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Italian Pages 320 [162] Year 2018
Tradurre letteratura straniera è un modo per scrittori, editori e critici di rinnovare le “regole” con cui si fa letteratura: dalle poetiche alle posture autoriali, dalla gerarchia dei generi letterari alle pratiche editoriali. Il volume costituisce un’introduzione a questi temi a partire dal caso della letteratura tedesca importata in Italia nel primo ventennio del Novecento. Le collane fondate da Croce, Papini e Borgese per Laterza e Carabba e le traduzioni realizzate da Prezzolini, Slataper, Spaini e Tavolato introducono nuovi autori (Novalis, Hebbel, Kraus) e nuovi testi (il Wilhelm Meister di Goethe, La nascita della tragedia di Nietzsche), appropriandosene e modificandoli a partire da una specifica idea di letteratura. Attraverso i cinque capitoli e i materiali di corredo – traiettorie dei mediatori, antologia di testi, glossario dei concetti, bibliografia di studio – il volume propone di guardare alla storia letteraria riconoscendo alla traduzione un ruolo di primo piano. Anna Baldini (Università per Stranieri di Siena), Daria Biagi (Sapienza Università di Roma), Stefania De Lucia (Sapienza Università di Roma), Irene Fantappiè (Freie Universität Berlin) e Michele Sisto (Università di Chieti-Pescara) fanno parte del progetto Storia e mappe digitali della letteratura tedesca in Italia (MIUR Futuro in Ricerca).
isbn
22,00 euro
La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione 1900-1920
Quodlibet Studio Letteratura tradotta in Italia
978-88-229-0169-9
QS
Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè, Michele Sisto La letteratura tedesca in Italia Un’introduzione 1900-1920 Quodlibet Studio
Quodlibet Studio Letteratura tradotta in Italia
Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè, Michele Sisto
La letteratura tedesca in Italia Un’introduzione (1900-1920)
Quodlibet
Prima edizione: marzo 2018 isbn 978-88-229-0169-9 © 2018 Quodlibet srl Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 - 62100 Macerata www.quodlibet.it
Letteratura tradotta in Italia Collana diretta da Anna Baldini, Irene Fantappiè, Michele Sisto Comitato scientifico: Francesca Billiani (University of Manchester), Arno Dusini (Universität Wien), Bernhard Huß (Freie Universität Berlin), Camilla Miglio (Sapienza Università di Roma), Christopher Rundle (Università di Bologna), Massimiliano Tortora (Università degli Studi di Torino), Blaise Wilfert-Portal (École Normale Supérieure Paris)
Volume realizzato nell’ambito del progetto miur Futuro in Ricerca 2012 Storia e mappe digitali della letteratura tedesca in Italia nel Novecento: editoria, campo letterario, interferenza
9 Introduzione 19 Ringraziamenti
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1. Avanguardia e regole dell’arte a Firenze
Anna Baldini 1. Le riviste dell’avanguardia fiorentina (p. 25); 2. Benedetto Croce, l’alleato (p. 31); 3. La polarizzazione del campo: contro l’eteronomia economica (p. 36); 4. Benedetto Croce, il nemico (p. 39); 5. L’avanguardia fiorentina e l’estetica di Croce (p. 42); 6. La dissoluzione dei generi (p. 45); 7. L’interdetto su teatro e romanzo (p. 48); 8. I generi legittimati dall’avanguardia fiorentina: autobiografie liriche, frammenti, saggi critici (p. 51); Conclusioni (p. 54)
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2. Gli editori e il rinnovamento del repertorio
Michele Sisto 1. Chi traduce cosa, e perché (p. 59); 2. Il repertorio tedesco all’inizio del Novecento: Treves, Sonzogno, Bocca (p. 61); 3. Il nuovo circuito di produzione di Croce e il suo repertorio (p. 68); 4. Il circuito di produzione e il repertorio di Papini (p. 74); 5. Il circuito di produzione e il repertorio di Prezzolini (p. 77); 6. Il circuito di produzione e il repertorio di Borgese (p. 80); 7. La nuova polarizzazione del campo e le sue conseguenze (p. 82); 8. Il repertorio del campo di produzione ristretta: Nietzsche, Novalis, Hebbel, Goethe (p. 85)
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indice
3. I mistici tedeschi tradotti e narrati da Giuseppe Prezzolini
Stefania De Lucia 1. Prezzolini e la lingua tedesca (p. 93); 2. Prezzolini e Novalis: un rispecchiamento in traduzione (p. 94); 3. La traduzione dei Frammenti di Novalis (p. 97); 4. Il traduttore mitologo (p. 99); 5. Il Libretto della vita perfetta (p. 101); 6. Traduzione come lettura spirituale (p. 105); 7. Studi e capricci sui mistici tedeschi (p. 107)
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4. Traduzione come importazione di posture autoriali. Le riviste letterarie fiorentine d’inizio Novecento
Irene Fantappiè 1. Come si traduce quello che si traduce? Casi dentro e fuori dal canone (p. 115); 2. Traduzione, scrittura e autorialità (p. 117); 3. Dal Novalis di Prezzolini e dallo Schopenhauer di Papini fino allo Hebbel di Slataper (p. 119); 4. Slataper mediatore di letteratura tedesca (p. 119); 5. Tavolato mediatore di letteratura tedesca (p. 123); 6. L’oggetto della mediazione. La postura di Kraus: figura, temi, generi e media (p. 124); 7. Il contesto della mediazione (parte prima). Kraus, Weininger, Wedekind sull’«Anima» e sulla «Voce» (p. 129); 8. Il contesto della mediazione (parte seconda). Weininger e Kraus su «Lacerba» (p. 131); 9. Scrittura come mediazione. “Originali” à la Kraus (p. 135); 10. Traduzione come importazione di posture autoriali (p. 137)
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5. Nel cantiere del romanzo: il Wilhelm Meister della «Voce»
Daria Biagi 1. Romanzi e traduzioni negli anni Dieci (p. 143); 2. Il Meister di Slataper e Prezzolini (p. 145); 3. «Spa» e «la P.», due traduttori di nuova generazione (p. 149); 4. La polemica contro Domenico Ciàmpoli (p. 150); 5. Spaini e La modernità di Goethe (p. 152); 6. Come parlano i mercanti: la discorsività in Goethe (p. 154); 7. … e in Novalis (p. 158); 8. «Goethe, terribile ideale»: sul conciliare commercio e letteratura (p. 161); 9. Dall’autobiografia al romanzo (p. 164)
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indice
Traiettorie
171 Rocco Carabba editore (ms) 183 Giovanni Papini (ab) 193 Rosina Pisaneschi (db) 201 Giuseppe Prezzolini (ab) 211 Alberto Spaini (db)
Antologia
221
1. Prezzolini: Modernità di Novalis (1905)
228
2. Prezzolini e Papini: Il campo editoriale (1906)
232
3. Croce: Un modello di strategia editoriale (1906)
236
4. Prezzolini: La traduzione come lettura spirituale (1908)
238
5. Slataper: Lo «sviluppo» di Goethe (1911)
241
6. Slataper: Il Diario di Hebbel (1912)
245
7. Slataper: Il mio Carso come «autobiografia lirica» (1912)
249
8. Ciàmpoli, Spaini, Mazzucchetti: Una polemica sulle traduzioni (1912-13)
254
9. Kraus, Papini e Tavolato aforisti di «Lacerba» (1913)
260
10. Soffici: Frammenti dal Giornale di bordo (1913)
263
11. Papini: Contro lo «scrittore buffone» (1913)
266
12. Spaini, Prezzolini: Thomas Mann «pesante noioso ostinato» (1913)
268
13. Spaini: Modernità di Goethe (1914)
270
14. Pisaneschi: Goethe vs. Novalis (1914)
273
15. Serra: Il mercato editoriale (1914)
276
16. Papini, Benuzzi: Nietzsche futurista (1914)
280
17. Tavolato: I frammenti futuristi di Immoralismi (1915)
283
18. Papini: Una lettura anti-tedesca del Faust (1915)
286
19. Gobetti: L’editore ideale (1919)
289 Glossario
299
Bibliografia
305
Indice dei nomi
Introduzione
Di cosa parla questo libro Quando entriamo in una libreria
o sfogliamo una rivista letteraria, troviamo novità e classici, di scrittori italiani e stranieri. Anche cento anni fa gli ultimi libri di D’Annunzio, Croce, Prezzolini o Slataper stavano accanto alle più recenti traduzioni di Nietzsche, Goethe, Novalis, Hebbel e di altri autori di tutto il mondo. Questi libri rappresentano quello che chiameremo il repertorio dell’epoca: vale a dire l’insieme di testi, ma anche di norme, generi, stili, modelli, pratiche, posture autoriali con cui in un determinato momento storico si fa letteratura. Ciascuno di questi elementi è dotato di maggiore o minore legittimità: nel 1910, per esempio, si è fuori tempo massimo per fare i carducciani imitando Heine, ma ci si può guadagnare una certa reputazione mettendo a nudo se stessi e la società in pagine ricalcate su quelle di Nietzsche. I tedeschi in traduzione Questo volume vorrebbe introdurre il lettore al repertorio della letteratura tradotta nei primi vent’anni del Novecento, a partire dal caso di quella di lingua tedesca. Interrogandoci su quali “tedeschi” si leggessero allora in Italia, ci siamo presto resi conto che non bastava scorrere cataloghi e bibliografie alla ricerca di titoli tradotti, ma che occorreva rendere conto di quanto ciascun autore, opera, genere, postura, ecc. fosse considerato legittimo, di quale valore gli venisse attribuito, e da chi. Ci siamo dunque chiesti, più nel dettaglio, chi leggesse cosa, quali opere arrivassero nelle librerie, quali venissero recensite sui giornali e quali sulle riviste letterarie, quali fossero discusse nei salotti della buona società e quali nei gruppi letterari d’avanguardia. Quali, ancora, suggerissero agli scrittori italiani possibilità nuove, fino ad allora inesplorate, o viceversa di quali gli scrittori italiani si siano appropriati, presentandole al pubbli-
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introduzione
co italiano come affini alla propria idea di letteratura, o addirittura imitandole, riscrivendole. Ci siamo accorti che in molti casi la traduzione di un nuovo autore tedesco – e teniamo presente che allora Novalis e Hebbel in Italia erano assolute novità, così come certe opere di Goethe – poteva essere ricondotta, per via diretta o indiretta, ad alcuni dei protagonisti riconosciuti della scena letteraria italiana di quegli anni, da Croce a Prezzolini, da Papini a Slataper o Borgese, talora in veste di traduttori o prefatori, talora in quella più discreta ma non meno decisiva di direttori o consulenti di collane editoriali. Ci siamo quindi trovati nella necessità di ricostruire, almeno a grandi linee, un microcosmo sociale fatto di traduttori, scrittori, critici, accademici, editori (nonché di importanti, e spesso dimenticate, traduttrici, scrittrici, collaboratrici editoriali) che con la loro attività hanno orientato la scelta dei libri da tradurre e il modo di leggerli. La banca dati Abbiamo dunque dedicato una parte del nostro lavoro alla costruzione di una banca dati digitale che raccoglie le traduzioni dal tedesco pubblicate in volume nel periodo in questione, mettendo in relazione gli originali tedeschi, le traduzioni e le edizioni di uno stesso testo o raccolta di testi. Nel database questi dati sono accompagnati da informazioni relative ai mediatori e alle case editrici, in modo che chi lo consulta abbia gli strumenti per poter ricostruire le relazioni, spesso in ombra, tra la società letteraria e il mondo della produzione libraria. L’insieme di questi elementi sarà accessibile sul portale LTit – Letteratura tradotta in Italia (www.ltit.it). Le tre linee di ricerca La ricerca si è sviluppata su tre linee parallele. La prima ha ricostruito i principali conflitti tra i gruppi letterari che nel primo ventennio del Novecento si contendono l’egemonia, ciascuno con la propria idea (o idee) di letteratura, per capire quali interessi portino Croce, Prezzolini o Borgese a tradurre o far tradurre quel dato autore tedesco e a proporne una determinata interpretazione. I risultati di questa ricognizione, che ha preso in esame da una prospettiva nuova protagonisti anche molto studiati – da Croce alla vasta costellazione dell’avanguardia fiorentina –, hanno fornito le basi alla seconda linea di ricerca, che ha indagato i rapporti fra questi protagonisti e il mondo dell’editoria, mostrando come le più interessanti collane
introduzione
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del tempo – le stesse in cui compaiono le principali novità dalla Germania – siano il prodotto della convergenza di interessi tra scrittori e editori in cerca di riconoscimento. La terza linea di ricerca ha privilegiato l’analisi dei testi: non solo esaminando le traduzioni dal tedesco, ma anche interrogandosi su quali opere italiane potessero essere ricondotte a forme, generi, modelli e posture importate dal mondo germanico. A partire da studi su specifiche operazioni traduttive – tra le altre, l’interesse di Prezzolini per i mistici tedeschi, le trasformazioni subite dagli aforismi di Karl Kraus su «Lacerba» o la prima traduzione italiana del Wilhelm Meister di Goethe – si sono presi in considerazione fenomeni di più larga portata, relativi alle modalità con cui le diverse letterature interagiscono tra loro. Il metodo Per condurre le nostre indagini ci siamo dotati di uno strumentario concettuale che, data la varietà degli oggetti della ricerca, non poteva che essere plurale: dalla storia della letteratura alla sociologia alle più recenti acquisizioni dei translation studies e alla filologia testuale Di questi strumenti abbiamo dato succintamente conto nel glossario, ma qui vale la pena – anche per evitare equivoci – indugiare un istante su alcuni concetti che sostengono tutta la ricerca e che usiamo in accezioni molto specifiche. Avanguardia Al termine avanguardia, per esempio, diamo un significato che non coincide con il modo con cui viene usato solitamente nelle storie letterarie, dove serve a indicare alcuni movimenti artistici di inizio Novecento (futurismo, dadaismo, surrealismo) o della seconda metà del secolo (come la neoavanguardia). Questi movimenti artistici sono in realtà i casi più rappresentativi di un fenomeno generale che, secondo Pierre Bourdieu (Les Règles de l’art) costituisce il principale motore delle innovazioni nei campi culturali. Abbiamo dunque usato il termine avanguardia per indicare un’alleanza tra coloro che intendono farsi strada in ambito letterario: i nuovi entranti. Su di loro si è concentrata la nostra indagine, perché sono loro che hanno tentato, talvolta con successo, di cambiare le regole del gioco, vale a dire i criteri di valutazione delle opere letterarie. E uno dei principali strumenti che hanno impiegato a tal fine – oltre alle alleanze strategiche, ai manifesti, alla fondazione di riviste – sono proprio le traduzioni.
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introduzione
Sistema e repertorio Come ha mostrato Even Zohar (Polysystem Studies), le innovazioni artistiche sono infatti spesso il prodotto della legittimazione di elementi che i nuovi entranti attingono dall’esterno o dalla periferia del sistema: da altre arti (ad esempio contaminando forme narrative e visuali), da espressioni letterarie considerate marginali (ad esempio utilizzando generi letterari di scarso prestigio o rivalutando autori dimenticati), o ancora – ed è quello che ci interessa qui – da una letteratura straniera, del passato o del presente. È così che si trasforma il repertorio. Autonomia e eteronomia Nel corso della ricerca abbiamo inoltre tenuto presente che esiste sempre una tensione tra i criteri autonomi di valutazione della letteratura, cioè quelli stabiliti da chi lavora all’interno dell’ambito letterario (scrittori, critici, editori, professori), e quelli eteronomi definiti al di fuori di tale ambiente, per esempio dalla politica, dalla religione e soprattutto dall’economia. Ogni avanguardia tende a produrre e giudicare le opere letterarie in virtù della loro rispondenza ai criteri di valore autonomi (quali che siano, di volta in volta, quelli dominanti), non in conformità a un’ideologia, a una fede, o in base alla quantità di copie vendute. I campi letterari si polarizzano così tra un estremo dove ciò che conta è l’affermazione del valore letterario specifico, e un altro dove la produzione letteraria risponde a criteri di giudizio eteronomi. Abbiamo scelto di concentrarci sul primo polo, ma senza dimenticare la presenza dell’altro, con le sue logiche e la forza di attrazione che esercita anche sui mediatori più autonomi. Manipolazione Quanto ai testi, abbiamo provato a esaminare anch’essi in modo sistemico, raccogliendoli entro l’ampia categoria di letteratura tradotta. Questo ci ha permesso di prendere in considerazione una varietà di legami con i testi originali che implica diversi gradi di quella che Theo Hermans ha chiamato, con un termine che non vuole implicare alcun giudizio di valore, manipolazione (The Manipulation of Literature): traduzione, riscrittura, adattamento, interpretazione critica, smontaggio e rimontaggio, ovvero tutte le possibili forme di interferenza tra sistemi letterari. Per analizzare queste diverse pratiche abbiamo fatto uso, a seconda dei casi, degli strumenti messi a punto da filologia, storia della letteratura, storia e teoria dei generi letterari, teorie dell’interte-
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stualità e della traduzione (siano esse orientate verso la stilistica oppure verso gli studi culturali). A chi è rivolto questo libro Di tutto lo strumentario teorico a cui abbiamo qui accennato, tuttavia, questo volume non conserva che lo stretto indispensabile. Poiché in numerose occasioni di confronto ci è parso che non solo il risultato ottenuto ma l’impostazione stessa della ricerca fosse di qualche interesse, e in una certa misura replicabile, abbiamo deciso di presentarla in forma divulgativa, accessibile a studenti e dottorandi, riservando quindi gli approfondimenti ad articoli scientifici e alle monografie che saranno pubblicate in questa stessa collana. Questo ha comportato, com’è ovvio, alcune semplificazioni, ma ci ha offerto l’occasione di far entrare il lettore nel cantiere della ricerca, mostrandogli, nella seconda parte del volume, gli attrezzi e i semilavorati. Così il libro ha preso la forma di una sorta di manuale, nel senso di uno strumento per fare ulteriori ricerche. Un’introduzione, appunto: a un metodo, oltre che a una questione. Com’è fatto questo libro Il volume si compone di cinque capitoli, seguiti da cinque traiettorie di mediatori, un’antologia di testi, un glossario e una bibliografia. Un sistema di rimandi (→) consente al lettore di collegare agilmente informazioni che nelle diverse sezioni sono organizzate secondo diverse prospettive, concentrando l’attenzione ora sui fenomeni generali, ora sui singoli protagonisti, ora sui testi, ora sui concetti. I capitoli L’ordinamento dei capitoli procede dai mutamenti strutturali e simbolici verificatisi nel mondo letterario italiano all’inizio del Novecento fino alle specifiche operazioni di mediazione condotte da scrittori, traduttori, gruppi di letterati, e ai mutamenti che esse producono a loro volta. 1. Le regole dell’arte Il primo capitolo propone un’analisi sociologica delle traiettorie dei protagonisti dell’avanguardia letteraria italiana che più si sono serviti della mediazione di letteratura tedesca come strategia di promozione. Il lavoro culturale di questa avanguardia, che definiamo fiorentina perché si afferma a partire da alcune redazioni di riviste nate nel capoluogo toscano, è orientato da una certa idea di letteratura, dalla condivisione di specifiche regole dell’arte raramente esplicitate, ma che si possono dedurre dai comportamenti e dalle pratiche: cosa
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viene scritto, come viene valutato, quali generi sono praticabili, quali contenuti sono considerati inaccettabili e quali forme accantonate come obsolete. 2. Editori e repertorio Il secondo capitolo individua nella convergenza di interessi fra l’avanguardia letteraria e i nuovi entranti nel campo editoriale, come Laterza e Carabba, la spinta principale al rinnovamento del repertorio della letteratura tradotta, e in particolare di quella tedesca. Sono le collane fondate e dirette da Papini e da Prezzolini, da Croce e da Borgese, a scoprire autori come Novalis e Hebbel, o a conferire un nuovo riconoscimento ad autori già importati come Nietzsche e Goethe. 3. Prezzolini traduttore Il terzo capitolo è dedicato a un caso prototipico di manipolazione: l’attività di traduzione che Giuseppe Prezzolini svolge tra il 1905 e il 1912 importando, in virtù del suo interesse per il misticismo tedesco medievale e romantico, autori (tra cui Novalis), testi (i Frammenti di Novalis o Il Libretto della vita perfetta), forme del testo (il frammento) o figure autoriali (ancora Novalis, o quella inventata di sana pianta di Giovanni von Hooghens). Nella pratica prezzoliniana, la traduzione diviene un atto di «impossessamento» che deve selezionare, tagliare e anche inventare per mettere in dialogo i testi e gli autori scelti con le lotte che i nuovi intellettuali combattono in cerca di affermazione. 4. Posture autoriali Il quarto capitolo si concentra sulle tipologie di mediazione verso le quali ci si orienta nell’avanguardia fiorentina, all’atto di portare in Italia letteratura di lingua tedesca. Basandosi sull’analisi di casi sia canonici sia inesplorati (rispettivamente, il Friedrich Hebbel di Scipio Slataper e il Karl Kraus di Italo Tavolato) ed esaminando alcuni nuclei tematici (la questione della donna) e forme letterarie (l’aforisma) che fanno da volano per le dinamiche di mediazione, il capitolo individua una modalità del tradurre che caratterizza fortemente l’ambiente dell’«Anima», della «Voce» e di «Lacerba»: quella che intende la traduzione stessa come una importazione non tanto di singoli testi quanto piuttosto della persona dell’autore, della sua postura autoriale. 5. Il problema del romanzo Il quinto capitolo, infine, esamina il modo in cui le traduzioni interagiscono con lo sviluppo di un
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genere letterario specifico come il romanzo, che nel panorama del Novecento italiano accresce via via il suo prestigio. La prima traduzione integrale dei Wilhelm Meisters Lehrjahre di Goethe realizzata da Rosina Pisaneschi e Alberto Spaini, giovanissimi pionieri di una nuova pratica di traduzione, nasce in un ambiente programmaticamente ostile al romanzo come quello della «Voce», ma si inserisce ben presto in una riflessione di lungo corso sulla condizione dell’uomo nella modernità e sulle forme letterarie – strutture narrative, personaggi, stili – più adeguate a rappresentarla. Pur rispecchiando i fuochi d’interesse e gli indirizzi teorici dei rispettivi autori, i cinque capitoli, frutto di altrettanti anni di ricerca comune, sono stati impostati, discussi e curati collegialmente. Le traiettorie Le traiettorie dei mediatori sono un tentativo di introdurre il lettore nel laboratorio della ricerca. Individuare quanto, nella biografia di scrittori e critici, riveli un loro ruolo attivo nella scelta e nell’interpretazione della letteratura tradotta, o, nel caso di editori e traduttori, quanto li leghi ai gruppi letterari di punta, è stato il primo passo per portare alla luce un sistema di relazioni estremamente dinamico, ma generalmente lasciato in ombra. L’accertamento di dati di per sé banali – se e come un certo personaggio abbia imparato il tedesco, da quale a quale data abbia diretto una certa collana, in che rapporti fosse con questo o quell’altro mediatore – ha a volte richiesto un lavoro minuzioso e ha spesso portato a scoperte sorprendenti. Specie nei casi di personaggi poco o nulla studiati – come quasi sempre i traduttori – sono state necessarie ricerche d’archivio, peraltro non sempre possibili o coronate da successo. Tra le numerose traiettorie ricostruite ne abbiamo qui selezionate cinque che includono un editore (Rocco Carabba), due intellettuali generalmente non associati alla mediazione di letteratura tedesca (Papini e Prezzolini) e due traduttori il cui lavoro, poco noto, è in questi anni profondamente innovativo (Rosina Pisaneschi e Alberto Spaini). Queste e altre traiettorie, comprese naturalmente quelle di intellettuali il cui rapporto con la letteratura tedesca è riconosciuto e che anche in questo libro hanno un ruolo di rilievo, come Croce, Borgese o Slataper, saranno via via rese disponibili sul portale www.ltit.it, anche grazie all’aiuto di studiosi che hanno accettato di affiancarci nel lavoro.
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Antologia L’antologia è a sua volta strettamente funzionale al lavoro di ricerca: non intende raccogliere i documenti più rappresentativi del periodo preso in considerazione, ma costituire un complemento ai cinque capitoli mettendo a disposizione del lettore testi che in quella sede non potevano essere citati per esteso. In qualche caso si tratta di brani noti, ma riletti in una nuova luce; più spesso di testi rari o perfino inediti. Data l’impostazione della ricerca, che si concentra sul sistema letterario d’arrivo, non sono inclusi testi nell’originale tedesco. I brani sono stati disposti in ordine cronologico e dotati di brevi introduzioni in modo da consentire al lettore di seguire lo sviluppo delle pratiche e dei discorsi che investono le traduzioni dal tedesco almeno in alcuni momenti fondamentali. Il glossario Anche il glossario non ha alcuna pretesa di completezza, ma serve ad agevolare la lettura del volume. Si limita infatti a raccogliere i principali concetti che abbiamo adoperato nel lavoro di ricerca, grazie ai quali abbiamo potuto mettere a fuoco i fenomeni illustrati nei diversi capitoli. La voce “traduzione”, per esempio, non dà una definizione generale del concetto, che del resto richiederebbe ben altro spazio, ma spiega in quale accezione viene utilizzata nel libro; e così via. La bibliografia Allo stesso modo la bibliografia che chiude il volume riporta soltanto i titoli che sono stati fondamentali per l’impostazione della ricerca, suddivisi in Teoria (dalla sociologia ai translation studies) e Studi (relativi al solo primo ventennio del Novecento). Ad essi rinviamo il lettore per un primo approfondimento. Riferimenti più ampi e puntuali, sebbene ridotti allo stretto indispensabile, si trovano nelle note a piè di pagina di ciascun capitolo. Letteratura tradotta e letteratura italiana Nel corso del lavoro abbiamo incrociato molti percorsi di indagine liminari a quello che abbiamo scelto di seguire e ai quali nel volume abbiamo appena accennato, tra cui il ruolo che nella mediazione della letteratura tedesca hanno avuto la germanistica accademica, la musica, la filosofia, l’editoria commerciale o la spesso fondamentale triangolazione con Parigi. La nostra introduzione non pretende di esaurire il campo di indagine, e nemmeno di compendiare le ricerche finora condotte sulla questione da diverse prospettive di-
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sciplinari (italianistica, germanistica, storia dell’editoria, traduttologia): è piuttosto un tentativo di superare la separazione tra letterature nazionali, a partire dalla constatazione che dietro la letteratura cosiddetta straniera che circola in Italia stanno gli stessi attori che fanno la letteratura italiana. Con la proposta di considerare la letteratura tradotta come parte integrante del corpus della letteratura italiana (o meglio: dell’attività letteraria italiana) speriamo di contribuire a rileggere in una nuova luce non solo questo primo ventennio del Novecento. Gli autori
Ringraziamenti
Il nostro lavoro e questo libro sono stati possibili grazie al programma Futuro in Ricerca 2012 del MIUR, che ha finanziato per il quinquennio 2013-2018 il progetto Storia e mappe digitali della letteratura tedesca in Italia nel Novecento: editoria, campo letterario, interferenza. Desideriamo ringraziare per primi Mauro Massulli e Ida Nostro, presso la DGRIC del MIUR per la costante e sollecita interlocuzione, e, nelle persone di Fabrizio Cambi, Giorgio Manacorda, Roberta Ascarelli e Renata Crea, l’Istituto Italiano di Studi Germanici in Roma, principale host institution del progetto. Il lavoro di ricerca ha coinvolto un ampio gruppo di studiosi organizzati in tre unità: all’Istituto Italiano di Studi Germanici in Roma Michele Sisto (coordinatore nazionale e responsabile di unità), Anna Antonello e Bruno Berni hanno concentrato le loro indagini sulle collane editoriali; all’Università per Stranieri di Siena Anna Baldini (responsabile di unità), Daniela Brogi, Claudia Buffagni, Pietro Cataldi e Tiziana De Rogatis si sono occupati dei conflitti strutturali e simbolici nel campo letterario; a Sapienza Università di Roma Irene Fantappiè (responsabile di unità), Daria Biagi, Stefania De Lucia, Franco D’Intino e Camilla Miglio hanno preso in esame i testi tradotti e le molteplici forme di interazione tra questi e l’opera di alcuni scrittori italiani. Un sentito ringraziamento va agli studiosi e alle istituzioni che hanno collaborato al progetto: Luisa Finocchi presso la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori di Milano, Gisèle Sapiro presso il Centre Européen de Sociologie et de Science Politique della Sorbona/CNRS/EHESS di Parigi, Giovanni Ragone e Lanfranco Fabriani del DigiLab di Sapienza Università di Roma, Silvio
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ringraziamenti
Sosio Web Agency, Roberto Alciati e l’unità torinese del progetto La percezione dello spazio e del tempo nella trasmissione di identità collettive. Polarizzazioni e/o coabitazioni religiose nel mondo antico (FIRB 2012), Daniela La Penna e Francesca Billiani con il progetto Mapping Literary Space: Italian Intellectuals, Literary Journals, Publishing Firms (1940-1960) della University of Reading (AHRC) e Antonio Bibbò con il progetto Irish in Italy: Irish Literature and Politics in Italy in the First Half of the Twentieth Century della University of Manchester (Marie Skłodowska-Curie Fellowship), nonché la Humboldt-Universität di Berlino e l’Università Gabriele d’Annunzio di Chieti-Pescara. Per la riproduzione dei documenti inediti ringraziamo l’Archivio Prezzolini della Biblioteca Cantonale di Lugano e l’Archivio Contemporaneo «A. Bonsanti» presso il Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux di Firenze. Il supporto dietro le quinte di Daniela Dalmaso, Orietta Boldrini e Olga Perrotta è stato inoltre decisivo. Estremamente prezioso e stimolante è stato per noi il confronto con colleghi e amici, tra cui Fabio Andreazza, Natascia Barrale, Cecilia Benaglia, Massimo Bonifazio, Pier Carlo Bontempelli, Stefano Bragato, Christophe Charle, Remo Ceserani, Gianluca Cinelli, Stefano Colangelo, Roberta Colbertaldo, Gianfranco Crupi, Sara Culeddu, Giovanni De Leva, Diletta D’Eredità, Edoardo Esposito, Maria Grazia Farina, Marco Federici Solari, Paola Maria Filippi, Cinzia Franchi, Matteo Galli, Rosario Gennaro, Francesca Goll, Cristina Guerra, Gabriele Guerra, Donatella Izzo, Joseph Jurt, Fabien Kunz, Roberta Malagoli, Mila Milani, Daniela Nelva, Pierluigi Pellini, Gian Franco Petrillo, Maurizio Pirro, Cristina Savettieri, Stefania Sbarra, Claudia Tatasciore, Massimiliano Tortora, Albertina Vittoria, Blaise Wilfert-Portal, e infine la redazione della rivista «allegoria». Ringraziamo in particolare chi, oltre a seguire il nostro lavoro per cinque anni, ha anche avuto la pazienza di leggere e commentare il manoscritto di questo volume: Franco Baldasso, Maurizio Basili, Barbara J. Bellini, Anna Boschetti, Mimmo Cangiano, Simone Costagli, Flavia Di Battista, Anna Ferrando, Tommaso Gennaro, Valeria Marino, Beatrice Occhini, Laura Petrella, Marco Rispoli, Francesco Rossi, Salvatore Spampinato, Sara Sullam, Marco Viscardi.
ringraziamenti
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Una parte di questa comunità di ricerca per noi vitale, grazie alla quale l’indagine ha potuto essere estesa ad altre letterature tradotte oltre alla tedesca, sarà rappresentata nel portale LTit – Letteratura tradotta in Italia, soprattutto attraverso le schede relative alle traiettorie dei mediatori. Altre pubblicazioni Una prima versione degli studi presentati in questo volume è stata discussa il 22 dicembre 2014 all’Istituto Italiano di Studi Germanici in Roma nel workshop Storia e mappe digitali della letteratura tedesca in Italia: primi risultati, e il 15 luglio 2015 alla Humboldt-Universität di Berlino nel workshop “Interferenzen” zwischen italienischer und deutscher Literatur im 20. Jahrhundert, e in seguito pubblicata sul n. 3 (2016) della rivista «Lettere Aperte / Offene Briefe» (www.lettereaperte.net), oltre che, limitatamente al cap. 4, nel volume di Irene Fantappiè L’autore esposto. Scrittura e scritture in Karl Kraus (Peter Lang, Frankfurt am M. 2016). Una versione più approfondita troverà invece posto nelle monografie in corso di pubblicazione in questa stessa collana.
Capitolo primo Avanguardia e regole dell’arte a Firenze Anna Baldini
1. Le riviste dell’avanguardia fiorentina Due avanguardie di inizio Novecento In questo capitolo parleremo della rete di scrittori, critici e intellettuali che ha svolto il ruolo più importante nel rinnovare il → repertorio della letteratura tedesca in Italia nel primo quindicennio del Novecento: un processo di rinnovamento che rientra nella più generale trasformazione delle regole del gioco letterario operata da questo gruppo di → nuovi entranti. La promozione e la traduzione di opere straniere, spesso in alleanza organica con un editore, è infatti una delle strategie con cui un’ → avanguardia può imporre nuovi modi di fare e valutare la letteratura. Chiameremo questo gruppo “avanguardia fiorentina” perché le relazioni che vi si intrecciano fanno perno su tre riviste fondate tra il 1903 e il 1913 nel capoluogo toscano: «Leonardo» (1903-7), fondata da → Giovanni Papini; «La Voce» (1908-16), diretta da → Giuseppe Prezzolini; «Lacerba» (1913-15), fondata da Papini, Aldo Palazzeschi, Ardengo Soffici, Italo Tavolato (→ cap. 4). Non ci occuperemo invece di un’avanguardia coeva e concorrente, il futurismo che Filippo Tommaso Marinetti (18761944), a partire dal Manifesto del 1909, lancia da Milano alla conquista dell’Italia e del mondo. Marinetti e gli scrittori della sua cerchia, infatti, non si sono serviti del → transfer di letteratura tedesca come strumento per affermare il proprio modo di intendere l’arte e la letteratura; parleremo perciò del futurismo solo nel momento in cui incrocia il cammino di alcuni artisti dell’avanguardia fiorentina nella rivista «Lacerba». Benché portatori di opzioni alternative di rinnovamento del → nomos letterario, queste due avanguardie sono accomunate
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dalla contrapposizione non solo ai valori letterari dominanti incarnati, all’inizio del secolo, dalle opere e dalle figure di Carducci (1835-1907), Pascoli (1855-1912) e D’Annunzio (1863-1938)1, ma anche alla letteratura commerciale di autori come Edmondo De Amicis (1846-1908) o Luciano Zuccoli (1868-1929), e alla produzione letteraria influenzata da logiche giornalistiche. Genealogie di riviste Le riviste sono lo strumento di battaglia più importante dell’avanguardia fiorentina, e i loro direttori ne sono ben consapevoli: «Qua [a Firenze] le riviste non sono accozzaglie di nomi e di parole ma veri arnesi di guerra o quartieri generali di movimenti ideali d’importanza generale»2, scrive Giovanni Papini nel 1915, in un articolo che traccia una genealogia di riviste che corrisponde a una successione di avanguardie e innovazioni: Le riviste più vive, più innovatrici, più rivoluzionarie, più libere, più avanzate son nate e cresciute a Firenze. Aprì la serie il Marzocco (1894) diretto da Corradini […]. Seguì il Leonardo (1903) che dette origine all’unico autoctono Sturm und Drang dell’Italia moderna […]. Un po’ dopo il Leonardo sorsero il Regno di Corradini (1903) e l’Hermes di Borgese (1904). […] Venne più tardi la Voce (1908) di Prezzolini […]. Dalla Voce, che andava facendosi troppo seria e culturale, si staccò il gruppo che creò Lacerba (1913)3.
La stessa cosa aveva fatto sei anni prima il direttore della «Voce» Prezzolini: Dove la storia, a guisa di gomito d’una strada, muta direzione e si ravvolge su se stessa, per raggiungere il fine […] le idee si personificano in un qualche gruppo di giovani, cavalieri del santo sdegno e profeti dell’as1 La contrapposizione si estende agli autori tedeschi appropriati da questi scrittori: un autore come Heine, già tradotto da Carducci, perde rilevanza nel dibattito dell’avanguardia, mentre un autore come Nietzsche, portato in Italia da D’Annunzio, viene completamente reinterpretato. 2 Giovanni Papini, Fiorentinità, «Lacerba», 21-2-1915, p. 58. 3 Ivi, pp. 57-58. L’articolo prosegue mettendo in luce come l’avanguardia che si esprime nelle riviste passate in rassegna si posizioni al → polo di produzione ristretta: Papini distingue infatti le riviste fiorentine sia dalle «riviste commerciali a mezza lira che si stampano a Milano per il diletto mensile degli ingegneri giacosiani o delle dame in flirt colla letteratura» sia dalle «grosse riviste politiche di Roma, budini pesanti all’inglese di varietà anodine e di mattoni spiombanti» (ivi, p. 58).
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soluto […]. Fu prima La Cronaca Bizantina; poi Il Marzocco giovane; e dopo Il Leonardo; oggi è La Voce4.
Giovanni Papini e il «Leonardo» Quando Papini fonda il
«Leonardo», nel 1903, ha ventidue anni, ed è tanto ambizioso quanto privo di titoli intellettuali riconosciuti: ha il diploma magistrale ma non può mantenersi agli studi universitari. «Io non farò né il maestro né l’insegnante di francese come finora ero stato ridotto a desiderare – scrive nel suo diario il 27 luglio 1900 – ma farò il filosofo, il pensatore solitario»5. Nell’Italia di inizio secolo come nel resto d’Europa la battaglia degli aspiranti riformatori della filosofia è condotta innanzitutto contro il positivismo, l’indirizzo di pensiero che ispira i metodi di studio dominanti nelle università. Sul «Leonardo» vengono proposti come modelli alternativi il pragmatismo anglosassone di William James, la teoria politica di Vilfredo Pareto, la filosofia di Henri-Louis Bergson, una nuova interpretazione di Nietzsche, ma anche i romantici tedeschi, filosofi e poeti, senza distinzione (→ cap. 3). Il filosofo-poeta è il modello di artista propugnato dal «Leonardo»; anche quando Papini sposta le sue ambizioni sulla letteratura (nel 1906 pubblica la sua prima raccolta di racconti) la sua rimane una scrittura intrisa di pensiero, secondo una → postura i cui punti di riferimento principali sono i romantici e un Nietzsche profondamente risignificato rispetto a quello dannunziano. «Il filosofo che insieme è un classico della letteratura ci manca affatto […]. Filosofia e arte di scrivere, idee e chiarezza, pensiero e bellezza hanno fatto fra noi divorzio»6, proclama La Coltura italiana (1906), un libro estremamente critico nei confronti del panorama culturale italiano, scritto a quattro mani da Papini insieme a Prezzolini (anche se la maggior parte dei capitoli, come quello da cui è tratta la citazione, sono firmati da quest’ultimo). 4
Giuseppe Prezzolini, Il Marzocco. II, «La Voce», 13-5-1909, p. 86. Giovanni Papini, Il non finito. Diario del 1900 e scritti inediti giovanili, a cura di G. Luti e P. Casini, tr. it. di A. Casini Paszkowski, Le Lettere, Firenze 2005, p. 100. 6 Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, La Coltura italiana, Lumachi, Firenze 1906, p. 133. 5
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Giuseppe Prezzolini e «La Voce» Papini e Prezzolini avevano stretto nel 1899 un’intesa intellettuale che fa le sue prime prove nella redazione del «Leonardo» per poi animare la seconda rivista dell’avanguardia fiorentina, «La Voce», settimanale diretto da Prezzolini dal 1908 al 1914, che, a differenza del «Leonardo», ha un pubblico e una rete di collaboratori estesi a tutt’Italia7. Anche il direttore della «Voce» ha un percorso di studi irregolare: Prezzolini lascia il liceo prima del diploma, ma insieme a Papini intraprende un impegnativo percorso di formazione da autodidatta che spazia dalla filosofia all’apprendimento delle lingue, dalla sociologia all’esplorazione delle letterature straniere. A differenza di Papini, Prezzolini abbandona presto ogni ambizione filosofica e letteraria: con l’eccezione di alcuni testi pubblicati prima del 1908, la sua → traiettoria non è quella di un’artista o di un pensatore ma di un formidabile promotore di cultura, che mette al servizio del genio altrui le proprie capacità organizzative. Le scissioni delle avanguardie Nei sei anni della sua direzione la «Voce» diventa l’organo di confronto, discussione e raccolta di tutti gli intellettuali che sentono l’esigenza di sovvertire le gerarchie dei diversi campi della cultura italiana: dalla filosofia alla psichiatria, dalla politica all’università, dall’arte alla letteratura. La vita della rivista è però segnata anche da numerosi conflitti interni, che portano alla nascita di nuovi periodici: nel 1911 Papini fonda insieme a Giovanni Amendola (1882-1926)8 «L’Anima», che sopravvive per un anno; nel 1911 una disparità di posizioni sulla guerra di Libia porta Gaetano Salvemini (1873-1957)9 a lasciare la «Voce» per fondare «L’Unità» (191120); nel 1913 l’insofferenza per lo scarso spazio concesso dalla «Voce» alle sperimentazioni creative induce Papini a fondare il quindicinale «Lacerba» (1913-15). 7 «La Voce» diventa quindicinale nel corso del 1914. Nel novembre dello stesso anno Prezzolini lascia la direzione della rivista a Giuseppe De Robertis (1888-1963), che la dirige fino al 1916. 8 Giovanni Amendola scrive sul «Leonardo» di filosofia e misticismo; nel 1909 si trasferisce da Roma a Firenze per dirigere la Biblioteca Filosofica; nel 1912 diventa corrispondente da Roma per il «Resto del Carlino». 9 Gaetano Salvemini lavora come professore universitario a Pisa; è uno dei pochi socialisti della «Voce» ma ha posizioni critiche nei confronti del Partito.
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Questa vicenda di scissioni e separazioni è caratteristica dei percorsi delle avanguardie che, saldate inizialmente dalla contrapposizione alle posizioni dominanti, tendono a dividersi nel momento in cui i singoli individui cominciano a conquistare → capitale simbolico. Le diversità di orientamento e obiettivi, rimaste sullo sfondo nel momento della battaglia comune, riemergono quando questa si avvia alla vittoria, e le traiettorie dei protagonisti divergono10. Ardengo Soffici tra Parigi e Firenze Accanto a Papini, il più importante transfuga dalla «Voce» a «Lacerba» è Ardengo Soffici. Figlio di un ex fattore impoverito di Poggio a Caiano, un borgo nei pressi di Firenze, Soffici frequenta l’Accademia di Belle Arti fiorentina ma trova l’ambiente inadeguato alle sue ambizioni: nel 1900 si trasferisce perciò a Parigi, dove conosce i principali esponenti dell’avanguardia, da Apollinaire a Picasso, da Alfred Jarry a Max Jacob. Le difficoltà della vita bohème provocano però una crisi che lo spinge a rientrare in Italia nel 1907. Tornato in Toscana Soffici, che aveva cominciato a collaborare con il «Leonardo» nel 1906, diventa uno degli autori più importanti della «Voce», sulla quale presenta, primo in Italia, il cubismo, promuove l’opera dello scultore Medardo Rosso, ignoto in patria ma consacrato a Parigi, discute l’opera di Arthur Rimbaud; grazie ai suoi contatti con artisti e galleristi parigini, la rivista può organizzare, nel 1910, la prima mostra impressionista in Italia. Con la nascita di «Lacerba» Soffici ne fa la sponda italiana delle «Soirées de Paris» di Apollinaire, di cui la rivista fiorentina pubblica testi in lingua originale insieme alle prose di Max Jacob e a riproduzioni di opere di Picasso. Parigi, capitale della République mondiale des lettres La mediazione di Soffici con il mondo artistico parigino è fondamentale per l’avanguardia fiorentina. Le relazioni internazionali sono infatti particolarmente importanti proprio per le avanguardie11: gli arti10 Cfr. Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte [1992], il Saggiatore, Milano 2005, pp. 348-351, e, per un quadro delle traiettorie di aggregazione e dissoluzione di diversi movimenti di avanguardia tra Ottocento e Novecento, Anna Boschetti, Ismes. Du réalisme au postmodernisme, CNRS Éditions, Paris 2014. 11 Cfr. Amotz Giladi, Les Écrivains florentins d’avant-garde et la France: échanges, rivalités et conflits, 1900-1920, «Australian Journal of French Studies», 54, 2-3, 2017, pp. 218-234.
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sti e gli scrittori che le compongono possono accelerare il processo di acquisizione di capitale simbolico in patria se riescono ad acquisire prestigio e riconoscimento nella capitale della «Repubblica mondiale delle lettere»12 che, all’inizio del Novecento, è ancora Parigi. La capitale francese attrae artisti e intellettuali da tutto il mondo perché è possibile trovarvi la consacrazione internazionale, il riconoscimento che garantisce a un’impresa artistica, letteraria o intellettuale il massimo crisma di legittimità e autorevolezza. Dissidenti, ribelli, esclusi Chi sono gli intellettuali che Papini, Prezzolini e Soffici riescono ad attrarre nel loro circuito? E che cosa, a dispetto dei conflitti e delle secessioni, tiene insieme gli autori che scrivono prima sul «Leonardo», poi sulla «Voce» e «Lacerba»? Nel 1966, riordinando il suo carteggio con Papini, Prezzolini racconta come nel 1908 avesse cominciato a progettare un periodico «che si appoggi[asse] su nuove forze manifestatesi in Italia e quindi con la collaborazione di ribelli e di dissidenti, di gente in margine dei partiti»13. L’abbondanza di «ribelli» e «dissidenti» nei campi intellettuali di primo Novecento è sicuramente legata al fatto che i nuovi entranti più ambiziosi sono strutturalmente portati alla ribellione contro i valori culturali dominanti, ma è anche il prodotto di un fenomeno sociale che l’Italia conosce con un certo ritardo rispetto ad altri paesi europei: la disoccupazione e il precariato intellettuali, effetti indesiderati della crescita dell’istruzione superiore promossa dallo Stato unitario14. 12
Cfr. Pascale Casanova, La République mondiale des lettres, Seuil, Paris 1999.
13 Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Storia di un’amicizia 1900-1924, Vallecchi,
Firenze 1966, p. 139. L’identikit dei possibili interlocutori corrisponde a quello che uno studioso francese, Frédéric Attal, ha ricavato dall’analisi comparata delle traiettorie di una sessantina di autori della «Voce»: «La Voce reçoit tous ceux qui se trouvent alors à la lisière du pouvoir (académique ou politique), ou en marge de leur famille politique. En bref, tous se sentent en grande partie exclus du champ qu’ils ont choisi, l’art, la politique ou encore la carrière universitaire» [La “Voce” raccoglie tutti coloro che si trovano in quel momento ai margini del potere (accademico o politico) o della loro famiglia politica. Tutti si sentono, insomma, in gran parte esclusi dal campo che hanno scelto: l’arte, la politica, o ancora la carriera universitaria]: Frédéric Attal, Histoire des intellectuels italiens. Prophètes, philosophes et experts, Armand Colin, Paris 2013, p. 45. 14 Christophe Charle, Gli intellettuali nell’Ottocento. Saggio di storia comparata europea, a cura di R. Pertici, il Mulino, Bologna 2002; Marzio Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia (1859-1973), il Mulino, Bologna 1974.
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Una sovrapproduzione di laureati A cavallo tra i due secoli il mercato del lavoro intellettuale è incapace di assorbire diplomati e laureati e, tra questi ultimi, in particolare quelli in Lettere e Filosofia; disoccupazione e precariato producono una frattura, uno scarto tra l’alto senso di sé prodotto dal percorso scolastico e il riconoscimento socio-economico effettivo. I toni aggressivi della «Voce» veicolano un desiderio condiviso di far saltare “il Sistema” – come si sarebbe detto negli anni ’60-’70 del Novecento – che cela in realtà il desiderio di far saltare “sistemi” più specifici, cioè i rapporti di forza in vigore nei campi intellettuali in cui i singoli aspiranti desiderano inserirsi. Questo comune bisogno di innovazione cementa le alleanze che s’intrecciano sulla «Voce» tra intellettuali che aspirano a inserirsi in campi culturali anche molto diversi: scrittori e artisti, filosofi e critici letterari, teologi e musicisti, psichiatri ed economisti.
2. Benedetto Croce, l’alleato La «Voce» ha appena due mesi di vita quando il suo direttore affronta il problema degli sbocchi professionali di letterati e filosofi15, seguito dagli altri due autori più importanti attivi sulla «Voce» degli esordi: Papini16 e Benedetto Croce (1866-1952)17. Croce, il «Leonardo» e la «Critica» Ai nostri occhi, e a distanza di un secolo, sembra difficile conciliare l’immagine di Benedetto Croce con quella dei «dissidenti» e «ribelli» che Prezzolini intende cooptare nella sua rivista; eppure, come ricorda lo stesso Prezzolini, «anche Croce, a quel tempo, era un ribel15 Giuseppe Prezzolini, Il giornalismo e la nostra cultura, «La Voce», 28-1-1909, pp. 25-26. Prezzolini lamenta come la professione del giornalista abbia finito per risultare concorrenziale rispetto alle tradizionali carriere accademica e letteraria. 16 Giovanni Papini, Il giovane scrittore italiano, «La Voce», 18-2-1909, pp. 37-38. Papini descrive una realtà a lui ben nota: quella delle difficoltà affrontate dallo scrittore che, pur non essendo ricco di famiglia, non voglia darsi al giornalismo o all’insegnamento, né «imputtanarsi scrivendo roba qualunque per piacere alla gente». 17 Benedetto Croce, I laureati al bivio, «La Voce», 4-2-1909, p. 29. Anche Croce diffida gli aspiranti intellettuali dallo scegliere la brillante ma dispersiva carriera giornalistica, e li invita invece a scegliere la dura ma formativa via dell’insegnamento secondario.
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le contro la filosofia delle università e contro il positivismo che ancora imperava»18. Proprio su questo terreno – quello di una battaglia per il rinnovamento del panorama filosofico italiano e contro la filosofia delle università – Croce aveva manifestato il suo interesse per il «Leonardo» in una recensione pubblicata nel 1903 sulla «Critica», la rivista da lui interamente redatta insieme a Giovanni Gentile (1875-1944)19, fondata in quello stesso 190320. L’approvazione di Croce è molto importante per i giovani del «Leonardo»: «Ho piacere che tu [sic] abbia trovato bello anche tu il saggio del Croce – scrive Papini a Prezzolini il 10 novembre 1907. – Di quell’uomo bisogna essere in ogni modo alleati»21. L’affermazione di Croce Quando fonda la «Critica» Croce non è ancora – come sarà dagli anni Dieci alla morte – un punto di riferimento e poi un’istituzione della cultura italiana; si è però da almeno un decennio avviato verso la consacrazione intellettuale con una serie di interventi aggressivi e polemici. Dopo una prima attività di stampo erudito, Croce debutta nel 1893 nel campo filosofico con un’offensiva contro la storiografia positivista (La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte); l’anno successivo attacca nel volume La critica letteraria tutta la critica contemporanea, specialmente quella universitaria; infine, dopo alcuni scritti dedicati al marxismo in cui si propone di demolirne i fondamenti, nel 1902 pubblica la prima parte del suo sistema filosofico, l’Estetica, che ha subito una certa eco22. 18
Papini, Prezzolini, Storia di un’amicizia 1900-1924, cit., p. 140. Giovanni Gentile è in questi anni il più importante collaboratore di Croce; a differenza di quest’ultimo, però, intraprende la carriera accademica. Dal 1913 le loro posizioni filosofiche cominciano a divergere. 20 B.C., [recensione a «Leonardo, pubblicazione periodica»], «La Critica», 1, 1903, pp. 289-291. Fino al 1920 l’unica sezione della «Critica» aperta ad altri collaboratori è quella delle recensioni. 21 Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Carteggio, I, 1900-1907. Dagli «Uomini liberi» alla fine del «Leonardo», a cura di S. Gentili, G. Manghetti, Edizioni di Storia e Letteratura-Biblioteca cantonale Lugano/Archivio Prezzolini, Roma 2003, p. 731. 22 Dalle lettere di Prezzolini alla fidanzata Dolores sappiamo che il docente di letterature comparate dell’Istituto di Studi Superiori di Firenze, Orazio Bacci, già nel 1903 ha inserito l’Estetica nel suo programma d’esame: lettera di Prezzolini a Dolores Faconti, 7-12-1903, in Giuseppe Prezzolini, Diario per Dolores, a cura di G. Prezzolini e M. C. Chiesi, Rusconi, Milano 1993, p. 117n. 19
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Quando nasce la «Voce» (rivista della quale sarà non solo un collaboratore assiduo, ma anche un finanziatore e una specie di padrino, prodigo di consigli al direttore), Croce è quindi un intellettuale avviato alla consacrazione, anche se privo di laurea e di cattedra: un handicap solo apparente, perché proprio la sua estraneità alle istituzioni culturali ufficiali gli consente di attaccarne apertamente i metodi e gli esponenti più in vista. I capitali sociali di Croce La posizione di Croce è omologa a quella di Papini, Prezzolini e della maggioranza degli autori della «Voce» per la sua ostilità alle istituzioni, in primis accademiche, ma ne differisce per alcuni tratti fondamentali: la sua autonomia deriva infatti da un accumulo straordinario, irripetuto nel Novecento, di capitali sociali di diversa natura. Croce è uno degli uomini più ricchi del Regno e gode di un cospicuo patrimonio di relazioni sociali tra le élites politiche e culturali: educato a Roma a casa dello zio Silvio Spaventa, senatore del Regno e fratello del filosofo Bertrando, Croce lascia l’università prima di laurearsi ma ciò non gli impedisce, una volta rientrato a Napoli, di trovarsi al centro di una importante rete intellettuale e mondana. I privilegi economici, culturali e sociali che Croce eredita dalla famiglia gli consentono una vita intellettuale eccezionalmente feconda e disciplinata, condotta in assoluta libertà: qualcosa che è precluso a giovani ambiziosi ma relativamente deprivati dal punto di vista economico e sociale come Prezzolini e Papini. Questa difformità pesa soprattutto sul rapporto tra quest’ultimo e Croce, rapporto che si è già guastato quando il «Leonardo» cessa le pubblicazioni (il che genera frizioni anche con Prezzolini, che nel 1908 si “converte” al crocianesimo); ma nel 1903, quando Croce saluta la rivista come un alleato della «Critica», le loro posizioni sono ancora allineate sullo stesso fronte di battaglia. «La Voce» e l’università Anche questo è un tratto tipico del funzionamento delle avanguardie, le cui alleanze si fondano più sugli oggetti di polemica che sugli obiettivi condivisi: come scrive Prezzolini nel 1903, «Siamo accomunati qui nel “Leonardo” più dagli odi che dai fini comuni»23. L’articolo prosegue elencando 23 Giuliano il Sofista [pseudonimo di Prezzolini], Alle sorgenti dello spirito, «Leonardo», 19-4-1903, p. 4.
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gli oggetti d’odio dei redattori del «Leonardo»: «Positivismo, erudizione, arte verista, metodo storico, materialismo, varietà borghese e collettivista della democrazia». Questo elenco di sostantivi esplicita i “nemici” del «Leonardo», e poi della «Voce» e di «Lacerba»: e tra questi, almeno tre su sei sono direttamente legati ai metodi e alle impostazioni dominanti nell’università. L’oggetto principale dell’attacco condotto dal fronte comune dell’avanguardia fiorentina è infatti proprio il mondo accademico, che tendenzialmente li esclude o per mancanza dei titoli di accesso (è il caso dei non laureati Papini e Prezzolini, ma anche di Croce, benché nel suo caso si tratti di un “gran rifiuto” più che di un’impossibilità), o mantenendoli in una condizione di precariato professionale ed esistenziale a dispetto di uno specchiato cursus honorum: il caso più clamoroso è quello di Giovanni Gentile24. L’università viene attaccata, soprattutto sulla «Voce», con violenza e da diverse angolature: la rivista è sempre pronta a discutere l’ultimo scandalo accademico, a ridicolizzare i più celebri esponenti del mondo universitario locale (come lo storico e critico letterario dell’Istituto di studi superiori di Firenze Guido Mazzoni) o glorie nazionali della scienza positivista come Roberto Ardigò o Cesare Lombroso. Contro i metodi dell’accademia L’università denigrata sulla «Voce» è quella “germanizzata”, cioè caratterizzata dal prestigio crescente delle discipline scientifiche («positivismo», «materialismo»); dalla specializzazione all’interno delle discipline umanistiche e dalla proposta di modelli scientifici anche per questo tipo di studi («erudizione», «metodo storico»); dall’avvento di nuove discipline come la sociologia o la psicologia, che sottraggono a filosofi e letterati il loro tradizionale terreno di azione25. Le armi 24
Croce prende spunto dalle difficoltà incontrate da Gentile all’inizio della carriera per un attacco frontale alle modalità del reclutamento universitario: Benedetto Croce, Il caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana, Laterza, Bari 1909. 25 Il fenomeno è europeo, come spiega Charle: «Il prestigio degli universitari è molto più evidente nelle discipline scientifiche che nelle materie letterarie e giuridiche. Questo ideale, nato in Germania, istituisce inedite divisioni fra i membri della comunità universitaria più o meno disposti ad accettarle. Alcuni, soprattutto i sostenitori della cultura umanistica, criticano gli eccessi dello scientismo e della specializzazione universitaria» (Gli intellettuali nell’Ottocento, cit., pp. 205-206). Contro la Germania positivista e materialista l’avanguardia fiorentina fin dal «Leonardo» rivendica come propria la Germania “dello Spirito” (→ cap. 3).
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concettuali usate dai vociani contro il mondo universitario positivista e scientista sono quelle apprestate da Croce nei decenni precedenti, nel corso della sua battaglia per l’affermazione della filosofia idealista: la demolizione epistemologica delle scienze dure, che arriva fino alla negazione della possibilità di una filosofia della scienza26; la distruzione concettuale dei confini e delle specializzazioni disciplinari in nome di un sistema onnicomprensivo e dell’unità delle idee; la contestazione della validità dei riconoscimenti intellettuali provenienti dalle istituzioni scolastiche, con la complementare esaltazione delle posizioni “libere” come le uniche in grado di produrre un autentico rinnovamento intellettuale27. L’alleanza con l’editoria Croce non è però soltanto un punto di riferimento nella battaglia anti-positivista e contro le università, ma anche un maestro di pratiche per la conquista dell’egemonia intellettuale. Da una parte, la «Critica» è l’esempio riuscito di come una rivista possa contribuire a consolidare una posizione intellettuale al di fuori delle istituzioni accademiche e da legami con la politica e con il giornalismo; dall’altra, fin dal 1902 Croce coordina le iniziative di una casa editrice periferica rispetto a Milano (che è già capitale dell’editoria nazionale): grazie alla sua collaborazione, Laterza di Bari diventerà uno dei più importanti editori di cultura del Novecento italiano. Come ha scritto Eugenio Garin, Croce non influì attraverso scolari, giornali, istituti, ma attraverso una vasta produzione editoriale, che, a un certo momento, indicò agli italiani quali classici leggere, e come; quali filosofi, quali storici, quali critici28.
26 In questi anni Croce, spalleggiato da numerosi articoli della «Voce», entra in polemica con il matematico Federico Enriques, organizzatore del IV Congresso Internazionale di Filosofia tenutosi a Bologna dal 5 all’11 aprile 1911: cfr. Claudio Bartocci, Scienza e filosofia: un divorzio italiano, in S. Luzzatto, G. Pedullà, D. Scarpa (a cura di), Atlante della letteratura italiana, 3 voll., Einaudi, Torino 2012, vol. III, pp. 448-453. 27 In un articolo del 1908 Croce giunge alla proposta, swiftianamente paradossale, di abolire le cattedre di filosofia per sgomberare il campo dall’insignificante produzione accademica e lasciare spazio alle opere prodotte liberamente, che sole possono produrre un «risveglio filosofico»: Benedetto Croce, Il risveglio filosofico e la cultura italiana, «La Critica», 6, 1908, pp. 161-178. 28 Eugenio Garin, Editori italiani tra ’800 e ’900, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 110.
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Papini e Prezzolini, chiamati da Croce a collaborare con Laterza come traduttori o prefatori – e come loro tanti altri giovani intellettuali entrati nella sfera d’azione crociana –, apprendono sul campo quanto potente sia l’editoria come strumento per divulgare idee, opere, progetti. Entrambi diventeranno a loro volta direttori di collane (Papini) o editori in proprio (Prezzolini) → cap. 2.
3. La polarizzazione del campo: contro l’eteronomia economica In quale contesto si collocano le iniziative editoriali di Croce, Papini e Prezzolini? L’editore ideale La Coltura italiana traccia un quadro dell’editoria italiana a inizio Novecento piuttosto sconfortante (→ ant. 2). Papini e Prezzolini deplorano la mancanza in Italia di un editore che «voglia formare il suo pubblico, invece di esserne formato»29: di un editore, cioè, che non obbedisca esclusivamente alle esigenze del mercato ma che contribuisca alla difesa dei valori della cultura. Come scrive Papini a Prezzolini il 15 aprile 1907, accarezzando per la prima volta l’idea di farsi editore, il suo proposito è quello di essere un editore che non è solo un mercante – un pensatore che dopo aver predicato l’azione cerca di dar l’esempio – uno scrittore che dopo essersi accorto dello sfruttamento editoriale cerca di creare una piccola azienda un po’ diversa dalle altre e in cui sarà possibile pubblicare cose che nessun altro editore accetterebbe30.
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testiana di Cesena: la sua indipendenza dal giornalismo e dall’accademia, campi culturali esecrati dall’avanguardia, ha contribuito alla mitizzazione della sua figura e della sua opera critica31. Nel 1914 Serra pubblica Le lettere (→ ant. 15), «cronaca […] in cui si rende conto dei libri e dei loro scrittori, dal punto di vista del pubblico che legge e secondo la più comune impressione»32: il giudizio del critico sugli autori e sulle opere è infatti preceduto da un capitolo di analisi del mercato, dove Serra afferma esplicitamente che il libro è diventato una merce, anche se non tutti i generi editoriali lo sono alla stessa maniera. La gran massa della “letteratura amena” – termine che indicava, a inizio Novecento, quella che oggi chiamiamo “letteratura commerciale” – è costituita infatti da romanzi e racconti. Contro il romanzo commerciale Gli autori che scrivono sul «Leonardo», sulla «Voce» e su «Lacerba» si posizionano all’altro polo del campo rispetto a questo tipo di narrativa. Rivendicando l’autonomia dell’arte dalle esigenze di un sistema giornalisticoeditoriale che produce industrialmente novelle e romanzi destinati a un consumo superficiale, deplorano l’usurpazione del titolo di “scrittore” da parte dei «fornitori di prosa», coloro, cioè, che scrivono sui giornali, che sono accettati dalle riviste, che fanno dei drammi, che pubblicano novelle, critiche e articoli di politica, e che s’assomigliano un po’ tutti quanti, perché ve li trovate davanti con quella prosa sempre eguale, senza una personalità artistica o morale o pratica ben distinta, dovunque posate gli occhi, dalla Lettura al Secolo XX, dall’Avanti! al Corriere, dal Ventesimo al Marzocco, dal Messaggero al Resto del Carlino33.
L’analisi del mercato editoriale nelle Lettere di Renato Serra Qual-
che anno dopo La Coltura italiana un quadro non dissimile viene tracciato da uno degli autori più schivi della «Voce», Renato Serra (1884-1915), una delle figure chiave della nuova critica letteraria degli anni Dieci insieme a Emilio Cecchi (1884-1966) e Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952). A differenza di questi ultimi Serra non esercita la propria attività critica sui quotidiani o all’università, ma si guadagna da vivere come direttore della Biblioteca Mala29 30
Papini, Prezzolini, La Coltura italiana, cit., p. 41. Papini, Prezzolini, Carteggio, I, cit., p. 695.
31 Borgese è corrispondente del «Mattino» e della «Stampa» dal 1907, e dal 1910 professore universitario prima a Roma poi a Milano; dal 1910 Cecchi è il critico letterario del quotidiano romano «La Tribuna». Entrambi sono oggetto di frequenti stilettate sulla «Voce» e «Lacerba» per i loro legami con il giornalismo e l’università. La mitizzazione della figura di Serra deve molto anche alla sua morte precoce in guerra nel 1915. 32 Renato Serra, Le lettere (ristampa), con l’aggiunta dei Frammenti inediti del secondo volume e di un indice onomastico, Società anonima editrice La Voce, Roma 1920, p. 8. 33 Giuseppe Prezzolini, “Il Viandante”, «La Voce», 16-9-1909, p. 163. Prezzolini elenca diverse testate di quotidiani nazionali e i loro allegati: sulla costituzione di un sistema integrato di pubblicazione narrativa tra editoria libraria, quotidiana e
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Fin dal «Leonardo» Papini si era fatto beffe dell’«industriale torinese»34 Edmondo De Amicis, autore di uno dei rari bestseller italiani: secondo il suo editore Treves, nel 1906 Cuore (1886) aveva già venduto più di 330mila copie, un risultato eccezionale per un autore italiano, dato che «gran parte della letteratura popolare in Italia è letteratura straniera»35. Sempre sul «Leonardo», Papini aveva brandito contro Gabriele D’Annunzio gli insulti «ben venduto scrittore» e «mercante di parole»36, mentre la «Voce» e «Lacerba» attaccano autori di romanzi di successo, che spesso avevano fatto dello scandalo un veicolo pubblicitario: Umberto Notari (18781950), fondatore di quotidiani ed editore oltre che romanziere37; Luciano Zuccoli (1868-1929), che Serra definisce «il capofila della nostra letteratura amena», «lo scrittore ridotto a macchina»38; e infine Guido da Verona (1881-1939), che pure non ha ancora raggiunto la vetta delle classifiche di vendita (il suo exploit sarà il romanzo del ’16 Mimì Bluette, fiore del mio giardino, che nel giro di pochi anni supera la soglia delle 300mila copie vendute)39. periodica cfr. Valentina Perozzo, “Il notomista delle anime”: sociologia e geografia del romanzo nell’Italia di fine Ottocento (1870-1899), Tesi di dottorato in Scienze Storiche, XXV ciclo, Università di Padova, 2013. 34 Gian Falco [pseudonimo di Papini], L’idiota gentile, «Leonardo», aprile 1905, p. 66. 35 I libri più letti dal popolo italiano. Primi resultati della inchiesta promossa dalla Società Bibliografica Italiana, Società Bibliografica italiana presso la Biblioteca di Brera, Milano 1906, p. 14. 36 Gian Falco, Non rispondo a G. D’Annunzio, «Leonardo», febbraio 1907, p. 109. Nella Coltura italiana Papini parla di D’Annunzio come di un «poeta editoriale», un «arnese di réclame» (p. 85). 37 Umberto Notari appare come bersaglio polemico già in alcuni articoli del «Leonardo»: il suo romanzo Quelle signore, processato per oscenità nel 1906, viene inserito da Papini nella «letteratura suina» («Leonardo», aprile-giugno 1907), mentre sulla «Voce» del 14-1-1909 Cepperello (pseudonimo del giornalista Luigi Ambrosini) stronca uno dei numerosi quotidiani fondati da Notari, «La Giovane Italia» (su cui verrà pubblicato il Manifesto del futurismo) e accomuna il Notari scrittore alla prolifica romanziera d’appendice Carolina Invernizio; il 10-7-1913 è un editoriale firmato «La Voce», dunque da attribuire al direttore Prezzolini, a fare le pulci a due collane di classici pubblicate dall’Istituto Editoriale Italiano di Notari. Questo interesse specifico per Notari è dovuto anche al fatto che il romanziere-editore è un importante compagno di strada di Marinetti, il cui movimento futurista è oggetto di ripetuti attacchi sulla «Voce». 38 Serra, Le lettere, cit., pp. 113 e 115. A Luciano Zuccoli (1868-1929) «Lacerba» dedica il 25 febbraio 1914 una delle più caustiche tra le sue rubriche, Sedia elettrica. 39 «La Voce» dell’8-5-1914 gli dedica una colonna del «Bollettino Bibliografico»: «G. da V. formava un oggetto di ammirazione per i nostri giornalisti che avevano no-
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4. Benedetto Croce, il nemico Croce attore del campo letterario Nelle Lettere Serra dedica due soli capitoli a un singolo autore: uno allo scrittore più consacrato in Italia e all’estero, Gabriele D’Annunzio, l’altro – sorprendentemente per chi consideri l’architettura del libro a distanza di più di un secolo – a Benedetto Croce. In effetti, benché nel primo decennio del Novecento abbia portato a compimento la Filosofia dello spirito (all’Estetica fanno seguito nel 1909 la Logica e la Filosofia della pratica), Croce è in questi anni anche (forse soprattutto, se diamo retta a Serra40) un attore cruciale del campo letterario, in cui investe le sue migliori energie di polemista: fino al 1914 i saggi che pubblica sulla «Critica» trattano esclusivamente di letteratura (Note sulla letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX), mentre il quadro liquidatorio della filosofia del mezzo secolo passato è affidato a Gentile; nelle recensioni pubblicate sulla rivista, poi, Croce si dedica soprattutto alla battaglia per imporre una critica letteraria che si ispiri ai principi dell’Estetica. Quali sono le ragioni di questo investimento nel campo letterario da parte di un intellettuale che ai posteri appare innanzitutto nelle vesti del filosofo? Una prima risposta la fornisce uno dei suoi nemici acerrimi, Papini, che il 21 febbraio 1913 compie il primo passo pubblico di avvicinamento al movimento di Marinetti pronunciando al Teatro Costanzi di Roma un discorso Contro Roma e contro Benedetto Croce: Il Croce è stato abilissimo conquistandosi la maggior parte dei letterati che non sapevano nulla di filosofia mettendo a base del suo sistema l’estetica, l’intuizione, l’arte. Ha capito che in Italia la letteratura attira assai più delle teorie e perciò s’è messo a fare il critico letterario, mestiere per il quale il poveruomo non era affatto tagliato data la mancanza assoluta tato come i suoi romanzi “andavano”. […] G. da V. aveva ormai trovato il suo tipo di romanzo che piaceva e avrebbe potuto continuare a servirlo tiepido e raffreddato senz’ombra d’inconvenienti. Un po’ di intreccio, qualche pagina di erotismo, una tesi “ardita” e il pasticcio drogato era pronto» (p. 54). 40 Negli appunti preparatori al secondo volume, mai terminato, Serra scrive che la filosofia «è il campo in cui l’impronta del Croce è meno profonda. Il Croce non ha veri discepoli in filosofia» (Serra, Le lettere, cit., p. 199).
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di sensibilità artistica di cui ha dato infinite malinconiche prove. Ma la letteratura era per lui il piedistallo per arrivare al dominio intellettuale41.
«Lacerba» anti-crociana L’ostilità contro Croce è uno dei fondamenti dell’alleanza di Papini e Soffici con i futuristi, che si definisce nel corso del 1913 sulle pagine di «Lacerba». All’offensiva anti-crociana dei due fiorentini si aggiunge la firma del pittore futurista Carlo Carrà (1881-1966): Il futurismo, nato sei anni fa, ebbe fin dall’inizio lo scopo principalissimo di difendere il genio novatore italiano, combattendo accanitamente tutta la cultura tedesca, la filosofia professionale tedesca e l’ossessione culturale italiana che ne derivava, rappresentata da Benedetto Croce, dal Gentile, ed infine dal loro commesso viaggiatore per lo spaccio al minuto: Giuseppe Prezzolini42.
Sulle pagine di «Lacerba», e soprattutto nelle rubriche anonime (Sciocchezzaio, Caffè, Almanacco purgativo) dove si dispiega l’anima goliardica della rivista, Croce viene rappresentato come un filisteo borghese43, in quanto tale sordo alle ricerche degli artisti contemporanei, e perciò usurpatore del ruolo di critico letterario: «Non s’intende d’un cazzo di poesia come più volte ha dato a divedere»44. 41 Giovanni Papini, Discorso di Roma, «Lacerba», 1-3-1913, p. 40; il discorso viene ristampato come foglio volante a cura del Movimento Futurista con il titolo Contro Roma e contro Benedetto Croce. 42 Carlo Carrà, Sul passatista Prezzolini, «Lacerba», 24-1-1915, p. 31. Cfr. anche Id., Contro la critica, «Lacerba», 15-12-1913, p. 287: «Ogni qualvolta un filosofo fa della critica d’arte, vuol penetrare in un regno che non gli appartiene. (Alcuni Crociani protestano). Codesta corrente viene dalla Germania, da quella Germania che non seppe mai darci un pezzo di pittura, di scultura o d’architettura appena tollerabili. (Da un palco un gruppo di tedeschi urla qualche cosa d’incomprensibile). […] La critica d’arte fatta a base filosofica ed erudita altro non è se non un’enorme pisciata di boriose chiacchiere (siiiiibili, pernacchi, trombette, vocìo indescrivibile)» (grassetti e corsivi dell’originale). 43 «Benedetto Croce era già rangé in tutti i sensi: milionario nel piano economico; senatore nel piano pubblico; filosofo celebre nel piano spirituale. Ora, in questi giorni, ha preso moglie ed è a suo posto anche nel piano sociale. Ormai non gli manca più nulla. Ogni strada di libertà è sbarrata; confidiamo ch’egli trascorrerà in un felice, decoroso e vantaggioso silenzio il resto della sua vita» (Caffè, «Lacerba», 15-3-1914, p. 95). 44 Caffè, «Lacerba», 1-6-1914, p. 175.
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L’alleanza di Papini e Soffici con i futuristi, cementata in primis dall’ostilità a Croce, è rinsaldata da un altro nemico comune: «I futuristi – scrive Papini – a dispetto delle loro bravate americaniste, hanno tra i loro fini la guerra senza quartiere all’arte per il commercio, per il pubblico, per i quattrini»45. Nella formula «bravate americaniste» risuona l’eco di come il futurismo era stato trattato sulla «Voce» non solo da protégés di Prezzolini come Scipio Slataper (1888-1915)46 o Alberto Spaini (1892-1975)47, ma anche dallo stesso Soffici, i cui caustici articoli avevano provocato una spedizione punitiva dei futuristi, che nel luglio 1911 lo avevano aggredito al caffè Giubbe Rosse di Firenze. Fino al 1913, insomma, l’avanguardia fiorentina e quella futurista sono in aperto conflitto per la conquista del capitale simbolico al polo più autonomo del campo letterario: a che cosa è dovuto il radicale cambiamento di rotta dei lacerbiani? Le ragioni di un’alleanza Per comprenderlo, dobbiamo spostarci nella capitale della République mondiale des lettres. Nel 1912 Marinetti organizza a Parigi una mostra di pittura futurista che suscita scalpore negli ambienti dell’avanguardia francese. Immediata è la reazione di Soffici, che fa uscire sulla «Voce» un primo segnale di conciliazione: se il futurismo riscuote interesse a Parigi, forse non è quel circo Barnum dell’arte come l’aveva descritto lui stesso fino a quel momento48. Per Papini e Soffici l’alleanza con i futuristi significa l’aggregazione a un movimento artistico in procinto di ottenere una consacrazione internazionale, ma anche l’opportunità di un distacco radicale dall’ambiente vociano. Anche i futuristi hanno parecchio da guadagnare dal fronte comune: Marinetti può ottenere attraverso Soffici il riconoscimento dei circuiti più avanzati dell’avanguardia francese raccolti intorno ad Apollinaire; «Lacerba» gli offre inoltre una tribuna nazionale in un momento in cui il baricentro del futurismo si sta spostando verso Sud con l’apertura delle Gallerie Sprovieri a Napoli e Roma (dicembre 1913 e maggio 1914). 45
Giovanni Papini, Il significato del futurismo, «Lacerba», 1-2-1913, p. 25. S. S., Il futurismo, «La Voce» 31-3-1910, p. 295. Su Slataper → capp. 2 e 4. 47 Alberto Spaini, [recensione a Paolo Buzzi, Versi liberi, «La Voce»], 26-6-1913, p. 1110. Su Spaini → cap. 5, Traiettoria. 48 Ardengo Soffici, Ancora del futurismo, «La Voce», 11-7-1912, p. 852. 46
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L’alleanza ha però vita breve, e termina con la netta distinzione, su «Lacerba», tra futurismo e marinettismo: i futuristi autentici, cioè i veri innovatori, sono Papini, Soffici, Palazzeschi, che si dichiarano alla ricerca di un pubblico elitario, mentre i marinettisti sarebbero schiavi della pubblicolatria, capaci di innovazioni solo esteriori perché privi di un solido fondamento teorico-estetico.
5. L’avanguardia fiorentina e l’estetica di Croce Il crocianesimo degli anti-crociani In realtà le pratiche artistiche dei futuristi non sono tanto prive di un fondamento teorico, quanto irriducibili a uno specifico fondamento teorico: quello dell’estetica di Croce, con cui sono invece compatibili le opere prodotte dai lacerbiani, per quanto risolutamente questi dichiarino la loro ostilità al filosofo49. Questa contraddizione è segnalata ripetutamente dai loro avversari come da semplici osservatori: lo nota Giovanni Boine in un articolo pubblicato sulla «Voce» nel 191350, vi punta il dito Prezzolini in una serie di articoli dell’anno successivo51, lo constatano Serra nelle Lettere52 e Giani Stuparich nella biografia scritta dopo la guerra in memoria dell’amico Slataper, che costituisce un primo bilancio del «movimento vociano»:
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Contro la concezione dell’arte come intuizione, che ha come corollario l’irrilevanza dei contenuti per il giudizio estetico, il futurismo esalta l’importanza della modernità di ciò che viene rappresentato in arte; i manifesti futuristi sono spesso manifesti “tecnici”, mentre Croce aveva proclamato l’irrilevanza della tecnica nella valutazione artistica; contro il soggettivismo dell’Estetica, nel Manifesto tecnico della letteratura futurista (1912) Marinetti proclama la necessità di abolire l’io. 50 Giovanni Boine, Epistola al «Tribunale», «La Voce», 21-8-1913, p. 1142: «il terribile Soffici non è uscito mai un momento dall’ambito dell’odiata “Estetica”; non ha mai nemmeno per un instante in tanto strombazzo sognato qualcosa che sconfini in ispirito le “formule secche” dell’estetica di Croce». 51 Giuseppe Prezzolini, Un anno di “Lacerba”, «La Voce», 28-1-1914, pp. 3-17; 28-2-1914, pp. 33-39; 28-3-1914, pp. 2-5. 52 «C’è Croce, per esempio, che gli [a Soffici] fa un’ombra terribile; ed è poi il suo maestro, nelle poche idee chiare che è arrivato ad avere sulla critica» (Serra, Le lettere, cit., p. 140).
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Se Benedetto Croce può considerarsi come parte poco importante del movimento vociano, la sua Filosofia dello spirito lo sorresse e lo accompagnò tutto. È inutile oggi parlare delle antipatie personali di qualcuno dei vociani contro il Croce. L’anticrocianismo del Papini e del Soffici fu reale, ma non serve come dimostrazione che il Papini e il Soffici non furono crociani53.
L’estetica di Croce Nell’Estetica Croce aveva definito l’arte come espressione di un’«intuizione» o «impressione», cioè di un’emozione, di un fatto psichico. Da questa definizione Croce deriva una serie di corollari che definiscono ciò che può rientrare, e soprattutto ciò che non deve rientrare, nel giudizio artistico: 1. deve esserne esclusa ogni considerazione riguardante i contenuti, perché qualsiasi impressione che generi un’espressione costituisce un fatto estetico: l’arte è questione di pura forma54; 2. deve esserne esclusa ogni considerazione di tipo strutturale, poiché Croce postula una indivisibilità del bello che fa sì che ogni scomposizione analitica dell’opera corrisponda a una vivisezione, a una trasformazione del vivente in cadavere; 3. deve esserne esclusa ogni considerazione tecnica, poiché per Croce l’opera d’arte autentica è quella interna, cioè l’impressione trasformata in espressione nella mente dell’artista, mentre quella esterna, prodotta attraverso le tecniche delle diverse arti (retoriche, metriche, narrative, figurative, architettoniche, musicali, ecc.) non costituisce fatto estetico55; 53 Giani Stuparich, Scipio Slataper, Società Anonima Editrice la Voce, Firenze 1922, p. 37. 54 «Il fatto estetico è perciò forma, e niente altro che forma. […] Non resta che consigliare ai critici di lasciare in pace gl’artisti, che non possono non ispirarsi se non a ciò che ha fatto su di essi impressione»: Benedetto Croce, Tesi fondamentali di un’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Stabilimento tipografico nella Regia università di A. Tessitore e figlio, Napoli 1900, pp. 8 e 21 (facciamo riferimento a questo testo che costituisce la prima espressione organica dell’estetica crociana). 55 «Il fatto estetico si esaurisce tutto nell’elaborazione espressiva delle impressioni. Quando abbiamo conquistato la parola interna, concepito netta e viva una figura o una statua, trovato un motivo musicale, l’espressione è nata ed è completa. […] Si suol distinguere l’opera d’arte interna dall’opera d’arte esterna: la terminologia ci pare infelice, giacché l’opera d’arte (l’opera estetica) è sempre interna. Ma, accettandola per un momento (il che non nuoce nel caso presente), diremo che il fatto estetico concerne soltanto l’opera d’arte interna, e che quella esterna non è fatto estetico. […] Si dice talora che uno scrittore ha inventato una nuova tecnica del romanzo o del
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4. deve esserne escluso ogni riferimento alle norme che definiscono i confini tra i generi56. L’anticrocianesimo dei crociani L’estetica crociana non ha nulla di particolarmente originale – potremmo dire che erige a sistema le caratteristiche che oppongono l’arte post-romantica alle estetiche normative classiche. Ma non è tanto l’originalità quanto la natura sistematica della Filosofia dello spirito a spiegare sia la rapida acquisizione di prestigio di Croce presso i letterati di inizio secolo, sia l’insofferenza generata in scrittori e artisti che pure, nelle loro opere, mostrano di condividerne i princìpi estetici. Da una parte, le prese di posizione e i giudizi critici di Croce, essendo fatti derivare da un’opera teorica che pretende di dare una risposta esaustiva a ogni questione epistemologica, etica o estetica, si impongono come naturalmente autorevoli; dall’altra, l’atteggiamento giudicante, implicito in una critica che si fonda su un sistema che si auto-rappresenta come inattaccabile, esaspera l’antagonismo strutturale tra l’artista impegnato anima e corpo nella produzione della sua opera, e il critico distaccato e giudicante; i gusti attardati di Croce, i cui punti di riferimento per la grandezza letteraria rimangono i classici del passato, non fanno che esasperare ulteriormente questo dissidio. Le estetiche son proprio due; una per quelli che non creano ed una per quelli che creano. […] i creatori hanno una loro estetica meno, per forza, ragionata di quella dei non creatori che stan passivi a godere, meno ampia, meno cosciente e sistematica, perché la coscienza di chi fa realmente una cosa […], la coscienza di chi agisce è sempre più breve, più aderente alla cosa, all’azione, più utilitariamente occupata (più orgogliosamente dominatrice e gelosa) della sua cosa, della sua azione immediata che non la coscienza di chi osserva senza agire e può collocare e può, con questo, disinteressato criterio, inquadrare57. dramma, un pittore una nuova tecnica del distribuir la luce. Qui la parola è usata a casaccio: la pretesa nuova tecnica è proprio quel dato nuovo romanzo, quel nuovo dramma, quel nuovo quadro»: ivi, p. 22. 56 «Dalla teorica dei generi artistici e letterarii derivano quelle fogge erronee di giudizio e di critica che innanzi ad un’opera d’arte, in luogo di determinare se è o no espressiva, se parla o se balbetta e tace addirittura, se insomma è bella o brutta tout court, si domanda: – è essa conforme alle leggi del poema epico o della tragedia? Alle leggi della pittura storica, o del paesaggio?»: ivi, p. 32. 57 Giovanni Boine, Un ignoto, «La Voce», 8-2-1912, pp. 750-751. Poeta e narratore cattolico di origini liguri, Boine (1887-1917) pubblica con la Libreria della Voce
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La lunga e articolata dichiarazione di poetica attribuita da Boine a «un ignoto» è programmaticamente ostile a Croce benché, come nel caso dei lacerbiani, compatibile con i postulati dell’Estetica: che possiamo interpretare, a questo punto, non tanto come il prodotto delle riflessioni teoriche di un individuo sull’arte, quanto come un prodotto del campo in cui quell’individuo agisce. L’Estetica di Croce argomenta e sistematizza quelli che sono i princìpi regolativi del fare artistico condivisi dagli artisti dell’avanguardia fiorentina.
6. La dissoluzione dei generi Ma quali sono questi principi regolativi? Quali sono le regole dell’arte istituite da questa avanguardia? Regole dell’arte e “spazio dei possibili” Parlando di regole dell’arte cerchiamo di dar conto di una serie di regolarità, appunto, che si riscontrano tanto nelle opere letterarie quanto nelle considerazioni critiche che le accompagnano. Da ciò che gli scrittori producono – e ancor di più da ciò che non producono, che si rifiutano di produrre – è possibile ricavare un corpus di norme e interdetti, mai formalizzati in alcun decalogo – neppure nell’Estetica di Croce – ma introiettati da tutti coloro che investono la loro esistenza nella conquista di un capitale simbolico specificamente letterario. Le regole dell’arte esprimono quello che Bourdieu chiama “spazio dei possibili”: quel repertorio di forme, generi, contenuti che, in un dato momento storico e in un’area specifica del campo (nel nostro caso, una delle avanguardie al polo più autonomo), è praticabile da uno scrittore. Una prima “regola” ha a che fare con la concezione soggettivistica dell’arte che Croce postula con l’equivalenza “arte = espressione di un’intuizione”. Se prioritario è il sentire dell’artista, che ne ricerca l’espressione più consona, quest’ultima potrà assumere ogni forma e travasarsi in ogni genere: se un’intuizione Il peccato e altre cose (1914), Discorsi militari (1915), Frantumi seguiti da «Plausi e botte» (1918). Sull’opposizione auctores/lectores cfr. Pierre Bourdieu, Il critico, o il punto di vista dell’autore [2002], «allegoria», LV.1, 2007, pp. 26-31.
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è meglio espressa dai versi lo scrittore farà versi, se dalla prosa farà prosa – ma potrà anche scrivere un saggio, o dipingere un quadro (come nel caso di Soffici). Le distinzioni letterarie tradizionali perdono così rilevanza: non solo quelle tra generi letterari, ma anche tra prosa e poesia, o tra la scrittura letteraria e altre pratiche intellettuali o artistiche. “Poeti” in versi e in prosa Diversi indizi manifestano questa doxa, a partire dal modo in cui l’avanguardia fiorentina definisce il vero scrittore, chi produce la vera letteratura: quali che siano le forme e i generi praticati, sarà sempre e comunque un “poeta” – in contrapposizione al “letterato” piegato alle logiche del mercato o del giornalismo. Così, un acclamato libro di Papini uscito nel 1915 si intitola Cento pagine di poesia anche se i testi che vi compaiono sono tutti in prosa; un’antologia del 1920, curata dallo stesso Papini insieme al critico Pietro Pancrazi, nata con l’intento di definire il canone letterario dei primi due decenni del secolo, si intitola Poeti d’oggi pur raccogliendo testi in prosa e in versi. Sono significativi anche i modi con cui la «Voce» sceglie di presentare la produzione editoriale legata alla rivista, la collana quaderni della «voce». Negli spazi pubblicitari dei numeri del 5 settembre e del 19 dicembre 1912 un’unica etichetta, «Lirica», riunisce opere che noi classificheremmo in generi diversi: la tragedia Giuditta del tedesco Hebbel tradotta da Slataper e Marcello Loewy (1910); i Racconti di Cecof [sic] tradotti da Jastrebzof e Soffici (1910); il memoir fittizio di Papini Memorie d’Iddio (1911); il romanzo picaresco di Soffici Lemmonio Boreo (1912); l’autobiografia Il mio Carso di Slataper (1912). Questo elenco offre, tra l’altro, un primo canone della produzione letteraria conforme alle regole dell’arte dell’avanguardia fiorentina58. È lo stesso direttore della «Voce», in un editoriale del 7 novembre 1912, a spiegare cosa si debba intendere con l’etichetta «Lirica»: La Voce aprirà le sue colonne, fin da questo numero, come finora non aveva fatto, alla creazione artistica dei suoi collaboratori. Essa pubblicherà non soltanto novelle, racconti, versi, non soltanto disegni originali e 58 Le Memorie d’Iddio e il Lemmonio Boreo saranno poi sostituiti in questo canone da opere, rispettivamente di Papini e di Soffici, unanimemente riconosciute come più compiute: Un uomo finito (1913) e Giornale di bordo (1914).
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riproduzioni di quadri o di scolture, ma ogni forma di lirica, dal diario al frammento, dallo schizzo alla impressione. Purché ci sia vita59.
Per una letteratura filosofica Le distinzioni che le pratiche dell’avanguardia fiorentina dissolvono non sono solo interne alla letteratura. Già nella Coltura italiana Papini e Prezzolini avevano auspicato l’avvento in Italia della figura del «filosofo che insieme è un classico della letteratura»60; Boine mette in bocca all’Ignoto l’auspicio di una «filosofia che sia arte, arte che sia filosofare»61; in un articolo altrettanto programmatico Papini suggerisce che «una letteratura di viso nuovo» «potrebbe venir fuori da un addentramento maggiore nell’animo umano, da un trattar artisticamente […] vicende spirituali, cerebrali, intellettuali»62: quanto, cioè, Papini stesso avrebbe fatto in Un uomo finito (1913). L’integrazione della critica nel dominio del letterario Questa letteratura nutrita di pensiero integra pienamente il saggio critico nei propri confini. La dissoluzione della frontiera tra letteratura e critica è un tratto di questa stagione letteraria tanto caratteristico che Prezzolini e Borgese vi individueranno lo scarto rispetto alla letteratura degli anni Venti: La critique a été après 1900 la principale activité de la littérature italienne; et le maître, dans ce domaine, est Benedetto Croce. L’après-guerre n’était pas un temps de critique63. Per tutto quel tempo due sole attività furono permesse allo scrittore. Non romanzo, non poema, non tragedia, non commedia, non opera né libro di alcun genere; fuorché la lirica e la critica tutto era considerato scelleratezza contro le Muse64.
59 Giuseppe Prezzolini, Come faremo «la Voce», «La Voce», 7-11-1912, p. 925, corsivo mio. 60 Papini, Prezzolini, La Coltura italiana, cit., p. 133. 61 Boine, Un ignoto, cit., p. 751. 62 Giovanni Papini, Le speranze di un disperato, «La Voce», 15-6-1911, p. 589. 63 [Dopo il 1900 la critica è stata la principale attività della letteratura italiana; e il maestro, in questo campo, è Benedetto Croce. Il dopoguerra non è stato un tempo di critica]: Giuseppe Prezzolini, La Littérature italienne de l’après guerre (19181928), «La Revue de Paris», Mai-Juin 1929, p. 117. 64 Giuseppe Antonio Borgese, Tempo di edificare [1923], Treves, Milano 1924, p. 247.
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7. L’interdetto su teatro e romanzo Come si intuisce dalle parole di Borgese, a dispetto della proclamata indifferenza ai generi, o della tolleranza teorica nei confronti di “intuizioni” “espresse” in qualsiasi forma e genere, le pratiche letterarie e critiche dell’avanguardia fiorentina istituiscono una gerarchia del valore che colloca in una condizione di inferiorità due dei tre macro-generi letterari della modernità, romanzo e teatro (il terzo è la poesia lirica). Entrambi sono penalizzati infatti dalla compromissione con l’eteronomia economica, il teatro ancor più del romanzo. L’eteronomia nel sistema teatrale di inizio Novecento Nel sistema teatrale di fine Ottocento-inizio Novecento il drammaturgo aveva un ruolo secondario rispetto alle esigenze delle compagnie teatrali. Come spiega Giovanni Verga (1840-1922) in un’inchiesta del 1895, l’opera drammaturgica non appartiene veramente allo scrittore, perché i suoi intenti sono continuamente manipolati da attori e capocomici proni alle aspettative del pubblico: Ho scritto pel teatro, ma non lo credo certamente una forma d’arte superiore al romanzo, anzi lo stimo una forma inferiore e primitiva, soprattutto per alcune ragioni che dirò meccaniche. Due massimamente: la necessità dell’intermediario tra autore e pubblico, dell’attore; la necessità di scrivere non per un lettore ideale come avviene nel romanzo, ma per un pubblico radunato a folla così da dover pensare a una media di intelligenza e di gusto, a un average reader, come dicono gli inglesi65.
In questa inchiesta il giovane critico Ugo Ojetti (1871-1946) intervista poeti, romanzieri e drammaturghi: la maggior parte degli interpellati, anche quelli che lavorano o hanno lavorato per il teatro, condividono le riserve di Verga, e il commediografo Marco Praga (1862-1929) giunge ad ammettere che il suo impegno nella scrittura teatrale è dovuto più a motivazioni economiche che a un privilegio dell’ispirazione («ho scritto una commedia all’anno perché mi occorre per vivere»)66. La situazione non è mutata una ventina d’anni più tardi, quando Serra pubblica Le lettere: 65 66
Ugo Ojetti, Alla scoperta dei letterati [1895], Bocca, Torino 1899, pp. 70-71. Ivi, p. 77.
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Tutti sanno che il teatro è una cosa che sta a sé; un mondo a parte, che ha la sua regola e il suo scopo in sé stesso, nel cerchio del palcoscenico e della sala. Può anche avere una importanza letteraria; ma, dopo e al di fuori. Le qualità letterarie e la bellezza entrano nel fatto teatrale solo come un elemento; e non il più importante. Il valore è un altro. […] È un’industria, esercitata da molti67.
Nelle parole di Serra riecheggiano le sconsolate constatazioni di Papini sulla difficoltà di guadagnarsi da vivere per il Giovane scrittore italiano: tra le varie possibilità da scartare, per chi voglia vivere della propria penna senza «imputtanarsi», c’è anche l’arte drammaturgica. «Non parlo di proposito del teatro ch’è un’industria a parte – scrive Papini –. Gli “articoli” più spacciabili e meglio pagati sono i libretti d’opera e le commedie borghesi spiritoso-sentimentali. Non è roba per uno che si stimi»68. Il teatro, insomma, proprio perché industria fiorente grazie a un pubblico relativamente ampio, viene escluso dalla produzione letteraria più autonoma, dove vige una netta contrapposizione tra arte e denaro69. Il romanzo come genere compromesso con l’eteronomia Anche la produzione romanzesca viene percepita dagli scrittori dell’avanguardia fiorentina come un tutt’uno con il polo di produzione eteronoma. L’importanza e la fioritura nel mercato di un’industria della novella e del romanzo compromette questi generi: inflazionati da una produzione seriale, appaiono quanto di più lontano dalla letteratura pura, dall’espressione di un’intuizione singolare e soggettiva. Ma il romanzo fa problema non solo per il fatto che questo genere costituisce il nerbo della letteratura commerciale. Vediamo cosa ne scrive Soffici su «Lacerba»: 67
Serra, Le lettere, cit., pp. 212 e 216. Papini, Il giovane scrittore italiano, cit., p. 37. 69 Quel che può suscitare interesse sono semmai opere teatrali considerate come testi, al di là della rappresentazione drammaturgica, come nel caso di Slataper che si occupa prima di Hebbel poi di Ibsen. Questo disinteresse per la concreta pratica teatrale è confermato dall’incomprensione con cui proprio Slataper parla del “reinhardtismo”, cioè dei primi passi del teatro di regia – la grande rivoluzione teatrale del Novecento – mossi dal «direttore scenico» Max Reinhardt (1873-1943) in Germania: Scipio Slataper, Del teatro, «La Voce», 18-1-1912, p. 736. 68
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Se ne avessi il tempo vorrei dimostrare la necessità del prossimo fallimento del romanzo, della novella e del teatro. Fissiamo qualche appunto. – Sono generi ibridi: storia, psicologia e lirica, eppure né l’una cosa né l’altra. – Fatti diversi rimpolpettati di poesia, la quale per essere subordinata alla necessità dell’intrigo è necessariamente di qualità impura. – Elementi transitori inerenti alla composizione: descrizioni d’ambienti e di momenti storici non nella loro realtà caratteristica lirica, ma come scenari e sfondi di un’azione immaginaria e priva di unità perché riassunto di osservazioni fatte a distanza nel tempo e nello spazio. – Aneddotismo, e falsità sostanziale di ogni trama di racconto o di dramma. – Frammenti di sensazioni dirette tenuti insieme da un cemento di zavorra. – Tesi e rettorica obbligatorie. – Letteratura amena, fatta per passare il tempo. Libri dell’avvenire: raccolte di pure effusioni liriche, autobiografie, epistolarî e volumi di osservazioni psicologiche70.
naggio, si spinse nel passato, esplorò il futuro, o cercò di rendere impersonalmente il discorso di un contadino o di una prostituta come nel periodo del Verismo»72. Nessuno scrittore dell’avanguardia fiorentina, insomma, pratica l’invenzione, esce dai confini della propria esperienza biografica73 (→ ant. 11). Queste argomentazioni estetiche rivolte contro teatro e romanzo non devono farci dimenticare come queste teorizzazioni si fondino su un’opposizione strutturale: quella tra nuovi entranti e scrittori consacrati i quali – pensiamo al D’Annunzio lirico, romanziere e drammaturgo – si sono affermati proprio praticando i generi interdetti dall’avanguardia fiorentina.
Il romanzo come genere ibrido Due elementi cruciali concor-
8. I generi legittimati dall’avanguardia fiorentina: autobiografie liriche, frammenti, saggi critici
rono quindi – insieme alla minaccia dell’eteronomia – all’interdetto che l’avanguardia fiorentina oppone al romanzo. In primo luogo, il romanzo è un genere ibrido, costituito di giunture neutre e impoetiche che legano insieme frammenti di poesia. La struttura architettonica del romanzo, insomma, fa problema, come dichiara esplicitamente Papini: Chiunque ha un centesimo di gusto sa magnificamente che l’arte, – quando non si tratti di architettura o di liriche brevi – sta proprio nei frammenti e soltanto nei frammenti e che si leggono e si rispettano le più macchinose epopee e i più architettonici poemi e i più costrutti romanzi soltanto perché si sa di trovarci ogni tanto il verso, l’immagine, il pezzo, la pagina che son belli davvero e per sempre ci compensano lautamente della noiosità, decrepitezza o mediocrità del resto71.
Il romanzo come genere finzionale Secondariamente, come
Soffici spiega nel Giornale di bordo, «ogni trama di racconto o di dramma» è intrisa di «falsità sostanziale»: il romanzo, insomma, viene identificato con il genere finzionale per eccellenza. Nessuno degli scrittori che hanno collaborato alla «Voce» e alle altre riviste fiorentine – scriverà Prezzolini in uno dei numerosi bilanci dell’esperienza della sua giovinezza – «costruì un perso70 71
Ardengo Soffici, Giornale di bordo, «Lacerba», 15-8-1913, p. 183. Giovanni Papini, La Sor’Emilia, «La Voce», 28-2-1915, p. 355.
La «sincerità»74 a fondamento delle pratiche letterarie dell’avanguardia fiorentina si traduce in una produzione, lirica o narrativa, gestita da un io narrante identificabile con l’autore, o da narratori che fungono da maschere dell’io autoriale. In altre parole, «la nostra arte è autobiografia», come sentenzia Piero Jahier (1884-1966) sulla «Voce»75. 72 Giuseppe Prezzolini, Cronaca de «La Voce», in La Voce 1908-1913. Cronaca, antologia e fortuna di una rivista, con la collaborazione di E. Gentile e V. Scheiwiller, Rusconi, Milano 1974, p. 107. 73 Anche quando «La Voce» propone dei romanzi come modelli letterari, ne rifiuta l’attribuzione di genere: in uno degli articoli in cui presenta il Jean-Christophe di Rolland Prezzolini si premura di riportare una dichiarazione dello scrittore francese: «È chiaro che io non pretesi mai di scrivere un romanzo… Che cos’è dunque quest’opera? Un poema? Che bisogno avete d’un nome? Quando vedete un uomo, gli domandate forse se è un romanzo o un poema? Io faccio un uomo. La vita d’un uomo non si chiude nella cornice d’una forma letteraria» (g. pr., Romain Rolland, «La Voce», 10-11-1910, p. 431) → cap. 5. 74 In un articolo intitolato Le due tradizioni letterarie Papini passa in rassegna la letteratura italiana individuandovi due linee contrapposte che corrispondono a “sincerità” versus “falsità”: quest’ultima è condannata nei suoi rappresentanti, «il retore cascamorto, madrigalista nato, burattinaio concettinoso de’ sentimenti suoi, falso nell’espressione anche quando l’animo è sinceramente commosso: – il trovatore, il marinista e l’arcade innamorato e poetante che ti trovi tra i piedi in tutti i secoli della letteratura, dai siciliani del dugento ai dannunziani del novecento» («La Voce», 3-1-1912, p. 727). 75 Piero Jahier, La salute, «La Voce», 25-7-1912, p. 861. Jahier è uno scrittore e poeta di religione valdese, nato a Genova, cresciuto a Torino e trasferitosi a Firenze
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Gli autori dell’avanguardia fiorentina scrivono quindi autobiografie, una definizione modulata di volta in volta da attributi variabili: la «Voce» del 4 luglio 1912, pubblicando un estratto del Mio Carso di Slataper, ne parla come di un’«autobiografia lirica»; in una lettera del 18 maggio 1908 Papini spiega a Prezzolini che il libro a cui sta lavorando è «una specie di autobiografia ideale, tipo Wilhelm Meister, che esporrà i risultati migliori delle mie diverse esperienze»76; il libro è Un uomo finito, che «La Voce» del 12 giugno 1913 definisce «autobiografia cerebrale lirica». La stessa critica letteraria pubblicata sulla «Voce» – critica che, ricordiamolo, in questo momento fa parte integrante della letteratura legittima – esibisce marchi di sincerità: molti dei saggi pubblicati sulla «Voce» cominciano con un “io” che si premura innanzitutto di chiarire narrativamente il posizionamento dello scrivente rispetto all’opera o all’autore di cui parlerà77. Intuizione lirica e frammenti Un’altra conseguenza del rifiuto della costruzione architettonica e dell’aspirazione alla sincerità è la forma frammentaria che assumono molte opere di questi autori; il termine “frammenti” (o suoi equivalenti) è spesso presente fin nei titoli delle opere, originali o in traduzione, apparse nelle collane di Papini e Prezzolini: F. Hölderlin, Iperione. Frammenti tradotti da Gina Martegiani (R. Carabba 1911); Frammenti lirici di Clemente Rebora (Voce, 1913); Frammenti di Novalis, tradotti da Prezzolini (R. Carabba, 1914); Nietzsche, Lettere scelte e frammenti epistolari (R. Carabba, 1914); Frantumi seguiti da «Plausi e botte» di Boine (Voce, 1918). Come scrive quest’ultimo, nell’ampia riflessione estetica attribuita a un “ignoto”, nel 1897, dove trova impiego come dipendente delle ferrovie. Collabora alla «Voce» dal 1909 e pubblica presso la Libreria della Voce Resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi (1915) e Ragazzo (1919). 76 Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Carteggio, II, 1908-1915. Dalla nascita della «Voce» alla fine di «Lacerba», a cura di S. Gentili, G. Manghetti, Edizioni di Storia e Letteratura-Biblioteca cantonale Lugano/Archivio Prezzolini, Roma 2008, p. 138. Sul Wilhelm Meister nell’ambiente dell’avanguardia fiorentina → cap. 5. 77 Cfr. Renato Serra, «La Fattura». Episodio di uno studio intorno a Gabriele D’Annunzio, «La Voce», 6-4-1911, pp. 545-547; Scipio Slataper, Quando Roma era Bisanzio, «La Voce», 20-4-1911, pp. 553-554; Emilio Cecchi, Arte provvisoria, «La Voce», 27-4-1911, pp. 557-558; Giuseppe De Robertis, Ringraziamento a una ballata di Paul Fort, «La Voce», 28-6-1914, pp. 13-39.
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Se uno pensasse a scatti, gli scoppiassero dentro cose profonde come lampi senza alone, senza riverbero logico, senza echeggiamenti di concatenamenti sillogistici, farebbe male a non darci come gli viene il pensiero suo, a scatti, a guizzi, a motti senza mettere tra l’un motto e l’altro un artificiale lavorio di apparente sistemazione. Vogliamo l’aforisma vivo non il rabberciamento di facciata secondo le regole solite; l’improvviso bagliore non un annegamento diluito secondo i bisogni correnti del raziocinare comune78.
I moti dell’anima, le intuizioni liriche, sono passeggeri: l’architettura narrativa (o poematica) non restituisce la verità dell’io, cui corrisponde invece un resoconto frammentario dell’esperienza. Le prese di posizione in questo senso si potrebbero moltiplicare, ma ci limitiamo a riportare un altro passo dal Giornale di bordo, l’opera che sia Prezzolini sia Serra, a dispetto della rivalità instauratasi tra «La Voce» e «Lacerba», riconoscono come l’opera migliore di Soffici proprio in virtù della sua modalità compositiva79: frammenti – Chiunque abbia la nostalgia dell’accademia, del sublime scolastico non sa fare altra critica all’arte viva, spontanea, immediata, che questa: Buoni frammenti, ma manca l’organizzazione definitiva in vista del capolavoro multiforme e multicorde, del capolavoro sferico che abbraccia eccetera, risponde eccetera. – […] Non si accorgono questi bravi classicisti dell’ultim’ora che il loro capolavoro non esiste in fatti. Scambiano le impressioni multiple trovate nello studio di una intera epoca per un’impressione unica provata davanti a un’opera. La grande macchina che vedono con gli occhi della mente è un aggregato di frammenti80. Un’opera esemplare: Il mio Carso di Scipio Slataper Un’opera particolarmente rappresentativa delle pratiche letterarie dell’avanguardia fiorentina è Il mio Carso (1912) (→ ant. 7) di Slataper, la cui composizione rispetta tutte le regole dell’arte che abbiamo fin qui enucleato: 78
Boine, Un ignoto, cit., p. 751. Cfr. Giuseppe Prezzolini, Un anno di «Lacerba», «La Voce», 28-2-1914, p. 36: «In questa maniera a frammenti Soffici ha trovato lo stile adatto, pieno, rispondente al suo spirito»; R. Serra, Le lettere, cit., p. 139: «lo scrittore si mostrò sincero, tutto preso dalla semplicità di un lavoro più modesto d’apparenza, ma più lirico veramente e unito e liscio, in due o tre bozzetti sulla “Voce”; e trovò poi la sua forma, che per adesso è definitiva, nel Giornale di bordo» (→ ant. 10). 80 Ardengo Soffici, Giornale di bordo, Vallecchi, Firenze 19213, pp. 261-262 (→ ant. 10). 79
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1. il testo riferisce in prima persona l’esperienza esistenziale del suo autore attraverso una composizione di lasse narrative in cui si mescolano narrazioni di eventi oggettivi ed effusioni liriche, sensazioni fisiche e mentali, frammenti onirici e aneddoti; 2. la distribuzione degli eventi è collocata in una linea lascamente cronologica, dall’infanzia alla maturità del protagonista, che risulta spesso opaca per mancanza di connessioni logiche e temporali tra le singole lasse; 3. il testo è un prosimetro: alla predominanza di lasse in prosa se ne alternano altre in versi. «Lo sviluppo d’un’anima» Come abbiamo visto, «La Voce» aveva definito Il mio Carso un’«autobiografia lirica»; nel testo è contenuta però un’altra definizione, altrettanto significativa, collocata in una lassa narrativa la cui importanza a livello compositivo è testimoniata dal fatto che è stato il primo frammento del testo pubblicato, naturalmente sulla «Voce», nel 1910: Dunque facciamo l’articolo. Da molto tempo sto zitto: è tempo di risbucare. Lapis rossi; 1, 2, 3, 4…: le cartelle son numerate. Accendiamo la sigaretta. Inchiniamoci sul tavolino per venerare il pensiero che gorgoglia, commisto all’inchiostro, già dalla penna. lo sviluppo d’un’anima a trieste. Comincio a scrivere81.
Sulle narrazioni dell’avanguardia fiorentina come «sviluppi di anime» → cap. 5.
Conclusioni Nel primo quindicennio del Novecento l’avanguardia fiorentina è riuscita a produrre delle regole dell’arte oppositive rispetto ai valori letterari dominanti a inizio secolo. Queste “regole” sono il prodotto della posizione nel campo letterario di questa alleanza di nuovi entranti, strutturalmente contrapposta alle gerarchie di valore consolidate nei campi intellettuali di inizio secolo: – contro il positivismo e lo scientismo dominanti nell’università; – contro la critica storico-erudita, che viviseziona le opere e definisce normativamente i generi letterari; 81
Scipio Slataper, Sul Secchieta c’è la neve, «La Voce», 3-3-1910, p. 275.
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– contro la crescita di una produzione narrativa e teatrale che si pone come obiettivo il favore di un vasto pubblico. L’opposizione strutturale ai valori dominanti genera una pratica letteraria fondata su: – l’indistinzione tra letteratura e filosofia e tra letteratura e critica; – la commistione di prosa e poesia; – l’ibridazione dei generi letterari; – la prevalenza di forme liriche e impressioniste come conseguenza di una concezione dell’arte come espressione dell’intuizione; – la predilezione per contenuti autobiografici e composizioni frammentarie. Queste regole dell’arte, istituite dall’avanguardia fiorentina al polo più autonomo del campo letterario, indirizzano non solo la produzione degli scrittori, i giudizi dei critici, gli orientamenti degli editori, ma anche, come vedremo, le scelte di traduzione degli editori legati a queste cerchie intellettuali.
Capitolo secondo Gli editori e il rinnovamento del repertorio Michele Sisto
1. Chi traduce cosa, e perché Il repertorio della letteratura tradotta Se è vero che l’editore «ha il potere assolutamente straordinario di garantire la pubblicazione, vale a dire di far accedere un testo e un autore all’esistenza pubblica (Öffentlichkeit), conosciuta e riconosciuta»1, quale letteratura tedesca esiste in Italia all’inizio del Novecento? O, in altri termini: quale letteratura tedesca fa parte del → repertorio della → letteratura tradotta? Scorrendo bibliografie e cataloghi2 possiamo osservare che la maggior parte dei titoli tedeschi sono pubblicati o da pochi grandi editori attivi da decenni, come Treves e Sonzogno, oppure da poche piccole case editrici di recente fondazione, come Laterza e Carabba: mentre i primi propongono per lo più classici ampiamente consacrati o scrittori di successo oggi pressoché dimenticati, è dalle seconde che viene l’impulso determinante al rinnovamento del repertorio tedesco (e non solo). L’alleanza tra avanguardie editoriali e avanguardie letterarie Vedremo fra poco quali sono le novità introdotte da queste case editrici. Per ora soffermiamoci su un dato strutturale: ancora una volta a creare il movimento sono i → nuovi entranti che hanno interesse a cambiare le regole del gioco, in questo caso un’ → avanguardia 1 Pierre Bourdieu, Une Révolution conservatrice dans l’édition, «Actes de la recherche en sciences sociales», 126-127, 1999, p. 3. 2 Per uno sguardo complessivo sulla letteratura tedesca tradotta in Italia nel primo Novecento cfr., oltre ai cataloghi delle case editrici, il Repertorio bibliografico della letteratura tedesca in Italia, vol. I: 1900-1960, a cura dell’Istituto Italiano di Studi Germanici, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1966, il saggio bibliografico di Marta Recla, La letteratura tedesca nei periodici italiani 1896-1915, con introduzione di V. Santoli, «Rivista di letterature moderne e comparate», 12.3, 1959, pp. 211-245, e CIRCE-Catalogo Informatico delle Riviste Culturali Europee (circe.lett.unitn.it).
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editoriale che per distinguersi e accumulare → capitale simbolico si allea strategicamente con le avanguardie letterarie del tempo, quelle stesse che sono state prese in esame nel primo capitolo. In particolare due piccole aziende periferiche, poco più che tipografie, Laterza di Bari e Carabba di Lanciano, costruiscono la loro fortuna trovando i loro principali consulenti rispettivamente in Benedetto Croce e Giovanni Papini: nel giro di pochi anni, grossomodo tra il 1907 e il 1914, non solo si affermano su scala nazionale, ma – quel che più conta – propongono un nuovo modello di editoria, ponendo le basi per il costituirsi di un → campo di produzione ristretta strutturalmente e simbolicamente contrapposto al → campo di produzione di massa dominato dai grandi editori del tempo. Il campo di produzione ristretta L’espressione campo di produzione ristretta va intesa in senso letterale. La fondazione di collane come la biblioteca di cultura moderna o cultura dell’anima e di riviste come «La Critica» e «La Voce» genera un circuito di produzione e fruizione che, costituendo un’alternativa concreta all’editoria commerciale, contribuisce a stabilizzare anche in Italia, come già in Francia e in Germania, la polarizzazione tra letteratura autonoma e letteratura eteronoma: una polarizzazione che ci è oggi familiare e che riconosciamo anche in altri campi artistici (per esempio nell’opposizione tra musica commerciale e musica “indipendente”, tra cinema d’intrattenimento e cinema “d’autore”). Inoltre, mentre i grandi editori affermati si rivolgono a un pubblico di massa che intendono intrattenere o istruire, coloro che leggono i libri di Laterza o Carabba sono in misura rilevante gli stessi che li producono: scrittori, critici, insegnanti, giornalisti, spesso coinvolti in prima persona nel lavoro editoriale come direttori di collana, curatori, traduttori, prefatori o recensori. Come ha osservato Giovanni Ragone, le nuove case editrici “di cultura” o “di progetto” «si innestano sulla nuova generazione che in tutto il paese arriva a ingrandire il circuito colto, partendo da una tradizione familiare di piccolissima borghesia, e si dedica a sua volta a mestieri, a lavori intellettuali»3. Si tratta dunque di un gruppo numericamente ben 3 Giovanni Ragone, Un secolo di libri. Storia dell’editoria in Italia dall’Unità al post-moderno, Einaudi, Torino 1999, p. 87. Per la trasformazione dell’editoria all’inizio del Novecento e in particolare per il ruolo di Laterza e Carabba, si veda il capitolo Avanguardie, cultura, consumo, pp. 79-109.
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più ristretto della larga platea di Treves o Sonzogno, ma anche più attivo, e interessato a portare in Italia non tanto libri che abbiano successo sul mercato, quanto opere a cui riconoscono uno specifico valore letterario. Circuiti di produzione, regole dell’arte, repertorio specifico Gli attori del campo di produzione ristretta, che operano nello spazio generato dall’alleanza tra avanguardie editoriali e avanguardie letterarie, agiscono secondo quelle regole dell’arte che essi stessi hanno concorso a stabilire, in base alle quali viene attribuito un valore specifico, vale a dire specificamente letterario, ad autori e testi che nella logica del mercato non ne avrebbero alcuno. In questo modo generano un repertorio specifico di scrittori e testi il cui capitale simbolico è riconosciuto dagli attori del campo di produzione ristretta. Il formarsi e il trasformarsi di questo repertorio specifico non solo arricchisce nell’immediato il repertorio generale della letteratura tradotta, introducendo nuovi scrittori e testi, ma fa sì che in seguito anche i grandi editori trovino conveniente proporre autori che nel frattempo hanno avuto accesso all’esistenza pubblica attraverso i nuovi entranti. Così per esempio Friedrich Hebbel, scoperto dall’avanguardia fiorentina e pubblicato dalla Libreria della Voce e da Carabba a partire dal 1910, entrerà pochi anni dopo nel catalogo di un grande editore come Sonzogno. Per comprendere le ragioni per cui alcuni autori e opere sono stati tradotti e altri no, nonché il modo particolare in cui li si è letti spesso per più di una generazione, è dunque indispensabile prendere in considerazione i principali circuiti di produzione – case editrici, collane, riviste, ecc. – costituitisi grazie ai nuovi entranti, e le regole dell’arte che hanno orientato la loro attività.
2. Il repertorio tedesco all’inizio del Novecento: Treves, Sonzogno, Bocca Canone odierno vs. repertorio di primo Novecento Sfogliando una qualsiasi recente storia della letteratura tedesca si può facilmente ricostruire un canone del primo Novecento, ovvero il selezionatissimo gruppo di opere, tra le migliaia uscite in prima edizione intorno all’inizio del secolo scorso, che per noi, oggi,
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possiedono ancora un valore letterario, e non meramente documentario. Di questo gruppo non potranno non far parte, per limitarci ai titoli, opere come Effi Briest di Fontane (1895), Spirito della terra di Wedekind (1895), I Buddenbrook e Tonio Kröger di Thomas Mann (1901 e 1903), la Lettera di Lord Chandos e Elettra di Hofmannsthal (1902 e 1904), Peter Camenzind di Hesse (1904), L’angelo azzurro e Il suddito di Heinrich Mann (1905 e 1914), il Törless di Musil (1906), L’assistente di Robert Walser (1907), Ecce homo di Nietzsche (1908), Detti e contraddetti di Kraus (1909), il Malte di Rilke (1910), Morgue di Benn (1912), le poesie di Trakl (1913), La metamorfosi di Kafka (1915). Ebbene, quasi nessuno di questi titoli – e nemmeno altri di questi stessi autori – viene tradotto prima del 1920: le sole eccezioni sono, e vedremo perché, Nietzsche, Hofmannsthal e H. Mann. Gli altri rimangono, salvo qualche sporadica presenza sulle riviste letterarie, sostanzialmente ignoti e ignorati: in molti casi le loro opere verranno tradotte solo a distanza di decenni. Certo, alcuni letterati plurilingue, a cominciare dai primi germanisti di professione, hanno accesso a questi autori direttamente in originale, e una platea un poco più numerosa li può leggere in traduzione francese, nei rari casi in cui già ne esista una; ma nel campo letterario italiano questi autori semplicemente non esistono: il repertorio primonovecentesco della letteratura tradotta non include le opere oggi divenute canoniche. Quale letteratura tedesca si leggeva, dunque? Il repertorio della letteratura tedesca tradotta all’inizio del secolo è il prodotto dell’attività dei nuovi entranti dei decenni precedenti. I tre principali, per volume e coerenza delle pubblicazioni, sono senza dubbio Treves e Sonzogno a Milano, Bocca a Torino. Essendo essi i modelli di riferimento per la gran parte degli altri editori, vale la pena analizzare le loro politiche della → traduzione, ovvero le logiche con cui selezionano, marcano e leggono i testi tradotti. I tedeschi di Treves Con la sua casa fondata nel 1861, e con una serie di periodici assai seguiti quali «L’Illustrazione Italiana», Emilio Treves (1834-1916) si afferma nella seconda metà del secolo come l’editore di riferimento della borghesia post-unitaria, fino a diventare il fiore all’occhiello dell’Italia Umbertina. È l’edi-
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biblioteca amena (1875-1930, 1030 titoli) diretta da Emilio Treves per F.lli Treves, Milano. Titoli tedeschi 1900-1915 H. Sudermann (E. Tafel, L. Cerracchini), Fratelli e sorelle, 1900 (n. 570). E. Werner (I. Rios), Caccia grossa, 1903 (n. 645). W. Fleck (I. Rios), La marchesa Irene, 1903 (n. 651). S. Deval (I. Rios), Una gran dama, 1903 (n. 653). W. Hauff (s.i.t.), La dama piumata, 1903 (n. 655). E. Werner (I. Rios), Rune, 1904 (n. 666). E. Eckstein (I. Rios), Cuor di madre, 1905 (n. 688). I. Boy-Ed (E. G. De Stefanis), Serti di spine, 1905 (n. 689). R. Byr (I. Rios), La legge del taglione, 1906 (n. 716). M. Nordau (U. Farfara), Morganatico, 1906 (nn. 717-718). E. Eckstein (V. Trettenero), I Claudii, 1908 (n. 736). I. Beyerlein (I. Rios), Il cavaliere di Chamilly, 1908 (n. 747). J. W. Goethe (E. Perodi, A. De Mohr), Le affinità elettive, 1909 (n. 773). F. Gerstäcker (I. Rios), Casa d’angolo, 1910 (n. 775). C. Viebig (I. Rios), L’esercito dormente, 1910 (n. 788). Tra parentesi sono indicati il nome del traduttore (e dell’eventuale prefatore) e il numero di collana; la sigla s.i.t. sta per “senza indicazione del traduttore”.
tore di De Amicis e D’Annunzio, l’autore più venduto e quello più consacrato alla svolta del secolo. Tra le regole che organizzano il suo catalogo ci sono la distinzione tra generi letterari (destinati a collane diverse), quella tra letteratura del passato e del presente (nella seconda delle quali si specializza), ma non c’è l’opposizione tra letteratura commerciale e letteratura “pura”. Nella sua principale collana, la biblioteca amena, dedicata alla narrativa contemporanea italiana e straniera, i romanzi di Verga, Flaubert, Zola e Bourget, I fratelli Karamazov di Dostoevskij e La guerra e la pace di Tolstoj convivono con i romanzi rosa di Cordelia, i feuilleton di Xavier de Montépin, Il padrone delle ferriere di Ohnet e innumerevoli titoli oggi del tutto dimenticati, tutti messi in vendita al modico prezzo di una lira al volume. Quanto ai tedeschi, se ai suoi esordi Treves aveva intercettato nuove tendenze, come la letteratura rusticana (B. Auerbach, G. Keller, P. Heyse), all’inizio del nuovo secolo il catalogo si riempie per lo più di narrativa di facile smercio: romanzi storici (E. Eckstein), quelli “per signore”
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(W. Fleck) o scandalistici (M. Nordau). Lo scrittore tedesco più tradotto e venduto – nonché l’unico menzionato con qualche rilievo nell’inchiesta del 1905 I libri più letti dal popolo italiano4 – è Elisabeth Bürstenbinder, autrice di romanzi sentimentali pubblicati sotto lo pseudonimo E. Werner5. Solo nelle collane teatrali troviamo autori oggi canonizzati, come Hauptmann e Hofmannsthal: il primo però era stato importato negli anni ’90 all’insegna del naturalismo militante dal piccolo editore socialista Max Kantorowicz, di cui Treves rileva in parte il catalogo, mentre del secondo l’editore milanese pubblica unicamente l’Elettra, sulla scia della prima italiana dell’opera di Richard Strauss al Teatro alla Scala di Milano nell’aprile 1909 (la versione infatti è quella ritmica del poeta Ottone Schanzer). I tedeschi di Sonzogno Se Treves è l’editore della borghesia, Edoardo Sonzogno (1836-1920) è quello dei lavoratori: è l’editore di Felice Cavallotti, il poeta fondatore dell’estrema sinistra storica, e conquista il largo pubblico delle classi subalterne in ascesa pubblicando il quotidiano «Il Secolo», la rivista «Il Romanziere illustrato», ma soprattutto libretti d’opera e classici in edizioni popolari, quelle a 25 centesimi della biblioteca universale (120 titoli nei soli primi due anni). Anche per Sonzogno, tuttavia, il momento pionieristico, in cui è il primo a portare in Italia libri come Canti scelti di Whitman (1887) e I fiori del male di Baudelaire (1893), è trascorso da qualche anno. Per quanto riguarda i tedeschi, il suo catalogo aveva consolidato il canone ottocentesco, diffondendo le opere 4 I libri più letti dal popolo italiano, primi resultati della inchiesta promossa dalla Società Bibliografica Italiana, Società Bibliografica Italiana, Milano 1906, pp. 11 e 28. 5 In mezzo a nomi oggi noti soltanto agli specialisti si distingue solo Goethe. Ma la pubblicazione delle Affinità elettive, romanzo sostanzialmente ignorato in Italia fino all’inizio del Novecento, costituisce un’interessante eccezione, che peraltro annette l’opera di Goethe alla letteratura «amena»: Treves si limita infatti a rilevare una traduzione già pubblicata nel 1903 e realizzata di propria iniziativa da due scrittori, Emma Perodi, autrice di libri per l’infanzia, e Arnaldo De Mohr, un nuovo entrante vicino a D’Annunzio e all’avanguardia fiorentina (con la Libreria Editrice Lombarda, da lui fondata con Tommaso Antongini nel 1905, pubblica alcuni dei primi libri di Prezzolini e Papini).
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biblioteca universale (1882-1942, 558 titoli) diretta da Edoardo Sonzogno per Edoardo Sonzogno Editore, Milano. Titoli tedeschi 1900-1915 Jean Paul (B. Gorini), Autobiografia, 1901 (n. 276). P. Heyse (B. Guarienti), Marienkind, 1902 (n. 293). A. Schopenhauer (M. Cerati), Pensieri e frammenti, 1905 (n. 333). R. Wagner (s.i.t.), Ricordi, 1905 (n. 350). E.T.A. Hoffmann (s.i.t.), Racconti, 1906 (n. 358). A. Schopenhauer (M. Cerati), Saggio sul libero arbitrio, 1908 (n. 377). G. E. Lessing (M. De Sanctis), Favole, 1909 (n. 390). L. Feuerbach (L. Stefanoni), Lezioni sull’essenza della religione, 1911 (n. 410). J. W. Goethe (G. Caprino), Roma; Elegie romane, 1911 (n. 413). F.lli Grimm (s.i.t.), Fiabe, 1912 (n. 429). F. Hebbel (E. Costantini, A. Farinelli), Maria Maddalena, 1914 (n. 457). J. W. Goethe ([E. Levi]), Le affinità elettive, 1914 (nn. 462-463). H. Heine (E. Somaré, T. Gautier), Germania: poema polemico, 1915 (n. 469).
di Goethe e Schiller, confermando la fama di scrittori ancora in via di consacrazione come Lessing, Hoffmann, Chamisso, Heine, Platen, Keller e Wagner, e proponendo in prima traduzione italiana Hölderlin, Kleist e Lenau. All’inizio del Novecento l’unico autore vivente rappresentato in catalogo è Paul Heyse (Premio Nobel nel 1910); la pubblicazione di Hebbel – finalmente una novità – nel 1914 è da considerarsi un effetto della trasformazione del repertorio avviata dai vociani nel 1909; ma lo vedremo meglio più avanti. I tedeschi di Bocca Il panorama si arricchisce in modo rilevante a fine secolo con l’entrata in scena, nel 1897, della biblioteca di scienze moderne (e della parallela piccola biblioteca di scienze moderne) dei F.lli Bocca. Il fondatore della collana, Giuseppe Bocca jr. (1867-1951), rampollo di una dinastia di librai-editori in attività dall’inizio del secolo, raffinato musicista e musicologo, è l’editore di Cesare Lombroso. E diventa l’editore italiano di Nietzsche. Rivendicando la continuità con la lombrosiana biblioteca antropologico-giuridica Bocca porta in Italia molti grandi libri del positivismo internazionale ma anche speculazioni che, pur fondate sul retroterra della scienza positiva, oggi definiremmo pseudoscienza. Nella nuova collana Herbert
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Spencer e William James convivono con Achille Loria e Angelo Brofferio, in una mescolanza di antropologia, etnologia, psicologia, criminologia, filosofia, sociologia, sessuologia, scienza politica, economia, pedagogia, diritto e altre discipline nate o rinnovate alla luce dei moderni principi del pragmatismo, dell’utilitarismo, dell’evoluzionismo e del materialismo. Collocare Nietzsche nella biblioteca di scienze moderne significa lasciare in secondo piano la questioni dominanti nella prima fase della sua ricezione internazionale quali il tormentato rapporto con Wagner, il mito della follia o il superomismo di marca dannunziana, per presentarlo come un filosofo-scienziato, da prendere sul serio; ma anche annetterlo a una cultura scientifica, quella lombrosiana, che di lì a poco sarà duramente contestata proprio nelle sue pretese di scientificità. Pubblicare come prima opera Al di là del bene e del male significa inoltre presentarlo, accanto a Stirner e Schopenhauer, come un critico radicale delle strutture etiche (la democrazia, il cristianesimo) e dei dispositivi di validazione moderni (la filosofia, la scienza): un immoralista scientifico, potremmo dire. Nietzsche, lo scrittore centrale nel repertorio della letteratura tedesca tradotta nel primo quindicennio del secolo, oggetto di svariate e contraddittorie appropriazioni, arriva dunque in Italia non solo come filosofo, ma come esponente di una ben precisa corrente “scientifica”. Arte borghese e arte sociale Provando a ricomporre il quadro e a descrivere molto schematicamente lo stato del campo, si può osservare come la situazione del primo decennio del secolo appaia caratterizzata, sul piano editoriale, dalla contrapposizione strutturale e simbolica tra arte borghese (modello Treves) e arte sociale (modello Sonzogno) già individuata da Bourdieu quale fase precedente alla genesi di un polo di produzione ristretta6. Le case editrici fin qui prese in considerazione sono «soprattutto al servizio del pubblico, agli ordini del denaro», come osservano Prezzolini e Papini nella loro inchiesta sulla Coltura italiana (→ ant. 2); e sarebbe vano cercare piccole case editrici di cultura che abbiano interesse a esplorare i sommo6 Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte [1992], il Saggiatore, Milano 2005, pp. 130-137.
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(piccola) biblioteca di scienze moderne (1897-1953, 520 + 150 titoli) diretta da Giuseppe Bocca per F.lli Bocca, Torino. Titoli tedeschi 1897-1915 (selezione) F. Nietzsche (E. Weisel), Al di là del bene e del male, 1898 (bsm 2). K. Kautsky (R. Lovera), Le dottrine economiche di Carlo Marx, 1898 (pbsm 8). F. Nietzsche (E. Weisel, R. Giani), Così parlò Zarathustra, 1899 (bsm 7). E. Mach (A. Bongioanni), Letture scientifiche popolari, 1900 (pbsm 21). M. Stirner (E. Zoccoli), L’unico e la sua proprietà, 1902 (bsm 11). A. v. Harnack (A. Bongioanni), L’essenza del cristianesimo, 1903 (pbsm 59). P. J. Möbius (U. Cerletti), L’inferiorità mentale della donna, 1904 (pbsm 87). F. Nietzsche (A. Cippico), La gaia scienza, 1905 (bsm 22). H. Höffding (P. Martinetti), Storia della filosofia moderna, 1906 (bsm 24-25). A. Schopenhauer (s.i.t.), Morale e religione, 1908 (bsm 40). R. Eucken (P. Martinetti), La visione della vita nei grandi pensatori, 1909 (bsm38). F. Nietzsche (A. Oberdorfer), Ecce homo, 1910 (bsm 50). O. Weininger (G. Fenoglio), Sesso e carattere, 1912 (bsm 59).
vimenti contemporanei nelle letterature straniere. Nel campo dominano la logica economica e quella politica. Così nel 1904 Luigi Mongini, editore socialista delle opere di Marx, Engels, Lassalle e Mehring, pubblica, ad appena due anni dall’uscita in Germania, Una piccola guarnigione di Fritz Oswald Bilse, romanzo autobiografico con cui un ufficiale dell’esercito prussiano aveva destato scalpore, mettendo a nudo le perversioni della vita militare sotto Guglielmo II: il libro è oggi ricordato solo perché Thomas Mann gli ha dedicato un saggio (Bilse und ich, 1906) proprio allo scopo di distinguere tra l’operazione scandalistica dell’ex luogotenente e la trasfigurazione artistica della propria storia familiare operata nei Buddenbrook, che invece non trovano un editore italiano fino al 1930. La gran parte degli scrittori importati sono dunque selezionati sulla base degli interessi di cerchie di lettori già collaudate, e pressoché nessuno di essi gode di un riconoscimento letterario indipendente dal successo commerciale: anche Hofmannsthal approda in Italia nelle vesti di librettista di Strauss, e perfino Nietzsche, letto nella scia della scienza salottiera di Lombroso, è soprattutto un fenomeno alla moda.
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3. Il nuovo circuito di produzione di Croce e il suo repertorio I tedeschi dei nuovi entranti: le collane di Croce, Papini, Prezzolini, Borgese La novità strutturale di questo periodo consiste
nell’ingresso di alcuni pretendenti che, in cerca di legittimazione, danno vita a nuovi circuiti di produzione (riviste + collane) alleandosi strategicamente tra loro in opposizione ai dominanti. L’azione combinata, o meglio il lavoro collettivo di questi nuovi entranti – in primis Croce, Papini, Prezzolini e Borgese, che si incontrano con editori come Giovanni Laterza e Rocco Carabba – produce un mutamento complessivo della struttura del campo letterario, che nel giro di un decennio si ripolarizza, non più sull’opposizione tra arte borghese e arte sociale, ma su quella tra arte autonoma e arte eteronoma. L’alleanza tra Croce e Laterza Il primo ad applicare con successo la formula “rivista + collana”, già adottata da altri editori in campo commerciale, a un progetto che risponde a una logica autonoma è Benedetto Croce (→ cap. 1 § 2), che pone così le basi per l’attivazione di un circuito di produzione ristretta. L’esperimento nasce per caso, quando nel 1902 un nuovo entrante nel campo editoriale, Giovanni Laterza, gli va a far visita a Napoli chiedendogli qualche suggerimento per una collana appena inaugurata, la biblioteca di cultura moderna. Croce, allora meno che quarantenne e in procinto di varare «La Critica», diventa nel giro di pochi anni il principale consulente della collana, che orienta su posizioni affini a quelle della sua rivista e opposte alla cultura lombrosiana della biblioteca di scienze moderne di Bocca. Presto si accorge dell’enorme potenziale d’urto che questo circuito di produzione parallelo, reso efficientissimo dalla sua rigorosa disciplina di lavoro, gli offre nella battaglia contro le istituzioni culturali dominanti. La sperimentazione di un progetto egemonico: i
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classici della
1905 progetta una nuova collana, con cui intende imporre la propria egemonia sul campo filosofico: i classici della filosofia moderna. Ne assume la direzione egli stesso insieme a Giovanni Gentile, chiamando a collaborarvi giovani discepoli e alleati, spesso più letterati che filosofi, come
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Alfredo Gargiulo (che traduce Kant) e gli stessi Papini (Berkeley), Prezzolini (Hume) e Emilio Cecchi (Leibniz). Alla fine del 1906 pianifica un’offensiva su larga scala: scrive Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel, una sorta di manifesto filosofico che «ha per iscopo – spiega a Laterza (→ ant. 3) – di far capire agli italiani la necessità di studiare Hegel e il modo di studiarlo»; ristruttura, per ospitarvelo, la biblioteca di cultura moderna, imponendole un nuova veste grafica che ne fa definitivamente la sua collana; traduce egli stesso l’Enciclopedia delle scienze filosofiche di Hegel inaugurando con essa la nuova collana filosofica; e dà ampia visibilità a tutta l’operazione con numerosi annunci sulla «Critica», sul catalogo Laterza e su diversi giornali e riviste alleati. Tra il 1907 e il 1915 i classici della filosofia moderna pubblicano 22 volumi, apponendo il marchio crociano alle massime opere della filosofia moderna, soprattutto tedesca, dalle tre critiche di Kant al Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, e collocandole in una stessa serie accanto a Giordano Bruno, Gioberti e alla Scienza nuova di Vico. Il circuito di produzione crociano Il successo dell’operazione è fin dall’inizio tale che Croce si affretta ad applicare la stessa formula ad altri ambiti: nel 1908 vara le opere di benedetto croce, che affiancano «La Critica» nel divulgare le sue dottrine; nel 1910 gli scrittori d’italia, affidati al suo allievo Fausto Nicolini, con cui avvia una revisione-appropriazione del repertorio della letteratura italiana; nel 1912 gli scrittori stranieri, affidati al germanista Guido Manacorda, che devono fare lo stesso con la letteratura straniera. Nel 1914 il circuito di produzione crociano funziona ormai a pieno regime: «La Critica» è giunta alla XII annata, la biblioteca di cultura moderna a 77 titoli, i classici della filosofia moderna a 21, le opere di benedetto croce a 10, gli scrittori d’italia a 69 e gli scrittori stranieri a 9, per un totale di quasi 200 volumi, con i quali Croce non soltanto rivoluziona e “crocianizza” il repertorio filosofico e letterario italiano, ma crea lavoro, coinvolgendo attivamente in un’esperienza di editoria militante una quantità di giovani tra i venti e i trent’anni, a cui affida curatele e traduzioni di grande impegno, spesso per loro le prime (ai nomi già ci-
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tati si possono aggiungere Giuseppe Lombardo Radice, Adriano Tilgher, Guido De Ruggiero, Luigi Salvatorelli e Alberto Spaini). Logiche di appropriazione, selezione, marcatura, lettura Per comprendere le ragioni dell’efficacia di questo modello, che di lì a poco verrà ripreso e rimodulato da altri nuovi entranti, è inutile ricercare una coerenza del programma, una più o meno manifesta affinità tra gli autori pubblicati, perché la sola coerenza sta nel gesto simbolico della → marcatura: Kant e Hegel sono e restano filosoficamente inconciliabili, ma metterli uno accanto all’altro nei classici della filosofia moderna induce di per sé a leggerli all’interno della problematica crociana. Allo stesso modo, pubblicare certi scrittori tedeschi non significa inserirli nel canone – il solo autore tedesco degno di stare nel canone, secondo Croce, è Goethe – ma acquisirli al repertorio, vale a dire al novero degli autori da conoscere e rispetto ai quali prendere posizione. I tedeschi nella biblioteca di cultura moderna Nella biblioteca di cultura moderna, per esempio, collana che costituirà la spina dorsale del catalogo Laterza, troviamo autori affatto estranei alla poetica di Croce: Nietzsche, Hebbel, Caroline Schlegel, i romantici di Farinelli. La loro presenza non può essere spiegata che caso per caso. Arturo Farinelli, professore di letteratura tedesca a Torino dal 1907 e fondatore della germanistica italiana, è un importante alleato di Croce nella battaglia contro il positivismo: le sue lezioni sul romanticismo sono molto apprezzate dall’avanguardia fiorentina, e Hebbel, che Scipio Slataper s’incarica di tradurre e far conoscere in Italia, è l’autore tedesco più dibattuto dai vociani. Barbara Allason, che scrive la sua tesi di laurea su Caroline Schlegel, è un’allieva di Farinelli. Un Nietzsche “crociano” Ancora più significativo è il caso di Nietzsche, che in quegli anni ha acquisito in Italia un enorme prestigio ma che è storicamente tra i più fieri avversari della linea hegeliana di cui Croce si presenta come erede e superatore. Croce riesce tuttavia nell’impresa di appropriarsene, confezionando un Nietzsche “crociano”, o meglio: “pre-crociano”. Innanzitutto, tra le numerose opere non ancora pubblicate in Italia fa tradurre Die Geburt der Tragödie, quella che meglio rientra nella sfera dei suoi interessi specifici, legati alla teoria dell’arte. Riesce
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biblioteca di cultura moderna (1902-oggi, oltre 1220 titoli) diretta da Giovanni Laterza, con Benedetto Croce per Gius. Laterza & Figli, Bari. Titoli tedeschi e su cose tedesche 1906-1920 (selezione) B. Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel, 1906 (n. 21). F. Nietzsche (M. Corsi, A. Rinieri), Le origini della tragedia, 1907 (n. 23). K. Vossler (S. Jacini), La Divina Commedia, 1909 (n. 34). A. Farinelli, Il Romanticismo in Germania, 1911 (n. 41). A. Farinelli, Hebbel e i suoi drammi, 1912 (n. 62). E. Rohde (E. Codignola, A. Oberdorfer), Psiche, 1914 (n. 71). H. Treitschke (E. Ruta), La Francia dal primo Impero al 1871, 1916 (n. 85). F. Naumann (G. Luzzatto), Mitteleuropa, 1918-1919 (n. 4 B). B. Allason, Carolina Schlegel: studio sul Romanticismo tedesco, 1919 (n. 91). M. Weber (E. Ruta), Parlamento e governo [in] Germania, 1919 (n. 17 B). F. Nietzsche (E. Ruta), La nascita della tragedia, 1919 (n. 23 B).
a sottrarla a Bocca, che ne avrebbe fatto un libro scientifico, e la presenta invece come una miscela instabile di filosofia e di poesia che, nonostante i suoi gravi limiti teoretici, per la prima volta avrebbe posto seriamente un problema, quello dell’autonomia della sfera artistica, che solo Croce stesso avrebbe poi risolto, rifacendosi a Hegel, nella sua Estetica. Nietzsche diventa così un «precursore», brillante ma confuso, di Croce stesso7. Goethe e gli scrittori stranieri Ma l’autore su cui Croce concentra i suoi sforzi di legittimazione e autolegittimazione è senz’altro Goethe: comincia a occuparsene nel 1902 in una prefazione al dramma Mefistofele di Mario Giobbe, e nel 1918 gli dedica sulla «Critica» una serie di saggi che l’anno successivo ripubblica in volume nella collana delle proprie opere col titolo Goethe. Con una scelta di liriche nuovamente tradotte. Non si tratta di un saggio qualsiasi, ma del suo primo e più ampio «stu7 Questa lettura, chiaramente desunta dalla stessa Estetica (II, 18), viene proposta nell’introduzione di Mario Corsi alla prima edizione (Le origini della tragedia, 1907) e precisata nella recensione che Croce ne fa sulla «Critica» (5, 1907, pp. 311-314); verrà poi ripresa e articolata in modo quasi sfacciato nella prefazione che Enrico Ruta, un discepolo di Croce, scrive per la nuova edizione, pubblicata dopo la guerra (La nascita della tragedia, 1919). Che l’editore accettasse di sostenere i costi di una nuova traduzione dà la misura di quanto Croce considerasse importante l’operazione.
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dio monografico», che fin dall’introduzione egli presenta come modello esemplare del suo metodo critico e che amplierà in cinque successive edizioni fino al 1952. Siamo ormai all’indomani della Grande guerra, e Goethe vi è presentato come il modello dello scrittore olimpico, al di sopra delle contese del giorno, che proprio per questo incarnerebbe al meglio la dialettica dei distinti e l’autonomia dell’arte. Ma già prima della guerra Croce è impegnato a riportare Goethe al centro del repertorio letterario, con una strategia intesa sia all’autolegittimazione (associando il proprio nome a quello di Goethe come già a quello di Hegel) sia alla rilegittimazione di Goethe nel neonato campo di produzione ristretta. I titoli tedeschi inseriti negli scrittori stranieri, formalmente diretti da Guido Manacorda (1879-1965), ma saldamente controllati da Croce stesso, sono eloquenti. Se gli unici volumi realizzati sono quelli goethiani, gli altri possono essere ricondotti, come vedremo, agli interessi della scuola di Farinelli (Schlegel, Wackenroder, Herder) e dell’avanguardia fiorentina, direttamente coinvolta anche nella traduzione del Wilhelm Meister di Goethe, visto come testo chiave della modernità (→ cap. 5). La collana si interrompe nel 1915 a causa della guerra e di dissidi fra Croce e Manacorda, ma quest’ultimo farà tesoro dell’esperienza fondando nel ’21 a Firenze la biblioteca sansoniana straniera, la prima collana italiana di classici con testo a fronte. Il ruolo di Croce e le regole dell’arte Più che nel rinnovamento del repertorio, il ruolo di Croce in questa fase è decisivo per due motivi. Il circuito di produzione da lui costruito con la «Critica» e le numerose collane laterziane costituisce il primo spazio relativamente autonomo in cui sia possibile agire per modificare il repertorio, uno spazio che verrà rapidamente ampliato dagli scrittori che riprodurranno il suo modello. In questo spazio, in secondo luogo, cominciano a essere definiti e osservati quei principi regolativi che, come abbiamo visto (→ cap. 1), sono determinanti per marcare la distinzione tra letteratura autonoma ed eteronoma. Queste regole dell’arte si definiscono anche per negazione rispetto alle pratiche in quel momento dominanti (nell’editoria, ma anche nel campo accademico, in quello giornalistico, ecc): Treves fa i soldi con collane di romanzi e
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scrittori stranieri (1912-1915, 9 titoli) diretta da Guido Manacorda [con Benedetto Croce] per Gius. Laterza & Figli, Bari. Titoli tedeschi 1912-1915 J. P. Eckermann (E. Donadoni), Colloqui col Goethe, I, 1912 (n. 4). J. P. Eckermann (E. Donadoni), Colloqui col Goethe, II, 1914 (n. 6). J. W. Goethe (R. Pisaneschi, A. Spaini), Le esperienze di Wilhelm Meister, I, 1913 (n. 7). J. W. Goethe (R. Pisaneschi, A. Spaini), Le esperienze di Wilhelm Meister, II, 1915 (n. 11). J. W. Goethe (A. Spaini), Gli anni di viaggio di Wilhelm Meister* H. Sachs (G. Manacorda), Opere scelte* F. Schlegel (G. Manacorda), Lucinde e altri scritti minori* W. H. Wackenroder (G. Martegiani), Opere* Ch. M. Wieland (L. Marinig), Oberon* J. G. Herder (V. Graziadei), Scritti vari* I volumi contrassegnati con l’asterisco sono annunciati come «in corso di stampa» in diverse inserzioni pubblicitarie del 1912, ma non saranno mai pubblicati.
di teatro? Ecco allora che il saggio critico, il genere d’elezione di Croce e di cui la biblioteca di cultura moderna fornisce un intero repertorio, viene implicitamente proposto come la forma di scrittura più legittima, in quanto al di là dei generi ed estranea al mercato. Treves fa la sua fortuna con la letteratura contemporanea? Ecco la sorda indifferenza di Croce nei confronti degli scrittori del Novecento (neanche nelle sue collane ci sarà posto per I Buddenbrook, anche se Croce conosce Mann, del quale recensisce sulla «Critica» le Considerazioni di un impolitico), e il concentrarsi dei suoi sforzi di legittimazione su pochi grandi del passato, come Goethe, Ariosto e Shakespeare. E così via. Nel nuovo perimetro così istituito della letteratura legittima, i primi due autori tedeschi a trovare posto sono Goethe e, in subordine, Nietzsche.
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4. Il circuito di produzione e il repertorio di Papini I primi esperimenti di Papini «Con un giornale settimanale, una rivista mensile e quattro o cinque collezioni in mano nostra si potrebbe avere sul serio una certa influenza in Italia»8, scrive → Giovanni Papini ad Alessandro Casati nel dicembre 1909, poco dopo la nascita di cultura dell’anima. I suoi tentativi di fondare una propria collana risalgono alla biblioteca del leonardo (19031907, 9 titoli, tutti di Papini e Prezzolini), ma solo il successo del modello crociano gli dà la misura delle potenzialità egemoniche che può avere un circuito di produzione ben organizzato e appoggiato a un vero editore. Ancora nel 1907, anzi, nel progettare la collanina cultura dello spirito, si giustifica di fronte all’amico Prezzolini che gli rimprovera l’avidità di «subiti guadagni» (→ cap. 1 § 3), evocando il modello di editore puro rappresentato dal tedesco Eugen Diederichs (→ ant. 2), che entrambi ben conoscevano perché nel 1896 aveva stabilito la sede della sua casa editrice proprio a Firenze. Il Novalis di Prezzolini A Diederichs si era ispirato lo stesso Prezzolini, che nel 1906 aveva contribuito a fondare i poetae philosophi et philosophi minores, collana che fin dal titolo proponeva il modello nietzschiano e diederichsiano, propugnato anche dal «Leonardo», del poeta-filosofo. L’esperimento, la cui pretesa di autonomia era troppo radicale per sostenersi sul mercato italiano, era fallito dopo un solo titolo, il Novalis di Prezzolini (→ cap. 3 § 3)9. Questo libretto tuttavia si rivelerà fondamentale per la formazione del repertorio della letteratura tradotta, perché costituirà il prototipo di molte operazioni analoghe realizzate dall’avanguardia fiorentina. Innanzitutto per il gesto: Prezzolini 8 Lettera del 12 dicembre 1909, riportata da F. Petrocchi D’Auria, Filosofia, cultura e tensione religiosa nel rapporto fra Giovanni Papini ed Alessandro Casati, in S. Gentili (a cura di) Giovanni Papini. Atti del Convegno di studio nel centenario della nascita, Vita e Pensiero, Milano 1983, p. 145. 9 La collana, inizialmente pubblicata dalla Libreria Editrice Lombarda dei dannunziani De Mohr e Antongini, verrà rilanciata nel 1908 dal solo Prezzolini con un nuovo editore, Perrella di Napoli, che pubblica altri quattro titoli, di cui due tedeschi: gli Scritti e frammenti del Mago del Nord, Johann Georg Hamann, curati da Roberto Assagioli, e il Libretto della vita perfetta d’ignoto tedesco del secolo XIV, tradotto dallo stesso Prezzolini.
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non traduce Novalis, fino a quel momento sconosciuto in Italia, per motivi eteronomi, ma per se stesso e i suoi pari, ritenendo di trovare nei suoi scritti una chiave per la comprensione del proprio tempo: «Novalis, poiché di molti contemporanei nostri ebbe il tono e le inclinazioni, è, a dispetto dello stato civile e dei biografi più accreditati, un uomo dei nostri tempi; per alcuni un parente, per molti un amico o almeno un compagno di via. […] L’aria della ventesima centuria d’anni dopo Cristo, sa di Novalis» (→ ant. 1.a). A Prezzolini interessa la “modernità” di Novalis, come a Slataper interesserà la modernità di Hebbel e a Spaini la modernità di Goethe. In secondo luogo, Prezzolini non si preoccupa di presentare fedelmente lo scrittore, ma propone un “suo” Novalis, ritagliando con molta libertà dai suoi scritti quanto gli serve a dare l’immagine che gli interessa (in questo caso quella di un Novalis che agisce sul mondo che lo circonda trasformandolo col pensiero e con la scrittura, dunque “idealista” nel senso di Croce e “pragmatista” nel senso di William James): inaugura così una modalità di traduzione-appropriazione che sarà largamente praticata dall’avanguardia fiorentina (→ cap. 4). Infine, Prezzolini costruisce nel suo saggio introduttivo una narrazione che riunisce intorno al nodo problematico della modernità tutta una costellazione di testi legati a Novalis: dal Wilhelm Meister di Goethe alla Dottrina della scienza di Fichte, da Kant agli scritti estetici di Schlegel, oltre ai novalisiani Enrico di Ofterdingen, I discepoli di Sais e gli Inni alla notte. Tutti testi che nel giro di pochissimi anni entreranno, in traduzione, nel repertorio del campo di produzione ristretta (→ cap. 5). Ridefinizione ed estensione delle regole dell’arte Questo precedente è determinante per l’orientamento di cultura dell’anima, che Papini accetta di curare per l’editore → Rocco Carabba di Lanciano. Come le collane di Croce, quella di Papini ha infatti il problema di distinguersi dalla produzione dominante, rifacendosi a principi regolativi specifici. Ma a differenza di Croce, che ha scelto per sé il ruolo sovrano del critico, Papini ha bisogno di estendere queste regole anche alla produzione letteraria in senso stretto. Benché sia presentata come «collezione di libretti filosofici», cultura dell’anima è infatti a tutti gli effetti una collana letteraria, diretta da uno scrittore in cerca
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cultura dell’anima (1909-1938, 163 titoli) diretta da Giovanni Papini per Rocco Carabba Editore, Lanciano. Titoli tedeschi 1909-1920 A. Schopenhauer (G. Papini, G. Vailati), La filosofia delle università, 1909 (n. 3). F. Hölderlin (G. Martegiani), Iperione: frammenti, 1910 (n. 16). F. Schelling (M. Losacco), Ricerche filosofiche, 1910 (n. 17). A. Spir (O. Campa), Religione, 1911 (n. 20). J. G. Fichte (E. Roncali, G. Vitali), Sulla missione del dotto, 1912 (n. 23). F. Hebbel (S. Slataper), Diario, 1912 (n. 24). Novalis (A. Hermet), Inni alla notte e canti spirituali, 1912 (n. 25). F. Brentano (M. Puglisi), La classificazione delle attività psichiche, 1913 (n. 35). I. Kant (A. Oberdorfer), Prolegomeni ad ogni futura metafisica, 1912 (n. 40). Novalis (G. Prezzolini), Frammenti, 1914 (n. 41). F. Nietzsche (V. Benuzzi), Lettere scelte e frammenti epistolari, 1914 (n. 42). A. Schopenhauer (E. Kühn-Amendola), La quadruplice radice […], 1914 (n. 45). J. Ch. Lichtenberg (E. Burich), Osservazioni e massime, 1915 (n. 46). L. Feuerbach (B. Galletti), La morte e l’immortalità, 1916 (n. 51). H. von Kleist (G. Stuparich), Epistolario, 1919 (n. 61). H. Heine (A. Meozzi), Pensieri e ghiribizzi, 1919 (n. 64). F. D. E. Schleiermacher (C. Dentice di Accadia), Monologhi, 1919 (n. 67). K. J. Weber (E. Dolcher), Lo spirito e l’arguzia, 1919 (n. 70). H. Heine (A. Meozzi), Scritti minori, 1920 (n. 81).
di legittimazione. Il prototipo prezzoliniano torna dunque utile per ridefinire le regole dell’arte crociane e renderle compatibili con le istanze dell’avanguardia fiorentina (→ cap. 1 § 5): il suo Novalis – che non a caso verrà ristampato nel 1914 come n. 41 della collana – rispetta ampiamente l’interdetto contro i generi letterari commerciali e in particolare il romanzo (neanche in cultura dell’anima ci sarà, quindi, posto per Thomas Mann); è un perfetto esempio di letteratura filosofica e allo stesso tempo lirica; la lunga introduzione interpretante conferma l’opzione per il saggio critico come genere letterario privilegiato, mentre la scelta e la deliberata segmentazione del testo tradotto tendono al frammento; e infine – con uno scarto netto rispetto a Croce – la traduzione stessa è rivendicata come operazione creativa, dunque letteraria e militante, che fa dell’opera tradotta un’opera (anche) del traduttore (→ cap. 3).
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I tedeschi di Papini Su questa falsariga vengono realizzati i libretti di cultura dell’anima, a cominciare da La filosofia delle università di Schopenhauer, tradotto, ma potremmo dire reinventato, dallo stesso Papini, fino, per citare il caso più noto, al Diario di Hebbel tradotto, e anch’esso per così dire reinventato, da Slataper. Il risultato è un repertorio marcato Carabba di poeti-filosofi selezionati ad uso delle cause dell’avanguardia fiorentina e → manipolati in base alle loro poetiche del momento, al cui centro spiccano un Novalis (→ ant. 1), uno Hebbel (→ ant. 6) e uno Hölderlin frammentisti, e un Nietzsche futurista (→ ant. 16). Come la biblioteca di cultura moderna di Croce, anche cultura dell’anima viene integrata in un più vasto circuito di produzione, fatto di collane (come scrittori nostri e l’italia negli scrittori stranieri, nate nel 1910, e indirettamente antichi e moderni di Borgese, inaugurata nel ’12, tutte per Carabba) e di riviste (in primis «La Voce», ma anche «L’Anima», «Lacerba» e altre), che condividono in larga misura le stesse regole dell’arte, lo stesso repertorio di letteratura tradotta e soprattutto lo stesso gruppo di produttori. Per la collana di Papini e, come vedremo, per i quaderni della «voce» di Prezzolini lavorano quasi tutti i vociani: Soffici, Jahier, Boine, Cecchi, Slataper e molti giovanissimi che vengono avviati alla traduzione dal tedesco come Aldo Oberdorfer, Enrico Burich, Alberto Spaini, Rosina Pisaneschi o Giani Stuparich.
5. Il circuito di produzione e il repertorio di Prezzolini L’efficacia della formula “rivista + collana” collaudata da Croce e Papini spinge anche Prezzolini a tentare, nel 1910, una propria impresa editoriale: i quaderni della «voce» (→ cap. 1 § 3). Nasce così il circuito di produzione più vicino al polo dell’autonomia: autonomia strutturale, perché la collana, inizialmente pubblicata dall’editore fiorentino Quattrini, a partire dal 1912 esce sotto il diretto controllo di Prezzolini, che a questo scopo fonda la Società anonima cooperativa Libreria della Voce (di cui Papini figura vicepresidente e Croce fra i probiviri)
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finanziata con le sottoscrizioni di 250 lettori della rivista; e autonomia simbolica, perché i quaderni, che guardano al centro della République mondiale des lettres e in particolare ai «Cahiers de la Quinzaine» pubblicati a Parigi da Charles Péguy, si presentano tout court come organo dell’avanguardia vociana, rappresentando manifestamente nel campo editoriale gli interessi e le poetiche del gruppo di scrittori e critici militanti raccolto intorno alla rivista. La collana pubblica infatti le loro opere, realizzate nella più rigorosa osservanza delle regole dell’arte che essi stessi hanno contribuito a codificare. I tedeschi di Prezzolini I titoli tedeschi, così come in genere quelli di letteratura straniera, sono pochissimi – si limitano in sostanza alla Giuditta di Hebbel tradotta da Slataper e al libro di Prezzolini sui mistici tedeschi – ma è notevole che vengano presentati come opere vociane alla stessa stregua di quelle prodotte da scrittori italiani. Il risultato è una foto di gruppo in cui Hebbel e Rimbaud, Kipling e Čechov stanno accanto a Papini e Soffici, Serra e Jahier. Il caso più emblematico di osservanza dei nuovi principi regolativi sul piano tanto della produzione creativa quanto della riproduzione traduttiva è quello di Scipio Slataper, che compare nella collana come traduttore della Giuditta di Hebbel e come autore de Il mio Carso (→ capp. 1 e 4). Nonostante quella di Prezzolini rappresenti l’operazione editoriale più avanzata sul piano dell’autonomia e della ricerca letteraria, non troviamo nella collana neppure uno degli autori canonici menzionati all’inizio del capitolo: sulla «Voce» si scrive di Wedekind e di Kraus, → Alberto Spaini passa in rassegna in un articolo poesie di Benn, Döblin e persino di Else Lasker-Schüler, ma da questa esplorazione non esce altro che la traduzione di Hebbel. «Più me ne sto quassù – scrive lo stesso Spaini da Berlino – e più mi convinco che da noi in Italia s’hanno le idee più sbagliate sulla Germania. Conoscenza diretta – punta, se non coi classici; e dopo i classici si conosce attraverso la Francia – dove, sia detto una volta per sempre, non si conosce affatto»10. Chi come Spaini entra in contatto diretto con le avanguardie tedesche, deve prendere atto di come gran 10
Alberto Spaini, Moderna letteratura tedesca, «La Voce», 28.4.1914, p. 46.
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quaderni della «voce» (1910-1922, 57 titoli) diretta da Giuseppe Prezzolini per Casa Editrice Italiana/Quattrini, Firenze. Primi venti titoli, 1910-1912 F. Pasini, L’università italiana a Trieste, 1910 (nn. 1-2). F. Hebbel (M. Loewy, S. Slataper), Giuditta, 1910 (n. 3). E. Cecchi, Rudyard Kipling, 1910 (n. 4). A. Čechov (S. Jastrebzof, A. Soffici), Racconti, 1910 (n. 5). R. Serra, Scritti critici, 1910 (n. 6). D. Halévy (P. Jahier), Il castigo della democrazia, 1911 (n. 7). B. Mussolini, Il Trentino veduto da un socialista, 1911 (n. 8). M. Vaina, Popolarismo e Nasismo in Sicilia, 1911 (nn. 9-10). G. Papini, Memorie d’Iddio, 1911 (n. 11). G. Amendola, Maine de Biran, 1911 (n. 12). A. Soffici, Arthur Rimbaud, 1911 (n. 13). G. Prezzolini, Studi e capricci sui mistici tedeschi, 1912 (nn. 14-15). A. Soffici, Lemmonio Boreo, 1912 (n. 16). G. Salvemini, Memorie d’un candidato, 1912 (n. 17). G. Papini, Un uomo finito, 1912 (nn. 18-19). S. Slataper, Il mio Carso, 1912 (n. 20).
parte della migliore produzione letteraria d’oltralpe non sia riconducibile alle regole dell’arte dell’avanguardia fiorentina, e quindi cada fuori dagli interessi della «Voce» e delle altre riviste militanti. Quando nel 1913 propone a Prezzolini un articolo su Thomas Mann, si sente rispondere che sulla rivista non c’è posto per «un tedesco pesante noioso ostinato» (→ ant. 12). Emblematico, per contro, il caso di Italo Tavolato, che per adeguare Karl Kraus alle “regole” – in questo caso di «Lacerba» – arriva a stravolgerlo (→ cap. 4, ant. 9). Anche Prezzolini allarga progressivamente il suo circuito di produzione: dalla «Voce», ai quaderni, alla casa editrice Libreria della Voce, che tra il 1912 e il 1928 dà vita a numerose collane e pubblica circa 300 volumi, in gran parte realizzati da letterati vicini dell’avanguardia fiorentina, da Papini a Malaparte11.
11 Per una panoramica sull’attività editoriale di Prezzolini, cfr. Le edizioni della «Voce», a cura di C. M. Simonetti, La Nuova Italia, Firenze 1981.
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6. Il circuito di produzione e il repertorio di Borgese Borgese tra autonomia ed eteronomia Nel 1912 anche Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952) inaugura presso → Rocco Carabba, con la mediazione di Papini, una sua collana: antichi e moderni. Già tra i protagonisti dell’avanguardia fiorentina e collaboratore di Croce, poi corrispondente da Berlino per «La Stampa» e autore del volume La nuova Germania, Borgese è dal 1910 titolare della cattedra di letteratura tedesca all’università di Roma e da meno di un anno critico letterario del «Corriere della Sera». Anche lui si dota di un ampio circuito di produzione, ma a differenza dei suoi alleati (e concorrenti) può contare su strutture ben più solide dei periferici Laterza e Carabba: i suoi articoli escono sul principale quotidiano del paese, i suoi volumi – a cominciare dal trittico La vita e il libro: saggi di letteratura e cultura contemporanee (1910-13) – vengono pubblicati da Bocca e da Treves, e la cattedra di Roma gli garantisce, oltre a una schiera di allievi assai produttivi (tra cui Spaini, Pisaneschi e Tecchi), il controllo della storica rivista di Ruggiero Bonghi «La Cultura», che porterà sotto le insegne di Bocca ribattezzandola «Il Conciliatore» (1914-15). In questo quadro antichi e moderni è dunque per lui un’impresa relativamente marginale, per la quale – a differenza ad esempio di Papini – non firma mai né una traduzione né un’introduzione. Tuttavia, dato il suo posizionamento nel campo, a cavallo tra il polo dell’autonomia letteraria e quelli eteronomi del giornalismo, dell’università e della grande editoria, il suo nome è sufficiente a garantire alla collana tanto un certo capitale simbolico specifico quanto una buona visibilità. Sebbene la sua collana sia strutturalmente e simbolicamente prossima a quelle di Croce, Papini e Prezzolini, Borgese opta per un programma meno profilato e più inclusivo, che solo in parte si attiene alle “regole” dell’avanguardia fiorentina: ignorando l’interdetto contro i generi, annuncia che nella collana «avranno la prevalenza le opere di pura fantasia (drammatica, narrativa, lirica)»12; le traduzioni, inoltre, non hanno un ca12 Antichi e Moderni, presentazione della collana acclusa al volume Federico Hebbel, Maria Maddalena, R. Carabba, Lanciano 1912.
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antichi e moderni (1912-1935, 86 titoli) diretta da Giuseppe Antonio Borgese per Rocco Carabba Editore, Lanciano. Titoli tedeschi (1912-1920) Novalis (G. A. Alfero), I discepoli di Sais, 1912 (n. 1). F. Hebbel (F. Pasini, G. Tevini), Maria Maddalena, 1912 (n. 4). J. G. Fichte (N. Quilici), Introduzione alla vita beata, 1913 (n. 5). Novalis (R. Pisaneschi), Enrico d’Ofterdingen, 1914 (nn. 14-15). R. Dehmel (T. Gnoli), Poesie scelte, 1914 (n. 16). G. E. Lessing (U. Faldati), Minna di Barnhelm, 1915 (n. 18). G. E. Lessing (U. Faldati), Emilia Galotti, 1916 (n. 20). W. H. Wackenroder (G. Martegiani), Opere e lettere, 1916 (n. 21). F. Grillparzer (V. Errante), Saffo, 1920 (n. 23). F. Grillparzer (V. Errante), Il vello d’oro, 1920 (nn. 25-26). L. Tieck (G. Fornelli), Il cavaliere Barbableu, 1920 (n. 27). N. Lenau (V. Errante), Faust, 1920 (n. 30).
rattere esplicito di appropriazione, ma, come negli scrittori stranieri di Croce, fondati nello stesso anno e con cui è in diretta concorrenza, si vogliono complete e rigorose. Poiché tuttavia i principali collaboratori della collana provengono o dall’avanguardia fiorentina oppure dalla scuola germanistica di Arturo Farinelli, a sua volta vicino a Croce e ai vociani, il repertorio da essa proposto non si discosta in sostanza da quelli di cultura dell’anima e scrittori stranieri (→ Traiettoria Carabba). E se pure accanto a Richard Dehmel, l’unico tedesco vivente rappresentato nelle collane fin qui passate in rassegna, ci sarebbe in linea di principio posto anche per Thomas Mann, neanche in antichi e moderni viene tradotta un’opera sua o di altri autori primonovecenteschi oggi canonici. Nella collana si scorge già quell’interesse per «una salda architettura fantastica con le fondamenta piantate in un consistente terreno di vita morale»13, che negli anni ’20, dopo il suo trasferimento a Milano, diventerà dominante e porterà a Rubé (1921), ai saggi di Tempo di edificare (1923) e Ottocento europeo (1927), e 13 Giuseppe Antonio Borgese, Studi di letterature moderne, Treves, Milano 1915, p. v.
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soprattutto alla biblioteca romantica, la collana progettata a partire dal ’26 e pubblicata dal ’30 per Mondadori, che presenta per la prima volta in Italia un repertorio del romanzo europeo, incluso quello tedesco, affidandone la traduzione a professionisti accreditati nel campo di produzione ristretta, come Enrico Rocca, Lavinia Mazzucchetti, Silvio Benco, e Borgese stesso, che traduce personalmente il Werther di Goethe.
7. La nuova polarizzazione del campo e le sue conseguenze La nuova polarizzazione del campo «C’erano in Italia poche case editrici veramente importanti, che si dividevano tranquillamente le specialità e le regioni letterarie», registra Renato Serra nel 1914: «adesso è un diluvio di carta stampata che rifluisce da ogni parte, moltiplicando le copertine e le etichette» (→ ant. 15). Alla fine di quell’anno la biblioteca di cultura moderna arriva a 75 titoli, cultura dell’anima a 44, classici della filosofia moderna a 21, quaderni della «voce» a 23, scrittori d’italia a 68, scrittori nostri a 50, scrittori stranieri a 9, antichi e moderni a 16, scrittori italiani e stranieri a 50, classici del ridere a 2214. Il totale si avvicina 14 Tra il 1911 e il 1913 compaiono sul mercato anche gli scrittori italiani e stranieri di Gino Carabba (1876-1944), il figlio di Rocco che si mette in proprio facendo concorrenza al padre, e i classici del ridere di Angelo Fortunato Formiggini (1878-1938), due collane che, per quanto non direttamente legate all’avanguardia letteraria, contribuiscono ad allargare il circuito di produzione e a trasformare il repertorio della letteratura tradotta. scrittori italiani e stranieri (1912-1943, 421 titoli) è un contenitore piuttosto eterogeneo che Gino Carabba dirige personalmente con la consulenza di due letterati della vecchia generazione come Domenico Ciàmpoli e Federigo Verdinois: qui esce la riedizione della prima traduzione italiana del Wilhelm Meister aspramente contestata dai vociani (→ ant. 8); ma vi trovano posto anche le prime traduzioni italiane di Gustav Meyrink (Il baraccone delle figure di cera, 1920) e di Georg Büchner (Opere, 1928-1931, a cura di Alberto Spaini e Rosina Pisaneschi). Nei classici del ridere (1913-1938, 105 volumi), collana dedicata alla letteratura comica di tutti i tempi e le nazioni, vengono invece pubblicati una delle prime traduzioni italiane dallo yiddish, Marienbad: non romanzo, ma pasticcio in 49 lettere e 47 telegrammi di Sholem Aleichem (1918, a cura di di Alfredo e Rachele Polledro, più tardi fondatori della casa editrice Slavia), il S. Antonio da Padova di Wilhelm Busch (1920, nella traduzione in versi del celebre grecista Ettore Romagnoli) e Le avventure del barone di Münchhausen (1923, tradotte dal futurista Corrado Pavolini).
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ai 400 volumi. E il cambiamento non è solo quantitativo. Sebbene, come rileva lo stesso Serra, ancora non esistano «editori letterari puri» sul modello francese, funzionano però a pieno regime almeno quattro circuiti di produzione, attraverso i quali i letterati legati alle avanguardie, ora in alleanza ora in concorrenza tra loro, producono centinaia di volumi, selezionati e confezionati secondo le “regole” che essi stessi hanno definito, e indirizzati in primo luogo ai propri pari. La presenza di questi nuovi attori determina l’attivazione di un polo di produzione autonomo che, per quanto ancora fragile e instabile, tende a ricollocare per opposizione simbolica presso un polo eteronomo gli editori che continuano a dominare il mercato, e a far apparire obsoleta la vecchia opposizione tra arte borghese e arte sociale. Intorno al 1912 si cominciano a vedere i primi effetti di campo: «Treves suol dire che, prima di morire, deve veder fallire tre editori: Laterza, Carabba e Ricciardi», scrive Croce a Giovanni Laterza15. Una delle prime conseguenze è che i grandi editori cominciano a trovare conveniente appropriarsi di autori nel frattempo consacrati dai nuovi entranti: nel 1912 Treves pubblica la Storia della letteratura italiana di De Sanctis, dopo che l’edizione curata da Croce per Laterza gli ha restituito prestigio; e nel ’14 Sonzogno, come si accennava in apertura, inserisce nella sua biblioteca universale la Maria Maddalena di Hebbel, autore consacrato dai vociani, affidando la prefazione allo stesso Farinelli. Le nuove pratiche dei nuovi entranti Ma non è solo una questione di concorrenza. Le collane di Croce, Papini e Prezzolini (e in subordine quella di Borgese e altre) introducono un nuovo habitus editoriale, un insieme di pratiche legate a specifici interessi letterari o più latamente politico-culturali, di cui nel 1919 il giovanissimo Gobetti può riconoscere la novità e il potenziale: «Oggi abbiamo degli editori nuovi, che faranno essi veramente della grande arte editoriale; ma non sono scolari di Treves, si chiamano Prezzolini, Laterza e, speriamo, Vallecchi, e speriamo molti altri ancora» (→ ant. 19). Nel campo di pro15 Lettera del 10 febbraio 1912, in Benedetto Croce, Giovanni Laterza, Carteggio, II, 1911-1920, a cura di A. Pompilio, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 117.
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duzione ristretta costituito da questi «editori nuovi» si forma lo stesso Gobetti, che a sua volta trasmette i valori e le pratiche dell’editoria di progetto alla generazione che negli anni Trenta darà vita alla Frassinelli e all’Einaudi. In quello stesso spazio si forma anche una nuova generazione di traduttori dal tedesco, iniziati al lavoro editoriale da Croce, Papini e Prezzolini, e spesso allievi dei titolari delle prime cattedre di letteratura tedesca, quelle di Friedmann (Milano 1898), Farinelli (Torino 1907), Borgese (Roma 1910), Manacorda (Napoli 1913): è il caso di Spaini, Pisaneschi, Martegiani, Burich, Stuparich, Mazzucchetti, Tecchi, Errante, Pocar, Allason, Amoretti, Alfero, Vincenti, Gabetti16. Nello stesso spazio si sviluppano anche nuove pratiche della traduzione, che pur nella loro diversità (da Prezzolini a Croce) concorrono nel rendere obsolete e impraticabili le traduzioni dilettantesche, non eseguite sull’originale e caratterizzate da tagli e interventi arbitrari che per Treves e la maggior parte degli editori costituivano una pratica usuale (→ ant. 8). La situazione dopo la guerra Anche se la guerra determina una generale contrazione del mercato librario, i circuiti di produzione costituiti dai nuovi entranti restano in gran parte attivi anche negli anni ’20. All’indomani del conflitto quasi tutte le riviste e le collane che abbiamo passato in rassegna proseguono la loro attività o la riprendono in altre forme. Continua così a sussistere l’opposizione strutturale fra campo di produzione di massa e campo di produzione ristretta, ciascuno con i suoi principi regolativi. Prendiamo il caso dei fratelli Mann: se nel 1919 Heinrich viene tradotto è perché Sonzogno ha interesse a presentare al suo pubblico due romanzi fortemente critici nei confronti della società tedesca (I poveri e Il suddito: romanzo del tempo di Guglielmo II, entrambi volti in italiano dallo scrittore socialrivoluzionario Mario Mariani), ma la stessa logica politi16 Gli ultimi quattro sono allievi di Farinelli, che a sua volta fonda prima una collana saggistica con Bocca, letterature moderne (1916-1926), e poi con utet la collana letteraria i grandi scrittori stranieri (1930-1984). I suoi allievi contribuiscono ad alimentare le collane dei nuovi entranti soprattutto con traduzioni di quei romantici tedeschi che sono al centro degli studi del maestro e sui quali essi stessi spesso si laureano. Poiché negli anni ’20 gran parte delle nuove cattedre di letteratura tedesca saranno occupate proprio da loro, l’interesse per il romanticismo resterà dominante nell’università italiana fino al secondo dopoguerra.
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ca dell’arte sociale alla quale si deve la traduzione impedisce che lo scrittore venga preso in considerazione nei circuiti letterari; in questi si comincia invece a discutere del fratello Thomas, ma, per via delle logiche vigenti nel campo di produzione ristretta, Alberto Spaini fatica a trovare un editore che pubblichi una prima raccoltina di racconti (Ora greve, Tristano e altri racconti, Morreale, 1926) e Lavinia Mazzucchetti deve fondare una propria collana, narratori nordici, per poterne pubblicare una seconda (Disordine e dolore precoce, Sperling & Kupfer, 1929), mentre la grande editoria del campo di produzione di massa si interesserà all’autore solo dopo il Premio Nobel (La morte a Venezia, Treves, 1930). A questo punto siamo però nel pieno della rivoluzione strutturale e simbolica che intorno al 1930, con la nascita delle grandi collane industriali di classici (i grandi scrittori stranieri utet di Farinelli, la biblioteca romantica Mondadori di Borgese) e di narrativa contemporanea (i citati narratori nordici Sperling & Kupfer, gli scrittori di tutto il mondo di Gian Dàuli, la letteraria Bompiani, la medusa Mondadori, la biblioteca europea Frassinelli e i narratori stranieri tradotti Einaudi), determina l’inizio di una fase completamente nuova nella storia della letteratura tradotta in Italia.
8. Il repertorio del campo di produzione ristretta: Nietzsche, Novalis, Hebbel, Goethe Se ora osserviamo quali sono gli scrittori tedeschi annessi al repertorio specifico del campo di produzione ristretta, vale a dire consacrati dai nuovi entranti entro il perimetro strutturale e simbolico da essi stessi costituito, possiamo constatare che sono appena una manciata, e che tra essi si distinguono nettamente Nietzsche, Novalis, Hebbel, Goethe. Su questi quattro autori quasi tutti gli scrittori legati alle avanguardie letterarie si sentono chiamati a prendere posizione, studiandoli, traducendoli, recensendoli, accogliendoli o rifiutandoli. In altre parole, gli scrittori tedeschi che la nuova generazione di scrittori italiani considera “contemporanei” e adotta come termini di riferimen-
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to per definire, collaudare o legittimare le proprie poetiche non sono Mann, Rilke o Kafka, ma in primo luogo quelli di cui qui di seguito riepiloghiamo per sommi capi la traiettoria editoriale. Friedrich Nietzsche (1844-1900) L’importanza di Nietzsche per gli scrittori italiani da D’Annunzio a Papini è incalcolabile: non c’è in questo periodo autore tedesco più evocato, emulato, conteso e frainteso. I suoi primi libri appaiono, come abbiamo visto, ben prima della polarizzazione del campo, sotto le insegne lombrosiane della biblioteca di scienze moderne di Bocca: Al di là del bene e del male (1898), Così parlò Zarathustra (1899), La gaia scienza (1905), Ecce homo (1910). A questo Nietzsche “scienziato” Croce contrappone nel 1907, all’atto di acquisirlo alla nuova zona autonoma che egli stesso sta costituendo, un Nietzsche teorico dell’estetica pre-crociano, autore per la biblioteca di cultura moderna del saggio Le origini della tragedia, ritradotto e riprefato nel 1919 col titolo La nascita della tragedia. Nel ’14, all’interno di un campo di produzione ristretta in via di rapido consolidamento, Papini, nel breve periodo della sua alleanza con Marinetti, accredita invece un Nietzsche futurista pubblicando in cultura dell’anima le Lettere scelte e frammenti epistolari a cura di Valerio Benuzzi (→ ant. 16); ancora nel 1920 la prima antologia nietzschiana apparsa in Italia (Pagine scelte, n. 1 della collezione di pagine immortali edita da Facchi) si colloca in piena area futurista, sia per la prossimità dell’editore al movimento, sia per la traiettoria del curatore, Decio Cinti, per anni segretario e traduttore personale di Marinetti17. Novalis (1772-1801) Il primo scrittore che invece viene “scoperto” dall’avanguardia fiorentina e immediatamente acquisito al campo di produzione ristretta in via di costituzione è Novalis. Con l’inaugurale libretto pubblicato nel 1905 nei poetae philosophi et philosophi minores Prezzolini presenta un Novalis “moderno” in quanto mistico, idealista e pragmatista (→ cap. 3 17 Negli stessi anni inizia anche – ma siamo fuori dall’ambito letterario – una ricezione politica di Nietzsche, in chiave anarchica, con l’Anticristo pubblicato dalla Libreria Editrice Sociale di Giuseppe Monanni (1913). Tra il 1926 il ’27 lo stesso Monanni pubblicherà la prima edizione delle opere complete di friedrich nietzsche, in una collana di 11 volumi autorizzata da Elisabeth Förster-Nietzsche.
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§ 3, ant. 1). Questa stessa lettura ispira la traduzione degli Inni alla notte e canti spirituali pubblicata dal vociano Augusto Hermet in cultura dell’anima nel 1912, alla quale segue, nella stessa collana, la riedizione del Novalis prezzoliniano col titolo Frammenti (1914). In questi anni lo stesso Prezzolini, dopo aver introdotto in Italia lo scrittore, lo “supera” in nome di una visione più attiva e “goethiana” del ruolo del letterato nella modernità (→ cap. 5 § 8). Il profilo di un Novalis antimoderno, quello che alla prosaicità del Wilhelm Meister di Goethe contrappone i romanzi liricizzati I discepoli di Sais e soprattutto Enrico di Ofterdingen (→ ant. 14), finisce così per prevalere nelle traduzioni di questi due testi realizzate per antichi e moderni di Borgese rispettivamente da Giovan Angelo Alfero (1912) e Rosina Pisaneschi (1914). Questo Novalis prezzoliniano diventa figura emblematica delle contraddizioni della condizione moderna e della ricerca di uno spazio concreto per esercitare un’azione trasformativa sul mondo. Friedrich Hebbel (1813-1863) Altro scrittore scoperto dai vociani e che dunque arriva in Italia attraverso il campo di produzione ristretta è Hebbel. A occuparsene per primi sono Borgese (La vita e il libro, 1909) e Farinelli, che gli dedica uno dei suoi primi corsi all’università di Torino, poi pubblicato da Croce nella biblioteca di cultura moderna (Hebbel e i suoi drammi, 1912). Prezzolini e Papini, che invitano Farinelli a tenere le sue lezioni anche a Firenze alla Biblioteca Filosofica, segnalano l’autore al giovane Scipio Slataper, che di Hebbel diventa così il primo traduttore italiano: con la Giuditta, uscita nel 1910 nei quaderni della «voce», e il Diario, pubblicato nel 1912 in cultura dell’anima (→ ant. 6), una traduzione fortemente selettiva e personale sulla falsariga del Novalis di Prezzolini (→ cap. 4 § 3). Slataper, che accompagna le sue traduzioni con diversi articoli sulla «Voce», presenta Hebbel come l’anello di congiunzione tra i romantici e Nietzsche, figura di una tormentata modernità che si manifesta nella disarmonia dello stile. Sulla sua traduzione della Giuditta intervengono Borgese, Cecchi, Cardarelli, Boine, Farinelli e Croce (che, ripubblicando un aspro commento di Vittorio Imbriani, è il solo a rifiutare la sua poetica ostentatamente anticlassicista). Alla pubblicazione
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della Maria Maddalena curata da Ferdinando Pasini negli antichi e moderni di Borgese (1913) segue un’altra traduzione dello stesso testo – caso assai inconsueto – nel campo di produzione di massa, ovvero nella biblioteca universale Sonzogno (1914) con prefazione di Farinelli. Ancora nel dopoguerra Hebbel è considerato patrimonio dell’avanguardia letteraria: nel 1924 Piero Gobetti, ammiratore di Prezzolini e allievo di Farinelli, pubblica con la sua casa editrice la Agnes Bernauer nella traduzione di Giovanni Necco. Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) La notorietà di Goethe in Italia ha inizio, com’è noto, con la prima traduzione del Werther del 1782; ma a distanza di oltre cent’anni egli è tutt’altro che un classico indiscusso: ancora nel 1877 la polemica di Vittorio Imbriani contro la sua «fama usurpata» non appare una pura bizzarria e all’inizio del nuovo secolo opere come il Wilhelm Meister e Le affinità elettive non sono di fatto ancora tradotte. Il consolidarsi del suo capitale simbolico coincide con lo strutturarsi in Italia di un polo dell’autonomia. Mentre i grandi editori scoprono finalmente il suo romanzo più romanzesco, Le affinità elettive, che appare sia nella biblioteca amena di Treves nel 1909 sia nella biblioteca universale di Sonzogno nel 1914, i fondatori del campo di produzione ristretta si appropriano del Wilhelm Meister e iniziano anzi a contendersi tutto Goethe. Nel 1910, all’insediarsi sulla cattedra di letteratura tedesca a Roma, Borgese tiene una prolusione sulla Personalità di Goethe e l’anno seguente pubblica il volume Mefistofele, a cui Croce risponderà nel ’19 col suo Goethe. Alberto Spaini, allievo di Borgese, traduce insieme a Rosina Pisaneschi il Meister per gli scrittori stranieri di Croce (1913-15), e nel ’14 pubblica sulla «Voce» un lungo saggio evidentemente impregnato delle idee del maestro, ma ancor più degli amici Prezzolini e Slataper: Modernità di Goethe (→ cap. 5 § 5). Anche Goethe, quello del Faust e del Meister, viene così acquisito al patrimonio dell’avanguardia, e dopo la guerra lo ritroveremo, accanto a Leopardi e Manzoni, unico scrittore straniero tra i numi tutelari della «Ronda».
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Schopenhauer, Hölderlin e altri A questi quattro scrittori si potrebbero aggiungere almeno Schopenhauer e Hölderlin, e magari Kleist e Heine, scoperti o riscoperti dai nuovi entranti, ma ciò che conta è aver ripercorso le dinamiche che hanno portato ad acquisirli al campo di produzione ristretta e, in generale, a produrre un repertorio della letteratura tedesca “moderna”. A selezionarli, marcarli e leggerli secondo i loro interessi specifici, sono, come abbiamo visto, una mezza dozzina di attori. Senza di loro, il repertorio della letteratura tedesca in Italia sarebbe stato – e sarebbe tuttora – diverso.
Capitolo terzo I mistici tedeschi tradotti e narrati da Giuseppe Prezzolini Stefania De Lucia
1. Prezzolini e la lingua tedesca L’odiata tedescheria «Odio tutto quello che sa di tedescheria, i cavoli, le salsicce, la birra e il romanticismo; non ci ha dato quel popolo che qualche poeta e qualche metafisico: e anche per quelli bisogna fare la tara. Io sono e mi sento latino», così Prezzolini scrive a Dolores Faconti, sua futura moglie, nel maggio del 19031. Proprio in questi anni, infatti, Prezzolini è costretto a vincere la sua ritrosia verso la lingua e la cultura tedesca per motivi di lavoro, quando, recensendo un testo francese giunto alla redazione del «Leonardo», Novalis: essai sur l’idéalisme romantique en Allemagne di Édouard Spenlé2, entra per la prima volta in contatto, anche se in modo indiretto, con l’opera del poeta e filosofo tedesco, che legge nelle traduzioni francesi di Maurice Maeterlinck3. Il viaggio in Germania L’incontro con il pensiero novalisiano è folgorante (→ cap. 2, § 4 e § 8): Prezzolini vi riconosce il suo stesso dissidio tra l’uomo pratico e il sognatore, e per questo motivo, desideroso di confrontarsi con i testi in lingua originale senza mediazioni, nell’estate del 1904 si reca in Germania, dove studia il tedesco tra Norimberga e Monaco. I risultati sono visibili sia sul 1 La lettera, del 27 maggio, si trova in Giuseppe Prezzolini, Diario per Dolores, a cura di G. Prezzolini e M.C. Chiesi, Rusconi, Milano 1993, pp. 51-52. 2 Édouard Spenlé, Novalis: essai sur l’idéalisme romantique en Allemagne, Hachette, Paris 1904. 3 Novalis, «Les Disciples à Saïs» et «Fragments» de Novalis, traduit de l’allemand avec une introduction de Maeterlinck sur Novalis et le romantisme allemand, P. Lacomblez, Bruxelles 1895.
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piano privato sia su quello lavorativo: da un lato il tedesco diventa un codice di comunicazione segreto con Dolores, per eludere il controllo del padre di lei sui loro progetti matrimoniali; dall’altro diviene uno strumento pratico indispensabile per approfondire la conoscenza dell’opera di Novalis, all’epoca ancora quasi del tutto sconosciuta nel nostro paese4.
2. Prezzolini e Novalis: un rispecchiamento in traduzione Novalis, un mistico «come me» Prezzolini vede in Novalis un pragmatista ante litteram5, l’esponente di una Weltanschauung poetica e filosofica che esprime un interesse per l’irrazionale, la sperimentazione e la rivalutazione della vita intima rifunzionalizzato in chiave anti-borghese6, ed è palese che sin da subito parlare del poeta tedesco e del suo rapporto con la cultura del suo tempo equivale per Prezzolini a parlare di sé e della sua condizione di uomo moderno (→ ant. 1.a). Del resto, sottolineare il legame esistente tra la biografia del poeta e la propria, come Prezzolini fa nella sua brevissima recensione al testo di Spenlé7, rientra perfettamente in quella pratica della sincerità che si tra4 Cfr. Luciano Zagari, Literarische Novalis-Rezeption in Italien, in H. Uerlings (a cura di), «Blüthenstaub»: Rezeption und Wirkung des Werkes von Novalis, Max Niemeyer, Tübingen 2000, pp. 173-190. Se è vero che a Prezzolini spetta il primato di aver cominciato lo studio dell’opera novalisiana, è allo scrittore, filosofo e storico dell’arte Angelo Conti (1860-1930) che va riconosciuto il merito di averlo per primo citato nei suoi lavori (cfr. ivi, pp. 175-176, ma anche Manuele Marinoni, Angelo Conti e la metafisica del suono. Musica ed estetica nella cultura europea tra Otto e Novecento, «Oblio», VI.22-23, pp. 64-74). 5 Per una panoramica sul contesto culturale in cui il primo Prezzolini maturò il suo impianto filosofico, con riferimento specifico al suo rapporto con il pragmatismo, cfr. Giovanni Villa, Aspetti irrazionalistici del pragmatismo italiano: considerazioni generali sul pragmatismo «magico» di Giovanni Papini e su quello «sofistico» di Giuseppe Prezzolini, Cooperativa Tipografica Azzoguidi, Bologna 1961; Carlo Canepa, Il pragmatismo di Papini e Prezzolini: modernità e reazione tradizionalista, Università degli studi di Siena, Siena 2002 e Spartaco Pupo, Il pragmatismo magico e politico del giovane Prezzolini, in I. Pozzoni (a cura di), Pragmata. Per una ricostruzione storiografica dei Pragmatismi, If Press, Frosinone 2012, pp. 247-270. 6 Zagari, Literarische Novalis-Rezeption in Italien, cit., p. 175. 7 Giuseppe Prezzolini, Recensione a Spenlé E., Novalis: essai sur l’idéalisme romantique en Allemagne, Paris, Hachette, 1904, «Leonardo», giugno 1904, p. 35.
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durrà in una produzione critica e letteraria di chiara matrice autobiografica (→ cap. 1, § 8 e cap. 5). In questa direzione possiamo interpretare anche un’annotazione contenuta in una lettera a Dolores dell’ottobre del 1904, nella quale Prezzolini confessa di trovarsi in un periodo di lavoro intenso poiché sta traducendo le poesie di Novalis: «egli mi somiglia molto – aggiunge – mistico
come me»8. Se di questo progetto di traduzione rimane come unica traccia un riferimento al «sacro ardore» («In heiliger Glut») dell’ultimo verso del quarto degli Inni alla notte, che Prezzolini farà inscrivere nel decoro della sua carta da lettere9, gli elementi della personalità umana e della → autorialità10 che uniscono Prezzolini e Novalis sono ben più radicati, e per indicare la profondità di questa identificazione dovremmo partire col ricordare l’utilizzo, per entrambi, di uno pseudonimo che mira a dividere «l’uomo teorico dal pratico», così che Friedrich von Hardenberg, alias Novalis, possa essere considerato il «salvacondotto terreno» di Giuseppe Prezzolini, alias Giuliano il Sofista, «che vive fuori dal mondo»11. Mistica e misticismo: la libertà dell’istinto creativo Sia Novalis che Prezzolini concepiscono la mistica come desiderio di solitudine totale, necessaria a educare il soggetto alla volontà e al ripiegamento in sé, ed entrambi approdano dunque al misticismo come dimensione del pensiero ideale per la liberazione dell’istinto creativo: «verso la notte, verso il mistero, verso il segreto è la nostra azione – tu lo sapevi, Novalis che inneggiavi alle notti», 8 Prezzolini, Diario per Dolores, cit., p. 160. Una riflessione più ampia sull’interesse di Prezzolini per il misticismo e sul suo rapporto con Novalis si trova in Stefania De Lucia, «In heiliger Glut». Prezzolini e i Frammenti di Novalis, «Lettere aperte», 3, 2016. 9 Ivi, p. 183. La prima traduzione delle opere poetiche di Novalis uscirà circa un decennio dopo nella collana cultura dell’anima di Carabba: Novalis, Inni alla notte e Canti spirituali, traduzione e introduzione di Augusto Hermet, R. Carabba, Lanciano 1912. 10 L’attenzione che Prezzolini dedica alla figura di Novalis, al modello di intellettuale che rappresenta, alla forma da questi utilizzata per esporre il suo pensiero è di certo una prima sperimentazione di quelle tecniche di importazione della figura autoriale che saranno sviluppate dall’avanguardia fiorentina e di cui viene offerto un significativo esempio nel cap. 4 con il caso Tavolato-Kraus. 11 Giuseppe Prezzolini, Introduzione, in Id. (a cura di), Novalis, con ornamenti di Ch. Doudelet, Libreria Editrice Lombarda, Milano 1905, p. 21.
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scrive Giuliano il Sofista sul «Leonardo»12, avviandosi alla definizione di Novalis come «il profeta dell’Uomo-Dio»13, ovvero un uomo «signore della verità, padrone del mondo per mezzo della scienza, profeta delle cose avvenire»14. Novalis, insomma, prende il posto dell’alter ego di Prezzolini, Giuliano, al quale era dedicato lo smilzo libretto dato alle stampe nel 1903 nella collana biblioteca del leonardo e intitolato Vita intima15. La poetica del frammento In questo opuscolo di 49 aforismi, Prezzolini sperimenta anche per la prima volta la forma romantica par excellence, quella del frammento, che di lì a pochi anni avrebbe costituito un ulteriore punto di contatto con l’impianto di pensiero novalisiano e che avrebbe rappresentato, in particolar modo con l’esperienza vociana, un criterio strutturale fondante per una nuova estetica del pensiero: i moti dell’animo e le intuizioni sono visti come elementi passeggeri e mutevoli e pertanto più idonei a restituire la verità di un io sfaccettato e in continua evoluzione (→ cap. 1, § 8). Sulla forza di questa forma espressiva breve e apparentemente caotica, Prezzolini si esprimerà con parole di entusiasmo in uno scritto dedicato a Henri Bergson16: recuperando la differenza tra l’uso sistematico del frammento da parte dei filosofi presocratici e il disordine creativo e intuitivo che sta alla base dell’u12 Giuseppe Prezzolini, Un compagno di scavi (F.C.S. Schiller), «Leonardo», giugno 1904, pp. 4-7. 13 Prezzolini, Introduzione, cit., p. 7. 14 Giuliano il Sofista, L’Uomo Dio, «Leonardo» 27-1-1903, pp. 3-4; ma cfr. anche Giovanni Papini, Dall’Uomo a Dio, «Leonardo», febbraio 1906, pp. 6-15. Per un approfondimento della teoria dell’Uomo-Dio cfr. Fabio Finotti, Una «ferita non chiusa». Misticismo, filosofia, letteratura in Prezzolini e nel primo Novecento, Olschki, Firenze 1992, pp. 53-63. 15 Giuliano il Sofista, Vita intima, Giovanni Spinelli, Firenze 1903. 16 Henri-Louis Bergson (1859-1941) fu un punto di riferimento per i giovani intellettuali italiani, e in particolar modo fiorentini, nell’elaborazione di un approccio filosofico antipositivista e antispiritualista. Le sue teorie sul riso, sullo slancio vitale, sulla percezione e sulla memoria costituiscono una lettura imprescindibile per i giovani intellettuali fiorentini, colpiti dalla centralità che Bergson affidava al potere dell’intuizione. Per un approfondimento dell’importanza rivestita dalla sua figura per gli intellettuali riuniti attorno alla redazione del «Leonardo» si veda Laura Schram Pighi, Henri Bergson e la cultura francese nel «Leonardo», in «Leonardo» I, 19031905, riletto da Mario Quaranta e Laura Schram Pighi, Arnaldo Forni editore, Sala Bolognese 1981, pp. 15-21.
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tilizzo della stessa forma espressiva nel romanticismo, Prezzolini riconosce al filosofo pragmatista francese la stessa «genialità estemporanea» romantica nell’utilizzo della forma breve, la più idonea a esprimere una filosofia basata sull’intuizione e non su un pensiero logicamente e organicamente ordinato17.
3. La traduzione dei Frammenti di Novalis La collana
poetae philosophi et philosophi minores
Il frutto del lavoro sul poeta tedesco arriva nel 1905 con la pubblicazione di un agile volumetto, dal semplice titolo Novalis, che apre la collana poetae philosophi et philosophi minores progettata l’anno precedente insieme a Giovanni Papini, Tommaso Gallarati Scotti18 e Ugo Monneret de Villard19 per l’editore Antongini di Milano. Nella lista di pubblicazioni annunciate trovano posto non solo gli autori mistici nel senso religioso del termine, ma soprattutto «coloro che al di fuori di ogni religione costituita hanno sentito il desiderio di comunicare più intimamente col mondo, o hanno dedicato alla cultura e all’elevazione del loro io le loro volontà più pure»20. La pubblicazione degli «eleganti volumetti», che si ispirano al modello dell’editore tedesco Eugen Diederichs (→ cap. 2, § 4) non solo nella veste grafica ma anche nell’habitus editoriale – scelta di testi significativi di autori per nulla o poco studiati, direttamente tradotti dagli originali o ripresi sui codici migliori e corredati da un solido apparato critico – si arresta al primo 17 Giuseppe Prezzolini, Spunti e sistema: il Bergson [1910], in Id., Uomini 22 e città 3, Vallecchi, Firenze 1918, pp. 41-53, in particolare pp. 46-50. Sulla tradizione del frammento, soprattutto in ambito tedesco, Prezzolini si era anche espresso in Giuliano il Sofista, Studi sul Romanticismo, «Leonardo», ottobre-dicembre 1905, pp. 197-202. 18 Tommaso Gallarati Scotti (1878-1966), aristocratico milanese, consegue la laurea in Lettere nei primi anni del Novecento ed è tra i fondatori della rivista «Il Rinnovamento». Collabora con numerosi intellettuali modernisti del suo tempo, sempre conciliando i suoi interessi politici con quelli letterari. 19 Ugo Monneret de Villard (1881-1954), ingegnere milanese, è un collaboratore del «Leonardo», per il quale si occupa di arte contemporanea. 20 Così nella nota pubblicitaria pensata per il lancio della collana in «Leonardo», aprile 1905, p. 75.
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titolo. A poche settimane dall’uscita del Novalis, infatti, alcune scelte traduttive di Prezzolini producono insanabili fratture tra i curatori della collana e sono causa della cessazione del progetto editoriale21. Le polemiche si concentrano su una sezione specifica del testo, denominata La voluttà come misticismo (→ ant. 1.c), nella quale, con criteri apparentemente ingiustificati, Prezzolini avrebbe aggiunto alla sua raccolta frammenti inesistenti nel testo originale, producendo così un «misticismo da casa di tolleranza» capace di conferire alla collana «il carattere di una biblioteca alla Madame Bovary», e facendola allontanare dal «senso esatto di quello che la collezione doveva essere»22. Prezzolini non esiterà a dare la responsabilità delle esagerazioni misogine prima a Novalis stesso di cui, a suo dire, si era fatto fedele traspositore, e in secondo luogo alle traduzioni di Maeterlinck, nelle quali gli stessi passaggi sarebbero stati, a suo dire, già presenti. Taglio, montaggio, invenzione Ma l’aggiunta di questi elementi misogini è solo l’esempio più lampante di una serie ben più ampia di scelte che Prezzolini mette in atto nel suo lavoro di traduzione. Se l’idea di inserire nell’indice anche brani di opere novalisiane più ampie, come il romanzo incompiuto I discepoli di Sais (1798-1799) o il saggio di taglio filosofico-politico La Cristianità o l’Europa (1789) – selezionandone delle parti e affiancandole al materiale già nato in forma di frammento – risponde a un principio compositivo dell’intera collana, che propone non opere complete ma le loro parti migliori, più arbitrario risulta il criterio secondo il quale i frammenti vengono raccolti e ordinati. Da un lato si ha un’operazione di taglio e ricomposizione continua: individuate grandi sezioni tematiche in cui ordinare i materiali, Prezzolini raccoglie in ciascuna testi disomogenei, taluni ripresi fedelmente dai frammenti originali, altri composti 21 Per avere una chiara idea delle accuse mosse a Prezzolini cfr. la lettera a lui inviata da Tommaso Gallarati Scotti in data 29 gennaio 1906 (cit. in Finotti, Una «ferita» non chiusa, cit., pp. 184-186). Nonostante il parere contrario di Ugo Monneret de Villard e facendosi portavoce di numerosi altri pareri, tra i quali quelli di Uberto Pestalozza e Antonio Fogazzaro, Gallarati Scotti ritiene non ci siano più gli estremi per una collaborazione, a meno che Prezzolini non ristampi il testo con le opportune modifiche. 22 Ivi, p. 185.
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da enunciati tratti da frammenti diversi, che così, combinati in modo nuovo, del tutto difforme dal testo originario, mutano la loro funzione e il loro significato, piegandosi alla logica di un testo del tutto nuovo. Novalis e la Will to believe La divisione stessa in sezioni tematiche, d’altra parte, presenta una ulteriore manipolazione traduttiva. Nel suo tentativo di trattare Novalis come il primo dei pragmatisti e mostrare il carattere pratico della sua filosofia per frammenti, indicizzando i materiali Prezzolini rinomina una sezione con il titolo di una famosa lezione pronunciata nel 1896 dal pragmatista americano William James e pubblicata l’anno successivo con il titolo Will to believe («Volontà di credere»). Con questa titolazione anacronistica, Prezzolini sta in realtà dialogando con un pubblico ben preciso prima ancora che con il testo di Novalis: dando alla sezione il titolo di un testo in cui si argomenta della possibilità di credere nello svolgimento di certi eventi anche in assenza di prove evidenti, dà per acquisito che i suoi lettori conoscano il pragmatismo e, mentre costringe un certo numero di frammenti novalisiani a piegarsi a una dimensione interpretativa a loro estranea, con la sua traduzione creativa accompagna il lettore in un percorso di lettura che è tutto centrato sulla sua personale visione, soggettiva e parziale, dell’autore e del suo testo.
4. Il traduttore mitologo I tre tipi di traduzione secondo Novalis A legittimare Prezzolini in queste operazioni sugli originali sono gli stessi testi di Novalis che, in più occasioni, riflettono sul frammento come forma dotata di un significato e di un potere intrinseco, attivabile in modo diverso a seconda dei tempi e degli spazi, dell’ottica del lettore e del traduttore. Prezzolini seleziona una serie significativa di brevi pensieri sul frammento e intitola la prima sezione del volume Intorno ai frammenti (→ ant. 1.b): vi sono raccolti tutti quei passaggi in cui Novalis afferma che si può dimostrare di aver compreso un autore solo quando si riesce a operare secondo il suo spirito e, senza «rimpicciolirne l’individualità», si può tradurlo e mutarlo in vario
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modo23. A descrivere il modo in cui questa traduzione «spirituale» può avvenire è lo stesso Novalis, che in un lungo frammento distingue tre tipi possibili di traduzione. La prima, quella «grammaticale», ha carattere erudito e tradizionale; la seconda, quella «metamorfica», è più artistica e tende al travestimento; l’ultima, quella «mitica», è volta a dare la «forma ideale» dell’opera d’arte, ed è attuabile solo da colui nel quale si siano compenetrati spirito poetico e spirito filosofico24. Novalis, e Prezzolini con lui, attribuisce a quest’ultimo tipo di traduzione il valore maggiore: Prezzolini esclude infatti l’eventualità di proporre una lettura grammaticale con la sua traduzione, essendo consapevole sia delle debolezze linguistiche che ancora compromettono la sua comprensione dei testi – «talora molto libera, talora molto letterale»25 –, sia di non possedere le qualità poetiche necessarie a “riscrivere” il pensiero di Novalis; adottando un gesto “metamorfico” si riconosce invece dotato di quelle qualità intellettuali e narrative utili a penetrarne spiritualmente il senso, e a farsi dunque interprete dei frammenti nel loro presente. Traduzione come «sforzo di impossessamento» Il Prezzolini traduttore di Novalis, come è chiaramente sottolineato più volte nell’introduzione al volume dei frammenti (→ ant. 1.a), assume la → postura del “mitologo”, e attraverso la sua personale narrazione dei frammenti, attuata, come abbiamo visto, per via di tagli, collages o aggiunte frutto di fantasia, è in grado di riattivare significati latenti nell’opera d’arte originaria, secondo una «logica dinamica, più elastica, più mobile, più capace di rivestire la realtà»26. La traduzione dei frammenti di Novalis risulta così un esercizio filosofico pragmatista, in quanto non si accontenta della contemplazione della verità già stabilita dal testo originario ma agisce su di essa facendola rispondere agli stimoli del nuovo contesto culturale in cui viene ad operare; allo stesso tempo, è un’attività legata alla “mistica”, ovvero secondo Prezzolini a 23
Prezzolini (a cura di), Novalis, cit., p. 84. Per il testo completo del frammento sui tre tipi di traduzione, cfr. → ant. 1.b. 25 Prezzolini (a cura di), Novalis, cit., pp. 66-67. 26 Ivi, p. 58. 24
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quella “scienza” che non è un sistema scolastico di formule, ma qualcosa di vitale e animato, che permette di acquisire conoscenza grazie a uno sforzo di assimilazione: «Per conoscere – scrive ancora Prezzolini nell’introduzione al Novalis – bisogna farsi simile all’oggetto, o renderlo simile a noi. Il conoscere ha grande somiglianza con il nutrirsi; è uno sforzo d’impossessamento»27. In effetti, il risultato di questa operazione – Prezzolini ne è ben coscio – è un Novalis “suo”, più che «un Novalis ad uso e consumo di tutti»28.
5. Il Libretto della vita perfetta Prezzolini e la libertà mistica Colui che giunge alla coscienza della vita spontanea che si manifesta negli spiriti individuali, è un mistico. Sia pure artista, filosofo, uomo di armi, poeta: purché non attribuisca a se stesso la propria creazione, egli è un mistico. Colui che raggiunge veramente questo stato, che saprà esercitare l’officio di uno strumento e non la parte di un creatore, abbandonerà le falsificazioni e i trucchi e le moltiplicazioni della ragione e dell’economia. Davanti alla sua opera sarà come la Vergine dinanzi al figlio: Quem genuit, adoravit. Adorerà l’opera che avrà scelto il suo corpo per manifestarsi al mondo29.
Con queste parole Prezzolini si avvia a concludere, nel 1907, l’ultima sezione di un ampio Saggio sulla libertà mistica affidato a uno degli ultimi numeri del «Leonardo». Il valore delle sue af27
Ibidem. Ivi, p. 67. La convinzione con cui Prezzolini giustifica il suo lavoro sui testi di Novalis è confermata dalla nuova edizione del testo pubblicato nel 1914 da Papini nella cultura dell’anima di Carabba. A parte la modifica del titolo da Novalis in Frammenti e un cambiamento di ordine nella disposizione dei materiali critici, l’edizione non presenta correzioni in nessun punto al lavoro di traduzione, segno del fatto che, nonostante le critiche, Prezzolini giudica il suo operato ancora valido e pertanto rappresentativo dell’opera del poeta tedesco nel contesto della cultura italiana di quegli anni. 29 Il Sarto spirituale [Giuseppe Prezzolini], Saggio sulla libertà mistica, «Leonardo», febbraio 1907, pp. 46-63. Assieme a Giuliano il Sofista, Rocco Ghinart e Quovultdeus, Il Sarto spirituale è uno dei noms de plume usati da Prezzolini per firmare i suoi articoli sul «Leonardo». 28
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fermazioni è chiaramente programmatico e non è un caso che esse giungano nello stesso anno in cui l’intellettuale progetta una ripresa della collana dei poetae philosophi et philosophi minores. Grazie alla mediazione di Benedetto Croce, infatti, Prezzolini ha ricevuto la disponibilità di un piccolo editore napoletano, Francesco Perrella30, a riprendere la pubblicazione di un progetto editoriale segnato da un passato non proprio rassicurante, al quale intende affidare una sua nuova traduzione dal tedesco. Il Libretto della vita perfetta d’ignoto tedesco del secolo XIV, questo il titolo del volume uscito nel 1908, è frutto della costante attenzione di Prezzolini per il catalogo Diederichs nel quale era uscita nel 1907 la versione in tedesco moderno31 di questo importante documento della teologia mistica medievale, del quale sono ignoti sia l’esatta data di composizione sia il nome dell’autore32. 30 Non sono molte le notizie su questo piccolo editore attivo a Napoli presumibilmente già a partire dal 1901. Tra i titoli del suo catalogo si ricordano quelli di Matilde Serao, che proprio per i suoi tipi, nel 1904, diede alle stampe Il ventre di Napoli. A questa altezza temporale, più che una casa editrice vera e propria, quella di Francesco Perrella doveva essere una tipografia. La Libreria editrice Francesco Perrella società anonima per azioni si costituisce infatti solo a partire dal 1925. 31 Das Büchlein vom vollkommenen Leben. Eine deutsche Theologie in der ursprünglichen Gestalt, herausgegeben und übertragen von Herman Büttner, Diederichs, Jena 1907. 32 Da cui l’appellativo «Der Franckforter» con il quale il suo autore è indicato in alcune edizioni. Rimandando agli apparati critici della nuova traduzione del testo in italiano apparsa a cura di Marco Vannini (Anonimo francofortese, Teologia tedesca. Libretto della vita perfetta. Testo tedesco medio-orientale a fronte. Introduzione, traduzione, note e apparati di M. Vannini, Bompiani, Milano 2008, pp. 5-49) e in particolare alla Nota editoriale (ivi, pp. 41-44) per la ricostruzione della complessa storia delle sue edizioni, daremo qui solo qualche cenno sulla prima delle tre versioni in lingua originale del testo, alla quale Prezzolini stesso rimanda nella bibliografia posta in calce alla sua introduzione, indicandola, insieme alla traduzione del Büttner, tra le sue fonti di lavoro. Si tratta di un testo, databile al 1497, scritto in una variante dialettale del francone orientale, e scoperto nel 1843 nella biblioteca del monastero cistercense di Bronnbach. Il testo fu pubblicato per la prima volta otto anni più tardi con il titolo Theologia Deutsch, die lehret gar manche liebliche Erkenntnis göttlicher Wahrheit und sagt gar hohe und gar schöne Dinge von einem vollkommenen Leben, nach der einzigen und bis jetzt bekannten Handschrift herausgegeben und mit einer neudeutschen Übersetzung versehen von Dr. Franz Pfeiffer, Bertelsmann, Gütersloh 1851 (Prezzolini dichiara di utilizzare la quarta ristampa, datata 1900).
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Per il lavoro a un testo che presenta insidie linguistiche e teoriche ben più grandi di quelle riscontrate con i frammenti di Novalis, Prezzolini si avvale della collaborazione dell’amico Piero Marrucchi33, esperto di mistica medievale, già traduttore sul «Leonardo» di alcuni scritti di Meister Eckhart, Enrico Suso e Angelus Silesius e che, proprio in virtù della sua pregressa esperienza, firmerà parte dell’apparato di note del nuovo lavoro34. Secondo le sintetiche indicazioni presenti sul manoscritto di Bronnbach, la Deutsche Theologie (Teologia tedesca) – altro nome con il quale il libretto era noto dopo che Lutero nel 1517 ne aveva offerto una prima versione in volgare tedesco – costituisce un compendio di dottrine sulle verità divine invise agli ambienti ecclesiastici e ben viste, invece, dai sostenitori del rinnovamento teologico, e mira ad insegnare ai suoi lettori la distinzione tra l’opera dei mistici giustamente ispirati e quella dei «falsi liberi spiriti, tanto nocivi alla Chiesa»35. Per farlo utilizza un linguaggio popolare e divulgativo che, come nelle opere di tutti i mistici tedeschi, riesce con semplicità a esprimere l’anelito a una conoscenza divina che si compie «nell’anima e per l’anima» senz’altri intermediari o ministri36. La collaborazione con Piero Marrucchi Mai come in questo caso il percorso di progressivo distacco dell’autorità prestabilita e la mancanza di intermediari ai quali fa riferimento la dottrina della Deutsche Theologie si attua anche e soprattutto sul piano della traduzione: diversamente da quanto era successo con 33 Piero Marrucchi (1875-1958), avvocato fiorentino appassionato di studi filosofici, scrisse per il «Leonardo», «La Voce» e «L’Anima». Fervente cristiano e attento studioso della tradizione platonica, si dedicò alla traduzione e allo studio di testi della tradizione mistica occidentale e orientale. 34 Il titolo completo del volume è Libretto della vita perfetta d’ignoto tedesco del secolo XIV, trad. di G. Prezzolini, note di P. Marrucchi, Perrella, Napoli 1908. La collaborazione tra Prezzolini e Marrucchi, fatta di un dialogo continuo su questioni mistiche ma anche di consulenze linguistiche, è tracciata nel loro carteggio: Piero Marrucchi, Giuseppe Prezzolini, Carteggio. 1902-1908, a cura di A. Piscini, Edizioni di Storia e Letteratura-Dipartimento dell’istruzione e cultura del Canton Ticino, Roma 1997. 35 Marco Vannini, Introduzione, in Anonimo Francofortese, Teologia tedesca, cit., p. 10. 36 Cesare Vasoli, La «Teologia tedesca», «Rivista Critica di Storia della Filosofia», VIII.1, 1953, pp. 63-80 (p. 65).
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i frammenti di Novalis, non esistono traduzioni o testi critici in lingue europee note a Prezzolini che possano agevolare il suo lavoro di trasposizione linguistica. Anche la collaborazione con Marrucchi si rivela talora difficile, a causa di profonde divergenze nel modo in cui ciascuno interpreta il fine dell’ideale mistico proposto dal testo37. La presenza di un collaboratore edotto nella materia mistica e conoscitore profondo della lingua tedesca costituisce però allo stesso tempo una garanzia di maggiore correttezza filologica. Le libertà che Prezzolini si prende con questo testo hanno poco a che vedere con la sperimentazione e la manipolazione trasformativa: egli si adopera invece a produrre una «traduzione letterale» che non si discosta mai dal testo se non per creare, dove necessario, parole che il lessico del misticismo italiano non possiede per esprimere concetti presenti, invece, in quello tedesco38. Taglio, selezione e frammentizzazione Conservando una delle caratteristiche fondamentali che la collana aveva annunciato fin dalle prime pubblicazioni, ovvero la volontà di proporre testi antologici, il principale elemento di difformità che salta agli occhi sfogliando la traduzione di Prezzolini è il taglio imposto alla mole dei materiali originali: dei 54 capitoli contenuti nelle fonti consultate, solo 18 vengono conservati nella versione in italiano. Ancora una volta la selezione tiene conto di quei passaggi che meglio descrivono l’idea di misticismo che Prezzolini vuole comunicare, accorpando porzioni di testo di varia provenienza in nuovi contesti di significato. Il secondo intervento immediatamente visibile riguarda la disposizione del testo: mentre nell’originale ogni capitolo si presenta nella forma di un titolo didascalico seguito da una trattazione in blocco, Prezzolini suddivide ogni sezione in brevi paragrafi, frammentando quanto in origine era un discorso unico e perfino inserendo un decoro grafico tra un frammento e l’altro. Così segmentata e frazionata, la coerenza interna a ciascun capitolo perde vigore, e il senso di ogni paragrafo si presta a una moltiplicazione di interpretazioni e punti di vista.
Anche questa volta i motivi che spingono Prezzolini a questa operazione sono bene espressi nell’introduzione al volume, che interpreta la validità del suo messaggio in senso trans-storico, mostrandone la funzionalità e la completa applicabilità ai tempi moderni.
37 Cfr. l’introduzione di Angela Piscini a Marrucchi-Prezzolini, Carteggio, cit., pp. IX-XXIV, in particolare pp. XV-XXI. 38 Libretto della vita perfetta d’ignoto tedesco del secolo XIV, cit., p. XX.
39 Cfr. Giuseppe Prezzolini, Introduzione, in Libretto della Vita perfetta, cit., in particolare le sezioni I. Secondo la Lettera, pp. XIII-XX; II. Secondo la Storia, pp. XXI-XXXIX, III. Secondo lo Spirito, pp. XL-XLV.
6. Traduzione come lettura spirituale Una doppia interferenza L’elemento che più colpisce nell’in-
troduzione che Prezzolini compone per il Libretto della vita perfetta è però l’estrema somiglianza, per non dire la ripresa, di alcuni assunti teorici già presenti nel testo di Novalis. Ci riferiamo in particolare alla teoria dei tre livelli di traduzione, ora adottata da Prezzolini non per giustificare le operazioni compiute sul testo – che, lo ripetiamo, sono meno invasive – ma per legittimarne un’interpretazione trasformativa, superativa e assimilante. Questa sola, liberando il testo dalle maglie della correttezza filologica e dai mascheramenti dell’approccio storicistico, può, secondo Prezzolini, coglierne la modernità. I tre modi del tradurre del Novalis divengono quindi nel Libretto della vita perfetta tre modalità di studio e lettura applicabili al testo: letterale, storico e spirituale. Per illustrarne le caratteristiche, Prezzolini organizza la sua introduzione al testo secondo uno schema rigoroso: nella prima parte (→ ant. 4,), individua e illustra a grandi linee la caratteristiche di ciascuna tipologia di approccio, di modo che il lettore possa scegliere la modalità a lui più congeniale di avvicinarsi al testo e, a seconda dei livelli di studio individuati, divide dunque la restante parte dell’introduzione in tre distinti microsaggi, indipendenti l’uno dall’altro, nei quali riassume le caratteristiche che il testo assume e rivela a seconda che in esso il pubblico ricerchi la lettera, la storia o lo spirito39. Nello schema seguente, sono stati riassunti gli elementi che caratterizzano l’approccio delle tre figure di lettore individuate:
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livelli di studio a cosa si rivolge caratteristiche sintetiche secondo la lettera Si rivolge alla È analitico e lettera, alle parole, meccanico, esclude alle frasi del libro. immaginazione, Stabilisce filiazioni, vuole menti colloca il libro mediocri ma nel tempo, mira esatte. alla formazione di un’edizione critica. secondo la storia Cerca di stabilire la È sintesi e posizione del libro, penetrazione, la sua necessità, finezza per i suoi risultati addentrarsi togliendo d’intorno nel passato, a lui tutte le immaginazione per interpretazioni produrre il passato e le utilizzazioni nel presente. che nel tempo ha accumulato. secondo lo spirito Non è più il testo Lo spirituale esatto che si cerca, non può partire né il momento che da sé, e storico che si approfondendo vuole riprodurre; sé, vedere ma, ponendo profondamente una questione di nell’altra anima valore, si tratta che si espresse nel di utilizzare per il libro passato. presente il passato, È sforzo interiore, e di cercare sotto il passione, passeggero l’eterno. entusiasmo, esaltazione; è superamento.
cosa produce È sottomissione. È negativo. Esprime un servizio.
È posizione. È positivo. Esprime un’eguaglianza.
È traduzione. È superativo. Esprime una maestria.
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mente. Ciò può avvenire perché questo primo testo tedesco, già pubblicato, diffuso e discusso, è ormai entrato nel → repertorio dei testi attivi per contenuti e forme nel campo di produzione ristretta, dove ha trovato legittimazione, entrandone a farne parte quasi come non si trattasse più di un prodotto straniero. È solo cogliendo questo passaggio che spiegheremo infatti il motivo per il quale, descrivendo il livello della lettura spirituale, quello da lui stesso adottato nell’approccio critico al testo, Prezzolini fa nuovamente uso del termine «traduzione», con il quale intende la capacità di trans-duce˘ re, trasportare oltre, fuori dai confini del loro tempo e del loro spazio i contenuti del libro: È vero che “l’amico di Dio” parla di un Dio del suo tempo – ma se tu non sai tradurlo, non leggerlo neppure! Che mai potrebbe importare oggi che un uomo qualche secolo fa avesse avuto queste o quelle idee su Dio? Se egli non ha raggiunto qualche cosa che lo supera, e che, più profonda del tempo permane – egli è morto. Ma sarà pure morto se anche toccata l’eternità tu non saprai dargli la vita, tradurre le sue parole, e fare della materia dell’anima sua, un’edizione speciale per l’anima tua. Non v’è eternità che dove sono uomini di essa capaci
Perciò guai ai filologi che si permetton di correggere i quaderni ai mistici e ai filosofi!40.
7. Studi e capricci sui mistici tedeschi Nel vasto corpus delle opere di Prezzolini41, che si estende per circa un ottantennio, la traduzione continuerà ad occupare un posto marginale ma significativo fino al 1931, anno di pubblicazione della sua ultima traduzione dall’inglese42. 40
Quello che Prezzolini ha consapevolmente messo in atto in questo testo è insomma un processo di doppia → interferenza: nel raccontare al suo pubblico le diverse modalità in cui è possibile leggere e interpretare il testo dell’anonimo frate teutonico, egli ha intrecciato nella sua nuova lettura del testo il sapere che gli proveniva dal precedente lavoro di traduzione e approfondimento (Novalis), che tuttavia nel testo non cita mai aperta-
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Ivi, pp. XLIII, XLIV.
41 Cfr. Bibliografia aggiornata delle opere in volume (1903-2007) di Giuseppe Prez-
zolini, a cura di P. Costantini, D. Rüesch, K. Stefanski, per la Biblioteca cantonale di Lugano, dove il lascito dello scrittore è conservato. Il documento è consultabile online all’indirizzo www.sbt.ti.ch/bclu/archivio/pdf/BibliografiaPrezzolini.pdf (consultato il 29-9-2017). 42 Ci riferiamo qui a Roberto Luigi Stevenson, Il Signore di Ballantrae, tr. it. di G. Prezzolini, Vallardi, Milano 1931. In totale i testi in traduzione prezzoliniana sono 7, oltre ai due dal tedesco ai quali si è già accennato ricordiamo anche: Johnathan [sic] Swift, Libelli, tradotti dall’inglese con introduzione e note, R. Carabba Editore, Lanciano 1909; David Hume, Ricerche sull’intelletto umano e sui principi della mo-
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Sebbene dopo il 1908 smetta di tradurre dal tedesco, facendosi per quella lingua promotore dell’impiego di traduttori professionisti debitamente formati (→ cap. 5), Prezzolini torna a occuparsi di misticismo tedesco nel 1912, quando decide di pubblicare per i quaderni della «voce» una raccolta degli studi da lui condotti fino a quel momento, alla quale appone il titolo Studi e capricci sui mistici tedeschi43. Si tratta di una pubblicazione alla quale, come dichiara nella postfazione44 al volume, tiene in modo particolare. Malgrado gli «errori così chiari e visibili» riscontrabili nelle sue riflessioni, non può fare a meno di salvare alcune tra le pagine nelle quali «soffiò veramente un po’ di ispirazione», con l’augurio che le sue intuizioni possano trovare presto terreno fertile tra giovani studiosi più capaci e saggi, capaci di dare vita a una storia del misticismo tedesco dalle origini ai tempi moderni45. Il principio di «utilizzazione» delle anime Gli Studi e capricci testimoniano del debito umano che Prezzolini ha accumulato nei confronti dei misticismo tedesco, che è stato in grado, attraverso i suoi testi, di placare la profonda crisi spirituale attraversata tra il 1905 e il 1907 restituendogli “la calma, la beatitudine, la pace” perdute. Essi costituiscono anche la summa del suo sapere mistico, che già qualche anno prima del 1912 progettava di comporre in una raccolta ordinata e coerente di saggi. Nel 1906, infatti, nel pubblicare la prima parte del testo su Sebastiano Franck in lingua francese sulla «Revue du Nord» Prezzolini dichiarava:
rale, tradotte da Giuseppe Prezzolini, Gius. Laterza & Figli, Bari 1910; Jack London, Il lupo di mare, traduzione di Giuseppe Prezzolini, Morreale, Milano 1924; François Mauriac, Il bacio al lebbroso, traduzione dal francese di Giuseppe Prezzolini, Fratelli Treves Editori, Milano 1930. A questi titoli si aggiunge una riduzione del romanzo Guerra e pace di Leone Tolstoj, da lui curata a partire da una traduzione già esistente e pubblicata a sua cura, nel 1916, a Milano, per la Federazione Italiana delle Biblioteche Popolari. 43 Giuseppe Prezzolini, Studi e capricci sui mistici tedeschi. Saggio sulla libertà mistica – Meister Eckehart [sic] – La Deutsche Theologie – Paracelso – Novalis – Giovanni Von Hooghens, Quattrini, Firenze 1912 (quaderni della «voce» 14-15). 44 Denominata Avvertenza, la nota finale del volume è un breve testo esplicativo sull’origine dei contenuti e sulle motivazioni che hanno spinto l’autore a recuperarli per farne una pubblicazione organica: cfr. ivi, pp. 125-126. 45 Ivi, p. 126.
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Questo saggio non è che un capitolo di un piccolo libro sui Mistici tedeschi, che l’autore spera di pubblicare prossimamente. Non si tratta di saggi storici, nè [sic] di nuovi documenti, nè [sic] di nuove teorie; […]. E tanto meno si tratta di saggi puramente psicologici, di penetrazione d’anime […]. Si tratta di quello e d’altro. Questi saggi saranno fondati storicamente sulle migliori fonti, ma cercheranno altresì di penetrare anime del passato. Però quello che l’autore ha avuto soprattutto di mira è stata l’utilizzazione di queste anime. Egli vuole considerare Meister Eckehart [sic] e Sebastiano Franck, Teofrasto Paracelso e Amos Comenius in quel che contengono di più vivo per il nostro tempo. Non già che vi cerchi l’embrione del pensiero moderno, ché anzi vuol fare camminare questo pensiero ponendogli i problemi o dandogli le soluzioni dei mistici tedeschi. Vale a dire, per dirla in breve, che essi saranno per lui occasioni, pretesti; mezzi d’operare sul presente46.
Nonostante i sei anni che dividono questa prima dichiarazione di intenti dall’effettiva pubblicazione del volume, lo spirito con il quale i materiali sono selezionati non è molto cambiato. Ne resta alla base la volontà di “utilizzazione” del pensiero mistico in virtù della sua adattabilità alle grandi questioni etiche, filosofiche e culturali della contemporaneità e il Saggio sulla libertà mistica riproposto in apertura alla raccolta, giustifica questa operazione con la necessità di praticare il misticismo mediando in corpo e parola il pensiero altrui. L’indice del volume rivela subito la sua peculiarità: Prezzolini non vi inserisce i testi dei mistici selezionati, ma degli stessi raccoglie esclusivamente i profili biografici e critici secondo un’idea complessiva precisa, che mira a fornire una vera e propria rassegna di modelli autoriali esemplari, ai quali il lettore contemporaneo può guardare nella sua ricerca di modelli di ispirazione. Quello che tutti i mistici tedeschi da lui scelti hanno in comune è «la conquista di una via più profonda mediante uno sforzo autopersuasivo»47 e in primis – in aperta polemica con i circoli dei modernisti milanesi che avevano aspramente criticato il suo Novalis – anche un approccio al misticismo di marca antiecclesiastica e individualista. Giovanni Van Hooghens: un mistico inventato Nell’«Avvertenza» Prezzolini stesso informa i suoi lettori del criterio con il quale ha 46 47
Ivi, p. 125. Cfr. Finotti, Una «ferita» non chiusa, cit., p. 54.
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selezionato i materiali, nei quali vecchi studi si affiancano a un esperimento di scrittura del tutto nuovo: I saggi che seguono sono ineguali per calore e per colore: conferenza uno, meditazione un altro, prefazioni un paio, fantasia addirittura l’ultimo, Giovanni van Hooghens, non si trova in nessun dizionario biografico, in nessuna enciclopedia: nacque, quando lo inventai, una sera perugina, mentre guardavo un tramonto da una piazzetta solitaria e fredda, abitata da tre alberucci stanchi, e chiusa da un palazzo abbandonato e misterioso da una parte, dall’altra da un parapetto di mattone largo, sbocconcellato, pieno di fossette e di canaluzzi dove l’acqua piovana restava fino a che il vento lo permetteva48.
Le pagine dello studio Vita e leggenda di Giovanni von Hooghens49 tracciano il profilo di un «mistico fiammante della musica», un religioso trapiantato in Germania ma di origini olandesi e maestro italiano. Si tratta di una figura frutto di fantasia, ispirata, tuttavia, a due personaggi reali: l’amico Giuseppe Vailati da un lato e il benedettino di origini olandesi Dom Willibrordo Verkade dall’altro50. Il profilo del mistico fittizio chiude non a caso il volume di studi sul misticismo con un “capriccio” di penna che è in realtà una sintesi complessa degli elementi che caratterizzano i percorsi dei mistici realmente esistiti ai quali il volume ha ampiamente dato spazio. Van Hooghens è un libero pensatore in grado, come Prezzolini stesso aveva fatto, di liberarsi dai modelli prescrittivi dei propri maestri per sperimentare il “sacro ardore” dell’autodeterminazione. Dei mistici studiati tra le pagine del suo volume, van Hooghens condensa i tratti più moderni: la sua esistenza sulla carta, che potremmo dire quasi letteraria, è in realtà la dimostrazione concreta
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di quanto i discorsi sul transfer e sull’«impossessamento» affrontati nella traduzione dei testi di Novalis prima, e in quella dell’anonimo frate francofortese poi, possano coerentemente realizzarsi anche sul piano dell’importazione o della creazione ex novo di modelli autoriali credibili e funzionanti. Ne è dimostrazione il fatto che, nonostante l’avvertimento dato al lettore, la sicurezza con cui Prezzolini tratteggia la personalità mistica e moderna del Kappelmeister van Hooghens è tale da spingere Benedetto Croce a interrogare approfonditamente le sue fonti bibliografiche alla ricerca di prove della sua esistenza51. Prezzolini, un teorico della traduzione mancato Se il grande merito di Prezzolini sta nell’aver mostrato al pubblico italiano la modernità di Novalis, aprendo la feconda strada della ricezione della sua opera nel nostro paese e, allo stesso tempo, nell’aver contribuito a puntare i riflettori sul misticismo medievale, al fine di evidenziare la modernità insita nel suo sistema di pensiero, non meno importante resta la sua abilità di intendere la “traduzione”, in senso ampio e trasversale, nei termini di una lettura intima e contingente, capace di attivare un processo di interferenza multipla tra testi, lingue, figure autoriali e posizioni teoriche, avvicinandosi così a un’idea di mediazione intesa come atto creativo. Le operazioni culturali e traduttive qui descritte, pertanto, evidenziano il contributo prezioso che il lavoro di Prezzolini ha fornito nel delineare una nuova riflessione su tecniche e prassi di un’arte, quella della traduzione, che nei primi anni del Novecento era ancora poco teorizzata nel nostro paese52. Il suo non può che essere considerato un esempio di lungimiranza intellettuale
48
Giuseppe Prezzolini, Studi e capricci sui mistici tedeschi, cit., p. 126. Giuseppe Prezzolini, Vita e leggenda di Giovanni van Hooghens, in Id., Studi e capricci, cit., pp. 109-123. Si segnala qui che all’interno del volume l’ortografia del cognome del mistico inventato von Hooghens varia all’interno del saggio in van Hooghens. 50 Giuseppe Vailati (1876-1915) fu scrittore, poeta, editore e traduttore dalla lingua inglese, oltre che violinista e giornalista. Collaborò con il «Leonardo», «Lacerba», «Il Regno». Sulla ripresa di queste figure nel profilo di van Hooghens cfr. Finotti, Una «ferita» non chiusa, cit., pp. 61-63. Johannes Sixtus Gerhardus (Jan) Verkade (1868-1946), anche noto come Jan Verkade, si occupò di pittura postimpressionista e simbolista. Convertitosi al cattolicesimo romano, divenne monaco benedettino assumendo il nome di Willibrord e soggiornò a lungo in Italia, dove visse tra Firenze e Assisi. 49
51
Cfr. Finotti, Una «ferita» non chiusa, cit., pp. 62-63. Mi riferisco qui ai nomi di Croce, Gramsci e Gentile, gli unici a essere citati negli esigui studi sulla teoria della traduzione italiana nella prima metà del XX secolo: cfr. Andreas Bschleipfer, Sabine Schwarze, Übersetzungstheorie und Übersetzungskritik in Italien im 19. und 20. Jahrhundert, in (a cura di) H. Kittel, A.P. Frank, N. Greiner, Th. Hermans, W. Koller, J. Lambert, F. Paul, ÜbersetzungTranslation-Traduction. Ein internationales Handbuch zur Übersetzungsforschung/ An International Encyclopedia of Translation Studies/Encyclopédie internationale de la recherche sur la traduction, De Gruyter, Berlin-New York 2011, pp. 1951-1962; Domenico Jervolino, Croce, Gentile e Gramsci sulla traduzione, «International Gramsci Journal», I.2, 2010, pp. 21-28. 52
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che non ha preso una forma coerente e sistematica53, restando fino a tarda età legato a un sincero entusiasmo intellettuale, forse troppo emotivo e spontaneo per cristallizzarsi in coerente contributo teorico ma sufficientemente lucido da inaugurare pratiche che successivamente sono state centrali per gli intellettuali riuniti attorno «La Voce» e per tutti coloro che operavano in quegli anni per rivendicare il diritto a una cultura autonoma e di qualità, non necessariamente legata alle dominanti logiche dell’accademia e del mercato. Capitolo quarto Traduzione come importazione di posture autoriali. Le riviste letterarie fiorentine d’inizio Novecento Irene Fantappiè
53 Più tarde e tradizionali riflessioni sulla traduzione si trovano in Giuseppe Prezzolini, Saper leggere, Garzanti, Milano 1956, pp. 29-36 e Id., Ideario, Edizioni del Borghese, Milano 1967, s.p.
1. Come si traduce quello che si traduce? Casi dentro e fuori dal canone Un anti-futurista diventa futurista Nel gennaio 1913, a Vienna, Karl Kraus apprende di essere finalmente stato tradotto in un’altra lingua: una scelta di suoi aforismi campeggia sulla copertina del secondo numero di «Lacerba». Pur desideroso di trovare all’estero quel riconoscimento che avrebbe dovuto, a suo parere, controbilanciare la freddezza con cui veniva ingiustamente accolto in Austria, Kraus prende in un certo qual modo le distanze dalla versione italiana dei suoi scritti. Quando qualche mese dopo ne dà notizia su «Die Fackel», infatti, mette in guardia dalle violente mistificazioni implicite nel processo di traduzione, e sottolinea di aver insistito affinché «Lacerba» chiudesse la selezione dei suoi aforismi con quello in cui la traduzione viene descritta come uno “scorticamento” dell’autore: Die Halbmonatschrift «Lacerba» (Florenz, I. Jahrgang, Heft 2) bringt eine Übersetzung von Aphorismen aus Sprüche und Widersprüche und Pro domo et mundo, die recht gut zu sein scheint. Immerhin ist es auch gut, daß als letzter der vierunddreißig Aphorismen – gemäß der Vereinbarung – dieser übersetzt wurde: Tradurre un’opera di lingua in un’altra lingua significa mandare uno oltre il confine, levargli la sua pelle, e fargli indossare dipoi il costume del paese1. [Il quindicinale «Lacerba» (Firenze, anno I, numero 2) pubblica una traduzione di aforismi da Detti e contraddetti e Pro domo et mundo che pare essere abbastanza buona. Quantomeno, una buona cosa è anche che 1 Karl Kraus, [senza titolo], «Die Fackel», 372-373, 1913, p. 33. Le traduzioni, ove non altrimenti specificato, sono dell’autrice del capitolo.
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come ultimo dei trentaquattro aforismi sia stato tradotto – secondo gli accordi – questo: Tradurre un’opera di lingua in un’altra lingua significa mandare uno oltre il confine, levargli la sua pelle, e fargli indossare dipoi il costume del paese.]
Se Kraus sente l’urgenza di esplicitare così chiaramente un caveat è anche perché in quelle traduzioni non si riconosce: si ritrova presentato come un futurista, proprio lui, l’autore antiavanguardistico per eccellenza che riteneva «il futuro dei futuristi un imperfetto esatto»2. Un caso di interferenza inesplorato Ad aver tradotto Karl Kraus su «Lacerba» è un collaboratore della rivista non ignoto neppure ai lettori della «Voce»: Italo Tavolato. Tavolato – autore di traduzioni, aforismi e pamphlets, recensioni – è oggi un nome poco noto persino agli addetti ai lavori. Il primo scopo del presente capitolo è quindi quello di gettare luce su un caso inesplorato, che per di più – avendo come protagonista un letterato che ha scritto sia per la «Voce» sia per «Lacerba» – consente di mettere a confronto la relazione delle due riviste con la letteratura di lingua tedesca. Un problema metodologico In secondo luogo, il “caso Tavolato” permette di affrontare un più ampio problema storicoletterario. Indagare le relazioni tra la letteratura di lingua italiana e quelle di lingua straniera difatti significa interrogarsi, oltre che su cosa arrivi in Italia dall’estero, anche su come ciò arrivi, individuando, per quanto possibile, le modalità secondo cui si svolge il processo di → traduzione, le tipologie verso le quali ci si orienta quando si opera una → mediazione letteraria e culturale. Un’indagine esaustiva di tali modalità, che cambiano non solo di autore in autore ma anche di pagina in pagina, è evidentemente impossibile, persino se ci si concentra su un ambiente circoscritto come quello della Firenze d’inizio secolo. Non si può che lavorare su casi significativi, su exempla; rimane però il proble2 «Das Futurum der Futuristen ist ein Imperfektum exaktum»: Karl Kraus, Fortschritt, «Die Fackel», 406-412, 1915, p. 125. L’aforisma è posteriore all’articolo sopra citato, ma su «Die Fackel» affermazioni assai critiche sul futurismo si ritrovano già fin dal 1912 (cfr. ad esempio «Die Fackel», 351, 1912, p. 53).
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ma di come selezionarli. Questo capitolo parte dal presupposto che, per fornire esempi rappresentativi dei tipi di → interferenza tra letterature, i casi tratti dal canone (ad esempio le traduzioni che autori fondamentali per un certo periodo storico effettuano di opere di altri celebri autori) vadano integrati con quelli meno celebri o addirittura rimasti ignoti, casi nei quali sono coinvolti personaggi che, non essendo dotati di un profilo autoriale solido e definito, spesso riflettono le dinamiche del campo letterario in modo anche più diretto e palese di quanto non accada coi grandi autori. È dunque necessario integrare casi come quello di Slataper (cfr. infra, §§ 3-4) con casi come quello di Tavolato (cfr. infra, §§ 5-9). Pur essendo un “minore”, o meglio proprio perché tale, Tavolato esemplifica chiaramente una delle modalità che hanno caratterizzato l’approccio alle letterature straniere nell’Italia d’inizio Novecento, in particolare negli ambienti nei quali Tavolato desidera farsi strada, quello vociano e lacerbiano.
2. Traduzione, scrittura e autorialità Traduzione come importazione di posture autoriali Più precisamente, Tavolato rappresenta una tipologia di mediazione che intende la traduzione, invece che come l’importazione di un testo, anche – anzi soprattutto – come l’importazione di una figura autoriale, di una → postura. A inizio Novecento, la traduzione viene per lo più concettualizzata in termini che mettono l’accento sull’→ autorialità, sulla persona3 dell’autore: operare come 3 Si intende qua persona in senso etimologico. In latino persona è la maschera di legno indossata sul palcoscenico, il personaggio, la parte recitata a teatro; in questo senso ad esempio Cicerone sostiene di essere «autore della propria persona» (neque actor … alienae personae, sed auctor meae, cfr. De Oratore, 2.194). Quando nel presente saggio si parla di “autore” (anche in termini di “appropriazioni autoriali”, “posture autoriali”, e così via) ci si riferisce non a un soggetto biografico esistente o esistito bensì a una → autorialità e cioè a un costrutto letterario e culturale. Cfr. su questo, tra le altre cose, i concetti di fonction-auteur (cfr. Michel Foucault, Qu’estce qu’un auteur?, Colin, Paris 1969), habitus (Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, a cura di E. Bottaro e A. Boschetti, il Saggiatore, Milano 2005), posture (Jérôme Meizoz, Postures littéraires: mises en scènes modernes de l’auteur, Slatkine, Genève 2007), authorship as cultural performance (Ingo Berensmeyer, Gert Buelens, Marysa Demoor, Authorship as Cultural Performance:
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traduttore e mediatore significa portare in Italia un «uomo». Proprio così ad esempio si esprime Scipio Slataper a proposito della sua intenzione di volgere in italiano le opere di Friedrich Hebbel: «mi interesso più dell’uomo che del pensiero suo. […] Voglio che l’Italia lo conosca»4. Scrittura come creazione di posture autoriali La fortuna che questo modo di relazionarsi alle letterature straniere ha avuto nella Firenze d’inizio Novecento si comprende guardando alle poetiche presenti in quell’ambiente. In un contesto come quello vociano, in cui la scrittura letteraria è in primis autobiografia (→ cap. 1), la traduzione diventa biografia, o addirittura – si potrebbe dire – autobiografia del sé come altro. Se si considera che Papini scrive la sua autobiografia a trent’anni (Un uomo finito, 1913 → ant. 11) e Slataper addirittura a ventiquattro (Il mio Carso, 1912 → ant. 7), diventa chiaro che in questo contesto l’autobiografia non è scrittura del passato di un soggetto. È piuttosto creazione di un soggetto che scrive nel presente: è creazione di una postura autoriale. Allo stesso modo, la traduzione non è solo importazione di qualcosa che è già stato scritto. È anche creazione di un “io che scrive” quel qualcosa nel presente: è adozione di una postura altrui. La traduzione, insomma, consiste in primis in un gesto di mimesi autoriale, e solo secondariamente in un atto di (ri-) produzione testuale.
New Perspectives in Authorship Studies, «Zeitschrift für Anglistik und Amerikanistik», 60 (2012), pp. 5-29). 4 Giuseppe Prezzolini, Scipio Slataper, Carteggio 1909-1915, a cura di A. Storti Abate, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2011, p. 94. Riporto il brano più ampiamente perché contiene ulteriori elementi che corroborano la tesi: «M’accorgo lavorando metodicamente, meticolosamente su Hebbel, con quella cura che è lo “saccettar lenti per veder le stelle” direbbe lui stesso: m’interesso più dell’uomo che del pensiero suo. Il pensiero mi si scioglie in questo o quel suo comportarsi davanti alla vita. Sento un Hebbel da farci un dramma, più che un Hebbel drammaturgo, e forse arriverò a scrivere due o tre buoni articoli per la “Voce” ma solo quando mi sarò creato un Hebbel vivo, di carne, che ora parli per conto suo come in un dialogo con me. Una specie di seria intervista, data in forma di monologo. No, non mi spiego bene. Ma vedrai. Sai che conosco tutte le persone importanti con le quali fu in contatto? Voglio che l’Italia lo conosca».
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3. Dal Novalis di Prezzolini e dallo Schopenhauer di Papini fino allo Hebbel di Slataper I modelli: il Novalis di Prezzolini e il Nietzsche di Papini A fare da modello per questo tipo di → transfer letterario sono le traduzioni di due figure centrali per la Firenze d’inizio Novecento: → Giuseppe Prezzolini che volge in italiano i Frammenti di Novalis (1905) importandone e reinventandone la figura autoriale in modo da renderla quasi una controfigura di se stesso (→ cap. 3), e → Giovanni Papini, che, per la collana di → Carabba da lui stesso diretta, cultura dell’anima, traduce assieme a Giovanni Vailati La filosofia delle università di Schopenhauer (1909), portando in Italia un profilo di autore provocatoriamente antiaccademico i cui panni Papini intende indossare in quanto autore. Papini compie una simile appropriazione anche con la figura di Nietzsche, in quel caso senza però passare attraverso una operazione di traduzione (→ Traiettoria Papini). Nella Firenze d’inizio Novecento, d’altra parte, l’esempio più evidente di traduzione come importazione di postura autoriale è lo Hebbel di Scipio Slataper. Lo Hebbel di Slataper Slataper si interessa di Hebbel sino dal 1909, probabilmente su consiglio di Prezzolini che l’aveva scoperto già nel 1906 (→ cap. 2). Hebbel è per lui un autore cruciale, tant’è che progetta di dedicargli la sua tesi di laurea (poi invece dedicata a Ibsen; ma «Ibsen non si spiega senza Hebbel», scrive Slataper a Prezzolini il 20 luglio 1910)5. L’anno successivo Slataper pubblica sulla «Voce», con la quale ha appena iniziato a collaborare, una traduzione di pensieri di Hebbel e due articoli (13 ottobre e 24 novembre), uno sull’autore e uno sulla tragedia Judith. Sempre nel 1910 tradurrà tale testo assieme all’amico Marcello Loewy per i quaderni della «voce».
4. Slataper mediatore di letteratura tedesca La traduzione del Diario: un’appropriazione autoriale Eppure,
il testo hebbeliano che Slataper considera il vero capolavoro di 5
Prezzolini-Slataper, Carteggio 1909-1915, cit., p. 152.
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Hebbel non è Judith: sono i Tagebücher, i diari, che escono per Carabba nel 1912 nella già citata collana cultura dell’anima, in una selezione antologica curata e tradotta dallo stesso Slataper. Nella prefazione alla suddetta edizione dei Diari, Slataper scrive: Hebbel, sto per dire, è il contenuto di un nuovo Faust, più vicino a noi; ma contenuto che è balzato alcune volte al sole con opere di tale ansiosa bellezza che ci sgomentano. Ed è naturale dunque che il suo capolavoro sia la confessione minuta, cotidiana di questa personalità, nei suoi travagli e nelle sue intuizioni, nelle sue contingenze e nei suoi atteggiamenti. Cioè il Diario: che l’ha fatto, si può dire, conoscere e ammettere svelando ciò che pareva l’enigma della sua arte6.
È il diario – secondo Slataper – il capolavoro di Hebbel, perché è dal diario che si evince «l’uomo». Tradurre il diario significa non soltanto volgere un testo in un’altra lingua ma anche portare in Italia la persona del suo autore e farla propria. Lo si vede prima di tutto, come si è detto, dalla scelta stessa del genere “diario”, ma anche dal modo in cui Slataper si rapporta al testo originale. Non si limita a tradurlo: lo riscrive, interpolandolo, trasformandolo, tagliandone ampie parti. Così facendo se ne appropria, ne diventa una sorta di secondo autore: gli stralci dei taccuini di Hebbel sono, una volta tradotti, anche suoi7. Non a caso influenzeranno notevolmente i suoi stessi diari (usciti postumi a cura di Giani Stuparich nel 1953). Arte come «ritorno al diario» Le modalità di importazione dell’autore straniero, anche in questo caso, sono legate alle posizioni dell’autore italiano. Il 26 gennaio 1911 Slataper scrive a Marcello Loewy: 6 Scipio Slataper, Introduzione, in Friedrich Hebbel, Diario, tr. it. e introduzione di S. Slataper, R. Carabba, Lanciano 1912, p. 20. 7 Cfr. almeno Paola Maria Filippi, Alla ricerca di sé nella traduzione. Scipio Slataper e Friedrich Hebbel, in Fabrizio Rasera (a cura di), Trento e Trieste. Percorsi degli italiani d’Austria dal ’48 all’annessione, Osiride, Rovereto 2014, pp. 339-360. «Slataper legge, studia, commenta, traduce Hebbel – se ne occupa cioè sia come studioso che in veste di traduttore –, ma in primo luogo si confronta con lui. Ha trovato una sorta di alter ego di cui vuole parlare agli altri. Anche se, a ben vedere, questo incontro tanto intenso maschera, neppure troppo velatamente, l’esigenza di parlare di sé», p. 343; «Slataper “studia” Hebbel per farlo proprio, per recuperarne in un osmotico lavoro di decostruzione quanto gli serve per costruire/ricostruire la propria realtà artistica», p. 346. Rimando al suddetto saggio per la bibliografia su Slataper e Hebbel, e su Hebbel in Italia.
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Non stupirti: l’arte è il superamento della letterarietà, il ritorno alla lettera confidenziale, al Tagebuch. Come tutti i ritorni dopo aver superato qualcosa è più perfetto: da Einfall diventa idea: da cosa che può interessare chi conosce, diventa interessante per tutti. Ma naturalmente bisogna vivere intensamente lo stadio della letterarietà per liberar l’artista8.
L’arte, afferma Slataper, è «ritorno al diario»: non è diario, quantomeno non direttamente; l’arte deve passare attraverso la letterarietà (“letterarietà” vale qui come artificio, come finzione fine a se stessa, come arte non «sincera»9) per superarla e tornare ad essere scrittura della «vita» («noi non domanderemo che vita» scrive Prezzolini, → cap. 1). Il diario è la forma più compiuta di arte intesa come tentativo di raggiungimento di una verità sulla «vita» di un «uomo». Si tratta inoltre di una verità che, pur essendo individuale, è funzionale a un progetto collettivo. Einfall – nel modo in cui lo usa, tra gli altri, Hegel – designa un’idea improvvisa che è frutto della propria mente, anche se occasionata dall’esterno. L’opposizione tra Einfall e idea corrisponde all’opposizione tra una rappresentazione che è prodotto del soggetto e una rappresentazione che preesiste al soggetto e lo trascende, ovverosia che è condivisa inter-soggettivamente, «interessante per tutti». Hebbel «poeta» che «cerca la verità» Va da sé che queste appropriazioni autoriali possono mirare a scopi diversi. Per Slataper, adottare la postura di Hebbel serve a presentarsi come uno scrittore che, lungi dal perseguire meramente la piacevolezza estetica, osservando la sua stessa vita si mette in cerca della verità. Nella già citata prefazione al Diario Slataper scrive che Hebbel «è un artista che cerca la verità, non la bellezza. “Grazioso è certo, ma vorrei sapere se è anche vero”. La bellezza nasce dal ritrovamento della verità; senza di essa una cosa può esser seducente, non bella»10. Così d’altra parte aveva scritto lo stesso Hebbel in due frammenti che non a caso Slataper decide di accogliere nella sua selezione: 8 Scipio Slataper, Epistolario, a cura di G. Stuparich, Mondadori, Milano 1950, p. 60. 9 Così scrive Papini in un articolo intitolato Le due tradizioni letterarie («La Voce», 3-1-1912, p. 727) → cap. 1. 10 Hebbel, Diario, cit., p. 16.
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Wenn ich meinen Begriff der Kunst aussprechen soll, so mögte ich ihn auf die unbedingte Freiheit des Künstlers basieren und sagen: die Kunst soll das Leben in all seinen verschiedenartigen Gestaltungen ergreifen und darstellen. Mit dem bloßen Kopieren ist dies natürlich nicht abgetan, das Leben soll bei dem Künstler etwas anderes, als die Leichenkammer, wo es aufgeputzt und beigesetzt wird, finden. [...] [110] Aufgabe aller Kunst ist Darstellung des Lebens, d.h. Veranschaulichung des Unendlichen an der singulären Erscheinung. Dies erzielt sie durch Ergreifung der für eine Individualität oder einen Zustand derselben bedeutenden Momente. [126]11 [83) S’io dovessi esprimere il mio concetto sull’arte, lo baserei sulla libertà incondizionata dell’artista, e direi: L’arte deve comprendere e rappresentare la vita in tutte le sue forme diverse. E naturalmente a ciò non ci s’arriva con il semplice copiare: la vita deve trovare nell’artista qualche cosa d’altro che una camera mortuaria dove la si vesta e la si componga. […] 95) Compito di ogni arte è la rappresentazione della vita: cioè render tangibile l’infinito nel fenomeno particolare. E arriva a ciò afferrando gli attimi significativi d’un’individualità o di un suo stato d’animo.]12
«Hebbel è poeta, non filosofo»13: cerca la verità in quanto poeta, afferma Slataper a proposito di Hebbel, intendendo però anche e soprattutto se stesso. Facendo conoscere in Italia «l’uomo» Hebbel, dunque, Slataper dà forma alla propria persona nel campo letterario italiano14. Un altro caso di riscrittura di postura autoriale Tali dinamiche di importazione autoriale si ripresentano in maniera persino più evidente e plastica nel caso di Italo Tavolato. Le sue traduzioni e i suoi scritti a prima vista sembrerebbero afferire a due categorie diverse: si tratta da una parte di originali italiani, dall’altra di traduzioni dal tedesco. Di seguito le analizzeremo invece come un dittico indivisibile, composto da due momenti diversi di un medesimo processo di → riscrittura. 11 Friedrich Hebbel, Tagebücher. Erster Band. 1835-1839, Behr’s Verlag, Berlin 1903, pp. 24 e 26. 12 Hebbel, Diario, cit., p. 37. 13 Ivi, p. 15. 14 Su Slataper nel contesto della letteratura italiana dell’epoca si veda almeno Romano Luperini, Scipio Slataper, La Nuova Italia, Firenze 1977.
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5. Tavolato mediatore di letteratura tedesca Italo Tavolato, mediatore pionieristico eppure sconosciuto A inizio Novecento sono molti i triestini che scelgono di spostarsi a Firenze e di collaborare con il vivace ambiente delle riviste. Se questi letterati – che comunque formano un insieme piuttosto eterogeneo15 – sono mossi più dal desiderio di stabilirsi in una delle capitali della cultura italiana che dall’interesse a operare come mediatori di autori di lingua tedesca, Italo Tavolato è tra i più informati riguardo alle novità della cultura contemporanea germanofona16 e «rappresenta una marginalità eccentrica che predilige la dispersione e la disseminazione del lavoro intellettuale portando però in dote una dimensione pienamente europea al dibattito culturale, artistico e letterario italiano»17. Fatte salve poche eccezioni18, la letteratura critica lo ha completamente trascurato. Le sue carte inoltre non sono mai state raccolte19. L’oblio in cui è caduto non è però del tutto giustificato. Interessante è la sua attività di mediatore, tra le altre cose perché Tavolato è il primo a tradurre Karl Kraus in una lingua straniera. Per capire quanto è pionieristica tale operazione basti 15 I letterati e la letteratura di/a Trieste a inizio Novecento sono stati oggetto di numerosi studi. Tra gli altri cfr. Renate Lunzer, Triest: eine italienisch-österreichische Dialektik, Wieser, Klagenfurt 2002, a cui si rimanda anche per ulteriori indicazioni bibliografiche sul tema. 16 Non è l’unico, d’altra parte: si pensi ad Alberto Spaini, figura però assai diversa, → cap. 5. 17 Aldo Mastropasqua, Italo Tavolato, un eretico della modernità tra Italia e Germania, in Mauro Ponzi (a cura di), Spazi di transizione. Il classico moderno (1888-1933), Mimesis, Milano 2008, p. 87. 18 Oltre a ibidem, segnalo: Aldo Mastropasqua, Italo Tavolato tra La Voce, Lacerba e Der Sturm, «Avanguardia», XVII, 2001, pp. 83-89, a cui si rimanda per ulteriori riferimenti. 19 Nell’archivio di Papini, che negli anni fiorentini gli fece da mentore, mancano le sue lettere (cfr. il fondo «Giovanni Papini» conservato presso la Fondazione Primo Conti di Firenze, nonché l’Inventario dell’Archivio Papini, a cura di S. Gentili e G. Manghetti, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1998). Uno sguardo alla biografia spiega in parte il perché di questa damnatio memoriae: all’adesione di Tavolato al futurismo è succeduta quella al fascismo; dopo la sua collaborazione alla «Voce» e a «Lacerba» Tavolato ha agito come informatore dell’OVRA, come infiltrato tra le file della Gestapo, infine come giornalista in rapporti poco chiari con gli ambienti vaticani. Cfr. Mauro Canali, Le spie del regime, il Mulino, Bologna 2004, pp. 191-194.
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pensare che in Italia bisognerà aspettare altri cinquant’anni prima che qualcuno ritraduca lo scrittore austriaco e oltre sessanta prima che qualcuno davvero lo legga. Quella di Tavolato è un’operazione culturale volta a creare un Kraus “immoralista” ben diverso da quello che leggiamo oggi in Italia (modellato soprattutto dalle iniziative editoriali di Roberto Calasso per Adelphi e di Cesare Cases per bur/Rizzoli, che ne esaltano rispettivamente l’aspetto, per così dire, letterario-mitteleuropeo ed etico-satirico). Ma quello che esce sulla «Voce» e su «Lacerba» è un Kraus diverso anche da quello esistito e recepito nei paesi di lingua tedesca, tanto che ci si potrebbe spingere ad avanzare la tesi che il Kraus di Tavolato sia un “minore” della letteratura italiana.
6. L’oggetto della mediazione. La postura di Kraus: figura, temi, generi e media Da dove nasce l’interesse per Kraus da parte di Tavolato e dell’ambiente delle riviste fiorentine? Dalla prospettiva di quel milieu culturale lo scrittore austriaco risulta significativo sotto molteplici aspetti. Se ne possono mettere in luce almeno tre: la figura autoriale; i temi trattati nella sua opera; i media e i generi letterari da lui utilizzati. La figura autoriale: un intellettuale iconoclasta, a tutto tondo, orgogliosamente anticosmopolita Non è questa la sede adatta a
un’analisi della postura autoriale di Kraus20; basterà qui ricordare che si tratta di una figura di intellettuale iconoclasta, a tutto tondo e orgogliosamente anticosmopolita. È difatti esplicita, se non ostentata, la sua avversione per le istituzioni culturali: l’università, i circoli letterari riconosciuti, il giornalismo. La critica radicale al proprio milieu politico e culturale non poteva non incontrare le simpatie di Tavolato, collaboratore di riviste che si caratterizzano per la volontà di sovvertire le gerarchie dei propri ambienti di appartenenza, per l’atteggiamento
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ribelle e dissidente (→ cap. 1). La critica antiaccademica, in particolare, si ritrova senza eccezione in tutti i numeri della «Fackel» oltre che della «Voce». Inoltre, uno dei bersagli più ricorrenti della satira di Kraus sono proprio i giornalisti-letterati, oggetto di aspre critiche anche da parte degli intellettuali fiorentini. La celebre polemica di Kraus contro Heine (emblema del feuilleton che mescola letteratura e informazione, racconto e notizia)21 si attaglia perfettamente agli attacchi vociani contro coloro che, come Ugo Ojetti, scrivono pezzi che vorrebbero essere al contempo sia giornalismo sia letteratura (→ cap. 1). Kraus – la cui vastissima, asistematica cultura è quella di un geniale autodidatta – è saggista, aforista, poeta; scrive di letteratura e arte ma anche di politica e diritto. In quanto intellettuale a tutto tondo è un ottimo modello per chi – come molti dei collaboratori delle riviste fiorentine dal «Leonardo» in poi – avversa ogni specialismo e dispone di riferimenti culturali eterogenei, che oltrepassano le suddivisioni tra saperi e generi letterari. Coi suoi interventi su questioni di rilevanza al contempo filosofica e sociale, ad esempio il rapporto tra “femminile” e “maschile” (→ infra, pp. 126-127), Kraus fa da modello per chi propugna un’idea di letterato come filosofo-poeta, come autore di una scrittura intrisa di pensiero (→ cap. 1). Infine, Kraus è legato a doppio filo al luogo in cui scrive, e rivendica tale aspetto: si presenta come un intellettuale che si vanta dei propri lati più “provinciali”, come ad esempio il fatto di non sapere alcuna lingua oltre il tedesco e di osservare gli avvenimenti europei senza uscire dal Ring di Vienna. Ciò desterà l’attenzione soprattutto dei fondatori di «Lacerba», che puntano molto sulla loro toscanità («Tu mi hai rifatto toscano»22, scrive Papini a Soffici, cioè proprio a colui che è più inserito nel milieu cosmopolita delle avanguardie parigine). Bisogna precisare, però, che se quello di Kraus è un gesto provocatorio – Vienna in quel momento è pur 21
Cfr. Karl Kraus, Heine und die Folgen, Langen Verlag, München 1910. Scrive Papini a Soffici il 23 maggio 1908: «Io riconosco […] di aver subito la tua influenza ma una buona influenza. Tu mi hai richiamato, nientemeno, alla terra, alla nostra terra. Io ero tutto ricoperto di croste e di scaglie forestiere e tu mi hai fatto tornar toscano…» (Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Carteggio. 2. 1908-1915. «La Voce» e «Lacerba», a cura di M. Richter, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1991, p. 225). 22
20 Mi permetto di rimandare a Irene Fantappiè, L’autore esposto. Scrittura e scritture in Karl Kraus, Peter Lang, Frankfurt am M. 2016, oltre che a Ead., Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre, Quodlibet, Macerata 2012.
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sempre la capitale di un impero –, per vociani e lacerbiani la questione dell’essere provinciali è drammaticamente seria; non a caso, per far risaltare ex negativo il proprio orgoglio di intellettuali locali essi dovranno rifarsi all’universalismo del Quattrocento italiano, e specificamente fiorentino23. I temi dell’opera: la questione della donna Sul piano dei temi, l’interesse di Tavolato per Kraus scaturisce dal fatto che gli scritti di quest’ultimo vertono, prima della Grande Guerra, soprattutto sulla cosiddetta Frauenfrage, la “questione della donna”. In Sittlichkeit und Kriminalität (1908) e in Die chinesische Mauer (1910) Kraus si era espresso a favore della separazione tra la sfera del diritto e quella della moralità, entrando nel complesso dibattito viennese sulla questione sessuale attorno al quale, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, ruotavano argomentazioni di ordine filosofico e artistico ma anche giuridico, medico, economico24. La “questione della donna” è, negli anni delle riviste fiorentine, centrale in Italia sul piano sia letterario-culturale sia politicosociale. La «Voce» nel 1910 vi dedica un intero numero, e nel 1913 sulle pagine della rivista si dipana un acceso dibattito su questo tema. Vi dà inizio, in giugno, un editoriale di Prezzolini25, che prende spunto da alcuni casi di omicidi di donne per deplorare la condizione subordinata di queste ultime, esprimendosi però in chiusura contro il suffragio universale («Ora in queste condizioni le donne che chiedono il voto in Italia ci sembran persone che domandino le paste non avendo il pane»)26. Segue, in agosto, un articolo di Fernando Agnoletti, Il voto alle donne, che sostiene una ben diversa opinione (l’incipit suona «Subito. 23 Cfr. tra le altre cose: Simonetta Bassi (a cura di), Immagini del Rinascimento: Papini, Gentile, Garin, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2013. 24 Cfr. Nike Wagner, Geist und Geschlecht. Karl Kraus und die Erotik der Wiener Moderne, Suhrkamp, Frankfurt am M. 1982. 25 «La donna è considerata ancora nella pubblica coscienza come una suppellettile casalinga, un oggetto di proprietà, un arredo forse sacro ma arredo, che si può comprare, rubare, vendere ed impegnare a vita: un bicchiere che si deve rompere quando non ci si può più bere. Non già qualcosa che abbia volontà, libertà, che sia un “essere”»: La Voce [Giuseppe Prezzolini], Il voto alle donne, «La Voce», 26-61913, p. 1105. 26 Ibidem.
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A tutte. È dovere.») pur definendo «tanfo» le opere letterarie delle donne, tra le quali «Jane Austin» e «George Elliot» [sic]27. In ottobre, infine, esce sulla «Voce» un intervento di Margherita Sarfatti a proposito delle «suffragiste inglesi» che si conclude con una risposta all’editoriale di Prezzolini: Così noi, caro Prezzolini, quando anche noi donne italiane saremo un poco più progredite, rivendicheremo, insieme con il voto, il diritto di formare parte delle giurie giudicanti, per difendere la vita delle nostre sorelle contro la rivoltella o il coltello del primo furfante che soffra nel suo bisogno di possedere, per egoismo, per vanità, o per interesse, l’affetto, il corpo o la borsa d’una donna28.
Il dibattito sulla questione femminile è presente in quel frangente anche sui giornali, dove, ad esempio, ha luogo l’accesa discussione sull’appello di Maria Montessori che invitava le donne a iscriversi nelle liste elettorali pur non avendone diritto (1906). Sono gli anni dell’infuocata risposta, pubblicata nel 1910 sulle pagine di «Critica sociale», di Anna Kuliscioff a Turati, contrario al voto alle donne per via della «pigra coscienza politica di classe delle masse proletarie femminili»29; la medesima questione, inoltre, viene discussa sempre nel 1910 nel quadro della proposta di legge sul suffragio universale maschile (com’è noto, all’estensione del diritto di voto alle donne Giolitti si oppose definendola un «salto nel buio»)30. I generi e i media: la rivista, l’aforisma Inoltre, per un gruppo di giovani piccoloborghesi che tenta di legittimarsi attraverso riviste letterarie è evidente la rilevanza di un autore come Karl Kraus, che, figlio di un commerciante di carta boemo, era divenuto celeberrimo e aveva guadagnato prestigio sociale con la sua rivista «Die Fackel». Kraus è un potenziale modello anche sul piano dei generi letterari, essendo maestro, oltre che del saggio, della forma breve, in particolare dell’aforisma. Persino all’inter27
Fernando Agnoletti, Il voto alle donne, «La Voce», 14-8-1913, p. 1137. Margherita Sarfatti, Le suffragiste inglesi, «La Voce», 2-10-1913, p. 1170. 29 Filippo Turati, «Avanti!», 25-3-1910. La risposta di Anna Kuliscioff, intitolata Ancora sul voto alle donne. Suffragio universale a scartamento ridotto, si trova in «Critica sociale», 16-4-1910, pp. 114-115. 30 Giovanni Giolitti, Discorsi parlamentari, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1953, vol. iii, p. 1652. 28
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no di testi più lunghi, la prosa di Kraus appare priva di un’architettura portante: è costruita con singoli pezzi potenzialmente indipendenti, ciascuno dotato di senso proprio. La scrittura di Kraus ha l’aspetto – la metafora è di Elias Canetti – di una «muraglia cinese»: Man kann jedes längere Prosastück in zwei, vier, acht sechzehn Teile zerschneiden, ohne ihm wirklich etwas zu nehmen. […] Ein übergeordnetes Strukturprinzip ist nie vorhanden. Denn die Struktur, die fürs Ganze fehlt, ist in jedem einzelnen Satz vorhanden und springt in die Augen. Alle BauGelüste, an denen Schriftsteller reich sein sollen, erschöpfen sich bei Karl Kraus im einzelnen Satz. Seine Sorge gilt diesem: er sei unantastbar, keine Lücke, keine Ritze, kein falsches Komma – Satz um Satz, Stück um Stück fügt sich zu einer Chinesischen Mauer31. [Ogni brano di prosa un po’ lungo di Kraus può essere tagliato in due, quattro, otto, sedici parti, senza che in tal modo gli si tolga davvero qualcosa. […] Un principio strutturale sovraordinato non c’è mai. Perché la struttura, che manca al tutto, è presente in ogni singola proposizione e salta agli occhi. In Karl Kraus tutte le voglie di costruzione architettonica, che di solito abbondano negli scrittori, si esauriscono nella singola proposizione. La sua preoccupazione: essere inattaccabile, nessuna lacuna, nessuna fessura, nessuna virgola falsa – proposizione per proposizione, pezzo per pezzo si commette la compagine di una muraglia cinese.]32
Si è già detto (→ cap. 1) della diffidenza dei collaboratori delle riviste fiorentine verso forme letterarie dotate di struttura, come ad esempio il romanzo, e della predilezione invece accordata al frammento e all’aforisma. Se Prezzolini preferisce il frammento à la Novalis (→ cap. 3), le pointes satiriche dei fulminanti Witze krausiani piaceranno, come vedremo, ai lacerbiani, i quali non a caso apriranno il primo numero della rivista proprio con degli aforismi (→ ant. 9)33.
31 Elias Canetti, Karl Kraus, Schule des Widerstands, in Id., Das Gewissen der Worte, Hanser, München 1974, p. 47. 32 Id., Karl Kraus, scuola di resistenza, in La coscienza delle parole, tr. it. di R. Colorni e F. Jesi, Adelphi, Milano 1984, pp. 71-72. 33 Anonimo, Introibo, «Lacerba», 1-1-1913, p. 1.
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7. Il contesto della mediazione (parte prima). Kraus, Weininger, Wedekind sull’«Anima» e sulla «Voce» «L’Anima» È Italo Tavolato – come ricorda Prezzolini – ad aggiornare le riviste fiorentine sulla letteratura germanofona di quegli anni («Qualche novità portò Italo Tavolato, giovane triestino al corrente della letteratura contemporanea tedesca, che era mancata interamente nei primi anni della «Voce»)34. Nato a Trieste nel 1889 da Pietro Tavolato ed Eugenia Carabelli, trascorre l’infanzia e la prima giovinezza in quella stessa città e in seguito si sposta a Vienna dove frequenta l’università. Dopo la morte del padre si trasferisce con la madre a Firenze e si iscrive a Filosofia; nel frattempo cerca di guadagnarsi da vivere sfruttando la sua conoscenza del tedesco. I primi scritti di Tavolato appaiono su «L’Anima», la rivista di Papini e Amendola. Nel 1911 pubblica un breve saggio su Karl Kraus, presentato come uno scrittore che difende «sesso e genio» contro l’«intellettualismo, la democrazia, la massa»35. Kraus è per Tavolato l’emblema di un intellettuale anticonformista, elitario e coraggiosamente indipendente, il cui valore non è ancora pienamente riconosciuto («Tutti lo leggono; nessuno ne parla»)36. «La Voce» Tra il 1912 e il 1913 Tavolato collabora alla «Voce» scrivendo di temi legati alla cultura di lingua tedesca e operando chiaramente sulla falsariga krausiana: krausiani sono gli argomenti – scrive su Maximillian Harden e su altri giornalisti dell’epoca, sul filosofo Otto Weininger e sul concetto di morale, sul teatro di Frank Wedekind e sulla questione sessuale – e krausiane sono anche le posizioni, compresi i giudizi sui letterati o sulle riviste di lingua tedesca, di cui offre un panorama dettagliato in quattro interventi, prediligendo quelle che Kraus apprezza e attaccando quelle che egli stronca37. Come Kraus, Tavolato avversa Arthur Schnitzler e gli interventi di Felix Salten e Hermann Bahr 34 Giuseppe Prezzolini, con la collaborazione di E. Gentile, V. Scheiwiller, La Voce 1908-1913. Cronaca, antologia e fortuna di una rivista, Rusconi, Milano 1974, p. 192. 35 Italo Tavolato, Karl Kraus, «L’Anima», I.6, 1911, pp. 184-188. 36 Ibidem. 37 Cfr. Italo Tavolato, Dalle riviste tedesche, «La Voce», 6-6-1912, p. 832; Id., Riviste tedesche, «La Voce», 26-12-1912, pp. 179-180; Id., Riviste tedesche. II, «La Voce», 30-1-1913, pp. 1003-1004; Id., Riviste tedesche. III, «La Voce», 6-3-1913, p. 1031.
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sulla «Neue Rundschau»; critica Harden e la sua rivista «Die Zukunft»; attacca «Die Tat» di Ernst Horneffer e Hans Hoffmann, «carta petulante» di un «sarto spirituale» che preconizza al mondo un avvenire «pangermanico». Preferisce invece «Der Brenner», la rivista animata da Carl Dallago, non a caso apertamente filokrausiana. Per la «Fackel», naturalmente, le lodi si sprecano. Il futurismo D’altra parte, mimare il modello autoriale krausiano in Italia non è una scelta priva di problemi. Nel 1912, presentando al pubblico della «Voce» la rivista «Der Sturm», Tavolato ha gioco facile a criticarne l’apertura al futurismo, poiché lo scetticismo nei confronti di Filippo Tommaso Marinetti caratterizza sia la «Voce» sia Kraus stesso. Gli affondi contro il futurismo e i suoi sostenitori europei risultano però più difficili da ripetere all’altezza del gennaio 1913, quando Tavolato, pur scrivendo ancora per la «Voce», ha già seguito il suo mentore Giovanni Papini nell’avventura di «Lacerba», rivista non solo vicina a Marinetti ma anche da quest’ultimo direttamente finanziata. Tavolato, dunque, scrive: «Tutti coloro che non sono i nonni di se medesimi dovrebbero considerare lo “Sturm” portavoce di ciò che è sveglio e combattivo in Germania e fuori»38. L’alleanza di «Der Sturm» col futurismo39, insomma, non è più ragione di demerito, anzi è diventata addirittura motivo di apprezzamento. Pochi mesi dopo Papini affida a Tavolato l’intera prima pagina del secondo numero di «Lacerba»; gli delegherà addirittura la direzione della rivista quando si sposterà per qualche mese a Parigi. Weininger Un’altra posizione di Kraus che Tavolato si trova a dover modificare quando lo importa in Italia è l’opinione su Otto Weininger40. Nel 1912 Tavolato recensisce sulla «Voce» 38
Italo Tavolato, Flavia Steno, «La Voce», 6-6-1912, p. 830. L’alleanza sarà poi suggellata da un numero intitolato Das junge Italien e interamente dedicato al futurismo. Cfr. «Der Sturm», XII.7-8, 1922. 40 In Geschlecht und Charakter (1903) Weininger distingueva tra il “maschile” e il “femminile” intendendoli come due principi contrapposti (il principio “M” da Mann, il principio “W” da Weib) e presenti in ogni individuo. Il principio femminile veniva associato all’irrazionalità e connotato negativamente rispetto a quello maschile. Cfr. tra gli altri Nike Wagner, Geist und Geschlecht, cit., pp. 60-63. Cfr. anche Michele Cometa, Postfazione, in Otto Weininger, Simbolica della natura. Taccuino e lettere, Castelvecchi, Roma 2017, pp. 63-79. Weininger divenne celeberrimo in Italia soprattutto dopo il suicidio, avvenuto nel 1903. Cfr. Alberto Cavaglion, La filosofia del pressappoco. Weininger, sesso, carattere e la cultura del Novecento, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 1996. 39
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la traduzione italiana di Geschlecht und Charakter ad opera di Giulio Fenoglio, pubblicata nello stesso 1912 col titolo Sesso e carattere a Torino da Bocca, e la stronca per via delle numerose imprecisioni41. Al contempo, però, Tavolato esalta l’opera di Weininger definendola «il più bel libro che dopo Nietzsche sia stato pubblicato in un paese tedesco»42. Si tratta di una frase che Kraus certamente non avrebbe sottoscritto, per via delle sue quantomeno parziali riserve verso Weininger43. Tavolato, qui, sta rimodellando Kraus per renderlo compatibile con le posizioni del suo mentore, Papini. A definirsi weiningeriano, e già nel 1910, era stato infatti l’allora direttore dell’«Anima», come si legge nel suo saggio Miele e pietra44. È da questa prospettiva – palesemente krausiana ma ove necessario smussata per accordarla a Papini – che Tavolato guarda alle novità della letteratura tedesca. Wedekind Un ulteriore esempio è la recensione che nel 1912 Tavolato scrive ai drammi di Frank Wedekind45, autore che Kraus amava molto. Tavolato invece lo biasima apertamente, poiché non vi ritrova il conflitto tra sessualità ed erotismo (inteso come amore platonico) esaltato dalla teoria di Weininger. In Wedekind tutto è sessualità; ciò per Kraus è ragione d’entusiasmo tanto quanto è motivo di disprezzo per Tavolato, che media le posizioni krausiane con quelle di Papini e degli autori da lui apprezzati.
8. Il contesto della mediazione (parte seconda). Weininger e Kraus su «Lacerba» «Lacerba» «Lacerba» crea uno spazio nuovo a Firenze, in cui possono dispiegarsi con maggior agio atteggiamenti iconoclasti. Per quel che riguarda il → transfer di letteratura tedesca è inte41
Italo Tavolato, Weininger tradotto, «La Voce», 31-10-1912, p. 924. Ibidem. 43 «“Un adoratore delle donne concorda entusiasticamente con gli argomenti del Suo disprezzo per le donne”, scrissi a Otto Weininger dopo aver letto il suo libro»: Karl Kraus, Detti e contraddetti, a cura di R. Calasso, Milano, Adelphi 1972, p. 93. 44 Giovanni Papini, Miele e pietra, «La Voce», 3-3-1910, p. 373. Lodi a Weininger erano giunte anche da Campana, Cardarelli, Saba. Su questo cfr. Alberto Cavaglion, Otto Weininger in Italia, Carocci, Roma 1982. 45 Italo Tavolato, Frank Wedekind, «La Voce», 30-5-1912, pp. 823-825. 42
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ressante notare che, rispetto a quel che accadeva sulla «Voce», su «Lacerba» compaiano molti più testi di autori contemporanei di lingua tedesca; le loro posizioni inoltre subiscono un processo di uniformazione e radicalizzazione. Il responsabile dell’una e dell’altra cosa è Italo Tavolato. Della fase lacerbiana di Tavolato sono degni di nota: il mutare della prospettiva su Weininger, che rimane un modello positivo ma viene anche criticato, per attaccare i vociani; inoltre, le pionieristiche traduzioni in italiano di Kraus, che ne esce però piuttosto monocorde ed estremizzato (ovverosia ridotto a autore “immoralista”); infine, la pubblicazione di diversi scritti di Tavolato, originali sul piano testuale (non si tratta di traduzioni) ma non su quello autoriale, poiché basati su una puntuale ed esplicita ripresa della postura di Karl Kraus. Mutamento della posizione su Weininger Su «Lacerba» (e in particolare nel saggio L’anima di Weininger) Italo Tavolato non discute più le teorie di Weininger; esalta – o critica – «l’uomo»46. L’accento non cade più sui suoi testi bensì sulla sua «anima», sul suo ubi consistam di soggetto e di autore. Il triestino lo apprezza come genio fuori dalle istituzioni (in linea con Kraus, che bolla come infamanti le voci secondo cui Weininger avrebbe tentato di ottenere l’abilitazione da professore universitario) e come letterato a tutto tondo, come poeta-filosofo che anela a una teoria olistica del reale. D’altra parte, a Weininger Tavolato rimprovera il suicidio, che interpreta come scelta di «assoluta castità»; mentre invece, prosegue, noi – si riferisce ai lacerbiani – «non accettiamo la santità»47, poiché l’immoralità va riabilitata come forma di morale. Weininger, e la «Voce» che fino a quel momento ne ha sostenuto le posizioni, vengono accusati in quanto non abbastanza “immoralisti”. Tavolato traduttore di Kraus Difficile inoltre non notare il gioco di sovrapposizioni tra Kraus e Papini che ha luogo nel numero successivo di Lacerba, il secondo, dove escono sia gli aforismi papiniani intitolati I cattivi48 sia gli Aforismi di Kraus tradot-
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ti da Tavolato49 (→ ant. 9). Sia i primi che i secondi vertono sulla questione dell’immoralità, oltre a contenere strali contro la stampa e contro le istituzioni culturali. Il fine dell’operazione di Tavolato è mostrare che gli aforismi papiniani hanno, in Europa, degli analoghi già consacrati. Si noti inoltre che sulla «Voce» il Kraus di Tavolato era mero argomento di saggi critici, mentre su «Lacerba» i suoi testi possono apparire direttamente in traduzione: aforismi come «È atto morale ciò che offende gravemente il pudore dell’uomo pubblico»50 ben si adattano alla postura iconoclasta del traduttore e della rivista. Quelle di Tavolato sono traduzioni che mirano all’equivalenza con i rispettivi originali, come si evince dal seguente confronto (di seguito una scelta degli aforismi con il testo a fronte; per il testo completo della traduzione → ant. 9): Als normal gilt, die Virginität im allgemeinen zu heiligen und im besonderen nach ihrer Zerstörung zu lechzen.
Passa per normale il santificare in generale la verginità e l’anelare in particolare alla sua distruzione.
Sittlich ist, was das Schamgefühl des Kulturmenschen gröblich verletzt.
È atto morale ciò che offende gravemente il pudore dell’uomo pubblico.
Wer da gebietet, daß Xanthippe begehrenswerter sei als Alcibiades, ist ein Schwein, das immer nur an den Geschlechtsunterschied denkt.
Chiunque afferma che Santippe debba essere più desiderabile di Alcibiade è un porco che pensa unicamente alla differenza del sesso.
Wenn ich sicher wüßte, daß ich mit gewissen Leuten die Unsterblichkeit zu teilen haben werde, so möchte ich eine separierte Vergessenheit vorziehen.
Se sapessi di sicuro di dover dividere con certa gente l’immortalità, preferirei un’isolata dimenticanza.
Zeit und Raum sind Erkenntnisformen des journalistischen Subjekts geworden.
Tempo e spazio sono diventate forme di conoscenza del soggetto giornalistico.
46
Italo Tavolato, L’anima di Weininger, «Lacerba», 1-1-1913, pp. 5-7. Ivi, p. 6. 48 Giovanni Papini, I cattivi, «Lacerba», 15-1-1913, pp. 12-13. 47
49 50
Karl Kraus, Aforismi, trad. it. di I. Tavolato, «Lacerba», 15-1-1913, pp. 1-2. Ibidem.
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Wenn Lieben nur zum Zeugen dient, dient Lernen nur zum Lehren. Das ist die zweifache teleologische Rechtfertigung für das Dasein der Professoren.
Se l’amore serve solo alla procreazione, l’imparare serve soltanto per insegnare. Ecco la duplice giustificazione teleologica per l’esistenza dei professori51.
Dietro queste traduzioni apparentemente letterali, in realtà, si celano diversi processi di → manipolazione. Tavolato riprende aforismi da tutte le sezioni di Sprüche und Widersprüche (1909) – quella sulla morale sessuale, quella sul giornalismo, quella sull’arte – meno una, che pure nel testo krausiano è tra le più corpose e importanti: quella sulla lingua. Tale esclusione è significativa e testimonia della poca ricettività dell’ambiente di «Lacerba» per il modo in cui tale tema trova sviluppo nella riflessione di Kraus. Inoltre, su «Lacerba» gli aforismi krausiani sulla morale sessuale vengono antologizzati compiendo alcune significative omissioni. Ad esempio, Tavolato esclude l’aforisma che apre Sprüche und Widersprüche: «Des Weibes Sinnlichkeit ist der Urquell, an dem sich des Mannes Geistigkeit Erneuerung holt» [«La sensualità della donna è la fonte da cui la spiritualità dell’uomo trae rinnovamento»]52. Esclusioni come questa, assolutamente mirate e consapevoli, segnalano una differenza fondamentale tra la posizione di Tavolato e quella del maestro austriaco. Entrambi fanno coincidere femminilità e irrazionalità; ma se per Kraus l’irrazionalità femminile è un valore poiché significa vicinanza all’Ursprung, l’origine53, per Tavolato essa è origine di disprezzo. Per Kraus la prostituta (e più in generale la donna pansessuale) è il complemento necessario dell’artista e gli è addirittura superiore, rappresentando, nell’età della tecnica e del progresso, l’unica possibilità di contatto con la natura. Al contrario, nel suo Elogio della prostituzione (1913)54 Tavolato porta in Italia un Kraus assai più misogino dell’originale: il discorso del triestino sulla 51
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morale sessuale non è finalizzato a elogiare la prostituzione bensì è strumentale a una presentazione di se stesso come intellettuale ribelle e dissidente, lontano dalle convenzioni. Tavolato difende la libertà della gestione della sfera sessuale in primis per mimare una postura autoriale già consacrata all’estero, quella di Kraus, che ha l’ulteriore vantaggio di essere legata a un tema molto attuale in Italia, quello della questione femminile. Tavolato non esita a manipolare Kraus anche in senso antigermanico, in consonanza con le posizioni di Papini negli anni di «Lacerba» (→ Papini); ad esempio utilizza quest’autore austriaco e contrario alla guerra per sostenere posizioni anti-austriache e interventiste55. Lo stesso, d’altra parte, Tavolato fa con Nietzsche, di cui traduce una scelta di aforismi ai quali appone il significativo titolo Accuse contro i tedeschi56.
9. Scrittura come mediazione. “Originali” à la Kraus Tavolato scrittore Tavolato pubblica su «Lacerba» diversi saggi e aforismi propri. Il più celebre è il già citato Elogio della prostituzione, causa tra l’altro di un processo per oltraggio alla morale che porterà un buon numero di abbonamenti alla rivista e una certa notorietà all’autore dello scritto. Marinetti, intervenuto come testimone a un processo che giova anche alla sua popolarità (e di cui difatti sostiene le spese), afferma: «Reputo che il Tavolato non ha voluto fare un racconto osceno, ma soltanto uno studio filosofico, adoperando uno stile grave – tedesco – non accessibile a tutti»57. Nel gennaio 1914 il tribunale emette una sentenza di assoluzione. Un altro saggio di Tavolato, Contro la morale sessuale, esce prima su «Lacerba»58 e poi anche come pamphlet indipendente. Ferrante Gonnelli, la libreria fiorentina un tempo vicina a Prezzolini e ora sede delle mostre d’arte futurista, lo pubbli55
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Ibidem. 52 Karl Kraus, Sprüche und Widersprüche, Langen Verlag, München 1909, p. 5. 53 Cfr. Fantappiè, Karl Kraus e Shakespeare, cit., cap. 2. 54 Italo Tavolato, Elogio della prostituzione, «Lacerba», 1-5-1913, pp. 89-92. 51
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Italo Tavolato, Sangue viennese, «Lacerba», 1-11-1914, pp. 292-293. Italo Tavolato, Accuse contro i tedeschi, «Lacerba», 1-11-1914, p. 295. 57 Cfr. Sebastiano Vassalli, L’alcova elettrica, Einaudi, Torino 1986, p. 160, dove si riportano gli atti del processo. 58 Italo Tavolato, Contro la morale sessuale, «Lacerba», 1-2-1913, pp. 27-28. 56
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ca nel settembre del 1913; la copertina è disegnata da Soffici, che trasforma il titolo e l’indicazione del prezzo in una sorta di poemetto futurista («contro / lamora / lesessu / ale20c»). Scrive Tavolato: «Io non devo difendere la pederastia, io devo offendere la morale. Io non ho a discutere le opinioni, io ho ad annientare le opinioni»59. Risuona il motto krausiano con cui si era aperto il primo numero della «Fackel»: non è importante «cosa facciamo» («was wir bringen»), bensì «cosa facciamo fuori» («was wir umbringen»)60. Sulla «Voce» esce una recensione anonima al pamphlet di Tavolato che ne stronca sia lo stile sia le posizioni, ritenute grossolanamente iconoclaste: «Il mondo è più vario di quello che i borghesi e gli antiborghesi (questi gemelli rivali) dipingono con le loro cassettine di giudizi dozzinali»61. Gli aforismi di Tavolato, che ancora una volta vertono sul tema della morale sessuale, escono su «Lacerba» tra il 1913 e il 1914. Si intitolano Frammenti futuristi (→ ant. 17) ma risultano piuttosto lontani da quel tipo di estetica: sono eruditi, “letterari”. Si tratta di scritti solo apparentemente “originali”. La diretta derivazione dal modello krausiano è evidente, tra le altre cose, nel loro alto coefficiente autoriflessivo, che si esplica su due piani: quello tematico – portano avanti un discorso sull’autore, ovverosia sulla figura dell’intellettuale – e quello della struttura formale e stilistica, che spesso, proprio come in Kraus, è circolare, appunto autoriflessiva («Nella pedagogia m’offende soprattutto la palese mira pedagogica»)62. Interessante è anche Immoralismi (→ ant. 17), l’unica raccolta di aforismi di Tavolato in volume, consultabile solo in forma manoscritta63. Sarebbe dovuta uscire presso Ferrante Gonnelli nel 1915 ma rimane inedita perché a quel punto l’atmosfera è già cambiata: Papini sta per chiudere «Lacerba» e Tavolato, perso 59
Ibidem. Karl Kraus [senza titolo], «Die Fackel», 1, 1899, p. 1. 61 «La Voce», 30-10-1913, p. 1188. Sullo stile si afferma: «Lo stile dell’opuscolo rassomiglia assai a quello d’un Aretino che un grosso alemanno avesse tradotto nella sua lingua e di là un tenente contabile dell’esercito svizzero, abitante da alcuni anni in San Frediano, avesse poi ritradotto in italiano», ibidem. 62 Italo Tavolato, Frammenti futuristi, «Lacerba», 1-7-1913, p. 146. 63 Il manoscritto si trova presso l’Archivio Contemporaneo «A. Bonsanti» di Firenze (Fondo «Italo Tavolato», IT ACGV IT. I.1). 60
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il sostegno del maestro, si sposta a Roma e poi a Capri, dove incontra lo scrittore svizzero Gilbert Clavel e Fortunato Depero; dalla collaborazione tra i tre nasce la traduzione del libro di Clavel Un istituto per suicidi (1917), illustrata da Depero. Nel marzo 1918 esce il primo (e unico) numero di «Eros, periodico mensile a cura di Italo Tavolato», da quest’ultimo redatto per intero; il modello è ancora una volta Kraus, che scrive egli stesso tutti gli articoli della «Fackel». In seguito il triestino progetta un’altra rivista, «Satyricon», che non vedrà mai la luce. Sono questi gli ultimi esempi di tentativi di ripresa della figura autoriale krausiana da parte di Tavolato, che in seguito si dedicherà sempre meno alla letteratura e sempre di più all’arte contemporanea, assumendo posizioni opposte, cioè radicalmente anti-avanguardistiche64.
10. Traduzione come importazione di posture autoriali Esaminare l’attività di mediatore di Tavolato permette di giungere ad alcune conclusioni, a partire dalle quali si possono formulare altrettante riflessioni intorno alla questione da cui abbiamo preso le mosse, ovverosia intorno al problema delle modalità secondo le quali avviene il processo di traduzione. 1) Tavolato intende importare in Italia non tanto i testi di Kraus quanto in primis il suo modo di essere autore. In questo senso, Tavolato è un esempio rappresentativo di una modalità di approccio alle letterature straniere che caratterizza la Firenze di primo Novecento: quella che mette l’accento non sull’importazione dei testi bensì delle → posture autoriali, le quali, proprio come le opere letterarie, possono essere oggetto di → transfer e possono essere fatte proprie, sia da coloro che ne operano la mediazione, sia da altri attori del campo letterario d’arrivo. 2) Lo stesso fine perseguono i testi originali di Tavolato (aforismi, pamphlets, saggi). Tali testi, pur non rifacendosi esplici64 Cfr. Leonello Rabatti, Una triestinità “eretica”. La vicenda letteraria di Italo Tavolato (1889- 1963), «La Rassegna della letteratura italiana», XCVII, 1993, pp. 236-250.
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tamente ed estensivamente a un’altra opera letteraria esistente (Genette non li considererebbe dei palimpsestes)65, a ben vedere derivano da qualcosa: dalla postura di un altro autore. Si tratta di scritti privi di un originale testuale, ma non di un originale autoriale, che in questo caso è, appunto, quello di Kraus. Si tratta dunque di scritti che non possono essere considerati “originali”. 3) Pur traducendo Kraus in modo letterale, Tavolato ne compie una → manipolazione attraverso processi di antologizzazione, editing, critica letteraria. Per analizzare le interferenze tra letterature, quindi, è necessario prendere in esame le trasformazioni che il testo ha subito non solo in traduzione, ma anche grazie ai processi di → riscrittura, intesa in tutte le sue varie forme66. 4) È a Papini che Tavolato guarda quando traduce Kraus. I → transfer letterari sono spesso considerati processi che coinvolgono due autori o due testi; eppure, se si getta uno sguardo più approfondito, spesso risultano avvenire secondo uno schema più complesso. Il mediatore (in questo caso Tavolato) importa nel proprio ambiente culturale (quello della «Voce» e di «Lacerba») un autore straniero (Kraus) perché desidera sostenere, o conformarsi, a un autore terzo, non straniero (Papini); l’autore straniero viene rimodellato per conformarlo all’autore terzo e/o agli autori che quest’ultimo predilige, siano essi italiani (i futuristi) o stranieri (Weininger). 5) Tavolato importa a Firenze la critica di Kraus alla morale sessuale corrente, mentre lascia completamente da parte la sua critica al linguaggio. Il primo fatto è quantomeno altrettanto significativo del secondo. La reductio che Kraus subisce nelle mani di Tavolato è sintomatica delle caratteristiche dell’ambiente delle riviste fiorentine in cui il triestino opera. In questo senso, un caso come quello di Tavolato può contribuire a mettere in questione l’idea di “ricezione” intesa come la cronistoria di ciò che di un’opera è sopravvissuto, e di ciò che di tale opera è stato riu65 Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, tr. di R. Novità, Einaudi, Torino 1997. 66 Mi riferisco al concetto di rewriting, cfr. André Lefevere, Translation, Rewriting and the Manipulation of Literary Fame, Routledge, London 1992. Mi permetto di rimandare anche a Irene Fantappiè, Riscritture, in Francesco de Cristofaro (a cura di), Letterature comparate, Carocci, Roma 2014, pp. 135-165.
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sato, tradotto, parodiato, riedito. Il → transfer non è difatti un processo fatto solo di “pieni” bensì anche di “vuoti”; le traduzioni dell’opera letteraria, e più in generale le sue trasformazioni, devono essere analizzate come oggetti al contempo sia manifesti sia latenti67.
67 Cfr. soprattutto Renate Lachmann, Gedächtnis und Literatur: Intertextualität in der russischen Moderne, Suhrkamp, Frankfurt am M. 1990.
Capitolo quinto Nel cantiere del romanzo: il Wilhelm Meister della «Voce» Daria Biagi
1. Romanzi e traduzioni negli anni Dieci Contro il romanzo Interesse per l’interiorità, rifiuto della finzione, scetticismo verso le architetture della trama, gusto del frammento: è un complesso sistema di regole non scritte a far sì che all’inizio del Novecento, in Italia, siano in molti a considerare i romanzieri letterati di seconda categoria, che poco o nulla hanno a che fare con il mondo dell’arte. Gli umili «fornitori di prosa» non godono di buona fama tra gli intellettuali che in questi anni si pongono all’avanguardia di una nuova idea di letteratura; non presso Benedetto Croce, che stronca sistematicamente sulla «Critica» chiunque ritenga il romanzo un genere letterario meritevole d’analisi1, né presso gli autori della «Voce», per i quali la strada da percorrere è quella della narrazione veritiera e autobiografica, in contrasto con qualsiasi costruzione finzionale (→ cap. 1, § 7 e § 8). Giacomo Debenedetti, uno dei testimoni di questa stagione, racconterà a distanza di decenni come solo a partire dagli anni Venti tale visione cominci a modificarsi, e come ciò sia in gran parte dovuto all’attività di Giuseppe Antonio Borgese, che a favore del romanzo si muove simultaneamente sul versante creativo (Rubé, 1921) e su quello critico (Tempo di edificare, 1923)2. 1 Cfr. le recensioni ai saggi di Adolfo Albertazzi (Il romanzo, Milano, Vallardi 1904, parte della Storia dei generi letterarii italiani) e di Joseph Spencer Kennard (Romanzi e romanzieri italiani, 2 voll., Barbèra, Firenze 1904), pubblicate nella rubrica Rivista bibliografica, «La Critica», 4, 1906 (pp. 123-129). 2 Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento. Quaderni inediti [1971], Garzanti, Milano 2005, pp. 13-54. Non mi addentro qui nelle differenze tra le varie
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Il progetto di Borgese di riedificare il romanzo poggia anche su un terzo elemento, rappresentato dalla narrativa straniera: sono numerosi i romanzi che lo scrittore contribuisce a far pubblicare in traduzione italiana, prima nella collana antichi e moderni di → Carabba, da lui diretta, e in seguito nella biblioteca romantica di Mondadori, impresa editoriale interamente dedicata al romanzo ottocentesco e lanciata all’inizio degli anni Trenta3. Ma fino a queste date i romanzieri italiani, anche quelli destinati a diventare classici, devono accontentarsi di pagare di tasca propria la pubblicazione dei loro libri (Svevo) o vedersi accostare a narratori screditati come “commerciali” nelle collane dei grandi editori generalisti (Verga, Pirandello). Il Wilhelm Meister della «Voce» L’esistenza di regole dell’arte a cui gli spiriti più innovatori d’inizio secolo tentano più o meno consapevolmente di uniformarsi non deve tuttavia indurci a considerare troppo compatto questo scenario. Proprio all’inizio degli anni Dieci, e proprio nella redazione della «Voce», nasce infatti uno dei più ambiziosi progetti di traduzione romanzesca realizzati fino a quel momento in Italia: la prima edizione integrale dei Wilhelm Meisters Lehrjahre di Goethe (1795-96). Pubblicato in due volumi tra il 1913 e il 1915 con il titolo Le esperienze di Wilhelm Meister4, il romanzo esce nella collana scrittori stranieri di Laterza (dunque sotto l’egida di Croce, → cap. 2, § 3), nella traduzione di due giovani vociani, → Alberto Spaini e → Rosina Pisaneschi, che per quattro anni vi lavorano in dialogo diretto con i colleghi della rivista, → Prezzolini e Slataper in particolare. L’opera rappresenta uno dei prodotti più maturi della staposizioni dei vociani, di cui dà ampiamente conto il saggio introduttivo di Arturo Mazzarella a Percorsi della «Voce» (Liguori, Napoli 1990, pp. 7-91), in particolare in relazione alla figura di Boine. 3 Sulla circolazione della narrativa straniera in Italia all’inizio del Novecento cfr., oltre al cap. 2 di questo volume, Francesca Billiani, Culture nazionali e narrazioni straniere. Italia, 1903-1943, Le Lettere, Firenze 2007 (in particolare i capp. 1 e 2, dedicati rispettivamente agli anni Dieci e agli anni Venti). Tra i numerosi studi dedicati a Borgese mi limito a segnalare qui il saggio di Gian Paolo Giudicetti, La narrativa di Giuseppe Antonio Borgese. Una risposta alla crisi letteraria e di valori del primo ’900, Cesati, Firenze 2005, che dedica un paragrafo corredato da ampia bibliografia a Borgese e le letterature straniere (pp. 43-46). 4 Johann Wolfgang von Goethe, Le esperienze di Wilhelm Meister, 2 voll., a cura di R. Pisaneschi e A. Spaini, Laterza, Bari 1913 (vol. 1) e 1915 (vol. 2).
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gione della «Voce», ed esce nel giro di due anni che si riveleranno cruciali nel percorso di legittimazione del romanzo come genere letterario, nonché nel riconoscimento della figura del traduttore come “professionista” di una specifica lingua e letteratura.
2. Il Meister di Slataper e Prezzolini Le traduzioni precedenti Perché una qualsiasi traduzione venga messa in atto, è indispensabile che nel contesto di ricezione esistano un interesse specifico per l’opera e le competenze necessarie a realizzarla. La combinazione di questi fattori si ha appunto con la generazione del 1910, la prima cresciuta in un’Italia che si sente ormai moderna e nella quale il destino individuale, non più deciso alla nascita, diventa come per il protagonista goethiano un percorso di formazione da costruire. Prima dell’edizione curata da Spaini e Pisaneschi, il Wilhelm Meister è noto principalmente attraverso le traduzioni francesi, a cui va aggiunta una traduzione italiana derivata dal francese e assai lontana dall’originale5. La vicenda del giovane borghese che arriva a conquistarsi un posto nel mondo, dopo lunghe peregrinazioni fra teatri e amori delusi, è comunque ben presente agli intellettuali italiani d’inizio Novecento: lo testimonia Papini, che nel 1908, a proposito di Un uomo finito, confida a Boine di aver appena «cominciato a scrivere una specie di Wilhelm Meister tratto dalla mia vita»6. Il ritrovamento della Missione teatrale A trasformare questo interesse in un concreto progetto editoriale contribuisce il ritrovamento, avvenuto nel 1910 in Svizzera, della Missione teatrale di Wilhelm Meister [Wilhelm Meisters Theatralische Sendung], ovvero la stesura originaria dei primi sei libri dei Lehrjahre, composti da Goethe a Weimar tra il 1777 e il 1785. L’opera, da 5 Si tratta di Gli anni di noviziato di Alfredo Meister, del sig. Goethe, autore del Werther, stampata per la prima volta a Milano presso la tipografia Destefanis nel 1809. Su questa traduzione, attribuita a Giovanni Berchet e riedita nel 1912 a cura di Domenico Ciàmpoli con il titolo Gli anni di noviziato di Guglielmo Meister, cfr. infra, § 4 e → ant. 8. 6 Papini a Boine, da Pieve S. Stefano (Arezzo), 29-4-1908, in Giovanni Boine, Carteggio iv – Amici della «Voce» – Vari (1904-1917), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1979, pp. 43-44 (p. 43).
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subito indicata anche con il titolo di Urmeister, era considerata perduta e le scarse notizie intorno ad essa lasciavano appena intuire che aveva come tema cardine la fondazione del teatro nazionale in Germania. La lettura di Slataper Scipio Slataper riporta la notizia del ritrovamento sul Bollettino bibliografico della «Voce» del 28 dicembre 1911 (→ ant. 5), definendo l’opera «un magnifico documento dell’anima passionale nient’affatto “padrona” del giovane Goethe»7. La Theatralische Sendung, testimoniando la fase iniziale del suo percorso artistico, ci permette di comprendere la grandezza di Goethe nel suo continuo superamento di sé, superamento che sa però conservare gli elementi più vitali, e persino infantili, della giovinezza. Eppure l’evoluzione che porta Goethe a riscrivere l’Urmeister a distanza di nove anni, tra il 1794 e il 1796, non viene compresa a pieno neanche dai suoi amici più intimi: «A quasi tutti gli amici di G.», nota Slataper «esso [l’Urmeister] piaceva di più che i libri corrispondenti della seconda versione»8. Nei Lehrjahre lo scrittore è infatti ormai entrato in una fase più matura della sua attività artistica, e non può nascondere il suo giudizio negativo, seppure affettuoso, verso il giovane Wilhelm e il mondo dei teatranti, «pupattoli pieni di nervi, d’ignoranza e di fintume»9. Tuttavia il poeta è indulgente con loro, dimostrandosi capace di comprendere tanto la sentimentalità dei Werther quanto il bisogno di azione concreta dei Wilhelm, ed è appunto per questo che la scoperta dell’Urmeister ha un’importanza capitale nella storia dello sviluppo, e, in generale, per la comprensione dello spirito di Goethe […]. Quando si pensa a Goethe si dimentica completamente la sua grandezza drammatica. Si dimentica il giovane wertheriano che s’assoggetta alle cure di stato; si dimentica soprattutto il poeta che ha finalmente trovato sé stesso, che è arrivato alla sua meta, e s’accorge che proprio il suo massimo lascia freddi quasi tutti gli amici10. 7 Scipio Slataper, Scritti letterari e critici, a cura di G. Stuparich, Mondadori, Milano 1956, p. 254. 8 Ivi, p. 255. 9 Ivi, p. 257. 10 Ivi, p. 258.
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Il concetto di sviluppo, su cui Slataper insiste nell’articolo e che tornerà nel titolo della sua tesi di laurea su Ibsen11, diventa cruciale nella riflessione collettiva dei vociani, che negli anni immediatamente precedenti alla prima guerra mondiale cercano con urgenza crescente il modo di tradurre l’attività letteraria in una pratica capace di agire sulla realtà, di modificare il corso delle cose. Il ruolo di Prezzolini Non è strano, dunque, che il progetto di tradurre i Lehrjahre venga messo in moto da Prezzolini, che all’inizio degli anni Dieci ha già dismesso le grandi aspirazioni artistiche per diventare «un utile cittadino del mondo»12. Spaini ricorda la “scoperta” del Meister nell’Autoritratto triestino, sottolineando come Prezzolini se ne fosse servito per demolire la sua infatuazione giovanile per Werther: per smontare il mio Werther, Prezzolini mi citò Goethe: «Voi entusiasti, voi sentimentali, mi sembrate i ragazzi che gettano pietre nel ruscello dietro casa per farlo spumeggiare e immaginarsi che sia un grande fiume». Sono le parole con cui l’amico Werner smonta gli entusiasmi di Wilhelm; e sono le parole che Wilhelm, alla fine delle sue peripezie, ripete a se stesso, quando rinuncia a tutte le ubbie e si preoccupa di divenire solo un utile membro della società umana, un bravo chirurgo, professione meno splendida di quella dell’attore – ma piuttosto che interpretare in modo mediocre la parte di Amleto è certo meglio salvare una vita umana. Così scopersi questo romanzo, il Meister di Goethe, di cui sapevo solo che alla sua pubblicazione i giovani ardenti della Scuola Romantica l’avevano giudicato «troppo prosaico e moderno»13.
Rinunciare alle ubbie romantiche e diventare «un utile membro della società umana»: è qui, per Prezzolini, che Wilhelm supera Werther, proponendo ai suoi lettori un’immagine finalmente costruttiva, realistica, del ruolo che l’uomo può aspirare ad assu11 Il titolo completo della tesi, pubblicata da Farinelli nella collana letterature moderne con il semplice titolo Ibsen (Bocca, 1916), era in origine Ibsen. Suo sviluppo intellettuale e artistico sino ai “Fantasmi” (1912). Lo stesso concetto viene declinato nei lavori di Spaini (soprattutto La modernità di Goethe, cfr. infra, § 5 e → ant. 13) e → Pisaneschi, che parla di “sviluppo” o “svolgimento” sia a proposito di Novalis (tesi di laurea), sia di Büchner (interpretando il personaggio di Maria nel Woyzeck). 12 Alberto Spaini, Autoritratto triestino [1963], a cura di C. Galinetto, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, p. 149. 13 Ivi, pp. 155-156.
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mere nella società moderna. La vocazione pragmatica, l’impulso all’azione che accomunava Prezzolini, Spaini, Slataper e in generale tutti i collaboratori della “prima” «Voce», trova nel personaggio di Wilhelm Meister una potente rappresentazione artistica, nella quale lo sviluppo dell’anima individuale è tutt’uno con la possibilità effettiva di trovare il proprio posto nel mondo. Romanzi come “sviluppi di anime” Naturalmente per i vociani il Wilhelm Meister non è interessante in quanto romanzo, ma semmai nonostante sia un romanzo: è lo svolgimento spirituale di un’anima, la geistige Entwicklung di Wilhelm ad attrarli14 – lo “sviluppo”, appunto – in piena sintonia con quella propensione alla verità autobiografica che, scriverà Prezzolini, era assai più del frammentismo il vero filo conduttore dell’attività della «Voce»15. Questa attenzione all’esperienza interiore del personaggio, tuttavia, assume una sfumatura lievemente diversa, molto meno astratta, nel momento in cui il testo entra nella fase materiale della traduzione, e per di più nelle mani di due traduttori come Spaini e Pisaneschi che nel frattempo sono diventati allievi di Borgese a Roma e che stanno evidentemente maturando una sensibilità del tutto nuova al problema “romanzo”.
14 Il lessico utilizzato rimanda alle discussioni del tempo in Germania e in particolare alle considerazioni di Dilthey, che avevano avuto un ruolo chiave nel rendere Goethe l’«Einfallstor für Modernität» per una nuova generazione di intellettuali, da Simmel a Lukács a Thomas Mann (cfr. Claude Haas, Johannes Steizinger, Daniel Weidner (a cura di), Goethe um 1900, Kadmos, Berlin 2017, in particolare p. 11). Sulla ricezione di Goethe in Italia nella prima metà del secolo cfr. inoltre Katrin Schmeißner, “Goethe è tedesco ma anche nostro”. Die Goethe-Rezeption in Italien 1905-1945, DOBU Verlag, Hamburg 2009. 15 «La Voce per molti è tuttora legata a questo tentativo di ridurre l’inspirazione poetica ad un momento di “purezza”, in cui non ci sia mescolanza di morale o di praticità o di eloquenza. Ora, riguardando indietro, non ritengo che questo sia esatto. […] Il frammentismo venne dopo, quando il Serra incominciò ad avere influenza e La Voce fu regalata a De Robertis. Ma nei primi anni, il culto della verità ad ogni costo mi pare che portasse piuttosto ad un indirizzo differente, ossia all’autobiografia […]. Non erano “frammenti” pubblicati come belle scritture. Non erano “pezzi”. Erano “verità”. Il culto del “frammento” e della “bella scrittura” o “d’impegno” verrà dopo, dimenticando la verità e l’autobiografia» (Giuseppe Prezzolini, L’italiano inutile. Memorie letterarie di Francia, Italia e America, Longanesi, Milano 1953, p. 108).
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3. «Spa» e «la P.», due traduttori di nuova generazione Il viaggio di Wilhelm – che è un viaggio esteriore, nella realtà, molto più che un viaggio interiore dello spirito – si presenta allora ai traduttori sotto forma di problemi architettonici e stilistici da risolvere. Spaini e Pisaneschi a Firenze Spaini, triestino, appartiene a quella generazione di intellettuali “di frontiera” che negli anni Dieci calano in Italia dai confini dell’impero austroungarico portando in dote una conoscenza della letteratura in lingua tedesca ignota ai loro coetanei fiorentini, unita al desiderio di affermarsi nella “patria” della cultura italiana. Come Slataper, Tavolato, i fratelli Stuparich – e come Carlo Michelstaedter prima di loro –, Spaini frequenta l’Istituto di Studi Superiori di Firenze, dove segue sia corsi di letteratura italiana che di lingua tedesca16. Qui conosce Rosina Pisaneschi, senese, di un paio d’anni più grande di lui: entrambi diventano assidui collaboratori della «Voce», sebbene il loro lavoro sia quello più anonimo di chi, pur essendo sempre presente, raramente finisce sotto le luci della ribalta. «Essere “vociani”» dirà infatti Spaini molti anni dopo ripensando a quell’esperienza, «non voleva dire scrivere grandi articoloni: Arturo Mugnoz, Biagio Marin [...] non hanno mai scritto sulla Voce, almeno in quegli anni; [...] ma aiutare Prezzolini a correggere le bozze, Slataper a rispondere alla corrispondenza più urgente, Jahier a mettere ordine negli scaffali della libreria, ci sembrava che fosse il giusto obbligo dei nostri poveri mezzi, per questa impresa di cui eravamo innamorati. [...] Qualcosa cui Goethe aveva pensato quando scrisse il Wilhelm Meister e compose quell’inno il quale incomincia: “Attivo sia l’uomo, comprensivo e buono”»17. 16 Sulla generazione dei triestini cfr. Angelo Ara, Claudio Magris, Trieste: Un’identità di frontiera, Einaudi, Torino 1982; Roberto Pertici (a cura di), Intellettuali di frontiera: triestini a Firenze, 1900-1950, Olschki, Firenze 1983; Thomas Harrison, 1910: The Emancipation of Dissonance, University of California Press, Berkeley 1996; e Renate Lunzer, Triest. Eine italienisch-österreichische Dialektik, Wieser, Klagenfurt 2002. Specificamente sulla traiettoria di Spaini cfr. Carla Galinetto, Alberto Spaini germanista, Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, Gorizia 1995; e Albertina Vittoria, Alberto Spaini e «La Voce», «Rivista di letteratura italiana», xv.1-3, 1997, pp. 276-286. 17 Spaini, Autoritratto, cit., p. 152. Significativo il lapsus: la citazione goethiana, tratta dalla poesia Das Göttliche, è in realtà «Edel sei der Mensch, hilfreich und gut!» – ovvero “nobile sia l’uomo”, non “attivo”.
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Una traduzione a quattro mani Nei mesi seguenti Spaini e Pi-
saneschi si fidanzano, dando inizio a una duratura relazione sentimentale e professionale. Il lavoro di traduzione del Meister, che i due discutono in un fitto carteggio insieme ai loro progetti di matrimonio, inizia nell’autunno del 1911. Rosina è a Berlino, e riceve da Spaini una lapidaria comunicazione previa cartolina: «Comprami i Lehrjahre W.M. di Goethe – ed. Reclams Klassiker Ausgaben – costa 90 pfennig»18. Il Meister sarà il primo di una lunga serie di classici tedeschi che «Spa» e «la P.» (così i due si apostrofano scherzosamente nelle lettere) tradurranno insieme, affermandosi, soprattutto nei primi anni di attività, come due dei più affidabili mediatori della cultura tedesca in Italia. Entrambi sono infatti da annoverare anche tra i primi laureati in letteratura tedesca, materia appena istituita come insegnamento universitario strutturato. È probabilmente per seguire questo specifico corso di studi che nello stesso 1911 i due si trasferiscono alla Regia Università di Roma, dove la cattedra di letteratura tedesca è stata da poco assegnata a Giuseppe Antonio Borgese, con il quale discuteranno tre anni dopo le loro tesi di laurea.
4. La polemica contro Domenico Ciàmpoli Guglielmo Meister “di Berchet” Questa traiettoria da germanisti “accreditati” ci permette di capire più chiaramente il senso della polemica (→ ant. 8) che nel 1913 Spaini innesca, dalle pagine della «Voce», contro Domenico Ciàmpoli (1852-1929)19, che l’anno precedente aveva curato la ristampa della traduzione ottocentesca del Meister. L’opera, intitolata Gli anni di noviziato di Guglielmo Meister e attribuita a Giovanni Berchet, traduceva in realtà una imitation francese del romanzo, vera e propria 18 Spaini a Pisaneschi, cartolina del 3-9-1911 (inedito, Fondo Alberto Spaini, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma). La traduzione viene poi condotta a partire dall’edizione Cotta (Goethes Sämtliche Werke, voll. 17 e 18 a cura di Wilhelm Creizenach). 19 Sulla figura di Ciàmpoli, scrittore e traduttore di formazione positivista, cfr. Domenico Ciàmpoli. Atti del convegno di studi (Atessa, 21-22 marzo 1981), Carabba, Lanciano 1982. Ciàmpoli traduceva dalle principali lingue europee passando talvolta per il francese, pratica del tutto consueta all’epoca.
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riscrittura piena di «amputazioni, fusioni e aggiunte»20. Traducendo direttamente dal tedesco, Spaini ha buon gioco a screditare Ciàmpoli elencando interi passi della versione italiana che non hanno riscontro alcuno nell’originale goethiano, e negando con ciò qualsiasi interesse dell’opera per il lettore contemporaneo. Spaini arriva anche a mettere in dubbio che un tale pasticcio possa essere davvero opera di Berchet, il quale aveva dato prova di molta maggiore accuratezza traducendo in italiano la Lenore e il Wilde Jäger di Bürger: «non vorrei» scrive al termine della sua recensione «che oltre la cattiva e inutile idea di ristampare questo libro il signor Ciàmpoli abbia avuto la disgrazia di prendere questo granchio così madornale»21. Spaini e Mazzucchetti professionisti della traduzione La conferma non tarda ad arrivare. Due mesi dopo la «Voce» ospita un secondo intervento dedicato al Meister “di Berchet” a firma di Lavinia Mazzucchetti (1889-1965), brillante germanista appena laureatasi a Milano con una tesi su Schiller in Italia22. L’approfondita conoscenza filologica che Mazzucchetti ha dell’Ottocento lombardo le permette di contestare incontrovertibilmente l’attribuzione dell’opera a Berchet, e di criticare la faciloneria non solo del curatore, ma anche dell’«intraprendente “Verleger” di Lanciano», Gino Carabba23, colpevole di averne avallato troppo frettolosamente la pubblicazione. L’edizione viene dunque affossata all’unisono dai due giovani traduttori-studiosi, che non si conoscono di persona ma condividono una formazione comune e, soprattutto, una posizione analoga all’interno del campo lettera20 Alberto Spaini, Recensione a Goethe, Gli anni di noviziato di Guglielmo Meister, Carabba. Ristampa della traduzione di Berchet (1835), «La Voce», Bollettino Bibliografico per gli Abbonati, 30-1-1913, p. 1004. 21 Ibidem. 22 Cfr. Lavinia Mazzucchetti, Schiller in Italia, Hoepli, Milano 1913, e Ead., Goethe e Berchet, «La Voce», Bollettino Bibliografico per gli Abbonati, 27-3-1913, p. 1046. Sulla stessa pagina che riporta l’articolo contro Ciàmpoli compare una positiva recensione del saggio su Schiller, firmata da Angelo Monteverdi. Su Lavinia Mazzucchetti, che diventerà nel corso del Novecento una delle principali mediatrici della cultura tedesca in Italia, cfr. Anna Antonello (a cura di), «Come il cavaliere sul lago di Costanza». Lavinia Mazzucchetti e la cultura tedesca in Italia, Fondazione Alberto e Arnoldo Mondadori, Milano 2015. 23 Per una contestualizzazione dell’attività di Gino Carabba, figlio del più noto editore Rocco → Rocco Carabba Editore.
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rio italiano. Rimarcando la propria distanza da intellettuali come Ciàmpoli, considerato la personificazione stessa di una visione superficiale e ormai antiquata della letteratura, Spaini e Mazzucchetti contribuiscono a far sì che il Wilhelm Meister diventi, oltre che un primo passo verso la rivalutazione del romanzo come genere chiave della modernità, anche un punto di svolta nell’affermazione di una nuova figura di traduttore – un traduttore non più soltanto letterato, ma specialista di una data lingua e cultura.
5. Spaini e La modernità di Goethe Tra il 1911 e il 1913 l’uscita dei Lehrjahre italiani viene dunque “preparata” da tutta una serie di interventi che contribuiscono a creare intorno al romanzo un’atmosfera di partecipazione e di attesa. Dal momento però che i testi circolano senza i loro contesti24, è necessario soffermarsi a questo punto anche sull’opera in sé così come se la ritrovarono in mano i lettori del 1913, in gran parte del tutto estranei al contesto ricostruito qui. Determinante diventa allora l’interpretazione del romanzo data in partenza da Pisaneschi e Spaini, che si riflette nelle scelte di traduzione da loro concretamente adottate. Goethe contemporaneo È anzitutto attraverso l’introduzione al primo volume, firmata da Spaini e poi ripubblicata sulla «Voce» con il titolo La modernità di Goethe, che possiamo farci un’idea della linea interpretativa seguita dai due traduttori25. «Modernità» e «moderno» – i termini associati a Goethe – sono fra le parole d’ordine di questi anni: «Essere moderni!» era l’esortazione di Slataper ai giovani intelligenti d’Italia, Prezzolini pubblicava sulla «Voce» i Pensieri di un uomo moderno e il termine ispirava i titoli delle collane editoriali più innovati24 Cfr. Pierre Bourdieu, Les conditions sociales de la circulation internationale des idées, «Actes de la recherche en sciences sociales», 145, 2002, pp. 3-8. 25 Cfr. Alberto Spaini, La modernità di Goethe (saggio storico sul “Meister” goethiano), «La Voce», 13-2-1914, pp. 9-33 e 13-3-1914, pp. 2-39. Il saggio pubblicato in rivista rappresenta una versione più ampia e approfondita dell’introduzione al volume (Goethe, Le esperienze di Wilhelm Meister, cit., vol. i, pp. 5-24), pur non discostandosene nelle tesi fondamentali.
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ve (antichi e moderni di Borgese, la biblioteca di cultura moderna di Croce...). A questa altezza temporale termini del genere non indicano tanto l’arte della Jahrhundertwende, bensì, più genericamente, l’età moderna, che si apre alla fine del Settecento con il crollo dell’ancien régime e che ha nella rivoluzione francese e nell’affermarsi della moderna industria manifatturiera i suoi principali propulsori26. «La rivoluzione francese, la dottrina della scienza di Fichte e il Meister di Goethe sono le più grandi tendenze dell’epoca», aveva affermato Friedrich Schlegel sulla rivista «Athenäum»27, esplicitando come alla fine del Settecento, almeno in Germania, questa modernità avesse già trovato i suoi teorici e i suoi poeti. In Italia il processo di modernizzazione ha inizio almeno un secolo dopo, alle soglie dell’Unità, e gli effetti che ne derivano cominciano a dispiegarsi proprio negli anni a cavallo fra i due secoli. Uno di essi è appunto la generazione “colta” degli Spaini e dei Borgese – ma anche delle donne come Pisaneschi e Mazzucchetti28 –, prodotto della cultura di massa e dell’istruzione obbligatoria istituita all’indomani dell’unificazione nazionale (→ cap. 1, § 1). Spaini sembra avere ben presente il senso di questo arco temporale quando assimila la vita di Goethe a quella dei geni che «previvono d’un secolo i loro contemporanei», sperimentando nello spazio di una sola esistenza ciò che le generazioni successive vedranno solo molti anni più tardi29. Goethe, in altre parole, è «moderno» perché assiste a una frattura epocale e ne intuisce le conseguenze a lungo termine, quelle conseguenze che in Italia stanno diventando tangibili proprio negli anni in cui Spaini scrive. 26 A questa altezza temporale, in altre parole, i concetti di “moderno” e di “contemporaneo” non sono ancora distinti (cfr. Matei Calinescu, Five Faces of Modernity. Modernism, Avant-Garde, Decadence, Kitsch, Postmodernism, Duke University Press, Durham (nc) 1987, p. 86). 27 Giorgio Cusatelli (a cura di), Athenaeum 1798-1800. Tutti i fascicoli della rivista di August Wilhelm Schlegel e Friedrich Schlegel, traduzione, note e apparato critico di E. Agazzi e D. Mazza, postfazione di E. Lio, Bompiani, Milano 2008, p. 181. 28 È anche per l’aumento concreto del numero di donne nelle università e sui luoghi di lavoro che la “Frauenfrage” (→ cap. 4) diventa in questi anni oggetto di un dibattito tanto acceso. 29 Spaini, La modernità di Goethe, «La Voce», 13-2-1914, p. 10.
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Vita e azione Questo Goethe moderno, che ininterrottamente comprende e supera le contraddizioni dell’epoca in cui vive, “nasce” per Spaini all’indomani del viaggio in Italia, quando lo scrittore ha il coraggio di staccarsi dalle sue passioni giovanili e di riprendere in mano la vicenda di Wilhelm Meister, per fare di lui un uomo finalmente votato alla «vera vita», all’«azione»30. Se prima Wilhelm vedeva e giudicava la vita attraverso l’arte (il teatro), adesso «l’ideale teatrale è sostituito da un ideale di vita», in cui il valore di un uomo si decide «nei suoi rapporti con gli altri uomini»31. È in virtù di questo passaggio che il Meister, come voleva Prezzolini, superava il suicida Werther (e, potremmo aggiungere, l’Urmeister), e con esso anche la tentazione nichilista da cui i vociani, a oltre un secolo di distanza, continuavano a sentirsi minacciati.
6. Come parlano i mercanti: la discorsività in Goethe Problemi di costruzione Spaini però non limita la sua riflessione al discorso morale. In cosa consiste concretamente questa modernità, quali sono a livello testuale gli elementi – di costruzione, di stile, di linguaggio – che rendono il Meister un testo moderno? Da traduttore, non potendo aggirare questa domanda, si trova costretto a proseguire su un terreno più tecnico. “Troppo prosaico e moderno” Per identificare tali elementi chiama dunque in causa uno dei principali critici del Meister: Novalis. La sua definizione negativa dell’opera goethiana («durchaus prosaisch – und modern»), menzionata nel ricordo dell’Autoritratto, compare anche nel saggio che accompagna la traduzione. Novalis aveva criticato i Lehrjahre nei frammenti scritti tra il 1799 e il 1800, nei quali il romanzo veniva dichiarato appunto «troppo prosaico e moderno», troppo limitato alle comuni attività umane, borghesi e casalinghe, e pieno di discorsi impoetici sull’economia e sulle merci32. Spaini spiega questo
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contrasto tra Goethe e Novalis appunto sulla base della “modernità” di Goethe, il quale aveva vissuto nel giro di un anno (tra il 1795 e il 1796, subito prima di riprendere in mano il Meister) quello che per i suoi contemporanei sarebbe durato un quarto di secolo. La nuova visione del mondo a cui Goethe è giunto si coglie bene, secondo Spaini, confrontando i passi che compaiono sia nell’Urmeister (scritto prima del 1795) che nei Lehrjahre: alcune scene, infatti, sopravvivono nella seconda versione, ma adesso Goethe le racconta usando «altro stile, altro modo». L’elogio della partita doppia È il caso del famoso “elogio della partita doppia” formulato dall’amico e cognato Werner, il personaggio che incarna nel modo più completo quello spirito del commercio che Wilhelm rifugge: mentre nella prima versione del testo Werner è «un simbolo», un fantoccio che il narratore disprezza; nella seconda «egli è visto con altri occhi, ha una sua giustificazione, ha un suo diritto alla stima degli uomini; e Goethe è il primo a tributargliela»33. Ecco come Werner viene presentato al lettore nella Teatralische Sendung: La sera s’avvicinava, ed egli discese: dette ancora un’occhiata, passando, ai magazzini, esaminò le ceste di zucchero, i fusti di caffè e d’indaco, per cui aveva una speciale tenerezza, giacché portavano buoni guadagni. E poi si sedette nell’ufficio, aprì i registri, e si edificò a questa lettura, più che se si fosse trattato delle migliori opere poetiche, giacché il guadagno vi appariva subito evidente. In quella entrò Wilhelm che, tutto pieno della sua avventura e dei posti che aveva visitato, incominciò a raccontare a suo cognato con gran vivacità. Questi, con la sua solita longanimità, stette un po’ a sentirlo: pure quel giorno era lui stesso tanto animato dalla sua passione, che, alla domanda di Wilhelm: che cosa avesse fatto fin allora, s’affrettò a volgere il discorso sull’argomento che più lo interessava: – Stavo appunto scorrendo i nostri registri, e, per la facilità con cui si riesce a dominare tutta la situazione dei nostri affari, mi meraviglio ancora una volta dei vantaggi che offre al commerciante la partita doppia34.
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Ivi, p. 31. Spaini, La modernità di Goethe ii, «La Voce», 13-3-1914, p. 3. 32 Cfr. Novalis, Opera filosofica, vol. ii, a cura di F. Desideri, Einaudi, Torino 1993, pp. 638-639 [Fr. 505] e pp. 646-647 [Fr. 536]. I passi in questione compaiono anche nel volume dei Frammenti curato nel 1905 da Prezzolini (→ cap. 3 e → ant. 1.d). 31
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Spaini, La modernità di Goethe, cit., pp. 26-27. Ivi, p. 26. Il brano è incluso nel saggio di Spaini, e sua è la traduzione, anche se non specificato. La Missione teatrale verrà tradotta in italiano per la prima volta da Silvio Benco nel 1932, per la biblioteca romantica di Borgese. 34
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La scena, commenta Spaini, è talmente esplicita nel mettere in cattiva luce il personaggio di Werner che per il lettore è impossibile provare simpatia nei suoi confronti. Ciò accade perché in questa prima stesura del passo «il giudizio di Wilhelm sul commercio è lo stesso del poeta»35, mentre nella seconda il mondo del commercio, nonostante Wilhelm continui a sentirsene distante, costituisce un punto di vista autonomo e legittimo sul mondo, che si esprime nella figura di Werner e in tutte quelle digressioni economiche e quotidiane che tanto spiacevano a Novalis. La legittimità di questo secondo punto di vista è tale che alla fine del romanzo – come ricordava giustamente Prezzolini a Spaini – Wilhelm «ripete a se stesso» le parole di Werner, arriva cioè a comprendere, a introiettare dialetticamente il punto di vista dell’altro. Stesure a confronto Nei Lehrjahre, dunque, la scena viene completamente riscritta, a cominciare dalla costruzione spaziale: adesso è Wilhelm il personaggio intento a rimuginare sulle sue attività, mentre Werner, l’uomo attivo, irrompe nella stanza a distoglierlo dalle sue elucubrazioni: Werner entrò, e nel vedere il suo amico occupato coi noti quaderni esclamò: – Sei di nuovo su quei fogli? Scommetto che non hai ancora intenzione di terminarne uno! Li guardi e li riguardi e in ogni caso cominci qualcosa di nuovo. – Terminare non è compito dello scolaro, basta ch’egli si eserciti. – Ma pur qualche cosa la compie, meglio che può. – E tuttavia si potrebbe benissimo porre il problema: se non si possano concepire buone speranze anche per un giovane che, accorgendosi d’aver intrapreso qualcosa di disadatto, non prosegue nel suo lavoro e non vuole sprecare fatica e tempo per cosa che non può mai avere valore. – Lo so bene, non era mai la tua specialità portar qualcosa a compimento, eri sempre stanco prima di arrivare a mezzo36.
Goethe trasforma la scena in un dialogo botta e risposta fra i due amici, in cui il modo di parlare di entrambi fa già intuire quanto ideologicamente lontane siano le loro posizioni. Werner – un po’ come farà poi Mefistofele nel Faust – si esprime con un linguaggio 35 36
Ibidem. Goethe, Le esperienze di Wilhelm Meister, cit., vol. i, p. 58.
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veloce, immediato, più “moderno” di quello dell’artista Wilhelm. E non è solo la lingua ad essere diversa: attraverso un piccolo passaggio metaletterario, nel quale Werner rimprovera a Wilhelm di aver rappresentato negativamente il mondo del commercio in una delle sue opere giovanili, Il giovane al bivio, ci rendiamo conto che l’innovazione risiede più che altro in una nuova modalità rappresentativa: – Mi viene giusto tra le mani il Giovane al bivio – rispose Wilhelm tirando fuori un quaderno dalle altre carte: – questo almeno è finito, e per il resto poi può essere come vuole. – – Mettilo via, buttalo nel fuoco! – gridò Werner. – L’invenzione non è per nulla degna di lode; già allora questo componimento m’indispettì assai, e ti attirò lo sdegno di tuo padre. Possono anche essere dei versi eleganti; ma il modo di rappresentazione è del tutto falso. Mi ricordo ancora della tua personificazione del commercio e di quella sibilla intristita e compassionevole. Devi averne ripescata l’immagine in qualche bottega di robe vecchie. Allora tu non avevi neppure un’idea del commercio. Io non saprei quale spirito possa e debba essere più largo di quello d’un vero commerciante. Che bell’aspetto ci presenta l’ordine in cui noi conduciamo i nostri affari! In ogni momento ci lascia scorgere il tutto, senza che abbiamo bisogno di perderci nel particolare. Quali vantaggi offre al commerciante la partita doppia dei libri! È una delle più belle trovate dello spirito umano, e ogni buon padrone di casa dovrebbe introdurla nella sua amministrazione37.
Werner, il commerciante La triste allegoria del commercio
messa in scena da Wilhelm nella sua opera giovanile (e da Goethe nella Vocazione) è certo elegante da un punto di vista stilistico («Es mögen ganz artige Verse sein»), ma la «Vorstellungsart» – il «modo di rappresentazione», traduce Spaini – non funziona affatto. Ecco allora che è Werner a prendere la parola, lanciandosi in quella che dal suo punto di vista è invece una rappresentazione adeguata e realistica del mondo del commercio. Werner si sofferma sulla varietà delle merci che gli scambi internazionali rendono disponibili («Dà un po’ un’occhiata ai prodotti naturali e artificiali d’ogni parte del mondo…»), descrive con entusiasmo la frenesia travolgente delle attività nelle città e nei porti («Visita 37
Ivi, pp. 59-60.
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un paio di grandi città commerciali, un paio di porti, e sarai certo preso nella grande piena») ed esalta le capacità degli uomini che, con il loro lavoro, sottomettono la natura per ricavarne ricchezza («I principi di questo mondo hanno i fiumi, le strade, i porti in loro potere e hanno un forte guadagno da quello che ci passa…»). La sua descrizione del mondo contemporaneo, in cui tutti gli uomini si affaccendano per realizzare bisogni forse neanche necessari, fa largo uso di termini legati all’economia («doppelte Buchhaltung»38, «die Summe […] ziehen», «Spedition», «Spekulation», «Zirkulation»…): la scena è insomma, per usare l’espressione di Novalis, decisamente “impoetica”, e non a caso anche la precedente edizione italiana l’aveva ridotta a sole otto righe39.
7. … e in Novalis La traduzione dell’Ofterdingen Per comprendere la portata dell’innovazione goethiana, possiamo confrontare il passo con la rappresentazione novalisiana dei commercianti. Sappiamo che, col progetto di “superare” il Meister correggendo quelli che ai suoi occhi appaiono come dei limiti, Novalis scrive, a partire dal 1798, l’Heinrich von Ofterdingen. A questo punto non sembrerà una coincidenza (ma semmai una riprova di come sia il contesto d’arrivo a orientare la logica delle traduzioni), il fatto che nel 1914 anche l’Ofterdingen esca per la prima volta in versione italiana – e ad opera di Rosina Pisaneschi, per la collana antichi e moderni di Borgese. Il problema del «durchaus 38 Stranamente l’espressione a cui Spaini dedica le sue riflessioni risulta poi tradotta con «partita doppia dei libri»: può darsi che la svista (chiaramente indotta da “Buch-”) sia dovuta ai rimaneggiamenti sopraggiunti in fase di revisione, dei quali il traduttore si lamenta per lettera con Prezzolini («Manacorda ha fatto in bozze una quantità di cambiamenti nel Meister. Indegno! Letico con lui e con Laterza. Ti scriverò che porcheria», Spaini a Prezzolini, da Berlino, 30-1-1914, lettera inedita conservata presso l’Archivio Prezzolini, Biblioteca Cantonale di Lugano, ASGP 38). 39 Cfr. Goethe, Gli anni di noviziato di Guglielmo Meister, cit., p. 12. La presenza di scene come queste è alla base anche del giudizio negativo di Croce, che critica la scelta di Goethe di inserire nel romanzo, «con metodo da magazziniere, che stipa la merce dove può», parti di raccordo tra le varie sezioni (cfr. Benedetto Croce, Goethe. Con una scelta delle liriche tradotte, Laterza, Bari 1919, pp. 57-58).
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prosaisch und modern» rimbalza dunque nella prefazione di Pisaneschi all’Ofterdingen, e più approfonditamente ancora nella sua tesi di laurea Saggio sullo svolgimento poetico di Novalis, discussa con Borgese nello stesso 1914. Pisaneschi, che per almeno due anni ha lavorato contemporaneamente al Meister e all’Ofterdingen, riprende il problema della modernità di Goethe facendolo emergere in modo forse ancor più perspicuo di quanto non faccia Spaini nel saggio della «Voce» – saggio che, per quanto uscito a firma singola, dev’esser stato comunque, se non scritto, almeno pensato a quattro mani. Pisaneschi interprete di Novalis L’argomentazione che Pisaneschi sviluppa nella tesi è infatti sostanzialmente la stessa: pur avendo perfettamente compreso la dottrina di Fichte, secondo cui «l’essere si afferma per mezzo della volontà di agire», Novalis confina lo sviluppo del suo protagonista entro uno spazio totalmente interiore, impedendogli proprio l’azione, il contatto con quella realtà materiale che si esprime prima di tutto nei prosaici e impoetici «discorsi sul commercio». Perciò, afferma Pisaneschi, «d’intendere la modernità a Novalis era precluso: la sua mente spazia al di fuori delle contingenze pratiche e quotidiane: in esse cerca il rapporto con l’infinito, ma i rapporti pratici tra la vita e l’individuo non riesce ad intenderli»40. Non solo: la visione di Novalis – e qui, rispetto a Spaini, c’è un passo ulteriore in chiarezza – ha una ben precisa ricaduta stilistica, visibile nel modo in cui vengono resi i modi di parlare dei personaggi: «Tra Heinrich e i mercanti non sapremmo trovare nessuna caratteristica che distingua i loro discorsi. Il dialogo tra Matilde e Enrico alla fine dell’ottavo capitolo si differenzia solo perché Enrico fa dei discorsi più lunghi: del resto potrebbe anche essere un monologo»41. Mercanti e linguaggio poetico L’andamento linguistico dell’Ofterdingen è dunque unitariamente attestato su un livello “alto”, poetico, che accomuna voce narrante e personaggi. Neanche i mercanti (indicati sempre collettivamente con «die Kaufleute», 40 Rosina Pisaneschi, Saggio sullo svolgimento poetico di Novalis, tesi di laurea, Regia Università di Roma, 1914 (inedito, Fondo Spaini, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma), p. 68. 41 Ivi, p. 118.
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come se parlassero all’unisono) adottano l’“impoetico” linguaggio delle merci, e pur affermando di non sapere nulla di poesia filosofeggiano sull’arte come imitazione adottando lo stesso linguaggio del protagonista: I mercanti risposero: «– […] Il canto dell’usignolo, il sibilar del vento, e le luci più belle, e i colori, e le figure ci piacciono perché esse attirano piacevolmente i nostri sensi e poiché i nostri sensi hanno avuto tale disposizione dalla natura, che ha prodotto anche il resto, così ci deve piacere l’imitazione artistica della natura. La natura poi vuol godere della sua arte meravigliosa, per questo essa si è trasmutata in uomini, per gioire essa stessa della sua magnificenza e sa separare il gradevole e il bello delle cose e lo produce da solo [sic], in tal maniera che ella ne possa avere e godere, in vari modi, in ogni tempo e in ogni luogo»42.
Nel rendere il brano, la traduttrice ha cura di mantenere il tono all’interno di un registro analogo a quello dell’originale, privilegiando stilemi del linguaggio poetico italiano (il troncamento di “sibilar”) e adottando un lessico elevato (“trasmutare” e “mutare” per verwandeln – naturalmente con variatio –, o “udire” per hören). Il problema della discorsività Qui, proprio come nel primo Meister, la mancata resa dei diversi modi di parlare corrisponde anche a una negata legittimità dei diversi punti di vista sul mondo: l’effetto finale è dunque quello di «un monologo», di un assorbimento dei personaggi entro un’unica voce, ovvero quella dell’autore che si identifica con quella del protagonista. Fino ai Lehrjahre, insomma, non emerge quella “discorsività” data dall’apporto delle parlate quotidiane, delle “voci altrui”, che per Spaini e Pisaneschi (in linea con quanto affermeranno poi studiosi più noti e autorevoli, da Debenedetti a Bachtin) è inscindibile dal romanzo come genere letterario moderno.
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8. «Goethe, terribile ideale»: sul conciliare commercio e letteratura Nell’interpretazione che Spaini e Pisaneschi danno dei Lehrjahre, e a partire dalla quale condurranno la loro traduzione, si riavverte l’eco dell’argomentazione già elaborata da Slataper nell’articolo sull’Urmeister. Lo sviluppo dell’artista Goethe nasce dal superamento delle passioni giovanili, che pur non essendo mai guardate con disprezzo («È stupido – ma è bello vivere così» → ant. 5) vengono adesso sottoposte a critica: al loro posto subentra l’apertura all’azione, identificata con la realtà del commercio che il giovane Wilhelm (così come il Goethe più “stürmeriano”) aveva sempre rifiutato. Andare oltre se stessi Questo andare oltre se stessi, anche col rischio di dispiacere agli amici, è quanto i vociani sentono di dover compiere a loro volta, in primo luogo attraverso le opere letterarie. È stato osservato come il giudizio di Slataper sull’Urmeister torni ancora fra le righe di una lettera a Elody (6 giugno 1912), dove Il mio Carso viene definito «la mia opera egoistica», finendo così per rappresentare, a soli pochi mesi di distanza dalla pubblicazione, «un momento già superato della traiettoria letteraria dell’autore»43. Meno egoistico doveva forse apparire agli occhi di Slataper il lavorìo collettivo intorno ai Lehrjahre, romanzo a più voci che pur essendo una traduzione, e non un’opera originale, si integrava più coerentemente nel progetto vociano di fornire «“modelli ideologici” al ceto intellettuale della nuova borghesia»44. È per questo che il Goethe dei Lehrjahre – ben oltre il Novalis di Pisaneschi, l’Ibsen di Slataper e il Werther romanticamente idolatrato dal giovane Spaini – rimane per tutti il punto di riferimento costante, il «terribile ideale» (così lo chiama Slataper in una lettera a Gigetta45) capace di cogliere il tragico degli elementi contraddittori e di vivere organicamente la complessità umana. Slataper e Trieste Per i triestini della «Voce», del resto, gli elementi contraddittori di questa dialettica, commercio e letteratu43
Elena Coda, Scipio Slataper, Palumbo, Palermo 2007, p. 40. Romano Luperini, Scipio Slataper, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 256. 45 Slataper a Gigetta, da Firenze, 28-1-1912, in Scipio Slataper, Alle tre amiche, a cura di G. Stuparich, Mondadori, Milano 1958, p. 419. 44
42 Novalis, Enrico d’Ofterdingen, 2 voll., tr. it. di R. Pisaneschi, R. Carabba, Lanciano 1914, vol. i, pp. 45-46.
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ra46, sono chiari da tempo e associati a due luoghi ben precisi: da un lato Firenze, con la sua tradizione umanistica e le sue riviste letterarie; dall’altro Trieste, col suo porto mercantile, gli scambi, l’aggressività del lavoro d’impresa – un carattere che Slataper aveva descritto in un passo celebre del Mio Carso: Anche la città è divertente, sebbene qualche volta m’abbia seccato. Mi piace il moto, lo strepito, l’affaccendamento, il lavoro. Nessuno perde tempo, perché tutti devono arrivare presto in qualche posto, e hanno una preoccupazione. Nei visi e negli stessi passi voi potete riconoscere subito in che modo il passante sta preparando l’affare. Se guardate bene, siete subito presi in un gioco eccitante d’operosità, e la vostra intelligenza batte e rimanda istantaneamente i possibili attacchi d’astuzia, di coltura, di bontà, di vendetta. […] E io vado per le strade di Trieste e sono contento ch’essa sia ricca, rido dei carri frastornanti che passano, dei tesi sacchi grigi di caffè, delle cassette quasi elastiche dove fra trine e veli di carta stanno stivati i popputi aranci, dei sacchi di riso sfilanti dalla punzonatura doganale una sottile rotaia di bianca neve, dei barilotti semisfasciati d’ambrato calofonio, delle balle sgravitanti di lana greggia, delle botti morchiose d’olio, di tutte le belle, le buone merci che passano per mano nostra dall’Oriente, dall’America e dall’Italia verso i tedeschi e i boemi. Se voi venite a Trieste io vi condurrò per la marina, lungo i moli quadrati e bianchi nel mare, e vi mostrerò le tre nuove dighe nel vallon di Muggia, fisse nell’onde, confini della tempesta, costruite su enormi blocchi di calcare cementato. Per il nuovo porto minammo e frantumammo una montagna intera. […] Io avrei dovuto fare il commerciante. Mi piacerebbe di più trattare e contrattare che studiare i libri. La bella cosa viva che è l’uomo!47
Durante i primi anni fiorentini Slataper e i suoi coetanei si sentono segnati negativamente dal carattere di una città che «non ha tradizioni di coltura»48, e tanto più dunque doveva ai loro oc46 Cfr. Slataper a Gigetta, da Firenze, 9-2-1912, in Slataper, Alle tre amiche, cit., p. 425. Su questo tema si veda inoltre il saggio di Alberto Abruzzese, Da Trieste a Firenze: lavoro e tradizione letteraria, in Lucia Strappini, Alberto Abruzzese, Claudia Micocci, La classe dei colti: intellettuali e società nel primo Novecento italiano, Laterza, Bari 1970, pp. 215-311. 47 Scipio Slataper, Il mio Carso [1912], a cura di G. Stuparich, Mondadori, Milano 1958, pp. 59-61. 48 Cfr. lo Slataper delle Lettere triestine, pubblicate sulla «Voce» tra l’11-2-1909 e il 22-4-1909 e poi riedite negli Scritti politici (Mondadori, Milano 1954, pp. 9-57).
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chi apparire rivoluzionario il “consiglio” che Goethe dava loro per bocca di Werner: «Visita un paio di grandi città commerciali, un paio di porti, e sarai certo preso nella grande piena». La descrizione del porto in Il mio Carso Tutto ciò che fino a quel momento aveva rappresentato per loro un’eredità di scarso valore, quasi da nascondere di fronte ai «più intelligenti e più colti» amici fiorentini (→ ant. 7), poteva adesso essere riletto in una nuova chiave. Il mio Carso di Slataper, con il suo narratore monologante, ha certo ben poco della complessità discorsiva dei Lehrjahre – aspetto che peraltro, come abbiamo visto, solo in seguito al lavoro di Pisaneschi e Spaini può iniziare ad essere compreso anche in Italia –, ma per quanto riguarda la Vorstellungsart è già molto vicino al romanzo goethiano. Nella descrizione del porto di Trieste ritroviamo i tratti positivi dell’attività commerciale messi in luce da Werner: la frenesia che “trascina con sé” chiunque («Mi piace il moto, lo strepito, l’affaccendamento, il lavoro. […] siete subito presi in un gioco eccitante d’operosità»), la varietà dei prodotti a disposizione («tutte le belle, le buone merci che passano per mano nostra»), e soprattutto l’ammirazione per l’attività umana che sottomette la natura ai suoi fini economici («Per il nuovo porto minammo e frantumammo una montagna intera»…). Trieste ha insomma ciò che manca a Firenze, ed è infatti agli amici fiorentini che si rivolge implicitamente l’invito a visitare la città («Se voi venite a Trieste io vi condurrò…»), quasi un’eco delle parole di Werner a Wilhelm. L’ideale dell’uomo completo Slataper è il primo a riconsiderare l’ipotesi di eleggere Trieste a punto di partenza per la costruzione di una nuova cultura: «nella mia testa si organizza tutto il piano della nostra vita», scrive a Elody il 4 febbraio 1912 «dove tutti noi, tutti, Guido, e Elsa, e Ella, Lucilla e Fritz, Marcello, Stuparich, Spaini e tutti gli altri che cercano hanno il loro posto di combattimento e di gioia»49. Trieste è la città ideale per questo nuovo progetto culturale proprio perché comprende in sé gli elementi contraddittori della modernità50, compreso quel mon49
Slataper, Alle tre amiche, cit., p. 230. Trieste «contiene inquieta, gli elementi che inquietan noi moderni» (a Gigetta, 8-1-1912, in Slataper, Alle tre amiche, cit., p. 424). 50
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do del commercio che altrove risulta inconciliabile con la tradizione umanistica e letteraria, ma che pure è necessario per raggiungere l’ideale dell’«uomo completo»51. E Wilhelm Meister, che dopo anni di peregrinazioni vede «la vita del commercio» come «un cerchio più largo di vita» e che dall’infatuazione per il mondo del teatro arriva infine a scegliersi una professione utile, è per Slataper il personaggio che più compiutamente incarna il paradigma del nuovo intellettuale borghese, nutrito di una solida coscienza umanistica ma anche di una vera cultura commerciale.
9. Dall’autobiografia al romanzo Commercio e letteratura: l’università Revoltella La traduzione dei Lehrjahre è dunque parte integrante del progetto vociano di costruire l’uomo moderno, un uomo “intero” capace di vivere organicamente i dilemmi del tempo presente. Non si tratta semplicemente di un ideale etico, ma della costruzione di una concreta proposta ideologica: basti pensare che, mentre Spaini e Pisaneschi curano l’edizione del romanzo, Slataper sostiene a Trieste l’apertura dell’università commerciale «Revoltella», un’istituzione dove gli aspiranti Wilhelm possano apprendere l’arte della partita doppia tanto quanto la storia letteraria, per diventare «forti e intraprendenti teste direttive»52. Una generazione dispersa Questa visione altamente etica del lavoro e del commercio rivelerà le sue contraddizioni con lo scoppio della guerra mondiale, che spezza il fronte di quanti hanno tentato fino a quel momento di prendere attivamente parte alla costruzione dell’Italia moderna, Slataper per primo53. I vociani che sopravvivono al conflitto si disperdono negli anni successivi, tanto in senso geografico (Spaini viaggerà in lungo e in largo per l’Europa come giornalista), quanto in senso ideologico, prenden51
Ivi, p. 230. Scipio Slataper, Per l’università commerciale “Revoltella”, in Id., Scritti politici, cit., pp. 122-130. 53 Per un approfondimento di questo aspetto rimando a Mimmo Cangiano, Nelle pieghe della Zivilisation. Scipio Slataper fra etica e lavoro, «Annali d’Italianistica», 32, 2014, pp. 235-254. 52
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do direzioni diverse e aderendo in molti casi al fascismo in ascesa. La stagione della «Voce» si conclude senza aver lasciato alla cultura italiana le grandi opere che i suoi protagonisti si erano proposti, e per quanto essi stessi contribuiscano ad alimentarne il mito – Stuparich curando le opere e i carteggi di Slataper; Spaini e Prezzolini raccontandone l’esperienza nell’Autoritratto e nel Diario – i suoi meriti sembrano spesso solo quelli di aver dato testimonianza di una «crisi». Il rinnovamento del repertorio Eppure il ripensamento creativo della tradizione letteraria stimolato dai vociani è radicale. Se si pensa alla loro attività in termini di trasformazione del → repertorio – trasformazione che non è indotta solo dalla pubblicazione di opere originali, ma anche dalla reinterpretazione di quelle del passato attraverso l’attività critica, e dall’ampliamento a quelle straniere attraverso le traduzioni (→ cap. 3 e cap. 4) – allora il contributo dei vociani risulta decisamente più profondo. La traduzione del Wilhelm Meister, in particolare, sancisce importanti acquisizioni all’interno di almeno tre ambiti diversi: in primo luogo nell’affermarsi di una nuova idea di traduzione, che in termini contemporanei potremmo definire “professionale”; in secondo luogo nella costruzione di un modello di riferimento ideologico per la moderna borghesia colta; e infine – quasi per un’eterogenesi dei fini – a favore della rivalutazione del romanzo come genere letterario della modernità, rivalutazione destinata a consolidarsi soprattutto grazie all’attività di Borgese nei successivi anni Venti. Tradurre, costruire I tre aspetti sono del resto interconnessi: l’attenzione alle traduzioni (che, almeno nel caso del tedesco, è efficacemente espressa dalla polemica di Spaini e Mazzucchetti contro Ciàmpoli) obbliga i traduttori a porsi problemi specifici (di costruzione, di stile) intorno alla forma romanzo, problemi che evidentemente non era necessario formulare finché gli stessi romanzi venivano letti in francese. La riflessione su questi problemi, che occupa il periodo tra i proclami antinarrativi della «Voce» all’inizio degli anni Dieci e la rivalutazione del romanzo negli anni Venti, nasce a sua volta, nei traduttori, dalla riflessione sulla modernità, dal bisogno di esprimere in termini letterari le preoccupazioni di una determinata fase storica.
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Dall’autobiografia al romanzo Il Wilhelm Meister favorisce questo processo anche perché, per la sua struttura che può essere letta come biografia e come romanzo, ben si presta a fare da “ponte” tra queste due diverse mentalità: l’opera va infatti incontro prima al desiderio di “verità autobiografica” espresso da Prezzolini e da Papini; e poi alla nascente sensibilità che vuole edificare il romanzo moderno. Qualcosa di simile accade a Il mio Carso di Slataper: acclamato negli anni della «Voce» come autobiografia lirica, verrà riletto nel 1922 da Stuparich come «il romanzo di Pennadoro»54. La predilezione per l’autobiografia imposta dalla «Voce» si rivela insomma meno dannosa del previsto allo sviluppo del romanzo: quanti la praticano (Slataper come scrittore, Spaini e Pisaneschi come traduttori) si trovano infatti obbligati a misurarsi con problemi poco interiori e molto strutturali, concreti. Non leggono ancora il Wilhelm Meister come un romanzo vero e proprio, ma contribuiscono a orientare la riflessione in questo senso, rifiutando la nozione di “frammentismo” e affermando che sia il Wilhelm Meister sia l’Ofterdingen sono opere armoniche e coerenti, in virtù della presenza al loro interno di una linea progressiva di sviluppo, di svolgimento dell’individualità del personaggio. L’influenza di Borgese Il discorso è formulato con la massima chiarezza nella tesi di laurea di Rosina Pisaneschi: mentre Spaini sembra mantenersi più fedele al maestro Prezzolini (il titolo “più vociano” della sua tesi, Federico Hölderlin. Storia dell’uomo e dell’artista, pone ancora nettamente l’accento sull’importanza del momento autobiografico), Pisaneschi va più fiduciosamente nella nuova direzione aperta dal professor Borgese. Una fiducia che a quanto pare Borgese ricambia, poiché le affida l’incarico di ulteriori traduzioni dal tedesco per Carabba (mentre quella di Herder, l’unica progettata con Spaini, naufraga misteriosamente) e con la sua dichiarata approvazione. Non è senza una punta di dispetto che Spaini, scrivendo a Prezzolini da Berlino nel 1912, gli racconta di come «la P.» sia stata «lodata e stralodata da Borgese per il suo Ofterdingen»55. Resta il fatto che, per formazione,
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Giani Stuparich, Scipio Slataper [1922], Mondadori, Milano 1950, p. 130. Spaini a Prezzolini, da Roma, 19-3-1912 (inedito, Archivio Prezzolini, Biblioteca Cantonale di Lugano, ASGP 7). 55
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inclinazioni personali e per le vicende che si trovano a vivere, Spa e la P. diventano materialmente dei “ponti” che collegano, attraverso il Wilhelm Meister, il mondo vociano degli anni Dieci al «tempo di edificare» che Borgese inaugurerà negli anni Venti. Avere voce nella modernità La lettura del Meister data da Slataper e Prezzolini, e poi da Spaini e Pisaneschi, è inoltre, lo si è detto, una lettura della modernità. Il saggio che Spaini pubblica sulla «Voce» del 1914 contribuisce a far sì che lo scrittore tedesco si consolidi come uno dei punti di riferimento dell’epoca: non Kafka né Joyce, dunque, ma ancora Goethe è nei primi anni del Novecento l’autore privilegiato attraverso cui porsi il problema dell’età moderna, con le sue grandi possibilità e le sue continue minacce. È allora importante tenere conto di un ultimo elemento: la modernità che in Goethe vedono Spaini e Pisaneschi è quella delle grandi promesse di emancipazione, quella in cui l’anima si sviluppa e sviluppandosi trova il suo posto nel mondo, quella in cui tutti hanno “diritto di parola” – quella insomma che, come il protagonista dei Lehrjahre, può aspirare a un lieto fine. Ma Goethe ha raccontato anche il lato oscuro di quella stessa modernità: è la modernità che distrugge Werther, che affoga l’apprendista stregone, che mette nelle mani di Faust una conoscenza svincolata da qualunque limite. Sarà Borgese a occuparsi di questo secondo e più spinoso aspetto del problema, ponendolo in forma di dilemma tragico: l’attenzione non sarà più rivolta solo alle opportunità offerte all’uomo dall’epoca moderna, ma anche ai costi umani che essa impone. Analizzando la figura di Mefistofele nel Faust, traducendo il Werther – e dando, con Rubé, una forma artistica alla sua riflessione – Borgese si spingerà così dentro il Novecento, analizzando della modernità anche il volto più violento e distruttore.
Traiettorie
Rocco Carabba Editore Lanciano 1877-1950
Cronologia 1877 Rocco Carabba (1854-1924), figlio di un calzolaio e di una ricamatrice, fonda a Lanciano, in Abruzzo, la R. Carabba Editore. Sebbene agli esordi abbia qualche contatto con l’avanguardia napoletana, pubblicando tra l’altro la rivista letteraria «La Palestra» (1878-79) di Domenico Ciàmpoli e Edoardo Scarfoglio e la seconda edizione di Primo vere di D’Annunzio (1880), nei primi trent’anni di attività si dedica soprattutto ai testi scolastici, alla letteratura per l’infanzia e alla storia e cultura locale. Dei 171 volumi pubblicati in questo periodo solo 35 sono di carattere letterario, tra cui il Trattato sull’umorismo di Pirandello (1908). 1908 Attraverso il figlio primogenito Gino (1876-1944), che studia giurisprudenza a Firenze, Rocco Carabba entra in contatto con Giovanni Papini e il gruppo della «Voce», con cui stringe un’alleanza che in pochi anni lo porta a trasformarsi da tipografo di provincia a editore di rilevanza nazionale. 1909 Inaugura cultura dell’anima, «collezione di libretti filosofici diretta da G. Papini» (1909-1938, 163 volumi), un’operazione che riprende e adatta la formula dei classici della filosofia moderna curati da Benedetto Croce per Laterza. La cura dei testi è affidata per lo più a letterati dell’avanguardia fiorentina, tra cui Giuseppe Prezzolini, Giovanni Vailati, Giovanni ed Eva Amendola, Piero Jahier, Scipio Slataper, Giovanni Boine, Emilio Cecchi e Ardengo Soffici, al quale si deve anche il disegno della copertina. «La Voce» e le altre riviste del gruppo, tra cui «L’Anima» (1911-1912) diretta dallo stesso Papini con Giovanni Amendola, discutono e pubblicizzano largamente i volumi della collana.
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1910 Vara la collana scrittori nostri, anch’essa diretta da Papini, dedicata alla riscoperta e revisione della tradizione letteraria italiana (tra i primi volumi Michelangelo, Cavalcanti, Guicciardini, Lorenzo de’ Medici, il Lasca, Ariosto), in concorrenza con gli scrittori d’italia curati da Benedetto Croce per Laterza. Anche in questo caso i collaboratori provengono in gran parte dalla cerchia della «Voce». Nello stesso anno nasce la collana l’italia negli scrittori stranieri (Chateaubriand, Dickens, Proudhon, Voss), affidata, su indicazione di Papini, al vociano Giovanni Rabizzani (1887-1918). 1911 In rotta col padre, Gino Carabba fonda una nuova casa editrice a proprio nome, in un piccolo stabilimento limitrofo a quello dell’azienda principale. Per trent’anni la Gino Carabba Editore in Lanciano pubblicherà scrittori italiani e stranieri (1911-1943, 421 volumi), una collana di largo successo anche se meno originale di quelle del padre, dal momento che imita smaccatamente nell’impostazione e nel design la everyman’s library lanciata nel 1906 a Londra da Ernest Rhys, e si avvale della collaborazione non di letterati d’avanguardia ma di studiosi attempati quali Domenico Ciàmpoli (1852-1929) e Federigo Verdinois (1844-1927). Farà la sua fortuna pubblicando per primo le opere di Tagore, premio Nobel nel 1913. 1912 Attraverso la mediazione di Papini, Rocco Carabba inaugura antichi e moderni «in versioni scelte da G.A. Borgese» (1912-1935, 86 volumi), collana di traduzioni di impostazione prossima a quella degli scrittori stranieri ideati da Benedetto Croce e diretti da Guido Manacorda per Laterza, varati quello stesso anno. Con due collane aperte alla letteratura straniera, che nell’insieme pubblicano oltre venti volumi all’anno, la casa editrice di Lanciano diventa un vero e proprio vivaio per giovani traduttori. 1914 Il 13 gennaio «La Voce» pubblica una lettera in cui Papini, in seguito alla sua adesione al futurismo, abbandona polemicamente la direzione di cultura dell’anima e scrittori nostri, definendo le collane di Carabba «passatiste» e «roba da professori»: ma si tratta di un falso, architettato dai vociani per farsi beffe delle ricorrenti conversioni dell’amico Papini. 1915 Durante la guerra parte dello stabilimento viene adibita alla costruzione di proiettili.
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1918 Il secondogenito di Rocco, Giuseppe Carabba (18801955), affianca il padre nella conduzione dell’azienda, e propone a Papini di pubblicare in esclusiva tutte le sue opere «per fare in modo che Ella sia per la Casa Carabba quello che per il Laterza è Benedetto Croce». Papini rifiuta, per stipulare poi un analogo accordo con Vallecchi. 1919 Viene varata la collana classici del fanciullo, diretta da Eva Kühn Amendola (1880-1961). 1920 I rapporti tra Papini e Rocco Carabba si incrinano, perché l’editore non acconsente a ritirare dal mercato le Polemiche religiose all’indomani della conversione dello scrittore al cattolicesimo. Mentre Papini intensifica la sua collaborazione con Vallecchi, Carabba pubblica il primo volume degli scritti vari di giovanni gentile (1920-1933, 5 volumi). La casa editrice impiega ormai 300 operai, le tirature oscillano tra un minimo di 5001000 copie per i libri di cultura e le 3000 per i manuali scolastici. 1924 Alla morte di Rocco, Giuseppe muta la ragione sociale dell’azienda in Giuseppe Carabba Editore. cultura dell’anima è arrivata a 93 titoli, antichi e moderni a 46, scrittori nostri a 61, l’italia negli scrittori stranieri a 13, classici del fanciullo a 40 (mentre scrittori italiani e stranieri di Gino Carabba tocca quota 230). 1926 Giuseppe Carabba ottiene la collaborazione di Corrado Alvaro (1895-1956), inizialmente per la redazione di manuali scolastici, poi con l’intenzione di affidargli la direzione di cultura dell’anima e di una nuova rivista. La mancanza di una linea editoriale forte costituisce il limite e allo stesso tempo il punto di forza della casa editrice, che verso la fine degli anni ’20 accoglie un cospicuo numero di libri importanti che non trovano spazio nei programmi dell’editoria letteraria più prestigiosa: Carabba accetta per esempio di pubblicare la terza edizione degli Ossi di seppia di Montale, dopo che questi aveva ricevuto un rifiuto da Gromo e da Prada. 1929 Carabba comincia ad avvalersi della collaborazione di Enrico Falqui (1901-1974), redattore capo dell’«Italia letteraria» diretta da Giovanni Battista Angioletti e Curzio Malaparte. Com’era accaduto vent’anni prima con Papini, si crea un’alleanza strategica fra la casa editrice e un’avanguardia letteraria in cerca
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di consacrazione. Falqui incarica il pittore Scipione di disegnare le copertine di alcuni libri, tra cui Ossi di seppia di Montale e Prologhi, Viaggi, Favole di Cardarelli. 1930 Falqui cura con Elio Vittorini l’antologia Scrittori nuovi. La gran parte degli scrittori antologizzati gravita intorno all’«Italia letteraria» e ne condivide la campagna in favore di un’arte nuova, intesa come “puro stile”, sulla linea della «Ronda» e della prosa d’arte. Di quasi tutti Giuseppe Carabba pubblica, nei primi anni ’30, almeno un’opera: Alvaro, Angioletti, Barilli, Cardarelli, Cecchi, Emanuelli, Moravia, Moscardelli, Saba, Savarese, Solmi, Spaini, Titta Rosa e lo stesso Falqui. Nello stesso anno viene inaugurata la collana romanzi del nostro tempo (1930-1932), diretta (a quanto si può ricostruire) da Umberto Barbaro: si apre con il suo romanzo Luce fredda e propone autori vicini al movimento immaginista da lui fondato, quali Pietro Solari, Marcello Gallian, Dino Terra, Antonio Aniante. Fuori collana compaiono anche, accanto all’antologia di poeti russi del Novecento La violetta notturna curata da Renato Poggioli (1933), titoli di Arnaldo Frateili, Corrado Govoni, Rosso di San Secondo e Alba de Céspedes, che viene lanciata proprio da Giuseppe Carabba nel ’35. 1932 La casa editrice raggiunge il picco della sua produzione soprattutto nel settore scolastico, dove si attesta al terzo posto in Italia dopo Mondadori e il gruppo Bemporad-Marzocco. Il boom delle traduzioni di narrativa contemporanea, nelle quali investono massicciamente editori di nuova generazione come Mondadori e Bompiani, determina d’altra parte la rapida obsolescenza delle collane Carabba, la cui produzione si fa sempre più disordinata nel tentativo di inseguire la concorrenza. 1935 Inizia la pubblicazione delle opere complete di roberto bracco (25 volumi, 1935-1941). La produzione comincia a contrarsi, e nel catalogo prevalgono le ristampe. Il numero degli operai si dimezza, scendendo sotto i 150. 1937 La ragione sociale viene nuovamente mutata, questa volta in Società Anonima Casa Editrice Rocco Carabba. 1941 Lo stabilimento tipografico viene chiuso. 1950 La Rocco Carabba dichiara fallimento (pochi anni dopo la Gino Carabba, chiusa alla morte del fondatore).
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Rocco Carabba Editore e la letteratura tedesca La proposta di letteratura tedesca della Rocco Carabba Editore1 è strettamente legata agli interessi dei letterati che danno vita alle collane aperte alle letterature straniere: Papini per cultura dell’anima e Borgese per antichi e moderni. Occorre dunque prenderle in esame singolarmente. I tedeschi di cultura dell’anima Il programma anticonformista e antiistituzionale della collana di Papini, che si rifà al modello di editoria autonoma rappresentato da Diederichs (→ ant. 2), è manifesto fin dal titolo: «quando si dice – o almeno io dico – “il tale ha un’anima” vuol dire che non ha un’anima come tutte le altre, e che vi è in lui un fremito, un brivido, un lievito, un fermento di straordinarietà che deve sentire chiunque non sia nato irreparabilmente volgare»2. In cultura dell’anima gli autori tedeschi costituiscono il gruppo più cospicuo (18%) dopo quello degli italiani (24%); l’epoca più rappresentata è il romanticismo (21 volumi, pari al 14%)3. Poiché uno degli obiettivi di Papini è il superamento, nel segno di Nietzsche, del confine tra letteratura e filosofia (→ cap. 1), troviamo Schopenhauer, Schelling, Fichte, Kant, Feuerbach e Schleiermacher accanto a Novalis, Hölderlin, Lichtenberg, Hebbel, Kleist e Heine (ma tra i desiderata di Papini ci sono anche un volume di Goethe curato da Borgese e la traduzione di Ecce homo di Nietzsche, che non vengono realizzati). I testi vengono selezionati, spesso guardando proprio al catalogo Diederichs, sulla base della loro spendibilità nelle battaglie condotte dall’avanguardia fiorentina, e confezionati di conseguenza. Allo stesso modo le opere letterarie vengono scelte sulla base della loro – non importa se reale o supposta – compatibilità con le poetiche esplorate dai letterati riuniti intorno alla «Voce» e a «Lacerba», e in particolare dallo stesso Papini. 1 Sulla casa editrice si vedano almeno Giovanni Ragone, Da Pierro ai Carabba. Avanguardie letterarie e nuova editoria del Sud fra Otto e Novecento, «Archivio storico italiano», 565, 1995, pp. 529-571 e Carmela Pelleriti, Le edizioni Carabba di Lanciano: notizie e annali (1878-1950), Vecchiarelli, Manziana 1997. 2 Giovanni Papini, Arturo Farinelli, «L’Anima», 4, aprile 1911, p. 12. 3 Gianni Oliva, Tra numeri e grafici: le linee di produzione editoriale della casa editrice Carabba, in La casa editrice Carabba e la cultura italiana ed europea tra Otto e Novecento, a cura di G. Oliva, Bulzoni, Roma 1999, pp. 11-27.
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Il Novalis di Prezzolini, lo Hebbel di Slataper, lo Schopenhauer di Papini I volumetti di cultura dell’anima non corrispondo-
no quasi mai agli originali ma vengono assemblati dai curatori, in genere alleati o discepoli di Papini, con un’operazione che ha tutto il carattere di una traduzione-appropriazione. Il modello è il Novalis di Prezzolini del 1905 (→ cap. 2 § 4), che Papini ripubblica col titolo Frammenti (41, 1914): ad esso si rifanno Scipio Slataper, che fa degli svariati volumi dei Tagebücher di Hebbel il proprio Diario (24, 1912 → ant. 12) e lo stesso Papini, che, estrapolando dai Parerga e paralipomena di Schopenhauer il saggio Über die Universitäts-Philosophie, inventa un libretto che costituisce una perfetta presa di posizione “vociana” contro la cultura accademica dominante. La filosofia delle università (3, 1909) avrà larga fortuna in Italia, e solo nel 1982 verrà pubblicato singolarmente in Germania (mentre è del 1992 la traduzione di Giorgio Colli per Adelphi). Anche Prezzolini torna a cimentarsi con questa manipolazione fortemente appropriante: traducendo i Libelli di Jonathan Swift (6, 1909) si spinge fino a trasporre l’ambientazione delle satire dello scrittore inglese dalla Londra del ’700 alla Firenze contemporanea. Da Hölderlin vociano a Nietzsche futurista La predilezione vociana per l’aforisma, il diario e il frammento come garanzia di «sincerità» plasma nuove opere anche quando a occuparsene non sono personalmente le prime file dell’avanguardia fiorentina. Gina Martegiani (1886-1981), giovane abruzzese laureata all’Istituto di Studi Superiori di Firenze, apprezzata da Croce e vicina a Papini e Prezzolini, antologizza un romanzo di Hölderlin che non ha nulla di frammentario fino a ridurlo a un Iperione: frammenti (16, 1911); Augusto Hermet (1889-1954), uno dei numerosi triestini della «Voce», mette a punto una traduzione, ispirata da Prezzolini e a lui dedicata, di brani staccati del Novalis poeta, Inni alla notte e Canti spirituali (25, 1912); Enrico Burich (1889-1965), vociano di Fiume laureatosi in letteratura tedesca all’Istituto di Studi Superiori, estrapola dai Gedanken Satiren Fragmente una serie di Osservazioni e massime (46, 1915) tutte volte a presentare un Lichtenberg autobiografo e intento all’auscultazione di se stesso; Giani Stuparich (1891-1961), amico e biografo di Slataper, presenta Kleist attraverso brani dall’Epi-
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stolario (61, 1919); Antero Meozzi, studioso di Carducci e delle sue traduzioni dal tedesco, assembla una raccolta di Pensieri e ghiribizzi di Heine (64, 1919). I criteri dell’appropriazione variano però insieme alle posizioni del direttore di collana: dopo l’adesione di Papini al futurismo, un suo discepolo, il trentino Valerio Benuzzi (classe 1892), confeziona un volume di Lettere scelte e frammenti epistolari di Nietzsche (42, 1914 → ant. 14), facendone non più un poeta-filosofo all’insegna del «Leonardo» o della «Voce», ma decisamente un precursore del movimento di Marinetti. Poiché in molti casi si tratta delle prime traduzioni italiane di questi autori o testi, l’impronta lasciata dalle poetiche dell’avanguardia fiorentina, e in particolare di Papini, resterà su di loro per decenni. cultura dell’anima dopo Papini Dopo il 1920 Papini interrompe i rapporti con Carabba, che si rifiuta di ritirare dal mercato le sue Polemiche religiose (53, 1917), ma l’editore prosegue la collana cercando di replicare una formula che ormai ha una cerchia di lettori fedeli. Con l’uscita di Papini viene meno il collegamento con le poetiche dell’avanguardia fiorentina e la collana cessa di ospitare letteratura per limitarsi a pubblicare testi filosofici e religiosi, come il Dialogo sulla verità di Heinrich Seuse (93, 1923) e – questa è la novità più cospicua – numerosi volumi di Rudolf Steiner, dai Problemi spirituali (89, 1923) a Federico Nietzsche lottatore contro il suo tempo (150, 1935). I tedeschi di antichi e moderni Meno assertivamente militante di cultura dell’anima, la collana di Giuseppe Antonio Borgese (→ cap. 2 § 6) è un contenitore largo – aperto a classici e contemporanei, opere letterarie e saggistiche, celebri o sconosciute, traduzioni vecchie e nuove – che comunque rispecchia gli interessi e le relazioni del suo direttore. Nel 1912 Borgese, già animatore dell’avanguardia fiorentina e collaboratore di Croce, poi corrispondente da Berlino per «La Stampa» e autore per Bocca del volume La nuova Germania, è da poco titolare della cattedra di letteratura tedesca all’università di Roma e critico letterario del «Corriere della Sera». Dato il suo posizionamento nel campo, a cavallo tra il polo dell’autonomia letteraria e quelli del giornalismo, dell’università e della grande editoria, può permettersi un programma meno profilato e più inclusivo di quello
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di Papini. Inoltre, mentre Papini firma personalmente traduzioni e curatele di molti volumi di cultura dell’anima, Borgese si espone molto meno, mantenendo con la collana un rapporto più distaccato, e solo fino al 1914 sui frontespizi compare la dicitura «in versioni scelte da G. A. Borgese». Anche la confezione editoriale e il prezzo dei volumi, rilegati in tela e oro, con sovraccoperta e messi in vendita a cinque lire (mentre quelli di cultura dell’anima costano una lira e quelli ben più ponderosi degli scrittori stranieri Laterza appena quattro), indicano che la platea di lettori a cui Borgese si rivolge è sì quella prossima all’avanguardia letteraria, come è evidente dalla scelta di molti titoli, ma anche quella più vasta della borghesia colta in genere, che lo segue sulle pagine del «Corriere della Sera». A questo stesso duplice pubblico sarà rivolta biblioteca romantica, la fortunatissima collana di classici del romanzo che Borgese dirigerà per Mondadori a partire dal 1930. Quanto al programma, a differenza di cultura dell’anima, che rispetta rigorosamente l’interdetto contro i generi letterari e la letteratura di finzione, in antichi e moderni, scrive Borgese, «avranno la prevalenza le opere di pura fantasia (drammatica, narrativa, lirica)»4. Inoltre, le traduzioni non hanno un carattere esplicito di appropriazione, ma, come negli scrittori stranieri di Croce, si vogliono complete e rigorose. Anche nella collana di Borgese, germanista di mestiere, i tedeschi sono il gruppo più rappresentato (31 titoli, pari al 40%), seguiti dai russi (12 titoli), dagli spagnoli (10) e dai francesi (4); e anche qui prevalgono gli autori romantici. I primi volumi “vociani”: Novalis, Hebbel, Fichte Le prime uscite tedesche della collana sono tutte riconducibili, direttamente o indirettamente, all’area vociana. Il volume inaugurale è I discepoli di Sais di Novalis (1, 1912), scrittore prezzoliniano par excellence, tradotto da Giovan Angelo Alfero (1888-1962), allievo di Arturo Farinelli, l’alleato strategico di Croce e dei vociani che due anni prima ha contribuito a mettere Borgese in cattedra a Roma. Un’aura slataperiana caratterizza invece la Maria 4 Antichi e Moderni, presentazione della collana acclusa al volume Federico Hebbel, Maria Maddalena, R. Carabba, Lanciano 1912.
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Maddalena di Hebbel (4, 1912), pubblicata nella traduzione a quattro mani di Ferdinando Pasini (1876-1952), autore – grazie alla mediazione dello stesso Slataper – del primo dei quaderni della «voce» (L’università italiana a Trieste), e Gerolamo Tevini (1874-1916), trentino come Pasini e come lui impegnato nella battaglia irredentista per la fondazione di un’università italiana a Trieste. Ancora sulla scia del Novalis idealista-pragmatista di Prezzolini si colloca l’Introduzione alla vita beata o Dottrina della religione di Fichte (5, 1913), curato da Nello Quilici (18901940), un altro collaboratore della «Voce» laureatosi all’Istituto di Studi Superiori di Firenze. Alla costellazione dei testi individuati da Prezzolini come rappresentativi della problematica della modernità appartiene anche il quarto titolo tedesco pubblicato nella collana, quell’Enrico di Ofterdingen (14-15, 1914) che Novalis aveva voluto contrapporre al Wilhelm Meister di Goethe: il romanzo appare in prima traduzione italiana a firma di → Rosina Pisaneschi, vociana e neolaureata con Borgese a Roma, che negli stessi anni sta traducendo proprio il Meister insieme a → Alberto Spaini (→ cap. 5). Lo stesso Spaini era stato cooptato per curare un volume di Herder, altro autore di cui si era scritto sulla «Voce», ma sembra che il manoscritto della traduzione vada smarrito. Nel 1914 escono anche le Poesie scelte di Richard Dehmel (16, 1914), scrittore allora di grande prestigio in Germania. Il libretto non è che la ristampa dello studio, accompagnato da poesie in traduzione, Riccardo Dehmel e la lirica simbolistica in Germania apparso nel 1912 sulla «Nuova Antologia» a firma di Tommaso Gnoli (1874-1950), bibliotecario alla Vittorio Emanuele di Roma, cognato di Karl Vossler, intimo di Croce e traduttore per diletto di poeti come Mörike e Geibel. Ripubblicandolo Borgese ottiene un volume, se non originale, utile come introduzione alla poesia tedesca dopo Heine, e fa di Dehmel l’unico tedesco vivente incluso in una collana dell’avanguardia editoriale italiana. Alla vigilia della guerra un giovane studente di Borgese all’università di Roma, Ubaldo Faldati, più tardi storico delle religioni e orientalista, traduce Minna di Barnhelm (18, 1915) e Emilia Galotti (20, 1916) di Lessing.
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A partire dal 1915 antichi e moderni accoglie opere inizialmente in programma negli scrittori stranieri Laterza (→ cap. 2 § 3), interrotti allo scoppio della guerra: tra questi Gl’intermezzi di Cervantes tradotti da Alfredo Giannini (17, 1915) e le Opere e lettere di Wackenroder a cura di Gina Martegiani (21, 1916). Borgese dirige personalmente la collana almeno fino allo scoppio della guerra, ma contribuirà ad alimentarla, suggerendo titoli e traduttori, ancora per tutti gli anni Venti. Ottocento tedesco: Grillparzer, Kleist, Hoffmann Nel 1917 Borgese si trasferisce da Roma a Milano per sostituire Sigismondo Friedmann, caduto in guerra, sulla cattedra di letteratura tedesca della Regia Accademia Scientifico-Letteraria (poi Regia Università), dove nel ’25 viene istituita apposta per lui la cattedra di estetica. Le sue lezioni hanno molto seguito, così come gli articoli sul «Corriere della Sera». I suoi interessi letterari si concentrano sempre più sul romanzo quale genere letterario rappresentativo della modernità – con Rubé (1921) e i saggi di Tempo di edificare (1923) – e in particolare sulla grande tradizione narrativa del XIX secolo: nel 1927 pubblica per Treves il volume di saggi Ottocento europeo e comincia a pianificare per Mondadori la biblioteca romantica. I nuovi, ambiziosi progetti milanesi fanno di antichi e moderni un’attività di secondo piano. I volumi pubblicati dopo la guerra, benché si tratti spesso di prime traduzioni italiane, hanno ormai ben poco a che fare con le istanze dell’avanguardia fiorentina, ma si devono quasi tutti a occasionali convergenze di interessi fra Borgese e una leva di giovani traduttori formatisi alla moderna scuola germanistica costituita da Friedmann, Farinelli, Fasola e da lui stesso. Vincenzo Errante (1890-1951), che dopo la guerra gravita intorno alla cattedra di letteratura tedesca di Milano e dedica a Borgese la sua prima traduzione importante (il Mare del nord di Heine, Le Monnier, 1920), gli offre i drammi di Grillparzer Saffo e Il vello d’oro, tradotti fra il 1913 e il ’15 (rispettivamente 23 e 25-26, entrambi del 1920), e il Faust di Lenau (30, 1920). Guido Fornelli (classe 1889), laureatosi a Roma nel ’13 su Ludovico Tieck e i suoi rapporti con L’Italia, per qualche anno lettore di tedesco nella stessa università e più tardi passato all’anglisti-
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ca, traduce Il cavaliere Barbableu di Tieck (27, 1920). Emma Sola (1894-1971), allieva di Friedmann in contatto con Borgese attraverso l’amica Lavinia Mazzucchetti, allora assistente alla cattedra milanese di letteratura tedesca, firma la traduzione del romanzo breve La vita di Maria Wuz di Jean Paul (33, 1922). Il goriziano Ervino Pocar (1892-1981) gli invia le sue prime traduzioni dal tedesco, eseguite di propria iniziativa ma compatibili con gli indirizzi della collana: i Racconti di Kleist (37-38, 1922) e i Piccoli drammi di Hofmannsthal (41, 1922). Un poco più anziano, ma anch’egli all’inizio di una carriera di traduttore che lo porterà a curare la prestigiosa antologia scolastica mondadoriana Scrittori tedeschi (1931), Severino Filippon (1884-1961), triestino laureatosi a Padova e docente di tedesco a scuola, cura la commedia I giornalisti di Gustav Freytag (49, 1922). Tra i vecchi collaboratori G. A. Alfero gli consegna una nuova traduzione di Immensee di Theodor Storm (53, 1923), e Rosina Pisaneschi ben cinque di E.T.A. Hoffmann: Biografia frammentaria del direttore d’orchestra Giovanni Kreisler (44-45, 1922), Kreisleriana (47, 1923), Il feudo (50, 1923), Il diavolo a Berlino (51, 1923), Mastro Martino e i suoi garzoni (52, 1923). Questi volumi fanno parte di una sorta di prima opera omnia del maestro della letteratura fantastica, già ampiamente tradotto nell’Ottocento, a cui Pisaneschi si sta dedicando in questi anni, forse ancora una volta su stimolo di Prezzolini, che nel 1919 inserisce la sua traduzione del Vaso d’oro nella nuova collana da lui fondata per le Edizioni della «Voce», il libro per tutti (un altro volume, Considerazioni filosofiche del gatto Murr, uscirà nel 1930 nei classici del ridere di Formiggini, mentre La principessa Brambilla, tradotto da Spaini nello stesso periodo, verrà pubblicato solo nel 1940 nei narratori stranieri tradotti di Einaudi). Un caso analogo a quello di Gnoli è quello di Clinio Quaranta (1857-1929), provveditore agli Studi di Roma e già traduttore per diletto di poesie di Virgilio, Anacreonte, Uhland e Goethe, che nel 1909 aveva pubblicato un volume di Epigrammi del “carducciano” Platen, e dopo la guerra ne firma un secondo di Ballate, romanze, poesie giovanili, epigrammi (46, 1922); mentre direttamente riconducibile alla cerchia di Borgese è, infine, anche La saga dei Volsunghi e dei Nibelunghi, tradotta da Sigismon-
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do Friedmann e curata dalla vedova Teresita Friedmann Coduri (54, 1928), che esce dopo alcuni anni di allentamento nelle pubblicazioni della collana. I tedeschi dei classici del fanciullo La collana diretta da Eva Kühn Amendola non ha nulla a che fare con le battaglie dell’avanguardia letteraria e si colloca senz’altro nel campo di produzione di massa, ma contribuisce anch’essa ad arricchire il repertorio della letteratura tradotta, in particolare quello della letteratura per l’infanzia. Anche se in molti casi, dato il minor prestigio letterario della collana, i traduttori restano anonimi, accade che la stessa direttrice firmi delle traduzioni (Dostoevskij) o chiami a farne persone di fiducia, come Luisa Slataper (Lagerlöf). Tra i titoli tedeschi si segnalano Enrico di ferro ed altre nuove fiabe tedesche di Emil Engelmann (2, 1920) e la prima traduzione di Heydi di Johanna Spyri (21, 1922). Michele Sisto
Giovanni Papini Firenze 1881-1956
Cronologia 1881 Nasce il 9 novembre a Firenze da Luigi, artigiano, ed Erminia Cardini. 1899 Si diploma maestro. 1899-1902 Conosce → Giuseppe Prezzolini e frequenta come libero uditore l’Istituto di Studi Superiori di Firenze. 1903 Fonda il «Leonardo»; vi collaborano il matematico Giovanni Vailati, il filosofo Mario Calderoni, Prezzolini, e, meno continuativamente, Giuseppe Antonio Borgese ed Emilio Cecchi. Enrico Corradini fonda la rivista «Il Regno» e lo nomina caporedattore. 1904 A Ginevra partecipa al Congresso internazionale di Filosofia, dove incontra Bergson e Pareto; a Roma conosce il filosofo pragmatista William James. Comincia a scrivere per il «Giornale d’Italia», la prima di numerose collaborazioni giornalistiche. 1906 Escono i suoi primi libri, la raccolta di racconti Il tragico quotidiano e i saggi Il crepuscolo dei filosofi e La Coltura italiana, scritto a quattro mani con Prezzolini. Da novembre al 6 gennaio 1907 è Parigi, dove frequenta Bergson, Boutroux, Gide, Péguy, Sorel. 1907 In agosto esce l’ultimo numero del «Leonardo». Il 21 dello stesso mese sposa Giacinta Giovagnoli; avranno due figlie, Viola (nata nel 1908) e Gioconda (nata nel 1910). 1908 Si trasferisce a Milano nella speranza di venire assunto dal «Corriere della Sera» e di farsi pubblicare da Treves. Collabora con la rivista «Il Rinnovamento» dei modernisti cattolici guidati da Alessandro Casati e Tommaso Gallarati Scotti, e pubblica il
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numero unico della rivista «Il Commento» scritta interamente da lui, Prezzolini, Casati e Soffici. Fallito il tentativo di introdursi nel mondo editoriale e giornalistico milanese, rientra a Firenze. Il 20 dicembre esce il primo numero della «Voce» diretta da Prezzolini. 1909 Comincia a dirigere per → Carabba le collane scrittori nostri e cultura dell’anima. 1911 Fonda con Giovanni Amendola la rivista «L’Anima», che dura un anno. 1912 Da aprile a luglio sostituisce Prezzolini alla direzione della «Voce». 1913 Il 1 gennaio esce «Lacerba». Il 21 febbraio partecipa a una serata futurista al Teatro Costanzi di Roma: è il primo segnale pubblico dell’avvicinamento suo e di Soffici al movimento di Filippo Tommaso Marinetti, che avevano osteggiato fino a quel momento. Per le edizioni della Libreria della Voce esce Un uomo finito. 1914 In estate è a Parigi; conosce Apollinaire e Picasso. A novembre comincia a collaborare con «Il Popolo d’Italia» di Mussolini. 1915 Alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia esce l’ultimo numero di «Lacerba». Viene riformato per miopia. 1918 Il 24 giugno firma un contratto con Vallecchi che lo impegna a cedere i diritti delle sue opere future e di quelle libere da vincoli con altri editori in cambio di una provvigione mensile di 800 lire. 1919-20 Dirige per Vallecchi la rivista in lingua francese «La Vraie Italie» che intende divulgare all’estero la cultura italiana. Nel 1920 cura con Pietro Pancrazi Poeti d’oggi, un’antologia della letteratura italiana contemporanea. 1921 Pubblica la Storia di Cristo, che desta scandalo perché rende pubblica la conversione al cattolicesimo di un autore fino a quel momento risolutamente ateo e spesso blasfemo; il libro è un best-seller internazionale. Lascia la direzione di cultura dell’anima e scrittori nostri. 1922 L’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano gli offre una cattedra di Letteratura Italiana, che rifiuta. 1923 Pubblica il Dizionario dell’omo salvatico, scritto a quattro mani con Domenico Giuliotti, che aveva avuto un ruolo
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rilevante nella sua conversione. Il Dizionario esprime posizioni anti-moderne che caratterizzeranno anche in seguito gli scritti di Papini (come Gog, romanzo-saggio del 1931). 1929 Collabora con il «Frontespizio» (1929-40) fondato da Piero Bargellini. 1931 Inizia una regolare collaborazione con il «Corriere della Sera». Vallecchi comincia a pubblicare i volumi delle opere di giovanni papini. 1934 Prende la tessera del Partito Nazionale Fascista. 1935 Rifiuta la cattedra di Letteratura Italiana dell’Università di Bologna per l’aggravarsi di una malattia che lo rende cieco dall’occhio sinistro. 1937 È ammesso all’Accademia d’Italia. È spesso a Roma per collaborare al Vocabolario della lingua italiana (1935-41) diretto da Giulio Bertoni. Durante i soggiorni romani ha frequenti colloqui con Mussolini. Contribuisce alla fondazione dell’Istituto nazionale di studi sul Rinascimento di Firenze. 1942 A marzo partecipa a Weimar al primo Convegno dell’Unione Europea degli Scrittori, di cui è vice-presidente: è la sua prima volta in Germania. 1944 Dopo l’assassinio di Gentile gli viene offerta la Presidenza dell’Accademia della Repubblica di Salò (ex Accademia d’Italia), che rifiuta. Si rifugia all’Eremo della Verna, dove il 14 luglio entra nell’ordine terziario francescano. Rientra a Firenze in ottobre. 1945 Non ritratta la sua adesione al fascismo e perde ogni carica. Continua a collaborare a quotidiani e riviste come il «Borghese» di Longanesi e il «Corriere della Sera». 1953 Gli viene diagnosticata la sclerosi laterale multipla. 1955 Viene candidato al Premio Nobel da Henri de Ziegler, Professore di Italiano all’Università di Ginevra. 1956 Completamente cieco e paralizzato, muore l’8 luglio.
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Papini e la letteratura tedesca Papini e la lingua tedesca Il percorso scolastico di Giovanni Papini si interrompe con il diploma, ma non la sua formazione, che prosegue da autodidatta. Anche la sua conoscenza delle lingue straniere, con l’eccezione del francese studiato a scuola, non è scolastica; comincia a studiare il tedesco nel 1900 grazie alle lezioni di uno studente svizzero. Come per l’inglese, la sua competenza linguistica è solo passiva. Papini, Croce e il «Leonardo» A dispetto della mancanza di titoli intellettuali Papini riesce a imporsi nel dibattito culturale. La prima rivista da lui fondata, il «Leonardo», si guadagna già nel 1903 l’elogio di Croce sulla «Critica», fondata nello stesso anno: il filosofo napoletano riconosce nel periodico fiorentino un alleato nella battaglia contro l’indirizzo positivistico dominante nella cultura italiana. Nel corso degli anni successivi, però, Papini si distacca da quello che aveva costituito per lui un modello di intellettuale prestigioso anche se estraneo all’università: la rottura nel rapporto personale con Croce coincide grosso modo con la fine del «Leonardo». La cultura tedesca contemporanea nel «Leonardo» Un articolo non firmato apparso sul «Leonardo» nel marzo 1904 proclama: «Noi siamo […] nordici, tedeschi, inglesi, romantici. Ricordiamo piuttosto lo Sturm und Drang che il Rinascimento. Amiamo molto più Shakespeare che Omero e preferiamo straordinariamente il Faust al Petrarca»1. Gli autori del «Leonardo» non si riconoscono però nella cultura tedesca contemporanea, che giudicano negativamente in quanto dominata da quel positivismo accademico che detestano: «Concediamo pure che la Germania abbia avuto grandi scrittori ma concedete che da qualche tempo non ne produce più», scrive Gian Falco (pseudonimo di Papini)2. Sul «Leonardo» “Germania” è un termine che funge da metonimia di un sistema accademico preso a modello in tutta Europa e dominato dal positivismo.
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I tedeschi del «Leonardo» Al ripudio della cultura tedesca contemporanea corrisponde l’esaltazione del periodo romantico. Nell’articolo Athena e Faust Papini spiega cosa intende con questo aggettivo, che contrappone a “classico”: il romanticismo è «l’esplosione dell’anima europea contro il regime classico che aveva avuto l’egemonia fin dalla Grecia. Esso rappresenta la liberazione dell’uomo, dell’individuo particolare e passionale, fantastico e mobile, contro l’armatura di tradizioni, di regole, di norme, di leggi, di uniformità che fasciavano e asfissiavano la libera vita»3. Tra gli spiriti liberatori Papini elenca i filosofi tedeschi Kant, Herder, Fichte, Schopenhauer, Stirner e Nietzsche. Il «Leonardo» pubblicherà traduzioni di aforismi e frammenti dei teorici del romanticismo Schlegel e Fichte, dei mistici Hamann e Meister Eckeart [sic], dei poeti Hölderlin e Novalis, e infine di Nietzsche. L’eredità di Nietzsche Dall’avversione per la cultura tedesca recente si salva infatti soltanto Nietzsche, in cui Papini riconosce quella stessa avversione, proveniente per di più da un esponente della cultura tedesca ostracizzato in vita dai compatrioti. Papini rivendica l’eredità del filosofo tedesco agli intellettuali liberi, come lui stesso, contro l’appropriazione accademica che equivale a un vero e proprio «assassinio»4. L’ammirazione non impedisce a Papini di confutare l’opera teorica di Nietzsche nel Crepuscolo dei filosofi (1906), dove ne riconosce però anche la maestria letteraria: «io credo volentieri […] che Also sprach Zarathustra sia il più bel poema di lingua tedesca che sia stato scritto dopo il Faust»5. Quattro anni dopo Papini torna sull’argomento in un articolo apparso sulla «Voce», dove contestualizza la confutazione fatta nel Crepuscolo dei filosofi: ora che è passata la voga nietzscheana dei salotti e delle accademie, «tornano quelli che l’amarono un tempo, che lo disprezzarono, che l’odiarono, che vollero dimenticarlo, che gli furono fedeli senza saperlo, che lo abbracciarono anche nel disprezzo, che gli stettero accanto anche nell’abbandono. Torniamo noi: possiamo tornare. C’è posto, ora, per l’amore; la moda 3
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Palle al balzo, «Leonardo», marzo 1904, p. 32. 2 Gian Falco, La Germania allevatrice di geni, «Leonardo», aprile-giugno 1906, p. 151.
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Id., Athena e Faust, «Leonardo», febbraio 1905, p. 13. Id., La vendita di Nietzsche al minuto, «Leonardo», marzo 1904, p. 24. 5 Giovanni Papini, Crepuscolo dei filosofi, Libreria Editrice Lombarda, Milano 1906, p. 243. 4
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è andata a sporcare più in là»6. La filosofia di Nietzsche non interessa più Papini: lo attrae l’uomo Nietzsche, la sua vita, il «Nietzsche puro, santo, martire»7. Quella che interessa a Papini, però, non è tanto la biografia contingente di Nietzsche, quanto il modello che se ne può ricavare per una → postura artisticointellettuale che intende riprodurre in Italia. Il Nietzsche italiano Mentre si esaurisce l’esperienza del «Leonardo» Papini abbandona il campo della filosofia, e, con la pubblicazione dei suoi primi libri di racconti (Il tragico quotidiano del 1906 e Il pilota cieco del 1907), entra in quello letterario, dove intende disegnarsi una posizione di filosofo-scrittore analoga a quella che riconosce a Nietzsche: qualcuno che attraverso la potenza dell’arte dice la verità agli uomini. Papini ambisce a riprodurre la postura profetica di Nietzsche anche nella forma delle opere, dalla “voce” di un io raziocinante-delirante alla frammentazione aforistica e al rigetto della narrazione finzionale in nome di una «autobiografia ideale»8: definizione di Papini stesso dell’opera in cui questi intenti meglio si manifestano, Un uomo finito (1913). Se Un uomo finito è la massima espressione del desiderio di Papini di essere il Nietzsche italiano, anche dopo la conversione al cattolicesimo all’inizio degli anni Venti permarrà qualcosa della postura modellata su quella del filosofo tedesco: per tutta la vita Papini vorrà incarnare la figura del profeta che dice la verità agli uomini, che sia quella di qualcuno che ha voluto farsi Dio (Un uomo finito), di chi ha scoperto Cristo (Storia di Cristo, 1921), di chi giudica la modernità (Gog, 1931) o l’intera umanità (Rapporto sugli uomini, postumo). Gli anni della «Voce»: Weininger tra Prezzolini e Papini Negli anni di incubazione di Un uomo finito Papini collabora al periodico fondato dall’amico Prezzolini, «La Voce», pur non condividendone del tutto la linea editoriale. La diversità dei percorsi dei due intellettuali si palesa quando si trovano a occuparsi di uno stesso 6
Id., Preghiera per Nietzsche, «La Voce», 20-1-1910, p. 247. Ibidem. 8 Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Carteggio, II, 1908-1915. Dalla nascita della «Voce» alla fine di «Lacerba», a cura di S. Gentili e G. Manghetti, Edizioni di Storia e Letteratura-Biblioteca Cantonale Lugano/Archivio Prezzolini, Roma 2008, p. 138.
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autore: è il caso di Otto Weininger, il cui Sesso e carattere Prezzolini aveva già segnalato in una recensione sul «Leonardo». Se l’interesse di Prezzolini è volto all’ambito sociale – Weininger è uno degli autori attraverso cui lancia la discussione sulla “questione sessuale”, cui è dedicato il numero della «Voce» del 10 febbraio 1910 –, a Papini interessa declinare l’opposizione weiningeriana tra maschile e femminile nel campo letterario, trasformandola in una dichiarazione di poetica. Nell’articolo Miele e pietra, apparso sulla «Voce» l’11 agosto 1910, Papini distingue nella tradizione letteraria italiana una linea “maschile” (che approva) da una linea “femminile” (che deplora); riprenderà l’argomentazione nell’articolo Le due tradizioni letterarie, uscito sempre sulla «Voce», dove l’opposizione si declina in quella di «poesia» vs «letteratura», «arte maschia» vs «arte femmina», «arte di macigno» vs «arte di miele», «arte plebea» vs «arte mondana»9. Le collane Carabba Durante gli anni della «Voce» Papini comincia a collaborare con l’editore → Rocco Carabba, ideando e dirigendo le collane scrittori nostri e cultura dell’anima. Attraverso il lavoro editoriale Papini prosegue il conflitto con Croce: nel 1909, infatti, all’annuncio dell’uscita delle collane papiniane per Carabba, Croce palesa la sua irritazione, sia per lettera sia in forma pubblica sulla «Voce», per quella che percepisce come una concorrenza fatta alle sue collane classici della filosofia moderna e scrittori d’italia edite da Laterza. La collana scrittori nostri, in realtà – spiega Papini a Croce per lettera10 – ha come obiettivo un pubblico diverso da quello della collana di Laterza, mentre cultura dell’anima avrà interessi che differiscono da quelli crociani in quanto prosegue il filone di ricerca sul romanticismo tedesco e sulla mistica avviato dal «Leonardo»: tra i tedeschi, infatti, pubblica Schopenhauer (la cui prima traduzione nella collana, La filosofia delle università, è dello stesso Papini in collaborazione con Giovanni Vailati), Schelling, Fichte, Kant, Nietzsche, Lichtenberg, Feuerbach, Schleiermacher; tra i testi letterari tradotti vi sono opere
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Giovanni Papini, Le due tradizioni letterarie, «La Voce», 3-1-1912, pp. 727-728. Cit. in Vincenzo Regina, Giovanni Papini dal «Leonardo» a «Lacerba» (190213) attraverso i suoi carteggi inediti ed editi, Tesi di Dottorato in Filologia Moderna, Università di Napoli Federico II, A.A. 2005-2006, pp. 143-144. 10
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di Hölderlin, Hebbel, Novalis, Kleist, Heine. Come le collane di Laterza, anche cultura dell’anima diventa un laboratorio per giovani intellettuali in formazione, cui Papini offre lavoro come traduttori, prefatori o curatori, attingendo soprattutto al gruppo dei collaboratori della «Voce»: Enrico Burich, Eva Kühn-Amendola, Giuseppe Prezzolini, Scipio Slataper, Carlo e Giani Stuparich. Papini dirige le due collane fino al 1921, quando trova un nuovo interlocutore editoriale, il tipografo Attilio Vallecchi di Firenze, che aveva stampato la rivista «Lacerba». L’antigermanesimo di «Lacerba» La nuova rivista, fondata da Papini nel 1913 insieme a Palazzeschi, Soffici e Tavolato giunge dopo diversi tentativi falliti di trovare un proprio spazio al di fuori della «Voce»: Papini aveva fondato con Giovanni Amendola la rivista «L’Anima» nel 1911, e aveva progettato con altri collaboratori della «Voce» la mai pubblicata «Lirica». «Lacerba» sancisce l’alleanza di Papini e Soffici con l’avanguardia concorrente emersa a Milano, quella dei futuristi guidati da Marinetti, di cui Papini inizia a imitare le posture scandalose. Rispetto all’antigermanesimo culturale del «Leonardo» «Lacerba» compie un passo in più, ponendo la battaglia anti-tedesca al servizio della causa interventista e dandole sfumature che arrivano a sfiorare il razzismo. A dare il “la” al diluvio di articoli anti-tedeschi della rivista (e nei quali si distingueranno per ferocia Soffici, Tavolato, l’ex collaboratore della «Voce» Thomas Neal, i futuristi Auro d’Alba, Arcangelo Distaso e Ugo Tommei) è proprio un articolo di Papini, Il dovere dell’Italia, uscito il 15 agosto 1914, dove la guerra appena scoppiata viene interpretata come uno scontro tra due civiltà, tedesca e francese – la seconda essendo quella a cui l’Italia è maggiormente debitrice e per la cui sopravvivenza deve combattere: «La civiltà tedesca è meccanica o astratta. Comincia colle metafisiche vuote e finisce colla truffa dello schlecht und billig. La cultura tedesca non è cultura ma istruzione, erudizione, classificazione. Ondeggia fra la nebulosità più inutile e il materialismo più gretto. Il pensiero tedesco non è pensiero ma formula e formalismo. La scienza tedesca sa applicare e svolgere ma non crea. Fa manuali e fornisce le industrie ma non inventa. L’arte tedesca non esiste fuor della musica. […] I tedeschi più geniali (Goethe, Schopenhauer, Heine, Nietzsche) si
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son vergognati di esser tedeschi»11. E infatti, nel numero «contro l’Austria» del 1 novembre 1914 «Lacerba» pubblica in funzione anti-tedesca frammenti da Heine e Nietzsche. In questo contesto il Faust di Goethe, che all’altezza del «Leonardo» Papini considerava un capolavoro, diventa l’opera esemplare di tutto ciò che di negativo ha espresso la civiltà tedesca (→ ant. 18). I tedeschi di «Lacerba» Un analogo capovolgimento di posizioni in funzione interventista si può notare nei confronti della cultura austriaca. Sulla «Voce» del 15 dicembre 1910 Papini aveva pubblicato un articolo in cui ne deplorava la scarsa conoscenza in Italia: «sento Vienna più vicina, anche nello spirito, di Berlino. […] Vienna è centro letterario più importante assai che Berlino e vi nascono più facilmente, un po’ come a Parigi, i mezzi geni originali, bizzarri ed eccitanti: ad esempio un Weininger, un Peter Altenberg, un Karl Kraus. Il gruppo poetico più interessante di lingua tedesca di oggi (Hofmannsthal, Hugo Salus, Paul Wertheimer, Rainer Maria Rilke, Stefan Zweig) si chiama degli Jung Wiener»12. Se, nel corso della battaglia interventista, Papini dichiarerà senza mezzi termini che l’Austria è l’antitalia13, altrettanto vero è che «Lacerba» contribuisce a colmare la lacuna denunciata da Papini sulla «Voce» del 1912: la rivista pubblica Kraus nella traduzione di Italo Tavolato e assume Weininger come riferimento teorico per i suoi scandalosi articoli sulla sessualità, oltre che per le ripetute e feroci invettive misogine. «Lacerba» rimane però una rivista dallo sguardo volto soprattutto a Parigi: grazie alla mediazione di Soffici «Lacerba» pubblica testi di Apollinaire e Max Jacob in lingua originale, mentre non pubblica nulla degli espressionisti tedeschi sebbene segnali ripetutamente «Der Sturm» tra le «riviste da leggere». Dalla prima alla seconda guerra mondiale Papini conserverà posizioni anti-tedesche anche dopo la fine della guerra: nel pamphlet L’Europa occidentale contro la Mittel-Europa (1918) profetizza un futuro ordine mondiale dominato da potenze sovranazionali, e caldeggia un’alleanza dell’Europa latina contro 11
Giovanni Papini, Il dovere dell’Italia, «Lacerba», 15-8-1914, p. 243. Id., Un libro sull’Austria, «La Voce», 15-12-1910, p. 462. 13 Id., L’antitalia, «Lacerba», 1-11-1914, pp. 289-291.
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quella germanica. Si tratta però di un testo di riflessioni geopolitiche più che culturali: l’interesse per la cultura tedesca di Papini sembra scemare con la conversione al cattolicesimo e con la svolta che questa imprime al suo percorso letterario e intellettuale. Paradossalmente, l’unico viaggio in Germania di Papini risale al 1942, quando partecipa al Convegno dell’Unione Europea degli Scrittori, espressione di un’Europa unificata sotto il dominio della Germania nazista: un’unificazione ben diversa da quella prospettata nel pamphlet del 1918. Papini pronuncia un discorso improntato a un cristianesimo universalizzante, che non è gradito alle autorità naziste e viene censurato dai resoconti ufficiali del convegno. Anna Baldini
Rosina Pisaneschi Siena 1890 - Roma 1960
Cronologia 1890 Nasce a Siena il 26 gennaio da Antonio, medico psichiatra, e Ida Lodoli. Ha due fratelli, Guido ed Ermanno, e una sorella, Ada. 1910 È a Firenze, dove frequenta il corso di Lettere dell’Istituto di Studi Superiori. Collabora con «La Voce» di → Giuseppe Prezzolini e frequenta gli intellettuali triestini che fanno parte della redazione, in particolare Scipio Slataper e → Alberto Spaini, con il quale si fidanza. 1911 Soggiorno a Berlino. Insieme a Spaini si trasferisce a Roma per seguire i corsi universitari di letteratura tedesca tenuti da Giuseppe Antonio Borgese. Tra i compagni di corso conosce Bonaventura Tecchi. 1912 Tra il settembre 1912 e il maggio 1913, questa volta con Spaini, è di nuovo a Berlino, dove approfondisce lo studio del tedesco, traduce e si mantiene con il proprio lavoro. 1913 Pubblica con Laterza la traduzione di Le esperienze di Wilhelm Meister di Goethe, commissionata da Prezzolini e realizzata in collaborazione con Spaini. 1914 Pubblica su «Il Conciliatore» di Borgese un saggio su Büchner, e per Carabba la traduzione dell’Enrico d’Ofterdingen di Novalis. In dicembre si laurea a Roma in letteratura tedesca con una tesi dal titolo Saggio sullo svolgimento poetico di Novalis, di cui è relatore Borgese. 1915 Sposa Alberto Spaini. 1916-19 Durante la prima guerra mondiale si trasferisce in Svizzera con il marito; i due vivono tra Berna e Zurigo. Traduce
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Hoffmann per la collana di Prezzolini il libro per tutti. Nel 1918 nasce la prima figlia, Giuliana. 1922-23 Tornata a Roma, collabora stabilmente con l’editore → Carabba, traducendo principalmente autori tedeschi (Hoffmann, Novalis, Goethe). 1925 Nasce il secondo figlio, Paolo. 1930 A partire dagli anni Trenta la sua attività di traduttrice si riduce progressivamente, fino a interrompersi del tutto. 1960 Muore a Roma il 2 marzo.
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Pisaneschi e la letteratura tedesca Una donna nell’Italia moderna Sebbene le sue traduzioni continuino a circolare nelle librerie italiane ancora a distanza di un secolo, Rosina Pisaneschi è oggi una figura dimenticata anche dagli addetti ai lavori. Collaboratrice della «Voce» a Firenze negli anni universitari e poi allieva di Giuseppe Antonio Borgese all’Università di Roma, Pisaneschi è stata una delle prime traduttrici di professione nel campo della letteratura tedesca. Il suo percorso biografico e professionale è analogo a quello di molte donne istruite della sua generazione, cresciute nella stessa retorica di emancipazione dei coetanei maschi in un’Italia ormai avviata a diventare una nazione moderna, ma poi fatalmente costrette, negli anni della guerra e del fascismo, a rientrare in ruoli più tradizionali rinunciando a lavoro e aspirazioni1. A Firenze: l’esperienza della «Voce» Rosina Pisaneschi cresce in una famiglia agiata (il padre è psichiatra al S. Niccolò di Siena), e dopo il liceo si trasferisce a Firenze per iscriversi al corso di Lettere dell’Istituto di Studi Superiori. Qui studia anche il tedesco (probabilmente con Carlo Fasola e Augusto Foà, docenti incaricati presso l’Istituto), e incrocia le traiettorie dei giovani triestini della «Voce», in particolare di Scipio Slataper e di Alberto Spaini, che in questi anni importano in Italia novità dal mondo germanofono. Le notizie che si hanno su di lei sono per lo più indirette, ricostruibili attraverso carteggi o annotazioni diaristiche altrui: «Io non riesco mai a capir nulla», scrive ad esempio Prezzolini in una pagina di diario che la riguarda, «Il povero Spaini è innamorato della Pisaneschi, ma io credevo fosse corrisposto, ora almeno, invece no, e pare che la Pisaneschi sia innamorata di Slataper, che ne è tutto vergognoso e ar1 Secondo Ruth Ben-Ghiat, «le giovani donne con ambizioni professionali pagarono lo scotto maggiore del conflitto generazionale negli anni fra le due guerre: bombardate di messaggi misogini e antifemministi dalla stampa fascista, esse si trovavano a subire in famiglia la disapprovazione dei genitori di fronte alla loro adozione di stili e atteggiamenti che si dipartivano dai modelli tradizionali della femminilità italiana» (La cultura fascista, il Mulino, Bologna 2000, p. 172). Per un approfondimento di questo problema cfr. Victoria de Grazia, Le donne nel regime fascista, Marsilio, Venezia 1993 e Noemi Crain Merz, L’illusione della parità: donne e questione femminile in Giustizia e libertà e nel Partito d’azione, FrancoAngeli, Milano 2013.
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rabbiato per amicizia con Spaini»2. L’esperienza nella redazione della «Voce» è per Pisaneschi all’origine di legami e amicizie di lunga durata, nonché di una certa disposizione avanguardistica che caratterizzerà anche negli anni successivi il suo lavoro di mediazione. Come i suoi colleghi, anche lei si interessa infatti precocemente a scrittori poco noti in Italia: nel 1914, si evince da una lettera di Prezzolini, ha intenzione di tradurre Thomas Mann, autore ancora tutt’altro che apprezzato nel contesto italiano (→ ant. 11): Congratulazioni alla Signora per il coraggio di mettersi a tradurre Th. Mann. Ecco una borsa di studio male spesa, se ci deve costare codesta traduzione! Scusate lo scherzo3.
I viaggi a Berlino Grazie agli studi e al lavoro di traduttrice,
Pisaneschi può inoltre permettersi libertà non scontate per una donna della sua epoca, come quella di viaggiare da sola o di convivere con un uomo senza essere sposata: nel 1911 trascorre un periodo a Berlino per approfondire lo studio del tedesco, fra il 1912 e il ’13 vi torna per diversi mesi in compagnia di Spaini. Un impiego che le fa guadagnare «in media 200 marchi al mese»4 la mette in condizione di rifiutare le offerte di lavoro che le vengono dai genitori, e addirittura di mettersi contro suo padre, al quale dichiara di voler sposare l’uomo che ha scelto a prescindere dalla sua condizione sociale: La risposta del babbo è stata che mi credeva più intelligente – riferisce per lettera a Spaini –. Si è informato chi avrei sposato. La mamma gliel’ha detto e il babbo ha domandato come si sarebbe potuto sposare se in Italia non c’erano che cattivi posti. La mamma (da me istruita che tu saresti entrato in un giornale e con una paga) glielo ha detto. Il babbo: che si sa2 Giuseppe Prezzolini, Diario 1900-1941, Rusconi, Roma 1978, p. 114. L’appunto risale al 7 maggio 1911. 3 Prezzolini a Spaini, s.l., 24-7-1914 (inedito, Fondo Alberto Spaini, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma). Non c’è traccia di traduzioni di Mann realizzate da Pisaneschi negli anni immediatamente successivi: la prima da lei firmata è quella di Tonio Kroeger, che esce a puntate sulla «Rassegna Italiana Politica Letteraria e Artistica» a partire dal 31 maggio 1920. 4 Spaini a Prezzolini, da Berlino, 15-2-1914 (inedito, Archivio Prezzolini, Biblioteca Cantonale di Lugano, ASGP 39).
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rebbe morti di fame, perché ai giornali un giorno si guadagna, l’altro no. […] poi che ero un’imbecille, che non erano cose serie, e la miglior cosa che potevo fare è non farglielo nemmeno sapere5.
Il sodalizio con Spaini Il sodalizio sentimentale e professiona-
le con Spaini è destinato invece a durare molti anni. A quattro mani i due firmano la prima traduzione integrale dei Wilhelm Meisters Lehrjahre di Goethe, pubblicata da Laterza fra il 1913 e il 1915 con il titolo Le esperienze di Wilhelm Meister, grazie alla quale si affermano, nonostante la giovane età, come due dei più accreditati traduttori dal tedesco. A questa faranno seguito ulteriori collaborazioni: non solo alle traduzioni di Goethe (a doppia firma usciranno ancora Il viaggio in Italia nel 1926 e le Lettere alla signora von Stein nel 1959), ma anche a quelle di Wedekind (Fuochi d’artificio e Mine-Haha, 1921), di Büchner (Lena e Leonce, La morte di Danton, Wozzek [sic], Lenz, 19281931) e di Thomas Mann, di cui nel 1926 riusciranno finalmente a far pubblicare Ora greve e altri racconti. La familiarità con la scena culturale berlinese permette alla coppia di venire in contatto direttamente con le novità più interessanti del panorama tedesco del tempo: la loro attività di mediatori, almeno fino agli anni Trenta, si distingue dunque non soltanto per le competenze linguistiche e letterarie, ma anche per una particolare sensibilità nei confronti di tutto ciò che di “nuovo” arriva dalla Germania. Nel 1914 Pisaneschi firma il primo articolo in italiano sui drammi di Büchner, riscoperti dai teatri berlinesi all’inizio degli anni Dieci: «È bene», afferma, «che le rappresentazioni centenarie al Lessing-Theater di Berlino abbiano tolto dalla dimenticanza questo giovane e strano poeta, dando insieme occasione alla ristampa popolare delle sue opere»6. Di questa ristampa presenta e discute le caratteristiche, arrivando, attraverso l’analisi del personaggio di Maria, a proporre un nuovo possibile ordine dei frammenti del Woyzeck:
5 Pisaneschi a Spaini, s.d. [1913] (inedito, Fondo Alberto Spaini, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma). 6 Rosina Pisaneschi, Georg Büchner, «Il Conciliatore», 1914, pp. 267-272: p. 267.
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io credo che in un solo punto ci sarebbe ancora da fare una correzione: di trasporre cioè la scena della favola. […] Se […] si fa precedere la scena della fiaba, abbiamo un vero e proprio sviluppo di situazioni psicologiche. Maria è apparsa per un attimo nella scena dell’osteria a lanciare quei due: «Immer zu! immer zu!» arditi e procaci. Poi non compare più sino alla scena della strada, dove da prima è ugualmente allegra e gioca coi bimbi; e dopo appena, finito il racconto della vecchia, prorompe: «Bas’, sie hat mir das Herz schwer gemacht!» La qual frase introduce meravigliosamente al monologo del pentimento, e renderebbe la situazione ancora più tragica, poiché Wozzek [sic] la ucciderebbe proprio nel momento in cui ella si pente d’averlo tradito7.
Allieva di Borgese a Roma L’articolo su Büchner esce per «Il Conciliatore», diretto in questi anni da Giuseppe Antonio Borgese. Con Borgese Pisaneschi è in rapporti diretti almeno dal 1911, cioè da quando, insieme a Spaini, si è trasferita a Roma per frequentare i suoi corsi universitari di letteratura tedesca. Sotto la sua direzione si laurea nel 1914 con una tesi intitolata Saggio sullo svolgimento poetico di Novalis, nella quale rifiuta la tradizionale lettura del poeta come autore di “frammenti” per porre l’accento sulla coerenza del suo sistema filosofico («Tutta l’attività di Novalis […] si può considerarla come un’unica opera»8) e soprattutto sull’evolversi della sua visione artistica (lo svolgimento del titolo), che lo porta, come Novalis stesso afferma in una lettera a Caroline Schlegel, a interessarsi al genere del romanzo9. In qualità di direttore della collana antichi e moderni di Carabba, Borgese le affida inoltre numerose traduzioni dal tedesco, a cominciare proprio dal novalisiano Enrico d’Ofterdingen, che esce nello stesso 1914. Borgese sembra apprezzare molto il lavoro della sua allieva: lo conferma indirettamente Spaini, in una lettera inviata a Prezzolini «anche a nome della Pisaneschi, che Borgese ha lodato e stralodato per l’Ofterdingen»10.
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Ivi, pp. 271-272. Rosina Pisaneschi, Saggio sullo svolgimento poetico di Novalis, tesi di laurea, Regia Università di Roma, 1914, p. 62 (inedito, Fondo Alberto Spaini, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma). 9 Ivi, p. 61. 10 Spaini a Prezzolini, da Roma, 19-3-1912 (inedito, Archivio Prezzolini, Biblioteca Cantonale di Lugano, ASGP 7). 8
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Le traduzioni di Hoffmann e dei romantici Gli interessi professionali di Pisaneschi si orientano dunque prevalentemente sull’Ottocento tedesco, e in particolare sull’epoca romantica. La predilezione per i romantici, letti in chiave antipositivistica, è del resto condivisa dai protagonisti della scena letteraria italiana nel primo trentennio del Novecento: da Prezzolini e dai Vociani, da Borgese, ma anche da studiosi come Arturo Farinelli e i suoi allievi, che occupano in questi anni le prime cattedre italiane di letteratura tedesca. Rosina si occupa di Novalis, di Achim von Arnim, di Eduard Mörike, del già citato Büchner e soprattutto di E.T.A. Hoffmann, di cui traduce oltre sette titoli a partire dal 1919, quando, con Il vaso d’oro e La loggia di re Artù, inaugura la collana della «Voce» il libro per tutti. In un articolo che esce su «La Fiera Letteraria» nel 1926, in occasione del “giubileo hoffmanniano” per i centocinquant’anni dalla nascita dello scrittore, la traduttrice chiarisce perché proprio Hoffmann, a dispetto delle interpretazioni “volgari” o “auliche” che ne sono state date, sia così significativo per i giovani autori del suo tempo: Il gusto volgare e la critica aulica riconobbero in lui solo il fantastico e il sentimentale, guardandosi bene dal seguirlo dove la fantasticheria diviene paurosa rappresentazione delle oscure potenze dell’anima e della vita e il sentimentalismo ascende, prorompendo, a tragica passione… Hoffmann è destinato ad avere ora fra noi assai maggiore diffusione che non si sia immaginato: soprattutto molti giovani autori troveranno in lui la soluzione di problemi che tormentano a fondo la nostra letteratura nazionale11.
Una voce in ombra: le prefazioni Al di là di sporadici articoli d’occasione, tuttavia, ben di rado si ha l’opportunità di sentire la voce di Pisaneschi in prima persona. Le prefazioni alle opere da lei curate, in genere brevissime, sono l’unico segnale della presenza di una traduttrice che, secondo la modalità ancora dominante nel primo Novecento, tende a rimanere completamente in ombra. Più che in dichiarazioni o prese di posizione esplicite, dunque, il filo conduttore del suo lavoro si rivela nelle relazioni 11 Rosina Spaini Pisaneschi, Traduzioni da Hoffmann, «La Fiera Letteraria», 16-5-1926, p. 4.
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che i testi tradotti intrattengono fra loro, e che Pisaneschi ha cura di mettere sempre in primo piano: introducendo l’Ofterdingen di Novalis e I fedeli di San Serapione di Hoffmann, ad esempio, sottolinea i riferimenti ai Lehrjahre di Goethe, contribuendo così a rendere visibile – anche agli occhi del lettore odierno – la logica che governa i processi di selezione e interpretazione delle opere tradotte. Gli ultimi lavori Già all’inizio degli anni Trenta, tuttavia, la sua attività di traduttrice inizia a diradarsi, sia per gli impegni e le difficoltà familiari (con il marito e i due figli è costretta a svariati trasferimenti), sia probabilmente a causa della partenza per gli Stati Uniti di Borgese, che era stato uno dei suoi principali committenti. Tra le sue ultime traduzioni compaiono opere di mistici medievali come Tauler e Seuse, riscoperti sulla scia dell’interesse vociano, e romanzi di scrittori non tedeschi come Hamsun o Mauriac. E il passaporto rilasciatole nel 1950 riporta come professione quella di “casalinga”, confermando come il lavoro di germanista e di traduttrice sia stato infine completamente abbandonato. Daria Biagi
Giuseppe Prezzolini Perugia 1882 - Lugano 1982
Cronologia 1882 Nasce il 27 novembre a Perugia da genitori senesi; la madre Elena Pianigiani muore quando ha tre anni. Il padre Luigi è prefetto. 1899 A Firenze conosce → Giovanni Papini. 1900 Alla morte del padre lascia il liceo senza diplomarsi. L’eredità gli garantisce una modesta rendita, con cui si mantiene fino alla prima guerra mondiale. A Grenoble perfeziona la sua conoscenza della lingua francese, a Parigi segue i corsi di Bergson. 1903 Collabora alla rivista diretta da Papini «Leonardo» (1903-1907) e pubblica il suo primo libro, Vita intima. Scrive sul «Regno» di Enrico Corradini. Conosce Benedetto Croce. 1904 Tra agosto e settembre trascorre un mese a Monaco e Norimberga. 1905 A marzo sposa la milanese Dolores Faconti, che era stata studentessa a Firenze; la coppia avrà due figli, Alessandro (1911-23), e Giuliano (1915-2014). A Milano entra in contatto con i cattolici modernisti, in particolare con Alessandro Casati e Tommaso Gallarati Scotti; con quest’ultimo progetta la collana poetae philosophi et philosophi minores dove esce una sua traduzione di frammenti di Novalis. 1906 Trascorre alcuni mesi a Monaco. 1908 Il 2o dicembre esce il primo numero della «Voce», rivista settimanale da lui diretta. 1910 È con Soffici a Parigi per preparare la mostra sull’impressionismo che la «Voce» organizza a Firenze. Frequenta Romain Rolland, Charles Péguy, Georges Sorel, Henri Bergson, Charles Maurras.
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1911 Alla rivista si affianca la Libreria della Voce, che diventa anche casa editrice. 1912 Da aprile a giugno è a Parigi come corrispondente del «Resto del Carlino»; Papini lo sostituisce alla direzione della «Voce». Tornato a Firenze riprende a occuparsi della rivista fino a tornare alla direzione a novembre. 1914 L’ultimo numero della «Voce» da lui diretto esce il 28 novembre. Si trasferisce a Roma come corrispondente politico per «Il Popolo d’Italia» di Mussolini. 1915-18 Dirige i primi quattro fascicoli della «Voce-Edizione politica» (7 maggio-31 dicembre). Allo scoppio della guerra si arruola volontario; è istruttore delle truppe e impiegato all’Ufficio Storiografico di Mobilitazione. Dopo Caporetto fa domanda per essere inviato al fronte ed è con gli Arditi sul Monte Grappa e sul Piave. 1919 Le Edizioni della Voce si dividono tra Vallecchi a Firenze e la Società Anonima Editrice La Voce da lui diretta a Roma, che chiuderà nel 1928. 1920 Lavora all’ufficio romano del Foreign Press Service, un’agenzia giornalistica statunitense. 1923 È invitato a tenere un corso estivo alla Columbia University di New York. 1925 Si trasferisce e Parigi, dove lavora all’Istituto internazionale per la cooperazione intellettuale, un’emanazione della Società delle Nazioni. 1929-62 Si trasferisce a New York, dove insegna Letteratura italiana alla Columbia University e dirige la Casa italiana annessa all’università, che lascia nel 1940, anno in cui ottiene la cittadinanza americana. Scrive testi accademici e di divulgazione della cultura italiana negli Usa e viceversa, e corrispondenze per il «Borghese» di Longanesi. Morta la prima moglie, si sposa con Jakie Salvini e ritorna in Italia, a Vietri sul Mare. 1968 Si trasferisce a Lugano. Gestisce l’eredità della «Voce» pubblicando memorie, carteggi e antologie della rivista. 1982 Muore il 14 luglio.
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Prezzolini e la letteratura tedesca Prezzolini e la lingua tedesca L’attività intellettuale di Prezzolini nasce insieme all’amicizia con Giovanni Papini, che conosce nel 1899, e che lo stimola a continuare la propria formazione da autodidatta. Dalle lettere alla fidanzata sappiamo che dal 1903 Prezzolini studia il tedesco da solo, con l’ausilio di grammatiche ed eserciziari1; perfeziona la conoscenza della lingua con alcuni soggiorni in Germania nel 1904 e nel 1906. Il «Leonardo» (1903-1907) Prezzolini collabora alla prima rivista fondata da Papini, il «Leonardo», che si propone di sovvertire il panorama della filosofia italiana importando le tendenze pragmatiste della cultura anglosassone. Nella rivista convivono una linea logico-matematica portata avanti da Mario Calderoni e Giovanni Vailati, e un pragmatismo “mistico” o “magico” promosso da Papini e Prezzolini. Con la parola “misticismo” i due intellettuali intendono una forma estrema ed esasperata del soggettivismo delle filosofie idealistiche romantiche. La Germania romantica è infatti da loro sentita come più contemporanea della Germania attuale, che incarna invece il positivismo oggettivista da cui la rivista prende ripetutamente le distanze; come scrive Prezzolini, il presente è un «tempo prettamente romantico. […] Siamo più romantici dei primi romantici stessi»2. La collana poetae philosophi et philosopi minores Prezzolini scrive sul «Leonardo» di autori mistici e romantici, e nel numero del febbraio 1906 pubblica una sua traduzione di alcuni frammenti di Novalis3 che segue quella di un testo di Meister Eckeahrt [sic] tradotto da Piero Marrucchi. Le traduzioni fanno parte – spiega la nota redazionale – di due «volumi di prossima apparizione»: in realtà quello curato da Prezzolini – un’antologia di frammenti di Novalis preceduta da un’ampia introduzione – era già stampato nel 1905, ma la distribuzione era stata ritardata. Il volume 1 Giuseppe Prezzolini, Diario per Dolores, a cura di G. Prezzolini e M.C. Chiesi, Rusconi, Milano 1993. 2 Giuliano il Sofista [pseudonimo di Prezzolini], I romantici, «Leonardo», giugno-agosto 1905, p. 197. 3 Novalis, L’idealismo magico, trad. it. di Giuseppe Prezzolini, «Leonardo», febbraio 1906, pp. 47-50.
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avrebbe dovuto inaugurare la collana poetae philosophi et philosophi minores, pubblicata dalla Libreria Editrice Lombarda di Tommaso Antongini; la collana, finanziata da Gallarati Scotti, era il frutto di contatti con i cattolici modernisti milanesi. Gallarati Scotti però trova indecente la traduzione di alcuni dei frammenti di Novalis, sottrae il suo sostegno finanziario al progetto, e il volume viene bloccato già stampato (→ cap. 3). Prezzolini continua la collana presso l’editore napoletano Perrella, con il quale era entrato in contatto grazie a Benedetto Croce. Il Novalis verrà riedito nel 1914, con minime varianti, nella collana cultura dell’anima diretta da Papini per l’editore → Rocco Carabba. Prezzolini e Novalis Nel giugno 1904 Prezzolini aveva recensito sul «Leonardo» il libro di Jean-Édouard Spenlé Novalis: Essai sur l’idéalisme romantique en Allemagne: «il più rappresentativo e il più personale dei filosofi romantici, che i Baedekers della filosofia gittano in un cantuccio, o dimenticano, o coprono con l’obbrobrioso cartellino di “mistico”, che dai filosofi seri ottiene a pena un ricordo cronologico, è stato più che nostro conoscente, un amico, un fratello, un collaboratore. Fece opera frammentaria, come noi, per suggerire pensieri»4. Prezzolini suggerisce un’identificazione personale nella biografia e nel carattere del poeta, anche se l’obiettivo primario dietro la sua traduzione è la creazione in Italia della figura del poeta-filosofo: «Il filosofo che insieme è un classico della letteratura ci manca affatto […]. Filosofia e arte di scrivere, idee e chiarezza, pensiero e bellezza hanno fatto fra noi divorzio»5. La traduzione di Novalis Nel Novalis del 1905 Prezzolini riprende l’organizzazione per argomenti adottata dalla traduzione francese di Maurice Maeterlinck (1895), adattandola ai propri interessi. Prezzolini aveva analizzato una struttura testuale simile recensendo il libro di Marie Joachimi Die Weltanschauung der Romantik, libro «composto di frammenti autentici dei romantici, uniti in vari mosaici regolari, disposti per classificazioni 4
«Leonardo», giugno 1904, p. 35. Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, La Coltura italiana, Lumachi, Firenze 1906, p. 133. 5
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numerate […]. Ma chi non vede come sotto questa apparenza obiettiva, scientifica si nasconda una volontà soggettiva di apologia romantica?»6. Analogamente Prezzolini compie la sua appropriazione dei testi di Novalis attraverso il lavoro di ordinamento e montaggio: «ho cercato di dare il mio Novalis, più che un Novalis ad uso e consumo di tutti: tanto più che allora non sarebbe stato Novalis. Ogni lettore – diceva questi – deve essere il vero autore; è lui che rifà il libro; l’autore non ne fornisce che l’occasione»7. Altre traduzioni di mistici tedeschi Prezzolini propone una teoria della traduzione appropriante nell’introduzione all’unico altro volume da lui tradotto dal tedesco, il Libretto della vita perfetta d’ignoto tedesco del secolo XIV, che esce nella collana poetae philosophi et philosophi minores nel 1908. Le due traduzioni – di Novalis e dell’Ignoto tedesco – sono riproposte nel volume Studi e capricci sui mistici tedeschi, uscito per i quaderni della «voce» nel 1912; alle traduzioni già edite si aggiungono quelle da Paracelso e da Giovanni Van Hooghens. Con quest’ultimo autore la traduzione-riscrittura si fa vera e propria creazione: l’autore originale infatti non esiste, come Prezzolini spiega in una lettera al filologo romanzo Karl Vossler («Non avendo molti libri qui a Perugia ho dovuto finire anche per inventare dei mistici che non esistevano, e il mio Giovanni van Hooghens meraviglierebbe molto il Preger e il Denifle»8). Il modello editoriale di Diederichs A ispirare poetae philosophi et philosophi minores era stata l’iniziativa simile di un editore tedesco, Eugen Diederichs, che aveva in catalogo una collana sulla mistica tedesca «con le gemme di maestro Eckehart [sic], di Giovanni Tauler, di Enrico Suso, di Giovanni Böhme, di Amos Comenius»9. Diederichs (1867-1930) aveva fondato la sua casa editrice a Firenze nel 1896, ma già l’anno successivo ne 6 Giuliano il Sofista, Studi sul romanticismo, «Leonardo», ottobre-dicembre 1905, p. 197. 7 Giuseppe Prezzolini, Introduzione, in Frammenti, a cura di G. Prezzolini, Libreria editrice lombarda, Milano 1905, p. 67. 8 Ottavio Besomi, Il carteggio Vossler-Prezzolini, «Archivio Storico Ticinese», 105-106, 1986, p. 47. 9 Giuliano il Sofista, Per un editore, «Leonardo», febbraio 1905, p. 40.
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aveva spostato la sede a Lipsia, e nel 1904 a Jena. Prezzolini ne conosce molto bene la produzione: buona parte delle edizioni di autori romantici o degli studi sul romanticismo che recensisce o cita sul «Leonardo» sono editi da Diederichs, «l’editore romantico della Germania»10. Prezzolini gli dedica anche l’articolo Per un editore, in cui individua nel suo operato un modello nuovo: un editore che non è soltanto un imprenditore ma un uomo di cultura, che si serve dell’editoria per influire sul panorama intellettuale della sua epoca. «In questo mondo della cassetta e del successo, in cui la grandezza è misurata dalla tiratura di un libro, in cui ogni editore è un piaggiatore delle perturbazioni sessuali e intellettuali del pubblico, ho scoperto, per quanto sembri impossibile, un editore che vuole formare lui il pubblico, invece di esserne formato»11. «La Voce» (1908-14) Un’intervista a Diederichs12 esce sul primo numero dell’impresa intellettuale che Prezzolini avvia un anno circa dopo la chiusura del «Leonardo»: la rivista «La Voce», che uscirà dal dicembre 1908 al dicembre 1916 (ma Prezzolini la dirige solo fino al 28 novembre 1914). Tra la chiusura del «Leonardo» e la nascita della nuova rivista Prezzolini si è “convertito” all’idealismo di Croce, che diventa il suo principale alleato nel lanciare il nuovo progetto. Prezzolini questa volta è direttore unico: Papini collabora ma non condivide del tutto la linea editoriale. «La Voce» è l’impresa intellettuale e culturale più importante della vita di Prezzolini. Durante i sei anni di pubblicazione la rivista riesce a diventare l’organo di confronto, discussione e raccolta di tutti gli intellettuali che sentono l’esigenza di sovvertire le gerarchie dei diversi campi della cultura italiana: dalla filosofia alla psichiatria, dalla politica all’università, dall’arte alla letteratura. Prezzolini editore La rivista è anche casa editrice: i quaderni della «voce», usciti dal 1910 per diversi tipi, sono editi dal 1912 dalla “Società anonima cooperativa Libreria della Voce”; accanto ai quaderni la rivista-editrice pubblica numerosi opu10
Id., I romantici, «Leonardo», giugno-agosto 1905, p. 137. Id., Per un editore, cit., p. 40. 12 La Germania si è addormentata? Intervista con l’editore E. Diederichs, «La Voce», 20-12-1908, p. 3. 11
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scoli e volumi fuori collana. Nel 1916 il tipografo Vallecchi entra nel consiglio di amministrazione della società, che alla fine della guerra si divide: Vallecchi eredita il cospicuo catalogo della Libreria della Voce, che gli consente di diventare, da tipografo, vero e proprio editore; Prezzolini sposta a Roma la sua casa editrice, il cui nome (Società anonima editrice La Voce) si pone in continuità con la rivista ormai cessata. La Società sopravvive fino al 1928, quando viene rilevata da Leo Longanesi, ma già dal 1925, partito Prezzolini per Parigi, la direzione passa a Curzio Malaparte. Hebbel nei quaderni della «voce» Le edizioni della «Voce» pubblicano i maggiori esponenti del rinnovamento della letteratura italiana negli anni Dieci (Papini, Soffici, Slataper, Jahier, Rebora, Boine, Govoni, Saba, Sbarbaro) ma anche traduzioni da Čechov, Dostoevskij, Claudel e, unico titolo di letteratura tedesca, Christian Friedrich Hebbel, di cui nel 1910 esce il dramma Giuditta tradotto da Scipio Slataper e Marcello Loewy. Il suggerimento di occuparsi di Hebbel era probabilmente giunto a Slataper da Prezzolini, che aveva elogiato il drammaturgo tedesco in una recensione apparsa sul «Leonardo» nel 190613, e che aveva voluto condividere la sua scoperta con Papini mandandogli in dono il 12 febbraio 1907 proprio la Giuditta14. Hebbel è un punto di snodo fondamentale tra l’epoca romantica e il presente: «è il presupposto critico e drammatico di Nietzsche, e il punto dove s’annoda il romanticismo, filtrato traverso Goethe, con lo spirito di oggi», sintetizza la nota redazionale che, sulla «Voce» del 12 ottobre 1910, accompagna il saggio di Slataper Friedrich Hebbel15. La professionalizzazione del traduttore Prezzolini promuove un’altra importante traduzione dal tedesco: quella delle Esperienze di Wilhelm Meister di Goethe (Laterza 1913 e 1915), esordio dei traduttori → Rosina Pisaneschi e → Alberto Spaini. 13 «Genio aspro, doloroso, pensieroso, che ha dell’Ibsen e del Kierkegaard»: Giuliano il Sofista, Il Problema Romantico, «Leonardo», aprile-giugno 1906, p. 179. 14 Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Carteggio, I, 1900-1907. Dagli «Uomini liberi» alla fine del «Leonardo», a cura di S. Gentili e G. Manghetti, Edizioni di Storia e Letteratura-Biblioteca Cantonale di Lugano/Archivio Prezzolini, Roma 2003, p. 670. 15 «La Voce», 13-10-1910, p. 411.
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Anche in questo caso Prezzolini dà spazio sulla «Voce» alle riflessioni critiche nate dal lavoro traduttivo: il 13 febbraio e il 13 marzo 1914 pubblica sulla rivista La modernità di Goethe (Saggio storico sul “Meister” goethiano) di Spaini, una rielaborazione dell’introduzione ai volumi Laterza. Mentre lavora alla traduzione di Goethe, Spaini è protagonista di una polemica su un’altra versione del romanzo: nel Bollettino Bibliografico allegato alla «Voce» del 30 gennaio 1913 stronca Gli anni di noviziato di Guglielmo Meister, ristampa di una presunta traduzione di Berchet. Spaini mette in dubbio la paternità della traduzione, che, oltretutto, non risulta condotta sull’originale ma su una pessima edizione francese che rimaneggia pesantemente il testo di Goethe. Il 27 marzo Lavinia Mazzucchetti interviene per suffragare le tesi di Spaini (→ cap. 5, ant. 8). In generale la «Voce» di Prezzolini promuove una prassi e un’etica traduttive nuove: le recensioni del Bollettino Bibliografico prestano grande attenzione alla qualità delle traduzioni dei libri stranieri, ed elogiano quelle non mediate dal francese. I tedeschi della «Voce» Nel 1914 Prezzolini rifiuta di pubblicare sulla «Voce» un saggio di Alberto Spaini su Thomas Mann (→ ant. 12): come già sul «Leonardo», infatti, anche sulla «Voce» la cultura tedesca contemporanea viene presentata sotto una luce estremamente negativa in quanto centro propulsore del positivismo. Recensendo il volume di corrispondenze La nuova Germania pubblicato da Borgese nel 1909, Prezzolini scrive che l’autore del libro «ha notato ed espresso agli italiani la decadenza della Germania classica fatta di poesia romantica e di filosofia idealista; ha veduto la forza e la debolezza del nuovo popolo americanizzato dalla vita comoda»16. Anche rispetto alla produzione artistica e letteraria della Germania contemporanea la «Voce» mostra diffidenza e in generale scarso interesse, fatta eccezione per gli articoli di Italo Tavolato (→ cap. 4). La Germania che interessa a Prezzolini è ancora quella del romanticismo, cioè «la nostra epoca classica: quell’epoca […] che ci ha dato tutte le idee sulle quali viviamo»17. 16
g. pr. [Giuseppe Prezzolini], La nuova Germania, «La Voce», 6-5-1909, p. 84. 17 g. pr. [Giuseppe Prezzolini], Romanticismo, «La Voce», 26-1-1911, p. 496.
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Questo interesse primario per la Germania romantica spiega l’attenzione riservata dalla rivista al lavoro di Arturo Farinelli, titolare della cattedra di Lingua e Letteratura tedesca dell’Università di Torino dal 1907, specialista proprio del periodo romantico. La rivista ne segue le vicende e i dissidi universitari, pubblicizza e pubblica estratti delle sue conferenze fiorentine, ne recensisce molto positivamente gli scritti e nel 1912 ne prende le parti – per opera soprattutto di Papini – in una disputa accademica contro Guido Manacorda (anche se il 28 marzo Parodi, Salvemini e Amendola dichiarano ingiustificate le affermazioni più pesanti di Papini contro quest’ultimo). Weininger e la questione sessuale Rispetto al «Leonardo», la battaglia anti-positivista della «Voce» ha un terreno di scontro in più: quello della “questione sessuale”, cui viene dedicato l’intero numero del 10 febbraio 1910 e un convegno organizzato a Firenze il 12-13 novembre dello stesso anno. Il numero del 10 febbraio 1910 pubblica uno scritto di Augusto Forel e la prima presentazione italiana al di fuori della letteratura specializzata delle teorie di Freud (nella bibliografia allegata Roberto Greco Assagioli cita anche opere di Abraham, Jung e Rank), ma l’attenzione maggiore è riservata a Sesso e carattere di Otto Weininger, che Prezzolini aveva già recensito sul «Leonardo» nell’agosto 190618. Si tratta della seconda recensione ad apparire in Italia: la prima, anonima, era stata pubblicata nel 1905 sull’«Archivio per l’antropologia e la etnologia» diretto da Paolo Mantegazza, un medico molto famoso per i suoi libri di argomento sessuale, che Papini sbeffeggia ferocemente nel numero della «Voce» del 10 febbraio 191019. La promozione del dibattito sulla questione sessuale portata avanti dalla «Voce» può essere quindi letta all’interno della battaglia antipositivista: argomenti di grande rilievo per la modernizzazione della società italiana come il controllo delle nascite, l’educazione sessuale, il sesso extra-matrimoniale, il ruolo sociale delle donne, il celibato dei preti, devono essere sottratti al predominio degli scienziati positivisti nel dibattito pubblico. 18 Giuliano il Sofista, Un nemico della femmina, «Leonardo», ottobre-dicembre 1906, pp. 357-361. 19 Giovanni Papini, Mantegazza il sessualista, «La Voce», 10-2-1910, p. 264.
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L’abbandono dell’Italia: da Parigi a New York Durante la prima guerra mondiale il baricentro dell’attività pubblica di Prezzolini si sposta verso il giornalismo e l’attualità politica. Successivamente, la sua attività di operatore culturale rimane importante anche se muta fisionomia: durante il suo periodo di lavoro per la Foreign Press Agency e poi a Parigi Prezzolini comincia a operare come agente letterario per la difesa dei diritti degli autori italiani sul mercato internazionale. Non avrà più però un ruolo nel transfer italo-tedesco: con la sua partenza per gli Stati Uniti la sua attività di mediatore culturale si sposta sul terreno degli scambi italo-americani.
Anna Baldini
Alberto Spaini Trieste 1892 - Roma 1975
Cronologia 1892 Nasce a Trieste il 6 luglio da Federico, impiegato di banca, e Luigia Antoniani, veneziana. Trascorre l’infanzia a Trieste, dove frequenta il ginnasio Dante Alighieri. 1910 Si trasferisce a Firenze per iscriversi al corso di Lettere dell’Istituto di Studi Superiori. Insieme agli amici Giani e Carlo Stuparich, Scipio Slataper, Italo Tavolato e Guido Devescovi, frequenta il circolo intellettuale della rivista «La Voce» di → Giuseppe Prezzolini. Qui conosce anche → Rosina Pisaneschi, senese, come lui studentessa di lettere. 1911 Si trasferisce a Roma, dove frequenta i corsi universitari di letteratura tedesca tenuti da Giuseppe Antonio Borgese. Tra i compagni di corso conosce Bonaventura Tecchi. Compie un viaggio di studio ad Avignone, conosce Frédéric Mistral e si propone di tradurne alcune opere. Inizia il suo carteggio con Prezzolini. 1912 Insieme a Rosina Pisaneschi è a Berlino, dove, grazie alla mediazione di Italo Tavolato, partecipa alle serate culturali della rivista espressionista «Der Sturm». È allievo di Norbert von Hellingrath, che sta curando la prima edizione critica delle opere di Friedrich Hölderlin. 1913 Pubblica con Laterza la traduzione di Le esperienze di Wilhelm Meister di Goethe, realizzata in collaborazione con Pisaneschi. Da Berlino, come corrispondente estero, inizia a scrivere per «Il Resto del Carlino» di Mario Missiroli. 1914 Il 17 dicembre si laurea in letteratura tedesca con una tesi dal titolo Federico Hölderlin. Storia dell’uomo e dell’artista. Il relatore è Borgese.
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1915 Sposa Rosina Pisaneschi. 1916-1919 Partecipa alla prima guerra mondiale nel corpo
dei Bersaglieri di Belluno. In seguito a un incidente lascia il fronte e si trasferisce in Svizzera, dove vive tra Berna e Zurigo, continuando a collaborare con «Il Resto del Carlino». Nel 1918 nasce la prima figlia, Giuliana. 1920-1929 Continua a scrivere per diversi quotidiani italiani, soprattutto come corrispondente estero. All’inizio degli anni Venti è a Kattowitz in Polonia, nel 1925 è a Parigi. Nello stesso anno nasce il secondo figlio, Paolo. Frequenti viaggi in Austria e in Germania. Collabora a «La Ronda», «La Fiera letteraria», «La Nuova Antologia» e a «900». Stringe amicizia con Antonio Baldini, Massimo Bontempelli, Vincenzo Cardarelli, Emilio Cecchi e Silvio D’Amico. A Roma collabora con il «Teatro degli Indipendenti» di Anton Giulio Bragaglia, per il quale compone testi teatrali e traduce i drammaturghi tedeschi d’avanguardia: Wedekind (La morte e il diavolo, messo in scena nel marzo del 1923, e Il castello di Wetterstein, maggio 1925), Büchner (Lena e Leonce, febbraio 1928) e Brecht (Die Dreigroschenoper, tradotta insieme a Corrado Alvaro con il titolo La veglia dei lestofanti nel 1930). 1930-1932 Intensifica la sua attività di scrittore dando alle stampe I viaggi di Bertoldo, La moglie del vescovo e Malintesi. Del 1931 è la sua traduzione del romanzo Berlin Alexanderplatz di Alfed Döblin. 1933 Scrive Il teatro tedesco, saggio sulla storia del teatro tedesco moderno. Dello stesso anno è la traduzione per Frassinelli, nella collana biblioteca europea diretta da Franco Antonicelli, del Processo, prima versione italiana del romanzo di Kafka. 1938 Giulio Einaudi gli affida la nuova traduzione di I dolori del giovane Werther di Goethe. 1940-43 Trascorre a Roma gli anni della seconda guerra mondiale. Traduce le Betrachtungen eines Unpolitischen (con il titolo Considerazioni di un apolitico) di Thomas Mann, lavoro che resta inedito. 1944-1957 È condirettore del quotidiano «Il Giornale» di Napoli, diretto da Carlo Zaghi. Tra il 1944 e il 1946 la casa editrice milanese Rosa e Ballo ripubblica le sue traduzioni teatrali
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realizzate per Bragaglia; ed Einaudi, nel 1945, la traduzione di America di Kafka ultimata prima della guerra. Agli inizi degli anni Cinquanta entra al Giornale Radio del III Programma Rai, curando rubriche di politica estera. 1960-63 Il 2 marzo 1960 muore Rosina Pisaneschi. In seguito Spaini si unisce in seconde nozze con Laura Farini Moschini, che muore nel 1963. In questo stesso anno esce Autoritratto triestino. 1964-1975 Vive a Roma con la figlia Giuliana e i nipoti Paolo e Albertina. Continua la collaborazione a numerosi quotidiani. Nel 1969 esce La moglie di Noè, raccolta di racconti di animali. Muore il 3 gennaio 1975.
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Spaini e la letteratura tedesca Gli anni della formazione Alberto Spaini impara il tedesco da studente nella sua città natale, Trieste, che negli anni della sua infanzia è ancora parte dell’impero austroungarico. Come molti giovani della sua generazione, dopo aver frequentato il ginnasio italiano si trasferisce a Firenze, per iscriversi al corso di Lettere dell’Istituto di Studi Superiori. È il 1910: tra i suoi compagni di università ci sono Scipio Slataper, Italo Tavolato, Giani Stuparich che verrà raggiunto poco dopo dal fratello Carlo; è inoltre l’anno in cui si uccide Carlo Michelstaedter, di poco più grande di loro, che nella stessa università avrebbe dovuto discutere la sua attesa tesi di laurea. Nati e cresciuti fra Trieste e Gorizia, accomunati dall’amore per la cultura italiana come fattore di rinnovamento per le loro terre di origine, questi giovani “tedescheggianti” si trovano a costituire un gruppo del tutto particolare nella Firenze dell’epoca: «Noi triestini portavamo a Firenze l’abitudine dell’alpinismo, del ciclismo, del remo, del pattinaggio, che ci faceva parere un po’ buffi (un po’ tedescheggianti) ma ci dava anche un’aria di allegria e di salute»1. Firenze e «La Voce» Più del corso di laurea, tuttavia, per Spaini e per i suoi coetanei è la collaborazione alla «Voce» di Giuseppe Prezzolini la vera scuola. Intorno alla redazione della rivista, in via dei Robbia 42, gravitano infatti gli intellettuali più vivaci del tempo (da → Papini a Saba, da Salvemini allo studioso di Nietzsche Daniel Halévy...): sulle sue pagine compaiono i primi articoli di Spaini, dedicati non soltanto alla letteratura ma anche ai problemi sociali e politici delle “terre irredente” (il primo, sul numero del 6 ottobre 1910, si intitola A proposito della banca popolare triestina). Nel circolo della «Voce» Spaini incontra inoltre → Rosina Pisaneschi, che sarà da questo momento in poi un’inseparabile compagna di vita e di lavoro. Tra Roma e Berlino Insieme a Pisaneschi, nel 1911 Spaini si sposta a Roma, si iscrive alla Facoltà di Lettere e segue i corsi di letteratura tedesca di Giuseppe Antonio Borgese, ai quali conosce
1 Alberto Spaini, Autoritratto triestino [1963], a cura di C. Galinetto, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, p. 145. Per ulteriore bibliografia su Spaini e sui «triestini della “Voce”» rimando alla nota 16 del cap. 5.
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Bonaventura Tecchi. Sempre in compagnia della fidanzata è tra il settembre 1912 e il maggio 1913 a Berlino, città «catastrofica» e «impenetrabile» – così la definisce in una lettera a Prezzolini2 – che tuttavia si rivelerà decisiva per la sua carriera professionale non meno che per i suoi studi. Qui conosce il filologo Norbert von Hellingrath, che sta curando la prima edizione critica delle opere di Friedrich Hölderlin e che lo autorizzerà a includere alcune liriche inedite nella tesi di laurea che sta intanto preparando. Ma soprattutto si interessa alla vita culturale della città: grazie alla mediazione di Tavolato entra in contatto con la redazione della rivista espressionista «Der Sturm» di Herwarth Walden, attraverso la quale segue in prima persona le novità della scena letteraria tedesca. Nelle sue lettere a Prezzolini, con cui ha iniziato nel frattempo una fitta corrispondenza, parla di Else Lasker-Schüler, di Mann, di Kafka (a Berlino ha incontrato Felice Bauer), di Werfel, di Hofmannsthal, di Rilke; a teatro ha occasione di vedere Leonce und Lena e il Woyzeck di Büchner3. Il lavoro giornalistico Grazie alla mediazione di Prezzolini ottiene inoltre un incarico come corrispondente estero a «Il Resto del Carlino» di Mario Missiroli, primo passo di un’intensa attività giornalistica che lo porterà a scrivere, tra il 1913 e il 1974, circa un migliaio di articoli – in prevalenza relativi alla cultura tedesca – per riviste («Occidente», «La Ronda», «La Fiera letteraria», «La Nuova Antologia», «900») e quotidiani («Il Messaggero», «Il Piccolo», «Il secolo XIX», «La Stampa», «Il Giornale di Sicilia»), firmati talvolta con pseudonimi come Marco Lotto, Filangeri, Anonimo4. L’esordio con Wilhelm Meister Il 1913 è però soprattutto l’anno in cui Spaini esordisce come traduttore dal tedesco: Laterza pubblica infatti la sua versione dei Wilhelm Meisters Lehrjahre di Goethe, realizzata con Rosina Pisaneschi per la collana scrittori stranieri di Guido Manacorda. «Prezzolini mi combinò con Laterza la traduzione», ricorda Spaini nell’Autoritratto «Non era un lavoro da poco: le due parti passavano sensibilmente le mille pagine (ma 2 Spaini a Prezzolini, da Berlino, 29-9-1912, inedito, Archivio Prezzolini, Biblioteca Cantonale di Lugano, ASGP 11. 3 Cfr. Spaini, Autoritratto, cit., p. 171. 4 Cfr. Carla Galinetto, Nota al testo, note biografiche e bibliografiche, in Spaini, Autoritratto, cit., pp. 315-325: p. 323.
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venne la guerra e la traduzione si fermò alla prima parte). E che pagine! Da far tremare uno meno giovane e meno inesperto. Ma i miei diciannove e venti anni trascorsero in un’aura di grande serenità, direi di severità, senza che me ne rendessi affatto conto»5. Spaini traduttore professionista La traduzione del Wilhelm Meister, che Spaini fa accompagnare da un lungo articolo sulla «Voce» intitolato La modernità di Goethe6, segna un punto di svolta non soltanto nella carriera di Spaini, ma anche nella storia della letteratura tedesca in Italia. L’uscita del romanzo offre infatti l’occasione per innescare una polemica sul ruolo delle traduzioni (→ ant. 8), nella quale Spaini si trova affiancato da Lavinia Mazzucchetti, brillante studentessa milanese autrice di uno studio su Schiller in Italia. Bersaglio dei due giovani germanisti è una pratica di traduzione considerata ormai obsoleta, e avversata nella persona di Domenico Ciàmpoli, colpevole di aver ripubblicato una traduzione del Meister basata su un’intermedia versione francese piena di tagli e manipolazioni, e di averla erroneamente attribuita a Giovanni Berchet7. Da questo momento in poi, almeno nel campo della letteratura tedesca, tradurre da un testo intermedio e non dall’originale non sarà più considerata una pratica accettabile. La tesi di laurea e il rapporto con Borgese Nel frattempo Spaini porta a termine il suo percorso di studi, discutendo nel 1914, con Borgese come relatore, una tesi di laurea intitolata Federico Hölderlin. Storia dell’uomo e dell’artista, che offre una lettura pionieristica del poeta svevo grazie anche ai materiali forniti da von Hellingrath, ancora inediti persino in Germania. A differenza di quanto era accaduto a Firenze con Prezzolini, tuttavia, il rapporto con Borgese non sembra trasformarsi in un’amicizia più salda: il progetto di una traduzione di Herder da realizzare per Carabba sfuma in un nulla di fatto, e a distanza di anni Spaini ricorderà il suo maestro come qualcuno che, per quanto capace, al di fuori della cattedra aveva a malapena contatti con i suoi
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studenti8. Spaini non mostra comunque particolare interesse nei confronti della carriera accademica, e dal 1915 in poi – anche per le mutate condizioni storiche e personali, con lo scoppio della guerra e la nascita della prima figlia – si concentrerà piuttosto sul giornalismo e sulla traduzione. Classici e contemporanei: Mann, Döblin, Kafka Le sue traduzioni, spesso realizzate insieme alla moglie, comprendono un gran numero di classici, tra cui Goethe (di cui traduce ancora I dolori del giovane Werther, Il viaggio in Italia e le Lettere alla signora von Stein), Hoffmann (La principessa Brambilla) e Tieck (Il cavaliere Barbablu). Le atmosfere fantastiche e fiabesche di questi ultimi due autori si ritrovano anche nei racconti e nei romanzi che Spaini scrive fin dagli anni Venti: I viaggi di Bertoldo, La moglie del vescovo e Malintesi. Ma è nelle traduzioni dei contemporanei che la sua sensibilità di innovatore dà i frutti migliori: in Italia è uno dei primi ad apprezzare Thomas Mann9, di cui tradurrà, oltre ai racconti di Ora greve (1926), le Betrachtungen eines Unpolitischen (con il titolo Considerazioni di un apolitico), monumentale lavoro destinato però a rimanere inedito. Spaini è inoltre il primo traduttore italiano a cimentarsi con i romanzi di Alfred Döblin (la sua versione di Berlin Alexanderplatz, realizzata nel 1931 per la casa editrice Modernissima, è a tutt’oggi l’unica in Italia) e di Kafka, di cui traduce Il processo (Frassinelli 1933) e America (Einaudi 1945). Le difficoltà che incontra nel tradurre i contemporanei danno spesso origine a riflessioni teoriche, che troviamo espresse nelle prefazioni ai romanzi (particolarmente interessante quella a Berlin Alexanderplatz, in cui si sofferma sul ruolo del dialetto berlinese e sul modo di tradurlo) o in scritti saggistici come quello intitolato Traduzioni e traduttori10. Spaini e il teatro La disposizione avanguardistica di Spaini si esprime anche nel teatro, verso cui nutre un duplice interesse, da 8
Spaini, Autoritratto, cit., p. 154. Cfr. le cartoline e le lettere inviate a Prezzolini da Berlino nell’autunno del 1913, in cui propone di scrivere qualcosa su Mann per «La Voce» → ant. 11; e l’articolo Thomas Mann, che esce su «La Nuova Antologia» del 1-1-1915. 10 Il testo, ritrovato fra le carte del Fondo Spaini (Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma), è adesso disponibile in formato digitale sul sito della rivista «tradurre. pratiche teorie strumenti» (3, 2013) all’indirizzo http://rivistatradurre.it/2013/05/ traduzioni-e-traduttori/ [consultato il 29-9-2017]. 9
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Spaini, Autoritratto, cit., p. 156. Alberto Spaini, La modernità di Goethe (saggio storico sul “Meister” goethiano), «La Voce»,13-2-1914, pp. 9-33 e 13-3-1914, pp. 2-39. 7 Cfr. Alberto Spaini, Goethe e Berchet. Recensione a G. Volfango Goethe, Gli anni di noviziato di Guglielmo Meister, Carabba, Lanciano, «La Voce», 30-1-1913, p. 1004; e Lavinia Mazzucchetti, Goethe e Berchet, «La Voce», 27-3-1913, p. 1046. 6
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studioso e da autore. Fin dagli anni Venti collabora con il Teatro Sperimentale degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia, dove ha modo di mettere a frutto l’esperienza berlinese: oltre a comporre opere teatrali in prima persona, infatti, Spaini importa in Italia i nomi più interessanti della scena teatrale tedesca. Nel marzo del 1923 va in scena, nella sua traduzione, La morte e il diavolo di Wedekind, a cui fa seguito Il castello di Wetterstein nel maggio 1925. Traduce inoltre Büchner (Lena e Leonce viene rappresentato nel febbraio 1928) e Brecht: Die Dreigroschenoper, tradotta insieme a Corrado Alvaro con il titolo La veglia dei lestofanti, fu uno dei maggiori successi del Teatro degli Indipendenti. Dall’esperienza sul campo nasce il saggio Il teatro tedesco, che Spaini pubblica nel 1933 nella collezione critica di «Scenario», la rivista diretta da Silvio D’Amico: partendo dal 1889, anno in cui va in scena il dramma di Hauptmann Vor Sonnenaufgang, il saggio attraversa gli anni del teatro naturalista, simbolista ed espressionista, per concludersi nel 1933, quando Hitler, al potere da una settimana, nomina direttore dei Teatri di Stato di Berlino Hanns Johst, che sostituisce il socialista Leopold Jessner11. Negli anni Quaranta il nome di Spaini compare inoltre fra i traduttori della casa editrice milanese Rosa e Ballo, intorno alla quale ruotano i principali esponenti del teatro d’avanguardia: nel 1944 ripubblica con loro La morte di Danton e il Lenz di Büchner, autore al quale si era già dedicato insieme a Rosina Pisaneschi alla fine degli anni Venti. Ed è una traduzione teatrale anche l’ultima pubblicata da Spaini in volume: Il teatro politico di Erwin Piscator, che esce per Einaudi nel 1960. «Spirito agile, sensibilità squillantissima, cultura elegante», lo aveva definito Bragaglia «Spaini è quel che in arte è caro agli amici intelligenti: un amatore di gusto; ma anche un cultore, di gusto. E sarebbe persino moderno se non avesse scritto che il cinematografo è un’idea idiota»12. Daria Biagi
11
Alberto Spaini, Il teatro tedesco, Treves, Milano 1933. A.G.B. [Anton Giulio Bragaglia], Piccola guida di A. Spaini, «La Fiera Letteraria», 12-12-1926. 12
Antologia
1.
Prezzolini: Modernità di Novalis (1905) Da Novalis, a cura di G. Prezzolini, con ornamenti di Ch. Doudelet, Libreria Editrice Lombarda, Milano 1905.
Il Novalis curato da Prezzolini per la collana poetae philosophi et philosophi minores costituisce l’archetipo di alcune modalità di appropriazione e pratiche di traduzione che avranno largo seguito nell’avanguardia fiorentina, entro la quale il libretto ha ampia circolazione. Papini lo ristamperà nel 1914 in cultura dell’anima col titolo Novalis: frammenti. Riportiamo qui alcuni passi dell’introduzione e del testo tradotto relativi all’interpretazione della «modernità» di Novalis, all’essenza della traduzione, alla legittimazione del frammento, al rapporto tra mistica e “pornografia”, e al Wilhelm Meister di Goethe.
1.a Un mistico moderno Dalla Introduzione di Giuseppe Prezzolini a Novalis, pp. 7-67. I passaggi seguenti sono tratti dall’ampio studio critico che Prezzolini pubblica in apertura del volume, articolato in quattro sezioni: I) La vita, II) Il carattere, III) Dottrina, IV) La traduzione. Abbiamo selezionato i brani più significativi riguardanti gli elementi di identificazione fra Prezzolini e Novalis, la modernità che il traduttore riconosce al poeta tedesco in quanto idealista «magico» e pragmatista ante litteram, l’utilizzo del frammento come forma aperta che consente al traduttore di liberare la sua creatività, e, infine, l’adozione di un atteggiamento libero e personale nella traduzione dei testi, che dimostrerebbe l’avvenuto «impossessamento» dello spirito del poeta (→ capp. 2 e 3).
Potrebbe accadere a più di un lettore di questa traduzione, quello che Novalis intendeva favoleggiare di un suo personaggio nei Lehrlinge zu Sais; Einem gelang es, – er hob den Schleier der Göttin zu Sais; Aber, was sah er? er sah, – Wunder des Wunders – sich selbst. (Accadde ad uno – d’alzare il velo della dea di Sais; Ma, cosa vide? egli vide – miracol dei miracoli – se stesso). Potrebbe darsi che questa traduzione fosse dunque uno specchio; o meglio una rivelatrice di visioni e di concepimenti prima
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antologia
oscuri, o, per esser socratici, una specie di levatrice di ignoti germi occultamente fecondati. Novalis infatti, non ci è lontano che nella cronologia; ma chi più crede alle distanze del calendario? L’anima sa vincere il tempo, meglio assai che non il corpo, con i suoi trabiccoli meccanici sappia vincere lo spazio; la immaginazione è più veloce dei treni americani, e l’amore penetra meglio e trapassa gli ostacoli, che non le perforatrici più perfezionate. […] Si può dunque affermare che Novalis, poiché di molti contemporanei nostri ebbe il tono e le inclinazioni, è, a dispetto dello stato civile e dei biografi più accreditati, un uomo dei nostri tempi; per alcuni un parente, per molti un amico o almeno un compagno di via. La sua presenza per quanto invisibile, non è meno reale accanto – e dentro noi. Qua e là, in molte anime, si sente passare il suo fantasma; e nei toni del secolo si trova un po’ delle sue sfumature; e nei grandi cori è ancora viva l’eco della sua voce bianca. L’aria della ventesima centuria di anni dopo Cristo, sa di Novalis. Non già che egli sia, o stia per diventar «popolare»; non è, come Schiller, poeta da operai o da professori, troppo aereo e intellettuale per i primi, troppo singolare e goliardo per i secondi. È un poeta e un filosofo esoterico, da piccoli gruppi e da conventicole, che richiede una iniziazione segreta per esser amato, e il possesso di un cifrario per esser capito. Egli appartiene alla piccola Eleusi degli eletti di un Dio largitore di impopolarità. Se i librai hanno suoi volumi in vetrina, e i traduttori cercano di ridurlo nei vari idiomi, pure egli resta sempre inviolato; come l’arco di molte leggende orientali non può appartenere a chi sa fletterne la muscolosa curva e la vibrante corda, così Novalis ha lasciato la sua parola, ben trincerata e coperta dalla espressione difficile, frammentaria, velata, fatta di accenni, di sottintesi, di parentesi, di sottolineature, soltanto a chi saprà soggiogarla e possederla con l’amore o con la violenza. Il suo messaggio ai posteri è singolarmente incapace di spargersi per le terre, a imbevere le anime, a monetizzarsi per l’uso. Poche vestali ne mantengono il fuoco; ed è difficile che il pellegrino ospitato al suo tempio riesca a involare più d’una sola scintilla. La sua modernità – poiché ne ho parlato, conviene intendersi – non è la modernità delle cose più correnti nei borsellini del pubblico; e se volete spender la moneta che Novalis conia, troverete forse più d’uno che ve la rifiuterà.
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La sua modernità non è quella della invenzione scientifica, dell’estetismo guerriero, della immoralità furibonda. Quale è dunque la modernità di Novalis, poiché non c’è da farne né un positivista, né un nietzscheano? Il nostro tempo è inconsciamente gravido d’una terribile volontà, che con mezzi perfetti e imperfetti, per le potenze del corpo o dell’anima, con la scienza o con la religione, o con forme più basse e talora persino ridicole, come lo spiritismo, cerca di trasformare l’uomo in Dio. Novalis è moderno, perché è il profeta dell’Uomo-Dio. Egli ha intravisto – e solo un piccolo numero di spiriti oggi conosce ciò – che l’uomo s’avvia lentamente verso la tranquilla serenità concessa dall’onnipotenza; che la scienza non è che il primo e meno perfetto passo verso la dominazione del mondo; che l’esame, la trasformazione e la creazione delle forze spirituali sono per darci l’immediato possesso di noi, del passato e del futuro. […] Ciò ha veduto Novalis; ce lo dicono le sue profezie e ce lo spiega il suo idealismo magico. Perciò è stato moderno; il suo pensiero era rivolto al futuro, al lontanissimo avvenire; e la sua anima provava sempre la nostalgia di ciò che ancora non era stato, e come un viaggiatore insaziabile si affrettava a lasciare dietro di sé le traccie del suo cammino esprimendo questo modernissimo sentimento con il suo programma di sorpassamento. […] le opere incomplete hanno uno charme particolare che non hanno le opere finite, e poiché ci lasciano liberi di renderle più complete a nostro arbitrio, accarezzano anche le nostre facoltà creative, e ci piacciono perciò più delle altre dove non si può togliere od aggiungere nulla; ne deriva che esse son fatte per un pubblico speciale, per quello cioè che è abbastanza ricco da metter del proprio dove manca, ed abbastanza orgoglioso per compiacersi della propria creazione: ossia sono fatte per un pubblico scelto e piuttosto individualista. […] Dall’io come creatore, sono tratte tutte le idee estetiche. Il poeta non deve trarre che da se stesso le sue creazioni; il pittore e lo scultore, come il musico, non imitano la natura, ma solo si guidano secondo i fantasmi della loro mente. La stessa antichità non è che una creazione continua che noi moderni rifacciamo giorno per giorno con i nostri occhi. Il lettore è il vero autore
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del libro. Il traduttore vero è il mitologo che trasforma in poesia lontana, ma più reale, la poesia di un altro. […] Sui suoi frammenti e sul valore che loro attribuiva, sul modo di tradurre, ho raccolto subito in principio alcuni suoi interessanti giudizi, tanto per ritenermi autorizzato e giustificato dallo stesso autore contro quei pedantucoli amanti di piccinerie che trovassero qualche frase non esattamente voltata in italiano o qualche parola non canonizzata dalla Congregazione dei Puristi. Per Novalis le traduzioni erano secondo lo spirito non secondo la lettera; e reputava i traduttori grammaticali come i peggiori, i mitologi come i migliori. […] La mia traduzione è talora molto libera, talora molto letterale; ho cercato di dare il mio Novalis, più che un Novalis ad uso e consumo di tutti: tanto più che allora non sarebbe stato Novalis. Ogni lettore – diceva questi – deve essere il vero autore; è lui che rifà il libro; l’autore non ne fornisce che l’occasione. 1.b Sulla traduzione e il frammento
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la moderna Madonna è un mito di quel genere. Le traduzioni grammaticali sono traduzioni nel senso più comune. Richiedono molta erudizione – ma qualità puramente discorsive. Per le traduzioni metamorfiche occorre perché siano pure, un altissimo spirito poetico. Esse sfiorano leggermente il travestimento – come l’Omero in giambi del Bürger, l’Omero tradotto dal Pope, e le traduzioni francesi tutte quante insieme. Il vero traduttore di questo genere deve essere egli stesso un artista, e poter rendere l’idea del tutto così o così a suo piacimento. Egli deve essere il poeta del poeta, e potere far leggere secondo la sua e secondo l’idea propria al poeta. In un rapporto simile a questo sta il genio della umanità con ogni singolo uomo. Non solo i libri, ma tutto può esser tradotto in queste tre maniere. Io mostro d’avere compreso uno scrittore soltanto allora quando io posso operare secondo il suo spirito e senza rimpicciolirne l’individualità posso tradurlo e cangiarlo in vario modo.
Da Novalis, pp. 81-86. Dopo una porzione di testo tratta dal romanzo incompiuto I discepoli di Sais, Prezzolini apre la sezione dedicata ai frammenti di Novalis veri e propri con una raccolta di riflessioni programmaticamente intitolata Intorno ai frammenti. La selezione, che ha valore legittimante rispetto a una forma testuale già utilizzata negli scritti prezzoliniani precedenti la traduzione del Novalis, costituisce anche l’occasione per riflettere sulle qualità di una buona traduzione e prendere posizione per una resa molto libera dei materiali originali, fondata su una nuova narrazione degli stessi (→ cap. 3).
[…] Una traduzione è, o grammaticale, o metamorfica, o mitica. Le mitiche sono traduzioni nel migliore stile. Esse riescono a mostrare il puro e completo carattere dell’opera individuale. Non ci dànno proprio la reale opera d’arte, ma piuttosto ce ne danno l’ideale. Per quanto sappia non ne esiste ancora alcun completo esemplare. Però se ne scoprono chiare tracce nello spirito di parecchie critiche e descrizioni. A produrle occorre una testa dove si siano completamente penetrati lo spirito poetico e lo spirito filosofico. La mitologia greca rappresenta in parte una traduzione di quel genere, della religione nazionale. Anche
Quello che in questi fogli è sottolineato aveva bisogno riguardo all’espressione di ancora parecchi miglioramenti. Parte è falsissimo, parte insignificante, parte storto. Quel che si trova fra parentesi è verità molto problematica – tanto da non potersi usare. Di ciò che resta, poco è maturo per la stampa – ad esempio, sotto forma di frammenti. La maggior parte d’essi non è al punto. Molto – moltissimo, appartiene a una grande e importantissima idea. Io non credo che sotto le frasi non sottolineate ci sia qualcosa di insignificante. Quanto al sottolineato ne farei una raccolta di frammenti da perfezionare. Il resto dovrebbe aspettare un più esteso lavoro. Con il procedere molte cose diverranno superflue, parecchie appariranno sotto nuova luce, sicché io non modificherei volentieri nessun particolare prima del compimento della grande idea che deve cangiare il tutto. Pure l’imperfezione è ancor sopportabilissima nella forma di frammenti – e così si deve raccomandare questa forma di comunicazione a colui che non è ancora in tutto ben maturo, e pure ha alcune vedute degne d’attenzione da donare. […]
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1.c Mistica e “pornografia” Da Novalis, pp. 168-170. La collana poetae philosophi et philosophi minores fallisce dopo la pubblicazione del Novalis a causa delle polemiche sollevate dalla seguente sezione di frammenti intitolata La voluttà come misticismo. Essa costituisce un esempio del lavoro «mitico» di traduzione svolto da Prezzolini sui testi originali. La nuova narrazione dei materiali, infatti, non solo prevede delle aggiunte sostanziali (si veda il terzo frammento sul piacere dello stupro), ma si fonda anche sulla composizione di testi attraverso il taglio e il montaggio di materiali che vengono inseriti in nuovi contesti, fino a costituire nuclei di riflessione del tutto assenti nell’opera di Novalis (→ cap. 3).
Il ditirambo è rappresentato fra le azioni sensibili dell’atto di abbracciarsi. Perciò questo atto va giudicato secondo le sue leggi naturali. Intorno al desiderio sessuale, alla ricerca del contatto carnale, al piacere della nudità umana. Non potrebbero essere un appetito dissimulato? Quanto più vivacemente resiste quello che si deve divorare, tanto più vivace sarà la fiamma del piacere… Lo stupro è il più forte piacere. La donna è il nostro ossigeno. Come la donna è il supremo nutrimento visibile che forma il punto di passaggio dal corpo all’anima, così i membri sessuali sono i supremi organi esterni, che forman il punto di transizione dagli organi visibili agli invisibili. Lo sguardo, il discorso, il contatto, la stretta di mano, il bacio, il contatto dei seni, …, l’atto d’abbracciarsi, questi sono i gradini della scala giù pei quali discende l’anima, ma opposta a questa v’è un’altra scala su per la qual sale il corpo, fino all’atto di abbracciare. Dovunque una forza od azione (quod idem est) si rende transitoriamente visibile, la quale, assolutamente diffusa, sembra non manifestarsi e non operare che sotto certe condizioni (o contratti). Questa forza mistica, sembra essere la forza del piacere e
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del dolore, le cui impressioni eccitanti noi crediamo di provare principalmente nelle sensazioni voluttuose. Teoria della voluttà: l’amore è ciò che ci riunisce insieme. In tutte le funzioni sopra ricordate (ballo, nutrizione, parlare, lavoro e vita in comune, ecc.) c’è in fondo la voluttà. La funzione più propriamente voluttuosa, la simpatia, è sopra tutte le altre mistica; è quasi la funzione assoluta, quella che conduce alla riunione totale, alla miscela chimica. 1.d Sul Wilhelm Meister di Goethe Da Novalis, pp. 89-101. Nella sezione intitolata Giudizi, il volume curato da Prezzolini introduce in Italia anche la narrazione del conflitto fra Novalis e Goethe a proposito del Wilhelm Meister, un conflitto su due strade diverse per affrontare la modernità, intorno al quale all’inizio del Novecento si trovano a prendere posizione diversi letterati legati all’avanguardia fiorentina, da Borgese a Slataper a Alberto Spaini e Rosina Pisaneschi. (→ cap. 5).
Gli anni di noviziato di Guglielmo Meister sono completamente prosaici e moderni. La poesia della natura, il meraviglioso, il romantico, rovina fin dalle fondamenta. Il romanzo non si occupa che di cose umane comuni, e dimentica completamente la natura e il misticismo. È una storia borghese e familiare poetizzata. Il meraviglioso vi è giudicato apposta come una poesia chimerica. Lo spirito del libro è l’ateismo estetico. In compenso vi è grande economia; con una materia prosaica e vile vi è raggiunto un effetto poetico.
prezzolini e papini: il campo editoriale (1906)
2.
Prezzolini e Papini: Il campo editoriale (1906) Da Giuseppe Prezzolini, Giovanni Papini, La Coltura italiana, Lumachi, Firenze 1906, pp. 39-45.
Nel volume La Coltura italiana, che in gran parte raccoglie articoli già usciti sul «Leonardo», Prezzolini e Papini passano in rassegna le istituzioni e le pratiche culturali dominanti nell’Italia di inizio secolo. Il capitolo dedicato all’editoria è organizzato sull’opposizione tra editori commerciali «al servizio del pubblico, agli ordini del denaro» e editori «umanisti», che invece di conformarsi ai gusti del pubblico li vogliono formare, come il tedesco Eugen Diederichs. In Italia questo tipo di editore non esisterebbe ancora, ma gli autori fotografano il primo nucleo, ancora in formazione, di un campo di produzione ristretta (→ cap. 2) contrapponendo a Bocca, Treves, Sonzogno e Hoepli le nuove collane biblioteca del «leonardo», poetae philosophi et philosophi minores e classici della filosofia moderna fondate da loro stessi e da Croce.
Gli editori hanno avuto una parte importante nella storia della nostra coltura; dai Manuzi a Viesseux col loro nome potrebbero impersonare più d’un’epoca, con egual diritto di quei papi e di quegli uomini cui si è voluto dare la presidenza onoraria di qualche secolo. Nei nostri tempi la loro importanza non è diminuita per quanto si sia moltiplicata la concorrenza, e si siano diffusi e resi economici i mezzi per sottrarsi al loro non disinteressato patrocinio. L’editore è l’intermediario, diciamo la parola, è il mezzano fra il pubblico e l’autore; al primo fornisce pascolo per l’intelligenza, per i sentimenti e magari per i sensi, all’altro dà gloria e denaro, e più volentieri quella di questo. Il materialismo economico potrebbe giovarsi assai di uno studio sull’influenza degli editori nella coltura e nella letteratura. Sono per le lettere e per il pensiero, quello che i banchieri sono per le scoperte industriali. Nella loro qualità di trafficanti di idee e di applausi, di cambiavalute fra gloria e denaro, di impresari della fama e delle rendite, essi operano sulla coltura, eccitando da una parte una certa produzione, agevolando dall’altra un certo smercio, facendosi la concorrenza sulla qualità della merce e sul prezzo, comprandosi il
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favore dei critici, mantenendo organi di réclame tanto che nessun movimento letterario politico filosofico artistico si compie senza di loro, ed ogni moda come ogni gran nome è legato nella nostra immaginazione a qualche editore: i «parnassiani» a Lemerre, i «decadenti» al Mercure de France, Carducci a Zanichelli, d’Annunzio a Treves e Antongini, la «scuola lombrosiana» ai fratelli Bocca, e via dicendo. Questo bisogno dell’editore associato a un moto di idee o letterario è tale che spesse volte i partiti le sette le religioni e anche le scuole filosofiche quando non trovano editori che le sostengano, ne creano apposta, e si sdoppiano, facendosi oltre che fabbricanti all’ingrosso anche mercanti al minuto di teorie. Ma tolto questo caso l’editore è stato finora soprattutto al servizio del pubblico, agli ordini del denaro: non ha compreso o non ha voluto accettare la sua posizione attiva di manifattore e organizzatore dei gusti pubblici; non è stato guidato nella sua azione sul pubblico da ideali molto aristocratici. L’impresario della coltura non si è molto preoccupato della coltura, quanto della cassetta; non dello spettacolo, ma dell’introito. Gli editori umanisti – come Manuzio – capaci di parlare con i loro autori di qualche altra cosa che non sia l’esito d’un libro o le percentuali d’un contratto, sono finiti. In Italia non ne abbiamo esempio. È molto se ne vedo uno in Germania: il Diederichs (cfr. Eugen Diederichs Verlag’s Katalog, Jena in Thüringen, 1904, pag. 92). Questo editore invece di formarsi sui gusti del pubblico, li vuole formare. È un entusiasta, un nazionalista, che nella prefazione del suo splendido catalogo parla, con accento ignoto agli altri editori, del suo culto per il bello per la vita per la patria, del suo programma di vivificazione della scuola e della religione, e della mutua penetrazione delle forze religiose con quelle positive per continuare la coltura tedesca e crearne una nuova forma moderna. Egli non trascura nemmeno la tradizione dell’ambiente e la sua casa sorta a Firenze, che porta perciò per insegna il Marzocco, è ora a Jena nella Turingia, un antico centro spirituale della Germania, al quale sono collegati l’età dei cantori, l’epoca della letteratura classica, il gruppo dei pedagoghi, il fiorire dei romantici e di Schiller. Dagli antichi ai moderni va raccogliendo tutte le forze spirituali del mondo: fra i classici: Platone, Plotino, Marco Aurelio, Seneca, Epitteto – fra i mistici tedeschi: Eckeart
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[sic], Suso, Tauler, Böhme, Paracelso, Comenius – nella Rinascita: Erasmo, Pico, Leonardo, – fra i romantici: Hölderlin, Tieck, Novalis, Goethe, Schiller, – fra i moderni: Tolstoi, Maeterlinck ecc. Sono tutte splendide edizioni, che da noi passerebbero per edizioni di lusso, su carta a mano, con magnifici caratteri, con lettere testate ornamenti, con ritratti e facsimili. Per la coltura tedesca poi egli ha ideato una piccola serie di volumetti ove fossero scelti e stampati con ogni cura, ornati di ritratto e forniti di un repertorio, frammenti dei geni nordici più adatti a formare una coscienza tedesca; di questa collezione erzieher zur deutschen bildung sono già esciti i volumi dedicati a Herder, F. Schlegel, Fichte, Schiller, Hamann, Schleiermacher. Tutto il nazionalismo degli editori italiani si limita invece a lamentele per le traduzioni e per i romanzi stranieri. Nessun editore avrebbe il coraggio di fare per l’Italia quello che il Diederichs ha fatto per la Germania. A Leonardo e Galileo, a Spaventa e de Sanctis, al Bruno e al Leopardi essi preferiscono le fame bottegaie tipo Lombroso, le celebrità di grande tiratura e di piccola intelligenza tipo De Amicis1, le collezioni di semi-scienza popolare e le traduzioni traditrici tipo Sonzogno, i libri sbrigatutto tipo Hoepli, le raccolte appiccica-nozioni per giochi scientifici e per salotti di signorine tipo Bocca (con scimmieggiature Laterza e Pallestrini2). […] Tuttavia non è lecito essere troppo pessimisti in un libro come questo che per l’appunto segna in Italia un mutamento di cose e di tendenze; anche fra noi si può contare qualche tentativo simile all’opera del Diederichs, e forse se meno importante per la pochezza dei mezzi, più importante perché sortito da tre punti di Italia: Firenze, Napoli, Milano. Intendo parlare della biblioteca del leonardo, della collezione poetae philosophi et philosophi minores, di quella dei grandi filosofi3. La pri1
L’editore di Lombroso è Bocca, e Treves quello di De Amicis. Prima del varo delle collane di Benedetto Croce, in effetti, Laterza poteva passare per un’emulazione di Bocca; così anche la F.L. Pallestrini & C., attiva a Milano fra il 1903 e il 1912, che pubblica tra l’altro volumi di Emerson, Verworn, Sergi e Salvemini. 3 Si allude ai classici della filosofia moderna di Croce, collana che sarebbe stata varata all’inizio del 1907, ma che Papini e Prezzolini conoscevano bene, essendovi stati coinvolti come curatori dei volumi rispettivamente di Berkeley e Hume. 2
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ma diretta dal «Leonardo» a Firenze, ha comune con la seconda l’editore, Tomaso Antongini e C. di Milano; la terza diretta dal Croce a Napoli ha per editore il Laterza di Bari. Sono tre sforzi in parte indipendenti, in parte comuni, legati da amicizie e da comunione di scrittori, ma distinte da fini un poco diversi ed anche da scrittori diversi. L’essere riesciti in Italia a iniziare fin dal 1903 una biblioteca di cose filosofiche, non rispecchiante certo i gusti del pubblico, libera con le autorità riconosciute, non raccomandata da titoli né da celebrità accademiche, disponendo di mezzi già scarsi per una rivista stampata come il «Leonardo» – è segno di una buona dose di forza e di volontà. Così le edizioni dei mistici italiani e stranieri iniziate da un gruppo di giovini che non dedicano loro la propria operosità per il guadagno, ma per l’amore che provano per questi compagni e per queste guide della loro solitudine, come le edizioni dei classici filosofici impresa non lieve per mole e per difficoltà, finora trascurata dai filosofi professionali (che preferivano vendere i loro centoni e manuali allo spargere e rendere più accessibili le opere che essi copiavano o guastavano), sono pure due eccellenti sintomi d’un rinnovamento ideale di Italia […].
croce: un modello di strategia editoriale (1906)
3.
Croce: Un modello di strategia editoriale (1906) Da Benedetto Croce, Giovanni Laterza, Carteggio, I, 1901-1910, a cura di A. Pompilio, Laterza, Roma 2004, lettere 315 e 329, pp. 213-215 e 225-226.
A partire dall’estate del 1906 Benedetto Croce organizza il lancio del suo provocatorio manifesto filosofico Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel nella biblioteca di cultura moderna di Laterza insieme ai primi tre volumi dei classici della filosofia moderna, da lui diretti insieme a Giovanni Gentile (→ cap. 2). In alcune lettere inviate dalla località di villeggiatura di Weggis, sul lago di Lucerna, strapazza il giovane Laterza, dettando i tempi di pubblicazione, la strategia pubblicitaria, la qualità della stampa, la copertina (che dovrà da allora in poi contrassegnare tutta la collana) e perfino il tipo di carta per gli opuscoli pubblicitari; il tutto coordinando scrupolosamente le uscite dei volumi con quella della «Critica». La lista dei ventotto indirizzi ai quali fa inviare il suo libro hegeliano, qui omessa per ragioni di spazio, consente di ricostruire in quali campi egli aspirasse a ottenere il riconoscimento: quello accademico internazionale (il suo traduttore tedesco Theodor Poppe a Francoforte, la «Revue de Philosophie» di Parigi, il «Journal of Philosophy and Psychology» di New York, l’«Archiv für systematische Philosophie» di Berlino, «La Balance» di Serge Poliakov a Mosca, ecc.), quello mediatico nazionale (il «Giornale d’Italia» di Roma, il solo quotidiano con cui collabora stabilmente, la «Rivista d’Italia» di Roma, ecc.) e quello delle avanguardie letterarie dei nuovi entranti (Giuseppe Prezzolini, Giovanni Papini presso la redazione del «Leonardo», Emilio Cecchi presso il «Nuovo Giornale» di Firenze, ecc.). I corsivi indicano le parole che nelle lettere di Croce recano una sottolineatura enfatica.
Weggis, 25 agosto 1906 Cariss. Laterza, […] Io vi ho detto e ridetto non so quante volte che quel mio volume (Ciò che è vivo ecc.) deve trovarsi presso i librai prima del 20 settembre. Era cosa convenuta fin da quando vi mandai il ms1. In conformità di ciò, io ho preso gli accordi col Bergamini («Giorn. d’Italia») e col «Mattino»2, perché verso il 15 settem1
Manoscritto. Croce collaborava col «Giornale d’Italia» di Roma diretto da Alberto Bergamini e col «Mattino» di Napoli diretto da Edoardo Scarfoglio. 2
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bre compaiano gli annunzii con saggi ecc. del volume. E sulla «Critica» del 20 settembre c’è un mio articoletto d’annuncio. Non posso smontare tutti questi preparativi. Voi direte: e i tre volumi della Biblioteca filosofica? Ecco: […] l’Enciclopedia di Hegel3 sarà pronta dopo il 15 ottobre; al più tardi, alla fine di ottobre. Pei Dialoghi di Bruno4 è da dire lo stesso. Anche per essi ci fu un’interruzione causata dalla malattia del Gentile. Ora sono in parte tirati e in parte col si stampi i due terzi del volume: l’ultimo terzo si stamperà certamente fra settembre ed ottobre; ed il Bruno sarà pronto insieme con l’Enciclopedia di Hegel. Del volume di Kant5 non vi dico niente perché la cosa dipende da voi. Sollecitando voi stesso e sollecitando anche il Gargiulo, potrà trovarsi pronto con gli altri. E così ai primi di novembre la Biblioteca filosofica farà il suo ingresso sul mercato librario con tre belli e grandi volumi. Ma tutto ciò è indipendente dal mio volume personale (Ciò che è vivo ecc.), che deve uscire prima, ossia verso il 20 settembre. Ed è bene che esca prima. Il libro ha per iscopo di far capire agli italiani la necessità di studiare Hegel e il modo di studiarlo. Uscendo un mese, o un mese e mezzo, prima dell’Enciclopedia, preparerà il terreno e susciterà il desiderio dell’opera dell’Hegel, che io ho tradotta. Mi pare ormai di essermi spiegato; e credo che voi dobbiate essere d’accordo con me. […]
3 L’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, tradotta dallo stesso Croce, n. 1 dei classici della filosofia moderna. 4 I Dialoghi metafisici di Giordano Bruno, curati da Gentile, n. 2 dei classici della filosofia moderna. 5 La Critica del giudizio di Immanuel Kant, tradotta da Alfredo Gargiulo, n. 3 dei classici della filosofia moderna.
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(Weggis) 5 sett. 1906 Mio caro Laterza, Ho ricevuto i primi 12 fogli tirati, e sono contento. L’edizione è bella; e, avendo riletto tutto, vi ho trovato solo 4 o 5 errorucci di poco conto. Aspetto le ultime pagine, alle quali debbo fare qualche correzione; ed, inoltre, la copertina. Desidero avere il nuovo disegno, giacché dovete mutare l’antico (che era un po’ banale), è bene che cominciate col mio volume. […] Vi accludo l’elenco delle spedizioni per recensioni, che bisognerà eseguire presto. Avete avuto le bozze della «Critica» col si stampi. Su quelle bozze stesse ho messo i miei desiderii. Pel fascicolo prossimo, ossia per quello di novembre, bisognerà pensare a preparare un fascicoletto di 4 o 8 pagine con la réclame delle vostre pubblicazioni. Vi dico fin da ora che dovete perciò procurarvi della carta bianco avorio o gialletta pallida; che la composizione dovrà tener conto dei margini stessi che si usano per la «Critica»; e che desidero che vi facciate onore componendo la réclame all’uso inglese, ossia da gentleman e non da farmacista. Quindi, niente ghirigori e caratteri storti, ecc. Quanto al contenuto, sarà: 1°) Classici della filosofia ecc. Vi spedirò io il manoscritto degli annunzii; 2°) il mio libro6; 3°) il libro di De Lorenzo7; 4°) La bibl. di coltura8; 5°) la «Critica»; 6°) tutto ciò che vorrete. Vi pare? Vi avevo promesso alcune osservazioni sulla vostra tipografia. Ve le accludo. Il lamento principale è questo; che, avendo voi composto tutto insieme il volume, non solo non mi avete mai dato il gusto di vedermelo sott’occhio tutt’insieme; ma potendo fare in tutto tre invii, ne avete fatti trenta, tormentandomi, ogni giorno quasi, per due mesi con una spedizione di bozze! E così voi avete faticato di più e speso molti danari per la posta; e io ho preso una mezza neurastenia. Saluti affett. Vostro B. Croce 6 Benedetto Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, n. 21 della biblioteca di cultura moderna. 7 Lafcadio Hearn, Kokoro: cenni ed echi dell’intima vita giapponese, con una prefazione di Giuseppe De Lorenzo, n. 22 della biblioteca di cultura moderna. 8 L’elenco completo dei titoli della biblioteca di cultura moderna.
croce: un modello di strategia editoriale (1906)
Avvertitemi di avere ricevuto questa lettera. Titolo per la copertina B. Croce Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel (marcato) con un saggio di bibliografia hegeliana
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prezzolini: la traduzione come lettura spirituale (1908)
4.
Prezzolini: La traduzione come lettura spirituale (1908) Da Libretto della vita perfetta d’ignoto tedesco del secolo XIV, traduzione di Giuseppe Prezzolini, Perrella, Napoli 1908, pp. IX-XII.
Con la sua traduzione del Libretto della vita perfetta Prezzolini riavvia la collana poetae philosophi et philosophi minores interrotta dopo il volume dedicato a Novalis (→ capp. 2 e 3). Nella prefazione indica ai lettori tre possibili strade per leggere e interpretare i contenuti del testo. Sia nella terminologia, sia nei contenuti, i tre modi di lettura richiamano i tre tipi novalisiani di traduzione: grammaticale, metamorfica o mitica (→ ant. 1.b). Se la lettura «storica» ricorda da vicino il metodo di Croce, quella «spirituale», che Prezzolini definisce tout court «traduzione», sarà caratteristica dell’avanguardia fiorentina, che darà molti esempi di come «utilizzare per il presente il passato».
Ogni libro grande è una Scrittura Sacra che si può studiare in tre modi, ed ogni modo risponde a un’attitudine dell’anima di chi studia: letterale, storico, spirituale. Il primo modo è così detto perché si rivolge alla lettera, alle parole, alle frasi del libro; esamina i manoscritti e ne stabilisce la filiazione, confronta le edizioni e ricerca le traduzioni; per via di paragone con scritti anteriori e posteriori, e pesando le testimonianze dell’autore e quelle dei contemporanei, e i segni interni dell’età, stabilisce la data della composizione e cerca, quanto può, di fissare il testo più autentico fornito di tutte le varianti irriducibili, fino a riuscire al massimo compimento della sua opera: l’edizione critica. Questo modo di studio è essenzialmente analitico e meccanico; esclude ogni facoltà d’immaginazione, ed ha per nemica ogni forma di arbitrio; vuole menti mediocri, ma esatte, fornite di memoria forte, ma di scarsa invenzione. Sui resultati di questo, legato a lui, ma sorpassandolo (come la potenza dell’ala dell’uccello sorpassa quella delle sue gambe che pur servono a fargli spiccare il volo), sta lo studio storico. Esso cerca di stabilire la posizione del libro nel momento in cui apparve, la sua necessità e i suoi resultati, togliendo d’intorno a
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lui tutte le interpretazioni e le utilizzazioni che tempi posteriori o polemiche di avversari o elogi di seguaci avevano accumulato e lo travestivano. Esso penetra l’intenzione dell’autore, il momento della sua creazione, e cerca di riprodurlo e di rifarlo. Perciò il meccanismo e l’esattezza non basta: occorre l’intuito storico, il gusto estetico, il senso della vita. Esso è sintesi e penetrazione, finezza per addentrarsi nel passato, immaginazione per riprodurre il passato nel presente. Ma staccato da questi due, indipendente, tutto in sé e per sé, v’è un terzo modo di studio e una terza attitudine, quello spirituale. Non è più il testo esatto che si cerca, né il momento storico che si vuole riprodurre; ma ponendo una questione di valore, si tratta di utilizzare per il presente il passato, e di cercare sotto il passeggero l’eterno. Lo storico ha circoscritto e confitto in un momento particolare dello spirito umano il libro; lo spirituale guarda perché mai vi poteva esser confitto. Lo storico studia ciò che il libro ha in comune con il tempo ed in particolare per sé; lo spirituale ciò che il libro ha in comune con l’Uomo, con lo Spirito in sé. Lo storico studia un caso; lo spirituale ciò che rendeva possibile il caso. Lo storico la fronda; lo spirituale la radice. Ma lo spirituale non può partire che da sé, e approfondendo sé vedere profondamente nell’altra anima che si espresse nel libro passato. Il suo studio è sforzo interiore, passione, entusiasmo, esaltazione; è superamento. Ora il primo modo è sottomissione; il secondo posizione; il terzo traduzione. Il primo è negativo, il secondo positivo, il terzo superativo. Esprime il primo un servizio, il secondo un’eguaglianza, il terzo una maestria. Così i lettori sanno a quale di queste tre introduzioni che seguono debbon rivolgersi per conoscere ciò che a loro importa del libro: la lettera – la storia – o lo spirito.
slataper: lo «sviluppo» di goethe (1911)
5.
Slataper: Lo «sviluppo» di Goethe (1911) Da Scipio Slataper, [recensione a] L’«Urmeister» di Goethe, «La Voce», Bollettino Bibliografico, 28-12-1911, p. 723.
Nel 1910 viene ritrovata in Svizzera la prima stesura del Wilhelm Meister, la cosiddetta Missione teatrale (o «Urmeister»), nella quale Goethe narrava le peripezie di Wilhelm nel mondo del teatro. Scipio Slataper ne dà notizia sul Bollettino bibliografico della «Voce»: è l’occasione per sottolineare quanto l’esperienza artistica del giovane Goethe sia importante nello «sviluppo» della sua arte, e quanto la sua figura – a dispetto di ogni pretesa di “olimpicità” – mostri la sua «grandezza drammatica» proprio nel momento in cui non rifiuta le turbolente passioni della giovinezza (→ cap. 5).
Se qualche grande poeta non ha pubblicato in quest’anno in un posto del mondo la sua prima opera, l’avvenimento letterario più importante del 1911 sarà naturalmente la stampa della Missione teatrale di Wilhelm Meister, cioè della redazione originale dei primi sei libri dei Wilhelm Meisters Lehrjahre […]. È un magnifico documento dell’anima passionale nient’affatto “padrona” del giovane Goethe – tanto più magnifico in quanto G. lo volle distruggere. […] è difficile giudicare il valore artistico dell’Urmeister. A quasi tutti gli amici di G. (Herder, Wieland, Prinz August) esso piaceva di più che i libri corrispondenti della seconda versione. Si sente che questa li ha delusi con la sua maggior freddezza, saggezza, e minor spontaneità. […] L’Urmeister, dunque, è più istintivo, più caldo di vita. Le persone vi parlano nel loro modo naturale; il poeta s’abbandona ai suoi ricordi quasi senza giudicarli. Anche in quello che non corrisponde alla biografia di Goethe (cioè nientemeno che tutta la favola del romanzo), sentite come egli ancora si compiaccia di essersi un giorno desiderata e sognata una tale vita di vagabondo attore, direttore, poeta drammatico, di redentore del teatro nazionale. […] Sentite, come del resto ad ogni passo del libro, la falsità di
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quel mondo d’attori. Sentite com’è falsa la vita d’un uomo onesto e d’ingegno fra quei pupattoli pieni di nervi, d’ignoranza e di fintume. E con tutto ciò il poeta è indulgente, è gioioso di questa gente che sa falsa, è fratello del suo protagonista che sa, e glielo fa dire da un assennato, sperduto e sacrificato. Il lettore è imbarazzato anche perché il poeta è dubbioso. La sua ragione è ormai già fuori da questi sentimenti; la sua sana mente ormai condanna la pura passionalità – ma quei sentimenti e quella passionalità sono ancora i suoi. È stupido – ma è bello vivere così. Per questo è vero e non è vero che sia ironico il titolo Missione teatrale, per la cui interpretazione iniziano a frantumarsi le tedesche lance. Se voi pensate al seguito progettato della Missione che è facile congetturare non esser stato finito appunto perché lì il dubbio doveva esser risolto; e il poeta ancora non poteva essere ciò che voleva l’uomo; se voi pensate ai Lehrjahre in cui questa volontà è pienamente raggiunta, allora siete certi che il poeta ride; se voi invece tornate indietro di qualche anno e pensate al Werther, siete certi che il poeta soffre. E perciò quest’opera ha un’importanza capitale nella storia dello sviluppo, e, in generale, per la comprensione dello spirito di Goethe, mostrandovi in atti ciò che voi sapete astrattamente, e che Schiller ha formulato splendidamente in una famosa lettera: che lotta durissima si svolga in lui per portare, come allora si diceva, il particolare al simbolico, o, come oggi si dice, la passione a espressione. Quando si pensa a Goethe si dimentica completamente la sua grandezza drammatica. Si dimentica il giovane wertheriano che s’assoggetta alle cure di stato; si dimentica soprattutto il poeta che ha finalmente trovato sé stesso, che è arrivato alla sua meta, e s’accorge che proprio il suo massimo lascia freddi quasi tutti gli amici. Non so perché quando parlano di Goethe-Giove, nessuno ricordi gli anni a Weimar, dopo il ritorno dall’Italia. Probabilmente perché Goethe sapeva molto bene l’arte del non lagnarsi. Dopo l’Italia, che fu naturalmente l’occasione causa-effetto del suo nuovo sviluppo, e niente più, il poeta vede chiaro e risoluto. Egli concepisce la vita con una serietà più organica; l’antico fratello Wilhelm con la sua leggerezza passionale e l’antico mondo beato degli attori gli appaiono ristretti e piccoli quasi
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come l’ambiente familiare e negoziale dalla cui negazione essi cominciarono a vivere. Anzi la vita del commercio gli sembrò un cerchio più largo di vita. […] Qui siamo nella grande arte goethiana, nella grande arte, che rispetta ogni passione, ma si serve del proprio personale superamento di essa per caratterizzare un personaggio.
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Slataper: Il Diario di Hebbel (1912) Da Friedrich Hebbel, Diario, traduzione e introduzione di S. Slataper, R. Carabba, Lanciano 1912.
Nell’introduzione alla sua traduzione del Diario di Hebbel, uscita nel 1912 in cultura dell’anima, Scipio Slataper delinea, sulla scia del Novalis di Prezzolini (→ cap. 3), i tratti fondamentali della propria visione dell’«uomo» Hebbel e della sua «modernità». Ne riportiamo alcuni brani, seguiti da una selezione di note di diario.
6.a Modernità di Hebbel Dall’introduzione a Friedrich Hebbel, Diario, pp. 8-20. Hebbel è per Slataper una figura «ostacolata da tutte le parti», un individuo in lotta col mondo che da tale conflitto fa emergere un atto creativo «poetico». Esso mira al raggiungimento non della «bellezza», ma della «verità» sulla sua «vita». Per questo, secondo Slataper il capolavoro di Hebbel è il diario: la confessione quotidiana di questa personalità «pantragica» (→ cap. 4).
[…] Hebbel è l’uomo moderno che s’è liberato dagli elementi inerti che lo facevano procombere nel passato, ma che ora deve creare dal patimento errabondo la sua libertà nella nuova legge. Formare un eroe non dal suo desiderio, ma realizzando. A quest’eroe noi tendiamo con più sicurezza perché abbiamo già intravvisto di lui qualche poco in cui ci calmiamo; ma per Hebbel è solo un tormento che lo preludia e ci contribuisce; non sollievo. Cerca la legge: «Sittlichkeit und Notwendigkeit»1 – necessità morale. «Gli elementi di cui son composto… infuriano e fermentano quasi non fossero chiusi in una forma individuale limitata; uno combatte l’altro e lo atterra o n’è atterrato; ora vince questo, ora quello – ma la legge manca!». […] 1
Alla lettera «morale e necessità».
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Ecco la soluzione: pregare: esprimere. L’unica legge che non manchi mai al poeta, quella che in tutti i casi l’assolve davanti la propria menzogna e la menzogna del suo tempo, è l’atto creativo. E Hebbel è poeta. […] E naturalmente tutta l’attività di Hebbel ha per anima questo suo carattere di Capaneo più forte della sua pena, ma superbo che, non cedendo a dio, se ne crea un’altra invincibile e mal soffribile. Per lui il concetto “facoltà” è uguale a quello di “forza”, e forza significa capacità di lotta. La vita è un saccheggio dell’uomo interno. L’amore è conquistarsi in altrui. Lo sviluppo è una vittoria sugli altri. La soddisfazione dà disgusto: la voluttà è solo nella tensione e nello sforzo. C’è perfino conflitto tra forma e contenuto: e il bello non ne è la pace, ma l’armistizio. Il suo stile è pieno d’immagini guerresche: egli si sente guerriero in una lotta perenne. Tutto è contro tutto nel mondo, anzi il mondo ha vita da una eterna pugna. La vita – dice – non ha uno scopo fuori del suo moto: non progredisce né retrocede: s’agita. «Qui tutto è verso il viaggiare. Dove? Non importa!» La forza umana esiste solo per combattere, non per vincere. Ma no; probabilmente c’è una vittoria: lo sviluppo dell’individuo. Anzi questa è la realtà: «ciò che noi chiamiamo vita è l’audacia d’una parte contro il tutto». Le forze universali esistono in quanto sono contro la forza individuale. «Tutto cerca di disturbare il diveniente e di distruggere il divenuto». «Esser ostacolati da tutte le parti significa vivere. Poter espandersi da ogni parte è morte». […] Hebbel – abbiamo visto – sa che la poesia è una necessità naturale, assoluta, unica. Eguaglia l’opera d’arte a un fiore o a un frutto, una tempesta, un espandersi violento di sole: deve esser perfetta: nessuno le possa aggiunger niente. Anche se gli uomini non esistessero più, il poeta parlerebbe. Il poeta è la coscienza dell’umanità. Ed è un artista che cerca la verità, non la bellezza. «Grazioso è certo, ma vorrei sapere se è anche vero». La bellezza nasce dal ritrovamento della verità; senza di essa una cosa può esser seducente, non bella. Hebbel non ha affatto ciò che si dice buon gusto. Il bello lo comincia a capire molto tardi. Non ha il senso delle proporzioni minute, delle simmetrie ciceroniane, dell’opportunità sagaci. Non aggancia scheletri e poi l’impolpa; ma elimina via via fino all’osso, con crudeltà. […]
slataper: il diario di hebbel (1912)
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Concludendo, in Hebbel tutte le attività spirituali sono sempre contemporanee, e non intrinsecamente nell’armonia dello spirito onnipresente in ogni attimo di se stesso, ma mescolate insieme per una sfrenatezza rabbiosa di desiderio, per una incapacità di quiete distintiva, per un impulso di caos che non vuol rinunziare, pur nella forma, di sentirsi materia progrediente E perciò noi, anche notandone il centro essenziale – poesia –, sentiamo sempre che questa poesia per esprimere tutto lo spirito di Hebbel avrebbe dovuto avere la capacità di un Goethe. Hebbel, sto per dire, è il contenuto di un nuovo Faust, più vicino a noi; ma contenuto che è balzato alcune volte al sole con opere di tale ansiosa bellezza che ci sgomentano. Ed è naturale dunque che il suo capolavoro sia la confessione minuta, cotidiana di questa personalità, nei suoi travagli e nelle sue intuizioni, nelle sue contingenze e nei suoi atteggiamenti. Cioè il Diario: che l’ha fatto, si può dire, conoscere e ammettere svelando ciò che pareva l’enigma della sua arte. [...] 6.b Frammenti su arte e vita Da Friedrich Hebbel, Diario, pp. 37 e 39. La personalissima scelta degli appunti diaristici di Hebbel compiuta da Slataper è per il traduttore un’occasione per riflettere sulla propria poetica, sulle sfide estetiche che si trova ad affrontare nel presente, e in particolare nel contesto dell’avanguardia fiorentina (→ capp. 1 e 4).
83) S’io dovessi esprimere il mio concetto sull’arte, lo baserei sulla libertà incondizionata dell’artista, e direi: L’arte deve comprendere e rappresentare la vita in tutte le sue forme diverse. E naturalmente a ciò non ci s’arriva con il semplice copiare: la vita deve trovare nell’artista qualche cosa d’altro che una camera mortuaria dove la si vesta e la si componga. Noi vogliamo vedere il punto da cui essa parte, e dove si sperde come unica onda nel mare dell’effetto universale… 84) Il sentimento è vita che agisce immediata dall’interno e dall’esterno. Poeta lirico è chi ha la forza di delimitarla e rappresentarla.
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85) Il dramma esprime il pensiero che vuol diventare fatto per mezzo di attività o passività. 91) L’uomo perché ama di regola il nebuloso, il crepuscolo piuttosto che il meriggio? Forse crede di scorgere nella chiarezza un velo ancora più fitto che nasconde il vero oggetto in tal modo che sembra esso sia l’oggetto? 93) La fede non è un’attività oscura dello spirito, ma sì la chiarissima: abbraccia con sicurezza l’affine che sta fuor della cerchia dell’intelletto. 95) Compito di ogni arte è la rappresentazione della vita: cioè render tangibile l’infinito nel fenomeno particolare. E arriva a ciò afferrando gli attimi significativi d’un’individualità o di un suo stato d’animo. 96) L’uomo è ciò ch’egli pensa. 97) Si può estasiare gli dei, ma non far piangere i porci. 100) ... C’è anche una profondità di forma… […] 223) … L’artista non vede che il tutto, e in ogni parte la sua immagine rispecchiata. Se rompono una pietra, non pensa, con prudente spirito, ch’essa non sente il colpo: scorge il disgregamento di un essere nei suoi elementi primi, davanti alla pietra non meno che – qui è il delitto! – all’uomo… 224) Si potrebbe pensare a uno stato spirituale in cui l’uomo non potesse più penetrare in un’altra sfera essendosi abituato completamente alla terrena; e ciò sarebbe da chiamare dannazione. 239) Grande idea quella della religione cattolica che gli uomini importanti siano qualcosa agli occhi della divinità, e possano influirvi con la mediazione. 265) – Butta via per non perdere – : è la migliore regola di vita.
7.
Slataper: Il mio Carso come «autobiografia lirica» (1912) Da Scipio Slataper, Il mio Carso, Libreria della Voce, Firenze 1912, pp. 69-72.
Nel 1912 Scipio Slataper pubblica nei quaderni della «voce» Il mio Carso, la sua «autobiografia lirica», secondo la definizione proposta dall’autore in una lettera all’amico Marcello Loewy del 18 febbraio 1911. Il brano antologizzato si trova nella seconda parte del libro e costituisce uno degli esempi più caratteristici delle forme sperimentate dall’avanguardia fiorentina (→ cap. 1): le quattro lasse narrative raccontano, rispettivamente, il lavoro giornalistico a Trieste, un momento di smarrimento, il rapporto con gli intellettuali incontrati a Firenze, la funzione liberatoria di un’ascesa sul monte Secchieta. Lo stile è paratattico, spesso costituito da frasi nominali; i vari momenti narrativi, lirici e saggistico-meditativi sono montati in maniera analogica, senza che alcuna transizione temporale esplicita aiuti il lettore a ricostruire una linea logica e cronologica degli eventi.
Il Piccolo mi accettò a cento corone il mese: orario da mezzogiorno alle sedici, e dalle venti alle tre. La prima volta che andai a intervistare un’attrice – non ricordo più se era la Bellincioni o la Tina di Lorenzo – pensavo mettendo il pollice nel taglio ascellare del gilè bianco: Rappresentazione d’una novità che non conosco; intervista antr’act1; caffè neri; accendo un sigaro; in redazione: è il tocco. Ordino in pacchetto regolare le lunghe cartelle verdognole, le numero: devo scrivere due articoli: la recensione della novità e l’intervista: in un’ora e mezza. (L’intervista potevo scriverla la mattina dopo; ma mi piaceva aumentare il lavoro febbrile). Bene. Che dirò a lei? È bella. E il Piccolo è il giornale più diffuso di Trieste: io, in questo momento, ne sono il critico teatrale. Una folata d’immagini come al ritorno delle rondini: ero accanto a un bosco autunnale, e soffiava la bora, e le foglie d’oro e di porpora turbinavano intorno a me? Nella mia anima, certo, fu un 1 Francese entr’acte: intervallo tra gli atti di una rappresentazione teatrale. Slataper trascrive la locuzione francese come la si pronuncia.
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subbuglio, un accorrere, un saltellio guizzante, come in una vasca di parco quando un bimbo butta una mica di pane. Ma il rosso belletto delle labbra e la polvere d’oro dei capelli di lei mi parodiò; e io ne fui spaventato come guardandomi in uno specchio convesso. Scrissi molto male della commedia che m’era piaciuta, per vendetta, perché anch’io avevo bisogno di violare la realtà altrui. Ma il direttore si fece portare le cartelle prima che andassero in tipografia, mi chiamò, mi rimproverò aspramente e stracciò l’articolo. Uscendo di redazione, la prima alba mi faceva male sugli occhi stanchi. Una notte, dopo qualche anno, una notte di lavoro terribile perché era morto il papa, io fissavo la lampada a gas sul mio tavolo. Sentivo andare, borbottare, scartabellare, rombare intorno a me, sempre più lontano, lontanissimo, e pensavo, chissà perché, a Caino e Abele. Dicevo a Dio ch’egli era molto ingiusto con Caino: perché non accetti il suo fumo? i rami carichi di frutti e le biade non valgono l’agnello di Abele? Che male ti ha fatto egli, prima di uccidere Abele? perché? La bibbia non dice niente2. Pensai che questo poteva essere il pensiero centrale d’una tragedia, e mi misi a ridere malignamente. Io avevo già ucciso Abele. Abele aveva teso le corde fra i corni del bufalo fucilato da me, e cantava. Io l’uccisi. Ma ora le foglie che mi toccavano erano dure e aspre di veleno come pennini. Desiderai ardentemente: – Abele Abele se tu fossi ancora melodioso in me, in quest’ora di suprema stanchezza! Io ho voglia di veder le stelle in cielo e cantare un grande canto. Ma mi ghignai. L’anima mi s’era ormai coagulata per il gocciare della vita inacidita, rabbiosa, negatrice, e mi corrose in rughe la faccia, incassandosi una tana nelle occhiaie. Non vedo più le cose, e diedi di cozzo senza saper in spigoli acuti onde gli altri mi credettero un eroe. Io andava per la strada già scavata, disgustoso a me stesso, desiderando che qualcuno mi bastonasse a morte. Una volta anche mi proposi d’uccidermi, ma davanti allo
slataper: il mio carso come «autobiografia lirica» (1912)
specchio non potei ammazzare l’essere maligno e ironico che mi guardava. La donna che m’amava non torse il viso, ma si avvinghiò nervosamente al collo e tentò con tutta la sua anima di darmi un bacio; ma le sue labbra non aderirono sulle mie. Ora sono quieto e viaggio negli espressi. No, no, la mia vita non fu così, ma lo stesso io mi trovo inquieto e spostato. Io ho trovato compagni e amicizia, e ho lavorato con essi, ma io sono meno intelligente di loro3. Io non so dir niente che li persuada. Essi invece sanno discutere e dimostrare che bisogna esser convinti di questa o quella cosa. Io sono impersuaso e contraddittorio. Bisogna star zitti e prepararsi. Ma perché essi qualche volta s’accasciano disperando di tutto? Chi vuol riformare gli altri non ha diritto d’esser debole. Bisogna andar avanti e dritti. Bisogna accogliere con amore la vita anche quand’essa è pesante. Bisogna obbedire al proprio dovere. Essi sono più intelligenti e più colti e più stanchi. Forse io sono d’una città giovane e il mio passato sono i ginepri del carso. Io non sono triste; a volte mi annoio: e allora mi butto a dormire come una bestia in bisogno di letargo. Io non sono un grübler4. Ho fede in me e nella legge. Io amo la vita. Ma i discorsi d’arte e di letteratura m’annoiano. Io sono un po’ estraneo al loro mondo, e me n’addoloro, ma non so vincermi. Amo di più parlare con la gente solita e interessarmi dei loro interessi. Può essere che tutta la mia vita sarà una ricerca vana d’umanità, ma la filosofia e l’arte non m’accontentano né m’appassionano abbastanza. La vita è più ampia e più ricca. Ho voglia di conoscere altre terre e altri uomini. Perché io non sono affatto superiore agli altri, e la letteratura è un tristo e secco mestiere. Dunque facciamo l’articolo. Da molto tempo sto zitto: è tempo di risbucare. Lapis rosso: 1, 2, 3, 4, 5…; le cartelle sono numerate e pronte. Accendiamo la sigaretta. Inchiniamoci sul tavolino per venerare il pensiero che gorgoglia, commisto all’inchiostro, giù dalla penna. 3
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Cfr. Genesi, 4, 2-6.
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Rievocazione dell’ambiente fiorentino della «Voce». “Rimuginatore”.
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Lo sviluppo d’un’anima a Trieste. Comincio a scrivere; lacero; di nuovo, e altro strappo. Sigarette. La stanza s’empie di fumo, e i pensieri si serrano come corolle al vespro. Inutile illudersi: non ho da dire niente. Sono vuoto come una canna. – Cosa fai qui, davanti a questo tavolino, in questa sporca camera d’affitto? Anche se tuffi il muso nella frasca verde della boccia con cui i tuoi occhi, stanchi del grigiume stampato sulle pareti, cercano di sognare, tu, qui, non respiri. Ora, qui anche Shakespeare è una pila di libri che ti ruba un brano d’orizzonte. Dirimpetto, l’Incontro5 s’inrossa per l’aurora, e se t’affacci alla finestra e guardi a sinistra, Fiesole è chiara come un cristallo ambrato. Sul Secchieta6 c’è la neve. Andiamo sul Secchieta.
8.
Ciàmpoli, Spaini, Mazzucchetti: Una polemica sulle traduzioni (1912-13)
Poco prima che Laterza pubblichi la prima edizione integrale dei Lehrjahre di Goethe a cura di Alberto Spaini e Rosina Pisaneschi, fa la sua comparsa nelle librerie italiane un volume dal titolo Gli anni di noviziato di Guglielmo Meister, ristampa di una traduzione ottocentesca che, secondo il curatore Domenico Ciàmpoli, sarebbe da attribuirsi a Giovanni Berchet. Ciàmpoli, animatore della collana scrittori italiani e stranieri (→ cap. 2), è un anziano letterato esperto di cose tedesche, ma non professionista: due giovani e competentissimi neolaureati in letteratura tedesca, Spaini e Lavinia Mazzucchetti, intervengono dunque sulle pagine della «Voce» criticando la sua operazione editoriale e dimostrando come non si tratti affatto di una traduzione del Berchet, ma di un mediocre volgarizzamento della traduzione francese pubblicata nel 1802 da Charles Louis de Sevelinges col titolo Alfred, ou les années d’apprentissage de Wilhelm Meister (→ cap. 5). Non metterebbe conto riesumare una polemica di cento anni fa, se la posta in gioco non fosse un’altra: nella discussione fra Ciàmpoli e Spaini/ Mazzucchetti si fronteggiano in primo luogo due generazioni, formatesi secondo visioni e pratiche letterarie assai diverse, e che intendono in modo diverso anche la traduzione. Dalla metà degli anni Dieci, grazie soprattutto all’istituzione delle prime cattedre di germanistica, la traduzione (almeno quella dal tedesco) si avvia infatti a diventare un’attività da affidare a professionisti di una determinata lingua e cultura: tradurre un testo passando per una versione intermedia in un’altra lingua, dunque, smette di essere considerata una pratica accettabile.
8.a Ciàmpoli: Il Meister di Berchet (1912) Dalla prefazione di Domenico Ciàmpoli a G. Volfango Goethe, Gli anni di noviziato di Guglielmo Meister, G. Carabba, Lanciano 1912, pp. i-iii.
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Località di Bagno a Ripoli, vicino a Firenze. Monte nei pressi di Firenze.
La ristampa fedele di questo libro, del quale, pur troppo, non potrò dire tutto il bene che vorrei, e al quale si è tolto, nel solo frontespizio, solo l’improprio nome di Alfredo, è consigliata da varie ragioni. Prima di tutto il libro, così com’è, è opera di Giovanni Berchet, poeta della patria e novatore letterario […]. E poi,
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perché si congiunge al nome di Goethe ed è documento del lavorio che facevasi allora intorno alla letteratura tedesca nel nostro paese. […] il Berchet fu un romantico appassionato e predicò con l’esempio e con le sue traduzioni il suo credo. I critici l’han detto e ripetuto, esagerando anche un po’ il valore del poeta in grazia del suo patriottismo. Ma ciò che nessuno ha detto è che il Berchet ha tradotto Volfango Goethe. Non il Cusani […]; non l’Imbriani nel suo affannoso Giovanni Berchet e il romantismo [sic] italiano; non il Borgese nella sua Storia della critica romantica in Italia; non il Farinelli nel suo Romanticismo in Germania, che pur nota aver il Berchet incontrato lo Schelling a Monaco nel 1832; non tutti i biografi e storici letterari nostrani e forestieri. Anzi, quel ch’è più grave, neppure Egidio Bellorini, il quale ha procurato la eccellente edizione delle Poesie del Berchet (Laterza, Bari, 1911) si è accorto di questa omissione: nella terza parte, ond’è diviso il volume, (Poesie giovanili e traduzioni), mentre riproduce le versioni dal Vicario di Wakefield di Oliviero Goldsmith, non fiata sul nostro argomento. Bene è dunque che c’indugiamo su questa notizia, perché non solo servirà alla divulgazione di una quasi ignota opera del Berchet, sino ad oggi non ricordata, ma verrà a determinare, per chi ne avesse il buon volere, certi criteri d’arte, o, sia pur d’artifizio, a’ quali s’inspiravano alcuni traduttori di quel primo trentennio del secolo XIX. 8.b Spaini: Una traduzione superata (1913) Da Alberto Spaini, Goethe e Berchet, [recensione a G. Volfango Goethe, Gli anni di noviziato di Guglielmo Meister, G. Carabba, Lanciano], «La Voce», 301-1913, p. 1004.
Io non so capire perché il signor Ciàmpoli, il quale nella prefazione a questo volume si esprime così: «Fior d’idiotaggine, penso, al Berchet non venne fatto di trapiantar migliore,» abbia voluto, a sua volta, trapiantarlo per la seconda volta. Giacché sinceramente bisogna essere d’accordo con lui per il suo «severo, doloroso giudizio» della traduzione che il Berchet non ha fatto da Goethe, ma d’altronde non si può divinare quali speciali interessi l’abbiano spinto a curare, od a introdurre, questa ristampa.
ciàmpoli, spaini, mazzucchetti: una polemica sulle traduzioni (1912-13)
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Per gli eruditi, l’edizione milanese del 1835, è lì a loro disposizione in qualunque biblioteca; per gli altri, il libro non si può che sconsigliare. Lasciamo d’indagare i motivi reconditi del signor Ciàmpoli, e vediamo che cos’è questo libro che nessuno sapeva fosse opera del Berchet prima che se n’accorgesse il sig. C. […] Il sig. C. nella sua pref. fa alcune intelligenti osservazioni, come per es. i 99 capitoli tedeschi son ridotti a 63 dal Berchet; ed appuntino nota quante poesie dell’originale sono omesse, quante altre son fuse con tant’altre, quant’altre son tradotte. Ora, tutte queste omissioni e contaminazioni, assieme a tutto l’altro lavoro di amputazioni, fusioni e aggiunte, insieme con la ripartizione dei capitoli e col cambiamento dei nomi, corrispondono esattamente all’eguale truccatura fatta dal Sevelinges, il quale aveva del resto il coraggio di chiamare la sua strabiliante opera una imitation. […] Così tutta la trattazione su Amleto è ridotta a mezza pagina; e la deliziosa scena (II, 10) in cui Wilhelm legge ai comici un dramma cavalleresco, è conciata nel senso che si riassume un dramma di Kotzebue, die Kluge Frau, e si dice corna del teatro, perché in esso vi sono alcune punte contro «le caractère national français», e gli si fa colpa d’aver avuto «la prétention d’égaler, si non de surpasser, les grands modèles de la Grèce e de la France». E Berchet, come un pappagallo a tradurlo, ed a ripeterlo, ed a riassumerne le note. […] Purtroppo noi non sappiamo che criterio aveva Berchet; non sappiamo nemmeno cosa pensasse di Goethe. Per quanto cerchi, non lo trovo nominato che un’unica volta, e cioè: «i lirici tedeschi più rinomati, parlo della scuola moderna, sono tre: il Goethe, lo Schiller e il Bürger». E poi basta. Non nominata mai, in nessun posto, questa sua traduzione, né in essa v’è nessuna nota, nessun cenno che giustifichi questa o quella violazione, questa o quella spiritosa invenzione. Ma si limita a ricalcare gli spropositi del Sevelinges, e quando questi inventa un velenoso capitolo contro l’arte italiana (III, VIII, pag. 62-68) lui mastica amaro in una nota in cui dice che «gli italiani fanno e non millantano» ma traduce parola per parola il bello spirito francese (LIX, 166-167). Ora di Berchet noi abbiamo le traduzioni, se non ottime, buone della Lenore e del Wilde Jäger; da esse traspare una perfetta conoscenza ed un certo gusto della lingua tedesca; nella lettera di Grisostomo dimostra di
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conoscere molto della letteratura tedesca; cita a proposito questo o quell’autore in vari suoi scritti – ed io non mi posso convincere che proprio il Berchet sia l’autore di questa imbecille porcheria. Ad ogni modo, almeno per questo, ed altri passi interpolati dal Sevelinges contro l’Italia, un uomo dello zelo patriottico del Berchet, avrebbe voluto assicurarsi se proprio Goethe ne era l’autore – ed i mezzi li aveva di sicuro, trovandosi in Germania nell’anno della pubblicazione dell’Alfredo Meister. Qua a Berlino mi mancano i mezzi per assicurarmi, ma non vorrei che oltre la cattiva ed inutile idea di ristampare questo libro il signor Ciàmpoli abbia avuto la disgrazia di prendere questo granchio così madornale. Egli scrive «L’anonimo doveva salvarlo (dai fischi). Invece l’editore, che del suo nome conosceva il valore, alzò il velo…» E non potrebbe darsi che l’editore Silvestri1 abbia giocato il brutto tiro al Berchet di farlo passare per l’autore di questa traduzione? – sarebbe bene, dunque, che il sig. Ciàmpoli rivedesse un po’ la fonte da cui trae la sua scoperta, e che per l’avvenire scegliesse un po’ meglio i libri da ristampare. 8.c Mazzucchetti: Editori intraprendenti e curatori frettolosi (1913) Da Lavinia Mazzucchetti, Goethe e Berchet, «La Voce», 27-3-1913, p. 1046.
Ho letto con molto piacere nel penultimo Bollettino della Voce l’articolo di A. Spaini, perché mi par cosa utile mettere subito in guardia il pubblico contro un libro così inopportunamente riesumato e infelicemente presentato. […] Senz’altro, conoscendo un poco appena i nostri romantici d’un secolo fa, ognun vede quanto sia strano pensare che un Giovanni Berchet, vent’anni dopo la Lettera di Grisostomo, quando da dieci almeno anche gli italiani avevano fatta amicizia col famigerato autore del Werther, potesse per qualunque stimolo o ragione, perpetrare simile rifacimento. Ad ogni modo, studiando anche solo superficialmente il suo autore, il Ciampoli avrebbe dovuto accorgersi che l’Alfredo 1 Nel 1835 l’editore milanese Giovanni Silvestri aveva ripubblicato Gli anni del noviziato di Alfredo Meister, già usciti nel 1809 in versione anonima per i tipi di De Stefanis, attribuendone la traduzione a Berchet.
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Meister del 1835 non è che una ristampa dell’opera uscita nel 1809 […]. Dunque, in ogni caso, anche ritenendola opera del Berchet, il Ciampoli avrebbe dovuto considerarla come peccato di gioventù, dell’anno 1809, e porre innanzi anche le relative attenuanti. Che poi codesto Alfredo, nel suo pseudo italiano illeggibile, sia una cattiva e letterale traduzione dal francese, mi pare sia tanto chiaro a chiunque ne scorra anche solo i primi capitoli, che è davvero incredibile come il Ciampoli sia passato attraverso a tanti stupori e sbalordimenti ed abbia avuto bisogno dell’intervento cortese del prof. Fasola per sospettare l’esistenza di un Urmeister di Francia, quello del Sevelinges. […] E se anche, ad occhi chiusi, fosse stato proprio il giovane futuro romantico a trascrivere in pessimo italiano il misfatto del Sevelinges, meritava d’esserne così gravemente punito con una ristampa postuma? Speriamo che il Berchet, dai Campi Elisi, guardi alle cose letterarie di quaggiù con la stessa acuta e pur serena ironia che sapeva impiegar cent’anni fa contro i critici letterari male informati e lungitonanti! Ed auguriamoci anche che l’intraprendente «Verleger» di Lanciano non sia mai più indotto da un frettoloso «Herausgeber» a dar così bella veste a «rarità bibliografiche» di questo genere. Se la malattia fosse contagiosa e ristampassimo tutte le vecchie versioni franco-alemanne sarebbe un vero flagello!
kraus, papini e tavolato aforisti di «lacerba» (1913)
9.
Kraus, Papini e Tavolato aforisti di «Lacerba» (1913)
Sui primi fascicoli di «Lacerba», la rivista fondata da Palazzeschi, Papini, Soffici e Tavolato e programmaticamente vicina al futurismo, campeggiano, spesso in prima pagina, alcune sequenze di aforismi, segno dell’interesse del gruppo per questo particolare genere letterario (→ capp. 1, 4). In forma aforistica è articolato il programma stesso della rivista, l’Introibo, al quale seguono, sul numero successivo, una selezione di aforismi di Karl Kraus tradotti da Italo Tavolato e una di Papini, intitolata I cattivi.
9.a L’Introibo di «Lacerba» Da «Lacerba», 1-1-1913, pp. 1-2. Il testo che apre la rivista è anonimo, ed è quindi ascrivibile alla redazione nel suo complesso. Gli assiomi dell’Introibo, cioè dell’“apertura” della rivista, dichiarano il suo interesse esclusivamente artistico, il culto del genio e la predilezione per alcune forme letterarie specifiche: frammento e aforisma (→ cap. 1).
1. Le lunghe dimostrazioni razionali non convincono quasi mai quelli che non son convinti prima – per quelli che son d’accordo bastano accenni, tesi, assiomi. 2. Un pensiero che non può esser detto in poche parole non merita d’esser detto. 3. Chi non riconosce agli uomini d’ingegno, agli inseguitori, agli artisti il pieno diritto di contraddirsi da un giorno all’altro non è degno di guardarli. 4. Tutto è nulla, nel mondo, tranne il genio. Le nazioni vadano
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in isfacelo, crepino di dolore i popoli se ciò è necessario perché un uomo creatore viva e vinca. Le religioni, le morali, le leggi hanno la sola scusa nella fiacchezza e canaglieria degli uomini e nel loro desiderio di star più tranquilli e di conservare alla meglio i loro aggruppamenti. Ma c’è un piano superiore – dell’uomo solo, intelligente e spregiudicato – in cui tutto è permesso e tutto è legittimo. Che lo spirito almeno sia libero! 6. Libertà. Non chiediamo altro; chiediamo soltanto la condizione elementare perché l’io spirituale possa vivere. E anche se dovessimo pagarlo coll’imbecillità saremo liberi. 7. Arte: giustificazione del mondo – contrappeso nella bilancia tragica dell’esistenza. Nostra ragione di essere, di accettar tutto con gioia. 8. Sappiamo troppo, comprendiamo troppo: siamo a un bivio. O ammazzarsi – o combattere, ridere e cantare. Scegliamo questa via – per ora. 9. La vita è tremenda, spesso. Viva la vita! 10. Ogni cosa va chiamata col suo nome. Le cose di cui non si ha il coraggio di parlare francamente dinanzi agli altri sono spesso le più importanti nella vita di tutti. 11. Noi amiamo la verità fino al paradosso (incluso) – la vita fino al male (incluso) – e l’arte fino alla stranezza (inclusa). 12. Di serietà e di buon senso si fa oggi un tale spreco nel mondo, che noi siamo costretti a farne una rigorosa economia. In una società di pinzocheri anche il cinico è necessario. 13. Noi siamo inclinati a stimare il bozzetto più della composizione, il frammento più della statua, l’aforisma più del trattato, e il genio nascosto e disgraziato più dei grand’uomini olimpici e perfetti venerati dai professori.
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14. Queste pagine non hanno affatto lo scopo né di far piacere, né d’istruire, né di risolvere con ponderatezza le più gravi questioni del mondo. Sarà questo un foglio stonato, urtante, spiacevole e personale. Sarà uno sfogo per nostro beneficio e per quelli che non sono del tutto rimbecilliti dagli odierni idealismi, riformismi, umanitarismi, cristianismi e moralismi. 15. Si dirà che siamo ritardatari. Osserveremo soltanto, tanto per fare, che la verità, secondo gli stessi razionalisti, non è soggetta al tempo e aggiungeremo che i Sette Savi, Socrate e Gesù sono ancora un po’ più vecchi dei sofisti, di Stendhal, di Nietzsche e di altri “disertori”. 16. Lasciate ogni paura, o voi ch’entrate! 9.b Karl Kraus futurista (1913) Da Karl Kraus, Aforismi, «Lacerba», 15-1-1913, pp. 1-2. Sulla copertina del secondo numero della rivista campeggiano gli Aforismi di Karl Kraus tradotti da Italo Tavolato. Si tratta di un’operazione pionieristica, considerato che Kraus era del tutto sconosciuto in Italia e non era mai stato tradotto. I temi degli aforismi krausiani selezionati da Tavolato, e la postura immoralista dell’autore che essi presuppongono, ben si accordano all’Introibo, con l’effetto di annettere Kraus agli orizzonti estetici e ideologici della rivista, e di conseguenza del futurismo (→ cap. 4).
¶ Personalità della donna è insussistenza nobilitata da incoscienza. ¶ C’è una donna in una stanza, prima che entri qualcuno che la veda? Esiste la donna in sé? ¶ Chiunque afferma che Santippe debba essere più desiderabile di Alcibiade è un porco che pensa unicamente alla differenza del sesso. ¶ Si crede di ragionare con un uomo e di botto si sente che il suo giudizio proviene dall’utero. Ciò si osserva di frequente e si dovrebbe essere tanto giusti da non distinguere gli uomini secondo i contrassegni che per caso si trovano, bensì secondo quelli che mancano.
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¶ Passa per normale il santificare in generale la verginità e l’anelare in particolare alla sua distruzione. ¶ Quando un conoscitore della donna s’innamora, egli s’assomiglia al medico che s’infetta al letto del malato: martiri del proprio mestiere. ¶ È atto morale ciò che offende gravemente il pudore dell’uomo colto. ¶ Quousque tandem, Cato, abutere patientia nostra? ¶ Donna e musica sono oggigiorno tanto elevate che un uomo colto non si deve più vergognare a farsi animare da loro. Ora non ci mancherebbe altro che anche i prati, sui quali si sta sdraiati così bene, diventassero isterici. ¶ Sia maledetta la legge! La maggior parte dei miei prossimi son tristi conseguenze di mancati aborti procurati. ¶ La sottilità d’ingegno della polizia consiste nel ritener capace ognuno del furto e la sua fortuna che certuni non riescono a dar prova della propria innocenza. ¶ L’esistenza più misera è quella di un uomo che non ha il diritto di esser l’obbrobrio della sua famiglia e la feccia della società. ¶ La vita famigliare è un’intromissione usurpatoria nella vita privata. ¶ Se sapessi di sicuro di dover dividere con certa gente l’immoralità, preferirei un’isolata dimenticanza. ¶ La democrazia divide gli uomini in lavoratori e fannulloni. Per coloro che non hanno tempo di lavorare essa non è adatta. ¶ Il parlamentarismo è l’accasermamento della prostituzione politica. ¶ Il segreto dell’agitatore è di farsi così stupido come sono i suoi uditori, acciocché essi credano di essere tanto intelligenti come lui. ¶ Il giorno di lavoro di otto ore: il resto sia dedicato alla cultura. E voi credete che essa si presterà a questo affare? ¶ Tempo e spazio sono diventate forme di conoscenza del soggetto giornalistico. ¶ I socialisti rendono cosciente il povero della lotta di classe e lo abbandonano poi alla pena. ¶ Non ci sono più produttori, v’ha soltanto rappresentanti.
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¶ Gli artisti hanno il diritto di essere modesti e il dovere di essere orgogliosi. ¶ Dapprima il cane fiuta e poi alza egli medesimo la gamba. Contro questa mancanza d’originalità veramente non v’è nulla da ridire. Ma che il letterato legga prima di scrivere è sconfortante. ¶ L’ironia sentimentale è un cane che abbaia alla luna mentre piscia sulle tombe. ¶ In principio era l’esemplare di recensione. Qualcuno lo ricevette in omaggio dall’editore. Poi scrisse una recensione. Poi scrisse un libro che l’editore accettò e trasmise quale esemplare di recensione. Il prossimo che lo ricevette fece la stessa cosa. Così s’è formata la letteratura moderna. ¶ I giornalisti scrivono perché non hanno nulla da dire, e hanno qualcosa da dire perché scrivono. ¶ La vita è uno sforzo che sarebbe degno d’una miglior causa. ¶ Il mondo vuole che si sia responsabili verso di lui, non già verso noi stessi. ¶ Con la sua richiesta di modestia l’impotenza vorrebbe impedire la creazione. ¶ Se l’amore serve solo alla procreazione, l’imparare serve soltanto per insegnare. Ecco la duplice giustificazione teleologica per l’esistenza dei professori. ¶ Nello stato ci sono delle personalità, di cui non si sa nulla all’infuori che è vietato di offenderle. ¶ Il souteneur è l’organo esecutivo dell’immoralità. L’organo esecutivo della moralità è il ricattatore. ¶ Ingiustizia ci deve essere: altrimenti non si arriva mai a una conclusione. ¶ Tradurre un’opera di lingua in un’altra lingua significa mandare uno oltre il confine, levargli la sua pelle, e fargli indossare dipoi il costume del paese. Karl Kraus. Sprüche und Widersprüche. Pro domo et mundo. ed. Albert Langen. München.
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9.c Gli aforismi iconoclasti di Papini (1913) Da Giovanni Papini, I cattivi, «Lacerba», 15-1-1913, pp. 12-13. Questa raccolta di frammenti papiniani esce sullo stesso numero di «Lacerba» sul quale vengono pubblicati gli aforismi di Kraus. Si tratta di una difesa del genio contro la morale, dei cosiddetti «cattivi» – la cui «campana», a parere di Papini, non è ancora stata abbastanza ascoltata – contro i buoni. A questo tipo di posizioni, oltre che naturalmente agli aforismi krausiani, si ispirerà in modo evidente la produzione “originale” di Italo Tavolato (→ ant. 22).
1. Le vecchie zoologie dividevano gli animali in “domestici” e in “feroci”, in “utili” e “dannosi”. La nostra antropologia è ancora allo stesso punto, e seguitiamo a giudicare gli atti degli individui soltanto dal punto di vista delle convenienze collettive. 2. Fra quelli che hanno orrore dei delinquenti ve ne sono alcuni la cui onestà e dolcezza è strettamente legata alla riscossione di una certa rendita e stipendio. Quelli che fanno i galantuomini al di sotto di un certo salario, o sono eroi della moralità o sono dei paurosi. […] 20. Il genio è legato strettamente alla delinquenza. Il genio è distruttore anche quando edifica (non v’è costruzione senza sconvolgimento). Il genio è, più che sovrumano, inumano. È antisociale per eccellenza. È una forza disgregatrice che vuole il suo sfogo. Alcuni geni hanno ucciso davvero – altri hanno espresso nella loro arte la loro volontà di uccidere in modo talmente tremendo da far pensare che essi avrebbero potuto (o hanno sognato di) compiere tutto ciò che descrivono. (Esempio massimo: Dostojewski). 21. Nella guerra millenaria fra buoni e cattivi che cominciò con Abele e Caino abbiamo ascoltato finora una sola campana. (La comunità dei buoni concede a se stessa di esser cattiva in blocco – ma non vuol permetterlo ai suoi componenti presi ad uno ad uno). Non sarebbe male sapere una buona volta ciò che i cattivi pensano dei buoni.
soffici: frammenti dal giornale di bordo (1913)
10.
Soffici: Frammenti dal Giornale di bordo (1913) Da «Lacerba», 15-4-1913, pp. 83-84.
Nel 1913 Soffici pubblica a puntate su «Lacerba» il suo Giornale di bordo, cioè il suo diario, che viene pubblicato nel 1914 in volume, con minimi cambiamenti, dalla Libreria della Voce. La selezione che presentiamo dà un’idea della natura composita dell’opera: i momenti lirici sono spesso accompagnati dalla riflessione meta-artistica; alla brevità aforistica seguono brani di riflessione saggistica più distesa; i momenti autobiografici sono evocati con reticenza; l’entrata di diario dell’8 aprile costituisce un esempio delle stoccate anticrociane così frequenti nella rivista.
Montelupo1, 4 aprile Ho il sole in faccia. Chiudo gli occhi, e, attraverso il velo rosso delle palpebre, mentre il treno corre, vedo le ombre nere degli alberi, il profilo delle case che fuggono. – Viareggio, 5 aprile Come esprimere la meraviglia di questo mare ondoso, vivo, potente a un tempo e lascivo come una qualche divinità femmina – la nostalgia d’un nastro verde smeraldo all’orizzonte di luce, – la freschezza fiorita della schiuma bianca ad arabeschi sulla rena della spiaggia, – la sana delizia del vento primaverile dai flutti salsi al mio viso, – la pace del tramonto sulle cabine in fila, rosse, azzurre, ranciate. – L’inesprimibile dolcezza dei mille profumi nella pineta in amore; di un color giallo di fiori ignoti, a chiazze di zolfo fra i tronchi, assorto come bevendo l’ultimo sole? L’amico S., sopraffatto anche lui da tutto questo trionfo: – Inutile chercher, mon cher, et puis à quoi bon? – sentenzia – Pour exprimer la beauté d’un spectacle, lorsqu’il frappe si fort un âme comme la notre [sic], il n’y aura jamais qu’un mot: Hosanna! – Dans le cas contraire c’est: Merde!2 –
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Ebbene, Osanna! Osanna, allora. Stazione di Pisa, 6 aprile Gli avvenimenti fanno nella vita degli uomini come degli strani circoli. Un incontro, una parola, un gesto, e il cerchio è aperto: poi si vive, si vive, si gode, si soffre, si ama, si odia, si dimentica; – ci si crede liberi, e improvvisamente ecco un altro fatto inatteso dove il cuore ravvisa la conclusione, la misteriosa chiusura. Uno di tali cerchi cominciò per me molti anni fa sotto questa volta di vetro affumicato; oggi – per quali vie singolari! – vi si completa. Un essere straordinario… Ma sento che nessuno potrà capire all’infuori di me e di quell’essere. Silenzio, dunque, su queste meraviglie. 7 aprile Finisco gli anni. Quanti? Ah, gl’indiscreti! – Sodisfazione [sic] che nessuno se ne occupi, che non ci sian commedie intorno a questo fatto tremendo: un altro brano di gioventù che se ne va nel nulla, per sempre, per sempre… 8 aprile Equazione crociana. Critica = storia; storia = filosofia; filosofia = spirito; spirito = tutto; tutto = nulla; nulla = Benedetto Croce. Ma no. È un destino che il sistema crociano non debba rispondere a niente di reale. Ecco qui un’operazione rigorosa secondo il suo metodo, eppure erronea. Il resultato: Croce = nulla non è esatto. Resta, come residuo, l’uomo colto, attivo, spiritoso; simpaticissimo, personalmente. […] 15 aprile Rileggo questo giornale e mi domando se davvero non è cosa troppo sciocca, vanesia – impudica magari, uno scribacchiar così giorno per giorno senza costrutto; spiattellare in questa maniera tutto ciò che mi passa per la testa. – Questo mostrarsi nudo agli occhi di tutti, senza nessuna di quelle clamidi, rudi o fastose,
1
Montelupo Fiorentino. «È inutile provarci [a esprimere questa meraviglia], mio caro, e poi a che fine? Per esprimere la bellezza di uno spettacolo, quando colpisce così intensamente 2
un’anima come la nostra, non ci sarà mai che una sola parola: Osanna! Nel caso contrario: Merda!».
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che servon tanto bene a far parere un uomo più grande e ad allontanarlo dal pubblico. È un fatto che nulla è trattato ponderatamente e a fondo: le cose più gravi sono sfiorate appena, prese come di sottogamba, stiaffate là, a tratti, a bottate, superficialmente, in una parola, e secondo un’estetica e una logica da lazzarone. Mi domando se non è uno scandalo, alla fine. Ebbene: sarò categorico. È proprio questo che voglio: affermare col fatto ch’io non credo alla superiorità delle lunghe fatiche, dell’opere vaste e sublimi. Parlerò un giorno del mio disprezzo per la “grandezza”; oggi noterò che secondo me esistono due tipi di letteratura. Una misurata, architettonica, esplicativa – didascalica in fine dei conti, elaborata ad uso di coloro che non san comprendere se non si dice loro tutto distesamente e con ordine, che non conoscono l’arte di legger fra le righe di uno scritto, – degli spiriti lenti e degli imbecilli; l’altra riassuntiva, in iscorcio, sommaria, furbesca, per così dire, tutta fatta di cenni, di strizzatine d’occhio passando, di sorrisi sottili, e che solo gli amici, gl’iniziati, i fratelli possono capire e gustare. La mia. Qualcuno scrisse che un intero poema poteva essere contratto in un’esclamazione. È il principio stesso che informa la mia maniera lirica. Questo per il metodo. In quanto al soggetto, non so che dire. Amo troppo la vita per non apprezzarne devotamente anche le briciole (le briciole?). Sono il malato della sfumatura, del lampo fugace, della quisquilia, importanti al mio occhio come l’intero universo che riassumono per la mia terribile sensibilità – come una gocciola d’acqua rispecchia i colori del sole. – Un volo dorato di mosca, un fiore nell’erba, un passo di notte, un motto di spirito, un sarcasmo sugl’idoli più cari al nostro cuore – ecco delle cose gravissime per me, significantissime e drammatiche al più alto grado. È un’aberrazione, una sconvenienza? Un altro lascerebbe forse i suoi schizzi nelle sue cartelle per un’edizione postuma; io, meno timoroso o più sfrontato dispregiatore della maggioranza leggente, mando per il mondo le mie farfalle, i miei foglietti volanti, i miei petali sciolti. – Giacché, sia detto con piena franchezza e per concludere, qui si marcia sur una premessa: il genio che vivifica e rende tutto degno d’esistere e d’essere amato. È così che uno di questi giorni, stamperò un menu di locanda, se mi avrà procurato un’ora di contentezza, o un’indigestione.
11.
Papini: Contro lo «scrittore buffone» (1913) Da Giovanni Papini, Un uomo finito, Libreria della Voce, Firenze 1913, cap. XLI, pp. 243-247.
Nel 1913 i quaderni della «voce» pubblicano Un uomo finito di Giovanni Papini, autobiografia di un autore poco più che trentenne. Papini ripercorre le tappe della propria traiettoria intellettuale giungendo nelle pagine conclusive a un autoritratto che corrisponde alla postura incendiaria e iconoclasta del fondatore di «Lacerba». Nel capitolo XLI che antologizziamo Papini dichiara la sua avversione alla scrittura di finzione: l’autore di finzioni – si chiami pure Shakespeare o Dostoevskij – è, per l’io narrante di Un uomo finito, nient’altro che un “buffone” (→ cap. 1).
Prima di morir di fame e di freddo come un gatto sperso farò tutti i mestieri. […] Ma c’è un mestiere che non farò mai e poi mai, neppure se me l’ordinassero colle pistole alla gola. Quello dello scrittore buffone, dello scrittore che scrive per divertire la gente, per far passare il tempo ad annoiati e vagabondi, l’infame mestiere dell’uomo che da un gennaio all’altro inventa storie, fabbrica intrecci, cerca avventure, rinfresca ricordi, stende romanzi, improvvisa novelle e mette su commedie per far ridere o lacrimare chi lo paga e gli batte le mani. È inutile che codesti pubblici divertitori parlino di bellezza e fingano di fare il muso alla plebe e ricevano sotto il mantello e la sera, al buio, il prezzo dei loro passatempi. Sono, lo vogliano o no, i cortigiani della moltitudine sovrana che vuol dimenticare la laida vita della giornata; i buffoni salariati del popolo; i menestrelli sottoposti della borghesia che fra una fumata e una girata vuol leggere. Chi vende finzioni è un servitore di chi ha noia e quattrini – una specie di mezzano che offre vita finta altrui a chi non ha abbastanza vita dentro di sé. Che differenza c’è, quanto all’effetto, tra un sigaro e un racconto; tra un dramma e un fiasco di vino? Fumando e leggendo si passa la noia dell’aspettare – ascoltando una commedia e ubriacandosi a buono s’entra a vivere in un altro mondo, a sognare e a vedere quel che non esiste.
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[…] Io non voglio fare il buffone di nessuno! E affermo che tutti quanti gli scrittori di romanzi, di storie, di racconti, di commedie e di drammi, sono stati buffoni, gente che vive per stuzzicare l’immaginazione degli uomini, come i suonatori accarezzano i loro orecchi e le donne i loro corpi. Gli uomini son quasi tutti ragazzi, anche a sessant’anni, e hanno bisogno di questi passatempi; hanno bisogno delle invenzioni e delle avventure, del pittoresco e del patetico. Gli scrittori, anche se non eran proprio bambini loro stessi, li hanno contentati e si son messi a quattro gambe per terra e a suonar la trombettina a cavallo di una granata. Mi dispiace che tra loro ci sono uomini come Omero, come Cervantes, come Shakespeare, come Dostojevsky a’ quali voglio parecchio bene. Anche loro son buffoni come gli altri: cosa volete che vi faccia? Anch’io quando li leggo e mi diverto e mi esalto a sentirli sono un ragazzo stupido che ha sempre bisogno delle novelle della mamma. […] Tutta l’arte loro, che qualche volta è grandissima, ha per fine d’attrarre e d’incantare gli oziosi lettori o spettatori, in modo che questi siano veramente trasportati fuori dalla loro piccola vita personale, uggiosa, vile e umiliante. Intendete pure la parola buffone nel senso più nobile, più grande e più eroico che volete, ma lasciatemi chiamare così tutti quelli che con la speranza di una ricompensa – sia una rama d’alloro o una epigrafe gloriosa o lo sbattìo delle mani o diecimila lire in contanti – scrivono qualcosa col fine di procurare agli uomini un trattenimento piacevole. […] Perché aver tanta compassione fuori di posto per loro1 e adoprar tanto genio per addormentarli e trastullarli mentre tanto più bello e pericoloso sarebbe svegliarli a forza d’urli, metterli in faccia al buio, farli spenzolare col capo giù nell’abisso e forzarli così a rialzarsi, a scoprirsi, a farsi più dolorosi ma più alti davanti all’universo che ora appena li sopporta. Ma che storielle, ma che leggende, ma che tragedie! Chi s’annoia giochi a scopone o si butti in mare! E il genio non s’adopri più per regalare letture divertenti ai disoccupati e per ridar vita a chi fu nel passato oppur non fu mai, ma per annunziare nuove 1
I lettori.
papini: contro lo «scrittore buffone» (1913)
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vite e vite migliori, e preparare una terra che conosca soltanto i dolori dello spirito e regga sopra di sé uomini che non pensino a dimenticare ma a ricordare e a promettere.
spaini e prezzolini: thomas mann «pesante noioso ostinato» (1913)
12.
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Berlino, 22 novembre 1913
Spaini e Prezzolini: Thomas Mann «pesante noioso ostinato» (1913) Da Alberto Spaini, lettera a Giuseppe Prezzolini, inedito, Archivio Prezzolini, Biblioteca Cantonale di Lugano, ASGP 33 e ASGP 34.
Ma sei matto? Vedi in Th. M. un tedesco pesante noioso ostinato, e in fondo stupido e grigio? Ma leggi le sue opere e non stampare il mio articolo, se dà codesta impressione. Povero me! Povero Mann! Poveri noi! Un saluto Spaini
Nell’autunno del 1913 Alberto Spaini si trova a Berlino. Mentre traduce il Wilhelm Meister di Goethe a quattro mani con Rosina Pisaneschi, esplora la scena tedesca contemporanea per conto della «Voce» (cfr. il suo Moderna letteratura tedesca apparso sul n. 8 del 1914), e propone a Prezzolini di presentare sulla rivista l’opera di Thomas Mann, con un articolo che gli invia in novembre. Ma Mann è un romanziere, e la sua poetica non è compatibile con quella dei vociani: di qui la mancanza di interesse, e il ricadere del direttore nel diffuso pregiudizio sulla pesantezza e nebulosità degli scrittori tedeschi. La risposta di Prezzolini non è conservata, ma ne possiamo ricavare il contenuto dalla successiva cartolina di Spaini (→ cap. 2). L’articolo, il primo su Mann ad apparire in Italia, verrà pubblicato sulla «Nuova antologia» nel 1915.
Berlino, [novembre 1913] Caro Prezzolini, ti mando l’articolo su Th. M., che mi è venuto un po’ lungo. Alcune parti sono buone, l’assieme non ci capisco, dimmelo tu. Le molte citazioni (si potrebbero ridurre alla metà) le credo utili: parlando d’uomini assolutamente sconosciuti, servono di già a dare una lontana idea. [...] Se l’articolo di Mann ti va, fra un mese te ne manderò un altro su Spitteler e su Rilke. [...] Spaini
spaini: modernità di goethe (1914)
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Spaini: Modernità di Goethe (1914) Da Alberto Spaini, La modernità di Goethe (saggio storico sul “Meister” goethiano), «La Voce», n. 3, 13-2-1914, pp. 27-29.
Nel saggio che accompagna la traduzione del Meister (→ cap. 5), pubblicato in versione ampliata anche sulla «Voce», Spaini si interroga sugli elementi di “modernità” che rendono Goethe, spesso non compreso dai suoi contemporanei, un autore cardine per l’epoca presente. Richiamandosi ai problemi già formulati da Prezzolini (→ ant. 1.a) e Slataper (→ ant. 5 e 6.a), Spaini sottolinea come la possibilità di un’arte “universale” si dia per Goethe, a differenza dei romantici, non nel rifiuto della realtà esterna ma nella capacità di integrarla nel proprio percorso di sviluppo interiore.
Questo ci stava a cuore di stabilire: che con la theatralische Sendung Goethe, da un lato, supera il Werther scoprendo il valore quasi religioso della poesia; dall’altro, nella stessa risoluzione del primo problema, ne vede sorgere un secondo, e cioè come conciliare il conflitto che necessariamente gli si stabiliva nella vita fra realtà e sogno, fra aspirazione e possibilità, fra velleità e capacità. Ed il problema è imposto in tutta la sua gravità proprio dall’antagonista della theatralische Sendung, dal vilipeso Werner: di fatti, se la poesia salva e porta alla vita coloro che nella realtà soffocano – che faranno coloro su cui la poesia non ha presa? O meglio: come mai c’è della gente capace di vivere in seno alla realtà, non avendo altri bisogni al di fuori della realtà, paghi di quanto nella vita si trova? I veri romantici non si preoccupano di questo problema, non lo sentono. O per loro natura individuale, o per la tradizione oramai incarnata in tant’anni che perdura questa mentalità, essi, negando ogni valore alla vita pratica, ne fanno una specie di dilettantismo: sono buoni impiegati, come Novalis, sacrificano metà del loro tempo all’ufficio, ma non se ne turbano – ché la loro vita vera è nel sogno. Goethe invece ha un altro bisogno, non solo speculativo, ma sentimentale, che gli si riflette nella vita stessa: non vuol essere
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dilettante, vuole dedicare tutto il suo e tutte le sue energie all’esplicazione della parte migliore di sé stesso. […] Ecco la nuova visione che si contrapponeva a quella della theatralische Sendung, ecco l’ideale classico di Goethe nascere, non già dal viaggio in Italia, ma da un’intima necessità evolutiva del suo spirito; nasce cioè per lui la possibilità d’un’arte e d’una vita che non avessero da trionfare su nemici e da cantare sanguinosi inni di vittoria, ma s’organizzassero in sé e s’espandessero libere in mezzo agli uomini – arte classica, cioè arte universale, che parli a tutti gli uomini, indistintamente; al cuore di tutti gli uomini, con parole umane e universalmente comprensibili. Vita classica, cioè vita dello spirito, per cui la materialità esterna non è un nemico da sconfiggersi, ma un elemento malleabile e duttile alla propria personalità.
pisaneschi: goethe vs. novalis (1914)
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Pisaneschi: Goethe vs. Novalis (1914) Da Rosina Pisaneschi, Saggio sullo svolgimento poetico di Novalis, tesi di laurea, Regia Università di Roma, 1914, pp. 66-68 e pp. 118-119, inedito, Fondo Alberto Spaini, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma.
Dopo i primi anni universitari a Firenze e l’apprendistato alla redazione della «Voce», Rosina Pisaneschi si trasferisce a Roma, dove diventa allieva di Giuseppe Antonio Borgese e discute con lui nel 1914 la sua tesi di laurea su Novalis. Traduttrice dell’Enrico di Ofterdingen per Carabba, e, insieme a Spaini, dei Lehrjahre di Goethe, Pisaneschi pone a confronto i due romanzi identificando in entrambi l’intenzione di narrare un’«educazione alla vita» che coincide con l’espressione unitaria e armonica delle forze individuali. Ma nel dare una forma letteraria a quest’idea, afferma Pisaneschi, Novalis resta indifferente alla «modernità», e cioè proprio a quella realtà che per Goethe era invece necessario descrivere nei minimi particolari: oggetti consueti, situazioni e personaggi comuni, modi di parlare diversi che possono essere orchestrati nello «svolgimento complesso» del romanzo. La tesi di Pisaneschi risente evidentemente delle idee di Borgese, che attraverso il suo lavoro di germanista iniziava a sviluppare quella visione del romanzo come genere “costruttivo” proprio della modernità che avrebbe poi espresso negli scritti di Tempo di edificare (→ cap. 5).
Glauben und Liebe1 è evidentemente ispirata dai Wilhelm Meisters Lehrjahre. A parte il contenuto mistico, la breve operetta non è che un riassunto ed uno sviluppo delle conclusioni morali del romanzo goethiano. L’unità spirituale dell’organismo dello stato è identica all’unità spirituale che Wilhelm raggiunge alla fine delle sue esperienze. L’insita perfezione necessaria dei vari membri dello stato perché esso sia «un paese fiorente», è identica alla perfezione della natura di Natalia2, e la critica che Novalis fa al Meister («zu prosaisch und modern»3) la intendiamo perfettamente dall’ultimo frammento di Glauben und Liebe. 1 Glauben und Liebe oder Der König und die Königin [Fede e amore, ovvero il Re e la Regina] è una raccolta di aforismi e testi brevi di Novalis, pubblicata per la prima volta nel 1798. 2 Una delle protagoniste femminili del Meister, è l’aristocratica con cui Wilhelm si sposa alla fine del romanzo. 3 «Troppo prosaico e moderno».
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[…] Novalis che sino alla fine della sua vita non riesce a liberarsi dell’influenza di Goethe avrebbe voluto che il suo modello fosse stato più simbolico, più lontano dalla vita pratica: ma non s’accorgeva, ed in questo sta appunto l’errore della sua critica, che Goethe aveva bisogno di intendere ogni forma di vita nei suoi minimi particolari, (quello che Novalis chiama «prosaisch») e nella sua assoluta realtà, (cioè modernità) per venire a questa conclusione d’una vita armonica. Invece Novalis, non comprendendola, si doveva per forza ritirare nel mondo del sogno, ad animare per mezzo dell’idealismo pratico le pietre e le piante, poiché gli uomini presenti gli restavano incomprensibili […]. D’intendere la modernità a Novalis era precluso: la sua mente spazia al di fuori delle contingenze pratiche e quotidiane: in esse cerca il rapporto coll’infinito, ma i rapporti pratici tra la vita e l’individuo non riesce ad intenderli. C’è una parete che separa la sua vita dal suo pensiero: egli non trasporta nella vita pratica le sue teorie, non dà loro un significato strettamente morale, sì da farsene una legge: egli non può intendere come Goethe nei Lehrjahre, che la sola vita quotidiana abbia valore per l’individuo e ch’esso deve uniformarla intieramente al suo carattere, alle sue idee, alle sue credenze, affinché la sua vita sia buona. Ma la contemporaneità, la realtà degli atti esterni in sé, gli sfugge, ed egli vive tutto nel suo mondo ideale, senza curarsi di ciò che come uomo deve fare. È un diligente impiegato, soddisfa ai doveri della società, fa e riceve visite, come tutti della sua famiglia, ma di tutti questi atti non si preoccupa: si può dire che la pratica non esista quasi per lui ed egli non se ne renda conto. […] Ma una cosa che era sconosciuta a Tieck e a Richter, hanno invece in comune Goethe e Novalis. […] Tralasciamo l’unità psicologica dei personaggi, meravigliosa in Goethe, e non esistente addirittura nell’Ofterdingen (tra Heinrich e i mercanti non sapremmo trovare nessuna caratteristica che distingua i loro discorsi. Il dialogo tra Matilde e Enrico alla fine dell’ottavo capitolo si differenzia solo perché Enrico fa dei discorsi più lunghi: del resto potrebbe anche essere un monologo). Ma ciò che i due romanzi hanno in comune si è che in entrambi, sotto il personaggio principale e la sua storia si cela un’idea che questo personaggio incarna
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e che verrà resa manifesta quando esso riuscirà a intenderla ed esplicarla interamente. In entrambi i romanzi il personaggio principale non è Wilhelm o Heinrich: ma l’autore o il lettore, per cui appunto si viene simbolicamente svolgendo un’idea, non formulata a parola, ma rotta e riflessa nei vari fatti, nei vari sentimenti, nello svolgimento complesso insomma del romanzo, sì che infine essa si rende manifesta più al sentimento che alla ragione, e, come dice Goethe dei drammi di Shakespeare: «sembra ch’egli ci sveli ogni enigma (sull’umanità e sui suoi destini) senza che si possa pur dire: questa o quella è la parola solutrice»4. Non è affatto necessario notare quanto più completa sia questa fusione dell’idea nel simbolo nel Meister, e specie nei Lehrjahre, che nell’Ofterdingen. Ma entrambe le opere hanno quest’impossibilità d’essere disunite e disarmoniche: sì Wilhelm che Heinrich svolgono nei romanzi i loro «Lehrjahre» ed entrambi gli eroi si educano alla vita.
4 Goethe, Wilhelm Meisters Lehrjahre, libro 3°, cap. 11°, pag. 222 della Jubiläumsausgabe [N.d.A.].
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Serra: Il mercato editoriale (1914) Da Renato Serra, Le lettere, Bontempelli e Invernizzi, Roma 1914, pp. 9-16.
A meno di dieci anni dalla Coltura italiana (→ ant. 2) Renato Serra aggiorna la ricognizione di Papini e Prezzolini con il volume Le lettere. Oltre all’espansione del «mercato», a cui è dedicato il capitolo d’apertura, Serra coglie l’incipiente polarizzazione del campo editoriale (→ cap. 2), contrapponendo il modello crociano di Laterza a quello di Treves.
Per chi guardi dal di fuori, le condizioni della letteratura d’Italia, in quest’ultima stagione, son buone; come forse non erano state mai. Il libro, il giornale, ossia la produzione di codesta «letteratura» è diventata, anche per quel che si vede e si misura materialmente, una parte assai notevole della vita nazionale. È inutile dar qui delle statistiche minute. Basta scorrere un poco uno di quei bollettini di case editrici, che la posta ci porta tutti i giorni, o piuttosto fermarsi un momento davanti alla vetrina di un libraio; la ricchezza, l’accrescimento, anche in confronto di pochi anni fa, salta subito all’occhio. Erano una volta pochi volumi con quei tre o quattro nomi d’autori principali che occupavano con una stabilità immemorabile, dandosi il cambio d’anno in anno, le vetrine e l’attenzione; e lì accanto qualche smilzo libretto, che tradiva fin dalla copertina e dal posto nella mostra la gioventù dell’autore e l’edizione procurata a sue spese; un po’ di roba illustrata, i libri scolastici, e la pila gialla dei francesi: oggi, dietro i vetri ben tersi, è una abbondanza nuova di volumi che s’affollano, si sovrappongono, ritagliano, l’uno sull’altro, le riquadrature e i gradini e gli sfondi di una prospettiva geometricamente calcata e massiccia: bianco sul giallo, rosso sul verde, cuoio vecchio e mattone cupo, oro nuovo e nero liscio di caratteri sulle carte granulose o inamidate, costole di ogni
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spessore e copertine di tutti i, formati, edizioni di tutti gli editori, dànno la scalata su su fino all’ultima cornice della vetrina, dove la prima riga del titolo delle cose rimaste da ieri spunta a mala pena e par che si abbatta, sfuggendo, di scorcio. Ed è tutta roba stampata in Italia; a Milano, a Torino, a Roma, a Napoli, a Bari, in Sicilia, in Abruzzo, un po’ da per tutto. C’erano in Italia poche case editrici veramente importanti, che si dividevano tranquillamente le specialità e le regioni letterarie: accanto, nell’ombra, le rade e lente stamperie di provincia, e poche officine mezzo di contrabbando delle contraffazioni e della roba da muriccioli. Adesso è un diluvio di carta stampata che rifluisce da ogni parte, moltiplicando le copertine e le etichette; gli editori nuovi sorgono accanto ai vecchi, nelle città grandi e nelle piccole, crescono a poco a poco e si trapiantano, quasi da monte a piano, dalle province ai centri maggiori, e lavorano tutti quanti con un’energia, con un coraggio e spesso con una serietà da far meraviglia. […] Aggiungiamo che questi editori non si limitano ad opera di pura e semplice speculazione, come potrebbero essere traduzioni, ristampe, diffusione e sfruttamento abile di poche cose fortunate; ma accolgono con una certa larghezza, che indica i bisogni e il desiderio del pubblico, nomi e cose nuove, di tutti i generi; e le cercano, e le pagano anche. Non ci sarà da scialare; ma insomma, oggi come oggi, anche le lettere dànno di che vivere. […] La statistica delle pubblicazioni italiane reca, nel 1913, 11.100 numeri nuovi (11.294 nel 1912); e poi 579 volumi di ristampe (652), 742 periodici (587). Fra questi 308 volumi o fascicoli di poesia, 415 romanzi, 651 volumi di filologia, 1.601 fra storia e belle arti, 260 di filosofia. Son dunque tremiladugentotrentacinque pubblicazioni, senza parlar dei libri scolastici e religiosi, che hanno qualche attinenza con le lettere. […] Salta agli occhi la tendenza tipografica al tipo comune, più elegante, più accurato e anche più commerciale, senza più distinzioni nette di formato, di severità, ecc.; con gli stessi caratteri, gli stessi ornamenti, le stesse attrattive, per esempio, di illustrazioni e di fac-simili, quasi per tutti. Se mai, si può fare una distinzione sola; fra due tipi di volume. Il libro di cultura e il libro, seguitiamo pur a dire, di bella
serra: il mercato editoriale (1914)
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letteratura. Le edizioni Laterza e le edizioni Treves: un volume di D’Annunzio e uno di Croce. Lasciando stare le edizioni artistiche – sul tipo delle Arti Grafiche – e l’altra roba a dispense, scolastica, o popolare, tutto quello che c’interessa si può raccogliere nell’una o nell’altra di queste due classi. Che ci serviranno appunto a ordinare la nostra materia, sotto il titolo dei due scrittori che abbiamo ricordato sopra, e che si prestano quasi naturalmente, anche per l’impronta esterna e visibile delle pubblicazioni, a servir di regola a tutti gli altri. Con che non si vuol affermare che la divisione sia molto profonda. Il tipo più netto, anche come materia tipografica, è quello del libro di cultura; che è quasi una specialità italiana di questi ultimi anni, ed è rappresentato da certi editori con una schiettezza, che ha un valore, non soltanto commerciale, ma morale. Una edizione Laterza, per esempio, offre certe garanzie di correttezza e di serietà, anche nel contenuto, a cui non posson pretendere nemmeno certe grandi collezioni straniere: l’etichetta Laterza val meglio certamente, a considerar tutto, che l’etichetta Alcan, per ricordarne una che pochi anni fa si imponeva. E accanto a Laterza sta bene Bocca, il piccolo audace volumetto di Carabba, e, in parte, Sandron; che si allarga anche negli altri campi.
papini, benuzzi: nietzsche futurista (1914)
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Papini, Benuzzi: Nietzsche futurista (1914)
Papini avrebbe voluto pubblicare in cultura dell’anima Ecce homo, uscito postumo in Germania nel 1908, ma il libro viene subito acquisito da Bocca. Come alternativa decide di assemblare, secondo lo spirito della collana Carabba, un volume frammentario e autobiografico attingendo ai Gesammelte Briefe dello Insel-Verlag (5 voll., 1900-1909, ripubblicato in un solo volume antologico nel 1911): nel 1913 affida il lavoro al suo giovane adepto Valerio Benuzzi.
16.a Nietzsche, «il filosofo del vero futurismo» Dalla Introduzione di Valerio Benuzzi a Federico Nietzsche, Lettere scelte e frammenti epistolari, R. Carabba, Lanciano 1914, pp. XVII-XVIII. Nel 1913 Papini si è ormai avvicinato al futurismo (→ cap. 1), e Benuzzi, in un’introduzione in cui sembra di sentire l’eco delle conversazioni col maestro, fa dello scrittore tedesco un precursore di Marinetti, accreditando la lettura – destinata a una certa fortuna in Italia (→ cap. 2) – di un Nietzsche futurista.
[…] Quando N. distrugge, quando N. afferma un diritto che all’uomo fu tolto o un diritto dimenticato, allora egli non è soltanto grande ma importante per l’avvenire. N. afferma l’attività fresca e giovanile, l’ozio e il lavoro, il coraggio, il riso, la sensibilità, la forza, la purezza, l’arte, la vita e l’avvenire. N. è così il filosofo del vero futurismo. La lettura dei suoi libri infonde fuoco nelle vene, certe sue sentenze si piantano nei nostri cuori come altrettante eliche vibranti. […] N. non ci lusinga verso secoli passati, non inneggia alla furia del presente, ma canta l’avvenire. Noi giovani non vogliamo essere passatisti necrofili, sentimentali immersi nei ricordi fino agli occhi, non forze che si disperdono nel presente; amiamo l’avvenire che s’avanza strano come una bella donna ignota o sognata, cantiamo i giorni futuri che insensibilmente sfumano nel presente e scivolano nel passato
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scoloriti. […] Il futurismo non diventerà arte tolstoiana, ma un patrimonio di pochi, una tendenza che raccoglierà gli eletti di tutti i paesi in una specie di fratellanza, o se si vuole in un manicomio letterario, aristocratico, ove essi potranno vivere nella tensione e nell’espansione della propria sensibilità, difesi dagli insulti e dagli scherni dei «sani». Siamo in pieno «Sturm und Drang» ed oltre all’arte nuova, si attende un novello Goethe; speriamo che l’illustre ignoto sarà meno olimpico del vecchio Goethe consigliere, poeta in pensione e filisteo in spe, ma invece il poeta del 1780. – La gioventù si rinfranchisca un poco con la lettura di N., ringiovanisca perché ne ha molto bisogno (N. le consiglia perfino di rimbambire) e voli. I giovani migliori di tutti i secoli hanno voluto dare la scalata all’infinito, cogliere l’impossibile, volare oltre la piccola vita lontani; i moderni la superino nell’audacia, nella gioia e nella tristezza, nell’altezza dei voli e delle cadute! Meglio è precipitare in un mare di risa, di scherni, di teste grette più morte che vive, piuttosto che languire e imputridire senza aver assaporato gli spasimi dei voli e delle solitudini, nella tiepida mediocrità! Ma chi vola, chi si mette su quella via ove la felicità non sorride che agli arrivisti, legga il capitolo «Della via del Creatore» nella parte prima dello Zaratustra, si ripieghi su sé stesso e si risponda a certe domande terribili come la seguente: «Sei tu una forza nova? Un diritto nuovo? Un movimento primo? Una ruota di per sé stessa mobile? Sai tu costringere le stelle a girare intorno a te?»… Trieste, Agosto 1913 Valerio Benuzzi 16.b «Cantami un inno nuovo» Da Federico Nietzsche, Lettere scelte e frammenti epistolari, pp. 123-125. La scelta di Benuzzi si chiude con alcuni brani dalle lettere inviate a Peter Gast, alla vigilia del crollo psichico. La scrittura fratta e delirante del tardo Nietzsche accredita l’idea di una imminente rivoluzione dei valori e delle forme, suscitando associazioni con la predicazione futurista.
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Torino, 26/XI/1888. Il problema della libertà di stampa non ha nulla a che fare con Ecce homo, ora ne sono certissimo. Con quest’opera mi sono elevato non soltanto oltre tutte le cose che oggi valgono e imperano ma anche talmente al di là dell’umanità che l’applicazione del codice nel caso mio non sarebbe altro che una commedia. Il libro è ricco di scherzi e di malignità perché mi presento con tutta la violenza come il tipo proprio opposto al tipo uomo che finora è stato venerato. Esso è eretico quanto mai. Il crepuscolo mi sembra perfetto, glielo confesso. Non è possibile dire delle cose così importanti con maggior chiarezza e delicatezza. I dieci giorni che mi costò il libro, non potevano impiegarsi meglio. Torino, 2/XII/1888. Il tempo è magnifico, primaverile, e proprio ora sto seduto presso la finestra aperta tutto lieto, vestito leggermente. Faccio tanti scherzi sciocchi con me stesso e covo privatamente tali idee da pagliaccio da sorridere in mezzo alla strada per ben mezz’ora, scioccamente, non saprei dire altrimenti. Da quattro giorni non riesco a serbare un aspetto serio, posato… In tali condizioni s’è ben maturo d’essere il «redentore del mondo». Torino, 9/XII/1888. Ho mandato Ecce homo a Naumann. Esso è superiore a ogni concetto della letteratura; per esso non c’è al mondo paragone o immagine adatti, esso spezza letteralmente la storia dell’umanità in due parti, esso è il superlativo massimo della dinamite. Strindberg m’ha scritto ieri l’altro la prima lettera; è la prima che mi sia giunta con un’intonazione da storia universale. Egli sa che lo Zaratustra è un’opera non plus ultra. Torino, 21/XII/1888. Curiosissimo! Da tre settimane appena capisco i miei scritti; anzi gli stimo perfino. Sul serio, non ho mai saputo cosa signi-
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ficassero; se dicessi che m’hanno destato ammirazione – escludo però lo Zaratustra – direi una bugia. Mi comporto come la madre col suo bambino. Lo ama forse, ma essa è però completamente insensibile alla personalità del bambino. Sono perfettamente convinto che tutto da cima fino in fondo è riuscito bene, che tutto forma una sola cosa e mira a un sol punto. Lessi ieri L’origine della Tragedia. È qualcosa d’ineffabilmente profondo, delicato e sereno. Torino, 31/XII/1888. … O amico, quale momento! Quando giunse la cartolina che cosa feci?... Avevo già passato il Rubicone!... Non so più il mio indirizzo; ammettiamo che sia d’ora innanzi il Palazzo del Quirinale. Timbro postale. Torino, Ferrovia, 4/I/1889 4 di mattina. Al mio maestro Pietro! Cantami un inno nuovo: il mondo è trasfigurato e tutti i cieli esultano. Il Crocifisso
tavolato: i frammenti futuristi di immoralismi (1915)
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Tavolato: I frammenti futuristi di Immoralismi (1915) Da Italo Tavolato, Immoralismi, inedito, Archivio Contemporaneo «A. Bonsanti» di Firenze, Fondo «Italo Tavolato», IT ACGV IT. I.1.
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Se tutti i giornalisti si scegliessero uno pseudonimo, allora non sarebbe impossibile la distinzione tra il divino Ugo1 e un cronista anonimo. L’ideale del giornalista: immortalità cotidiana. Lo svantaggio di non saper esprimere ciò che non sento è il vantaggio che mi distanzia dai giornalisti.
Questa scelta di aforismi di Tavolato è tratta dal suo volume Immoralismi. La raccolta, composta nel 1915, è inedita, ma i singoli aforismi sono nella grande maggioranza editi, essendo comparsi tra il 1913 e il 1914 sulle pagine di «Lacerba» col titolo di Frammenti futuristi o semplicemente di Frammenti o Cronache, a firma di Tavolato oppure coi suoi pseudonimi Filadritto o Guizzidoro (→ cap. 4).
I moralisti han torto. La sessualità non si vince soltanto con l’astinenza ma anche con la lussuria. L’educazione sessuale: non si vada in acqua prima di saper nuotare. Il pudore della gente perbene offende il mio pudore. Tu sapessi – raccontava S. – com’è bellino quel bordello: ci si sta come in famiglia. Dato che la verginità vien valutata in qualità di capitale, è oltremodo strano che il governo non l’abbia ancora tassata. Il nome della prima adultera? Moglie. In Italia, la cognizione della femminilità s’è arrestata nel filosofema: la donna è mobile. I sani non hanno conflitti, quindi non capiscono niente, dunque sono mascalzoni. Dall’incrocio di pregiudizi con informazioni resultano giornalisti.
Il giornalista non è tanto uno che vien pagato per ciò che scrive, quanto uno che vien pagato per ciò che non scrive. «Non si sa mai» e «Si sapeva benissimo». Ecco l’articolo di fondo. Perché non vengono rasi al suolo e schiaffati nelle cartiere i giornalisti? Perché, in nome del progresso, non si fabbrica la carta con i giornalisti? L’unica realtà giornalistica: la frase. Nella pedagogia m’offende soprattutto la palese mira pedagogica. I futuristi violentano la natura. I professori la correggono. Dopo abolita la pena di morte dovrebbero abolire anche l’individualità degli impiegati. Se la proprietà è un furto, questa schifa democrazia impari a rispettare il furto. Diritti dell’uomo – doveri del superuomo. Internazionalismo significa amare tutte le patrie a eccezione della propria. 1 Ugo Ojetti (1871-1956), giornalista e scrittore, oggetto di aspre critiche da parte sia dei vociani che dei lacerbiani.
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La storia insegna che la storia vien fatta dai posteri. L’avvenire crea il passato. Ferrovie, automobili, transatlantici, aeroplani, ecc., accelerano i nostri viaggi tra cose e cervello.
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Papini: Una lettura anti-tedesca del Faust (1915) Da Giovanni Papini, L’eroe tedesco, «Lacerba», 17-1-1915, pp. 7-19.
Una delle malattie mentali più diffuse è il buon senso. Chiamasi genio il disgraziato che non riesce a diventar filisteo. Oggettività: soggetti che van d’accordo. In una società d’idioti l’ingegno fa l’effetto di una gaffe. Non seppi indicargli «l’indirizzo di un bravo callista». Non seppi dirgli «dove si passa la serata». Ora egli mi crede d’intelligenza mediocre. Quello scioperato perde il suo tempo cercando un’occupazione. Il furto letterario si chiama plagio o cultura. Nuovissimi luoghi comuni: spirito, preoccupazioni filosofiche, bisogni metafisici e il solerte editore Laterza. L’idealismo militante della «Voce»: insurrezione degli impiegati contro la genialità. Weininger: il delinquente che condanna se stesso alla divinità. Perché temete l’immoralismo? È la salvezza, per un paese corrotto dalla morale.
In un articolo pubblicato sul «Leonardo» nel 1904 Papini e Prezzolini si proclamano «nordici, tedeschi, inglesi, romantici. Ricordiamo piuttosto lo Sturm und Drang che il Rinascimento. Amiamo molto più Shakespeare che Omero e preferiamo straordinariamente il Faust al Petrarca» (→ cap. 1). Il Faust di Goethe, preferito al Petrarca nel 1904, undici anni dopo diventa per Papini l’epitome della cultura della Germania contemporanea, che la rivista «Lacerba» sta attaccando ferocemente nel quadro di una campagna per l’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale contro Austria e Germania. Il radicale cambiamento di opinioni sul Faust si può comprendere non solo all’interno della campagna anti-tedesca legata all’interventismo di «Lacerba», ma anche come contrapposizione a Benedetto Croce e Giuseppe Prezzolini, che in questi stessi anni stavano promuovendo importanti traduzioni da Goethe, che era diventato così uno degli autori appropriati dagli avversari di Papini.
Tutti hanno letto il Faust e io non ho nessuna voglia né di riassumere né di criticare il centone goethiano come fece quel bravo matto dell’Imbriani1 che lo ribattezzò per capolavoro sbagliato. Secondo me non è un capolavoro ma non è neppure sbagliato. È un libro mediocre che risponde perfettamente al suo fine: raccogliere, in forma mitica, le confusioni, i luoghi comuni, le smanie enfatiche e le finali bancarotte dell’anima tedesca. Non è, per me, un’opera di poesia – Goethe era assai più poeta nei Lieder e nel Divan – ma un documento probatorio sopra una razza. Il Libro nero dello spirito germanico. Cos’è Faust? Un professore. Non poteva essere che un professore, il genuino eroe tedesco. Un professore che a un certo punto, da vecchio, si accorge di non saper nulla di nulla: soltanto parole. [...]
1 Vittorio Imbriani (1840-1886), scrittore napoletano che in una delle sue raccolte satiriche, intitolata Fame usurpate, definì il Faust «un capolavoro sbagliato».
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[…] Mefistofele è l’unico personaggio simpatico di tutto il poema e proprio per questo molti critici (tedeschi), dissero che puzzava di straniero e che veniva di Francia: anzi alcuni ci videro raffigurato Voltaire. Mefistofele conosceva già, da intelligente demonio qual è, tutta la stupidità smaniosa e lamentosa di Faust e in poche parole lo convince a concludere il famoso contratto. S’è infinitamente sottilizzato, in Germania, sulle condizioni di questo patto ma nessuno s’è accorto che la massima richiesta di Faust contradice ed infirma tutta la sedicente grandezza della sua figura. Il significato del Faust è la salita, lo sforzo: egli è, anche nelle parole del Signore, der strebend Mensch2. Il suo ruolo nel mondo sembra quello di colui che vuol ascendere sempre più in alto, che aspira sempre a più libere cime, che mai può riposarsi e contentarsi nei piani terrestri. Invece egli chiede a Mefistofele precisamente il contrario. Egli vuole che il demonio gli dia precisamente ciò che distrugge tutto il senso e il succo della sua vita: il riposo. Desidera che giunga, per arti diaboliche, il momento in cui possa dire: Fermati, sei bello. Faust, il perpetuo volante, vuol fermarsi e in premio di questa fermata offre nientemeno che vita e libertà. [...] Il suo fondo è borghese: vuol mettersi a sedere anche lui. Verweile doch!3 Così la patria sua, dopo aver dato ad intendere al mondo di cercar l’assoluto nel mondo celeste della metafisica, s’è rivelata più filistea di ogni altra nazione e oggi, colla scusa di portare a tutti una civiltà superiore, vuol assicurarsi terre, mercati e clienti per riposarsi nella più grande ricchezza. Questi puri tedeschi son tutti così. Anime di servitori che girano e mangian fumo in gioventù finché non hanno una poltrona e un pezzo d’arrosto. Anche Faust ha l’anima dello schiavo e pur di arrivare a quella calma ch’egli dovrebbe, per definizione, sfuggire come il peccato e la morte, s’ingaggia come servo del diavolo. Il quale, come vedremo, ha tutte le ragioni del mondo di divertirsi alle sue spalle. S’è parlato di una disfatta di Mefistofele4 ma se v’è stata – e difatti l’anima di Faust a forza di preghiere e piagnistei femminili sale nel seno del suo caro Iddio – è dovuta piuttosto alla 2
Der strebend(e) Mensch: l’uomo che aspira all’infinito, che sente in sé lo Streben. Verweile doch!: Fermati! 4 Allusione al saggio La disfatta di Mefistofele (1909) di Giuseppe Antonio Borgese, che dava del Faust un’interpretazione diametralmente opposta. 3
papini: una lettura anti-tedesca del faust (1915)
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prepotenza divina che alla giustizia. Però Mefistofele era troppo intelligente per tenerci sul serio, all’anima svariata di Faust. Egli ha cercato, al contrario, di educarlo, di fargli capire qualcosa e intanto s’è burlato, com’è suo santo costume, dell’uomo e degli uomini. Faust è un burattino nelle sue mani. Lo contenta in tutti i suoi capricci per fargli sentir meglio quanto son fanciulleschi e meschini i suoi desideri e sempre più ci persuade, standogli accosto, dell’irrimediabile inferiorità della specie umana. E anche il vecchio Signore ci fa, alla fine, una brutta figura. Vince la scommessa perché vuol vincerla ma il vero trionfatore è Mefistofele, lo spirito libero, l’antitedesco. [...] Eccolo tutto qui, il nobile eroe tedesco, nella sua infinita miserabilità. Ha raggiunto i suoi fini? Non pare. Non ha goduto, non ha saputo godere. Ha fatto soffrire. È stato, come i suoi discendenti di oggi, assassino violatore e incendiario. Non ha rispettato i patti. [...] Non compie nessuna grande impresa ma semina intorno a sé distruzione e dolore. [...] In quest’essere sbandato, infecondo, tutto pieno di confuse volontà e di grosse parole ma in condizione di perpetuo fallimento, la Germania vede rispecchiata sé stessa. Il popolo tedesco ammira sé medesimo in questo professore che dopo aver studiato senza saper nulla e aver agito senza concluder nulla si rifugia nel paradiso cristiano a dispetto del diavolo e della logica. Anche la Germania d’oggi ha venduto la sua anima erudita e ignorante al demonio dell’arricchimento e della prepotenza e si ha buona ragione di sperare che finirà come il suo eroe. Salga pure in seno al suo vecchio Dio, monti in paradiso, riacquisti il cielo – cioè il mondo di là, il mondo che in verità non esiste, il puro nulla che si merita.
gobetti: l'editore ideale (1919)
19.
Gobetti: L’editore ideale (1919) Da Rasrusat [Piero Gobetti], La cultura e gli editori, «Energie nove», 5-5-1919, pp. 14-15 [parte prima] e 25-7-1919, pp. 127-129 [parte seconda].
All’indomani della guerra un Gobetti appena diciottenne pubblica con lo pseudonimo Rasrusat, che in russo significa “distruggere”, il lungo articolo La cultura e gli editori, nel quale riprende le indagini compiute da Prezzolini e Papini nella Coltura italiana (→ ant. 2) e da Serra ne Le lettere (→ ant. 14). In pochi tratti definisce la polarizzazione del campo editoriale fra editoria commerciale, rappresentata da Treves, e la nascente editoria di progetto, che identifica nelle collane di Laterza, di Carabba e della Libreria della Voce (→ cap. 2). L’articolo costituisce anche una sorta di manifesto dell’editoria d’avanguardia, la cui visione, com’è noto, Gobetti stesso trasmetterà ai nuovi editori torinesi degli anni Venti e Trenta: Alfredo Polledro con Slavia, Mario Gromo con F.lli Ribet, Franco Antonicelli con Frassinelli, Leone Ginzburg e Cesare Pavese con Einaudi.
La cultura generale in Italia è patrimonio e deposito esclusivo della casa editrice Treves. Il nome è un simbolo, e lo vedremo, di tutta la vuotezza italiana. Non dico che Treves sia l’origine di questa vuotezza. Dico semplicemente che i due fenomeni sono concomitanti, che Treves rappresenta la degenerazione culturale italiana e viceversa, che l’Italia che legge è degna di Treves. Il catalogo di un editore in questo caso serve a dare il giudizio di tutta una civiltà. Il giudizio è profondamente severo; una civiltà perfettamente organizzata non può prendere sul serio e tanto meno ammirare un editore come questo. E il giudizio sarebbe giusto. Perché i movimenti seri, profondi, non hanno ancora avuto il successo che meritavano (anche qui Laterza e Prezzolini informino...) Noi in Italia non abbiamo ancora delle buone traduzioni dalle opere importanti delle letterature straniere. E infatti badate: gli antichi e moderni di R. Carabba, le traduzioni della Libreria della Voce e qualche altra iniziativa sono stati tentativi sporadici: il campo è occupato dalla biblioteca amena. Il pubblico ha l’editore che si merita e viceversa. Il primo è fatto pacifico su cui è inutile discutere, più importante il secondo, che l’editore si crea lui il suo pubblico cioè che può influire lui sulla cultura generale.
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Ed è questo il fatto centrale. È logicamente, non praticamente per ora purtroppo. Tanto che un amico a cui esprimevo queste idee mi chiedeva molto seriamente se può esistere un editore colto o che pensi alla cultura. E rappresentava una convinzione comune. […] In un editore non possiamo ammettere l’eclettismo. E invece Treves ha la mentalità del gran pubblico. Questo gli rimproveriamo. S’accontenti di star nel gran pubblico: non accetti ufficio di tanto peso qual è quello dell’editore. Dinanzi a un progetto editoriale quest’uomo, o questa società, questo sistema di uomini, vede solo il fatto della vendita. Ciò che vede anche e solo il commesso viaggiatore. Ora nell’editore è necessaria e utile questa preoccupazione: ma non si può ammettere questa sola; bisogna pur badare al fattore essenziale che è il libro e dal quale dipende anche il risultato-denaro. Ma nel libro, l’editore milanese vede la copertina, l’esteriorità, la réclame, e vi si ferma. Lo riconoscete in ogni sua opera. La biblioteca amena è uno dei suoi capolavori; si tratta, specialmente riguardo alle traduzioni, di una sciagurata e spudorata mistificazione. Ora è evidente che qui l’interesse commerciale stava proprio nel far bene questa collezione libraria, nel dare traduzioni accurate e testi genuini (come cerca di fare e fa discretamente Gino Carabba e meglio Rocco Carabba, mantenendo la popolarità dell’edizione). Ma Treves ha una concezione tutta sua dello scambio e del commercio per cui crede che non sia possibile realizzare guadagni se non ingannando il compratore. Perciò traduce dal francese i libri russi, stampa su carta di lusso e copertine... (diciamo così) affascinanti il libro che non val nulla e sarà comprato solo per questa sua attrattiva; specula sulla carta e sulle spese di stampa nei libri che riesce a vendere per qualche altra ragione, si accaparra D’Annunzio e arricchisce vendendolo in carta a mano; s’impegna alla traduzione delle grandi opere internazionali, anche se sono grandi opere solo per modo di dire e ci sarebbe altro di meglio da tradurre. Invade tutto il paese di autoesaltazioni, si guadagna il critico coll’allettamento del libro che gli stamperà, le riviste con le copie mandate in omaggio solo se la recensione è favorevole, gioca sulle coincidenze, sul calendario e sulla psicologia della folla, mette in azione tutte le attrattive della vetrina. Ne vengono fuori le più basse gonfiature e ciarlatanerie, ma la cassetta si riempie e tanto basta. Senza contare che Treves
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intanto si conquista il monopolio della produzione libraria italiana. Tutti gli devono qualcosa. […] Ma questo sistema non è il solo possibile in campo editoriale. Laterza, per esempio, tira avanti benissimo, e non truffa nessuno e tanto meno il pubblico e conserva la sua organicità. Dunque i sistemi del signor Treves son dovuti al suo carattere e alla sua convinzione morale, non a ipotetiche condizioni del paese. Chi è moralmente superiore a lui fa anche meglio editorialmente. Cioè influisce con un’azione organica e complessa sull’opinione pubblica e nel solo modo che è possibile, cioè indirettamente attraverso i simboli e le abitudini esteriori a cui il popolo è ancora tanto legato e trattenuto. Ma forse il signor Treves (o il suo direttore per lui) non capisce nulla di tutto ciò. È un sorpassato, fisso a vecchie idee, che non hanno più ragione di esistere. Oggi abbiamo degli editori nuovi, che faranno essi veramente dalla grande arte editoriale; ma non sono scolari di Treves, si chiamo Prezzolini, Laterza e, speriamo, Vallecchi, e speriamo molti altri ancora. […] Vogliamo affermare delle idee, sistemarle, opporle le une alle altre in uno sforzo dialettico infinito com’è lo spirito. E vogliamo che questa unità e organicità pervada tutte le forme culturali. Nessuno può essere eclettico, nessuno può astenersi. Meno d’ogni altro un editore. Vogliamo sentire la grandezza e la responsabilità dello spirito dovunque. E proprio l’editore è simbolo d’organizzazione, proprio l’editore deve farsi iniziatore di questa unità nel popolo. I vantaggi commerciali gli verranno per questa via. Se Treves è rimasto alla mentalità di cinquant’anni or sono, seppelliamolo. Il mondo va innanzi e nessuno ha diritto di fermarvisi o di regredire. Abbiamo bisogno di uomini nuovi per conquistare nuove verità.
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Autonomia/Eteronomia → Campo letterario Autorialità Con tale termine si intende l’“autore” non in quanto soggetto biografico (un individuo singolo esistente o esistito) bensì in quanto costrutto letterario e culturale. La differenza tra i due concetti è stata messa in luce nel dibattito letterario degli ultimi decenni: si vedano soprattutto le nozioni di fonctionauteur di Michel Foucault, quella di habitus di Pierre Bourdieu, quella di posture di Jérôme Meizoz (→ postura), quella di authorship as cultural performance di Ingo Berensmeyer e altri. Avanguardia → Nuovi entranti Campo letterario Il campo letterario è una metafora spazia-
le proposta dal sociologo Pierre Bourdieu per concettualizzare i rapporti di forza che legano tutti coloro che contribuiscono alla produzione materiale e simbolica della letteratura. Chi agisce in un campo letterario si trova in concorrenza con i propri omologhi (scrittori con scrittori, editori con editori, critici con critici) nella competizione per acquisire una particolare forma di profitto: il prestigio letterario, che costituisce il → capitale simbolico specifico del campo. L’esito della competizione è influenzato dai capitali posseduti dal singolo (capitale economico, culturale, sociale, politico, ecc.), che ne determinano la posizione all’interno del campo. Tali posizioni tendono a polarizzarsi secondo due opposizioni fondamentali: 1. quella tra consacrati e → nuovi entranti, cioè tra chi ha già acquisito prestigio letterario e chi ambisce ad acquisirlo ma ha appena cominciato la propria → traiettoria nel campo; 2. quella tra chi riconosce come criteri per l’acquisizione del presti-
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gio esclusivamente quelli stabiliti dai letterati stessi (autonomi) e chi introduce nel campo letterario criteri di valutazione derivati da altri campi (eteronomi) come quello economico, politico, religioso, mediatico. Campo di produzione ristretta/Campo di produzione di massa A partire dalla seconda metà dell’Ottocento il principale criterio eteronomo di valutazione all’interno dei → campi letterari è stato quello economico, secondo il quale il valore di un’opera dipende dal suo successo commerciale. Come conseguenza, al polo più autonomo dei campi letterari si è sviluppata un’opposizione simbolica di grande impatto sulle pratiche di scrittori, editori, critici e lettori: quella tra arte e denaro, tra artisti e pubblico. Al polo autonomo di un campo letterario la produzione tende ad avere come pubblico di riferimento quello degli addetti ai lavori, cioè scrittori, critici letterari, docenti, studenti (campo di produzione ristretta); il polo eteronomo del campo è invece quello dove si produce la letteratura rivolta a un pubblico più vasto (campo di produzione di massa). Capitale simbolico Con il termine capitale simbolico Bourdieu indica la posta in gioco all’interno di ogni campo sociale, ovvero ciò che gli attori del campo cercano di conquistare. Ricchezza, cultura, influenza politica, visibilità mediatica, ecc. possono acquisire la funzione di capitale simbolico nel momento in cui viene loro riconosciuto valore all’interno di uno specifico campo sociale. In quello letterario, il capitale simbolico equivale al prestigio e al riconoscimento come “autore letterario” o “opera di autentica letteratura”. Questo riconoscimento deve venire dai propri pari, cioè scrittori, critici ed editori interessati anch’essi all’acquisizione del capitale simbolico specifico e non a capitali eteronomi come la ricchezza o il peso politico. Interferenza Secondo la lezione di Itamar Even-Zohar, l’interferenza è una relazione tra letterature dove quella di partenza (source literature) è fonte, per la letteratura di arrivo (target literature), di prestiti indiretti o diretti (indirect or direct loans). Rispetto ai molti altri concetti recentemente elaborati dalla critica
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letteraria per descrivere l’interazione tra letterature, la nozione di interferenza si caratterizza nel modo seguente: in primo luogo, si tratta di una relazione tra letterature che non è analizzabile di per sé e separatamente dal contesto storico-politico e culturale; in secondo luogo, essa non riguarda solo testi bensì anche i modelli, gli elementi e le forme che ogni letteratura ha a disposizione; in terzo luogo, è un concetto non necessariamente unidirezionale (può essere unilaterale o bilaterale, ovvero può avere effetti su una letteratura sola oppure su entrambe; inoltre lascia aperta la questione di quale delle due letterature – di partenza e di arrivo – svolga un ruolo attivo, o passivo, nel processo di scambio). Letteratura tradotta Questo concetto coniato da Itamar EvenZohar serve a osservare le traduzioni non come opere singole, ma come parte di un insieme caratterizzato da elementi e dinamiche comuni. Si può così osservare, per esempio, che la selezione della letteratura tradotta avviene secondo logiche e criteri specifici del campo letterario d’arrivo; che a produrla sono in larga misura gli stessi attori e le stesse strutture che producono quella autoctona; che a determinarne le modalità di traduzione e di lettura è un repertorio specifico, che in una certa misura coincide con quello della letteratura d’arrivo; che a legittimarla nel → campo di produzione ristretta sono le stesse regole dell’arte che presiedono alla legittimazione della letteratura autoctona. Manipolazione Con manipolazione si intende il processo di alterazione inevitabile a cui viene sottoposto qualsiasi testo nel processo di traduzione. A differenza del suo uso standard, il termine non ha qui un’accezione negativa: non indica dunque un “peggioramento” o un “tradimento” volontario del testo originale, ma solo la sua trasformazione. L’origine del termine, nel campo degli studi di traduzione, è da collegare alla cosiddetta Manipulation School, che a partire dalla metà degli anni Settanta – pur senza mai diventare una vera e propria “scuola” – inizia a elaborare un metodo di analisi descrittivo e sistemico; e si afferma definitivamente con la pubblicazione del saggio di Theo Hermans The Manipulation of Literature, nel quale si definiscono le principali linee interpretative della “scuola”: 1) una
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visione della letteratura come sistema complesso e dinamico (polisistema); 2) l’attenzione a far interagire paradigmi teorici e casi di studio concreti; 3) un approccio ai testi tradotti descrittivo e non normativo; 4) l’interesse per le funzioni dei testi tradotti nei contesti di ricezione, e per la loro posizione all’interno di tali contesti. Marcatura → Traduzione Mediazione Il concetto di mediazione si riferisce a tutto l’in-
sieme di figure e attività che fanno da ponte tra l’opera letteraria nella sua lingua originale e i suoi fruitori nella lingua d’arrivo. Esso comprende dunque una rete ampia di istituzioni (accademie, università, case editrici), figure (scrittori, traduttori, intellettuali, critici, giornalisti) e posizioni (direttori di collana, agenti letterari, direttori di rivista, ecc.) coinvolte a vario titolo non solo nel processo di selezione e produzione della → letteratura tradotta ma anche nelle dinamiche che possono determinare la sua ricezione. Nuovi entranti Coloro che aspirano a inserirsi in un → campo
letterario ma che, essendo all’inizio della loro → traiettoria in quel dato campo, non hanno ancora acquisito → capitale simbolico specifico. La loro opposizione strutturale ai dominanti, cioè a coloro che possiedono già riconoscimento e prestigio, costituisce il principale motore delle innovazioni: la posizione antagonista dei nuovi entranti rispetto ai dominanti spinge i primi a rinnovare le → regole dell’arte, cioè i criteri di produzione e valutazione delle opere letterarie. In ogni momento storico diversi gruppi di nuovi entranti possono proporre opzioni di rinnovamento differenti, in conflitto tra loro e con le posizioni dominanti. Polo di produzione ristretta → Campo di produzione ristretta Postura Chi pubblica i propri scritti propone sulla scena lette-
raria un’immagine di sé che è un costrutto letterario e culturale (→ autorialità) e che oltrepassa le coordinate dell’identità individuale. A tale immagine di sé Jérôme Meizoz dà il nome di postura, che
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intende come maniera individuale di occupare una posizione nel campo letterario. Rispetto ad altre nozioni liminari al concetto di → autorialità, che provengono ora dagli studi letterari ora da quelli sociologici, quella di postura si contraddistingue per il fatto di combinare e integrare tra loro la dimensione testuale (retoricoletteraria) e quella contestuale (storico-sociologica), ritenendole inseparabili. Postura equivale al latino persona, la maschera teatrale che istituisce contemporaneamente una voce e il suo contesto di intelligibilità: la postura è il luogo strategico dove le logiche sociali del campo letterario si coniugano a quelle di poetica. Regole dell’arte/nomos del campo/spazio dei possibili Il termine “regole dell’arte” o, nei termini adottati da Bourdieu, nomos di un campo letterario, indica l’insieme di pratiche autoriali, critiche ed editoriali (vale a dire, la scrittura, la critica e la pubblicazione di opere letterarie) che in un determinato momento storico e in una specifica area del campo definiscono la letteratura legittima. Repertorio Itamar Even-Zohar definisce il repertorio come l’insieme di leggi ed elementi che governano la produzione di testi. Esso comprende dunque forme, modelli, regole, interdetti, gerarchie di valore, ma anche scrittori, → posture, testi a diverso titolo esemplari, inclusa quindi la → letteratura tradotta. Si può distinguere tra un repertorio generale e un repertorio specifico del → campo di produzione ristretta, ma anche tra diversi repertori ciascuno caratteristico di una diversa zona del → campo letterario (per esempio un repertorio della letteratura tedesca, un repertorio della letteratura per l’infanzia, un repertorio scolastico, vale a dire il canone, ecc.). Ogni gruppo di → nuovi entranti propone – anche attraverso le traduzioni – un nuovo repertorio, contribuendo così alla trasformazione e al rinnovamento del repertorio generale. Riscrittura Riscrittura è uno dei concetti letterari più sfuggenti e più variamente interpretati. In questo volume ci si rifà alla nozione di riscrittura come rewriting sviluppata da André Lefevere, il quale a sua volta prende le mosse sia dalle teorie di Even-Zohar (→ interferenza, → repertorio) che da Hermans (→
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manipolazione). Con rewriting intende l’adattamento di un’opera letteraria per un pubblico diverso con l’intenzione di influenzare il modo in cui quel pubblico legge quell’opera. Esempi di rewriting sono la traduzione intra- e interlinguistica, i compendi storiografici, la critica letteraria, le antologie, l’editing; tutti implicano una → manipolazione del testo. Traduzione Con il termine traduzione non si indica qui solo il processo di trasposizione di un testo da un codice linguistico all’altro ma soprattutto la pluralità di pratiche e logiche che presiedono alla circolazione dei testi tra sistemi differenti. Indagando le condizioni sociali di questa circolazione Pierre Bourdieu ha individuato tre operazioni sociali implicite in ogni traduzione. La prima, detta selezione, implica la messa in atto di una serie di scelte mirate a individuare l’oggetto della traduzione – il libro in lingua originale – e gli attori che a vari livelli e a vario titolo saranno coinvolti nella sua trasposizione in una lingua straniera. La seconda, detta marcatura, avviene nel contesto linguistico e culturale di arrivo: essa consiste nell’insieme delle caratteristiche che il prodotto finale assumerà per effetto della qualità delle posizioni e delle scelte messe in atto nel processo di selezione (ad es., maggiore o minore notorietà dell’autore o del testo da tradurre, prestigio del traduttore, della casa editrice, della collana ecc.). L’ultimo livello, quello della lettura, riguarda invece il modo in cui un testo letterario in transito, selezionato e marcato dai passaggi precedenti, viene interpretato nel nuovo contesto letterario di arrivo (p. es. in prefazioni, paratesti, recensioni, ecc.). Tra le operazioni oggi designate con il termine traduzione, inoltre, si includono processi che non solamente (o addirittura non necessariamente) comportano la trasposizione completa o parziale di testi propriamente detti, ma implicano anche l’importazione di → posture, di forme o generi, norme, stili. In tal modo, essi diventano oggetto di → mediazione,→ interferenza, → manipolazione, → riscrittura. Traiettoria La successione di posizioni all’interno del → campo
letterario occupate da una stessa persona. Il concetto di traiettoria non coincide con quello di “percorso biografico” perché va inteso
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in senso relazionale e sociale: la posizione di un singolo scrittore, critico letterario o editore viene così definita in relazione alle altre posizioni e allo stato dei rapporti di forza all’interno del campo. Transfer Ogni passaggio di un oggetto culturale da un contesto a un altro ha come conseguenza una trasformazione del senso di tale oggetto, la quale non può essere pienamente compresa senza tener conto del passaggio stesso. “Transfer” viene da “trasferire”, che non significa trasportare, ma appunto trasformare: a essere oggetto dell’analisi di chi si occupa di transfer, dunque, non è tanto la circolazione dei beni culturali, quanto la loro reinterpretazione. A questo proposito si vedano soprattutto Espagne-Werner (1988), Espagne (1999).
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Indice dei nomi
Abraham, Karl 209 Abruzzese, Alberto 162 Adamson, Walter 303 Agazzi, Elena 153 Agnoletti, Fernando 126, 127 Albertazzi, Adolfo 143 Alciati, Roberto 20 Aleichem, Shalom 82 Alfero, Giovan Angelo 81, 84, 87, 178, 181 Alicata, Paolo 213 Allason, Barbara 70, 71, 84 Allen, Graham 301 Altenberg, Peter 191 Alvaro, Corrado 173, 174, 212, 218 Ambrosini, Luigi 38 Amendola, Giovanni 28, 79, 129, 171, 184, 190, 209 Amoretti, Giovanni Vittorio 84 Anacreonte 181, Andreazza, Fabio 20 Angioletti, Giovanni Battista 173, 174 Aniante, Antonio 174 Antonello, Anna 19, 151 Antongini, Tommaso 64, 74, 97, 204, 229, 231 Antoniani, Luigia 211 Antonicelli, Franco 212, 286 Apel, Friedman 301 Apollinaire 29, 41, 184, 191 Apter, Emily 301 Ara, Angelo 149 Ardigò, Roberto 34 Ariosto, Ludovico 73, 172 Arnim, Achim von 199 Ascarelli, Roberta 19
Assagioli, Roberto Greco 74, 209 Attal, Frédéric 30 Auerbach, Berthold 63 August von Sachsen-Gotha-Altenburg 238 Austen, Jane 127 Bacci, Orazio 32 Bachtin, Michail 160 Bahr, Hermann 129 Baldasso, Franco 20 Baldini, Anna 4, 5, 19, 192, 210 Baldini, Antonio 212 Barbagli, Marzio 30 Barbaro, Umberto 174 Bargellini, Piero 185 Barilli, Bruno 174 Barrale, Natascia 20 Bartocci, Claudio 35 Basili, Maurizio 20 Bassi, Simonetta 126 Bassnett, Susan 301 Baudelaire, Charles 64 Bauer, Felice 215 Bellincioni, Gemma 245 Bellini, Barbara J. 20 Bellorini, Egidio 250 Ben-Ghiat, Ruth 195 Benaglia, Cecilia 20 Benco, Silvio 82, 155 Benn, Gottfried 62, 78 Benuzzi, Valerio 7, 76, 86, 177, 276, 277 Benvenuti, Giuliana 301 Berchet, Giovanni 145, 150, 151, 208, 216, 249-253 Berensmeyer, Ingo 117, 291, 301 Bergamini, Alberto 232
308 Bergson, Henri-Louis 27, 96, 97, 183, 201 Berkeley, George 69, 230 Bertoni, Giulio 185 Besomi, Ottavio 205 Beyerlein, I. 63 Biagi, Daria 6, 19, 200, 218 Bibbò, Antonio 20 Billiani, Francesca 4, 19, 144, 303 Bilse, Fritz Oswald 67 Bocca, Giuseppe 61, 62, 65-67, 68, 71, 80, 84, 86, 131, 177, 228-230 Böhme, Johannes 205, 230 Boine, Giovanni 42, 44, 45, 47, 52, 53, 77, 87, 144, 145, 171, 207 Boldrini, Orietta 20 Bonghi, Ruggiero 80 Bongioanni, A. 67 Bonichi, Gino cfr. Scipione Bonifazio, Massimo 20 Bontempelli, Carlo 20 Bontempelli, Massimo 212 Borgese, Giuseppe Antonio 5, 10, 14, 15, 26, 36, 37, 47, 48, 68, 77, 80-85, 87, 88, 143, 144, 148, 150, 153, 155, 158, 159, 165, 166, 167, 172, 175, 177181, 183, 193, 195, 198-200, 208, 211, 214, 216, 227, 250, 270, 284 Boschetti, Anna 20, 29, 117, 301 Bottaro, Emanuele 117 Bourdieu, Pierre 11, 29, 45, 59, 66, 117, 152, 291, 292, 295, 296, 301, 302 Bourget, Paul 63 Boutroux, Émile 183 Boy-Ed, Ida 63 Bracco, Roberto 174 Bragaglia, Anton Giulio 212, 213, 218 Bragato, Stefano 20 Brecht, Bertolt 212, 218 Brentano, Franz 76 Brofferio, Angelo 66 Brogi, Daniela 19 Bruno, Giordano 69, 230, 233 Bschleipfer, Andreas 111 Büchner, Georg 82, 147, 193, 197, 198, 199, 212, 215, 218 Buelens, Gert 117 Buffagni, Claudia 19 Buonarroti, Michelangelo 172
indice dei nomi Bürger, Gottfried August 151, 225, 251 Burich, Enrico 76, 77, 84, 176, 190 Bürstenbinder, Elisabeth cfr. Werner, E. Busch, Wilhelm 82 Büttner, Herman 102 Buzzi, Paolo 41 Byr, Robert 63 Cadioli, Alberto 303 Calasso, Roberto 124, 131 Calderoni, Mario 183, 203 Calinescu, Matei 153 Cambi, Fabrizio 19 Campa, Odoardo 76 Campana, Dino 131 Canali, Mauro 123 Canepa, Carlo 94 Canetti, Elias 128 Cangiano, Mimmo 20, 164 Caprino, Giulio 65 Carabba, Gino 82, 151, 171, 172, 175, 287 Carabba, Giuseppe 173, 174, 175 Carabba, Rocco 7, 15, 59-61, 68, 7577, 80-83, 119, 120, 144, 151, 166, 171-177, 186, 189, 193, 194, 198, 204, 275, 287 Carabelli, Eugenia 129 Cardarelli, Vincenzo 87, 174, 131, 212 Cardini, Emilia 183 Carducci, Giosue 26, 177, 229 Carniel, Luisa (Gigetta) 161-163 Carrà, Carlo 40 Casanova, Pascale 30, 301 Casati, Alessandro 74, 183, 184, 201 Cases, Cesare 124 Casini Paszkowski, Anna 27 Casini, Paolo 27 Cataldi, Pietro 19 Cavaglion, Alberto 130, 131, 303 Cavalcanti, Guido 172 Cavallotti, Felice 64 Cecchi, Emilio 36, 37, 52, 69, 77, 79, 87, 171, 174, 183, 212, 232 Cecconi, Angelo 190 Čechov, Anton 46, 78, 79, 207 Cerati, Mario 65 Cerletti, Ugo 67
indice dei nomi
309
Cerracchini, Lida 63 Cervantes, Miguel de 180, 264 Ceserani, Remo 20, 301 Chamisso, Adalbert von 65 Charle, Christophe 20, 30, 34 Chateaubriand, François-Réné de 172 Chiesi, Maria Cristina 32, 93, 203 Ciàmpoli, Domenico 6, 7, 82, 145, 150152, 165, 171, 172, 216, 249-253 Cicerone, Marco Tullio 117 Cinelli, Gianluca 20 Cinti, Decio 86 Cippico, Antonio 67 Claudel, Paul 207 Clavel, Gilbert 137 Coda, Elena 161 Codignola, Ernesto 71 Colangelo, Stefano 20 Colbertaldo, Roberta 20 Colli, Giorgio 176 Colorni, Renata 128 Comenius, Johannes Amos 109, 205, 230 Conti, Angelo 94 Cordelia 63 Corradini, Enrico 26, 183, 201 Corsi, Mario 71 Costagli, Simone 20 Costantini, E. 65 Costantini, Paola 107 Crain Merz, Noemi 195 Crea, Renata 19 Creizenach, Wilhelm 150 Croce, Benedetto 5, 7, 9, 10, 14, 15, 31-36, 39-45, 47, 60, 68-77, 80, 81, 83, 84, 86-88, 102, 111, 143, 144, 153, 158, 171-173, 176-179, 186, 189, 201, 204, 206, 228, 230-236, 261, 275, 283 Crupi, Gianfranco 20 Culeddu, Sara 20 Cusani, Francesco 250 Cusatelli, Giorgio 153
D’Eredità, Diletta 20 D’Intino, Franco 19 Da Verona, Guido 38, 39 Dallago, Carl 130 Dalmaso, Daniela 20 Dàuli, Gian 85 De Amicis, Edmondo 26, 38, 63, 230 De Céspedes, Alba 174 De Cristofaro, Francesco 138 De Grazia, Victoria 195 De Leva, Giovanni 20 De Lorenzo, Giuseppe 234 De Lucia, Stefania 6, 19, 95 De Mohr, Arnaldo 63, 64, 74 De Robertis, Giuseppe 28, 52, 148 De Rogatis, Tiziana 19 De Ruggiero, Guido 70 De Sanctis, Francesco 83, 230 De Sanctis, Maturino 65 De Stefanis, Elisa G. 63 Debenedetti, Giacomo 143, 160, 303 Dehmel, Richard 81, 179 Demoor, Marisa 117 Denifle, Heinrich Seuse 205 Dentice di Accadia, Cecilia 76 Depero, Fortunato 137 Desideri, Fabrizio 154 Deval, S. 63 Devescovi, Guido 163, 211 Di Battista, Flavia 20 Di Lorenzo, Tina 245 Dickens, Charles 172 Diederichs, Eugen 74, 97, 175, 205, 206, 228-230 Dilthey, Wilhelm 148 Distaso, Arcangelo 190, Döblin, Alfred 78, 212, 217 Dolcher, Ernesto 76 Donadoni, Eugenio 73 Dostoevskij, Fëdor 63, 182, 207, 263 Doudelet, Charles 95, 221 Dusini, Arno 4
D’Alba, Auro (pseudonimo di Umberto Bottone) 190 D’Amico, Silvio 212, 218 D’Annunzio, Gabriele 9, 26, 38, 39, 51, 52, 63, 64, 86, 171, 229, 275, 287
Eckermann, Johann-Peter 73 Eckhart, Johannes 103, 108, 109, 187, 203, 205, 229 Eckstein, Ernst 63 Einaudi, Giulio 84, 85, 212
310 Eliot, George 127 Emanuelli, Enrico 174 Emerson, Ralph Waldo 230 Engelmann, Emil 182 Engels, Friedrich 67 Enriques, Federico 35 Epitteto 229 Erasmo da Rotterdam 230 Errante, Vincenzo 81, 84, 180 Espagne, Michel 297, 301 Esposito, Edoardo 20 Eucken, Rudolf 67 Even-Zohar, Itamar 12, 292, 293, 295, 302 Fabriani, Lanfranco 19 Facchi, Gaetano 86 Faconti, Dolores 32, 93-95, 201, 203 Faldati, Ubaldo 81, 179 Falqui, Enrico 173, 174 Fantappiè, Irene 4, 6, 19, 21, 124, 134, 138 Farfara, Ugo 63 Farina, Maria Grazia 20 Farinelli, Arturo 65, 70-72, 81, 83-85, 87, 88, 147, 175, 178, 180, 199, 209, 250 Farini Moschini, Laura 213 Fasola, Carlo 180, 195, 253 Federici Solari, Marco 20 Fenoglio, Giulio 67, 131 Ferrando, Anna 20 Feuerbach, Ludwig 65, 76, 175, 189 Fichte, Johann Gottlieb 75, 76, 81, 153, 159, 175, 178, 179, 187, 189, 230 Filangeri cfr. Spaini, Alberto Filippi, Paola Maria 20, 120 Filippon, Severino 181 Finocchi, Luisa 19 Finotti, Fabio 96, 98, 109, 111 Flaubert, Gustave 63 Fleck, Wilhelmine 63, 64 Foà, Augusto 195, Fogazzaro, Antonio 98 Fontane, Theodor 62 Forel, Auguste 209 Formiggini, Angelo Fortunato 82 Fornelli, Guido 81, 180 Förster-Nietzsche, Elisabeth 86
indice dei nomi Fort, Paul 52 Foucault, Michel 117, 291, 302 Franchi, Cinzia 20 Franck, Sebastian 108, 109 Frank, Armin Paul 111 Frassinelli, Carlo 84, 85 Frateili, Arnaldo 174 Freud, Sigmund 209 Freytag, Gustav 181 Friedmann Coduri, Teresita 182 Friedmann, Sigismondo 84, 180-182 Fukari, Alexandra 302 Gabetti, Giuseppe 84 Galilei, Galileo 230 Galinetto, Carla 147, 149, 214, 215 Gallarati Scotti, Tommaso 97, 98, 183, 201, 204 Galletti, Baldassarre 76 Galli, Matteo 20 Gallian, Marcello 174 Gargiulo, Alfredo 69, 233 Garin, Eugenio 35, 126 Gast, Peter 277 Gautier, Théophile 65 Geibel, Emanuel 179 Genette, Gérard 138, 302 Gennaro, Rosario 20 Gennaro, Tommaso 20 Gentile, Emilio 51, 129 Gentile, Giovanni 30, 32, 34, 39, 40, 68, 111, 126, 173, 185, 232, 233 Gentili, Sandro 32, 52, 74, 123, 188, 207 Gerstäcker, Friedrich 63 Gian Falco cfr. Papini, Giovanni Giani, Romualdo 67 Giannini, Alfredo 180 Gide, André 183 Giladi, Amotz 29 Ginzburg, Leone 286 Giobbe, Mario 71 Gioberti, Vincenzo 69 Giolitti, Giovanni 127 Giovagnoli, Giacinta 183 Giudicetti, Gian Paolo 144 Giuliano il Sofista cfr. Prezzolini, Giuseppe Giuliotti, Domenico 184 Gnoli, Tommaso 81, 179, 181
indice dei nomi Gobetti, Piero 7, 83, 84, 88, 286 Goethe, Johann Wolfgang 5-7, 9-11, 14, 15, 63-65, 70-73, 75, 82, 85, 88,144-159, 161, 163, 167, 175, 179, 181, 190, 191, 193, 194, 197, 200, 207, 208, 211, 212, 215, 216, 217, 221, 227, 230, 238, 239, 243, 249-252, 266, 268-272, 277, 283 Goldsmith, Oliver 250 Goll, Francesca 20 Gorini, Bice 65 Govoni, Corrado 174, 207 Gramsci, Antonio 111 Graziadei, Vittorio 73 Grazzini, Anton Francesco 172 Greiner, Norbert 111 Grillparzer, Franz 81, 180 Grimm, Jakob 65 Grimm, Wilhelm 65 Gromo, Mario 286 Guarienti, Bice 65 Guerra, Cristina 20 Guerra, Gabriele 20 Guglielmo II, imperatore di Germania 67, 84 Guicciardini, Francesco 172 Haas, Claude 148 Halévy, Daniel 79, 214 Hamann, Johann Georg 74, 187, 230 Hamsun, Knut 200 Harden, Maximillian 129, 130 Hardenberg, Friedrich von cfr. Novalis Harnack, Adolf von 67 Harrison, Thomas 149 Hauff, Wilhelm 63 Hauptmann, Gerhart 64, 218 Hearn, Lafcadio 234 Hebbel, Christian Friedrich 5-7, 9, 10, 14, 46, 49, 61, 65, 70, 71, 75-81, 83, 85, 87, 88, 118-122, 175, 176, 178, 179, 190, 207, 241-243 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 69-72, 121, 232-235 Heilbron, Johan 302 Heine, Heinrich 9, 26, 65, 76, 89, 125, 175, 177, 179, 180, 190, 191 Hellingrath, Norbert von 211, 215, 216
311 Herder, Johann Gottfried 72, 73, 166, 179, 187, 216, 230, 238 Hermans, Theo 12, 111, 293, 295, 302 Hermet, Augusto 76, 87, 95, 176 Hesse, Hermann 62 Heyse, Paul 63, 65 Hitler, Adolf 218 Höffding, Harald 67 Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus 65, 180, 181, 194, 199, 200, 217 Hoffmann, Hans 130 Hofmannsthal, Hugo von 62, 64, 67, 181, 191, 215 Hölderlin, Friedrich 52, 65, 76-78, 89, 166, 175, 176, 187, 190, 205, 211, 215, 216, 230 Hooghens, Giovanni von 14, 108-111 Hornheffer, Ernst 130 Hume, David 69, 107, 230 Huß, Bernhard 4 Hutcheon, Linda 302 Ibsen, Henrik 49, 119, 147, 161, 207 Ignoto Tedesco 74, 102-104, 106, 205, 236 Imbriani, Vittorio 87, 88, 250, 283 Invernizio, Carolina 38 Izzo, Donatella 20 Jacob, Max 29, 191 Jahier, Piero 51, 77-79, 149, 171, 207 James, William 27, 66, 75, 99, 183 Jarry, Alfred 29 Jastrebzof, Serge 46, 79 Jauss, Hans Robert 302 Jean Paul 65, 181, 271 Jervolino, Domenico 111 Jesi, Furio 128 Jessner, Leopold 218 Joachimi, Marie 204 Johst, Hanns 218 Joyce, James 167 Jung, Gustav 209 Jurt, Joseph 20 Kafka, Franz 62, 86, 167, 212, 213, 215, 217 Kant, Immanuel 69, 70, 75, 76, 175, 187, 189, 233
312 Kantorowicz, Max 64 Kautsky, Karl 67 Keller, Gottfried 63, 65 Kennard, Joseph Spencer 143 Kierkegaard, Søren 207 Kipling, Rudyard 78, 79 Kittel, Harald 111 Kleist, Heinrich von 65, 76, 88, 175, 176, 180, 181, 190 Koller, Werner 111 Kotzebue, August von 251 Kraus, Karl 6, 7, 11, 14, 21, 62, 78, 79, 95, 191, 115-138, 191, 254, 256, 258, 259 Kristeva, Julia 302 Kühn Amendola, Eva 76, 171, 173, 182, 190 Kuliscioff, Anna 127 Kunz, Fabien 20 La Penna, Daniela 20 Lachmann, Renate 139, 302 Lagerlöf, Selma 182 Lambert, José 111 Lasca cfr. Grazzini, Anton Francesco Lasker-Schüler, Else 78, 215 Lassalle, Ferdinand 67 Laterza, Giovanni 35, 36, 59, 60, 6871, 73, 80, 83, 144, 158, 171-173, 178, 180, 189, 190, 193, 197, 211, 215, 230-235 Laterza, Giuseppe 71, 73 Lefevere, André 138, 295, 301, 302 Leibniz, Gottfried Wilhelm 69 Lenau, Nikolas 65, 81, 180 Leonardo da Vinci 230 Leopardi, Giacomo 88, 230 Lessing, Gotthold Ephraim 65, 81, 179 Levi, Eugenio 65 Lichtenberg, Georg Christoph 76, 175, 176, 189 Lio, Eugenio 153 Lodoli, Ida 193 Loewy, Marcello 46, 79, 119, 120, 163, 207, 245 Lombardo Radice, Giuseppe 70 Lombroso, Cesare 34, 65, 67, 86, 230 London, Jack 108
indice dei nomi Longanesi, Leo 185, 202, 207 Loria, Achille 66 Losacco, Michele 76 Lovera, Romeo 67 Lukács, György 148 Lunzer, Renate 123, 149, 303 Luperini, Romano 122, 161, 303 Lutero, Martin 103 Luti, Giorgio 27, 303 Luzzatto, Gino 71 Luzzatto, Sergio 35, 303 Mach, Edmund 67 Maeterlinck, Maurice 93, 98 204, 230 Magris, Claudio 149 Malagoli, Roberta 20 Malaparte, Curzio 79, 173, 207 Manacorda, Giorgio 19 Manacorda, Guido 69, 72, 73, 84, 158, 172, 209, 215 Manghetti, Gloria 32, 52, 123, 188, 207 Mann, Heinrich 62, 84, 85 Mann, Thomas 7, 62, 67, 73, 76, 79, 81, 84-86, 148, 196, 197, 208, 212, 215, 217, 266, 267 Mantegazza, Paolo 209 Manuzio, Aldo 228, 229 Manzoni, Alessandro 88 Marco Aurelio 229 Mariani, Mario 84 Marin, Biagio 149 Marinetti, Filippo Tommaso 25, 38, 39, 41, 42, 86, 130, 135, 177, 184, 190, 276 Marinig, Lydia 73 Marino, Valeria 20 Marinoni, Manuele 94 Marrucchi, Piero 103, 104, 203 Martegiani, Gina 52, 73, 76, 81, 84, 176, 180 Martinetti, Piero 67 Marx, Karl 67 Massulli, Mauro 19 Mastropasqua, Aldo 123 Mauriac, François 108, 200 Maurras, Charles 201 Mazza, Donatella 153
313
indice dei nomi Mazzarella, Arturo 144, 303 Mazzoni, Guido 34 Mazzucchetti, Lavinia 7, 82, 84, 85, 151153, 165, 181, 208, 216, 249, 252 Medici, Lorenzo de’ 172 Mehring, Franz 67 Meister Eckhart cfr. Eckhart, Johannes Meizoz, Jérôme 117, 291, 294, 302 Meozzi, Antero 76, 177 Meyrink, Gustav 82 Michelstaedter, Carlo 149, 214 Micocci, Claudia 162 Miglio, Camilla 4, 19 Milani, Mila 20 Missiroli, Mario 211, 215 Mistral, Frédéric 211 Möbius, Paul Julius 67 Monanni, Giuseppe 86 Mongini, Luigi 67 Monneret de Villard, Ugo 97, 98 Montale, Eugenio 173, 174 Montépin, Xavier de 63 Monteverdi, Angelo 151 Moravia, Alberto 174 Mörike, Eduard 179, 199 Moscardelli, Nicola 174 Mugnoz, Arturo 149 Musil, Robert 62 Mussolini, Benito 79, 184, 185, 202 Nalato, Giuseppe Ugo cfr. Dàuli, Gian Naumann, Friedrich, 71 Neal, Thomas cfr. Cecconi, Angelo Necco, Giovanni 88 Nelva, Daniela 20 Nergaard, Siri 302 Nicolini, Fausto 69 Nietzsche, Friedrich 5, 7, 9, 14, 26, 27, 52, 62, 65-67, 70, 71, 73, 74, 76, 77, 85-87, 119, 135, 175-177, 187191, 207, 214, 223, 256, 276, 277 Nordau, Max 63, 64 Nostro, Ida 19 Notari, Umberto 38 Novalis 5-7, 9, 10, 14, 52, 74-77, 81, 85-87, 93-101, 103-106, 108, 109, 111, 119, 128, 147, 154-159, 161, 175, 176, 178, 179, 187, 190, 193,
194, 198-201, 203-205, 221-227, 230, 236, 241, 268, 270, 271 Nozzoli, Anna 303 Oberdorfer, Aldo 67, 71, 76, 77 Oblath, Elody 161, 163 Occhini, Beatrice 20 Ohnet, Georges 63 Ojetti, Ugo 48, 125, 281 Oliva, Gianni 175 Omero 225, 264, 283 Palazzeschi, Aldo 25, 42, 190, 254 Pancrazi, Pietro 46, 184 Papini, Gioconda 183 Papini, Giovanni 5-7, 10, 14, 15, 2534, 36, 38-43, 46, 47, 49-52, 60, 64, 66, 68, 69, 74-80, 83, 84, 86, 87, 94, 96, 97, 101, 118, 119, 121, 123-138, 145, 166, 171-173, 175178, 183-192, 201-204, 206, 207, 209, 214, 221, 228, 230, 232, 254, 259, 263, 273, 276, 283, 286, 303 Papini, Luigi 183 Papini, Viola 183 Paracelso 108-109, 205, 230 Pareto, Vilfredo 27, 183 Parodi, Ernesto Giacomo 209 Pascoli, Giovanni 26 Pasini, Ferdinando 79, 81, 88, 179 Paul, Fritz 111 Pavese, Cesare 286 Pavolini, Corrado 82 Pedullà, Gabriele 35, 303 Péguy, Charles 78, 183, 201 Pelleriti, Carmela 175 Pellini, Pierluigi 20 Perodi, Emma 63, 64 Perozzo, Valentina 38 Perrella, Francesco 102 Perrotta, Olga 20 Pertici, Roberto 30, 149, 303 Pestalozza, Uberto 98 Petrarca, Francesco 186, 283 Petrella, Laura 20 Petrillo, Gianfranco 20 Petrocchi d’Auria, Francesca 74 Pfeiffer, Franz 102
314 Pianigiani, Elena 201 Picasso 29, 184 Pico della Mirandola 230 Pirandello, Luigi 144, 171 Pirro, Maurizio 20 Pisaneschi, Ada 193 Pisaneschi, Antonio 193 Pisaneschi, Ermanno 193 Pisaneschi, Guido 193 Pisaneschi, Rosina 7, 15, 73, 77, 80-82, 84, 87, 88, 144, 145, 148-153, 158167, 179, 181, 193-200, 207, 211214, 218, 227, 249, 266, 270 Piscator, Erwin 218 Piscini, Angela 103-104 Platen-Hellermünde, August von 65, 181 Platone 229 Plotino 229 Pocar, Ervino 84, 181 Poggioli, Renato 174 Poliakov, Serge 232 Polledro, Alfredo 82, 286 Polledro, Rachele 82 Pompilio, Antonella 83, 232 Pope, Alexander 225 Poppe, Theodor 232 Pozzoni, Ivan 94 Praga, Marco 48 Preger, Wilhelm 205 Prezzolini, Alessandro 201 Prezzolini, Giuliano 32, 203 Prezzolini, Giuseppe 5-7, 9-11, 14, 15, 25-28, 30-34, 36-38, 40-42, 47, 5053, 64, 66, 68, 69, 74-80, 83, 84, 86-88, 93-112, 118, 119, 121, 126129, 134, 135, 144, 145, 147- 149, 152, 154, 156, 158, 165-167, 171, 176, 179, 181, 183, 184, 188-190, 193-196, 198, 199, 201-211, 214217, 221, 224, 226-228, 230, 232, 236, 241, 266, 268, 271, 281, 286, 288, 303 Prezzolini, Luigi 201 Proudhon, Pierre-Joseph 172 Puglisi, Mario 76 Quaranta, Clinio 181 Quaranta, Mario 96
indice dei nomi Quattrini, Attilio 77, 79 Quilici, Nello 81, 179 Rabatti, Leonello 137 Rabizzani, Giovanni 172 Ragone, Giovanni 19, 60, 175, 303 Ramat, Silvio 303 Rank, Otto 209 Rasera, Fabrizio 120 Rebora, Clemente 52, 207 Recla, Marta 59 Regina, Vincenzo 189 Reinhardt, Max 49 Rhys, Ernest 172 Ricciardi, Riccardo 83 Richter, Johann Paul Friedrich cfr. Jean Paul Richter, Mario 125 Rilke, Rainer Maria 62, 86, 191, 215, 266 Rimbaud, Arthur 29, 78, 79 Rinieri, Attilio 71 Rios, Irma 63 Rispoli, Marco 20 Rocca, Enrico 82 Rohde, Erwin 71 Rolland, Romain 51, 201 Romagnoli, Ettore 82 Roncali, Elsa 76 Rossi, Francesco 20 Rosso di San Secondo, Piero 174 Rosso, Medardo 29 Rüesch, Diana 107, 303 Rundle, Christopher 4 Ruta, Enrico 71 Saba, Umberto 131, 174, 207, 214 Sachs, Hans 73 Salten, Felix 129 Salus, Hugo 191 Salvatorelli, Luigi 70 Salvemini, Gaetano 28, 79, 209, 214 Salvini, Gioconda (Jakie) 202 Santoli, Vittorio 59 Sapiro, Gisèle 19, 302 Sarfatti, Margherita 127 Savarese, Nino 174, Savettieri, Cristina 20
indice dei nomi Sbarbaro, Camillo 207 Sbarra, Stefania 20 Scarfoglio, Edoardo 171, 232 Scarpa, Domenico 35, 303 Schanzer, Ottone 64 Scheiwiller, Vanni 51, 129 Schelling, Friedrich 76, 175, 189, 250 Schiller, Ferdinand Canning Scott 96 Schiller, Friedrich 65, 151, 216, 222, 229, 230, 239, 251 Schlegel, Caroline 70, 71, 198 Schlegel, Karl Wilhelm Friedrich 72, 73, 75, 153, 187, 230 Schlegel, Wilhelm August 153, 187 Schleiermacher, Friedrich Daniel Ernst 76, 175, 189, 230 Schmeißner, Katrin 148 Schnitzler, Arthur 129 Schopenhauer, Arthur 6, 65-67, 69, 76, 77, 89, 119, 175, 176, 187, 189, 190 Schram Pighi, Laura 96 Schwarze, Sabine 111 Scipione (pseudonimo di Gino Bonichi) 174 Seneca 229 Serao, Matilde 102 Sergi, Giuseppe 230 Serra, Renato 7, 36-39, 42, 48, 49, 52, 53, 78, 79, 82, 83, 148, 273, 286 Seuse, Heinrich 103, 177, 200, 205, 230 Sevelinges, Charles-Louis de 249, 251253 Shakespeare, William 73, 124, 134, 186, 248, 263, 264, 272, 283 Silesius, Angelus 103 Silvestri, Giovanni 252 Simmel, Georg 148 Simonetti, Carlo Maria 79, 303 Sisto, Michele 4, 5, 19, 182 Slataper, Luisa 182 Slataper, Scipio 6, 7, 9, 10, 14, 15, 4143, 46, 49, 52-54, 70, 75-79, 87, 88, 117-122, 144-149, 152, 161167, 171, 176, 179, 190, 193, 195, 207, 211, 214, 227, 238, 241, 243, 245, 268
315 Socrate 256 Soffici, Ardengo 7, 25, 29, 30, 40-42, 43, 46, 49, 50, 53, 77-79, 125, 136, 171, 184, 190, 191, 201, 207, 211, 214, 254, 260 Sola, Emma 181 Solari, Pietro 174 Solmi, Sergio 174 Somalvico, Bruno 303 Somaré, Enrico 65 Sonzogno, Edoardo 59, 61, 62, 64-66, 83, 84, 88, 229, 230 Sorel, Georges Eugène 183, 201 Sosio, Silvio 19, 20 Spaini Pisaneschi, Rosina cfr. Pisaneschi, Rosina Spaini, Alberto 6, 7, 15, 41, 70, 73, 75, 77, 78, 80, 82, 84, 85, 88, 123, 144, 145, 147-167, 174, 179, 181, 193, 195-198, 207, 208, 211-218, 227, 249, 250, 252, 266-268, 270 Spaini, Federico 211 Spaini, Giuliana 194, 212, 213 Spaini, Paolo 194, 212 Spampinato, Salvatore 20 Spartaco, Pupo 94 Spaventa, Bertrando 33, 230 Spaventa, Silvio 33 Spencer, Herbert 65, 66 Spenlé, Jean-Édouard 93, 94, 204 Spir, Afrikan 76 Spyri, Johanna 182 Stefanoni, Luigi 65 Stefanski, Karin 107 Steiner, George 302 Steiner, Rudolf 177 Steizinger, Johannes 148 Stendhal 256 Stevenson, Robert Louis 107 Stirner, Max 66, 67, 187 Storm, Theodor 181, Strappini, Lucia 162 Strauss, Richard 64, 67 Strindberg, August 278 Stuparich, Carlo 149, 190, 211, 214 Stuparich, Giani 42, 43, 76, 77, 84, 120, 121, 146, 149, 161-163, 165, 166, 176, 190, 211, 214
316 Sudermann, Hermann 63 Sullam, Sara 20 Suso, Enrico cfr. Seuse, Heinrich Svevo, Italo 144 Swift, Jonathan 107, 176 Tafel, Luise Antonie ‘Helene’ 63 Tagore, Rabindranath 172 Tatasciore, Claudia 20 Tauler, Johannes 200, 205, 230 Tavolato, Italo 6, 7, 14, 25, 79, 95, 116, 117, 122-138, 149, 190, 191, 208, 211, 214, 215, 254, 256, 259, 280 Tavolato, Pietro 129 Tecchi, Bonaventura 80, 84, 193, 211, 215 Tedeschi Treves, Virginia cfr. Cordelia Terra, Dino 174 Tevini, Gerolamo 81, 179 Tieck, Ludwig 81, 180, 181, 217, 230, 271 Tilgher, Adriano 70 Titta Rosa, Giovanni 174 Tolstoj, Lev 63, 108, 230, 277 Tommei, Ugo 190 Tortora, Massimiliano 4, 20 Toury, Gideon 302 Trakl, Georg 62 Treitschke, Heinrich von 71 Trettenero, Vittorio 63 Treves, Emilio 38, 59, 61-64, 66, 72, 73, 83, 84, 88, 228, 229, 273, 275, 286-288 Turati, Filippo 127 Uerlings, Herbert 94 Uhland, Ludwig 181 Vailati, Giovanni 76, 110, 119, 171, 183, 189, 203 Vaina, Michele 79 Vallecchi, Attilio 83, 173, 190, 207 Van Hooghens, Giovanni 108-111, 205 Vannini, Marco 102, 103 Vasoli, Cesare 103 Vassalli, Sebastiano 135 Verdinois, Federigo 82, 172 Verga, Giovanni 48, 63, 144
indice dei nomi Verkade, Sextus Gerardus (Jan) 110 Verworn, Max 230 Vico, Giambattista 69 Viebig, Clara 63 Vieusseux, Giovan Pietro 228 Villa, Giovanni 94 Vincenti, Leonello 84 Virgilio 181 Viscardi, Marco 20 Vitali, Giulio 76 Vittoria, Albertina 20, 149, 213 Vittorini, Elio 174 Voltaire 284 Voss, Richard 172 Vossler, Karl 71, 179, 205 Wackenroder, Wilhelm Heinrich 72, 73, 81, 180 Wagner, Nike 126, 130 Wagner, Richard 65, 66 Walden, Herwarth 215 Walser, Robert 62 Weber, Karl Julius 76 Weber, Max 71 Wedekind, Frank 6, 62, 78, 129, 131, 197, 212, 218 Weidner, Daniel 148 Weininger, Otto 6, 67, 129-132, 138, 188, 189, 191, 209, 282, 303 Weisel, Edmondo 67 Werfel, Franz 215 Werner, E. 63, 64 Werner, Michael 297, 301 Wertheimer, Paul 191 Whitman, Walt 64 Wieland, Christoph Martin 73, 238 Wilfert-Portal, Blaise 4, 20 Wolf, Michaela 302 Zagari, Luciano 94 Zaghi, Carlo 212 Ziegler, Henri de 185 Zoccoli, Ettore 67 Zola, Emile 63 Zuccoli, Luciano 26, 38 Zweig, Stefan 191
Notizie biografiche Anna Baldini è ricercatrice in Letteratura italiana contemporanea all’Università per Stranieri di Siena, e capo-redattrice della rivista «allegoria». Nel 2008 ha pubblicato Il comunista. Una storia letteraria dalla Resistenza agli anni Settanta (Utet), grazie a quale ha ricevuto nel 2010 una Special Mention come Best Early Career Scholar alla prima edizione dell’Edinburgh Gadda Prize-900 in saggio. È co-autrice di un manuale di letteratura per le scuole secondarie superiori, La letteratura e noi. Daria Biagi lavora come assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Studi Europei di Sapienza Università di Roma. Si occupa di letteratura italiana e tedesca del Novecento, di storia del romanzo e di traduzione. Ha pubblicato un saggio su Stefano D’Arrigo (Orche e altri relitti. Sulle forme del romanzo in Stefano D’Arrigo, Quodlibet, 2017) e tradotto, tra gli altri, il romanzo Materia prima di Jörg Fauser (L’Orma, 2017). Stefania De Lucia è assegnista di ricerca presso la Sapienza Università di Roma. Ha scritto sul fenomeno dell’Orientalismo nella cultura austriaca di fin de siècle, sulla scrittura femminile dell’esilio e della migrazione, sulla rappresentazione dello spazio e della memoria nella letteratura dell’Europa centrale. Ha curato (con C. Gallo e D. Marino) il volume Landscapes and Mindscapes. Metodologie di ricerca, percorsi geocentrati e poetiche dello spazio in una prospettiva comparata (Marchese, 2014) e Scrittrici nomadi. Passare i confini tra lingue e culture (Sapienza, 2016). Irene Fantappiè ha una posizione di ricerca (“Eigene Stelle”) presso la Freie Universität di Berlino. Formatasi all’Università di Bologna e a University College London, già borsista Humboldt e ricercatrice alla Humboldt Universität di Berlino, si occupa di letteratura italiana e tedesca, con particolare riguardo a problemi relativi a traduzione e intertestualità. Ha pubblicato Karl Kraus e Shakespeare (Quodlibet, 2012) e L’autore esposto (Peter Lang, 2016); ha inoltre curato volumi e edizioni e ha scritto numerosi saggi su autori italiani e tedeschi dal Cinquecento a oggi. Michele Sisto è professore associato di Letteratura tedesca all’Università Gabriele d’Annunzio di Chieti-Pescara. È redattore del blog www.germanistica.net e delle riviste «allegoria» e «Osservatorio critico della germanistica». Ha curato L’invenzione del futuro. Breve storia letteraria della DDR dal dopoguerra a oggi (Scheiwiller, 2009), Scegliendo e scartando. Pareri di lettura di Cesare Cases (Aragno, 2013), Letteratura italiana e tedesca 1945-1970: campi, polisistemi, transfer (Studi germanici, 2013, con I. Fantappiè), Sull’utopia (Università di Trento, 2017, con A. Fambrini e F. Ferrari).
Finito di stampare nel marzo 2018 a cura di pde Promozione srl presso lo stabilimento di LegoDigit srl, Lavis (tn)