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Italian Pages 148 Year 2012
Teoria Politica e Giuridica Collana di studi del Dipartimento di Studi Europei e della Integrazione Internazionale - D.E.M.S. Università degli Studi di Palermo
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SALVATORE MUSCOLINO
Linguaggio, storia e politica Ludwig Wittgenstein e Quentin Skinner
gI Carlo Saladino Editore
Salvatore Muscolino (1979) è
ricercatore in filosofia politica presso l’Università degli Studi di Palermo. È membro del comitato di redazione della rivista online «inTrasformazione» e del comitato scientifico della Collana «La Rosminiana».
È autore di diversi saggi e delle seguenti monografie: Il problema della legge naturale in san Tommaso e Rosmini, Ila Palma, Palermo 2003; Genesi e
sviluppo del costituzionalismo rosminiano, Palumbo, Palermo
2006; La Via del pensiero autentico. Martin Heidegger tra Oriente e Occidente, Palumbo, Palermo 2008; Persona e mercato. I liberalismi di Rosmini
e Hayek a confronto, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010.Collana di Studi
Digitized by the Internet Archive in 2023 with funding from Kahle/Austin Foundation
https://archive.org/details/linguaggiostoria0000musc
Muscolino, Salvatore
Linguaggio, storia e politica : Ludwig Wittgenstein e Quentin Skinner/ Salvatore Muscolino. — Palermo : Saladino, 2012. (Collana di studi di teoria politica e giuridica ; 3)
ISBN 978-88-95346-17-5 1. Skinner, Quentin [e] Wittgenstein, Ludwig.
320.01 CDD-22
SBN PAL0246533
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CARLO SALADINO EDITORE S.R.L. via venti settembre 53 - 90141 Palermo tel. 091.329590 - fax 091.6112670 [email protected]
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I Fdizione
ISBN 978-88-95346-17-5
Teoria Politica e Giuridica Collana di studi del Dipartimento di Studi Europei e della Integrazione Internazionale - D.E.M.S. Università degli Studi di Palermo
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DIRETTORI Giuseppe Barbaccia - Giovanni Fiandaca
COMITATO SCIENTIFICO Enzo Baldini - Giuseppe Barbaccia Laura Bazzicalupo - Francesco Conigliaro Manlio Corselli - Salvatore Costantino Giovanni Fiandaca - Ignazio Giacona Claudia Giurintano - Eugenio Guccione Antonello Miranda - Michele Nicoletti Alessandro Tesauro - Costantino Visconti
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SALVATORE MUSCOLINO
Linguaggio, storia e politica Ludwig Wittgenstein e Quentin Skinner
Carlo Saladino Fditore
Palermo 2012
A Gabriele
Introduzione
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Introduzione Lo studio che presentiamo al lettore è frutto di alcune ricerche che ci hanno spinto ad indagare, nell’ambito filosofico-politico, le conseguenze derivanti dall’accettare le idee sviluppate dall’ultimo Wittgenstein, quello per intenderci delle Ricerche filosofiche. La ricezione del pensiero di Wittgenstein da parte dei teorici della politica è stata assai variegata perché sono state proposte sia letture “conservatrici” del suo pensiero sia letture relativiste, così come si danno interpretazioni che vogliono Wittgenstein vicino al decostruzionismo, altre che lo avvicinano all’ermeneutica e altre ancora al pragmatismo?. Insomma, come per tutti i classici del pensiero, sembra destino che l’opera di Wittgenstein sia passibile di molteplici, e spesso contrastanti, interpretazioni. Un particolare nella recente bibliografia sul pensiero di Wittgenstein ci ha però colpito ed è all’origine di questo studio: i lavori di Quentin Skinner, che pure intendono recepire e applicare la lezione
! Tralasciamo la questione, certamente non secondaria, di una possibile “terza fase” del pensiero di Wittgenstein caratterizzata soprattutto dall’opera postuma Della certezza. Il dibattito a riguardo è molto complesso: cfr. D. Moyal-Sharrock-W. H. Brenner (ed. by), Readings of Wittgenstein's On Certainty, Palgrave MacMillan 2007. ? Per una panoramica in lingua italiana di questo “conflitto delle interpretazioni” cfr. D. Sparti (a cura di), Wittgenstein politico, Feltrinelli, Milano 2000. Da non trascurare
è poi il dibattito, molto interessante, sulla ricezione del Wittgenstein maturo nell’ambito della filosofia del diritto vista l’importanza, per esempio, della trattazione del rule-following presente nelle Ricerche: cfr. M. Barberis, Seguire norme giuridiche, ovvero: cos’avrà mai a che fare Wittgenstein con la teoria dell’interpretazione giuridica?,in «Materiali per uno studio della cultura giuridica», XXXI (1/2002), pp. 245-303. Altri testi utili per inquadrare in ambito giuridico l’utilizzabilità di Wittgenstein sono: D. Patterson (ed. by), Wittgenstein and Law, Ashgate Publishing 2004, M. Narvaez Mora, Wittgenstein y la teoria del derecho: una senda para el convencionalismo juridico, Marcial Pons, Madrid 2004; A. Schiavello, Perché obbedire al diritto? La risposta convenzionalista ed i suoi limiti, ETS, Pisa 2010, pp. 23-38.
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Linguaggio, storia e politica
del Wittgenstein maturo all’ambito storico e politico, spesso vengono trascurati in recenti studi i cui autori si sono impegnati a indagare l’importanza di Wittgenstein in campo filosofico-politico?. Questa assenza potrebbe essere dovuta al fatto che in ambito anglosassone Quentin Skinner è famoso soprattutto come storico* nonostante, come avremo modo di vedere, egli abbia fornito alcuni con-
tributi teorici degni di interesse anche per chi si occupi di “filosofia politica”5. È significativo a tale riguardo che J. G. A. Pocock abbia richiamato l’attenzione proprio su questa caratteristica della ricerca di Skinner, storica ma al tempo stesso ricca di spunti teorico-filosofici derivanti dall’assunzione, di chiaro sapore wittgensteiniano-austiniano,
che «political theory and philosophy are to be understood as political speech acts performed in history»°. Nel caso specifico italiano, il contributo di Skinner è stato in genere oggetto di interesse da parte di storici delle idee politiche (preferiamo utilizzare questa etichetta piuttosto che quella di ‘storia delle dottrine politiche’) mentre in ambito filosofico-politico egli è stato
3 Per esempio cfr. C. C. Robinson, Wittgenstein and Political Theory. The View from Somewhere, Edinburgh University Press 2009; S. Laugier-M.A. Lescourret (ed. by),
Wittgenstein politique, in «Cités» 38(2/2009). * Cfr. R. E. Goodin-P. Pettit, Introduction a R. E. Goodin-P. Pettit (ed. by), A Companion to Contemporary Political Philosophy, Blackwell Oxford 1992, p. 3. ° Giustamente, ci pare, M. Geuna sostiene l’esistenza di tanti Skinner: lo storico del pensiero politico, lo studioso di metodologia che si è confrontato con l’ermeneutica, il decostruzionismo e la teoria degli atti linguistici; /ast but not least, il filosofo politico (cfr. M. Geuna, Introduzione a Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, trad. it., Einaudi, Torino 2001, p. IX). ° Cfr. J. G. A. Pocock, Quentin Skinner: the history of politics and the politics of history, in J. G. A. Pocock, Political Thought and History. Essay on Theory and Method, Cambridge University Press, 2011, p. 125. In realtà di recente anche lo stesso Skinner ha ammesso di non essersi mai sentito a proprio agio sotto l’etichetta di storico: cfr. R. Prokhovnik, An interview with Quentin Skinner, in «Contemporary Political Theory» 10(2/2011), p. 281. ? Sui aspetti storici e concettuali legati allo statuto di questa disciplina in Italia cfr. A. D’Orsi, One hundred years of the history of political thought in Italy, in D. Castiglione-I. Hampsher-Monk (ed. by), The History of Political Thought in National Context Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 80-106.
Introduzione
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considerato quale teorico repubblicano anche se il suo contributo, in quanto storico, è passato in secondo piano rispetto a quello di autori come Philip Pettit o Frank I. Michelman che hanno fornito sull’argomento contributi teorico-sistematici più evidenti?. Perché allora per un filosofo politico lo studio di Skinner dovrebbe essere meritevole di interesse? Innanzitutto, chiunque si occupi di filosofia politica deve affrontare un delicato compito che è quello di chiarire quale sia la propria concezione della filosofia e quali compiti egli affidi alla ricerca filosofica in campo politico?. Nel caso italiano, per esempio, la filosofia politica è un ambito scientifico poliedrico perché caratterizzato da una serie di tradizioni di ricerca che affidano alla disciplina fini differenti gli uni dagli altri. Sono presenti, solo per citarne alcune, una tradizione di ricerca normativa, una realistico-simbolica, una femminista, una storico-concettuale, una analitica concettuale... Almeno due di queste tradizioni, ossia quella storico-concettuale e quella analitica concettuale, pur se con importanti differenze, assumono come oggetto privilegiato della filosofia politica lo studio del linguaggio, o meglio dei concetti politici. Nel nostro caso, vorremmo quindi capire quale spazio le idee del secondo Wittgenstein e gli sviluppi proposti da Quentin Skinner possano ricoprire nell’ambito della filosofia politica contemporanea visto che l’interesse per i concetti politici è presente già da diverso tempo nell’ambito degli studi filosofico-politici italiani. La scelta da parte nostra dell’opera di Skinner come esempio di applicazione delle idee di Wittgenstein alla politica deriva dalla metafora con la quale concepiamo la sua opera: sul tronco rappresentato
8 A questo proposito si veda la discussione svoltasi una decina di anni fa su «Filosofia e Questioni pubbliche», (1/2000). Bisogna segnalare, peraltro, che si sono confrontati con l’opera di Skinner e, più in generale, con la Cambridge School gli studiosi della scuola padovana che si ispirano alla Begriffgeschichte tedesca. ° Per una visione della filosofia politica vicina a quella presentata in questo lavoro cfr. J. Tully, Political Philosophy as a Critical Activity, in «Political Theory» XXX (4/2002), What Is Political Theory? Special Issue: Thirtieth Anniversary, pp. 533-555.
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dalla filosofia di Wittgenstein si inseriscono come naturali suoi sviluppi la speech acts theory di Austin e, con il passare del tempo, il metodo genealogico di Nietzsche. Non è possibile applicare questa metafora ad altri interpreti di Wittgenstein come ad esempio H. F. Pitkin!° (per quanto gli accenni ad Austin non siano assenti) e ciò è dovuto al fatto che Skinner è interessato da subito alle questioni legate alla History of Ideas che hanno, conseguentemente, un’applicazione più diretta alle problematiche legate al rapporto tra storia, filosofia e politica che a noi interessano in questa sede. Le idee wittgensteiniane che le parole siano “attrezzi” e che il linguaggio sia parte di una ‘forma di vita”, unite alle idee di Austin e di Nietzsche, permettono a Skinner di creare un percorso filosofico-politico assai interessante che non necessariamente risulta incompatibile con altre impostazioni già esistenti. Per esempio, nei confronti di un approccio realistico-simbolico è possibile rinvenire alcuni motivi comuni nella misura in cui quest’ultimo si occupa di “comprendere” le reali dinamiche di quel fenomeno complesso che noi chiamiamo “politica” che spesso rimangono in secondo piano negli approcci di tipo normativo maggiormente interessati alla dimensione del ‘“dover-essere”. Questo interesse verso una visione realista costituisce, come vedremo, uno dei leitmotiv della riflessione skinneriana come si
evince dall’attenzione mostrata verso il rapporto linguaggio/potere e il ruolo della retorica nell’agone politico. È interessante osservare che un percorso come quello che stiamo analizzando tende a far cadere gli steccati tra le discipline soprattutto tra filosofia politica e storia delle idee politiche ma anche con certi modi di praticare la ricerca antropologica. Se facciamo nostre le idee di Wittgenstein allora, come vedremo, sembra complicato distinguere
!° Cfr. H. F. Pitkin, Wittgenstein and Justice. On the Significance of Ludwig Wittgenstein for Social and Political Thought, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1972. Esistono diverse analogie con l’opera della Pitkin anche se Skinner, già nel 1972, ha fornito alcuni contributi sulla teoria degli “atti linguistici” di Austin e sull’idea tardo wittgensteiniana del significato come “uso” tentando di applicarli allo studio del pensiero politico.
Introduzione
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ricerche meramente storiche da altre di natura filosofico-teorica e il ruolo del filosofo si avvicina molto a quello di un antropologo impegnato a comprendere culture e contesti diversi dal proprio. Dal punto di vista metodologico, ci pare doveroso precisare che gli scritti di Skinner occupano ormai uno spazio temporale che abbraccia diversi decenni durante i quali sono incorsi importanti cambiamenti terminologici e, soprattutto, teorici. A un certo punto del suo percorso, ad esempio, Skinner si rende conto dell’importanza della retorica nell’analisi del discorso politico e le sue ricerche subiscono una decisa torsione in questa direzione concentrandosi, come vedremo, sulla complessa questione del mutamento concettuale". In questa sede, tuttavia, noi non siamo interessati a ricostruire passo dopo passo l’evoluzione del pensiero skinneriano o la sua interpretazione del pensiero di Machiavelli, di Hobbes o la genesi del concetto di Stato: piuttosto, siamo interessati a comprendere come la configurazione più recente del suo approccio teorico, coincidente soprattutto con l’opera in tre volumi intitolata Visions of Politics (2002), possa inserirsi nel dibattito teorico attuale anche in merito alla delicata domanda sullo statuto epistemologico della filosofia politica!?. Per quanto riguarda l’articolazione del lavoro, nel primo capitolo ci occuperemo dei presupposti filosofici dell’opera skinneriana per valutare poi, nel secondo capitolo, punti di contatto e differenze con l’opera di Michel Foucault, altro grande protagonista del Novecento al quale Skinner dichiara di essersi, in parte, ispirato. Nel terzo capitolo, invece, cercheremo di evidenziare le possibili differenze tra un
approccio di tipo wittgensteiniano e altri approcci come quello neokantiano, quello analitico-concettuale e quello proprio della Begriffsgeschichte. Queste tradizioni di ricerca presentano al loro interno
!! Cfr. Q. Skinner, Retrospect: Studying rhetoric and conceptual change, in Q. Skinner, Visions of Politics: Regarding Method, Cambridge University Press,
Cambridge 2002, p. 182. !? Per questo dibattito nella comunità scientifica italiana si vedano i contributi forniti nel 2007 da L. Alfieri, G. Duso e R. Cubeddu disponibili in versione online sul sito
web della Società italiana di filosofia politica: cfr. www.sifp.it.
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diverse articolazioni per cui per svolgere il nostro confronto prenderemo in considerazione, ove possibile, autori riconducibili a tali tradizioni con i quali Skinner si è direttamente confrontato e cioè J. Habermas, J. Rawls e R. Koselleck. Subito dopo, per ragioni di completezza, riteniamo utile presentare anche una sorta di sintesi delle idee di Skinner in merito al concetto di libertà neoromana e al rapporto tra liberalismo e repubblicanesimo. Nell’ultimo capitolo, dal titolo Ludwig Wittgenstein e la “relatività dello sguardo”, e che possiede rispetto agli altri capitoli una propria autonomia, presenteremo infine alcune considerazioni generali sull’importanza del pensiero maturo di Wittgenstein. Per concludere un ringraziamento va ai professori Dario Castiglione e Piero Violante che hanno letto il testo e hanno fornito preziosi consigli su come migliorarlo. Un grosso debito, invece, è stato contratto negli anni con il professore Francesco Conigliaro che segue i miei studi dai tempi del dottorato e che è sempre un sicuro punto di riferimento. È ovvio che l’unico responsabile degli argomenti presentati nelle pagine seguenti è solamente |’ Autore. Infine, un sentito ringraziamento va rivolto ai professori Giuseppe Barbaccia e Giovanni Fiandaca per aver accolto questo studio nella Collana “Teoria Politica e Giuridica” del dipartimento D.E.M.S. dell’Università degli Studi di Palermo.
Presupposti filosofici dell'approccio di Quentin Skinner
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1. Presupposti filosofici dell’approccio di Quentin Skinner
Nel presente capitolo prenderemo in considerazione i presupposti filosofici che agiscono sullo sfondo dell’opera di Skinner per cogliere il contributo dato dalle idee di Wittgenstein (oltre, come vedremo, a quelle
di un autore come Collingwood). In questo modo vedremo cosa implichino le intuizioni dell’ultimo Wittgenstein nello studio della “politica” e della “storia” (in realtà questi due termini rappresentano due facce della stessa medaglia).
1.1. La polemica con la History of Ideas Skinner insieme agli altri studiosi della cosiddetta Cambridge School, soprattutto J. G. A. Pocock e J. Dunn, ha dato vita ad un approccio particolare allo studio della storia assai critico verso la tradizionale History of Ideas sulla base, nel suo caso, delle idee sviluppate
da R. G. Collingwood" e dall’ultimo Wittgenstein!4. Nell’ormai classico Meaning and Understanding in the History of Ideas, pubblicato originariamente nel 1969 presso la rivista «History and Theory» e adesso inserito e aggiornato nel primo dei tre volumi che compongono l’opera Visions of Politics (2002), Skinner espone la sua visione della corretta metodologia da seguire quando siamo impegnati nella ricerca storica. Nel saggio citato, Skinner critica le varie “mitologie” o errori in
cui incorrono tanti storici del pensiero o gli stessi filosofi quando
!3 Cfr. R. G. Collingwood, An Essay on Metaphysic, Oxford 1940 (II ed.).
!4 È chiaro che l’etichetta Cambridge School non implica un’identità assoluta di vedute dal punto di vista del metodo e dei contenuti. In questa sede, interessati come siamo all’opera di Q. Skinner, non entreremo nel dettaglio della questione sulla legittimità di tale “etichetta” di scuola. Per alcune considerazioni sulla Cambridge School cfr. J. G. A. Pocock, Quentin Skinner: the history of politics and the politics of history, cit., pp. 129-130.
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Linguaggio, storia e politica
leggono un testo passato o provano a fornire un’interpretazione complessiva dell’opera di un classico: mitologia delle dottrine, mitologia della coerenza, mitologia della prolessi... Per fare alcuni esempi concreti di queste “mitologie” pensiamo agli storici che ricercano a tutti costi una coerenza interna nelle varie fasi dell’opera di un autore del passato (come se non fosse possibile che l’autore in questione abbia potuto cambiare idea nel corso del tempo!), oppure a coloro, filosofi o storici, che cercano di individuare il contributo di un pensatore ai
“problemi eterni” della filosofia politica (come se i problemi fossero identici in tutte le epoche storiche!) o, ancora, a coloro che interpretano un’opera o un’azione passata più in base agli effetti avuti che non sulle reali intenzioni dell’autore in questione e così via". Per i nostri fini è sufficiente a questo punto prendere in considerazione la critica skinneriana ad alcuni approcci teorici dominanti nella storia del pensiero politico e nella filosofia politica. Ci riferiamo alla tradizionale History of Ideas, all’approccio di Leo Strauss e a quello marxista. La History of Ideas nella versione classica di A. O. Lovejoy è quel tipo di ricerca storica volta a indagare le manifestazioni storiche di certe idee-unità (ad esempio, quella di uguaglianza o quella della divisione dei poteri...) attribuendo una realtà ontologica alle idee per studiarne poi la manifestazione storica. Per Skinner tale approccio è da rifiutare se si accettano le idee sviluppate da Ludwig Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche: «There cannot be a history of unit ideas as such, but only a history of the various uses to which they have been put by different agents at different times. There is nothing, I venture to suggest, lying beneath or behind such uses; their history is the only history of ideas to be written»!°. Se alle idee di Wittgenstein aggiungiamo quelle sviluppate da Collingwood sui presupposti necessariamente storici e contingenti
Cfr. Q. Skinner, Meaning and Understanding in the History of Ideas, in Q. Skinner, Visions of Politics: Regarding Method, cit., pp. 59 e ss. '°Q. Skinner, Retrospect: Studying rhetoric and conceptual change, cit., p. 176.
Presupposti filosofici dell'approccio di Quentin Skinner
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del pensare!”, allora l’approccio di Lovejoy appare altamente proble-
matico!8. Quanto detto implica il rifiuto anche di un secondo modo di intendere la filosofia politica, quello di Leo Strauss e dei suoi seguaci: costoro ritengono che la filosofia politica debba occuparsi di “questioni eterne” motivo per cui diventa prioritario individuare il contributo dei vari autori del passato alle varie tematiche specifiche!°. Anche questo secondo approccio, per ragioni analoghe al primo, appare a Skinner insufficiente perché è chiaro che essendo il pensiero per sua natura storico, allora diventa difficile ammettere l’esistenza di problematiche eterne?® almeno nel senso in cui sembrano intenderle Strauss e seguaci. Infine, Skinner si mostra scettico anche nei confronti dell’approccio marxista perché questo genere di storiografia considera le idee politiche di una data società come meri epifenomeni dei rapporti di produzione e questo atteggiamento, secondo lo studioso inglese, è troppo riduttivo perché finisce con il considerare i testi come semplici prodotti
dei contesti sociali”!.
!7 Collingwood scrive che la metafisica «is about a certain class of historical facts, namely the absolute presuppositions» (R. A. Collingwood, An Essay on Metaphysic,
cit., pp. 61-62). Essa quindi non propone teorie, scuole, dottrine (ivi, pp. 68 e ss.) e questo significa, secondo la lettura di Knox che qui seguiamo (cfr. T. M. Knox, Editor's Preface, in R. A. Collingwood, An Essay on Metaphysic, cit., pp. V-XXIV), che si annulla la separazione tra storia e filosofia (ivi, p. X) come nello storicismo di Croce (cfr. p. VIII). Senza entrare nel dibattito sull’interpretazione storicista di Collingwood riteniamo che anche seguendo la lezione del Wittgenstein maturo, si arrivi esattamente allo stesso esito senza assumere posizioni idealistico-storiciste. !8 Recentemente il programma della History of Ideas è stato riformulato in M. Bevir, The Logic of the History of Ideas, Cambridge University Press 1999. Per una critica mossa a Bevir da un punto di vista vicino a quello di Skinner cfr. K. Palonen, Logic or Rhetoric in the History of Political Thought? Comments on Mark Bevir, in «Rethinking History: The Journal of Theory and Practice» 4(3/2000), pp. 301-310. !9 Cfr. L. Strauss, What is Political Philosophy?, Glencoe, III, 1959. 20 Cfr. R. G. Collingwood, An Essay on Metaphysic, cit., p. 72. 2! P_ Koikkalainen-S. Syjàmàaki, On Encountering the Past. An Interview with Quentin Skinner (4.10.2001), in «Finnish Yearbook of Political Thought», 6 (2002), p. 5; cfr.
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Se gli approcci menzionati devono essere rigettati, qual è allora l’esatto modo di porsi nei confronti di un testo del passato senza incorrere nel pericolo di ricadere nelle varie “mitologie” denunciate fin ora? La risposta di Skinner è figlia di alcune idee che caratterizzano la riflessione filosofica contemporanea, soprattutto di area analitica, nell’ambito della teoria della conoscenza e della teoria del significato. Le critiche menzionate e le soluzioni proposte sono mosse a partire dagli scritti di Collingwood, nei cui confronti Skinner riconosce un
grosso debito nella sua formazione intellettuale, e da quelle di Wittgenstein. Skinner apprende da Collingwood l’importanza del contesto ai fini di una esatta comprensione di un testo passato e l’idea, carica di implicazioni anche per la filosofia, che le domande e le risposte elaborate dai pensatori durante le varie epoche storiche sono differenti e particolari motivo per cui diventa difficile intravedere grandi continuità tematiche come vorrebbero gli approcci menzionati prima”, Decisiva però, come abbiamo ricordato, è soprattutto la lezione dell’ultimo Wittgenstein quello, per intenderci, delle Ricerche filosofiche. La visione della filosofia che ne risulta è, a nostro avviso, de-
gna di attenzione per chiunque si interessi di storia, di storia della filosofia, di storia delle idee politiche, di teoria politica o filosofia politica poiché è chiaro che, dal punto di vista dal quale ci stiamo ponendo, rigide delimitazioni vanno bene per motivi accademici ma risultano fuorvianti nella pratica effettiva.
Q. Skinner, Meaning and understanding of the history of ideas, in J. Tully (ed. by), Meaning and Context. Quentin Skinner and his Critics, Princeton University Press, Princeton 1988, p. 59. ?° Recentemente Skinner ha difeso la validità dell’approccio di Collingwood: cfr. Q. Skinner, The rise of, challenge to and prospects for a Collingwoodian approach to the history of political thought, in D. Castiglione-I. Hampsher-Monk (ed. by), The History of Political Thought in National Context, cit., p. 175-188. 2 In una recente intervista Skinner racconta che negli anni della sua formazione a Cambridge Wittgenstein, da poco scomparso, era considerato una sorta di genio e la lettura delle Ricerche filosofiche e dei relativi commenti è stata decisiva per i suoi studi successivi (cfr. P. Koikkalainen-S. Syjàmàki, On Encountering the Past. An Interview with Quentin Skinner (4.10.2001), cit., p. 46).
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Per quanto riguarda la pars construens del discorso, Skinner sostiene che se vogliamo realmente guardare in modo storico ai testi del passato dobbiamo evitare di fissare la nostra attenzione soltanto sul “significato letterale” dei testi in questione. Questa dimensione del significato, cioè lo studio «of the sense and reference allegedly attaching to words and sentences», è stato normalmente preso in con-
siderazione dall’ermeneutica mentre Skinner mostra maggior interesse verso la dimensione linguistica dell’azione seguendo così la lezione di J. L. Austin sugli “atti linguistici” (speech acts)” che egli considera come il naturale sviluppo delle idee del secondo Wittegenstein. Il contributo originale di Skinner a questo riguardo è che volendo sviluppare le intuizioni della speech acts theory egli sottolinea come per afferrare il significato di un concetto politico o morale bisogna indagare il raggio di azioni che è possibile compiere con esso e non bisogna concentrarsi soltanto sul senso e sul referente come avviene nel caso dell’ermeneutica. Questa precisazione è assai importante perché mostra come, anche in presenza di un concetto apparentemente non controverso (Skinner prende in considerazione, come esempio, quello di “abuso sui minori”), da un’epoca ad un’altra ci siano diffe-
renze su quali siano le circostanze alle quali il concetto in questione si applica o venga usato dai soggetti. Essendo quindi tali circostanze una componente fondamentale del significato di un concetto allora «the outcome of such debates will nevertheless be a form of conceptual change»”. Dato che il linguaggio ha una molteplicità di usi e visto che in tali usi risiede il significato dei concetti adoperati (secondo la lezione delle Ricerche)? appare evidente come il lessico impiegato da un
24 Cfr. Q. Skinner, Introduction: Seeing things their way, in Q. Skinner, Visions of Politics: Regarding Method, cit., pp. 3-4. Sull’interesse del giovane Skinner verso la speech acts philosophy cfr. Q. Skinner, Conventions and the Understanding of Speech Acts, in «The Philosophical Quaterly» 20(1970), pp. 118-138 e Q. Skinner, On Performing and Explaining Linguistic Action, in «The Philosophical Quaterly» 21(1971), pp. 1-21. 2 Q. Skinner, Retrospect: Studying rhetoric and conceptual change, cit., p. 186. 2% Come ha osservato acutamente H. Putnam spesso si commette l’errore di ignorare
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certo autore potrebbe non essere immediatamente chiaro. Il compito dello storico deve essere quello di ricostruire ciò che l’autore del passato “stava facendo” all’atto di scrivere un testo perché, come so-
stenuto da Paul Ricoeur, anche i testi sono azioni?”. Ciò che l’autore “stava facendo” nell’atto di scrivere un testo è equivalente, agli occhi di Skinner, a quello che H. P. Grice, sviluppando a sua volta le idee di Austin, chiama non-natural meaning cioè «an understanding of what the speaker intended to do in uttering his given utterance»”. Per compiere questa operazione di ricostruzione, diventa necessario per lo storico individuare il contesto linguistico in cui l’autore studiato operava per rendersi conto di quali fossero le “convenzioni” del tempo, le idee dominanti, i generi letterari esistenti?? per comprendere, così, come l’autore in questione si ponesse rispetto al suo stesso contesto: «The notion of understanding is not a purely semantic one. To understand a given proposition, we may need to see it not just as a proposition but as a move in an argument»?°. La ricostruzione del contesto diventa fondamentale anche per comprendere le modalità con le quali avviene il cambiamento sociale ad opera dei vari attori individuali. Infatti, essendo il dibattito politico-morale un dibattito ideologico e dovendo far accettare il proprio
che Wittgenstein parla solo di una classe generale di casi per i quali vale il suggerimento di guardare all’uso (cfr. H. Putnam, // pragmatismo: una questione aperta, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2003, p.15). Certamente l’osservazione di Putnam è preziosa ma per quanto riguarda i concetti politici e morali è verosimile che Wittgenstein non gli attribuisse alcuna consistenza ontologica. Si veda per esempio ciò che egli insegnava nell’agosto nel 1949 sulla grammatica del concetto di “bene”: cfr. L. Wittgenstein, Conversazioni annotate da Oets K. Bouwsma, trad.
it., intr. a cura di L. Perissinotto, Mimesis, Milano 2005, p. 55.
2 Cfr. P. Ricoeur, // modello del testo: l’azione sensata considerata come un testo, in P. Ricoeur, Dal testo all’azione, trad. it., Jaca Book, Milano 1989, pp. 177-203. * Q. Skinner, On Performing and Explaining Linguistic Action, cit., p. 3. 2° Non interessa in questa sede differenziare tra studiosi contestualisti (Pocock) ©
convenzionalisti (Skinner). Per questa differenza cfr. M. Bevir, The Logic of the History of Ideas, cit., p. 32.
3 Q. Skinner, /s it still possible to interpret texts?, in «The International Journal of
Psychoanalysis» 89(2008), p. 651.
Presupposti filosofici dell'approccio di Quentin Skinner
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punto di vista (conservatore o innovativo) agli altri membri della società, l’attore sociale è tenuto a presentare una legittimazione del proprio agire sulla base del vocabolario normativo condiviso: «The vocabulary in terms of which we can hope to legitimise what we are doing will always, and necessarily, be a socially established one. This being so, the capacity to get what we want while legitimising what we are doing will generally depend on our ability to bring what we are doing under some broadly accepted normative description. But this in turn means that we are constrained to tailor our projects in such a way as to fit prevailing moral vocabularies that can plausibly be invoked to describe them»3!. Riassumendo quanto detto finora possiamo dire che lo storico dovrebbe tentare di “guardare” al passato allo stesso modo degli attori impegnati nell’azione. In altre parole, noi non dobbiamo guardare al passato soltanto sulla base delle nostre idee e dei nostri parametri di giudizio perché così facendo finiremmo con il “giudicare” dal nostro presente gli autori di altre epoche forzandone magari le posizioni per inserirli e valutarli nel “dibattito eterno” sul rapporto Stato-persona o sul tema della democrazia... Queste sono le “mitologie” denunciate da Skinner che piegano il passato alle nostre idee e alle nostre personali ricostruzioni ma che ci impediscono di guardare al passato in modo realmente storico. Nonostante il comune interesse per la storia e la tradizione è bene precisare che esistono differenze tra l'approccio skinneriano e la tradizione ermeneutica ma tralasciamo tale discussione perché ce ne siamo già occupati in altra sede?. Ci limitiamo per il momento a segnalare un punto decisivo di questo confronto, ossia quello sulla natura del linguaggio sul quale torneremo nel quarto paragrafo di questo capitolo. Per ora ci limitiamo ad osservare come le critiche mosse da Skinner ai vari approcci della storiografia tradizionale derivino da certe ac-
3! R. Prokhovnik, An interview with Quentin Skinner, cit., p. 276. 3° Cfr. S. Muscolino, Una filosofia politica sulle orme di Wittgenstein? Il contributo di Quentin Skinner, in «inTrasformazione», I(1/2012) (www.intrasformazione.com).
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quisizioni della riflessione filosofica contemporanea e nei prossimi paragrafi cercheremo di metterne a fuoco i possibili sviluppi in chiave di storia del pensiero e di teoria politica come proposto dallo studioso di Cambridge.
1.2. Una visione filosofica (politica) post-metafisica* È chiaro che l’interesse mostrato da parte di Skinner verso l’indagine storica, e che lo porta in sostanza a far proprio il metodo genealogico di origine nietzschiana, discende dal particolare modo di intendere il concetto stesso di filosofia. Formatosi e operando in ambito filosofico-analitico, Skinner mostra
a più riprese di aver maturato e acquisito i risultati della migliore epistemologia contemporanea da T. S. Kuhn a P. Feyerabend e un debito fondamentale lo riconosce nei confronti di una famosa opera recensita per il «The New York Review of Books»: Philosophy and the Mirror of Nature (1979) del filosofo americano Richard Rorty. Skinner apprezza e sostiene il tentativo rortiano di mostrare l’ingenuità della tradizionale concezione metafisica basata sull’assunto che sia possibile attingere ad una fondazione ultima del pensiero, tentativo, osserva Skinner, paragonabile a quello di chi cerca di sco-
prire l’unicorno?. A seguito della linguistic turn di cui Rorty è uno dei maggiori di-
vulgatori®, diventa infatti assai difficile sostenere la possibilità di una conoscenza neutrale e oggettiva che prescinda dai nostri schemi concettuali e su questo punto Skinner rimprovera Rorty di aver tralasciato le importanti intuizioni del già citato R. G. Collingwood.
* La tendenza metafisica da parte del filosofo criticata da Wittgenstein già nei primi anni ’30 è quella di voler emulare il metodo della scienza (cfr. L. Wittgenstein, Libro blu, in L. Wittgenstein, Libro blu e Libro marrone, trad. it., Finaudi, Torino 2000, p. 28).
* Cfr. Q. Skinner, The End of Philosophy? Review of Richard Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, in «The New York Review of Books» (19 March 1981), p. 47.
© Cfr. R. Rorty, La svolta linguistica. Tre saggi su linguaggio efilosofia, trad. it., intr. di D. Marconi, Garzanti, Milano 1994,
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Se è vero, come Rorty ricorda, che sulla questione dell’antifondazionalismo il contributo di autori come Wittgenstein, Heidegger e Dewey è stato decisivo, è altrettanto vero che è in tale direzione si è mosso anche Collingwood il quale, nel suo famoso Essay on Metaphysic (1940), mostra l’infondatezza di qualunque metodologia (compresa quella scientifico-naturale) che aspiri a una fondazione ultima del pensiero: «There are only shifting paradigms, changing questions, new sets of answers, all inevitably limited by the scope of the prevailing disciplines»?”. Pur riconoscendo grandi meriti e originalità alle idee di Rorty, Skinner si mostra però alquanto perplesso sulle conseguenze tratte dal filosofo americano come lo scetticismo radicale sulla possibilità delle scienze naturali di afferrare la realtà e sull’annunciata fine della filosofia. Per quanto riguarda il primo punto, se è vero che bisogna abbandonare il mito di una fondazione ultima è vero anche, commenta Skinner, che «the scientific teories are tested not simply by their coherence with our other beliefs, but also by their capacity to explain and control the phenomena of nature»?8. Quindi non possiamo ridurre le scienze naturali a semplice “conversazione” soltanto perché risulterebbe impossibile una conoscenza definitiva della realtà. Sulla seconda questione, cioè la fine della filosofia, Skinner appare meno pessimista di Rorty perché secondo lui bisogna riconoscere che esistono anche branche di questa disciplina che non hanno affatto una pretesa rappresentazionalista e che sfuggirebbero così alla critica avanzata da Rorty che risulta invece decisiva in campo gnoseologico”. Skinner, in sostanza, dialogando criticamente con Rorty difende una concezione post-metafisica della filosofia che entra naturalmente in contrasto, come accennato prima, con un certo modo di praticare la storia delle idee: «there are no perennal questions in philosophy.
36 Cfr. Q. Skinner, The End of Philosophy? Review of Richard Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, cit., p. 46.
SMIVINPISO! 38 Cfr. in ivi, p. 48. 3° Cfr. in ivi, p. 47.
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Linguaggio, storia e politica
There are only individual answers to individual question, and potentially as many different questions as there are questioners. Rather than looking for directly applicable “lessons” in the history of philosophy, we shall do better to learn to do our own thinking for ourselves»0. Rifiutare un'impostazione metafisica significa per Skinner riconoscere la natura essenzialmente storica del pensiero, dei valori, delle idee, dei concetti politici e più in generale di tutto il mondo sociale in cui viviamo e su questa conclusione egli intravede forti analogie con il concetto di paradigma applicato da E. H. Gombrich all’arte*! e da T. S. Kuhnalla scienza‘. Questa nozione di paradigma serve a Skinner per mostrare come non sia possibile osservare la realtà in modo neutrale ma sempre tramite la mediazione dei nostri schemi concettuali* e ciò, come vedremo meglio in seguito, implica la necessaria presa in considerazione sia dei rapporti tra linguaggio e potere sia della natura essenzialmente conflittuale della politica. A questo riguardo bisogna anche ricordare che, fin dagli anni Settanta, Skinner si è sempre mostrato perplesso verso un approccio di tipo positivista nel campo delle scienze sociali e questo atteggiamento egli lo assume, come ricordato prima, sulla base degli scritti di Wittgenstein di Quine e di Kuhn. In realtà, un contributo importante a questo riguardo egli lo attribuisce anche all’ermeneutica* mentre rimane sospettoso, come vedremo più analiticamente nel terzo capitolo,
* Q. Skinner, Meaning and Understanding in the History of Ideas, cit., p. 88. Sul richiamo a Collingwood e sullo skinneriano rifiuto di problemi filosofici perenni è molto critico M. Bevir, Are there perennial Problems
in Political
Theory?,
in
«Political Studies» 42 (1994), pp. 662-675; un contributo critico più recente è quello di R. Lamb, Quentin Skinner's Revised Historical Contextualism: A Critique, in «History of the Human Sciences» 22 (3/2009). 4! Cfr. E. Gombrich, Arte e Illusione, trad. it., Einaudi, Torino 1966.
* Cfr. T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, trad. it., Einaudi, Torino
1969. * Cfr. Q. Skinner, Interpretation, rationality and truth, in Q. Skinner, Visions of Politics: Regarding Method, cit., p. 45.
*# Cfr. Q. Skinner, Hermeneutics and the Role of History, in «New Literary History», 7(1975), pp. 209-232.
Presupposti filosofici dell'approccio di Quentin Skinner
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nei confronti della teoria critica di J. Habermas. Nonostante infatti in uno scritto come Conoscenza e Interesse (1968), Habermas attacchi la pretesa che l’unica forma di sapere valido sia quello delle scienze nomologiche difendendo la validità dei saperi interpretativo ed emancipativo, il limite della sua ricerca sarebbe rintracciabile nella pretesa di poter elaborare una teoria generale della razionalità che permetta così di superare il pluralismo esistente nella società contemporanea. Proprio seguendo i risultati dell’epistemologia post-empirista, Skinner ritiene il progetto habermasiano assai complicato perché per principio appare impossibile guadagnare un punto di vista neutrale: «But this appears to leave us in a world of rival and perhaps incommensurable systems of thought, each of which will be susceptible of rational defense, while none of them will be capable of being appraised from a genuinely neutral point of view». Appare evidente allora che se la filosofia non può avere alcuna pretesa di guadagnare una qualche Verità allora l’accusa che si potrebbe subito muovere a Skinner è quella di relativismo. L’idea che la nostra conoscenza sia sempre mediata dal nostro linguaggio ha spinto infatti alcuni critici a dubitare addirittura della possibilità di poter comprendere le culture differenti dalla nostra o addirittura di poter concepire la stessa pratica dello storico qualora si adottasse un approccio come quello invocato da Skinner!. In effetti autori come R. Rorty e lo stesso Skinner (ma bisogna ricordare anche T. S. Kuhn) sono stati in vario modo accusati di relati-
45 Cfr. J. Habermas, Conoscenza e Interesse, trad. it., Laterza, Roma-Bari
1990.
# Q. Skinner, The Flight from Positivism, in «The New York Review of Books» (15
June 1978), p. 28. # «Methodologically, I hold that such epistemological purism is required for any adequate analysis of how language may be matched to the contexts within which it functions. To that extent, a rigorous historicism registering the non-convertibility of what is articulated by language is the precondition of every conceptual analysis. But Begriffsgeschichte does not end there» (R. Koselleck, A Response to Comments on the Geschichtliche Grundbegriffe, in H. Lehmann-M. Richter (ed. by), 7he Meaning of Historical Terms and Concepts. New Studies on Begriffsgeschichte, Occasional Paper No. 15, Washington DC, German Historical Institute 1996, p. 62.
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vismo, ma la questione è complessa e non è riducibile, almeno a noi così pare, alla semplice dicotomia relativismo-antirelativismo anche
perché questa problematica si intreccia, sia nel caso di Rorty che in quello di Skinner, con il modo in cui dobbiamo interpretare l’insegnamento di Wittgenstein che rappresenta la loro fonte di ispirazione principale a questo riguardo. Per quanto riguarda Skinner, possiamo notare che egli rifiuta la lettura relativistica del pensiero di Wittgenstein e difende l’idea che quando uno storico studia il passato sia sbagliato tirare in ballo la questione della verità come pure è stato sostenuto da altri autorevoli studiosi”. Compito dello storico, se vuole realmente adempiere al proprio mestiere, dovrebbe essere quello di comprendere le credenze di un soggetto, di un gruppo o di una comunità del passato sulla base dei relativi parametri valutativi e per fare ciò è inutile far ricorso alla categoria della verità. Anzi, se noi provassimo a valutare le credenze altrui sulla base delle nostre idee di verità il pericolo di etnocentrismo o di una valutazione basata sui nostri presupposti culturali sarebbe inevitabile, nocivo e distorcente la stessa realtà storica indagata: «It is I think nothing less than fatal to good historical practisce to introduce the question of truth into social explanation in this way»”0,
#8 Skinner si richiama allo studio di J. Lear, Leaving the World Alone, in «Journal of Philosophy» 79 (1982), pp. 382-403. Per una posizione analoga, ma più recente, cfr. A. Coliva, Was Wittgenstein an Epistemic Relativist?, in «Philosophical Investigation», 33(2010) pp. 1-24.
* Sul fatto che l’indagine storica non possa prescindere dalla questione della verità si veda il saggio di Ch. Taylor, The hermeneutics of conflict, in J. Tully (ed. by), Meaning and Context. Quentin Skinner and his Critics, Princeton University Press, Princeton 1988, pp. 218-228. % Q. Skinner, /Interpretation, rationality and truth, cit., p. 31. A questo proposito è utile ricordare la critica di Wittgenstein a Frazer (cfr. L. Wittgenstein, Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, trad. it., Adelphi, Milano 1975). L’accusa di relativismo quindi è,
a nostro avviso, frutto di un modo di vedere le cose ancora “metafisico” cioè bisognoso di “spiegare” la realtà per trovare certezze dove, al contrario, esse mancano del tutto. Soprattutto in campo morale e politico le idee di Wittgenstein ci vorrebbero aiutare a liberarci dall’ansia del fondamento e della Verità non perché si debba sostenere un inutile anything goes quanto per far capire che la filosofia non può consi-
Presupposti filosofici dell'approccio di Quentin Skinner
DAL
Quindi l’accusa di relativismo mancherebbe il bersaglio nella misura in cui la conoscenza storica non avrebbe il compito di valutare la verità delle credenze sostenute in società passate in virtù di una presunta descrizione oggettiva del mondo in nostro possesso ma “solo” quello di ricostruirle nel modo più preciso possibile in relazione al loro contesto al fine, questo sì, di un rischiaramento, per differenza,
del nostro “pensiero” attuale. È interessante notare, tra l’altro, come sulla questione della cono-
scenza e della valutazione di universi culturali passati o presenti diversi dal nostro, Skinner prenda le distanze tanto da Richard Rorty quanto da Peter Winch°', pur nel comune riferimento a Wittgenstein. Da costoro Skinner si allontana su due questioni: sull’interpretazione radicale dell’insegnamento di Wittgenstein in merito ai “giochi linguistici” (come se questi implicassero l’impossibilità di conoscere l’altro da noi a causa dell’intraducibilità dei rispettivi giochi linguistici) e sull’idea che non sia in alcun modo possibile per lo storico valutare la razionalità di una credenza passata o diversa dalla propria senza incorrere nel pericolo di imporre i propri criteri di razionalità. Alla prima questione Skinner risponde sposando la tesi di Quine sulla indeterminatezza della traduzione”? mentre, per quanto riguarda la seconda, egli ritiene che sia assolutamente possibile comprendere se un soggetto stia sostenendo una tesi “razionale” (cioè sostenuta da buone ragioni) o meno sulla base delle credenze proprie della società in cui vive senza pericolo di etnocentrismo e senza adottare necessariamente un criterio di ragione unico come voluto da certi studiosi. stere nella ricerca di assoluti ma nel “descrivere” il mondo. Siamo convinti che un tale insegnamento che vuole spingerci a una relativizzazione delle nostre credenze possa essere inteso come un contributo alla costruzione di una mentalità liberale. Ma torneremo su questo aspetto nell’ultimo capitolo di questo lavoro. S!Anzi, il suo classico The Idea of Social Science and its Relation to Philosophy (1958) è diventato una sorta di manifesto del modo in cui leggere Wittgenstein nell’ambito della problematica sulle scienze sociali. Sui limiti della lettura wittgensteiniana di Winch si legga l'interessante libro di N. Pleasant, Wittgenstein and the Idea of a Critical Social Theory, Routledge 1999, pp. 32-51, sul quale torneremo nelle pagine seguenti. 5 Q. Skinner, /Interpretation, rationality and truth, cit., p. 47.
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Riportiamo direttamente le parole skinneriane: «The historian need only be claiming that he or she has uncovered the prevailing norms for the acquisition and justification of beliefs in that particular society, and that the belief in question appears to have been upheld in the face of, rather than in the light of those norms themselves. The historian need only be claiming that the agent in question fell short of — or perhaps abandoned, manipulated or in some other way deliberately defied — some generally accepted standard of epistemic rationality»®. D’altronde, che l’ultimo Wittgenstein sia stato correttamente interpretato sia da Winch che da Rorty è argomento abbastanza dibattuto tra gli studiosi. Per i nostri fini è sufficiente concentrarsi sul caso di Rorty. Nello scritto intitolato La filosofia dopo la filosofia (1989) Rorty ascrive alla propria posizione il Wittgenstein delle Ricerche vista la centralità dei concetti di gioco linguistico e di forma di vita. Rorty utilizza però queste idee wittgensteiniane per sostenere da un lato che non esistono giochi linguistici migliori di altri e dall’altro, in coerenza con il suo pragmatismo, che si può parlare di una maggiore verità soltanto rispetto agli interessi in campo. Tuttavia, come mostrato in modo chiaro da Hilary Putnam ai cui lavori Skinner si richiama in diversi luoghi, è assai difficile attribuire posizioni del genere a Wittgenstein pur avendo quest’ultimo lottato contro la pretesa che vi sia un unico modo corretto di parlare della realtà o un modo in un cérto senso assoluto di descrivere il mondo”. Il limite di Rorty risiederebbe, pertanto, nel modo in cui questi considera i giochi linguistici cioè come “programmi” all’interno dei quali noi saremmo una sorta di automi”: Putnam, al contrario, mostra come gli scritti di Wittgenstein non autorizzino affatto una conclusione del
zenere”:
IlVIApioz ° Cfr. H. Putnam, // pragmatismo: una questione aperta, cit., p. 45. °° «II mondo non parla. Solo noi parliamo. Il mondo può solo, dopo che noi siamo
stati già programmati ad usare un dato linguaggio, essere una causa di alcune nostre credenze» (R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1989,
ok IS © Cfr. H. Putnam, // pragmatismo: una questione aperta, cit., pp. 46 e ss.
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Proviamo a riformulare la questione in termini nostri: Rorty ritiene lecito rifarsi all’ultimo Wittgenstein per negare qualunque pretesa veritativa assoluta come quando afferma che nonostante il vocabolario newtoniano ci permetta di fare previsioni più certe sul mondo rispetto a quello aristotelico ciò non autorizzi affatto la conclusione che il mondo
parli newtoniano?”;
Putnam, al contrario, ritiene che il fine
dell’ultimo Wittgenstein sia piuttosto quello di mostrare che non esiste soltanto un unico modo di descrivere la realtà e che quindi anche linguaggi non scientifici come quello etico 0 quello religioso possiedono una loro legittimità e possano offrire un senso alla nostra esistenza*. Il problema del relativismo, guardandolo con l’ottica di Wittgenstein, è semplicemente inesistente perché è esso stesso figlio di quella mentalità metafisica che il Wittgenstein maturo ripudia. D'altronde, uno scritto come On Certainty è l'esempio di come il filosofo austriaco non mostri alcuna simpatia per possibili esiti relativisti?. Personalmente ci riteniamo più vicini alla lettura di Putnam che a quella di Rorty perché ci pare che quest’ultimo confonda due piani: dire, infatti, che il gioco linguistico newtoniano sia più confacente (anche se possiamo sempre trovare spiegazioni migliori!) alla struttura del mondo rispetto a quello aristotelico non esclude che entrambe le descrizioni assolvano al meglio il loro ruolo nelle rispettive forme di vita e che compito del filosofo o dello storico, come vuole Skinner,
sia proprio quello di comprendere questo dato. Insomma, quello che vuol dirci Wittgenstein sull’incommensurabilità è che se non sempre è possibile comprendere giochi linguistici differenti visto l'assenza di un pensiero unico che faccia da sfondo ciò non significa rinunciare al confronto e alla critica dove lo riteniamo necessario”, Considerare inutile, quindi, la questione della verità nell’ambito dell’indagine storica spinge Skinner ad allontanarsi da uno dei Leitmotiv della tradizionale storiografia di area analitica interessata invece
5 R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia, cit., p. 13. 58 Cfr. H. Putnam, // pragmatismo: una questione aperta, cit., p. 48. 5 Cfr. L. Wittgenstein, Della Certezza, trad. it., Einaudi, Torino 2009. VIVISSIONNI
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a studiare gli autori del passato proprio in base al contributo di “verità” che questi sarebbero in grado di fornire alle questioni filosofiche (e ciò spiega perché durante una recente intervista egli definisca la propria posizione come caratterizzata da un relativismo blando)°!. Nell’Introduzione a un volume collettaneo curato insieme a R. Rorty e J. B. Schneewind troviamo proprio questo atto di accusa nei confronti della tradizione analitica: «It has become customary to take the concerns of contemporary analytic philosophy as the focus of attention, and to leave aside present-day religious or scientific or literary or political ideological concerns, as well as those of present-day non-analitical philosophers. This, in turn, has the result of dividing up past philosophers into those who anticipated the questions asked by contemporary analytic philosophers and those who held back the maturity of philosophy by diverting attention to other questions»®. Non solo Skinner, come gli altri due curatori del volume, prende le distanze dalla tradizione storiografica analitica ma sembra indubbio che adottare un'impostazione di tale genere implichi un sostanziale indebolimento del concetto stesso di filosofia prova ne sia che subito dopo i tre curatori sottolineano che «philosophy might not be a natural kind, something with a real essence, and that the word “philosophy” functions as dimostrative —marking out an area of logical space which the speaker occupies- rather than a rigid designator»®?. D'altronde, rifarsi all'ultimo Wittgenstein come fanno effettivamente, al di là delle differenze, sia Rorty che Skinner implica una concezione della filosofia più come un’attività critica che come una disciplina che elabora teorie sistematiche: per Rorty si tratta di inventare nuovi vocabolari senza alcuna pretesa metafisica di eguagliare alcuna verità mentre un approccio come quello skinneriano interessato a “relativizzare” le nostre credenze presenti entra in tensione
9! Cfr. T. Bajan, Quentin Skinner on Meaning and Method, in «the Art of Theory» 5 Novembre 2011. © R. Rorty-J. B. Schneewind-Q. Skinner (ed. by), Philosophy in History. Essays on the historiography of philosophy, Cambridge University Press 1984, p. 11.
SAVINPRIBI “ Cfr. R. Rorty, La filosofia dopo lafilosofia, cit.
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con gli approcci trascendentali di ispirazione neokantiana e mostra, invece, maggiori affinità nei confronti di ricerche come quelle di Michel Foucault (sul quale torneremo nel prossimo capitolo).
1.3. Storia e linguaggio
La possibilità di comprendere un testo del passato risiede allora, wittgensteiniamente, nella natura pubblica del linguaggio‘. Per comprendere un testo dobbiamo prendere in considerazione il contesto linguistico in cui esso prende vita in modo da comprenderne il significato e lo scopo in modo quanto più vicino possibile alle intenzioni dell’autore. Mentre, per Skinner, l’ermeneutica si concentra generalmente sul significato dei testi, ciò che interessa allo studioso inglese è invece quello che l’autore “stava facendo” all’atto di scrivere un testo. Abbiamo già ricordato come, combinando le idee del secondo Wittgenstein con la teoria degli atti linguistici di J. L. Austin®, Skinner spieghi di essere interessato alla ‘forza illocutiva” dei testi prodotti, cioè a quegli effetti che l’autore del testo vuole raggiungere in un dato contesto storico. Questa è la ragione per cui il compito primario dello studioso è quello di analizzare le convenzioni linguistiche di una data epoca perché il linguaggio non è mai neutrale ma è sempre uno strumento di cui l’autore si serve per combattere prendendo posizione nel dibattito del suo tempo. Su questo aspetto della metodologia skinneriana è evidente, tra l’altro, anche l’influsso di Collingwood relativamente alla necessità di individuare le domande alle quali ogni autore era intenzionato a rispondere.
5 Il riferimento d’obbligo sono naturalmente i seguenti paragrafi: L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche,
trad. it., Einaudi, Torino 1999, $ 198 e ss.).
6 Cfr. J. L. Austin, Come fare cose con le parole, trad. it., a cura di C. Penco-M. Sbisà, Marietti 1020 Genova, 1987 [1962]. È importante osservare che Skinner ritiene
il lavoro di Austin una prosecuzione di quelli di Wittgenstein e di Collingwood. Da quest’ultimo egli ipotizza che Austin possa averne subito l'influsso negli anni della sua formazione a Oxford (cfr. P. Koikkalainen-S. Syjamaki, On Encountering the Past. An Interview with Quentin Skinner (4.10.2001) cit., p. 52.
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Linguaggio, storia e politica
Ricostruendo i testi del passato in questo modo, noi evitiamo di proiettare su di loro problemi, idee e valori che appartengono al nostro tempo evitando così di interpretare il pensiero degli altri in modo soltanto confacente ai nostri bisogni, alla nostra concezione della filosofia oppure al nostro modo di intendere i concetti. Skinner, già in un articolo del 1970, suggerisce di seguire la lezione fatta propria dagli antropologi sociali a questo proposito: «The historians of our own past still tend, perhaps in consequence, to be much less self-aware than the social anthropologists have become about the danger that an application of familiar concepts and conventions may actually be self-defeating if the project is the understanding of the past»9?. A questa concezione è però possibile muovere almeno due generi di critiche: una relativa alla natura dei problemi filosofici, se essi cioè siano soltanto relativi all’epoca storica in cui sono formulati o se possano, al contrario, avere una qualche valenza tran-storica e un’altra relativa al ruolo dell’interprete nella ricostruzione del passato. Per quanto riguarda il primo punto ci siamo già espressi sulla possibilità di guardare, pur adottando come Skinner un approccio wittgensteiniano, ai problemi filosofici più in termini di “somiglianze di famiglia” che in termini essenzialistici e di recente anche altri studiosi hanno sondato tale possibilità. Bisogna tra l’altro osservare che di recente Skinner ha riconosciuto, oltre alle rotture, anche l’esistenza di profonde continuità storiche” la quale cosa, ci pare, autorizzi un ripensamento della nozione stessa di “problema filosofico (politico) nel senso da noi suggerito. Quindi non ci soffermiamo oltre su questo punto. Per quanto riguarda la seconda possibile critica, da un punto di vista ermeneutico si potrebbe accusare Skinner di sottovalutare il
°° Q. Skinner, Conventions and the Understanding of Speech Acts, cit., p. 136. ® Cfr. S. Muscolino, Una filosofia politica sulle orme di Wittgenstein? Il contributo di Quentin Skinner, cit.; cfr. A. Burn, Conceptual History and the Philosophy of the Later Wittgenstein: A Critique of Quentin Skinner 's Contextualist Method, in «Journal of the Philosophy of History», 5(2011), pp. 54-83. © Cfr. P. Koikkalainen-S. Syjàmàki, On Encountering the Past. An Interview with Quentin Skinner (4.10.2001), cit., p. 44.
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ruolo fondamentale dei “pregiudizi” dell’interprete mentre la lezione di filosofi come Heidegger e Gadamer è proprio quella per cui il lettore non possa mai procedere alla ricostruzione del significato originario di un testo perché tale operazione è per principio irrealizzabile. Tutt’al più sarebbe possibile, anzi l’atto di interpretazione risiederebbe proprio in questo, operare una fusione di orizzonti che valorizza in modo decisivo i “pregiudizi” dell’interprete che “soli” permettono di attivare il processo di comprensione del testo in questione. L’aspetto centrale dell’ermeneutica gadameriana diventa così l’attenzione al presente che rimane il fine di ogni interpretazione del passato”. Skinner tuttavia non ignora che l’interesse dello storico debba essere sempre il presente ma polemizza con Gadamer sul concetto di ‘fusione degli orizzonti” considerandolo una vera e propria opzione scettica. La natura pubblica del linguaggio e la teoria degli atti linguistici ci permetterebbe, agli occhi di Skinner, di ricostruire le reali intenzioni di un soggetto all’interno del contesto in cui opera ed è chiaro che questo ricostruzione non ha mai fine perché l’acquisizione di nuovi dati può sempre obbligarci a rivedere le nostre conclusioni. D'altra parte, Skinner precisa di non voler identificare il significato di un testo con le intenzioni dell’autore come spesso alcuni critici hanno fatto equiparando la sua posizione a quella di studiosi come E. D. Hirsch o P. Juhl. Ciò a cui egli è interessato è l’atto illocutorio che l’autore intende compiere in un dato contesto a prescindere dal “significato” del testo in sé. Ciò significa che se esiste un “surplus di significato” in ogni testo, per usare le parole di Ricoeur”! l’interpretazione di questo “surplus” è accettabile e legittima purché ciò non vada contro la possibilità, per principio, di ricostruire ciò che l’autore in questione “stava facendo” nel dibattito del suo tempo perché questo
70 Per questa critica a Skinner cfr. J. Keane, More theses on the philosophy of history, in J. Tully (ed. by), Meaning and Context. Quentin Skinner and his Critics, cit., p. 211: sul ruolo fondamentale del presente per lo studio del passato cfr. H.- G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it., Bompiani, Milano 1983, p. 340. ?! Cfr. Q. Skinner, Interpretation and the understanding of speech acts, in Q. Skinner, Visions of Politics: Regarding Method, cit., p. 113.
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è un aspetto fondamentale del significato di un testo concepito a tutti
gli effetti come un’azione linguistica”. Recentemente Skinner ammette però di aver ammorbidito la sua vecchia critica nei confronti dell’ermeneutica gadameriana essendosi convinto del ruolo determinante dei “pregiudizi” nell’atto di interpretare il passato. Adesso Skinner riconosce che gli interessi dell’interprete modificano continuamente i contorni dei testi ma questo, se interpretiamo bene il suo recente pensiero, non implica l’impossibilità di guardare ai testi passati “storicamente” nel senso descritto prima (anche se scoperte nuove comportano nuovi modi di intendere le intenzioni che animano gli autori scrivendo i testi in questione)”. Detto questo, lo studio della storia può e deve avere una finalità presente nel senso che ci aiuta ad uscire dai nostri pregiudizi e a migliorare la comprensione di noi stessi. Anche qui è possibile, così, rintracciare l’influsso della concezione di Wittgenstein perché se il
7? Accettare tale idea di Ricoeur sembra compatibile con la metodologia skinneriana solo se non dimentichiamo l’influsso del secondo Wittgenstein sulla concezione del linguaggio di Skinner, cioè la natura pubblica del linguaggio. Trascurando questo aspetto, ci pare, ci si espone al fraintendimento in cui cade un critico come Robert Lamb (che nella recensione alla quale ci riferiamo non nomina affatto Wittgenstein né le sue teorie). Lamb critica l’intento skinneriano di muoversi
all’interno del
paradigma postmoderno senza rendersi conto della contraddizione in cui si verrebbe a trovare il suo approccio, interessato a ricostruire il significato originario di un testo, con un elemento centrale del postmoderno che è proprio l’impossibilità di raggiungere tale traguardo. In realtà, Skinner, come spiega Lamb, riconosce un'importante intuizione alla cultura postmoderna e cioè quella di aver compreso il rapporto linguaggio-potere e questo aspetto ci pare perfettamente compatibile con l’approccio wittgensteiniano-austiniano interessato alla pluralità degli usi linguistici. Sul problema del significato, invece, Skinner ha sempre voluto difendere l’idea che, avendo wittgensteiniamente il linguaggio una natura pubblica, allora per principio deve essere possibile ricostruire “cosa stava facendo” l’autore senza che questo escluda la possibilità che altri significati si possano ritrovare nella sua opera (cfr. R. Lamb, Feature Book Review Quentin Skinner’ ‘Post-modern’ History of Ideas, in «History», 89(2004), pp. 424-433). Per una riformulazione di questi problemi cfr. Q. Skinner, /s it still possible to interpret texts?, cit., pp. 647-654).
® Cfr. P. Koikkalainen-S. Syjàmàaki, On Encountering the Past. An Interview with Quentin Skinner (4.10.2001), cit., p. 50.
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filosofo austriaco ritiene che compito della filosofia non sia quello di presentare teorie ma quello di “liberarci” dalle nostre ansie metafisiche Skinner trasferisce questa funzione “terapeutica” all’analisi storica: «Given this situation, one of the contributions that historians can make is to offer us a kind of exorcism. If we approach the past with a willingness to listen, with a commitment to trying to see things their way, we can hope to prevent ourselves from becoming too readily bewitched. An understanding of the past can help us to appreciate how far the values we embodied in our present way of life, and our present ways of thinking about those values, reflect a series of choices made at different times between different possible worlds. This awareness can help to liberate us from the grip of an one hegemonal account of those values and how they should be interpreted and understood. Equipped with a broader sense of possibility, we inherited and ask ourselves in a new spirit of enquiry what we should
think of them»”*. Per chiarire con un esempio concreto sul quale torneremo più nel dettaglio nelle pagine seguenti, accenniamo alla ricerca skinneriana sul concetto di libertà repubblicana o neo-romana”. L'indagine compiuta sul dibattito inglese durante il periodo rivoluzionario seicentesco e la scoperta di un gruppo di studiosi di orientamento repubblicano che difendevano una certa concezione della libertà assume una grande importanza per gli attuali dibattiti sulla natura della libertà perché permette di prendere coscienza del fatto che la libertà di cui si parla oggi non solo non ha un significato univoco ma che il significato difeso dai liberali contemporanei in realtà è figlio di una “lotta” storica e politica che ha escluso certe concezioni mantenendone in vita altre. Per concludere su questo punto, quindi, non solo l’accusa di relativismo appare insoddisfacente, ma è proprio riflettendo sulle diffe-
7 Q. Skinner, Introduction: Seeing things their way, cit., p. 6. 75 Tralasciamo, per ovvie ragioni, la discussione di merito sul repubblicanesimo e sui suoi rapporti con il liberalismo e con il comunitarismo rimandando alla vasta bibliografia di riferimento. Alcuni aspetti di questo dibattito saranno affrontati nel terzo capitolo.
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renze con culture passate o presenti diverse dalle nostre che la storia appare come una strada, sicuramente non secondaria, per la comprensione del mondo in cui viviamo. Questo progetto, come già detto, non pare incompatibile con altri importanti approcci filosofici contemporanei come, ad esempio, quello di Michel Foucault, ma su questo torneremo nel secondo capitolo.
1.4. Il dibattito sui “concetti”
Considerata l’importanza attribuita all’uso dei concetti può essere utile dedicare un po’ di attenzione al modo in cui Skinner intende il significato della parola “concetto” e accennare al dibattito che le sue idee hanno suscitato. In questa sede però non ci interessa ricostruire tutto questo dibattito, peraltro ancora in corso, ma ci limitiamo a prendere in considerazione soltanto alcune critiche recenti mosse a Skinner su questo punto. Innanzitutto, nelle sue ultime rielaborazioni, Skinner distingue a
livello teorico il “concetto” dalla “parola” anche se ammette che difficilmente si possa individuare una formula per risolvere la questione del loro rapporto in modo definitivo. Tuttavia, il segno più sicuro che una data società possieda un certo “concetto” è che si ci sia un lessico corrispondente. Il possesso di un concetto, quindi, è segnalato dalla presenza di un termine corrispondente (almeno in linea di principio!). Skinner ritiene così che per comprendere adeguatamente un termine valutativo sia necessario considerare tre elementi: i criteri in virtù dei quali una parola è impiegata, il referente (ma non il significato) e quali atti linguistici sia possibile compiere utilizzandola. Ciò significa, in altre parole, adottare un approccio olistico secondo il quale per comprendere il significato di un concetto non dobbiamo prestare attenzione alla struttura interna delle parole quanto al loro ruolo all’interno di intere filosofie sociali”.
7? Cfr. Q. Skinner, The idea ofa cultural lexicon, in Q. Skinner, Visions of Politics: Regarding Method, cit., pp. 158 e ss.
Presupposti filosofici dell’approccio di Quentin Skinner
37
Nel caso di Skinner, che già nella versione originale del saggio Meaning and Understanding of the History of Ideas critica «the Fregean assumption that meanings must somehow be timeless»”, la necessità di non cadere in forme ingenue di universalismo o platonismo concettuale è implicita nei presupposti tardo wittgensteiniani assunti: visto che il «significato risiede nell’uso» la filosofia per Wittgenstein non può più essere concepita come una forma di sapere articolabile in tesi descrittive del mondo o in dimostrazioni ma è piuttosto un’attività di chiarificazione o di critica continua del linguaggio che adoperiamo. Quindi, in ambito politico, questa attività di critica si traduce nel prendere sul serio la contingenza delle idee, dei valori, dei concetti politici e morali consapevoli dei limiti intrinseci in ogni tentativo di elaborare modelli universali o che aspirano a eguagliare una posizione neutrale. Approcci convenzionalisti come quello che intende promuovere
Skinner (ma anche nel caso di autori come
Koselleck o
Foucault) entrano così naturalmente in tensione con gli approcci filosofici di tipo normativo perché spesso quest’ultimi tendono a trascurare l’aspetto contingente dei concetti politici: «While this reorientation has made it hard to justify political arrangements with reference to any timeless and universal philosophical principles, and it has also made the traditional normative concern of political philo-
sophy difficult to pursue»”8. Se questo secondo modo di intendere la filosofia è stato ed è ancora largamente diffuso è anche vero che accettando la lezione dell’ultimo Wittgenstein si è tentati di percorrere un sentiero differente. Per esempio, come avviene nel caso di Skinner, appare proficuo prendere sul serio la lezione della storia in ordine alla comprensione del modo in cui il nostro arsenale concettuale si è formato per poi esco-
7? Q. Skinner, Meaning and understanding of the history of ideas, in J. Tully (ed. by), Meaning and Context. Quentin Skinner and his Critics, cit., p. S1. 78 J. Bartelson, Philosophy and History in the Study of Political Thought, in «Journal
of the Philosophy of History», I (2007), p. 117; cfr. anche K. Palonen, The History of Concepts as Style of Political Theorizing: Quentin Skinner's and Reinhardt
Koselleck's Suvbersion of Normative Political Theory, in «European Journal of Political Theory» 1(1/2002), pp. 91-106.
38
Linguaggio, storia e politica
gitare soluzioni concrete per problemi singoli e relativi ai diversi contesti in cui operiamo. Come vedremo nel terzo capitolo, questo significa rifiutare soprattutto gli approcci trascendentali sul modello habermasiano troppo gravati da presupposti universalistici mentre maggiori affinità sono sicuramente riscontrabili con autori come Nietzsche, Weber o Foucault. D'altra parte, le remore da parte dei critici ad accettare una posizione convenzionalista dipendono, forse, anche dal non riuscire ad accettare un ridimensionamento del ruolo della filosofia. Infatti, se si accetta la lezione di Wittgenstein viene meno, almeno così a noi pare, l’esigenza di dover ristabilire la legittimità del momento “filosofico” su quello “storico””? perché semplicemente non esiste la filosofia come forma di sapere dotata di un proprio oggetto distinto perché lo strumento con il quale si costruirebbe questo sapere, cioè i concetti, sono contingenti e diventano quindi l’oggetto prioritario sul quale esercitare la critica. Non convince fino in fondo il recente tentativo di mostrare, contro
l’approccio nominalista skinneriano, come i “concetti” in realtà siano dotati di due componenti: uno invariabile («the core of concept») e uno no («the margin of concept). Secondo quest’ipotesi di ricerca, che tenta di recuperare, rivitalizzandolo, l’approccio tradizionale di Lovejoy, sarebbe la parte invariabile di un concetto a rendere possibile la conoscenza storica e la sicurezza che incontrando gli stessi concetti in epoche diverse essi si riferiscano ad una stessa realtà («The core is something that all instantiations must satisfy in order to be “the same concept’»)®0. Ciò che non convince in questa strategia argomentativa è che ripropone, sotto mentite spoglie, proprio ciò contro cui il nominalismo skinneriano polemizza e cioè la possibilità di individuare un nucleo di significato invariabile nei concetti che adoperiamo. Questo pre-
® Cfr. J. Bartelson, Philosophy and History in the Study of Political Thought, cit., Pa2S, * Cfr. J.-M. Kuukkanem, Towards a Philosophy of the History of Thought, in «Journal of the Philosophy of History», 3(2009), p. 17.
Presupposti filosofici dell’approccio di Quentin Skinner
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supposto da un punto di vista wittgensteiniano è altamente problematico come d’altronde l’esperienza stessa del gioco politico mostra: tutti parlano di libertà o di diritti ma poi ii significato che noi attribuiamo a tali parole è assai diverso se non, in certi casi, diametral-
mente opposto®!. La questione sulla quale generalmente la critica si mostra sospettosa nei confronti di un approccio convenzionalista come quello skinneriano è la possibilità di ricostruire la concettualità di un epoca passata senza immaginare qualcosa di stabile che ci unisca ai nostri avi. Skinner sembra pienamente consapevole delle perplessità dei critici su questo punto e l’attribuisce al fatto di non prendere sul serio la natura pubblica del linguaggio di cui ci parla Wittgenstein®. Riconoscere tale carattere al linguaggio che adoperiamo rende lecito il tentativo di ricostruire le intenzioni di un autore passato non perché l’interprete “entri” nella sua testa ma perché i significati veicolati dal linguaggio hanno una natura pubblica”. Le difficoltà sollevate nei confronti dell’approccio skinneriano derivano spesso dal fatto che molti studiosi sposano un approccio di tipo ermeneutico. Questo è un punto importante perché, al di là dei sincretismi oggi di moda, come abbiamo già avuto modo di accennare, esistono differenze non trascurabili tra una concezione come quella di Gadamer e una come quella di Wittgenstein che non devono essere cancellate a causa di alcune, pur evidenti, somiglianze. Gadamer stesso, pur riconoscendo in diversi luoghi punti in comune con le idee del secondo Wittgenstein, non esita infatti a evidenziare una differenza importante proprio in relazione al compito
8! Su questo aspetto, oltre al contributo di Wittgenstein, è bene non trascurare anche
la lezione di Nietzsche («non può esserci una definizione di ciò che ha storia») come
quella, spesso trascurata, di Max Weber: cfr. K. Palonen, Die Entzauberung der Begriffe. Das Umschreiben der politischen Begriffe bei Quentin Skinner und Reinhart Koselleck, LIT Verlag, Miinster 2004, pp. 11 e ss. 82 Cfr. Q. Skinner, A reply to my critics, in J. Tully (ed. by), Meaning and Context. Quentin Skinner and his Critics, cit., p. 279.
8 Vedremo nel prossimo paragrafo come questa intuizione di Wittgenstein sia alla base dell’antropologia interpretativa di Clifford Geertz.
40
Linguaggio, storia e politica
che essi affidano alla filosofia. Nonostante le possibili assonanze tra le idee wittgensteiniane di “forma di vita” o di “gioco linguistico” con i temi della ricerca fenomenologica husserliana e con la filosofia ermeneutica, Gadamer ritiene troppo riduttivo il compito “terapeutico” che Wittgenstein affida alla filosofia: forse «il terreno del linguaggio non è solo il campo della riduzione di tutto ciò che è filosoficamente incompreso, ma è esso stesso un intero da interpretare, che pretende continuamente, dai giorni di Platone e di Aristotele fino ad oggi, di essere non soltanto accettato, ma pensato fino in fondo»**. La filosofia di Wittgenstein, in altre parole, sarebbe troppo “negativa”, troppo rinunciataria sulla possibilità di recuperare, tramite l’ascolto della costituzione linguistica del nostro essere-del-mondo, le tradizionali domande metafisiche: «Per questo c’è molto più da imparare dalle
parole dei poeti che da Wittgenstein»®®. È evidente, dai passi citati, che nel caso dell’ermeneutica heideggeriana e gadameriana siamo ancora in presenza di un’ontologia, anche se di natura linguistica, che non può non entrare in tensione con l'impostazione di Wittgenstein assunta da Skinner.
1.5. Filosofia (politica) e antropologia
È noto come Wittgenstein concepisca la propria ricerca filosofica come analoga a quella di un antropologo che si reca presso culture differenti per studiarle dall’interno e questo è un dato su cui ancora oggi bisogna riflettere. Se prendiamo in considerazione per un momento il paradigma filosofico/politico oggi dominante, cioè quello contrattualistico-liberale, possiamo osservare come questo sia imperniato sulla categoria dell’individuo. Tuttavia, come osservato in Italia da Luigi Alfieri, gli studi di antropologia culturale mostrano come per quasi tutte le culture del passato e differenti dall’Occidente moderno e contemporaneo vale esattamente il contrario: non esistono
# H.- G. Gadamer, // movimento fenomenologico,
trad. it., Laterza, Bari 1994, p. 86.
* H.- G. Gadamer, Verità e Metodo 2, trad. it., Bompiani, Milano 1996, p. 492.
Presupposti filosofici dell'approccio di Quentin Skinner
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individui ma gruppi più o meno ampi che danno consistenza ai singoli*°. Di conseguenza, continua sempre Alfieri, il paradigma contrattualista, vincente sul piano normativo, non appare tale come paradigma descrittivo della complessa realtà del “politico”’87. Proseguendo su questa strada anche alla luce di certi sviluppi della filosofia contemporanea, abbiamo già avuto modo di osservare come la nozione stessa di filosofia andrebbe “depotenziata” comprendendone il carattere spiccatamente Occidentale soprattutto in ambito politico. Nel caso della filosofia politica moderna in Occidente, bisogna riconoscere che essa si è sviluppata attorno a tutt’una serie di concetti come quelli di Stato, sovranità, potere e individuo che difficilmente ci aiutano a comprendere pienamente “la realtà politica” soprattutto quella propria di contesti culturali lontani dal nostro. In questo senso, certi approcci antropologici possono sicuramente essere d’aiuto per una filosofia che, wittgensteiniamente, cerchi di
comprendere (o “descrivere”’) il mondo. Tra le proposte più influenti nel Novecento troviamo quella dell’antropologia interpretativa di Clifford Geertz che espressamente riconosce il proprio debito nei confronti del secondo Wittgenstein: il concetto wittgensteiniano di “forma di vita” con tutti i corollari ad esso collegati non erano stati pensati per una diretta applicazione in campo antropologico ma erano parte di una critica radicale della filosofia che tuttavia, secondo
Geertz, «diminuiva alquanto il divario tra essa e la pratica di andare in giro per il mondo cercando di scoprire come nel discorso le persone — gruppi di persone, singole persone, un popolo nel suo complesso — compongano una voce distinta e variegata»”?.
86 Cfr. L. Alfieri, Per una concezione realistico-simbolica della filosofia politica (in dialogo con Giuseppe Duso), in www.sifp.it (31 agosto 2007).
Si @rlvi: 88 Mentre, per esempio, il pensiero politico d'Occidente si è sviluppato sulla base del vocabolario giuridico, quello cinese su uno di tipo rituale (cfr. J. G. A. Pocock, The history
of political thought: a methodological inquiry, in J. G. A. Pocock, Political Thought and History. Essays on Theory and Method, cit., p. 14). 89 C. Geertz, Antropologia e filosofia, trad. it., il Mulino, Bologna 2001, p. 10. L'opera più famosa di Geertz è naturalmente /nterpretazione di culture, trad. it., il Mulino, Bologna 1988.
Linguaggio, storia e politica
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A riprova di quanto detto, non è secondario ricordare che CROCI
e Q. Skinner, colleghi (insieme a Rorty e a Kuhn) all’Institut for Advanced Study di Princeton tra il 1974 e il 1979”, si citino reciprocamente condividendo proprio un certo interesse per gli scritti del secondo Wittgenstein. Da parte sua, Skinner sostiene di concepire la sua impresa di storico come fortemente influenzata da uno spirito antropologico a causa dell’influsso che l’antropologia ha avuto nel campo delle scienze umane negli anni della sua formazione e riconosce anche il ruolo determinante a questo riguardo di The Interpretation of Cultures di Clifford Geertz°?, Skinner non solo ammette il proprio debito nei confronti di Geertz per la sua visione antifondazionalista delle scienze sociali” ma ne recensisce, per la «The New York Review of Books», l’opera intitolata Negara: The Theatre State in Nineteenth-Century Bali. AI di là dei vari meriti che Skinner riconosce a questo scritto di Geertz vi è anche l’idea che in fondo il contributo del volume in questione non sia soltanto limitato all’antropologia ma che in realtà, visto l’argomento affrontato, il volume
stesso sia da intendersi
come
un’opera collocabile legittimamente nell’ambito della filosofia politica” (dove, ci pare, che l’espressione filosofia sia usata nel senso
wittgensteiniano di ‘“attività’’). Il testo di Geertz è interessante anche da un punto di vista filosofico perché mostra come la questione del potere possa essere affrontata in una chiave diversa rispetto ai tipici assunti della tradizione filosofica occidentale secondo i quali la politica «is basically about power, and power is basically about mastery»?5.
* Sul rapporto Rorty-Geertz cfr. R. Rorty, Sull'emocentrismo: una risposta a Clifford Geertz, in R. Rorty, Scritti filosofici, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1994, vol. II, pp. 273-283. °! Cfr. P. Koikkalainen-S. Syjàmàki, On Encountering the Past. An Interview with Quentin Skinner (4.10.2001), cit., p. 52. ° Cfr. T. Bajan, Quentin Skinner on Meaning and Method, cit. ? Cfr. P. Koikkalainen-S. Syjimàaki, On Encountering the Past. An Interview with Quentin Skinner (4.10.2001), cit., p. 52. "Cfr. Q. Skinner, The World as a Stage. Review of Clifford Geertz, Negara: The Theatre State in Nineteenth-Century Bali, in «The New York Review of Books» (16 April 1981),
DIST SA VISPASO1!
Presupposti filosofici dell’approccio di Quentin Skinner
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Il caso di Bali studiato e illustrato da Geertz mostrerebbe, per esempio, come sia realmente possibile concepire uno Stato non basato su un sistema centralizzato di potere (tipico assunto della tradizione occidentale) ma su un insieme di pratiche cerimoniali e ciò renderebbe pienamente legittimo l’utilizzo, nel sottotitolo del libro, della metafora del teatro per descriverla in modo efficace. Dal suo punto di vista, invece, Geertz attribuisce a Skinner il merito di aver compreso i limiti di una filosofia politica appesantita da pretese universaliste eccessive che non tengano nel dovuto conto il contesto in cui le questioni affrontate maturano: «Le teorie politiche sono dunque fili conduttori nello studio di problemi particolari, acuti e locali», In sostanza, gli studi di Skinner e quelli di Geertz rappresentano due modi diversi ma convergenti di accogliere la lezione del secondo
Wittgenstein in campo filosofico, storico-politico e antropologico. Tuttavia, wittgensteinianamente, se prendiamo ad oggetto di studio le “forme di vita” è difficile non considerare queste distinzioni accademiche troppo rigide e non comprendere come lo studio della politica sia inequivocabilmente legato a quello della “cultura””.
% C. Geertz, Mondo globale, mondi locali, trad. it., il Mulino, Bologna 1999, p. 13.
® Cfr. Q. Skinner, /s it still possible to interpret texts?, cit., p. 654.
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Quentin Skinner e Michel Foucault
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2. Quentin Skinner e Michel Foucault Un argomento al quale la critica non ha dedicato attenzione in modo sistematico è quello del rapporto tra l’opera di Quentin Skinner e quella di Michel Foucault. In realtà, se è possibile riscontrare asso-
nanze e suggestioni comuni, è vero anche che esistono delle differenze importanti senza con ciò voler parlare di assoluta incompatibilità tra i due approcci’. Addirittura c’è chi intravede nel comune interesse per Foucault un motivo di vicinanza tra Skinner e Derrida? motivo per cui è sicuramente meritevole di interesse provare ad approfondire la questione. Precisiamo subito che in questo confronto ci interessa valutare soltanto gli aspetti metodologici dei due autori sulla base dei quali si sviluppano le rispettive opzioni teoriche. Dal silenzio evocato prima sulla questione da noi posta, emerge di recente lo studio comparativo svolto in un saggio da Ryan Walter!®, dove viene sostanzialmente sostenuta, in merito alla ricostruzione
della genesi dello Stato moderno! operata dai due autori, una differenza di tipo narratologico, metodologico e politica. Non ci interessa in questa sede discutere punto per punto l’argomentazione di Walter perché ne condividiamo nelle linee generali la conclusione («They were looking for different things and that is exactly what they found»)!° anche se diverse osservazioni critiche mosse all’impianto
? James Tully si è espresso a favore di una compatibilità tra i due approcci: cfr. J. Tully, The pen is a mighty sword: Quentin Skinner 's analysis of politics, in J. Tully (ed. by), Meaning and Context. Quentin Skinner and his Critics, cit., p. 24. 9 Cfr. M. Drolet, Quentin Skinner and Jacques Derrida on Power and State, in «History of European Ideas» 33(2007), pp. 234-255. 100 Cfr. R. Walter, Reconciling Foucault and Skinner on the state: the primacy of politics?, in «History of Human Sciences», 21 (3/2008), pp. 94-114. !0! Recentemente Skinner ha tracciato una genealogia del concetto di Stato: cfr. Q. Skinner, The sovereign state: a genealogy, in H. Kalmo-Q. Skinner (ed. by), Sovereignty in Fragmentes. The Past, Present and Future of a Contested Concept, Cambridge University Press 2010, pp. 26-46. 102 R, Walter, Reconciling Foucault and Skinner on the state: the primacy of politics?, CIUMIPIRLO7E
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Linguaggio, storia e politica
concettuale-metodologico di Skinner da parte di Walter ci sembrano riduttive come avremo modo di precisare nelle pagine seguenti. Per cominciare è opportuno precisare che il confronto che vogliamo intraprendere prende in considerazione innanzitutto gli scritti foucaultiani degli anni ‘60 per poi suggerire alcune analogie fra la fun-
zione “terapeutica”! che lo studioso francese affida alla filosofia nell’ultima fase della sua produzione e quella che Skinner affida alla ricerca storica.
2.1 La critica foucaultiana alla History of Ideas
Durante una recente intervista è lo stesso Skinner a spiegare di aver subito compreso l’importanza degli scritti di Foucault collocabili alla fine degli anni ‘60 ma, allo stesso tempo, egli riconosce che lo studio degli scritti maturi di Wittgenstein lo avevano già orientato da diversi anni verso quegli stessi percorsi di ricerca. In questo senso, forse, potremmo pensare che Foucault sia stato per Skinner una sorta di compagno di viaggio mentre nel caso di Wittgenstein (o di Collingwood) potremmo parlare, come abbiamo già messo in luce nel capitolo precedente, di una sorta di maestro. L’opera principale di Foucault in questa fase della sua produzione è Le parole e le cose (1975) nella quale egli indaga come i codici fondamentali di una cultura organizzano lo spazio della nostra esperienza. L'archeologia delle scienze umane si sforza così di studiare la struttura dei discorsi delle varie discipline che hanno offerto teorie sulla società, sugli individui e sul linguaggio. Come sostiene Foucault «una tale analisi non appartiene alla storia delle idee o delle scienze: è piuttosto uno studio che cerca di ritrovare ciò che ha reso possibile
'* Utilizziamo l’aggettivo “terapeutico” avendo in mente il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche che, nel caso di Skinner, ha giocato un influsso diretto. Nel caso dell’ultimo Foucault, come vedremo, ci pare che si possa senza troppe forzature parlare di una funzione terapeutica della filosofia sulla base di quello che egli stesso scrive esplicitamente.
Quentin Skinner e Michel Foucault
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conoscenza e teoria; sulla base di quale spazio d’ordine il sapere si è costituito, sullo sfondo di quale a priori storico [...] certe idee sono potute apparire, certe scienze hanno potuto costituirsi, certe esperienze riflettersi in filosofie, certe razionalità formarsi per, forse subito, dis-
solversi e svanire»!*. Tuttavia è in un’opera come L’archeologia del sapere, che cronologicamente chiude la stagione dei lavori degli anni ‘60, che Foucault, analogamente a Skinner, prende le distanze esplicitamente dal tradizionale modo di praticare la History of Ideas. Il programma archeologico nelle intenzioni dello studioso francese incarna proprio il tentativo di rinnovare da cima a fondo il consueto modo di fare storia. Se, infatti, la storia delle idee si è interessa fino ad allora alla genesi, alla continuità e alla totalizzazione, ebbene la ricerca archeologica
intende muoversi su un piano diametralmente opposto!95. Sono quattro le differenze che Foucault intravede tra il suo metodo e la tradizionale History of Ideas: in primo luogo, l’archeologia non cerca “oltre” i discorsi una qualche realtà più profonda ma è interessata proprio ai discorsi in quanto tali, come pratiche che obbediscono a regole; in secondo luogo, non si interessa alla continuità dei vari discorsi mentre è attenta alla loro definizione nella loro specificità; la
terza differenza consiste nel fatto che non si interessa alle singole opere e agli autori perché si occupa dei tipi e delle regole discorsive che “attraversano” le opere individuali per cui «l’istanza del soggetto creatore, in quanto ragion d’essere di un’opera e principio della sua unità, le è estranea»; infine, quarta e ultima differenza, l'archeologia non intende “ricostruire” il pensiero puro di un autore prima che questo venisse affidato al discorso disperdendosi, ma piuttosto riproporre i discorsi per come essi si sono posti!” L'archeologia quindi come metodologia avrebbe il compito di rendere visibile quell’archivio che secondo Foucault governa l’appa-
!% M. Foucault, Le parole e le cose, trad. it., Rizzoli, Milano 1967, p. 11.
!05 M. Foucault, L'archeologia del sapere, trad. it., Rizzoli, Milano 1980, p. 183. Lo VIE pals9: OAIVISPALSS:
Linguaggio, storia e politica
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rizione degli enunciati come avvenimenti singoli". La descrizione dell’archivio, cioè dei sistemi di enunciati, ha come
conseguenza
quella di farci smettere di pensare alla storia come un filo continuo di eventi e all’uomo come soggetto dotato di coscienza pura: «Stabilisce che noi siamo differenza, che la nostra ragione è la differenza dei discorsi, la nostra storia la differenza dei tempi, il nostro io la dif-
ferenza delle maschere. Che la differenza non è origine dimenticata e sepolta, ma quella dispersione che noi siamo e facciamo»'®. Anche Skinner è molto critico verso la tradizionale History of Ideas per ragioni in parte analoghe a quelle di Foucault. Nel capitolo precedente abbiamo visto come Skinner, sviluppando le intuizioni del secondo Wittgenstein, sostenga che sia ingenuo ritenere che esistano idee ontologicamente determinate che si realizzano storicamente in modo più o meno corretto rispetto all’ideale per cui lo storico avrebbe il compito di ricostruire il rapporto tra la manifestazione storica e l'essenza atemporale dell’idea in questione. Sulla base di questa premessa metodologica diventa riduttivo studiare un autore del passato interrogandolo in merito alle “eterne questioni” della filosofia politica perché tali questioni di fatto non esisterebbero!!°. AI di là del lessico differente, wittgensteiniano l’uno e strutturalista l’altro, sono evidenti alcune analogie in merito alla critica delle “continuità” storiche e in merito all’attenzione verso il contesto in cui le opere studiate si inseriscono proprio per evitare che il pensiero di un autore venga atomizzato come se il contesto (o le pratiche discorsive, per dirla in termini foucaultiani) fossero un dettaglio trascurabile.
Emergono naturalmente anche delle differenze!!! che riguardano, in primo luogo, il ruolo degli agenti individuali nell’evoluzione storica
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RW:
RE TRl 9x 7
"© Cfr. Q. Skinner, Meaning and understanding in the history of ideas, cit. Su questo aspetto del pensiero di Skinner cfr. S. Muscolino, Una filosofia politica sulle orme di Wittgenstein? Il contributo di Quentin Skinner, cit. '!! Non prendiamo in considerazione il seguente articolo di P. Kjellestròm, The Narrator and the Archaelogist. Modes of meaning and discourse in Quentin Skinner and Michel Foucault, in «Statsvetenskaplig Tidskriftv XCVIII(1/1995), pp. 21-40
Quentin Skinner e Michel Foucault
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stessa. Foucault, come noto, riduce al massimo tale ruolo non esistendo
dal suo punto di vista una soggettività pura che non sia formata dalle pratiche discorsive all’interno delle quali il singolo si trova ad operare. La soggettività, di conseguenza, nella prospettiva archeologica foucaultiana degli anni ‘60 svolge un ruolo marginale nella misura in cui essa assume forme storicamente differenti. Secondo il già citato studio di Walter, proprio su questo punto, emergerebbe un'importante differenza con Skinner perché in quest'utltimo troverebbe spazio una visione della soggettività non adeguatamente variabile visto che il soggetto sarebbe «always rational»: quindi non seguirebbe una sufficiente attenzione agli aspetti contingenti e discontinui della storia come nel caso di Foucault!!2, Ma in realtà Skinner difende un’idea minimale della razionalità e non sicuramente nel senso che tutti i soggetti condividano gli stessi canoni di razionalità perché questo riproporrebbe una visione metafisica della natura umana che ci pare incompatibile con l’orizzonte complessivo della sua ricerca. Seguendo in proposito le idee di Quine, Skinner ipotizza invece che le credenze che i soggetti professano vadano ritenute sempre razionali da parte dello studioso (cioè adeguate agli standard di razionalità della loro epoca), in modo da rendere possibile la stessa ricerca storica. Se non ammettessimo questo nucleo minimo di razionalità allora il compito dello storico sarebbe impossibile perché se noi tentassimo di studiare un’ipotetica società in cui,
per esempio, fosse lecito affermare e negare le stesse proposizioni allora, osserva Skinner seguendo ancora Quine, diventerebbe impossibile distinguere le reali (cioè ritenute vere) credenze di tali persone
rispetto a quelle ritenute non vere e quindi tentare una qualsiasi ricostruzione storica!!.
perché le sue osservazioni critiche sulla metodologia skinneriana non ci sembrano tenere in debito considerazione tutta la produzione di Skinner. Tra l’altro essendo un saggio del 1995 non si confronta con la sistemazione teorica svolta da Skinner nel volume Visions of Politics nel 2002. 112 Cfr. R. Walter, Reconciling Foucault and Skinner on the state: the primacy of politics?, cit., pp. 109-110. 113 Cfr. Q. Skinner, Interpretation, rationality and truth, cit., p. 54. Stupisce che questo
Linguaggio, storia e politica
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La diversa valutazione del ruolo dei soggetti nell’ambito dei cambiamenti storici rispetto a Foucault è percepita invece come una grossa differenza anche dallo stesso Skinner che, sempre in una intervista già da noi citata, sollecitato dall’intervistatore, spiega la sua avversione nei confronti dello strutturalismo quando quest’ultimo pretende di poter fare a meno degli agenti per spiegare le discontinuità cui, pure, un autore come
Foucault è interessato.
Di conseguenza,
nonostante Skinner sia stato accusato di condividere l'annuncio della morte dell’autore annunciata da R. Barthes e da M. Foucault, egli ne ha preso le distanze in diverse occasioni perché convinto che in ultima istanza il ruolo dei singoli nell’avanzamento della storia non sia così facilmente trascurabile: «It is true that their announcement has always struck me as exaggerated. I accept of course that we are limited by the concepts available to us if we want to communicate. But it is no less true that language constitute a resource as well as a constraint [...]. this means that, if we wish to dojustice to those moments when
a convention is challenged or a commonplace effectively subverted, we cannot simply dispense with the category of the author. The point takes an added significance when we reflect that, to the extent that our social world is constituted by our concepts, any successful alteration in the use of a concept will at the same time constitute a change in our social world»!!4, Effettivamente se è vero che in un libro come L'archeologia del sapere Foucault considera la ricerca storica in modo molto simile a Skinner, è vero anche che lo studioso francese tende a far scomparire la categoria del soggetto perché le analisi che svolge per portare alla luce i vari “discorsi” storici hanno come esito complessivo quello di annullare l’azione e la responsabilità degli individui: «So quanto possa esserci di stridente nel trattare i discorsi non partendo dalla
dato sia stato notato qualche pagina prima dallo stesso Walter per poi essere tralasciato facendo subentrare
la critica menzionata
(cfr. R. Walter, Reconciling
Foucault and Skinner on the state: the primacy of politics?, cit., p. 102). !!4Q. Skinner, Interpretation and the understanding of speech acts, cit., pp. 118-119; cfr. anche E. Tricoire-. Lévy, 2007, Quentin Skinner: “Concepts only have histories”, FspacesTemps.net, Actuel, 23.11.2007 in http://espacestemps.net/document3692.html.
Quentin Skinner e Michel Foucault
Sì)
dolce, muta e intima coscienza che vi si esprime, ma da un oscuro insieme di regole anonime. Quanto ci sia di spiacevole nel far apparire i limiti e le necessità di una pratica, là dove si era abituati a vedere a
vedere svilupparsi in una pura trasparenza i capricci del genio e della libertà»!!5. Un altro aspetto su cui Walter intravede una differenza tra Foucault e Skinner è l’ontologia presupposta dai due autori: Foucault si farebbe assertore di un nominalismo più radicale di quello di Skinner perché quest’ultimo, richiamandosi alle tesi di Hilary Putnam, difenderebbe una sorta di realismo incompatibile con le ricerche foucaultiane!!, In realtà, Skinner richiamandosi a Wittgenstein e all’epistemologia postpositivista di Quine o Kuhn ha sempre rifiutato una chiara distinzione tra il concettuale e l’empirico e questo dato emerge proprio nel passo citato da Walter se lo si legge interamente: «To advance this claims is to argue that our concepts are not forced upon us by the world, but represent what we bring to the world in order to understand it. To embrace this conclusion may to deny the existence of a mind-independent world that furnishes us with observational evidence as the basis of our empirical beliefs. I am only arguing that, as Hilary Putnam has put it, there can be no observational evidence which is not to some degree shaped by our concepts and thus by the vocabulary we use to express them»!!”. Ci sentiamo così di poter concludere che il nominalismo di Skinner non sia affatto meno radicale di quello di Foucault e derivi soprattutto dalla lezione del Wittgenstein maturo. Abbiamo già visto nel capitolo precedente cosa questo “nominalismo” significhi nel campo della razionalità, della ricerca filosofia e dei sui rapporti con la storia.
!!5 M. Foucault, L’Archeologia del sapere, cit., p. 274. Sulla morte dell’autore si veda anche M. Foucault, Che cos'è un autore?,in M. Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli,
Milano1971, pp. 1-21. 116 R, Walter, Reconciling Foucault and Skinner on the state: the primacy of politics?, CIEMPRIO9: 1? Q. Skinner, /nterpretation, rationality and truth, cit., p. 46.
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Linguaggio, storia e politica
Le differenze esistenti riguardano perciò sostanzialmente il ruolo dei soggetti nell’ambito dei cambiamenti storici e, naturalmente, i temi oggetto di studio da parte dei due studiosi: se Skinner è interessato a singole storie concettuali come quelle sullo Stato e la libertà e (a partire da un certo punto della sua ricerca) sul ruolo della retorica nella modificazione del nostro arsenale concettuale, Foucault sembra avere un programma più ambizioso nella misura in cui si concentra nell’indagine delle varie episteme e, nell’ultima parte della sua vita,
sul modo in cui si costituisce un’ermeneutica del soggetto!!3.
2.2. Linguaggio, potere e genealogia
Un elemento centrale comune a entrambi gli studiosi e che permette di parlare, come suggerivamo prima, di Foucault e di Skinner come compagni di viaggi è il loro rapporto con Nietzsche. Skinner stesso confessa di essere fortemente influenzato dall’interpretazione foucaultiana di Nietzsche secondo la quale «the history which bears and determines us has the form of a war»!!?, Questa idea nietzschiana si
combina perfettamente con i presupposti filosofici che stanno sullo sfondo delle ricerche dello studioso di Cambridge. Infatti, se è vero, come Wittgenstein e Collingwood insegnano, che i concetti e le idee che professiamo non hanno una realtà ontologica ma dipendono dagli usi propri delle varie epoche storiche, allora la lezione del Nietzsche della Genealogia della morale sull’evoluzione dei valori diventa decisiva: 1 valori non esistono come oggetti in sé ma sono figli di lotte e di conflitti. L’idea della conflittualità dei valori non è incompatibile con i presupposti filosofici di Skinner tutt'altro. Proprio le idee di Wittgenstein
!!# Su alcune differenze in questa direzione tra i due studiosi cfr. N. Vucina-C. DrejerP. Triantafillou, Histories and freedom of the present: Foucault and Skinner, in
«History of the Human Sciences» 24(5/2011), pp. 124-141. !!° Q. Skinner Retrospect: Studying rhetoric and conceptual change, cit., p. 177. Anche su questo aspetto è rintracciabile un debito nei confronti di Nietzsche e del suo approccio genealogico in altri luoghi riconosciuto esplicitamente dallo stesso Skinner.
Quentin Skinner e Michel Foucault
DI
e di Collingwood, combinate con l’olismo di Quine e le tesi di Kuhn sui paradigmi, spingono Skinner a rifiutare qualsiasi visione del. mondo sociale come distinto rispetto ai nostri schemi concettuali come se fosse possibile un approccio neutrale nei confronti della realtà e questa prospettiva apre direttamente la strada per i conflitti di valori o di visioni del mondo: «Rather we need to recognise that any system of signs will serve to single out just those objects and states which it in turn enables us to denote, while other systems will always be capable of performing that task in different and potentially
conflicting ways» !20. Skinner sviluppa questa idea orientandola, negli ultimi anni, ad approfondire il ruolo della retorica come strumento di modificazione (e di imposizione sugli altri) del nostro arsenale teorico-concettuale e quindi del nostro modo di concepire il mondo sociale!?!. Ed è proprio in Nietzsche che Skinner ritrova un chiaro esempio della figura retorica della paradiastole che rende chiaro come i valori si evolvano nelle società grazie ad artifici teorici sottili ma pur nondi-
meno efficaci!??. Appare evidente come le riflessioni di Foucault sul rapporto potere/sapere presentino una certa affinità con questo quadro teorico. L’influsso di Nietzsche, soprattutto sul Foucault maturo, è noto e il filosofo francese non lo nasconde sottolineando che il merito principale del filosofo tedesco, secondo la sua lettura, è stato quello di comprendere il rapporto tra filosofia e potere senza però rinchiudere quest’ultimo all’interno di una teoria politica sistematica!. Il concetto nietzschiano di genealogia! che a partire dagli anni 770 diventa centrale nel lessico foucaultiano deriva proprio dall'idea
120 Q. Skinner, Interpretation, rationality and truth, cit., pp. 45-46. 12! Cfr. Q. Skinner, Reason and Rhetoric in the Philosophy of Hobbes, Cambridge University Press, Cambridge 1996. !22 Cfr. Q. Skinner, Retrospect: Studying rhetoric and conceptual change, cit., p. 185. 183 Cfr. M. Foucault, Conversazione sulla prigione, in M. Foucault, Microfisica del potere, trad. it., Einaudi, Torino 1977, p. 135. 124 [Il concetto nietzschiano di genealogia è stato oggetto di molte riflessioni da parte degli studiosi. Melissa Lane ha sostenuto che la recente adozione da parte di Skinner
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Linguaggio, storia e politica
che il sapere non è mai una forma di conoscenza disinteressata ma, al contrario, una presa di posizione nei confronti della realtà. L'indagine storica, infatti, non è finalizzata alla scoperta del significato nascosto dell’origine perché se questa impresa fosse possibile sarebbe allora il compito proprio di una metafisica. “Interpretare” per Foucault significa invece impadronirsi di un sistema di regole che non ha un significato in sé e imporgli una direzione, piegarlo a una volontà diversa, sottometterlo ad altre regole in modo che il divenire dell’ umanità diventa una serie di interpretazioni: «E la genealogia deve esserne la storia: storia delle morali, degl’ideali, dei concetti metafisici, storia del concetto di libertà o della vita ascetica, come emergenze di inter-
pretazioni diverse. Si tratta di farle apparire come avvenimenti sul teatro delle procedure»!?. Pensiamo che non sia del tutto azzardato suggerire che sia proprio l’interesse per la genealogia a spingere Foucault verso quella ontologia dell’attualità che caratterizza la produzione degli ultimi anni. In effetti, prendendo in considerazione un testo come Che cosè l’Iluminismo? (1984) Foucault mostra come il tipo di interrogazione filosofica che egli ha in mente, e che egli collega a Kant, pone il problema del rapporto con il presente, con il modo di essere storico e con la costituzione di noi stessi come soggetti autonomi !?,
del termine nietzschiano “genealogia” per connotare il suo tipo di ricerca sarebbe improprio rispetto a quello di archeologia adoperato da lui stesso in passato (cfr. M. Lane, Doing Our Own Thinking for Ourselves: On Quentin Skinner 's Genealogical Turn, in «Journal of the History of Ideas» 73(1/2012), pp. 71-82). Non possiamo entrare in questo ampio dibattito sul significato da attribuire al progetto genealogico nietzschiano ma ci limitiamo ad osservare che da parte nostra ci sembra che Skinner utilizzi il termine con finalità analoghe a quelle, come vedremo tra poco, di Foucault. Per la risposta di Skinner ai dubbi della Lane cfr. Q. Skinner, On the Liberty of the Ancients and the Moderns: A Reply to My Critics, in «Journal of the History of Ideas» 73(1/2012), pp. 127-129. ! M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in M. Foucault, Microfisica del potere, cit., p. 4l. !2© M. Foucault, Che cos'è l’Illuminismo? (1984), in M. Foucault, Archivio Foucault, 3.(1978-1985), a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998,
PI2:25ì
Quentin Skinner e Michel Foucault
(Da)n
La questione della soggettività ci offre l'occasione per osservare un ulteriore elemento comune ai due studiosi e cioè l’importanza da essi attribuita alla cultura romana nella storia dell'Occidente. Una delle tesi più interessanti avanzate da Skinner è quella secondo la quale l'Occidente, per quello che riguarda la sua filosofia politica e giuridica, debba riconoscere il proprio debito soprattutto nei confronti del mondo romano piuttosto che quello greco. Questa opinione di Skinner deriva dalla considerazione che il modo in cui i teorici occidentali della politica e del diritto hanno affrontato il problema della proprietà privata e dei suoi rapporti con la sfera del potere pubblico derivano nelle linee essenziali dalla lezione del Digesto. Come Skinner ha cercato di mostrare con i suoi studi, la teoria politica rinascimentale nelle sue tesi principali si richiama alle idee proprio del mondo romano e questo recupero avviene cronologicamente prima della ri-
scoperta della Politica di Aristotele'??. Torneremo dopo sul contributo che secondo Skinner va riconosciuto alla teoria politica del Rinascimento mentre per quanto riguarda Foucault possiamo osservare che questi ritiene che il “discorso” sull’uomo occidentale e il potere sia cominciato storicamente a partire dall’Umanesimo dove sono stati elaborate quelle “sovranità assoggettate” che sono l’anima, la coscienza, l’individuo e la libertà fondamentale.
Il discorso attorno al
quale si è strutturato l’ Umanesimo, cioè quello per cui «anche se non eserciti il potere puoi pur sempre essere sovrano», in realtà deriva dal diritto romano perché è quest’ultimo che, istituendo la proprietà privata, ha creato l’individuo come sovrano sottomesso: «Il sistema romano strutturava lo Stato e fondava la proprietà. Sottometteva la volontà di potere fissando un “diritto sovrano di proprietà” che poteva essere esercitato solo da quelli che detenevano il potere. In questo andirivieni, l’umanesimo si è istituzionalizzato»!?8.
12? Cfr. Q. Skinner, Ambrogio Lorenzetti and the portrayal of virtuous government, in Q. Skinner, Visions of Politics, Cambridge 2002, II, p. 92. !8 M. Foucault, A/ di là del bene e del male, in M. Foucault, Microfisica del potere, CIEIDASO!
Linguaggio, storia e politica
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Sebbene su posizioni diverse, entrambi riconoscono quindi alla cultura giuridica romana un influsso decisivo sull’evoluzione culturale dell’Occidente, molto più di quanto spesso si riconosca, abituati, come siamo, a considerarci figli della Grecia, la patria della “filosofia”. È chiaro, ma non possiamo approfondire in questa sede l’argomento, che anche l’evoluzione del pensiero filosofico occidentale deve quindi all’elemento romano (il diritto) molto più di quanto comunemente
sostenuto.
2.3. Filosofia e storia: la funzione terapeutica
Un ultimo aspetto meritevole di menzione è quello relativo alla funzione “terapeutica” della filosofia e del sapere in generale. Come spiega lo stesso Foucault nell’introduzione all’ Uso dei piaceri, dopo la stagione delle ricerche dedicate allo studio delle forme delle pratiche discorsive e delle strutture di potere, egli ha dovuto dare alla sua ricerca una decisa torsione. Questa torsione si è resa necessaria perché un nuovo ordine di problemi lo interessa: «studiare i giochi di verità nel rapporto di sé con se stesso e la costituzione di sé come soggetto, prendendo come punto di riferimento e campo di indagine quella che
si potrebbe chiamare la “storia dell’uomo di desiderio”»!?9. Dovendo indagare il modo in cui si costituisce un’ermeneutica del desiderio, Foucault decide così di spostare la sua attenzione sullo
studio del modo in cui l’esperienza della sessualità ha avuto luogo a partire dal mondo classico con un chiaro intento, per dirla in termini wittgensteiniani, “terapeutico”. Leggiamo direttamente le sue stesse parole: «è la curiosità; la sola specie di curiosità, comunque, che meriti d’esser praticata con una certa ostinazione: non già quella che cerca di assimilare ciò che conviene conoscere, ma quella che consente di smarrire le proprie certezze. A che varrebbe tanto accanimento nel sapere se non dovesse assicurare che l’acquisizione di conoscenze, e
! M. Foucault, L'uso dei piaceri, trad. it., Feltrinelli, Milano 1984, p. 12.
Quentin Skinner e Michel Foucault
SU
non, in un certo modo e quanto è possibile, la messa in crisi di colui che conosce?
Vi sono momenti,
nella vita, in cui la questione di
sapere se si può pensare e vedere in modo diverso da quello in cui si pensa e sì vede, è indispensabile per continuare a guardare o riflettenes: da:
Quindi è proprio un movente interiore quello che anima la ricerca dell’ultimo Foucault e, alla possibile obiezione che le questioni personali vadano tralasciate per essere realmente filosofi in cerca della Verità, egli risponde molto chiaramente: «Che cosa è dunque la filosofia, oggi -voglio dire l’attività filosofica- se non è lavoro critico del pensiero su se stesso? Se non consiste, invece di legittimare ciò che sarebbe possibile pensare in modo diverso? Vi è sempre un che di derisorio nel discorso filosofico quando pretende, dall’esterno, di dettar legge agli altri, dir loro dov’è la verità e come trovarla, o quando trae motivo di vanto dall’istruir loro il processo con ingenuità positiva; ma è suo pieno diritto esplorare ciò che, nel suo stesso pensiero, può esser mutato dall’esercizio di un sapere che gli è estra-
neo»!!. Se le analogie con la visione della filosofia difesa da Wittgenstein sono abbastanza evidenti, anche in Skinner il discorso assume contorni analoghi. Lo studioso di Cambridge affida all’indagine storica una funzione “terapeutica” perché il compito dell’indagine storica non è fine a se stesso ma è volto proprio a liberarci da tutte quelle illusioni che ci influenzano nel modo in cui guardiamo ai nostri valori, alle nostre abitudini e alle nostre credenze : «Given this situation, one of the contributions that historians can make is to offer us a kind of exorcism. If we approach the past with a willingness to listen, with a commitment to trying to see things their way, we can hope to prevent ourselves from becoming too readily bewitched. An understanding of the past can help us to appreciate how far the values we embodied in our present way of life, and our present ways of thinking about those values, reflect a series of choices made at different times between
130 Ivi, pp.13-14. GUMIVISDAIZI
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different possible worlds. This awareness can help to liberate us from the grip of an one hegemonal account of those values and how they should be interpreted and understood. Equipped with a broader sense of possibility, we inherited and ask ourselves in a new spirit of enquiry what we should think of them»!?. Alcuni critici, volendo evidenziare una certa differenza con Foucault, commentano in questo modo l’idea di terapeutica skinneriana: «The type of liberation at stake for Skinner is one that enables us to free ourselves from the strings of contemporary political language and therefore allows us to navigate more freely. The historian may contribute to this kind of liberation by examining the discourses drawn upon and the language used by historical actors within a given linguistic context. Thereby the historian may reveal that past political actions were enacted in ways that fundamentally differ from the present forms. This type of analysis may also show that such past actions took place in accordance with historically specific contexts rather than with some transcendental forces or telos»!*. Da parte nostra osserviamo che questa funzione di liberazione non è legata, come sembrano sostenere questi critici, solo al fatto di mostrare che in epoche diverse si parlavano altri linguaggi politici rispetto a quello attuale (anche se certamente è presente pure questo aspetto!); ciò che è importante è che l’indagine storica ci aiuta a comprendere che ciò in cui crediamo è frutto di un conflitto ossia di scelte ben precise che sono state imposte in un certo momento storico. Questo secondo elemento ha un ruolo chiave per ottenere quell’effetto di liberazione di cui parla Skinner il cui argomento perde forza se lo si Imposta nei termini sopra citati. Possiamo allora concludere, sulla base dei discorsi sviluppati fin qui, che tra Skinner e Foucault sussistano indubbiamente delle affinità
anche se le differenze, specie sulla base della vena strutturalista fou-
1 Q. Skinner, Introduction: Seeing things their way, cit., p. 6. !* N. Vucina-C. Drejer-P. Triantafillou, Histories and freedom of the present: Foucault and Skinner, cit., p. 134.
Quentin Skinner e Michel Foucault
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caultiana degli anni ‘60, sono innegabili. Un’ultima considerazione a nostro avviso non secondaria rimane però da fare e riguarda il tipo di intellettuali che Skinner e Foucault hanno cercato di essere e cioè intellettuali poco avvezzi alle etichette soprattutto quelle di analitico e continentale che hanno segnato il dibattito filosofico dalla seconda metà del Novecento e che continuano ancora oggi a giocare un ruolo non marginale. Non erigere steccati naturalmente non vuol dire perdere le differenze per dar vita a ibridi filosofici come oggi, spesso accade, ma essere consapevoli di quanto ogni posizione possa giovarsi nel comprendere quella altrui. Nel caso di Skinner possiamo osservare che, sebbene si sia formato in ambito analitico e annoveri tra le sue fonti principali la filosofia del secondo Wittgenstein, non ha esitato a criticare il tradizionale modo “analitico” di guardare allo studio dei classici e degli autori del passato! e di aver sempre tenuto in conto gli studi di autori appartenenti all’ermeneutica, allo strutturalismo o al decostruzionismo. Per Foucault il discorso è sostanzialmente
identico; infatti, da
acuto osservatore del mondo a lui vicino non esita per esempio, durante una conferenza nel 1978, a intravedere una certa affinità tra il suo modo di concepire la filosofia e quanto avviene nel mondo analitico anglosassone proprio in merito alla questione del rapporto linguaggio-potere. Sulla base di queste affinità, Foucault stesso suggerisce di provare a sviluppare una “filosofia analitico-politica” che non sia, perciò, un tentativo di fondare una teoria del potere o della politica ma piuttosto quello di comprendere le relazioni di potere per giocarle, studiarle «in termini di tattica e di strategia, di regola e di caso, di posta in gioco e di obbiettivo» !. Anche le ricerche di Skinner non sono concepite come una sem-
plice attività accademica ma come una modalità particolare del ‘fare
134 Cfr. M. Viroli, «Revisionisti» e «ortodossi« nella storia delle idee, in «Rivista di filosofia», LXXVIII (1/1987), pp.121-136.
135 M. Foucault, La filosofia analitica della politica (1978), in M. Foucault, Archivio Foucault, cit., p. 105.
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politica”. Per usare le parole di Kari Palonen, confrontandosi con l’opera di Skinner il lettore ha a che fare con un nuovo modo di concepire l’attività pensante: come dimensione stessa della politica!*°.
1° Cfr. K. Palonen, Quentin Skinner. History, Politics, Rhetoric, Polity Press, Cambridge 2003, p. 175.
Skinner e la filosofia politica contemporanea
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3. Skinner e la filosofia politica contemporanea
In questo capitolo, proveremo a sviluppare in modo più sistematico alcuni spunti presenti negli scritti skinneriani andando forse anche oltre le reali intenzioni o convincimenti dello studioso di Cambridge ma accogliendo quel “surplus di significato” di cui lo stesso Skinner, richiamandosi a Paul Ricoeur, ha parlato a proposito di ogni testo (quindi anche dei suoi!). Confessiamo quindi di voler “utilizzare” Skinner per tentare di comprendere come un approccio wittgensteiniano si ponga nell’ambito della filosofia politica contemporanea. In questo senso, allora, questo capitolo è su Skinner ma è pensato e sviluppato tenendo sullo sfondo le idee centrali della filosofia dell’ultimo Wittgenstein. Le tradizioni di ricerca con le quali è proficuo far dialogare un approccio wittgensteiniano-skinneriano sono almeno quella neokantiana, quella analitico-concettuale e in ultimo quella propria della Begriffsgeschichte. Essendo tali tradizioni di ricerca molto variegate al loro interno svilupperemo il nostro confronto, ove possibile, con autori appartenenti a tali tradizioni e verso i quali Skinner si è pronunciato anche se quasi mai in forma sistematica: J. Habermas, J.
Rawls e R. Koselleck. Avremo modo di vedere come nel caso dell’approccio neokantiano il punto di scontro è rappresentato dalla concezione della razionalità difesa da questi autori e dall’indagine di tipo trascendentale che essi propongono, l’uno sul terreno dei principi di giustizia e l’altro sui presupposti della comunicazione. Per quanto riguarda invece gli altri due approcci, che pure sono interessati allo studio del linguaggio o dei concetti politici, le differenze con un’impostazione wittgensteiniana derivano dal modo di intendere lo statuto dei concetti e il rapporto linguaggio e realtà. Nell’ultimo paragrafo, vedremo poi alcuni contributi di Skinner riguardanti questioni più concrete come la concezione neoromana della libertà politica o il rapporto tra liberalismo e repubblicanesimo.
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Linguaggio, storia e politica
3.1. Contro gli approcci neokantiani 3.1.1 La critica a Jiirgen Habermas È emblematico il fatto che Skinner abbia sempre manifestato una decisa avversione nei confronti dell’approccio di Jiirgen Habermas che rappresenta (insieme a John Rawls sul quale torneremo nel prossimo paragrafo) l’alfiere delle teorie normative di orientamento neokantiano contemporanee'. Riportiamo direttamente un passo dal quale si ricava il giudizio negativo da parte di Skinner: «We place a question-mark against all those neo-Kantian projects of our time in which we encounter an aspiration to halt the flux of politics by trying definitively to fix the analysis of key moral terms. I continue to harbour a special prejudice against those who, in adopting this approach, imagine an ideal speech situation in which everyone (everyone?) would make the same moral and cognitive judgements. There are no moral or cognitive judgments which are not mediated by our concepts, and it is seems to me that even our most apparently abstract concepts are historical through and through».
Il confronto tra i due autori, come è intuibile, investe anche la questione del loro rapporto con Wittgenstein perché anche Habermas cerca di recepirne la lezione soprattutto quando decide di far propria la “svolta linguistica” a partire dagli scritti degli anni ‘70. Il punto di partenza obbligato per questo confronto è la critica che Skinner muove ad Habermas nell’ambito di una recensione del 7 ottobre 1982 pubblicata sul «The New York Review of Books» intitolata Habermas's Reformation. In questa recensione Skinner prende in considerazione sia libri scritti fino a quel momento da Habermas che studi critici sul suo pensiero svolti da altri studiosi. È da segnalare
!57 Per una recente critica agli approcci normativi neokantiani cfr. R. Geuss, Philosophy and Real Politics, Princeton University Press 2008. Il rapporto tra approcci contestualisti e approcci normativi è oggetto del recente volume: J. FloydM. Stears (ed. by.), Political Philosophy versus History? Contextualism and Real Politics in Contemporary Political Thought, Cambridge University Press, 2011. 18 Q. Skinner, Retrospect: Studying rhetoric and conceptual change, cit., p. 177.
Skinner e la filosofia politica contemporanea
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che, nonostante in quella data sia già disponibile la traduzione inglese di Teoria dell’agire comunicativo,
Skinner si limiti
a menzionarla
senza però affrontarne l’analisi discutendo così soltanto gli scritti habermasiani degli anni ’60 e ’70 nei quali sono già presenti, a suo avviso, le premesse teoriche di quelli che saranno gli aspetti centrali della proposta filosofica del filosofo tedesco degli anni successivi. È importante osservare subito come nel corso della recensione, Skinner mostri particolare apprezzamento soprattutto nei confronti dello studio critico di Raymond Geuss!° a partire dal quale sembra impostare nelle linee generali la sua critica alla teoria habermasiana. Skinner contesta il discorso svolto da Habermas sulla falsa coscienza, sul rapporto tra ragione e interessi per arrivare infine all'idea centrale, cioè alla proposta di una “situazione linguistica ideale”. Per quanto riguarda il modo in cui Habermas concepisce il rapporto falsa coscienza/credenze, il giudizio di Skinner è lapidario: «Habermas’s
argument fails to establish any direct link between the genesis of our beliefs and their alleged falsity»!*°. Ciò che Skinner contesta ad Habermas è il modo in cui questi ritiene, ricollegandosi a una tradizione che include Rousseau e il giovane Marx fino a Marcuse, di poter “liberare” l’uomo dalle catene che in un modo o nell’altro lo opprimono. Questo tentativo, commenta Skinner, sarebbe basato su un ottimismo nient’affatto scontato: «This determination to treat politics as a means of conducting genuine debites about the public interest, not merely competition between rival interest groups, is of course salutary. But for those of us who find it hard to endorse Habermas's touching faith in the ability of reason to overcome evil, the result of the entire argument is simple to leave the crucial connection between the attainment of enlightenment and the process of social emancipation altogether
obscure»!!.
139 Cfr. R. Geuss, The Idea ofa Critical Theory: Habermas and the Frankfurt School, Cambridge University Press, Cambridge 1981. 140 Q. Skinner, Habermas’ Reformation, in «The New York Review of Books» (7 October 1982), p. 36. SUA IVIDR9S:
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Linguaggio, storia e politica
AI di là dell’analisi parziale svolta da Skinner (perché, come ricordato, non include Teoria dell’agire comunicativo) la ragione per la quale egli ritiene di poter “chiudere i conti” con la teoria habermasiana già soltanto confrontandosi con gli scritti degli anni °70 (e mantenendo inalterato il suo giudizio fino ad oggi) potrebbe essere la seguente: ciò che ai suoi occhi risulta inaccettabile è l’idea d’ispirazione kantiana che spinge Habermas a ipotizzare, controfattualmente, una situazione linguistica ideale nella quale «everyone would make the same moral and cognitive judgements»!*2. Questo modo di interpretare la “situazione linguistica ideale” viene duramente contestato da Thomas McCarthy in una controrecensione a quella di Skinner pubblicata sempre sul «The New York Review of Books»il 20 gennaio 1983 intitolata, non a caso, Defending Habermas. McCarthy considera la recensione di Skinner sostanzialmente superficiale e basata su una scarsa conoscenza degli sviluppi della teoria habermasiana soprattutto, come già ricordato, di una 7eoria dell’agire
comunicativo". La critica è pesante soprattutto perché proviene da parte del traduttore di Habermas nel mondo anglosassone che negli anni successivi si distingue, tra l’altro, nella difesa delle tesi del filosofo tedesco contro altri avversari autorevoli come Richard Rorty. Ed è significativo notare, anche ai fini del nostro discorso, come proprio scontrandosi con quest’ultimo, McCarthy difende la validità della teoria habermasiana affermando di condividerne la finalità di fondo ossia quello di preservare la razionalità contro i vari attacchi che nel Novecento le vengono sferrati da filosofi come J. Derrida, M. Foucault o lo stesso R. Rorty. Non solo, osserva McCarthy, è impossibile rinunciare alla razionalità ma bisogna comprendere che «we need rather to develop concepts of reason, truth, and justice that, while no longer pretending to a
#2 Q. Skinner, Retrospect: Studying rhetoric and conceptual change, cit., p. 177.
Th. McCarthy, Defending Habermas, in «The New York Review of Books», 2 January 1983.
Skinner e la filosofia politica contemporanea
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God'’s-eye point of view, retain something of their transcendent, regulative, critical force»!*, È evidente che per chi come Rorty o Skinner si ispira a Wittgenstein tale difesa della razionalità appaia troppo forte, troppo intrisa di eredità metafisica. Non soffermandoci sulla controreplica di Rorty, i cui contenuti sono facilmente intuibili!*, proviamo invece a consi-
derare nel complesso l’approccio skinneriano per comprendere le difficoltà nei confronti della teoria critica habermasiana. Innanzitutto, c’è un passo in cui emerge con sufficiente chiarezza come l’idea skinneriana di razionalità appare stridente con quella difesa da Habermas e compagni: «In particolar, it seems positively erroneus to try to arrive at a single criterion, and hence a method, for discriminating rational belief. The relations between the ideal of rationality and the practises embodying it seem too complex and openended to be captured in the form of an algorithm»9. L'ispirazione universalistica kantiana che anima la teoria habermasiana, nonostante i poderosi approfondimenti nelle opere successive agli anni ‘70 (e le critiche ricevute), non tende ad attenuarsi o a dis-
sipare i tradizionali limiti degli approcci universalistici come lo stesso Habermas sembra ammettere: «Si deve poter dimostrare che il nostro principio morale non rispecchia unicamente i pregiudizi del mitteleuropeo di oggi, adulto, bianco, maschio, con educazione borghese»!#. La sfida è molto complessa perché riguarda, nella sostanza, l’annoso dibattito tra universalismo e particolarismo ed Habermas tenta di inserirsi in questo dibattito difendendo una ragione post-metafisica di tipo comunicativo che permetta di vincere le secche del relativismo e dei vari teorici del postmoderno.
4 Th. McCarthy, Private Irony and Public Decency: Richard Rorty's New Pragmatism, in «Critical Inquiry», 16, (2/ 1990), p. 367. 145 Cfr. R. Rorty, Truth and Freedom: A Reply to Thomas McCarthy, in «Critical Inquiry», 16(3/1990), pp. 633-643. 14 Q. Skinner, /nterpretation, rationality and truth, cit., p. 33. 147 J. Habermas, Moralità ed eticità. Le obiezioni di Hegel a Kant sono pertinenti anche contro l’etica del discorso?, trad. it., in AA. VV., Etiche in dialogo. Tesi sulla razionalità pratica, Marietti, Genova
1990, p. 61.
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Tralasciando a questo punto la recensione skinneriana e osservando i due approcci dall’esterno pare che il vero punto di dissidio tra Skinner e Habermas, al di là delle opportune puntualizzazioni di McCarthy, sembra essere il concetto stesso di ragione e, di conseguenza, il ruolo che i due studiosi affidano alla filosofia. Per Habermas il tratto caratterizzante la filosofia è quello di «essere custode della razionalità»! e per questo egli è un fiero oppositore dei vari postmodernismi e dei vari critici della modernità!; dal canto suo Skinner critica invece la modernità non perché sia un progetto incompiuto interno a un'impostazione di filosofia della coscienza e bisognoso quindi di evolversi in un paradigma comunicativo come vorrebbe Habermas, ma piuttosto per il modo in cui la teoria politica moderna e contemporanea affronta questioni come la libertà politica, i diritti naturali, il concetto di sovranità e quello di Stato!”, Ispirandosi alle idee di Wittgenstein e di Collingwood, Skinner ritiene necessario indagare il modo in cui il linguaggio influenza la “visione” che noi abbiamo dei vari concetti politici menzionati prima e del modo in cui li utilizziamo. L'importanza di studiare il Rinascimento e le teorie politiche di autori del passato come Machiavelli, Cicerone, Quintiliano, Livio ..., dipende dalla volontà di volersi li-
18 Cfr. J. Habermas, L'etica del discorso, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1985, p. 24. La definizione presentata da Habermas in Teoria dell’agire comunicativo è la seguente: «Possiamo riassumere le nostre considerazioni in modo da intendere la razionalità come una disposizione di soggetti capaci di linguaggio e di azione. Essa si manifesta in modi di comportamento per i quali ci sono di volta in volta buone ragioni. Ciò significa che espressioni razionali sono accessibili ad una valutazione oggettiva» (H. Habermas, Teoria dell'agire comunicativo, trad. it., il Mulino, Bologna 1986, vol. I, p. 79). 4° Cfr. J. Habermas, // discorso filosofico della modernità, trad. it., Laterza, RomaBari 1997. 150 Skinner è anche critico verso autori come Charles Taylor che contestano la modernità per la presunta perdita di valori religiosi: cfr. Q. Skinner, Modernity and disenchantment: some historical reflections, in J. Tully (ed. by), Philosophy in an age of pluralism. The Philosophy of Charles Taylor in question, Cambridge University Press, Cambridge 1994, pp. 37-48; per una risposta di Taylor cfr. Charles Taylor replies, in ivi, pp. 222-226.
Skinner e la filosofia politica contemporanea
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berare dell’idea, tipica di una certa modernità, che l’unico concetto
di libertà sia quello liberale, cioè quello negativo (e per la precisione di libertà come
“non interferenza”), o che il discorso sulla libertà
vada impostato necessariamente partendo da una teoria dei diritti (naturali). Su questi punti, però, torneremo più dettagliatamente nel prossimo paragrafo perché Skinner li affronta anche in confronto con la teoria della giustizia elaborata da J. Rawls. Se concentriamo poi l’attenzione sul modo in cui Habermas e Skinner recepiscono la lezione wittgensteiniana allora emergono ancora più chiaramente le differenze che separano i due studiosi. Siccome della recezione skinneriana di Wittgenstein ci siamo già occupati nei capitoli precedenti, volgiamo la nostra attenzione direttamente ad Habermas. Quest’ultimo è interessato a Wittgenstein e alla teoria degli “atti linguistici” elaborata da Austin e di Searle convinto, in questo concorde con Skinner, che il linguaggio non abbia soltanto una funzione denotativa ma una molteplicità di usi. Volendosi muoversi all’interno della “svolta linguistica”, Habermas difende così l’idea che sia impossibile conseguire una conoscenza oggettiva della realtà perché questa è sempre mediata dai nostri schemi linguistici". Però, mentre da questo assunto Wittgenstein, Rorty e Skinner traggono, ognuno a modo proprio, la conclusione che il compito della filosofia vada depotenziato rispetto al passato, Habermas, pur dichiarandosi un filosofo postmetafisico, difende l’idea che «la filosofia
possiede, per sua natura, una competenza sulle questioni di fondo della convivenza normativa e, in particolare, della giusta convivenza politica» !2. Per questa ragione, Habermas non esita a definire Wittgenstein un ostacolo e come uno dei responsabili della crisi della filosofia in età contemporanea perché l’idea di “terapeutica” non sarebbe armonizzabile con la funzione che la filosofia ha storicamente svolto e che sia auspicabile continui a svolgere anche oggi". Skinner invece
!51 Cfr. J. Habermas, Verità e giustificazione, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2001.
152 Ivi, p. 324.
153 Cfr. J. Habermas, L'etica del discorso, cit., pp. 15-16.
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Linguaggio, storia e politica
è convinto che in ambito politico, tolta di mezzo l’idea che la filosofia possa attingere verità universali e astoriche, lo studio della storia ci venga in aiuto proprio per “risvegliare” in noi una funzione critica che Habermas, invece, attribuisce per principio al soggetto in quanto tale (soggetto kantianamente inteso)!*. Ma è proprio il presupposto teorico della soggettività habermasiana ad entrare in tensione con qualunque approccio che prenda sul serio l’insegnamento di Wittgenstein perché, come mostrato da James Tully, la soggettività di cui parla Habermas non solo è, senza dubbio, quella dell’uomo occidentale ma essa stessa viene assunta come il
presupposto della teoria non soggetto a critica!”. D'altra parte, prendendo in considerazione Teoria dell’agire comunicativo e gli sviluppi successivi, alcune importanti idee habermasiane sembrano entrare progressivamente in crisi come è possibile osservare ad esempio nel mutato atteggiamento di fronte al fenomeno religioso. Infatti se nell’opera del 1981 Habermas scrive che «le immagini religiose e metafisiche del mondo di origine profetica hanno la forma di dottrine elaborabili intellettualmente, che spiegano e giustificano un ordinamento di dominio esistente nel quadro dell’ordinamento del mondo da esse difese»! e che verranno quindi progressivamente superate dall’avanzamento della razionalità moderna, questa
visione nel corso degli anni viene meno al punto da riconoscere, con grande onestà intellettuale da parte del filosofo tedesco, che la religione è una fonte di senso inesauribile per la stessa razionalità comunicativa e quindi pienamente legittimata a prendere parte alla discus-
sione pubblica democratica!”. Detto questo, esisterebbe ancora un aspetto sul quale Habermas non avrebbe pienamente inteso Wittgenstein (o avrebbe deciso legit-
!> Cfr. J. Habermas, Teoria dell'agire comunicativo, cit., pp. 74 e ss. 5 Cfr. J. Tully, Public Philosophy in a New Key, Volume I — Democracy and Civic Freedom, Cambridge 2008, pp. 99 e ss. ‘5° J. Habermas, Teoria dell'agire comunicativo, cit., II, pp. 796-797. ‘7 Emblematico a riguardo è il celebre dialogo con il teologo J. Ratzinger: cfr. J. Habermas-J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, trad. it., Marsilio, Venezia 2005.
Skinner e la filosofia politica contemporanea
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timamente di non seguirlo!) ed è la possibilità di elaborare una “teoria sociale”. Il punto è particolarmente delicato e degno di interesse per cui è necessario procedere cautamente. Tutto il ragionamento habermasiano si regge sull’assunto che sia possibile individuare dei presupposti comunicativi che essendo già operanti nella prassi diventino per ciò stesso normativi. Come ha spiegato sinteticamente Axel Honneth, la teoria habermasiana, volendo
preservare un contenuto normativo in grado di orientare la prassi verso l’ideale, deve ancorarsi ad una «pragmatica universale che cerca di dimostrare una forma originaria della prassi discorsiva umana come presupposto necessario di ogni riproduzione sociale»!*. Così facendo, Habermas vuole elaborare una “teoria” nel senso di un modello che rispecchierebbe una qualche struttura esistente nella realtà. Ma ciò, secondo noi, implicherebbe due cose: la prima è che Habermas si staccherebbe da uno degli elementi centrali dell’insegnamento di Wittgenstein e cioè che la filosofia non può proporre alcuna teoria; la seconda, conseguente alla prima, è che Habermas rischierebbe di ricadere in una posizione di tipo metafisico. Per quanto riguarda la prima questione, osserviamo che il divieto di teorizzare è uno degli aspetti dell’insegnamento del Wittgenstein maturo (ma anche in quello del 7ractatus, sebbene in modo differente)
spesso trascurato dagli interpreti: «E a noi non è dato costruire alcun tipo di teoria. Ogni spiegazione deve essere messa al bando, e soltanto la descrizione deve prendere il suo posto». Questo divieto non è stato seguito da vari studiosi come Peter Winch!®, Anthony Giddens e lo stesso Habermas che pure dichiarano
!58 Cfr. A. Honneth, Patologie del sociale. Tradizione attualità della filosofia sociale, in «Iride» IX (1996), p. 326. 159 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit. $ 109.
160 È noto che Peter Winch
con il suo The /dea of a Social Science (1958) è considerato come colui che ha mostrato l’applicabilità delle tesi di Wittgenstein alle scienze sociali. In realtà, sulla base di una certa interpretazione dell’ultimo Wittgenstein, è possibile notare che Winch non sarebbe restato pienamente fedele all’autore delle Ricerche. Per una tale critica di Winch cfr. N. Pleasants, Wittgenstein and the Idea ofa Critical Social Theory, cit.
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Linguaggio, storia e politica
di voler far proprio l’insegnamento del filosofo austriaco! L'errore che allontanerebbe questi studiosi dal nocciolo centrale del pensiero di Wittgenstein sarebbe il seguente: «Whereas the philosophy of social sciences deals with epistemological questions, such as the epistemic status of “law”, “truth”, “explanation”, ‘“causation”, etc., the main activity of critical social theorists is the construction of theoretical representation of the structures, rules, mechanism and powers which (so they claim) constitute society, individual action and subjectivity»!92, Tralasciando il discorso sugli altri studiosi e concentrandoci su Habermas, notiamo che effettivamente il filo conduttore della sua ricerca è proprio quello di rintracciare «strutture che sono poste come invarianti rispetto alle connotazioni storiche di mondi vitali e forme di vita particolari»! dalle quali potere ricavare presupposti universali e necessari in base ai quali i soggetti ricercano un’intesa durante la
prassi comunicativa!*. Riguardo invece alla seconda questione, e cioè alla possibile ricaduta di Habermas in una forma di metafisica, a sostegno di questa ipotesi è possibile richiamare l’opinione di un autore non sospetto come John Rawls. Quest'ultimo, proprio nella storica discussione sulla rivista Journal of Philosophy, accusa Habermas di ripresentare sotto mentite spoglie un atteggiamento metafisico: «his logic is metaphysical in the following sense: it presents an account of what there is. And what there is are human beings engaged in communicative
action in their lifeworld»!99.
'6! La critica a Giddens e Habermas da questo punto di vista è svolta in N. Pleasants, Wittgenstein and the Idea of a Critical Social Theory, cit. Per una critica alla “scientificità” delle scienze sociali cfr. N. Pleasants, A philosophy for the social sciences: realism, pragmatism, or neither?, in «Foundations of Science, vol. 8, (1/2003), pp. 69-87. !6° N. Pleasants, Wittgenstein and the Idea ofa Critical Social Theory, cit., p. 9. ! J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, cit., vol. 2, p. 705.
'4J. Habermas, L'etica del discorso, cit., p. 126. ‘5 J. Rawls, Political Liberalism: Reply to Habermas, Philosophy», vol. 92, No. 3 Mar., 1995, p. 137.
in «The
Journal
of
Skinner e la filosofia politica contemporanea
7A
Tentare di ricavare da ciò che si ritiene esistente universalmente prescrizioni normative, come
vuole fare Habermas, è difficilmente
armonizzabile con l’atteggiamento filosofico suggerito da Wittgenstein che, in diretta polemica con chi intende precorrere tale strada, scrive: «Si predica della cosa ciò che è insito nel modo di rappresentarla. Scambiamo la possibilità del confronto, che ci ha colpiti, per la percezione di uno stato di cose estremamente generale», In altre parole, ciò che per Wittgenstein genera l’errore è la pretesa di riuscire ad afferrare l’essenza di qualcosa per poi, magari, trarne conseguenze generali come se la filosofia fosse una forma di conoscenza scientifica che ci mostrasse qualcosa di nascosto o in grado di indicare addirittura leggi generali. Perciò, per chi prende sul serio l'insegnamento di Wittgenstein è difficile accettare la possibilità che si possano ritrovare tali “strutture universali” su cui poter così edificare un sapere valido e condivisile per tutti!”, Appaiono chiare allora le ragioni per le quali Wittgenstein ha difeso vigorosamente l’idea che la filosofia non presenti tesi o teorie, perché ciò rischierebbe di ripresentare, celatamente, un atteggiamento metafisico dal quale egli vuole invece liberarci. È necessario però precisare, a scanso di equivoci, che la critica di Wittgenstein contro la teorizzazione in filosofia non riguarda il filosofare inteso come generica attività di critica riguardante le cose importanti siano esse di natura politica, sociale, morale o religiosa. Il tipo di attività filosofica accettabile non è quella che si presenta sotto forma di teoria generale ma piuttosto quella di «change our ways of looking at things, and most importantly, change our way of looking
at ourselves»!®. Per questa ragione riteniamo che Skinner possa essere considerato a tutti gli effetti un filosofo politico proprio perché la genealogia dei
16 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., $ 104. !67 Nel capitolo precedente abbiamo già menzionato il lavoro antropologico di C. Geertz che, non a caso, influenzato dal Wittgenstein maturo è su posizioni avverse
allo strutturalismo di C. Lévi-Strauss. !68 N, Pleasants, Wittgenstein and the Idea ofa Critical Social Theory, cit., p. 181.
Cr.
Linguaggio, storia e politica
concetti che egli suggerisce di adottare è tesa a riattivare il nostro
senso critico, cioè a guardare le cose in modo nuovo!®. Non prestare attenzione a questo aspetto del teorizzare ha spinto spesso al fraintendimento dell’operazione tentata da Wittgenstein nelle Ricerche perché spesso si è pensato che egli volesse presentarci una teoria del linguaggio o del significato e questa interpretazione, con sfumature differenti, è stata sostenuta anche da autorevoli studiosi
come Saul Kripke!?° o Michael Dummett!'”!. In realtà, studiosi con orientamento differente hanno espresso un’opinione diversa e Skinner sembra essere tra questi visto che egli stesso ha scritto di considerare seriamente fuorviante sostenere che Wittgenstein o Austin propongano una qualche forma di teoria o ipotesi su tali questioni!”?. Per dirla in termini foucaultiani, il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche non elaborerebbe quindi una teoria del linguaggio ma un’analitica del linguaggio cioè un tentativo di studiare, se così è lecito esprimersi, il linguaggio per come esso si manifesta nella realtà concreta. Da quanto detto non stupisce allora che Skinner nell’introduzione al volume intitolato The Return of Grand Theory in the Human Sciences (1985) mostri ancora una volta scetticismo verso le ricerche di
° Cfr. Q. Skinner, Introduction: Seeing things their way, cit., pp. 6-7. !7© Anche Cora Diamond, tra le rappresentanti del cosiddetto New Wittgenstein, ci sembra sostenere qualcosa di simile quando scrive: «Una qualche versione di questa concezione può essere ritrovata in molte interpretazioni delle Ricerche — ad esempio in quella di Saul Kripke, che riconduce la trattazione di certi problemi filosofici particolari a una trattazione più generale della grande domanda sul significato. Nel dire che Wittgenstein, nelle Ricerche, non intendeva fornire una risposta alla grande domanda sulla natura del linguaggio non intendo sostenere che egli non si stesse occupando della natura del linguaggio. Ciò che voglio dire è che un conto è vedere una simile domanda come una grande, un conto è vederla come un problema, o meglio come un gruppo di problemi filosofici, che possono essere affrontati attraverso i metodi che egli ha elaborato» (C. Diamond, «In lungo e in largo in tutte le direzioni», in J. Conant-C. Diamond, Rileggere Wittgenstein, a cura di P. Donatelli, Carocci, Roma 2010, p. 212). 16°
'7! Cfr. M. Dummett, Origini della filosofia analitica, trad. it., Einaudi, Torino 1993,
p. 183. '?? Cfr. Q. Skinner, /nterpretation and the understanding of speech acts, cit., p. 107.
Skinner e la filosofia politica contemporanea
73
Habermas il quale, nonostante le idee presentate negli scritti di L. Wittgenstein, T. S. Kuhn e W. O. Quine, continua ad essere fautore
della possibilità di una Grand Theory. Se quest’ultima è il tentativo di costruire «a systematic theory of “the nature of man and society” »!? allora Habermas ne è l’alfiere più ambizioso e tenace impegnato, fino ai suoi scritti recenti, a difendere la ragione e il progetto illumi-
nista contro le varie forme di irrazionalità!” In realtà, è doveroso notare che, al di là dei punti critici messi in
luce fin ora da un punto di vista wittgensteiniano, Habermas ha progressivamente ammorbidito gli aspetti razionalistici e universalistici della sua impostazione per cui alcune delle critiche di Skinner sembrano eccessive se si tengono in conto gli scritti degli ultimi anni!”. Pur nondimeno, Habermas continua a considerarsi l’alfiere della razionalità ed è su questo aspetto che, forse, Skinner sente di non poterlo seguire. A questo punto, concludendo sul confronto Habermas/Skinner possiamo fare le seguenti osservazioni riassuntive: innanzitutto, l’accettare le idee di Wittgenstein e di Collingwood impedisce a Skinner di condividere l'impostazione generale della ricerca habermasiana perché gravata da troppi presupposti metafisici o universalistici; in secondo luogo, il rifiuto wittgensteiniano di teorizzare nel senso di creare modelli esplicativi della realtà spinge Skinner ad abbracciare un approccio di tipo genealogico che finisce, come nel caso di Foucault, per restringere in modo significativo la distanza tra indagine
storica e approccio sistematico-teoretico'”°.
13 Q. Skinner, /ntroduction: the return of Grand Theory, in Q. Skinner (ed. by), The Return of Grand Theory in the Human Sciences, Cambridge 1985, p. 3. VE, Ω !75 Sulla tensione interna agli scritti habermasiani e sul parziale indebolimento delle pretese universalistiche dei suoi primi scritti cfr. A. Ferrara, Giustizia e giudizio, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 60-108 e pp.251-263. 176 Il capolavoro foucaultiano da questo punto di vista rimane Sorvegliare e punire. Nascita della prigione dove la dimensione storica e quella teorica sono inscindibili.
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Linguaggio, storia e politica
3.1.2 La critica a John Rawls Anche
nei confronti della teoria della giustizia di John Rawls,
Skinner mostra in diverse occasioni alcune perplessità che dipendono sia da una diversa concezione della libertà, neoromana la sua e liberale
quella rawlsiana, sia per una visione differente del gioco politico e del ruolo della razionalità nella risoluzione delle controversie politico-morali. Come
abbiamo fatto nel caso di Habermas,
riteniamo
utile cominciare la nostra analisi proprio prendendo in considerazione alcuni luoghi in cui lo studioso di Cambridge espone le sue opinioni in proposito. Un confronto con la teoria di Rawls risale al saggio Machiavelli on the Maintenance of Liberty!” apparso nel 1983 dove Skinner muove alcune critiche all’impianto di fondo di Una teoria della giustizia. Questo saggio è stato ripubblicato, rivisto, nel recente volume Visions of Politics con un titolo leggermente modificato, Machiavelli
on virtù and the maintenance of liberty!. Appare strano, è doveroso riconoscerlo, che Skinner continui recentemente a mostrarsi critico
verso l’opera del filosofo di Harvard senza però approfondirne gli ultimi sviluppi in una critica sistematica e avendo egli stesso, nel frattempo, cambiato opinione su una delle ragioni sulle quali si basava la sua critica originaria. Mentre nel saggio originario, come vedremo tra poco, la differenza tra Machiavelli e i teorici liberali sul problema della libertà riguardava infatti il modo di garantire la libertà piuttosto che il modo di intendere la libertà medesima, con il passare del tempo Skinner, sollecitato su questo punto dall’opera di Philip Pettit, ha cambiato opinione convincendosi invece di una differenza più profonda riguardante proprio l’essenza stessa della libertà che assumerebbe così contorni differenti nella concezione repubblicana!” rispetto
!7? Pubblicato su «Politics» 18 (1983) pp. 3-15. !8 Pubblicato in Q. Skinner, Visions of Politics, cit., II, pp. 160-185. '? Cfr. Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., p. 29 nota 114. Sentiamo il bisogno di fare alcune precisazioni metodologiche e sistematiche. In questo lavoro ci stiamo occupando del paradigma repubblicano ma solo tenendo presente il contributo di Skinner a riguardo e, laddove sarà necessario nell’economia del discorso skinneriano, anche quello di altri studiosi. Non ci impegneremo, quindi, nella difesa
Skinner e la filosofia politica contemporanea
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a quella liberale! Perciò, a rigori, visto questo cambiamento il solco tra Skinner e Rawls a livello teorico sarebbe dovuto aumentare essendo diversa la concezione stessa della libertà mentre nei fatti incontriamo nel corso degli anni un avvicinamento reciproco tra certi teorici repubblicani e Rawls stesso: un teorico come Pettit ammette la vicinanza della teoria repubblicana con i liberalismi di sinistra come appunto quello rawlsiano!8!; lo stesso Skinner riconosce una maggiore convergenza con il filosofo di Harvard dovuto ai ripensamenti di quest'ultimo che, in effetti, ammette a sua volta la compatibilità del suo progetto di liberalismo politico con certe forme di repubblicanesimo. Partiamo però dall’originaria critica di Skinner. Questi inserisce Rawls, come d’altronde Robert Nozick, all’interno della famiglia dei cosiddetti “gothic theorists”, cioè coloro i quali, a partire da Thomas Hobbes, pensano che «liberty is a natural right, the antonym of liberty is coercion, and the maximising of liberty is seen as the chief (perhaps the sole) duty of enlightened governments»!*2.
perché questo compito esula dagli scopi del presente studio. Per alcuni spunti di riflessione sul paradigma repubblicanesimo (che lungi dall’essere una posizione univoca presenta invece molteplici sfaccettature storico-sistematiche) si vedano i saggi raccolti in M. van Gelderen and Q. Skinner (ed. by), Republicanism: A Shared European Heritage, Cambridge University Press, Cambridge 2002. Per una nota critica a questo volume cfr. D. Castiglione, Republicanism and its Legacy, in «European Journal of Political Theory», IV (4/2005), pp. 453-465. 180 Come nel caso del repubblicanesimo, anche quando parliamo di liberalismo dobbiamo tenere presente la problematicità di un utilizzo univoco del termine. Esistono liberalismi così diversi tra loro che quasi è legittimo dubitare della possibilità di considerarli sotto una stessa etichetta. Detto questo, è chiaro, come notato da più parti, che tra repubblicanesimo e liberalismo possono esistere tanti punti di contatto al di là di quanto riconosciuto dai repubblicani stessi. In un recente articolo vengono evidenziati, ad esempio, certi importanti punti di contatto tra Pettit e Hayek: cfr. E. Kacenelenbogen, Epistemological Modesty within Contemporary Political Thought: A Link between Hayek's Neoliberalism and Pettit's Republicanism, in «European
Journal of Political Theory», 8(4/2009), pp. 449-471. 181 P. Pettit, // repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, trad. it., a
cura di M. Geuna, Feltrinelli, Milano 2000, p. 21. !82 Q. Skinner, Machiavelli on virtù and the maintenance of liberty, in Q. Skinner, Visions of Politics, cit., II, pp. 160-185.
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Come noto, la tesi di Skinner è che a partire da Hobbes si sarebbe affermata progressivamente l’idea che, essendo l’uomo egoista, il compito del diritto sarebbe quello di preservare i margini di libertà per gli individui. La differenza tra la teoria gotica e quella classica neoromana difesa, ad esempio, da Machiavelli risiederebbe, secondo
Skinner, nel diverso modo di considerare le difficoltà di preservare la libertà stessa!®. Infatti, mentre Rawls formula il suo “primo” principio di giustizia assumendo proprio la prospettiva hobbesiana cioè la prospettiva per cui diritto e libertà sono in condizioni di opposizione!'*, nell’approccio di Machiavelli e dei teorici neoromani il problema è quello piuttosto di trovare strumenti per trasformare il naturale egoismo (corruzione) in virtù e se questo non fosse possibile diventerebbe necessario allora trovare meccanismi per evitare i danni di tali ten-
denzes Dal punto di vista di Skinner, il punto critico tra le due visioni del diritto sarebbe il seguente: mentre per i teorici “gotici” diritto e libertà starebbero in un rapporto di opposizione per cui Rawls affermerebbe, correttamente dal suo punto di vista, che il sistema delle libertà può essere limitato soltanto in nome della libertà stessa!*°, per il Machia-
velli dei Discorsi il diritto sarebbe invece lo strumento tramite il quale la libertà può realizzarsi disciplinandosi e senza sfociare in tendenze autodistruttive!5”. Questo modo di concepire il rapporto diritto/libertà è un aspetto centrale anche nella teoria repubblicana contemporanea prova ne sia che P. Pettit scrive: «Secondo l’originaria dottrina repubblicana, le leggi di uno stato degno di tale nome, in particolare le leggi di una repubblica, creano la libertà di cui i cittadini usufruiscono; non recano danno alla loro libertà...»!88,
SES Gg, Jo), ID! 8 Cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, trad. it., Feltrinelli, Milano 1984, p. 207. #5 Q. Skinner, Machiavelli on virtù and the maintenance of liberty, cit., p. 165.
!8© Cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., pp. 68-69. !87Q. Skinner, Machiavelli on virtù and the maintenance of liberty, cit., p. 177. Sull’interpretazione storica del pensiero di Machiaevelli cfr. Q. Skinner, Machiavelli,
trad. it., il Mulino, Bologna 1999. !88 p. Pettit, // repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, cit., p. 48. Su
Skinner e la filosofia politica contemporanea
TE
Sempre nel saggio che stiamo considerando, un altro aspetto sul quale Skinner si mostra scettico nei confronti di Rawls è quella di «to stand at an Archimedean point outside of history, with the result that Rawls prefers to reflect on his intuitions about justice at an imagined “costitutional convention” in order to elucidate the legal foundations of a free society»!*°. Collegata a quest’ultima critica, nell’/ntroduzione a un volume collettaneo pubblicato in quegli stessi anni, Skinner contesta il tentativo da parte di Rawls di presentare una teoria generale della giustizia della società che ricadrebbe, come nel caso di Habermas, nel pericolo di riproporre una Grand Theory!®. Tuttavia l’accusa di Skinner, insieme a quella precedente, da un certo punto di vista può essere considerata lecita per il primo Rawls, quello di Una teoria della giustizia, ma negli scritti successivi fino a Liberalismo politico (1993), pur mantenendo una profonda vena neokantiana, il filosofo di Harvard ha modificato il suo liberalismo in chiave sempre meno metafisica e sempre più politica (di qui, il già ricordato scontro con Habermas) come testimoniato dalla particolare attenzione mostrata verso il concetto di “ragionevole” e verso il ‘fatto del pluralismo”. In un altro saggio negli anni ‘90 intitolato On Justice, the Common
Good and the Priority of Liberty del 1992'"!, quindi ancora precedente la pubblicazione di Liberalismo politico da parte di Rawls, Skinner
Su questo punto, quindi, non enfatizzerei le differenze tra Skinner e Pettit come fatto da altri studiosi e forse dallo stesso Pettit. Quest'ultimo, nel poscritto del 1999 al volume citato, spiega che secondo lui i teorici neoromani sono interessati solo alla libertà come non dominio mentre per Skinner la libertà repubblicana ripudia ogni forma
di dominio
e ogni forma di interferenza (ivi, pp. 352 e ss.). Questo non
significa, almeno a noi così pare sulla base del richiamo a Machiavelli dei Discorsi, che la legge in quanto tale sia considerata da Skinner un elemento nocivo per la libertà (cfr. M. Geuna, Introduzione a Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., pp. XXVEXXVII). !89 Q. Skinner, Machiavelli on virtù and the maintenance ofliberty, cit., p. 178. 190 Cfr. Q. Skinner, Introduction: the Return of Grand Theory, cit., p. 15.
!91 Cfr. Q. Skinner, On Justice, the Common Good and the Priority of Liberty, in C. Mouffe (ed. by), Dimensions of Radical Democracy, Verso, London 1992, pp. 211-224.
Linguaggio, storia e politica
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mostra di essere critico nei confronti della concezione liberale della libertà avanzata dal filosofo americano precisando però che la posizione repubblicana da lui difesa non è «anti-liberals in its values» !?2. È chiaro però che la concezione repubblicana sembra mostrare un sensibilità maggiore, rispetto alla teoria liberale tradizionale, verso il rapporto libertà/doveri civici perché quest'ultimi vengono ritenuti necessari per il mantenimento di un comunità libera all’interno della
quale, e non altrimenti, è possibile trovare cittadini liberi'?. Probabilmente, come abbiamo già visto nel confronto con Haber-
mas, le difficoltà skinneriane derivano dall’essere consapevole del ruolo decisivo dei differenti punti di partenza in ordine allo sviluppo delle rispettive posizioni. Infatti, l’ideale neokantiano sviluppato da Rawls, al di là degli importanti cambiamenti incorsi e se accettiamo una lettura continuista della sua opera, tende a cercare di trovare criteri per una giustificazione pubblica (e non logica) di un certo assetto delle istituzioni da parte dei cittadini con diverse concezioni del bene!” e Skinner, ci pare, non può che essere scettico su operazioni di questo genere. Cerchiamo di capire perché. Durante una recente intervista Skinner dichiara di non condividere da parte di Rawls il tentativo di approcciare la teoria politica percorrendo la strada di una teoria della giustizia. Riassumendo la sua critica, è come se il processo politico venisse considerato un luogo in cui si prova a realizzare la giustizia distributiva in una forma, però, che porta verso quella che Skinner definisce a giuridification of politics: sulla base dell’assunto dworkiniano che i diritti sono trumps si trasferiscono poteri sempre maggiori al potere esecutivo ma soprattutto alle corti di giustizia le quali finiscono per diventare gli attori risolutivi delle controversie sociali. Ma questa pratica, vigente soprattutto negli Stati Uniti, secondo Skinner, è pericolosa: è importante, osserva lo
studioso inglese, aver chiaro che «the threat to democracy from excessively powerful executives seems to me even more obvious than
GI 97 NA ]06 27
avi pi217. '* Cfr. S. Maffettone, Introduzione a Rawls, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 15.
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the threat from excessively powerful courts». Per chi è intenzionato a difendere la causa della democrazia!’, come lo stesso Skinner dichiara di voler fare, appare più utile rinforzare il potere delle assemblee piuttosto che quello delle corti e dell’esecutivo!”” perché, se ben interpretiamo il suo pensiero su questo punto, è difficile immaginare che un giudice possa essere neutrale o apolitico a un punto tale da risultare preferibile la sua decisione a quella di un’assemblea legislativa. Il fine di una politica democratica, nella visione repubblicana suggerita da Skinner, dovrebbe essere quello, al contrario, di risolvere le questioni in modo dialogico (quindi nelle assemblee): «our watchword ought to be audi alteram partem, always listen to the other side [...] The appropriate model will always be that of a dialogue, the appropriate stance a willingness to negotiate over rival intuitions concerning the applicability of evaluative terms. We strive to reach understanding and resolve disputes in a conversional way»!®, La questione è molto interessante e ci permette, al di là del carattere occasionale e non sistematico della critica skinneriana, di comprendere
meglio alcuni possibili punti deboli del progetto rawlsiano. La difesa del judicial review da parte di Rawls è motivato dal fatto che la Corte Suprema americana rappresenta un utile paradigma
!95 E, Tricoire-J. Lévy, Quentin Skinner: “Concepts only have histories”, cit. 126 Skinner si è interessato alla democrazia già a partire dai primi anni ‘70 con un articolo in cui criticava le analisi dei teorici empirici della democrazia come R. Dahl accusati di essere ideologicamente dei conservatori: cfr. Q. Skinner, The Empirical Theorists of Democracy and Their Critics: A Plague on Both Theirs Houses, in «Political Theory» I (1973), pp. 287-306. Un elemento importante per una genuina democrazia repubblicana è poi la devolution proprio per evitare l’accentramento di potere da parte dell’autorità centrale (cfr. J. Keane, Against Servitude, in «CSD Bulletin», vol. 7, no. 2, p. 13).
197 Rawls riconosce di ispirarsi, per quanto riguarda il ruolo dei giudici della Corte Suprema, alle tesi di Ronald Dworkin (cfr. J. Rawls, Liberalismo politico, trad. it., Edizioni di Comunità, Milano
1994, p. 342 nota 23). Per una critica al sistema del
judicial review come potenzialmente antidemocratico cfr. J. Waldron, Law and Disagreement,
Clarendon
Press, Oxford
1999,
pp.
285
e ss.
Per una
recente
riformulazione di tale critica cfr. J. Waldron, The Core of the Case Against Judicial Review, in «The Yale Law Journal», 115 (2006), pp. 1346-1406.
198 Q. Skinner, Reason and Rhetoric in the Philosophy of Hobbes, cit., pp. 15-16.
80
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di quella che il filosofo chiama “ragione pubblica”'” e che rappresenta insieme al “consenso per intersezione” il concetto chiave di Liberalismo politico. La ragione pubblica viene così definita: «Ogni società politica [...] ha un certo modo di formulare i suoi piani, assegnare un ordine di priorità ai suoi fini e prendere le proprie decisioni tenendone conto. Il modo in cui fa queste cose è la sua ragione»? Questo concetto assume un ruolo centrale nella costruzione rawlsiana perché è sulla base di essa che i giudici, per Rawls, dovrebbero offrire soluzioni ai casi loro sottoposti. Il problema a questo punto, come riconosciuto dallo stesso Rawls, è che storicamente la Corte è venuto meno a questo ruolo. La domanda da porre, secondo noi, è se questo ruolo non sia stato assolto adeguatamente per motivi contingenti o perché per principio tale “errore” non fosse evitabile. La questione, in altre parole, riguarda il modo di intendere il rapporto diritto e politica o in senso più ampio, per usare il lessico rawlsiano, il rapporto tra ragione pubblica e ragioni non pubbliche. Per Rawls, è bene ricordarlo, non esiste una ragione privata ma solo ragioni non pubbliche contrapposte a quella pubblica. Alle ragioni non pubbliche appartengono quelle delle varie associazioni (chiese, università, società scientifiche, gruppi professionali) che costituiscono la “cultura di fondo” che deve essere distinta dalla cultura politica pubblica. Queste ragioni non pubbliche sono sociali ma non private. Tuttavia Rawls si mostra ottimista verso un certo universalismo della razionalità: «Ora, tutti i modi di ragionare, individuali, associativi e politici, devono ammettere certi elementi comuni: il concetto di giudizio, i principi di inferenza, le regole della prova fattuale — altrimenti non sarebbero modi di ragionare ma, forse, retorica, o strumenti di persuasione. Quella che c’interessa è la ragione, non il puro e semplice discorso [corsivo nostro]» 2°,
!” Cfr. J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 204. 201vi,p..183, 20! Ivi, p. 342 nota 18. 22 Ivi, p. 189. La distinzione tra ragione pubblica e ragioni non pubbliche sembra essere mantenuta da Rawls anche nel saggio pubblicato nel 1997 con il titolo The Idea
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Questa citazione è molto interessante perché mostra un importante elemento di divergenza con l’approccio skinneriano per quanto riguarda il ruolo della razionalità nelle questioni morali e politiche. Rawls, dal passo citato, nonostante le prese di distanza dalla metafisica sembra nutrire comunque una certa fiducia sulla possibilità che nel dibattito politico si possa e si debba far a meno degli artifici retorici, considerati faziosi, sulla base di certi elementi caratteristici dell’argomentazione razionale che dovrebbero così spingerci verso un uso “pubblico” della nostra ragione. Per Skinner, invece, l’abbandono della metafisica da un lato e l’interesse per la cultura umanistica dall’altro sono funzionali proprio alla presa di consapevolezza che, essendo ogni questione controversa non risolvibile univocamente, l’elemento retorico diventa costitutivo dell’argomentare politico stesso proprio perché, per principio, non è possibile guadagnare nessun punto di vista neutrale (o razionale).
Senza dilungarci eccessivamente riteniamo che la questione possa essere riformulata nel seguente modo: il tentativo di Rawls di affidare alla Corte Suprema e, in generale al potere giudiziario, la funzione di garanzia costituzionale dipende dal tentativo, certamente comprensibile, di individuare una “ragione pubblica” in grado di ridurre la con-
flittualità presente in una società pluralista?®. Ma se seguiamo la ricostruzione storica operata da Morton J. Horwitz dell’evoluzione del diritto americano dalla fine dell’Ottocento alla prima metà del ‘900, possiamo rileggere il tentativo rawlsiano come l’ennesimo tentativo di realizzare il vecchio sogno americano di tenere separati diritto e politica concependo il primo termine come neutrale e apolitico?*. Si potrebbe rileggere la storia del diritto ame-
of Public Reason revisited: cfr. J. Rawls, Un riesame dell’idea di ragione pubblica, in J. Rawls, // diritto dei popoli, trad. it., Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 179.
203 Ja critica che stiamo muovendo da un punto vista wittgensteiniano-skinneriano prosegue in direzione analoga a quella che Sheldon S. Wolin ha mosso all'impianto di fondo di Liberalismo politico: cfr. S. S. Wolin, The Liberal/Democratic Divide.
On Rawls' Political Liberalism, in «Political Theory» 24(1/1996), pp. 97-119. 204 Rawls spiega che il ruolo pratico della filosofia politica sia sostanzialmente quello
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ricano, questa è l’ipotesi di Horwitz, come permeata da una tensione irrisolta verso un universalismo giuridico in grado di sanare il pluralismo religioso, sociale e politico. Ma questa aspirazione, spiega Horwitz, si rivela assolutamente ingenua: «Uno degli spettacoli meno incoraggianti per gli storici del pensiero giuridico è dato dall’inconsapevolezza del processo attraverso il quale le teorie giuridiche elaborate da una generazione in considerazione delle particolari esigenze politiche e lotte morali del momento, finiscono presto per essere raffigurate come verità universali, valide per ogni tempo»?®. Allora, non solo l’ideale di una “ragione pubblica” secondo gli auspici di Rawls è difficilmente raggiungibile, ma la speranza di un potere giudiziario “apolitico” sarebbe da considerarsi assai problematica. Diventano quindi comprensibili le riserve di Skinner che, nietzschianamente, considera il mondo politico e sociale un luogo di cui è assai problematico ignorare il carattere conflittuale come se fosse possibile guadagnare un punto di vista neutrale o razionale come vorrebbero gli orientamenti neokantiani. Sotto questo aspetto l’approccio skinneriano alla teoria politica è, per sua stessa ammissione, molto vicino su questo punto a quello del «post-modern cultural criticism» perché la presa di consapevolezza del carattere retorico del linguaggio scritto e orale implica sempre la necessità di approfondire i rapporti tra linguaggio e potere? Appaiono evidenti, quindi, le ragioni a favore di un rafforzamento del potere legislativo ai fini di
di «mettere a fuoco certe questioni profondamente controverse e stabilire se nonostante le apparenze sia possibile scoprire, sotto la superficie, le basi di un accordo filosofico e morale; o se, posto che queste basi non si trovino, si possano almeno limitare le divergenze filosofiche e morali che sono alla radice delle divisioni politiche esistenti, così da salvare una cooperazione sociale basata sul mutuo rispetto fra cittadini»
(J. Rawls,
Giustizia
come
equità.
Una
riformulazione,
trad.
it.,
Feltrinelli, Milano 2002, pp. 4-5). Questa funzione pratica della filosofia poggia, come visto nella nota precedente, su una decisa fiducia nei confronti della “ragione” come strumento di risoluzione delle controversie. 2 M. J. Horwitz, La trasformazione del diritto americano
1870-1960, trad. it., il Mulino, Bologna 2004, pp. 516-517. 2° Cfr. Q. Skinner, Introduction: Seeing things their way, cit., p. 5. È importante ricordare come Skinner riconosca anche la legittimità delle istanze avanzate dal mo-
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una difesa della democrazia piuttosto che seguire la via di un rafforzamento dell’esecutivo o del giudiziario”, All’interno di questa cornice teorica, ci sembra che la critica skinneriana alla teoria di Rawls possa acquistare una sua coerenza sebbene, lo ripetiamo, Skinner non si sia mai confrontato in modo sistematico con l’ultimo Rawls. Sulla critica mossa nei confronti dell’eccessivo ruolo affidato al potere giudiziario possiamo tuttavia osservare che lo stesso Rawls sembri non ignorare il problema. Sostenendo che il pregio di una democrazia costituzionale rispetto ad una di tipo procedurale risiede nel fatto che un certo tipo di vincoli alle decisioni della maggioranza di turno deve essere inserito nella costituzione, Rawls spiega che tutto ciò contribuisce alla crescita della discussione pubblica anche grazie alle decisioni giudiziarie controverse. Però, egli stesso riconosce che questo sistema presenta possibili pericoli perché «i tribunali possono non essere all’altezza del compito e prendere decisioni irragionevoli che poi non sarà facile correggere; e i legislatori possono demandare loro troppe questioni che invece dovrebbero gestire direttamente»?®,
vimento femminista: Political Philosophy: The View from Cambridge. A conversation convened by Quentin Skinner at the invitation of the Editor of the Journal of Political Philosophy, 13/02/2002, in «Journal of Political Philosophy», 10 (2002), p. 12. 207 Sulla critica di Skinner al rafforzamento del potere esecutivo cfr. Q. Skinner, On trusting the judgment of our rulers, in R. Bourke-R. Geuss (ed. by), Political Judgment. Essays for John Dunn, Cambridge University Press 2009, pp.113-130). Anche ragionando sul costo dei diritti si impone un ripensamento sul ruolo dei giudici in un ordinamento democratico: «I tribunali non sono nella migliore condizione per sovrintendere al complesso processo di distribuzione delle risorse effettuato, con maggiore o minore abilità, dalle pubbliche amministrazioni, né dispongono della capacità immediata di correggere la cattiva distribuzione dei fondi operata in precedenza. I giudici non hanno, infatti, una preparazione adeguata per assolvere a simili funzioni ed essi agiscono inevitabilmente sulla base di informazioni incomplete e parziali [...] A differenza dei parlamenti, i tribunali si concentrano su di un solo caso alla volta; poiché dunque non possono esaminare un ampio spettro di bisogni in conflitto tra di loro e poi decidere quanto destinare a ciascuno di essi, i giudici non sono, per ragioni istituzionali, nella condizione di tenere conto delle conseguenze distributive, potenzialmente
gravi, delle loro decisioni»
(cfr. S. Holmes — C. R.
Sunstein, // costo dei diritti, trad. it., il Mulino, Bologna 2000, p. 99). 208 J. Rawls, Giustizia come equità. Una riformulazione, cit., pp. 163-164.
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Le critiche avanzate da Skinner all’impianto di fondo della teoria rawlsiana, pur se frutto di analisi non sistematiche, trovano a nostro avvio una sponda favorevole nel recente volume di Amartya Sen in-
titolato L’idea di giustizia”. In questo lavoro, l’autorevole filosofo ed economista indiano elabora una proposta filosofico-politica che prende le distanze dall’approccio trascendentale di tipo rawlsiano. Secondo l’opinione di Sen, il limite degli approcci trascendentali sarebbe quello di perseguire il progetto di una teoria in grado di elaborare principi di giustizia universalmente validi (nel caso di Rawls grazie all’artificio della posizione originaria). Ma, sulla base delle recenti
ammissioni dello stesso Rawls?!°, Sen osserva che tutto l’edificio della teoria della giustizia come equità sembra dover essere abbandonato perché se «le istituzioni vanno strutturate sulla base di un unico complesso di principi di giustizia, ricavato dall’equità nella posizione originaria, l'assenza di un risultato univoco finisce per minare la teoria alle radici»?!!. Lo scetticismo skinneriano richiamato prima (che ha una duplice ispirazione nietzschiana e wittgensteiniana) sembra quindi essere condiviso, su basi diverse, anche da A. Sen. Tralasciando in questa sede l’analisi del complesso dibattito intorno all’opera di Rawls, possiamo osservare che su un punto importante, ossia la concezione della libertà politica, le posizioni del filosofo americano si sono però avvicinate a quelle di certe visioni del repubblicanesimo, come lo
stesso Skinner riconosce?"?. In effetti, nell’ambito del dibattito tra repubblicani e liberali a
Rawls va riconosciuto il merito di non ridurre il repubblicanesimo,
2% Cfr. A. Sen, L'idea di giustizia, trad. it., Mondadori, Milano 2010.
2!0 In Giustizia come equità. Una riformulazione Rawls riconosce alcune difficoltà che rendono impossibile realizzare pienamente l’ideale della teoria della giustizia da lui delineato (J. Rawls, Giustizia come equità. Una riformulazione, cit., p. 149). Se
l'ideale di giustizia, per principio, appare difficilmente realizzabile allora è lecito tentare strade differenti. 2!! A. Sen, L'idea di giustizia, cit., p. 71. 2!2 E. Tricoire-J. Lévy, Quentin Skinner: “Concepts only have histories”, cit..
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come ha fatto Habermas?!, soltanto alla sua variante neoaristotelica o di umanesimo civico ma di riuscire a distinguere una variante neoromana in grado di non concepire la vita politica come il fine ultimo dell'essere umano e di essere compatibile così con il suo liberalismo politico. Detto questo, bisogna però osservare che in Liberalismo politico Rawls sembra far propria la dicotomia libertà positiva /libertà negativa nella formulazione di Constant e di Berlin?! che, come vedremo più analiticamente nel prossimo paragrafo, viene rifiutata da Skinner. Quindi se prendiamo la lettera dei testi non ci sembra che i due concetti di libertà coincidano ma sicuramente c’è una certa convergenza su alcune idee di fondo: la difesa della concezione della libertà neoromana come non-dipendenza da parte Skinner sembra per esempio voler rispondere alla stessa esigenza di Rawls di non trascurare la questione del rapporto uguaglianza/libertà nella misura in cui un semplice riconoscimento formale della libertà può non essere sufficiente perché ogni cittadino possa perseguire il proprio piano di vita. D'altronde abbiamo già ricordato come lo stesso Skinner, pur in disaccordo con la tradizione liberale su importanti punti, confessa di
non concepire la propria posizione «anti-liberals in its values»?!9. Infine, un altro aspetto sul quale vale la pena soffermarsi è quello del ruolo dello studio della storia per la teoria politica e morale sulla quale i due autori sembrano avere una sensibilità affine. Rawls scrive: «Sennonché, l’idea che la filosofia sia individuata da una famiglia di
28 Cfr. H. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, trad. it., a cura di L. Ceppa, Guerini e Associati, Napoli 1996, pp. 316 e ss. 214 Cfr. J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 24. 2!5 Cfr. Q. Skinner, On Justice, the Common Good and the Priority of Liberty, cit., p. 217. Una questione sulla quale non ci stiamo soffermando in questo lavoro, se non per accenni sparsi, è quella relativa alle proposte concrete che è possibile avanzare oggi da parte del paradigma repubblicano in alternativa alle altre scuole di pensiero. Sul tema dei diritti umani, ad esempio, si veda il saggio di D. Ivison, Republican Human Rights?, in «European Journal of Political Theory», 91/2010), pp. 31-47; sul cosmopolitismo cfr. P. Pettit, A Republican Law of Peoples, in «European Journal of Political Theory», 9(1/2010), pp. 70-94.
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problemi che è fissa, che vi siano criteri condivisi per decidere quando questi problemi hanno trovato soluzione, e che sia facile concordare sui progressi compiuti e capire quando la dottrina cui si è giunti è sufficientemente ben definita, è essa stessa in discussione. Da un lato, anche ammesso che esista una famiglia più o meno stabile di problemi e di risposte filosofiche — individuati grosso modo dai suoi argomenti principali — resta il fatto che questi problemi e le loro risposte assumeranno forme diverse a seconda dello schema generale di pensiero all’interno del quali ciascun autore li affronta [...] Perciò uno dei vantaggi dello studio dei classici — e del tentativo di dare un senso alla prospettiva dell’autore considerato nel suo insieme — è che attraverso di esso giungiamo a capire come le questioni filosofiche possano assumere una forma diversa a seconda dello schema filosofico all’interno del quale sono sollevate, come ne siano in effetti plasmate. È questo è illuminante in se stesso, rivelandoci le diverse forme di pensiero filosofico, ma anche perché ci induce a considerare per contrasto il nostro stesso schema di pensiero, forse ancora implicito e non articolato, all’interno del quale ci poniamo le nostre domande. Questa autochiarificazione ci aiuta a decidere quali questioni desideriamo effettivamente affrontare, quali possiamo ragionevolmente aspettarci di risolvere, e molto ancora»?!°. Dal passo riportato Rawls sembra mostrare una sensibilità molto vicina a quella di Skinner sia sulla difficoltà di individuare “problemi filosofici eterni” sia per la funzione di “contrasto” che la storia ci offre per la chiarificazione dei nostri schemi concettuali. Da questi indubbi punti in comune segue però un'importante differenza: Skinner da un approccio nei confronti della storia come quello delineato prima deduce la necessità di adottare un approccio di tipo genealogico e non teoricosistematico come quello che Rawls sviluppa nel suo testo del 1971 che, parzialmente però, viene attenuato in Liberalismo politico. Per concludere sul confronto con il filone neokantiano sembra che un approccio che si muova sulla scia del secondo Wittgenstein
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J. Rawls, Lezioni difilosofia morale, trad. it., Feltrinelli, Milano 2004, Pe20)
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non possa non entrare in tensione con un'impostazione filosoficopolitica di tipo trascendentale che mostra una decisa fiducia nei confronti della razionalità come strumento di risoluzione delle controversie morali e politiche.
3.2. Contro gli altri approcci linguistici
3.2.1. Skinner vs. scuola analitica-concettuale Oltre agli approcci di tipo neokantiano di cui ci siamo occupati nelle pagine precedenti, un'impostazione come quella skinneriana presenta importanti differenze anche con altre tradizioni che pure mostrano una certa sensibilità nei confronti del linguaggio o dei concetti politici. La prima tradizione alla quale ci riferiamo è quella dell’analitica-concettuale che in Italia si ispira al magistero di Norberto Bobbio ed è una tradizione di studi che assume come compito prioritario della filosofia politica quello di analizzare i concetti politici?!”. Il punto di riferimento filosofico di questo particolare modo di intendere la filosofia politica è L. Wittgenstein ma, in questo caso, non quello delle Ricerche come avviene nel caso di Skinner, ma piuttosto
quello del 7racratus filtrato dalla lettura del Circolo di Vienna?!8. Avremo modo di vedere come questa differenza sia decisiva in ordine
2!” Bisogna però ricordare che Bobbio ammetteva l’esistenza di vari approcci filosofico-politici e che tale ricchezza fosse un bene: cfr. N. Bobbio, Teoria generale della politica,
a cura di M. Bovero, Einaudi, Torino 1999, p. 34. Skinner precisa che
già negli anni ‘70 concepiva la sua ricerca come finalizzata a contrastare l’idea, prevalente nel mondo anglosassone di quegli anni, di riuscire a «speak of the vocabulary of politics and that we can likewise speak of the language of morals» (Q. Skinner, Retrospect: Studying rhetoric and conceptual change, cit., 175). 218 Cfr. V. Mura, Categorie della politica. Elementi per una teoria generale, Giappichelli, Torino 1997, p. 16. Il rapporto tra Wittgenstein e il Circolo di Vienna in realtà è stato più conflittuale che altro perché l’autore del 7ractatus non condivideva affatto la lettura che dell’opera davano quegli studiosi che daranno vita al neopositivismo o neoempirismo. I punti di discordia erano la svalutazione dell’etica e della religione a favore di una “scientificità” radicale (cfr. R. Monk, L. Wittgenstein. Il dovere del genio, Bompiani, Milano 1991, pp. 280 e ss.).
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ai diversi fini e metodi che Skinner e gli analisti concettuali affidano rispettivamente alla filosofia politica. Secondo l’approccio analitico-concettuale, la filosofia politica si distingue da tutte quelle forme di “filosofia pratica” o normativa che sono volte ad indagare l’ottimo Stato, i fini e i valori dell’azione politica. In quest’ultima categoria, quindi, rientrano autori come L. Strauss o J. Rawls, J. Habermas, R. Nozick, R. Dworkin che, fatte salve le differenze, sono accumunati dal disegno di offrire guide per
l’azione?!? Per gli analisti concettuali il compito della filosofia politica dovrebbe essere piuttosto quello di prendere sul serio la “svolta linguistica” e limitarsi ad analizzare i significati dei concetti politici perché questa operazione svolge in un certo senso una funzione primaria e fondativa rispetto a quella di delineare o prescrivere fini ideali??9. L'analisi concettuale dovrebbe così aiutarci a purificare il nostro linguaggio liberandoci dalle divergenze ideologiche: «Le reciproche incomprensioni, che sono spesso all’origine dei conflitti ideologici o delle dispute dottrinarie, insorgono anche a causa dell’imprecisione del linguaggio adoperato. Sotto questo profilo, come ha evidenziato a suo tempo Wittgenstein, l’analisi concettuale svolge una funzione terapeutica, di igiene mentale |... Nel lavorare sui significati delle parole la filosofia politica parte dal linguaggio ma non si ferma ad esso. L'analisi concettuale consiste nell’eliminare, attraverso l’uso delle definizioni esplicative, l'ambiguità, la genericità e la vaghezza di singoli termini o di intere preposizioni; nell’esaminare la coerenza interna, di presupposizione o di opposizione di concetti. E nel proporre definizioni esplicative, la filosofia politica seleziona e scarta, vale a dire sceglie fra significati concettuali ed usi linguistici diversi [...] In questo senso (limitato e ristretto) la filosofia politica è anche normativa, ma non più né meno della scienza empirica che fa appello all’accordo con i fatti o al criterio dell’evidenza»??!,
2! V. Mura, Categorie della politica. Elementi per una teoria generale, cit., pp. 73 e ss. 20.171: pr:82. 22! Ivi, pp. 82-83.
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Questa lunga citazione riassume chiaramente la posizione in questione facilitando, di conseguenza,
il confronto che ci interessa. In
primo luogo, l’analisi dei vari concetti sembra finalizzato ad individuare, scartati quelli impropri, un significato migliore che avrebbe come effetto terapeutico quello, per richiamarsi a Wittgenstein, di liberarci dall’errore. Il Wittgenstein degli analisti concettuali appare
però essere sempre il primo, quello del Yractatus???, cioè il Wittgenstein che ha in mente di chiarificare l’uso del linguaggio per crearne uno formale-ideale che sia quanto più perfetto possibile. Solo in questo caso, d’altra parte, avrebbe senso parlare di definizioni esplicative cioè del tentativo, certamente sempre perfettibile, di definire i significati dei concetti politici in modo quanto più preciso possibile per ridurre così lo spazio della conflittualità. Nella metodologia skinneriana che si ispira invece all’ultimo Wittgenstein e alla teoria degli atti linguistici di Austin l’analisi dei concetti non è finalizzata a far emergere un significato più corretto rispetto agli altri perché questo significherebbe riproporre, come avviene per gli analisti concettuali, un concetto di “verità come corrispondenza”? che è difficilmente armonizzabile con l’insegnamento complessivo delle Ricerche. Focalizzare l’attenzione sul fatto che il significato risiede nell’uso?*, nell’ottica di Wittgenstein e Skinner, serve a mostrare come l’analisi dei concetti politici e morali non debba in alcun modo provare a individuare un significato migliore rispetto agli altri (frutto di una corretta definizione) perché di fatto esistono solo gli usi storici che dei concetti abbiamo fatto??°. D'altra parte il programma dell’ultimo Wittgenstein che anima l’opera di Skinner si sviluppa proprio sulla base di un’idea diversa rispetto a quella che ispira il 7ractatus: non è necessario costruire un modello ideale di linguaggio su cui va-
22 Cfr. L. Wittgenstein, 7ractatus logico-philosophicus, in L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, trad. it., Einaudi, Torino 1998, 4.112. 23 Cfr. V. Mura, Categorie della politica. Elementi per una teoria generale, cit., p. 10. 224 Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., $ 43. 225 Q. Skinner, Retrospect: Studying rhetoric and conceptual change, cit., p. 176.
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lutare quello comunemente utilizzato ma bisogna comprendere come
quest’ultimo, quello ordinario, effettivamente funzioni??°. Il tentativo di individuare il significato migliore di un concetto in
realtà veicolerebbe sempre una scelta ideologica a tutti gli effetti??? per cui a questo punto sembra emergere un’altra differenza importante tra Skinner e la tradizione dell’analisi concettuale. Quest'ultima ritiene possibile connotare il compito del filosofo politico come neutrale dal punto di vista ideologico: «un conto è proporre una certa definizione, ritenuta appropriata o più corretta, e raccomandarne l’uso per capire e spiegare la realtà; altro è proporre i valori impliciti nella stessa definizione e raccomandarne l’adozione come guida per l’azione»?®. Da un punto di vista skinneriano i due elementi (la descrizione e la valutazione) non appaiono facilmente separabili perché se noi proponiamo di descrivere il concetto di libertà in un certo modo è perché questo ci pare il migliore sulla base delle nostre scelte valoriali, cioè ideologiche. Non appare così semplice concepire il ruolo del filosofo
politico come semplice spettatore «above the battle»? perché, per dirla in altre parole, il filosofo è egli stesso un uomo con una sua We/tanschauung che influenza il suo modo di intendere, cioè di usare, i
vari concetti politici. Secondo Skinner, pensare di poter astrarre da un orizzonte storico una definizione neutrale è un tentativo destinato sempre al fallimento: «With terms at once so deeply normative, so highly indeterminate, and so extensively implicated in such a long history of ideological debate, the project of understanding them can only be that of trying to grasp the different role they have played in our history and our own place in that narrative. But the more we undertake this kind
22° Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., $ 23,81, 97, 98. 2? Bobbio ritiene non decisivo questo genere di accusa all’avalutatività (cfr. N. Bobbio, Teoria generale della politica, cit., p. 13 e ss. ) ma in realtà, per quanto riguarda il caso di skinneriano, questo genere di accusa è solo volta a mostrare che anche lo studioso, filosofo, storico o scienziato che sia è sempre parte in causa e non può porsi su un piano superiore sul quale valutare il corretto modo di utilizzare i concetti. * Cfr. V. Mura, Categorie della politica. Elementi per una teoria generale, cit., p. 85. 2° Cfr. Q. Skinner, Introduction: Seeing things their way, cit., vol. I, p. 7.
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9]
of study, the more we see that there is no neutral analysis of any such keywords to be given. The history is all there is»?9, Nella prospettiva skinneriana, allora, l’effetto terapeutico della filosofia e dell’indagine storica non è fondata sulla scoperta di un significato migliore rispetto agli altri quanto, al contrario, sulla liberazione dall’ansia dell’univocità del significato e, come Skinner spiega, dalla pretesa che noi al presente siamo detentori dei valori e delle
idee migliori nel corso della storia?3!. È interessante ricordare un ultimo dato ossia che Norberto Bobbio, uno dei padri dell’approccio analitico-concettuale italiano, in un intervento del 1990 prende posizione contro la rigidità delle proposte metodologiche contestualistiche di J. A. Pocock e di Q. Skinner e sostiene che invece di innalzare steccati tra i vari approcci metodologici bisognerebbe comprendere le ricchezza intrinseca di tale pluralismo. Per di più, lo studioso italiano non accetta la critica mossa dagli studiosi della Cambridge School alla tradizionale storia analitica delle idee perché dal suo punto di vista quest’ultima avrebbe dato buoni frutti proprio impegnandosi nello studio delle elaborazioni concettuali nella loro coerenza interna indipendentemente da ogni riferimento
storico e ideologico”. Su questo punto, ci pare, che nell’approccio wittgensteiniano-skinneriano, essendo la filosofia un’analitica del linguaggio (o degli “usi” del linguaggio), allora diventa problematico distinguere, come spesso viene fatto, la storia delle idee politiche dalla filosofia politica come se quest’ultima avesse la possibilità di elaborare un sapere che sia neutrale e non storico. Questa è la lezione implicita della genealogia di Nietzsche fatta propria, come abbiamo già visto da Skinner ma anche da autori come M. Foucault. D'altronde, la genealogia diventa essa stessa fonte di normatività nella misura in cui ci libera dal giogo valoriale del nostro
20 Q. Skinner, A Third Concept of Liberty, cit., p. 265. Questa impostazione spiega le perplessità di Skinner nei confronti degli studiosi, come Rawls, che pensano di poter distinguere un concetto dalle relative concezioni (cfr. ivi, p. 263 nota 125). 8! Cfr. Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., p. 74. 2° Cfr. N. Bobbio, Teoria generale della politica, cit., p. 35.
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presente e ci permette di comprendere il carattere relativo di tutti i concetti e valori che professiamo: a questo punto, si getta luce sul carattere conflittuale dei valori e della politica che li afferma e i filosofi stessi si scoprono lottatori in conflitto insieme agli altri. Naturalmente la critica skinneriana a certi modi di concepire la teoria politica derivano dall’aspirazione di certi filosofi di poter rintracciare strutture, valori o idee universali che siano sottratti alla contingenza perché questa operazione ai suoi occhi, visti i presupposti tardo wittgensteiniani assunti, risulta assai problematica. Ma, come abbiamo visto in precedenza, il divieto wittgensteiniano di teorizzare in filosofia va inteso solo come un rifiuto nei confronti di alcuni modi di teorizzare, appunto, quelli di tipo trascendentale alla Habermas. Ma se si intende il filosofare come attività di riflessione e di critica sulle cose importanti, allora tale attività può essere utile ma per far questo bisogna abbandonare l’idea che il filosofo sia un soggetto che possa attingere ad una qualche verità superiore e vederlo piuttosto come un partecipante ad una Lebensform. Il modo skinneriano di intendere i concetti e il loro ruolo nell’arena politica ha quindi due conseguenze importanti: la prima è che anche le aule universitarie devono essere considerate luoghi di scontro tra posizioni differenti e non luoghi neutrali non ideologici (‘“ideologia” nel senso positivo del termine) e la seconda è che egli vede con una certa ironia «those moral and political philosophers of our day who present us with overarching visions of justice, freedom and other cherished values in the manner of dispassionate analysts standing above the battle. What the historical record strongly suggests is that no one is above the battle because the battle is all there is»?33,
3.2.2 Skinner vs. Begriffsgeschichte Una conseguenza importante del ragionamento svolto fin qui, come già accennato, è un indebolimento della separazione tra storia della idee politiche e filosofia politica una conclusione, questa, con-
2 Cfr. Q. Skinner, Introduction: Seeing things their way, cit., p. 7.
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divisa da Skinner con coloro che in Italia si ispirano alla Begriffsgeschichte di origine tedesca i quali si schierano a favore di tale opzione perché una volta presa consapevolezza del carattere irriducibilmente storico dei concetti (o degli “usi” dei concetti) allora diventa problematico
prescindere da questo carattere storico del linguaggio adoperato: «L'identità di filosofia politica e storia concettuale cozza contro l’assetto, accademicamente consolidato e giustificato da fonti autorevoli, delle discipline scientifiche, che si distinguono appunto in storiche e teoretiche. Ma è proprio la possibilità di una conoscenza storica a sé stante e oggettiva, come pure di una riflessione teorica che rifletta per modelli e che possa comparare in un piano unitario ciò che la conoscenza storica ci offre, che deve essere problematizzata, al di là
della sua apparente ovvietà. Quando si tende a determinare la filosofia politica come piano teorico, in cui si possono confrontare e valutare le produzioni del pensiero politico che si sono date nella storia |[...] in realtà si cristallizzano, estendendoli a validità universale, i concetti
politici moderni, e si perde la specificità di ciò a cui ci si vuole riferire. Uguale esito ha anche la storia del pensiero politico, che pone pur sempre in un piano unitario le diverse posizioni e non si interroga sui concetti che usa nel far storia». Questo comune interesse verso il carattere storico dei concetti o
dell’“uso dei concetti” ci offre l'occasione per confrontare l'approccio skinneriano a una seconda tradizione di ricerca interessata al linguaggio, quella della Begriffsgeschichte?> che sviluppatasi inizialmente nell’area linguistica tedesca ha avuto un certo sviluppo, anche
con caratteri suoi peculiari, in Italia. Vista la molteplicità delle posizioni e delle articolazioni interne a questa tradizione faremo riferi-
24 G. Duso, La logica del potere, cit., p. 5. 235 In Italia l’impresa della Begriffsgeschichte ha avuto importanti sviluppi. Si pensi agli studiosi e alle ricerche che si muovono intorno alla rivista “Filosofia politica”. Sul dibattito intorno alla figura di Koselleck cfr. D. Fusaro, Reinhart Koselleck nel dibattito storiografico e filosofico, in «Teoria politica» (3/2009), pp. 89-105. 236 Cfr. S. Chignola, Aspetti della ricezione della Begriffsgeschichte in Italia, in S. Chignola-G. Duso (a cura di), Sui concetti giuridici e politici della costituzione dell’Europa, FrancoAngeli, Milano 2005, pp. 65-100.
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mento agli scritti di Reinhart Koselleck perché lo stesso Skinner si è espresso in varie occasioni sui possibili rapporti tra la sua impostazione e quella koselleckiana. Se da un lato Skinner spiega che «how far one can hope to capture the historicity of concepts by adopting Koselleck’s approach remains a question»? poi, concordando con un critico, osserva che la sua ricerca non deve essere vista necessariamente in contraddizione con
quella di Koselleck ma semmai meno ambiziosa”5. Se la Begriffsgeschichte è infatti interessata a «the entire process of conceptual change; I am chiefly interested in one of the techniques by which it takes place. But the two programmes do not strike me as incompatible, and I hope that both of them will continue to flourish as they de-
serve», Analizzando più analiticamente la questione, le remore skinneriane ad accettare tout court il programma koselleckiano derivano da una diversa valutazione del concetto di Tempo e della sua funzione nell’ambito della ricostruzione storica. Dietro il lavoro di Koselleck è possibile rintracciare l'influsso dell’ermeneutica heideggeriana e dell’importanza che quest’ultima attribuisce alla definizione delle strutture della temporalità mentre Skinner confessa di essere «suspicious of any teories in which Time itself appears as an agent of change»?.
270. Skinner, Retrospect: Studying rhetoric and conceptual change, cit., p. 178. 28 La questione del rapporto tra Begriffsgeschichte tedesca e storiografia del discorso politico anglossassone è assai dibattuta. Per una difesa recente di una convergenza tra le due scuole cfr. M. Richter, A German version of the “linguistic turn” :Reinhardt Koselleck and the history ofpolitical and social concepts (Begriffsgeschichte), in D. Castiglione-I. Hampsher Monk, (ed. by), The History of Political Thought in National Context, cit., pp. 58-79. Anche i lavori di Kari Palonen sono animati dallo stesso intento: cfr. K. Palonen,
Quentin
Skinner.
History,
Politics, Rhetoric, cit., e K.
Palonen, Die Entzauberung der Begriffe. Das Umschreiben der politischen Begriffe bei Quentin Skinner und Reinhart Koselleck, cit. 2° Q. Skinner, Retrospect: Studying rhetoric and conceptual change, cit., p. 187.
2 Ivi, pp. 175-187. Su questo aspetto cfr. S. Chignola, Sulla Historik di Reinhart Koselleck e sulla temporalizzazione della storia, in S. Chignola-G. Duso, Storia dei concetti e filosofia politica, Franco Angeli, Milano 2008, pp. 234-255.
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Dal punto di vista in cui si pone Skinner, pur essendogli stata mossa l’accusa di occuparsi di contesti piuttosto che di autori, in realtà l’elemento interessante per lo studio dei cambiamenti concettuali è dato proprio dallo studio della retorica. Come abbiamo già visto nelle pagine precedenti, secondo il teorico inglese l’evoluzione nell’uso dei concetti è dovuta proprio all’azione dei singoli autori i quali, grazie agli strumenti della retorica diventano gli agenti responsabili del cambiamento linguistico-sociale. Se Koselleck è interessato ai tempi lunghi dei cambiamenti concettuali Skinner conseguentemente con quanto detto prima no, perché dal suo punto di vista la storia di tali mutamenti sociali di lungo tempo dovrebbe essere ricostruita a partire dalla vita sociale stessa. Ma per fare ciò Skinner pensa sia necessario dotarsi di una teoria del cambiamento sociale che egli stesso considera pericolosa perché finirebbe per oggettivare il Tempo come fattore di cambiamento in sé?!. Ma il punto di maggior tensione tra la Begriffsgeschichte koselleckiana e la ricerca skinneriana sembra essere quella relativa al rapporto linguaggio-realtà. Citiamo due testi di Koselleck in cui è possibile ricavare la sua opinione a riguardo: «Gli accadimenti storici non sono possibili senza atti linguistici; le esperienze che se ne traggono non sono comunicabili senza la parola. Ma né gli eventi né le esperienze si esauriscono nella loro articolazione linguistica. Infatti, in ogni evento entrano numerosi fattori extralinguistici, e ci sono strati dell’esperienza che si sottraggono all’accertamento linguistico»?4; «una storia non si compie senza l’uso del linguaggio, ma non è mai identica ad esso, non si lascia ridurre ad esso»?*. Dai passi riportati è possibile osservare che per Koselleck sembra che da un lato vi sia una storia e dall’altra la sua articolazione linguistica ed, effettivamente, egli stesso conferma questa idea quando
24! Q. Skinner, Retrospect: Studying rhetoric and conceptual change, cit., p. 180. 2 R. Koselleck, «Età moderna» (Neizeit). Sulla semantica dei moderni concetti di
movimento, in R. Koselleck, Futuro Passato, trad. it., Marietti, Genova 1986, p. 258. 28 R. Koselleck, Storia sociale e storia concettuale, in R. Koselleck, // vocabolario
della modernità, a cura di L. Scucimarra, il Mulino, Bologna 2009, p. 9.
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spiega che la storia concettuale «ha la prerogativa di riflettere questa connessione fra il concetto e la realtà»?#. Ma Skinner, seguendo su questo punto l’insegnamento di Wittgenstein, difende «the artificially of the distinction between social reality and the language of description of that social reality»?®. Il pomo della discordia tra i due autori sembra essere la funzione del linguaggio e su questo punto Koselleck si distanzia anche dall’ermeneutica: infatti Gadamer osserva, proprio in dialogo critico con Koselleck, che «la linguisticità che l’ermeneutica considera un
punto centrale, non è solo quella dei testi; essa intende anche la condizione fondamentale di ogni fare e agire umano...»?*. Detto in altri termini, non esiste una realtà in sé (soprattutto sociale) che non sia già una concettualizzazione, un frutto cioè del nostro linguaggio. Sul versante opposto, la posizione di Skinner non soddisfa chi, come Koselleck, teme che adottando questo approccio si radicalizzerebbe l’intraducibilità dei vari contesti concettuali a causa dell’accentuazione del carattere radicalmente linguistico-concettuale della realtà; così, la stessa impresa storica sembrerebbe venir negata per principio o almeno nei termini voluti dallo studioso tedesco: «Methodologically, I hold that such epistemological purism is required for any adequate analysis of how language may be matched to the contexts within which it functions. To that extent, a rigorous historicism registering the non-convertibility of what is articulated by language is the precondition of every conceptual analysis. But Begriff
sgeschichte does not end there»?”. In realtà, al di là delle oscillazioni presenti, in un testo come La
libertà prima del liberalismo, Skinner riconosce la possibilità di stu-
24 R. Koselleck, Storia dei concetti e storia sociale, in R. Koselleck, Futuro Passato,
cit., p.106. 25 Q. Skinner, The idea ofa cultural lexicon, cit., p. 174. 2 H. G. Gadamer, /storica e linguaggio — Una risposta, in R. Koselleck-H. G. Gadamer, Ermeneutica e istorica, trad. it., il melangolo, Genova
1990, p. 47. 27 R. Koselleck, A Response to Comments on the Geschichtliche Grundbegriffe, cit.,
p. 62. Cfr. anche S. Chignola, Storia dei concetti e storiografia del discorso politico, in «Filosofia politica» XI(1/1997), p.106.
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diare il passato e di capirlo nella sua diversità concettuale proprio sulla base della comune “natura umana” e questo in virtù dell’insegnamento wittgensteiniano che lontano dall’implicare una svolta relativista, come abbiamo già osservato nel primo capitolo, ci impone di ricordarci che «we ought rather to focus on their [the meaning of words] use in specific language-games and, more generally, within particolar forms of life»?. Proseguendo nel confronto, di recente durante un’intervista, Skinner mostra ancora una volta di non condividere i tentativi di avvicinare il proprio approccio a quello di Koselleck sottolineando tre perplessità a riguardo: la prima è che gli studi di Koselleck gli sembrano più centrati sulla storia delle parole che non dei concetti; la seconda riguarda, invece, il collegamento tra il cambiamento concettuale e l’evento della Rivoluzione francese che può essere valido nel caso tedesco ma non, osserva Skinner, per il mondo culturale inglese; infine, Skinner si mostra perplesso sull’uso dello strumento del dizionario per mostrare i cambiamenti concettuali (o delle parole!) perché in realtà questo non è adeguato per chiarire le ragioni che stanno dietro l’uso o il disuso di certi concetti. Ancora una volta, Skinner sembra insistere sul fatto che dal suo punto di vista è possibile soltanto la storia degli usi dei concetti (0
delle parole utilizzate per esprimerli) che necessita quindi dell’ap-
profondimento degli aspetti retorici del linguaggio”. Un'ultima questione considerazione è quella lo “studio dei concetti” uno dei punti bisognosi
sulla quale può essere utile spendere qualche relativa al modo di concepire il rapporto tra e la problematica filosofica presente che è di un approfondimento sistematico secondo
28 Q. Skinner, /nterpretation and the understanding of speech acts, cit., p. 103. La questione del relativismo in Wittgenstein, come abbiamo già osservato nel primo capitolo, è molto dibattuta e attorno a essa si gioca il rapporto tra il pensiero del filosofo austriaco e altre correnti filosofiche come il decostruzionismo, l’ermeneutica ...
249 Cfr. J. Fernandez Sebastian, Intellectual History, Liberty and Republicanism: An Interview with Quentin Skinner, in «Contributions to the History of Concepts» 3 (2007), pp. 114 e ss.
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gli studiosi che in Italia, si ispirano alla Begriffsgeschichte?®. Ci sembra condivisibile con l'impostazione skinneriana l’idea che il compito del filosofo politico non debba essere quello di ipotizzare «l’essere filosofi degli uomini, cioè il loro possibile porsi dal punto di vista della verità e dell’idea» ma considerare «quello che sono, le loro di-
versità e le diverse motivazioni e impulsi del loro agire»?°!; così operando, allora, si elaborano categorie che non si «pongono nella dimensione del dover essere, o di una istanza di tipo morale o normativo,
ma che sappiano cogliere il senso strutturale dei rapporti e anche dare indicazioni sulla via in cui impostare ‘“costituzionalmente” la
vita in comune»?”, Ci sembra di poter affermare quindi che l’impegno di Skinner verso la realtà presente non sia una questione marginale quanto centrale (il richiamo al metodo genealogico nietzschiano, come abbiamo cercato di mostrare, risponde proprio a questa esigenza!) perché il filosofo stesso “agisce” nella realtà socio-politica in cui vive non potendosene estraniare e questa sensibilità pare condivisa, seppur da punti di vista differenti, con i recenti sviluppi di chi pratica in Italia la “storia concettuale”. In conclusione, quindi, l'approccio skinneriano presenta senza dubbio dei punti in comune con altre tradizioni di ricerca filosoficopolitiche incentrate sullo studio del linguaggio o dei concetti politici ma presenta allo stesso tempo caratteri suoi propri che le derivano dai presupposti filosofici che lo ispirano.
3.3. Libertà, potere e politica
In questo paragrafo cercheremo di fornire una sintesi della posizione skinneriana su una serie di questioni più direttamente teoriche 2° Su questo punto cfr. P. P. Portinaro, «Begriffsgeschichte» e filosofia politica: acquisizioni e malintesi, in «Filosofia politica» XXI(1/2007), pp. 53-64. 2! G. Duso, Dalla storia concettuale alla filosofia politica, in «Filosofia politica»
XXI(1/2007), p. 80. 252 Ivi, pp. 81-82.
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quali il concetto di libertà o il rapporto liberalismo-repubblicanesimo cercando di mettere in evidenza come si può configurare il ruolo di un teorico della politica che si ispiri all'insegnamento di Wittgenstein e di Austin. Dal punto di vista della teoria politica, Skinner si inserisce nella famiglia dei teorici repubblicani insieme, tra gli altri, con P. Pettit, F. I. Michelman e come già detto una delle idee centrali attorno a cui ruotano le sue ricerche è quella di libertà. L’aver approfondito lo studio della teoria politica e retorica romana e umanistico-rinascimentale così come il dibattito politico inglese seicentesco ha convinto Skinner della presenza di certi limiti dell’odierno paradigma liberale sul modo di intendere la libertà. La tesi di Skinner è che la concezione liberale della libertà, cioè la libertà come non-in-
terferenza, affondi le sue radici nell’opera di Thomas Hobbes?®. Quest'ultimo, avendo compreso i pericoli della concezione difesa dai teorici repubblicani durante il periodo rivoluzionario, avrebbe elaborato una teoria opposta che è destinata a diventare dominante nella teoria
politica occidentale nel corso dei secoli successivi?*. Secondo Skinner la concezione repubblicana intende la libertà non come semplice non-interferenza ma piuttosto come non-dipendenza. Tralasciando le formulazioni precedenti, prendiamo in considerazione direttamente il testo, poi pubblicato in forma ampliata, della prolusione tenuta in occasione del conferimento del titolo di Regius Professor di storia moderna presso l’Università di Cambridge il 12 novembre 1997: Liberty before Liberalism. Nel corso di questa lezione, che riassume in un certo senso tutt’una stagione di ricerche precedenti, Skinner mette in chiaro la sua proposta anche sulla base del dibattito con altri studiosi e sostenitori del paradigma repubblicano. Infatti, come abbiamo già osservato nelle pagine precedenti, se nei suoi primi scritti Skinner riteneva che la differenza tra teorici repubblicani e teorici liberali non risiedesse nel differente concetto di
253 Cfr. Th. Hobbes, // Leviatano, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2009, p. 174 e ss.. 24 Cfr. Q. Skinner, Visions of Politics- Hobbes and civil science, cit., vol. II e Q.
Skinner, Hobbes and Republican Liberty, Cambridge University Press 2008.
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libertà, quello negativo, quanto piuttosto negli strumenti per garantire tale libertà adesso, grazie all’influsso di P. Pettit, Skinner si è convinto
che sia proprio la libertà ad essere intesa in maniera differente dalle
rispettive scuole?°, In Liberty before Liberalism egli mostra come i teorici italiani rinascimentali e i repubblicani inglesi del seicento impostino la questione della libertà politica rifacendosi alla differenza presente nel Digesto tra uomo libero e schiavo: la schiavitù, secondo la concezione romana, non è solo un problema di coercizione esplicita ma consiste nel fatto che alcuni soggetti non sono sui iuris perché la loro volontà può sempre essere influenzata da quella di altri. La conseguenza che i teorici repubblicani ricavano da questa differenza è che ci si può considerare propriamente liberi soltanto quando si è realmente indipendenti dal volere altrui perché, in caso contrario, la nostra libertà è
soltanto apparente?”. Il concetto di libertà come assenza di dipendenza proposto da Skinner?” mostrerebbe anche il limite della tradizionale dicotomia fra libertà positiva e libertà negativa nella famosa formulazione di Isaiah Berlin. In realtà, secondo Skinner, non esisterebbero due concetti di libertà ma addirittura tre, essendo il concetto di libertà come assenza di dipendenza un terzo concetto a sé stante e non riconducibile all’eccezione negativa liberale come semplice non inter-
ferenza??: Il nodo della questione risulta essere il seguente: per Skinner, sarebbe accettabile la distinzione tra libertà negativa e libertà positiva solo se si abbandonasse
il tradizionale modo
di concepirla e cioè
25 Cfr. Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., p. 47 nota 27. SUNVIAPIOS 7 Pettit parla piuttosto di libertà come non dominio. Su alcune differenze tra la posizione di Skinner e quella di Pettit sulle quali torneremo successivamente cfr. P. Pettit, // repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, cit., pp. 325 e ss. 2* Cfr. I. Berlin, Due concetti di libertà, in I. Berlin, Quattro saggi sulla libertà, trad. it., Feltrinelli, Milano 1989. 2° Cfr. Q. Skinner, A Third Concept of Liberty, in «Proceedings of the British Academy» 117 (2002), pp. 237-268.
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come differenza tra una concezione della libertà negativa intesa come assenza di interferenza e quella di libertà positiva intesa come possibilità di seguire una certa forma di vita?®, Infatti, agli occhi di Skinner, questa distinzione così strutturata non regge perché anche nel caso della libertà negativa, cioè come assenza di impedimenti, l’idea centrale è che il soggetto sia “libero” di agire come meglio crede. Nemmeno è sostenibile l’idea, continua Skinner, che la libertà positiva si
realizzi quando un soggetto è libero autore delle proprie scelte perché, questa volta, ciò è implicito anche nell’altra forma di libertà menzionata prima, quella negativa. A questo punto Skinner rintraccia nell’argomentazione di Berlin un’altra accezione di libertà positiva che però non sarebbe stata adeguatamente valorizzata e che permetterebbe di dirimere la questione: libertà positiva non come se/f-mastery, bensì come self-realisation 0, meglio ancora, come se/f-perfection®. In questo senso la distinzione tra libertà positiva come se/f-perfection e libertà negativa come noninterferenza acquisterebbe un’indubbia validità ma ad un prezzo assai elevato: parlare di libertà come se/f-perfection, infatti, implicherebbe come presupposto una visione univoca della natura umana che sarebbe compito del soggetto realizzare per acquisire una piena libertà (nell’accezione “positiva” del termine!) misconoscendo il ‘fatto del pluralismo” e con un serio pericolo di derive autoritarie?°?, Consapevole di quest’ultimo problema, Berlin si sarebbe così schierato a favore della libertà negativa commettendo però l’errore tipico dei teorici liberali, cioè quello di considerare quest’ultima solo come non-interferenza. In realtà, secondo la ricostruzione storica della teoria repubblicana suggerita da Skinner, all’origine di questa visione della libertà negativa ci sarebbe la filosofia di Thomas Hobbes che, diventata dominante nei secoli successivi, avrebbe marginalizzato
la concezione alternativa, quella repubblicana, imperniata invece sul
DI VINPAZSO!
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già ricordato concetto di libertà come assenza di dipendenza?®. Persino la filosofia marxista avrebbe assunto implicitamente questa visione della libertà perché l’idea di Marx che sia indebolita dalla nostra falsa coscienza, quindi da parte della società all’interno della quale viviamo, sostanzialmente si allinea alla visione propria della tradizione
liberale moderna successiva a Hobbes che vede la libertà in opposi-
zione alla legge”. A questo punto, possiamo sintetizzare quanto detto dicendo che secondo Skinner i concetti di libertà sono tre e non due: quello positivo di self-perfection, quello negativo di non-interferenza e quello negativo come non-dipendenza. Un punto particolarmente delicato è che, pur riferendosi alla libertà negativa, le due ultime accezioni rappresentano in realtà due concetti ben distinti perché basati su una diversa idea di libertà?99. Un altro aspetto importante collegato alla questione affrontata fin ora è che la teoria politica repubblicana non può essere appiattita su un presunta derivazione aristotelica basata, quest’ultima, sull’assunto che sia necessaria la partecipazione politica per realizzare pienamente la libertà umana. È vero che esiste una corrente'interna al repubblicanesimo?® che vede con favore Aristotele e il primato delle libertà po-
litiche (per esempio Pocock)?” ma Skinner, come accennato prima,
23 yg)9 2A
2% Cfr. Q. Skinner, States and the freedom of citizens, in Q. Skinner-B. Stràth (ed. by), States and Citizens. History, Theory, Prospects, Cambridge University Press 2003,
DAZA 25 Q. Skinner, A Third Concept of Liberty, cit., p. 262. 2° Per una rassegna dei diversi filoni presenti nella tradizione repubblicana cfr. M. Geuna, La tradizione repubblicana e i suoi interpreti: famiglia teoriche e discontinuità concettuali, in «Filosofia politica», 1, 1998, pp. 101-132. 2°? Cfr. J. G. A. Pocock, // momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e
la tradizione repubblicana anglosassone, trad. it., il Mulino, Bologna 1980. Secondo Skinner, in quest'opera emergerebbe la differente (ma convergente) impostazione strutturalista di Pocock, attenta a enfatizzare il potere costrittivo del linguaggio nei confronti del pensiero, rispetto alla sua, interessata invece a concepire il linguaggio più in termini di risorsa: cfr. P Koikkalainen-S. Syjàmaki, On Encountering the Past. An Interview with Quentin Skinner, cit., p. 49.
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rifiuta qualunque posizione che attribuisca a priori un fine agli uomini sulla base di una particolare visione della natura umana. Per Skinner, P. Pettit e altri studiosi che si richiamano ai teorici romani piuttosto che ad Aristotele, la libertà politica è in realtà soltanto un mezzo per realizzare altri fini
e da questo punto di vista, come
riconosciuto
anche da Rawls, non esisterebbe alcuna reale divergenza con il liberalismo. Il seguente passo riassume abbastanza bene tutta la questione: «The Aristotelian assumption that a healthy public life needs to be founded on some objective conception of the Good is by no means the only alternative available to us if we wish to challenge the presupposition and hence engage with the limitation of contemporary liberalism. It is also open to us to mediate on the potential relevance of a theory which tells us that, if we wish to maximize our personal liberty, we must not piece our trust in princes; we must instead take charge of the political arena ourselves». Su questo punto, è bene precisare che Skinner ha fornito un contributo decisivo nel ricostruire un percorso alternativo della teoria repubblicana che, non dovendo richiamarsi necessariamente ad Aristotele, può evitare i limiti dei tradizionali approcci neoaristotelici spesso gravati da presupposti teleologico/metafisici difficilmente difendibili o da ingenue, quanto problematiche, nostalgie della 6g o di situazioni sociali premoderne?®, AI contrario, l’aver rintracciato un’origine
romana nei numerosi Ars dictaminis composti dai maestri di retorica e nei vari trattati politici scritti in difesa delle città durante l’età dei Comuni permetterebbe di spezzare quel legame pericoloso intravisto da alcuni critici tra repubblicanesimo e aristotelismo (come, ad esempio, nel caso di Habermas) ma anche di quello con il comunitarismo
28 Q. Skinner, On Justice, the Common Good and the Priority of Liberty, cit., p. 222.
269 Classica, a riguardo, è l’opera di Alasdair MacIntyre il quale, partito da un recupero della filosofia di Aristotele, è approdato a una forma di tomismo. Egli stesso, nella prefazione alla seconda edizione italiana della sua opera più famosa, spiega che questo spostamento si è reso necessario perché il tentativo di spiegare il bene sociale non può prescindere da un riferimento alla metafisica (cfr. A. MacIntyre, Dopo la virtù, trad. it., Feltrinelli, Milano 2007, p. 17).
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interessato soprattutto a garantire l’unità morale o culturale della so-
cietà al fine di implementare la virtù civica dei cittadini?”°. In un saggio pubblicato nel 1990, The Republicanism of Political Liberty, Skinner prende posizione sul dibattito tra liberali e comunitaristi neoaristotelici assumendo una posizione che tenta di oltrepassare questa dicotomia e che recupera una seria credibilità al repubblicanesimo classico che così si presenterebbe come alternativa ai movimenti prima ricordarti. Dai teorici comunitaristi o neoaristotelici Skinner prenderebbe le distanze perché il repubblicanesimo da lui difeso sulla scorta di Machiavelli non prevede affatto un primato delle vita politica come unica via per conseguire il bene ultimo della vita umana: «L'assunzione aristotelica e tomistica che una sana vita pubblica deve essere fondata su di una concezione dell’eudaimonia non costituisce affatto l’unica alternativa a disposizione, se vogliamo recuperare una visione della politica basata non solo su procedure corrette, ma su significati condivisi. Sta a noi riflettere sulla potenziale
rilevanza di una teoria che ci dice che se desideriamo massimizzare la nostra libertà individuale, dobbiamo smettere di riporre la nostra fiducia nei principi e assumerci invece l’onere della cura degli affari pubblici»?”!. Dal liberalismo, invece, il repubblicanesimo neoromano di Skinner si allontana per la critica al linguaggio dei diritti soprattutto qualora si segua la nota proposta di Ronald Dworkin di guardare ai diritti come “carte vincenti” (trumps) che devono avere una assoluta priorità
sui doveri?” Invece, perirepubblicani neoromani i doveri civici non devono essere considerati come fini in sé (alla maniera dei neoaristo-
2° Cfr. M. Viroli, Repubblicanesimo,
Laterza, Roma-Bari 1999, p. 52.
2! Q. Skinner, L'ideale repubblicano di libertà politica, trad. it., in Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., p. 100.
2° Cfr. R. Dworkin, / diritti presi sul serio, trad. it., Bologna, il Mulino 1982. Una critica alla concezione di Dworkin è avanzata da S. Holmes e C. R. Sunstein in un bel volume, da noi già citato, in cui i due studiosi invitano a ripensare il carattere “assoluto” dei diritti in vista anche del costo della loro tutela e dunque della sostenibilità complessiva del sistema (cfr. S. Holmes-C.
diritti, cit. pp. 105 e ss.).
R. Sunstein, // costo dei
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telici) ma piuttosto come l’unico modo per garantire il sistema complessivo delle libertà e dei diritti: «La razionalità politica consiste nel riconoscere che tale comportamento costituisce l’unico mezzo per garantire quella libertà che ci può sembrare in tal modo di perdere»??. Un'ultima domanda tuttavia alla quale bisogna rispondere per completare il quadro è quale sia la concezione generale del “politico” che è possibile ricavare dall’opera di Skinner. Anche se il tema non è affrontato in modo sistematico ci pare di poter comunque dire qualcosa in proposito sulla base dei vari elementi impliciti nei discorsi sviluppati fin qui. Skinner non solo appartiene alla schiera di quei teorici che enfatizza l’aspetto conflittuale della politica (al punto da negare alla figura del filosofo il privilegio di non prendere parte alla battaglia osservandola dall’alto in modo neutrale) ma rifiuta anche l’idea che
la teoria politica sia una sottospecie della teoria morale?”*. Giustamente, ci pare, James Tully ha rievocato il nome di von Clausewitz per contraddistinguere la descrizione skinneriana della politica e della teoria politica tramite il linguaggio della guerra. Effettivamente secondo Skinner lo studio della storia ci deve aiutare a far emergere il modo conflittuale con cui i valori e le idee del presente si sono affermate ed è necessario rendersi conto che ogni autore, essendo parte in causa, deve essere considerato come un attore che adotta tutt’una serie di strategie finalizzate ad imporre la propria visione del mondo. Anche in questo aspetto appare evidente quanto le idee del secondo Wittgenstein e di Austin siano state ricche di spunti per imparare a guardare al linguaggio non come uno strumento neutrale bensì come un’arma da utilizzare per legittimare o delegittimare
una posizione”?.
Bisogna fare però una precisazione: evidenziare il
carattere conflittuale della politica però, non deve essere inteso come l’individuazione di un ambito proprio del politico tramite un criterio definitivo come suggerito, ad esempio, da C. Schmitt (cioè la dicoto-
273 Q. Skinner, L'ideale repubblicano di libertà politica, cit., p. 99. 294 Cfr. R. Prokhovnik, An interview with Quentin Skinner, cit., p. 285.
275 Cfr. J. Tully, The pen is a mighty sword: Quentin Skinner $ analysis ofpolitics, cit., pp. 22-25.
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mia amico/nemico)??. Come abbiamo avuto modo di osservare alla
fine del primo capitolo, il politico non può essere separato dalla ‘“cultura” complessiva di una data società e quindi il confine con altri ambiti come il sociale, l’economico, l’estetico, il religioso o il morale
è molto sottile. Ciò che riteniamo di poter dire, reinterpretando la lezione di Skinner, è che per qualunque questione si ponga in una data società non esiste una soluzione univoca, giusta e razionale a priori che è compito di tutti noi perseguire. Continuando su questa linea, si può comprendere meglio quello che possiamo considerare un corollario della tesi precedente e cioè la critica al pensiero liberale moderno e contemporaneo colpevole di operare una riduzione del complesso ambito del “politico” al “giuridico”. James Tully parla di un vero e proprio paradigma juridical che
tende a ridurre il “politico” al “giuridico”””’ come suggerito d’altra parte anche da Pocock. Quest'ultimo, già in un importante articolo pubblicato nel 1981, spiega proprio come la riflessione politica in età moderna si è sempre più appiattita su categorie proprie del diritto e della giurisprudenza mentre i teorici repubblicani, ai quali gli studiosi della Cambridge School si richiamano, parlavano di politica in modo diverso e non utilizzando obbligatoriamente il linguaggio dei diritti??. Lo stesso Skinner, nel suo famoso 7he Foundations of Political Modern Thought (1978)??, ha di fatto tentato di mostrare come a
27° Muovendoci in ambito teorico wittgensteiniano, infatti, è bene precisare che quando parliamo di “politico” non dobbiamo commettere l’errore di ipostatizzare un concetto, che al contrario, è valido soltanto all’interno di un determinato “gioco linguistico”. Da questo punto di vista, mi sembrano pertinenti le osservazioni di C. C. Robinson nei confronti di un’altra studiosa di Wittgenstein, cioè C. Mouffe (cfr. C. C. Robinson, Wittgenstein and Political Theory. The View from Somewhere, cit., pp. 74-75). 27 J. Tully, The pen is a mighty sword: Quentin Skinner s analysis of politics, cit., p. 17. 7 Cfr. J. G. A. Pocock, Virtues, Rights, and Manners: A Model for Historians of Political Thought, in «Political Theory» Vol. 9, No. 3 (Aug., 1981), pp. 353-368. ? Alcuni recenti interventi sulle tesi di questo importante testo con una replica dello stesso Skinner sono contenuti in A. Brett-J. Tully (ed. by), Rethinking the Foundations of Modern Political Thought, Cambridge University Press 2007.
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partire dal Duecento si siano sovrapposti diversi linguaggi politici quali quello repubblicano e quello di matrice giurisprudenziale combinato con il linguaggio del diritto naturale?°. In La Libertà prima del liberalismo Skinner precisa ancora che i teorici repubblicani inglesi all’epoca della Rivoluzione assumono che la libertà di cui parlano altro non è che il godimento non coatto di un certo numero di diritti civili (linguaggio, quello dei diritti, assente nelle autorità antiche e in quelle rinascimentali) senza però aver in mente un elenco completo di diritti naturali come avviene nel caso del giusnaturalismo ra-
zionalistico moderno?8!. Le remore nei confronti del linguaggio dei diritti caratteristico dell’approccio liberale sembrano derivare dai presupposti filosofici che animano le ricerche di Skinner. Se consideriamo, ad esempio, una teoria come quella di Nozick, chiaramente imperniata sull’assunto che gli uomini siano dotati di un certo numero di diritti naturali?8”, al-
lora questo approccio presta il fianco a due accuse immediate e difficilmente aggirabili: la prima è che l’elenco di diritti che noi riteniamo una nostra dotazione “naturale” dipende in realtà da pratiche linguistiche particolari e relative, mentre la seconda consiste nel fatto che, in realtà, i diritti realmente esistenti sono soltanto quelli riconosciuti come tali dal legislatore. Insomma, potremmo rileggere tutta la vicenda in questo modo: utilizzando le categorie giuridiche del contratto e della sovranità il paradigma dominante la filosofia politica moderna tenta di ridurre il conflitto sostituendolo con l’ordine razionale? Un teorico repubbli-
28° Cfr. Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, trad. it. a cura di M. Viroli, il Mulino, Bologna
1989.
28! Cfr. Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., pp. 18 e ss. 282 Cfr. R. Nozick, Anarchia, stato e utopia, trad. it., NET, Milano 2005. 283 Cfr. Q. Skinner, The End of Philosophy? Review of Richard Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, cit., p. 48.
24 Su questo punto è possibile intravedere una sensibilità comune tra l'impostazione skinneriana e quella storico-concettuale nella lettura fornita in Italia da G. Duso. Richiamando il cambio paradigmatico impresso dal giusnaturalismo razionale moderno, egli scrive: “è nella chiave di questa riduttività che il politico si identifica
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Linguaggio, storia e politica
cano come Machiavelli avrebbe invece capito che tale posizione è insostenibile perché la politica, intesa come conflitto, o comunque come confronto non sempre armonizzabile di idee, si trova ovunque?!. D'altra parte lo stesso Skinner ha spiegato di recente come il suo interesse sempre più marcato nei confronti dell’ Ars rhetorica derivi anche dal riconoscimento del valore della critica decostruzionista a tale proposito?*°. Il grande contributo dei maestri della retorica rinascimentale ai quali Skinner ha dedicato sempre maggiore attenzione negli ultimi anni è stato quello di comprendere come in campo morale e politico pensare di poter risolvere le questioni soltanto sulla base dell’argomentazione razionale sia un tentativo votato al fallimento: «we can never hope to rely on the force of reason alone to carry us to victory in the war of words, simply because it will always be possible to adduce good reasons in utramque partem. The inescapable conclusion, according to the rhetoricians, is that if we are to speak “winningly” we shall have to master the art of persuasion, learning how to empower our reason with the moving force of eloquence»?87.
con la forma giuridica dello Stato e che si perde la possibilità di intendere la politicità di altre dimensioni dell’agire” (G. Duso, La logica del potere, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 43).
2 Sull’importanza di Machiavelli e della tradizione filosofica italiana (soprattutto Vico e Bruno) per comprendere i limiti del paradigma dominante la filosofia politica moderna si veda il recente libro di R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010. Uno studioso che sottolinea molto le differenze tra la visione skinneriana della politica e quella del contrattualismo neokantiano è Kari Palonen: nell’approccio di Rawls «politics is not simply seen as subordinate to morals but also as devaluated in terms of its significance by means of “explaining” from the perspective of a progressivist view on history, following the Kantian tradition» (K. Palonen, The History of Concepts as Style of Political Theorizing: Quentin Skinner 's and Reinhardt Koselleck's Suvbersion of Normative Political Theory, cit., p. 96). 2% Cfr. P. Koikkalainen-S. Syjimdki, On Encountering the Past. An Interview with Quentin Skinner (4.10.2001), cit., p. 50. *7Q. Skinner, Moral ambiguity and the art of eloquence, in Q. Skinner, Visions of Politics, cit., vol. II, p. 267. (264-285). L'importanza della retorica è tale agli occhi
di Skinner che l’opera di Hobbes, soprattutto il De Cive, va riletta come il tentativo
Skinner e la filosofia politica contemporanea
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Questo modo di concepire l’arena politica e il rapporto tra azione politica e riflessione filosofica è stato criticato di recente dallo studioso Robert Lamb. Quest'ultimo osserva che l’argomento skinneriano secondo cui ogni argomento filosofico, possedendo una componente retorica, avrebbe quindi una natura ideologica non sarebbe giustificato perché basato, in ultima istanza, su un presupposto tutto da dimostrare. Lamb nota che connotare gli argomenti filosofici (e normativi) come ideologici come suggerito da Skinner sembra essere basato su un’accezione forte di ideologia che è «intertwined with claims to social power». Lamb deduce come conseguenza che per Skinner l'ideologia implichi sempre un «achieving some sort of distortion»?8° e non indichi invece il semplice corpus di idee di cui ogni soggetto è portatore. Ma così facendo, conclude Lamb, Skinner commetterebbe l’errore di guardare in maniera preconcetta le intenzioni di ogni attore considerandole appunto “ideologiche” ed è proprio questo che non funzionerebbe nella sua argomentazione: «whether an utterance should be appreciated primarily at the level of ideology would seem to be something that has to be settled through evidence and argument rather than be presumed at the outset of analysis [...] But, if he holds onto such a fixed, essentialist view of the intentions that lie behind political
speech (that political speech is always geared towards a particular end and that this end is “social power”), his approach fail to live up to its promise, insofar as it assumes a stable (ideological) human motivation for (speech-) action, one that spans across context, culture
and times. Such an assumption would surely beg as tricky metaphysical questions as any professed belief in eternal problem»?®. In realtà, a nostro avviso, le cose stanno diversamente. L’argomentazione critica di Lamb si regge sull’assunto che Skinner adoperi un’accezione forte
consapevole e radicale di combattere non solo lo scetticismo ma anche la cultura umanistico-retorica; nel Leviatano, invece, persa la precedenza fiducia nel carattere persuasivo della scienza, Hobbes riconoscerebbe un certo rilievo anche all’eloquenza: cfr. Q. Skinner, Visions of Politics, cit., vol. II.
288 Q. Skinner, Introduction: Seeing things their way, cit., p. 7. 28° R. Lamb, Quentin Skinner Revised Historical Contextualism: A Critique, cit., p. 22. SVINPIZI
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Linguaggio, storia e politica
di ideologia (nel senso di distorsione voluta della realtà) ma a noi pare che lo studioso di Cambridge faccia ciò solo sulla base di un principio già discusso e non considerato da Lamb: quello per cui in campo politico e morale è sempre possibile guardare le cose in utramque partem non esistendo la possibilità di una visione neutrale cioè non ideologica (nel senso debole del termine). Se è vero questo principio, se cioè non è possibile guadagnare una tale posizione neutrale, allora l’azione politica è sempre finalizzata a voler “imporre” la propria visione delle cose perché non potrebbe essere altrimenti. È come, in sostanza, se le due accezioni di ideologia si implicassero reciprocamente: quella debole (“le cose si possono sempre vedere sotto diversi punti di vista”) implicherebbe quella forte (‘“in campo politico ognuno prova ad affermare la propria visione del mondo utilizzando gli strumenti a sua disposizione”’)??!. In questi termini, ci pare, la conclusione di Lamb secondo la quale Skinner avrebbe dei preconcetti nei confronti delle intenzioni degli autori (considerate sempre ideo-
logiche!) perde la sua forza?”. Questa “rhetorical turn”? in cui si riassumono le analisi dello Skinner maturo sulla politica ci consente di cogliere un ultimo aspetto assai interessante. L'attenzione mostrata nei confronti del linguaggio e il riconoscimento di una dimensione retorica in ogni fenomeno linguistico-politico ci porta a concepire il ruolo del filosofo politico, come accennato già nelle pagine precedenti, non come un semplice spettatore ma piuttosto come attore impegnato sulla scena. Un importante studioso del pensiero skinneriano, Kari Palonen, sostiene infatti
29! D'altra parte, i passi citati da Lamb per supportare la sua critica a Skinner sul carattere ideologico degli argomenti filosofici sono inseriti alla fine di un capitolo che comincia proprio con l’analisi dei presupposti epistemologici che Skinner fa propri per giustificare l'impossibilità di una visione neutrale (cfr. Q. Skinner, Introduction: Seeing things their way, cit., pp. 1-6). 2° Cfr. R. Lamb, Recent Developments in the Thought of Quentin Skinner and the Ambitions of Contextualism, in «Journal of the Philosophy of History» (3/2009), pp. 246-265. 25 Cfr. K. Palonen, Die Entzauberung der Begriffe. Das Umschreiben der politischen Begriffe bei Quentin Skinner und Reinhart Koselleck, cit., pp. 153 e ss.
Skinner e la filosofia politica contemporanea
Ill
che Skinner stesso possa essere considerato a pieno titolo un teorico politico proprio perché il nesso inscindibile che egli intravede tra linguaggio, retorica e storia avrebbe come risvolto concreto che la teoria filosofia tradizionale andrebbe rivista proprio per il carattere pragmatico del linguaggio che adoperiamo quando ci accingiamo a “teorizzare’’?”, Da parte nostra condividiamo tale ipotesi di lettura dell’opera di Skinner anche se la facciamo nostra da un punto di vista wittgensteiniano più che weberiano come Palonen (ma in realtà non sono due approcci incompatibili, tutt'altro): sono le idee di Collingwood e di Wittgenstein contro la metafisica tradizionale a trasformare il ruolo del filosofo che non è più quello di chi ha uno sguardo privilegiato o neutrale sulla realtà ma quello di chi svolge un'attività di critica che può avere, immediatamente, effetti performativi sulla realtà. Ecco perché, come abbiamo visto nel primo capitolo, Skinner può legittimante considerare l’opera Negara: The Theatre State in NineteenthCentury Bali dell’antropologo Geertz come un’opera di filosofia politica. Se la filosofia è wittgensteiniamente un attività di critica del linguaggio e delle forme di vita allora il compito del filosofo politico è quello di comprendere, con l’ausilio ad esempio del metodo genealogico, il nesso inscindibile tra linguaggio, valori e potere. Tutto ciò, quindi, che può essere utile alla comprensione di tali nessi è utile e può essere oggetto di studio da parte del filosofo politico soprattutto quando si è presa consapevolezza che la prassi non è deducibile dalla teoria come in età moderna si è ritenuto di poter fare. Il pensiero non può che indicare temi, spazi, orizzonti ma non può prescri vere attività politiche concrete la cui giustificazione, al contrario, avviene soltanto
nell’azione politica stessa?”.
24 Cfr. K. Palonen, Quentin Skinner. History, Politics, Rhetoric, cit., pp. 5 e ss.. 295 Cfr. C. Galli, // disagio della democrazia, Einaudi, Torino 2011, p. 84.
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4. Ludwig Wittgenstein e la “relatività dello sguardo” Come abbiamo visto nelle pagine precedenti, seguendo il lavoro di Quentin Skinner è possibile, a nostro avviso, valorizzare aspetti in-
teressanti del pensiero dell’ultimo Wittgenstein nel campo della filosofia politica. 29296 In questo capitolo con l’espressione “relatività dello sguardo vorremmo suggerire di concepire l'insegnamento di Wittgenstein come confacente a un certo modo di guardare al ruolo e al compito della filosofo e quindi anche del filosofo politico?””. Un modo, come è emerso nel corso di questo volume, che ci allontana, almeno in parte, dal paradigma predominante ossia quello del contrattualismo liberale e, più in generale, dagli approcci normativi di orientamento neokantiano. Piuttosto che occuparsi in modo trascendentale del problema della giustizia o del bene, le idee di Wittgenstein ci spingerebbero a intraprendere un percorso diverso fatto di interrogazioni su questioni concrete, sull’uso e sul modo in cui arriviamo a difendere o attaccare i valori, iconcetti o
le idee politiche che caratterizzano il nostro essere sociale. Siccome è noto quanto intimo sia il nesso tra riflessione morale e riflessione politica (senza ridurre la seconda alla prima) intendiamo completare il discorso svolto fin qui con il contributo che studiose come Iris Murdoch e Cora Diamond hanno fornito nel recepire l’insegnamento del secondo Wittgenstein in campo morale.
4.1. Iris Murdoch e Cora Diamond sui “concetti morali”
La filosofia analitica dopo la morte di Wittgenstein ha intrapreso percorsi che si allontanano, salvo dovute eccezioni, da quelle che
2° L'espressione è presa dal titolo di un corso su Montesquieu tenuto dal prof. Piero Violante che qui ringraziamo per averci permesso di utilizzarla nel nostro studio. 27 Precisiamo che non pretendiamo di fornire un’interpretazione (l’ennesima!) del pensiero di Wittgenstein ma che ci ispiriamo liberamente ad alcune idee sue o di studiosi che al suo insegnamento si sono espressamente ispirati.
Ludwig Witigenstein e la “relatività dello sguardo”
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erano le reali intenzioni del filosofo austriaco che, pure, a vario titolo viene indicato come una delle fonti di questa tradizione insieme a
Frege, Moore e Russel? D'altronde ciò non deve stupire perché professare per tutta la vita, come ha fatto Wittgenstein, l’idea che la filosofia non sia in alcun modo una teoria, cioè una forma di sapere, rende indubbiamente arduo accettare tale lezione per i filosofi di pro-
fessione?”, All’università di Oxford, tra i tanti protagonisti della scena filosofica postwittgensteiniana Iris Murdoch, autrice ancora troppo poco conosciuta in Italia, è tra quelli che ci fornisce alcune delle idee più interessanti ai fini dei nostri discorsi e che riconosce esattamente questa divergenza tra Wittgenstein e la filosofia analitica a lui posteriore®®. Come punto di partenza del nostro discorso, prendiamo in considerazione il saggio Visione e scelta in ambito morale, apparso nel 1958 ma ancora oggi meritevole di interesse Murdoch è dell’opinione che la filosofia morale contemporanea raffiguri la morale come un campo autonomo del sapere come se esistesse un soggetto dotato di razionalità che in presenza di una scelta tra due o più opzioni si rivolgesse a quella che reputa più razionale. In questo modo, osserva la studiosa, si riunirebbero due anime della
filosofia moderna: quella humeana, secondo la quale siamo noi a fornire unità a fatti esteriori scollegati tra loro, e quella kantiana, che in-
tende la morale come un'attività cognitiva volta ad individuare ragioni universalmente valide. Gli sviluppi più recenti della riflessione morale, continua la Murdoch, hanno aggiunto anche l’attenzione nei confronti delle parole adoperate nella convinzione che il chiarimento linguistico, finalizzato a privarle di un rapporto con una realtà trascendente o stati di co-
2 Un esempio su tutti M. Dummett, Origini della filosofia analitica, cit.. 29 «Jo non posso fondare una scuola perché, in realtà, io non voglio essere imitato. In ogni caso non da coloro che pubblicano articoli sulle riviste di filosofia» (L. Wittgenstein, Pensieri Diversi, trad. it., Adelphi, Milano
1980, p. 114).
300 Cfr. I. Murdoch, Metaphysic as a Guide to Morals, Chatto 1992, p. dl.
& Windus, London
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Linguaggio, storia e politica
scienza, potesse fornire loro un significato quanto più aderente possibile al modello dei termini empirici?®. Ma tale modello della morale, agli occhi della Murdoch, appare
riduttivo: «Il risultato è una raffigurazione che sembra possedere l’autorità della moderna visione della mente, dell’essenza della vita morale come insieme di scelte esteriori sostenute da argomenti comportamentistici che fanno appello ai fatti: questa raffigurazione è semplice, antimetafisica e non lascia spazio al ‘“trascendente”’»?°2. Il suggerimento della Murdoch è quello di modificare il nostro modo di guardare all’esperienza morale evitando di concepirla come se essa fosse una particolare modalità di rapportarci al mondo parallela, ad esempio, ad una di tipo teoretico come se nella nostra mente,
a un certo punto, si attivasse la ‘funzione’ morale. In altre parole, secondo la Murdoch, la morale non ha a che fare soltanto con le scelte e le azioni che compiamo in certi momenti ma è, per così dire, connaturata al nostro stesso modo di pensare: «Le differenze morali sono differenze concettuali» nel senso che riguardano la nostra stessa visione del mondo. Noi siamo sempre esseri morali perché la morale non è una sorta di interruttore che si attiva a seconda delle circostanze in cui ci troviamo ad operare. È difficile per molti, e Murdoch lo riconosce, accettare tale visione della morale perché essa sembrerebbe prestare il fianco ad almeno due critiche. La prima è che concependo la morale come “visione” piuttosto che come “azione giustificata da ragioni” si finirebbe con il ricadere in una posizione emotivistica mentre la seconda è che in un quadro siffatto la libertà umana potrebbe essere messa in pericolo visto che normalmente siamo abituati a pensare al soggetto morale come qualcuno che, in procinto di prendere una decisione, si ritira in
sé stesso per riflettere su cosa impongano i principi morali?®,
®©! Cfr. I. Murdoch, Visione e scelta in ambito morale, in I. Murdoch, Esistenzialisti
e mistici, trad. it, il Saggiatore, Milano 2006, pp. 104-105. 322:Tvi, p: 106. 30 Ivi, p. 109.
Ludwig Wittgenstein e la “relatività dello sguardo”
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Alla prima obiezione, Murdoch risponde che nonostante tutto non sempre il nostro comportamento è lo specchio della nostra visione morale quindi non è esatto insistere sulla necessità che “morali” siano le azioni supportate da ragioni. La seconda obiezione deriva da una concezione assoluta della libertà come se essa fosse equivalente ad un assoluta indipendenza dalle attitudini mentali profonde di ognuno di noi. Questa obiezione però, per la Murdoch, è ingenua perché confonde il desiderio di essere indipendente con il “fatto” dei nostri condizionamenti. Non esiste, insomma, la libertà come punto di vista archimedeo, come assoluta istanza che agisce dando vita ai vari comportamenti**. Bisogna al contrario accettare fino il fondo l’idea che sia il nostro stesso pensiero ad essere orientato moralmente: «L'idea che le differenze morali siano differenze concettuali (ovvero differenze di visione) e debbano
essere studiate come tali è impopolare in quanto rende impossibile la riduzione dell’etica alla logica, poiché, suggerisce che la morale debba almeno fino a un certo punto, essere studiata storicamente. Tutto ciò non implica, naturalmente, l'abbandono del metodo linguistico, bensì il fatto di prenderlo sul serio»3%. È quasi superfluo osservare il retroterra wittgensteiniano di questa modo di presentare la filosofia morale che permane anche negli scritti successivi come Metaphysic as a Guide to Morals®®, La stessa Murdoch spiega che dal suo punto di vista il compito della filosofia morale, in questo vicina a certe forme di letteratura, diventa quello di
3% La concezione della libertà che riteniamo, al momento, maggiormente difendibile è quella secondo la quale essa va intesa come “liberazione” ossia come un processo sempre in fieri. Per alcuni spunti in questa direzione cfr. F. Conigliaro, La libertà. Estasi e tormento, Giappichelli, Torino 2001. Riteniamo che questa idea di libertà
sia compatibile con la libertà politica skinneriana cioè libertà come non-indipendenza. 305 I. Murdoch, Visione e scelta in ambito morale, cit., p. 112. 30 È discusso il rapporto tra la prima e la seconda parte della produzione della Murdoch ma non interessa, in questa sede, esprimersi sulla questione. Una lettura favorevole alla continuità tra le due fasi è offerta da M. Antonaccio, The Moral and Political Imagination of Iris Murdoch, in «Notizie di POLITEIA», XVIII, 66, 2002 pp. 22-50.
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estendere, come fanno appunto i poeti, i limiti del linguaggio per aprire maggiori spazi di comprensione della realtà?. Quindi la filosofia (morale), come diceva Wittgenstein, non deve essere concepita
come una teoria 0 una dottrina articolabile in proposizioni ma riguarda la descrizione e la comprensione del nostro essere nel mondo tramite l’analisi del linguaggio. Ma bisogna prestare attenzione a intendere correttamente cosa significhi per Wittgenstein analizzare il linguaggio. Secondo l’opinione della Murdoch il metodo linguistico suggerito da Wittgenstein va esattamente nella direzione opposta a quella seguita da tutti quegli studiosi che cercano di studiare la logica del linguaggio morale per ottenere una qualche, presunta, neutralità: «I filosofi tendono al solito a cercare una formula universale. Ma il metodo linguistico, se lo prendiamo seriamente, è per sua natura contrario a tale ri-
cerca. La logica, in qualsiasi modo venga concepita, ha una sua universalità; ma quando abbandoniamo il dominio della logica pura, entriamo nell’ambito confuso e mutevole dei concetti secondo cui vivono gli uomini — e questi sono soggetti al cambiamento storico»3®8, Il saggio Visione e scelta morale si conclude non a caso proprio con un richiamo esplicito al concetto wittgensteiniano di “forma di vita” (Lebensform): perché, si domanda giustamente la Murdoch, la filosofia invece di riflettere sulle differenze esistenti deve arrovellarsi alla ricerca di un’unità del fenomeno morale? Come dice Wittgenstein le nostre indagini incontrano un limite che è il dato, ossia le forme di vita?”, quindi dobbiamo accettare le differenze di forme di vita morali
piuttosto che cercare dietro di esse una forma unica>!°, La lezione che ci sembra di dover valorizzare, perché mantiene una sua indubbia attualità, è che quando ci occupiamo di morale abbiamo a che fare non solo con differenze di scelte ma con differenti visioni del mondo ed è solo guardando a tali differenze che possiamo
* I. Murdoch, Visione e scelta in ambito morale, cit., p. 114. Ù I. Murdoch, Etica e metafisica, in I. Murdoch, Esistenzialisti e mistici, cit., p. 101.
È addirittura superfluo richiamare le analogie con l’impostazione skinneriana. *® Cfr. L Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. 295. *!° Cfr. I. Murdoch, Visione e scelta in ambito morale, cit., p. 120.
Ludwig Wittgenstein e la “relatività dello sguardo”
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migliorare nella comprensione di noi stessi e degli altri?!!. Non è un caso che, nella seconda metà del Novecento, questo aspetto sia stato sottolineato da altri studiosi di ascendenza wittgensteiniana come, ad esempio, Stanley Cavell il quale osserva giustamente che la differenza tra l’ambito della morale e quello scientifico risiede nel fatto che per principio, in ambito scientifico, c’è la possibilità di un accordo mentre ciò è impossibile in campo morale perché noi ci troviamo in disaccordo e spesso, anzi quasi sempre, non riusciamo a risolvere il nostro disaccordo proprio perché le nostre valutazioni sono basate su criteri
divergenti®!?. La lezione di Murdoch viene ripresa e sviluppata di recente da un’altra grande studiosa di Wittgenstein, Cora Diamond, la quale in vari saggi e nel suo famoso The Realistic Spirit: Wittgenstein, Philosophy and the Mind! presenta una visione dell’etica che intende raccogliere l'eredità della lezione di Murdoch e di Wittgenstein. Diamond rifiuta tanto gli approcci utilitaristici quanto quelli di orientamento kantiano in virtù di una visione dell’etica che non parte da una definizione del giusto, del buono o del carattere della persona buona. Piuttosto, secondo Diamond, l’etica emerge negli sforzi immaginativi di pensare che tipo di esseri umani siamo. A differenza, ad esempio, delle teorie contrattualistiche di ispirazione kantiana che
si concentrano sul concetto di personalità morale e sulla comprensione degli interessi che condividiamo come persone morali, Diamond ri-
vendica che «la comprensione immaginativa di cose diverse dalla personalità morale, come i nostri pensieri sulla vita, la morte, il caso,
3!! In più, sarebbe possibile ricavare dagli scritti della Murdoch, una particolare modalità difensiva del liberalismo imperniata proprio a partire delle “differenze concettuali” esistenti tra gli uomini: cfr. M. Antonaccio, The Moral and Political Imagination of Iris Murdoch, cit. Nelle prossime pagine vorremo mostrare come già questa lezione sia implicita negli scritti di Wittgenstein. 312 Cfr. S. Cavell, La riscoperta dell’ordinario. La filosofia, lo scetticismo, il tragico, trad. it., Carocci, Roma 2001. 313 Cfr. C. Diamond, The Realistic spirit: Wittgenstein, Philosophy and the Mind, MIT Press (MA)1995.
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la felicità, il tempo, l’amore» è un aspetto centrale dell’etica?!*. Quest’ultima ha a che fare, quindi, con la visione particolare che ognuno di noi ha nei confronti di se stesso e del mondo circostante. In un importante saggio, incentrato sul modo in cui dobbiamo intendere la natura dell’etica, Diamond suggerisce un’analogia tra l’insegnamento dell’ultimo Wittgenstein sui fondamenti della matematica e il modo in cui dobbiamo concepire le proposizioni dell’etica. La Diamond spiega come Wittgenstein distinguerebbe due diversi tipi di realtà: il primo corrispondente alle proposizioni empiriche (experiential proposition), il secondo alle parole. Per Wittgenstein, cioè, esisterebbe parole le quali non hanno affatto un referente fisico (ad. esempio le parole “forse”, “e”, “più”...) ma il loro significato (quindi la loro realtà!) esiste solo in base all’uso che noi ne facciamo ai fini
della nostra descrizione del mondo. Wittgenstein distingue, infatti, fra attività nelle quali sviluppiamo strumenti utili alla descrizione e attività linguistiche che adoperano tali strumenti. La matematica, per arrivare al nocciolo della questione, rientrerebbe per Wittgenstein nella prima tipologia di attività poiché essa è uno strumento (tra i tanti possibili) che ci aiuta a parlare del mondo o a descriverlo come
quando utilizziamo il numero 50 dicendo che ci sono 50 persone>!5. Wittgenstein riterrebbe di conseguenza che sia sbagliato guardare alla matematica considerando esistenti gli oggetti di cui parla (es. i numeri) mentre bisognerebbe piuttosto badare a “come” adoperiamo le proposizioni matematiche. Questa lezione sulla matematica, secondo la Diamond, può essere applicata proficuamente anche all’etica prendendo in considerazione l’uso che noi facciamo del linguaggio: «It follows that to see what the mathematicalness or ethicalness of a sentence is, you have to look at its application: there you see what kind of “linguistic instrument” it is.
?!4C. Diamond, Lefonti della vita morale, in C. Diamond, L’immaginazione e la vita morale, a cura di P. Donatelli, Carocci, Roma 2006, p. 144.
*! Cfr. C. Diamond, Wittgenstein, mathematics, and ethics: Resisting the attractions of realism, in H. Sluga-D. G. Stern (ed. by), The Cambridge Companion to Wittgenstein, Cambridge University Press 1996, pp. 232- 235.
Ludwig Wittgenstein e la “relatività dello sguardo”
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It is possible to speak of “responsability to reality” in the case of linguistics resources, but what is meant by such responsability is different from what it is in the case of ordinary experiential proposition»3!°, Riassumendo quanto detto fin qui, le analisi della Murdoch e della Diamond ci permettono di considerare in una nuova luce l’insegnamento dell’ultimo Wittgenstein nella misura in cui l’attenzione alla strutturazione linguistica del nostro pensiero e della nostra esperienza del mondo ci invitano a “guardare” al modo in cui utilizziamo le risorse del nostro linguaggio come a un’attività in sé stessa connotata moralmente e quindi, per principio, non riducibile ad unità. Naturalmente, tale rapporto “morale” tra l’uomo e il mondo permette di parlare di realismo nella misura in cui i concetti, le idee, le credenze o i valori che professiamo possono essere adeguatamente compresi soltanto se inseriti all’interno del vissuto personale e collettivo.
4.2. L’eredità di Wittgenstein Come abbiamo cercato di mostrare nel paragrafo precedente, studiosi come S. Cavell, I. Murdoch, C. Diamond ci invitano a guardare alla filosofia di Wittgenstein in modo potenzialmente carico di sviluppi positivi per la comprensione del fenomeno morale (e, aggiungiamo noi, politico).
Wittgenstein è sempre stato interessato a questioni di natura etica anche se con etica non dobbiamo intendere il tradizionale tentativo di rispondere alle grandi domande platoniche intorno al bene e alla giustizia in sé. Piuttosto, le domande etiche, come lo stesso filosofo chiarisce in vari luoghi, costituiscono le questioni più importanti in assoluto perché riguardano il modo in cui guardiamo a noi stessi e al mondo?!. Se è vero come sostiene D. G. Stern che è difficile provare a dare un senso chiaro e definitivo al pensiero di Wittgenstein visto che
316 Ivi, p. 249. 3!7 Sul problema etico in Wittgenstein è sempre utile, tra gli studi in lingua italiana, P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari
1998.
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l’unica opera compiuta è il Tractatus e le altre opere pubblicate sono frutto di un’opera di selezione compiuta dagli esecutori testamentari
o da altri studiosi?'8, allora è lecito domandarsi fino a che punto possiamo essere in grado di ricostruire con precisione le esatte opinioni di Wittgenstein riguardo l’etica. Sappiamo con relativa certezza che per Wittgenstein l’etica non è una teoria e non riguarda una forma di sapere articolabile in proposizioni. L'etica, come dicevamo, ha a che fare piuttosto con il modo in cui noi guardiamo al mondo e questa lezione percorre implicitamente anche le Ricerche filosofiche visto che Wittgenstein avrebbe voluto aprire l’opera con la citazione tratta dal Re Lear “I°1l teach you differencesti Il metodo antropologico di cui Wittgenstein ha dato molteplici esempi è volto proprio a far tornare l'indagine filosofica sul terreno che le è proprio, cioè quello della vita vissuta. La polemica contro il linguaggio privato dovrebbe spingerci a guardare al modo in cui pensiamo e agiamo in modo diverso rispetto a come normalmente facciamo. La nostre idee, i nostri valori, il nostro linguaggio sono tali solo all’interno di una forma di vita, ed è per questo che «il compito della filosofia è di riportare il linguaggio dal suo uso metafisico a quello quotidiano»3!: soltanto così comprendiamo come dietro i
nostri concetti esista un vissuto.
La filosofia in questo modo acquista una finalità terapeutica?” nel senso che ci aiuta a distruggere idoli metafisici liberandoci così dal
'!8 Cfr. D. G. Stern, The availability of Wittgenstein's Philosophy, in H. Sluga-D. G. Stern (ed. by), Yhe Cambridge Companion to Wittgenstein, Cambridge University Press 1996, pp. 442-476. 3° L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., $ 116. 20 La lettura terapeutica di Wittgenstein è oggi sostenuta soprattutto dagli studiosi detti “risoluti” (A. Clary, C. Diamond ...) ed anche da G. Baker il quale ne ha proposta una versione particolarmente radicale in Wittgenstein Method-Neglected Aspects, edited and introduced by K. Morris, Backwell Publishing 2004 che è stato oggetto di una critica altrettanto radicale (cfr. P. M. S. Hacker, Gordon Baker 's Late Interpretation of Wittgenstein, in G. Kahane-E. Kanterian-O. Kuusela (ed. by), Wittgenstein and His Interpreters. Essays in Memory of Gordon Baker, Blackwell Publishing Ltd. 2007,
Ludwig Wittgenstein e la “relatività dello sguardo”
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peso di quelle grandi domande che hanno sempre caratterizzato la riflessione filosofica. La filosofia deve diventare un’attività di critica che ci libera dall’ansia dell’assoluto o dalla ricerca del fondamento. Presa consapevolezza di ciò, noi dovremmo comprendere e guardare le cose in modo, consapevolmente, “relativo” cioè consapevole della
nostra contingenza e per ciò stesso suscettibile di critica?”!. Per molti questo atteggiamento implicherebbe la perdita della funzione tradizionale della filosofia (cioè l’indagine sulla Verità) e, in un certo senso, questo è vero ma in un altro forse no. Anche nel
mondo greco, dove la filosofia occidentale è nata, essa ha uno strettissimo legame con la vita reale del filosofo??? e non è affatto un semplice discorso teorico-sistematico come nel corso dei secoli e attraverso alterne vicende essa è diventata per poi, su questo modello,
entrare a vario titolo in crisi nel Novecento. La lezione di Wittgenstein diventa così carica di un potenziale “liberale” perché ci impone una rivalutazione di noi stessi e della funzione della filosofia che lungi dal cercare “assoluti” o principi universali deve piuttosto, come abbiamo detto, “relativizzare il nostro
sguardo” perché solo così possiamo comprendere meglio noi stessi e la realtà in cui viviamo. Nel caso della realtà politica ciò si traduce nel comprendere come essa non sia riducibile, come osservato da studiosi come Honneth®* o Foucault, al solo problema dello Stato e dei suoi rapporti con i cittadini.
pp. 88-122). In questa sede, naturalmente, è possibile solo segnalare tale complesso dibattito.
32! Un capolavoro in tale senso sono le Lettere persiane di Montesquieu dove lo studioso francese, tramite gli occhi del protagonista (un persiano alla corte francese), “relativizza” il mondo culturale francese di cui è parte (criticando, così, l’assolutismo
di Luigi XIV). 322 Per questa visione della filosofia antica ho in mente gli scritti dello studioso francese Pierre Hadot. 33 Non è esagerato dire, come fatto da noi nell’Introduzione a questo lavoro che la definizione stessa di filosofia è diventata oggi una questione filosofica. 3A. Honneth, Qua! è la stoffa della giustizia? Sui limiti del proceduralismo contemporaneo, trad. it., in A. Honneth, La stoffa della giustizia. I limiti del proceduralismo, Trauben, Torino 2010, pp. 33-34.
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In considerazione di quanto detto, appare allora più proficuo intendere il lavoro del filosofo politico non come una ricerca finalizzata all’elaborazione di una teoria generale della giustizia quanto piuttosto
come un compito articolabile secondo varie strategie???. Lo studioso canadese James Tully, influenzato dall’opera di Foucault, di Wittgenstein e da quella degli studiosi della Cambridge School (i quali si richiamano, a loro volta, alla tradizione umanistico-rinasci-
mentale italiana) osserva giustamente che il tipo di intellettuale a cui bisogna guardare oggi è assai diverso da quello presupposto, ad esempio, da un autore come Habermas. L’intellettuale habermasiano avrebbe
come fine quello di elaborare una teoria universale della giustizia (e da questo punto di vista, la linea neokantiana si salderebbe, secondo Tully, alla tradizione del diritto naturale moderno)? mentre l’intellettuale immaginato da Tully dovrebbe avere un approccio diverso: «In opposition, they [the humanists] put historical, contextual and interpretative studies at the centre of their educational system, the “humanities”, and used them comparatively to gain a critical distance from their own legal and political istitutions and traditions and to make generalitations. They derived this philosophical excercise of disengagement from the present by means of comparative historical and cultural studies form their interpretation of the classic authors. ..»3?7. In effetti, in un recente testo da noi già citato, Habermas non nasconde questa sua visione dell’intellettuale affermando che la filosofia possiede, per sua natura, una competenza sulle questioni di fondo della convenienza normativa e, in particolare, della giusta convivenza
politica?8, AI contrario, non solo un approccio come quello esposto da Tully sulla scia di Wittgenstein entra in tensione con una tale visione della filosofia politica ma sarebbe possibile, secondo noi, accennare ad un’altra possibile differenza di natura metodologica tra i
' Ci sembra affine alle nostra impostazione A. J. Norval, Democratic Identification: A Wittgensteinian Approach, in «Political Theory» 2(2006), pp. 229-255. 3° Cfr. J. Tully, Public Philosophy in a New Key- Democracy and Civil Freedom, cit., pp. 103-105.
27 (C507, 4,39 1065) 3 Cfr. J. Habermas, Verità e giustificazione, cit., p. 324.
Ludwig Wittgenstein e la “relatività dello sguardo”
123
due approcci, ossia quello trascendentale e quello in senso lato wittgensteiniano. Invece di cercare di rispondere alle tradizionali grandi domande sulla giustizia, sul bene comune, sul rapporto morale / politica / religione potremmo cercare di applicare la metodologia wittgenteiniana, provando a cambiare il modo di domandare: ripartire da singole e limitate questioni concrete che permettono, forse, di gettare nuova luce sulle questioni più generali che se affrontate diretta-
mente rischiano di rivelarsi come dei vicoli ciechi*. Traducendo questa metodologia alla filosofia politica, questo significherebbe smettere di interrogarsi su quale siano i principi generali di una società giusta o impegnarsi nella descrizione, come Habermas, di una situazione linguistica ideale per ripartire piuttosto dalle concrete situazioni di ingiustizia, di alienazione o di sfruttamento?*, Teorie politiche che vogliano ispirarsi, quindi, all’insegnamento dell’ultimo Wittgenstein dovrebbero così abbandonare la pretesa di trattare questioni universali sul potere, sul dovere, sulla giustizia servendosi di concetti presunti validi in assoluto ma, al contrario, comprendere che non si possano fornire che risposte a fatti e situazione particolari e contingenti: «Le teorie politiche sono dunque fili conduttori nello studio di problemi particolari, acuti e locali»*'.
328 Secondo recenti letture, la metodologia filosofica di Wittgenstein è esattamente questa: abbandonare l’idea di grandi domande per liberarci dall’ansia metafisica. Tentando di rispondere a domande diverse, ma connesse al tema generale, allora possiamo contribuire, liberandoci dalle inquietudini metafisiche, a rispondere a quegli stessi problemi che ci apparivano prima insormontabili. La soluzione di Wittgenstein sarebbe allora questa: risolvere le grandi domande non trovando la giusta risposta, ma mostrando l’ingenuità del domandare stesso in quel modo (cfr. C. Diamond, «/n lungo e in largo in tutte le direzioni», cit., pp. 199-225).
329 Come scrive di recente A. Sen: «Così le persone che nel XVIII e nel XIX secolo si mobilitarono
per
abolire
la schiavitù
non
erano
animati
dall’illusione
che,
eliminandola, si sarebbe realizzato un mondo perfettamente giusto |...] Fu il riconoscimento della schiavitù come intollerabile ingiustizia a trasformare l'abolizione in una priorità assoluta, e questo non richiede alcun accordo consensuale sui requisiti di una società perfettamente giusta» (A. Sen, L'idea di giustizia, cit., p. 36). 33! C. Geertz, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, cit., p. 13.
124
Linguaggio, storia e politica
Avviandoci alla conclusione pensiamo sia utile ricordare le parole, da noi già citate in precedenza, con le quali l’antropologo Clifford Geertz, spiegando il suo debito nei confronti di Wittgenstein, osserva che proprio le idee wittgensteiniane di “forma di vita” con quelle ad essa collegate non erano state pensate per una diretta applicazione all’ambito antropologico ma erano parte di una critica radicale della filosofia che tuttavia «diminuiva alquanto il divario tra essa e la pratica di andare in giro per il mondo cercando di scoprire come nel discorso le persone — gruppi di persone, singole persone, un popolo nel suo complesso — compongano una voce distinta e variegata»*?. Speriamo di essere riusciti a mostrare come il debito che in campo antropologico Geertz riconosce a Wittgenstein possa essere riconosciuto anche nel caso della riflessione politica nella misura in cui, realisticamente, quest’ultima tenti di comprendere natura e fini di quel qualcosa che chiamiamo “politica” nelle sue molteplici ramificazioni storiche e contingenti.
* C. Geertz, Antropologia efilosofia, cit., p. 10.
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Indice dei nomi Alfieri L., 13,40, 41, 125 Antonaccio M., 115, 117, 125 Aristotele, 40, 55, 102, 103
AUSTRIA 105, 125
28]
O 2088
677/2891
D’Orsi A., 10, 126 Diamond C.,72, 112, 117,118, 119,120, 123 Donatelli P., 72, 119, 126
Dreferl@M9 2458 Drolet M., 45
Bajan T., 30, 42, 125 Baker G., 120, 125 Barbaccia G., 14
Dummett M., 72, 113, 126
Duso/G., 13,93; 107; 108; 126 Dunn J. 15
Barberis M., 9, 125 Bartelson J., 37, 38, 125 Barthes R., 50 Berlin I., 85, 100, 101, 124 Bevir M., 17, 20, 24, 125 Strath B., 102, 134 Bobbio N., 87, 90, 91, 125 Bourke R., 83
Dworkin R., 79, 88, 104, 126
Bouwsma Oets K., 20, 136
Floyd J., 62, 127 Foucault M., 13, 31, 36, 37, 39, 4 5, 46, ANRAZIAOSS 0519245815995 0057: SSIS 2107
Bovero M., 87, 125
Brenner W. H., 9 BrettA. , 106, 125 Bruno G., 108 Bura A‘329125
Esposito R., 108, 126 Fernandez Sebastian J., 97, 126 Ferrara A., 73, 127
Feyerabend P., 22 Fiandaca G., 14
Frege G., 113
Fusaro D., 93, 127
Castiglione D., 10, 14, 18, 75, 94, 125
Gadamer H. G., 33, 38, 40, 96, 127
CavelliSAli7 A0825 Cicerone, 66
Galli@1M1 Gee 27
Clary A., 120
Gelderen M. van, 75, 127
Coliva A., 26, 126
Geuna M., 10, 75, 77, 102, 128 Geuss R., 62, 63, 83, 128 Giddens A., 69, 70 Gombrich E., 24, 128 Goodin R. E., 10, 128 Grice H. P., 20
Chignola S., 93, 94, 96, 125, 126
Collingwood R. G., 15, 16, 17, 18, 22, BIS 25500 WEIRD Conantoe72 Conigliaro F, 114, 115, 126 Constant B., 85 @rocciB aly Cubbeddu R., 13
4127 002 BAU
Dahl R., 74
Habermas J., 14, 25, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 70, 71,72, 73, 77,78, 54, 85, 88, 103, 122, 128
Derrida J., 64
Hacker P. M. S., 120, 128
Dewey J., 23
Hadot P., 121
Hampsher-Monk I., 10, 18, 84
Hayek FE. A. von, 75 Hegel G. W. E, 65
Heidegger M., 23, 33 Hirsch D., 33
Hobbes Th., 13, 75, 99, 101, 102, 108, 109 Holmes S., 83, 104, 128 Honneth A., 69, 121, 128 Horwitz M. J., 81,82, 128 Ivison D., 85, 129
Juhl P., 33
Machiavelli N., 13, 66, 74, 76, 77, 104, 108 MaciIntyre A., 103, 130 Maffettone S., 78, 130 Marcuse H., 63 Marx K., 63, 102
McCarthy Th., 64, 65, 66, 130 Monk R., 87, 130
Montesquieu Ch. L. de Secondat, 112, 121 Moore G. F., 113 Morris K., 120 Mouffe C., 106 Moyal-Sharrock D., 9, 132
Kacenelenbogen E., 75, 129 Kahane G.,120 RalmobtSSA/85 I Kani IL SEL (09 Kanterian E., 120 Keane J., 33, 79, 129 Kjellestròom P., 49, 129 Nola Malza 129 Koikkalainen P., 17, 18, 31, 32, 34, 42, 102, 129 Koselleck R., 14, 23, 37, 61, 94, 95, 96, 97,129 Kripke S., 72
Mura V., 87, 88, 89, 90, 130 Murdoch I., 112,113, 114,115, 116,119, 130 Muscolino S., 21, 32, 48, 130
IDO Kuukkanem J., 38, 129 Kuusela O., 120
Petit PARO: 100, 103, 131 PittimiERR9s2213]
Narvaez Mora M., 9, 130
Nietzsche RW:
12-38 :39452753180
NorvalA. J., 123, 130
Nozick R., 75, 88, 107, 130 Palonen K., 17, 37, 39, 60, 94, 108, 110, LMIENISO Patterson D., 9, 130 Perissinotto L., 20
5 760070859991
Platone, 40
Lamb R., 24, 34, 109, 110, 129 Lane M., 54, 129
Pleasant N., 27, 69, 70, 71, 131
Lehmann H., 25
Pocock GrFAzg0sl5 204119151025 106, 131 Portinaro P. P., 98, 131 Prokhovnik R., 10, 21, 105, 131
Lescourret M.-A,
PumnanmEFEs19s2023 2955185)
Laugier S., 10, 129 Teanlig6
9129
Lévy J., 50, 79, 84 Lévi-Strauss C.,71
Livio T., 66 Lorenzetti A., 55
Lovejoy A. O., 16, 17, 38
Quine W. V. O., 24, 27, 49, 51, 53, 73 Quintiliano, 66
Ratzinger J., 68, 128 Rawls J., 14, 61, 67, 70 ,74, 75, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 88, 91, 10340831032 Richter MB25-94*132
Ricoeur P., 20, 33, 34, 61, 132 Robinson C. C., 10, 106, 132 RortyRSe2223 2512782329930 5423 64, 67, 132 Rousseau J. J., 63
Taylor Ch., 26, 66, 135 Triantafillou P., 52, 58 Tmcolre B., 50.79.84,
135
Tullyiii8 82683497809 N45360168ì [IOSE06 MIR 2055, Vico G., 108 Violante P., 14, 112
Viroli M., 59, 104, 135 Vucina N., 52, 58, 135
Russel B., 113 Schiavello A., 9, 132
Schmitt O., 106 Schneewind J. B., 30, 132 Searle J., 67 Sen A., 84, 123, 132
Sluga H., 118 Sparti D., 9, 135 Stears M., 62
Stern D. G., 118, 119, 120, 135 Strath B., 102, 134 Strauss L., 16, 17, 88, 135 Sunstein C. R., 83, 104, 128
Syjamàki S., 17, 18, 31,32, 34, 42, 102, IS
Waldron J., 79, 135, 136 Walter R., 45, 46, 49, 50, 51, 135 Weber M., 38, 39
Winch P., 27, 28, 69 Wolin S. S., 81, 136
Indice
Introduzione
|. Presupposti filosofici dell’approccio skinneriano La polemica con la History of Ideas Una visione filosofica (politica) post-metafisica Storia e linguaggio Il dibattito sui concetti Filosofia (politica) e antropologia
1.1. 1.2. 1.3. 1.4. 1.5.
2. Quentin Skinner e Michel Foucault
2.1. La critica foucaultiana alla History of Ideas 2.2. Linguaggio, potere e genealogia 2.3. Filosofia e storia: la funzione terapeutica 3. Skinner e la filosofia politica contemporanea 3.1.Contro gli approcci neokantiani 3.1.1 La critica a Jiirgen Habermas 3.1.2 La critica a John Rawls 3.2. Contro gli altri approcci linguistici 3. 2.1 Skinner vs. scuola analitica-concettuale 3. 1.2 Skinner vs. Begriffsgeschichte 3.3. Libertà, potere e politica
4. Ludwig Wittgenstein e la “relatività dello sguardo” 4.1. Iris Murdoch e Cora Diamond sui “concetti morali”
4.2. L’eredità di Wittgenstein
Bibliografia Indice dei nomi
56
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Finito di stampare nel mese di maggio 2012 Carlo Saladino Editore s.r.]. via venti settembre 53 - Palermo tel. 091.329590 - fax 091.6112670 www.carlosaladinoeditore.it [email protected]
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