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Italian Pages 200 [283] Year 2023
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C’È LUCE OLTRE LA GUERRA
La storia continua. Valga il monito di René Guénon, inclassi!cabile critico della modernità, lanciato nel 1945 da un cumulo di rovine: «Il punto più basso è come un ri"esso oscuro o un’immagine invertita del punto più alto» 2. Eco del paradosso di Tertulliano, per cui Satana è scimmia di Dio. Ridotto allo stato laico: non c’è disastro che ci liberi dalla responsabilità di affrontarlo e dalla possibilità di superarlo. C’è luce oltre la guerra. Il piccolo contributo che Limes vorrebbe offrire a chi ri!uta la !ne della storia impone di accompagnare analisi e proposte, senza pregiudizio alcuno. Cominciamo da un primo indice dei temi da affrontare per cogliere il (non) senso della Guerra Grande e azzardare in formula i princìpi su cui fondare un nuovo equilibrio di molto relativa pace, vaccino contro la guerra totale. Colpo d’avvio di un lavoro che ci impegnerà per il tempo visibile. Per grandissime linee, in tre contesti e altrettante scale. Prima le dinamiche superiori dello scenario globale, in sintesi acrobatica. Poi le cause profonde della nuova guerra di Israele scatenata dal massacro di Õamås, con scavo nella protostoria dello Stato ebraico, da cui tutto deriva. In!ne, salto speriamo non mortale nell’ambiente di casa, oppresso dall’aria chiusa delle baruffe mediatiche che trattano le guerre quali cronache dell’orrore. Che cosa l’accumulo di con"itti signi!ca per l’Italia e come conviene affrontarlo? Esercizio donchisciottesco nel paese sbalestrato dal caos, dove molti sperano sia brutto sogno, spengono la luce e provano a narcotizzarsi. Garanzia che l’impatto su di noi del vortice di crisi, così infantilmente rimosso, ne sarà moltiplicato. Per questo abbiamo scelto di centrare il decimo Festival di Limes a Genova, Palazzo Ducale (10-12 novembre), sul fattore italiano nel mondo in guerra. Abbiamo una parte in tragedia. Più importante di quanto immaginiamo. 2. Esercizio di stenogra!a geopolitica prevede di chiederci perché siamo !niti nella Guerra Grande. Risposta: perché le massime potenze si vogliono in pericolo di vita. Vale per Stati Uniti, Cina e Russia. Ciascuna a suo modo sente l’acqua alla gola. Il panico confonde la mente dei decisori e accelera la disgregazione del «mondo basato sulle regole», leggi: egemonia americana. Mentre il cosiddetto Resto del Mondo o «Sud Globale», i sette ottavi dell’umanità – tutto fuorché un blocco – non vede ragione di restare ai margini del sistema !rmato Occidente, ormai inceppato. La guerra totale, se sarà, deriverà dall’implosione dei Grandi. Vittime di sé stessi, non di maligni complotti altrui né di aggressione nemica.
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2. R. GUÉNON, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, Milano 1982, Adelphi, p. 13.
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Incapaci di gestire un mondo troppo largo da comprimere in una sola equazione. Vale anzitutto per il Numero Uno. La tempesta che scuote le fondamenta degli Stati Uniti d’America è !glia del Washington Consensus. Dell’ideologia e della prassi neoliberiste che hanno declassato la classe media, anima della way of life. Così delegittimando le istituzioni. L’America è stretta fra due follie. La tentazione di scaricare la sua crisi sul pericolo creduto mortale, Cina, e sul suo non brillante secondo, Russia, scatenando il proprio formidabile apparato militare. E l’impossibilità di farlo senza rischiare la rivoluzione a casa propria. La Cina avverte esaurirsi lo slancio della galoppata che l’ha portata in due generazioni dal Terzo Mondo al rango di Numero Due. Sa di non potersi assumere le responsabilità dell’egemone. E teme che Washington voglia liquidarla. Prima ammorbidendola con sanzioni economiche, poi annientandola con la guerra calda. Xi Jinping risponde con il parossistico accentramento su sé stesso del partito-Stato. Nel terrore di vedere la Cina ricadere nel caos delle guerre non solo civili da cui Mao l’aveva emancipata. La Russia appartiene a categoria inferiore che non accetta perché signi!cherebbe abdicare alla propria ragion di Stato. L’aggressione all’Ucraina è disperazione. Potrà ottenere un successo tattico perché Kiev si sta dissanguando nella guerra di attrito impostale da Washington. Ma a costi strategici alti, tra cui la dipendenza dalla Cina – nemico vero. Kyrylo Budanov, capo dell’intelligence militare ucraina, aveva festeggiato il compleanno incidendo una torta che disegnava la disintegrazione della Federazione Russa asseIl capo dell’intelligence militare gnandone il grosso alla Repubblica Poucraina Kyrylo Budanov polare (foto). Oggi ammette: «Non !nitaglia una torta che raffigura la spartizione della Russia. remo la guerra con una parata della
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vittoria sulla Piazza Rossa» 3. Zelens’kyj affronta fronde domestiche e soffre i limiti stretti del sostegno americano 4. Però nemmeno la resa dell’Ucraina tranquillizzerebbe Putin. Il regime del più debole fra i Grandi vive nella certezza che gli americani vogliano abbatterlo. E che i cinesi vogliano assaggiare la fetta siberiana della torta di Budanov. Di qui tre tesi, giusto per aprire il gioco. Primo. Nessun capocordata ha una strategia. Non c’è egemonia americana da revisionare. Quando le regole dell’ordine fondato sulle regole sono violate da tutti coloro che se ne riempiono la bocca vuol dire che il sistema è saltato. Non riformabile. Secondo. Il cardine di ogni equilibrio – nome pratico dell’ordine – è il riconoscimento reciproco tra i principali attori geopolitici. Principio di legittimità. Non per tornare al Congresso di Vienna, come da estrema utopia del suo massimo interprete, Henry Kissinger. Quello era un club adatto all’alta società delle potenze d’antan, imparentate d’animo, "nanco per sangue. Roba da snob. Irriproducibile oggi. La sua ultima versione, nota come guerra fredda, ovvero pace fra Usa e Urss più rispettivi soci europei, era fondata su una premessa talmente radicata sia a Washington che a Mosca da non necessitare carta scritta: nessuno vuole rovesciare il regime altrui. Geopolitica delle buone maniere. Ci si combatte in ogni modo, purché indiretto e sotto il grado nucleare, senza mirare alla sovversione del regime nemico. Perde chi si dissolve da dentro. Non vince chi gli sopravvive, giacché deve assumersi la responsabilità dell’altra metà del mondo, "no allora retta dall’utile nemico. Nessuno può "ssare da solo l’ordine mondiale. L’America se ne è accorta in ritardo. Non può tornare egemone perché non accetta un sub-egemone con cui spartirsi tanto onere, ma ri"uta di abdicare al titolo di prima fra i non pari. La scintilla della Guerra Grande è scaturita da questa frizione. Terzo. Cominceremo a spegnere l’incendio quando i nemici concorderanno di non desiderare la caduta del regime altrui. Evoluzione del nono comandamento. Qualcosa comincia a muoversi nel triangolo UsaCina-Russia. Mentre russi e americani discutono in segreto su come terminare l’inutile strage ucraina senza perdere la faccia – partendo dal principio moscovita che qualche territorio «regalato» tornerà nell’impero (carta 1) – altrettanto riservati dialoghi fra Pechino e Washington mirano
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3. «An interview with the head of Ukraine’s defence intelligence», The Economist, 17/9/2023. 4. Cfr. S. SHUSTER, «“Nobody Believes in Our Victory Like I Do”. Inside Volodymyr Zelensky’s Struggle to Keep Ukraine in the Fight», Time, 30/10/2023.
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1 - L’UCRAINA IN DONO SECONDO I RUSSI 16
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4 1654 Regali degli zar russi
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1917 Ucraina
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1922 Regali di Lenin 21
1945 Regali di Stalin 1954 Regalo di Khruščëv Oblast’ ucraine contemporanee 1 2 3 4 5 6 7
Transcarpazia Leopoli Ivano-Frankivs’k Černivci Ternopil’ Volinia Rivne
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Khmel’nyc’kyj Vinnycja Žytomyr Kiev Čerkasy Kirovohrad Odessa
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Mykolajiv Černihiv Sumy Poltava Dnipropetrovs’k Kherson
21 Crimea (annessa dalla Fed. Russa il 21 marzo 2014) 22 Zaporižžja 23 Donec’k 24 Kharkiv 25 Luhans’k
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a raddrizzare il piano inclinato che sta scivolando i due colossi verso la guerra. Per inerzia. In barba a ogni strategia. Follia incentivata dall’interdipendenza economica fra i duellanti – a differenza di Usa e Urss. Poiché le sanzioni colpiscono anche chi le impone, se la partita è esistenziale non resta che risolverla con le armi. Dal danno parziale alla totale autodistruzione. Meglio fare un passo indietro e chiedersi: «Che cosa vogliamo dal nemico? Che sparisca? Se sì, che ne facciamo del vinto?». Abc della strategia. Prima vittima della Guerra Grande, in tutti i suoi pezzi, stragi israelo-palestinesi incluse. Con Biden che istruisce Netanyahu sui rischi della guerra senza strategia, al quale immaginiamo che il capo dimezzato dello Stato ebraico abbia replicato: «E la tua quale sarebbe?».
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Fonte: tv russa Rossija 24 - 11/3/2022
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Concordare che il regime lo cambia chi si stanca di subirlo non è utopia. È il principio di ogni diplomazia. Da restaurare prima che sia tardi. Adottiamo la logica di un in!uente analista americano, Ryan Hass: «La Cina è troppo forte perché gli Stati Uniti l’invadano o producano un cambio di regime, e il contrario è altrettanto vero» 5. Estendiamo la regola alla Russia e avremo cominciato a invertire il senso di marcia. L’apocalissi può attendere. Vale anche in zona Monte degli Ulivi. 3. La geopolitica verte sulla tensione permanente fra imperativo territoriale e imperativo sociale: quanta terra può occupare una comunità senza perdere sé stessa? Estremo il caso di Israele (carta a colori 1). Tutta la storia del movimento sionista e dello Stato ebraico è percorsa da questa tensione. In termini psicanalitici, il sionismo ha sancito la morte di Dio padre e ha sposato la Terra di Israele 6. Salvo scoprire che era piena di alieni. Arabi, in schiacciante maggioranza musulmani, non spontaneamente disponibili a evacuare territori considerati propri. Il pendolo che oscilla fra i due imperativi sembra destinato a fermarsi solo con la morte di Israele o la #ne dei tempi. Eventi che nelle visioni apocalittiche diffuse in Terrasanta tendono a coincidere. La provvisorietà è la cifra dell’impresa sionista, radicata nella Shoah. Ne consegue l’impossibilità della strategia. L’orizzonte temporale di Gerusalemme è il minuto dopo. Le eleganti partizioni accademiche fra breve, medio e lungo periodo lasciano il tempo che (non) trovano. Se la seconda Shoah è possibile, forse imminente, compito dello Stato di Israele è spingerla ogni giorno più in là. Lavoro di Sisifo. Straniante e s#brante, ma inevitabile. Di qui l’accento sulla violenza e sulla disponibilità a usarla. Senza limiti. E senza preavviso. «Israele dev’essere come un cane pazzo, troppo pericoloso per essere disturbato»: postulato del generale Moshe Dayan, quintessenza del militare israeliano delle origini, alfa e omega della deterrenza con la Stella di Davide. Perfetto opposto dell’esortazione cara al più famoso ebreo d’ogni tempo, il paci#sta Albert Einstein: «I popoli deboli si vendicano. Quelli forti perdonano. Gli intelligenti ignorano». Nell’universo totalmente tattico di Israele l’esibizione di forza è basata sul principio di sproporzionalità. Il nemico deve scontare che attaccando
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5. R. HASS, «What America Wants From China. A Strategy to Keep Beijing Entangled in the World Order», Foreign Affairs, November/December 2023. 6. Cfr. J.Y. GONEN, A Psychohistory of Zionism, New York 1975, Mason/Charter, pp. 3-19.
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7. L. BERMAN, «“Time is not on our side”; Retiring IDF general calls for urgent army overhaul», Times of Israel, 15/2/2023.
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lo Stato ebraico si espone a rappresaglia esagerata. L’ombra dell’arma atomica è molto luminosa: tutti sanno che Gerusalemme ne dispone, ma nessun governo israeliano è disposto ad ammetterlo, tantomeno a de!nirne le regole d’impiego. Così il nemico è costretto a inscrivere nelle sue equazioni la probabilità del primo colpo nucleare. Deterrenza suprema, che avvolge di mistero la Bomba elevandola a principio attivo anche quando giace in misteriosi depositi di terra o stivata nelle pance dei sottomarini classe Dolphin di fabbricazione tedesca, testimonianza pratica di che cosa Berlino intenda quando proclama la difesa di Israele parte integrante della propria ragione di Stato. Sicché il nemico che immaginasse di distruggere d’un colpo di atomica la Terra d’Israele (palestinesi compresi, va senza dire) si condannerebbe alla vetri!cazione via mare. L’Iran lo sa e ne tiene conto, anche se un giorno forse scopriremo che l’atomica ce l’ha (carte 2 e 3). Ma i tempi eroici di Dayan e della schiacciante superiorità israeliana sui vicini arabi sono sfocato ricordo. Le truppe che affrontano la guerra in corso devono assorbire in fretta l’orrendo smacco del 7 ottobre, con la scia di dolore che occuperà per generazioni le genti ebraiche, dentro e fuori lo Stato d’Israele. Non c’è tempo di elaborare il lutto. Molti dei comandanti sanno che comunque !nisca la guerra li attende nella migliore ipotesi il prepensionamento, in alternativa la corte marziale. C’è però qualcosa di più profondo che mina morale ed ef!cienza delle Idf: la consapevolezza che il tempo lavora contro. L’eterna provvisorietà inscritta nella rinuncia a de!nire il rapporto fra spazio e coesione della nazione sta diventando insopportabile. Le andate e i ritorni a e da Gaza (carta a colori 2) o altri territori contestati confermano che la strategia logora chi non ce l’ha. In parole povere, Israele non può vincere perché non può né vuole de!nire la Vittoria. Successi tattici preludono a rovesci altrettanto provvisori e viceversa. Correre verso il traguardo e scoprire che la linea da tagliare scappa sempre in avanti è per il soldato frustrazione massima. Sentenza del generale Eran Ortal al momento di lasciare la guida del Centro Dado, pensatoio dell’élite strategica, lo scorso febbraio: «La nostra situazione militare si sta erodendo, altro che migliorando» 7. Rispetto alle guerre contro gli Stati arabi, affrontare l’Iran e i suoi agenti regionali – Õizbullåh, Õamås e Siria di al-Asad su tutti – è salto di scala. Resta valido il principio per cui Israele, fosse solo per disparità demogra!ca e territo-
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2 - IL NUCLEARE ISRAELIANO L I B A N O
S I R I A
M a r M e d i t e r r a n e o
Alture del Golan (annesse da Israele)
Yodfat
Possibile sito di allestimento e smaltimento di armi atomiche
Haifa
La go di Tiberiade Eilabun
Centro per le tecnologie nucleari militari
Possibile sito di stoccaggio
Tel Aviv
Cisgi o r dani a
Soreq Nuclear Research Center Reattore e sviluppo armi
G I O R D A N I A GERUSALEMME Possibile sito di stoccaggio
Tirosh
Mar Mo rto
St ris cia di Gaza
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E Mishor Rotem
E G I T T O
Centro chimico e deposito di uranio
Reattore nucleare
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riale, può solo rinviare la scon!tta, mai vincere. Scon!tta signi!ca scomparire dalla carta del mondo, «vittoria» è successo provvisorio perché non c’è nessuna Berlino da prendere. La dottrina dei padri fondatori, quando si trattava di affrontare coalizioni di (im)potenze arabe per conquistare una tregua in attesa del round successivo, imponeva di combattere in terra nemica, il meno
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Dimona
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Centro di ricerca nucleare
3 - L’IRAN NUCLEARE
Centro di addestramento dell’Organizzazione per l’energia atomica dell’Iran
TURKMENISTAN
Mar Caspio
Kalaye Electric; Università tecnologica Sharif; reattore di ricerca
Bonab Moallem Kalayeh
Impianto di ricerca TEHERAN sull’arricchimento con tecnologia laser Lashkar-Abad Fordow Arak Natanz Esfahan
Ardakan
Reattore ad acqua leggera da 360 mw
Centro di tecnologia nucleare; impianto di conversione dell’uranio; impianto di lavorazione del combustibile
Darkovin
Miniera di uranio
Saghand
AFGHANISTAN
Reattore ad acqua pesante Ir-40; impianto di produzione di acqua pesante
Impianto pilota di arricchimento del combustibile; impianto di arricchimento del combustibile
Impianto di arricchimento del combustibile
Impianto di estrazione dell’uranio
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IRAQ
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Shiraz Reattore di ricerca Fars
a piscina da 10 mw
KUWAIT Bushehr Bu
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Miniera e impianto di estrazione dell’uranio
eh Reattore ad acqua r leggera da 1.000 mw
Gchine Hormozgan
Bandar Abbas
ARABIA SAUDITA BAHREIN
Golf o P ersico
QATAR EMIRATI ARABI UNITI
OMAN
Attivo
In progetto
Smantellato
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vicino possibile ai grandi centri urbani e alle infrastrutture critiche nazionali. Scontri brevi, imperniati sulla superiorità aerea e sullo sfondamento dei carri armati. Per ristabilire la deterrenza. In vista della prossima puntata. Anche i «cani pazzi» si stancano. Invecchiando fanno meno paura. Le Forze armate israeliane, esercito di popolo formato da coscritti e masse di riservisti, rispecchiano la società da cui provengono, divisa in tribù parallele (carta a colori 3). Piuttosto omogenee al proprio interno, poco disposte a condividere valori e stile di vita altrui. Servizio militare incluso, da cui sono esentati arabi e ultraortodossi, salvo eccezioni, frequenti dopo il feroce attacco di Õamås. Sicché al 7 ottobre della deterrenza originaria era rima-
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Fonte:The Washington Institute for Near East Policy
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sto poco, oggi meno. Culmine di un ciclo strategico perverso, che Tzahal non sa come spezzare (carta 4). Sedata la minaccia degli Stati arabi, Israele si sente oppresso dal «cerchio di fuoco» allestito dall’Iran attorno alle sue frontiere settentrionali (Õizbullåh e Siria) e meridionali (Õamås). Con lunghe tregue punteggiate da schermaglie offensive via razzi lanciati da Gaza o dal Libano, più attentati terroristici (carta a colori 4). Niente di sconvolgente, però logorante perché non si vede come liberarsene. Il modello adottato nelle quattro guerre di Gaza precedenti verteva su bombardamenti aerei e modeste incursioni punitive «mordi e fuggi». Manutenzione. Tagli periodici dell’erba, nel gergo militare israeliano. Protetti dal formidabile scudo missilistico Iron Dome, capace di intercettare nove missili su dieci. A un certo costo, visto che il katiuscia palestinese vale circa 300 dollari, l’intercettore Tamir !no a 50 mila. L’incubo degli strateghi israeliani era e resta la crescita esponenziale in numero, potenza, precisione e frequenza di lancio dei missili nemici. Lo scenario peggiore è il 10/10 mila/100 mila: dieci giorni di bombardamenti con lancio di diecimila razzi e centomila vittime. Nemmeno Iron Dome sarebbe in grado di assorbire tanto volume di fuoco. Come sventare il pericolo? Quando nel gennaio 2019 il generale Aviv Kochavi assume il comando delle Idf stabilisce di voltar pagina. D’ora in poi, promette, «tutto per la vittoria». Il primo ministro Netanyahu conferma: Tzahal è «pronto per un solo obiettivo – vincere la guerra» 8. Kochavi convoca i vertici delle Forze armate nel Laboratorio per la Vittoria, da cui scaturisce il piano Momentum, votato alla Vittoria Decisiva, nuovo vecchissimo mantra dei decisori israeliani. Obiettivo: spezzare il «cerchio di fuoco». Õamås e soprattutto Õizbullåh non sono mere formazioni terroristiche o di guerriglia, ma vere e proprie potenze, code dello scaltro «cane» persiano. Per sradicarle non basta la superiorità tecnologica, comunque calante. Bisogna scatenare le forze di terra contro le milizie islamiste, stanarle sopra- e sottoterra. Ortal, profeta dell’ennesima «rivoluzione militare», la descrive in un ambizioso saggio che vorrebbe esaltarla ma ne svela l’inconsistenza 9. Fissazione sulla tecnologia, predicamento delle operazioni multidominio (terra, aria, ciberspazio) fondate sull’integrazione delle forze, penetrazione del territorio nemico per sradicare l’erbaccia anziché tagliarla e ritagliarla restano intenzioni senza ri#esso
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8. D. PIPES, «What does “victory” really mean to the Israel Defense Forces – Opinion», The Jerusalem Post, 26/11/2020. 9. E. ORTAL, The Battle before the War: the Inside Story of the IDF’s Transformation, Jerusalem 2022, Ministry of Defense Publishing.
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1 - ISRAELE
DISTANZE TRA CITTÀ
L I B A N O Zona Undof (Onu)
Area "ttamente urbanizzata ‘
Tel Aviv Gerusalemme 53,47 km (linea d’aria) 64,5 km (strada)
Gerusalemme Gaza Alture del Golan (annesse 92,39 km (linea d’aria) da Israele) 113,42 km (strada) Lago Haifa Ashkelon di Tiberiade 134,72 km (linea d’aria)
Akko (Acri) Haifa
159,54 km (strada)
Nazaret Mar Mediterraneo
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Jenin Netanya
Tūlkarim G I O R D A N I A
Nāblus
Hertzliya
Cisgiordania
Ramat Gan
Rāmallāh
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Ashkelon Striscia di Gaza
Mon
Gaza Hān Yūnis
Betlemme
al-Halīl
Depressione da 0 a 100 m da 100 a 500 da 500 a 700 da 700 a 1.000
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Gerico Ashdod GERUSALEMME
F. Giordano
Tel Aviv
Mar Morto
Alture del Golan Zona cuscinetto Onu Muro costruito in Cisgiordania e intorno a Gaza
Rafah Beer Sheva
Muro in progetto in Cisgiordania
Dimona I S R A E L E
Linea verde
E G I T T O Lo Stato di Israele è una repubblica parlamentare fondata nel 1948 Super!cie: Popolazione: Età media: Capitale: Città principali:
20.918 km2 8,65 milioni di abitanti (74,8% ebrei, 20,8% arabi, 4,4% altri) 29 anni Gerusalemme (agglomerato urbano 1,2 milioni) Tel Aviv (agglomerato urbano 3,8 milioni) Haifa (370 mila) Beer Sheva (369 mila)
DISTANZE TRA CITTÀ
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Ampiezza massima di Israele: 470 km circa nord-sud e 135 km circa est-ovest
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Eilat
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Gerusalemme Gerico 24,97 km (linea d’aria) 36,33 km (strada)
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Gerusalemme Nāblus 29,33 km (linea d’aria) 42,99 km (strada)
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Forze armate: 186 mila, più 445 mila riservisti Leva obbligatoria per uomini e donne Armi nucleari: non dichiarate (stimate fra 80 e 200 testate) Economia: 69,5% servizi, 26,6% industria, 2,3% agricoltura Imprese ad alta tecnologia: ubicate a Tel Aviv, Ramat Gan, Hertzliya, Haifa (20% del pil) Primo partner commerciale: Stati Uniti d’America
Tel Aviv 281,20 km (linea d’aria) 336,42 km (strada)
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ov 2 - FU STRISCIA DI GAZA
Valico di Erez Il valico, riservato ai pedoni, è l'unico punto di transito tra Gaza e Israele. Nel 1991, Israele ha annullato il “permesso generale di uscita” e iniziato a richiedere ai residenti palestinesi permessi individuali per varcare il con!ne. Oggi i permessi vengono per lo più concessi solo in quelli che IsraeleZ de!nisce “casi umanitari eccezionali”. ona vie (1,tata a 5 m lla Barriera navale n) pes (400 m) ACCESSO ca PROIBITO
Lim Lim 1 ite ite 5 m di 20 m di igl pe i pe ia sca gli sca na (ac a na (ap utic cor ut rile he di ich 20 di e 19 Os lo 1 )
6m Lim igli ite a na di p uti esc che a
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Danni subiti durante il con$itto israelo-palestinese (2021) 450 Edi$ci non residenziali 169 Edi$ci residenziali 24 Centri sanitari 50 Edi$ci scolastici 3 Impianti di desalinizzazione
Valico di Erez Beyt Lāhyā GAZA NORD Bayt Hānūn
al Šāti’
Gaza
Secondo l'accordo interinale israelo-palestinese (1995) i pescatori di Gaza possono navigare !no a 20 miglia nautiche al largo della costa. Di fatto Israele non ha mai consentito l'accesso !no a quel limite. Negli ultimi anni la zona di pesca è variata, per la maggior parte del tempo, da tre a nove miglia nautiche.
GAZA
Valico di Nahal ‘Oz Valico di Karni
Sa
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D allāh
Valico di Salāh al-Dīn
Valichi chiusi
Si trova a circa quattro chilometri a ovest del valico di Rafah ed è stato utilizzato per trasportare merci a Gaza dall'Egitto a partire dal febbraio 2018. Sul lato di Gaza, il valico è controllato da funzionari di Hamās.
Dayr al-Balah
AREA CENTRALE
Il valico di Karni è stato costruito nel 1994 e fungeva da principale passaggio commerciale per il trasferimento di merci da e per la Striscia. Nel giugno 2007, quando Hamās ha preso il controllo di Gaza, Israele ha chiuso il valico, lasciando solo un nastro trasportatore utilizzato per il trasferimento di cereali e mangimi, rimasto operativo !no al marzo 2011.
Hān Yūnis HĀN YŪNIS
Il Sūfa è stato costruito nel 1994 ed è stato utilizzato per il trasporto di materiali da costruzione a Gaza. Israele lo ha chiuso nel 2008. Il Nahal ‘Oz, utilizzato per il trasporto di carburante, è stato chiuso all'inizio del 2010.
RAFAH Muro Fasce di sicurezza: 100 metri 300 metri 1.000 metri 0 1 2
Rafah Aeroporto internazionale (distrutto)
4 km
Valico di Sūfa
Zona cuscinetto controllata e pattugliata dalle forze israeliane
Valico di Kerem Shalom Questo è l'unico valico commerciale di Gaza, anche se alcune merci entrano nella Striscia dall'Egitto attraverso il valico di Salāh al-Dīn. Di norma il tra#co è molto limitato.
Area poco urbanizzata e aree industriali Area fortemente urbanizzata Campi profughi Principali strade
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Corridoio Philadelphia
Valichi di frontiera attivi
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Valico di Rafah Inaugurato nel 1982, Rafah è l'unico passaggio pedonale tra Gaza e l’Egitto. Salvo crisi, è aperto cinque giorni a settimana.
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Fonte: Rapporto Ocha 2021 - Le Figaro
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3 - MOSAICO ISRAELIANO
LIBANO
Le élite ashkenazite di origine europea concentrate soprattutto nella zona a nord di Tel Aviv Gli arabi israeliani Nazional-religiosi e ultraortodossi
GALILEA
Haifa
Alture del Golan
SIRIA
Tiberiade
I "russi" I mizrahim ("orientali"): provenienti dalle immigrazioni dai paesi arabi e islamici (appartenenti in grande maggioranza agli strati sociali più poveri)
Nazaret Umm al-Fahm (epicentro arabi israeliani) Ğanīn
Ma r Me di t e rran eo
Netanya
Tūlkarim Nāblus Kfar Saba
Tel Aviv (epicentro ebrei laici) Bat Yam Rishon LeTziyon Ramla
PALESTINA (CISGIORDANIA) Modi’in
GIORDANIA
Gerico
Ashdod
Gerusalemme Bnei Brak Efrat (epicentro ebrei ultraortodossi) Beitar Betlemme (epicentro ebrei nazional-religiosi) ‘Illit Kiryat Gat al-Halīl (Hebron)
Gaza PALESTINA (STRISCIA DI GAZA)
Mar Morto
ISRAELE
NEGEV
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Territori occupati
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EGITTO
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ov 4 - IL LIBANO DI HIZBULLĀH . ‘A K K Ā R
al-Qusayr .
102.500 rifugiati
Quartier generale Hizbullāh .
117.524 rifugiati
NORD
BA‘LBAK HIRMIL
124.008 rifugiati
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Ra‘s Ba‘labakk
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Aeroporto Internazionale di Beirut
A di lto Aa pi rs an al o
Area sotto il controllo di Hizbullāh
Autostrada al-Asad
B E I R U T
MONTE LIBANO
Beirut Zahla .
180.120 rifugiati Mar Mediterraneo
Ba‘labakk
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Jūniyah
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L I B A N O MONTE LIBANO BIQĀ‘
201.189 rifugiati Damasco
58.865 rifugiati
Profughi siriani - Tot. 814.715 (Unhcr: situazione al 31/12/2022)
da 1 a 300 da 301 a 1.000 da 1.001 a 2.000
Marğ ‘Uyūn A L - N A B AT I Y YA
30.509 rifugiati
Area
ĞANŪB
Tiro
Nāqūra
Bint Ğubayl
Alture del Golan
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Hūlā .
da 2.001 a 5.000
S I R I A
da 5.001 a 10.000 da 10.001 a 20.000
(occupate da Israele)
da 20.001 a 34.000
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Distretti
Proiezioni esterne Hizbullāh .
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Strade
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Linea Blu
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Città strategiche per H.izbullāh Fattorie di Šib‘ā Aree sotto il controllo di H.izbullāh Alture del Golan Area Uni"l Kibbutz e villaggi con l’ordine Area Undof di evacuazione (Israele) N O R D Nomi dei distretti Zona di evacuazione (Israele)
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I S R A E L E
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5 - CORIANDOLI DI CISGIORDANIA Area palestinese Zona edi!cata Area A (Pieno controllo palestinese) Area B (Pieno controllo civile delle aree palestinesi civili e controllo congiunto con Israele per la sicurezza)
Hinanit
Jenin
‘Arrāba
Qabātiyya .
Tūbās
Tūlkarim .
Rāmallāh
Nomi di località palestinesi
Kdumim
Nāblus
Qalqīliyya
Mekhora
Linea verde
Argaman
Ariel Salfīt
Muro in costruzione
Ma‘ale Efraym Petzael
Municipalità di Gerusalemme
Netiv HaGdud Yitav
Beit El Ofra
I S R A E L E
Rāmallāh
Modi‘in ‘Illit
Rimmonim Gerico
Area israeliana Zona edi!cata
Mizpe Yericho
Area municipalizzata Area C Pieno controllo israeliano per la sicurezza, piani!cazione e costruzione Zone chiuse (zone di fuoco) Aree chiuse esistenti e progettate dietro la barriera. L’accesso è limitato ai possessori di permesso Basi militari israeliane Nokdim
Nomi località israeliane Zona di fuoco 918
Fiume Giordano
Città Vecchia (Gerusalemme)
G I O R D A N I A
Huwwāra Muro costruito
GERUSALEMME
Gilo Betlemme Beitar ‘Illit
Ma‘ale Adumim
Almog
Nokdim
Sūrīf
Bayt Fağğār Bayt Awlā Ma‘ale ‘Amos Halhūl al-Halīl Kiryat Arba Banī Na#īm Dūrā
Mar Morto
Negohot
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Fonte: Peace Now
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Beit Yatir
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Carmel Ma‘on
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al-Zāhiriyya
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Fonte: Petroleum Economist
Leader nel settore del gas in Medio Oriente
Ambizione a confermarsi il paese leader dell’Opec allargato
Crescente in"uenza e minaccia iraniana
Cile
Colombia Ecuador
Pressioni sul Medio Oriente di Russia e Cina
1 - Iraq 2 - Kuwait 3 - Arabia S. 4 - Bahrein 5 - Qatar 6 - E.A.U. 7 - Oman
Messico
Stati Uniti
Canada
PA
Nigeria
Algeria Libia
RO
Finlandia Svezia Norvegia
Cina
Stretti Bāb al-Mandab: 21 mila navi commerciali lo attraversano ogni anno Hormuz: passaggio del 40% del petrolio mondiale (Flusso che rappresenta il 25% della fornitura globale di petrolio)
India
Kazakistan
Federazione Russa
Turchia 1 Iran 2 3 45 67
Estonia Lettonia Lituania
USA E PAESI OCSE
- export di energia
Paesi che importano sempre più energia dal Medio Oriente
Australia
Malaysia Brunei
Nuova Zelanda
Giappone
CINA
INDIA
di energia
+ export
Corea del Sud
MEDIO ORIENTE
PAESI OCSE OPEC PLUS Paesi che hanno diminuito Paesi Opec 71% del l’import di energia petrolio mondiale Paesi produttori non Opec dal Medio Oriente
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Angola
Guinea Eq. Gabon
Islanda Regno Unito Irlanda
Venezuela
6 - NUOVI FLUSSI DI EXPORT PER IL MEDIO ORIENTE
EU
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Riyad
Baku
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Mumbai
PAKISTAN
AFGHANISTAN
Tashkent
Accordo di Ashgabat (Progetto di trasporto multimodale) Progetto corridoio comerciale Nord-Sud via terrestre via marittina
I N D I A
Delhi
Almaty
C I N A
Territori e gruppi sotto in!uenza saudita: Musulmani sunniti Territori e gruppi sotto in!uenza iraniana: Hamās (Gaza) . Ribelli hūtī . 7 Hizbullāh in Libano .
K A Z A K I S T A N
Oceano Indiano
Chabahar
Area controllata da al-Qā‘ida e alleati
OMAN
E.A.U.
QATAR
KM E Ashgabat
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Aktau
Bandar Abbas
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Teheran
BAHREIN
KUWAIT
Bassora
IRAQ
Baghdad
ARAB IA S AUD ITA
GIORD.
SIRIA
TURCHIA
Territori e gruppi sotto in!uenza turca: Libia (Tripolitania) Gruppi estremisti islamici del Nord della Siria Regione semiautonoma del Kurdistan iracheno
po 7 - ALLEANZE REGIONALI PER IL CRESCENTE MERCATO ASIATICO po st st .b .b iz iz
Mar Rosso
Stretti strategici Dardanelli-Bosforo Canale di Suez Stretto di Bāb al-Mandab Stretto di Hormuz
SUDAN
EGITTO
Libano Gaza
7
Cipro Nord
Ankara
FEDERAZIONE RUSSA Astrakhan’
Verso Mosca
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Forti pressioni iraniane sugli Stretti
Territori ucraini occupati militarmente dalla Fed. Russa
Area d’in!uenza iraniana
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Area d’in!uenza saudita
LIBIA Alleanze regionali Cirenaica per dominare i corridoi commerciali emergenti Area d’in!uenza turca
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Frizioni tra Stati Maggiori Minori
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Conakry
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Madrid
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Mar Mediterraneo
Roma ITALIA
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SUDAN
SIRIA
Paesi extraeuropei coinvolti nella gestione del Mediterraneo
Faglia di “Caoslandia” Perni di co-stabilizzazione nordafricana
Paesi fortemente instabili
Paesi in guerra
Unione Europea
di tensione saheliana
NIGER
Fascia
Agadez
EGITTO
ISRAELE/GAZA
TURCHIA
Mar Nero
UCRAINA
AREA DI RESPONSABILITÀ DEL TRIANGOLO STRATEGICO
ALGERIA
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Gibuti
ARABIA SAUDITA
FEDERAZIONE RUSSA
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Tensione permanente Marocco- Algeria
(asse da aggiornare)
Washington
OCEANO ATLANTICO
Berlino
8 ! UNA STRATEGIA ITALIANA NEL MONDO CHE CAMBIA
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Roma
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Arco di con!itto
Potenze esterne in!uenti in Nord Africa
Madrid
Parigi
Quadrilatero strategico (Euroquad)
OCEANO INDIANO
Proiezioni cinesi verso: - Federazione Russa - Mar Mediterraneo - Medio Oriente
CINA
Aree di stabilizzazione e moderata in!uenza italiana
Medioceano (Mar Mediterraneo più Mar Rosso)
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GUERRA GRANDE IN TERRASANTA
4 - L’OPERAZIONE AL-AQSĀ Ashkelon
La carta illustra i primi due giorni del con!itto (7-9 ottobre), quindi l’attacco a sorpresa di Ḥ amās e l’iniziale reazione delle forze israeliane (Idf). Massima estensione dell’avanzata militare di Hamās in . territorio israeliano il 7 ottobre Combattimenti intorno a Gaza (7-9 ottobre) Comunità israeliane evacuate dalle forze israeliane Barriera forti"cata Checkpoint
Karmia Netiv HaAsara Yad Mordechai
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Incursioni di Hamās: . Via terra
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Striscia di Gaza
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nella struttura e nella piani!cazione di Tzahal. Quanto al decantato «Reparto Fantasma», battaglione interforze di élite con capacità di fuoco divisionarie, rimane allo stadio di prototipo. Il tutto riassunto nello slogan «accendi la luce, spegni il fuoco». Tradotto: costringi il nemico a uscire dai bunker grazie a nuovissimi sensori e
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Fonti: Le Monde; Reuters
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C’È LUCE OLTRE LA GUERRA
altre diavolerie elettroniche, lo «illumini» (individui) e lo distruggi 10. Da dove Ortal deriva tanta idea? Nientemeno che dalla battaglia dell’Atlantico (1939-45), con Israele nei panni dei sottomarini alleati dotati di radar e sonar, mentre Õamås e Õizbullåh sarebbero gli U-Boot nazisti, ridotti da cacciatori a preda causa inferiorità tecnologica. In"ne, tocco di genio. Israele deve apparecchiare un suo «cerchio di fuoco» per soffocare l’Iran. Come, se non ha con"ni terrestri né clienti da schierare a ridosso dell’impero persiano? Oggi con navi pirata, senza bandiera, e abbondanza di sottomarini nel Golfo Persico. Domani attraverso protocolli segreti degli accordi di Abramo con Emirati Arabi Uniti e Bahrein che consentano allo Stato ebraico di affacciarsi con mezzi militari propri sul Golfo Persico. Come il 7 ottobre ha tragicamente dimostrato, la Vittoria Decisiva è pubblicità. Conferma di tre vizi originali da cui gli strateghi israeliani non riescono a emanciparsi. Primo. La religione della tecnologia consente forse di censire le capacità del nemico, non di conoscerne le intenzioni. Specie se questo aggira l’intelligence elettronica riportando le comunicazioni interne a prima della rivoluzione industriale: carta, penna, voce. La superiorità tecnologica trasmette sicurezza mentre prepara rovina. Sindrome da Linea Maginot. Dif"cile liberarsene. Come rinunciare a qualcosa che solo la tecnologia può? La tecnica è mondo a sé, quasi ingovernabile dall’uomo, specie se assuefatto a usarne. Il vantaggio dell’arretratezza trova qui paradigmatica sanzione. Secondo. Il ri"uto di includere nelle proprie equazioni le mosse del nemico. Come se Israele fosse impegnato in un seminario interno anziché a fronteggiare nemici astuti e decisi. Nessuno può determinare da solo lo svolgimento della guerra. Non tutto dipende da noi. La scalata – escalation 11 – del con#itto non è mai totalmente controllabile, specie quando le culture sono incomunicanti, o tali paiono. Terzo. Oggi più di ieri politici e militari israeliani abitano universi diversi, semichiusi, spesso opposti. Tradizione patria vuole che in guerra decidano i generali, al grado locale anche l’uf"cialità medio-bassa. Ai politici spetta intrattenere e rassicurare il fronte domestico. Se poi, come nell’età dell’oro, il primo ministro è un generale, il modello risulta perfetto. Ma nel
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10. E. ORTAL, «Turn on the Light, Extinguish the Fire: Israel’s New Way of War», War on the Rocks, 19/1/2022. 11. Tentativo destinato al fallimento di esprimere in italiano termini inglesi d’uso gergale, nell’illusione che la lingua dove il sì suona chiari!chi ciò che l’altrui idioma offusca.
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GUERRA GRANDE IN TERRASANTA
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12. O. SHELAH, «Has the IDF Changed?», Inss Strategic Assessment, November 2022.
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4. Le indemarcabili frontiere di Israele funzionano come la marea. Alta, !n dove ti spingono fame di terra e armi. Bassa, quando prudenza avverte di esserti spinto troppo oltre in territorio ostile, fra gente che non ti ama, che non puoi né vuoi convertire al tuo ceppo e che non riesci a espellere da casa sua. Così dalla nascita, nel 1948, !no a oggi. Tre quarti di secolo avanti e indietro. Nel calendario geopolitico dello Stato ebraico, lampi di guerra acuta rompono anni di quiete armata, mai assoluta. Sarà che per l’abitudine a disegnare cerchi nel tempo, a contare le ore dalla notte (tre stelle visibili nel cielo) !no al tramonto, le ossessive scadenze del ciclo guerra/pace sembrano legge. Nevrosi che condanna Israele a ripetersi. Il non-!nito dello Stato ebraico ha poco di michelangiolesco. Per il nemico lo studio del ciclo tattico di Israele è fondamentale. Serve a modulare tregue, attacchi e ritirate. Per lo Stato maggiore delle Idf signi!ca dannazione di non poter mai celebrare compiuta la missione. Il «cane pazzo» è maledettamente prevedibile. Quando il 7 ottobre Õamås scatena l’inferno sconta di attrarre Israele nella trappola di Gaza. Non solo disperazione: freddo calcolo. Perché immagina che Gerusalemme non abbia scelta. Meglio, non possa darsela. Esempio di guerra asimmetrica: Israele deve distruggere Õamås, ciò che non può. A Õamås basta resistere. Sopravvivere in vista del prossimo round. È tutto scritto nella parabola a-strategica del sionismo realizzato.
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gabinetto Netanyahu il 7 ottobre non c’era ombra di vero uomo d’armi, mentre non mancavano gli strateghi dilettanti. Ad esempio il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, per cui i palestinesi non esistono, ha creato una sua catena di comando semiautonoma, al servizio dei coloni di Giudea e Samaria (Cisgiordania). Sicché mentre Õamås scatenava l’orrore attorno a Gaza il grosso e il meglio delle Idf era schierato a protezione degli insediamenti. Il premier zombie ha dovuto richiamare d’urgenza nel suo gabinetto un paio di generali, con cui ha subito provveduto a litigare. Rieccoci al punto di partenza. Gerusalemme è senza strategia. Nella sintesi dell’ex deputato centrista Ofer Shelah: «Oggi Israele non de!nisce – e i comandanti militari non propongono – nessuno scopo bellico altro dall’ottenere la quiete. Ciò lascia interamente in mano nemica la capacità di raggiungere questo obiettivo, dato che sarà lui a decidere quando vi sarà o non vi sarà quiete» 12.
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C’È LUCE OLTRE LA GUERRA
Prendiamo la guerra dei Sei giorni (5-10 giugno 1967). Esempio massimo della contraddizione fra anelito alla terra e principio di ebraicità. Blitzkrieg modello. Fondativa dell’«impero accidentale» d’Israele 13. Nello scontro con la sgangherata coalizione di Egitto, Giordania e Siria, Tzahal strappa al primo l’intera Penisola del Sinai, con Gaza, al re hashemita sottrae Giudea e Samaria (Cisgiordania) ma soprattutto Gerusalemme Est, mentre si installa sulle siriane alture del Golan. Altissima marea: in 130 ore lo Stato ebraico passa da 20 mila a 102 mila chilometri quadrati. Somiglia molto alla Terra di Israele nella pur variabile interpretazione biblica cara ai sionisti religiosi. Però abitata da troppi arabi. Escluso per statuto identitario lo Stato binazionale, resta da scegliere dove restare. Gerusalemme tutta, per inestimabile valore simbolico, sulla cui soglia Dayan aveva esitato («che ci facciamo con tutto questo Vaticano?»), salvo penetrare d’un colpo nella Città Vecchia. E parti del Golan, necessarie per il controllo del Lago di Tiberiade, strategica riserva d’acqua. Scelte poi sigillate via annessione. Quanto a Giudea e Samaria, con gran disappunto Tzahal constata che a differenza del 1948 gli arabi non scappano con le chiavi di casa. Preferiscono l’occupazione alla fuga e si dispongono alla resistenza, passiva o attiva. Israele sceglie di presidiare la Valle del Giordano e colonizzare gradualmente alcuni territori prossimi al proprio baricentro. Prende la dote senza consumare il matrimonio. Come le dita di una mano, gli insediamenti – alcuni elevati negli anni a centri urbani – stringono in una morsa quelle terre che il Libro assegnerebbe a Israele. Regime di occupazione che ri"uta la responsabilità di governare gli arabi rimasti. Basta controllarli. Procede quindi a corrompere, sedare e separare i cisgiordani tra loro e dagli altri palestinesi, "no a subappaltarli alla pallidissima Autorità nazionale, poco autonoma e molto collaborazionista. Il Sinai tornerà all’Egitto nel 1982 quale pegno di pace fredda. Le mini-colonie di Gaza verranno evacuate nel 2005, d’accordo con gli americani: atto di apparente buona volontà grazie al quale ci si libera di un territorio arido e ingestibile. Presto strappato dagli islamisti di Õamås all’oligarchia di Råmallåh prima con il voto (2006) poi con la violenza (2007). Della guerra dei Sei giorni vale ritenere cinque moduli tattici che ricorrono nella gestione israeliana dei con#itti, attuale incluso.
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13. G. GORENBERG, The Accidental Empire. Israel and the Birth of the Settlements, 1967-1977, New York 2006, Times Books, Henry Holt and Company.
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14. Ivi, p. 28.
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Regola prima. Si combatte e si vince la battaglia, poi si decide per quale !ne. Si avanza a valanga, curando di ottenere il massimo nel minor tempo possibile. A neve sciolta si coglie !or da !ore – terra da terra – per la maggior gloria della patria. Il resto è scarto da riaf!dare al nemico spesso renitente. Per esempio Sinai e Gaza, mai davvero controllati dall’Egitto e percorsi da bande di beduini, oltre a traf!canti e terroristi d’ogni risma. Il dramma del dopo-7 ottobre è che Tzahal deve rioccupare in tutto o in parte la Striscia maledetta ereditata dai Sei giorni, di cui pensava essersi sbarazzata. Regola seconda. Il nemico è nazista, il suo capo emulo di Hitler. Nel 1967 gli egiziani erano bollati seguaci delle SS, il loro leader Nasser paragonato al Führer. Editto poi esteso a tutti i super-nemici, Õamås incluso (manca Hitler causa carenza di Guida suprema, a meno di non riferirsi al patrono iraniano Khamenei). Curiosa relativizzazione del Male assoluto da chi più di ogni altro lo ha subìto e ne ha tratto motivo per costituire un proprio Stato, prevenzione di un’altra Shoah. (I dodici anni del Reich millenario non sono ancora storicizzati visto che li si brandisce come paradigma negativo adattabile a ogni propaganda, ben oltre Israele. Un caso per tutti: l’aggressione russa all’Ucraina dipinta come denazi!cazione da Putin, a sua volta hitlerizzato dall’Occidente.) Regola terza. L’America è amico unico, decisivo, necessario. Offre protezione strategica a costo accettabile. Però non è mai carta bianca. Qui il parallelo fra 1967 e oggi appare lampante. Allora gli Stati Uniti erano impantanati in Vietnam. Il presidente Johnson non intendeva !nire anche nella guerra dello Stato ebraico. Alle pressioni del ministro degli Esteri Abba Eban replicò: «Israele non sarà solo a meno che non decida di fare da solo» 14. Logica simile a quella che ha spinto Biden a premere su Netanyahu per una risposta «misurata» al massacro di Õamås per non rischiare di aprire un fronte mediorientale nella Guerra Grande. Se Johnson fu vittima di un attacco di «tonchinite» – riferimento all’incidente del Golfo del Tonchino da cui scattò la scintilla del disastro vietnamita – Biden e i suoi apparati soffrono di «taiwanite» mista a «ucrainite». All’epoca il contrasto con l’amico a stelle e strisce sfociò nel misterioso attacco israeliano alla nave spia USS Liberty, in cui perirono 34 militari americani. Classi!cato «incidente». Sentiamo di poter escludere che qualcosa di analogo accada alle portaerei della US Navy alla fonda al largo di Israele. Regola quarta. Il Medio Oriente è terra di miraggi. Niente è come appare. Ciascuno lo osserva con le proprie lenti. La messa a fuoco è variabile,
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GUERRA GRANDE IN TERRASANTA
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C’È LUCE OLTRE LA GUERRA
ma tra maschera e volto corre molto vento. Fra la versione pubblica e quella segreta passano mondi. Specie in Israele, che non può esibire le relazioni pericolose su cui conta sottotraccia (carta 5). E oggi soffre nel ricordo del sostegno alla nascita di Õamås organizzato da Yitzhak Rabin a !ne anni Ottanta per !ccare una spina islamista nel !anco nazionalista dell’Olp guidata dal laico Arafat 15. Rapporto mai interrotto !no al 7 ottobre. Anzi incentivato da Netanyahu favorendo il trasferimento di fondi qatarini verso la Striscia, in buona parte !niti nelle tasche del movimento islamista. Astuzia da lui stesso spiegata a colleghi del Likud l’11 marzo 2019 con la necessità di tenere Gaza separata dall’Autorità cisgiordana: «Chiunque si opponga allo Stato palestinese deve sostenere il trasferimento di denaro dal Qatar a Õamås. Così sventeremo lo stabilirsi della Palestina» 16. Teorema subito dopo confermato ai media da Gershon Hacohen, il generale che gestì il disimpegno da Gaza: «Dobbiamo dire la verità. La strategia di Netanyahu è di impedire l’opzione dei due Stati. Sicché sta volgendo Õamås nel suo più stretto partner. Pubblicamente Õamås è nemico. In segreto, è un alleato» 17. Ha tradito e va punito. Regola quinta. Finché può, lo Stato ebraico negozia con sé stesso. Nel gioco a somma zero fra terra e identità la partita è tutta interna alle élite e all’opinione pubblica israeliane, espressa con quella libertà e asprezza di argomenti che ne distingue lo spazio mediatico. Qui la geopolitica prevale sulla politica, perché ne è premessa logica e fattuale. Senza il proprio Stato, di che disputerebbero gli israeliani? Primum vivere. Valga la seguente parabola. 5. Per i palestinesi e per alcuni suoi critici Israele è Stato coloniale. Anatema. Imitazione degli imperialismi occidentali, nel caso il britannico. Interpretazione che trascura la lotta armata, mezzi terroristici inclusi, con cui avanguardie ebraiche e scampati alla Shoah si emancipano dalla tutela mandataria esercitata per trent’anni da Londra sulla Palestina. Fra loro spiccano comunisti e socialisti d’ogni modulazione. Prima classe dirigente dello Stato d’Israele, prevalente !no al 1977. Ebrei di sinistra: incrocio di settarismi d’intensità inarrivabile. Si sta male se ci si scopre d’accordo. Oggi,
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15. Cfr. A. FERRARI, «Le parole amare di Mubarak (e Rabin) su Õamås e Israele», Corriere della Sera Tv (video), maggio 2021. Conversando con Antonio Ferrari, il presidente egiziano ricordava l’incontro con re Hussein di Giordania e Rabin poco prima che venisse assassinato, in cui lo stesso premier israeliano ammetteva di aver «inventato» Õamås e constatava: «Purtroppo è il più grave errore che Israele ha commesso». 16. Cfr. D. SHUMSKY, «Why Did Netanyahu Want to Strengthen Hamas?», Haaretz, 11/10/2023. 17. Ibidem.
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GUERRA GRANDE IN TERRASANTA
5 - ISRAELE TRA MASCHERA E VOLTO HIZBULLĀH . Più potente avversario militare (130 mila missili) nel Libano al collasso. In caso di guerra aperta regionale, primo fronte da sfondare
TURCHIA
(LIBANO) HIZBULLĀH .
Interlocutore strumentale seminascosto, funzionale cooperazione di intelligence e militare in Iraq e nel Caucaso
IRAN
Nemico necessario (ricambiato) Questo è il vincolo più importante: senza l’Iran, Israele non avrebbe più il Nemico mortale. Senza Israele, l’Iran non potrebbe espandersi nel mondo arabo-mediterraneo. È la coppia suprema intorno a cui tutto gira
SIRIA
Il meno minaccioso e più debole fra i vicini, l’unico fronte dove Gerusalemme non schiera truppe in atteggiamento o!ensivo
Cisgiordania Anp (Striscia di Gaza) Hamās . GIORDANIA
ISRAELE QATAR
Alleato di fatto sul fronte della Giudea e Samaria, poliziotto alla frontiera orientale e!ettiva di Israele, la sponda Est del "ume Giordano «Svizzera» sul Golfo, ideale per ogni negoziato segreto, bancomat universale per pagare chi serve
Partner economico, commerciale e tecnologico, utile anche a sedare i palestinesi con aiuti. Purché non diventi una ARABIA SAUDITA superpotenza atomica regionale
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Alleato di fatto contro Hamās e . jihadisti vari, poliziotto del Sinai
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EGITTO
Arabia Saudita in miniatura, $essibile ma con qualche mania di grandezza da controllare
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Hamās . Nemico mortale, ex partner nella gestione di Gaza e nel dividere i palestinesi. Ha tradito e va punito
E.A.U.
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Anp Subappaltante in Cisgiordania, pagato per sedare i palestinesi locali. Ormai in piena crisi. Privo di autorevolezza
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per compensare la ridottissima in!uenza, ci si divide anche quando si resta soli. Fra i pionieri della Seconda Alià (1904-14) e successive rami"cazioni che in Terra d’Israele cercano soprattutto rifugio dai pogrom zaristi, robusta è la componente marxista-sionista, spaccata fra destra e sinistra, con abbondanza di sotto-sette. La matrice principale è il movimento Poale Zion, di ceppo polacco e russo. Adepti della rivoluzione sociale, da esportare nelle terre degli avi sotto lasca sovranità ottomana, poi britannica. Campi da valorizzare con il sudore dell’ebreo sionista, laico se non ateo. A questa Yitzhak Tabenkin (1888-1971) seconda «salita» di marca laburista e sionista partecipano due reduci di Poale Zion e delle sue risse intestine: David Ben-Gurion (1886-1973), fondatore e padre padrone dello Stato, e Yitzhak Tabenkin (1888-1971), animatore del movimento dei kibbutz, comunità di uomini e donne liberi ed eguali (foto). Comunismo sperimentale – vietata la proprietà privata. Insieme, colonialismo. Nulla di assimilabile agli attuali coloni di Giudea e Samaria, animati da spirito ultrareligioso, spesso af"liati alla destra estrema e manesca. Tecnicamente i kibbutz erano – e restano, assai ridotti per numero e in!uenza rispetto alle vette novecentesche – insediamenti in spazi che i palestinesi considerano usurpati. Dunque colonie. Possibile? Certo. Basta decrittare il lemma «colonialismo», avvolto da aura deprecativa, sulfurea. Specialmente acuta nell’ecumene del politicamente corretto, arte di abolire tempo e spazio, decontestualizzare eventi e progetti per distribuire pagelle a «buoni» e «cattivi». Valide per l’eternità. Storia e geopolitica ci ricordano che di colonialismi ce ne sono stati e restano di assai diverso intento e colore. All’origine di alcuni imperialismi europei si osserva una derivazione illuminista. Progressista. Per i radical-socialisti della Terza Repubblica francese, ad esempio, le colonie africane erano elevazione di razze inferiori – termine all’epoca corrente – accompagnate verso libertà-uguaglianza-fraternità. Copertura ideologica, autoassoluzione di volgari imperialisti dediti allo sfruttamento bestiale degli indigeni? Anche sì. Ma, appunto, anche. Non solo, non sempre, non ovunque.
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18. Y. TABENKIN, «The Kibbutz, a Non-utopian Commune», a cura di S. MAHLER, Tel Aviv 1985, Yad Tabelkin, the Research Institute of the United Kibbutz Movement, p. 24. 19. Ivi, p. 62. 20. G. GORENBERG, op. cit., p. 17.
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Certo non nel caso Tabenkin. Uomo di modestissime origini, di non spiccata agilità mentale e di sobri costumi, serbati anche quando diventerà protagonista del nuovo Israele. In perenne contrasto con il compagno BenGurion, a cominciare dalla necessità stessa dello Stato. Tabenkin avrebbe preferito procedere dal basso, costruendo una società socialista imperniata sui kibbutz, intesi luogo ideale per la rinascita dell’ebreo moderno, !ero e consapevole: «Il kibbutz è un’organizzazione coloniale. Questa è la sua caratteristica principale, senza di cui scompare» 18. Di più, il suo progetto è imperialista: «Noi siamo stati imperialisti perché abbiamo preso l’iniziativa di organizzare l’immigrazione illegale e fatto di tutto per accrescere la prosperità del paese e insieme dei nostri collettivi. Il potere dei nostri kibbutz non è misurato dai numeri ma dalla loro posizione sulla mappa» 19. Il suo esperimento imperial-comunista è severamente ancorato alla Terra d’Israele e protetto da speciali milizie, refrattarie a sciogliersi nell’esercito statale. Su questo, come su quasi tutto, Tabenkin è coerente. Testardo quanto Ben-Gurion è pragmatico. Per il fondatore Israele deve nascere e svilupparsi dove può, non oltre: «Se ci fossimo inchiodati in territorio arabo ostile avremmo dovuto scegliere fra accettare di assorbire centinaia di migliaia di arabi oppure espellerli con il metodo Deir Yassin» (villaggio arabo dove nell’aprile 1948 paramilitari di estrema destra massacrarono 107 palestinesi, donne e bambini compresi) 20. La coesione determina l’estensione. Tabenkin è tutto d’un pezzo anche nella rivendicazione della Terra di Israele. Lo Stato è primo passo verso l’obiettivo. L’accento cade sull’unicità spirituale del popolo ebraico, faro dell’umanismo universalista. Tabenkin incarna il sionismo catastro!stico, vivo già prima della Shoah. Urge costruire un rifugio per gli ebrei in diaspora prima che l’apocalisse li annienti. In questa vena respinge ogni proposta di spartizione territoriale prima e dopo il battesimo di Israele. La guerra dei Sei giorni è vittoria nel percorso verso il Grande Israele comunista, esteso sulle due sponde del Giordano. Il primo insediamento post-bellico è Merom Golan, voluto dai seguaci di Tabenkin sulle alture strappate alla Siria. Lo stesso vale per Giudea e Samaria. Numerosi kibbutz !oriscono a !ne anni Sessanta oltre la Linea Verde, prima che l’ondata degli ultrà destrorsi li sommerga. L’estensione è la coesione.
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6. Se questo è lo stato della tragedia, come spezzarne la logica perversa? Partiamo da sette constatazioni. A) Solo Israele può distruggere Israele. Ci sta provando con speciale acribia. B) Israele ha pochi amici al mondo, anche se potenti. Persino dopo il massacro di Õamås la grande maggioranza degli Stati, non solo nel Sud Globale, preferisce non ascoltarne le ragioni (carta 6). C) I palestinesi non sono soggetto geopolitico, ma campo oppresso e diviso. D) La questione palestinese esiste quale derivata della questione israeliana. Resta il diritto dei palestinesi tutti a decidere del proprio futuro, che si scontra con il punto precedente. Ma se la Palestina non esiste né è mai esistita come Stato la responsabilità non può essere solo attribuita ai colonizzatori, siano ottomani, britannici o sionisti. Un pensiero autocritico su questa realtà stenta a diffondersi in ambito palestinese. E) Il mantra «due popoli due Stati» è rifugio di peccatori. O di cinici. Uno sguardo ai coriandoli di Cisgiordania, dove dovrebbe sorgere il nucleo centrale della Palestina, esclude l’ipotesi (carta a colori 5). O qualcuno immagina che Israele sgomberi a forza i propri coloni, scatenando la guerra civile? F) Gli Stati arabi e/o islamici che circondano Terrasanta non possono o non vogliono risolvere la questione israeliana, quindi la palestinese. Quanto alle grandi potenze, hanno altre priorità. G) La rappresentazione del con!itto fra Israele e i suoi vicini in termini religiosi ne occlude la soluzione. Risultato: solo Israele può avviare la paci"cazione dell’area e rendere giustizia alle aspirazioni dei palestinesi a partire dalla propria sicurezza. Se Gerusalemme non fa il primo passo, non lo farà nessuno. L’apertura di gioco sarà unilaterale, perché non c’è nessun partner negoziale con cui confrontarsi. A meno che il futuro governo di Israele – certo non l’attuale gabinetto di guerra – decida di giocare la carta Marwan Barghuti, forse l’unico leader in grado di sedare provvisoriamente le risse intrapalestinesi e parlare a nome di tutti, o quasi. Barghuti non è Mandela, ma potrebbe assomigliarci con adeguato maquillage. Posto che Israele voglia assumersi il rischio di liberare un condannato a cinque ergastoli per omicidio. Improbabile. Restano due prospettive. Lo status quo, ovvero l’eterno ritorno di stragi e tregue, ciclo ogni volta più spietato. Oppure lo Stato unico. Di fatto esiste già: Israele controlla tutto lo spazio fra Mediterraneo e Giordano, diretta-
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21. Cfr. «La sindrome ottomana», editoriale di Limes n. 3/2023, «Israele contro Israele», p. 14. 22. Ivi, p. 16. La citazione è in A. DUBNOV, I. BEN AMI, «Did Zionist Leaders Actually Aspire Toward a Jewish State?», Haaretz, 1/6/2019. 23. Cfr. M. BARNETT, N. BROWN, M. LYNCH, S. TELHAMI, «Israel’s One-State Reality. It’s Time to Give Up on the Two-State Solution», Foreign Affairs, 14/4/2023.
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mente o via coloni e collaborazionisti palestinesi. Potrebbe esistere come Stato di tutti gli israeliani, ebrei, arabi e altri? Sì. A condizione che Gerusalemme ritorni allo spirito sionista originario di Theodor Herzl, ripreso !no a metà Novecento dal movimento territorialista, il cui principio era dare agli ebrei una terra salva, non per forza santa. Evoluto nel programma di Israel Zangwill, poeta ebreo inglese, esposto nel 1923 al Congresso sionista di Basilea: «L’anima è più grande del suolo. E l’anima ebraica può creare la sua Palestina ovunque, senza necessariamente perdere la sua vocazione per la Terrasanta» 21. Ispirazione ripresa nel 1926 nientemeno che dal principe dei revisionisti, Ze’ev Žabotinskij, riferimento storico di Netanyahu e di tanta parte della destra israeliana: «La futura Palestina dev’essere fondata, legalmente parlando, quale Stato bi-nazionale. (…) Ogni terra che ospiti una minoranza etnica, anche la più piccola, deve dopotutto, secondo le nostre più profonde convinzioni, adattare il suo regime giuridico a questo fatto e diventare uno Stato bi- tri- o quadri-nazionale» 22. Sarà la Shoah a spazzar via questo ragionar pragmatico, tipico di certa Diaspora. Ma è così assurdo pensare che la salvezza degli ebrei prevalga sul luogo dove la si impianta? E che lo Stato ebraico includa nella sua equazione securitaria anche i diasporici, quanto meno eviti di danneggiarli per proteggere sé stesso? In!ne, se due Stati sono impossibili e l’unico non piace, oltre lo status quo che cosa resta? Zero Stati. L’ipotesi dello Stato unico guadagna adepti anche fra esponenti dell’establishment strategico americano, che l’hanno esposta su Foreign Affairs: «Un compromesso sullo Stato unico non è possibilità futura. Esiste già, indipendentemente da ciò che si può pensare. Tra il Mediterraneo e il !ume Giordano uno Stato controlla ingresso e uscita di persone e beni, gestisce la sicurezza ed è in grado di imporre le proprie decisioni, leggi e politiche su milioni di persone senza il loro consenso. (…) Israele ha stabilito un sistema di supremazia ebraica, in cui i non-ebrei (…) vivono sotto stretta segregazione, separazione e dominazione.» Sicché «Israele assomiglia a uno Stato di apartheid». Gli Stati Uniti devono perciò «smettere di esentare Israele dagli standard e dalle strutture dell’ordine liberale internazionale che Washington spera di guidare» 23. Contribuendo a fare di Israele la casa di tutti
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Fonte: Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 27/10/23
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Contrari (14)
Favorevoli (120)
Sottolinea la necessità di approvvigionamenti «continui, su!cienti e senza ostacoli» e di forniture di servizi salvavita per i civili intrappolati nell’enclave
Risoluzione presentata dalla Giordania all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e approvata il 27 ottobre 2023 Invoca una «tregua umanitaria immediata, duratura e sostenuta» tra le forze israeliane e i militanti di Gaza
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6 - VOTO ALLE NAZIONI UNITE PER UNA TREGUA UMANITARIA A GAZA
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gli israeliani, l’America ne guadagnerebbe in prestigio e in!uenza in tutto il mondo. Ma che pensano i diretti interessati? Fra i palestinesi di Cisgiordania, la sensazione è che chiamati a scegliere tra occupazione e cittadinanza israeliana – altre variabili realistiche non esistono – molti preferirebbero la seconda ipotesi, raggiungendo i palestinesi d’Israele, oggi pari a un quinto della popolazione. Quanto agli israeliani, in settembre il 28% era favorevole allo Stato unico via annessione della Cisgiordania con status privilegiato per gli ebrei, mentre l’11% vi avrebbe voluto garantiti pari diritti per tutti 24. Probabile che dopo il 7 ottobre questa quota sia diminuita. Qui però non si tratta di improvvisare il domani ma di #ssare una meta per dopodomani. Comunque #nisca la partita di Gaza, ebrei e palestinesi dovranno coesistere in una regione che durante la Guerra Grande sta cambiando volto. A cominciare dai nuovi percorsi dei !ussi energetici e dalle intese regionali in cantiere per ridisegnare le rotte commerciali tra Asia e Mediterraneo, da cui rischiamo di #nire emarginati (carte a colori 6 e 7).
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24. Cfr. Friedrich-Ebert-Stiftung – Mitvim. The Israeli Institute for Regional Foreign Policies, «Israel Foreign Policy Index 2023. Findings of the Mitvim Institute Survey», September 2023.
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7. Ultima chiamata per l’Italia. O stabiliamo il nostro posto nella Guerra Grande o ne saremo travolti. E nessuno ci ascolterà quando, a con!itto più o meno sedato, vincitori e sopravvissuti si spartiranno i dividendi della tregua e redistribuiranno le carte della potenza. La lezione delle due guerre mondiali precedenti, fra «vittoria mutilata» e 8 settembre, sia monito per contribuire a evitare la terza. E ad avere voce nel mercato geopolitico ed economico già in corso su chi e come gestirà la transizione post-americana. Mercato dal quale ci siamo autoesclusi, tanto per non smentirci. Geopolitica dello Stellone. Lusso che non possiamo più concederci. Dunque: obbligo di fredda ricognizione dei danni subiti e dei rischi imminenti. E conseguente progetto nazionale, da perseguire con il calore che distingue le imprese collettive. Il danno strategico è la crisi americana. Per conseguenza, la deriva dell’impero europeo dell’America nelle sue declinazioni Nato e Ue. L’Italia ha vissuto i suoi anni migliori sotto l’ombrello di sicurezza a stelle e strisce, come persino il tormentato referente nostrano del nemico sovietico seppe ammettere. Il trauma dell’Ottantanove fu tanto potente da comportare il crollo dello Stato dei partiti, cioè dell’unica italianissima forma di Stato che questa Repubblica ha saputo strutturare. Di qui tre nuove simmetrie. Prima
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equazione: cambio di paradigma geopolitico uguale deperimento del sistema istituzionale, culminato nella morte cerebrale della politica. Resistibile in clima di pace, fatale in guerra. La risalita terrà conto della necessità di convivere con la carente garanzia americana. Siccome la deterrenza italiana era e resta – seconda equazione – totalmente americana, alfa e omega della nostra strategia sarà evitare la guerra calda dopo aver tanto pro!ttato della fredda. Terza equazione: guerra uguale resa. Se qualcuno ci invade o senza bisogno di farlo tratta il nostro territorio da proprio il problema sarà trovare il tempo di arrenderci. Senza condizioni. Il danno endogeno è il collasso demogra!co. L’anno prossimo sarà il decimo di costante calo degli italiani. Qualcosa di mai accaduto. Accompagnato da squilibrio biologico. La piramide delle età sarà presto insostenibile. Con essa la tenuta sociale ed economica del paese. Senza una robusta coorte di giovani, per de!nizione interessati all’avvenire, concepire qualsiasi progetto diventa gioco intellettuale. Tanto più che la denatalità asimmetrica – colpisce più il Sud che il Nord – incide la faglia storica che distingue l’Italia, con effetti devastanti sull’ambiente umano e naturale, specie nell’interno appenninico in via di spopolamento. Quindi abbandono. Sempre più divisa e sempre più vuota nel tessuto connettivo che dovrebbe legare Est e Ovest, mondo adriatico e tirrenico, la comunità nazionale tende a s!lacciarsi. In!ne, non per importanza, il danno culturale. Siamo in lizza con la Germania – défaite oblige – per il titolo europeo dell’incoscienza strategica. Ci!utiamo ri di capire dove siamo e perché siamo. Solo in Italia si invocano «Europa», Nazioni Unite e diritto internazionale – un’inesistenza e due vacuità – appena esplode un altro pezzo di guerra mondiale. Con quel sovrappiù di moralismo prodotto dall’inconsapevolezza o dall’ipocrisia che distingue noi europei, specialisti nel rimuovere i fatti che ci dispiacciono. E che ci ripiombano addosso con impeto raddoppiato. Se siamo così, come reagire? La crisi di protezione strategica è mitigabile dando al protettore il senso che gli serviamo ancora. Dunque ha qualcosa da perdere in caso di nostra deriva !nale. Scontato che in ogni caso questa America non risbarcherà in Sicilia, altrettanto ovvio che nessuno a Washington intende sgomberare l’Europa e nemmeno l’Italia, insostituibile piattaforma logistica nel cuore del Mediterraneo-Medioceano, dobbiamo ritagliarci una funzione nel sistema euroatlantico. Dalla sicurezza passiva all’attiva. Dalla concessione semigratuita di basi militari e strutture di intelligence alla nostra proiezione
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nell’estero vicino. Nei limiti delle nostre risorse, talvolta oltre. Prendendoci qualche rischio. Dove l’Italia serve contemporaneamente all’America e a sé stessa? Come si determina un grado di simmetria fra interesse italiano e americano? Con la nostra assunzione di responsabilità nel semiarco critico che da Trieste scende verso Taranto e di qui punta alla Sicilia. Le nostre frontiere con Caoslandia: sezione balcanica e Quarta Sponda. Qui i sismogra! geopolitici rivelano massima instabilità e incursioni di attori ostili (Russia) o neoegemonici (Turchia), con la Cina in scia sempre più esibita. Qui frangono le onde suscitate dalla pressione migratoria e dalle due massime guerre in corso, la russo-americana sulla pelle degli ucraini e l’israelo-palestinese. Obiettivo: prevenzione o stabilizzazione delle crisi. Via impiego concertato degli strumenti classici di potenza: militare, diplomatico, economico e culturale. Sfruttando la nostra speci!ca empatia, che ci distingue, purché al servizio di una strategia, non per confermarci nella presunta bonarietà genetica. D’intesa con americani e altri atlantici, ma anche di utili battitori liberi. Compresi puntuali atti di pirateria geopolitica perché se vuoi contare non puoi esser dato per scontato. Lezione dimenticata della Prima Repubblica. Amica America, sed magis amica Italia (carta a colori 8). Dettaglieremo in un prossimo volume di Limes sul nostro paese alcune proposte tattiche. Anticipiamo che dovremo individuare i soci atlantici, non solo americani, e i partner occasionali con cui concordare imprese comuni al servizio (anche) dei nostri interessi. Per esempio la Turchia, utile nelle Libie e inaggirabile nei Balcani, con la quale è però illusorio aspirare a collaborare o tentare di competere se non abbiamo chiaro l’obiettivo. Sempre che la guerra di Gaza non involva Ankara in elettrone talmente libero da !nire fuori orbita per il gusto di percorrerne diverse nel medesimo istante. Ancora: la Francia, cugino di grandiose idee ma di mezzi declinanti, rilevante nel Mediterraneo e in quel che le resta del pré carré africano, fronte allo Stretto di Sicilia. Purché ritrovi una rotta prima di spendere tutte le risorse in imprese contraddittorie – retorica macroniana dell’«allo stesso tempo» – di cui si fatica a leggere l’intenzione. L’inverno demogra!co è inguaribile nel breve periodo, mitigabile nel medio, forse invertibile nel lungo. Ma va affrontato subito. All’insegna del motto attribuito a Massimo d’Azeglio: «Fare gli italiani». In senso stretto: farli nascere e crescere. Non basteranno per questo misure di sostegno alla famiglia. L’unico rimedio strutturale consiste nell’importare giovani italiani del futuro già fatti da inconsapevoli mamme straniere, per accoglierli e
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formarli secondo le regole dell’integrazione. Noi italiani leghiamo facilmente, o almeno legavamo. Premessa del buon convivere con lo straniero che bussa alla nostra porta. Non per assimilarlo. Ci manca la premessa: presumerci superiori a chi dovremmo rendere simile a noi. Ma nemmeno possiamo cedere al caos migratorio, accettando chiunque comunque. Urge perciò regolarizzare gli accessi su base di quote concordate con i paesi d’origine, compatibili con le nostre capacità di gestione sociale e necessità di sviluppo economico. «Fare gli italiani» vale ancor più per contrastare la diffusione dell’ignoranza, anticamera della deculturazione. In una comunità la cultura non si misura solo in termini quantitativi, di diffusione di conoscenze e capacità, ma soprattutto nell’af!nata perpetuazione dei carismi storici che la distinguono. Siamo soprattutto quel che siamo stati. Piaccia o non piaccia. A noi dovrebbe piacere. L’Italia è paese di alta cultura e di delirante bellezza. Caratteri che riduciamo a turistici – il Belpaese dei bed and breakfast – quando qualsiasi altra nazione ne avrebbe fatto l’asse della propria potenza. E sappiamo quanto duro sia il potere morbido. Purché non prevalga la «correttezza politica», di cui è sintomo il cosiddetto inclusivismo linguistico, entropia del nostro bell’idioma con tendenza all’affermazione autoritaria e all’autocensura. Dei tre fronti questo è il decisivo. Perché le strategie geopolitiche offrono qualche margine di movimento, quelle demogra!che meno, ma la battaglia culturale è a immediata somma zero. Se la perdiamo siamo perduti. Sembrerà strano a molti fra noi, eppure l’orrore della Guerra Grande dalla quale siamo !nora s!orati ha una conseguenza positiva. Rivoluzionaria. Ci costringe a pensare in grande. In ampiezza spaziale e temporale inusitata ma educativa. Stiamo varcando una di quelle linee d’ombra che s’incrociano ogni secolo o due. Tocca scegliere. Intendiamo partecipare a concepire le architetture del mondo futuro? Vogliamo portarvi la nostra piccola pietra? Liberi di non farlo. Salvo scoprirci tiranneggiati dalle piccole (in)decisioni. Presi a cambiar tappezzeria di casa mentre intorno si cementano inedite agglomerazioni di potenza, sarà il caso di svegliarsi. Insomma: a che serve l’Italia? 25.
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25. Titolo del volume 4/1994 di Limes e del relativo secondo Incontro geopolitico di Venezia. All’epoca senza punto interrogativo. Segno dei tempi.
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DENTRO H. AMAˉ S COMANDANO I MILITARI
di
Paola CARIDI
Nel corso degli anni, le Brigate al-Qassåm hanno progressivamente acquisito importanza e autonomia dai loro leader politici. Muõammad Îayf, il capo senza volto. Le ragioni dietro l’attacco del 7 ottobre. Il sequestro di Shalit e il golpe del 2007. Manca una strategia.
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1. L 7 OTTOBRE 2023, IMMEDIATAMENTE DOPO l’attacco a Israele eseguito dalle Brigate ‘Izz al-Døn al-Qassåm, Muõammad Îayf – capo dell’ala militare di Õamås – si è presentato in diretta televisiva, rilasciando le prime dichiarazioni uf!ciali sull’avvenuto. Il comunicato, esattamente come l’attacco, era stato accuratamente preparato. Il contenuto e l’ambientazione del messaggio non lasciavano nulla al caso. In una stanza oscurata appariva la sagoma di un uomo di pro!lo, la cui voce era sovrapposta e montata ad arte. La misteriosa !gura, infatti, sembrava non parlare. Ma perché è utile soffermarsi su un particolare che potrebbe apparire a prima vista banale? Per due ragioni fondamentali. Innanzitutto, tale ambientazione ha permesso di rendere immediatamente riconoscibile chi stava leggendo il messaggio. Nel corso degli anni, Muõammad Îayf – di cui circola solo una vecchia foto – è infatti sempre stato ritratto come una sagoma scura, nera. Il 13 maggio 2021 a Gerusalemme furono addirittura issati enormi striscioni che ritraevano i leader di Õamås vicino alla Cupola della Roccia. Anche in quell’occasione era perfettamente riconoscibile una !gura scura che pregava: era la sagoma di Muõammad Îayf, capo delle Brigate al-Qassåm. La seconda ragione per cui è importante soffermarsi sul video mandato in onda da Õamås è che ci permette di comprendere quanto l’ala militare del movimento al-Maãd sia diventata rilevante negli equilibri interni dell’organizzazione. Mostrare chiaramente la sagoma scura di Îayf signi!ca infatti che esso si assume la piena responsabilità dell’attacco del 7 ottobre. Tale lettura è confermata da quanto dichiarato al New Yorker da Abû Marzûq, capo dell’Uf!cio politico di Õamås !no agli anni Novanta. Costui, dopo essere stato arrestato e liberato dalle autorità americane, non è più tornato alla guida del movimento. Ha preferito vivere da ideologo e da uomo delle trattative. Da Doha,
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Abû Marzûq fa sapere ai giornalisti del New Yorker che «tutti i leader di Õamås che non sono capi militari hanno ricevuto la notizia dell’attacco solo sabato mattina». Questa ricostruzione, come notano i giornalisti del periodico americano, è plausibile. La compartimentazione è prassi nel modus operandi di Õamås. E di certo non è la prima volta che l’ala militare interviene in maniera eclatante senza informare i quadri politici. Di norma, le due ali del movimento si parlano solo quando c’è da aggiornarsi circa le decisioni prese dall’ala politica. A questo punto, l’ala militare le interpreta e decide come preparare gli attacchi. Tale organizzazione è fondamentale per evitare che le informazioni arrivino ai servizi di intelligence israeliani ed egiziani. La divisione in compartimenti stagni è, per Õamås, una questione securitaria essenziale. Questa, però, è solo una faccia della medaglia. In realtà, negli ultimi vent’anni le Brigate al-Qassåm hanno più volte forzato la mano, soprattutto nelle fasi critiche. Il punto è che nell’ultimo periodo l’ala militare si è comportata come se fosse a tutti gli effetti una delle circoscrizioni che compongono la struttura politica di Õamås, movimento suddiviso da sempre in quattro circoscrizioni (Gaza, Cisgiordania, i militanti fuori dal territorio palestinese e quelli imprigionati). A Gaza si sta dunque consolidando una sorta di «circoscrizione ombra» – l’ala militare – che fa sentire la sua presenza in maniera crescente.
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2. Sebbene la leadership politica non abbia smentito le Brigate al-Qassåm e anzi si sia assunta l’intera responsabilità dell’operazione, è probabile che dietro agli attacchi del 7 ottobre ci sia proprio l’ennesima fuga in avanti dell’ala militare. Ma perché questa volta l’attacco ha assunto tali dimensioni? Per tentare una risposta, proviamo a mettere in !la alcune ipotesi. Innanzitutto, è fondamentale ricordare che per 16 anni Gaza è stata completamente sigillata da Israele. Lo Stato ebraico ha totalmente nascosto la Striscia dagli occhi del mondo. Riuscire a rompere l’assedio costituiva dunque un cambio di paradigma. Signi!cava attaccare l’idea secondo la quale i problemi tra israeliani e palestinesi potessero essere risolti senza tenere in considerazione gli abitanti della Striscia. La seconda ipotesi è strettamente legata ai problemi che la prima solleva. Nel periodo precedente all’attacco di Õamås erano infatti in corso colloqui tra Israele e Arabia Saudita per la normalizzazione delle relazioni bilaterali. Un cambiamento necessario per rimettere in pista gli accordi di Abramo e, ancora una volta, per decidere il destino dei palestinesi senza invitarli al tavolo. Inoltre, un accordo israelo-saudita avrebbe messo in discussione la normalizzazione tra Riyad e Teheran, faticosamente raggiunta grazie alla mediazione della Cina. In!ne, e non meno rilevante, l’ingresso di Riyad nella questione israelo-palestinese avrebbe impattato anche sulla gestione di Gerusalemme. Netanyahu preferiva infatti che a occuparsi del terzo luogo sacro dell’islam fosse l’Arabia Saudita e non più la Giordania. L’attacco del 7 ottobre ha fermato tutti questi processi. La normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita si è bloccata. E non è detto che riprenderà. L’idea di una nuova
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3. L’evento più importante è stato senza dubbio il colpo di Stato del giugno del 2007, attraverso il quale Õamås ha preso il controllo di Gaza. La conseguenza di quel golpe è stata la de!nitiva rottura dell’unità politica palestinese, dal momento che esso sanciva di fatto la divisione tra i palestinesi di Gaza e quelli di Cisgiordania. I leader politici di Õamås hanno sempre sostenuto di essere stati colti di sorpresa dal colpo di Stato, di cui non erano stati informati. È possibile che ciò sia vero, almeno per quanto riguarda le personalità più moderate. Allo stesso modo, è plausibile che i quadri politici di Õamås non siano stati informati nemmeno dell’attacco in territorio israeliano che l’ala militare ha compiuto il 25 giugno 2006. In quell’occasione le Brigate al-Qassåm, insieme ad altri due
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Nakba non spaventa solo i palestinesi, ma tutti i paesi arabi. Terza ipotesi: Gerusalemme. Per quanto !sicamente lontana da Gaza, per i palestinesi la città è una linea rossa insuperabile, come testimoniato dalle proteste del 2021. In quell’occasione, Õamås lanciò un ultimatum al governo Netanyahu (appena scon!tto alle elezioni), affermando di essere pronta a difendere la Città Santa. L’organizzazione lanciò razzi verso le città israeliane e lo Stato ebraico rispose dando inizio a un’operazione militare nella Striscia. Sebbene i media occidentali abbiano fatto !nta di niente, anche nel 2023 si sono registrate tensioni a Gerusalemme. La presenza dei coloni sulla Spianata delle Moschee è aumentata esponenzialmente, anche grazie alla protezione delle Forze di sicurezza israeliane e all’appoggio politico degli alleati di estrema destra di Netanyahu: Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich. In questo senso, come ha detto lo stesso Muõammad Îayf, gli attacchi di Õamås del 7 ottobre devono essere intesi anche come delle operazioni necessarie per difendere Gerusalemme e la Cisgiordania, regione in cui i coloni – che oggi sono rappresentati nel governo – si ostinano a perpetrare violenze ai danni dei palestinesi, con il sostegno dell’esercito israeliano. La quarta ipotesi è invece tutta interna al dibattito palestinese: Õamås avrebbe attaccato per ottenere la liberazione dei prigionieri detenuti nelle carceri israeliane. Come scrive Danielle Gilbert in un’analisi per il Center for Strategic and International Studies, Õamås «ha preso ostaggi per forzare lo scambio di prigionieri». Effettivamente, nel 2006 l’ala militare del movimento aveva ottenuto un risultato spettacolare grazie al rapimento del soldato israeliano Gilad Shalit, che fu liberato cinque anni dopo in cambio di 1.027 prigionieri palestinesi. Binyamin Netanyahu fu molto criticato per questo accordo. Anche perché tra i prigionieri rilasciati c’era Yaõyå Sinwår, che successivamente sarebbe diventato leader di Õamås a Gaza. Insomma, secondo questa lettura l’attacco del 7 ottobre serviva per prendere quanti più ostaggi possibili. Tutte queste ipotesi sono plausibili. Ma quel che è certo è che con l’attacco del 7 ottobre l’ala militare di Õamås ha dato una forte scossa politica all’intero movimento. Tuttavia, sebbene non abbia mai agito così violentemente, non è la prima volta che compie operazioni di questo genere. Anzi, in più occasioni gli attacchi delle Brigate al-Qassåm hanno cambiato il corso della storia palestinese.
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gruppi, scavarono un tunnel e attaccarono una base israeliana. Due soldati vennero uccisi, mentre uno – Gilad Shalit – venne rapito, e rimase in prigionia per oltre cinque anni. Il soldato israeliano venne rilasciato solo nell’ottobre 2011, a seguito di un negoziato tra Israele e Õamås mediato da un emissario dei servizi segreti tedeschi. Come ha raccontato Marwån ‘Ʈså, comandante operativo delle Brigate al-Qassåm, il rapimento di Shalit è stato un punto di svolta nei rapporti tra l’ala militare e l’ala politica di Õamås. In un’intervista concessa ad Al Jazeera, ‘Øså ha ricostruito sia il rapimento di Shalit sia le trattative che hanno condotto alla sua liberazione, mostrando come le decisioni più importanti siano state prese dall’ala militare. Durante la primavera e l’estate del 2006, l’ala politica di Õamås stava infatti cercando – con scarso successo – di mettere in piedi un governo di unità nazionale insieme a Fatõ. Come ha scritto il giornalista israeliano Shlomi Eldar, data la complessa fase politica i quadri di Õamås erano o all’oscuro o contrari al progetto di rapire un soldato israeliano. Tra gli oppositori c’era anche Ismå‘øl Haniyya, all’epoca primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). L’ala politica era contraria all’operazione soprattutto per le tempistiche. Come ha dichiarato Marwån ‘Ʈså, infatti, organizzare un’operazione armata oltrecon!ne contro i soldati israeliani «è stato dif!cile in una situazione come quella, in cui Õamås era al governo ed era coinvolto nell’azione politica». Tuttavia, sempre secondo ‘Ʈså, l’ala militare riteneva che fosse impossibile non agire: «Era chiaro che il nemico, in quelle circostanze politiche, stava imponendo pressioni sul terreno e stringendo la presa su bersagli della resistenza palestinese. Per questo abbiamo preso la ferma decisione di contrattaccare e condurre l’operazione, a prescindere dal prezzo da pagare». Insomma, l’ala militare ha portato avanti unilateralmente l’operazione. E il suo successo ha modi!cato profondamente gli equilibri di potere all’interno del movimento islamista.
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4. Il sequestro di Shalit ha segnato il confronto tra Õamås e i governi israeliani, dal momento che ha chiamato in causa il cosiddetto dossier dei prigionieri. Questo tema, per quanto di fondamentale importanza, non è molto noto all’opinione pubblica israeliana. Al contrario, la questione dei prigionieri è ben presente nella società palestinese, dal momento che praticamente ogni famiglia ha dovuto affrontare l’arresto, la detenzione amministrativa o la condanna di uno dei suoi membri. Secondo i dati dell’Anp di Råmallåh, più di ottocentomila palestinesi sono entrati in un carcere israeliano dal 1967 a oggi. Parliamo di circa il 20% della popolazione dei Territori occupati. Prima del 7 ottobre, i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane erano poco più di cinquemila. Oggi il numero è raddoppiato, dal momento che nei giorni immediatamente successivi all’attacco di Õamås le autorità israeliane hanno arrestato circa quattromila lavoratori di Gaza che si trovavano oltrecon!ne e mille palestinesi di Cisgiordania. È per questo che, dopo la liberazione di oltre mille detenuti in cambio del ri-
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5. Tra i prigionieri liberati nel 2011 vi era anche Yaõyå Sinwår, celebre comandante delle Brigate al-Qassåm ed esponente della prima ora del movimento alMaãd, un’unità speciale costituita dallo sceicco Aõmad Yåsøn per individuare e punire coloro che collaboravano con Israele. Arrestato nel 1988 e condannato all’ergastolo, egli ha guidato la circoscrizione delle prigioni. Sinwår – oggi a capo della circoscrizione di Gaza – è un personaggio complesso, legato all’ala militare di Õamås e dotato di un impressionante pragmatismo. È stato proprio Sinwår a rendere Gaza centrale negli equilibri nel movimento. In effetti, la Striscia è l’unico spazio in cui Õamås riesce effettivamente a esercitare una qualche forma potere, in cui ha delle burocrazie funzionanti e in cui riscuote le tasse. Ed è proprio a Gaza che le Brigate al-Qassåm si sono trasformate in un esercito vero e proprio. Il controllo politico, burocratico e istituzionale che Õamås esercita sulla Striscia a partire dal 2007 ha infatti reso possibile la militarizzazione delle Brigate. I miliziani si sono trasformati a tutti gli effetti nell’esercito di uno Stato non Stato. Questa è infatti la de!nizione migliore che si può dare della Striscia di Gaza, lembo di terra controllato da Õamås ed ermeticamente separato dal resto del mondo dalle Forze di difesa israeliane e dall’esercito egiziano, che sorveglia il valico di Rafaõ. Gaza è dunque centrale per quanto riguarda gli equilibri di potere di Õamås. Ne è la roccaforte. È l’unico luogo in cui il movimento islamista esercita un potere effettivo. Ed è esattamente per questo che i fatti del 7 ottobre potrebbero generare delle conseguenze assolutamente indesiderate per gli islamisti. Gaza, infatti, rischia di trasformarsi in un enorme campo di battaglia. In questo senso, l’ala militare dell’organizzazione pare aver piani!cato l’attacco senza una chiara !nalità strategica. I leader militari hanno infatti ignorato l’inevitabile risposta dello Stato ebraico. Se l’obiettivo tattico è attirare gli israeliani nella trappola della guerriglia urbana, è evidente che essi non hanno preso in considerazione il fatto che a morire saranno soprattutto i civili palestinesi. Insomma, l’attacco del 7 ottobre, che rischia di trasformare la Striscia di Gaza in un cimitero a cielo aperto, pare essere stato organizzato senza una strategia di lungo periodo. Dunque rischia di ritorcersi contro Õamås. Tale assenza di strategia si percepisce chiaramente nell’atteggiamento dei leader dell’organizzazione che si trovano all’estero, i quali sembrano assolutamente incapaci di spiegare quali fossero gli obiettivi dell’attacco del 7 ottobre. Dalle interviste che rilasciano emerge chiaramente come essi siano stati presi alla sprovvista. Le loro parole tradiscono una certa sorpresa, che li porta ad assumere posizioni
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torno a casa di Gilad Shalit, il «dossier dei prigionieri» è divenuto centrale per la strategia di Õamås. Il sequestro di Shalit mostrava chiaramente che era possibile ottenere la liberazione dei detenuti palestinesi rapendo soldati israeliani. Inoltre, Õamås si è reso conto che il «dossier dei prigionieri» è estremamente sentito nella società palestinese. Il risultato del 2011, insomma, ha avuto un impatto fortissimo e ha permesso a Õamås di raccogliere un enorme consenso.
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spesso controproducenti. È il caso, ad esempio, delle dichiarazioni di Œålid Miš‘al, per molti anni a capo dell’Uf"cio politico di Õamås. Nella sua prima uscita pubblica, Miš‘al ha invocato l’aiuto – anche militare – di Õizbullåh e dell’Iran, così certi"cando la debolezza di Õamås. Il punto, però, è che la debolezza dell’organizzazione non è solo militare. Il problema è che i dirigenti di Õamås non sono in grado di spiegare la ratio strategica sottesa agli attacchi del 7 ottobre. Ammesso e non concesso che ve ne sia una.
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‘Abbiamo dimostrato al mondo che Israele non è invincibile’
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LIMES Israele ha reagito pesantemente all’aggressione di Õamås del 7 ottobre. Diversi comandanti e dirigenti del movimento sono stati uccisi. Vi ritenete scon!tti? HANIYYA Mai. Il sacri!cio dei nostri šuhada’ e la determinazione della gente di Gaza a non subire una seconda Nakba (la Catastrofe del 1948, nascita di Israele con milioni di palestinesi costretti ad abbandonare le loro terre, n.d.r.) sono la riprova della risoluta resistenza al nemico sionista. Un nemico vulnerabile, come hanno confermato le operazioni del 7 ottobre. Abbiamo mostrato ai popoli arabi e musulmani, al mondo, che Israele non è invincibile e che non avrà mai sicurezza !nché perdurerà l’occupazione della Palestina. LIMES Dietro Õamås c’è l’Iran. Tesi che non è solo di Israele. HANIYYA La propaganda sionista agisce h24 ed è rilanciata in Occidente. L’Iran sostiene la causa palestinese. Come fanno il Qatar e tutti i paesi arabi, i popoli anzitutto. E lo dimostrano le manifestazioni di sostegno alla resistenza palestinese che si susseguono in tutto il mondo arabo e musulmano. E anche in Europa. Il messaggio che i nostri eroici combattenti hanno inviato è chiaro: Israele non è in grado di proteggere sé stesso dai nostri combattenti né di fornire sicurezza o protezione. L’intero processo di normalizzazione e riconoscimento, tutti gli accordi che sono stati !rmati con Israele non potranno porre !ne a questo con"itto. LIMES A Gaza è morte e distruzione. La gente di Gaza è ostaggio di Õamås? HANIYYA Gaza subisce un embargo da quasi vent’anni durante i quali ci sono state quattro o cinque guerre che hanno causato decine di migliaia di martiri e feriti, case distrutte. Sta vivendo una tragedia umanitaria. È una gigantesca prigione che rinchiude oltre 2 milioni di palestinesi. È la punta di diamante della resistenza che ha lanciato l’attacco. Ma trattandosi di una guerra che riguarda la terra di Palestina, Gerusalemme e al-Aqâå, la battaglia coinvolge l’intera umma (comunità dei credenti musulmani, n.d.r.). Ecco perché invito tutti i !gli di questa umma, ovunque
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Conversazione con Ismå‘øl HANIYYA, primo ministro e capo dell’Uf!cio politico di Õamås, ospite del Qatar, a cura di Umberto DE GIOVANNANGELI
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si trovino nel mondo, a unirsi, ognuno a modo suo, a questa guerra, senza indugi e senza voltarsi indietro. Per noi la resistenza armata non è il !ne ma lo strumento per opporci all’annientamento, per difendere il diritto a una Palestina libera. LIMES Nonostante il 7 ottobre, Israele ha una potenza militare nettamente superiore a quella di Õamås. E l’intenzione proclamata è di distruggere una volta per tutte le capacità belliche di Õamås e di eliminarne i capi. HANIYYA Non è la prima volta che il nemico lancia questi proclami. Hanno assassinato il nostro fondatore, altri capi e comandanti sono morti da šuhada’. Ma Õamås è in vita. Lo è e lo sarà perché rappresenta, assieme alle altre forze della resistenza, lo spirito indomabile del popolo palestinese. Nessuno fuggirà da Gaza. Il 7 ottobre sarà nulla rispetto a ciò che gli israeliani subiranno invadendo Gaza. Combatteremo strada per strada, casa per casa. Ci siamo preparati per anni. Siamo pronti. Sappiamo bene che questa volontà di resistenza comporta il sacri!cio più grande, la vita. Ognuno di noi ha visto morire i propri cari e mette in conto di morire come uno šahød. Ma non c’è cosa peggiore di abbassare la testa, di arrendersi all’umiliazione dell’occupazione. Ciò non avverrà mai. La verità del 7 ottobre è che gli israeliani hanno sottovaluto i palestinesi. LIMES Õamås ha agito su impulso di Teheran per minare il riavvicinamento tra Israele e Arabia Saudita? HANIYYA Anche l’Arabia Saudita ha condannato l’assedio criminale di Gaza da parte israeliana e non ha messo in discussione il diritto dei palestinesi a combattere !no alla liberazione della Palestina. Una cosa è certa: chiunque, a partire da Israele e dall’America, ha pensato, lavorato, per eliminare la causa palestinese favorendo accordi separati tra Israele e paesi arabi ha commesso un errore esiziale. La causa palestinese vivrà perché vive e lotta il popolo palestinese. Questa è la nostra forza. Il diritto di resistenza all’occupazione è contemplato dalle stesse convenzioni di guerra. Quelle convenzioni che gli israeliani hanno sempre violato, ritenendole carta straccia. Le punizioni collettive sono un crimine di guerra – bombardare case, scuole, ospedali. Crimini di cui Israele non ha mai dovuto rispondere. Nei mesi scorsi si sono susseguite le provocazioni dei ministri fascisti d’Israele che hanno profanato la Spianata delle moschee, la Moschea di al-Aqâå. Una provocazione all’intero mondo musulmano. Hanno armato i coloni, permettendo loro di attaccare impunemente villaggi in Cisgiordania, uccidendo e ferendo civili inermi. Nessuna condanna, nessuna sanzione. Il progetto di annientamento della Palestina è in atto. E nessuno tra coloro che oggi accusano Õamås dei peggiori crimini, di essere una banda di terroristi sanguinari, ha mosso un dito, ha alzato la voce per protestare contro i crimini dei sionisti. La nostra è stata una reazione. Dura, combattiva, vincente. Israele sa di non essere invulnerabile e che mai avrà sicurezza con la Palestina occupata. LIMES Non sono crimini di guerra anche quelli commessi dai miliziani di Õamås il 7 ottobre? Civili uccisi, anche donne e bambini, altri presi in ostaggio. HANIYYA I nostri combattenti avevano come obiettivo prioritario le strutture militari, a cominciare dal quartier generale della brigata di Gaza, e i soldati israeliani. Men-
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tre quella scatenata da Israele, e non certo dal 7 ottobre, è una guerra totale contro il popolo palestinese, senza alcuna distinzione tra combattenti e civili. Sono decine di migliaia i civili massacrati dagli israeliani e tenuti prigionieri nelle loro carceri. Sono migliaia i bambini palestinesi morti nei bombardamenti e altri ancora sono morti, nel disinteresse generale, a seguito dell’assedio che dura da oltre sedici anni. Israele è responsabile della distruzione dell’ospedale di Gaza, dove sono morti cinquecento palestinesi, molti dei quali donne e bambini. Così come fu responsabile del massacro di Âabrå e 3atølå. E saremmo noi i criminali? Il massacro dell’ospedale conferma la brutalità del nemico e la portata del suo sentimento di scon!tta. Quell’attacco è un nuovo punto di svolta. Rendo omaggio al popolo di Gaza che sta affrontando la barbara macchina sionista. I combattenti palestinesi sono impegnati nelle loro terre. Oggi Gaza cancella dalla comunità arabo-musulmana la vergogna delle scon!tte, la vergogna dell’accettazione e dell’inazione. LIMES Libererete gli ostaggi? HANIYYA È impensabile liberare i prigionieri mentre Gaza è sotto attacco. Impensabile e impraticabile. Israele sospenda gli attacchi, permetta l’ingresso degli aiuti umanitari e uno scambio può essere negoziato. Il mondo parla e s’indigna per gli ostaggi in mano a Õamås e ad altre fazioni della resistenza. Ma dimentica che migliaia di palestinesi, molti dei quali minorenni, sono da anni ostaggio degli israeliani. Ma li chiamano prigionieri. Oggi sono oltre seimila. E le loro condizioni di prigionia sono sempre più dure. A deciderlo è soprattutto il ministro fascista Ben-Gvir. Se potesse li eliminerebbe tutti. Ho perso il conto di quante volte abbiamo chiesto la liberazione dei prigionieri. Israele non ha mai inteso farlo, se non quando ha dovuto trattare la liberazione del soldato Shalit. Siamo pronti a uno scambio di prigionieri, ma questo potrà avvenire solo se cesseranno gli attacchi a Gaza. LIMES In questi giorni di guerra si è tornati a parlare di una pace fondata sulla soluzione dei due Stati. Ma questo comporterebbe il riconoscimento di Israele da parte di Õamås. È una prospettiva ipotizzabile? HANIYYA Nessuno può chiedere alla vittima di riconoscere il suo carne!ce. Nessuno. Hanno rubato le nostre terre. Hanno occupato la Cisgiordania e al-Quds (Gerusalemme, n.d.r.). Guardate che !ne hanno fatto gli accordi di Washington. Arafat aveva riconosciuto Israele, ma trent’anni dopo i palestinesi sono ancora sotto occupazione. Quegli accordi non dovevano essere !rmati, perché frutto di una strategia rivelatasi fallimentare. Israele li ha usati per coprire la colonizzazione, per mantenere e rafforzare l’occupazione, per avere copertura internazionale. Quegli accordi non sono serviti neanche a ottenere la liberazione di prigionieri palestinesi. Quando ciò è avvenuto, è stato grazie alle azioni della resistenza palestinese. Vogliono trattare? Si ritirino dai territori che hanno occupato. Ma Israele non vuole una pace giusta. Vuole annientare il popolo palestinese, occuparne le terre. Due milioni di coloni sono pronti a insediarsi in Cisgiordania. A coloro che oggi ritirano fuori la soluzione dei due Stati, chiedo: dove dovrebbe sorgere lo Stato di Palestina? Su quale francobollo di terra? La nostra non è una guerra di religione. È una guerra di liberazione. Agli israeliani diciamo: quante volte vi abbiamo ammonito per ciò
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che avete perpetrato nei Territori occupati nel 1948, per i vostri tentativi di separare il nostro popolo? LIMES Uno degli obiettivi di Õamås con gli attacchi del 7 ottobre era sancire la !ne politica dell’Autorità nazionale palestinese e del presidente Abu Mazen? HANIYYA È falso. Nel corso di questi decenni di occupazione abbiamo visto più volte il nemico provare, spesso riuscendoci, a dividere il campo palestinese con la complicità dell’America e dell’Europa. Noi abbiamo sempre detto che l’unità è un bene da preservare. Ma l’unità si costruisce resistendo all’occupazione israeliana, combattendo chi vuole annientarci. La resistenza contro chi da sedici anni assedia Gaza, porta avanti la pulizia etnica a Gerusalemme Est, spaccia per diritto alla difesa le punizioni collettive, occupa terre palestinesi, detiene per mesi e anni prigionieri senza processarli. Questa è l’unità che interessa a Õamås. Non c’è preclusione in questo. Quanto poi alla legittimazione, vorrei ricordare che Õamås ha vinto le elezioni del 2006. Elezioni libere, democratiche. La reazione israeliana e dell’Occidente è stata quella dell’assedio, dello strangolamento. Hanno votato Õamås, meritano di essere puniti. Bella idea di democrazia. LIMES «L’Europa sarà la prossima a essere colpita da Õamås. Avrà i terroristi alla porta». Lo ha detto il ministro degli Esteri israeliano, Eli Cohen, intervenendo all’Onu. HANIYYA Õamås non ha mai agito fuori dai con!ni della Palestina. La nostra è una lotta di liberazione contro l’occupazione israeliana. L’Europa non deve temere Õamås. (ha collaborato Osama Hamdan)
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‘Õamås ha fatto un errore colossale Ora pagherà’ Conversazione con Meir ELRAN, ricercatore all’Institute for National Security Studies (Inss) e direttore dell’Homeland Security Program a cura di Cesare PAVONCELLO
Il 7 ottobre 2023 si sommerà alla lista delle date emblematiche della storia dello Stato d’Israele. Le sue conseguenze produrranno cambiamenti geopolitici nella regione? ELRAN In questi giorni si sono incrinate molte certezze. Nessuno è attualmente in grado di predire gli sviluppi della guerra. La drammaticità di quanto è avvenuto ha il potenziale di cambiare la realtà circostante sotto molti aspetti, ma non possiamo analizzare gli eventi con i convenzionali modelli di previsione geostrategici. Occorre essere molto più creativi. Il con!itto iniziato il 7 ottobre potrebbe estendersi con l’entrata in scena (più o meno diretta) di attori esterni. E non è chiaro se e dove questa catena si potrà arrestare. Posso provare a tracciare, in termini molto grezzi, tre possibili scenari. Primo, non accadrà molto. Õamås resterà Õamås e il con!itto continuerà a essere gestito come in passato. I palestinesi saranno un po’ più deboli, forse sensibilmente più deboli, ma anche noi israeliani ne usciremo meno forti. Entrambe le parti dovranno dedicare le proprie capacità umane ed economiche alla ricostruzione. È uno scenario possibile. Temo non il più probabile. Õamås non ha capito che c’è una differenza oceanica tra trasformare la realtà strategica e conseguire un successo militare. Secondo, siamo all’estremo opposto. Possiamo prendere come punto di riferimento gli effetti della guerra dello Yom Kippur. Non sappiamo veramente se dietro l’attacco a sorpresa congiunto di Egitto e Siria nel 1973 vi fosse soltanto la volontà di vendicare l’umiliazione subita nella guerra dei Sei giorni o anche l’intenzione di provocare un cambiamento geopolitico. In ogni caso, quel con!itto ha messo in moto dinamiche che hanno portato, non molto tempo dopo, alla pace tra Israele
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ed Egitto. Una pace che resiste da oltre quarant’anni ed è tenuta insieme da vincoli e interessi. Bisogna però rilevare che con i siriani è andata diversamente, nonostante le condizioni di partenza, gli sviluppi successivi e per!no la !ne della guerra siano stati molto simili. Insomma, non possiamo escludere uno scenario analogo al riavvicinamento con l’Egitto, che al momento pare pura fantasia. Questa possibilità passa per la scomparsa di Õamås quale entità militare e politica. L’organizzazione che ha compiuto gli attacchi del 7 ottobre non ha possibilità di essere accettata come partner, come avvenne a suo tempo per Sadat e per Arafat. Terzo, una possibilità intermedia, in"uenzata dalle innumerevoli variabili legate a obiettivi, sviluppi e risultati della guerra. Se Õamås ne uscirà vivo, per quanto malconcio, saremo di fronte a una variabile del primo scenario. Potrebbero esserci leggeri mutamenti geogra!ci, come una zona di sicurezza fra la Striscia di Gaza e il con!ne israeliano. E Õamås dovrà probabilmente darsi nuova forma organizzativa. Poco o nulla cambierà. Occorrerebbe poi valutare la reazione delle due popolazioni. Credo che Israele sia orientato verso la seconda opzione, quella che presupporrebbe la scomparsa di Õamås. Ma chi verrebbe dopo? La soluzione per la gestione di Gaza dovrà essere cercata nel mondo arabo? Forse nella cooperazione internazionale? O magari in un improbabile riaggancio della Striscia all’amministrazione dell’Autorità nazionale palestinese (Anp)? O ancora qualcos’altro? LIMES Come usciranno da questa guerra le relazioni con i paesi degli accordi di Abramo e con l’Arabia Saudita? Questi attori potrebbero contribuire a un futuro nuovo assetto di Gaza o a una mediazione tra israeliani e palestinesi? ELRAN Le relazioni con questi attori hanno ricevuto un duro colpo. È interessante notare come i paesi degli accordi di Abramo si stiano barcamenando in un dif!cile tentativo di mezza neutralità, ma a breve termine non faranno comunque alcun passo verso Israele, nessun gesto o iniziativa tesi a scaldare i rapporti, a meno che la guerra non produca un risultato militare e politico inequivocabile in favore di Israele. La potenza, il prestigio e la deterrenza dello Stato ebraico nella regione hanno subìto un duro colpo. È quindi molto importante che la situazione cambi, che la realtà attuale non !nisca per essere congelata. Cosa che, a mio avviso, non accadrà. Molto dipenderà dai risultati sul campo. Più Õamås uscirà indebolito dal con"itto, più sarà probabile un ritorno degli accordi di Abramo e della normalizzazione con i sauditi. In ogni caso, se e quando si creeranno le condizioni per un accordo fra Israele e palestinesi a Gaza (ovviamente senza Õamås), gli Stati arabi più moderati proveranno a dare il loro contributo. È uno scenario possibile. E spero fortemente che si realizzi con il sostegno di Washington, partner indispensabile. LIMES Tra i fattori che hanno spinto Õamås ad attaccare c’è anche l’accordo tra Israele e Arabia Saudita? ELRAN Non abbiamo informazioni precise al riguardo, ma mi sembra perfettamente logico. Non mi riferisco soltanto a Õamås, ma alla più estesa cerchia dell’asse della resistenza, di cui l’organizzazione è parte. LIMES Dietro agli eventi del 7 ottobre c’è la mano di Teheran?
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ISRAELE ON THE ROAD Area israeliana Zona edi$cata e municipalizzata Area C Pieno controllo israeliano per la sicurezza, la piani$cazione e la costruzione Zone chiuse Aree chiuse esistenti e progettate dietro la barriera. L’accesso è limitato ai possessori di permesso Basi militari israeliane
Mare di Galilea
Ginosar Tiberiade
Haifa Nazaret
90 60 Afula Zona edi$cata Area municipalizzata
Insediamenti israeliani più isolati 1 Har Bracha 2 Yitzhar 3 Eli Netanya 4 Shilo 5 Ofra Mar 6 Beit El Mediterraneo
Area C Beit Shean Jenin
e Giordano
S amaria Tūlkarim Nāblus
Qalqīlya
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F iu m
Area palestinese Zone A, B, C (Edi$cate, pieno controllo e controllo congiunto)
2 Huwwāra 3
Tel Aviv
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G i u d e a
Strade 60 e 90 Strade secondarie
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Rāmallāh Mateh Binyamin
Gerico
Ashdod GERUSALEMME Gush Etzion
Ma‘ale Adumim Betlemme
Halhūl Gaza
Hebron Yattā al-Zāhiriyya on vr e H Har
Ein Gedi
Mar Morto
I S R A E L E
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GIORDANIA
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Omer Beer Sheva
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ELRAN Senza dubbio un coinvolgimento c’è stato, ma non dobbiamo esagerarne l’entità. Gli iraniani hanno fornito aiuto e incoraggiamento. Magari hanno persino contribuito a elaborare questo o quell’elemento del piano di attacco. Credo però che le decisioni !nali siano state prese esclusivamente da Õamås. Insomma, il sostegno dell’Iran ai militanti di Gaza non può essere paragonato a quello garantito a Õizbullåh. E forse la ragione per cui quest’ultimo non si è ancora unito al con"itto è da ricercare proprio a Teheran, non a Beirut. LIMES La distruzione di Õamås è un obiettivo realizzabile? ELRAN Sicuramente, ma ci sono tre ostacoli. Il primo è il costo altissimo che comporterà in termini economici e di vite umane, per Israele e ancor più per i palestinesi. Il secondo riguarda i tempi dell’operazione, molto più lunghi rispetto a tutte le precedenti azioni militari. Il terzo, e probabilmente il più importante, pertiene al futuro di Gaza. Che cosa accadrà alla Striscia dopo la guerra? L’idea di conquistarla e restarci, annettendola a Israele, è sostenuta da alcune frange radicali, ma è irrealizzabile. La scon!tta totale di Õamås deve avvenire senza tenere Gaza, abitata da oltre due milioni di abitanti pervasi da un profondo odio nei nostri confronti. Un odio che la guerra potrà soltanto accrescere. Gaza è l’emblema degli obiettivi inconciliabili di Israele: combattere Õamås, ridurre al minimo il rischio per i propri cittadini e soldati, salvaguardare la popolazione civile dall’altro lato del con!ne. La coperta di Gerusalemme è troppo corta. Come si può vincere inequivocabilmente una guerra con un nemico che si nasconde in mezzo alla popolazione civile rispettando le leggi internazionali? Se Õamås volesse mettere sul serio in dif!coltà Israele, dovrebbe arrendersi in blocco e consegnargli Gaza. Allora sì che ci troveremmo tra le mani un dilemma insolubile. LIMES Una vittoria netta restituirebbe a Israele la deterrenza perduta? ELRAN La deterrenza è un elemento importante ma inconsistente. Ce l’hai e in un batter d’occhio qualcuno te la s!la. Senza avvertimenti. Fino al 6 ottobre nessuno avrebbe seriamente dubitato della capacità di dissuasione di Israele nei confronti di Õamås. Nemmeno i più aggiornati servizi d’intelligence. È bastato un giorno per far crollare i nostri presupposti. Poi, la deterrenza presenta vantaggi per entrambe le parti. Le milizie di Gaza l’hanno usata per depistarci, sfruttando le zone d’ombra per costituire la propria forza militare e piani!care un attacco complesso. C’è però un aspetto aggiuntivo. Se Õamås ha seriamente preparato l’assedio per godere di un vantaggio tattico, di una vittoria di 36 ore, il suo errore di calcolo è stato colossale. Non capisco quali siano stati i veri obiettivi militari dell’operazione, ma soprattutto gli scopi del comportamento barbaro tenuto con i civili. E non sono l’unico. I terroristi pensavano seriamente che Israele sarebbe crollato, che si sarebbe dissolto nel nulla? Probabilmente sì, poiché dicono tuttora che il piano era conquistare e tenere sotto controllo parti del territorio israeliano. La realtà è che hanno fallito miseramente e subìto perdite enormi, nonostante la sorpresa, nonostante l’incredibile fallimento di esercito, intelligence, politici, analisti. Hanno ottenuto soltanto una carne!cina. Il nostro esercito non ha lasciato ricordo dei terroristi sul terreno
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israeliano, restano solo cadaveri e prigionieri. Alcuni potrebbero sostenere che il successo di Õamås riguarda la consapevolezza, la presenza, la percezione. Sul serio? E a quale prezzo: davanti al mondo, a noi israeliani, al loro stesso popolo? Mi trovo costretto a dire qualcosa che non vorrei: le menti dei capi e dei militanti di questa organizzazione sono distorte, la loro visione è barbara, deformata e malata. E per questo tutti paghiamo un prezzo altissimo. Purtroppo la popolazione di Gaza non ha ancora detto «Basta!». Non l’ha fatto a causa della sua mentalità, della sua cultura del potere, dell’odio accumulato per decenni. Il mio non vuole essere un giudizio. Ma la soluzione offerta da Õamås non porterà a nulla di buono, solo ad altre sofferenze e sventure. Questo è certo. La logica convenzionale non consente di capire e tanto meno di trovare spiegazioni a quello che è accaduto. In questo momento non è possibile non essere d’accordo con la linea di Israele. E Õamås ha perso ogni diritto di essere considerato un partner per la pace. LIMES Al di là degli effetti militari, la guerra dello Yom Kippur ha avuto per Israele un grande impatto politico interno, portando alla dimissione dei vertici militari e politici. Sarà così anche dopo il con!itto in corso? ELRAN Dif"cile pensare altrimenti. I capi dell’esercito e dell’intelligence hanno già riconosciuto pubblicamente le proprie responsabilità, rimandando le dimissioni formali alla "ne della guerra. Ci sarà una nuova leadership che avrà la responsabilità di studiare i gravissimi errori che hanno contribuito alla tragedia del 7 ottobre e di riorganizzare Tzahal, le nostre Forze armate. Dovranno cambiare la mentalità e il modus operandi. Dal punto di vista politico, la situazione è meno chiara. Entrano in gioco il governo e la sua dura lotta con l’opposizione (sia politica sia popolare) per le riforme al sistema giudiziario. Tale lotta non è stata cancellata dalla guerra. È stata solo rimandata. LIMES Come ne uscirà la società israeliana? ELRAN La società israeliana è una luce nel buio "tto dei primi giorni di guerra. L’attacco di Õamås è stato sferrato contro una società provata da anni di dif"coltà: il Covid-19, una crisi politica che ha portato a cinque elezioni in meno di due anni e mezzo, nove mesi di proteste contro le riforme. Una società che all’alba del 7 ottobre presentava lacerazioni interne senza precedenti, addirittura insanabili a detta di molti. Non si può non restare affascinati e confortati da quanto è successo. Parlo dell’ondata di solidarietà e dell’unità – vera, sul campo, non a parole – di cui siamo testimoni. Parlo dell’incredibile reazione di molte delle persone evacuate dai kibbutzim e dai villaggi di con"ne, che vogliono tornare indietro e ricostruire le proprie case. Parlo della risposta di Tzahal, il quale ha ripreso il controllo della situazione dopo il durissimo colpo. Parlo del sostegno degli Stati Uniti, fondamentale per dissuadere altri attori (leggi Õizbullåh e Iran) a entrare attivamente nel con!itto. Sarebbe sbagliato affermare che tutto va a meraviglia. Decine, forse centinaia di migliaia di cittadini israeliani hanno vissuto un trauma che dovrà essere affron-
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tato e curato. Un trauma che sembra coinvolgere anche il governo e il primo ministro. Ci aspetta una guerra dura e snervante, anche per la soluzione del problema degli ostaggi. Ma abbiamo vissuto momenti peggiori. La Shoah non ha impedito che nascesse Israele. Gli attacchi di tutti i paesi arabi nel corso dei decenni non ci hanno impedito di crescere, di diventare ciò che siamo oggi. Questa è la nostra s!da: trasformare la catastrofe in opportunità. Se ci riusciremo tutto andrà bene. Ma non sarà questione di settimane o mesi. Ci vorrà molto tempo.
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di
Mario GIRO
Il radicalismo islamista, di cui è peculiare interprete Õamås, ha le sue stagioni. All’origine la frustrazione incentivata dai successi occidentali e la nostalgia dell’‘età dell’oro’. Il prototipo hanbalita e le sue diramazioni. I riflessi geopolitici sul mondo musulmano.
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1. E C’È UNA GUERRA INFINITA È PROPRIO quella tra Israele e i palestinesi: 75 anni senza pace e con una sedimentazione dell’odio tanto ispessita e densa da sembrare indelebile. Tantissime le vittime di questi decenni di guerra, ma ora Õamås («zelo» in arabo e insieme le iniziali di Movimento islamico di resistenza) ha portato la violenza a livelli indicibili. Per molti versi unica nell’universo dei gruppi armati jihadisti. Õamås ha radici sunnite ma alleati sciiti (Iran e Õizbullåh); una dottrina nazionalista ma una propaganda islamista; una concezione autoritaria del potere ma una pratica elettorale diffusa. Dominante a Gaza dal 2006, tutti sanno che vincerebbe anche in Cisgiordania. Per questo dal 2009 non si tengono elezioni. L’Olp è !nita e con essa l’Autorità nazionale palestinese, ormai impregnata di corruzione e collaborazionismo – almeno agli occhi dei palestinesi. Tuttavia Õamås attende il suo momento. Il paradosso dell’attuale situazione, esplosa con l’Operazione Alluvione al-Aqâå, è che Hamås potrebbe essere spazzata via da Gaza ma a breve regnare su Råmallåh. Qual è la forza di questo movimento, nato nella scia dei Fratelli musulmani (il fondatore, sceicco Aõmad Yåsøn, ne era membro) per poi diventare simile alla Jihåd islamica se non ad al-Qå‘ida o allo Stato Islamico? Quali le sue radici e il terreno di coltura della sua fanatica ideologia nazional-religiosa? Prendendo a prestito la «geopolitica delle emozioni» di Dominique Moïsi, si può dire che Õamås si è nutrita innanzitutto di umiliazione, frustrazione e rancore, sentimenti generalizzati nel mondo arabo-islamico contemporaneo. Samør Qaâør, brillante intellettuale libanese e editorialista di an-Nahar, uno dei principali quotidiani laici del paese dei Cedri, aveva dato voce a tali sentimenti nel suo bel libro L’infelicità araba, prima che un attentato probabilmente di marca Õizbullåh lo uccidesse a Beirut nel giugno 2005. «Non è bello essere arabi di questi tempi – scriveva amaramente – senso
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di persecuzione per alcuni, odio di sé per altri, nel mondo arabo il mal di esistere è la cosa più diffusa». 2. Mal di esistere e odio di sé rappresentano il fondamento di tanti jihadismi contemporanei e anche del settarismo cieco di Õamås. Cosa può aiutare a spiegare tale caos interiore del mondo arabo-islamico giovanile, in particolare del suo universo sunnita, stretto tra regimi e violenza, autocrazie e jihadismo? Certamente la geopolitica: alleanze sbagliate; scontro tra opposti interessi; avvento e crisi della globalizzazione (percepita come americanizzazione); !ne della guerra fredda; fallimenti economici; disgregazione sociale e soprattutto guerre, troppe guerre. Da questo punto di vista non si tratta solo di indebolimento ma di vero e proprio fallimento degli Stati: Siria e Libia non esistono più; Iraq vacilla; Tunisia, Sudan e Libano sono attraversati da con"itti interni se non preda di guerre civili. Qualcosa nel mondo arabo si è rotto provocando un forte deterioramento nell’immagine pubblica dell’islam come religione e degli arabi come popolo. Per spiegare tali fallimenti va cercato un nemico: la propaganda dei movimenti radicali, terroristi e jihadisti, mira a far passare il concetto di «guerra permanente» fra mondi inconciliabili. Õamås ne fa parte: l’odio che la spinge a compiere stragi di bambini è qualcosa di scandaloso anche per l’islam tradizionale: una forma di riduzione della religione che avviene – paradossalmente – per contatto con la modernità. Dietro la terminologia islamica dei jihadisti contemporanei si cela una trasformazione ancora in atto: il confezionamento di un neoprodotto religioso che manipola la religione mediante una miscela di concetti, di provenienza spuria anche legata al nazionalismo. Lo stesso jihåd viene proposto dai reclutatori come forma di liberazione collettiva dall’ingiustizia e riscatto personale dall’impotenza. Per utilizzare le parole di Olivier Roy, si tratta di un’islamizzazione dell’antagonismo piuttosto che di mera radicalizzazione dell’islam storico: «Tutto ciò partecipa alla globalizzazione dell’islam (…) reinvenzione di una comunità religiosa ideale (…) avvento di una religiosità percepita come realizzazione di sé». Com’è avvenuta tale «reinvenzione» e com’è possibile per i jihadisti costruire oggi una !liazione storica per il loro neo-islam globalizzato? In altri termini: qual è la narrazione del sala!smo e del jihadismo contemporanei che li ha resi così popolari tra i giovani arabi a discapito di altre ideologie nazionaliste, rivoluzionarie o terzomondiste? C’è stato un grande lavoro di riscrittura della storia, simile a quello che vediamo compiersi oggi in Russia anche se in tutt’altro contesto !loso!co, storico e religioso.
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3. Fin dal VII secolo, dopo la scomparsa del profeta, la religione coranica affronta una fase critica, piena di dispute e con"itti tra i leader, così come tra scuole giuridico-religiose. Gli hanbaliti, i seguaci di Aõmad ibn Õanbal (780-855), rappresentano una prima forma di islam rigorista che oggi potremmo de!nire integrista, sala!ta o wahhabita. Il contesto storico in cui si affermarono gli hanbaliti era del tutto particolare. Si trattava di un’epoca di insicurezza generale per le popolazioni
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arabe che prevalse nel corso tumultuoso della conquista. Incertezze dinastiche, guerre intestine, povertà permanente (malgrado le grandi ricchezze accumulate dai regnanti), scontro città-campagne, allungamento a dismisura delle frontiere e lontananza geogra!ca dei centri di potere. Su tutto lo shock dello scisma (!tna) con gli sciiti: la prima grande guerra fratricida tra musulmani. I primi secoli furono segnati da dispute e scontri intestini. In ambito religioso emerse un’ansia di certezze, di regole sicure. Ciò fece la fortuna della scuola hanbalita, la prima radice a cui gli integralisti odierni idealmente si richiamano. Ibn Õanbal temeva che la conquista araba contaminasse l’islam del profeta, quello puro della rivelazione e del deserto. Tale ansia di purezza si ritrova oggi negli estremisti e provoca un atteggiamento settario. Le altre correnti del pensiero islamico, i raf!nati intellettuali delle corti che traducevano Aristotele o Platone discettando di !loso!a greca, storia, medicina, astronomia erano percepiti come devianti con lo stesso giudizio che oggi viene dato all’Arabia Saudita o agli amici dell’Occidente. Gli hanbaliti propugnavano un insegnamento del Corano e degli aõådøñ (i detti del profeta) accessibile a tutti. È quella dottrina «semplice» che oggi informa i movimenti jihadisti e ne spiega la radicalità. Quattro secoli dopo, nella caotica Damasco del Trecento, Ibn Taymiyya riprese il magistero intransigente di Ibn Õanbal e lo rilanciò condannando superstizioni, contagi e correnti aperturiste, accusate di essere la causa profonda del dissolversi dell’unità arabo-musulmana. A tutt’oggi è in corso la polemica su tale questione. Ibn Taymiyya se la prese con le mode che distruggevano a suo parere il vero islam, «associandolo» (colpa grave nella tradizione musulmana) con altro. Solo nel popolino non corrotto resisteva – secondo lui – la vera religione. Ibn Taymiyya fondò il mito hanbalita, cioè quello di un islam puro, incontaminato e vicino al popolo. I suoi scritti ispirano ancora oggi la corrente rigorista. Ad alcuni pensatori jihadisti contemporanei sembra che la situazione attuale del mondo arabo non sia dissimile – quanto a frustrazione e caos – a quella del XIV secolo. Un’altra tappa fu l’incontro-scontro con la modernità occidentale. Inviato dall’Università cairota di al-Azhar a Parigi nel 1826 alla testa di una delegazione con il compito di studiare l’Europa, il giovane erudito egiziano Rifå‘a al-¡ah¿åwø fu il primo a riportare genuinamente l’impressione che fece sull’élite araba la civiltà moderna. Mohammed Arkoun de!nisce quel diario di viaggio «il primo manuale del riformismo arabo», prodromo della nahîa (rinascita) che di lì a breve diverrà un forte movimento culturale che coinvolgerà tutto il Medio Oriente. La visita fu uno shock per gli arabi e mise in luce il loro ritardo. Molti si posero la domanda: perché tanta differenza? Perché i musulmani, «depositari dell’ultima rivelazione», erano così indietro rispetto agli infedeli? Dal momento che la parola di Allah non può essere smentita dalla storia, la risposta andava cercata nel popolo arabo stesso. Qualcosa non aveva funzionato, tanto da far smarrire la giusta direzione. Di nuovo, come in altri momenti della storia araba, riapparve l’ossessione istintiva: tornare alle fonti, all’«età dell’oro», quando l’islam (segnatamente quello arabo) aveva trionfato.
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«Risveglio» e riformismo arabo, che tra la !ne del XIX e l’inizio del XX secolo rappresentarono un’esplosione di modernità, furono subito segnati da tale ambiguità, simboleggiata dal «ritorno all’indietro»: l’incessante ricerca della forma originaria, pura dell’islam. Per molti studiosi, più che epoca di rinascimento, la nahîa venne concepita come ideologia di resistenza allo straniero, mentre si tentava di integrare la «modernità positiva» nel sapere islamico. Immediatamente i riformisti si distinsero in tradizionalisti e moderni, a vantaggio dei primi, molto più numerosi. L’iraniano al-Afôånø (1838-97) e ancor più il suo discepolo egiziano Muõammad ‘Abduh (1849-1905) furono i massimi rappresentanti di tale tendenza, divulgatori di un islam arabo riformato in lotta sia contro il dispotismo ottomano sia contro l’aggressione culturale dell’Occidente. Si trattò nuovamente di uno sguardo all’indietro: ridare dignità all’islam arabo degli inizi. Per costoro restava intatto il «ciclo dell’eterno ritorno» di marca hanbalita, rilanciato da Ibn Taymiyya e che compì la sua affermazione de!nitiva con l’avvento della corrente sala!ta (da salaf, gli anziani), l’ideologia riformista tradizionale del «ritorno alla norma dei pii antenati». È a tale forma ideologica che Fratelli musulmani, Õamås e molti altri jihadisti si ispirano oggi. Amalgamando antico e moderno, il fondatore dei Fratelli musulmani, l’egiziano Õasan al-Bannå (1906-49), dichiarò: «L’islam è dogma e culto, patria e nazionalità, religione e Stato, spiritualità e azione, Corano e spada». Il siriano Rašød Riîå (1865-1935) è considerato il fondatore della corrente sala!ta, resa poi leggendaria dalla condanna a morte ordinata da Nasser del fratello musulmano egiziano dissidente Sayyid Qu¿b (1906-66), considerato un martire. Accanto a loro c’era il pakistano Mawdudi (1903-79), il più famoso propagandista di tale tendenza. In Riîå ritroviamo l’eco della tradizione hanbalita ripresa da Ibn Taymiyya: il mito luminoso dei primi compagni di Maometto, la purezza degli inizi, l’esaltazione del califfato arabo, un malcelato senso di superiorità del popolo arabo sugli altri musulmani, una forma di dif!denza per gli apporti di altre etnie islamiche, la celebrazione della conquista della Mecca da parte di Ibn Sa‘ûd e la sua alleanza con al-Wahhåb. Anche se il wahhabismo di marca hanbalita si dedicherà alla sola Arabia Saudita – del tipo: socialismo in un paese solo – procurandosi la riprovazione dei militanti sala!ti che sfocerà in!ne nell’odio assoluto per l’Arabia Saudita, ben prima dell’avvento di Muõammad bin Salmån. Per tutti costoro si tratta di ritrovare la «via smarrita» dopo che la cecità dei capi e dei leader ha portato l’islam arabo al compromesso, alla devianza e quindi alla decadenza. Si trattò di una generazione in rivolta che cercò una via di redenzione nel millenarismo. Alcuni erano più nazionalisti, altri internazionalisti ma tutti arrabbiati e radicalizzati per i ripetuti fallimenti e ingiustizie che vedevano nei loro paesi. Erano scandalizzati per la debolezza dei propri leader di fronte agli occidentali e, in seguito, ai sovietici. Per una cultura così nobile e antica come quella arabo-islamica era considerato impensabile, umiliante e terribilmente frustrante sottomettersi ad altri popoli e ad altre culture. Col tempo il fallimento del socialismo e del nazionalismo arabi accrebbe tale sentimento e l’audience dei sala!ti. Ma la loro
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rabbia era già all’opera !n dalla !ne del XIX secolo, quando comunisti, socialisti o nazionalisti non erano ancora giunti al potere e i sala!ti stessi erano un piccolo gruppo settario. Il nazionalismo politico dei Fratelli musulmani (radice di Õamås) fu il frutto di un misto di ideologia fanatica e forme di occidentalizzazione strisciante. I temi ricorrenti erano la frustrazione e l’umiliazione degli arabi, insieme alla rabbia e a un generale senso di ingiustizia. «L’islam è la soluzione» era e rimane il loro semplicistico slogan. Ma di quale islam si tratta? Già dalla !ne del XIX secolo i sala!ti propagandavano un islam destoricizzato: la storia non può contraddire il testo sacro, quindi la storia non esiste o è stata ereticamente deviata. Ecco perché la creazione dello Stato di Israele fu concepito non solo come una scon!tta politica ma come una devianza. Il risultato di tale «odio della storia» (e disprezzo per la cultura) provocò gradualmente l’inaridimento della proposta religiosa e il sorgere di una sorta di teologia disincarnata. In tale versione l’islam fu ridotto ai dogmi indispensabili della pratica religiosa: assoluto ed egualitario, rigorista e settario, antigerarchico e tendenzialmente protestatario. Tale islam «orizzontale», che aborre la ri"essione speculativa ed è sprovvisto di profondità storica, si pose contro le autorità (religiose e politiche) stabilite, rivolgendosi ai giovani illetterati e non alle élite. Analizzando i testi jihadisti, come ha fatto Gilles Kepel, si può facilmente evidenziare lo spirito egualitario, settario e anti-istituzionale alla radice del sala!smo: sembrano scritti eversivi più che religiosi. Creando un arbitrario legame che va dal rigorismo popolare degli hanbaliti al mito del ritorno di Ibn Taymiyya !no al ri!uto della storia di Riîå e all’annuncio di liberazione di Qu¿b, la corrente radicale e jihadista islamica contemporanea ha elaborato una sua narrazione. Ecco la «reinvenzione dell’islam» che tralascia tutto e si crea un proprio !lo genealogico, srotolandolo !no a oggi, escogitando un nuovo prodotto: un misto di religione e ideologia che progressivamente allontana l’islam dal suo alveo culturale. Siamo davanti a una riduzione dell’islam, estraniato dalla sua storia e ridotto a utopia della rivolta, pronto a diventare sanguinario. Per i jihadisti odierni non c’è cultura di riferimento: la patologia di tale neoprodotto religioso è proprio il suo divorzio con la cultura araba e con tutte le altre culture che l’islam ha incontrato sul suo cammino – iranica, turca, centroasiatica, curda eccetera – considerate impure e devianti. Un islam così destoricizzato e deculturato si presta a molte manipolazioni. Oltre la nahîa c’è la ñawra, la rivoluzione. Fu lo stesso Nasser a de!nirne i criteri nel suo Filoso!a della rivoluzione. Già il concetto era stato utilizzato negli anni Trenta e ancor prima durante le rivolte anti-ottomane, ma con gli «uf!ciali liberi» egiziani divenne un richiamo potente per le nuove generazioni arabo-musulmane. La vittoria anticoloniale dell’Fln algerino contribuì a rafforzarne l’ideale. Ma l’epopea rivoluzionaria araba durò poco, implodendo per l’incapacità economica dei nuovi regimi e per la scon!tta nelle guerre contro Israele. Da qui un’altra ondata di umiliazione e odio che dura !no a oggi. Solo la lotta palestinese la tiene ancora in vita, ma in maniera sempre più fragile e isolata. Õamås
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conta su questo per rivivi!carla. I rivoluzionari arabi hanno dif!coltà a concepire una dottrina originale basata su radici culturali proprie, immersi come sono nel contesto internazionale bipolare, ambiguo e impetuoso della guerra fredda. A cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta molte ideologie di liberazione videro la luce. Era il tempo della conferenza di Bandung, del sogno afro-asiatico, di Frantz Fanon e delle lotte dei popoli nativi. La rivoluzione esaltò tutte le culture del Terzo Mondo. Questo non poteva piacere ai radicali islamici. Al di là dell’ef!mero entusiasmo di massa provocato dai leader – in particolare da Nasser – nel mondo arabo la ñawra non si inculturò mai, restando un fenomeno super!ciale e incapace di reggere il confronto – in termini di consenso – con la predicazione radicale di al-Bannå. La condanna a morte di Qu¿b rappresentò il segnale de!nitivo della rottura. Nell’universo sciita e nella sfera culturale iraniana la rivoluzione fu invece interiorizzata dall’estremismo religioso. Si tentò d’innestare l’ideologia dei «dannati della terra» nell’islam imamita, per l’occasione presentato come la vera fonte della giustizia sociale, paradossalmente in un paese in cui il clero era sempre stato conservatore. Furono Ali Shariati e Jalal Al-e-Ahmad a proporre un’inedita alleanza islamo-gauchiste: quella tra un islam popolare basato su uguaglianza ed equità e un marxismo depurato del materialismo dialettico. Ne venne fuori la base ideologica e religiosa della rivoluzione iraniana, complice la reinterpretazione a opera di Khomeini della dottrina della «tutela del giureconsulto» (velayat e faqih), che lasciava al potere religioso (guardiano della rivoluzione) l’ultima parola su quello politico. Analoghi tentativi non riuscirono in ambiente sunnita, per esempio in Algeria, dove il Fronte di liberazione nazionale tentò invano di raggiungere un’intesa con gli islamisti. Lo slogan degli ‘ulamå’ algerini era: «L’islam è la nostra religione, l’arabo la nostra lingua, l’Algeria la nostra patria». Ma il regime politico-militare dell’Fln temeva il pan-islamismo e spostò l’accento sul panarabismo. Più pragmatici, gli islamisti radicali si tennero attaccati al patriottismo. I programmi di arabizzazione forzata che alcuni regimi misero in atto si rivelarono presto un boomerang favorendo i sala!ti ed escludendo le minoranze, come i cristiani arabi, che pure avevano portato un contributo intellettuale non indifferente all’avvio della nahîa. La loro presenza tese a restringersi nel corso del XX secolo, per non parlare degli ebrei arabi, espulsi in occasione delle guerre contro Israele. La lunga guerra del Libano (1975-92) ne fu la prova più evidente. Così l’arabismo della nahîa e della ñawra !nì per fare il gioco degli islamisti che crebbero all’ombra delle moschee e nelle università. Gradatamente i rigoristi sottrassero il tema del patriottismo non solo ai regimi !lo-occidentali ma anche a quelli rivoluzionari arabi. Il paradosso !nale è che il mondo arabo-islamico – intrappolato in tale dialettica di retroguardia – perse l’aggancio con la rivoluzione mondiale che avrebbe potuto modernizzarlo. L’alleanza dei vari partiti Ba‘ñ con Mosca fu fragile e discontinua; alcuni regimi si sostennero solo sulle minoranze (Siria), sull’odio per Israele (troppo in"azionato per divenire un’identità) o sulla paura dei persiani-sciiti (Iraq).
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Ghedda! in Libia, mediante il Libro verde, cercò a suo modo un accordo ma si trattò di un’illusione: il popolo era già nelle mani dei predicatori sala!ti clandestini che giudicavano la sua rivoluzione l’ennesima aberrazione, aspettando il loro momento. Per tutti costoro l’occasione giunse con la guerra in Afghanistan. Ciò che covava nel profondo delle società arabe in Medio Oriente e in Nord Africa sarebbe forse rimasto a livello embrionale se il con"itto contro i russi in Afghanistan (197989) non avesse dato ai sala!ti di ogni denominazione e tendenza il terreno giusto per saldarsi e prendere coscienza della propria forza. Il calderone afghano produsse la prima generazione di jihadisti contemporanei, cui ne seguiranno altre sorte dai successivi con"itti. La seconda guerra d’Algeria, durata tutto il decennio dei Novanta, divenne anche per l’Europa un segnale d’allarme che rimase inascoltato: circa 250 mila morti per una lotta senza quartiere tra un regime erede della «rivoluzione» e gli islamisti i cui pionieri avevano già fatto l’Afghanistan. La nascita del Fis (Fronte islamico di salvezza) e la sua crisi in favore del Gia (Gruppo islamico armato, poi Gspc e in!ne al-Qå‘ida del Maghreb islamico, Aqmi) seguì uno schema ripetuto !no a oggi, dove la repressione di un gruppo politico islamista produce la nascita di uno ancor più radicale. È in Algeria che la Comunità di Sant’Egidio tentò – unica a intuire la s!da – una saldatura tra le componenti divise della società araba: gli islamisti moderati del Fis, i nazionalisti e i socialisti, eredi della precedente fase rivoluzionaria. Era un disegno visionario: ricomporre una frattura storica che ormai dilagava dalla nahîa in poi nell’intero mondo arabo. Con il giusto supporto internazionale quell’iniziativa avrebbe messo radici e oggi la storia sarebbe diversa. Dopo la «prima vittoria islamica» con la cacciata dei sovietici da Kabul (1989) e mentre infuriava la guerra civile ad Algeri (dalla !ne del 1991) i radicali inseguivano altri successi in Bosnia, in Cecenia, in Sudan, in Yemen. Le varie correnti dell’universo sala!ta alzavano la testa e iniziavano a predicare allo scoperto, anche in Occidente. Il con"itto afghano aveva attirato molti combattenti, precursori di quelli che oggi chiamiamo foreign !ghters. Lo scopo era costituire uno «Stato della šar‘øa» ma questa volta sunnita: il sogno di Qu¿b. A Kabul molti impararono a combattere senza fermarsi più. Le successive guerre del Golfo in Iraq e poi in Siria, Yemen e oggi a Gaza hanno creato altrettante generazioni di jihadisti. I con"itti sono stati il grande catalizzatore che ha trasformato la corrente sala!ta nella realtà jihadista odierna. Alla !ne la nahîa non è diventata rinascimento culturale né riforma sociale ma sanguinosa riedizione della mitica identità araba perduta. A ogni tentativo d’inculturazione dell’islam c’è stata la reazione di chi lo ha messo all’indice, bollandolo come promiscuità con qualcosa di estraneo alla religione, eretico e pericoloso. Per la corrente sala!ta ogni cambiamento, ogni modernità o rivoluzione, ogni legge politica è già avvenuta con la «discesa» del Corano. Tuttavia la sua affermazione non sarebbe avvenuta senza gli errori dei regimi arabi. Così oggi gli islamisti, seppur minoritari, possiedono la narrazione dominan-
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te. Democratici e comunisti, nazionalisti o socialisti arabi di ogni inclinazione hanno perso credibilità a causa dei loro ripetuti fallimenti. Così ha fatto l’Olp in Palestina in favore di Õamås. 4. Nascosti tra il popolo, al tornante del XXI secolo islamisti e jihadisti hanno dalla loro il vantaggio di guerre mai terminate e paci mai stipulate. L’opzione sala!ta si espande, provoca la nascita tumultuosa di nuove fazioni mentre si avvita su sé stessa, lasciando dietro a sé solo sangue e macerie. Il «miracolo di Piazza Taõrør» e delle «primavere arabe» non avviene. Islamisti e democratici sembrano unirsi solo per un breve attimo: sono troppo distanti nella concezione dello Stato, della democrazia e della società. Oggi siamo tornati al punto di partenza, come era già avvenuto in Algeria negli anni Novanta: società spaccate, diseguaglianza e repressione, rabbia che cresce senza sbocchi. Ancor peggio in Siria, Libia o Iraq, dove il con"itto ha travolto anche lo Stato. Nella Penisola arabica tale fallimento è sfociato nelle guerre civili, come quella in Yemen che minaccia gli altri Stati del Golfo. La Tunisia sta implodendo e il Libano rischia il medesimo destino. Giordania e Marocco restano fragili regni dalla incerta legittimità, mentre ovunque l’esperimento democratico è naufragato. Troppo poco per chi sognava la grande svolta. Il panorama del mondo arabo oggi è desolante, tra la stanca enfasi nazionalista o post-rivoluzionaria di ciò che rimane di regimi sempre più autoritari e repressivi e l’universo islamista e jihadista che ha portato solo violenza. Ciò può aver indotto la destra israeliana in errore, pensando che la questione palestinese fosse chiusa. Dopo la colonizzazione europea gli arabi hanno ottenuto l’indipendenza ma fallito nella costruzione nazionale. La scelta sembra limitarsi a un’alternativa impossibile tra tiranni corrotti e islamisti sanguinari. Come scegliere tra dittatura e jihåd? La narrazione sala!ta è frutto di una crisi: quella del mancato incontro con la storia che tutto avvolge, intreccia, trasforma e contamina. Ricostruendo a modo loro una narrazione mitica, i sala!ti hanno tagliato fuori l’islam dalla sua stessa cultura. I reclutatori jihadisti propagano tale islam – ridotto e ristretto – utilizzando i mezzi moderni di comunicazione e spesso anche il linguaggio ideologico occidentali. Come scrive Slavoj Žižek: «I jihadisti non sono medievali ma plasmati dalla !loso!a occidentale moderna». Un islam che risponda a tutte le esigenze: psicologiche, sociali, umane, economiche, politiche, di giustizia, nazionali eccetera. Un islam totale e totalitario, che divora tutto – lingue, storia, culture, ideologie, teorie – perché pretende di possedere già tutto. Un islam pronto all’uso, buono per ogni occasione ma molto, molto lontano dalla sua radice culturale e religiosa.
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GRANDE GAZA, IL PROGETTO CHE INQUIETA L’EGITTO di Antonella CARUSO La storia della Striscia incastonata fra il Sinai egiziano e Israele. Se gran parte della popolazione ne fosse espulsa, finirebbe in una zona percorsa nuovamente da bande di jihadisti. La Greater Gaza sarebbe trappola per i palestinesi e minaccia permanente per Il Cairo.
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1. L 21 OTTOBRE, PARLANDO AL CAIRO AL vertice per la pace, il presidente egiziano ‘Abd al-Fattåõ al-Søsø stabiliva: «Ri!utiamo nuovamente l’emigrazione forzata e lo sfollamento dei palestinesi nel Sinai. Si sbaglia chi ritiene che il tenace popolo palestinese desideri lasciare le sue terre, anche sotto occupazione o bombardamenti». Veniva così !ssata la linea sull’emigrazione forzata dei palestinesi di Gaza verso il Sinai egiziano, su cui al-Søsø aveva insistito !n dall’inizio del con"itto Israele-Õamås, il 7 ottobre scorso. La posizione egiziana, come quella araba in generale, rimane ancorata alla soluzione diplomatica del con"itto israelo-palestinese e al ri!uto di ogni tentativo israeliano di trasferire la popolazione della Striscia nel Sinai, o quella della Cisgiordania in Giordania. A corroborare i timori di egiziani e arabi sono stati in particolare gli ultimatum dell’esercito israeliano (Idf) che intimavano agli abitanti di Gaza di abbandonare le loro case, di muoversi verso il Sud e quindi in direzione del Sinai, pena la morte sotto i bombardamenti. Sull’onda di questi appelli e sotto la pioggia incessante di missili, oltre un milione di sfollati è stato costretto a spostarsi nel Sud di Gaza, nella speranza di trovare rifugio in aree già densamente popolate, oppure di approdare nel Nord del Sinai attraverso il valico di frontiera di Rafaõ, chiuso al passaggio dei civili. Sotto assedio israelo-egiziano !n dal 2007, anno della presa del potere da parte di Õamås, Gaza ha da allora spezzato l’isolamento geogra!co e lo strangolamento economico, sia illegalmente attraverso tunnel sotterranei sia legalmente attraverso tre passaggi di frontiera la cui apertura, a intervalli arbitrari e irregolari, è stata abitualmente dettata dalle esigenze di sicurezza dei suoi potenti vicini. Dei sette valichi attivi durante l’occupazione israeliana (1967-2005), soltanto Eretz al Nord, Kerem Shalom e Rafaõ al Sud hanno costituito le valvole di sfogo di questo esiguo territorio. Eretz per il transito quotidiano dei circa 18 mila palestine-
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si impiegati in Israele e Kerem Shalom per gli scambi commerciali con lo Stato ebraico hanno evitato il crollo dell’economia della Striscia e il peggioramento delle condizioni di vita dei suoi abitanti. Insieme al valico di Rafaõ al con!ne con l’Egitto, attraverso cui transitano merci, persone e aiuti umanitari (carta 1). I primi due valichi sono chiusi e lo rimarranno a tempo indeterminato. L’ultimo, anch’esso chiuso per due settimane dall’inizio del con"itto, è stato riaperto per periodi di tempo limitati, consentendo il passaggio di aiuti umanitari verso la Striscia. La chiusura prolungata di questi valichi di frontiera, come si evince anche dai dati riportati nella carta e nei gra!ci dell’Uf!cio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha), è tra le cause principali delle tensioni e dei con"itti che insanguinano Israele e Gaza da sedici anni. Quest’ultima guerra non fa eccezione. Violente proteste lungo la rete di separazione nel Sud-Est e lanci di palloni di fuoco sui campi agricoli limitro! avevano già impegnato l’esercito israeliano il settembre scorso e provocato l’ennesima chiusura di Eretz. Liquidate come reazioni abituali all’isolamento forzato di Gaza, queste proteste avevano in verità già allertato la Difesa israeliana e costretto il suo ministro Yoav Gallant a minacciare azioni militari più importanti in caso di peggioramento della crisi 1. Culminata il 7 ottobre nell’inaspettata incursione militare di Õamås e della Jihåd islamica nello Stato ebraico, con il macabro massacro di civili israeliani nelle aree di frontiera. L’assedio, i bombardamenti e l’invasione di Gaza sono stati la spietata reazione militare promessa da Gallant. I costi umani e materiali di questa guerra sono già ingenti. A Gaza manca tutto. Alla catastrofe annunciata si aggiunge lo sfollamento di oltre un milione di palestinesi che rischiano di rimanere senza acqua, cibo e medicine vicino al con!ne con l’Egitto. La loro sorte preoccupa non soltanto le organizzazioni umanitarie ma anche – soprattutto – il governo del Cairo. 2. Rafa õ, città della Palestina del Mandato britannico, fu occupata dalle regie truppe egiziane durante la prima guerra arabo-israeliana del 1948 per poi cadere sotto occupazione israeliana durante la guerra dei Sei giorni, nel 1967. A seguito della !rma del trattato di pace di Camp David tra l’Egitto e Israele, la città fu divisa nel 1982 tra Rafaõ palestinese, in territorio occupato, e Rafaõ egiziana. Il trattato stabilì anche il graduale ritiro delle truppe israeliane dalla Penisola del Sinai e la sua demilitarizzazione. Il Sinai fu così suddiviso in quattro zone, di cui soltanto due (la A e la B) potevano accogliere unità egiziane dell’esercito e della polizia, armate rispettivamente di armi pesanti e leggere. L’area C, di contro, era limitata alla presenza di forze Onu e della polizia civile egiziana. L’area D, lungo il con!ne di Rafaõ, si situava nella Striscia di Gaza. Il con!ne di Rafaõ tra l’Egitto, i Territori occupati e Israele fu poi de!nito inviolabile e dotato di tre valichi: Rafaõ, Nitzana e ¡åbå. Il valico di Rafaõ divenne passaggio internazionale e come tale fu sottoposto ad accordi legali tra le parti
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1. J. DAVIDOVICH, «Israel threatens to step up strikes on Gaza terror groups as border heats up», The Times of Israel, 27/9/2023.
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3. La sicurezza del Sinai, e in particolare quella del suo con!ne settentrionale, sono parte integrante della sicurezza nazionale dell’Egitto. L’evoluzione delle relazioni del Cairo con la Striscia di Gaza – e con le tribù beduine del Sinai – va pertanto inquadrata anche sotto il pro!lo securitario, al di là della diplomazia e della geopolitica regionale. Non è un caso che il capo dell’intelligence egiziana sia sempre stato in prima linea nelle relazioni con le fazioni palestinesi a Gaza. La prima guerra Israele-Õamås (2008) aveva già testato la capacità dell’Egitto di accogliere e poi rimandare a casa decine di migliaia di profughi palestinesi che avevano attraversato i varchi aperti da Õamås nel muro di frontiera. Gli attentati terroristici dello Stato Islamico-Provincia del Sinai, che si erano intensi!cati dopo il colpo di Stato e l’arresto del presidente islamista Muõammad Mursø, avevano invece messo a dura prova il controllo sulla penisola dell’Egitto, alle prese con la diffusa e grave minaccia dei Fratelli musulmani, poi liquidata con una repressione violenta e spietata. L’arrivo di ‘Abd al-Fattåõ al-Søsø al potere nel 2014 segna l’inizio del deterioramento delle relazioni con Õamås – che dei Fratelli musulmani è stato fedele adepto e alleato – così come il prologo del picco del terrorismo nel Sinai settentrionale. Analogamente, segnala l’intreccio della politica interna egiziana con quella regionale. Mursø, accusato anche di cospirare contro lo Stato insieme a Õamås e Õizbullåh, è condannato a morte. Un’implacabile campagna denigratoria contro il movimento
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responsabili del suo funzionamento (carta 2): Egitto e Israele, essendo l’Autorità nazionale palestinese (Anp) di fatto emarginata perché non presente a Gaza. Rafaõ è dunque una città divisa, che si estende nelle zone C e D. La sua partizione sembra sia all’origine dei primi tunnel che, costruiti da famiglie palestinesi, dovevano servire a mantenere vivi gli scambi e la comunicazione con i propri congiunti nella Rafaõ egiziana. Questi tunnel costituiranno in breve tempo la linfa vitale dell’economia della Striscia di Gaza e del Sinai, per poi trasformarsi nella spina nel !anco della sicurezza egiziana e israeliana quando questo territorio palestinese, ormai «liberato» nel 2005, passa l’anno successivo sotto il controllo di Õamås, vincitore delle elezioni legislative contro il rivale Fatõ/Olp/Anp. Controllo che diventerà esclusivo a seguito delle successive tensioni intrapalestinesi. Isolato dall’Egitto, da Israele e dall’Anp, Õamås romperà l’assedio anche tramite una robusta infrastruttura di tunnel, attraverso i quali si sviluppa presto un "orido commercio clandestino di merci e di armi tra le due Rafaõ e lungo il con!ne. A bene!ciarne saranno sia i palestinesi sia i beduini egiziani troppo a lungo marginalizzati dal governo del Cairo. La rivolta egiziana del 2011 e la crisi politica ed economica che ne scaturisce segnano una nuova fase nelle relazioni tra Egitto e Õamås nonché tra Egitto e Sinai, che porterà nel tempo alla demolizione dei tunnel, alla graduale distruzione di Rafaõ egiziana e alla costruzione di una nuova Rafaõ non distante dal sito originario. Il valico di frontiera per il passaggio dei civili diventerà allora la cartina al tornasole delle relazioni Egitto-Õamås ed elemento di pressione del primo sul secondo.
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palestinese !nisce con l’addossargli la responsabilità di quel picco terroristico. Un tribunale civile egiziano arriva nel 2015 persino a designarlo come organizzazione terroristica, de!nizione decaduta per decisione di una Corte d’appello qualche mese dopo. Nel corso delle guerre Israele-Õamås del 2014 e del 2018 l’Egitto rimane inamovibile sulla chiusura del valico di Rafaõ per il passaggio dei civili, sebbene abbia preso parte attiva al negoziato sulla ricostruzione e sugli aiuti umanitari che attraverso quel valico di frontiera sarebbero dovuti legalmente passare. 4. Alle prese con i propri radicalismi e strangolato dall’assedio israelo-egiziano, Õamås comincia ad arrestare centinaia di combattenti e di attivisti af!liati e/o simpatizzanti dello Stato Islamico. Con la pubblicazione del suo nuovo manifesto nel 2017, rescinde i legami con i Fratelli musulmani. È qui importante notare che in quello stesso anno Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein impongono un boicottaggio al Qatar anche per i suoi legami con la Fratellanza, isolando ulteriormente Õamås. I suoi leader politici trovano rifugio e !nanziamenti nel piccolo emirato wahhabita. In un gesto di ancora più grande apertura verso il potente vicino, Õamås trasferisce temporaneamente il controllo del valico di Rafaõ all’Autorità nazionale palestinese, distrugge alcuni dei suoi tunnel e costruisce in!ne una zona cuscinetto lunga 12 chilometri e larga 100 metri lungo il suo con!ne di sabbia. L’Egitto conduce in quegli stessi anni una dura campagna antiterrorismo nel Sinai settentrionale e fa terra bruciata di migliaia di tunnel e di edi!ci, ma anche di villaggi e di campi coltivati a Rafaõ e dintorni con il duplice intento di privare lo Stato Islamico-Provincia del Sinai della sua rete clandestina di armi e di combattenti e insieme di creare una zona cuscinetto. Questa zona si estenderà nel tempo per 10 chilometri lungo il con!ne, per una profondità di 1 chilometro e mezzo. Limitato da un muro e da torri di avvistamento, il con!ne di Rafaõ è oramai pattugliato da decine di migliaia di guardie di frontiera – 45 mila secondo le stime del quotidiano The New Arab 2. L’azione militare a Rafaõ, che avvenne con il tacito consenso degli Stati Uniti e di Israele, e con la più tardiva collaborazione di Õamås, fu equiparata da Human Rights Watch a un possibile crimine di guerra. Degli 81 mila abitanti censiti a Rafaõ nel 2016, molti sono stati sfrattati o evacuati. La vecchia Rafaõ non esiste più. Al suo posto, installazioni militari preposte al controllo del con!ne ne costellano il territorio. La nuova Rafaõ, a 5 km di distanza dal sito originario, è ancora in fase di completamento (carta 3). Le operazioni militari egiziane sono inserite nella guerra internazionale contro lo Stato Islamico e hanno come sfondo la lotta simultanea di al-Søsø contro l’islam politico, di cui si fa paladino l’allora presidente americano Donald Trump. Esse sono così esonerate dal rispetto delle limitazioni in armi e uomini che gli accordi di Camp David avevano imposto all’Egitto in Sinai. La necessità di dotarsi di una forza armata permanente aveva costretto l’Egitto a chiedere più volte a Israele la
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2. T. MANSOUR, «What’s behind Egypt and Israel’s deepening rapprochement?», The New Arab, 30/11/2021.
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GAZA IN GUERRA Area con avviso di evacuazione e di prima penetrazione israeliana Area urbana Campo profughi Ospedali Impianti di desalinizzazione acqua Unica centrale elettrica di Gaza Deposito di carburante delle Nazioni Unite Principale autostrada della Striscia di Gaza Strade
Bayt Lāhyā
Ğabāliyā Valichi Chiusi prima del 7 ottobre 2023 Chiusi dal 7 ottobre 2023 - Assedio totale a Gaza (Rafah. aperto solo per necessità di rifornimenti umanitari verso Gaza)
Erez
Bayt Ḥānūn
GAZA
Nahal Oz (chiuso dal 2010) Karni (chiuso dal 2011)
Mar Mediterraneo
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Dayr al-Balah.
Kissu!m (chiuso dal 2005)
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Striscia di Gaza
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Sūfa (chiuso dal 2008) . Rafah. Yasser Arafat International Airport (chiuso dal 2002)
ISRAELE
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revisione di quel trattato. L’emendamento viene tuttavia !rmato soltanto a !ne 2021, a sancire sia la vittoria delle campagne antiterroristiche egiziane contro lo Stato Islamico-Provincia del Sinai sia la più stretta collaborazione con Israele, quindi una nuova fase di distensione e di sviluppo nella Penisola. Dichiarata la !ne dello stato di emergenza, al-Søsø ne parla ormai come oasi di sicurezza e di stabilità nella regione, pronta ad accogliere infrastrutture e industrie e a essere ripopolata di nuovi e vecchi abitanti. Si calcola che il costo del piano di sviluppo del Sinai si aggiri attorno ai 40-50 miliardi di dollari.
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5. Il timore dell’Egitto che il Sinai smetta di apparire «un’oasi di sicurezza e di stabilità» è reale. Il piano israeliano sarebbe oggi di svuotare la Striscia di Gaza della metà dei suoi abitanti forzandone una seconda emigrazione, questa volta nella penisola egiziana. Oltre il 50% dei residenti della Striscia è difatti già registrato come rifugiato, erede diretto dell’emigrazione forzata palestinese nella prima guerra arabo-israeliana del 1948. La conseguente destabilizzazione della provincia resusciterebbe lo spettro del terrorismo e manderebbe all’aria il progetto di sviluppo di al-Søsø. Il piano israeliano – vero o presunto – ha suscitato molteplici reazioni nel campo arabo. Si pensi a quella giordana ma anche a quelle dei leader palestinesi, Isma‘il Haniyya per Õamås e Abu Mazen per l’Autorità nazionale palestinese, che denunciano esplicitamente l’intenzione israeliana di far emigrare i palestinesi di Gaza in Egitto e in Cisgiordania, senza possibilità di ritorno. Il diritto al ritorno dei profughi palestinesi in Palestina è sancito dalle risoluzioni Onu e rimane una delle questioni spinose del defunto negoziato israelo-palestinese. L’idea di una Grande Gaza (Greater Gaza) nel Sinai è af!orata agli inizi di questo millennio, attribuita principalmente a Giora Eiland, consigliere per la Sicurezza nazionale (2004-6) dell’allora primo ministro Ariel Sharon e tra gli arte!ci del ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza nel 2005. A seguito della presa di potere di Õamås, e in assenza delle condizioni per la creazione di uno Stato palestinese indipendente – in particolare l’impossibilità delle parti in con"itto di accettare compromessi politici e la mancanza di !ducia reciproca, Eiland elaborò una soluzione possibile del con"itto arabo-israeliano che implicasse il trasferimento della responsabilità della questione palestinese da Israele alla Giordania e all’Egitto. Cambiando il parametro dei piani di pace precedenti, suggerì di considerare due alternative regionali ben più realistiche della visione utopica dei due Stati. La prima alternativa sarebbe stata una federazione giordano-palestinese. L’annessione israeliana del 12% del territorio della Cisgiordania avrebbe permesso un più limitato smantellamento delle colonie ebraiche e insieme il controllo militare della monarchia hashemita sul territorio palestinese. La seconda alternativa sarebbe stato il trasferimento di 720 chilometri quadrati dal Sinai a Gaza – pari al 12% del territorio annesso da Israele in Cisgiordania – in cambio della cessione all’Egitto di un territorio analogo, la regione di Paran, nel Negev sud-occidentale. Le due alternative, distinte e separate, sarebbero diventate complementari nel tempo e avrebbero reso Gaza un
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3. G. EILAND, «Regional Alternatives to the Two States Solution», besacenter.org, Memorandum n. 4, gennaio 2010. 4. «Israeli lawmakers back reported bid to settle Palestinians in Sinai», The Times of Israel, 23/10/2023. 5. Z. HAIMOVICH, «A Palestinian state in Gaza-Sinai: The real two-state solution», The Hill, 13/9/2019.
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protettorato egiziano, connesso alla Giordania attraverso un tunnel di dieci chilometri. A supporto del suo piano, Eiland ne espose i vantaggi economici e di sicurezza per tutti i paesi della regione mediorientale, palestinesi inclusi. Tra questi annoverò lo sviluppo di infrastrutture energetiche e di trasporto nonché la conseguente normalizzazione dei rapporti fra paesi arabi e Stato di Israele 3. La sua proposta avrebbe avuto il sostegno dell’establishment militare israeliano e sarebbe stata presa in seria considerazione da membri del Likud, parlamentari e consiglieri del secondo governo Netanyahu (2009-2013). Greater Gaza sarebbe diventata, secondo questo piano, lo Stato contiguo e smilitarizzato della Palestina con la Cisgiordania appaltata a un’autorità palestinese puramente amministrativa. La sua proposta avrebbe avuto già allora il sostegno dell’establishment militare israeliano e, anni dopo, sarebbe stata presa in seria considerazione da membri del Likud, parlamentari e consiglieri del secondo governo Netanyahu (2009-2013). Gli Stati Uniti si sarebbero aggiunti al circolo dei sostenitori. Secondo questo piano Greater Gaza sarebbe diventata lo Stato contiguo e smilitarizzato della Palestina, con la Cisgiordania appaltata a un’autorità palestinese puramente amministrativa. A denunciare pubblicamente il piano fu ovviamente il presidente dell’Anp Abu Mazen che, rigettandolo come un tentativo israeliano di liquidare tout court la questione palestinese, paventò la possibilità che l’Egitto di Mursø fosse incline a accettarlo sotto forti pressioni americane. Abu Mazen avrebbe così screditato non soltanto il presidente islamista egiziano ma anche i Fratelli musulmani e Õamås. Il piano ritorna all’attenzione dell’opinione pubblica israeliana, araba e internazionale sulle onde della Army Radio delle Idf. Il quotidiano israeliano indipendente The Times of Israel lo riporta sotto le spoglie dell’ennesimo ri"uto del presidente palestinese del piano Eiland apparentemente presentatogli, questa volta, nientedimeno che dal presidente egiziano al-Søsø. Secondo lo stesso giornale, entrambi i leader arabi smentirono categoricamente la notizia 4. A scapito di denunce e di dinieghi, l’idea di una Greater Gaza ritorna a galla nell’estate del 2019 e ben si attaglia al nuovo approccio diplomatico-affaristico americano al con#itto arabo-israeliano 5. Il documento governativo «Dalla pace alla prosperità» – meglio conosciuto come l’«accordo del secolo» di Donald Trump – non contiene in realtà alcun esplicito riferimento al trasferimento dei rifugiati palestinesi nel Sinai né a una Greater Gaza. Ciononostante, l’enfasi posta sul rafforzamento e sul collegamento delle due economie tramite progetti infrastrutturali e commerciali, oltre allo sviluppo imprecisato dei valichi di frontiera, lascia pensare alla vecchia idea di Eiland e a una sua so"sticata metamorfosi volta a garantire sicurezza a Israele e vantaggi economici a Gaza e al Sinai. A quest’ultimo sarebbero andati 9 dei 50 miliardi di dollari previsti dal piano. Né i soldi né la perfetta intesa tra i presidenti egiziano e
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americano hanno condotto tuttavia l’Egitto ad accogliere la nuova visione (pro israeliana) di pace e prosperità. La quinta guerra Israele-Õamås ha fatto riemergere il timore di una soluzione unilaterale della questione palestinese, contraria alle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nelle quali ogni piano serio di pace ha trovato la sua legittimità. L’idea di Eiland continua ad alimentare reazioni viscerali da parte tanto egiziana quanto palestinese, dettate dal sospetto nei confronti della tattica israeliana ma anche dalla frammentazione del campo arabo. Che la Grande Gaza fosse all’origine una semplice proposta per allentare la pressione demogra!ca su un territorio ristretto e dalle esigue risorse naturali non le impedisce di esercitare un impatto ancora oggi signi!cativo 6. Alla luce del con#itto attuale, la prospettiva di una Grande Gaza, accarezzata o meno dai servizi di sicurezza e dalla destra israeliana, riporta a galla vecchi complotti e antichi rancori. Segno che la strada della normalizzazione dei paesi arabi con Israele rimane lunga e tortuosa. 6. Primo Stato arabo ad avere !rmato la pace con Israele sotto l’egida statunitense, l’Egitto è stato a lungo l’attore regionale più ascoltato dagli americani, dagli israeliani e dai palestinesi tutti. Il prestigio della sua diplomazia e la vicinanza geogra!ca al teatro di guerra lo hanno reso un mediatore unico e indispensabile, avvantaggiato dal lungo rapporto con lo Stato ebraico, con l’Olp-Anp e, più di recente, con le diverse fazioni operanti a Gaza, in particolare Õamås e Jihåd islamica. In virtù di queste sue relazioni, Il Cairo ha costantemente mediato con#itti e tensioni tra Israele e Autorità nazionale palestinese, tra Israele e Õamås. Ha promosso – senza successo – la riconciliazione intrapalestinese, con l’intento di presentare un fronte compatto e unito nel dif!cile negoziato con lo Stato ebraico. E ha in!ne rivendicato il ruolo importante che gli deriva nella geopolitica del Medio Oriente per geogra!a, storia e ambizione di potenza. Eppure, l’Egitto non è più solo. A contendergli la funzione di mediatore indispensabile sono adesso altri attori regionali, la cui in#uenza è cresciuta proporzionalmente al declino degli Stati tradizionalmente contrari alla normalizzazione con Israele (Iraq, Siria, Libano e Libia), all’indebolimento del fronte della pace (Egitto e Giordania) e al disimpegno americano dalla regione. Si spiega così, in parte, il rinnovato interesse del presidente egiziano a riprendere in mano le relazioni con Õamås dopo il picco negativo registrato negli anni 2014-16. La campagna denigratoria di quel periodo è superata dal pacato riconoscimento del movimento armato palestinese come soggetto imprescindibile nella soluzione del con#itto e come vicino «scomodo» lungo il tumultuoso con!ne del Sinai egiziano con Gaza. A segnarne l’evoluzione è la politica egiziana sul valico di frontiera di Rafaõ durante la quarta guerra Israele-Õamås nel 2021. A differenza delle guerre precedenti, il valico resta aperto per tutta la durata del con#itto per permettere la rapida distribuzione degli aiuti umanitari ed evitare
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6. E. ABRAMS, «Palestine in the Sinai?», Council on Foreign Relatons, 9/9/2014.
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7. L’emiro Õamad bin Œaløfa Ål-Ñånø fu il primo capo di Stato arabo a visitare la Striscia di Gaza nel 2012, anno in cui i Fratelli musulmani vivevano il loro ef!mero momento di gloria dopo il crollo del presidente egiziano Hosni Mubarak e la tumultuosa fase politica che ne derivò. Il Qatar ospita ancora oggi, insieme con l’uf!cio di rappresentanza di Õamås e i suoi capi politici, il vecchio Œålid Maš‘al e il nuovo Ismå‘øl Haniyya, a cui ha offerto assistenza a Gaza durante e dopo i molteplici con"itti contro lo Stato di Israele. Si deve a questo emirato del Golfo Persico un aiuto annuale non sempre costantemente erogato, che si aggira attualmente attorno ai 360 milioni di dollari e che è destinato a pagare i costi dell’elettricità, i programmi di assistenza umanitaria e gli stipendi degli impiegati del settore pubblico di Õamås che l’Autorità nazionale palestinese non copre. Questo aiuto !nanziario è giusti!cato come contributo alla soluzione della grave crisi economica e umanitaria di Gaza anche a seguito del con"itto del 2021. Inizialmente pattuito con Egitto e Õamås, vi si aggiungono poi l’Anp e le Nazioni Unite, e viene in!ne approvato da Israele sulla base di una formula complessa volta ad arginare l’ostacolo del riconoscimento di Õamås come gruppo terroristico. L’importanza regionale del Qatar è innegabile. Prova ne è il riconoscimento tributatogli dagli Stati Uniti quale proprio maggiore alleato non-Nato e come sede della base aerea di al-‘Udayd, la più grande del Medio Oriente. Prova ne è anche la sua disinvolta politica regionale per cui, a scapito del boicottaggio che termina senza cambi di rotta e di alleanze nel 2021, continua a coltivare rapporti con Stati e movimenti avversi al suo alleato americano. Nel caso speci!co Õamås e Iran, da cui traggono vantaggi – e svantaggi – sia Israele sia gli Usa. La Turchia di Recep Tayyip Erdoãan condivide con il Qatar la simpatia e il sostegno verso Õamås e i Fratelli musulmani. Come Doha, anche Ankara si è adoperata per facilitare la liberazione dei circa duecento ostaggi !niti dopo il 7 ottobre nelle mani di Õamås a Gaza. Il riavvicinamento Turchia-Egitto, dopo le tensioni che rimontano al colpo di Stato militare contro il presidente islamista Muõammad Mursø nel 2013, è recente. La ripresa delle relazioni diplomatiche, con scambio di ambasciatori, risale al luglio scorso.
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una nuova crisi di rifugiati nel Sinai oramai «paci!cato». Le accuse egiziane contro le provocazioni di Israele nei Luoghi santi dell’islam a Gerusalemme – la scintilla della guerra – e contro i suoi ripetuti tentativi di «giudeizzare» i quartieri arabi non mancano come sempre di accompagnare la frenetica azione di mediazione in vista del cessate-il-fuoco. Il successo di questa mediazione vale all’Egitto la conferma del suo ruolo indispensabile nel con"itto israelo-palestinese da parte dell’amministrazione americana di Joe Biden, che pure lo aveva marginalizzato sulla base della sua pessima condotta in materia di diritti umani. Fin dalla !rma del trattato di Camp David, nel 1979, gli Stati Uniti continuano a destinargli 1,3 miliardi di dollari all’anno in aiuti militari. Quel successo diplomatico non lo si dovette però soltanto all’Egitto. Il Qatar ne condivise discretamente gli allori.
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GRANDE GAZA, IL PROGETTO CHE INQUIETA L’EGITTO
Rilevano poi, nel quadro regionale, gli Emirati Arabi Uniti (Eau). Contrari alle posizioni del Qatar e della Turchia, accarezzano da tempo un cambio di regime a Gaza in funzione anti-Õamås e anti-Fratelli musulmani. Firmatari degli accordi di Abramo nel 2020, gli Eau hanno esplicitamente accusato Õamås di una «seria e grave escalation» ma sono in prima linea nel fornire aiuti umanitari e assistenza !nanziaria all’agenzia onusiana per i rifugiati palestinesi, la Unrwa. Segue, certo non per importanza, l’Arabia Saudita che, lasciando in sospeso gli accordi di Abramo, e con essi le prospettive di uno sviluppo nucleare sotto egida americana, può contare sulle relazioni con gli Stati della regione, incluso l’Iran, e sul ruolo «ritrovato» di leader dell’islam moderato per incidere sulla ricerca della pace. In!ne l’Algeria, il cui regime – uscito indenne dall’ultima primavera araba – ha irrobustito il proprio ruolo regionale pro!ttando della crisi energetica in Europa scaturita dalla guerra in Ucraina. Contraria agli accordi di Abramo – anche in funzione anti-Marocco che di quegli accordi è !rmatario e bene!ciario – Algeri si è adoperata a ricucire i legami intrapalestinesi e a sostenere la !rma di un’intesa di breve durata tra Õamås e Anp, in vista del summit algerino della Lega Araba nel novembre 2022.
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8. Il segretario di Stato americano Antony Blinken ha visitato di recente la regione con il duplice intento di sostenere Israele nella sua guerra al terrore e di liberare gli ostaggi, ma anche di evitare l’allargamento del con"itto da Gaza all’intero Medio Oriente. L’Egitto è stata la sua ultima tappa, prima di ritornare in Israele per preparare la visita del presidente Biden all’insegna del pieno sostegno e dell’assoluta solidarietà allo Stato ebraico, alle prese con il suo 11 settembre. Tappa per Blinken comunque delicata, alla luce dello scandalo che imperversa nel Congresso americano attorno all’in"uente senatore democratico Robert Menendez, accusato di ricevere soldi e doni dal Cairo in cambio di informazioni e favori presso l’amministrazione Biden. Eppure una sosta importante, per il ruolo indispensabile benché non unico dell’Egitto nella mediazione Õamås-Anp-Israele e per la sua abilità diplomatica nel far convergere al Cairo una comunità regionale e internazionale divisa. In!ne, tappa obbligata per il controllo egiziano del passaggio di Rafaõ e l’arrivo degli aiuti umanitari a Gaza. Il sostegno americano all’amministrazione Al-Søsø non è venuto a mancare nemmeno questa volta. L’Egitto detiene ancora un ruolo chiave nella risoluzione del con"itto. In questo contesto, Il Cairo è chiamato a mettere la sua sicurezza e il suo impegno umanitario sullo stesso piatto della bilancia, per garantire entrambi. L’apertura di Rafaõ strapperà forse alla morte centinaia di migliaia di sfollati ammassati nel Sud della Striscia e lungo il con!ne con il Sinai. Queste povere carovane umane non passeranno tuttavia la frontiera e non metteranno le loro tende in campi profughi nella Penisola. Avranno soltanto la misera prospettiva di sopravvivere a questa ennesima guerra e di continuare a respirare l’aria sempre più soffocante di Gaza, la loro prigione a cielo aperto.
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GUERRA GRANDE IN TERRASANTA
L’ARCIPELAGO DELLE MILIZIE PALESTINESI
di
Umberto DE GIOVANNANGELI
Attorno al nucleo delle brigate afferenti a Õamås emergono altri gruppi armati, alcuni dei quali si sono macchiati di crimini orrendi. Il più rilevante è la Jihåd islamica. Ma anche in Cisgiordania si diffondono milizie non controllabili da Abu Mazen.
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2. La Jihåd islamica, seconda solo a Õamås, fu fondata nel 1981 dal medico palestinese Fatõø Šaqåqø e dal predicatore musulmano Šaykh ‘Abd al-‘Azøz ‘Awda, nato nel campo profughi di Ãabåliyå, nel Nord della Striscia. Fonti di intelligence occidentali stimano in decine di milioni di dollari all’anno i fondi elargiti dall’Iran, ma "nanziamenti arrivano anche dalla Siria e da privati. A partire dal 2014, quando lanciò oltre cento razzi in un anno, la capacità militare della Jihåd islamica di colpire Israele sembra cresciuta, così come la sua presenza in Cisgiordania. Molte delle nuove reclute provengono dai campi profughi di Ãanøn. La Cia ritiene che i miliziani della Jihåd islamica siano almeno 1.500, altri rapporti li stimano in alcune migliaia.
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1. EI TUNNEL DI GAZA NON SI AGGIRANO soltanto i miliziani delle Brigate ‘Izz al-Døn al-Qassåm (Iqb nell’acronimo inglese), il braccio armato di Õamås. In quei labirinti sotterranei – oltre cinquecento chilometri di «metropolitana» – agiscono, si muovono, preparano le azioni di attacco contro il «nemico sionista» anche combattenti di altre fazioni della resistenza, alcune in competizione con Õamås per la leadership del radicalismo armato palestinese. Cellule compartimentalizzate, senza una catena di comando riconosciuta, alcune formate non solo da palestinesi ma anche da combattenti stranieri: yemeniti, sauditi, ciò che resta dello Stato Islamico siro-iracheno (Is). Le più importanti, quanto a capacità operative, sono il Movimento per il Jih åd islamico in Palestina (Pij), i Comitati di resistenza popolare (Cpr) e le Brigate alNaâir Âalåõ al-Døn: il terzo gruppo armato più importante a Gaza, dopo le Brigate ‘Izz al-Døn al-Qassåm di Õamås e le Brigate al-Quds (Aqb) della Jihåd islamica. Inoltre, si segnalano anche le Brigate Abû ‘Alø Muâ¿afå, braccio armato del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), attive sia in Cisgiordania sia a Gaza, e le Brigate dei martiri di al-Aqâå-Niîål al-‘Åmûdø (Amb-Na), afferenti a Fatõ.
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Quanto ai Cpr, creati nel 2000 dall’ex leader di Fatõ e del Tan‰øm Ãamål Abû Samhadåna, sono composti da miliziani precedentemente af!liati a Fatõ e a Õamås e da attivisti della Jihåd islamica e delle Brigate dei martiri di al-Aqâå. La rete si è specializzata nel piazzare ordigni esplosivi improvvisati ai bordi delle strade e nell’allestire autobombe, dirette soprattutto contro convogli civili e militari israeliani nella Striscia di Gaza. Nel 2006 i Comitati parteciparono al rapimento del soldato israeliano Gilad Shalit, che fu tenuto in ostaggio a Gaza per cinque anni, per poi venire rilasciato in cambio di un migliaio di prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Un piccolo numero di gruppi sala!ti-jihadisti si è costituito in seguito alla presa della Striscia di Gaza da parte di Õamås nel 2007. Alcuni di questi gruppi erano formati da membri scontenti di Õamås, critici nei confronti del presunto ammorbidimento delle sue posizioni rispetto a Israele. Altri gruppi minori sono composti da clan locali che vogliono ottenere legittimazione politica. Per i servizi segreti interni di Israele, i miliziani dell’Is ancora operanti nella Striscia di Gaza sarebbero almeno 600, fonti dell’Università al-Azhar di Gaza, vicine a Fatõ, li quanti!cano in 1.500-2.000 combattenti, suddivisi in 150 cellule che rispondono a un comando uni!cato. Tra i gruppi più attivi con"uiti nelle !le dell’Is-Palestina, c’è al-Tawõød wa al-ãihåd (Monoteismo e jihåd), che ha rivendicato l’uccisione (15 aprile 2011) del cooperante e attivista per i diritti umani italiano Vittorio Arrigoni. La Brigata Šayœ ‘Umar Õadød, altra fazione armata sala!ta, ha dichiarato i suoi legami con i jihadisti dello Stato Islamico, ma non ha formalmente giurato fedeltà al gruppo. Operativo è anche Šurå al-muãåhidøn, che può contare su un centinaio di combattenti ispirati, nell’ideologia e nella pratica, al jihåd globale di matrice qaidista. Secondo quanto risulta a Limes dopo aver incrociato fonti diverse a Gaza e a Råmallåh, miliziani di Is-Palestina hanno partecipato ai massacri di civili che partecipavano al rave party e nei due kibbutzim assaltati il 7 ottobre.
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3. L’ala militare di Õamås può contare su un esercito di 25 mila combattenti e almeno 5 mila attivisti impegnati nel settore logistico, nella propaganda e nella gestione dei social media. Attività, quest’ultima, in decisa crescita: dopo il 7 ottobre il canale Telegram delle Brigate al-Qassåm ha visto triplicare i propri follower, passando da 166 mila a oltre 414 mila in poco più di dieci giorni. Nello stesso arco di tempo le visualizzazioni dei contenuti sarebbero aumentate di più di dieci volte, passando da 25 mila a oltre 300 mila, come rilevato dal Digital Forensic Research Lab dell’Atlantic Council e confermato dalla società di analisi Memetica. Di particolare importanza è il dipartimento delle Brigate che si occupa del coordinamento degli attacchi informatici degli hacker pro Õamås sparsi nel mondo arabo-musulmano e anche in Europa. Attacchi indirizzati principalmente contro le istituzioni governative israeliane ma anche mirati ai sistemi missilistici di allerta. Gli obiettivi degli attacchi informatici si sono estesi alle infrastrutture critiche di Israele, evidenziando la loro vulnerabilità.
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Gra!co 1 " PALESTINA GIOVANE
Fasce d’età !anni"
Su cinque milioni di residenti nei Territori palestinesi, metà ha meno di vent’anni 100 95-99 90-94 85-89 80-84 75-79 70-74 65-69 60-64 55-50 50-54 45-49 40-44 35-39 30-34 25-29 20-24 15-19 10-14 5-9 0-4
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Individui !in migliaia"
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Tra le armi a disposizione ci sono diversi tipi di razzi. Innanzitutto il Qassåm, in produzione dal settembre 2001 e utilizzato a partire dal 2002 nel quadro della seconda Intifada. Si tratta di un razzo di costruzione semi-artigianale per la cui realizzazione i palestinesi utilizzano materiali e componenti facilmente reperibili. La testata contiene una carica esplosiva composta solitamente da una miscela di tritolo e nitrato di urea. L’ultima versione, Qassåm 3, ha una gittata di 12 chilometri. Poi il Grad, un razzo più so!sticato, il cui nome d’origine è Bm-21 Grad. Si tratta di un insieme lanciatore-razzo con gittata sicuramente superiore e soprattutto maggiore precisione. In!ne, il Faãr-5, sviluppato dall’Iran ricalcando il missile Ws1 di fabbricazione cinese. In questo caso si può constatare un aumento considerevole della gittata, che dovrebbe aggirarsi intorno ai 75 km, mentre la quantità di esplosivo può provocare danni maggiori rispetto ai razzi descritti in precedenza. La differenza tra le Brigate al-Qassåm e il resto dell’arcipelago armato palestinese non risiede soltanto nelle dimensioni quantitative e qualitative – uomini, ar-
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Fonte: Onu, 2020
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mamenti, risorse !nanziarie – ma soprattutto nel rapporto tra pratica armata e strategia politica, diverso da quello degli altri gruppi. Rapporto non riducibile al coordinamento tra la «mente» – l’Uf!cio politico di Õamås, a Doha – e il «braccio», ovvero le Brigate al-Qassåm, a Gaza. Queste ultime godono di una certa autonomia decisionale e operativa. Stabiliscono rapporti diretti con le organizzazioni di supporto esterno – i Guardiani della rivoluzione iraniani e l’Õizbullåh libanese in particolare – ma le scelte strategiche, come l’attacco del 7 ottobre passano per il via libera dell’Uf!cio politico di Õamås. La differenza sostanziale tra Õamås e il resto della galassia armata palestinese consiste nel fatto che il primo è un movimento islamo-nazionalista che fonda il suo consenso nella società palestinese non solo in quanto guida della resistenza ma per il welfare, grazie soprattutto ai cospicui !nanziamenti del Qatar. Se c’è una dirigente palestinese distante anni luce, in tutto, da Õamås, è Õanån ‘Ašråwø, più volte ministro dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), portavoce della delegazione palestinese ai negoziati di Oslo-Washington, paladina dei diritti umani e della resistenza non violenta nei Territori: «Õamås è un partito. Dire di voler distruggere Õamås signi!ca voler liquidare il 40% della popolazione palestinese». Annota in proposito Zaki Chehab nel suo documentato libro Hamas. Storie di militanti, martiri e spie: «Õamås non è riducibile a una banda criminale. Õamås è parte di una società islamica e gli Stati Uniti hanno commesso un grave errore bollandola come organizzazione terroristica con cui non può esserci trattativa. Il movimento non cambierà il suo orientamento religioso. Questo non signi!ca che il futuro sia di Õamås; signi!ca semplicemente che attaccare e isolare Õamås, come è stato fatto, non produce altro effetto se non quello di rendere il movimento più popolare» 1. E ancora: «La realtà è che Õamås, a prescindere dalle sue fortune politiche, non scomparirà nel nulla, e nessuna azione militare riuscirà a sradicarlo de!nitivamente. L’idea che l’esercito israeliano possa annientare Õamås a suon di missili e carri armati riporta alla mente un raccapricciante commento degli americani durante la guerra del Vietnam: “Abbiamo distrutto quel villaggio per salvarlo”. Questa strategia non funzionò in Vietnam e non funzionerà con Õamås. Õamås non è una forza guerrigliera venuta da un mondo alieno. Õamås è il fratello, il vicino, o l’uomo che dà a tuo !glio i soldi per la sua istruzione. Fintanto che queste persone rappresenteranno il popolo palestinese nelle urne, l’Occidente e qualsiasi futuro governo dell’Anp dovrà accettarle per quello che sono – il lupo perde il pelo ma non il vizio – e dovrà trattare con loro» 2. Il libro di Zaki Chebab è del 2008. Da allora ci sono state tre guerre a Gaza, oltre a quella in corso. Tutte erano state propagandate dai vertici politici israeliani come «risolutive». Così non è stato. E non lo sarà neanche questa volta, a meno che non si pensi a una «soluzione !nale» per 2 milioni di palestinesi, che farebbe esplodere l’intera polveriera mediorientale.
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1. Z. CHEHAB, Hamas. Storie di militanti, martiri e spie, Roma-Bari 2008, Laterza, p. 249. 2. Ivi, p. 251.
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Gra!co 2 " UN POPOLO DI RIFUGIATI Popolazione dei Territori palestinesi, anno 2022 (in milioni)
Palestinesi registrati come rifugiati (in milioni)
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0,6 Siria
5 4
0,5 Libano
5 Non rifugiati, West Bank
4 2,4 Giordania
3
3 Rifugiati, West Bank
2
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0,9 West Bank
2 1
1,6 Gaza
Rifugiati, Gaza
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4. Resta da stabilire la potenza di fuoco che le varie fazioni della resistenza possono sviluppare. Quanto al capitale umano, fonti di intelligence arabe e palestinesi convergono nel quanti!care in oltre 25 mila i combattenti, con un arsenale missilistico calcolato attorno a 5 mila razzi di varia composizione, gittata e potenza. Quanto alle Brigate al-Qassåm, sono strutturate in tre comandi territoriali – Nord, Sud, Gaza City – che fanno riferimento a una centrale uni!cata che ha al suo vertice il «fantasma di Gaza», Muõammad Diyåb Ibråhøm al-Maârø, meglio conosciuto come Muõammad Îayf. Osserva Giuseppe Didonna, in un dettagliato report per Agi: «Israele intensi!ca l’embargo su Gaza e Muõammad Îayf si concentra su nuove tecnologie che permettano di colpire lo Stato ebraico. Trova il modo di creare ordigni di piccole dimensioni che esplodono in autobus delle città israeliane e servono anche a produrre razzi per ovviare alle dif!coltà di far entrare armi dai tunnel che l’esercito israeliano distrugge sistematicamente. Tecnologie che Îayf sviluppa grazie all’apporto di un’altra !gura storica della resistenza palestinese, Yaõyå ‘Ayyåš, conosciuto non a caso come “l’ingegnere”. Disinteressato alla politica e alla lotta con Fatõ, negli ultimi anni Îayf ha gradualmente imposto la propria dottrina: Israele va combattuto nei Territori occupati illegalmente. Le Brigate ‘Izz al-Døn al-Qassåm devono essere composte da soli palestinesi. Soprattutto, è necessario creare un apparato che consenta di produrre armi e razzi direttamente a Gaza, senza bisogno di importarli. Sistema foraggiato con i fondi del Qatar, che ha consentito alla guerriglia palestinese di produrre il primo drone nel 2014, ma anche di far crescere un’industria che ha dato da mangiare a tantissime persone negli anni».
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Fonte: Financial Times su dati Unrwa e U!cio statistico palestinese
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Îayf è sopravvissuto ad almeno cinque tentativi di eliminarlo, tra cui due attacchi effettuati mediante missili lanciati da elicotteri nell’agosto 2001 e nel settembre 2002. Nell’ultimo di questi attacchi, Îayf è rimasto ferito. Da allora è costretto a vivere in sedia a rotelle. C’è in!ne da rilevare come tutta la catena di comando militare di Õamås sia nella Striscia e in Cisgiordania, a differenza dei membri più eminenti dell’Uf!cio politico. Non è questione di coraggio ma di scelte piani!cate. I comandanti militari possono essere sostituiti con una certa facilità – è già avvenuto in passato – mentre i capi politici un po’ meno, soprattutto perché ognuno di loro è referente degli sponsor e !nanziatori esterni di Õamås. 5. In Cisgiordania agiscono anche le Brigate dei martiri di al-Aqâå, un tempo il braccio armato di Fatõ. Nel corso di un’intervista rilasciata alcuni anni fa alla Bbc da alti esponenti dell’Autorità nazionale palestinese e da alcuni leader di Fatõ, è emerso che l’Anp aveva trasferito !nanziamenti mensili ai martiri di al-Aqâå per complessivi 50 mila dollari. Poco dopo la rimozione dal libro paga di Abu Mazen dei 7 mila «dipendenti fantasma», gli esponenti delle Brigate hanno denunciato pubblicamente il fatto che i loro «stipendi» non venivano più pagati, minacciando di rompere il loro legame con Fatõ. Vincolo che se pur s!lacciato è ancora attivo. Oggi le Brigate dei martiri di al-Aqâå conterebbero 900 effettivi, un terzo dei quali appartenenti alle forze di sicurezza palestinesi. Rimarca uno studio recente dell’International Crisis Group: «Allo stato attuale, questa nuova generazione di gruppi armati non sembra ancora rappresentare una minaccia importante per la sicurezza. Interviste con i residenti, i membri di Fatõ e i funzionari dell’Anp a Nåblus suggeriscono che i gruppi sono piccoli, disuniti e sparsi, senza una chiara leadership. Sono apparsi per la prima volta nel campo profughi di Ãanøn. In seguito, gruppi simili sono emersi nella città vecchia di Nåblus e nel vicino campo profughi di Balå¿a, e poi anche nei campi di ¡ûlkarim, ¡ûbås, Gerico e Hebron (al-Œaløl). I due gruppi più grandi sono le Brigate Ãanøn – 200 militanti al massimo, secondo le stime dei funzionari della sicurezza palestinese, provenienti soprattutto da membri scontenti di Fatõ e della Jihåd islamica palestinese, con cui hanno ancora un forte legame – e la Tana dei Leoni a Nåblus, che comprende al massimo 100 membri, principalmente dissidenti di Fatõ ma anche alcuni elementi di Õamås. I militanti hanno tra i 18 e i 30 anni. Per la maggior parte non sono apertamente islamisti. La religione non in"uisce sul carattere dei gruppi in termini di strategia o di agenda». Con l’attacco del 7 ottobre, Õamås ha cercato di riportare sotto la propria orbita i gruppi dello «spontaneismo armato» che agiscono in Cisgiordania. Operazione riuscita solo in parte. Ma l’allargamento della guerra potrebbe determinare un processo di fusione. Sotto l’egida di Õamås.
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Perché i beduini del Sinai non vogliono i palestinesi
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I beduini del Sinai egiziano e dell’israeliano deserto del Negev concordano su un obiettivo: non vogliono i palestinesi tra i piedi. La prospettiva dell’evacuazione di parte dei gaziani verso i loro territori atavici, su cui in Israele molti ragionano, sarebbe per loro una catastrofe. I badawiyyøn sono una popolazione nomade che vive nella bådiya, il deserto. Dedita alla pastorizia o all’allevamento, divisa in tribù e clan composti da grandi famiglie. I beduini sono per lo più musulmani poco praticanti. Abitano territori che appartengono a Stati diversi – a cominciare dalla Giordania, dove sono riferimento imprescindibile per la dinastia hashemita – sicché ogni tribù fa per sé. Li accomuna un solo credo: la difesa e l’indipendenza del proprio territorio, desertico quanto strategico. Se prima la guerra rappresentava l’unico modo per raggiungere l’obiettivo, oggi i beduini preferiscono il profumo degli affari: turismo, traf!co e contrabbando. Nel Sinai vivono da secoli oltre venti tribù beduine. Trascurati dal governo egiziano che cerca di amministrare la Penisola ma non riesce a controllarne la permanente instabilità, i beduini che abitano il Nord hanno colto il valore di un territorio con!nante con la Striscia di Gaza e con Israele. Al contrario, l’Egitto si è disinteressato per anni di questa zona, rendendola meno sicura per sé stesso e per lo Stato ebraico. I beduini del Sinai si sono quindi offerti come punto di contatto tra il mondo palestinese e quello esterno per il contrabbando di armi e droga. Negli ultimi anni il rapporto si è tuttavia incrinato a causa dello Stato Islamico (Is), fra l’altro contrario al contrabbando di sigarette nella Striscia di Gaza perché non condivide la sua interpretazione della šarø‘a. Nel 2017 l’Is ha aperto un con"itto con i beduini del Sinai facendo saltare in aria un camion della tribù Taråbøn, rapendo e decapitando diversi abitanti del deserto. I Taråbøn sono stati colpiti perché accusati di collaborare con l’Egitto. Il 24 maggio dello stesso anno l’Unione tribale del Sinai, dominata dai Taråbøn, ha pubblicato un volantino in cui accusa Õamås di essere alleato dell’Is e di aver consentito ai suoi membri di entrare nella Striscia, dove le sue cellule avrebbero ottenuto armi e riparo. Ecco perché, oggi più di prima, i beduini del Sinai non vogliono avere niente a che fare coi palestinesi di Gaza. Considerati alleati dell’Is, essi fomenterebbero l’estremismo locale e costringerebbero l’esercito egiziano a intervenire nella penisola egiziana, colpendo traf!ci e interessi primari delle tribù. In Israele la situazione è diversa: secondo i dati del 2020, nello Stato ebraico vi sono almeno 210 mila beduini. La maggior parte vive nel deserto del Negev, oppure al Nord, tra Galilea e Valle di Jezreel, mentre una minoranza si trova nel
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Guglielmo GALLONE
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L’ARCIPELAGO DELLE MILIZIE PALESTINESI
centro del paese. Il processo di integrazione dei beduini non è stato facile e resta incompiuto. A una società tradizionale e conservatrice viene infatti imposto un processo di urbanizzazione che è l’antitesi del nomadismo, soprattutto se portato avanti dai caterpillar israeliani. Nonostante ciò, la popolazione beduina nello Stato ebraico è aumentata di dieci volte dalla sua fondazione nel 1948 (record senza eguali in Medio Oriente): questo è dovuto ai valori tradizionali e alla dimensione tribale dei beduini, ma anche ai servizi di welfare messi a disposizione dallo Stato ebraico, dalla scuola alla sanità !no alle concessioni terriere. Ancor più singolare è l’arruolamento – spesso volontario – di molti beduini nelle Forze armate israeliane. Iniziato già nel 1948, ha visto nel 1970 l’istituzione di un’unità beduina nel Comando meridionale delle Forze di difesa israeliane (Idf). Nel 1986 si è formata un’unità di ricognizione del deserto stazionata vicino alla Striscia di Gaza e nel 2003 sono sorte unità specializzate nei servizi di ricerca e salvataggio. Oggi il video in cui un comandante dell’Idf di nome Ašraf viene acclamato per aver difeso la popolazione locale dagli attacchi di Õamås spopola sui social. La storia di Såmø, proprietario di cinque alberghi, che ha accolto gratuitamente oltre tremila sfollati israeliani è stata raccontata con enfasi dal Times of Israel, uno dei quotidiani più letti nello Stato ebraico. Molto spazio ha trovato anche la testimonianza di Yûsif, camionista che ha salvato almeno trenta ebrei dal massacro avvenuto al Nova Music Festival. Ad accomunare queste tre storie non è solo il risvolto mediatico: Ašraf, Såmø e Yûsif sono tutti beduini. Cronaca e dinamiche locali servono a capire perché i palestinesi non sarebbero benvoluti neanche dai beduini del Negev o della Galilea, i quali non vogliono perdere tutto ciò che hanno conquistato nel corso degli anni né hanno intenzione di diventare una roccaforte per terroristi ostili allo Stato ebraico. Ancor più, sarebbe Israele a impedire una situazione simile: i beduini rappresentano una fascia di contenimento del nemico e un esempio unico di integrazione con la popolazione araba.
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IL CAMBIO DI PASSO DEI TERRORISTI
di
Nicola CRISTADORO
L’arsenale missilistico, l’artiglieria e i tunnel come strumenti della guerra asimmetrica scatenata da Õamås. L’ombra dei soldi qatarini. Le affinità con altri jihadismi, Stato Islamico incluso. L’uso dei media tradizionali e innovativi.
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1. B. MISZTAL, C. PERKINS, J. RUHE, A. CICUREL, Y. WEINER-TOBIN, «Evaluating the Danger from Gaza’s Weapons Stockpile», Jinsa, giugno 2021.
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1. A DIMENSIONE ASIMMETRICA DEL CONFLITTO in corso tra le Forze di difesa israeliane (Idf) e le cellule terroristiche di Õamås è sotto gli occhi di tutti. Dal lato di Gerusalemme abbiamo i carri armati Merkava, simbolo della modalità manovriera dell’esercito israeliano, che punta soprattutto sulla dimensione corazzata strutturata su grandi unità a livello divisionale; da quello palestinese, il 7 ottobre Õamås ha sferrato la propria offensiva impiegando nuclei di terroristi che hanno agito su motocicli, pick-up, automobili e deltaplani a motore. Il devastante attacco condotto da Õamås contro Israele si è svolto a due livelli: aereo e terrestre. Quello aereo ha visto il lancio simultaneo di migliaia di razzi che hanno parzialmente vani!cato l’ef!cacia del sistema di difesa aerea Iron Dome, colpendo obiettivi in profondità e seminando panico (tantissimo) e distruzione (relativamente contenuta). In considerazione delle distanze raggiunte, è certo che non si è trattato dei soliti rudimentali razzi «fai da te» Qassam. Nelle tre versioni che ne sono state sviluppate nel tempo (2001-5), questi razzi mantengono infatti una gittata massima limitata: 2-3 chilometri nella prima, 9-12 chilometri nella seconda, 5-17 nella terza. Esistono solo delle stime sul numero di razzi detenuti da Õamås, ma sono certamente migliaia. Ogni tipo di razzo è unico in termini di gittata e capacità distruttiva, adattato a soddisfare requisiti operativi speci!ci. Vediamo i principali 1. Come razzi a medio raggio Õamås dispone di Fajr-3 e Sejjil-55 iraniani, la cui gittata arriva !no a 40-55 km. I razzi a lungo raggio sono di vario tipo. Ci sono i diversi modelli di Qassam M-75, J-80, J-90, generazioni successive ai Qassam preceden-
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temente indicati, in grado di arrivare !no a 70 km; i Fajr-5 di fabbricazione iraniana, gli M-302 di fabbricazione siriana e gli M-75 di seconda generazione che hanno gittate di 70-80 km. La Jihåd islamica palestinese (Pij) dispone di Boraq-70 con una gittata sempre di 70-80 km. L’intelligence israeliana ritiene che il Pij possa aver accumulato un numero modesto di razzi Boraq-100 e Boraq-120, dotati di una gittata di oltre 100 km 2. Õamås ha accumulato decine di razzi con una gittata di 100-160 km: R-160, A-120, SH-85, M-302 siriani e gli iraniani Ayyash 250, questi ultimi con una gittata !no a 250 km. In particolare, il razzo R-160 è versione autoprodotta dell’M-302, il razzo di fabbricazione siriana noto anche come Khaibar-1, a sua volta basato sul sistema di artiglieria lanciarazzi multiplo cinese Wei Shi (Ws-1). Sotto il pro!lo dell’impiego, va sottolineata la scelta strategica di far partire i razzi da lanciatori situati sottoterra e in prossimità di aree densamente abitate, spesso vicino a edi!ci protetti dalla convenzione di Ginevra (scuole, ospedali o moschee). Al lancio dei razzi vanno aggiunti gli attacchi sferrati con i mortai da 82 mm di produzione russa e quelli da 120 mm di produzione iraniana. I colpi di mortaio sono dif!cili da intercettare a causa del loro breve tempo di volo (5-8 km di distanza) e sono particolarmente pericolosi per le comunità israeliane e le formazioni delle Idf dislocate in prossimità del con!ne con la Striscia. Sembra proprio che il tempo del lancio dei sassi sia !nito. Veniamo ora al livello terrestre delle operazioni dove, accanto all’attuazione di metodi già rodati, abbiamo assistito a un cambio di passo signi!cativo. Osserviamo quali sono le procedure tecnico-tattiche (Ttps) consolidate. A partire dalla tunnel warfare. Il combattimento urbano si sviluppa su cinque livelli: piano stradale, intra-edi!cio, tetti degli edi!ci, dimensione aerea e, dulcis in fundo, sotterranei. In combattimento il sottosuolo offre grandi opportunità e nasconde enormi insidie. Non si sa quanti tunnel ci siano oggi a Gaza, costruiti grazie anche all’apporto dato da ingegneri iraniani e nordcoreani 3. Nel tempo,le Idf hanno condotto molti interventi per smantellare questa insidia sotterranea e le case in cui è stato scoperto un accesso alle gallerie sono state sistematicamente demolite. La rete di tunnel sotto Gaza non si estende solo verso il territorio israeliano. La Philadelphi Route, ad esempio, costruita proprio per impedire la circolazione illegale di materiali (comprese armi, munizioni e droga) e persone tra Egitto e Striscia di Gaza, è stata aggirata dai palestinesi che, negli anni, hanno realizzato una !tta rete di gallerie sotterranee per il contrabbando proprio nell’area di Rafaõ, al con!ne egiziano. Õamås ha sfruttato i tunnel tra la Striscia e l’Egitto per importare illegalmente armi e componenti d’armamento con l’aiuto soprattutto di Iran e Siria, riuscendo in tal modo ad ampliare in maniera signi!cativa il proprio arsenale.
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2. Ibidem. 3. T. BEERI, «Hezbollah’s “Land of Tunnels” – The North Korean-Iranian connection», Alma Research and Education Center, luglio 2021.
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2. L’esame degli aspetti innovativi nelle modalità di combattimento che Õamås è capace di adottare non può non tener conto delle esperienze maturate a Mosul nel 2017 dalle forze impegnate a liberare la città dallo Stato Islamico (Is). Õamås, infatti, ha accolto tra le sue !le ex guerriglieri dell’Is e verosimilmente ha fatto proprie le Ttps da questo sviluppate. Si può pensare che nel periodo della piani!cazione dell’attacco di ottobre Õamås abbia fatto i «compiti a casa» e preparato anche una difesa, come fecero i terroristi dell’Is a Mosul. Le unità che entrarono nella città irachena dovettero affrontare i seguenti ostacoli: a) linee di apertura del fuoco indiretto ben de!nite, che consentono di impiegare le armi più adeguate in base a direzione e distanza, senza bisogno di aggiustamenti; b) case trappolate, con utilizzo anche di ordigni al fosforo; c) pezzi di artiglieria contraerea da 14,5 mm caricati su camion per il trasporto occulto; i terroristi si fermavano, li s!lavano dal nascondiglio, tiravano per abbattere gli elicotteri d’attacco e ripartivano per evitare di essere rintracciati e ingaggiati; d) scudi umani e civili apparentemente in fuga, in realtà impiegati come kamikaze per superare la linea di avanzamento delle unità penetrate nell’abitato e farsi saltare alle loro spalle; e) vehicle borne Ied, che in una testimonianza da me raccolta sono state folkloristicamente de!nite «stile Mad Max»: auto interamente blindate che montavano razzi usati per aprire varchi tra le barricate e imbottite di esplosivo per farsi saltare accanto ai veicoli da combattimento nemici; f) massiccio utilizzo di droni di derivazione commerciale, utilizzati in modalità sciame e armati con rilascio magnetico di granate da 40 mm (normalmente utilizzate con lanciagranate portatili), anche caricate con cloro e frammenti minerali contaminati con residui di iprite, rimanenze del gas delle scorte di Saddam e !nite nelle disponibilità dell’Is. Le Ttps difensive adottate dallo Stato Islamico a Mosul sono risultate ef!caci e di semplice attuazione. Sono state ampiamente divulgate e ben pubblicizzate nella galassia jihådista. Tra l’altro, le procedure che hanno caratterizzato le operazioni di Õamås dopo il 2017 ricalcano lo stile dell’Is. In particolare, il tipo di propaganda che accompagna la recente azione terroristica di ampia portata effettuata da Õamås ricalca tristemente la propaganda con cui l’Is inondava il Web. Ci sono voluti nove mesi per ripulire Mosul. Se l’intenzione israeliana è quella di svuotare la Striscia dalla presenza di Õamås, è prevedibile che ci vorrà parecchio tempo. Dunque, nonostante le «incomprensioni» che in passato hanno creato fratture signi!cative tra Õamås e Is, assistiamo ancora una volta alla cementi!cazione del terrorismo islamico attorno alla causa del jihåd. E non solo perché sul luogo della strage perpetrata il 7 ottobre sono stati trovati vessilli dell’Is sui miliziani di Õamås. Anche sunniti e sciiti se le sono sempre date di santa ragione, ma !no a un certo punto, quando hanno trovato quella comunità di intenti materializzatasi nell’eclatante alleanza tra Õizbullåh (sciita) e Õamås (sunnita) in chiave antisemita e contro
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tutti i kuffår del pianeta. Õamås sta riattizzando dalle ceneri dell’inferno il fuoco mai spento dello «scontro di civiltà». Un’altra prassi invalsa nell’organizzazione delle azioni di Õamås consiste nel collocare infrastrutture militari, centri di comando e controllo, infrastrutture critiche e depositi di armi in prossimità di aree civili o importanti nodi stradali. Con lo stesso principio vengono scelte aree civili, residenziali o commerciali per proteggere cellule terroristiche e uomini in pericolo in quanto «bersagli selezionati» per le Idf. Anche l’impiego di civili per compiti di intelligence è ampiamente collaudato, soprattutto nelle fasi di crisi più acute tra i due avversari. In questo sfruttamento della popolazione civile Õamås esce sempre vincitore. Infatti, nel caso in cui le azioni militari delle Idf provocassero un numero esagerato di vittime civili, Õamås può avvantaggiarsi dall’uso sapiente della lawfare 4, accusando Israele di crimini di guerra contro civili innocenti; qualora, al contrario, lo Stato ebraico contenesse l’impiego delle proprie Forze armate, limitandone l’azione, Õamås avrebbe ottenuto l’effetto de"nito «controllo della reazione» 5. Il cambio di passo a Gaza è dato dalla scelta di non ricorrere più alla tattica del mero impiego di scudi umani, ma approntando quella della cattura di ostaggi con una valenza dual use (già, proprio come la tecnologia): possono essere oggetto di scambio (improbabile) ma soprattutto, a loro volta, scudi umani. Il cambio di passo è dato anche dalla metodicità con cui è stato piani"cato l’attacco a obiettivi scelti accuratamente, come il rave party in cui sono state uccise e catturate decine di giovani, simultaneamente ai kibbutzim in cui sono stati decimate e fatte prigioniere altre decine di israeliani e anche cittadini stranieri. Non più razzi sparati a caso. Ecco lo spirito dell’11 settembre: un piano accurato ed eseguito con metodo e precisione, che ha richiesto tempo, molto tempo. Non importa quanto, se due mesi, un anno o due anni come riferito nel balletto delle cifre sciorinato dai mass media. Il punto è riuscire a credere che l’organizzazione di intelligence descritta come la più ef"cace del mondo non sapesse nulla, ma proprio nulla, di quanto stesse per accadere. 3. All’inizio di questa disamina su Õamås e sulle sue procedure tecnico-tattiche nello sviluppo delle campagne di terrore abbiamo evidenziato la dimensione asimmetrica del con#itto permanentemente ingaggiato con Israele. Non possiamo ora non evidenziare le modalità ibride adottate da Õamås, attraverso il confezionamen-
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4. La lawfare è l’uso dei sistemi e delle istituzioni legali per danneggiare o delegittimare un oppositore o per scoraggiare l’uso dei diritti legali da parte di un individuo. Il termine, che può essere tradotto come «strumentalizzazione della giustizia», può riferirsi all’uso di sistemi e princìpi legali contro un nemico, ad esempio danneggiandolo o delegittimandolo, facendogli sprecare tempo e denaro, o ottenendo una vittoria nelle pubbliche relazioni. 5. Il controllo della reazione o «re!exive control» risale ai paradigmi deterministici del marxismo-leninismo secondo cui è possibile in#uire sui processi cognitivi umani agendo sulla conoscenza sensoriale attraverso la propaganda, l’inganno, la dissimulazione e la disinformazione. Sintetizzando, si tratta quindi di indurre il nemico a prendere decisioni a lui sfavorevoli, avendo un’idea del suo modo di pensare (de"nizione del colonnello S. Leonenko in Re!exiwoe upravlenie protivnikom). Per maggiori approfondimenti sul tema si veda il capitolo 3, parte I, del libro di N. CRISTADORO, La dottrina Gerasimov e la "loso"a della guerra non convenzionale nella strategia russa contemporanea, Roma 2020, Il Maglio Editore.
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6. F. TANSINI, «Analysing Strategic Communications Through Early Modern Theatre», Defence Strategic Communications, vol. 6, Nato Strategic Communications Centre of Excellence, primavera 2019. 7. M. FRENZA MAXIA, «Modelli di comunicazione strategica a supporto dell’Hybrid Warfare: l’apparato di propaganda di Õamås», Medium, 21/7/2019. 8. Ibidem.
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to di campagne di infowar che integrano costantemente le azioni terroristiche dell’organizzazione. Il modello di comunicazione strategica adottato da Õamås, molto simile a quello di Õizbullåh, è olistico. Comprende l’utilizzo di una pluralità di media tradizionali, come Al-Aqsa Tv e Al-Quds Radio, e più innovativi, come YouTube e i social network. In un articolo di Filippo Tansini, esperto di intelligence dei social media, viene evidenziata l’importanza nella comunicazione strategica della «Teoria della rappresentazione sociale» del sociologo francese Serge Moscovici 6. Questi individua tre momenti consequenziali con cui attuare la comunicazione strategica, orientata alla persuasione di una target audience su vasta scala: propaganda, propagazione e diffusione. Õamås ha applicato ef!cacemente queste procedure 7. La «propaganda», che ha sempre avuto lo scopo di tenere unita la popolazione di Gaza rispetto a possibili scenari di accordo o mediazione, nonché a mantenere alta la simpatia per le ragioni di Õamås nel mondo arabo (Qatar), in Iran e in Occidente, ha puntato alla reiterata narrazione delle ragioni alla base del con"itto e alla marcata caratterizzazione del nemico, che si trattasse di Israele o del mondo occidentale. La «propagazione», ossia l’azione mirata alla ricerca della legittimazione e del consolidamento dei messaggi diramati con la propaganda, vede un esempio signi!cativo nell’Atto !nale della presidenza di Œålid Miš‘al. Si tratta di un documento !rmato a Doha (Qatar) il 1° maggio 2017 con cui si modi!ca la Carta costitutiva di Õamås, risalente al 1988, accettando la creazione di uno Stato palestinese entro i con!ni del 1967, quindi nei territori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Il documento rappresenta una presa di distanza dal passato anche per il linguaggio adottato nei confronti di Israele, con l’eliminazione dei toni antisemiti presenti nella stesura del 1988. Sparisce anche l’affermazione che vuole Õamås come un’ala dei Fratelli musulmani. Viene nei fatti affermata la natura «politica» e non «religiosa» dello scontro in atto con lo Stato ebraico. I bambini sono spesso protagonisti della terza fase, quella della «diffusione», cioè la disseminazione di messaggi concreti, attrattivi e rapidi. Ad esempio, diramare attraverso Internet immagini in cui sono mostrate le sofferenze e le vittime – specie bambini e donne (quindi civili) – delle incursioni israeliane. X (ex Twitter) in questo si è dimostrato uno dei vettori preferiti anche da Õamås per veicolare i messaggi sia con le immagini sia in forma testuale, rimbalzandoli anche migliaia di volte tra gli utenti del social network. Tra tanti, a titolo esempli!cativo, una foto del 21 luglio 2014 pubblicata da @ArabicBest e diffusa 1113 volte, con il seguente testo: «Impressionante: il padre di un martire a #Gaza bacia il piede di suo !glio per dargli l’addio! Non rattristatevi per quelli che sono stati uccisi sul sentiero di Allah, sono vivi con il loro Signore» 8.
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Anche il dominio informatico è un campo di battaglia peculiare della guerra ibrida. Nel con!itto in corso tra Õamås e Israele gli hacker simpatizzanti di Õamås lavorano alacremente per mantenere attivo il fronte del ciberspazio. Liz Wu, portavoce del gruppo di sicurezza informatica israeliano Check Point Software, ha dichiarato che a partire dal giorno dell’assalto di Õamås la società ha rilevato oltre 40 gruppi responsabili di attacchi che hanno colpito più di 80 siti Web, tra cui siti governativi e dei mass media. I gruppi di hacker sono diversi e vanno da Anonymous Sudan, un gruppo "lorusso che ha dichiarato di aver lanciato un attacco Ddos 9 contro l’app israeliana Red Alert, che fornisce informazioni sui razzi in tempo reale ai cittadini. Anonymous Sudan ha anche rivendicato la responsabilità di aver preso di mira l’Iron Dome israeliano, il sistema di difesa aerea posto a protezione del paese 10. La società di sicurezza informatica Group-Ib, poi, ha scoperto che anche il gruppo AnonGhost aveva manomesso l’applicazione e secondo quanto riportato da Group-Ib l’app è stata rimossa dal Google Play Store 11. Altri attacchi sono dif"cili da comprovare. Un gruppo di hacker allineato all’Iran chiamato Cyber Av3ngers ha affermato di aver colpito un appaltatore elettrico israeliano il 6 ottobre e di aver fatto precipitare Yavne nell’oscurità. I portavoce dell’azienda elettrica e della città non hanno confermato l’attacco. Successivamente Cyber Av3ngers, Anonymous Sudan e Killnet, gruppo sostenitore della causa russa 12, hanno affermato di aver rimosso i siti Web del think tank Israel Policy Forum e del ministero delle Finanze di Israele. Rivendicazione che, tuttavia, non ha avuto una conferma uf"ciale. Anche altri gruppi di hacker si sono uniti al con!itto. Il 7 ottobre, il Mysterious Team Bangladesh ha annunciato il proprio sostegno a Õamås su Telegram, utilizzando hashtag pro palestinesi di tendenza tra cui #FreePalestine e #OpIsraelV2. Il canale di Mysterious Team Bangladesh promuove anche numerose campagne di hacker pro musulmani e pro palestinesi. Questi includono Team Azrael Angel of Death, GanosecTeam, HacktivistIndonesia, GarudaAnonSecurity, Kepteam, TeamInsanePakistan e Xv888. Tali gruppi hanno rivendicato la responsabilità di attacchi a numerosi domini Internet israeliani 13. Sul fronte opposto, sono stati segnalati anche attacchi informatici contro la Palestina da parte di un gruppo di hacker con sede in India chiamato Indian Cyber Force. Il gruppo ha mostrato solidarietà a Israele nell’attuale con!itto e si è assunto la responsabilità di far chiudere i siti web di Õamås, della Banca nazionale palestinese, della Palestine Web Mail Government Services e della Palestine Telecommunication Company 14. Alla "ne di agosto, Yigal Carmon, ex consigliere per l’antiterrorismo dei primi ministri Shamir e Rabin, ha pubblicato un rapporto dal profetico titolo «Signs of
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9. Il Distributed Denial-of-Service è un malfunzionamento dovuto al sovraccarico di un sito Web o di un’applicazione con traf"co digitale. 10. S. SHARMA, «Israel-Õamås con!ict extend to cyberspace», Cso, 11/10/2023. 11. A. ROUSSI, M. MILLER, «How hackers piled onto the Israeli-Õamås con!ict», Politico, 15/10/2023. 12. A. ROUSSI, «Meet Killnet, Russia’s hacking patriots plaguing Europe», Politico, 9/9/2023. 13. S. SHARMA, op. cit. 14. Ibidem.
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Possible War in September-October», in cui sosteneva che gli indicatori della terribile minaccia che si stava pre!gurando erano sotto gli occhi di tutti: «Le festività ebraiche, durante le quali gruppi di fedeli ebrei visitano regolarmente il Monte del Tempio, un punto di in!ammabilità del con"itto tra Israele e i palestinesi; incontri che hanno riunito funzionari iraniani con membri dei gruppi terroristici di Õamås, di Õizbullåh e della Jihåd islamica palestinese, aumentando la minaccia di una guerra regionale; la disponibilità di armi sempre più letali nelle mani di Õamås e di altri gruppi terroristici, tra cui cariche esplosive e razzi ultrapotenti, che costringerebbero Israele a una risposta su larga scala che andrebbe oltre le solite misure antiterrorismo» 15. È interessante la teoria, formulata sempre da Carmon, che focalizza l’attenzione sulle responsabilità del Qatar. A suo giudizio, il primo errore commesso da Israele va imputato alla politica attuata negli ultimi dieci anni nei confronti di Õamås. L’abbaglio principale, tuttavia, è stato illudersi che si potesse comprare la pace con i soldi di Doha: «Dal 2012, il Qatar ha erogato circa 1,5 miliardi di dollari alla Striscia di Gaza, con la tacita approvazione di Israele nonostante il blocco. Dal 2018, la monarchia del Golfo ha fornito assistenza mensile per 30 milioni di dollari all’enclave costiera, in tre tranche da 10 milioni per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici di Õamås, il carburante e gli aiuti alle famiglie bisognose. Õamås, che governa una Striscia di Gaza impoverita, bloccata da Israele ed Egitto dal 2007 e isolata dal resto del mondo, non avrebbe le risorse e le capacità per portare a termine i suoi attacchi contro Israele se non fosse per il sostegno internazionale. La potenza straniera che più spesso viene accusata è l’Iran. Anche se non si può negare che Teheran contribuisca al gruppo terroristico in vari modi – con !nanziamenti, armamenti e addestramento militare – la vera àncora di salvezza !nanziaria per Õamås è fornita dal Qatar. Non è un segreto che Doha !nanzia da anni gruppi islamici radicali. Ha ottimi rapporti con l’Iran e ha intrattenuto una cooperazione militare con i Guardiani della rivoluzione (Irgc), è un sostenitore dei Fratelli musulmani ed è stato accusato di !nanziare l’ascesa di al-Qå‘ida e dello Stato Islamico. Il Qatar può vantare un’importante azienda televisiva, Al Jazeera, che dall’inizio della guerra è diventata il portavoce di Õamås». In considerazione dei rapporti che l’emirato ha stabilito con l’Europa e gli Stati Uniti negli ultimi anni, sembrerebbe proprio che nel casinò (con l’accento sulla «o») del pianeta, il Qatar giochi su tutti i tavoli.
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15. G. PACCHIANI, «“The writing was on the wall”, says counterterror expert who saw war looming», The Times of Israel, 9/10/2023.
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4. È dif!cile credere al fallimento dell’intelligence israeliana. Viene da chiedersi come lo Shin Bet e il Mossad non avessero alcuna avvisaglia di cosa stesse per accadere. Anche sotto tale aspetto, dunque non solo per l’elevato numero di vittime e per il fatto che si tratta di un’azione terroristica, il richiamo a quanto è accaduto l’11 settembre 2001 negli Stati Uniti rende la similitudine appropriata. Che si
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tratti di al-Qå‘ida, dell’Is, di Õamås o di qualunque altra organizzazione di estremisti islamici, cambia l’orchestra, ma la sinfonia è sempre la stessa. E quando si ha a che fare con cellule «dormienti», viene il sospetto che questa narcolessia collettiva colpisca anche le agenzie di sicurezza, vittime di una sorta di torpore tecnologico. Talvolta bisognerebbe fare un passo indietro e porsi sullo stesso piano del nemico, combattere con le sue stesse armi: la ricerca informativa attraverso fonti umane probabilmente avrebbe dato i suoi frutti. Un drone o un satellite non possono indicare cosa stia accadendo nel sottosuolo o tra le mura di un edi!cio. In certe aree del pianeta, anche le intercettazioni non sempre sono possibili o ef!caci. Al di là delle tattiche che impiega, bisogna comunque stabilire che Õamås è ormai solo uno strumento nelle mani di altri Stati che, sulla base del principio delle «guerre di prossimità», cercano la destabilizzazione del pianeta in nome di un «nuovo ordine mondiale» in cui poter affermare la loro visione del mondo. In queste coalizioni trova posto il fanatismo. Õamås sfrutta le disgrazie del popolo palestinese per diffondere l’ideologia integralista che, con la sua arretratezza e il suo oscurantismo, certo non migliorerebbe le condizioni di vita in quei territori.
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IL CONFLITTO DI H. IZBULLAˉ H È APPENA INIZIATO di Lorenzo TROMBETTA Anche il Partito di Dio è in guerra con Israele. Si rompe il lungo periodo di stabilità, le regole di ingaggio cambiano con gradualità. Il rapporto organico con l’Iran. La missione è unire sciiti e sunniti nell’odio del nemico sionista. L’influenza di Naârallåh a Teheran.
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A GUERRA DI LOGORAMENTO TRA GLI
õizbullåh libanesi e Israele lungo la linea di demarcazione tra i due paesi è solo agli inizi. E quello che l’8 ottobre, all’indomani del sorprendente attacco di Õamås, è cominciato come un con!itto a bassa intensità tra combattenti "lo-iraniani e soldati israeliani è destinato a protrarsi a lungo. E a passare attraverso diverse fasi di escalation. C’è già un precedente illustre. Per sei anni, tra il ritiro israeliano dal Sud del Libano nel 2000 – dopo 22 anni di occupazione – e la guerra dell’estate del 2006, Õizbullåh e Israele si sono affrontati in una guerra combattuta a fuoco lento, per lo più nel settore orientale della Linea Blu di separazione, tra le colline di Kfår Šûbå e le Fattorie di Šib‘å. Oggi, dopo le prime settimane di con!itto, è evidente che Õizbullåh intende tenere occupato il nemico in un’area assai più estesa, lungo tutta la fascia frontaliera, dalla costa mediterranea "no alle pendici occidentali del Monte Hermon, crocevia delle contese territoriali tra Libano, Israele e Siria. Dalla prospettiva libanese, l’offensiva del 7 ottobre – lanciata da Õamås in coordinamento con Iran e Õizbullåh – ha alterato signi"cativamente la dinamica negoziale tra attori protagonisti e comparse del teatro mediorientale. Il movimento islamico è riuscito a far saltare il tavolo dei rapporti sia con gli altri soggetti palestinesi sia con gli israeliani. Nel frattempo, il suo alleato libanese è tornato prepotentemente sulla scena recuperando il proprio elemento naturale, ovvero la guerra col nemico sionista. Il Partito di Dio farà di tutto per perpetuare tale dinamica. Senza lasciare che i tempi lunghi annacquino la sua forza retorica, che sarà ogni giorno incendiaria, quasi ogni minuto fosse anticipazione della tanto attesa vittoria "nale: «Gerusalemme, arriviamo!».
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IL CONFLITTO DI H.IZBULLAˉH È APPENA INIZIATO
Al netto della retorica, Õizbullåh vuole evitare un con!itto totale in Libano, poiché avrebbe conseguenze devastanti sui già fragili equilibri di un paese vittima da quattro anni degli effetti della peggiore crisi "nanziaria della sua storia. Fattore che nel medio-lungo termine potrebbe avere un impatto negativo sulla solidità del legame tra partito e base di consenso. Il movimento armato libanese sembra preferire un graduale inasprimento della violenza. Tuttavia, i suoi vertici sanno che l’equazione della guerra o della pace non risulterà soltanto dalle scelte di Õizbullåh, bensì dall’insieme delle decisioni degli altri attori (in primis Israele) e da variabili impossibili da conoscere in anticipo. D’altronde, dalla "ne della guerra civile libanese (1975-90), i più sanguinosi combattimenti tra Israele e Õizbullåh – dal 1993 al 2006 passando per il 1996 – sono nati tutti come operazioni israeliane lanciate per indebolire o distruggere il nemico. Dal punto di vista del gruppo armato sciita, la decisione di estendere la guerra da Gaza al Libano appare, in "n dei conti, nelle mani di Israele.
Õizbullåh e Israele prima del 7 ottobre
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Õizbullåh nasce a metà degli anni Ottanta, all’ombra dell’occupazione militare israeliana del Sud del Libano (1978-2000) e sotto la spinta del neonato Iran rivoluzionario (1979). Questa congiuntura ha forgiato il patrimonio genetico del movimento jihadista sciita, per natura ostile a Israele e alleato a doppio "lo alla Repubblica Islamica. La cronologia del confronto tra il Partito di Dio e Israele può essere suddivisa in quattro fasi temporali, qui di seguito descritte dalla prospettiva di Õizbullåh. Il primo periodo va dal 1985 al 2000. E comprende tutto l’arco della lotta armata di liberazione – condotta per circa 15 anni "no al ritiro delle truppe israeliane – e della successiva fuga a sud dei collaborazionisti libanesi nel maggio 2000. Tra 2000 e 2006 si assiste alla creazione dello status quo strategico e delle relative regole di ingaggio col nemico israeliano, sulla base delle posizioni assunte dai due rivali lungo la Linea Blu tracciata dall’Onu: non costituisce un con"ne, è la linea del ritiro militare israeliano nel 2000. Le aree contese lungo la linea sono numerose. Õizbullåh le rivendica come libanesi ma sono da più di due decenni sotto pieno controllo israeliano. Nei primi anni del periodo post-liberazione, lo scambio di fuoco tra il Partito di Dio e Israele rimane a bassa intensità e si concentra nella regione orientale di ‘Arqûb, dalla quale si accede alle colline Kfår Šûbå e alle Fattorie di Šib‘å, con"nanti col Golan conteso tra Siria e Israele. Quotidianamente l’Aeronautica israeliana viola lo spazio aereo meridionale libanese conducendo voli a bassa quota, che talvolta si spingono "no a Beirut e all’alta valle della Biqå‘. La guerra dell’estate del 2006, provocata da Õizbullåh ma in cui Israele accetta di immergersi appieno, serve al partito "lo-iraniano per testare le capacità del nemico, attirandolo nella «ragnatela del ragno» (così è anche chiamato uno dei musei
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di Õizbullåh) quindi tra le colline, i bananeti e i boschi del Libano meridionale. L’Areonautica israeliana colpisce pesantemente le infrastrutture libanesi e rade quasi al suolo la periferia a sud di Beirut, quartier generale di Õizbullåh. Nonostante la devastazione e le vittime civili, il movimento armato sciita mantiene un forte consenso popolare e riceve dal Qatar – lo stesso !nanziatore dell’apparato amministrativo di Õamås a Gaza – aiuti consistenti per la ricostruzione. Al termine della guerra, Õizbullåh sente di incutere più timore a Israele rispetto al passato. Le modalità di ingaggio tra i due rivali lungo la Linea Blu tornano a essere grossomodo le stesse. Gli israeliani svolgono attività militari nelle aree contese e innalzano la tensione. Il Partito di Dio attacca sporadicamente obiettivi militari provando a non in"iggere vittime al nemico. La risposta arriva in maniera proporzionata, perlopiù in zone agricole e boschive disabitate. Vale la pena di notare che nei primi giorni di ottobre 2023 è stato messo in scena esattamente lo stesso spartito. Dopo la guerra del 2006 il contesto si arricchisce. La missione Onu (Uni!l) viene ampliata sia in termini quantitativi (si arriva a oltre 10 mila unità provenienti da decine di paesi) sia politici, con un mandato de!nito dalla risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza, esplicitamente dedicato al controllo capillare del territorio in coordinamento con la presenza simbolica dell’esercito e dell’intelligence libanesi. Il quarto periodo si estende lungo i 17 anni che dividono la guerra del 2006 da quella del 2023. Nel Sud del Libano questo tempo ha portato a una stabilità senza pari negli ultimi settant’anni. Non sono certo mancati momenti di tensione e persino scontri armati. Ma questi sono rimasti sempre contenuti nello spazio e nel tempo. Õizbullåh si è rafforzato notevolmente, soprattutto nelle retrovie. Ha accumulato armi sempre più so!sticate e sviluppato tattiche navali, capacità missilistiche e di controllo su droni dotati di armi di precisione. A ridosso della Linea Blu gli õizbull åh hanno creato una barriera di dissuasione assai più capillare di quella che gli israeliani hanno provato a superare nel 2006. A ciò si aggiunga che, dal 2012, Õizbullåh è intervenuto in maniera sempre più massiccia nella guerra siriana. E che col tempo ha costituito alcune basi e acquartieramenti permanenti lungo tutta la fascia che da Aleppo, nel Nord del paese al con!ne con la Turchia, si spinge !no all’estremo Sud, in prossimità della Giordania, e alle pendici contese del Golan. A differenza del 2006, Õizbullåh controlla direttamente gli aeroporti di Damasco e Aleppo (non a caso colpiti ripetutamente e con un’inusuale intensità da Israele a partire dallo scorso ottobre). Controlla i valichi frontalieri informali tra Libano e Siria lungo l’Antilibano e nella Biqå‘. Controlla, tramite i jihadisti sciiti iracheni !lo-iraniani, ampie regioni della bassa valle dell’Eufrate al con!ne con l’Iraq, da cui è possibile colpire le basi militari Usa nella Siria orientale. Ed è posizionato, grazie ai pasdaran, a poche decine di chilometri da Tanf, il principale presidio militare statunitense nella Siria meridionale al con!ne con Giordania e Iraq. La dimensione siriana di Õizbullåh consente al cosiddetto asse della resistenza di minacciare direttamente Israele dal Golan e di tenere aperti i vari corridoi terre-
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stri e aerei per rifornire il Sud del Libano in caso di con!itto. Si stima che tale schieramento possieda un arsenale tre volte maggiore di quello di Õamås a Gaza, con missili in grado di arrivare "no ai con"ni israeliani con il Sinai egiziano 1. A partire dal 2017, l’impegno di Õizbullåh in Siria si è gradualmente ridotto. E il Partito di Dio ha potuto così tornare a concentrarsi a rafforzare la sua capacità di deterrenza, partendo proprio dal Sud del Libano. Con l’obiettivo di riconquistare parte della popolarità perduta in ambito islamico a causa dell’intervento in Siria, che aveva visto la forza jihadista sciita scontrarsi con formazioni armate sunnite, incluse quelle vicine alla Fratellanza musulmana, movimento da cui è scaturito Õamås. Nel Sud del Libano, i combattenti "lo-iraniani hanno perfezionato tunnel sotterranei per oltrepassare parte dei reticolati israeliani. A partire dal 2018 sono stati scoperti e in parte distrutti dallo Stato ebraico. Sempre in questo quadrante, gli õizbullåh hanno eretto postazioni e torrette di osservazione in prossimità delle caserme e dei bunker nemici, in molti casi camuffando gli avamposti con stazioni di monitoraggio di un’organizzazione ambientalista, «Verdi senza frontiere» 2. Da un punto di vista strategico, il Partito di Dio ha allargato la sua rete di alleanze locali, cooptando diverse fazioni armate minori libanesi e palestinesi presenti dentro e fuori i campi profughi del paese. In barba alle rivalità dottrinarie tra sciiti e sunniti. Le "liali libanesi di Õamås e della Jihåd islamica, così come la sezione di Sidone della Ãamå‘a al-Islåmiyya, operano ormai da anni sotto l’ombrello di Õizbullåh. I loro quadri appaiono sempre più iranizzati e «sciitizzati». Non a caso l’ala armata della sezione di Sidone della Ãamå‘a al-Islåmiyya si è resa protagonista, dal 7 ottobre 2023, di almeno tre attacchi contro postazioni israeliane dal settore orientale della Linea Blu. L’asse della resistenza appare sempre più come una holding tenuta in piedi dalla convergenza di interessi trasversali alle posizioni ideologiche. Nell’ottica di mostrarsi attore panislamico e non solo sciita, il Partito di Dio ha così aiutato i suoi alleati a sviluppare le capacità militari, con particolare attenzione all’uso dei droni $, alle tecniche di comunicazione all’interno di cellule di combattenti e al miglioramento delle tattiche di guerriglia urbana. Nel febbraio 2011 il leader di Õizbullåh, Õasan Naârallåh, ha minacciato di attaccare e invadere città e insediamenti nell’Alta Galilea a partire dal Sud del Libano. Uno scenario analogo a quello concretizzatosi il 7 ottobre a partire dalla Striscia di Gaza. Su più ampia scala, gli sforzi di Õizbullåh di mantenere un fronte sud-libanese coeso sotto la propria regìa rientrano nel progetto iraniano – elaborato e a lungo
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1. Si stima che Õizbullåh disponga di proiettili di artiglieria; razzi a corta gittata (capaci di raggiungere l’Alta Galilea e di colpire "no a 40 chilometri nella profondità del territorio israeliano); missili a media gittata, che possono raggiungere il Lago di Tiberiade e la Cisgiordania (75 chilometri), Tel Aviv (120), Ashdod (165) e Gaza (215); missili di lunga gittata, (260-500 chilometri), capaci di arrivare al con"ne col Sinai; droni, missili antinave a lunga gittata (200-300 chilometri), minisottomarini, missili terra-aria Sam anti-aerei, razzi anticarro teleguidati. 2. Cfr. L. TROMBETTA, «Anatomia del potere locale, il caso di Rumayš nel Sud del Libano», Limes, 8/2022, «Il mare italiano e la guerra», pp. 281-300. 3. Nell’estate 2023 Israele ha denunciato l’esistenza di un aeroporto di aeromobili a pilotaggio remoto allestito da Õizbullåh nel Sud del Libano, fuori dall’area di operazione della missione Uni"l.
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portato avanti dal defunto generale Qasem Soleimani – della cosiddetta unità dei fronti di guerra contro Israele. Dal Libano allo Yemen, passando per Siria e Iraq, retorica e pratica vanno a braccetto. L’offensiva di Õamås è stata denominata «Alluvione al-Aqâå», in riferimento alla moschea di Gerusalemme, terzo luogo santo dell’islam. La causa esplicita di Õizbullåh e di tutto l’asse della resistenza è, prima di ogni altra cosa, la protezione dei luoghi santi, non la liberazione della Palestina. Ciò consente di unire attori molto diversi fra loro, protagonisti e comparse della lotta armata in nome dell’islam politico. Non è un caso che le !liali di Õizbullåh in Yemen e Iraq abbiano rivendicato, nella seconda metà di ottobre, alcuni attacchi a obiettivi militari statunitensi nel Mar Rosso, nella Siria orientale e nell’Iraq occidentale.
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Nei 17 anni di relativa stabilità a ridosso della Linea Blu, il movimento armato sciita ha costantemente spinto i governi israeliani ad accettare diverse sfumature di violenza. Ha cambiato, a volte impercettibilmente, le regole di ingaggio. Ha coinvolto altri attori armati nel lancio di razzi contro Israele e nel tentativo di in!ltrare uomini oltre le linee nemiche. Lo Stato ebraico ha sempre risposto con relativa moderazione, rispettando le modalità di approccio in continua evoluzione ed evitando pericolose escalation. Per entrambi gli attori, il prezzo da pagare per tale equilibrio mutevole è stato relativamente basso. In piena linea di continuità col passato, a partire dal 7 ottobre Õizbullåh ha continuamente aggiornato, ora dopo ora, le regole di ingaggio e trascinato così Israele in una spirale di crescente violenza. Il numero delle vittime tra i combattenti armati sciiti è suf!ciente a indicare una notevole crescita quantitativa rispetto ai primi giorni di botta e risposta. «La resistenza ha il dito sul grilletto». Così ha avvertito Hossein Amir-Abdollahian, ministro degli Esteri iraniano, in visita a Beirut poco dopo lo scoppio del con"itto. Il grilletto è stato premuto più volte da Õizbullåh e alleati. E con intensità sempre maggiore. Il con"itto armato non ha ancora esaurito tutti i livelli d’escalation, ma nessuno può più negare che il Partito di Dio sia in guerra aperta con Israele. L’asse della resistenza sa muoversi su diversi fronti più o meno caldi attorno alle forze israeliane e statunitensi in Medio Oriente. Ed è probabile che gli altri attori !lo-iraniani continueranno a esercitare pressione sull’amministrazione americana af!nché rallenti l’offensiva dello Stato ebraico sulla Striscia di Gaza. Un alto esponente di Õizbullåh a Beirut, citato in forma anonima perché non autorizzato a rilasciare dichiarazioni, mi ha detto che «uno dei risultati politici dell’offensiva di Õamås è stato quello di stanare gli Stati Uniti». Anche se Israele dovesse di fatto cacciare Õamås dalla sua base territoriale nella Striscia, non è escluso che il movimento islamico palestinese possa riorganizzarsi sul suolo libanese e proseguire la guerra dalla Linea Blu. Con le dovute differenze, tale scenario ricorda l’esperienza dei combattenti palestinesi fuggiti, negli anni Sessanta e Settanta, prima in Giordania e poi in Libano.
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Õizbullåh e Israele dopo il 7 ottobre
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È inoltre possibile che i gruppi armati palestinesi, assieme ai loro alleati libanesi, iracheni e siriani, possano aprire con maggior decisione il fronte del Golan, a nord-est di Israele. Nel precario equilibrio di dissuasione e contro-dissuasione, i ripetuti raid aerei israeliani contro obiettivi iraniani, siriani e di Õizbullåh in Siria sembrano proprio voler mandare un avvertimento all’asse della resistenza: il territorio siriano non deve essere coinvolto direttamente nel con!itto in corso.
Chi comanda tra Iran e Õizbullåh
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Il rapporto tra il Partito di Dio e l’Iran è organico. E si basa sul principio dottrinario della velayet-e faqih, stabilito dal fondatore della Repubblica Islamica, Ruhollah Khomeini: ogni musulmano deve obbedire agli ordini dell’autorità (velayet) dell’esperto della fede (faqih), carica ricoperta dall’attuale guida suprema iraniana Ali Khamenei. Il leader di Õizbullåh, Õasan Naârallåh, appartiene al lignaggio dei discendenti del profeta Maometto, ha studiato nella città santa sciita iraniana di Qom ed è, a tutti gli effetti, una delle personalità più rilevanti dello sciismo politico transnazionale. La dottrina khomeinista prevede che autorità religiosa e politica si fondino nella "gura della guida suprema. In teoria, dunque, Khamenei è l’unico che oggi può pronunciarsi su questioni di guerra e di pace. E Naârallåh dovrebbe sottomettersi al suo giudizio. Questa verticalità si estende ai livelli operativo, militare e "nanziario. Teheran fornisce al suo alleato denaro, attrezzature, formazione e informazioni. Ma lo sviluppo di Õizbullåh durante gli anni Novanta e Duemila l’ha gradualmente reso a pieno titolo un attore attivo in Libano. Prima il ritiro di Israele e poi, cinque anni dopo, quello dei soldati siriani hanno consentito al Partito di Dio di affondare radici in diverse aree, accelerando il processo di integrazione sociale, politica e istituzionale nei vari gangli del sistema di potere libanese. Da vent’anni Õizbullåh gode di un ampio margine di manovra interno, pur mantenendo uno stretto legame col processo decisionale iraniano. È un equilibrio che varia a seconda delle contingenze e del contesto regionale. Nel 2006 la decisione di aprire un fronte di guerra con Israele fu essenzialmente presa da Õizbullåh. L’Iran appoggiò l’iniziativa e svolse un ruolo di primo piano nel sostenere il suo alleato tramite i preziosi consigli del generale Qasem Soleimani. Oggi il contesto è mutato. L’élite iraniana è in crisi e deve affrontare da tempo periodiche ondate di contestazioni interne. In Libano, il collasso economico ha messo a dura prova la capacità del Partito di Dio di mantenere coesa la base di consenso, in parte già critica verso i vertici per le perdite subite nel con!itto siriano. Inoltre, non c’è più il generale Soleimani, ucciso in un raid statunitense nel gennaio 2020. E sembra che Naârallåh sia ora uno degli uomini più ascoltati a Teheran riguardo alle questioni regionali. Non è certamente lui a decidere, ma la sua parola ha (e avrà) un peso determinante nel con!itto in corso. Anche perché
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il processo decisionale iraniano è un sistema complesso, il risultato di articolati scambi e conversazioni. È dunque importante, per Naârallåh, essere seduto al tavolo in cui si prendono le decisioni strategiche.
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Le azioni militari di Õizbullåh contro Israele sono cominciate l’8 ottobre nell’area delle Fattorie di Šib‘å, uno dei punti focali lungo la Linea Blu. Per i primi dieci giorni di ostilità, molte delle aree colpite dai combattenti libanesi e dai loro alleati locali e palestinesi sono state quelle contese. Nella maggior parte dei casi, gli attacchi dal Sud del Libano prendono di mira postazioni israeliane in zone che Beirut considera occupate dal nemico. O anche spazi della Palestina occupata. Ciò serve al Partito di Dio per dimostrare di stare conducendo una guerra sia di liberazione dall’occupazione straniera sia difensiva dalle aggressioni territoriali nemiche. Sul piano tattico, le posizioni sul terreno dei combattenti di Õizbullåh non sono statiche. In questo modo, tutti i circa cento chilometri della Linea Blu costituiscono un unico ma mobile fronte aperto, senza concedere ai mirini del nemico facili obiettivi. Fino al 27 ottobre, ogni attacco ha rispettato la seguente sequenza: gli õizbullåh (o altri loro alleati) sparano dal Libano verso postazioni militari israeliane e si dileguano nella boscaglia. È capitato spesso che i droni israeliani, quando la fuga si spostava nelle radure o sulle colline brulle, intercettassero i miliziani e li uccidessero. E questo spiega l’elevato numero di combattenti libanesi uccisi nell’arco delle prime tre settimane (più di 60). Pochi minuti dopo gli attacchi del Partito di Dio, l’artiglieria israeliana rispondeva puntando i cannoni sulle zone boschive e agricole libanesi da cui erano provenuti i primi colpi. Nella seconda metà di ottobre si è assistito a un inasprimento degli attacchi e delle conseguenti reazioni di Gerusalemme, col graduale coinvolgimento di zone libanesi abitate da civili, fuggiti in massa (più di 20 mila sfollati "no al 26 ottobre). Finora, le regole di ingaggio hanno grossomodo rispettato la formula «a ogni colpo si risponde con un colpo». In questa prima fase, dall’8 al 27 ottobre, a cambiare sono stati la frequenza e il calibro dei colpi sparati. Solo in due occasioni, il 21 e il 28 ottobre, Israele ha colpito nella profondità geogra"ca libanese attaccando l’aeroporto di droni del Partito di Dio nella zona di Riõån e una vicina base logistica, rispettivamente 35 e 40 chilometri a nord dalla Linea Blu. Entrambi gli obiettivi si trovavano a nord del "ume Lø¿ånø, dunque fuori dall’area di operazioni di Uni"l. Al contrario, in questa prima fase, Õizbullåh non ha mai sparato oltre le primissime linee di difesa israeliane. Soprattutto, il Partito di Dio non è sembrato capace di impedire al nemico di annientare in tempi brevissimi, con i droni continuamente in volo, i suoi combattenti autori dei primi lanci di razzi. È stata una dinamica basata sull’adattamento reciproco: anche quando Õizbullåh ha cominciato ad azionare le rampe di lancio a distanza, sperando così di mettere al riparo i suoi uomini, i velivoli senza pilota israeliani si sono dimostrati capa-
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Õizbullåh e il fronte interno
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ci di individuare, in meno di un minuto, la cellula di combattenti, nascosta nel raggio di poche centinaia di metri dal punto di lancio, e di annientarla. Dal 28 ottobre si è entrati nella seconda fase del con!itto, caratterizzata da una novità: il Partito di Dio è stato capace di abbattere almeno un drone israeliano e ha cominciato a lanciare missili verso l’Alta Galilea, colpendo Kiryat Shmona e minacciando Tzfat e Nahariya. Va comunque sottolineato che, specialmente nei primi giorni della guerra, Õizbullåh ha impiegato combattenti originari delle località libanesi lungo la Linea Blu: garanzia di perfetta conoscenza del territorio e di totale integrazione tra miliziani e popolazione locale. In questa fascia frontaliera, il Partito di Dio si presenta quale attore autentico, incarnazione della volontà popolare di opporsi al nemico 4. Il rapporto tra Õizbullåh e popolazione locale nel Sud del Libano e in altre regioni del paese segue comunque gradazioni e sfumature eterogenee. Nelle prime due settimane di guerra, circa 20 mila civili sono fuggiti dalle zone frontaliere, cercando riparo da parenti e amici nelle due principali città del Sud, Tiro e Sidone. Alcuni hanno raggiunto Beirut e il Monte Libano. Al di là dell’adesione (quasi istintiva) a una narrazione esalta la resistenza contro il nemico sionista, il sentimento più diffuso è il fatalismo. Quasi nessuno vuole essere vittima di una nuova guerra. Semplicemente ci si rassegna, ci si piega alle circostanze. Cosa pensano quindi i libanesi meridionali, la cui stragrande maggioranza ha votato Õizbullåh alle elezioni legislative del 2022? Da diverse conversazioni con persone del luogo ho tratto conferma che gli abitanti di gran parte delle comunità del Sud – divise tra chi è rimasto nel paese e chi vive nelle varie diaspore – desiderano una buona educazione scolastica per i #gli, dipendono da reti clientelari e dalla solidarietà confessionale, ritornano spesso al villaggio d’origine per sviluppare il nucleo familiare. Si tratta, perlopiù, di persone orgogliose della loro identità libanese che mantengono un rapporto pragmatico e opportunista con Õizbullåh. Dal loro punto di vista, tra il 2006 e l’attacco del 7 ottobre scorso il Partito di Dio ha garantito un senso di stabilità e sicurezza senza paragoni dal 1948. La sua forza di dissuasione ha aperto prospettive di relativa prosperità economica, su scala locale, nazionale e regionale. Questa prospettiva si era concretizzata con l’accordo raggiunto, nell’ottobre 2022, tra Libano e Israele con la mediazione statunitense per la spartizione delle risorse energetiche al largo delle coste mediterranee. Gli abitanti del Sud sono ben consapevoli che Õizbullåh costituisce l’unica realtà del contesto locale capace di proteggerli, in un modo o nell’altro, nello spazio del territorio frontaliero. Non signi#ca che siano entusiasti di trovarsi al centro di un con!itto lanciato per sostenere la causa palestinese. Per questo Õizbullåh ritiene cruciale mantenere alto il consenso, almeno formale, di circa un milione di libanesi del Sud, continuando a presentarsi come entità armata che difende il paese dalle aggressioni nemiche.
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4. Õizbullåh gode di una vasta rete di legami con le comunità locali libanesi e di una presenza ormai decennale nei processi decisionali e nelle istituzioni di Libano e Siria, a livello sia locale sia nazionale.
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Nella mappatura degli attori coinvolti nel con!itto con Israele sembrano mancare le istituzioni e le altre forze politiche libanesi. È un’assenza eloquente. L’immobilismo dell’esercito regolare è in linea di continuità con il passato: i vertici e i quadri di medio livello rispondono di fatto alla coalizione di governo dominata da Õizbullåh e alleati. Certo, il premier uscente Naãøb Møqåtø e alcuni altri ministri hanno più volte affermato che il paese non cerca un con!itto con Israele, ma hanno anche adottato in maniera acritica la narrazione del Partito di Dio e dell’intero asse della resistenza: il Libano è sotto attacco e deve difendersi. Il paese, va ricordato, è senza presidente della Repubblica dall’autunno 2022. Il governo è dimissionario. Il comandante dell’Esercito, generale Joseph ‘Awn, candidato alla presidenza, ha il mandato in scadenza a "ne gennaio 2024. Il paese è in default "nanziario dal marzo 2020 e il governatore della Banca centrale ha concluso il suo incarico senza essere sostituito, aggiungendo così un altro tassello all’incertezza generale. Sulla scena politica, al vuoto istituzionale si aggiunge poi l’assenza di attori sunniti che possano bilanciare lo strapotere di Õizbullåh. A differenza del 2006, quando il fronte sunnita sostenuto dall’Arabia Saudita era forte e al governo, oggi le istituzioni centrali e le loro rami"cazioni locali nel Sud sono quasi del tutto in mano al Partito di Dio e ai suoi alleati fedeli. In queste prime settimane di con!itto, anche le forze tradizionalmente ostili al con!itto con Israele sono rimaste a guardare, prevalentemente in silenzio, timorose di essere additate come antinazionaliste. È signi"cativo che gli interlocutori stranieri nelle cancellerie diplomatiche siano tutti disposti a parlare quasi esclusivamente con Õizbullåh o con l’Iran, chiavi di volta per capire quale sarà la traiettoria del Libano dopo il 7 ottobre.
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LA MARCIA DEI COLONI E LA SFILATA DI RAˉ MALLAˉ H
di
Anna J. GUZMAN
Come nascono gli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Alla vigilia del 7 ottobre la popolazione palestinese appariva relativamente tranquilla. Le contraddizioni dell’Anp. C’è chi preferirebbe l’annessione a Israele per formare un solo Stato.
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1. A GUERRA TRA ISRAELE E ÕAMÅS STA cambiando il volto di tutti i Territori palestinesi. Per questo è utile esplorare come la crisi di Gaza si ri!etta sulla Cisgiordania occupata. Cerchiamo di ricostruire lo sfondo su cui si innesta la nuova tragica fase del con!itto israelo-palestinese. A partire dal modo in cui lo Stato ebraico estende di fatto il suo controllo a tutto lo spazio compreso fra Mediterraneo e Valle del Giordano. In Cisgiordania – Giudea e Samaria nella versione ebraico-israeliana – un ruolo speciale è svolto dai coloni che stanno ancora oggi espandendo e forti"cando i loro insediamenti. Per capire come i coloni israeliani occupino i Territori è necessario considerare che non vi è un unico modus operandi. La colonizzazione israeliana avviene secondo metodi e schemi diversi, anche in base allo spazio che viene colonizzato. Di certo negli ultimi anni i coloni israeliani sono inesorabilmente avanzati nella regione. I metodi utilizzati per prendere il controllo dei Territori palestinesi sono due. Il primo è l’occupazione vera e propria. In questo caso, un gruppo di coloni – di norma armati – penetra in Cisgiordania e fonda degli insediamenti. Di solito questi sorgono in punti strategici, ad esempio sulle alture. Individuarli è molto semplice: sulle colline si vedono chiaramente dei villaggi protetti da vedette delle Forze di sicurezza israeliane e circondati da recinzioni. Il reticolo di strade di collegamento, spesso a uso esclusivo dei coloni, è anche oggetto di protezione militare. Per esempio, nell’ultimo periodo solo nella strada che collega Råmallåh e Gerico sono sorti circa venti nuovi insediamenti di coloni. Questo è il metodo di occupazione «classico», attraverso il quale gli israeliani prendono il pieno controllo di una zona e la forti"cano.
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Il secondo metodo, più ardito, è noto come «occupazione verticale». A Hebron, ad esempio, i coloni hanno occupato i piani superiori di alcuni condomini che erano di proprietà dei palestinesi. I coloni vivono insieme ai palestinesi, negli stessi edi!ci, ma asserragliati nei propri appartamenti. Quando escono, armati, sono sempre scortati dai militari israeliani. Tuttavia, nonostante il loro isolamento, i coloni sono tutto tranne che schivi. Gli abitanti palestinesi della regione di Hebron hanno montato delle reti sopra le strade per evitare di essere colpiti da oggetti, inclusi ri!uti ed escrementi, che vengono lanciati contro di loro dai piani superiori. Questi nuovi insediamenti sono culturalmente e !loso!camente molto diversi dai kibbutzim delle origini, basati su una narrazione romantica del rapporto con gli altri e con la natura. Originariamente un kibbutz era infatti un’associazione volontaria di lavoratori israeliani, che si riunivano per coltivare la terra. Certo, anche con i kibbutzim vi era l’idea di appropriarsi del territorio. Tuttavia, essi erano un’istituzione comunitaria che aveva come !ne l’integrazione e non l’occupazione. Di questo non resta traccia nei nuovi insediamenti, molto più strutturati e militarizzati. Alcuni ormai trasformati in vere e proprie città. L’obiettivo è semplicemente quello di avanzare, di prendere terreno nella Terrasanta che, dal punto di vista dei religiosi, è stata data da Dio al popolo eletto. Non c’è una ratio strategica ben de!nita, se non quella di separare tra loro gli insediamenti urbani palestinesi. Lo si capisce guardando una qualsiasi carta dei nuovi insediamenti, da cui si trae come si stiano espandendo a macchia di leopardo. Obiettivo, occupare spazi e piantarvi la propria bandiera. I coloni israeliani sono diventati molto più aggressivi rispetto al passato. Prima erano più guardinghi, alcuni addirittura parevano sottomessi, quasi sapessero di essere degli occupanti. Oggi non è più così. I nuovi coloni si sentono padroni della terra in cui si insediano e si comportano come tali. Sicché è anche estremamente dif!cile parlarci. Come minimo tendono a essere molto schivi con chi viene da fuori, come massimo ti minacciano. Questa nuova postura dei coloni (i cui rappresentanti hanno raggiunto ruoli politici di alto pro!lo nella Knesset e nel governo), si ri"ette anche nei loro rapporti con le Forze di sicurezza israeliane. Di norma i coloni vanno d’accordo, tuttavia ve ne sono alcuni assolutamente convinti che la loro occupazione avvenga sulla base di un mandato divino e si dimostrano aggressivi anche nei confronti dei soldati che talvolta cercano di contenerne l’espansione. Sicché capita che gli interessi del governo israeliano e la passione religiosa dei coloni entrino in con"itto. Insomma, non bisogna credere che i coloni siano sempre e comunque pedine del governo israeliano. Tanto è vero che negli ultimi anni hanno formato proprie milizie armate e agguerrite, che talvolta si scontrano con i militari israeliani.
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2. Osserviamo invece la Cisgiordania dal punto di vista dei palestinesi che la abitano, tenendo conto del fatto che comunque dopo questa guerra molte cose sono destinate a cambiare. Per comprendere i paradossi della loro condizione, può
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NAKBA - I RIFUGIATI ARABI NEL 1949 Principali aree di evacuazione degli arabi (aprile-dicembre 1948) Città a forte presenza araba (la maggioranza fugge) 4.000 Numero dei rifugiati per destinazione 0,6% Ripartizione per destinazione
LIBANO 100.000 14%
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IRAQ 4.000 0,6%
‘Akko (Acri) Haifa
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SIRIA 75.000 10%
M a r
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Tiberiade
Beit Shean
Gia!a Ramla
CISGIORDANIA 280.000 38%
GIORDANIA 70.000 10%
Mar Morto
STRISCIA DI GAZA 180.000 26% Beer Sheva
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Fonti: Unwra; Atlas des Palestiniens (Troisième édition)
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EGITTO 7.000 1%
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essere utile guardare al principale centro urbano della regione: Råmallåh. La città è immersa in una contraddizione vivente. Ad aprile, mentre si stavano registrando pesanti scontri tra Forze di sicurezza israeliane, coloni e palestinesi, la popolazione continuava a vivere una vita regolare. Si celebravano matrimoni con più di trecento invitati e le strade erano piene di macchine di lusso e di cantieri. Insomma, le persone facevano una vita quasi normale. Ma c’era un costante senso di tensione e di insicurezza, oggi esploso in seguito all’attacco di Õamås a Israele e alle stragi di Gaza. In Palestina si comprende davvero cosa sia la resilienza, intesa come capacità di vivere in pseudonormalità nonostante si abbia piena coscienza dell’imminente possibilità della catastrofe. A Råmallåh prima del 7 ottobre si respirava esattamente quest’aria: !orivano nuovi quartieri, i ristoranti erano affollati e si avvertiva un relativo benessere. Eppure l’atmosfera restava perennemente tesa. Tanta vivacità sociale era resa possibile anche dal fatto che le banche palestinesi offrivano prestiti a tassi molto vantaggiosi, che permettevano agli abitanti arabi di avere accesso ai beni di consumo, articoli di lusso compresi. Anche in questo, però, risiede una contraddizione. Non è semplice determinare con precisione chi sia a immettere liquidità nelle casse delle banche palestinesi (al netto delle rimesse della diaspora), ma certamente il sospetto che Israele contribuisca a !nanziare gli istituti di credito esiste. In !n dei conti, vale l’adagio per cui «se non vuoi combatterli, prova a comprarli». Ovviamente l’economia locale è fortemente limitata da sanzioni e controlli esterni. Essa sarebbe basata sull’agricoltura, ma è danneggiata dai continui espropri operati dalle Forze di difesa israeliane. Queste pratiche sono all’ordine del giorno, così come gli abusi di potere, che ormai fanno parte della storia collettiva della Cisgiordania. Tuttavia, nonostante questa memoria condivisa, i palestinesi sono profondamente disillusi e soprattutto stanchi di sperare. Per quanto siano ancora acuti e critici, paiono meno combattivi di vent’anni fa. Hanno dovuto imparare l’arte della resilienza, si sono adattati alla realtà nella quale vivono. Usano modalità di sopravvivenza diverse da quelle del passato. Ad esempio, il 15 maggio a Råmallåh si sarebbe dovuto commemorare l’anniversario della Nakba, la Catastrofe, ossia la cacciata dei palestinesi dai loro territori ancestrali in seguito alla nascita dello Stato ebraico (1948). Israele aveva vietato le manifestazione pubbliche dedicate alla ricorrenza. Dunque si temeva che raduni non organizzati avrebbero potuto scatenare degli scontri. Ciò che, in passato, era più volte avvenuto. Bene, quest’anno il ministero per i Diritti delle donne (Mowa) dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha deciso di commemorare la Nakba organizzando una s!lata di moda in uno degli alberghi più famosi e lussuosi di Råmallåh. Per l’occasione, le modelle hanno s!lato e posato con gli abiti tradizionali delle varie regioni della Palestina. Come si spiega tale trasformazione? Ancora una volta con il concetto di resilienza: i palestinesi cercano di sopravvivere, travestendo la loro angoscia da normale esistenza. Non possono fare altrimenti. I coloni avanzano, le Forze di sicurez-
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3. A tale cambio di atteggiamento degli abitanti della Cisgiordania si af!anca la debolezza dell’Anp. Il problema è che la Palestina non ha mai avuto l’opportunità di istituzionalizzare e razionalizzare la propria struttura di governo, pur sempre sotto il controllo israeliano e i !nanziamenti di donatori esterni e dello stesso Stato ebraico. C’è sempre un’in"uenza esterna enorme e l’Autorità nazionale palestinese è strumentalizzata dagli attori più diversi. Questo contribuisce al de!cit di democrazia, che si manifesta anche nel più che decennale rinvio di consultazioni elettorali. Non ha assolutamente alcun senso accostare l’Anp a Õamås. Eppure nel dibattito pubblico ciò viene fatto continuamente. Per i palestinesi questo è un problema, perché non permette all’Anp di presentarsi all’esterno come un soggetto credibile. Certo, l’obiettivo di Õamås è proprio identi!carsi con la Palestina senza i compromessi di Abu Mazen e associati. Delegittimare una rappresentanza moderata fa il gioco degli estremisti in ogni quadrante del con"itto. Ma dopo l’attacco del 7 ottobre e la conseguente reazione israeliana Õamås non può più pretendere di parlare a nome del popolo palestinese. È vero che Õamås ha vinto le elezioni nel 2006, ma gran parte dell’elettorato palestinese si è spaventata. Essenzialmente per due ragioni. Innanzitutto, sapevano che sarebbero stati isolati e che la comunità internazionale avrebbe ridotto il sostegno alla questione palestinese e di conseguenza, gli aiuti assolutamente essenziali per la Palestina. Inoltre, gli stessi palestinesi temono la radicalizzazione di Õamås. Se si andasse al voto oggi, Õamås non vincerebbe mai le elezioni. Quindici anni fa era invece considerato l’erede della resistenza palestinese destinato a prendere il posto dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) di Arafat. Oggi non è più così. In Cisgiordania, la presenza politica di Õamås non si sente da anni, anche perché è un’organizzazione che non ha strutture visibili. Peraltro, nella Cisgiordania Õamås non costruisce la sua legittimità offrendo servizi alla popolazione, come fa invece a Gaza. La conseguenza è che la Cisgiordania vive in un limbo. Il vuoto lasciato dall’Autorità nazionale palestinese non è stato occupato da nessuno. Nemmeno da Õamås. Ci sarebbero le condizioni per produrre qualcosa di nuovo, un soggetto politico robusto e credibile, ma i palestinesi stessi non sanno in che direzione andare. Prendono le distanze da Õamås e sanno che la soluzione dei due Stati non è percorribile. Alcuni vorrebbero diventare cittadini israeliani, anche solo per porre un freno alla politica degli insediamenti: meglio integrati (magari anche cittadini di serie B) che occupati. Israele non accetterà mai una soluzione di questo tipo, anche per ragioni demogra!che. Il tasso di natalità dei palestinesi è infatti decisamen-
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za israeliane sono ovunque. Eppure, i palestinesi cercano comunque di celebrare le loro ricorrenze, anche se le calano in un contesto di senso diverso rispetto a quello di vent’anni fa. In Cisgiordania è in atto una negoziazione implicita permanente tra i valori della comunità e la concreta situazione che i palestinesi si trovano a vivere. È questo equilibrio squilibrato che rischia oggi di saltare.
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te più alto di quello degli israeliani: qualora dovesse formarsi un unico Stato, questo sarebbe a maggioranza palestinese. Fine dello Stato ebraico. Soprattutto, tra i palestinesi di Cisgiordania e quelli di Gaza non vi è comunità di destino. Certo, i primi si preoccupano delle sorti dei secondi, li considerano i «ribelli della famiglia». Vi sono ovviamente dei legami, anche di sangue. Ma i palestinesi vivono vite differenti in contesti differenti.
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4. Nonostante questi problemi, l’Autorità nazionale palestinese è comunque presente nella vita degli abitanti della regione, soprattutto per mezzo dei ministeri. Ovviamente, l’Anp basa i suoi investimenti in servizi essenziali interamente sugli aiuti della comunità dei donatori, composta principalmente dai membri dell’Ue e da altri Stati occidentali, mentre i paesi arabi mantengono !ussi indipendenti di modesta entità. Spesso si nota una contraddizione tra quello che la comunità internazionale offre e le reali esigenze e modalità di sviluppo del mondo arabo-palestinese. Insomma, i donatori assicurano aiuti umanitari e cooperazione, ma chiedono anche precise modalità di accesso e di utilizzo delle risorse da parte dell’Autorità nazionale palestinese. In alcuni casi, si tratta di prendere in considerazione problemi che sono dif"cili da gestire in una regione come la Cisgiordania. Ad esempio, la questione della parità di genere, culminata addirittura nella creazione di un ministero per i Diritti delle donne, si è innestata in un tessuto sociale fortemente patriarcale e refrattario. Il problema è che quando un’istituzione del genere viene calata in un contesto come quello della Cisgiordania, non è scontato che la risposta sia immediatamente positiva, nonostante gli sforzi delle organizzazioni della società civile, estremamente attive e molto più presenti delle stesse istituzioni nella vita della popolazione palestinese. Tuttavia, rispetto al passato e soprattutto in certi contesti – la Palestina presenta un tessuto socioculturale estremamente eterogeneo, con una grossa forbice tra zone urbane e zone rurali – per le donne la situazione è decisamente migliorata. Si sono create delle nicchie in cui i loro diritti sono meglio rispettati. Una di queste è costituita dai programmi di studio offerti dalle università della Cisgiordania. Qui le donne possono accedere facilmente a corsi universitari e postuniversitari, vivono in un ambiente culturalmente vario, dove arabi, ebrei e cristiani condividono la quotidianità. La conseguenza è che in Palestina le donne delle nuove generazioni hanno un livello di istruzione mediamente superiore agli uomini. Ciò non è suf"ciente per raggiungere un’effettiva parità di genere, ma dimostra come gli sforzi della cooperazione internazionale possano produrre risultati tangibili. Purtroppo, non si può affermare lo stesso per quanto riguarda i diritti delle persone Lgbtqia+. Sotto questo aspetto, c’è ancora tanto lavoro da fare. Di fatto vi è una persecuzione non dichiarata, che porta alla marginalizzazione di tutti gli individui che esprimono un orientamento sessuale non conforme a quello istituzionalizzato. La comunità Lgbtqia+ palestinese, poi, non è organizzata. A Råmallåh non è ancora tempo di gay pride.
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UNIVERSI PARALLELI
di
Giuseppe DE RUVO
L’assurdità di un festival musicale a dieci chilometri dalla Striscia di Gaza. La festa come sospensione della storia. Rave, Metaversi e giochi: per farla finita con la realtà. Ma questo atteggiamento non ci salverà. La dimenticata lezione di Musil.
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1. F. GILLET, A. CUDDY, «Israeli Music Festival: 260 bodies recovered from site where people #ed in hail of bullets», Bbc News, 8/10/2023.
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1. SISTONO EVENTI, NELL’INGLORIOSA storia del mondo, che obbligano l’umanità a guardarsi allo specchio. Avvenimenti limitati, ben circoscritti, in grado – quasi fossero novelli Napoleoni – di racchiudere lo spirito del tempo. Quanto avvenuto al rave party «Universi Paralleli» di Re‘im – dieci chilometri dalla Striscia di Gaza – entra drammaticamente nella lista degli eventi rivelatori della nostra epoca. La festa che si trasforma in massacro. I bassi della musica techno che si confondono con il rumore dei missili e degli spari. Cronache di un mondo che pensavamo non esistesse più. Terri!cante e traumatico ritorno della e nella storia. Il tutto è reso ancora più surreale dai resoconti dei sopravvissuti, i quali – prontamente intervistati dalla Bbc – hanno affermato di essersi resi conto del pericolo non tanto quando hanno sentito gli allarmi antimissile (pura routine), ma quando i soldati di Õamås hanno spento la musica: «Hanno staccato l’elettricità e sono arrivati con le armi, sparando in ogni direzione» 1. Intuito il pericolo e avvistati i miliziani, i presenti riprendono l’accaduto con lo smartphone. Il video della tragedia diventa più importante della sopravvivenza. Nessuna constatazione morale. Semplice presa d’atto di una mutazione antropologica. Se posso raccontarlo, bene. Altrimenti tanto vale morire. Anni di retorica post-moderna ci hanno insegnato che siamo ciò che raccontiamo. Niente più, niente meno. «Universi Paralleli» è nome destinale. Nemmeno !loso! come David Lewis – autore di un famoso studio Sulla pluralità dei mondi – avrebbero avuto la fantasia di immaginare un rave sito al con!ne tra Israele e Striscia di Gaza. E nemmeno gli sceneggiatori della distopica serie tv Black Mirror avrebbero mai potuto immagina-
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re che, davanti a un attacco di Õamås, i giovani israeliani avrebbero avuto l’ardire di tirare fuori il telefono per riprendere – faccia a faccia con i palestinesi – le scorribande delle milizie 2. Il paradosso è che tutto questo è reale. E non è avvenuto in un universo parallelo. Premessa mai troppo scontata: nessuno dovrebbe morire così. Ovvio. Il punto è che questo tragico evento parla. Impone ri"essione. A partire da quella più banale: come è possibile organizzare un rave party a dieci chilometri dalla Striscia di Gaza? 2. Per provare a rispondere, iniziamo dal titolo: «Universi Paralleli». Il nome ha una strana e inquietante assonanza con l’Azione Parallela raccontata da Musil ne L’uomo senza qualità. Nel romanzo del genio austriaco, questa doveva essere una grande festa, una magni#ca esibizione in cui il paese di Cacania, allegoria per il morente impero austro-ungarico, avrebbe mostrato al mondo la sua grandezza. Piccolo problema: le vicende sono ambientate nel 1913, e l’Azione Parallela è programmata per l’anno successivo. Non ci sarà nessuna festa. Ci sarà una guerra mondiale, da cui l’impero uscirà scon#tto, umiliato, distrutto. Musil, che scrive tra gli anni Venti e Trenta, racconta con ironia la !nis Austriae e l’incapacità dei suoi abitanti di fare i conti con la realtà. Persi in un mondo, per l’appunto, parallelo. Nel paese di Cacania non ci sarebbe nulla da festeggiare. Eppur lo si fa. Come nota Furio Jesi, quella raccontata da Musil è in #n dei conti una «festa impossibile» 3, perché si scontra con la concreta situazione storica che dovrebbe ospitarla. Incommensurabilità tra idea e realtà. Di norma, questo è l’ingrediente principale delle tragedie 4. Davanti ai tragici fatti di Re‘im potremmo porci lo stesso problema di Musil. Forse in maniera ancora più radicale. A quaranta minuti di macchina da Gaza, infatti, la «festa impossibile» è inspiegabilmente diventata possibile. Per cercare di orientarci in questo universo parallelo e paradossale, ci conviene forse adottare due punti di vista differenti ma tra loro strettamente intrecciati: uno che riguarda lo spazio della festa, l’altro che riguarda il tempo della stessa. Iniziamo dal primo. La questione può, forse deve, essere espressa nella maniera più triviale possibile: cosa c’è da festeggiare a dieci chilometri da Gaza? Ovviamente nulla. Del resto era un rave party. Non c’era un’occasione da celebrare, una data cerchiata sul calendario da onorare. Era puro divertissement. Ma il problema non è (solo) questo. Il punto riguarda la condizione trascendentale di possibilità di ogni festa che, seguendo Károly Kerényi, potremmo esprimere in questi termini:
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2. I video sono facilmente reperibili in Rete. 3. F. JESI, Il tempo della festa, Milano 2023, Nottetempo, p. 70. 4. Cfr., «Il postulato Quaroni», editoriale di Limes, «La Cina resta un giallo», n. 9/2023, p. 7: «Disordine mondiale è quando sommi gli addendi e non hai totale. Capita se, decisore o analista, metti l’idea prima della realtà. Perché hai già pronta la cassettiera delle categorie assolute. Quindi prendi il caso, sillabi l’abracadabra che l’assegna a questo o quel compartimento, gli imponi un numeretto, chiudi a chiave e ti illudi di aver ordinato il caos perché hai elevato il caso a necessità».
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«Senza senso di festività non vi può essere festa» 5. Insomma, il "lologo ungherese ritiene che a distinguere l’evento festoso da altre cerimonie sia una certa atmosfera, una diffusa percezione di felicità, gioia e spensieratezza. Senza questo contesto di senso, non possono esserci feste nel senso proprio del termine. Se le cose stanno così, la questione diventa: come può svilupparsi un clima di festa a dieci chilometri da Gaza? Come può, per usare le parole di Heidegger, svilupparsi una tonalità emotiva in grado di generare un’atmosfera festosa? Le risposte possibili sono due: o stabiliamo che «Universi Paralleli» non era, in senso ontologico, una festa, o – ed è l’opzione più probabile – siamo obbligati ad ammettere che i partecipanti vivevano, per l’appunto, in un universo parallelo. In cui tutto ciò che appartiene a questo mondo è sospeso, messo tra parentesi in nome della festa stessa. Decenni di morti, occupazioni e attentati compresi. Come scrivono Horkheimer e Adorno, nelle feste «gli uomini si liberano dal pensiero, evadono dalla civiltà» 6. Ma il problema rimane, forse ancora più radicalmente. Come si può, a dieci chilometri da Gaza, solo pensare di «liberarsi dal pensiero» e di «evadere dalla civiltà»? Evidentemente bisogna creare un universo parallelo. Un mondo che non esiste. Ma come? Per provare a rispondere, analizziamo il piano temporale. Da questo punto di vista, la festa si con"gura ontologicamente come un «momento d’intermezzo», rottura del continuum spaziotemporale, «scheggia di eternità che era l’eternità» 7. Per i partecipanti, la festa è quell’istante in cui il tempo si ferma e scompaiono le preoccupazioni quotidiane: «Nulla e nessuno li minaccia, nulla li mette in fuga; vita e piacere sono assicurati. (…) L’atmosfera per il singolo è di rilassamento e non di scarica. (…) La festa è la meta» 8. Leggere queste parole di Canetti dopo una tragedia come quella avvenuta a «Universi Paralleli» ha un effetto senza dubbio straniante. Ma è esattamente a questa liberazione, a questa sensazione di sicurezza e di rilassamento che miravano gli organizzatori quando, nel promuovere l’evento, affermavano: «È arrivato il momento che la famiglia si riunisca! E quanto ci divertiremo» 9. «Universi Paralleli» è dunque sintomo disperato che manifesta «il voler danzare ad ogni costo anche se la musica, oggettivamente, non c’è» 10.
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5. K. KERÉNYI, La religione antica nelle sue forme fondamentali, Roma 1959, Astrolabio, p. 48. 6. M. HORKHEIMER, T. ADORNO, Dialettica dell’illuminismo, Torino 1966, Einaudi, p. 115. 7. F. JESI, op. cit., p. 93. 8. E. CANETTI, Massa e Potere, Milano 1972, Rizzoli, pp. 63-64. 9. F. GILLET, A. CUDDY, op. cit. 10. F. JESI, op. cit., p. 70.
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3. Su queste basi è più semplice comprendere perché i partecipanti al rave di Re‘im potessero riuscire a esperire un clima di festa. «Universi Paralleli» li inseriva infatti in una temporalità altra, che li sollevava dalla quotidianità e dai drammi della regione, caratterizzata da decenni di tensione e morte. In questo contesto, il senso di festività non nasce, come nelle feste tradizionali, dall’affermazione o dalla ripetizione di un qualcosa. Piuttosto, esso sgorga da un
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processo, forse inconsapevole, di negazione e rimozione della storia in corso e di quella passata. Nelle parole di Robert Callois, la festa – distruttrice della linea del tempo – «appare (…) come l’istante in cui l’ordine cosmico è soppresso, (…) in cui tutto deve accadere alla rovescia» 11. La festa è ribaltamento di tutto ciò che è ordinario. Negazione assoluta della realtà. Universo parallelo par excellence. Spaziotempo libero dalla fatica, dal lavoro e dalle preoccupazioni. Metaverso avanti lettera 12. Se tutto deve essere rovesciato, in nome di quell’eterno istante (ossimoro) di pace che la festa promette, allora si capisce il senso di organizzare un rave a dieci chilometri da Gaza, il giorno del cinquantesimo anniversario della guerra dello Yom Kippur, peraltro di Shabbat. A Re’im, infatti, non si stava celebrando nulla. I partecipanti – per lo più giovani israeliani provenienti dalle scuole pubbliche 13 e turisti – stavano semplicemente cercando di trasferirsi su «un piano di esistenza umana diverso da quello quotidiano» 14. Che, a dieci chilometri da Gaza, signi"ca di norma guerra. La festa assume dunque il senso di una negazione della realtà, di una sua messa fra parentesi. Il clima di festosità nasce dal ri"uto dei drammi del presente. Dalla volontà di non pensarci. Atteggiamento umano, troppo umano. Come scrive Huizinga, ciò che ci differenzia dagli altri animali non è solo l’essere dotati di logos, ma anche la capacità di giocare, di sospendere il meccanismo lineare e brutale dell’esistenza attraverso pratiche ludiche 15. Tutto vero. Il problema è che poi la realtà torna a farsi sentire. E alle volte lo fa tragicamente. Come dichiara un sopravvissuto alla strage di Re’im: «Siamo passati dal paradiso all’inferno in un secondo» 16. 4. Viviamo in una condizione davvero particolare. Nel bel mezzo della Guerra Grande, forse Grandissima, vi è la diffusa sensazione che un’enorme parte delle giovani generazioni occidentali (o presunte tali) preferisca negare la realtà piuttosto che affrontarla. Coadiuvata anche dallo sforzo di qualcuno che cerca strumentalmente di esasperare questo atteggiamento di disinteresse, sperando di avere così campo libero per raggiungere i suoi obiettivi. Per informazioni, citofonare Xi Jinping 17.
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11. R. CALLOIS, «Théorie de la fête», Nouvelle Revue Française, n. 1/1940, p. 49. 12. Da questo punto di vista, non c’è differenza tra la trasformazione della vita in un gioco di ruolo che avviene nel Metaverso e l’esperienza straniante della festa. Al centro c’è la rimozione della brutalità e della fatica dell’esistenza. Cfr. G. BALDUCCI, La vita quotidiana come gioco di ruolo, Milano 2021, Mimesis; G. DE RUVO, «Il virus del Metaverso. Se l’America fugge dall’inferno della storia», Limes, «L’altro virus», n. 1/2022, pp. 41-46. 13. Le scuole pubbliche sono fondamentalmente laiche e occidentaleggianti, molto diverse da quelle religiose o ultraortodosse. Su questo, cfr. G. DE RUVO, «Tante scuole per tante tribù», Limes, «Israele contro Israele», n. 3/2023. 14. K. KERÉNYI, op. cit., p. 48 15. J. HUIZINGA, Homo Ludens, Torino 2020, Einaudi. 16. «I sopravvissuti al rave di Shemini Atzeret», Rai News, 9/10/2023. 17. G. DE RUVO, «Geopolitica della bassezza: TikTok e la post-storicizzazione degli adolescenti americani», Limes, «La riscoperta del futuro», n. 10/2021, pp. 139-144.
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18. Addirittura, l’evento di Re‘im veniva venduto come un «viaggio nell’unità e nell’amore».
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Il punto, però, è che questa negazione della realtà, questo rifugio nell’ideale, nel gioco, nel Metaverso o nella festa – tutti universi paralleli – non porta in alcun modo a ridurre le tensioni o a scongiurare il rischio, sempre più prossimo, di una guerra mondiale non più «a pezzi». Beninteso: ciò non signi!ca che i giovani debbano correre alle armi, esaltarsi per fare la guerra e magari diventare dei fanatici. Questa sarebbe solo l’altra faccia della medaglia: in geopolitica, procedere per indiscutibili princìpi ideologici signi!ca comunque rifugiarsi in un universo parallelo. La vittima, sia che la si adegui ai propri ideali, sia che la si ignori, è sempre la realtà. Il problema è che il mondo è cambiato e bisogna farci i conti. Pensare di fuggirlo in feste e Metaversi signi!ca rinunciare anche solo a tentare di governare la trasformazione epocale che stiamo vivendo, evitando che il mondo !nisca completamente fuori asse; signi!ca anche rassegnarsi all’imperitura egemonia di Caos, rinfrancati dalla coerenza interna dei nostri princìpi ideologici o convinti di promuovere la pace e l’amicizia organizzando un rave a Gaza, come qualcuno ha dichiarato 18. Medicine per salvarsi l’anima. Spesso semplice malafede. Ovviamente, ciò non signi!ca che i morti di «Universi Paralleli» abbiano delle responsabilità particolari. Al contrario, sono vittime innocenti. Sono il sintomo di un mondo malato mentalmente, che non è più in grado di cogliere le differenze tra pace e guerra, tra festa e dramma, tra musica techno e spari. E che cerca sistematicamente di rimuovere l’esistenza di tutto ciò che è negativo. «Non mi piace quindi non esiste»: questa è la cifra del nostro tempo, conclusione a cui nemmeno il più radicale degli idealisti o dei soggettivisti sarebbe mai arrivato. La strage di Re‘im squarcia de!nitivamente il comodo velo di Maya che ci siamo messi davanti agli occhi. E ci obbliga a fare i conti con il tragico passaggio d’epoca che stiamo vivendo. La ricreazione, purtroppo, è !nita. E gli universi paralleli che ci siamo costruiti stanno implodendo. Forse è arrivato il momento di abbandonarli. Prima che, come per i ragazzi morti a Re‘im o per gli abitanti della Cacania descritti da Musil, essi si trasformino nella nostra tomba. Fisica o spirituale ha poca importanza.
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PER UNIRE ISRAELE È SERVITO H. AMAˉ S
di
Anna Maria COSSIGA
Prima dello scoppio della guerra, il paese era a un passo dal collasso interno. Le tensioni tra laici e religiosi esistono da sempre, ma mai il popolo israeliano era stato così diviso. I fatti del 7 ottobre hanno compattato la popolazione. La profezia di Grossman.
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1. «Israel 2022 International Religious Freedom Report», United States Department of State, maggio 2022.
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1. OPO IL FEROCE E INASPETTATO ATTACCO di Õamås dello scorso 7 ottobre, uno degli slogan usati in supporto allo Stato ebraico è stato «Am Yisrael chai» («il popolo di Israele vive»). Ed è effettivamente così. Il popolo d’Israele vive e vivrà, come ha continuato a vivere dopo la Shoah. Da 75 anni, infatti, gli israeliani vivono in uno Stato indipendente, ebraico e democratico. E nonostante guerre e terribili attacchi terroristici non hanno alcuna intenzione di abbandonarlo. La questione, piuttosto, è chiedersi cosa diventerà il popolo israeliano dopo questa aggressione. Negli ultimi mesi, tra i cittadini dello Stato ebraico sono (ri)emerse fratture profonde. La causa è stata la riforma giudiziaria voluta dal governo Netanyahu, che aveva l’obiettivo di indebolire la Corte suprema. Coloro che si opponevano a tale provvedimento ritenevano che esso fosse pericoloso per la democrazia israeliana, dal momento che la privava di un contrappeso al potere del premier. Per i sostenitori di quest’ultimo, invece, diminuire lo strapotere della Corte avrebbe permesso di rendere più forte la democrazia. La conseguenza di questo dibattito sono state 39 settimane di manifestazioni antigovernative, interrotte unicamente dall’aggressione di Õamås. La riforma giudiziaria, però, è solo la punta dell’iceberg di un profondissimo con!itto identitario che coinvolge le diverse componenti della società israeliana. Molto spesso, le fratture tra laici, sionisti religiosi e haredim (ultraortodossi) vengono infatti ignorate, considerate super"cialmente o, soprattutto in tempi di guerra, nascoste. In base ai dati del 2022, il 58% degli ebrei israeliani dichiara di non appartenere ad alcun gruppo religioso, il 20% si dichiara «sionista ortodosso», l’11% ultraortodosso, il 5% riformato, il 5% conservatore e il 2% nazionalista ortodosso 1. La mag-
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gioranza della popolazione ebraica di Israele – che conta più di 7 milioni di persone – non sembra dunque particolarmente osservante. Sionisti religiosi e haredim, poi, sono evidentemente minoritari. Questi dati paiono confermati dalla grande partecipazione alle manifestazioni contro la riforma giudiziaria, dal momento che i sostenitori della riforma sono proprio le persone più religiose. Il punto è che, oltre all’opposizione politica al governo Netanyahu, in queste manifestazioni c’era in gioco qualcosa di più profondo, che riguarda l’essenza stessa dello Stato d’Israele. Come è stato notato da un sondaggio dell’Israel Democracy Institute, i maggiori sostenitori della riforma non sono semplicemente i credenti, ma quelle comunità religiose che si scagliano continuamente contro la comunità Lgbtqia+ e contro i cosiddetti «non ebrei», ovvero i riformati, i conservatori e i non ortodossi 2. La Corte suprema, infatti, si è più volte schierata dalla parte di queste categorie, annullando svariate leggi che volevano lederne i diritti. Da questo punto di vista, gli accordi tra il Likud e gli altri partiti di governo lasciavano pochi dubbi sulla volontà di colpire le comunità ebraiche non ortodosse, non eterosessuali e arabe. I rappresentanti di Sionismo religioso, per esempio, chiedevano una legge che permettesse ad albergatori, negozianti e medici di non prestare servizi a determinate persone «per motivi religiosi». Questa proposta ha trovato l’opposizione del presidente Herzog e dello stesso Netanyahu 3, il quale non si è però fatto problemi ad accordarsi con i sionisti religiosi per formare un governo, il quale ha più volte portato avanti politiche di tal genere. Infatti, nel marzo di quest’anno la Knesset ha approvato una legge in base alla quale gli ospedali pubblici possono proibire che cibi lievitati siano introdotti nei loro locali prima della Pasqua ebraica. La halakhah (la legge ebraica) vieta infatti la consumazione di lievito durante quelle giornate di festa, in ricordo del pane azzimo che gli ebrei furono costretti a cuocere in fretta mentre lasciavano l’Egitto. La legge è evidentemente discriminatoria per i non ebrei, ovvero per gli arabi, e per i non religiosi. Per rendere il boccone meno amaro, il governo ha deciso che la normativa può essere applicata solo «dopo aver considerato altre alternative e dopo aver tenuto conto dei diritti e delle necessità dei pazienti». Almeno, aggiunge ironicamente il quotidiano moderato The Times of Israel, la legge «non permette esplicitamente alle guardie di sicurezza di ispezionare le borse dei pazienti e dei visitatori» 4. Ad agosto, invece, alcuni parlamentari ultraortodossi hanno proposto una legge fondamentale dal titolo «Torah». In base a essa, lo studio del testo sacro nelle yeshivot – ovvero nelle scuole religiose centrate sullo studio della Bibbia – sarebbe diventato equivalente al servizio militare. La proposta è stata inserita nell’agenda
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2. I. YAKIR, «Religiosity Major In"uence on Attitude Toward Judicial Overhaul», Israel Democracy Institute, 12/6/2023. 3. «Netanyahu’s Far-right Allies: Doctors Could Refuse Treatment on Religious Grounds, Hotels Can Refuse LGBT Guests», Haaretz, 25/12/2022. 4. «Knesset passes “Hametz Law” allowing hospitals to ban leavened products on Passover», The Times of Israel, 28/3/23.
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dei lavori della Knesset, ma la discussione è stata rimandata perché «non era il momento giusto» 5. Prima che si insediasse, il governo aveva anche saggiato la possibilità di modi"care la legge del ritorno. Tale riforma avrebbe generato un vero e proprio terremoto politico, coinvolgendo anche la diaspora. A oggi, la legge del ritorno garantisce il diritto immediato alla cittadinanza israeliana a chiunque abbia nonni e padre ebrei 6. Il punto è che secondo la legge religiosa, su cui si basava la riforma, solo i "gli di madre ebrea e chi si è convertito all’ortodossia potevano essere considerati «veri ebrei». Certo, questa proposta non è mai arrivata alla Knesset. Ma il problema è che anch’essa faceva parte degli accordi tra il Likud e i suoi futuri alleati di governo.
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5. «The struggle against dictatorship and a Torah State», Hiddush, 1/8/2023. 6. «Plan to Change Law of Return Could Make Millions Ineligible for Aliyah», Haaretz, 13/11/2022. 7. «Fights break out over gender-segregated Yom Kippur prayers», The Jerusalem Post, 5/9/23. 8. S. HENDRIX, «Israel Secular-Religious divisions #are during holiday period», The Washington Post, 2/10/2023. 9. «How a prayer meeting split Israeli Jews on Their Holiest Day», The New York Times, 28/9/23.
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2. La frattura tra laici e religiosi è de"nitivamente esplosa in occasione della ricorrenza dello Yom Kippur. Il giorno dell’Espiazione è considerato il più sacro e solenne del calendario ebraico, ed è molto sentito anche tra i non osservanti. Si tratta di una giornata di digiuno che dovrebbe essere dedicata al pentimento. Ecco, quest’anno gli israeliani hanno preferito onorare lo Yom Kippur con una vera e propria rissa. In occasione di un raduno religioso non autorizzato a Tel Aviv, i fedeli ultraortodssi hanno infatti innalzato una barriera per dividere uomini e donne, come richiede la halakhah in queste occasioni. Il problema è che la legge dello Stato impedisce azioni di questo genere nei luoghi pubblici. Alcuni cittadini laici hanno dunque abbattuto la barriera, e si sono veri"cati dei tafferugli. La reazione del governo non si è fatta attendere. Netanyahu ha dichiarato che, con sua grande sorpresa, manifestanti ebrei «di sinistra» – ovvero i laici – avevano osato attaccare altri ebrei in preghiera nel «giorno più sacro». Numerosi sono stati i commenti di altri membri del governo, che hanno accusato gli hooligans della sinistra di aver esecrato il giorno più santo dell’ebraismo, paragonandoli a chi brucia le stalle 7. Il rabbino capo sefardita Yitzhak Yosef è stato ancora più duro. Riferendosi ai laici, egli ha affermato: «Se una persona mangia cibo non kosher, il cervello gli diventa stupido, non capisce, non ci arriva» 8. Yair Lapid, leader del partito laico Yesh ‘Atid, ha invece espresso la versione «degli altri ebrei» in maniera altrettanto dura: «Gli attivisti religiosi hanno deciso di muoverci guerra». Solo il presidente Herzog, unico leader israeliano ancora lucido, pare aver capito che le divisioni sociali «sono un vero pericolo per la società e la sicurezza dello Stato di Israele» 9. Lette dopo l’attacco di Õamås del 7 ottobre, queste parole appaiono profetiche. Ha dunque ragione il New York Times ad affermare che il 2023 è stato l’anno in cui la coesione sociale di Israele è de"nitivamente collassata. La disputa tra laici
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e religiosi nel giorno di Yom Kippur «è stata l’ultimo esempio di come la campagna di polarizzazione portata avanti dal governo in carica per ridurre il potere della Corte suprema israeliana si sia evoluta in una disputa più ampia ed esistenziale sul ruolo dell’ebraismo nella vita pubblica dello Stato ebraico» 10. Come nota anche il quindicesimo rapporto «Religion and State Index», il 70% degli israeliani adulti ritiene infatti che la principale linea di faglia che attraversa il paese sia quella tra ultraortodossi e laici, a pari merito con quella tra destra e sinistra. La pubblicazione – affermano gli autori – dimostra ancora una volta quanto le posizioni politiche e religiose della maggioranza degli ebrei «siano lontane da quelle dei politici che dicono di rappresentarli» 11. 3. La gravità della crisi interna israeliana impone profonda ricognizione storica. Innanzitutto, è fondamentale sottolineare che senza il sionismo Israele non esisterebbe. Tuttavia, sin dai suoi esordi, il movimento politico fondato da Herzl ha dovuto fare i conti con gli ebrei religiosi. Questi ultimi consideravano il sionismo un movimento blasfemo, dal momento che solo l’arrivo del Messia avrebbe donato al popolo d’Israele la legittimità per creare un’entità politica indipendente. Una parte dell’ortodossia ebraica, al contrario, vide nel sionismo l’inizio dei tempi messianici. Ciò che bisognava fare era dunque appoggiare gli «atei» e dare vita allo Stato. Col tempo si sarebbe provveduto a trasformare Israele in un paese veramente ebraico, governato dalla halakhah, la legge della Torah e del Talmud. È questa l’idea fondamentale del sionismo religioso che, rivista e corretta in modo estremista, è stata ripresa dall’attuale partito guidato da Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze. Tale posizione è sostenuta pure da Potere ebraico, capeggiato da Itamar Ben-Gvir, ministro per la Sicurezza nazionale. Anche all’interno del sionismo laico, però, esistevano divisioni. La più evidente era quella tra revisionisti e socialisti, da cui derivano rispettivamente il Likud e il Partito laburista. Va comunque ricordato, per quanto ai sionisti laici di allora e di oggi non piaccia sentirselo dire, che anche le loro idee fondamentali derivano dall’ebraismo che, in quanto religione e tradizione culturale, non è dogmatico, non ha una gerarchia centralizzata ed è invece in continua evoluzione. Se, nella diaspora, i problemi tra laici e ortodossi erano rimasti a livello di discussione teorica, una volta fondato lo Stato la situazione è cambiata. L’essere «ospiti» in un paese straniero, dove spesso si è perseguitati e massacrati, rende infatti la coesione interna più facile. Avere un proprio territorio, invece, cambia totalmente le carte in tavola. Ovviamente, la prima questione che il neonato Stato d’Israele doveva affrontare era quella che riguardava il rapporto tra politica e religione. Il sionismo laico, infatti, aveva ampiamente basato la sua narrazione e i suoi simboli sulla tradizione ebraica. Anche la scelta della Palestina come sede della nuova nazione poggiava
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10. Ibidem. 11. «New Religion and State Index 2023: Acute Tension Between ultra-Orthodox and Secular Jews», Hiddush, 13/9/2023.
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PIANO SIONISTA PER LA PALESTINA
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(1919) Sidone
Damasco
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Banias
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Tzfat ‘Akko (Acri) Haifa
Tiberiade Nazaret Beit Shean Nablus
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Gerico Betlemme Gaza
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GIORDANIA
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ARABIA SAUDITA
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su basi bibliche. I padri fondatori di Israele, però, non erano religiosi. È per questo che, ancor prima della fondazione dello Stato, il futuro primo ministro David Ben-Gurion – laico e socialista – dovette raggiungere un compromesso con gli haredim. Questi, per quanto continuassero a essere degli strenui avversari del sionismo, erano infatti presenti in gran numero nello Ha-Yishuv (la comunità ebraica che abitava in Palestina prima del 1948) e sarebbero diventati a tutti gli effetti cittadini del nuovo Stato. Ben-Gurion, dunque, doveva cercare una mediazione. Nel 1947, un anno prima della nascita uf!ciale di Israele, si raggiunse dunque il cosiddetto accordo dello status quo. Le feste religiose vennero riconosciute come feste nazionali e lo shabbat come giornata di riposo settimanale; le regole alimentari ebraiche, la kasherut, sarebbero state rispettate nelle strutture statali e pubbliche; i matrimoni e i divorzi sarebbero avvenuti in base alle norme dei tribunali rabbinici (o a quelle del cristianesimo e dell’islam, se i contraenti fossero stati fedeli di quelle religioni); le scuole religiose avrebbero scelto il proprio curriculum, basato su una visione religiosa del mondo e della vita. A queste concessioni si aggiunsero l’esenzione degli haredim dal servizio militare – questione che continua a essere aspramente discussa tutt’oggi – e le sovvenzioni statali destinate a coloro che avrebbero passato la vita nelle yeshivot a studiare il Talmud e a pregare 12. In !n dei conti, i cittadini antisionisti raggiunsero buona parte dei loro obiettivi, in#uenzando profondamente il futuro di uno Stato che, secondo loro, non sarebbe nemmeno dovuto esistere. Oltretutto, gli ultraortodossi credevano che Israele fosse «un esperimento a breve termine» e Ben-Gurion era convinto che gli haredim sarebbero scomparsi 13. Mai previsioni furono più errate. 4. Il passato persiste sempre nel presente. E, negli ultimi anni, è stata proprio la storica divisione tra laici e religiosi a portare lo Stato israeliano a un passo dal collasso. Dopo il 7 ottobre, però, tutto è cambiato. È scoppiata una guerra diversa dalle altre. Israele è stato attaccato via terra, via mare e via cielo dalla Striscia di Gaza. Più di mille miliziani di Õamås sono penetrati in territorio israeliano, prendendo più di 200 ostaggi e trucidando ferocemente i civili che vivevano sul con!ne. Anziani, donne, bambini e neonati compresi. Il movimento islamista che vuole la liberazione della Palestina e intende distruggere «l’entità sionista» non aveva mai osato tanto. E non aveva mai ottenuto un simile risultato. I servizi di intelligence e quelli di sicurezza dello Stato ebraico sono stati presi completamente alla sprovvista. Israele è attonito, ferito e spaventato. Il 7 ottobre israeliano viene già paragonato all’11 settembre americano. E iniziano anche a riemergere i ricordi dei pogrom e della Shoah. Am Yisrael rischia di essere nuovamente distrutto e di perdere il suo tanto agognato Stato.
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12. D. RUBINSTEIN, «Ultraortodossi contro ultralaici, la ferita d’Israele», Limes, n. 1/2012, «Protocollo Iran», pp. 91-96. 13. P. GOLDSCHMIDT, «Religion vs. state: Israel must pay attention to the Hanukkah story», The Jerusalem Post, 30/12/2022.
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14. Il romanzo utopico pubblicato da Theodor Herzl nel 1902 si intitolava Altneuland, «Vecchia-nuova terra», e vi si descrive l’ideale Stato di Israele in Palestina. 15. «Poll: 80% of Israelis say Netanyahu must publicly take responsibility for Oct. 7 failures», The Times of Israel, 20/10/2023. 16. B-H. LÉVY, «Nei giorni dell’orrore Israele ha ritrovato l’unità smarrita», la Repubblica, 19/10/2023. 17. A. HEIMANN, «Mobilizing the reserves. The beautiful side of the State of Israel», Institute for National Security Studies, 15/10/2023.
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La ritorsione contro Õamås è dunque necessaria. L’Olocausto non può e non deve accadere di nuovo. Gli ebrei uccisi dagli islamisti non sono 6 milioni, come quelli sterminati dai tedeschi. Tuttavia, dimenticare la Shoah è impossibile. I nemici degli ebrei – Õamås, Õizbullåh e Iran – vengono infatti percepiti come una reincarnazione dei nazisti. La guerra e il traumatico ricordo dell’Olocausto stanno creando un nuovo e forte popolo ebraico. Gli ebrei, come voleva il sionismo delle origini, si stanno unendo. Coloro che hanno lottato per riconquistare la «vecchia-nuova patria» 14 non hanno alcuna intenzione di morire, e men che meno di essere condotti al macello come i loro fratelli periti nella Shoah. È questa la narrazione che sta unendo tutto il popolo d’Israele. Una narrazione forse incomprensibile per chi non è ebreo, per chi non ha subito le persecuzioni, i pogrom e la Shoah. Davanti al riemergere di questi traumi, la popolazione sta dunque mettendo tra parentesi le differenze e le divisioni. Gli israeliani si stanno stringendo attorno a Netanyahu, comandante in capo disprezzato "no al giorno prima dell’attacco di Õamås. In molti dicono che la responsabilità della guerra è ascrivibile al premier e al suo disastroso governo. Tuttavia, se Ronen Bar e Herzl Halevi – a capo rispettivamente dell’intelligence interna e delle Forze di difesa israeliane – ammettono le proprie colpe per non aver saputo prevedere l’attacco, Netanyahu resta invece silenzioso, nonostante l’80% dei cittadini gli chieda di assumersi le sue responsabilità 15. Ma i conti si faranno più avanti, a vittoria raggiunta. Le parole di Bernard-Henry Lévy, "losofo francese ebreo ma non israeliano, certi"cano l’unità del popolo d’Israele. Nel paese, in cui si è recato subito dopo la carne"cina di Õamås, egli vede regnare «un’atmosfera di fraternità che contrasta con gli ultimi mesi trascorsi sull’orlo di una guerra civile. Conta il compito sacro di andare a recuperare, fra le case della zona Ovest, vicine alla barriera di sicurezza in cui gli aggressori hanno aperto una breccia, un pezzo di carne annerita, un piede intatto rimasto in"lato nella scarpa, una traccia di Dna, una macchia di sangue» 16. La rinnovata unità del popolo d’Israele emerge anche da molte altre testimonianze. Chi manifestava contro la riforma della giustizia, oggi collabora con gli esperti di high-tech per localizzare gli ostaggi; i cittadini scampati alle atrocità dei miliziani di Õamås aprono le proprie case ai concittadini sfollati, fornendo cibo, acqua e abiti a chi è rimasto senza niente; trecentomila riservisti, compresi gli stranieri (anche italiani) e quelli che si erano ri"utati di fare rapporto in protesta contro il governo, si sono presentati immediatamente per unirsi alle truppe di leva 17. Non poteva essere altrimenti. L’unità nazionale è una naturale conseguenza della guer-
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ra. In Israele ciò è ancora più evidente, perché la sua storia è stata da sempre caratterizzata da una feroce lotta per la sopravvivenza. Tuttavia, nella ritrovata unità israeliana c’è ancora, almeno a livello politico e ideologico, una piccola crepa. Yair Lapid non è voluto entrare a far parte del governo di emergenza istituito da Netanyahu e da Benny Gantz, leader di Unità nazionale e dell’opposizione. Lapid ha infatti affermato che non accetterà di far parte di un esecutivo in cui sono presenti «estremisti» come Smotrich e Ben-Gvir 18. 5. In molti si domandano come sarà Israele dopo questa guerra. Se lo è chiesto anche il grande scrittore e intellettuale israeliano David Grossman, attivista per la pace che ha perso un "glio nella guerra in Libano del 2006. In un commento comparso sia su Repubblica sia sul quotidiano israeliano The Times of Israel, Grossman si lancia in una previsione: «Israele dopo la guerra sarà molto più di destra, militante e anche razzista. La guerra che le è stata imposta imprime nella sua coscienza gli stereotipi e i pregiudizi più estremi e odiosi che de"niscono – e continueranno a de"nire in modo sempre più profondo – la "sionomia dell’identità israeliana, identità che d’ora in poi includerà anche il trauma dell’ottobre 2023. È il carattere della politica di Israele, la polarizzazione, la spaccatura interna» 19. Questa è un’ipotesi funesta, e Israele dovrebbe fare di tutto af"nché non si realizzi. Del resto, anche i palestinesi, come le popolazioni arabe e musulmane, potrebbero sviluppare dei pregiudizi speculari a quelli degli israeliani, allontanando ancora di più la pace. Il mondo intero deve dunque evitare un bagno di sangue, le cui vittime saranno in primis i civili palestinesi di Gaza e i giovani soldati israeliani. Se non ci riuscirà, il rischio è quello di cadere in un baratro di odio reciproco e di continue vendette.
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18. C. KELLER-LYNN, «Lapid accuses government of “unpardonable failure”, says won’t join emergency government», The Times of Israel, 12/10/2023. 19. D. GROSSMAN, «Vivo l’incubo della mia Israele tradita dalla politica», la Repubblica, 12/10/2023.
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di
Cesare PAVONCELLO
Il trauma del 7 ottobre ha risvegliato la solidarietà fra gli israeliani, dopo un anno di inedite divisioni interne. Perché i cittadini dello Stato ebraico sono estranei al Medio Oriente e intendono restarlo. Le riforme si devono fare, ma in pace e concordia.
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RA I TANTI SLOGAN USATI DALLE
propagande arabe nei decenni del con!itto israelo-palestinese, uno contiene senz’altro un nucleo di verità: «Israele è un’entità estranea ai popoli che abitano la regione mediorientale». Estraneità che trova espressione in una moltitudine di aspetti. Mentalità, valori sociali ed etici così diversi sono all’origine degli enormi divari tra Israele e i paesi arabi che lo circondano – soprattutto quelli più prossimi. Alcuni esempi in ordine sparso: la centralità data alla istruzione popolare e alla ricerca accademica, il privilegio riservato a determinati settori dell’economia, il generale livello di vita della popolazione, la sanità pubblica, le infrastrutture industriali e civili, ma anche e non meno signi"cativo l’approccio del singolo alle istituzioni, ai diritti civili, alle minoranze, alle donne e alla comunità Lgbt. Questo e tanto altro trova espressione in codici comportamentali diversi. Ciò che è accettato e normale per la società israeliana non lo è per i suoi vicini (e per"no per i propri cittadini arabi); quello che è morale nella vita privata per l’uno, è immorale per l’altro; atti contro i nemici considerati dall’uno accettabili sono per l’altro dei crimini; quello che per l’uno è scon"tta per l’altro è vittoria. Meriterebbero forse un’analisi più approfondita anche le percezioni dello spazio geopolitico e del tempo storico, che in!uiscono sulle radici profonde del con!itto. Il ri"uto della modernità da parte dei gruppi jihadisti comprende anche il rigetto dei princìpi che sono alla base della divisione del mondo in Stati e pone invece l’islam, la sua diffusione e la lotta agli infedeli come motivo con!ittuale principale. E poi il tempo. Mi vengono in mente le dichiarazioni di tanti anni fa dei palestinesi nei confronti di Israele (ma anche di altri leader del mondo arabo nei confronti dell’Occidente), quando sostenevano che se non dalla lotta armata, la vittoria sarebbe venuta dall’utero delle proprie donne. Una dichiarazione di intenti a lungo termine che allora
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poteva essere percepita come parte di una certa dialettica, ma che oggi, soprattutto in Occidente, potrebbe avere valenze molto più concrete e reali. Israele è culturalmente parte del mondo occidentale e quest’ultimo si aspetta – di fatto pretende – che nell’affrontare il con!itto con i palestinesi lo Stato ebraico gli si allinei, rispettando i princìpi che ci accomunano. Israele, come il mondo occidentale, si trova prigioniero di incomprensioni e dissonanze che talvolta congelano ogni progresso, altre volte lo mettono nei guai e in alcuni casi portano a fallimenti. In molti si chiedono – e lo fanno da decenni – se non sia stupido continuare a cercare la soluzione quando ognuna delle due parti è ancorata a valori, codici di comportamento e mentalità che l’altro non capisce. Non si può misurare una distanza in litri o in chilogrammi. Eppoi il lungo e sanguinoso con!itto fra Israele e palestinesi non riguarda solo i due popoli ma è stato storicamente, e lo è tuttora, uno strumento di manipolazione e pressione sia all’interno delle due comunità sia nell’ambito di dinamiche internazionali molto più ampie. La sua soluzione dovrebbe superare dif"coltà e barriere divenute insormontabili grazie all’alacre e ef"cace lavoro degli estremisti delle due parti. Nella lunga e tragica attesa che le parti trovino un comune denominatore e riescano a neutralizzare i propri estremisti, il sangue continua a scorrere.
Antefatto Il 7 ottobre 2023 era sabato. Un sabato in cui cadeva una delle festività ebraiche più sentite e amate – Simchat Torah – durante la quale la lettura della Torah (il Pentateuco, che è diviso in porzioni settimanali lette ogni sabato nel corso dell’anno) viene festosamente completata e immediatamente ripresa dal suo inizio leggendo le prime frasi del libro della Genesi. Un rito simbolico che vuole sottolineare la continuità della vita comunitaria. Ma quel mattino, in oltre venti villaggi rurali, kibbutzim, cittadine e stazioni di polizia di tutta la zona che con"na con la Striscia di Gaza, la vita di almeno mille e trecento persone, in gran parte civili, è stata brutalmente stroncata. Le indicibili violenze compiute sulle vittime, la cattura di una quantità ancora imprecisata di ostaggi – il loro numero appurato a oggi è di oltre duecento – e la mancanza di informazioni sulla loro sorte, non permette ancora di stabilire un bilancio de"nitivo.
Fatto
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Alle 6.34 di sabato 7 ottobre, senza alcun motivo o preavviso, è iniziato un massiccio lancio di razzi da Gaza verso moltissime località d’Israele – dal Sud "no al Nord – che ha provocato diverse vittime e feriti. Nel frattempo, un drone armato è riuscito a far cadere una bomba all’interno dell’impianto israeliano che controlla il sistema di sorveglianza della recinzione fra il territorio della Striscia e quello israeliano neutralizzando, almeno in parte, il monitoraggio in tempo reale del con"ne. Negli ultimi anni il peso maggiore nel controllo di questo con"ne era stato dato
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alla tecnologia, preferita all’occhio e alla presenza !sica di personale. La gestione di questo controllo era passata principalmente a Tzahal, riducendo al minimo la presenza difensiva attiva della sorveglianza indipendente degli insediamenti. Tornando alla mattina di sabato 7 ottobre, mentre l’attenzione era rivolta all’attacco missilistico, gruppi di terroristi – favoriti anche dal non funzionamento dei sistemi di sorveglianza – sono penetrati a sorpresa e in contemporanea in una ventina di località all’interno dei con!ni di Israele, via mare (sommozzatori e gommoni), cielo (deltaplani a motore e parapendii) e terra (da varchi creati nella recinzione). Un numero ancora non chiaro di terroristi (le stime sono di circa duemila) in moto e trasportati da jeep e camioncini ha fatto irruzione negli insediamenti civili, in avamposti militari e stazioni di polizia iniziando un massacro che solo in alcuni casi ha incontrato una seria resistenza. Le immagini diffuse quattro giorni dopo, generalmente sfuocate per evitare il riconoscimento delle vittime, hanno svelato tutta la barbarie di quanto è avvenuto in quelle ore. Probabilmente la mattanza più signi!cativa è avvenuta nel festival musicale in corso vicino al kibbutz Re‘im, dove si accalcavano circa quattromila giovani e dove la caccia all’uomo ha lasciato sul terreno centinaia di cadaveri. Lo shock dell’esercito israeliano, come dell’intera popolazione di Israele, ha bloccato e reso confusa la reazione e l’organizzazione per lunghe ore. Per riprendere il controllo di tutti gli insediamenti sono occorsi quasi due giorni.
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L’operazione di Õamås non può essere il risultato della piani!cazione di un «normale» attacco terroristico. È frutto di un piano che parte certamente da lontano (Õamås parla di due anni) e forse anche nella distanza dal luogo in cui poi è stato attuato. Sono in molti a puntare il dito su qualche coinvolgimento – non è chiaro a quale livello – di Teheran. Le azioni diversive di Õamås sono riuscite a ingannare tutti, sia sul piano militare sia su quello politico. Le ondate di protesta sul con!ne sono state metabolizzate dall’intelligence israeliana (e non solo da quella israeliana) come un fatto di routine. Ma l’inganno maggiore, quello che richiederà un riesame profondo e che segnerà probabilmente una netta linea fra il prima e il dopo, riguarda la percezione che Õamås era riuscito a trasmettere di sé stesso nelle menti dei propri nemici – e forse per!no di molti amici. Aveva convinto di non essere interessato a entrare in con"itto diretto con Israele e di muovere il proprio baricentro di azione dal terrorismo e dalla lotta armata alla funzione di autorità governativa più responsabile nella gestione della vita quotidiana dei due milioni di persone che vivono nella Striscia di Gaza. Anche osservatori attenti – non solo l’esercito israeliano e la sua intelligence – avevano fatto propria l’idea che le azioni armate di Õamås stessero diventando sempre più uno strumento funzionale al perseguimento di obiettivi politici ed economici (denaro del Qatar, !nanziamenti umanitari, riconquista di una certa legittimità internazionale eccetera) che non parte di un piano di lotta armata
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Il grande inganno e la lunga preparazione
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contro Israele con obiettivi che potessero metterlo in allarme. Insomma Õamås non era percepito come minaccia strategica, anche se era da tenere d’occhio il suo progressivo avvicinamento all’Iran che ne ha fatto un proprio strumento nella regione, e che insieme a Õizbullåh al Nord viene usato da Teheran come pedina nello scacchiere mediorientale per aumentare all’occorrenza le pressioni su Israele, Stati Uniti e per!no su altri attori dell’area.
Un’occasione imperdibile
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Tutti sanno che l’ultimo anno è stato complicato per Israele. Nel dicembre 2022, dopo le ultime elezioni, si è impiantato un nuovo governo. Una coalizione di compagini politiche in cui l’in"uenza e la dipendenza del Likud – il partito centrale della maggioranza – da formazioni ultranazionaliste era determinante in termini di sopravvivenza del governo e in cui la presenza di determinati personaggi politici – primo fra tutti Itamar Ben-Gvir – aveva destato preoccupazione e messo a disagio per!no alcuni rappresentanti della coalizione. In tempo brevissimo è stato presentato dal governo un imponente pacchetto di riforme che ha generato una profondissima spaccatura all’interno della società e una protesta popolare senza precedenti in Israele. Gli oppositori hanno sostenuto !n dall’inizio che non si trattasse in realtà di riforme ma di una vera e propria rivoluzione contro il sistema giuridico. E contro diverse componenti del delicato tessuto democratico di Israele. Uno sbilanciamento drammatico degli equilibri fra i tre poteri – esecutivo, legislativo e giudiziario – che secondo gli oppositori ha il potenziale per mettere in serio pericolo la democrazia israeliana. E come se le tensioni del presente non fossero suf!cienti, insieme sono state evocate tensioni del passato. L’opinione pubblica si è trovata a confrontarsi non solo con le divergenze sulle varie riforme, ma anche sulle ingiustizie storiche dei primi governi d’Israele verso le immigrazioni di popolazioni sefardite dal Nord Africa, sulle tensioni fra il settore ultraortodosso e quello laico e sulla natura prioritaria dello Stato: democratico ed ebraico oppure ebraico e democratico? Lo scoppio della guerra, il 7 ottobre, ha interrotto l’incredibile sequenza di 40 settimane di manifestazioni in cui ogni sabato sera – ma anche in altri grandi incontri di massa in altri giorni e circostanze – centinaia di migliaia di israeliani hanno mantenuto viva la protesta attirando un pubblico sempre più ampio, coinvolgendo anche una parte signi!cativa di chi aveva votato i partiti di governo. Un dissenso che è riuscito a trovare un comune denominatore piuttosto ampio (circa il 64% della popolazione secondo i più autorevoli istituti di ricerca) e che si è stretto intorno alla chiara richiesta che venga rispettato il principio che cambiamenti di portata costituzionale devono avvenire con una procedura ponderata e con una maggioranza parlamentare (ma anche popolare) speciale. Il tutto – fatto non marginale – in una realtà politica come quella di Israele, che non ha ancora una costituzione. Da qui nasce infatti uno dei maggiori punti di scontro fra Knesset e Corte suprema, cui è riconosciuta anche la prerogativa di riunirsi come Corte costituzionale per valutare
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le leggi fondamentali che negli anni sono state promulgate con l’intenzione di trasformarle in capitoli della futura costituzione. Tutto questo ha portato a una crisi sociale con punte di protesta mai raggiunte: persino tra rappresentanti delle compagnie hi-tech, settore di cui Israele va orgoglioso, e tra importanti leader dell’industria, della !nanza, dell’accademia, della cultura. Per la prima volta è stato infranto un tabù: militari di tutte le armi, e fra questi un sostanziale numero di piloti e uomini dell’intelligence, si sono pubblicamente uniti alla protesta dichiarando che non avrebbero svolto servizio volontario sotto un governo che mette in pericolo la natura democratica dello Stato. Mi è dif!cile pensare che il D-day dell’attacco di Õamås sia stato !ssato uno o due anni fa. Chi ha preparato il piano del 7 di ottobre deve aver investito molto non solo sull’aspetto militare ma anche nell’individuare circostanze ideali e punti deboli di Israele come governo e come società. In ebraico c’è una espressione per descrivere la congiuntura perfetta per compiere una operazione: «Quando tutte le stelle sono allineate». Questo devono aver visto pro!larsi le menti dell’operazione: l’occasione imperdibile di attaccare lo Stato d’Israele. Sfruttando il rilassamento delle difese sia da parte dell’intelligence e dei suoi responsabili governativi sia «sul campo» con decisioni che hanno ridotto al minimo gli assetti difensivi interni ai kibbutzim e ai villaggi di con!ne, per privilegiare l’ombrello della sicurezza, soprattutto tecnologica, assicurato dall’esercito. Esattamente nel cinquantenario (un giorno di differenza sul calendario civile) della guerra del Kippur, replicandone la sorpresa e le immagini da trasmettere alla storia e all’ethos della lotta armata, come grande vittoria di Õamås sull’invincibile esercito israeliano. E soprattutto in un momento di divisione profonda, di spaccatura sociale, politica e identitaria, che avrebbe quanto meno indebolito la capacità di reazione del paese.
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Ma come Israele ha dif!coltà a decifrare e comprendere a fondo i codici di comportamento di Õamås e degli arabi, è vero anche il contrario, almeno questa volta. Al momento in cui queste righe vengono scritte siamo all’undicesimo giorno della guerra. Dopo lo shock delle prime ore e a !anco del dolore che coinvolge un po’ tutti – oltre mille vittime in un paese piccolo come Israele signi!ca che non c’è famiglia che non abbia un qualche coinvolgimento nella tragedia – si è aperta una gara di solidarietà dove le astratte richieste di unità di pochi giorni prima dell’attacco sono state tradotte in una realtà di collaborazioni e che ha abbattuto barriere apparentemente insormontabili. Le divergenze non sono scomparse né sono ormai da relegare alla storia. Ma Õamås, con il suo sanguinario attacco, ha creato una percezione di pericolo esistenziale e ha attivato meccanismi di autodifesa nella società israeliana. Luoghi che fungevano da punto di riferimento per l’organizzazione di proteste antigovernative, contro le riforme, si sono trasformati in poche ore in centri logistici e organizzativi per iniziative di supporto allo sforzo di difesa, per la raccolta di attrez-
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Uno sguardo ottimista sul futuro
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zature, cibo, doni per i soldati ma anche di aiuto agli sfollati dalle zone di guerra, agli scampati. Senza contare la mobilitazione di volontari e la raccolta di fondi per centinaia di altre necessità che sorgono da questa dif!cile situazione. Tutti i settori della popolazione ebraica sono mobilitati. Qui si incontrano giorno dopo giorno persone di destra, di sinistra, religiosi, laici e per!no alcuni ultraortodossi. E lavorano gomito a gomito. Lo Stato d’Israele è stato fondato sulle ceneri delle persecuzioni antisemite culminate nella Shoah. Alla sua fondazione, nel suo impegno con il popolo ebraico, ha solennemente promesso che sarebbe stato il rifugio per ogni ebreo perseguitato e che mai più atti del genere sarebbero avvenuti. Sabato 7 ottobre è stato trucidato il maggior numero di ebrei dalla !ne della Shoah. Un altro Sabato Nero da aggiungere alla già lunga lista di Sabati Neri della storia recente degli ebrei. Per molti – ma soprattutto per i pochi sopravvissuti alla Shoah ancora in vita – l’associazione immediata, automatica, dolorosa, traumatica li ha riportati agli orrori del passato. Parole come «pogrom», «nazisti» hanno per gli ebrei, soprattutto per chi la Shoah l’ha vissuta, una valenza diversa, una valenza personale, diretta. Una valenza che con gli anni, dopo il periodo del silenzio, della vergogna, si è estesa a tutta la società. L’imperativo storico-morale di «ricordare» e l’assicurazione di fedeltà al «mai più» sono ormai parte del patto che lega ogni componente della società israeliana. Sabato 7 ottobre Õamås sapeva di attaccare una società smembrata e debole – effettivamente lo era. Ma colpendo i fondamenti più profondi, la base consensuale dell’esistenza di Israele, ha attivato in tutta la popolazione fortissimi meccanismi di autodifesa. La reazione individuale, che poteva essere anche di sconcerto, disperazione, sconforto e rabbia verso lo Stato che non ha mantenuto l’impegno, si è in poche ore canalizzata in una unità solidale impensabile !no a un giorno prima. La lettura errata della situazione da parte di Õamås tocca molti altri cerchi e anche in questi produrrà probabilmente risultati contrari alle sue aspettative. Sul piano politico, per esempio, era bene per Õamås avere di fronte un governo israeliano spiccatamente di destra, con ministri portavoce del radicalismo più estremo all’interno della società israeliana. Sia all’interno di Israele sia all’estero, le mosse del governo ne avevano messo in dubbio la legittimità. Quell’esecutivo, pur eletto in totale legalità, stava promuovendo iniziative che minavano almeno potenzialmente gli equilibri democratici di Israele. Õamås, con la sua operazione, ha invece prodotto in pochi giorni tre effetti: la creazione di un governo di emergenza in cui è entrato Benny Gantz e al quale si uniranno con ogni probabilità anche altri partiti di opposizione; la conseguente diminuzione e forse per!no neutralizzazione dell’in"uenza dei partiti più radicali; in!ne, evocando il 7 ottobre il paragone con la guerra del Kippur, ha creato le premesse di uno scenario in cui i capi dell’esercito, dell’intelligence e del governo, un’ora dopo la !ne della guerra, si assumeranno le proprie responsabilità e si dimetteranno (quelli dell’esercito e dell’intelligence lo hanno già dichiarato). Õamås ha oltretutto scelto di avvicinare l’attacco di Simchat Torah 2023 a quello del Kippur 1973, ma la natura e la ragion d’essere di questo giorno festivo offrono una simbologia molto diversa che la società israeliana –
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religiosa o meno – sembra aver adottato: Simchat Torah è stata comandata per segnare la !ne di un ciclo e l’immediato inizio di uno nuovo. E questa sembra decisamente essere la strada su cui Israele si incamminerà quando i cannoni smetteranno di tuonare. Se le cose prenderanno questa piega, l’eventuale uscita di scena di Netanyahu potrebbe riaprire scenari politici dove le voci più radicali verranno messe ai margini e un’ampia coalizione che comprenderà i partiti della destra moderata, del centro e della sinistra potrebbe formarsi per assicurare al paese stabilità. Per promuovere in modo consensuale le riforme necessarie ad assicurare l’equilibrio fra i poteri dello Stato. La necessità di riformulare e riequilibrare il contratto che impegna mutualmente lo Stato e i cittadini non è assolutamente scomparsa. Aveva raggiunto già prima dell’attacco un ampio consenso popolare, ma con il governo in carica è inattuabile. L’attacco di Õamås potrebbe alla !ne risultare un catalizzatore per quel sostrato consensuale che porterà al superamento della crisi. Il triste merito di Õamås sarebbe in questo caso di aver fatto capire al pubblico, ma soprattutto ai politici, che la ricerca di una base consensuale non è per Israele un accessorio, è un elemento vitale per l’esistenza stessa dello Stato.
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QUESTA GUERRA È TRA BENE E MALE
di
Ben-Dror YEMINI
Õamås ha promosso la battaglia definitiva per annientare ebrei e cristiani. Israele è il punto di attrito di questo scontro, ma le principali vittime sono proprio i musulmani. Ciò che accademie e media occidentali non capiscono. E le spaventose menzogne che diffondono.
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1. «Islamist Terrorist Attacks in the World 1979-2021», Fondation pour l’Innovation Politique, settembre 2021. 2. R. ALEXANDER, H. MOORE, «Are most victims of terrorism Muslim?», Bbc, 20/1/2015. 3. «Fatalities from Militant Islamist Violence in Africa Surge by Nearly 50 Percent», Africa Center for Strategic Studies, 6/2/2023.
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1. ONO PASSATI VENTIDUE ANNI DAL PEGGIORE attacco terroristico della storia. Il mondo, dissero allora i politici, gli accademici e i giornalisti, non sarebbe stato più lo stesso. E avevano ragione. Ma in senso contrario a quanto intendevano. La guerra al terrorismo è fallita. Il jihåd, in tutte le sue rami!cazioni, è diventato più forte. La sua ideologia distruttiva ha ottenuto comprensione e giusti!cazione nei media e nel mondo accademico. Così, dopo ventidue anni, capita di vedere nei campus universitari degli Stati Uniti manifestazioni a sostegno del peggior attacco terroristico avvenuto in seguito a quel famoso 11 settembre. Dopo che uno dei gruppi jihadisti, Õamås, ha ucciso circa 1.400 israeliani e commesso crimini contro l’umanità, nelle città occidentali si svolgono manifestazioni a sostegno degli assassini. È proprio vero, il mondo non è più lo stesso: è diventato molto peggiore. Il jihadismo, con tutte le sue rami!cazioni, è attivo in molti paesi e uccide senza sosta 1. Le vittime sono in gran parte musulmani 2 e/o residenti in paesi poveri, in particolare africani 3. Tutto ciò non interessa a nessuno. Se gli Stati Uniti e i loro alleati hanno combattuto a migliaia di chilometri dal proprio paese, Israele sta invece combattendo il terrorismo sul proprio con!ne meridionale, contro Õamås, e su quello settentrionale, contro Õizbullåh. Lo Stato ebraico rappresenta il principale punto di incontro, quasi l’unico, tra jihadisti e mondo libero, tra industria della morte e democrazia, libertà, diritti umani. Ed ecco perché Israele non può permettersi di perdere: la scon!tta equivarrebbe a un genocidio della portata
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dell’Olocausto. Il mondo libero ha già perso una volta, non può permettersi di perdere di nuovo. E, in ogni caso, non può perdere la guerra contro il terrorismo. Nelle settimane trascorse dall’attacco terroristico del 7 ottobre la maggior parte dei leader del mondo libero ha espresso piena solidarietà a Israele. Sul fronte opposto si trovano invece !gure del mondo accademico, dei media, oltre alle organizzazioni per i diritti umani e a organismi internazionali come il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Le loro posizioni si muovono fra il sostegno totale e la comprensione, o la giusti!cazione, per chiunque attacchi l’Occidente e Israele. Sia chiaro: l’Occidente e Israele non sono esenti da critiche. Ma tutti i loro errori diventano nulla di fronte alla minaccia posta all’esistenza stessa del mondo libero da parte dell’«asse del Male» guidato dall’Iran 4 e dai jihadisti. Il confronto è tra i nostri valori buoni e i cattivi valori espressi nel razzismo, nella sete di sangue nella volontà di instaurare un mondo oscuro e oppressivo, secondo i comandamenti dell’Iran e del jihadismo. Per questo motivo l’«asse del Male» deve essere assolutamente scon!tto. Israele non può prendere sulle proprie spalle tutto il peso di questa lotta. Ogni persona, ogni organizzazione, ogni paese che crede ancora nei valori della libertà e dell’uguaglianza deve unirsi a noi. Se ancora una volta ci legheranno le mani, se la falsa propaganda secondo cui Israele è l’aggressore vincerà, se Õizbullåh e Õamås passeranno per vittime, sarà la scon!tta del mondo libero. 2. Negli anni Trenta del Novecento il mondo fece fatica a capire di avere di fronte un pericolo esistenziale. Il prezzo da pagare fu pesantissimo. Sessanta milioni di persone assassinate, tra loro sei milioni di ebrei, annientati nello sterminio più orribile della storia. Subito dopo l’ascesa al potere di Adolf Hitler nel 1933, la Oxford Union of Students decise che gli studenti «in nessuna circostanza avrebbero combattuto per il re e per il paese» 5. Altre università seguirono l’esempio di Oxford e resero pubbliche dichiarazioni dallo stesso tono e contenuto. Winston Churchill comprese il signi!cato di questa posizione, che de!nì «distorta e depravata». Aveva capito che il prezzo che il mondo libero avrebbe pagato per quel pensiero distorto sarebbe stato altissimo. Oggi la storia si sta ripetendo? Subito dopo l’attacco terroristico omicida di Õamås, circa trenta organizzazioni studentesche dell’Università di Harvard hanno deciso di pubblicare una dichiarazione a sostegno di Õamås. Alla Cornell University il professor Russell Rickford ha espresso «euforia ed emozione» perché 1.400 persone erano state uccise. La New York University ha pubblicato una lettera particolarmente ripugnante del presidente dell’associazione degli studenti di giu-
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4. «U.S. State Department: Iran Remains “World’s Worst State Sponsor Of Terrorism”», RadioFreeEurope/Radio Liberty, 2/11/2019. 5. M. CEADEL, «The “King and Country” Debate, 1933: Student Politics, Paci!sm and the Dictators», Cambridge University Press, febbraio 2009.
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6. C. AORAHA, «NYU Law School Bar Association’s non-binary president Ryna Workman sends email saying Hamas’ slaughter in Israel was “NECESSARY” while refusing to condemn mass-murder of Jewish families», MailOnline, 10/10/2023. 7. C. OTTE, «Schatten auf der Buchmesse», Die Tageszeitung, 10/10/2023. 8. «Hamas MP and Cleric Yunis Al-Astal in a Friday Sermon: We Will Conquer Rome, and from There Continue to Conquer the Two Americas and Eastern Europe», Al-Aqsa TV, 11/4/2008. 9. M. ITAMAR, B. CROOK, «Hamas: Allah, kill Christians and Jews “to the last one”», Palestinian Media Watch, 8/12/2010. 10. «Sheik Yousuf Al-Qaradhawi: Allah Imposed Hitler upon the Jews to Punish Them – “Allah Willing, the Next Time Will Be at the Hand of the Believers”», Al-Aqsa TV, 30/1/2009.
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risprudenza 6 in cui viene espresso «sostegno incondizionato alla resistenza palestinese». Questi sono solo alcuni esempi della distorsione morale di cui parlava Churchill. La stessa Germania non sembra avere imparato la lezione. A seguito di un premio dato a un artista che descrive Israele come una «macchina della morte», è stato pubblicato un articolo su Die Tageszeitung in cui viene posta la seguente domanda: «Com’è possibile che, per anni, le voci anti-israeliane e antisemite sono state reintrodotte nella scena culturale tedesca?» 7. C’è tuttavia una differenza tra ieri e oggi: al tempo non era ancora chiaro che Hitler stava per commettere un genocidio e conquistare il mondo; oggi è davanti agli occhi di tutti che questa è l’intenzione dei jihadisti. Perciò la distorsione morale dei cosiddetti circoli progressisti è molto più grave. Lo Stato Islamico (Is) non è solo. I leader di Õamås hanno invocato «la conquista di Roma e anche delle due Americhe» 8 e nelle loro trasmissioni è stato pubblicamente diffuso un appello volto ad «annientare gli ebrei e i cristiani "no all’ultimo» 9. Un leader islamista sunnita, lo sceicco Yûsuf al-Qaraîåwø, ha invitato i musulmani a «portare a termine il lavoro di Hitler» 10. In qualità di leader spirituale, al-Qaraîåwø ha visitato Gaza nel 2013 e ha continuato a predicare l’eliminazione dello Stato di Israele. Il leader di Õizbullåh, Õasan Naârallåh, ha dichiarato di vedere positivamente il fatto che gli ebrei si concentrino in Israele perché lì avrà luogo la battaglia "nale. Non ci si deve sforzare per capire la sua intenzione di cancellare Israele dalla carta geogra"ca. Con lo stesso spirito, Maõmûd al-Zahår, membro della leadership di Õamås, ha dichiarato sul canale televisivo degli õûñø nello Yemen che «l’esercito di Gerusalemme non libererà solo le terre della Palestina», bensì «512 milioni di chilometri quadrati del pianeta passeranno sotto un dominio privo di sionismo e dell’in"do cristianesimo». Tutto questo dovrebbe essere reso noto e messo in risalto af"nché ognuno di noi ne sia informato. E invece ciò non avviene. La maggior parte dei media occidentali non pubblica materiale simile o, se lo riporta, lo fa in modo vago. Gli studenti di Harvard e di altre università che sostengono Õamås dovrebbero conoscere questi fatti, ma i loro professori non tengono lezioni sulle minacce sempre più incombenti sul mondo libero. Al contrario, molti di loro presentano Israele come un mostro e Õamås come una vittima. Judith Butler ha dichiarato che «Õamås e Õizbullåh fanno parte della sinistra mondiale progressista». Toni simili sono stati usati dall’ex leader del partito laburista britannico, Jeremy Corbyn, che ha ri"utato di condannare
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Õamås 11. Lo stesso ha fatto la deputata statunitense Rashida Tlaib. Noam Chomsky, uno dei più importanti intellettuali al mondo, si è recato in Libano per incontrare Naârallåh 12. E non è tutto. Slavoj Žižek, un notissimo $losofo progressista, sostiene il diritto dell’Iran a detenere armi nucleari 13. Il $losofo italiano Gianni Vattimo, da poco scomparso, è andato oltre, sostenendo in passato 14 che i sionisti devono essere fucilati e che si devono raccogliere fondi 15 per aiutare Õamås. A suo tempo, Vattimo sostenne le dichiarazioni fatte dall’Iran sulla distruzione di Israele 16. No, non si tratta di intellettuali isolati. L’American Center for Middle East Studies (Mesa) ha persino deciso di unirsi al gruppo Boycott, Divestment, Sanctions (Bds), che sostiene l’eliminazione di Israele 17. Non sanno che ovunque sia arrivato il jihadismo o l’in%uenza iraniana, è stata portata distruzione, devastazione e spargimento di sangue? Nel 2022 i gruppi islamisti hanno ucciso, solo in Africa, 19.091 persone 18. È questo il mondo che vogliono? Dove sono le manifestazioni contro di loro? E davvero non sanno che la «liberazione della Palestina» è un nome in codice per la distruzione di Israele? Com’è possibile che 120 dipartimenti universitari che si occupano di studi di genere negli Stati Uniti abbiano $rmato una lettera in cui si chiede di «dare sostegno e unirsi alla lotta per la liberazione della Palestina»? 19. Non sanno forse cosa viene fatto ai transessuali in aree controllate dall’islam radicale? Secondo questa logica, ci si dovrebbe aspettare che i polli si uniscano in un’accorata petizione a sostegno della Kentucky Fried Chicken (una catena di fast food specializzata in pollo fritto). 3. Una delle affermazioni più ridicole, apparsa anche sul giornale israeliano Haaretz, è quella secondo cui «non è possibile imprigionare due milioni di persone senza che ciò richieda poi un doloroso prezzo». Classico esempio di ribaltamento della verità. Già quando Õamås vinse le elezioni nel 2006 il governo palestinese ricevette una proposta da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite in cui si chiedeva di «cambiare la vostra linea politica» perché «solo così riceverete assistenza economica e di altro genere». Angela Merkel, al tempo cancelliere tedesco, de$nì «inconcepibile» il sostegno europeo a Õamås: l’organizzazione avrebbe dovuto abbandonare la strada del terrorismo, condannarne l’uso e riconoscere il di-
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11. «Corbyn did not just call Hamas his “friends”, he said much worse but too many ignored it», Christians United for Israel, 23/10/2018. 12. A. LEVICK, «Indy promotes Noam Chomsky’s charge on “Israeli intervention in us elections”», camera-Uk.org, 31/7/2018. 13. S. Žižek, «Give Iranian Nukes a Chance In a Mad World, the Logic of MAD Still Works», inthesetime.org.com, 11/8/2005. 14. «Shoot those bastard Zionists», thelocal.it, 23/7/2014. 15. G. BRAHM, «Philosophers for Hamas!», fathomjournal.com, primavera 2014. 16. G. VATTIMO, M. MARDER, Deconstructing Zionism – A critique of Political Metaphysics, New York 2014, Bloomsbury. 17. «ISGAP condemns the Middle East Studies Association’s (MESA) Boycott, Divestment, and Sanctions (BDS) Resolution», The Institute for the Study of Global Antisemitism & Policy, 19/4/2022. 18. «Fatalities from Militant Islamist Violence in Africa Surge by Nearly 50 Percent», Africa Center for Strategic Studies, 6/2/2023. 19. Per approfondire: Gender Studies Departments In Solidarity With Palestinian Feminist Collective.
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ANTICHI REGNI ISRAELIANI
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ritto di Israele a esistere. Il leader di Õamås, Ismå‘øl Haniyya, non fece passare neanche tre giorni e ri!utò la proposta. Nel 2007 Õamås prese il controllo della Striscia di Gaza uccidendo centinaia di persone. Tutti ricordano le immagini in cui i suoi oppositori politici venivano lanciati dai tetti delle case più alte. Sin dall’infanzia i bambini vengono educati all’odio e all’annientamento degli ebrei 20. Il nuovo leader di Õamås, Yaõyå Sinwår, ha ribadito nel 2017 che «non riconosceremo mai Israele». Quando il con!ne si è nuovamente reso incandescente, nel febbraio 2018, l’Ue ha ribadito la sua posizione sulla smilitarizzazione in cambio della ricostruzione 21. Anche questa volta non c’è stato nulla da fare. Fra benessere e terrorismo, l’organizzazione che amministra la Striscia di Gaza ha sempre scelto l’industria della morte. 4. A Õamås il denaro non manca. Non ha mai investito né nel benessere, né tantomeno in istruzione e sanità. In compenso, spendendo miliardi, ha costruito un’infrastruttura terroristica, un’industria di armi e una rete di tunnel. Quasi 20 mila abitanti di Gaza arrivavano ogni giorno per lavorare in Israele. Centinaia di camion provenienti da Israele viaggiavano quotidianamente verso la Striscia per portare cibo e altri prodotti. A ciò va aggiunta la fornitura di elettricità, carburante e acqua. La chiusura di Gaza è sempre stata, in ogni caso, solo parziale, principalmente per prevenire l’arrivo di armi dall’Iran. Uno dei leader di Õamås, Mušir al-Maârø, ha chiarito in passato che cosa signi!ca per l’organizzazione il cessate-il-fuoco: «Prepararsi per il prossimo scontro. La nostra resistenza continuerà a riempire e sviluppare i magazzini delle armi e a produrre nuovi componenti per sorprendere il nemico nelle prossime guerre». Questo è esattamente ciò che fa Õamås. Questo è lo scopo di un’organizzazione appartenente ai Fratelli musulmani la cui natura è stata chiara !n dalle parole usate dal fondatore, Õasan al-Bannå, nel 1938: «Siamo un’industria della morte» 22. Non benessere né prosperità, riabilitazione o educazione. Morte. Õasan al-Bannå scrisse l’articolo dopo la grande rivolta araba iniziata nel 1936, quando circa 5 mila arabi palestinesi furono massacrati principalmente dalle bande di Amøn al-Õusaynø, che in seguito si sarebbe unito ai nazisti incitando allo sterminio degli ebrei. Fatõø Õamad, uno dei leader di Õamås, lo ha ribadito in un altro discorso: «La morte, nel popolo palestinese, è diventata un’industria». Super$uo ricordare come la maggior parte delle vittime dei jihadisti, allora come oggi, sia musulmana. L’ideologia di Õamås, il ri!uto delle proposte provenienti da Stati esteri e organizzazione internazionali, l’intransigenza nel respingere qualsiasi condizione per annullare la chiusura di Gaza nonostante le sofferenze dei suoi abitanti, non fanno grande impressione all’interno dei «circoli progressisti».
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20. «Hamas kids’ TV: Mickey Mouse puppet killed by Israel becomes a Martyr», Al-Aqsa TV, 29/6/2007. 21. «Statement by the Spokesperson on the recent escalation of events in and around Gaza», European Union of External Action, 19/2/2018. 22. M. LILLA, «The Stillborn God: Religion, Politics, and the Modern West», Democratiya 11, inverno 2007.
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23. «Terrorism deaths, 1970 to 2021», Our World in Data, Global Terrorism Database 2022.
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5. Dopo il massacro di massa compiuto dagli assassini di Õamås contro centinaia di giovani israeliani al Nova Festival, Yara Hawwari, accademica britannico-palestinese, ha scritto che «la decolonizzazione non è una metafora». Questa donna non potrebbe vivere un solo giorno sotto il regno del terrore imposto da Õamås, ma lei lo adora perché gli accademici parlano solo di «decolonizzazione». Õamås, occupandosi della distruzione degli ebrei, traduce questa idea in realtà. E, cosa ancora più grave, trascorse poche ore dal massacro nel centro di Londra si è svolta una manifestazione a favore di Õamås. Il cartello più importante riportava le parole di Hawwari: «La decolonizzazione non è una metafora». Anche la teoria secondo cui il sionismo equivale al colonialismo è una delle principali bugie di questo modo di pensare. I miei nonni, fuggiti dallo Yemen più di un secolo fa, erano colonialisti? Lo erano forse gli ebrei che fuggivano dai pogrom in Russia? O coloro che sono scampati alla Shoah, giunti qui senza niente dopo la seconda guerra mondiale? Il problema è che questa menzogna riesce ad avere il sopravvento sulla verità e contribuisce al rafforzamento dell’Iran, del jihadismo e del terrorismo. Non è così per tutti i media occidentali, come non è così per tutto il mondo accademico, ma la propaganda delle menzogne demolisce il mondo libero dall’interno. La lotta contro l’«asse del Male» non è semplice. Nessun paese democratico sarebbe disposto ad accettare che sui propri con!ni vi sia un’entità che ha come unico scopo quello di uccidere e distruggere, che per anni lancia razzi contro i centri abitati, invia cellule terroristiche ed educa incessantemente i giovani all’odio. Israele è uscito dalla Striscia di Gaza nel 2005 e da quel momento Õamås ha trasformato questo lembo di terra in una fortezza del terrore. Lo Stato ebraico ha contenuto la propria reazione per lunghi anni – molti sostengono: per troppi. Oggi i militanti di Õamås e l’industria della morte si trovano in edi!ci dove vivono civili innocenti. Israele sta facendo tutto il possibile per prevenire danni a persone innocenti e per questo ha chiesto loro di evacuare l’area. L’articolo 28 della convenzione di Ginevra, dedicato alla protezione di civili in tempo di guerra, afferma esplicitamente che «la presenza di una persona protetta non deve essere usata come pretesto per l’immunità di punti o aree contro operazioni militari». Nonostante ciò, una delle !gure centrali di Õamås, Fatõø Õamad, ha dichiarato in passato: «Usiamo donne e bambini come scudi umani. Diciamo al nemico sionista: noi aspiriamo alla morte tanto quanto voi aspirate alla vita». Se persone innocenti saranno colpite e se gli edi!ci verranno distrutti, ciò avverrà solo ed esclusivamente a causa di Õamås. Israele non combatte questa guerra solo per sé stesso. È in prima linea nella guerra del mondo libero contro il terrorismo 23. Nel 2014 l’intellettuale americano Sam Harris ha pubblicato un articolo che si concludeva con queste parole: «La verità è che viviamo tutti in Israele, ma una parte di noi non se ne rende conto». Cos’altro deve accadere af!nché il mondo accademico e i media capiscano questa semplice verità? Alla !ne, il mondo libero capirà. Rimane tuttavia una domanda: prima di capirlo, dovranno essere uccise decine di milioni di persone, oppure l’«asse del Male» può essere fermato ora, a un prezzo molto più basso?
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Parte II tra MEDITERRANEO e GOLFO
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LA TURCHIA SPIAZZATA DALL’IRAN
di
Daniele SANTORO
Erdoãan punta su un blocco a guida turco-israeliana. Scatenando Õamås, Teheran mette Ankara all’angolo: come perseguire il piano strategico senza passare per nemico del popolo palestinese? E la debolezza di Israele lo rende troppo dipendente dagli Usa.
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1. OFFENSIVA DI PROSSIMITÀ LANCIATA dall’Iran contro Israele per interposto Õamås rischia di destrutturare l’approccio mediorientale adottato dalla Turchia all’indomani delle vittorie militari conseguite a Idlib e a Tripoli. Nello scorso biennio Ankara ha investito ingenti risorse geopolitiche per chiudere le faide con Israele, le petromonarchie del Golfo e l’Egitto, eredità avvelenata dello spregiudicato e fallimentare tentativo di Erdoãan di cavalcare le primavere arabe per imporre un ordine regionale imperniato sulla Fratellanza musulmana, sorta di Internazionale sunnita di cui l’Ak Parti del presidente turco è stato per un certo periodo il nucleo di riferimento. In termini simbolici questa fase di transizione è stata inaugurata dalla trasferta anatolica dell’allora principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti Muõammad bin Zåyid del 24 novembre 2021 ed è culminata il 20 novembre 2022 con la stretta di mano tra Erdoãan e il presidente egiziano ‘Abd al-Fattåõ al-Søsø a Doha. In mezzo, le visite ad Ankara del presidente israeliano Yitzhak Herzog e dello stesso Erdoãan a Gedda, dove il 28 aprile 2022 è avvenuto il primo faccia a faccia con il saudita Muõammad bin Salmån. In questo lasso di tempo lo Stato turco ha progressivamente disarticolato la struttura della Fratellanza musulmana – Õamås incluso – in territorio anatolico. Nella convinzione che i Fratelli non fossero più utili alla causa, che la stagione dell’islam politico fosse ormai alle spalle e che il con!itto israelo-palestinese non rappresentasse più il perno attorno al quale ruotava il caos mediorientale. Con l’assassinio di Qasem Soleimani commissionato dal presidente americano Donald Trump, gli accordi di Abramo e le ricorrenti crisi interne all’Iran il Medio Oriente sembrava essere entrato in nuova èra. Anche alla luce del relativo isolamento regionale e delle perduranti dif"coltà "nanziarie, alla Turchia serviva un cambio di passo. Facilitato dalle vittorie militari
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conseguite nella prima metà del 2020, che hanno indotto i rivali regionali di Erdoãan ad abbassare le pretese e ad aprire i cordoni della borsa. A luglio di quest’anno Ankara e Abu Dhabi – che !no a tre anni e mezzo fa si combattevano senza esclusione di colpi nelle Libie – hanno istituito un Consiglio di cooperazione strategica di alto livello e siglato accordi commerciali del valore complessivo di oltre 50 miliardi di dollari 1. Iniziative che si aggiungono all’accordo di libero scambio raggiunto a marzo, il quale dovrebbe generare un interscambio di circa 40 miliardi di dollari 2. Contestualmente, la Turchia chiudeva con l’Arabia Saudita il più lucroso accordo della sua storia (3,1 miliardi di dollari) per la fornitura di droni da combattimento 3 e concedeva a Riyad il diritto di coprodurre i celebri velivoli senza pilota nel territorio del regno 4. Appena pochi mesi dopo la vendita di 120 esemplari di Bayraktar Tb2 agli Emirati 5. Nel frattempo, Ankara e Gerusalemme discutevano la prospettiva di condurre il gas israeliano in Europa attraverso un gasdotto sottomarino e l’infrastruttura anatolica, progetto che se effettivamente implementato rivoluzionerebbe i parametri stessi della partita energetica che si gioca nel Mediterraneo orientale. Anche perché l’intesa turco-israeliana viene alimentata da una rinnovata e profonda cooperazione nel campo dell’intelligence. Ma soprattutto dalla riscoperta della dimensione militare della «nuova alleanza», risorta nel Caucaso meridionale in occasione della seconda guerra del Nagorno Karabakh. Nel 2020 – durante i 44 giorni serviti all’Azerbaigian per annientare le difese dell’Armenia, satellite regionale di Russia e Iran – la Turchia ha testato la formula con la quale intende(va) sciogliere la complessità mediorientale. Proponendosi come baricentro indispensabile di un blocco regionale strutturato sull’asse con Israele attorno al quale avrebbero ruotato arabi di varia natura e specie, a partire dalle petromonarchie del Golfo. Nel giro di una mattinata, l’Iran ha tuttavia ripristinato i parametri classici della geopolitica mediorientale. Rimettendo il con#itto israelo-palestinese al centro della giungla regionale. E cogliendo Erdoãan in mezzo al guado. A braccetto con il primo ministro israeliano Binyamin Netanyahu – che il presidente turco ha cordialmente incontrato a New York, evento inedito !no a quel momento, poco più di due settimane prima dell’inizio dell’Operazione Alluvione al-Aqâå – mentre Israele fa scorrere !umi di sangue musulmano a Gaza. Condizione umiliante per colui che dopo l’incidente della Mavi Marmara era diventato il «re di Gaza», padrone incontrastato del lembo di Medio Oriente dove si giocano – forse si decideranno – le partite incrociate tra i pesi massimi regionali 6. La spregiudicata mossa palestinese dell’Iran ha dunque posto la Turchia di fronte a un angoscioso dilemma, della cui natura strategica è manifestazione pla-
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1 E. AKIN, S.A. ESSAID, «Turkey, UAE ink $50 billion in trade deals during Erdogan visit», Al Monitor, 19/7/2023. 2. R. UPPAL, «Turkey, United Arab Emirates sign trade agreement», Reuters, 3/3/2023. 3. S. TAVùAN, «Turkey’s Baykar signs largest drone deal with Saudi Arabia», Nikkei Asia, 18/7/2023. 4. «Saudi Arabia in pact with Turkey’s Baykar Tech to localise drone manufacturing», Reuters, 6/8/2023. 5. O. COùKUN, «Exclusive: Turkey sells battle-tested drones to UAE as regional rivals mend ties», Reuters, 21/9/2022. 6. U. DE GIOVANNANGELI, «Il nuovo re di Gaza», Limes, 4/2010, «Il ritorno del sultano», pp. 69-74.
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stica l’ondivaga narrazione esibita da Erdoãan a partire dal 7 ottobre. Nelle prime fasi della guerra il presidente turco ha adottato un approccio equilibrato ed equidistante, castigando con la medesima durezza le azioni di Õamås e di Tzahal. Le crescenti «atrocità» commesse da Israele contro i civili palestinesi – culminate nel controverso bombardamento dell’ospedale al-Ahli di Gaza – hanno tuttavia costretto il reis a rimodulare i toni e a riesumare la tradizionale retorica antisionista. Sulla spinta della pressione popolare, sull’onda dell’indignazione che ha indotto le masse anatoliche ad assediare le rappresentanze diplomatiche israeliane ad Ankara e Istanbul e a marciare compatte sulla stazione radar di Kürecik, installazione militare della Nato operata da personale americano. Mobilitazione spontanea che ha persuaso Erdoãan a indurire gli attacchi verbali allo Stato ebraico, accusato di crimini di guerra nell’ispirata requisitoria con la quale il presidente turco ha arringato il milione abbondante di turchi accorso il 28 ottobre sul sito dell’ex aeroporto Atatürk per manifestare la propria rabbia nei confronti di Israele 7. Ruggendo «vogliamo i Mehmetçik a Gaza» e condannando con la propria furente presenza le «atrocità» commesse da Gerusalemme. Di cui Erdoãan ha tuttavia inteso attribuire la responsabilità «all’Occidente», più che allo Stato ebraico 8 E proprio nel cuneo (ri)aperto non tanto tra Turchia e Israele quanto tra Turchia e America sta la misura del successo della Repubblica Islamica. Probabilmente non ef"mero, forse addirittura strategico.
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7. M.E. Calli, «Türkiye to introduce Israel to world as war criminal: Turkish President Erdogan», Anadolu Ajansı, 28/10/2023. 8. «Erdogan calls West ‘main culprit’ behind Gaza ‘massacre’», The New Arab, 28/10/2023.
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2. La rivalità tra Turchia e Iran – o meglio tra Turan e Iran – è congenita, strutturale e millenaria. Il confronto tra turchi e persiani è da un millennio il catalizzatore delle dinamiche geopolitiche in Asia centro-occidentale. In principio fu l’avvento dell’islam, evento di portata epocale che ha in#uenzato in modo opposto la parabola storica dei due popoli rivali. L’invasione dell’Iran da parte delle armate arabe ha estirpato – senza tuttavia svellere completamente – la statualità persiana sull’altopiano iranico, abbattendo la muraglia sasanide e aprendo ai nomadi turchi il passaggio meridionale verso occidente. Ma soprattutto permettendo a ghaznavidi, karakanidi e selgiuchidi di imporre il proprio dominio prima sull’Oriente persiano (il Khorasan) e poi sul cuore dell’altopiano iranico. Accadimento di portata propriamente epocale, come l’avvento dell’islam, dal momento che in assenza dell’instaurazione della statualità turca in Iran i kayılar – la tribù di Ertuãrul e di suo "glio Osman – non si sarebbero insediati in Bitinia, i successori del fondatore dell’emirato ottomano non avrebbero sottomesso l’Anatolia e la Rumelia, Mehmet il Conquistatore, Selim il Terribile e Solimano il Magni"co non avrebbero potuto generare l’impero che per secoli ha in#uito in modo decisivo sugli equilibri geopolitici eurafrasiatici. I parametri dell’attuale competizione turco-iraniana sono stati introdotti dal nomade turcomanno øsmail, che all’inizio del XVI secolo – a partire da Tabriz – ini-
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Apertura tratta mediana Istanbul-Xi’an del corridoio Londra-Pechino
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Paesi ai quali sono stati venduti droni da combattimento Bayraktar Tb2, Akıncı o Anka-S Potenziali acquirenti di droni da combattimento turchi
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9. ù. MUSTAFAYEV, «Safevi Tarih Yazımında Osmanlılar (ùah øsmail ve ùah Tahmasb Devirleri)» («Gli ottomani nella storiogra!a safavide, i periodi di scià øsmail e scià Tahmasp»), Türk Tarihi Araútırmaları Dergisi, vol. 3, n. 1, primavera 2018, pp. 1-49. 10. Sulla natura della rivalità geopolitica tra Turchia e Iran, cfr. D. SANTORO, «Turchia-Iran, nemici utili», Limes, 1/2020, «America contro Iran», pp. 137-48.
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ziò a restaurare la statualità persiana sull’altopiano iranico. Scon!ggendo gli uzbeki di Muhammed ùeybanî a Merv nel 1510 e quattro anni dopo – con l’indiretta complicità dei giannizzeri – resistendo all’offensiva dell’ottomano Selim da ovest. Sigillando così i con!ni del nucleo storico degli imperi persiani. Il processo di ripersianizzazione dell’Iran non fu immediato – forse è ancora in corso, come rivelano plasticamente le origini turche dell’attuale Guida suprema della Repubblica Islamica. Tanto che il successore di øsmail, Tahmasp, trattava Solimano il Magni!co come un’entità di livello superiore 9. L’altopiano iranico tornò a essere ammantato da una spessa patina persiana solo con il regno di ‘Abbås il Grande (1587-1629). Dopo la cui morte i turchi riuscirono tuttavia a imporre nuovamente la propria sovranità su Baghdad e sull’Iraq, fulcro del confronto tra Istanbul e Isfahan. Circostanza che indusse ottomani e safavidi a !rmare lo storico trattato di Kasr-ı ùirin (Zuhab in farsi) del 1639. Tale accordo !ssò il con!ne de!nitivo tra gli imperi ottomano e persiano, che ancora oggi corre lungo la frontiera turco-irano-irachena 10. E fu proprio a Kasr-ı ùirin che venne generato lo spirito che informa la competizione tra Turchia e Iran in epoca contemporanea. Fondata su due regole auree gelosamente custodite nelle rispettive profondità statuali: rispetto del reciproco diritto a esistere come Stato imperiale all’interno degli attuali con!ni nazionali, ri!uto di qualunque ingerenza esterna nel tradizionale campo da gioco turco-persiano. È il dovere di rispettare queste prescrizioni geopolitiche che spiega il peculiare atteggiamento di Erdoãan nei confronti del nucleare iraniano e del conseguente braccio di ferro tra Washington e Teheran. Talmente sbilanciato che nel 2010 l’allora primo ministro turco sembrava l’avvocato difensore della Repubblica Islamica. Perché se posta di fronte a una scelta netta, la Turchia preferisce la Bomba persiana alle bombe americane. Specularmente, insieme alla Russia l’Iran è stato il primo paese a manifestare (concreta) solidarietà a Erdoãan dopo la tentata invasione americana dell’Anatolia del 15 luglio 2016. Perché per Teheran un nemico strategicamente autonomo è di gran lunga preferibile a un satellite americano al proprio con!ne. E perché turchi e persiani sono perfettamente consapevoli che se causate dalla superpotenza le disgrazie degli uni !niranno prima o poi per essere quelle degli altri. Divisi dalle proprie ambizioni imperiali, Turchia e Iran vengono uniti dall’America. La cui presenza in Medio Oriente è linea rossa tanto per Ankara quanto per Teheran. Ed è proprio facendo leva sul fattore americano che ayatollah e pasdaran provano a mettere Erdoãan all’angolo, esponendo l’ambigua contraddittorietà della sua postura mediorientale. Nell’immediato, la principale conseguenza geopolitica dell’ultimo round di scontri nell’arena gaziana è infatti il ritorno degli Stati Uniti in Medio Oriente. Simbolizzato dalle due portaerei americane che incrociano nelle acque del Mediterraneo orientale, dai duemila marines che Washington intende
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mettere a disposizione dello Stato ebraico con compiti logistici e di supporto 11, dagli armamenti forniti dalla superpotenza a Tzahal e dalle visite del segretario di Stato Antony Blinken e del presidente Joe Biden a Tel Aviv – il primo ha inteso annunciarsi come «ebreo »12. Dinamica che rischia di rompere le uova che Erdoãan cova da anni nel paniere anatolico. Ed è per questo che il presidente turco rivolge i suoi strali rabbiosi agli americani, più che agli israeliani. 3. Dalla "ne della guerra fredda la Turchia ha provato a proporsi (imporsi) a Washington come Stato-guida del vicereame mediorientale dell’impero americano. A questo scopo erano ad esempio funzionali gli accordi militari e di intelligence stipulati con Israele nel 1996 e nel 1997 13. Immaginati come il mastice di un asse tattico che avrebbe stabilizzato il Medio Oriente, coinvolto i paesi arabi non ostili allo Stato ebraico – petromonarchie del Golfo incluse – e marginalizzato l’Iran. Anche Erdoãan adottò questo modello nei primi anni al potere, tanto che in occasione della visita in Israele del maggio 2005 per incontrare il leader della maggioranza repubblicana al Senato Bill Frist in un albergo di Gerusalemme si presentò con enorme ritardo all’incontro con l’allora primo ministro palestinese Abû ‘Alá’, il quale alla luce della preferenza accordata dall’allora primo ministro turco a Israele e all’America annullò il faccia a faccia 14. A far saltare il banco fu il tradimento dell’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert, che lanciò l’Operazione Piombo fuso a Gaza senza avvertire Erdoãan, all’epoca onesto sensale nei colloqui tra Damasco e Gerusalemme. Poi vennero lo «one minute» di Davos, la cancellazione delle esercitazioni turco-israeliane Anatolian Eagle, l’umiliazione dell’ambasciatore turco in Israele, l’incidente della Mavi Marmara e le primavere arabe. Che Ankara cercò di cavalcare per imporre (agli americani) un ordine regionale strutturato attorno alle rami"cazioni della Fratellanza musulmana. Progetto schiantatosi sull’indisponibilità di Obama a rovesciare il regime siriano e a permettere a Erdoãan di recitare la preghiera del venerdì nella moschea degli Omayyadi, così come sull’alleanza stretta dalla superpotenza con il Pkk nella Siria nord-orientale. Uno-due che costrinse la Turchia a un periodo di «preziosa solitudine» – deãerli yalnızlık, espressione coniata dall’attuale capo dei servizi segreti øbrahim Kalın – terminato solo con il fallito golpe del 15 luglio 2016. Questi rivolgimenti regionali non hanno tuttavia intaccato la convinzione dei turchi che gli Stati Uniti debbano stare fuori dal Medio Oriente e consegnarne le chiavi ad Ankara. Dopo le prove di forza date in Siria, Libia, Iraq e Caucaso, Erdoãan è dunque tornato alla carica. Appro"ttando del desiderio americano di di-
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11. N. BERTRAND, O. LIEBERMANN, «US Marine rapid response force moving toward Israel as Pentagon strengthens military posture in region», Cnn, 16/10/2023. 12. T. LAZAROFF, «“I come before you as a Jew”, Blinken tells Israel after Hamas attack», The Jerusalem Post, 12/10/2023. 13. Cfr. W. PICCOLI, «Geostrategia dell’asse turco-israeliano», Limes, 3/1999, «Turchia-Israele, la nuova alleanza», pp. 23-35. 14. M. ANSALDO, «Il freddo abbraccio: Erdoãan e Sharon tra affari e sospetti», Limes, 3/2005, «La potenza di Israele», p. 173.
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15. «Turkey to allocate 150% more to defense budget in 2024 -minister», Reuters, 17/10/2023. 16. A. HASHEM, «Exclusive: Hamas leader’s Iraq visit abruptly canceled amid surprise attack on Israel», Amwaj, 20/10/2023. 17. Su questa fase cfr. D. SANTORO, «La Turchia neogollista non è contro l’Occidente, anzi lo aiuta», Limes, 3/2011, «(Contro)rivoluzioni in corso», pp. 161-69.
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stricarsi dalle sabbie mobili mediorientali e delle tendenze isolazioniste della superpotenza, incarnate nella tragica !gura di Donald Trump, per riproporsi come garante di un ordine regionale basato sulla potenza militare della Turchia, che mentre infuriava la guerra a Gaza ha aumentato del 150% il bilancio della Difesa 15. Riesumando lo spirito degli anni Novanta, dunque individuando nell’asse tattico con Israele lo strumento per imporre l’egemonia turca nella regione. Sviluppando con lo Stato ebraico un partenariato ancora più profondo e geogra!camente esteso. Giocando di sponda con Gerusalemme da Gaza alle Asie profonde, dal Mediterraneo alle steppe oceaniche. L’obiettivo immediato di tale iniziativa è arginare l’in#uenza regionale dell’Iran. Nemico esistenziale per lo Stato ebraico, rivale strategico per la Turchia. Ma nel lungo periodo, quantomeno ad Ankara, l’intesa con Israele viene immaginata come il potenziale nucleo di un blocco geopolitico in grado di garantire un ordine regionale a guida turca nel Medio Oriente post-americano. Con tutti i paradossi del caso. Il meno anti-israeliano dei leader di Õamås – Ismå‘øl Haniyya, talmente ignaro dell’offensiva del 7 ottobre che mentre i suoi miliziani lanciavano l’assalto contro lo Stato ebraico si stava per imbarcare per un’inedita visita a Baghdad, con tanto di scenogra!co pellegrinaggio alle tombe sciite e sunnite 16 – risiede da anni in Qatar, avamposto della Turchia nel Golfo Persico/Arabico. Protettorato di fatto di Ankara, che garantisce la sopravvivenza della dinastia Ål-Ñånø mediante i cinquemila soldati schierati nella base ¡åriq ibn Ziyåd. Inducendo Doha – impossibile stabilire con quale grado di spontaneità – a !nanziare le imprese regionali di Erdoãan. Apparentemente, il Qatar è il principale avversario dello Stato ebraico nel Golfo. L’unica petromonarchia araba a non aver avviato neppure negoziati sottobanco per normalizzare le relazioni con Gerusalemme, restando dunque irriducibilmente anti-israeliana. Eppure, negli scorsi anni è stato proprio l’emiro Ål-Ñånø – attraverso i dollari riversati a Gaza con il beneplacito di Israele, Turchia ed Egitto – a impedire che il disagio sociale, economico e umanitario nella Striscia superasse il livello di guardia. Dunque contribuendo a garantire la sicurezza dello Stato ebraico più di emiratini e sauditi. In una peculiare declinazione del modello sperimentato da Ankara e Gerusalemme nel primo decennio di Erdoãan, quando gli israeliani incentivavano l’allora primo ministro turco a castigarli pubblicamente e a mettere il cappello su Õamås. Per disporre di un canale di collegamento privilegiato con il movimento palestinese e permettere al reis di ergersi a guida dell’ecumene islamica. Con il comune proposito di erodere l’in#uenza regionale dell’Iran 17. Le convergenze tra Ankara e Gerusalemme sono (sempre state) evidenti anche in Siria, dove entrambe vedono come il fumo negli occhi il radicamento dell’in#uenza persiana. Se Israele si concentra sull’indebolimento del regime di al-Asad
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– le cui installazioni militari e civili sono oggetto di regolari bombardamenti da parte dell’Aeronautica israeliana – la Turchia è stata invece costretta dagli eventi a restringere il proprio campo visivo e a focalizzarsi sulla minaccia del Pkk nell’Alta Siria. In linea di principio, nulla impedirebbe a Erdoãan e Netanyahu di riesumare l’intesa del primo biennio di guerra civile. L’indebolimento della posizione russa nel Levante e l’approccio anti-israeliano adottato da Mosca nel confronto Israele-Iran per interposto Õamås indurranno probabilmente Gerusalemme a essere meno sensibile ai diktat siriani del Cremlino. Come Erdoãan, che per cortesia nei confronti di Putin ha avviato un improbabile negoziato con il regime siriano. Prevedibilmente incagliatosi dopo i primi annusamenti. Mentre le Forze armate turche scalpitano per lanciare una nuova incursione oltrecon!ne contro il Pkk, i cui legami di convenienza con Damasco sono perfettamente noti tanto all’intelligence turca quanto ai servizi israeliani. Gli obiettivi di Ankara e Gerusalemme in Siria restano tendenzialmente sovrapponibili. Il problema, come sempre, è l’America. A far saltare l’informale intesa turco-israeliana fu Obama nel 2013, quando preferì legittimare il !lopersiano regime siriano piuttosto che concedere Aleppo e Damasco alla Turchia. Per poi allearsi con il Pkk a est dell’Eufrate e invitare i russi nella Siria occidentale, cambiando così le regole della partita levantina. E ostacolando con la presenza militare americana qualsiasi iniziativa congiunta turco-israeliana. Ma più che gli Stati Uniti in sé il problema reale è l’eccessiva dipendenza di Israele dalla superpotenza, che priva lo Stato ebraico dell’autonomia strategica necessaria a perseguire i propri interessi in un’ottica di lungo periodo. Circostanza che nel medio termine può tuttavia alimentare l’intesa regionale turco-israeliana, stante l’evidente indisponibilità degli americani a farsi coinvolgere strutturalmente nel teatro mediorientale della Guerra Grande. Refrattarietà che rende la Turchia l’unico potenziale garante della sicurezza di Israele. 4. La principale divergenza tra Ankara e Gerusalemme in Eurasia riguarda la logistica. Gli israeliani promuovono il corridoio India-Medio Oriente-Europa, che dovrebbe connettere i porti di Mumbai e del Pireo (paradossalmente controllato dalla Cina) attraverso Dubai, il territorio saudita e lo scalo di Haifa (che Israele ha di recente concesso a un’azienda indiana), mentre la Turchia patrocina il progetto della «Strada dello sviluppo», infrastruttura multimodale che si propone di collegare il porto iracheno di Basra e quello turco di Mardin attraverso l’Iraq e l’Anatolia sud-orientale. Entrambe queste iniziative sono manifestazione della sempre più diffusa volontà degli attori eurasiatici di legare l’Indo-Paci!co al Mediterraneo aggirando il Canale di Suez. La guerra di prossimità tra Iran e Israele ha tuttavia scombussolato i piani di Gerusalemme e Delhi. Per una volta, turchi e indiani sono sulla stessa lunghezza d’onda: il con"itto – che si prospetta lungo e non privo di strascichi – rischia di soffocare sul nascere il progetto indo-arabo-israeliano 18. Cir-
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18. A. SASI, «As Israel-Hamas con"ict gets deadlier, what happens to the India-Europe economic corridor?», The Indian Express, 22/10/2023.
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19. S. TAVùAN, «Turkey pushes $25bn Iraq transport route over India-Europe corridor», Nikkei Asia, 20/10/2023. 20. Y. SAEED, «Budding Kurdish-UAE Relations», The Arab Gulf States Institute in Washington, 3/10/2023. 21. A. IBRAHIM, «Iraqi militia attack on UAE a “message from Iran”», Al Jazeera, 4/2/2022. 22. «Report: Iran blames Israel for Azeri independence movement», Israel National News, 15/2/2023.
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costanza che ha indotto Erdoãan a rilanciare l’iniziativa turco-irachena, avvalendosi di dinamiche analoghe a quelle che gli hanno permesso di imporre alla Cina il corridoio centrale 19. Causa parziale inservibilità del ponte terrestre eurasiatico provocata dalla guerra in Ucraina e dalle sanzioni occidentali contro Mosca. Israele sarebbe territorialmente escluso dal progetto infrastrutturale turco, ma ne diventerebbe cointestatario di fatto. Dal momento che avrebbe tutto l’interesse a garantire la sicurezza della sezione Bassora-Mosul, in prospettiva limite geopolitico all’in"uenza dell’Iran nel Siraq. Tale dinamica sarebbe d’altra parte l’evoluzione naturale della profonda cooperazione sviluppata da Ankara e Gerusalemme nell’Alto Iraq, dove i servizi segreti e le Forze speciali israeliane collaborano più o meno (in)direttamente con le Forze armate turche – che schierano oltrecon#ne circa 10 mila soldati distribuiti in qualche dozzina di basi e realizzano in territorio iracheno frequenti incursioni con droni e aerei da guerra – per irrobustire il governo regionale curdo e contrastare l’alleanza di convenienza stretta dalle milizie sciite con il Pkk sotto l’egida di Teheran. È proprio in Iraq, fra l’altro, che sta prendendo forma il blocco regionale immaginato dalla Turchia. Come dimostrano le sempre più profonde relazioni economiche e militari intessute dagli Emirati Arabi Uniti con Arbøl 20. In chiave inequivocabilmente anti-iraniana, vedi i messaggi che la Repubblica Islamica ha inteso inviare ad Abu Dhabi dal medio corso del Tigri 21. Il cuore geopolitico dell’intesa turco-israeliana sta tuttavia nel Caucaso, dove Ankara e Gerusalemme sono riuscite per la prima volta nella loro storia a realizzare un’iniziativa comune generatrice di tangibili conseguenze strategiche. A muoversi all’unisono e ad armonizzare i propri interessi. Il sostegno militare fornito all’Azerbaigian nella seconda guerra del Nagorno Karabakh e nelle successive offensive con le quali Baku ha riconquistato il territorio irredento ha permesso alla Turchia di rendere più concreta la prospettiva di congiungersi #sicamente alla repubblica sorella, dunque di aprirsi la strada verso le Asie turche. Così come di stringere con l’Azerbaigian un partneriato strategico che prelude alla nascita di una confederazione imperiale nel Turkestan occidentale. Israele ha intanto insediato i propri armamenti, consiglieri militari e servizi segreti al con#ne settentrionale della Repubblica Islamica. Premendo su Teheran da nord, aprendo un nuovo fronte con il rivale persiano, costringendo gli ayatollah a guardarsi le spalle. Provando a stimolare gli istinti pan-nazionalisti della folta minoranza azera dell’Iran (almeno un quarto della popolazione iraniana), spesso e volentieri solleticati dall’eclettico ambasciatore israeliano a Baku – curiosamente un arabo cristiano 22. Non è dunque un caso che gli ayatollah abbiano lanciato la riscossa proprio dal Caucaso. Siglando con l’Azerbaigian un accordo infrastrutturale
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EGITTO
Leviathan
Aphrodite (Cipro)
Monte Carmelo (Foresta Atatürk)
LIBANO
Yumurtalık
GERUSALEMME - Moschea al-Aqs! ā Ascalona (simbolo del progetto egemonico di Erdoğan GAZA nel mondo islamico) - Ambasciata americana ISRAELE (Inaugurazione nuova sede ambasciata Usa)
Tamar Dalit
Haifa
Ceyhan
Cipro turca
Tanin Karish
TURCHIA
Cipro greca
rimento per la Frate l l a n to di rife z a musu ) pun lma Gaza na ās ( i n Tur Ham chi a
ISRAELE VISTO DA ANKARA
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Mosūl
Giacimenti o!shore e concessioni gasiere
Con!ni marittimi
Contese marittime tra Libano e Israele
Progetto di gasdotto Ceyhan-Haifa
Sira e Iraq: Turchia-Usa-Israele (comune interesse per contenere l’espansione iraniana in Siria)
Attacco alla Mavi Marmara da parte della Marina israeliana
Basi turche nel Kurdistan iracheno Basi del Pkk
Stato Islamico
Altri miliziani
Esercito turco
Curdi siriani e iracheni
Forze lealiste
Kirkūk
Monti Kandil (Area di addestramento dei guerriglieri del Pkk da parte d’Israele)
Yumurtalık Rifornimenti via mare dall’oleodotto Kirkūk-Yumurtalık al porto israeliano Ascalona di Ascalona
Fiorenti relazioni tra: Israele-Grecia-Cipro greca-Egitto
URTALIK KIRKŪK-YUM
ARABIA SAUDITA
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23. S. BOLTUC, «Strategic Signi"cance of the new Azerbaijan-Iran Railway Project: Shaping South Caucasus Geopolitics», Special Eurasia, Persian Files, vol. 17, n. 1, 9/10/2023. 24. «Israel continues to arm Azerbaijan despite its own ongoing war», 301.am, 14/10/2023. 25. «Turkish Air Force’s F-16 "ghter aircraft arrive in Azerbaijan to participate in “Mustafa Kemal Ataturk-2023” exercises», Ministero della Difesa della Repubblica dell’Azerbaigian, 20/10/2023. 26. T. SCHNEIDER, «The dictator and I: A visit to Turkmenistan reveals the limits of Israeli diplomacy», The Times of Israel, 29/4/2023. 27. J. EPSTEIN, «The Signi"cance of Warming Relations between Israel and Turkmenistan», Endowment for Middle East Truth, 8/5/2023. 28. ù. KIZILAY, «The Key Factor in Uzbekistan-Israel Relations: Water», Ankara Kriz ve Siyaset Araútırmaları Merkezi, 13/6/2023.
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che permetterà al paese caucasico di collegare il grosso del proprio territorio nazionale alla Repubblica autonoma del Naxçıvan attraverso il territorio iraniano. Il giorno prima dell’avvio dell’Operazione Alluvione al-Aqâå 23. A riprova della profonda interconnessione tra i teatri gaziano e caucasico. Parte di un unico campo di battaglia. Come dimostra la decisione di Israele di continuare a fornire armamenti a Baku anche dopo l’inizio dell’offensiva di Õamås 24. Per tenere caldo il fronte settentrionale del confronto di prossimità con la Repubblica Islamica. E in prospettiva per alimentare la non improbabile incursione delle Forze armate azerbaigiane nel territorio armeno propriamente detto – la Turchia ha di recente schierato gli F-16 nel Naxçıvan 25. Eventualità che sigillerebbe il Caucaso meridionale a Teheran. E che completerebbe l’accerchiamento dell’Iran da parte del Turan. La cooperazione turco-israeliana in chiave anti-iraniana non è infatti limitata all’Azerbaigian. Ad aprile di quest’anno Israele ha inaugurato la propria ambasciata in Turkmenistan. Ad appena 17 chilometri dal con"ne con la Repubblica Islamica. «Se apriamo la "nestra vediamo l’Iran», ha disinvoltamente chiosato il ministro degli Esteri Eli Cohen dopo la cerimonia inaugurale della rappresentanza diplomatica 26. Annunciando contestualmente la volontà dello Stato ebraico di contribuire alla difesa delle frontiere della repubblica centrasiatica 27, alla quale Gerusalemme fornisce la vitale tecnologia per desalinizzare e conservare le acque – strumento utilizzato anche per irretire l’Uzbekistan, il cui settore agricolo, come quello del Turkmenistan, è strutturalmente minacciato dalla siccità 28. Il tutto mentre la Turchia sopravanza nettamente la Russia quale principale fornitore di armamenti ad Ashgabat, che dal canto suo ha abbandonato l’irriducibile neutralità geopolitica aderendo come osservatore all’Organizzazione degli Stati turchi. Dinamiche che possono rendere la più meridionale delle repubbliche centrasiatiche il nuovo Azerbaigian, avamposto orientale dal quale Ankara e Gerusalemme possono stringere in una tenaglia turanica il comune rivale persiano. Diametralmente – anche se solo apparentemente – opposta è la situazione nel Mediterraneo orientale, cuore dell’iperattivismo geopolitico della Turchia. Qui Israele sostiene militarmente i nemici del proprio partner, Grecia e Cipro (Sud), mentre i turchi rivendicano apertamente (gran) parte delle acque attualmente sotto la sovranità di Atene e Nicosia. Contrasto che in linea di principio renderebbe tutt’altro che inverosimile un confronto di prossimità turco-israeliano a Cipro e nelle acque ricche di idrocarburi che avvolgono l’isola di Afrodite. Ma le apparenze ingannano.
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E i paradossi abbondano. Ora che grazie a Gerusalemme non deve più temere il riconoscimento internazionale del Nagorno Karabakh (Artsakh) come Stato indipendente, l’Azerbaigian si predispone infatti a riconoscere uf!cialmente la Repubblica turca di Cipro Nord 29 – già accettata come osservatore nell’Organizzazione degli Stati turchi. In una fase in cui Lefkoúa ha iniziato a rivendicare apertamente la sovranità sulle intere acque cipriote 30. Alla luce della crescente integrazione tra Turchia, Azerbaigian e Cipro Nord – riassunta mediante la formula «tre Stati, una nazione» – il doppio standard israeliano tra Caucaso e Mediterraneo orientale è palesemente insostenibile. Anche perché Gerusalemme è perfettamente consapevole dei vantaggi di lungo periodo derivanti dalla cooperazione (soprattutto energetica) con Ankara. Tanto che l’atteggiamento ostile dello Stato ebraico è evidentemente espediente tattico per rafforzare la posizione israeliana nel negoziato con la Turchia. Dopo l’affossamento del progetto EastMed da parte di Biden per esportare il suo gas in Europa – e affermarsi dunque come attore geoenergetico chiave in Eurasia – Israele non ha altra scelta che raccogliere la proposta di Erdoãan e collegare i propri giacimenti all’infrastruttura anatolica mediante un gasdotto sottomarino. Preludio a un’intesa sulla delimitazione delle frontiere marittime analoga a quella raggiunta da Ankara con Tripoli nel novembre 2019, che Cihat Yaycı – architetto dell’accordo con il governo tripolino – ha proposto allo Stato ebraico ormai tre anni fa 31. Tali iniziative potrebbero rivoluzionare i parametri della partita mediterranea, come dimostra la disinvoltura con la quale la Turchia sta tatticamente congelando la contesa con la Grecia nelle acque della Patria Blu. Anche perché coinvolgerebbero inevitabilmente l’Egitto, non solo sotto il pro!lo energetico. In tal senso, è notevole il fatto che dopo la recente riconciliazione le relazioni tra Ankara e Il Cairo siano diventate cordiali al punto che al-Søsø ha funto da intermediario per la consegna dei droni Bayraktar Tb2 di produzione anatolica al regime sudanese impiantato a Khar¿ûm dal Mossad 32. 5. L’asse turco-israeliano ha il potenziale per cambiare le regole del gioco delle partite che si disputano tra Asia centrale e Mediterraneo orientale e instaurare un ordine regionale indipendente dall’America, per quanto naturalmente non anti-americano. Scenario nel quale l’Iran sarebbe la vittima eccellente. È (anche) per questo che Teheran è stata costretta a reagire. Con la so!sticatezza che tradizionalmente caratterizza le manovre dei persiani. I quali hanno smascherato il fedifrago Erdoãan, colto ad amoreggiare con i sionisti mentre si atteggia a protettore dei diseredati musulmani. Ponendo nell’immediato il presidente turco di fronte a un’alternativa secca. Se punta sul partenariato con Israele rischia di far evaporare la sua
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29. P. ANTONOPOULOS, «What Now for Cyprus after Nagorno-Karabakh», Greek City Times, 20/9/2023. 30. «Ersin Tatar’dan net mesaj: “Kuzey’i Güney’i yok!”» («Da Ersin Tatar un messaggio inequivocabile: “Non ci sono più né il Nord né il Sud”»), Oluúum, 5/10/2023. 31. D.S. ELMAS, A. KAHANA, «Erdogan con!dant sends Israel another message of reconciliation», Israel Hayom, 12/6/2020. 32. B. FAUCON, N. BARIYO, S. SAID, «Ignoring U.S. Calls for Peace, Egypt Delivered Drones to Sudan’s Military», The Wall Street Journal, 14/10/2023.
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33. «Putin, Erdogan ready to assist Israeli-Palestinian peace process», Tass, 10/10/2023. 34. A. LYON, «Analysis – Turkey’s Erdogan struts Arab stage», Reuters, 13/9/2011.
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in!uenza e il suo prestigio morale nell’ecumene islamica. Con conseguenze geopolitiche incalcolabili, che si manifesterebbero dal Pakistan al Tatarstan, dalle Bosnie alle Afriche. Se invece Erdoãan decide di rincorrere Teheran e di cedere alle sirene massimaliste della piazza araba rischia di mandare a monte il progetto strategico imperniato sull’asse con Gerusalemme. In entrambi i casi la postura globale di Ankara ne uscirebbe notevolmente indebolita. Naturalmente, in nome della loro proverbiale ecletticità, i turchi riusciranno a trovare una via alternativa rispetto al bivio palestinese imposto dalla Repubblica Islamica. L’attribuzione della responsabilità delle «atrocità» commesse a Gaza da Israele «all’Occidente» – dunque agli Stati Uniti – è in tal senso uno scaltro tentativo di preparare il terreno per una futura riconciliazione con lo Stato ebraico dopo la rottura tattica causata dalla guerra. I margini di manovra di Ankara – questo è il problema reale – sono tuttavia fortemente limitati proprio dall’atteggiamento eccessivamente "lo-israeliano dell’America, che l’Iran è riuscito ad attirare nuovamente nelle sabbie mobili mediorientali. E proprio qui sta la genialità della mossa palestinese degli ayatollah, che tirando dentro la superpotenza possono obbligare i turchi a stare dalla loro parte, come nel 2010 nel negoziato sul nucleare. Soprattutto se l’attacco diretto israelo-americano alla Repubblica Islamica diventasse la questione all’ordine del giorno. La proposta di Erdoãan di istituire un sistema di paesi garanti di un tanto eventuale quanto improbabile accordo di pace israelo-palestinese è in tal senso un segnale tutt’altro che trascurabile. Dal momento che Mosca si è immediatamente accodata alle iniziative di mediazione di Ankara, pre"gurando una sorta di meccanismo di Astana in salsa palestinese 33. In termini strategici, le principali conseguenze geopolitiche dell’offensiva di prossimità sferrata dall’Iran contro Israele potrebbero essere precisamente il cuneo (ri)aperto tra America e Turchia e le crepe emerse nell’asse turco-israeliano, che nei prossimi mesi sarà sottoposto a pressione micidiale. Ma non tutto è perduto. Le convergenze tra Ankara e Gerusalemme sono profonde e non prive di una dimensione strategica. Quella tra turchi e israeliani non è una tresca adolescenziale ma un matrimonio di convenienza. Non c’è sentimento, ci sono solo interessi. A guidare le azioni dei due Stati non è l’istinto ma la piena consapevolezza dei rispettivi tornaconti. Per questo nei prossimi mesi la Turchia si aspetta una prova di maturità da parte di Israele, chiamato a dimostrare con inequivocabile chiarezza il valore che attribuisce alle relazioni con Ankara. Dunque innanzitutto a comprendere le necessità di politica interna di Erdoãan. Il vero problema è infatti la razionale emotività che contraddistingue la reazione dell’opinione pubblica anatolica ai fatti di Gaza. Il turco medio è oltremodo sensibile alla sofferenza dei palestinesi. Come stabilito dal reis molti anni fa con la verve poetica che lo contraddistingue, «le lacrime di un bambino di Gaza straziano il cuore delle mamme di Ankara» 34. Perché la giusti"cazione morale dell’imperialismo turco – a cui
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le serie televisive ambientate nei periodi selgiuchide e ottomano hanno concesso valenza retroattiva – è proprio la difesa dei diseredati, dei sopraffatti, dei miserabili. Soprattutto se musulmani. E i palestinesi sono simbolo universale dei supplizi che conferiscono natura salvi!ca alla connaturata predisposizione imperiale dei turchi. Legittimandola moralmente. È per questo che il cerino è oggi nelle mani di Israele. Se vuole salvare il partenariato con Ankara, Gerusalemme deve in primo luogo convincere l’opinione pubblica anatolica che l’intesa turco-israeliana – forgiata con il sangue dei palestinesi – produce inequivocabili vantaggi per gli interessi nazionali della Repubblica di Turchia. Perché il patriottismo è l’unico sentimento in grado di prevalere sul congenito anelito imperiale dei turchi. Le potenziali iniziative abbondano. Congelando la contesa con la Grecia Erdoãan ha preparato il terreno favorevole per uno slittamento della postura dello Stato ebraico nel Mediterraneo orientale, dunque per un’accelerazione delle iniziative energetiche turco-israeliane. Mentre il rischio di allargamento del con"itto al fronte siro-libanese favorisce la prospettiva di trasporre il «modello Caucaso» alla Siria. Il principale ostacolo al pieno dispiegamento delle potenzialità insite nell’asse Ankara-Gerusalemme resta l’America. O meglio la totale dipendenza di Israele dalla superpotenza, che tuttavia nel medio periodo può paradossalmente alimentare le sinergie turco-israeliane. Se i decisori dello Stato ebraico non hanno completamente smarrito la visione strategica, dovrebbero infatti trarre da quanto accaduto a partire dalla mattina del 7 ottobre una fondamentale lezione geopolitica: Israele è debole, vulnerabile, esposto agli attacchi dei propri nemici. Incapace di difendersi. Eccessivamente dipendente dagli Stati Uniti, la cui in"uenza globale è in visibile rattrappimento e che nel medio termine potrebbero non disporre delle risorse – soprattutto mentali – per proteggere uno Stato ebraico sempre più accerchiato e assediato. Che la Turchia non intende distruggere ma salvare (innanzitutto da sé stesso). Muovendo dalla responsabilità storica che ai turchi repubblicani deriva dall’eredità ottomana. Tornata centrale nella narrazione geopolitica di Erdoãan e impregnata della tradizionale inclusività turanica. Malgrado lo sconquasso causato dall’Iran, per la Turchia l’obiettivo strategico non è entrare in competizione con la Repubblica Islamica per combattere più o meno (in)direttamente lo Stato ebraico – come reclamato dalle masse di turchi furenti nelle piazze anatoliche – ma inglobare Israele in un sistema imperiale che garantisca pace e prosperità al vicereame mediorientale dell’erigendo impero repubblicano. In sintesi, Make Israel Türkiye Again. Perché per lo Stato ebraico l’unica possibilità di salvezza sta nella prospettiva di lasciarsi assorbire nella confortevole sicurezza della confederazione imperiale centrata sulla Repubblica di Turchia.
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L’IRAN TEME LA GUERRA CHE FORSE VUOLE
di
Nicola PEDDE
Dopo l’esultanza iniziale, Teheran ha smentito di aver avuto un ruolo nell’attacco di Õamås. Segno dello iato tra la cautela dei ‘vecchi’ mullah e l’aggressività del ‘giovane’ apparato militare. In un conflitto allargato, il paese si gioca stabilità e influenza.
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1. «Hamas spokesman says Iran gave support for surprise attack on Israel», The Times of Israel, 8/10/2023. 2. G. RUHIYYIH EWING, «Iran praises Hamas as attack reverberates around Middle East», Politico, 7/10/2023. 3. S. SAID, B. FAUCON, S. KLAIN, «Iran helped plot attack on Israel over several weeks», The Wall Street Journal, 8/10/2023.
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1. ATTACCO SFERRATO DA ÕAMÅS ALLE PRIME luci dell’alba del 7 ottobre è stato accompagnato dalla convinzione di un coinvolgimento iraniano nella piani!cazione e nella gestione dell’operazione militare. L’idea ha trovato ben presto ampio spazio sui principali organi d’informazione internazionali. A corroborarla ha contribuito la quasi immediata divulgazione di un commento del portavoce di Õamås, Ôåzø Õamad, che alla Bbc ha parlato di un sostegno di Teheran all’operazione militare 1; ma anche l’esultanza di alcuni esponenti delle istituzioni iraniane, come il portavoce del ministero degli Esteri Nasser Kanani o il consigliere per la Sicurezza della Guida suprema, generale Yahya Rahim Safavi, che hanno commentato l’azione come «atto nel solco della continuità del fronte di resistenza antisionista» 2. Un successivo articolo del Wall Street Journal ha rivelato, citando non meglio precisate fonti interne a Õamås e all’Iran, che il 2 ottobre a Beirut si sarebbe tenuta una riunione di alto livello tra esponenti della Forza Quds iraniana, del libanese Õizbullåh, della Jihåd islamica e di Õamås. In quel contesto Teheran avrebbe confermato il sostegno alla piani!cazione dell’operazione e soprattutto avrebbe dato «luce verde» alla sua esecuzione per il successivo 7 ottobre. Incontri simili, secondo il quotidiano statunitense, si sarebbero tenuti con cadenza bisettimanale sin dall’agosto 2023, lasciando in tal modo presupporre una lunga e complessa fase di piani!cazione. Il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian avrebbe preso parte ad almeno due di questi consessi, rendendo evidente un sostegno delle istituzioni ed escludendo così la possibilità di un’azione clandestina concepita e gestita internamente da un’ala dei Guardiani della rivoluzione 3.
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L’IRAN TEME LA GUERRA CHE FORSE VUOLE
L’inoppugnabilità di un ruolo iraniano nella piani!cazione e nella gestione dell’attacco di Õamås ha trovato ulteriore spazio sui media internazionali per almeno i primi due giorni successivi all’avvio dell’azione militare, in un crescendo di valutazioni che da più parti hanno teso a individuare l’Iran come l’unico possibile attore – o almeno il principale – a bene!ciare dell’azione di Õamås 4. Anche in Israele, nelle ore immediatamente successive all’attacco, diversi esponenti delle istituzioni hanno considerato certo un ruolo dell’Iran; tra questi il presidente Yitzhak Herzog, il quale a combattimenti ancora in corso ha dichiarato alla stampa che Õamås «sostenuto e diretto dai propri comandanti in Iran, ha perpetrato un vile quanto ingiusti!cato attacco contro lo Stato ebraico nel giorno di una festività religiosa» 5. Dalle prime ore dell’8 ottobre, tuttavia, le autorità della Repubblica Islamica hanno adottato una nuova linea sui fatti del giorno precedente, attraverso esternazioni dei massimi vertici istituzionali come la Guida suprema Ali Khamenei, il presidente Ebrahim Raisi e il consigliere presidenziale Ali Shamkhani. Tutte le comunicazioni hanno esplicitamente escluso qualsiasi ruolo del paese nella piani!cazione e nell’esecuzione dell’operazione, ribadendo l’indipendenza decisionale e operativa di Õamås. Salvo, comunque, elogiarne l’operato quale espressione di una legittima risposta alla condotta di Israele 6. In un laconico comunicato diramato nel tardo pomeriggio dell’8 ottobre, il portavoce delle Forze armate israeliane (Idf) Daniel Hagari, confermava che non c’erano evidenze concrete che dimostravano un ruolo dell’Iran nella conduzione dell’attacco di Õamås, pur ribadendo come i legami tra i due siano da tempo solidi e strutturati 7. L’11 ottobre, un articolo pubblicato dalla Cnn sosteneva che l’intelligence statunitense avesse raccolto suf!cienti indicazioni per ritenere che il governo iraniano fosse stato colto di sorpresa dall’attacco di Õamås, a ulteriore smentita delle prime impressioni. Pur non escludendo che un coinvolgimento di Teheran possa essere appurato in seguito, secondo l’articolo la Cia avrebbe escluso l’esistenza di prove concrete atte a dimostrare una partecipazione attiva dell’Iran, che pure sostiene !nanziariamente e militarmente Õamås 8. I media iraniani hanno acclamato l’azione condotta dal movimento palestinese, con costanti rimandi all’ineluttabilità della scon!tta di Israele. Toni diversi, pur accomunati dall’elogio a Õamås, hanno caratterizzato titoli e articoli della stampa di orientamento conservatore e riformista. La prima ha largamente enfatizzato le dinamiche dell’operazione riconducendole alla «resistenza islamica» contro Israele; la seconda ha mantenuto un pro!lo più basso e tecnico nella descrizione di quanto avvenuto sul campo. Buona parte della stampa conservatrice ha anche enfatizzato i rischi in cui l’Arabia Saudita incorrerebbe qualora intendesse proseguire il
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4. A. VOHRA, «Iran is the only one likely to bene!t from Hamas’ attack on Israel», Politico, 9/10/2023. 5. «Israel blames Iran for Hamas attack», Anadolu Ajansı, 8/10/2023. 6. «Exclusive: we are not involved, Iran insists after Hamas attack on Israel», Amwaj, 9/10/2023. 7. P. WINTOUR, «No evidence yet of Iran link to Hamas attack, says Israeli military», The Guardian, 9/10/2023. 8. Z. COHEN, K.B. LILLIS, N. BETRAND, J. HERB, «Initial US intelligence suggests Iran was surprised by the Hamas attack on Israel», Cnn, 11/10/2023.
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GOLFO PERSICO LE POSTE IN GIOCO
Esfahan
Stretto di Hormuz al-Nāsiriyya
Ahwaz
Bassora
Imsc (International Maritime Security Construct) - Pattuglia con il gruppo Sentinel della Coalitin Task - Esercitazioni mensili nel Golfo Persico
Yazd
I R A N
Abadan
Kerman Iran
KUWAIT
- Frequenti esercitazioni
Bandar-e Deylam Ganaveh
al-Kuwayt
Isola di Khark
Mīnā# Sa$ūd
militari e spiegamento di nuovi missili da crociera antinave - Sequestro di alcune navi mercantili
Shiraz Firuzabad
Petrolio Un terzo del commercio mondiale di petrolio e un quarto dei volumi di gnl passano per lo Stretto di Hormuz
Kangan
Golfo Persico South Pars
BAHREIN
Bandar Abbas Abū al-Buhūš
Stretto d
QATAR al-Fātih Rašīd Umm Šarīf
Doha al-Bunduq
Zākūm
EMIRATI ARABI UNITI
Bāb al-Sāhil &Asab Bū Hasā . . Šāh
Jask
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Abu Dhabi
Ğabal al-Zanna .
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North Pars
Sohār . .
Mīnā# al-Fahl
OMAN
Mascate Sūr
ARABIA SAUDITA al-Huwaisa Basi militari e/o aeroporti statunitensi
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Abū Ğīfān
Con'ni marittimi Giacimenti petroliferi Oleodotti Giacimenti di gas Gasdotti Bū Hasa . . Principali giacimenti
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Rapporto tra sciiti e sunniti: Kuwait: Sunniti 60%-Sciiti 25%
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Salāla .
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Fonte: Petroleum Economist
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Emirati Arabi Uniti: Sunniti 81%-Sciiti 15%
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Bahrein Sunniti 30%-Sciiti 70%
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processo di normalizzazione delle relazioni con Israele nel mutato contesto regionale. Tutta la stampa iraniana ha comunque ribadito l’estraneità della Repubblica Islamica ai fatti, rifacendosi in particolare a quanto detto dalla Guida suprema il 10 ottobre presso una base militare di Teheran in occasione della cerimonia dei cadetti. In tale occasione Ali Khamenei ha ripetuto tre volte che l’Iran non ha preso parte alla piani!cazione né all’esecuzione delle operazioni di Õamås, pur ribadendo il pieno sostegno alla causa palestinese 9. La narrazione di Teheran si inserisce in un contesto dai contorni alquanto opachi. In una prima fase numerosi esponenti politici e militari iraniani hanno cercato visibilità, con commenti che hanno immediatamente attirato l’attenzione internazionale su un possibile ruolo dell’Iran. Tali posizioni hanno prontamente suscitato un’aperta condanna al paese, innescando una dinamica che ha !nito per individuare nella Repubblica Islamica l’unico possibile bene!ciario di un sostegno militare e logistico a Õamås. Ciò sembra aver allarmato i vertici istituzionali di Teheran, che si sono compattati su una nuova linea orientata a sostenere la posizione di estraneità ai fatti, smorzando le posizioni individuali giudicate più ambigue e quindi potenzialmente pericolose. Dal 9 ottobre, la strategia comunicativa dell’Iran consiste nel non rilasciare dichiarazioni che possano essere strumentalizzate da Israele o da altri attori per attribuirgli la regia dell’offensiva di Õamås. L’intervento diretto della Guida suprema appare indicativo, come il richiamo all’estraneità pronunciato per ben tre volte nell’ambito del discorso del 10 ottobre. I tratti salienti di questo riposizionamento sono individuabili nell’esplicita esclusione di un ruolo dell’Iran tanto nella piani!cazione e nell’esecuzione dell’attacco; nel chiaro riferimento all’indipendenza di Õamås in merito alle scelte strategiche e operative; nel generico sostegno alla causa palestinese e alle ragioni storiche dell’ostilità. In questa nuova retorica viene accantonata la causa comune del cosiddetto «asse della resistenza islamica», oltre a ogni speci!co riferimento al concreto sostegno militare fornito nel tempo a Õamås e alla Jihåd islamica, con ingenti forniture di denaro e di armi. 2. La portata dell’attacco militare di Õamås, la sua brutale conduzione e la reazione israeliana verosimilmente orientata a eradicare la minaccia da Gaza e dalle altre aree prossime ai con!ni israeliani sembrano dunque aver colto davvero di sorpresa i vertici della Repubblica Islamica. Convincendola della possibilità di una indesiderata espansione del con#itto, per vie dirette (attacchi al proprio territorio) o indirette (minaccia ai suoi interessi regionali, come accaduto con i ripetuti bombardamenti degli aeroporti di Damasco e Aleppo, dichiaratamente compiuti dagli israeliani per inibire qualsiasi ambizione iraniana di sostegno alle parti in con#itto). Ne è conseguito un riposizionamento di Teheran, favorito in modo altrettanto inaspettato – e forse insperato – dalle contestuali posizioni di Israele e Stati Uniti, che hanno concordemente escluso (almeno per ora) indicazioni dirette di un coinvol-
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9. «Iran’s supreme leader strongly rejects role in Hamas attack», amwaj.media, 10/10/2023.
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10. J. POUND, «Blinken says U.S. has “not yet seen” evidence of Iran involvement in Hamas attack on Israel», Cnbc news, 8/10/2023. 11. «Hamas revives ties with Syria, ally of Israel’s foe Iran», France24, 11/10/2022.
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gimento iraniano. Il 9 ottobre, anche il segretario di Stato Antony Blinken ha affermato che allo stato attuale non sussistono concrete evidenze di un’implicazione diretta dell’Iran nell’azione di Õamås, pur ricordando il forte legame tra i due 10. La Repubblica Islamica ha gestito gli eventi del 7 ottobre in maniera caotica e disordinata. Teheran non ha saputo adottare per tempo le necessarie cautele, poi imposte dall’evoluzione degli eventi. È ancora presto per dire se tale impreparazione sia il frutto di una genuina sorpresa, ma di certo il contesto politico iraniano è apparso ancora una volta diviso, scoordinato nelle manifestazioni del pensiero che più da vicino possono interessare la sicurezza della Repubblica Islamica. Segno della crescente divergenza di orientamento tra la dirigenza di prima generazione e l’apparato politico-istituzionale della seconda. Una condotta grave, soprattutto perché contestuale alla persistente condanna internazionale dell’Iran per il sostegno militare fornito alla Russia in Ucraina, che rischia di penalizzare ulteriormente gli interessi del paese. Un primo, negativo, ritorno in tal senso è il congelamento dei 6 miliardi di dollari recentemente trasferiti dalla Corea del Sud al Qatar, nell’ambito di un accordo con gli Stati Uniti per la progressiva erogazione a Teheran di denaro "nalizzato all’acquisto di generi alimentari, medicinali e beni di prima necessità. Nel caso di Õamås (e non solo), l’Iran ha dimostrato come il suo pragmatismo travalichi la dimensione confessionale della proiezione sciita mediante la strategia degli attori di prossimità, gli alleati regionali che costituiscono la terza generazione del concetto di difesa iraniano basato sulla «difesa avanzata». Armi, munizioni, addestramento, razzi e know-how per la costruzione di ordigni costituiscono il principale contributo di Teheran allo sforzo militare di Õamås, con una rete di connessioni cha ha spesso coinvolto le milizie libanesi di Õizbullåh e la Siria. Ciononostante, il movimento palestinese ha sempre mantenuto un pro"lo di indipendenza nella de"nizione delle proprie strategie, un carattere autonomo e non subordinato ad alcuno dei partner regionali con cui pure condivide numerosi obiettivi. Non sono mancate nel tempo ricorrenti divergenze, anche di una certa importanza, come in occasione della guerra civile siriana che portò alla rottura delle relazioni tra Õamås e il governo di Baššår al-Asad, la cui timida ripresa è stata avviata solo nel 2022 11. Non meno critici, nello stesso periodo, i rapporti di Õamås con Õizbullåh e con l’Iran: la lunga fase di raffreddamento delle relazioni ha comportato l’attenuazione del sostegno militare, da cui il contestuale rafforzamento del legame con il Qatar e con l’Arabia Saudita. In tempi più recenti il rapporto tra Teheran e Õamås ha ripreso vigore, benché l’accresciuto ruolo dell’Iran limiti l’autonomia dell’organizzazione, impegnata nella crescente competizione a Gaza con la Jihåd islamica. Dal 2012 quest’ultima, pure fortemente legata all’Iran, ha adottato una postura sempre più aggressiva verso Israele. Entrando più volte in contrasto con Õamås, che ha spesso lamentato l’assenza di una strategia comune. La competizione ha prodotto come risultato una serie di devastanti interventi di Israele sulla
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L’IRAN TEME LA GUERRA CHE FORSE VUOLE
Striscia. L’ultimo scontro tra la Jihåd islamica e le Idf risale a maggio 2023, dopo quello più intenso dell’agosto del 2022, quando un con!itto di tre giorni aveva provocato numerosi morti e una ritorsione israeliana che indusse i vertici del movimento a una tregua 12. Le divergenze tra Õamås e le altre organizzazioni islamiste militanti si sono acuite nel corso del 2023 con frequenti contrasti a Gaza e in alcuni campi profughi libanesi (specie quelli dell’area di Sidone), sfociati in aperti combattimenti per la leadership nel campo politico e militare palestinese. 3. Per quanto concerne un possibile ruolo dell’Iran a sostegno degli attacchi dello scorso 7 ottobre, è invece necessario formulare alcune considerazioni preliminari. Sebbene un incremento della con!ittualità tra Õamås e Israele rappresenti un elemento di sicuro interesse strategico per Teheran, la palese compromissione in una offensiva di tale portata espone la Repubblica Islamica al concreto rischio di ritorsione militare israeliana, aprendo alla possibilità di scenari inesplorati per il regime iraniano. È da tempo palese una crescente divergenza di vedute tra la prima generazione del potere iraniano, di espressione teocratica e ormai minoritaria, e la seconda generazione di estrazione militare, caratterizzata da posizioni politico-ideologiche per molti versi opposte. La prima generazione, tradizionalmente pragmatica e cauta nel superamento delle «linee rosse» di sicurezza, dif#cilmente avrebbe intrapreso un’azione di tal fatta, conscia delle profonde implicazioni che questa comporterebbe sul piano della sicurezza nazionale e regionale. La seconda, oggi non ancora in grado di esprimere appieno le prerogative del potere nazionale, è manifestamente più aggressiva e non valuta le opzioni strategiche con i medesimi criteri interpretativi della prima. Per la prima generazione, un confronto militare con Israele esporrebbe il paese al rischio d’indebolimento interno, con la potenziale riesplosione del dissenso sociale e politico attestato dalle recenti proteste. La seconda generazione considera l’ipotesi poco più che irrilevante, convinta di poter sedare qualsiasi opposizione interna con l’impiego della forza e la capacità di repressione del vasto e articolato apparato di sicurezza. Se l’azione di Õamås dovesse aver goduto del pieno sostegno iraniano, saremmo di fronte a un’evidente evoluzione del contrasto generazionale tra l’attuale compagine di governo e il pur maggioritario ambito riconducibile all’apparato di sicurezza sotto il controllo dei Guardiani della rivoluzione. Fattore che non sembra possibile riscontrare allo stato attuale delle dinamiche politiche iraniane. In termini più generali, occorre valutare quale potrebbe essere il concreto interesse dell’Iran all’esplosione di una guerra regionale. Qualora la crisi innescata dall’attacco di Õamås dovesse spostare il piano della con!ittualità con Israele su una scala geogra#ca più ampia che interessi Libano, Siria, Iraq e Iran, è arduo individuare un reale ritorno di interesse per quest’ultimo. Teheran, infatti, rischierebbe concretamente di perdere – o di vedere fortemente diminuita – l’in!uenza re-
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12. N. AL-MURGHABI, M. LUBELL, «Israel and Palestinian Islamic Jihad agree Gaza truce», Reuters, 14/5/2023.
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13. E. GOKSEDEF, «Iran warns Israel to stop war in Gaza or region will “go out of control”», Bbc, 23/10/2023.
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gionale così faticosamente costruita nell’ultimo decennio. Un con!itto regionale rischierebbe inoltre di riportare gli Stati Uniti in forze nel Medio Oriente a sostegno di Israele, con imprevedibili ricadute sulla sicurezza della Repubblica Islamica. La cautela è visibile nella linea di comunicazione dell’Iran, che attraverso il ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian continua a esortare Israele e Stati Uniti a non intraprendere azioni di ampia portata contro Õamås per impedire che lo scontro si espanda 13. Al tempo stesso, per la Repubblica Islamica si pone il dilemma di come capitalizzare quanto è accaduto senza incorrere in rischi diretti per la stabilità dei propri interessi. Il paese ha mostrato palese soddisfazione per il momentaneo accantonamento della possibilità di una normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele, sebbene la crisi abbia allarmato Riyad accrescendone la dif#denza verso l’Iran e i suoi clientes. Il sabotaggio dell’accordo saudo-israeliano indebolisce paradossalmente anche il fragile asse Teheran-Riyad, stante il crescente timore saudita di un eccessivo peso iraniano nella regione. La condizione ottimale per l’Iran, oggi, sarebbe il mantenimento dello status quo per evitare un massiccio intervento militare a Gaza e impedire un allargamento del con!itto a Libano, Siria e a sé stesso. Ciò permetterebbe a Teheran di sostenere la narrazione palestinese del «duro colpo» inferto a Israele senza però modi#care gli equilibri locali, nel solco di quanto avvenuto nel 2006. Con il duplice risultato di rafforzare l’immagine di Õamås e di accreditarsi ancor più quale attore rilevante in Medio Oriente. Al contrario, un con!itto che da Gaza si allargasse all’intera regione aprirebbe a gravi incognite. Su tutte, la proiezione dell’offensiva israeliana e il contestuale ingresso degli Stati Uniti, tornati a disporre in loco di un enorme potenziale militare di pronto impiego capace di minacciare direttamente l’Iran. Si varcherebbe in tal caso quella linea rossa che per oltre quarant’anni ha costituito il limite delle ambizioni iraniane, schiudendo scenari che in pochi sembrano voler esplorare nel sistema di potere della Repubblica Islamica.
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L’EGITTO È TRA DUE SEDIE
di
Fabrizio MARONTA
La nuova guerra Israele-Õamås è un duro colpo per Il Cairo, che vede minacciate le sue stinte credenziali di mediatore e la stabilità del Sinai. Se il conflitto e si estende, al-Søsø potrebbe dover scegliere tra testa (Stato ebraico) e pancia (palestinesi). Con esiti insondabili.
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1. K.W. STEIN, «Continuity and Change in Egyptian-Israeli Relations, 1973-97», Israel Affairs, primavera-estate 1997, vol. 3, n. 3-4, pp. 296-320.
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1. EL CALOR BIANCO CHE INFIAMMA DI NUOVO il Medio Oriente, l’Egitto cammina su una fragile e crepitante lastra di ghiaccio. È la stessa che ha percorso per decenni, ma che in alcuni momenti, come ora, si assottiglia pericolosamente minacciando di trascinarlo nel gorgo di problemi vecchi e nuovi. Dagli accordi di Camp David del 1978, una !essibile e spesso ambigua postura verso Israele, la causa palestinese e le sue "liazioni politico-istituzionali hanno scongiurato questo rischio, contro ogni previsione. Oggi la nuova, esplosiva crisi minaccia di far venire molti nodi al pettine. Partiamo dalla contraddizione di fondo, che l’alternanza di leader in Egitto e in Israele non ha mai pienamente risolto e che può essere così sintetizzata: i due paesi sono obbligati per contratto – per trattato – a intrattenere relazioni non belligeranti; ma niente e nessuno può obbligarli a "darsi appieno l’uno dell’altro, archiviando decenni di ostilità aperta e cavalcata dai rispettivi governi 1. Gli storici accordi "rmati il 17 settembre 1978 dal presidente egiziano Anwar al-Sadat e dal premier israeliano Menachem Begin dopo dodici giorni di negoziati segreti a Camp David (Maryland), sotto gli auspici del presidente statunitense Jimmy Carter, sfociano nella pace tra Egitto e Israele formalizzata a Washington il 26 marzo 1979. Quella israelo-egiziana è una pace che rileva in senso geostrategico perché ha assicurato l’assenza di con!itti militari tra i due paesi. Ciò ha consentito allo Stato ebraico di consolidare la propria sicurezza sul lungo con"ne meridionale (quasi 250 km) e di ottenere l’interessata collaborazione egiziana al controllo della crescente popolazione palestinese residente a Gaza. Ha anche permesso all’Egitto di disinnescare un profondo fattore d’insicurezza, di avvalersi del concorso (militare,
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d’intelligence) israeliano per la repressione del jihadismo nel Nord del Sinai e di rivolgere più attenzione e risorse al controllo del Canale di Suez, nonché alla disputa idrica con Sudan ed Etiopia (soprattutto) per il controllo del Nilo. Si può discutere se l’assenza di guerra basti a con!gurare la pace nel senso pieno del termine. È certamente un enorme passo avanti, dal punto di vista strategico e umanitario. Ma nel caso di Egitto e Israele non è mai trascesa in vera alleanza, in un rapporto cioè che superando ataviche dif!denze possa darsi per scontato anche in presenza di tensioni estreme, connotate da una forte carica emotiva oltre che da fattori strettamente geopolitici. È insomma un brillante matrimonio d’interesse: riuscito nella misura in cui il reciproco interesse era e resta forte, ma soggetto più di altre unioni all’arbitrio del cuore.
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2. Dopo la crisi di Suez del 1956 e l’invasione israeliana del Sinai, Egitto, Siria e Giordania !rmarono un patto di mutua assistenza militare in vista di una possibile guerra con Israele. Nel giugno 1967, dopo una serie di manovre militari dell’Egitto di Nasser, lo Stato ebraico attaccò preventivamente (diremmo oggi) le truppe egiziane e siriane: cominciava la guerra dei Sei giorni. La vittoria consegnò a Israele il controllo del Sinai e della Striscia di Gaza, sottratti all’Egitto. Sei anni dopo, nel 1973, Il Cairo e Damasco lanciavano un attacco a sorpresa su due fronti. La guerra dello Yom Kippur (o guerra d’Ottobre) non mutò sostanzialmente la situazione territoriale dei tre contendenti. Funse però da «innesco politico» per un concreto negoziato sui territori contesi dal 1967, consentendo alla Siria e soprattutto all’Egitto di reclamarli alla luce della concreta minaccia di guerra ricorrente. Minaccia brandita da un regime, quello di Sadat, che agitava con abilità lo stendardo del panarabismo, sulla scia del predecessore Nasser. La concretezza della prospettiva negoziale scaturiva anche, se non soprattutto, dalla percepita inevitabilità di un coinvolgimento statunitense. Il 25 ottobre 1973, dopo appena 19 giorni di guerra, Il Cairo contemplava infatti contro ogni sua previsione la Terza armata – punta di lancia dell’esercito egiziano – alla mercé di un furente Tzahal (esercito israeliano), i cui comandi premevano per annientarla. Israele trepidava invece per la sorte dei suoi 301 prigionieri di guerra (232 nelle mani degli egiziani, 65 dei siriani, 4 dei libanesi), divenuti !n da subito preziosa merce di scambio. Nella pericolosa situazione di stallo venutasi a creare, forza maggiore suggeriva (implicava) che gli avversari con!dassero nell’attivismo negoziale di Washington, data l’ovvia impossibilità di !darsi l’uno degli altri. È in tale contesto che la frenetica shuttle diplomacy dell’allora segretario di Stato Henry Kissinger, ad amministrazione ancora in sella – lo scandalo Watergate e il conseguente impeachment travolgeranno Richard Nixon nel 1974 – comincia a dare i suoi frutti nella forma di accordi territoriali puntuali e circoscritti. Accordi che, gradualmente, mutano lo status quo nella Penisola del Sinai. La forza dell’approccio di Kissinger – ripreso poi dall’amministrazione Carter – sta nel pragmatismo dei piccoli passi che non punta a mutare la reciproca, radicata percezione dei nemici, ma ad attrezzare una convivenza possibile. Per questo Washington si con-
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centra su condizioni, aree, scadenze, garanzie e contropartite del ritiro israeliano dai territori presi nel 1967, piuttosto che sulla natura della pace cui la mediazione punta. La diplomazia americana mira ai fondamentali: accettabile livello di sicurezza per Israele, con la garanzia dell’astensione da future aggressioni; salvaguardia di un minimo di deterrenza per l’Egitto, con il recupero del Sinai e la sopravvivenza della Terza armata 2. Territorio contro sicurezza: questi i termini, vitali, del matrimonio d’interessi propiziato dagli Stati Uniti a cannoni ancora fumanti e of"ciato da Carter, quattro anni dopo, a Washington.
2. Ibidem. 3. «U.S. Relations with Egypt», U.S. Department of State, Bureau of Near Eastern Affairs, 29/4/2022. 4. K.W. STEIN, op. cit.
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3. La guerra dello Yom Kippur produce una pace fortemente condizionata. In quanto tale, per molti versi ambigua. Forse la pace migliore possibile, certo di gran lunga migliore della sua assenza. Ma incompleta e insincera se misurata con il metro delle reciproche identità e percezioni. Quando tacciono le armi e subentra la diplomazia statunitense, l’Egitto non rinuncia al ruolo di spicco nel mondo arabo che richiede una giusta dose di antisionismo effettivo, oltre che retorico. Non dismette le riserve mentali sulla tendenza all’espansionismo territoriale dello Stato ebraico, stante la sua esigua profondità territoriale. Pertanto, manterrà il lauto aiuto militare da parte degli Stati Uniti – oltre 50 miliardi di dollari dal 1978, più circa 30 miliardi di aiuto allo sviluppo 3 – quale garanzia irrinunciabile per tenere in piedi la pace. Il Cairo resta paladino del diritto palestinese all’autodeterminazione e a una «pace onnicomprensiva», salvo accantonare la questione se funzionale al recupero del Sinai. Sposa la formula «terra in cambio di pace» – sancita nel 1967 dalla risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu – quale cornice dei negoziati arabo-palestinesi-israeliani. Ma abbraccia un’interpretazione estensiva della risoluzione, il cui riferimento al «ritiro delle Forze armate israeliane dai territori presi nel con#itto» (del 1967) è da intendersi come ritiro totale e permanente da tutti i territori occupati 4. Specularmente, la pace che segue lo shock del 1973 non scal"sce la paura israeliana del fronte arabo, Egitto compreso. Malgrado la constatata superiorità militare, lo Stato ebraico si rifugia ancor più sotto l’ala statunitense che di tale superiorità resta vitale garanzia. Mentre ambisce al riconoscimento del mondo arabo e dei suoi autonominati paladini, tra cui l’Egitto di Sadat e poi di Mubarak, Israele seguita dunque a perseguire il rafforzamento militare e la scissione del Cairo dal fronte antisionista, donde l’adesione nei negoziati alla formula «terra in cambio di pace». Una pace che, nell’ottica israeliana, per essere davvero af"dabile deve però trascendere la non belligeranza e dispiegare pieni rapporti economici, diplomatici, scienti"ci e di sicurezza, per spezzare il fronte anti-israeliano e offrire al mondo arabo un esempio concreto di convivenza possibile. Possibile, non ideale. La dirigenza israeliana di quegli anni, infatti, dif"da fortemente di Sadat: così Golda Meir, ma anche Yitzhak Rabin, Menachem Begin,
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Yigal Allon e Moshe Dayan. Ogni qualvolta Israele ed Egitto negoziano un accordo puntuale, il mediatore statunitense si sente chiedere se l’egiziano è sincero, se si può contare sul fatto che mantenga la parola data 5. Eppure, la necessità di sganciare Il Cairo dal fronte arabo fa premio su tutto: dal 1977 in poi, l’allora ministro degli Esteri israeliano Dayan chiederà più volte agli americani se gli egiziani siano disposti a "rmare una pace separata 6. L’Egitto appare candidato ottimale all’esperimento non solo in quanto avversario principale nella guerra d’Ottobre, ma anche per il tendenziale pragmatismo che ne impronta la politica estera, distinguendola dal cieco furore antisionista delle monarchie arabe. Negli anni che intercorrono tra la guerra del 1967 e quella del 1973, Sadat aveva infatti cercato di indurre Stati Uniti e Unione Sovietica a premere congiuntamente su Israele per fargli restituire il Sinai. E quando, nell’autunno 1973, Il Cairo sferra con gli alleati siriano e libanese l’attacco a sorpresa, lo fa con un obbiettivo tattico. «La nostra è stata una guerra di riconquista, non una guerra di liberazione» dei palestinesi o di annichilimento di Israele, dirà Sadat al ministro degli Esteri giordano Zayd Rifå‘ø dopo le ostilità 7. Se l’Egitto non avesse sperimentato in pochi giorni una disfatta militare e d’immagine, la sua postura sarebbe stata forse diversa, assai meno conciliante e (relativamente) duttile. Fatto sta che la guerra e il suo esito si riveleranno in grado di innescare e puntellare il negoziato 8. Il sospetto che alligna nella pace siglata il 26 marzo 1979 traspare con evidenza dall’articolo VI. Al punto 2 si speci"ca che «le parti si impegnano (…) a rispettar(n)e gli obblighi (…) indipendentemente dall’interazione con qualsiasi parte terza o con qualsiasi altro strumento esterno al presente trattato», mentre il punto 3 precisa che le parti «intraprendono tutte le misure necessarie ad applicare nelle loro relazioni quanto imposto dai patti multilaterali cui partecipano» 9. In altri termini: Israele ottiene (punto 2) dal Cairo l’impegno a sovraordinare la pace bilaterale al suo ruolo nel fronte arabo; l’Egitto strappa (punto 3) allo Stato ebraico la garanzia di potersi ascrivere ancora a tale fronte, pur con i caveat del caso. A minare autorità ed ef"cacia del panarabismo egiziano provvederà nel decennio successivo l’ostracismo delle monarchie arabe verso Il Cairo, motivato dall’accomodamento con Israele. Eppure, per l’Egitto di Sadat – e in modo più sfumato per quello di Mubarak – la pace del 1978-79 restava accordo transitorio in vista del totale ritiro israeliano dai Territori occupati nel 1967, in aggiunta e a prescindere dalla restituzione del Sinai 10. Ritiro che, quantomeno uf"cialmente, doveva (dovrebbe)
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5. C. HINTON, Camp David Accords, Heritage Books, 2019; W.B. QUANDT, Camp David: Peacemaking and Politics, Washington D.C. 1986, The Brooking Institution. 6. M.I. KAMEL, The Camp David Accords: A testimony by Sadat’s Foreign Minister, New York 1986, Routledge. 7. K.W. STEIN, op. cit. 8. «Study Group on “Lessons Learned From Arab-Israeli Negotiations”, Remarks by Joseph Sisco and Roy Atherton (participants in Secretary of State Kissinger’s 1973-76 “Shuttle Diplomacy”)», United States Institute of Peace, Washington D.C., 3/4/1991. 9. «Egypt and Israel – Treaty of Peace 1 (with annexes, maps and agreed minutes) – Signed at Washington on 26 March 1979», www.un.org 10. K.W. STEIN, op. cit.
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contemplare la nascita di una reale sovranità palestinese, ancorché sorvegliata. Per Il Cairo, insomma, il ritorno del Sinai nella propria disponibilità non implicava una pace «a tutto tondo» nel senso inteso dagli israeliani. E sebbene la deminutio dell’Egitto presso il fronte arabo ne in!ci per un certo tempo ruolo e statura, non ne altera la percezione strategica circa natura e intenzioni dello Stato ebraico.
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11. Intervista a Hosni Mubarak pubblicata dal quotidiano al-Tadamun il 5/1/1983, citato in C. LEGUM, H. SHAKED (a cura di), Middle East Contemporary Survey, New York 1978-79, Holmes & Meier.
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4. Tra il 1973 e il 1978, ma ancor più tra gli accordi di Camp David e il 6 ottobre 1981 – giorno dell’assassinio di Sadat – Egitto e Israele gettano le basi della loro «pace fredda», i cui postulati sono la passabile certezza che nessuno dei due avrebbe mosso guerra all’altro e che entrambi sarebbero rimasti vicini a Washington, garante ultimo della non belligeranza. Intanto, la guerra tra Iran e Iraq del 1980-1988 impegna per procura le due superpotenze, mentre quella del 1990-1991 innescata (a Urss scomparsa) dall’invasione irachena del Kuwait sposta nuovamente verso il Golfo l’attenzione dell’America. Nel 1993, con gli accordi di Oslo, Israele e l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) di Yasser Arafat concordavano una cornice di autogoverno palestinese nella Striscia e nella Cisgordania, ponendo le premesse per il successivo ritiro (1994) dell’esercito israeliano da Gaza e da Gerico. Mentre nel settembre 2005, consumatasi la seconda Intifada (2000-05), il gabinetto israeliano di Ariel Sharon completava il ritiro dalla Striscia. Se questi sviluppi contribuiscono alla tenuta della pace israelo-egiziana, molti altri la minacciano di continuo. La vacuità dell’autonomia palestinese, il bombardamento del reattore nucleare iracheno Osirak da parte israeliana nel giugno 1981, l’applicazione giuridica del diritto israeliano sulle Alture del Golan nel dicembre dello stesso anno, l’invasione del Libano (giugno 1982) da parte dello Stato ebraico e i massacri operati da Tzahal nei campi profughi di Âabrå e Šåtølå (settembre 1982), la continua crescita degli insediamenti, gli assassinî mirati di leader della resistenza palestinese, la feroce repressione israeliana dalla prima Intifada (1987-1988) e della seconda, solo per citare dinamiche ed episodi salienti. Tuttavia, pragmatismo e interesse nazionale seguitano a guidare la condotta dell’Egitto, che al netto di oscillazioni tattiche e ambiguità politiche resta ancorato a un saldo realismo. Nel 1983, incalzato sul perché sostenere l’assetto di Camp David, Mubarak replica: «Cosa comporterebbe rinnegare quell’accordo? (…) Comporterebbe dichiarare guerra a Israele. Ma se voglio dichiarare guerra, è essenziale che sia militarmente preparato. (…) E chi pagherebbe il conto di un con#itto? Gli arabi? Non saprei. (…) Gli Stati Uniti non mi darebbero armi per combattere Israele. Né me le darebbe l’Europa» 11. Ancora il leader egiziano nel 1987: «La pace [con Israele] non è contro i palestinesi. (…) Non abbiamo violato e non violeremo il Patto collettivo di difesa [arabo del 1950]. Non accettiamo la cessione di un centimetro di terra e non negozieremo sulla Palestina senza i rappresentanti del popolo
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palestinese. Ma se qualcuno mi chiede di violare gli obblighi dell’Egitto o di cancellare il trattato [di pace], io chiedo: che me ne verrebbe di utile?» 12. Negli anni successivi Mubarak tornerà sul concetto più volte 13, rimarcando il carattere vincolante ma fortemente utilitaristico – vincolante perché utile – dell’accomodamento con lo Stato ebraico. Eppure, specie nell’ultimo decennio dell’èra Mubarak le relazioni egiziano-palestinesi scontano forti e crescenti tensioni, tanto da spingere Õamås nel 2011 a salutare con giubilo il rovesciamento del ra’øs a seguito della «primavera» egiziana. Con il passare del tempo, infatti, Gaza torna la miccia in grado di in"ammare i rapporti tra Il Cairo e i palestinesi. Dopo il ritiro israeliano dalla Striscia, nel 2005, a gestire il territorio è l’Autorità nazionale palestinese (Anp) insieme all’Egitto, specie per quanto concerne il controllo dei 12 km di con"ne tra Gaza e il Sinai settentrionale. In quel periodo, Il Cairo arma e addestra le forze di sicurezza di Fatõ, cercando così di aumentare la propria in#uenza su un’Autorità nazionale palestinese di cui si "da poco 14. Questi sforzi non valgono a scongiurare l’ipotesi più temuta dall’Egitto, oltre che da Fatõ e da Israele: la vittoria di Õamås alle elezioni del 25 gennaio 2006 per il rinnovo del Consiglio legislativo palestinese. La reazione politica del Cairo, che riconosce il solo governo di Fatõ nella Cisgiordania e sposta l’ambasciata da Gaza a Råmallåh, segnala in modo inequivoco il nuovo tenore dei rapporti tra l’Egitto e il ritaglio palestinese adiacente. Sotto il pro"lo militare, all’isolamento politico fa da contraltare lo stato di assedio territoriale cui da quel momento Il Cairo assoggetta la Striscia da sud, in modo speculare a quanto Israele va facendo da est. Nel 2009 l’Egitto inizia la costruzione di una barriera al con"ne con Gaza: opera giusti"cata con esigenze di sicurezza, tra cui stroncare i traf"ci attraverso i molti tunnel sotterranei che bucano la frontiera. L’unico valico rimasto, quello oggi tristemente noto di Rafah, è aperto di rado a commercianti e viaggiatori. 5. Muõammad Mursø, esponente egiziano della Fratellanza musulmana eletto presidente nel giugno 2012 dopo la rimozione di Mubarak, è per Õamås una benedizione salutata con manifestazioni di piazza. Le relazioni Egitto-Õamås, in quel periodo, si consolidano tanto che a novembre – meno di quattro mesi dopo l’ascesa di Mursø – Il Cairo invia a Gaza il suo ministro degli Esteri, Hišåm Qandøl. Si tratta della prima e "nora unica visita uf"ciale di un esponente egiziano di tale livello presso le autorità palestinesi a Gaza, al culmine dell’Operazione Pilastro di difesa che dal 14 novembre vede le Idf (Forze di difesa israeliane) impegnate nella Striscia a eliminare obiettivi di Õamås, tra cui il capo dell’ala militare Aõmad Ãabarø.
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12. Intervista di Mubarak al quotidiano Al-Ittihad del 12/12/1987, riportato dal Foreign Broadcasts Information Service – sezione Middle East and North Africa (Fbis-Mena), i cui rapporti digitalizzati sono consultabili su www.lib.washington.edu 13. Dichiarazioni rese da Mubarak a Egypt Radio Network il 30/4/1992, alla Middle East News Agency il 6/3/1994 e di nuovo a Egypt Radio Network il 31/1/1995, riportate dal Fbis-Mena. 14. A. BAUER, «Egypt and the Palestinian Cause. An analysis of contemporary foreign and domestic political dimensions», Konrad-Adenauer-Stiftung, Of"ce of Palestinian Territories, gennaio 2022.
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Porto Said al-‘Arīš Bi’r al-‘Abd
S i n a i s e t t e n t r i o n a l e
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S i n a i m e r i d i o n a l e
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Strade Con!ni governatorati Divisione delle zone militari del Sinai stabilita dagli accordi di pace tra Egitto e Israele del 1979
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Zona A Zona B Zona C Zona D
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Il colpo di Stato con cui il primo luglio 2013 l’Esercito agli ordini di ‘Abd al-Fattåõ al-Søsø rimuove Mursø segna la brusca !ne della luna di miele con Õamås. Le relazioni tra questa e l’Egitto precipitano a livelli !nanche più bassi di quelli toccati sotto Mubarak, al punto che nel febbraio 2014 l’Egitto inizia un’intensa e sistematica opera di distruzione dei tunnel che collegano Gaza al Sinai. In pochi mesi ne vengono demoliti quasi 1.350, pari a circa l’80% del totale. Si stima che le perdite
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LE ZONE MILITARI DEL SINAI
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economiche per la Striscia – nei tunnel transitano traf!ci di ogni genere: armi, ma anche carburante, generi alimentari, materiali da costruzione e beni di consumo necessari alla sussistenza dei circa 2,3 milioni di residenti, oltre che alle esigenze militari di Õamås – s!orino i 230 milioni di dollari al mese 15. Nel marzo 2015 l’Egitto classi!ca inoltre Õamås «organizzazione terroristica» e lancia una campagna mediatica in cui l’accusa di essere dietro ai disordini che nel 2011 culminano nella rimozione di Hosni Mubarak. Due anni dopo, nel 2017, il ministero dell’Interno di Gaza (controllato da Õamås) annuncia la creazione di una fascia di sicurezza profonda 100 metri al con!ne con il Sinai, che corre per tutti i 12,5 km della frontiera ed è munita di tecnologie di sorveglianza: telecamere, sensori a infrarossi, torri di avvistamento e illuminazione. Il provvedimento segue l’intimazione del Cairo a contrastare i traf!ci e il passaggio di miliziani nei due sensi, per troncare qualsiasi relazione tra Õamås e i gruppi armati presenti nel Sinai. Prevedibilmente, Israele appoggia !n da subito il «nuovo» corso egiziano. Gerusalemme si attiva diplomaticamente a Washington e nelle maggiori capitali europee per sostenere il regime di al-Søsø e scongiurarne l’isolamento politico-economico da parte dell’Occidente, tentato di sanzionare la rimozione violenta del regolarmente eletto Mursø. Israele sfonda una porta semiaperta, stante il crescente timore occidentale – statunitense in primis – per la deriva caotica e violenta delle «primavere». Deriva cui dal 2011 la rimozione di Muammar Ghedda! in Libia e la guerra civile siriana imprimono forte accelerazione, aprendo ampi spazi d’in#uenza subito sfruttati dalla Russia (tra gli altri). Gli effetti della rinnovata apertura di credito israeliana al Cairo non tardano a manifestarsi nei rapporti bilaterali. Quando al-Søsø, da poco al potere, si confronta nel Sinai con attacchi e imboscate all’Esercito, lo Stato ebraico fornisce intelligence per colpire le milizie jihadiste e dà luce verde – in deroga a quanto previsto da Camp David – al vasto dispiegamento di truppe egiziane nelle zone B e C della penisola per contrastare i gruppi tak!ri con armi pesanti, veicoli corazzati e incursioni aeree 16. L’8 giugno 2014, nel primo discorso uf!ciale da presidente, al-Søsø dichiara: «Lavoreremo per ottenere l’indipendenza della Palestina con capitale Gerusalemme Est», in linea con l’opposizione di Sadat e di Mubarak acché l’intera città divenisse capitale dello Stato ebraico. Eppure, la sua reiterata insistenza sulla soluzione dei due Stati indebolisce in Egitto quanti – islamisti, nasseriani, sala!ti, sinistre – ri!utano di riconoscere Israele e rivendicano ai soli arabi le terre palestinesi 17. Se queste posizioni appaiono contraddittorie, oggi come ieri, è perché in parte lo sono. Nel valutarle, però, occorre tenere bene a mente il carattere transattivo della relazione egiziano-israeliana, ma anche di quella egiziano-palestinese. Dove a far premio per Il Cairo (e per lo Stato ebraico) è in primo luogo la sicurezza. Da
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15. Ibidem. 16. M. SOLIMAN, «Sisi’s New Approach to Egypt-Israel Relations», The Washington Institute for Near East Policy, 29/7/2016. 17. Ibidem.
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quando, nel 2006, Õamås ha assunto il controllo di Gaza, l’Egitto – fatta salva la breve parentesi di Mursø – ha sempre interagito con il gruppo palestinese mediante il suo potente apparato d’intelligence. Se sotto questo pro!lo al-Søsø si inserisce nel solco di Mubarak, a differire ora è soprattutto la postura di Õamås. Dal 2014 questa diviene infatti molto più antagonistica, per l’usurpazione dell’af!ne Mursø che priva la dirigenza della Striscia di un referente irreplicabile al Cairo. Non aiuta la recrudescenza del jihadismo nel Sinai, che irrigidisce ulteriormente il governo egiziano – apparati civili e militari – precludendo qualsiasi ipotesi di vera distensione delle relazioni Egitto-Gaza.
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18. A. ABU AMER, «Egyptian-Palestinian Relations Since the 2013 Coup», Egyptian Institute for Studies, Political Reports, 11/3/2021. 19. Ibidem.
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6. È dunque puro istinto di sopravvivenza politico-militare quello che, dal 2015 in poi, spinge Õamås a collaborare con l’intelligence egiziana per il contrasto al jihadismo nel Sinai, ma anche dentro Gaza dove agiscono gruppi sala!ti. In cambio, al-Søsø acconsente al miglioramento della situazione umanitaria nella Striscia e all’apertura del sorvegliatissimo valico di Rafaõ per il passaggio del traf!co commerciale. Ciò prelude alla normalizzazione dell’autunno 2017. A settembre, la dirigenza di Õamås annuncia la dissoluzione del comitato amministrativo messo in piedi sei mesi prima, aprendo così la strada all’assunzione di alcune funzioni di governo nella Striscia da parte dell’Autorità nazionale palestinese. A metà ottobre i rappresentanti di Õamås e di Fatõ siglano un accordo di riconciliazione mediato dal Cairo, mentre il primo novembre le forze di sicurezza della Pa sono schierate sul lato palestinese del valico di Rafaõ. Per l’occasione Õamås esibisce un volto dialogante e «moderato». Si dichiara movimento nazionale palestinese «indipendente», a rimarcare il distacco dalla Fratellanza musulmana invisa all’Egitto; fa un passo verso Israele, affermando di accettare uno Stato palestinese con i con!ni del 1967. L’operazione però non convince. Il governo Netanyahu gioca – colpevolmente secondo opposizioni, coloni e buona parte dell’apparato militare – la carta Õamås contro l’Anp dello screditato Abu Mazen, ma prosegue la campagna di assassinî mirati dentro e fuori Gaza. Mentre gli scontri del 2021, terminati dopo 11 giorni e oltre 200 vittime civili (quasi tutti palestinesi della Striscia) grazie alla mediazione qatarino-egiziana, riportano ai giorni più bui della seconda Intifada. Frattanto, alla vigilia degli accordi di Abramo del 2018 (annunciati da Trump nel 2017), l’esercito egiziano inizia la costruzione di un’ulteriore barriera di cemento al con!ne con Gaza, ad appena 10 metri dal muro edi!cato un decennio prima 18. Precede l’opera l’allargamento da 500 a 1.500 metri della fascia di sicurezza istituita nel 2014 in territorio egiziano, con conseguente spostamento verso l’interno del Sinai di centinaia di abitanti. Õamås non prende bene la notizia, leggendovi – correttamente – un non troppo implicito avvertimento politico del Cairo 19. Fatto ancor più grave (per Õamås) in quanto sono proprio la presenza dei jihadisti nel Sinai e la percepita utilità del movimento al loro contrasto che propiziano la tregua con l’Egitto. L’effera-
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to attacco del 7 ottobre rende pertanto Õamås una conclamata e inequivoca minaccia alla sicurezza nazionale egiziana, in quanto la guerra che ha scatenato rischia di riverberarsi sul Sinai come mai dal 1967. Lo attesta, tra l’altro, il piano elaborato dal ministero dell’Intelligence israeliano che prevede di sfollare l’intera popolazione della Striscia (oltre due milioni di persone) in campi profughi nel Sinai 20. Incubo che Il Cairo è fermamente intenzionato a scongiurare Nell’ondivaga traiettoria dei rapporti Egitto-Õamås (più in generale, Egitto-palestinesi) ed Egitto-Israele, i regimi del Cairo – per quanto autoritari – devono poi tener conto della piazza. Una maggioranza trasversale della popolazione conserva sentimenti "lopalestinesi. Nel 2020 il con#itto israelo-palestinese era «molto o abbastanza» importante per il 94% degli egiziani 21, mentre per il 74% «la causa palestinese riguarda(va) tutti gli arabi» e l’85% «avversa(va) legami diplomatici tra Egitto e Israele» 22. A motivare questi giudizi, quasi sempre, è «l’occupazione (della Palestina) e i diritti dei palestinesi», che muovono sentimenti di norma acuiti dalla guerra e dalla brutalità della stessa 23. Per questo il 79% degli egiziani approverebbe una «pace giusta con Israele» – posto che quella del 1979 non è ritenuta tale – se lo Stato ebraico accogliesse le condizioni delineate nel 2002 dalla Arab Peace Initiative, il piano in dieci punti sostenuto dalla Lega Araba (su impulso saudita) che, tra l’altro, prevede il completo ritiro israeliano entro i con"ni del 1967 24. Di contro, la diaspora palestinese in Egitto è esigua – circa 70 mila persone, lo 0,1% della popolazione – e dispersa su gran parte del territorio egiziano, in quanto a differenza di Giordania, Siria e Libano, Il Cairo non ha mai chiesto il sostegno dell’Unrwa (United Nations Relief and Works Agency) per la gestione dei rifugiati e dunque sul suo suolo non sono mai stati creati campi profughi. Ciò ha favorito l’integrazione dei palestinesi con la popolazione locale 25 (e il controllo da parte del governo), ma ha loro impedito di fare massa critica presso l’opinione pubblica, che resta comunque simpatetica verso la loro causa. 7. In quanto unico paese a intrattenere rapporti consolidati, sebbene altalenanti, con Israele e con i vari soggetti palestinesi (Olp, Anp, Fatõ, Õamås), l’Egitto è stato e resta in posizione privilegiata per mediare nel con#itto israelo-palestinese. Negli ultimi decenni, tutte le tregue seguite ai ricorrenti scoppi di violenza hanno visto Il Cairo giocare un ruolo importante. Persino Mursø, malgrado la brevità del suo potere e l’appiattimento su Õamås, ha svolto una parte non secondaria in due delicate circostanze: il negoziato per la liberazione del carrista israe-
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20. A. TEIBEL, «An Israeli ministry, in a ‘concept paper,’ proposes transferring Gaza civilians to Egypt’s Sinai», AP, 31/10/2023. 21. «The Annexation Debate: Attitudes in Israel and Key Arab States», Zogby Research Services, 24/6 –5/7/2020. 22. «The 2018-2020 Arab Opinion Index: Main Results in Brief», Arab Center (Washington D.C.), 16/11/2020. 23. A. BAUER, op. cit. 24. Si veda nota 20. 25. D. NAOUM, «Palestinians in Egypt», The Palestinian Return Centre, dicembre 2016.
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26. A. BAUER, op. cit. 27. H. HOSNY, «Egypt treads cautiously in response to Trump’s deal of the century», Al-Monitor, 13/2/2020. 28. S. AL-ATRUSH, «Egypt claims it warned Israel that Gaza could “explode” before Õamås assault», Financial Times, 11/10/2023. 29. A. LEWIS, N. ELTAHIR, «Cairo Peace Summit ends without Gaza breakthrough», Reuters, 21/10/2023
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liano Gilad Shalit, catturato nel giugno 2006 da un commando palestinese a Kerem Shalom (non lontano dal con!ne con la Striscia) e liberato nell’ottobre 2011 in cambio di 1.027 prigionieri palestinesi; le trattative per la tregua che nel 2012 pone !ne, dopo sette giorni (14-21 novembre), all’Operazione israeliana Pilastro di difesa. Due anni più tardi, durante l’Operazione Margine di protezione (Protective edge) svolta da Israele sempre a Gaza, al-Søsø coglie al volo il ri!uto israeliano di una mediazione internazionale per rendersi «negoziatore indispensabile» di un cessate-il-fuoco che ricalca quello precedente. Questa volta però al-Søsø, a differenza di Mursø, non dialoga direttamente con Õamås, individuando (al pari di Israele) nell’Anp l’unico interlocutore palestinese legittimo, onde squali!care Õamås 26. La mediazione egiziana nel con#itto del 2021 – il più serio degli ultimi anni, prima di quello iniziato il 7 ottobre 2023 – segue il rapprochement con Õamås del 2017. La delegazione egiziana, guidata dal capo dell’Intelligence ‘Abbås Kåmil, è pertanto inviata a Gaza a negoziare direttamente con Õamås, al quale strappa la tregua dopo undici giorni di scontri 27. In anni recenti, tuttavia, il Qatar ha in parte surclassato l’Egitto nei negoziati, in virtù dell’ascendente politico, economico e diplomatico che esercita su Õamås. Ascendente il cui aumento è andato di pari passo con il complessivo deteriorarsi dei rapporti tra Gaza e Il Cairo, specie dopo la rimozione di Mursø. Anche Israele ha propeso per la mediazione qatarina, sebbene la crescente instabilità che promanava da Gaza chiamasse in causa il con!nante Egitto. La condotta israeliana, per quanto a posteriori miope, appariva motivata dalla riappaci!cazione con il mondo arabo in chiave anti-iraniana (messa ora in forse dalla guerra), oltre che dall’oggettiva in#uenza del Qatar su Gaza. L’inclinazione di Õamås per Doha, invece, assume retrospettivamente una luce sinistra: mentre bluffava con Il Cairo, il gruppo si premurava di non alienare uno dei suoi maggiori !nanziatori, senza le cui provvigioni – sommatesi al cruciale sostegno iraniano – l’attacco del 7 ottobre sarebbe forse risultato più dif!cile da approntare e sferrare. Questo rende ancora più bruciante per l’Egitto l’offensiva di Õamås, che oltre a comprometterne la sicurezza ne sminuisce ulteriormente il ruolo politico. Sotto questo pro!lo, il fatto che Il Cairo affermi di aver avvertito Israele di un imminente attacco e che lo Stato ebraico non l’abbia ascoltato – versione smentita da Netanyahu, dalle Idf e dallo Shin Bet, l’intelligence israeliana – può essere letto anche come un modo per recuperare credito 28. Idem dicasi per il comunicato congiunto rilasciato il 21 ottobre – dopo il fallimentare vertice del Cairo e la partenza di Biden da Israele – da al-Søsø e dal re giordano ‘Abdullåh, che mette in guardia Israele dall’in#iggere «punizioni collettive» ai palestinesi 29.
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Per ora, i termini della pace ambigua restano comunque validi. L’Egitto dipende fortemente da Israele – dalla sua stabilità e collaborazione – per la sicurezza del Sinai. Per questo teme inoltre l’af!usso di rifugiati, in quanto dif"cilmente una vasta e protratta instabilità nel Nord della penisola rimarrebbe circoscritta 30. Per Arabia Saudita, Cina, India e per gli altri paesi che fanno ampio e diretto af"damento su Suez nei loro commerci, la prospettiva di un’insorgenza jihadista che sfruttando la crisi umanitaria arrivasse a minacciare il canale è un incubo. Lo è tanto più per l’Egitto, le cui disastrate "nanze statali – specchio di una situazione economica altrettanto critica – nel 2023 hanno introitato in media 740 milioni di dollari al mese in pedaggi 31. Mentre per i sauditi la proiezione dell’instabilità sul Mar Rosso rappresenterebbe un ulteriore problema. A puntellare l’algida unione di comodo tra Israele ed Egitto è anche la comune preoccupazione per l’in!uenza iraniana, che il protrarsi della guerra e la sua eventuale estensione potrebbero rafforzare. Da ultimo, ma non per importanza, Il Cairo resta aggrappato all’assistenza militare statunitense, che porta nelle casse statali 1,3 miliardi di dollari annui. Soldi destinati in gran parte ad attività antiterrorismo e di pattugliamento dei con"ni che contribuiscono alla sicurezza dello Stato ebraico, ma che tornano utili all’Egitto anche per mantenere una discreta deterrenza verso Etiopia e Sudan nella disputa per le acque del Nilo. Di fronte alla nuova, esplosiva situazione mediorientale, non vi è però garanzia che gli imperativi strategici a fondamento della convivenza israelo-egiziana reggano l’urto di un con!itto lungo, sanguinoso e altamente destabilizzante. Questo delicato equilibrio ha tenuto in passato, superando quasi indenne numerose incognite. Ma le incognite sono per de"nizioni insondabili. Questa guerra lo è come e più di altre.
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30. A. CLARKSON, «Egypt Could End Up Being a Casualty of the War in Gaza», World Politics Review, 11/10/2023. 31. S. GALAL, «Monthly revenue of the Suez Canal Authority from January 2021 to January 2023», Statista, 9/5/2023.
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GIOCHI DI SPECCHI NEL GOLFO
di
Leonardo BELLODI
La guerra fra Israele e Õamås rimescola le carte nella regione più strategica del Medio Oriente. I rapporti tra Stati arabi e Stato ebraico peggiorano drasticamente, anche se il diavolo sta nei dettagli diplomatici e commerciali. Il Qatar, ‘amico’ di tutti e nessuno.
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1. RE MESI PRIMA DEL BARBARO ATTACCO DI Õamås, l’intelligence di un paese storicamente vicino a Israele scriveva che i !ussi di denaro e di armi provenienti dall’Iran verso la Cisgiordania, passando dai porosi con"ni di Siria e Giordania, erano in aumento. E "n qui ci siamo. Ma il rapporto si concludeva dicendo che Õamås avrebbe cercato di fomentare attacchi terroristici dalla Cisgiordania e da Gerusalemme, non da Gaza, dove conveniva conservare una situazione di relativa calma, preservare le vite degli abitanti e mantenere aperti i varchi di con"ne per consentire all’economia del territorio di funzionare. Inoltre, gli attacchi dalla Cisgiordania avrebbero messo in dif"coltà l’Autorità nazionale palestinese, che governa la regione e che da molti anni si contrappone a Õamås. Purtroppo l’analisi si è rivelata profondamente errata. Si dice che i servizi egiziani avessero avvertito i colleghi israeliani. Ammesso sia vero, spesso questi messaggi sono troppo generici per capire da dove viene il pericolo, dunque per prevenirlo. Un errore dunque, come lo de"nisce un servizio occidentale, che non riguarda le capacità ma le intenzioni. Sono in molti a chiedersi come un’intelligence tra le più ef"caci al mondo sia stata colta così di sorpresa. Ma la vera domanda è perché Õamås abbia compiuto il massacro del 7 ottobre dal momento che, come il rapporto dell’intelligence di agosto aveva previsto, la reazione di Israele nella Striscia di Gaza sarebbe stata spietata. Una possibilità è che Õamås, forse dietro suggerimento della più alta gerarchia iraniana, abbia voluto dividere il mondo arabo e sabotare il processo di avvicinamento geopolitico e commerciale tra i più importanti Stati arabi e Israele. Se è vero che a valle dell’attacco l’Iran ha negato ogni coinvolgimento, pare inverosimile, meglio impossibile, che sia stato completamente all’oscuro delle intenzioni di Õamås. Infatti il con!itto si sta estendendo al di là dell’ambito geopolitico e tocca i sentimenti degli arabi e delle nazioni musulmane, generando odio nei confronti
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di Israele misto a un senso di frustrazione dettato dall’impotenza di fronte alla tragedia che sta vivendo la popolazione di Gaza. L’offensiva di Õamås ha riavvicinato le animose fazioni palestinesi. L’Organizzazione per la liberazione della Palestina, il cui presidente Abu Mazen è sempre stato contestato dalla leadership della Striscia, ha emesso un duro comunicato giusti!cando l’attacco quale legittima reazione alla politica espansionistica di Israele. In un recente sondaggio i palestinesi della Cisgiordania hanno affermato che preferirebbero il leader di Õamås Ismå‘øl Haniyya ad Abu Mazen. Õamås potrebbe far leva su questo sentimento e sui risultati della prova di forza del 7 ottobre per fomentare gruppi terroristi presenti in Cisgiordania quali ‘Arøn al-Usûd, Jihåd islamica e Brigate Ãanøn. Per complicare il quadro, le dimostrazioni pro palestinesi si moltiplicano non solo nei paesi arabi del Medio Oriente ma anche da parte delle comunità musulmane nel mondo: Turchia, Giordania, Egitto, Francia, Inghilterra, Canada, Belgio, Italia eccetera. Questa ondata potrebbe minare le fondamenta degli accordi di Abramo, !rmati appena tre anni fa da Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein sotto l’egida dell’amministrazione Usa. Un accordo analogo è, o era, in via di de!nizione con l’Arabia Saudita, il più grande, potente e autorevole Stato musulmano. L’Iran non sta certo a guardare. Cerca anzi di trarre vantaggio sul piano geopolitico presentandosi come ago della bilancia nelle relazioni tra Occidente e mondo. Non è un caso se il principe saudita Muõammad bin Salmån ha avuto un colloquio telefonico con il presidente iraniano Ebrahim Raisi all’indomani dell’attacco. Evento storico. Nemmeno i colloqui per la normalizzazione delle relazioni tra Arabia Saudita e Iran intercorsi nei mesi scorsi, facilitati dalla Cina, erano arrivati a tanto. E se il segretario di Stato americano Antony Blinken ha avviato un tour nelle capitali di Israele, Giordania, Qatar, Emirati Arabi per riaffermare la vicinanza degli Stati Uniti a Israele, il primo ministro iraniano Hossein Amir Abdollahian si è recato nei paesi dove la comunità sciita è più in"uente e legata alla Repubblica Islamica: Iraq, Libano e Siria. Risultano anche costanti contatti tra Teheran e Mosca, per rafforzare una relazione consolidatasi dopo l’invasione russa in Ucraina. L’Iran rifornisce la Russia di armi e droni e le truppe paramilitari del Wagner (che sembra ora inquadrato nelle Forze armate regolari di Mosca) sono presenti in Siria, Libia e forse anche Libano, pronte a estendere il con"itto israeliano. Non è forse un caso che il capo della Lega Araba, Aõmad Abû al-Ôayt, si sia recato a Mosca il 9 ottobre, appena due giorni dopo l’inizio della guerra. Ognuno sta muovendo le proprie pedine. Al centro della trama c’è Teheran. La coreogra!a a volte dice più delle parole stesse: il 17 ottobre Ali Khamenei, Guida suprema della Repubblica Islamica, esibiva dietro di sé, in un discorso televisivo alla nazione, le foto di sette scienziati nucleari uccisi in Iran, a ricordare come il regime vorrà vendicarli.
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2. A un lettore disattento l’area del Golfo appare l’unica regione coesa del Medio Oriente. In realtà i sei membri del Consiglio di cooperazione del Golfo
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(Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Kuwait e Oman) hanno da sempre posizioni distanti, proprie rivendicazioni di prestigio, peculiarità religiose, politiche estere spesso inconciliabili nonché gelosie personali. Non certo un esempio di blocco unito. Il diverso atteggiamento nei confronti della questione palestinese ne è dimostrazione lampante. Nel 2014, l’emiro del Qatar, sceicco Tamøm bin Õamad Ål Ñånø, aveva dichiarato che «non c’è saggezza nel nutrire ostilità nei confronti dell’Iran». Una posizione forte, contestata dagli altri paesi del Golfo. Per tutta risposta, Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Yemen sospendevano i rapporti diplomatici con il Qatar. Riyad in particolare accusava Doha di sostenere gruppi terroristici «che mirano a destabilizzare la regione, come i Fratelli musulmani, l’Is e al-Qå‘ida». In Libia, il Qatar ha da subito !nanziato il governo di Tripoli, in parte sostenuto dai Fratelli musulmani, mentre gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto preferivano stringere rapporti con Bengasi in Cirenaica, il cui presidente di fatto è il feldmaresciallo Õaftar. Oltre all’interruzione delle relazioni diplomatiche, l’Arabia Saudita chiudeva i con!ni terrestri che collegano il Qatar alla terraferma. E i cinque paesi annunciavano la sospensione dei collegamenti marittimi e aerei con Doha. Il Qatar era espulso anche dalla coalizione militare dei paesi del Golfo impegnati in Yemen, guidata da Riyad. Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Yemen hanno poi presentato un documento in tredici punti, base per la !ne del blocco. Tra le condizioni vi erano la !ne della partnership con l’Iran e l’espulsione dei membri dei Guardiani della rivoluzione presenti sul territorio qatarino; la !ne di ogni intesa militare-economica con Õizbullåh, Fratelli musulmani, Is e al-Qå‘ida, accompagnata da una dichiarazione uf!ciale che le classi!casse «organizzazioni terroristiche». Oggi la situazione è cambiata: il blocco è stato rimosso, la copertura mediatica delle esternazioni dei Fratelli musulmani garantita dall’emittente qatarina Al Jazeera si è attenuata e alcuni leader del movimento hanno dovuto lasciare il paese. Permangono ancora aree di dif!denza soprattutto tra il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti. Visioni divergenti che ritroviamo oggi nella differente posizione assunta dai due paesi nei riguardi degli attacchi contro Israele. Paradossalmente, negli anni scorsi abbiamo assistito a un discreto avvicinamento dell’Arabia Saudita alla Fratellanza musulmana e a Õamås, dettata dalla convinzione che migliorare le relazioni con questi gruppi li avrebbe allontanati dalla morsa dell’Iran. Già nel 2015 una delegazione di Õamås guidata da Œålid Maš‘al, poi un’altra nel 2016 con a capo Ismå‘øl Haniyya (che avrebbe poi sostituto Maš‘al alla guida del movimento) si recavano a Riyad. Insomma, i rapporti dei membri del Consiglio di cooperazione del Golfo nei confronti dell’Iran, dei Fratelli musulmani e di Õamås sono variegati, non univoci. Si assiste a un gioco di specchi dove nulla di ciò che appare in super!cie è necessariamente vero o determinante. Nel 2010, le relazioni di Õamås con gli Eau erano particolarmente tese a causa dell’uccisione a Dubai di un comandante militare del movimento islamico,
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Maõmûd al-Mabõûõ, attribuita al Mossad. Oggi la situazione è profondamente cambiata. Verso la !ne del secondo mandato di Obama, le agenzie di intelligence Usa hanno intercettato alcune telefonate tra alti funzionari israeliani e degli Eau, comprese chiamate dirette tra Netanyahu e un leader emiratino. Funzionari dei due paesi si sono poi incontrati segretamente a Cipro per discutere di come contrastare l’accordo sul nucleare iraniano. Abu Dhabi ha fatto da apripista agli accordi di Abramo dell’agosto 2020. Da allora l’avvio dei rapporti diplomatici con Israele si è accompagnato al forte incremento delle relazioni economico-!nanziarie tra i due paesi. Nel 2021, ad esempio, il fondo Mubadala ha acquisito il 22% del giacimento israeliano di gas offshore Tamar mettendo sul piatto più di un miliardo di dollari. Al di là della pur considerevole cifra, l’operazione ha un signi!cato simbolico dal momento che apre la cooperazione tra i due paesi nel grande gioco energetico del Mediterraneo orientale, dove sono protagonisti indiscussi l’Egitto e lo stesso Israele. Non è un caso dunque che la posizione degli Emirati Arabi Uniti sull’attacco a Israele sia stata la meno vicina alla causa palestinese. Abu Dhabi ha stigmatizzato l’assassinio di migliaia di civili innocenti e il ministro degli Esteri ha dichiarato che «gli attacchi di Õamås contro le città e i villaggi israeliani vicino alla Striscia di Gaza, così come il lancio di migliaia di razzi su località abitate, rappresentano un’escalation seria e grave». Il ministro del Commercio estero degli Emirati è andato ancora più lontano, affermando che «non si mischia il commercio con la politica». Da notare però un comunicato del capo della polizia di Dubai che addossa la responsabilità della guerra a Israele, analogamente a quanto sostenuto da altri paesi musulmani. Posizione strana dal momento che non è usuale nel Golfo che vi siano voci «fuori dal coro» rispetto alla posizione uf!ciale. Una spiegazione potrebbe trovarsi nel fatto che, mentre l’Emirato di Abu Dhabi vive della vendita di petrolio, quello di Dubai, che ne ha molto meno, sostiene il proprio bilancio grazie agli investimenti !nanziari e immobiliari, molti dei quali sono in mano a esponenti iraniani.
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3. La posizione dell’Arabia Saudita, il più popolato, potente e rappresentativo paese per i musulmani di tutto il mondo, è più dif!cile da descrivere. Riyad è sempre stata la più stretta alleata degli Stati Uniti nella regione del Golfo. Complice la forte dipendenza degli Usa dal petrolio saudita. Washington nel contempo garantiva all’Arabia Saudita appoggio militare e forniture al suo esercito. La situazione è cambiata radicalmente con la scoperta e la relativa estrazione di petrolio e gas di scisti negli Stati Uniti, che sono così diventati il primo produttore al mondo di idrocarburi. La dipendenza è diminuita e le relazioni si sono af!evolite, né sono mancati i contrasti. All’inizio del 2023, i due paesi hanno ritrovato un certo spirito di collaborazione che ha avuto come effetto non secondario quello di avvicinare Gerusalemme a Riyad. Nel maggio scorso Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale di Biden, ha incontrato Muõammad bin Salmån per preparare la visita del segretario di Stato Blinken. Obiettivo: normalizzare i rapporti tra Israele e Arabia Saudita. A
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margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, il 20 settembre, Muõammad bin Salmån dichiarava al canale statunitense Fox News: «Ogni giorno ci avviciniamo un po’ di più». Riyad chiedeva garanzie di sicurezza e un maggiore sostegno militare da Washington, oltre alla cooperazione nello sviluppo di un proprio programma nucleare civile. Questo dialogo non piaceva affatto a Teheran. E nemmeno Israele era molto contento che l’Arabia Saudita avviasse un proprio programma nucleare, ancorché civile. Malgrado le rassicurazioni da parte di Riyad, sono in pochi a pensare che dopo questa guerra l’accordo non subirà qualche rallentamento. L’Arabia Saudita, così come altri paesi musulmani vicini a Israele, dovrà camminare sul !lo del rasoio contemperando gli impegni con lo Stato ebraico con la solidarietà alla causa palestinese. La risoluzione dell’equazione politico-diplomatica è resa ancora più dif!cile dall’inserimento di un’ulteriore variabile: il 10 marzo 2023, i responsabili delle cancellerie iraniana, Hossein Amir-Abdollahian, e saudita, Fayâal bin Farõån, hanno !rmato a Pechino un accordo per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche. Intesa la cui realizzazione è stata possibile grazie ai buoni auspici di Pechino. E proprio la Cina ha emesso un comunicato a valle dell’attacco nel quale censurava la politica di Israele a Gaza e in Cisgiordania. Di qui l’imbarazzo dei leader sauditi nel preparare la posizione uf!ciale dopo il massacro del 7 ottobre. Riyad ha subito dichiarato che avrebbe fatto di tutto nel confrontarsi con gli attori regionali e internazionali per evitare una scalata del con"itto. Posizione tutto sommato piuttosto neutra, sottolineata qualche ora dopo da un comunicato congiunto dello stesso tenore dei leader saudita ed egiziano. Sono in pochi a non aver notato l’anomalia: Egitto e Arabia Saudita insieme su questa linea – qualcosa di non scontato. Il giorno dopo però Riyad ha corretto il tiro sottolineando la legittimità della causa palestinese, biasimando la politica espansionistica di Israele e aggiungendo, tra le righe, una frase in gergo diplomatico per «ve lo avevamo detto che sarebbe successo». In un comunicato del 7 ottobre, il Consiglio di cooperazione del Golfo ha dichiarato che la responsabilità della crisi era da addebitarsi all’occupazione israeliana e ai continui e "agranti attacchi nei confronti dei palestinesi, sposando così la posizione di Kuwait, Oman e Qatar. Già, il Qatar. Paese chiave nell’attuale contesto, così come è stato determinante nelle operazioni di evacuazione degli occidentali dall’Afghanistan a seguito del ritiro degli Stati Uniti e della missione militare internazionale da quel paese. Nello stesso giorno dell’attacco, Doha ha emesso un comunicato durissimo che ha fatto sollevare più di qualche sopracciglio in tutte le cancellerie occidentali. Il comunicato non esprimeva alcun cordoglio per le centinaia di innocenti vittime civili biasimando invece la miopia della politica israeliana. Posizione alla quale Doha ha cercato di rimediare nei giorni successivi rilanciando la propria mediazione nel tentativo di liberare gli oltre duecento ostaggi detenuti da Õamås nei tunnel di Gaza. Posizione e ruolo del Qatar sono segnate da apparenti contraddizioni. Questo paese ha il più alto pil pro capite al mondo grazie ai suoi enormi giacimenti
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GIOCHI DI SPECCHI NEL GOLFO
di gas. I suoi concorrenti diretti, in termini di produzione, sono Russia e Iran, paesi però fortemente penalizzati dalle sanzioni economiche adottate da Stati Uniti, Unione Europea e Gran Bretagna. Il Qatar si è dunque trovato al centro dello scenario gasiero internazionale, vista anche l’importanza del gas nel processo di transizione energetica. Gli aumenti del prezzo del gas degli ultimi anni lo hanno reso ancora più ricco. Nel corso del con!itto afghano, il regime talibano risiedeva a Doha. Molti leader di Õamås hanno trovato rifugio nella capitale del piccolo ma potente Stato. Il Qatar però ospita contemporaneamente il quartier generale locale dello United States Central Command (Centcom), perno della presenza americana in Medio Oriente. Formidabile equilibrismo. Israele non ama queste contorsioni ma "nanzia con somme considerevoli i progetti umanitari a Gaza. In passato, Doha ha cercato di mediare i forti e apparentemente inconciliabili dissidi tra Õamås e il partito palestinese Fatõ che governa la Cisgiordania. Nel 2012 l’allora emiro del Qatar, lo sceicco Õamad bin Œaløfa Ål Ñånø, è stato il primo capo di Stato a recarsi a Gaza, controllata da Õamås, portando con sé un assegno di centinaia di milioni di dollari. Ma Doha "n dal 1990 ha permesso che Israele mantenesse un uf"cio di rappresentanza commerciale nel proprio paese quando tutti gli altri Stati musulmani non ne riconoscevano nemmeno l’esistenza. L’approccio qatarino è insomma improntato al pragmatismo, prova ne sia che ha comunicato al governo americano che non supporta Õamås ma lo considera un attore che non può essere eluso. Al momento il Qatar è l’unico Stato sul quale Israele possa davvero contare per cercare di risolvere il dramma degli ostaggi. Nessuno sa oggi come evolverà la crisi né quali maschere indosseranno gli attori delle partite mediorientali. Noi occidentali dovremmo forse fare tesoro delle parole di Napoleone quando si apprestava a sbarcare in Egitto, il 30 giugno 1798. A bordo della fregata L’Orient, Bonaparte si rivolgeva così alle sue truppe: «I popoli con i quali noi dovremo vivere sono maomettani; il loro primo articolo di fede è questo: “Non c’è altro Dio che Dio e Maometto è il suo Profeta”. Non dovete contraddirli; dovete agire con loro come abbiamo agito con gli ebrei, con gli italiani; dovete avere riguardo nei confronti dei loro mufti, dei loro imam, come ne avete avuto nei confronti dei rabbini e dei vescovi; abbiate per le cerimonie che prescrive il Corano, per le moschee, la stessa tolleranza che avete avuto per i conventi, per le sinagoghe, per la religione di Mosè e per quella di Gesù Cristo».
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A DOHA VA IN SCENA LA GRANDE DIPLOMAZIA
di
Giorgio CAFIERO
I buoni rapporti con Iran, Usa, Israele, palestinesi e paesi del Golfo rendono il Qatar crocevia delle iniziative volte a sedare il conflitto. La Palestina come vessillo storico. La svolta di al-Ñanø figlio e il discusso legame con Õamås. Se Teheran blocca Hormuz.
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1. «Saudi FM meets Iranian counterpart, discuss current military escalation in Gaza», Al Arabiya, 18/10/2023.
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1. SEI PAESI MEMBRI DEL CONSIGLIO DI cooperazione del Golfo (Gcc) osservano con estrema attenzione gli sviluppi della nuova crisi israelo-palestinese. Nelle capitali di Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar è seria la preoccupazione per la possibilità che la violenza si estenda ad altre parti del Medio Oriente, compresa la subregione del Golfo. Dalla prospettiva di questi paesi, lo scenario peggiore vede un diretto coinvolgimento dell’Iran che inneschi un con!itto diretto tra Teheran e Israele. Con!itto che vedrebbe i membri del Gcc scontare i maggiori danni collaterali. In tale contesto, i governi arabi del Golfo puntano a sedare la violenza tra Israele e palestinesi attraverso sforzi diplomatici che coinvolgano diversi soggetti, regionali e non. Il 18 ottobre alti rappresentanti di molti paesi mediorientali si sono riuniti a Gedda, in Arabia Saudita, per un incontro dell’Organizzazione per la cooperazione islamica avente a oggetto lo scontro in corso tra Israele e Õamås. I ministri degli Esteri saudita e iraniano hanno avuto un colloquio a latere del vertice, dove il saudita Fayâal bin Farõån ha «ribadito la ferma posizione del Regno a favore della causa palestinese e a sostegno degli sforzi per raggiungere una pace giusta e onnicomprensiva capace di garantire al popolo palestinese il godimento dei suoi diritti legittimi» 1. Il Qatar, in particolare, sta giocando un importante ruolo diplomatico in questo frangente, nel solco della sua recente politica estera. Poco dopo l’inaudito attacco di Õamås, Doha ha preso a coinvolgere gli attori dentro e fuori la regione per coordinare le iniziative volte a smorzare la tensione. Dal 7 ottobre, giorno dell’attacco, il premier e ministro degli Esteri qatarino Muõammad al-Ñanø ha af-
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frontato la nuova crisi israelo-palestinese in conversazioni con alti esponenti di Egitto, Francia, Giordania, Arabia Saudita, Spagna, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti. Finché la crisi attuale non rientrerà con un cessate-il-fuoco, il Qatar proseguirà gli sforzi diplomatici per sedare le violenze e far ragionare gli avversari. La sua rete unica di contatti lo mette in posizione ideale per giocare un ruolo utile a propiziare una tregua. Nei precedenti con!itti tra Israele e Õamås, l’emirato è stato cruciale per le mediazioni che hanno condotto al cessate-il-fuoco; per questo è importante comprendere la relazione particolare che intrattiene con Õamås. Di tutti i paesi del Gcc è infatti quello che coltiva i rapporti più stretti con la formazione palestinese. Dopo l’Oman, inoltre, ha le migliori relazioni con l’Iran, principale sponsor di Õamås. Dall’inizio del 2022 il Qatar è poi tra i principali alleati di Washington fuori dalla Nato e sebbene non abbia mai uf"cialmente normalizzato le sue relazioni diplomatiche con Israele, vi interagisce in modo pragmatico nella gestione dell’aiuto umanitario a Gaza, tanto da attirarsene le lodi. Doha si è insomma guadagnata la reputazione di attore onesto e "dato presso i soggetti a vario titolo coinvolti nella crisi attuale. 2. Dalla fondazione di Israele, il Qatar è stato vicino alla causa palestinese. Dalla Nakba del 1947-48 i palestinesi presero ad af!uire a Doha come rifugiati vittime di una pulizia etnica che li aveva cacciati dalle loro case 2. La guerra dei Sei giorni (1967) e la crisi del Kuwait (1990-1991) comportarono l’arrivo di ulteriori richiedenti asilo palestinesi nell’emirato 3. Da molti anni la questione palestinese è un pilastro della politica estera di Doha. Nei fori internazionali come le Nazioni Unite i rappresentanti qatarini rimarcano spesso che il mondo ha l’obbligo di risolvere la disputa mediante una soluzione dei due Stati basata sui con"ni del 1949-67, dando vita a uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est. Dall’inizio delle «primavere arabe» il Qatar ha ospitato il quartier generale di Õamås. Dopo l’espulsione da parte della Giordania nel 1999, il gruppo palestinese stabilì la sua sede in Siria. A "ne 2011 venne però ai ferri corti con Baššår al-Asad, che lo accusava di sostenere le milizie af"liate alla Fratellanza musulmana intente a rovesciarne il regime. Al tempo, Qatar e Turchia premevano su Õamås af"nché cessasse le sue operazioni in Siria; il movimento lo fece e spostò la sua testa politica a Doha e in Egitto 4. I legami tra Õamås e Qatar precedono tuttavia il 2011. Secondo Œålid Maš‘al, leader del gruppo in esilio, le relazioni con le autorità di Doha iniziarono dopo l’ascesa al potere di Õamad al-Ñanø nel 1995, con un colpo di Stato che ne rimosse il padre Œaløfa 5. A suo dire Maš‘al aveva un «rapporto personale» con Õamad 6.
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2. H. KILANI, «Hundreds stand in solidarity with Palestine at rally in Qatar», Doha News, 13/10/2023. 3. Ibidem. 4. J. MITNICK, «Õamås Removing Staff from Syria», The Wall Street Journal, 7/12/2011. 5. S. HENDERSON, M. LEVITT, «Qatar Challenges Washington on Õamås», The Washington Institute for Near East Policy, Policy Watch n. 1468, 2/2/2009. 6. Ibidem.
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QATAR Pars Sud Manama
Pars Nord Maydān Maḥzam
al-Ru’ays
Bū al-Ḫanīn al-Samāl
al-"Idd al-Sarqī
al-Ḫuwayr
BAHREIN
Duḫān
Madīnat al-Ka‘bān
Pars Nord Giacimento di gas
al-Ḏaḫīra
al-Buṣayyir
Isole Ḥawār
(Isole contese tra Bahrein e Qatar)
al-Ğumayliyya
al-Ḫawr Umm Suwayya Sumaysima
Bi%r Zikrīt
Umm Ṣalāl "Alī al-Šahāniyya .
Sede dell’emittente satellitare Al Jazeera, di)usa in tutto il mondo arabo, dall’Atlantico al Golfo
Du ḫ ān
Giacimento di petrolio
Doha
Q A T A R
al-Sayliyya
Umm Bāb
al-Wukayr
ARABIA SAUDITA
Magazzino di mine antiuomo al-Kir‘āna
Oleodotti Gasdotti
Giacimenti di gas Ra&nerie
Umm Sa‘īd Base logistica Usa
Deposito di munizioni Falcon 78-Asp
Condotti di materie già ra&nate Giacimenti petroliferi
Principale deposito di armamenti dello US Army oltremare, può equipaggiare una brigata corazzata e costituisce lo snodo logistico per le operazioni in Iraq e Afghanistan
Mazra‘at Turayna
Hawr al-‘Udayd ̮
Il più importante avamposto strategico degli Stati Uniti in Medio Oriente, può ospitare oltre 10 mila militari e velivoli di ogni tipo
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7. Ibidem.
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L’aperto sostegno !nanziario dell’emirato a Õamås crebbe sostanzialmente quando la Corona saudita interdisse le donazioni dei suoi sudditi a cause estere 7. Dopo la vittoria elettorale di Õamås a Gaza nel 2006, cui seguì il prosciugamento del sostegno occidentale all’Autorità nazionale palestinese (Anp), il Qatar si impegnò a
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Export Terminal
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donare 50 milioni di dollari a quest’ultima 8. Quando Õamås consolidò il suo potere amministrativo nella Striscia a seguito della breve «guerra civile» palestinese (anche nota come battaglia di Gaza) del giugno 2007, Doha assunse il disastro umanitario dell’enclave costiera a motivo principale del sostegno al movimento 9. A volte l’ospitalità accordata al gruppo ha creato controversie. Durante la presidenza di Barack Obama, alti esponenti dell’amministrazione criticarono il Qatar per la sua relazione con Õamås. Nel marzo 2009 il senatore statunitense John Kerry dichiarò: «Il Qatar non può continuare ad essere alleato dell’America il lunedì e a mandare soldi a Õamås il martedì» 10. Tuttavia, nella crisi del 2014 Washington entrò in contatto con Õamås tramite i buoni uf"ci qatarini, il che fece apprezzare alla Casa Bianca la differenza che questo canale informale poteva fare nel propiziare un cessate-il-fuoco 11. All’inizio della presidenza di Donald Trump esplose la crisi del Consiglio di cooperazione del Golfo, protrattasi "no al 2021. I gruppi neoconservatori "lo-israeliani e diverse voci a Washington, come la Foundation for the Defense of Democracies (Fdd), sostennero l’embargo al Qatar guidato da sauditi ed emiratini per varie ragioni, inclusi i legami di Doha con Õamås. Per questi soggetti era inaccettabile che gli Stati Uniti intrattenessero stretti rapporti con un paese arabo così intrinseco al gruppo palestinese, dunque la pressione esercitata sull’emirato dagli attori regionali era in linea con il percepito interesse americano e israeliano. Allo scoppio della nuova ondata di violenze il 7 ottobre scorso, l’amministrazione di Joe Biden si è rivolta subito al Qatar per facilitare la liberazione degli ostaggi con cittadinanza americana catturati da Õamås e tenuti prigionieri a Gaza. Durante il suo viaggio in Medio Oriente, il segretario di Stato Antony Blinken si è recato a Doha (13 ottobre) e ha lodato la dirigenza qatarina per il suo sostegno nella trattativa 12. Il 20 ottobre Õamås ha rilasciato Judith e Natalie Raanan, madre e "glia con cittadinanza statunitense-israeliana. Il rilascio è stato facilitato da Doha, che ne ha agevolato il trasferimento da Gaza a una base militare israeliana attraverso il Comitato internazionale della Croce Rossa. Blinken ha prontamente ringraziato il governo del Qatar per «la sua importante assistenza» 13. Il fatto che a Washington alcune voci continuino condannare il Qatar per l’asilo fornito a Õamås non toglie dunque che gli Stati Uniti si rivolgano all’emirato in questo delicato frangente, proprio in virtù dell’ineguagliato ascendente che è in grado di esercitare sul gruppo. Alla luce della nuova guerra innescata dal sanguinoso attacco del 7 ottobre, resta però da vedere se Biden farà o meno pressione su Doha af"nché espella
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8. Ibidem. 9. Ibidem. 10. E. WEINGARTEN, «Qatar’s Balancing Act», The Atlantic, 25/9/2010. 11. «The GCC Rift: Regional and Global Implications», Middle East Policy Council, video del dibattito svoltosi a Washington D.C. il 13/10/2023. 12. «Secretary Antony J. Blinken With Qatari Prime Minister and Minister of Foreign Affairs Mohammed Bin Abdulrahman Al Thani At a Joint Press Availability», U.S. Department of State, 13/10/2023. 13. «Biden to Visit Israel Amid Gaza Crisis, as Fears Grow of Wider War», The New York Times, 16/10/2023.
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Õamås una volta liberati gli ultimi ostaggi con passaporto americano 14. La riprovazione occidentale nei confronti del movimento potrebbe infatti rendere insostenibile la posizione qatarina. Altre voci, sempre in Occidente, diranno che malgrado i propositi di vendetta israeliani Õamås non scomparirà dalla scena mediorientale, dunque è opportuno che vi sia qualcuno come il Qatar in grado di favorire contatti e mediazioni. Se un Õamås nuovamente «apolide» dopo l’espulsione da Doha trovasse riparo in Iran, questo collegamento potrebbe saltare.
14. H. IBISH, «The Reckoning That Is Coming for Qatar», The Atlantic, 20/10/2023. 15. «Iran: Hassan Rouhani condemns “siege of Qatar”», Al Jazeera, 25/7/2017. 16. E. IOANES, «The US-Iran prisoner swap, brie#y explained», Vox, 18/9/2023.
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3. Dalla guerra tra Iran e Iraq del 1980-88 il Qatar ha mantenuto una buona relazione con il vicino persiano. L’embargo del 2017-2021 ha concorso a rafforzare i rapporti tra Doha e la Repubblica Islamica, i cui cieli e i cui porti hanno aiutato l’emirato a restare nei circuiti dell’economia internazionale. Al di là degli aspetti logistici, l’Iran ha condannato il tentativo di Arabia Saudita, Emirati, Bahrein ed Egitto di forzare la mano al Qatar 15. Anche dopo la revoca dell’embargo, formalizzata al vertice di al-‘Ulå del gennaio 2021, gli iraniani hanno seguitato a bene"ciare della benevolenza qatarina. A tratti questo buon vicinato ha consentito a Doha di fungere da ponte tra Teheran e l’Occidente. Lo scambio di ostaggi/prigionieri tra Iran e Stati Uniti del settembre 2023, facilitato da Qatar, Oman e Svizzera ne è la riprova 16. Nell’attuale contesto di crisi israelo-palestinese che vede il rischio di un maggior coinvolgimento iraniano, la diplomazia parallela di Doha risulta ancor più utile. La dirigenza qatarina teme infatti che l’Iran possa ricorrere alla guerra per spezzare il suo isolamento nel Golfo. Il fatto che Qatar e Repubblica Islamica condividano uno dei giacimenti di gas naturale più grandi al mondo fa diventare qualsiasi ipotesi in tal senso un rischio enorme per la sicurezza e il benessere dell’emirato. La posizione geogra"ca rende infatti il Qatar dipendente dalla praticabilità dello Stretto di Hormuz per l’export del suo gas; se l’Iran lo bloccasse, le ripercussioni su Doha sarebbero pesantissime. Per questo il timore di un’espansione della crisi al resto della regione dà alla diplomazia di al-Ñanø un potente incentivo a contenerla. Il maggior garante della sicurezza qatarina restano comunque gli Stati Uniti. Negli ultimi vent’anni la sede avanzata del Centcom (US Central Command) è stata ubicata nella base militare di al-‘Udayd, a sud-est di Doha. Le relazioni qatarino-statunitensi abbracciano però molti ambiti: difesa, investimenti, commercio, istruzione, diplomazia. Tra i paesi membri del Gcc, il Qatar è forse quello più allineato agli interessi della politica estera americana. Sebbene l’emirato non abbia attuato le sanzioni imposte alla Russia da Washington dopo l’invasione dell’Ucraina, la sua risposta è stata molto più in linea con quella occidentale rispetto a paesi come gli Emirati, decisamente più accomodanti con Mosca. Lo stesso vale per la posizione sulle guerre in Siria e in Libia, almeno rispetto alla postura di sauditi ed emiratini.
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Una svolta nel rapporto Usa-Qatar è stata, al principio del 2022, la decisione statunitense di designare Doha «maggior alleato non Nato», status !no a quel momento riservato solo a Bahrein e Kuwait nella regione 17. Tra le motivazioni dell’atto, che la precedente amministrazione Trump andava meditando, vi è stato l’aiuto fornito a Washington nell’agosto 2021 durante il ritiro dall’Afghanistan. Eppure, la Palestina resta spina nel !anco della relazione bilaterale. Il forte sostegno dell’emirato ai diritti dei palestinesi e le critiche per le violazioni israeliane degli stessi stridono con il pluridecennale, indefesso appoggio statunitense allo Stato ebraico. Sulla Palestina, il Qatar è molto più allineato all’Iran che agli altri governi di paesi a maggioranza musulmana, come l’Arabia Saudita o la Turchia. Nei colloqui con esponenti americani, gli emissari qatarini non fanno mistero delle loro posizioni. Ognuna delle due parti ha rinunciato a convincere l’altra circa i (de) meriti e la natura di Õamås: organizzazione terroristica o legittimo rappresentante dei palestinesi a Gaza. Niente lascia supporre che il Qatar modi!cherà la propria posizione sulla questione palestinese o che ritirerà il sostegno all’Iniziativa di pace araba (Api). Il paese permane restio a normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele se questo non acconsente a uno Stato palestinese pienamente indipendente nei con!ni del 1967 e con capitale Gerusalemme Est. Se il con#itto continua e si estende alla Cisgiordania, le piazze arabe premeranno ancor più sui rispettivi governi per sostenere l’Api e rigettare gli accordi di Abramo. Washington vorrebbe il Qatar in tali accordi, ma se Doha non dovesse aderirvi con ogni probabilità gli Stati Uniti continuerebbero a considerarla un valido alleato e ne comprenderebbero le ragioni, date le circostanze. 4. Le relazioni qatarino-israeliane, seppur non uf!ciali, datano agli anni Novanta. Nel 1995, quando Õamad giunse al potere, la politica estera dell’emirato cambiò sotto molti aspetti compresa l’interazione con Israele. Poco dopo essere salito al trono Õamad lanciò il canale televisivo Al Jazeera, al tempo tabù per varie ragioni tra cui il fatto di ospitare esponenti del governo israeliano 18. Nel 1996 il Qatar permise allo Stato ebraico di aprire una rappresentanza commerciale a Doha, che venne però chiusa nel 2000 su pressione di Libia, Iran e Arabia Saudita allo scoppio della seconda Intifada 19. Gli israeliani mantennero una presenza simbolica, chiusa però nel 2009 dai qatarini in risposta all’Operazione Piombo fuso del 2008-2009 20. Questo non segnò tuttavia la !ne dei contatti tra Qatar e Israele. Nel maggio 2013 una delegazione israeliana giunse a Doha per discutere di eventuali investimenti qatarini nel comparto tecnologico israeliano 21. Nel 2019 l’emirato ospitò i
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17. C. TODD LOPEZ, «“Major Non-NATO Ally” Designation Will Enhance U.S., Qatar Relationship», U.S. Department of Defense, 31/1/2022. 18. R.E. DOHERTY, «Special Report: Al Jazeera’s news revolution», Reuters, 17/2/2011. 19. «Qatar: Israel Trade Of!ce Closed», Ap, 24/11/2007. 20. K. COATES ULRICHSEN, «Israel and the Arab Gulf States: Drivers and Directions of Change», Baker Institute, 19/9/2016. 21. Ibidem.
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IX Campionati mondiali di ginnastica artistica dove un atleta israeliano, Alexander Shatilov, vinse la medaglia d’oro. Il video della cerimonia di premiazione, con l’immagine della bandiera israeliana che sventola sullo sfondo dello HaTikvah (l’inno di Israele), suscitò un putiferio in Qatar e in altri paesi arabi, i cui cittadini espressero il loro sdegno sui social network 22. Quale paese del Gcc che fa del sostegno alla Palestina un pilastro della propria politica estera, il Qatar giusti"ca comunque la relazione informale con Israele come funzionale agli interessi dei palestinesi di Gaza. Negi anni, come detto, Doha ha fornito ingente assistenza umanitaria ai residenti della Striscia in collaborazione con le autorità dello Stato ebraico, senza il cui placet portare aiuti sarebbe stato impossibile. Ciò rafforza agli occhi di al-Ñanø la necessità di mantenere relazioni uf"ciose. Sebbene schiere di politici israeliani abbiano condannato la vicinanza del Qatar a Õamås, lo Stato israeliano non si è mai mostrato ostile per questo. Lo dimostra il fatto che Israele non abbia sottoscritto l’embargo a guida emiratino-saudita imposto a Doha tra il 2017 e il 2021. Nell’ottica israeliana l’aiuto umanitario dell’emirato ha avuto un effetto calmierante sulla Striscia, mentre i suoi buoni uf"ci favoriscono le tregue con Õamås. La dirigenza del Qatar crede che pace e stabilità in Medio Oriente passino necessariamente per una soluzione equa e duratura della questione palestinese. Nei consessi internazionali rimarca spesso il dovere collettivo di risolvere la questione palestinese in base al diritto internazionale. È questo un aspetto centrale della politica estera qatarina che riecheggia non solo nel mondo arabo-islamico, ma anche in molti paesi del Sud del mondo. Nell’ottica di Doha, dunque, il con#itto iniziato il 7 ottobre 2023 rende la diplomazia un’esigenza ancor più acuta. Specie alla luce della crisi umanitaria che colpisce i 2,3 milioni di palestinesi della Striscia, metà dei quali bambini. Nella violenza che prosegue e si intensi"ca, il Qatar vede una sicura ricetta di ulteriori, futuri disastri. L’emirato si sente investito dell’obbligo di coordinare gli sforzi diplomatici volti a trovare quanto prima una via d’uscita da questa sanguinosa situazione. Purtroppo, la pace tra israeliani e palestinesi resta obbiettivo sfuggente, malgrado i nobili sforzi qatarini. Con il sostegno di Stati Uniti, Cina, Russia e Arabia Saudita, il Qatar avrebbe maggiori chance di indurre le parti a un serio negoziato. Di questi tempi è dif"cile ipotizzare scenari simili. Ma una pace vera e duratura non richiede niente di meno.
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22. «Israel’s “Hatikvah” Plays in Doha as Qataris Campaign Against “Normalization”», Al Bawaba, 24/3/2019.
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(traduzione di Fabrizio Maronta)
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GUERRA GRANDE IN TERRASANTA
LA GUERRA SCOMBINA I PIANI SAUDITI
di
Germano DOTTORI
L’attacco di Õamås, forse provocato dall’Iran, compromette la distensione tra Israele e il Regno, nonché il tentativo di Riyad di smussare la rivalità con Teheran. Un attentato di Gerusalemme contro i vertici della Repubblica Islamica non è escluso.
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1. Di particolare interesse, per la sua levatura, quella effettuata presso la Fondazione Med-Or dagli analisti di Rasanah, l’International Institute for Iranian Studies di Riyad, giunti a Roma il 25 settembre scorso sotto la guida del loro presidente Muõammad al-Sulamø.
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1. OFFENSIVA MULTIDOMINIO CONDOTTA da Õamås e dalla Jihåd islamica palestinese contro Israele ha cause remote e di prossimità complesse, ma alcune ragioni di fondo sono già intuibili. In primo luogo, le organizzazioni di matrice islamica attive nella Striscia di Gaza negano dalla loro nascita il diritto dello Stato ebraico a esistere. Portando il con!itto al suo interno e uccidendone e deportandone soldati e civili, cercano di far fallire il senso ultimo della promessa sionista di una patria sicura per tutti gli ebrei del mondo. Questo è lo sfondo, il dato di lungo periodo, la persistenza storica e geopolitica alla base della nuova esplosione di violenza. Valida per gli attacchi di ieri, portati con mezzi e tecniche assai meno so"sticati. E forse anche per quelli di domani, se Israele non riuscirà a restaurare un sistema di dissuasione ef"cace e credibile, visto che le rappresaglie condotte automaticamente in reazione alle offese non funzionano più e occorre qualcosa di nuovo. Sarebbe però molto riduttivo circoscrivere l’analisi a questo movente. Ce n’è infatti almeno un altro, che spiega la natura regionale ed esplosiva del con!itto scoppiato il 7 ottobre scorso e che gode ormai di largo credito. Com’è noto, è in atto da poco più di tre anni il tentativo di costruire un nuovo sistema di sicurezza in Medio Oriente. Lo ha promosso Donald Trump con la negoziazione degli accordi di Abramo stretti nel 2020 da Israele con Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Marocco e Sudan. A quanto sappiamo – e se ne è avuta recentemente conferma anche nel corso di alcune visite informali di delegazioni saudite a Roma 1 – era molto vicina la "rma di quello che avrebbe portato Riyad e lo Stato ebraico al mutuo riconosci-
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mento, all’apertura di regolari rapporti diplomatici e, molto verosimilmente, anche allo stabilimento di relazioni nel campo della difesa. Qualora Israele avesse siglato gli accordi di Abramo con l’Arabia Saudita, con tutta probabilità avrebbe gradualmente caricato sulle proprie spalle la responsabilità di proteggere Casa Sa‘ûd al posto degli Stati Uniti. Era il corollario implicito del progetto trumpiano, mai rinnegato da Biden: al ripiegamento di Washington dal Medio Oriente e dal Golfo, almeno parte delle funzioni esercitate dalle Forze armate americane nella regione avrebbe dovuto essere in qualche modo trasferita allo Stato ebraico. Magari con l’implicita estensione a Riyad della garanzia nucleare israeliana, utile pure a depotenziare l’emergente ambizione dei sauditi di dotarsi di un proprio deterrente. 2. Chiaramente, la realizzazione di questo progetto presupponeva un clima regionale stabile. Il prerequisito dev’essere stato colto da chi maggiormente avrebbe avuto da perdere qualora il piano fosse andato in porto. I sauditi ne erano coscienti. Era risultato evidente anche nelle occasionali interlocuzioni con loro esponenti in visita nel nostro paese come Riyad non si trovasse a proprio agio rispetto alla prospettiva di dover vivere un’epoca di aspra contrapposizione con l’Iran avendo alle spalle più gli israeliani che gli americani. Per questo la diplomazia saudita aveva fatto un paio di passi assai sorprendenti sotto l’impulso di Muõammad bin Salmån, uomo forte del Regno. Prima aprendo alla Repubblica Popolare Cinese e poi sottoscrivendo un accordo di de-escalation con l’Iran, mediato proprio da Pechino 2. Alla vigilia dell’attacco islamista a Israele vi era stato persino chi in Arabia Saudita si era spinto al punto di preconizzare la possibilità di un ulteriore estensione degli accordi di Abramo. Quella in un certo senso de"nitiva, che avrebbe coinvolto Repubblica Islamica e Stato ebraico. Sembra dif"cile credere che qualcuno potesse seriamente ritenere realizzabile una simile convergenza, data l’importanza che l’antisionismo rivestiva e riveste tuttora nella politica estera della Repubblica Islamica. Eppure qualcuno si era illuso. In qualche modo, l’Arabia Saudita aveva immaginato un Medio Oriente in pace, aperto a più ampie possibilità di collaborazione e proteso utopisticamente verso lo sviluppo. A condurre Riyad e Teheran verso la de-escalation avevano peraltro probabilmente contribuito anche preoccupazioni condivise d’ordine interno. Infatti non si può escludere che a monte dell’intesa bilaterale vi fosse anche l’interesse della monarchia dei Sa‘ûd a puntellare il regime di un paese vicino che appariva minacciato da forze percepite come eversive e capaci di proporsi come modello di emancipazione anche all’estero. In effetti, Riyad non aveva guardato con grande simpatia alla rivolta delle donne e dei giovani scoppiata in Iran dopo la morte di Mahsa Amini, percependone
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2. Xi ha visitato Teheran nel dicembre 2022. Sull’apertura alla Repubblica Popolare Cinese, cfr. N. TURAK, «Saudi Arabia and China are part of a multipolar World Order, and their mutual interest are “strong and rising”, minister says», Cnbs, 13/6/2023. L’accordo di de-escalation con l’Iran è stato raggiunto il 10/4/2023.
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rapidamente le inevitabili implicazioni per la stessa sicurezza interna del Regno. E con l’accordo di de-escalation l’Arabia Saudita voleva forse offrire alla Guida suprema Ali Khamenei quella legittimazione che invece gli insorti in Iran volevano fosse negata dal resto del mondo. In qualche modo, i sauditi pensavano probabilmente di aver fatto quadrare il cerchio: prima di arrivare ad accordi con Israele, Riyad avrebbe smussato la contrapposizione con Teheran, scambiando l’impegno iraniano ad automoderarsi con il proprio sostegno esterno al regime degli ayatollah, in grave dif!coltà interna dal settembre 2022.
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3. Le critiche erano giunte per bocca del principe Turkø al-Fayâal. Cfr. F. GARDNER, «Saudi prince slams Õamås, Israel and the West», Bbc News, 20/10/2023. Quanto alla sospensione dei negoziati con Israele, si vedano A. EL YAAKOUBI, P. HAFEZI, «Saudi Arabia puts Israeli deal on ice amid war, engages with Iran, source says», Reuters, 13/10/2023; «Saudi Arabia pauses normalisation talks with Israel amid ongoing war with Hamas», France 24, 14/10/2023.
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3. Non è andata così. Al contrario, vi sono fondate ragioni per ritenere che la Repubblica Islamica abbia voluto far saltare il banco, ispirando o comunque sostenendo da lontano l’attacco nei confronti di Israele posto in essere dai suoi attori di prossimità residenti nella Striscia di Gaza. Verosimilmente nella speranza che la particolare gravità, determinata dalla penetrazione dei miliziani nel territorio dello Stato ebraico, dalle stragi e dalla presa d’ostaggi costringesse il governo di Binyamin Netanyahu a una rappresaglia che avrebbe suscitato lo sdegno delle piazze arabe, destabilizzato il sistema degli accordi di Abramo e soprattutto impedito la !rma di quello che avrebbe dovuto legare Israele e Arabia Saudita. Al momento in cui questo numero di Limes viene chiuso, il risultato perseguito sembra essere stato almeno in parte ottenuto. In seguito alle incursioni e ai bombardamenti attuati dalle Forze armate israeliane (Tzahal) nella Striscia di Gaza, pur esprimendo incidentalmente anche qualche critica nei confronti di Õamås, Riyad ha annunciato l’arresto del processo negoziale che in tempi brevi avrebbe dovuto portare sauditi e israeliani a sottoscrivere l’intesa 3. E le tensioni non accennano a diminuire, sia per il protrarsi del sequestro degli israeliani deportati nella Striscia sia per via del possibile avvio di un’offensiva terrestre da parte dello Stato ebraico. La situazione è in via di deterioramento anche in Galilea, per effetto dell’intensi!carsi degli scontri tra Tzahal e l’Õizbullåh libanese. Inoltre, proprio in ragione di questo sviluppo, Gerusalemme minaccia azioni anche nei confronti di Teheran. In questo contesto, per evitare di esser presa nel mezzo di un eventuale urto tra Israele e Iran, Riyad ha tentato di attivare l’accordo bilaterale con Teheran per indurla a non increspare ulteriormente le acque. C’è tuttavia ragione di dubitare che i sauditi possano avere successo in questo tentativo. In primo luogo, perché purtroppo giunge tardivo. Infatti Riyad è stata sorpresa dall’attacco di Õamås e della Jihåd islamica palestinese esattamente come Israele. E ora deve fare i conti non con l’Iran ma con la risposta di Gerusalemme a
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Esercito Guardia nazionale Marina Aeronautica Difesa aerea Forze strategiche
75.000 130.000 13.500 20.000 16.000 2.500
Truppe in servizio attivo
EGITTO
Tabūk
GIORD.
Gedda
IRAQ
base missilistica
al-Wath ..
base aerea
King Khalid
Abhā
Base aerea
IRAN
King Abdulaziz Q A T A R
YEMEN
Base aerea (Base Usa !no al 2003)
Prince Sultan
al-Harg
Base aerea (prima base militare del paese)
base missilistica
Nagrān
base navale
King Abdulaziz
al-Dammām
al-Sulayyil
Laylā
Riyad
Base militare Usa
Città militare King Khalid
Hafar al-Bātin
King Fahad
Hā’il
Tā’if
La Mecca
base navale
King Faisal
Medina
al-Gawf
BASI MILITARI SAUDITE
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Base regionale della Guardia nazionale Basi navali Basi aeree/missilistiche/militari
Riyad
E.A.U.
Strade Con!ni province Arabia S.
Province dell’Arabia Saudita Tabūk al-Gawf al-Hudūd al-Šamāliyya al-Madīna Hā’il al-Qasīm Makka al-Riyād al-Šarqiyya al-Bāha ‘Asīr Gāzān Nagrān
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questa s!da. Lo Stato ebraico fronteggia un dilemma inedito e pare immune a qualsiasi condizionamento esterno. Salvo quello esercitato dagli Stati Uniti, che si sono precipitati a inviare in zona due potenti task force guidate da altrettante portaerei (una nel Mediterraneo orientale, l’altra nei pressi del Golfo) prima ancora che si recassero in Israele il segretario di Stato Antony Blinken e poi lo stesso Joe Biden.
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4. Secondo l’account X (ex Twitter) 310, di dichiarata af!liazione armena, un volo carico di armi proveniente da Israele sarebbe atterrato in Azerbaigian lo scorso 13 ottobre. Quindi ben dopo l’attacco di Õamås e della Jihåd Islamica palestinese allo Stato ebraico. Il collegamento sarebbe assicurato dalla Silk Way Airlines azera.
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4. Se Israele non vuole rischiare l’esodo di chi vi si è trasferito per vivere un’esistenza sicura, non potrà accettare lo stato delle cose e dovrà restaurare il proprio sistema di dissuasione. L’intelligence e le Forze armate non sono riuscite a prevenire e fermare le in!ltrazioni che hanno portato alla profanazione del territorio nazionale israeliano. Le difese tradizionali hanno fallito e non si può escludere che possano essere sorprese nuovamente in futuro. Non resta che la punizione, ovvero la rappresaglia. La quale tuttavia, se circoscritta localmente, ben dif!cilmente risolverà un problema che ha ormai acquisito evidenti dimensioni regionali. La campagna di terra a Gaza, di cui pure si parla, potrebbe rivelarsi un inferno anche per l’Esercito israeliano, che è stato addestrato per vincere battaglie convenzionali e non per fronteggiare la guerriglia urbana. Perdite elevate tra i civili palestinesi potrebbero avere un impatto pesante sui delicati equilibri di molti paesi arabi attualmente in pace con lo Stato ebraico, deteriorando sensibilmente il quadro di sicurezza israeliano e generando problemi anche a Riyad. Ecco perché una «mossa del cavallo» contro Teheran, pensata soprattutto come attacco a sorpresa contro una delle personalità di vertice della Repubblica Islamica, potrebbe progressivamente rivelarsi più attraente. Specialmente se Õizbullåh aprisse davvero il secondo fronte o se si aggiungessero al contesto ulteriori elementi di disturbo. Come per esempio gli õûñø, che il 19 ottobre avrebbero lanciato dei missili verso nord, nella direzione di un cacciatorperdiniere americano classe Bourke, che li avrebbe abbattuti. La realizzazione di un attacco di «decapitazione» presenterebbe certamente non pochi problemi tecnici di signi!cativa complessità. Ma l’intelligence israeliana è presente sul suolo iraniano e potrebbe contare su un numero di collaboratori più ampio che in passato. Inoltre, lo Stato ebraico ha allestito almeno una base a ridosso della Repubblica Islamica, in territorio azerbaigiano. E si vocifera di velivoli che continuerebbero a trasportare armi da Israele verso Baku 4. Naturalmente, se un attacco israeliano contro il leader spirituale o il presidente della Repubblica Islamica avesse successo innescherebbe scenari al momento non del tutto calcolabili, ma sicuramente rilevantissimi. Al punto di poter modi!care sensibilmente il comportamento di tutte le parti in causa. Come dopo l’uccisione del generale Qasem Soleimani da parte degli Stati Uniti, l’Iran potrebbe incassare e moderarsi, circostanza che rappresenterebbe una
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grande vittoria per Israele e una prospettiva probabilmente non sgradita per la l’Arabia Saudita. Ma Teheran potrebbe anche optare per una risposta che darebbe il via a una grande guerra, tale da investire l’area compresa tra i monti Zagros, il Sinai, il Mediterraneo orientale e il Caspio. È questo lo scenario che la Riyad teme di più. Quello di un rovinoso con!itto regionale, che comprometterebbe la speranza di avere in tempi ragionevolmente brevi un Medio Oriente stabile e sicuro su cui investire.
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Parte III GRANDI MANOVRE
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L’AMERICA E IL DILEMMA DELLA GUERRA GRANDE
di
Federico PETRONI
Gli Usa provano a impedire allo scontro Israele-Õamås di deflagrare. La fiducia nello storico alleato si è infranta. Il ritorno alla realtà con l’Iran. Lo Stato ebraico entra nella tempesta interna. Come affrontare più crisi senza dissanguarsi?
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1. A NUOVA GUERRA IN MEDIO ORIENTE rappresenta un cruciale test per l’America e per uno degli attributi chiave della sua potenza: usare tutto il suo peso per impedire alle crisi di degenerare. In questo caso, per impedire allo scontro Israele-Õamås di allargarsi, non solo al Medio Oriente. Obiettivo che ha costretto gli Stati Uniti a un intervento a doppio scopo dissuasivo: con la rete dell’Iran per evitare un suo ingresso nel con!itto e con Israele per attenuare la sua vendetta. Dinamica che rivela il logorio della "ducia reciproca, causato anche dal crescente disamore in America per lo Stato ebraico nelle generazioni più giovani. Tuttavia, il ritorno di "amma in Medio Oriente coglie alla sprovvista i dirigenti americani: l’attacco del 7 ottobre ha infranto alcune illusioni che si raccontavano, come la possibilità di una convivenza con Teheran o la ritrovata stabilità della regione. Falle importanti, perché alimentano i dubbi sulla capacità di gestire più crisi epocali contemporaneamente. Washington doveva già districarsi tra una guerra in Ucraina senza orizzonte, la dissuasione nell’Indo-Paci"co e un caos domestico sempre più profondo. Israele in guerra aggiunge un quarto fronte a un contesto già privo di orientamento strategico.
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2. Il nuovo con!itto ha riaffermato la garanzia difensiva americana per Gerusalemme. Ma quella garanzia è arrivata con condizioni mai viste prima. Eppure, ciò non ha impedito all’amministrazione Biden di schiacciare gli Stati Uniti sullo Stato ebraico, con grave danno all’immagine americana presso i paesi non occidentali. Un favore all’Iran, ma anche a Cina e Russia. Washington ha dimostrato il suo sostegno all’alleato e gli ha offerto due portaerei come scudo per impedire ai suoi nemici di aprire altri fronti. Ma quel deterrente serviva anche a dissuadere il governo di Netanyahu da mosse avventate.
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L’AMERICA E IL DILEMMA DELLA GUERRA GRANDE
Nessun presidente aveva mai visitato Israele durante un con!itto. Né aveva mai partecipato a un gabinetto di guerra, così ristretto da non coinvolgere nemmeno il ministro della Sicurezza. Chiaro l’intento degli americani di in!uenzare il processo decisionale. Con insistenza crescente, hanno sollecitato Gerusalemme a rinunciare a una grande offensiva di terra nella Striscia di Gaza, per af"darsi a incursioni più limitate, sostenute dai bombardamenti aerei 1. Gli Stati Uniti condividevano l’obiettivo di impartire un colpo durissimo a Õamås. Ma non ritenevano realistica la sua completa distruzione, come si è pre"ssato il governo israeliano. Soprattutto, temevano le conseguenze di una guerra lunga e sanguinosissima. Oltre a liberare gli ostaggi, volevano proteggere alcuni interessi fondamentali. Garantire supporto domestico e internazionale a Israele. Preservare le alleanze coi paesi arabi cruciali per la sicurezza dell’alleato. Fino al più importante: impedire l’allargamento della guerra. Una catastrofe umanitaria a Gaza fornisce all’Iran e ai suoi soci una giusti"cazione per aprire nuovi fronti. Sia morale: difesa dei civili palestinesi. Sia strategica: difesa del cliente Õamås. Senza contare il rischio di violenze contro obiettivi americani ed ebrei in tutto il mondo. E di esportare il con!itto israelo-palestinese in mezza Europa, via diaspore e reti jihadiste. Gli Stati Uniti hanno chiarito di non avere intenzione di usare la forza in prima persona, se non in caso di attacco contro le loro truppe da parte dei clienti iraniani. La guerra di Gaza deve restare a Gaza. In caso di intervento di altri attori nel con!itto e se l’esistenza di Israele fosse messa in pericolo, dif"cilmente si asterrebbero. Ma per ora lavorano a limitare il raggio del con!itto. Il governo americano ha poi espresso frustrazione con Israele per la mancanza di un piano realizzabile e per l’assenza di un progetto per il dopoguerra. Ha chiesto all’alleato di non invadere senza rispondere alla più fondamentale delle domande: e poi? Chi guiderà Gaza? Ha inoltre posto sul tavolo la riapertura di un processo di pace con i palestinesi, non escludendo di riparlare di soluzione dei due Stati, per ora inimmaginabile. È emersa insomma una contestazione radicale: non fate la guerra soltanto per vendicarvi. La principale paura è che, per ripristinare la deterrenza, Israele si impantani e depotenzi ancor di più l’immagine del proprio esercito. Un suicidio strategico. Benché abbiano forse evitato le soluzioni più drastiche, gli Stati Uniti non sono sembrati capaci di attenuare sensibilmente la violenza della campagna di Gaza. L’amministrazione Biden sembra essere stata troppo blanda e razionale. Per permettere allo Stato ebraico di aggredire Õamås, ha ulteriormente alienato i paesi non occidentali. Favore enorme alla propaganda dei suoi avversari. L’America potrebbe pagare a caro prezzo l’incapacità di conciliare i due interessi. Le frizioni tra Stati Uniti e Israele continueranno. Su ampiezza e durata della campagna militare. Sulla gestione della crisi umanitaria. Sul destino degli abitanti di
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1. Y. ABUTALEB, J. HUDSON, D. LAMOTHE, «U.S. urges Israel against Gaza ground invasion, pushes surgical campaign», The Washington Post, 27/10/2023.
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LE PRIORITÀ DEGLI USA IN MEDIO ORIENTE (IERI) Ankara
TUR C H IA Tabriz
Mar Caspio
Mashhad Mar Mediterraneo Beirut
Teheran
Kirkūk
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Damasco
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KUWAIT
Golfo Persico
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EMIRATI ARABI UNITI
Mar Rosso
Mascate
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Mantenimento di un equilibrio tra le potenze della regione Protezione dei giacimenti petroliferi dell’area orientale dell’Arabia Saudita Protezione dell’asse Israele-Arabia S.
YEMEN
Sciiti
San!ā!
Principali città sante sciite
Mantenere aperti i principali colli di bottiglia (Hormuz, Bāb al-Mandab, Suez) Stabilità del Bahrein per protezione V Flotta americana
Guerre in atto
Mare Arabico
Aree più ricche di petrolio e gas
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3. La dinamica interna all’alleanza israelo-statunitense suggerisce quanto si sia erosa la !ducia reciproca. L’ex generale e primo ministro Ariel Sharon soleva dire che dall’Olocausto Israele ha imparato di poter contare solo su sé stesso, sulla propria
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Gaza, che molti nello Stato ebraico vorrebbero cacciare in una seconda Nakba, proposito irricevibile per gli americani perché alienerebbe de!nitivamente Egitto e altri vicini. Soprattutto, su che cosa fare con l’Iran. Gerusalemme vorrà vendicarsi. Washington vorrà avere l’ultima parola. Conclusione: anche in questa occasione, esattamente come in Ucraina, gli Stati Uniti sono intervenuti con un sostegno decisivo a un paese af!ne, ma con altrettanti decisivi limiti.
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forza. Dal grado delle minacce esterne, delle instabilità interne e del coinvolgimento americano, è evidente che Israele non conta più solo su di sé. Nemmeno Washington è più sicura che Gerusalemme faccia la cosa giusta, se un presidente è costretto a varcare l’oceano per spiegare che cosa è più nell’interesse dello Stato ebraico. Lo si apprezza osservando i segni di logorio nel rapporto tra gli apparati. Il Pentagono non ritiene le Forze di difesa israeliane (Tzahal, in sigla ebraica) pronte alla guerra urbana né che il loro piano funzioni. Dif!cile immaginare il contrario, visto che Tzahal non si è mai addestrata per la missione di rioccupare la Striscia o di cancellare Õamås. Il segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin ha dovuto spiegare alla controparte l’estrema dif!coltà delle operazioni di Falluja nel 2004 o di Mosul nel 2016-17, condotte con assai meno attenzione mondiale per le vittime civili. Fino a inviare un generale a tre stelle dei marines, James Glynn, per introdurre l’alleato all’incubo di combattere in labirinti di cemento. Quasi tutti i più alti funzionari dell’amministrazione Biden hanno osservato da vicino le precedenti incursioni di terra di Israele a Gaza, nel 2008-09 e nel 2014, quando Tzahal non raggiunse del tutto i propri obiettivi nonostante fossero assai limitati. Pesa anche la deludente prestazione nella guerra in Libano del 2006. L’autocritica israeliana per quel fallimento è molto presente al Pentagono. Dal rapporto di un colonnello della divisione piani!cazione dell’Aeronautica: «Israele ha fallito a livello strategico, operativo e tattico. Non è riuscito a decapitare, paralizzare, accecare né a generare altro effetto che ledesse sostanzialmente la volontà o l’operatività (del nemico)» 2. Ancor più duro il generale di brigata Shimon Naveh: «Ci eravamo innamorati di quel che facevamo coi palestinesi, !no a farcene assuefare. Sai, quando combatti una guerra contro un rivale in tutti gli aspetti inferiore a te, puoi perdere un soldato qua e uno là, ma sei sempre in totale controllo. È bello !ngere di combattere una guerra quando non sei davvero in pericolo» 3. Ombra che si stende !no a oggi. L’intelligence statunitense giudica indebolite le Forze armate ebraiche. La causa: le spaccature sociali, in evidenza nelle oceaniche proteste contro la riforma giudiziaria di Netanyahu a cui hanno preso parte in massa le riserve, hanno compromesso l’addestramento e la preparazione alla guerra. Valutazione da non prendere alla leggera. Perché esprime una tendenza strutturale, non passeggera. La società israeliana si è frammentata in tribù, in ceppi ben distinti dotati di visioni del mondo tra loro con#iggenti. Rispetto al periodo fondativo, contrassegnato dal dominio demogra!co e soprattutto istituzionale dei laici ashkenaziti, oggi le componenti religiose sono di più e in aspra lotta per il potere. Il paese è dunque entrato in una fase della sua storia in cui la coesione nazionale è compromessa. La divisione del fronte interno è una vulnerabilità geopolitica in sé. Ma lo è doppiamente perché riguarda un tema propriamente geopolitico. Ossia il carattere
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2. R. TIRA, «The Limitations Of Standoff Firepower-Based Operations: On Standoff Warfare, Maneuver, and Decision», Institute for National Strategic Studies, Memorandum, n. 89, marzo 2007, p. 44. 3. Cit. in M.M. MATTHEWS, «We Were Caught Unprepared: The 2006 Hezbollah-Israeli War», U.S. Army Combined Arms Center, The Long War Series Occasional Paper, n. 26, 2008, p. 63.
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dello Stato. Israele deve essere ebraico o democratico? Il punto non è tanto che Netanyahu instaurerà una dittatura ma che il progressivo allargamento di Israele in Cisgiordania spacca le tribù su che cosa fare dei milioni di palestinesi che ci vivono. Con conseguente dilemma: dare loro pieni diritti rinunciando al carattere ebraico di Israele oppure preservare il dominio degli ebrei rinunciando alla democrazia via segregazione degli arabi? Può una società così divisa unirsi in guerra o lo scontro con Õamås rischia di scatenare il con!itto civile? Dal punto di vista americano, il dubbio è legittimo, nonostante il comune desiderio di vendetta. Anzi forse proprio per questo. Una non vittoria militare contro il movimento islamico disgregherebbe ulteriormente il branco. In Cisgiordania aumentano le violenze fra coloni ebrei e residenti palestinesi. Senza contare gli arabi di Israele, già insorti nella rivolta delle città miste del 2021. La loro condotta ritenuta «esemplare» dopo il 7 ottobre non è bastata a dissuadere le autorità statali dall’organizzare e armare centinaia di squadre di volontari per reprimere eventuali violenze 4. La s#ducia coinvolge anche i livelli politici. Da quando Netanyahu ha scelto di fare il leader straniero del Partito repubblicano, si è rotta l’aura bipartisan che avvolgeva Israele in America. Anche strenui sostenitori dello Stato ebraico di orientamento conservatore non gli perdonano di aver maltrattato un presidente (Obama) durante una visita alla Casa Bianca. Errore aggravato dal fatto che oggi lo Stato profondo percepisce una parte del Partito repubblicano come antisistema (assalto al Congresso del 6 gennaio 2021). Fra l’altro quella parte è popolarissima nell’elettorato evangelicale, cui si rivolge il premier per rafforzare il consenso americano verso Israele. Ma la vera accusa rivolta dagli apparati washingtoniani a Netanyahu è di aver presieduto e incoraggiato, in quanto #gura emblematica d’Israele degli ultimi 25 anni, la frammentazione tribale del paese. Di averlo indebolito. Portando la guerra in Terrasanta, l’Iran non fa altro che alimentare la dinamica autodistruttiva interna allo Stato ebraico – in fondo è Israele il peggior nemico di Israele. Gli americani lo hanno ben presente e non è escluso che a guerra #nita chiedano a Netanyahu di farsi da parte.
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4. D. WILLIAMS, «Israel arms civilian security squads, fearing internal strife», Reuters, 22/10/2023. 5. G. CUSCITO, «Cosa pensano di Israele gli ebrei d’America», Limes 5/2021 «La questione israeliana», pp. 191-94.
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4. Altra tendenza strutturale, stavolta umana: la popolazione statunitense si sta raffreddando nei confronti di Israele. A cominciare dalla stessa diaspora. Prima del 7 ottobre, solo il 48% dei giovani ebrei d’America si sentiva molto o abbastanza vicino a Israele; solo il 40% di essi approvava l’operato di Netanyahu; solo il 45% della diaspora lo riteneva una parte essenziale della propria identità 5. Le atrocità di Õamås e l’esibito antisemitismo hanno sicuramente risvegliato paure profonde dell’identità giudaica. Anche organizzazioni che de#nivano Israele sotto Netanyahu Stato di apartheid, ora sotterrano l’ascia e invitano le frange più estremiste a rivolgersi contro l’organizzazione palestinese. Tuttavia, la frattura generazionale non sarà del tutto sanata.
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Ma è l’opinione pubblica nel complesso a essere meno incline a difendere militarmente lo Stato ebraico e a sostenere le sue preferenze strategiche. Secondo un sondaggio del Chicago Council on Global Affairs, pochi giorni prima dell’attacco di Õamås il 60% degli intervistati riteneva insostenibile lo status quo tra israeliani e palestinesi e favoriva la creazione di due Stati o di uno solo con uguali diritti per entrambi. Sempre un 60% non si sarebbe schierato in caso di con!itto, contro un 30% favorevoli a stare con Israele 6. Il Wall Street Journal ha voluto porre le stesse domande a ostilità iniziate 7. Nonostante l’alleato in guerra, chi vorrebbe l’America equidistante resta la maggioranza: 52% contro un 42% per Israele. Solo il 38% vorrebbe mandare truppe statunitensi a combattere; non si arriva alla maggioranza nemmeno in caso di intervento diretto dell’Iran. Gli americani sembrano diventati ancora più cauti, perché nel 2021 chi avrebbe inviato i militari era il 53%. A differenza dell’Ucraina, lo scoppio della guerra ha diminuito anziché aumentare la propensione americana a difendere l’alleato. Fino al dato più sorprendente: nell’estate 2023 l’Università del Maryland ha indagato esplicitamente quanti siano per un solo Stato con uguali diritti per tutti anche se ciò implica una rinuncia al carattere ebraico di Israele. Risposta: il 73% 8. Però, oggi solo il 28% ritiene che gli Stati Uniti debbano lavorare per uno Stato palestinese. Sembra di sentire il commento di queste persone messo giù il telefono al sondaggista: none of our business. Non sono affari nostri. Nelle ali estreme dei due partiti politici cresce l’aperto antisemitismo. La sede di Chicago di Black Lives Matter ha diffuso volantini inneggianti ai miliziani di Õamås. Diffusa soprattutto fra i giovani, l’ostilità verso Israele sembra essere un fatto generazionale. I gruppi studenteschi che manifestano nelle università d’élite come Harvard e U-Penn o circoli conservatori come Turning Point Usa usano gli stessi termini: a Gaza c’è un genocidio, Israele Stato d’apartheid, pulizia etnica in corso 9. Sono le frange più critiche della politica estera tradizionale. Benché per ragioni ideologiche diverse – decolonizzazione a sinistra, ebrei amici dello Stato profondo a destra – Israele #nisce nello stesso calderone di malcontento verso l’establishment. D’altronde, chi è nato dopo il 1979 – anno dei primi accordi di pace con Egitto e Giordania – è cresciuto in un mondo in cui Israele non è sotto attacco, anzi è potente e relativamente sicuro. Le sue politiche sono viste come vessatorie e antidemocratiche. Ed esagerato il sostegno preteso dall’America. Persino nelle istituzioni si fa esplicito il dissenso per la posizione dell’amministrazione Biden. Un veterano del dipartimento di Stato, Josh Paul, si è dimesso dall’uf#cio che presiede la vendita di armamenti. Un centinaio di diplomatici ha
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6. D. SMELZ, L. EL BAZ, «Prior to Attack on Israel, Majority of Americans Supported Talks with Hamas», Chicago Coucil on Global Affairs, 9/10/2023. 7. A. ZITNER, A. LINSKEY, «Americans Back Israel but Are Wary of Getting Pulled Into Con!ict, WSJ-Ipsos Poll Finds», The Wall Street Journal, 22/10/2023. 8. S. TELHAMI, «American Public Attitudes on Israel/Palestine», University of Maryland, luglio 2023. 9. S. TALCOTT, D. WEIGEL, «Conservative in!uencers battle over Israel, “America First”, and antisemitism after Hamas attack», Semafor, 17/10/2023.
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LE PRIORITÀ DEGLI USA IN MEDIO ORIENTE (OGGI) Proteggere Israele e le proprie basi dalla rete dell’Iran Salvare e ampliare l’asse tra Israele e paesi arabi Evitare un predominio dell’Iran nel Golfo, in Siria e in Iraq Mantenere il controllo dei colli di bottiglia di Suez, Bāb al-Mandab e Hormuz Contenere la Turchia in Siria e nell’Egeo
Paesi o territori con milizie legate all’Iran Asse tra Israele e paesi arabi (Israele-Arabia S. in trattativa) Colli di bottiglia Basi e strutture militari Usa
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10. A.S. AHMED, «Exclusive: “Mutiny Brewing” Inside State Department Over Israel-Palestine Policy», The Huf!ngton Post, 19/10/2023.
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usato un canale protetto interno per esprimere frustrazione, in quello che un alto funzionario ha de!nito «un ammutinamento in gestazione a tutti i livelli» 10. La vera novità è la nascente rivolta nella base progressista del Partito democratico. Quattrocento assistenti al Congresso hanno scritto una lettera ai propri depu-
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Stretto di Bāb al-Mandab
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tati o senatori chiedendo di esprimersi per un cessate-il-fuoco. Hanno fatto lo stesso circa 250 ex membri dello staff della candidata presidenziale Elizabeth Warren, una delle principali voci progressiste. Diversi attivisti della campagna elettorale di Joe Biden si sono chiamati fuori per l’eccessivo sostegno a Israele. Il danno per le presidenziali del novembre 2024 rischia di essere sostanzioso perché inciderà sul reclutamento degli elettori, che in America vanno !sicamente convinti a votare. L’allontanamento dei giovani liberal potrebbe compromettere alcuni segmenti etnici importanti per le elezioni. Più in generale, potrebbe contribuire all’emersione di politici progressisti meno disciplinati, più di rottura. Come l’ala America First a destra. Il declino dell’amore per Israele è una manifestazione della crisi di !ducia nel ruolo classico dell’America nel mondo. Il clima tossico rafforzerà le frizioni tra Washington e Gerusalemme perché riduce la legittimazione popolare a dedicare risorse per difendere l’alleato. La tempesta americana investe lo Stato ebraico. Entrato stabilmente fra gli oggetti della discordia domestica. 5. «Dopo l’11 settembre, eravamo furibondi negli Stati Uniti. E mentre cercavamo giustizia e ottenevamo giustizia, abbiamo anche commesso errori». Così Joe Biden il 18 ottobre a Tel Aviv 11. Per la prima volta, un presidente americano de!nisce la reazione del 2001 un errore nel complesso. In privato, nel gabinetto di guerra di Netanyahu, Biden è stato ancor più esplicito. Secondo il New York Times, avrebbe parlato delle «disastrose decisioni dei funzionari americani di invadere l’Iraq e di condurre una lunga guerra senza !ne in Afghanistan 12. A un ventennio di distanza, gli Stati Uniti continuano a essere perseguitati dal fantasma di Saddam. Cercano disperatamente di convivere con le conseguenze della disintegrazione dell’Iraq. Nel 2006, crepuscolo del secondo mandato di Bush !glio, nacque un approccio di massima per estrarsi da quel fallimento: alleggerire la presenza in Medio Oriente federando Israele agli alleati arabi sunniti e arginando l’Iran. Il 7 ottobre quell’approccio è andato in fumo. L’attacco di Õamås è una bomba in quella impostazione. L’allineamento tra lo Stato ebraico e i paesi arabi è possibile soltanto con la rimozione della causa palestinese, drammaticamente tornata alla ribalta. E l’Iran ha appro!ttato della distruzione dell’Iraq, fondamentale cuscinetto nella scacchiera mediorientale, per allargarsi !no a portare la guerra in Terrasanta. Democratici e repubblicani hanno adottato tattiche radicalmente diverse con Teheran. Gli uni prediligendo la diplomazia, gli altri la forza. Il proposito strategico era identico: normalizzare la Repubblica Islamica. Se vuoi disimpegnarti, o stringi la mano all’avversario o gli spari. Ciascuno ha coltivato la propria fantasia. I democratici: reintegrare Teheran nei circuiti economici internazionali. I repubblicani: amman-
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11. «Remarks by President Biden on the October 7th Terrorist Attacks and the Resilience of the State of Israel and its People | Tel Aviv, Israel», whitehouse.gov, 18/10/2023. 12. Cit. in E. WONG, R. BERGMAN, J.E. BARNES, «Biden and Aides Advise Israel to Avoid Widening War With Hezbollah Strike», The New York Times, 20/10/2023.
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sirla attraverso la minaccia (sporadica) di usare la forza. Tutti hanno abbondantemente impiegato le sanzioni, dimostrando ancora una volta la loro inutilità strategica. Il proposito americano è fallito. Ieri la difesa della Repubblica Islamica iniziava ai piedi dei Monti Zagros, oggi sul Mediterraneo. Già dagli anni Ottanta aveva un importante cliente in Libano: Õizbullåh. Ora però ha una continuità territoriale fra Iraq, Siria e Libano. La sua rete è arrivata in Yemen, affacciata sullo strategico Stretto di Båb al-Mandab. È arrivata a Gaza e punta a installarsi in Cisgiordania, come attestano alcune recenti rivelazioni israeliane 13. Secondo il Pentagono, l’obiettivo statunitense in Medio Oriente è «mantenere un equilibrio di potenza favorevole». In prosa, nelle parole di un ex inviato speciale per la Siria, condurre le competizioni allo «stallo» 14. Abbassare le tensioni a un livello gestibile. Altro che equilibrio di potenza, altro che stallo. La tendenza geopolitica fondamentale del quadrante mediorientale in questi anni, la sola vera forza che ha plasmato le dinamiche regionali, è la progressiva espansione della rete dell’Iran mentre le garanzie difensive degli Stati Uniti vengono messe in discussione. L’attacco alle installazioni petrolifere saudite del 2019 da parte dei clienti iraniani in Yemen, con conseguente silenzio da parte dell’amministrazione Trump alle richieste di aiuto di Riyad, riassume tutti gli elementi di questa tendenza. Gli Stati Uniti pretendevano che tutti restassero fermi, in stallo o in equilibrio, mentre loro si disimpegnavano.
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13. A. HAREL, A. TIBON, «Iran’s Destabilization Efforts Find Fertile Ground in West Bank», Haaretz, 25/8/2023. 14. Cit. in F. PETRONI, «Stallo all’americana», Limes 5/2021 «La questione israeliana», pp. 179-188. 15. Dichiarazione rese a The Atlantic Festival, il 29/9/2023.
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6. «Il Medio Oriente è più tranquillo rispetto agli ultimi due decenni». Jake Sullivan si pentirà a lungo di questa frase. Non per la previsione sbagliata. Bensì per il motivo di quella sentenza, pronunciata otto giorni prima che la regione ripiombasse nell’abisso. Aggiungeva il consigliere alla sicurezza nazionale di Biden: «La quantità di tempo che devo spendere su crisi e con"itti mediorientali oggi è signi#cativamente inferiore rispetto a ogni mio predecessore dall’11 settembre in poi» 15. Sullivan rivela una mentalità dominante: il Medio Oriente è più stabile per non per fattori interni, ma perché noi abbiamo stabilito che non è più una priorità. Obama, Trump e Biden hanno tutti espresso in forme diverse e con intensità cangianti la necessità di occuparsi meno di Medio Oriente e più di Cina e di fronte interno in dissesto. Il distacco è aumentato nel tempo. L’amministrazione Biden l’ha portato a nuove vette. Sin dall’inizio del mandato, il suo messaggio, consistente, è stato su questa falsariga. «Dobbiamo reinvestire a casa nostra, nelle infrastrutture, nei microchip, nella transizione energetica, per sanare la tempesta interna; e dobbiamo sistemare le alleanze, a partire dalle democrazie, per sanare il fronte europeo e prepararci alla s#da con la Cina; perciò dobbiamo deprioritizzare il Medio Oriente. Non ce ne andiamo, però non possiamo più farcene assorbire. Al massimo, possiamo applicargli le nostre priorità globali; vedrete che funzioneranno sicuramente».
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Nella primavera 2023, sempre Sullivan ha illustrato l’obiettivo del suo governo: «un Medio Oriente più integrato e interconnesso». Da raggiungere con uno strumento fondamentale: le partnership, abbinate alla deterrenza e alla diplomazia (il classico schema dell’Iran). Seguiva lunghissimo elenco di innegabili sviluppi positivi promossi dall’America, dalla tregua in Yemen agli accordi di Abramo a iniziative infrastrutturali e industriali 16. Ecco il problema della classe dirigente americana: si costruisce la propria realtà parziale (rafforzamento delle alleanze mediorientali), senza riconoscere che è in corso una realtà parallela (allargamento dell’Iran). Perché ha altro da fare. Non è analisi strategica; è assuefazione alla propria propaganda. L’intelligence statunitense dice di aver avuto indicazioni di un possibile attacco da Gaza, avvisata anche da altri servizi arabi. Nessuno si è sentito in dovere di guardare bene. Riassume un uf"ciale dell’intelligence militare: «Non ci sono poi così tante risorse e non è solo l’Ucraina che sta prendendo tutto quel che può essere usato, è anche il Medio Oriente che ha perso molta dell’urgenza degli ultimi anni rispetto ad altre priorità» 17. 7. Tanto dello sviluppo futuro della guerra dipende dalle intenzioni dell’Iran. Per ora, l’America dice a Israele di delegarle la deterrenza sul fronte esterno, vietandogli escalation e rappresaglie contro lo sponsor di Õamås. Per questo motivo, a entrambi fa gioco non attribuire ancora uf"cialmente la responsabilità del 7 ottobre a Teheran, nonostante l’evidente matrice d’ispirazione. Ma questo attacco ha portato la guerra Iran-Israele, in corso da anni nelle ombre, in pieno sole. Il regime degli ayatollah si sente aggredito, non aggressore. Perché sabotaggi, ciberattacchi e omicidi colpiscono più il suo territorio che viceversa. Inoltre, non gode della piena legittimazione di una popolazione dove è pure saldo un sentimento "losemita, almeno nel dominante ceppo persiano. Per questo potrebbe accettare costi molto alti. Aver riesumato la causa palestinese comporta responsabilità. Alcuni fattori peseranno sulle sue decisioni. Õamås molto probabilmente sopravvivrà, anche perché ha i capi all’estero e operativi in Cisgiordania, quindi Teheran non rischia di perdere il cliente. Dif"cilmente vorrà impiegare tutto il potenziale bellico di Õizbullåh in Libano, mettendo a rischio un altro alleato. Israele sta bruciando nel suo fuoco, alienandosi il supporto internazionale: già un cessate-il-fuoco sarebbe una vittoria per gli iraniani. In generale, conviene tenersi più pedine possibile. La partita sembra appena iniziata. L’escalation potrebbe essere orizzontale, colpendo obiettivi americani ed ebrei sparsi in Medio Oriente. In America al momento non si vedono "gure così coraggiose da tentare, come consigliava anni fa il re saudita ‘Abdallåh, di «tagliare la testa del serpente». Ma una revisione dell’atteggiamento lassista nei confronti dell’Iran è necessaria. Prima però occorre ragionare su come affrontare il disordine mondiale. Negli ultimi due anni sono scoppiate altrettante guerre sistemiche nei teatri che gli Stati
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16. «Keynote Address by National Security Advisor Jake Sullivan», The Washington Institute for Near East Policy, 4/5/2023. 17. W. ARKIN, «How the U.S. Secret Presence in Israel Missed the Hamas Attack», Newsweek, 13/10/2023.
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I DUE STATI SECONDO TRUMP LIBANO
Strade di accesso israeliane Futuro Stato di Palestina Porto Principali strade palestinesi Collegamenti veloci per trasporto merci Ponte o tunnel Sito strategico Possibile porto/aeroporto o%shore
Linea dell’armistizio del 1949
SIRIA Lago di Tiberiade
Haifa
fiume Giordano
Mar Mediterraneo
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Qalqīlya
Enclavi israeliane (lista parziale) 1 Hermesh 2 Mevo Dotan 3 Elon Moreh 4 Itamar 5 Har Bracha 6 Yitzhar 7 Ateret 8 Ma’ale ‘Amos 9 Metzad 10 Karmei Tzur 11 Telem 12 Har Hevron 13 Negohot 14 Beit Hagai 15 ‘Otniel
Ponte Dāmiya 7 Ponte Allenby
Rāmallāh Gerusalemme
Ashdod
Gerico
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Betlemme
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Gaza Tunnel Gaza-Cisgiordania
Rafah Zona industriale manifatturiera hi-tech
ISRAELE
1 Gerusalemme Est Tracciato del Muro Linea dell’armistizio del 1949 Centro abitato palestinese Insediamenti israeliani
Possibili siti della capitale dello Stato di Palestina 1 Kafr ‘Aqab 2 Šu‘afāt Est 3 Abū Dīs Città Vecchia
Zona residenziale e agricola 1
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Fonte: Vision for Peace, conceptual map
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Uniti intendevano meno prioritari: Europa e Medio Oriente. Vedendoli impegnati nella crisi domestica e con la Cina, Russia e Iran hanno fatto la loro mossa. Biden ha dato una risposta: «Noi siamo la nazione indispensabile» 18. Rilancio dell’idea egemonica degli anni Novanta secondo cui gli Stati Uniti devono affrontare tutti ovunque contemporaneamente. Il presidente l’ha pronunciata più per ragioni di propaganda interna, per convincere la popolazione ad armare gli ucraini, ma di fatto è così che si comporta il suo governo. Getta tutto il peso dell’America su una guerra per impedire che la situazione degeneri. E per dimostrare risolutezza. Poi alla retorica alta corrispondono alti limiti: non usa direttamente la forza, non condivide tutti gli obiettivi dell’alleato, non ha mezzi suf"cienti (industria bellica), non ha incondizionato supporto popolare. L’America difende il proprio ruolo perché non può fare altrimenti, pena innescare un crollo del sistema che ha eretto, ma vista l’attuale sovraestensione delle sue garanzie difensive invita i rivali a farsi distrarre e a tentare di imporle il fatto compiuto. Dentro gli apparati suona l’allarme: non abbiamo l’«ampiezza di banda» per gestire questo sovraccarico di crisi. Limite istituzionale ma anche culturale. Il dilemma per gli Stati Uniti è come fare sintesi tra Guerra Grande e guerre separate. Cioè tra la competizione mondiale per la redistribuzione del potere e le singole partite locali su cui si gioca. L’America deve trattare i con#itti come parte di un unico grande schema oppure combatterli distintamente? La sintesi è necessaria per via di due pericolosi tratti della mentalità statunitense. Uno è la tendenza a unire i rivali, come ha fatto negli ultimi decenni, ancor di più da quando parla di «democrazie contro autocrazie». È elevato il rischio di una profezia che si autoavvera, generando l’«asse del Male» che vorresti evitare. L’altro tratto è il vizio regionalista della sua politica estera: trattare tutto separatamente, senza un principio guida, ciò che ha portato all’attuale sovraffollamento di garanzie difensive. La sintesi si chiamerebbe strategia. Ma negli ultimi decenni è stata sostituita dalla giusti"cazione di ciò che si sta già facendo (ideologia). Logica vorrebbe guadagnare tempo con la Cina – entrambi ci stanno faticosamente provando. E congelare almeno una partita, quella in Ucraina con la Russia. Circolano proposte, come offrire a Mosca di togliere le sanzioni oppure minacciarla di cambio di regime per indurla a un armistizio. Fantasie poco percorribili. Segno di un elevato caos interno. La vulnerabilità massima dell’America è quella domestica. Impietosa la diagnosi di Robert Gates, già capo di Cia e Pentagono: abbiamo una popolazione introvertita, un Congresso incivile e non funzionante, un bilancio e un’industria bellica inadeguati, istituzioni incapaci di elaborare una strategia, dunque una narrazione 19. Aggiungiamo un debito fuori controllo e il serio rischio di disordini nel 2024 legati ai processi di Donald Trump e abbiamo tutti gli ingredienti per comprendere la dif"coltà di ragionare in termini di Guerra Grande.
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18. «Remarks by President Biden on the United States’ Response to Hamas’s Terrorist Attacks Against Israel and Russia’s Ongoing Brutal War Against Ukraine», White House, 20/10/2023. 19. R.M. GATES, «The Dysfunctional Superpower», Foreign Affairs, 29/9/2023.
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‘Sovraestesi e senza strategia’ Conversazione con Stephen WERTHEIM, storico e senior fellow all’American Statecraft Program del Carnegie Endowment for International Peace, a cura di Federico PETRONI
La Pax Americana è !nita. Gli Stati Uniti dovrebbero restaurare la loro egemonia? WERTHEIM No. L’America non è più egemone perché il mondo è assai più competitivo, principalmente a causa dell’ascesa della Cina, della ripresa della Russia rispetto agli anni Novanta e dell’affermazione dell’indipendenza del «Sud Globale». Gli Stati Uniti hanno una scelta. Provare a tornare ai livelli egemonici di !ne guerra fredda, al cosiddetto momento unipolare, oppure fare una sobria valutazione di dove eravamo e dove sta andando il mondo per operare aggiustamenti che siano nel nostro interesse. L’opzione giusta è la seconda, ma è la prima che gli Stati Uniti stanno perseguendo. I decisori non ammetteranno mai che stanno provando a ripristinare l’egemonia. E hanno ragione nel dire che quel mondo è !nito e non tornerà più. Ma a giudicare da come reagiscono agli eventi mondiali, la loro politica è continuare a estendere il potere americano. L’amministrazione Biden all’inizio del suo mandato aveva seriamente ragionato sulla seconda opzione. C’era forse un’opportunità af!nché le cose andassero diversamente, ma dallo scoppio della guerra in Ucraina gli Stati Uniti hanno lasciato che le crisi dettassero loro le priorità. Così ora contempliamo di dare garanzie di sicurezza a Kiev e la questione di Taiwan è !nita al centro del rapporto con la Cina. Entrambi i dossier rischiano di innescare una guerra mondiale. Questo tipo di pericoli aumenterà se gli Stati Uniti continueranno sulla strada su cui sono incamminati, senza ripiegare mai da nessuna parte. LIMES Intanto nella politica americana c’è un disaccordo fondamentale sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo. WERTHEIM Gli americani sono sicuramente più turbati dalla politica estera rispetto alla !ne della guerra fredda e la netta maggioranza ritiene che la traiettoria del paese sia sbagliata. Dal 2005 a oggi, il sistema politico è gradualmente diventato più critico degli interventi militari. Il 2005 è l’anno in cui la guerra in Iraq divenne
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impopolare e in cui quella in Afghanistan cominciò a instradarsi verso la scon!tta, con la formazione dell’insurrezione dei taliban. Da allora, uno degli slogan più popolari nella politica americana è stato: meno interventi all’estero, più nation building a casa. È stato il messaggio di Obama nel 2008, di Trump (a suo modo) nel 2016 e – per quanto sembri ironico pensarci ora – pure di Biden nel 2020. Il messaggio elettorale dell’attuale presidente era: abbiamo bisogno di una politica estera per la classe media, basta guerre in!nite, a cominciare dall’Afghanistan. È una tendenza durevole, a destra e a sinistra. Tante sono le manifestazioni di questo scontento. Trump è soltanto una di queste. Il mondo se ne accorge. Oggi è dif!cile contare sulla garanzia che gli Stati Uniti ti proteggano. La maggior parte di quelle garanzie non sono state fatte con sobrietà. LIMES Cosa intende? WERTHEIM Penso all’allargamento della Nato nel 2004, quando entrarono sette Stati dell’Est Europa, fra cui Estonia, Lettonia e Lituania, ex membri dell’Urss, non solo del Patto di Varsavia come gli altri ammessi. Paesi dif!cili da proteggere, che non aggiungevano molto alla difesa del resto dell’Alleanza. Nel dibattito in Senato sulle modi!che al trattato di Washington istitutivo della Nato, nessuno prese seriamente in considerazione la possibilità che un giorno gli Stati Uniti sarebbero stati chiamati a morire per i paesi che si impegnavano a difendere. La logica all’epoca era: visti i dissapori tra europei e americani causati dalla guerra in Iraq, allargare la Nato sarebbe stato un bel gesto nei confronti degli alleati. La sovraestensione in una regione, il Medio Oriente, divenne ragione per sovraestendersi in un’altra, l’Europa. Da allora, è evidente il contrario: prima o poi potremmo dover onorare quegli impegni. Vero, sono stati elaborati piani di difesa delle nazioni baltiche ed è stata aumentata la presenza avanzata delle forze alleate. Ma la Nato sembra voler ammettere l’Ucraina ancor prima di decidere come difendere sé stessa. Molte volte nella storia recente il carro è stato messo davanti ai buoi. È così che ci siamo sovraesposti. Non è un problema triviale, è un problema enorme. Implica che la deterrenza non è credibile. Può contribuire a causare guerre catastro!che. LIMES L’impero è troppo sovraesteso per chiedere alla popolazione americana di difenderlo? WERTHEIM Nelle fasi iniziali di una guerra, il paese si mobiliterebbe piuttosto velocemente. Lo abbiamo visto spesso in passato, penso al dopo-11 settembre. Prima dell’invasione dell’Ucraina si dibatteva molto su quali dovessero essere i limiti dell’impegno americano, ma quando è stato chiaro che Kiev era in grado di combattere, c’è stato un forte desiderio a Washington di assisterla. Se la Cina invadesse Taiwan, la discussione politica sarebbe breve e probabilmente gli Stati Uniti interverrebbero anche in assenza di un obbligo legale a difendere l’isola o a fornire le armi che le sta attualmente fornendo. Tuttavia, il dubbio viene quando il con"itto si prolunga per mesi, per anni. È dalla guerra in Vietnam che la società americana non paga alti costi per iniziative all’estero. Si può sostenere che l’11 settembre sia stato il prezzo da pagare per il
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coinvolgimento in Medio Oriente nel decennio precedente, ma non è stato interpretato così. Si può sostenere che la risposta a quell’attentato, la guerra globale al terrore, abbia comportato ingenti costi !nanziari e umani. È vero, ma ha impattato direttamente soltanto sui militari e sulle loro famiglie, mentre l’aggravio monetario è stato semplicemente messo sul conto della carta di credito nazionale. Oggi è sempre più dif!cile accumulare debito, ma ciò che conta è che quelle guerre per la maggior parte degli americani erano lontane, prive di un impatto signi!cativo sulle loro vite. In questo contesto, gli Stati Uniti non hanno soltanto preservato le loro alleanze dell’epoca della guerra fredda, le hanno signi!cativamente espanse nel corso di tre decenni. È piuttosto evidente che né la popolazione né la dirigenza americana stanno prendendo suf!cientemente sul serio i costi e i rischi associati agli impegni presi in un mondo ormai molto diverso da quello del momento egemonico. Guardate al dibattito per una no !y zone in Ucraina: a un certo punto si negava persino che avrebbe comportato sparare ai russi. O la discussione su Taiwan: è una questione molto dif!cile, ma sono scioccato da quante poche persone capiscono la politica della Cina unica e il suo scopo. Per valutare se gli Stati Uniti debbano andare in guerra contro la Repubblica Popolare, dovremmo bilanciare due domande. La prima: come sarà il mondo se Pechino riesce a conquistare l’isola? La seconda: quali sarebbero le conseguenze di una guerra con la Cina? È dif!cile per me pensare che la distruzione e le dif!coltà economiche causate da un con"itto tra le due potenze sarebbero inferiori alle conseguenze di una Repubblica Popolare egemone in Asia. Esistono seri dubbi su come gli Stati Uniti reagirebbero se i costi degli interventi oltremare diventassero improvvisamente chiari, sia alla popolazione sia all’élite. Questo potrebbe modi!care signi!cativamente il processo decisionale a Washington. LIMES La deterrenza statunitense funziona ancora? WERTHEIM C’è differenza tra deterrenza e dissuasione. La seconda è l’idea, diffusa alla !ne della guerra fredda in particolare tra i neoconservatori, che nessuno avrebbe osato intraprendere percorsi ostili agli Stati Uniti. La prima, invece, è più speci!ca e implica dire a un soggetto di non compiere un certo atto, come attaccare un paese vicino, perché altrimenti incorrerà in molteplici conseguenze. La dissuasione è un più generale senso di paura che dovrebbe essere infuso in altri soggetti. Non sono sicuro che questo timore sia mai esistito davvero, perché in molti hanno s!dato gli Stati Uniti pure negli anni Novanta. Però ha plasmato l’approccio al mondo della dirigenza americana. Uno dei fattori più importanti della decisione di invadere l’Iraq è stato il ripristino della dissuasione: fare qualcosa di grande e spettacolare per instillare paura. Shock and awe, era chiamato. Ma la dissuasione non dovrebbe essere il nostro obiettivo. E se lo è stato è chiaramente fallito. La storia che gli americani si raccontano, cioè che il nostro potere deve essere così soverchiante da immobilizzare chiunque, ha portato gli Stati Uniti a fare cose pericolose. Non è un’aspettativa realistica. LIMES In che modo gli Stati Uniti dovrebbero essere più misurati?
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WERTHEIM Gli Stati Uniti dovrebbero svincolarsi dagli impegni mediorientali, spostare il fardello di difendere l’Europa sugli europei e perseguire una coesistenza competitiva con la Cina. LIMES Un disimpegno americano spingerebbe i paesi europei alla neutralità verso Russia e Cina? WERTHEIM Guardiamo a come gli europei hanno reagito all’invasione russa dell’Ucraina. Se anche gli americani non avessero assunto la guida, pensate davvero che i paesi del Vecchio Continente si sarebbero allineati a Russia e Cina? Quest’angoscia, molto diffusa nella dirigenza di Washington, deriva da una certa lettura della storia, da un’ideologia secondo cui l’alternativa alla leadership assoluta degli Stati Uniti è il dominio del caos. Ma queste non sono le uniche opzioni. In realtà, se l’America assumesse un ruolo di supporto e non di guida, il mondo potrebbe diventare più resiliente. Il destino della sicurezza globale non dipenderebbe più dalle decisioni di poche persone a Washington. Né da un sistema politico che ha recentemente conosciuto un’insurrezione e in cui chi l’ha fomentata potrebbe tornare alla presidenza. Non dico che gli Stati Uniti debbano abbandonare la Nato. Penso che nel giro di otto-dieci anni, durante i quali continueremo a essere attenti e responsabili, l’America debba negoziare con gli alleati una transizione a un ruolo di supporto. Questo processo è necessario. Qualora dovessimo rivelarci incapaci o contrari a difendere l’Europa, i paesi del continente dovrebbero essere in grado di farlo da soli. Anche se sembra un’idea radicale – e in effetti lo è – se riducessimo il nostro impegno senza abbandonare la Nato, gli europei imparerebbero anche a essere meno deferenziali con Washington. Essere meno dipendenti dall’America signi!ca diventare più indipendenti. Penso sia una cosa buona. I bene!ci sarebbero enormi, per tutti. Ritengo inoltre estremamente improbabile un disaccoppiamento tra Europa e America, oltre che contrario agli interessi di entrambi. Il legame economico tra le due sponde dell’Atlantico offrire incentivi agli europei a difendersi dallo spionaggio e dalla sorveglianza cinese, oltre che a promuovere una transizione verde. I paesi del continente continuerebbero a dar forma, in accordo con gli Stati Uniti, alle norme internazionali. Il legame culturale e politico rimarrebbe stretto. Odio dirlo, ma penso ci siano modi migliori per promuovere i nostri interessi e valori. Continuare sulla strada attuale non è più sostenibile. LIMES Perché, qual è il rischio? WERTHEIM L’obiettivo è evitare un effettivo abbandono dell’Europa. Questo scenario potrebbe presentarsi qualora la Russia attaccasse un membro della Nato. Magari gli Stati Uniti vorrebbero anche difenderlo, ma c’è il rischio che il loro intervento indebolisca la deterrenza in Asia. E a Washington tutti sono d’accordo sul fatto che la Cina sia la priorità strategica, nonostante la guerra in Ucraina. Anche un’amministrazione idealmente favorevole a difendere l’Europa da un attacco russo potrebbe considerare tale opzione troppo rischiosa. Inoltre, gli Stati Uniti potrebbero
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anche non voler intervenire. Potrebbe esserci un presidente, come Trump, che non considera la Nato così fondamentale da giusti!care un’azione militare. Inoltre, ed è cruciale, la presenza americana è sovradimensionata rispetto all’effettiva minaccia russa. Mosca non è così forte. Non è in grado di impegnarsi in Europa come l’Unione Sovietica né di mettere a rischio la sicurezza del continente, così danneggiando gli interessi americani a mantenere l’Europa stabile e prospera. La Russia semplicemente non possiede le risorse economiche per farlo. L’economia europea, secondo le misurazioni più prudenti, è cinque volte maggiore di quella russa, secondo quelle meno prudenti addirittura dodici volte. LIMES Chi avrebbe il comando in questa Europa? WERTHEIM Le principali potenze europee: la Germania, la Francia e il Regno Unito. Se guardiamo alla coalizione che supporta l’Ucraina, vediamo anche che è emerso un gruppo di paesi composto da baltici, scandinavi e polacchi. È un punto di partenza, ma non siamo ancora pronti. Per questo è necessario un periodo di transizione. Non c’è scampo, la Germania dovrà giocare un ruolo da leader. E penso che, per ragioni storiche e di percezione di sé, Berlino accetterà questo ruolo solo se i suoi partner glielo chiederanno. Bisognerà monitorare questa situazione. Tuttavia credo che la guerra d’Ucraina abbia generato dei cambiamenti importanti e positivi, su cui si può costruire qualcosa. Ma se non si appro!tta di questa congiuntura e non si de!nisce la direzione della Zeitenwende (svolta epocale, n.d.r.) tedesca, l’Europa continuerà a percepire la Russia come una minaccia e a essere subordinata all’America. LIMES Gli Stati Uniti stanno perdendo la guerra in Ucraina? WERTHEIM No, il contrario. Penso che l’America abbia raggiunto rapidamente tutti i suoi obiettivi fondamentali: l’esistenza di uno Stato ucraino indipendente, lo scongiuramento di un con"itto diretto con Mosca e l’imposizione di costi signi!cativi alla Russia, così mostrando che crimini internazionali come quelli di Putin non sono vantaggiosi. Se l’invasione russa fosse andata a buon !ne, qualcun altro avrebbe potuto guardare con favore a operazioni di questo genere. Ma se gli americani ritirassero improvvisamente il loro supporto a Kiev, Mosca potrebbe raggiungere i suoi intenti. Quello di cui abbiamo bisogno è chiarezza su quali siano i nostri obiettivi ora e sui con!ni del nostro supporto agli ucraini. Questa è la s!da per l’amministrazione Biden. Il sostegno a Kiev pare illimitato, senza un orizzonte. In questo momento è in corso una guerra territoriale, ma gli alleati di Kiev non dicono quali territori intendono riconquistare. Si rifanno a quanto dicono gli ucraini, cioè al ritorno ai con!ni del 1991. Penso che il nostro approccio debba mutare: è necessario dire apertamente che questa guerra non porterà al recupero della Crimea, anche perché gli Stati Uniti non supporteranno in alcun modo un’operazione del genere, dato il rischio di escalation. Inoltre, promuovere la diplomazia tra Kiev e Mosca potrebbe far !nire questa guerra, e comunque contribuirebbe a non farla sembrare eterna. Purtroppo non abbiamo fatto molto di tutto ciò.
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Veniamo al Medio Oriente. Ha invocato un disimpegno. La nuova guerra di Israele non dimostra che non ci si può disimpegnare senza generare maggiore instabilità? WERTHEIM L’America non si è ritirata dal Medio Oriente. Ha detto – in particolare nell’ultima Strategia di sicurezza nazionale – che Washington presterà meno attenzione alla regione. Ma non è la stessa cosa di ritirarsi. L’amministrazione Biden, in una prima fase, ha dichiarato che il Medio Oriente non deve monopolizzare l’agenda americana, ma ha anche affermato che era necessario promuovere una «relazione stabile e produttiva con la Russia». Tradotto: voleva impegnarsi di meno in Europa. Del resto, le priorità degli Stati Uniti sono la sicurezza in Asia, la lotta a fenomeni globali come le pandemie e i cambiamenti climatici, oltre che il rinnovamento della democrazia americana. L’attuale amministrazione, insomma, ha cercato di assegnare minore priorità ad alcune regioni del mondo in cui, comunque, gli Stati Uniti sono ancora presenti e a cui sono estremamente legati. Tuttavia, ciò non è suf!ciente. C’è bisogno di una politica estera più strategica e disciplinata. Il disimpegno deve essere reintrodotto nel vocabolario americano perché evitare di farsi imbrigliare all’estero è una delle tradizioni più durevoli del pensiero statunitense, sin dalla fondazione. Molti decisori americani sono tracotanti e non riescono a dire che alcune aree, dove magari ci sono con"itti più o meno congelati, non sono prioritarie per gli Stati Uniti, almeno per il prossimo futuro. LIMES Qual è la prima lezione della nuova guerra in Medio Oriente? WERTHEIM La vera lezione che gli americani devono imparare è che, per ragionare in termini di priorità, devono prima disimpegnarsi da alcune situazioni. Il mondo non sarà calmo solo perché delle persone a Washington vogliono che sia così. Gli americani rischiano di essere trascinati in un con"itto in tutti quei contesti in cui sono garanti della sicurezza di almeno una delle parti in causa. Il disimpegno serve af!nché possano essere gli Stati Uniti a decidere quali sono le loro priorità. Paradossalmente, per controllare il mondo, gli americani hanno perso il controllo di loro stessi, dato che sono gli eventi a determinare la loro agenda. LIMES I decisori a Washington considerano il Medio Oriente separato o connesso agli altri fronti della competizione mondiale? WERTHEIM Da quando, sotto Trump, l’espressione «competizione tra grandi potenze» è diventata una parola d’ordine, gli analisti americani hanno avviato un dibattito sulla rilevanza del Medio Oriente. Alcuni sostengono che questa regione è un luogo cruciale dove contrastare l’in"uenza russa e cinese. Altri, me compreso, sostengono che la competizione si concentra in Europa e nell’Indo-Paci!co ed è lì che gli Stati Uniti devono concentrare le proprie risorse e attenzioni, migliorando la propria posizione. Il corollario è che l’importanza strategica del Medio Oriente è minima. La conseguenza è che dovremmo disimpegnarci da quel teatro. Esponenti di entrambe le posizioni erano presenti nell’amministrazione Trump e si ritrovano ora nell’amministrazione Biden. Ma quando si è trattato di attuare una
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delle due politiche, si è sempre seguita la linea del primo gruppo. Allontanarci militarmente dal Medio Oriente richiede uno sforzo intenso ed è politicamente rischioso. Né Trump né Biden hanno mai tentato di farlo. Nonostante si parli molto di «abbandono» americano del Medio Oriente, gli Stati Uniti hanno gli stessi partner di sicurezza, gli stessi avversari e più o meno lo stesso numero di truppe stanziate nella regione di quando Obama ha lasciato il suo incarico. LIMES La nuova guerra ha chiarito ai decisori che siamo in un periodo di con!itti a cascata? WERTHEIM La guerra in Israele, assieme a quella d’Ucraina, ha reso i decisori consapevoli che potrebbero trovarsi a dover affrontare un «nuovo asse», composto da Russia, Iran, Corea del Nord e Cina. Questa è una novità rispetto a quel che l’amministrazione Biden pensava quando si è insediata. Prima del febbraio 2022, alcune "gure in!uenti ritenevano utile stringere i rapporti con Mosca allo scopo di allontanarla da Pechino. Ma l’aggressione a Kiev, insieme all’«amicizia senza limiti» tra cinesi e russi proclamata poche settimane prima, ha consolidato l’idea secondo cui gli Stati Uniti si trovano ad affrontare un blocco di nemici autocratici. Anche perché Iran e Corea del Nord, entrambi sottoposti a pesanti sanzioni statunitensi, hanno fornito armi alla Russia. Bisognerà vedere in che misura Teheran o Mosca siano state coinvolte nell’attacco di Õamås a Israele del 7 ottobre. Ciò che è innegabile è che l’attacco ha radici locali, costituite dall’espropriazione della terra palestinese, dal fallimento del cosiddetto processo di pace e dall’ideologia estremista di Õamås. Queste cause potrebbero essere oscurate dall’allineamento reale, ma a volte esagerato, tra gli avversari degli Stati Uniti. LIMES Negli ultimi decenni, l’America ha contribuito ad allineare i suoi rivali. Perché? WERTHEIM La risposta è complessa, ma vorrei sottolineare alcuni fattori. In primo luogo, gli Stati Uniti hanno perseguito un progetto di dominio militare globale a partire dagli anni Novanta. Era ovvio che, nel lungo periodo, il mantenimento e l’espansione del potere americano avrebbero generato delle resistenze. Tuttavia, questa possibilità è stata nascosta dalla debolezza degli altri paesi durante il cosiddetto momento unipolare. In secondo luogo, a Washington sono in pochi a occuparsi di strategia. I politici tendono a essere esperti di singoli paesi o regioni e le amministrazioni presidenziali si preoccupano di orizzonti temporali di quattro-otto anni. La conseguenza è che gli Stati Uniti hanno dif"coltà a modi"care i loro impegni in una regione per difendere i loro interessi in un’altra. Non riescono a concepire e ad attuare un approccio olistico centrato su rischi e costi futuri. In terzo luogo, gli Stati Uniti confondono i loro interessi con la loro posizione di potere. I leader politici partono dal presupposto che gli americani stiano necessariamente meglio quando gli Stati Uniti allargano le loro alleanze e la loro presenza militare. E sono estremamente riluttanti a ritirarsi da qualsiasi teatro. Il presidente Biden, ad esempio, è stato punito politicamente per il ritiro dall’Afghanistan. L’opi-
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nione pubblica si è espressa a favore, eppure la classe dirigente americana si è comportata come se si aspettasse che gli Stati Uniti perdessero una guerra ma sembrassero vincitori. Se si mettono insieme tali fattori, cosa si ottiene? Una politica estera che non solo genera una serie di nemici, ma che fatica anche a stabilire le priorità tra questi e ad agire con la !essibilità necessaria a tenere separati gli uni dagli altri. Ora, Cina, Russia e Iran fanno il loro gioco e meritano forti condanne per il loro comportamento violento e coercitivo. Sono anche paesi diversi con interessi diversi e in futuro potrebbero essere meno allineati tra loro. Tuttavia, per affrontare questo dilemma, gli Stati Uniti devono innanzitutto comprendere i limiti che si sono autoimposti. (traduzione di Giuseppe De Ruvo e Federico Petroni)
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‘Gli Usa devono essere più aggressivi con l’Iran’ Conversazione con Mary Beth LONG, già assistente al segretario alla Difesa degli Stati Uniti per gli affari di sicurezza internazionale (2007-9) a cura di Federico PETRONI
Cosa vogliono gli Stati Uniti nella guerra di Gaza? Abbiamo tre interessi principali, in qualche modo in competizione tra loro. Mi soffermo prima su quello domestico. Non credo sia il più importante, ma in un momento di grande politicizzazione come quello attuale le nostre opinioni pubbliche hanno una voce forse più forte del solito. Negli Stati Uniti abbiamo una comunità ebraica numerosa e politicamente attiva, ma raramente unanime sulla questione palestinese. In questo caso è compatta. Õamås ha permesso che ciò accadesse con il suo attacco mirato, a mio avviso, a terrorizzare tutti gli ebrei e a spingerli a una ritorsione aggressiva. Inoltre, dal secondo dopoguerra gli Stati Uniti ritengono di avere l’obbligo di difendere gli ebrei in tutto il mondo e di fare in modo che quanto successo ai tempi dell’Olocausto non riaccada mai più. Questo sentimento è alla base dei nostri comportamenti di oggi. La reazione alle atrocità del 7 ottobre è stata senza precedenti. Il secondo fattore di interesse riguarda l’attivazione dei clienti dell’Iran. L’unica cosa sicura è che le conseguenze di un’escalation della guerra non sono chiare a nessuno. È certo che un allargamento del con!itto porterebbe a molte più morti israeliane e a un livello insostenibile di vittime palestinesi a Gaza. Gli Stati Uniti ritengono non solo che questo sia di per sé inaccettabile, ma anche che potrebbe scatenare violenze in tutto il mondo contro obiettivi americani. Gli attacchi a persone e installazioni statunitensi in Iraq e Siria sono già iniziati. Non vogliamo una con!agrazione del Medio Oriente sponsorizzata dall’Iran o condotta per suo conto. In terzo luogo, c’è il consolidamento dell’asse anti-occidentale composto da Russia, Cina, Iran e da tutti gli attori che, scontenti o insoddisfatti dello stato attuale delle cose, usano il con!itto israelo-palestinese a proprio vantaggio.
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Nessuno è abbastanza forte da contenere, prevedere o plasmare la guerra appena scoppiata. Ma nel complesso la combinazione di questi tre interessi ha portato al tentativo degli Stati Uniti di convincere Israele e Õamås a rallentare per evitare un’escalation. LIMES Rallentare a tempo indeterminato, cioè a non invadere massicciamente Gaza? LONG Non lo vedo come un rallentamento strategico. Potrebbe avere quell’effetto. Ma al momento tutti si occupano di tattica. C’è però un rovescio della medaglia. In molti credono che il rallentamento abbia solo permesso a Õamås di rafforzarsi politicamente e rimanere radicato, così da capitalizzare sugli ostaggi e fare ulteriore proselitismo per invitare altri a unirsi alla lotta. Gli stessi ritengono che la sola soluzione sia il totale annientamento del gruppo, obiettivo uf!ciale del governo israeliano. L’unica cosa abbastanza chiara è che molto probabilmente non ciò non accadrà. Penso che l’annientamento di Õamås sia fuori dalla portata di Israele. LIMES In pratica gli Stati Uniti stanno consigliando a Israele di non fare la guerra al terrorismo che voi avete fatto vent’anni fa. LONG Non sono sicura che in quella guerra siamo riusciti ad annientare nessuno. E ci sono molte lezioni da apprendere. Quindi, sì. LIMES Gli Stati Uniti si !dano ancora di Israele? LONG Credo che gli Stati Uniti si !dino ancora dei militari e dei servizi segreti israeliani. Altre volte nella storia Israele è stato colto alla sprovvista. Non solo si riprende sempre, ma l’esperienza lo rafforza. Quindi nel lungo termine non vedo un passo indietro da parte degli americani dal punto di vista militare. Tuttavia, in modo non molto diverso da quanto succede negli Stati Uniti, ci sono alcuni interrogativi sulla politica interna israeliana, sulla forza della cittadinanza, sul carattere divisivo del governo Netanyahu, sulla sua dipendenza dall’estrema destra. Credo che questo abbia minato l’immagine coesa di Israele presso gli Stati Uniti. Dal punto di vista politico e secondo alcuni anche culturale, ci sono fazioni che non lavorano – e forse non possono lavorare – insieme. LIMES L’ex presidente israeliano Reuven Rivlin le ha chiamate «tribù». LONG Tutti le chiamano tribù, anche se qualcuno crede che sia una mancanza di sensibilità culturale. Oggi le tribù sono più forti che mai e in crescita. LIMES Gli Stati Uniti temono una rivolta della tribù araba dentro Israele, come nel 2021? LONG Non direi. Penso che sia l’unico punto su cui l’amministrazione Biden è piuttosto ottimista. E non ho sentito preoccupazioni israeliane di fazioni interne intenzionate a unirsi al con"itto. Non vedo alcun reale problema di sicurezza. LIMES È possibile mantenere l’allineamento tra Israele e i paesi arabi sunniti mentre Gaza viene devastata? LONG Nel lungo termine, penso di sì. Nel breve periodo, sarà dif!cile. Per le legittime preoccupazioni umanitarie. Per i dubbi sulla capacità di Israele di raggiungere i propri obiettivi militari senza una grave e orribile perdita di vite umane. Per le preoccupazioni su ciò che verrà dopo, anche se l’operazione israeliana avrà successo. Come verrà governata la Palestina? Che aspetto territoriale avrà?
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Come evitare che la popolazione soffra ancora di più e che si inneschi un nuovo ciclo di povertà e violenza? La maggior parte degli Stati arabi, in particolare quelli del Golfo, si è allontanata da tempo dalla Palestina politica. Per l’amarezza del periodo successivo ad Arafat. Ai loro occhi, l’Autorità nazionale palestinese non era in grado di arrivare ad alcuna soluzione. Hanno voltato lo sguardo per frustrazione. Una volta ho avuto una conversazione interessante con un leader arabo. Gli ho detto: «Se voi destinaste la metà di quello che la vostra famiglia reale spende per le vacanze estive allo sviluppo della Cisgiordania non staremmo qui a preoccuparci dei palestinesi impoveriti». Risposta: «Di solito la gente non ci chiama in causa in questo modo». Il fatto è che nemmeno gli arabi hanno una soluzione per gli arabi in Palestina. E con tutte le risorse e gli interessi economici, religiosi, culturali, tecnologici che il riavvicinamento con Israele mette sul piatto, non credo che i rapporti cambieranno. LIMES Chi dovrà guidare Gaza dopo la guerra, per gli Stati Uniti? LONG Non credo che gli Stati Uniti stiano piani!cando il dopoguerra a Gaza, francamente. È questo uno dei probabili motivi per cui l’amministrazione ha chiesto a Israele di rallentare. LIMES Allora quale potrebbe essere una soluzione percorribile dal punto di vista americano? LONG Non quella di un governo formato e sostenuto dagli Stati Uniti o da un altro attore esterno. In America e in tutto l’Occidente c’è scarso ottimismo che qualcuno sia effettivamente in grado di gestire la Cisgiordania o Gaza. Non c’è una leadership, non esiste un piano. Non ci sono principi organizzativi, c’è poca convergenza di interessi. Questo è il dilemma. Nessuno vuole incaricarsi neanche di una delle due attuali nazioni divise della Palestina. Nemmeno gli Stati Uniti. L’unica cosa che abbiamo imparato, si spera, dalle nostre escursioni mediorientali è che non sappiamo fare bene in Medio Oriente. La regione deve essere gestita internamente. Non si può dettare il futuro dei gaziani o dei palestinesi dall’esterno. Quindi, purtroppo, non ci resta che aspettare che qualcuno si prenda la leadership, anche se nell’immediato non sembra fattibile. LIMES Il governo degli Stati Uniti dovrebbe assumersi la responsabilità di riaprire il processo negoziale tra israeliani e palestinesi? LONG Ora è troppo presto. La priorità è tornare a una situazione in cui entrambe le parti godono di ragionevoli garanzie di sicurezza. Non sono nemmeno sicura che ci sarà un dopoguerra. Potrebbe restare un livello di violenza e di incertezza costante ma sostenibile. Senza la leadership palestinese, senza un piano concreto, senza una sostenibilità economica, credo che sarà il risultato più probabile, anche se triste. Non mi sorprenderebbe se ci fossero violenze di sottofondo per gli anni a venire. In una situazione del genere non mi pare che si possano risolvere le questioni di fondo. LIMES Gli Stati Uniti chiederanno a Israele di congelare gli insediamenti in Cisgiordania?
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Sono sempre stata piuttosto critica verso gli insediamenti israeliani. Non capisco una nazione che permette l’espansione in violazione delle sue stesse leggi. Non capisco la necessità e il desiderio di creare insediamenti, specialmente considerando che comportano la rimozione !sica dei palestinesi, indipendentemente dal fatto che abbiano o meno una rivendicazione o una base legale per trovarsi lì. Se fossi al governo di Israele esaminerei molto attentamente i risvolti politici, economici e, soprattutto, securitari delle politiche di insediamento, in particolare di quelle più aggressive. Non credo che siano sostenibili né utili alla sicurezza di Israele. Certamente stanno esacerbando le tensioni nella regione. LIMES Passiamo alla scala regionale. Gli Stati Uniti dovrebbero incoraggiare Israele a essere più aggressivo verso l’Iran e la sua rete? LONG Sì e credo che anche noi dovremmo esserlo. L’Iran sta intensi!cando le sue aggressioni alle nostre forze in Siria e Iraq, incontrando scarsa opposizione. Potremmo andare avanti così all’in!nito. Una delle grandi critiche che rivolgo all’amministrazione Biden – che ha implicazioni anche per la nostra posizione nei confronti di Õamås – è la tolleranza non solo nei confronti dei clienti dell’Iran, ma anche dello stesso Iran. Ha lasciato che la Repubblica Islamica si posizionasse a Gaza e si rafforzasse in Libano. Israele ha fatto meglio di noi, quantomeno nel rispondere militarmente in Siria. Ma Teheran è un problema, sotto molti aspetti il più grande che abbiamo. LIMES L’amministrazione Biden ha sbagliato a non considerare più il Medio Oriente come una priorità? LONG Mi meraviglio sempre del linguaggio usato dal mio governo: «Faremo perno sul Sud-Est asiatico e sul Mar Cinese Meridionale». Il mondo non funziona così. Una superpotenza non può farne perno. Perché quando dici «fare perno» la gente sente «de-enfatizzare». Una particolarità del Medio Oriente è che non appena lo metti in secondo piano ti rientra dalla !nestra. È dinamico. Molti attori hanno ampliato il proprio ruolo e le proprie ambizioni, anche al di fuori della regione. Alcuni sono potenze spaziali. Hanno presenza, responsabilità e relazioni signi!cative in Africa, in Indocina, in Cina. Non è il Medio Oriente dei nostri nonni. L’idea che si possa essere una potenza globale e ignorare il Medio Oriente è una follia per tutti, fuorché per gli Stati Uniti. Noi pensiamo di poter scegliere, ma è un ragionamento che non ha senso. LIMES Quindi come dovrebbero comportarsi gli Stati Uniti senza farsi impantanare? LONG Gli Stati Uniti devono essere un attore af!dabile, prevedibile e responsabile a livello globale. Punto e basta. Non un po’ qui e un po’ là. Dobbiamo, come si dice in inglese, camminare e masticare la gomma allo stesso tempo. Cioè rassicurare alleati e potenziali partner in modo che i nostri nemici e potenziali avversari abbiano la ragionevole aspettativa che schierandosi contro i nostri interessi pagheranno dei costi. LIMES Facciamo un esempio. Gli Stati Uniti avrebbero dovuto rispondere militarmente all’attacco dei clienti iraniani nel 2019 alle strutture petrolifere dell’Arabia Saudita?
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No. Era qualcosa che l’Arabia Saudita poteva gestire da sola. Anzi, per certi versi la vicenda ha permesso a Riyad di migliorarsi. Tuttavia, saremmo dovuti intervenire con una dimostrazione di forza, per rassicurare i sauditi. Non solo in quell’occasione. Anche quando gli Emirati Arabi Uniti sono stati attaccati nel 2022 abbiamo commesso un errore a non muovere un dito. Abbiamo inviato il segnale sbagliato all’Iran, peggiorando le cose. LIMES È una caratteristica comune di democratici e repubblicani pensare di potersi disimpegnare dal Medio Oriente gestendo gli iraniani? LONG I nostri presidenti democratici hanno adottato un approccio sbagliato e ignorante, pensando di poter manipolare e gestire l’Iran come se lo si potesse incentivare a diventare un attore responsabile integrato nell’ordine internazionale basato sulle regole. Non credo fosse possibile. L’accordo sul programma nucleare si è dimostrato un disastro e un pericolo per il resto del mondo. L’amministrazione Trump ha provato a comunicare con chiarezza all’Iran quali sarebbero state le ripercussioni in caso di passi falsi. Era chiaro che il presidente era disposto ad affrontarlo e credo che gli iraniani stessi lo abbiano capito. Quindi entrambi pensavano di poter gestire Teheran? Suppongo di sì, in senso generale, ma con approcci completamente diversi. LIMES Il risultato è stato lo stesso: l’Iran si è espanso. LONG Il risultato è lo stesso. Ma lo sappiamo bene, non si può fare nulla in soli quattro anni. Oggi sarei molto più ottimista se le sanzioni e l’isolamento fossero rimasti forti e gli Stati Uniti più aggressivi. Sotto Trump, la valuta dell’Iran, il raggio mondiale dei suoi affari, la sua economia erano stati notevolmente ridimensionati. Negli anni abbiamo perso diverse occasioni per aiutare il popolo iraniano a far sentire il proprio peso nel sistema politico interno. LIMES Che impatto ha la nuova guerra in Medio Oriente sul calcolo strategico degli Stati Uniti? LONG Il calcolo strategico degli Stati Uniti è guidato dal ruolo che la Cina svolge nel mondo: se Xi Jinping otterrà il suo impero cinese e come lo otterrà, con la coercizione o con la diplomazia. Certamente esiste un’alleanza di convenienza con la Russia di Putin, che aspira a riconquistare l’impero ex sovietico e un ruolo geostrategico globale. A ciò si aggiungono attori minori che possono causare grandi danni, come la Corea del Nord. Gli Stati Uniti si ritrovano a guardare al mondo intero con i piedi in diverse scarpe. Ma non abbiamo abbastanza esperienza per gestire bene la situazione, che fa leva sulle nostre debolezze, sulla nostra mancanza di continuità e di coerenza. Siamo eccezionali quando siamo iperpotenti e possiamo permetterci una politica estera poco sfumata. Ma oggi la maggior parte dei paesi ha un piede negli Stati Uniti, uno in Cina e una mano nei territori da cui si approvvigiona di energia. E c’è tutto il mondo non occidentale, il cosiddetto Sud Globale, che cerca di posizionarsi per non restare schiacciato dalle altre potenze. Sarà dif!cile gestire un quadro mondiale così confuso se gli Stati Uniti continueranno a seguire la politica estera tradizionale.
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La guerra in Medio Oriente distrae gli Stati Uniti dalla missione principale con la Cina? LONG No. Si tratta dell’ultima di una serie di lotte di potere tra Israele e la sua nemesi, l’Iran. LIMES Gli Stati Uniti sono in grado di gestire contemporaneamente tre fronti come l’Europa, il Medio Oriente e l’Indo-Paci!co? LONG Devono esserlo. LIMES Ma avete abbastanza risorse per farlo? LONG Nutro più ottimismo sull’aspetto materiale delle risorse: la forza economica, la base industriale, la logistica, la capacità di proiettare potenza del mondo. Ma la questione è: abbiamo un leader? Abbiamo la determinazione politica interna necessaria a essere la nazione indispensabile? Oggi negli Stati Uniti siamo in conversazione con noi stessi per de!nire chi e cosa siamo a livello nazionale. Arriviamo in ritardo di qualche decennio. Il risultato è una forte divisione e una forte politicizzazione che ci rendono incoerenti, alcuni direbbero inconsistenti. L’impatto non è solo a livello economico, condiziona la nostra capacità di agire nel mondo. Dov’è la nostra risolutezza? È dif!cile affrontare i problemi all’estero quando affrontiamo dif!coltà all’interno. La situazione peggiorerà durante il prossimo ciclo politico. Stiamo attraversando una fase di sofferenza crescente che si ri"etterà sulla nostra politica estera. LIMES Per quanto tempo ancora gli Stati Uniti possono sostenere una strategia che non ha un supporto popolare schiacciante in patria? LONG Non credo che abbiamo una strategia ed è proprio quello il punto. LIMES Vero e concordo con lei. Allora per quanto tempo gli Stati Uniti possono pretendersi nazione indispensabile se la nazione non si ritiene più tale? LONG A lungo ci siamo pensati come il poliziotto del mondo o, se vogliamo, come un gentiluomo globale: difensore dei diritti, traghettatore di riforme democratiche, voce di tutti i popoli. Ma questo ruolo esiste solo nelle nostre teste. Il resto del pianeta non ci vede così. Penso che gli americani ne siano semplicemente stu!. Penso che guardino indietro a tutte le campagne come l’Iraq o l’Afghanistan e dicano: «Abbiamo speso tanto denaro e soprattutto tanto sangue. Siamo l’unico paese che per qualche motivo sembra più disposto a mandare i nostri uomini e le nostre donne in battaglia. Abbiamo alleati straordinari. Ma abbiamo reso il mondo un posto migliore? Abbiamo reso l’America un posto migliore? Abbiamo reso l’America più forte o più debole?». Il dibattito è aperto. Credo che la maggior parte delle persone ritenga che in realtà il nostro ruolo nel mondo ci abbia indeboliti. Alcuni parlano di nazionalismo, altri di isolazionismo. Ma il motivo per cui Trump venne eletto nel 2016 è proprio questo dibattito su se e come cambiare il nostro atteggiamento verso noi stessi e verso il mondo. Non siamo arrivati alla !ne della discussione, non ci siamo nemmeno vicini. Tranne che nei momenti di crisi, ci saranno ancora occasioni in cui saremo opachi e inaf!dabili, anche più quanto non siamo già stati nel recente passato. È perché stiamo dialogando con noi stessi.
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(traduzione di Alessandro Colasanti)
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LA VERA STORIA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE
di
Perry ANDERSON
Da de Vitoria a Grozio, la giustificazione dell’imperialismo europeo. Standard di civiltà per discriminare le nazioni. Tecnica per legittimare l’operato dell’egemone. Non veramente internazionale né vero diritto, ma opinione: si riferisce a ciò che dovrebbe essere, non a ciò che è.
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EL 1929 LUCIEN FEBVRE OFFRÌ LA PRIMA
1. L. FEBVRE, «Une Histoire de la civilisation», Annales, ottobre-dicembre 1950, p. 492. 2. F. BRAUDEL, Grammaire des civilisations, Paris 1963.
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ri!essione sistematica sull’evoluzione dei signi"cati del termine «civiltà». Da un ideale singolare, che datava al terzo quarto del XVIII secolo, a un fatto plurale, individuato alla "ne dell’epoca napoleonica. Nel 1944-45, Febvre intitolò il suo ultimo ciclo di lezioni: «Europa: genesi di una civiltà». E l’anno successivo aggiunse il termine Civilisations a Économies et Sociétés nel titolo della sua rivista, gli Annales. Poco prima di morire, in una nota puntuta approvò il ri"uto di un suo collega per il famoso detto di Valéry che la civiltà aveva realizzato di essere mortale: «In realtà, non sono le civiltà a essere mortali. La corrente della civiltà persiste attraverso eclissi passeggere» 1. Nel decennio seguente, Fernand Braudel avrebbe convenuto: «Quando Paul Valéry dichiarò “Civiltà, sappiamo che siete mortali”, stava sicuramente esagerando. Le stagioni della storia causano la caduta dei "ori e dei frutti, ma l’albero rimane. O almeno è molto più dif"cile da uccidere» 2. Quanto si è dimostrata giusti"cata la sicurezza di Braudel sul fatto che l’uso del termine «civiltà» al singolare non aveva più molto signi"cato? Un modo per approcciarlo è guardare al blocco di pensiero e pratiche in cui il vocabolo è più frequente, cioè il diritto internazionale. Notiamo subito un paradosso. La nozione contemporanea di diritto internazionale evoca immediatamente le relazioni fra Stati sovrani. In Occidente, si ritiene generalmente che queste relazioni si siano sviluppate per la prima volta in qualcosa di formale con il trattato di Vestfalia che nel 1648 pose "ne alla guerra dei Trent’anni. Sembrerebbe logico presumere che il pensiero sul diritto internazionale si sia sviluppato attorno a questo momento di svolta. Invece, per risalire alle sue origini bisogna tornare indietro al 1530. È allora che co-
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mincia la sua vera storia, negli scritti del teologo spagnolo Francisco de Vitoria, che si preoccupava non dei rapporti tra gli Stati europei, di cui la Spagna allora era il più potente, ma dei rapporti tra gli europei – a cominciare ovviamente dagli iberici – e i popoli delle neoscoperte Americhe.
Le fondamenta Attingendo al concetto romano di ius gentium, diritto delle nazioni, Vitoria si chiese con quale diritto la Spagna fosse appena entrata in possesso della maggior parte dell’emisfero occidentale. Era perché quelle terre erano disabitate o perché il papa gliele aveva assegnate o ancora perché era un dovere convertire i pagani alla cristianità, se necessario con la forza? Vitoria respinse tutte queste basi per la conquista del Nuovo Mondo. Voleva forse dire che era un gesto contrario al diritto dei popoli? No, perché quando gli spagnoli erano arrivati in quelle terre, i selvaggi abitanti delle Americhe avevano violato l’universale «diritto a comunicare» – ius communicandi – che era un principio essenziale delle leggi fra le nazioni. Che cosa s’intendeva per comunicazione? Libertà di viaggiare e libertà di comprare e vendere, ovunque: in altre parole, libertà di commerciare e libertà di persuadere. Ossia di predicare le verità cristiane agli indiani, come li chiamavano gli spagnoli. Se gli indiani resistevano a quel diritto, gli spagnoli erano legittimati a difendersi con la forza, a costruire fortezze, a conquistare terreni e a muovere guerra come rappresaglia. Se gli indiani persistevano, dovevano essere trattati come in!di nemici, soggetti al saccheggio e all’asservimento 3. Le conquiste erano dunque perfettamente legittime. Il primo vero blocco di quello che per altri due secoli sarebbe stato ancora chiamato diritto delle nazioni fu dunque costruito per giusti!care l’imperialismo spagnolo. Il secondo, più in#uente, venne con Ugo Grozio nel XVII secolo. Grozio è principalmente ricordato e ammirato per il suo trattato Sul diritto della guerra e della pace del 1625. Ma il vero ingresso nel diritto internazionale, per come lo intendiamo oggi, cominciò con un testo poi noto come De iure praedae, il diritto alle spoglie, scritto vent’anni prima. In questo documento, Grozio costruì una giusti!cazione legale per le azioni di un capitano della Compagnia delle Indie orientali olandesi, un suo cugino, che aveva catturato una nave portoghese con un carico di rame, seta, porcellana e argento, per il valore di tre milioni di !orini, un dato comparabile alla rendita annuale dell’Inghilterra dell’epoca. Un saccheggio senza precedenti, un caso clamoroso nell’Europa del tempo. Nel quindicesimo capitolo, poi pubblicato col titolo Mare Liberum, Grozio spiegava che l’alto mare doveva essere considerato come una zona libera sia per gli Stati sia per le compagnie private armate. Dunque suo cugino era assolutamente nel giusto. Ecco un’evidenza legale per l’imperialismo commerciale olandese, come Vitoria aveva fatto per l’imperialismo territoriale spagnolo. Quando due decenni più tardi Grozio scrisse il suo trattato sulle leggi della guerra e della pace, gli olandesi si erano nel frattempo interessati anche a colonie
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VITORIA, Relecciones sobre los Indios, Madrid 1946 (originale 1538), I, 3: 1, 2, 6, 7, 8.
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terrestri, togliendo parti del Brasile al Portogallo. Così, Grozio ora sosteneva che gli europei avessero il diritto di fare la guerra a qualunque popolo – anche se non erano attaccati – i cui costumi considerassero barbari, come rappresaglia nei confronti dei crimini contro la natura commessi da quello stesso popolo. Era lo ius gladii, il diritto della spada o di punizione. Scriveva: «I re, e coloro i quali sono investiti di un potere eguale, hanno il diritto di esigere punizioni non solo per i danni commessi contro loro stessi, o i loro sudditi, ma in ugual maniera per quelli che non li concernono peculiarmente ma sono, per chiunque, violazioni gravi del Diritto di Natura o delle Nazioni» 4. In altre parole, Grozio offriva licenza di attaccare, conquistare e uccidere chiunque si frapponesse all’espansione europea. A queste due pietre angolari del primo diritto internazionale moderno, lo ius communicandi e lo ius gladii, furono aggiunte due giusti"cazioni per colonizzare il mondo oltre l’Europa. Thomas Hobbes propose un argomento demogra"co: c’era così tanta gente in patria e così poca oltremare che i coloni europei in terre popolate da cacciatori e raccoglitori avevano il diritto non di «sterminare chi trovavano laggiù; ma di costringerli ad abitare più stretti fra loro» 5 – un ottimo programma per le riserve in cui i nativi del Nord America sarebbero poi stati recintati. Ovviamente, se quelle terre non erano occupate, non sarebbe stato necessario prendersi nemmeno questo disturbo. A questa idea piuttosto diffusa, John Locke aggiunse che se gli abitanti di un luogo non facevano il migliore uso della terra a loro disposizione, gli europei avevano ogni diritto di togliergliela, perché avrebbero realizzato il proposito divino di aumentare la sua produttività 6. Con questo tassello, alla "ne del XVII secolo il repertorio di giusti"cazioni per l’espansione imperiale europea era completo. I diritti di comunicazione, punizione, occupazione e produzione permettevano la conquista del mondo.
I limiti ai civilizzati
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U. GROZIO, De Jure Belli ac Pacis, II, XL. T. HOBBES, Leviathan, Oxford 2012, p. 540. J. LOCKE, Two Treatises of Government, II, pp. 32-46. E. DE VATTEL, Le Droit des gens, ou Principes de la loi naturelle, XVIII, p. 209.
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Nel XVIII secolo, le relazioni fra gli Stati in Europa erano diventate il cuore degli scritti sul diritto delle nazioni. Alcune voci dell’Illuminismo, fra cui Diderot, Smith e Kant, questionarono la moralità delle conquiste coloniali, anche se nessuno proponeva di restituirle. Fu un pensatore svizzero, Emer de Vattel, a scrivere il trattato di gran lunga più in#uente sul tema. Con freddezza, Vattel rimarcava: «La Terra appartiene a tutta l’umanità ed è stata progettata per darle sussistenza: se ogni nazione avesse inteso di riservarsi un grande paese sin dall’inizio, in cui il popolo possa vivere soltanto di caccia, pesca e frutti selvatici, il nostro globo non sarebbe suf"ciente a mantenere la decima parte dei suoi attuali abitanti. Non deviamo dalle idee di natura se con"niamo gli indiani entro limiti più stretti» 7.
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In continuità coi suoi predecessori, il lavoro di Vattel nondimeno rappresentò un punto di svolta discorsivo verso una versione più secolarizzata del decreto divino naturale che giusti!cava le precedenti versioni del diritto delle nazioni. Senza affatto sparire, la religione cessava di essere la prima legittimazione della colonizzazione del resto del mondo. Cedeva il posto a un altro termine. Il trattato di Vattel venne pubblicato nel 1758. Appena un anno prima, nel 1757, venne usato per la prima volta il sostantivo «civiltà» – ancora assente dal volume dell’Encyclopédie che era uscito nel 1753 – in un testo del padre di Mirabeau. Nel giro di pochi anni, Adam Ferguson l’avrebbe introdotto indipendentemente in Scozia. Il successo del lavoro di Vattel è inseparabile dal momento storico. Apparve durante il primo con"itto mondiale della storia, la guerra dei Sette anni tra Francia e Gran Bretagna, combattuta non solo in Europa ma anche in Nord America, nei Caraibi, nell’Oceano Indiano e nell’Asia sudorientale. Prova generale delle titaniche lotte in Europa, estese a tutto il mondo, innescate dalla Rivoluzione francese. Quando gli ancien régime ebbero la meglio su Napoleone nel 1815, si erano veri!cati nel frattempo tre cambiamenti importanti nell’antico diritto delle nazioni. Nel 1789, criticando l’ambiguità della formula – ius gentium non era una denominazione impropria di ius inter gentes? – Bentham coniò l’espressione «diritto internazionale» che avrebbe poi preso piede nel secolo successivo. A quel punto, la linea di faglia normativa tra l’Europa e il resto del mondo era diventata la civiltà, invece che la religione cristiana, anche se la seconda restava un attributo vitale della prima. In!ne, il Congresso di Vienna aveva per la prima volta introdotto una gerarchia formale all’interno dell’Europa, una distinzione di rango tra le cinque «grandi potenze» – la cosiddetta pentarchia di Inghilterra, Russia, Austria, Prussia e Francia – alle quali accordò speciali privilegi e che de!nì la mappa del continente. Questa innovazione era pensata per suggellare l’unità della coalizione controrivoluzionaria che aveva scon!tto Napoleone e restaurato le monarchie in Europa. Ma sopravvisse al periodo della restaurazione. Intorno al 1880, l’esimio giurista scozzese James Lorimer sottolineava che l’uguaglianza degli Stati «potrebbe essere ora, io credo, con una certa sicurezza descritta come ripudiata dalla storia», una «!nzione più evidente dell’uguaglianza di tutti gli individui» 8. Assieme a questi cambiamenti il diritto internazionale divenne una professione, af!ancata alla diplomazia classica. La sua prima importante affermazione venne da un ex ambasciatore americano in Prussia, Henry Wheaton, il cui Elements of International Law, pubblicato nel 1836, fu ampiamente tradotto all’estero – in francese, tedesco, italiano, spagnolo, cinese – e rappresentò il riferimento per de!nire la disciplina. Citando Grozio, Leibniz, Montesquieu e altri, Wheaton spiegava che, con poche eccezioni, «il diritto pubblico delle nazioni è sempre stato, ed è ancora, limitato ai popoli civilizzati e cristiani d’Europa o a quelli di origine europea», poiché è stato «il progresso della civilizzazione, fondato sulla cristianità» a generarlo 9.
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8. J. LORIMER, The Institutes of the Law of Nations: A Treatise of the Jural Relations of Separate Political Communities, Edinburgh-London 1883, vol. I, pp. 44, 170. 9. H. WHEATON, Elements of International Law, London 1836, pp. 16-17, 21.
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Quando nel 1873 nacque il primo Institut du Droit International a Bruxelles, l’associazione con la religione non era più richiesta: bastava la civiltà.
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10. J. LORIMER, op. cit., pp. 123-133, 155-161.
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Questo era lo standard che suddivideva il mondo, nel periodo dell’intrusione dell’imperialismo europeo non solo nelle terre di deboli oppositori – cacciatori, raccoglitori o sprovvisti di armi da fuoco come i popoli americani degli scritti di Vitoria, Grozio, Locke o Vattel – ma anche nei grandi imperi asiatici e in altri Stati sviluppati più in grado di difendersi. La spinta espansionista era già iniziata durante le guerre napoleoniche, con la conquista britannica di gran parte dell’India moghul e maratha e l’occupazione francese dell’Egitto ottomano. Ma dopo il 1815 conobbe una notevole intensi!cazione, con le guerre dell’oppio in Cina, la penetrazione navale in Giappone, la conquista della Birmania, dell’Indocina e di ciò ch’è oggi noto come Indonesia, per non parlare dell’intero litorale nordafricano e delle ripetute invasioni dell’Afghanistan. Come classi!care e gestire questi Stati? Godevano degli stessi diritti delle potenze europee? Il Congresso di Vienna aveva dato una tacita risposta: l’impero ottomano era stato escluso dal concerto delle potenze. Quell’omissione poteva ancora essere giusti!cata in termini religiosi. Ma in seguito al suo posto venne sviluppata la dottrina dello «standard di civiltà». Solo gli Stati considerabili civili agli occhi europei avevano diritto a essere trattati su basi uguali dalle potenze del continente. Esattamente come c’era una gerarchia accettata nella comitiva delle nazioni europee, anche il mondo non civilizzato venne diviso in categorie diverse. Lorimer teorizzò la nuova dottrina nel modo più sistematico, !no a farne una caratteristica accettata dei trattati sul diritto internazionale. C’erano Stati criminali, che oggi chiameremmo canaglia, come la Comune di Parigi o i musulmani fanatici. C’erano Stati «semibarbari» come Cina e Giappone che non s!davano le norme civili europee allo stesso modo ma che nemmeno le incarnavano in pieno. C’erano anche Stati senili o imbecilli, che non potevano essere trattati come attori responsabili – oggi li chiameremmo falliti. Nessuna di queste categorie faceva parte della società internazionale propriamente detta. La prima e la terza richiedevano la soppressione armata: «Comunismo e nichilismo sono proibiti dal diritto delle nazioni», spiegava Lorimer. Ma col secondo gruppo si potevano intrattenere relazioni diplomatiche, a condizione che le potenze europee acquisissero diritti extraterritoriali al loro interno 10. Lorimer scriveva alla vigilia della Conferenza di Berlino del 1884, che decise il fato dell’Africa come il Congresso di Vienna aveva deciso il fato dell’Europa. Il bottino maggiore, il Congo, andò a una compagnia privata controllata dal paese in cui si era insediata l’emergente disciplina del diritto internazionale: il Regno del Belgio. Lo stesso Institut du Droit International di Bruxelles celebrò l’acquisizione, dichia-
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Classificazioni
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rando sulla propria rivista nel 1895 che il governo di re Leopoldo aveva «un intero corpo legislativo la cui applicazione protegge le popolazioni indigene da ogni forma di oppressione e sfruttamento» 11. Le stime variano sul numero di morti attribuibili al suo dominio in Congo: alcune arrivano a otto o dieci milioni di vittime. Alla "ne del secolo, cinque Stati asiatici – Cina, Giappone, Persia, Siam e Turchia – si erano affrancati dalla condizione semibarbara per essere ammessi alla prima Conferenza di pace dell’Aia, convocata dallo zar di Russia nel 1899, assieme a diciannove paesi europei, agli Stati Uniti e al Messico. Signi"cava una nuova posizione di uguaglianza? Alla seconda edizione del 1907, convocata stavolta da Theodore Roosevelt, la partecipazione fu allargata alle repubbliche del Sud e Centro America e alle monarchie di Etiopia e Afghanistan. La proposta chiave riguardava la creazione di una Corte d’arbitrato internazionale. Chi doveva sedervi? Gli Stati Uniti e le maggiori potenze europee davano per assodato che loro avrebbero nominato i membri permanenti, mentre gli altri Stati avrebbero semplicemente fatto a turno. Reagirono con stupore e indignazione quando il Brasile, nella persona del distinto statista e intellettuale antischiavista Rui Barbosa, si scagliò contro lo schema anglo-tedesco-americano, che avrebbe creato «una giustizia caratterizzata da una distinzione giuridica di valore tra gli Stati» e assicurato alle potenze di «non essere formidabili soltanto in virtù dei loro eserciti e delle loro #otte. Avrebbero anche la superiorità di diritto nella magistratura internazionale, arrogandosi una posizione privilegiata nelle istituzioni a cui vogliamo af"dare la sanzione della giustizia fra le nazioni» 12. Difendendo strenuamente il principio dell’uguaglianza giuridica fra tutti gli Stati sovrani, Barbosa raccolse l’adesione di quella che un osservatore europeo de"nì la «oclocrazia dei piccoli Stati», termine greco classico per il predominio delle masse. Barbosa insisteva che la futura Corte internazionale avrebbe dovuto basarsi sul principio di uguaglianza, non di gerarchia. Naturalmente le grandi potenze ri"utarono e la conferenza si sciolse senza giungere a un risultato. La futilità del suo obiettivo nominale di aiutare a garantire la pace internazionale divenne evidente sette anni più tardi, con lo scoppio della prima guerra mondiale.
Il principio gerarchico Alla "ne del con#itto, le potenze vincitrici, Regno Unito, Francia, Italia e Stati Uniti, convocarono la Conferenza di Versailles per dettare i termini della pace alla Germania, ridisegnare la mappa dell’Est Europa, dividere l’impero ottomano e – non ultimo – creare un nuovo organismo internazionale votato alla sicurezza collettiva, la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti si assicurarono non solo di escludere Rui Barbosa dalla delegazione brasiliana, ma anche di includere la dottrina Monroe – l’esplicita presunzione di Washington di dominare l’America Latina – nel patto
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11. M. KOSKENNIEMI, The Gentle Civilizer of Nations: The Rise and Fall of International Law 1870-1960, Cambridge 2001, p. 160. 12. The Proceedings of the Hague Conferences, vol. II, New York 1921, pp. 645, 647.
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13. L. OPPENHEIM, International Law, 5a ed., London 1937, pp. 224-225. 14. H. LAUTERPACHT, International Law. Collected Papers, vol. II, The Law of Peace, Cambridge 1975, pp. 72-73, 83.
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fondativo della nuova organizzazione, in quanto strumento di pace. Una Corte permanente di giustizia internazionale fu istituita all’Aia e all’articolo 38 del suo statuto si continuavano a invocare «i princìpi generali del diritto riconosciuti dalle nazioni civilizzate». Fra i redattori dello statuto c’era l’autore di una difesa lunga seicento pagine dell’ammirevole amministrazione belga in Congo. Il Senato americano non rati!cò poi l’adesione degli Stati Uniti alla Società delle Nazioni, ma il disegno della nuova organizzazione ri"etteva i requisiti delle potenze vincitrici, dal momento che il suo Consiglio Esecutivo – predecessore dell’odierno Consiglio di Sicurezza dell’Onu – era controllato dagli altri paesi che avevano vinto: Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone, a cui fu dato un seggio permanente, sul modello dello schema americano del 1907. Di fronte a questa plateale imposizione dell’ordine gerarchico, l’Argentina ri!utò di partecipare, seguita pochi anni dopo dal ritiro del Brasile, quando fu respinta la sua domanda di dare un seggio permanente a un paese dell’America Latina. Alla !ne degli anni Trenta, non meno di otto altri paesi ispano-americani, grandi o piccoli, si ritirarono. Imperterrito, il principale manuale di diritto internazionale dell’epoca – ancora in uso oggi – curato da Lassa Oppenheim e Hersch Lauterpacht, notava con soddisfazione che «le Grandi Potenze sono la guida della Famiglia delle Nazioni e ogni progresso del Diritto delle Nazioni del passato è risultato dalla loro egemonia politica». Con il Consiglio della Società delle Nazioni questo principio riceveva !nalmente «base ed espressione legale» 13. Lauterpacht, largamente ritenuto il giurista internazionale di maggior successo del secolo scorso, resta un punto di riferimento. Non aveva tempo per chi lamentava che potenze come Stati Uniti o Regno Unito infrangevano le regole a loro piacimento. «Abbiamo davvero degli esempi», si chiedeva a proposito della politica estera americana, «di condotta così immorale da far arrossire il cittadino ordinario?». Il distacco di Panamá dalla Colombia poteva anche essere illegale, ma lo si poteva de!nire immorale? Era semmai «un caso in cui a uno Stato, in assenza di legislatore internazionale, è stato richiesto di agire come legislatore per il bene comune della comunità internazionale. La domanda è se un’iniziativa bene!ca e civilizzatrice debba essere ritardata o ostruita dallo Stato che si trova in possesso del territorio in questione». Il bombardamento britannico di Copenhagen, capitale della neutrale Danimarca, e la distruzione della sua "otta nel 1807? Se «l’esistenza stessa della Gran Bretagna fosse stata in gioco», tale attacco «non sarebbe stato in contraddizione né col diritto internazionale né con la moralità internazionale», poiché «diritto e morale possono essere legittimamente impiegate per il bene della comunità internazionale» 14 (sinonimo per scon!tta della Francia). Lauterpacht avrebbe lasciato ad altri dimostrare «la ragionevolezza e l’onestà» delle interazioni del suo paese con l’umanità, aderenti a princìpi senza i quali ogni paese «cesserebbe di essere parte del mondo civilizzato». Ma poteva «sostenere con
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!ducia che un esame delle politiche estere degli Stati moderni mostrerebbe che l’immoralità della condotta internazionale rasenta il mito»: una «!nzione». Un tale verdetto non era ottimista né ingenuo. La giurisprudenza aveva delle lacune, che dovevano essere aggiustate. Ma non era quella una ragione di pessimismo: «Il diritto internazionale deve essere visto come incompleto e in via di transizione verso l’ideale limitato e raggiungibile di una società di Stati sottoposta al diritto cogente riconosciuto e praticato dalle comunità civilizzate all’interno dei loro con!ni» 15. Il traguardo ultimo e assolutamente fattibile del diritto internazionale era l’emersione di una Federazione mondiale sovranazionale votata alla pace. Un collega di Lauterpacht ugualmente illuminato, Alfred Zimmern, altro pilastro della Società delle Nazioni, era più realista, confessando in un momento di spontaneità che il diritto internazionale era poco più di «un nome decoroso per le convenienze tra le cancellerie», utile soprattutto quando «incarna un matrimonio armonioso tra la legge e la forza» 16.
Parole e spade Dopo la seconda guerra mondiale, con il continente fra le rovine, il primato dell’Europa se n’era andato. Quando nel 1945 le Nazioni Unite vennero istituite a San Francisco, il principio gerarchico ereditato dalla Società delle Nazioni venne preservato nel Consiglio di Sicurezza, i cui membri permanenti godevano di poteri ancora maggiori di quelli dei predecessori, come quello di veto. Ma il monopolio occidentale era infranto: l’Urss e la Cina !guravano tra i cinque grandi e, con la decolonizzazione in corso, l’Assemblea Generale divenne un’arena per risoluzioni e richieste sempre più scomode per l’egemone e i suoi alleati. Osservando la scena nel 1950, nella sua imponente retrospettiva Il nomos della Terra nel diritto internazionale dello Jus publicum europaeum, Carl Schmitt osservò che nel XIX secolo «il concetto di diritto internazionale era uno speci!co diritto internazionale europeo. Ciò era evidente sul continente europeo, soprattutto in Germania. Era vero anche nei concetti universali di umanità, civiltà e progresso, che determinavano i concetti generali, la teoria e il vocabolario dei diplomatici. L’intero quadro restava essenzialmente eurocentrico, dal momento che l’umanità era intesa soprattutto come umanità europea, la civiltà era evidentemente solo la civiltà europea e il progresso era lo sviluppo lineare di questa civiltà». Ma, dopo il 1945, «l’Europa non era più il sacro centro della Terra» e la fede «nella civiltà e nel progresso era scaduta a mera facciata ideologica». Oggi, «l’antico ordine eurocentrico del diritto internazionale sta morendo. Con esso sta svanendo il vecchio nomos della Terra, nato dalla favolosa e inaspettata scoperta di un Nuovo Mondo, evento storico irripetibile» 17. Il diritto internazionale non era mai stato internazionale. Si
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15. Ivi, pp. 28, 73, 75, 19. 16. A. ZIMMERN, The League of Nations and the Rule of Law (1918-1935), London 1977, pp. 94, 95. 17. C. SCHMITT, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Berlin 1950, pp. 199201, 4.
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18. T. HOBBES, Leviathan (testo latino), XXVI, Oxford 2012, p. 431; (testo inglese), XVII, p. 254. 19. J. AUSTIN, The Province of Jurisprudence Determined, London 1832, p. 148.
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rivendicava universale, ma era soltanto particolare. Ciò che parlava nel nome dell’umanità era l’impero. Dopo il 1945, come intuiva Schmitt, il diritto internazionale ha cessato di essere una creatura europea. Ma ovviamente l’Europa non è scomparsa. Si è soltanto sottomessa a una delle sue estensioni d’Oltremare, gli Stati Uniti, lasciando aperta una domanda: quanto il diritto internazionale dopo il 1945 è rimasto una creatura, se non dell’Europa, dell’Occidente, con in testa la superpotenza americana? Ogni tentativo di replica conduce a un altro interrogativo. Al di là delle origini storiche, qual è la natura giuridica del diritto internazionale? Per i primi teorici del XVI e XVII secolo, la risposta era chiara. Il diritto delle nazioni si basava sul diritto naturale, una serie di decreti divini non sindacabili dai mortali. In altre parole, la divinità cristiana era il garante dell’oggettività dei propositi legali. Con l’Ottocento, la crescente secolarizzazione della cultura europea minò gradualmente la credibilità di queste basi religiose. Al suo posto emerse l’idea che il diritto naturale valeva ancora, ma non come comandamento di Dio, bensì come espressione di una universale natura umana, che tutti gli esseri razionali possono e devono riconoscere. Questa idea, però, fu presto indebolita dallo sviluppo di discipline come l’antropologia e la sociologia comparata, che dimostravano l’enorme varietà dei costumi e delle credenze umane nel tempo e nello spazio, contraddicendo ogni semplicistica universalità. Se né il divino né la natura umana offrivano basi sicure per il diritto internazionale, come bisognava concepirlo? Si può cercare la risposta soltanto in una domanda antecedente: qual è la natura del diritto? Qui, il più grande pensatore politico del XVII – e forse di qualunque – secolo, Thomas Hobbes, ha dato una risposta netta nella versione in latino del suo capolavoro, il Leviatano, apparso nel 1668: sed auctoritas non veritas facit legem. Non la verità, ma l’autorità fa legge. O, come scritto altrove, «i patti, senza la spada, sono solo parole» 18. Principio poi noto come teoria imperativa del diritto. A svilupparla fu due secoli più tardi John Austin, amico e seguace di Bentham, che ammirava Hobbes sopra ogni altro pensatore. Nel concorrere che «ogni legge è un comando», scorse che cosa ciò signi"cava per il diritto internazionale. La sua conclusione: «Il cosiddetto diritto delle nazioni consiste delle opinioni e dei sentimenti correnti fra le nazioni in generale. Non è dunque un diritto propriamente detto. (…) Una legge "ssata dall’opinione generale comporta (…) che la parte che la applica contro ogni futuro trasgressore non è mai determinata e attribuibile» 19. Parole cruciali: mai determinata e attribuibile. Perché? Austin proseguiva: «Ne consegue che il diritto fra le nazioni non è diritto positivo; poiché ogni legge positiva è "ssata da uno speci"co sovrano per una o più persone soggette al suo autore». Ma dal momento che in un mondo di Stati sovrani «nessun governo supremo è in condizioni di subalternità a un altro», il diritto delle nazioni «non è armato della sanzione e non impone un dovere, nell’accezione propria di queste espres-
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sioni. Una sanzione propriamente detta è un male annesso a un comando» 20. In altri termini, in assenza di un’autorità determinabile in grado di aggiudicare o di applicare, il diritto internazionale cessa di essere un diritto e diventa nient’altro che un’opinione. Questa era ed è una conclusione profondamente scioccante per la mentalità liberale della stragrande maggioranza dei giuristi internazionali. Ci si dimentica spesso che la pensava allo stesso modo il maggior "losofo liberale del XIX secolo, John Stuart Mill, il quale revisionò e approvò due volte le lezioni di Austin sulla giurisprudenza. In risposta agli attacchi sulla politica estera della breve Repubblica Francese nel 1849, che aveva offerto assistenza agli insorti in Polonia, Mill scrisse: «Che cos’è il diritto delle nazioni? A chiamarlo diritto si fa un uso scorretto del termine. Il diritto delle nazioni è semplicemente il costume delle nazioni». Sono questi, si chiedeva, «gli unici costumi che, nell’età del progresso, non sono soggetti ad alcun miglioramento? Essi soli sono costanti, mentre tutto attorno a essi è modi"cabile». Al contrario, concludeva con forza, in uno spirito che Marx avrebbe approvato: «Un parlamento può revocare le leggi, ma non c’è alcun Congresso delle nazioni ad abrogare le usanze internazionali e nessuna forza comune a rendere obbligatorie le decisioni di un tale Congresso. Il miglioramento della moralità internazionale può avere luogo soltanto attraverso una serie di violazioni delle regole esistenti». Dove «c’è solo un’usanza, la sola maniera di alterarla è agire in contrasto con essa» 21.
Doppiamente indeterminato Mill scriveva in uno spirito di solidarietà rivoluzionaria, in un tempo in cui il diritto internazionale era poco più di una pia espressione invocata dai governi per giusti"care qualunque azione essi ritenessero necessaria – non aveva dimensione istituzionale né esistevano giuristi dedicati. All’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento, Salisbury poteva ancora dire schiettamente al parlamento: «Il diritto internazionale non ha alcuna esistenza nel senso in cui il termine diritto è comunemente noto. Dipende generalmente dai pregiudizi di chi scrive i manuali. Non può essere applicato da alcun tribunale» 22. Un secolo più tardi, tuttavia, l’istituzionalizzazione era in pieno corso, con la Carta delle Nazioni Unite, una Corte di giustizia internazionale, un corpo di professionisti e una disciplina accademica in espansione. Dagli anni Quaranta del Novecento in poi, una considerevole letteratura – fra cui i titoli di Hans Kelsen e Herbert Hart – ha cercato di refutare Austin mostrando tutte le dimensioni del diritto, nazionale o internazionale, che non possono essere descritte come comandi 23. Invano, dal momento che nessun autore è mai stato in
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20. Ivi, pp. 208, 148-149. 21. J.S. MILL, Collected Works, vol. XX, pp. 345-346. 22. Lord Salisbury, discorso alla Camera dei Lord, 25/7/1887. 23. H. KELSEN, General Theory of Law and State, Cambridge, Massachusetts 1945, pp. 30-37, 62-64, 7174, 77-83; H.L.A. HART, The Concept of Law, Oxford 1961, pp. 18-79, 208-231.
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grado di mostrare che ciò esenti dal considerare un’autorità sovrana in grado di far rispettare la legge come condizione non suf!ciente ma sempre necessaria per l’esistenza della legge stessa. Tutto il resto è, come disse Austin, mera metafora. Nel periodo interbellico fu ancora una volta Carl Schmitt, l’antitesi del pensatore liberale, a sottolineare la perdurante validità della tesi di Austin. In una serie di impietose demolizioni delle pretese della Società delle Nazioni e della sua Corte internazionale, Schmitt dimostrò che la loro presunta imparzialità era del tutto indeterminata, nei termini previsti da Austin. In due sensi. Indeterminata rispetto al contenuto, come nelle riparazioni illimitate imposte alla Germania a Versailles, aggiustabili a seconda delle preferenze dei vincitori, vero e proprio Abgrund der Unbestimmtheit (abisso dell’indeterminatezza) 24. E indeterminata rispetto all’esecuzione, «non attribuibile» avrebbe detto Austin, cioè dipendente dalla decisione delle potenze al comando della Società delle Nazioni. La dottrina del non intervento con cui inglesi e francesi permisero al fascismo di vincere in Spagna offrì un altro caso classico di tanta indeterminatezza, eloquente parafrasi del celebre aforisma di Talleyrand: «Non intervento è un termine meta!sico che signi!ca più o meno la stessa cosa di intervento». L’essenza del diritto internazionale nato dopo il 1918, con le cui evoluzioni conviviamo ancora oggi, sta in ciò che Schmitt de!nì come il suo carattere fondamentalmente discriminatorio 25. Le guerre condotte dalle potenze liberali che dominano il sistema erano disinteressate azioni di polizia nel nome del diritto internazionale. Le guerre condotte da chiunque altro erano crimini in violazione del diritto internazionale. Le potenze liberali si erano riservate la libertà di fare ciò che vietavano agli altri. Storicamente, notava Schmitt, la condotta degli Stati Uniti nei Caraibi e in Centro America aveva aperto la via.
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24. C. SCHMITT, Positionen und Begriffe, im Kampf mit Weimar-Genf-Versailles: 1923-1939, Berlin 1988, p. 3. 25. ID., Die Wendung zum diskriminierenden Kriegsbegriff, Berlin 1988, pp. 41 ss.
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Il mondo in cui viviamo ha conosciuto una vasta espansione e proliferazione di ciò che passa per diritto internazionale, ampliando la diagnosi di Schmitt in due direzioni. Da un lato, si è sviluppata una categoria di diritto che illustra alla perfezione la descrizione di Austin delle leggi delle nazioni come nemmeno lui avrebbe immaginato: un diritto non giustiziabile, che non pretende nemmeno di avere forza esecutiva nel mondo reale, un’aspirazione nominale. Pura e semplice opinione, nei termini di Austin. Eppure, solennemente nominata diritto dai giuristi. Dall’altro lato, il numero delle azioni intraprese a proprio piacimento dalle potenze, nel nome o in s!da del diritto internazionale, è aumentato esponenzialmente – indeterminatezza senza limiti. L’aggressione non è il monopolio dell’egemone. Le guerre d’invasione sono state lanciate senza consultarlo, in collusione o in aperto contrasto con esso. L’In-
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ghilterra e la Francia contro l’Egitto, la Cina contro il Vietnam, la Russia contro l’Ucraina; per non parlare di potenze minori, Turchia contro Cipro, Iraq contro Iran, Israele contro Libano. Nessuna di queste azioni è esente da gravi giudizi storici. Ma quel giudizio è necessariamente politico, non giuridico. Dal 1945, guerre di tal fatta hanno raramente invocato il diritto internazionale per giusti!carsi. È la prerogativa dell’egemone e dei suoi ascari. Sarà suf!ciente qualche esempio. Gli Stati Uniti hanno sistematicamente violato le Nazioni Unite, con la loro Carta sulla sovranità e integrità dei paesi membri, la più alta incarnazione del diritto internazionale. L’hanno fatto sin dalla fondazione dell’organizzazione. In una base dell’Esercito a San Francisco a poche miglia dalla conferenza inaugurale dell’Onu nel 1945, una squadra speciale dell’intelligence militare americana intercettava tutto il traf!co di telegrammi dei delegati verso i rispettivi paesi. I messaggi decrittati !nivano sul tavolo della colazione del segretario di Stato Stettinus la mattina successiva. L’uf!ciale in capo dell’operazione di sorveglianza disse: «La sensazione nel ramo è che il successo della conferenza debba molto al suo contributo» 26. Che cosa signi!ca qui successo? Lo storico americano che ha descritto il sistematico spionaggio spiega: «Stettinus presiedeva un’impresa che la sua nazione già dominava e modellava», cioè le Nazioni Unite, «sin dall’inizio un progetto degli Stati Uniti, concepito dal dipartimento di Stato, sapientemente guidato da due presidenti e sospinto dalla potenza statunitense. (…) Per una nazione giustamente orgogliosa dei suoi innumerevoli traguardi», il più recente essendo l’uso di due bombe atomiche in Giappone, «questo risultato straordinario dovrebbe essere sempre in cima al suo illustre palmarès» 27. Sei decenni più tardi, le cose non erano cambiate. La Convenzione dell’Onu del 1946 stabilisce: «I locali dell’Organizzazione sono inviolabili. I suoi beni e averi, indipendentemente dal luogo in cui si trovano e dal loro detentore, sono esenti da perquisizioni, requisizioni, con!sche, espropriazioni e qualsiasi altra forma di coercizione esecutiva, amministrativa, giudiziaria o legislativa». Nel 2010 è emerso che Hillary Clinton, allora segretario di Stato, aveva ordinato alla Cia, all’Fbi e al Secret Service di penetrare i sistemi di comunicazione, appropriarsi delle password e dei codici di decrittazione del segretario generale dell’Onu e di quelli degli ambasciatori degli altri quattro membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, oltre a ottenere dati biometrici, numeri di carta di credito, indirizzi email e pure carte fedeltà aeree di «alti funzionari dell’Onu, compresi sottosegretari, capi di agenzie specializzate, consiglieri in capo, assistenti del Segretario generale, capi missione» 28. Naturalmente né la signora Clinton né lo Stato americano hanno mai pagato alcun prezzo per tale plateale violazione del diritto internazionale che protegge l’Onu, sede uf!ciale di tale diritto. Che dire della giustizia che il diritto internazionale dice di difendere? Il Tribunale di T§ky§ del 1946-48, istituito dagli Stati Uniti per processare i capi militari
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26. S. SCHLESINGER, Act of Creation: The Founding of the United Nations, Boulder 2003, p. 331. 27. Ivi, XIII, pp. 174. 28. Istruzione in un cablo del 2009.
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29. R. PAL, Dissentient Judgement, T§ky§ 1999. 30. B.V.A. RÖLING, The Tokyo Trial and Beyond, Cambridge 1993, p. 87. 31. J. SHEA, conferenza stampa del 17/5/1999.
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giapponesi per crimini di guerra, escludeva l’imperatore per lubri!care l’occupazione americana dell’arcipelago. Inoltre, trattò le prove con tale noncuranza per un giusto processo che il giudice indiano della corte, in una condanna di mille pagine, osservò che tutto il procedimento non era altro che «un’opportunità per i vincitori di vendicarsi», dichiarando che «il solo crimine è perdere una guerra» 29. Il giudice olandese ammise candidamente: «Ovviamente in Giappone eravamo tutti consapevoli dei bombardamenti e degli incendi di T§ky§, Yokohama e altre città. Era orribile andare là con lo scopo di vendicare le leggi della guerra e vedere tutti i giorni come gli alleati le avessero a loro volta tremendamente violate» 30. Applicazione letterale del carattere discriminatorio del diritto secondo Schmitt. Le successive guerre statunitensi in Asia orientale, Corea e Vietnam, furono ugualmente costellate di atrocità di ogni tipo, come gli storici americani hanno dimostrato. Naturalmente nessun tribunale se ne è mai occupato. È cambiato qualcosa da allora? Nel 1993, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu istituì un Tribunale penale internazionale per la Jugoslavia, per perseguire i colpevoli di crimini di guerra. Lavorando a stretto contatto con la Nato, il procuratore capo canadese si assicurò che le condanne per pulizia etnica ricadessero sui serbi, bersagli dell’ostilità euro-americana, ma non sui croati, armati e addestrati dagli Stati Uniti e responsabili delle loro operazioni di pulizia. E quando nel 1999 la Nato lanciò la sua guerra contro la Serbia, escluse ogni inchiesta sulle proprie azioni, come il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado. Perfettamente logico, dal momento che l’addetto stampa americano dell’epoca spiegava: «Sono i paesi Nato che hanno istituito il tribunale, che lo !nanziano e che lo supportano su base quotidiana» 31. In breve, ancora una volta, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno usato tali processi per criminalizzare i loro nemici scon!tti, mentre la loro condotta è rimasta al di sopra dello scrutinio giuridico. Nella più recente manifestazione di questa tendenza, la creazione nel 2002 della Corte penale internazionale è stata sollecitata dagli Stati Uniti, centrali nel suo concepimento e nella sua preparazione, i quali però si sono ben guardati di sottoporsi alla sua giurisdizione. Quando, con gran rabbia dell’amministrazione Clinton, la bozza dello statuto fu cambiata per autorizzare processi anche contro paesi non membri della Corte, cioè mettendo a rischio soldati, piloti o torturatori americani, gli Stati Uniti conclusero prontamente oltre cento accordi bilaterali con i paesi in cui era stanziato il loro personale per proteggersi dall’eventualità. Nel suo ultimo giorno alla Casa Bianca, Clinton diede istruzione di aderire al nascente tribunale, ben sapendo che il Congresso non aveva alcuna intenzione di rati!care questa farsa. E ovviamente il #essibile personale della Corte ha declinato di investigare le azioni degli americani o degli europei in Iraq o in Afghanistan, concentrando il proprio zelo sull’Africa, secondo l’implicita massima: una legge per i ricchi, una per i poveri.
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Discriminazioni Quanto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, guardiano nominale del diritto internazionale, le sue azioni parlano da sole. L’occupazione irachena del Kuwait nel 1990 generò immediate sanzioni e una controinvasione dell’Iraq con un milione di uomini. L’occupazione israeliana della Cisgiordania dura da mezzo secolo senza che il Consiglio abbia alzato un dito. Quando gli Stati Uniti e i loro alleati non si poterono assicurare una risoluzione d’autorizzazione per attaccare la Serbia nel 1998-99, usarono la Nato, plateale violazione della Carta delle Nazioni Unite che vieta guerre d’aggressione. All’epoca, il segretario generale dell’Onu Ko! Annan disse placidamente che le azioni della Nato potevano non essere legali, ma erano legittime – come se Schmitt gli avesse scritto un testo per illustrare che cosa intendeva con la costitutiva indeterminatezza del diritto internazionale. Quando quattro anni dopo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna invasero l’Iraq, aggirando il Consiglio di Sicurezza per paura di un veto francese, lo stesso segretario generale benedisse l’operazione a posteriori, dando copertura retroattiva a Bush e Blair con un voto unanime del Consiglio sulla risoluzione 1483 sull’assistenza dell’Onu all’occupazione. Il diritto internazionale può essere dispensato quando si lancia una guerra, ma è sempre utile per rati!carla ex post. Armi di distruzione di massa? Il trattato di non proliferazione nucleare è l’illustrazione più lampante del carattere discriminatorio dell’ordine mondiale che ha preso forma dalla !ne della guerra fredda, riservando a sole cinque potenze il diritto di possedere e impiegare bombe a idrogeno e vietandolo agli altri, che ne potrebbero avere bisogno per difendersi. Formalmente, il trattato non è vincolante bensì volontario e ogni suo membro è libero di abbandonarlo. Però un ritiro viene trattato come violazione del diritto internazionale, da punire con la massima severità, come nel caso della Corea del Nord. Inoltre, anche l’osservanza dei suoi dispositivi è aperta all’interpretazione restrittiva, è insuf!cientemente monitorata, è soggetta a castighi, come nel caso delle sentenze draconiane impartite all’Iran. Elegante combinazione di indeterminatezza e discriminazione. Israele ha ignorato il trattato e possiede da tempo diverse armi nucleari. Le potenze che puniscono la Corea del Nord e l’Iran !ngono che l’arsenale israeliano non esista. È forse la migliore illustrazione di tutte le alchimie del diritto internazionale.
Il trionfo del singolare Nel discorso giuridico contemporaneo, P’y$ngyang e Teheran sono liberamente categorizzate come Stati canaglia o paria, eco dell’ottocentesca de!nizione di Stati fuorilegge 32. Dobbiamo considerarlo un involontario anacronismo, come l’articolo 38 I (c) che ancora campeggia nella costituzione della Corte di giustizia
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32. G. SIMPSON, Great Powers and Outlaw States: Unequal Sovereigns in the International Legal Order, Cambridge 2004.
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33. G. GONG, The Standard of “Civilization” in International Society, Oxford 1984, pp. 91-93. 34. J. DONNELLY, «Human Rights: A New Standard of Civilization?», International Affairs, vol. 74, n. 1, 1998, pp. 1-23. 35. D. FIDLER, «A Kinder, Gentler System or Capitulations? International Law, Structural Adjustment Policies and the Standard of Liberal, Globalized Civilization», Texas International Law Journal, vol. 35, gennaio 2000, pp. 387-414. 36. M. MOZAFFARI, «The Transformationalist Perspective and the Rise of a Global Standard of Civilization», International Relations of the Asia-Paci!c, vol. 1, n. 2, 2001, pp. 259, 262.
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internazionale dell’Aia, ricostituita dalle Nazioni Unite, e continua a professare l’adesione ai princìpi giuridici che de!niscono le nazioni civili, all’ombra di un busto di Grozio? Sarebbe un errore. Lo «standard di civiltà» proclamato in passato a Bruxelles conosce oggi nuova linfa. Dobbiamo il primo moderno studio della sua storia, The Standard of “Civilization” in International Society, a uno studioso americano, funzionario del dipartimento di Stato e leader della Chiesa mormone. Critico dell’uso di questo concetto per giusti!care gli eccessi coloniali in tempi andati, notava nondimeno la funzione di elevazione nell’educare i non europei a più alti codici di condotta morale e indicava due possibili successori: un nuovo «standard di diritti umani» propugnato dagli europei oppure uno «standard di modernità» che diffondesse la benedizione della civiltà sotto forma di cultura cosmopolita 33. Tutto questo veniva scritto nel 1984. Parole preveggenti. A cavallo del nuovo secolo, il titolare di una cattedra in una scuola intitolata al mentore del segretario di Stato statunitense Condoleezza Rice ha spiegato che «è necessaria una sorta di nuovo standard di civiltà per salvarci dalla barbarie della pura sovranità» e ha individuato quello standard nei diritti umani praticati dall’Unione Europea – oltre a de!nire l’Autorità nazionale palestinese un notevole trasgressore 34. In alternativa, un importante specialista americano in terrorismo e cibersicurezza ha offerto un aggiornamento più gradevole dello stesso concetto. I programmi di aggiustamento strutturale imposti ai paesi sottosviluppati dal Fondo monetario internazionale sono l’equivalente contemporaneo delle illuminate capitolazioni di un tempo che portavano gli ottomani e gli altri nella comitiva degli Stati accettabili, perché continuano il lavoro di «armonizzazione civile» essenziale alla società internazionale 35. Ancor più ambizioso, uno studioso iraniano basato in Danimarca, denunciando l’islam come totalitarismo orientale, ha annunciato l’arrivo di uno Standard globale di civiltà, stella polare del progresso dell’umanità verso un mondo migliore. Stiamo vivendo, sostiene, un nuovo «momento groziano» in cui i due pilastri della civiltà globale sono «capitalismo e liberalismo» 36. Non mancano nemmeno gli storici. Niall Ferguson, proli!co autore di opere sulle banche Rothschild e Warburg, sulla prima e seconda guerra mondiale, sulla storia del denaro, ripristina con liscio aplomb «civiltà» al singolare in Civilization: The West and the Rest, votato a spiegare tutti i motivi per cui il primo ha trionfato sul secondo. A !ne anni Sessanta, Braudel reiterava la convinzione di Febvre che Valéry fosse in errore: «Le civiltà sono realtà di lunga durata. Non sono “mortali” – nonostante la troppo famosa frase di Valéry – per come le misuriamo con le nostre vite individuali. Gli incidenti letali (…) capitano molto meno di frequente di quanto
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pensiamo. In molti casi, sono solo mandate a dormire». Tradizionalmente, sono solo «i loro !ori più squisiti, i loro risultati più !ni, a perire, ma le radici profonde sopravvivono a molte fratture, a molti inverni» 37. Può esserci «un’in#azione di civiltà al singolare», ma «sarebbe puerile immaginare di sbarazzarsi delle varie civiltà che sono i veri personaggi con cui ci confrontiamo». Tuttavia, le conclusioni di Braudel oscillavano. In un registro, singolare e plurale collaborano: «Plurale e singolare formano un dialogo, si complementano e si differenziano, a volte visibili a occhio nudo, quasi senza doverci fare attenzione». Poche pagine dopo, però, c’è una nota molto diversa: «Una lotta cieca e feroce è all’opera sotto vari nomi e su vari fronti, tra civiltà al plurale e civiltà al singolare. Urge domarla, incanalarla, per imporvi sopra un nuovo umanesimo» e «in questa battaglia senza precedenti, molte strutture culturali possono rompersi, tutte in una volta» 38. Cinquant’anni dopo, possiamo chiederci: la civiltà al singolare è stata sottomessa alle civiltà al plurale, come lui sperava? Lo spettacolo del diritto internazionale suggerisce una conclusione diversa. Braudel aveva un’ampia e profonda capacità di cogliere le dinamiche materiali e culturali della storia umana, con un’impareggiata sensibilità per le differenze tra le civiltà. Assai meno interessato alle loro dimensioni politiche e ideologiche, identi!cava con troppa facilità la civiltà al singolare – occidentale, ovviamente – con la «macchina»: essenzialmente, la tecnologia, che lui stesso giustamente pensava potesse essere adattata a ogni civiltà. Prendeva meno in considerazione il potere dell’ordine intellettuale e istituzionale dell’Occidente, per non parlare del suo predominio militare.
La forza dell’opinione Niente di tutto questo signi!ca ovviamente che il diritto internazionale non abbia una sostanza considerabile universale per scopi pratici. È suf!ciente notare il fatto che nessuno Stato al mondo si risparmia di appellarvisi, anche solo per bene!ciare di una convenzione a esso associata: l’immunità diplomatica delle ambasciate, rispettata anche dopo che il paese ospite dichiara guerra al paese ospitato – una sorta di contenuto minimo del diritto internazionale, in analogia con quanto fatto da Hart col diritto naturale. Non vale nemmeno la pena di menzionare che tutte le ambasciate sono zeppe di personale impiegato a tempo pieno nello spionaggio, senza alcuna copertura legale. I teorici del diritto internazionale trovano scarso conforto in queste incongruità. Per concludere: in ogni valutazione realistica, il diritto internazionale non è né veramente internazionale né genuinamente un diritto. Questo tuttavia non vuol dire che non sia una forza da riconoscere. È anzi una forza importante. Ma la sua realtà è quella descritta da Austin: un’opinione, nel vocabolario ereditato da Hob-
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37. F. BRAUDEL, «L’Apport de l’histoire des civilisations», in G. BERGER (a cura di), Encyclopédie française, vol. XX: Le Monde en devenir, Paris 1959, p. 10. 38. Ivi, pp. 12-13.
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39. T. Hobbes, Leviathan (testo inglese), XVIII, p. 272; Behemoth, p. 16. 40. T. Hobbes, Leviathan, «A Review and Conclusion», p. 1140. 41. M. KOSKENNIEMI, «International Law and Hegemony: a Recon"guration», in The Politics of International Law, Oxford 2011, pp. 221-222 ss. 42. C. SALOMON, L’Occupation des territoires sans maître: Étude de droit international, Paris 1889, pp. 193, 195.
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bes; oggi la chiameremmo un’ideologia. In quanto forza ideologica al servizio dell’egemone e dei suoi alleati, è un formidabile strumento di potere. Per Hobbes, l’opinione era la chiave della stabilità o dell’instabilità politica di un regno. Nelle sue parole: «Le azioni degli uomini procedono dalle loro opinioni e nel buon governo delle opinioni consiste il buon governo delle azioni degli uomini». Così, «il potere del possente non ha fondamenta se non nell’opinione e nelle credenze del popolo» 39. Furono le opinioni sediziose, credeva, a scatenare la guerra civile inglese. E fu per instillare le opinioni corrette che scrisse il Leviatano, che sperava venisse insegnato nelle università, «sorgenti della dottrina civile e morale», per ripristinare «la quiete pubblica» 40. Non dobbiamo condividere quanto Hobbes il potere dell’opinione o le sue preferenze per le opinioni dell’epoca per riconoscere la validità della loro importanza. Il diritto internazionale può essere una misti"cazione. Non è una sciocchezza. Come concepirlo allora? Per il maggiore giurista internazionale odierno, lo studioso "nlandese Martti Koskenniemi, il diritto internazionale è meglio inteso come tecnica egemonica, in senso gramsciano. Per Gramsci, l’esercizio dell’egemonia comporta sempre rappresentare un interesse particolare come valore universale. Questo ha tentato di fare lo standard di civiltà, riuscendoci al suo apice. Il diritto internazionale non ha mai cessato di essere uno strumento di potere euro-americano. Ma proprio perché proponeva un discorso universale, era aperto all’appropriazione e al rovesciamento, offrendosi a interessi più ampi e più umani 41. Anche ai massimi della tracotanza imperiale nel XIX secolo, dopotutto, voci eloquenti protestavano contro lo standard di civiltà: «L’argomentazione impiegata ai nostri giorni (…) per giusti"care e nascondere la spoliazione di razze più deboli non proviene più dalla religione, ma dalla civilizzazione: i popoli moderni hanno una missione civilizzatrice cui non possono rinunciare», scrisse un modesto avvocato di Bordeaux, Charles Salomon, nel 1889. Più radicale di Braudel, aggiungeva: «Si parla di civiltà come se fosse una sola e assoluta: chi lo fa pretende sempre di avere il rango primario» 42. Il diritto internazionale moderno è dunque, come osserva Koskenniemi, intrinsecamente legato alla contestazione. E oggi che la sua strumentalizzazione per fare i voleri dell’egemone e dei suoi satelliti è diventata ancor più sfacciata, è cresciuto anche il numero di critiche legali che non solo mettono in discussione ma cercano anche di rovesciare il suo uso imperiale. I più lucidi lo fanno senza attribuire alle proprie argomentazioni più forza di quanta non possano sostenere. Nelle parole di un distinto giurista francese, il diritto internazionale è «performativo»: chi si pronuncia in suo nome cerca di portare in essere ciò che invoca, invece di riferirsi a una realtà già esistente.
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La stessa dialettica è stata invocata in Europa almeno dal XVII secolo per il diritto nazionale, in difesa del debole contro il forte. Ma qui l’assioma di Austin fa la differenza. Dentro gli Stati nazionali europei c’è sempre stato un sovrano determinabile autorizzato a far rispettare la legge e man mano che la sua autorità è passata dalla corona al popolo è nato anche il legittimo potere di cambiare le leggi stesse. Nelle relazioni tra Stati, a differenza delle relazioni tra cittadini, queste condizioni non sussistono. Quindi mentre l’egemonia funziona sia nell’arena nazionale sia in quella internazionale, e per de!nizione combina sempre coercizione e consenso, sul piano internazionale la coercizione opera sempre «sciolta dalle leggi» e il consenso è sempre più debole e comunque precario. Il diritto internazionale serve a coprire quel divario. Koskenniemi ha cominciato la sua carriera con una brillante dimostrazione dei due poli tra cui storicamente si è mossa l’argomentazione sul diritto internazionale, intitolata From Apology to Utopia: pretesto servile per qualunque azione uno Stato volesse intraprendere oppure nobile visione morale senza relazione ad alcuna realtà empirica; nelle parole di Hooker, «la sua voce è l’armonia del mondo». Quello che Koskenniemi non vede è la connessione fra le due: non utopia o apologia, ma utopia in quanto apologia. Responsabilità di proteggere come viatico per distruggere la Libia, preservazione della pace per strangolare l’Iran, e così via. I difensori del diritto internazionale possono sostenere che la sua esistenza, a prescindere dai frequenti abusi nella pratica, è meglio della sua assenza. Invocano l’aiuto della nota massima di La Rochefoucauld: l’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù. I critici possono rovesciare anche questo. Non si dovrebbe piuttosto dire: l’ipocrisia è la contraffazione della virtù da parte del vizio, per meglio nascondere i suoi !ni, cioè l’esercizio arbitrario del potere del forte sul debole, l’implacabile prosecuzione o provocazione di guerre nel !lantropico nome della pace?* (traduzione di Federico Petroni)
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* Originariamente apparso con il titolo «The Standard of Civilization» su New Left Review, n. 143, settembre-ottobre 2023 e ripubblicato con il consenso della rivista e dell’autore.
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di
Giorgio CUSCITO
Pechino ripropone la ‘soluzione dei due Stati’, appoggia Palestina e paesi arabi. Obiettivi: evitare che le nuove vie della seta passanti per Asia centrale e Medio Oriente diventino un vicolo cieco e dimostrare che l’America non può guidare da sola l’ordine mondiale.
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1. «Israel expected “stronger condemnation” of Hamas from China, Beijing embassy of"cial says», Reuters, 8/10/2023.
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1. O SCOPPIO DELLA GUERRA TRA ISRAELE E Palestina costituisce una pericolosa incognita per gli interessi della Repubblica Popolare Cinese. Da un lato i con!itti in Medio Oriente e in Ucraina potrebbero distrarre parzialmente gli Stati Uniti dall’Indo-Paci"co e consentire a Pechino di stringere i rapporti con i paesi arabi. Dall’altro, qualora la crisi si protraesse genererebbe una battuta d’arresto per le rotte terrestri della Belt and Road Initiative (Bri, nuove vie della seta), già rese tortuose dalle ostilità tra Mosca e Kiev alle porte dell’Europa. L’abbinamento dei due fattori spinge Xi Jinping a proporre per l’ennesima volta di mettere "ne al duello israelo-palestinese con l’improbabile «soluzione dei due Stati», che prevede il recupero dei con"ni del 1967 e l’assegnazione alla Palestina di Gerusalemme Est come capitale 1. Lo Stato ebraico rappresenta uno dei più importanti alleati di Washington per ragioni storiche, culturali, politiche e militari. Impossibile per gli Usa disinteressarsi della vicenda. Tanto più che l’attacco di Õamås potrebbe esser stato agevolato in modo diretto o indiretto dall’Iran, contrario agli accordi di Abramo e alla possibile intesa tra Israele e Arabia Saudita. La crisi mediorientale potrebbe costringere gli Stati Uniti a interrompere il ridimensionamento strategico delle proprie attività nella regione, iniziato con il ritiro dall’Afghanistan nel 2021, per dedicarsi alla Cina. Inoltre, la battuta d’arresto nel disgelo tra Gerusalemme e Riyad potrebbe bloccare la realizzazione del corridoio infrastrutturale tra India ed Europa passante per Arabia Saudita e Israele, annunciata a settembre durante il G20 di Delhi. Sotto tale pro"lo, il caos mediorientale favorisce apparentemente Pechino.
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Allo stesso tempo, il tragico capitolo del con!itto israelo-palestinese cui stiamo assistendo guasta i progetti di Xi nel cuore dell’Eurasia. Lo sviluppo delle nuove vie della seta non è solo una questione logistica. In gioco c’è l’irradiamento all’estero del soft power cinese, indebolito dal duello con gli Stati Uniti e dalla famigerata intesa «senza limiti» che Pechino ha stipulato con Mosca nel febbraio 2022. Intesa parzialmente rinnegata con il protrarsi della guerra mossa da Putin contro Kiev e poi spolverata in occasione della presenza di quest’ultimo al terzo Belt and Road Forum di metà ottobre. Nel celebrare il decimo anniversario dal lancio delle nuove vie della seta, Xi ha esaltato le relazioni con i paesi dell’ossimorico «Sud Globale», sorvolato su quelle notevolmente più tese con l’Occidente e lasciato intendere che la mole dei progetti infrastrutturali potrebbe subire un ridimensionamento, all’insegna del «piccolo, ma bello». Segno del fatto che la Bri inizia a diventare dispendiosa sul piano economico, sebbene per la Repubblica Popolare resti cruciale su quello strategico. Da circa due anni, la Cina tenta di valorizzare il corridoio infrastrutturale che attraversa Asia centrale e Medio Oriente per evitare che la guerra in Ucraina ostruisca le connessioni con l’Europa. Tale scelta ha innescato gli accordi tecnologici tra Repubblica Popolare e Arabia Saudita e la mediazione di Pechino tra quest’ultima e l’Iran. L’intervento diplomatico è avvenuto nell’ambito di un processo avviato da altri attori, inclusi Iraq e Oman. Ma media ed esperti cinesi hanno magni"cato l’operazione quale esempio di successo della neonata Iniziativa di sicurezza globale (Isg) 2, la cornice nell’ambito della quale Xi propone ai paesi stranieri una nuova gestione delle questioni securitarie. Nel concreto, la Isg mette in discussione l’ordine mondiale a guida americana e, nel lungo periodo, dovrebbe legittimare le rivendicazioni cinesi nell’Indo-Paci"co. A cominciare da quella riguardante Taiwan. Nel medesimo contesto, a maggio Xi ha ospitato a Xi’an il primo vertice con i leader di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan per potenziare le rotte imperniate sull’Asia centrale e consumare la sfera d’in!uenza russa. L’ambientazione a tema dinastia Tang, celebre per aver allargato i suoi domìni "no all’Asia centrale tra il 618 e il 907, lasciava trasparire l’anelito imperiale sinico. Il tutto mentre l’instabilità in Pakistan e in Afghanistan continuava a mettere a repentaglio l’ef"cacia degli investimenti cinesi e l’incolumità dei lavoratori impiegati nella loro realizzazione. Peraltro, i rapporti con Kabul e Islamabad si legano alla stabilità del Xinjiang, abitato dalla minoranza musulmana e turcofona degli uiguri. Da diversi anni, Pechino conduce nei loro confronti una campagna di assimilazione e repressione con lo scopo di usare la regione come ponte verso il cuore dell’Eurasia. In tal senso, blandire i paesi centrasiatici e mediorientali serve anche a evitare che, come in passato, il Xinjiang diventi teatro di attacchi di matrice jihadista. 2. La repentinità con cui gli esperti cinesi di Medio Oriente si sono affrettati a produrre le prime analisi dà l’idea di quanto la crisi in corso conti negli schemi della Repubblica Popolare. Secondo Fan Hongda (Shanghai International Studies Univer-
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2. «China’s mediation in Saudi-Iran deal to restore ties best practice of Gsi, exerting far-reaching in!uence on other hotspot issues: experts», Global Times, 11/3/2023.
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3. LAURA ZHOU, ZHANG TONG, «Con#ict between Israel and Hamas puts China’s approach to Middle East to the test», South China Morning Post, 9/10/2023. 4. NIU XINCHUN, «Mei dui Yiselie de zhichi keneng hui guo huo» («Il sostegno degli Stati Uniti a Israele potrebbe spingersi troppo oltre»), Huanqiu shibao, 12/10/2023. 5. NIU XINCHUN, «Ba yi baofa jinnian lai zuida guimo chongtu, yousan dian yuanyin» («Ci sono tre ragioni che spiegano il più grande con#itto tra Israele e Palestina degli ultimi anni»), Zhi Xinwen, 10/8/2023. 6. WANG JIN, «Shi ge 50 nian de you yici turan xiji, zhanhuo zhong huo yincangzhe ba yi hepíng xin qiji» («Dopo cinquant’anni un altro attacco improvviso. Nella guerra potrebbero celarsi nuove opportunità per la pace israelo-palestinese»), thepaper.cn, 8/10/2023. 7. «Zhuanjia fenxi ci ci ba yi chongtu jiang jinyibu shengji, Zhongguo lichang ke cheng tinghuo guanjian» («Esperto ritiene che il con#itto Palestina-Israele si aggraverà. La posizione cinese potrebbe essere la chiave del cessate-il-fuoco»), ifeng.com, 9/10/2023. 8. HUANG YA-SHIH, HUANG TZU-CHIANG, M. MAZZETTA, «Experts divided on whether Hamas-Israel war has lessons for Taiwan», focustaiwan.tw, 10/10/2023.
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sity) essa mette alla prova le ambizioni globali di Pechino 3. Niu Xinchun (China Institutes of Contemporary International Relations, Cicir, af"liato al ministero della Sicurezza dello Stato) ritiene che l’apertura dei rapporti tra Israele («l’inaffondabile portaerei di Washington in Medio Oriente») 4 e Arabia Saudita subirà un’interruzione 5. Wang Jin (Institute of Middle East Studies, Northwest University) sottolinea il danno alla credibilità del primo ministro Binyamin Netanyahu 6. Una prospettiva negativa, visto che questi dovrebbe visitare la Cina entro la "ne del 2023. Qin Tian, collega di Niu al Cicir, ritiene che gli Usa siano obbligati a promuovere la conciliazione arabo-israeliana e che la posizione cinese a favore di un nuovo contesto securitario acquisirà maggiore pregnanza quando si tratterà il cessate-il-fuoco 7. Anche diversi esperti taiwanesi si sono interrogati sulle conseguenze della guerra, senza tuttavia raggiungere l’unanimità su quali lezioni trarre. In passato, Taipei vedeva in Israele un modello di roccaforte altamente tecnologica cui aspirare per scoraggiare un attacco della Repubblica Popolare. Oggi sull’isola si rimarca che l’attacco originato da Gaza non sarebbe stato possibile se l’intelligence israeliana avesse analizzato correttamente i movimenti dentro quel territorio. E che quindi la vicenda dovrebbe incoraggiare Taipei a monitorare con crescente attenzione le manovre militari della Repubblica Popolare. Incluse le esercitazioni condotte sempre più vicino alle coste taiwanesi. Il professore associato presso il dipartimento di Scienze politiche della National University di Singapore Chong Ja-ian scoraggia i paragoni con il caso israeliano, giacché l’offensiva di Õamås rientra nel campo delle attività asimmetriche. Non è d’accordo l’ex generale dell’Aeronautica taiwanese Chang Yen-ting, in quanto il contesto geostrategico in cui Taipei deve operare è proprio quello della guerra ibrida. Non a caso sta sviluppando capacità belliche non convenzionali per resistere alla Cina in caso di invasione. Per Chang, il fatto che Õamås abbia inizialmente condotto un attacco massiccio per limitare l’ef"cacia del sistema Iron Dome israeliano e poi intensi"care l’incursione è un signi"cativo spunto tattico per la de"nizione di scenari futuri nell’Indo-Paci"co 8. Tali dibattiti sono un esempio fulgido di come la Guerra Grande che coinvolge Stati Uniti, Russia, Cina e potenze minori leghi e condizioni teatri distanti e diversi sul piano geostrategico.
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3. Le scelte cinesi di non condannare duramente Õamås con l’intensità che Israele attendeva e di prendere più apertamente le parti della Palestina dipendono da due fattori: il desiderio di screditare indirettamente gli Stati Uniti a seguito della violenta reazione militare dell’alleata Gerusalemme e l’ambiguità del rapporto che Pechino ha storicamente con i due belligeranti. All’inizio del XX secolo, decine di migliaia di ebrei in fuga dall’Europa si rifugiarono nella neonata Repubblica di Cina fondata da Sun Yat-sen. Per molti di loro Shanghai divenne un porto sicuro. Sun paragonava la loro causa alla resistenza cinese contro le potenze occidentali. Nel 1950, Israele è stato il primo paese mediorientale a riconoscere formalmente la Repubblica Popolare. Tuttavia, l’apertura delle relazioni bilaterali è avvenuta uf!cialmente solo nel 1992, con la messa in funzione dell’ambasciata a Tel Aviv. Da quel momento in poi, gli investimenti cinesi nella tecnologia militare prodotta dallo Stato ebraico sono aumentati. In più, Pechino ha visto nelle eccellenze israeliane un utile contributo al progresso delle proprie aziende in settori quali smart cities, biotecnologie, agroalimentare, economia digitale e sicurezza informatica. Viceversa, Israele ha guardato alle opportunità commerciali derivanti dal mercato della Repubblica Popolare. Xi ha coinvolto lo Stato ebraico anche nei suoi progetti infrastrutturali. Nella cornice delle nuove vie della seta rientra la realizzazione di un corridoio tra i porti israeliani di Ashdod e Haifa a Nord e quello di Eilat a Sud. Utile all’apertura di un nuovo collegamento tra Mediterraneo e Mar Rosso e alla riduzione della dipendenza dei "ussi navali cinesi dal cruciale Canale di Suez. Pertanto non sorprende che l’America abbia tentato di scoraggiare Gerusalemme dal fare affari con Pechino. Nel 2005 Washington ha persino sospeso temporaneamente la partecipazione israeliana al programma Joint Strike Fighter sugli F-35. Evidentemente l’opera di dissuasione non è riuscita a pieno, considerato che Shanghai International Port Group tutt’ora controlla un terminal del porto di Haifa. Il quale per inciso si trova in prossimità di una base militare dove le Forze armate statunitensi sono di casa. La relazione sino-palestinese ha invece radici eminentemente politiche e ideologiche. Pechino sostiene il diritto della Palestina a farsi Stato dagli anni Cinquanta, quando tale opera diplomatica era funzionale al bisogno della Repubblica Popolare di affermare la propria sovranità a danno di quella della Repubblica di Cina. Negli anni Sessanta, Mao Zedong paragonò Israele a Taiwan dicendo che entrambe erano frutto dell’imperialismo, create per tenere sotto controllo la Repubblica Popolare e i paesi arabi. La Palestina incassava volentieri armi e denaro di provenienza cinese. Nel 1988, quello di Pechino è uno dei primi governi a riconoscere lo Stato palestinese, chiedendo ripetutamente il ritiro degli israeliani dai territori occupati. È tale sintonia che ha spinto la Cina ad attendere quattro anni per aprire le relazioni con Israele. Malgrado quella svolta, negli anni successivi Pechino non ha voltato completamente le spalle alla Palestina. Probabilmente per non risultare incoerente agli occhi del mondo arabo e restare formalmente fedele al principio di non interferen-
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za negli affari di paesi terzi. La Cina ha tentato la prima mediazione tra Israele e Palestina nel 2002, senza successo. Poi ci ha riprovato nel 2017, quando ha proposto al leader palestinese Abu Mazen di aderire alle nuove vie della seta, di accogliere investimenti infrastrutturali e di creare un meccanismo trilaterale con le parti in causa. Abu Mazen ha appoggiato anche la campagna antiterrorismo cinese condotta nel Xinjiang. Il «simposio di pace» che si è svolto a Pechino non ha determinato risultati sostanziali. Il punto di partenza del confronto è stato proprio la «soluzione dei due Stati». La dichiarazione conclusiva dell’evento segnalava la propensione di entrambe le parti a favore di tale opzione ma era comunque non vincolante. Xi ha salutato gli invitati con l’auspicio di una conferenza più grande e in!uente, che però non ha mai avuto luogo. Nel maggio 2023, l’inviato cinese presso l’Onu Geng Shuang ha intimato a Israele di smettere di «usurpare» i territori palestinesi in Cisgiordania. Di fatto confermando che oggi per la Cina è più che mai necessario tracciare un con"ne preciso tra i due belligeranti 9. Il mese dopo, Abu Mazen ha visitato la Repubblica Popolare e Xi ha ribadito per l’ennesima volta il sostegno alla «soluzione dei due Stati». Il dato più saliente del bilaterale è stato il plauso del leader palestinese alla Isg e alle altre due iniziative globali dedicate rispettivamente allo sviluppo e allo scambio tra civiltà. Tuttavia, vista l’incapacità dell’Autorità nazionale palestinese nel gestire i propri territori, Abu Mazen non pare l’interlocutore migliore cui Pechino potrebbe rivolgersi per condurre una mediazione concreta.
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9. XIE KAWALA, «China urges Israel to stop “provocations” and “encroachment” as Palestinian tensions !are», South China Morning Post, 25/5/2023.
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4. Per comprendere a pieno la posizione della Repubblica Popolare bisogna considerare anche i rapporti che ha coltivato parallelamente con Arabia Saudita e Iran negli ultimi anni. Entrambi sono coinvolti nelle nuove vie della seta e agli occhi cinesi rappresentano fondamentali fonti di approvvigionamento energetico, in aggiunta alla Russia. Circa un anno fa, Pechino ha avviato delle iniziative per sviluppare delle sinergie tra Bri e Saudi Vision 2030, progetto con cui Riyad vuole ridurre la dipendenza della propria economia dalle rendite petrolifere. Così, Huawei ha annunciato la costruzione di una rete cloud in alcune città saudite. SenseTime ha realizzato con un partner locale un laboratorio dedicato all’intelligenza arti"ciale. La compagnia di Shanghai Human Horizons ha istituito una collaborazione con il ministero dei Trasporti saudita nel campo delle auto elettriche. Nel 2022, i due paesi hanno avviato la costruzione congiunta di droni, per dare seguito all’acquisto dei Wing Loong II compiuto da Riyad nel 2017. La cooperazione sino-saudita in campo militare è stata confermata anche dalla seconda edizione delle esercitazioni navali congiunte Blue Sword, condotte per tre settimane a metà ottobre nei Mari Cinesi con tanto di cerimonia di apertura nel Guangdong. La simulazione ha previsto l’abbordaggio e il salvataggio di una nave
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commerciale dirottata. Malgrado tali sforzi, a oggi la maggioranza delle armi importate dai sauditi restano made in Usa, mentre la quota maggioritaria delle esportazioni verso la Repubblica Popolare è rappresentata dal petrolio. A ogni modo, la relazione tra Pechino e Riyad non può far piacere a Teheran. La Repubblica Popolare è il primo partner commerciale di quella Islamica. La loro collaborazione concerne energia, tecnologia e questioni militari. Sulla base di un accordo !rmato nel 2021, la Cina dovrebbe investire 400 miliardi di dollari (di cui oltre la metà nel settore degli idrocarburi) sul suolo iraniano nell’arco di 25 anni. Soprattutto, per gli strateghi cinesi la rilevanza del rapporto con Teheran dipende dall’in"uenza che essa esercita in maniera più o meno diretta in paesi quali Afghanistan, Iraq, Siria, Libano e Yemen. Non è escluso che Pechino non abbia condannato aspramente l’attacco di Õamås non solo per lo storico appoggio alla causa palestinese, ma anche per non criticare indirettamente la potenza a cui tale organizzazione paramilitare è legata. L’allargamento della piattaforma Brics a Iran, Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti avvenuto lo scorso agosto collima con il consolidamento delle operazioni di Pechino in Medio Oriente ai !ni della creazione di un blocco antioccidentale. La crisi regionale in corso potrebbe far emergere più marcatamente l’avversione dei suoi membri nei confronti di Gerusalemme, senza cancellare le loro ataviche rivalità. Inclusa quella tra Teheran e Riyad.
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5. La Cina potrebbe offrirsi come mediatore nel con"itto in corso. Formalmente all’insegna della «diplomazia bilanciata» (pingheng waijiao). Concretamente prendendo le parti della Palestina e dei paesi arabi e lasciando quelle di Israele agli Stati Uniti. Se Xi non abbozzasse quantomeno un cosmetico tentativo in tal senso, verrebbe meno lo sforzo condotto per avvicinare Iran e Arabia Saudita. E con esso anche la narrazione per cui la Repubblica Popolare sarebbe realmente in grado di fornire soluzioni cinesi a problemi globali nell’ambito della Isg. È probabile che Pechino moduli le prossime mosse in Medio Oriente in base a quelle di Washington, metro di misura delle strategie siniche. Certamente continuerà ad accusare la Casa Bianca di essere incapace di risolvere le dispute altrui e nel complesso di non saper più riportare ordine nel mondo. Il successo di tali manovre non è scontato. Non solo per il fallimento dei precedenti inserimenti cinesi nelle relazioni israelo-palestinesi. L’immutata presenza degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e il bisogno di Gerusalemme di risultare nuovamente temibile ai rivali regionali rendono la proposta di Pechino di dif!cile realizzazione. Date le circostanze, Xi potrebbe accontentarsi di contribuire al recupero di un briciolo di stabilità regionale. Così da continuare a fare affari in Medio Oriente, guadagnare consenso tra i paesi arabi e proporsi come potenza di riferimento su scala globale al pari dell’America. Sforzo a cui Washington si è opposta – e continuerà a opporsi – per delegittimare le ambizioni di risorgimento cinesi.
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‘La Russia ha vinto perché non può perdere’ Conversazione con Aleksej MILLER, storico, professore all’Università europea di San Pietroburgo, a cura di Orietta MOSCATELLI
Quali conseguenze derivano per la Russia dal de!agrare del con!itto israelo-palestinese? MILLER Se resta un con!itto tra Israele e Õamås, per la Russia fondamentalmente non cambierà nulla. Per l’Ucraina invece cambierà molto, perché ci sarà una accelerazione del processo, già avviato, di indebolimento dell’attenzione e del sostegno occidentali a Kiev. Ma se il con!itto si intensi"ca, soprattutto se viene coinvolto l’Iran, le conseguenze saranno tangibili – e dif"cilmente prevedibili – non solo per Mosca, ma per il mondo intero. In primo luogo, i prezzi del petrolio inevitabilmente saliranno, il che è molto importante per il bilancio russo. In secondo luogo, il volume dell’assistenza militare all’Ucraina sarà drasticamente ridotto. In"ne, si paleseranno i problemi tipici delle fasi in cui diventa impossibile un’interazione costruttiva tra l’Occidente e la Russia, anche in termini di risoluzione delle crisi. LIMES A proposito di rapporto con l’Occidente: la Russia ha cambiato la storia del secolo scorso, a cosa punta e può puntare in questo? MILLER «Ecco: la Russia ci prova di nuovo e non ce la farà»: è la teoria rilanciata all’inizio del con!itto armato in Ucraina, ad esempio, dallo storico Stephen Kotkin. Una teoria basata sull’idea che la Russia ciclicamente arriva a sentirsi abbastanza forte da reclamare con metodi violenti un ruolo da grande potenza, poi fallisce. E come nella prima guerra mondiale, come con l’Unione Sovietica, oggi il risultato sarà lo stesso. Naturalmente si tratta di una sempli"cazione. All’inizio del XX secolo c’era la possibilità che la Russia diventasse parte del nucleo centrale del mondo capitalistico. L’impero russo disponeva delle competenze, delle risorse umane necessarie: formava il doppio degli ingegneri rispetto alla Germania, aveva un buon sistema di istruzione, forza lavoro a costi molto bassi e un quadro demogra"co favorevole, dato che la maggioranza della popolazione viveva in aree rurali e ogni donna partoriva 5-6 "gli. Un potenziale distrutto in gran parte dopo la prima guerra mondiale.
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Bisogna capire che per l’Europa il 1918 è la !ne di un incubo, mentre per la Russia è solo l’inizio: aveva perso 2,5 milioni di persone nel primo con"itto mondiale e altri 10 milioni durante la guerra civile in cui sfocia la rivoluzione d’Ottobre. Morto l’impero zarista, la Russia coagula l’Unione Sovietica, la cui storia è de!nita in notevole parte dallo scontro con il mondo capitalistico. Allo stesso tempo la Russia è sempre stata un importante alter ego per l’Europa e per la sua formazione identitaria, in un rapporto bidirezionale. L’Europa non era unita nel XIX secolo e all’epoca in tutti i con"itti si cercava di avere la Russia dalla propria parte. Nel XX secolo all’inizio l’Urss è il grande escluso e dopo la seconda guerra diventa il principale altro. Mentre l’Europa iniziava a unirsi sotto il dominio americano, l’Urss cercava di sfruttare al massimo le proprie risorse umane, mantenendo la popolazione in condizioni di netta povertà per produrre mezzi militari, armi, !no ad arrivare allo scudo nucleare. Un paese distrutto dopo la seconda guerra mondiale, demogra!camente dissanguato, con metà della sua parte europea in rovina, si lanciava in una corsa nucleare in competizione con l’America che non aveva perso niente. Anzi, con la seconda guerra aveva acquisito nuove risorse e una nuova posizione di dominio, senza precedenti. Ecco, una simile dinamica possiamo ritrovarla all’inizio del nuovo secolo, con le nuove élite russe che arrivano al potere e maturano velocemente una caparbia convinzione della necessità di perseguire sovranità e indipendenza rispetto all’Occidente. Oltre che dell’inammissibilità che la Russia sia relegata a potenza di seconda categoria. LIMES Questione nota. Nuove soluzioni in vista? MILLER È importante capire che su questo doppio binario si dipana oggi il principale problema della Russia: prendere le misure di sé stessa. La Russia arriva alla prima guerra mondiale come un enorme impero terrestre con una popolazione che secondo le stime sarebbe potuta arrivare a 350-400 milioni di abitanti. L’Urss demogra!camente subisce le conseguenze della guerra e degli esperimenti comunisti, ma resta un grande paese. Ora la Federazione Russa è molto più piccola, meno di 150 milioni di abitanti e un’economia di dimensioni piuttosto limitate. Ci sono elementi di frustrazione che originano dal passato status di grande potenza ereditato dall’Unione Sovietica, compreso l’arsenale nucleare. E c’è questo grande problema di misurarsi, e dalle nuove misure procedere. La Russia ha davanti a sé due possibilità. La prima implica accettare che non siamo più una potenza di prima grandezza e aggiustare la nostra postura di conseguenza, magari sperando che questa svolta possa portare pro!tti. Ma esiste un altro modo di vederla: sì, siamo più piccoli, sì, siamo più deboli, eppure abbiamo ancora abbastanza risorse e competenze per restare una grande potenza, che si comporta come tale e non ha bisogno di chiedere niente a nessuno, quindi a nessuno nulla chiede. La conseguenza sul fronte interno è che le richieste di aggiustare la visione e il ruolo del paese in base alla perdita dello status di potenza sono percepite come un pericolo, perché nelle condizioni attuali portano a un disarmo psicologico, invitano alla sottomissione, bloccano la mobilitazione.
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I russi accettano, o potrebbero accettare di vedere la Russia ridimensionata, e di conseguenza il suo status? MILLER Considerato che la difesa della sovranità è per noi tradizione storica secolare, dato anche lo status di grande potenza nel XIX e XX secolo, è molto dif!cile immaginare che prevalga il punto di vista secondo cui la Russia è piccola e deve accettarlo. Insomma, che deve abbandonare le rivendicazioni da superpotenza. Credo che stiamo vivendo un momento molto importante. L’Occidente reagisce al «cattivo comportamento» di Mosca con l’esclusione, puntando a isolarla. D’altronde la Russia non è mai stata percepita come parte dell’Occidente. E in un’Europa che si chiama Unione l’immagine di una Russia cattiva, pericolosa, è stata usata ampiamente per cercare un comune denominatore, un fattore uni!cante che fa molto comodo ai vertici americani. Traducendo di nuovo in dinamica interna russa, per quanti sostengono che abbiamo fatto errori e dovremmo rivedere postura e strategie, è dif!cile sostenere che l’Occidente tratterebbe bene la Russia. Quindi per tanti, un’assoluta maggioranza, la questione se il Cremlino abbia agito in modo giusto o meno nel febbraio 2022 è af!ancata da una domanda: quale via di uscita oggi? La risposta è che o vinciamo, qualsiasi cosa possa voler dire e implicare, o perdiamo, e ci ritroveremo a pagare le conseguenze di questa scon!tta. A pagare a lungo, pagare ancora e ancora, per chissà quanto tempo. In questo quadro, e non è un dettaglio, tutti ricordano che è piuttosto dif!cile scon!ggere un paese che ha tante testate nucleari quante gli Stati Uniti. Questo sentimento che non ci arrenderemo perché non possiamo arrenderci è molto, molto forte. E l’Occidente dovrebbe ri"etterci. LIMES La Russia può essere un paese non europeo, una potenza asiatica? MILLER L’idea che possa diventare un paese asiatico ha un vulnus storico intrinseco ed evidente: per secoli la Russia si è sforzata di imitare l’Europa, in tanti modi. I cinesi, i popoli asiatici sono molto diversi da noi. Allo stesso tempo abbiamo introiettato di essere percepiti come alieni dagli europei. Guardate questi russi strani, anche divertenti a tratti, che ri"ettono sul proprio essere una civiltà speci!ca: noi capiamo di essere visti così e questo aumenta la percezione che in un certo senso siamo soli e da soli dobbiamo procedere. Devo dire che l’Occidente si è impegnato molto più di noi nel creare l’immagine della Russia come nemico. Anche noi siamo arrivati all’idea dell’Occidente nemico, ma solo nella seconda metà del XIX secolo. Peraltro questa idea all’epoca era considerata piuttosto bizzarra. LIMES La cesura con l’Europa è profonda. Quanto è revocabile? MILLER Alcuni paesi cercano di rendere questa frattura totale e irreversibile – ad esempio la Polonia e gli Stati baltici – e sono consapevoli di cosa stanno facendo. L’Europa meridionale non è in sintonia con il fronte baltico. Vediamo un’ondata emotiva provocata e costruita pezzo su pezzo, l’indignazione gridata contro qualsiasi cosa sia Russia, dai discorsi sulla decolonizzazione del territorio russo alla censura della cultura russa. Sono argomenti destinati a indebolirsi. Già sta avvenendo. Tuttavia non torneremo mai alla situazione di inizio secolo, a una relazione che
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si sviluppava su più fronti perché entrambe le parti pensavano che quello fosse lo stato naturale delle cose. Quello è un capitolo chiuso. I russi sanno, sentono molto bene di essere alieni agli occhi degli europei. Sanno anche che in Polonia, Italia o Spagna non tutti la pensano allo stesso modo, ma nei circoli intellettuali non si discute se l’approccio europeo sia corretto, o morale. È stato creato uno spazio di interdizione alla ri!essione sulla Russia. Anche i russi che hanno lasciato il paese e tentano di adattarsi alla nuova situazione in buona parte condividono questi sentimenti. LIMES E in termini di assetti globali? MILLER Il futuro sarà inevitabilmente il risultato di molte forze che si contrappongono. Chissà quale sarà il panorama politico americano nel 2025, chissà per quanto tempo l’Ucraina sopravvivrà. Non credo si possa avere una prospettiva che non sia di breve periodo. Ho letto un recente rapporto che stima la popolazione attuale dell’Ucraina a 23 milioni, il che signi"ca la metà rispetto al 1991, l’anno dell’indipendenza. In questa fase nel teatro di battaglia si tratta di un fattore probabilmente decisivo. Andando oltre il momento attuale, ci sono dinamiche dif"cili da comprendere, da fuori e dentro la Russia, anche perché senza precedenti. Nel post-febbraio 2022 in Occidente si ipotizzava l’inevitabile collasso della Russia; chi ci credeva ora deve rivedere il quadro tattico costruito attorno a tale teoria. In Russia c’è chi è convinto che l’unità occidentale collasserà. Io non lo credo. Per opporti alla linea dettata dall’America devi avere una forte soggettività geopolitica e se guardo ai leader francesi, italiani e altri, questa soggettività non la vedo. Semplicemente, fare previsioni ha poco senso. Se gli Stati Uniti vogliono continuare a tirare le "la e decidere, continueranno a farlo. Ma se immaginiamo che non vogliano più farlo, allora cambia tutto. L’anno prossimo gli americani eleggono il nuovo presidente e sappiamo a cosa punta quel tipo convinto che gli europei dovrebbero imparare varie lezioni americane ed essere più autonomi. In una situazione tanto dinamica e mutevole, viene fuori che l’attore più prevedibile è la Russia, anche contro le stesse previsioni russe. Per due anni in Occidente si è profetizzato il collasso dell’economia russa. Pure da noi qualcuno era convinto che sarebbe successo. Ora sappiamo che non crollerà, punto e basta. All’inizio del con!itto armato, al Cremlino pensavano che sarebbe durato due settimane, che si sarebbe arrivati a un cambio di regime a Kiev. Punto e a capo. Invece, passate quelle due settimane, viene fuori che sarà una lunga e dif"cile guerra, molto dolorosa. E quindi? Quindi, se così dev’essere, si va avanti. Non ci sono segnali che la società russa sia esausta. Le autorità sono molto caute a non gravare troppo sulla collettività, agiscono in modo che quest’ultima sia disposta ad accettare che la fase bellica continui. Non si vede alcuna vera divisione politica fra i russi. LIMES Ma il grande obiettivo qual è? MILLER L’obiettivo è cambiare. Nella fase iniziale della guerra, l’obiettivo era cambiare i vertici in Ucraina. Nella fase successiva per la Federazione Russa la priorità è diventata impedire all’Ucraina, assistita dall’Occidente, di scon"ggerla sul campo di battaglia. Ora possiamo dire che quest’obiettivo più o meno è stato raggiunto. La
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Humaymīm . (Quartier generale russo)
- missili Kinzhal Agglomerati - batteria S-400 Triumph dispiegata nel 2015 urbani - aerei cargo Antonov An-124 Ruslan e Ilyushin Il-76M - caccia Sukhoi Su-24Ms, Su-25s, Su-34s - aerei per lo spionaggio elettronico Ilyushin Il-20M - aereo da ricognizione e guerra elettronica Tupolev Tu-214R - dal 2021 bombardieri strategici Tu-22M3 ‘Back$re’ e caccia pesanti Su-35 - carri armati T-90 - blindati an$bi Btr-82 - elicotteri Mi-24, Mi-28, Mi-8, Ka-52
S I R I A Bāniyās
- centro di supporto logistico e di manutenzione - 4 navi militari di medie dimensioni Dal 2017 la Russia ha ottenuto per 49 anni il controllo e la sovranità sul territorio della base. Può ampliare l’infrastruttura per consentire l’attracco di navi a propulsione nucleare
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situazione ora è a favore della Russia e non dell’Ucraina, perché il fattore determinante è la quantità di risorse da una parte e dall’altra. Adesso può essere posta davvero la questione dell’obiettivo più ampio. Non penso che si tratti solo di arrivare a un accordo con l’Occidente che permetta alla Russia di sedersi al tavolo in una posizione di relativa forza sulla questione ucraina. Penso che gli obiettivi stiano cambiando. LIMES In che modo? MILLER Partendo dalla constatazione che la linea principale dello scontro geopolitico globale è il confronto tra Cina e Usa. La Russia deve riuscire a mantenere una posizione in!uente per quanto minore rispetto alle prime due. Insomma dobbiamo poter incidere. E in questo senso lo status di una quasi grande potenza, dotata di arsenali nucleari, costituisce una posizione molto buona cui aspirare, puntando ad avere domani un maggior peso sulla scena internazionale rispetto a oggi. Chi pensa che al Cremlino ci sia qualcuno talmente folle da progettare la distruzione dell’intero Occidente sbaglia, non è così. Il punto è che è molto poco probabile un
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accordo tra Cina e Usa: non c’è più !ducia. Se l’America ne avesse la possibilità distruggerebbe la Cina. Lo farebbe e i cinesi lo sanno, per cui questa competizione geopolitica continuerà e la Russia si ritroverà ancora al tavolo dei pesi massimi. È uno scenario decisamente accettabile per chi sta al Cremlino ed è chiaro che è molto facile vendere questa visione alla popolazione russa, anche alle nuove generazioni. Molti, tra i giovani, hanno sperimentato una dose suf!ciente di delusione nei confronti dell’Occidente, hanno capito che le loro prospettive di vita agiata non sono più quelle immaginabili prima del con"itto in Ucraina: studio in Russia, vado in Occidente, mi trovo un lavoro, magari poi torno in Russia per un migliore salario, qui o là avrò sempre un mio posto. Non è più così, capitolo chiuso. LIMES Che !ne fa in tutto questo il messianismo russo? MILLER In Russia troverete sempre gente abbastanza pazza, o che !nge di esserlo, o comunque suf!cientemente radicale da sostenere che la terza guerra mondiale vada prevenuta usando la bomba nucleare tattica. O altri discorsi apocalittici, che poi balzano in cima al dibattito europeo. Ma credo che il punto centrale, il vaso comunicante tra la stragrande maggioranza dei russi e la visione del Cremlino, sia mantenere la sovranità del paese e una certa prosperità. Nessuno vuole tornare al 1950 quando la gente faceva la fame nei kolkhoz mentre il !sico Igor’ Vasil’evi0 Kur0atov costruiva l’atomica. Ai russi certo non dispiace vedere i francesi cacciati dall’Africa, anzi. La Russia segue gli scenari attorno al Mar Cinese Meridionale, attenta nell’avvistare qualcosa di buono da pescare. Suggerisco di chiedersi quale sia il principale obiettivo strategico della Cina oggi e quanto sia importante per Pechino aumentare il numero di testate nucleari: ne hanno circa 300 e ne vogliono un migliaio. Quindi una seconda domanda: i cinesi dove prendono il plutonio? Non sono in grado di produrne abbastanza da soli, certo non possono chiederlo agli americani, a chi si rivolgono allora? Indovinato: alla Russia. Abbiamo ancora molte carte da giocare in questo gioco. LIMES State tornando all’idea di cambiare la storia. MILLER Si può sostenere, come ha fatto Kotkin, che la Russia abbia cercato di cambiare di nuovo la storia e che sarà alla !ne scon!tta. Oppure che la Russia coltivi un pensiero parallelo che non si limita alla vittoria in Ucraina, ma tende a usare tutte le possibilità che si presenteranno e a pro!ttare delle relative conseguenze. LIMES E da questo pensiero emerge una nuova missione russa? MILLER In un certo senso, sì. La missione è intrinseca nel pre!ggersi, tenacemente e anche con costi molto alti, l’obiettivo di prendere sempre decisioni autonome: perseguire lo status di grande potenza. Questo implica il diritto a una sfera di in"uenza. E implica essere pronti a combattere dove questa sfera di in"uenza viene negata. La storia della Russia oggi è questa: un attore geopolitico caparbio, che non ha mai subìto una grande scon!tta se non nella prima guerra mondiale, e agisce sulla base di questo retaggio. Nella memoria storica russa il primo con"itto mondiale rappresenta la guerra che doveva e poteva essere vinta, non fosse stato per la rivoluzione d’Ottobre.
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Putin dice: non dobbiamo avere un’ideologia, ma promuovere un nostro assetto valoriale, una quasi ideologia. MILLER Tutti hanno bisogno di un’ideologia. Ma su questo in Russia regna il caos. Ci sono singoli elementi di diverse ideologie che si incrociano e che possono essere individuati singolarmente, senza produrre un unicum. Ci sono i valori cosiddetti tradizionali, d’accordo. Ma prendiamo ad esempio il discorso con cui Putin nel 2014 ha spiegato perché la Russia doveva riprendere la Crimea dall’Ucraina: l’approccio storico è quello dell’irredentismo, e tracce di irredentismo le ritroviamo nei discorsi sui territori storicamente russi recuperati dopo il febbraio 2022. C’è l’ideologia dell’unicità della Russia. L’anti-occidentalismo ha una dimensione ideologica, come pure la solidarietà di tipo corporativo quale principio di coesione delle élite. È un quadro molto eclettico e chiaramente di secondaria importanza, perché le azioni dei vertici russi non sono motivate da queste idee o da fattori ideologici. La loro visione si basa su due aspetti: il mantenimento del potere e del sistema di potere costituito, e la preservazione della sovranità russa. Nient’altro. Quindi che sia l’irredentismo, che sia l’unicità della civiltà russa o la svolta verso l’Est, sarà fatta qualunque cosa possa servire nell’ottica dei due obiettivi primari. I mezzi e l’approccio potranno cambiare in base al momento e alle circostanze. Coltiviamo un forte pragmatismo che utilizza elementi ideologici senza un’ideologia trainante. LIMES Può la Russia vivere senza un’idea? MILLER Negli anni Novanta la Russia ha vissuto senza un’idea, nella disperata ricerca di individuarne una nuova dopo la morte uf!ciale del comunismo. Ora non c’è un’ideologia, ma l’idea è chiara: sovranità, indivisibilità della Russia, la convinzione che non possiamo essere una potenza di seconda !la o un partner minore di qualcuno. E così, gentile signora, non sarà. Che si tratti di Cina o altri attori, poco cambia. Questo è il primo pilastro ideale. Il secondo è una grande disillusione nei confronti dell’Occidente. È un aspetto molto evidente in Putin. In lui senti la delusione del leader che voleva cooperazione e complementarità con l’America e gli europei e che si è ritrovato dal lato opposto della trincea. Mosca è stata spinta verso una posizione di dipendenza dalle tecnologie occidentali e di fornitore di risorse, ma in modo clientelare, con il tasto di accensione e spegnimento in mano all’Occidente. È stato un processo articolato, un susseguirsi di episodi, di momenti chiave come il divieto di entrare nell’azionariato Airbus o di acquisizioni nel settore tecnologico. Anche il discorso sulla necessità di sbarazzarsi dalla dipendenza dal gas russo è iniziato molto prima della guerra. Il punto di partenza è stato probabilmente l’affare Jukos. Nel 2003 gli asset dell’allora migliore compagnia petrolifera erano nel mirino di acquirenti americani. Putin ha bloccato quello scenario e messo in chiaro che lo Stato russo si sarebbe tenuto il gas e tutto il resto. Dopodiché le relazioni con l’Occidente sono entrate in una fase di progressivo degrado. Questo i russi l’hanno visto e lo vedono. Non sono necessariamente grandi fan del signore del Cremlino, non ammirano tutto quello che fa, ma sanno bene che i fatti del 2003 sono poi risultati un punto di non ritorno. Per questo la grande disillusione è il secondo pilastro, perché è diventata disillusione identitaria.
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Il suo ragionamento implica la tenuta del sistema putiniano solo nel contesto dello scontro con l’Occidente. MILLER Il processo che descrivo non va sottovalutato in termini di traiettoria interna della Russia. Si tratta di dinamiche che si rimandano l’un l’altra e determinano ulteriori sviluppi. Contestualizziamo: Putin torna al Cremlino nel 2012 e in quella fase si con!gura una situazione molto interessante, che può sembrare congiuntura politica, ma è molto di più. Non c’è crescita economica, i prezzi del petrolio sono relativamente alti, non ci sono ancora sanzioni internazionali. Il presidente russo è pronto a negoziare un altro patto sociale nel paese, al posto della nota formula «benessere in cambio di silenzio». In quelle condizioni la gente non è più disposta a tacere, sicché il sistema inizia ad aprirsi, viene ammesso un certo grado di competizione politica. Per capirci: Naval’nyj s!da l’attuale sindaco di Mosca Sobjanin per la carica di primo cittadino della capitale. L’Occidente ha visto queste aperture e invece di favorirle ha pensato: guarda un po’, la Russia è debole, si creano opportunità, l’Ucraina ora è contendibile. All’epoca Naval’nyj criticava il presidente da posizioni nazionaliste. La perdita dell’Ucraina avrebbe trasformato Putin in un morto che cammina, il pilastro del concetto di sovranità sarebbe crollato. E quindi nel 2014 la Russia si riprende la Crimea. Tutti i nazionalisti passano dalla parte del Cremlino. Putin ha giocato una partita da vero judoka: ha preso un pugno in faccia dall’Occidente con il cambio di regime in Ucraina e l’ha usato per recuperare tutto il fronte nazionalista. È stato un investimento a lungo termine, perché anche ora si parla dei nazionalisti che criticano il Cremlino e la Difesa e chiedono una seconda mobilitazione, ma dove sono questi nazionalisti? Non ci sono più, sono stati assimilati e alcuni singoli più coriacei sono in prigione. Sembra cronaca politica ma bisogna capire che certi momenti interni russi sono interconnessi con la politica estera della Russia e con le sue aspirazioni geopolitiche. L’Occidente ha dato a Putin risorse suf!cienti per rilegittimare il suo potere. LIMES Da questo cerchio non si esce !nché c’è Putin al potere. E dopo? MILLER Ricorda la Polonia e l’Ungheria quando erano candidate all’ingresso nell’Ue o nella Nato? In quella fase cercavano di attenersi alle condizioni e alle aspettative europee e americane. Varsavia e Budapest hanno cominciato a mostrare un certo carattere solo una volta raggiunti gli obiettivi. Possiamo dire che la Russia, considerate le sue dimensioni, è stata per un certo periodo molto docile. LIMES
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LA RUSSIA ALLA PROVA DELLA GUERRA D’ISRAELE
di
Mauro DE BONIS
Nel conflitto tra Õamås e Stato ebraico, Putin non si schiera. L’incendio mediorientale spaventa il Cremlino, che teme una destabilizzazione del Caucaso e della Siria. Il giallo delle armi ucraine finite nelle mani dei palestinesi.
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1. «V Seti vspomnili “proro0estvo” Žirinovskogo ob Ukraine i Bližnem Vostoke» («Internet ricorda la “profezia” di Žirinovskij su Ucraina e Medio Oriente»), ria.ru, 9/10/2023.
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1. N POCHI HANNO DATO CREDITO A VLADIMIR Žirinovskij, eccentrico e controverso politico russo, quando affermava che la crisi ucraina sarebbe "nita presto nel dimenticatoio. Entro il 2024, prevedeva, un altro con#itto avrebbe infatti incendiato il Medio Oriente, così innescando una guerra di più ampia portata 1. Le parole di Žirinovskij risalgono al 2019. L’invasione russa era ancora lontana, ma – come Putin ha precisato ai media cinesi qualche settimana fa – la guerra d’Ucraina era già iniziata nel 2014. Ovvero da quando, secondo il capo del Cremlino, l’Occidente a guida americana ha appoggiato il colpo di Stato a Kiev, così dando inizio alla guerra per procura nel Donbas. Allo stesso modo, sempre secondo Putin, gli Stati Uniti sarebbero responsabili anche del nuovo con#itto israelo-palestinese, causato dalle fallimentari politiche mediorientali messe in campo da Washington negli ultimi anni. Secondo gli ucraini, la tesi russa è scontata e confezionata ad arte. Essa è utile a Mosca per nascondere l’appoggio offerto a Õamås e per far dimenticare al mondo quanto al Cremlino faccia comodo che in Medio Oriente si sia scatenato l’inferno. Insomma, subito dopo la mattanza del 7 ottobre le autorità di Kiev hanno intravisto tra le "amme mediorientali il tentativo russo di distogliere l’attenzione dal con#itto in Ucraina. Obiettivo: spingere l’Occidente a riconsiderare gli aiuti bellici ed economici diretti al paese occupato. Questa argomentazione non ha convinto né gli americani né gli stessi israeliani, "guriamoci i russi. Di certo, qualcuno a Mosca gradisce quanto sta avvenendo in Medio Oriente ed è convinto che la Federazione non possa che giovarsene. Il punto, però, è che il Cremlino ha l’impellente necessità di adoperarsi af"nché nella regione torni un minimo di stabilità. Mosca, infatti, continua ad avere importan-
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ti dossier aperti in Medio Oriente, come quello siriano. Inoltre, dato che la sua proiezione strategica ed economica non può più dirigersi verso l’Europa, la Russia è obbligata a mantenere relazioni pro!cue quantomeno con i diversi attori mediorientali, per diversi!care i suoi legami diplomatici e !nanziari. In!ne, c’è il rischio che la regione torni a essere caratterizzata dalla presenza militare americana, che negli ultimi anni era progressivamente scemata. Non è chiaro quanto il Cremlino possa incidere sul futuro del Medio Oriente e sulla crisi israelo-palestinese. Molti ritengono che, data la stanchezza accumulata in Ucraina, la Russia non sia in grado di in"uenzare le sorti del con"itto. Ciò sarebbe dimostrato anche dal non intervento di Mosca nella crisi del Nagorno Karabakh. In quell’occasione, i russi non sono intervenuti per difendere Erevan, nonostante la storica alleanza. In realtà, bisogna sottolineare come, nel Caucaso meridionale, la Russia abbia intrapreso un pragmatico percorso di salvaguardia dei propri interessi, anche scendendo a patti con paesi inquadrati nel campo avversario. Schema potenzialmente da riproporre anche nella regione mediorientale, dove Mosca intende restare amica di tutti e di nessuno. Israele, infatti, è un paese essenziale per la stabilità regionale ed è legato alla Russia da profondi interessi di sicurezza. Inoltre, nello Stato ebraico vive oltre un milione di russofoni. Tuttavia, sin dai tempi dell’Urss Mosca ha avuto ottimi rapporti anche con il popolo palestinese. In!ne c’è l’Iran degli ayatollah, prezioso fornitore di armi e alleato essenziale per quanto riguarda la questione siriana. È per questo che la Federazione Russa non si è ancora schierata apertamente. Senza dubbio, infatti, il Medio Oriente cambierà volto. Ma Mosca si augura che ciò non intacchi i suoi interessi nella regione. Anzi, il Cremlino spera che il nuovo assetto mediorientale possa dare un’ulteriore spallata all’ordine mondiale a guida americana. Su questo, Mosca non ha dubbi. La Pax Americana è !nita. Mosca e Pechino devono dunque costruire un sistema diverso, centrato sull’Eurasia (Europa esclusa?), con tanto di propaggine mediorientale.
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2. Che la crisi israeliano-palestinese abbia distolto lo sguardo della comunità internazionale dal campo di battaglia ucraino è innegabile. Ma nemmeno la Russia ha ottenuto enormi vantaggi. Gli Stati Uniti continuano infatti a fornire a Kiev il necessario per difendersi e non sembrano avere alcuna intenzione di abbandonare il Medio Oriente. Da questo quadro Mosca non trae alcun bene!cio. Anzi, il con"itto tra Israele e Õamås potrebbe costringere la Russia a scontentare una tra Teheran e Gerusalemme. L’Iran e lo Stato ebraico sono infatti acerrimi nemici, ma sono entrambi compagni di strada del Cremlino. Il primo arma i russi in Ucraina, mentre il secondo non fornisce a Kiev le risorse belliche richieste. Non a caso, prima del 7 ottobre le autorità ucraine avevano più volte tirato le orecchie a quelle israeliane, ree di aver collaborato con la Federazione Russa e di aver lasciato impunite persino le «dichiarazioni antisemite di Putin e dei suoi tirapiedi». In un comunicato del giugno scorso rilasciato dall’ambasciata di Kiev a Tel Aviv, si ricordava come il popolo ucraino e la sua comunità ebraica fossero da
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2. L. BERMAN, «Ukraine’s envoy to be summoned after he blasted Israel’s stance on war», The Times of Israel, 27/6/2023. 3. M. MIROVALEV, «“Not pro-Israeli”: Decoding Putin’s muted response to Hamas attacks», Al Jazeera, 12/10/2023. 4. L. BERMAN, op .cit. 5. B. ARIS, «Is the Kremlin behind Hamas’ attack on Israel?», intellinews.com, 11/10/2023. 6. «Rossija gotovit provokaciju protiv Ukrainy ispol’zuja napadenie boevikov Khamas na Izrail’ – razvedka Ukrainy» («La Russia prepara una provocazione contro l’Ucraina, utilizzando l’attacco dei militanti di Õamås contro Israele – intelligence ucraina»), Novaya Gazeta, 9/10/2023. 7. L. GANKIN, «Aleksandr Ben Cvi: “Utverždenija o pri0astnosti k napadeniju Rossii – polnaja erudna”» («Alexander Ben Zvi: “Le accuse sul coinvolgimento russo nell’attacco sono completamente insensate”»), kommersant.ru, 11/10/2023.
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mesi vittime di russi e iraniani. Il comunicato stigmatizzava dunque la neutralità di Israele, che osava interfacciarsi con Mosca. In conclusione, le autorità ucraine invitavano lo Stato ebraico a sostenere l’Ucraina, per farsi trovare «dalla parte giusta della storia!». La risposta di Gerusalemme è stata piuttosto piccata. Tuttavia, dopo l’attacco di Õamås l’atteggiamento di Zelens’kyj è cambiato. Egli si è immediatamente schierato al !anco di Israele, con l’obiettivo di far ricadere la colpa di quanto avvenuto sulla Russia, bollata terrorista tanto quanto Õamås 2. Il leader ucraino non nasconde la preoccupazione per il possibile rallentamento degli aiuti economici e militari causato dalla crisi mediorientale. Gli ucraini sono infatti certi che l’obiettivo non dichiarato del Cremlino sia incendiare il Medio Oriente per esasperare le divisioni tra i principali attori internazionali 3. Russia e Ucraina si accusano reciprocamente anche sulla questione delle armi che dai campi di battaglia ucraini sono !nite nelle mani degli uomini di Õamås. Già a inizio estate, infatti, Netanyahu giusti!cava la mancata assistenza militare a Kiev col timore che gli armamenti consegnati all’Ucraina potessero !nire in mani iraniane. Il premier israeliano spiegava che ciò era già successo con delle «armi anticarro occidentali che oggi troviamo alle nostre frontiere» 4. Una volta scoppiata la crisi, è dunque partito il botta e risposta tra Mosca e Kiev. I russi, anche per bocca di Dmitrij Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza, affermano di essere certi che armi targate Nato siano !nite nei covi dei militanti palestinesi grazie all’ampia rete di corruzione gestita dalle autorità ucraine 5. Gli ucraini, dal canto loro, sostengono che la Russia abbia fornito a Õamås armi di fabbricazione americana ed europea conquistate in battaglia. Le accuse verso Kiev sarebbero dunque infondate 6. L’obiettivo di queste dichiarazioni è ovviamente far ricadere su Mosca la responsabilità dell’assalto in terra d’Israele di inizio ottobre. Tuttavia, l’ambasciatore israeliano a Mosca Alexander Ben Zvi ha immediatamente de!nito questa tesi una «totale sciocchezza». Egli si dice sicuro dell’estraneità della Russia e ritiene che sia un errore credere che gli Stati Uniti saranno costretti a «reindirizzare» verso Israele ingenti risorse. Tradotto: l’attenzione occidentale sul fronte ucraino non sarà compromessa. E i russi ne sono ben consapevoli 7. È senza dubbio vero che il Cremlino ha intrapreso una crociata contro l’Occidente e il sistema globale a guida americana. E, ovviamente, i russi sono pronti a sfruttare ogni divisione del fronte avversario. Tuttavia, la Russia non avrebbe mai scatenato una guerra che rischia di mettere a repentaglio i suoi rapporti geopolitici
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ed economici con gli attori mediorientali e nordafricani più in!uenti. Il con!itto in Medio Oriente, infatti, potrebbe destabilizzare ulteriormente la Siria. Ciò sarebbe pericolosissimo per Mosca, dal momento che in quel paese vi sono fondamentali basi militari e navali che le permettono di avere una diretta proiezione mediterranea e, dunque, oceanica. Inoltre, fomentare una guerra in Medio Oriente potrebbe anche minare la sicurezza interna della Russia. Esiste infatti la possibilità di una recrudescenza del terrorismo, dal momento che le organizzazioni islamiste potrebbero fare proseliti tra i circa venti milioni di musulmani che vivono nel paese. Molti di questi abitano nel Caucaso russo, a ridosso di quel con"ne meridionale che Mosca vuole mantenere quanto più tranquillo possibile. Spremuta dal costo della guerra e delle sanzioni, Mosca ha infatti bisogno di un Caucaso stabile, in modo da poterlo utilizzare come trampolino di lancio per ampliare i suoi orizzonti strategici ed economici. Tuttavia, se il con!itto tra Õamås e Israele dovesse allargarsi a tutto il Medio Oriente dif"cilmente lo spazio caucasico ne sarebbe risparmiato. 3. Il Caucaso meridionale non è inserito nelle mappe che disegnano i con"ni del Medio Oriente, neanche di quello allargato. Eppure, nella piccola regione ex sovietica si giocano decisive partite geopolitiche che coinvolgono – oltre alla Russia, ancora ineludibile potenza regionale – tutti i massimi attori mediorientali: Iran, Turchia e Israele. Georgia, Armenia e Azerbaigian soffrono da oltre trent’anni dei postumi dovuti alla caduta dell’Urss, tra rivoluzioni colorate, guerre congelate e altre guerreggiate. E vista la loro posizione sul mappamondo come anello di congiunzione tra gli strategici Mar Nero/Caspio e di separazione tra Federazione Russa e Medio Oriente è facile immaginare altri potenziali grattacapi regionali dovuti a crisi da sanare e interessi contrastanti tra potenze con"nanti e non. In questo contesto, il Cremlino tende a muoversi «con discrezione». Tradotto: la Federazione Russa cerca di anteporre gli interessi economici e le alleanze strategiche a quei legami di vecchia data che oggi non garantiscono più particolari dividendi. La Russia sta dunque cercando di allargare le sue relazioni politiche e commerciali, prendendo in considerazione gli interessi degli altri attori regionali. Questa postura è stata interpretata da molti come un segno di debolezza strutturale, derivante dall’incapacità di esercitare una reale in!uenza. Ciò varrebbe sia per il con!itto israelo-palestinese sia per la recente vicenda del Nagorno Karabakh. Nel confronto tra Baku ed Erevan, la Russia ha infatti lasciato gli azeri liberi di recuperare la regione. Mosca ha dunque deciso di non difendere l’Armenia per non compromettere la relazione con l’Azerbaigian, paese protetto dalla Turchia e che ha con Israele uno stretto legame politico e militare (tra il 2016 e il 2020, Baku ha infatti acquistato il 70% delle sue armi dallo Stato ebraico, che ha a sua volta installato in territorio azero diversi centri di intelligence elettronica 8).
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8. J. FIORITI, «Israel among Armenia’s geopolitical concerns after Nagorno-Karabakh collapse», The Times of Israel, 2/10/2023.
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9. V. ABADŽJAN, «Armjano-rossijskie otnošenija na nynešnem etape: est’ li vykhod iz tupika?» («Le relazioni armeno-russe di oggi: esiste una via d’uscita dall’impasse?»), Russian International Affairs Council, 27/9/2023. 10. J. FIORITI, op. cit. 11. «V Abkhazii pojavitsja punkt postojannogo bazirovanija VMF Rossii» («In Abkhazia nascerà una base permanente per la Marina russa»), ria.ru, 5/10/2023.
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La Federazione Russa, del resto, era consapevole che Erevan le sarebbe rimasta comunque dipendente. Mosca mantiene infatti una base militare a Gyumri e la !tta rete di legami economici e !nanziari tra i due paesi non sarà facile da recidere. Forte di questo, e abbastanza indifferente agli attacchi verbali e non del governo armeno, il Cremlino ha scelto di non intervenire e di preservare i rapporti con Baku. I quali erano stati già formalizzati con l’accordo russo-azero, !rmato dai rispetti capi di Stato a poche ore dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina. Mosca intende dunque portare a termine i progetti per il corridoio Nord-Sud, sfruttando Baku e Ankara per alleviare il peso delle sanzioni. L’obiettivo è sia economico sia strategico. La Russia vuole infatti trasformare la Turchia in un fondamentale hub energetico, col sogno di strappare l’amico anatolico al campo occidentale 9. Inoltre, per la Federazione Russa è fondamentale tenere l’Occidente lontano dal Caucaso, per evitare che esso freni i piani di sviluppo eurasiatici a cui stanno lavorando sia Mosca sia Pechino. Compito arduo, forse impossibile. Anche perché nulla assicura che l’Iran, collaudato partner regionale oggi altamente utile ai russi nel con#itto contro Kiev, veda di buon occhio una tale operazione. Il Caucaso meridionale è dunque una regione in cui potrebbero svilupparsi nuove crisi. In quanto appendice di un Medio Oriente in subbuglio, il suo destino è legato a doppio !lo all’evoluzione del con#itto ucraino e di quello israelo-palestinese. Oltre che, ovviamente, allo scontro già in atto tra una Russia che si sente padrona di casa e un Occidente sempre più interessato alle potenzialità strategiche della regione. La prossima turbolenza potrebbe veri!carsi ancora in Armenia, in occasione della costruzione del corridoio di Zangezur che Baku, ma anche Ankara, vorrebbero sviluppare per collegare l’Azerbaigian alla sua exclave occidentale di Naxçıvan, senza dover passare per l’Iran. Tale varco è essenziale per permettere alla Turchia di proiettarsi verso l’Asia centrale. Il punto è che questo corridoio dovrebbe passare attraverso una porzione di territorio armeno, che la leadership azera continua però a de!nire «Azerbaigian occidentale» 10. Nella regione, poi, vi sono anche altri focolai d’instabilità. Il più evidente è quello che riguarda le due repubbliche separatiste dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud. In questo contesto non è possibile escludere un confronto bellico tra la Russia, punto di riferimento regionale e protettrice delle repubbliche, e la Georgia, che ne rivendica il controllo. Del resto, è già avvenuto nel 2008. Tuttavia, bisogna tenere presente che a breve la Russia installerà una base navale in Abkhazia 11. Affacciandosi sul Mar Nero, essa diventerà strategica per Mosca, anche per quanto riguarda la guerra d’Ucraina. La rinnovata importanza dell’Abkhazia per il Cremlino, dunque, potrebbe dissuadere Tbilisi dalla tentazione di riprendersi con la forza le due entità autoproclamatesi indipendenti.
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4. «La storia post-sovietica sta giungendo al termine, e una nuova epoca ha preso il via proprio con la crisi per il controllo del Nagorno Karabakh». Ri!essione interessante, espressa dal direttore di Russia in Global Affairs Fëdor Luk’janov. L’esperto, tra i più ascoltati in terra russa, è convinto che l’equilibrio post-guerra fredda sia oramai "nito. Nella nuova congiuntura, ogni entità statuale nata dalle ceneri dell’Unione Sovietica dovrà misurarsi con un mondo in frenetica evoluzione 12. Russia compresa. Mosca, dopo aver rinunciato a ogni forma di collaborazione con l’Occidente a guida americana, dovrà dunque impegnarsi a ritagliarsi un posto nel nuovo ordine internazionale. Anche secondo Andrej Kortunov, direttore del Russian International Affairs Council, l’attuale fase geopolitica è caratterizzata da un vero e proprio cambio di paradigma. Il «sistema globale» si sta infatti velocemente disintegrando, complici le crisi scoppiate in Ucraina, nel Sahel, nel Caucaso meridionale e, da ultimo, in Israele/Palestina. Tutti questi con!itti, lungi dall’essere meramente regionali, hanno in realtà una valenza planetaria 13. Essi sono segni inequivocabili di un cambiamento epocali, che la Russia si candida a indirizzare per il verso giusto. Per Putin, questa è una missione. L’obiettivo è costruire un nuovo e più giusto ordine mondiale, diverso da quello a guida occidentale. Secondo il presidente russo, infatti, gli americani e i loro alleati hanno sistematicamente ignorato le proposte russe per un’«interazione costruttiva». Inoltre, l’Occidente non si è mai davvero preoccupato degli interessi di sicurezza della neonata Federazione Russa, interpretando le richieste di Mosca come un segnale di debolezza 14. Oggi, però, le cose sono cambiate. Secondo il leader del Cremlino, la Russia è più forte e il multipolarismo è ormai un dato di fatto. Esso è reso inevitabile dal crescente peso internazionale di paesi non inseriti a pieno titolo nel campo occidentale: India, Brasile e, soprattutto, Cina. Insomma, Mosca e Pechino sono oramai abbastanza forti per guidare insieme il cambiamento, lavorando "anco a "anco secondo il mantra dell’«amicizia senza limiti» coniato da Xi Jinping 15. Secondo il Cremlino, dunque, la guerra israelo-palestinese va calata in un contesto più ampio, caratterizzato dal venir meno delle gerarchie imposte dal morente ordine internazionale a guida americana. Mosca deve quindi porsi alla testa di un ampio gruppo di paesi pronto a ribellarsi al neocolonialismo occidentale. La Russia ha davanti a sé un mondo nuovo. Ma dovrà reggersi da sola. E non camminare all’ombra di qualcun altro.
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12. F. LUK’JANOV, «Karabakh Has Become a Symbol of the Beginning and the End of the Post-Soviet Period», globalaffairs.ru, 10/7/2023. 13. A. KORTUNOV, «Past the Point of No Return», Russian International Affairs Council, 20/10/2023. 14. L. LATYPOVA, «Explainer: What Does Russia’s Exit From the Convention on National Minorities Mean?», The Moscow Times, 19/10/2023. 15. A. KORTUNOV, op. cit.
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L’UCRAINA TEME L’EFFETTO ISRAELE
di
Mirko MUSSETTI
Zelens’kyj si sbraccia per ricordare agli Usa che combattere Mosca conta quanto difendere Gerusalemme. E quindi per evitare che il flusso di armi destinate a Kiev si riduca. A Netanyahu non interessano le photo opportunity con il leader ucraino.
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1. «“L’Évènement, l’interview”. Avec Volodymyr Zelensky», France 2, 10/10/2023. 2. «European Commission President compares Russia to Hamas», Ukrainska Pravda, 20/10/2023.
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1. « È IL RISCHIO CHE L’ATTENZIONE INTERNAZIONALE si distolga dall’Ucraina e questo avrà delle conseguenze. Le tragedie che colpiscono il mio paese e Israele sono diverse, ma entrambe sono immense» 1. Così parlava ai microfoni di France 2 il presidente Volodymyr Zelens’kyj alla vigilia della sua prima visita al quartier generale della Nato a Bruxelles, dove avrebbe incontrato i ministri della Difesa del Patto Atlantico. Il leader del paese invaso dalla Federazione Russa il 24 febbraio 2022 vede materializzarsi quella «Ukraine fatigue» paventata mesi fa dall’ex primo ministro del Regno Unito Boris Johnson. La serpeggiante stanchezza da guerra in Occidente è la peggiore delle notizie possibili per l’ex attore di Kryvyj Rih. Infatti Kiev è totalmente dipendente dalle cancellerie occidentali sia per quanto riguarda le vitali, o per meglio dire mortali, forniture belliche sia per ciò che attiene all’onerosissimo ausilio "nanziario. L’offensiva condotta dalle milizie di Õamås contro lo Stato di Israele il 7 ottobre 2023 ha adombrato all’istante la sanguinosissima guerra d’attrito tra Russia e Ucraina. Almeno sotto il pro"lo mediatico e diplomatico. Al punto che, nel tentativo di evitare lo slittamento del proprio paese in seconda posizione nelle priorità occidentali, Zelens’kyj ha equiparato il presidente russo Vladimir Putin ai terroristi del Movimento di resistenza islamico e ha chiesto «maggiore pressione sulla Russia». Diversi notabili di Kiev non hanno mancato di avanzare la bizzarra ipotesi del coinvolgimento diretto di Mosca nella piani"cazione e nella conduzione degli attentati nei kibbutzim israeliani. Simili congetture sono state espresse in seguito e in modo quasi coordinato dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen 2
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e dall’inquilino della Casa Bianca Joe Biden 3 al rientro dal suo viaggio a Tel Aviv. Tali accuse sono completamente «inaccettabili» per il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov: «C’è molta emozione nei discorsi di diversi politici, anche di alto rango, e statisti. Ma una tale retorica dif"cilmente si addice a leader responsabili. Ed è improbabile che una simile narrazione possa risultare accettabile per noi» 4. La teoria della saldatura tra Russia e gruppi terroristici armati del Levante è funzionale in Occidente a generare l’idea di un «asse del male» da contrastare simultaneamente in più aree geogra"che. Tuttavia, una simile congettura è snobbata dallo Stato ebraico, prima vittima degli attacchi di Õamås e nemico esistenziale del gruppo paramilitare palestinese. A Zelens’kyj, che si è autoinvitato in Israele per esprimere solidarietà al popolo ebraico, le autorità di Gerusalemme hanno opposto un secco diniego: «Questo non è il momento giusto» 5. Salvo ricevere chi conta davvero pochi giorni dopo. Il presidente degli Stati Uniti e i capi di governo di paesi gregari ma amici. Incluso il premier della Romania Ion-Marcel Ciolacu, primo politico straniero a far visita al premier Binyamin Netanyahu, da cui è stato accolto così: «Signor Ciolacu, apprezziamo molto la sua visita per stare con il popolo di Israele in un momento di grande tumulto» 6. Un vero schiaffo per Zelens’kyj, che in passato ha fatto leva sulla propria fede ebraica per contrastare la propaganda russa sulla denazi"cazione dell’Ucraina. Nel momento di massimo cimento, Gerusalemme mostra di non aver pazienza per evanescenti panegirici e photo opportunity. Semmai guarda agli aspetti pratici, per superare il momento di dif"coltà. Una delegazione ucraina in Israele avrebbe inevitabilmente avanzato richieste di ausilio militare, come già fatto in passato per i sistemi terra-aria Kippat Barzel (Iron Dome) e Fionda di Davide. In questa fase lo Stato ebraico non prende in considerazione neanche l’alienazione di un piccolo numero di batterie e proiettili anti-aerei. Anzi, ha chiesto al dipartimento della Difesa degli Stati Uniti di restituire due sistemi missilistici Iron Dome precedentemente venduti alle Forze armate a stelle e strisce. E il Congresso americano sarebbe pronto a esaudire la richiesta. Gerusalemme vede di buon occhio i rapporti bilaterali con la Romania e spera di rafforzare le collaborazioni militari. L’azienda israeliana Elbit Systems è presente da anni nel paese carpatico-eusino, producendo a Măgurele (Muntenia) e Bacău (Moldova) sistemi per la difesa terrestre e componentistica per droni Hermes 450, idonei a missioni di ricognizione e sorveglianza. La società di Haifa spera di aprire una nuova fabbrica nel paese neolatino per la manutenzione e l’assemblaggio integrale di droni, ef"cientando la produzione in serie dei velivoli e munizioni circuitanti che stanno facendo la differenza nei con#itti armati moderni.
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3. «Remarks by President Biden on the United States’ Response to Hamas’s Terrorist Attacks Against Israel and Russia’s Ongoing Brutal War Against Ukraine», whitehouse.gov, 20/10/2023. 4. «Kremlin slams Biden’s words on Putin and Hamas as unacceptable», Tass, 20/10/2023. 5. «Zelensky wanted to make solidarity visit but was told “time not right” – Reports», The Times of Israel, 16/10/2023. 6. Pro"lo Twitter/X del primo ministro di Israele.
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Se per ovvie ragioni di adiacenza geogra!ca la guerra d’Ucraina costituisce la principale preoccupazione per la Romania, quest’ultima è altrettanto consapevole che la sua difesa dall’assertività russa passa in larga misura dalla tecnologia e dal know-how israeliano. In tale cornice deve essere letta l’apprezzata visita di Ciolacu a Gerusalemme, che Bucarest riconosce come capitale di Israele.
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7. E. SMITH, «U.S. can “certainly” afford military support to both Israel and Ukraine», Cnbc, 16/10/2023. 8. «Press Brie!ng by Press Secretary Karine Jean-Pierre and NSC Coordinator for Strategic Communications John Kirby», whitehouse.gov, 11/10/2023. 9. «Secretary Antony J. Blinken and Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu After Their Meeting», whitehouse.gov, 12/10/2023.
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2. Gli Stati Uniti dovranno presto decidere come impiegare le limitate risorse – !nanziarie e soprattutto militari – a supporto degli alleati in dif!coltà. Dovranno darsi delle priorità di intervento, creando una classi!ca dei paesi più meritevoli di sostegno. Viene prima l’Ucraina o Israele? Qual è la prima destinazione delle forniture di armi? Il segretario al Tesoro degli Stati Uniti Janet Yellen ha detto che Washington può «assolutamente» permettersi di sostenere !nanziariamente sia Kiev sia Gerusalemme nei rispettivi sforzi bellici 7. Questo assunto smentisce le recenti e franche parole del portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale John Kirby sugli affanni americani nell’affrontare un doppio gravoso impegno: «Siamo alla !ne della corda». Il riferimento ai fondi destinati a Kiev non è relativo solo alle dif!coltà attuali del Congresso Usa nell’approvare nuovi pacchetti di aiuti militari per l’Ucraina, ma più in generale alla stanchezza americana nel sussidiare una guerra per procura: «Quest’oggi abbiamo annunciato 200 milioni di dollari e continueremo a fornire tali aiuti il più a lungo possibile, ma non a tempo indeterminato» 8. A supporto del doppio impegno a oltranza si è speso direttamente anche il segretario di Stato Usa Antony Blinken. Incontrando Netanyahu il 12 ottobre, il capo della diplomazia americana ha cercato in modo assai elegante di unire i puntini delle minacce alla stabilità globale, ricorrendo con pathos al proprio albero genealogico: «Sono qui davanti a voi non solo come segretario di Stato degli Stati Uniti, ma anche come ebreo. Mio nonno Maurice Blinken ha combattuto i pogrom in Russia. Il mio patrigno Samuel Pisar è sopravvissuto ai campi di concentramento: Auschwitz, Dachau e Majdanek. Quindi capisco a livello personale gli echi strazianti che i massacri di Õamås comportano per gli ebrei israeliani; anzi, per gli ebrei di tutto il mondo» 9. Il riferimento alla Russia non è una grossolana svista, bensì un sottile tentativo di fare del grande rivale nucleare un capro espiatorio di tutti i mali passati e presenti, compresi quelli incarnati dal gruppo terrorista palestinese. Le radici ancestrali di Blinken affondano infatti a Perejaslav, località un tempo di lingua yiddish nella regione di Kiev. Il segretario di Stato ha accuratamente evitato di sottolineare che i massacri e le discriminazioni nei confronti degli ebrei nell’area erano in larga misura praticati dalla maggioranza etnica ucraina sia durante il periodo zarista sia sotto il giogo sovietico.
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Comunque si tratta di sottigliezze retoriche che dif!cilmente potranno fare breccia in Israele: il governo Netanyahu ha più volte dimostrato di non voler compromettere in via de!nitiva i legami storici tra Stato ebraico e Russia. Sia per vicissitudini interne sia per motivi esterni. La cittadinanza israeliana che vanta legami ancestrali con le repubbliche ex sovietiche – in particolare con la Russia stessa – è piuttosto nutrita e contraria alla loro recisione. Inoltre, Mosca e Gerusalemme non paiono intenzionate a calpestarsi i piedi in Medio Oriente. Non è obiettivo israeliano inimicarsi le Forze armate della Federazione, che sulle coste della Siria dispone di ben due basi militari: navale a ¡år¿ûs e aerea a Õumaymøm (nei pressi di Latakia). In!ne, Israele non vuole saperne di ostruzioni diplomatiche, politiche o militari moscovite in Azerbaigian, dove l’intelligence militare di Tel Aviv coopera intensamente con gli apparati locali in funzione anti-iraniana. 3. La freddezza di Gerusalemme nei confronti dell’Ucraina è palpabile, così come il crescente disinteresse occidentale per le sorti del paese invaso dalla Russia alle porte di una nuova gelida stagione. È dato ormai per assodato dagli analisti occidentali il remake del !lm militaresco che ha visto come protagonista il generale Inverno alla !ne del 2022. Anche quest’anno, le Forze armate di Mosca potrebbero tornare a bersagliare le infrastrutture energetiche e idriche per piegare la volontà di resistenza del popolo ucraino e saturare contestualmente le difese aeree di Kiev, già in forte carenza di missili intercettori. L’inverno scorso, l’Ucraina ha potuto contare su una mobilitazione occidentale anche privata, per esempio con la donazione di generatori elettrici e beni essenziali per i cosiddetti centri dell’invincibilità. Ma una medesima solidarietà anche per quest’anno non può essere data per scontata. Durante l’ultima riunione del gruppo di Ramstein, ovvero dei paesi materialmente coinvolti nel supporto bellico alla repubblica ex sovietica, il segretario alla Difesa Usa Lloyd Austin non ha nascosto la propria apprensione per la tenuta delle difese aeree di Kiev: «Non bisogna sottovalutare il grado di frustrazione di Putin. Dobbiamo prepararci a nuovi bombardamenti russi in inverno con missili e droni» 10. Ma i sistemi difensivi che verranno consegnati all’Ucraina non potranno evidentemente essere trasferiti in Israele, i cui cieli sono sovente saturati dai razzi di Õamås provenienti dalla Striscia di Gaza e da quelli di Õizbullåh scagliati dal Libano. Se le nove batterie Iron Dome non dovessero risultare suf!cienti per un con#itto armato allargato o se i missili operati dalla Cupola dovessero esaurirsi, le Forze di difesa israeliane si vedrebbero costrette a chiedere rinforzi materiali all’Occidente. Non solo in termini di vettori per la contraerea, ma anche di proiettili per l’artiglieria. Il problema è che i magazzini dell’Europa occidentale sono stati in larga misura svuotati e che le cancellerie del Vecchio Continente potrebbero ritrovarsi in primo luogo a dovere rimpiazzare gli armamenti che la guerra per procura in Ucraina ha sottratto alle loro disponibilità.
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10. D. LAMOTHE, E. RAUHALA, F. VINALL, A. SULIMAN, S. WESTFALL, «Ukraine live brie!ng: Zelensky at NATO headquarters; Austin announces new $200M security package», The Washington Post, 11/10/2023.
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Kiev ha mangiato la foglia. Per questa ragione le alte cariche fanno sfoggio dei successi parziali ottenuti sul campo, sebbene la tanto sbandierata «controffensiva di primavera» si sia rivelata a oggi un grande !asco. Le Forze armate del difensore non sono riuscite a sfondare le spesse linee difensive russe (denti di drago, campi minati, trincee e casematte) che costellano la lunghissima linea di contatto che dalla Penisola di Kinburn alla foce del Dnepr si srotola !no al !ume Oskil, nel Donbas settentrionale. La riconquista dei territori perduti è dunque assai lontana nel tempo e forse non realmente praticabile. Durante la «sosta» invernale, quando le manovre belliche saranno meno probabili, i russi continueranno quasi certamente a rafforzare la cosiddetta «linea Surovikin» (dal nome del generale che l’ha fortemente voluta) aggiungendo ulteriori tratti paralleli di protezione nelle retrovie. Per dimostrare che le armi occidentali consegnate a Kiev trovano giusto impiego – e che quindi il loro trasferimento non deve subire soste – Zelens’kyj si è affrettato a confermare il primo utilizzo al fronte dei missili Mgm-140 Atacms a medio raggio di produzione statunitense. A pochi giorni dall’attacco di Õamås contro Israele, le Forze armate ucraine hanno colpito con i preziosi vettori due aeroporti e depositi di munizioni nelle oblast’ di Luhans’k e Zaporižžja, distruggendo almeno nove elicotteri militari delle forze occupanti e uccidendo diversi soldati russi. Il «piccolo numero» 11 di Atacms promesso da Biden a Zelens’kyj a margine dell’ultima Assemblea Generale dell’Onu ha permesso a Kiev di ottenere un successo tattico contenuto ma rincuorante. Perciò il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba ha espresso la speranza che Washington fornisca in futuro missili Atacms privi di limitazioni, cioè con una gittata di 300 chilometri.
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11. C. KUBE, J. TSIRKIN, M. ALBA, G. GUTIERREZ, «Biden tells Zelenskyy that U.S. will send Ukraine ATACMS long-range missiles», Nbc news, 22/9/2023.
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4. L’Ucraina dipende ormai completamente dalle forniture belliche occidentali, ma la produzione in serie non è tale da stare al passo con una guerra a così alta intensità. La carenza di proiettili per l’artiglieria spinge Kiev a domandare sistemi d’arma sempre più so!sticati e costosi allo scopo di colpire i depositi russi nelle oblast’ occupate o addirittura in profondità nel territorio della Federazione. Le Forze armate capeggiate dal generale Valerij Zalužnyj vogliono così riequilibrare la potenza di fuoco e rendere sempre più onerosa la presenza delle truppe nemiche sul suolo ucraino. Speranza legittima, ma estremamente costosa e non immediatamente praticabile per i partner occidentali. L’uso di missili da crociera italo-franco-britannici a medio raggio Scalp – rinominati Storm Shadow a Londra – ha subìto uno stop: semplicemente lo slot consegnato dal governo di Rishi Sunak è stato perlopiù consumato. I risultati prodotti non sono stati tali da apportare una svolta signi!cativa nel con$itto. La Germania ha osservato con attenzione gli sviluppi e deciso che la consegna dei similari missili tedesco-svedesi Taurus Kepd 350 non andava approvata. Da Pechino, Putin – ospite di Xi Jinping in occasione del Belt and Road Forum – ha ironizzato sulla esternazione di Biden secondo cui Mosca «ha già perso la
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guerra» dicendo: «Allora perché fornire gli Atacms? Che si riprenda gli Atacms e tutte le altre armi, si sieda a mangiare delle frittelle e venga da noi a prendere un tè» 12. Questo invito può alludere a un cordiale negoziato o a una "ne prematura, se si considera la famigerata tecnica della bevanda avvelenata assai in voga presso i servizi segreti di Mosca. Parafrasando: gli Atacms fanno male ma non incidono, la Russia non sta perdendo la guerra e Biden è un anziano signore che ha bisogno di riposo. Forse c’è del vero nelle sarcastiche parole dell’ex agente del Kgb. 5. Per l’Ucraina si avvicinano tempi forse ancor più cupi. La tenuta del fronte occidentale, sempre più stanco della guerra e diviso sulle priorità da seguire in politica estera, è a rischio. La campagna elettorale per le parlamentari in Polonia ha messo in luce una certa distanza tra Varsavia e Kiev su diversi temi scottanti quali derrate agricole, rifugiati ucraini, armi moderne e massacri dei polacchi in Volinia durante la seconda guerra mondiale. Inoltre, le elezioni in Slovacchia hanno premiato un fronte partitico "lorusso. Soprattutto, il 2024 sarà caratterizzato dalle presidenziali nella Federazione Russa – che quasi certamente vedranno Putin vittorioso – e dalla lunghissima (e forse estenuante) campagna che porterà all’elezione del prossimo presidente degli Stati Uniti. Nell’ambito del sistema uninominale secco, rendere conto a elettori e contribuenti delle sezioni locali in merito a come vengono spesi i loro soldi è essenziale per aggiudicarsi l’unico seggio contendibile. Una buona parte dei membri del Partito repubblicano sta già provvedendo a riallineare la propria narrazione politica, mostrandosi pubblicamente riluttante a "nanziare a oltranza l’ennesima guerra senza "ne. Le vicissitudini interne all’America possono dunque danneggiare direttamente l’Ucraina e le élite al potere. Il fatto che questo autunno non si tengano le elezioni quinquennali per rinnovare la Verkhovna Rada (parlamento monocamerale) e che in conformità alla legge marziale la prossima primavera gli ucraini non potranno recarsi alle urne per votare il nuovo capo di Stato potrebbe generare ulteriore stigma verso la classe politica locale. La centralizzazione spinta dei poteri nelle mani del presidente di guerra Zelens’kyj e la sospensione a tempo indeterminato dell’iter democratico potrebbero col tempo infastidire i governi occidentali e sciupare la nobile retorica sui loro valori, sposati e difesi da Kiev con versamento di sangue. Il tutto mentre l’«unica democrazia» del Medio Oriente – Israele – lotta per la sopravvivenza e domanda supporto incondizionato all’Occidente. La crisi tra Gerusalemme e mondo arabo-islamico, le esigenze umanitarie della Palestina e le attività terroristiche di Õamås e Õizbullåh possono calamitare le attenzioni delle volubili cancellerie occidentali, lasciando l’Ucraina orfana del fervido sostegno materiale e spirituale che ha caratterizzato il primo anno e mezzo di guerra.
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12. A. ROTH, «Putin calls US supply of ATACMS weapons to Ukraine “another mistake”», The Guardian, 18/10/2023.
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PERRY ANDERSON - Storico. LEONARDO BELLODI - Senior Advisor alla Libyan Investment Authority e segretario generale del Marco Polo Council. EDOARDO BORIA - Geografo al dipartimento di Scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma, è titolare degli insegnamenti di Teorie e storia della geopolitica e di Metodologia per l’analisi geopolitica. Consigliere scienti!co di Limes. GIORGIO CAFIERO - Amministratore delegato del Gulf State Analytics di Washington. Adjunct Assistant Professor alla Georgetown University e Adjunct Fellow all’American Security Project. PAOLA CARIDI - Saggista, storica. Corrispondente prima al Cairo, poi per dieci anni a Gerusalemme per Lettera22, di cui è presidente e cofondatrice. Autrice di Hamas (nuova edizione 2023). ANTONELLA CARUSO - Direttore esecutivo della Fondazione Vittorio Dan Segre. Consigliere scienti!co di Limes. ANNA MARIA COSSIGA - Analista di questioni internazionali e antropologa religiosa. NICOLA CRISTADORO - Analista militare. GIORGIO CUSCITO - Consigliere redazionale di Limes. Analista, studioso di geopolitica cinese. Cura per limesonline.com il «Bollettino imperiale» sulla Cina. Coordinatore relazioni esterne e Club Alumni della Scuola di Limes. MAURO DE BONIS - Giornalista, redattore di Limes. Esperto di Russia e paesi ex sovietici. UMBERTO DE GIOVANNANGELI - Giornalista, esperto di Medio Oriente. GIUSEPPE DE RUVO - Dottorando in Filoso!a allo European Center for Social Ethics (Ecse) dell’Università Vita-Salute di Milano. Collaboratore di Limes. GERMANO DOTTORI - Consigliere scienti!co di Limes. MEIR ELRAN - Ricercatore all’Institute for National Security Studies (Inss) e capo dell’Homeland Security Program. GUGLIELMO GALLONE - Laureando magistrale in Relazioni internazionali all’Università La Sapienza di Roma. Collabora con Limes e con L’Osservatore Romano. MARIO GIRO - Già viceministro degli Esteri della Repubblica Italiana. ISMÅ‘ØL HANIYYA - Primo ministro e capo dell’Uf!cio politico di Õamås, ospite del Qatar. MARY BETH LONG - Già assistente al segretario della Difesa degli Stati Uniti per gli Affari di sicurezza internazionale (2007-9).
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ov FABRIZIO MARONTA - Redattore, consigliere scienti!co e responsabile relazioni internazionali di Limes. ALEKSEJ MILLER - Dottore in Scienze storiche, professore all’Università Europea di San Pietroburgo, supervisore accademico del Centro russo per lo studio della memoria culturale e la politica dei simboli. ORIETTA MOSCATELLI - Caporedattore politica internazionale dell’agenzia askanews. Si occupa di Russia ed Europa dell’Est. Coordinatrice Eurasia e Iniziative speciali di Limes. Autrice di P. Putin e putinismo in guerra (2022). MIRKO MUSSETTI - Analista di geopolitica e geostrategia. Scrive per Limes e InsideOver. Autore di La rosa geopolitica (2021). CESARE PAVONCELLO - Traduttore e freelancer. Collabora da anni con giornali e televisioni su questioni legate a Israele e al con"itto israelo-palestinese. NICOLA PEDDE - Direttore dell’Institute for Global Studies. FEDERICO PETRONI - Consigliere redazionale di Limes e coordinatore didattico della Scuola di Limes. DANIELE SANTORO - Coordinatore Turchia e mondo turco di Limes. LORENZO TROMBETTA - Corrispondente dal Medio Oriente, basato a Beirut, per Limes e Ansa. Autore, tra l’altro, di Negoziazione e potere in Medio Oriente. Alle radici dei con!itti in Siria e dintorni (2022). STEPHEN WERTHEIM - Storico e Senior Fellow all’American Statecraft Program del Carnegie Endowment for International Peace. BEN-DROR YEMINI - Giurista, giornalista, ricercatore e docente universitario. I suoi articoli sono pubblicati in vari giornali israeliani e internazionali.
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3-4. In geopolitica i rapporti di forza non derivano da diritti giuridici ma da una posizione di reale superiorità. Misurarli è un esercizio pragmatico e complesso. Pragmatismo e complessità sono ben esempli!cati dalla seguente precisazione: ciò che nel diritto internazionale si chiama «sovranità» e nel diritto privato «possesso», in geopolitica corrisponde ad «appropriazione effettiva».
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1-2. Ci dice Alessandro Barbero che il celebrato Regno d’Israele di Davide e Salomone è una leggenda, un mito. Archeologi e storici, anche e soprattutto ebrei, hanno dimostrato che mille anni prima di Cristo quella piccola regione non era posseduta da un potente regno ma solo attraversata da nomadi senza alcuna organizzazione. E Gerusalemme non era affatto la magni!cente città che è stata raccontata, ma probabilmente neanche una città. E del Tempio di Salomone, accuratamente identi!cato al centro della !gura 1, non è stata rinvenuta traccia, tanto che quella pianta si può considerare il frutto di una visione mistica genericamente ispirata dal Libro di Ezechiele. Però la leggenda del Regno d’Israele ha prodotto effetti politici visibili ancora oggi. Infatti, mentre è dubbio che l’appartenenza di un individuo a una nazione abbia un reale fondamento biologico, il sentimento che egli prova verso quella nazione non può che essere un dato psicologico, emotivo, irrazionale. E quindi deve essere costantemente alimentato se si vuole tenere viva l’identità nazionale. Pertanto, è anche grazie alla leggenda del Regno d’Israele che la nazione ebraica ha conservato nei secoli piena consapevolezza della propria individualità e del proprio territorio originario. Nell’armamentario di strumenti funzionali alla perpetuazione di tale memoria storica vi sono anche gli atlanti storici che lungo tutta la storia moderna hanno continuato a fornire informazioni cartogra!che sul passato di questo popolo. Ne è un esempio la carta della !gura 2 tratta da un atlante ottocentesco francese e intitolata «Regno degli israeliti sotto Davide e Salomone tra il 1055 e il 975 a.C.». Questa attenzione per la storia degli ebrei, dovuta anche alle sue connessioni con quella del cristianesimo, la cartogra!a moderna non l’ha riservata ugualmente ai palestinesi, che non a caso hanno cominciato a percepirsi comunità nazionale solo in tempi molto più recenti. È stata, in particolare, la nascita dello Stato di Israele nel 1948 che li compattò diffondendo sentimenti identitari !no a quel momento modesti se non del tutto assenti. Fonte !gura 1: Juan Bautista de Villalpando, Jerusalem, 1733, Biblioteca nazionale di Gerusalemme. Fonte !gura 2: Auguste-Henri Dufour, «Royaume des Israélites sous David et Salomon de 1055 à 975 avant J. C.», da Atlas Géographique pour servir a l’Histoire Universelle de l’Église Catholique, Gaume Frères et J. Duprey Éditeurs, Paris 1864, tavola 4.
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ov La differenza? Che non ci si basa su una concezione binaria e assoluta capace di distinguere unicamente tra il tuo e il mio. La geopolitica invece conosce, relativamente alle forme del rapporto tra poteri e territori, un’articolazione maggiore, che distingue tra molteplici modalità ben oltre le due classiche della sovranità propria o altrui. L’intensità del controllo di un territorio, la forza della presa che vi esercita un soggetto politico, non è «tutto o niente» ma conosce una gradazione che va dal dominio assoluto all’egemonia, alla sfera d’in!uenza "no al vuoto di potere. Anche quando il diritto internazionale ci dice che lì, in Yemen o a Haiti, c’è uno Stato e quindi teoricamente una sovranità. Imprigionata nell’ipocrisia formale di tale concezione legalistica, la carta geogra"ca tradizionale è in ambasce di fronte ai casi di contenzioso politico. Quando cioè, ci si trova di fronte a una situazione nella quale non si può parlare di sovranità dell’uno o dell’altro. Nel giugno 1967 Israele occupò militarmente Gaza e la Cisgiordania. Non ne rivendicò la sovranità ma di fatto li ha controllati implacabilmente "no a oggi (e ci possiamo scommettere anche domani). Cosa deve mostrare la carta? E come deve comportarsi con Gerusalemme est, annessa unilateralmente da Israele nel 1980? E con le già siriane alture del Golan, occupate dal 1981? Per tutti questi territori, le due carte delle !gure 3 e 4 ricorrono al medesimo accorgimento gra"co: il tratteggio obliquo, con tinta di base genericamente tratta dalla geogra"a "sica. È a questa indeterminatezza che la geopolitica prova a dare risposte. Fonte "gura 3: particolare riferito alla Striscia di Gaza sulla tavola «Israele e Libano meridionale», da Atlante del mondo, Selezione del Reader’s Digest, Milano 1990, pp. 120-121. Fonte "gura 4: particolare riferito alla Palestina sulla tavola «Vicino oriente», da Atlante Internazionale, Mondadori, Milano, 1976, p.118. 5. Gli occhi del mondo sono puntati su Gaza ma "brillano anche per un secondo fronte a nord pronto a incendiarsi da un momento all’altro. Riguarda la Galilea, regione storica tra il Mar Mediterraneo e il "ume Giordano rappresentata nella !gura 5. Di tutto questo territorio la città con più storia alle spalle, almeno per noi occidentali, è Acri (nella carta individuabile sulla costa mediterranea tra Nahariya e Haifa), per via della sua importanza al tempo delle crociate. Araba grazie a Saladino (1187) ma poi tornata cristiana con Riccardo Cuor di Leone (1191), fu elevata a capitale del regno crociato dopo la de"nitiva perdita di Gerusalemme. Evento che obbligò l’Ordine di San Giovanni, potentissima congregazione creata allo scopo di difendere i pellegrini diretti al Santo Sepolcro e i cristiani dell’area, a trasferirsi ad Acri. Le successive vicissitudini portarono l’ordine a trasferirisi prima a Cipro, poi a Rodi, in"ne a Malta, da cui prese il nome «Ordine di Malta». Fonte: Shmuel Katz, opuscolo realizzato dall’editore Lion the Printer per conto di Israel Government Tourist Corp., Gerusalemme, senza data (ma anni Sessanta del Novecento).
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