L'idea di letteratura in Italia 8842494143


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L'idea di letteratura in Italia
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Stefano Calabrese . L’idea di letteratura in Italia

Bruno Mondadori

Alla Giogi coraggiosa

© Edizioni Bruno Mondadori Milano, 1999

L’editore ringrazia Alina Fabrizio per il contributo redazionale alla realizzazione del libro. L’editore potrà concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un decimo

del presente volume. Le richieste vanno inoltrate a: Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell’ingegno (AIDRO), via delle Erbe 2, 20121 Milano, tel. e fax 02/809506. Progetto grafico: Massa & Marti, Milano.

La scheda catalografica è riportata nell’ultima pagina del libro. In copertina: Alberto Savinio, Le réve du poète, 1927, particolare.

Stefano Calabrese

L'idea di letteratura in Italia

M

Bruno Mondadori

Indice

via

Premessa

1

Letteratura universale: Dante Alighieri

11

Letteraturastoica: Francesco Petrarca

20

Letteratura oziosa: Giovanni Boccaccio

28

Letteratura speculativa: Giovanni Pico della Mirandola

36 46

Letteratura verbale: Angelo Poliziano “Slow literature”: Pietro Bembo

53 62 68 76

Endo-etteratura: Torquato Tasso Letteratura furiosa: Francesco Patrizi Letteratura pansemiotica: Emanuele Tesauro Letteratura apprensiva: Pietro Sforza Pallavicino Letteratura sapienziale: Gianvincenzo Gravina Letteratura di gusto: Ludovico Antonio Muratori

81 86

93

Letteratura originaria: Giambattista Vico

100 106 112

Letteratura sensistica: Cesare Beccaria

“Fast literature”: Vittorio Alfieri Letteratura culturale: Ermes Visconti

118. Letteratura infinita: Giacomo Leopardi 128. Letteratura reale: Alessandro Manzoni

139

Letteratura nazionale: Carlo Tenca

146

Letteratura vivente: Francesco De Sanctis

153

“Littérature trouvée”: Luigi Capuana

161

Letteratura regressiva: Giovanni Pascoli

169

Letteratura liberale: Benedetto Croce

177

Letteratura negativa: Luigi Pirandello

184

Letteratura debole: Renato Serra

190

Letteratura concessiva: Giacomo Debenedetti

199

Letteratura espressiva: Gianfranco Contini

207

Eso-letteratura: Pier Paolo Pasolini

215

Letteratura discreta: Italo Calvino

225

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

291

Indice dei nomi

Premessa

«Una società senza letteratura è perfettamente concepibile: essa potrà o sparire completamente o modificare a tal punto le sue condizioni di produzione, di consumo o di scrittura, insomma il suo valore, che

si dovrà cambiarle nome». Così ha scritto Roland Barthes poco prima di morire, e più di recente, grazie agli studi di Timothy J. Reiss (The Meaning of Literature,

1992), si è cominciato

a comprendere

come dietro la parola “letteratura” si celino patrimoni testuali assai differenti e talvolta funzioni incompatibili di epoca in epoca. Questo interesse “ontologico” è giustificato da almeno due ragioni. Innanzitutto la radicale trasformazione della sfera estetica,

di cui è un perspicuo indizio la morìa novecentesca dei generi letterari (decimata la letteratura d’occasione — sonetti per nozze, epistolari, compianti, odi

celebrative, segretari galanti, cioè prontuari della comunicazione sentimentale; sottoposte a carnefici-

na tragedia e commedia; debilitata la produzione di nuova poesia) e cause ben più efficienti l’inutilità funzionale, la sovraproduzione editoriale, l’impoverimento antropologico, cioè l'assenza di quei costumi sociali da cui la letteratura dovrebbe generarsi e in cui sarebbe suo compito, da ultimo, rifluire.

In secondo luogo, per motivi verosimilmente diversi da quelli elencati da George Steiner, a determinare condizioni di prognosi riservata sono stati gli indirizzi estetici o addirittura la filosofia dell’arte implicita in alcuni 777 critico-letterari degli ultimi VII

L’idea di letteratura in Italia

decenni, spesso tali da neutralizzare la buona volontà

dei lettori occorso — degli anni co è stato

più disarmati. Per quanti — come mi è si sono intellettualmente formati all’inizio settanta, un rimarchevole ruolo pedagogiper esempio svolto da strutturalismo e

semiologia, allora all'apice del successo, tanto da

limitarsi ormai a coordinare sul campo testuale le loro manovre strategiche. A attrarre gli strutturalisti erano le equivalenze, gli isomorfismi, gli elementi

ricorsivi; le differenze erano una questione di dettaglio, l’angusta poltrona che la storia si riservava per le pièces meglio allestite. Nella paraletteratura, invece, nulla era lasciato all’arbitrio del singolo. Oggi si può parlare di un’epistemologia comunista nel miglior senso etimologico della parola, un movimento che cercava ovunque l’egualitarismo, dietro la sollecitazione di un mercato che si organizzava per la prima volta su scala planetaria. L’innatismo chomskyano dava uguaglianza di possibilità alle lingue; Jakobson ne ricercava le identità misteriose; i formalisti grammaticalizzavano i capolavori della letteratura; Propp rilasciava alla fiaba — ossia al genere per eccellenza più dedito ai ghirigori della fantasia — certificati autoptici in cui i suoi trentuno organi vitali erano messi sotto formalina; Greimas sognava il racconto dei racconti, e con lui Borges. Questo ci veniva insegnato: demistificare i tratti leggendari dell’io creatore, attenersi a un immaginario scrupoloso, circumna-

vigare i perché per ristorarsi alle fonti del corze. Nell’ultimo capitolo di questo libro cerco di ricostruire la genesi dello strutturalismo e metterne in luce le straordinarie acquisizioni. Eppure, quello di cui noi giovani lettori andavamo in cerca era più o meno l’opposto. Il potere del dettaglio non cedeva in nulla a quello della struttura. È inesatto credere che leggendo assumessimo la condizione ideale del viaggiatore. L'impressione è invece che fossimo sempre di VIN

Premessa

ritorno da qualcosa, che cercassimo una prossimità familiare, che fuggissimo per mettere meglio radici lì dove eravamo sempre stati. La realtà era una semplice petizione di principio, ma proprio per ciò era

possibile affrontarla in un minaccioso duello, proprio per questo si riusciva a trovare l’irripetibile Jà dove gli altri non avrebbero constatato che la rout:ne. Come ha detto qualcuno, lo spaesamento era di casa. Intanto, mentre trascorrevamo il tempo ad annetterci l'impossibile, c'era chi stava per occupare a colpi di decreti-legge l’Università, uno dei pochi luoghi in cui ciò che andavamo facendo avrebbe potuto avere un riconoscimento pubblico. Intendo dire che il momento dell’espugnazione istituzionale e la sua esausta corzzoditas hanno finito per coincidere con una perdita della letteratura sul terreno stesso delle professioni liberali. Fino ad allora eravamo stati indirizzati ai vessatori curricula dei licei classici in base al fatto che un futuro ingegnere, un avvocato, un medico avrebbero potuto avvalersene, e non certo per la ragione che ci veniva enunciata: l’utilità di conoscere le etimologie classiche di un dizionario tecnico di volta in volta differente, ma con riconoscibili radici

comuni. In realtà quel topos aveva una salda giustificazione. Per secoli infatti la letteratura ha alimentato ambiti professionali quali la medicina e la giurisprudenza. La prima vi ritrovava descrizioni analitiche del funzionamento corporeo in situazione, regesti completi delle relazioni soma-psiche, classificazioni ragionate delle sensazioni, robuste indagini sulle disarmonie indotte dalla malattia: gli studi approfonditi di John Rousseau lo attestano con una ineguagliata dovizia bibliografica. Quanto alla giurisprudenza, la letteratura le ha fornito veri e propri trattati sulle intenzioni e i moventi che portano l’uomo ad agire, sull’equilibrio precario delle cause e degli scoIX

L'idea ai letteratura in Itala

pi, sull’idea di preterintenzionalità, sul grado di falsificazione implicito in ogni punto di vista. Anche la differenza tra corruzione e concussione, oggi al disonore delle cronache, segnala di per se stessa la funzione che la letteratura ha rivestito in ambito giurisprudenziale: poiché dietro quella differenza si cela la polifonia romanzesca dei punti di vista, la secessione pirandelliana dagli enunciati degli enuncianti, l’elementare constatazione che un fatto non è in alcun modo un fatto ma qualcosa che può essere visto procedere da a a è oppure da è ad 4. Insomma un pasticcio gnoseologico, un pasticciaccio. Come non ricor-

dare Dostoevskij e Porfirij Petroviò, il magistrato inquirente di Delitto e castigo? Non per questo la libera circolazione dellemerci letterarie ne ha risentito. Al contrario, il trantran compositivo raggiungeva proprio allora, negli anni settanta, lo zenith.I suoi sette-e-quaranta, quelle

autodichiarazioni che potremmo idealmente identificare negli Almanacchi di alcuni celebri editori, erano addirittura doviziosi. La letteratura (ma si preferiva già parlare di creative writing) aveva infatti scoperto in se stessa una nuova risorsa tematica: inabissata nella vuota risonanza di sé, essa amava parlare delle proprie tradizioni e rigirarsi tra le mani gli illustri beni di famiglia, dall’endecasillabo alla perita tessitura di un intreccio. In soli due secoli si era passati dalla repubblica delle lettere all’autocrazia letteraria, e

con le armi in pugno gli stanchi prosecutori della neoavanguardia, forti del mutamento costituzionale,

pretendevano di liberare territori che non avevano mai cessato di appartenergli. Uno zelo sospetto; e forse solo il Pasolini luterano può suggerire le dimensioni del fenomeno di cui parlo, in un periodo in cui il domicilio testuale del narrare si spostava dal romanzo ai serial televisivi. Questo è dunque, nelle sue giuste dimensioni, il x

Premessa

“problema dell’italianistica” che oggi sembra interessare la pubblica opinione: il problema della radicale trasformazione della letteratura, cui tuttavia nonè da

ascrivere ogni responsabilità. Certo, per dirla con Manzoni, invecchiando la “signorona” ha un po’ ecceduto nel belletto ed è quasi divenuta vanitosa: abbandonata

dalle forze vitali, ridotta come certi

personaggi di Hitchcock a una finestra che in realtà era uno specchio, si è iscritta ai corsi serali dell’école du regard, oppure, nei casi peggiori, è stata avviata alle bautes études universitarie. Ma l'attacco è risultato concentrico, e tra gli agenti che hanno teso un’imboscata alla letteratura andrebbero annoverati la musica, la televisione, gli stili di vita, gli eccessi della critica letteraria. Tuttavia molti altri sono da rubricare nel passivo di bilancio, per esempio il turismo esotico cui si consegna a mani legate la nuova élite di massa. Sotto i suoi colpi ottusi è svanito, se così si

può dire, quel tasso di salgaricità che la letteratura non ha mai cessato di tesaurizzare. Trasferirsi in un mare tempestato da legioni di isole consente di vestire illusoriamente un io diverso e di vivere in un mondo fittizio di pseudo-eventi. Il cronotopo costa caro, ma le vecchie funzioni del romanzo si perdono in un tragico spreco. Qui, a Papeete Beach, i vacationers celebrano riti di intensificazione che ristabiliscono ciclicamente i deteriorati equilibri della vita quotidiana: la loro vacanza, il vacuum, quel tempo vuoto su cui

la cultura ha sempre fatto affidamento per i suoi fertili adescamenti, surrogano le immagini del transfuga, dell’obiettore, del forestiero, del fuggiasco che a lungo hanno assicurato un avvenire alla letteratura. La strategia migliore credo sia quella di firmare un armistizio e chiedere ospitalità al futuro: in altri termini, continuare a investire nel settore letterario e tenerne un’inflessibile contabilità. É quanto avviene XI

L’idea di letteratura in Italia

in questo libro, che deve la sua origine a una collaborazione con Alfonso Berardinelli per l'allestimento di un'antologia di teorie letterarie italiane dalle origini a Calvino, e costituisce la rielaborazione del lavoro portato a termine in quell’occasione. Più precisa-

mente, il libro nasce dalla duplice esigenza di affrontare in modo nuovo il problema dell’“autore” (scrittore, studioso o scrittore-saggista) dopo decenni di discredito teorico, e di mettere a nudo le più elementari, ma non per ciò meno complesse, funzioni antropologiche evidenziate dalla letteratura italiana nell’arco complessivo del suo svolgimento. Fatta la debita tara a un’a/lure necessariamente selettiva e prospettica, ho inteso mostrare come la letteratura (un termine “olistico” che viene specificato in rap-

porto ai singoli autori) abbia costituito di volta in volta uno strumento di formazione dell’interiorità individuale o un fattore attivo di omogeneizzazione del costume nazionale; come grazie a essa emittenti e

destinatari abbiano potuto diventare fedeli al loro destino — così sosteneva Petrarca nel Secret — o essere trascinati in una nuova, estranea identità grazie agli incanti della “manìa” neoplatonica, giungere all’intercettazione dell'identità psichica profonda o al suo ineludibile occultamento; come solo attraver-

sando i testi letterari sia stato possibile fondare un’etica della comunicazione o istituire una terapia dei conflitti sociali, rallentare il tempo storico o divorarlo ansiosamente, delimitare oasi protette di Significa-

to o soffocare l’intera realtà nell’insensatezza, apprendere a “sentire” il mondo, cioè a percepirlo come ha insegnato Beccaria, oppure a trasformarlo in mero linguaggio come voleva Tesauro. Sono solo accenni, semplificazioni di semplificazioni, ma è proprio questo che si conviene a un abrégé digitato nella postrema estate del secolo ventesimo. I.

Letteratura universale:

Dante Alighieri

La vivanda di questo convivio sarà di quattordici maniere ordinata, cioè quattordici canzoni sì d’amor come di vertù materiate, le quali sanza lo presente pane aveano d’alcuna oscuritade ombra, sì che a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado. Ma questo pane, cioè la presente disposizione, sarà luce la quale ogni colore di loro sentenza farà parvente. Autoesegesi, indagine filosofica, esercizio ermeneutico: testo primario per comprendere gli assunti teorici dell’opera dantesca, il Convivio fu scritto probabil-

mente in esilio tra il 1303 e il 1307 (i primi tre libri all’inizio, il quarto al termine di questo periodo) restando incompiuto come il De vulgari eloquentia, a riprova di una stagione di fetvida elaborazione intellettuale e, insieme, di insoddisfazione. Ci restano il

proemio, il commento alle canzoni Voi che ‘ntendendo, Amor che ne la mente (di fatto, elogi della filoso-

fia e della felicità che essa concede all'uomo) e Le dolci rime, un pretesto per trattare della nobiltà d’a-

nimo nei modi della quaestio, secondo un orientamento più etico-politico che filosofico-letterario. Ma proprio nel libro Iv Dante (1265-1321) abbandona l’idea del primato della filosofia per muovere in direzione tomistica ed eleggere la teologia quale disciplina superiore alle altre, in grado di abilitare la poesia all’imitazione delle sacre scritture: ciò che significava mescolanza dei genera dicendi, inclusione totalizzante degli ambiti discorsivi, completezza semantica at-

L’idea di letteratura in Italia

traverso il ricorso all’allegoresi, valenza salvifica e

educativa della poesia. In un testo dedicato al primato della filosofia — e che verrà lasciato incompiuto proprio perché in seguito la teologia assurgerà al ruolo maggiore —, i poeti classici svolgono una funzione primaria (Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano, Stazio, Giove-

nale) e la letteratura stessa interagisce a tal punto con l’esistenza dell’uomo da richiedere un’apposita tabulazione per ciascuna età: così, giusta la tassonomia del libro Iv, all’«adolescenza» risulta conveniente la

lettura di Stazio (in quanto mostra exerzpla di «stupore», «pudore», «verecundia»), alla «gioventute»

di Virgilio (che attraverso il racconto della vita di Enea insegna la temperanza, la lealtà, la cortesia, la fortezza), alla «senettute» di Ovidio (le cui Metamorfosi si soffermano sulla prudenza, la giustizia, l’affabilità), al «senio» di Lucano (che nel Catone

della Farsaglia incarna la nobiltà d’animo). Un’omologia etico-evolutiva correla dunque poesia ed esistenza: due cammini paralleli, e tali da rendere obsoleto l’autobiografismo di origine cortese ancora in piena attività nella Vita nuova, anche perché la letteratura non è mai statica. Piuttosto, essa sembra un

aggregato selettivo di punti di vista mutevoli nel tempo e bisognosi di un’intensa attività autoesegetica — quale si esplica appunto nella Vita nuova e nel Convivio —, per cui i medesimi testi vedono trasformarsi gli apparati simbolici e il gioco delle equivalenze semantiche. Strappati al presente originario della loro stesura, anche i versi poetici tendono a ricreare il passato in direzione di un futuro virtuoso e a configurare vaste aree di stabilità semantica, sino alla perfezione enciclopedica della Commedia.

Letteratura universale: Dante Alighieri

Retroattiva e insieme profetica, la funzione estetica svolta dalla letteratura necessita a questo punto di un indispensabile strumento conoscitivo, l’allegoria, benché non sia chiaro se nel Convivio Dante intenda applicare i criteri relativi all’a/legoria in factis dei teologi oppure all’a/legoria in verbis dei poeti (nel libro Il, egli dice infatti che «mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare», mentre poco dopo anticipa che «de li ‘altri sensi toccherò incidentemente», cioè del morale e dell’anagogico, caratteristici dell’“allegoria dei teologi”). Non è un caso che, se si prescinde dall’Epistola a Cangrande della Scala, Convivio Il sia il luogo che contiene la più estesa indagine sulle proprietà filosofiche e formali dell’allegoria: «Intendo anche mostrare la vera sentenza di quelle [canzoni], che per alcuno non si può s’io non la conto, perché è nascosa sotto figura

d’allegoria». In esso, peraltro, sono elaborate le metaforizzazioni più celebri della Corzzzedia, per esempio l’idea della vita quale «selva erronea» e pellegrinaggio (IV, xxiv,12 e IV, xii,14 ss.). Ma la progressione teorica di Dante è calcolatamente prudente. Prima formula una gerarchia disciplinare comparandola alla disposizione dei nove cieli (arti del trivio, arti del quadrivio, metafisica, teolo-

gia), poi distingue tra «creazione» divina e «generazione» artistica, sottolineando la necessità che l’«au-

tore» si identifichi con i concetti espressi e anzi cozncida con essi, al modo stesso in cui «nullo dipintore potrebbe porre alcuna figura, se intenzionalmente non si facesse prima tale, quale la figura esser dee». Infine, definendo la funzione della rima come trasformazione e regolazione armonica della temporalità («tutto quel parlare che in numeri e tempo 3

L'idea di letteratura in Italia

regolato in rimate consonanze cade»), ne fa uno strumento tecnico di genesi del bello («dicemo bello lo canto, quando le voci di quello, secondo debito de l’arte, sono intra sé rispondenti. Dunque quello sermone è più bello, ne lo quale più debitamente si rispondono le parole»). Prima di Dante l’allegoria era stata discussa quale “tropo” nell’Ars grammzatica di Donato e nei trattati delle artes dictarzinis, ma essa

riguardava l’ornatus (in quanto figura che pone significante e significato in una relazione di somiglianza per contrarium), o costituiva uno strumento lecito di

risoluzione di un difetto di obscuritas (concretizzando l’astratto) e di brevitas (poiché si esplicitano connessioni precedentemente implicite), o ancora serviva a catturare due referenti con un solo significante e a liberare un potenziale di fictio altrimenti illecito. Al contrario per Dante è nell’allegoria, o meglio nel procedimento dell’allegoresi, che si produce il maggior numero di «rispondenze» tra lessemi e significati, poiché sotto il «manto» di ogni «favola» sta «una veritate ascosa sotto bella menzogna», anche se poi i «sensi spirituali» sono tutti «inchiusi» nella letteralità del testo. In senso strettamente gnoseologico, il processo di duplicazione testuale implicito nell’allegoresi quale principio formale della letteratura risulta consolidato dall’influenza esercitata dalla filosofia tomistica sul pensiero dantesco. Sistematica e aristotelizzante, l’o-

pera di Tommaso d'Aquino era stata dominata dalla dicotomia di essenza ed esistenza, potenza e atto,

struttura e manifestazione accidentale, principio formale (cioè che informa qualcosa) e ente causato. Agere sequitur esse: ogni elemento astratto per l’Aquinate rinviava necessariamente a un suo represer-

Letteratura universale: Dante Alighieri

tamen concreto, così come da ogni segno sensibile si sarebbe potuta estrarre la sua radice costitutiva, il suo fondamento ideale. Di qui il favore euristico concesso all’allegoresi e il primato aristotelico dell'intelletto - un produttore di ordine che rifletterebbe le leggi immutabili stabilite da Dio. Per Dante, del resto seguace non ortodosso del tomismo, la realtà di cui si fa carico la letteratura è il mzovizzento stesso che si produce nella mente dello scrittore o del lettore allorché da un velazzen verbale (una «figura», secondo la nota definizione di Auerbach) essa perviene al suo fondamento concettuale, vale a dire al figurato. L’autore, colui che si assume la responsabilità della fictio, secondo una celebre pagina del Convivio (IV, vi, 3-4) sarebbe proprio un «legatore di parole», abile nell’amministrare correlazioni: È dunque da sapere che “autoritade” non è altro che “atto d’autore”. Questo vocabulo, cioè “autore”, sanza

quella terza lettera C, può discendere da due principii: l’uno si è d’uno verbo molto lasciato da l’uso in gramatica, che significa tanto quanto “legare parole”, cioè “auieo”. E chi ben guarda lui, ne la sua prima voce apertamente vedrà che elli stesso lo dimostra, ché solo di legame di parole è fatto, cioè di solo cinque vocali, che sono anima e legame d’ogni parola, e composto d’esse per modo volubile, a figurare imagini di legame.

L’adozione del principio allegorico consente dunque al linguaggio di acquisire uno spessore della cui indagine si fa carico l’esegeta medievale. Una parola ne contiene altre. Il profano rinvia al sacro. L’elemento pagano prefigura quello cristiano. I lessemi si disgregano in sillabe che sono altrettanti termini originari e adamitici. Lettere e numeri ritrova-

L'idea di letteratura in Italia

no un’esoterica consanguineità. Operazioni lettri-

stiche o iconiche si attuano attraverso il linguaggio e insieme ne illuminano le basi ontologiche: il «molto in parvo loco» è per Dante non solo una linea di condotta retorica ma il principio ispiratore della poesia di tono elevato, la traccia di un desiderio di grammaticalizzare l’invenzione letteraria, l’indizio che un microcosmo sta per essere edificato a immagine di Dio. Nel linguaggio di Adamo, per esempio, Dio era «I», elemento alfabetico in cui sacralità e

parola coincidevano in un’assoluta verticalità; dopo Babele diviene «El», che è anche il nome della lettera L — un grafema cui si aggiunge una dimensione

orizzontale, tangente alla precedente, a testimonianza di un peccaminoso allontanamento dal divino. Anche Beatrice, in quanto nome che rinvia alla perfezione, lungi dall’essere un segno arbitrario è il frutto di un’accorta strategia onomastica, in cui la funzione denotativa lascia il passo a una cerebrale esemplarità semantica: e ogni qual volta lo si leggerà («tutte fiate ch’i lo vedrò scritto»), esso sprigionerà le sue virtù rigeneratrici e si tradurrà immediatamente in numero. Infatti Beatrice è legata al numero nove perché, quando nacque, i nove cieli erano «perfettissimamente» disposti ma anche perché, se leggiamo il nome in latino, la desinenza riproduce lo stesso numero (Beatr-2x), mentre la radice risulta un anagramma di Berta, la donna per antonomasia.

Affidato nelle mani esperte dell’«autore», ossia del legatore di parole, il linguaggio si fa poetico nella misura stessa in cui riduce i margini di arbitrarietà e rinvia ad altro (cioè istituisce una predizione o una retrodizione), appare compatibile con una codifica-

Letteratura universale: Dante Alighieri

zione numerica e si mostra nella sua radicale consustanzialità alla nascita di chi vi ricorre: il volgare in particolare, confessa Dante, è stato «congiungitore de li miei generanti» e «introduttore» all’esisténza quotidiana (Corvivio, I, xii, 4-5). Sigillato nel significante poetico, il reale vi appare inciso secondo una consequenzialità che lega incessantemente i rowziza alle res, se è vero «che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scritto: “Nomina sunt consequentia

rerum”» (Vita nuova, XNI, 4). Il metodo compositivo

ed ermeneutico dell’allegoresi permette allora di amministrare con ampi usufrutti i beni semantici e di offrire una soluzione al problema dell’incomprensione dei testi del passato, di cui si è ormai perso il codice di accesso, ma esige anche una regolamentazione della viabilità interpretativa. Maggiori sono gli strati di significato e i livelli testuali, minore deve essere la libertà di lettura. Il problema si era già posto nella patristica e nell’ermeneutica biblica medievale, per le quali i testi

sacri avevano un valore normativo per la comunità, in quanto favorirebbero la stilizzazione dei comportamenti morali e la stabilità delle istituzioni religiose: di qui la necessità di definire quattro livelli di lettura (storico-letterale, allegorico, morale, anagogico) e di | estendere gli stessi criteri all'ambito extra-testamentario, distinguendo l’allegoria in factis, di carattere teologico, dall’a/legoria in verbis, di carattere poetico (ossia meramente tropologico). Si tratta di distinzioni che ritornano nel libro I del Convivio o nel paragrafo vi dell’Epistola a Cangrande della Scala, un testo teorico in latino di introduzione al Paradiso (qui citato nella traduzione italiana a cura di A. Frugoni e G. Brugnoli):

L’idea di letteratura in Italia

Per chiarire quello che si dirà bisogna premettere che il significato di codesta opera non è solo, anzi può definirsi un significato poliserzos cioè di più significati. Infatti il primo significato è quello che si ha dalla lettera del testo, l’altro è quello che si ha da quel che si volle significare con la lettera del testo. Il primo si dice letterale, il secondo invece significato allegorico o morale o anagogico. Questi diversi modi di trattare un argomento si possono esemplificare, per maggior chiarezza, con i ver-

setti: «Allorché dall'Egitto uscì Israele, e la casa di Giacobbe (si partì) da un popolo barbaro; e dominio di Lui venne ad essere Israele». Infatti se guardiamo alla sola lettera del testo, il significato è che i figli di Israele uscirono d'Egitto, al tempo di Mosé; se guardiamo all’allegoria, il significato è che noi siamo stati redenti da Cristo; se guardiamo al significato morale, il senso è che l’anima passa dalle tenebre e dalla infelicità del peccato allo stato di grazia; se guardiamo al significato anagogico, il senso è che l’anima santificata esce dalla schiavitù

della presente corruzione terrena alla libertà dell’eterna gloria. E benché questi significati mistici siano definiti con diversi nomi, generalmente si possono tutti definire allegorici, in quanto si differenziano dal significato letterale ossia storico. Infatti la parola «allegoria» deriva dal greco «alleon» che è reso in latino con «alienum» ossia «diverso».

Imparentata alla similitudine — cioè a una forma di probatio che oggi si tende a collegare all’evoluzione dell’exemzplum —, l’allegoresi offre dunque la possibilità alla letteratura di svolgere una sostanziale funzione analogica che non cesserà di essere attivata nei secoli successivi secondo orientamenti mutevoli. O perché vuole essa stessa essere legittimata assumendo quale agente strutturante e nobilitante l’isomorfismo con un ambito finitimo del sapere (per

Letteratura universale: Dante Alighieri

esempio la teologia o la teoria politica del feudalesimo), o perché attraverso simplicissima signa non rinuncia ad assumere in proprio una funzione di raccordo — in senso lato metalinguistico ed epistemologico —, la letteratura italiana esordisce con Dante espandendo i territori di cui si dichiara autorevolmente affidataria.

Bibliografia Quali riferimenti minimi alla teoria letteraria dantesca si vedano H. de Lubac, Exégèse médiévale. Les quatre sens de l’Écriture, Aubier, Paris 1959-64, 3 voll.; J.F. Ross, Aralogy as a Rule of Meaning for Religious Languages, in “International Philosophical Quarterly”, 1, 1961; H.R. Jauss, Entstebung und Strukturwandel der allegorischen Dichtung, in H.R. Jauss, E. Koehler (a c. di), Grundriss der romanischen Literaturen des Mittelalters, Winter, Heidelberg 1968, vol. vI; G. Paparelli, Fictio: la definizione dantesca della poesia, in “Filologia Romanza”, VII, n. 3-4, 1960; M. Simonelli, Convivio, in Enciclopedia dantesca, Ist. Enciclopedia Italiana, Roma 1970, Ii; G. Contini, Un'idea di Dante. Saggi danteschi, Einaudi, Torino 1976; F. Ohly, Schriften zur mittelalterlichen Bedeutungsforschung, Carl Winter, Darmstadt 1977; P.V. Mengaldo, Linguistica e retorica in Dante, Nistri-Lischi, Pisa 1978; F. Zambon, “Allegoria in verbis”: per una distinzione tra simbolo e allegoria nell’ermeneutica medievale, in D. Goldin (a c. di), Sirbolo, metafora, allegoria, Antenore, Padova 1980; G.C. Alessio, La grammatica speculativa e Dante, in “Letture Classensi”, x, 1984; E. Gilson, Dante e la filosofia, trad. it., Jaca Book, Milano 1987; J. Pépin, La tradition de l’allégorie: de Philon d’Alexandre à Dante, Institut

L’idea di letteratura în Italia

d’études augustiniennes, Paris 1987; M. Picone (a c. di), Dante e le forme dell’allegoresi, Longo, Ravenna 1987; A.J. Minnis, Medieval Theory of Authorship, Scholar Press, London 1988; A.J. Minnis, A.B. Scott,

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re”. Reimpiego della retorica antica da Dante agli Arcadi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995; N. Borsellino, Ritratto di Dante, Laterza, Roma-Bari 1998.

10

Letteratura stoica: Francesco Petrarca

Il Secretum, il De vita solitaria, il libro 1x dell’Africa,

le Invective contra medicum e sparsi lacerti delle epistole offrono molteplici indicazioni della teoria letteraria avallata dal Petrarca (1304-1374) nella direzione di un umanesimo riformato. Di per sé, i principi generali da lui enunciati non possiedono il tratto della novità. Nelle Invective per esempio, scritte tra il

1352 e il 1355 in difesa della civiltà letteraria contro le professioni “meccaniche”, viene ribadita l’idea classica della poesia (in questo caso prelevata da Lattanzio) quale ornamento allegorico di una verità che deve restare «nascosta al volgo insipiente». Da tale idea conseguono tuttavia alcuni corollari: 1) a dover ricorrere alla letteratura è soprattutto la virtù, «non

per se stessa, ma nella lotta che deve sostenere con il tempo e l'oblio»; 2) i «mechanici», cioè coloro che si applicano ad arti meccaniche come la medicina, non sono legittimati né a parlare di poesia, né a produrla; 3) l’intero sistema tomistico-aristotelico ha corrotto la letteratura, mettendola al seguito della Dialettica — non una semplice disciplina, bensì una forzza mentis nominalistica e artificiosa in grado di debilitare lo spessore etico della poesia; 4) più che concentrarsi sulle parole, è necessario riflettere su se stessi e in particolare «sulla morte», «armarsi contro di essa» attraverso la letteratura, «predisporsi a disprezzarla e bas

L’idea di letteratura in Italia

a sopportarla, andarle incontro, se la situazione lo richiede». Benché il suo astro sia destinato a splendere nel XVI secolo, Aristotele era già divenuto un termine di riferimento essenziale per la civiltà letteraria medievale tra il 1100 e il 1270, quando il domenicano Guglielmo di Moerbeke ritraduce dal greco il corpus aristotelico (in particolare va annoverata la translatio princeps della Poetica); ed è proprio contro Aristotele che sin dall’inizio si orienta la riflessione petrarchesca, per esempio nel De sui ipsius et multorum

ignorantia. Tratti comuni della teoria letteraria aristotelica erano i seguenti: — la ricerca dell’essenza morfologica della poesia; — il primato strutturale del modello tragico; —un procedimento cognitivo dall’alto al basso (che muoveva cioè da ampie categorie formali sino alle sottospecie testuali); — la certezza che la letteratura fosse, da un punto di vista logico, un repertorio di “esempi” in grado di mediare l’universale e il particolare; — una netta predilezione per l’osservazione di elementi strutturali, ossia postulati di proprietà formali. Va tuttavia precisato che a questa altezza cronologica il ruolo maggiore è riconosciuto alla logica aristotelica (soprattutto agli Aralitici e ai Topic), il cui studio diviene preliminare per quanti si avvicinano alle arti liberali e, più in generale, alla cultura letteraria: l’argomentazione sillogistica, il prevalere morfologico della disputatio e l’ubiquità della quaestio ne sono dei semplici sintomi. Agli occhi di chi voleva tornare alla cultura letteraria dei secoli benedettini e di lì ad Agostino, Sene12

Letteratura stoica: Francesco Petrarca

ca, Cicerone, Virgilio, la logica aristotelica costituiva ormai un nebuloso diaframma da rimuovere. È questa la situazione in cui si trova Petrarca. Paradossalmente, attraverso un’incessante attenzio-

ne per il labor limzae egli fa meglio aderire il testo letterario al suo produttore, debilita il rilievo dei demarcatori di genere ed eticizza la scrittura: in questo senso, non si fatica a comprendere perché la sua opera conosca una rinnovata circolazione nella Firenze

neoplatonica di fine Quattrocento. Non solo la scrittura poetica sospinge gli individui entro se stessi, tanto che essi non «hanno bisogno di sfogliare molti volumi: li hanno studiati già prima, e ora leggono — spesso anche scrivono — nella mente» (De vita solitaria); meglio ancora, il testo letterario s’intreccia alla vita, si correla intertestualmente alla biografia, viene sempre percepito ir situazione, come le Confessioni

agostiniane che accompagnano l’ascesa petrarchesca al Ventoux. In luogo dell’aristotelismo, a offrire un piano d’appoggio all'idea di letteratura elaborata da Petrarca è ora la gnoseologia agostiniana (assai pros-

sima alla riflessione di Plotino) e ciò che essa comporta: la considerazione del male come assenza di essere, il rifiuto di svilire la complessità della coscienza tenendo aristotelicamente separato il regno della natura da quello della grazia, la certezza che l’anima non astragga nulla da ciò che è fuori di essa, bensì “comprenda” le percezioni del corpo in cui è rinchiusa come se provenissero dall’interno. Ma l’aiuto offerto da Agostino non poteva non essere parziale: al modo stesso di Boezio (il De consolatione philosophiae si apriva con un attacco alla letteratura), anch'egli aveva sottoposto la poesia all’accusa di lascia13

L’idea di letteratura in Italia

re l’uomo nella sterile immanenza delle sue passioni, mostrandosi inutile o addirittura nociva. Al contrario, per Petrarca la letteratura è al tempo stesso la prova più alta dell’esistenza di un uomo, l’unica testimonianza plausibile di un processo di spiritualizzazione e la più nobile tra le arti, poiché attraverso una solitaria meditazione costituisce un rimedio stoico agli assalti del mondo esterno. Insomma, uno strumento di consolidamento ontologico, da cui conseguono principalmente due effetti. Da un lato la letteratura, soprattutto nell’ultimo Petrarca, si avvicina

alla teologia, intesa non come ricerca disciplinare della causa prima bensì quale terreno intellettuale atto a favorire la progressiva formazione di una vita esemplare: come si legge nelle Invective contra medicum, i primi teologi furono senz'altro i poeti arcaici, e anche l'oscurità della poesia è funzionale a quel «senso allegorico gustosissimo e dolcissimo, del quale abbonda ogni testo delle Sacre Scritture». Dall’altro l'esercizio letterario — da parte dello scrittore o del lettore — consente di valorizzare il presente rispetto al passato e al futuro, poiché si deve vivere «oggi l’oggi per vivere domani» e permettere alla «mente» di consolidare l'autonomia dell’individuo, da immaginarsi ora come una monade ben fortificata. Più il Petrarca degli anni cinquanta procede alla riscrittura e alla ordinata classificazione della propria opera, più è indotto a immaginare l’io come un elegante, sagace mediatore di tutto ciò che possa minacciarlo dall’esterno, si tratti dell'amore (che ci pone in uno stato di dipendenza dall’altro) o della gloria letteraria (che ci costringe a sopravvalutare la ricezione di un testo). Talvolta l’individuo è configurato al modo di una «mente» che sprofonda a tal punto in se 14

Letteratura stoica: Francesco Petrarca

stessa (magari, come nel De vita solitaria, aiutata da

un luogo «aperto» quale la vetta di una montagna oppure dallo scorrere di un «fiume chiacchierine») da lasciarsi «rapire oltre ogni limite umano»; talaltra come una «rocca» che, nei momenti di aegritudo, vie-

ne circondata da «innumerevoli nemici», i quali drizzano le macchine, apprendono il fuoco alle mura, scavano cunicoli (Secret472, Il); oppure come un luo-

go in cui tutto è rallentato e posto sotto controllo: Medita prima da solo a solo e in silenzio. Le meditate cose chiudi poi nella memoria, e vietando loro l’uscita guardale, osservale, e fanne per ogni lato diligentissimo esame. Quindi a poco a poco chiamale sulla soglia delle labbra, ed aiutate dalla penna escano fuori senza che alcuno le veda (Farziliares, 11, 3).

Per Petrarca, la letteratura offre dunque una sapiente armatura all’individuo e lo rende fedele al proprio destino («Adero michi ipse quantum potero» — «Sarò presente a me stesso quanto potrò», sono le parole con cui si chiude il Secretum), ma tutta questa cura intorno all’io non deve far riflettere prospetticamente al dopo — diciamo al tardo XVII secolo, quando nasce una psicologia dell'io —, bensì retrospettivamente allo stoicismo e all’esigenza in esso immanente - di evitare all'individuo qualsiasi forma di contagio emotivo. Mai, prima di Petrarca, la tradizione filoso-

fica della Stoa aveva costituito il fondamento di una teoria della letteratura, anche perché egli la rilegge attraverso gli scritti di Cicerone, Seneca, Agostino, trasformandola in una sorta di carta dei diritti e dei doveri d’autore. Fondamentalmente eudemonistica in quanto orientata verso una prassi adeguata alle leggi della natura, cioè all’idea di felicità, l’etica stoi15)

L’idea di letteratura in Italia

ca tende ad attivare una serie di istanze di mediazione tra l’uomo e l’ambiente: non l'isolamento egoistico (una vocazione cosmopolita sottende anzi lo stoicismo delle origini), ma il contatto mediato, una #nt-

ma distanza, un sistematico filtraggio costituiscono la via stoica alla felicità. Per rendersi autonomi dall’influenza diretta dell'esterno esistono alcuni strumenti di controllo. Il primo è l’incessante messa in questione delle percezioni derivanti da contatti accidentali con il contesto,

la disintossicazione dei phantasmata attraverso la ragione e il diritto di natura; il secondo è l’enucleazio-

ne di un territorio coltivato da una solitaria riflessione, da autorispecchiamenti di volta in volta mutevoli e bisognosi di continui correttivi. È questo il territorio in cui prospera la letteratura. Disinnescare gli impulsi irrazionali e le illusioni (phantasmata), giungere a una esatta consapevolezza della proprietà di sé (orketosis), circondare

di un’aura

di indifferenza

l'ambito delle cose di cui non è possibile disporre, interiorizzare la felicità trasformandola in un testo leggibile e variabile: a costo di mentire e modificare dati biografici oggettivi (come spesso accade nell’opera petrarchesca), la letteratura ha propriamente funzioni di istituzione e manutenzione della coscienza individuale. Ciò spiega la incessante, nevrotica riscrittura di se stesso cui Petrarca si dedica a partire dai tardi anni quaranta e con particolare intensità nella prima metà degli anni cinquanta — quelli, non per caso, a più alta densità teorico-letteraria — sulla base del duplice presupposto che la biografia possa essere usata come un testo letterario, e che gli effetti di verità della letteratura siano più stabili e forti di quelli prodotti dalla vita (M. Santagata, 1992). 16

Letteratura stoica: Francesco Petrarca

Immaginiamo dunque Petrarca durante l’ultimo soggiorno a Valchiusa mentre si fa editore di se stesso, ritoccando testi che invia agli amici in sostituzio-

ne di quelli già in loro possesso (accade per esempio per il De vita solitaria inviato a Moggio dei Moggi) ed esercitando un’ostinata tutela su ciò che ha scritto. Le Famziliares e il libro m del Secretur, cui si dedica

in quel momento, ci dicono che la finzione (occultamento dei testi precedenti al 1327, spostamento di date, ricollocazione di eventi affinché tutto corri-

sponda all'immagine etico-letteraria della mutatio vitae) ha il compito di ripristinare la realtà, rendendola più vera, e di allestire l’impalcatura dell’io. In questo senso, il classicismo del Petrarca ha un rilievo teorico che non deve sfuggire: scrivere è riscrivere, cioè prima vivere qualcosa e in seguito farlo proprio attraverso la letteratura, “autorizzarlo”, collocarlo a

una ragionevole distanza, ma sempre entro di sé. Poiché nulla di quello che ha composto prima del 1350 resta immune da una profonda riscrittura, si può dire che attraverso la letteratura Petrarca annulli il passato e lo reinterpreti incessantemente alla luce di un imperituro presente. Da falsario stoico, abile nel manipolare i dati esterni come se fossero stati predisposti dalla regia dell’io, il Petrarca del Secretum fa delle Confessioni agostiniane il modello di una letteratura morale, restituita al pieno servizio dell’uomo e strappata al pericolo dell’alienazione del soggetto scrivente o leggente. A questo si riferisce l’Augustinus del dialogo petrarchesco quando consiglia al suo accidioso interlocutore di abbandonare i generi storici ed epici (l’allusione è all'Africa e al De viris), e di praticare intensivamente la meditatio mortis: forma ultima di isolamento individuale, la morte è cen17

L’idea di letteratura in Italia

tripeta (poiché attende l'individuo) e insieme universale (poiché tutti devono morire). «Che ti giova cantare dolcemente per gli altri, se non odi te stesso?», obietta Agostino a Francesco nel libro m del Secretum: «Perciò tù che, nonostante i tempi, ti maceri con tante fatiche a scrivere libri, sia detto con tua

pace, ti sbagli di molto; dimentico dell’utile tuo, ti dai tutto a quello degli altri». In questa letteratura morale, che sarà quella del Petrarca dopo il 1350,

non c’è posto né per la gloria né per l’amore, agenti di alienazione da se stessi. Adesso è necessario che a detenere il discorso sia sempre qualcuno che si definisca “io” — come avviene nel Canzoniere, nelle epistole, nei dialoghi, nei discorsi satirici.

Bibliografia Elementi di teoria letteraria in G. Bàrberi Squarotti, Le poetiche del Trecento, in Aa.Vv., Momenti e problemi di storia dell'estetica, Marzorati, Milano 1959, vol. I; P.P.

Gerosa, Umanesimo cristiano del Petrarca. Influenza agostiniana, attinenze medievali, Bottega d’Erasmo, Torino 1966; F. Rico, Vida y obra de Petrarca: Lectura del “Secretum”, Antenore, Padova 1974; Id., Petrarca y el “De vera religione”, in “Italia Medioevale e Umanistica”, xVI,

1974, pp. 313-364; G. Ronconi, Le origini delle dispute umanistiche sulla poesia, Bulzoni, Roma 1976; U. Dotti, Petrarca e la scoperta della coscienza moderna, Feltrinelli, Milano 1978; E. Luciani, Les “Confessions” de Saint Augustin dans les lettres de Pétrarque, Études Augustiniennes, Paris 1982; E. Kessler, Petrarca und die Ge-

schichte. Geschichtsschreibung, Rbetorik, Philosophie im Ubergang vom Mittelalter zur Neuzeit, Fink, Miinchen 18

Letteratura stoica: Francesco Petrarca

1978; C. Mesoniat, Poetica Theologia. La “Locula Noctis”

di Giovanni Dominici e le dispute letterarie tra ’300 e ‘400, Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1984; G. Goletti,

“‘Volentes unum aliud agimus”: la questione del dissidio interiore e il cristianesimo petrarchesco, in “Quaderni Petrarcheschi”, vi, 1990; P. Mastrocola, La forma vera. Petrarca e un’idea di poesia, Laterza, Bari 1991; M. Santa-

gata,Iframmenti dell'anima. Storia e racconto nel Canzoniere di Petrarca, il Mulino, Bologna 1992; K.W. Hempfer, G. Regn (a c. di), Der petrarkistische Diskurs. Spielriume und Grenzen, Stuttgart 1993; J.T. Chiampi, Petrarch’s Augustinian Excess, in “Italica”, LKXII, 1995; G. Velli, Petrarca e Boccaccio. Tradizione, memoria, scrittura,

Antenore, Padova 1995.

19

Letteratura oziosa: Giovanni Boccaccio

Come molti altri scrittori, anche Boccaccio (1313-

1375) si dedica all’elaborazione consapevole di principi teorici soltanto a partire dal momento in cui — verso la fine degli anni quaranta del xiv secolo, dopo aver abbandonato il clima fervido di Napoli ed essersi ristabilito a Firenze — cessa la stesura creativa di testi letterari. Ormai a disagio con una produzione “mezzana” di cui egli a buon diritto è riconosciuto l'inventore, e che trova un apice nel Decameron, la

definizione dell'essenza conoscitiva, morfologica e teleologica della letteratura diviene la sua principale occupazione. Boccaccio ne discute distesamente nei libri xIV e xv delle Genealogie deorum gentilium,

quasi certamente posteriori al 1370; in qualche luogo esegetico del Buccolicum carmen, l’unico testo creativo cui lavorò tra il 1346 e il 1367 circa; nei paragrafi 81-86 del Trattatello in laude di Dante e nelle Esposizioni dei canti I-XVI dell’Inferro. La teoria letteraria

di Boccaccio, senza dubbio più arretrata rispetto al modello petrarchesco, si avvale tuttavia di una larga esperienza letteraria sur le champ, attraverso una continua sperimentazione che lo porta dalla strutturazione inedita del genere novellistico al poemetto, il prosimetro, il romanzo psicologico, il poema narrativo. Evidentemente, il mutare incessante dei codici

espressivi e insieme la ricerca di destinatari differenti sono dei corroboranti sul piano della riflessione tipo20

Letteratura oziosa: Giovanni Boccaccio

logica e astratta del fare letterario, in modo tale da interessare l’intero sistema delle arti sermocinali: in particolare, oltre all’elocutio viene riconosciuta grande importanza a inventio e dispositio, poiché compito dello scrittore è immaginarsi rare e non più udite invenzioni, le immaginate con certo ordine distendere, ornar la composizione con una certa inusitata testura di parole e sentenze (Genealogie XIV, vii).

Sino alla stesura del Decarzeron, si può dire che Boccaccio avalli un modello letterario filogizo quanto ai destinatari (rivolto cioè a un pubblico femminile scevro di conoscenze specifiche e incapace di apprezzare tessiture retoriche particolarmente complesse o erudite) e flebilmente autobiografico quanto ai contenuti narrativi e alla specificità degli eventi descritti: entrambe le proprietà testuali sono orientate a favorire l’identificazione parziale del lettore con l’opera, in una sorta di cortocircuito -virtuoso che induce Boccaccio, tra l’altro, ad accogliere nel “canone” dantesco anche la Vita nuova. Certo, le relazioni

sono di varia natura: se qualcosa dell’autentica Fiammetta entra nell’E/egia di madonna Fiammetta, l’“epopea dei mercanti” che si distende nelle cento no. velle del Decameron si deve in parte alla rinuncia alla mercatura cui si risolve Boccaccio sin da giovane,

tradendo le attese del suo ceto d’origine. Per aralogia o per antitesi, la letteratura “mezzana” e filogina del primo Boccaccio correla scrittore e lettore in una adiacenza comunicativa che culminerà nella affabile narratività della cornice decameroniana.

Tuttavia,

proprio in quegli anni comincia a manifestarsi un distacco della retorica dalle scienze o attività cosid21

L'idea di letteratura in Italia

dette «lucrative», quali il notariato e il diritto, sino

all'acquisizione

di tratti

spiccatamente

letterari,

ornamentali, non-utilitaristici: tanto che, alla polemi-

ca petrarchesca contro i medici, corrisponde in Boccaccio un serrato attacco contro i giuristi, e più la

«poesia» mostra un deficit utilitaristico, più colui che ne è fautore si trova costretto a parlare di vocazione alla letteratura, manifestatasi «infino dalla puerizia». Dunque il testo retoricamente artefatto deve abbandonare il «pestilenzioso tempo» della storia e mettere radici in uno spazio protetto — appunto entro una cornice, nell’habitat del rispecchiamento e della comunicazione ludica, là dove non si registrano

«impedimenti» quali (si legge nel Trattatello e nei Compendi a proposito della biografia dantesca) il coniuge e le cure familiari, l’attività professionale («lucrativa»), la povertà, l’esilio e un’esacerbata passione amorosa. È lì che la supremazia del linguaggio, con la sua energia conativa, la sua euforica malleabi-

lità, potrà ancora prendere possesso della storia. Perché dunque scrivere, e come giustificare il valore di un corpus letterario? È solo a questo punto, dopo la stesura del Decarzeron e grazie all’influenza esercitata

da Petrarca,

che Boccaccio

prende le

distanze dalla poesia trobadorica e dal mito di Amore quale mediatore di sapere, per convincersi dell’allegoricità di ogni testo letterario, per cui «ufficio del poeta» sarebbe «alcuna verità nascondere, con ornate e esquisite parole» (Trattatello). Cortex, velamen, integumentum: la teoria letteraria inizia a celarsi dietro una metaforologia dello sdoppiamento, dell’apparentemente insensato che svela il sistematicamente significativo, dell’evidentia o ipotiposi come mezzo dilettevole per muovere dal roturz al novum — rico22

Letteratura oziosa: Giovanni Boccaccio

nosciuto dato strutturale ineliminabile anche del genere novellistico. In una fase di transizione storica in cui si affaccia un nuovo pubblico e si nobilita l’uso del volgare, le aree argomentative manifestano un’an-

sia di marcata rezovatio, e la momentanea svalutazione della lettera del testo a tutto vantaggio di un significato recondito è anche il segno di un compromesso vitale per la letteratura. Lo sdoppiamento boccacciano del testo in una «corteccia» e un nucleo profondo è tuttavia assai diverso dalla quadruplice stratificazione del senso elaborata da Dante. In questo caso, come in quello della platonizzante scuola di Chartres attiva nel xIl secolo, letteratura e testi sacri erano ancora netta-

mente distinti: dalla lettera sacra si irradiava comunque una verità storica, mentre la composizione poetica non ne possedeva nessuna. Di qui la distanza tra allegoria teologica 17 re e allegoria letteraria 17 verbis. AI contrario, per il Boccaccio del Trattatello esse geneticamente coincidono: Dico che la teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire, dove uno medesimo sia il suggetto; anzi dico

più, che la teologia niuna altra cosa è che una poesia di Dio. E che altra cosa è che poetica finzione, nella Scrittura, dire Cristo essere ora lione e ora agnello e ora vermine, e quando drago e quando pietra, e in altre maniere molte, le quali voler tutte raccontar sarebbe lunghissimo? Che altro suonano le parole del Salvatore nello evangelio, se non uno sermone da’ sensi alieno, il quale

parlare noi con più usato vocabolo chiamiamo allegoria? Dunque ben appare, non solamente la poesia essere teologia, ma ancora la teologia essere poesia.

Questo Boccaccio previchiano, attento a definire la

genesi del verbo pozeo, immagina l’uomo arcaico 23

L’idea di letteratura in Italia

mentre nel propiziarsi le divinità inventa parole di maggiore «efficacia», composte «sotto legge di certi numeri, corrispondenti per brevità e per lunghezza a certi tempi ordinati»: in tal modo egli non difende solo l’oscurità dei testi poetici dai suoi detrattori, ma rende la letteratura isomorfa allo stabile edificio del sapere teologico-filosofico, il luogo di una siderale fissità dei significati, laddove in superficie fictionum si possono registrare modificazioni anche rilevanti («Preterea poesis, quam pauperes preelegere poete, stabilis est et fixa scientia, eternis fundata atque soli-

data principiis [...]»: Gerealogre, libro XIV). Il Boccaccio allegorista e misogino della seconda fase è dunque costretto a riscrivere il canone letterario (vi escono, tra gli altri, gli Azores di Ovidio e la

Vita nuova di Dante). Il testo si rivela permeabile a ogni significato, e anzi la volontà stessa di significare scava dei vuoti in cui cresce la riflessione esegetica, che li invade prontamente come accade nel Buccolicum carmen — testo di poesia e insieme di interpreta-

zione. Il «chiuso parlare», l'appello agli «intendenti», la necessità di condurre letture in partitura doppia (la letterale e l’allegorica, precisamente come avviene nelle Esposizioni) finiscono in un elogio dell'essenza difensiva e claustromorfica della poesia, dove tutto risulta segregato «sotto il più forte serrame», al modo stesso in cui chi possiede qualche ric-

chezza suole «ad alquanti suoi amici e pochi e rade volte mostrarle» per timore «che il troppo farne copia non faccia quelle divenire più vili» (Esposizioni, 1). Al tempo stesso, la relazione gerarchica che per Dante vedeva l’a/legoria in verbis dei poeti subordinata all’a/legoria in factis dei teologi si rovescia a

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Letteratura oziosa: Giovanni Boccaccio

favore della prima, agente di secolarizzazione retorica delle verità divine. Proprio per ciò, a Boccaccio necessita ora una

nuova tipologia del discorso in scala ascendente, in cui si proceda da un minimo a un massimo di verità storica della lettera testuale. Sulla base del commento di Macrobio al Sorzzium Scipionis e di un’epistola petrarchesca di cui viene a conoscenza a Padova nel 1351 (Farziliares, x, 4), nelle Genealogie Boccaccio

distingue testi (4) in cui la letteralità non significa nulla (per esempio le favole esopiche, allegorie pure); (5) in cui la lettera è «figura» e significa solo parzialmente qualcosa (per esempio le Metarzorfosi ovidiane); (c) in cui la superficie letterale è in larga misura fondata su elementi storici (per esempio i poemi di Omero e Virgilio). A queste tre classi testuali, tutte praticabili con onore, ne segue una quarta, degna di «deliranti vecchiette e turbe di ignoranti», in cui (4) la lettera del testo è falsa, né rinvia a un

oltretesto allegorico. Più la superficie e il nucleo semantico di un’opera letteraria si rivelano isomorfi, più la letteratura è socialmente utile; più si apre un divario tra l’una e l’altro, maggiore è il ricorso a postille e apparati esegetici, poiché è una legge antropologica il fatto che i concetti si comprendano solo | «per opera d’imaginazione e di meditazione». Lasciata da parte la retorica dei possibili narrativi celebrata nel Decazzeron, il Boccaccio serex inaugura a suo modo la stagione umanistica caricando la letteratura di responsabilità conoscitive e insieme esentandola da scopi utilitaristici: ma poiché da uomo del Medioevo concepisce ancora la presenza in termini di incarnazione, egli fa del testo un luogo ingombro di apparati disciplinari, equivalenze inconsapevoli, sta25

L'idea di letteratura in Italia

bili significati allegorici. Si legge infatti nel Trattatello (par. 23): Avvedendosi le poetiche opere non essere vane o semplici favole o maraviglie, come molti stolti estimano, ma sotto sé dolcissimi frutti di verità istoriografe o filosofiche avere nascosti; per la quale cosa pienamente, sanza le istorie e la morale e naturale filosofia, le poetiche intenzioni avere non si potevano intere; partendo i tempi debitamente, le istorie da sé, e la filosofia sotto diver-

si dottori s'argomentò, non sanza lungo studio e affanno, d’intendere.

Bibliografia I testi critici essenziali da consultare sono G. Martellotti, Le due redazioni delle “Genealogie” del Boccaccio, Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1951; V. Branca, Boccaccio

medievale, Sansoni, Firenze 1970; G. Sinicropi, Il segno linguistico nel “Decameron”, in “Studi sul Boccaccio”, Ix, 1975; G. Padoan, I/ Boccaccio, le Muse, il Parnaso e l'Arno, Olschki, Firenze 1978; P. Orvieto, Boccaccio

mediatore di generi o dell’allegoria d'amore, in “Interpres”, 2, 1979; C. Mesoniat,

Poetica

Theologia.

La

“Locula Noctis” di Giovanni Dominici e le dispute letterarie tra "300 e ’400, Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1984; J. Levarie Smarr, Boccaccio and Fiammetta. The Narrator as Lover, University of Illinois Press, Urbana-

Chicago 1986; P.D. Stewart, Retorica e mimica nel “Decameron” e nella commedia del Cinquecento, Olschki, Firenze 1986; V. Zaccaria, La difesa della poesia nelle “Genealogie” del Boccaccio. (Una redazione dei libri XIV-XV anteriore all’autografo), in “Lettere Italiane”, 38, 1986, pp. 281-311; F. Bruni, Boccaccio. L'invenzione del-

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Letteratura oziosa: Giovanni Boccaccio

la letteratura mezzana,

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1990; M.

Lavagetto (a c. di), I/ testo moltiplicato. Lettura di una novella del “Decameron”, Pratiche, Parma 1991 (I ed.); G. Velli, Seneca nel “Decameron”, in “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, CLXVII, 1991; V. Kirkham, Sign of Reason in Boccaccio®s Fiction, Olschki, Firenze

1993; K.M. Flasch, La poesia dopo la peste. Saggio su Boccaccio, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1995; R. Bragantini, P.M. Forni (a c. di), Lessico critico decameroniano, Bollati Boringhieri, Torino 1995; V. Zaccaria. Introdu-

zione ai voll. vi-vm dell’edizione delle opere boccacciane a c. di V. Branca, A. Mondadori, Milano 1998.

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Letteratura speculativa: Giovanni Pico della Mirandola

La condizione di superiorità dell’uomo — argomentano i trattati umanistici de dignitate hominis — è dovuta al possesso della ragione, e la ragione si nutre di parole. D'altro canto, le parole vanno scelte secondo una relazione di congruenza con gli argomenti da enunciare, elette in relazione a vaste aree di sinoni-

mia, e infine distribuite nell’arco frastico che le ospita. Queste complesse, molteplici operazioni cui si potrebbero dare i nomi di inventio, dispositio, elocutio (insieme a memoria e actio, parti costitutive della

retorica) non sono neutrali rispetto al sapere veicolato: al contrario, possono favorirlo o deprimerlo, articolarlo analiticamente o coagularlo in una sintesi suggestiva. Osservato da un punto di vista filosofico, il linguaggio comincia ad animarsi: le entità lessicali sono atomi in cui vorticano significati primari e secondari, denotazioni e connotazioni, lettere e figu-

re; le correlazioni sintattiche sono reti gettate sui significati, in grado di esplicitare orizzontalmente i rapporti tra le parole (paratassi) o di ordinarli verticalmente secondo connessioni subordinative (ipotassi). Lo studio umanistico dei testi tramandati dall’antichità, il problema della genesi delle nuove lingue romanze, la nascita stessa della filologia come scienza in grado di narrare la storia di ogni lessema danno vita a un interesse senza precedenti per il linguaggio. E coloro che se ne occupano non si fermano qui: 28

Letteratura speculativa: Giovanni Pico della Mirandola

diviene necessario comprendere il modo in cui le parole pedinano le cose, stabilire dei modelli precostituiti di relazione tra il mondo e il linguaggio, valutare l'opportunità di mutare lingua a seconda delle situazioni e delle aree argomentative trattate. La res litteraria, anche per questo, viene illuminata a giorno e lenticolarmente anatomizzata. Sull'argomento, la Scolastica aveva già offerto risultanze importanti. Affermando l’arbitrarietà del segno linguistico e la sua relazione convenzionale con gli oggetti o i concetti, il nominalismo tardomedievale era giunto a sfiorare l’idea che ogni forma linguistica costituisse un’adulterazione dell’esperienza immediata e reale delle cose: di qui, attraverso

Galileo, si sarebbe più tardi prodotto il progetto di una lingua matematica quale forma universale di mediazione tra segni e realtà. Ma si tratta di un orientamento scientifico largamente minoritario nella filosofia del linguaggio premoderna, che presuppone una separazione del problema della verità filosofica da quello della poesia («Parmi scorgere credenza» — scriverà Galilei nel Saggiatore — «che la filosofia sia un libro e una fantasia d’uomo, come l’Iliade e l'Or-

lando furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero»). E infatti l’umanesimo procede in una direzione opposta. Certo, a partire da Coluccio Salutati gli umanisti chiamano a garante Cicerone e la convinzione espressa nel De oratore che linguaggio e realtà debbano risultare congruenti — ciò che implica una seconda omologia tra sapientia ed eloquentia. «Sapere perfetto e arte della parola», affermava il Salutati in un’epistola, «sono uniti a vicenda in modo indissolubile

[...]: chi si è dedicato allo studio della sapienza, nel 29

L’idea di letteratura in Italia

contempo si è impegnato anche nello studio del parlare a regola d’arte». Ma è un compromesso, riproposto nel cinquecentesco Dialogo della rettorica di Sperone Speroni, dove la lingua non è più, aristotelicamente, uno strumento per designare ad libitum idee e

cose, ma neppure un mezzo di creazione autonoma di realtà possibili. Essa è piuttosto un luogo votato alla designazione e insieme all’ornamento. Nella riflessione di Salutati, Bruni, Valla e Alberti il linguaggio è del tutto secondario rispetto a un mondo concettuale prelinguistico, offerto in sé e per sé al filosofo e denominato verztas rerum: in età umanistica, le parole risultano solo parzialmente esterne al pensiero, anche perché intanto l’idea che esista una madrelingua e l'evoluzione stessa del volgare hanno rafforzato l’universalità delle res sul relativismo dei verba. Molteplici sono le conseguenze teoriche, e l’influenza che esse esercitano sull’idea di letteratura.

(a) Negli Elegantiarum latinae linguae libri vi del Valla o nel De recta interpretatione del Bruni la poesia in quanto forza estetico-individuale del linguaggio è omogenea al contenuto conoscibile ma scissa da esso, in misura tale che lo scribendi ornatus è una

semplice, tardiva aggiunta alla doctrina rerum. (5) Conseguentemente, non senza apporti dal platonismo retorico di Cicerone o da quello cristiano di Agostino, la letteratura si profila quale velazzen allegorico-morale di verità riposte, e chi si occupa della sua produzione è un poeta-teologo: il presupposto. ellenistico della sapienza teologica del poeta interseca la filologia patristica per affermare l’umanistica indistinguibilità della verità filosofica da quella poetica.

(c) Ostacolata all'origine è dunque l’idea che il 30

Letteratura speculativa: Giovanni Pico della Mirandola

linguaggio poetico abbia uno spessore ontologico autonomo, cioè che sia in grado di produrre realtà altrimenti inesistenti. In attesa degli Frozci furori di Giordano Bruno e delle posizioni più radicali* del neoplatonismo tardo-cinquecentesco, la teoria della scrittura poetica come rivelazione e forma che scatu-

risce contemporaneamente al suo contenuto di verità, resta imprigionata nel compromesso ciceronia-

no della “sapiente eloquenza”. Peraltro, l'autonomia del linguaggio letterario avrebbe finito per mettere in crisi la nozione di mimesi, cui l’umanesimo e la cultura rinascimentale

resteranno

intrinsecamente

fedeli. L’Epistola de genere dicendi philosophorum di Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494) a Ermolao Barbaro è del 1485 e si inserisce a pieno titolo nella riflessione umanistica sul linguaggio e la letteratura, che di esso appare il luogo di maggiore sperimentazione, ma è necessario tenere conto dello spiccato

privilegio accordato da Pico alle res rispetto ai verba. Così, per una sorta di dantismo liricizzato, in un’altra

celebre epistola a Lorenzo egli si schiererà a favore di un modello di poesia filosofica formalmente curata: circa Petrarca, aggiungerei che talora non corrisponde alle promesse, che seduce a prima vista senza poi soddisfare appieno, laddove Dante può a volte urtare in un primo incontro, mentre giova a chi va in fondo.

Tale posizione critica è favorita dalla convinzione più generale che la natura delle cose si dischiuda al filosofo senza la mediazione decisiva del linguaggio, che gli ornamenti retorici risultino secondari per catturare le essenze ontologiche della realtà, e che infine

peer

3

L’idea di letteratura in Italia

non la filologia, bensì la filosofia debba giudicare il contenuto delle parole. Tuttavia, come ha intelligentemente visto Eugenio Garin, lo scambio di battute tra Pico e Ermolao Bar-

baro è assai più complesso di quanto appaia, poiché a entrare in conflitto non sono da un lato la filosofia (scolastica) e uno stile «barbaro» (parigino), e dall’altro l’umanesimo e il primato delle artes serzzocinales, bensì due posizioni interne all’umanesimo stesso.

Pico è un maestro del pensiero speculativo e un fautore del primato della sapientia sull’eloquentia («Se la giustezza dei nomi dipende dalla natura delle cose, a suo proposito dovremo forse consultare i retori o non piuttosto i filosofi, i soli che abbiano penetrato e indagato la natura di tutte le cose?»), eppure il suo modo di rapportarsi ai classici greci e latini è di umanistica, elegante riverenza; Ermolao Barbaro crede nel valore conoscitivo degli strumenti retorici e sermocinali, riannoda la tradizione greca del commento filosofico a quella bizantina, ma è anch'egli un filosofo, che traduce e commenta Temistio e Aristotele. L'esercizio professionale, se così si può dire, è comune, le opzioni linguistiche divergono. La cabala come dimostrazione di una verità comu-

ne alle varie scuole filosofiche, il sincretismo platonico-aristotelico, la difesa della Scolastica (da Tomma-

so d'Aquino a Giovanni Scoto) senza che tuttavia si venga indotti ad aderirvi: queste e altre conclusioni dell’attività pichiana, che si svolge in un decennio denso di opere (dal 1483 al 1494), hanno indotto

molti studiosi a interpretare l’epistola del giugno 1485 al Barbaro in senso antiumanistico — cioè contro l'egemonia assunta dagli studia bumanitatis — e a vedere in Pico un assertore della filosofia cristiano32

Letteratura speculativa: Giovanni Pico della Mirandola

medievale contro la rinascita della filosofia antica. A contrasto, va subito ricordato come Ermolao osservi

nella sua risposta che Pico difende lo stile «barbaro» della Scolastica ricorrendo tuttavia alle arti sermòcinali, e giova altresì richiamare il parallelo operato da Garin tra il Pico della querelle con il Barbaro e il Poliziano assertore, dinanzi a Paolo Cortesi, del ruo-

lo cruciale della filologia nell’integrare la conoscenza filosofica. Le oscillazioni interpretative sono del resto proporzionali alla complessità letteraria della lettera pichiana: elogio paradossale, finta invettiva logicamente costruita sul procedimento epidittico della lode e del biasimo, e linguisticamente esemplata su un’eleganza umanistica. Vi entra in scena uno sco-

lastico, che accusa la retorica di manipolare illusionisticamente la realtà, e che concepisce linguaggio e pensiero come opposti; al termine, tuttavia, prende

la parola l’autore, affermando di voler riconciliare eloquentia e sapientia: infatti, egli ha elogiato la Scolastica al modo stesso in cui alcuni lodano la quartana, sia per cimentare il mio ingegno, sia per far come Glaucone in Platone, che loda l’ingiustizia non per suo convincimento, ma per indurre Socrate a

lodare la giustizia.

L’epistola pichiana perviene dunque a un duplice scopo: oltrepassa la polemica antiscolastica in nome di un’unità del pensiero che sappia prescindere dal linguaggio, e ribadisce la necessità di studiare gli antichi senza tuttavia, d'accordo con Poliziano, ri-

durre i margini di originalità dei moderni. L’articolata complessità di tali riflessioni non è senza interesse per il destino della teoria letteraria neoplatonica, contenuta soprattutto nel libro v delle 33

L'idea di letteratura in Italia

Enneadi che Pico aveva potuto leggere nella traduzione che ne veniva facendo Ficino. Per qualche anno, l’«aristotelico» frequentatore dell’Accademia fiorentina si era confrontato con i principi fondamentali di quella tradizione estetica, vale a dire l’elogio della luce (claritas, fulgor, lumen) quale forma di conoscenza estatica mediata dall’arte; la certezza che la poesia non sia imitazione di un’imitazione bensi creazione in grado di colmare le lacune della natura; l’idea della fantasia come «emanazione» dell’uno; la necessità di correlare panteisticamente tutto con tut-

to e di interpretare il brutto alla stregua dell’assenza di qualcosa che dovrebbe esserci; la propensione a configurare l’atto di lettura quale «adeguazione» di un soggetto a un oggetto. Prima del De ente et uno, in cui sottoporrà il neoplatonismo a una critica sistematica, e delle Conclusiones, per le quali la poesia non è nulla più di una menzogna, Pico si convince del ruolo della contemplazione (estetica) nell’elevare

la coscienza dell’uomo al livello stesso della creazione divina, ed è qui che la parola originaria — vale a dire l’ebraico («Non esiste parola [...] che in se stessa possa avere poteri magici, a meno che appartenga all’ebraico o ne sia strettamente derivata») — acquisisce valenze magiche e performative di rara suggestione. Seguendo ancora un’intuizione contenuta in Enneadi IV, 4, Pico scopre un mondo di parole esoteriche, tra cui anche i numeri, che equivalgono a incan-

tesimi in virtù della loro affinità o partecipazione all’essere originario delle cose — parole ontologiche, vere e proprie raziones semzinales del mondo e strumenti di una teologia poetica che egli non fece in tempo a lasciarci.

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Letteratura speculativa: Giovanni Pico della Mirandola

Bibliografia Per una completa bibliografia critica rinviamo alle schede di F. Bausi in P. Viti (a c. di), Pico, Poliziano e ’Umanesimo di fine Quattrocento, Olschki, Firenze 1994. Cfr. E. Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano,

Sansoni, Firenze 1961; L’opera e il pensiero di Giovanni Pico della Mirandola nella storia dell’Umanesimo, Conve-

gno internazionale (Mirandola 15-18 settembre 1963), Istituto di Studi sul Rinascimento, Firenze 1965, 2 voll., e più in generale si vedano A. Lanza, Polemiche e berte

letterarie nella Firenze del primo Rinascimento (13751449), Bulzoni, Roma 1989; D. Coppini, Gli umanisti e i classici: imitazione coatta e rifiuto dell’imitazione, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, XIX, n. 1, 1989, pp. 269-285; G.C. Garfagnini (a c. di), Lorenzo il Magnifico e il suo tempo, Olschki, Firenze 1992; F. Tateo, L'Urzanesimzo, in Aa.Vv., Lo spazio letterario del Medioevo, Salerno, Roma 1992, vol. I; F. Bausi, Nec rbetor neque philosophus. Fonti, lingua e stile nelle prime opere latine di Giovanni Pico della Mirandola, Olschki, Firenze 1996; V. Allegretti, Esegesi medievale e umanesimo. L’“Heptaplus” di Giovanni Pico della Mirandola, Olschki, Firenze 1997; G.C. Garfagnini (a c. di), Giovanni Pico della Mirandola. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Olschki, Firenze 1998; F. Rico, I/ sogno delUmanesimo. Da Petrarca a Erasmo, Einaudi, Torino 1998:

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Letteratura verbale: Angelo Poliziano

Che l’ars grammatica possa divenire causa efficiente dell’intera attività intellettuale dell’individuo, for-

nendogli una chiave d’accesso al sapere, compresa la teologia, è forse la principale “invenzione” dell’umanesimo italiano. Indagare «omne scriptorum genus, poetas, historicos, oratores, philosophos, medicos, iureconsultos» (Poliziano, Larzia) rende l’uomo degno di se stesso proprio in quanto la parola, l’elo-

quenza, la capacità di articolare in ltterae l'esistente costituiscono ciò che lo distingue dal mondo animale. Educata sulla lezione dei classici e corroborata dalle arti del #1viu72, l’espressione verbale non si preclude alcun orizzonte speculativo: per la letteratura è dunque giunto il momento di ampliare i propri confini, annettendosi funzioni socio-antropologiche prima impensabili. Enormi distese di sapere si offrono adesso all’adepto degli studia bumanitatis non solo per il venire alla luce di sempre nuove porzioni testuali dell'antichità, ma perché le litterae ampliano gli organici e diversificano le competenze, restituendo agli studiosi con i debiti interessi le energie impegnate nella ratio studiorum.

Per il lettore del tardo Novecento, spettatore di un’integrale divaricazione della cultura umanistica da quella scientifica, della Kultur dalla Zivilisation, è difficile immaginare l'originaria indifferenziazione da cui quella dicotomia si è generata. Storia, oratoria, 36

Letteratura verbale: Angelo Poliziano

poetica, dialettica, retorica costituiscono un’area di

apprendimento in cui erudizione ed eleganza espressiva risultano potenziate dall’ideale stesso della vita

contemplativa. L’otiosa tranquillitas celebrata dalle

epistole e dai trattati umanistici ha infatti una elevata redditività pedagogica, ma rappresenta altresì un contrassegno simbolico di classe: già nella seconda metà del Quattrocento l’umanesimo e il classicismo vengono messi in relazione «con il bon ton dei cittadini di riguardo», nella consapevolezza — cui dà voce il De falso et vero bono del Platina — che solo quanti possiedono le buone arti avvertono con straordinaria acutezza le qualità più varie e persino opposte: il loro soggetto umano ha infatti un che di delicato e di squisito che negli altri è assente, e hanno sensi prontissimi alla conoscenza delle cose (F. Rico, 1998).

Dalla grafia al modo di vestirsi e di stare a tavola, gli studia humanitatis si preoccupano di ingentilire i costumi e offrono, rispetto alla Scolastica, il pregio di un'infinita flessibilità, che rende il modello culturale

dell’umanesimo esportabile ovunque e idoneo a formare l’oligarchia di principati o repubbliche. Coluccio Salutati, Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni, | Leon Battista Alberti sono insieme assertori del valo-

re formativo delle humzanae litterae e uomini facoltosi, di grande prestigio socio-economico.

Versatile e polivalente (il Bruni traduce testi antichi e istituisce il catasto), l’umanesimo prende corpo nella penisola italiana attraverso l’assunzione della letteratura strettamente intesa tra gli strumenti che

permettono di governare l’esistenza, ma si tratta di una flessibilità di breve momento: già con Poliziano, 37

L'idea di letteratura in Italia

il peritissimo dominio della filologia classica acquisisce i tratti della ricerca specialistica e cessa di influenzare in larga misura altri saperi. Ogni ideale annessionistico inizia una lenta ritirata, e se la letteratura diviene un territorio in mano all’elocutio, l’uma-

nista amministra meno una nuova etica della socialità che non il thesaurus della classicità. Tuttavia, all’altezza cronologica del Landino, presso il quale si formò Poliziano, tutto questo è ancora lontano. Docente di oratoria e poetica nello Studio fiorentino tra il 1458 e il 1488, dove tenne corsi su autori latini (soprattutto Cicerone, Virgilio, Orazio) o toscani (Dante e Petrarca), Cristoforo Landino ricopre anche importanti cariche nella Cancelleria di Firenze e si muove tra un'attività giovanile volta soprattutto alla stesura di versi latini e quella di studioso di letteratura; infine, a partire dai quattro dialoghi delle Disputationes

Camaldulenses

(1473),

affronta

una

serie di problemi filosofici. Sul piano delle opzioni stilistico-retoriche, la ricerca del Landino offre già di per sé elementi degni di nota: il rifiuto della poesia volgare duecentesca e, in parte, del Boccaccio in quanto privi dei necessari contrassegni di eleganza formale; l’esaltazione di Dante — autentico fondatore della poesia italiana e più meritevole di Omero, poiché la lingua utilizzata non aveva ancora raggiunto punti eccelsi all’epoca di stesura della Corzzzedia; la parziale canonizzazione poetica di Petrarca e quella, senza riserve, dell’Alberti in ambito prosastico configurano, al termine del cammino critico del Landino, il modello di un danti-

smo tragico venato di petrarchismo, che verrà ripreso nel secolo successivo. Ma dietro il trionfo critico di Dante si riconosco38

Letteratura verbale: Angelo Poliziano

no gli orientamenti platonici di Landino — in questo più precoce ancora del Ficino —, relativamente alla distinzione tra il «vate» mosso unicamente da un furor imperscrutabile e il «poeta», intermediario tra il fare ex rzbilo della divinità e quello manipolatorio, meramente assemblativo dell’artigiano. In una fase di transizione storica che conduce dalla crisi dell’umanesimo civile, ove la letteratura è parte integrante della pazdeia, alla formazione autonoma di una filologia per la quale il testo poetico è un documento da vagliare storicamente, Landino opta per la dottrina platonica dell’entusiasmo quale fattore genetico della poesia, autentico sostegno dell’enciclopedia del sapere e della dignità individuale, mostrandosi sempre più convinto dell’utilità della retorica quando si discuta di filosofia (De anima, 1471).

Il paradigma del poeta-filosofo incarnato da Omero, Virgilio e Dante induce Landino, dopo Boccaccio,

a legittimare un’interpretazione allegorico-morale dei testi letterari: moltiplicati dallo sguardo esoterico dell'interprete, stipati di significati e rinvii ad altre opere, tali test? sono in realtà intertesti che transitano liberamente dalla Atene periclea alla Firenze medicea, e i

cui elementi semantici strutturali traggono origine dall'ispirazione divina del poeta-teologo. Comprensibile, - allora, che la permanenza di questa falda platonica di significati allegorici favorisca l'elogio della forma mutevole e della versatilità retorica, quali sono presenti nei testi di Leon Battista Alberti, che «come nuovo

camaleonta sempre quello colore piglia el quale è nella cosa della quale scrive» (Corzento alla Commedia | dantesca). L’incipiente processo di platonizzazione della cultura fiorentina inizia dunque con il distinguere il livello universale dei principi e delle idee da quel39

L’idea di letteratura in Italia

lo particolare delle forme sensibili, la perennità del

pensare dall’obsolescenza dell'agire («Actiones enim una cum hominibus suum finem sortiuntur. Speculationes autem cuncta saecula vincendo immortales perdurant», come si legge in una disputatio camaldolense): del loro incontro si occupa la retorica, secondo Landino strumento di partecipazione coesiva (methexis) del mutevole con l’immutabile. Un territorio comune, destinato ad assorbire le tensioni politicospeculative interne all’umanesimo. Proprio tra queste tensioni si muove il Poliziano (1454-1494) attraverso un cammino che dalla letteratura primaria lo conduce a quella secondaria, critica e commentativa, dalla filologia alla filosofia, dall’attività poetica delle Stanze alla serie di lezioni nello Studio fiorentino in qualità di professore di eloquenza greca e latina (1480-1494), a cominciare dal corso su Quintiliano e Stazio. Le opzioni di gusto, i canoni estetici hanno tuttavia sollecitato Poliziano a esprimere un incessante apprezzamento dello stile flessibile («docta varietas», «multiplex lectio» sono sintagmi assai frequenti in Poliziano) e, se non originale, consapevole di sé. I “moderni” iniziano a vantare qualche diritto, come appare chiaro dalla polemica che egli intrattenne con Paolo Cortesi sulla necessità di non dogmatizzare il ciceronianismo, declinando la imitatio in semplice aemulatio. La letteratura, d’altronde, non va più difesa con-

tro gli attacchi di medici e giuristi, come ancora accadeva a Petrarca e Boccaccio; ben inserita nella pa: deia umanistica, si tratta ora di precisarne il ruolo,

misurarne la posologia, identificarne i confini. A soccorrere Poliziano in tale operazione è il paradigma culturale offerto da Quintiliano e dalla sua idea del40

Letteratura verbale: Angelo Poliziano

l'oratore quale figura cardine, in grado di mediare i conflitti disciplinari e risolvere gli ostacoli pratici della vita pubblica. Il simultaneo dominio della logica,

della retorica, della grammatica e della poetica consente all’oratore non solo di migliorare la comprensione della realtà attraverso una retta intelligenza delle parole, ma incrementa altresì il controllo di quella copia verborum che, anche per Lorenzo de’ Medici, renderebbe una lingua «atta ad esprimere bene il senso e il concetto della mente». Infatti, l’ab-

bondanza di termini è un criterio per valutare l’efficienza referenziale di una lingua e insieme il privilegio professionale dell’orator quintilianeo celebrato da Poliziano, in grado di fornire una corrispondenza lessicale a qualsivoglia realtà oggettuale o concettuale. E al modo stesso in cui il De institutione oratoria segna un ampliamento della retorica come introduzione allo studio della letteratura (segnatamente nel libro x) e insieme ars, nucleo vitale di una formazione interiore, per Poliziano il gramzzzaticus rappresenta il custode della sapienza sedimentatasi nelle parole, colui al quale i nemici rimproverano di volersi

occupare di filosofia (così nella Larzia, prolusione in prosa all’ultimo corso del 1493-94 sui Priora di Aristotele). È tale custode a svolgere le mansioni di sto‘rico della parola e a notomizzare la poesia, in grado di lenire l’indocilem sensum e le passioni dell’uomo, rafforzare l’esercizio della volontà, evocare l’inesistente, celebrare o biasimare l'esistente: così nei Nytricia, poemetto in esametri latini databile intorno al 1486.

Se si sfogliano le due centurie dei Miscellanea (di cui la seconda interrotta dalla morte) non si tarda a comprendere che la fondazione di una filologia abi4l

L’idea di letteratura in Italia

lissima nel ricostruire l'originario contesto ambientale di un lessema, sciogliere ambiguità o al contrario ricostruire allusioni intertestuali prima inavvertite, non fa che trasformarla in una disciplina tra le altre,

amministratrice delegata del patrimonio classico 4 insieme responsabile dello smembramento dell’ideale umanistico della sapientia. Collocati nel luogo e nel tempo originari, i testi letterari vengono proprio per ciò strappati al presente. Nessun anacronismo,

ma anche nessuna falsificazione vivificante: Ciò che per un verso è evoluzione, è per l’altro involuzione: in nome di un’esasperata filologia si rinuncia ormai al sogno di rifondare una nuova civiltà, l’inizio della Altertumswissenschaft segna la fine dell’umanesimo come animatore di tutta la cultura (F. Rico, 1998).

Soprattutto dopo il soggiorno veneto e la “svolta” intorno al 1480, l'apparente impoverimento formativo

della filologia comportò tuttavia un mutamento nella teoria letteraria, descrivibile come un passaggio dal platonismo all’aristotelismo cui non è estraneo l’incontro di Poliziano con Ermolao Barbaro, studioso e com-

mentatore dell’opera aristotelica. Il furor encomiastico nei confronti della poesia che trapela dai Nutricia (vv. 139 ss.), dai Miscellanea (1,4 e II, 1) o dalla Praelectio de

dialectica può ingannevolmente far pensare alla dottrina, invalsa sino al Landino, del poeta-teologo. Ci si trova in realtà entro uno spazio geometrico in cui — come

poi per l’aristotelismo cinquecentesco — valgono le tecniche, i modelli formali, i codici di genere, e dove i lin-

guaggi (tanto dei poeti tardo-romani come degli scrittori stilnovistici e degli autori di cantari) possono avere eguale dignità ed efficacia referenziale. Così, prima nei Nutricia e in seguito nel Panepistemon Poliziano rifor42

Letteratura verbale: Angelo Poliziano

mula l’idea aristotelica del primato della poesia in quanto luogo dell’universale, e per ciò stesso in grado di svolgere un ruolo pedagogico attraverso z75t2t/0 e concentus («Duae potissimum causae videntur Aristoteli poeticen genuisse: imitatio et concentus»). La Poe-

tica di Aristotele, che per primo Ermolao inserì nel quadro generale di un'estetica filosofica e che Poliziano inizia a citare solo dopo il suo soggiorno a Venezia, non contrasta affatto con i progressi della filologia, se uno dei suoi fondamenti è la considerazione del testo poetico al modo di un manufatto verbale e del segno linguistico in rapporto alle res o ai concetti. L’oscillazione che si registra nell’opera critica del Poliziano a proposito delle relazioni tra poetica, retorica e dialettica (inesistenti per l’Oratio super Fabio Quintiliano, pienamente sussistenti per il Panepistemon) segnala già l’incipiente mutare del clima teorico, ormai lontano dall'immagine di una poesia teologica. Poliziano non avrebbe potuto più consentire a un commento allegorico-morale che continuasse a vedere — dietro la soglia letterale di un testo — le figure della dottrina cristiana, e al tempo stesso non avrebbe più potuto separare i nomi dalle cose, la dialettica dalla retorica, «la tecnica del pensiero dalla tecnica dell’espressione» (V. Branca, 1983). Come mostrano i

versi 34-196 dei Nutricia, in parte esemplati sul De rerum natura, la poesia ha consentito all’umanità di uscire da uno stato ferino in un’epoca di indistinzione tra teologia, filosofia, letteratura. Se la poesia è lin-

guaggio, vis insita cordi, il cui uso viene promosso (“prompserat usus”) dalla umiliante condizione dell’uomo primitivo onde vincerne il torpore, non stupisce che Poliziano saldi i debiti attraverso i suoi nutricia — letteralmente, gli emolumenti pagati alle nutrici. 43

L’idea di letteratura in Italia

Bibliografia Per l’idea di letteratura e retorica nella Firenze quattrocentesca e in Landino cfr. A. Perosa, Febris: a poetic mith created by Poliziano, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, xI, 1949, pp. 74-95; C. Vasoli, La dialettica e la retorica dell'Umanesimo. “Invenzione” e “Metodo” nella cultura del xV e XVI secolo, Feltrinelli, Milano 1968; R. Cardini, La critica del Landino, Sansoni, Firenze 1973; l’introduzione del medesimo a C. Landino, Scritti critici e teorici, Bulzoni, Roma 1974,

2 voll.; F. La Brasca, Du prototype è l’archétype: lecture allégorique et reécriture de Dante dans et par le commentaire de Cristoforo Landino, in G. Mazzacurati, M. Plaisance (a c. di), Scritture di scritture. Testi, generi, modelli nel Rinascimento, Bulzoni, Roma 1987; R. Cardini, Landino e Dante, in “Rinascimento”, XXX, 1990, pp. 175-190; Id., Landino e Lorenzo, in “Lettere Italiane”, XLV, n. 1, 1993, pp. 361-375; D. Parker, Commentary

and Ideology; Dante in the Renaissance, Duke University Press, Durham-London 1993. In particolare su Poliziano cfr. C. Dionisotti, Calderini, Poliziano e altri, in “Italia Medioevale e Umanistica”, XI, 1968, pp. 151-185; V. Branca, Poliziano e l'umanesimo della parola, Einaudi,

Torino 1983; L. Cesarini Martinelli, “De poési et poètis”: uno schedario sconosciuto di Angelo Poliziano, in R. Cardini, E. Garin, L. Cesarini Martinelli, G. Pascucci (a c. di), Tradizione classica e letteratura umanistica, Bulzoni, Roma 1985, vol. II; A. Bettinzoli, A proposito delle “Syl-

vae” di Angelo Poliziano: questioni di poetica, in “Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Memorie”. Classe di Scienze Morali, Lettere ed Arti, xLM, 1990, pp. 3-94; U. Dotti, La città dell’uomo. L'umanesimo da Petrarca a Montaigne, Editori Riuniti, Roma 1992; P. Godman,

Poliziano’s Poetics and Literary History, in “Interpres”, xMI, 1993, pp. 110-209; F. Bausi, Sui “Nutricia” di Ange-

44

Letteratura verbale: Angelo Poliziano lo Poliziano. Questioni esegetiche e testuali, in “Interpres”, XIV, 1994, pp. 163-197; M. Martelli, Angelo Poliziano. Storia e metastoria, Lecce 1995; P. Godman, From Poliziano to Machiavelli. Florentine Humanism in the High Renaissance, Princeton University Press, Princeton 1998; F. Rico, I/ sogno dell’Umanesimo. Da Petrarca a Erasmo, Einaudi, Torino 1998.

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“Slow literature”: Pietro Bembo

Le teorie della letteratura possono costituire il raccordo motivato di fatti empirici disparati, da cui esse estraggono induttivamente analogie morfologiche, comunità d’intenti, sinonimie funzionali. In questo caso, come accadrà spesso nel xVm secolo, una teoria è tanto più valida euristicamente quanto maggiore è il suo grado di accoglimento di un corpus testuale, quante più opere sa comprendere nel proprio inquadramento sistemico. Al contrario, talvolta le teorie sono sistemazioni deduttive e a priori di testi ancora inesistenti, programmi di governo morfologici, allestimenti di meccanismi generativi di selezione, cen-

sura, legittimazione. Nel primo caso le teorie svolgono funzioni nomenclative, nel secondo si propongono fini progettuali o addirittura normativi. Non c’è dubbio che quest’ultimo sia il caso delle teorie cinquecentesche, la cui straordinaria proliferazione sin dall’inizio del secolo (ma incessante ancora alla metà del Seicento) ha significati plurimi, benché uguali tendenze dirigistiche siano riscontrabili nella tradizione aristotelica padovana — peraltro difforme —, nella nascente critica filologica dei fiorentini e nella corrente propriamente neoplatonica. Alle origini di tale proliferazione sta tuttavia la riflessione di Pietro Bembo (1470-1547) intorno al problema del linguaggio, contenuta nei tre libri intitolati Prose della volgar lingua, una trattazione in for46

“Slow literature”: Pietro Bembo

ma dialogica edita parzialmente nel 1525 e in edizione definitiva nel 1538. Se nel terzo libro egli offre un’autentica grammatica della lingua letteraria attraverso specimina testuali e commenti critici che glori-

ficano le opere di Petrarca (per la poesia) e Boccaccio (per la prosa), i primi due libri evidenziano un marcato interesse teorico, poiché dal problema, già dantesco, dell’istituzione di una lingua letteraria comune muovono a considerare l’essenza stessa della letteratura. Di per sé, la concezione bembesca del

segno linguistico non è originale. Come per la maggior parte degli umanisti, egli vi intravede un plesso unico di significato e significante, quasi in relazione naturale e non arbitraria, al punto che possedere il secondo comporta un dominio automatico del primo: solo più tardi emergeranno sintomi di una teoria del linguaggio neonominalistica, con il significante a fungere da mero veicolo storico e transeunte del significato, e precisamente con Galileo (benché nel Trattato della lingua ne discuta per tempo Sperone Speroni, non per caso allievo di Pomponazzi, colui che si era fatto portatore di esigenze razionalistiche nella filosofia italiana). Originale è invece la netta separazione che Bembo (nel dialogo delle Prose “rappresentato” dal fratello ‘Carlo e, per altri versi, dall'amico Federico Fregoso)

opera tra oralità e scrittura, tra la fluida e mutevole lingua d’uso da un lato, e la lingua immobile ed eternizzante della letteratura dall’altro. Ha dunque torto Giuliano de’ Medici quando nelle Prose sostiene la necessità da parte degli scrittori di utilizzare una lingua corrente, nota ai lettori, incessantemente 77 pro-

gress, aderente al presente storico della lettura e della produzione del testo. Come gli obietta Carlo Bem-

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L'idea di letteratura in Italia

bo, letteratura è precisamente ciò che tenta di svincolarsi dalla morsa del tempo annullandone la luttuosa progressione e di operare a favore di una leggendaria stabilità. Qui la teoria del Bembo si fa straordinariamente suggestiva, anche perché si genera da ossessioni bio-

grafiche, da un vero e proprio terrore dell’instabilità. Conosciamo l'itinerario di questa ossessione, sin da quando, seguendo il padre ambasciatore, egli assiste al crollo di piccole e meno piccole signorie, sperimenta l’obsolescenza dell’amore (dietro gli Asolar: si celano tre vicende amorose vissute in prima persona), soffre il declino della corte di Urbino e, più tar-

di, le instabilità della grande corte pontificia. Fuggire dal tempo e dalla morte

attraverso la letteratura,

facendo di quest’ultima uno spazio di incessante cristallizzazione delle forme, è il grande sogno nutrito dal Bembo. Non senza significato, il dialogo “neo-

platonico” degli Asolani si apre con una duplice immagine di febbrile instabilità: il «navigatore» preso nei lacci di una tempesta notturna che si affida agli oracoli della bussola, il «viandante» in terra straniera

che viene salvato dalle indicazioni degli abitanti del luogo. È contro tutto ciò che si schiera la letteratura,

anche a costo di apparire un soffocante regesto di obblighi. Principio di imitazione, decorur (cioè congruenza tra materia e forma attraverso la teoria dei tre stili), morfologie di genere sono elementi che non mancano in Bembo, ma non costituiscono certo il

focus della trattazione. Adesso è l’ostilità verso la voce e l’aleatorietà della parola pronunziata, emessa in un contesto spazio-temporale definito, a generare il progetto di un mondo immobile. Si comprende

48

“Slow literature”: Pietro Bembo

bene come nelle Prose della volgar lingua Dante non possa costituire un autore-modello: troppi elementi di cronaca, troppi riferimenti satirici, soprattutto eccessivi adeguamenti della parola letteraria all’identità storico-psichica degli enuncianti (persino l’ammirato Boccaccio, ogni qual volta nel Decameron fa parlare i personaggi con il /oro linguaggio, incorre nelle censure del Bembo). Transtorica e identica a se stessa, la letteratura è

antropologicamente necessaria per fermare il corso della storia, e l'arresto diviene possibile solo lavoran-

do sulle forme, ispirandosi agli apici letterari (Virgilio e Cicerone per il latino, Petrarca e Boccaccio per il volgare), istituendo implacabili dogane tematiche, da cui risultino censurate immagini troppo anomale, idiomatiche, transeunti. Se questa non fosse stata la funzione delle Prose — un repertorio sin troppo angusto, in particolare nel terzo libro, di possibilità morfologiche —, non ne sarebbe rimasta traccia nella cultura italiana e in quella francese, che attraverso la mediazione del Minturno a lungo si ispirerà all’utopia bembesca di un’infinita trasparenza e all'idea che a essere rifiutata dall’artifex sia l'origine naturale dei linguaggi, il loro immanente attualismo. Infatti a opinione del Bembo (come si legge nell’Epistola de imitatione, scritta all’inizio del suo soggiorno romano nel corso di un dibattito sull'educazione retorica che lo contrappose a Gian Francesco Pico della Mirandola, nipote di Giovanni) le lingue sono sì in movimento e mutano nel tempo, ma prima o poi giunge sempre l’istante in cui pervengono a realizzazioni

uniche che le trasformano in paradigmi immutabili. Di qui la necessaria pressione esercitata dagli apparati dottrinari e la certezza che l’inventio dello 49

L’idea di letteratura in Italia

scrittore — il cui pubblico è sempre a futura memoria, collocato al di là del tempo — debba muovere da un repertorio fisso di forme e topo:. Lo sperimentalismo dantesco, il naturalismo del Poliziano, la multiplex

lectio degli eruditi fiorentini, le tendenze centrifughe degli scrittori dialettali, la diaspora dei linguaggi settoriali vanno combattuti proprio in quanto debilitano il potere eternizzante della letteratura e il suo ruolo terapeuticamente stabilizzatore, solo in parte da correlare al cosmopolitismo ecumenico degli umanisti. Entro le mura di questa teoria della letteratura, come ha scritto Giancarlo Mazzacurati (1985), emer-

ge l'assoluta supremazia del linguaggio lirico, «la sua trasparenza a se stesso, la sua resistenza chiusa, dia-

mantina ai segni dell’oralità, alle sue metamorfosi». Nella previsione di un annullamento del tempo, e in modo largamente autonomo dai temi trattati, è necessario concentrarsi sulla scrittura, modello epistemologico di ogni realtà autosufficiente e nemica giurata della lingua d’uso: Né solamente questa fatica, che io dico, del parlare, ma

un’altra ancora vie di questa maggiore sarebbe da noi lontana, se più che una lingua non fosse a tutti gli uomini, e ciò è quella delle scritture; la quale perciò che a più largo e più durevole fine si piglia per noi, è di mestiero che da noi si faccia eziandio più perfettamente, con ciò sia cosa che ciascun che scrive, d’esser letto disidera dalle genti, non pur che vivono, ma ancora che viveranno, dove il parlare da picciola loro parte e solo per ispazio brevissimo si riceve; il qual parlare assai agevolmente alle carte si manderebbe, se niuna differenza v’avesse in lui.

Nel culto della letteratura scritta e dei suoi materiali — grafemi di lunga sperimentazione, sintagmi già 50

“Slow literature”: Pietro Bembo

onorati da prove di stampa — le pagine delle Prose mostrano appunto una via di salvezza per l’uomo rinascimentale e per il suo ideale di una laica eternità. i

Bibliografia Sull’autore da un punto di vista teorico-letterario cfr. almeno B. Weinberg, A History of Literary Criticism in the Italian Renaissance, University of Chicago Press, Chicago 1961; C. Dionisotti, Pietro Bembo e la nuova letteratura, in Aa.Vv., Rinascimento europeo e Rinasci-

mento veneziano, a c. di V. Branca, Olschki, Firenze 1967; K.O. Apel, L'idea di lingua nella tradizione dell’umanesimo da Dante a Vico, trad. it., il Mulino, Bologna 1975; P. Floriani, Berzbo e Castiglione. Studi sul classicismo italiano, Bulzoni, Roma 1980; R. Scrivano, La nor-

ma e lo scarto. Proposte per il Cinquecento letterario italiano, Bonacci, Roma 1980; P. Floriani, I gentiluomini

letterati. Studi sul dibattito culturale nel primo Cinquecento, Liguori, Napoli 1981; C. Bologna, Tradizione e fortuna dei classici italiani, Einaudi, Torino 1983; G. Mazzacurati, Il rinascimento dei moderni. La crisi culturale del xvi secolo e la negazione delle origini, il Mulino, Bologna 1985; M. Pozzi, Lingua, cultura, società. Saggi sulla letteratura italiana del Cinquecento, Ed. dell'Orso, Alessandria 1989; G. Belloni, Laura tra Petrarca e Bermbo. Studi sul commento umanistico-rinascimentale al “Canzoniere”, Antenore, Padova 1992; A. Mondaton (a c. di), Traités de savoir-vivre en Italie, Association des pubblications de la Faculté des lettres et sciences humaines, Clermont-Ferrand 1993; S. Briosi, Pietro Bembo: la natura, l'artificio, il modello, in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia. Università di Siena”, 15,

51

L’idea di letteratura in Italia 1994, pp. 65-78; N.E. Land, The Viewer As Poet: the

Renaissance Response to Art, Pennsylvania State University Press, University Park, 1994; L. Bolzoni, Mezzorza e gioco nella letteratura del Cinquecento: gli “Asolani” e altri esempi, in L. Lugnani, M. Santagata, A. Stussi (a c. di), Studi offerti a Luigi Blasucci, Pacini Fazzi, Lucca 1996; K.W. Hempfer, Testi e contesti. Saggi post-ermeneutici sul Cinquecento, Liguori, Napoli 1998.

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Endo-letteratura: Torquato Tasso

Il predominio dell’aristotelismo nel Cinquecento italiano è un fatto documentato e di rilevanza non sottovalutabile. Le date di questa ascesa sono note: la Poetica di Aristotele viene tradotta prima in latino, poi in italiano e sottoposta a un analitico lavoro di esegesi marginale (Giorgio Valla, 1498; Alessandro de’ Pazzi, 1536; Francesco Robortello, 1548; Vincen-

zo Maggi, 1550; Ludovico Castelvetro, 1570). Decodificato dai suoi interpreti rinascimentali e immesso nelle instabili molecole del potere signorile, l’aristotelismo è innanzitutto il sintomo di un tentativo di rifunzionalizzazione della letteratura e di incremento dei metalinguaggi, cioè di quelle autodescrizioni di cui ogni sistema culturale necessita nei momenti di trasformazione. Dietro il volto dello Stagirita si scorge il tentativo di valorizzare l'apporto cognitivo della scrittura letteraria, l’unificazione dei sistemi espressivi in rapporto a un pubblico più esigente, la quadratura sistemica dei generi discorsivi in quanto linguaggi settoriali, cui si correlano precisi contesti spazio-

temporali, la razionalizzazione della filosofia linguistica per rimettere in equilibrio le parole e le cose. Ma questi sono soltanto alcuni degli elementi tendenziali dell’aristotelismo cinquecentesco. Man mano che sfuma il prestigio scettico ed empirico dell’Epistola ad Pisones di Orazio — ancora fondamentale nei primi trent'anni del XVI secolo e rilet53

L’idea di letteratura în Italia

ta da Ascensio Badio, Marco Girolamo Vida, Bernar-

dino Daniello —, il vigore tassonomico del pensiero aristotelico veicola un'attitudine intellettuale che vede nella riflessione metaletteraria un generatore di strutturalità: assimilando i testi scritti ad altrettante autodescrizioni che una cultura si dà per stabilire incessantemente i propri confini e regolare secondo opposizioni simboliche binarie il rapporto tra caos e ordine, entropia e informazione, natura e artificio,

l’aristotelismo concepisce la letteratura come analogon verbale del mondo e sua riproduzione modellizzante, un sistema di ambiti retorici circoscritti, di aree tematiche strettamente formalizzate. La grande intuizione di Aristotele era infatti stata quella di consegnare alla storiografia il compito di codificare il particolare, e all'arte di enunciare l’uni-

versale sotteso ai piccoli fatti storici, giungendo in tal modo alla teoria del verisimile come accadimento possibile. Tuttavia proprio questo ampliamento funzionale, responsabile peraltro di un fertile connubio della letteratura con la filosofia, aveva aperto il testo letterario al rischio della menzogna volontaria o preterintenzionale: il finto avrebbe potuto degenerare in falso, l’universale in fantasiosa impossibilità. La que-

relle interna all'ambiente aristotelico cinquecentesco, talvolta aspra, si genera in grande misura dal problema della referenzialità letteraria, con la conseguenza

paradossale che l’inventio — quell’elaborazione di concetti e temi che per Aristotele doveva costituire un compito primario dell’arte — risulterà alla fine del secolo subordinata all’elocutio. A testimoniare le tensioni metalinguistiche della civiltà rinascimentale e il nuovo ruolo strutturante assegnato al testo letterario sono numerosi fattori: i rigori selettivi di Giangiorgio

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Endo-letteratura: Torquato Tasso

Trissino; il depauperamento di ogni valenza pragmatica cui Sperone Speroni sottopone la retorica; l’individuazione nel testo poetico di principi universali 27 re da parte di Giulio Cesare Scaligero e la sua cònvinzione che universo linguistico e mondo delle cose si identifichino; la razionalizzazione dei procedimen-

ti compositivi di genere operata da Francesco Robortello; la scienza della letteratura come organicità dei suoi livelli semantici ed espressivi fondata da Ludovico Castelvetro. È a questo punto che la riflessione del Tasso (1544-1595) offre un contributo straordinario per competenza tecnica e sistematicità teorica. Attraver-

so studi che occupano più di trent'anni di attività (Discorsi dell’arte poetica; Lezione sopra il sonetto “Questa vita mortal” di Monsignor Della Casa; Considerazioni sopra tre canzoni di M. Gio. Battista Pigna;

Apologia in difesa della Gerusalemme Liberata; Dialoghi; Discorsi del poema eroico), egli comincia innanzitutto col ricordare che per Aristotele le parole sono «imitazione de’ concetti», con conseguente subordinazione dell’elocuzio all’inventio, benché poi il linguaggio filosofico sia denotativo, mentre la letteratura presceglie formulazioni connotative che aggiungono ai concetti «quel bello e maraviglioso che ‘n loro | appare», in grado di evidenziare il processo interiore della ricezione. Filosofia e letteratura: linguaggi che parlano di cose, oppure linguaggi che veicolano il plusvalore dato dal rapporto che il destinatario dell’enunciato ha con quelle cose: parole filosofiche vecchie, o parole letterarie nuove che ringiovaniscono la realtà, le danno uno spessore inedito, promanano tensioni comunicative altrimenti inattingibili (Lezione sopra il sonetto “Questa vita mortal”). DI

L’idea di letteratura in Italia

Pervenuto a tale preliminare conclusione, per Tasso è l'essenza veritativa dei «concetti» a dover essere discussa, e con essa la relazione tra poesia e storia,

verità e finzione. Senza troppe cautele, egli si mostra sì convinto che la veridicità storica sia necessaria a ogni testo letterario “alto”, ma altrettanto garantita deve essere la libertà dello scrittore di «ridurre gli accidenti delle cose a quel modo ch'egli giudica migliore, co ‘l vero alterato il tutto finto accompagnando». Tale ammissione è funzionale al grado di metadescrizione che Tasso riconosce al testo letterario — quasi un micro-modello dell’universo, un mondo in miniatura, dominabile e rassicurante, fondato

sulla legge della «discorde concordia», una “struttura” semiotica di interdipendenze, un congegno collettivo per classificare la realtà e ridurne la perniciosa complessità: Però che, sì come in questo mirabile magisterio di Dio, che mondo si chiama, e ‘1 cielo si vede sparso o distinto di tanta varietà di stelle e, discendendo poi giuso di mano in mano, l’aria e ‘l mare pieni d’uccelli e di pesci, e la terra albergatrice di tanti animali così feroci come mansueti, nella quale e ruscelli e fonti e laghi e prati e campagne e selve e monti si trovano [...]j con tutto ciò uno è il mondo che tante e sì diverse cose nel suo grembo rinchiude, una la forma e l’essenza sua, uno il nodo

dal quale sono le sue parti con discorde concordia insieme congiunte e collegate [...]; così parimente giudico che da eccellente poeta [...] un poema formar si possa nel quale, quasi in picciolo mondo, qui si leggano ordinanze d'’esserciti, qui battaglie terrestri e navali, qui espugnazioni di città, scaramucce e duelli, qui giostre, qui descrizioni di fame e di sete, qui tempeste, qui incendii, qui prodigii, là si trovino concilii celesti e infernali, là si veggano sedizioni, là discordie, là errori,

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Endo-letteratura: Torquato Tasso là venture, là incanti, là opere di crudeltà, di audacia, di cortesia, di generosità, là avvenimenti d’amor or felici,

or infelici, or lieti, or compassionevoli; ma che nondimeno uno sia il poema che tanta varietà di materie contegna, una la forma e la favola sua, e che tutte queste cose siano di maniera composte che l’una l’altra riguardi, l’una all’altra corrisponda, l’una dall’altra o necessariamente o verisimilmente dependa, sì che, una sola

parte o tolta via o mutata di sito, il tutto ruini.

A non dover sfuggire nell’elencatio del Tasso è tra l’altro il predominio degli eventi infausti — dalle «scaramucce» alle «opere di crudeltà» —, poiché è esso a generare l’utopia di una messa-in-forma della realtà, ridotta a «picciolo mondo» in un testo letterario che si avvale della poetica aristotelica quale scienza della correlazione funzionale di aree disciplinari e referenziali differenti. Sin qui, la riflessione del Tasso ha già ridisegnato il ruolo della letteratura: metadescrizione della realtà, luogo di esercizio del possibile attraverso l’idea di verosimiglianza, strumento di dominio intellettuale,

sintomo e causa di fenomenologie psichiche che vanno da una percezione di ringiovanimento delle cose a un’assunzione di consapevolezza da parte del lettore. Resta, come è naturale, da precisare la morfologia

attraverso cui tale ruolo della letteratura possa divenire effettivo. In apparenza le annotazioni del Tasso, geniali e perspicue, sembrano configurare un canone

estetico limitato al poema eroico; in realtà, esse sono il riflesso di una teoria della letteratura destinata a essere rivisitata dalle generazioni future almeno sino alla fine del Settecento. Tra i fondamenti di tale teoria possono essere annoverati i seguenti: il concorso allitterativo di con-

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L'idea di letteratura in Italia

sonanti aspre e vocali «d’una stessa natura», le costruzioni sintattiche lunghe e frantumate attraverso sapienti enjambements e asindeti, il mescolarsi dei registri drammatici e narrativi, flebili e tragici, l’esigenza mai intermessa di incrementare il tasso di iconicità della lingua italiana, il ricorso all’eroismo non come repertorio di gesti storicamente «grandi» bensì «puri», assoluti, irrevocabili come le Idee platoniche, soprattutto la convinzione che ogni testo letterario (sonetto, canzone o poema eroico) debba muovere

dal confuso al distinto, dal generale al particolare, iniziando da un caos momentaneo di informazioni e immagini per giungere infine alla concretezza di un oggetto o all’identità ultima di un individuo, come Erminia e i suoi amori, di cui nella Gerusalermzzze si

ha prima «alcuna ombra di confusa notizia» nel terzo canto, poi «più distinta cognizione» nel sesto, e «particolarissima» nel diciannovesimo. L’acuta ipotesi di Fredi Chiappelli (1981), secondo la quale l’opera del Tasso sarebbe dominata da un incessante claustromorfismo (oggetti e individui che appaiono chiusi, avvolti in se stessi, e che alla fine sono riportati in piena luce, «scoperchiati», aperti: il sepolcro di Cristo, Gerusalemme protetta da mura invalicabili, la

foresta incantata, Clorinda sigillata in un’armatura da cui “esce” solo pochi istanti prima di morire), identifica il correlativo morfologico di una teoria della letteratura per la quale il testo ci induce al signoreggiamento del caos attraverso un processo psichico complesso, dal quale non sono escluse percezioni terrifiche del «non so che», «sospensioni dell’auditore», aneliti catartici (Discorsi del poema eroico). Un'idea di letteratura così ambiziosa, anche là dove tenta di regolare il microsintagma stilistico, chie58

Endo-letteratura: Torquato Tasso

de di godere dei diritti di un’assoluta extraterritorialità e finisce immancabilmente per annettersi la globalità stessa del cosmo. Tutto può e anzi deve essere posto dinanzi «agli occhi», ogni registro stilistico è permeabile ad altri registri, il finto e il falso si mescolano al vero, il campo di investigazione della mimesi.si amplia dalle «azioni umane e divine» agli «elementi naturali» o agli impulsi emotivi dell’individuo. La letteratura è bulimica di realtà, «amplissima oltre tutte l'altre» discipline e in grado di abbracciare le cose alte e le basse, le gravi e le giocose, le meste e le ridenti, le publiche e le private, l’incognite e le conosciute, le nuove e le antiche, le nostre e le straniere, le

sacre e le profane, le civili e le naturali, l’umane e le divine.

I suoi limiti sono la terra e il cielo, anzi «l’altissima parte del cielo», poiché il panottismo da cui essa si genera coglie persino «le cose che sono sotto la terra» e quelle «che a pena con l’intelletto possiamo considerare». Naturale che questa utopia di una riscrittura capillare del mondo pervenisse, nell’ultimo Tasso, a rivalutare il metodo della decifrazione allegorica,

come era avvenuto per la cultura medievale e come - insegnava l’ermeneutica dei testi sacri. Sintomo di un desiderio di infinita totalizzazione, la sovrasignificazione allegorica invocata dal Tasso nel Giudizio sovra la sua Gerusalemme da lui medesimo riformata conse-

gna alla letteratura la libertà dalle costrizioni del significato storico («io mi servo più dell’allegoria in quelle parti del mio poema ove più mi sono allontanato dall’istoria») e avvia quel processo di disancoramento dal reale che prelude al Barocco. Il predomibi)

L’idea di letteratura in Italia

nio delle res sui verba finisce dunque per legittimare, paradossalmente, il ricorso alla “fantasia”, con un capovolgimento storico-funzionale che rammenta in forme del tutto diverse quello che, nel secondo Ottocento, condurrà dal romanzo ciclico verghiano, assetato di realtà e ossessionato dall’idea di catturarne quante più porzioni fosse possibile, al romanzo psicologico di d'Annunzio.

Bibliografia Sulle teorie letterarie elaborate dal Tasso cfr. almeno R. Durling, The Figure of the Poet in Renaissance Epic, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1965; G.

Baldassarri, Introduzione ai “Discorsi dell’arte poetica” del Tasso, in “Studi Tassiani”, 26, 1977, pp. 31-33; R.

Scrivano, La norma e lo scarto. Proposte per il Cinquecento letterario italiano, Bonacci, Roma 1980; E. Raimondi, Poesia come retorica, Olschki, Firenze 1980; F.

Chiappelli, I/ conoscitore del caos. Una “vis abdita” nel linguaggio tassesco, Bulzoni, Roma 1981; C. Scarpati, Studi sul Cinquecento italiano, Vita e Pensiero, Milano 1982; B. Basile, ‘Poéta melancholicus’. Tradizione classica e follia nell'ultimo Tasso, Pacini, Pisa 1983; W.-D. Stempel, K. Stierle (a c. di), Die Pluralitàt der Welten. Aspekte der Renaissance in der Romania, Fink, Miinchen 1987; D. Javitch, Selfjustifving Norms in the Genre Theories of Italian Renaissance, in “Philosophical Quarterly”, 67, 1988, pp. 195-218; F. Erspamer, I/ ‘penstero debole’ di Torquato Tasso, in F. Cardini (a c. di), La menzogna, Ponte alle Grazie, Firenze 1989; C. Scarpati, E. Bellini, I/ vero e ilfalso dei poeti. Tasso, Tesauro, Pallavicino, Muratori, Vita e Pensiero, Milano 1990; N.S.

Struever, Theory as Practice. Ethical Inquiry in the 60

Endo-letteratura: Torquato Tasso Renaissance, University of Chicago Press, Chicago-London 1992; G. Costa, I/ sublime e la magia. Da Dante a Tasso, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1994; C. Scarpati, Tasso, i classici e imoderni, Antenore, Padova 1995; S. Zatti, L'ombra del Tasso. Epica e romanzo nel Cinquecento, Bruno Mondadori, Milano 1996; M. Masoero (a c. di), Torquato Tasso. Cultura e poesia, Scriptorium, Torino 1997; G.M. Anselmi, La saggezza

della letteratura. Una nuova cronologia per la letteratura italiana, Bruno Mondadori, Milano 1998; E. Russo, Una

lettera di Torquato Tasso sull'ordine, in “La Cultura”, XXXVI, n. 3, 1998.

61

Letteratura furiosa: Francesco Patrizi

Dal punto di vista degli orientamenti filosofici, la teoria letteraria del Cinquecento non dimentica il platonismo che nella seconda metà del secolo precedente, nell'ambiente fiorentino dominato da Marsilio Ficino e dall'Accademia, aveva sostenuto gran parte della produzione letteraria. In varie forme, lo si ritrova infatti sino all’età tardo-manieristica nella riflessione,

tra gli altri, di Girolamo

Fracastoro

(Nauagerius sive de poetica dialogus, 1540), Giordano Bruno (De gli eroici furori, 1585) e Francesco Patrizi (Della poetica, 1586). I segni di riconoscimento del platonismo sono in genere i seguenti: — una scarsa attenzione per il fatto tecnico-linguistico;

— una sottomissione dell’estetica all’etica;

— una tendenziale assolutizzazione (etica, appunto) dell’esperienza letteraria; — una debilitante critica del principio di imitazione, che comporta lo scadimento assiologico dell’esperienza concreta del mondo; — l'annullamento delle distinzioni di genere. In luogo di procedere secondo argomentazioni logiche, repertori di forme utilizzabili e temi da censurare, sezionando il corpus testuale della tradizione in generi rigorosamente separati, i trattatisti che si rifanno alla Repubblica platonica credono nell’intuizione, ossia nel «furore» dell’artifex o nel sublime etico delle 62

Letteratura furiosa: Francesco Patrizi

fenomenologie di lettura, e osservano la letteratura come un territorio di idee privo di confini riconoscibili, in cui le norme applicabili a un genere sono di per sé prive di senso o argini falsificatori. Scrivere significa dimenticare i principi di una logica diurna per approssimarsi alla luminosa veridicità delle Idee primarie, celate nelle false apparenze della vita; leggere comporta un esercizio di autodimenticanza, un’incarnazione

simpatetica in ciò di cui la letteratura ci parla. Quale modello di teoria platonica della letteratura si può assumere l’opera di Francesco Patrizi (15291597), trattatista assai versatile di origini dalmate,

spesso accomunato a Telesio e Bruno, traduttore di testi greci esoterici e docente di filosofia platonica a Ferrara e Roma, antagonista dell’aristotelico Castelvetro e convinto che «gli insegnamenti d’Aristotele» non fossero «né proprii, né veri, né bastanti a costituire arte scienziale di poetica, né a formare poema alcuno, né a giudicarlo». Il concetto di mimesi, in particolare, si mostra estraneo alla teoria dell’atto creativo formulata da Patrizi — una teoria che Croce definirà poi «agnostica». L’imitazione in quanto descrizione degli stati del mondo, ripetizione di opere-modello od omologia tra denotante e denotato, per cui le parole imiterebbero sempre e comunque l’esistente: tutto ciò è inutile (in che modo distinguere un discorso scientifico da una lirica, visto che in entrambi il linguaggio imita il mondo?), o errato (la Poetica e la Retorica aristoteliche usurperebbero i diritti di altre discipline, per esempio la storia, senza offrire nulla in cambio), o contropro-

ducente {in quanto favorirebbe la genesi di opere inutili come la Gerusalemme, per Patrizi assai inferiore al Furioso). Francesco Patrizi procede per domande suc63

L’idea di letteratura in Italia

cessive, non senza attingere da Plutarco, da Ermogene e dal trattato greco Del sublime, erroneamente attribuito nel Cinquecento a Longino; tuttavia, mentre gli aristotelici muovono da un numero ristretto di auctoritates e camminano «sempre tentoni intorno a pochi

precetti», nel trattato Della poetica (diviso in sette «deche», alcune delle quali rimaste a lungo inedite: Deca istoriale, Deca disputata, Deca ammirabile, Deca plastica, Deca dogmatica universale, Deca sacra, Deca

semisacra) l’autore vuole cogliere l'essenza della letteratura, chiedersi come sia nata e perché. Primo interrogativo: secondo quali direzioni — dall’esterno all’interno o viceversa — agisce il flusso creativo da cui si genera la letteratura? Le testimonianze originarie della nascita della poesia ci parlano di una compresenza di profezia e letteratura: parole brevi e suggestive, prive di intreccio o «favola», abitate da significati apparentemente estranei a chi li enuncia, e di cui l’artifex può non ricordarsi a breve distanza dal momento della loro formulazione. Il poeta è colui che produce un fare (pozezr), ma ne è in qualche modo dominato: Aristotele, Platone, Democrito e Plutarco portano numerose testimonianze cir-

ca questa idea dell’arte come qualcosa che accade all’artefice, prescindendo dalla sua consapevolezza. Sono dunque in errore quanti, come Castelvetro,

ritengono che il poeta imiti una realtà esterna — sia essa una porzione paesaggistica della natura, un fatto verbale, un’opera canonica. I primi esametri pervenutici riguardano oracoli, e sono stati prodotti in una condizione di spirito definibile attraverso sostantivi come «furore», «entusiasmo», «mania», «malinconia», «afflazione divina», in cui sia l'emittente che il destinatario del messaggio lirico-profetico manifesta64

Letteratura furiosa: Francesco Patrizi

vano

un

senso

di «mirabile

stupore»,

ritenendo

impossibile “per sé” l’elaborazione di quei testi. Per Patrizi è infatti errato credere che l’ipotesi del «furore» quale genesi della poesia abbia avuto «origihe e nascimento dalla ignoranza del volgo». Al contrario, estraneità e letteratura risultano trascendentalmente inscindibili: il testo nasce chissà in quali profondità geologiche dell’a777zs poetico, oppure in imperscrutabili intelligenze celesti, oppure ancora ha a che fare con un umore (precisamente la malinconia), ma in ogni caso vana è la ricerca dell’«arte» e della perfezione tecnica, in grado tutt'al più di rendere evidente il

«furore» poetico. «E ciò si è che i poeti sono presi da deità delle Muse, come i profeti,

e mentre vi sono

presi dicono molte e belle cose, ma niente sanno ciò che dicono, come appunto i profeti». Per l’idea di intenzionalità autoriale e per il ruolo spesso dominante dei contenuti argomentativi trattati dallo scrittore, questo è forse il momento di maggiore azzeramento nella cultura rinascimentale. Da ciò deriva il secondo interrogativo che Patrizi si rivolge, «se sia il poeta imitatore» di alcunché. Se due secoli più tardi prenderà corpo — con Hutcheson, Diderot, Burke — l’idea che il «sublime» letterario sia prodotto da una sensazione di dolore o pericolo, cui tuttavia ci sentiremmo estranei, il Patrizi

non può ancora avvalersi di una psicologia che ha offuscato i confini dell’io, e si trova nella necessità di

attivare rudimentali dialettiche tra l’interiore e l’esteriore. Anche per lui, ad accompagnare la produzione e la lettura di un testo poetico sono «quelle passioni dell’animo umano, che domandiamo affetti»: «ordi-

nari» come la paura e la compassione, «fuor d’ordine e di rado avvenenti» come l’entusiasmo. Tuttavia, in 65

L’idea di letteratura in Italia

«questo commovimento dell’animo naturale e sforzato», verisimile (perché la parola imita visioni effettivamente percepite dal soggetto creatore) e insieme

«fantastico» (poiché nella realtà esterna nulla rammenta il tema trattato dal poeta), possono di volta in volta dominare il «furore», l’«arte» o la «natura». Con questo enunciato compromissorio (va rammentato che, al contrario della tradizione aristoteli-

ca, quella platonica era propensa ad accettare i generi “misti”, sia sulla base di un’intuizione contenuta in

Repubblica 392e-394b, sia per una scarsa valutazione del fatto tecnico-morfologico), il versatile Patrizi non rinuncia tuttavia a formulare un giudizio circa la teleologia dell’arte: se cioè essa debba platonicamente sollevare l’uomo dalle cure esistenziali, o aristotelicamente corrispondere a un’inclinazione a imitare la natura e ad apprendere per mimesi quanto circonda l’individuo sin dall’infanzia. Il libro il della Deca disputata termina infatti con una ricostruzione suggestiva della psiche umana, divisa tra «dolore, entusiasmo, allegrezza», spinta a muovere «tutto il corpo» «a ritmo», a «battere le mani», a «trasmutare la voce dal consueto», a far «sdrucciolare la voce in canto» quando a dominare è una sensazione luttuosa. Temi, luoghi comuni (topot), plessi argomentativi sono irrilevanti per la costituzione del testo letterario. Tuttavia, nell'opera del

Patrizi si cercherebbe inutilmente un ulteriore scavo circa la nozione morfo-genetica di «dolore», indagata soltanto due secoli dopo: essa è qui funzionale a gettare nel discredito la retorica, incapace di fornire argomentazioni (l’invertio spetta alla scienza, alla

storia, alla filosofia), colpevole di pervertire la relazione tra parole e cose attraverso un’artificiosa elocu66

Letteratura furiosa: Francesco Patrizi

tio, disarmata o inutile nel suggerire una dispositio che ogni disciplina regola nel modo ritenuto più opportuno (Della retorica, 1562). È bene allora accontentarsi della volontà estetica che emerge, tra

l’altro, nei libri i e m della Deca disputata: attrarre anche Aristotele nell’orbita teorica del «furore» platonico, e liberalizzare il territorio letterario da repertori tecnici o suddivisioni per genere.

Bibliografia Cfr. L. Menapace-Brisa, La “Retorica” di F. Patrizi, o del

platonismo antiaristotelico, in “Aevum”, XXVI, 1952, pp. 434-464; B. Weinberg, A History of Literary Criticism in the Italian Renaissance, University of Chicago Press, Chicago 1961; l’Introduzione di D. Aguzzi Barbagli all’edizione critica del Della poetica, Istituto Palazzo Strozzi, Firenze 1969-1971, vol. I, pp. V-XXI; L. Bolzoni, L’uriver-

so dei poemi possibili. Studi su Francesco Patrizi da Cherso, Bulzoni, Roma 1981; C. Vasoli, Francesco Patrizi da

Cherso, Bulzoni, Roma 1989; Th. Leinkauf, I/ reoplatonismo di F. Patrizi come presupposto della sua critica ad Aristotele, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1990; S. Plastina, Gt alunni di Crono. Mito, linguaggio e storia in Francesco Patrizi da Cherso, Rubbettino, Catanzaro 1992; L. Bolzoni, La stanza della memoria. Modelli letterari e ico-

nografici nell'età della stampa, Einaudi, Torino 1995; C. Vasoli, La critica di Francesco Patrizi ai “Principia” aristotelici, in “Rivista di Storia della Filosofia”, LI, n. 1, 1996, pp. 713-787; K.W. Hempfer, Testi e contesti. Saggi postermeneutici sul Cinquecento, trad. it., Liguori, Napoli 1998.

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Letteratura pansemiotica: Emanuele Tesauro

Nella tradizione del razionalismo aristotelico, dominante nella teoria letteraria del XVI secolo, i segni lin-

guistici non avevano mai mostrato di voler allentare la relazione che li teneva legati al mondo della natura. L’età manieristica li aveva indubbiamente sottoposti a un’autoriflessività senza precedenti, ma ancora per Tasso e Guarini essi garantivano un ancoraggio ai referenti: nessun uso poetico, nessun incre-

mento dei valori connotativi e soggettivi avrebbero potuto cancellare l’immagine finale di un oggetto o di una corposa icona, di cui si può assumere a model-

lo il sepolcro di Cristo nella Gerusalemzzze liberata. Il cosiddetto regolismo, la pianificazione ossessiva delle morfologie di genere sottintendevano una categorizzazione del mondo e sue specifiche infra-determinazioni; a una franche della natura corrispondeva un linguaggio testuale, tanto che persino la metafora veniva interpretata in senso metonimico come esibizione di un legame realmente esistente tra oggetti e concetti differenti. Se per Aristotele la metafora, consentendo un transito tra specie o generi differen-

ti, realizzava «un apprendimento e una conoscenza», per i suoi interpreti rinascimentali essa facilitava la lettura del mondo, era un «noema iconico», cioè un

concetto vestito di appetibili forme corporee. Dinanzi alla tenuta referenziale del segno, la tradizione neoplatonica che alla fine del Cinquecento 68

Letteratura pansemiotica: Emanuele Tesauro

emerge vigorosamente nell’opera di Iacopo Mazzoni (Difesa di Dante, 1587) aveva obiettato l’idea che il

linguaggio letterario può e, anzi, deve nascere da una fantasia interiore, deve poter prescindere dalla natura esterna e divenirne di fatto un pericoloso antagonista. In luogo di essere pura ricezione, «intelletto passivo», la fantasia adesso «nasce da se stessa in noi» «senza oggetto estrinseco», sino al punto da

«riformare le specie delle cose sensibili». Già qui, nella riflessione del Mazzoni ripresa in parte da Camillo Pellegrino, il segno guarda autisticamente a se stesso e comincia a fare a meno della realtà: in una solitudine inviolabile, esso sprigiona significati incontrollabili e promana un’energia comunicativa. È a questo punto che si affaccia la teoria tesauriana della letteratura. Emanuele Tesauro (1592-1675), autore tra l’altro del Cannocchiale aristotelico (1654) e della Filosofia morale (1671), ha di recente acquisito il ruolo di maggiore trattatista barocco italiano, non senza avvalersi della diffusione in Italia dello strutturalismo e in particolare di una sua variante, lo jakobsonismo: a partire dalla metà degli anni sessanta, molti di coloro che teorizzavano l’autonomia del significante poetico hanno trovato un insperato araldo in questo cultore

- ante litteram della semiotica letteraria. Sin dalla generica distinzione con cui si apre il Canzzocchiale aristotelico — interessata a sceverare l’«argutezza simbolica», comprensiva dei linguaggi non verbali, dall’«argutezza lapidaria», che si nutre di sole parole — il mondo appare una riserva di segni in cerca di un | lettore che dia loro voce e senso. Tutto infatti è di natura segnica, e basta guardarsi intorno per scoprire le cosiddette «argutezze della natura», cioè una reto69

L’idea di letteratura in Italia

rica dell’atto di significazione intrinseca alle cose stesse, per esempio quando pensiamo alla «varietà dei fiori» oppure ai fulmini, «metafore naturali, concetti figurati, simboli arguti, ingegnose imprese ed emblemi di sdegnata o di benigna Natura», «simboliche cifere mute e insieme vocali, avendo la saetta per corpo e il tuono per motto». Ma un mondo che parla è un mondo rassicurante, e per quanto complesso sia

il processo di decodificazione, un senso alla fine emerge: di rado la proverbiale, luttuosa inquietudine barocca ha inventato teorie e strumenti migliori per narcotizzare i conflitti di una modernità emergente. E la metafora, ossia il «legamento» di tutto con tutto,

la reciproca, familiarizzante somiglianza delle cose, acquisisce un’assoluta leadership nel sistema retorico proprio in quanto cancella la sola possibilità che qualcosa risulti estraneo o irriducibile alla nostra logica di lettori arguti. Le si affianca non per caso l’antitesi, dominante sia nello stile tesauriano sia nella struttura argomentativa del Canzocchiale aristote-

lico (contraddistinta dalla collocazione simmetrica di elementi contrapposti), e visibile fin dal titolo, in cui si incrociano uno strumento ottico e lo Stagirita, cioè

l’apice tecnologico della modernità e la massima auetoritas tra gli antichi. Sono le antitesi e le «metafore di opposito» a unire il piacere «armonico» dell’udito a quello «ingegnoso» dell’intelletto, collocandosi — uniche tra gli altri artifici retorici — nel territorio interstiziale che sta tra l’elocutio e la dispositio: nulla che resti emarginato, niente che venga riconosciuto estraneo alla large famzily del linguaggio e del senso. La contraddittoria genesi della modernità ha il volto suggestivo, orizzontale e simultaneo di un antztbeton, 70

Letteratura pansemiotica: Emanuele Tesauro

come aveva già suggerito Giovanni Andrea Gilio nella sua Topica poetica. Da tale esigenza storico-antropologica trae significato il furore analitico di Tesauro, antiaristotelico

nella sua ostilità al principio mimetico della letteratura ma in perfetta linea con il razionalismo dello Stagirita nella volontà di classificare gli ambiti di una cultura come se si trattasse di un testo omogeneo.

Egli comincia da una tassonomia della metafora, distinta in otto categorie (somiglianza, attribuzione, equivoco, ipotiposi, iperbole, laconismo, opposizione, decezione) che di fatto sussumono l’estensione

della tropologia classica, per poi muovere a una triplice distinzione tra «parole metaforiche», «proposizioni metaforiche» e «argomenti metaforici» che costituisce, prima della linguistica testuale, un tentativo di rubricare segmenti testuali superiori al lessema o al semplice sintagma. Il fatto che all’interno di queste tre classi emergano rispettivamente il «concetto» con le sue «adduzioni», il «giudizio» con le sue «deduzioni», il «sillogismo» con le sue «riflessioni», ci rammenta come la teoria letteraria elaborata dai trattatisti barocchi muova incessantemente dal testo alla produzione del testo, dalla morfologia linguistica agli organi che pre| siedono alla sua elaborazione. La natura si serve dunque delle metafore per divina «arguzia»; il linguaggio ne ha necessità in quanto mancano «vocabuli propri» per nominare sterminati realia; l’uomo vi ricorre per provare meraviglia — e dalla «maraviglia nasce il diletto, come da’ repentini cambiamenti delle scene e da’ mai più veduti spettacoli tu sperimenti» —, per «sollevarsi dalla noia» del «cotidiano stile» e per «imparare cose nuove senza fatica e molte cose in 71

L'idea di letteratura in Italia

picciol volume». Gli orizzonti naturalistico, semiotico e antropologico sono attraversati da un unico tro-

po, con la conseguenza che l’esistenza intera appare sotto il segno della «versatilità» e della «perspicacia» (le qualità dell’;gegro), ma soprattutto dell’analogia: coalescenti e imparentate ontologicamente, gra-

zie alla metafora le cose si legano le une alle altre, annullano «remote e separate» divisioni, si mettono al servizio di una logica dell’identità estesa. Una volta acquisite le capitali funzioni di correlare elementi originariamente caotici e di visualizzare le relazioni attraverso figure (le «imprese» hanno un ruolo preponderante nel Carzocchiale), la metafora può beneficiare di uno spazio esorbitante (di fatto, un terzo dell’opera le è dedicato) e ammantarsi di ambiguità: talvolta iponimo dell’«argutezza» («vera figliuola dell’argutezza»), talaltra suo regale iperonimo («gran Madre di ogni argutezza»), essa si annette comunque ogni forma di «trasposizione», gli anagrammi, i rebus, le metonimie, le paronomasie, i chiasmi.

Per questo si comprende il successo incontrato dal Tesauro tra i fautori italiani dello jakobsonismo, una teoria letteraria per la quale la poesia si celava in una serie di parallelismi ed equivalenze, di paronimie e omonimie, di ripetizioni e ridondanze semantiche ben calibrate. Anche per Tesauro il linguaggio letterario doveva stabilire delle equazioni di significato e la sua logica profonda circoscrivere delle somiglianze, o meglio delle «amicizie»: Quel dono di natura che si chiama ingegno consiste a punto in congiungere, per mezzo di scaltre apprensioni, oggetti che pareano affatto sconnessi, rintracciando in

essi gli occulti vestigii d'amicizia fra la stessa contrarietà, la non avvertita unità di special simiglianza nella TER

Letteratura pansemiotica: Emanuele Tesauro

somma dissimilitudine, qualche vincolo, qualche parentela, qualche confederazione dove altri non l'avrebbe sospettata.

A opinione di Tesauro non avrebbe avuto senso distinguere i segni dai sintomi, ciò che vuole comunicare un significato da ciò che significa qualcosa senza volerlo comunicare. Tra le tante qualità del Canzzocchiale aristotelico — la cui rilettura subirà forse un rallentamento nei prossimi decenni, dopo un periodo di accentuato fervore critico — non c’è certo quella di proporre un’ermeneutica dell’intenzione autoriale: il lettore, che a propria volta è in grado di creare un testo (chi scrive «gode di dar vita nell’intelletto altrui a un nobil parto del suo», mentre chi legge «si rallegra d’involare col proprio ingegno ciò che l’ingegno altrui furtivamente nasconde»), gode di una libertà associazionistica illimitata, muovendosi in una fore-

sta di simboli, scosso da correnti di significato analogico che da una metafora lo conducono ad altre metafore. Dinanzi a questo quadro poca importanza hanno il primato dello sguardo, la teoria dell’efficacia comunicativa elaborata in un contesto storico di effettivo depotenziamento editoriale, la distinzione tra cavillazione «urbana» (letteraria) e cavillazione «dialettica» (scientifica) o tra entimema e sillogismo. - Resta il sogno — invero cupo — di una ipersimbolizzazione del mondo dove l’afasia non ha esistenza.

73

L'idea di letteratura in Italia

Bibliografia Sul Tesauro si consultino almeno G. Morpurgo Tagliabue, Arzstotelismo e barocco, in Aa.Vv., Retorica e barocco, a c. di E. Castelli, Bocca, Roma 1955; F. Croce, Crit:-

ca e trattatistica del Barocco, in E. Cecchi, N. Sapegno (a c. di), Storia della letteratura italiana, vol. V: Il Seicento, Garzanti, Milano 1967, pp. 417-457; G. Conte, La

metafora barocca. Saggio sulle poetiche del Seicento, Mursia, Milano 1972; A. Buck, Emzanuele Tesauro e la teoria del barocco nella letteratura, in “Ausonia”, XXVII, n. 3-4, 1973; M.L. Doglio, Introduzione a E. Tesauro, Idea del-

le perfette imprese, Olschki, Firenze 1975; M.A. Rigoni, Il “Cannocchiale” e l’idea, in “Comunità”, 179, 1978; D. Della Terza, Le metafore del Tesauro, in G. Folena (a c. di), Simbolo, metafora, allegoria, Liviana, Padova 1980; M. Zanardi, La metafora e la sua dinamica di significazione nel “Cannocchiale aristotelico” di E. Tesauro, in “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, CLVI, n. 499, 1980; E. Raimondi, Letteratura barocca. Studi sul Seicento italiano, Olschki, Firenze 1982 (Il ed.), in particolare l’Introduzione (Dalla metafora alla teoria della letteratura); M. Zanardi, Sulla genesi del Cannocchiale aristotelico di E. Tesauro, in “Studi Secenteschi”, xxIV, 1982-83; M. Moncagatta, La parola in movimento. Un’interpretazione del “Cannocchiale aristotelico”, in “Rivista di Estetica”, 21, 1985, pp. 9-28; D. Aricò, I/

Tesauro in Europa. Studi sulle traduzioni della “Filosofia morale”, Clueb, Bologna 1987; P. Frare, Preliminari ad una lettura del “Cannocchiale aristotelico”, in “Testo”, 17, 1989, pp. 32-64; C. Scarpati, E. Bellini, I/ vero e il falso dei poeti. Tasso, Tesauro, Pallavicino, Muratori, Vita e Pensiero, Milano 1990; P. Frare, Il “Canzocchiale aristotelico”: da retorica della letteratura a letteratura della retorica, in “Studi Secenteschi”, xxxI, 1991, pp. 3363; M. Gardair, Théorie et art du symbole dans “Il can-

74

Letteratura pansemiotica: Emanuele Tesauro nocchiale aristotelico” de Emanuele Tesauro, in Aa.Vv.,

Omaggio a Gianfranco Folena, Editoriale Programma, Padova

1993, pp. 1229-1239; N. Haydée Lase, Una

retorica comune alla base del concetto di metafora in B. Graciàn e in E. Tesauro, in “Testo”, 27, 1994, pp. 56-66.

DO)

Letteratura apprensiva: Pietro Sforza Pallavicino

Per secoli l’esercizio di canonizzazione aveva riguardato un numero selezionato di testi letterari, prodotti nell’antichità o sul modello di essa. Le forme da imitare non erano essenze volatili, principi teorici,

linee tendenziali di prassi stilistica, bensì esempi concreti, testi in cui persino le anomalie linguistiche, le irregolarità prosodiche o sintattiche accidentalmente prodottesi nel processo di trasmissione delle opere acquisivano il valore di archetipi immodificabili. Con i trattatisti barocchi, al contrario, ci troviamo già nel

pieno di un’epoca che non canonizza più le forme testuali, ma i procedimenti di produzione e ricezione del testo letterario. L'edificio semiotico, creato in un momento e in un contesto particolari, smarrisce la

sua immobilità per mettersi in cammino verso colui che lo concepisce o fruisce: i significanti divengono stimoli segnici, le forme testuali rinviano ad attività neuro-psicologiche, i generi letterari delineano categorie dello spirito. La fissità marmorea del canone classico si fluidifica in particolare nella riflessione retorico-filosofica di Pietro Sforza Pallavicino (1607-1667), autore dell’a-

pologetica Istoria del Concilio di Trento e di due opere che contribuiscono a una definizione della teoria letteraria secentesca, il dialogo De/ bene (1644) e il Trattato dello stile e del dialogo (1646). Legato all’ambiente romano di Mascardi, Ciampoli, Cesarini e 76

Letteratura apprensiva: Pietro Sforza Pallavicino

Cesi, diviso tra le mansioni di cardinale e docente di

teologia speculativa, Pallavicino si mostra felicemente disattento verso le polemiche filo- e antimarinistiche della cultura italiana, occupata a opporre una tipologia testuale a un’altra, né si schiera con decisione,

benché risulti evidente una sua evoluzione dal marinismo al razionalismo aristotelico; egli guarda semmai ai topoi come nuclei di contenuto a dominante figurativa, debolmente lessicalizzati e privi di un evidente contrassegno stilistico, ma in grado di catturare le pulsioni primarie dell’uomo. Soprattutto nel libro m del dialogo Del bene, reso celebre da Benedetto Croce e da lui decisamente annesso alla linea di costruzione dell’estetica idealistica, Pallavicino giunge a identificare nell'uomo uno strato archeologico profondo, che egli denomina «prima apprensione», precedente ogni distinzione tra vero e falso. Sembrerebbe uno strato vischioso e notturno, inconscio e anta-

gonista rispetto ai progressi diurni della Ku/turgeschichte: in realtà, è il sogno variopinto di un adolescente che per un istante si abbandona al vacuur ludico dei sensi (per Pallavicino l'adolescenza è l’età migliore, in quanto più vicina ai quattro «beni intrinseci positivi», cioè l’essere, il sapere, il diletto, la virtà). Tale sogno costituisce di fatto il primo gradino di ogni processo conoscitivo, quello puramente sensoria> le in cui gli oggetti ci vengono incontro e quasi si collocano fra le nostre «mani», liberando un’icona che va

a ubicarsi nelle «vuote stanze della memoria». Che questi oggetti siano veri o fantasmatici, che corrispon-

dano all’autenticità di un quadro storico o a mere «larve notturne» — proiezioni patologiche, simulazioni | artistiche —, la «prima apprensione» non è in grado di deciderlo. Prigioniera delle sensazioni, obnubilata dal UE

L’idea di letteratura in Italia

piacere di registrare «immagini, o vogliam dire d’ap prensioni sontuose, nuove, mirabili, splendide» che una volta verbalizzate, si colorano «con oltramarini

tinture di metafore, di similitudini, di prosopopeie d’aggiunti e d’altre figure ben espressive e pompose» questa prima modalità conoscitiva trova nella lettera tura e nella pittura una sollecitazione antropologica mente fondata, ma deve alla fine subordinarsi al giudi zio, l’unico in grado di rilasciare un certificato di esi stenza ai percetti, e al discorso, la terza, fondamentali

fase della conoscenza in cui le «poche verità» elabora te dal giudizio risultano sottoposte a un processo d elegante ramificazione concettuale. (a) La morte de compagni di Ulisse nell’ Odissea; (2) il fatto che io per cepisca il mio «esser vivo»; (c) un’idea filosofica dell: morte quale ricongiungimento a Dio, sono per esem

pio il differenziato prodotto dei tre gradini gnoseolo gici di cui discorre il pallaviciniano Del bene. Molti problemi restano tuttavia in sospeso. Innan zitutto, quale giustificazione etica offrire alla letteratu ra, smarrita in un labirinto puerile di immagini finte: E ancora: come fondare teoricamente un argine mimetico e verosimile alla testualità poetica, per evita re che si perda in una vertiginosa gratuità? Alla prim: domanda Pallavicino risponde nel Trattato dello stile del dialogo, legando maggiormente la «prima appren sione» al fine conoscitivo dell’arte, cioè al docere Quanto alla seconda, è inevitabile che egli ne discut: subito e a lungo, dal punto di vista di un baroccc moderato in cui il dogma sino ad allora incensurabil: della mimesi non può essere sostenuto né dall’intocca bilità di un canone di opere classiche, né dalla sacralit: divina della natura. Ora l’uomo è più solo e insiemi libero. Il fondaco della sua memoria ha già registrati 78

Letteratura apprensiva: Pietro Sforza Pallavicino

molteplici percezioni della realtà — oggetti e situazioni che producono paura, piacere, euforia, stupore: ed è a questo fondaco che letteratura e pittura mirano, riproponendo immagini finte, simulazioni di realtà che tanto più colpiscono l’uomo quanto più gli rammentano le percezioni «autentiche» del passato. In questa “fallacia intenzionale”, su cui torneranno nel Novecento i rew critics della Scuola di Chicago, è racchiusa la formula segreta della letteratura. Non si tratta di elaborare «menzogne» (possibili soltanto quando è in gioco il «giudizio»), ma consapevoli simulazioni di realtà, con la conseguenza che il «verosimile» generato dal principio mimetico ha l’unico scopo di risultare «più vivace» e «feritore» dell’«appetito», cioè delle pulsioni istintuali, rispetto a un testo inverosimile che non possa avvalersi della capacità di fungere da gancio (slot, come lo definiscono oggi gli studiosi di linguistica del testo) di «quei mobili simolacri che ne giacevano dispersi per le varie stanze della memoria». Così, quando Pallavicino tesse l’apologia dell’«evidenza» e dell’«enargia nel rappresentare»; quando da autentico lettore del Marino scrive che «la poesia non cerca la simiglianza del vero, se non per far apprendere più vivamente il finto», egli ha già oltrepassato la tradizione dell’aristotelismo, per la quale la storia era un ambito parti colare (contraddistinto da minuziose informazioni) e la letteratura un ordine universale. Per Pallavicino è il contrario: all’arte spetta il dominio e l’uso legittimo delle «rappresentate minuzie» (verosimili, simulate, ricostruite tramite la «prima apprensione», nozione

derivata da san Tommaso e riproposta da Francisco Suàrez), alla storia la narrazione sommaria, universa-

le, non-mimetica del passato. 79

L'idea di letteratura in Italia

La teoria pallaviciniana della letteratura è dunque al tempo stesso una teoria della cognizione per eviden

za e del piacere esteticamente amministrato, dove ogn percezione deriva dalla «mescolanza dei contrari», dal fatto che l’ordinario si traveste da straordinario indossando «broccati d’alto ricamo», da un linguaggio che è «fattucchiere di parole» e ama il falso rigettando il menzognero, da un gioco della memoria soggettiva talmente complesso «che il colore di quella rosa ch’ic veggio là, da lontano, mi fa rammentare dell’odore che ora io non sento, ma che altre volte ho sentito, quandc un oggetto di tal colore mi è stato vicino alle nari».

Bibliografia Si vedano E. Raimondi, Letteratura barocca. Studi sul Seicento italiano, Olschki, Firenze 1982 (Il ed.); F. Cro-

ce, Tre momenti del barocco letterario italiano, Olschki, Firenze 1966, pp. 161-220; M. Costanzo, Critica e poetica del primo Seicento, Bulzoni, Roma 1970, vol. Il, pp.

129-167; M. Fumaroli, L’àge de l’éloquence. Rhbétorique et ‘res literaria’ de la Renaissance au seuil de l’époque classique, Droz, Genève 1980, pp. 179-230; J.R. Snyder, Writing the Scene of Speaking: Theories of Dialogue in the Late Italian Renaissance, Stanford University Press, Stanford 1989; C. Scarpati, E. Bellini, I/ vero e il falso dei poeti. Tasso, Tesauro, Pallavicino, Muratori, Vita e

Pensiero, Milano 1990, pp. 73-190; E. Bellini, Linguistica barberiniana. Lingue e linguaggi nel “Trattato dello stile e del dialogo” di Sforza Pallavicino, in “Studi Secenteschi”, xXxv, 1994, pp. 57-104.

80

Letteratura sapienziale: Gianvincenzo Gravina

La sapienza del mondo, l’enciclopedia platonica delle idee, il territorio bianco dei principi trascendentali sono a fatica pensabili, ma non possono certo essere comunicati: è dunque necessario operare un «traspor-

to del vero nel finto» dando loro un corpo, avvolgerli in parole che rechino «in seno immagini sensibili». Questo è la letteratura: come Babele, l’esito necessario di un limite peccaminoso e il suo felice, incessante

superamento. Così Gravina (1664-1718) nel trattato Della ragion poetica (1708), per il quale la poesia è sapienza riposta (l'ipotesi che Vico negherà con ogni forza), un velame intellettualistico e didascalico per far apprendere le verità eterne all'uomo «rozzo» (il popolo, i bambini, gli uomini primitivi). Per Gravina la teoria non è il termine opposto della ricerca empirica e neppure metateoria, cioè collazione sistematica

delle poetiche storiche, bensì «scienza della poesia», esplicazione delle operazioni gnoseologiche coinvolte nel fare artistico e, specularmente, nella sua ricezione:

in quanto confronto analogico tra elementi differenti, la metafora (omerica) può essere assunta a figura di tale teoria. Né va dimenticata la formazione giuridica di Gravina (le fondamentali Origines yuris civilis appaiono lo stesso anno della Ragion poetica), che di per se stessa predispone — a opinione di molti studiosi, tra i quali emerge oggi il nome di Niklas Luhmann — a favorire mediazioni dialettiche tra elementi in appa81

L’idea di letteratura in Italia

renza inconciliabili: la funzione della giurisprudenza è infatti quella di garantire insieme stabilità normativa e flessibilità delle norme, per mantenere una rassicurante distanza rispetto a eventi conflittuali. La teoria letteraria del Gravina sembra appunto allinearsi antropologicamente a tale scopo: offre riequilibri, veicola prese di coscienza. In questo senso nella riflessione graviniana è assai rilevante la nozione aristotelica di «riconoscimento» (aragnorisis), sempre più legata alle funzioni mimetiche della letteratura a partire dal xVI secolo. Ma è bene procedere con ordine. Normalmente l'immaginazione dell’uomo trattiene «e vestigia dei corpi esterni in essa segnate» e, in linea di principio, ricava da esse quei «lampi di profonda scienza», quei «raggi di sole» che rinviano alla «ragione comune ed idea eterna», al modo stesso in cui attraver-

so un’opera architettonica comprendiamo le regole universali della geometria. Nella realtà storica le cose sono tuttavia più complesse. Se gli incolti non sono in grado di ricavare dai significanti («immagini») un significato pur che sia, i sapienti hanno anch'essi difficoltà a «imprimere» nella mente «la cognizione delle cose singolari», offuscate innanzitutto dall’abitudine — poiché più le «cose ci divengono famigliari, tanto meno corre sopra di esse la nostra avvertenza» —, e in secondo luogo dal fatto che volino «attorno a’ nostri sensi» innumerevoli immagini, legate le une alle altre «a guisa di catena», di modo che la «mente è distratta nella varietà

delle immagini» e «non può formar fisso discernimento per non poter drizzare ad una tutte le forze». Da questi plurimi ostacoli trae necessità e funzione storica la letteratura, l’arte della «rassomiglianza» e del vero «trasposto nel finto». Attraverso immagini fittizie che imitano quelle reali, e dunque riattivano le medesi82

Letteratura sapienziale: Gianvincenzo Gravina

me sensazioni, l’uomo rozzo si «dispone al finto, nel

modo come sogliamo essere disposti verso il vero» e apprende la sapienza che il «filosofo» o lo studioso della «natura de’ nostri affetti» hanno «convertito in figura sensibile». L’improvvisazione, la creatività non sono ammesse in letteratura, bensì un’«invenzione

regolata», una «scienza dell’occulto spirito». Più che apprendere, si “riconosce” la verità. In letteratura non vi è nulla di preterintenzionale o di non lucidamente architettato: l’intenzione coincide con il testo e con la sua funzione civile (giuridica), con la conseguenza che l’autore ha coscienza del vero e lo ammanta di finzioni, mentre il lettore si immerge in tali finzioni per acquisire coscienza della realtà. Tutto è dentro di noi come una luce che proviene da Dio e che ci possiede senza riconoscere alcun argine al proprio potere, compresa

la falsa precettistica dei «generi» letterari. Un mondo eteropatico, quello della letteratura, teorizzato da una tradizione di pensiero calabrese che da Giordano Bruno giunge sino al maestro di Gravina, Gregorio Caloprese, e per la quale l’opera poetica è un «sogno con gli occhi aperti» in grado di «aprirci gli occhi» sul mondo, una follia che rende lucidi; ogni negazione è una denegazione, poiché «ogni uman giudizio, anche quando è pronunziato in figura di negare, pur sempre qualche affirmazion contiene»; i simboli corporei sono puro spirito e un'immagine peregrina cela l’universale, «sicché le genti delirando guariscono dalle pazzie». Evidentemente, il livello primario della testualità letteraria non solo necessita di un livello secondario di esegesi critica che, come nel caso dei geroglifici, intraveda «morali insegnamenti» là dove il «volgo» «beve da quelle apparenze un sonnifero di crassa superstizione»; più ancora, il primario rasce dal secondario, 83

L’idea di letteratura in Italia

poiché il poeta è un filosofo e ogni testo ha alle spalle una lunga riflessione, come aveva insegnato la stagione del Barocco italiano. L'origine etimologica del termine «musa», dice Gravina, ci riconduce a «myste-

ria». Così, mentre il «volgo» si civilizza, coloro che già fanno parte di un’utenza colta accedono a un’operazione di reminiscenza o riconoscimento (aragnorisis):

tornano là dove sono sempre stati, trovandosi dinanzi a ciò che non hanno cessato di osservare senza vederlo. Per Aristotele l’aragrorisis era uno dei tre momenti fondamentali

della morfologia narrativa, insieme

alla peripezia e al pathos, e consisteva in un mutamento dall’ignoranza alla conoscenza, come quando un personaggio “riconosce” sua sorella nella donna che ama. Ora, se il Rinascimento aveva psicologizzato il “riconoscimento”, discriminando — come il Robortel-

lo — le passioni da esso attivate (paura, meraviglia, pietà), il Seicento francese ne aveva segnato il declino,

per esempio con la necessità proclamata da Corneille di far agire i personaggi in piena coscienza. Con Gravina, l’anagnorisis diviene l’araldo della funzione civilizzatrice della letteratura, e più quest’ultima si simbolizza, più l’azagnorisis si confonde con l’epifania, l’anagogia e altri strumenti di codificazione allegorica. In questo senso la riflessione graviniana è un precedente dell’indirizzo critico novecentesco fondato, tra gli altri, da Northrop Frye, secondo cui il riconoscimento si identifica tout court con l’intreccio di un testo. Indubbiamente la polemica del Gravina con il Crescimbeni è l’indizio non solo di una sua maggiore profondità speculativa, ma anche di una condizione

di isolamento ed estraneità dalle nuove funzioni sociali dell’intrattenimento letterario. Peraltro, il fronte degli antagonisti si amplierà con Vico — pro84

Letteratura sapienziale: Gianvincenzo Gravina

pugnatore di un’idea della poesia radicalmente antiintellettualistica e del tutto antitetica alla teoria graviniana della «sapienza riposta» — e con i «probabili sti» quali Alfonso de’ Liguori, che giungono di fatto a perorare la causa di un genere «nuovo» come il romanzo attraverso la convinzione che l’arte offra soluzioni possibili a conflitti problematici, non eliminabili da nessuna norma dogmatica. Ma attaccando il lassismo probabilistico del Seicento nella Hydra mistica, sive de corrupta morali doctrina (1691) e in

parte nel Discorso sopra l’Endimione di Alessandro Guidi (1692) in nome della funzione gnoseologica delle finzioni letterarie, Gravina si precluderà ogni occasione di fortuna postuma.

Bibliografia Cfr. A. Quondam, Cultura e ideologia di Gianvincenzo Gravina, Mursia, Milano 1968; Id., Filosofia della luce e luminosi nelle Egloghe del Gravina, Guida, Napoli 1970; D. Consoli, Realtà e fantasia nel classicismo di G. Gravina, Bietti, Milano 1970; G. Gronda, Le passioni della ragione. Studi sul Settecento, Pacini, Pisa 1984; M. Piccolomini, I/ pensiero estetico di G. Gravina, Longo, Ravenna 1984; S. Earnshaw, The Direction of Literary Theory, MacMillan, London 1996 (per una micro-storia dell’idea di intenzione nella teoria della letteratura occidentale); M.G. Pia, Gravina e Vico: la Poesia “sub specie temporis et imaginationis” secondo la ‘Metaphisica men-

tis spinoziana, in “Bollettino del Centro di Studi Vichiani”, XXVI-XXVI, 1996-1997; F. Lomonaco, Le “Orationes” di G. Gravina: scienza, sapienza e diritto, Morano, Napoli 1997. 85

Letteratura di gusto: Ludovico Antonio Muratori

Iniziato a Milano negli ultimi anni del Xv secolo e pubblicato nel 1706 a Modena, il trattato Della perfetta poesia italiana ha una struttura quadripartita, in cui a un primo libro eminentemente teorico, in larga misura dedicato all’identificazione morfo-genetica della «fantasia», seguono una discussione etica circa le nozioni di «ingegno» e «giudizio», una sezione dove si cerca di misurare l’incidenza politica della letteratura, e infine un’antologia ideale di «buona» poesia.

Per opporsi alle accuse rivolte da Boileau e Bouhours alla letteratura italiana e delegittimare per sempre gli eccessi del marinismo, ma anche per salvare il destino della poesia in un contesto cartesiano di ascesa delle scienze della natura, Muratori (1672-

1750) fa della parola verztà il termine-chiave della sua estetica, ed è su tale premessa che si rimodella la teoria della letteratura. Che il bello coincida con il vero,

poiché il falso vuole ingannare il nostro intelletto e, «supponendoci ignoranti», produce «dispiacere»; che l’autore proceda da brumosi concetti a nitide parole mentre il lettore percorre il cammino inverso; che la letteratura, ossia un corpus di testi scritti non sottoposto al dogma dell’«autorizzamento» e tuttavia privo di marcate diseguaglianze, sia «arte imitatrice» con la duplice funzione di dilettare e giovare, sono alcuni dei fondamenti del trattato muratoriano, ben 86

Letteratura di gusto: Ludovico Antonio Muratori

noti e sottoposti al vaglio critico degli studiosi, senza però che ne sia stata spiegata la piena funzionalità antropologica. .- Quale tipo di piacere ha in mente Muratori? E che significato ha una teoria del testo poetico come «mimetica pittura» in una società di primo Settecento? Rispondere a questi interrogativi induce a un

arretramento delle posizioni muratoriane al secolo precedente e a un drastico ridimensionamento del suo ruolo nell’ambito della teoria letteraria, che egli si limita ad aggiornare alle esperienze del Barocco moderato creando una sorta di equilibrio omeostatico e compromissorio tra gli «organi» preposti alla

creazione poetica. Non è difficile spiegarne le ragioni. Nella sua astratta configurazione, il corpo di ogni produttore di testi letterari ospita innanzitutto una facoltà intermittente e occasionale — l’«estro», il «furore» —, che consiste nell’essere dominati da una

passione e «assaliti»> da un «affetto», «padre del furor poetico» («affetti morali» quali amore e odio, oppure «movimenti interni» quali stima, disprezzo, compassione, stupore). Una volta innescata, questa

reazione emotiva apre la strada a una

seconda,

imprescindibile facoltà, la «fantasia», poco controlla-

bile dall’autore in quanto innata e puramente inerte in mancanza di «estro». Ci troviamo nella camera

bassa del governo poetico, l'organismo più caotico e indecrittabile, ma altresì quello in cui si producono le materie prime della letteratura, cioè «idoli», «sentimenti», «idee», «immagini di riflessione» o «fanta-

smi degli oggetti» di cui si è fatta esperienza. Ma questo laboratorio sperimentale — al contrario di quanto vanno sostenendo in Svizzera Bodmer e Brei-

tinger — è sottoposto dal Muratori a una serie di rigi87

L'idea di letteratura in Italia

di vincoli legislativi, tanto nella Perfetta poesia italiana quanto nelle Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti (1708) e nel tardivo trattato Della forza della fantasia umana (1745). Innanzitutto la fantasia è un’«apprensiva inferiore» che deve concordare ogni decreto con l’«apprensiva superiore» o «intelletto», al quale spetta di sceverare il vero dal falso, il dicibile dall’impubblicabile. l’utile dal nocivo. Solo con il suo assenso, la «fantasia» o «immaginativa» può sottoporre i propri mate.

riali (vale a dire immagini nuove e meravigliose del vero, paesaggi che fotografano il già noto da un pun: to di vista originale o che perfezionano l'esistente attraverso il «verisimile», sorta di proiezione probabilistica della realtà) alla censura del «giudizio» c «gusto» poetico — l’ultima facoltà a entrare in gioco nel fare letterario, ma non per questo meno impor: tante. Il «giudizio» è infatti il termine dialettico che media tra fantasia e intelletto, costituendo una sorte

di organo regolatore del testo poetico, puntualmente ricondotto nella tonalità mediana che divide due eccessi di volta in volta identificabili (per esempic letteralità e metaforicità). Di qui lo scarso apprezza: mento di Omero e Dante, troppo sbilanciati rispetti: vamente verso il furore poetico e l’intelletto; di quì altresì l'inerzia della fantasia quale appare dalle metafore barocche utilizzate da Muratori per spie: garne la natura: «guardaroba delle immagini», «era: rio segreto dell'anima», «arsenale privato», «magaz: zino», «fondaco». Da un punto di vista storico, questo identikii

genetico della letteratura serve a Muratori per pren: dere le distanze dal Barocco più estremista (grazie all’intervento del «giudizio») e dal razionalismo fran: 88

Letteratura di gusto: Ludovico Antonio Muratori

cese del grand siècle (grazie al ruolo dell’«immaginativa»), legittimando una produzione media, dal Lemene al Maggi, che assegnava alla poesia funzioni di mero piacere intellettuale: Muratori stesso, nonva dimenticato, è uno storico, un giurista, un biblioteca-

rio che riconosce nella letteratura «l’onesta ricreazione de’ cittadini» e l’indizio di una civiltà, non certo la

sua vichiana origine genetica. Da un punto di vista teorico, arretrate appaiono le nozioni cardine di immaginazione, imitazione, verità.

(a) L'immaginazione («fantasia», «immaginativa»,

«apprensiva inferiore») è quello che era sempre stata: una pinacoteca coincidente con la memoria, una stanza vuota in cui si depositano tracce mnestiche, fotografie del mondo esperito. Certo, non tutte queste immagini sono fedeli alla realtà, poiché ve ne sono alcune particolarmente «nuove» e «meraviglio-

se» che correggono il vero esistente in verisimile, cioè facendo «risaltare» alcune cose e dando loro «gran forza, vivezza e leggiadria»; tuttavia esse si limitano a confermare l’esistente «universalizzandolo», proprio come sosteneva Aristotele nella Poetica. In modo simile ai Papers sui piaceri dell’immaginazione editi da Addison sullo “Spectator” cinque anni dopo, per Muratori la fantasia non è produttiva anche là dove inventa immagini «artificiali». Successiva al senso e anteriore all'elaborazione intellettuale, essa ha tutt'al più un potere di riaggregazione sintattica di ciò che si percepisce nella realtà, ma nulla fa presagire quell’elemento chimerico e fantasmatico

che prelude a un’idea dell’immaginazione come #//usione. Qui l’immagine è rappresentazione, ritenzione dell’assente, mentre già per Vico sarà presentazione,

il venire in luce di un delirio soggettivo. 89

L idea dl Letteratura tn ilalla

(5) Parimenti, il vincolo wzs7zetico della lettera tura riconfermato da Muratori («questa imitazione questo dipingere e rappresentare è appunto l’es

senza della poesia») si scontra con l’evoluzione del la poesia barocca in senso antimimetico. Per not decurtare drasticamente il corpus del leggibile, egl è dunque costretto a vincolare il vero alla precogni zione di un pubblico difforme, distinguendo ui «verisimile nobile» (la realtà quale è conosciut: «dalle persone dotte») da un «verisimile popola re», quello, per esempio, che consente all’Ariost(

di introdurre nel Furioso «gl’ippogrifi, gli anelli, l corna, le spade, le lance incantate, o tante opera

zioni di maghi» ritenute possibili o vere da «gl’i dioti». Distinta da un contesto senso-motorio d tipo realistico e ugualmente estranea all’idea rina scimentale secondo cui a essere imitata dall’arti non era la realtà ma le operazioni, le «leggi nasco ste» che presiedevano alla sua evoluzione, la mime si muratoriana è l’ultimo baluardo teorico contr l’anarchia di temi e generi morfologici sperimenta ta poi nel corso del xvi secolo. Ha dunque ragio ne Ernst H. Gombrich nel sostenere che una dell funzioni storiche dominanti del principio di imita zione è stata quella di resistere al mutamento « consentire all'uomo margini più ampi di «adatta mento» al nuovo, come si vede dal fatto che « prime carrozze ferroviarie imitavano le carrozz

vere e proprie e i primi lampioni a gas i candelabri» (The Sense of the Order). In questo senso la metafo ra e le altre figure di estensione semantica care a Muratori — e da lui ereditate dal Tesauro — costitui scono forme di assirzilazione adattata. (c) La verità, infine, è il contrario dell’«inganno» 90

Letteratura di gusto: Ludovico Antonio Muratori

intellettuale o del «sofisma», poiché non interagisce con la percezione, bensì con il senso comune e la tradizione culturale: la verità è una «femmina bella» che potrebbe fare a meno di ornamenti, ma che proprio per questo «non rimane però d’abbellirsi poiché più facilmente con ciò sa di poter piacere». Contro la dissimilazione cartesiana di arte e scienza, Muratori

affianca al «vero necessario» dei naturalisti un «vero possibile, probabile e credibile» che ricorda l’universalità estetica enunciata da Aristotele. Le finzioni sono possibili non perché — come sosterrà alla fine dell'Ottocento il filosofo Hans Vaihinger — siano destinate a essere ritenute vere dalla scienza o trascurate in quanto ipotesi scientifiche errate, ma perché si fondano sul vero necessario colmandone le lacune o anticipandone deterministicamente la presenza effettiva. Per Cartesio era la immaginosa ghiandola pineale ad assicurare un attivo commercio tra i sensi e l’intelletto; in Muratori il «verisimile» istituito dal-

l'immaginazione costituisce un argine contro la lenta formazione dell’io e ne è insieme un indizio inequivocabile, ma anticipa altresì l'ipotesi «preformistica» diffusa qualche anno dopo da Haller e Spallanzani: che ogni seme (e ogni finzione verosimile) abbia in sé le potenzialità dell’individuo formato (e del «vero necessario»). Le pagine di maggiore interesse teorico nella Perfetta poesia italiana sono costituite dai capitoli VIIxII del libro I, e trattano appunto delle nozioni di «bellezza» e «verisimile», destituite di vigenza normativa nel tentativo di vincolare la letteratura al contesto culturale. A essa sono assegnate competenze originali, consistenti nella variata ripetizione (mimesi) di una tradizione eletta, ma soprattutto nella rein91

L’idea di letteratura in Italia

venzione «peregrina» e «meravigliosa» dell'esistente, attraverso convenzioni morfologico-stilistiche dotate di un potere attivo e strutturante assai più elevato

della «fantasia».

Bibliografia Per comprendere il pensiero estetico del Muratori nella prospettiva qui messa in luce, cfr. almeno M. Fubini, Dal Muratori al Baretti, Laterza, Bari 1954; M. Rak, La fine dei grammatici. Teoria e critica della letteratura nella storia delle idee del tardo Seicento italiano, Bulzoni,

Roma 1974; A. Dupront, LA. Muratori et la société européenne des pré-lumières, Olschki, Firenze 1976; A. Cottignoli, Muratori teorico. La revisione della ‘Perfetta poesia’ e la questione del teatro, Clueb, Bologna 1987; E. Raimondi, I lumi dell’erudizione. Saggi sul Settecento italiano, Vita e Pensiero, Milano 1989; C. Scarpati, E. Bellini, Il vero e il falso dei poeti. Tasso, Tesauro, Pallavicino, Muratori, Vita e Pensiero, Milano 1990; Aa.Vv., Il

Soggetto e la Storia. Biografia e autobiografia in L.A. Muratori, a c. di M. Capucci, Olschki, Firenze 1994; G.

De Martino, Muratori filosofo. Ragione filosofica e coscienza storica, Liguori, Napoli 1996; M. Ferraris, L’immaginazione, il Mulino, Bologna 1996; G. Gaspari,

Per un Muratori mal noto: origini e vicende della “Forza della fantasia umana”, in Aa.Vv., Corte, Buon governo, Pubblica felicità. Politica e coscienza civile nel Muratori, Olschki, Firenze 1996; A. Burlini Calapaj, Devozioni e ‘Regolata Divozione’ nell'opera di L.A. Muratori, CIV,

Roma 1997. La citazione da E.H. Gombrich si riferisce alla trad. it. di I/ senso dell'ordine. Studio sulla psicologia dell’arte decorativa, Einaudi, Torino 1984.

92

Letteratura originaria:

Giambattista Vico

Ormai ben studiato e sottoposto a ogni sorta di indagini interpretative, Vico (1668-1744) sembra aver dato un marcato contributo alla filosofia del linguaggio, alla filologia, alla teoria ciclica dei processi storici e alla genesi di uno studio della retorica come codificazione del senso comune, secondo un orientamento che giunge sino al Novecento, segnatamente

alla scuola di Liegi. Ma per il formarsi di una moderna teoria della letteratura in senso antropologico il suo ruolo è addirittura cruciale: per accorgersene è sufficiente collazionare quelle che egli chiamava «degnità» (assiomi, principi esplicativi) sparse nelle sue opere, e innanzitutto nei Principi di scienza nuova (1725; 1730; 1744).

Poiché comprendere qualcosa significa per Vico recuperarne le origini, lo sguardo del filologo si sposta in un’età tenebrosa in cui la letteratura (egli utilizza il termine «poesia») coincide letteralmente con l’intera esistenza dei primi uomini — immagini, uten| sili, riti religiosi, espressioni monosillabiche di dolore o piacere, interiezioni di paura, ideogrammi e gesti «mutoli». Non possedendo categorie logiche astratte e incapace di interpretare gli eventi naturali se non secondo un principio di identità che lo induce ad antropomorfizzare ogni cosa, l’uomo dell’età eroica

| (che segue immediatamente l’età degli dèi) poetizza il mondo perché è l’unico modo che ha per cono93

L'idea di letteratura in Italia

scerlo: non si tratta di un «piacere» o di un «commodo» ma di una «necessità», in quanto «il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione». L’«ignoranza di cagioni» sollecita l’uomo arcaico a «immaginarle» e dare alle cose nomi che sono onomatopee, come il termine Giove — per i lati-

ni «Ious», parola che imitava «il fragor del tuono». Gnoseologica e necessaria, la letteratura nasce qui, in

questi deserti pre-leopardiani in cui gli uomini riconoscono in un fatto atmosferico la voce di un uomodivinità più forte di loro: il cielo è il corpo di Giove,

il fulmine un suo gesto, il tuono la sua voce autoritaria e inappellabile. Così, mentre Muratori razionalizza le passioni e Cartesio le sottopone a un ordine inflessibile, Vico ritrova nel terrore l’origine della letteratura, strumento di difesa rozzo ma proprio per questo tanto più affascinante per chi vive la stagione trionfale del deduttivismo astratto. Indubbiamente, in rapporto al destino della letteratura nelle epoche di dispiegamento della ragione astratta, la posizione di Vico è equivoca e compromissoria, meno radicale di quanto farebbero immaginare le premesse teoriche da cui muove, sufficienti a dare per scontata la morte dell’arte non appena il processo di civilizzazione raggiunga l’apice. Ma per quanto lontano dai toni eufemizzanti della zampogna arcadica e in disaccordo persino con Gravina, prigioniero di un’epoca in cui il sapere «assidera il generoso della miglior poesia», le riflessioni di Vico tradiscono un gusto ancora molto legato al Barocco. Il trionfo della metafora quale operazione linguistico-discorsiva originaria (il tuono è la voce di Giove); l’apologia della retorica e in particolare il primato della topica sulla logica o del verosimile sul vero, egualmente affermato 94

Letteratura originaria: Giambattista Vico

da Ignazio di Loyola (di cui Vico discute soprattutto nel De nostri temporis studiorum ratione, 1709); l’am-

mirazione per l'ingegno (facoltà combinatoria diversa sia dall’arguzia praticata dai poeti barocchi più deteriori, sia dal potere analitico dell’intelletto cartesiano) e per i suoi principali attributi stilistici, cioè la rapidità e la novità; le tendenze enciclopediche e il biso-

gno di immettere nei labirintici libri della Scienza nuova quanti più simboli fosse possibile, dalle immagini pittoriche ai reperti numismatici: tutto ciò fa di Vico uno studioso ben radicato nel XVII secolo. Tuttavia l’opzione per i «barbari» Omero e Dante — di cui si discute a lungo nel libro m della Scienza nuova — non lascia adito a dubbi: la letteratura viene identificata o almeno filtrata secondo un primitivismo che farà scuola nei secoli successivi, incentrato sulle categorie estetiche dell’«impossibile credibile», del «sublime» e del «perturbante» (Scienza nuova, lib. n, cap. 4). Gian Vincenzo Gravina e il suo maestro, il filosofo cartesiano Gregorio Caloprese, avevano attribuito agli antichi il razionalismo dei moderni e interpretato le «favole» più arcaiche come ricettacoli di riposta, dissimulata sapienza; Vico vi intravede al contrario un’oasi protetta dei «sensi». Dalla parte del lettore, avvicinarsi alla vera poesia

significa infatti percepire il mondo «con animo perturbato e commosso»,

scoprire un territorio di pas-

sioni efferate, di sguardi immaginosi, di fantasiose parole che sono tropi, insomma la violenza stessa di un torrente che «non può far di meno di non portar seco torbide l’acque e rotolare e sassi e tronchi». Ne sono un esempio i miti: Marsia è «scorticato» da Apollo, le Sirene «scannano» i «passaggieri», la Sfinge «uccide» i «viandanti» che non risolvono i suoi 95

L’idea di letteratura in Italia

enigmi, mentre la poesia nasce sporndaica — quando gli uomini sono a tal punto terrorizzati da pronunciare lentamente le parole — e si trasforma in dattilica — allorché il timore è cessato ed essi ripetono le medesime parole «altrettante volte battendole preste». La purezza delle origini è impura per eccellenza, e dunque solo la poesia può consentire una nuova, consapevole presa di possesso del corpo. Difensiva in origine, per il lettore moderno la letteratura (a cavallo delle cosiddette due culture e niente affatto contrapposta alle scienze della natura) è una sonda lanciata nei recessi del corpo, uno strumento per rendere «corpulento» il mondo ridandogli spessore, un eccipiente delle facoltà che «provvengono dal corpo», e a conforto di questa idea Vico non si stanca di ribadire la validità euristica dell’analogia filogenesi-ontogenesi. Il mito di una regressione senza fine verso i primordi dell'umanità o del singolo individuo è sotteso a una serie di suggestive «degnità»: per esempio che /a letteratura nasce da una estroflessione del corpo verso l’ambiente circostante, secondo un espressionismo inizialmente «mutolo», afasico e alinguistico che tende ad assegnare al paesaggio circostante attributi fisici e ad esaltare simultaneamente tutti i sensi, soprattutto vista, tatto, udito.

Una teoria della letteratura così anti-intellettualistica impone al lettore di imitare i primi «bestioni dell'umanità», e cioè, secondo l’indimenticabile metafo-

ra funeraria di Vico, «seppellirsi ne’ corpi». (4) Leggere è regredire, abbandonarsi a una sensuosa anamnesi; (5) il testo — verbale o eidetico — circoscrive il

luogo predisposto a questo illimitato ringiovanimento; (c) i tropi costituiscono da un lato il contrassegno semantico della letteratura, dall'altro gli strumenti 96

Letteratura originaria: Giambattista Vico

ermeneutici funzionali alla scoperta dell'origine dell’uomo, soprattutto di quello vissuto nell’età degli dèi, che si identificava nelle cose e attribuiva all’inani-

mato parole «fatte con trasporti del corpo umano e delle sue parti e degli umani sensi e dell’umane passioni». In tal modo la ricostruzione vichiana dell’origine del linguaggio fornisce anche un criterio per giudicare l’importanza delle parole letterarie, secondo una gerarchia in cui prima vengono le interiezioni e le onomatopee, poi i pronomi e i nomi, infine i verbi.

Ora, tale prospettiva ha obbligato Vico a esaltare il primo elemento della triade autore-messaggio-lettore. Ciò che viene enunciato ha l'impronta vivida di chi lo enuncia, mentre il ricevente non ha altro compito che recuperare mimeticamente il calore di quella impronta, interpretando le storie infinite che ogni parola — anche la più ammantata di clarté — custodisce. La singolarità psico-fisica dell’individuo è tutelata appunto dalla letteratura, e quest’ultima è a propria volta un corroborante dell’io, uno scudo contro la dimenticanza di sé soprattutto in epoche in cui le categorizzazioni della ragione astratta e la nascita degli Stati assoluti mirano a censurare il singolo individuo; né mancano abbozzi di una fisiologia della lettura poetica, come quando Vico osserva gli effetti di un detto arguto, che prima «agita» le «fibre cerebrali» e poi, «attraverso il midollo», si distribuisce in «tutte le diramazioni nervose» (Vici Vindiciae, 1729). Poiché la letteratura non è e non deve essere vespertina e terminale,

elegante e onusta di perfezione ma aurorale e autentica, anche la teoria degli «universali fantastici» formulata da Vico nel De constantia iurisprudentis (1721), coincidente con quel tipo di antonomasia per cui un individuo ha la rappresentanza della specie di appar97

L’idea di letteratura in Italia

tenenza (tutti i fenomeni naturali che ingenerano timore sozo Giove, tutte le imprese civili di carattere eroico sozo Ercole), è l'emblema di un marcato desi-

derio di salvaguardare l'identità del singolo. In questo senso, come ha scritto René Wellek nella sua Storia della critica moderna, nulla è più lontano

dall’estetica e dal gusto crociani di questo filosofo la cui eredità sembra assai più visibile in coloro che non hanno avuto la possibilità, o la pazienza, di leggerlo. In termini di storia della cultura e di teoria antropologica del testo letterario, non c'è dubbio che Vico

sia il primo ad alimentare una corrente di pensiero secondo la quale la modernità non incrementa la formazione dell’io, ma al contrario la rende impossibile. L’erosione della soggettività di cui discuterà Rousseau in polemica con la letteratura dei Lumi, nella convinzione che l’età più consona alla letteratura sia stata quella in precario equilibrio tra lo stato di natura e l’epoca in cui domina l’amor proprio (cioè lo spirito gregario che subordina lio al giudizio degli altri o lo riduce a un insieme di rappresentazioni socialmente condivise) è solo la punta emergente di un movimento di idee che giunge sino alla scuola di Francoforte. Se Vico aveva legato l'origine della poesia omerica a un istintivo bisogno di spiegare il cosmo antropomorfizzandolo, Adorno e Horkheimer dedicheranno un capitolo della Dialettica dell'Illuminismo a Omero, concludendolo con un chiasmo che sarebbe piaciuto all’autore della Scienza nuova: «L’animismo aveva vivificato le cose; l’industrialismo reifica le anime». Prima di Rousseau, Herder e Humboldt, con Vico il problema della genesi della parola coinvolge per intero la funzione antropologica della letteratura. 98

Letteratura originaria: Giambattista Vico

Bibliografia Utili spunti per un vichiano dal punto di si possono trovare in The Theory, of History Paul, London

approfondimento del pensiero vista della teoria della letteratura A.R. Caponigri, Tirze and Idea. in G. Vico, Routledge and Kegan

1953; G. Tagliacozzo

(a c. di), Vico,

Galiani, Joyce, Lévi-Strauss, Piaget, Armando,

Roma

1975; L Berlin, Vico ed Herder. Due studi sulla storia

delle idee, trad. it., Armando, Roma 1978; A. Battistini (ac. di), Vico oggi, Armando, Roma 1979; G. Tagliacozzo (a c. di), Vico: Past and Present, Humanities Press,

Atlantic Highlands 1979; D.Ph. Verene, Vico. La scienza della fantasia, trad. it., Armando, Roma 1984; G. Cantelli, Mente corpo linguaggio. Saggio sull'interpretazione vichiana del mito, Sansoni, Firenze 1986; D.Ph. Verene, The New Art of Autobiography: An Essay on the ‘Life of Giambattista Vico Written by Himself, Oxford 1991; M. Mooney, Vico e la tradizione della retorica, trad. it., il Mulino, Bologna 1992; G. Martano, L’“ars poetica” oraziana nella germinazione del pensiero vichiano, in “Atti dell’Accademia Pontaniana”, xLI, 1993; C.

Miller, Giambattista Vico: Imagination and Historical Knowledge, St. Martins Press, New York 1993; A. Battistini, La sapienza retorica di Giambattista Vico, Guerini, Milano 1995; S. Monasdn, Vico and Bakhtin, in “New Vico Studies”, xm, 1995; S. Velotti, Sapienti e bestioni.

Saggio sull’ignoranza, il sapere e la poesia in G. Vico, Pratiche, Parma 1995; I. Berlin, Le idee filosofiche di G. Vico, trad. it., Armando, Roma 1996; G. D’Acunto, Vico: il paradigma dell'uso e la topica del ‘verum-factum', in “Il Cannocchiale”, 1-2, 1996; J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia di Vico, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1996; A. Battistini, The Idea of Totality in Vico, in “New Vico Studies”, xv, 1997.

99

Letteratura sensistica: Cesare Beccaria

Nella seconda metà del Settecento, quando l’estetica sensistica stabilisce alcuni fondamenti teorici in grado di riconoscere alle arti nuove e più moderne funzioni, alla letteratura spetta la dignità di un linguaggio primordiale, che tende agguati alle abitudini percettive o alle componenti più astratte della speculazione filosofica. Particolare menzione merita un testo destinato ad avere grande influenza sulle riflessioni linguistico-stilistiche dell'Europa illuminista, l’Essaz sur l'origine des connoissances bumaines (1746) di Condillac. Per quel che riguarda i temi qui trattati, se ne possono enucleare le seguenti risultanze: sottratta al mito biblico l’origine del linguaggio, quest’ultimo non rappresenta più il riflesso di categorie razionali innate bensì è causa del costituirsi stesso del pensiero speculativo, poiché le facoltà principali dell’intelletto (memoria, immaginazione, astrazione ecc.) derivano

da percezioni trasformate, enucleate e, per così dire, identificate dai segni linguistici. A consentire le comunicazioni tra senso e pensiero è una fitta rete

semiotica in grado di svolgere almeno due funzioni (diacronicamente nel processo di formazione delle lingue o durante l'infanzia degli individui, sincronicamente nell'uomo adulto). (a) All’inizio non c’è che la funzione espressiva di un langage d’action fatto di gesti e grida, di segni naturali, monosillabici e asintattici, che si appellano 100

Letteratura sensistica: Cesare Beccaria

direttamente alle cose di cui parlano e che, nuovamente ascoltati, richiamano alla memoria le circo-

stanze ambientali ed emotive a essi legate: un #72printing semiotico dove tutto è simultaneo — la percezione di una cosa e il giudizio o la sensazione relativi a essa — e in cui dominano i dati percettivi. Storicamente, per Condillac come per Vico, i caratteri ideografici sarebbero la rappresentazione concreta di questo langage d’action. (5) È poi la volta della funzione conoscitiva intrinseca al linguaggio articolato, e del tutto arbitrario, in cui le idee vengono convenzionalmente associate a una serie di parole in stretta successione (dai fonemi alle idee e alle sensazioni): lentamente, parlante e ascoltatore si distaccano dai dati percettivi, formulano astrazioni sempre meno impure e consentono al

pensiero di sdoppiarsi, riflettendo sulle operazioni intellettuali in gioco nella comunicazione linguistica. Rispetto al largage d’action — da cui sono nate le arti mimiche, la coreutica e la musica — il linguaggio articolato desidera sempre esibire una vitale prossimità attraverso l’eloquenza e in generale le arti della parola, orientate appunto a custodire e rinnovare il segreto dell’origine sensibile del linguaggio: la prosodia, per esempio, ricondurrebbe le parole allo stato origi| nario, così come i tropi retorici iniettano una componente percettiva nel linguaggio articolato.

Nel far slittare il problema del linguaggio dalla gnoseologia alla psicologia, dall’ipotetico rispecchiamento di una ragione innata alla rielaborazione verbale dell’effetto emotivo che i fenomeni ambientali suscitano nell’uomo, l’estetica sensistica qualificava dunque come criterio di giudizio la maggiore o minore efficacia dei testi letterari sull'apparato sen101

L’idea di letteratura in Italia

soriale dei lettori, riconoscendo nell’elemento poeti-

co una componente ineliminabile delle lingue. Ognuna di esse ha infatti un modo caratteristico di organizzare i contenuti di pensiero (il cosiddetto «genio della lingua») e di enucleare i campi semantici associativi, non senza una distinzione tra elementi

«principali» e «accessori»: «je demande» si chiedeva Condillac s'il n’est pas naturel à chaque nation de combiner ses idées selon le génie qui lui est propre, et de joindre à un certain fonds d’idées principales différentes idées accessoires, selon qu'elle est différemment affectée. Or ces combinaisons [...] sont proprement ce qui constitue le génie d’une langue.

Si tratta delle stesse distinzioni operate qualche anno più tardi da Cesare Beccaria (1738-1794), prima nell'articolo edito sul “Caffè” Frarzzento sullo stile, poi nelle Ricerche intorno alla natura dello stile (1770; la

seconda parte, incompiuta, fu stampata nel 1809). L’autore muove dai presupposti della vulgata sensista per concluderne che un testo letterario è esteticamente riuscito se affolla una rimarchevole quantità di elementi connotativi, accessori, sensorialmente efficaci

intorno agli elementi principali, denotativi, stabili. L'esercizio dell’eccellente scrittore sarà quello di perpetuamente sforzarsi di non lasciar che la mente si carichi di parola alcuna senza che ella non sia stabilmente più associata colla sua precisa e determinata idea corrispondente che colle altre parole connesse per l'andamento della lingua con lei medesima.

In particolare, Beccaria nota che: — la retorica è intrinseca alla lingua e la soggettività permea di sé ogni fatto linguistico; 102

Letteratura sensistica: Cesare Beccaria

— il linguaggio verbale trattiene un simbolismo primordiale del corpo, rielabora dei gesti o addirittura, come dirà due secoli dopo il fenomenologo Maurice Merleau-Ponty, è una forma di «gesticolazione fonetica» in cui sono le percezioni a secernere le parole e a fornire un principio di articolazione /argagière; — ogni linguaggio ha parole a basso tenore figurativo e parole in grado di eccitare «veramente e immediatamente sensazioni dell’animo», sintetiche piuttosto che analitiche, in quanto, al modo stesso della «natura», esse «ci inondano di fasci di sensazioni alla

volta, presentandoci masse e non elementi»; — nella sua evoluzione ogni lingua incrementa il numero

delle parole, ma con ciò stesso debilita il

loro potere illocutivo di sollecitarci a compiere un qualche genere di azione. Tendenzialmente, la lingua dello scrittore di rango deve poter regredire a uno stadio intermedio di sviluppo, in cui la cadenza serrata del discorso elegante e gli elementi astratti non hanno ancora del tutto arginato quella gigantesca ondata di sensazioni e immagini scintillanti che costituiva la grammatica del /angage d’action. Ma non basta mettere lo stile alle dipendenze della «filosofia dell'animo, che con poca proprietà vien detta metafisica, e meglio dovrebbe chiamarsi psycologia», per comprendere dinanzi a quali parole i lettori restino «inerti e stupidamente indifferenti» o al contrario siano messi in grado di suscitare una catena associativa «di idee, d'immagini, di sentimenti e di sensazioni». Tali sensazioni abitano infatti in luoghi talmente remoti che i loro messaggeri verbali faticano a raggiungerci, se non a costo di complesse strategie. 103

L’idea di letteratura in Italia

La prima riguarda il lessico: le parole bore sono quelle ad alto voltaggio analogico, eccentriche e sinestesiche; le parole cattive sono quelle troppo distanti dalla cosa «principale» di cui si parla, come i tropi barocchi, che segnalano analogie intellettualistiche e inesistenti, minoritarie e mistificanti. La

seconda strategia concerne l’ordine delle parole, con una netta predilezione per l’inversione, in cui l'elemento aggettivale ha il primo posto rispetto a quello nominale. In modo simile al Diderot della Lettre sur les sourds et muets (convinto che prima fossero nati gli aggettivi, autentici rappresentanti di qualità sensibili, e solo in un secondo momento fossero stati assegnati dei nomi generali a tali campi percettivi, sino a credere che i nomi rappresentassero «esseri reali e gli aggettivi dei semplici accidenti»), anche Beccaria nelle Ricerche tesse un piccolo elogio degli elementi attributivi, che egli chiama «aggiunti», poiché se è vero che «gli oggetti altro non sono per noi che la somma di tutte le qualità riunite costantemente insieme», allora «il nome dell'oggetto» va riportato necessariamente ad «alcuna delle qualità che lo compongono». Operando secondo questi orientamenti dottrinari — tendenti a offrire una legislazione circa il sentire individuale, ossia su ciò che per definizione non si sottopone a leggi stabili —, a opinione di Beccaria si otterrà una letteratura funzionale al piacere dell’uomo, che sappia riprodurre “in miniatura” le sensazioni reali ma

con una capacità maggiore di dominarle, che offra sintesi analogiche in luogo di analisi differenziali («la poesia si esercita più a comporre che a disciogliere, versa più intorno alle somiglianze che alle differenze») e che coinvolga simultaneamente i 104

Letteratura sensistica: Cesare Beccaria

codici percettivi («la poesia non istanca giammai un solo senso con noiosa uniformità, ma molti ne percuote e più insieme»).

È

Bibliografia Cfr. M. Fubini, La cultura illuministica in Italia, ERI, Torino 1964 (Il ed.); L. Rosiello, Linguistica iWMuminista, il Mulino, Bologna 1967; G. Zarone, Etzca e politica nell’utilitarismo di Cesare Beccaria, Istituto Italiano Studi

Storici, Napoli 1971; L. Formigari, Filosofia linguistica, eloquenza civile, senso comune, in L. Formigari (a c. di),

Teorie e pratiche linguistiche nell'Italia del Settecento, il Mulino, Bologna 1984; E. Bigi, Poesia e critica fra fine Settecento e primo Ottocento, Cisalpino-Goliardica, Milano 1986; E. Biagini, Introduzione a Beccaria, Later-

za, Roma-Bari 1992; G. Francioni, S. Romagnoli (a c. di), Introduzione a “Il Caffè”, 1764-1766, Bollati Boringhieri, Torino 1993; E. Franzini, L'estetica del Settecento, il Mulino, Bologna 1995; R. Zorzi, Cesare Beccaria, A. Mondadori, Milano 1996.

105

“Fast literature”: Vittorio Alfieri

Del Principe e delle lettere, scritto tra la fine degli anni settanta del Settecento e il 1786, «stampato» dall’au-

tore a Parigi ma «pubblicato» contro il suo volere, rappresenta un testo di mediazione tra l’Alfieri tragico della giovinezza e quello comico-satirico della senescenza, traduttore e commentatore dei classici, solita-

rio e antigiacobino. Nel momento in cui il sistema poetico occidentale subisce una trasformazione irreversibile, la teoria della letteratura si autoimpone la maschera della filosofia politica, dando corpo a tre libri dedicati ai contesti storico-istituzionali in cui può generarsi l’inverzio letteraria: contesti cortigiani di controllo effettivo delle arti, sia pure nelle forme generosamente coercitive del mecenatismo; oppure conte-

sti «repubblicani» di svincolamento assoluto del fare letterario dal potere istituzionale. Nella peroratio di Alfieri (1749-1803) a favore della seconda occorrenza,

emerge non solo il sospetto che chi governa un principato abbia ogni interesse nel fare che «i sommi rimangano o paiano mediocri, coll’impedir loro cortesemente di pensare e di scrivere, fin dove bisognerebbe», ma che la situazione della letteratura sia da questo punto di vista differente da quella delle scienze, inabili a evolvere se non «sotto protezione». Ritratti elogiativi di individualità titaniche (Omero, Dante, Machiavelli), monadi sigillate, autoconfinatesi in un solipsismo sublime e plutarchiano, offro106

“Fast literature”: Vittorio Alfieri

no un avallo documentale a una trattazione in larga misura dedicata agli strumenti del comunicare: è qui infatti che emerge una feor a segregazionista “della scrittura letteraria, il cui prir ato sulle arti figurative («arti mute») è dovuto alla .2p icità di non ricorrere ad alcun supporto material: che comporti strategie di protezione o finanziamento. La parola è immateriale, svincolata dal mondo degli oggetti e delle istituzioni che presiedono alla loro produzione, vera in quanto libera, incondizionata, adamitica: «lo scrivere è la sola arte che basti a se medesima, e il di cui artista ritrovi tutta in se stesso la materia per eseguire».

Più la parola si contamina con l’attualità esterna all'individuo, più essa smarrisce l’efficacia performativa, cioè l'energia operativa, che le è intrinseca: questo affascinante paradosso sollecita l’Alfieri a delineare una triplice tassonomia della scrittura, al cui vertice stanno i «poeti», seguiti da coloro che si met-

tono al servizio dell’oratoria e della filosofia (i«letterati-scrittori») e dai «letterati-attori», ossia eroi, legi-

slatori, santi, martiri per i quali la letteratura è il mero strumento di una strategia d’azione variamente configurata. Bisogna dunque fare un passo avanti, socchiudere la porta che conduce all’origine dell’invenzione letteraria, spiare la nascita della parola poetica e tentarne una sommaria grammaticalizzazione. E laggiù, a profondità insondabili, non si trova certo «l'impulso artificiale», utilitaristico o politico che muove i «letterati-scrittori» (assai simili agli «artisti» secondo la dottrina crociana) o i «letterati-attori»: bensì «l'impulso naturale», «un bollore di cuore e di mente, per cui non si trova mai pace, né loco; una sete insaziabile di ben fare e di gloria», una «nobile ira»,

«una superba e divina febbre dell’ingegno e del cuore, 107

L'idea di letteratura in Italia

dalla quale sola può nascere il vero bello ed il grande». Laggiù non esiste nulla da imitare, tutto è originale e originario: per così dire, un mondo d’autore. Sembra una riproposizione secolarizzata e tardosettecentesca del furor platonico e del poeta-vate che senza soluzione di continuità, da Dante al neoplatonismo rinascimentale, hanno costituito un fondamentale strumento

di difesa della poesia dai suoi oppositori, anche perché Alfieri, nelle più esplicite formulazioni teoriche, assegna solo nuove credenziali all’antica funzione didascalica della letteratura, orientata a «insegnare dilettando» e a «commuovere, coltivare, e bene indirizzare gli umani affetti». In realtà si tratta della scoperta di una dimensione insondabile dell’io, coeva alla riflessione di Edmund

Burke sul sublime e suffragata dallo stesso modello di tragedia sperimentato dall’ Alfieri — autore, è bene non dimenticarlo, di una delle autobiografie più straordinarie

del Settecento.

I lessemi

«febbre»,

«impeto», «sete», «bollore» segnalano già una dimensione dell’informe, quel mondo del continzo che si oppone al discreto, cioè al differenziabile, all’analizzabile, al comprensibile. Al pari di Saul, lo scritto-

re «sprotetto» e sotto la sferza dell’«impulso naturale» sperimenta una forza cieca, intesa a travolgere ogni ostacolo esterno e vincere l’assillo di una presenza odiosa, incapace anzi di riconoscere e ammet-

tere l’esistenza dell’altro da sé. Il poetare è lo scenario stereoscopico in cui si muove questo individuo estraneo a se stesso, o meglio «ingegnoso nemico di se stesso», che ha saputo contaminare la «grande, classica poesia dell’ansia con la prosa moderna della nevrastenia» tuffandosi nella durata, misurando il

tempo come una sostanza crudele e alacre, stabilen108

“Fast literature”: Vittorio Alfieri

do una sorta di omologia tra il «senso del moto impetuoso» e lo «sbrigliarsi della fantasia» (G. Debenedetti, 1977). Il mondo letterario di Alfieri è così un mondo di calviniana «rapidità», dove la lentezza inibisce per sempre l’autorivelarsi dell'individuo a se stesso i La letteratura che si avvale dell’«impulso naturale» è sempre drammatica, cioè assoluta, ma non vie-

ne trasformata in scrittura se non in un secondo momento

(a opinione

di Alfieri,

all’«inventare»

seguivano lo «stendere» e il «verseggiare»). All’inizio, semplicemente è: un atto inventivo irrelato da un prima e un poi. La coscienza della storia, del tempo e del luogo sono infatti espunti dall’io creatore, agonisticamente teso a dilagare ovunque, oppresso da una vertigine senza nome, sempre sull’«orlo del precipizio» — per utilizzare un modernissimo sintagma che compare nell’Agazzezzone (11, 5). Dietro l’immagine neoplatonica del poeta-vate s’intravede così la funzione regressiva e irreversibile della letteratura quale luogo di svelamento dell’io, in cui l’istintuale e l’indicibile sono intercettati dalla «luce avvampante» della coscienza. Sin dall’inizio, il problema dell’Alfieri consiste proprio nell’elaborare la lingua di quella intercettazione, nel presupposto teorico che la parola costituisca un momento successivo e distinto rispetto al «bollore» concettuale e inventivo dello scrittore. Deve allora trattarsi di un linguaggio laconico e fulmineo, una lingua di poche parole, dominata da monosillabi ancora prigionieri del silenzio, «rotti, gridati, inva-

sandosi dell’azione» (Risposta dell’ Alfieri al Calzabigi), interiezioni fulminee, lampi pronominali, atti illocutivi, ossia parole che hanno la consistenza del 109

L’idea di letteratura in Italia

gesto e la concretezza dell’agire. Nell’ultimo decennio della sua vita, mentre i proclami rivoluzionari sperimentano una verbalità sintetica e assertiva, Alfieri stende epigrammi, postilla testi classici, elabora una vera e propria teoria del laconismo letterario. Sul modello della tragedia, da cui egli ha eliminato prologo ed epilogo, cori e confidenti, ogni testo letterario deve assoggettarsi a una carestia di lessemi, limitare la sintassi a poche figure distributive (chiasmi, periodi sospesi, opposizioni): per autorivelarsi, il «poeta» deve riuscire a mostrare l’infinitezza dell'assoluto morale entro i confini perspicui del linguaggio laconico, in modo tale che vi si percepiscano «moltissima oscurità, dubbiezza, contraddizione apparente, e sconnessione di ordine di cose». Prima dell’invenzione romantica del «vero», assi-

stiamo ora alla genesi di un realismo visionario e di una letteratura lapidaria di cui si ritroveranno tracce nel linguaggio militante dei manifesti e delle riviste primo-novecentesche. La convinzione che «l’uomo disappassionato non possa far cosa alcuna perfettamente», l’assestamento epigrafico del verso tragico o della scrittura satirica, l'abitudine stessa a pensare la parola e il gesto in una relazione percettiva, scultorea, fisica, trasformano la letteratura in uno strumen-

to di autorivelazione e libertà, poiché la nudità della parola porta con sé, complementare e soffocante, quella dell’io e dei suoi ostinati fantasmi. Pre- o addirittura anti-sociale, essa è già azione. Non descrive

situazioni né illustra virtù: le sancisce in una febbrile perentorietà, che dà la caccia all’esornativo e sopprime l'inutile. Da questo momento, il problema della letteratura sarà anche quello di fondare una nuova etica della comunicazione. 110

“Fast literature”: Vittorio Alfieri

Bibliografia Cfr. P. Szondi, Teoria del dramma moderno, trad. it;

Einaudi, Torino 1962; H.W. Jager, Politische Kategorien in Poetik und Rbhetorik der zweiten Halfte des 18. Jabrbunderts, Metzler, Stuttgart 1970; G.L. Beccaria, I

segni senza ruggine. Alfieri e la volontà del verso tragico, in “Sigma”, IX, n. 1-2, 1976; G. Neumann, Der Aphorismus.

Zur Geschichte, zu den Formen und Moglichketten einer literarischen Gattung, Carl Winter, Darmstadt 1976; G. Debenedetti, Vocazione di Vittorio Alfieri, Editori Riuniti, Roma 1977; W. Kromer, Die politische Rhetorik in den Schriften Vittorio Alfieris, in Retorica e politica, Atti del I Convegno italo-tedesco (Bressanone 1974), Liviana, Padova 1977; P. Azzolini, La negazione simbolica nella Mirra” alfteriana, in “Lettere Italiane”, XXXII, 1980; E. Raimondi, Le pretre del sogno. Il moderno dopo il sublime, il

Mulino, Bologna 1985; Vittorio Alfieri e la cultura piemontese fra illuminismo e rivoluzione, Atti del Convegno Internazionale di San Salvatore Monferrato (22-24 settembre 1983), Torino 1985; A. Di Benedetto, Vittorio Alfieri. Le passioni e il limite, Liguori, Napoli 1987; S. Calabrese, Una giornata alfieriana. Caricature della rivoluzione francese, il Mulino, Bologna 1989; E. Mattioda,

Teoria della tragedia nel Settecento, a c. di A. Di Benedetto, Mucchi, Modena 1994; G. Santato, Lo stile e l’idea. Elaborazione dei trattati alfieriani, Franco Angeli, Milano 1994; B. Anglani, Gl epiloghi della “Vita” alfieriana e il trauma della Rivoluzione, in Strategie del testo. Preliminari, partizioni, pause, Atti del XVI e xvIr Convegno Interuniversitario (Bressanone 1988 e 1989), Esedra, Padova

1995; P. Gobetti, La filosofia politica di Vittorio Alfieri, a c. di D. Gorret, Sestante, Ascoli Piceno 1995; G. Tellini,

L'arte della prosa. Alfieri, Leopardi, Tommaseo e altri, La Nuova Italia, Firenze 1995.

111

Letteratura culturale: Ermes Visconti

Grub Street era a Londra il luogo in cui, attraverso la mediazione degli editori, chi si dedicava alla lettera-

tura trovava nel Settecento un pubblico di lettori che regolava il mercato, alimentando alcuni generi testuali in luogo di altri ma favorendo indubbiamente la prosa, in modo tale da sollecitare, da parte degli editori, forme di pagamento a cottimo: più si scriveva,

più si guadagnava. Di per sé, l’ingresso del lettore nel circuito comunicativo della letteratura non fu sufficiente a garantire la qualità dei testi, ma obbligò comunque ad aggiornare gli ambiti tematici, le morfologie di genere, i modelli linguistici. Per un cronico ritardo nei processi di industrializzazione e l'assenza di centri urbani attivi, in Italia il ruolo del

lettore viene consapevolmente attratto nell’orbita della teoria letteraria solo a partire dai romantici lombardi raccoltisi sotto l’egida giornalistica del “Conciliatore” (settembre 1818 - ottobre 1819). Per una breve stagione i tre principali attori del processo semiotico — l’autore, il testo, il fruitore — si

trovano allineati fianco a fianco con pari dignità. L’autore ha il compito di informarsi sui costumi presenti e le tradizioni culturali, deve organizzare finzioni basate su mitologie e credenze radicate nel territorio nazionale in cui opera oppure testi di pubblica utilità, dove le cognizioni sui dati di fatto si intreccia-

no a un desiderio di intervento attivo sulla colletti112

Letteratura culturale: Ermes Visconti

vità sociale. Parimenti, all’autore spetta di diritto l’onere della creatività linguistica, intesa quale incessan-

te produzione di significato: amministratore delle manifatture del senso, lo scrittore produce secondo leggi ancora determinabili, ma la «tipologia dei prodotti resta radicalmente indeterminata» (Wilhelm von Humboldt, Vorerimrnerung, 1830), innanzitutto

poiché trae alimento dall’interiorità dell’individuo, mai come ora sottoposta a un'indagine capillare e spassionata. Se il lettore viene immaginato a un grado inferiore rispetto all’autore (né ottentotto né parigino, per riprendere i termini del Berchet), poiché è lui — con le sue lacune, i pregiudizi, le false credenze — a fondare ideologicamente il ruolo pedagogico assegnato alla letteratura, il festo deve reggere il peso di orizzonti tematici illimitati. Come mostra l'esempio italiano del “Conciliatore” ed è richiesto esplicitamente dai suoi redattori — primo fra tutti Ermes Visconti (1784-1841) — l'economia e la giurisprudenza, la statistica e la storiografia devono poter interagire a pieno titolo con le finzioni letterarie, convivendo con esse pacificamente sulle pagine della rivista e nella mente dei lettori. Il testo, infatti, ha adesso un passa-

to (nazionale) che ne condiziona la genesi, tanto che è possibile stilarne un’anamnesi (si pensi al Sismondi della Littérature du Midi de l'Europe). Ma gli antenati, invece di dettare legge, garantiscono delle possibilità o circoscrivono i presupposti affinché un testo possa essere credibile, cioè generare illusioni referenziali e dotarsi di autorità conoscitiva. Gravato di troppe responsabilità, immesso in circuiti tematici assai disparati, il testo dovrebbe adesso precludere ogni tentativo di assegnargli regole o ostacolare pro113

L’idea di letteratura in Italia

getti, sia pur blandi, di pianificazione morfologica. Al contario, la natura compromissoria del romantici-

smo italiano — non per nulla adiacente al classicismo moderno di Leopardi e Giordani — cerca di razionalizzare ciò che per sua natura conduce nelle zone più tenebrose dell’individuo (per esempio l’estetica del sublime), di repertoriare l’illimitato nell'ordine della

cultura (per esempio in relazione alle credenze popolari occidentali), di mantenere sotto vigile controllo il processo di contaminazione dei generi (come si intuisce dagli altalenanti giudizi manzoniani circa la mescidanza di tragico e comico in Shakespeare). Vocato all’intermediazione culturale e conoscitore impareggiabile della tradizione filosofico-letteraria tedesca, Ermes Visconti è appunto colui che maggiormente, nel gruppo del “Conciliatore”, si dedica alla formulazione di un quadro teorico di compromesso, tale da non dispiacere né a Stendhal (che in Racine et Shakespeare plagiò alcune riflessioni viscontiane) né a Goethe, che in lui vide un giovane di

«grande acutezza di spirito, perfetta chiarezza ne’ pensieri, e profondo studio degli antichi, come de’ moderni». Sia nelle Idee elementari sulla poesia romantica (1818) sia nei Saggi sul bello, sulla poesia e sullo stile (stesi tra il 1819 e il 1822, ma editi una ven-

tina di anni dopo), Visconti muove dalla constatazione che la letteratura è una variabile della cultura e del tempo storico, per rivendicare maggiore libertà a un movimento che non si riconosce più nell’armonia dei classici, bensì nelle immagini, riflessioni e racconti desunti dal cristianesimo, dalle superstizioni delle plebi cristiane o dei monaci o dall’ignoranza, dalle favole delle fate e geni asiatici,

114

Letteratura culturale:

Ermes Visconti

introdotte nei romanzi e naturalizzate in Europa; l’ideale cavalleresco; e generalmente tutte quelle opinioni e tutti quei gradi e tinte di passioni che non si svilupparono negli animi de’ greci e romani. »

La tensione illuministica verso il systèrze non è del tutto abbandonata. Piuttosto, è ora messa al servizio

di una teoria storica totalizzante in cui alla fine prenda forma l’idea di un sistema di verità letterarie che si sostengono e si richiamano a vicenda; e che sono derivate da osservazioni sul Bello nella natura e nelle arti estetiche, combinate coi ragionamenti della filosofia, diretta dal sentimento intimo, e dalla considerazione de’ bisogni morali e civili degli uomini nelle epoche moderne della civilizzazione, ma soprattutto nella presente.

Tuttavia, le strategie eufemizzanti del compromesso teorico non tardano a farsi sentire: il processo di modernizzazione deve pagare un prezzo elevato allo stato di abbandono in cui versano in Italia le pubbliche istituzioni, il sistema di istruzione, il mercato editoriale. Innanzitutto, quello che Visconti definisce il

«senso vivo della realtà» appare limitato dalle leggi non scritte del buon gusto e dagli standard culturali europei: sconsigliato appare per esempio il ricorso

all’immaginario fiabesco e agli archetipi del folklore, rubricabili come «avventure immaginarie di Paladini, Fate, e Negromanti, isole e palagi incantati». Invece di chiedersi quali equilibri antropologici si attivino nel «fantasticare armi incantate e corpi invulnerabili», Visconti trova tali «insipienze» incompatibili con «lo scopo eminente di tutti gli studi, il perfezionamento dell’umanità, il bene pubblico e privato». Evidentemente il pregiudizio tematico e la 115

L’idea di letteratura în Italia

mistificazione funzionale delle mitologie popolari sono subordinati alla necessità di vedere nella letteratura una rete di costrutti olistici interrelati, un

agente di strutturazione civilizzatrice (alle popolazioni di pelle scura, nei Saggi su/ bello Visconti non rico-

nosce neppure la facoltà espressiva fisiognomica: «il colorito delle razze non bianche si presta meno facilmente del nostro a segnare con evidenza le delicate gradazioni degli affetti e delle intenzioni interiori») che si contrappone all’assenza o al minor grado di strutturazione della realtà. Consegue da tali premesse la maggiore importanza assegnata alla drammaturgia rispetto al genere innovatore per antonomasia, il romanzo, ma altresì la rifunzionalizzazione dell’idea classicistica di armonia (poiché è necessario che «la varietà non generi confusione, e l’unità non degeneri in monotonia»), il

ristabilirsi delle leggi di equilibrio strutturale (quando postilla il manoscritto del romanzo manzoniano, Visconti consiglia sempre di ridimensionare le digressioni sterniane), la riduzione del sublime burkiano da dimensione psichica a caratteristica oggettiva riscontrabile nella natura, per esempio in «un uragano; una battaglia; un incendio; le ruine di vetusti

edifici che rammemorino le glorie d’un popolo spento». Con la sua caratteristica mescidanza di piacere e terrore, fondata sulla irrazionalità di una psiche turbata, il sublime teorizzato da Edmund Burke

aveva cominciato a configurare nella letteratura una forma di spossessamento di sé. Ma per Visconti nessun autoesilio è possibile o augurabile: al contrario di quanto aveva già affermato Kant nella terza Crit:ca, il piacere negativo del sublime viene riassorbito in un mero «piacere di spettacolo e non di posses116

Letteratura culturale: Ermes Visconti

so», e interpretato come una forma moderna di «rappresentazione aggradevole». In questo riassorbimento teorico del sublime, in fondo, sono già

implicite le difficoltà e le rinunce cui la teoria letteraria romantica andrà incontro attraverso la voce di Manzoni.

Bibliografia Oltre alle pagine introduttive di A.M. Mutterle all’edizione dei viscontiani Saggi sul bello, sulla poesia e sullo stile, Laterza, Bari 1979, si vedano S. Contarini, I/ “terri-

ble power” di Burke e la contraddizione romantica: î “Saggi sul bello” di Ermes Visconti, in “Intersezioni”, x, n. 3, 1990; S. Givone, La questione romantica, Laterza,

Roma-Bari 1992; S. Contarini, I colori antagonisti. Estetica e antropologia in Ermes Visconti, in A. Battistini (a c. di), Mappe e letture. Studi in onore di Ezio Raimondi, il Mulino, Bologna 1994; R. Cotrone, Dalle “Riflessioni” ai “Saggi sul bello”: ragione e rivelazione nel pensiero estetico di Ermes Visconti, in “Il lavoro critico”, n. 10, 1994; E. Raimondi, Rorzanticismo italiano e romanticismo europeo, Bruno Mondadori, Milano 1997.

117

Letteratura infinita: Giacomo Leopardi

I primi anni del xIX secolo appaiono cruciali per la riformulazione del ruolo, dei confini, degli scopi della letteratura. Autonomizzandosi,

la sfera estetica

non solo trasforma in segno — come ebbe a scrivere Jan Mokatovsky, uno dei fondatori della scuola di Praga — tutto ciò che tocca, ma chiede anche che le sia riconosciuta una legislazione propria. L'identità dei singoli generi letterari muta profondamente, se non altro perché viene avanzata per la prima volta la nozione di sistema (i romantici tedeschi parlavano di un autentico Systerzsprograrzm), in base al quale ogni apparato morfologico dominante costituirebbe un principio di causalità inerente della letteratura e ne spiegherebbe la genesi. Letteratura e generi sono ora coestensivi: lungi dal costituire ornamenti o derivati di strategie tecniche, le forzze custodirebbero l’essenza stessa della sfera estetica. Gli interrogativi che si aprono in Germania grazie a Hegel e agli Schlegel, in Inghilterra a Coleridge e Wordsworth, saranno a lungo dibattuti: quale o quali generi letterari sono nati per primi? È possibile prevederne l’evoluzione, sistematizzarne il mutamento? E a quali funzioni antropologiche corrispondono? Le posizioni sembrano tutt’altro che unanimi. Friedrich Schlegel, per esempio, crede che si sia dato in origine il principio oggettivo dell’epos, poi quello soggettivo della lirica e infine la sintesi di sog118

Letteratura infinita: Giacomo Leopardi

gettività e oggettività del dramma, sviluppatosi storicamente dopo l’epica greca. Tuttavia, in un secondo momento egli si orienta verso una soluzione anticlassi-

cistica che rilegge la storia come un succedersi della modernità alla classicità: la consecuzione dramma oggettivo + lirica soggettiva +

poema

soggettivo-

oggettivo predispone infatti all’elogio del romanzo quale genere riconciliativo e sintetico, in cui shakespearianamente si mescolino realtà e spirito, comico e tragico. Il trionfo ottocentesco della narratività impone dunque a Schlegel di riscrivere la genesi e la gerarchia dei generi letterari, del resto già propensi ad abolire i propri confini. Se peculiare alla modernità sarebbe non riconoscere più in ambito letterario forze (compiute) e contenuti (plastici), bensì tendenze (incompiute) e fori (musicali), non c'è dubbio che la lirica sia la

più riottosa a suddivisioni interne per sottogeneri. Recita infatti un frammento schlegeliano del 1798: Si deve senz'altro ripartire la poesia? o essa deve rimanere una e indivisibile? o alternare separazione e unione? La maggior parte delle concezioni di un sistema poetico universale sono ancora altrettanto rozze e puerili quanto quelle astronomiche precopernicane. Le ripartizioni consuete della poesia sono soltanto morte intelaiature per un orizzonte limitato. Ciò che uno può fare, o ciò che gli risulta, è la terra immobile al centro.

Ma nell’universo della poesia nulla è immobile, tutto diviene e si trasforma e si. muove

armonicamente;

e

anche le comete hanno le loro immutabili leggi dinamiche. Ma il vero sistema universale della poesia non sarà scoperto prima che si possa calcolare il corso di queste costellazioni, prestabilire la loro ricomparsa.

Proprio di questo si occuperà Giacomo Leopardi (1798-1837) a partire dal 1816 e, più sistematicamenJilo

L’idea di letteratura in Italia

te, dal 1818 nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, scritto in risposta alle Osservazioni

sul “Giaurro” di Byron di Ludovico di Breme. In una situazione storica di difficoltà, quando la sua sopravvivenza è revocata in dubbio dal cammino stesso del ragionamento speculativo e dalle scienze della natura, in un clima eternamente diurno e deterministico,

la letteratura deve alleggerire gli armamenti e semplificare le gerarchie interne per meglio predisporsi al combattimento. Ben presto, per Leopardi è chiaro che la letteratura è la poesia e che quest’ultima è di carattere essenzialmente lirico: genere, siccome primo di tempo, così eterno e universale, cioè proprio dell’uomo perpetuamente in ogni tempo e in ogni luogo, come la poesia; la quale consisté da principio in questo genere solo, e la cui essenza sta sempre principalmente in esso genere, che quasi si confonde con lei, ed è il più veramente poetico di tutte le poesie, le quali non sono poesie se non in quanto son liriche (Zibaldone, 29 marzo 1829).

Tutto il resto è inutile o inutilmente artificioso, inef-

ficace o addirittura pernicioso come il dramma, che non è un’ispirazione, ma un’invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e per

volontà degli autori suoi, più che per la essenza sua (Zibaldone, 15 dicembre 1826).

Non meno obsoleta l’epica, che richiede una pianificazione strutturale e tempi di stesura incompatibili con

l’intermittenza

della creazione

estetica,

con

l’«impeto», 1994 che presiede alla sua genesi. Storia dei generi e storia dell'umanità mostrano dunque una tendenziale coincidenza, anche perché ogni complesso morfologico è destinato a irrigidirsi 120

|1

Letteratura infinita: Giacomo Leopardi

in norma e a produrre una discendenza. Nel caso specifico, il primato leopardiano della lirica è l’inevitabile conseguenza delle premesse teoriche da cui lo scrittore muove. N (4) Con oscillazioni sia pur consistenti nel corso

degli anni, entro la sfera estetica Leopardi riconosce un ruolo fondante all’imzzzaginazione, nozione assai complessa: capacità antimimetica di elaborare il falso e vedere l’inesistente; forma di conoscenza struttura-

ta su dati sensoriali portati a contaminarsi in plessi sinestesici (particolare rilievo vi assumono la musica

e le armonie uditive), «maravigliosa ritrovatrice de’ rapporti» «tra cose

disparatissime»;

presa d’atto

istantanea dell’io («la poesia sta essenzialmente in un impeto») e modello espressivo degli «affetti» individuali; strumento di comunicazione intuitivo, «libero e schietto» con la «natura», ossia con gli elementi

primari dell’esistenza. Se il suo antonimo è «ragione», suoi sinonimi sono di volta in volta «bellezza», «speranza», «illusione», «piacere», «infinito». L’ap-

petito di futuro viene gratificato soprattutto dall’immaginazione, cui è concesso di «rappresentare» la speranza e incrementare l'eccedenza del desiderio sulla realtà, del non-essere sull’esistente. Armandosi di immaginazione, lo scrittore è l’autentico «padrone delle fantasie», colui che dà senso all’insensato, che sottrae confini alle cose e nebulizza ogni principio di individuazione, che fa parlare l’ineffabile, ingrandi-

sce «le cose piccole, e orna le disadorne»: l’unico in grado di promulgare editti di scarcerazione, consentendoci di guadagnare spazi solitamente impraticabili. L’immaginazione va infatti sottratta all’«oppressione dell’intelletto, bisogna sferrarla e scarcerarla, bisogna rompere quei recinti: questo può fare il poeIg

L'idea di letteratura in Italia

ta...». Una conseguenza di tale apologia riguarda il problema del punto di vista in letteratura, dove alle focalizzazioni ristrette dei falsi scrittori o dei filosofi razionalisti, che pedinano le cose e quasi vi aderiscono («si strisciano sempre intorno e appiedi alla verità»), si contrappongono le prospettive «lunghe», i sorvoli, le visioni sdoppiate dei veri scrittori, e innanzitutto di Pindaro. (2) Estranea a qualsivoglia contrassegno oggettivo o mimetico, e tanto più aperta universalmente agli altri quanto più inibisce il contatto semiotico con i suoi destinatari, la letteratura sub specie poesiae è questione che riguarda il soggetto e la sua interiorità nei momenti di distacco dall’ordine razionale: «il poeta lirico» è «l’uomo infiammato del più pazzo fuoco, l’uomo la cui anima è in totale disordine, l’uo-

mo posto in uno stato di vigor febbrile e straordinario», al limite ebbro di vino, purché sappia dominare gli strumenti espressivi di cui si serve. «I° 7727 son un che quando Natura parla ec., vera definizione del poeta»: isolato da coloro che vogliono socializzare la cultura, occupato a elidere da sé «i costumi e le abitudini e le nozioni di nomi di generi ec. ricevute da tutti», il poeta è in ogni senso l’artefice della propria poesia, il thesaurus vivente da cui emerge una letteratura “senza nome”, ottenuta sottrattivamente, class:

ca perché regressiva e funzionalmente rivolta a «ricreare e consolare col canto, e colle parole misurate in qualunque modo, e coll’armonia». D'altronde, nessuno più di Leopardi si è opposto al progetto di una «lingua universale» fatta di «segni» che trascrivono direttamente «idee o cose», e non di «parole» che trascrivono “suoni” (Zibaldone, 22 aprile 1821).

Proprio perché aggredita da ogni lato e sempre 122

Letteratura infinita: Giacomo Leopardi

sul punto di soccombere — giusta la profezia hegeliana —, la poesia tende a ispessire ontologicamente quella «consolazione» di cui fa parola Leopardi: è con la poesia che s’intravede l’origine biologica dell'individuo, è con essa che si creano le premesse di una zrlusio in grado di strapparci allo scandalo della condizione umana, è sempre con l’ausilio del verso che possiamo vivere condizioni ossimoriche e sinteti-

che, in cui si dia una mescolanza di «qualità contrarissime, immaginazione, sentimento e ragione, calore e freddezza, vita e morte, carattere vivo e morto,

gagliardo e languido». Dunque se il piacere è inibito dall’infinità stessa del «desiderio del piacere», e se gli uomini sono condannati alla mestizia, «per conforto di questa infelicità inevitabile» c'è da sperare «che vagliano sopra ogni cosa gli studi del bello, gli affetti, le immaginazioni, le illusioni» (lettera a Pietro Gior-

dani del 24 luglio 1828). Il punto (4) avvicina il poeta al filosofo, poiché è vero che «i più profondi filosofi [...] furono espressamente notabili e singolari anche per la facoltà dell’immaginazione e del cuore, si distinsero per una vena e

per un genio decisamente poetici» (Zibaldone, 23 agosto 1823). Il punto (2) fa della poesia una forma di comunicazione presociale, in antitesi al dramma e al romanzo: non mostra le collisioni professionali, sentimentali o finanziarie del mondo urbano, né fotografa in una prospettiva di lungo corso eventi per i quali gli individui debbano interagire con la storia collettiva, ma trasmette a ogni singolo lettore la capacità di «rimuovere gl’impedimenti e le alterazioni che sono nei suo? occhi e nel suo intelletto; e queste, fabbricate-

ci e cagionateci da noi col nostro raziocinio» (Zibaldone, 21 maggio 1823). Il poeta esprime dunque se stes123

L'idea di letteratura in Italia

so. È solo con se stesso. Tuttavia deve in qualche modo autoesiliarsi, mutare prospettiva, dimenticare il proprio presente e inventare qualcosa che gli appaia come una scoperta, cioè un ricordo; se ogni sensazione

non deriva dal contatto di qualcosa nella dimensione del presente ma è «una ricordanza, una ripetizione,

una ripercussione o riflesso della immagine antica», il poeta fugge dal presente e, attraverso un’identificazione di piacere e rimembranza, percepisce delle «somiglianze» tornando su sentieri che non ha mai percorso. L’essere diviso dagli uomini e, per dir così, dalla vita stessa, porta seco qualche utilità; che l’uomo, eziandio sazio, chiarito e disamorato delle cose umane per l’esperienza; a poco a poco assuefacendosi di nuovo a mirarle da lungi, donde elle paiono molto più belle e più degne che da vicino, si dimentica della loro vanità e miseria;

torna a formarsi e quasi crearsi il mondo a suo modo.

Si comprende bene, già da questi pochi cenni, come la posizione di Leopardi fosse prossima e insieme distante dalle dottrine estetiche romantiche. La questione è ben nota. Il Discorso di un Italiano (inutilmente inviato alla “Biblioteca Italiana” e rimasto inedito sino ai primi del Novecento) prende le parti del classicismo contro le dominanti più settentrionali e iperboliche del romanticismo: innanzitutto contro la finalità pedagogica dell’arte in quanto componente primaria del progresso sociale; contro un intellettuali smo che di fatto snatura l'essenza sensistica, «corporale e fantastica» della poesia; contro il discredito del-

l’idea stessa di «diletto» quale scopo originario delle finzioni letterarie; contro il rifiuto della mitologia classica e ancor più del mito — cioè di un discorso immaginosamente difensivo, in cui la relazione tra 124

Letteratura infinita: Giacomo Leopardi

l’uomo e la natura è un autentico corpo a corpo — in nome del «vero»; infine contro l’ottimismo che indu-

ce i romantici al riassorbimento delle contraddizioni storico-sociali in qualcosa di superiore. i Ludovico di Breme aveva tra l’altro invocato il modello di un patetismo che sapesse cogliere «ciò che v’ha di più riposto e di più profondo (non già di più malinconioso) nell'animo e nel sentire umano»,

in opposizione all’animismo degli antichi, pronti a inserire il “fantasma” inutile e mistificatorio della presenza umana tra «noi e i fenomeni naturali». A suo avviso, si sarebbe dovuto scavare nell’io con l’aiuto della psicologia, una scienza «tratta dalle

profondità più remote dello spirito», e acquisire i panorami della modernità ai nuovi testi — «i culti, i climi, i terreni, i vari mondi, di cui fummo scoprito-

ri», e perfino «i miracoli dell’industria». Partecipe anch'egli della rivoluzione del sistema poetico occidentale, Leopardi non poteva certo rinnegare, per così dire, il metodo iconologico degli antichi, un ethos dell’immaginazione che li induceva a dare un senso («vivificare») all’insignificante, precisamente al modo in cui «l’immaginativa de’ putti» intravede nel sole e nella luna «un uomo e una donna»: in attesa della «mutazione totale» del 1819, dietro la mitologia si cela dunque per Leopardi una proiezione vitale, il desiderio di un soddisfacimento affettivo. L’oppositore dei romantici mostra tuttavia qui e in seguito di condividere con gli «scrittori del nord» alcune premesse estetiche e dottrinarie, ed è vero che nelle pagine dello Zibaldone il termine «romantico» ricorre poche volte, ma sempre in accezione positiva — come quando si discute delle «vedute ristrette» tanto amate dal romanticismo e in grado di attivare, per 125

L'idea di letteratura in Italia

converso, la sensazione dell’infinito. In modo riassun-

tivo, si potrebbero attribuire a Leopardi le seguenti prese di posizione romantiche: (1) la dissoluzione antiaristotelica della teoria mimetica dell’arte, intesa

quale espressione creativa (lampada, non specchio, secondo la celebre formula di Meyer H. Abrams), e il conseguente primato assegnato alla musica e alla lirica; (2) l’esautoramento delle forme “lunghe” o sistematiche e insieme la semplificazione delle morfologie di genere, viste come coestensive alla letteratura; (3)

l’affermazione del valore gnoseologico del poetare,

forma di conoscenza iuxta propria principia, sintetica e

istantanea, intermittente e subliminale, contrapposta

all’analisi razionale «che non è un colpo d’occhio», né

può scoprire «mai un gran punto della natura; il centro di un gran sistema; la chiave, la molla, il complesso

totale di una gran macchina»; (4) la fede nella schellin-

ghiana estetizzazione della natura («la natura ha istinto artistico») e (5) nel postulato herderiano circa l’ineliminabile coincidenza di pensiero e parola («non si pensa se non parlando»); (6) la nostalgia dell’antico, cioè la percezione della modernità come stadio storico radicalmente distante dalle civiltà precedenti; (7) la predilezione per il patetico e la dimensione del «sentimentale», egualmente asserita da Ludovico di Breme attraverso le parole di Byron.

126

Letteratura infinita: Giacomo Leopardi

Bibliografia Entro una bibliografia sterminata, si segnalano qui soltanto G. Singh, Leopardi and the Theory of Poetry, Lexington 1964; Leopardi e il Settecento, Atti del 1 Con-

vegno Internazionale di Studi Leopardiani, Olschki, Firenze 1964; G. Petrocchi, Lezioni di critica romantica, il Saggiatore, Milano 1975; S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell'Ottocento italiano, Nistri-Lischi, Pisa

1977 (1 ed.); F. Brioschi, La poesia senza nome. Saggio su Leopardi, il Saggiatore, Milano 1980; S. Gensini, Linguistica leopardiana, il Mulino, Bologna 1984; M. Puppo; Poetica e critica del romanticismo italiano, Studium, Roma 1985; M.A. Rigoni, Saggi sul pensiero leopardiano, Liguori, Napoli 1985; E. Bigi, Poesia e critica tra fine Settecento e primo Ottocento, Cisalpino-Goliardica,

Milano 1986; C. Ferrucci, Leopardi filosofo e le ragioni della poesia, Marsilio, Venezia 1987; A.C. Bova, I/laudabil meraviglia, Liguori, Napoli 1992; S. Givone, La questione romartica, Laterza, Roma-Bari

1992; A. Negri,

Interminati spazi e eterno ritorno. Nietzsche e Leopardi, Le Lettere, Firenze 1994; A. Mazzarella, I dolci inganni. Leopardi, gli errori, le illusioni, Liguori, Napoli 1996; A. Prete, Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi, Feltrinel-

li, Milano 1996 (1 ed.); M.A. Rigoni, I/ pensiero di Leopardi, Bompiani, Milano 1996; L. Cellerino, L’io del topo. Pensieri e letture dell’ultimo Leopardi, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1997; S. Neumeister, R. Sirri (a

c. di), Leopardi poeta e pensatore/ Dichter und Denker, Alfredo ‘Guida Editore, Napoli 1997; E. Raimondi, Romanticismo italiano e romanticismo europeo, Bruno Mondadori, Milano 1997.

127

Letteratura reale: Alessandro Manzoni

Quando a un bambino si racconta una storia, egli non manca mai di chiedere: è vero? E non è una tendenza È ,° O . e LL: . particolare dell’infanzia; il bisogno della verità è l’unica cosa che possa farci attribuire importanza a tutto ciò

che apprendiamo.

«Il bisogno della verità»: per comprendere la teoria letteraria delineata da Manzoni (1785-1873) nella prima metà dell’Ottocento è necessario assumere alla lettera queste parole. Da un lato il reale, il mondo della storia; dall’altro la propensione antropologica che ogni individuo mostra verso ciò che è e, per dirla con le parole di Adelchi, verso la «feroce forza» che «il mondo possiede». Nessuno, più e meglio di Manzoni, si è mostrato contrario a una visione segregazionista della letteratura: avida di realtà, essa è infatti instabile

e dinamica al pari di colui che vi si dedica. Malgrado la sua fervida amicizia con l’idéologue conosciuto alla Maisonnette durante gli anni parigini, nulla è più lontano dall’inquietudine letteraria manzoniana dell’idea contenuta nelle Ré/exzons di Claude Fauriel, secondo cui la poesia idillica deve rappresentare l’uomo nel suo stato di appagante quiete. L’idillio verrà scartato

ben presto da Manzoni nella consapevolezza — cui non è estranea la rilettura di Pascal — che l’uomo non è mai appagato dal proprio stato, e in suo luogo comparirà la tragedia della storia, l'avventura del desiderio e il suo svanire in un atto mancato, nell’inevitabi128

Letteratura reale: Alessandro Manzoni

lità della morte fra tenebra e menzogna. Dunque, letteratura e realtà di là da qualsivoglia intento mimetico: il bisogno della storia, e il desiderio di trasformare la letteratura in uno strumento sociale del pensiero, purché si attenga al mondo storico e ne «ritrovi» i materiali di costruzione. «Creare», dirà infatti Man-

zoni nel dialogo Dell’invenzione (1850), è un’azione predicativa «sciagurata». Il suo instabile equilibrio nervoso, la tipologia di gran parte delle opere condotte a termine (fondate su un contrasto o una rete di rapporti di forza, sulla frizione che si crea tra la realtà e un punto di vista impreparato ad accoglierla), le terapie quotidiane a base di conforti religiosi, la sua autentica ossessione per la storia e i modi in cui le parole riescono a veicolarne l’autenticità indicano come l’unico, incessante luogo di

esercizio della meditazione letteraria di Manzoni sia stato l'esistente, ciò che irrimediabilmente è. L’attrito,

lo scontro o addirittura il duello (quello che nei Promessi sposi conduce Ludovico a divenire fra Cristoforo) sono immagini approssimate per difetto della realtà, l'impronta psichica di un contatto temuto e ricercato. Da questo punto di vista andrebbero riletti anche i 772ythos critici che sin dal secolo scorso hanno avvolto il personaggio Manzoni o la genesi delle sue opere: per esempio quello relativo alla cosiddetta conversione di San Rocco, quando Manzoni è catturato

dalla folla reale di Parigi e smarrisce la moglie, oppure quelli riguardanti il nucleo immaginativo primario dei Promessi sposi —per Angelo De Gubernatis da reperire nella conversione dell’Innominato, per Giovanni Sforza in una grida secentesca sui matrimoni impediti, per Andrea Luigi Apostolo nelle fantasticherie cui Manzoni si abbandonava in un capanno di caccia collocato tra 129

L'idea di letteratura in Italia

Pescarenico e il lago di Como, in attesa delle prede. Tali congetture, bilicate tra filologia e arbitrio, colgono tuttavia nel segno quando assegnano un ruolo archetipico all'immagine di un conflitto tra l'individuo e gli eventi reali. Rosminiano e coscienzialista fin che si vuole, è in virtù di questa attenzione per i realia che Manzoni riuscì a dare lezioni di pragmatismo argomentativo persino a Locke e Condillac, suoi interlocutori immaginari nel frammento Della lingua îtaliana. L’eredità per così dire familiare del grande Illuminismo lombardo e la sua vocazione riformista non basterebbero a spiegare la feticistica volontà manzoniana di mettere la letteratura al servizio di ciò che esiste, buono o malvagio che esso sia. È infatti la letteratura a sondarne lo spessore ontologico, a ricostruirlo congetturalmente attraverso labili indizi, a organizzarlo in un quadro veritiero 0, nel peggiore dei casi, verosimile. Enunciare la verità — per questo tardivo allievo di Rosmini, la cui frequentazione si

protrasse dal 1826 al 1845 — significa appunto stanare l'essere degli individui (cioè la loro interiorità), circoscrivere un avvenimento reale puntualizzandone le cause e gli scopi, proiettare un fascio di luce sulle zone storiche rimaste in ombra, precisamente come nella Pentecoste è un metaforico bagliore newtoniano a ridare vita al mondo degli uomini. Il reale va intuito, e poiché l’intuizione — come Manzoni obietta stringentemente al Cousin filosofo del linguaggio — è sin dall’inizio indistinguibile dalle parole, risulta necessario applicarsi a queste ultime, cioè ricorrere alla letteratura. Gens de lettre è infatti per Manzoni un sintagma che incrementa illimitatamente le proprie aree di competenza ai territori della realtà mediati dal linguaggio, in altri termini a tutto. Gli Inns sacri e i Pro130

Letteratura reale: Alessandro Manzoni

messi sposi, le Osservazioni sulla morale cattolica e i referti documentali della Colonna infame, i saggi di teoria drammaturgica e di storia della lingua: la letteratura è rappresentata dall’insieme disomogeneo di questi manufatti verbali. Essa amplia i suoi organici, riscrive l'albo professionale accogliendovi tanto Ripamonti quanto Bossuet, ma senza più nutrire il sogno secentesco di un universalismo erudito. Elementi unificanti sono il linguaggio e la ricerca (il rifrovamento,

come spiegherà il dialogo Dell'invenzione) delle verità di fatto, per cui, una volta esposto l’obiettivo di trattare le «belle lettere» come un «ramo delle scienze morali» e precisato che «verità matematiche» e «verità morali» «sembrano però d’una medesima condizione, d’una medesima natura», lAppendice alla Relazione intorno all'unità della lingua conviene sulla necessità di riferire «il titolo di Persona di Lettere» genericamente «a chi scrive in materie relative alla cultura dell’ingegno umano». Sin dall’inizio della sua carriera di scrittore, il problema di Manzoni è allora costituito dal linguaggio e dai potenziali di finzione, o addirittura di controfattualità, in esso impliciti. L'impatto drammatico con l’inevitabilità della menzogna ogni qual volta si ricorra alle parole e la necessità di disintossicarle quanto più possibile avviene all’altezza cronologica del passaggio dal Fermo e Lucia alla prima edizione dei Prozzessi sposi (1827), e da quel momento gli ostacoli frappostigli dal linguaggio non cessano di torturare Manzoni. Per tacere del problema tutto italiano dell’assenza di una lingua comune, il fatto stesso che esistano più modi di dire la stessa cosa, e il volerci sempre un po’ di studio per scegliere, fa sì, che nessuno di questi modi 131

L’idea di letteratura in Italia

la dica con naturalezza, e con quell’effetto d’evidenza immediata, che viene dall’applicazione costante e uniforme allo stesso caso dello stesso vocabolo.

È forse sufficiente innestare nel romanzo in corso meccanismi di controllo dell’enunciazione quali il doppio narratore, l’ironia parafrastica, il commento in diretta, lo scavo ermeneutico della parola? Sia pure in una prospettiva brechtiana, epica e distanziata, il lettore dei Prorzessi sposi si scontra a più riprese con la messa in racconto dell’impossibilità di comunicare, con la violenza celata dietro la retorica eufemistica o il “latinorum” dei documenti ufficiali, quando non addirittura con la censura dei fatti e delle persone. L’inedito autoritratto cui Renzo è raffrontato attraverso le parole di un avventore in una locanda sulla via del bergamasco, la forza ambigua delle promesse verbali (nel Novecento il linguista J. Austin farà del promzettere uno dei gesti verbali a maggiore contenuto performativo, ossia l'operazione verbale che più si avvicina all’agire), e soprattutto nel capitolo XXVII l’episodio celebre dei turcimanni, i “mediatori” di scrittura —

grande allestimento dell’entropia della vita associata, per cui è impossibile comunicare senza alienare la propria parola a qualcuno o a qualche codice dalle regole insondabili: tutto questo racconta la storia della circolazione necessariamente ambigua del linguaggio e getta un'ombra di ironico sospetto sul romanzo stesso che la inscena, soprattutto quando nel capitolo XXXVII apprendiamo che Renzo «soleva raccontar la sua storia molto per minuto, lunghettamente anzi che no (e tutto conduce a credere che il nostro anonimo l'avesse sentita da lui più d’una volta)». L'acquisizione incontrovertibile di Manzoni, con 132

Letteratura reale: Alessandro Manzoni

le poetiche dell’art pour l'art già alle porte, è dunque la seguente: la letteratura rappresenta un ampio corpus di testi contraddistinti dall’«arte di rinvenire col mezzo del linguaggio» il «vero». Si può discutere sulle diverse competenze logotetiche dello scrittorescienziato (che «inventa vocaboli novi» quando scopre fenomeni naturali inediti) e dello scrittore-poeta (che procede per «accozzi inusitati di vocaboli usitati»), ma lo scopo resta sempre quello di sondare la realtà, «estendendo e coordinando insieme la sua

comprensione». Nel 1832 Manzoni è semplicemente convinto che non sia «possibile concepire atto razionale senza la parola», poiché «il mezzo stesso col quale la ragione interroga, dirò così, se stessa, e col quale si risponde, è pur la parola»; certo, i significanti rinviano sempre a idee, prima che a cose, ma «l’idea, checché, per idea, si voglia specialmente intendere, deve aver di necessità un oggetto distinto da sé, altrimenti perché mai esisterebbero idee differenti, «se non per la diversità degli oggetti loro?». Il linguaggio predispone allora le sue macchine belliche sul campo di battaglia nel tentativo di catturare il maggior numero di nemici referenziali: il vero come ostaggio e fine della parola — ecco un’immagine che raffigura a sufficienza la teoria letteraria manzoniana. Di qui la tendenza inconsapevole a giudicare “cattiva” la letteratura che si chiude in spazi angusti e si ripiega in se stessa («qui se replie à chaque instant», si legge nella Lettre è M. C** a proposito del classicismo francese), e “buona”

la letteratura che si

dispiega e srotola sulla realtà («qui se déroulera d’une manière plus conforme à la realité...»); parimenti,

di qui la presa di distanza dal petrarchismo e dalla tematica amorosa, entrambi centripeti, indotti a 133

L’idea di letteratura in Italia

murare l’individuo in se stesso e a semplificare le dinamiche storico-evenemenziali adducendo cause troppo imperialistiche o egolatriche. Manzoni ritraduce questi postulati in termini di filosofia del linguaggio solo quando sta per abbandonare il campo della letteratura di finzione, e lo fa rileggendo i testi della tradizione francese e inglese, da Locke a Cousin. Anche quest’ultimo, il più tedesco dei francesi conosciuti da Manzoni a Parigi, tra il 1815 e il 1817 aveva cercato di rovesciare il sensismo condillachiano riaffermando la priorità del pensiero sul linguaggio, la sistematicità dei testi verbali, la struttura originaria della coscienza individuale: un tentativo eclettico e compromissorio di affossare l’empirismo. Ma è proprio contro Victor Cousin e l’idea di «intuizione» prediscorsiva che si indirizza l’argomentare di Manzoni in alcune celebri lettere e nello straordinario Della lingua italiana, testo cui egli lavorò dagli anni trenta agli anni sessanta. Si vuole ripristinare un senso comune a priori, una struttura

trascendentale della coscienza? Per Manzoni non c’è senso comune al di fuori della comunicazione, cioè

del linguaggio, ed è dunque inutile o nocivo attribuire spontaneamente all'uomo ciò che «riceve dagli altri» e che non può «germogliare da quel cantuccio d’intelligenza che il sistema gli lascia o gli toglie». Il dispositivo storico-naturale del linguaggio rende spuria la nozione cousiniana di «ispirazione» almeno quanto invalida quella rosminiana di «intuizione», mentre l’autorità delle parole non deriva dal loro fluire spontaneo, ma dalla responsabilità etica di chi le enuncia — «qualcuno che viene considerato come depositario certo e testimone fedele della verità, oppure fonte della verità stessa». 134

Letteratura reale: Alessandro Manzoni

Ora, questo linguaggio che non deriva dall’esperienza ma

dalla coscienza stessa dell’uomo,

è un

archivio vivente del sapere individuale e collettivo: ogni parola può discutere di particolarità proprio in quanto si riferisce a classi generali di enti e include un rinvio al sistema complessivo della lingua, contenendo un «eccetera» («C’è un eccetera in ogni parola, in tutte le parole possibili...»), al punto che la letteratura implica l’esercizio incessante del sospetto, una resa dei conti semantici, un controllo etimologico implacabile e sfibrante. Per irretire il vero, essa ha

a disposizione soltanto linguaggi che mutano in continuazione, quasi «fabbriche cominciate con rottami d’un edifizio del quale si è smarrito anche il disegno»: e non è una condizione priva di rischi. Il ruolo cruciale delle res factae, che sospingerà irrimediabilmente Manzoni a ricusare le res fictae,

trova nel corso degli anni una sistemazione insieme filosofica, morfologica ed etica, ma lo si riscontra già

negli anni giovanili, quando nel sermone sulla Poesia il primato della necessità culturale viene consegnato all’esercizio dell’agricoltura e della giustizia, secondo un punto di vista contrario al petrarchismo e a qualsivoglia idea totalizzante di poesia. Così, in una lettera del 1845 a Giuseppe Giusti non sorprende affatto la presa d’atto delle difficoltà in cui si dibatte la letteratura di finzione. Manzoni ha quasi definitivamente abbandonato i territori letterari (solo nel 1847 stenderà un frammento di Ogrissanti), è un esiliato volontario e lo resterà per sempre: La

ja era una & gran signorona, che aveva di molti

poderi; ma ora, una parte n’ha persi, e per altri, c’è de’ cattivi segni. La bucolica, ch'era un buon poderino, e che 135

L’idea di letteratura in Italia

musi di lavoratori ha avuti! s'è smessa di coltivare per la prima, e ho paura per sempre. L’epopea c’è sempre, in titolo; ma con questo che il coltivarla dia un lavoro sovrumano, un'impresa temeraria; e il posseder le cose in questa maniera mi par quasi un accorgersi di non averle più. La drammatica, s'è, si può dire, smesso, per buone ragioni, il metodo vecchio di coltivarla; ma quando si sarà trovato il nuovo, mi farai un gran piacere di avvertirmene, se

sono in questo mondo. Ora, la signorona vecchia, che non vorrebbe rimaner con nulla al sole, e si trova avere

ancora del capitale, cosa fa? Dice a’ suoi lavoratori: Diavolo! che nessuno di voi sia capace di trovare un terreno nuovo da dissodare, e farmene un nuovo podere!

Evidentemente questa ardita colonizzazione sarà il compito assolto dal naturalismo — come riconobbe il vecchio De Sanctis —, ma per Manzoni resta fondamentale un’operazione analogica in base alla quale la letteratura è un tessuto verbale che scopre (etimologicamente irventa, censisce) i territori del reale, con una sistematicità che egli non può ormai riconoscere nella morfologia sempre troppo coesa del romanzo (definito nell’epistola al Giusti «epopea»), responsabile di una scomparsa dei referenti («il posseder le cose in questa maniera mi par quasi un accorgersi di non averle più»). La realtà storica. Non è il caso qui di ripercorrere le enunciazioni manzoniane di poetica in rapporto ai generi drammaturgico e narrativo, se non strumental-

mente per la ricostruzione di un modello teorico generale. Eppure — nella Lettre allo Chauvet, nel saggio Del romanzo storico o nei Materiali estetici, un testo incompiuto, databile tra il 1816 e il 1819, che

costituì una riserva naturale per la Lettre, Del romanzo storico, la Prefazione al Carmagnola — il problema è sempre quello della realtà storica. La progressiva eli136

Letteratura reale: Alessandro Manzoni

minazione del rorzanesque dalle tragedie, il bando intimato all’inverosimile, alle unità di tempo e di luogo o al caso quale promotore di eventi risolutori, Padozione dello sternismo (ciò che significa ironia, ricorso a segmenti digressivi, annullamento della suspense, interruzione delle azioni, incompiutezza dell’intreccio, messa in scena critica dell’atto di enun-

ciazione) nella prima edizione dei Promessi sposi per meglio decostruire l’azione romanzesca, vengono uti-

lizzati al solo scopo di far aderire la letteratura alla realtà: meglio ancora, di farle acquisire la «qualità speciale, incomunicabile, di cose reali», «di una mera

e nuda storia». Non per caso la letteratura viene spesso raffrontata a una carta topografica in cui siano segnate persino le «alture minori», le «disuguaglianze del terreno», i «villaggi», le «case isolate», le «viottole», o ancora alla pianta di una città in cui siano indicati gli edifici esistenti e, in colore diverso, «strade,

piazze, edifizi progettati» (Del romanzo storico). Negli stessi anni, Antonio Rosmini stava convincendo Manzoni della necessità di concepire ogni attività in termini ontologici. L’essere era il principio di ogni conoscenza, la suprema regola di ogni giudizio formulato, e in quanto tale non differiva in nulla dal bene. Le idee sarebbero la «forma obiettiva dell’essere» e la verità il manifestarsi delle cose; più l'ente ci «inabita» e risulta accolto da noi, diceva Rosmini, più

la verità ontologica di quell’ente emergerà. Certo, la riflessione rosminiana offrì a Manzoni un quadro sistematico e teologico in cui riporre la sua ossessione per la realtà, ma è in fondo più semplice fare dello scrittore milanese il sicario della morte dell’arte, colui

che alimentò le ambizioni epistemologiche della letteratura sino a un ineguagliato silenzio. 137

L'idea di letteratura in Italia

Bibliografia Utili spunti nella direzione di una teoria etica della letteratura in Manzoni si possono ricavare da G. Petrocchi, Lezioni di critica romantica, Cisalpino-Goliardica, Milano 1975; A.R. Pupino, “Il vero solo è bello”. Manzoni tra Retorica e Logica, il Mulino, Bologna 1982; E.N. Girardi, Manzoni, De Sanctis e altri studi di storia della critica italiana, Vita e Pensiero, Milano 1986; L. Formigari, L'esperienza e il segno. La filosofia del linguaggio tra Illuminismo e Restaurazione, Editori Riuniti, Roma 1990;

E. Raimondi, La dissimulazione romanzesca. Antropologia manzoniana, il Mulino, Bologna 1990; C. Riccardi, I/

reale e il possibile. Dal “Carmagnola” alla “Colonna infame”, Le Monnier, Firenze 1990; G. Lonardi, Ermzengar-

da e il pirata. Manzoni, dramma epico, melodramma, il Mulino, Bologna 1991; E.N. Girardi (a c. di), Goethe e Manzoni. Rapporti tra Italia e Germania intorno al 1800, Olschki, Firenze 1992; M. Sansone, Manzoni francese. 1805-1810: dall’Illuminismo al Romanticismo, Laterza, Roma-Bari 1993; T. Manferdini, Essere e verità în Rosmini, ESD, Bologna 1994 (Il ed.); G. Lonardi, Manzoni e l’esperienza del tragico, Mucchi, Modena 1995; A. Ciccarelli, Manzoni: la coscienza della letteratura, Bulzoni, Roma 1996; S.S. Nigro, La tabacchiera di Don Lisander. Saggio sui “Promessi Sposi”, Einaudi, Torino 1996; E. Raimondi, Romanticismo italiano e romanticismo europeo, Bruno Mondadori, Milano 1997; M. Colummi Camerino, Manzoni teorico del romanzo, in “Nuova Rivista di Letteratura Italiana”, I, n. 2, 1998.

138

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Letteratura nazionale: Carlo Tenca

Se il Settecento ha dato ampia circolazione al tema del «genio della lingua», in base al quale ogni carattere nazionale proietterebbe se stesso sin nei più minuti aggregati linguistici, il x1x secolo non ha cessato di interrogarsi sul rapporto tra letteratura e identità nazionale,

con

esiti multiformi

e talvolta

opposti. La storia di quell’interrogarsi è in apparenza un paradosso. Il crollo tardo-settecentesco della grande tradizione classica — che significava anche un repertorio di motivi e temi, la cosiddetta topica — aveva liberato energie individuali o convalidato per la prima volta contrassegni di “originalità allargata”, stili sociali, insomma qualcosa che rammentava la singolarità di un aggregato nazionale. Da un lato, la cosiddetta letteratura d’autore (si pensi a Byron) cercava lo scatto singolare e centrifugo, benché la nuova configurazione del mercato delle lettere e una riproducibilità tecnica ormai avanzata producessero flussi cosmopoliti e sovranazionali di cultura. Dall’altro, la letteratura popolare (il folklore, come si cominciò a

chiamarlo) veniva scoperta, prodotta e teoricamente promulgata quale contrassegno dell’identità di una nazione, ibesaurus delle origini e sorta di inconscio

collettivo, berché molto per tempo gli studiosi di mitologia comparata avessero cominciato a enucleare nelle diverse tradizioni folkloriche europee o mondia139

L’idea di letteratura in Italia

li un arsenale di ripetizioni, elementi omogenei, spesso misteriosamente identici. Un paradosso. Per fondare identità nazionali o consolidare organismi statuali ancora deboli e in via di ristrutturazione, l’intellettuale romantico si fa edi-

tore di testi popolari (fiabe, leggende, saghe, cicli epici), per poi scoprire in essi elementi sovranazionali. E altrettanto paradossale è che una cattedra di letteratura comparata venga istituita in Europa solo con

pochi anni di anticipo rispetto al deflagrare dei nazionalismi nel primo conflitto mondiale, e che la data ufficiale di nascita dello strutturalismo — il movimento epistemologico più sovranazionale del Novecento — sia un convegno americano organizzato da Roman Jakobson negli anni più gelidi della Guerra fredda. Proprio tale paradosso circoscrive una sorta di fenomenologia compensatoria e indica il ruolo cruciale della letteratura non certo nel creare le nazioni,

ma l’idea che di esse abbiamo. Farsene una ragione è semplice. Si pensi a Carlo Tenca (1816-1883), attivo a Milano intorno alla metà dell’Ottocento, giornalista militante e grande conoscitore di «letteratura volante», cioè quella produzione effimera di giornali, strenne e almanacchi che gli consentì di studiare la circolazione delle idee in un moderno contesto nazionale. A suo avviso, la sfera estetica è per antonomasia il luogo in cui avvengono processi di assimilazione, di mutuazione, di stabilizzazione omeostati-

ca. La letteratura non è che l’unificazione ottativa di due macro-apparati testuali: (4) la produzione e la ricezione ipoletterarie del popolo, fondate morfologicamente sull’«instinto», cioè l’improprietà stilistica, e tematicamente sull’«esperienza», cioè la pratica di

ambiti quotidiani, soprattutto agresti e familiari; (£) 140

Letteratura nazionale: Carlo Tenca

la produzione e la ricezione sperletterarie dell’aristocrazia e degli «uomini di studio», fondate morfologicamente sulla tradizione dei classici e tematicamente sulla «conoscenza», cioè l'enciclopedia del sapere, contestualizzato in ambiti urbani e sociali su ampia scala. Letteratura è l’insieme di queste inutili parzialità, il dominio dell’insieme mondano, l’armonia dei

punti di vista dei mittenti e dei destinatari. Un chiasmo comunicativo, dove l’indigente scrive di sé per l’abbiente leggendo i testi che quest’ultimo gli indirizza espressamente, e viceversa. Tenca giunge a immaginare un corpus testuale che descriva il decorso di passioni primarie con bellettristica eleganza e insieme metta in scena argomentazioni erudite con la perspicuità rozza del popolo, che trasferisca i villici in città ed esilii un operaio tra distese agresti, che consenta al povero di prendere «coscienza della vita» e al ricco di «vivere» tout court. Come vivere senza conoscer la vita? E la vita non può insegnarla profondamente che il dolore, il lavoro, la

povertà; bisogna dunque che, per un moto di simpatia e d’intelligenza del popolo, ci facciamo poveri e soffrenti colla nostra volontà. Riveliamo il popolo alle classi privilegiate. Che volete che sappia il ricco con tutta la scienza delle scuole e dei sistemi? Colla facile vita ch’egli trascorre come volete ch’egli ne conosca la forte e profonda realtà? Del pari l’operaio, l’uomo del popolo, è legato dalle necessità della vita sul posto che gli toccò in sorte dalla nascita; a noi tocca mostrargli il rimanente orizzonte [...] Codest’opera di pace e di simpatia noi la proponiamo alla letteratura italiana.

L’orientamento sociologico di Tenca si avvale sempre di una sorta di vocazione chimica a valutare le posologie e prevedere i composti morfo-tematici cui ricor141

L’idea di letteratura in Italia

rere nel futuro. La sovraproduzione di poemi epici in Italia nella prima metà dell'Ottocento, per esempio, si spiega solo con l’esigenza di rafforzare un’identità nazionale e di rimettere in gioco virtualmente quella dimensione del Meraviglioso cui la nuova età borghese ha dato «lo sfratto», «cacciando Eolo e Nettuno

nella caldaia d’un battello a. vapore» (Degli epici moderni in Italia, in “Rivista Europea”, maggio 1845). Di qui l’innalzamento elativo della scrittura quando Tenca cerca di suggerirci una definizione sommaria

di letteratura: «mediatrice del mondo»,

«stromento dell’armonia e della pacificazione sociale», causa ed effetto di una «missione unificatrice»,

indizio di «simpatia dei cuori verso i cuori». Formazione di compromesso in grado di aggirare censure etniche o sociali più che non psichiche, la letteratura deve acquisire una particolare malleabilità: ampliare i confini, abbassare gli standard qualitativi, affrontare i problemi del mercato e dell’industria. Ascendenze manzoniane e mazziniane, mesci-

date nella riflessione di chi apprezza ogni tentativo di mediazione collettiva, danno corpo a una fitta serie di articoli pubblicati sulle riviste lombarde più militanti — dalla “Rivista Europea” al “Crepuscolo” — e incentrati sulle modalità possibili di comunicazione. Privo dell’eleganza intellettuale di un Cattaneo, Car-

lo Tenca mostra tuttavia una sensibilità semiotica senza eguali. Tutto è per lui serziologico, ossia frutto di una codificazione sociale, libera proprietà collettiva. Ecco: il codice si rivela assai più importante del messaggio, la langue della parole, l’effetto (sociale) della causa (morfo-linguistica), e ciò sollecita Tenca ad ampliare l’indagine alle belle arti. Il nome di una delle prime riviste su cui scrisse — il “Cosmorama Pit142

Letteratura nazionale: Carlo Tenca

torico”, fondato nel 1835 — esprime sino in fondo il suo ideale panottico, sufficiente a farne il Tocqueville italiano. Decontaminato da quello che lo rende inevitabilmente datato, l’ambito letterario teorizzato da Tenca

conserva un fondo di verità. Luogo di emergenza della singolarità, la letteratura è tuttavia fondata sul-

l’idea di comunità e di comunicazione, forse perché è lo strumento di potenziamento del linguaggio, elemento decisivo nella definizione delle nazionalità: le alterità vi compaiono incessantemente, ma negli spa-

zi interstiziali tra l’una e l’altra prende corpo l’idea di una realtà comune e l’esigenza stessa che tale realtà debba essere legata a un territorio. Più l'ideale classicistico della letteratura e la soffocante unicità di un canone si sono incrinati tra Otto e Novecento, più si è cercato di correlare funzionalmente la sfera estetica alla produzione di quelle realtà parziali e insieme condivise che sono le nazioni. L’odierna ascesa dei cultural studies, autorevolezza storiografica della geografia letteraria dionisottiana, l’ampliarsi sempre maggiore della teoria della traduzione, i colpi inferti da Pierre Bourdieu all’idea saussuriana che la lingua sia un semplice universo di scambi linguistici, e non un insieme di pratiche militanti e «regionalistiche» per produrre ciò che essa pretende di descrivere — ossia il reale —, hanno ulteriormente cementato i rapporti di buon vicinato tra letteratura e identità nazionale. Sarebbe sufficiente ricordare i recenti studi anglosassoni sul romanzo storico primo-ottocentesco, interpretato quale efficace agente di coesione territoriale (molti romanzi di Walter Scott sono ambientati in zone di confine, con un eroe che

si muove tra Highlands e Lowlands), o le attuali 143

L’idea di letteratura in Italia

discussioni intorno al leopardiano Discorso sopra lo stato presente del costume degl’Italiani. Ad aprire il Discorso era l’assenza di una «società stretta», ossia di un codice di convenzioni sociali (la

«stima», il valore pubblico di virtù private, il ruolo o persona assunto da ogni individuo quale mediazione tra l’io e la collettività). Tutto ciò che riguarda l’attribuzione di confini e l'inserimento di discontinuità culturali (tra i sessi, i linguaggi, le età dell’uomo, gli spazi) entro un’immaginaria continuità naturale vi appariva correlato a testi letterari. Così nella critica

tenchiana. Tolta a un’immacolata solitudine che la renderebbe un ammasso di segni autoreferenziali e invece immersa nelle sedimentazioni millenarie che ne hanno costituito le fondamenta, la “letteratura”

studiata da Tenca è un fattore di territorializzazione geo-culturale, una calotta voltaica di scambi a distan-

za dove si consolidano schemi procedurali, opinioni comuni, patriottismi costituzionali (cioè convenuti

secondo un'etica civile di volta in volta propiziata dagli attori sociali). È a essa che spetta di negoziare il senso comune e la fenomenologia del mondo quotidiano: verbalizzando le realtà più settoriali (come nella Colonna infame di Manzoni) o discutendo dello spirito collettivo (come nella Storia desanctisiana), la letteratura favorisce un /azssez-fare linguistico e tematico che, se non proprio uno «stromento d’armonia sociale», enuclea un punto medio, un volto nazionale e collettivo in cui si producono rappresentazioni antagonistiche di controllo della realtà, in

modo da far emergere i «difetti» di un’intera nazione soprattutto attraverso il genere comico («La tragedia

pone in luce i vizi e le virtù; la commedia rappresenta i difetti: quelli sono di tutti i popoli e di tutti i tem-

144

Letteratura nazionale: Carlo Tenca

pi, questi variano col variar dell’età e delle nazioni»). Si comprende bene come tutto ciò sia stato pensato da chi era destinato a divenire membro del Consiglio superiore della Pubblica istruzione e deputato per sette legislature, una volta costituito lo Stato unitario. Ma si comprende altrettanto bene come nella sfera letteraria a lui contemporanea Carlo Tenca registri l’indebolirsi dell’autorialità e il rafforzamento progressivo di figure di mediazione quali il traduttore, «usurpatore dell’originalità», o l’editore, invenzione tutta moderna «del pari che il vapore, il gas, le candele steariche e i magazzini gastronomici». A distanza di pochi anni, il verismo consoliderà momentaneamente questo processo di deflazione autoriale, e sarà Luigi Capuana a teorizzarne la funzione storica.

Bibliografia Cfr. A. Palermo, Carlo Tenca. Un decennio di attività critica, Liguori, Napoli 1967; G. Pirodda, Mazzini e Tenca: per una storia della critica romantica, Liviana,

Padova 1968; C. Scarpati, Un saggio inedito di Carlo Tenca, in Aa.Vv., Studi di letteratura e storia in memoria di Antonio Di Pietro, Vita e Pensiero, Milano 1977; P. Quaglia, Il noviziato critico del Tenca e il suo interesse per la narrativa, La Nuova Italia, Firenze 1982; A. Cottignoli, Le metafore della ragione. Dante, Manzoni, Tenca, Giardini, Pisa 1988; Id., Introduzione a C. Tenca, Delle

strenne e degli almanacchi. Saggi sull’editoria popolare (1845-1859), Liguori, Napoli 1995.

145

Letteratura vivente: Francesco De Sanctis

Malgrado le numerose dichiarazioni sarcastiche circa ogni eccesso di concettualizzazione, alla riflessione critica di Francesco De Sanctis (1817-1883) non ha mai fatto difetto la sistematicità, tratto che contrad-

distingue anche l’estetica hegeliana (punto di riferimento sino agli anni zurighesi) e che in seguito predispose Croce a una fausta ricezione dell’opera desanctisiana. Prima di allestire un poderoso e celebre quadro storiografico delle lettere italiane, De Sanctis iscrive la letteratura e il linguaggio all’anagrafe della filosofia, affermando già nel 1838 la necessitàdi elaborare una grammatica filosofica contro coloro che (e tra questi il suo maestro, Basilio Puoti) «quasiché della filosofia non fosse parte principalissima la grammatica, questa al tutto pongono in abbandono, e come studio da fanciulli, non ne odono più il nome

che con sogghigno di scherno e di dispregio». Intento a scavare nell’ontologia del segno verbale, egli passerà da una concezione portroyalista del linguaggio (forma concreta, mutevole e accidentale di un’essen-

za logico-conoscitiva comune a tutte le lingue) a una prospettiva condillachiana in base alla quale ogni codice linguistico corrisponde sempre, inscindibilmente, a un modo di osservare il mondo.

Nelle lezioni della prima scuola napoletana (184048), lo stile è inizialmente la veste esteriore di un uni-

verso logico-semantico che gli preesiste («L'idea è 146

Letteratura vivente: Francesco De Sanctis

immutabile; il segno è mutabilissimo»), una compo-

nente testuale scissa dalla «grammatica» e dal senso globale degli enunciati; poi, come si comprende dai quaderni di appunti degli allievi relativi ai corsi del 1846-47 e 1847-48, lo stile non è più concepito come un'entità autosufficiente o il contenitore di un senso preesistente, bensì, sensisticamente, come la configurazione di un universo semantico dotato di una logica propria. De Sanctis immagina dunque una condizione primitiva: il pensabile vi è simultaneo all’esprimibile, poiché nella mente di un individuo nasce sincronicamente a parole pervasive (il cosiddetto «linguaggio d’azione»: «i gesti, imovimenti del viso e gli accenti inarticolati»), sintetiche, renitenti a organizzarsi in una piccola comunità frastica. In seguito, con l’articolazione progressiva delle parole e della sintassi, il pensiero viene sottoposto a una capillare analisi («perciò noi teniamo per fermo la lingua esser l’ana-

lisi del pensiero»), trasformandosi in un pulviscolo che aderisce sempre meglio alla complessità del reale. È tra l'una e l’altra fase che lo «stile» può predisporre sul terreno le sue armi espressive, fare aggio sui sentimenti e sottoporre l'immaginazione a sfrut-

tamento intensivo. Ogni cosa che si rifletta nella mente di un individuo è allora «stile» o «forma»: «la verità intera è questa, che lo stile è la cosa nel suo

riflesso e nel suo effetto sulla mente». Se dopo il 1847 la letteratura è il luogo di sperimentazione degli «stili», e se questi ultimi configurano un arsenale di punti di vista storici, testimoni del

«lavorio delle menti» da cui «esce la cosa impressionata», è necessario approntare un dispositivo teorico

flessibile che valorizzi tale prospettiva storico-antropologica. La lettura di Gioberti e Hegel a partire dal 147

L’idea di letteratura in Italia

1844, la traduzione di ampi estratti della Logica a Castel dell'Ovo si collocano opportunamente in questa fase. L'elaborazione teorica desanctisiana è adesso incessante e tumultuosa: l’idea di situazione in quanto contesto figurativo e spazio-temporale di ogni elemento testuale; la nozione totalitaria e organica di forma, principio generativo della letteratura e destinata propriamente a eclissarsi quanto più il testo è estetica-

mente riuscito; la propensione a considerare tutto in termini di individualità autonoma e concreta, vivente

per sé; l’esilio comminato al tipologico, all’astrattamente universale, da cui deriva l’apologia del fartasma (cioè di un personaggio o di una componente del testo che prescinda dall’autore e dal lettore, sigillato in una saturnina illusione di vita) e dell'organo preposto alla sua manutenzione, la fantasia. A furia di esclusioni (l’arte r0r è alle dipendenze della morale, ox si subordina a nessuna dottrina, nor privilegia il bello e la sua circoscrizione 707 coincide mimeticamente con quella della realtà), il pensiero desanctisiano corrobora l’idea che dietro la letteratura si celi l'essenza dell’uomo e della civiltà, un apparato simbolico su cui è incisa la sinopia di un grande processo storico: insomma un codice primario, l’indizio di un’autenticità sotto stretta sorveglianza filologica. Eppure, di là dall’elogio della fantasia e della creatività individuale, De Sanctis è indotto a presupporre sempre una materia originaria cui la letteratura assegnerebbe un ordine: «niente è nella natura che non

possa esser nell’arte». Molto più che nei romantici, il ruolo teorico cruciale dell'idea di forzza è in De Sanctis alimentato da un’ossessione negativa per l’informe e il de-figurato, il non percepibile (letteralmente, l’imestetico), e a propria volta genera quell’e148

Letteratura vivente: Francesco De Sanctis

logio dell’inverzire — la realtà va «scoperta», non inventata o aggredita — che egli poteva già leggere nel trattato di Batteux sulle Beaux arts réduits à un méme principe. Attratto dal distinto, dal concettualmente icastico, a De Sanctis non resta che tabulare lo spazio letterario in segmenti di genere: tra il 1840 e il 1845 egli si dedica all’identificazione dei generi letterari in senso ontologico («L’essenza della lirica è l'ideale;

della narrativa il reale») o morfologico («La novella è al romanzo quello che la scena è al dramma; e poiché il romanzo svolge tutt’i diversi lati pe’ quali ci apparisce una passione, la novella ne fa scorgere un lato solo»), sino a un momentaneo assestamento. Come e

quando appare dunque la letteratura? La storia della civiltà avrebbe favorito consecutivamente la nascita delle forme Zirica («non avendosi per fine altro che sfogare l'entusiasmo eccitato nell'uomo per gli oggetti esterni»), narrativa (comprensiva del «poema epico, il romanzo, la storia, la cronaca, il fatto storico, la vita, gli annali, i giornali, la novella, la favola»,

indizi di «un’esigenza di riflessione» e di un passaggio dalle sensazioni soggettive al mondo oggettivo), drammatica (rappresentazione meditata di un carattere), didascalica (quando domina la scienza), orato-

ria (essenziale alla costituzione di strutture sociali stabili) ed epistolare, che riassumerebbe in sé gli altri generi. Tuttavia, dopo la lettura di Hegel il quadro si semplifica, e ancora nel 1855 De Sanctis affermerà che «la divisione generale in epico, lirico e drammatico è rimasta salda in mezzo a tutte le opinioni critiche, riposando essa sull’intima ragione della poesia». Molto sommariamente, si può affermare che per Hegel l’arte era una delle forme di autorealizzazione dello spirito assoluto, in grado di veicolare visioni del 149

L'idea di letteratura in Italia

mondo e rapportarsi in modi di volta in volta differenti alla realtà — che resta pur sempre essenziale come criterio classificatorio: la lirica avrebbe per esempio un basso coefficiente di realtà, al contrario dell’epica, in grado di mostrare l’esistente nei suoi aspetti interni ed esterni, nazionali e individuali. In tal modo aumentava il peso teorico della riflessione sui generi letterari — non principi tassonomici, bensì categorie dello spirito, Naturformen custodi dell’essenza della letteratura e suo criterio di causalità inerente. Nell'ambito di una distribuzione cronologico-areale spesso contraddittoria (periodo orientale o simbolico, periodo greco o classico, periodo medievale-moderno o romantico), Hegel contaminava criteri classificatori difformi, basati sui modi enunciativi (l’epica narra, il dramma imita: le difficoltà stavano nella lirica), sulle

dominanti di focalizzazione (l’oggettività dell’epica, la soggettività della lirica, la soggettività guardata da un punto di vista oggettivo nel dramma, culmine sintetico dell’evoluzione letteraria), sulle componenti attanziali dei testi (la lirica mostrerebbe conflitti interni all’individuo, l’epica conflitti fra comunità differenti o esogeni, il dramma interni alla comunità o endogeni), sul predominio di morfologie «trascendentali» (la lirica avrebbe un rapporto diretto con l’idea di tempo, tanto da incrementare fenomeni quali le cesure, l'alternarsi di lunghe e brevi, le regolarità strofiche; l’epos tenderebbe invece a spazializzare il passato, trasformandolo in paesaggio). Un quadro per nulla semplice, sottoposto a molteplici mutamenti (per esempio per quanto riguarda le consecuzioni storiche, in un ordine che va dal lirico

all’epico o dall’epico al drammatico), e in cui storia e sistema creano cortocircuiti tali da invalidare l’intero 150

Letteratura vivente: Francesco De Sanctis

edificio dottrinario. Tuttavia, assai affascinante per la cultura italiana è adesso l'opportunità di abbandonare un'ottica linguistica o intenta all’autorizzazione cano-

nica dei classici per porsi nuovi interrogativi. Vecchie dicotomie quali puro/impuro, icastico/confuso vengono sostituite da una riflessione critica che si domanda, per citare un’occorrenza storiografica, se l’epos sia nato per primo 27 quanto presuppone l’assenza di un individuo in sé e per sé costituito, agente di volizioni e sentimenti, così come lo vediamo agire nel dramma o riflettere nella lirica. Sia pur reagendo contro l’hegelismo ortodosso, per Francesco De Sanctis è dunque

giunta la grande occasione di elaborare nuove costellazioni teoriche, prima nel corso del 1845-46 sulla storia della critica (in larga misura un excerptum dell’estetica hegeliana, ma in cui si riconoscono Batteux, Tracy, Vico, Beccaria), poi negli anni del carcere, e

infine nei mesi in cui traduce l'A//gemzeine Geschichte der Poesie dell’hegeliano Rosenkranz. Ma negli anni zurighesi il Systerzsprogramm romantico-hegeliano prende a sfaldarsi, e ne è un segnale l'invenzione di un nuovo genere: il saggio critico. Se per De Sanctis la componente concettuale della letteratura («l’idea») non può dominare sulle componenti morfologiche, anche la prospettiva storiografica deve subire un mutamento. Qual è una verosimile configurazione genetica della letteratura? A nascere per primo sarebbe stato l’epos, custode dell’idea di nazione e di tradizione, seguito dal dramma (mentre nel periodo napoletano, in modo simile a Friedrich Schlegel, egli vi riconosceva una disposizione primordiale dell’uomo primitivo e dei fanciulli a imitare ludicamente la realtà circostante), in cui l’idea di libero arbitrio individuale è essenziale: il destino, ogni destino deriva dal151

L'idea di letteratura in Italia

la capacità di percepirsi come estranei a se stessi, cioè di osservarsi come individui. Infine, la lirica: «L'arte muore in un accento lirico, in un sospiro musicale.

Lirica, musica, sono le ultime forme dell’arte». Rispetto agli anni napoletani siamo a un capovolgimento radicale, cui certo non è estranea la fervida riflessione

sull’opera leopardiana e sulla propria evoluzione culturale, come dimostrano alcuni capitoli della Giov: nezza (segnatamente XXV, XXVI, XXVII).

Bibliografia Cfr. B. Croce, Saggio sullo Hegel, Laterza, Bari 1948 (Iv ed); Id., Ultimi saggi, Laterza, Bari 1948 (Il ed.); M. Fubini, Critica e poesia, Laterza, Bari 1956; M. Rossi (a c. di),

Sviluppi dell’hegelismo in Italia, Torino 1957; G. Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1973; G. Guglielmi, Da De Sanctis a Gramsci, il Mulino, Bologna 1976; C. Muscetta, Studi sul De Sanctis e altri scritti di storia della critica, Bonacci, Roma 1980; P. Luciani, L’“estetica applicata” di Francesco De Sanctis. Quaderni napoletani e lezioni torinesi, Olschki, Firenze 1983; C. Muscetta (a c. di), Francesco De Sanctis nella storia della cultura, Laterza, Roma-Bari 1984, 2 voll.; A Marinari (a c. di), Francesco De Sanctis un secolo dopo, Laterza, Roma-Bari 1985, 2 voll.; N. Borsellino, Critica e storia. Rendiconti di fine secolo, Kepos Edizioni, Roma 1993; S.

Romagnoli, Per una storia della critica letteraria. Dal De Sanctis al Novecento, Le Lettere, Firenze 1993; G. Luti, I/ modello dell’antitesi. Francesco De Sanctis e le teorie darwiniane, in “Comparatistica”, va, 1995.

152

“Littérature trouvée”:

Luigi Capuana

A proposito dei mutamenti più vistosi avvenuti nella

teoria letteraria degli ultimi due secoli, si è ormai diffuso un luogo comune: che il ruolo centrale della comunicazione letteraria sia stato costituito, tra l’e-

poca di Sainte-Beuve e le ultime propaggini del decadentismo europeo sino a Proust, dall'autore, sostitui-

to nei decenni di egemonia strutturalista dal testo (con un buon margine di approssimazione, dagli anni trenta agli anni sessanta) e infine, con l’imporsi della “deregulation” interpretativa d’impronta decostruzionista e con l’ascesa della scuola di Costanza,

dal lettore. In attesa di una futura, palindromica reversibilità — d’altronde consustanziale allo statuto simulativo e intertestuale del postmoderno — sono in molti a condividere l’idea che in un secolo e mezzo l’asse comunicativo sia stato percorso a grandi falcate per condurci dalla responsabilità etica dell’emzit tente alla leadership governativa del ricevente passando attraverso l’oggettiva, neutrale staticità del messaggio. Cessato il tempo delle lotte fratricide per il controllo della sfera estetica, dinanzi a un quadro teorico in cui lo strutturalismo permane dietro al pullulare di una nomenclatura pseudo-scientifica (fabula/plot, omodiegetico/eterodiegetico, selezione metaforica/combinazione metonimica ecc.) e in cui la Rezeptionkritik è rimasta vittima della ristrutturazione stessa su base planetaria del mercato, con un 153

L’idea di letteratura in Italia

pubblico sempre più unificato e votato a una ricezione non-individuale (la si potrebbe definire una /ettyra-mondo), è forse giunto il momento

di falsificare

quel paradigma evolutivo. Le articolate riflessioni di Luigi Capuana (18391915) sulla letteratura — Studi sulla letteratura conterporanea, 1880 (Prima serie) e 1882 (Seconda serie); Per l’arte, 1885; Gli “ismi” contemporanei, 1898; Cronache letterarie, 1899; La scienza della letteratura,

1902 — offrono una preziosa occasione. Nell’epoca di presunto trionfo dell’autore, i suoi enunciati teorici costituiscono infatti un’erclave contraddittoria, dove

senza posa veniamo invitati ad abbandonarci alle suggestioni di un testo. Di norma formuliamo i verbi all'attivo: istituiamo schemi d’azione, propiziamo intenzioni e volizioni, siamo noi a incontrare le cose.

Al contrario, per Capuana l’extraterritorialità della letteratura ci invita a coniugare i verbi al passivo: subiamo la realtà, ci scontriamo con gli eventi, fac-

ciamo nostro malgrado la conoscenza con ciò che ci è estraneo. Quando siamo immersi nella lettura di un testo, sono le cose a cercarci con persecutoria insi-

stenza: leggere significa prendere commiato da sé, scrivere

è cancellarsi,

votarsi

a un’inesistenza

a

oltranza e delegare ai personaggi finzionali ogni responsabilità. Così Giovanni Verga, a opinione di Capuana: «Il Verga, che come artista sa il fatto suo, capisce benissimo che un romanziere ha l'obbligo di dimenticare, di obliterare sé stesso, di vivere la vita

dei suoi personaggi». Inizialmente questo desiderio di cancellazione dell’autore è veicolato dalla passione per il teatro — attraverso cui Capuana si avvicina alla letteratura —, ossia da testi in cui non esiste un narratore onni154

“Littérature trouvée”: Luigi Capuana

sciente, un punto di emissione vocale unitariamente definito; in seguito, sono la vague naturalistica e il canone dell’impersonalità enunciato da Verga nell'introduzione all’Arzante di Gramigna a coagulare l'essenza passiva e straniante della letteratura. Si tratta di una fase ben nota, in cui emerge un autentico feticismo postdesanctisiano per la forzza vivente che si fa da sé, come se nessuno l’avesse concepita, e di

cui non resta che seguire le tracce evolutive nella convinzione da un lato che «non sono i lettori che fanno i libri; sono i libri che fanno i lettori», e dall’altro che il testo deve apparire «meramente oggettivo», «l’io dell’autore» tenersi in disparte e i «personaggi» muoversi «liberissimi nella loro atmosfera di passioni e di vizi, trascinati dalla logica fatalità degli avvenimenti, avvolti nelle spire del loro destino drammatico». Se dunque si transcodificano gli enunciati della poetica verista in termini di teoria della letteratura, il quadro semiotico che ne risulta è il seguente: lo scrittore delega al testo ogni iniziativa, il lettore aderisce a un’immemore passività, l'insieme delle opere configura quella che potremmo definire lttérature trouvée e bandisce ogni ‘5770 in quanto troppo volontaristico o ideologico. Sin dagli anni della promulgazione teorica del verismo, Capuana è suggestionato dalla paradossale idea che l’uomo — l’Autore, il Soggetto — costituisca un agente di contaminazione della letteratura, e già nell’introduzione a Homo del 1888 egli confessa di vedere nella propria opera «evidentissimi i segni del penoso lavorìo, diretto ad ottenere il risultato di render la novella, dirò così autonoma, qualcosa di indipendente, di fuori dal suo autore». 155

L’idea di letteratura in Italia

Un'opera d’arte, novella o romanzo, è perfetta quando l'affinità e la coesione di ogni sua parte diviene così completa che il processo della creazione rimane un mistero; quando la sincerità della sua realtà è così evidente, il suo modo e la sua ragion d’essere così necessarie, che la mano dell’artista rimane assolutamente invisibile e l’opera d’arte prende l’aria di un avvenimento reale, quasi si fosse fatta da sé e avesse maturato e fosse venuta fuori spontanea, senza portar traccia nelle sue forme viventi, né della mente in cui germogliò, né dell’occhio che la intravvide, né delle labbra che ne mormorarono le prime parole. È la teoria dell’arte moderna...

Ma il canone naturalistico dell’impersonalità — l’esigenza di evitare intromissioni autoriali nella trazche de vie rappresentata, poiché inquinerebbero la verità testuale — non basta a giustificare la sospetta, imperiosa raccomandazione capuaniana. A fiancheggiarla strategicamente sono infatti (a) gli intrecci di molti suoi romanzi e novelle, imperniati su un’eroina che subisce qualche tipo di azione (talvolta, uno stupro); (5) l'idea che la lirica, il genere letterario più «soggettivo», rientri in quella fenomenologia hegeliana della morte dell’arte ribadita in Italia dal De Meis, assai ammirato da Capuana; (c) l’acquiescienza stessa del-

la storia come tratto costitutivo della cultura meridionale; (4) l’inintermessa suggestione esercitata su Capuana dal mondo del paranormale (vanno rammentati almeno Spzritismo? del 1884 e Mondo occulto del 1896), in cui tutto accade a nostra insaputa, dandoci la sensazione di essere in balìa di forze occulte;

(e) last but not least, la decennale produzione di narrazioni fiabesche, un genere folklorico apparentemente senza autore, una macchina del racconto auto-

genetica, collettiva o apocrifa, che agisce al modo di 156

“Littérature trouvée”: Luigi Capuana

una forza cieca in grado di costringere lo scrittore a sottoscriverla e a cimentarvisi. È significativo che

Capuana attribuisse la nascita visionaria della raccolta fiabistica C'era una volta (1882) a uno «spettacolo fuori di me», a un atto di «incoscienza sui generis» in virtù del quale appena scritte le sacramentali parole di uso: C'era una volta... i miei fantastici personaggi si mettevano in moto, s'impigliavano allegramente in quelle loro intricatissime avventure senza che io avessi punto coscienza di contribuirvi per nulla.

A questa fenomenologia della letteratura come apoteosi del Passivo e alla convinzione circa la natura semiautomatica della scrittura, non risulta estranea la

tendenza di Capuana a offuscare la paternità dei testi, a trasformarsi in un falsario coatto, come nel

caso di alcuni testi del Rapisardi o delle fiabe di C’era una volta, che egli inventa accreditandole quali narrazioni folkloriche originali. Mentendo a tutti, fuorché al sodale Verga: non posso resistere alla vanità di dirti che in tutto quel libro non c'è una sola riga che la “favola genuina delle nostre donne” possa reclamare; che tutto quel mondo di fatti, di personaggi, di luoghi è un mondo mio, sbocciatomi non so come, sotto un’esaltazione nervosa che

aveva dell’allucinazione.

Questo girotondo di paternità negate (l’autore è la Tradizione + l’autore sono io + l’autore è un estraneo che agisce in me, un’a/lucinazione) è del tutto

compatibile con la messa a punto di nuove, sempre più illusionistiche morfologie testuali (ricorso all’erlebte Rede, focalizzazione-zero ecc.) e con la crisi del pedagogismo romantico, causa di un allontanamento 157

L’idea di letteratura in Italia

della letteratura dalla teleologia socio-politica che ne aveva sollecitato una moderna riscrittura. Decretato il decesso hegeliano del teatro (poiché gli individui vi hanno una parte preponderante) e della lirica (poiché l’autore vi dilata a dismisura i confini delle proprie competenze), non resta che una narratività indistinta e diffusa (romanzi, novelle, fiabe), ma ormai in

difetto di materiale diegetico. L’apologo che chiude C'era una volta, mettendo in scena un mondo ormai

privo di nuovi racconti e un personaggio delegato alla ricerca di fatti originali («Fiabe nuove non ce n’è più; se n’è perduto il seme...»), trascrive in termini folklorici il peso di una tradizione ormai fattasi ingombrante. Il pericolo della sterilità creativa, l’incipiente 277passe del mercato editoriale prima della rivitalizzazione dannunziana, infine l’ossessione ca-

puaniana del vero che coincide con la fede nella preterintenzionalità del narrare («uzo spettacolo fuori di me...») danno verosimiglianza all'idea che la letteratura possa farsi da sé, e che ogni lettura debba limitarsi a propiziare l’epifania della realtà, fotografandola nel suo moto di provenienza originaria. Ne derivano due conseguenze. Da un lato, non senza che le teorie positivistiche di Taine e Brunetière esercitino un marcato influsso, Capuana dà del /ei ai generi letterari, facendone degli organismi autotelici: Il Romanzo non c'entra per niente in questa baraonda. Egli non vorrebbe far altro che cavar fuori creature vive da qualunque materia [...] Ma forse lo lasciano agire liberamente? E in questa opera d’impedire al povero Romanzo ogni naturale movimento, critica e pubblico sono così accecati, da non capire neppure gli scherzi che il Romanzo si permette [...] (La crisi del romanzo). 158

“Littérature trouvée”: Luigi Capuana

Dall'altro, a offrire derrate narrative di prima necessità è sempre più il fast divers, cioé avvenimenti inauditi, cronache giudiziarie, storie di «corte d’assise».

Con l’intromettersi della patologia nell’intreccio narrativo (si tratti di Giacinta o del Marchese di Roccaverdina) la letteratura si mostra infatti autenticamente estranea al mondo del lettore, e proprio per ciò inizia a tentarlo: essa è il suo inconscio politico, per usare

una formula recente di Fredric Jameson, la sua totemica alterità, il suo incessante punto di fuga, e al tempo stesso il crollo dell’onniscienza narrativa quale strumento di regia diegetica è il segno che l’uomo non domina più il contesto socio-ambientale. Ma poiché il romanzo ciclico naturalista, secondo la memorabile enunciazione di Giacomo Debenedetti, avrebbe

dovuto costituire la mappa catastale dei territori che la modernità borghese si era annessi — un inventario in grado di assicurare «a scadenza illimitata» l’ordine del mondo descritto in forma romanzesca -—, il declino

dell’onniscienza autoriale e l'ingresso nei testi del fa? divers minano le fondamenta stesse di quel progetto. Nella riflessione teorica di Capuana, l’apice della parabola romanzesca è insieme l’inizio di un declino ben evidenziato, in Italia, dal “silenzio” del romanzo

nei primi due decenni del xx secolo.

Bibliografia Cfr. C. Di Blasi, Luigi Capuana originale e segreto, Giannotta, Catania

1968; P. Mazzamuto, Capuana critico militante, in Letteratura italiana. I critici, Marzorati,

Milano 1969, vol. 11; C.A. Madrignani, Capuana e il 159,

L'idea di letteratura in Italia

naturalismo, Laterza, Bari 1970; G. Debenedetti, Verga e il naturalismo, Garzanti, Milano 1976; R. Bigazzi, I colori del vero, Nistri Lischi, Pisa 1978 (Il ed.); A. Palermo, Lo spessore dell’opaco e altro Otto-Novecento, Flaccovio, Palermo 1979; Aa.Vv., Capuana verista, Catania

1984; G. Oliva, Le ragioni del particolare. Indagini di letteratura italiana tra storia e microstoria, Bulzoni, Roma

1984; G. Raya, Carteggio Verga-Capuana, Ed. “Fermenti”, Roma 1984; Aa.Vv., Novelliere impenitente. Studi su Luigi Capuana, Nistri Lischi, Pisa 1985; M. Picone, E.

Rossetti (a c. di), L'illusione della realtà. Studi su Luigi Capuana, Salerno Editrice, Roma 1990.

160

Letteratura regressiva: Giovanni Pascoli

In genere si assumono le riflessioni mallarméane sul poetare e la celebre Lettera di Lord Chandos di Hugo von Hofmannsthal (1902) come punti di riferimento cronologici per testimoniare una crisi irreversibile del linguaggio. Alla fine del xrx secolo, le parole giungono stanche e ormai insenilite dopo aver compiuto un lungo viaggio: esse appaiono dei palinsesti di menzogne o utensili inadeguati a una realtà che tendono a opacizzare. E mentre da ogni parte l’elaborazione di concetti come fictto (H. Vahinger) o signum (Ch. S. Peirce) rivela il tentativo di manipolare la realtà in modo sempre più efficace per assumersene il controllo definitivo,-ia letteratura accusa l’in-

commensurabilità tra le parole e le cose. L'antica république des lettres è ormai una waste land in cui si aggirano segni infermi, schermati, gravati da un peso di omissione: se vuole riacquisire un’egemonia simbolica, essa ha bisogno di riportare il linguaggio a un grado zero. Il passato letterario era cieco e aniconico, articolava una grammatica del silenzio; ora si deve inventare una langue della visibilità, osservare le cose come se non avessero un senso per giungere finalmente a vederle, inoculare nei lessemi un’evidenza

inappellabile per penetrare nella cruna della realtà. In Italia, questa possente arringa contro il linguaggio standard e le visioni del mondo mistificanti da esso veicolate ha la voce flebile e spesso mielosa di 161

L’idea di letteratura in Italia

Giovanni Pascoli (1855-1912). La poesia si attiene a un compito meramente constativo, cioè vede e nomina quello che vede, e neppure per un istante cerca di allestire un mondo concorrenziale: in caso, è lecito

censurare solo gli aspetti più intimi e trasformare i desideri in ricordi o in commemorazioni di desideri,

ma così facendo li si protocolla di nuovo come relitti di un’autobiografia non voluta (C. Garboli). La cosiddetta fase myricea dispone, in questo senso, dell'accesso più ampio a un mondo fotografato nel suo grado zero, privo di attributi che non siano quelli di una computabile esistenza: «M’affaccio alla finestra e vedo il mare:/ vanno le stelle, tremolano l’on-

de» (Mare); «Lungo la strada vedi sulla siepe/ ridere a mazzi le vermiglie bacche» (Dall’argine). Ma affinché la letteratura divenga l’araldo di una realtà aurorale, percepita dallo sguardo di un fanciullo, deve superare ogni opacità o fraintendimento, manovrare

il linguaggio sino a una condizione di immacolata solitudine, crearsi una teoria in grado di vincere l’usura cui è soggetta ogni comunicazione verbale. Innanzitutto l’elogio delle lingue morte (le voci desuete, il latino, gli idioletti) si confonde nella rifles-

sione pascoliana con l’apologia e il fervido ricorso ai linguaggi prenatali, ai codici semiotici in formazione (glossolalia, fonosimbolismo,

onomatopea),

sino a

costituire un territorio in cui le nascite tengono dietro ai decessi, poiché se «Ila lingua dei poeti è sempre una lingua morta» è altrettanto vero — si legge nei Pensieri scolastici — che essa serve «a dar maggior vita al pensiero». D'altro canto, «dove è la lingua che nasce viva? non morta o morente? [...] Dove è il presente d’una lingua?»: l'importante è sottrarsi a ogni comunicazione che non sia esoterica, cioè familiare, 162

Letteratura regressiva: Giovanni Pascoli

e negare agli estranei il diritto di mettersi a ruolo come interlocutori. In Pascoli l’idea della morte è primaria, ma è una morte cui tiene sempre dietro un

dativo (morire a/le vita attiva, 4/ peccato, alla imprecisione astratta del linguaggio adulto). Utente unico e privilegiato di questa lingua è il fanciullino, colui che sperimenta l’avvento originario della parola, che si trova dinanzi a voci in cui non è più possibile udire un mero suono naturale, ma che non possiedono ancora un significato. Tra il continuo pregrammaticale del pensiero e il discreto del linguaggio, il lettore che a forza di regressioni e rimozioni forzate si sia trasformato in «fanciullino» si trova in un bosco fatato — secondo la simbologia pascoliana, un «nido» — di suoni naturali (videvitt, trr trr terit, siccecé), di nomi propri che rinviano solo a se stessi (come nelle

elencazioni onomastiche di Gog e Magog: «Mong, Mosach, Thubal, Aneg, Ageg...»), di lessemi mistilin-

gui 0 fonosimbolici (sericcia, palestrita, accia, guaime) che gli danno l’impressione di essere «l’Adamo che per primo mette i nomi». Soffocata la realtà — la realtà materiale dei naturalisti, la realtà spirituale dei decadenti —, non resta che

ascoltare il dettato di una pre-coscienza antica. Indubbiamente la letteratura (la «poesia») ha un’efficacia epifanica non surrogabile da nessun’altra forma di logos — a esclusione della liturgia religiosa — e che le deriva dall’essere, al suo estremo linguistico, un

notiziario ontologico. È per questo che i testi di Pascoli traboccano di occasionalità: infatti è meglio cercare vicino quello che si trova a maggiore distanza da noi. Leggendo non apprendiamo nulla. Scopriamo noi stessi nell’istante stesso in cui ci «riconfondiazzo nella natura, donde usci727z0», parliamo «una lingua 163

L'idea di letteratura in Italia

che più non si sa», attiviamo una comunicazione in

cui emittente e destinatario risultano fraternamente equivalenti. Fanciullo, dunque, che non ragioni se non a modo tuo, dicendo di quando in quando le sentenze più comuni e più sublimi, più chiare e più inaspettate, tu puoi per altro, in ciò che ti riguarda più da presso, e intendere la mia e dire la tua ragione.

«Il nuovo non s’inventa: si scopre»; «Vedere e udire:

altro non deve il poeta»; «Tu hai detto quel che vedi e senti. E dicendo questo, hai forse espresso quale è il fine proprio della poesia»: con queste epigrafiche asserzioni, ribadite nel tempo, Pascoli consolida il credito gnoseologico derivante da una fuga difensiva da se stessi attraverso la letteratura. I significati di un testo, il senso di una parola vanno allora indovinati e

propiziati attentamente strappando il velo che li offusca, recuperando le mirabili visioni di una saggezza riposta. Minerva oscura (1898), Sotto il velame (1900), La mirabile visione (1901) sono appunto i titoli degli studi che Pascoli dedicò a Dante, spesso intenti — come ebbe a scrivere acidamente la commissione lincea del “Premio Reale per la Filologia e Linguistica”, di cui facevano parte tra l’altro Carducci, Comparetti, Ascoli — a trovare «corrispondenze

meravigliose» tra le parole ed «esorbitando in sottigliezze e acutezze».

Ma il mestiere del «fanciullino» consiste anche nel prevenire tali rischi — come si evince dai Pensieri d’arte poetica (1897), dai Miei pensieri di varia umanità (1903, comprensivi del Farciullino, rielaborato

nuovamente nel 1907) e da una serie di annotazioni estetiche trascritte da Maurizio Perugi — attraverso 164

Letteratura regressiva: Giovanni Pascoli

un ossessivo ricorso a forme chiuse quali la fissità degli schemi accentuativi, la relativa regolarità delle

strofe anche là dove si fa ricorso a endecasillabi sciolti, il riuso della ballata e la più generale ricerca di

corrispondenze numeriche. Una perizia matematica guida dunque l’operato di chi desidera regredire nelle ombre del pre-conscio e trasfondere questa capacità in un lettore che si suppone sempre attento, ma non necessariamente colto, poiché anzi è opportuno che chi scrive prelevi «paragoni» «da ciò che esso e i suoi uditori» hanno «più sott'occhio o nell’orecchio». Sollecitato dalla lettura della traduzione francese degli Studies of Childhood di James Sully, cui si uniscono nel quinquennio messinese le esegesi dantesche e le riflessioni sul positivismo comparato di Spencer e Muller, Pascoli giunge a delineare con rigore i fondamenti retorico-psicologici della teoria letteraria. (2) Il linguaggio poetico è una «etopeia dell’astratto» che si modella su quello dei primitivi e dei fanciulli, in cui dominano le antitesi (interpretate quali forme germinali di asserzione: «L’antitesi è una forma d’asseverazione ben comune, cioè forma rinforzata di un’altra parola»), le figure analogiche in gra-

do di correlare elementi disparati e garantire loro un’immaginaria simultaneità (il poeta «vede le cose concretamente, come i popoli primitivi», «assimila ciò che gli par nuovo e strano a cose a lui familiari», «scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose»), il forte ricorso all’augere/mzinuere («Mi sembrerebbe che il lavorìo fantastico del fanciullo o del poeta si aggirasse più tosto nel più o nel meno: o ingrandisca o diminuisca»), gli impasti onomatopei165

L’idea di letteratura in Italia

ci, le forti accentuazioni e i babillages, legati alla legge spenceriana del minimo sforzo. (5) Antimimetica per antonomasia («Che cosa orribile l'imitazione.

Che strazio!»), la letteratura

“regressiva” teorizzata da Pascoli è circondata da ampie zone di letteratura apocrifa che non attiva «la coltivazione, affatto nativa, della psiche primordiale

e perenne»: per esempio la «poesioide» (colta, imitativa, artificiosa), la «impoesia» (che «avvizzisce nell’aria chiusa della scuola, e finalmente ammala di retorica, e muore»), la «poesia applicata», che non tradisce i meccanismi psicologici istintivi del «fanciullino» ma li espone dimostrativamente al nostro

sguardo, così come una similitudine può divaricare i due campi semantici di una metafora senza tradirne l’essenza collativa. La letteratura deve dunque avere i tratti pertinenti della psicologia infantile (stupore, terrore, réve) e difendersi dalle dinamiche evolutive

che trasformano il «primitivo» in «riflesso», in modo non dissimile da quanto la tradizione neoplatonica aveva sempre affermato. Nell’epoca della serializzazione che vede affermarsi la letteratura popolare e il fewz/leton, Pascoli assegna alla poesia il privilegio di istituirsi come un breviario conoscitivo — purché si lavori per detractio rinunciando alle abitudini percettive («l’arte del poeta è sempre una rinunzia. Ho detto che deve togliere, non aggiungere: e ciò è rinunzia») — e medita anzi di darci un resoconto di teoria letteraria intitolato E/ementi di letteratura, di cui restano solo alcuni intensi

frammenti: intorno a Croce e all’identificazione intuizione-espressione, rifiutata poiché tra testo e autore rimane uno scarto, un’entropia delle intenzioni

originarie che non hanno potuto tradursi in linguag166

Letteratura regressiva: Giovanni Pascoli

gio (la poesia «c’è anche senza l’espressione. Come la musica. Chi l’ha sentita e non può ripetere con gli organi vocali eppur la sente sonare nell’anima precisa»); sulla necessità che l’autore vanti pochi diritti sui

suoi testi, perché «il bello è l'accordo d’una espressione col fondo primitivo e congenito o ingenuo della nostra psiche. È il prerazionale»; sull'opportunità che il lettore si faccia puer, si allontani da sé per ritrovarsi e impari «a veder nuovo» per «veder da antico, e dire ciò che non s'è mai detto e dirlo come sempre s'è detto e si dirà».

Bibliografia Cfr. almeno G. Debenedetti, I/ gelsorzino e la donna di Eresso, in Id., Saggi critici. Terza serie, il Saggiatore, Milano 1959; Id., Pascoli: la rivoluzione inconsapevole. Quaderni inediti, Garzanti, Milano 1979; P.L. Cerisola, L'estetica di Giovanni Pascoli, in “Testo”, n. 1, 1980; G. Agamben, Categorie italiane, Marsilio, Venezia 1996; G. Leonelli, Pascoli esteta. Itinerari del “Fanciullino”, in “Paragone - Letteratura”, 1982; M. Perugi, Introduzione a G. Pascoli, Dai “Canti di Castelvecchio”, il Saggiatore, Milano 1982; Id., La “vivificazione” nell’estetica pascoliana, in “L’altro versante”, II, 1982; Aa.Vv., Giovanni

Pascoli, poesia e poetica, Atti del Convegno di Studi Pascoliani, Maggioli, Rimini 1984; M. Perugi, Jarzes Sul-

ly e la formazione dell'estetica pascoliana, in “Studi di Filologia Italiana”, xLI, 1984; G. Capovilla, La forzzazione letteraria del Pascoli a Bologna, Clueb, Bologna 1988; C. Monti, L'orto, il fanciullino e il poeta-vate, in “Cenobio”, n. 1, 1988; F. Amigoni, Pascoli e l’ermeneutica, in “Intersezioni”, n. 2, 1989; P. Ferratini, Ifior: sul167

L’idea di letteratura in Italia

le rovine. Pascoli e l’arte del commento, il Mulino, Bolo-

gna 1990; C. Garboli, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli, Einaudi, Torino 1990; A. Girardi, Interpretazioni pascoliane, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1990; P. Treves, Tradizione classica e rinnovamento della storiografia, Ricciardi, Milano-Napoli 1992; A.

Bertoni, Da: simbolisti al Novecento. Le origini del verso libero italiano, il Mulino, Bologna 1995; P.L. Cerisola, Espressionismo pascoliano, in “Testo”, XVI, nn. 29-30,

1995; L. Bellucci, Semantica pascoliana, La Nuova Italia, Firenze 1996; G. Capecchi, La commedia del fanciullino.

Le lezioni inedite del Pascoli alla Scuola Pedagogica di Bologna, in “La Rassegna della Letteratura Italiana”, vu, n. 1, 1996; V. Roda, I fantasmi della ragione, Liguo-

ri, Napoli 1996.

168

Letteratura liberale: Benedetto Croce

Dire che il 1902 fu l’anno di pubblicazione dell’Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale di Benedetto Croce (1866-1952), significa ricordare che il ventesimo secolo si inaugurò in Italia all’insegna del primato della letteratura 0, come è doveroso chiamarla in questo caso, della poesia. In luogo di essere l’indizio di un ritardo nello sviluppo pianificato della cultura scientifica, la sfera estetica assolve

una irrinunciabile funzione integrativa sia sul piano euristico — poiché sono i monumenti linguistico-letterari che fondano la storia —, sia in termini di rile-

vanza sociale — poiché il /azssez-faire dell’arte, la sua armoniosa assenza di regole e di iussivi apriori favoriscono la libera formazione dell’individuo, in modo

tale che l'estetica crociana istituisce e insieme presuppone un ceto di lettori colti. Come se non bastasse, mentre la scena è occupata da «dilettanti di sensazioni» quali d'Annunzio, moralmente perniciosi e asistematici, a riflettere sull’arte è uno studioso che

apre e chiude la propria carriera all’insegna di un’autentica vocazione alla scrittura, e che finisce per configurare non tanto un ciclo posthegeliano dello spirito vivente, bensì una fenomenologia integrata dello “spirito scrivente”. La predisposizione a osservare il mondo in senso «estetico» e la volontà di riguadagnare alla sfera filosofica il sensibile hanno dunque assegnato all’arte 169

L'idea di letteratura in Italia

uno statuto particolare. Il primo compito svolto dalla riflessione crociana è stato quello di sgombrare il campo dagli equivoci: l’arte non ha a che fare con la distinzione vero/falso, esistente/inesistente, buono/ cattivo; non «conosce» nulla in termini concettuali,

né «agisce» mai in termini morali; è una «finalità senza fine» che non pianifica i codici di genere né accetta di servirsi della retorica come di una tecnica di scrittura; infine, non ha una langue di riferimento, un système comune cui richiedere un lasciapassare comunicativo: l’arte infatti non estrinseca, esprizze, e

prima di essa non c’è nulla cui «adeguarsi». Ma questo sistematico corredo di postulati acquista inflessioni inequivocabili nella prassi critica crociana. Ne deriva, per esempio, l’idea che ogni processo correttorio debba restare nascosto, e il testo muovere fulmineamente dall’inesistenza a un compiuto esserci;

l’avversione per le scritture che evidenzino un elevato tasso di figuralità, e che soprattutto ricorrano a tropi agglutinanti, densi e «indistinti» come le metafore — poiché «nella distinzione è la salute», e solo attraverso di essa lo spirito procede a un rarefatto rischiaramento; la celebrazione del mito di una

scrittura «cosmica» e rasserenata, che abbia saputo paradossalmente rinunciare alla zavorra del linguaggio, classica e insieme romantica, strutturata sulla

compresenza di «impulso e composizione, passione e dominio» (G. Contini, 1989). Per chi aveva dichiarato di voler annettere la storia al dominio dell’estetica (La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, 1893) e di essere entrato in quest’ultimo spintovi da «un’angoscia acuta» negli anni della giovinezza — gli anni «più dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente 170

Letteratura liberale: Benedetto Croce

bramato di non svegliarmi al mattino» —, la poesia è innanzitutto un segno di vitalità e un mezzo per sedare «l’angoscia». La dialettica dei distinti crociana va interpretata anche alla stregua di una farmacopea, cui fungono da coadiuvanti gli sferzanti giudizi su d'Annunzio, Pascoli, Fogazzaro, il Futurismo e Pirandello, rei o di intellettualismo, o di disconti-

nuità tonale, o di frammentismo morfologico. Se nella fenomenologia trascendentale di Croce il piacere è «concomitante» (il bello produce una sensazione piacevole, ma non ogni sensazione piacevole è generata dal bello estetico), l’intellettualismo è infatti nocivo o fuorviante. Quando si legge poesia, non si apprendono concetti rigorosi, né si sperimen-

tano fenomenologie sensoriali particolarmente marcate, né si entra in una dimensione collettiva, doxa-

stica, di contrattazione sociale. Come non ha un’appartenenza di genere («Gli artisti [...] hanno sempre fatto le fiche a coteste leggi dei generi. Ogni vera opera d’arte ha violato un genere stabilito [...]»), il

testo poetico non ha neppure una /argue di riferimento: esso è un atto di parole irriproducibile, autonomo e indistinto, poiché non ha senso distinguere al suo interno una categoria grammaticale dall’altra, come se si trattasse di una «raccolta di astrazioni, ossia cimitero di cadaveri». Nella ricezione di un’opera d’arte possiamo rinunciare al mondo dei distinti e alla discretezza semiotica del comunicare quotidiano — una conclusione davvero paradossale per chi nella definizione della sfera estetica aveva impegnato ogni energia concettuale. Ciò precisato, resta da

identificare con certezza la genesi della poesia cogliendo al ra/lentie l’intuizione-espressione, e da ridisegnare la sequenza circolare delle attività umane. 171

L’idea di letteratura in Italia

Il Croce delle Tesi fondamentali (1899) e dell’Estetica (1902) è ancora convinto che in origine vi sia un soggetto che riceve delle impressioni dal mondo esterno e le rielabora individualmente (Arte), e che

solo in un secondo momento ne offra una spiegazione razionale, universalmente accettabile (Filosofia); a

questo punto, cessato il momento di passività nei confronti del mondo esterno, l’uomo muove dalla

Teoresi alla Pratica mettendosi in una posizione di «utilità particolare», cioè di volizione soggettiva (Economia), poi rielaborata nel senso dell’utile generale (Morale). In questo iter sequenziale l’arte rappresenta la fase aurorale dell’esistenza umana, ma è

ancora schiava delle sensazioni e soprattutto della natura, che di esse è responsabile: un’arte troppo naturalistica, eteronoma, passiva e obsoleta per risultare consentanea a Croce, anche perché intanto si è convinto della necessità di prendere le distanze dalle manifestazioni più estremistiche del decadentismo. Così, a partire dalla riedizione del 1908 dell’ Estetica, la sfera artistica presuppone anteriormente a sé un

ciclo concluso, per cui il momento pratico dell’Economia è contiguo e idealmente precedente a quello teoretico

dell'Arte,

con

la Morale

posta

in un

momentaneo st47d-by. Tale passaggio viene operato attraverso una rivalutazione del sentizzento, termine che non indica più un coacervo di impressioni, bensì

quella confusa galassia di «appetizioni e volizioni di un

fine qualsiasi, scevra

di ogni determinazione

morale» in cui consiste altresì il momento dell’Economia. Dimenticata l’Estetica, ci troviamo ormai nei

domini della poetica crociana, imperniata su un’idea militante di letteratura che condizionerà alcuni decenni della cultura italiana. Attraverso una impe172

ero

Letteratura liberale: Benedetto Croce

riosa focalizzazione sull’intuizione più che sull’espressione, sull’interno più che sull’esterno, l’asse

della comunicazione estetica comincia a elidere il prodotto e attua una conversione gerarchica che rico-

nosce ogni priorità al produttore. Ed è lì, nelle stratificazioni geologiche dell’io poetante, che si sofferma Croce discutendo a Heidelberg, nel 1908, del carattere «lirico» dell’intuizione

artistica. È lì che si trova ciò per cui l’arte è nata e sopravvissuta, cioè la «commozione» e il «sentimento», «la vita, il movimento, il calore dell’artista»,

definibili solo grazie a parole abusate o equivoche: «personalità», «anima». Come raffigurarsi il processo della creazione artistica? Il «calore» plasma una forma (le metafore critiche crociane selezionano spesso una 7774gery tridimensionale dello scultoreo), una «appetizione» sceglie uno scopo particolare cui dirigersi, e in questo movimento «esclamativo» («un

gran poema potrebbe contrarsi tutto in un’esclamazione», al modo stesso in cui il linguaggio è nato vichianamente da un’interiezione) si autogenera il testo poetico. Prima di esso si trova l’autore, sottratto per sempre al dominio della natura, e il cui organo vitale si definisce gerzo; dopo di esso il lettore, e innanzitutto il critico, il cui organo vitale si definisce gusto: artifex additus artifici o, a partire dagli anni venti, philosophus additus artifici, al quale spetta, più che la dimzostrazione della poesia, la sua designazione. Ridisposte in modo circolare, le forme dello spirito rappresentano una catena di montaggio che, con tayloristica tenacia, spiegano la presenza e il ruolo dell’uomo nel mondo. Tuttavia, rispetto agli anni dell’esordio teoricofilosofico la poesia ha perso smalto: piuttosto che un 173

L'idea di letteratura in Italia

tertium irriducibile, essa rappresenta l'elemento di transizione dal pratico al teoretico. Di fatto, ora tutto è mutato. La poesia deriva dal momento dell’economia e ne è il tardivo succedaneo; meglio ancora, essa

nasce da una sorta di delusione e inappagamento dopo che l’«azione» è stata condotta a termine. Anche la sua auroralità acquisisce i tratti spregiativi dell’approssimazione per difetto: l’arte infatti «coglie la palpitante realtà, ma non sa di coglierla, e perciò non la coglie veramente»; evita le costrizioni della logica concettuale e dunque non incorre nel pericolo di enunciare il falso, «ma non sa di non incorrervi»; è

la prima manifestazione conoscitiva dell’uomo, ma per ciò stesso «non può dare pieno appagamento al bisogno conoscitivo dell’uomo»; è una sorta di «sogno della vita», cui tuttavia solo la teoresi può

insegnare «le nette distinzioni e i fermi contorni della realtà». Così, più ci si sposta nel tempo, più il Croce sezex incupisce le tinte aurorali dell’arte in un mesto tramonto, non senza che ne nascano suggestive defini-

zioni dell’attività estetica: «tramonto dell’amore nell'eutanasia del ricordo», «un guardarsi indietro, che

senza rimpiangere ha pur del rimpianto», una «raggiunta serenità, nella quale pur trema ancora la commozione come una lacrima sul sorriso che l’ha rischiarata...». Nell’Aesthetica in nuce (scritta nel 1928 per Enciclopedia britannica) alla bellezza, derrata di prima necessità nel regno dell’estetica, non è ormai rimasto nulla in eredità se non quello che il pesato e l’agito hanno deciso di abbandonare sul mercato delle attività umane. Ed è adesso, in fase di grama recessione della poesia e dell’estetica, che emerge per la prima volta una teoria della letteratura, cioè l’idea che intor174

Letteratura liberale: Benedetto Croce

no al nucleo poetico si debba riconoscere l’esistenza di un’operatività periferica, dal mansionario incerto ma storicamente rilevante, denominata appunto letteratura. Un magma testuale in cui vorticano le opere «didascaliche» di saggisti e moralisti o quelle «sentimentali», «oratorie», «d’intrattenimento» degli «scrit-

tori» minori, privi di talento, legati al trascorrere effimero delle mode e degli interessi pratici. Se la /etteratura — componente essenziale della civiltà al pari «della cortesia e del galateo» — ha il compito di riattivare i contatti con la realtà, la poessa, troppo isolata e circoscritta a pozntes di assolutezza qualitativa, se ne serve per socializzare con il mondo, ritrovando così una ragione di esistere e un mandato storico. Ma è ormai troppo tardi: alla formazione di compromesso costituita dalla bellettristica crociana, già nell’Italia degli anni cinquanta non si sarebbe più potuta riservare alcuna legittima accoglienza.

Bibliografia Cfr. P. D'Angelo, L'estetica di Benedetto Croce, Laterza, Roma-Bari 1982; E.N. Girardi, Manzoni De Sanctis Croce

e altri studi di storia della critica italiana, Vita e Pensiero, Milano 1986; E. Giammattei, Retorica e idealismo. Croce

nel primo Novecento, il Mulino, Bologna 1987; G. Contini, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana,

Einaudi, Torino 1989; G. Debenedetti, Sullo “stile” di Benedetto Croce, in Saggi critici. Prima serie (1929-1949), Marsilio, Venezia 1989; D. Della Terza, Dai “Taccuini” al “Contributo”: il metodo adottato dal Croce per “invigilar se stesso”, in Aa.Vv., Omaggio a Gianfranco Folena, Programma Ed., Padova 1993; G. Sasso, Sul concetto crocia-

175

L’idea di letteratura in Italia

no della letteratura, in Id., Filosofia e idealismo, vol. I: Benedetto Croce, Bibliopolis, Napoli 1994; F. Arato, Croce; storia della cultura e storia della letteratura, in “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, CX, 1995; R. Bruno (a c. di), Per Croce. Estetica, etica, storia, Guida, Napoli 1995; L. Dondoli, La formazione delle teorie linguistiche di B. Croce e l’incontro con K. Vossler, in “Storia,

Antropologia e Scienze del Linguaggio”, n. 1-2, 1995; P. Pellegrino, L'estetica del neoidealismo italiano, Congedo, Galatina 1996; M. Perniola, L'estetica del Novecento, il

Mulino, Bologna 1997.

176

Letteratura negativa:

Luigi Pirandello

Ricorrendo a concetti filosofici elaborati da Georg Simmel, già nel 1922 Adriano Tilgher illustrava la teoria letteraria di Luigi Pirandello (1867-1936) attraverso un’opposizione tra la vita e la forma, tra l’amorfismo dell’esistenza reale e l’ipermorfismo delle convenzioni sociali. Sarebbe proprio l’onnipresenza, la capillarità semiotica della forma «in tutte le nostre affermazioni e teorie e leggi e norme» che istituirebbe frammenti coesi di vita mascherando il caos vorticoso della realtà, falsificato in una rete di linguaggi convenzionali. La letteratura, e soprattutto i romanzi, hanno di norma sottoscritto dichiarazioni

di resa e assicurato il loro beneplacito alle res fictae: le opere di Pirandello vogliono testimoniare una diversa strategia finzionale, coniugando al negativo le teorie del testo sino a quel momento propugnate. Repertoriando ironicamente gli incipit modellizzanti del vecchio romanzo ottocentesco («Il signor conte si levò per tempo, alle otto e mezza precise [...] La

signora contessa indossò un abito lilla con una ricca fioritura di merletti alla gola... Teresina si moriva di fame [...] Lucrezia spasimava d’amore [...]»), il protagonista del Fu Mattia Pascal (1904) mette in luce il modo tendenzioso in cui gli scrittori intendevano riprodurre la cosiddetta realtà, dando l’illusione che esistesse un senso coerente in grado di unificare ogni frammento di vita. L'identità anagrafica dei perso177

L’idea di letteratura in Italia

naggi, l’esistenza stessa di azioni compiute, l’effet de réel indotto da descrizioni naturalisticamente impeccabili — tutto questo poteva essere accettabile «quando la terra non girava», mentre adesso, all’alba del xx secolo, «non mi par più tempo, questo di scriver libri, neppure per ischerzo». Convinto che la realtà sia un'illusione semiotica e il tempo una nozione illogica o reversibile (Mattia Pascal/Adriano Meis si inventa un passato fittizio e si radica in un presente inautentico, delimitato da due falsi decessi), Pirandello smaschera la rappresentazione mimetica della natura come una mera convenzione aristotelica. Soprattutto nella trilogia teatrale costituita da Sei personaggi in cerca d'autore (1921), Ciascuno a suo modo (1924), Questa sera st recita a soggetto (1930), egli consegna all’arte l'obbligo di impedire ogni forma di empatia tra lettore e testo, e di promuovere — con qualche decennio di anticipo sull’estetica francofortese — una politica indiscriminata di «coscienza della distanza». Distanza,

allontanamento,

Verfremzdung:

parole

d’ordine di grande circolazione in Europa a partire dagli anni venti (da Brecht a Sklovskij), che segnano il tramonto della millenaria vocazione edonistica della letteratura. In luogo del «piacere» la «riflessione», al posto dell’illusione una paradossale, algida suspension of belief Uno degli strumenti prioritari della svolta estetica, per questo fiancheggiatore di un convenzionalismo è la Poincaré, è l’ironia, poiché se la

facoltà umana di formare immagini raggiunge il medesimo grado di finzione o verità sia nel caso venga operata con i sensi, sia nel caso venga prodotta dall’arte, è vero che, al contrario dei sensi, l’arte atti-

va una finzione libera e intenzionale, per cui «l’una 178

Letteratura negativa: Luigi Pirandello

finzione è immagine o forma di sensazioni, l’altra è creazione di forma» (Iroria, 1920). Liberando l’uo-

mo dalla sclerosi devitalizzata della realtà, più vera della realtà stessa nella sua lucida autonomia, la lette-

ratura inaugura un nuovo punto di vista sull’«oltre» delle cose: come Pirandello scriverà a proposito di Uno, nessuno e centomila (1926), la realtà è infatti una nostra creazione, «ma guai a fermarsi in una sola realtà: in essa si finisce per soffocare, per atrofizzarsi,

per morire. Bisogna invece variarla, mutarla continuamente, continuamente mutare e variare la nostra illusione». Grave carico di responsabilità, per la letteratura: disilludere il lettore, evitare mimetismi e convenzio-

ni, dissipare il mondo senza offrire una geografia compensatoria, impugnare l’arma dell'umorismo senza far ridere nessuno. Che ne è allora dell’autore? Non rischia di soccombere sotto il peso degli oneri epistemologici che la nuova filosofia dell’arte gli ascrive a obbligo? Nel giro di soli quarant'anni, testi quali I Malavoglia di Verga, Giacinta di Capuana e i Sei personaggi di Pirandello avevano posto con forza il problema dell’autore, predicendone l’estinzione o una coatta latitanza. Nelle prime due opere la delega del narratore ai personaggi aveva sollecitato la genesi di testi che si erano «fatti da sé», quasi in conformità all’ordine naturale del mondo; nella terza, al contrario, l'istanza autoriale non aveva prodotto se non caos e frustrazione, in ragione di una 277passe globale dell'autorità narrativa e della funzione mimetica del testo letterario. Da un lato, a seguito della lettura del-

l’Essai sur le génie dans l'art di Gabriel Séailles (1883), Pirandello nega l'ipotesi positivistica che definisce la genialità autoriale come follia e l’arte 179

L'idea ar letteratura tn ltalta

come espressione patologica di un individuo; dall’altro, non può credere nella scientificità dell’impersonalità naturalistica (ogni percezione è soggettiva) o nel canone dell’onniscienza narrativa (ogni percezione è parziale). Al modo stesso di un detective euristicamente inappuntabile, l’autore ha dunque l’ingrato compito di decostruire le credenze più doxastiche, ridistribuendo i confini tra oggetti e individui molteplici. Il nuovo compito del soggetto interpretante (come è più corretto definire l’immagine pirandelliana dello scrittore) consiste — nei termini resi celebri dal saggio sull’Urzoris0 (1908) — nella ricerca di un conflitto

tra «avvertimento»

e «sentimento»,

tra

«percezione» ingenua e «riflessione» su una realtà sempre più labirintica. Ecco allora che una vecchia signora imbellettata può apparire comica se giudicata secondo le comuni regole comportamentali, ma diviene «umoristica» allorché supponiamo che voglia assicurarsi l’amore di un uomo più giovane. Da un punto di vista teorico, l'umorismo genera un fenomeno di sdoppiamento a carico del testo — sorta di «erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta» — e dell’axtore, questo «critico fantastico» sempre in fuga da se stesso e in grado di illustrare la problematicità di ogni percezione. Chi scrive non satirizza (la satira è infatti una trasgressione che presuppone un ordine naturalistico), ma attiva una serie di «riflessioni» nel corso delle quali l'antica repubblica delle lettere si trasforma in un cumulo di macerie: lo smontaggio umoristico del linguaggio, l’idea che l’ornato sia solo una maschera da strappare ai segni, l'impossibilità di riconoscere coesione e compattezza sintattica all’agire dell’uomo tolgono musicalità alle parole (Fuori di chiave: «al 180

Letteratura negativa: Luigi Pirandello

violin trillante una sua brava/ sonatina d’amor, con

sentimento,/ il contrabbasso già da tempo dava/ non so che strano, rauco ammonimento») annientano gli intrecci narrativi, aboliscono il diritto stesso "della retorica ad appellarsi a un lettore complice. Del resto, quale lettore dovrebbe essere il destinatario di testi i cui personaggi sono inconoscibili persino a se stessi? Rileggendo i saggi di Alfred Binet sulle alterazioni della personalità, Pirandello non tar-

da a convincersi in Arte e scienza (1908) che la presunta unità dell’io è solo un «aggregato temporaneo scindibile e modificabile di varii stati di coscienza più o meno chiari». Lacerati dal perenne conflitto tra il bisogno di un'identità unitaria, il richiamo instabile e occasionale degli istinti, la pressione dell’immagine pubblica imposta dall'esterno, individui reali e personaggi letterari risultano sottoposti all’azione disgregatrice di pulsioni caotiche e, insieme, languiscono nella prigione artificiale in cui li ha rinchiusi la finzione di verità necessaria alla coesione sociale. Per

meglio rappresentare questi personaggi eterodiretti, assenti da sé e 27 cerca di radici ontologiche, Pirandello sceglie spesso figure brutte o deformi, «sconciate» sia nel fisico sia nella psiche, coinvolte in vicende paradossali, mendaci verso se stesse e gli altri. A ben guardare, i protagonisti dei testi pirandelliani sono sempre degli imputati cui il lettore deve strappare violentemente la maschera; tuttavia, spesso sono essi ad autoprocessarsi. La celebre lanterninosofia illustrata da Anselmo Paleari a Adriano Meis nel Fu Mattia Pascal si fonda sulla convinzione che l’uomo sovrapponga sempre un «illusorio sentimento di vita» alle cose che, fuori di lui, proseguono invece il loro indifferente ciclo biologico. Il «lanter181

L'idea di letteratura in Italia

nino» che ci portiamo appresso «proietta tutt’intor-

no a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe se il lanternino non fosse acceso in noi». Il relativismo assoluto della psiche, questo «gran mercato di vetri colorati», e il «sentimento colletti-

vo», somma

potenziata delle illusioni individuali,

costituiscono le pietre ossessivamente ricorrenti con

cui Pirandello edifica situazioni e personaggi dei suoi testi letterari: il tema del conflitto tra interno ed esterno, essere e apparire, vedere ed essere visti si

estende per esempio, con innumerevoli varianti, dal romanzo L’esclusa (1901) al “mito” teatrale dei Giganti della montagna (1931). Un’autentica stanza della tortura — come ha scritto Giovanni Macchia — in cui un autore impedisce ai personaggi la via della catarsi liberatrice, sottoponendoli a uno sguardo giudicante cui essi possono opporre solo passività o violenza: quella, almeno, che è loro concessa da uno sce-

nario ecologico di proiezioni alienate, forme artificiali, intenzioni rimosse. Oltre quella stanza, nel miglio-

re dei casi c’è l’epifania di un’esistenza priva di senso e di scopo. Giacomo Debenedetti era convinto che proprio il carattere traumatico di quell’epifania avesse decretato i limiti dell’opera pirandelliana e facilitato nello stesso Pirandello la rimozione del problema di un’autentica autoconoscenza: giocare d’azzardo con la vita impugnando la letteratura può infatti significare assicurarsi un'esperienza tutta al negativo,

nichilistica e priva di soluzione.

182

Letteratura negativa: Luigi Pirandello

Bibliografia In linea generale, si possono consultare i saggi dr G. Debenedetti, I/ rorzanzo del Novecento, Garzanti, Milano 1971; J.-M. Gardair, Pirandello e il suo doppio, Abete, Roma 1977; E. Ferrario, L'occhio di Mattia Pascal. Politica e estetica in Pirandello, Bulzoni, Roma 1978; G.

Corsinovi, Pirandello e l’espressionismo, Tilgher, Genova 1979; E. Lauretta, Lusgi Pirandello. Storia di un personaggio “fuori chiave”, Mursia, Milano 1980; G. Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, A. Mondadori, Milano 1981; N. Borsellino, Ritratto di Pirandello, Laterza, Bari 1983; E. Gioanola, Pirandello. La follia, Jaca Book, Milano 1997 (I ed.); B. Alfonzetti, I/ trionfo dello specchio. Le poetiche teatrali di Luigi Pirandello, Cuecm, Catania 1984; S. Milioto, R. Scrivano (a c. di), Pirandello e la cultura del suo tempo, Mursia, Milano 1984; G. Guglielmi, La prosa italiana del Novecento. Umorismo Metafisica Grottesco, Einaudi, Torino 1986; G. Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo, il Mulino, Bologna 1987; E. Lauretta (a c. di), Pirandello e l’oltre, Mursia, Milano 1991; Ars dramatica: studi sulla poetica di Luigi Pirandello, Atti del Simposio Internazionale sul teatro pirandelliano, a c. di R.A. Syska-Lamparska, Peter Lang Pub., New York 1997; R. Alonge, Lusgi Pirandello, Laterza, Roma-Bari 1997.

183

Letteratura debole: Renato Serra

A lungo, se si riflette sulla «tradizione del nuovo», si

è lasciato che Renato Serra (1884-1915) continuasse per così dire ad arare il proprio solco, facendogli rappresentare un modello di lettore sapiente, l’artigiano del linguaggio letterario, l’ammiratore di Carducci, colui che nell’ora del tramonto della grande tradizione classica si sarebbe attenuto a quella tradizione nei modi di un risarcimento dovuto. Contrariamente a De Sanctis e soprattutto a Croce, con il quale finì per entrare in collisione, a opinione di questo Serra ricostruito ad arte si sarebbero dovuti abbandonare i grandi paradigmi teorici e lasciare nell’oblio le performances esplicative della ragione, per mantenersi in una solitaria prossimità ai testi. Durante il quinquennio che precede lo scoppio del conflitto mondiale, nelle stanze della Malatestiana di Cesena

questo lettore che si dichiarava provinciale e carducciano per meglio immunizzarsi contro l’ottimismo di ogni sistema idealistico («anche il mio carduccianesimo non è stato altro che una superstizione volontaria, in cui mi piaceva insieme di nascondere e di coltivare sotto la specie dell’umiltà il mio diritto all’eresia») avrebbe raccontato, meglio di chiunque altro, la storia di una continua perdita e di un incessante recupero dell’identità culturale attraverso la tradizione letteraria, tenendo in equilibrio la necessità dell’o184

Letteratura debole: Renato Serra

blio e l'urgenza della memoria, gli imperativi del presente e i flebili echi del passato. Ipotesi non prive di credenziali storiche, e che tut-

tavia si ostinano a vedere un’assenza di teoria là dove, più semplicemente, ci si trova dinanzi a un modello teorico debole, i cui margini di flessibilità furono giudicati severamente da chi, come Boine, cerca-

va congrui schieramenti e più esplicite battaglie. Parte integrante di questa teoria debole è infatti il riflettere non sul 720dus dicendi, bensì sul modus recipien-

di. Nessuna legislazione teorica del testo: a essere di volta in volta denunciato, celebrato, sistematizzato è

il contatto che si stabilisce tra un lettore e un testo — occasione di autorivelazione e insieme strumento di consolidamento di un territorio collettivo. In Serra,

tutto ruota intorno alla funzione di impaesamento di cui la letteratura sarebbe un docile strumento: la liturgia della provincia e l'ossessione positivistica nel corredare di un wz//ieu ogni contatto con un testo (non immune da una rilettura di Taine e Spencer); l’immagine ardente dell’«andare insieme» alla guerra con cui Serra conclude l’Esarze di coscienza di un let-terato — autentico poemetto in prosa, come lo definì Franco Fortini, edito sulla “Voce” nel 1915; l’abitu-

dine a trasformare gli scrittori in paesaggi e i testi in dimore, stazioni di posta occasionalmente prescelte, dall’India di Kipling alla Romagna di Pascoli. Solo la letteratura evidenzia i meridiani dell’esistenza sociale e fa cristallizzare sedimenti comuni; solo a essa riesce

di mettere un individuo dinanzi a se stesso. «Noi pretendiamo di leggere gli scrittori e di esprimere l’animo nostro, per la nostra felicità»: così si legge nel manifesto di una rivista mai pubblicata (“Neoteroi”), con un eudemonismo 185.

letterario che

L’idea di letteratura in Italia

rammenta Montaigne. Ma oltre e prima di ogni verità stanno i segni di essa, che Serra mutua dalla poesia pascoliana: la terra nuda, il cielo vuoto, le ombre

erranti, il «formicolìio» degli uomini, il piano dilagante della Romagna, il «velario dei pioppi», «la grigia distesa» delle case, le nuvole «molli e sudicie co-

me una vecchia tenda che si restringa sopra le teste», «il ribrezzo della sera nebbiosa». Simboli in cui Serra ritrovava kantianamente la «contradizione perpetua fra l'elemento universale richiesto dal pensiero e la realtà dell’atto», sino a trasformare la poesia in un’arte di vivere. La pratica della lettura si muove perciò in questa 777passe tra il fenomeno e il noumeno, il mito e la ragione, la rivelazione di sé e la perdita di identità in un memorabile «silenzio di caligine», dove non si riconosce più il «formicolare degli uomini» «perduti nello squallore della terra». Se la lettura configura un rischio, il linguaggio critico tende un agguato ai testi per ricavarne un sogno di

stabilità. Non è senza ragione che gli eventi più extraletterari dell’esistenza di Renato Serra (i colpi di revolver cui è fatto segno da un marito geloso, le continue perdite al gioco, l’incidente stradale a Latisana, la fulminea morte sul Podgora) siano proprio contraddistinti da un’imprevedibile accidentalità, cui solo i pae-

saggi interiori e simbolici della letteratura avrebbero saputo regalare un linguaggio ordinatore. Al tempo stesso ciò spiega il disinteresse di Serra per il comico, in quegli anni sottoposto a plurime indagini, poiché il riso sarebbe appunto una forma e un indizio di sovranità sugli eventi. Distante dal pathos patriottico di Carducci tanto quanto dallo snobismo di Gozzano, dalla teatralità mondana di d'Annunzio e dall’impetuoso interventismo dei vociani, Serra si limita a teo186

Letteratura debole: Renato Serra

rizzare la necessità di porre in “situazione” i testi letterari, e così facendo reinventa il mito del critico, il lettore devoto che attraverso la lettura istituisce se stesso. La si potrebbe definire una teoria ambientalista; ma precisando che il suo scopo è difensivo, teso a emarginare il ruolo pedagogico e la funzione pubblica della letteratura, incapace di alimentare ancora il mito dell’bumanitas: la letteratura offre un domicilio ai suoi adepti, ma rischia di rivelarsi inutile se considerata in un quadro urbanistico più ampio. Di qui l’erbos intellettuale di Renato Serra — contrario a filosofie della totalità come quella idealistica — e le opzioni critiche che ne contraddistinguono la saggistica: (4) il sospetto verso ogni scrittore che elegga il linguaggio (il codice) ad amministratore unico e plenipotenziario del testo (del messaggio), per esempio Folengo, poiché non basta «l’affettazione del materialismo» per giungere alla «santa verità» delle cose, così come non è sufficiente «rimboccar le maniche della camicia sulle braccia nude per esser forti»; (2) la celebrazione della lettura in quanto produttrice di «benessere», per esempio quando si leggono i versi di Gozzano («Ma Guido Gozzano mi piace. Io non so se sia bello o grande o che cosa sia; so che il tempo mi passa volentieri con lui. Quando lo sto a sentire, mi dimentico il resto e mi pare di star bene»), poiché la letteratura offre domicili alternativi e possibili; (c) la nozione stessa di «provincia», equivalente al crorotopo bachtiniano o all’idea di idillio, cioè il legame specifico che viene a crearsi tra un testo e il contesto della sua ricezione («Bisogna pensare alle condizioni dell’uomo che vive in provincia. I

libri lo aiutano a passare le lunghe giornate. Lo spirito, l'umanità sono belle cose; ma le giornate sono co187

L’idea di letteratura în Italia

sì lunghe qualche volta! e bisogna consumarle. Egli finisce per considerare i libri»); (4) il tentativo incessante di fornire cause storiche alle adiacenze che si verificano tra un pubblico e un testo, per esempio nel caso dell’opera dannunziana — sorta di testualità di secondo grado, linguistico-mondana, estesa in un

territorio che include altresì il comportamento cerimoniale, il prét-d-porter, la visione “clanica” della società, gli «ideali pratici». Poco prima di morire Serra si dichiara insoddisfatto del proprio lavoro («Di critica letteraria sono un po’ stanco [...]; l’uomo mi attira più della pagina») e della forza autorivelatrice della letteratura; di essa si nutre l’individuo, ma, come Serra amava ripe-

tere citando Tolstoj, l'individuo è poi impotente dinanzi alla storia e ai vuoti che essa scava ininterrottamente. La funzione per così dire arzbientale della letteratura e la morfologia della critica proposte da Serra si riducono, nei fatti, a una ritrattistica morale che

consenta ai lettori di recuperare quanto di «vitale» un testo ha rivelato, una sorta di «cordicella per ripescare il tesoro dal fondo dell’acqua di Lete», la «forma cava» che il testo ha eroso nell’animo del lettore. Ma la «forma cava» assomiglia molto a un vuoto,

cioè all’enucleazione del nulla, a un’ecologia dell’inesistente: Certo — scriveva a Giuseppe De Robertis nel marzo del 1915 — quella che è stata finora la ragione suprema della mia vita; il non averne nessuna, e la gioia di non aver-

ne; la soddisfazione leggera delle cose sciupate e dei minuti perduti; tutto, ingegno e amore e vita consumato

nel vuoto per la mia dolcezza sola — non mi basta più. Non conviene più all’uomo che sono, al giovane che sono stato. E ho bisogno di qualche cosa in cambio; nien188

Letteratura debole: Renato Serra

te magari; ma un niente volontario e definito [...] Forse verrà la guerra, e quel che il caso può portare in quella, a rispondermi [....].

Nella sua imponderabile intransigenza, la storia riuscirà a sopraffare chi aveva fatto coincidere l’immagine della letteratura con la coscienza stessa di vivere: e il tratto obliquo con cui si conclude il Diarzo di trincea, steso tra il 6 e il 20 luglio, è ormai al di là di ogni galassia testuale.

Bibliografia Cfr. G. Contini, Serra e l’irrazionale, in Id., Altri esercizi (1942-1971), Einaudi, Torino 1978; F. Curi (a c. di), Tra

provincia ed Europa, il Mulino, Bologna 1984; R. Turci, Le letture di Renato Serra dai registri dei prestiti della Biblioteca comunale di Cesena, in “Studi Romagnoli”, XXXVI, 1985; M. Biondi, I/ critico e il profeta, in “Il Cristallo”, xXVM, n. 1, 1986; E. Raimondi, Ur europeo di provincia. Renato Serra, il Mulino, Bologna 1993; G. Guglielmi, Ermeneutica e retorica in Renato Serra, in C.A. Augieri (a c. di), La retorica del silenzio, Milella, Lecce 1994; L. Lattarulo, Serra esistenzialista: “Esame di coscienza di un letterato”, in “Igitur”, VII, n. 2, 1995; A. Berardinelli, La forza del saggio, in F. Brioschi, C. Di Girolamo (a c. di), Manuale di letteratura italiana, Bollati Boringhieri, Torino 1996, vol. Iv; C. Bo, Intorno a Ser-ra, a c. di V. Gueglio, Greco e Greco, Milano 1998.

189

Letteratura concessiva:

Giacomo Debenedetti

La sua prassi di lettura è ormai divenuta leggendaria: perifrastica e «asintotica», divagante e garbata, essa — per riprendere una metafora debenedettiana — amava più il momento dell’assedio al testo che quello della sua espugnazione ermeneutica. In genere l’indagine si apriva con un resoconto minuzioso (résu77ées critici, excerp-

ta degli intrecci romanzeschi) in grado di propiziare la lettura, ma al tempo stesso di procrastinarne la conclusione; conteneva numerose peripezie interpretative nel tentativo di svelare le strategie di occultamento messe

in atto nei testi, ma pochi punti d’arrivo; scrupolose indagini sulle zone periferiche o “prolettiche” (intenzionate per esempio a cogliere nel Verga giovanile le ragioni del successivo verismo, che non viene tuttavia analizzato, oppure ad afferrare nell’ Alfieri delle Razze e della Vita il segreto delle sue tragedie, salvo fermarsi — come ha ben visto Mario Lavagetto — alla soglia di esse). Molto in economia fu questo il metodo critico di Giacomo

Debenedetti

(1901-1967),

che non

senza

ragione preferì dedicarsi allo studio degli autori meno ideologicamente terroristici (tra gli altri Montaigne, Pascoli, Verga, Proust, Saba, Svevo, Tozzi). Ma se si dispongono in un quadro sinottico i Saggi critici (Prima serie, 1929; Seconda serie, 1945; Terza

serie, 1959) e i quaderni su cui egli annotò gli argomenti dei corsi universitari tenuti prima a Messina e

in seguito a Roma, la parola-chiave che se ne ricava 190

Letteratura concessiva: Giacomo Debenedetti

potrebbe essere rorz47z0, e un suo plausibile sinoni-

mo destino. Con l’unica — ma parziale — eccezione della Poesza italiana del Novecento, questo infaticabile lettore, nemico di ogni sistematizzazione definitiva (negli anni del suo noviziato intellettuale, rappresentata dal crocianesimo) e perentorio soltanto nel concepire l’interpretazione di un testo letterario come quéte, ha riversato sul genere-romanzo un’incrollabile fiducia nella capacità intrinseca alla letteratura di produrre, simulare, evidenziare, officiare o addome-

sticare il destino degli individui nella modernità. Homo fictus e homo sapiens sono sempre stati per lui dei consanguinei. Uomini, «autori», personaggi letterari non costituirebbero se non rappresentazioni prospettiche e strategicamente selezionate di una medesima, problematica entità, il destino appunto.

Come già per Georg Simmel che vi dedicò uno straordinario saggio all’inizio del Novecento, il destino è per Debenedetti una sintassi delle coincidenze significative, il punto d’incontro delle volizioni, delle intenzioni, delle motivazioni ad agire individuali e delle coazioni etiche, istituzionali, concettuali indotte dal contesto sociale. Un labile betweer, frutto di un’annosa mediazione, così come un «mediatore» è

il personaggio romanzesco: Chiamo personaggio-uomo quell’alter ego, nemico o vicario, che in decine di migliaia di esemplari tutti diversi tra loro, ci viene incontro dai romanzi e adesso anche dai

film. Si dice che la sua professione sia quella di risponderci, ma molto più spesso siamo noi i citati a rispondergli. Se gli chiediamo di farsi conoscere, come capita coi poliziotti in borghese, esibisce la placca dove sta scritta la più capitale delle sue funzioni, che è insieme il suo motto araldico: si tratta anche di te. Allora non c’è più scampo, 191

L'idea di letteratura in Italia

bisogna lasciare che si intrometta. Ma non ha solo questa virtù di mediatore, che spesso rende “più praticabile la vita”. L'evoluzione della sua specie porge anche il filo rosso per seguire la storia, non solo della narrativa, ma di tutta la letteratura e forse anche delle altre arti (Corzzzemorazione provvisoria del personaggio-uomo, 1965). Vicarietà, addomesticamento dell’esistenza, intromis-

sione della letteratura nella vita (in una “scheda” editoriale su Edmund Wilson, il sintagma «rendere più

praticabile la vita» è riferito anche alla «critica letteraria»): architravi di un’idea del romanzo che è insieme il fondamento di una teoria letteraria. A opinione di Debenedetti, il romanzo sarebbe infatti nato nel xvi

secolo grazie a un duplice, simultaneo incremento della socialità nei territori urbani e della complessità psichica dell’io. L'uomo e il suo spazio sociale, il novel e la territorializzazione dell'individuo, gli intrecci narrativi come mandato per l’esecuzione del destino dei lettori sono binomi che ritornano incessantemente nei suoi saggi, e che additano nel romanzo il punto d’incontro della «durata interiore da una parte» e della «vita attiva e documentaria dall’altra», svoltesi «sino ad allora su due piani distinti, almeno per ciò che riguardava la constatazione e trascrizione letteraria». Suggestivamente, Debenedetti ha spesso affermato che più il «borghese» consolida tra Sette e Ottocento i propri possedimenti materiali e conoscitivi, più desidera averne una mappa dettagliata che gli agevoli il tour du proprietaire. Non si tratta affatto di riflettere la realtà, bensì di darle opportuna visibilità (è il caso del mondo finanziario, di per sé evanescente sino all’inconsistenza, rappresentato da Balzac nella Comédie humaine) e di disporne attraverso una cono192

Letteratura concessiva: Giacomo Debenedetti

scenza capillare, che sola può spiegare perché nel xtx secolo, sino a Verga e Zola, il romanzo evidenzi una

marcata volontà di organizzarsi in macro-cicli, autentici «censimenti» del mondo borghese. Contro Fure-

tière (che interpretava tali «serie» quale effetto di un modello esplicativo storiografico, per cui ogni cosa

dovrebbe consistere nella propria eziologia), per Debenedetti la tendenza del romanzo ottocentesco a trasformarsi in una gigantesca cattedrale va messa in relazione con il desiderio di trasformare la storia dell’uomo in storia naturale — «naturalizzare» il nuovo mondo sociale per assicurarsene l’ordine «a scadenza illimitata» — e con il progressivo aumento della complessità sociale e psichica, la cui terapeutica riduzione sarebbe uno dei mandati storici del romanzo. In questo senso i romanzi ciclici, come l’assidua elaborazione ottocentesca di leggi scientifiche, «agganciano le cose: costringono, in un cetto senso, i fenomeni

a svolgersi sempre secondo quelle modalità enunciate dalla legge, a non sfuggite mai più. Assicurano a scadenza illimitata l'ordine del mondo, di quel possesso, contro tutti gli imprevisti» (Verga e #/ naturali smo, argomento dei corsi universitari tenuti a Messi-

na tra il 1951 eil 1953). Questa teoria del romanzo spiega altresì la diffrazione di destini nell’opera critica debenedettiana. Innanzitutto quelli dei singoli protagonisti di testi narrativi o del Personaggio Romanzesco nella modernità, l’amministratore delegato di azioni che hanno il volto arcano di un sotterfugio del desiderio, il coraggioso inquilino della realtà costretto in seguito — dopo il silenzio ventennale che divide i primi testi narrativi di Pirandello dai romanzi di Tozzi e dalla Coscienza di Zeno — a cedere sotto il peso della propria atomizzazione. Poi, desti193

L’idea di letteratura in Italia

ni reali inscritti nel testo: come avviene per gli Essazs di Montaigne (cui Debenedetti dedicò nel 1956 il primo corso di letteratura francese nell'Università di Messina), dove l’autore non si mostra per quello che è ma per quello che non riesce a essere; per l’opera proustiana e per la Vita di Alfieri (su cui tra l'ottobre del 1943 e il maggio del 1944 scrisse, nell’isolamento difensivo di Cortona, l’unica “monografia” della sua carriera). Agli occhi di un lettore onnivoro che praticava gli studi psicoanalitici di Freud e Jung come la sociologia di Wright Mills o la fenomenologia husserliana, gli implacabili indizi del destino andavano riscontrati negli atti mancati o nelle tattiche di copertura, nella preterintenzionalità che intercetta pulsioni primarie, nella difficoltà a tradurre in prassi un’intenzione o nella messa-in-testo involontaria di una pulsione immaginaria. E proprio per questo, la saggistica di Debenedetti acquisisce spesso la forma paradossale di una corcessiva, cioè di costrutti macrosintattici in

cui tra premessa e conseguenza appaia un contrasto insanabile, del tipo “benché p, q”, e in cui siano tuttavia implicitati (entazled) i contenuti espressi (molto meno consone alla sua sintassi critica sono le più rudimentali avversative oppure le comparative, come suggerisce invece Pier Vincenzo Mengaldo, per il quale la critica debenedettiana sarebbe “analogica”, risultandovi i testi sempre «immersi in un bagno di cultura»). Mentre, dunque, lo strutturalismo metteva a punto una serie di abbaglianti consecutive, la concessività diveniva «l’etimo spirituale» della critica debenedettiana. Solo qualche esempio: Alfieri scrive un’autobiografia nonostante/in quanto la sua dromofilia abbia favorito per anni una fuga da se stesso, e condensa «l’effi194

Letteratura concessiva: Giacomo Debenedetti

cacia punitiva» del tempo benché egli non faccia che «consumarlo»; Tommaseo, con la sua «purezza peccaminosa», la sua «duplice fisionomia», si dipinge «repulsivo nell'aspetto» monostante/in quanto nutra uno «sfrenato amore di sé» e tematizza la necessità del rimorso quale forma di espiazione, salvo ricorrervi come un «incentivo»; Pascoli porta a termine una

«rivoluzione inconsapevole» e inventa una nuova ontologia dell’atto poetico rorostante/in quanto si dia ufficialmente altri obiettivi, «eludendo le responsabilità del proprio genio» e alimentando l’espressività linguistica «a forza di inibizioni»; Verga, diviso tra «volontà» e «necessità» di scrivere, è costretto a regre-

dire a scene di vita rusticale rorostante/in quanto abbia cercato il successo attraverso romanzi di ambientazione galante, in cui ha inscritto surrettiziamente il proprio destino di scrittore (è il caso di Urza peccatrice, in cui «stava scritta, fatale, pesante, cifrata

ma inderogabile come in un oroscopo, la storia di Giovanni Verga artista»). Compensazioni, rivalse, opere in cui si mente «con la più drammatica e com-

promettente sincerità», testi dove «la poesia è più sincera del poeta». È questa la letteratura, questi sono i grandi scrittori per Debenedetti — spesso degli «introvertiti» il cui sogno «è quello di prodursi in una vita attiva, estrovertita»: di qui «la delusione dei loro mezzi che li portano a vincere su un terreno diverso da quello sperato: che, proprio con la riuscita raggiunta, smentiscono il loro sogno». Dalla parte del destinatario la letteratura è un rivelatore di identità, dalla parte dell'emittente un mezzo di proscioglimento, al punto che l’elocutio smentisce spesso la dispositio (per esempio nei testi di Tommaseo, dove «i nessi sono impeccabili, eppure sono sgominati, minati internamente da 195

L’idea di letteratura in Italia

un senso che lavora in direzione opposta») e il benché può essere attraversato in modo biunivoco.

Se si mettono a confronto le risultanze critiche dei corsi universitari e gli argomenti della saggistica con le scelte editoriali che egli promosse soprattutto a partire dal 1958, grazie a un’attiva collaborazione con il Saggiatore di Alberto Mondadori, si delinea un quadro complesso delle funzioni della letteratura e dell’identità culturale del lettore implicitamente auspicate da Debenedetti. Da un lato il suggestivo, «eminente» apparato di testi primari, brulicanti di destini inespressi o inesplicati, di propensioni interiori, di codici sociali; dall’altro una multiforme riflessione critica (non va dimenticato che una delle ragioni dell’affievolirsi dell'amicizia con Mondadori fu proprio la volontà debenedettiana di non distribuire in appositi settori disciplinari i contributi antropologici, sociologici, scientifici e filosofici editi dal Saggiatore), funzionale a un’acquisizione di consapevolezza, al riordino esplicativo del preterintenzionale, al raccordo epistemologico tra fattori apparentemente diversi, all’esplicitazione dei benché.

In un aldilà utopistico dell’editoria italiana — come testimonia il progetto di pubblicare testi di Manzoni e Verga nella collana “La Cultura” del Saggiatore (uscirà invece, nel 1959, solo un’antologia narrativa

di Faulkner) —, egli avrebbe anzi desiderato mescidare primario e secondario, poiché «è divenuta molto discutibile, oggi, la tesi che solo la letteratura di invenzione sia letteratura creativa o, come si dice,

d’arte». Attraverso un esercizio quotidiano di elegante causerie, l’bomo fictus avrebbe dovuto permeare l’bomzo sapiens almeno quanto si sarebbe dovuto mettere a confronto il linguaggio della scienza con 196

Letteratura concessiva: Giacomo Debenedetti

quello della letteratura: ciò che spiega, nell’opera debenedettiana, la frequenza di metafore critiche che prendono a prestito dalla scienza lessemi, immagini, schemi teorici (l’amore come «sciagurata setticerzia»,

il viaggio come «geodetica del racconto» ecc.), o ancora l’abitudine a rilevare le omologie tra testi verbali, musicali, filmici (come l'opposizione tra la psicologia «diatonica» del personaggio epico e quella «cromatica» dell'eroe romanzesco). Quando muore nel gennaio del 1967, Debenedetti

è in malinconica fuga dal presente. L’ennesima sconfitta accademica e l’incrinarsi dei rapporti con Alberto Mondadori, il lento spostarsi del domicilio testuale del narrare dal romanzo al cinema, la constatazione dell’ostilità dell’arte contro la vita e dell’azzeramento del volume di affari stipulati dalle finzioni romanzesche con il mondo (ciò che lo rende assai simile alla disinberited mind di Erich Heller), l'impoverimento antropo-

logico della letteratura e il diffondersi dello strutturalismo (di cui pure egli favorì la genesi italiana, pubblicando nel 1965 lo studio forse più strutturalista del nostro Paese, Gt “orecchini” di Montale di d'Arco Silvio Avalle), cioè di un’epistemologia critica che ricorreva a «strumenti di superlativa ingegneria, corredati di pannelli, manometri, lampadine multicolori», erano ragioni sufficienti per non soccombere a eccessivi entusiasmi. I testi primari sembrano non corrispondere più a un fabbisogno di speranza ancora così marcato, per esempio, nell’arzus terribilis in cui assiste alla persecuzione degli ebrei e sprofonda nella lettura di Alfieri. Ma in fondo egli non aveva mai creduto all’autoperpetuarsi garantito della letteratura e sin dall’inizio, per sfuggire al demanio del crocianesimo e al cat-

tivo gusto dell’Assoluto, non aveva fatto che organiz197

L’idea di letteratura in Italia

zare un garbato, ma sistematico sabotaggio delle certezze radicate nella cultura umanistica.

Bibliografia Cfr. M. Lavagetto, I/ critico sulle tracce di Orfeo, in “Paragone”, 208, 1967; C. Garboli (a c. di), Giacomo Debenedetti, 1901-1967, il Saggiatore, Milano 1968; F. Mattesini, La critica letteraria di Giacomo Debenedetti, Vita e Pensiero, Milano 1969; M. Lavagetto, Le lezioni di Debenedetti, in “Nuovi Argomenti”, n. 33-34, 1973; S. Antonielli, I De Sanctis di Debenedetti, in Aa.Vv., De Sanctis e il realismo, Giannini, Napoli 1979; R. Tordi,

Giacomo Debenedetti e Umberto Saba: a proposito di cinque conferenze sui profeti, in “Letteratura Italiana Contemporanea”, IM, n. 7, 1982; O. Cecchi, Ircontri con

Debenedetti, Transeuropa, Ancona-Bologna 1988; A. Borghesi, La lotta con l'angelo. G. Debenedetti critico letterario, Marsilio, Venezia 1989; A. Berardinelli, Debenedetti, l’ultimo mago della critica, in Id., Tra il libro e la vita. Situazioni della letteratura contemporanea, Bollati Boringhieri, Torino 1990; Aa.Vv., Il Novecento di Debenedetti, a c. di R. Tordi, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 1991; N. Borsellino, Dal futuro al

passato. Per una storia di Debenedetti, in Id., Critica e storia. Rendiconti di fine secolo, Kepos Edizioni, Roma 1993; W. Pedullà, Le cararzelle di Musil, Rizzoli, Milano 1993; M. Lavagetto, Introduzione a G. Debenedetti, Saggi critici. Terza serie, Marsilio, Venezia 1994;E. Siciliano, Orfeo e la critica, prefazione a G. Debenedetti, Italiani del Novecento, Giunti, Firenze 1995; P.V. Mengaldo, Profili di critici del Novecento, Bollati Boringhieri, Torino 1998; C. Segre, Introduzione a G. Debenedetti, Profeti. Cinque conferenze del 1924, a c. di G. Citton, A. Mondadori, Milano 1998.

198

Letteratura espressiva:

Gianfranco Contini

Non c’è nessun dubbio sul fatto che la romanistica,

di cui divenne sin dall'inizio un autorevole esponente internazionale, predispose Gianfranco Contini (1912-1990) alla comparazione sistematica di risultanze linguistiche e testuali differenti, con il vantaggio di potersi accreditare escursioni metodologiche molto ampie. I suoi luoghi accademici furono Friburgo, Firenze, Pisa; i suoi topo? critici sono invece

illimitati, e benché l'opera dantesca abbia rappresentato un terreno di elezione, egli affrontò con uguale perizia i versi di Montale, la letteratura espressionistica europea del Novecento o il plurilinguismo della scapigliatura piemontese. Le sue celebri expertzses, il suo autentico talento attribuzionistico (il caso più noto è quello del Fiore dantesco) costituiscono nulla più dei segmenti finali di un lavoro “archeologico” sui testi letterari e i monumenti linguistici del passato. In una prima fase, Contini si limita a stabilire una prassi filologica che mobiliti discipline differenti, dalla codicologia allo studio fonologico, e afferma la necessità di istituire volta per volta uno sterzzza codicum congetturalmente complesso, di natura probabilistica («Lachmann o chi per esso è una specie di Laplace dell’ecdotica, e lo “stemma codicum” appare essere uno schema probabilistico»). La vecchia Uberlieferungsgeschichte comincia a considerare, ac199

L'idea di letteratura in Italia

canto a tradizioni quiescenti, cioè con scarsa inci-

denza di contaminazioni, tradizioni attive, ricche di varianti, insiemi reticolari di testimoni che sono al

tempo stesso testimonianze di lettura. Poi Contini muove dalla tradizione testuale alla storia interna del testo e promuove — a una data assai alta — la cosiddetta critica delle varianti, avampo-

sto dello strutturalismo italiano (La critica degli scartafacci, 1948). Dopo gli anni del discredito in cui il crocianesimo aveva avvolto il testo letterario nella sua concretezza retorico-linguistica, Contini affronta casi esemplari come l’autografo leopardiano di A Silvia e si rende conto che le varianti d’autore sono «spostamenti in un sistema, e perciò involgono una

moltitudine di nessi con gli altri elementi del sistema». Poiché gli preme affermare l’idea di testo come un sistema unitario e integrato, distingue per esempio le varianti in quanto «compensi contigui» (spo-

stamenti sintagmatici) oppure in quanto atti di selezione in absentia (spostamenti paradigmatici), e in tal modo finisce per concepire l’atto critico come «l’interpolazione della pianificazione nel prodotto» (I ferri vecchi e quelli nuovi, 1968). Un’estetica di fatto anticrociana, in cui le scelte linguistiche vengono razionalizzate e sottratte all’occasionalità, in cui

l’identificazione di style markers avviene sulla base del loro rendimento funzionale, in cui porzioni di testo o strati morfologici differenti (sintattici, lessicali, prosodici) manifestano un’incessante tendenza all’equilibrio. Per questo razionalista a oltranza che trascura le teorie almeno quanto si applica alla definizione del metodo, all’induzione di leggi immanenti e all’identificazione degli elementi «pertinenti», il testo letterario ha probabilmente origini e funzioni 200

Letteratura espressiva: Gianfranco Contini

ignote, ma certo possiede un volto dai lineamenti perspicui. Dinamico nel suo farsi progressivo (intratestuale) e nel suo imparentarsi a molteplici tradizioni linguistico-mortologiche (intertestuali), il testo raggiunge un dominio incontrastato nella comunica-

zione letteraria. Il “momento” di Contini va dalla fine degli anni trenta agli anni cinquanta (Core lavorava l’Ariosto è del 1937, il Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare del 1943), eminentemente perché riuscì a far salpare la cultura letteraria italiana oltre le secche del crocianesimo: anche se con Croce egli ha condiviso la «distruzione delle metafisiche» e l’idea dell’atto poetico come insieme di «pulsione e dominio, impulso e composizione». La nozione di «stile» fu di nuovo detentrice di un valore gnoseologico, senza disperdersi in un inutile pozntillisme testuale. Il linguaggio, gli istituti retorici, i contesti istituzionali, i codici di genere ridivennero in breve temi di ricerca cui non si sarebbe più potuto comminare l’esilio, ma non senza un prezzo da pagare. (a) La storia della letteratura delinea per Contini una sorta di logomachia in cui la funzione-Dante si scontra con la funzione-Petrarca, il caos contro il

cosmo, il plurilinguismo contro il monolinguismo, l’espressionismo («negativo» in senso francofortese, deformante, basato soprattutto sulla dinamicità

grammaticale del verbo) contro l’impressionismo («naturalistico»,

ottimista,

fondato

sulla staticità

grammaticale del r07ze), sino a ridursi a «storia della cultura linguistica, secondo i suggerimenti che emanano dalla critica delle arti plastiche». Un effetto peculiare ne è la cosiddetta «funzione-Gadda»,

che dal Novecento si allarga retrospettivamente sino 201

L'idea di letteratura in Italia

a coprire buona parte della tradizione plurilinguistica settentrionale, o ancora la concezione della tradi-

zione classica come pura memorabilità. (5) L'immagine dell’autore che in genere emerge dalle pagine continiane è quella di chi è affetto da un’inguaribile ansia d’influenza, per cui Petrarca non riesce a non ricordare i versi di Dante, e quest'ultimo, scrivendo il Paradiso, si rammenta incessantemente dei calchi fonici dell’Inferzo. Inoltre,

l’autore vede restringersi la propria area di competenza a una vulcanica onomaturgia, un'abilità logotetica in base alla quale il valore si giudica dalla neoconiazione lessicale, dalla riscoperta del ribobolo,

dal ricorso a un disorientante pastiche, dalla capacità di grammaticalizzare le metafore (cioè prima inventandole, e poi facendole traslocare dalla parole alla langue), al modo stesso in cui riuscirono a farlo Dan-

te, da cui paradossalmente «emerge il preponderare del significante sul significato», o Folengo, Faldella, Longhi, Pizzuto: preferenza, quest’ultima, che continua a essergli veementemente rimproverata. (c) Il testo, con le sue «curve di livello» ben evi-

denziate, la sua orografia mai prima d’allora tabulata con eguale perizia, ha acquisito valenze metamorfiche annettendosi un passato di ripensamenti e «scartafacci». Un testo /ug0, spesso aduso alla «diffrazione» diacronica, ossia alla discordanza delle testimonianze; e un testo p/urizz0, mandato a memoria

dai suoi lettori, privo di una consistenza ze varzetur e di cui non si “scopre il vero” se non in quanto vi si scacci «il falso»; un testo dizazzico, che viaggia nella storia, spesso dimentico del suo legittimo autore o

bisognoso di una paternità congetturale, soggetto a una corruzione tanto maggiore quanto più è cultu202

Letteratura espressiva: Gianfranco Contini

ralmente vitale. Tuttavia, proprio il testo si è visto privare di una «forma del contenuto» (in quegli anni, così familiare a Giacomo Debenedetti), e soprat-

tutto di un’etica della comunicazione: l’«etimo spirituale» di Spitzer è sempre rimasto estraneo a Contini, benché riscontrasse nel grande romanista vienne-

se una «posizione mediatrice fra poesia e grammatica», e non stupisce affatto che egli non si sia mai sof-

fermato sul Cinquecento, il secolo più aristotelico della letteratura italiana, ossessionato dai generi, dai codici di comunicazione e dagli apparati di controllo della ricezione. In una lunga intervista rilasciata da Contini pochi mesi prima di morire, desta un certo stupore la negazione della grandezza di Musil, l’affermazione che il saggio critico più straordinario sia il Port-Royal di Sainte-Beuve, che la funzione della letteratura sia di

«nutrire» la contraddizione ma soprattutto di «assorbirla», che la più grande invenzione dell’uomo sia la pluralità linguistica. Sia l'impressione che il nominalismo continiano abbia comportato da un lato una sopravalutazione del linguaggio verbale, implicita nel rifiuto della semiotica o, saussurianamente, della semiologia, scienza in cui avrebbe dovuto

confluire la linguistica come singolo, parziale contributo; dall’altro una riduzione dei margini di manovra dello scrittore e della «storia» stessa della sua opera al systèrze verbale (Petrarca, per esempio, ricorrerebbe a sostantivi «neutri» e devitalizzati, a

verbi che disinnescano ogni potenziale transitivo, ad aggettivi che vogliono imparentarsi più ai nomi che ai predicati; Pascoli si muoverebbe simultaneamente nelle periferie pre- e post-grammaticali del linguaggio; gli espressionisti ingaggerebbero una lotta 203

L’idea di letteratura in Italia

cruenta contro i nomi e a favore degli aggettivi), anche perché i codici di genere non entrano mai, se non tangenzialmente, nella riflessione di Contini,

convinto che fossero l'oggetto di una «inopia teorica». Questo non gli ha solo impedito di riconoscere quei segmenti testuali in comproprietà che le tradizioni morfologiche di lungo o medio periodo evidenziano per consolidare gli orizzonti d’attesa dei lettori, ma è suonato come un invito a concepi-

re la storia letteraria sempre e comunque come un processo di fissazione di variazioni brusche, individuali, piuttosto che come la sedimentazione di lente varianti.

Ha tuttavia ragione Pier Vincenzo Mengaldo a ricordare come le indagini di Contini tendano sempre a una gnoseologia dell’atto estetico, se non altro per il fatto stesso che egli credeva nell’essenza noetica, spesso intellettualistica del testo letterario, e di conseguenza nell’esercizio «pianificatore», razionalistico della critica. Se «forma», per Contini, è una sinte-

si a priori dello spirito — desanctisianamente, l’espressione di un evento nella globalità delle sue circostanze individuali e collettive; se il linguaggio non è mai un oggetto tra gli oggetti ma la condizione di possibilità per costituirli, e ogni «designazione» è preceduta da una pluralità di usi, allora la «letteratura» dovrà fare raccolta di questi usi, incrementare (espressionisticamente, plurilinguisticamente) queste «possibilità costitutive», e predisporre per i lettori un’ordinata foresta di «forme». Compito dell’autore è «effare» la realtà, concepire l’atto poetico come una dialettica degli opposti in cui — ed è il caso degli ermetici — gli «schemi logici» del linguaggio avvolgono un’anteriore «immediatezza barbarica», o in 204

Letteratura espressiva: Gianfranco Contini

cui— ed è il caso di Croce — lo «zelo anche cavilloso» di accertamento del vero ha un «valore liberatorio» rispetto a una «insopportabile angoscia»: tratto caratteristico della tradizione letteraria italiana sarebbe appunto un «effort inépuisé (parce qu’inépuisable) de rationalisation de données fortement irrationelles» (Introduction è l’étude de la littérature italienne contemporaine,

1944). Parimenti, il compito

del critico consisterebbe nel prospettare i problemi testuali in forma antinomica, nell’adottare schemi

binari e sincretistici di analisi («per ogni testo affacciare un criterio nuovo...»), nell’alternare il momen-

to partecipativo e «irrazionale» della «lettura» a quello distanziante e «razionale» del «commento», infine nel concepire la divinatio filologica come un plesso inscindibile di intuizione e oggettività. Ma è oggi chiaro che l’apologia continiana della ragione interpretativa ha pur sempre garantito e insieme pre-

supposto — in modo non dissimile dalla Ausdruckstheorie di Karl Biihler — l’esistenza espressiva della realtà.

Bibliografia Cfr. A.R. Pupino, I/ sisterza dialettico di Gianfranco Contini, Ricciardi, Milano-Napoli 1977; S. Agosti, Lettre sur l'’expérience critique de Gianfranco Contini, in “Critique”, n. 447-448, 1984, poi riedito in Id., Critica della testualità, il Mulino, Bologna 1994; Diligenza e voluttà. Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini, A. Mondadori, Milano 1989; Aa.Vv., Su/Per Contini, numero monografico di “Filologia e Critica”, xv, n. 2-3, 205

L'idea di letteratura in Italia

1990; G. Mezzadroli, Contini e l’esegesi dantesca, in “Intersezioni”, XMI, n. 2, 1993; L. Pennings, Fragili etichet-

te? Il concetto di genere letterario nella critica di Gianfranco Contini, in “Rassegna Europea di Letteratura Italiana”, I, 1993; C. De Matteis, Contini e dintorni, Pacini Fazzi, Lucca 1994; D. Isella, L’idillio di Meulan. Da Manzoni a Sereni, Einaudi, Torino 1994; R. Antonelli, “Esercizi di lettura” di G. Contini, in A. Asor Rosa (a c. |' di), Letteratura italiana, Iv, 2: Il Novecento. La ricerca letteraria, Einaudi, Torino 1996; M. Capati, Cartizzori, Contini, Garin. Crisi di una cultura idealistica, il Mulino,

Bologna 1997; P.V. Mengaldo, Profili di critici del Novecento, Bollati Boringhieri, Torino 1998.

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Eso-letteratura: Pier Paolo Pasolini

Pochi scrittori del Novecento hanno dato, come Pasolini (1922-1975), la sensazione di immergersi nella letteratura sino a farne, per così dire, una forma di accanimento terapeutico: i «quaderni rossi» su cui tra il 1946 e il 1949 stese un journal intime e che, in seguito, alimentarono almeno quattro testi narrativi (Atti impuri, Amado mio, Douce, Quello lì è il mio

padrone), rivelano un autentico processo di eutrofizzazione della parola. Descrizioni di gesti — l’incavo del ginocchio di un adolescente mentre si flette, una luna i cui «liquidi rosa» paiono «sgretolare il buio» — reiterate in un’ossessiva variantistica sulla base di un

unico, semplice «bisogno di sincerità», «di astrazione, di sistemazione solitaria». D’altro canto, sin dall’inizio la sovraproduzione letteraria non è esente da momentanee avarie, ripensamenti o addirittura paralisi. Una precoce battuta d’arresto si verifica per esempio nell’ottobre del 1946, quando Pasolini con-

fessa di non scrivere quasi più nulla «perché sono entrato in uno di quegli stati pieni di disagio, in cui, scrivendo, non si desidera altro che essere sinceri». E

quando infine, nel 1960, scopre il linguaggio analogico del cinema, l’uso sempre più insistito della parola olofrastica delle sceneggiature (una parola approssimata per difetto e incompiuta, mero complemento

dell’immagine) e l’intenzione stessa di scrivere «brutti versi» come quelli di Trasuzzanar e organizzar deli207

L'idea di letteratura in Italia

neano l’evolversi di un'epidemia che sfigura la verbalità, sottoponendola a un’umiliante corvée. È il cosiddetto ultimo Pasolini, l’autore di elzeviri scorciati, di

pleonastici saggi simil-semiotici, di romanzi volutamente abborracciati nella struttura morfologica e ambiziosamente metadiegetici. Come ricomporre questa contraddizione? Va innanzitutto precisato che la duplice, antitetica propensione a impugnare la letteratura come una

strategia del desiderio o a farne l'oggetto di un ostile rifiuto ha comportato una riconfigurazione complessiva dei generi letterari, sino al limite di un’osmosi

continua, uno sconfinamento reciproco degli apparati morfologici a disposizione dello scrittore. Con grande acume, a proposito dell’ Usignolo della Chiesa cattolica, già nel 1958 Italo Calvino scriveva a Pasolini che il suo nuovo libro di vecchi versi propone una redistribuzione dei generi letterari: alla poesia in versi spetta oggi quello che prima era materia dei romanzi auto-bio-bildungpsico-ideologici, mentre alla prosa harrativa tocca quella traduzione in immagini oggettive, ritmo musicale e cifre linguistiche del proprio mondo soggettivo, che una volta era tema della poesia in versi.

Da un lato la narratività, un genere erbivoro che si nutre di paesaggi e allestisce calcografie spaziali, in cui il desiderio fa del tempo una serie di futuri anteriori, una coatta, ininterrotta sequenza di immagini-

sosia della realtà; dall’altro la liricità, genere «storico», collettivo e didascalico, luogo della connessione

significativa e dello sguardo postumo, poiché solo la morte trasforma il caos in una sintesi narrativa («la morte opera una rapida sintesi della vita passata, e la 208

Eso-letteratura: Pier Paolo Pasolini

luce retroattiva che essa rimanda su tale vita ne trasceglie i punti essenziali»). Così, sin dagli anni di Casarsa Pasolini trasferisce la fermentazione lirica degli spazi nei romanzi e la temporalizzazione sociale dell’esistenza nelle poesie, e in tal modo fa della letteratura una vasta area di instabilità, dove i conti non tornano mai. O il tasso di

iconicità tende a prevaleresu tutto, o è il gesto — meglio, l’idea che in un gesto sia contenuta la genesi dell’esistenza — a istituire ontologicamente le parole. Al contrario di Proust, bergsoniano cacciatore del potere illusorio delle abitudini e dei desideri, Pasolini investe enormi capitali testuali nello sfruttamento di qualche istantanea della memoria, la cui funzione sostitutiva non ha nulla di mimetico. La letteratura poetica o narrativa del suo primo periodo chiede alle immagini di essere serziofore — cioè portatrici di significato — proprio in quanto mediatrici tra l’invisibile da cui provengono e colui che ne fruisce: segni religiosi, che non denunciano tuttavia l’incommensurabilità tra essenza e apparenza, ma assumono veste linguistica per sottoporsi a un’incessante idolatria. Più dell’ammirazione per Roberto Longhi e della giovanile vocazione a dipingere, più dell’attività registica e dell'idea di inserire immagini fotografiche nei suoi testi narrativi, a rivelare l’elevato tasso di iconi-

cità della letteratura pasoliniana sono le frequenti dichiarazioni teoriche: a cominciare dal concetto di «integrazione figurale», in base al quale, soprattutto nelle sceneggiature, la parola tende teleologicamente all'immagine, di cui èuna momentanea sineddoche o | una suggestiva sinopia. Di qui, soprattutto dopo l’ingresso nel mondo del cinema, la configurazione di un sistema espressivo integrato, che egli definisce L:

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L'idea di letteratura in Italia

«quadro pansemiologico», in cui la crisi della letteratura è scongiurata attraverso la sua subordinazione alla figuralità. Il testo verbale sta dunque al cinema come, per Saussure, la linguistica stava alla semiologia, scienza sociale dei segni: nel quadro di una pansemiologia parossisticamente invocata, può contare il linguaggio della propria azione o semplicemente della propria presenza scandalosa [...]; la poesia non può ripresentarsi se non collocandosi in

una sorta di quadro pansemiologico, la cui integrazione figurale vivente (corporale, esistenziale) sia in atto.

È ben nota l’idea che Pasolini, in polemica con Christian Metz, elaborò del cinema nella seconda metà degli anni sessanta: una formazione di compromesso dal valore magico, «la lingua scritta della realtà», in cui le cose avrebbero potuto autoeleggersi segni di se stesse e il linguaggio coincidere con il mondo. Attratta nell’orbita di un empirismo eretico, questa letteratura lapidaria, incompiuta e approssimativa come nelle sceneggiature, fa adesso leva su un desiderio pascoliano di regressione (ed è a Giovanni Pascoli che Pasolini aveva dedicato la tesi di laurea): autore e lettore riscoprono una lingua «pregrammaticale» che «rappresenta la realtà attraverso la realtà» e i cui lessemi sono «azioni» («Il primo linguaggio degli uomini mi sembra dunque il loro agire. La lingua scrittoparlata non è che un’integrazione e un mezzo di tale

agire»). Se questa è la materia prima dello scrittore, si comprende come molto per tempo Pasolini, con il suo combattivo vittimismo, le sue luterane requisitorie, le sue appassionate ideologie, abbia identificato nel degrado antropologico della società contemporanea il vero nemico di ogni espressione artistica. La 210

Eso-letteratura: Pier Paolo Pasolini

realtà — un linguaggio diretto, pregrammaticale e iconico — andava a male, privando lo scrittore delle sue risorse naturali: come conciliare ormai il sogno di una pansemiologia con la falsificazione (l’«omologazione», avrebbe detto Pasolini) del mondo? A che

scopo ostinarsi a fare di un testo — nel caso specifico Petrolio — «un misto di cose fatte e cose da farsi, di pagine rifinite e di pagine in abbozzo [...] che abbia

la forma magmatica e progressiva della realtà»? Si ha l'impressione che avere ricondotto la letteratura sui sentieri della vita abbia nuociuto alla serena sussistenza dei testi di finzione non meno della soluzione opposta — antonomasticamente postmoderna e in Italia professata da Calvino — che aveva limitato la letteratura al principio incestuoso della /etterarietà. Ma si tratta di due strade opposte? L’ossessione per il mondo segnico (la pansemiologia), la struttura manieristica e intertestuale della Divina Mimesis, la

presentazione di Petrolio, l’ultimo romanzo di Pasolini uscito postumo, come «edizione critica di un testo inedito» svelano piuttosto l’intenzione di ampliare la sfera letteraria sino a importarvi l’esistenza reale dello scrittore. Non c’è bisogno di rammentare i vecchi studi di Victor Turner sulla letteratura teatrale in rapporto alla lizinalità dei riti di iniziazione per accorgersi che anche il reiterato performativismo dei testi pasoliniani e la radicale reductio della parola a gesto rituale fanno della vita il principio di organizzazione semantica di un testo che la trascende. La risoluzione (meglio, la fissazione) dell’esisten-

te in un segno catturabile, e dunque più disponibile al desiderio, è l'autentica pedagogia della critica inseguita per anni da Pasolini e che lo ha spinto a tenere alte le sorti della stilistica, l’unica disciplina in grado 211

L’idea di letteratura in Italia

di «incasellare, almeno, i dati irrazionali altrimenti

sfuggenti» (La reazione stilistica, 1960). Lo stile ha il privilegio della pertinenza. Lo stile è il fine della letteratura. Lo stile deve possedere le medesime stigmate del desiderio: perfusività, polimorfismo, insaturabilità, fatalità. Tuttavia, benché prigioniero di un equivoco espressionista su cui agì la riconoscente ammirazione per Gianfranco Contini, Pasolini non

ha mai creduto alle valenze euristiche e conoscitive dello stile, come se si trattasse di un grimaldello linguistico per aprire le cose. Né per lui, come per gli strutturalisti, lo stile si riduceva a una selezione ricor-

rente entro i tratti distintivi del sistema linguistico — l’unica possibilità, socialmente condivisa, di esprime-

re l’individualità. Esso coincideva piuttosto con il dettaglio reale, era il purctur: in grado di fissare il desiderio e, in un senso strettamente etimologico, il

suo legittimo luogo-tenente: anche il Gadda interpretato da Pasolini non aveva fatto che «ridurre» la scrittura «a un fatto molto semplice: alla pietà come constatazione della fatalità delle cose, alle agnizioni e cognizioni dell’immedicabilità del male e del bene». Per chi considerava la vita come «la sede per scrivere testimoniandola» era dunque necessario gramzzzaticalizzare l’io, farne una componente del significante e, in un secondo momento, officiarne ancora e sempre la vitalità. Immaginiamo uno scrittore perfuso in ciò che scrive e in ciò cui la scrittura rinvia, come se il desi-

derio si astenesse dal tempo, non avesse tragitto né ammettesse distanze, ma volesse soltanto «forare» o

«catturare» le proprie prede. Il modello di stile corsaro che ne risulta — verificabile nelle pagine di Passione e ideologia (1960), da cui traspare la discendenza 212

Eso-letteratura: Pier Paolo Pasolini

«ermetica» della scrittura pasoliniana — è quello messo bene in luce nel corso degli anni da Franco Fortini e Gianfranco Contini: sul piano retorico il ricorso agli ossimori, su quello linguistico l’apoteosi del pastiche e della syncbysis, su quello della focalizzazione narrativa l’uso dell’indiretto libero, su quello tematico l'integrazione della colpa nell’innocenza. Come si vede, la parserziologia letteraria teorizzata da Pasolini è molto semplicemente la mia scomparsa nell'altro tanto quanto la vanificazione dell’altro in me — ciò che spiega non solo lo sperimentalismo pasoliniano, il suo incessante, febbrile muoversi attraverso molteplici morfologie di genere, ma l’elezione dell’abiura a forma testuale.

Bibliografia Cfr. G. Santato (a c. di), Pier-Paolo Pasolini. L’opera e il suo tempo, Cleup, Padova 1983; E. Golino, Pasolini. Il

sogno di una cosa, il Mulino, Bologna 1985; C. Segre, Saggio introduttivo a P.P. Pasolini, Passione e ideologia, Einaudi, Torino 1985 (I ed.); G. Contini, Testizzonianza per P.P. Pasolini, in Id., Ultimi esercizi ed elzeviri (1968-1987), Einaudi, Torino 1988; C. Segre, Prefazione

a P.P. Pasolini, I/ portico della morte, Associazione “Fondo Pier Paolo Pasolini”, Roma 1988; A. Berardinelli, Pasolini, stile e verità, in Id. Tra il libro e la vita. Situazioni della letteratura contemporanea, Bollati Boringhieri, Torino 1990; V. Spinazzola, I/ realismo irrazionalista di Pier Paolo Pasolini, in Id., L'offerta letteraria. Narratori italiani del secondo Novecento, Morano, Napoli 1990; F. Fortini, Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993; W. Pedullà, Le caramelle di Musil, Rizzoli, Milano 1993; A.

213

L’idea di letteratura in Italia Asor Rosa, Prefazione a P.P. Pasolini, Passione e ideologia, Garzanti, Milano 1994; M. Marchi, Suggestioni da

descrizioni: il saggismo poetico dell'ultimo Pasolini, in “Antologia Vieusseux”, I, n. 2, 1995; C. Benedetti, M.A.

Grignani (a c. di), A partire da “Petrolio”. Pasolini interroga la letteratura, Longo, Ravenna 1995; V. Cerami, “Le ceneri di Gramsci”, in Letteratura italiana, a c. di A. Asor Rosa, Le opere - Iv, 2: Il Novecento. La ricerca letteraria, Einaudi, Torino 1996; W. Siti, Pasolini e Proust, in L.

Lugnani (a c. di), Studi offerti a Luigi Blasucci, M. Santagata, A. Stussi, Pacini Fazzi, Lucca 1996; C. Benedetti,

Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati Boringhieri, Torino 1998; W. Siti, Tracce scritte di un’opera vivente e Descrivere, narrare, esporsi, in P.P. Pasolini, Romanzi e racconti (1946-1961), a c. di W. Siti, A. Mondadori, Milano 1998, vol. I.

214

Letteratura discreta: Italo Calvino

Il linguaggio di Calvino (1923-1985), più propriamente lo stile di Calvino, ha evidenziato negli anni scarsi

mutamenti diacronici e una morfologia sintattico-lessicale facilmente riassumibile. Con poche eccezioni (la più eclatante, La giornata di uno scrutatore), nelle sue

opere le parole si assestano nell’aurea mzedietas della lingua standard, schivando gli espressionismi dialettali ma non le varianti regionali dell’italiano: più che esplodere dinanzi al lettore, i segni implodono verso i loro referenti, in un'illusione galileiana di contatto e insieme di addomesticamento della realtà. Parole acuminate o almeno atropiche, ostili alla sovrastrutturalità della metafora, nucleo pulsante di ogni retorica, e tuttavia —

secondo la memorabile diagnosi di Pier Vincenzo Mengaldo — talmente perseguitate dal terrore della solitudine da trascinare con sé almeno un paio di sinonimi gemellari (per esempio nell’aggettivazione, spes-

so triadica). Habitus enigmatico, in uno scrittore che ha fatto dell’esattezza una delle virtù cardinali da

riscontrare in ogni testo. Così, da un lato assistiamo a implacabili operazioni di bonifica semantica, a manovre di confisca del connotativo da parole che si trasformano in lemmi lessicografici, a dichiarazioni teoriche

che identificano l’allestimento stesso di un romanzo con «il sapere cosa escludere» e la libertà creativa con il «massimo di costrizione»; dall’altro la lenta approssimazione sinonimica, l’impulso congetturale alla correc215

L’idea di letteratura în Italia

tio che, per esempio nelle Cosrzicorziche, ci mette dinanzi agli «schiocchi, i clangori, i cupi rimbombi», ai

«filamenti o fuscelli o bastoncini», a «questo gnocco o porro o escrescenza che è l’universo». Questo gioco a somma zero in cui la sottrazione

affianca l’addizione non è contraddittorio: l’ideale della precisione, la perfetta aderenza del segno alla cosa si ottengono infatti attraverso un furore analitico che si nutre di scetticismo nei confronti del linguaggio, anzi di una autentica «diffidenza per la parola». «Lo sforzo di cercare di pensare e d’esprimersi con la massima precisione possibile proprio di fronte alle cose più complesse è l’unico atteggiamen-

to onesto e utile»; «La trasparenza semantica d’una parola è inversamente proporzionale alla connotazione espressiva» (Una pietra sopra): aforismi con cui Calvino chiarisce la sua posizione di scrittore e spiega la genesi del suo stile. O non esiste realtà al di fuori del linguaggio, o tale realtà è ineffabile: questa dicotomia, formulata in una conferenza tenuta nel

1983 alla New York University (Mondo scritto e mondo non scritto), lascia virtualmente poco spazio a un narratore che, proprio per ciò, si abbandona a réveries compensatorie: libri i cui fogli di guardia immettano in mondi dove le parole sono «vere, presenti, esperienza mia, non più l’eco di un’eco di un’eco», oppure scritture che si naturalizzano come nel Cavaliere inesistente, con l’avvertenza ottativa che

ogni pagina diventi «irta di rupi rossicce» e si sfaldi «in una sabbietta spessa». Sogni ricorrenti, alimentati dall’«epidemia pestilenziale» dei mass-media, e che nell'ultimo Calvino si riorganizzano difensivamente nella necessità di limitarsi a «esercizi di descrizione» del mondo. Tra lo scrittore che osserva e l’og216

Letteratura discreta: Italo Calvino

getto osservato si interpone infatti una distanza che nulla può contribuire a eliminare, se non la calcolata rimozione dell’io nei modi desiderati da Palomar,

che avrebbe voluto ridursi a un individuo in grado di «dissolversi e diventare solo sguardo». Di qui la preferenza accordata nei romanzi alle cosiddette focalizzazioni interne (spesso multiple), in cui l’autore assume il punto di vista di un narratore intermediario o di un personaggio che osservi il mondo da debita distanza e dall’alto, come il Cosimo del Baroze ram-

pante. Ma se il linguaggio è in se stesso una materia fallibile, perché scrivere? A quale scopo dedicarsi alla letteratura, in veste di autore o lettore, se essa è

edificata per mezzo della parola — «questa roba che esce dalla bocca, informe, molle molle»?

Molteplici, antitetiche risposte sono state fornite a questi interrogativi dagli studiosi dell’opera calviniana. Prima ipotesi, ovvero della letteratura militante. La realtà si è fatta sempre più complessa e inafferrabile, un labirinto vischioso di contingenze e irrazionalismi cui è necessario opporsi con strategie narrative d’at-

tacco e robuste dosi di razionalità. Il momento della «sfida» ha radici antiche nella biografia politico-intellettuale di Calvino, e vanta credenziali addirittura

familiari: da un lato il padre botanico, che guarda al versante montano della Liguria, un mondo animale da sottoporre a classificazioni linneane; dall’altra lui, il

flaneur letterato, che guarda al versante antropologico della città, più caotico o indominabile. E agonistica è anche la rete dei personaggi romanzeschi, in cui di rado c'è un Qfwfq senza che gli si opponga un Kgwgk, come nelle Coswzicorziche. Agli occhi di questo Calvino, e di quei lettori che gli consegnano una /eadership sotto stretta sorveglianza critica, la letteratura deve 217

L'idea di letteratura in Italia

allearsi con la scienza e la filosofia per creare un’infallibile macchina congetturale che ci consenta di fornire «una mappa del mondo e dello scibile» — riconosciuta, in un’intervista del 1968, quale «vocazione profonda della letteratura italiana» da Dante a Galileo. Negli anni a maggiore trazione politica, mentre celebra in Vittorini il modello dell’intellettuale che sfida la realtà impadronendosi della capacità di decrittare la semiotica sociale (proprio sulla rivista vittoriniana “Il Menabò” egli pubblicherà La sfida a/ labirinto), Calvino equipara la letteratura a uno strumento per riformare il presente storico, «pasta di avvenimenti senza forma né direzione, che circonda sommerge schiaccia ogni ragionamento». Nessun

pathos della distanza, per utilizzare la fortunata definizione di Cesare Cases, può tuttavia allontanare dal-

lo scrittore l’idea che dietro al testo letterario ci sia la realtà, che «le letture e l’esperienza di vita non siano due universi ma uno», che «i libri nascano dalla vita

pratica e dai rapporti tra gli uomini». Ed è all’interno di questo umanesimo rivisto e corretto, postneorealista e vittoriniano, che va collocata l’incessante atti-

vità di promozione dei classici testimoniata da un volume postumo (Perché leggere i classici, 1991). Seconda ipotesi, ovvero della letteratura fuggitiva. La realtà si è fatta sempre più complessa e inafferrabile, uno spazio rischioso e temibile che è preferibile

addomesticare attraverso strategie narrative difensivistiche. Ipersonaggi più celebri della narrativa calviniana si fanno preferenzialmente riprendere nello scatto del fuggitivo, mentre arretrano dinanzi al mondo: personaggi che abitano sugli alberi, bambini solitari che si smarriscono sui sentieri dei nidi di ragno, sradicati socialmente come Marcovaldo, attenti a cancellare le 218

Letteratura discreta: Italo Calvino

orme lasciate come Qfwfq, chiusi nel sogno di una radicale Icblosigkeit come Flannery, atterriti da ogni vicinanza tattile come Palomar. Niente meglio della letteratura consente di isolarsi, e ancor più di autocancellarsi per guadagnare un’inafferrabilità a garanzia illimitata. C'è qualcosa che assomiglia a una coazione, a un gesto compulsivo nella sistematicità con la quale Calvino, sin dall'inizio, ha cercato di nascondersi. Il

desiderio ben noto di “cambiare maniera” (il Calvino neorealista, fiabesco, sperimentale, oulipista, semiotico ecc.), l’idea che il narratore sia solo una finzione

sineddochica dell'autore, la vocazione all’apocrifo di cui Calvino trovava un nobile precedente in Landolfi e la teoria stessa — dominante negli anni parigini entro

la cerchia dei cosiddetti telqueliens — dell’autogenerazione e della reversibilità dei testi narrativi, non ne

sono che indizi collaterali. Dirà nel 1983: «Scriviamo per rendere possibile al mondo non scritto di esprimersi attraverso di noi». Evidentemente, Calvino ha sempre fa.to mostra di avere con il proprio io una questione personale. Pesci

grossi, pesci piccoli, 1950: Da quel poco che ho scritto altri hanno ricavato una definizione di me, sulla base della quale posso lavorare ancora, con soddisfazioni probabili e con non faticosi progressi: però mi sento i panni stretti addosso. Ho fame d’altro.

I livelli della realtà in letteratura, 1978: È sempre solo una proiezione di se stesso che l’autore mette in gioco nella scrittura, e può essere la proiezione d’una vera parte di se stesso come la proiezione di un io fittizio, d’una maschera. 219

L’idea di letteratura în Italia

Soprattutto, la dichiarazione di Flannery in Se una notte d'inverno un viaggiatore, 1979:

Come scriverei bene se non ci fossi!

Se la scrittura letteraria — lo scripturalisme, come lo definiva Barthes — allestisce un sistema implacabile di intercettazione dell'identità psichica, consente di sfuggire alla fissazione dei ruoli sociali e ci distanzia dallo spazio di gittata della realtà, anche l'elogio del metamorfismo ovidiano con cui si chiudono le Lezioni americane assume tutto il valore di un mimetismo difensivo: Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse di uscire dalla prospettiva limitata di un io individuale [...] Non era forse questo il punto d’arrivo cui tendeva Ovidio nel raccontare la continuità delle forme...?

Affidarsi esclusivamente a una riconfigurazione visiva della realtà, promuovere il principio del dissolvimento dell’autore 0, indossando la maschera di Landolfi, tes-

sere l'elogio dell’apocrifo come ciò che viene scritto 4/ modo di — testo originale che finge di essere la parodia di un altro testo («non d’un autore particolare, ma come d’un autore immaginario che tutti abbiamo l’illusione d’aver letto una volta») — possono costituire difese armate contro un mercato letterario che, a dispetto di ogni apparenza, incrementa artificiosamente il valore aggiunto dell’autorialità (C. Benedetti, 1998).

È tuttavia lecito andare oltre. Forse, il pathos della distanza non è che il comfort dello sradicamento dalla realtà, e i temi fiabeschi un rimedio contro l’irreale e

l’insignificante; forse, l’apologia dell’esattezza e del 220

Letteratura discreta: Italo Calvino

geometrico cela una teodicea, cioè il desiderio di un

mondo «abitato solo da oggetti naturali, figure astratte, quantità misurabili e impulsi conoscitivi depurati di ogni umore psichico»; forse, la gaia scienza narratologica celebra la più straordinaria impermeabilità al caos, al negativo, al disordine che la letteratura italiana

di secondo Novecento abbia prodotto. «È dal male e dalla noia della storia, dalle sue minacciose intromis-

sioni, che Calvino cerca di preservare la propria letteratura con una grande varietà di movimenti, spostamenti prospettici e giochi di fuga» (A. Berardinelli, 1991). Terza ipotesi, ovvero della letteratura discreta. La realtà si è fatta complessa e inafferrabile, ma soprattut-

to indistinta e opaca: funzione primaria di ogni testo è l'allestimento di un apparato simbolico fondato sul principio semiotico della discretezza, vale a dire il riconoscimento di un numero limitato di elementi chiari e distinti, sottoponibili a operazioni sostitutive e permutative. Il linguaggio verbale costituisce il modello originario di ogni discretezza. Alfabetizzare il mondo, istituire una «grammatica generale di ciò che esiste, la matrice pitagorica del mondo» (Lo sguardo dell’archeologo, 1972), concepire la natura come una serie infinita di segni finiti, impressi sulla realtà come se si trattasse dei punzoni di stampa, sono i sogni più ricorrenti dell’opera calviniana: non senza prevedere la possibilità che i linguaggi stessi siano destinati, a un certo punto della loro evoluzione storica, a ritrasformarsi in un vischioso, indistinto continuum semiotico.

L’autentico nemico dell’uomo è perciò l’informe, il pre-linguistico, il «mondo non scritto» — espressione curiosamente litotica. Lemmatizzare i testi di Calvino alla ricerca del negativo significa costituire un’enciclo221

L'idea di letteratura in Italia

pedia di elementi gassosi o pervasivi, nemici di ogni limite: se la letteratura è un «cristallo», una «mappa» ben ordinata, un «topazio-mondo», «una rivincita della discontinuità, divisibilità, combinatorietà, su tutto

ciò che è corso continuo, gamma di sfumature che stingono una sull’altra»; la realtà è invece una «pasta di avvenimenti», un «flusso», un «ribollente cratere»,

un «calderone», una «uniforme marmellata gelatinosa», una «pasta collosa», un «amalgama mucillaginoso», un «pulviscolo senza senso e senza forma», una

«nuvola di smog». Questo bisogno di icasticità ha sin dall'inizio predisposto Calvino all’incontro con la fiaba, il genere letterario che più di ogni altro, e non senza legittimazioni folkloriche di lungo corso, celebra il trionfo del discreto. Con i suoi colori perspicui, il suo accentuato silbouettismo, i suoi personaggi spesso avvolti da pelli tegumentose — veri e propri derma-scheletri che si aggirano tra elementi naturalistici sottoposti a un processo di metallizzazione — la fiaba ha suggerito a Calvino la formula segreta per alimentare, attraverso il testo letterario, la gioiosa produzione del discreto. In questo senso, per lui la letteratura è stata un enorme arsenale in cui si costruiscono morfologie, una scienza delle forme tanto più necessaria in quanto il linguaggio standard dei mass-media tende all’originaria condizione gassosa: una galassia semantica che non consente di conoscere la realtà, e soprattutto che ci impedisce di domirnarla. «Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita e a cui cerco di opporre l’unica difesa che riesco a concepire: un’idea della letteratura». Leggere significa muoversi nell’immobilità fossile di un bosco incantato, ma proprio perché attraverso il testo letterario ogni linguaggio ritrova lightress, quick222

Letteratura discreta: Italo Calvino

ness, exactitude, visibility, multiplicity, consistency, la letteratura diviene una sorta di metascienza, un laboratorio epistemologico comune che preleva dal mon-

do empirie avariate o realtà pulviscolari, le sottopone a un’accorta messa-in-testo, e le rinvia infine nel mon-

do sotto forma di preziosi cristalli.

Bibliografia Cfr. S. Briosi, La differenza, l'identità, l’inizio (saggio

sull’ultimo Calvino), in “Il lettore di provincia”, n. 25-26 (1977); C. Segre, Teatro e romanzo, Einaudi, Torino 1984; i numeri monografici di “Nuova Corrente”, 99 (1987), e 100 (1987); Aa.Vv., Italo Calvino. La letteratura, la scienza, la città, a c. di G.: Bertone, Marietti, Genova 1988; Aa.Vv., Italo Calvino e la fiaba, a c. di D. Frigessi, Lubrina, Bergamo 1988; Aa.Vv., Italo Calvino.

Atti del Convegno Internazionale di Firenze, a c. di G. Falaschi, Garzanti, Milano 1988; G.C. Ferretti, Le capre di Bikini. Calvino giornalista e saggista, Editori Riuniti, Roma 1989; C. Garboli, Fa/balas, Garzanti, Milano 1990; C. Milanini, L’utopia discontinua, Garzanti, Milano 1990; E. Mondello, Italo Calvino, Studio Tesi, Pordenone 1990; A. Berardinelli, Calvino moralista. Ovvero, restare sani dopo la fine del mondo, in “Diario”, VII, n. 9, 1991; P.V. Mengaldo, La tradizione del Novecento, Terza serie, Einaudi, Torino 1991; K. Hume, Grazns of sand in a sea of objects: I. Calvino as essayist, in “Modern Language Review”, 87, n. 1, 1992; G. Bertone, Ita/o Calvino. Il castello della scrittura, Einaudi, Torino 1994; M. Barenghi, Introduzione a I. Calvino, Saggi, A. Mondadori, Milano 1995, vol. 1; M. Belpoliti (a c. di), Italo Calvi-

no. Enciclopedia: arte scienza e letteratura, numero 223

L'idea di letteratura in Italia

monografico di “Riga”, n. 9, 1995; M. Belpoliti, L'occhio di Calvino, Einaudi, Torino 1996; G. Nava, La teoria della letteratura in Italo Calvino, in “Allegoria”, Ix, n. 25, 1997; C. Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati Boringhieri, Torino 1998; G. Bertone (a c. di), Italo Calvino: A_ Writer for the Next Millennium, Ed. dell'Orso, Alessandria 1998.

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Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

1. Jakobsonismi

Nel momento in cui sta per tramontare anche l’epoca, in vero assai confusa, del cosiddetto poststruttu-

ralismo risulta abbastanza agevole osservare i tratti comuni e generali, la si/bouette di un orientamento metodologico-culturale che, nato ufficialmente a Praga nel 1929 e diffusosi a partire dal dopoguerra, divenne incontrastabilmente egemone negli anni sessanta e tramontò con sospetta rapidità nel decennio successivo. Questi tratti comuni — la ricerca di elementi equivalenti o isomorfi, il desiderio di giungere a una sistematicità scientifica, il ruolo dominante del linguaggio come oggetto di conoscenza e della linguistica come metodo d’indagine — non erano certo nuovi in assoluto. Le pretese scientiste del positivismo in ambito umanistico avevano lasciato segni duraturi nella cultura europea; l’attenzione al linguaggio aveva alimentato molteplici riflessioni filosofiche, costituito l’asse portante di estetiche dominanti come quella humboldtiana, accompagnato il diffondersi del simbolismo; quanto alla passione per l’uguale, sia nella variante moderata di una comparazione empirica di elementi simili che in quella radicale di un’universalità su cui si fonderebbero apparenti, circoscritte difformità, essa era ancora più antica.

L’idea di una Weltliteratur, cioè di qualcosa che vada oltre gli angusti confini nazionali, era stata tenuta a 225

L'idea di letteratura in Italia

battesimo da Goethe all'indomani delle guerre napoleoniche, quando il grande repertorio comune della topica classica, come dimostrò poi Ernst Robert Curtius, prese a sfaldarsi. E se il fervido paradosso della cultura romantica consisteva nel perseguire un elemento comune all’umanità nel momento stesso in cui si scoprivano le singole tradizioni nazionali, il diffondersi degli studi di letteratura comparata in Francia e negli Stati Uniti all’inizio del Novecento non ebbe un diverso significato. Lo strutturalismo, e a notarlo è stato di recente Claudio Guillén (Etre lo uno y lo diverso, 1985), si

diffonde a partire dal momento in cui non solo il mercato e la trasmissione delle informazioni si organizzano per la prima volta su scala planetaria, ma quando la fine della seconda guerra mondiale intensifica le aspirazioni internazionalistiche e il ripudio delle ideologie patriottiche che avevano alimentato il disastro bellico; e va ricordato che il 1945 è l’anno di una celebre lezione tenuta da Ernst Cassirer al Circolo Linguistico di New York nel tentativo di dare al nuovo movimento quei nobili natali filosofici (nel caso specifico kantiani) che gli mancavano. La ricerca delle equivalenze, che per alcuni strutturalisti si trasformerà in una quest dell’identico dietro il diverso, nasceva dunque da una solidarietà audace e genuina, e traeva conforto da un’incessante emigrazione intellettuale da Est verso Ovest. Tipico, in que-

sto senso, il cammino biografico del rappresentante senz'altro più emblematico dello strutturalismo, Roman Jakobson (1896-1982), un russo moscovita emigrato prima in Cecoslovacchia e poi, dopo una breve parentesi finlandese, negli Stati Uniti; né va dimenticato come l’altro esule che gli fu al fianco nel226

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

l’elaborare i principi strutturali della fonologia, Nikolaj Trubeckoj (1890-1938), avesse a cuore come nessun altro il problema del superamento dei falsi nazionalismi. Evidentemente lo strutturalismo è solo il precipitato epistemologico, il settore di studio più compatto all’interno di una generale tendenza contraria all’atomismo che, intorno alla metà del secolo,

mira alla classificazione del materiale sottoposto a indagine facendone un sistema chiuso in cui a valere non sono i singoli elementi, ma le relazioni che essi intrattengono

reciprocamente.

Nel caso

specifico

delle indagini letterarie, il repertorio di topo: approntato da Curtius o The Aratorey of Criticism (1957) di Northrop Frye — con la sua idea di un ordine universale in base al quale «tutti i temi, i personaggi, i racconti in cui ci imbattiamo nella letteratura appartengono a una sola, grande famiglia interdipendente» — non nascono da impulsi culturali differenti da quelli che inducono Jakobson a vedere nel parallelismo il procedimento cardinale di ogni poesia e Chomsky a istituire un repertorio di regole sintattiche universali. Reinserire lo strutturalismo nelle tendenze generali di una fervida stagione culturale è altrettanto doveroso quanto la necessità di distinguere al suo interno gli orientamenti teorico-metodologici di volta in volta manifestatisi. Intanto, nel 1929 la comunità scientifica poteva assistere alla nascita ufficiale dello strutturalismo nella forma suggestiva di una serie di Tesi formulate collegialmente dagli autorevoli membri del Circolo Linguistico di Praga, tra cui si segnalavano i russi Trubeckoj, Jakobson (trasferitosi in Cecoslovacchia nel luglio del 1920), Karcevskij (un allievo di Ferdinand de Saussure che aveva attivamente cooperato alla dif227

L’idea di letteratura în Italia

fusione del nuovo orientamento linguistico nei paesi slavi) e i boemi Mukafovsky, Trnka, Havrànek. Coloro che presenziarono al 1 Congresso dei filologi slavi si trovarono dinanzi al progetto ambiziosamente saussuriano di studiare la lingua in sé e per sé nei suoi elementi pertinenti, facendone un sistema chiu-

so, retto sulle fondamenta della fonologia, vale a dire un settore avanzato di studi che prendeva in considerazione non i suoni quali sono effettivamente pro-

nunciati dai parlanti, bensì i fonemi, unità minime funzionali della lingua ordinate secondo opposizioni binarie e costituite a loro volta da un «fascio» di elementi distintivi. Ma entro questa cornice linguistica prendeva altresì vigore una nuova idea della letteratura e dello studio dei fatti letterari, muovendo dal-

l'affermazione che «l’opera poetica è una struttura funzionale, e i vari elementi non possono essere compresi al di fuori della loro connessione con l'insieme» (MukaFfovsky). Da questo momento la civiltà umanistica occidentale — abituata a concepire il fatto letterario come una monade il cui valore era direttamente proporzionale al suo isolamento, cioè alla originalità del genio crea-

tore, e a concepire ogni indagine analitica come l’approfondimento di singoli frammenti testuali o come la ricerca di un rapporto speculare tra contesto storico e testo — avrebbe dovuto confrontarsi con una prospettiva ambiziosamente scientifica che rifiutava di osservare gli elementi di un’opera isolatamente, proponendo di identificarli nei rapporti reciproci con i restanti elementi e con l’insieme di essi. Che si trattasse di un’unità tematica o di uno schema prosodico, del livello sintattico o di quello della selezione lessicale, ora le componenti del fatto artistico risulta228

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

vano de-ontologizzate, tolte alla prigione che le teneva in rigoroso isolamento e messe in prospettiva, valorizzate funzionalmente, fatte esistere solo nella dimensione «collettiva» che le conduceva ad altre componenti testuali, simili o diverse che esse fossero. L’idea di letteratura quale esce dalle Tesi (e in particolare dalla Terza) è dunque assai articolata. Innanzitutto la sua essenza va identificata nel rimodellamento del materiale linguistico, poiché al contrario del linguaggio comunicativo e quotidiano, la cui intenzione viene diretta al significato o al referente, è proprio del messaggio artistico orientarsi sul segno stesso. Qui, d’altronde, risiede anche la sua funzione sociale teorizzata da Mukatovsky: solo l’idea che il principio organizzatore della letteratura consista nel «dirigere l'intenzione sull’espressione verbale» consente di offrire a ogni sistema linguistico la possibilità di disautomatizzarsi, di sottrarre le parole alla

paralisi della standardizzazione. Ogni qual volta il linguaggio quotidiano usura le norme che ne orientano l’uso, opacizzando i significati e l’immagine della realtà cui esse rinviano, l'artista interviene a liberare

le risorse potenziali di una lingua. Eroe collettivo, e in quanto tale destituito di ogni interesse per chi concepisce lo studio della letteratura (definita poetica) come un ramo della linguistica, egli celebra i saturnali di una parola che si pone in conflitto con tutto e tutti. Al contrario dei formalisti russi (con l’unica eccezione di Tynjanov, che infatti avrà modo di frequentare il Circolo di Praga), il linguaggio è ora osservato come un intersecarsi di diacronia e sincronia, quasi si trattasse di un tbesaurus di forme che si dispongono a diversi livelli — precipuamente quelli della lingua comunicativa e della lingua letteraria — 229

L’idea di letteratura in Italia

inglobando al proprio interno stratificazioni passate e future, per esempio nella forma di arcaismi e neolo-

gismi. Già robustamente prometeico per il fatto di dover liberare il linguaggio dalle catene della quotidianità, l’artista lo è anche nella sua strenua lotta

contro configurazioni stilistiche a loro volta automatizzatesi: per usare i termini praghesi, il «conflitto» è il suo spazio; «disturbo» e «deformazione» le armi di cui dispone per l'occupazione di questo spazio. In secondo luogo la definizione della letteratura come spazio dove i segni rinviano a se stessi, dell’artista come artefice di un manufatto verbale, del testo come struttura funzionale in cui a valere sono soprattutto le relazioni intrasistemiche degli elementi, fa dello studioso di letteratura uno scienziato che si colloca al punto d’intersezione delle «due culture» e dell’arte il laboratorio privilegiato della cultura. In questo senso (un senso che giustifica una delle principali obiezioni rivolte allo strutturalismo a partire dagli anni settanta: aver cercato una giustificazione «scientifica» della letteratura nel momento in cui il suo ruolo «educativo» era in fase di avanzata recessione) si chiariscono affermazioni curiosamente valutative che paiono rinunciare per un istante al rigore assertivo delle Tesi, per esempio queste: che la lingua letteraria svolga «superiori esigenze nei confronti del linguaggio popolare», che essa implichi «un maggiore controllo degli elementi emozionali» e insieme favorisca «un accrescimento del ruolo svolto dall’intenzione cosciente». Ecco allora aggiungersi al corredo genetico del prometeico artista altre due importanti caratteristiche: l'esercizio di una censura implacabile sugli elementi emotivi di disturbo e una supe230

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

riore, lucida razionalità. Di nuovo, privilegi che verranno impugnati più tardi contro gli strutturalisti. In terzo luogo, in quanto favorisce l'emergere del valore autonomo del segno con le sue componenti fonologico-semantiche e riattiva «tutti i piani di un sistema linguistico aventi nel linguaggio della comunicazione un ruolo strumentale», il messaggio artistico si presenta come una struttura di mutue relazioni che altrimenti resterebbero iscritte nella pura virtualità della langue. Si può pensare all’enjamzbement come modello esemplificativo di un rapporto tra elementi ritmici e sintattici, oppure all’iperbato, che nelle lingue in cui l’ordine delle parole sia variabile incrementa il senso di un enunciato dipendentemente dalla disposizione sintattica dei termini, o infine

alla rima. Pluralità di livelli fonologici, sintattici, semantici, metrici ecc., la lingua parlata dalla letteratura va immaginata anche visivamente come una struttura lamellare, un reticolo fitto di rapporti reciproci risultanti da una vera e propria fissione di quegli atomi testuali analizzati dalla critica biograficoimpressionistica. A interessare i linguisti praghesi è tuttavia la coesione di tali strutture, la capacità di ripresentare in modo parallelo e a tutti i livelli le medesime caratteristiche: Jakobson in particolare chiamerà parallelismo tale privilegio accordato al linguaggio letterario, evidenziando così la maggiore familiarità che egli ha sempre manifestato nei confronti della poesia rispetto alla prosa narrativa. Parallele per antonomasia sono infatti le strutture fonetiche realizzate dal ritmo del verso, dagli schemi prosodici e dalla rima, poiché — si legge ancora nelle Tesi — «mettere a fronte le une con le altre, sul piano artistico, strutture foniche reciprocamente simili, fa 231

L’idea di letteratura in Italia

risaltare le concordanze e le differenze delle strutture sintattiche, morfologiche e semantiche». Parallelismi, strutture equilibrate, stringhe verbali ordinate per antitesi o similarità: un linguaggio di gusto accentuatamente neoclassico che propende a riconoscere un elevato potenziale estetico solo ai sistemi bilanciati — fatto curioso per chi, come Jakobson, si era formato a stretto contatto delle avanguardie futuriste. Qui, d’altro canto, si trova appena accennato il principio teorico destinato a definire l’essenza stessa della poesia, enunciato da Jakobson nel 1958 durante un convegno sui problemi dello stile tenutosi presso l’Indiana University, in base al quale la poeticità del linguaggio consisterebbe nel proiettare il principio di equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione, nel trattare i sintagmi come se

fossero paradigmi, nel promuovere insomma l’equivalenza a elemento costitutivo di una sequenza poetica. Mentre chi parla in una situazione ordinaria non dedica particolare attenzione alla scelta tra i possibili equivalenti di una lingua (asse della selezione), il poeta si preoccupa di operare tale selezione pensando alle relazioni sintagmatiche (asse della combinazione), nel tentativo di creare effetti di correlazione, ricorrenza o contrapposizione all’interno di un sistema chiuso, appunto una struttura funzionale. L’isolazionismo è infatti il nemico giurato di Jakobson e degli strutturalisti almeno quanto l’idea romantica di originalità, sia pure nella versione secolarizzata della nozione di écart stilistico, per cui il valore di un testo si misurerebbe in rapporto al suo allontanamento dalla lingua d’uso. Ciò che egli intende per poesia è esattamente l’opposto: il luogo del linguaggio in cui 232

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

ogni «sillaba è messa in rapporto di equivalenza con tutte le altre sillabe» e in cui le sequenze sono isocrone o almeno «graduate», una melodia fatta di reiterazioni e simmetrie, addirittura — con le parole di Hopkins, uno scrittore molto amato da Jakobson — «un discorso che ripete totalmente o parzialmente la stessa figura fonica». Che cosa significa questo assioma, e che conseguenze può avere in termini meramente estetici?

Quali canoni letterari privilegia, e che tipo di piacere si propone di ricavare dalla lettura di una poesia? Lo sconcerto che desta in noi la visione jakobsoniana della poesia come una sorta di artificiosa tautologia, un territorio abitato dall’identico e dal ripetitivo, cessa di essere in larga misura tale se si riflette sui problemi affrontati dai formalisti russi nei quindici anni che precedono la stesura delle Tesi del Circolo di Praga. Benché sia stato progressivamente screditato, Vik-

tor Sklovskij resta uno dei formalisti di maggior talento proprio in virtù della sua asistematicità teorica e dei suoi molteplici interessi di studioso-scrittore. Anch’egli — come gli altri membri dell’oPOJAZ, la Società pietroburghese per lo studio del linguaggio poetico cui aderivano Jurij Tynjanov e Boris Ejchenbaum — credeva nell’autotelicità della letteratura, una pratica verbale in cui i segni rinvierebbero prin-

cipalmente a se stessi, e anch’egli inizialmente aveva trovato il modello di tale segno autoriferito nella zaum?’, il linguaggio transmentale dei futuristi, abitato da meri significanti, da sillabazioni alla deriva del senso. Ma una tale definizione non avrebbe retto all’ambizioso progetto di studiare scientificamente

l’intera letteratura, e così Sklovskij ricorse all’idea di 233

L’idea di letteratura in Italia

rielaborazione artigianale, il cosiddetto procedimzento, come ciò che distinguerebbe il manufatto artistico dagli oggetti del mondo quotidiano. Il procedimento, e non altro, costituirebbe il valore aggiunto della letteratura, il suo talismano ontologico, il suo eterno contrassegno. Di qui un’interpretazione ten-

denziosamente «artificiosa» della storia della letteratura vista come un processo di superamenti progres-

sivi, di forme che si affermano per poi eclissarsi, dopo la loro manomissione parodistica, dal campo dell’arte. O feorzi prozy (Teoria della prosa) ne fornisce un icastico esempio: nel momento in cui il romanzo d’avventure si sclerotizza, ecco sorgere l’astro dello sternismo con i suoi ironici straniamenti della trama romanzesca, tali da farla apparire non un’imitazione della realtà, bensì la finzione di un’eti-

ca dell’agire del tutto ideale. Una volta costruito uno spazio autonomo (la letteratura) e dopo avere messo in luce i suoi caratteri essenziali (procedimento, straniamento, parodia) non restava che trovar loro uno scopo storico-sociale facendone lo strumento di un rinnovamento percettivo: tolte agli ormeggi delle associazioni ordinarie, straniate per il solo fatto di essere decontestualizzate, le parole che la letteratura offre all'uomo gli consentirebbero di tornare a vedere le cose, percepire «le pietre come pietre» e trasfor-

mare il silenzio informe del mondo in una melodia incessantemente nuova e significativa.

Ora, per quel che ci interessa in rapporto all’idea di letteratura che lo strutturalismo contribuì successivamente a diffondere, le conseguenze inducibili da queste premesse sono almeno tre. (a) Un rapporto di

similarità o addirittura di collaborazione si stabilisce tra chi produce arte e colui che la studia, poiché se il 234

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

primo rinnova gli schemi percettivi servendosi di capovolgimenti parodistici, il secor:do non cerca di ricatturare la veridicità di un passato che gli sfugge, ma ne fornisce a ragion vedua immagini cangevoli e distorte: anziché pretendere ci essere filologica, cioè restaurazione del vero, la sto-ia letteraria deve diventare «la gaia impresa della sua distruzione», «un

fraintendimento» dei testi «secondo principi artistici moderni». (5) Non è la realtà a fondare la letteratura e a giustificarne la produzione, ma è la seconda a rivitalizzare la prima, innescando processi di rinnovamento evolutivo: con la sua vocazione trascendentale al rimescolamento dei materiali e attenta ai procedimenti sino al punto che anche i valori etici divengono i meri elementi di una sciarada combinatoria il cui approdo è il nichilismo («il bene e il male», scriveva Sklovskij, «sono divenuti il numeratore e il denominatore di una frazione, e il valore di questa frazione è zero»), la letteratura vive e si espande senza posa sulla non-letteratura. Eutrofica e implacabilmente parassitaria, «la forma artistica perpetra un particolare ratto delle Sabine», in virtù del quale il materiale sottratto al mondo della vita non riconosce più «il suo signore e padrone». (c) Più ci si allontana dal linguaggio e si cerca di venire a patti con la fisiologia della percezione per spiegare la funzione del discorso letterario, più la sua «formalistica» autonomia appare inquinata. Ma a questo punto gli attori in scena sono due, e non cessano di affrontarsi minacciosamente: da un lato l’arte, con le sue regole disgiuntive,

i suoi procedimenti stranianti, la lucida consapevolezza che l’esistente deve a essa il suo stesso principio d’esistenza; dall'altra il cosiddetto byf, cioè la vita quotidiana, i materiali storici avvolti da un’impeneine

235.

L'idea di letteratura in Italia

trabile opalescenza, automatizzatisi e dunque non percepibili, incongrui, orfani di un artefice che ne abbia decretato l’identità. Di qui una serie di suggestive illazioni: il mondo è «fabula», una natura biso-

gnosa di mzaquillages culturali, qualcosa di troppo caotico per essere percepito o troppo ordinato in

anodine sequenze causali e temporali per insegnare alcunché; il testo è «intreccio», cioè ordine consape-

vole, riorganizzazione teleologica di ciò che ti non avrebbe significato, frutto ultimo di di dislocazioni, poiché un oggetto diviene artistico solo quando viene strappato al suo

altrimenuna serie un fatto contesto

originario. Così Sklovskij, ed è la radicalità dei suoi enunciati

a proiettarlo nella cultura del secondo Novecento. Il punto (4) ne fa il precursore dell’idea poststrutturalista che autore e lettore siano i poli interscambiabili di un medesimo processo comunicativo; il punto (4) si avvicina molto — come ha intuito Tzvetan Todorov — all'estetica della ricezione; il punto (c) rivela più di un’analogia con l’idea imperialistica che della letteratura si faranno poi le neoavanguardie degli anni sessanta. Basterebbe questo per testimoniare l’acume di Sklovskij e il valore propedeutico che le i2passes del suo sistema teorico rivestirono agli occhi di Jakobson. Molti di coloro che vollero fare i conti con il metodo formale — a cominciare dal gruppo di Bachtin, che per bocca di Medvedev intravedeva l’ombra dell’empirismo positivistico nella riduzione dell’arte alla sua sostanza percepibile e riteneva inaccettabile la sovranità illimitata della letteratura — finirono per impugnare le affermazioni di Sklovskij e trascinare sul banco degli imputati la sua Teorza della prosa. Sollecitato in ciò dalla sua formazione linguistica, 236

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

Jakobson cercò allora di rendere inattaccabile il suo sistema teorico cercando un'alleanza con il più strutturalista dei formalisti, Jurij Tynjanov, e orientando verso la fenomenologia husserliana (grazie alla mediazione di Gustav Spet) il baricentro filosofico della sua idea di linguaggio. Per sopravvivere alle suggestioni più caduche e polemiche, che tra l’altro avevano sollecitato per esempio i formalisti a un raffronto critico con Veselovskij, ci si doveva mantenere entro i rigorosi confini del linguaggio. Insieme a Tynjanov, dunque, Jakobson mantiene

fede alla necessità saussuriana di istituire un «sistema» cercando di immettervi quello che i formalisti più radicali vi avevano escluso, benché rispetto al maestro ginevrino scompaia ora la distinzione tra sincronia e diacronia, dal momento che «ogni siste-

ma è dato come evoluzione e ogni evoluzione ha un carattere sistemico». Anche l’idea di funzione subisce un mutamento, e in luogo di indicare la relazione

di un elemento con il tutto si riferisce adesso alle molteplici relazioni tra variabili interdipendenti. Certo, tra i due studiosi permane qualche significativa differenza: Jakobson resta legato a un’idea nominalistica del principio poetico, e immagina un segno che si autorispecchi vanitosamente; al contrario, Tynjanov percepisce entro le strutture letterarie solo una dorzinante, ed è l’idea stessa di una costruzione

gerarchica a fare di un oggetto un fatto estetico. Di quale costruzione si tratta? Qui di nuovo i due studiosi concordano nel dare grande importanza ai rapporti che un testo intrattiene simultaneamente con la totalità dei testi di un’epoca e con quelli che li hanno preceduti, insomma con il «sistema» letterario, sorta di galassia pulviscolare in cui ogni opera fa riferi237

L’idea di letteratura in Italia

mento ad altre e adotta una particolare «dominante»: la prosa, per esempio, assoggetta il suono al significato, mentre la poesia agisce in modo esattamente opposto. Ma questa galassia non orbita in quel nulla che sollevava le opposizioni di :Bachtin, mostrandosi incapace di spiegare i fenomeni storicoevolutivi; d’altro canto lo stesso Saussure non aveva

concepito la linguistica come parte di una scienza più generale dei segni — la semiologia —, inserendo quest’ultima nel quadro generale costituito dalla psicologia e dalla sociologia? Per diverse ragioni, Jakobson e Tynjanov convengono dunque sulla necessità di rendere più mediato quel corpo a corpo tra la letteratura e il by che aveva comportato serie difficoltà teoriche (come si spiega il mutamento di un paradigma letterario? e in che modo giunge alla letteratura il materiale che essa sottopone a «procedimento»?). La prima a scomparire è l’immagine ossessiva — molto

simile a quella freudiana dell’inconscio — di un by? confuso e brulicante di irrazionali impulsi, sostituita da una «sfera extra-estetica» in cui a emergere l’una accanto all’altra sono le diverse attività umane, dalla

scienza alla tecnologia e all’arte, niente affatto separate ma in continuo contatto linguistico e tematico. L'attività di scambio è incessante, e a venire scambia-

ti sono elementi che assumono funzioni diverse a seconda delle configurazioni cui si associano per poi eclissarsi di nuovo, al punto che il Sy? «pullula dei rudimenti delle diverse attività intellettuali», scientifiche o artistiche: «esso consta di una scienza, un’ar-

te e una tecnologia rudimentali» che si differenziano «dalla scienza, dall’arte e dalla tecnologia progredite per il modo in cui i fenomeni sono trattati». Una conseguenza della pacificazione tra letteratura e 238

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

realtà è l’idea di fabula, che per Sklovskij coincideva sino in fondo con i confusi materiali storici, mentre

per i due estensori delle tesi del 1928 è già il frutto di una prima mediazione, uno schema concettuale astratto che ricorda più ortodossamente la langue di Saussure. Ma a questo punto Tynjanov, già malato, resta

prigioniero della difficoltà in cui si è paradossalmente trovato nel tentativo di risolvere le aporie $klovskijane: trasformato il fatto letterario in una funzione del sistema, sottrattagli qualsivoglia essenza ontologica e ammesso che «ciò che in un’epoca costituisce un fatto letterario sarà per un’altra un fenomeno di costume a livello del linguaggio comune e viceversa», Tynjanov riconosce il primato di una scienza generale dei discorsi entro la quale tentare di identificare la letteratura. Come

si vede, una sorta di fiducioso

mandato storico consegnato nelle mani di Jakobson, linguista di professione. La minuziosa anamnesi degli enunciati jakobsoniani dovrebbe averne chiarito la provenienza e spiegato la longevità nella cultura occidentale almeno sino agli anni settanta. La letteratura è un fatto verbale, e l’unico modo per studiare ciò che la rende tale — vale a dire la /etterarietà — consiste nel limitare ogni indagine al linguaggio, concentrandosi sulle complesse peripezie del significante. Aiutato dall’invocazione saussuriana a considerare la lingua “in sé e per sé” e confortato dall’idea husserliana che si debbano mettere tra parentesi le diversità fenomeniche per mirare alla sottostante identità categoriale, Jakobson concepisce la lingua come un insieme di strutture funzionalmente diverse: all’inizio ne annovera solo due (il linguaggio pratico, eteroriferito, e il 239

L’idea di letteratura in Italia

linguaggio letterario, autoriferito), ma già intorno al 1960 sono divenute sei (funzione emotiva, referenziale, conativa, fàtica, metalinguistica e poetica),

ognuna corredata di un proprio sistema di regole. Se il linguaggio in quanto sistema dei sistemi domina ogni attività dell’uomo, la letteratura ne è la punta emergente, il laboratorio in cui si mettono a punto i

segni del futuro. Tutto infatti vi implode: il segno guarda a se stesso, significante e significato trovano nuove ragioni di convivenza e paiono giustificarsi a vicenda, tanto da rimettere in gioco l’assioma saussuriano dell’arbitrarietà del segno. La sintassi aderisce alla semantica, la fonetica alla morfologia, e la grammatica della poesia — per riprendere il titolo di un libro di Jakobson — si trasforma nella poesia della grammatica.

Il linguaggio jakobsoniano è davvero padrone di se stesso. La sua autarchia è garantita, né gli fa difetto la dimensione diacronica, garantita da neologismi,

arcaismi, pluralità di livelli stilistici. Lì si celano le leggi universali del binarismo fonologico, cioè il mistero stesso della genesi del linguaggio — ed è a questo punto che Jakobson trasforma lo strutturalismo in un sistema epistemologico esportabile in diverse direzioni, soprattutto in quella degli studi letterari. Alle unità funzionali minime dotate di significato — i fonemi — è demandato il compito di arginare «la violenza organizzata della forma poetica sul messaggio» opponendole una barriera inviolabile di norme, e garantendo insieme i limiti cui deve soggiacere la comunicazione di un autore con i suoi lettori; alla

fonologia vanno inoltre ricondotti i sistemi prosodici e la possibilità stessa di elaborare un repertorio di leggi universali. Non stupisce che il capolavoro di 240

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

Jakobson sia costituito dai suoi studi sul linguaggio infantile e l’afasia, rispettivamente collegati alla nascita e all’estinzione del linguaggio. Da un lato osserviamo processi di crescita che istituiscono dapprima opposizioni fonologiche elementari, atte a imprimersi nella memoria del bambino per essere facilmente riconosciute: in primo luogo la sommaria disgiunzione tra vocali con un massimo di apertura (la 4) e consonanti labiali, distinte da un massimo di chiusura orale; poi la distinzione tra labiali e dentali, la coazione a ripetere le sillabe (724/724, pa/pa) per

sottolineare la loro funzione semantica e via via un fitto reticolo di disgiunzioni binarie, che innervano un processo di edificazione «universale» comprovato dalla sconcertante convergenza fonetica nell’uso dei termini parentali in lingue indipendenti (Why “2ama’ and ‘papa’? s'intitolava appunto un celebre articolo di Jakobson). Dall’altro ci vengono incontro processi di decostruzione in base ai quali gli afasici cominciano a smarrire il senso delle opposizioni distintive più sottili, sino a ridurre il linguaggio a una serie di omonimie (parole fonologicamente identiche) e paronimie (parole fonologicamente simili). Jakobson va oltre. Forse, ai primordi dell’umanità, il

linguaggio è nato in questo modo, e lo studio del sistema fonologico consente di sovrapporre filogenesi e ontogenesi nel quadro di un’identica glottogonìa: una vocazione universalistica di cui si rammenterà qualche anno dopo il padre fondatore dello strutturalismo, Claude Lévi-Strauss. Così Jakobson precisava l’orientamento epistemologico della futura generazione di studiosi di letteratura grazie a un corpus di assiomi non privi di un immaginoso spessore. Il linguaggio nasce e muore

ì

241

L'idea di letteratura in Italia

nell’omonimìa, nella ripetizione, nella rarefazione dei

tratti distintivi, e la poesia — che del linguaggio è il massimo agente di potenziamento — riconduce l’uomo alla condizione essenziale in cui una /argue nasce o muore; ogni elemento di essa «è una similitudine»,

ogni sua logica profonda «tende a stabilire un’equazione», l’«invariabilità» è il suo fine totemico. E in

effetti a questi suggerimenti (contenuti nel celebre intervento del 1958, Linguistics and Poetics) si attengono le sue esegesi di tipo strutturale, per esempio quella del sonetto baudelairiano Les Chats in collaborazione con Lévi-Strauss, dove l'individuazione di

nuclei oppositivi (tra rime maschili o accentate e rime femminili o mute, quartine e terzine, versi iniziali e finali, soggetti animati e inanimati ecc.) e i paralleli smi fono-semantici dimostrano come «i diversi livelli considerati coincidano, si completino o si combinino,

dando così alla poesia il carattere di un oggetto assoluto». E la prosa? Qui le cose si complicano, e non è casuale che, eccettuati pochi esempi, Jakobson non ci abbia lasciato analisi strutturali di racconti: il richiamo esoforico della realtà vi si manifesta prepotentemente; mancano figure fonetiche dominanti; soprat-

tutto, difettano alla prosa i parallelismi. Di qui l’idea, assai nefasta per la sua sconsiderata applicazione da parte degli epigoni, che la prosa sia più intimamente legata della poesia a un orientamento realistico, e che quest’ultimo coincida con una modellizzazione metonimica della scrittura. Un equivoco, sicuro, ma alla

tabulazione della diegesi avrebbe più tardi pensato la narratologia. Intanto doveva essere chiaro che, da quel momento, qualsiasi divisione tra linguistica e indagini letterarie sarebbe apparsa come un «manifesto anacronismo». 242

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

2. Proliferazione degli strutturalismi

Il secondo dopoguerra favorisce la diffusione illimitata del nuovo paradigma epistemologico a base linguistica. È sufficiente rammentare alcune date: nel 1949 appaiono Les structures élémentaires de la parenté di Lévi-Strauss, seguite nel 1958 dall’ Axtbropologie structurale; nel 1957 si tiene in Francia un convegno internazionale sulla nozione di struttura, mentre Hjelmslev, Chomsky, Martinet forniscono di volta in volta modelli di ricostruzione strutturale del sistema linguistico; sempre al 1958 risale la discussione braudeliana circa l'opportunità di utilizzare il concetto di sistema in ambito storiografico, e quando nel 1962 esce un volume miscellaneo a cura di Roger Bastide, Sens et usage du terme structure dans les sciences humaines et sociales, il metodo nato a Praga nell’ambito ristretto della slavistica ha ormai raggiunto un dominio incontrastato, tanto da divenire oggetto di effimere transcodificazioni nella pubblicistica del tempo: in una parola, un fenomeno di moda. Né viene trascurata la ricerca di antenati in grado di nobilitare il movimento: Lévi-Strauss torna a Rousseau, Chomsky a Cartesio e ai grammatici di

Port-Royal, gli studiosi di orientamento neoretorico ad Aristotele. E benché nessun territorio disciplinare venga risparmiato — dalla fisica alla biologia — sono le geniali intuizioni contenute nel Cours saussuriano (di cui nel 1957 appaiono le sources manuscrites a cura

di R. Godel) a esercitare un ruolo-guida. Le similitudini in esso contenute istituzionalizzano rapidamente una sorta di tropologia collettiva: l’avvicendarsi dei convogli ferroviari sulla linea Ginevra-Parigi per spiegare l’idea di sistema, il gioco degli scacchi come 243

L’idea di letteratura in Italia

correlativo oggettivo dell’arbitrarietà del segno, il foglio di carta il cui recto è il signifiant e il verso il signifié per tradurre in immagine il paradosso dell’unitarietà del segno divengono punti di riferimento reali di nuove formulazioni teoriche. Benché il termine struttura non compaia nel Cours de linguistique générale, è certo che i suoi presupposti concettuali abbiano permesso a Saussure di operare su un oggetto eternamente “a due facce” — individuale e sociale, sistematico ed evolutivo, acustico e men-

tale —, in cui ogni elemento si contraddistingue solo per ciò che lo differenzia dagli altri. Ma a elevare il grado di esportabilità interdisciplinare del modello teorico sono proprio il discredito della diacronia, l’idea che tutto nella lingua sia negativo (cioè differenziale) e che dunque l’oggetto di studio non abbia letteralmente una concreta esistenza, infine la distinzio-

ne langue-parole in cui il potenziale si oppone all’attuale. Di fatto così è stato. A inaugurare la nuova serie dei prelievi è adesso Lévi-Strauss, che grazie alla mediazione del binarismo jakobsoniano elabora una langue di «strutture formali consciamente o inconsciamente concepite dallo spirito umano», e vi pone a fondamento l'opposizione binaria contenuta nella proibizione dell’incesto, insieme un divieto e una prescrizione, affermando il dominio del sociale sul naturale e vedendo nel primo l'essenza dello “scambio” — nozione preminentemente semiotica. Le strutture ele-

mentari della parentela esistono nella realtà, vanno circoscritte storicamente o sono una finzione operati-

va dello studioso? A questa domanda l’antropologo rispondeva saussurianamente interpretandole come «un livello della realtà invisibile e tuttavia presente al di là delle relazioni sociali visibili», soggiungendo — e 244

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

se ne ricorderanno più avanti i narratologi francesi — che le società e gli individui «non creano mai in maniera assoluta, ma si limitano a scegliere certe. combinazioni in un repertorio ideale» che si deve essere in grado di ricostruire. Non meno radicali i risultati cui pervenivano tra gli altri Hjelmslev e Chomsky, reincarnando il binomio saussuriano largue-parole in quelli forrza-sostanza e competence-performance. Dopo avere messo a punto una quadripartizione del linguaggio che si sarebbe rivelata utilissima per studiare i fenomeni connotativi della letteratura, il linguista danese si presentava come l’interprete più radicale dell’ortodossia saussuriana (molto più equilibrate le posizioni di Martinet e Benveniste) abolendo ogni legame tra la struttura della lingua e la sua storia. Lo strutturalismo ora diviene ambizioso e aggressivamente razionalistico: a essere immaginata è qui una scienza della forma pura che escluda tanto la fonetica quanto la semantica, un’«algebra della lingua operante con entità non nominate e senza designazione naturale»: in altri termini meramente dedotte (Loris T. Hjelmslev, Essazs linguistigues, 1959). Quanto a Chomsky, ben presto si rende conto come la mimesi ambientale non spieghi sufficientemente l’apprendimento delle regole di funzionamento della lingua, ma si debba presupporre un corredo di regole innate: il problema del bambino non è quello di arrivare a una grammatica generativa trasformazionale partendo da pochi dati limitati, trasmessigli dal contesto familiare, bensì di scoprire a quale delle possibili lingue egli, con il suo codice universale innato, si trovi esposto. A cosa

portano tutte queste affermazioni giocate sul filo del paradosso epistemologico, e quali a priori filosofici 245

L’idea di letteratura in Italia

mettono in circolo nella comunità scientifica occidentale? A questa altezza cronologica, cioè nei primi anni sessanta, la struttura immaginata da Jakobson ha già mutato d’aspetto. Che venga pensata come un dato oggettivo o utilizzata come una finzione euristica ad alto rendimento operativo — e la polemica tra queste due opzioni interesserà soprattutto la cultura italiana —, essa è un labirinto molto ordinato e teleologico

di relazioni asostanziali, avulsa da ogni accidentalità e interessata solo alle nuove combinazioni degli elementi correlati. Non ha un corpo perché non può averlo; piuttosto si nutre di segni, monadi dalla duplice natura e desiderose di mettersi in contatto con altro da sé. Spesso, il termine struttura è la reincarnazione scientifica (ma sarebbe più opportuno dire la scarnificazione) di nozioni quali erergesa, slancio vitale e durata che a lungo avevano svolto il ruolo di supporto immateriale di eventi accidentali. Questa è dunque la sua prima funzione: la messa in questione della feticistica autosufficienza del dato e il primato del possibile sul fattuale. L’ambigua propensione di Saussure a immaginare il segno come inesistente — su cui Avalle ha scritto pagine definitive —, la perdurante difficoltà in cui Chomsky si trova ancor oggi nel dare un volto al suo codice innato, la

tendenza a una radicale disintossicazione empirica dimostrata dalla glossematica hjelmsleviana ne sono testimonianze

parziali, ma

non per questo meno

emblematiche. Dietro tale regressione all’inesistenza si celava infatti l'impossibilità di pensare il continuo a vantaggio del discreto, il desiderio di ridurre l’arbitrarietà sino ai limiti di una vera e propria rimozione: in una parola l’idea fiduciosamente razionalistica che 246

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

la realtà avesse la medesima costituzione formale della mente che la analizzava, malgrado il Cours saussuriano si fosse mantenuto in un affascinante equilibrio tra caos e ordine, e avesse concepito la lingua come un venire a patti dell’arbitrario e della sua riduzione. Alcune conseguenze ne discendono automaticamente. L’invarianza ha un indiscutibile privilegio, e la sua strenua ricerca comporta subito lo sdoppiamento di un oggetto di cui si vuole studiare non l’anatomia, il conformarsi dei singoli elementi, bensì la dinamica fisiologica: in luogo di un semplice aggregato fattuale — performance o parole che esso sia — si ha un oggetto e il suo scheletro normativo, la sua struttura. Persino l’uomo si assoggetta a questo sdoppiamento semiologico, e ben presto Piaget, senza accorgersi di utilizzare un vecchio tropo romantico, diffonde l’idea che a fianco di un «soggetto individuale» si debba intuire l’ombra di un «soggetto epistemico o nucleo cognitivo comune a tutti i soggetti

dello stesso livello». C'è anche chi lamenta tempestivamente gli eccessi teorici dello strutturalismo: Paul Ricoeur vi rinviene il paradosso di un «kantismo senza soggetto trascendentale», poiché al contrapporsi di soggetto e oggetto vede sostituirsi l’antitesi tra una sostanza categoriale e una realtà fenomenica; similmente il Foucault di Le parole e le cose constata malinconicamente come il tentativo di purificare l’empiria elevando i poteri del linguaggio e di esercitare «una seconda critica della ragion pura a partire da nuove forme dell’apriori matematico» non conducano al centro dell’uomo, bensì a ciò che lo limita: la «regione in cui si aggira la morte, in cui il pensiero si spegne, in cui la promessa dell’origine indefinitamente arretra». 247

L’idea di letteratura in Italia

Ma erano voci isolate, e soprattutto nell’ambito

degli studi letterari il nuovo ‘s720 sembrava non avere più ostacoli. Così, mentre negli Stati Uniti lo strutturalismo linguistico cominciava (per esempio con Zelig S. Harris) a elaborare forme evolute di discourse analysis per mettere in luce regole di coesione transfrastiche

e René Wellek, al secondo Congresso

dell’Associazione Internazionale di Letteratura comparata (settembre 1958), invitava a soffermarsi sugli elementi sovranazionali delle opere d’arte verbali, intese come strutture coerenti di significazione, era

la Francia a diventare la terra promessa del movimento. Una cultura accademica particolarmente ostica ai mutamenti e pronta al confronto lacerante; la presenza di riviste combattive che si susseguiranno nel tempo, dai “Cahiers pour l’Analyse” a “Tel Quel”; la capillare ramificazione del saussurismo e la vicinanza della cosiddetta scuola di Ginevra, tra cui si

segnalano Rousset e Starobinski; infine la vocazione internazionale di Parigi, luogo di emigrazione prediletto da chi veniva dall’Est (Algirdas J. Greimas era lituano, Tzvetan Todorov bulgaro): sono alcune, tut-

tavia solo alcune delle ragioni che fecero della Francia uno spazio di definitiva consacrazione dello strutturalismo sotto l’egida elegante di Claude LéviStrauss. Ma nel settore degli studi letterari era vero strutturalismo? Preferibilmente si parlava di «attività strutturali sta», una tendenza comune tanto agli «scrittori» che ai «critici» a scomporre i testi in un numero limitato di elementi pertinenti e a ricomporli poi in una nuova configurazione distributiva — «simulacro» del testo d’origine ma in grado di vantare una maggiore intelligibilità. L’uorzo strutturale, cioè l'analista o lo 248

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

scrittore, va alla ricerca di regole di funzionamento e

codici di significazione; sdegnoso della sostanza, investe ogni suo avere nelle funzioni, e grazie a esse giunge a un’autentica fabbricazione primaria (nel caso dello scrittore) o secondaria (in quello dello studioso). A quale fine esercitarsi in questa mimesi semiologica? Nello scorzporre, si avverte uno stadio di dispersione momentanea

della materia; ma ben

presto, nel r:corzporre un testo, si assoggetta il caos a vincoli regolari, si regala all’oggetto «il valore aggiunto dell’intelletto» e in questa «sorta di lotta contro il disordine» si «mette in luce il processo propriamente umano attraverso il quale gli uomini danno senso alle cose» (R. Barthes, É/érents de sémiolo-

gie, 1965). Lo strutturalista è un bricoleuricui repertori sono costituiti di elementi inevitabilmente limitati, mentre le combinazioni sono infinite: lo scrittore opera su una raccolta di residui reali, il critico su

quei residui di «opere umane» che sono i libri, schidioni infiniti di «temi, motivi, parole chiave, metafore ossessive, citazioni, schede e riferimenti» (G. Genette, Figures, 1966). Mentre il terziario avanzato comincia a immettere

la letteratura nel circuito della divisione sempre più capillare del tempo libero e a vedervi un arsenale di modelli classificabili, i fondamenti epistemologici dello strutturalismo — il binarismo fonologico, le distinzioni /angue/parole, significato/significante ecc. —servono dunque a colmare una crisi funzionale della letteratura da cui si genera compensativamente l'apoteosi del segno e del linguaggio. Fin dalla metà degli anni cinquanta la nascente teoria dell’informazione e lo studio delle comunicazioni di massa hanno dato vigore all’idea che a esistere sia solo il linguag249

L'idea di letteratura in Italia

gio, entità collettiva che si definisce appunto come «spazio di dissolvimento del soggetto». Inutile uscire da questa prigione: l’borzzze de paroles — per riprendere il titolo di un celebre libro di Claude Hagège — vi è comunque condannato. E se la letteratura è un luogo autotelico in cui «le opere comunicano e si compenetrano», se la realtà è un’infinita macchina semiotica in cui tutto comunica con tutto, come usci-

re dalle costrizioni del linguaggio? Che cos'è il système de la mode — si chiede Barthes nel libro omonimo — se non un repertorio lessicale la cui selezione va operata non osservando costumi e indumenti, ma attra-

verso uno spoglio sistematico delle riviste che se ne occupano? Leggere — ci viene ripetuto ad apertura di S/Z — significa trovare dei sensi, cioè nominarli, ma questi sensi nominati chiamano altri nomi: «nomino,

denomino, rinomino: così passa il testo». Anche lo studio dei classici si adegua al nuovo canone euristico: Todorov (che nel 1965 ha il grande merito di far conoscere in Occidente i principali testi dei formalisti russi) studia il Decazzeron come una macro-frase in cui gli agenti sono 0727, le proprietà aggettivi, le azioni verbi, Stendhal attrae Genette e Starobinski

per la pseudonimia; Proust per la teoria dell’influenza esercitata dai significanti sui significati nei nomi propri o per le vertiginose anisocronie che innovano la grammatica narrativa; le tragedie di Racine per aver promosso a unico protagonista un linguaggio

che — agli occhi di Barthes — è insieme una «condotta» e un codice morale, o meglio la «tautologia esau-

riente», la «promozione inebriata di tutte quelle funzioni devolute altrove a altri ordini di comportamento». Poiché il linguaggio è l’unica realtà oggettiva cui l'analista possa riferirsi, il testo letterario e le sue 250

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

caratteristiche morfologiche, il suo potenziale inventivo vengono equivocamente riportati a un’essenza

linguistica; così, per esempio, per Todorov la letteratura fantastica consisterebbe in una interpretazio-

ne “propria” del linguaggio figurato e il mistero della sua genesi sarebbe custodito nelle figure retoriche: «il soprannaturale nasce dal linguaggio, ne è insieme la prova e la conseguenza». Dal 1957, quando comparve Mythologies di Roland Barthes, al 1966, allorché l'atmosfera cominciò a mutare e nel corso di un convegno organizzato dalla Johns Hopkins University sulla structuralist. controversy emersero indizi premonitori del futuro decostruzionismo, l’bomzze de paroles non cessò di mettere radici nel passato clonando il repertorio dei testi classici: deontologicamente non era forse un grande passo, ma intanto con Blanchot anche la letteratura si dava uno statuto nominalistico identificandosi nella maschera dolorosa di Orfeo, il cui cammino asintotico sarebbe sì dominato dalla presenza della realtà, ma senza poterne sfiorare i contorni. «Senso nominato senso morto» è il feticcio assiomatico della nouvelle critique. Dopo l’epoca dell’autore e in attesa che la scuola di Costanza scopra l’imprescindibile ruolo del lettore, è questa l’epoca di massimo fulgore del testo — variante secolare dell’opera d’arte, che ne diviene ora una mera sottospecie linguistica. Rilanciato originariamente dalla glossematica hjelmsleviana che ne faceva il sostituto della nozione saussuriana di parole — ciò che ha un'esistenza linguistica e presuppone un sistema —, il testo avrebbe dovuto orientare l’attenzione degli studiosi verso il modo in cui vi sono inglobati riferimenti al contesto di emissione oppure, DI

L’idea di letteratura in Italia

come poi accadrà con la Textlnguistik, verso regole di connessione transfrastica. Al contrario, nella sta-

gione strutturalista francese il testo letterario o scrivibile si presenta come una galassia infinita di significanti, un «presente perpetuo» talmente plurisignificante da non poter essere saturato da alcuna lettura: il «testo scrivibile siamo noi», e come bisogna liberarlo da ciò che gli è esterno, così non c’è mai «un tutto del testo», una totalità chiusa poiché si conoscono

solo valori differenziali, testi che si oppongono a altri testi, lettori che sono l’incarnazione di altri lettori (R. Barthes, S/Z, 1970). Evidentemente i fondamenti

stessi dello strutturalismo

vengono

rinnegati nel

momento in cui, teorizzata l’infinità del testo, a essere messa in questione è la nozione di codice, cioè la

costituzione di un corpus di elementi e regole trasformazionali in base al criterio di pertinenza. Riletti in questa luce, i manifesti dello strutturali smo francese si rivelano assai contraddittori. A scomparire per primi sono la struttura, sostituita da una più generica «strutturazione»; il codice, interpretato

come «un miraggio di strutture di cui si conoscono solo gli allontanamenti e i ritorni»; il principio di pertinenza, degradato a opera di selezione di materiali eterogenei «secondo una certa arbitrarietà (inevitabile)» (R. Barthes, É/éments de sémiologie). In com-

penso si dilata enormemente il ruolo strumentale della conrotazione — volta a volta opificio del senso soggettivo e della libera associazione, segno che diviene significante di un altro segno, luogo di combustione della creazione letteraria o ancora modello di semiosi illimitata — e acquisisce una valenza ideologica l’arbitrarietà del segno. La muova estetica semiotica valorizza i segni «intellettuali» e scredita 252

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

quelli

«viscerali»,

che

naturalizzano

la cultura,

impongono significati e pretendono di essere veri. Il buon segno — dirà Genette a proposito di Barthes — deve sottoporsi a una cura di dimagrimento intenzionale: non pretende nulla, è la parola comune senza aggettivi (come in Robbe-Grillet) e risulta pervaso dalla consapevolezza della sua diversità dalle cose; in antitesi a esso, il cattivo segno prospera nell’ideologia piccolo-borghese e nel mondo della pubblicità, reclama una necessità per nulla arbitraria, non si accontenta del commercio esclusivo del significante ma regola un’economia di Significati. Anche Saussure deve adesso subire le accuse degli strutturalisti, per aver intravisto nella forza stabilizzante dell’analogia il contropotere dell’arbitrarietà, al punto da affermare — con una delle sue mirabili similitudini — che le innovazioni «dell’analogia sono più apparenti che reali», essendo la lingua «un vestito coperto di toppe fatte con la sua stessa stoffa». Persino la posizione di Genette, ironico interprete dell’estetica barthesiana, risulta in fondo omologa a questa apologia dell’arbitrarietà se più tardi, in Figures MI, egli rilegge criticamente la storia moderna della retorica accusandola di aver ridotto il proprio campo d’azione ai rapporti semiologici motivati, cioè all’analogico, alle relazioni di similarità: in una parola alla metafora, che sollecita a considerare somiglianti le parole e le cose. E nulla più di questo cratilismo in cui il valere per del segno si trasforma in un essere come «infastidisce» l’autore, convinto che «questa azione per analogia sul “motore del mondo” possa avere solo un senso: un ritorno alla magia». Sembra evidente come, in luogo dello strutturalismo, a contraddistinguere la cultura francese sia stato 253

L’idea di letteratura in Italia

il primato della semiologia, che per decisione dell’International Association for Semiotic Studies dal 1969 si chiamerà semiotica. Preconizzata alla fine dell’Ottocento da Charles Sanders Peirce (la cui distinzione tra icona, simbolo e segno verrà rilanciata da Jakob-

son) e al centro di interessi filosofici (Charles Morris) e linguistici (Eric Buyssens) sin dagli anni quaranta, nell'intento saussuriano la semiologia sarebbe dovuta diventare una scienza in grado di studiare la vita dei segni «au sein de la vie sociale»: al di sotto di essa e come sua specificazione si sarebbe dovuta collocare la linguistica; al di sopra, una «psicologia sociale» o psicologia generale in grado di collazionare tutti i fenomeni collettivi concernenti l’uomo. Con ogni probabilità, coloro che ne avevano abbozzato il progetto scientifico pensavano allo studio dei segni e alla formazione di un metalinguaggio come al solo in grado di spiegare fenomeni differentemente complessi quali l'impulso alla comunicazione, il margine di nondetto e le tracce di pensiero non-verbale rimaste nel contenuto dei testi, l’attitudine antropologica a indicare oggetti o relazioni attraverso processi semiotici;

ogni ambito dell’attività umana sarebbe stato riportato agli elementi di base e alle sue regole di utilizzazione, e alla fine nessuno avrebbe potuto escludere l’emergere di un sistema dei sistemi, un codice culturale di cui quello linguistico avrebbe costituito solo una parte. Ma in attesa che nell’università sovietica di Tartu si mettesse a punto una semiotica di ampie

vedute, la strada percorsa in Francia risultò assai diversa. Innanzitutto a mutare è il rapporto iponimico teo-

rizzato da Saussure, e la linguistica prende al proprio servizio la semiologia per il fatto stesso che percepire 254

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

qualcosa significa ricorrere al lavoro articolativo della lingua, né può esistere un senso che non sia nominato (R. Barthes, É/érents de sémiologie). Ancora, il ruolo

egemonico e oppressivo della lingua conduce da un lato a una forzata semplificazione della triade emittente-messaggio-destinatario a unico beneficio del termine intermedio, poiché una delle funzioni del linguaggio e in particolare della letteratura è — sono parole di Valéry, citato con provvida solerzia da Blanchot — distruggere il parlante e designarlo come assente; dall’altro a vanificare la distinzione tra segna-

li e sintomi, cioè tra segri (convenzionali e di numero finito) utilizzati con l’espressa volontà di comunicare e indizi espressivi, non quantificabili né prefissati sulla base di un esplicito contratto sociale. Per ricorrere alle parole di un caustico oppositore della semiologia praticata dalla nouvelle critique, il primato della lingua deriva forse dal tentativo, da parte degli studiosi francesi di scienze umane, «di proclamare un predominio che mai come oggi sfugge loro» e di preconizzare la definitiva morte dell’arte — «anticipabile intanto con l'annullamento di fatto dell’autore, ridotto a esecutore di “modelli” che lo trascendono» (C. Segre, I segni e la critica, 1969). La semiologia come arma difensiva: questa idea, che si propone di mettere a nudo i condizionamenti logici alla base della produzione del senso e di esercitare una critica del segno nell’illusione di afferrare il mondo al suo «grado zero», alimenterà a lungo lo strutturalismo. Di fatto, nell’arco di pochi anni muta radicalmente la tassonomia critica e la nomenclatura dell’atto di giudizio.

Scientista finché si vuole e ardimentosa (con Barthes e Genette) nell’attività classificatrice, la nascente semiologia favorisce tuttavia nuove convenzioni attin255

L’idea di letteratura în Italia

gibili dalla comunità degli studiosi e amplia il repertorio testuale da sottoporre ad analisi, poiché l’attenuazione assiologica dell’emittente e il rilievo euristico del codice consentono ora — per non citare altro — di avvicinarsi alla paraletteratura, il folklore, il mondo difforme delle comunicazioni di massa. In positivo e in negativo ne è una significativa

testimonianza la genesi della narratologia o analisi del racconto (analyse du récit), alla cui origine si tro-

va la Morfologia della fiaba di Vladimir Ja. Propp, pubblicata nel 1928 ma conosciuta in Occidente molto più tardi (la traduzione inglese è del 1958, quella italiana del 1966). Il Marchen e più in generale la produzione folklorica avevano già attratto l’attenzione degli studiosi, colpiti dalla ricorsività di temi e figure dietro l'apparente diversificarsi di una produzione diffusa su scala mondiale: Bédier si era mostrato convinto della necessità di distinguere nei fabliaux grandezze variabili ed elementi costanti, Veselovskij aveva cominciato a redigere un elenco di unità narrative minimali o w0tivî, la scuola finlandese di Aarne aveva collazionato sistematicamente una serie di

Marchentypen, suddividendo la fiabistica in categorie geo-etnografiche e mettendo a confronto la struttura degli intrecci. L’ambizioso tentativo di Propp — che parallelamente agli storici dell’arte viennesi muove dalla morfologia goethiana — prende subito le distanze dal comparativismo e dalla ricerca empirica: fissa sì un repertorio testuale (cento fiabe di Afanas’ev), ma con l’intenzione di procedere deduttivamente. Per descrivere e comparare,

egli non si stanca di

ripetere, è prima necessario fissare lo statuto teorico dell’oggetto; quanto alla letteratura popolare, più di ogni altra tipologia testuale va incontro al duplice 256

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

desiderio formalista di depotenziare la creatività del singolo e insistere sui fattori limitativi sovrapersonali. Sarebbe qui pleonastico rendere conto di un’opera di cui esistono — grazie soprattutto agli strutturalisti — numerosi excerpta, e basti dire che alla fiaba di magia, interpretata come prosecuzione secolare del mito, viene assegnato uno scheletro di trentuno funzioni non necessariamente presenti in ogni singola fiaba ma contraddistinte da un ordine di successione vincolato. In luogo di essere quell’aldilà utopistico del reale teorizzato dai romantici tedeschi, il Mdrchen subisce un processo di depauperamento magico per divenire uno sviluppo narrativo che «da un danneggiamento o da una mancanza» conduce «attraverso funzioni intermedie a un matrimonio o ad altre funzioni impiegate a guisa di scioglimento». Neutralizzato il sostrato inconscio del racconto e i suoi arabeschi onirici, a interessare lo studioso sono le funzioni, cioè il materiale transitivo, «l'operato di

un personaggio determinato dal punto di vista del suo significato per lo svolgimento della vicenda». Scompare l’eroe, semplice oggetto di un Danneggiamento e amministratore involontario di una Mancanza, e con lui si eclissa anche l’idea di creatività autoriale, sottoposta a vincoli plurimi nella sostanza delle funzioni, nella loro successione e nella scelta di quei personaggi «tenuti ad esplicare una funzione determinata». Liberalizzate invece la scelta delle funzioni da omettere o utilizzare, la determinazione degli «attributi» (cioè non il che cosa ma il corre degli eventi), l'opzione circa le «motivazioni» che connettono una funzione all’altra. Il duplice valore paradigmatico e sintagmatico delle funzioni consente al tempo stesso di distinguere azioni apparentemente ugua257

L’idea di letteratura in Italia

li riferendosi alle funzioni contigue e di censire in modo esauriente i vasti territori testuali della fiaba: la scienza della letteratura immaginata dal formalismo russo e soprattutto da TomaSevskij — il più vocato alla narratologia e responsabile di una feconda distinzione dei motivi in liberi e legati, cioè rispettivamente eliminabili o non eliminabili senza danno «per l'integrità della connessione causale-temporale degli avvenimenti» — sembra adesso progredire visto-

samente, anche perché lo studioso può affidarsi a una strumentazione teorica che fotografa il testo secondo quattro livelli di astrazione progressiva. Al discorso narrativo nella sua unicità di atto linguistico seguono l’intreccio (le unità di contenuto nell’ordine di successione reale del testo) e la fabula (le medesime unità di contenuto riordinate in una successione logico-causale: Propp tuttavia finisce per identificarli, poiché nella fiaba raramente si dà discrepanza tra diacronie effettive e virtuali), mentre al termine della

fase di metadescrizione si profila la «composizione», cioè il modello narrativo a un livello massimo di astrazione, dietro il quale Propp, malgrado il suo convinto antigenetismo, intravede «la forma originaria di tutte le fiabe di magia», l’archetipo di cui ogni Mtrchen sarebbe una variante. Come si vede, altret-

tanti modi per parafrasare e descrivere i testi secondo margini ridotti di approssimazione. Suggestivo nel mutuare dalle scienze naturali (in particolare da Cuvier e Goethe) la nomenclatura di una scienza 27 fieri, Propp lasciava tuttavia in eredità al futuro una serie di difficoltà teoriche, solo in parte enunciate poi da Lévi-Strauss nel corso di un arduo quanto celebre dialogo. L’idea di far rientrare la fiaba di magia nello schema storiografico della Saku/ari258

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

sterung e la primogenitura del mito erano state scre-

ditate almeno cinquant'anni prima da Erwin Rhode, un filologo tedesco amico di Nietzsche, e ormai erano in molti a vedere nelle narrazioni mitiche e fiabesche modi compresenti, benché diversi, di offrire spiegazioni degli stessi fenomeni. Inoltre la classifica-

zione sintattico-morfologica non riusciva sempre ad arginare elementi contenutistico-lessicali, dando luogo a definizioni spurie come quella di «sfera d’azione», punto d’incontro tra le funzioni e i personaggi precedentemente emarginati; propensioni latamente antisaussuriane, sufficienti a incrinare l’idea di «sistema», affioravano per esempio nel convincimento che «l’assenza di una funzione non influisca minima-

mente sulla struttura della narrazione» o che «le parti componenti di una fiaba possano essere trasferite in un’altra senza modificazione alcuna»; l’identifica-

zione operata tra individui e oggetti magici si rivelava spesso pretestuosa, così come l'esclusione dal modello narrativo di elementi attributivi quali la volontarietà di un’azione o le intenzioni di un attante, poiché la permutabilità degli elementi non comporta il fatto che essi siano arbitrari. «Prima del formalismo — concluderà suggestivamente Lévi-Strauss — ignora-

vamo quello che avevano in comune queste fiabe, ma dopo esso ci troviamo privati di ogni mezzo per comprendere in che cosa differiscono». L’indifferenziazione finale dei materiali diegetici è precisamente l’ostacolo che si trovano ad affrontare i narratologi francesi che negli anni sessanta tentano di repertoriare l’intero universo del narrabile. Esportato oltre gli angusti confini della fiaba e riletto alla luce dello strutturalismo, il metodo proppiano subisce una radicale metamorfosi, anche perché in luogo 75)

L'idea di letteratura in Italia

di essere un mero strumento metadescrittivo incarna ora (soprattutto nell’opera di Greimas) l’utopia ambiziosa dell’Origine, confondendosi ben presto con la quest del racconto dei racconti, il Modello diegetico primordiale, l’Urerziblung. Quali sono le unità minime della narrazione? Secondo quali leggi si combinano e quali regole di trasformazione ne assicurano l’invarianza? Soprattutto, di cosa è fatto un racconto, ed esistono contrassegni extralinguistici che consentano di classificare un atto di parole come narrativo? Sono queste le principali domande cui i narratologi — tra i quali Barthes, Genette, Bremond, Greimas, Todorov — cercano di offrire risposte convincenti, in apparenza astenendosi dalla elaborazione di un'estetica letteraria. In realtà dietro l’«avventura» narratologica s’intravedono le poetiche contemporanee. La favorevole accoglienza che viene per esempio riservata all’abolizione proppiana del personaggio e alla sua reductio antipsicologica ad attante coincide, in Italia, con la debenedettiana Corzzzerzo-

razione provvisoria del personaggio-uomo e, in Francia, con l’anelito antiumanistico dell’école du regard — ostile all’uso stesso dell’aggettivo quale indizio di soggettivismo —, con l’ars combinatoria praticata dal gruppo dell’Oulipo e, non ultimo, con la svolta narrativa di Calvino, trasferitosi a Parigi a metà degli anni sessanta. Molteplici indizi inducono all’ipotesi che la cosiddetta morte del romanzo e la nascita della narratologia siano strettamente legate. Meglio ancora: è l’ambito “secondario” della riflessione critica a fungere da avanguardia estetica, e non si fatica

a trovare dietro la rilettura todoroviana del Decazze‘ron (1969) — uno dei principali tentativi di analisi narratologica — le risultanze più radicali della Spracb260

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

kritik novecentesca. Abrogato il triangolo di Ogden e Richards per avvenuto decesso del referente e intaccata l’integrità comunicativa dell’atto estetico per la repentina scomparsa dell’emittente, significante e significato divengono autotelici e il processo creativo un calcolo combinatorio. Come voleva Wittgenstein e ribadivano gli scrittori di “Tel quel”, la lingua non si imparava dal mondo, ma appariva come un palinsesto di possibilità mistificatorie. Ecco allora — come si è detto — il Decameron precipitare nell’angustia di una frase nucleare, con i personaggi a fungere da nomi propri, le azioni da verbi classificabili in tre categorie (modificare, peccare, punire), gli stati e le condizioni da aggettivi; a propria volta, la novella descrive il duplice movimento di un dialogo in cui la prima parte pone una domanda e la seconda offre una risposta, sempre trasgressiva rispetto all’agire canonico della cultura toscana del Trecento. Si tratta in altri termini di uno «scambio alterato», del-

le risultanze di un Desiderio iniziale che mette in atto una Modificazione finale, e per questo Todorov — cui preme studiare non l’opera bensì «le virtualità narratologiche che l’hanno resa possibile» — ne evince come la medesima azione sia il supporto del racconto e insieme la sua contestazione, «la sua vita e la sua morte». «Ogni racconto porta in sé la propria morte, è il suo più grande avversario, e la sola minaccia seria

per il racconto viene dal racconto stesso»: con questo spleen blanchotiano, sufficiente a ribadire l’idea di

un’autogenesi della letteratura, chiusa nella prigione del linguaggio, la narratologia offre tuttavia allo studioso una precisione chirurgica nell’intervenire sul testo, consolida una nomenclatura comune,

rende

operante una volontà fecondamente semplificatrice. 261

L'idea di letteratura in Italia

I primi lettori di Propp sono infatti preoccupati di ridurre il numero delle funzioni senza abbassare il loro grado di rappresentatività testuale. Comincia Claude Bremond (Le message narratif, 1966) atfidandosi a un criterio binario che dimezza i nuclei del racconto, nella certezza che ogni elemento preveda anche il suo contrario, ed è seguito da Algirdas ]. Greimas (Du sens, 1970), abile nel ridurre il numero

delle funzioni da 31 a 20 e nel collocare all’origine del testo narrativo un'opposizione semica (per esempio buono/cattivo); Gérard Genette (Figures ul, 1972) constata come ogni racconto assuma la relazio-

ne di uno o più eventi per concludere che sia «legittimo trattarlo come uno sviluppo dato a una forma verbale, nel senso grammaticale del termine: l’espansione di un verbo». Molti sono altresì convinti che i personaggi debbano far parte del modello semiotico di base, ma gli attori continuano a essere sostituiti dagli attanti, cioè da un silenzioso drappello di destinatori e destinatari, adiuvanti e oppositori; anche il ruolo riservato da Propp agli elementi attributivi sembra eccessivamente ridotto, e di ciò si occupa Roland Barthes in un articolo apparso su un celebre fascicolo di “Communications” (n. 8, 1966), cercan-

do di coniugare la generalità del modello diegetico con la particolarità del testo da descrivere: alle funzioni si affiancano dunque indizi e informanti, elementi concettuali meno dinamici ma altrettanto essenziali al senso della storia. E la comparsa intorno ai nuclei (le funzioni di Propp) di catalisi, cioè segmenti descrittivi o digressivi, segnala già il mutare del clima. Intorno a questa data, strutturalismo e semiotica

hanno infatti allestito con la narratologia un terreno 262

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

d’intesa. L’idea di sistema e correlazione trascendentale delle parti fonda la possibilità stessa di descrivere un testo, e dunque di compararlo; al tempo stesso, si intuisce che il narrare presenta segni di secondo livello, per esempio indicatori di finzione, oppure regole di connessione transfrastica: i segni linguistici divengono significanti che rinviano a una sostanza del contenuto sfuggente ma imprescindibile, si tratti della tradizione letteraria, del gusto di un’epoca, del-

la grammatica inconscia del récit. Tuttavia il grande sforzo tassonomico comporta costi elevati e azzardi metodologici. Basti pensare a Greimas e al suo progetto di un «inventario virtuale di tutti i micro-universi possibili», all’ipotesi che dietro il «livello apparente della narrazione» si celi «una falda strutturale autonoma, luogo d’organizzazione di vasti campi di significazione» integrabili in una teoria semiotica generale: di fatto, a che cosa ha condotto tutto ciò se

non all’ironia con cui si apre S/Z, con quei buddisti che vorrebbero vedere «tutto un paesaggio in una fava»? La narratologia di seconda generazione ha perciò mostrato limiti facilmente elencabili. (2) La distinzione tra fabula e intreccio ha consentito la rubricazione dei procedimenti e messo in luce le connessioni sintattiche, ma ha generato l’equivoco — come afferma oggi Jonathan Culler — che sezioni semiotiche ideali fossero in realtà livelli genetici, sta-

di evolutivi dell’opera. Ipostatizzando la fabula, facendone una delle tappe nella stesura di un racconto, si è finito per scindere la grammatica degli eventi dal loro significato. (5) Tale equivoco ha impedito in un primo momento di accorgersi che se l’intreccio coincideva 263

L’idea di letteratura in Italia

con la temporalità lineare dell’atto di lettura, la fabu-

la corrispondeva alla diacronia di secondo grado che viene a crearsi nel momento stesso in cui il lettore opera una sintesi memoriale. Nel racconto nulla resta immune dal tempo, tutto accade sempre — lo ha sostenuto elegantemente Harald Weinrich — prima di, o abitualmente, o per la prima volta, o una sola vol-

ta. Dietro la fabula si cela insomma non un'ipotesi teorica, ma la psicologia della lettura, la quale interagisce con la relazione tra forma dell’espressione e forma del contenuto, cioè tra discorso e intreccio.

(c) La focalizzazione sulla sintassi ha eroso l’importanza del lessico, cioè l’identità linguistica del testo, e la possibilità di distinguere semioticamente la parola del narratore da quella del personaggio, il tempo dell’enunciazione da quello dell’enunciato. (d) L’idea radicalmente evenemenziale della narrazione come ciò che connette cause a scopi e descri-

ve azioni, l’apologia della funzione come tessuto trasformazionale hanno sì compensato adeguatamente, sul piano del “secondario”, l'abolizione della trama nel romanzo del Novecento a partire almeno da Forster, ma hanno reso inattendibile la lettura di molti

testi: non per caso si è preferito studiare opere in cui i personaggi per così dire subiscono i ruoli attanziali

o in cui il momento del calcolo combinatorio si rivela essenziale (il Decameron, le Liaisons dangereuses,

la narrativa popolare ecc.). (e) Il diffondersi della Morfologia della fiaba ha protratto l'equivoco secondo cui funzionalità e invarianza coinciderebbero, nel presupposto che la variabilità storica o soggettiva riguarderebbe solo le componenti non cardinali del narrare; già da tempo tuttavia — Curtius insegna — si sapeva che gli elementi 264

Seti ni

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

attributivi, il modo di elaborare le descrizioni, le

digressioni ecfrastiche erano regolati da un repertorio limitato di fopoz. Di contro, le cosiddette funzio-

ni, lo svolgersi delle azioni e l’idea stessa di sequenza fattuale mutano di epoca in epoca dipendentemente dall’interrelarsi di fenomeni complessi quali lo statuto epistemologico della scienza, gli stili di vita, l’identità filosofica del senso comune. È evidente per esempio che il ruolo attanziale del traditore muta a seconda che riguardi l’ambiente cortigiano del xVI secolo, la società illuminista o la cultura fin de siècle. Un particolare codice semiotico regola in ogni epoca

l'etica dell'agire: ma si dovrà attendere Lotman per comprendere che la logica del racconto è una logica storica, e che «il modo

di nominare

appartiene allo stesso metalinguaggio esprimono le idee guida di una civiltà».

le funzioni

con

cui si

3. Il caso italiano e le successive elaborazioni teoriche

In Italia si era cominciato a parlare di «struttura», cioè di correlazione sistematica delle parti di un’opera letteraria, molto prima che la nouvelle critique decidesse di seguire il linguaggio sino al margine proibito di una gramzzzatica universalis. Malgrado il testo, nella sua nuda fattualità, fosse stato irradiato in

epoca crociana dalle corrosive energie di un deliberato discredito, a esso veniva ricondotto ogni autentico domicilio filologico, favorendo le riflessioni sui

gradi di non appartenenza che dividono emittenti e destinatari, sui centri nervosi del funzionamento testuale, sull’idea stessa di testo. Ferdinand de Saus-

sure si era formato alla scuola di Joseph Bédier e Gaston Paris, lo strutturalismo italiano si radica negli 265

L’idea di letteratura in Italia

strati vivi della romanistica continiana (su Gianfranco Contini rinvio al paragrafo dedicatogli in questo libro). Non diversamente, benché con un maggior rigore saussuriano, si comporterà il filologo romanzo

d’Arco Silvio Avalle nell'analisi degli Orecchini di Montale (1965). La fase di promozione dello strutturalismo passa ora attraverso una serie coerente di cautele metodologiche: affinché vi sia «sistema» si deve prima procedere all’identificazione degli elementi pertinenti, cioè i segni, per i quali risulta decisivo il rilievo statistico della costanza e l’enucleazione di ambiti tematici dotati di caratteri specifici. Il criterio di giudizio estetico che sembra guidare Avalle è la funzionalità del segno nel sistema, ma al contrario di Luigi Rosiello, convinto che uno stile sia misurabile in base al

calcolo «dello scarto probabilistico che gli elementi componenti il messaggio realizzano rispetto alla frequenza che tali elementi hanno sul piano della norma», egli procede a un censimento rigorosamente intratestuale di «elementi prefabbricati», «materiali di reimpiego» che «avevano già una funzione nelle poesie precedenti» e adesso, negli Orecchizi, sono utilizzati con una sagacia tale da stabilire «corrispondenze esatte» (chiasmi, parallelismi, strutture a cate-

na) tra le parti costituenti il tutto. Nel caso specifico Avalle si riferisce al tema dello specchio (il montaliano «nerofumo della spera») sezionandolo in quattro connotatori — il mezzo, l’oggetto, le operazioni, la

qualità — che circoscrivono altrettanti campi semantici, in cui di volta in volta domineranno lo sprofondare o l’affiorare, la trasparenza o l’opacità. Siamo dunque in presenza di un segno complesso (più tardi, Maria Corti li chiamerà ipersegni), e la sua pertinenza 266

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

testuale decide della presenza del «système». Aiutato in ciò dalla volontà del poeta a riassorbire puntualmente «l’occasione nell’oggetto», Avalle si muove tra il micro-rilievo e la macro-indagine, scompone e ricompone le tessere sintattico-lessicali dando l’impressione di inverare, almeno nei risultati, la St/kr:-

tik. Le distanze dello strutturalismo italiano da quello francese sono già sufficientemente visibili. Matematizzante, a suo agio nella logica modale e fautore di un’ortodossia saussuriana che l’ha condotto spesso su posizioni antitetiche a quelle di Dante Isella nell’orientare la politica redazionale della rivista “Strumenti

critici”, Avalle resta aderente al testo

senza fare del fortuito il necessario né dimenticare quei ron-structural factors, quegli elementi di anomalia, di deviazione che parrebbero intaccare l’integrità normativa del sistema; al contrario dei francesi, accu-

sati giustamente da Derrida di occuparsi solo della coerenza del senso «riducendo al rango di accidente aberrante tutto quello che un tipo ideale non permette di comprendere», egli osserva i fenomeni di usura linguistica, di scarso rendimento funzionale dei segni anomali, di «involuzione entropica o inerzia» dei sistemi. Nel comitato direttivo di “Strumenti critici”, nucleo pulsante dello strutturalismo italiano a partire dal 1966, Cesare Segre si colloca invece al centro. Quando nel 1965 promuove un questionario sullo strutturalismo, ha alle spalle ricerche stilistiche e storico-linguistiche. Le sue ascendenze metodologiche rimontano a Rajna, al Bally convinto assertore dell’idea secondo cui studiare la valeur affective dello stile significhi dare del sistema linguistico un quadro meno rigidamente normativo, e infine a Benvenuto 267

L’idea di letteratura in Italia

Terracini, uno dei primi ad accorgersi da un lato del «rapporto tra la forma interna idealisticamente concepita e forme strutturali», dall'altro dei «notevoli

progressi» costituiti «dall’affacciarsi della critica storicistica a metodi strutturalistici» (B. Terracini, Stil: stica al bivio? Storicismo versus strutturalismo, 1975).

È evidente che tali ascendenze dovessero mal predisporre Segre verso il barthesismo e, più tardi, il decostruzionismo. Il prodigo consumo di tassonomie semiotiche viene dunque assoggettato a quel raziona-

mento delle risorse critiche che per Segre è innanzitutto una forma di rispetto verso l’autore, di cui il testo costituisce una responsabile emissione. Segni e sintomi, atti volontari e significati preterintenzionali riacquistano le giuste distanze. I codici sono costellazioni testuali precise oppure generi morfologici, per esempio il romanzo alessandrino che verrebbe parodizzato nella novella boccacciana di Alatiel (C. Segre, Le strutture e il tempo, 1974). L’idea stessa di semiotica evidenzia ben presto manovre epistemologiche di indubbia provenienza lotmaniana: non una holding disciplinare, come dirà polemicamente Avalle, bensì uno strumento per dominare la complessità

dei sistemi culturali. Acquisite le nozioni di segno, codice, circuito comunicativo con il loro corredo imprescindibile di distinzioni circa i tempi, i modi, i punti di vista della scrittura, già all’altezza dei Segni e la critica (1969) Segre configura l’immagine di un interprete che torni a interrogarsi non sulla letteratura in senso stretto, ma sulla funzionalità antropologica del linguaggio e dunque sulle ragioni che sollecitano una civiltà a mutare l’idea di canone, di valore estetico, di genere discorsivo. L’eredità torinese della scuola storica, 268

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

l’attenzione alla geolinguistica e una visione territoriale della cultura hanno aiutato Segre a depsicologizzare in un breve arco di tempo la ricerca delle fonti a vantaggio dell’intertestualità; ad asserire come necessaria (e basti pensare al volume prestrutturalista Lingua, stile e società) un’induzione dai materiali

linguistici all’interpretazione dei testi, che di lingua vivono e si nutrono; a ribadire infine che, al di là di

qualsiasi animismo referenziale, le “strutture” dei testi non hanno uno spessore ontologico, non distillano l’essenza della realtà ma costituiscono dei modelli descrittivi storicamente determinati e giudicabili sull’unica base della loro redditività operativa. Inattaccabile è risultato soprattutto il desiderio — cui Segre ha continuato a mantenere fede sino al recente Notizie dalla crisi — di attivare sempre e comunque la bipolarità della comunicazione, nel rispetto della nozione saussuriana di sistema differenziale, in cui la

Camera alta dell’autore si definisce solo in rapporto alla Camera bassa del lettore: era già una precoce risposta a quella che si sarebbe in seguito chiamata neoermeneutica. Così, mentre fervevano le polemiche contro un modello epistemologico accusato di ridurre la letteratura a poco più di un pretesto per la ricreazione

semiologica del savio, Segre metteva a frutto al tempo stesso un indubbio talento promozionale e una illuministica propensione

alla moderazione.

E se

ancora tra i libri idealmente acquistati da Arbasino nella sua celebre Gita a Chiasso (1963) non compare nessuno dei testi strutturalisti d’ordinanza, il vittorioso diffondersi del nuovo metodo è rinviato solo di poco. Bastino poche date: nel 1965 esce l’inchiesta su Strutturalismo e critica, nel 1966 appaiono in tra269

L’idea di letteratura in Italia

duzione Una teoria della prosa di Sklovskij, i Saggi di linguistica generale di Jakobson e Morfologia della fiaba di Propp, nel 1968 l’antologia dei Formalisti russi curata da Todorov. Certo lo storicismo italiano,

all’inizio soprattutto quello d’indirizzo marxista, si mostra renitente: tra tutti si può ricordare Romano Luperini (Le aporie dello strutturalismo e il marxi-

sm:0, 1968), preoccupato del declino della dimensione diacronica, della reificazione dei testi letterari in

patterns strutturali che pertengono solo al lettore, della «astrale distanza dalla realtà concreta». Tuttavia il clima era favorevole: persino Vittorini sul “Menabò” aveva scritto che la letteratura si riduce a fatto giornalistico qualora non abbia «che una manifestazione di signifié e se insomma prescinde dalla forza impegnativa del signifiant»; quanto a Debenedetti, mentre commemorava la morte del personaggio-uomo ironizzando sulla «scienza della letteratura» e i suoi «strumenti di superlativa ingegneria, corredati di pannelli, manometri, lampadine multicolo-

ri», introduceva al lettore gli Orecchini avalliani nella Biblioteca delle Silerchie. Più che incarnarsi in un procedimento di analisi, per molti strutturalismo e semiotica fungono da scudo anticrociano o conoscono usi impropri: tra questi va almeno rammentato il cinema espressionistico di Pasolini, in cui segno e realtà vengono identificati e collocati a fondamento di una «Semiologia del Linguaggio della Realtà» (1967). Sono tuttavia indubitabili i vantaggi derivati dal radicarsi in Italia di una forma mentis semiotizzante. Innanzitutto l’importazione della logica modale, del binarismo fonologico, di procedimenti di analisi morfologica facilitano per la prima volta nel nostro Paese un riavvicinamento 270

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

delle due culture: sia pure con molte forzature e qualche ingenuità, le discipline umanistiche riscoprono il valore della civiltà materiale e dei modelli scientifici,

così come

la teoria

dell’informazione

accompagna il definitivo imporsi dei mass media. Strutturalismo e semiotica, che rispettivamente dovrebbero corrispondere a un metodo e ad un ambito disciplinare, hanno valenze in ampia misura operative, istituiscono più una

strumentazione

professionale

che una Weltanschauung, e ne è una riprova il respiro felicemente breve delle analisi strutturaliste italiane: manca infatti da noi, al contrario della Francia, il

grande saggio monografico, e si moltiplicano invece le micro-applicazioni — si tratti di Montale (Avalle), di un sonetto foscoliano (Pagnini), di un romanzo paraletterario (Eco), del Decazzeron (Aldo Rossi, Segre). Gli ambiti maggiormente interessati sono

nell’ordine la filologia romanza e l’anglistica, mentre l’italianistica stenta a sprovincializzarsi e ad acquisire uno sguardo comparatistico. Il fatto che strutturalismo e semiotica talvolta interferiscano l’uno con l’altra è emblematico della situazione culturale italiana, in cui non per caso si radica più che in altre nazioni la scuola di Tartu, convinta, con Lotman, che la forza illocutiva di ogni asserzione si dissemini nel complesso campo pragmatico e culturale che circonda la parola. In questo caso non si tratta di fare «things with words» limitandosi a territori specifici del linguaggio, dai deittici ai predicati deontici, bensì di concepire la semiotica come una metadisciplina, una sorta di raccordo epi-

stemologico e insieme di strumento di critica sociale. Ed è proprio questa erma bifronte, alternante i volti di Peirce e di Adorno, a fungere da emblema della 271

L'idea di letteratura in Italia

via italiana alla semiotica e degli studi di Umberto Eco, il suo caposcuola dichiarato. Lo strutturalismo era nato per così dire in una cavità faringea, là dove s’incarnava un codice binario su cui si fondava la cultura stessa; ora, a distanza di quarant’anni, la semio-

tica attiva un moto di ascesa analitica che amplia gli orizzonti disciplinari sino a un volubile offuscamento in cui si trovano compresi tanto l’ingegneria del segno nel più elaborato dei testi letterari, quanto la cultura con le sue multistratificazioni. La scuola estone di Tartu, in collaborazione con la sezione slavisti-

ca dell’Accademia delle Scienze di Mosca, insegna a vedere nella cultura un’attività unitaria di produzione, scambio e conservazione dell’informazione, un

sistema dei sistemi che si «automodella come sfera della valorizzazione sociosemiotica contrapposta ai fatti e distinta dalle dinamiche sociali, poste in una “storia” non ancora testualizzata»; e riconosce nel

testo un modello del mondo, non una sequenza di segni bensì un segno integrale, primario e continuo — per esempio un atto giuridico, una tradizione folklorica, un’opera

letteraria.

Non

diversamente

Eco,

condotto a mantenere la priorità saussuriana della semiologia rispetto alla linguistica, fonda la prima sull’ipotesi che «la cultura sia essenzialmente un fatto di comunicazione, e che quindi ogni fenomeno di cultura possa essere studiato dal punto di vista dei processi comunicativi». Ineguagliato studioso delle comunicazioni di massa e fecondo lettore di Peirce — che aveva suddiviso il segno in una molteplicità di classi, per la precisione sessantasei — Eco sottolinea il primato dell’esperienza simbolica nell’esperienza umana, e in tal modo arriva ad affermare che quelli di cui siamo circondati non sono oggetti o eventi 272

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

materiali, bensì elementi segnici dotati di significato. «Non complicate strutture in legno» — spiegherà in seguito Paul De Man — «ma sedie e tavoli, non gesti fisici ma atti di cortesia e di ostilità». Se la realtà è un langage donné, tutto ci comunica qualcosa e dunque può mentirci («la semiotica è la disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mentire», scrive Eco nel Trattato di semiotica generale); d’altro canto la responsabilità di queste vorticose correnti di significato va ascritta a sistemi impersonali, i codici, che operano attraverso l’uomo e persino m4/grado l’uo-

mo: anche la letteratura fa parte di questo sistema interrelato di codici, e proprio la difficoltà di ascriverne la paternità all’autore rende vincolante il ricorso al lettore. In effetti è quest’ultimo a giocare un ruolo fondamentale nelle ricerche che Eco ha dedicato al linguaggio dell’arte — da Opera aperta (1962), in cui il ruolo dell’interprete veniva presupposto dalla morfologia stessa del testo, al saggio forse più importante, Lector in fabula (1979), dove la cooperazione

interpretativa dà luogo a un Modello semantico fondato sulle nozioni di «enciclopedia» (una complessa rete presupposizionale attivata dal lettore) e di «mondi possibili». Il rilievo assegnato alla ricezione ha, più di altri, messo al riparo Eco dalle critiche rivolte in seguito dalla pragma-linguistica agli studi semiotici, e a conti fatti il topos della prorzerade interpretativa ha concentrato in una penetrante miniatura il procedimento di definizione del suo metodo. Il segno è imperioso e ubiquitario, ma la sua autocrazia si rive-

la puramente illusoria, poiché siamo noi, attraverso complesse selezioni contestuali e circostanziali, ad attivarne le «procedure»: dalle «passeggiate inferen273

L'idea di letteratura in Italia

ziali» di Lector in fabula alle recenti Sei passeggiate nei boschi narrativi l'instabilità geografica dell’interprete e le sue convenzioni semiotiche fanno parte del «quadro generativo del testo stesso», soprattutto quando ci si trova nel campo anonimo della paraletteratura, di cui Eco è stato uno dei primi studiosi ita-

liani. Poco dopo la chiusura del Primo Congresso dell’Associazione Internazionale per gli Studi Semiotici (Milano 1974) egli era già in grado di compiere un provvisorio bilancio: Rivedendo a distanza il lavoro compiuto negli anni successivi a Opera aperta, da Apocalittici e integrati alla Struttura assente, e di lì attraverso Le forme del contenuto al Trattato di semiotica generale, mi rendo conto che

il problema dell’interpretazione, delle sue libertà e delle sue aberrazioni ha sempre attraversato il mio discorso,

soprattutto là dove «nel Trattato si affrontava la possibilità di un modello semantico in forma di enciclopedia che tenesse conto delle esigenze di una pragmatica».

Nell’epistemologia elaborata da Eco domina ben presto la serziosi illimitata di Peirce, cioè la necessità di ricorrere sempre di nuovo ad altri segni per interpretare un segno dato, dal momento che un lessema è una asserzione in germe, e le proposizioni rudimentali argomenti. Le cose dunque si complicano. La

parola? Un potenziale programma narrativo, un #besaurus di istruzioni semantiche. Il testo? Una «macchina pigra», un labirinto presupposizionale che «esige dal lettore un fiero lavoro cooperativo per riempire spazi di non-detto o di già-detto rimasti per così dire in bianco» (Lector in fabula). Di fatto,

ampliando il proprio campo sino a divenire la scien274

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

za della correlazione dei sistemi segnici, dalla lingua letteraria alla liturgia religiosa e all’abbigliamento, la semiotica depotenzia la forza predittiva — in altri termini la scientificità — dei suoi strumenti operativi e stenta inizialmente a trovare una stabile identità. Ancora sino al 1970, quando esce Metodi attuali della critica in Italia a cura di Cesare Segre e Maria Cor-

ti, regna una certa confusione circa le relazioni tra semiologia, strutturalismo e critica letteraria. Segre, con una formula rispettosa, attribuisce alla semiolo-

gia la funzione di «coordinare» le analisi della lingua e dello stile, non solo conciliandosi con lo strutturalismo ma «allargandone» le possibilità, poiché se la

critica strutturalistica considera «ogni singolo testo come un assoluto», «un’ottica di tipo semiologico raggruppa i rilievi in rapporto con la linea di polarizzazione significato-espressione» (I segrz e la critica).

Avalle entra ben presto in polemica con l’interpretazione «allargata» della semiotica, identificando in Jakobson il responsabile «del naufragio della semiotica, non ingiustamente accusata di fare della critica tutto sommato letteraria spargendo a piene mani nei propri testi termini confusamente mutuati dalle scienze della comunicazione»; alle tendenze pansemiotiche egli, attraverso Saussure e Benveniste, con-

trappone un'idea della semiologia come scienza della langue e dello strutturalismo come metodo di analisi della parole. Quanto a Umberto Eco (la cui influenza sugli studiosi americani risale almeno al 1976, anno in cui venne tradotto il Trattato presso l’Indiana University Press), ritiene che la semiotica debba «individuare il messaggio ai suoi diversi livelli» o strutture, enucleando «per ciascun livello un discorso proprio e 275

L’idea di letteratura in Italia

per tutti un metodo unitario onde collegarli tra loro». Una volta consumato questo compito, essa dovrebbe «lasciare spazio al giudizio critico oppure risolversi essa stessa in una vera e propria forma di critica sociale che demistifichi le convenzioni» su cui si fonda l’universo dei segni. Tale ampliamento non è senza rischi, e basta leggere le analisi dei romanzi popolari (dalle opere di Fleming ai Beati Paoli di Natoli) condotte da Eco per accorgersi come, a forza di ampliamenti successivi, la semiotica, e in partico-

lare quella letteraria, abbia spesso infranto la vitale distinzione tra significazione e comunicazione, tra ciò

da cui si può ricavare un senso e ciò che vuole comunicarlo. Un linguista avveduto come Georges Mounin ha riassunto apoditticamente tale differenza scrivendo che non tutto quello che significa comunica, mentre tutto quello che comunica significa, intendendo sottolineare che per Saussure le tre condizioni irrinunciabili per fare di qualcosa un segno erano l’impersonalità, la refrattarietà alle modificazioni individuali e, appunto, la volontà di comunicare. Sensibile al problema, Eco stesso ha giustamente soste-

nuto che comunicazione e significazione non designano oggetti di studio diversi ma gli stadi di una ricerca unitaria in cui si alternano processo e sistema,

messaggio e codice, parole e langue. È tuttavia lecito interrogarsi sugli effetti epistemologici indotti dalla rimozione del “terzo vincolo” saussuriano: quanto ha contato, per esempio in ambito letterario, il livellamento egualitario del significare e del comunicare? Come se non bastasse, l’uso indiscriminato dell’idea peirceiana di «abduzione» (l’insieme di illazioni prodotte dinanzi all’ignoto), il restringersi degli interessi semantici alle dimensioni intensionali, il dichiarare 276

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

extrasegniche le nozioni di vero e di falso hanno creato uno iato decisivo tra la letteratura e il mondo dei referenti; ne sono una riprova le indagini di Herman

Parret e l’orientamento

dell’ultimo Greimas,

che con la fondazione di una semiotica delle passioni hanno inteso immergersi nell’avani-coup du sens, labirinto «esistenziale e pulsionale» ancora renitente a organizzarsi in una morfologia e in una sintassi. Forse ha ragione chi, come Frank Kermode nel presentare al lettore americano un’opera di Pierre Guiraud, ha intravisto nella semiotica la fase ultima del

postsimbolismo, cioè del divorzio ambiguo e pietoso dell’uomo dalle cose. In questo senso Serziotica filologica di Cesare Segre (1979) ha cercato di fungere da correttivo di una situazione in cui l’autore emetteva segnali sempre più deboli, il testo si circondava di mura tangibili, le parole si votavano a un fatalistico esilio dal mondo. A partire dagli anni settanta, mentre la polemica sullo strutturalismo sembra aver esaurito le aree argomentative che l’avevano alimentata e il pensiero comincia a indebolirsi, oggetto della semiotica sono ormai le leggi che regolano una cultura, meglio ancora «il suo rapportarsi alla realtà attraverso la significazione e il suo perpetuarsi nella comunicazione dei propri significati» (Thomas A. Sebeok). La scoperta che tra un testo e la sua parafrasi l’invarianza non sia linguistica ma semiotica produce fervidi mutamenti nell’analisi letteraria. Gli standard intellettuali si elevano, e prima che i decostruzionisti - memori della semanalisi della Kristeva — ne mettano a nudo le aporie come ciò che, in ambito letterario, spiegherebbe le violazioni di un codice ricorrendo a un altro codice senza mai uscire da questa prigione di convenzio27%

L’idea di letteratura in Italia

ni, la semiotica conosce un’inattesa fortuna in ambi-

to teatrale, spesso reinterpretando i dati forniti dalla tradizione dei dramza-studies. L’utopia di autoistituirsi come raccordo interlivellare sembra finalmente prendere corpo in un modello di pidginizzazione testuale in cui interagiscono senza posa codici differenti — linguaggio verbale, prossemica, musica, accessori scenici, fisiognomica, illuminotecnica, trat-

ti paralinguistici. Il palcoscenico è il luogo sognato da sempre dai semiologi, dove tutto si fa segno, dove ogni cosa è e al tempo stesso s7gr2/ica, dove lo spreco semiotico diviene patente nella cosiddetta comunicazione obliqua, in base alla quale ogni parola scambiata ha un primo e un secondo ascoltatore (rispettivamente l’attore e lo spettatore). Così, soprattutto in Italia, il teatro diviene per la critica letteraria di orientamento semiotico l'occasione per studiare

unità complesse («segni di segni», come già li definiva il praghese Bogatyrév) entro insiemi dinamici di codici, e per misurarsi con il fenomeno dell’intertestualità. Comincia a discuterne la Kristeva come un modello di esproprio autoriale, dimostrando come le parole parlino in noi, ma vi ricorre soprattutto Bachtin, i cui testi cominciano

a circolare attivamente.

Già negli anni venti, in opposizione ai formalisti, egli aveva circoscritto analiticamente la natura pluridiscorsiva della lingua, che non può mai essere considerata un sistema astratto ma il luogo di confluenza di linguaggi settoriali, punti di vista socialmente diversificati, idioletti professionali. In fondo era una critica anticipata della semiotica: e sono in molti, negli anni settanta, a fare propria questa tendenza a ispessire storicamente il segno, vedendovi (come suggeriva VoloSinov in Marxismo e filosofia del lin278

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

guaggio, edito nel 1929 sotto l’influenza di Bachtin) un significato, stabile e identico a se stesso, e un

tema, costituito dall'insieme degli usi concreti cui il segno viene sottoposto nei vari contesti comunicativi. Ma in questo caso la lingua, più che essere un sistema di invarianti, acquisisce le caratteristiche di un processo generativo. Dilatandosi, il segno confonde la propria identità; intrecciandosi, i codici nebulizzano la perspicuità di quei confini che ne facevano dei systèrzes; «esplodendo», come dirà poi Lotman, intere strutture convenzionali divengono masse di detriti strutturate, aggregati selettivi di punti di vista, e cadono preda di

un caos che la linguistica saussuriana aveva appena immaginato. Peraltro, a complicare ancor più le cose giunge la rilettura degli atti linguistici austiniani, e con essa la pragmatica e l'indirizzo textlinguistico, indizi dell’inadeguatezza dello strutturalismo là dove presupponeva il testo avvolto in una glaciale, deliberata solitudine. Riprendendo da Wittgenstein l’idea di gioco linguistico (Sprachspiel), adesso de Beaugrande, van Dijk, Dressler, Harweg, Petòfi, Schmidt concepiscono il testo come un’azione comunicativa tematicamente orientata e dotata di un potenziale illocutivo riconoscibile, mentre ogni costituente linguistico è un insieme di istruzioni che vertono sulle azioni e gli orizzonti epistemici del lettore: la riscoperta della funzione persuasiva della retorica, la nozione di «struttura d’appello» elaborata da Iser e di «sillessi» formulata da Riffaterre vanno precisamente in questa direzione. Intorno al 1972, con una generosa dose di semioclastia, gli studiosi della Konstanzer Forschungsgruppe parlano per la prima volta della presenza nel279

L’idea di letteratura in Italia

le opere letterarie di Leerstel/len, punti vuoti in cui il testo manifesta la propria indeterminatezza e dove si cela una «struttura d’appello»: è in questi Leerste/ler che implode buona parte di quello che lo strutturalismo aveva rappresentato. La nouvelle critique aveva continuato ad alimentare il mito del Libro assoluto e autoriflesso: al contrario delle forme d’uso quotidiano del linguaggio (Gebrauchstexte), il testo strutturalista si era inventato un passato (genotesto) e un futuro (quello che Riffaterre ha chiamato il «codice a posteriori», il farsi istituzione della parole), sino a

diventare un «palinsesto» (G. Genette), cioè un modello di gemmazione autistica. Accusata di avere indotto nei processi comunicativi la dissoluzione incrociata dell'emittente e dei referenti estensionali,

l’attività strutturalista comincia a scomparire di scena o nel migliore dei casi a essere affiancata da un modo di concepire il testo radicalmente diverso, e sarà Paul Ricoeur a occuparsi della loro consensuale, benché precaria, conciliazione. Da un lato la descrizione strutturale, che considera il testo come un

oggetto chiuso e autonomo, scisso dalla sua fonte psichica e dal suo contesto; dall’altro l’appropriazione ermeneutica, che vede nel testo il risultato di un impulso vitale da restituire alla comunicazione viva,

«come compimento dell’intelligenza del testo in una intelligenza di sé». Tale alternativa segna anche un riaprirsi del divario tra scienze nomotetiche e scienze idiografiche, un divario che lo strutturalismo si era premurato felicemente di ridurre: e quando, tra gli altri, Arthur C. Danto e Hayden White operano una riabilitazione epistemologica della narrazione, dimostrando come il modello narrativistico non sia un

280

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo ornamento secondario rispetto alla formulazione di leggi generali, bensì la prima fase della spiegazione, poiché possiamo iscrivere un evento entro una legge generale solo se esso è già stato elaborato, tradotto e interpretato narrativamente (H. White, Metabistory, 1973),

persino l’analyse du récit — uno dei maggiori portati dello strutturalismo — deve riconoscere la propria insufficienza. Recentemente qualcuno ha scritto che di strutturalismo si è cessato di parlare non perché si sia smarrito di fronte alle immensità temporali che esso stesso, ed è agevole pensare a Lévi-Strauss, aveva dischiuso, ma in quanto la sua vittoria sarebbe stata definitiva: metabolizzato nel corpus di altre discipline, entrato nel sistema vascolare della riflessione critico-letteraria, non sarebbe più stato necessario discuterne. Tutti ne hanno tratto un tranquillo usufrutto: è un fatto che le distinzioni fabula/intreccio o denotazione/connotazione, il rilievo dato ai «procedimenti» costituiscono presupposti ineliminabili del r2étser interpretativo. Tuttavia è altrettanto vero che la constatazione appare troppo ottimistica, e lo stesso Segre considera

oggi l’identificazione dei dati strutturali come una prassi ineliminabile ma meramente preliminare alla comprensione dei testi. In realtà è mutato il modo stesso di concepire la letteratura. Derrida aveva avuto buon gioco nel 1967, pubblicando L’écriture et la différence, a vedere nello strutturalismo una coscienza storica «crepuscolare e decadente», poiché quando «la forma affascina, non si ha più la forza di comprendere l'energia che la istituisce». Come diranno in Italia alcuni intelligenti oppositori dello strutturalismo — tra gli altri Alfonso Berardinelli, Franco Brioschi e Costanzo Di Girolamo -—, il modello epistemologico 281

L’idea di letteratura in Italia

su base linguistica aveva legittimato un’idea di letteratura come inerte arsenale di oggetti ordinabili e catalogabili. In assenza di opere nuove e in un clima di deteriorato esaurimento, in cui la teoria della lettera-

tura sottraeva spazio alla letteratura stessa svolgendo un ruolo di razionalizzazione, il principio jakobsoniano della letterarietà aveva sancito la scomparsa del valore di verità dei testi. Al contrario, da molteplici direzioni si è giunti alla conclusione che invece di essere autotelico e autoriferito, il testo (ma alcuni

hanno cominciato significativamente a parlare di opera) rinvia addirittura a due ordini di fattori, i realia e

la tradizione. Il linguaggio del testo letterario si è fatto esoforico e centrifugo, ha ripreso a trascinare verso il contesto; la semantica, cioè i significati, sono torna-

ti sugli antichi sentieri dell’estensionalità; gli studi letterari non hanno disdegnato un fruttuoso eclettismo. Ma a quel punto più che asserti — come si voleva che fossero negli anni sessanta — le strutture sono diventate semplicemente marginali.

Bibliografia Volumi dedicati allo strutturalismo, cui si rinvia per ulteriori indicazioni bibliografiche: Centre International de Synthèse, Nozion de structure et structure de la connaissance, Michel, Paris 1957; Aa.Vv., Ust e significati del termine struttura, a c. di R. Bastide, trad. it., Bom-

piani, Milano 1965; Aa.Vv., Qu’est-ce que le structuralisme?, Seuil, Paris 1968; J. Piaget, Lo strutturalismo, trad. it., il Saggiatore, Milano 1968; Aa.Vv., Structuralism. A Reader, a c. di M. Lane, Routledge and Kegan 282

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo Paul, London 1970; J. Ehrmann (a c. di), Structuralisra, Doubleday, Garden City 1970; R. Boudon, Strutturalism0 e scienze umane, trad. it., Einaudi, Torino 1970; P. Delattre, Systèrze, structure, fonction, évolution: essai

d’analyse épistémologique, Doin, Paris 1971; R. Scholes, Structuralism in Literature. An Introduction, Yale University Press, New Haven 1974; F. Dosse, Histoire du

structuralisme, vol. 1: Le champ du signe, e vol. I: Le chant du cygne, La Découverte, Paris 1991-92. Per l’Italia si rinvia alle bibliografie su “Letteratura e semiologia in Italia” contenute nella rivista “Strumenti critici” a partire dal n. 20 del 1973 e ai seguenti volumi: d'Arco Silvio Avalle, L'analisi formale in Italia. Formalismo, strutturalismo, semiologia, Ricciardi, Milano-Napoli 1970; L. Rosiello, Letteratura e strutturalismo, Zanichelli, Bologna 1974; G. Proverbio (a c. di), Studi sullo strutturalismo, 2 voll., Sei, Torino 1976; G.P. Caprettini (a c.

di), Letteratura e semiologia in Italia, Rosenberg & Sellier, Torino

1979; P. Orvieto, Teorie letterarie e me-

todologie critiche, La Nuova Italia, Firenze 1981; M. Mincu, La serziotica letteraria in Italia, Feltrinelli, Milano 1982; G.P. Caprettini, Le strutture e i segni. Dal formalismo alla semiotica letteraria, in A. Asor Rosa (a c. di), Letteratura italiana, vol. IV: L’interpretazione, Einaudi, Torino 1985; C. Segre, (a c. di), Strutturalismo e critica, il Saggiatore, Milano 1985 (rist. dell’inchiesta apparsa nel 1965); C. Segre, Avviamento all'analisi del testo letterario, Einaudi, Torino 1985; U. Eco, I lirziti dell’interpretazione, Bompiani, Milano 1991; E. Biagini, Puntare sui segni (1963-1993), in A. Dolfi, C. Locatelli (a c. di), Retorica e interpretazione, Bulzoni, Roma 1994; G. Leonelli, La critica letteraria in Italia (1945-1994), Garzanti, Milano 1994. Una posizione polemica rispetto alla semiotica italiana è assunta da d’Arco Silvio Avalle

in Dallo strutturalismo alla semiologia. Questioni terminologiche, contenuto nella silloge Teoria e critica letteraria oggi, a c. di R. Luperini, Franco Angeli, Milano 1991 ì

283

L’idea di letteratura în Italia

(ristampato nel recente Ferdinand De Saussure fra strutturalismo e semiologia, il Mulino, Bologna 1995). Il riferimento a C. Guillén, L’uro e il molteplice. Introduzione alla letteratura comparata, trad. it., il Mulino, Bologna 1992, va inteso alla parte I del volume. e Sul Circolo linguistico di Praga: Le tesi del ’29, trad. it., Silva, Milano 1966 (e poi Guida, Napoli 1979; P.L. Garvin (a c. di), A Prague School Reader on Esthetics, Literary Structure, and Style, Washington 1964; J. Vachek,

The Linguistic School of Prague, Bloomington-London 1966; H. Giinther, Struktur als Prozess: Studien

zur

Astbetik und Literaturtheorie des tschechischen Strukturalismus, Fink, Minchen 1973; R. Jakobson (a c. di), N.S. Trubetzkoys Letters and Notes, Mouton, The

Hague 1975; L. Matejka (a c. di), Sound, Sign and Meaning: Quinquagenary of the Prague Linguistic Circle, Michigan Slavic Pubns., Ann Arbor 1978; K. Chvatik, Tschechoslowakischer Strukturalismus: Theorie und Geschichte, trad. ted., Fink, Minchen 1981; P. Steiner, M. Cervenka, R. Vroon (a c. di), The Structure of the

Literary Process: Studies Dedicated to the Memory of Felix Voditka, John Benjamins, Amsterdam 1982; F.W. Galan, Historic Structures. The Prague School Project, 1928-1946, University of Texas Press, Austin 1984.

e Sui formalisti russi, dopo il volume classico di V. Erlich, Il formalismo russo, trad. it., Bompiani, Milano

1966, sono apparse, tra le altre, le indagini di E. Thompson, Russian Formalism and Anglo-American New Criticism: A Comparative Study, Mouton, The Hague 1971; A. Hansen-Léwe, Der russische Formalismus: Methodo-

logische Rekonstruktion

seiner Entwicklung aus dem

Prinzip der Verfremdung, Wien 1978; R.L. Jackson, S.

Rudy (a c. di), Russian Formalism: A Retrospective Glance, Yale University Press, New Haven 1985; P. Steiner, I/ formalismo russo, trad. it., il Mulino, Bologna 1991; J. Striedter, Literary Structure, Evolution and Value. Rus-

sian Formalism and Czech Structuralism Reconsidered, 284

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1989; è ormai conosciuta la svolta revisionistica di Tz. Todorov in Critica della critica, trad. it., Einaudi, Torino 1986.

Molto utile la raccolta di contributi del primo formali smo russo (inediti in Italia), R. Platone (a c. di), Saggi russt di teoria letteraria, La Nuova Italia Scientifica, Roma

1995, mentre per una ricostruzione del pensiero di Jakobson ci si può avvalere di E. Holenstein, Roman Jakobson's Approach to Language: Phenomenological Structuralisri, Michigan Slavic Pubns., Ann Arbor 1976.

e Sul declino dello strutturalismo: R. Macksey, E. Donato (a c. di), La controversia sullo strutturalismo. I

linguaggi della critica e le scienze dell’uomo, trad. it., Liguori, Napoli 1975; J. Culler, Structuralist Poetics, Routledge and Kegan Paul, London 1975; Th.A. Sebeok (a c. di), Tbe Tell-Tale Sign. A Survey of Semiotics, Peter de Ridde, Lisse 1975; M. Krieger, L.S. Dembo (a c. di), Directions for Criticism. Structuralism and Its Alternatives, University of Winsconsin Press, Madison 1977 (in

particolare il contributo di H. White, The Absurdist Moment in Contemporary Literary Theory); G.P. Caprettini, Aspetti della semiotica. Principi e storia, Einaudi, Torino 1980; T.K. Seung, Structuralism and Hermeneutics, Columbia University Press, New York 1980; J. Culler, The Purswit of Signs. Semiotics, Literature, Deconstruction, Routledge and Kegan Paul, London 1981; D.W. Fokkema, I. Kiinne-Ibsch, Teorze della letteratura del XX secolo, trad. it., Laterza, Bari 1981; F.

Jameson, La prigione del linguaggio. Interpretazione critica dello strutturalismo e del formalismo russo, trad. it., Cappelli, Bologna 1982; Id., The Ideologies of Theory: Essays 1971-1986, vol. n: Syntax of History, University of Minnesota Press, Minneapolis 1988; A. Garcia Ber-

rio, Teoràa de la literatura. La construcciòn del significado poético, Càtedra, Madrid 1989; L. Dolezel, Poetica occidentale. Tradizione e progresso, trad. it., Einaudi, Torino 1990, da affiancare a W. Iser, Prospecting: From Reader

285

L’idea di letteratura in Italia

Response to Literary Antbropology, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 1989 e M. Riffaterre, Fictional Truth, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1990. Cito infine H. White, Metabistory, The Sohns Hopkins University Press, Baltimore 1973. Per l’aspetto linguistico del problema essenziale risulta G. Lepschy, Bilancio dello strutturalismo, in Intorno alla linguistica, a c. di C. Segre, Feltrinelli, Milano 1983; Aa.Vv., Théories du langage. Théories de l’apprentissage. Le débat entre J. Piaget et N. Chomsky, a c. di M. Piattelli Palmarini, Seuil, Paris 1979; C. Hagège,

L’uomo di parole. Linguaggio e scienze umane, trad. it., Einaudi, Torino 1989. L’epoca di transizione dal close reading strutturalista al reading response decostruzionista è fotografato, per quanto riguarda gli Stati Uniti, da R. Ceserani, Viaggio nella critica americana, Ets, Pisa 1984 e da F. Lentricchia, After tbe New Criticism, Chicago University Press, Chicago 1980.

e Sul dibattito ideologico in Italia si possono vedere almeno G. Dorfles, Estetica strutturalista e linguaggio, in “Sigma”, n. 7, 1965; P. Raffa, Estetica semiologica, linguistica e critica letteraria, in “Nuova corrente”, n. 36, 1965; L. Anceschi, Lo strutturalismo linguistico, in “il Verri”, n. 24, 1967; G. Della Volpe, Critica dell'ideologia contemporanea, Roma 1967; U. Eco, La struttura assente,

Bompiani, Milano 1968; G. Bàrberi Squarotti, Prevaricazione ideologica e “strutturalismo”, in “Nuova corrente”,

n. 46-47, 1968; R. Luperini, Le aporie dello strutturali smo e il marxismo, in “Problemi”, va, 1968; F. Curi, Retorica, strutturalismo, fenomenologia, in “Lingua e Stile”, n. 3, 1969; M. Guglielminetti, Le “nuove frontiere” dello strutturalismo, in “Nuova corrente”, n. 49, 1969; S.

Timpanaro, Lo strutturalismo e i suoi successori, in Sul materialismo, Nistri-Lischi, Pisa 1970.

Per quanto riguarda la fase di declino, l’ipotesi sulla fine “gloriosa” dello strutturalismo di cui si fa parola in questo contributo si può leggere in C. Segre, Notizie dal286

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo la crisi, Einaudi, Torino 1993, mentre la contestazione

dell’idea di letterarietà cui si allude poco oltre è contenuta in A. Berardinelli, I/ critico senza mestiere. Studi

sulla letteratura oggi, il Saggiatore, Milano 1983; F. Brioschi, La zappa dell'impero. Problemi di teoria della letteratura, il Saggiatore, Milano 1983; C. Di Girolamo, Interpretazione e teoria della letteratura, in C. Di Girolamo, A. Berardinelli, F. Brioschi, La ragione critica, Einaudi, Torino 1986. Sull’inizio della fine dello strutturalismo in Francia si veda invece R. Barthes, L’avventu-

ra semiologica, trad. it., Einaudi, Torino 1991 e le pagine di C.M. Cederna che introducono il volume. ® Una recente focalizzazione critica sull’idea di “sistema?” è quella di M.V. Dimié, Polisystem Theory, in LR. Makaryk, Encyclopedia of Contemporary Literary Theory, University of Toronto Press, Toronto 1993, mentre per un'applicazione storica ci si deve rifare a uno dei fondatori della pragmatica, S.J. Schmidt, Die Selbstorganisation des Sozialsystems Literatur im 18. Jabrbundert, Suhrkamp, Frankfurt 1989; sul problema della referenzialità letteraria dimenticata dallo strutturalismo cfr. N. Goodman, Realisra, Relativism and Reality, in “New Literary History”, xIV, n. 2, 1983 ed E. Ibsch, “Facts” in the Empirical Study of Literature, in “Poetics”, 18, 1989;

in molti casi, alla base di queste riflessioni c’è Ju. Lotman, per esempio La serziosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, a c. di S. Salvestroni, Marsilio, Venezia 1985. Quanto alla narratologia, si è pluralizzata in almeno due tipologie di ricerca: da un lato la critica tematica, attenta all’identificazione delle unità minime (i

«temi» appunto), per la quale si vedano i numeri monografici di “Poétique”, n. 64, 1985, “Communications”, n. 47, 1988, “Strumenti critici”, IV, n. 2, 1989. Dall’altro le

ricerche su singoli aspetti del testo, dalla focalizzazione alle isotopie, per cui si vedano come esempi H. Parret, H.-G. Ruprecht (a c. di), Exigences et perspectives de la Sémiotique, John Benjamins, Amsterdam 1985; M. Bal, 287

L’idea di letteratura în Italia

Narratology: Introduction to the Theory of Narrative, University of Toronto Press, Toronto 1985; M. Wallace, Recent Theories of Narrative, Cornell University Press,

Ithaca 1986. e Quanto

ai recenti contributi sul rapporto tra semiotica e pragmatica — un tema affrontato per tempo

in Italia da M. Pagnini, Pragmatica della letteratura, Sellerio, Palermo 1980 — cfr. H. Parret, Sezioties and Pragmatics. An Evaluative Comparison of Conceptual Frameworks, John Benjamins, Amsterdam 1983; U. Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino 1984; E. Garroni, Serso e paradosso, Laterza, Roma-Bari

1986; The Pragmatic Perspective. Selected Papers from the 1985 International Pragmatics Conference, a c. di J. Veschueren, M. Bertuccelli-Papi, John Benjamins, Amsterdam 1987; F. Rico, Pragmàtica y construcciòn litera-

ria. Discurso retòrico y discurso narrativo, Universitad de Alicante, Alicante 1988; R.D. Sell (a c. di), Literary Pragmatics, Routledge and Kegan Paul, London 1991. Per una riflessione più generale cfr. E. Biagini, Puntare sui segni (1963-1993), in A. Dolfi, C. Locatelli (a c. di), Retorica e interpretazione, Bulzoni, Roma 1994.

In Italia, indirizzo pragmatico e ricezione dell’opera bachtiniana sono andati di pari passo, contrapponendosi lentamente allo jakobsonismo (esemplificato in questo senso dal volume dello stesso R. Jakobson, Poetica e poesia. Questioni di teoria e analisi testuali, Einaudi, Torino 1985): cfr. V.V. Ivanov, J. Kristeva et 41, Michail Bachtin. Semiotica, teoria della letteratura e marxismo, a c. di A. Ponzio, Dedalo, Bari 1977.

Rispetto alle idee confusamente pansemiotiche elaborate dal tardo strutturalismo francese — di cui si può assumere a campione ]. Kristeva, La sénziologie: science critique et/ou critique de la science, in Aa.Vv., Théorie d’ensemble, Seuil, Paris 1968 — molto più rigorosa (benché favorevole a un’idea allargata di «codice», che l’ha condotto a una serrata polemica con il New Criticism)

288

Conclusione. I pronipoti dello strutturalismo

la proposta di D.W. Fokkema, Comparative Literature and the New Paradigmi, in “Canadian Review of Comparative Literature”, IX, n. 1, 1982.

Sulla semiotica del teatro rinvio alla bibliografia contenuta in K. Elam, Serziotica del teatro, il Mulino, Bolo-

gna 1988; sul narrativismo di Danto e White si possono vedere R. Koselleck, W.D. Stempel (a c. di), Geschichte,

Ereignis und Erzahlung, Fink, Munchen 1973 e M. Ferraris, Storia dell'ermeneutica, Bompiani, Milano 1988.

Nel corso del capitolo sono infine citati alcuni testi fondamentali dello strutturalismo, in particolare d'Arco Silvio Avalle, “GU orecchini” di Montale, il Saggiatore, Milano 1965; R. Barthes, Elerzenti di semiologia, trad. it., Einaudi, Torino 1966; G. Genette, Figure. Retorica e strutturalismo, trad. it., Einaudi, Torino 1969; C. Segre, I segni e la critica, Einaudi, Torino 1969; T. Todorov, Graimmaire du Décaméron, Mouton, The Hague-Paris 1969; R. Barthes, $/Z, trad. it., Einaudi, Torino 1973; C.

Bremond, Logigue du récit, Seuil, Paris 1973; C. Segre, Le strutture e il tempo, Einaudi, Torino 1974; L.T. Hjelmslev, Saggi di linguistica generale, trad. it., Pratiche, Parma 1982; R. Jakobson, C. Lévi-Strauss, “Les chats” de Charles

Baudelaire (1962), trad. it:, in R. Jakobson, Poetica e poesta. Questioni di teoria e analisi testuali, Einaudi, Torino

1985.

289

LI

@

3 Ù-
Ae

Indice dei nomi

Abrams M. H., 126 Adorno Th., 98, 271

Asor Rosa A., 206, 213, 214, 283

Agamben G., 167 Agosti S., 205

Auerbach E., XVII, XXI

Agostino, sant’, 12, 13, 15,30

Austin J. L., 132

Augieri C.A., 189 Avalle d’A. S., 197, 246, 266-268, 271, 275,

Aguzzi Barbagli I., 67

283, 289

Alberti L. B., 30, 37-39

Azzolini P., 111

Alessio G.C., XXI Alfieri V., 106-110, 194,

d07 Alfonzetti B., 183 Allegretti V., 35 Alonge R., 183 Amigoni F., 167 Anceschi L., 286 Anglani B., 111 Anselmi G.M,, 61 Antonelli R., 206 Antonielli S., 198

Bachtin M. M., 236, 238,

Apel K.O., 51 Apostolo A. L., 129

Barenghi M., 223

PASTO Bal M., 287

Baldassarri G., 60

Bally Ch., 267 Balzac H. de, 192 Barafiski Z.G., XXI Barbaro E., 31-33, 42 Bàrberi Squarotti G., 18, 286 Barthes R., VII, 220, 249-

Arato F., 176 Arbasino A., 269 Aricò D., 74 Ariosto L., 90 Aristotele 12, 32, 41, 43, 53-55, 63, 64, 67, 68, 84, 89, 91, 243 Ascoli G. I, 164

DIdle255 287, 289

260.262,

Basile B., 60 Bastide R., 243, 282 Batteux Ch., 151 Battistini A., 99, 117 Bausi F., 35, 44 Beaugrande R. A. de, 279 291

L’idea di letteratura în Italia

Borghesi A., 198

Beccaria C., xII, 100, 1025045351 Beccaria G.L., 111 Bédier J., 256, 265 Bellini E., 60, 74, 80, 92

Borsellino N., XXI, 152, 183, 198

Bossuet ].-B., 131 Boudon R., 283 Bouhours D., 86 Bourdieu P., 143 Bova A.C., 127 Bracciolini P., 37 Bragantini R., 27

Belloni G., 51 Bellucci L., 168 Belpoliti M., 223, 224 Bembo P., 46-51 Benedetti C., 214, 220, 224 Benveniste E., 245, 275

Branca V., 26, 27,43, 44,

Berardinelli A., XI, 189,

Brecht B., 178 Breitinger ]. J., 87 Breme L. di, 120, 125,

19 SZ 281, 287

DIL

222255

Berchet G., 113 Berlin I., 99 Bertone G., 223, 224 Bertoni A., 168

126

Bremond C., 260, 262 Brioschi F., 127, 189, 281, 287 Briosi S., 51, 223 Brugnoli G., XIX Brunetière F., 158 Bruni F., 26

Bertuccelli-Papi M., 288 Bettinzoli A., 44 Biagini E., 105, 288 Bigazzi R., 160

Bigi E., 105, 127

Bruni L., 30, 37 Bruno G., 31, 62, 83

Binet A., 181 Biondi M., 189

Bruno R., 176 Buck A., 74

Blanchot M., 251, 255 Bo:C.,:189 Boccaccio G., 20-25, 38-

Bodmer ].]., 87

Buhler K., 205 Burke E., 65, 108, 116 Burlini Calapaj A., 92

Boezio S., 13

Buyssens E., 254

Bogatyrév P., 278 Boileau N., 86 Boine G., 185 Bologna C., 51 Bolzoni L., 52, 67 Borges J. L., VII

Byron G.G., 126, 139

40, 47, 49

Caloprese G., 83, 95 Calvino I, xm, 208, 211, 215-219, 221-223, 260 Calzabigi R., 109 292

Indice dei nomi

Cangrande

della

Chvatik K., 284

Scala,

Ciampoli G., 76

XV, XIX

Cantelli G., 99

Cicerone, 13, 15, 29, 30,

Capati M., 206

38, 49

Capecchi G., 168 Caponigri A.R., 99

Citton G., 198

Capovilla G., 167

Caprettini G.P., 283, 285

Colummi Camerino M.,

Capuana L., 145, 153-159, 179

Comparetti D., 164

Coleridge S.T., 118 138

Condillac E.-B., 100-102,

Capucci M., 92 Cardini F., 60 Cardini R., 44 Carducci G., 164, 184,

130

Consoli D., 85 Contarini S., 117 Conte G., 74 Contini G., XXI, 170,

186

Cartesio R., 91, 94, 243 Cases C., 218 Cassirer E., 226 Castelli E., 74 Castelvetro L., 53, 55,

175 RLS9MI99I201 203, 204, 212, 213,

266 Coppini D., 35 Corneille P., 84 Corsinovi G., 183 Cortesi P., 33, 40 Corti M., 266, 275 Costa G., 61 Costanzo M., 80 Cotrone R., 117 Cottignoli A., 92, 145 Cousin V., 130, 134 Crescimbeni G.M., 84 Croce B., 63, 77, 146,

63, 64 Catone, XIV

Cattaneo C., 142 Cecchi E., 74 Cecchi O., 198 Cederna C.M., 287 Cellerino L., 127 Cerami V., 214 Cerisola P.L., 167, 168 Cervenka M., 284 Cesarini Martinelli L., 44 Cesarini V., 76 Ceserani R., 286

152, 166, 169, 171-

174, 184, 201, 205 Croce F., 74, 80

Cesi F., 77

CullerJ., 263, 285

Chiampi J.T., 19 Chiappelli F., 58, 60

Curi F., 189 Curtius E. R., 226, 264 Cuvier G.-L., 258

Chomsky N., 227, 243, 245, 246 293

L'idea di letteratura in Italia

D’Acunto G., 99 D'Angelo P., 175 D'Annunzio G.,

Donato E., 285

169,

Dondoli L., 176 Dorfles G., 286 Dosse F., 283

171, 186

Daniello B., 54 Dante, XII, XV-XIX, XXI,

Dostoevskij F., x

PB ZAINI! 69, 88, 95, 106, 108, 164, 201, 202, 218 Danto A. C., 280, 289

Dressler W.U., 279 Dupront A., 92

De Gubernatis A., 129

Earnshaw S., 85

De De De De De

Eco. U. 27224622555 286, 288

Dotti U., 18, 44

Durling R., 60

Man P., 273 Martino G., 92 Matteis C., 206 Meis C., 156 Sanctis F., 136, 146149, 151, 184 Debenedetti G., 109, 1159

RE60

Ehrmann J., 283 Ejchenbaum B., 233 Elam K., 289 Erlich V., 284

Ermogene di Tarso, 64 Erspamer F., 60

167,

I75T 18251 SSREL90= 198, 203, 270

Falaschi G., 223 Faldella G., 202 Faulkner W., 196 Fauriel C., 128 Ferrario E., 183

Delattre P., 283 Della Terza D., 74, 175

Della Volpe G., 286 Dembo L.S., 285

Ferraris M., 92, 289 Ferratini P., 167 Ferretti G.C., 223

Democrito, 64

Derrida J., 267, 281 Di Benedetto A., 111 Di Blasi C., 159 Di Girolamo C., 189,

Ferrucci C., 127 Ficino M., 34, 39, 62 Flasch K.M., 27

281, 287

Dijk T.A. van, 279 Dimi& M.V., 287

Fleming 276 Floriani P., 51 Fogazzaro A., 171

Dionisotti C., 44, 51

Fokkema

Diderot D., 65, 104

Doglio M.L., 74

D.W.,

289

Dolezel L., 285

Folena G., 74 Folengo T., 187, 202

Dolfi A., 283, 288

294

285,

Indice dei nomi

Gioanola E., 183 Gioberti V., 147 Giordani P., 114, 123 Giovenale, XIV Girardi E.N., 138, 175

Formigari L., 105, 138 Forni P.M., 27 Forster E. M., 264 Fortini F., 185, 213

Foucault M., 247 Fracastoro G., 62 Francioni G., 105

Giusti G., 135, 136 Givone S., 117, 127 Gobetti P., 111 Godel R., 243 Godman P., 44, 45

Franzini E., 105 Frare P., 74 Freud S., 194

Goethe J.W. von,

Frigessi D., 223 Frugoni A., XIX

114,

226, 258

Frye N., 84, 227

Galilei G., 29, 47, 218

Goldin D., XXI Goletti G., 19 Golino E., 213 Gombrich E.H., 90, 92 Goodman N.., 287 Gorni G., XXI Gorret D., 111 Gozzano G., 186, 187

Garboli

Gravina

Fubini M., 92, 105, 152

Fumaroli M., 80 Furetière A., 193

Gadda C. E., 201, 212 Galan F.W., 284

C., 162,

168,

G., 81-85,

94,

95

198, 223

Garcia Berrio A., 285

Gardair J.-M., 183

Greimas A. J., vm, 248, 260, 262, 263, 277

Gardair M., 74 Garfagnini G.C., 35

Grignani M.A., 214 Gronda G., 85

Garin E., 33, 44 Garroni E., 288

Guarini B., 68

Garvin P.L., 284

Guglielmi G., 152, 183,

Gueglio V., 189

Gaspari G., 92 Genette

189

G., 249,

PAAME25: 280, 289

Guglielminetti M., 286 Guglielmo di Moerbeke,

250,

2260); 262;

12 Guillén C., 226, 284

Gensini S., 127 Gerosa P.P., 18 Giammattei E., 175 Gilio G. A., 71 Gilson ÈÉ., XXI

Guiraud P., 277 Giinther H., 284

Hagège C., 250, 286 295

L’idea di letteratura in Italia

Haller A. von, 91 Hansen-Lòwe A., 284 Harris Z.S., 248 Haydée Lase N., 75

Jung C.G., 194

Hayden W., 280

Kermode F., 277 Kessler E., 18

Hegel G.W.F., 118, 147,

Kipling R., 185

149, 150

Heller E., 197 Hempfer K.W., 67

19, 52,

Herder J.G., 98 Hitchcock A., XI Hjelmslev L.T., 243, 245,

Kirkham V., 27 Koehler E., XI Koselleck R., 289

Krieger M., 285 Kristeva J.,277, 278, 288 Kròmer W., 111

Kiinne-Ibsch I., 285

289

Hofmannsthal

Kant I., 116 Karcevskij S., 227

H.

von,

161

Holenstein E., 285

Hopkins G.M., 233

La Brasca F., 44 Lachmann K., 199

Horkheimer M., 98 Humboldt W. von, 98,

Land N.E., 52 Landino C., 38, 39, 42, 44

113 Hume K., 223

Lane M., 282 Lanza A., 35

Ibsch E., 287

Lattanzio, 11 Lattarulo L., 189 Lauretta E., 183 Lavagetto M., 27, 190, 198

Laplace P.-S. de, 199

Ignazio di Loyola, 95 Isella D., 206, 267 Iser W., 279, 285

Ivanov V.V., 288

Leinkauf Th., 67

Jackson R.L., 284 Jager H.W., 111 Jakobson R., vi, 140, 226, 227, 231-233,

Lemene F., 89

Lentricchia F., 286 Leonelli G., 167, 283

Leopardi G., 114, 118-

236-242, 246, 254,

126

Lepschy G., 286

270, 275, 284, 285, 288, 289

Lévi-Strauss C., 241-

244, 248, 258, 259,

Jameson F., 159, 285 Jauss H.R., XXI

281

296

Indice dei nomi

Mastrocola P., 19

Liguori A. de’, 85 Locatelli C., 283, 288 Locke J., 130, 134 Lomonaco F., 85 Lonardi G., 138

Matejka L., 284 Mattesini F., 198

Mattioda E., 111 Mazzacurati G., 44, 50,

Longhi R., 202, 209

51, 183 Mazzamuto P., 159 Mazzarella A., 127 Mazzoni I., 69 Mazzotta G., XXI

Lotman Ju. M., 265, 271, 279, 287 Lubac H. de, xx1 Lucano, XIV Luciani E., 18 Luciani P., 152 Lugnani L., 52, 214 Luhmann N,, 81 Luperini R., 270, 283,

Medici G. de’, 47 Medici L. de’, 41 Menapace-Brisa L., 67

Mengaldo P.V., XxI, 194, 198, 204, 206, D152253

286 Luti G., 152

Merleau-Ponty M., 103 Mesoniat C., 19, 26 Metz Ch., 210 Mezzadroli G., 206 Milanini C., 223 Milioto S., 183 Miller C., 99

Macchia G., 182, 183 Machiavelli N., 106 Macksey R., 285 Macrobio, 25 Madrignani C., 159 Maggi C.M., 89 Maggi V., 53 Makaryk I.R., 287 Manferdini T., 138 Manzoni A., XI, 117,

Mincu M., 283

Minnis A.J., XXI Minturno A., 49

Moggio dei Moggi, 17 Monasdn S., 99 Moncagatta M., 74 Mondadori A., 196, 197 Mondaton A., 51 Mondello E., 23 Montaigne M. de, 186,

128-137, 144, 196

Marchi M., 214 Marinari A., 152 Marino G.B., 79 Martano G., 99 Martelli M., 45 Martellotti G., 26

190, 194

Montale

E., 199, 266,

271

Martinet A., 243, 245

Monti C., 167 Mooney M., 99

Mascardi A., 76 Masoero M., 61 297

L'idea di letteratura in Italia

Morpurgo Tagliabue G.,

Pascoli G., 162-166, 171,

Mounin G., 276

Pascucci G., 44 Pasolini P.P., x, 207-214,

74

Mukarovsky I., 228, 229 Muller M., 165 Muratori L.A., 86-92, 94 Muscetta C., 152 Musil R., 203

Mutterle A.M., 117 Nardi B., XXI Nava G., 224

Negri A., 127 Neumann G., 111 Neumeister S., 127 Nietzsche F., 259

Nigro S.S., 138

Ogden Ch.K., 261 Ohly F., XXI Oldrini G., 152 Oliva G., 160 Omero, XIV; 25, 38, 39,

185, 190, 195, 203, 210

20

Patrizi F., 62, 63, 65, 66 Pazzi A. de’, 53 Pedullà W., 198, 213 Peirce Ch. S., 161, 254, 271,272, 274

Pellegrino C., 69

Pellegrino P., 176 Pennings L., 206 Pépin J., XXI Perniola M., 176 Perosa A., 44 Perugi M., 164, 167

PetòfiJ.S., 279

Petrarca F., xI, 11, 13-18, 22, 31, 38, 40, 47, 49, 201-203 Petrocchi G., 127, 138 Pia M.G., 85

Ovidio, XIV, 24, 220

Piaget J., 247, 282 Piattelli Palmarini M., 286 Piccolomini M., 85 Pico della Mirandola G.,

Padoan G., 26

Picone M., XXI, 160

Palermo A., 145, 160 Pallavicino P.S., 76-79

Pigna G. B., 55 Pindaro, 122 Pirandello L., 171, 177-

88, 95, 98, 106 Orazio, XIV, 38, 53

Orvieto, P., 26, 283

28, 31-34

Pagnini M., 271, 288

Paparelli G., XXI

179, 1514026455

Pirodda G., 145 Pizzuto A., 202 Plaisance M., 44 Plastina S., 67

Paris G., 265

Parker D., 44 Parret H., 277, 287, 288 Pascal B., 128

298

Indice dei nomi

Platina, Bartolomeo Sacchi detto, 37 Platone, 33, 64 Platone R., 285 Plotino, 13 Plutarco, 64 Poincaré ].-H., 178 Poliziano A., 33, 36-38, 40-44, 50

Riccardi C., 138 Richards L.A., 261 Ricogf,.15,-35; d/n42; 45, 288

Pomponazzi P., 47 Ponzio A., 288 Pozzi M., 51

Robbe-Grillet A., 253 Robortello F., 53, 55, 84 Roda V., 168 Romagnoli S., 105, 152

Prete A., 127 Propp V.J.,

Ricoeur P., 247, 280 Riffaterre M., 279, 280,

286 Rigoni M.A., 127 Ripamonti G., 131

vi,

256,

258, 262, 270 Proust M., 153,

Ronconi G., 18 Rosenkranz K., 151

190,

Rosiello L., 105, 266, 283

209, 250 Proverbio G., 283

Rosmini A., 130, 137

Puoti B., 146

Rossetti E., 160 Rossi A., 271 Rossi M., 152

Ross J.F., XXI

Pupino A.R., 138, 205 Puppo M., 127

Rousseau J.-J., 98, 243 Rousseau J., IX Rousset J., 248 Rudy S., 284

Quaglia P., 145 Quintiliano, 40 Quondam A., 85

Ruprecht H.-G., 287 Racine J., 114, 250

Saba U., 190 Sainte-Beuve Ch.-A. de,

Raffa P., 286 Raimondi E., 60, 74, 80, age

ol 17=

153, 203

127,

Salutati C., 29, 30, 37 Salvestroni S., 287 Sansone M., 138 Santagata M., 16, 19, 52,

138, 189 Rajna P., 267 Rak M., 92 Rapisardi M., 157 Raya G., 160 Regn G., 19 Reiss T.J., VII Rhode E., 259

214

Santato G., 111, 213 Sasso G., 175 Saussure F. de, 210, 227, 299

L’idea di letteratura in Italia 238, 239, 244, 246, 253, 254, 2757276 Scarpati C., 60, 74, 80, 92, 145

Schlegel F., 118, 119, 5

Spitzer L., 203 Starobinski J., 248, 250 Stazio, XIV, 40 Steiner G., VII Steiner P., 284 Stempel W.-D., 60, 289

Schmidt S.J., 279, 287 Scholes R., 283 Scott A.B., XXI

Stendhal, 114

Scott W., 143 Scrivano R., 51, 60, 183 Séailles G., 179

Striedter J., 284

Stewart P.D., 26 Stierle K., 60 Struever N.S., 60 Stussi A., 52, 214 Suàrez F., 79

Sebeok Th.A., 277, 285 Segre 19842 295: 2IIZO209PINZ]I 277, 281, 283, 286, 289 Sell R.D., 288 Seneca, 12, 15 Serra R., 184-188

Sully J., 165

Seung T.K., 285

Tagliacozzo G., 99 Taine H., 158, 185

Svevo I., 190

Syska-Lamparska

R.A.,

183 Szondi P., 111

Sforza G., 129

Shakespeare W., 114

Tasso T., 53, 55-60, 68 Tateo F., XXI, 35 Telesio B., 63 Tellini G., 111 Temistio, 32 Tenca C., 139-145 Terracini B., 268 Tesauro E., XI, 68, 69,

Siciliano E., 198 Simmel G., 177, 191

Singh G., 127 Sinicropi G., 26 Sirri R., 127

Sismondi S. de, 113 Siti W., 214 Sklovskij V., 178, 233,

71-73, 90 Thompson E., 284 Tilgher A., 177

PISA230r239FZIO

Snyder J.R., 80

Timpanaro S., 127, 286 Todorov Tz., 236, 248,

Socrate, 33

Spallanzani L., 91 Spencer H., 165, 185 Speroni S., 30, 47, 55

250, 251, 260, 270, 285, 289,

261,

Tolstoj L., 188 Tomaîsevskij B.V., 258

Spet G., 237 Spinazzola V., 213 300

Indice dei nomi

Vida M.G., 54 Virgilio, XIV, 13, 25, 38,

Tommaseo N., 195 Tommaso d'Aquino, XVI, 32:79 Tordi R., 198 itoezi.F.190;.193 Trabant J., 99 Treves P., 168 Trissino G., 54

39, 49 Visconti E., 112-116 \Viit1tP535 Vittorini E., 218, 270

Voloyinov V.N., 278 Vroon R., 284

Trubeckoj N., 227 Turci R., 189 Turner V., 211 Tynjanov Ju. N., 229, 233, 237-239

Wallace D., XXI Wallace M., 288 Weinberg B., 51, 67 Weinrich H., 264 Wellek R., 98, 248

Vachek J., 284 Vahinger H., 91, 161

White H., 281, 285, 286, 289

Valla G., 53

Wilson E., 192 Wittgenstein L., 261, 279 Wordsworth W., 118

Valéry P., 255

Valla L., 30 Vasoli C., 44, 67 Velli G., 27 Velotti S., 99 Verene D. Ph., 99 Verga G., 154; 155, 157, imeesl90

221953,

Wright Mills Ch., 194 Zaccaria V., 26, 27 Zambon F., XXI Zanardi M., 4 Zarone G., 105 Zatti S., 61

195,

196 Veschueren ]J., 288 Veselovskij A.N., 237, 256

Zola É, 193,

Vico G., 81, 84, 89, 93-

Zorzi R., 105

98, 101, 151

301

Calabrese, Stefano. L’idea di letteratura in Italia / Stefano Calabrese. — [Milano]: Bruno Mondadori, [1999]. 320 p.; 17 cm- (Testi e pretesti). ISBN 88-424-9414-3: L. 24.000

1. Letteratura — Teorie — Giudizi degli intellettuali italiani. 801

Scheda catalografica a cura di CAeB, Milano

Ristampa

Anno

Or1e253=45

99 00 01 02

Finito di stampare nel settembre 1999, presso A.L.E., San Vittore Olona (Milano)

Quale definizione di letteratura ci è stata consegnata dalle origini ai giorni nostri, in Italia, dai maggiori scrittori, filosofi e saggisti? Questo libro indaga in modo suggestivo le funzioni e i limiti della letteratura nella riflessione critica di Dante, Petrarca, Boccaccio, Pico della Mirandola, Poliziano, Bembo, Tasso, Patrizi, Tesauro, Pallavicino, Gravina, Muratori, Vico, Beccaria Alfieri, Visconti, Leopardi, Manzoni, Tenca, De Sanctis, Ca-

puana, Pascoli, Croce, Pirandello, Serra, Debenedetti, Contini, Pasolini, Calvino.

Stefano Calabrese insegna Teoria della letteratura presso l’Università di Udine. Tra le sue pubblicazioni: Gl arabeschi della fiaba. Dal Basile ai romantici (Pacini, Pisa 1984); Una giornata alfieriana. Caricature della rivoluzione francese (il Mulino, Bologna 1989); /ntrecci italiani. Una teoria e una storia

del romanzo, 1750-1900 (il Mulino, Bologna 1995): Repertorio romanzesco dell’Ottocento italiano (Mucchi, Modena 1996), Fiaba (La Nuova Italia, Firenze 1997).

ISBN 88-424-9414-3

Lire 24.000

€ 12,39

1 9 "78884 Il