nuovo, e quando, come già si fa in qualche modo, sarà arricchito dalla Estetica e completato dalla musica, altamente compresa e superiormente eseguita, sia pure dalla rappresentazione assoluta della vita reale aiutata dal fonografo, si potrà anche sentirvi il palpito templare, il brivido religioso, della religione a venire – e il Teatro Cinematografico di oggi evocherà per gli storici futuri la visione dei primi rozzissimi teatri di legno in cui si sgozzava il becco e si danzava l’«ode del becco», la tragoedia primordiale. Il pubblico moderno è un ammirevole astrattore, poi che gioisce delle più assolute astrazioni della vita. Ho visto all’Olimpia, a Parigi, gli spettatori applaudire freneticamente il Fonografo che era nella scena vestito di fiori, dalla cui tromba era uscito un duetto della Favorita… La macchina trionfava, il pubblico applaudiva il fantasma sonoro degli attori lontani o morti. E con uno spirito simile le folle accorrono ai Teatri Cinematografici che fanno furore dappertutto, e vi portano la loro volontà di feste nuove. Sui muri si vedono talvolta delle lapidi che ricordano gli uomini e le date che segnano le ultime tappe dell’invenzione colossale, da circa il ’30 a noi e tra gli ultimi: Regnault, Edison, Lumière, i Pathé… Ma più dello spettacolo, quello che è imponente, caratteristico, significativo, è la volontà degli spettatori, i quali, si sa, sono composti di ogni grado sociale e intellettuale, e dico in modo assoluto: di ogni grado. È la volontà di una festa nuova, di una nuova unanimità gioiosa in uno spettacolo, di una festa, in un ritrovo in cui si dispensi, in minime o massime dosi, l’oblio della propria individualità isolata. Quest’oblio sarà un giorno estetico, sarà un giorno religioso. E il Teatro che ha la speranza di quello che gli uomini di nessun tempo non crearono mai: la sesta arte, l’arte plastica in movimento, e crea già la Pantomima moderna, ancora rozza e rudimentaria, il Teatro Cinematografico, io dico, ci dà anche e potenzialmente la visione, certo ancora soltanto crepuscolare, di un Tempio.
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Lucio D’Ambra
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«Salomè» all’aria aperta*
Alle undici, fuori porta del Popolo, al sole già caldo di questa meravigliosa primavera. È un grande spiazzo chiuso da un tavolato di legno. Una grande folla popolare guarda intenta quel tavolato che è press’a poco il muro di Victor Hugo, il muro «derrière lequel se passe quelque chose». Gli spettatori fortunati sono quelli che han potuto trovare uno spiraglio tra due tavole mal connesse e, attraverso quella fenditura, guardano con instancabile attenzione dentro il recinto. Su un palcoscenico improvvisato all’aria aperta, su lo sfondo d’uno scenario inquadrato in un più lontano sfondo di vecchie case le cui finestre sono gremite di donne ancora scapigliate e di bambini mezzo vestiti, fra tre o quattro colonne di cartapesta, s’agita, in chiassosi e multicolori costumi, una folla di soldati, di schiavi e di schiave, di principi e di principesse di Giudea. Ecco Erode dalla parrucca incoronata di rose di carta. Ecco Erodiade che nel tragico ghigno dissimula la gaiezza “canaille” di Laura Orette, una bella cantante francese di caffè-concerti. Ecco il pallido volto di Giovanni Battista nel quale appena indoviniamo, sotto la truccatura inimitabile, il profilo di Ciro Galvani, l’attore che più d’ogni altro conserva sul teatro il senso della plastica e dell’estetica, sì che ben a ragione la sua cooperazione in questa novissima forma d’arte, fatta tutta di pose armoniose, è preziosamente ricercata. Ecco, su una croce, trafitta dai pugnali di cartone delle schiave di Erode, una bellissima giovanetta dai capelli disciolti e dalla testa reclinata nell’abbandono della morte, una bellissima giovanetta che è la signorina Bertini, prima attrice giovane della compagnia napoletana di Eduardo Scarpetta. E, tutt’a un tratto, la curiosità degli spettatori dentro e fuori il recinto si fa più violenta e diventa febbrile. Che cos’è questa mascherata all’aria aperta, alle undici del mattino, in piena settimana santa? Ecco: Vittoria Lepanto, la bellissima, sta per danzare, seminuda su quelle tavole in mezzo alla corte sontuosa d’Erode, la danza voluttuosa e tragica di Salomè. Dietro lo scenario, in una specie di camerino improvvisato con un lenzuolo che il vento agita, la bella creatura attende il momento della sua entrata in scena. Su le tavole del palcoscenico all’aria aperta gli attori, le attrici, le comparse agitano le braccia, esagerano la mimica e l’espressione del volto, muovono una pantomima interrotta solo da parole e da vocii confusi. *
Lucio D’Ambra, «Salomè» all’aria aperta, in «Il Tirso», vii, 13, 27 marzo 1910, pp. 2-3, da cui si cita; poi, con il titolo Si gira «Salomè» di Ugo Falena, in Lucio d’Ambra. Il cinema, a cura di Adriano Aprà e Luca Mazzei, numero monografico di «Bianco & Nero», lxiii, 5, settembre-ottobre 2002, pp. 68-71.
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«Salomè» all’aria aperta
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Su la piccola scala che guida alla scena Ugo Falena, «metteur en scène» abilissimo, lancia di tanto in tanto una parola agli artisti per suggerire e quasi per suggestionare i loro movimenti, investe con violenza la massa delle comparse i cui movimenti sono o poco ordinati o troppo lenti. Di fronte alla scena due macchine sono dirette verso gli attori. Due operatori, un tedesco e un francese, ne girano le manovelle. A un tratto uno di essi arresta il movimento ed esclama: – Soixante dix mètres. Il Falena si volge col suo viso glabro e giovanile dal profilo napoleonico e grida: – Bisogna ridurre il quadro a sessanta metri. Ricominciamo. La bella signorina Bertini che, tolta dalla croce, era già discesa in mezzo a quel piccolo pubblico di amici e di ammiratori, artisti, fotografi, scrittori e giornalisti, risale su la scena. Di nuovo i negri l’afferrano e la rinchiodano su la croce, di nuovo le schiave di Erode la trafiggono coi loro pugnali di cartone e di carta d’argento. Di nuovo la bella attrice abbandona su la spalla destra la sua bella testa dalla quale precipita a terra una meravigliosa pioggia di capelli d’ebano. Di nuovo entra Erode, entra Erodiade, seguiti dalla loro corte sfolgorante. Di nuovo i due operatori girano le manovelle delle due grandi macchine. Siamo ad una prova di Salomè di Oscar Wilde, una prova che è una posa per uno dei quadri del sontuoso dramma. Siamo in piena cinematografia, siamo sul campo di battaglia del Film d’Arte, fondato a Roma dalla casa Pathé di Parigi. E la parte di Salomè per questo film nuovissimo è stata affidata a Vittoria Lepanto. La voce del Falena squilla: – Salomè! E Salomè entra. Un fremito d’ammirazione per la bellezza dell’attrice corre il piccolo pubblico mattutino. Si sente da dietro il tavolato un più forte vocio. Una tavola cigola come stesse per cedere alla violenza della ressa degli spettatori esterni. A pochi metri da Salomè uno spettatore troppo rapito d’ammirazione cade di piombo nella buca scavata in terra per il Battista. Vittoria Lepanto guarda, sorride e di nuovo rivolta ad Erode pone come premio alla sua danza la decapitazione del Profeta. Ed ecco che la principessa di Giudea comincia la sua danza. Nella meravigliosa armonia del suo corpo, dalle anche possenti al seno ampio e robusto, Salomè danza, voluttuosa, eccitante, irresistibile, d’innanzi al Tetrarca e alla sua corte che l’incitano, la spingono, la esaltano sempre più con la violenza del loro desiderio e la febbre della loro lussuria, mentre sempre più Salomè si denuda, mentre sempre più il suo corpo appare, mentre uno a uno ella disnoda i sette veli multicolori, ch’ella fa ondeggiare sul suo capo danzando e poi depone, nelle pause del ritmo, ai piedi del Tetrarca. E con che ardente voluttà ella si piega sui piedi liberati dai sandali, con che lascivia ella svolge, tra i profumi che innalzano le schiave e le grida appassionate dei soldati e degli schiavi, la danza dei sette veli. Salomè danza con le braccia in alto, la testa rovesciata, le belle carni eccitatrici trasparenti sotto i veli, danza al ritmo dei flauti e dei crotali, danza sospirando e languendo d’un amore insoddisfatto, danza fra il Desiderio e la Morte, finché stanca, pallida e bellissima, la piccola principessa cade ai piedi del Tetrarca. E cessa così l’incanto delizioso e terribile…
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Lucio D’Ambra
La posa è finita. L’operatore avverte: – Sessantadue metri! Non occorre altro. È il segnale della libertà. Ed ecco d’un subito tutta questa folla di Giudei, di Nazareni, di Siriani, i soldati romani e le guardie del Tetrarca, gli schiavi e i negri, i paggi e le ancelle, Vitellio e il Carnefice, Erode e il Profeta, uscir dal quadro di cartapesta, precipitarsi verso tre o quattro grandi omnibus che attendono gli artisti in un angolo del prato per riaccompagnarli al magazzino dove riprenderanno i loro vestiti. Qualcuno intanto ha messo sul costume un soprabito moderno e un cappello di paglia su la chioma bionda e le corone di rose. Laura Orette copre la veste sontuosa di Erodiade poc’anzi luccicante sulla terrazza del palazzo d’Erode con una pelliccia non meno sontuosa e modernissima. Il Tetrarca, che è Achille Vitti, ha acceso una sigaretta e parla con dei giornalisti della caduta del ministero Sonnino. Di dietro il lenzuolo che le fa da camerino la principessa di Giudea chiama a gran voce la sua cameriera e risponde in francese ai bons mots d’un giornalista parigino e di Nino Lo Savio, il simpatico figliuolo très parisien dell’avvocato Gerolamo Lo Savio, ch’è il brillante e valoroso consigliere delegato del Film d’Arte. Ma ecco che ancora gli operatori richiamano sul palcoscenico le prime parti: Salomè, il Tetrarca, Erodiade, la schiava crocifissa. Bisogna poiché il film è finito, che gli attori vengano alla ribalta a ringraziare il pubblico. Alla fine della pellicola, Vittoria Lepanto coi sette veli di Salomè dovrà inchinarsi e sorridere così a tutti i pubblici di tutti i cinematografi del mondo. Ed ecco Vittoria Lepanto che s’inchina e sorride a un pubblico inesistente come s’inchinerebbe e sorriderebbe a un pubblico imponente che la salutasse con interminabili acclamazioni. Tutta la convenzione, tutta la falsità, tutta la delusione del teatro, di cui il cinematografo è l’esacerbazione e l’esasperazione più che il traviamento e la deformazione, si rivelano in questo episodio finale. Con che grazia l’attrice sorride al pubblico che non c’è, come si mostra commosso l’attore per l’acclamazione che non sente! Cinematografo, teatro, cartapesta e rossetto, la cui illusione è solo possibile alla luce artificiale delle lampade, la cui malinconica falsità, il cui irresistibile grottesco sono così terribili alla luce vera e naturale del sole! E questi comici, mezzi in costume giudaico, mezzi in costume moderno, questi comici che ora si allontanano su le automobili, i landeaux, gli omnibus come una mascherata fuori ora e fuori stagione, tuttavia una sera, in un bel film, in un cinematografo, fin nelle terre più lontane, daranno al pubblico, eterno bambino facile alla più grande illusione, daranno una sera al pubblico la suggestione intensa e malata della tragedia di Oscar Wilde e ci parrà d’udire suonare i crotali attorno a Salomè, ci parrà di sentir nell’aria l’odore del benzoino che fuma attorno a lei, ci parrà di sentir fremere tutta la lussuria del mondo nelle vene febbrili della principessa di Giudea. E questo, a traverso le finzioni d’una bella attrice, d’una mima assai plastica, che conversava leggermente con gli amici suoi ch’erano ai piedi del palcoscenico, mentre danzava la danza dei sette veli per raggiungere il brivido della suprema voluttà baciando la testa sanguinante del Battista. E noi stessi che oggi vediamo che la testa del Battista è di cartapesta, noi stessi che udiamo la princi-
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«Salomè» all’aria aperta
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pessa di Giudea parlare, mentre danza, delle cose che riguardano non Salomè ma Vittoria Lepanto, rimarremo presi tuttavia una sera all’ingenua illusione… Teatro, eterna falsità, eterno bisogno degli uomini di fingere e d’illudersi, di credere a quello che sanno non vero per dimenticare il vero che sanno vero… E poco dopo, in carrozza, mentre Vittoria Lepanto ritorna alla sua bella casa così artistica e così elegante al Lungo Tevere, mentre Vittoria Lepanto ci parla dei dolori che le ha dato in Italia la sua aspirazione d’arte, mentre ci narra le lotte sorde e cattive cui è stata fatta segno, mentre ci dice che domani parte per l’America del Sud, dove va a distrarsi, a dimenticare e a farsi un po’ dimenticare dai suoi troppi amici e troppi nemici d’Italia e dove va a cantare le facili melodie operettistiche del Sogno di un Waltzer e delle Grandi manovre, l’illusione tuttavia è ancora così forte che io quasi ho l’impressione di vivere un sogno assurdo e grottesco, in cui la principessa di Giudea, dalle labbra frementi ancora intrise del caldo sangue del Battista, mi parlerebbe, nel quadro d’una Roma modernissima d’incubo e d’ossessione, del Patto d’alleanza e della Vedova allegra!
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Il cinematofono*
Che età ha Edison? Non si vuol fargli un cattivo augurio, ma se la sua vecchiaia è ancora – come sembra – assai vegeta, chi sa che altre invenzioni ci sono da temere dalla sua implacabile fantasia di scienziato, e di scienziato americano! È lui che ha inventato il cinematografo. E il cinematografo – nessuno lo mette in dubbio – è una invenzione meravigliosa. Se ci si pensa con delle disposizioni retoriche si è indotti a concludere che riprodurre il movimento è quasi riprodurre la vita. Se ci si pensa con delle disposizioni melanconiche, si è quasi spinti a credere che mai la vita, la verità, e l’estetica della verità e della vita, furono così grossolanamente e fortunatamente offese come dalla cinematografia. Una così detta «scena dal vero» può sembrar tutt’al più una feroce profezia dell’umanità di domani, quando l’epilessia avrà scavato nel genere umano solchi più ampi e la nevrosi sarà divenuta la condizione normale e fatale del vivere civile, quando, cioè, come nel cinematografo, gli uomini cammineranno con furia nevrotica, gesticoleranno con rigidità epilettica, vivranno con impeto convulso, saranno pieni di tic nella faccia, nelle mani e da per tutto. Intanto, dopo l’invasione degli unni non si ricorda invasione più formidabile di quella dei cinematografi; e il teatro, che si dibatteva contro gli assalti del caffè-concerto, langue sotto i colpi del cinematografo; e la storia, la leggenda, la poesia del passato, la gloria dell’arte, gettate in preda a manipolatori di films e a istrioni di quart’ordine, che qualche volta stanno all’attore come lo scimpanzé all’uomo, concretate su «manichini» umani più o meno repugnanti, fra tutto un ciarpame di pretenziosa rigatteria, attestano dalla bianca tela, nelle sale oscure, un nuovo trionfo della volgarità, la crescente tirannia del cattivo gusto… Ed è lui, Edison, che ha inventato il grammofono. E il grammofono – non si discute – è una invenzione prodigiosa. Se ci si pensa con delle disposizioni da… agente di pubblicità, si sente il cervello fervere d’un puro entusiasmo lirico per questo gioiello della scienza che conserva e diffonde la voce dell’uomo e mette l’individuo parlante come su un proscenio ideale, a parlare a tutta l’umanità, senza limite di spazio e di tempo. Se ci si pensa con un animo, diremo così, meno professionale, si è tentati di domandarsi per quale scherno di maligno coboldo l’orecchio del cittadino vivente nel secolo ventesimo possa compiacersi di questa apoteosi della voce chioccia, di questa nuova degradazione dell’arte e della vita, *
Il cinematofono, in «Corriere della sera», 30 agosto 1910, p. 3.
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Il cinematofono
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di questo recipiente di metallo che rece, a volontà dell’uditorio, parole e suoni nei quali manca una piccola cosa, una cosa da niente: il timbro della voce umana… E adesso il vecchio Edison (ma che età ha?) ha inventato il cinematofono, cioè la fusione rigorosamente scientifica del cinematografo e del grammofono. Così, il cinematografo aveva un merito – che gli scemi dimenantisi sulla tela almeno non parlavano – e non l’avrà più; e il grammofono aveva un’attenuante – che era limitato ai salotti delle famiglie benestanti e alle osterie di campagna – e, estendendo il suo dominio pubblico, la perde… Il vecchio Edison va involontariamente dimostrando quale grossolano e morboso fanciullo sia l’uomo. Il cinematografo? il grammofono? il cinematofono? Ma è un giuoco puerile in cui la bimbetta di otto anni trascina in una finzione di nozze la sterminata sottana della mamma e il maschietto di sei, nascosto dietro una seggiola, fa bu bu per farsi credere il cane, e il maschietto e la bimbetta sono infervorati e serii…
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Giuseppe Prezzolini
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Per un cinematografo nazionale*
Si è fondata a Milano una Associazione che si propone di fornire proiezioni fisse e cinematografie istruttive e morali alle associazioni di coltura popolare. Dico subito che l’approvo e che applaudo; e che scrivo per trovare altri che l’approvi e l’aiuti con me. Mentre da Roma ci vengono progetti stupidamente restrittivi, a Milano si pensa sul serio a migliorare uno stato di cose che tutti deploriamo. Ecco un’iniziativa che gioverà alla sanità morale degli italiani più del progetto Calabrese sui cinematografi e dei propositi brachettai di babbo Luzzatti. Il bene per forza è stato sempre la più grande sventura che sia capitata alla morale, e al male evidente di certi spettacoli non si ripara se non con l’opporre spettacoli buoni e soprattutto a buon mercato. La maggioranza è composta di indifferenti e di persone moralmente poco caute: le quali cadon nel vizio molto spesso perché non si è loro offerta con eguale facilità la via della virtù. Moralmente parlando è certo che le reclute così guadagnate non contano molto, ma socialmente trattando, il vantaggio è indiscutibile. Ma vediamo piuttosto che cosa può fare questa nuova associazione. La forza persuasiva del cinematografo è stata subito compresa e afferrata nei paesi anglosassoni dai partiti politici, dalle sètte religiose, dalle associazioni di coltura e di propaganda morale. Ricordo che a Firenze una delle società che per la prima fece tentativi di questo genere fu appunto la Salvation Army. Noi l’abbiamo lasciato sfruttare per più anni dai commercianti ed è già meraviglioso che non abbian coltivato di più il genere osceno. Ancora non s’è visto sui cartelloni del cinematografo La prima notte di matrimonio o Le avventure di Susetta. Ma in mancanza dell’osceno e del solleticante, v’è grande abbondanza di genere flaccido e falso, morale nell’etichetta e immorale nella sostanza, che nessuna legge materiale può colpire e che la legge della coscienza condanna. Cinematografie «morali» nel senso dolciastro della parola non mancano davvero, anzi sono la porzione fondamentale del cibo misto largito al pubblico minuto di quegli spettacoli. Le virtù cardinali e teologali vi trionfano immancabilmente e, di rimpetto, i sette peccati mortali vi si vedono schiacciati senza remissione. Tutte le figure del dramma popolare e burattinesco e della commedia dell’arte vi compaiono. Al tiranno crudo, agli innamorati sventurati, alla madre misera, al poeta di*
Giuseppe Prezzolini, Per un cinematografo nazionale, in «Il Resto del Carlino», 21 dicembre 1910, p. 3; poi, con la data 1914, in Id., Paradossi educativi, Roma, La Voce, 1919, pp. 67-74, da cui si cita; poi Roma, A. Armando, 1964.
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Per un cinematografo nazionale
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sgraziato, fanno degno riscontro il ribelle popolare e coraggioso, il giudice severo, il ricco caritatevole, il mecenate generoso. Tutti gli stampi stereotipi e sbocconcellati dall’uso delle vecchie illustrazioni da serve rugiadose e da furieri romantici, da parrucchieri viziosi e da portiere rugginose, hanno emigrato con armi e bagagli nel cinematografo. Speriamo che da questa peste dell’anima la nuova associazione si sappia tener lontanissima e non si faccia illudere dai manipolatori di cinematografie, architettate ed eseguite da commedianti e comparse: ché, anche indorate da sette strati di «moralismo», l’effetto è disastroso per la vita etica. Anche le virtù della Pulzella, la rivolta di Balilla, la morte di Anita, passate attraverso il gesto glutinoso d’un guitto manierato, insegneranno al popolo le commedie dell’eroismo e la finzione del sentimento, ma non lasceranno dietro di sé un solo germe di forza morale e uccideranno ogni candore istintivo. Quando io vedo annunziata in un cinematografo una «scena sentimentale» mi vien voglia di gridare: «rispetto al pudore!» e ripenso con disgusto a una scena veduta da me in un sala domenicale di cinematografo in una atmosfera mefitica e grassa dove disperate s’agitavano le braccia d’un ventilatore. Era una di quelle scene di famiglia «povera e onesta» con l’attesa dell’inevitabile portafoglio guarnito di biglietti da cento che il buon borghese estrarrà dalla saccoccia interna della pelliccia. Una donna, che probabilmente, oltre a posare per il cinematografo, faceva qualche altro triste mestieraccio, si sdilinquiva d’affetto per un mimmo di forse cinque anni, coi capelli a parrucchina ricciuta e quella cera un po’ allungata che dànno i troppo dolciumi e i conseguenti troppo intrugli dei medici: queste due canaglie figuravano l’affetto materno tormentato dalla fame del figlio. La mamma d’occasione suscitava il riso, con quelle sue boccaccie e quel mostrare il bianco degli occhi, come quando faceva cenno ai mercanti venuti il venerdì in città; ma il bimbo era addirittura repellente. Aveva del ballerino e della donna di mal affare; si sentiva che doveva esser tutto profumato e impataccato di cerotto come i baffi di un contadinotto indomenicato; metteva i piedi con arte uno in fila all’altro per, camminando, far ondeggiare i fianchi che aveva ripieni di borra sotto la vita attillata; gestiva con curve sinuose dei bracci, mostrando le dita come fusoli e, probabilmente, stirate e palpeggiate due volte per settimana dal manicure; e tutt’insieme, insomma, offriva uno spettacolo tale di vizio precoce e marciume spirituale, da esser più immorale d’ogni sgambetto di caffè concerto e d’ogni sgonnellìo di femmina da marciapiede. Che dire poi dell’intreccio, stupido irreale e nauseante; degli altri personaggi tolti di peso dai romanzi d’appendice; dei vestiti e della mobilia che fingevano una miseria o un lusso di convenzione; se non che erano in perfetto accordo spirituale con l’azione della femmina e del bimbo ballerino? Sembrava che il cinematografo avesse riassunto tutte le malattie letterarie del moralismo: l’amore del gesto, il gusto della frase, l’adorazione del manierato; che Cicerone, De Amicis, Ussi e Puccini si fossero messi in collaborazione, uno per il periodo tondo, l’altro per la facile lacrimosità e l’ottimismo imbecille, questo per
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Giuseppe Prezzolini
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il robivecchie romantico e quello per il melodramma tubercolotico. C’era tutto insieme quel che noi italiani dovremmo odiare, e che nessuna legge Calabrese potrà mai colpire. L’associazione della quale ho parlato avrebbe davvero davanti a sé un bel compito, morale e nazionale. Un’opera di moralità dev’essere pratica, batter sul sodo, esser fondata sulle condizioni storiche d’un paese, comprendere il momento. Ora l’Italia traversa un magnifico periodo: la crisi di due mondi, uno che si sfascia da una parte, un altro che sorge e non sapendo ancora i compiti che dovrà assumere si travaglia per giungerne alla piena coscienza. L’Italia è mal conosciuta dagli italiani, mal conosciute sono le sue vere glorie, coperte dalla solita retorica le sue vergogne. Gli ultimi vent’anni del mezzogiorno d’Italia, per esempio, appariranno a chi ne farà la storia ricchi di eroismo rassegnato e umile. Gli emigranti hanno, senza che Governo e Paese se ne accorgessero minimamente, compiuto laggiù una rivoluzione pacifica, rovesciato il potere economico d’una classe di oziosi e ignoranti borghesi, estirpato l’usura meglio delle banche rurali, fatto salire i salari, cresciuto il valore delle terre e il loro reddito, chiesta l’istruzione con una avidità della quale l’istruito settentrione non ha idea. Ora di questi fatti l’italiano d’oggi nulla saprebbe se alcuni giornalisti di ingegno non avessero rivelato al pubblico i fatti constatati dalla Commissione di Inchiesta sul Mezzogiorno, e se una Società non avesse mandato giovani a studiar quei paesi. L’associazione di Milano dovrebbe portare a conoscenza visiva di tutti gli italiani questi grandi fenomeni della nostra Italia. Che magnifica serie, per esempio, sarebbe quella dell’emigrante, colto sul vivo, al paese dove vende le poche masserizie e si ingaggia con l’agente, al porto coi sacchi sulle spalle, sul piroscafo, all’arrivo in terra straniera, poi nei vari mestieri, sorbettiere, lustrascarpe, contadino, nelle sue avventure, nei suoi pericoli, poi al ritorno con il gruzzolo in tasca per comprare al paese nativo un pezzettino di terra e costruire una casetta. E far vedere allora le «case degli americani» bianche linde e con i fiori sulle finestre. Allora gli italiani saprebbero a che prezzo fu conquistato quell’oro che giovò tanto alla conversione della loro rendita. Ci sarebbero le nostre industrie lombarde, le grandi bonifiche del Ferrarese che con tanto fervore di parola illustrò il Borelli, gli stabilimenti che si vanno fondando nell’Italia centrale intorno ai corsi rapidi dell’Appennino, e la Maremma toscana che si ripopola con le sue cave e le sue industrie metallurgiche, e il porto crescente d’importanza di Livorno. E questa Italia bisognerebbe farla conoscere anche all’estero dove, finalmente, non è più di buon gusto considerarci come tanti suonatori di chitarra e d’organetto, sfaccendati importuni e mendicanti. E poiché si parla tanto delle nostre terre irredente, e tanto pochi italiani vanno a Trieste in Istria a Fiume, si potrebbe far vedere quei paesi, ma non soltanto a panorama e dall’alto come in piacevole escursione, bensì nella loro vita di città che lottano, esponendo le scuole della Lega nazionale, i Ginnasi mantenuti dai
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Per un cinematografo nazionale
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Comuni italiani, le campagne donde provengono gli slavi a cercare lavoro, le dimostrazioni nazionali in tempo d’elezioni, e anche le scuole sussidiate dalle società slave e tedesche, per avere un’idea esatta del pericolo che rappresentano. E poi esporre anche le nostre miserie: perché si ripari. Messina ancora di legno, Napoli con i suoi antri fetidi, la Campagna romana con la malaria (e con la nobile istituzione delle scuole dell’Agro). Il cinematografo dovrebbe diventare per mezzo della associazione milanese una scuola di verità e di italianità. Non un attore! Tutta la nazione per scenario; quanto agli eroi non ci sarebbe bisogno di incomodare quelli che s’equilibrano sui piedistalli dei monumenti patriottici: basterebbe cercarli per le strade.
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Fausto M. Martini
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La morte della parola*
Chissà che un giorno non ci accada di scoprire, in un nuovo volume di prose di Maurizio Maeterlinck, un qualche saggio di interpretazione sulla cinematografia! Non sorridete: il tema sarebbe perfettamente nelle corde dell’arguto filosofo e del nostalgico poeta. Altra volta, la piccola palla d’avorio roteante nel cerchio della roulette, o l’ansito d’una automobile, dinanzi alla quale le schiene sassose delle montagne s’inchinano docili come cortigiani prezzolati (è un’immagine del poeta dell’Oiseau bleu) gli ispirarono talune pagine ove si susseguono vivaci descrizioni e induzioni suggestive e fantastiche dal campo della realtà al quadro iperbolico della sua mistica concezione della vita: la roulette, attraverso labirinti di aforismi e di paradossi, diveniva l’espressione tangibile della suprema volontà che dirige le opere umane e segna la vicenda dei giorni, e l’automobile non era che il mezzo esteriore perché fossero rivelati agli uomini gli occulti poteri dei dèmoni della velocità: quegli stessi dèmoni, che vi ronzano all’orecchio con orribili favelle da inferno, quando una 40-H.P. vi trascini fra due file d’alberi, stupefatti dall’impeto sovrumano. Le cose comuni e semplici della vita quotidiana suggerivano al commentatore pensieri così profondi come quelli suggeritigli dalla contemplazione e dall’indagine nell’intimità più affaticata dello spirito. Il saggio Au pays du hasard e l’altro En automobile raccolti in Le double jardin, valevano e valgono, come densità poetica, quanto le pagine indimenticabili sul silenzio e sull’anima raccolte nel Tesoro degli umili. Ora, appunto il cinematografo entra anch’esso nella cronaca della vita moderna come un elemento diffuso ed essenziale: il pubblico risponde allo spettacolo offerto dalla macchina miracolosa come altri pubblici d’altre età rispondevano con entusiasmo a spettacoli più sereni e più degni. Qualche giorno fa, Abel Bonnard osservava che uno spettacolo di cinematografia raccoglie tanta gente in una sala, quanta forse non ne raccoglie la più fortunata fra le commedie, senza offrire agli ospiti uno speciale divertimento che la commedia offre: il divertimento degli entr’actes. Il pubblico si rassegna alla oscurità della sala, rinunzia a uno dei suoi più imperiosi istinti, al bisogno di guardarsi in faccia, di riconoscersi: quell’istinto e quel bisogno che conducono ad ascoltare la commedia d’idee, il dramma a tesi, il concerto del maestro ostrogoto, ad intervenire insomma a tutti quei con*
Fausto M. Martini, La morte della parola, in «La Tribuna», 16 febbraio 1912, p. 3.
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La morte della parola
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vegni i quali sono come l’esaltazione di un sentimento che un genio definì nobilissimo: la noia. È necessario dunque che un qualche motivo – sia pure recondito – giustifichi codesta nuova passione della massa anonima. Indaghiamo. La vita delle figure cinematografiche è la vita di uomini perseguitati da un incubo. Maeterlinck direbbe che essa rassomiglia alla vita dei personaggi d’un dramma di Swedenborg, se Swedenborg avesse scritto un dramma. Tutto – esseri umani e cose – è agitato da un vento infernale. L’esistenza soprassalta: il passo è una corsa; la corsa, un volo; lo sguardo, un’occhiata furtiva; il riso, una smorfia; il pianto, un singhiozzo; il pensiero, un delirio; il palpito umano, una febbre. Dalla stessa febbre degli uomini sono esagitate le cose: anche le forme auguste della terra, che sembrano destinate ad insegnare agli uomini le supreme leggi della pace e della serenità, sono tocche dal male umano: i paesaggi tremano, le montagne – divini esempî d’immobilità – si muovono, vacillano, si cancellano, scompaiono. È una ridda fantastica: è lo specchio dell’immane malattia nervosa dell’età nostra. Questo segreto è noto da tempo agli speculatori dell’impresa nuova: essi, da psicologi acuti della folla, hanno intuito quali spettacoli meglio si addicessero al gusto del pubblico, e lentamente saggiando il terreno, sono giunti ad attirare fiumi di popolo, nelle sale dove sopra una tela bianca i grandi drammi, i tradizionali poemi dell’umanità sono schematizzati nelle loro linee essenziali. La macchina tremolante che sembrava destinata soprattutto a riprodurre quadri di verità, serve oggi a maciullare e a restituire – frammenti informi e deformi – i capolavori della fantasia e del pensiero umano. Qualche tempo fa, ciò che prendeva il miglior posto nel programma d’un cinematografo e lo sosteneva, era dato da scene truccate, nelle quali riapparivano gli eroi di vecchi romanzi d’appendice, o, nella migliore ipotesi, le figure predominanti d’una novella storica, e quasi sempre una Maria de’ Medici, un Enrico IV, o un Napoleone. Oggi, si tenta di più: oggi lo speculatore s’è fatto più ardito. Ha preso il libro di Omero, ha preso il libro di Shakespeare, ha chiamato un letteratucolo qualsiasi, e gli ha ingiunto di trarne fuori una scena per cinematografo. Abbiamo veduto, sulla tela candida, passare Ulisse e Nausicaa, agitarsi Otello, morire Desdemona, Shylock sbraitare dinanzi al tribunale veneziano, rincorrersi le figure di Nôtre Dame de Paris, e Amleto meditare sul teschio, dissotterrato dai becchini del cimitero. Il pubblico ha gustato la scena, ha applaudito, ed è uscito dal nuovo teatro, pienamente soddisfatto. Non è dunque questo giubilo abbastanza significativo? Che cosa vogliono dire la nuova simpatia, e la nuova passione della folla? Perché questa non si è ribellata alla profanazione indegna? Ah! dunque non è vero l’aforisma di Carlyle, per il quale le opere del genio toccavano egualmente il cuore del popolo e il cervello
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Fausto M. Martini
del critico? Ah! dunque il popolo s’appaga alle linee essenziali dei prototipi dei grandi drammi dell’umanità? il popolo non vuole udire parole, sta contento al gesto e all’azione, s’interessa della favola soltanto? La parola è cosa morta, la parola è tempo perso, la parola è un indugio, che gli affrettati abitatori delle città tentacolari non possono permettersi di ammirare. Un tempo si leggevano, si delibavano i poemi; oggi si legge la breve poesia di occasione: un tempo si gustavano, pagina per pagina, i romanzi; oggi si scorre una novella, solo se il titolo faccia prevedere nella trama l’illusione di un po’ di Grand Guignol. Perché, quindi, permettere che l’illustre attore, il quale veste gli abiti d’Otello, reciti quei memorandi versi nutriti della più dolorante umanità, prima d’uccidere Desdemona che dorme sul suo letto? Perché permettere che Amleto ripeta la millesima volta il monologo della morte e del dubbio? Perché farlo indugiare sulla soglia dell’al di là? Perché lasciare che il poeta fermi nel verso immortale l’ansia del passaggio supremo?… Che cosa veramente interessa il pubblico, della tragedia d’Otello, della tragedia d’Amleto? Di quella il fazzoletto di Desdemona fatto rubare da Jago, e lo strangolamento operato dal moro geloso sulla bionda innocente, e la morte di lui: di questo, oh! solo, i segni esteriori della demenza d’Ofelia. Il resto? Oh! il resto è letteratura e non giova all’età moderna; il resto, diremo con una frase dello stesso Shakespeare, il resto è parola «Words, Words, Words…» E la parola è morta. È questo un ammonimento ai drammaturgi e ai commediografi? Non so: certo si è che la folla chiede, per suo diletto, una commedia-lampo, un dramma-lampo, che si sveli d’un subito, e la atterrisca in un attimo, per essere d’un subito dimenticato. Dal giorno, in cui l’indifferenza e la rapidità della macchina hanno sostituito l’amore e la pazienza degli artefici, il lento decadere della parola e del valore dell’arte è incominciato. Oggi siamo alla dégringolade. Al poeta, il pubblico preferisce la macchina che attraverso un fascio di luce tremante crea la commedia e il dramma, incensurabili, meno esigenti della commedia o del dramma d’un giovane, i quali chiedono di vivere almeno lo spazio d’una sera. All’arte (oh! non all’arte, ma alla degenere ombra dell’arte) è concessa la vita d’un istante: dai capolavori dell’umanità basta estrarre, per consolazione dei figli del secolo, la mimica fondamentale e il gesto inevitabile. Gli attori e le attrici indugiano a mala voglia sui vecchi palcoscenici polverosi, preferiscono la piccola scena dove si svolge il dramma da cinematografo: hanno perduto la loro linea tradizionale, disdegnano la cura e la religione della parola, sono fatti mimi e null’altro. L’effigie di Sarah Bernhardt è visibile sopra la tela dei nuovi teatri che arricchiscono i loro impresari, e la sua maschera tragica serve, con grande utilità, sopratutto all’obiettivo d’una macchina fotografica.
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La morte della parola
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È questo, veramente, lo stato delle cose? Chissà? potrebbe darsi che questa fosse la triste sorpresa del domani. Se non che, ora che per un naturale sfogo si è gridato all’allarme, vediamo se la nuova grande gioia della massa anonima la nuova passione del popolo nascondano in loro qualche elemento di sincera poesia. Se entrate in un cinematografo, prima d’assistere alla riduzione del dramma shakespeariano, vi può accadere di assistere allo svolgersi di quadri naturali, sorpresi nelle più lontane regioni: boschi, montagne, laghi, mari, una nave, un deserto, un ghiacciaio, un piccolo paese di una lontanissima terra sconosciuta a voi, una città che amate solo per la vaghezza del nome, un centro di vita che vi ha destato, nella fanciullezza, immensa curiosità, e dove vi siete proposti d’andare, e dove non andrete mai… È vero? Ebbene, in tutto questo è poesia. Il cinematografo trova così il suo lirismo, appaga un certo sentimento nostalgico che dorme nel cuore di tutti, la nostalgia per i paesi che non si sono mai veduti, che non si vedranno forse, ma dove ci pare d’aver vissuto quasi in una vita precedente alla nostra. Ricordate quella lirica di Dante Gabriele Rossetti, nella quale l’animo del poeta spicca il volo verso talune contrade fantastiche ove dice d’aver soggiornato anzi la vita? Ebbene, se v’accada di ammirare lo splendore di certe terre e di certi luoghi ignoti nell’esatta riproduzione cinematografica, ecco che quei versi accorati vi tornano alla memoria. Siete già stati voi in quei luoghi? Quando? Chissà? In quale vagabondaggio della vostra anima, peregrinante ovunque? Ché tale è in fondo la psicologia dell’uomo moderno: la febbre lo assale, la vita lo costringe, ma egli resta pur sempre, anzi tanto più, quanto più la routine quotidiana lo avvinca alle sue catene, il sereno vagabondo dell’età primitiva. E gode se un qualche spettacolo gli raccolga, vicini, due lembi ignorati della sua terra, gli faccia pensare che a una stessa ora quelle montagne o quelle pianure o quei mari che egli vede riprodotti, offrono reciprocamente la loro venustà a una aurora dalle dita di rose, o a un romantico chiaro di luna. È in fondo, l’antico amor de tierra loindana… per cui tutto il cuore doleva a Rudel.
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G. Pr. [Giuseppe Prezzolini]
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La guerra e il cinematografo*
Un anno fa dalle colonne d’un giornale dove collaboro volentieri, m’auguravo sorgesse un cinematografo nazionale che, abbandonando le scene sentimentali e le avventure poliziesche, prendesse a far conoscere agli italiani il nostro paese, le sue glorie e le sue vergogne, le sue gioie e i suoi dolori, e permettesse a tutti di rendersi conto con i propri occhi, come sudino sangue i milioni d’oro che annualmente l’emigrato riversa in Italia, e quali difficoltà ed ostilità si debbano vincere nelle provincie irredente per mantener viva la nostra coltura. L’occasione e la realtà, condizionate, come sempre, sono state offerte dalla guerra. I cinematografi si son trasformati in organi nazionali senza volerlo. Ecco che, accanto al giornalista di professione o improvvisato, lungo le trincee tripoline e cirenaiche, negli accampamenti, alla partenza e all’arrivo delle truppe, in marcia verso il nemico, s’è levato un altro occhio, quello del cinematografista, pronto a sorprendere nel loro moto gli avvenimenti per i quali tanti cuori e tante immaginazioni di italiani si affollan di sangue commosso e di care figure. Anche io, da allora, vado spesso al cinematografo. Nat Pinkerton ha cessato d’inseguire col suo revolver da commedia i truci figuri; le coriste d’operetta e le comparse non fingono più con le loro disgraziate maniere i dolori di Maria Antonietta e le orgie di Bianca Cappello. Sulla tela dello sfondo le groppe delle dune si inseguono, si stende il tappeto scintillante del deserto, i mille pennacchi delle palme ondeggiano al vento marino; poi gli agili ascari a salti, come cani da pastori, bianchi e pezzati, la carica dei bersaglieri, grigi come le nuvole di sabbia che a volte li avvolgono, e i mirabili artiglieri nell’atto di dar di spalla a un cassone su per l’erta d’un vallone pietroso. Ecco la guerra davanti ai nostri occhi. Le tende d’un ospedale immobili sotto lo sguardo implacabile del sole: e pare d’udirne escire lamenti. I generali in visita per l’oasi: un silenzio grave si stende intorno ad essi. L’arabo enigmatico s’accoccola col suo segreto d’odio e di disprezzo nascosto sotto un volto di pietra. L’acqua preziosa tratta stilla a stilla dai pozzi, divenuti centro della società umana, specie di chiesa e di fortezza, luogo di ritrovo e primo bene economico. Il giornale mi lascia freddo. Al cinematografo comunico meglio col popolo italiano l’entusiasmo per i suoi figli di laggiù. Si può pensare quel che si vuole *
G. Pr. [Giuseppe Prezzolini], La guerra e il cinematografo, in «La Voce», iv, 34, 22 agosto 1912, pp. 876-877.
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La guerra e il cinematografo
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delle ragioni della guerra, e del valore di quei paesi che occupiamo: ma non si può pensare che con commozione a quelli che ci appartengono e sono tutt’uno con noi, italiani: che sono uomini. So bene, so bene che queste scene son riunite insieme, rappezzate e ricucite con spettacoli d’esercitazione piuttosto che con l’immediata veduta delle battaglie. Ma per quanto si sia fatto, ci resta dentro tanta realtà e tanta immediatezza che basta a condurci laggiù. Si è detto che le migliori corrispondenze non sono state quelle dei giornalisti, ma le lettere dei soldati; ed è spesso stato vero. Ma dove una più bella corrispondenza del cinematografo? La cosa che più mi ha commosso, debbo dirlo, non è stato lo spettacolo, per cui spesso le sale risuonan d’applausi, di quando le truppe partono in ordine sparso e sembran divorare il terreno, o passano alla carica i bersaglieri. Ciò che più mi ha commosso sono stati i divertimenti dei soldati. Essi m’hanno più ravvicinato al popolo nostro e alla sua indole eccellente, allegra, soda e svelta. Sulla riva del mare hanno organizzato degli spettacoli, delle buffonate e delle pagliacciate. Si son travestiti da ballerine, hanno fatto la lotta e i salti mortali, si sono organizzati in fanfara, hanno drizzato delle piramidi di uomini. Che bella cosa vedere quei bravi figlioli, laggiù, in riva al mare, trovare il tempo di scherzare e di divertirsi, fra le privazioni, le sofferenze del clima, il pensiero dei parenti lontani e del turco vicino! Mi sono parsi più eroi e più cari, più uomini completi, e insomma tanto più italiani.
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Fraka [Arnaldo Fraccaroli]
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Dietro al cinematografo*
C’è un retroscena del cinematografo che il pubblico ignora completamente e che è conosciuto soltanto da coloro che ci vivono, e da pochi iniziati. Il pubblico per conto suo si contenta di affollare le sale di proiezione, si appassiona, si lascia pestare i piedi, sopporta qualche spintone al buio, ne esce fregandosi gli occhi abbagliati, si commuove, ride, e va via. Intuisce probabilmente tutto il lavoro enorme della preparazione, ma non se ne cura. È troppo difficile a ricostruirsi, e c’è troppo mistero da indagare. Quando va a teatro, il pubblico ha una sensazione approssimativa del lavoro che si svolge fra le quinte, vede personalmente gli attori, li incontra poi nella vita, ne sa qualche cosa, ne sente parlare: è più vicino, insomma. Le quinte d’un teatro non hanno ormai più misteri per nessuno. Le quinte del cinematografo sono invece misteriosissime. L’azione alla quale il pubblico assiste è già svolta da qualche tempo, e quasi sempre assai lontano, e degli attori che segue e ai quali si interessa non conosce che la fotografia: troppo poco per occuparsi del resto. E invece il resto è pieno di interesse e di inaspettato. Il fenomenale movimento di lavoro e di danaro che si svolge nel campo della cinematografia occupa tutto un mondo speciale e viene regolato da una organizzazione specialissima. Vi sono consorzi, federazioni, compagnie drammatiche mute, giornali che parlano anche per le compagnie, corrispondenti e reporters che invece di prendere degli appunti girano una manovella, vi saranno fra poco riunioni, forse comizi, probabilmente scioperi e serrate: tutta la civiltà col suo gaio corteo. La pellicola trionfa. Soltanto a Milano abbiamo cinquantadue cinematografi, e in tutta Italia sono quasi quattromila. E alcuni fanno dei guadagni incredibili. A Milano uno dei più grandi saloni di cinematografo paga in tassa di spettacoli quanto il maggior teatro d’Italia: la Scala. E anche le case produttrici sono numerose. A Torino ci sono sette fabbriche di films, a Milano due, a Roma quattro, a Napoli tre, a Firenze due, a Venezia una, un’altra a Palermo. E lavorano abbastanza quasi tutte: alcune anzi lavorano moltissimo. E fanno dei concorsi per avere dei «soggetti» di commedie, di drammi, di episodi, da mettere in scena dinanzi all’obiettivo, e hanno i loro autori, i direttori di scena, gli scenografi, i comici, e dei teatri dove non entra mai il pubblico. Unico spettatore ammesso: l’operatore di cinematografo.
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Fraka [Arnaldo Fraccaroli], Dietro al cinematografo, in «Corriere della sera», 21 febbraio 1913, p. 3.
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Dietro al cinematografo
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Questo genere di rappresentazioni mute è la risorsa di molta gente. Ci sono degli attori che hanno una espressione mimica straordinaria e delle intonazioni vocali da cane: sopra un palcoscenico ordinario sarebbero presi a revolverate, per il cinematografo sono preziosi. La nuova industria rappresenta anche una specie di ricovero per gli attori che invecchiano, per i cantanti che perdono la voce, per gli scrittori di teatro che sanno imaginare e non descrivere, che sanno ideare un dramma senza trovarne le parole. Ma non per questo il cinematografo deve essere scambiato per un reparto cronici dell’arte teatrale. Vi sono fior di giovinotti e di artisti autentici, di quelli che passano sollevando l’applauso anche dinanzi alle platee gremite, e di quelli altri che si tengono al cinematografo perché vi guadagnano infinitamente di più. Hanno infatti uno stipendio notevole, e una percentuale sulle vendite e sui noleggi delle scene in cui hanno lavorato: sono i diritti d’autore assegnati agli interpreti. Qualche attore ignoto al pubblico dei teatri ha una fama strabocchevole al cinematografo: come ci sono i divi e le dive della voce ci sono anche i divi e le dive – diremo così – della pellicola. E questi ultimi gareggiano con gli altri non soltanto nel nome, ma anche nei guadagni. Un attore parigino che non recita mai, «Max Linder», il più popolare comico della casa Pathé, è vincolato per tre anni con un contratto di un milione. E in Italia un vero grande artista che ha accettato di prender parte a un dramma cinematografico, Ermete Zacconi, ha avuto dodicimila lire per la posa, e in pochi mesi ha già guadagnato altre quarantamila lire di diritti d’autore, sopra l’unico suo episodio cinematografico. In Francia tutti gli attori si concedono un poco al cinematografo: da quello dei piccoli teatri speciali fino ai soci della Comédie. E anche in Italia son passati a non recitare dinanzi all’obiettivo molti attori cari al pubblico. Se spogliate un giornale cinematografico vi vedrete volteggiare questi nomi a caratteri enormi sotto il titolo da appendice di qualche romanticissima o comicissima impresa. Perché il cinematografo non ha soltanto i suoi artisti: ha anche i suoi giornali speciali. E vi si parla dell’arte, e vi si fa la critica delle novità e degli interpreti con una stranezza di linguaggio che al primo momento vi stupisce. Quando sono buoni, i drammi vengono giudicati pastosi, morbidi, bene sviluppati e meglio stampati, senza ritocchi e senza infiltrazioni di luce. E un interprete può sentirsi rivolgere questa osservazione: «è un eccellente artista, con un ottimo bianco negli occhi, ma veste troppo di scuro e scompare nel fondo». Una attrice, per esempio, ha avuto questa critica: «Peccato che, malgrado tutta la sua disinvoltura, la egregia signorina si impressioni dinanzi alla pellicola». Cosa gravissima, come ben capirete, perché in ogni caso è la pellicola che si deve impressionare… Questi giornali portano anche «l’ultimo grido del giorno», elegantissima frase per indicare l’ultima novità, e la raccomandano con lo stesso calore con cui i giornali dell’arte lirica mettono innanzi gli artisti delle loro agenzie: tutti gli elogi al superlativo, una trafila di «issimi» che consola. Adesso il commercio delle pellicole si fa quasi sempre col sistema del noleggio, anche perché gli acquisti
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Fraka [Arnaldo Fraccaroli]
completi vengono a costare molto. Una buona film italiana comperata con diritto di esclusività per un anno in Lombardia è stata pagata da un cinematografo di Milano diecimila lire. Ci sono delle pellicole enormi: la massima lunghezza raggiunta finora è quella dei Miserabili, qualche cosa come quattromila metri di fotografie. A svolgerle senza interruzione si continuerebbe per tre ore. Ma il nostro pubblico non ha la resistenza eroica di quello di Francia o di Germania o d’Austria dove gli spettatori si adattano a due tre ore di spettacolo continuo senza morirvi sotto. La lunghezza solita delle proiezioni in Italia non supera quasi mai la mezz’ora: quattro cinquecento metri sono sufficienti al nostro pubblico per andarsene soddisfatto e con un discreto giramento d’occhi. Però la lunghezza è una buona raccomandazione per le films: si servono a porzioni, e possono incatenare il pubblico come i romanzi d’appendice a continuazione. Per questo sotto ai titoli delle azioni cinematografiche voi ne vedete quasi sempre celebrata la lunghezza. Ed ecco un’altra specialità del genere: la letteratura di cinematografo. Senza volersi addentrare nelle molte righe esplicative basta molte volte fermarsi ai titoli. Avrete assistito, spero, a qualche «dramma eroico a lungo metraggio», oppure a una «tragedia d’anime di lunghezza senza precedenti». Ma ce n’è anche di più carini. Questo per esempio: Nell’oscuro abisso – dramma di inarrivabile chiarezza. E quest’altro, scoperto dinanzi a una sala di proiezioni in via Legnano: non è che un sottotitolo, ma è ben trovato: …avvenente dramma passionale. Però quello che mi ha fatto maggior impressione è il titolo di una proiezione che dev’essere commoventissima: La vittima dell’amore – pellicola di trecento metri – tutto sentimento. Avere trecento metri di sentimento e diventare malgrado ciò una vittima dell’amore è molto triste. Vuol proprio dire che anche le vie della pellicola sono seminate di spine.
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La Voce [Giuseppe Prezzolini]
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La censura ai cinematografi*
Un gruppo delle solite signore cattoliche, per probabile istigazione dei soliti confessori, è riescito a persuadere il Governo che il cinematografo stava diventando immorale e pericoloso; e il Governo, ben volentieri, ha istituito una censura delle films, prima in ciascuna città, poi, per domanda dei fabbricanti di queste, a Roma, alle spese della quale provvederà una tassa domandata dagli stessi fabbricanti. I fenomeni sono dunque due, che conviene esaminar separatamente. Il primo dimostra come anche oggi la vecchia concezione d’una morale «materiale» prevalga dovunque, come dovunque prevale la concezione che all’immoralità si possa provvedere con mezzi «materiali». L’immoralità del cinematografo non consiste già nei soggetti (che sono quegli stessi dei romanzi a dispense illustrate e dei romanzi di appendice), i quali, per sé, non sono né morali né immorali (tanto che le persone morali vi trovano soltanto noia o schifo; come le immorali trovano diletto sensuale nella Venere del Tiziano e nella Leda di Michelangelo). L’immoralità del cinematografo avviluppa ogni e qualsiasi rappresentazione non tratta da avvenimenti naturali (viaggi, scene di paesi ecc.) in quanto dà a tutti i sentimenti in essa espressi (e fossero anche i più «morali» come l’amore materno e il patriottismo) un’aria di falsità, di esagerazione, di sentimentalismo, che abitua insensibilmente il pubblico all’imitazione; onde la ragazza del popolo, il giovine di bottega, il piccolo borghese che frequentano il cinematografo, si mutano in commedianti raffinati tutte le volte che vogliono esprimere le loro sincerissime commozioni. A parte questa immoralità diffusa ed insita nello stesso genere di rappresentazione, non esistono che rarissimi casi di cinematografie veramente immorali, e in un paese in cui libri, giornali, caffè-concerto (se Dio vuole!) non subiscono censura preventiva, non si capisce per quale mostruosità mentale debba esserle sottoposto il cinematografo. L’interesse delle case cinematografiche combacia anzi con quello della morale «materiale»; giacché per non urtare tutto quel grosso pubblico medio che repugnerebbe a spettacoli ai quali non potesse condurre le ragazze da marito, i bambini, ecc., le case cinematografiche preferiscono i soggetti sentimentali ed esilaranti. Se vi fossero eccezioni, a me pare che la legge provveda abbastanza, come provvede per i libri e per i giornali, senza sequestro preventivo, e cioè con il pro*
La Voce [Giuseppe Prezzolini], La censura ai cinematografi, in «La Voce», v, 21, 22 maggio 1913, p. 1081.
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La Voce [Giuseppe Prezzolini]
cesso a quell’intraprenditore di spettacoli che avesse offeso il pubblico pudore. I giovani, così zelanti, delle Leghe di moralità, troverebbero in quest’ufficio di sorveglianti un ottimo impiego della loro vocazione. Il problema, dunque, non è morale, ma di polizia; e l’averlo risolto con norme così vecchie, dimostra soltanto lo stato arretrato della nostra coscienza pubblica, che non ha sorpassato la mentalità clericale della «foglia di fico». Basta, per essa, che non vi sia scandalo pubblico; basta che vi siano le mutandine; il resto non importa nulla. Non importa nulla, per esempio, che le cinematografie si eseguiscano al buio purché non rappresentino, per esempio… quello che si suol fare al buio, anche durante le cinematografie «morali». Quanto al secondo fenomeno, quello dei produttori che domandano una tassa, purché l’esame delle films venga concentrato tutto a Roma, è anche esso degno di nota, ma ce la sbrigheremo presto rimandando alle giustissime osservazioni d’Agricola nell’Unità (1913, n. 20)1. «Questa nuova funzione di Stato deve servire sopratutto ad aiutare l’”industria dell’organico”. Ci sarà a Roma, presso la Direzione Generale della P. S., tutta una nuova grande caterva di graffiacarte, che sorveglieranno, censureranno, timbreranno, bolleranno, protocolleranno, e il diavolo che li porti via. E la tassa sulle pellicole, che frutterà un 200 mila lire annue, servirà a nutrire questo nuovo gruppo di parassiti romani. Naturalmente questa nuova gerarchia di burocratici costituirà una nuova “associazione a delinquere” analoga a quella di cui l’inchiesta sul Palazzo di Giustizia ha fatto intuire l’esistenza nel Ministero dei lavori pubblici e nell’Avvocatura erariale. Quella casa cinematografica, la quale farà passare sottomano qualche foglio da mille al censore o ai suoi beniamini o alla sua amante o allo sguattero della sua amante, otterrà l’approvazione immediata delle pellicole. Le fabbriche, che non capiranno il latino, saranno tartassate, seccate, rovinate, salvo che non s’intonino all’ambiente. E sarà una nuova fonte di lucri per i deputati ministeriali: e da ora in poi anche le case cinematografiche dovranno mettere nei loro consigli d’amministrazione o nominare consiglieri delegati i deputati della maggioranza, o cointeressarli in qualche modo ai loro affari, affinché facciano da rappresentanti della casa nelle trattative coi magnaccia della nuova camorra romana». Conclusione: l’Italia ha ancora molto bisogno di «liberismo» non soltanto doganale, ma d’ogni sorta: artistico, letterario, filosofico e soprattutto morale.
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Gaetano Salvemini (Agricola), La censura preventiva sui cinematografi, in «L’Unità», ii, 20, 16 maggio 1913, p. 299.
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Edoardo Boutet
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rassegna drammatica. Il cinematografo*
Il cinematografo è, certo, una forma di spettacolo che, per il contenuto e il modo della rappresentazione e per quello che costa allo spettatore, richiama la gente in folla nelle grandi e nelle piccole sale adatte allo scopo. Ma, appunto per il diletto e la curiosità che procura, e per la facilità che si ha di poter concedersi il diletto e soddisfare la curiosità, l’azione del cinematografo può riuscire benefica o no, a traverso lo svago. Epperò il cinematografo non va trascurato da quanti sono studiosi dei risultati degli spettacoli, relativamente alla educazione e formazione dell’anima e della mente della collettività: sia per le ragioni dell’arte, nelle predilezioni, sia per le ragioni sociali, per le naturali influenze che dal quadro scenico derivano, specialmente negli spiriti vergini, quelli delle masse, aperti solleciti alle impressioni. Il cinematografo può diventare possente ausilio dell’insegnamento: tanto più fecondo in quanto offre la visione immediata e diretta. La mente dell’ignaro non deve affaticarsi, né confondersi, oscurarsi quindi ancora di più, nel seguire il commento e la illustrazione di chi insegna; e il cinematografo avendo inoltre la sua attrazione di rappresentazione, dispone simpaticamente gli animi di coloro che ancora non sanno alla comprensione. Certo là dove si crede che l’insegnante debba circondarsi di grigia nuvolaglia, e assorgere imparruccato e ammantato sui cervelli che dovrebbe semplice chiaro libero dischiudere alla conoscenza, la pellicola, quale mezzo di istruzione, è giudicata non seria e degradante per la cattedra. Ma già vi sono nazioni nelle quali vengono precisamente e illuminatamente intesi i servigi che il cinematografo può rendere all’istruzione: gli esempî sono molti ormai, significanti nei risultati, e qualche barlume comincia a balenare anche da noi. E qui mi si consenta una parentesi. Noi non diamo ancora, per ragioni storiche e per ragioni d’ignoranza, la importanza civile, che pure ha, e quanta e quale!, allo spettacolo in genere e al teatro in ispecie. Vogliamo ancora credere che quella costruzione che si chiama teatro, che quel quadro il quale si svolge sul palcoscenico d’un teatro, debban servire allo svago unicamente. Pensare che dalla dilettazione che deve dare il quadro scenico, sia di commozione sia di ilarità, possano derivare affermazioni o manifestazioni, di pensiero e di arte, le quali esercitino un’azione sulle sorti di una civile comunanza, ci sembra addirittura *
Edoardo Boutet, Rassegna drammatica. Il cinematografo, in «Nuova Antologia», clxvi, vol. 250, 1000, 16 agosto 1913, pp. 655-658.
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Edoardo Boutet
una follia. Così segue in logica conseguenza che ci lasciamo vincere poi dalle degenerazioni dei quadri scenici, rendendo aspra la via a coloro che tentano, in una degna ed esatta visione, di rendere il teatro una espressione di pensiero e di arte, non dimenticando la varia dilettazione. Al più riassumiamo la gloria e la storia e il fine della scena nella gola di un cantante o nel giuoco di un attore. E il medesimo criterio, criterio per indicarlo in qualche modo, portiamo nei riguardi del cinematografo. Infatti anche dal punto di vista del quadro scenico, propriamente detto, il cinematografo potrebbe riuscire di somma utilità. Esso dovrebbe costituire, se avvedutamente inteso, una preparazione elementare alle maggiori scene: nell’attesa che le maggiori scene si mettessero in condizioni di aprire le loro porte, per la tenuità del prezzo, al maggior pubblico, al popolo, che è potenzialmente il migliore spettatore e il miglior giudice. Far passare sulla speciale scena del cinematografo l’opera d’arte e di pensiero delle glorie della storia del teatro, sia pure a traverso la sola mimica, ma con l’attrazione scenografica che il cinematografo si consente, desterebbe negli animi nuovi un primo grado di nozione che darebbe per risultato, con la curiosità della ricerca e della lettura, il desiderio di accorrere ai teatri nei quali quei quadri scenici si svolgerebbero poi, con la parola, compiutamente. Da questo fatto particolare seguirebbe, quasi insensibilmente ma sicuramente, la formazione del gusto relativamente all’arte, e la meditazione dalle impressioni, meditazione che slarga anche il cervello. Senza contare che potendo il cinematografo per la sua essenza riprodurre, e meglio che il teatro, anche il romanzo, quella formazione di gusto di arte e quella meditazione che slarga il cervello, se la scelta seguisse rigida e elevata come si vorrebbe per il quadro di teatro, ritrarrebbero ancora maggiore beneficio: il maggiore beneficio che offre il più vasto campo di visione e di esercizio. Né si dica che la massa si infastidirebbe: i varii tentativi osati, a traverso le peggiori lotte, da noi, sono documentazione sicura. Il popolo accorre in folla alle manifestazioni del grande teatro, di arte e di pensiero: è quel teatro cretino che quotidianamente è elaborato ed è ammannito che non lo appassiona; e non lo appassiona perché nulla dice né alla sua anima né alla sua mente. Il cinematografo può avere infine ed ha anche una influenza sociale: oltre quelle che derivano dalla sua applicazione alla istruzione, oltre quelle che derivano dallo svolgimento di quadri scenici di arte e di pensiero. Il mite prezzo che richiama nelle sale cinematografiche coloro che non vogliono o non possono procurarsi i varî modi che portano alle conoscenze, già determina nelle folle un primo passo d’interesse: a vedere, a sapere. Per tutto quanto poi il cinematografo accoglie di universale nel suo particolare quadro, e per il modo, della visione cioè che agisce immediata sulle menti e sugli animi, le due ore di spettacolo cinematografico possono mostrare alle folle, e con fecondo risultato, quanto esse non potrebbero ritrarre, e con la migliore e con la maggiore buona volontà, in mesi ed anni di letture di giornali, di riviste, di libri. Di letture: mentre per il quadro cinematografico, senza necessità di illustrazioni dette e ridette, cantate e ricantate, e senza gli errori che in chi non sa o non ha la consuetudine dello studio possono
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rassegna drammatica. Il cinematografo
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dalla lettura derivare, le folle hanno sotto gli occhi tutto quanto è utile ad esse conoscere per quel discernimento e per quelle aspirazioni che costituiscono poi la sorte e con la sorte il grado delle civili comunanze. Ma il cinematografo è naturalmente anche una industria. Per i benefici che può arrecare alla scuola, il pericolo è relativo; esso risiede solo in questo: che coloro i quali hanno dedicato la fatica della loro vita all’insegnamento, credano prima o poi alla sua utilità. Sarà questione di ritardare. È un male non affrettarsi, ma non è un disastro; come avviene invece per la pellicola che riproduce il quadro scenico, e quindi contribuisce a formare il gusto dell’arte o a destare il pensiero, e per la pellicola che come quella del quadro scenico accoglie quanto di universale è portato alla conoscenza delle folle; il mite prezzo poi contribuisce a rendere il disastro maggiore e più sicuro. Il cinematografo è un’industria, è un commercio: e i guadagni grossi sono tentatori. Avviene per esso quello che accade ancora per il teatro. Se il teatro avesse per guidatori coloro che sanno e possono preoccuparsi, sempre non dimenticando la necessaria dilettazione, dell’arte e del pensiero, i suoi risultati, d’arte di pensiero e civili, sarebbero immancabili; ma abbandonato com’è alla ignoranza e alla speculazione è un malanno per il gusto, per l’intelletto, ed è un malanno per i destini civili. Né si dica che il teatro voluto dai buoni guidatori sia una cattiva speculazione. Non mancano documenti che consentano di provare la stoltezza dell’affermazione. È speculazione fruttifera meglio dell’altra, con in più i benefici derivanti dal suo grado. Il cinematografo è un’industria è un commercio, e questa industria, e questo commercio non hanno ancora né lume né indirizzo. Dalla industria e dal commercio segue la concorrenza, dalla concorrenza la voga; e se per le ragioni di quantità, l’enorme consumo, nei programmi cinematografici càpitano utili pellicole, il maggior numero è costituito da un repertorio il quale tradisce le ragioni stesse di essenza del cinematografo. E si abbandona per richiamare la gente alla ricerca di quei quadri scenici che non solo non hanno nessuna relazione con l’arte, con il pensiero, con i fini civili, ma pure svolti nelle seducenti attrattive scenografiche, sono tra le più sciagurate e le più dissennate degenerazioni del teatro: a segno che ritornano nelle pellicole cinematografiche, e annunziate con i larghi modi di pubblicità, quadri scenici scacciati dalle ribalte volgari e inferiori. Di peggio. Poiché il quadro cinematografico permette qualsiasi riproduzione: ed è un palcoscenico quello che per il mezzo di rappresentazione non teme ire o nausee di pubblico espresse con le vivacità graduate delle disapprovazioni, vi si trovano spesso spettacoli turbatori delle coscienze, adatti a sviluppare e ad afforzare latenti bassi istinti. Mi si intenda preciso e bene. Non voglio il «cinematografo-dottrinella»; foglie di fico ipocrite sulle miserie umane non ammetto io. Ma, come per il teatro accolgo tutte le audacie e tutte le libertà, purché abbiano una ragione qualsiasi di arte o di pensiero; e come credo che lo spettatore non debba essere pigliato per il collo dalle predicazioni della scena e spinto a curvarsi a questo od a quel giogo, invece con libera mente vagliare, e accogliere o respingere; e cerco di spazzare come posso tutto quanto istupidisce o abbrutisce, tutto
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Edoardo Boutet
quanto oscura il cervello, non eleva l’animo, e infiacchisce o travia le platee; così per il cinematografo vado ripetendo che deve essere avviato per il sano ed utile cammino. Allo stato delle cose, il cinematografo traviato da quelli che dovrebbero essere i suoi fini, è assai più pericoloso e assai più dannoso d’un teatro fuorviato nei riguardi di una civile comunanza: appunto perché al cinematografo accorrono in folla per i pochi centesimi giovinetti e lavoratori. Io ho voluto frequentare i cinematografi nei quali s’addensa col popolo la plebe; e l’ardore della discussione, nella quale persevero da tempo, sulle buone vie che il cinematografo deve seguire, e con rigore, per le più alte ragioni che non siano i pubblici divertimenti, attinge vigore e commozione appunto dalla diretta osservazione. Quale rimedio opporre al danno? Il ministro dell’interno ha decretata la censura alla pellicola. Male. Come rimedio a nulla serve: si sa di che si occupi e si preoccupi la censura; e la censura, poi, è deplorevole restrizione della libertà. Sono state emanate anche ordinanze per la difesa dello spettatore nelle sale cinematografiche: difese naturalmente che riguardano i pericoli del corpo. Né censura, né ordinanze, per ragioni diverse, si interessano dell’anima e del cervello dello spettatore. Ben altro è urgente. Ed ecco: la critica drammatica, quella specialmente dei quotidiani, è la sola che fecondamente può adempiere il dovere. Il cinematografo è uno spettacolo, il cinematografo è anzi un teatro. «Cinema-teatro», si legge dappertutto ai quadri di pubblicità. Ebbene: la critica drammatica, nell’attesa che anche dalla scuola le venga ausilio per la sacra impresa, segua i programmi cinematografici; e come assiste alle prime rappresentazioni o alle speciali interpretazioni degli attori, a teatro, e poi commenta nel giornale, assista allo svolgimento di ogni nuovo programma cinematografico, e commenti con ogni libertà e con ogni sincerità poi nel giornale. Incoraggi quei cinematografi nei quali si mostra d’intendere, via, chiamiamolo così, il «dovere della pellicola»: e combatta senza pietà e senza cortesia le direzioni di case cinematografiche, dove questo dovere è stortamente o sconciamente inteso: frequentando, con ogni assiduità, in ispecie le sale cinematografiche popolari. Si lasci pure nei giornali quotidiani la libertà della quarta pagina alle imprese cinematografiche; ma il critico drammatico, anche i redattori di altre rubriche, la «cronaca» ad esempio, e perché no l’«articolo di fondo» a volte?, con la visione precisa di quel che debba essere il cinematografo, guidino questo spettacolo, che si diffonde ognora più, nelle rotaie del bene: costringendo la forza che è la cinematografia a riuscire illuminatamente educatrice.
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Attrice cinematografica ferita da un leopardo nell’esecuzione d’una film*
La scena drammatica, assai più drammatica di quella che gli attori stavano fingendo, è successa nell’interno di un serraglio, che era stato messo a disposizione dello stabilimento cinematografico «Savoia Film», situato in via Asti n. 20, e per un semplice caso non ebbe tragiche conseguenze. La prima notizia Il serraglio scelto fu quello di Nouma Hava, che attualmente sorge all’angolo di corso Quintino Sella e via Cardinal Maurizio. Un gruppo di attori vi entrò nelle prime ore del pomeriggio per lo svolgimento di una commedia cinematografica, in cui doveva figurare fra i personaggi, anche un leopardo. La scena, in cui aveva parte la belva era quella culminante. Naturalmente, per il maggiore effetto e la maggior riuscita dello spettacolo, a contatto del leopardo era stata posta una bella donna: la protagonista dell’azione. Come già molte altre volte si è fatto in altri teatri cinematografici, per rappresentare più al vero l’azione e dare la perfetta illusione della realtà, si cercò un leopardo, di cui fosse quasi garantita la docilità. Si aggiustò una delle gabbie ad uso di scena e alla presenza del domatore vi si introdussero l’attrice e gli altri personaggi, facendo poi avvicinare a loro l’animale in libertà. Sosteneva la prima parte nel dramma la signorina Adriana Costamagna, d’anni 27, abitante in via Verrua n. 3, assai nota nel mondo teatrale e in quello cinematografico. Essa si prestò colla massima tranquillità alla pericolosa azione, poiché non nuova a simili prove, durante le quali mai il minimo incidente era accaduto. Anche il suo collega, il «metteur en scène», Ubaldo del Colle, che fungeva da attore, incominciò il suo strano lavoro di recitazione a gesti, senza nemmeno preoccuparsi della belva, che sembrava pacifica sotto gli sguardi ferrei del domatore, *
Attrice cinematografica ferita da un leopardo nell’esecuzione d’una film, in «La Stampa», 19 ottobre 1913, p. 6. Il lancio della pellicola della Savoia Film a cui il brano si riferisce, Il mistero di Jack Hilton, sfruttava l’incidente a scopo pubblicitario, presentando ad esempio sulla «Vita cinematografica», iv, 20, 31 ottobre 1913, dopo un articolo dedicato al «tragico incidente» (pp. 24-25), la réclame del film con foto dell’attrice, del «leopardo Brhama», e dodici «Fotogrammi del momento in cui il leopardo Brhama assale la signorina Adriana Costamagna» (pp. 26-27).
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Attrice cinematografica ferita da un leopardo
signor Sigismondo Piper, d’anni 47, svizzero. Questi era coadiuvato dall’altro domatore del serraglio, Marcello Vannuzzi, umbro. Con essi si trovava il dott. Gariazzo, comproprietario-direttore della Savoia Film. All’esterno della gabbia assistevano alla esecuzione altri direttori, un operatore con la rispettiva macchina, la signora Nouma Hava e altre persone del serraglio. Quando, a un cenno del direttore, gli attori si diedero ad eseguire le parti, badando ai segnali ed al fischietto, il leopardo pareva un agnello, si sarebbe detto avesse compreso che si trattava di una finzione e volesse meritarsi il titolo di attore. Fu soltanto verso la fine della scena, che il leopardo a un tratto cominciò a fissare con due occhi poco rassicuranti la bella silhouette di Adriana Costamagna. Essa, tutta intenta ad eseguire la film, non vi badò. Il domatore si accorse subito che l’animale era leggermente nervoso, ma non fece in tempo a intervenire. Con un balzo rapido e violento il leopardo si gettò sulla attrice, mentre questa gli era vicina e la atterrò, abbracciandola colle sue zampe terribilmente unghiute. Essa mandò un grido acutissimo, a cui fece eco tra gli astanti un urlo di raccapriccio. Ma fu un’angoscia di pochi secondi. Con un balzo altrettanto rapido che quello della belva, il domatore si slanciò sul leopardo, afferrandolo al collo e strappandolo dal corpo della signorina a cui s’era avvinghiato. Ma il leopardo non si diede per vinto e si ribellò all’uomo. S’impegnò allora una vera colluttazione tra la belva e il domatore, che durò brevissimi istanti, e finì colla vittoria di quest’ultimo. Il leopardo troppo audace si ebbe un’infinita serie di frustate e si andò a rifugiare gemente e dolorante in un angolo della gabbia. La povera signorina, che era svenuta, fu trasportata subito in un’altra parte del serraglio, dove venne fatta rinvenire e si constatò che, benché fosse ammaccata per tutto il corpo, non si trovava in gravi condizioni. Ad ogni modo tutta la sua epidermide era coperta di graffiature profonde. La pelle del volto era lacerata in vari punti e una mammella era tagliata da una sanguinosa ferita per fortuna poco penetrante. Nemmeno il domatore Piper poté sottrarsi alle graffiature dell’animale: e riportò varie ferite. Ambedue vennero d’urgenza accompagnati in automobile dallo stesso direttore e dal Del Colle all’Ospedale di San Giovanni, dove ebbero pronte cure. La Costamagna fu medicata dal dottor Jachia di ferite lacero-contuse multiple alla faccia, alla testa, al tronco e giudicata guaribile in 25 giorni. Il Piper fu medicato dal dottor Borgo di una ferita lacero-contusa alla gamba destra guaribile in otto giorni. Aiutarono a trasportare l’attrice e il domatore all’Ospedale due guardie municipali. La tragica scena descritta da un testimonio Abbiamo interrogato il dott. Gariazzo, direttore della Savoia Film, che si trovava nella gabbia nel triste momento, ed egli ci ha cortesemente descritto, ancora impressionatissimo di quanto aveva veduto, la tragica scena in tutti i suoi particolari.
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Attrice cinematografica ferita da un leopardo
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La scena che si rappresentava, figurava una giovane domatrice (la Costamagna), assalita nella sua stanza da un ufficiale di marina (il Del Colle) che la voleva ad ogni costo sedurre. Mentre egli stava per riuscire a dominare colla forza la bella domatrice, entrava nella stanza un leopardo, alla vista del quale il satiro fuggiva impaurito. La donna, libera finalmente del suo persecutore, si dava ad accarezzare la belva affettuosamente. Fu a questo punto dell’azione, che avvenne la scena tremenda. Il Del Colle, che rappresentava l’ufficiale, appena avanzò il leopardo, si era allontanato. Dinanzi alla macchina che l’operatore faceva agire, al riparo da uno steccato, era rimasta sola l’attrice accanto alla belva. Ai lati della gabbia erano, pronti ad intervenire in ogni circostanza, i due domatori e il direttore Gariazzo. La baracca, perché la luce entrasse, era aperta, e di fuori un centinaio di persone assistevano incuriosite a quell’interessante spettacolo. La Costamagna, che era squisitamente inguainata in un abito nero, col collo e le spalle nude, si era immedesimata nella parte al punto che accarezzava la bestia con vera compiacenza, dimentica completamente del pericolo a cui si esponeva. Ad un tratto invece di rimanere dritta in piedi accanto al leopardo, come avrebbe dovuto perché l’animale rimanesse soggiogato, gli si accovacciò accanto, ponendogli le mani sul capo. – Che bella bestia! – esclamava. – Che odore selvaggio! A poco a poco insensibilmente il suo bel viso fresco si avvicinò a quello dell’animale, che si rivolse di botto e vide la donna alla sua stessa altezza. Perdette allora il rispetto per la statura umana, le sue narici aspirarono il profumo di quella carne giovane e, con una spaventevole zampata sul capo afferrò di colpo colei che avrebbe dovuto essere la sua vittima. Quello che avvenne dopo, lo sappiamo. Ma è impossibile poterne dare un’idea esatta colle parole. La belva addentò al capo la disgraziata, e si diede a graffiarla febbrilmente in tutto il corpo, strappandole gli abiti, denudandola quasi, coprendola di ferite sanguigne, esaltandosi sempre più all’odore del sangue. Alle grida strazianti di lei, che sembrava impazzita, si univano gli urli della belva eccitata, disposta a difendere sino all’ultimo la sua preda. E a questo frastuono rispondevano di fuori le voci di terrore dei curiosi, che assistevano da lungi al pauroso spettacolo e credevano ad una carneficina. La povera signorina gridava disperatamente: – Aiuto! Salvatemi! Come urla questa bestia, come urla… – Gettate acqua sul leopardo! – gridava Nouma Hava, pratica di simili incidenti. Ma la confusione era tale che nessuno le badò. I due domatori, Marcello e Piper, dopo aver tentato invano di agire colle rivoltelle, che non fecero scattare per timore di colpire la donna, si gettarono, decisi a tutto, sul leopardo. Anche il direttore Gariazzo li aiutò. Per un momento si vide sol più nella gabbia-palcoscenico un fantastico groviglio di corpi iniettati di san-
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Attrice cinematografica ferita da un leopardo
gue. Poi gli urli della belva diminuirono e la Costamagna cessò di gridare. Essa era libera! Il domatore Piper aveva affrontato il leopardo e lottando corpo a corpo lo aveva staccato dalla vittima, mentre il Marcello Vannuzzi, cintogli il collo col suo braccio poderoso, lo aveva quasi soffocato, obbligandolo ad aprire la bocca che addentava il capo gentile di Adriana Costamagna. Il resto è noto. Durante la fulminea scena, l’operatore, in preda allo stupore più grande, continuò impassibile a girare la manovella! Il fatto produsse in quanti vi assistettero un’impressione indimenticabile. Non sarebbe opportuno che prima di mettere, per l’esecuzione delle «films» attori di cinematografi a contatto con belve, fosse necessario un «nulla osta» della Polizia?
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La fuga di tre leoni a Torino
Torino, 9 dicembre, notte. Gli uffici di Palazzo di Città sono stati oggi, nel pomeriggio, messi in grande allarme da una serie di fonogrammi provenienti dall’Ospedale Mauriziano, in forma laconica, alla centrale telefonica comunale. Un primo fonogramma avvertiva che due leoni erano fuggiti dalla fabbrica di films cinematografiche Pasquali e C., posta in via Savonarola, alla barriera di Stupinigi. Un secondo fonogramma aggiungeva che le due belve si erano imbattute sulla strada in una lavandaia, la quale conduceva un mulo, e stavano in quel momento sbranando l’animale. Un terzo fonogramma rassicurava gli animi, mentre stavano per uscire in automobile distaccamenti di guardie e di pompieri, perché diceva che i due leoni erano stati catturati e non c’era da lamentare che una sola vittima: il mulo… Ancora un nuovo fonogramma dopo mezz’ora avvertiva che un terzo leone era fuggito. Il leone preso a seggiolate Quando arrivammo sul posto, guardie municipali e di questura coi commissari Bessi e Rabino, della vicina sezione, erano alle prese appunto con questa terza bestia, la quale sporgeva la sua testa, con la bocca spalancata, dall’alto di un muricciuolo di cinta dello stabilimento Pasquali. Guardie e inservienti la facevano oggetto di una fittissima sassaiuola, mentre a pochi metri altre guardie e carabinieri, coi moschetti e le rivoltelle spianate, erano disposti in semicerchio in modo da impedire la fuga alla belva. Questa si era alquanto contrariata da questa grandine di sassi e sembrava indecisa se spiccare un salto sulla via. Finalmente alcuni inservienti del proprietario dei leoni riuscirono con pietre a ricacciare giù la belva ed a rinchiuderla nella gabbia. Contro questo leone erano stati lanciati ogni sorta di… improperi e di proiettili. Un artista si arrampicò, munito di una seggiola, su una sporgenza del muro e lo prese perfino a seggiolate. I leoni protagonisti del fattaccio di oggi appartengono al domatore Schneider, un coraggioso tedesco, il quale ha dimostrato anche in questo frangente un grande sangue freddo. Egli venne tempo fa a Torino con una ventina di leoni, tra grandi e piccoli, debuttando in un caffè concerto: poi cominciarono a fioccare le ri*
La fuga di tre leoni a Torino, in «Corriere della sera», 10 dicembre 1913, p. 4.
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La fuga di tre leoni a Torino
chieste da parte delle locali ditte di films, e da allora – abbandonato il teatro – Schneider non si è mosso più da questa capitale del mondo cinematografico. I suoi leoni hanno servito a una infinita varietà di spettacoli, dell’era antica e moderna. Sono essi che hanno sbranato in parecchie edizioni i cristiani del Quo vadis?, che hanno fatto la loro tragica comparsa durante Gli ultimi giorni di Pompei e sono in seguito finiti a causa di questa film in tribunale. Poi sono andati a tenere compagnia a Daniele nella fossa dei leoni, e si sono fatti financo intenerire dalla Musica di Orfeo. Adesso la famiglia è aumentata: i leoni hanno raggiunto il numero di 26, perché qualcuno in questo mese è diventato cittadino torinese. Una scena cinematografica L’impressionante scena cinematografica di oggi si è svolta, diremo, a doppio fondo: al piano terreno e al primo piano, dove è situato il teatro di posa. Si stava preparando una scena umoristica in cui doveva essere protagonista il comico Polidor, un ex artista da circo equestre, disputato oggi da molte ditte. Polidor è il suo secondo nome di battaglia. Debuttò a Roma tre anni fa, creando il noto tipo di Tontolini. Venendo a Torino e cambiando ditta ha dovuto cambiare anche il nome. Si chiama in realtà Ferdinando Guillaume ed è nato a Brescia, per combinazione, come sono nati a Torino gli ultimi leoni di Schneider. Era con i suoi zii, i fratelli Guillaume, proprietari del noto circo equestre omonimo ed allora faceva il tony sotto il nome di Pollastrini; accettò di servire un giorno in una film umoristica, e d’allora in poi ne ha fatte circa trecento. Nella scena a cui doveva partecipare Polidor, prendevano altresì parte tre grossi leoni, i migliori della troupe di Schneider. In una gabbia di ferro era stato composto un elegante salottino nel quale dovevano entrare improvvisamente le tre fiere, mettendo a soqquadro ogni cosa. Mentre l’operatore girava la manovella della macchina, i tre leoni, fatti uscire dalla gabbia, penetrarono nel salottino. La scena raggiunse un punto davvero impressionante, superiore a quanto desiderava lo stesso direttore di scena Paradisi. Le tre fiere, forse perché digiune o irritate, si slanciarono sul sofà e sulle sedie sventrando, togliendo colle zanne la stoppa di cui erano imbottite, lacerando, fracassando ogni cosa. La scena fu così movimentata e violenta che l’operatore non si accinse nemmeno a ritrarla. Gli urli delle tre belve erano davvero spaventosi. Le attrici svengono In un canto dello stesso teatro, che è molto vasto, agiva un gruppo di artisti assorti in una scena di genere diverso. Belve ed artisti agivano per proprio conto, senza recarsi disturbo reciproco, per quanto l’irritabilità dei leoni fosse già stata notata, specialmente dalle artiste.
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A un tratto si udirono grida altissime: «Sono fuggiti i leoni». Sulla scena nacque un panico enorme; gli artisti scapparono inorriditi da tutti i lati, vestiti e truccati come erano, cercando un nascondiglio, un riparo qualsiasi. L’attrice Ruspoli venne portata via di peso svenuta. Altre svennero più tardi. Ma tutto ciò non riguarda i leoni della gabbia, i quali erano intenti a fracassare il loro salottino. La vera scena pericolosa, con leoni in libertà senza operatore cinematografico e disgraziatamente senza domatore, si svolgeva a pian terreno e sulla via. I cassoni dei 26 leoni dello Schneider sono posti nel cortile della fabbrica. Presso questi c’è la gabbia di addestramento, la quale serve per dare moto alle belve e per raccoglierle mentre si fa la pulizia ai detti cassoni. È una gabbia per modo di dire, perché è formata da un cantuccio del cortile chiuso da un lato da un assito e dall’altro da un muro di cinta alto circa tre metri, muro che dà in via Giovanni Bertini, all’angolo di via Savonarola. Questo spazio è in parte coperto da un telone incerato. Qui lo Schneider aveva lasciato parte dei suoi leoni mentre stava nel teatro di posa con Polidor. Due giovani leonesse, stanche di cinematografie, furono prese dalla nostalgia della libertà. Dalla sala vicina giungevano risa argentine di attrici graziose e di comparse piene di vita. Videro il muricciuolo di tre metri e forse pensarono che per loro era ostacolo non insormontabile. Con un balzo furono in cima al muro e con un salto furono presto in libertà sulla via, che fortunatamente in quel momento era quasi deserta. Le leonesse trotterellarono inavvertite, indecise per un po’, quindi visto il cancello dello stabilimento aperto vi entrarono, girarono per qualche buio camerino e poi, quando sentirono che tornavano dov’erano fuggite, ripresero la porta d’uscita e furono di nuovo in via Bertini. Un mulo contro due leonesse Le belve si inoltrarono in via Savonarola verso un giuoco di bocce, animato da una diecina di giocatori, i quali facevano molto baccano. Ma tornarono indietro. Davanti al garage dello stabilimento trovarono ciò che faceva per i loro denti: un mulo, che era attaccato a un carro condotto da una rubiconda lavandaia. Le belve si slanciarono sull’animale, mentre le donna in preda a folle terrore scappava. Sul carro vi era un ragazzo di 14 anni, il quale, come vide i leoni, fuggì urlando. L’allarme era così dato. Siccome la via Savonarola è sbarrata da un passaggio a livello, i cancelli erano chiusi per l’arrivo di un treno, e fu fortuna perché le belve non poterono procedere e al di là sostavano parecchi carrettieri coi loro animali e un gruppo di ufficiali che cavalcava per corso Stupinigi. I carrettieri si misero a urlare ed un tramviere corse all’Ospedale Mauriziano ad avvertire il municipio. Il passaggio a livello rimase naturalmente chiuso anche dopo che transitò il treno. Una vecchia, che si trovava al di qua dei cancelli, dalla parte dei leoni, vedendo le belve, li scavalcò con impeto giovanile disperatamente. Un giovane per-
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correva la via Savonarola in motocicletta, ma per lo spavento di essere divorato saltò a terra e preferì affidarsi alla velocità delle proprie gambe. Nel frattempo, l’allarme originava il noto equivoco nell’interno del teatro di posa ed il relativo panico. Quando il direttore della ditta Pasquali, signor Paradisi, un coraggioso giovanotto, l’artista Di Maggio, l’avv. Mazzoletti, un ex-giornalista passato ora alla ditta cinematografica, insieme col domatore Schneider e con alcuni inservienti armati di forche con grossi batuffoli imbevuti di ammoniaca e di cloroformio furono sulla via, le due belve erano attaccate al collo del povero mulo, che tirava calci al biroccio, disperatamente. I finimenti e una grossa coperta difesero un po’ l’animale; poi una delle leonesse lo addentò alla testa, sotto l’osso frontale, producendogli un largo e profondo squarcio da cui sgorgò in gran copia il sangue, mentre l’altra belva tentava di azzannarlo al collo ed alla schiena. Il basto o la grossa collana salvarono in parte il malcapitato mulo, il quale nel frangente non fu tanto bestia, ma addentò al collo una delle leonesse tenendola rabbiosamente qualche istante ferma sotto di sé. Le belve catturate Il gruppo formato dal domatore, dai suoi inservienti, dal Paradisi e dai suoi colleghi si avanzò coraggiosamente verso le belve. Il sangue caldo che sgorgava a fiotti dalle ferite del mulo le aveva inferocite. Gli occhi guizzavano lampi. Ci diceva il Paradisi: «Due occhi terribili, tragici, indescrivibili. Non li dimenticherò mai più». Di Maggio ed altri avevano estratte le rivoltelle pronti a far fuoco; ma lo Schneider si raccomandava che gli salvassero le leonesse. Un colpo di rivoltella venne sparato in aria, ma senza effetto. A mezzo dei forconi i batuffoli impregnati d’etere e di ammoniaca furono cacciati nelle fauci spalancate dei due felini, i quali storditi anche dai colpi di scudiscio, indietreggiarono gradatamente verso la porta del garage, la quale fu provvidenzialmente aperta in tempo e lestamente richiusa. Nell’hangar vennero poi portati due cassoni, dove le belve furono stabilmente serrate. Era appena compiuta questa cattura, che un nuovo grido di allarme echeggiava nello stabilimento. – È fuggito un altro leone! Verso via Bertini accorsero, come ho detto, guardie e carabinieri e il terzo leone fu mandato a sassate a tenere compagnia agli altri due. Ci diceva il commissario di pubblica sicurezza: – È stata una terribile sassaiuola, come non mi è mai capitata nella mia lunga vita professionale. E ne ho viste tante! Scomparso ogni pericolo, la scena assunse poi lati curiosi. La lavandaia piangeva disperatamente la fine del suo mulo, morto alla veterinaria per le ferite ricevute. Il personale della casa cercava di rassicurare la donna, avvertendola che il
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danno le sarebbe stato rifuso. Ma essa aveva singulti così sproporzionati da sollevare l’ilarità. Pareva quasi rimpiangesse che le due belve avessero preferito il mulo… a lei. A poco a poco, con le dovute cautele, sbucarono poi artisti e artiste in parrucca, in costume, armati di spade romane, di spiedi, di randelli. I più bei nomi della cinematografia mondiale passarono cinque brutti minuti. Chi saprà ridire le impressioni di parecchi giovani legionari romani, di cristiani reduci dai cimenti del circo, di cavalieri, di lottatori greci divenuti irreperibili ai primi ruggiti? Solo la macchina dell’operatore avrebbe potuto fermare quell’istante di panico generale, ma la macchina doveva ancora incominciare a funzionare. Un pericolo da evitare Più tardi il domatore riuniva a una specie di grande rapporto le tre belve ribelli e infliggeva loro una serie di scudisciate sonore fra nuovi ruggiti e, questa volta, tra i sorrisi di soddisfazione di tutto il personale cinematografico della casa. E un altro rapporto l’ha fatto per suo conto al prefetto il questore di Torino perché sembra deciso a prendere severissime disposizioni affinché non si ripetano più simili casi. È noto l’episodio capitato poche settimane addietro all’attrice Costamagna, che fu addentata da un leopardo. Due leoni dello stesso Schneider scapparono anche un’altra volta dalle loro gabbie mentre venivano adoperati per la film Lo schiavo di Cartagine in fabbricazione presso un’altra ditta della città. Ma allora le belve trovarono i cancelli del cortile chiusi e mura più alte. Si limitarono a sfondare due o tre vetrate e, penetrate in uno spogliatoio, a divorare le penne di struzzo dei cappelli delle attrici. Avevano sentito l’odore del deserto…
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corriere teatrale. La «Cabiria» di D’Annunzio al cinematografo*
Quel d’Annunzio! Qual eccezionale animatore! Per dove passa, egli traccia una scia luminosa di curiosità e di discussione. All’indifferenza è completamente ignoto. Tentato dal nuovo gioco il Poeta si mette perfino a congegnare uno scenario per cinematografo aizzato da una offerta che potrebbe apparire pazzesca, ed ecco che subito la ditta cinematografica spende un capitale per mettere in scena la «visione storica» – si parla di un milione, di mezzo milione: a scelta – e tappezza tutte le vie delle grandi città di manifesti colossali, e diffonde opuscoli stampati con un lusso sbalorditivo. Poi si prendono in affitto grandi teatri, si completa la cinematografia con orchestre numerose, con coristi, ci si mettono dentro anche delle sinfonie originali. E si fanno perfino le prove generali. Le imaginate le prove generali di una pellicola di cinematografo? Ebbene: si son fatte venerdì. E alla prima rappresentazione – ma non sentite che anche noi siamo presi nell’ingranaggio e chiamiamo prima rappresentazione una proiezione di film? – alla prima si mettono dei prezzi da grande teatro, e il pubblico accorre, dandole veramente l’importanza di una prima teatrale, e c’è fervore di commenti e di discussioni. A una proiezione di cinematografo! Ah, quel d’Annunzio! E i giornali ne parlano: si tratta di lui… Siamo forse sul punto di veder formarsi un nuovo genere di critico: il critico delle pellicole? Per una volta la cosa può passare, come assaggio. Soltanto, invece di parlare di interpretazione, di voci, di accenti, di attori, di dialogo, di stile, il nuovo critico dovrà parlare di lungo metraggio, di positive bene sviluppate, di effetti di luce, di proiezione ferma oppure – che il cielo la benedica! – oscillante, e di alcune altre cose che finora non erano nell’obbiettivo del critico, ma in quello dell’apparecchio fotografico. E parliamo dunque di questa Cabiria, che è tempo. Cabiria, sapete bene, è la «visione storica del terzo secolo avanti Cristo» imaginata da Gabriele d’Annunzio. L’intreccio degli avvenimenti è già stato raccontato: e poi l’intreccio non è che un pretesto per la presentazione di grandi quadri pittoreschi messi in scena senza risparmio: un’eruzione dell’Etna, Annibale che valica le Alpi col suo esercito, i sacrifici nel tempio di Moloch a Cartagine, la distruzione del naviglio romano operata da Archimede con gli specchi ustori, scene del deserto, battaglie, *
Corriere teatrale. La «Cabiria» di D’Annunzio al cinematografo, in «Corriere della sera», 19 aprile 1914, p. 5.
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corriere teatrale. La «Cabiria» di D’Annunzio al cinematografo
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scalate, assalti, saccheggi, riti. Tutto un complesso di visioni oltremodo pittoresche, legate da una vicenda che interessa e avvince e che sintetizza in forma dignitosa e bella e diciamo pure anche istruttiva, tutta un’epoca e tutto un mondo. C’è una prefazione – perché il Poeta ha scritto anche una prefazione alla sua «visione» – nella quale è detto: «Il terzo secolo a.C., l’epoca storica di cui qui sono raccolte e collegate in una finzione avventurosa alcune grandi imagini, reca forse il più tragico spettacolo che la lotta delle stirpi abbia dato al mondo. Gli eventi e gli eroi sembrano operare secondo la virtù del fuoco infaticabile. Il soffio della guerra converte i popoli in una specie di materia infiammata, che Roma si sforza di foggiare a sua simiglianza». E d’Annunzio ha legato gli episodi della guerra fra Roma e Cartagine con la storia romantica di Cabiria «la creatura inconsapevole che passa incolume a traverso l’ardore dei fati». Lo spettacolo è in cinque episodi, e con gli intervalli e la musica dura tre ore. Perché c’è anche una «Sinfonia del fuoco» scritta appositamente dal maestro Ildebrando da Parma che ha preso e ritenuto il nuovo nome regalatogli dal Poeta, e ne veste il suo Ildebrando. Ed è una sinfonia ideata e musicata con molta dignità, e di bell’effetto. Iersera al Lirico il pubblico era assai numeroso e Cabiria ebbe un battesimo di applausi. Lo spettacolo si replica.
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Nino Oxilia
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Attori che non parlano*
Giulio Cesare ha solo più pochi minuti di vita. Per le vie dell’urbe passano al consueto grido dello schiavo premesso le lettighe tra l’inquieto muovere della folla, inconscia di quanto sta maturando nell’ombra. Raccolti sotto la statua di Pompeo i congiurati attendono il divino vincitore delle Gallie e Bruto anima i timidi, esalta i facinorosi. Il tiranno deve cadere e cadrà. Cesare sta per entrare. «Pronti!». – «Aggiustate le pieghe alle toghe! Lei, nel secondo gruppo, si scompigli la discriminatura! Pronti! Pronti!». Si fischia e la macchina gira. Siamo in una fabbrica di films: in una qualunque delle tante fabbriche di films che pullulano ormai in tutte le città d’Italia. Intorno alla scena montata in cui si va svolgendo l’azione, è il caos: gente che va, gente che viene, gabbie di leoni, moschettieri sotto braccio a crestaine, romani che fumano la pipa, cavalli sellati all’americana, automobili che fanno manovra, travi che si abbattono, case che sorgono, incendi che divampano; e sopra questo formicolio di gente in corsa le voci più diverse in diversi idiomi, ordini gridati militarmente, strilli, sibili, richiami; qui si ride, là si muore, dappertutto si urla: è naturale; siamo nel mondo del cinematografo, cioè nel teatro del silenzio. Nessuno può farsi un’idea di quanto si gridi nel teatro del silenzio. È questa la prima cosa che colpisce un visitatore. Ma non è la sola. Da che mondo è mondo nessun ambiente è mai stato più vario, nessuna industria ha mai riunito per lo stesso scopo energie più disparate – qui sono sarti e calzolai, qui falegnami e pittori, qui parrucchieri e meccanici, mobilieri e macchinisti, tappezzieri e chauffeurs e poi operai, artisti, impiegati, fotografi: Babele e la confusione delle lingue. È certo, quello del cinematografo, il mestiere più moderno del secolo ventesimo. Varie le professioni, varia la vita. Vita quasi sempre all’aria aperta sotto il sole, vita un po’ zingaresca e un po’ militare che dà alle anime un’illusione d’arte e di libertà, di giovinezza e di gioia. – Ho detto arte. – Gli artisti di qui sono convenuti verso la nuova forma da tutte le altre forme d’arte. Attori di prosa, cantanti, danzatrici: l’esodo si è compiuto lentamente ma senza tregua: a questi profughi si sono uniti allievi di scuole di recitazione, acrobati, sportsmens, qualche raro aspirante senza passato d’arte o di teatro: hanno fraternizzato, gli elementi disparati hanno cozzato tra di loro, si sono fusi ed ecco che il teatro del silenzio ha avuto il suo nucleo d’attori, omogeneo quanto lo può esse*
Nino Oxilia, Attori che non parlano, in «La Lettura», xiv, 8, agosto 1914, pp. 741-748, da cui si cita; poi in Tra una film e l’altra, cit., pp. 231-238.
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Attori che non parlano
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re… un nucleo di attori. Ora vivono insieme sezionati nelle varie case: figli d’arte non ce n’è ancora o, se ce n’è, sono ancora troppo giovani per vantarsene. Del resto, non se ne sente la mancanza. Anche nelle case cinematografiche ci si è venuti abbastanza rapidamente organizzando in modo molto simile al teatro di prosa. Anni sono le compagnie cinematografiche non esistevano: ogni casa aveva un certo numero di attori scritturati, cui venivano di volta in volta affidate le parti nei soggetti di questo o di quel direttore artistico. Ora invece in tutte le case più importanti e dirette con criteri di modernità esistono delle vere compagnie ben definite, ciascuna delle quali fa centro al suo metteur en scène o direttore artistico e solo in occasione di qualche soggetto di eccezionale importanza se ne rompe per qualche tempo la compagine. Ciò avviene del resto molto raramente. Le compagnie cinematografiche meglio formate constano di abitudine di cinque o sei attori: primo attore, prima attrice, attor giovane, attrice giovane, caratterista e attrice madre; ad essi vanno aggiunti uno o due operatori fotografi e un generico che funge da segretario del direttore artistico. I generici sono gli stessi per tutte le compagnie: le masse, le comparse insomma, sono prese, come in teatro, ogni volta che ce n’è bisogno, si chiamano «cachetistes» e percepiscono da cinque a dieci o dodici lire al giorno. Sono questi i veri coristi del cinematografo: nei grandi centri cinematografici come Torino e Roma si riesce all’occasione a radunarne qualche migliaio: niente di più difficile a fondere a dominare e ad animare di queste masse, eppure anche tra esse, come tra i coristi di teatro, molto sovente si trova l’elemento prezioso che, educato e ben diretto, sarà domani apprezzato al suo giusto valore. Una volta gli attori non conoscevano il soggetto che interpretavano: oggi non è più così, almeno per la maggior parte dei casi. Prima di cominciare una pellicola, il direttore artistico raduna nel suo studio i suoi comici e legge o fa leggere dal segretario la trama del film che gli è stato affidato o che egli stesso ha scelto, quindi fa montare dal basso personale le scene e si principia il lavoro. Le scene non vengono mai eseguite nell’ordine cronologico: sarebbe impossibile di farlo: nessun teatro di prosa, nemmeno i più vasti, possono contenere montati contemporaneamente tutti gli interni necessari in un film; per ciò se ne monta una parte soltanto e in ciascuno di essi si eseguiscono in vario ordine, che dipende dal criterio del direttore, i quadri che in esso si svolgono. Ogni quadro viene provato più volte prima di andare in macchina: il direttore spiega dettagliatamente la scena ai suoi attori e durante le prove ne corregge gesti, atteggiamenti, espressioni, e, a seconda del caso, anima o contiene questo o quel comico, gli suggerisce le battute essenziali, cerca di ottenere l’esatta intonazione mimica affrettando o rallentando l’azione. Gli attori dal canto loro debbono montarsi per giungere alla giusta gradazione drammatica pur cercando di rimanere semplici nella ricerca degli effetti, né è facile compito. Di solito le scene all’aperto, gli «esterni», si eseguiscono dopo finite tutte le scene di «interno». Finito il film e stampata la prima copia di tutte le scene ese-
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Nino Oxilia
guite, il direttore artistico le raduna e le ordina, rifà quelle che non gli piacciono; quindi si attaccano le scene tra di loro, si preparano i sottotitoli del film e lo si vede nella apposita cabina di proiezione. Questo è il metodo comune di lavoro: ogni casa segue del resto nella distribuzione del compito i propri criteri che differenziano però assai poco gli uni dagli altri. Anche in film esiste il «genere» come a teatro. C’è la comica «à cascades», la commedia, il drammaccio da arena molto ricercato dal mercato inglese, il dramma moderno e il dramma in costume. Non sempre un direttore fa più generi nel medesimo tempo ed è perciò che le compagnie sono quasi sempre specializzate. Ciò facilita l’orientarsi del cinematografo verso una forma d’arte: forma nuova ancora indecisa e malsicura ma che cerca già qua e là di stilizzare la forma concreta della verità in certi suoi atteggiamenti tipici. E gli attori sono che hanno questo compito e i coscienti se lo sono assunto con gioia. Vivono insieme: si vive di luce, di aspirazioni e di piccoli pettegolezzi: i pettegolezzi sono le distrazioni della vita in comune. Si parla d’arte spesso senza criterio, qualche volta assennatamente, sempre con entusiasmo: è un ambiente giovane quello del cinematografo e ne ha tutte le caratteristiche; gli attori sono per lo più disposti a gettarsi nel fuoco pur di far bene; hanno la smania di discutere, di paragonare, di esaltare, di distruggere: caratteristiche di giovinezza, segni distintivi di un periodo ascensionale, buoni segni di vitalità nuova. Si discute, si grida, si canta: si vive come si può, si lavora come i torrenti balzano sulle rocce. Solo i vecchi comici provenienti dal teatro di prosa non prendono parte all’esaltazione comune: assistono impassibili al tumulto: su gli uni e su gli altri splende il sole, il buon sole, compagno nella fatica quotidiana. Sole, luce, bellezza. La bellezza fisica, che è stata per tanto tempo una delle doti più importanti per i cultori di Talia, è ancora indispensabile a chi voglia dedicarsi come attore alla cinematografia. Indispensabile specialmente alle donne. Come una volta il popolo greco per le danzatrici di Efeso, così oggi, nelle sale di proiezione, il pubblico non decreta il successo o la notorietà a un’attrice o a un attore se il suo occhio non è anche appagato dalla bellezza fisica. Tutte le attrici cinematografiche celebri, italiane o straniere, sono belle. La loro notorietà non è però, come dai più si crede, dovuta soltanto a questo: occorrono anche qui delle vere qualità di espressione, di semplicità, di atteggiamento e di osservazione per giungere a farsi notare ed amare dagli spettatori. Ricordo di aver visto attori piangere veramente rendendo una scena di dolore, di averne visti altri tremare dopo una scena d’angoscia ed erano quelli stessi che il pubblico amava. Perché anche qui il pubblico ha i suoi prediletti che se non ricevono – per la gioia della loro vanità – applausi o fiori, pure sono fatti segno da tutte le parti del mondo all’omaggio epistolare dei loro ammiratori sconosciuti. Nessun omaggio più strano e più sincero di questo. Il maggior contingente di lettere è dato dall’Inghilterra e dalla Russia: molte ne giungono dalla Germania, qualcuna dalla Francia: la proporzione è in rapporto al maggiore o al minor nume-
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Attori che non parlano
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ro di copie vendute dalla Casa cinematografica nei dati paesi. Sono lettere curiose, di gente ignota; un osservatore potrebbe dilettarsi a raccoglierne di veramente interessanti. Molte, è naturale, sono lettere d’amore. – Lettere e versi. – Leggevo l’altro giorno una lunga poesia inviata da Tunisi a una nobilissima attrice italiana: O ma belle inconnue santifiée par la flamme, Jeanne d’Arc et Lisabeth, ô toi qu’en vain j’adore, si je n’entenderai jamais chanter ta voix sonore, si bien de fois ton régard faira chanter mon âme…
L’attrice a cui i versi erano dedicati li leggeva nel suo camerino ad alcuni compagni: fuori pioveva. Quando piove i teatri e i corridoi così pieni di vita, così affollati quando si lavora, sono silenziosi e deserti. Qualche trave, qualche abetella dimenticata sotto la pioggia è l’unico segno che ricordi l’ansia delle giornate di sole. Gli attori si rifugiano nei camerini che sono molto spesso dei veri deliziosi salottini o, se c’è, nella sala di convegno e aspettano che ritorni il sereno. Si fuma e si chiacchiera a mezzavoce: sembra di rivivere in una di quelle giornate di spleen senza rimedio che vi capitano tra cuore ed anima a bordo dei transatlantici dopo qualche giorno di navigazione. Chi gioca alle carte, chi sonnecchia, chi canta sommesso: altri sta accucciato sui cuscini, altri legge allungato su un divano: una malinconia inespressa e incompresa è in tutti. Con la fronte ai vetri i vecchi comici di teatro stanno novellando tra di loro di Gustavo Modena e del debutto di Virginia Marini: li riconoscete subito all’atteggiamento e alla voce piena, avvezza al palcoscenico, alla pelle del viso segnato da rughe, affloscita dall’uso dei cosmetici e delle vaseline. Stanno i vecchi comici un po’ in disparte dagli altri, un po’ tristi, un po’ stanchi. Li turba il quotidiano vociare della gente intorno; se vi avvicinate assumono taluni una certa quale aria di protezione e trovano modo di dirvi per la centesima volta dei loro quarant’anni di palcoscenico e dei trionfi di un tempo. Certo, rimpiangono la vita errabonda della loro giovinezza, certo, non si abitueranno mai a non avere più davanti agli occhi, lavorando, una fila di piccoli lumi e in fondo, nel buio del teatro, la folla che guarda, che respira, che giudica. E sui vetri batte intanto la pioggia, questo orologio della malinconia e ognuno ha dentro di sé l’autunno. Brevi tregue di calma, del resto, dal teatro il direttore artistico chiama con tre rapidi fischi a raccolta e allora per i corridoi, per i camerini è un fruscio di sete, uno sbattere di porte, un ondeggiar di veli, un affrettarsi in cortile e qui scrosci di risa e sollevar di gonne e piccole grida nel saltar pozzanghere; e burle e richiami e incitamenti: il sole è balzato fuori da una finestrata di azzurro nel cielo e nell’anima. E con il sole si parte spesso per andare a far scena altrove, lontano, sulla riva del mare, sui monti; si parte in automobile o in ferrovia, a seconda delle distanze e del numero dei partenti.
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Nino Oxilia
Si raduna la carovana, di solito abbastanza esigua, alla prima alba: giungono gli attori pieni di sonno e con le mani ingombre di pacchi: si raccolgono a un qualsiasi caffè notturno: le vie sono spopolate, i fanali appena spenti: passano i carri dei lattivendoli per le strade deserte. Giunge l’ultimo ritardatario che è quasi sempre un uomo – nella vita le donne sono terribilmente puntuali – e si parte. La voce dell’arrivo nei villaggi o nelle piccole città si sparge in un attimo e già prima di cominciare voi avete alle spalle un codazzo di gente che vi segue commentando. «E che fanno ora? E dove vanno ora? E perché è vestito a quella guisa, quello là?». Quando si svolge una vera scena la folla la interpreta a modo suo e si commuove e le discussioni si accendono. Qualcuno domanda il titolo del film, altri – se avete con voi qualche attore o qualche attrice nota – lo riconosce o la riconosce e allora è un intrecciarsi di domande e di esclamazioni. – Ti dico che è lei! – Ma no! – Ma sì! Allora aveva la parrucca bionda. – Non è possibile che sia lei! Non vedi che è più bella! E la curiosità popolare vi tumultua intorno con la sua singolare e rispettosa inquietudine. Dice una pescatrice: «L’ho vista nella pellicola in cui il marito la batte e che le muore la bambina, povera donna!». E la voce è vibrante di pietà. Dice il vicino: «E lui, vedi, quello magro, è lui che faceva il marito». E sono sguardi di rancore. Si bivacca quasi sempre all’aria aperta in questi casi; sulla riva del mare o presso a una siepe o seduti sulle rocce e l’appetito non fa difetto anche se il sedile è mal comodo. Si mangia in crocchio, alla buona, fraternamente; gli attori non si struccano neppure per non far tardi dopo e sgranocchiano le vivande tra il muovere delle mascelle e l’ondeggiare delle barbe posticce. Infiniti aneddoti si potrebbero raccontare per illustrare la bizzarria gioconda di questi vagabondaggi campagnoli. Tempo fa a Parigi alcuni cantanti francesi interpretavano in film per una grande casa italiana un’opera russa. Era protagonista nel film come nell’opera, Jean Bourbon, il notissimo baritono francese che cantò anni sono alla Scala Habanera e che è stato recentemente scritturato all’Opéra di Parigi. Il notissimo cantante, che è nella vita un bellissimo giovane, era per l’occasione truccato da Ivan il Terribile e vestiva il caratteristico manto di velluto rosso fregiato dalla croce. – Si era a Fontenay-sur-Bois. – I macchinisti stavano montando il campo di Ivan e le tende: la giornata autunnale era deliziosa, la «banlieue» lungo un placido corso d’acqua fuggiva vestita di giallo e d’oro verso l’orizzonte. Jean Bourbon si era evidentemente dimenticato la sua orribile trasformazione e la ragione per cui si trovava in campagna: il fatto è che cominciò a perseguire con lazzi e complimenti una piccola barca bianca, montata da due graziose parigine, che andava lentamente alla deriva.
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Attori che non parlano
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– Oh! l’affreux évêque! – disse una di esse levando gli occhi verso di lui. – Il est laid, celui-là. Alla voce, Bourbon la riconobbe. Era una piccola ballerina dell’Olympia. – Mais comment, Cécile, ne me reconnais-tu pas? Je suis Bourbon. – Bourbon, toi? Zut! T’es son grand père, toi! – Mais je t’assure… – Tais-toi! – Viens donc voir! – Ta bouche, bébé! E la piccola ballerina dell’Olympia si sdraiò di nuovo vicino alla compagna mentre Ivan il Terribile risaliva meditabondo la scarpata e andava a rifugiarsi zitto zitto sotto alla tenda. Un’altra volta un attore doveva fingere un suicidio in ferrovia. L’attore era pronto, le prove erano fatte, la macchina di presa vedute cominciò a funzionare. Proprio nel momento in cui l’attore stava estraendo la rivoltella per suicidarsi capitò a passare nel corridoio una vecchia signora inglese che si reca per la colazione al wagon-restaurant. Vede, spalanca gli occhi, getta un grido da far invidia a un’attrice di cartello, si scaraventa nello scompartimento vicino, si attacca al segnale d’allarmi e fa fermare il treno. Vi lascio immaginare la confusione che ne derivò, il via vai per i vagoni, l’affacciarsi delle teste ai finestrini, l’intrecciarsi delle domande, il panico dei viaggiatori. L’unico che non si perdette d’animo fu l’operatore: girò la macchina verso il corridoio affollato e continuò a cinematografare la confusione; né mai scena di panico in treno fu più naturale né significativa. Strana vita certo, questa degli artisti da cinematografo; strana, faticosa sempre, spesso ingrata. Eppure anche qui ci si nutre d’entusiasmi come sulla scena e la gioia di rivedersi vivere sulla tela in un romanzo sia pure grossolano fa dimenticare agli attori i disagi e le malinconie quotidiane: non era forse molto simile il sentimento che rianimava i comici vaganti sul carro di Tespi? Carro di Tespi: ricordo di tempi lontani. Vedo la misera casa traballante sull’acciottolato sconnesso di una strada campagnuola del seicento: il Tiranno conduce per il morso il magro cavallo normanno mentre Isabella canta affacciata ad una delle finestre. A quale fattoria arresterà il suo vagabondaggio la schiera dei comici? Quale nobile signore ubbriacone tenterà di vincere la soave verecondia di Isabella, o lusingherà con qualche dono l’astuta servetta? Quale rubiconda ostessa sarà sedotta dalla grazia di Leandro? Il carro va va va lungo il filare di pioppi e l’Arte, la… commedia dell’Arte se ne va con esso peregrinando e ciascuno di noi ha il cuore che gli somiglia un poco, perché anche il nostro cuore è vagabondo e i nostri sentimenti sono molto spesso truccati come dei comici per la gioia delle ostesse o dei nobili signori ubbriachi. Gli somiglia ma non è lui. Il carro di Tespi si è fermato. Il nostro cuore vagabonderà senza rimedio. C’è forse un rimedio contro la nostalgia?
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SCRITTORI E CINEMA: INCHIESTE E INTERVISTE
ettore janni
Un colloquio con Gabriele d’Annunzio*
[…] Il discorso, tra i vari argomenti del colloquio, era capitato per caso sul tema dei cinematografi. Qualche parola del poeta ha eccitata vivamente la mia curiosità. Diceva d’esser entrato qualche volta in un cinematografo e di aver provato un profondo disgusto della stupidità e del carattere grossolano degli spettacoli. Mentre il pubblico in certe città – per esempio in Firenze – diserta i teatri per affollarsi nei cinematografi, mentre da per tutto questo genere di spettacolo attrae gente, agli spettatori non s’offrono che scempiaggini: un vero avvelenamento del gusto popolare si va così compiendo. E m’accorgo che Gabriele d’Annunzio ha pensato anche al cinematografo. Forse, sono imperdonabilmente indiscreto parlandone. È così difficile ripetere, con la lucidità e l’eloquenza semplice e viva del suo discorso, le ragioni che hanno attratta la sua attenzione anche a questo, che sembrerebbe condannato per sempre a restare uno spettacolo volgare! Il poeta – egli mi diceva, e delle sue parole io malamente riferisco la sententia – ha tanto più valore, e tanta più vitalità la sua opera, quanto più vasto è il dominio degli uomini che egli conquista, che induce alla sua maniera di sentire e di vedere, che suggella di sé, che fa vivere, come con compagne inseparabili, come con tenaci guide spirituali, con le più vive immagini e le più significatrici del mondo espresso dalla sua arte. Ogni via per cui la sua arte possa senza umiliarsi, anzi con passo di conquista, muovere a raggiungere un’anima nuova o a foggiare dell’anima una nuova incerta energia, è una via su cui il suo fervore lo spinge. S’ingannano gravemente quelli che il tempo nostro chiamano prosaico: non v’è *
Ettore Janni, Un colloquio con Gabriele D’Annunzio, in «Corriere della sera», 29 maggio 1908, p. 3, da cui si cita; poi in Interviste a D’Annunzio (1895-1938), a cura di Gianni Oliva, con la collaborazione di Maria Paolucci, Lanciano, Carabba, 2002, pp. 127-132 (il brano alle pp. 130-131). L’intervista è divisa in cinque parti, separate da asterischi: si riporta la quarta, dedicata al cinematografo.
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ettore janni
forse stato nella storia altro tempo che come questo fosse assetato d’idealità. Al più piccolo varco che le si apra, essa sprizza, prorompe. A ogni opera che riaffermi e riconsacri il culto della idealità gli uomini accorrono, avidamente. Ora, il cinematografo, così gradito al pubblico, è all’anima popolare una infezione di grossolanità, di bruttezza. E può diventare uno strumento efficacissimo di elevazione del gusto e del pensiero, di raffinamento estetico, d’istruzione. Il popolo ignora tutto di sé, della sua storia, del suo paese, della innumerabile vita. Il cinematografo può molto contro questa mortificante ignoranza. E il poeta si compiace un istante nell’idea di dar qualche saggio della bella trasformazione da compiere. Sarebbe un’impresa simile a quella degli artisti del Rinascimento che nei vetri delle cattedrali istoriavano vite di santi in episodi. Quelle vetrate gloriose non sono, per dir così, dei cinematografi immobili? Si pensi di quale effetto potrebbero essere sull’anima popolare delle biografie cinematografiche d’eroi – vite insigni rievocate nei gesti più belli e più significativi, rievocate con severa cura di verità storica e di bellezza artistica. Con gl’infiniti mezzi di cui si può oggi disporre, i miti, le leggende, nella più ricca varietà di paesaggi, fra mura storiche, nei fantastici abissi del mare, rinnoverebbero la pura gioia estetica del meraviglioso. Il poeta comporrebbe nuovi canti senza parole, col gesto, con la figura bene scelta all’evocazione, con la elegante composizione del quadro, con la efficacia drammatica dell’azione – aristocraticamente sempre. Invece dell’ignobile grammofono e del piano lamentevole, un’orchestra invisibile svolgerebbe le sue armonie come una trama di suoni sulla trama luminosa dello spettacolo. E pensa, per esempio, a che cosa si potrebbe fare con l’aurea leggenda di San Francesco d’Assisi, nel paesaggio umbro… Darà Gabriele d’Annunzio qualche saggio di questa innovazione? Certo l’idea di tentare – d’indicare, almeno, ad altri con una prova la via – sembra sorridergli. E non v’è del resto cosa suscettibile d’esser nobilitata con l’arte da cui non sia stato o non sia attratto; dalla pantomima che potrebbe cessar d’essere goffa, dal ballo che potrebbe anche non essere stupido. Comporrà Gabriele d’Annunzio anche pel cinematografo? […]
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Carlo Casella
Poesia e cinematografo. Conversando col poeta Guido Gozzano*
In uno dei tanti pomeriggi piovosi, dei quali ci è stato prodigo questo tardo dicembre, mentre visitavo la suggestiva Esposizione di Arte femminile, nei locali della Mole Antonelliana, incontrai l’illustre poeta ed amico, Guido Gozzano, in compagnia di una non meno illustre ed affascinante poetessa nostra, inguainata nel nero velluto, cui faceva strano contrasto il bianco opaco del volto, animato da due vivide luci affondate nell’orbite. È vero (domandai subito all’amico) quello che si va stampando sui giornali, della tua cooperazione letteraria pel cinematografo? E come io nella domanda avevo espresso un senso di incredulità, non disgiunta da un certo stupore, egli si affrettò ad appagare questo mio desiderio e ad esprimere i suoi intendimenti sulla sua nuova espressione d’arte fascinatrice, che è la film. – «Ti stupisce che io, in fama di lavoratore solitario e sdegnoso, mi sia deciso per una forma tanto popolare come il cinematografo? Non c’è di che. Non ho fatto che seguire la linea d’arte che mi sono prefissa e alla quale sono fedele sempre. Io che ho resistito alle lusinghe… pecuniarie dei massimi fogli quotidiani, perché sentivo che avrei sperperato nel giornalismo ogni mia energia letteraria; io che ho resistito e resisto alla prova del teatro, perché ancora lontana da quella maturità e da quell’attenuazione che desidero, ho accettato con piacere di rivelare le mie fantasie in una pellicola vertiginosa». – Ma come ti è nata questa passione per lo schermo azionato, che abolisce ogni intrico psicologico di cui è materiata tutta l’opera tua? – «Ecco, ti dirò come: Da anni vado studiando la letteratura popolare, il folklore di tutti i popoli, da quello giapponese a quello scandinavo, e ho adunato elementi di poesia originalissima. Un mio volume di fiabe è già pronto per le stampe, ma non sarà licenziato che l’anno venturo, perché un nostro grande artista vuole illustrarle accuratamente. Da tempo poi vagheggiavo di scrivere un teatro favoloso, volevo sceneggiare alcuni temi di mia invenzione, fare cosa di poesia vera, dilettevole per piccoli e grandi. Il cinematografo è giunto in buon punto per semplificare e realizzare il mio sogno: non più prolissità di dialogo e di scena, non più difficoltà di accertamento, ma la proiezione muta ed eloquente ad un tempo; il nastro prodigioso che rivela e commenta. Ho ridotto per cinematografo i temi più originali del mio volume di fiabe; fiabe, ripeto, per grandi e piccoli, sceneggia*
Carlo Casella, Poesia e cinematografo. Conversando col poeta Guido Gozzano, in «La Vita cinematografica», i, 2, 20 dicembre 1910, pp. 1-2, da cui si cita; poi in Tra una film e l’altra, cit, pp. 102-104.
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Carlo Casella
te con grande sintesi di trama e scaltrezza di effetto. I soggetti sono di mia completa invenzione; ogni episodio sarà alternato da pochi versi semplici e concisi, a commento della vicenda che segue. È cosa che ho fatta con grande amore e con grande diletto, e ogni pellicola col suo quadro favoloso e il suo commento in versi, mi è cara come un mio lavoro letterario, e non esiterò a firmarla e tutelarla come i miei volumi di prosa e di poesia. Questi sono i miei riposi, egregio amico, gli ozi dilettevoli che mi piace alternare al lavoro meditativo. Fra un volume di prosa e di versi, forse di filosofia e di scienza, mi piace di sorridere e di far sorridere con qualche bella fantasia leggera. Senza considerare ch’è tempo ormai di opporsi alla volgarità che ha invaso il cinematografo e vi trionfa in modo nauseante. Speculatori indegni cercano di attirare il pubblico medio col truce, il laido, il grottesco. E quello che dovrebbe essere il mezzo più economico ed immediato per educare le masse, per infondere un fine senso estetico e morale, diventa una speculazione abbietta, atta a fomentare le più basse tendenze della folla…». Verità più semplici non potevano esser dette da una voce così autorevole ed illustre, ed io ho pensato e penso che ben fece questa grande Casa torinese ad impegnare la promessa del poeta Gozzano, per una serie di films intercalate da commenti poetici. Saranno una cosa originale e squisita, ad un tempo, che parlerà alla fantasia ed ai sensi più eletti, come la muta e grandiosa voce della natura e del sogno. Ringraziai l’autore di La via del rifugio, poiché già troppo avevo abusato della sua cortesia, e lo lasciai alla contemplazione delle squisite tele dell’arte femminile, sotto il fastigio del civico monumento, dominato e protetto, come un sacro tempio, dalla suprema ed eccelsa cuspide stellare. Torino, dicembre 1910.
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E.D.
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corriere teatrale. Tra scene e pellicole*
Siamo andati a tastare il polso al direttore della Società degli Autori. Si dice così spesso che il teatro è in crisi, che il teatro è ammalato: la immagine «tastare il polso» non ci pare quindi fuori luogo. – Come vanno le cose? – domandammo. – Non male – ci rispose Sabatino Lopez, – ma potrebbero andar meglio. Questi ultimi due mesi non sono stati molto favorevoli al teatro. I primi calori allontanano la gente, che più tardi si rassegna, e specialmente nei luoghi di bagni e di cura torna nelle sale delle rappresentazioni. Aggiungete, ora, la concorrenza in piena estate, dei cinematografi. Finora si trattava di locali speciali, di trattenimenti brevi, di leggeri salassi alle borse dei frequentatori. Adesso invece il cinematografo ha occupato i grandi teatri: a Genova il Paganini, a Milano il Dal Verme, a Roma il Costanzi. La durata degli spettacoli cinematografici è diventata quella normale di una rappresentazione del teatro di prosa; i prezzi quelli di uno spettacolo di prosa e qualche volta di uno spettacolo musicale. Il cinematografo arriva anche agli analfabeti ed ai sordi. Attori ed autori Molti artisti, anche gli insigni, interpolatamente, e parecchi pure continuatamente, sono ormai attori del cinematografo. Alcune tra le resistenze più ostinate sono state vinte. A giorni pure Lyda Borelli reciterà, come devo dire?, poserà pel cinematografo. Autori ancor giovani e accreditati – per esempio: l’Oxilia e Dante Signorini – sono addetti alla creazione di films. Vedrete che presto avremo il Sardou delle pellicole. Qui alla Società degli Autori abbiamo ormai più richieste per concessioni di ridurre a films commedie vecchie e recenti, che non richieste di rappresentazioni teatrali. – E gli autori generalmente concedono? – Qualche autore ha dato la concessione; altri si sono rifiutati. – E voi? – Ah, io no! Mi hanno detto troppe volte che io ho un bel dialogo. Dove an*
E.D., Corriere teatrale. Tra scene e pellicole, in «Corriere della sera», 23 giugno 1913, p. 6.
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E.D.
drebbe a finire il mio bel dialogo al cinematografo? I casi delle mie commedie sono così comuni che non interesserebbero affatto il pubblico abituale dei cinematografi, costituito specialmente dagli appassionati dei romanzi di appendice. Per conto mio – badate che forse anche per ragioni di concorrenza detesto il cinematografo – definisco le films: romanzi per analfabeti. Temo poi che il cinematografo porterà gli autori drammatici ad una sempre maggiore violenza di casi e di espressioni. Ho paura – badate, non lo dite – che Kistemaekers e molti suoi compagni obbediscano già a questa tendenza. L’imboscata mi sembra infatti una film con parole. – Siete dunque scoraggiato? Credete che i nostri autori si daranno al cinematografo o resteranno… disoccupati? – No, no! Spero il contrario: vi posso dire anzi il contrario. Ci sono ormai autori che scrivono a metro… milleduecento, duemila metri di film… ma ce ne sono molti che ancora, presa la penna, scrivono: «Atto primo, scena prima». Ci faremo poi l’abitudine, ma, che cosa volete? fa ancora un certo effetto dire: «Al settecentesimo metro Armando dà il primo bacio a Margherita». E finora non ci si rassegna, sicché si scrive ancora per il teatro di prosa. Della schiera non molto numerosa degli arrivati o di quelli che stanno per arrivare, posso dirvi che quasi tutti lavorano. Bracco è stato dolorosamente colpito da un lutto recente. Tuttavia spero che egli ricerchi e ritrovi nell’arte il conforto. Praga è sempre misterioso: fino a pochi giorni prima che un suo lavoro vada in prova non si può saper nulla. Ma il suo recente ritorno alla scena mi fa credere che la trionfante Porta chiusa avrà presto una sorella. Sull’orizzonte Intanto per l’ottobre prossimo, o almeno entro l’anno, vi saranno indubbiamente lavori nuovi: di Giannino Antona-Traversi, che lavora sempre con ardore e con fede, il dramma Passa la morte e la commedia satirica Tango e minuetto; di Silvio Zambaldi, una commedia che condurrà a compimento nel periodo di tempo in cui la Compagnia che egli dirige sarà in riposo; di Augusto Novelli una commedia sul Boccaccio, intitolata Messer Giovanni; di Alfredo Testoni una commedia a protagonista per Zacconi; di Nino Berrini Il poeta beffardo (Cecco Angiolieri); di Guglielmo Zorzi Nel deserto e La vena d’oro; di Domenico Tumiati un altro poema che farà parte del ciclo patriottico: ed è intitolato Il tessitore. Il poema del Tumiati si impernierà sulla figura di Cavour. Vincenzo Morello (Rastignac) avrà pronta pel prossimo autunno una commedia intitolata L’amazzone, e successivamente ne farà rappresentare altre due. Questi tre lavori di Rastignac sono destinati a Tina Di Lorenzo, Maria Melato e Lyda Borelli. Ruggeri sarà protagonista di una commedia di Varaldo che s’intitola per ora Cagliostro, ma forse muterà nome quando apparirà in novembre alla ribalta del Valle di Roma.
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corriere teatrale. Tra scene e pellicole
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E, infine, avremo lavori nuovi di Cosimo Giorgieri Contri, di M. M. Martini, di Adami, di Baffico, di Signorini, di Morselli, di Soldani, di Fraccaroli, di Pelaez e di altri. – E voi, niente di nuovo in preparazione? – Capirete. Sono il direttore e devo dare il buono o il… cattivo esempio. Darò per l’autunno una commedia anch’io: Sua moglie. Ho Il terzo marito e La buona figliola. Bisogna bene che completi la famiglia!
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La nostra inchiesta-referendum fra gli Autori drammatici italiani
Con quella chiarezza analitica che forma l’arma migliore della sua polemica, il nostro Umberto Paradisi è andato svolgendo e approfondendo il dibattito insorto fra gli autori drammatici, capitanati da Sabatino Lopez (che potrebbe anche essere il duce di… se stesso), sul problema che più ci interessa: La concorrenza che il cinematografo va facendo al teatro di prosa, economicamente parlando; L’allarme gettato dal direttore della Società degli autori, nel campo dei suoi associati, perché ostacolino l’ascendentale progresso dell’arte cinematografica, negando al suo maggiore sviluppo e perfezionamento il concorso della loro opera teatrale. E tutto ciò nel nome della difesa dell’Arte in genere, e della produzione drammatica italiana in ispecie, la quale ultima, riprodotta sullo schermo cinematografico, rappresenterebbe – secondo gli allarmisti – una barbara invasione in un tempio sacro, ed una diminuzione della dignità dello scrittore. Posta in questi termini, una diatriba giornalistica finirebbe col degenerare in una inutile accademia di sfogo parolaio. I contendenti continuerebbero a sfoderare gli argomenti pro e contro, nella persuasione di essere da una parte e dall’altra nel campo della ragione, e fra qualche tempo, la questione reputata finita, verrebbe ripresa ab ovo. La nostra Rivista, che fu all’avanguardia del movimento cinematografico e modestamente, ma con fede onesta e sicura, ne protesse e ne incoraggiò lo svolgersi e l’intensificarsi, sente in oggi il dovere di delimitare, in un campo netto e sincero, le varie tendenze ed i dispari intendimenti che nella nobilissima famiglia degli autori italiani si sono già maturati, ma non vennero ancora chiariti pubblicamente. All’uopo essa muove vivissima preghiera agli autori italiani di intervenire col loro personale ed autorevole responso in questo lavoro di esatto apprezzamento e di concreto discernimento. Che cosa sia attualmente il Cinematografo è notorio, soprattutto se lo si studia non superficialmente, come pare sia avvenuto per taluni. Importa, al contrario, conoscere se e quanto vi è ancora da ripromettersi dalla Cinematografia. *
La nostra inchiesta-referendum fra gli Autori drammatici italiani, in «La Vita cinematografica», iv, 15, 15 agosto 1913, pp. 49-50 (introduzione e intervento di Luciano Zuccoli); 16, 30 agosto 1913, pp. 33-34 (Nino Oxilia); 17, 15 settembre 1913, pp. 45-46 (Grazia Deledda e Luigi Capuana). Non sono stati trascritti gli interventi di Arturo Foà, Nino Berrini, Renzo Chiosso, Giacomo Albertini. Poi in Tra una film e l’altra, cit., pp. 191-198.
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La nostra inchiesta-referendum fra gli Autori drammatici italiani 273
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Gli autori italiani sono perciò pregati di rispondere alle seguenti domande: I. La Cinematografia è soltanto una lucrosa industria per gli sfaccendati e gli analfabeti (ragazzi e sordi compresi), oppure un degnissimo corollario all’arte scenica, e una manifestazione di arte rappresentativa a sua volta? II. La concorrenza che il botteghino del Cinematografo fa alla cassetta del teatro di prosa, è ragione sufficiente dietro la quale possono mettersi a riparo i diritti sacri dell’arte? III. L’opera di un autore drammatico, di un romanziere, di un novellista, riprodotta in Cinematografia, ferme restando le esigenze dello scrittore, perde del suo valore intrinseco letterario, considerato che il Cinematografo non fa della letteratura, pur potendo fare opera di poesia, di insegnamento e di diletto? IV. E l’autore che ne permette la riproduzione, menoma per questo la sua dignità di uomo di lettere? V. Quale indirizzo e quale campo di sfruttamento dovrebbe stabilirsi il Cinematografo? Le risposte verranno pubblicate, nella loro integrità, sulla nostra Rivista, la quale anticipa, agli autori che le saranno cortesi di responso, i più vivi ringraziamenti. La Vita Cinematografica. Luciano Zùccoli a. Non credo che la cinematografia possa considerarsi come un corollario dell’arte scenica. Arte mimica in ogni caso, poiché l’arte scenica è animata dalla parola, ossia appartiene strettamente alla letteratura. Nessuno ignora invece che la cinematografia dovendo rinunziare alla parola per dare il gesto e l’espressione, è arte di sintesi, arte eminentemente ed esclusivamente rappresentativa. La cinematografia con artisti proprii, soggetti originali, allestimento scenico adatto, epperò con una sua propria produzione e una sua propria vita, deve considerarsi arte a sé. E così intesa, ha un largo avvenire e può contare sul favore costante del pubblico. b. Senza dubbio, agli autori viventi si può chiedere l’autorizzazione a riprodurre cinematograficamente i loro lavori, e gli autori possono concederla senza menomare la loro dignità artistica. Ciò, del resto, dipende da un concetto personale e dunque variabile. Resta piuttosto a discutere se la cinematografia da una parte e l’autore dall’altra, abbiano interesse – interesse materiale e morale, dignità non compresa – a stabilire simili contratti, o se non convenga alla cinematografia creare una sua produzione fresca e nuova, alla quale potrebbero concorrere con l’opera loro gli autori medesimi, già noti e celebrati nel campo della letteratura, i nomi dei quali darebbero, anche pel pubblico, un affidamento.
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274 La nostra inchiesta-referendum fra gli Autori drammatici italiani
In ogni modo, la cinematografia dovrebbe escludere – e so di poter trovare in questo mio desiderio molti oppositori – dovrebbe escludere dalla riproduzione quelli che il tempo e il pubblico e la critica hanno giudicato come capolavori dell’arte scenica o del romanzo: libri e drammi che l’autore perché scomparso dal mondo, non può più né concedere né difendere, e che assai probabilmente in sua vita non avrebbe concesso alla nuova forma di arte rappresentativa. c. Nella creazione di soggetti per la cinematografia, si deve tener conto di due caratteristiche di questa nuova arte: la potenza della sintesi e la larghezza e varietà della scena. Soltanto il cinematografo può darci la impressione esatta dei vasti movimenti, dei vasti spazii, della molteplicità d’aspetto del paesaggio. Senza escludere in via assoluta, il che sarebbe del resto impossibile, i soggetti di carattere intimo con modesto allestimento scenico e interni di case, la ricerca e lo studio dei librettisti devono essere rivolti a stabilire saldamente le due predette caratteristiche, le quali differenziano la cinematografia da ogni altra forma d’arte e sopratutto dal teatro. Nino Oxilia Il cinematografo un corollario del teatro? No. Il cinematografo è una forma d’arte a sé – assolutamente diversa dal teatro – ma che possiede, bene intesa, una propria grazia ardita e profonda. Dicono gli oppositori di questa arte del silenzio, che nessuna forma d’arte può nascere o può morire, essendo l’arte e la vita umana unite strettamente come il torrente e il suono dell’onda sulle pietre. È vero. Ma chi dice che il cinematografo sia un’arte nuova? Nuova nella forma, non certo nell’atto. Forse è una trasformazione di quell’arte dell’atteggiamento che Euripide proclamava la più alta, appunto perché la più semplice; forse è la stessa danza siriaca – la danza delle passioni umane – trasformata per la nostra rinnovata mentalità moderna. E che cos’è il cinematografo se non l’espressione visiva, palpabile quasi, dei nostri sentimenti e degli atti che ne susseguono? Io definirei l’arte del silenzio come l’arte delle sculture susseguenti. Qualcuno potrebbe obbiettare che l’arte è la vita o la natura vista attraverso un singolare temperamento d’artista. Osservazione superficiale. Quando mai gli artisti sono stati l’arte? E forse che noi non ritroviamo l’arte nelle vecchie canzoni popolari, alla cui creazione hanno contribuito dieci generazioni e cento mani? E l’Iliade non è forse nata così? Del resto latrino pure i cani – e per ritornare agli autori!: non credo che possa essere un menomare la propria opera di letterato o di drammaturgo il concederne la riproduzione sullo schermo cinematografico: credo tutt’al più che gli scrit-
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La nostra inchiesta-referendum fra gli Autori drammatici italiani 275
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tori dovrebbero pensare essi stessi alle riduzioni dei loro lavori: senza troppo corrugare la fronte e raggriccire il naso. Ciò servirebbe loro ad aver meno rughe sulla fronte e – mi perdoni la pudica e filosofeggiante stampa italiana – nel cervello. Grazia Deledda Credo certo che il cinematografo, perfezionato a manifestazione d’arte rappresentativa possa crearsi un degno avvenire. Per conto mio non ho nulla in contrario per lasciar ridurre qualche mio lavoro: la conoscenza dei paesaggi e dei costumi sardi presso i continentali è ancora così lontana dal vero!! Luigi Capuana Il cinematografo è manifestazione di arte: perché no? Un po’ diversa, certamente, dell’arte drammatica, ma non tanto, se questa può già averla viziata infarcendola con le riproduzioni pretese storiche con cui il teatro contemporaneo ha creduto di rinnovellarsi. Io lo rimpiango, ma non capisco, infine, perché il cinematografo non possa tentare, in grande, con mezzi proprii, quel che è permesso di fare al Rostand, al Benelli e agli altri minori. Io credo che questo pollone di arte, venuto su da poco tempo attorno al fusto della Drammatica, andrà acquistando, tra i tentativi della crescenza, un carattere proprio definitivo; ma son convinto che nessuno può precisare anticipatamente quale esso si ridurrà nella sua ultima compiuta manifestazione. In quanto alla questione: se l’autore che permette la riproduzione cinematografica di un lavoro, menomi la sua dignità di uomo di lettere, penso che la stessa quistione dovrebbe farsi quando l’autore permette che da un suo romanzo, da una sua novella, si cavi un libretto per musica. Spesso il maestro fa, per colpa del libretto, maggiore strazio di un’opera letteraria, che non ne faccia il cinematografo. Ridurre poi la discussione a calcolo economico, è proprio piccineria. Ricordo l’avvenimento dei caffè-concerto. Pareva che le Compagnie drammatiche sarebbero ridotte a recitare alle panche… E non fu davvero niente. Così credo che avverrà col cinematografo. Del quale io intravvedo un avvenire luminoso. E se il Teatro drammatico si lascerà prendere la mano, sarà colpa sua… Ma non se la lascerà prendere, aggiungo; ha la parola scritta, la parola parlata, ed è supremazia che resiste a qualunque attentato.
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La nostra inchiesta sul cinematografo*
Convinti di compiere opera di attualità giornalistica e nell’intento di offrire ai nostri lettori interessanti pareri, opinioni, giudizi su gli spettacoli cinematografici che tanto continuano ad attirare l’affluenza del pubblico, abbiamo diramato giorni or sono la seguente circolare: «Illustre Signore, Il Nuovo Giornale si rivolge alla cortesia e alla intellettualità degli autori e dei critici italiani per muover loro alcune domande intorno ad una questione strettamente connessa al fiorire della produzione artistica del nostro paese: questione che, avendo raggiunto ora una grandissima importanza suscita nel campo letterario e teatrale discussioni appassionate e polemiche cui la vivacità, a volte, non scema l’interesse e l’originalità. Nell’attesa di una sua autorevole quanto desiderata risposta, distintamente la saluto e la riverisco. Il Direttore Giuseppe Franquinet 1. – Il Cinematografo fa una concorrenza dannosa al Teatro? E, in caso di risposta affermativa, come, perché, quanto? 2. – Potrà avvenire una fusione artistica tra Teatro e Cinematografo? 3. – Crede Ella che le films cinematografiche giovino, o possano giovare, (in ipotesi subordinate, seguendo quali idee e quali sistemi?) allo sviluppo intellettuale e morale del popolo? 4. – Ha Ella mai lavorato per films cinematografiche? e, data la risposta affermativa, quali soggetti Ella preferisce? 5. – Quali sono, industrialmente e artisticamente, le classi sociali che possono *
La nostra inchiesta sul cinematografo, in «Il Nuovo giornale», 20 novembre 1913, p. 3 (interventi di Nino Martoglio, Roberto Bracco, Fausto Maria Martini); 22 novembre 1913, p. 3 (Giuseppe Prezzolini); 29 novembre 1913, p. 3 (Filippo Tommaso Marinetti). Oltre a quelli trascritti figurano, nei fascicoli citati e in quelli del 21, 24, 25, 28, 29, 30 novembre, 1, 2, 4, 8 dicembre 1913, interventi di Ottone Schanzer, Augusto Novelli, Domenico Tumiati, Adolfo Re Riccardi, Yambo [Enrico Novelli], Cesare Levi, Giosuè Borsi, Gaspare Di Martino, Cipriano Giachetti, Emilio Dolfi Foà, Silvio Zambaldi, Luigi Campolonghi, Guido Ruberti, Edmondo Corradi, Pasquale De Luca, Giulio Caprin, Massimo Coronaro, Walter Graziani, Jarro [Giulio Piccini], Guido Podrecca, Hans Barth, Gino Damerini, Augusto De Benedetti, Mario Carli, Ettore Strinati, Tabuto Tebaldi, Sabatino Lopez, Ermete Novelli, Clarice Tartufari, Alfredo Segrè, Frida Lulli Frei, Filiberto Scarpelli, Vittorio Traballesi, Giuseppe Lipparini, Giannino Antona-Traversi, Mario Ferrigni, Alfredo Vinardi, Carlo Montani, Giuseppe Cavaciocchi, Saverio Procida.
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La nostra inchiesta sul cinematografo
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aver maggiore vantaggio o maggior danno dal vigoroso progredire del cinematografo? 6. – Qual è l’avvenire del cinematografo? Quale sarà la sua evoluzione, con l’eventuale sussidio di invenzioni e di perfezionamenti meccanici sul tipo del fonografo? Naturalmente, dato l’interessamento sollevato dal tema, le risposte hanno incominciato ad affluire. Ecco le prime che ci sono giunte: Nino Martoglio Brillantissimo collega in giornalismo, Nino Martoglio è un poeta dialettale illustre, un commediografo piazzato e, soprattutto, uno spirito irrequieto ed attivo che ha fatto il marinaio, ha scoperta la Compagnia Siciliana di Grasso e C., traendoli dall’oscurità, ha creato il Teatro Minimo, ed ha… arrischiato la pelle in cinquanta duelli. 1.o – Il cinematografo fa una concorrenza dannosa al teatro? Evidentemente sì, in Italia, specialmente, dannosissima. Come? Togliendogli gran parte del pubblico grosso, che è poi – purtroppo – la grandissima parte del pubblico che affollava le platee e le gallerie dei teatri e che ora le diserta. Togliendogli un buon numero di attori – che va sempre ingrossandosi! – allettati dal maggior guadagno e dal lavoro – diciamolo subito – assai più facile e divertente, che dà minori preoccupazioni, nessun lavorìo di cervello e molto svago – togliendogli, infine, oramai, anche i teatri, i quali, non esclusi i maggiori, per uno, due, tre mesi dell’anno, si chiudono alle compagnie per dar posto alle proiezioni dei cosiddetti lunghi metraggi teatrali, di due, tremila metri di pellicola e della durata di due, tre ore, come e quanto per una commedia o un’operetta – togliendogli, infine, altre due categorie di pubblico: quella che, anche buongustaia e appassionata d’arte, non può spendere spesso per il teatro, mentre le è concesso procurarsi, a pochi spiccioli, lo svago del cinematografo, e quella che non ha il tempo che raramente di passare tre o quattro ore in un teatro, mentre trova sempre i tre quarti d’ora o l’oretta tonda da… consumare in una sala cinematografica. Quanto? È un calcolo che non si può fare con precisione ma per approssimazione. Tenendo conto del gran numero di piccole compagnie disciolte (e questo non sarebbe stato un gran male), e dei minori incassi delle compagnie esistenti, e dei teatri esercenti, si può affermare, senza tema di esagerare, che la concorrenza del cinematografo ha portato via, sinora, al teatro, un buon cinquanta per cento dei suoi proventi. 2.o – Potrà avvenire una fusione artistica tra teatro e cinematografo? Tutto è possibile, anzi credo che ciò avverrà, ma, allo stato attuale delle cose,
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La nostra inchiesta sul cinematografo
no. La spiegazione di questa mia risposta è nella illustrazione di quelle che seguono agli altri quesiti posti dal giornale. 3.o – Crede ella che le films cinematografiche giovino o possano giovare (in ipotesi subordinate, seguendo quali idee e quali sistemi?) allo sviluppo intellettuale e morale del popolo? Credo fermamente due cose: a) Che, fino ad oggi, non soltanto non hanno giovato a nulla, ma han servito a pervertire il gusto – se non la morale. b) Che da domani, quando cioè, per forza di cose, governi, istituti di educazione e uomini illuminati si saran reso maggiormente conto del poderoso strumento di propaganda ch’è il cinematografo e con criteri d’intelletto, non disgiunti da quelli speculativi, lo avranno elevato a dignità d’arte e di scienza spicciola, esso potrà rendere, anzi renderà senza meno, dei servigi inestimabili al popolo, affinandone i gusti ed elevandone la coltura. Fino ad oggi, ho detto, no. E le ragioni di ciò sono varie e complesse e van ricercate nella sua stessa origine e nei suoi primi passi vacillanti. Il cinematografo nacque come cosa meccanica, esclusivamente, e piena di difetti. Nessun autore, nessun artista di prosa, nessun uomo di teatro, insomma, pensò allora che esso avrebbe portato un gran colpo al teatro, minacciandone persino l’esistenza. Gl’industriali del cinematografo – siamo onesti – fin dal primo momento chiesero la cooperazione degli uomini di teatro, ma questi, autori o attori, respinsero sdegnosamente ogni offerta e negarono ogni loro collaborazione. Fino a due o tre anni fa, tra la gente di teatro si parlava di cinematografo con dispregio. Dire che tizio attore o tillano autore lavorava per films cinematografiche era una diminutio capitis per lui e, se costretto a prestarsi al dispregiato lavoro per ragioni di vita, lo faceva alla chetichella, quasi vergognoso d’essersi ridotto a tal segno!… Poi che autori e attori non volevano saperne, e poi che il cinematografo, allora più d’adesso, rendeva tesori, le case cinematografiche dovettero crearsi gli attori e i metteurs en scène, nonché gli scrittori di scenarii. Reclutarono i primi tra le canzonettiste e artisti di varietà, tra i mimi, i cavallerizzi e i clowns, tra i comicuzzi senza scrittura e i dilettanti, i secondi tra i ratés e gli spostati d’ogni classe sociale e d’ogni categoria: in Francia ex-régisseurs teatrali a spasso, ex-fotografi senza clientela, pittorelli da strapazzo ecc., in Italia sergenti dell’esercito, ex-litografi, ex-disegnatori, o computisti, o comprimari, o preti spretati, e persino rivenditori di cartoline illustrate. Soprattutto molti nobili spiantati e ignoranti. Quanto agli scrittori di scenari, furono reclutati tra gli studentelli bocciati, gli assidui lettori di appendici e in genere tutti i commessi viaggiatori della letteratura nostra a buon mercato. Tutta questa gente imparò la tecnica (che pel resto è rimasta quella che era con un dito di presunzione e due di suffisance di più), a spese delle case, sciupando chilometri e chilometri di pellicola in films obrobriose e portando in giro la sua ignoranza pettoruta.
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Ma essa esponeva a un pubblico ignaro ed ingenuo, ancora sbalordito dalla geniale invenzione, un pubblico che, se non la applaudì, non la fischiò, e continuò a sostentarla. Finché credette di dare, con le pellicole che riusciva, fra tanto spreco, a licenziare al pubblico, vere e proprie opere d’arte, e di aver raggiunta la perfezione, non solo in fatto di tecnica, ma anche in fatto d’arte. Io conosco un’attrice di prosa che guadagna 24 mila lire all’anno, e che ride di compassione quando le dicono: «Siete la Duse della cinematografia», che scrive ogni mese – e credo non scriva altro – queste due righe: «Ricevo assalto la soma di lire dumila!» Conosco un celebre attore, che, saputo che si doveva inscenare «Cesare al Rubicone» e appreso che la parte di Cesare era stata affidata a un altro attore, si recò dal direttore artistico a reclamare, almeno, la parte di Rubicone!… Conosco eziandio un valorosissimo direttore di scena che presenta i cavalieri di Ottaviano Romano su cavalli con coda e criniera regolarmente mozza e un buon numero di pretoriani che si stringono la mano… britannicamente; ne conosco un altro che per far meglio capire che un attore rappresenta, in uno scenario moderno, un mandatario bieco, lo fa apparire in costume da bravo dell’«Innominato» in piena piazza San Giovanni in Laterano, mentre passano trams e automobili. E conosco, infine, un autore di scenarii che passa per un Sardou della cinematografia, il quale intrufola, con somma disinvoltura, una mezza dozzina di leoni e leonesse, in un dramma da cercatori d’oro che si svolge, regolarmente… in California! Lascio immaginare quanto possa beneficiare il pubblico incolto, di questi ammaestramenti. Ma il pubblico, dal canto suo, non beve più grosso. Critica, discute, nota gli anacronismi e le ficelles, fischia le scempiaggini e applaude alle buone trovate, tale e quale come in teatro. Tra pochi anni il cinematografo sarà, né più né meno, una manifestazione d’arte, come il teatro e non ci sarà grazia per quelle fabbriche di pellicola cinematografica, grandi o piccole, che non si saranno in tempo avviate verso l’arte e il teatro, affidandosi a uomini di talento e di teatro. 4.o – Ha ella mai lavorato per films cinematografiche? e data la risposta affermativa, quali soggetti ella preferisce? Ho lavorato, parecchio e da tempo, e lo affermo senza rossore (!?!) perché credo che un letterato e artista possa portare ovunque la sua attività senza restarne… degradato. Senza contare la mia convinzione che anche il cinematografo possa e debba diventare strumento d’arte e di coltura. Ho lavorato attraverso difficoltà enormi e ostacoli senza fine, creatimi non dal lavoro in se stesso, che, per un uomo appena appena intelligente è tale da non sgomentare (!) ma da tutti gli idioti, i pigmei e i cazzabubboli padroni… dello strumento, che han subito visto in me un bruscolo nero, un pruno all’occhio e han tentato di spazzarmi via con una guerra di insidie e di tranelli, di gesuitismi e di ipocrisie, di piccole congiure e di resistenza passiva; la guerra, insomma, propria della gente ignorante, piccina e sospettosa, senza risorse e senza coraggio.
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La nostra inchiesta sul cinematografo
Ho creati degli scenarii, molti. Taluni, che mi parevano artistici – e lo erano, forse – ebbero l’onore di essere scartati come… teatrali (!), altri, che ho inventati violentando il mio ingegno, con uno studio a rovescio, come si faceva ai bei tempi della Lega dell’Ortografia, per entrare nella quale bisognava saper scrivere e dire un pajo di periodi senza senso comune, altri, dico, furono giudicati eccellenti: qualcuno, benché inscenato alla carlona – e forse appunto per questo – vinse il record della vendita. Ho inscenato parecchie films, con masse e senza, in teatro e all’aperto, e qui ho trovato la resistenza più formidabile, quasi malvagia, quanto irresponsabile! Continuo a lavorare e continuerò ancora, pel cinematografo. Anzi mi propongo di realizzare, per primo, un felice connubio tra il teatro e la cinematografia, con una commedia che ho ideata e che presto mi accingerò a scrivere. Resto imbarazzato a pronunziarmi sul genere dei soggetti ch’io preferisco. Potrei, con una parola, rispondere che preferisco quelli artistici; ma sarebbe una risposta un po’ generica. Certo, i soggetti storici, specialmente dell’epoca romana e del Medio Evo, per la bellezza dei costumi, per il fatto che si prestano meno a… l’arbitrio del metteur en scène e per la loro grandiosità, mi attraggono irresistibilmente; ma mi piacciono anche molto, e noto con piacere che piacciono al pubblico, i soggetti di genere intimo, a pochi personaggi, projettati in primo piano, con artisti degni, dalle maschere espressive e, quasi direi, loquaci. E mi piacciono, poi, i soggetti rustici o no, di drammi svolti all’aperto, nei nostri bei paesaggi, nelle nostre superbe ville, tra gli armenti in pascolo, tra boschi e fiumi, pianure e laghi. Il paesaggio dà un senso di benessere, che allarga i polmoni. E per un direttore di scena e per gli attori è una festa poter inscenare e posare in aperta campagna, ed è un riposo del corpo e della mente, così come per lo spettatore è un riposo e un gaudio insieme, dell’occhio. 5.o – Quali sono, industrialmente e artisticamente, le classi sociali che possono avere maggior vantaggio o maggior danno dal vittorioso progredire del cinematografo? Quella che attualmente gode di questo maggior vantaggio è la sola – o quasi – classe degli spostati di ogni categoria sociale, che non se ne avvantaggia nemmeno, perché il suo lavoro, assai facile e divertente e mai scompagnato dal vizio, non la redime e non la nobilita; quella che ne soffre, sotto tutti i rapporti, è la classe dei lavoratori del teatro, che va dall’autore all’attore, dall’impresario al servo di scena, dallo scenografo all’attrezzista. Ed è quella stessa che se ne dovrebbe avvantaggiare e che sicuramente se ne avvantaggerà domani con l’elevarsi ed elevando l’arte della cinematografia. 6.o – Qual è l’avvenire del cinematografo? Quale sarà la sua evoluzione con l’eventuale sussidio di invenzioni e di perfezionamenti meccanici sul tipo del fonografo? L’industria del cinematografo è ancora, si può dire, bambina. Il suo avvenire è, senza dubbio, grande, specialmente in Italia, la quale, per il suo clima mite, per il suo sole eterno, lo splendore dei suoi paesaggi, la bellezza delle sue donne e, in genere, della sua razza, la duttilità dei suoi artisti, la genialità dei suoi poeti ed inventori, l’intelligenza delle sue mosse e l’espressione degli occhi e la fisonomia dei suoi uomini,
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sieno artisti o no, dell’un sesso o dell’altro, è tutto un superbo teatro di posa, che non ha concorrenti e che può invece, far la concorrenza vittoriosa a tutti gli altri. In Italia le case cinematografiche son molte, ed altre ne sorgono e molte ne sorgeranno ancora, ma per quante ne sorgano non arriveranno mai a soddisfare la richiesta di pellicola cinematografica, che è decupla dell’intera produzione. Quella che non si vende, o si vende poco, è la produzione pessima, ma quando è ottima, si vende e si venderà a condizioni così vantaggiose da procurare guadagni enormi. Il cinematografo, non soltanto non è destinato a decadere, come il fonografo, ma a ridare novella e vigorosa vita a quest’ultimo. Difatti quando, dopo aver ottenuto il movimento di proiezione stereoscopico, che è quasi un fatto compiuto, e che dà il senso più tangibile della realtà, projettando i personaggi e i paesaggi senza ombra di piattitudine (mi si consenta la parola), quando, dopo aver ottenuto ciò dicevo, si riuscirà ad ottenere una macchina che, contemporaneamente, con movimento sincrono, dia l’impressione dello scenario e dei personaggi sulla pellicola e quella dei suoni sul disco; quando il pubblico potrà vedere i personaggi muoversi sullo schermo e udire la loro voce in perfetta armonia coi movimenti, a traverso una tromba di grammofono, allora, cinematografo e grammofono non moriranno più. E poi che, presto o tardi, ciò avverrà, il cinematografo bisogna acquisirlo all’intelligenza e riscattarlo dalla mediocrità bottegaia. A questo si avviano, con mente aperta e occhio lungimirante (passi la vecchia frase) industriali di mente aperta, a questo devono pensare i governi provvidi e gli istituti illuminati. Io ho visto sorgere con vivo compiacimento, sotto la presidenza dell’illustre prof. onorevole Vittorio Emanuele Orlando e la direzione del valoroso collega Agostinoni, la Società Minerva, per la coltura popolare a mezzo delle projezioni cinematografiche. Ma essa non dovrebbe limitarsi all’acquisto e alla inscenatura di pellicole di genere didattico, come per esempio: paesaggi dal vero, esperimenti di chimica etc., ma dovrebbe risolutamente mettersi a fabbricare vere e proprie «films» teatrali che, a traverso drammi e commedie, storici o moderni, che allettino e divertano, [possano] provvedere alla coltura storica, politica, civile, economica e morale del popolo, incastrandovi, sapientemente, episodii e scene atte allo scopo, così come il Verne, per esempio, faceva nei suoi romanzi, dilettevoli e pure così istruttivi, dei quali han beneficiato, per la loro cultura, parecchie generazioni e milioni di giovanetti. Ed il governo dovrebbe, da un canto incoraggiare e sussidiare questa provvida istituzione e dall’altro emanare leggi e regolamenti atti, non solo a disciplinare gli spettacoli cinematografici, ma a renderli istruttivi o, quanto meno, non nocivi alla morale e alla coltura del popolo. Nino Martoglio
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La nostra inchiesta sul cinematografo
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Roberto Bracco Il grande autore di Maternità, di Infedele, di Don Pietro Caruso, di Piccola fonte ecc. ecc., l’animatore di mille fantasmi d’arte e di verità, Roberto Bracco che è forse – senza fare torto ad alcuno – il più forte drammaturgo italiano, ci manda: 1.a – Non credo che il Cinematografo possa fare davvero concorrenza al Teatro – o, meglio, a quel che dovrebbe essere, sempre, il Teatro. 2.a – La fusione del Cinematografo e del Teatro non sarebbe altro che… una confusione. 3.a – Il Cinematografo può giovare allo sviluppo morale e intellettuale del popolo (questa domanda include, in certo modo, la 5.a) se è praticato con intendimenti morali e intellettuali. Ma, senza dubbio, il Cinematografo più utile è quello che riproduce dal vero panorami, usi e costumi, officine, esperimenti scientifici, avvenimenti di progresso civile, avvenimenti di nobiltà umana ecc. ecc. 4.a – Non ho mai lavorato per films e non ne ho l’intenzione. 5.a – (assorbita dalla 3.a) 6.a – Per rispondere alla 6.a domanda dovrei fare degli studî speciali e poi scrivere un libro. Preferisco concludere che il cinematografo, ora come ora, è spesso un omaggio all’ingenuità e al cretinismo. Roberto Bracco Fausto M. Martini L’argutissimo collaboratore della Tribuna, che così nobilmente ha difeso il buon nome italiano nella recente polemica col Kistemaekers ci scrive: Interessantissimo e vivo il questionario: ecco le risposte: Alla 1.a – Il cinematografo fa concorrenza dannosissima al teatro, togliendogli autori e pubblico. Alla 2.a – Non potrà mai avvenire fusione fra cinematografo e teatro, perché quello è meccanismo, questo è umanità. Alla 3.a – Possono le films – dal vero – giovare alla educazione quasi scientifica delle masse. Alla 4.a – Non ho mai lavorato per films. Alla 5.a – Non lo so. Alla 6.a – L’avvenire del cinematografo sarà semplicemente industriale: artistico mai, ché l’arte è espressione. E al cinematografo manca il primo segno espressivo della vita umana cioè la parola. F. M. Martini
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Un agitatore di idee 1. Ma certamente! Ed è un bene. Se il cinematografo fa concorrenza al teatro, e vittoriosa, vuol dire che il teatro non è molto differente dal cinematografo. Anzi io penso che il teatro d’oggi appartenga allo stesso genere del cinematografo, con questa differenza, che il cinematografo costa meno, fa perdere meno tempo, è più perfezionato. Viva il cinematografo! Esso svela nel modo più aperto una delle più solenni bugie contemporanee: che il teatro d’oggi sia teatro d’arte. Se fosse arte non avrebbe a temer nulla dal cinematografo! Cesserebbero forse gli artisti di creare e gli uomini di buon gusto di ascoltare, soltanto perché il cinematografo costa meno e rende di più? Eh, questi artisti che creano soltanto quando c’è il biglietto da mille dell’impresario mi han piuttosto l’aria di industriali che di artisti. Nessuno smetterà di leggere – se prima la leggeva – la Divina Commedia soltanto perché nel Teatro X, ce l’han fatta vedere sul telone del cinema; mentre può darsi che veduto Florette e Patapon non venga più voglia di scorrerla sulle pagine del volume o assistere alla sua rappresentazione in un teatro borghese. Giacché la differenza tra il teatro e l’arte è oggi questa: che il teatro dà degli scheletri, e l’arte dà la polpa. Mettete Otello in mano a un commediografo d’oggi e ne caverà fuori un semplice fatto di cronaca borghese. L’arte non sta nell’intreccio, nelle trovate, nel filo del racconto, nelle avventure: l’arte sta nelle immagini, nelle parole combinate con armonia e con efficacia, nei pensieri grandi e bene espressi. Le più grandi opere della nostra letteratura non hanno nulla di inventivo. Dante raccoglie dal medio evo e dalla storia del suo tempo gli scheletri della sua arte; ed Ariosto attinge a tutti i cicli di leggende sì da far dire a un professore che in lui non v’è nulla di originale. Invece il nostro teatro e il nostro cinematografo vanno alla caccia di originalità, di cose straordinarie, di scene imprevedibili, e son disposti a pagar bene chiunque possegga qualche «trovata». La lotta fra teatro e cinematografo è la lotta di due commercianti per lo stesso campo da sfruttare: il bisogno che il pubblico grosso ha di distrarsi e di passare un po’ di tempo senza pensare alle faccende della vita. Non si tratta di concorrenza di un genere artistico con un genere non artistico, ma della concorrenza di due generi egualmente non artistici. Si tratta di passeri spaventati da cavallette. 2. Perciò una fusione «artistica» non può avvenire, non essendoci arte né di qui né di là. Avverrà anzi una sempre maggiore separazione e sarà bene per tutti e due. Il teatro, infatti, quando non potrà più competere col cinematografo nel genere tragico, borghese, comico e via dicendo, ritornerà donde era venuto: all’arte, alla creazione. Sui nostri teatri non si dà quasi più Shakespeare, Alfieri, Molière; non si troverebbe un capocomico che osasse porre sulla scena la Giuditta di Hebbel o lo Scambio di Claudel. È probabile che questi ardimenti verranno quando il cinematografo avrà assorbito tutto l’elemento non artistico del teatro, la sua scenografia, gli effettacci, l’intreccio e quando il teatro si sarà tolto alla tirannia degli interessi editoriali, giornalistici, critici che ora si volgono tutti verso il più redditizio cinematografo. Il teatro sarà più povero e perciò più puro. Ai mestieranti e agli affaristi
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succederanno, molto probabilmente, gruppi di artisti e di sinceri innamorati del teatro che, come a Parigi o a Londra, tenteranno strade nuove, in piccoli ambienti, sostenuti dalle piccole riviste ove ormai da per tutto si rifugia l’arte e il pensiero. 3. Col crescere della ricchezza dei cinematografi avverrà una loro specializzazione. Chi di noi, che vuole assistere ad una cinematografia dal vero, sia della guerra di Libia o di un paese sconosciuto, non è seccato dall’idea di doversi sorbire un dramma lacrimoso od una rievocazione storica della quale la nostra fantasia, ben più ricca e nutrita, sente tutta la povertà? Ci saranno certamente dei cinematografi che, conoscendo il gusto di certa clientela, si dedicheranno alle films scientifiche o di viaggi, come altri lavoreranno per i bambini; e questo avverrà soltanto nei grandi centri, ove è possibile trovare i diversi pubblici in numero abbastanza forte. Lo sviluppo intellettuale e morale del popolo se ne avvantaggerà di certo. Ormai le Università popolari e i partiti politici non potranno fare a meno di avere un cinematografo a loro disposizione, e non è improbabile, come io avevo proposto alcuni anni fa a persone che si occupavano di beneficenza, che sorga qualche cinematografo a sostegno di opere pie. La scuola elementare, le scuole medie e l’Università dovranno esserne fornite, se almeno non dura quell’ostilità cieca della nostra burocrazia per tutte le comodità e praticità moderne, per la quale si proibiscon le biciclette nei locali pubblici dove più farebbero comodo. Naturalmente accanto a questi giovamenti ci saranno svantaggi, perché nel mondo ogni mano ed ogni moneta hanno diritto e rovescio. I ragazzi isterici impareranno a fingere dei furti non avvenuti, le mogli infedeli troveranno nuovi trucchi per dare ad intendere ai mariti che sono sole in casa; ma non è avvenuto lo stesso per il romanzo d’appendice, per quello poliziesco e così via? Non bisogna troppo spaventarsi e credere che l’umanità andrà in rovina per qualche moda nuova di commettere il dolce peccato d’amore e qualche finezza maggiore dei ladri. Abbiamo sentito i nostri padri lagnarsi della corruzione portata dai giornali, i quali padri avevan sentito a loro volta i nonni lagnarsi della corruzione portata dai romanzi. L’umanità è più sana e soda di quello che i virtuisti non credano e sopporterà le piccole nuove magagne come ha sopportato le antiche, generando in sé le forze per vincerle. Quel che bisogna evitare è l’intervento dello Stato, del quale i pigri si accontentano, perché esso copre il male e non lo cura. La revisione morale delle films cinematografiche compiuta da un ufficio centrale in Roma è non soltanto inutile ma anche dannosa in quanto persuade il pubblico che salva la morale mentre non salva che l’apparenza. L’immoralità del cinematografo, infatti, non consiste già nelle scene scandalose che esso può rappresentare. A tenerle distanti provvede già bene l’interesse stesso dei proprietari di cinematografi i quali vogliono attirare le classi medie, il pubblico di famigliole operaie e borghesi che diserterebbero quel cinematografo che accennasse a dare scene scostumate. Il cinematografo non intende far concorrenza al café-chantant; il suo pubblico è il pubblico di pochi soldi, in fondo morale, sentimentale, soddisfatto quando vede trionfare la virtù, punito il vizio, gli innamorati sposi e i nemici riconciliati. La vera immoralità del cinematografo è cagionata
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dalla falsità degli atteggiamenti, dalla esagerazione delle scene, dalla zuccherosità e leziosità cui abitua; questi eroi gonfi, quelle innamorate troppo tenere, quei volti contorti, quei gesti manierati, quegli occhi fuori dell’orbita, quegli strazi da commediante; insomma tutta quella insincerità da guitti e da comici ha una ripercussione falsificatrice sulla espressione dei sentimenti popolari più sani, come l’eroismo patrio, l’amore, l’onestà e via dicendo. È più corruttore un gesto che rende ipocriti, d’un gesto sguaiato ed osceno: perché del primo può esser vittima anche l’ingenuità, del secondo soltanto chi già è corrotto. Anche in questo il cinematografo non ha maggior colpa del teatro, del romanzo di appendice, delle vignette popolari, salvo che data la facilità meccanica della riproduzione e il basso prezzo, la maggior evidenza del gesto s’impone ad una folla più grande. Ma, ripeto, a questi svantaggi del cinematografo si deve riparare non con proibizioni, ma con azioni e tutti i moralisti che si son fregati le mani per aver ottenuta la censura dello Stato (quando non v’è censura sulla stampa!) non sono ancora riesciti a fondare in Italia di fronte a 3000 cinematografi industriali, uno, dico un solo cinematografo morale! Un cinematografo morale e nazionale avrebbe un grande successo, anche di soldi si intende. Far conoscere l’Italia agli italiani, le nostre grandezze e le nostre miserie, la nostra emigrazione accompagnandola dai paesi dove si parte eroica, attraverso i porti d’imbarco, sui bastimenti, all’arrivo, nei mille sudati lavori, nelle mille miserie che sono per noi la ricchezza; oppure le regioni più nascoste e più ricche di bellezza, singolari per costumi, grandi per monumenti e per industrie; o anche quei paesi, dei quali si parla tanto, si grida spesso in piazza, che di là dal confine politico, mantengono tradizioni di coltura e di lingua e di vita italiana; e seguire gli avvenimenti nazionali, più vivamente del giornale, contribuendo a creare una coscienza italiana, per cui al milanese non fosse ignota la fiumana di popolo che traversa le strade di Palermo per una creduta vittima dell’ingiustizia settentrionale, e a Palermo fosse nota la pulsazione del grande centro morale d’Italia; così a penna correndo, sono a centinaia i soggetti che si trovano e che interesserebbero il pubblico, farebbero del bene, e renderebbero buoni interessi al capitalista che vi investisse il suo denaro. 4. Naturalmente con queste idee, non ho mai lavorato per films, neppure come… comparsa. Non ho la fantasia che ci vuole per creare drammi patetici, avventure di banditi e inventare, come testè ho veduto, ospedali turchi con suore di carità della Croce Rossa! 5. Tutte le classi, salvo i fabbricanti di commedie e gli artisti drammatici, avranno vantaggio dal progredire del cinematografo. Del resto, come è avvenuto per molti cocchieri che si sono trasformati in chauffeurs quando l’automobile ha vinto il cavallo, così molti fabbricanti di commedie hanno già pensato ingegnosamente di scrivere trame per cinematografo, e gli artisti si sono messi davanti all’obiettivo per recitarle. Tutto nel mondo si accomoda, salvo la mancanza di genio e di ingegno che è purtroppo, irrimediabile. Gli imbecilli restano tali nel cinematografo se erano imbecilli nel teatro. 6. L’avvenire del cinematografo sarà eguale all’avvenire della nazione. Se ci
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La nostra inchiesta sul cinematografo
miglioreremo, sarà migliore anche il cinematografo: se avremo più ingegno, lo perfezioneremo; se saremo buoni commercianti, ne caveremo più denaro. Non si può fare il profeta negli uomini; e l’elemento uomo è l’unico che importi, in tutto. Non ci sono miglioramenti meccanici ed esterni. Non c’è che una sola cosa, che è poi quella che dà valore a tutte le altre, ed è lo spirito dell’uomo. Tutto sta vederlo anche nelle piccole, piccolissime, quotidiane cose, come il cinematografo. Giuseppe Prezzolini Il duce dei futuristi 1. – Il Cinematografo non soltanto fa concorrenza al teatro attuale, ma lo nega e lo distrugge quotidianamente, e di ciò ci rallegriamo, perché il teatro attuale, ondeggiando stupidamente fra la ricostruzione storica e la riproduzione fotografica e minuziosa della vita quotidiana, non risponde più alla nostra sensibilità. Teatro passatista condannato a morte. 2. – Fra il teatro attuale (tradizionale, statico e passatista) ed il cinematografo non può avvenire alcuna fusione artistica. 3. – Le «films» possono giovare enormemente allo sviluppo intellettuale del popolo. 4. – Sto lavorando pel cinematografo, e naturalmente con concezioni e intenzioni assolutamente futuriste. F. T. Marinetti
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Renato La Valle
Il teatro e il cinematografo: «ceci tuera cela». Di Giacomo, Bracco, Verga, d’Annunzio scrivono per il cinematografo* Il pubblico forse non se ne è ancora accorto, ma negli ambienti interessati il disagio della crisi che insidia il teatro drammatico si fa sentire ogni giorno più accentuatamente: crisi di cassetta e crisi di produzione. La lettura dei borderaux quotidiani delle amministrazioni dei grandi teatri di prosa non è meno sconcertante e meno sintomatica della povertà quantitativa e qualitativa dell’annuale produzione dei nostri autori. La liquidazione della Stabile romana è un fenomeno che, se per effetto di speciali condizioni locali è arrivato sino alla soluzione catastrofica, ciò non pertanto ha un carattere generale che non si può disconoscere ed è intimamente collegato ad un caratteristico momento che va oltre gli stessi confini del nostro paese. La verità è che il teatro drammatico è seriamente minacciato da un temibile e forte concorrente, che lo incalza con l’audacia della sua giovinezza e con la potenza dei suoi mezzi, un nemico, che guadagna continuamente terreno su di lui, che si avanza invadente e minaccioso fin in quelle sue stesse posizioni che esso riteneva più forti ed incrollabili e insuperabili. E questo nemico è il cinematografo. Come il giornale ha ferito a morte il libro, così il cinematografo sembra voglia apprestarsi ad uccidere il teatro. Del resto il ceci tuera cela è la ineludibile legge saturnia della modernità, che pare abbia concluso ogni suo ideale in una sola, smaniosa febbre di sintesi e di rapidità. La gioia di vivere è ridotta in pillole. Il macchinismo, svalorizzatore della macchina-uomo e asservito alle audacie dell’uomo-dio, è il grande trionfatore ed il grande avvelenatore nel tempo istesso, e come ieri scacciava i contadini dai campi, gl’impiegati dagli ufficii, gli operai dalle botteghe, oggi mette fuori del teatro i suoi sacerdoti, le sue gerarchie, i suoi riti: cioè li assorbe. Io non pretendo di studiare il fenomeno, ma ho voluto accennarlo come un preambolo dichiarativo ad una conversazione con Salvatore di Giacomo, il quale – come Roberto Bracco, come Verga, come D’Annunzio e tanti altri – ha dovuto sottomettersi all’imperativo categorico del fenomeno cinematografico. Perché è avvenuto questo: che il cinematografo, a misura che si è perfezionato e si è diffuso sino a sostituire, in gran parte, nel pubblico, l’amore per il teatro, ha sentito il bisogno grado a grado di nobilitarsi e di avvicinarsi ad una più alta espressione artistica. E dalle volgarità e dalle scioccherie dello scrittorello sconosciuto a dieci soldi il metro è arrivato precisamente a Bracco, a Verga, a D’Annunzio, a Salvatore di Giacomo. *
Renato La Valle, Il teatro e il cinematografo: «ceci tuera cela». Di Giacomo, Bracco, Verga, D’Annunzio scrivono per il cinematografo, in «Giornale d’Italia», 5 febbraio 1914, p. 3.
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Renato La Valle
Ma questi spiegherà meglio di me come mai si è giunto a questo. Certo, perché uomini della probità artistica e del valore di Salvatore di Giacomo e degli altri scrittori che con lui si sono lasciati attrarre dal cinematografo, non disdegnino di affidare alla muta pellicola l’ispirazione della loro arte, bisogna dire che la evoluzione della film sia arrivata alla sua maturità e che soprattutto l’arte drammatica non possa più prescindere dal fenomeno di vittoriosa invenzione di cui parlavo poc’anzi. Sarà un bene? sarà un male? io non so né voglio ricercare, ma il fatto esiste, e non si può disconoscerlo. Comunque sembra a me che, data l’incontestabile fiorente vitalità del cinematografo, e data la inutilità di lottare contro di esso, meglio sia di accettarlo ingentilendolo e nobilitandolo per sottrarlo alle esagitate incongruenze ora logiche, ora morali ed ora estetiche, che oggi rendono il cinematografo piuttosto strumento di depravazione etica ed artistica, che non di cultura e di elevamento morale. Su per giù, quello che noi, in altro campo, andiamo dicendo su questo nostro giornale: non potendo distruggere il fatto della esistenza dei meno accesi elementi di estrema sinistra, meglio attrarli nell’orbita del partito liberale, che gettarli in braccio al rivoluzionarismo socialista – vale a dire neutralizzare un male inevitabile, trasformandolo in elemento di progresso e di civiltà. Ma questo non c’entra. Torniamo dunque a Salvatore di Giacomo, il grande poeta dell’anima napoletana, il mirabile e squisito inventore della favola di Assunta Spina, che è uno dei drammi più potenti e più umani che sia apparso sulle scene italiane nell’ultimo decennio. Salvatore di Giacomo si trova a Roma per la convocazione della Commissione per l’Arte drammatica, di cui egli è stato chiamato a far parte in sostituzione dell’on. Romussi. L’ho trovato qui mentre rispondeva non so a quante lettere, e davanti a lui c’era una farraggine di carte, che erano come il documento della sua meravigliosa e formidabile attività. Perché Salvatore di Giacomo è un lavoratore straordinario. Direttore della magnifica Lucchesiana di Napoli, da lui creata, ordinata e portata a grande lustro, egli trova il tempo di dirigere delle collezioni di volumi di erudizione e di arte, far delle ricerche storiche, scriver libri, riordinare la sua ricca produzione, scrivere quelle delicate e meravigliose canzoni napoletane che han fatto la fortuna del Polyphon, poi articoli per riviste e per giornali, e ora anche lavorare per il cinematografo. L’autore di Assunta Spina era raggiante di gioia perché aveva scovato non so dove un codice del secolo XVII manoscritto, rilegato in pergamena, e contenente versi sotto il titolo alquanto idilliaco di Divertimenti estivi. E mi disse: – Il mio soggiorno a Roma comincia auguralmente. Vedete? Ho trovato su una bancarella questo piccolo codice che mi interessa, perché raccoglie prose, versi, balli e canzoni popolari del ’600 in dialetto siciliano e napoletano. Esso deve essere di un vero poeta e di un geniale scrittore, come si deduce dallo studio con cui sono non soltanto raccolte ma anche commentate le poesie che si contengono in questo piccolo volume manoscritto. È un vero cimelio. L’autore sarebbe un Giovan Persio Leggiadrino, che è evidentemente un pseudonimo.
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Il teatro e il cinematografo: «ceci tuera cela»
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Ed era sul suo volto buono ed espressivo un sorriso di grande e pura letizia. Scoprii le mie batterie e domandai che cosa preparasse, se fosse vero di una riduzione di Assunta Spina e di altri suoi lavori per il cinematografo, quali intendimenti portasse nella Commissione per l’Arte drammatica. Cercò di schermirsi, inutilmente, poi si confessò vinto: – Vi devo dire, prima di tutto, che io amerei piuttosto di far bene, scambio di far sapere. Senonché le forme della investigazione giornalistica moderna sono tali che non si riesce facilmente a sottrarsi agl’interrogatorii, cui non possono sfuggire nemmeno i solitarii. Credo, caro amico, di essere imputato in questo momento, davanti a voi, di due cose: di prender parte, in sostituzione del Romussi, alla Commissione governativa per l’Arte drammatica, e di avere ceduto il diritto ad una grande società romana, di cavare una film dalla mia Assunta Spina. – Poiché dunque accettate la parte di imputato, discolpatevi allora davanti quel grande giudice che è S. M. il Pubblico. Io sarò lieto di farvi da cancelliere verbalizzante. – Per la prima parte che devo dirvi? farò il mio dovere di artista e di galantuomo, e impiegherò quel poco di talento che ho per sostenere tutto quel che è bello, utile e decoroso in quelle discussioni. – E per la film di Assunta Spina? – La film? ecco: io ho molto volentieri acconsentito alle idee della nuova società. Volere o volare, il cinematografo è in troppa voga perché lo si possa discutere dal lato della invasione e dell’interessamento vivissimo che suscita. Si può discuterlo, e assai spesso, dal suo lato artistico, estetico e direi anche logico. Infatti è la ragione, è la logica più comune che spesso mancano a queste rappresentazioni. Ai personaggi dei drammi e delle commedie la cinematografia toglie qualche cosa che, assieme con la materiale agitazione scenica, è l’arma magnifica dello scrittore: la parola. Non hanno più la medesima forza di prima il riso, il pianto, l’apostrofe, la preghiera, non più un grido vi fa davvero gelare, un singhiozzo far versare lagrime. Ora a questa mancanza si è creduto che bastasse sostituire apparati sorprendenti, paesaggi, marine, chiari di luna e splendori di sole ed esposizioni di spettacoli naturali fin qua ignoti a noi e che non avremmo mai veduti e non vedremmo. Non basta. Un fatto che non si colleghi con bell’ordine d’immaginazione a queste esposizioni esula naturalmente dall’interessamento generale dello spettatore. La tela malamente intessuta si rimpicciolisce, e il particolare uccide l’idea. Il pubblico si è già accorto della insipienza e della banalità di molti di questi spettacoli. Egli chiede bensì di commuoversi e d’interessarsi, ma non vuole interrotta o sviata la sua emozione – e la stupidaggine lo disgusta. Occorre che degli artisti, dei veri artisti sorveglino da vicino la composizione degli spettacoli ed anche ne apprestino di più umani, di più logici, di più artistici, in una linea che soddisfi l’occhio e la mente nel tempo istesso. – Ed è a questa nobilitazione della film dunque che voi intendete contribuire? – E perché no? Si è piegato a consentire che un suo nobile suggestivo lavoro
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Renato La Valle
sia cinematografato un insigne scrittore di grande sensibilità ed onestà artistica: Roberto Bracco. Ha convenuto forse egli, come convengo io, che l’azione di Sperduti nel buio debba nel cinematografo essere più diffusa e variata e che un necessario ordito più peculiare debba esprimere tanti momenti di quella dolorosa concezione che il drammaturgo ha in origine separata dalla sua esposizione così complessa, rapida e serrata com’è. La sua fantasia si eserciterà a comporre questo nuovo materiale quasi sussidiario, e l’esperienza di un nostro collega valoroso, Nino Martoglio, il quale già si è più avvicinato alla conoscenza tecnica di questa nuova forma di spettacolo, aiuteranno il mio caro amico e concittadino. Il suo esempio m’incoraggia perché mi viene da un artista col quale ho vissuto i primi anni di giovinezza, e che m’è stato di esempio ancora nell’amore per l’arte e nel rispetto per l’arte. – Spero però che non abbandonerete completamente il teatro per il cinematografo! – Questo no, ma che volete? La Francia e tutti gli altri paesi offrono proventi ben più larghi a chi fa il teatro e per avventura ne ottiene successo. E l’Italia non troppo. Nel caso mio, visto che io non scrivo che per il teatro dialettale, i proventi sono irrisori quando si pensa che una sola Compagnia dà le cose mie. La Magnetti intanto ha sciolta la sua (ma spero che lei tornerà alle scene) ed ecco mancati di colpo i proventi. Più eque e più generose invece le società cinematografiche rimunerano ben più largamente gli autori. Il dunque tiratelo voi… – Per il momento però il cinematografo non avrà dunque da voi che Assunta Spina? – Sì, io ne ho ceduto il diritto, ed essa sarà interpretata da quei due suggestivi artisti che sono Giovanni Grasso ed Adelina Magnetti – come vedete una bella unione di forze espressive. Non è detto però che io non farò delle cinematografie originali, ché anzi qualcuna ne ho già disegnata nella fantasia. Penso che v’è da mescolare ai soggetti drammatici i buoni soggetti idilliaci, sentimentali che mandino il pubblico contento a casa e che facciano benedire la cinematografia. Ed io credo che mi metterò precisamente su questa via. – E l’Assunta Spina cinematografata seguirà fedelmente il dramma originale? – Non completamente, perché bisogna adattarlo alle esigenze tecniche e sceniche della cinematografia, ma il dramma sarà sempre quello. E Salvatore di Giacomo, con parola colorita e con quel suo gesto largo e sobrio ad un tempo, mi spiega le grandi linee della riduzione cinematografica di Assunta Spina. – Ridurrete altri vostri lavori per il cinematografo, oltre ai lavori originali? – No. Gli altri miei lavori teatrali non si prestano a siffatte riduzioni per la prevalenza di elementi scenici che non si possono costringere ad ammutolire su lo schermo cinematografico e sopprimendo i quali l’azione perde i suoi caratteri peculiari. La conversazione deviò, si volse ad altro soggetto. Domandai a Di Giacomo notizie di quel che preparasse al gran pubblico che lo segue e lo ammira.
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Il teatro e il cinematografo: «ceci tuera cela»
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– Per ora mi sto occupando prevalentemente di ricerche storiche. Sandron comincerà prestissimo a pubblicare una biblioteca da me diretta: sarà una collezione settecentista, che si occuperà di storia aneddotica del secolo XVIII; dico storia aneddotica perché questi volumi non saran dedicati ad un pubblico ristretto di eruditi, ma intendono servire alla cultura generale offrendo in forma agile e piana la narrazione dei fatti del secolo di Vico, di Galiani, di Casanova. I due primi volumi di questa nuova biblioteca sono appunto fatti da me e riguardano l’epistolario di Ferdinando IV di Borbone alla sua seconda moglie duchessa di Floridia e principessa di Partanna. Questo epistolario comincia dal 1820 mentre quasi comincia a Leibah [Laybach] il Congresso, da cui scrive il Re, e continua – da Napoli e da Capodimonte – sino all’ultima lettera scritta prima di morire. Il primo dei due volumi è storico ed aneddotico, ed il secondo contiene solo le lettere. La collezione continuerà con un volume su Cagliostro di Enzo Petraccone. Seguirà un mio volume, che sarà una cronaca dell’antico teatro dialettale napoletano di San Carlino; poi ancora un mio volume su Casanova a Napoli, su le donne che vi ha conosciute, la vita che vi ha menata, e su gli artisti, i letterati e gli aristocratici che insieme con i giuocatori gli sono stati attorno. La collezione però non si fermerà a Napoli, perché conterrà altre monografie e studî su Roma, Firenze, Venezia, Torino, ecc. Niccolini, direttore della collezione dei Classici italiani del Laterza, scriverà su Galiani, Rabizzani sui forestieri in Italia nel secolo XVIII; e poi ancora altri volumi su pittori, poeti, musicisti che hanno specialmente frequentato Napoli; altri infine si occuperanno dei maggiori fra quei musicisti del ’700 che crearono l’opera buffa e che si chiamarono Cimarosa, Paisiello, Pergolesi. – Pubblicherete ancora altro? – Treves ristamperà tutta la raccolta delle mie novelle, dalla prima all’ultima; sarà più che altro un documento di lavoro. Pubblicherò anche delle monografie di arte su Toma, Morelli, Dalbono, ecc. E per la collezione dei Mistici del Carabba di Lanciano scriverò un San Nicola di Bari. – E versi?… – Per il momento c’è il Ricciardi che fa la terza edizione delle mie Poesie con parecchie aggiunte. – E per il teatro? – Penso a qualche cosa per il teatro, ma non ho molto tempo per dedicarmivi. Forse, più tardi… Ma, vedrete, Salvatore di Giacomo troverà il tempo anche per questo.
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A colloquio con D’Annunzio*
Parigi, 27 febbraio Quando entra nella fucina del Fabbro, anche il più modesto visitatore può avere la tentazione di ghermire a volo qualche favilla. Corre il rischio di lasciarla spegnere subito e di trovarsi semplicemente in possesso di una scheggia di metallo annerito e inutile: ma gli può capitare la fortuna che il Fabbro compiacente gli porga in modo acconcio una favilla ancor più rutilante. Suggerita da un titolo oramai famoso, è questa una piccola allegoria, che zoppica alquanto al par di tutte le allegorie, per dire che non si può discorrere con Gabriele d’Annunzio senza provare il bisogno di raccogliere ogni sua frase, anche se la conversazione ha errato da un argomento all’altro con la libertà più spigliata. Tutti coloro che conoscono il Poeta sanno che non si può resistere al fascino della sua parola precisa, elegante, colorita come nelle migliori pagine della sua opera, e assai più calda, insinuante: sanno che il prodigioso tumulto del pensiero e delle imagini ha sulle sue labbra una naturalezza somma. Un critico disse di Balzac che era una forza della natura, e intendeva alludere sovra tutto alla mole eccezionale del suo lavoro: Gabriele d’Annunzio non offre un minore esempio di operosità infaticabile, ma la definizione gli potrebbe convenire in un senso più elevato: la sua vena è così ricca che sembra traboccare da una sorgente perenne, la sua inspirazione così costante che par di sentirne il soffio anche nel più piano colloquio. Entrando nell’appartamento del Poeta, ho sorpreso in parte il segreto della sua giovinezza fisica, che forma la meraviglia e il tormentoso rimorso di quanti più di lui subiscono le ingiurie del tempo. È un segreto di cui egli concede volontieri la formula, a beneficio in particolar modo di chi deve compiere un intenso lavoro intellettuale. Non è un dono esclusivo del cielo la ferrea salute che gli permette di conservare intatta l’agilità del corpo per sobbarcarsi con pari agilità alle più ardue fatiche della mente. Se ha la robustezza dei cerri di montagna, dal tronco esile e compatto, dai rami pieghevoli e forti, la deve certamente alla buona linfa natia, ma la deve anche ad un salutare allenamento: i più lussureggianti alberi di serra non resistono alle intemperie. Uno stranissimo oggetto accoglie il visitatore nel mezzo dell’anticamera. Nella penombra si direbbe una testa di Medusa sostenuta da un lungo stelo: per com*
A colloquio con D’Annunzio, in «Corriere della sera», 28 febbraio 1914, p. 3, da cui si cita; poi in Interviste a D’Annunzio (1895-1938), cit., pp. 278-285. Nella stessa pagina del giornale, sotto il titolo Una creazione di D’Annunzio pel cinematografo, è raccontata la trama di Cabiria (Itala Film, 1914, regia di Giovanni Pastrone).
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A colloquio con D’Annunzio
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piere l’illusione, il Poeta l’ha coperta di una fulva parrucca dalle trecce arruffate e ribelli. Edgardo Pöe o Villiers de l’Isle-Adam sognarono forse uno strumento così fantastico. È semplicemente un «avversario» per la boxe: un pallone, dal gambo duttile infisso in un piede d’acciajo, contro cui si esercita la furia dei pugni, pronto a restituirli con un cozzo da caprone meccanico se il pugilatore non si schermisce rapidamente. Anche d’Annunzio è un seguace della boxe, l’unico esercizio fisico completo a cui si possono dedicare i prigionieri delle celle urbane. È completo perché non lascia inerte alcun muscolo, senza imporre una monotona serie di metodici movimenti ginnastici. È uno sport da camera assai meno agevole di quanto si potrebbe presumere, e chi si inizia ai suoi misteri non tarda a comprendere come i grandi campioni siano rari e fortunati. Naturalmente non è piacevole farsi ammaccare il viso o sfondare il petto: ma sono inconvenienti riservati alla gente del mestiere: i maestri li risparmiano ai dilettanti, esponendosi a riceverne i colpi ma restituendoli col debito garbo. Se qualche giovane allievo commette un’imprudenza, non può dolersi di doverne poi scontare il fio: così il nipote di un notissimo deputato ha rotta da un pajo di mesi la linea del naso per aver voluto, al momento in cui veniva sospeso il giuoco, assestare finalmente un buon pugno al maestro il quale, giustamente irritato, glielo rese a dovere. Un’ora di lezione mattutina è lo svago più salubre. Maurizio Maeterlinck lo pratica indubbiamente per opporsi all’invasione della atavica pinguedine fiamminga: Tristan Bernard lo predilige perché è convinto che sarebbe il miglior sistema di scuotere dal corpo tozzo e tarchiato l’indolenza. D’Annunzio potrebbe già gareggiare di snellezza e di vigoria con uno dei più noti letterati francesi, Abele Hermant, il quale ogni giorno si tuffa agilmente nella piscina di un grande circolo elegante, tra l’ammirazione degli astanti che non osano più credere ai suoi cinquant’anni sonati: ma il Poeta è un troppo saggio conoscitore di precetti salutari per non ricordarsi che nel forzato riposo urbano il corpo facilmente si intorpidisce. Non si può dire veramente che egli abbia rinunziato ad ogni altra forma di attività fisica. Se le carte, i manoscritti interrotti, di cui è ingombro il tavolino, i libri vecchi e rari dispersi sui mobili, nel salotto profumato invariabilmente di rose fresche e rose moribonde sotto gli sguardi ermetici di un Budda, lo inducono a lunghe meditazioni e accendono in lui la febbre sottile del lavoro, non di rado egli sa rompere l’incantesimo. La visite quasi quotidiane al lontano canile – i cui ospiti prediletti gli hanno suggerito il più audace contrapposto alle «Vite» di Plutarco – gli ingannano l’attesa delle belle cavalcate attraverso le dune. L’argomento che in modo inevitabile ricorre più di frequente nelle conversazioni con l’autore del Ferro è il teatro, ed è assai interessante udire il drammaturgo dalla forma più doviziosa, dall’eloquenza più faconda, ragionare intorno alle nuove tendenze del pubblico, sempre più proclive alle rappresentazioni mute o quasi. Vi è una certa segreta e virile melanconia nelle sue parole, come per un’offesa recata alla divinità più cara. Il Poeta che scrisse con enfasi giovanile «la parola è tutto» comprende e penetra i misteri fecondi del silenzio, ma non potrebbe
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A colloquio con D’Annunzio
rassegnarsi di botto alla vanità dei discorsi brevi e disadorni o delle gesticolazioni superficiali. È il primo però a spiegare il fenomeno indiscutibile di una rapida evoluzione teatrale. – Certo, v’è una crisi della «parola» nel teatro, e v’è un predominio della musica sempre più largo. I migliori spettacoli recenti – quelli in cui si manifesta una qualche ricerca nuova – non sono se non azioni mimiche accompagnate dalla sinfonia e talvolta dal coro. Assistiamo a una improvvisa esaltazione del senso ritmico. Sembra che ritorni fra noi l’imagine di quel Frinico il quale si vantava di aver nello spirito tante figure di danza «quante onde solleva una notte procellosa, durante l’inverno, sul mare». Dalle mille figure della danza e dalla potenza dei motivi musicali nasce una forma nuova di dramma che riesce a suscitare talvolta nello spettatore la più intensa delle commozioni. I personaggi sono lontani, così che qualunque contatto con essi ci sembra impossibile come con i fantasmi; ma la sinfonia rischiara il fondo reale che li produce. Qualcosa di simile è l’oggetto d’una meditazione in alcune pagine del mio libro Il Fuoco accese di presentimento. La musica, per mezzo de’ suoi motivi, ci dà il carattere di tutti i fenomeni dell’Universo nella loro intima essenza. La formazione, la direzione, la modificazione di questi motivi sono comparabili alla creazione del dramma; e il dramma, rappresentato dai mimi e dai danzatori, non può essere compreso senza il soccorso di questi motivi musicali, così formati, diretti, svolti. Si sa che la strofe nella sua origine primitiva era una cornice destinata ad essere riempiuta da una serie ben composta di movimenti corporei, formanti una specie di quadro animato, al quale la melodia comunicava la pienezza della vita. Ora, in questa nuova forma di dramma, per quale gioco misterioso il poeta equilibrerà la parola con la mimica e con la sinfonia? Ecco il problema che oggi appassiona più di un artista, e affatica anche me. Nella ricerca bisogna ricordarsi che il concetto musicale perde la sua purità primitiva quando divien dipendente da rappresentazioni estranee, in sé, al genio della musica. Anche bisogna ricordarsi che sentimenti, passioni, luoghi, persone, costumi e altre particolarità esterne non sono – per il poeta – se non segni da interpretare e che questi segni non han senso se non nei loro rapporti e nelle loro gerarchie. L’arte s’allontana dalla natura, per creare tipi impreveduti di bellezza. Sul fianco dell’Acropoli ateniese, che domina il teatro di Diòniso, v’è un muro nudo, d’una nudità sublime, che sembra fatto per le apparizioni di domani. L’ho sempre nella memoria. Non è una profanazione interrompere ragionamenti così elevati con la più prosaica domanda, suggerita da un’associazione di imagini, deplorevole come un giuoco di parole? Ma non può essere in qualche modo sublime la nudità del telone bianco, se la fantasia del Poeta vi facesse rivivere, per il maggior gaudio degli occhi e dello spirito, un mondo lontano? È noto oramai che egli ha consentito a scrivere un «canevaccio» per un dramma cinematografico: ma la pellicola lo aveva sedotto sulle prime con una prospettiva geniale. – Or è parecchi anni, a Milano, fui attratto dalla nuova invenzione che mi pa-
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reva potesse promuovere una nuova estetica del movimento. Passai più ore in una fabbrica di films per studiare la tecnica e specie per rendermi conto del partito che avrei potuto trarre da quegli accorgimenti che la gente del mestiere chiama «trucchi». Pensavo che dal cinematografo potesse nascere un’arte piacevole il cui elemento essenziale fosse il «meraviglioso». Le Metamorfosi di Ovidio! Ecco un vero soggetto cinematografico. Tecnicamente, non v’è limite alla rappresentazione del prodigio e del sogno. Volli esperimentare la favola di Dafne. Non feci se non un braccio: il braccio che dalla punta delle dita comincia a fogliare sinché si muta in ramo folto di alloro, come nella tavoletta di Antonio del Pollaiuolo che con gioia rividi a Londra pochi giorni fa. Mi ricordo sempre della grande commozione ch’ebbi alla prova. L’effetto era mirabile. Il prodigio, immoto nel marmo dello scultore o nella tela del pittore, si compieva misteriosamente dinanzi agli occhi stupefatti, vincendo d’efficacia il numero ovidiano. La vita soprannaturale era là rappresentata in realtà palpitante… – E come mai l’esperimento fu interrotto? – Le difficoltà erano gravi e richiedevano una pazienza e una costanza che il risultato pratico non poteva compensare. I fabbricanti ad ogni tentativo insolito oppongono l’esecrabile «gusto del pubblico». Il gusto del pubblico riduce oggi il cinematografo a una industria più o meno grossolana in concorrenza col teatro. Io stesso – per quella famosa carne rossa che deve eccitare il coraggio dei miei cani corsieri – ho lasciato cincischiare in films alcuni dei miei drammi più noti. Ma questa volta (oh disonore! onta indelebile!) m’è piaciuto di fare un esperimento diretto. Una Casa torinese, diretta da un uomo colto ed energico che ha uno straordinario istinto plastico, dà un saggio d’arte popolare sopra un soggetto inedito da me fornito. – Quale è il soggetto? – Si tratta d’un disegno di romanzo storico, delineato parecchi anni fa e ritrovato tra le mie innumerevoli carte. Il disegno era troppo ambizioso, e non fu attuato in opera d’arte. Che tremendo sforzo di cultura e di creazione ci voleva infatti per rappresentare, nel terzo secolo avanti Cristo, il più tragico spettacolo che la lotta delle stirpi abbia dato al mondo!1 Gli eventi e gli eroi sembrano operare secondo la virtù del Fuoco infaticabile. Il soffio della guerra converte i popoli in una specie di materia infiammata, che Roma si sforza di foggiare a sua simiglianza. La Fortuna avversa – come si vede nell’irruzione d’Annibale «nato in tutt’arme» – sembra non cancellare ma sì approfondire l’impronta tremenda. La pace – che sarà romana sull’intero Mediterraneo – è ancora un vanissimo nome nella bocca stessa di Quinto Fabio. Simile a quella sua toga rude, l’anima di Roma non è gonfia se non di volontà ostile e intrepida. Nessuna energia naturale eguaglia in ritmo irresistibile la possanza e la costanza dell’Urbe fondata dall’eroe selvaggio in cui lo spirito violento del Marte italico si congiunge allo spirito misterioso della Vesta orientale. 1
Da qui in avanti, fino al successivo intervento dell’intervistatore, si riportano per intero le pagine dell’«argomento» di Cabiria che nel libretto del film (Gabriele D’Annunzio, Cabiria. Visione storica del terzo secolo a.C., Torino, Itala Film, [1914], pp. 5-8) precedono il testo delle Note all’azione.
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A colloquio con D’Annunzio
Qui è il conflitto supremo di due stirpi avverse, condotte veramente dal Genio del Fuoco «che tutto doma, che tutto divora, sire possente di tutto, artefice sempiterno». Per ciò la creatura inconsapevole, che passa incolume a traverso l’ardore dei fati, è nomata Cabiria, con un nome evocatore dei demoni vulcanici, degli operai igniti ed occulti i quali travagliano senza tregua la materia dura e durevole. Per ciò è qui la visione dell’isola ardente che la mano erculea della gente dorica sembra aver foggiato nel tipo della compiuta grandezza. La montagna, che fu mistico sepolcro di Empedocle, segna qui il ritmo iniziale: di vita e di morte, di creazione e di distruzione, di splendore e d’oscuramento. Casi prodigiosi, straordinarie fortune, fulminee ruine. La virtù dell’uomo pare senza limiti, da che il Macedone ha superato Ercole e Bacco, il Semidio e il Dio. La forza procede per salti formidabili, belluina e divina, non toccando la terra se non per moltiplicare il suo impeto. La sentenza di Pirro dall’elmetto ornato di corna d’ariete non è se non una parola d’oracolo sospesa sul mondo. «A chi il retaggio? Al ferro che meglio trapasserà, che meglio taglierà». Dunque alla corta larga e aguzzata spada romana. Ed ecco, si compie ciò che non mai fu veduto in terra, che non mai fu scritto negli annali: una grande civiltà umana crolla intieramente, d’un tratto, con i suoi idoli mostruosi, con i suoi valori antichi e nuovi, con la sua tristezza e con la sua cupidigia, con la sua volontà di dominio senza pazienza, con la sua smania di avventura senza eroismo, crolla d’un tratto, come una falsa stella che precipiti non lasciando se non un poco di fumo e di scoria. Il Periplo di Annone, qualche medaglia corrosa, alcuni versi di Plauto: non altro resta del vasto e atroce mondo cartaginese. Le ceneri dei fanciulli arsi nel bronzo insaziato di Moloch furono forse meno labili. «Or chi canta le guerre puniche?» dice il finale epigramma di sapore anacreontico, accompagnato dal flauto di Pan. E sole le faville della fiaccola di Eros indomito ora crepitano nella scia della nave felice. – Si tratta dunque d’una vastissima tela. – Credo che non ne fu mai presentata di più vasta né lavorata con più cura dei particolari, con più rispetto dell’archeologia e del carattere storico, con maggiore armonia di movimenti e di aggruppamenti. La Casa editrice ha, senza dubbio, compiuto il più grande e ardito sforzo che sia mai stato fatto in quest’arte. Si tratta di grandi composizioni storiche collegate da una finzione avventurosa che si rivolge al più ingenuo sentimento popolare. E il mio dilettissimo Ildebrando da Parma ha composto (oh disonore!) su Cabiria un mirabile poema sinfonico. Non cesso tuttavia di pensare al delicato braccio di Dafne converso in ramo frondoso. La vera e singolare virtù del Cinematografo è la trasfigurazione; e Le dico che Ovidio è il suo poeta. O prima o poi, la poesia delle Metamorfosi incanterà la folla che oggi si diletta di così sconce buffonerie. In ognuno dei nostri miti è una rivelazione profonda, un insegnamento felice, talvolta un annunzio meraviglioso. Le dico, senza ombra d’ironia, che un buon bagno di mitologia mediterranea per il pubblico del Cinematografo sarebbe d’incalcolabile efficacia. Primus amor Phoebi Daphne Peneia…
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A colloquio con D’Annunzio
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La bacchetta magica ha nobilitato così con un tocco anche l’arte più volgare, e il taumaturgo sorride come del più agevole miracolo. Ma la parentesi cinematografica non può essere per lui che uno svago: a quali nuovi lavori sta egli ora per accingersi? – Nei periodi di studii, di esperienze e di diporti come questo, io non so mai verso quale delle opere disegnate sta per inchinarsi il mio spirito. Quale mi possederà a un tratto? Quale si dileguerà? Forse quella che ora mi sembra la meno matura, all’improvviso, prenderà una forma definitiva e mi forzerà a manifestarla. Chi sa! Confesso che ogni volta questa incertezza mi par deliziosa, e che nulla mi piace quanto l’essere infedele a un disegno troppo lungamente amato per volgermi subitamente a un altro appena appena intravisto. Queste infedeltà e queste irrequietudini mi dànno ancora l’illusione della giovinezza, come se sul mio destino fosse rimasto inscritto il verso dell’Endymion che posi per epigrafe al Canto novo, il verso di quel John Keats che l’altro giorno mi commosse anche una volta, nella Galleria dei Ritratti, a Londra, con la sua maschera patetica, somigliante un poco a quella del Leopardi. Terminerò Il ratto della Gioconda? Forse. Scriverò Le Vite dei cani illustri? Forse. Pubblicherò in quest’anno il quinto libro delle Laudi? Forse. E se Le dicessi che da qualche tempo sono tormentato dal pensiero di compiere i cicli del Giglio e del Melograno? Se Le dicessi che la Violante delle Vergini delle Rocce mi visita assai spesso, ma con un viso un po’ mutato? Certo, comporrò pel Teatro dell’Opera un ballo su la musica di Domenico Scarlatti (secondo l’interpretazione che ne ho data nella Leda senza cigno), avendo per collaboratore uno tra i più singolari e tra i più acuti artisti della Francia contemporanea: Maurice Ravel. E certo farò rappresentare in Italia (in Italia, prima che altrove), tra l’ottobre e il novembre venturo, il mio nuovo dramma moderno. Ma, tornando nella solitudine della Casa su la Duna, quale Musa troverò poggiata alla mia tavola di pena, sotto l’ombra dell’Apollo di Piombino che ha per simbolica base una biblioteca girevole? Chi sa! Assaporo già il piacere della sorpresa… L’eremo propizio accoglierà fra pochi giorni il Poeta, per cullare i suoi sogni operosi con la musica divina dell’oceano e della foresta.
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S.A.
Conversando con Matilde Serao di arte e cinematografo*
Matilde Serao diceva: – Roma!… Roma è la città magnifica, la città dove il mio spirito si moltiplica, dove la vita è veramente degna di tal nome. Di Roma io sento tutto il fascino grandioso; e non uno dei molteplici aspetti dall’Eterna può nascondermi la sua maestà e la sua poesia… Roma grande e bella!… – Perché non ne scrivete? – Oh, come saprei non scrivere, poi che mi fa sentir tanto la sua malia? Penso di scrivere una serie di Lettere romane. – Faranno parte de Le nuove lettere d’una viaggiatrice? – No: il volume di cui parlate è già pronto; e vedrà prossimamente la luce. Le Lettere romane formeranno un altro volume. – Siete, signora, d’una attività prodigiosa! – Oh, come saprei non scriverne, poi che ho finito da qualche giorno appena il romanzo Ella non rispose del quale il Treves già prepara la stampa perché avvenga in giugno la pubblicazione; e del quale M.me Jean Carrère prepara una traduzione francese, e la signora Gagliardi una traduzione tedesca. Pensate che ho ripreso a lavorare intorno all’altro romanzo L’ebbrezza, il servaggio e la morte che è già a buon punto; e pensate che… che c’è ancora dell’altro. – C’è dell’altro? Prima di svelare il suo segreto Matilde Serao ride di quel suo riso buono e chiassoso che è diventato un po’ una istituzione nei salotti italiani come in quelli parigini. La curiosità delle dame e dei giornalisti che erano intorno alla illustre scrittrice nostra, nella hall del Grand Hôtel si è acuita. Tutti abbiamo chiesto: – Ebbene? – ’O vvulite proprio sapè?… Penso di occuparmi anch’io di cinematografo! – Anche voi?!… – È forse un rimprovero in codesta domanda?… Non nego: la prima impressione che prova uno scrittore cui si chieda di scrivere per il cinematografo, è un senso di ripugnanza. E si comprende: il poeta, il romanzatore, il commediografo, il conferenziere, il giornalista non possono non ritenere la rinuncia alla parola – al Verbo parlato o scritto – come una diminuzione capitale. Chi ha l’abitudine di penetrare le anime ed agitare le passioni non vede nella mimica un mezzo adatto alla rappresentazione dei suoi fantasmi; e sono nel cinematografo tali e tanti elementi meccanici i quali non possono piacere a che si elegge sacerdote dell’Arte *
S.A., Conversando con Matilde Serao di arte e cinematografo, in «Giornale d’Italia», 2 aprile 1914, p. 3.
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Conversando con Matilde Serao di arte e cinematografo
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pura… Si dice: l’arte pura non rende, specialmente in Italia; e non si può morir di fame. Pessimo argomento, inutile pretesto! Il poeta, miei cari, il poeta schietto è puveriello!… So che è molto, troppo vecchio; ma lasciate che io lo ripeta ancora, quel proverbio così semplice e vero: Carmina non dant panem; ma danno quel nutrimento spirituale, quella gioia ineffabile che al poeta dovrebbe bastare… Ora, si sa, il poeta ha bisogno di vestir l’abito nero, mettere il fiore all’occhiello, e dire delle sciocchezze nei salotti… Altrimenti non si sente veramente poeta… Si sa: è la moda; un tempo si usava far della bohème… Dunque, dicevamo… Ah!… Parlavamo d’ ’o cinematografo… Dunque, il cinematografo ha i suoi bravi difetti, che io ho osservati e studiati… Sicuro! Da sei mesi a questa parte il cinematografo è oggetto del mio studio. Esso è – si dica quel che si voglia – una nuovissima forma d’arte; e non può essere indifferente ad uno scrittore. A nessuna forma d’arte si può essere indifferenti: se si è giovani, perché ogni ricerca può giovare all’opera ulteriore; se si è vecchi, perché si ringiovanisca… Ora io ho trovato che il cinematografo, accanto alle sue manchevolezze, ha qualità eminenti, qualità precipue che non saprebbero non tentare chi spende la sua vita a rappresentare le azioni umane. Ripeto: un mimo non potrà mai, quale che sia la sua virtù, supplire alla potenza ed al fascino della parola. Pensate: si potrà mai rendere al cinematografo una scena di amore o di dolore con la stessa efficacia che può dare ad essa la parola scritta o parlata? E come potrà uno scrittore affidarsi completamente, senza sentirsi diminuito, alle qualità di un comico? e far quasi soltanto da suggeritore? Il nostro merito scomparirebbe di fronte a quello dell’interprete… Ma vi sono azioni sceniche nelle quali il cinematografo appare come un mezzo miracoloso; colà dove c’è bisogno di folla, di movimenti collettivi, di grandi scene naturali, di rapide rassegne di ambienti, non c’è nulla che valga il cinematografo. Però, essendomi pervenuti, da parte di alcune grandi case italiane, inviti perché scrivessi delle films (perdonate il linguaggio barbaro), io ho pensato di ridurre, perché sieno adatti ad una rappresentazione cinematografica, i miei romanzi corali. – Non avrete che da scegliere. – Infatti, poi che la folla è stata sempre uno dei personaggi che ho preferito, in molti miei romanzi essa si muove. Comincerò con Il paese di Cuccagna… Ma, imaginerete, a questo primo lavoro non oserò mettermi da sola. Avrò un collaboratore preziosissimo in Ernesto Murolo, del quale già ebbi occasione di apprendere la tecnica sicura nella felice riduzione scenica della mia novella O Giovannino o la morte!. Ma poi, subito dopo questa che sarà come una iniziazione, come un apprentissage, ognuno di noi singolarmente scriverà un «soggetto» per cinematografo. Intanto Tina di Lorenzo mi chiede dei romanzi d’amore… Una signora osserva: – Naturale! Ella ha trovato il segreto della eterna giovinezza: ha ragione di insistere in cotali letture… – No, non fingete di fraintendere. Tina mi chiede dei romanzi d’amore da interpretare in cinematografo. Ora io ho considerato che questi sono suscettibili di rappresentazione sullo schermo bianco solamente quando sieno interposte sce-
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S.A.
ne di grande movimento e di spettacoli naturali che soddisfino l’occhio dello spettatore… Vedimmo ’e fà… Passa nella hall dove stanno un gruppo di straniere elegantissime. Matilde Serao le osserva e, ritornando al primo detto: – Pensate – ci dice – a quelli elementi di poesia che il movimento cosmopolita sa dare alla vita romana. Non vi pare che questa città nostra acquisti, per l’eterno fiume di stranieri che la traversa, un aspetto che va considerato al di là delle solite convenzionali «macchie di colore»?… Tante buone abitudini sono gli stranieri che ce l’insegnano: e per essi qualche volta Roma acquista di valore agli occhi nostri troppo adusati alla sua luce… Ieri una biondissima figlia di Albione che tornava dal Bosco Sacro recando un bel ramo di alloro, mi spinse a seguire il suo esempio… Oggi l’eterna fiorita di cui questi stranieri adornano la tomba di Shelley mi ha dato una profonda commozione… Ed ecco bello e trovato il soggetto d’una «Lettera romana». E Matilde Serao ha riso più forte del solito. Le conversazioni nella hall si sono interrotte: dall’atrio e dalla sala da pranzo qualche testa curiosa s’è affacciata. Tutta la vita dell’albergo è rimasta un momento sospesa alla risata della romanzatrice.
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Saverio Procida
«Sperduti nel buio» al Cinematografo (Intervista con Roberto Bracco)*
Ho incontrato Roberto Bracco mentre usciva dalla prova della rappresentazione cinematografica di Sperduti nel buio. Conoscevo, naturalmente, le sue idee sui drammi trasferiti dalla ribalta umana alla pellicola muta. E mi ripromettevo di stuzzicarne, come spesso mi accade, la bile umoristica, che nel nostro illustre autore non riesce mai a invelenirsi, ma riesce sempre, viceversa, a ispirargli qualche paradossale argomentazione artistica. E poi che il dramma cinematografato era, questa volta, carne della sua carne, già pregustavo i suoi dubbi, i suoi tormenti – che nel Bracco derivano da un’ipercoscienza estetica più unica che rara – le sofisticazioni sulla possibilità di rendere un pensiero scritto in una visione plastica, insomma quel tarlo roditore della perplessità, che investe ogni sincera anima di poeta al cospetto del proprio fantasma realizzato. Avevo il buon pretesto per attaccar discorso: non m’era riuscito di assistere alla prova della «film». E senza preamboli chiesi: – Beh, come sono andati questi Sperduti nel buio? Risposta immediata: – Una meraviglia! – Sul serio? – Sul serio. – Per il pubblico o per te? – Quanto al pubblico, ho udito scrosci di applausi ed entusiasmi vociati, ai quali, come autore drammatico, non sono eccessivamente abituato… – Bugiardo! – … ma la meraviglia è stata precisamente mia. Pure avendo la massima fiducia nella larghezza dei mezzi della «Morgana-Films», nel valore degli interpreti eccezionali e nella direzione di Nino Martoglio, non credevo che si fosse potuto ottenere un così mirabile risultato. – Perdio! Tu ti trasformi in un Bracco nuovo. – Ma pur troppo sono un Bracco vecchio! *
Saverio Procida, «Sperduti nel buio» al cinematografo (Intervista con Roberto Bracco), in «Il Mattino», 20-21 settembre 1914, p. 3, da cui si cita; poi in Sperduti nel buio, a cura di Alfredo Barbina, Torino, Nuova ERI, 1987, pp. 141-144.
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Saverio Procida
– Bugiardo due volte! Cominci, sì o no, a dirmi la verità? quella che si confida all’orecchio dell’amico e non a quello del giornalista. – Questa volta, ti assicuro, i due orecchi sono un orecchio solo. – E allora parla all’orecchio del «Mattino». – Ebbene, ti ripeto, sono entusiasta. Si discute, e abbiamo discusso tanto tu ed io! se la cinematografia possa o no diventare arte. Se la cinematografia è quella con cui è stata riprodotta la riduzione del mio dramma Sperduti nel buio, non c’è più da discutere. Siamo in piena arte. Io non sono un assiduo del cinematografo. Non so, quindi, se si siano fatti molti progressi. Intanto, la mia impressione è che un progresso immenso è segnato dalla pellicola degli Sperduti nel buio. Evidentemente, Nino Martoglio, che ne ha curato la direzione, ha avuto un criterio, il quale prescinde da ogni preconcetto convenzionale e da ogni timidezza imposta dalla grande massa anonima del pubblico da cinematografo. In Nino Martoglio ha agito sopra tutto – lasciamelo dire – l’esperienza dell’autore drammatico. Egli ha liberato gli interpreti dai pericoli del mutismo stilizzato e ha dato a tutta l’azione un’impronta eminente[mente] umana. – Perdonami se t’interrompo – ho detto a Roberto Bracco – Ma come si fa a dare quest’impronta umana a un’azione cui manca l’elemento umanissimo della parola? – Io non so come si faccia. Posso accertarti che spesso a me medesimo pareva quasi di sentir parlare quella gente. La veridicità stessa d’una plastica spontanea, vivida, determinata dai sentimenti e dalle passioni e non da una premeditazione scenografica, produceva press’a poco l’illusione della parola pronunziata. – Ma credi tu che il criterio da cui il Martoglio è stato guidato possa adattarsi ad ogni specie di interpreti cinematografici? – Ah no. Egli ha avuto a sua disposizione degli interpreti che potevano secondarlo. La parte del cieco, per esempio, è stata affidata a Giovanni Grasso. In verità, a questo nome io ho dato un balzo. – A Giovanni Grasso? Con quelle spalle? La parte del povero e magro Nunzio, mite, dolce, insegnante a Paolina la virtù del dolore e la rassegnazione della sventura, a Giovanni Grasso, il vendicatore inesorabile e atletico di Feudalismo? – Comprendo il tuo stupore. Ma debbo dirti che io, senza punto modificare l’essenza del dramma e tanto meno il significato umano del personaggio di Nunzio, ne ho mutato i connotati fisiologici. Avendo un elemento artistico così prezioso, non ho voluto rinunziarvi. E anzi ti aggiungerò subito che, costruendo un cieco dalle spalle quadrate, dal pugno d’acciaio e dalle vene piene di sangue vivido, risulta più angoscioso, più pietoso, più significativo l’incubo della cecità, che opprime fisicamente e socialmente quel disgraziato. Questo mio nuovo cieco subisce paziente, umiliato, doloroso, la sua sorte per il buio che lo separa dalla vita libera. Ma, dentro, la sua anima è vigile come può esser quella d’un uomo forte. E se la sua forza fisica viene in contatto con le cose e con le persone, che troppo lo stringono e troppo violentano la sua sventura, egli è capace d’impeti straordinari ed eroici. Ed ecco Giovanni Grasso: magnifico, imponente.
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«Sperduti nel buio» al Cinematografo
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– Ma dunque tutto ciò che c’è di gentile in Nunzio, di dolce in questa creatura del dolore, è sparito dal tuo dramma? – Invece, è più che mai evidente. Non puoi immaginare quanta dolcezza, quanta gentilezza, quanta bontà, quanta tenerezza sia capace d’esprimere quell’uomo lì. Basti dirti che io stesso mi sono sorpreso sovente in flagrante commozione. – E gli altri interpreti principali? – La piccola Balestrieri è una delle migliori Paoline ch’io abbia avuto. Attrice del teatro siciliano, ne serba tutta la schiettezza e tutta l’efficacia. Senza manierismi, senza virtuosismi, ella incarna meravigliosamente tutta la straziante inconsapevolezza del suo destino. Maria Carmi, la celebre interprete del Miracolo, uscita dalla scuola del Reinhardt, è una Livia Blanchard come non se n’è mai viste sulla scena di prosa. Anzi tutto la Carmi ha le phisique du rôle. Una figura alta, snella, serpentina, degli occhi cupi e lampeggianti, un pallore fatale, una chioma nerissima, enorme, quasi aspra, che pare contenga una potenza avviluppante. L’espressione della sua fisonomia è d’una singolare sobrietà e nello stesso tempo d’una singolare intensità. Del resto, vedrai. Nella scena in cui il duca di Vallenza le annunzia di aver testato in favore di lei, quella fisonomia lascia intendere la dissimulazione e la cupidigia. Nella scena seguente, in cui Livia Blanchard avvolge nel suo fascino micidiale l’uomo già disfatto, Maria Carmi riesce a suscitare lo spavento. Ella sembra personificare tutto ciò che di terribile può nascondersi nella bellezza femminile. – Mio caro Roberto, tu parli come Lessing dinanzi al più complicato capolavoro della plastica greca. – E invece avrei voluto parlare come Baudelaire dinanzi a questa personificazione scenica d’un fiore del male. – Giacché sei in vena di letteratura, in quale stile d’eccezione loderai Dillo Lombardi, nei panni del Duca di Vallenza? – Senza stile. Al mio vecchio amico e interprete tributo con semplicità i maggiori elogi alla signorile semplicità sua. Egli è un Duca di Vallenza elegante, contenuto, misurato e drammaticissimo. Come vedi, Nino Martoglio poteva bene sperimentare con questi elementi la sua valentia. E aggiungi che tutti gli interpreti minori sono ugualmente, nel loro genere, perfetti. La signora Moneta, che piglia parte soltanto nei primi quadri e rappresenta la madre di Paolina è anch’essa un elemento di prim’ordine. Non attendo la tua domanda e concludo che ogni minuto particolare è stato curato con speciale acume, senza quelle ostentazioni di messa in iscena, che nel cinematografo opprimono così spesso l’azione. – L’aver vuotato il sacco tutto d’un fiato non credere che ti sottragga alla mia curiosità d’impenitente amatore d’arte. Io voglio sapere le modifiche, le aggiunzioni che hai fatte per sminuzzare la sintesi del tuo dramma in parecchie migliaia di metri di pellicola. – Caro mio, posso garentirti che in ogni metro c’è un brano di anima. E ciò senza modificare in nulla la sostanza del dramma. Qualche aggiunzione, sì, per
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Saverio Procida
rendere più concreta, più visibile la conclusione. La fine del mio dramma è lì, tale e quale, in uno degli ultimi quadri. Ma era troppo diafana per una fine di azione cinematografica. Bisogna pur rimanere nel carattere dell’arte che si sceglie o si accetta di fare. Le vicende di Nunzio e di Paolina nell’azione cinematografica continuano oltre il mio terzo atto e questa continuazione (puoi immaginarti il dolore del mio cuore di drammaturgo) ha suscitato oggi, lì, alla prova, i maggiori applausi. – E allora, scusa, perché da questa continuazione non cavi un altro dramma? – Magnifica idea. Ma, capirai, che poi, dovendo rimetterlo in cinematografia, dovrei aggiungere qualcosa. E con questo sistema sarebbe il caso di dire: – Si sa come si comincia… – Ma non si sa né come né quando si finisce.
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Lucio d’Ambra
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Conversando con l’altro me stesso*
Io, autore cinematografico, sono da tre ore seduto al mio tavolino, intento a scrivere le ultime pagine del mio quattordicesimo film: La valse bleue. Non c’è piacere a scrivere l’indicazione scenica di queste azioni mute. La parola che mancherà sullo schermo non ha neppure qui la sua sede, non ha neppure in queste pagine la sua ragion d’essere. Sono senza grazia e colore di parole, senza musica di periodi, senz’ala di poesia, indicazioni aride, meticolose, precise, matematiche, nude e crude come un processo verbale, irte di richiami numerici, soffocate d’indicazioni tecniche, misteriosi geroglifici per un profano: «primo piano», «dissolvenza», «diaframma americano», «panoramica», «sovrimpressione», «fondu»… Non è più il mio lavoro quieto e lieto delle mie buone mattinate d’un tempo in cui nascevano su questi foglietti bianchi pagine di romanzo o dialoghi di commedia. Continuamente il telefono interrrompe la mia fatica. Telefonano dal teatro: i macchinisti vogliono sapere se quei fondali la cui misura non è sufficiente possono essere allungati con una porta o quanti metri dev’essere alta quella cèntina per l’American Bar. Telefonano da un albergo: la prima attrice fa avvertire che un qualche grado di “febbre spagnuola” le impedirà quest’oggi di lavorare. Telefonano dai laboratorii di stampa per sapere quale viraggio dev’essere dato a quei nuovi «esterni», quale imbibizione a quegli «interni». Telefonano dagli uffici: l’operatore che sta montando il film vuol sapere se il quadro X della seconda parte deve cominciare col «primo piano» o con la «scena generale». Oramai tante interruzioni hanno sviato il mio paziente lavoro. Sollevo gli occhi dalle carte. Accendo una sigaretta. Socchiudo, contro il fumo, le palpebre. E quando le riapro c’è gente dinanzi a me. Su la poltrona cardinalizia ch’è di fronte alla mia scrivania è seduto un individuo, che mi assomiglia come un fratello, un fratello di due anni più giovane, e più sereno, e più lieto, che mi guarda con un sorrisetto ironico ed ambiguo, incerto fra la commiserazione e il disprezzo. È un sorriso che riconosco, che mi conosco. Identifico, infatti, l’ospite. È un altro io, l’altro me stesso, quello di prima del cinematografo, quello che era una volta – bei tempi andati! – romanziere per suo piacere, autore drammatico talvolta per piacere, spesso per dispiacere degli altri ma sempre padrone, con la penna in mano – bei tempi! bei tempi! – di far solamente quello che piaceva a lui. Padrone un tempo, *
Lucio D’Ambra, Conversando con l’altro me stesso, in «Cinemundus», i, 2, agosto 1918, p. 3; poi, con piccole varianti, in «Fortunio», v, 6, 15 agosto 1920, pp. 5-8; ora in Lucio d’Ambra. Il cinema, cit., pp. 105-110, da cui si cita.
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Lucio d’Ambra
qui dentro, a questa scrivania, era lui. Ora padroni qui dentro son tutti: il pubblico, i proprietari della casa editrice, i compratori esteri e nazionali, i noleggiatori grandi e piccini, la prima donna, il primo attore, la censura, i giornalisti, l’ultimo fra i cachets, il penultimo fra gli spettatori, la maschera del più umile cinematografo di Forlimpopoli. L’altro io si leva il monocolo, lo asciuga, se lo rimette nell’orbita e mi riguarda, fisso, con quell’aria di canzonatore bonario che, seccato come sono, comincia a darmi maledettamente ai nervi. E il dialogo comincia. – Mi guardi? Ti par molto interessante guardarmi? Non potresti smetterla di aver quell’aria di prendermi in giro? – In giro? Sei matto? Ti fan “girare” tutto il giorno, povero diavolo, e vuoi che venga a farti girare qualche cosa anche io? Ohibò! Ho troppo cuore, fratello mio finito male. Ti guardo, ti guardo così, con curiosità, con affetto. Guardo quello che fai. Ti studio. Cerco di capirti. Non riesco a capirti. – Che cosa vorresti capire? – Nulla. So io. Vedo che lavori. Che fai? – Un film. – Non è il primo. – Non sarà l’ultimo. – Non ha l’aria di divertirti molto, il tuo film. – Divertirà forse il pubblico. – Non era così per le tue commedie. Divertivano te, quando le scrivevi. – Ma non sempre divertivano il pubblico quando le rappresentavano. Come vedi, c’è compensazione. – Non far dello spirito. Non ti dare un’aria blasée. Non ci crede nessuno. Io sono venuto qui a caso, stamattina. Son venuto perché ho visto fuori, nelle vetrine dei librai, il preannunzio di un tuo libro, un tuo romanzo nuovo: il Damo viennese, mi pare. – Sì, un vecchio libro, scritto due anni fa, per un grande giornale siciliano, e ora in piena guerra uscito in volume per cercare la benevolenza di qualche lettore là dove se ne trovano ancora. – Già… mi rammento. Due anni fa… Il libro, oggi, lo pubblichi tu, ma l’ho scritto io, due anni fa. Due anni fa tu non c’eri, perché non c’era ancora, per te, il cinematografo. Su quella sedia, a questa scrivania, due anni fa, c’ero io che scrivevo romanzi, io che facevo commedie. Un bel giorno sei venuto tu e mi hai mandato via. Ho creduto si trattasse, con La signorina Ciclone, di pochi giorni: il tempo di scrivere quel tuo primo film. Ho creduto, con Il Re, le Torri, gli Alfieri, che si trattasse di poche settimane: il tempo di guidare la messa in scena di quel tuo secondo film. Ora invece è più di un anno che sono fuori della porta e vedo che non hai nessuna intenzione di riaprirla. Vedo che pubblichi, tu “cinematografaro”, un libro, un romanzo, che avevo scritto io, io scrittore, io homme de lettres. Durerà ancora un pezzo questa storia? Dobbiamo, insomma, separarci definitivamente, considerandoci morti l’uno per l’altro, darci sul serio un addio definitivo? – Definitivo? Perché? Non esistono addii definitivi se non quelli che si danno
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Conversando con l’altro me stesso
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senza saperlo. Lascia fare al tempo. Vedremo. Chi sa? Un giorno, forse, potrai tornare tu, mio caro altro me stesso, a questa scrivania, potrai tornare tu al mio posto, riprendere tu questa penna per farne un uso migliore… Migliore, se non per la gente, per te stesso, almeno, per tua soddisfazione personale: la sola soddisfazione, vecchio mio, che le penne dei letterati possano dare. Per ora non interrogarmi: non so che dirti. Vado di film in film, legato ai miei contratti, così come un forzato va di giorno in giorno, legato alla sua catena. – Se ben ricordi Shakespeare dice… – Shakespeare? Chi è? Ah, scusa… Che distratto! Perdonami. Che vuoi? Di Shakespeare non sentivo più parlare da un pezzo. Ora non si parla che della Bertini. – Caro mio tu diventi matto… Tu baratti Shakespeare con la Bertini… – Non baratto, Barattolo1. – E fai anche delle freddure da raffreddare un povero diavolo per un anno intero. No, caro. Io ho fatto bene a venire. Ti debbo scuotere dal tuo letargo. In certi casi, quando ci si lascia vincere da un ambiente, quando ci si lascia sopraffare dalla fortuna, anche la fortuna può cambiar nome. In una sua lettera, che avrai certamente letta, Madame de Sévigné dice… – Madame de Sévigné e le sue lettere? Ma da quale mondo preistorico tu mi ritorni, vecchio camerata? Si leggono forse ancora, oggi, le lettere di Madame de Sévigné quando ci sono quelle di Diana Karenne? A questo punto, indignato, l’altro me stesso si leva, mi fulmina con un’occhiata sprezzante, dà un gran pugno sul tavolino, afferra le cartelle del mio film e le manda su, verso il soffitto, a fare un gran vol plané d’aeroplani candidi. Poi mi scaraventa addosso una dozzina di aggettivi qualificativi della peggiore qualità. Poi, quando s’è sfogato, vedendomi passare sotto le sue furie, torna a sedere, mi riguarda sorridendo con disprezzo e riprende a parlare quasi tranquillamente. – Insomma, ragioniamo. Ti par mai possibile che io debba scomparire per far piacere a te? Dicono che fai quattrini… Tanto meglio!… Già io non ci credo: «Denari e santità metà della metà». A sentirli diventi milionario. – Milionario, sì, perché ho un milione… di seccature. – E allora? Perché ti ci diverti? Perché hai messo me alla porta? Perché non dovremmo almeno intenderci, metterci d’accordo? Non possiamo lavorare tutti e due con questa penna, io ai miei libri, tu ai tuoi filmi? Nella stessa casa, sotto lo stesso tetto non ci sta forse il cuoco che cucina e la signora che suona Chopin? – Nella stessa casa, sì. Ma non sono le stesse persone. Ma del resto, chi sa? Non voglio scoraggiarti. Convivere, sarà forse un giorno possibile. Ma tu non puoi sapere… non puoi sapere che ingranaggio è mai il cinematografo quando t’ha preso una volta nei suoi denti… Forse un giorno – chi sa? – mi stancherò, vorrò cambiare, sarò io stesso che ti verrò a chiamare, che ti farò rientrar qua dentro, che ti ri1
Allude al produttore cinematografico Giuseppe Barattolo (1882-1949), fondatore nel 1913 della Caesar Film. La Bertini sopra ricordata è naturalmente la “diva” Francesca Bertini (1892-1985); e attrice, ma anche sceneggiatrice, regista e produttrice cinematografica è Diana Karenne (1888-1940), ricordata più avanti.
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Lucio d’Ambra
metterò la penna in mano, ti preparerò la carta su questa scrivania e ti farò riscrivere una volta di più nel bel mezzo di un foglio bianco tutto pieno di speranze e di illusioni: atto primo, scena prima. Ma – vedi? – bisogna prima, per fare questo sforzo contro la routine dell’abitudine, bisogna che mi persuada della sua necessità, della sua utilità. Oggi come oggi ne dubito. Credi proprio necessario che al mondo ci sia un romanzo di più? E credi proprio che, per l’onore di uno scrittore, sia veramente più raccomandabile una commedia mediocre che un film felice? Sei forse persuaso di avere scritto dei capolavori e che, quando ti ho messo fuori di questa camera per fare i miei filmi, i capolavori si sprechino come le cannonate sparate contro il periscopio di un sottomarino? O credi tu, sul serio, che la gente, quando vede un mio film, esca dal teatro lacrimando e sospirando: «Peccato, gran peccato che il suo sosia letterato non abbia scritto un romanzo di più…». – Io non so tutto questo. Io so che rinchiudersi così esclusivamente nel tuo mondo tutto di pellicole è, per lo meno, una… pellicoleria! Io so che un artista, o sedicente artista, dovrebbe sentir la nostalgia del suo lavoro d’arte ora che fa quasi un mestiere, la nostalgia d’esser poeta a furia di vivere in mezzo a tanta prosa… – Arte? Mestiere? Poesia? Prosa? Non per difendermi, ma per la verità delle cose, per correggere il tuo errore, credi tu sul serio che cinematografo e mestiere siano sinonimi, che questa serie di visioni sien tutte prosa – e che prosa! – e che sentimento, umanità di cose e di persone, arte e poesia, debbano aprioristicamente essere esclusi dalle possibilità estetiche del film? No, caro, è ora di dirlo chiaro a te e a tanti altri, superuomini fuori moda, che la pensano come te. In questi metri di pellicola c’è una possibilità d’arte e di poesia assai superiore a quanto si creda. Credi tu che la poesia, la più alta e pura poesia religiosa, quella che si esprime nelle immagini e nei cantici sia molto lontano da un Christus? Credi tu che ci sia meno pensiero, meno umanità meno lirismo in Intolerance che nei tre quinti dei cosiddetti capolavori del teatro corrente? Credi che solo perché non ha la parola a sua disposizione l’autore di un film faccia qualche cosa di molto meno interessante di quello che fa un mediocre romanziere con le centomila parole, per quattro quinti inutili, del suo ennesimo romanzo? – La parola, mio caro… – La parola! Quante mai parole consumate per condannare – con la famosa mancanza di parola – il cinematografo ad escludere le sue possibilità d’arte. Ha forse la parola la pittura? Ha forse la parola lo scultore d’un marmo o il compositore d’una sinfonia? E potete forse escludere che con una serie di cento disegni, tutti composti e intesi a proporre e a svolgere un tema e un argomento, un pittore può comporre, senza parole, un poema? Tutto il vostro errore è qui: sempre nel confondere il cinematografo col teatro, l’arte letteraria con la cinematografia. E, per alzar le spalle sul cinematografo, tirate fuori il solito argomento: manca la parola. Ma accorgetevi invece, finalmente, di quello che ancora manca al cinematografo: accorgetevi che al cinematografo manca, ancora, il colore. Non il colore da coloritura leccata e carina da scatola di fiammiferi ben fatta o da cartolina di cattivo gusto che alcune case hanno tentato, ma il colore così come noi, metten-
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Conversando con l’altro me stesso
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do in scena, lo vediamo nelle sue infinite armonie, così come noi, ahimè!, non lo ritroviamo più nel bianco e nero della fotografia cinematografica. Quanta poesia… nel quadro che componemmo con tanto amore, ci cade in frantumi, in proiezione, col colore perduto. Questa, il colore, sarà forse la conquista di domani e allora vedrete che cosa potrà, in mano agli artisti, l’arte cinematografica. Per ora, siamo ai primi passi sulla via dell’arte. Usciamo appena dal caos dei primordi. E che vuoi? Io trovo che c’è qualche interesse d’arte, per un artista, a seguire, ad accompagnare, ad aiutare, per quel poco che io posso, questa evoluzione. Il sussiego dei letterati contro il cinematografo mi sembra fuori luogo. Credo che uno spirito letterario possa, anche in questi poemi senza parole, trovare una vena di poesia, un sogno d’arte, un tentativo di bellezza. Il vostro disprezzo per il cinematografo, care vestali della letteratura, mandarini del supremo bottone, è fatto d’ignoranza. Il vostro giudizio s’è fermato al filmaccio d’avventure grossolane che vi capitò di vedere tre anni fa, in una città qualunque, una sera che dovevate aspettare un treno. Sì, caro. Scriverò ancora. Ti cederò questa tavola di tanto in tanto. Farai ancora, dandoti delle arie di fare gran cosa, piccoli romanzi e piccole commedie. Ma io, intanto, senza vergogna, solo con un po’ di noia per le troppe cure materiali che il cinematografo impone, continuerò, se non ti dispiace, caro l’altro me stesso, a scrivere filmi, a metterli in iscena, persuaso di non tradire affatto l’arte, di non rinnegare nessun mio sogno, ma di servire invece l’arte in un’altra sua forma, d’inseguire su questo sottil nastro di pellicola che gira un altro sogno che potrà essere, forse, un giorno, bello come il tuo. Non lo vedi questo avvenire? – Io vedo… io vedo una sola cosa! Io vedo che non hai dignità. – E io vedo che non ho più la pazienza d’ascoltarti e che sarebbe finalmente ora, caro l’altro me stesso, che tu ti levassi dai piedi! E il mio interlocutore s’è levato dai piedi, e s’è dileguato come dileguano le ombre della fantasticheria: nella nuvola azzurra d’un po’ di fumo di sigaretta. E, poiché il telefono da mezz’ora taceva, mi son rimesso a scrivere tranquillamente, e un po’ più lietamente, le ultime pagine di La valse bleue.
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CINEMA E TEATRO
luciano zuccoli
Cinematografo e teatro*
Sabatino Lopez, direttore della Società italiana degli autori, ha affacciato in diverse interviste un problema economico ed artistico di molta importanza: l’avvenire del cinematografo rispetto all’avvenire del teatro di prosa. Come chi per la sua posizione privilegiata può vedere le cose assai prima che non le veda il pubblico e che non le rilevino i profani, Sabatino Lopez si mostra assai preoccupato dal problema. Fin dove arriverà la concorrenza del cinematografo al teatro di prosa? Quali danni sono per derivarne, sia dal lato economico, sia dal lato artistico, alla produzione teatrale? Quale influenza eserciterà a lungo andare il cinematografo sul pubblico, sugli autori e sugli artisti? Chiunque studii la questione con animo imparziale non può non essere colpito da alcuni fatti significativi, i quali dimostrano la marcia rapidissima compiuta dal cinematografo e la straordinaria importanza del suo avvenire economico. Dalle modeste rappresentazioni a prezzi popolari siamo ormai giunti all’affitto di grandi teatri, il Costanzi di Roma, il Dal Verme di Milano, il Paganini di Genova per rappresentazioni cinematografiche, con prezzi uguali a quelli che una buona compagnia di prosa deve esigere per i propri spettacoli. A simili rappresentazioni il pubblico accorre con tanto piacere, che a Genova, su undici sere di spettacolo, per otto di seguito tutti i posti furon venduti, molta folla fu rimandata, e, contrasto ironico, si rovesciò, in mancanza di meglio, nei teatri di prosa, divenuti così un premio di consolazione o un ambiente di rifiuto per il pubblico che non aveva trovato posto al cinematografo. Altri fatti notevoli. Un impresario fa un contratto con compagnie drammatiche per un dato numero di rappresentazioni in luoghi di cura: ma all’ultimo, l’impresario trova convenienza nel rescindere il contratto e nel pagar le penali alle *
Luciano Zuccoli, Cinematografo e teatro, in «Il Marzocco», xviii, 30, 27 luglio 1913, p. 3.
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luciano zuccoli
compagnie drammatiche per sostituirle col cinematografo; il che vuol dire che questo gli darà tanto da ricavare un buon profitto, nonostante le penali pagate! La Société des gens des lettres a Parigi ha oggi quasi esclusivamente da occuparsi delle innumerevoli domande per riduzione di lavori drammatici a spettacoli cinematografici. Infine, a mettere in iscena, se così può dirsi, tali spettacoli, gli industriali della cinematografia chiamano, con ricche paghe, gli artisti più in voga, i quali sono costretti, – e come non sarebbero, davanti all’eloquenza delle cifre che loro si offrono? – a far la concorrenza alla loro arte medesima, che è arte della parola, e al loro medesimo teatro. Indubbiamente i fatti suaccennati hanno un carattere tale, che bene spiegano le preoccupazioni d’un direttore di Società letteraria come il Lopez: il quale rappresenta non soltanto gli interessi morali e artistici, ma pure gli interessi economici di autori e di comici. Quando si pensi che a una nostra grande artista è stata fatta l’offerta di uno chèque in bianco, dalle centomila lire in su, perché agisca in qualche produzione cinematografica, si ha l’idea adeguata di ciò che può, di ciò che vuole… e di ciò che guadagna la nuova industria; e sopra tutto si ha l’idea che, dal lato economico, la concorrenza del teatro di prosa al cinematografo sia ormai impossibile. Nessuno potrà impedire che a fianco d’un teatro di prosa, e negli stessi giorni e con gli stessi prezzi di rappresentazione, venga aperto un sontuoso cinematografo, e che il pubblico si getti qua piuttosto che là… Nessuno può impedire a un artista che guadagna dieci lire il giorno in una compagnia drammatica, di guadagnar mille o millecinquecento lire il mese per rappresentare scene cinematografiche… Nessuno può impedire a un romanziere in voga di triplicare o quadruplicare le sue rendite, preparando soggetti per parecchie migliaia di metri annui di pellicole… Migliaia di metri!… Mi sia permessa una parentesi… Alcuni delicati e raffinati spiriti mostrano un certo disgusto allorché pensano che un dato romanzo o un dato dramma per cinematografo viene annunziato a metri… Trovano in questo l’indice del mestiere… E qui, veramente, hanno torto. Non si tratta che di parole: i metri rappresentano la misura, quella misura che tradizionalmente e tecnicamente esiste in qualunque forma d’arte. All’estero gli articoli delle riviste sono misurati per migliaia di parole, e si ordinano novelle e romanzi di diecimila, ventimila, cinquantamila parole. Da noi si parla d’una novella di tre colonne, d’un romanzo di quattrocento pagine, d’una commedia da quarantacinque minuti per atto… I millecinquecento metri di film non dicono dunque nulla di indecoroso nel campo dell’arte, e lo stomaco più sensibile può ingoiare la nuova unità di misura. Il cinematografo ha già sufficienti ragioni per inquietar gli artisti puri, senza bisogno di cercare cavilli di espressione. La nostra sensibilità è qualche volta sufficientemente offesa da una produzione cinematografica, senza bisogno ch’ella si offenda anche perché la produzione è misurata a metri. Dicevamo dunque che dal lato economico, la concorrenza del cinematografo
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Cinematografo e teatro
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al teatro mi sembra res judicata: non c’è nulla da fare; e lo stesso direttore della Società italiana degli autori mi è parso, in un recente colloquio, persuaso che la concorrenza insostenibile andrà accentuandosi… A poco a poco i capocomici vedranno passare sulle pellicole tutti i loro artisti e, quel che è peggio, sentiranno nella stipulazione dei contratti, il peso delle offerte che sono state fatte a quegli artisti dal cinematografo. Ma il problema ha un’altra faccia, per noi di grande rilievo: i diritti dell’arte. E se per il lato economico non abbiamo che da inchinarci, perché sul mercato vince fatalmente chi più può, chi più osa, e alla fin fine il cinematografo ha il diritto, pagando profumatamente, di assicurare la propria vita e il proprio avvenire senza tener conto della vita e dell’avvenire altrui, – per il lato artistico molto v’è da dire. Anzi, molto v’è da fare, anzi è da fare tutto. Fra i vari fenomeni che ho accennato in principio di questo articolo, uno sopra tutto è, nei riguardi dell’arte, deplorevole e pernicioso. E cioè, mi sembra un grave errore da parte della società per l’industria cinematografica, e un grave danno per l’arte, la incessante richiesta presso la Società degli autori, di diritti di riduzione a spettacolo cinematografico di opere già esistenti nella letteratura: drammi, commedie e romanzi. Il cinematografo ha l’obbligo d’una produzione propria: e sembra che finora gli industriali del cinematografo non vogliano capirla. I guadagni effettuati devono imporre, se non per legge scritta, almeno per legge di convenienza, un maggiore rispetto a quelle forme d’arte che hanno già trovato la loro espressione sul teatro o nel libro. Questo ci risparmierà l’offesa di vedere ridotto per cinematografo, con vilipendio dei diritti del genio, l’Amleto ad esempio, la tragedia dell’anima per eccellenza, o I Promessi Sposi; opere che, a non voler dire altro, essendo ormai di pubblico dominio, non costano nemmeno un soldo ai loro… condensatori, e arrecano un profitto enorme sì, ma, nel campo della coscienza d’arte, illecito e condannabile. Il pubblico colto vuole sapere che almeno i capolavori universalmente riconosciuti sono al riparo dai danni della speculazione, qualunque essa sia; come vuole sapere che al riparo dai danni del tempo e degli uomini sono certi monumenti di grande valore storico e artistico, che a tal fine appunto lo Stato dichiara monumenti nazionali. Non mi pare assurda la speranza d’una legge che provveda a tutelare i capolavori letterari alla stessa stregua di tutti gli altri, mettendo almeno fuori dalla concorrenza cinematografica le opere della letteratura mondiale su cui non vigilano e non possono più vigilare gli occhi degli autori o dei loro eredi… Ci verrà così risparmiato lo sconcio di vedere Amleto, Otello e l’Innominato, tre anime immortali, ridotti a funzioni mimiche e a molte smorfie. Messe dunque al sicuro le opere letterarie di dominio pubblico, restano le altre, per le quali siano sempre vivi i diritti degli autori o dei loro eredi. E qui nessuna legge può impedire che un drammaturgo riduca il proprio dramma per le pellicole d’un cinematografo, e che altrettanto faccia il romanziere pel romanzo e il novelliere per la novella…
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luciano zuccoli
Ma si è che, dove non arriva la legge, dovrebbero arrivare il buon gusto e il buon senso. Non vedo la convenienza della riduzione, – intendo la convenienza artistica, perché non voglio supporre che l’industria del cinematografo sia interamente e unicamente fomentata dal principio del grosso e sicuro guadagno, – non vedo la convenienza artistica della riduzione d’opera già nota come libro o come dramma, quando il cinematografo può pagarsi il lusso d’una produzione propria. Esso ha sul teatro una superiorità che, stranamente, gli stessi industriali non hanno saputo sfruttare: esso può darci le grandi scene all’aperto, può mostrarci i magnifici quadri della natura più varia, può farci largamente respirare in confronto della piccola scena ristretta d’un teatro di prosa… Perché non si sviluppa abbastanza questo privilegio invidiabile del cinematografo? Perché sopra un magnifico sfondo naturale non si eseguiscono drammi e commedie appositi? Perché, chiamandoci al cinematografo, l’industriale ci mostra i soliti salottini, le solite stanzette, qualche volta inferiori per dignità e gusto di addobbo a ciò che vediamo tutte le sere nei teatri di prosa? Perché invece di allietarci con vedute gaie, ci si intristisce coi miserabili interni di case borghesi? Il cinematografo diventa così una meschina copia del teatro, pel quale oggi le compagnie hanno certo più cure che per l’addietro, in quanto si riferisce agli addobbi… E fin che si riducano i drammi e le commedie in voga, si sarà costretti a questa meschinità, perché nessun dramma e nessuna commedia oggi si rappresentano all’aperto. È inconcepibile che non si sia ancora afferrata questa grande qualità del cinematografo: la possibilità di darci il dramma imaginario sopra uno sfondo vero; e che non se ne sia tratto un tale vantaggio, che non se sia formata una tale caratteristica, da rendere la rappresentazione tutta speciale, tutta diversa da quella che vediamo a teatro… Chi potrebbe più parlare di concorrenza? Il cinematografo avrebbe in sé stesso, nella qualità medesima dei suoi spettacoli, la ragione del suo trionfo: ci darebbe una più grande illusione di vita che non il teatro; avrebbe una produzione artistica sua, da aggiungere a quella già nota e sfruttata, degli spettacoli dal vero; e darebbe impulso a una forma nuova di rappresentazioni. Sarebbe, infine, una impresa parallela all’impresa dei teatri, con una sua letteratura, con un suo carattere, con un suo perché; e avrebbe anche un più largo pubblico, violando meno di frequente le leggi del buon senso e del buon gusto. La concorrenza al teatro non sarebbe diminuita con questo e per questo; ma non potrebbe dar più luogo a discussioni, se non di carattere economico; discussioni le quali non riguardano l’arte. Oggi, diciamolo con franchezza, la popolarità del cinematografo è dovuta a mera fortuna: piace perché piace; piace precisamente per le sue deficienze piuttosto che per le sue qualità; e un buongustaio si chiede con maraviglia la ragione per la quale un dramma ben rappresentato da valenti attori sopra una scena di prosa con ricco allestimento scenico, incontri meno favore che lo stesso dramma rappresentato da mimi con allestimento scenico ristretto e qualche volta meschino e con lacune stridenti come quegli intermezzi in cui la scena cinematografica
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Cinematografo e teatro
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è occupata da un biglietto, da una lettera, la quale spiega in bella calligrafia commerciale lo stato d’animo o il passato o le intenzioni d’un personaggio!… La psicologia soppiantata dal documento fotografico inverosimile!… Per l’arte del cinematografo c’è ancor tutto da fare, ripeto, perché la sua precipua caratteristica, la libertà di luogo, non è stata ancora sufficientemente sfruttata. Si tratterà sempre, intendiamoci, d’un’arte inferiore, da non mettersi a confronto con la vera e propria letteratura, con la vera e propria drammatica; ma al confronto delle miserabili cose che generalmente si rappresentano oggi nei cinematografi, sarà già arte, la quale vorrà meno disinvoltura che per una irriverente riduzione di qualche capolavoro del teatro o del romanzo. Fino ad oggi, coloro i quali, come Sabatino Lopez direttore della Società italiana degli autori, non possono frenare una espressione d’amarezza nel rilevare la formidabile concorrenza del cinematografo al teatro, non hanno torto; perché per teatro intendiamo ancora arte, e per cinematografo intendiamo semplicemente industria. E non è giusto, non è tollerabile che l’industria danneggi l’arte. Bisogna che la prima si differenzi dalla seconda, o se vuol vantare una concorrenza artistica, bisogna che alla seconda non manchino interamente i caratteri della prima. E per ciò, nel campo del cinematografo, tutto è da fare e da rifare…
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Sebastiano Arturo Luciani
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Il cinematografo e l’arte*
Luciano Zuccoli in uno degli ultimi numeri del Marzocco si preoccupa della concorrenza sempre crescente che il cinematografo fa al teatro di prosa. «Se per il lato economico – egli scrive – non abbiamo che da inchinarci, perché nel mercato vince chi più può, chi più osa… per il lato artistico c’è molto da dire». E ricordando, e lamentando giustamente le riduzioni a spettacoli cinematografici di capolavori del teatro e della letteratura, invoca una legge che li tuteli, a somiglianza di quella che è in vigore per i monumenti di grande valore storico e artistico. Questa legge purtroppo nessuno la farà mai. E a noi non resta altra speranza che un affinamento della tecnica cinematografica faccia sparire le meschine e grottesche copie delle rappresentazioni teatrali. Perché il cinematografo può benissimo divenire una forma di arte originale. Luciano Zuccoli pensa che se esso diventerà tale, sarà sempre «un’arte inferiore, da non mettersi a confronto con la vera e propria letteratura, con la vera e propria drammatica…». Io mi permetto di mettere in dubbio questa affermazione. Perché il cinematografo dovrà costituire un’arte inferiore, e non potrà invece prendere posto accanto al teatro? Ora non costituisce certo una forma di arte. È semplicemente un genere di spettacolo. Ed è il genere di spettacolo caratteristico del nostro tempo. Il pubblico che frequenta le sale del cinematografo non è infatti composto soltanto di gente che non può permettersi il lusso di andare spesso a teatro (il fattore economico non è quindi ciò che favorisce lo sviluppo del cinematografo), né solo di uomini di affari o di professionisti, i quali, occupati intensamente tutto il giorno, preferiscono ad una rappresentazione drammatica uno spettacolo leggero per cui non sia necessaria una eccessiva attenzione; ma soprattutto di gente che preferisce semplicemente il cinematografo al teatro, e trova maggior diletto a vedere una film che una commedia o un dramma. È proprio così. E questa gente se non è la più raffinata non è neppure la più grossolana. Rappresenta la media intellettuale, quella che costituisce il pubblico, il gran pubblico. Bisogna convenire quindi che il cinematografo ha un così grande e crescente successo perché soddisfa un bisogno dello spirito moderno: quello della rapidità. Il tipo di rivista Je sais tout non deve il suo successo al fatto che soddisfa nel campo della cultura questo bisogno dell’uomo moderno? *
Sebastiano Arturo Luciani, Il cinematografo e l’arte, in «Il Marzocco», xviii, 32, 10 agosto 1913, p. 6.
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Il cinematografo e l’arte
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Una categoria di spettacoli cinematografici è costituita da quelli in cui vengono – per dir così – condensati i capolavori del teatro. Essi hanno una strana somiglianza con le pantomime in voga presso i romani della decadenza, che rappresentavano anch’esse intere tragedie di Sofocle e di Euripide, e sono in fondo un mezzo di cultura per la gente che non ha tempo o modo di leggere o di andare a teatro. Ma una categoria più importante è quella delle azioni composte espressamente per il cinematografo. In queste è in germe la nuova arte. La tecnica è ancora rudimentale. I quadri di cui è composta l’azione sono ancora rilegati da cartellini, i quali commentano o descrivono le scene essenziali, e hanno così la stessa funzione che ha lo «storico» nei racconti evangelici. Ma non è detto che questa tecnica rudimentale non si possa perfezionare, come si è perfezionata quella del teatro. Si aspetta ancora il poeta. Perché se il cinematografo è inferiore al teatro perché privo dell’elemento verbale, è superiore d’altra parte, non tanto perché può rappresentare scene naturali, quanto per la sconfinata libertà di tempo e di luogo di cui gode. Esso può rappresentare agevolmente la materia del più libero e ardito poema drammatico. E la facilità con cui si possono ottenere effetti di luci a trasformazioni prodigiose, fa sì che esso possa rappresentare in ispecial modo argomenti fiabeschi o fantastici, irrealizzabili su qualsiasi palcoscenico per quanto moderno. Finalmente la successione rapida di quadri differenti fa sì che esso possa realizzare una sorta di impressionismo scenico. Ma, ripeto, si aspetta ancora il poeta che consacri questo nuovo genere. Ho ricordato a proposito del cinematografo la pantomima. Vi è però fra le due forme una differenza sostanziale. Nella pantomima l’attore cerca di sostituire la parola col gesto espressivo; nel cinematografo il gesto non sostituisce, ma accompagna naturalmente la parola. Questa però non si sente; e questo silenzio, questo vuoto che vuol essere imperiosamente colmato, è ciò che genera negli spettacoli cinematografici assai più che nelle pantomime la necessità della musica, e che fa tollerare in essi la più detestabile. La musica insomma nel cinematografo, non è un elemento aggiunto, come nel dramma parlato, ma un elemento essenziale, che integra la visione. E questo accoppiamento può essere fecondo di effetti insospettati. Quando il musicista, vincendo il pregiudizio di far cosa indegna, commenterà un’azione composta da un poeta (si è fatto una volta a proposito di questo il nome di G. D’Annunzio); o meglio, quando il poeta interpreterà e darà forma visibile ad un poema sinfonico, a un seguito di pezzi, noi avremo un genere di rappresentazione affatto moderno, che potrà prendere posto, e degnamente, accanto al teatro.
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Oberon [Umberto Bozzini]
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Cinematografo e scena di prosa*
A Parigi, la Société des Auteurs, convocata in seduta solenne, sotto la presidenza effettiva di R. de Flers, ed onoraria di Hervieu e Decourcelle, ha deliberato misure de salut général (caveant consules!…) per la difesa «della industria teatrale, o meglio (sic!) dell’arte drammatica», contro la cinematografia che, fra le tante sue colpe, commette anche quella di guadagnare milioni!… Leggendo questa notizia, ripenso, poiché siamo in tema di pantomime, a due quadri del ballo Excelsior: quello del Fulton, che, appena sbarcato dal primo battello a vapore, viene accoppato dagli oscurantisti navigatori a vela ed a remo, e l’altro dello Stephenson, l’inventore della locomotiva, che lotta disperatamente contro i postiglioni armati di scudiscio, e danzanti minacciosi al tintinnio degli speroni. Il paragone non è forse molto riverente per i convenuti a l’illustre assemblea; ma la loro batracomiomachia contro il novissimo «nemico dell’arte drammatica» rassomiglia innegabilmente alle escandescenze dei battellieri e dei postiglioni suddetti; e se una seduta della Société des Auteurs non è pittoresca tanto da ispirare un coreografo dell’avvenire, certo l’argomento del memorando dibattito sembra rubato ad una di quelle farse che hanno reso R. de Flers celebre, se non per anco immortale. Invece, in Francia, prendono la cosa sul serio; ed un grande giornale parigino – l’Excelsior, a farlo apposta – dedica una minuziosa inchiesta, che è pure una «importantissima raccolta di documenti» alla soluzione del problema… futuristico: il cinematografo ucciderà il teatro (di prosa, è sottinteso)? Apriamo una parentesi: concessa al cinematografo una simile capacità a delinquere, perché poi dovrebbe ammazzare giusto il teatro di prosa, e non, mettiamo, il melodramma o l’operetta? Perché, si risponderà, nel melodramma si ascolta la musica, e nell’operetta si esibiscono donnine procaci e seminude; ma, osserverei io, se nel melodramma si ascolta la musica, sulla scena di prosa risuona la parola, il verbo che, secondo Platone, è l’attributo stesso della Divinità; senza dire che, quando al cinematografo sarà unito il grammofono, lo spettacolo, stonature a parte, non differirà gran che da quello d’opera, e tra le Vedove Allegre e le Eve dell’operetta, e le Cleopatre e le Baccanti del cinematografo, la differenza è irrilevante, se non interviene, giudice, il tatto… Chiudiamo la parentesi. *
Oberon [Umberto Bozzini], Cinematografo e scena di prosa, in «Giornale d’Italia», 26 novembre 1913, p. 3.
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Cinematografo e scena di prosa
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All’inchiesta del giornale parigino hanno risposto parecchi dell’Olimpo letterario e teatrale francese; ed i responsi meritano, in verità, di essere tramandati alla storia. P. Margueritte non è contrario al cinematografo che «potrebbe esercitare un’azione benefica specialmente nelle colonie, dove le scatole di conserva rimpiazzano il latte e la carne fresca»! E. See ritiene che se gl’impresarii avranno il coraggio di ridurre almeno la metà i prezzi dei loro teatri, il cinematografo sarà enfoncé, e, per conseguenza, l’arte drammatica sarà salva; e finalmente A. Capus, dopo averci informati come la riduzione cinematografica ha piuttosto giovato che nociuto ai suoi lavori, così conclude: «C’è un abisso fra la cinematografia e il teatro, e questo abisso è la letteratura (sic!). Più il teatro dimanderà alla letteratura sola le armi per lottare contro il suo rivale, più l’abisso sarà profondo. Ma guai il giorno in cui l’arte, col pretesto della lotta, prendesse a prestito dalla cinematografia le sue ricette ed i suoi consigli; quel giorno il suo avvilimento sarebbe assoluto». Un lettore ingenuo potrebbe credere ad una burla; o dovrebbe domandarsi, trasognato, come in un paese d’alta coltura, rinnovata da fresche e limpide correnti di pensiero, in un paese che ha dato alla filosofia contemporanea i Bergson ed i Boutroux, sia possibile, da parte di letterati e di artisti venuti in fama, una così banale confusione, e quasi dicevo, contaminazione di valori spirituali e mercantili; dovrebbe il lettore ingenuo domandarsi se proprio ai nordamericani soltanto allude Anatole France, là dove compatisce i novissimi barbari che «pretendono supplire l’Eneide con gli ascensori e i termosifoni». Perché, infatti, quale rapporto può mai intercedere fra una invenzione pratica o meccanica che dir si voglia, si chiami essa lanterna magica, cinematografo o grammofono, e l’Arte che è forma od attività dello spirito, e perciò solo in relazione possibile con le altre forme od attività dello spirito? E come si può ragionare o dubitare della uccisione, sia pure metaforica, dell’Arte drammatica, se questa è una distinzione pratica, una classificazione comoda, ma arbitraria, dell’Arte che è una e indivisibile, si chiamino le sue manifestazioni dramma, quadro, sinfonia, o statua? Se una qualsiasi invenzione umana, e, più in generale, un qualsiasi fatto contingente potesse dunque «uccidere» l’Arte «drammatica», dovrebbe, di conseguenza, poter «uccidere» l’Arte in generale, ossia sopprimere una attività spirituale, e in quanto tale, immanente, necessaria ed eterna. E se fosse possibile sopprimere una delle attività o forme dello spirito, perché non anche tutte le altre? Se il cinematografo può rendere inutile il Re Lear, e la fotografia sostituire la Trasfigurazione o l’Assunta; a quando la macchina sapiente che tolga all’uomo il disturbo di pensare la storia, o di meditare gli eterni e sempre rinnovati problemi della filosofia? A quando il congegno d’orologeria che ci esima dall’attività pratica, dall’azione, e si sostituisca alla volontà, e quindi alla vita? L’argomentazione non è forse peregrina, ma è certo necessaria, quando si pensi che la concezione positivistica, oramai definitivamente superata nel campo della scienza, si abbarbica tenacemente, da quella mala pianta ch’essa è, alle vecchie abitudini mentali, alle pregresse deformazioni della coscienza dei più.
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Oberon [Umberto Bozzini]
Così, per esempio, intorno ai principî morali della nuova estetica idealistica, siamo, o sembriamo, tutti, presso a poco, d’accordo; ma quando dall’affermazione teorica siamo costretti a passare alla applicazione concreta, non appena quei principî dovrebbero, bene assimilati, trasformarsi in sangue vivo che circoli a nutrire ogni cellula dell’organismo (mi si conceda la metafora positivistica), ecco, riappare il vecchio Adamo; la resistente patina positivista occhieggia sotto la brillante ma leggiera vernice spiritualista, e si riparla dei generi artistici o letterarî non come «d’ombre vane fuor che ne lo aspetto» ma come d’entità reali e concrete, si definisce la letteratura «un abisso scavato tra il cinematografo e l’Arte drammatica», si discute dell’Arte come di un valore contingente, di un fatto qualunque, che può accadere e non accadere, o magari esser cancellato dalla storia dello spirito, per mezzo di una pellicola cinematografica! Si ripete cioè, in altro campo, l’errore di coloro che, anche oggi, dal peso e dalle circonvoluzioni di un cervello pretendono dedurre la Divina Commedia, o la Critica della ragion pura. La verità è che gli illustri soci della Société des Auteurs di tutt’altra faccenda si preoccupavano in quella tornata; e per convincersene, basta rileggere quell’ordine del giorno approvato quasi senza discussione, che sanziona un nuovo statuto cinematografico, con la percentuale da pagarsi alla Società degli Autori, il metodo di riscossione, i permessi di rappresentazione, le multe, ecc. In realtà, gli autori francesi provvedono alla tutela dei loro interessi economici; e fin qui, hanno, in un certo senso, e dentro certi limiti, ragione. Il loro torto comincia quando pretendono di trasfigurare questa legittima difesa di interessi economici in una superflua palinodia delle «ragioni supreme» dell’Arte, che di simili difese e di tali difensori non sente, in verità, nessunissimo bisogno; quando parlano di «misure di salute generale a salvaguardia dell’industria teatrale, o meglio dell’arte drammatica», tentando così di confondere, con un vano flatus voci, due categorie di valori, che restano inesorabilmente separate e distinte; quando, infine, profetizzano «lo avvilimento assoluto» dell’Arte, se essa prendesse a prestito, per necessità di concorrenza (come due fabbriche rivali di conserva di pomidori) le ricette e i metodi della cinematografia, quasi che simili espedienti di guastamestieri potessero nuocere oltre che a costoro ed ai loro pasticci, anche all’Arte, la quale, come la Fortuna dantesca, «ciò non ode», ma con l’altre prime creature, lieta, volve sua spera, e beata si gode.
Conseguenza di tale volontaria, e diciamolo pure, grottesca contaminazione, può essere invece il dubbio indotto nelle persone di buona fede circa la legittimità di interessi economici, che, a buon diritto, vanno difesi. Ma entro certi limiti, ripeto; poiché se è giusto che l’artista, come il commerciante, come l’agricoltore, ricavi un onesto guadagno dal proprio lavoro, d’altra
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Cinematografo e scena di prosa
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parte, il fine economico essenziale, anzi unico dell’impresa commerciale e dell’azienda agricola, non può e non deve essere che secondario, ed in un certo senso accidentale per l’attività artistica; e sono quindi pericolosi forse i trusts, troppo industrialmente organizzati, per lo smercio, o la messa in valore, come si dice, delle opere d’arte. Pericolosi, non per l’Arte, beninteso, ma per la mentalità degli artisti, che dalle condizioni del mercato librario o teatrale (per non parlare che di Poesia, o se così piace, di letteratura) sono ineluttabilmente trascinati, con danno evidente della sincerità, a preoccuparsi della maggiore o minore commerciabilità della propria produzione; pericolosi per la produzione artistica stessa (in un dato momento, ed in un determinato paese) che, da una troppo rigida organizzazione industriale, può essere, invece che aiutata, inceppata e compressa, o comunque distolta da quelle vie dritte ed aerate, che forse presceglierebbe, se piena libertà fosse mantenuta alla vera ed ingenua ispirazione. Sembrerà forse un residuo di romanticismo, nel significato volgare della parola, ma quando io sento troppo discutere di diritti d’autore, di multe, di penali, ecc., involontariamente ripenso allo aedo errante, che portava sparsi nel cuore gl’infiniti canti…;
od anche al pittore del famoso romanzo del Kipling: al pittore che mentre gli si spegne la vista degli occhi, domanda all’alcool velenoso, ed alla propria indomabile passione, tanto ancora di luce che basti a condurre a termine il capolavoro, compiuto il quale, sopravvengano pure il silenzio e la tenebra. Ma questa è un’altra storia… come usa dire appunto il Kipling. Meglio sarebbe discutere se e come si possa disciplinare ed educare la produzione cinematografica, sì che da semplice passatempo offerto alla folla a solo scopo di lucro, assurga a dignità di vera e propria manifestazione artistica; poiché mi pare superfluo dimostrare come il cinematografo, non meno del canto e del colore, della parola e della danza, possa esser linguaggio, cioè espressione estetica. Certo la produzione cinematografica non ha superato ancora la sua prima fase esclusivamente commerciale; la folla sedotta dalle sale sontuose e dai cartelloni sgargianti, domanda alle pellicole lunghe migliaia di metri, non una emozione di bellezza, ma una visione coreografica e di maniera di imperatori e di imperatrici romane, di schiave seminude, di circhi tumultuanti, di bestie feroci pronte all’attacco; e finora i più celebrati spettacoli cinematografici non sono che abborracciate riduzioni di romanzi famosi, o famigerati per ragioni tutt’altro che artistiche. Ma qualche segno appare di una evoluzione del gusto. Una fra le più potenti Case produttrici di films ha recentemente bandito un concorso, con premi vistosi, per un’opera originale, pensata e scritta per il cinematografo; ed è probabile che i nomi illustri nelle lettere e nelle arti di F. Martini, presidente, e degli altri
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Oberon [Umberto Bozzini]
giudici tutti del concorso, ispirino ai concorrenti una salutare avversione per i babelici pasticci, ora imperanti per chilometri e chilometri di pellicole. E, me ne dispiace per loro, il primo passo sulla via del rinnovamento – l’originalità dell’opera destinata al cinematografo – non riuscirà molto gradito agli autori drammatici… francesi, che dalla riduzione cinematografica dei proprii lavori, si ripromettono lauti guadagni. Ma la riduzione per cinematografo di un’opera pensata e scritta per la scena di prosa, non può che riuscire un aborto, senza vitalità, se è vero che la forma aderisce al fantasma, come il bagliore alla fiamma, anzi è la fiamma stessa; e se non è possibile, come dice B. Croce, tradurre in una serie di quadri i Promessi Sposi, perché i Promessi Sposi sono già un quadro col suo disegno, rilievo, colorito speciale, e non è possibile mettere in musica la Fenomenologia dello spirito… perché essa ha già la sua musica. Bisognerà dunque che il fantasma venga intuito con quella fisionomia speciale, e direttamente espresso nella forma cinematografica: e non v’ha dubbio che, come alcuni temperamenti di artisti sono irresistibilmente indotti ad esprimersi col colore e con i suoni, altri troveranno nella pellicola cinematografica il mezzo più adatto per rendere e fermare le proprie intuizioni. E sarà forse non meno necessario che, fra gli artisti drammatici, alcuni si specializzino per l’esecuzione delle films; poiché passare, come ora passano, indifferentemente dalla scena drammatica al cinematografo, e viceversa, non può che nuocere alle doti dell’artista drammatico, ed alla sua retta educazione scenica. Infatti io che scrivo ho veduto, in una film composta espressamente per lui, un grande attore… di questo mondo rivelarsi inferiore ad ogni mediocrissimo mimo; come ho sorpreso, sulla scena di prosa, gesti ed atteggiamenti… ultra cinematografici. Ma per queste, o per altre vie, il cinematografo è destinato a diventare un potente mezzo d’espressione dell’Arte; un nuovo linguaggio, e quindi un’eco novella dell’eterna attività estetica dello spirito. E si rassicurino i paladini dell’arte drammatica; il cinematografo non ucciderà la scena di prosa. Ceci tuera cela, scrisse Victor Hugo per titolo di un famoso capitolo di Notre Dame; ed intendeva del libro che avrebbe ucciso il monumento architettonico. E fu, in questo, cattivo profeta. Negli ultimi cinquant’anni libri e monumenti, architettonici o statuarî che siano, lunge dal distruggersi reciprocamente, si sono invece moltiplicati a gara, in un crescendo vertiginoso, forse anche spaventoso. E se poi i nuovi volumi non sono tutti capolavori, e se i nuovi edifizî non rassomigliano alla Cattedrale di Parigi… la colpa non è certo della Poesia o dell’Architettura.
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Giuseppe Prezzolini
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Viva il cinematografo!*
Il cinematografo uccide il teatro. Dicono così. A me sembra che il cinematografo salvi il teatro, come la fotografia ha salvato la pittura e la pianola, perfezionandosi, salverà la musica. E cioè: la perfezione dei mezzi meccanici rende impossibile alle arti la concorrenza nella brutale imitazione del vero, o nel semplice diletto e passatempo, che le traviavano, e quindi le spinge su altre strade, le purifica, le raffina, le salva. Un ritratto può essere un’opera d’arte ad un patto soltanto: che mostri quella particolar deformazione che si chiama uno stile. Un ritratto che sia semplicemente rassomigliante, parlante, vivente, come si sente dire di solito, non è un’opera d’arte, ma è una fotografia. E in quanto a verità la fotografia sarà sempre più verista di qualunque pittore. Perciò oggi tutto il gruppo dei pittori che ha un senso profondo di arte non si preoccupa più del vero, sia pure nel ritratto, ma dello stile; ed alla parola: fotografico dà quello stesso senso dispregiativo che dà alla parola dettaglio quasi voglia allontanare dalla pura arte tutto ciò che è meschina preoccupazione di particolari veristici. I ritratti dove si distinguono i capelli, le vene degli occhi, le rughe, o che altro so io, non si chiamano opere d’arte. Ora il cinematografo compie verso il teatro lo stesso ufficio rivelatore. Coloro che si lamentano della concorrenza che il cinematografo fa al teatro non s’avvedono che così parlando mostrano già di pensare che il teatro sia sullo stesso livello del cinematografo. Essi gridano invero che il cinematografo non è artistico. Ma dovrebbero invece osservare che il teatro non è artistico. Se il cinematografo porta via il pubblico al teatro è perché il teatro rassomiglia troppo al cinematografo; come la pittura dei veristi rassomiglia troppo alla fotografia. Se il teatro fosse artistico e il cinematografo non lo fosse, nessuno si sognerebbe di abbandonare il teatro. Nessuno di coloro che leggevano la Divina Commedia ha smesso di leggerla perché la può vedere al cinematografo. Viceversa molti che avrebbero letto il Quo vadis non lo leggono più dacché posson vederlo sul telone di un teatro. La differenza è ben chiara quando si pensi a che cosa era ridotto il teatro in questi ultimi tempi: era ridotto ad una serie di tipi astratti, di trovate comiche o sentimentali, di intrecci, di avventure. Ora l’arte è tutto l’opposto di questo. L’arte non sta nelle trovate o *
Giuseppe Prezzolini, Viva il cinematografo!, in «La Stampa», 28 dicembre 1913, p. 3, da cui si cita; poi in Tra una film e l’altra, cit., pp. 209-212.
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Giuseppe Prezzolini
negli intrecci, ma nelle immagini, nelle armonie, nelle espressioni; sta nella polpa e non nello scheletro. Si vedano i grandi capolavori. I Promessi Sposi, la Divina Commedia sono fondati su intrecci di una semplicità spaventosa. Un romanzo di appendice non ne potrebbe cavare più di tre puntate. Un fabbricante di commedie cadrebbe inesorabilmente se si contentasse di una cosa così da poco com’è il fatto di cronaca dell’Otello di Shakespeare. Non solo: i grandi poeti nostri non hanno mai dato un gran peso a quella che poteva essere la novità del soggetto. Dante ha raccolto da tutto il medio-evo leggendo storie e discorsi correnti; Ariosto ha attinto a tutti i cicli romanzeschi sì da far dire ad un professorone che in lui non vi è nulla di originale. E il più piccolo autore di monologhi è certamente un inventore più abile di quel che non siano stati Foscolo ed Alfieri. Il povero Boccaccio stesso non si salva a questo esame. E per chi voglia ancor più profonda prova si veda come lo stesso soggetto, sfruttato da un poeta, passa poi ad altri che infinita ricchezza sanno trovarvi. Quanti Faust, Sofonisbe, Fedre si sono mai cantati! Ma riescite invece a cavarne più d’una cinematografia o più di un dramma moderno col suo verismo! La preoccupazione dei particolari in questo ucciderà con la sua prosastica gravezza quell’infinito che il poeta mette in una sola parola o in un solo accenno. Invece i nostri fabbricanti teatrali sono alla caccia di trovate, di soggetti nuovi, di invenzioni, di originalità. È vero che tutto il loro mondo è poi fittizio. L’uomo non esiste mai. V’è una situazione, un tipo, un motto, un momento interessante: non v’è mai la persona viva. Essi sono sulla stessa strada e corrono verso lo stesso scopo del cinematografo: o rallegrare o interessare. Ma il cinematografo, al quale essi, del resto, vanno raccozzandosi man mano dopo molte smorfie artistiche mediante la persuasiva azione dei biglietti da mille che l’industria cinematografica sbandiera, il cinematografo dunque riesce al fine comune con ben altra efficacia sobrietà e pulizia di mezzi. Noi andiamo al cinematografo e, spendendo meno, perdendo meno tempo, annoiandoci meno, abbiamo gli stessi godimenti che il teatro di prosa borghese è solito darci. Né basta: il cinematografo, almeno per ora, non si vanta artistico, non pretende il nostro rispetto, non ci impone di sulle colonne dei giornali il racconto delle gesta e delle avventure, dei malumori, dei matrimoni, delle cravatte e delle scarpette dei varî illustrissimi signori comici e comiche. Il cinematografo è meccanico. Non domanda l’applauso. Non ci impone la menzogna convenzionale dell’arte. E spodestando, colla sicura arma del rendere vuote le platee ed i lubbioni, il teatro borghese, molto probabilmente richiamerà le energie dei veri artisti alle scene che essi avevano abbandonato con disgusto. Giacché oramai era noto, e i capocomici per i primi lo dicevano, tanto più un dramma o una commedia presentavano sospetto di arte e tanto più ad esse era negata risolutamente la possibilità di essere rappresentate. Sicché persino i classici, che il pubblico, pur annoiandosi, sopportava con una certa pazienza in virtù del nome, persino quelli esclusi, esiliati, quasi proibiti, sulle scene non trovavano che rare occasioni e pochissimi attori che li rappresentassero. Né era possibile in Italia udire Molière, Shakespeare, Alfieri: e dei più recenti era scomparso anche Ibsen, né mai s’era sentito Hebbel o Claudel.
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Viva il cinematografo!
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Ora l’abbandono dei teatri servirà a rialzare il tono di essi. Da per tutto si sente il bisogno di un teatro più semplice, più sobrio, più artistico, più di stile. Tutte le grandi difficoltà sceniche ostinatamente messe fuori dai comici per non rappresentare il repertorio classico cadono di fronte ai tentativi del Teatro d’arte e del Teatro del Vieux-Colombier a Parigi, ove, con gusto e con semplicità e quindi con pochissima spesa si è riusciti a dare un repertorio sceltissimo. Certamente non ci sarà da contare più sui grossi pubblici, ma l’arte non è mai stata per i grossi pubblici, i quali, anche nelle opere d’arte celebri, non ammirarono mai che ciò che era in esse di meno artistico, e cioè i sentimenti patriottici, morali, umanitari, le tirate sentimentali, le scene lacrimose od altro che con l’arte hanno che fare come i fichi con il latte. I tentativi di teatro artistico che a Parigi e a Londra si ripetono in questi anni, e taluno con non piccolo successo, si rivolgono ad un pubblico ristretto e partono da gruppi di artisti e di dilettanti. I professionali non possono affatto intendere che una grande opera recitata male è migliore di una opera banale recitata bene; e che spesso gli interpreti, i quali dal punto di vista della accademica recitazione mancando dei trucchi abituali sembrano inferiori, possono spesso essere superiori per la novità di interpretazione che vi portano, come accade in musica, a un dilettante di tecnica deficiente di dare un calore molto più profondo di un virtuoso abilissimo nel superare le difficoltà e poi freddo nell’intimo suo di fronte all’opera che eseguisce. Al teatro, se pure vuol rinnovarsi, dovrà accadere quel che è accaduto alla pittura moderna, la quale, mentre progredivano enormemente i mezzi di riproduzione del vero, si andava discostando dall’abilità e dalla imitazione, cercando di ricrearsi una verginità extrascolastica con le deformazioni, con gli errori di disegno, con le prospettive sbagliate, con quel ribalbettare, com’è stato detto, che ci ha dato colossi quali Cézanne, un artista che il pubblico non conosce perché i critici e i pittori d’accademia glie l’han tenuto nascosto. Più povero il teatro sarà più puro. Più solo si raffinerà. Ma se anche dovesse cadere, poco male. Non è mai male nel mondo quando una situazione si chiarisce e, come bisogna augurarsi che le crisi economiche servano almeno a sbarazzarci delle industrie mal concepite e mal piantate, auguriamoci che la crisi economica del teatro cancelli in esse quel che v’è di istrionico e di falso: in breve, di cinematografico. E se è tutto, che tutto lo cancelli.
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Giuseppe Prezzolini
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Problemi del cinematografo*
La battaglia del cinematografo contro il teatro è ormai vinta; ed a coloro che affettano di parlare con disprezzo del cinematografo, questo può rispondere mostrando le folle che abbandonano le platee e i loggioni dove si sente, per le sale dove si vede, come al filosofo che negava il moto si rispondeva camminando. Poiché la stessa gente che andava a teatro va ora al cinematografo, è ben segno che il teatro non offre oggi nulla di più del cinematografo e che se l’uno è artistico lo è anche l’altro, come se l’altro non lo è, non lo è nemmeno il primo. Cinema e teatro. Se dovessimo dire schiettamente il nostro pensiero confesseremmo volentieri che la seconda ipotesi ci soddisfa di più della prima e che oggi teatro e cinematografo si rassomigliano in questo punto: nell’esser fuori dell’arte vera e propria. Il teatro è un divertimento che richiede tempo e spesa maggiore e si presenta sotto la forma un poco equivoca dell’arte, il cinematografo costa poco, dura poco e si presenta schiettamente per quello che è, cioè per un passatempo. Difatti un’opera d’arte vera non ha nessun bisogno di essere rappresentata, per essere capita e gustata. Anzi si sa che le sue qualità artistiche sono in ragione contraria delle sue qualità teatrali, e che nei grandi capolavori drammatici tutti i direttori di compagnia sono costretti a fare tagli e precisamente delle parti più liriche, ricche d’immaginazione e di pensiero. Shakespeare non regge intero sulla scena; e chi assisterebbe ad una rappresentazione integrale del Faust? Alla scena occorre tutto ciò che è interesse d’intreccio, schematismo d’azione, movimento rapido. E a questi stessi motivi obbedisce il cinematografo ma con maggiore schiettezza e brutalità. Esso è della stessa specie del teatro ma di un genere più avanzato. Su quell’abbassamento dell’arte che il teatro richiede, il cinematografo rappresenta un progresso di sincerità. Il cinematografo dice: «più avanti ancora! Voi del teatro abolite ciò che è più propriamente lirico, il lungo monologo, la descrizione degli stati d’animo intimi, le digressioni e divagazioni, le immagini suntuose. Io abolisco addirittura la parola, mi contento del puro e nudo avvenimen*
Giuseppe Prezzolini, Problemi del cinematografo, in «Il Secolo», 2 luglio 1914, p. 3; poi, con alcune varianti, in Id., Paradossi educativi, Roma, La Voce, 1919, pp. 59-66, da cui si cita; quindi Roma, A. Armando, 1964.
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Problemi del cinematografo
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to, del semplice intreccio, faccio quello che fa il teatro ma con maggior coraggio e il pubblico mi segue». Il cinema farà da sé. Ma il cinematografo non si contenta di questo, esso mette in movimento altri istrumenti di emozione e di divertimento che mancano al teatro. Finora, in generale, il cinematografo si è accanito nel fare concorrenza al teatro, nel riprendere al teatro schemi e scene dei suoi drammi e dei suoi balli. L’imitazione è giunta al punto di ottenere mediante sincronismi eccellenti l’accompagnamento dell’orchestra al ballo; e si lavora e si spera che il fonografo riunito al cinematografo possa dare l’illusione completa e la possibilità di riprodurre all’infinito le scene del teatro. Io credo che questa sia una strada sbagliata. Il cinematografo non deve correre dietro al teatro, deve anzi sviluppare se stesso indipendentemente dal teatro, con i mezzi che gli sono proprî, e dei quali non fa uso allorquando si contenta di imitare il teatro. Quali sono questi mezzi? È uscito or ora un libro tedesco nel quale un gruppo di giovani artisti dei più avanzati si è proposto di pensare cinematograficamente (Das Kinobuch, Leipzig, 1914). Essi si sforzano di far rilevare piuttosto le condizioni che rendono differente il cinematografo dal teatro che quelle che lo rendono simile. L’essenziale del teatro è lo sviluppo di un avvenimento, espresso mediante la parola; l’essenziale del cinematografo è l’ambiente divertente animato da un’azione afferrabile, espressa mediante l’azione e il gesto. L’essenziale del teatro, cioè il dialogo, la parola, è interdetto al cinema. Il contenuto fondamentale del cinema è dato invece appunto dalla possibilità che il teatro deve evitare o appena sospettare: la natura animata, l’ambiente strano, il trucco sorprendente, le scene fortemente agitate. Tutto quello che sta bene sul teatro, come il dialogo spiritoso, gli scherzi, i doppî sensi, si appanna nel cinematografo. Mentre qui stanno molto bene i paesaggi, i movimenti delle masse, le catastrofi materiali, le rovine, le esplosioni che sulla scena sono insufficienti e ridicoli. È vero che resta in comune una cosa: l’attore, l’uomo, il centro dell’azione. Ma anche qui quale differenza! Un buon attore da teatro non è un buon attore da cinema, e la mimica di questo, che deve da sola dire tutto, non può essere uguale a quella dell’altro che accompagna o completa o rinforza la parola. Inoltre il cinema è più adatto del teatro per gli avvenimenti fantastici e comici. Il romanticismo che riposa nel cuore d’ogni buon impiegato sarà risvegliato facilmente dalle lunghe avventure in tutti i paesi del mondo che il cinema può offrire. Eccoci liberati da ogni obbligo di logica, saltiamo dal cavallo del Far West sulla locomotiva dell’express internazionale, da questa sul transatlantico e poi col dirigibile e magari facciamo una gita in aeroplano. Oppure alla fantasia del povero diavolo si offrono i tesori dei Rajah, le carovane del deserto, i palazzi dei miliardari, la vita della aristocrazia, i balli delle ambasciate, tutto quello che il povero dia-
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Giuseppe Prezzolini
volo ha sognato di vedere leggendo il giornale o il romanzo. E la comicità offre motivi inesauribili, che i trucchi fotografici moltiplicano: fatemi un po’ vedere in teatro una suocera che ruzzola sopra i tetti e casca dal quarto piano con soddisfazione di tutti i generi frequentatori del cinematografo; o la moglie gelosa che entra come una bomba nella casa della supposta rivale e tempesta di busse una signora che non c’entra affatto. Nel dominio del trucco fotografico il cinema è ancora poco avanzato e credo che sarebbe facile rappresentare tutte le metamorfosi e le avventure più ariostesche e divertenti. Pinocchio è stata una vera delizia per i bambini e opere prettamente fantastiche nelle quali una fantasia decoratrice e bizzarra potrebbe sfogarsi, sarebbero bene accolte dai grandi. La donna di servizio, il piccolo commerciante, il padre di famiglia, il commesso che formano la grande massa dei frequentatori del cinema non domandano di meglio che essere divertiti (nel senso originale della parola, cioè, tratti fuori) dal corso abituale della loro vita quotidiana, chiusa nella casa o nel negozio. L’azione benefica del cinematografo in questi casi è indubbia; essa distribuisce un po’ di felicità e di solletico, di risa e di paradiso. Il cinematografo consola, con il suo quarto d’ora d’oblio e di sogno, tanti disgraziati, che io arrivo benissimo a capire come certi artisti secondarî da cinematografo, privi di tutte le qualità di quelli del teatro, abbiano trovato delle rendite enormi. È giusto che siano bene ricompensati poiché hanno distribuito tanta felicità a tanti uomini. Per un cinematografo nazionale. Perciò la vera strada del cinema non sta nella sua parte istruttiva. Nessuno vorrà negare la sempre maggiore importanza che il cinema avrà nell’insegnamento popolare e scientifico. Leggo ora in una rivista cinematografica che a Milano una Scuola di «chauffeurs» ha adottato alcune «film» per insegnare le riparazioni in casi di guasto al motore; e che alla dimostrazione di operazioni chirurgiche come alla diffusione dell’igiene popolare, nelle Università e nelle scuole elementari il cinematografo sta portando il suo contributo pratico. Ma senza voler affatto negare i servizi che può rendere all’istruzione, diciamo che la sua popolarità e maggiore efficacia gli verrà da un altro lato, cioè dall’interesse umano che si saprà mettere nelle «film». L’uomo non si interessa veramente che all’uomo, e anche il cinematografo scientifico dovrà animare le sue «film» scientifiche con un’azione umana. Io ho spesso sognato un cinematografo nazionale italiano che avesse per soggetto la nostra vita sociale, per ambiente i nostri paesi, per attori i tipi rappresentativi dell’italiano moderno, che narrasse le nostre gioie e i nostri sconforti, la forza e le debolezze del nostro carattere, la nostra collaborazione alla civiltà mondiale. Attraverso alla vita di un emigrante – per esempio – che parte dal suo paese, avendo tutto venduto, e lo lascia sudicio e povero, per ritornarvi e costruirvi, dopo tanti anni, una casetta pulita e chiedere la scuola e l’acqua come aveva all’este-
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Problemi del cinematografo
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ro, quanti magnifici quadri il cinematografo potrebbe dare, paesi, porti di mare, la vita sul piroscafo, l’arrivo, la ricerca del lavoro, l’ostilità straniera, il buon console e il console cattivo; e quanti elementi di viva istruzione in tutto questo, se la «film» potesse penetrare nei piccoli paesi ed accompagnare quei maestri che sono ora incaricati di fare i corsi per gli emigranti. Oppure si potrebbe col cinematografo ricostruire la storia di qualche merce o prodotto di grande uso, come un paio di scarpe, partendo dalle praterie dell’Argentina, dove il bestiame vive a branchi, passando per le grandi fabbriche di carne in conserva dove gli animali vengono uccisi e le pelli conciate, venendo nell’America del nord dove si fabbricano le macchine per tagliare e cucire le scarpe, e finendo da noi dove si tagliano e si cuciono i pezzi e nella bottega dove si vendono. Ci sarebbe modo di far sentire a tutti la complessità della vita industriale moderna, per la quale ad un semplice pranzo borghese collabora la pianura russa col suo grano per il pane, l’Atlantico con le sardine, il golfo di Guascogna con le sogliole, la Valle di Chiana con il vitello, la California o l’Egitto con le frutta, le colline toscane con il vino, ecc., ecc. Il cinematografo messo al servizio di grandi idee e di grandi passioni è destinato a fare molta strada. Esso potrà anche essere più artistico se le case cinematografiche avranno il coraggio di aprire le loro porte ai tentativi che si fanno di pensare cinematograficamente, e se i giovani artisti si persuaderanno che l’arte è stata sempre arte del proprio tempo, e che se Aristofane vivesse oggi farebbe forse delle «film» per cinematografo e non delle commedie per il teatro.
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Antonio Gramsci
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Teatro e cinematografo*
Si dice che il cinematografo sta ammazzando il teatro. Si dice che a Torino le imprese teatrali hanno tenuti chiusi i loro locali nel periodo estivo perché il pubblico diserta il teatro, per addensarsi nei cinematografi. A Torino è sorta e si è affermata la nuova industria delle films, a Torino sono stati aperti dei cinematografi lussuosi, come non ce ne sono molti in Europa, e tutti i ritrovi del genere sono sempre affollatissimi. Parrebbe quindi che ci fosse almeno un fondo di vero nella dolorosa constatazione che il gusto del pubblico ha degenerato, e che per il teatro si avvicinano dei brutti giorni. Noi siamo invece persuasissimi che queste lamentele sono fondate su un estetismo bacato, e che si può facilmente dimostrare che esse dipendono da un falso concetto. La ragione della fortuna del cinematografo e dell’assorbimento che esso fa del pubblico, che prima frequentava i teatri, è puramente economica. Il cinematografo offre le stesse, stessissime sensazioni che il teatro volgare, a migliori condizioni, senza apparati coreografici di falsa intellettualità, senza promettere troppo mantenendo poco. Gli spettacoli teatrali soliti non sono che cinematografie; le produzioni più comunemente date non sono che tessuti di fatti esteriori, vuoti di ogni contenuto umano, nei quali delle marionette parlanti si agitano variamente, senza mai attingere una verità psicologica, senza mai riuscire a imporre alla fantasia ricreatrice dell’ascoltatore un carattere, delle passioni veramente sentite ed espresse adeguatamente. L’insincerità psicologica, la bolsa espressione artistica hanno ridotto il teatro allo stesso livello della pantomima. Si cerca, e nient’altro, di creare nel pubblico l’illusione di una vita solo esteriormente diversa da quella solita di tutti, nella quale cambiano solo l’orizzonte geografico, l’ambiente sociale, dei personaggi, tutto ciò che nella vita è argomento di cartolina *
Antonio Gramsci, Teatro e cinematografo, in «Avanti!», edizione di Torino, 26 agosto 1916, p. 3; poi in Id., Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1950, pp. 248-250; in Id., Cronache torinesi 19131917, a cura di Sergio Caprioglio, Torino, Einaudi, 1980, pp. 802-804, da cui si cita. Di cinema tratta incidentalmente anche In principio era il sesso, in «Avanti!», ed. Torino, 16 febbraio 1917, p. 3 (poi in Letteratura e vita nazionale, cit., pp. 272-274), a proposito del fascino di Lyda Borelli: «Questa donna è un pezzo di umanità preistorica, primordiale. Si dice di ammirarla per la sua arte. Non è vero. Nessuno sa spiegare cose sia l’arte della Borelli, perché essa non esiste. La Borelli non sa interpretare nessuna creatura diversa da se stessa. Ella scande semplicemente i periodi, non recita. Perciò preferisce le opere in versi, e predilige Sem Benelli, il quale scrive per la musica delle parole più che per il loro significato rappresentativo. Perciò anche la Borelli è l’artista per eccellenza dalla film, in cui lingua è solo il corpo umano nella sua plasticità sempre rinnovantesi».
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Teatro e cinematografo
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illustrata, di curiosità visiva, non di curiosità artistica, fantastica. E nessuno può negare che la film abbia per questo lato una superiorità schiacciante sul palcoscenico. È più completa, più varia, è muta, cioè riduce il ruolo degli artisti a semplice movimento, a semplice macchina senza anima, a quello che in realtà sono anche nel teatro. Prendersela col cinematografo è semplicemente buffo. Parlare di volgarità, di banalità, ecc., è retorica bolsa. Quelli che credono veramente a una funzione artistica del teatro, dovrebbero invece essere lieti di questa concorrenza. Perché essa serve a far precipitare le cose, a ricondurre il teatro al suo vero carattere. Non vi è dubbio che una gran parte del pubblico ha bisogno di divertirsi (cioè di riposarsi cambiando il termine della propria attenzione) con una pura e semplice distrazione visiva: il teatro, industrializzandosi, ha cercato in questi ultimi tempi di soddisfare solo questo bisogno. È diventato un affare senz’altro, è diventato una bottega di paccottiglia a buon mercato. Solo per caso si dànno ormai produzioni che abbiano un valore eterno, universale. Il cinematografo, che quest’ufficio può compiere con più agio e più a buon mercato, lo supera nel successo, e tende a sostituirlo. Le imprese e le compagnie finiranno col persuadersi che è necessario cambiar strada, se vogliono continuare a esistere. Non è vero che il pubblico diserti i teatri; abbiamo visto dei teatri, vuoti per una lunga serie di rappresentazioni, riempirsi, affollarsi all’improvviso per una serata straordinaria in cui si esumava un capolavoro, o anche più modestamente un’opera tipica di una moda passata, ma che avesse un suo particolare cachet. Bisogna che ciò che ora il teatro dà come straordinario diventi invece abituale. Shakespeare, Goldoni, Beaumarchais, se vogliono lavoro e attività per esser degnamente rappresentati, sono anche al di fuori di ogni banale concorrenza. D’Annunzio, Bernstein, Bataille avranno sempre maggior successo al cinematografo; la smorfia, il contorcimento fisico, trovano nella film materia più adatta alla loro espressione. E le inutili, noiose, insincere tirate retoriche ritorneranno a essere letteratura, nient’altro che letteratura, morta e seppellita nei libri e nelle biblioteche.
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MA IL CINEMA, COS’È?
Guido Gozzano
Il nastro di celluloide e i serpi di Laocoonte*
Incomincio così, perché mi balena nel ricordo la réclame di una Casa americana dove il gruppo tragico è parodiato con un’ironia tutta yankee, e il padre e i figli disperati sono assaliti, allacciati, soffocati non dai serpenti di Tenedo, ma dal modernissimo nastro fotogrammatico. Il gruppo ha un simbolo che sorpassa forse le intenzioni commerciali dell’onesto disegnatore, un titolo che può rendere pensosi noi Latini, e farci meditare sul passato fulgidissimo, sul presente burrascoso, sul futuro enigmatico. Quest’arte… ma che arte: quest’industria di celluloide: figliuola disonesta e fortunata della vecchietta che pellegrinava le piazze ed i mercati esibendo su di un rettangolo di tela dipinta e infissa su di un bastone la lacrimevole istoria di Genojeffa, o di Rosina e del Bersagliere infedele (perché questi e non altri sono i suoi antenati), quest’avventuriera e cortigiana risalita che ha la potenza e la prepotenza del danaro, e sa camuffarsi, stilizzarsi così bene da imitare qualche volta, quasi alla perfezione, la principessa; quest’industria non è un’invenzione latina (e meniamone altissimo vanto!), è un trovato nordico, elaborato dalla tecnica sorniona e paziente degli ottici teutonici; e, passata attraverso vicende di pura perfezione meccanica, alla Francia e all’Italia luminose… E – come tutte le lebbre che ci vennero dal Nord – si diffuse, prosperò in Francia ed in Italia come nel suo terreno più adatto, trovò in Francia ed in Italia – eredi prime di quanto la Terra ha espresso in pura bellezza – trovò due organismi da corrompere. E li ha corrotti. In Italia assistiamo da dieci anni a questo trionfo industriale, una delle nostre glorie sul mercato del mondo, e – sia detto a mezza voce – una delle nostre vergo*
Guido Gozzano, Il nastro di celluloide e i serpi di Laocoonte, in «La Donna», xii, 273, 5 maggio 1916, pp. 10-11, da cui si cita; poi in Id., La sceneggiatura del «San Francesco» ed altri scritti, a cura di Mauro Sarnelli, prefazione di Enrico Ghidetti, Anzio, De Rubeis, 1996, pp. 199-209.
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Guido Gozzano
gne artistiche, se facciamo tacere in noi l’affarista e consultiamo soltanto la nostra intima coscienza d’artisti. Certo nel Nord la lebbra ha attecchito molto meno: manca il Sole e manca l’Arte; al sole sopperiscono col magnesio, ma all’arte non c’è succedaneo che serva. E il cinematografo è un’industria che ha bisogno dell’arte. Questo è il fenomeno tragico e interessante, un fenomeno che mi ricorda quella mosca parassita che penetra nella crisalide delle nostre più smaglianti farfalle diurne, vi soggiorna, se ne nutre, pur non uccidendole, ma sostituendosi a poco a poco: così che l’allevatore, in attesa, ne vede uscire non la farfalla magnifica, ma una volgarissima mosca. La quale resta una mosca, e la farfalla, farfalla. Così pellicola ed arte restano quelle che sono; divise, inconciliabili fino all’ultima molecola, come certe sostanze non amalgamabili assolutamente. Ed è questa l’unica certezza consolante. L’arte resta quella che era e che è: una signora per bene; il cinematografo resta un ricchissimo signore. Che cosa altro sia non possiamo, per ora dire; come tutti i fenomeni troppo vasti nel tempo e nello spazio, non è definibile dai contemporanei che hanno lo sguardo troppo vicino. E poi è necessario vedere la sua evoluzione; e non saremo noi, ma i figli dei nostri figli – e forse nemmen loro – quelli che assisteranno alla chiusa della parabola. La quale è per ora all’inizio, si può dire, e nella sua fase più vitale, se si pensa che prosegue imperterrita in pieno conflitto europeo e, fra tante crisi di industrie necessarie, è l’industria inutile che meno ne soffre… Il cinematografo ha bisogno dell’arte: non si nutre che di quella. E dal suo covo nordico si diresse fatalmente verso la terra dell’arte. In nessuna parte del mondo si sviluppò come in Italia. Tutto gli è stato dato, gli si dà in alimento quotidiano, in un’avidità non mai stanca e non mai sazia: bellezza, grazia, valentia di attori e di attrici, ingegno d’autori, di pittori, di musici, scenari storici offerti dai monumenti nostri più illustri e dalle città più gloriose, panorami incantevoli, arte e luce: tutte cose che noi soltanto possiamo dare, più di tutti, meglio di tutti, senza esaurirci mai. E ne abbiamo in compenso il danaro, molto danaro: una fonte di floridezza nazionale, quale non si poteva immaginare otto, dieci anni fa. Consolante? Forse. Certo non rattristante se si pensa che l’arte ne esce immune. Anzi ne esce purificata e più forte, così come certi organismi dopo una febbre violenta espellono ogni elemento inutile ed impuro. Nella concorrenza che la film fa al teatro non soffrono che gli elementi drammatici scadenti: i valori autentici non crollano: restano soli, senza colleghi mediocri; ed è meglio. Le sale dei teatri non si sfollano perché s’affollano gli enormi saloni dei cinema. Il pubblico assiepa gli uni e gli altri. Chi si lascia tentare, questa sera, da due, tre chilometri cinedrammatici, non rinunzia, certo, domani, alla grande interpretazione shakespeariana d’un attore illustre, alla commedia arguta, di una nostra gaia, valentissima attrice. Corruttore? (Corruttore estetico, intendo). Forse no. La folla plebea che stipa il cinema non è sottratta ai teatri; è folla che a teatro non va, perché non lo comprende e s’annoia; la pellicola figurata condensa in minimo spazio, in minimo tempo, con minima spesa e senza nessun sforzo psicologico ed intellettuale, un diletto visivo il quale – per quanto nulla
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Il nastro di celluloide e i serpi di Laocoonte
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abbia a che fare con l’arte – è superiore sempre alla bettola ed al café-chantant. Tre quarti del pubblico conosce i grandi capolavori drammatici e letterari attraverso la pellicola e senza la pellicola non li avrebbe conosciuti mai, nemmeno di nome. È una conoscenza approssimativa, è vero, ma è pur già qualche cosa. È già qualche cosa dover leggere e imprimere nella memoria qualche frase di Shakespeare, qualche battuta dialogata dei Promessi Sposi, qualche verso dantesco, sia pure proiettati nel modestissimo scopo di titolo e di sottotitolo. È una conoscenza “di vista”, che dissoda il terreno per la cultura a venire. Il cinematografo non è arte, non sarà mai arte. Ma come industria bisogna rendergli giustizia contro le calunnie dello snob e del partito preso: è, cioè, tra le industrie, quella che più si sforza di far dell’estetica e che raggiunge, qualche volta, un attimo fugace di vera bellezza. L’esperienza tecnica è giunta a tale perfezione che l’intreccio poliziesco più grossolano è sopportabile per l’esecuzione fotografica di buon gusto, per il lusso dei personaggi e dei paesaggi; così che anche lo spettatore non volgare entra nelle sale vilipese ed è costretto ad indulgere con un sorriso non lontano dall’ammirazione… Se è vero che ogni paesaggio è uno stato d’animo, la film fa della psicologia meravigliosa. So bene, il gioco di parole non serve: la psicologia è interdetta allo schermo silenzioso: anche gli attori più illustri, tentati dal cinema, hanno dato prova inadeguata; la mimica resterà sempre mimica e la più bella maschera non raggiungerà mai i limiti dell’arte, il gesto più eloquente non avrà mai il valore d’un grido, d’una sillaba, d’un sospiro. Poco importa. C’è il teatro per questo, il teatro incrollabile ed immortale. Il pubblico intelligente che va al cinematografo (e ci va ogni giorno di più e più di quanto si creda) è convinto da un’altra logica, sedotto da altre lusinghe. Ci sono sere vuote, quando si consulta invano la lista dei teatri, dove non c’è cosa che valga tre ore consecutive, o si ripete la produzione sentita per l’ennesima volta, sere in cui il cervello stanco non ha forza d’attenzione e non desidera la buona commedia e il buon attore, così come non si desidera il buon libro; sere negate al cervello, all’arte. E si pensa allora ad una cosa leggera, non faticosa, che non sia il teatro, ma che sia un pochino di più del caffè o del club con le sue riviste e i suoi amici annoiati, o delle pietose turpitudini del caffè di varietà; e allora il cinematografo offre questo quid medium. Ed offre altre cose, molte più cose che lo spettatore profano non creda. Offre prima di tutto, locali – parlo delle sale di prim’ordine – di una grandiosità linda e signorile che solleva lo spirito più dei cupi teatri centenari, e dove si respira non so che aria pura e che frivolezza consolatrice; sarà il jardin d’hiver nella sua decente pseudoflora da hôtel cosmopolita, o la decente mediocrità del concerto d’attesa, o la decente indecenza delle danze eseguite da una coppia d’avventurieri. Si entra, si guarda senza osservare: la noia non passa, ma prende un altro colore: non è più la noia grigia e livida del caffè e della strada, è la noia candida delle mattonelle a smalto, la noia chiara opalescente delle molte lunule elettriche, la noia “colorita” dall’ambiente, ed il caffè sorbito in un angolo pittoresco, sotto la curva di un pal-
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Guido Gozzano
mizio di latta, adagiati in una sedia di vimini, ha un gusto meno disperato che non quello centellinato nell’amaro calice delle chicchere quotidiane… Dimenticavo: c’è anche lo spettacolo, che può essere, sovente, una cosa interessante: la cronistoria settimanale che sunteggia in modo più eloquente di dieci quotidiani le miserie e le vicende politiche e non politiche, vicine e lontane; il dramma desunto dal romanzo d’appendice che non avreste il tempo né la forza di legger mai, e in mezz’ora vi sfila vertiginoso dinnanzi in un’esecuzione fotografica qualche volta eccellente, certo superiore alla prosa che vi torcerebbe i precordi sin dalla prima pagina; e vi riconciliate sovente con l’autore popolare di trenta romanzi di mille pagine l’uno, vi riconciliate con lui che esecravate senza averne letta una parola (capita sempre così) e dovete convenire che un’energia intellettuale, sia pure votata allo scopo meccanico della più grossolana immaginazione, va riconosciuta e rispettata e non giudicata e vilipesa a priori; la film poliziesca, fantastica, a trucchi sensazionali, annoierebbe: ma si gode dell’esecuzione fastosa, dei paesaggi, della bella attrice, si gode anche dei trucchi, soddisfatti di vittoriosa malignità, se si riesce a scoprire il lato ingenuo, umiliati e un poco ammirati se il trucco sfugge alla vostra indagine. E altre cose ci sono, che soltanto la film ci può offrire, e a quale prezzo modesto! Con l’importo di una consumazione andate in Cina per l’Incoronazione dell’Imperatrice, o passate nell’Africa Centrale per le cacce di Roosevelt. E, credete a me, quanto la pellicola ritrae in fatto di viaggi è il meglio che l’esotismo possa dare; nel ricordo e nel rimpianto di chi ha molto pellegrinato la Terra non resta certo di più e di meglio di quanto appaia in mezz’ora sul cartiglio vertiginoso… Ci sono i paesaggi e ci sono le attrici famose per bellezza e per valentia: sono una forma di paesaggio (sia detto con sopportazione e senza sorrisi grossolani), una nota pittoresca anche quella, che si gode certo di più sullo schermo silenzioso che alla ribalta. Alla ribalta c’è l’arte che distrae e la distanza che sottrae; in film si gode placidamente e borghesemente della bella donna e della sua mimica. Il pubblico femminile, poi, si precipita assillato di curiosità per vedere ben vicino, in primo piano, investita violentemente dalla luce implacabile e rivelatrice, il volto dell’artista non più giovanissima. E quale fremito, che sembra di sollievo, se per un attimo la bellezza s’offusca e la giovinezza dilegua (è risaputo che nemmeno il più soave volto diciottenne resiste sempre felicemente a duemila metri di istantanee), e quale stupore che sembra di scontento se la bellezza, la giovinezza dell’attrice resiste e offre ai mille occhi implacabili un volto perfetto! Assistevo sere fa ad una film con a protagonista una bellezza mondiale, ed il pubblico femminile era palesemente deluso, direi quasi sdegnato di non veder apparire sullo schermo i quarantasette anni ben noti della bellezza famosa; era privilegio eccezionale, lenocinio di trucchi parigini, scaltrezza fotografica, ma la protagonista sembrava una giovinetta, quasi sempre, e negli attimi meno buoni una bella donna poco più che trentenne. E si diffondeva nella sala un’aura di protesta come contro un’ingiustizia, l’ingiustizia del Tempo: l’unico galantuomo!
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Il nastro di celluloide e i serpi di Laocoonte
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Miserie, pettegolezzi, femminili e… maschili; ma sono anche questi un’attrattiva non ultima dell’ambiente cinematografico. Siamo giunti a considerazioni molto lontane dall’arte. E ho parlato del nastro di celluloide nel più ottimista dei modi. Anche per illudermi un po’; e che il nastro senza fine ci avvolga di giorno in giorno come i serpi favolosi di Laocoonte, lo sentiamo tutti, e ci consultiamo l’un l’altro, non senza inquietudine, domandandoci come, dove si andrà a finire, e se l’equilibrio non sarà rotto, se la giustizia e le ragioni dell’arte, salve per ora, ma già messe a dura prova, non verranno un giorno sopraffatte e conculcate. Tutto è da attendersi, tutto è da temersi, con i tempi nuovi. Nelle ore più nere sono indotto dalla mia fantasia ad incubi paurosi, e la mia paura è nutrita di ricorsi artistici e di paralleli storici. Paralleli che risalgono a millennii, al tempo alessandrino; ricordate la leggenda di Thaïs? E ricordate il dialogo elegantemente platonico del Santo che s’incontra, a teatro, con l’amico poeta? Entrambi si lagnano, l’uno in nome della morale, l’altro in nome dell’arte, della decadenza del teatro. «È finita – dice il poeta – è finita per l’arte; Euripide, Sofocle, Eschilo sono dimenticati; la parola annoia le turbe frettolose; preferiscono la mimica, il gesto, la scena rapida e muta. Guarda, guarda, amico mio, quale profanazione intorno all’ara sacra, in nome di Dionisio? Istrioni che ieri erano schiavi e facchini, cortigiane sfacciate che non saprebbero dire una sillaba, ma che ben sanno l’arte delle curve procaci e dello sguardo lascivo. Che pantomima indegna, amico mio! Ed ecco la folla che delira alla tragedia d’un meccanico nubiano e analfabeta. Guarda che frenesia per la danza aerea – trucco di corde – per la metamorfosi di Leda – trucco di stoppa e di piume – per la ferita che spiccia sangue, sangue bovino in una vescica dissimulata dal peplo. E questa canaglia che applaude! È finita per l’arte della sillaba. La pantomima basta. Che vuoi che faccia un poeta?». Sono le parole di quasi due millennii addietro, ma non sembrano il dialogo di un poeta e di un filosofo dei nostri giorni, tavolineggianti nell’hall vetrato ed infiorato di un cinema elegante? Il raffronto è più che singolare, è inquietante. A eguali sintomi eguali pericoli son da temersi. La decadenza del teatro latino e il trionfo dell’arte mimica importata dai barbari segnarono l’avvento di dieci secoli e più di oscurità spaventosa. Che cosa ci prepara, oggi, questa industria potente e prepotente come il danaro? Voglia il cielo che non sia un sintomo di decadenza che ci avvolge insensibilmente e che non avvertiamo, come non si avverte l’atmosfera viziata a poco a poco. Certo in quest’ora storica tutto è sintomatico ed enigmatico, anche il nastro che chiude il mondo in un intrico sempre più fitto di celluloide figurata. Ma che cosa fare, che cosa pensare? Forse ciò che fanno e pensano i poeti. Niente. …..più saggio quegli che si gode estatico dell’Apparenza, senza batter ciglio, come di cosa impressa nel cartiglio fotogrammatico!
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Roberto Bracco
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Cinematografo (Geremiata)*
Avete capito? Anco la Cinematografia sarà onorata dalla libera critica. Si è detto: – «Perché mai il Cinematografo dev’essere offeso ogni giorno dagli elogi evidentemente pagati? Perché mai si sottrae il Cinematografo alla discussione sincera che dà luogo a sinceri elogi e a sinceri biasimi e che è il riconoscimento ufficiale delle prerogative e l’ufficiale indicazione dei doveri di tutte le vere arti da cui è conquisa e dilettata l’egregia umanità? Perché mai il Cinematografo ha da seguitare a vivere al livello delle industrie, le quali appunto nell’abitudine di eludere e di escludere la libera critica e nel vile privilegio dell’elogio pagato trovano la conferma della loro inferiorità morale in cospetto delle arti?» E si è concluso: – «Ben venga la libera critica! Avanti i liberi critici! Avanti i giudici integerrimi e indipendenti! La Cinematografia li merita! La Cinematografia li aspetta!» Buona notte! Il bel sole propizio alla Cinematografia è giunto improvvisamente… all’occaso! Io lo saluto con le lagrime agli occhi. E già la mia malinconica fantasia antiveggente si raffigura le funeste lotte che si combatteranno sullo stesso terreno dove finora, nel dolce sorriso d’una luce fedelmente amica, il più puro pacifismo è andato diffondendo la sua beata fioritura. Che riposo! Che quietudine! Che gioia! Gli eventi del Cinematografo erano prodotti dai suoi fattori indispensabili – l’industriale, l’autore, gl’interpreti, il metteur en scène, l’operatore – in correlazione con quell’ente anonimo che è la folla, alla quale la Cinematografia si rivolge per farle comperare qualche ora di svago. L’evento poteva essere lieto o lietissimo o mezzo mezzo o addirittura disastroso, ma restava nei suoi confini naturali, si sviluppava per le cause che erano inerenti all’ingranaggio e alla finalità della Cinematografia: la potenzialità finanziaria dell’industriale, i meriti o i demeriti dell’autore, degli interpreti, del metteur en scène, dell’operatore, le tendenze, il gusto, il capriccio della signora folla. Niente lotta. Niente pugilato. Niente discussione. Niente conflagrazione d’«idee». Tutto procedeva come doveva necessariamente procedere nell’ordine normalissimo delle vicende di questo vecchio pianeta. E, per quel che concerneva l’autore, era una grazia di Dio! Un bipede implume, più o meno celebre, inspirava fiducia all’industriale X nella misura di dieci, di cento, di mille. Gli dava ciò che costui credeva utile alla sua brava industria, e da lui ottene*
Roberto Bracco, Geremiata, in «L’Arte muta», i, 2, 15 luglio 1916, pp. 1-3; poi, con lievi varianti e il titolo Cinematografo (Geremiata), in Id., Tra le arti e gli artisti, Napoli, Giannini, 1919, pp. 295-302, da cui si cita; ora in Sperduti nel buio, cit., pp. 153-156.
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Cinematografo (Geremiata)
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va in contanti la prova della fiducia inspirata. Nessun pericolo di buscarsi delle male parole. Nessun pericolo di sentirsi dar della bestia. Nessun pericolo di ricevere delle scudisciate. Il giornalismo taceva, ovvero lodava. Lodava a tanto al rigo, ma, incondizionatamente, lodava. Che quietudine! Che riposo! Che gioia! E sarebbe stupido asserire che quella lode incondizionata e pagata – pagata, beninteso, dall’industriale, a viso aperto, come una qualunque pubblicità – ingenerava spostamenti di valori. Una cosa brutta continuava a essere una cosa brutta. Una cosa bella continuava a essere una cosa bella. E i rapporti tra l’una e l’altra, anche se la lode riesciva a difendere un po’ la bruttezza e a gonfiare un po’ la bellezza, non subivano alterazioni nell’àmbito graduatorio della giustizia, funzionante per impulso automatico tra le tenebre delle sale dei Cinematografi custodite dal silenzioso Arpocrate e presso le finestrette degli analoghi bigliettinai. E più stupido sarebbe credere che quella lode abbia potuto peggiorare, intrinsecamente, la produzione. La cortesia, l’indulgenza, la generosità, se pure artificiali, non hanno mai guastata o diminuita o intaccata la produttività del cervello umano al quale ne sia pervenuta la carezza. E, comunque, nel campo in cui lavora l’intelletto o lavorano i surrogati dell’intelletto la sicurtà di ottenere un elogio purchessia, un elogio sincero o insincero, nuoce sempre meno della paura suscitata dalla minaccia di sincerissimi biasimi, soprattutto in Italia dove il biasimo scritto, ch’è il biasimo della «libera critica», può assumere i toni più recisi, più assertivi, più travolgenti, più insolenti, più crudeli e dove la critica, nemica d’ogni attività fattiva, è un morboso istinto generale che ha la prepotenza ebbra di tutti gl’istinti morbosi! All’occhio diagnostico, la critica è, in Italia, la causa permanente di una specie di nefrite dell’anima collettiva. Se da un supremo decreto fosse irremissibilmente proibita, l’intelletto individuale, che dall’anima collettiva dev’essere sorretto e alimentato, produrrebbe cento volte di più e cento volte meglio. Il guaio della libera critica invitata a dare i suoi lumi al mondo delle pellicole è derivato da questa solenne affermazione partorita dopo gravissimi dibattiti della coscienza. – «La Cinematografia può essere arte!» Per molto tempo, migliaia e migliaia d’italiani si sono torturato lo spirito, deperendo in salute di ora in ora. Le loro notti trascorrevano insonni e torbide. La loro digestione si svolgeva acida e tumultuosa. I loro organismi striminzivano, assiduamente assaliti da disturbi cardiaci. E tutto ciò perché nella loro coscienza si era annidato un dubbio: – «È arte o non è arte la Cinematografia?» Ecco un altro tipico nostro fenomeno. Che una cosa si faccia bene o male, in Italia, preme poco. Preme, invece, moltissimo definirla. Se manca la definizione, manca l’accademia, e un’enorme moltitudine di persone, a cui l’accademia è necessaria come il pane, come l’aria, si agita, intristisce, si ammala. Urge, a questa moltitudine, la formola accademica, la teoria, il programma, il canone, il regolamento da tenere sott’occhio per stare alle vedette e sorvegliare, controllare, scocciare, rompere le devozioni a chi, piuttosto che definire e codificare, preferisca di costruire, preferisca di recare qualche contributo alla grande fucina dei fatti concreti.
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Roberto Bracco
«È arte o non è arte?»… Che inutile acrobatismo cerebrale! E che incubo! Giustissimo – spieghiamoci – che gli esteti discettino. Per essi, il discettare sulla Cinematografia è un diritto e un dovere della loro cogitazione nei rapporti con l’essenza di ogni energia creativa che voglia, attraverso i sensi, commuovere la psiche. L’esteta discetta per conto suo. La sua discettazione è fine a se stessa e permane, innocua, nelle sfere della pura intellettualità. Ma, fuori dell’orbita della estetica, scervellarsi intorno alla Cinematografia è stato fastidioso, ingombrante, intralciante: e anche, a parer mio, alquanto puerile. Io non intendo come nessuno si sia accorto finora che la faticosa indagine (è arte o non è arte?) prende origine da una sciocca confusione. Si è confuso il mezzo, che è fotografia e meccanismo, con lo scopo conseguito, che è… la rappresentazione. Quella faticosa indagine presupponeva il bisogno di assegnare un posto definitivo, nella graduazione dei frutti dell’ingegno, a ciò che ha di novissimo la Cinematografia. Or bene, il novissimo sta proprio in quel complesso di agilità fotografiche e meccaniche che consentono di ritrarre e poi di ripetere, con precisa identità, cinquanta volte, mille volte, diecimila volte, senza incomodare né l’autore né gli interpreti, la tale o tal altra rappresentazione; ma la rappresentazione come rappresentazione non ha, in sé, nulla che possa parere e ritenersi novissimo. Si tratta d’una finzione scenica dalla quale è eliminato l’intervento della voce. Questo è tutto. E il nostro pensiero può bene riscontrare la medesima eliminazione facendosi una passeggiatina lungo la storia della mimica rappresentativa, a cominciare dalla pantomima ritmica dell’antico istrionismo, denominata musica muta, il cui ambizioso incremento permise ai mimi di esprimere con le braccia e con le mani – manus loquacistomae, digiti clamosi – il contenuto delle tragedie di Sofocle e di Euripide, fino alla pantomima recentissima, fino al gesticolamento impressionante dell’Oscurantismo nell’Excelsior, fino al gesticolamento grazioso della Fille mal gardée, fino al Figliol prodigo, fino all’Histoire d’un Pierrot, fino al Miracolo di Vollmoeller e di Humperdinck. L’elemento peculiare della rappresentazione cinematografica si trova, insomma, senza darsi molta pena, nella pantomima di tutti i tempi. Il testo destinato a essere, approssimativamente, la guida didascalica del mimo esisteva ai tempi di Caligola e di Nerone ed esiste oggi. Allora si chiamava canticum ed era scritto in greco, oggi si chiama sceneggiatura del soggetto o semplicemente scenario, come quello della «commedia dell’arte», e si può scrivere… in ostrogoto. L’ausilio della musica era indispensabile allora, ed è indispensabile oggi. Le evoluzioni, si capisce, sono state innumerevoli. La pantomima è andata sempre più accostandosi alle parvenze, ai moti, ai gesti, alle espressioni della vita reale. La pantomima della Cinematografia si differenzia da quella che l’ha immediatamente preceduta – e che ancora è ospite dei palcoscenici – per la sostituzione del vero o del quasi-vero al convenzionale, nella sostanza e nella forma, cioè nel soggetto sceneggiato e nella plastica che deve comunicarlo allo spettatore. «È arte o non è arte?»
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Cinematografo (Geremiata)
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Alla pantomima non è mai stato negato il bel titolo di Arte. Sicché il distinguere, col più rudimentale buon senso, il fatto nuovo, che è soltanto la possibilità di moltiplicare la stessa rappresentazione in tutti i suoi particolari, dal fatto non nuovo, che è la finzione scenica senza la voce, sarebbe bastato a evitare la terribile angoscia del dubbio amletiano. S’intende che c’è una gerarchia anche per le arti, e questo è un argomento che non tarderà a meritare, per quanto riguarda la Cinematografia, la più acuta considerazione dei soliti scoccioni e le petulanze pullulanti del solito referendum. Ma quando si sarà stabilito il grado che spetta alla pantomima cinematografica, si sarà compiuta un’altra fatica superflua, perché la gerarchia assoluta delle arti è sempre, in certa guisa, modificata dall’entità di coloro che le professano. Esse ascendono o discendono a seconda di questa entità. E non è escluso il pericolo che la discesa sia tale da avvilire un’arte in una deformazione spietata che la renda addirittura irriconoscibile. La pantomima cinematografica diventa un ludibrio se l’autore, gl’interpreti e i loro intermediarii sono degli arfasatti, come l’arte della musica diventa un truce fastidio degli orecchi e dell’anima se è affidata ai bombardoni e alle cinelle della banda musicale di Peretola. La Cinematografia, dunque, può essere arte. E proprio questo è stato, finalmente, assodato. Ma, ahimè, le faticosissime discussioni sostenute per pervenire ad affermare una verità della quale nessuno avrebbe dovuto dubitare hanno lasciato sul tappeto una infinita quantità di idee, di criterii, di cavilli, di precetti, di preconcetti, di preeccezioni, di forse, di se e di ma, che sono come la cenere e il lapillo del Vesuvio gravitanti su i tetti delle nostre case quanto l’eruzione è cessata. E, per giunta, la solenne affermazione ha spalancate le porte delle sale del Cinematografo alla libera critica… È tutta una iattura, di cui non riesco a consolarmi!
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Filippo Tommaso Marinetti, Bruno Corra, Emilio Settimelli, Arnaldo Ginna, Giacomo Balla, Remo Chiti
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Cinematografia futurista. Manifesto*
Il libro, mezzo assolutamente passatista di conservare e comunicare il pensiero, era da molto tempo destinato a scomparire come le cattedrali, le torri, le mura merlate, i musei e l’ideale pacifista. Il libro, statico compagno dei sedentari, degl’invalidi, dei nostalgici e dei neutralisti, non può divertire né esaltare le nuove generazioni futuriste ebbre di dinamismo rivoluzionario e bellicoso. La conflagrazione agilizza sempre più la sensibilità europea. La nostra grande guerra igienica, che dovrà soddisfare tutte le nostre aspirazioni nazionali, centuplica la forza novatrice della razza italiana. Il cinematografo futurista che noi prepariamo, deformazione gioconda dell’universo, sintesi alogica e fuggente della vita mondiale, diventerà la migliore scuola per i ragazzi: scuola di gioia, di velocità, di forza, di temerità e di eroismo. Il cinematografo futurista acutizzerà, svilupperà la sensibilità, velocizzerà l’immaginazione creatrice, darà all’intelligenza un prodigioso senso di simultaneità e di onnipresenza. Il cinematografo futurista collaborerà, così al rinnovamento generale, sostituendo la rivista (sempre pedantesca), il dramma (sempre previsto) e uccidendo il libro (sempre tedioso e opprimente). Le necessità della propaganda ci costringeranno a pubblicare un libro di tanto in tanto. Ma preferiamo esprimerci mediante il cinematografo, le grandi tavole di parole in libertà e i mobili avvisi luminosi. Col nostro Manifesto Il teatro sintetico futurista, con le vittoriose tournées delle compagnie drammatiche Gualtiero Tumiati, Ettore Berti, Annibale Ninchi, Luigi Zoncada, coi 2 volumi del Teatro Sintetico Futurista contenenti 80 sintesi teatrali, noi abbiamo iniziato in Italia la rivoluzione del teatro di prosa. Antecedentemente un altro Manifesto futurista aveva riabilitato, glorificato e perfezionato il Teatro di varietà. È logico dunque che oggi noi trasportiamo il nostro sforzo vivificatore in un’altra zona del teatro: il cinematografo. A prima vista il cinematografo, nato da pochi anni, può sembrare già futurista cioè privo di passato e libero da tradizioni: in realtà, esso, sorgendo come teatro senza parole, ha ereditate tutte le più tradizionali spazzature del teatro letterario. Noi possiamo dunque senz’altro riferire al cinematografo tutto ciò che abbiamo detto e fatto per il teatro di prosa. La nostra azione è legittima e necessaria, in quanto il cinematografo sino ad oggi è stato, e tende a rimanere profondamente pas*
Filippo Tommaso Marinetti, Bruno Corra, Emilio Settimelli, Arnaldo Ginna, Giacomo Balla, Remo Chiti, Cinematografia futurista. Manifesto, in «L’Italia futurista», i, 10, 15 novembre 1916, p. 1, da cui si cita; poi in Filippo Tommaso Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Milano, Mondadori, 1983, pp. 138-144.
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Cinematografia futurista. Manifesto
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satista, mentre noi vediamo in esso la possibilità di un’arte eminentemente futurista e il mezzo di espressione più adatto alla plurisensibilità di un artista futurista. Salvo i films interessanti di viaggi, caccie, guerre, ecc., non hanno saputo infliggerci che drammi, drammoni e drammetti passatistissimi. La stessa sceneggiatura che per la sua brevità e varietà può sembrare progredita, non è invece il più delle volte che una pietosa e trita analisi. Tutte le immense possibilità artistiche del cinematografo sono dunque assolutamente intatte. Il cinematografo è un’arte a sé. Il cinematografo non deve dunque mai copiare il palcoscenico. Il cinematografo, essendo essenzialmente visivo, deve compiere anzitutto l’evoluzione della pittura: distaccarsi dalla realtà, dalla fotografia, dal grazioso e dal solenne. Diventare antigrazioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico, parolibero. Occorre liberare il cinematografo come mezzo di espressione per farne lo strumento ideale di una nuova arte immensamente più vasta e più agile di tutte quelle esistenti. Siamo convinti che solo per mezzo di esso si potrà raggiungere quella poliespressività verso la quale tendono tutte le più moderne ricerche artistiche. Il cinematografo futurista crea appunto oggi la sinfonia poliespressiva che già un anno fa noi annunciavamo nel nostro manifesto: Pesi, misure e prezzi del genio artistico. Nel film futurista entreranno come mezzi di espressione gli elementi più svariati: dal brano di vita reale alla chiazza di colore, dalla linea alle parole in libertà, dalla mistica cromatica e plastica alla musica di oggetti. Esso sarà insomma pittura, architettura, scultura, parole in libertà, musica di colori, linee e forme, accozzo di oggetti e realtà caotizzata. Offriremo nuove ispirazioni alle ricerche dei pittori i quali tendono a sforzare i limiti del quadro. Metteremo in moto le parole in libertà che rompono i limiti della letteratura marciando verso la pittura, la musica, l’arte dei rumori e gettando un meraviglioso ponte tra la parola e l’oggetto reale. I nostri film saranno: 1. – Analogie cinematografate usando la realtà direttamente come uno dei due elementi dell’analogia. Esempio: Se vorremo esprimere lo stato angoscioso di un nostro protagonista invece di descriverlo nelle sue varie fasi di dolore daremo un’equivalente impressione con lo spettacolo di una montagna frastagliata e cavernosa. I monti, i mari, i boschi, le città, le folle, gli eserciti, le squadre, gli aeroplani, saranno spesso le nostre parole formidabilmente espressive: L’universo sarà il nostro vocabolario. Esempio: Vogliamo dare una sensazione di stramba allegria: rappresentiamo un drappello di seggiole che vola scherzando attorno ad un enorme attaccapanni sinché si decidono ad attaccarvisi. Vogliamo dare una sensazione di ira: frantumiamo l’iracondo in un turbine di pallottole gialle. Vogliamo dare l’angoscia di un Eroe che perdeva la sua fede nel defunto scetticismo neutrale: rappresentiamo l’Eroe nell’atto di parlare ispirato ad una moltitudine; facciamo scappar fuori ad un tratto Giovanni Giolitti che gli caccia in bocca a tradimento una ghiotta forchettata di maccheroni affogando la sua alata parola nella salsa di pomodoro.
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f.t. marinetti, b. corra, e. settimelli, a. ginna, g. balla, r. chiti
Coloriremo il dialogo dando velocemente e simultaneamente ogni immagine che attraversa i cervelli dei personaggi. Esempio: rappresentando un uomo che dirà alla sua donna: sei bella come una gazzella, daremo la gazzella. – Esempio: Se un personaggio dice: contemplo il tuo sorriso fresco e luminoso come un viaggiatore contempla dopo lunghe fatiche il mare dall’alto di una montagna, daremo viaggiatore, mare, montagna. In tal modo i nostri personaggi saranno perfettamente comprensibili come se parlassero. 2. – Poemi, discorsi e poesie cinematografati. Faremo passare tutte le immagini che li compongono sullo schermo. Esempio: Canto dell’amore di Giosuè Carducci: Da le rocche tedesche appollaiate sì come falchi a meditar la caccia…
Daremo le rocche, i falchi in agguato. Da le chiese che al ciel lunghe levando marmoree braccia pregano il Signore Da i conventi tra i borghi e le cittadi cupi sedenti al suon de le campane come cuculi tra gli alberi radi, cantanti note ed allegrezze strane
Daremo le chiese che a poco a poco si trasformano in donne imploranti Iddio che dall’alto si compiace, daremo i conventi, i cuculi, ecc. Esempio: Sogno d’estate di Giosuè Carducci: Tra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti la calda ora mi vinse: chinommisi il capo tra ’l sonno in riva di Scamandro, ma il cor mi fuggì su ’l Tirreno
Daremo Carducci circolante fra il tumulto degli Achei che evita destramente i cavalli, in corsa, ossequia Omero, va a bere con Aiace all’osteria dello Scamandro Rosso e al terzo bicchiere di vino il cuore di cui si devono vedere i palpiti gli sbotta fuori della giacca e vola come un enorme pallone rosso sul golfo di Rapallo. In questo modo noi cinematografiamo i più segreti movimenti del genio. Ridicolizzeremo così le opere dei poeti passatisti, trasformando col massimo vantaggio del pubblico le poesie più nostalgicamente monotone e piagnucolose in spettacoli violenti, eccitanti ed esilarantissimi. 3. – Simultaneità e compenetrazione di tempi e di luoghi diversi cinematografate. Daremo nello stesso istante-quadro 2 o 3 visioni differenti l’una accanto all’altra.
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Cinematografia futurista. Manifesto
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4. – Ricerche musicali cinematografate (dissonanze, accordi, sinfonie di gesti, fatti, colori, linee, ecc.). 5. – Stati d’animo sceneggiati cinematografati. 6. – Esercitazioni quotidiane per liberarsi dalla logica cinematografate. 7. – Drammi d’oggetti cinematografati (oggetti animati, umanizzati, truccati, vestiti, passionalizzati, civilizzati, danzanti. Oggetti tolti dal loro ambiente abituale e posti in una condizione anormale che, per contrasto, mette in risalto la loro stupefacente costruzione e vita non umana). 8. – Vetrine d’idee, d’avvenimenti, di tipi, d’oggetti, ecc. cinematografati. 9. – Congressi, flirts, risse e matrimoni di smorfie, di mimiche, ecc. cinematografati. Esempio: un nasone che impone il silenzio a mille dita congressiste scampanellando un orecchio, mentre due baffi carabinieri arrestano un dente. 10. – Ricostruzioni irreali del corpo umano cinematografate. 11. – Drammi di sproporzioni cinematografate (un uomo che avendo sete tira fuori una minuscola cannuccia la quale si allunga ombellicalmente fino ad un lago e lo asciuga di colpo). 12. – Drammi potenziali e piani strategici di sentimenti cinematografati. 13. – Equivalenze lineari plastiche cromatiche, ecc. di uomini, donne, avvenimenti, pensieri, musiche, sentimenti, pesi, odori, rumori, cinematografate (daremo con delle linee bianche su nero il ritmo interno e il ritmo fisico d’un marito che scopre sua moglie adultera e insegue l’amante – ritmo dell’anima e ritmo delle gambe). 14. – Parole in libertà in movimento cinematografate (tavole sinottiche di autori lirici – drammi di lettere umanizzate o animalizzate – drammi ortografici – drammi tipografici – drammi geometrici – sensibilità numerica, ecc.). Pittura + scultura + dinamismo plastico + parole in libertà + intonarumori + architettura + teatro sintetico = Cinematografia futurista. Scomponiamo e ricomponiamo così l’Universo secondo i nostri meravigliosi capricci, per centuplicare la potenza del genio creatore italiano e il suo predominio assoluto nel mondo.
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Annie Vivanti
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Il cinematografo*
Quando mia figlia Vivien era una piccola violinista prodigio, coll’aurata chioma al vento e la breve veste cerula plissée soleil, fu invitata un giorno a suonare nell’immenso Albert Hall di Londra il Concerto di Beethoven, accompagnata dalla gloriosissima Orchestra di Hallè. Venne a prenderci poco prima del concerto un chiomato ed occhialuto professore di musica. Dopo aver contemplato a lungo la piccina che tranquilla e imperturbata metteva una corda nuova al suo violino, egli la chiamò a sé. «Dimmi un po’, piccola Vivien Chartres,» disse, «sai tu quale fortuna è la tua? Apprezzi l’immenso onore d’essere chiamata a dodici anni, a suonare nell’Albert Hall?» «Sì, grazie,» disse la piccina, calma e cortese. «Ma pensa che vai a suonare il più grande Concerto mai scritto, accompagnata dalla prima orchestra d’Europa! Non ne sei sbalordita di felicità?» «Sì,» disse Vivien. «Ma preferirei andare al cinematografo». «Preferirei andare al cinematografo!» Quanti di noi, di fronte agli eventi più solenni ed importanti della nostra esistenza – se osassimo guardarci ben bene in fondo al cuore – vi troveremmo forse questa stessa semplice e sincera aspirazione? Io, ad esempio, appena avrò finito di tracciare queste righe, dovrò andare ad un ricevimento di grande etichetta: ebbene, pensando alla solenne magnificenza di quell’ambiente cui è privilegio l’essere ammessi, pensando alle celebrità che vi incontrerò, alle frasi tornite e brillanti che mi verranno rivolte e alle corruscanti arguzie colle quali senza dubbio risponderò – mi sale alle labbra impellente, irrefrenabile il sospiro: «Preferirei andare al cinematografo». Fatevi anche voi, o dolci lettrici, un esame di coscienza. Al momento di recarvi a un pranzo d’etichetta o a un concerto classico, ad una esposizione di quadri antichi, o ad una plumbea conferenza di un parlatore alla moda, indossandovi il mantello Saronni di cui il colletto vi sale fino al naso, allacciandovi nervosamente i guanti di *
Annie Vivanti, Secondo me…, in «La Donna», xiii, 294, 15 giugno 1917, pp. 24-25 (pagina «Donna» e la Cinematografia); poi, con alcune varianti e il titolo Il cinematografo, in Id., Zingaresca, Milano, Quintieri, 1918, pp. 171-187, da cui si cita; con ulteriori varianti e il titolo Laude del cinematografo, in Id., Zingaresca, Milano, Mondadori, 1929, pp. 187-203. La prima edizione in rivista presenta alcune varianti e una diversa chiusa: a «dell’inverosimile, del parossismale!» segue questo ultimo capoverso: «In questa esaltazione del movimento sulla immobilità – nella vittoria del fatto sulla frase, dell’azione sulla descrizione – sta tutto il fascino e la forza di questa grande arte nuova».
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Il cinematografo
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cui si strappano i bottoni, e avviandovi in punta de’ piedi – come lo esigono i tacchi delle vostre scarpette – verso quella magnifica e maestosa corvée, guardatevi bene in fondo al cuore e ditemi: non preferireste forse anche voi andare al cinematografo? Qualcuno mi dirà: ma perché proprio al cinematografo? Perché non al teatro o altrove? Per una quantità di ragioni. Anzitutto perché è ineffabile gioia per noi, schiavi di doveri fissi ad ore fisse, di divertimenti prestabiliti a posti prenotati, di visite a persone determinate con conversazione su temi obbligatori, il poterci dire: «Adesso a un’ora qualunque andremo a un cinematografo qualunque e vedremo uno spettacolo qualunque». Che riposo per i nostri nervi, questa blanda indeterminatezza, questa inerte imprevidenza, questo equanime affidamento al caso! Qualcuno ci dice forse che al «Modern» si dà una grandiosa cinematografia dell’Amleto. E ci avviamo al «Modern». Arrivando, si trova che lo spettacolo è cambiato e che si dà Charlot pasticciere. Si entra lo stesso. (Forse anche si affretta un pochino il passo!). Una volta seduti, col volto atteggiato alle risa, si assiste all’annegamento di una bambina, alla improvvisa alienazione mentale d’una donna, e ad un duplice funerale. Si chiede al vicino: «Scusi, questo… sarebbe Charlot Pasticciere?» «No, no. Charlot Pasticciere si darà domani». «Ah!… Allora è Amleto?» «No. Amleto si è dato ieri. Questo è: Madre Snaturata». «Ah! Mille grazie». E si sta a vedere Madre Snaturata. Seduti nella sala del cinematografo troviamo il riposo intellettuale completo. A teatro (negli intermezzi), o al concerto (durante l’esecuzione dei pezzi di musica più importanti) noi siamo moralmente obbligati di fare della conversazione; conversazione spiritosa e brillante con chi ci accompagna. Dobbiamo pronunciarci sul valore del lavoro cui assistiamo, demolirne l’autore, istituire paragoni, scoprire plagi. E infine noi – povere creature femminili! – dobbiamo anche preoccuparci, per le alte e villane luci degli intermezzi, dei particolari della nostra acconciatura e pettinatura… Al cinematografo nulla di tutto ciò. Si sta placide ed inerti, sprofondate nella seggiola, sotto l’ombra benefica del cappello à cloche; e non si conversa, non si brilla, non si è, né si può essere, spiritose o caustiche, argute o mordaci. No; tutt’al più si legge a mezza voce, in coro con tutti i vicini, gli squarci di letteratura che precedono ogni quadro: «…E il duca Gustavo si avvide che Elena era diventata indispensabile alla sua felicità…» Avendo contribuito così al sommesso mormorio collettivo, ci si abbandona passivamente senza tremori per l’artista, senza argomentazioni e senza dispute, al temperato fascino del cinematografo.
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Annie Vivanti
Sì. Dal punto di vista del semplice spettatore il cinematografo è gustoso, soddisfacente e satollante, come una fetta di plum-pudding a un pranzo di Natale in Inghilterra. Conoscete voi quel famoso e complicato dolce natalizio inglese? Esso è composto di 137 ingredienti diversi, ed ogni membro della famiglia – non solo! – ma anche ogni amico ed ogni estraneo che capita in casa nei giorni precedenti il Merry Christmas, deve dare una rimescolatina col grosso cucchiaio di legno alla pasta tenace e rimbalzante che sta in fondo alla enorme scodella. Vi è chi dice che l’arte cinematografica somigli molto al plum-pudding, e che perciò non è Arte Vera. Stolto errore! Il fatto che il plum-pudding sia composto di centotrentasette ingredienti e confezionato da molte persone, lo rende forse come dolce meno rispettabile del marron glacé o della caramella di gomma? No. E come arte, la cinematografia – quando è bella – non può essa forse sostenere il raffronto con l’arte drammatica, poetica, pittorica e musicale, da ognuna delle quali trae tanta parte del suo fascino? Per cambiare punto di vista, lasciando cioè quello dello spettatore per venire a quello dell’Autore di Soggetti cinematografici – ma sempre mantenendoci nell’ordine dei paragoni mangerecci – direi che quest’Arte rammenta un poco la Minestra del Poeta Povero. Era questi un Poeta, il quale, d’inverno, teneva in perpetua ebullizione sul suo fornello una pentola di brodo composto di molteplici sostanze. I suoi amici solevano portare delle contribuzioni svariate al suo Pot-au-feu. Chi gli portava dei vermicelli o ditalini, chi del formaggio grattugiato, chi qualche fegatino di pollo, chi un po’ di «giunta»; tutto si gettava a bollire nella pentola del Poeta. Gli avversari politico-letterari, o i faceti portavano pelli di cotechino, gusci d’uova, fondi di caffè, torsi di cavolo, foglie di carciofo… Ma tutto contribuiva alle qualità saporose e sostanziose di quella minestra. Dicesi che, un giorno, un amico mecenate portandogli in dono un paio di scarpe usate, lasciasse, un po’ per abitudine, un po’ per distrazione, cadere anche quelle nella pentola della minestra. Dicesi anche che il poeta non trovò necessario di ripescarle. Comunque sia, e senza voler fare una banale freddura, troverete, credo, che questo mio paragone… calzi. Appena le vostre conoscenze sanno che state scrivendo un soggetto per il Cinéma, verranno a raccontarvi le loro esperienze, i loro dispiaceri di famiglia, i loro amori, dicendovi: «Ecco! Questa è da mettere nella tua film!…» «Ti darò io uno spunto magnifico per la tua film!» Parlando per me, confesso che non amo le scarpe altrui nella mia minestra. Ma quante volte per non guastarmi coi miei migliori amici ho dovuto accettare i loro spirituali fondi di caffè e torsi di cavolo!…
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Il cinematografo
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Quando poi è l’Artista cinematografico stesso che vi offre dei suggerimenti, sarebbe assurdo e ingrato il non accettarli. Poco tempo fa venne da me una giovane Americana, nota attrice dello schermo. Portava un immenso mazzo di viole alla cintura, e sotto al braccio un arruffato Skye-terrier. Notai che tanto i fiori quanto il cane erano violentemente profumati d’Ylang-Ylang. «Vuole» diss’ella scotendo i ricciolotti biondi sopra gli occhi chiari, «vuole – taci Phébus!… – scrivere per me un dramma cinematografico?» «Sissignora,» risposi. «Badi che voglio una cosa commoventissima e modernissima». «Sissignora». «E grandiosissima quanto a messa in scena. – Phébus, guarda che ti do uno schiaffo!… – piena di situazioni inaspettate». «Sissignora». «Io, naturalmente, devo essere una Donna Fatale!» «Naturalmente». «Allora, se crede, cominci subito. – Andiamo, Phébus, my sweetheart!…» E partì. Io subito mi misi al lavoro. L’indomani mattina un soffio di fragranza mi annunziò l’arrivo di Phébus colla transoceanica Diva del Gesto. «Badi,» disse questa, «che devo essere anche ingenua, non soltanto fatale. Devo fare il male, così… senza volerlo… senza saperlo; non le pare?» La Bella si tolse dal manicotto una bomboniera. «Queste sono le violette candite di Phébus. Tieni, my darling!… Dicevo dunque che devo essere ad un tempo perversa e puerile, soave e terribile…» «Sissignora». Ripartì; e mi rimisi al lavoro. Ma non era partita. Tornò indietro. «Mio Dio! Scordavo di dirle che devo essere inaccessibile all’amore. Le passioni divamperanno intorno a me, ed io passerò, gelida e intocca, in mezzo alle fiamme da me suscitate». «Sissignora». «Eppoi, questo è importante, ci deve essere una scena…» «Per Phébus?» «No. Una scena strana… che non si capisce… ed io starò immobile… così…» La bella creatura calò lentamente le bistrate palpebre sulle pupille annebbiate. «E poi… tutt’a un tratto… nel mio sguardo si vede tutto!! Così!…» E spalancò luminosamente gli occhi giallo-verdi. «Allora il pubblico capisce che ho preso una ter-r-ribile determinazione!» Phébus abbaiò follemente. Ebbe due schiaffi, una violetta candita, e un bacio sulla testa. Indi la sua padrona si congedò da me, fermandosi un istante sulla porta per soggiungere:
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Annie Vivanti
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«Sarà bene che lei mi faccia Parigina, non le pare? Un po’ di Montmartre… un amante apache… ça fait toujours bien!» Il racconto era a metà fatto, e stavo appunto lavorando alla Scena che Non si Capisce, allorché la sovrana del silenzio tornò a trovarmi. «Badi, che per mie ragioni particolari occorre che tutta l’azione si svolga in alta montagna. Sono un poco anemica e i medici mi hanno consigliato Saint Moritz o i Pirenei». «Ma io l’ho fatta parigina…» «Pazienza. Mi faccia spagnuola, o svizzera. Così, si potrà introdurre qualche ghiacciaio… una foresta d’abeti… e finire, non so, con una valanga!…» «Ma… e l’amante apache?» «Ne farà una guida alpina». «Sissignora». Per imbevermi d’ispirazione alpestre partii per la Vall’Anzasca, e là, ai piedi del Monte Rosa trasformai la mia eroina del Bal Bullier in una Venere montanina. Già tutto l’argomento biancheggiava e brillava, nevoso e adamantino sulla carta, allorché mi giunse un telegramma urgente da Biarritz. «Indispensabile per esigenze tecniche trasportare azione vostra film al mare. Spiegherovvene ragioni a voce. Prego raggiungermi Golfo di Guascogna». Travolta così dalla valanga delle necessità cinematografiche, scesi precipitosa da Macugnaga a Bordeaux. Ivi la Deliziosa mi venne incontro con un sorriso che avrebbe sciolto i nevai della Punta del Weisshorn. «Capirà,» mi disse, «la neve si è troppo veduta nelle films della vostra guerra. Ci vuole assolutamente il mare. Anche a Phébus piace tanto il mare!» E citò con un sospiro estatico: «La mer!… La grande rageuse, la grande menteuse, la grande inconnue! Si semblable à la femme!…» Rimasi interdetta. «Ma io l’avevo creata una pastorella montanara…» «Pazienza! Mi trasformi in Ondina o Sirena». «Ma… e il protagonista guida alpina?…» «Ma via! lei… col suo talento!…» (Io abbozzai un sorriso di modestia.) «Ne faccia un pescatore». Allora per saturarmi d’ispirazione Thalassica m’installo a San Sebastiano. Passo delle lunghe giornate, scroscianti e cerule, in faccia alla «Grande Furiosa». Poco a poco la figura della protagonista esce dai miei pensieri lieve, corallina e spumosa: una Tanagretta Anadiomene, sgocciolante d’azzurrità. Scrivendo la parola Fine al mio soggetto mi sembra che dai fogli esali un profumo d’alga e un sussurrìo di conchiglia… Rifaccio le valigie e torno a Biarritz. Sulle scale del Grand Hôtel incontro la
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Il cinematografo
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Bella dell’Arte Tacita, in «burberry» a quadrelli bianco e neri, cappello di feltro con penna d’aquila, e sotto al braccio Phébus nella sua giacchetta da viaggio. «Ma come! – Parte?!» «Appunto! Stavo per telegrafarle! Sa, ho deciso di inscenare il suo lavoro in Italia. Si potrà, vero?, trasportarne l’azione nell’Agro Romano? Vi sono le Paludi Pontine che sono una magnificenza». Un attimo di silenzio in cui cerco di mettere «a foco» le mie idee. «Del resto,» continua la Belle Dame sans Merci, «il mare è troppo fatto, non le pare? Mentre le paludi sono bellissime e poco sfruttate…» Phébus si dimena inquieto. La giacca di cuoio gli si arriccia intorno al collo. «Phébus, my angel, hai paura di perdere il treno?… Allora!… La prego, carissima, mi raggiunga subito a Roma all’Hôtel de Russie. Poi andremo a vivere nella Maremma, che assomiglia un poco alle mie praterie del West… Ah!» con un sospiro nostalgico, «so che lei farà di me una adorabile Cow-girl!» «Ma signora, e… il protagonista pescatore?» «Pazienza! Ne faremo un buttero!… Phébus, dà la zampa e dì: goodbye!… Arrivederci, illustre signora! Arrivederci nelle paludi!» Io tento una protesta. «Ma pensi,» esclama la Regina delle Movenze, «pensi che incanto! Vi troveremo anche dei bufali!…» Ah! vi troveremo anche dei bufali? Mi arrendo a questo argomento irresistibile. E difatti, ecco che ho preso in affitto per la settimana prossima, tra Velletri e Monterotondo, una capanna di fango e paglia in piena palude. Quivi lavorerò, circondata dalle mandre maremmane. E quanto ai miei pasti, farò tre volte al giorno la Via Appia per andare a mangiare a Terracina. Non credo disti più di un centinaio di chilometri… Così la mia vita è entrata pur essa nel turbine della cinematografia. La cinematografia! Il trionfo del moto, della rapidità, dell’impeto, del vertiginoso, dell’inaspettato, dell’inverosimile, del parossismale! La vittoria del movimento sulla immobilità, del fatto sulla frase, dell’azione sulla descrizione. Ma è questa l’arte vera! Ma è questa la vita vera!… Come mai ho potuto vegetare fino ad oggi negli angusti limiti della Convenzionalità, nel plumbeo pantano del Consueto?…
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Ugo Falena
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Si cominciò a girare un po’ d’arte*
Quando, poco più di nove anni fa, fui invitato ad assumere la direzione artistica di una casa cinematografica che sorgeva in Roma con seri intendimenti – la Film d’arte italiana – ebbi un istante di grande esitazione. Avevo allora allora abbandonato il seggio direttoriale del Teatro Stabile di Roma, l’indomani dell’indimenticata esecuzione della Nave di Gabriele d’Annunzio, e mi pareva una deviazione scendere in lizza in pro’ della scena muta, dopo avere strenuamente combattuto pel trionfo della parola viva. E tanto più, quando l’ancor nascente manifestazione della cinematografia si dibatteva in tentativi informi, affidata per lo più alle smorfie di qualche clown, e alle deplorevoli esercitazioni romanzesche di autori da strapazzo. Tuttavia fui consigliato, prima di rifiutare, ad andare a Parigi per studiare l’organizzazione della casa Pathé. E Parigi vinse le mie esitazioni. Fu riconoscendo al bois de Vincennes, nei pressi dei teatri Pathé, sotto le spoglie di un Pascià, l’attore Duquesne, l’acclamato Napoleone di Madame sans gêne – a traverso l’elegante divisa d’ufficiale russo, un po’ troppo sfolgorante per l’abbondante porporina che gli dorava i capelli, ahimè bianchissimi, il raffinato Dumény, l’insuperato interprete di Amanti, trasformato per l’occasione nel protagonista di Resurrezione di Tolstoj, intento a sedurre l’impareggiabile M.lle Roch de la Comédie, – fu incontrandomi nelle salette di prima visione, con Le Bargy e Sorel entusiasti della loro Tosca, e con Henry Lavedan ed Emile Fabre, pronti a prodigare ossigeno a quei primi tentativi, che compresi come il cinematografo, se non espressione assoluta di arte, potesse assurgere a manifestazione di buon gusto degna di tutto il rispetto. Se passavano dinanzi ai miei occhi, un po’ sorpresi dal turbinio di quella vita ritratta con un ritmo di vertigine, attori modesti che si ostinavano a conservare le origini acrobatiche del cinematografo, come Max Linder e Mistinguett, non ancora giunti alla notorietà e non ancora giunti a trovare un’espressione composta di comicità, come Prince che non appariva certo nel cinematografo il fine umorista del vaudeville; e autori commerciali come Hennequin e Decourcelle, che rimpolpava scenari da quel suo fauteuil ove asseriva – con compiacenza ampollosa – di avere nientemeno che pensato le troisième acte de «Deux gosses»; passavano anche nomi di attori illustri quali Garry, allora uscito vittorioso da una prova decisiva col Refuge del nostro Niccodemi, e Robinne e Réjane e Antoine e Gémier e Silvain e Mounet-Sully, su su sino alla divina Sarah; e autori non meno illustri: da Rostand a… Pietro [ma Georges] Clémenceau al*
Ugo Falena, Si cominciò a girare un po’ d’arte, in «Penombra», i, 1, novembre-dicembre 1917, p. 17.
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Si cominciò a girare un po’ d’arte
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lora duplicemente vittorioso, e come Presidente del Consiglio e come autore di quel Voile du bonheur, richiamato in vita, forse in omaggio alla rottura del concordato, dalla fresca melodia di un musicista prete spretato. Ma compresi anche che, nonostante gli sforzi di tante energie, benché nobilitata da tendenze e da tentativi spesso aristocratici, l’industria cinematografica in Francia pur, in allora, sorpassando di gran lunga quella italiana, miserevolissima, non aveva ancora un’espressione propria, cioè non viveva di vita sua, e si cristallizzava nella formula per cui era sorta a traverso Pathé: surrogato del teatro. Giunto in Italia, pensai subito a procurarmi il mezzo d’espressione. Come nobilitare un programma, senza nobilitare l’interprete? E mi rivolsi agli attori: ai più illustri e ai più valorosi. È detto, e si dice ancora, che gli attori della scena di prosa sono i peggiori attori della scena muta. È una frase comoda che non ha alcun valore di serietà, anche se qualche eccezione sembri confortarla. Quando l’attore è un artista – cioè un temperamento, una sensibilità – è il migliore interprete che lo schermo possa desiderare. Disciplinatelo e vedrete. L’esempio che Eleonora Duse ci ha dato in questi ultimi tempi è dei più convincenti. Dire che il gesto dell’attore cinematografico dev’essere improntato a una realtà scrupolosa (si dimentica troppo sovente, ora poi che il repertorio, e specialmente quello italiano, tende ad aristocratizzarsi, che la interpretazione deve assumere spesso atteggiamenti stilizzati) e che perciò quel gesto è agli antipodi col gesto dell’attore drammatico che è improntato, per la sua larghezza e la sua concitazione, a una realtà vista con una lente d’ingrandimento, è un errore madornale. Come non è la realtà viva il gesto dell’attore drammatico, così non è della realtà viva quello composto e misurato dell’attore cinematografico. L’uno e l’altro sono il prodotto di un artificio che, se sincero, ha valore di arte. E niuno meglio dell’attore drammatico, già temprato all’esercizio di trasfigurare la realtà, potrà rapidamente riuscire in un esperimento affine al teatro parlato, qual è quello del teatro muto. Francesca Bertini – e mi piace ricordare pel primo questo nome in un articolo di cinematografia, per parlarne più a lungo di poi – non sarebbe forse l’eletta interprete che è, se non fosse uscita dalla falange degli attori di prosa. Gli attori risposero all’invito. Primi: Ferruccio Garavaglia, Cesare Dondini, Teresa Mariani, e poi, mano a mano, Italia Vitaliani e Dina Galli, Ermete Novelli e Oreste Calabresi; e via via la falange dei più valorosi: Amerigo Guasti, Leo Orlandini, Ernesto Sabbatini, Giannina Chiantoni, Olga Giannini, Uberto Palmarini, sino al più austero di tutti: Ferruccio Benini. A poco a poco l’esempio ha seguito altrove: ecco Ruggero Ruggeri, ecco Emma ed Irma Gramatica, ecco Tina di Lorenzo, ecco Ermete Zacconi, ecco Maria Melato, ecco Lyda Borelli che assurge al fastigio della mondialità. Ma gli attori non sostano che brevemente, sospinti dal loro prodigioso vagabondaggio. Occorrono al cinematografo artisti stabili. Ed eccomi alla ricerca di una prima donna. Ricordo ancora la sera che il caso me la condusse. Si doveva inscenare (vocabolo tecnico bruttissimo come tutti i vocaboli tecnici) nientemeno che il Trovatore. Mancava Eleonora. Mi fu presentata una giovinetta dal volto
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Ugo Falena
un po’ pallido, ma quanto mai puro di linee, e dai grandi occhi nerissimi. La giovinetta sorrise e mostrò una fila di denti d’avorio. Ebbi la sensazione che su quella bocca potessero simultaneamente fiorire il dolore e la gioia. – Avete mai recitato? – chiesi. – Sì – rispose la fanciulla – nella compagnia Pantalena. – E la sua voce un poco cupa e velata tremava leggermente. – Domani farete una parte di prima donna. I magnifici occhi della giovinetta ebbero un lampo di letizia. La mattina dopo si posava dinanzi la chiesa di Santo Stefano Rotondo. Eleonora vestiva di nero, e mi parve che il suo corpo snello e flessuoso si modellasse armoniosamente sotto l’ampia cappa di crespo, e che i suoi occhi fossero più grandi e spiccassero dolorosamente nel pallore delicato del volto. Provammo. Eleonora passò sotto la prigione, udì i lamenti di Manrico, sostò, alzò gli occhi al cielo, scoppiò in lagrime. Armonioso l’incesso, preciso e sobrio il gesto, toccante il tremolìo di tutto il corpo percosso dagli accenti disperati di Manrico; ma notai anche che le labbra dell’attrice si agitavano convulsamente e che gli occhi le si riempivano di vere lagrime. Non mi ero ingannato. C’era nella fanciulla un temperamento e una sensibilità. Quella fanciulla si chiamava Francesca Bertini. Se relativamente facile era riuscita la vittoria sulle esitazioni degli attori, non altrettanto facile riusciva la conquista degli autori. I primi scrittori che, come me, con qualche speranza di successo, avevano passato il Rubicone, erano guardati in cagnesco dai colleghi grandi e piccini. E non a torto. Ché nulla di più miserevole era il repertorio della scena muta in Italia nove anni fa. I polpettoni più indigesti, le vicende più inverosimili erano dati in pascolo al pubblico, con l’ostracismo di qualsiasi criterio di buon gusto, non soltanto per l’insipienza di chi li manipolava, ma anche pel vieto concetto che le masse non fossero suscettibili di apprezzare e di godere uno spettacolo d’arte. La stessa Cines, non ancora entrata nel periodo di rinnovamento dovuto all’impulso di Alberto Fassini, non aveva dato, nove anni fa, che un solo timido esperimento che si elevava dalla produzione comune: una Beatrice Cenci dignitosa, di cui è doveroso, oggi, ricordare l’interprete – Fernanda Negri – e l’inscenatore: Mario Caserini. Tuttavia non mi scoraggiai. Volevano i guidatori dell’industria azione, azione, azione? Parlar loro, non dico di poesia, ma di bassa letteratura, equivaleva a farsi dare il ben servito. E allora scelsi un grande creatore di azioni (il più grande di tutti) che fosse anche un grande poeta. Mi avrebbero perdonato la poesia, per un riguardo al dramma palpitante. E inscenai Otello. E Otello fu un successo e un successo finanziario. E a poco a poco, lentissimamente è vero, la ragione si fece strada. Si capì che il cinematografo era una manifestazione d’arte, sia pure inferiore, che aveva bisogno per vivere la sua effimera vita, della linfa di una qualche nobile idea ispiratrice. Si capì che l’emotività del pubblico così pronta a vibrare per il fugace apparire di un bel volto di donna, per un bacio d’amore fecondato da un raggio di luna, per
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Si cominciò a girare un po’ d’arte
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tutti quegli elementi romantici (non romanzeschi: non fraintendiamo) che formano il prezioso e principale ornamento della scena muta, poteva essere percossa felicemente da vere e proprie sensazioni di poesia. E si giunse così a ottenere ciò che pareva irraggiungibile: la cinematografia che fissa le grandiosità dell’epopea, che si compiace di raccogliere i più sottili dibattiti psicologici sino a indugiarsi nella sottile evocazione di uno stato d’animo, che s’abbandona al volo del più puro lirismo. E avemmo così il poema vivo con Cabiria di Gabriele d’Annunzio (Itala Films) – il più complicato dibattito di anime e di idee con l’Anello malefico di Vincenzo Morello (Tepsi Films) – le più sottili tragedie spirituali con Malombra di Fogazzaro e La piccola fonte di Roberto Bracco (Cines e Caesar Films) – l’amabile volo di strofe con Rapsodia Satanica di Fausto M. Martini (Cines). Avemmo, cioè, la cinematografia espressione propria: non più teatro, e se anche, talvolta, generata dal teatro, non certo da quello che vive di intrighi, di situazioni, di meccanismi. Il silenzio portava sulla scena muta, l’eco della parola di cui è il vivo respiro. Ora dovrei dire come si mette in scena. Un buon scenario, dei buoni interpreti; ma sopra tutto un direttore: ecco quanto serve. Lo scenario non è che la fonte d’una creazione, e chi inscena deve essere un poco un creatore. L’ideale sarebbe che l’autore mettesse in scena direttamente l’opera sua. Accade della film quel che accade delle tele di un pittore. Esse si completano a traverso due procedimenti creativi: quello dell’idea inspiratrice e quello dell’esecuzione che è una creazione anch’essa che germoglia d’ora in ora. Hanno tanto sentito questa necessità le case italiane che – nonostante nobili eccezioni come Enrico Guazzoni e Augusto Genina – hanno finito con l’affidare le direzioni artistiche, più o meno palesemente, a nomi noti nel mondo delle lettere e della poesia come Marco Praga, Alfredo Testoni, Fausto Salvatori, Lucio d’Ambra e quello modestissimo del sottoscritto. Troppo ormai è noto il meccanismo dell’inscenamento di una film, perché io debba ripeterlo ancora una volta ai lettori della magnifica Rivista che Tomaso Monicelli ha voluto lanciare, con mirabile audacia, al pubblico italiano. Chi non ha assistito alla riproduzione di un quadro cinematografico, non dico in un teatro di posa, ma dall’angolo di una via? Ma non tutti sanno l’intensità di vita che si vive mentre si prepara una film. È questo un elemento assai più importante che non la conoscenza del processo di elaborazione. Se il pubblico sapesse che l’ora di spettacolo cinematografico è costata sovente mesi di fatiche, se potesse apprendere gli incidenti e le emozioni che sovente quelle fatiche hanno procurato, se potesse mescolarsi al mondo strano ed eterogeneo che forma la gran massa dei lavoratori della scena muta, certo raddoppierebbe i suoi entusiasmi per questa forma d’arte che tanto lo esalta. Il mondo artistico cinematografico! Nulla di più caratteristico e di più umano, il mondo: il mondo appunto, poiché tutte le classi sociali vi sono rappresentate. Dal letterato, al grande interprete, ai grandi allestitori della scena, che talvolta rispondono ai nomi di Duilio Cambellotti e di Caramba, ai fornitori, agli operai,
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Ugo Falena
sino al cachet, in cui vi è dato incontrare, accanto all’attore disoccupato, accanto al cantante giù di voce, il blasonato ridotto al verde, la dattilografa ricca di sogni e di speranze. Un mondo che ha un’anima pronta a scattare sol che il richiamo caldo d’un direttore sappia incitarlo, sol che l’abile gesto di una interprete giunga a commuoverlo. Lo vedrete allora piangere vere lagrime intorno a Maria Melato dolorante nel tragico delirio di Anna Karenine, lo vedrete prorompere in applausi dopo che Italia Vitaliani avrà nella Fedra di Euripide fatto intravvedere la morte nei suoi occhi aperti. Ma c’è un altro mondo ancora più interessante di quello dei lavoratori della scena muta: un mondo à côté: il pubblico della strada. Nulla di più curioso, di più entusiasta. Domandatelo a Lyda Borelli, a Bianca Stagno Bellincioni, a Francesca Bertini, le tre più grandi e più belle attrici dello schermo. Sol che esse appariscano nella strada per posare, e uno stuolo di popolane le circonda: sono fiori che vengono gettati nelle automobili, sono mille domande rivolte allo scopo di udire la voce della «tragica del silenzio», sono piccole mani audaci di operaie che vogliono accarezzare il soffice tessuto di una stoffa preziosa. Ed è dovunque lo stesso pubblico improvvisato, attento e rumoroso, cavalleresco e ironico, tanto nelle grandi che nelle piccole città. Sia che a Venezia, alla vista di Cecè Dondini vestito da Jago, che traversa in gondola il Canal Grande, in compagnia di Cassio, commenti: «I re spagnoli venudi pei funerai de don Carlos»; sia che in una piccola città emiliana, trasformata nella bella Granata, abbandoni botteghe e scuole all’apparizione di Vittoria Lepanto stupendamente vestita da Carmen e seguita da un corteo enorme di picadores, di banderilleros, di toreros, di espadas; sia che a Roma, sul Gianicolo, allarghi il cerchio affollato attorno a Francesca Bertini, magnifica Francesca da Rimini, perché i detenuti possano gustare la scena dalle finestre sbarrate di Regina Cœeli. Pubblico, però, perfetto giudice, quale nessun pubblico fu mai, e che non conosce che due misure di valutazione: il trionfo o la condanna. E più quel pubblico è lontano dai grandi centri, più ha poca domestichezza con gli spettacoli teatrali di qualsiasi genere, più le sue sensazioni sono profonde e più frementi sono i suoi entusiasmi. Ricordo, come se fosse ora, l’impressione che provai mentre si girava Cavalleria Rusticana nella piazzetta siciliana che Giovanni Verga aveva preso a sfondo del suo celebre dramma. La piazza era gremita. I tetti, le finestre, gli alberi, rampollavano uomini. Si doveva tenere a bada la folla con delle funi. Il pubblico seguiva la scena con un silenzio religioso. Quando Santuzza – Gemma Bellincioni – irruppe da un vico, per gridare agli attori agglomerati dinanzi all’osteria di gnà Nunzia: «Hanno ammazzato compare Turiddu!» e stramazzò in terra come morta – un urlo formidabile di approvazione uscì da quella massa selvaggia ed ingenua. Gemma Bellincioni si rialzò pallida, stupita, e, certo, dové credere di trovarsi ancora sulla ribalta dei Costanzi, la sera famosa che presentò al pubblico delirante la gloria nascente di Pietro Mascagni. Il consenso del pubblico, la conquista di nuove e salutari energie, dimostrano che l’industria cinematografica italiana è nel suo momento ascendentale. Cerchiamo che essa si conservi italiana, tanto più che, ora, essa supera, se non altro per nobiltà d’intendimenti, la produzione straniera. Ci fu un momento in cui i
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Si cominciò a girare un po’ d’arte
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cosiddetti competenti andavano in sollucchero per quella tedesca, pur così fastidiosa pel suo carattere automatico; poi, fu la volta di quella americana che, se è degna di considerazione per la sua irrequieta mobilità, è sprovveduta, però, di quelle qualità ideali e passionali di cui difetta appunto la razza irrequieta che la produce. Siamo e restiamo italiani. Forse l’Italia è la sola nazione che ha saputo dare una fisonomia propria al cinematografo. Guardate la cinematografia francese. Essa è restata teatro e del cattivo teatro. Quanto ai catoni che continuano a gemere sulla cattiva produzione per non curarsi della buona, non giova occuparsi. In fatto d’arte, c’è sempre una sproporzione enorme tra il buono e il cattivo.
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Pasquale Parisi
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Alla ricerca del trucco*
Un giorno trascinavo la mia stanchezza e la mia solitudine su per uno di quei tortuosi e scoscesi viottoli che dalla piccola marina di Capri conducono alle rovine del Castello. Tutta l’isola era in quell’ora meridiana assorta e sprofondata in un tedio silenzioso e sereno. Saliva alla montagna dal mare turchino, con ritmo eguale e assiduo, lo sciacquìo lieve delle onde, mentre ogni altra voce taceva; e anche l’aria era immobile. Ad uno svolto il mio dolce incantamento fu rotto da una singolare e imprevedibile visione. Sul ciglio della montagna, in piedi, il corpo chino sul petto, lo sguardo fisso sul mare, era Napoleone. Oh, stupore! Avanzai verso di lui. Cento voci si levarono contro di me, a impedirmelo. Napoleone si volse a guardarmi con tutto il suo corruccio. Una mano mi afferrò violentemente per un braccio e mi inchiodò al posto in cui mi trovavo: – Fuori del campo, per Dio! Non vedete che si gira! E dopo una pausa: – Da capo, su! – Soffrite ch’io vi spieghi – dissi più tardi a un signore molto elegante e molto scalmanato – come io fossi del tutto lontano dall’idea di invadere il campo di Napoleone. Convenite, però, che l’incontro era inaspettato e stupefacente. Ma l’altro non mostrò di apprezzare al suo giusto valore la mia sorpresa. Io credevo di trovarmi a Capri; egli, più fermamente di me, credeva di trovarsi a Sant’Elena. In seguito la sua convinzione ha avuto, da milioni di persone, da giornali, da quelli che si chiamano «gente che se ne intende» una sanzione autorevole e inoppugnabile. In cinematografia tutte le isole si somigliano. Ciò accadeva molti anni fa. Volle poi il mio destino che io dovessi entrare a far parte di coloro che se ne intendono e che di nulla più che in cinematografia avvenga si stupiscono. Ma amo forse meno per questo il cinematografo, io? No. Io lo amo come lo amate voi, come lo amano tutti che lo conoscono da vicino o da lontano più per quanto di fantastico e di assurdo è in esso che per quanto vi è di reale. La gioia di vedere un mondo che somiglia al nostro e che non è il nostro! È godimento sottile e squisito che pochi intendono e che tutti provano senza rendersene conto. Sentite dire anzi che la ragione del successo di questa nuova arte sta nella riproduzione esatta e fedele del nostro mondo e della nostra vita. No. La ragione è precisamente nel contrario: perché il cinematografo riproduce la vita *
Pasquale Parisi, Alla ricerca del trucco, in «Penombra», ii, 2, gennaio-febbraio 1918, pp. 27-28.
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Alla ricerca del trucco
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senza che la vita riprodotta sia quella alla quale attinge; perché il cinematografo ottiene in realtà il fantastico; l’inverosimile e l’assurdo; perché non riproduce la natura se non per alterarla o perfezionarla secondo i suoi bisogni; perché crea, sì, crea la vita, utilizzando gli elementi della vita reale, combinandoli assieme, travisandoli, alterandoli in modo che non sia più possibile discernere il vero dal falso, il naturale dall’artificioso e che tutto sembri vero proprio tutto quanto non lo sia. C’è ancora chi piange sulla breve vita che in cinematografia hanno avuto quelle che si chiamavano le scene dal vero. Quando si cominciò a negligerle si imprecò alla industria che soffocava la ragione di essere del cinematografo. E non vi fu chi osservasse che le scene dal vero avevano attinto il loro primo successo alla alterazione del vero attraverso il duplice obbiettivo di presa e di previsione. La cinematografia divenne arte quando cominciò ad essere finzione, e il suo fascino sulla folla si determinò quando la finzione andò oltre la cornice dello schermo per invadere tutto quello che si chiama il mondo cinematografico, in tutte le sue espressioni e in tutte le sue manifestazioni. Le deità cinematografiche hanno nome: Assurdo, Irreale, Fantasia, Iperbole, Amplificazione, Falso, Menzogna, Trucco e Bellezza. E il nuovo Olimpo, tutto assieme – ma ciascuna delle deità a suo modo – crede – o finge – di adorare e di obbedire a una Iddia suprema che si chiama Verità. È questo il Regno delle favole. Più volte ho pensato di svelare al lettore profano i segreti di questo Regno e sempre mi son trattenuto dal farlo. Ho dubitato, in verità, del vantaggio che potesse derivarne non tanto alla cinematografia quanto all’iniziato. Noi siamo i distruttori delle nostre illusioni, ciascuna delle quali è come il giocattolo nuovo nelle mani del bambino. Quando ne ha scoperto lo scheletro o il meccanismo, il giocattolo non lo interessa più. Ma chi di noi ha una così profonda saggezza ed una così tranquilla filosofia da resistere all’assillo di scoprire il segreto delle sue più care illusioni? Quanti di noi non hanno inaridito il proprio cuore perché han voluto, con analisi sottile, persistente, spietata, penetrare il segreto dell’amore che è la più grande e la più tenace delle illusioni umane? E vogliamo noi ascendere l’olimpo cinematografico, entrare nel Regno delle favole come i profani nel Tempio e rovesciar gli idoli e abbattere gli altari e strappar tutta la fastosa esteriorità del magnifico luogo di incantamenti? Ma voi potreste osservare: – Non si discute, non si scrive già tanto, e da un pezzo, del cinematografo, dei suoi congegni tecnici e artistici, delle sue finalità attuali, dei suoi destini? Non partecipano alle discussioni e alle polemiche giornalistiche uomini più esperti di voi e personalità dell’arte le quali portano, coi loro giudizi, tutto il peso della loro notorietà e della loro fama? Perché dunque voi, che siete, probabilmente, l’ultima ruota del carro, vi lasciate tanto pregare? Ed io potrei rispondervi che tutto ciò che si dice e si scrive, anche dalle persone più autorevoli, sull’argomento cinematografico, è olocausto, è sacrificio, è in-
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Pasquale Parisi
censo offerto alle nuove deità dell’Olimpo e della loro Iddia suprema. Non è, in verità, che tutti sieno d’accordo nel conservarvi l’illusione, ma è che tutti subiscono il fascino di questa illusione e più l’alimentano quanto più credono di dir parole austere e veritiere. Ricordate le nove dee in nome di chi parlano e a chi credono di obbedire. Per uscire da questa atmosfera illusoria, nella quale tutti navighiamo con l’autonomia apparente di tanti piccoli mondi che gravitano intorno all’astro maggiore ciascuno essendo satellite d’un altro, bisogna scendere, scendere, scendere fino all’esame minuto e pedante del piccolo artificio tecnico dal quale scaturisce spesso l’assurdo meraviglioso e incantatore. E la conoscenza di certi piccoli segreti di laboratorio vale essa la rinunzia che costa? Facciamo la prova. Sapete come si ottiene in cinematografia la corsa folle di un treno, di un automobile, di un uomo? Tagliando sulla pellicola un certo numero di immagini (fotogrammi), qua e là, e ricongiungendo i due lembi. Risposta: – Grazie. Lo sapevamo: Lei è stupido ed elementare. È giusto. Proseguiamo. Sapete come la vittima riappare a turbare i sonni dell’assassino e a darvi qualche brivido di sgomento? Il direttore di scena immobilizza l’assassino e l’operatore continua a svolgere la pellicola, chiudendo a poco a poco il diaframma. Terminata questa prima operazione, la vittima è piazzata di fronte all’assassino e l’operatore gira la manovella del suo apparecchio in senso inverso, fino al punto di partenza. In seguito apre progressivamente il diaframma svolgendo di nuovo la pellicola che, a poco a poco, impressionata, darà nettamente l’apparizione. Per la sparizione si segue l’istesso metodo, in senso inverso. Risposta: – Ne abbiamo capito poco, pure apprezzando la vostra preoccupazione di essere chiaro. In ogni modo, anche questo è vecchio. Venite avanti coi più nuovi trucchi. Eccomi. Vi dirò, per esempio, come si fa a far saltare in aria il ponte Alessandro III, quello degli Invalidi o un altro che più ci piaccia, purché sia storico, monumentale, e il suo crollo desti una profonda emozione. Si fa una riproduzione dal vero di questi ponti, con la macchina di presa a grande distanza. Poi si ricostruiscono in piccolo i tre ponti, con pezzi di legno, cartonaggi e calcinacci. Un abile macchinista teatrale può fare una costruzione che una piccola scossa basta a far crollare. L’operatore si colloca molto vicino al ponte con la sua macchina, e gira. Si possono far crollare così tutti i ponti e tutti i monumenti che vi piaccia di demolire. Risposta: – È poco interessante. Verissimo! E vi assicuro che non riesce più interessante la caduta d’un uomo dall’alto di un tetto quando si sappia che, coprendo a metà l’obbiettivo, si riproduce sulla prima metà del fotogramma il resto dell’uomo che a due metri trova un bel praticabile imbottito sul quale cade elegantemente e
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impunemente; e sull’altra metà del fotogramma, rimessa a posto, la caduta precipitosa e scomposta, nello spazio, di un fantoccio buttato giù dal praticabile. Risposta: – Tutto ciò è ingegnoso, ma è di un interesse molto relativo. E chi lo contrasta? Non lo avevo detto io prima? Di trucchi del genere, con la ricostruzione in piccolo di un edificio, d’una nave o d’un dirigibile, con la sostituzione di un fantoccio alla persona con la sovrapposizione o la fusione fotografica, potrei disvelarvene centomila già fatti e centomila inventarne. Ma a quale scopo? Conveniamo che la prova è fallita. Ho visto giorni fa un gran direttore di scena cinematografica. Gli ho chiesto di indicarmi qualche trucco nuovo. Mi ha risposto: – I trucchi più facili e usati non giova indicarveli. Li conoscete quanto me. Ma io, ogni giorno, di fronte alle esigenze, ne penso altri che sono veramente nuovi e singolari. Non vi dispiaccia, però, che io ne serbi il segreto anche con voi. Ci credete? Quel direttore non fu mai tanto… cinematografico quanto in quel momento. La sua risposta non era solamente un trucco – e uno dei più indovinati – ma era un devoto sacrificio compiuto all’altare delle dieci deità – la Verità compresa – dell’Olimpo cinematografico. Ed era anche un ammonimento. I trucchi della tecnica non sono che modestissimi mezzi di concretizzazione e di espressione d’un assai più vasto compito affidato all’arte cinematografica. E il compito è quello di avvincerci, di travolgerci, di trasportarci tutti in un mondo fantastico e irreale che ha il nome di realtà e di verità. Il suo segreto magnifico sta tutto in questo contrasto. Guardiamo lo schermo. È la vita nel suo ritmo più accelerato, più intenso, più febbrile. Non ne vediamo che i punti salienti, gli attimi culminanti e anche questi sono espressi in forma superlativa. È, in poche parole, la vita ad alto potenziale, come direbbe un elettrotecnico. E si ha un bel dire che non sia arte. Lo negano coloro che dell’arte hanno un concetto fossile e statico. La bellezza vi ha il suo altare a piè del quale, in ogni fotogramma, si bruciano la logica e la verosimiglianza. E che vuol dire? Non sarebbe… il cinematografo, se non esigesse questi sacrifici che sono la sua fortuna e la sua gloria. Guardiamolo nelle sue manifestazioni al di fuori dello schermo. Ogni film è la più bella che sia stata prodotta; ogni messa in scena costa un tesoro; ogni attrice prende una paga. Mille non esiste se non nei suoi multeplici. Bello non esiste se non nei suoi superlativi e nei superlativi dei suoi sinonimi. I più sonanti aggettivi si traggono in disparte, mortificati. Bisogna coniarne di nuovi. Le più belle espressioni della beltà muliebre hanno un assai breve regno, e nuove regine sorgono a spodestarle. La vita umana, le umane passioni, le ricchezze, bruciano continuamente a questa vivida fiamma divoratrice. – Non chiediamo fino a qual punto il dio Trucco – che è il Mercurio dell’Olimpo cinematografico – abbia la sua parte. Egli è tutto ed è nulla. E va con le ali al piede da Assurdo a Irreale, da Iper-
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Pasquale Parisi
bole ad Amplificazione, da Menzogna a Bellezza e a Fantasia, intrecciando trame di incantevoli illusioni nelle quali gli uomini son presi in nome della Verità. È il regno delle favole in cui però le favole hanno tutte le apparenze di cose reali, tanto il trucco è ingegnoso e perfetto e conduce a risultati meravigliosi. Qui gli uomini vedono le immagini delle loro proprie illusioni, quelle che gli antichi erano paghi di immaginare e di sognare.
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Ettore Cozzani
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La rupe e la statua*
Il tumulto fragoroso della nostra età rinnovatrice, che pareva avviarsi a distruggere ogni senso di equilibrio e di armonia nelle forme e negli atteggiamenti della vita individuale e sociale, tal che molti smarriti amatori della Bellezza si rifugiavano nell’ansia d’uno sgomento senza scampo tra le ricordanze le ombre e gli echi del passato, chiudendo gli occhi alla realtà nata di recente, e torcendoli e coprendoli a due mani di fronte alla realtà presagita dell’avvenire, – comincia a comporsi senza sminuirsi in linee d’una musica nuova, più possente e più grande della classica: – e lo stesso poeta che ha goduto la pacata santità luminosa del Partenone, e la gagliarda passione respirante della Notte, – può tra la vertigine d’una vaporiera in fuga, e il rombo d’uno stormo di velivoli, guardare un moderno edificio bel lavoro contesto di acciaio e di cristallo, come d’uno scheletro e d’una polpa nuovi, e irretito di fili elettrici come di nervi, e fremebondo del gigantesco pulsare delle dinamo come di cuori satanici – e cogliere nell’insieme dell’architettura invasa di una febbre quasi tangibile la parola d’una grazia che gli antichi non conobbero e soltanto per questo non santificarono con la benedizione del genio. La mole d’una corazzata grigia, fieramente impostata sulle cozzanti giogaie dei marosi lividi circuiti di schiume, – tutta raccolta – nella sua infrangibile forza chiusa, – come una belva all’agguato, con le gole dei suoi cannoni rattratti e pronti al furibondo scatto e all’urlo caotico della bordata – val bene tanto in bellezza quanto in potenza la mole della sfinge naufragante senza un moto o tremito nella marea delle sabbie riarse; – e il trito picchiettar d’un congegno che le due mani d’un uomo nasconderebbero, ma che ha la forza e l’astuzia di lanciare nello spazio una parola che supera gli abissi e gli uragani e va dritta come il pensiero d’una madre morente, a trovare al di là delle sterminate lontananze il congegno compagno che la parola riceva e trascriva in un altro trito picchiettare, – e tutto con la prestezza e certezza dell’attimo e del destino, – val bene tanto in bellezza quanto in nobiltà una cattedrale gotica, slingueggiante nel cielo con i suoi mille pinnacoli come un rogo impietrato. Tutto è bello nella vita d’oggi, e così profondamente bello che noi non ne abbiamo ancora compresa la bellezza; in parte perché troppo spesso distraiamo l’anima dalle più fresche apparenze della vita, ignari della loro segreta verginità, – in parte perché non è apparso ancora il genio, o la famiglia di genii, che abbia *
Ettore Cozzani, La rupe e la statua, in «In penombra», i, 1, giugno 1918, pp. 10-12.
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Ettore Cozzani
saputo raccogliere questi lontani e ancora disaccordi elementi della nuova armonia, e li abbia avvicinati, e accordati, e presi in una suprema unità raggiante. Ma gli artisti, d’ogni arte, devono tuffare il loro spirito e i loro sensi in tutte le materie che la necessità ogni giorno o tramuta nel seno della civiltà o scava dalle viscere dell’ignoto, e incominciare a plasmarle, improntandole del suggello della loro potenza creatrice: e nulla disdegnare. Spesso oggi l’artista che è sempre vissuto povero, stentando e peccando, sacrificando alle manchevolezze quotidiane tanta ala, e rostro ed artigli, avrebbe da certe attività moderne la ricchezza ch’egli può trasformare in libertà e in fede: e non s’addà di tanta fortuna perché gli pare di immiserire la sua inspirazione tra cose e fatti ignobili. Egli è un debole! Che è, per un esempio, questa “pubblicità”, questo spasimante bisogno del “richiamo”, che invade in forme plastiche, figurative, parlate, musicali, le nostre vie e le nostre pagine, – e che ci avvilisce e irrita perché è abbandonato al mestiere quattrinaio e vergognoso? Se oggi vivesse un popolo di Botticelli e di Cellini, essi darebbero a un cartellone o a un albo di annunci il mistero della loro grazia e la esuberanza del loro genio decorativo; e persino Michelangiolo e Leonardo imprimerebbero su questa rude lava ancor tepida il segno leonino della loro potenza. Così è dell’arte, del movimento e del silenzio: bellezza? no; – ma, non ancora! – materia? sì! e resistente e magnifica! Ma tocca all’artista penetrarla, coglierne le qualità della fibra e della grana, e poi buttarsele sopra con tutta l’anima rovente, e percuoterla e diromperla, foggiandone la mole secondo il limpido sogno che ondeggia in cuore. Essa è come la rupe ancor tutta macchiata dalla lebbra dei licheni, chiomata di ramaglie selvagge, inasprita, screpolata, tritata dall’avvampare del sole e dallo scoscendere delle maree; – ma ecco il genio la vede, ne scopre con la penetrante forza del suo terribile sguardo la polpa candida e soda, vi s’avventa sopra con mazzuolo e scalpello, e batte batte, tra una tempesta di schegge che fischiano, mentre la pietra geme e si torce: e ciò che all’alba era, sul grigiore verdazzurro della marina che si destava, un ruvido e rugginoso macigno, è adesso, nella luce del tramonto che l’avvolge d’una porpora trionfale, – una meravigliosa creatura alata, che par sobbalzi nel cupo ansare dell’onda, per librarsi ad un volo altissimo e senza fine. Non è vero che il cinematografo sia per uccidere in un più o meno remoto avvenire il teatro; né ch’esso per sua natura corrompa e diseduchi i costumi e la gioventù. Si può attestare anzi ch’esso ha richiamato al teatro la folla, la vera multiforme e multanime folla, quella che invadeva le gradinate degli anfiteatri greci e romani, e ch’era la gioia della scena come la scena era creata per la sua gioia; spettacolo essa stessa nello spettacolo, elemento primo della bellezza tragica del dramma a cui partecipava con la poderosa sua presenza, elemento essenziale della commozione che dal dramma si sviluppava e vi ritornava ripercossa, come il flutto parte
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La rupe e la statua
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dal mare e vi ritorna in risacca, o fatto candido e fragoroso dalla roccia che lo plasma ed esalta, e respinge vestito d’iridi, e gonfio il petto di musiche. La nuova musa evocherà invece ai suoi riti le turbe che amavano il gioco, la rissa, l’ebbrezza e la voluttà, ed insegnerà ad esse il mistero della bellezza, rivelerà il godimento dello spirito ch’era fino ad oggi rimasto impantanato nello stagno del piacere brutale. E se la corruzione oggi sbocca dall’arco della scena muta, e attanaglia la vergine con lo sfoggio bàcchico del lusso, e morde al cuore il giovinetto ignaro con l’espressione della libidine, o l’attira al rischio dell’avventura con le parvenze eccitanti della gara scaltra e del gioco protervo – ciò si deve non alla natura di questa nuova arte, ma all’avidità di lucro e alla grossolanità di gusti dei trafficatori, e alla morbosa velleità delle mènadi sgualcite, e dei lisci e tronfi mezzani che hanno invaso alcune delle case dove nasce il dramma, come fossero fungosi luoghi di perdizione. Ma chi ha visto le moltitudini seguire col fiato mozzo le grandiosi visioni della Cabiria, o ammirare in una taciturnità piena di brividi le squisite eleganze di Cenere – per citare appena le due tra le mille composizioni più note o più recenti – ha certo compreso quale possente mezzo d’educazione estetica possa diventare in mano di artisti d’ogni arte che si raccolgano e affratellino per creare l’anima e il corpo, la veste e l’atmosfera di questa creatura ultima della poesia, la calunniata invenzione. Alla quale è toccata un po’ la sorte che da prima ha guastata d’ombre la vita del giornale: da un lato i mentori urlavano ch’esso avrebbe tarlata la gioventù fino nell’ossa, e i sacerdoti scomunicavano i lettori dei quotidiani, – dall’altro gli esteti gemevano che il foglio volante, moltiplicandosi all’infinito e rendendosi indispensabile al popolo, avrebbe assorbito ed ucciso il libro; – oggi, mentre la stampa quotidiana diventa una potenza morale, che prende parte alle lotte delle nazioni e più d’una volta le prepara e le guida, i mentori pubblicano essi stessi giornali in tutto simili a quelli che secondo le lor false profezie avrebbero distrutta l’anima dei buoni, – e gli esteti s’accorgono che il libro non è mai stato così vivo, bello, audace, avviato anche col soccorso che gli dà la propaganda dei quotidiani, ad un avvenire di luminosa perfezione. Ora io non posso, per amor d’armonia, tutto dire ciò ch’io penso dell’arte del silenzio in queste pagine che sono un preludio; – ma voglio almeno accennare ad alcuni tra i principali elementi della sua ricchezza e fortuna: e spero ch’io valga a mostrare altra volta, come proprio in essi e per essi l’Italia possa imprimere in questa vergine e scabra materia il suggello della sua eterna nobiltà. E prima di tutto la bellezza del paesaggio, nella sua immensità, varietà, compostezza musicale! il teatro parlato, ch’è tutto fatto, sia nella visione dei luoghi che nell’espressioni verbali di sintesi e di scorci, ha dovuto per necessità rinunciare alla vastità degli orizzonti, ma principalmente al loro mutarsi e svolgersi, alla fusione dello spirito dei luoghi con lo spirito delle creature; la scena, che sempre imita
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Ettore Cozzani
a stento la natura, è fissa e singola, non si cambia che in rari trapassi del dramma, è composta di accenni riassuntivi, tradisce spesso all’occhio dello spettatore l’artificio meccanico: invece, com’è nel romanzo, così nel teatro sarebbe d’una potente efficacia l’andare compagno delle passioni che plasmano lo spirito e si riflettono sul volto umano, e delle passioni che fermentano e tempestano nel paesaggio e s’irradiano o incupiscono nel suo aspetto infinito: – Guglielmo Shakespeare ha intuito la magia di questo soffio animatore che vien dalle cose sugli uomini, e con libertà spaventosa ha messo nelle sue tragedie le foreste in marcia, le montagne e le marine, e ad ogni articolazione del dramma in scene e spesso anche ad ogni articolazione delle scene in colloqui ha variata la visione dei luoghi; e sebbene ai suoi tempi il teatro fosse d’una scheletrica sobrietà di mezzi molto vicina a quella veramente elementare dei tempi di Eschilo, io penso che l’uno e l’altro titano si sarebbero serviti del cinematografo con suprema noncuranza d’ogni sospetto di esteti, se l’avessero conosciuto: perché io credo che presto vedremo il teatro parlato chiedere mezzi ed effetti a questa meccanica ognor più perfetta. Ma un altro elemento e più prezioso ancora è la bellezza plastica del corpo umano, introdotta nel dramma quasi a parteciparvi come una “persona”; – la suprema legge di armonia che sta chiusa nelle linee corporee d’una magnifica o d’una squisita donna, è rivelata sullo schermo come nessuno mai la colse e comprese: la passione che tocca e agita quest’armonia, e ne sviluppa tutte le ondate di motivi, in melodie di linee, in sinfonie di movimenti, è tesoreggiata attimo per attimo dall’obbiettivo, perché l’anima se ne pasca, come nessun occhio potrebbe; – e non soltanto la bellezza sovente troppo carnale e impudica della femmina, ma anche la più spirituale e più elevata venustà della maschera umana; e nella donna e nell’uomo: quel lavorìo segreto delle più ascose fibre che noi avvertivamo in qualche fugace espressione del volto, ma che adesso ci si spiega vario e potente in ogni suo più minuto senso. È la mimica che gli antichi tentarono, ma che lasciaron invilire e cadere poi subito, perché forse appunto non ebbero il mezzo di svilupparla e nobilitarla: ma che per questa via sarà portata da qualche artista geniale ad un’altezza d’espressione insuperabile, simile nella sostenuta ampiezza di tutto un dramma ai rari attimi in cui nel dramma parlato, uno sguardo, un cenno, un impallidire o un fremere ci raccolgono e saettano in cuore il senso tragico d’un’intera tempesta di passioni. E con la mimica e meglio d’essa, rinasce con l’arte del silenzio la Danza: non la Danza come arte a sé, come espressione d’un particolare, troppo definito, e troppo chiuso modo di suscitare un godimento spirituale elettissimo nello spettatore; ma la Danza come la più vasta e varia facoltà e potenza del ritmo: ritmo della bellezza plastica in movimento; atteggiamenti e composizioni di gesti in successione infinita e mirabilmente varia, intrecciarsi e districarsi di linee, illuminarsi e svanire, fasciarsi in penombre e affiorare in barlumi, della fluttuante e flessibile, e molle e salda, e gelida e ardente e sempre nobile maraviglia delle membra umane esaltate dalla giovinezza fino al limite della maturità d’oro; – la scoltura dispietrata, l’attimo già incatenato nella mole macignosa, reso libero al suo incan-
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La rupe e la statua
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tevole moltiplicarsi; – l’anima incristallita per sempre nell’espressione d’un suo palpito pur divino, sciolta dall’eterna immobilità, e capace di esprimersi in mille altre movenze ricche ciascuna d’un groviglio di palpiti diversi: il canto misterioso del corpo bello, in cui la nostra vita così gaudiosamente s’immerge, per cogliere sì a volte il brivido del fugace piacere, ma spesse volte anche il mistico verbo del dolore e della castità. E se oggi di questi sovrani elementi lirici o tragici v’è chi fa indegno sciupìo nella volgarità di azioni sceniche in cui la stupidità e l’oscurità si confondono in un pantano fetido e vischioso; – io so che domani (se anche egli come in ogni altro suo campo l’artista non si abbasserà alla materia ma innalzerà la materia alla sua altezza e nella sua luce), sorgerà un genio che d’un balzo scaglierà questa ancor tenebrosa mole ad accendersi nell’arco incandescente della perfezione: il Michelangelo che in un crepuscolo d’alba si abbatterà su la rupe ruvida e scabra, e dopo avervi schiantato su l’anima in una intera giornata di titanica lotta, si leverà nel crepuscolo del tramonto a contemplare la statua irraggiata dalla porpora cupa dell’orizzonte.
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Silvio D’Amico
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Il cinematografo non esiste*
Ma come! – diceva quell’amico mio. – Esistono soltanto a Roma cento e passa cinematografi, esiste al Ministero dell’Interno un Ufficio Censura per le pellicole, esistono le Ditte che spendono i milioni e incassano i miliardi e si combattono fra loro con giornali grandi come lenzuoli in obbedienza al Decreto Luogotenenziale sull’economia della carta, esistono i teatri di posa e le paghe di Ghione, di Maciste e della Bertini, esistono Febo Mari che scrive le films in stile dannunziano e Lucio D’Ambra che fa pure il critico della «Nuova Antologia»; e tu dici che il cinematografo come arte a sé, come mezzo di espressione originale, come insomma qualcosa che è quella cosa e non è un’altra, non esiste! Io cercai di riordinare con un certo metodo le mie idee sulla materia: prendendo le mosse sin dalle origini. Anche quando ero bambino, un giorno mi dissero: – Vieni a vedere il cinematografo. È un po’ caro, perché costa sei soldi. Ma è una cosa curiosa. – Io trovai uno zio che mi pagò i sei soldi; e andai a vedere con lui la cosa curiosa: in un localetto scuro, da Lelieure, al vicolo del Mortaro. Lo spettacolo era interamente, come si direbbe adesso, dal vero: Re Umberto tutto baffi e occhi che passava una rivista, e poi la gente che andava pel Corso sul mezzogiorno, e poi dei bagnanti che si buttavano a mare dal trampolino d’uno stabilimento, sollevando di grandi spruzzi candidi tutt’intorno. Ma, forse a motivo che la proiezione tremolava molto e dava fastidio agli occhi, lo spettacolo era breve. Non tanto però da escludere una specie di scena comica finale: la quale consisteva nel proiettare le films alla rovescia, sotto gli occhi degli spettatori. E allora tutti a ridere vedendo uomini e carrozze pel Corso camminare tranquilli all’indietro; e il mare donde schizzavan fuori i bagnanti, preceduti dagli spruzzi, fino a risaltar sul trampolino. Risi anch’io molto; e catalogai mentalmente questo genere di balocco fra altri che già conoscevo: la lanterna magica, lo stereoscopio, il lamposcopio, le figurine mobili, ecc. Poi me ne scordai. Di certo il Cinematografo, col C maiuscolo, in quel tempo ancora non esisteva. *
Silvio D’Amico, Il cinematografo non esiste, in «In penombra», i, 4, settembre 1918, pp. 135-137. L’articolo è seguito da una nota redazionale volta a rilevare il carattere paradossale dell’intervento. Vi rispose sulla stampa di categoria, ad esempio, C. Scag., Il cinematografo non esiste?, in «La Cine-fono e La Rivista fono-cinematografica», xii, 378, 10-25 ottobre 1918, ora in Tra una film e l’altra, cit., pp. 350-352.
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Il cinematografo non esiste
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Ci tornai molto più tardi, da adolescente, che già m’ero fatta una specie di passione pel teatro, e conoscevo a menadito i varî generi di letteratura drammatica, i quali non erano stati ancora aboliti da Benedetto Croce. Questa volta non fu uno zio, ma un compagno cattivo, che mi condusse in un locale più vasto, e per soli quattro soldi, a vedere uno spettacolo silenzioso di gente truccata e vestita in costume, che si amava e si odiava e si batteva sullo schermo al suono d’un pianoforte, attraverso intrighi abbastanza complicati. Il mio compagno sosteneva che questo era un nuovo genere d’arte. Io invece, sicuro del fatto mio, al termine dello spettacolo m’alzai con sdegno. – Ma che nuovo genere! – dissi. – Questa è roba antichissima. È la forma di rappresentazione che l’umanità conosce forse da più tempo; certo da molte migliaia d’anni. È la rappresentazione muta, fatta coi soli gesti: e si chiama pantomima! Il mio compagno, che essendo cattivo, credeva nelle scienze meccaniche e tendeva al positivismo, si mise a ridere con compatimento: – Cosa c’entra qui la pantomima? Non vedi che qui ti trovi dinanzi all’applicazione d’un suo mezzo di riproduzione che l’ha rivoluzionata? Non t’accorgi che questo mezzo meccanico le ha conferito possibilità stragrandi, ne ha centuplicato gli effetti, l’ha snaturata e rinnovata? Io sentenziai: – Tutti i mezzi meccanici di riproduzione e di diffusione d’un’arte possono influire sino a un certo punto su quell’arte. Anche la stampa ha influito di certo sulle nuove forme di letteratura; ma quanto a rinnovarla ad imis fundamentis, ci vuol altro! Qual è la novità essenziale apportata all’arte scenica da questo nuovo mezzo? La possibilità di cambiare scena cinquanta volte nel corso di un lavoro? Ma se Shakespeare la cambiava di già trenta o quaranta volte, senza bisogno di cinematografia! Ti dico che questa non è che la vecchia pantomima: una sua vera esistenza il cinematografo non l’ha. Per la storia devo confessare ch’io feci una bella figura davanti al compagno cattivo, il quale ammutolì. E peggio fu quando, rientrando talvolta in qualcuna di quelle sale oscure, sempre più vaste e tuttavia più grevi d’aliti caldi, o soltanto buttando gli occhi sugli enormi manifesti delle loro Imprese, io rividi apparire a mano a mano i titoli di tutti i drammoni più antichi e dimenticati, quelli che nemmeno nelle filodrammatiche di provincia attrarrebbero più l’ànsito delle piccole borghesi; ovvero le riduzioni dei romanzacci più farraginosi, con sottotitoli irti di punti esclamativi: La vendetta del morto. – Lacrime d’una madre! – Miser chi mal oprando si confida… – È mio figlio!!! Non dico mica che tutti gli annunzi di spettacoli cinematografici fossero di cotesto genere; né che, con l’andar del tempo, le riduzioni e gli adattamenti di opere drammatiche alla scena muta fossero tutti tratti dalle più disastrose. Anzi. Mi ricorderò sempre del cortese invito che ricevetti da una Casa notissima, per assistere alla esecuzione di una Cavalleria rusticana: dove Santuzza era un’artista famosa.
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Silvio D’Amico
Oh benedetta Cavalleria, unico, ma pregno capolavoro del nostro teatro tragico! Io ero fresco tuttora dell’averla risentita sulla scena di prosa, in una serata memorabile, nella quale Giovanni Grasso s’era contenuto in una linea insolitamente sobria, e Tina di Lorenzo e Febo Mari, ambedue siciliani, sotto la sua direzione e nell’eloquio nativo, s’erano composti in una spontaneità miracolosa che in loro non avevo mai conosciuto, e la compagnia che li circondava aveva palpitato concorde nella sua semplice verità, compresa la ragazzina di tredici anni che all’ultima scena era entrata urlando: Hanno ammazzato compare Turiddu! – Quell’urlo, che a ridirlo così tra noi ci fa per lo meno sorridere, tanto pare sciupato e parodiato dall’abuso di trenta e più anni, lì sulla scena del Valle fu accolto dall’anelito, dal fremito selvaggio d’un pubblico tutto assorto alla vicenda del dramma come a una cosa nuova, spasimante e attorto in un orrore tragico che gli levava il respiro, e da cui si liberò in una follìa d’applausi che coronarono il cader del sipario con un trionfo quale nessuno prima conobbe mai. Ed ecco ch’io mi ritrovavo adesso davanti allo schermo: il dramma che recitato si conchiude in mezz’ora, qui al cinematografo durava più d’un’ora e mezza: tutto v’era stato allentato, diluito, corretto, illustrato, contaminato: era intervenuto il paesaggio, il sole tra i fogliami, le casette vere del paesetto vero, l’attrice che sostava a farsi pigliare di fronte, di profilo, di tre quarti, in piena luce, a mezza luce; si cominciava da Turiddu che va soldato, si andava avanti con le pene di Santuzza e il dispetto di Lola, e via per scene e controscene e lacrime e occhiate e contorcimenti… E quell’urlo, dov’era quell’urlo? E senza quell’urlo, dove se ne andava la tragedia? Fui io che me ne andai; avvilito; e pensavo tra me: – Se per caso il cinematografo fosse questo, non sarebbe che una goffa contraffazione del teatro. Ma qualcuno ch’era molto intelligente e molto al corrente, si prese la pena di dimostrarmi che avevo torto. Mi fece leggere gli articoli che cominciavano a piovere da più parti contro l’errore dei cinematografisti che volevano ridurre per lo schermo quel ch’era stato concepito per la scena parlata; mi spiegò la differenza fra i veri artisti del Cinema e quelli che vi emigravano malamente dal teatro di prosa o di musica al solo scopo di far quattrini; mi parlò di tecnica e di innovazioni; mi descrisse l’avvenire della pantomima cinematografica come dell’arte moderna per eccellenza. In fondo egli concepiva l’arte con criterî di un realismo assoluto, e quindi considerava come il non plus ultra della modernità una rappresentazione dal vero assolutamente fedele, quale un teatro con attori truccati, scenari di cartone e luci artificiali non può dare. Scegliere e raggruppare attori vecchi o giovani, brutti o belli, grandi o piccoli, volta per volta, a seconda delle circostanze, senza mai ricorrere alla truccatura e agli adattamenti; portare la scena sempre sul vero, sia in cima a una montagna sia in fondo a un deserto sia nel cuore d’una metropoli; riprendere il tumulto dell’esistenza moderna così qual è, con la semplice fotografia; ritrarre non già comparse, ma masse di vero popolo, ciurme di veri marinai, eserciti di veri soldati; ecco come, diceva l’amico mio
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Il cinematografo non esiste
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intelligente, riusciremo a riprodurre, inquadrare e celebrare la vita quale oggi trionfa. E un altro mio maestro andava più in là. S’era nel periodo dei rumori futuristi; e costui deplorava che Marinetti non mostrasse di intendere come soltanto dal cinematografo egli aveva da aspettarsi il massimo rendimento per un programma di vera rinnovazione. Per lui, nulla meglio che il cinematografo poteva prestarsi a quell’arte rapida e intensa, a quelle sintesi sbalorditorie della nostra febbrile inquietudine, ecc., che i futuristi predicavano: niente era più logico, dopo le parole in libertà, che la soppressione delle parole: nessuna musica meglio di quella futurista avrebbe potuto commentare i gesti sommarî degli attori silenziosi, e creare in unione con essi quel tipo di spettacolo nuovo da sostituire all’invecchiatissimo melodramma. Altri infine, di là dal futurismo, ricapitombolava nel sogno e nella poesia! Il cinematografo, con tutta la ricchezza dei mezzi di cui dispone, sarà per eccellenza l’arte del sogno! Nessuna visione arriverà a divenire eterea, irreale, impalpabile, evanescente, lirica, come quelle cinematografiche! Soltanto sullo schermo un teatro di poesia avrà la sua possibilità d’essere, perché non sarà sciupato dalla realtà di creature di carne e di scenari dipinti! O cinematografo, liberatore delle anime nostre, dissetatore delle nostre più anelanti aspirazioni, salute! È perciò che io, desideroso di sapere il perché e il percome di questo curioso fenomeno della vita sociale ch’è il successo dell’industria cinematografica, seguito ad entrare attento, di quando in quando, con la spesa non più di quattro o di sei soldi ma di due o tre lire, nelle sale sulla cui porta il groom dalla giubba rossa mi grida: – Va a cominciare! – Ma finora continuo a tornare a casa con la testa bassa. Di futurismo, trovo pochino: mi pare che l’innovazione più audace resti sempre quella che ammirai da Lelieure venticinque anni fa, della pellicola girata alla rovescia, con la gente che cammina all’indietro e i bagnanti che schizzano fuori dall’acqua. Di cinematografia lirica, idelizzata, sognata, ecc., trovo anche meno: se non mi si vuole gabellar per tale la silhouette della prima donna presa contro luce, o il tremolio del sole che fa da luna nelle acque d’un laghetto, o il rameggiar di un cespuglio tutt’intorno a un quadro colorato in turchino tenue; ovvero anche i metodi sul tipo di quelli adottati dall’autore di una film famosa, che per introdurre dell’elemento fantastico nella sua storia, fece sì che un personaggio dormendo soffrisse d’incubo, e si vedesse sfilare in sogno davanti agli occhi tigri, leoni, elefanti e dromedarî, tutti insomma gli animali disponibili nel Giardino Zoologico di Roma. Quanto al realismo e alla riproduzione della nostra vita qual è (segreto, dicono, del successo del cinematografo)… Io vedo una quantità di salotti con vetrate di cristalli molati e con mobili eleganti, i quali però dàn loro molto più l’aspetto di esposizioni Ducrot che di ambienti in cui si viva. Io cerco tuttora, nelle visioni che si svolgono in questi ambienti altrettanto fittizi quanto quelli dell’operetta, una interpretazione purchessia di questa glorificata vita moderna. Io non incon-
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Silvio D’Amico
tro altro che dei signori in smoking o in pigiama, i quali parlano al telefono o accendono la sigaretta o leggono il giornale, facendo un salto quando capita sotto il loro sguardo la grande notizia che poi verrà prospettata in primo piano; e delle signore in decolleté o in vestaglia, tutte – a differenza di molte nostre attrici, chissà perché – formose, e piuttosto scoperte, le quali si tirano su i lembi della scollatura troppo larga, e di solito mostrano d’essere molto ma molto infelici. Ora quando si pensa, non dico a quello che abbiam sempre deplorato nei nostri manierati commediografi, che sarebbe ameno paragonare con gli autori delle più vantate films, ma a quel che deploriamo ogni giorno nei nostri attori men buoni: la mancanza di agevole spontaneità, le formule convenzionali nell’atteggiamento e nel gesto, l’abuso delle controscene stereotipate, ecc., ecc., e poi si vedono sullo schermo i divi e le dive muoversi a quel modo, e fare ad ogni passo di quelle eterne controscene e di quelle interminabili smorfie, che distano dalla realtà quanto la Russia odierna dal buon assetto sociale; vien fatto di domandare con stupefazione se proprio questa sia destinata a diventare l’arte vera, semplice e rapida per eccellenza, l’espressione fedele di quella tumultuosa esistenza quotidiana che sapete, ecc., ecc. E tra questi pensieri, tutto quel po’ po’ di ditte, di ufficî, di imprese, di giornali, di teatri di posa, e roba consimile, di cui sopra s’è parlato, non possono riguardarsi in fondo che con simpatia: con la simpatia che meritano gli ostinati atti di fede in qualche cosa che fermamente si spera debba venire, dal momento che non esiste. Questa cosa – a ricever la quale è già pronta una così enorme organizzazione, che intanto si arricchisce soltanto a far le sue prove – sarà un giorno, a quanto si dice, il Cinematografo.
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Gabriele D’Annunzio
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La Cinematografia e l’ora presente*
Il cinematografo oggi non è se non una rappresentazione scenica muta, che non soltanto perpetua ma esaspera la miseria del mestiere teatrale. E rinunzia perfino all’unico vantaggio del silenzio, collegando coi più fastidiosi strepiti di tasti e di corde le visioni incoerenti. Penso che, dopo un così lungo errore, sia venuto il tempo di trarre da queste imagini mimiche gli elementi di un’arte nuova, rimettendo in onore la divina Fantasia. Se il cinematografo è un’arte di luce, la sua musa non può essere se non una che, secondo l’antico nostro, «fu così detta dal lume, siccome quella potenza la quale è simile al lume nell’illustrar le cose e nel dimostrare sé medesima». Poiché l’Energia fu ed è la nostra decima musa invocata dal poeta ed eletta dal popolo, speriamo anche nell’avvento dell’undecima su questo basso mondo bolscèvico e vilsoniano; e ch’ella possa dire, nel latino della luna: Redibo plenior.
*
Il nostro referendum. La Cinematografia e l’ora presente, in «La Vita cinematografica», x, 19-20, 22-30 maggio 1919, pp. 87-89 (riproduce in facsimile l’autografo dell’intervento di D’Annunzio); il referendum, nelle cinque puntate precedenti (in «La Vita cinematografica», x, nn. 7/8 - 15/16, 22-28 febbraio - 22-30 aprile 1919), comprende numerosi altri interventi.
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Bruno Barilli
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«Fantasia bianca» di Vittorio Gui al Costanzi*
Il Costanzi ha iniziato una nuova serie di spettacoli. Carovane di immagini in fuga passano ora tremando sulla scena consacrata all’opera lirica italiana. La ribalta del nostro più grande teatro è diventata una pista misteriosa di fotografie spaventate. L’ippodromo delle proiezioni si è installato là dentro a due metri sulla testa dei professori d’orchestra e ieri sera l’«occhio di bue» era aperto e dilatato sul mondo elegante e silenzioso. O che invasione e che invasamento! Il teatro muto è certo il più eloquente e il più ascoltato dei teatri. Ormai tutti, senatori, scrittori, banchieri, bari, guitti, atleti, arcivescovi, imbroglioni, belle donne e nani, tutti, proprio tutti, fanno ressa e clamore sul limitare dell’imbarcadero cinematografico. Una enorme immigrazione di barbari, di vandali e di etere nereggia da ogni orizzonte e urge verso questa Babele. Le grandi Banche s’affannano a scaricare barili d’oro su barili d’oro dinanzi agli scali interminabili del mondo industriale cinematografico. Le Ditte nascono, crescono e moltiplicano dovunque. Sorgono d’improvviso vulcanicamente sotto i piedi dei passanti, sotto le ruote delle carrozzelle in corsa, travolgendo e impastando tutto con gran furia costruttiva; ed ecco per ogni dove «Luci ed Ombre», «Filmissime», «Silentium» e «Films» sordomute a mille a mille, afone manifestazioni della magia industriale, occupare le aree, gli orti di cavoli, i campi di patate e di frumento e i cimiteri intorno a Roma. Tutto questo edificio che sembra sorretto da uno spirito religioso diffuso e profondo, è invece sostenuto da un sistema di colonne vertebrali avariate, ma innumerevoli. S’era mai visto una vacanza, uno sperpero, un ritrovo, una cuccagna simile? Tra il cartone e la falsa letteratura, gli affari e i biglietti da mille circolano come bufera che mai non resta. L’anonimo gavazza e trova il suo tornaconto. Eccoli dunque. La smunta aristocrazia degli impotenti, i personaggi abituati a tutti i capitomboli sociali, gli individui che non si capisce bene di che lana vadano vestiti, i venditori di cocaina. È il cinematografo che funge da libello dell’umanità, il cinematografo, la baldoria e il rantolo della civiltà. *
Bruno Barilli, «Fantasia bianca» di Vittorio Gui al Costanzi, in «Il Tempo», 27 novembre 1919; poi in Id., Lo spettatore stralunato. Cronache cinematografiche, prefazione di Attilio Bertolucci, Parma, Pratiche, 1982, pp. 11-14, da cui si cita. Sul film Fantasia bianca, «Poema visivo in un prologo e quattro atti», soggetto, sceneggiatura e regia di Alfredo Masi, in collaborazione con lo scenografo Severo Pozzati, musiche di Vittorio Gui, interpreti Bianca Virginia Camagni, Lina Munari e Amleto Novelli, presentato nel novembre 1919 al Costanzi di Roma, cfr. Claudia Giordani, The Copy Vanishes, ovvero Il film senza il film. Note su «Fantasia bianca», in A nuova luce. Cinema muto italiano, a cura di Michele Canosa e Antonio Costa, «Fotogenia. Storie e teorie del cinema», 4/5, 1997/1998, pp. 133-148.
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«Fantasia bianca» di Vittorio Gui al Costanzi
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Il diabete in cilindro, la tabe dorsale in frack, l’arteriosclerosi in scarpe lustre, ghette bianche e monocolo agghiacciante ricevono galantemente sulle porte dei vestiboli sontuosi. Chi ha più tempo di dormire, fra una pellicola e l’altra? Questo è il regno della devozione moderna. – O forse è una nuova Babele che sorge? – O la tana che si gonfia, si gonfia come una montagna? Che detonazione se scoppia. – O è forse questa la flotta immensa dei nuovi argonauti che s’affrettano verso l’avvenire? Flotta della follia, pavesata festosamente di cartelloni sesquipedali. Flotta di galere d’ogni risma che scende acclamando lungo il fiume veemente e corre senza saperlo verso un Niagara spumeggiante e pieno di fracasso e di distruzione? Non sappiamo. Per ora il Governo ha tutto da temere; i cinematografari sono in auge –: le basi del buon senso sono scardinate, l’armoniosa catena della civiltà è spezzata, le prospettive del Progresso crollano, le Epoche imminenti stan ferme e perplesse dinanzi agli obbiettivi che le sorvegliano e le fissano. I cinematografari tenteranno il colpo di Stato – proclameranno la crociata cinematografica. Bandiranno la mobilitazione o la leva in massa, le madri dovranno dare loro tutti i figli per completare i quadri di un esercito strapotente di cachets roditori, analfabeti e ben pettinati. Gli operatori allargano sempre più il campo delle loro ispezioni e vedremo cinematografato il volto del condannato a morte e il lavoro dei vermi nel sepolcro. Questi miscredenti scenderanno anche negli abissi dell’Inferno e tenteranno di superare i valichi sfavillanti e la rigida mansuetudine dei paradisi e degli spazi santificati in perpetuo pur di cogliere un’impressione dell’ora eterna e immobile. Delle antiche e nobili arti non rimarrà più traccia. Già ti vediamo, o vecchia e illustre «opera italiana», traversare faticosamente la scena sui tuoi difficili piedi gonfi e arrestarti e contorcerti a ogni secondo passo e dilatare le mascelle per esalare uno di quegli sbadigli che segnano la fine di ogni dignità umana, povera «opera» scacciata e annichilita; noi soli ti porgeremo il nostro bastone e il nostro braccio e ti accompagneremo verso l’ultima dimora, ricavando dalle remote profondità del nostro dolore il più basso, il più funebre si bemolle, tetro addio, pedale che sfiata lentamente come il rantolo di un organo il cui mantice è stato abbandonato allora. In quel giorno nelle aule mute e deserte di musica rimarranno, superstiti che si guardano sbalorditivamente, soltanto gli accademici e le statue di gesso. Ieri sera abbiamo assistito al nuovo spettacolo; dirigeva la propria musica il maestro Vittorio Gui. La innovazione intitolata Fantasia bianca non ci persuase da nessun punto di vista. Abbiamo già espresso troppo pessimismo circa l’intervento, l’introduzione e l’intromissione del cinematografo nella concezione di musiche sinfoniche e ci dispiacque di vedere un giovane e conosciuto musicista ingenuamente compromesso, complicato e implicato in un’impresa senza arte né speranza; un musicista distinto pescare nel torbido dell’orchestra senza costrutto né utile per lui o per noi.
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Bruno Barilli
Lo spettacolo si svolse necessariamente nell’oscurità e la musica non fece che aumentare lo spavento delle tenebre entro le quali eravamo prigionieri. Noi conosciamo dello stesso autore delle cose ben migliori di questa Fantasia bianca nella quale il dovere descrittivo uccise totalmente le ragioni musicali. Egli ha voluto mettersi in lega con il cinematografo ed ora la separazione è urgente e improrogabile. Il Poema sinfonico di Vittorio Gui ci ha detto ben poco e noi non possiamo riferire che quel poco, tanto più che quando l’ascoltate vi addormenta e quando dormite vi risveglia, così che siete continuamente in viaggio verso queste due soluzioni senza poterle raggiungere definitivamente mai. Lungo questo itinerario graduato di sonnolenze che scompaiono e ritornano, per questi andirivieni di sognatoio, vi accompagnano i temi conduttori i quali hanno l’aria di ammonirvi come in una allucinazione: questo è il tema del dolore e quest’altro quello dell’amore di Pierrot. Siamo intesi dunque una volta per sempre? – Il guaio è che non siamo intesi affatto e non lo saremo mai. Ci sono alcune parti semplicemente musicali scritte molto bene e di effetto eccellente come quella quando il coro canta a bocca chiusa, ma per il resto ci sembra che questa musica sia debole e prepotente, priva di autorità e arrogante, misera e altezzosa, insignificante e perentoria; rimpinzata e delicata di stomaco. Il Gui non ha pensato che il fracasso al buio fa paura anche ai più intrepidi. Noi non abbiamo consigli da dare agli artisti e il maestro Gui è uno di quelli che si orientano presto e bene; del suo lavoro non possiamo, anche per mancanza di tempo e di gioia, discorrere più oltre. L’attenzione e la serietà di esame che un musicista come lui merita noi gliela dedicheremo con entusiasmo non appena ci offra da solo e virilmente una occasione lieta per tutti. Queste in succinto non sono che le impressioni povere e sincere di un qualunque del pubblico messo di malumore dallo spettacolo.
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Lucio D’Ambra
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Il mio “Credo” Cinematografico*
Un romanziere, un autore drammatico, un pittore, uno scultore, un architetto, un musicista e un poeta, dopo pranzo, tra il caffè e la sigaretta, parlano di cinematografo. Il romanziere dice: – Io vedo nel cinematografo la possibilità di «raccontare»: raccontare con l’imagine invece che con le parole. Che cos’è, in fondo, l’arte del racconto? È il segreto di trovare nella propria immaginazione e nella realtà che ci circonda una vicenda e di ordinare abilmente questa vicenda in una esposizione, una peripezia e uno scioglimento. Credo che un disegnatore potrebbe, cogliendo i punti sintetici delle vicende da me immaginate, raccontare col segno grafico ciò che io racconto con la parola scritta. Immaginate un mio romanzo illustrato sapientemente in ogni sua pagina, in ogni sua scena, in ogni suo tipo. Immaginate questo libro in un’edizione, in una lingua a voi sconosciuta. Pensate adesso di essere ad aspettare, in un salotto d’albergo, dove, per passare un’ora, non abbiate che quel libro a vostra disposizione. Credete voi che sfogliando il libro ordinatamente dalla prima all’ultima pagina, trascurando il testo che vi è indecifrabile, guardando il disegno che ha l’universale lingua del segno, credete voi che, giunti alla fine, non conoscerete tutta quanta la vicenda che io ho raccontata? Credete voi che non sia possibile rintracciare, con le sole illustrazioni di un’edizione illustrata, quella che è la vicenda di Manon Lescaut o di Margherita Gauthier? Certo occorre che l’illustratore della mia vicenda sappia sentirla come io l’ho sentita, sappia renderla intensamente nel segno come io l’ho intensamente resa nella parola. Certo occorre ch’egli sappia cogliere, sinteticamente, espressivamente tutti i punti essenziali del mio racconto, tutti i tratti caratteristici delle mie persone. Certo occorre che egli sappia «ordinare» i suoi disegni come io ho saputo «ordinare» tutti gli elementi narrativi del mio racconto. In altri termini egli non deve abbandonarsi al capriccio della sua matita come io non ho potuto abbandonarmi al capriccio della mia penna. Deve, cioè, come io ho «costruito», «costruire». Ora che cosa è il quadro cinematografico se non un disegno composto con figure reali e riprodotto in movimento per uno speciale processo di fotografia? È evidente che non *
Lucio D’Ambra, Il mio “Credo” cinematografico, in Rino Mattozzi, Rassegna generale della cinematografia. Anno 1920, Roma, Società editrice Rassegna, 1920, pp. 169-177, da cui si cita; già in inglese, con il titolo My views on the cinematograph, in «Apollon», iv, 7, 30 luglio 1919 (numero speciale in inglese Lucio d’Ambra Films); ora in Lucio d’Ambra. Il cinema, cit., pp. 110-116.
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Lucio D’Ambra
tutti i romanzi potranno trovare nel cinematografo il mezzo d’essere raccontati come non tutti i romanzi si prestano ugualmente ad essere illustrati. Non sarà certo col cinematografo che Xavier de Maistre potrà rendere i movimenti interiori del suo Voyage autour de ma chambre o che Benjamin Constant potrà dare evidenza ai tormenti psicologici di Adolphe. Ma non per questo bisogna concludere che alla rappresentazione cinematografica si prestino solamente i romanzi fatti soprattutto di vicende esteriori, di movimento di persone, di giuoco di situazioni: esempio Verne, esempio Dumas padre. Il quadro, l’ambiente, l’espressione del volto, le brevi scritte che accompagnano la visione cinematografica consentono d’andare più in là della vicenda esclusivamente esteriore, permettono di entrare anche nel campo più profondo della sensibilità e della coscienza. Vorrei che non mi fraintendeste. Rinnegherei tutta la mia arte di romanziere, abolirei quel po’ di talento che posso avere se affermassi che il romanziere possa ugualmente scrivere o cinematografare Madame Bovary. So anche benissimo che cosa è l’arte del romanziere, l’arte di raccontare, anche in un romanzo di pura vicenda esteriore. Quando abbiate, con l’arte del più grande «metteur en scène», meravigliosamente riprodotto al cinematografo i tipi e le vicende dei Tre Moschettieri voi sarete tuttavia lontanissimi dal ritrovare la commozione artistica e sentimentale che la lettura dei Tre Moschettieri vi ha data. Manca, semplicemente, al vostro racconto, l’arte del raccontatore, manca, semplicemente, il suo stile. Non dico, quindi, eresie o, peggio che eresie, bestialità. Non dico che le opere insigni della letteratura narrativa possono, conservando lo stesso valore, passare leggermente dal volume allo schermo. Ma affermo che l’imaginazione di un romanziere può, anche nel cinematografo, trovare il modo di narrar con l’imagine una vicenda. Affermo che se oggi Dumas padre vivesse non scriverebbe per il cinematografo i Tre Moschettieri, ma saprebbe certamente trovare nel cinematografo il modo di «narrare» una vicenda lieta o triste che piacesse al giuoco della sua imaginazione. Insomma, per me, il cinematografo è un altro modo di «raccontare». L’autore drammatico dice: – Non conosco stupidità maggiore, maggior sacrilegio di quello di ridurre per il cinematografo le opere teatrali. Per la tentazione d’un po’ di denaro ho ceduto il diritto di riduzione dei miei drammi e delle mie commedie. Ne son rosso di vergogna e nero di rimorso. Sono un padre snaturato che, per un po’ di mercede, ha permesso che gli assassinassero le sue creature. Conoscete niente di più stupido e di più grottesco di quelle riduzioni dal teatro al cinematografo dove una costruzione di commedia è seguìta fedelmente, riducendo una scena di venti parti a cinque o sei quadri intercalati da quattro o cinque battute prese di peso dal dramma, isolate da tutte le altre e però spogliate d’ogni loro potenza, introducendo tra scena e scena qualche passaggio esterno, qualche sincronia d’azioni contemporanee, qualche particolare minuto, tutta roba che la costruzione stessa dell’arte rappresentativa non permette di rappresentare a teatro? Dicono che fanno così per seguire scrupolosamente l’opera del drammaturgo cinematografato: vale a dire
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Il mio “Credo” Cinematografico
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massacrato. In realtà, se fossero artisti, se non fossero gonfi di bestialità e di presunzione, codesti riduttori dovrebbero, per condursi scrupolosamente, condursi in tutt’altro modo: dovrebbero, cioè, rivivere l’opera d’arte, rifonderla entro loro stessi, ricostruirla in altro modo, per un’altra forma di espressione artistica. L’unico modo d’esser fedeli all’opera d’arte che si vuol riprodurre sarebbe insomma quello di sembrarle infedeli. Ma occorre per questo essere artisti, artisti almeno quanto il commediografo che si vuol ridurre. Ho quindi giurato, per la mia dignità, anche se mi coprono d’oro, di non consentire mai più alla riduzione cinematografica delle mie opere drammatiche. Ma lavorerò io, direttamente, per il cinematografo. Credo un errore bestiale confondere cinematografo e teatro solamente perché per tutt’e due occorrono scenarii ed attori. Sarebbe come confondere l’Orlando Furioso e la Nona sinfonia perché per scrivere l’uno e l’altro, Ariosto e Beethoven hanno avuto ugualmente bisogno di un po’ di inchiostro e di un po’ di carte e di misurare un ritmo. Ma credo che il cinematografo possa offrire a un uomo di teatro un modo nuovo di rappresentare una scena. Intanto esso non ci costringe alla parola continua. Quanti drammi nella vita son fatti di poche parole, quante cosiddette «scene-madri» si svolgono, nella vita, con poche parole, con lunghi silenzii! E a teatro noi siamo costretti a riempire quei vuoti, a far parlare anche quando uno sguardo, un gesto e un lungo silenzio basterebbero a dir tutto. Ma c’è altro. A teatro la nostra scena è chiusa nella ferrea prigione di cartapesta delle tre pareti immobili per tre quarti d’ora. Quanta poesia drammatica, che nella vita è, si perde in questa inesorabile schiavitù! Quante situazioni drammatiche son fatte di contraddizioni, di contrasti, di riferimenti con altri ambienti e con altre persone che il teatro non ci permette d’aver contemporaneamente presenti! Il tradimento di Bruto non sarebbe forse più drammaticamente potente se, come contrasto, potessimo rappresentare contemporaneamente la fiducia serena di Cesare prima d’entrare in Senato? Il cinematografo permette d’allargare una scena, con potentissima rappresentazione, dai protagonisti a tutti gli interessati, permette di raccogliere insieme tutti gli elementi vicini o lontani, contraddittorii o complementari. E quante immagini di poesia drammatica trovano nel cinematografo un mezzo di rappresentazione che a teatro non hanno? Quando in Shakespeare l’esercito avanza tutto coperto di rami d’alberi e il poeta dice che esso sembra una «foresta che cammini» solo il cinematografo dà la possibilità di questa meravigliosa rappresentazione. Intendetemi. Con questo non intendo dire che Shakespeare, vivo oggi, sarebbe autore di films per Francesca Bertini. Intendo solo dire che l’autore drammatico può, per il suo giuoco di situazioni e di posizioni drammatiche, trovare nel cinematografo un nuovissimo modo d’espressione. Insomma, per me, il cinematografo è un altro modo di «rappresentare». E, a sua volta, il pittore dice: – È incontestabile che la cinematografia è quadro. Io seguo con molto interesse i grandi progressi che autentici artisti hanno conseguito in questo campo. Quante fotografie son più belle dei nostri quadri, quante fotografie dànno l’anima del mo-
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Lucio D’Ambra
dello più dei nostri ritratti? E perché allora il grande fotografo non è artista quanto il grande pittore? Perché la fotografia è, come arte, al confine del regno divino, perché rimane relegata nel limbo delle buone intenzioni? Perché la fotografia non crea l’immagine ma la coglie, non la prepara ma la fissa, non può mai essere fantasia, ma può solo essere, al massimo, abilità e buon gusto. Mirabili artefici i fotografi ma non artisti, esecutori ma non creatori. Il quadro cinematografico, invece, che è la fotografia in movimento, è una nuova arte fotografica, è, vale a dire, la creazione e l’esecuzione insieme, insieme l’artefice e l’artista. Non potrebbe, in un quadro cinematografico, Michetti, avere trovata e composta la linea della Figlia di Jorio? Non potrebbe Watteau «metteur en scène» comporre la scena dell’Embarquement pour Cythère? L’arte dell’artista non si sarebbe ugualmente rivelata componendo per un quadro ad olio o per un quadro cinematografico la suggestiva poesia del Beethoven di Leonello Balestrieri? So pure che cosa potete obiettarmi… Il colore. Ma il colore verrà. È, per il cinematografo, l’immancabile conquista di domani. E quando il colore permetterà di fissare il cielo che avete scelto, la sfumatura che avete data a una veste o ad una stoffa, l’armonia dei toni che avete cercato in un assieme o in un ambiente, volete dirmi perché il pittore tentato dalla visione di un quadro non potrà crearsela, lì, davanti all’obbiettivo della macchina da presa, nella sua più viva spontaneità, nella sua più umile e grande verità, piuttosto che sui due metri quadrati di tela posti sul suo cavalletto nel suo studio? Mi sorride il sogno di un’esposizione di quadri composti da illustri pittori, direttamente, con ciò che di più vivo e di più reale natura ed umanità possono a loro offrire, quadri da loro creati e raccolti, fissati, resi nella loro vibrazione, nel loro movimento, dalla macchina cinematografica. Quanta più vita, quanta più genialità, quanta più novità vi trovereste che non in un solito Salon… Il colore! Lo so, ve l’ho detto. Ma intanto finché il colore verrà quanti effetti d’arte può dare, signori miei, il bianco e nero! Voglio tentare qualche cosa in questo senso. Intendiamoci: non rinnego la pittura e non vi dico addirittura di far tornare al mondo Leonardo per ridurlo a mettere in iscena un film. Ma vi dico semplicemente che quest’arte cinematografica nuovissima mi interessa perché è soprattutto quadro e perché a me sembra che il cinematografo, senza pennelli, senza pastelli, senza matite, possa essere per qualche artista un modo nuovo di «dipingere e di disegnare». E ancora, a sua volta, lo scultore: – Hai ragione. Io sottoscrivo pienamente alle tue parole. E vorrei, anzi, parafrasarle per la scultura. Ho veduto in certi films gruppi umani d’una bellezza d’arte e d’una genialità di linea incomparabili. Poco prima della nostra guerra apparve un film, tedesco, Bug, l’uomo d’argilla, che altro non era – lo ricordate? – che un seguito di sculture e di acqueforti. Rodin e Feliciano Rops avrebbero potuto vederlo col maggiore interesse. Con una donna bella, con un bell’uomo, con una madre e un fanciullo, con un padre dolente e una figlia pietosa quanti gruppi può comporre la genialità d’un artista, quanta diversa bellezza può creare muovendo, aggruppando, disponendo in un modo o in un altro due o più persone? Non posso forse io,
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Il mio “Credo” Cinematografico
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scultore, come faccio col marmo, dare con la materia umana, la pietà d’Antigone china su la cecità d’Edipo, o la desolazione di Re Lear che reca fra le braccia il cadavere di Cordelia? La stereoscopia potrà, dovrà anzi, un giorno, dare alle immagini piane delle fotografie il senso del rilievo, quel più completo senso delle forme, quel senso plastico, cioè, che è proprio della scultura. Ma pure, senza che ancora si sia trovato il mezzo d’applicare la stereoscopia alla fotografia cinematografica o pure alla proiezione della fotografia cinematografica, già l’abilità di alcuni operatori soccorre riuscendo a dare ad alcuni quadri cinematografici una perfetta illusione d’immagini rilevate e complete. Quando una nuova conquista tecnica renderà questi effetti isolati effetti universali, la linea scultoria potrà essere conseguita nel gruppo umano fotografato quanto nel masso di creta o di marmo. Già vi sono attrici e attori che, sapientemente diretti, hanno saputo dare, al cinematografo, mirabili esempii di bellezza plastica. Non ho il tempo per farlo, per tentarlo. Ma quante volte, vedendo un film, penso che uno scultore potrebbe aggruppare due persone che soffrono, abbracciare due esseri che si amano, contrapporre due creature che si odiano con una linea e in un atteggiamento di suprema bellezza plastica, quella stessa bellezza, cioè, che io perseguo, cerco e tento nel silenzio del mio studio, nella docilità della mia creta, sotto il mio pollice febbrile… Ma sì, ma sì, pensateci, pensateci bene, amici miei. Non è un paradosso se io vi dico che, per me scultore, il cinematografo, in fondo, potrebbe essere un nuovo modo di «scolpire». E l’architetto dice: – Se io tento il nuovo, tutte le accademie si lanciano contro di me per crocifiggermi. In fondo bisogna sempre muoversi in quel breve mondo di linee che la bellezza passata ha consacrate, quasi direi autorizzate. Ricordo che all’Accademia il mio insigne maestro, quando studiavo, lodava la mia fantasia. Ma da quando ho aperto bottega, alla mia fantasia nessuno ha più fatto appello. E si capisce. Dove fiorisce il fiore della fantasia se non nel giardino del fantastico? Ora dov’è il fantastico nella nostra vita contemporanea, nell’edilizia delle nostre città, nella costruzione e nell’arredo delle nostre case? È nata un’arte, col cinematografo, dove invece il fantastico ha il suo regno, dove liberamente la fantasia può giuocare tutti i suoi divini capricci. Questa fantasia ha la sua architettura e dovrà avere la sua architettura fantastica. Poiché per il cinematografo s’apre alla nostra realtà il mondo dell’irreale, ecco che l’architettura può trovare nel cinematografo tutta una nuova e prodigiosa freschezza, tutta una nuova meravigliosa libertà di fantasia. Templi, palagi, fontane, case, sale, giardini, tutto può essere, nel cinematografo, rinnovato. La fantasia d’un architetto potrà nella scena cinematografica creare tutto un mondo nuovo, tutta una diversa bellezza. Se domani il capriccio d’un poeta, per una visione cinematografica, mi condurrà nella luna, io, architetto, potrò creare uno stile che non sarà né greco, né romano, né rinascimento, né barocco, che non sarà né futuro né passato, che sarà solamente e finalmente «mai veduto» e impossibile, che sarà lo stile della luna ed il «mio». Se domani un altro poeta, per un’altra visione di fantasia cinematografica, mi condurrà in fondo agli
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Lucio D’Ambra
oceani, quale architettura mai veduta io potrò trovare, fra le alghe e gli scogli, per la verde vita delle Sirene! Ah, datemi, datemi denaro, tempo e fantasia di poeti, datemi, datemi libertà e novità, datemi il «mai veduto» e il «mai fatto», il regno irreale di tutto ciò che non esiste, datemi il fantastico, datemi il cinematografo insomma e vedrete che, col cartone, con la tela, con la carta velina, fiorirà nel cielo, fiorirà in fondo al mare tutta una nuova bellezza, ed io architetto, chiuso nelle solite forme per le solite necessità, potrò forse finalmente, nel cinematografo, trovare il modo di darvi anch’io una nuova «architettura». E, a sua volta, il musicista dice: – Confesso che mi tenta, da qualche tempo, l’idea di musicare un film, un film che sia, ben inteso, uscito dalla fantasia d’un artista e d’un poeta; non La maschera dai denti bianchi o L’assassinio del Corriere di Lione. Tra il melodramma e la sinfonia, questo commento orchestrale a una serie d’immagini che raccontano liricamente una storia, mi sembra poter essere una nuova forma, agile, fresca, variabilissima, genialissima, di componimento musicale. Oggi la proiezione dei film è accompagnata da un «pot-pourri» di frammenti musicali tolti quasi a caso qua e là, dalla pigra mano d’un piccolo direttore d’orchestra, fra le carte vecchie del più vieto e trito repertorio. Ma accade tuttavia – anche senza volerlo – che talvolta un frammento musicale aderisca così perfettamente ad una situazione drammatica, alla poesia d’un quadro o alla fantasia d’una visione da potervi dare l’illusione d’essere stato appositamente composto, da quella situazione, da quella poesia, da quella fantasia rigorosamente ispirato. Avrete tutti osservato che, quando ciò accade, la visione cinematografica suscita in noi una commozione profonda, ci avvolge in un’atmosfera suggestiva irresistibile. Pensate dunque a quale valore può acquistare la visione cinematografica dalla collaborazione musicale artisticamente intesa. Osservate inoltre che la musica, ispirandosi alla cinematografia, trova una nuova forma che non è il nitido, preciso, rigido contorno della melodia melodrammatica e non è la vaga, imprecisa, misteriosa atmosfera della composizione puramente sinfonica. Nella sua immensa varietà di quadri, di motivi, di ambienti, di persone, il cinematografo può offrire al musicista una meravigliosa varietà di ritmi, di stili, d’accenti, i più varii e contrastati toni della tavolozza musicale. Vi ripeto che mi seduce l’idea di tentare questo esperimento. Si dice che il musicista, nel caso, sarà soffocato nel suo estro dalla schiavitù delle necessità sincroniche, dalla misura dei quadri, ecc. Non credo che il musicista sarà, nel caso, in maggior servitù di quanto non sia di fronte ai versi e alle strofe d’un libretto, alle necessità sceniche di un’opera di teatro. So bene, del resto, che la forma veramente libera della musica è la composizione sinfonica e che solo nella più indomabile libertà Beethoven può scrivere la Nona sinfonia. Ma io, che non sono Beethoven, e che posso apparirvi tutt’al più – è bontà vostra – come un grazioso musicista con un po’ di garbo e un po’ di talento, io trovo, per me, che il cinematografo può anche essere un nuovo modo di comporre «musica».
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Il mio “Credo” Cinematografico
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Parla per ultimo il poeta: – Sapete dove io penso che mi sia maggiormente possibile esprimere totalmente e liberamente il lirismo che si agita nel mio spirito? Nei miei versi e in una film cinematografica. Ho fatto una film, ho fatto un dramma. Non vi scandalizzate se oso dire che più che fra le quinte, più che nella prigione del teatro, più che nelle ferree leggi chimiche dei «recipe» drammatici, mi è stato possibile esser poeta, esser liricamente e puramente poeta, nelle libere, fantasiose, fantastiche visioni che il cinematografo, nelle sue infinite possibilità, può offrire alla più ardente febbre del mio lirismo. Se tutto questo vi pare esagerato si è che voi vi ponete, per controllare le mie parole, di fronte al cinematografo quale, generalmente parlando, è stato fatto fin qui. Solamente ricordiamoci, signori, che non ostante il suo prodigioso sviluppo tecnico e commerciale, artisticamente il cinematografo esce appena di tutela. I suoi primi tutori avevano ridotto il pupillo nella schiavitù soffocante del loro cattivo gusto, del loro spirito grettamente industriale, della loro assoluta antinomia artistica. Per opera, oggi, di alcuni artisti, in America, in Italia, in Francia, per volontà di alcuni industriali chiaroveggenti che assecondano il desiderio di rinnovamento di quelli artisti, la visione cinematografica sta, in varii tentativi, cercando l’arte e trovando la poesia. E solo oggi arte diventa perché la poesia le viene incontro, poiché non v’ha arte possibile dove la poesia è assente. Fantasia e immaginazione, fantastico e reale fusi armonicamente insieme, conducono la cinematografia verso l’arte: quindi alla poesia. Per me credo che un film possa essere – pur osservando le leggi di movimento e d’azione che governano dispoticamente ogni forma di «rappresentazione» – credo che un film possa essere quadro, ritmo, musica, poesia quanto ogni altra forma d’arte, più forse di alcune altre forme d’arte. Così attraverso una serie di quadri liricamente veduti ed espressi come attraverso una serie di pensieri lirici verbalmente espressi la fantasia d’un poeta può liberamente ed infinitamente cantare. Il quadro cinematografico – e l’azione attraverso questo quadro – sono, io credo, per chi sappia cercare in essi nel più profondo, una miniera inesauribile di fantasia e di poesia. La fantasia del poeta che, attraverso l’espressione verbale, suggerisce la visione alla nostra fantasia, qui è libera di rappresentare direttamente la visione ai nostri occhi e al nostro spirito. Chiamate, chiamate i poeti al cinematografo, chiamate gli artisti. Escludetene finalmente i mestieranti, i calunniatori, i denigratori, i diffamatori, i mercanti. Darete finalmente, così, alla cinematografia la nobiltà artistica che le compete, creerete, finalmente, così, per me, un nuovo modo di «poesia». Così parlarono, davanti a me silenzioso, un romanziere, un autore drammatico, un pittore, uno scultore, un architetto, un musicista e un poeta. Ma questo non impedì che, tornato a casa, trovassi una volta di più sulla mia scrivania, nella circolaretta d’un giornalino cinematografico, la solita domanda: «Credete voi, signore, che la cinematografia possa essere arte?».
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Giuseppe Prezzolini
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Il bello cinematografico*
Avete veduto quello che sta accadendo: il cinematografo, dopo avere inghiottito tutti i romanzi del mondo da tutte le letterature, li sta rimettendo. Hanno cominciato i giornali a pubblicar come appendice il romanzo-film; ora una casa editrice li dà addirittura in volumetti quindicinali, con ritratti, con biografie, confessioni ed autografi degli autori, e le dive non vengono dimenticate nell’illustrazione. Questo interessante fenomeno rimette in ballo la questione dell’arte nel cinematografo. È un problema abbastanza vecchio ma se ritorna ogni tanto in discussione è segno che non è stato ancora risoluto con soddisfazione. Soltanto la mescolanza, ormai avvenuta, tra scrittori per cinematografo e scrittori senz’altro, ha portato una tregua tra coloro che dicevano di seguire un’industria e quelli che pretendevano fare dell’arte. Gli scrittori senz’altro hanno finito ad uno ad uno, anche i più restii, a pagare il loro tributo al nuovo Dio, che li ricompensa lautamente dell’omaggio; gli scrittori per cinematografo si sono avanzati nel campo delle lettere e stampano i loro copioni con evidenti pretese di arte. A questo proposito mi ricordo l’aneddoto del filosofo che invitato a pranzo da una ricca e vecchia signora, la quale sentiva avvicinarsi con un certo timore il momento della fine, dopo esser stato con ogni cura ed abbondanza intrattenuto, fu domandato di dimostrar l’esistenza e l’immortalità dell’anima. Ciò avrebbe senza dubbio confortato le angustie della dama. Ma il filosofo sembra rispondesse non esser mestieri d’un’anima e per giunta immortale a chi conduceva una vita così piena di dolcezze e di soddisfazioni: l’anima immortale essendo il conforto dei poveri diavoli, che non potevano avere pranzi squisiti. Così mi verrebbe fatto di dire talvolta quando gli scrittori per cinematografo avanzano le loro pretese all’arte: Non vi basta guadagnare fior di quattrini, avere l’automobile a disposizione, e come il Gallo della Checca essere circondati da donnine d’una facilità assai meno dubbia della loro eleganza? L’arte è la consolazione degli scrittori poveri. Non si può volere insieme il buon pranzo e l’anima immortale. Contentatevi dei quattrini e punto lì. Ma il problema del cinematografo come arte si pone di nuovo, a parte queste riflessioni laterali, dopo che si sono cominciati a pubblicare i film. In che cosa consiste la forza espressiva del cinematografo? *
Giuseppe Prezzolini, Il bello cinematografico, in «Il Resto del Carlino», 7 gennaio 1921, p. 3, da cui si cita; poi in «Al Cinemà», iv, 15, 12 aprile 1925, pp. 9-10.
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Il bello cinematografico
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Da che si pubblicano i copioni delle film ci si può accorgere di una cosa molto semplice: che i copioni non sono altro che le «traccie» della commedia dell’arte italiana. Nulla impedisce che in tale forma si possa manifestare un capolavoro, come si manifestarono in quella forma le commedie fantastiche di Carlo Gozzi, alla cui poesia torniamo ogni tanto a dissetarci. Sono indicazioni per lo svolgimento di una rappresentazione, che lasciano agli interpreti una larga parte di creazione. Il loro carattere di abbozzi, senza rifinitura artistica, di schemi senza particolari, di semplici idee senza pazienza amorosa di raffinamento e svolgimento completo, rende estremamente difficile, ma non impossibile il sorgere dell’opera d’arte vera e propria; ma non impossibile, come il caso di quelle del Gozzi, sopravvissute sopra migliaia di aborti infelici e poverissimi, dimostra. Anche i copioni del cinema possono avere dunque una immortalità, non in quanto cinema, bensì in quanto copioni, opere di scrittura, opere di letteratura. Non c’è nulla di straordinario nel fatto che l’arte si manifesti in una forma diversa dalle usuali. Per i pedanti, si tratterà soltanto di creare un nuovo «genere» sotto il quale classificare questa produzione: essendoci abituati, non dureranno fatica. Ma perché una persona di spirito dovrà arretrarsi dinanzi al fatto che per giudicare tutta l’opera di d’Annunzio o di Maeterlinck, converrà oramai occuparsi anche della loro produzione cinematografica? Qualunque espressione completa di un moto lirico dello spirito è arte. Anche una traccia può essere espressione completa, come l’abbozzo di un quadro è, alle volte, più piena e più pura espressione artistica del quadro stesso. Ma importa metter subito in chiaro che questa bellezza non ha nulla da fare con la cinematografia vera e propria. Questa può essere brutta o addirittura non esistere: il copione può avere una bellezza in sé, indipendentemente dal fatto della sua traduzione nel film. Per esempio Jules Romains ha scritto una traccia per cinema dal titolo Donoongo-Tanka. Essa non è stata ancora, che io sappia, «filmata», e proiettata. Probabilmente non lo sarà mai perché manca di un personaggio adatto a fare la parte di «diva». (Anche questa è una rassomiglianza grande con le commedie dell’arte, che venivano scritte espressamente per un artista). Ciò non toglie che sia una vera e propria opera d’arte anche se invece dei periodi soliti o delle strofe consuete, è composta di indicazioni per quadri cinematografici. La «Nouvelle Revue Française» ha fatto benissimo a pubblicarla nelle sue dignitose edizioni. Essa è opera d’arte nella sua concezione lirica, e non nella traduzione che ne daranno gli artisti cinematografici, come opera d’arte può essere in un dramma e non negli artisti che lo rappresentano sulla scena. Una cattiva esecuzione nulla toglie a Shakespeare: e la irrappresentabilità di alcune opere drammatiche moderne non è mai stata, salvo che per gli imbecilli, una obiezione al loro valore artistico. Da ciò si vede l’importanza delle pubblicazioni cinematografiche: esse ci permettono di giudicare senza prevenzioni alcune delle film che hanno avuto più successo, e di vedere se appartengono ai mondi dell’arte ed a quali. Occorre dire che,
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Giuseppe Prezzolini
per ora, in generale, non si vede nulla che all’arte rassomigli neppur da lontano, e che la più grande povertà lirica si trova in queste concezioni, che sono spesso soltanto la raccolta della spazzatura romantica di opere letterarie scadenti? Era necessario avere sott’occhio il copione nella sua nudità parlante, per poterci esprimere con tanta nettezza. Il cinematografo, infatti, come esecuzione di film porta con sé elementi di bellezza che nulla hanno in comune con la concezione del film stesso. Sono gli elementi che porta l’inscenatore, uomo di gusto, di sapienza armonica, di trovate veramente «cinematografiche». Mentre fra gli autori è raro trovare chi pensi «cinematograficamente» e dimentichi le antiche, mal sopite aspirazioni alla gloria letteraria pura, agli inscenatori che sono più vicini alla tecnica ed alla realtà del mezzo nuovo di espressione, capita spesso di trovare armonie, scene congegnate con gusto, che prese in sé sono belle. Esse nulla hanno in comune con il «soggetto» e potrebbero essere presentate come «opere d’arte» a sé, guadagnandoci anzi alle volte ad essere estirpate da complessi morbosi e falsi. Quante volte, uscendo da un cinematografo, dove si rappresentava la più odiosa e volgare romanticheria, abbiam dovuto riconoscere che, a malgrado dell’autore, il cinematografo ha virtù tali, che qualche cosa di buono si ricava sempre! Era la virtù del direttore il quale aveva dato del suo all’autore. In questo caso il direttore cinematografico può essere paragonato al tipografo. La bellezza della edizione alle volte non ha nulla il comune col testo. Posso immaginare un Re dei cuochi stampato su carta a mano, con bodoniani perfetti e iniziali in rosso, le pagine tutte in quella giustezza armonica con i margini, da farne un capolavoro tipografico? Certo. Orbene, molte cinematografie ci fanno questo effetto, e sono realmente null’altro che splendide edizioni di romanzacci scurrili, volgari, penosamente romantici, spesso idioti anche nello svolgimento del fatto: ma splendide nelle visioni di paese, di armonie, di movimenti, di sfondi. L’avvenire artistico del cinematografo si svolge dunque secondo due linee di forza che, per ora, non convergono; che spesso non vanno nemmeno d’accordo: da una parte il soggetto e dall’altra l’esecuzione; da una parte l’autore e dall’altra l’inscenatore. Certo è questo: artisticamente parlando si è raggiunto molto soltanto da parte della tecnica. La bellezza della tecnica è superiore a quella dell’ispirazione. Non esiste ancora una concezione cinematografica negli autori, mentre esiste di già negli inscenatori, sia pure diminuita e deturpata dai primi. Il giorno in cui le due forze potranno convergere insieme si potrà parlare di bellezza cinematografica.
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Filippo De Pisis
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Il ridicolo nel cinematografo*
Più volte, per l’arte dei secoli passati si è parlato di «valori inconsci», e sta bene: si tratta forse di valori sub-coscienti, ricreati in una forma nuova dalla sensibilità di artisti più scaltri e più complicati. Ma io vorrei dire che il valore (disgraziatamente e fatalmente inconscio!) di gran parte dell’arte moderna, almeno fra quella che va per la maggiore, è il senso del ridicolo, non cercato per acuta ironia del suo autore (ciò si è tentato dai più forti artisti russi, e basti citare Andreiev!) ma che scaturisce vivo e zampillante, come l’armonia cadenzata, dalle mediocri ottave dei vecchi poemi minori, agli occhi del giudice e del critico che la sappia un po’ lunga. Poesie ridicole, romanzi ridicoli, commedie ridicole!… Però senza dubbio, più che altrove, più anche che in alcuni drammi e tragedie che si son volute spacciare per capolavori e confrontare con gli antichi sommi (la nostra critica ufficiale ne avrebbe ben da arrossire!) più che altrove si può notare questo senso del ridicolo nel cinematografo odierno. Davvero non c’è più bisogno di «comiche!» Certe films, composte e dirette da gente (non lo dubito menomamente!) in buona fede, da gente che ha il culto dell’Arte, con la lettera maiuscola, di Dante, della nostra fulgida tradizione artistica etc. etc., sono veri monumenti di ridicolo, della più bella e gustosa lega per uno spirito sagace e davvero moderno; non importa se vi agiscono personaggi in costume, se vi compaiono a sfondo tetre torri e ariose cupole, se vi agiscono grandi personaggi storici (anzi queste sono proprio quelle dove il ridicolo di solito raggiunge il suo diapason più elevato e tocca il grottesco… altro che il grottesco voluto!), non importa se vi è gente che soffre, che piange, che strilla, che viene uccisa e che uccide: il ridicolo zampilla da queste scene con la sua miglior vena. Un po’ meno nella ricostruzione della vita reale, ricostruzione talora potentissima nella sua crudezza fotografica. In essa l’arte penetra di straforo, quando meno l’autore o il direttore del dramma se lo aspetta: come nella vita. Ma anche in questi drammi o commedie tolte dalla vita dei gaudenti o della mediocre borghesia, ci sono certe scene assistendo alle quali c’è davvero da fare buon sangue. L’apparato indispensabile alla film, apparato artistico (diremo), la preoccupazione artistica (diremo) degli attori (pochi sono quelli veramente buoni, benché pure alcuni raggiungono una mirabile perfezione e non sono, badate, quelli cele*
Filippo De Pisis, Il ridicolo nel cinematografo, in «Le Maschere», v, 5, 5 febbraio 1922, p. 5.
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Filippo De Pisis
bri), la mise en scène di maniera di certi ambienti eccentrici e banali; tutto, tutto serve a sottolineare il senso del ridicolo. Le tragedie d’amore, il livido e tremendo, il fatale amore; le tragedie di dolore, di gelosia; i centoni scenici fissi e che ritornano più o meno invariati nelle diverse films, incarnati dai medesimi «tipi» (è una specie di commedia dell’arte camuffata) e spesso dai medesimi attori cari al buon pecorame borghese, che si pigia nell’aria rarefatta delle molte sale cinematografiche; finiscono per divenire delle gustose farse o tragicommedie. I titoli dei diversi quadri nel loro sapore lirico-letterario-commerciale, la musichina, che spesso ha a che fare col dramma che viene proiettato, come i cavoli a merenda, favoriscono il felice evento. Ma perché questo senso di tragicomico è il più interessante aspetto della vita e medica, per così dire, la tremenda tragicità di essa, sarei tentato di concludere che il cinematografo è il più genuino frutto dell’arte moderna, sia pure con i suoi peccati di origine. Dico «arte», parlando di quella aderente alle masse, al pubblico. Se esso non penetra e non sente (anzi se ne guarda bene!) questo valore del ridicolo, non fa nulla. Non vi sono anche dei dantisti e dei dantofili che non avvertono tutto il valore infuso a larghe mani dal Divino Poeta nella sua Commedia!? L’arte moderna si potrebbe dunque simboleggiare in una maschera che ghigna beatamente, non importa se questo ghigno diviene poi di sarcasmo e forse forse anche si fa pianto. Il puro amore, «il pianto grande che poi non duole» c’è e quasi necessariamente anche in alcuni purissimi esempi della lirica e dell’arte moderna, come in quella di tutti i tempi. Ma questa è l’arte per pochi e che ha bisogno d’anni ed anni per maturare e di attenzione e di silenzio. I più, statene certi, non sentono le cose più belle e profonde di Pascoli, da troppo poco tempo morto, o di D’Annunzio, o dei nuovi poeti; ma intanto vanno al cinematografo e c’è da pensare che si divertano. Si divertono a vedere i begli abiti delle grandi attrici e dei grandi attori, i banchetti, i bei paesaggi, le maschere, i veglioni, gli amori fatali, le bellezze fatali, l’amore che redime e l’amore che non redime, le gambe, i torsi nudi di uomo e di donna, i falsi scienziati e i falsi apostoli con i barboni finti, i miracoli della scienza, gli splendori della bontà e gli orrori del vizio… Si divertono, non saprei… insomma passano un’ora, se la passano, e spendono dei danari. Chi è che non ha dei danari da spendere in questo tempo di cialtroni e di servi fatti padroni? Vanno al cinematografo con la signora e i bambini, come vanno a prendere il gelato! Si potrebbe osservare che tutte le cose suddette sono anche, ad esempio, nella «Commedia umana» di Balzac e che in più là c’è l’arte, ma dell’arte, chi se ne infischia?… Quattrini voglian essere!
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Massimo Bontempelli
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Il nuovo spettacolo*
Scrivono che si è trovato il modo di applicare la stereoscopia al cinematografo, cioè di dare sullo schermo le figure in rilievo. E mi dicono che eccellenti risultati abbiano dato i tentativi di sincronismo tra i movimenti delle figure filmate e i canti o le parole emessi di dietro lo schermo da attori o da cantori o da grammofoni. Quando tutta questa materia sarà così regolata, il cinematografo sarà perfetto. Cioè non sarà più cinematografo. Sarà una rappresentazione qualunque. Non avrà sulla rappresentazione neppure il vantaggio della rapidità di mutamenti scenografici, se è vero che in questo senso – come ho letto in una recente corrispondenza da Berlino – si è perfezionato il palco girante inventato quindici anni or sono da Reinhardt. Il ciclo del cinematografo si chiude, col suo riassorbimento nel teatro, da cui sorse. Il torto è suo, se esso, nato come invenzione scientifica, non ha poi saputo trovare un proprio campo di applicazione artistica, non ha saputo nemmeno essere un moderno sviluppo del vecchio mimo. Ma non è neppur vero che il torto sia suo. È errato credere che un’arte nuova, o anche soltanto un atteggiamento artistico nuovo, possa nascere da un nuovo ritrovato meccanico. Le origini di ogni possibilità artistica sono sempre ed esclusivamente spirituali. Ho avuto di recente occasione di riconoscere assai chiaramente la situazione del cinematografo di fronte alle capacità fantastiche del nostro tempo. Gran parte della sua produzione, com’è noto, si limita alla traduzione in scena di noti romanzi, possibilmente avventurosi e popolari. Ho visto dunque il film tratto dai Tre moschettieri, ch’è il romanzo più trascinante che esista, per lettori d’ogni levatura. Il film era assai ben riuscito, e non ho udito che nessuno degli spettatori, i quali tutti avean letto il romanzo, ne uscisse deluso. Ma deluso ero io, ricordando l’appassionato fervore, l’ansia, la sospensione d’animo continuamente incalzata e rinnovata, con la quale, in età diverse, avevo letto e riletto le avventure di D’Artagnan e dei suoi amici. – Se una decima parte – pensavo – di quell’ansia che provò ognuno di questi lettori, quand’era solo nella sua camera col libro in mano, si riproducesse ora qui, moltiplicata dal senso della collettività, questa folla non po*
Massimo Bontempelli, Il nuovo spettacolo. Lontano preludio (1922), in Id., L’avventura novecentista. Selva polemica (1926-1938). Dal «realismo magico» allo «stile naturale» soglia della terza epoca, Firenze, Vallecchi, 1938, pp. 395-397 (luogo della prima pubblicazione in periodico non reperito). Nel volume seguono a questo altri articoli sul cinema, degli anni 1926-1935.
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Massimo Bontempelli
trebbe reggere sulle sedie, dovrebbe sfrenarsi e urlare d’impazienza, di aspettazione, di interessamento pazzo. Invece, come freddo io rimanevo, similmente anche essi tutti placidamente osservavano, e poi con tranquillità se n’andavano. E nulla mancava al loro desiderio. Questa folla odierna è brutalmente incapace di ogni movimento di fantasia. L’interesse d’una lettura è dato dal lavorio d’integrazione fantastica del lettore. Ma oggi non c’è più popolo, né quella che chiamavasi l’immaginazione popolare; il popolo è diventato democrazia. Il cinematografo, quale oggi è, è appunto lo spettacolo democratico per eccellenza. Il cinematografo fa vedere a questa massa – e con i nuovi perfezionamenti le farà sentire – tutto quello che essa può vedere e sentire. Le risparmia ogni sforzo. La trova bruta, e tale la lascia: né altro potrebbe fare, e se altro tentasse, la massa lo diserterebbe. E con ciò si spiega come, mentre il ritrovato tecnico si prestava almeno a una cosa, alla realizzazione delle più fantasmagoriche fantasie, proprio questo sia il campo che il cinematografo ha meno battuto, e proprio questo sia il risultato ch’esso ottiene: impigrire, isterilire, uccidere del tutto l’immaginazione.
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Alberto Savinio
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Rivista del cinematografo*
Il cinematografo non è un’opinione. Sono ancora qua e là alcuni recalcitranti cocciutissimi, alcuni sacerdoti di una falsa eleganza, alcuni smancerosi esteti che parlano del cinematografo con quell’altezzosa bonomia con che una gran dama parla delle nozze del proprio portinaio con la cameriera del palazzo di rimpetto, e gli spettacoli dello schermo lasciano agli analfabeti, agli imbecilli cronici, ai grossi appetiti della plebe. Il cinematografo è uno svago popolare. O come mai noialtri allora che siamo Dio sa quanto affinati nell’assaporamento dei diletti più squisiti, ci troviamo concordi con lo stagnaro e con lo stipettaio quanto al lasciarci attrarre e talvolta rapire dalle luci e dalle ombre proiettate sopra quel quadro di nuda tela, che né voce ha né vita propria, nessuna di quelle facoltà insomma che per l’ordinario sogliono accentrare l’attenzione, muovere le passioni, stimolare l’intelletto? A un dilemma di tal sorta solo le muse primitive, non le nove note a tutti ma le tre primissime che furono madri a quelle, potrebbero dare una suadente risposta. Per quello che ci suggerisce il nostro giudizio, il cinematografo esercita sopra di noi consumatissimi intellettuali un fascino così grande, per una ragione che sebben sottile e filosofica, cercheremo di spiegare. Il cinematografo anzitutto costituisce una giustificazione per quanto innocente e grossolana, dell’arte quale noi l’abbiamo sempre intesa e propugnata: l’arte non come specchio diretto della realtà, ma come riflesso lontano e mnemonico di quella. Il cinematografo in questo si avvicina non poco agli spettacoli che vediamo nel sogno: azioni che si svolgono indipendentemente dalla nostra volontà e dal nostro desiderio, avvolte nello stesso silenzio, bagnate di una luce altrettanto sottile che penetra uomini e cose fino a renderli trasparenti, denuda a tal segno la realtà da farla apparire inverosimile. Il torto più grave che si possa fare al cinematografo, è nel considerarlo, come *
Alberto Savinio, Rivista del cinematografo, in «Galleria», i, 1, gennaio 1924, pp. 55-56: si riporta la prima parte dell’articolo, p. 55, cui segue la recensione (già pubblicata sul «Corriere Italiano» il 22 dicembre 1923) del film Otello di Gastone Monaldi, cui è vittoriosamente contrapposto un Othello di produzione tedesca (1922), con regia di Dimitri Buchowetzki, interpretato da Emil Jannings e Werner Krauss. Altri due articoli della Rivista del cinematografo di Savinio compaiono nei numeri di febbraio e marzo. Dal settembre 1923 al giugno 1924, sul «Corriere Italiano», Savinio tiene una regolare rubrica di critica cinematografica, con ventotto recensioni siglate o non firmate, censite da Paola Italia, Il pellegrino appassionato: Savinio scrittore, 1915-1925, con un’appendice di testi inediti, Palermo, Sellerio, 2004, pp. 356-369, 479-482; cfr. anche Alberto Savinio, Il sogno meccanico, a cura di Vanni Scheiwiller, Milano, Scheiwiller, 1982.
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Alberto Savinio
generalmente si fa, quale una riproduzione esatta della realtà, o per meglio dire di quella realtà superficiale e cutanea che ognuno avverte, e dietro la quale si crede non esservi se non il buio e il vuoto. Il cinematografo invece è un terribile svelatore di secreti, incosciente e però crudelissimo. L’uomo più astuto e riguardoso perde, se trasportato sullo schermo, la maschera e si rivela per quello che effettivamente è: e come l’uomo, così la terra, il mare, il cielo, tutta la natura velata altrimenti e impenetrabile, fuori che per i poeti e comunque per quelle creature privilegiate e rarissime che hanno sguardo lungo e fiuto sottile. Non sarebbe lecito né molto decente ricordare qui quante relazioni stringemmo con dèi, eroi, persino con uomini considerati sub specie aeternitatis e però divinizzati in qualche modo, quanti matrimoni morganatici contraemmo con dee, ninfe, eroine d’ogni sorta. Il cinematografo offre a noi la possibilità di un meritato riposo, in mezzo a quelle unioni non sempre assortite e feconde. Il cinematografo è una mitologia in atto: tanto più accettabile, in quanto non è confinata necessariamente in un tempo mitologico. Questa è appunto la magia del cinematografo: del mostrarci i nostri stessi contemporanei, in un aspetto di primitività attuale. Abbiamo finalmente una immagine esatta della terra prima del diluvio. Ci rimane a parlare del cinematografo come strumento d’ironia, ma rimandiamo il discorso a un’occasione ventura. Ci apre di aver abusato della bontà del lettore, della fiducia che forse egli ha riposto in noi. Gli chiediamo venia per questo esordio troppo didascalico, e per il prossimo mese gli promettiamo una cronaca più divertente e obiettiva. […]
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Appendice
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Gabriele D’Annunzio
Del cinematografo considerato come strumento di liberazione e come arte di trasfigurazione*
i. La recente industria del cinematografo – che pretende rinnovellare l’arte antica della Pantomima e potrebbe forse promuovere una novissima estetica del movimento – deve essere considerata come un’ausiliaria provvidenziale di quegli artisti coraggiosi e severi che, nella ignobile decadenza del Teatro d’oggi, aspirano a distruggere per riedificare. Bisogna in verità augurare che il gusto sempre più vivo della folla per le rappresentazioni cinematografiche determini la rovina del basso commercio teatrale ond’è disonorata l’epoca nostra. Poiché abbiamo fino a oggi invocato invano un Erostrato che incendii la vecchie baracche più o men dorate ove i trafficanti di dramaturgia vendono la lor merce abominevole, bisogna sperare nella virtù serpentina della «pellicola». Io penso sorridendo a quella beffa di Leonardo da Vinci, quando egli si piaceva di radunare e di congiungere insieme una gran quantità di budelli di pecora e poi, avendo prima accolti nel suo studio i più semplici dei suoi amici, soffiava nascostamente con un manticetto nella massa di quei budelli; i quali si gonfiavano tanto smisuratamente che in breve cresciuti occupavano tutta la stanza, cosicché gli invitati eran costretti a rifugiarsi negli angoli e infine a fuggirsene sbigottiti. Leonardo, che si dilettava di profezie e di allegorie, sembra offrirci una imagine buffonesca della scena moderna liberata de’ suoi personaggi sciocchi dallo improvviso e smisurato sviluppo della «pellicola» girante. Ecco perché io stesso, col mio manticetto, mi adopero a gonfiarla. Che i poeti seguano il mio esempio, attribuendo al Cinematografo una virtù di liberazione e di distruzione. L’arte del Teatro ha bisogno di essere vendicata. Come ben dice il precursore Gordon Craig, il primo passo verso il nuovo Teatro non dev’essere se non un passo verso una condizione di libertà. La scena è come una femmina isterilita da cui noi aspettiamo la nascita di qualche cosa. Noi ci ostiniamo a domandarle che generi qualche cosa di nuovo e di vivente. Ma lasciamola un poco in pace perché ella possa ritrovare in sé stessa un moto di fecondi*
Gabriele D’Annunzio, Del cinematografo considerato come strumento di liberazione e come arte di trasfigurazione [1914?], in Giovanni Pastrone: gli anni d’oro del cinema a Torino, a cura di Paolo Cherchi Usai, Torino, Utet, 1986, pp. 113-122, da cui si cita; poi in Gabriele D’Annunzio, Scritti giornalistici, a cura di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti, vol. 2, Milano, Mondadori, 2003, pp. 668-674 (come pubblicato sul «Corriere della sera» del 28 novembre 1914, ma l’indicazione è errata). Nell’autografo, conservato presso l’Archivio del Vittoriale, sono inseriti ritagli di giornale contenenti i brani ripresi dall’intervista A colloquio con D’Annunzio, in «Corriere della sera», 28 febbraio 1914, p. 3 (riproposta in questo volume alle pp. 292-297): li segnaliamo tra parentesi quadre.
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Gabriele D’Annunzio
tà. Diamole il tempo di respirare dopo venticinque secoli d’amarissima esperienza e dopo questi ultimi anni di faticosissima prostituzione. Lasciamola rifugiarsi e riposarsi laggiù, su le colline! Qualche cosa ne nascerà. E, se pure ella non sia per ritornare più mai, manderà verso di noi la sua figliuola o il suo figliuolo. «Un figlio delicato e forte» augura Gordon Craig. È difficile per ora indovinare i lineamenti di questo essere futuro. ii. [Certo, v’è una crisi della «parola» nel teatro, e c’è un predominio della musica sempre più largo. I migliori spettacoli recenti – quelli in cui si manifesta una qualche ricerca nuova – non sono se non azioni mimiche accompagnate dalla sinfonia e talvolta dal coro. Assistiamo a una improvvisa esaltazione del senso ritmico. Sembra che ritorni fra noi l’imagine di quel Frinico il quale si vantava di aver nello spirito tante figure di danza «quante onde solleva una notte procellosa, durante l’inverno, sul mare». Dalle mille figure della danza e dalla potenza dei motivi musicali nasce una nuova forma di dramma che riesce a suscitare talvolta nello spettatore la più intensa delle commozioni. I personaggi sono lontani, così che qualunque contatto con essi ci sembra impossibile come con i fantasmi; ma la sinfonia rischiara il fondo reale che li produce. Qualcosa di simile è l’oggetto d’una meditazione in alcune pagine del mio libro Il Fuoco accese di presentimento. La musica, per mezzo de’ suoi motivi, ci dà il carattere di tutti i fenomeni dell’Universo nella loro intima essenza. La formazione, la direzione, la modificazione di questi motivi sono comparabili alla creazione del dramma; e il dramma, rappresentato dai mimi e dai danzatori, non può essere compreso senza il soccorso di questi motivi musicali, così formati, diretti, svolti. Si sa che la strofe nella sua origine primitiva era una cornice destinata ad essere riempiuta da una serie ben composta di movimenti corporei, formanti una specie di quadro animato, al quale la melodia comunicava la pienezza della vita. Ora, in questa nuova forma di dramma, per quale gioco misterioso il poeta equilibrerà la parola con la mimica e con la sinfonia? Ecco il problema che oggi appassiona più di un artista, e affatica anche me. Nella ricerca bisogna ricordarsi che il concetto musicale perde la sua purità primitiva quando divien dipendente da rappresentazioni estranee, in sé, al genio della musica. Anche bisogna ricordarsi che sentimenti, passioni, luoghi, persone, costumi e altre particolarità esterne non sono – per il poeta – se non segni da interpretare e che questi segni non han senso se non nei loro rapporti e nelle loro gerarchie. L’arte s’allontana dalla natura, per creare tipi impreveduti di bellezza. Sul fianco dell’Acropoli ateniese, che domina il Teatro di Diòniso, v’è un muro nudo, d’una nudità sublime, che sembra fatto per le apparizioni di domani. L’ho sempre nella memoria.] Consideriamo intanto il Cinematografo come uno strumento di liberazione. Ma non potrebbe esso tuttavia divenire un’arte silenziosa, profonda e musicale come il silenzio? [Or è parecchi anni, a Milano, fui attratto dalla nuova invenzione che mi pareva potesse promuovere una nuova estetica del movimento. Passai più ore in una
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Del cinematografo
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fabbrica di films per studiare la tecnica e specie per rendermi conto del partito che avrei potuto trarre da quegli accorgimenti che la gente del mestiere chiama «trucchi». Pensavo che dal cinematografo potesse nascere un’arte piacevole il cui elemento essenziale fosse il «meraviglioso». Le Metamorfosi di Ovidio! Ecco un vero soggetto cinematografico. Tecnicamente, non v’è limite alla rappresentazione del prodigio e del sogno. Volli esperimentare la favola di Dafne. Non feci se non un braccio: il braccio che dalla punta delle dita comincia a fogliare sinché si muta in ramo folto di alloro, come nella tavoletta di Antonio del Pollaiuolo che con gioia rividi a Londra pochi giorni fa. Mi ricordo sempre della grande commozione ch’ebbi alla prova. L’effetto era mirabile. Il prodigio, immoto nel marmo dello scultore o nella tela del pittore, si compieva misteriosamente dinanzi agli occhi stupefatti, vincendo d’efficacia il numero ovidiano. La vita soprannaturale era là rappresentata in realtà palpitante…] Ma l’esperimento fu interrotto. [Le difficoltà erano gravi e richiedevano una pazienza e una costanza che il risultato pratico non poteva compensare. I fabbricanti ad ogni tentativo insolito oppongono l’esecrabile «gusto del pubblico». Il gusto del pubblico riduce oggi il cinematografo a una industria più o meno grossolana in concorrenza col teatro. Io stesso – per quella famosa carne rossa che deve eccitare il coraggio dei miei cani corsieri – ho lasciato cincischiare in films alcuni dei miei drammi più noti. Ma questa volta (oh disonore! onta indelebile!) m’è piaciuto di fare un esperimento diretto. Una Casa torinese, diretta da un uomo colto ed energico che ha uno straordinario istinto plastico, dà un saggio d’arte popolare sopra un soggetto inedito da me fornito.] iii. [Si tratta d’un disegno di romanzo storico, delineato parecchi anni fa e ritrovato tra le mie innumerevoli carte. Il disegno era troppo ambizioso, e non fu attuato in opera d’arte. Che tremendo sforzo di cultura e di creazione ci voleva infatti per rappresentare, nel terzo secolo avanti Cristo, il più tragico spettacolo che la lotta delle stirpi abbia dato al mondo! Gli eventi e gli eroi sembrano operare secondo la virtù del Fuoco infaticabile. Il soffio della guerra converte i popoli in una specie di materia infiammata, che Roma si sforza di foggiare a sua simiglianza. La Fortuna avversa – come si vede nell’irruzione d’Annibale «nato in tutt’arme» – sembra non cancellare ma sì approfondire l’impronta tremenda. La pace – che sarà romana sull’intero Mediterraneo – è ancora un vanissimo nome nella bocca stessa di Quinto Fabio. Simile a quella sua toga rude, l’anima di Roma non è gonfia se non di volontà ostile e intrepida. Nessuna energia naturale eguaglia in ritmo irresistibile la possanza e la costanza dell’Urbe fondata dall’eroe selvaggio in cui lo spirito violento del Marte italico si congiunge allo spirito misterioso della Vesta orientale. Qui è il conflitto supremo di due stirpi avverse, condotte veramente dal Genio del Fuoco «che tutto doma, che tutto divora, sire possente di tutto, artefice sempiterno». Per ciò la creatura inconsapevole, che passa incolume a traverso
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Gabriele D’Annunzio
l’ardore dei fati, è nomata Cabiria, con un nome evocatore dei demoni vulcanici, degli operai igniti ed occulti i quali travagliano senza tregua la materia dura e durevole. Per ciò è qui la visione dell’isola ardente che la mano erculea della gente dorica sembra aver foggiato nel tipo della compiuta grandezza. La montagna, che fu mistico sepolcro di Empedocle, segna qui il ritmo iniziale: di vita e di morte, di creazione e di distruzione, di splendore e d’oscuramento. Casi prodigiosi, straordinarie fortune, fulminee ruine. La virtù dell’uomo pare senza limiti, da che il Macedone ha superato Ercole e Bacco, il Semidio e il Dio. La forza procede per salti formidabili, belluina e divina, non toccando la terra se non per moltiplicare il suo impeto. La sentenza di Pirro dall’elmetto ornato di corna d’ariete non è se non una parola d’oracolo sospesa sul mondo. «A chi il retaggio? Al ferro che meglio trapasserà, che meglio taglierà». Dunque alla corta larga e aguzzata spada romana. Ed ecco, si compie ciò che non mai fu veduto in terra, che non mai fu scritto negli annali: una grande civiltà umana crolla intieramente, d’un tratto, con i suoi idoli mostruosi, con i suoi valori antichi e nuovi, con la sua tristezza e con la sua cupidigia, con la sua volontà di dominio senza pazienza, con la sua smania d’avventura senza eroismo, crolla d’un tratto, come una falsa stella che precipiti non lasciando se non un poco di fumo e di scoria. Il Periplo di Annone, qualche medaglia corrosa, alcuni versi di Plauto: non altro resta del vasto e atroce mondo cartaginese. Le ceneri dei fanciulli arsi nel bronzo insaziato di Moloch furono forse meno labili. «Or chi canta le guerre puniche?» dice il finale epigramma di sapore anacreontico, accompagnato dal flauto di Pan. E sole le faville della fiaccola di Eros indomito ora crepitano nella scia della nave felice.] Si tratta, come si vede, d’una vastissima tela. [Credo che non ne fu mai presentata di più vasta né lavorata con più cura dei particolari, con più rispetto dell’archeologia e del carattere storico, con maggior armonia di movimenti e di aggruppamenti. La Casa editrice ha, senza dubbio, compiuto il più grande e ardito sforzo che sia mai stato fatto in quest’arte. Si tratta di grandi composizioni storiche collegate da una finzione avventurosa che si rivolge al più ingenuo sentimento popolare. E il mio dilettissimo Ildebrando da Parma ha composto1 su Cabiria un mirabile poema sinfonico], una Sinfonia del Fuoco più crepitante e più rosseggiante che l’incantesimo della Walkiria. [Non cesso tuttavia di pensare al delicato braccio di Dafne converso in ramo frondoso. La vera e singolare virtù del Cinematografo è la trasfigurazione; e] io [dico che Ovidio è il suo poeta. O prima o poi, la poesia delle Metamorfosi incanterà la folla che oggi si diletta di così sconce buffonerie. In ognuno dei nostri miti è una rivelazione profonda, un insegnamento felice, talvolta un annunzio meraviglioso.] Io [dico, senza ombra d’ironia, che un buon bagno di mitologia mediter1
Un tratto di penna cancella, a questo punto, l’esclamazione «(oh disonore!)».
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Del cinematografo
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ranea per il pubblico del Cinematografo sarebbe d’incalcolabile efficacia. Primus amor Phoebi Daphne Peneia…] E quando, a imagine dei budelli fantastici ingegnati da Leonardo, la «pellicola» gonfiata da soffi potenti e cresciuta a dismisura avrà invaso tutte le scene e ne avrà cacciato la miseria e l’ignominia d’oggi, allora soltanto potremo sperare di veder giungere verso di noi l’Invocato e l’Aspettato: il fanciullo «delicato e forte» concepito all’ombra delle colline armoniose, simile a quei venti di primavera che portano strane erbe nella bocca selvaggia guidando uno stuolo di uccelli incogniti disposto in forma del tirso di Dioniso o della lira d’Apollo.
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Bibliografia
Si elencano, nella prima parte, dedicata agli Scritti d’epoca: 1. i testi letterari e giornalistici antologizzati nel presente volume, in ordine cronologico; 2. altri scritti d’epoca sul rapporto tra cinema e letteratura in Italia fino ai primi anni Venti: opere letterarie, teatrali e musicali; libretti, soggetti e sceneggiature edite che coinvolgano letterati; manuali e saggistica in volume; una selezione di articoli sulle riduzioni cinematografiche; infine altri interventi in rivista, inclusi quelli comparsi sulla stampa di categoria più accreditata. La seconda parte della Bibliografia offre, sempre in ordine cronologico, una rassegna di Studi moderni sull’argomento. i. scritti d’epoca 1. Testi antologizzati nel presente volume 1.1. Opere letterarie Luigia Cortesi, Al cinematografo, in «La Rassegna Nazionale», xxvii, 142, 1o aprile 1905, pp. 444-447. Gualtiero Fabbri, Al cinematografo. Novella, Milano, P. Tonini, 1907; poi, a cura di Sergio Raffaelli, Roma, Associazione italiana per le ricerche di storia del cinema, 1993, e Bologna, Persiani, 2012. Emilio Salgari, Le meraviglie del Duemila. Avventure, illustrate da 10 disegni di Carlo Chiostri, Firenze, R. Bemporad & figlio, 1907. Umberto Lanna, Ar cinematogrifo, in «Gazzetta del popolo della domenica», xxvi, 43, 25 ottobre 1908, p. 2. Jarro [Giulio Piccini], Le novelle del cinematografo, Firenze, Bemporad, 1910. La solita canzone del Melibeo, a cura di Gian Pietro Lucini, Milano, Edizioni futuriste di Poesia, 1910. Libero Altomare [Remo Mannoni], Proiezioni, in I poeti futuristi, con un proclama di Filippo Tommaso Marinetti e uno studio sul Verso libero di Paolo Buzzi, Milano, Edizioni futuriste di Poesia, 1912, pp. 84-85. Aldo Borelli, Il duello di Miopetti, in «La Tribuna Illustrata», xx, 16, 21-28 aprile 1912, pp. 242-244. Ugo Menichelli, Il ritorno, in «La Vita cinematografica», iv, numero speciale, dicembre 1913, pp. 94-97. Dino Campana, La notte, in Canti Orfici, Marradi, Tipografia F. Ravagli, 1914.
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Bibliografia
Nino Berrini, Sandro Camasio, L’amante del cuore. Tre atti, in «Comoedia», x, 9, 15 settembre - 15 ottobre 1928, pp. 32-41; poi, con il titolo Il cuore dell’amante. Commedia in tre atti, Torino, Luigi Cruetto Editore, 1931 (prima rappresentazione: Torino, 28 aprile 1914). Guido Gozzano, Pamela-Films, in «La Stampa», 21 febbraio 1915; poi in Id., L’ultima traccia. Novelle, Milano, Treves, 1919, pp. 135-149. Guido Gozzano, Il riflesso delle cesoie [1915-1916], in L’ultima traccia, cit., pp. 49-62. Luigi Pirandello, Si gira…, in «Nuova Antologia», 1o giugno - 16 agosto 1915; poi Milano, Treves, 1916; quindi, con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Firenze, Bemporad, 1925. Francesco Meriano, Prosa cinematografica, in Equatore notturno, Milano, Edizioni futuriste di Poesia, 1916, pp. 23-24. Francesco Cangiullo, Francesca Bertini, in «Vela latina», iv, 7 [ma 8], 4 marzo 1916, p. 30. Pio Vanzi, Lungo metraggio, in «Noi e il mondo», vi, 3, marzo 1916, pp. 245-250; poi in «La Vita cinematografica», ix, numero speciale, dicembre 1918, pp. 152-156. Trilussa [Carlo Alberto Salustri], Basta la mossa!, in «La Cine-fono», x, 327, 11-25 giugno 1916, p. 65; poi in Id., Lupi e agnelli, Roma, Voghera, 1919. Nino Martoglio, L’arte di Giufà. Bizzarria comica in tre atti (1916), in Teatro dialettale siciliano, vol. V, Catania, Giannotta, 1919 (2a ed. 1928). Onorato Fava, La principessa del sogno, in «L’Arte muta», i, 8-9, 30 marzo - 30 aprile 1917, pp. 16-21; poi, con il titolo La principessa azzurra, in Id., Torna la primavera. Novelle, Milano, Vallardi, 1919, pp. 211-226. Ettore Veo, Fantasio-film. Il romanzo del cinematografo, in «Penombra», i, 1, novembre-dicembre 1917, pp. 46-48; i, 2, gennaio-febbraio 1918, pp. 30-32; continua in «In penombra», i, 1, giugno 1918, pp. 43-46; i, 2, luglio 1918, pp. 83-86; i, 3, agosto 1918, pp. 124-126; i, 4, settembre 1918, pp. 164-157; poi, con il titolo Fantasio-film. Romanzo del cinematografo, Milano, Modernissima, 1921. Pier Maria Rosso di San Secondo, Pur che non si parli…, in «Penombra», i, 2, gennaiofebbraio 1918, pp. 8-10; poi in Id., Io commemoro Loletta. Novelle, Milano, Fratelli Treves, 1919, pp. 11-18. Federigo Tozzi, Una recita cinematografica, in «In penombra», i, 6, novembre 1918, pp. 241243; poi in Id., Giovani, Milano, Treves, 1920, pp. 97-111. Alfredo Testoni, Arte nuova. Commedia in tre atti di là da venire, in «In penombra», i, 7, dicembre 1918, pp. 274-275. Bruno Corra [Bruno Ginanni Corradini], Io ti amo. Il romanzo dell’amore moderno, Milano, Studio Editoriale Lombardo, 1918. Pier Maria Rosso di San Secondo, Vita, teatro di vetro, in «Il Secolo XX», xvii, 1, 1o gennaio 1919, pp. 815-819; poi in Id., Il bene e il male, Milano, Vitagliano, 1920, pp. 77-101. Enrico Roma, La Repubblica del silenzio. Racconto di costumi cinematografici, Roma, Impresa Editoriale Ugoletti, 1919. Massimo Bontempelli, La mia morte civile, in «Corriere della sera», 21 ottobre 1924, p. 3; poi in Id., La donna dei miei sogni e altre avventure moderne, Milano, Mondadori, 1925, pp. 87-102, e in Id., Miracoli (1923-1929). La donna dei miei sogni, Donna nel sole, Mia vita morte e miracoli, Milano, Mondadori, 1938, pp. 48-57. 1.2. Scritti giornalistici Giustino L. Ferri, Tra le quinte del cinematografo, in «La Lettura», vi, 9, settembre 1906, pp. 794-800. Giovanni Papini, La filosofia del cinematografo, in «La Stampa», 18 maggio 1907, pp. 1-2.
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Bibliografia
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Gajo [Adolfo Orvieto], Spettacoli estivi. Il cinematografo, in «Corriere della sera», 21 agosto 1907, p. 3 (edizione del pomeriggio). Ettore Janni, Un colloquio con Gabriele D’Annunzio, in «Corriere della sera», 29 maggio 1908, p. 3; poi in Interviste a D’Annunzio (1895-1938), a cura di Gianni Oliva, con la collaborazione di Maria Paolucci, Lanciano, Carabba, 2002, pp. 127-132. Crainquebille [Enrico Thovez], L’arte di celluloide, in «La Stampa», 29 luglio 1908, p. 3; poi in Id., L’arco d’Ulisse: prose di combattimento, Napoli, Ricciardi, 1921, pp. 206-215. Giulio de Frenzi [Luigi Federzoni], L’abolizione della parola, in «Giornale d’Italia», 28 ottobre 1908, p. 3. Ricciotto Canudo, Trionfo del cinematografo, in «Il Nuovo giornale», 25 dicembre 1908, p. 3. Lucio D’Ambra, «Salomè» all’aria aperta, in «Il Tirso», vii, 13, 27 marzo 1910, pp. 2-3; poi, con il titolo Si gira «Salomè» di Ugo Falena, in Lucio d’Ambra. Il cinema, a cura di Adriano Aprà e Luca Mazzei, numero monografico di «Bianco e Nero», lxiii, 5, settembre-ottobre 2002, pp. 68-71. Il cinematofono, in «Corriere della sera», 30 agosto 1910, p. 3. Carlo Casella, Poesia e cinematografo. Conversando col poeta Guido Gozzano, in «La Vita cinematografica», i, 2, 20 dicembre 1910, pp. 1-2; poi in Tra una film e l’altra. Materiali sul cinema muto italiano 1907-1920, Venezia, Marsilio, 1980, pp. 102-104. Giuseppe Prezzolini, Per un cinematografo nazionale, in «Il Resto del Carlino», 21 dicembre 1910, p. 3; poi, con la data 1914, in Paradossi educativi, Roma, La Voce, 1919, pp. 67-74; poi Roma, A. Armando, 1964. Fausto Maria Martini, La morte della parola, in «La Tribuna», 16 febbraio 1912, p. 3. G.Pr. [Giuseppe Prezzolini], La guerra e il cinematografo, in «La Voce», iv, 34, 22 agosto 1912, pp. 876-877. Fraka [Arnaldo Fraccaroli], Dietro al cinematografo, in «Corriere della sera», 21 febbraio 1913, p. 3. La Voce [Giuseppe Prezzolini], La censura ai cinematografi, in «La Voce», v, 21, 22 maggio 1913, p. 1081. E.D., Corriere teatrale. Tra scene e pellicole, in «Corriere della sera», 23 giugno 1913, p. 6. Luciano Zuccoli, Cinematografo e teatro, in «Il Marzocco», xviii, 30, 27 luglio 1913, p. 3. Sebastiano Arturo Luciani, Il cinematografo e l’arte, in «Il Marzocco», xviii, 32, 10 agosto 1913, p. 6. Edoardo Boutet, Rassegna drammatica. Il cinematografo, in «Nuova Antologia», clxvi, vol. 250, 1000, 16 agosto 1913, pp. 655-658. La nostra inchiesta-referendum fra gli Autori drammatici italiani, in «La Vita cinematografica», iv, 15, 15 agosto 1913, pp. 49-50; 16, 30 agosto 1913, pp. 33-34; 17, 15 settembre 1913, pp. 45-46; poi in Tra una film e l’altra, cit., pp. 191-198. Attrice cinematografica ferita da un leopardo nell’esecuzione d’una film, in «La Stampa», 19 ottobre 1913, p. 6. La nostra inchiesta sul cinematografo, in «Il Nuovo giornale», 20, 21, 22, 24, 25, 28, 29, 30 novembre, 1, 2, 4, 8 dicembre 1913, p. 3. Oberon [Umberto Bozzini], Cinematografo e scena di prosa, in «Giornale d’Italia», 26 novembre 1913, p. 3. La fuga di tre leoni a Torino, in «Corriere della sera», 10 dicembre 1913, p. 4. Giuseppe Prezzolini, Viva il cinematografo!, in «La Stampa», 28 dicembre 1913, p. 3; poi in Tra una film e l’altra, cit., pp. 209-212. Renato La Valle, Il teatro e il cinematografo: «ceci tuera cela». Di Giacomo, Bracco, Verga, D’Annunzio scrivono per il cinematografo, in «Giornale d’Italia», 5 febbraio 1914, p. 3. A colloquio con D’Annunzio, in «Corriere della sera», 28 febbraio 1914, p. 3; poi in Interviste a D’Annunzio (1895-1938), cit., pp. 278-285.
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Bibliografia
S.A., Conversando con Matilde Serao di arte e cinematografo, in «Giornale d’Italia», 2 aprile 1914, p. 3. Corriere teatrale. La «Cabiria» di D’Annunzio al cinematografo, in «Corriere della sera», 19 aprile 1914, p. 5. Nino Oxilia, Attori che non parlano, in «La Lettura», xiv, 8, agosto 1914, pp. 741-748; poi in Tra una film e l’altra, cit., pp. 231-238. Saverio Procida, «Sperduti nel buio» al cinematografo (Intervista con Roberto Bracco), in «Il Mattino», 20-21 settembre 1914, p. 3; poi in Sperduti nel buio, a cura di Alfredo Barbina, Torino, Nuova ERI, 1987, pp. 141-144. Giuseppe Prezzolini, Problemi del cinematografo, in «Il Secolo», 2 luglio 1914, p. 3; poi in Id., Paradossi educativi, Roma, La Voce, 1919, pp. 59-66; poi Roma, A. Armando, 1964. Gabriele D’Annunzio, Del cinematografo considerato come strumento di liberazione e come arte di trasfigurazione [1914?], in Giovanni Pastrone: gli anni d’oro del cinema a Torino, a cura di Paolo Cherchi Usai, Torino, Utet, 1986, pp. 113-122; poi in Gabriele D’Annunzio, Scritti giornalistici, a cura di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti, vol. 2, Milano, Mondadori, 2003, pp. 668-674. Guido Gozzano, Il nastro di celluloide e i serpi di Laocoonte, in «La Donna», xii, 273, 5 maggio 1916, pp. 10-11; poi in Id., La sceneggiatura del «San Francesco» ed altri scritti, a cura di Mauro Sarnelli, prefazione di Enrico Ghidetti, Anzio, De Rubeis, 1996, pp. 199-209. Roberto Bracco, Geremiata, in «L’Arte muta», i, 2, 15 luglio 1916, pp. 1-3; poi, con il titolo Cinematografo (Geremiata), in Id., Tra le arti e gli artisti, Napoli, Giannini, 1919, pp. 295302; ora in Sperduti nel buio, cit., pp. 153-156. Antonio Gramsci, Teatro e cinematografo, in «Avanti!», ed. Torino, 26 agosto 1916, p. 3; poi in Id., Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1950, pp. 248-250, e in Id., Cronache torinesi 1913-1917, a cura di Sergio Caprioglio, Torino, Einaudi, 1980, pp. 802-804. Filippo Tommaso Marinetti, Bruno Corra, Emilio Settimelli, Arnaldo Ginna, Giacomo Balla, Remo Chiti, Cinematografia futurista. Manifesto, in «L’Italia futurista», i, 10, 15 novembre 1916, p. 1; poi in Filippo Tommaso Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Milano, Mondadori, 1983, pp. 138-144. Annie Vivanti, Secondo me..., in «La Donna», xiii, 294, 15 giugno 1917, pp. 24-25 (pagina «Donna» e la Cinematografia); poi, con varianti e il titolo Il cinematografo, in Id., Zingaresca, Milano, Quintieri, 1918, pp. 171-187, e, con ulteriori varianti e il titolo Laude del cinematografo, in Id., Zingaresca, Milano, Mondadori, 1929, pp. 187-203. Ugo Falena, Si cominciò a girare un po’ d’arte, in «Penombra», i, 1, novembre-dicembre 1917, p. 17. Pasquale Parisi, Alla ricerca del trucco, in «Penombra», ii, 2, gennaio-febbraio 1918, pp. 27-28. Ettore Cozzani, La rupe e la statua, in «In penombra», i, 1, giugno 1918, pp. 10-12. Lucio D’Ambra, Conversando con l’altro me stesso, in «Cinemundus», i, 2, agosto 1918, p. 3; poi in «Fortunio», v, 6, 15 agosto 1920, pp. 5-8; ora in Lucio d’Ambra. Il cinema, cit., pp. 105-110. Silvio D’Amico, Il cinematografo non esiste, in «In penombra», i, 4, settembre 1918, pp. 135137. Il nostro referendum. La Cinematografia e l’ora presente, in «La Vita cinematografica», x, nn. 7/8 - 15/16, 22-28 febbraio - 22-30 aprile 1919; x, n. 19-20, 22-30 maggio 1919, pp. 87-89 (riproduce l’autografo dell’intervento di D’Annunzio). Bruno Barilli, «Fantasia bianca» di Vittorio Gui al Costanzi, in «Il Tempo», 27 novembre 1919; poi in Id., Lo spettatore stralunato. Cronache cinematografiche, prefazione di Attilio Bertolucci, Parma, Pratiche, 1982, pp. 11-14. Lucio D’Ambra, Il mio “Credo” cinematografico, in Rino Mattozzi, Rassegna generale della cinematografia. Anno 1920, Roma, Società editrice Rassegna, 1920, pp. 169-177; già in ingle-
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Bibliografia
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se, con il titolo My views on the cinematograph, in «Apollon», iv, 7, 30 luglio 1919 (numero speciale in inglese Lucio d’Ambra Films); ora in Lucio d’Ambra. Il cinema, cit., pp. 110-116. Giuseppe Prezzolini, Il bello cinematografico, in «Il Resto del Carlino», 7 gennaio 1921, p. 3; poi in «Al Cinemà», iv, 15, 12 aprile 1925, pp. 9-10. Filippo De Pisis, Il ridicolo nel cinematografo, in «Le Maschere», v, 5, 5 febbraio 1922, p. 5. Massimo Bontempelli, Il nuovo spettacolo. Lontano preludio (1922), in L’avventura novecentista. Selva polemica (1926-1938). Dal «realismo magico» allo «stile naturale» soglia della terza epoca, Firenze, Vallecchi, 1938, pp. 395-397. Alberto Savinio, Rivista del cinematografo, in «Galleria», i, 1, gennaio 1924, pp. 55-56. 2. Altri scritti d’epoca 2.1. Opere letterarie, teatrali e musicali Anna Vertua Gentile, Cinematografo. Scene famigliari per fanciulle, Torino, Paravia, 1898 (collana «Teatro educativo»). Roberto Tanfani, Il cinematografo a colori, in «Messaggero della gioventù», 5, 4 febbraio 1900, pp. 77-78. Giuseppe De Gregorio, ’O Cinematografo: canzone popolare, versi di R. Ferraro-Correra, musica di G. De Gregorio, Napoli, G. Santojanni, 1906. Giuseppe Mezzanotte, La serrata di Pian d’Avenna, romanzo inedito (1906); ora a cura di Mario Cimini, Roma, Bulzoni, 1991. Alberto Lumbroso, Parvenza inseguita, in «Rivista di Roma», ii, 8, 25 aprile 1907, pp. 226230. Edmondo De Amicis, Cinematografo cerebrale, in «L’Illustrazione Italiana», 1o dicembre 1907; poi in Id., Cinematografo cerebrale: bozzetti umoristici e letterari, Milano, Treves, 1909; ora in Id., Cinematografo cerebrale, a cura di Biagio Prezioso, Roma, Salerno Editrice, 1995, pp. 27-46. Natale Giovanni Fiaschi, Ar cinematografo. Monologo in vernacolo pisano, Pisa, A. Pizzanelli, 1908; poi Pisa, Marcello Pacini Editore, 1922. Alfredo Della Pura, Al cinematografo. Descrizioni e racconti per diletto e istruzione dei giovinetti, con numerose incisioni, Firenze, Bemporad, [1908]. Edmondo Corradi, Montecinemacatino, operetta in 1 atto, Bagni di Montecatini, Arti Grafiche Montecatini, 1912. Augusto Pala, Scene cinematografiche, Torino, tip. L. Festa, 1912. A. La Porta, La Bellissima. Romanzo cinematografico, in «La Vita cinematografica», iv, 2, 30 gennaio 1913 e ss. Carlo Carrà, Cineamore, varie serie di tavole parolibere, [1914]; parzialmente edite con riproduzione fotografica in Carlo Carrà, Tutti gli scritti, a cura di Massimo Carrà, con un saggio di Vittorio Fagone, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 32-33, 42-48; in La parola nell’arte: ricerche d’avanguardia nel ‘900, Catalogo della mostra (Rovereto, Mart, 10 novembre 2007 - 6 aprile 2008), Milano, Skira, 2007, pp. 95-97; in Futurismo 1909-2009. Velocità+Arte+Azione, Catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 6 febbraio - 7 giugno 2009), a cura di Giovanni Lista e Ada Masoero, Ginevra-Milano, Skira, 2009, pp. 301-303 (cfr. Catalogo delle opere, nel cd allegato, pp. 146-147). La signorina del cinematografo, operetta in 3 atti, libretto di Alfred Maria Willner e Bernard Buchbinder, musiche di Karl R. Weinberger, versi italiani di Arturo Franci, Trieste, C. Schmidl & C., 1915; anche Milano, Tip. Armodio, s.d. [1915]. Alfredo Testoni, La spada di Damocle, commedia in tre atti, Bologna, Zanichelli, 1919 (prima rappresentazione: Milano, 21 luglio 1916).
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Bibliografia
Angelo Menini, Il diario di un cavaliere (Quadretti di... vita vissuta), in «La Cine-fono», x, 333, 11-25 settembre 1916 e ss. Luciano Delminio, Il romanzo di Doretta, in «Il Cinema illustrato», i, 1, 16 giugno 1916, p. 3; 2, 23 giugno 1917, p. 3; 4, 7 luglio 1917, p. 2; 7, 28 luglio 1917, p. 3; 8, 4 agosto 1917, p. 3; 9, 11 agosto 1917, p. 3; 12-13, 8 settembre 1917, p. 5; 15, 22 settembre 1917, p. 4. Folchetto [ Jacopo Caponi], Cinematografie senza nastro..., in «Il Cinema illustrato», i, 17, 6 ottobre 1917, p. 3; 18, 13 ottobre 1917, p. 3; 19, 20 ottobre 1917, p. 2; 20, 3 novembre 1917, pp. 2-3. Checco Durante, ’na piena ar cinematografo, Belluno, Tip. Fracchia, 1917. Ettore Veo, Tristano e il cinematografo. Avventure umoristiche, in «Il Romanzo Film», ii, 7, 26 marzo 1921, pp. 30-46. 2.2. Libretti di film Gabriele D’Annunzio, Cabiria. Visione storica del terzo secolo a.C., Torino, Itala Film, [1914]. L’«Excelsior» di Manzotti e Marenco in cinematografia della «Musikalfilm». «La parola ritorna», prologo di Lucio d’Ambra, Roma, Tip. poliglotta Mundus di G.U. Nalato, [1914] (il testo del prologo ora in Lucio d’Ambra. Il cinema, cit., pp. 74-76). Rapsodia satanica, Poema Cinema-Musicale di Alfa [Alberto Fassini], Fausto M. Martini, Pietro Mascagni, interprete Lyda Borelli, Roma, Edizioni Cines, 1915. Christus, Poema iconografico di Fausto Salvatori, Commento sinfonico di G. Fino, Roma, Società cinematografica Cines, [1916]. Christus: tavole fotografiche per la riproduzione cinematografica, Roma, Soc. Cines, 1916. Emilio Calvi, Christus, iconografia tratta dagli Evangeli da Fausto Salvatori, col commento sinfonico del maestro Giocondo Fino, Roma, S.A.C.F.E. - Società Anonima Commercio Films Educative, [1917]. La Crociata degli Innocenti. Mistero in 4 atti di Gabriele D’Annunzio, lavoro originale per cinematografo messo in scena da A. Boutet e A. Traversa, Musical Films - Renzo Sonzogno e C. & Pax Films, Milano, s.d. [1917]. 2.3. Soggetti e sceneggiature Domenico Ciampoli, La fine del mondo. Visione fantastica, in «Apollon», i, 4, 1o maggio 1916, pp. 4-5. Un atto di «Le mogli e le arance». Commedia cinematografica di Lucio d’Ambra, in «Penombra», i, 1, novembre-dicembre 1917, pp. 38-43; ora in Lucio d’Ambra. Il cinema, cit., pp. 19-29. Lucio D’Ambra, Ballerine. Romanzo cinematografico in 4 parti, in «L’Arte cinegrafica», i, 2, 15 giugno 1918; i, 3-4, 15 luglio 1918; ora in Lucio d’Ambra. Il cinema, cit., pp. 41-47. Roberto Bracco, Il naso. Novelletta grottesca per cinematografo, in «In penombra», i, 2, luglio 1918, pp. 65-67. Salvatore Di Giacomo, L’«Angelus». Fantasia romantica. Film in due parti, parte prima: La signorina Giuliana, in «In penombra», i, 2, luglio 1918, pp. 74-77; parte seconda, La corte dei miracoli, ivi, i, 3, agosto 1918, pp. 117-120. Gabriele D’Annunzio, L’Homme qui vola la Joconde. Grand scénario cinématographique écrit et pensé par Gabriele D’Annunzio à Fiume au mois de novembre 1920, a cura di Mario Duliani, in «Ambassades & Consulats», giugno 1932, pp. 17-21.
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Indice dei nomi
Adami, Giuseppe 187n, 271 Agostinoni, Emidio 281 Alberini, Filoteo 7n-8n, 195 Albertini, Giacomo 272n Alessandro Magno 209 Alfieri, Vittorio 283, 324 Alighieri, Dante 283, 324, 387-388 Alovisio, Silvio xin Altomare, Libero (Remo Mannoni) xix, 41 e n Andreev, Leonid Nikolaevič 387 Andreoli, Annamaria 395n Annibale 256, 295, 397 Annone il Navigatore 296 Antamoro, Giulio 89n Antoine, André 352 Antona-Traversi, Giannino 270, 276n Aprà, Adriano 222n Archimede 256 Ariosto, Ludovico 283, 324, 379 Aristofane 219-220, 329 Baffico, Giuseppe 271 Baldini, Antonio xviii, 63n Balestrieri, Lionello 380 Balestrieri, Virginia 303 Balilla vd. Perasso, Giovanni Battista Balla, Giacomo 342 e n Balzac, Honoré de 292, 388 Barattolo, Giuseppe 307 e n Barbina, Alfredo 301n Barilli, Bruno xviii, 374 e n Barth, Hans 276n Bartolini, Carlo 11 Bataille, Henry 331
Baudelaire, Charles 303 Beaumarchais, Pierre-Augustin Caron de 331 Becque, Henry 220 Beethoven, Ludwig van 379, 382 Bellincioni, Gemma 356 Bellonci, Goffredo xvii Beltramelli, Antonio xviii, 63n Bencivenga, Edoardo 104n Benelli, Sem xvi, 154n, 275, 330n Benini, Ferruccio 353 Bergson, Henri 319 Bernard, Tristan 293 Bernhardt, Sarah 93, 234, 352 Bernstein, Henry 331 Berrini, Nino xix, 154 e n, 270, 272n Berti, Ettore 342, Bertini, Francesca 84, 131n, 188, 222-223, 307 e n, 353-354, 356, 368, 379 Bertolucci, Attilio 374n Bessi, commissario di polizia 251 Binazzi, Bino 44n Boccaccio, Giovanni 270, 324 Bonaparte, Napoleone 102, 233, 358 Bonnard, Abel 232 Bontempelli, Massimo xx, xxii, 104 e n, 389 e n Borelli, Aldo xx, 67 e n Borelli, Giovanni 230 Borelli, Lyda 48, 131n, 188, 269-270, 330n, 353, 356 Borgo, medico 248 Borsi, Giosuè 276n Botticelli, Sandro (Alessandro di Mariano Filipepi) 364 Bourbon, Jean 262-263
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Indice dei nomi
Boutet, Edoardo xv, 243 e n Boutroux, Étienne-Émile-Marie 319 Bozzini, Umberto (Oberon) xv, 318 e n Bracco, Roberto xvi, xviii, 63n, 168n, 270, 276n, 282, 287, 290, 301-302, 338 e n, 355 Bruto, Marco Giunio 379 Buchowetzki, Dimitri, 391n Bufi, Francesco xvii, 55n Buonarroti, Michelangelo 241, 364, 367 Buzzi, Paolo 41n Caccialupi, Gaetano 11 Cadorna, Luigi 11 Cagliostro, Alessandro (Giuseppe Balsamo) 291 Calabresi, Oreste 353 Caligola (Caio Giulio Cesare Augusto Germanico) 340 Calvi, Emilio xvii Camagni, Bianca Virginia 374n Camasio, Sandro xvi, xix, 154 e n, 155 Cambellotti, Duilio 355 Campana, Dino xxi, 43 e n Camerini, Mario xxi Campolonghi, Luigi 276n Cangiullo, Francesco xxi, 84 e n Canosa, Michele 374n Canudo, Ricciotto xiii, 215 e n Cappellani, Albert 19n Cappello, Bianca 236 Caprin, Giulio 276n Caprioglio, Sergio 330n Capuana, Luigi 272n, 275 Capus, Alfred 319 Carabba, editore 291 Caramba vd. Sapelli, Luigi Carchidio dei Malavolti, Francesco 11 Carducci, Giosue 9, 344 Carli, Mario 276n Carlyle, Thomas 233 Carmi, Maria 303 Carminati, Tullio 131n Carrà, Carlo x Carrère, Jean 298 Carrère, Nelly 298 Casanova, Giovanni Giacomo 291 Casella, Carlo xiii, 79n Caserini, Mario 354 Cassano, Riccardo 84n, 89n Cavaciocchi, Giuseppe 276n
Cavour, Camillo Benso conte di 13, 270 Cellini, Benvenuto 364 Ceragioli, Fiorenza 43n Cesare, Gaio Giulio 258, 279, 379 Cézanne, Paul 202, 325 Chartres, Vivien 346 Cherchi Usai, Paolo 395n Chiantoni, Amedeo 155 Chiantoni, Giannina 353 Chiosso, Renzo 272n Chiostri, Carlo 21n Chiti, Remo 342 e n Chopin, Fryderyk Franciszek 307 Cicerone, Marco Tullio 229 Cimarosa, Domenico 291 Claudel, Paul 283, 324 Clemenceau, Georges 352 Colombo, Cristoforo 101 Constant, Benjamin 378 Corneille, Pierre 220 Coronaro, Massimo 276n Corra, Bruno (Bruno Ginanni Corradini) xix, 141 e n, 342 e n Corradi, Edmondo 276n Corsi, Mario xvii- xviii, 131n Cortesi, Luigia xiv, 3n Cossa, Pietro 131n Costa, Antonio 374n Costamagna, Adriana 247 e n, 248-250, 255 Cozzani, Ettore xviii, 363 e n Craig, Edward Gordon, 395-396 Croce, Benedetto 322, 369 Dalbono, Eduardo 291 D’Ambra, Lucio (Renato Eduardo Manganella) xvi-xviii, xxi, 63n, 89n, 114n, 131n, 222 e n, 305 e n, 355, 368, 377 e n Damerini, Gino 276n D’Amico, Silvio xviii, 368 e n D’Annunzio, Gabriele xii-xiii, xv-xvi, 89n, 207, 210 e n, 219, 256-257, 265-266, 287, 292293, 295n, 317, 331, 352, 355, 373 e n, 385, 388, 395 e n Daudet, Alphonse 213 De Ambris, Alceste 207 De Amicis, Edmondo x, 229 De Benedetti, Augusto 276n Decourcelle, Pierre 318, 324 Del Colle, Ubaldo Maria 104n, 247-249 Deledda, Grazia 272n, 275
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Indice dei nomi De Luca, Pasquale 276n De Pisis, Filippo (Filippo Tibertelli) xxii, 387 e n De Robertis, Domenico 43n Di Giacomo, Salvatore xvi, xviii, 63n, 187n, 287-288, 290-291 Di Lorenzo, Tina (Concettina) 187n, 270, 299, 353, 370 Di Maggio, attore 254 Di Martino, Gaspare 276n Dolfi Foà, Emilio 276n Dondini, Cesare jr. (Cecè) 353, 356 Doria, Luciano xxi Dumas, Alexandre (padre) 378 Dumény, Camille 352 Duquesne, Edmond 352 Duse, Eleonora 93, 279, 353 E.D. xv, 269 e n Edison, Thomas Alva 221, 226-227 Empedocle 296, 398 Enrico IV di Borbone, re di Francia 233 Erode Antipa 222-224 Erodiade 222-224 Erostrato di Efeso 395 Eschilo 221, 337, 366 Euripide 274, 317, 337, 340, 356 Fabbri, Gualtiero Ildebrando xiv, 7 e n, 34n Fabio Massimo, Quinto 295, 397 Fabre, Émile 352 Falconi, Armando 187n Falena, Ugo xviii, xxi, 89n, 223, 352 e n Fassini, Alberto 354 Fava, Onorato xx, 55 e n Federzoni, Luigi (Giulio de Frenzi) xiii, 213 e n Ferdinando IV di Napoli (Ferdinando I di Borbone) 291 Ferri, Giustino Lorenzo xii, 193 e n Ferrigni, Mario 276n Flers, Robert de (Robert Pellevé de la MotteAngo de Flers) 318 Foà, Arturo 272n Fogazzaro, Antonio 355 Foscolo, Ugo 324 Fraccaroli, Arnaldo (Fraka) xvi, 238 e n, 271 Fracchia, Umberto xvii- xviii, 131n France, Anatole (François-Anatole Thibault) 319 Francesco d’Assisi 211, 266
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Franquinet, Giuseppe 276 Frinico 294, 396 Fulton, Robert 318 Gagliardi, traduttrice 298 Galiani, Ferdinando 291 Galli, Dina 353 Galvani, Ciro 222 Gambacorti, Chiara xxiii Gambacorti, Irene xxii Garavaglia, Ferruccio 353 Gariazzo, Pier Antonio 248-249 Garibaldi, Anita (Anna Maria Ribeiro da Silva) 229 Garibaldi, Giuseppe 13 Garry, Claude 352 Gémier, Firmin (Firmin Tonnerre) 352 Genina, Augusto xxi, 89n, 355 Ghidetti, Enrico 333n Ghione, Emilio xxi, 46n, 368 Giachetti, Cipriano 276n Giacometti, Paolo xxi, 104n Giannini, Olga 353 Ginna, Arnaldo (Arnaldo Ginanni Corradini) 141n, 342 e n Giolitti, Giovanni 343 Giordani, Claudia 374n Giorgieri Contri, Cosimo 271 Giovanna d’Arco 229 Giovanni Battista 222-225 Goldoni, Carlo 331 Gozzano, Guido xiii, xvi-xvii, xix, 79 e n, 109 e n, 267-268, 333 e n Gozzi, Carlo 385 Grabinski Broglio, Luigi 187n Gramatica, Emma (Aida Laura Argia) 353 Gramatica, Irma (Maria Francesca) 353 Gramsci, Antonio xv, 330 e n Grasso, Giovanni 168n, 277, 290, 302, 370 Graziani, Walter 276n Guasti, Amerigo 353 Guazzoni, Enrico 131n, 355 Gui, Vittorio xviii, 374n, 375-376 Guillaume, Ferdinand (Tontolini, Polidor) 252-253 Guillaume, fratelli 252 Gys, Leda (Giselda Lombardi) 89n Hebbel, Friedrich 283, 324 Heine, Heinrich 98
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Indice dei nomi
Hennequin, Maurice 352 Hermant, Abel 293 Hervieu, Paul-Ernest 318 Huetter, Luigi 84n Hugo, Victor 222, 322 Humperdinck, Engelbert 340 Ibsen, Henrik 324 Illuminati, Ivo 89n Italia, Paola 391n Ivan IV il Terribile, zar di Russia 262-263 Jachia, medico 248 Jacobini, Maria 188 Janni, Ettore xiii, 210n, 265 e n Jannings, Emil 391n Jarro vd. Piccini, Giulio Jaufré Rudel 235 Kanzler, Hermann 11 Karenne, Diana (Leucadia Konstantin) 307 e n Keats, John 297 Kipling, Joseph Rudyard 321 Kistemaekers, Henry-Hubert-Alexandre 270, 282 Krauss, Werner 391n Ladrón de Guevara, Pedro Luis 43n Lalique, René Jules 208 Lanna, Umberto xix, 23 e n Laterza, editore 291 La Valle, Renato xvi, 287 e n Lavedan, Henri 352 Le Bargy, Charles 352 Leggiadrino, Giovan Persio 288 Leonardo da Vinci 364, 380, 395, 399 Leone X, papa (Giovanni de’ Medici) 207 Leopardi, Giacomo 297 Lepanto, Vittoria (Vittoria Clementina Proietti) 89n, 222-225, 356 Lessing, Gotthold Ephraim 303 Levi, Cesare 276n Linder, Max (Gabriel-Maximilien Leuvielle) 239, 352 Lipparini, Giuseppe 276n Lombardi, Dillo 104n, 303 Lopez, Sabatino xv, 269, 272, 276n, 311-312, 315 Lo Savio, Gerolamo 224 Lo Savio, Nino 224 Luciani, Sebastiano Arturo xv, xvii, 316 e n
Lucini, Gian Pietro xiv, 38 e n Lucrezio Caro, Tito 206 Luigi XIV, re di Francia 207 Lulli Frei, Frida 276n Lumière, Auguste 202, 221 Lumière, Louis-Jean 202, 221 Lupi, Ignazio 89n Luzzatti, Luigi 228 Maciste vd. Pagano, Bartolomeo Maeterlinck, Maurice-Polydore-Marie-Bernard 232-233, 293, 385 Magherini, Simone xxiii Magnetti, Adelina 290 Maistre, François-Xavier de 378 Marchi, Marco 148n Marconi, Guglielmo 207 Margueritte, Paul 319 Mari, Febo (Alfredo Rodriguez) 368, 370 Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena 236 Mariani, Teresa 353 Marinetti, Filippo Tommaso 41n, 84n, 141n, 276n, 286, 342 e n, 371 Marini, Virginia 261 Martini, Ferdinando 321 Martini, Fausto Maria xiv, xvi-xviii, 63n, 232 e n, 276n, 282, 355 Martini, Mario Maria 271 Martoglio, Nino xvi, xix, 168 e n, 276n, 277, 281, 290, 301-303 Mascagni, Pietro 356 Masi, Alfredo 374n Mattozzi, Rino 377n Mazzei, Luca xin, xiv, 43n, 222n Mazzini, Giuseppe 13, 193 Mazzoletti, avvocato 254 Medici, Maria de’ 233 Melato, Maria 270, 353, 356 Menichelli, Ugo xx, 73 e n Meriano, Francesco xix, 44 e n Michelangelo Buonarroti vd. Buonarroti, Michelangelo Michetti, Francesco Paolo 380 Mistinguett (Jeanne Florentine Bourgeois) 352 Modena, Gustavo 261 Molière ( Jean-Baptiste Poquelin) 283, 324 Monaldi, Gastone 391n Moneta, Vittorina 303 Monicelli, Tomaso xviii, 63n, 131n, 355 Montani, Carlo 276n
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Indice dei nomi Morelli, Domenico 291 Morello, Vincenzo (Rastignac) 270, 355 Morselli, Ercole Luigi 271 Mounet-Sully ( Jean-Sully Mounet) 352 Munari, Lina 374n Murolo, Ernesto 299 Musco, Angelo 168n Negri, Fernanda 354 Nerone, Claudio Cesare Augusto Germanico 340 Niccodemi, Dario 89n, 131n, 187n, 352 Nicolini, Fausto 291 Nietzsche, Friedrich 100, 202 Ninchi, Annibale 342 Nouma Hava 247-249 Novelli, Amleto 104n, 374n Novelli, Augusto 270, 276n Novelli, Enrico (Yambo) 276n Novelli, Ermete 91, 104n, 276n, 353 Nozzoli, Anna xxiii Numa Pompilio, 211 Oliva, Gianni 265n Omegna, Roberto 79n Omero 233, 344 Oppo, Cipriano Efisio 148n Orette, Laura 222, 224 Orlandini, Leo 353 Orlando, Vittorio Emanuele 281 Orvieto, Adolfo (Gajo) xiii, 203 e n Ottaviano Augusto, Caio Giulio Cesare 279 Ovidio Nasone, Publio 295-296, 397-398 Oxilia, Nino xvi, 3n, 154n, 258 e n, 269, 272n, 274 Pagano, Bartolomeo (Maciste) 368 Pagliari, Giacomo 12 Paisiello, Giovanni Gregorio 291 Palermi, Amleto xxi, 89n Palmarini, Uberto 353 Pancrazi, Pietro 85n Pantalena, Gennaro 354 Paolucci, Maria 265n Papini, Giovanni xiii, 200 e n Paradisi, Umberto 252, 254, 272 Parisi, Pasquale xviii, 358 e n Pascoli, Giovanni 388 Pastrone, Giovanni xvi, 292n Pathé, Charles 221
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Pathé, Émile 221 Pelaez, drammaturgo 271 Pelloux, Luigi Girolamo 12 Perasso, Giovanni Battista (Balilla) 229 Pergolesi, Giovanni Battista 291 Petraccone, Enzo 291 Piccini, Giulio ( Jarro) xiv, 29 e n, 276n Pietri, Giuseppe 154n Pio X, papa (Giuseppe Melchiorre Sarto) 99 Piper, Sigismondo 248-250 Pirandello, Luigi xvi, xviii, xx, xxii, 63n, 114 en Pirgotele 209 Pirro, re dell’Epiro 296, 398 Pizzetti, Ildebrando (Ildebrando da Parma) 257, 296, 398 Platone 318 Plauto, Tito Maccio 219, 296, 398 Plutarco 293 Podrecca, Guido 276n Poe, Edgar Allan 218, 293 Polidor vd. Guillaume, Ferdinand Pollaiolo, Antonio (Antonio Benci) 295, 397 Pompeo Magno, Gneo 258 Pouchain, Adolfo 195 Pozzati, Severo 374n Praga, Marco xvi, 187n, 270, 355 Prezzolini, Giuseppe xv, xxi, 228 e n, 236 e n, 241 e n, 276n, 286, 323 e n, 326 e n, 384 e n Prince, Charles 352 Procida, Saverio 276n, 301 e n Puccini, Giacomo 212, 229 Quaglia, O. 154n Rabino, commissario di polizia, 251 Rabizzani, Giovanni 291 Racine, Jean 220 Raffaelli, Sergio 7n Ravel, Maurice 297 Regnault, Henri-Victor 221 Reinhardt, Max 303, 389 Réjane (Gabrielle-Charlotte Réju) 352 Re Riccardi, Adolfo 276n Ricciardi, editore 291 Ridolfi, Rodolfo 41n Robinne, Gabrielle 352 Roch, Madeleine 352 Rodin, Auguste, 380 Roma, Enrico xviii, xxi, 89 e n
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Indice dei nomi
Romains, Jules (Louis Farigoule) 385 Romussi, Carlo 288-289 Roosevelt, Theodore 336 Rops, Félicien 380 Rossetti, Dante Gabriel 235 Rosso di San Secondo, Pier Maria xviii-xx, 63 e n, 86 e n Rostand, Edmond 275, 352 Rubens, Pieter Paul 8 Ruberti, Guido 276n Rudel, Jaufré vd. Jaufré Rudel Ruggeri, Ruggero 270, 353 Ruspoli, Cristina 253 Russo, Ferdinando 84n Sabbatini, Ernesto 353 Salgari, Emilio xiv, 21 e n Salomè 222-225 Salvatori, Fausto 355 Salvemini, Gaetano (Agricola) 242 e n Sandron, editore 291 Santos Dumont, Alberto 207 Sapelli, Luigi 355 Sardou, Victorien 269, 279 Sarnelli, Mauro 333n Savinio, Alberto (Andrea De Chirico) xxii, 391 e n Scag., C. 368n Scarfoglio, Antonio xvii, 55n Scarlatti, Domenico 297 Scarpelli, Filiberto 276n Scarpetta, Eduardo 222 Schanzer, Ottone 276n Scheiwiller, Vanni 391n Schneider, Alfred 251-255 See, Edmond 319 Segrè, Alfredo 276n Serao, Matilde xvii, 298, 300 Settimelli, Emilio 141n, 342 e n Sévigné, Marie de Rabutin-Chantal de 307 Shakespeare, William 211, 220, 233-234, 283, 307, 324, 326, 331, 335, 366, 369, 379, 385 Shelley, Percy Bysshe 300 Sienkiewicz, Henryk xxii Signorini, Dante 269, 271 Silvain, Eugène 352 Simoni, Renato 187n Socrate 202 Soffici, Ardengo 43n Sofocle 317, 337, 340
Soldani, Valentino 271 Sonnino, Giorgio Sidney 224 Sorel, Cécile 352 Spencer, Herbert 207 Stagno Bellincioni, Gemma 356 Stanley, Henry Morton 102 Stephenson, George 318 Strauss, Johann 56 Strinati, Ettore 276n Swedenborg, Emanuel 233 Tartufari, Clarice 276n Tebaldi, Tabuto 276n Tellini, Gino xxiii Testoni, Alfredo xix, 187 e n, 270, 355 Thovez, Enrico (Crainquebille) xiii, 207 e n, 210n Tiziano Vecellio 241 Tofano, Sergio (Sto) 63n Tolomeo, Claudio 206 Tolstoj, Lev Nikolaevič 352 Toma, Gioacchino 291 Tonini, Pietro 7n, 34n Tontolini vd. Guillaume, Ferdinand Tozzi, Federigo xviii, xx, 63n, 148 e n Tozzi, Glauco 148n Traballesi, Vittorio 276n Treves, editore 298 Trilussa (Carlo Alberto Salustri) xix, 85 e n, 89n Tumiati, Domenico 270, 276n Tumiati, Gualtiero 342 Umberto I di Savoia, re d’Italia 368 Ussi, Stefano 229 Vannuzzi, Marcello 248-250 Vanzi, Pio xix, 46 e n Varaldo, Alessandro 270 Velle, Gaston 195, 196 Veo, Ettore xvii- xviii, 131 e n Verdenelli, Marcello 43n Verdi, Giuseppe 207 Verdone, Mario 44n, 84n Verga, Giovanni xvi, 187n, 287, 356 Vergani, Orio 148n Verne, Jules 195, 378 Vertua Gentile, Anna xiv Vico, Giambattista 291 Villiers de l’Isle-Adam, Philippe-AugusteMathias 293
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Indice dei nomi Vinardi, Alfredo 276n Visconti, Cesare 11 Vitaliani, Italia 353, 356 Vitellio Aulo 224 Vitruvio Pollione 219 Vitti, Achille 224 Vittorio Emanuele II, re d’Italia 13 Vivanti, Annie xvii, 346 e n Vollmoeller, Karl G. 340 Wagner, Richard Wilhelm 204, 207, 211 Watteau, Jean-Antoine 380 Weinberger, Karl xix
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Welles, Herbert George 195 Wilde, Oscar 91, 223-224 Yambo vd. Novelli, Enrico Zacconi, Ermete 197, 239, 270, 353 Zambaldi, Silvio 270, 276n Zanetti, Giorgio 395n Zecca, Ferdinand 8n, 14n Zoncada, Luigi 342 Zorzi, Guglielmo 270 Zuccoli, Luciano xv, 272n, 273, 311 e n, 316
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studi e testi
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collana diretta da Simone Magherini, Anna Nozzoli, Gino Tellini
1. Quaderno gozzaniano, a cura di Franco Contorbia, pp. 140, 2017. 2. Lo schermo di carta. Pagine letterarie e giornalistiche sul cinema (1905-1924), a cura di Irene Gambacorti, pp. xxiv+428, 2017. 3. Marino Biondi, L’antico e noi. Studi su Manara Valgimigli e il classico nel moderno, pp. 284, 2017.
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