Traiettorie. Studi sulla letteratura tradotta in Italia
 9788822903204

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E se la letteratura italiana includesse anche le traduzioni, il Faust accanto ai Promessi sposi, Così parlò Zarathustra accanto a Un uomo finito, l’Opera da tre soldi accanto a Sei personaggi in cerca d’autore? Attraverso la sociologia di Pierre Bourdieu si può leggere la storia letteraria nazionale in modo nuovo, considerando ogni traduzione come una presa di posizione nel campo di forze di chi fa la letteratura: scrittori, editori, traduttori, accademici e registi con le loro riviste, collane, cattedre e teatri. Le traiettorie italiane di Goethe, Büchner, Mann o Brecht dipendono, per tratti decisivi, da quelle di Giovita Scalvini, Giuseppe Antonio Borgese, Piero Gobetti, Paolo Grassi o Franco Fortini, ma anche di Le Monnier, Bompiani, Frassinelli o Einaudi. A partire dal caso della letteratura tedesca, sette studi affrontano altrettanti snodi della storia letteraria italiana, intrecciando ricostruzione storica e riflessione teorica: dalla diaspora europea dei romantici nel 1821 alla consacrazione del romanzo nel decennio delle traduzioni, fino ad arrivare al presente.

Michele Sisto Traiettorie

Quodlibet Studio Letteratura tradotta in Italia

Sommario: Introduzione - 1. Individuazione di un capolavoro. I primi mediatori del Faust di Goethe (1814-1835) - 2. Gli editori e il repertorio della letteratura tradotta. Breve storia delle edizioni del Faust (1835-2018) - 3. Nascita di una disciplina. Le prime cattedre di germanistica in Italia (1898-1915) - 4. Condizione necessarie. Georg Büchner nel campo letterario italiano (1914-1955) - 5. La genesi di un nuovo habitus editoriale. Piero Gobetti e la letteratura tedesca del «Baretti» (1919-1926) - 6. La consacrazione del romanzo. Traiettorie delle collane di narrativa straniera nel campo editoriale (1929-1935) - 7. Un repertorio per il teatro di regia. Paolo Grassi e i “tedeschi” di Rosa e Ballo (1942-1947). Michele Sisto insegna letteratura tedesca all’Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti-Pescara. È redattore delle riviste «allegoria», «Osservatorio critico della germanistica», del blog germanistica.net e co-direttore della collana Letteratura tradotta in Italia (Quodlibet). Tra le sue pubblicazioni L’invenzione del futuro. Breve storia letteraria della DDR dal dopoguerra a oggi (2009), Scegliendo e scartando. Pareri di lettura di Cesare Cases (2013), Letteratura italiana e tedesca 1945-1970: campi, polisistemi, transfer (2013), Sull’utopia (2017), Lavinia Mazzucchetti. Impegno civile e mediazione culturale nell’Europa del Novecento (2017) e La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione 1900-1920 (2018).

isbn

22,00 euro

978-88-229-0320-4

QS

Michele Sisto Traiettorie Studi sulla letteratura tradotta in Italia Quodlibet Studio

Quodlibet Studio Letteratura tradotta in Italia

Michele Sisto

Traiettorie Studi sulla letteratura tradotta in Italia

Quodlibet

Prima edizione: maggio 2019 isbn 978-88-229-0320-4 © 2019 Quodlibet srl Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 - 62100 Macerata www.quodlibet.it

Letteratura tradotta in Italia Collana diretta da Anna Baldini, Irene Fantappiè, Michele Sisto Comitato scientifico: Francesca Billiani (University of Manchester), Arno Dusini (Universität Wien), Bernhard Huß (Freie Universität Berlin), Camilla Miglio (Sapienza Università di Roma), Christopher Rundle (Università di Bologna), Massimiliano Tortora (Università degli Studi di Torino), Blaise Wilfert-Portal (École Normale Supérieure Paris)

Volume pubblicato nell’ambito del progetto MIUR Futuro in Ricerca 2012 Storia e mappe digitali della letteratura tedesca in Italia nel Novecento: editoria, campo letterario, interferenza (www.ltit.it).

Indice

11 Introduzione 1. Letteratura tradotta e storia letteraria nazionale (p. 11); 2. Traiettorie: una proposta di metodo (p. 15); 3. Sette questioni, sette studi (p. 25) 34 Nota al testo 36 Ringraziamenti

39 1. Individuazione di un capolavoro. I primi mediatori del Faust di Goethe (1814-1835) 1. Indizi per un’indagine (p. 41); 2. Il repertorio della letteratura tedesca in Italia dopo il 1814 (p. 43); 3. Il “ferrovecchio” Goethe: riverito, proibito, travisato (p. 46); 4. Carbonari a Parigi: l’esilio come condizione per l’allargamento dell’orizzonte letterario (p. 50); 5. La svolta del 1827: l’«Antologia» e la recensione di Mazzini (p. 56); 6. L’«Indicatore Lombardo» e il saggio di Carlyle (p. 59); 7. Da capo: la prima edizione del Faust e la sua introduzione (p. 62); 8. Nel repertorio italiano della letteratura mondiale (p. 67)

69 2. Gli editori e il repertorio della letteratura tradotta. Breve storia delle edizioni del Faust (1835-2018) 1. Traduzioni-libro vs. traduzioni-testo: le edizioni come prese di posizione (p. 71); 2. I Faust ottocenteschi: da Scalvini & Silvestri a Maffei & Le Monnier e ritorno (p. 78); 3. I Faust moderni del primo Novecento: da Manacorda & Mondadori a Amoretti & utet (p. 83); 4. Il primo Faust Einaudi (1953) (p. 97); 5. «Con i metodi e nelle prospettive del socialismo»: il Faust di Cases nella nuo-

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va universale einaudi (1965) (p. 103); 6. «Noi siamo allegorie»: il Faust di Fortini nei meridiani Mondadori (1970) (p. 121); 7. «Un testo che è un mondo»: il Faust di Casalegno per Garzanti (1989) (p. 139); 8. Le edizioni del Faust oggi (p. 149)

155 3. Nascita di una disciplina. Le prime cattedre di germanistica in Italia (18981915) 1. Cesare De Lollis germanista (1885-1905) (p. 158); 2. Le cattedre italiane di letteratura tedesca fino al 1905: la vicenda di Sigismondo Friedmann (p. 160); 3. De Lollis e il primo concorso all’Università di Roma (1906): Eduardo Giacomo Boner (p. 163); 4. Arturo Farinelli, Benedetto Croce e il secondo concorso all’Università di Roma (1910): Giuseppe Antonio Borgese (p. 164); 5. Le «intime relazioni» tra Borgese e De Lollis, e il concorso all’Università di Napoli (1913): Guido Manacorda (p. 169); 6. Con Croce o contro Croce: la fine della «Nuova Cultura» (p. 172); 7. Il concorso all’Università di Genova (1915): Giuseppe Gabetti. Epilogo (p. 174)

177 4. Condizioni necessarie. Georg Büchner nel campo letterario italiano (1914-1955) 1. Tre condizioni necessarie all’individuazione di un autore (p. 179); 2. La trasformazione del campo accademico: nascita della germanistica italiana (p. 182); 3. La trasformazione del campo editoriale: genesi di un circuito di produzione ristretta (p. 192); 4. La trasformazione del campo teatrale: la rivoluzione del teatro di regia (p. 199); 5. Effetti di un «lavoro collettivo» (p. 208)

211 5. La genesi di un nuovo habitus editoriale. Piero Gobetti e la letteratura tedesca del «Baretti» (1919-1926)

1. Piero Gobetti nel campo letterario degli anni ’20 (p. 213); 2. Traiettoria e prese di posizione di un nuovo entrante: la

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genesi di un habitus (p. 214); 3. I tedeschi del «Baretti»: Wedekind, George, Rilke, il teatro espressionista (p. 225); 4. Effetti e influenze di un habitus (p. 235)

237 6. La consacrazione del romanzo. Traiettorie delle collane di narrativa straniera nel campo editoriale (1929-1935) 1. 1930: l’irresistibile ascesa del romanzo (p. 239); 2. La polarizzazione del campo letterario e la genesi dell’interdetto sul romanzo (1909-1929) (p. 240); 3. Il romanzo nel circuito di produzione ristretta: tentativi di consacrazione, da Slavia a Frassinelli (p. 244); 4. Il romanzo nel circuito di produzione di massa: la riorganizzazione delle collane di narrativa, da Treves a Barion (p. 252); 5. La struttura del campo della narrativa tradotta intorno al 1930 e l’egemonia di Mondadori (p. 261); 6. I “tedeschi” di Bompiani nel campo letterario: Kästner, Brunngraber e il romanzo collettivo (p. 269)

277 7. Un repertorio per il teatro di regia. Paolo Grassi e i “tedeschi” di Rosa e Ballo (19421947) 1. La parte di Rosa e Ballo nella storia del campo letterario italiano (p. 279); 2. Traiettoria di Ferdinando Ballo fino alla fondazione della casa editrice (1924-1942) (p. 281); 3. Costituzione della redazione e della rete dei collaboratori (1942-1943) (p. 284); 4. Le collane teatrali di Paolo Grassi (1944-1947) (p. 289); 5. teatro moderno e la rivoluzione del teatro di regia (p. 298)

301 Indice delle collane 305 Indice dei nomi

L’ideologia dell’opera d’arte inesauribile, o della “lettura” come ri-creazione, maschera, per il quasidisvelamento che spesso si osserva nelle questioni di fede, che l’opera è davvero fatta non due, ma cento, mille volte, da tutti coloro che a essa si interessano, che trovano un interesse materiale o simbolico nel leggerla, classificarla, decifrarla, commentarla, riprodurla, criticarla, combatterla, conoscerla, possederla. Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte

Introduzione

1. Letteratura tradotta e storia letteraria nazionale La storia della letteratura italiana – come le altre storiografie letterarie nazionali – assume come proprio oggetto d’indagine un corpus selezionato di testi prodotti sul territorio italiano da autori italiani in lingua italiana. Non prende invece in considerazione un altro corpus molto vasto, anch’esso in lingua italiana: la letteratura tradotta. Le ragioni sono note: le discipline che studiano la letteratura italiana si sono costituite durante le lotte risorgimentali per l’unità nazionale sulla base di criteri di inclusione legati a quell’orizzonte storico (si pensi alla questione della lingua, o a quella della formazione della coscienza civile del paese), a cominciare proprio dalla distinzione fra letteratura italiana e letterature straniere. Le integrazioni proposte nel corso del Novecento non hanno di fatto messo in discussione l’assiologia fissata nel 1870-71 dalla Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis1. Della letteratura tradotta si fanno carico in genere altre discipline, per lo più da prospettive oblique: le singole storiografie let1  Ci sono stati, naturalmente, tentativi di correzione e integrazione, che hanno riguardato la letteratura in lingua latina o in dialetto, quella degli italiani all’estero o dei migranti in Italia, ma non hanno mai scardinato la “grande narrazione” storico-letteraria dominante né sul piano simbolico (si tratta cioè di opere e autori generalmente considerati “minori”) né sul piano pratico (rari, perché accademicamente poco remunerativi, sono gli studi a essi dedicati), proprio perché l’inconscio disciplinare resta strutturato da principi di visione e divisione elaborati in funzione del nation building. Un interessante tentativo di decostruire questa narrazione è invece il recente Atlante della letteratura italiana Einaudi (2010-2012), curato da Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà. Se ne veda la discussione in «Allegoria», 65-66, 2012, pp. 279-311, in particolare il contributo di Anna Boschetti.

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terarie indagano la ricezione all’estero soltanto degli autori e testi inclusi nel corpus della rispettiva letteratura nazionale, e soltanto come appendice alla narrazione dominante della loro vicenda in patria; i translation studies tendono a isolare le traduzioni come oggetto specifico, separandole dalle produzioni originali sia della letteratura di partenza sia di quella di arrivo; la comparatistica, che tematizza esplicitamente la world literature, la considera generalmente come un sistema unitario, senza tenere conto dell’effettivo ruolo dei circuiti nazionali nella circolazione transnazionale della letteratura; e così via2. Il risultato è che l’enorme corpus della letteratura tradotta non ha cittadinanza in nessun territorio di studi: nell’attuale divisione disciplinare del lavoro le traduzioni del Don Chisciotte, del Faust o della Ricerca del tempo perduto sono d’interesse del tutto periferico per l’ispanistica, la germanistica e la francesistica, e pressoché ignorate dall’italianistica. La proposta teorica di cui ho provato a saggiare la produttività in questo libro – e più ampiamente con il progetto di ricerca LTit – Letteratura tradotta in Italia (www.ltit.it) – è che sia possibile, anzi auspicabile, studiare la letteratura tradotta come parte integrante del corpus della letteratura d’arrivo, in questo caso di quella italiana. Non è una proposta originale. Già nel 1978 Itamar Even-Zohar in The Position of Translated Literature within the Literary Polysystem osservava: 2  Mi riferisco qui a tendenze generali, rispetto alle quali non mancano eccezioni, anche in Italia. Per le mie ricerche, per esempio, hanno avuto grande importanza i lavori di germanisti come Mario Rubino (I mille demoni della modernità: l’immagine della Germania e la ricezione della narrativa tedesca in Italia tra le due guerre, Flaccovio, Palermo 2002; ma si potrebbe risalire indietro fino all’ancora valido studio di Lavinia Mazzucchetti, Schiller in Italia, Hoepli, Milano 1913), di italianisti come Valerio Ferme (Tradurre è tradire. La traduzione come sovversione culturale sotto il fascismo, Longo, Ravenna 2002) o Francesca Billiani (Culture nazionali e narrazioni straniere: Italia, 1903-1943, Le Lettere, Firenze 2007), di traduttologi come Christopher Rundle (Publishing Translations in Fascist Italy, Lang, Oxford 2010), o di storici dell’editoria come Giovanni Ragone o Alberto Cadioli. Fondamentali sono stati, a livello internazionale, la discussione di ambito comparatistico innescata dallo studio di Pascale Casanova La République mondiale des lettres (Seuil, Paris 1999) e sintetizzata da Christoph Pendergast nella raccolta Debating World Literature (Verso, London 2004), così come le ricerche di storici come Michael Werner e Michel Espagne (in particolare il terzo volume di Philologiques dedicato a Qu’est-ce qu’une litterature nationale? Approches pour une théorie interculturelle du champ littéraire, Editions de la Maison des Sciences de l’Homme, Paris 1994).

introduzione

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Di norma le storie letterarie parlano di traduzioni solo quando non c’è modo di evitarle, per esempio quando trattano il Medioevo o il Rinascimento. Certo si possono trovare sporadici riferimenti a singole traduzioni letterarie anche in altri periodi, ma di rado sono incorporati in modo coerente nella ricostruzione storica. Di conseguenza è difficile farsi un’idea della funzione che la letteratura tradotta svolge in una certa letteratura o della posizione che ha all’interno di essa. Inoltre non c’è percezione del fatto che la letteratura tradotta possa essere, in sé, un sistema letterario. Prevale piuttosto un’idea di “traduzione” o di “opera tradotta” concepita su base individuale. Esiste una base per una diversa concezione, per considerare cioè la letteratura tradotta come un sistema? Esiste, anche all’interno di quello che sembra essere un insieme arbitrario di testi tradotti, la stessa rete culturale e verbale di relazioni che siamo soliti ipotizzare per la letteratura originale?3

Raccogliendo questa provocazione in una prospettiva storico-letteraria possiamo immaginare che, nel volgere di una generazione o due, si riescano a produrre manuali di letteratura italiana che includano tanto le opere autoctone quanto le principali opere della letteratura mondiale. Non solo: che queste opere vi vengano trattate non nella cornice di generici movimenti culturali internazionali, come ora in genere avviene, ma individuando quelle particolari traduzioni, o più precisamente quelle operazioni culturali, che di fatto le hanno introdotte nella nostra cultura (magari a distanza di decenni, o perfino di secoli, dalla loro comparsa nella cultura d’origine) e che poi ve le hanno mantenute, producendo e riproducendo incessantemente un repertorio. Indagare sistematicamente quali autori e quali testi sono stati “importati” nel sistema letterario italiano, chiedendosi perché e da chi, ricostruire come sono stati letti, da chi, quale riconoscimento hanno ottenuto, e presso quali gruppi letterari, analizzare le traduzioni, le riscritture, i rifacimenti, e i rapporti reciproci fra questi e la produzione autoctona, significa addentrarsi in un campo di ricerche vastissimo e ancora in larga parte inesplorato. Da una parte tale allargamento del campo d’indagine produr3  Itamar Even-Zohar, The Position of Translated Literature within the Literary Polysystem [1978], in Polysystem Studies, «Poetics Today», XI.1, 1990, pp. 45-46 (trad. mia). Un intero filone dei translation studies, da Theo Hermans a Gideon Toury, da Susan Bassnett a Anthony Pym, ha percorso questa strada, senza però arrivare a integrare la storia delle traduzioni nelle storie letterarie nazionali.

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rebbe un vero e proprio terremoto per le discipline italianistiche, che si troverebbero a misurarsi con decine di migliaia di nuovi testi, tradotti dalle più diverse letterature, da Omero a Bob Dylan, passando per Harry Potter; d’altra parte, per contro, costituirebbe un notevole progresso epistemologico, con ampie ripercussioni sia sul piano più strettamente disciplinare (attraverso l’esplorazione di un terreno di ricerca comune tanto alle discipline letterarie nazionali quanto alla comparatistica, ai translation studies ecc.), sia su quello più latamente politico (penso alla necessità di costruire una cultura moderna allo stesso tempo locale e globale, all’altezza dei problemi posti dalla progressiva integrazione europea e mondiale). Prima ancora di invocare la teoria – come sarà necessario fare nel prossimo paragrafo – è l’esperienza stessa a dirci che ciò che la “ragion scolastica”, con la sua divisione del lavoro disciplinare, ha separato, è in realtà parte di un processo di produzione unitario: in libreria come in biblioteca, letteratura italiana e letteratura tradotta stanno insieme, non solo nella stessa lingua, ma sotto gli stessi marchi editoriali, nelle stesse collane, spesso accomunate dagli stessi nomi. A selezionare le opere da tradurre sono letterati italiani (da Prezzolini a Calasso), che operano in case editrici italiane (da Carabba a e/o); a eseguire le traduzioni sono traduttori italiani (da Alberto Spaini a Martina Testa), spesso legati a gruppi letterari italiani (dalla «Voce» a «minima & moralia»); e a interpretarle sono critici italiani (da Croce a Ceserani), sulla base di categorie di lettura italiane, o italianizzate (dall’“intuizione lirica” al “postmodernismo”). Il prodotto di questo enorme lavoro collettivo – materiale e simbolico – costituisce, a mio modo di vedere, il principale anello di congiunzione fra la letteratura italiana e la letteratura mondiale, che propongo di immaginare non più come un repertorio unico e condiviso, ma come una pluralità di repertori, ciascuno progressivamente costruito nell’ambito di una diversa cultura: una world literature italiana, una world literature francese, una world literature cinese, e così via. Repertori diversi e solo parzialmente sovrapponibili, che tuttavia rappresentano la concreta manifestazione storica della letteratura mondiale nel qui e ora di ciascuna cultura nazionale. Oltre a rendere giustizia sia all’u-

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niversalismo del fatto letterario sia alla specificità delle singole culture letterarie, consentendo un confronto e un dialogo scientificamente alla pari fra letterature cosiddette maggiori e minori (non è affatto detto che le letterature maggiori abbiano un repertorio della letteratura tradotta più ricco di quello delle letterature minori), questo modello sarebbe agevolmente esportabile, così che alla ricostruzione di una “storia italiana della letteratura mondiale” potrebbero seguire analoghe indagini sulla “storia tedesca della letteratura mondiale”, sulla “storia giapponese della letteratura mondiale”, ecc., fino a comporre il mosaico di una world literature allo stesso tempo unitaria e plurale. 2. Traiettorie: una proposta di metodo Il presupposto per un tale cambiamento di sguardo è il lavoro teorico fatto dai translation studies e dalla sociologia della letteratura negli ultimi quarant’anni. Even-Zohar è stato il primo a suggerire di pensare le traduzioni non come oggetti singoli ma come un sistema, proponendo il concetto di “letteratura tradotta” e chiedendosi che cosa accomuni l’insieme delle opere tradotte in una certa letteratura d’arrivo: Che genere di relazioni potrebbero esserci fra opere tradotte che sono presentate come fatti compiuti, importate da altre letterature, separate dal loro contesto originario e di conseguenza neutralizzate dal punto di vista delle lotte fra centro e periferia? La mia tesi è che le opere tradotte siano correlate in almeno due modi: a) per il modo in cui i testi di partenza sono selezionati dalla letteratura d’arrivo, laddove i principi di selezione non sono mai privi di una qualche relazione (per esprimersi con la massima cautela) con gli altri sistemi, autoctoni, della letteratura d’arrivo; b) per il modo in cui adottano norme, comportamenti e orientamenti specifici – insomma, nel loro uso del repertorio letterario – per effetto delle loro relazioni con gli altri sistemi autoctoni. Queste relazioni non si limitano al solo livello linguistico, ma sono evidenti anche al livello della selezione. Perciò la letteratura tradotta può avere un proprio repertorio, che in una certa misura potrebbe perfino esserle esclusivo4.

4 I.

Even-Zohar, The Position of Translated Literature, cit., p. 46 (trad. mia).

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Per pensare la letteratura tradotta come un sistema, dunque, occorre prendere in considerazione in primo luogo il modo in cui i testi da tradurre vengono selezionati: i principi di questa selezione, osserva Even-Zohar, sono comuni a tutte le traduzioni, e, a ben vedere, sono comuni anche alla produzione autoctona. Questo lo porta ad affermare che la letteratura tradotta non solo può essere considerata un sistema, ma che questo sistema è parte integrante del polisistema letterario d’arrivo, ovvero, parafrasando il suo gergo, che la letteratura tradotta è parte integrante di ogni letteratura nazionale5. Gli studi di Pierre Bourdieu consentono di fare un salto dalle produttive astrazioni strutturaliste della teoria dei polisistemi, basata dichiaratamente su una lettura materialista dei cosiddetti formalisti russi, alla prospettiva più storicizzante e individuante della sociologia. I protagonisti in scena non sono più i “testi di partenza”, la “letteratura d’arrivo” o dei “principi di selezione”, ma “attori” contraddistinti da particolari “habitus” che agiscono secondo “logiche specifiche” in un certo “campo”. Il concetto stesso di traduzione, che già Even-Zohar intende, ben al di là del mero aspetto linguistico-testuale, come fenomeno sistemico, si specifica in una “serie di operazioni sociali”, di sélection, marquage e lecture. In una seminale conferenza del 1990, Les conditions sociales de la circulation internationale des idées, Bourdieu ne fornisce una descrizione articolata che in sé equivale a un vero e proprio programma di ricerca:

5  Nelle pagine che seguono userò il concetto di letteratura nazionale senza problematizzarlo ulteriormente, pur essendo consapevole dei suoi limiti. Questo per tre motivi: primo, non è stato finora elaborato un concetto più efficiente, che permetta cioè di individuare un campo di studi altrettanto esteso nel tempo e nello spazio, e di conferirgli una relativa coerenza (parlare di “civiltà letteraria”, di “attività letteraria”, di letteratura “in lingua italiana” o simili è utile e stimolante, ma non costituisce una reale alternativa); secondo, gli studi italianistici, e non solo, sono ancora oggi nella loro quasi integrità impostati su questo paradigma, e rifiutarlo significherebbe privarsi del terreno comune su cui interloquire; terzo, l’oggetto di questa ricerca si è definito fin dall’inizio in rapporto al concetto di letteratura nazionale, e dunque rinunciarvi comprometterebbe il tentativo di produrre una visione relativamente nuova della storia letteraria. Va da sé che adopererò il concetto sempre in senso critico, intendendo la letteratura nazionale non come essenza ma come costruzione simbolica.

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Insomma, il senso e la funzione di un’opera straniera è determinato tanto dal campo di ricezione quanto da quello d’origine. In primo luogo, perché il senso e la funzione nel campo originario sono spesso completamente ignorate. Ma anche perché il transfert da un campo nazionale a un altro si fa attraverso una serie di operazioni sociali: un’operazione di selezione [sélection] (che cosa si traduce? che cosa si pubblica? chi traduce? chi pubblica?); un’operazione di «marcatura» [marquage] (di un prodotto preventivamente dégriffé) attraverso la casa editrice, la collezione, il traduttore e il prefatore (che presenta l’opera appropriandosene e unendola alla propria visione e, in ogni caso, a una problematica inscritta nel campo di ricezione e che solo molto raramente fa un lavoro di ricostruzione del campo d’origine, in primo luogo perché è troppo difficile); un’operazione di lettura [lecture] infine, poiché i lettori applicano all’opera delle categorie di percezione e delle problematiche che sono il prodotto di un campo di produzione differente6.

Questo modo di impostare il problema consente di tenere insieme la prospettiva strutturalista di Even-Zohar – che cos’è, in fondo, il concetto di “campo” se non una versione sociologica, e dunque più duttile e materialistica, di quello di “sistema”? – con una più marcata attenzione al ruolo attivo di individui e strutture nella produzione di letteratura in generale e della letteratura tradotta in particolare. Bourdieu pone le basi di quella che chiama “scienza delle opere” in Les Règles de l’art: genèse et structure du champ littérarie, un tentativo allo stesso tempo radicale e raffinatissimo di rispondere con gli strumenti della sociologia alla domanda: che cos’è la letteratura? Non è questa la sede per ripercorrerne le linee: a oltre dieci anni dalla traduzione italiana del volume, credo sia possibile darle come acquisite7. Tuttavia per la comprensione delle pagine che seguono è indispensabile richiamare la cornice concettuale con cui Bourdieu, e gli stu6 Pierre Bourdieu, Les conditions sociales de la circulation internationale des idées [1990], «Actes de la recherche en sciences sociales», 145, 2002, pp. 3-8; cito da: Le condizioni sociali della circolazione internazionale delle idee, a cura di M. Santoro, tr. it. di G. Ienna, «Studi Culturali», XIII.1, 2016, pp. 71-72. 7 Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario [1992], tr. it. di E. Bottaro e A. Boschetti, Il Saggiatore, Milano 2005. Per un rapido inquadramento cfr. Anna Baldini, Il concetto di campo per una nuova storiografia letteraria. “Le regole dell’arte” di Pierre Bourdieu, «Nuova rivista di letteratura italiana», XVIII, 2015, pp. 141-155, e la sezione, Pierre Bourdieu e la sociologia della letteratura, a cura di A. Baldini, «Allegoria» 55, 2007, pp. 9-85.

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diosi che si rifanno al suo lavoro, spiegano la produzione di letteratura tradotta8. Per comprendere la produzione letteraria occorre, secondo Bourdieu, considerarla non come l’attività creativa di singoli individui né come un insieme unitario e coeso, bensì come un campo di forze, spazialmente e temporalmente differenziato, in cui attori (scrittori, critici, traduttori, ecc.) e strutture (case editrici, collane, riviste, accademie, premi, ecc.) sono posizionati (sulla base delle loro proprietà specifiche: capitale economico, capitale simbolico, capitale politico, età, genere, ecc.) e prendono posizione (sulla base di strategie più o meno consapevoli: scrivere un romanzo piuttosto che una raccolta di poesie, un manifesto letterario piuttosto che un giallo, ecc.). Dal punto di vista spaziale, l’opposizione principale, vigente (almeno in Francia) dalla seconda metà dell’Ottocento, è quella tra un polo di produzione di massa, dove domina la logica del mercato e si produce letteratura “commerciale”, e un polo di produzione ristretta, dove prevale la logica specifica dell’arte e si produce letteratura “d’avanguardia” (ritroviamo la stessa opposizione anche in altri campi artistici, declinata come teatro di cassetta vs. teatro di regia, 8  Con l’eccezione del saggio sopra citato, Pierre Bourdieu non si è occupato di letteratura tradotta. Ma sulle basi da lui gettate si sta sviluppando, soprattutto in Francia, un’innovativa sociologia della traduzione: si vedano in particolare i lavori di Gisèle Sapiro, L’Importation de la littérature hébraïque en France: entre communautarisme et universalisme, «Actes de la recherche en sciences sociales», 144, 2002, pp. 80-98, Translation and the field of publishing. A Commentary on Pierre Bourdieu’s “A Conservative Revolution in Publishing” from a Translation Perspective, «Translation Studies», I.2, 2008, pp. 154-167, e i due volumi da lei curati Translatio. Le marché de la traduction en France à l’heure de la mondialisation, CNRS, Paris 2008 e Les Contradictions de la globalisation éditoriale, Nouveau Monde, Paris 2009. Si vedano inoltre i due numeri tematici degli «Actes de la recherche en sciences sociales» curati dalla stessa Sapiro e da Johan Heilbron nel 2002, Traduction: les échanges littéraires internationaux (144) e La Circulation internationale des idées (145), il saggio di Joseph Jurt, Traduction et transfert culturel, in De la traduction et des transferts culturels, a cura di Ch. Lombez e R. von Kulessa, L’Harmattan, Paris 2007, pp. 93-111, gli atti del convegno L’Espace culturel transnational, a cura di A. Boschetti, Nouveau Monde, Paris 2010, e i quattro volumi dell’imponente Histoire des traductions en langue française (XV-XX siècle), a cura di Y. Chevrel e J.-Y. Masson, Verdier, Paris 2012-2018. Una prima sintesi teorica è contenuta in Constructing a Sociology of Translation, a cura di A. Fukari e M. Wolf, Benjamin’s, Amsterdam/ Philadelphia 2007.

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blockbusters vs. cinema d’autore, musica mainstream vs. musica underground o indie). Dal punto di vista temporale, la principale opposizione è invece quella tra dominanti (già consacrati dal mercato o dall’avanguardia), che rappresentano l’ortodossia (ovvero i modi riconosciuti e legittimati di fare letteratura), e dominati (in genere nuovi entranti nel campo di produzione di massa o in quello di produzione ristretta), che non potendo competere con i dominanti sul piano dell’ortodossia sono più disposti a puntare sull’eterodossia (ovvero su nuovi modi, ancora inediti, di intendere la letteratura, e di praticarla). Per questo l’iniziativa del mutamento spetta quasi per definizione ai nuovi entranti, ossia ai più giovani, che sono i più sprovvisti di capitale specifico, e che, in un universo dove per esistere occorre essere differenti, vale a dire occupare una posizione distinta e distintiva, esistono nella misura in cui, senza aver bisogno di volerlo, essi pervengono ad affermare la loro identità, ovvero la loro diversità, a farla conoscere e riconoscere (“farsi un nome”), imponendo modi di pensare e di esprimersi nuovi, in rottura con i modi di pensare in vigore9.

Una strategia efficace per “farsi un nome” è organizzarsi in un’“avanguardia”, termine con cui Bourdieu non indica le cosiddette “avanguardie storiche”, vale a dire i movimenti per lo più primonovecenteschi dediti al radicale programmatico rinnovamento di forme e linguaggi, bensì ogni alleanza strategica tra nuovi entranti, a prescindere dalla poetica di cui si fanno interpreti: sono questi pretendenti ad avere l’interesse a produrre non solo nuove poetiche, ma anche nuove riviste, case editrici, collane, teatri, circoli, ecc. Si genera, quindi, una dinamica per cui una nuova avanguardia che aspira al riconoscimento si oppone non solo al mercato e alle avanguardie concorrenti, ma anche alle vecchie avanguardie che hanno ormai raggiunto la consacrazione e detengono il potere di definire ciò che è letterariamente legittimo attraverso le strutture da loro controllate o egemonizzate. In questo campo di tensioni – che è possibile differenziare ulteriormente – nessun attore o struttura ha una posizione sta9 

P. Bourdieu, Le regole dell’arte, cit., p. 317.

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bile, anzi, per garantirsi il riconoscimento (del mercato o dei pari), deve continuamente “prendere posizione”, pubblicando una nuova opera, inaugurando una nuova rivista o collaborando con una casa editrice (va da sé che, in questa logica integralmente relazionale, anche il non prendere posizione costituisce a sua volta una presa di posizione). Tradurre un’opera straniera, ovvero selezionarla, trasferirla in lingua italiana, collocarla in una collana, apporvi il proprio marchio, scrivere una prefazione, proporne un’interpretazione non è che una pratica fra le altre per prendere posizione nel campo. Se il funzionamento del campo di produzione di massa è facilmente spiegabile sulla base della logica del mercato (vendere libri per fare profitti), dello Stato (si pensi all’istituzione scolastica, col suo enorme indotto), della politica (fare libri per la nostra causa o contro quella altrui) o della religione (fare libri per la nostra fede o contro quella altrui)10, più difficile è dar conto delle dinamiche che informano il campo di produzione ristretta, dove i libri – e le traduzioni – si fanno secondo la logica “specifica” della letteratura, sulla base di interessi “specifici” che rispondono a una “illusio” condivisa, vale a dire alla credenza nelle regole del gioco letterario vigenti in un dato luogo e in un dato momento. Un campo si definisce […] definendo poste in gioco e interessi specifici, che sono irriducibili alle poste e agli interessi propri ad altri campi (un filosofo è indifferente a questioni che per un geografo sono invece essenziali) e che non sono percepiti da chi non è costruito per entrare in quel campo. Ogni categoria di interessi implica l’indifferenza ad altri interessi, altri investimenti, votati così a essere percepiti come assurdi, insensati, o sublimi, disinteressati. Perché un campo funzioni, bisogna che ci siano poste in gioco e persone disposte a giocare, dotate dell’habitus che è necessario per conoscere e riconoscere le leggi immanenti del gioco, le sue poste, ecc.11

10  Sul concorso di logica politica, logica economica e logica letteraria nella produzione di traduzioni cfr. Johan Heilbron, Towards a Sociology of Translation. Book Translations as a Cultural World System, «European Journal of Social Theory» II.4, 1999, pp. 429-444. 11  Pierre Bourdieu, Questions de sociologie, Minuit, Paris 1980, pp. 113-114 (tr. it. di Anna Boschetti).

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È a questa zona particolare del campo letterario che prevalentemente si rivolge l’interesse di Bourdieu, così come il mio. Più che le traduzioni commerciali mi preme infatti studiare quelle, spesso decisive per la consacrazione di una certa opera, realizzate nel campo (o sottocampo) di produzione ristretta, dove si concentra anche la produzione del valore letterario. È qui che si generano quegli interessi che Bourdieu definisce “specifici”, in quanto legati a un certo campo (o sottocampo) e apparentemente insensati al di fuori di esso, che possono, nel caso del campo letterario, indurre attori e strutture ad attribuire valore al fatto di tradurre un certo autore o una certa opera: Ogni campo produce la propria forma specifica di illusio, nel senso di coinvolgimento nel gioco che sottrae gli agenti all’indifferenza e li spinge e li dispone a operare le distinzioni pertinenti dal punto di vista della logica del campo, a distinguere ciò che è importante (ciò che “m’importa”, interest, in opposizione a quel che “per me è uguale”, in-differente)12.

Di tutte le questioni poste dalla scienza delle opere, questa continua a sembrarmi la più provocatoria e feconda: Il produttore del valore dell’opera d’arte non è l’artista ma il campo di produzione in quanto universo di credenza che produce il valore dell’opera d’arte come feticcio producendo la credenza nel potere creatore dell’artista. Dato che l’opera d’arte esiste in quanto oggetto simbolico dotato di valore solo se è conosciuta e riconosciuta, ovvero socialmente istituita come opera d’arte da spettatori dotati della disposizione e della competenza estetica necessaria per conoscerla e riconoscerla in quanto tale, la scienza delle opere ha per oggetto non soltanto la produzione materiale dell’opera ma anche la produzione del valore dell’opera o, il che è lo stesso, della credenza nel valore dell’opera. Essa deve dunque prendere in considerazione non solo i produttori diretti dell’opera d’arte nella sua materialità (artista, scrittore ecc.), ma anche l’insieme degli agenti e delle istituzioni che partecipano alla produzione del valore dell’arte in generale e nel valore distintivo di questa o quell’opera d’arte (critici, storici dell’arte, editori, direttori di gallerie, mercanti d’arte, direttori di museo, mecenati, collezionisti, membri di comitati di consacrazione, accademie, salons, giurie ecc.) […]13. 12 

P. Bourdieu, Le regole dell’arte, cit., p. 303. pp. 304-305.

13 Ivi,

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È solo grazie a questa «immensa impresa di alchimia simbolica»14 che un’opera tradotta può entrare stabilmente nel repertorio di una letteratura nazionale. Per questo motivo ho concentrato le mie ricerche soprattutto sull’editoria, che costituisce una delle principali valvole di comunicazione tra la world literature e le singole letterature nazionali, dal momento che «ha il potere assolutamente straordinario di garantire la pubblicazione, vale a dire di far accedere un testo e un autore all’esistenza pubblica (Öffentlichkeit), conosciuta e riconosciuta»15. In quasi quindici anni di ricerche sulla traduzione mi sono convinto che questo sia il dato essenziale a partire dal quale impostare ogni studio. Non c’è alcuna necessità che un testo letterario venga tradotto, nessun automatismo: viene tradotto solo ciò che un attore o un gruppo di attori, in un certo momento, ha interesse a tradurre16; ogni discorso sul “ritardo” o sulla “assenza” di certe traduzioni è il prodotto dell’illusione scolastica, ovvero della presunzione, propria di una comunità assai ristretta, che un determinato testo debba essere tradotto. Oltre il 99% della letteratura prodotta all’estero non viene tradotto: se questa è la regola, allora ogni traduzione effettivamente realizzata va considerata come un’eccezione. E per spiegare queste eccezioni i cataloghi e gli archivi delle case editrici (e delle riviste) sono una fonte preziosissima. Insieme alla sélection va però studiato il marquage, perché «il lavoro di fabbricazione materiale non è nulla senza il lavoro di produzione del valore dell’oggetto fabbricato»17, senza la sua consacrazione. L’editore «è inscindibilmente colui che sfrutta 14 

Ivi, p. 240. Pierre Bourdieu, Une revolution conservatrice dans l’édition, «Actes de la recherche en sciences sociales», 126-127, 1999, p. 3 (trad. mia). 16  Si vedano i primi due principi per una storia della traduzione enunciati da Anthony Pym: 1) «translation history should explain why translations were produced in a particular social time and place. In other words, translation history should address problems of social causation»; 2) «the central object of historical knowledge should not be the text of the translation, nor its contextual system, nor even its linguistic features. The central object should be the human translator, since only humans have the kind of responsibility appropriate to social causation. Only through translators and their social entourage (clients, patrons, readers) we can try to understand why translations were produced in a particular historical time and place» (Method in Translation History, Routledge, London 1998, p. 11). 17  P. Bourdieu, Le regole dell’arte, cit., p. 242. 15 

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il lavoro dell’artista commercializzandone i prodotti e colui che, immettendolo nel mercato dei beni simbolici […] assicura al prodotto della fabbricazione artistica una consacrazione tanto più autorevole quanto più è consacrato egli stesso»18. Le prese di posizione degli editori contribuiscono dunque, insieme a quelle di scrittori, critici, gruppi e altri attori e istituzioni, a far avanzare le lancette del tempo letterario, vale a dire a mutare lo stato e la problematica del campo19. Per questo, concentrando l’analisi sui nuovi entranti nel campo editoriale, e in particolare nel campo delle traduzioni, in un dato momento storico abbiamo buone probabilità di cogliere l’origine di una trasformazione sia del sistema della letteratura tradotta, sia del campo letterario nel suo insieme. Assai consapevole di avere un ruolo centrale nella modificazione del campo o sistema è il letterato-editore20, la figura che fa da principale anello di congiunzione tra il polo autonomo del campo letterario, dove si generano le poetiche e i canoni, e il campo editoriale, dove viene concretamente modificato il repertorio dei testi disponibili. Sul risvolto dei volumi della collana corona, da lui diretta tra il 1939 e il 1943, Elio Vittorini scrive: «Ad ogni epoca la cultura cambia aspetto; continuamente rigetta opere che un tempo aveva magari venerato, e accoglie creazioni nuove, riscopre testi che aveva trascurato, esige che antichi o recenti capolavori stranieri vengano ritradotti»21; e, riferendosi al suo lavoro editoriale, negli anni sessanta Italo Calvino afferma: «Sono uno che lavora (oltre che ai propri libri) a far sì che la cultura del suo tempo abbia un volto piuttosto che un altro»22. 18  Ivi, p. 237. La pubblicazione di un testo tradotto partecipa alla riproduzione dell’illusio, l’«adesione collettiva al gioco che è contemporaneamente causa ed effetto dell’esistenza del gioco»: «l’artista che fa l’opera è lui stesso fatto, in seno al campo di produzione da tutti coloro che contribuiscono a “scoprirlo” e a consacrarlo in quanto artista “noto” e riconosciuto». 19 Sul concetto di “problematica” e sull’avanzamento del tempo letterario si vedano P. Bourdieu, Le regole dell’arte, cit., pp. 307-319 e Pascale Casanova, Le Méridien de Greenwich: Réflexions sur le temps de la littérature, in Qu’est-ce que le contemporain?, a cura di L. Ruffel, Defaut, Paris 2010, pp. 113-145. 20  Cfr. Alberto Cadioli, Letterati editori, Il Saggiatore, Milano 1995, che si occupa in particolare di Papini, Prezzolini, Debenedetti e Calvino. 21  Citato in Gian Carlo Ferretti, L’editore Vittorini, Einaudi, Torino 1992, p. 46. 22  Italo Calvino a Antonella Santacroce, 22 aprile 1964, in I libri degli altri, a cura di G. Tesio, Einaudi, Torino 1991, pp. 465-66.

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È questo l’orizzonte a cui mi sono maggiormente interessato: non tanto al “corpus” della letteratura tradotta, che comprende la totalità dei testi letterari tradotti in italiano, né al “canone” della letteratura tradotta, che ne è il sottoinsieme più selezionato, destinato all’insegnamento scolastico, quanto piuttosto al “repertorio” della letteratura tradotta. Even-Zohar usa il termine repertorio (repertoire) per indicare l’«insieme di leggi ed elementi (singoli, collegati o modelli complessivi) che governa la produzione di testi»23. Da questa definizione ampia (e a mio parere assai produttiva) ne ho ritagliata una più ristretta, limitata – sulla scorta dell’accezione che questo termine ha nel mondo teatrale e musicale – a quelle opere che entrano a far parte del ristretto insieme riconosciuto come esemplare presso una certa cerchia di attori. Come il campo letterario, infatti, anche il repertorio è spazialmente e temporalmente differenziato: c’è un repertorio del campo di produzione di massa (i bestseller), e c’è un repertorio del campo di produzione ristretta, che non di rado interferisce con il primo ed è a sua volta articolato in un repertorio dei dominanti ortodossi e un repertorio dei dominati eterodossi, i quali come si è detto hanno più di tutti interesse a soppiantare il vecchio volto della cultura con uno nuovo. Potremmo anzi dire che ogni avanguardia ha il suo repertorio (dalla cui stratificazione si distilla, nel tempo, quello che chiamiamo canone). Il concetto di “traiettoria”, che ho tratto ancora una volta da Bourdieu, mi è sembrato particolarmente efficace per sintetizzare in una sola parola tutto questo, dando evidenza alla dimensione relazionale di ogni operazione traduttiva, e suggerendo di tenere insieme, in ogni ricerca, il particolare e il generale, l’individuale e il sistemico: non si può infatti ricostruire una traiettoria senza considerare lo spazio sociale in cui essa si produce, vale a dire il campo. Alla lettera, «la traiettoria sociale si definisce come la serie delle posizioni successivamente occupate da uno stesso agente o da uno stesso gruppo di agenti in spazi successivi: è in rapporto agli stati corrispondenti della struttura del campo che si determinano in ogni momento il significato e il valore sociale 23  I. Even-Zohar, Polysystem Studies, cit., p. 17: «Di norma il centro del polisistema coincide con il più prestigioso repertorio canonizzato».

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degli eventi biografici, intesi come posizionamenti e spostamenti in tale spazio»24. Secondo Bourdieu, tentare di comprendere una carriera o una vita come una serie unica e autosufficiente di avvenimenti successivi senz’altro legame che l’associazione a un “soggetto”, la cui costanza è forse solo quella di un nome proprio socialmente riconosciuto, è quasi altrettanto assurdo che tentare di dar conto di un tragitto nella metropolitana senza prendere in considerazione la struttura della rete, cioè la matrice delle relazioni oggettive tra le diverse stazioni25.

Lo stesso vale, a mio parere, per la serie delle traduzioni di uno stesso autore, o di una stessa opera. Nelle mie ricerche ho dunque interpretato il concetto di traiettoria in senso estensivo, applicandolo anche alle opere: non solo, infatti, i mediatori prendono posizione traducendo, ma ciascuna traduzione, e perfino ciascuna edizione (intesa come la ripubblicazione della stessa traduzione presso una nuova casa editrice, in una nuova collana o con una nuova prefazione), costituisce un nuovo posizionamento di quell’opera nel repertorio26. Si può dire, anzi, che la scommessa di questo libro sia nel tentativo di studiare ciascuna traduzione come una presa di posizione, lasciando intravedere, almeno sullo sfondo27, la presenza e il ruolo delle tensioni del campo. 3. Sette questioni, sette studi Questo volume rielabora una serie di ricerche condotte fra il 2013 e il 2018 nell’ambito del progetto LTit – Letteratura tradotta in Italia, che ampliano e approfondiscono il lavoro e la propo24 

P. Bourdieu, Le regole dell’arte, cit., p. 338. Ivi, pp. 338-339. 26 Della Metamorfosi di Kafka, per non menzionare che un caso estremo, esistono 24 traduzioni italiane, a loro volta ripubblicate in almeno 54 edizioni. 27  Non sempre, infatti, ho potuto ricostruire le traiettorie di mediatori e opere e contestualizzarle nelle tensioni del momento in modo esaustivo, soprattutto perché la storia del campo letterario italiano è ancora in gran parte da scrivere. Si vedano, per questo, almeno i lavori di Riccardo Bonavita, Anna Boschetti, Davide Dalmas, Fabio Andreazza, e in particolare le ricerche di Anna Baldini, della quale è in programma in questa collana il volume Movimenti di capitale. Avanguardie, conflitti e regole dell’arte nel campo letterario italiano (1903-1943). 25 

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sta di metodo presentati nel primo volume di questa collana, La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione 1900-192028. I sette studi affrontano altrettante questioni teoriche, cercando, senza pretese di esaustività, di cominciare a metterle a fuoco attraverso l’analisi di alcuni casi significativi. I casi di studio riguardano tutti la letteratura tedesca, ma l’orizzonte delle questioni abbraccia la letteratura tradotta nel suo insieme, nel tentativo di individuare alcuni snodi generali della sua particolare storia in Italia: l’auspicio è che gli scenari tratteggiati stimolino il lettore a esplorarne di analoghi, sostituendo per esempio al Faust l’Amleto, al romanzo tedesco quello americano, al germanista Giuseppe Antonio Borgese lo slavista Ettore Lo Gatto, al teatro espressionista la lirica simbolista, ecc. Poiché le domande che sono arrivato a formulare sono, credo, più importanti delle risposte che ho provato ad articolare, sarà utile esplicitarle qui di seguito. Se, come si è detto, ogni traduzione è da considerarsi come un’eccezione, Individuazione di un capolavoro indaga il problema della genesi dell’eccezione. La domanda che pone è: perché una certa opera viene tradotta? Domanda che, considerando la traduzione come una serie di operazioni sociali (sélection, marquage, lecture), viene a declinarsi in ulteriori, più precise domande: chi ha interesse a tradurre quell’opera? come matura questo interesse? quali profitti (economici, politici, simbolici o d’altro tipo) pensa di trarne? come la interpreta? come la presenta ai lettori? in quale repertorio la inserisce? con quali strategie tenta di consacrarla? Il caso del Faust di Goethe risulta, da questo punto di vista, particolarmente interessante: riconosciuto oggi come indiscusso “capolavoro” della letteratura universale, la sua consacrazione nel campo letterario italiano è pressoché nulla fino al 1830 e resta assai circoscritta almeno fino al 1860; e lo stesso vale, sostanzialmente, per quella del suo autore. La ragione di ciò 28  Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè, Michele Sisto, La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione 1900-1920, Quodlibet, Macerata 2018. Si vedano anche: Letteratura italiana e tedesca 1945-1970: campi, polisistemi, transfer / Deutsche und Italienische Literatur 1945-1970: Felder, Polysysteme, Transfer, a cura di I. Fantappiè e M. Sisto, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma 2013, e Lavinia Mazzucchetti. Impegno civile e mediazione culturale nell’Europa del Novecento, a cura di A. Antonello e M. Sisto, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma 2017.

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va ricercata non tanto nella vasta influenza del giudizio limitativo datone precocemente da M.me de Staël, quanto negli interessi delle avanguardie letterarie del tempo, in gran parte impegnate ad affrontare problematiche, come quella del dramma storico, per le quali la produzione di Goethe non sembra offrire, a differenza per esempio di quella di Schiller, soluzioni interessanti. Se dunque a importare e consacrare il teatro di Schiller è l’avanguardia milanese legata al «Conciliatore», i primi a riconoscere il Faust come un “capolavoro” sono alcuni letterati le cui traiettorie divergono dalla maggior parte di quelle dei loro contemporanei, ma che hanno un tratto in comune: coinvolti nei moti del ’21 o del ’30, Giovita Scalvini, Camillo Ugoni, Giambattista Passerini e Giuseppe Mazzini devono lasciare l’Italia, e trascorrono una parte del loro esilio a Parigi, dove negli anni ’20 la problematica letteraria è ben diversa da quella italiana, e dove il Faust è già ampiamente tradotto e consacrato. È qui che si genera in loro l’interesse specifico a tradurre l’opera di Goethe e a consacrarla anche in Italia. Le loro traiettorie ci portano in questo caso nel luogo per eccellenza della consacrazione letteraria internazionale, la capitale della république mondiale des lettres, dove si scrive un capitolo cruciale della storia letteraria italiana. La questione centrale di questo primo studio è dunque, in fondo, quella della consacrazione di un’opera o di un autore, ai quali in un determinato momento e in un determinato spazio sociale viene riconosciuto un capitale simbolico specifico. Ho tuttavia preferito parlare di individuazione per concentrare l’attenzione sulla primissima fase della sélection, che spesso precede di molto la traduzione di un’opera e il tentativo di consacrarla in un nuovo campo letterario29. Il secondo studio, Gli editori e il repertorio della letteratura tradotta, affronta invece decisamente le dinamiche della consacrazione nel campo letterario d’arrivo, e si concentra sul ruolo che vi hanno, accanto ai mediatori e ai traduttori, le case editrici, attraverso la loro collocazione nel campo e i repertori costituiti dalle loro collane. Il caso di studio è ancora una volta quello del Faust, che con le sue 22 traduzioni consente di indagare la 29  In questo mi è stato di ispirazione il libro di Fabio Andreazza, Identificazione di un’arte. Scrittori e cinema nel primo Novecento italiano, Bulzoni, Roma 2008.

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questione sull’arco di quasi duecento anni, dal primo Ottocento al presente. Ho cercato in particolare di capire in che misura l’“adozione” da parte di un’avanguardia editoriale, a sua volta alleata con un’avanguardia letteraria, sia un passaggio rilevante, forse necessario, per la consacrazione di un testo e per il suo accoglimento in un repertorio. La questione mi si era posta studiando la genesi del campo di produzione ristretta in Italia, che ritengo sia da collocare intorno al 191030, quando a contrapporsi all’editoria commerciale rappresentata in primo luogo da Treves (che nella biblioteca amena proponeva autori di cassetta oggi dimenticati come E. Werner) e Sonzogno (che nella biblioteca universale pubblicava classici a prezzi popolari ignorando la letteratura contemporanea) sono gli animatori delle principali riviste d’avanguardia del tempo, che fondano nuove collane di letteratura presso case editrici per lo più giovani e periferiche: Benedetto Croce («La Critica» + scrittori stranieri Laterza), Giovanni Papini («L’Anima» + cultura dell’anima Carabba), Giuseppe Prezzolini («La Voce» + i quaderni della voce) e Giuseppe Antonio Borgese («Il Conciliatore» + antichi e moderni Carabba). Applicando la formula “rivista + collana” a sostegno dei loro rispettivi progetti letterari e pubblicando circa quattrocento libri in cinque anni, questi nuovi entranti danno vita a un campo di produzione (e consacrazione) relativamente autonomo, attraverso il quale rinnovano radicalmente il repertorio della letteratura tradotta: nasce così il primo repertorio legato a un’avanguardia (o meglio: trasversale ad alcune), che, per rimanere alla letteratu30  Se la “genesi” del campo letterario in Italia è da datarsi all’inizio del Novecento, come suggeriscono anche gli studi di Roberto Pertici (Appunti sulla nascita dell’«intellettuale» in Italia, postfazione a Christophe Charle, Gli intellettuali nell’Ottocento. Saggio di storia comparata europea, il Mulino, Bologna 2002, pp. 308-346) e di Anna Baldini (Avanguardia e regole dell’arte a Firenze, in A. Baldini, D. Biagi, S. De Lucia, I. Fantappiè, M. Sisto, La letteratura tedesca in Italia, cit., pp. 23-56), sarebbe fuori luogo usare il concetto di campo per l’Ottocento, e ancor più per i secoli precedenti. In questo Bourdieu è rigoroso (cfr. Le regole dell’arte, cit., p. 464, nota 1). Tuttavia, se la strutturazione di un campo di produzione ristretta non si può collocare prima della data in questione, è pur vero che il concetto di campo – che, occorre sempre ricordare, è uno strumento, non un’essenza – consente di osservare gli effetti di logiche socio-simboliche specifiche, ovvero relativamente autonome, anche in assenza di un’autonomia strutturale. Per questo mi è parso utile parlare di campo, seppur con parsimonia, anche per la prima fase della traiettoria italiana del Faust.

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ra tedesca, include uno scrittore di recente consacrazione come Nietzsche, un inedito Goethe romanziere con la prima traduzione integrale del Wilhelm Meister, e autori mai tradotti prima come Hebbel e Novalis31. Nel corso di quasi due secoli e mezzo il Faust di Goethe raramente rientra negli interessi specifici di un’avanguardia letteraria e/o editoriale, salvo che in tre momenti, che non a caso sono quelli della sua massima consacrazione e integrazione nel repertorio: intorno al 1830, con la traduzione “manzoniana” di Scalvini nella biblioteca scelta di opere tedesche tradotte in lingua italiana di Giovanni Silvestri; intorno al 1860, con l’edizione Le Monnier nella biblioteca nazionale e il contemporaneo rifacimento “scapigliato” che ne dà Boito col Mefistofele; e intorno al 1970, con la traduzione di Fortini per i meridiani Mondadori, preceduta dalla lecture “realista-marxista” di Cases nella nuova universale einaudi. In Nascita di una disciplina mi sono chiesto in che misura l’istituzione nelle università di cattedre stabili dedicate a una letteratura moderna – in questo caso la tedesca – influenzi la selezione, la marcatura e la lettura di testi e autori di quella letteratura. Non senza sorpresa, ho trovato che a presiedere alla nascita della germanistica italiana ci sono ancora una volta due dei capofila delle avanguardie letterarie del momento: Benedetto Croce e Giuseppe Antonio Borgese. Così ho concentrato l’indagine sul ruolo che le avanguardie, con il loro capitale simbolico e relazionale, possono avere nell’istituzione di una disciplina accademica, rinviando al saggio seguente l’esame degli effetti che la nuova disciplina esercita sulla visione della letteratura e sulle scelte di repertorio anche al di fuori del campo accademico. 31  Cfr. M. Sisto, Gli editori e il rinnovamento del repertorio, in A. Baldini, D. Biagi, S. De Lucia, I. Fantappiè, M. Sisto, La letteratura tedesca in Italia, cit., pp. 57-89. La successiva storia della letteratura tradotta in Italia consiste in gran parte delle manovre per introdurre nel perimetro di questo repertorio consacrato dalle avanguardie, attraverso nuove strutture riconosciute come legittime, autori e opere ancora sconosciuti oppure noti da tempo ma proprio per questo associati alla produzione di massa. Per rimanere ai tedeschi, tra i nuovi possiamo annoverare Wedekind, Rilke, Döblin, Kafka, Brecht e più tardivamente Thomas Mann; tra i già noti Hölderlin e Hoffmann; mentre alcuni autori molto popolari nell’Ottocento, come Schiller e Heine, nonostante gli sforzi di svariati mediatori non hanno mai ottenuto la piena consacrazione in questa nuova forma specifica, e tuttora il loro prestigio è appannato da un velo di inattualità.

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Il quarto studio, Condizioni necessarie, è il più esplicitamente teorico, perché si interroga sulle condizioni di possibilità dell’insorgere degli interessi specifici che possono orientare all’individuazione, alla traduzione e alla consacrazione di certi autori, in questo caso Georg Büchner. Ho rintracciato queste condizioni, che ho voluto definire “necessarie ma non sufficienti”, nelle trasformazioni che, nel corso della prima metà del Novecento, si registrano in diversi campi: quello accademico, quello editoriale e quello teatrale. È solo in seguito alla nascita della germanistica, all’attivarsi di un circuito di produzione ristretta nell’editoria e alla rivoluzione del teatro di regia – e dunque all’attivarsi di una specifica illusio e di interessi altrettanto specifici in ciascuno di questi ambiti – che in attori come Rosina Pisaneschi, Alberto Spaini, Anton Giulio Bragaglia o Paolo Grassi può prodursi l’interesse a discutere, tradurre, mettere in scena e pubblicare Büchner. Ed è attraverso strutture da loro stessi istituite, come il Teatro Sperimentale degli Indipendenti o la collana teatro moderno di Rosa e Ballo, che vengono individuati e consacrati in Italia autori quali Joyce, Cocteau, García Lorca e Brecht. Se la questione centrale in Condizioni necessarie è la genesi dell’illusio, lo studio successivo riguarda, come dice il titolo, La genesi di un nuovo habitus editoriale. Bourdieu definisce l’habitus come un senso pratico, che è allo stesso tempo prodotto dalle strutture oggettive, ovvero plasmato dalla posizione e dalle esperienze di ciascun individuo in un determinato campo, e produttore di scelte e comportamenti che producono il funzionamento del campo stesso, e possono modificarlo. Ricostruendo l’attività di Piero Gobetti come mediatore di letteratura tedesca all’inizio degli anni ’20 ho provato a individuare nella sua traiettoria l’origine di una disposizione fino ad allora inedita nel campo editoriale, assente anche nelle avanguardie letterarie dell’inizio del secolo: quella a esplorare sistematicamente la letteratura contemporanea consacrata nel campo di produzione ristretta di ciascun paese straniero. Il presupposto, naturalmente, è il riconoscimento, che Gobetti è tra i primi a esprimere manifestamente, di un circuito di produzione ristretta in Italia, nel quale si sia generato l’interesse a tenersi al corrente su quanto si va producendo negli omologhi circuiti stranieri. Di qui il primato del «Baretti» nell’individuare Proust, Joyce o gli espressionisti tedeschi.

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La consacrazione del romanzo torna sul problema del valore letterario, il cui riconoscimento questa volta è indagato non in riferimento a un autore o a un’opera, bensì a un genere letterario. La domanda di fondo è: perché il romanzo, un genere che avanguardie letterarie degli anni ’10 avevano messo al bando, torna al centro dell’interesse degli scrittori e dei critici più avanzati, che cominciano a farne il terreno privilegiato delle loro ricerche letterarie, conferendogli nuova legittimità? Ho provato a cercare la risposta nella struttura che il campo editoriale andava assumendo verso il 1930, ricostruendo le traiettorie delle principali collane di narrativa e provando a interpretare ogni loro titolo come una presa di posizione: ho potuto così rilevare una loro progressiva polarizzazione tra un circuito di produzione di massa (dalla biblioteca romantica economica Sonzogno alla nuova biblioteca amena Treves, dai gialli alla medusa Mondadori) e un circuito di produzione ristretta (dal genio russo Slavia ai narratori nordici Sperling & Kupfer, da biblioteca europea Frassinelli a letteraria di Bompiani), che tuttavia non impedisce ad alcuni editori di cumulare, nel modo più abile, profitti sia economici sia simbolici (Modernissima con scrittori di tutto il mondo, Mondadori con la biblioteca romantica o Treves con scrittori stranieri moderni). Ad avere un ruolo decisivo nella consacrazione del romanzo non sono le collane di narrativa commerciali, che esistevano da decenni, ma quelle che adottano, in misura maggiore o minore, la logica specifica della produzione ristretta, accumulando capitale specifico tanto per sé quanto per il genere letterario di cui si fanno mediatrici. In molti casi si tratta di collane legate a riviste d’avanguardia («Il Baretti», «Il Convegno», «Solaria»), che operano una selezione molto stretta (curata dai rispettivi direttori, che sono spesso scrittori o professori, come Borgese, Dàuli, Mazzucchetti o Farinelli), una marcatura di prestigio (affidando traduzioni e curatele a firme riconosciute come Deledda, Aleramo, Palazzeschi o Pavese) e una lettura molto orientata (attraverso prefazioni fortemente interpretative, e a volte tecniche, a cura di specialisti quali Cecchi, Bontempelli, Baldini o Spaini). Nel cosiddetto “decennio delle traduzioni” assistiamo peraltro solo a una fase della lunga lotta per la consacrazione del romanzo nel campo di produzione ri-

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stretta, avviata da Borgese intorno al 1920 e che fino agli anni ’60 non arriverà a sovvertire una gerarchia dei generi che, a causa dell’egemonia delle avanguardie consacrate (vociani, futuristi, rondisti, ermetici), vede perpetuarsi il primato della lirica, del saggio critico e della prosa d’arte. Se l’azione consacrante delle collane d’avanguardia inaugurate intorno al 1930 contribuisce a legittimare nel campo di produzione ristretta un repertorio specifico del romanzo – che fra i tedeschi include Schnitzler, Döblin, Kafka e Kästner –, Un repertorio per il teatro di regia indaga la stessa questione nell’ambito teatrale. Qui la collana è una sola, teatro/teatro moderno di Rosa e Ballo, e le traiettorie prese in esame sono quelle del direttore editoriale della casa editrice, Ferdinando Ballo, e quella del direttore della collana, Paolo Grassi. Sono loro a costruire una rete di relazioni che si estende dal circolo milanese di «Corrente» alla cerchia romana di Bragaglia, per aggregare un gruppo di nuovi entranti disposti a prendere posizione nella lotta contro il teatro del grand’attore e per il teatro di regia. L’azione di questa avanguardia, per quanto provvisoria e poco organica, porta alla costituzione di due strutture che per anni avranno un ruolo centrale nel mediare teatro straniero in Italia: la citata collana teatro/ teatro moderno, prova generale della più prestigiosa e longeva collezione di teatro Einaudi, che raccoglie e legittima un repertorio di testi per il nuovo teatro di regia, e il Piccolo Teatro di Milano, che di questa produzione drammaturgica, selezionata, marcata e interpretata secondo la logica autonoma e specifica del campo di produzione ristretta, sarà per decenni il tempio. Gli studi sono disposti in ordine cronologico, e salvo i primi due, che fanno da introduzione abbracciando nell’insieme un arco che va dal primo Ottocento al presente, si concentrano sugli anni 1900-1945. Per questo periodo in particolare, seguendo le traiettorie di autori, opere, mediatori, traduttori, editori, collane, compagnie teatrali, discipline accademiche e generi letterari, ho cercato di indagare alcune trasformazioni sistemiche che riguardano l’intero campo letterario, e di conseguenza tutta la letteratura tradotta: la genesi e la progressiva – benché non incontrastata – stabilizzazione di un circuito di produzione ristretta nel campo letterario (negli anni ’00), nel campo editoriale

introduzione

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(anni ’10) e nel campo teatrale (anni ’20), l’istituzionalizzazione dello studio delle letterature straniere nell’università (a partire dagli anni ’10), la nascita di un interesse specifico per la narrativa tradotta nel campo editoriale e gli inizi della consacrazione del romanzo nel campo di produzione ristretta (anni ’30), l’affermarsi del teatro di regia (anni ’40). Da queste trasformazioni di vasta portata, che in alcuni casi equivalgono a vere e proprie rivoluzioni simboliche, dipendono fenomeni più circoscritti ma non meno rilevanti, dalla professionalizzazione dei traduttori, e in generale dei mediatori, alla genesi di nuovi habitus specifici di ciascuno di questi campi. Nel condurre queste ricerche ho pensato spesso a quale lettore intendessi, consapevolmente o meno, rivolgermi. Un lettore specialista, sì, o più precisamente lettori che condividono l’illusio specifica degli studi umanistici: italianisti, germanisti, comparatisti, storici della letteratura o storici tout court. Ma non solo: molto spesso ho pensato ai produttori di oggi, a persone che conosco – editori, redattori, traduttori, scrittori, recensori, agenti letterari, insegnanti –, impegnate ogni giorno nelle complesse operazioni del selezionare, marcare, leggere, o, in una parola, del tradurre. È pensando a loro che mi sembra abbia un senso provare a ricostruire l’enorme lavoro collettivo necessario a individuare un autore, un’opera – senza troppo curarsi, in fondo, se siano italiani o stranieri –, a leggerli e farli leggere, a inserirli in questo o quel repertorio, a dargli cittadinanza nel corpus della nostra letteratura, e, mostrando quanto è stato fatto in passato, suggerire quanto sia possibile fare ancora32.

32  «We do translation history in order to express, address and try to solve problems affecting our own situation», è il quarto principio enunciato da Pym (Method in Translation History, cit., p. 12).

Nota al testo

Questo libro è stato realizzato nell’ambito del progetto LTit – Letteratura tradotta in Italia, una cui descrizione si può leggere sia nell’introduzione al primo volume di questa collana sia sul sito www.ltit.it. Nel rielaborare gli studi per la pubblicazione in volume ho soprattutto cercato di restituire evidenza alle principali questioni storico-teoriche, riducendo i riferimenti relativi al contesto, nella maggior parte dei casi occasionale, della loro prima pubblicazione, di cui do conto qui di seguito. Solo in pochi casi ho ritenuto necessario aggiornare la bibliografia. 1. Individuazione di un capolavoro. Prima presentazione al convegno Transkulturalität nationaler Räume in Europa, Philipps-Universität Marburg, 23-25.10.2014; prima pubblicazione col titolo Goethe in Weimar-Paris-Mailand. Exilrevolutionäre, Zeitschriften, Verlage und die Produktion eines italienischen Faust (1814-1837) negli atti del convegno Transkulturalität nationaler Räume in Europa (18. bis 19. Jahrhundert). Übersetzungen, Kulturtransfer und Vermittlungsinstanzen / La transculturalité des espaces nationaux en Europe (XVIIIe-XIXe siècles). Traductions, transferts culturels et instances de médiations, hrsg. von Christophe Charle, Hans-Jürgen Lüsebrink, York-Gothart Mix, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2017, pp. 267-286. Una versione rivista e ampliata è uscita poi in lingua italiana col titolo Italiani a Parigi tra radicalismo politico e Weltliteratur. Per una storia della prima traduzione italiana del Faust, nel volume «La densità meravigliosa del sapere». Cultura tedesca in Italia fra Settecento e Novecento, a cura di Maurizio Pirro, Ledizioni, Milano 2018, pp. 99-122. 2. Gli editori e il repertorio della letteratura tradotta. Commissionato nel 2013 come postfazione a un volume destinato a raccogliere tutti gli scritti di Cesare Cases sul Faust, poi cresciuto a dismisura e pubblicato in una prima versione col titolo Cesare Cases e le edizioni italiane del Faust. Letteratura, politica e mercato dal Risorgimento a oggi in «Studi Germanici», XII.1, 2017, pp. 107-178. Il capitolo sul Faust mondadoriano di Fortini è stato discusso a «Traducendo…». Convegno internazionale di studi su Franco Fortini e la traduzione, Siena, 2-4.11.2017, nell’ambito delle celebrazioni del centenario fortiniano, mentre il capitolo sul Faust

nota al testo

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einaudiano curato da Cases è in corso di pubblicazione in Cesare Cases, Laboratorio Faust, a cura di Roberto Venuti, Quodlibet, Macerata 2019. 3. Nascita di una disciplina. Prima presentazione al convegno Cesare de Lollis nella cultura tra Otto e Novecento, Casalincontrada, 28.10.2017; prima pubblicazione col titolo Cesare De Lollis, Giuseppe Antonio Borgese e gli inizi della germanistica in Italia (1906-1913) in «Studi Medievali e Moderni», XXI.2, 2017, pp. 123-140. 4. Condizioni necessarie. Prima presentazione al convegno BüchnerRezeptionen – interkulturell und intermedial / Ricezioni di Büchner, tra interculturalità e intermedialità, Università degli Studi di Milano, 2324.9.2013; prima pubblicazione col titolo Notwendige Bedingungen: Georg Büchner im literarischen Feld Italiens 1914-1955, nel volume Büchner-Rezeptionen – interkulturell und intermedial, hrsg. von Marco Castellari und Alessandro Costazza, Peter Lang, Bern 2015, pp. 271-290. 5. La genesi di un nuovo habitus editoriale. Prima presentazione al seminario Journals and magazines: the making of avant-garde poetics: un’indagine nel modernismo, Università degli Studi di Milano, 28.1.2015, organizzato nell’ambito del progetto di ricerca Il dibattito delle riviste nell’età del modernismo del Dipartimento di Studi letterari, Filologici e Linguistici dell’Università di Milano; prima pubblicazione col titolo La letteratura tedesca del «Baretti»: Piero Gobetti e la genesi di un nuovo habitus editoriale (1919-26) nel volume I modernismi delle riviste. Tra Europa e Stati Uniti, a cura di Caroline Patey e Edoardo Esposito, Ledizioni, Milano 2017, pp. 131-152. 6. La consacrazione del romanzo. Prima presentazione al convegno Milano capitale transnazionale del libro tra le due guerre, Università degli Studi di Milano, 19-20.10.2017; prima pubblicazione col titolo I “tedeschi” di Bompiani. Sul posizionamento delle collane di narrativa straniera nel campo editoriale intorno al 1930 in Stranieri all’ombra del duce. Le traduzioni durante il fascismo, a cura di Anna Ferrando, Franco Angeli, Milano 2019, pp. 145-171. 7. Un repertorio per il teatro di regia. Prima presentazione al seminario National Connections Realism and Impegno after WWII, University of Reading, 21.2.2016, organizzato nell’ambito del progetto di ricerca Mapping Literary Space: Literary Journals, Publishing Firms and Intellectuals in Italy, 1940-1960 coordinato da Daniela La Penna e Francesca Billiani; prima pubblicazione col titolo Rosa e Ballo and German literature in Italy: the genesis of an intellectual network and the production of a new repertoire in the field of theatre in «Journal of Modern Italian Studies», XXI.1, 2016, pp. 65-80, nella sezione Mediating culture in the Italian literary field 1940s-50s.

Ringraziamenti

LTit – Letteratura tradotta in Italia deve la sua realizzazione al programma Futuro in Ricerca 2012 del Fondo per gli Investimenti della Ricerca di Base (FIRB) del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, che ha finanziato dal marzo 2013 al giugno 2018 il progetto originariamente denominato Storia e mappe digitali della letteratura tedesca in Italia nel Novecento: editoria, campo letterario, interferenza; e non sarebbe stato possibile senza il sostegno scientifico di Fabrizio Cambi, presidente dell’Istituto Italiano di Studi Germanici in Roma nel 2012, e il supporto tecnico di Daniela Dalmaso, dell’Università di Trento: a loro va il primo ringraziamento. Per l’accesso agli indispensabili materiali documentari ringrazio Luisa Finocchi, Anna Lisa Cavazzuti e Tiziano Chiesa della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori di Milano; Elisabetta Nencini del Centro Studi Franco Fortini di Siena; Roberto Cerati e Walter Barberis della casa editrice Einaudi e Luisa Gentile dell’Archivio di Stato di Torino, che ne custodisce l’archivio storico; Diana Rüesch dell’Archivio Giuseppe Prezzolini conservato alla Biblioteca Cantonale di Lugano; Alida Caramagno, che ha riordinato i fondi archivistici dell’Istituto Italiano di Studi Germanici, tra cui quello di Alberto Spaini, e Bruno Berni, che ne cura la consultazione. Per gli spunti e le discussioni sono particolarmente grato a Gianluca Albergoni, Roberto Alciati, Fabio Andreazza, Massimiliano Bampi, Luca Baranelli, Natascia Barrale, Cecilia Benaglia, Barbara J. Bellini, Antonio Bibbò, Francesca Billiani, Massimo Bonifazio, Pier Carlo Bontempelli, Anna Boschetti, Maddalena Carli, Andrea Casalegno, Pietro Cataldi, Roberto Cazzola, Anna Chiarloni, Simone Costagli, Sara Culeddu, Paola Del Zoppo, Flavia Di Battista, Franco D’Intino, Edoardo Esposito, Anna Ferrando, Fulvio Ferrari, Paola Maria Filippi, Roberta Gado, Matteo Galli, Enrico Ganni, Rosario Gennaro, Francesca Goll, Francesco Guglieri, Joseph Jurt, Fabien Kunz, Daniela La Penna, Vincenzo Lavenia, Luca Lenzini, Carlo Martinez, Camilla Miglio, Mila Milani, Walter Nardon, Daniela Nelva, Laura Petrella, Maurizio Pirro, Riccardo Raimondo, Marco Rispoli, Francesco Rossi, Chris Rundle, Cristina Savettieri, Stefania

ringraziamenti

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Sbarra, Salvatore Spampinato, Sara Sullam, Massimiliano Tortora, Stefano Verdicchio, Albertina Vittoria, Blaise Wilfert-Portal. Un sincero grazie, infine, al gruppo di ricerca con cui ho avuto il privilegio e la gioia di lavorare per cinque anni: Anna Antonello, Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè. Lo sapete, questo non è che il primo tomo. Dedico il libro ai miei genitori, che hanno creato le condizioni necessarie, e a mio fratello, che non smette mai di esplorare lo spazio dei possibili.

Capitolo primo Individuazione di un capolavoro I primi mediatori del Faust di Goethe (1814-1835)

1. Indizi per un’indagine La prima traduzione italiana del Faust, o più esattamente di quella «prima parte della tragedia» che Goethe aveva dato alle stampe nel 1808, fu realizzata, com’è noto, dal letterato bresciano Giovita Scalvini e pubblicata dall’editore Milanese Giovanni Silvestri nel 1835. Che nessuno, in quasi trent’anni, avesse avuto interesse a portare in Italia quello che oggi consideriamo un capolavoro indiscusso non deve stupire, dal momento che, spentesi da tempo le controversie tardo-settecentesche intorno al Werther, in Italia di Goethe si scriveva poco o nulla, e quel poco era più per biasimare che per lodare, in particolare proprio il Faust. Più produttivo, credo, è invece chiedersi perché, a un certo punto, un ristretto gruppo di letterati abbia individuato in esso un capolavoro, e abbia ritenuto necessario, anzi urgente, introdurlo nel repertorio letterario italiano, promuovendo al contempo una nuova immagine pubblica del suo autore. All’origine di questa indagine c’è lo strano testo che fa da introduzione alla traduzione di Scalvini, quei Cenni su la vita e su le opere di Volfango Goethe1 la cui presenza non è stata quasi mai rilevata dalla critica2, ma che per circa vent’anni, fino all’edizione Le Monnier del 1857, restano la principale via d’ac1  Cenni su la vita e su le opere di Volfango Goethe, in J. W. Goethe, Fausto, traduzione di Giovita Scalvini, Giovanni Silvestri, Milano 1835, pp. V-XL. 2  Così anche l’ormai indispensabile edizione critica (Traduzione del «Faust» di Goethe, a cura di B. Mirisola, saggio introduttivo di I. Perini, postfazione di M. E. D’Agostini, Morcelliana, Brescia 2012), mentre fa eccezione Lothar Heubeck, che vi si sofferma, seppur brevemente (Giovita Scalvini e la traduzione del «Faust», «Commentarii dell’Ateneo di Brescia per l’anno 1984», 1985, pp. 64-66).

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traiettorie

cesso al Faust e all’opera di Goethe nel suo complesso3. Se non ha suscitato l’attenzione degli studiosi è probabilmente perché si tratta di un testo anonimo. Sotto il titolo, nell’edizione Silvestri, si legge semplicemente «Dalla Foreign Review», e una nota a piè di pagina spiega: «Questi Cenni sono tolti dal fascicolo XV Dicembre 1830 dell’Indicatore Lombardo, che si pubblica dal Signor Giacinto Battaglia, in Milano»4. Nel fascicolo indicato della rivista milanese troviamo in effetti un saggio anonimo su Goethe che si presenta come una traduzione dalla «Foreign Review»5, e, sfogliando i numeri della «Foreign Review» dei mesi immediatamente precedenti, ci si imbatte a un certo punto in un articolo su Goethe, che però è tutt’altro che anonimo: si tratta infatti della celebre recensione di Thomas Carlyle ai volumi VI-X dei Sämtliche Werke di Goethe nell’edizione Cotta6. Nonostante la sua fortunata traduzione dei Wilhelm Meisters Lehrjahre sia uscita già nel 1824, Carlyle è ancora assai poco noto fuori dai confini britannici: si spiega così il fatto che il suo nome è stato omesso, cosa che peraltro corrisponde a una prassi assai comune nelle riviste del tempo. Se confrontiamo la recensione con la sua traduzione sull’«Indicatore Lombardo», notiamo però che le differenze sono assai rilevanti: nella versione italiana il testo originale è ridotto a circa un terzo della sua estensione, ampiamente rimaneggia3  Ancora nel 1857 la prima edizione integrale del Faust, che comprende la versione di Scalvini della prima parte e quella di Giuseppe Gazzino della seconda parte, viene pubblicata da Le Monnier con i Cenni come introduzione; solo a partire dagli anni ’60, con le nuove traduzioni di Giuseppe Rota (1860), Federico Persico (1861), la nuova edizione Le Monnier della versione di Scalvini e Gazzino (1862) e la versione di Andrea Maffei (1869), l’accesso all’opera verrà veicolato da altri scritti introduttivi. Nel 1836 Scalvini aveva iniziato a scrivere una sua introduzione destinata a una nuova edizione, ma è rimasta allo stato di appunti e frammenti fino alla sua morte (cfr. Giovita Scalvini, Foscolo, Manzoni, Goethe: scritti editi e inediti, a cura di M. Marcazzan, Einaudi, Torino 1948). 4  J. W. Goethe, Fausto, cit., p. V. 5  Goethe. Dalla «Foreign Review», «Indicatore Lombardo», II.14, 1830, pp. 311-334. 6  Thomas Carlyle, Goethe, «Foreign Review», I.2, 1928, pp. 80-127. L’ampia recensione sarà più volte ristampata in successive raccolte dei saggi di Carlyle. Per ragguagli sulla storia della «Foreign Review» si veda Eileen M. Curran, The «Foreign Review» (1828-1830), «Victorian Periodicals Review», XXIV.3, 1991, pp. 119-136.

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to, e interpolato con alcuni brani di pugno del traduttore, così che nell’insieme la traduzione assume una linea argomentativa sostanzialmente nuova, che dà particolare rilievo al carattere politico dell’opera di Goethe. Chi sia l’autore della traduzione non si può che ipotizzare, dal momento che viene indicato semplicemente con la sigla «G. A.»7. Viene ora naturale chiedersi perché la recensione di Carlyle sia stata tradotta, con quale intento sia stata riscritta e perché proprio a questo strano testo, nel quale peraltro non si parla affatto del Faust, sia stato assegnato l’importante ruolo di introdurre il lettore italiano all’opera di Goethe. A queste domande non sono riuscito a trovare una risposta circostanziata, ma, accumulando gli indizi, sono giunto a formulare alcune ipotesi che ritengo utile sottoporre alla discussione. In primo luogo ho cercato di definire la posizione di Goethe nel repertorio letterario italiano degli anni della Restaurazione, passando in rassegna le riviste e le case editrici che, attraverso articoli, recensioni e traduzioni, ne producevano l’immagine pubblica; quindi ho tentato di ricostruire le traiettorie e gli interessi specifici dei mediatori che, a partire all’incirca dal 1827, hanno contribuito a ridefinirne la posizione e l’immagine, proponendo una nuova selezione, marcatura e lettura delle sue opere, ora incentrata proprio sul Faust. Più delle ipotesi, dunque, credo sia interessante il quadro che è emerso dall’indagine, e, forse, il metodo stesso dell’indagine. 2. Il repertorio della letteratura tedesca in Italia dopo il 1814 Uno strumento di grande utilità per ricostruire il repertorio della letteratura tedesca nell’Italia della Restaurazione è lo studio di Carlo Carmassi8, che comprende anche una bibliografia 7  Con la stessa sigla è firmata, sull’«Indicatore Lombardo» dell’ottobre 1830, la traduzione di un articolo del conte di Saint-Aulaire sul dramma Struensee del tedesco Michael Beer, tratto dalla «Revue française». Si potrebbe peraltro supporre, anche per il testo di Carlyle, un doppio passaggio attraverso una rivista francese. 8  Carlo Carmassi, La letteratura tedesca nei periodici letterari italiani del primo Ottocento: 1800-1847, Jacques e i suoi quaderni, Pisa 1984.

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commentata di 370 tra articoli e traduzioni relativi alla letteratura tedesca pubblicati su 178 riviste letterarie italiane fra il 1800 e il 18479. Una prima, notevole cesura si può individuare nell’uscita della traduzione italiana di De l’Allemagne e del saggio Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni di M.me de Staël, quest’ultimo sulla «Biblioteca Italiana»10: sono scritti decisivi per la genesi della nota contrapposizione fra “classici” e “romantici”, laddove essere “romantici” significa in sostanza esplorare le letterature europee moderne, tradurne le opere più caratteristiche e rinnovare la letteratura italiana sulla base di questi nuovi modelli. Le modalità di questa esplorazione sono tuttavia assai diverse, e dipendono dal posizionamento degli attori e delle riviste nel mondo letterario, in cui peraltro proprio in questo si riconoscono i primi timidi segni di autonomizzazione di quello che Bourdieu definirebbe un campo di produzione ristretta11. Le riviste che a partire dal 1814 dedicano un’attenzione relativamente assidua alla letteratura di lingua tedesca sono innanzitutto «Lo Spettatore» (per il quale la bibliografia di Carmassi elenca 18 voci negli anni 1814-17), la «Biblioteca Italiana» (44 voci, 1816-40), e l’«Antologia» (16 voci, 1821-32); più tardi, dopo il 1828, anche l’«Indicatore Lombardo» (31 voci, 182937), l’«Eco» (17 voci, 1828-35) e il «Ricoglitore Italiano e stra9  370 voci sull’arco di mezzo secolo non è molto, ma neanche poco: nel periodo fra il 1668 e il 1779, vale a dire su un arco di oltre un secolo, è stato possibile individuare appena 175 fra articoli e traduzioni in un corpus di 91 riviste (cfr. Carlo Carmassi, La letteratura tedesca nei periodici letterari italiani del Seicento e del Settecento: 1668-1779, Jacques e i suoi quaderni, Pisa 1988). Naturalmente la bibliografia di Carmassi, come ogni bibliografia, non è completa al cento per cento, ma un confronto con la quella goethiana di Avanzi e Sichel (Giannetto Avanzi, Giorgio Sichel, Bibliografia italiana su Goethe: 1779-1965, Olschki, Firenze 1972) ci conforta sulla sua sostanziale affidabilità. 10  M.me de Staël-Holstein, L’Alemagna [traduzione di anonimo], Giovanni Silvestri, Milano 1814, e Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, «Biblioteca Italiana», I.1, 1816, pp. 9-18. 11  Cfr. Gianluca Albergoni, I mestieri delle lettere tra istituzioni e mercato: vivere e scrivere a Milano nella prima metà dell’Ottocento, Franco Angeli, Milano 2006. Albergoni dimostra che, almeno fino al 1838, le dimensioni del mercato non consentono ai letterati di emanciparsi dal mecenatismo e dal funzionariato, ragion per cui la loro autonomia è ancora molto debole, quantomeno sul piano strutturale.

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niero» (10 voci, 1834-37); per l’importanza di alcuni dei contributi pubblicati vanno segnalati anche «Il Conciliatore» (4 voci, 1818-19), «L’Ape/La Vespa» (11 voci, 1819-27) e l’«Indicatore Livornese» (5 voci, 1828-29). Il repertorio degli autori più presenti su queste riviste è piuttosto distante dall’attuale canone del primo Ottocento: per il periodo 1800-1826 – prima che, come vedremo, si sviluppi un interesse tutto nuovo e particolare per Goethe – la bibliografia di Carmassi contiene 26 voci relative a Schiller, 10 rispettivamente a Gessner, Kotzebue e A. W. Schlegel, 9 a Wieland e Bürger, 8 a Goethe, 6 a Klopstock e 5 a Winckelmann. Ancora assai rilevante è dunque la presenza degli autori che avevano goduto del più ampio riconoscimento in Italia a partire dagli anni ’60 del secolo precedente, in primis Winckelmann, Klopstock, Gessner e Wieland12; Kotzebue aveva invece trovato il suo pubblico nei teatri veneziani dopo che la Serenissima era diventata una provincia dell’Impero asburgico13 (nelle stesse circostanze era stato tradotto – ma con numeri assai meno imponenti – anche Lessing). Nonostante la disputa fra classici e romantici fosse scoppiata a proposito della traduzione della Lenore di Bürger, la vera scoperta dei romantici è senz’altro Schiller: i suoi drammi sono l’impresa letteraria più discussa e imitata degli anni ’2014. 12  A conferma di questo quadro è utile uno sguardo sulle traduzioni da questi autori apparse in volume fino al 1830: di Klopstock La morte d’Adamo (1760) e Il Messia (1771); di Wieland Selim e Selima (1771), Socrate delirante (1781), I dodici dialoghi degli dei (1784), Musarion (1890, a Lipsia), Storia del saggio Danischmend (1800), Istoria di Agatone (1802), Menandro e Glicera (1806), Aristippo (1809), Amore accusato (1810), La salamandra e la statua (1816), Crate e Ipparchia (1817), Alceste (1830, libretto); di Winckelmann Monumenti antichi inediti (1767), Storia delle arti del disegno presso gli antichi (1779, poi in più edizioni), Opere postume (1784), Opere (1830-34, in 8 volumi); di Gessner Idillij (1776, poi in altre cinque traduzioni). 13  Di Kotzebue vengono pubblicati a Venezia fra il 1803 e il 1807 non meno di 25 drammi, mentre una collezione in 16 volumi del suo Teatro appare fra il 1820 e il 1828. 14 Della Lenore di Bürger appaiono, a partire da quella celebre di Berchet, quattro traduzioni tra il 1817 e il 1829; di Schiller escono in volume Il visionario (1809), Amore e raggiro (1817), sei drammi tradotti da Pompeo Ferrario (1819-20), Giovanna d’Arco (1821) e Storia della Guerra dei Trent’anni (1822). Sulla ricezione italiana di Schiller cfr. il sempre valido studio di Lavinia Mazzucchetti, Schiller in Italia, Hoepli, Milano 1913, e quello più recente di Rita Unfer Lukoschik, Friedrich

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3. Il “ferrovecchio” Goethe: riverito, proibito, travisato Che posto ha Goethe in questo repertorio? Nella bibliografia di Carmassi troviamo, in un quarto di secolo, appena 8 voci15, e quasi sempre si tratta di testi che lo avversano. Si comincia nel 1805 con l’anonima stroncatura di una versione francese del Werther, quella di Sevelinges, nella quale peraltro non si biasima tanto la qualità della traduzione quanto l’idea stessa di mettere in circolazione un libro del genere16. Le successive prese di posizione su Goethe non sono più benevole. Invano si cercherebbe, peraltro, una recensione del Werther negli anni tra il 1774 e il 1830: il romanzo, che pure circola in migliaia di esemplari17 – spesso provvisti di un’«apologia» a far le veci di introduzione –, è tabù nella sfera pubblica: non se ne può scrivere. L’autore viene considerato immorale e politicamente pericoloso. Così si esprime, per esempio, nel 1815 il censore austriaco del Lombardo-Veneto, Giovanni Petrettini, fine letterato classicista e conservatore, che solo l’anno prima aveva dato alle stampe una Vita di Vittorio Alfieri e nel 1820 sarà nominato ordinario di filologia latina e greca all’Università di Padova: Romanzo di mano maestra; ma tende artificiosamente a renderci insopportabile l’esistenza; ed in tal modo scuote le fibre del cuore, che può essere cagione di terribili conseguenze. Werther, innamorato dell’altrui moglie, semina la discordia in una onesta famiglia, e non potendo possedere l’oggetto amato, si uccide. Le fine riflessioni delle quali egli fa parte al lettore, mescolandovi, con finissimo accorgimento, le idee politiche naturali e religiose dell’uomo, sono come il canto della sirena, che a viva Schiller in Italien (1785-1861): eine quellengeschichtliche Studie, Duncker & Humblot, Berlin 2004. 15  Di Goethe appaiono in volume, nel periodo considerato, solo il Werther (di cui fra il 1782 e il 1828 escono quattro traduzioni e almeno sedici edizioni), Ermanno e Dorotea (1804), Alfredo Meister (1809, versione di un rifacimento francese del Wilhelm Meister, ridotto a circa un quarto dell’originale) e Torquato Tasso (1820). 16 E.Q.B., Nuova traduzione del «Verter» in una nuova edizione accresciuta di C. L. Sevelinges, «L’Ape», III.3, 1805, pp. 135-142. La recensione peraltro è a sua volta una traduzione, dal «Mercure de France». 17 Sulle prime traduzioni italiane del Werther cfr. Giorgio Manacorda, Materialismo e masochismo. Il «Werther», Foscolo e Leopardi [1973], Artemide Roma 2001².

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forza trae a questo orrendo attentato. Quindi è assai ripetuto il suicidio alla Werther, ed ebbimo, non ha molto, dai pubblici fogli, che un tenero ragazzo di dodici anni commise il suicidio, e fu trovato al suo fianco questo libro pericoloso. Per tutte queste ragioni non può la traduzione essere esposta all’occhio del pubblico, ed entrerebbe per certo nella classe del dannatur, se molti squarci di vera eloquenza, certe descrizioni pittoresche, varie poetiche comparazioni, alcune massime filosofiche, ed un modo di vedere e di esprimer le cose affatto nuovo e bellissimo, non lo rendessero classico nel suo genere, e degno di confidarsi alle persone dotte ed assennate soltanto. Quindi credo di riporlo nella classe dell’erga schedam18.

Che il Werther fosse un’opera politicamente scottante, il cui potenziale rivoluzionario era evidente tanto ai radicali quanto ai conservatori, è testimoniato tra l’altro dalle simpatie giacobine di molti ammiratori di Goethe, da Michiel Salom, autore della famosa traduzione del 1796, letta anche da Foscolo e Leopardi (nonché dal censore Petrettini, che proprio questa esamina nel 1815), fino a Giuseppe Mazzini19. Negli anni della Restaurazione, quando ha inizio l’esplorazione sistematica della letteratura tedesca contemporanea, Goethe è sì riconosciuto come una delle personalità più rilevanti della cultura tedesca, ma nessuno si interessa davvero alla sua opera: i “classici”, che ignorano del tutto il suo classicismo, lo spregiano per la “sregolatezza” delle sue opere giovanili20; i “romantici”, influenzati da M.me de Staël e August Wilhelm Schlegel, gli preferiscono di gran lunga l’appassionato e “impegnato” Schiller, rispetto al quale il freddo e “distante” Goethe appare loro superato. Dopo Vincenzo Monti, che ancora nel 1783, dunque prima della Rivoluzione francese, aveva imitato alcuni passi del Werther nei suoi Pensieri d’amore, nessun italiano vuole essere associato a Goethe, con la sola ecce18 Il parere è citato in Vittorio Malamani, La censura austriaca delle stampe nelle provincie venete (1815-1848), «Il Risorgimento italiano: rivista storica», II.3-4, 1909, 491-541, qui p. 529. 19  Su Salom e la ricezione della sua traduzione cfr. G. Manacorda, Materialismo e masochismo, cit. 20  Perdurante è l’influenza delle forti riserve su Goethe espresse da Aurelio de’ Giorgi Bertola (Idea della bella letteratura alemanna, Bonsignori, Lucca 1784, nuova edizione a cura di M. Pirro, Mimesis, Milano 2016) e riprese anche da Juan Andres (Dell’origine, progressi e stato attuale di ogni letteratura, Mordacchini e Ajani, Roma 1808).

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zione del sovversivo Ugo Foscolo, che ancora dopo il Congresso di Vienna e il conseguente suo esilio a Londra, riconosce pubblicamente i rapporti fra il Werther e le sue politicissime Ultime lettere di Jacopo Ortis21. Almeno fino al 1826 Goethe è, nella sfera pubblica italiana, un “ferrovecchio”: generalmente riverito, ma, per quanto attiene a una ricezione sia critica sia produttiva, considerato un relitto del passato22. Fino a quella data non solo il suo capitale simbolico è tutt’altro che fuori discussione, ma la sua fama è quasi esclusivamente legata al Werther, un romanzo di cui non si può parlare in pubblico, avversato dalle élite politiche e religiose, successo di vendite e di scandalo presso la gioventù sentimentale e oggetto di culto per i letterati politicizzati che hanno il loro punto di riferimento principale in Foscolo23. 21  Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Londra 1814 (ma: Orell, Füssli & C., Zürich 1816), pp. I-CXII. 22  Così anche Gerhart Hoffmeister: «Nel complesso sembra che in Italia il poeta del Faust sia stato più onorato nella sua fredda olimpicità che realmente letto» (Goethe und die europäische Romantik, Francke, München 1984, p. 115, trad. mia). Ciò sembra contraddetto da un’indagine peraltro accurata come quella di Franca Belski (La ricezione di Goethe in Italia nella prima metà dell’Ottocento, in Rapporti fra letteratura tedesca e italiana nella prima metà dell’Ottocento, a cura di A. Martino, Vita e pensiero, Milano 1990, pp. 3-55), che tuttavia appare condizionata nelle sue premesse dall’enorme capitale simbolico di cui Goethe gode in Italia oggi, ma che comincia a consolidarsi, peraltro piuttosto lentamente, solo a partire dagli anni ’60 dell’Ottocento. Come già Carlo Fasola (Goethe è popolare in Italia?, «Rivista di letteratura tedesca», III.5-8, 1909, pp. 147-180), la studiosa assume come presupposto che gli italiani non abbiano potuto ignorare Goethe, cosa che invece, con le pochissime eccezioni che vedremo, hanno tranquillamente fatto. Del resto gran parte delle testimonianze da lei addotte sono, a ben vedere, ostili a Goethe, perché influenzate dalle posizioni di M.me de Staël e di A. W. Schlegel: così il Prospetto generale di letteratura tedesca di Angelo Ridolfi (1818), la Storia della letteratura alemanna di François-Adolphe Loève-Veimars (tradotta in italiano nel 1826), come anche l’influente Della poesia tedesca di Wolfgang Menzel (tradotto in italiano nel 1831). Con l’eccezione dell’articolo di Mazzini del 1829, sul quale torneremo, è proprio il Faust a essere il bersaglio delle critiche più dure, in prima battuta da parte di Michiel Salom, di Anton Giulio Basevi e di Cesare Cantù, per culminare infine nella celebre stroncatura di Vittorio Imbriani. 23  Come ha osservato Roberto Zapperi, già dagli anni Ottanta del Settecento, «in Italia di quest’opera tanto famosa in tutta l’Europa o si parlava male o non si parlava affatto. Il che non vuol dire che non fosse ben nota soprattutto nei circoli letterari. Alla sua conoscenza provvedevano infatti le numerose traduzioni francesi che circolavano un po’ dappertutto, a dispetto dei controlli della censura» (Una vita in incognito. Goethe a Roma, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 60).

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Dunque non c’è da stupirsi se sulla rivista più attiva nella mediazione di letteratura tedesca nel periodo della Restaurazione, la «Biblioteca Italiana» (Milano, 1816-1840), che negli anni fra il 1817 e il 1826 pubblica ben 17 tra articoli e traduzioni, Goethe non è neppure menzionato. Questa rivista, sulla quale appare anche il saggio sulle traduzioni di M.me de Staël, è voluta e finanziata dal governo austriaco allo scopo di suscitare nelle classi colte italiane simpatie per i nuovi signori del Regno Lombardo-Veneto istituito nel 1815. Come direttore della rivista gli austriaci designano Giuseppe Acerbi (1773-1846), dopo che sia Ugo Foscolo sia Vincenzo Monti si erano rifiutati di accettare l’incarico (il primo andrà quindi in esilio, il secondo vi assumerà un ruolo subalterno come semplice collaboratore), e anche Alessandro Manzoni respinge ogni invito a contribuire. Persino sulla rivista concorrente, «Il Conciliatore» (Milano, 1818-1819), principale organo dei “romantici”, Goethe viene citato assai di rado, e quando accade, sempre in relazione a Shakespeare e Schiller come precursore del romanticismo. La rivista viene fondata da un gruppo di letterati scontenti dell’orientamento della «Biblioteca Italiana» e per un anno e mezzo, sotto la direzione di Silvio Pellico (1779-1854), funziona come foro dei liberali e patrioti ostili all’Austria, finché non viene chiusa. Il governo asburgico ha buoni motivi per farlo: il mecenate della rivista, il conte Federico Confalonieri, capo della Carboneria nel Lombardo-Veneto, progettava una rivolta contro la dominazione austriaca, e nel ’21 viene incarcerato per cospirazione insieme a Pellico e ad alcuni collaboratori della rivista, mentre altri sono costretti all’esilio24.

24  Sulla Carboneria e il suo discusso rapporto con la Massoneria, le società segrete transnazionali di Filippo Buonarroti e più tardi con la Giovane Italia di Mazzini cfr. R. John Rath, The “Carbonari”. Their Origins, Initiation Rites, and Aims, «American Historical Review», 69, 1964, pp. 353-370 e Gian Mario Cazzaniga, Origini ed evoluzioni dei rituali carbonari italiani, in La Massoneria. Storia d’Italia. Annali, 21, Einaudi, Torino 2006, pp. 559-578.

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4. Carbonari a Parigi: l’esilio come condizione per l’allargamento dell’orizzonte letterario Degli esuli che provengono dalla cerchia del «Conciliatore» fanno parte anche tre giovani amici che avranno un ruolo importante nell’affermazione di una nuova immagine di Goethe in Italia: Giovita Scalvini, Camillo Ugoni e Giovanni Arrivabene. I tre, che hanno la loro iniziazione politica a Brescia, appartengono a un’altra frazione della Carboneria rispetto alla maggior parte degli altri collaboratori del «Conciliatore»: mentre la frazione patriottico-liberale del conte Confalonieri si batte soprattutto per l’indipendenza e la costituzione, i carbonari bresciani sono di orientamento decisamente giacobino, e aspirano invece a una rivoluzione sociale, democratica ed egualitaria25. Sono strettamente legati tra loro almeno dal 1810: leggono e ammirano Rousseau, Milton, i Canti di Ossian, Sismondi, A. W. Schlegel e Tiraboschi, e considerano la storia e critica della letteratura italiana come un terreno d’azione politica. Giovita Scalvini (1791-1843)26, il traduttore del Faust, viene da una famiglia dell’aristocrazia bresciana in decadenza. Suo padre aveva preso parte alla Guerra d’indipendenza americana al seguito del generale La Fayette e in seguito diventa un fautore di Napoleone. Fin dall’inizio Scalvini è vicino al credo repubblicano. Nel 1807 conosce Ugo Foscolo e nel 1808 Vincenzo Monti, entrambi di passaggio da Brescia, e la loro amicizia e influenza sarà determinante per i suoi orientamenti letterari. Dopo aver studiato diritto a Pavia e Bologna senza arrivare alla laurea, tra il 1817 e il ’20 collabora alla «Biblioteca Italiana» e lavora come precettore in casa dei conti Melzi, senza nascondere l’insofferenza nei confronti di questi impieghi di mera sopravvivenza. La sua situazione 25  Cfr. Bernardo Scaglia, Giovita Scalvini e i moti del ’21, in Giovita Scalvini: un bresciano d’Europa, cit., pp. 53-64. 26  Sulla vita di Scalvini cfr. Robert van Nuffel, prefazione a Costanza Arconati Visconti, Lettere a Giovita Scalvini durante l’esilio, Supplemento ai «Commentarii dell’Ateneo di Brescia per l’anno 1965», 1965, pp. 5-22; Lothar Heubeck, La vita di Giovita Scalvini attraverso i documenti e le testimonianze, «Commentarii dell’Ateneo di Brescia per l’anno 1985», 1986, pp. 171-240; Giovita Scalvini: un bresciano d’Europa. Atti del Convegno di studi 28-30 novembre 1991, a cura di B. Martinelli, Ateneo di scienze lettere e arti, Brescia 1993.

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può essere paragonata a quella del precettore Läuffer nel dramma di J. M. R. Lenz, o anche, in una certa misura, a quella del giovane Werther: un giovane borghese colto che non può aspirare a una posizione soddisfacente nella società di ancien régime. La traiettoria del suo compagno e amico di gioventù Camillo Ugoni (1784-1855)27 è piuttosto simile. Dal 1807 è anch’egli un seguace di Foscolo, del quale nel 1824 tradurrà dall’inglese i Saggi sul Petrarca; nel 1812 dedica all’imperatore Napoleone una traduzione dei Commentarii di Giulio Cesare, ottenendone in compenso il titolo di barone; tra il 1820 e il ’22 pubblica la prima parte dell’opera che lo terrà impegnato per tutta la vita, Della letteratura italiana nella seconda metà del secolo XVIII, nella quale dedica ampio spazio, e tra i primi, alla letteratura contemporanea, in particolare a Vincenzo Monti, Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni e naturalmente a Foscolo. Sebbene Ugoni sia di origini aristocratiche, si rivela anch’egli assai presto incline all’impegno politico in senso repubblicano, anche se il vero rivoluzionario della famiglia è suo fratello Filippo (17941877), che nel 1821 è a capo della Carboneria bresciana. Il terzo, Giovanni Arrivabene (1787-1881),28 appartiene a una famiglia nobiliare mantovana caduta in disgrazia ai tempi della Repubblica Cisalpina. Ciononostante nel periodo della Restaurazione si converte alle idee liberali, diventando anch’egli un nemico dell’Austria. Nel 1813 conosce Scalvini e Ugoni, nel 1819 è tra i collaboratori del «Conciliatore» e l’anno seguente fonda in un suo possedimento a Mantova una scuola per il mutuo insegnamento ispirata alle dottrine pedagogiche di Joseph Lancaster, che, considerata in odore di liberalismo, viene chiusa dal governo austriaco dopo pochi mesi. Nel 1815 durante un viaggio in Toscana i tre conoscono Gino Capponi ed elaborano insieme il progetto di una rivista che qualche anno dopo sarà alla base della fiorentina «Antologia» di Giovan Pietro Vieusseux. Nel maggio del 1821, nel corso dell’inchiesta del magistrato Antonio Salvotti sulla Carboneria, Pellico fa il nome di Arriva27  Sulla vita di Ugoni cfr. Margherita Pietroboni Cancarini, Camillo Ugoni. Letterato e patriota bresciano, SugarCo, Milano 1974-78 (4 voll.). 28  Sulla vita di Arrivabene cfr. Giovanni Arrivabene, Memorie della mia vita, Barbera, Firenze 1879.

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bene, che viene incarcerato; durante la perquisizione della sua abitazione viene rinvenuta una lettera di Scalvini che attrae l’attenzione degli inquirenti per alcune frasi: Domani [Giacinto] Mompiani [fondatore della scuola di mutuo insegnamento di Brescia, sostenuta da Camillo e Filippo Ugoni] ed io andremo alla Calderara: niun tedesco, niun ministro, niuna spia. – Monti ha scritto un inno per lo imperatore [d’Austria, Francesco I] ch’è sotto i torchi. Bada bene, è sotto i torchi l’inno, non l’imperatore per nostra sventura. Siamo tali piante noi che di null’altro ci nutriamo che di liberalismo29.

Anche Scalvini viene arrestato, e rimane in carcere nove mesi. Alla loro liberazione, per sfuggire alla nuova inchiesta apertasi con l’arresto di Confalonieri (che si concluderà nel ’24 con la condanna a morte in contumacia di entrambi per alto tradimento), i due lasciano l’Italia. Con Camillo Ugoni (il cui fratello Filippo sarà condannato insieme a loro) passano nell’aprile del ’22 il confine svizzero, e trascorreranno insieme gran parte degli anni successivi, prima a Londra, poi a Parigi, più tardi spesso a Gaesbeck, vicino a Bruxelles, ospiti della famiglia Arconati Visconti. Per anni Scalvini, povero e spesso ammalato, trova accoglienza e sostegno presso l’amico Arrivabene. Nel 1824 si spostano a Parigi, dove si trovano a fare i conti con una problematica letteraria completamente diversa da quella italiana e con un repertorio letterario internazionale decisamente più ampio. Dopo un anno Camillo Ugoni scrive Mio fratello [Filippo] ha fatto grandi acquisizioni in fatto di lingue, perché oltre ad aver imparato assai bene l’inglese, sa tanto anche il tedesco da aver potuto tradurre uno de’ libri più difficili, il Faust di Goethe […]. Da questo lato non è molto invidiabile la sorte di coloro che sono restati in Italia a dibattere eternamente intorno ad una sola lingua, e forse impiegheranno più fruttuosamente il tempo quegli altri, che intanto imparano le principali lingue d’Europa e colle lingue anche un pochettino della letteratura e in genere del sapere, e dei costumi europei30. 29  La lettera è citata in Cesare Cantù, Il «Conciliatore» e i carbonari, Treves, Milano 1878, p. 226. 30 Camillo Ugoni a Anna da Schio, 30.9.1825, in Antonio Scolari, Anna da Schio Serego Alighieri e gli inizi del romanticismo patriottico a Verona, Vita Veronese, Verona 1952, p. 58; sulla traduzione del Faust di Filippo Ugoni qui menzionata non ho potuto reperire altre notizie.

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I tre amici frequentano la cerchia del marchese de La Fayette e i corsi della Sorbona, dove conoscono François Guizot, Benjamin Constant, Auguste Comte, Abel-François Villemain e soprattutto Victor Cousin. Camillo Ugoni viene introdotto, pare grazie alla mediazione di Stendhal, nell’ambiente del «Globe» di PaulFrançois Dubois, sulle cui pagine viene ristampata e presentata come «peut-être l’un des premiers jugements favourables porté sur M. Manzoni» la sua introduzione all’edizione Baudry delle Tragedie, che contribuisce in misura rilevante al riconoscimento internazionale dello scrittore milanese31. Proprio in questi anni il capitale simbolico di Goethe nella capitale della république mondiale des lettres conosce una sensibile crescita: mentre in Italia è ancora un “ferrovecchio”, diversi articoli da «Über Kunst und Altertum» – tra cui il celebre annuncio di una Weltliteratur – vengono tradotti e discussi sul «Globe»32, viene data alle stampe la traduzione del Faust di Gérard de Nerval (1827) – la terza dopo quelle del conte di Sainte-Aulaire di Albert Stapfer – e numerose rappresentazioni del Faust vengono messe in scena con successo nei teatri parigini33. In luogo del vecchio autore del Werther si rivela agli occhi dei letterati italiani un nuovo Goethe, che ora appare loro come l’avanguardia di una nuova letteratura internazionale, il rappresentante par excellence della modernità. Nel 1827 Manzoni pubblica i suoi Promessi sposi, e nella considerazione degli esuli, che a Parigi leggono il romanzo immediatamente con enorme ammirazione, diventa il principale rappresentante della nuova letteratura in Italia: «È troppo bello, è troppo bello!», grida Arrivabene giunto all’episodio di Fra 31 Camillo Ugoni, Prefazione, in Alessandro Manzoni, Tragedie: il «Conte di Carmagnola», e l’«Adelchi», aggiuntevi le poesie varie dello stesso, ed alcune prose sulla teorica del dramma tragico, Baudry, Paris 1826, pp. III-XXIV, e Sur les tragédies de Manzoni, «Le Globe», 29.6.1826, pp. 431-432 e 1.7.1826, pp. 436-438. 32  Cfr. York-Gothart Mix, Der Zauberlehrling und die Weltliteratur. Die Zeitschriften «Le Globe» und «Ueber Kunst und Alterthum» im transkulturellen Dialog, in Transkulturalität nationaler Räume in Europa (18. bis 19. Jahrhundert). Übersetzungen, Kulturtransfer und Vermittlungsinstanzen, hrsg. von Ch. Charle, H.-J. Lüsebrink, Y.-G. Mix, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2017, pp. 133-150. 33  Cfr. Claude Paul, Goethes Faust auf dem Weg nach Frankreich. Verlauf und Vermittlungsinstanzen einer gespaltenen Rezeption, ivi, pp. 379-404.

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Cristoforo34. In quello stesso anno Goethe pubblica la sua Teilnahme an Manzoni come prefazione all’edizione dei drammi del milanese, da lui stesso promossa e pubblicata a Jena. I rapporti personali fra Goethe e Manzoni sono ben noti35, ma è proprio l’associazione simbolica tra i due autori come antesignani di una nuova letteratura, associazione che si evidenzia intorno al 1827 e innanzitutto agli occhi dei nostri letterati in esilio, a indurre Scalvini e Ugoni a indagare criticamente e a promuovere internazionalmente la loro opera. Ancora nel 1827 Ugoni traduce la Teilnahme di Goethe in italiano e scrive la già citata introduzione all’edizione Baudry delle Tragedie e poesie varie di Manzoni, mentre almeno a partire dal 1829 Scalvini lavora a un ampio saggio sui Promessi sposi. Tutti questi scritti vengono pubblicati anonimi in Svizzera: a farsene carico è il tipografo Giuseppe Ruggia (1771-1839) di Lugano, che proprio nel 1827 avvia la sua impresa e, grazie alla collaborazione del suo amico Filippo Ugoni, diventa rapidamente uno dei principali editori della diaspora letteraria italiana, pubblicando opere di Foscolo, Pellico, Tommaseo e Mazzini36. È in questo contesto che Scalvini inizia a tradurre il Faust37. E si può supporre che in questo stesso contesto la recensione di Carlyle alle opere di Goethe, uscita sulla «Foreign Review» nel 34 

G. Arrivabene, Memorie della mia vita, cit., p. 160. Cfr. Alessandro Manzoni, Carteggio, Hoepli, Milano 1912-1921, parte I, lettere 138, 209, 249, 253, 255, 257, 261, 264 e 266. Si veda inoltre almeno Weimar und Mailand. Briefe und Dokumente zu einem Austausch um Goethe und Manzoni, hrsg. von H. Blank, Winter, Heidelberg 1992. 36  Nel 1827 Ruggia pubblica, senza indicare il nome del traduttore, Interesse di Goethe per Manzoni; nel 1830 le Tragedie e poesie varie di Alessandro Manzoni, colle prose analoghe ed un’apposita prefazione del barone Camillo Ugoni, che in appena un anno sembrerebbe arrivare, stando all’editore, alla quindicesima edizione; nel 1831, sotto lo pseudonimo A. H. J., il saggio di Scalvini Dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, originariamente destinato alla «Rivista Italiana» progettata da Filippo Ugoni e mai realizzata (cfr. Giuseppe Martinola, Un editore luganese del Risorgimento: Giuseppe Ruggia, Fondazione Ticino Nostro, Lugano 1985). 37  Secondo Heubeck, Scalvini inizierebbe a tradurre il Faust solo alla fine del 1833 (La vita di Giovita Scalvini attraverso i documenti e le testimonianze, cit., p. 223), mentre van Nuffel sostiene che vi lavorasse già dal 1830 (Lettere di Camillo Ugoni a Giovita Scalvini, «Convivium» XXV.6, 1957, pp. 723); dalle lettere di Costanza Arconati Visconti si può tuttavia desumere che nell’autunno del 1832 se ne stesse occupando già da tempo (Lettere a Giovita Scalvini durante l’esilio, cit., pp. 47, 50). 35 

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1828, susciti l’interesse del nostro gruppo di letterati, e che per questo venga tradotta in italiano. Dietro la sigla «G. A.» potrebbe dunque celarsi Giovanni Arrivabene38, oppure l’intero gruppo di amici, a cui egli avrebbe “prestato” le sue iniziali. Non sarebbe forse azzardato considerare la traduzione un prodotto del lavoro collettivo della cerchia di Scalvini, allora impegnata nella rivalutazione di Goethe, o di qualche altro esule italiano ad essa vicino. Per esempio lo stesso Filippo Ugoni, che come abbiamo visto aveva a sua volta tentato una traduzione del Faust, oppure il futuro traduttore delle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel, Giambattista Passerini (1793-1864)39. Anche Passerini appartiene al gruppo dei carbonari esuli da Brescia, collabora, come gli Ugoni, con l’editore Ruggia, e approda nel ’28 a Parigi, dove frequenta Victor Cousin e il «Globe». Negli anni parigini introduce l’amico Giovita Scalvini alla filosofia tedesca contemporanea, e probabilmente viene a sua volta influenzato dalla ricerche letterarie di questi: intorno al 1830 lavora infatti alla traduzione del recentissimo studio di Wolfgang Menzel Deutsche Dichtung, uno dei primi e più solidi tentativi di fare una storia letteraria con criteri scientifici e sistematici (siamo sul terreno di Camillo Ugoni), e, introducendone nel ’31 l’edizione italiana, apparsa anch’essa presso Ruggia, si fa carico di difendere Goethe dalle accuse mossegli dal critico romantico tedesco, ricorrendo peraltro ad argomenti non dissimili da quelli che troviamo nei Cenni40. Anche in assenza di prove dirimenti per identificare il nostro «G. A.» possiamo tuttavia dare per assodati alcuni rilevanti ele38  Arrivabene non pare avere un particolare interesse per la letteratura. Durante i suoi anni all’estero pone le basi per la sua successiva carriera di economista, che nel 1859, dopo venticinque anni di esilio, gli procurerà un posto al Senato del Regno d’Italia: si interessa a Robert Owen, Henri de Saint-Simon, Charles Fourier und JeanBaptiste Say, traduce gli Elementi di economia politica di James Mill, scrive un saggio Sulle società di beneficienza della città di Londra (1828 e 1832) e il libello Considérations sur les principaux moyens d’ameliorer la sorte de la classe ouvrière (1832). 39  Sulla vita di Passerini cfr. Luciano Aguzzi, Riforma religiosa, hegelismo, comunismo e il problema del Risorgimento in Italia nel pensiero di Giambattista Passerini (1793-1864), Ateneo di Scienze Lettere e Arti di Brescia, Brescia 1985. 40 Giovanni Battista Passerini, Prefazione, in Wolfgang Menzel, Della poesia tedesca, traduzione di G. B. P., Ruggia, Lugano 1831, pp. III-XV.

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menti di contesto: 1) tra i letterati italiani in esilio a Parigi, vale a dire in un ambiente politicamente radicale e socialmente internazionalizzato, si aggrega una cerchia letteraria assai produttiva, i cui membri, influenzati dalla scena letteraria locale, si interessano con spirito “militante” alla “nuova” letteratura, in particolare a Manzoni e Goethe; 2) questa cerchia, alla quale possiamo ricondurre per lo meno Scalvini, i fratelli Ugoni, Arrivabene e Passerini, tutti accomunati dalla passata attività politica a Brescia, è saldamente legata ad alcune riviste e case editrici, in primo luogo il «Globe» a Parigi e Ruggia a Lugano; 3) le riflessioni di Ugoni e soprattutto di Scalvini su Goethe e Manzoni sono orientate all’individuazione di una nuova poetica, dal carattere assai più spiccatamente politico e internazionalista di quella dei “romantici” italiani del decennio precedente41; 4) tanto la traduzione del Faust quanto quella di Della poesia tedesca di Menzel possono essere ricondotte a questa sorta di laboratorio letterario in esilio. E forse anche quella della recensione di Carlyle. A tutto ciò possiamo aggiungere che i lavori prodotti in questa cerchia vengono pubblicati e recensiti prevalentemente sulle riviste più liberali e progressiste allora attive nella sfera pubblica italiana, in primo luogo l’«Antologia» di Firenze e l’«Indicatore Lombardo» di Milano. 5. La svolta del 1827: l’«Antologia» e la recensione di Mazzini I primi segni di una svolta nella produzione di un Goethe “italiano” si possono osservare proprio nel 1827, e in particolare su una nuova rivista che viene assiduamente letta, e in parte anche fatta, dagli esponenti dalla frazione più avanzata del mondo letterario italiano, si trovino essi in patria o in esilio: l’«Antologia» (Firenze, 1821-1832)42. La rivista viene fondata 41  Questo punto non può essere ulteriormente sviluppato in questa sede, ma non mancano gli studi sulla critica letteraria del romanticismo, da Scalvini e Mazzini, a cominciare con Giuseppe Antonio Borgese, Storia della critica romantica in Italia, Edizioni della Critica, Roma 1905. 42  Numerose prese di posizione favorevoli a Goethe si possono trovare anche nella rivista (e gabinetto letterario) «L’Eco» (Milano, 1828-1835), pubblicata dal

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da Giovan Pietro Vieusseux (1779-1863), un commerciante ligure di origine svizzera, che viaggia per tutta Europa prima di stabilirsi a Firenze e aprirvi, nel 1819, un “gabinetto letterario”. Due anni dopo comincia a stampare una rivista dal profilo in apparenza assai più modesto rispetto alle concorrenti «Biblioteca Italiana» e «Il Conciliatore»: si tratta infatti di una semplice raccolta di traduzioni da riviste straniere, sul modello della «Revue Encyclopédique». Presto però l’«Antologia» si apre anche a contributi originali, nonché a una prospettiva panitaliana e perfino paneuropea. Tra i principali collaboratori figurano il marchese Gino Capponi (1792-1876)43, politicamente un moderato e letterariamente un classicista, e Niccolò Tommaseo (1802-1874), figlio di un commerciante dalmata e futuro autore del Dizionario della lingua italiana, che politicamente è un democratico e letterariamente un romantico, amico e sostenitore di Manzoni. Il secondo rappresenta l’ala radicale della rivista, nella quale sono rappresentate, se non proprio tutte, quantomeno le principali tendenze politiche e letterarie del tempo, ma che tuttavia, a causa delle proteste del governo austriaco contro un articolo di Tommaseo sulla rivoluzione greca, dovrà chiudere. Anche Tommaseo, nel ’32, prenderà la via dell’esilio, e a Parigi si legherà a Ugoni e Scalvini44. Proprio sull’«Antologia», alla quale Ugoni collabora saltuariamente a partire dal 1823, Giuseppe Montani, amico di Ugoni e a sua volta un radicale, recensisce nel 1827 la traduzione italiana della Teilnahme Goethes an Manzoni, dedicandole parole entusiastiche. Nel 1829 vi appare inoltre, anonimo, il lungo sagradicale Francesco Lampato (1774-1855), figlio di un commerciante e già soldato nell’esercito della Repubblica Cisalpina. Lo stesso Goethe, che era abbonato e la leggeva regolarmente a Weimar, la apprezzava per il suo carattere popolare, e inviava alla redazione pensieri e poesie (tra cui Ein Gleichnis). In genere però qui lo scrittore viene più esaltato che veramente commentato, in «articoli di varia natura, ma di scarso spessore» (F. Belski, La ricezione di Goethe in Italia nella prima metà dell’Ottocento, cit., p. 33). 43  Sebbene la sua famiglia debba fuggire all’arrivo dell’esercito napoleonico ed egli viva per alcuni anni presso la corte degli Asburgo a Vienna, Capponi diviene un sostenitore della causa nazionale e della lotta contro l’Austria. 44  Più tardi curerà l’edizione degli Scritti di Giovita Scalvini, Le Monnier, Firenze 1860.

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gio di Mazzini D’una letteratura europea, che reca come motto una citazione di Goethe sulla Weltliteratur (tratta da «Über Kunst und Altertum», ma mediata dal «Globe»: «Io intravedo l’aurora d’una Letteratura Europea: nessuno fra i popoli potrà dirla propria, tutti avranno contribuito a fondarla»), e definisce lo scrittore tedesco «l’intelletto sovrano dell’epoca»45. Perché mai Giuseppe Mazzini (1805-1872), futuro fondatore della Giovine Italia, il primo partito politico d’Italia, si interessa a Goethe? Di quindici anni più giovane di Scalvini, Mazzini gli è socialmente e politicamente molto prossimo. Figlio di un medico giacobino, appartiene alla borghesia genovese, studia diritto, legge con passione l’Ortis di Foscolo e, poco dopo aver preso parte alla rivolta studentesca del 1821 a Genova, s’imbatte nel Werther46. Nel 1827 aderisce alla frazione giacobina della Carboneria. Per anni lettore della «Revue encyclopédique» e del «Globe», a partire dal 1828 collabora intensamente con diverse riviste italiane, soprattutto con l’«Indicatore Livornese» di Francesco Domenico Guerrazzi, che dopo un anno di attività viene proibito dal governo del Granducato di Toscana. Su questa rivista appare nel 1829, in occasione dell’uscita della traduzione francese di Nerval, il suo saggio sul Faust47. La lunga recensione, in cui Mazzini auspica con toni accesi che il Faust venga tradotto anche in Italia, è il primo saggio di una qualche consistenza mai apparso in Italia su Goethe. E viene scritto all’insegna dell’orientamento politico più radicale tra quelli rappresentati sulla scena politica del tempo. Pochi mesi più tardi appare sull’«Antologia» un altro suo saggio di grande importanza, il già citato D’una letteratura europea. Qui Mazzini accosta Goethe a Byron, Foscolo e Manzoni quali principali rappresentanti della nuova letteratura. Questa letteratura deve essere, secondo lui, non solo impegnata e nazionale, dunque patriottica, come volevano i romantici, ma anche internazionale ed europea: 45 Un Italiano [Giuseppe Mazzini], D’una letteratura europea, «Antologia», IX.107-108, 1829, p. 115. 46  Cfr. Giovanni Belardelli, Mazzini, il Mulino, Bologna 2010, p. 15. 47  Giuseppe Mazzini, recensione a Faust. Tragédie de Goethe, Nouvelle traduction complète en prose et en vers par Gérard De Nerval (Paris, 1828), «L’Indicatore Livornese», I.11-12, 1829, pp. 145-173.

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Esiste in Europa una concordia di bisogni, e di desiderii, un comune pensiero, un’anima universale, che avvia le nazioni per sentieri conformi ad una medesima meta. Dunque la letteratura – quando non voglia condannarsi alle inezie – dovrà inviscerarsi in questa tendenza, esprimerla, aiutarla, dirigerla – dovrà farsi europea48.

Nella proposta di Mazzini si possono riconoscere notevoli affinità con il tentativo di Scalvini e dei suoi amici di elaborare una nuova idea di letteratura che si lasci alle spalle tanto il conflitto, tutto italiano, fra “classici” e “romantici” quanto il dissidio, tutto politico, fra militanza attiva e rappresentazione estetica della realtà. Mossi dall’esigenza di superare queste antinomie, sia l’uno che gli altri trovano a Parigi l’idea di Weltliteratur promossa dal «Globe» e, legata a questa, un’immagine di Goethe del tutto nuova e inattesa, e accolgono entrambe nella loro riflessione49. Anche Mazzini peraltro, a causa della sua attività nella Carboneria, viene arrestato nel 1831, e partirà a sua volta per l’esilio. 6. L’«Indicatore Lombardo» e il saggio di Carlyle Torniamo alle riviste. Nel 1829 ne viene fondata a Milano un’altra che nel giro di pochi anni acquisisce nella sfera pubblica del Regno Lombardo-Veneto un ruolo comparabile a quello dell’«Antologia» nel Granducato di Toscana: l’«Indicatore Lombardo» (1829-1837)50. Il suo editore è Giacinto Battaglia (1803-1861), un borghese benestante e di idee liberali, discepolo di Gian Domenico Romagnosi, una delle più autorevoli firme del «Conciliatore». Si tratta di una rivista liberale, moderata, indi48 

Un Italiano [Giuseppe Mazzini], D’una letteratura europea, cit., p. 115. Non è qui la sede per approfondire le idee letterarie di Mazzini e Scalvini, che senza dubbio sono da annoverare fra i critici italiani più avanzati e internazionalizzati del momento. 50 Su Giacinto Battaglia e l’«Indicatore Lombardo» cfr. Marino Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione [1980], Franco Angeli, Milano, 2012², pp. 195-204. All’inizio degli anni ’30 l’«Indicatore Lombardo» ha una tiratura di circa 500 copie, mentre l’«Antologia» di circa 700 (cfr. Umberto Carpi, Letteratura e società nella Toscana del Risorgimento, De Donato, Bari 1974, p. 78). 49 

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pendente, sulla quale si può discutere seriamente di letterature straniere, in particolare della tedesca, e ci si può perfino permettere di parlare di Goethe. Come l’«Antologia», la nuova rivista si presenta inizialmente come una innocua raccolta di articoli tradotti, per aprirsi poi via via a contributi originali di letterati italiani. Fra le riviste “straniere” dalle quali vengono selezionati i pezzi da riproporre c’è, in prima linea, proprio la toscana «Antologia»: e tra i primi articoli ristampati troviamo D’una letteratura europea di Mazzini, che viene pubblicato in apertura del fascicolo del giugno 1830, naturalmente anonimo e mutilato dalla censura51. Nel dicembre dello stesso anno appare, come abbiamo visto, la traduzione del testo di Carlyle, che dopo la recensione di Mazzini al Faust di Nerval è, per consistenza, il secondo saggio su Goethe fino ad allora pubblicato in Italia. Sebbene non sia certo che la traduzione possa essere ascritta, come ipotizzato, al gruppo di esuli legata a Scalvini, è tuttavia evidente che il senso in cui viene manipolata corrisponde alle idee radicali di Mazzini, Scalvini e della cerchia parigina. Se si confronta il testo anonimo dell’«Indicatore Lombardo» (1830) con quello di Carlyle (1828) e si analizzano in particolare i brani che non compaiono nell’originale, e dunque sono da ascrivere al traduttore, si può osservare quanto segue. 1) La recensione viene trasformata in una biografia di Goethe, che in questo modo può rientrare nel programma, portato avanti dall’«Indicatore Lombardo», di offrire ai lettori una serie di ritratti di autori tedeschi moderni: a Goethe seguiranno, nei fascicoli successivi, Lessing, Schiller, Zacharias Werner, Theodor Körner, Kleist, Tieck e Novalis. 2) Finalmente si scrive del Werther, ponendo fine al tabù che aveva impedito fino ad allora ogni discussione pubblica sull’opera di maggior successo di Goethe. Fin dalle prime righe una nota, evidentemente di mano del traduttore si dà cura di precisare: «La pubblicazione del Werther di Goethe fu un vero avvenimen-

51  [Giuseppe Mazzini], D’una letteratura europea, «Indicatore Lombardo», II.9, 1830, pp. 293-329; ai tagli si accenna in Paolo Prunas, L’«Antologia» di Gian Pietro Vieusseux. Storia di una rivista italiana, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 1906, p. 130.

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to nella storia letteraria d’Europa»52. Non solo il romanzo viene valutato in termini altamente positivi, ma si fa esplicito riferimento al suo significato politico: Werther comparve. Era l’espressione dell’inquietezza generale, tal quale l’avea provata in tutte le sue più riposte latébre il cuore di un giovine e di un poeta. Era la disperazione di una generazione posta sul margine di un abisso, disperazione che la potenza di commuovere, tutta particolare a un grande ingegno, rendeva più terribile e contagiosa, analizzandola e servendole d’organo53.

E ancora: il Werther, a cui tanti critici apposero per censura riprovevole una falsa sentimentalità di pensiero e di stile, era un’opera eminentemente vera rispetto al suo autore e al suo tempo. L’appassionato lamento, di cui Goethe rendevasi l’eco, usciva per così dire dal seno dell’Europa sofferente54.

Per concedersi questa infrazione il traduttore utilizza abilmente un argomento di Carlyle, il quale nella sua recensione affermava che il Werther apparteneva a una fase iniziale dello sviluppo dell’autore, che al più tardi col Wilhelm Meister sarebbe approdato a una visione del mondo più alta e conciliatoria. Ciò permette al contempo di riconoscere al romanzo la sua carica politicamente dirompente e di liberare Goethe dal cliché del pericoloso rivoluzionario. 3) Sul fronte opposto Goethe viene scagionato dall’accusa mossagli dai romantici tedeschi, e in particolare da Menzel, di aver praticato tutte le forme e i contenuti possibili senza partecipazione interiore, vale a dire di essere, in sostanza, freddo e disimpegnato. Ancora una volta, per giustificare la «flessibilità» del suo autore, il traduttore argomenta a partire dal piano politico: Nati in un’epoca turbinosa noi vedemmo l’Europa tramutar più volte d’aspetto: tutti i principj rimescolati, tutte le dottrine ribollendo, per così dire, in un comune crogiuolo hanno presentato al nostro sguardo il caos più stravagante. La vita degli stati, dopo il 1780, è stata una vita di sforzo, 52 

Goethe. Dalla «Foreign Review», cit., p. 311. Ivi, p. 319. 54  Ivi, p. 323. 53 

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di lotta, di tormentoso svolgimento, di vie tentate da ogni banda, di conflitto fra tutte le diverse influenze sociali, di soggezione alla loro possanza contrastante. Ecco quello che l’ingegno e le opere di Goethe riprodussero con una fedeltà ammirabile. La felice sua tempra d’animo si prestò a tutte le idee di perfezionamento senza mai accoglierne gli eccessi. Egli ebbe, come il suo secolo, i suoi interni conflitti, le sue dubbiezze, le sue utopie, i suoi interni dolori, i suoi anni d’angosciosa incredulità, i suoi trasporti verso le libere idee, i suoi ritorni all’ordine, alla religione. Un francese, il di cui nome suona famoso negli annali della diplomazia, diceva scorgendo Goethe: «Ha la figura d’un uomo che sofferse molte angoscie». Egli aveva torto, diceva Goethe stesso in una delle sue opere; quel francese doveva dire di me: «Ecco un uomo che ha saputo lottare con energia»55.

Nei mesi immediatamente successivi ai moti parigini del luglio 1830, ai quali Scalvini, Passerini e Filippo Ugoni prendono parte attivamente, scrivere queste parole significa immaginare che l’Europa possa ancora una volta «tramutar d’aspetto». A conclusione di questa abile riscrittura, la sedicente traduzione «dalla Foreign Review» può rovesciare la percezione del “ferrovecchio” Goethe proclamando: «Egli è forse l’uomo che a’ nostri giorni comprese meglio lo spirito dell’età in cui viviamo»56. 7. Da capo: la prima edizione del Faust e la sua introduzione Quando alla fine del 1834 Scalvini termina la traduzione del Faust, cerca insieme ai suoi amici un editore per darla alle stampe. Dal momento che l’autore è ancora ritenuto politicamente e letterariamente problematico, e che il suo traduttore è un esule politico, la cosa non è facile. Ruggia sarebbe l’editore più adatto, ma proprio in quell’anno attraversa una crisi finanziaria. Scalvini spedisce il manoscritto a Milano alla marchesa Costanza Arconati Visconti, che con Arrivabene ha provvisto per anni al suo sostentamento e con Ugoni lo ha assiduamente assistito nella traduzione. Il 16 dicembre l’amica gli risponde:

55  56 

Ivi, pp. 316-317. Ivi, p. 334.

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Ho ricevuto i foglietti mandatimi [la traduzione del Faust], faccia presto ad inviare il resto che si metta mano all’opera subito. [Tommaso] Grossi troppo occupato dalla publicazione del prossimo libro [Marco Visconti] non poteva prestarsi, e non ha neppur avuto il tempo di venirmi a trovare un momento. Altri che fu da me pregato si scusò, dicendo schiettamente che temeva di compromettersi. Di modo ch’io era un po’ sgomentata e pensava già di far la temerità di intraprendere la cosa io sola, quando, non aspettato, mi si esibì uno57.

Quest’«uno» potrebbe essere Andrea Maffei (1798-1885), che era in rapporti di amicizia con Scalvini dai tempi della «Biblioteca Italiana»58, oppure lo stesso editore, Giovanni Silvestri, che nel 1832 aveva inaugurato una biblioteca scelta di opere tedesche tradotte in lingua italiana, la prima collana italiana espressamente dedicata alla cultura tedesca, e aveva quindi tutto l’interesse a cercare traduzioni con cui alimentarla59. In ogni caso sembra che a seguire l’iter editoriale fino alla pubblicazione sia la stessa Arconati Visconti: «Ho ricevuto jeri le sue poche righe con l’ultima scena del Faust», scrive a Scalvini il 31 dicembre, «e jeri consegnai io stessa tutto il manoscritto al Censore»60; e il 18 aprile del ’35: «Ha ricevuto Faust? Mio 57 

C. Arconati Visconti, Lettere a Giovita Scalvini durante l’esilio, cit., p. 92. ricostruzione che Maffei fornisce nel 1869 introducendo la propria traduzione del Faust è tuttora la più accreditata presso gli studiosi (Nello Saito, Introduzione, in J. W. Goethe, Faust, traduzione di G. Scalvini, Einaudi, Torino 1960, p. XV; I. Perini Bianchi, Scalvini e Goethe, in Giovita Scalvini: un bresciano d’Europa, cit., p. 231; Marta Marri Tonelli, Andrea Maffei e il giovane Verdi, Museo Civico, Riva del Garda 1999, p. 30): «Enrico Mylius, di cara ed onorata memoria, per quanti hanno in pregio la virtù e la beneficienza sapiente, mi eccitava nell’anno 1830 a far conoscere all’Italia il Fausto di Wolfango Goethe, della cui amicizia egli andava glorioso. In quel tempo io stava traducendo il teatro tragico di Federico Schiller, e mi doleva lasciar questo per altri lavori, ma così vivo era in me il desiderio di gradire all’uomo eccellente ed al poeta immortale, che mi posi alla prova, e ne verseggiai parecchie scene. In questo mezzo Giovita Scalvini m’inviava dal Belgio una sua versione in prosa della tragedia stessa, invitandomi a pubblicarla. Di fatto la pubblicai coi tipi del Silvestri stampator milanese» (Andrea Maffei, Introduzione, in J. W. Goethe, Fausto. Tragedia di Wolfango Goethe tradotta da Andrea Maffei, Le Monnier, Firenze 1869, p. LXXXIII). 59  Il tramite potrebbe essere stato lo stesso Maffei, o forse anche Camillo Ugoni, che a sua volta era in rapporti con Silvestri, il quale nel ’28 aveva ripubblicato la sua traduzione dei Commentarii di Cesare. 60  C. Arconati Visconti, Lettere a Giovita Scalvini durante l’esilio, cit., p. 93. 58  La

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fratello mi scrisse fin dai primi d’aprile che aveva spedito le copie a lei e una a me»61. L’editore, Giovanni Silvestri (1778-1855), viene da una famiglia proletaria, apprende il mestiere facendo il garzone in tipografia, ma non rivela alcuna particolare inclinazione politica. Si dimostra invece un abile imprenditore, anzi, secondo Berengo, «uno dei più grandi editori dell’Ottocento Italiano»62. Nei primissimi anni della Restaurazione fonda la sua casa editrice – tra le prime pubblicazioni c’è la traduzione dell’Alemagna di M.me de Staël – e subito dopo alcune collane di grande successo63. La sua biblioteca scelta di opere tedesche tradotte in lingua italiana prende avvio con testi giuridici (Joseph von Sonnenfels, Johann Georg Edler von Scheidlein), storici (Christoph Meiners) e morali (Johann Georg Zimmermann), per aprirsi nel 1835, e proprio con Goethe alla letteratura: dapprima vi appare una vecchia traduzione del Wilhelm Meister, poi il Faust. In seguito vengono pubblicati, quasi sempre in traduzioni già apparse in precedenza, il Messia di Klopstock, Il visionario di Schiller, gli Idillij di Gessner, le Opere filosofiche di Mendelssohn e le Opere del pittore Raphael Mengs64. Mentre dunque intorno al 1830 l’interesse letterario di Scalvini e dei suoi compagni s’incontrava con quello politico del tipografo svizzero Ruggia, ora converge con quello tutto economico di un moderno imprenditore che si ripropone di rinnovare il mercato editoriale italiano. Ma perché Silvestri usa, come introduzione al Faust, proprio la traduzione del saggio di Carlyle? Una risposta semplice e immediata potrebbe essere: perché, in quel momento, è l’uni61 

Ivi, p. 95. M. Berengo, Intellettuali e librai, cit., p. 66. 63  biblioteca scelta di opere italiane antiche e moderne (1814-55, 584 titoli), biblioteca scelta di opere greche e latine tradotte in lingua italiana (1828-1855, 84 titoli), biblioteca scelta di opere tedesche tradotte in lingua italiana (1832-46, 26 titoli) e biblioteca scelta di opere francesi tradotte in lingua italiana (1834-55, 37 titoli). 64  Per un’analisi approfondita della collana e del repertorio letterario da essa proposto, ancora profondamente influenzato dalle idee di Aurelio de’ Giorgi Bertola, si veda il saggio di Maurizio Pirro, La «Biblioteca scelta di opere tedesche tradotte in lingua italiana» di Giovanni Silvestri, in «La densità meravigliosa del sapere». Cultura tedesca in Italia fra Settecento e Novecento, a cura di M. Pirro, Ledizioni, Milano 2018, pp. 85-98. 62 

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ca biografia di Goethe disponibile in lingua italiana che non sia ostile all’autore65. La circostanza che sia anonima e per di più tratta da un rivista straniera offre il vantaggio di non sollecitare l’attenzione della censura austriaca, come avrebbero fatto nomi sospetti come quello di Mazzini, autore dell’unico altro testo che sarebbe stato adeguato – e ben più di quello di Carlyle – allo scopo66. Si può inoltre pensare che, se davvero la traduzione da Carlyle, come quella del Faust, è stata realizzata nella cerchia degli esuli parigini, siano stati essi stessi a suggerirne l’utilizzo, in luogo di quell’introduzione che Scalvini non aveva scritto, che non porterà mai a termine, e che comunque nel ’35 non sarebbe probabilmente stato possibile pubblicare. Tra i primi lettori del Faust italiano, per lo più tiepidi nei confronti dell’opera67, c’è proprio Mazzini: «Ho ricevuto la tua lettera», scrive a Gaspare Ordoño de Rosales da Grenchen, in Svizzera, «il Fausto, etc. – Ringrazio molto Ugoni: rimanderò il Faust tra giorni. – Anche a me pareva che in un’edizione italiana del Fausto un discorso preliminare originale fosse miglior cosa, che l’andare a caccia d’articoli stranieri – tanto più che Scalvini è tale da far bene assai»68. L’anno seguente, nell’ottobre del ’36, scrive una lunga lettera allo stesso Scalvini – ancora non si conoscevano, se non per il tramite di Filippo e Camillo Ugoni – per proporgli di ripubblicare la sua traduzione in una nuova collana che egli stesso sta progettando. La collana dovrebbe rappresentare le diverse tendenze della letteratura “romantica” internazionale (tra i tedeschi Mazzini nomina Zacharias Werner e Schiller) e porre le basi di una nuova letteratura italiana. È in 65  Lo rileva anche Lothar Heubeck, Giovita Scalvini e la traduzione del Faust, «Commentarii dell’Ateneo di Brescia per l’anno 1984», 1985, p. 64. 66 Un altro testo comparso nel frattempo – sull’«Indicatore Lombardo» nel 1831 – è l’Analisi critica del Faust, tragedia di M. de Goethe di Michiel Salom, che tuttavia «conclude ancora una volta con lo sconsigliare l’imitazione di una tale opera» (Ida De Michelis, I lettori italiani del Faust, «Cultura tedesca», 47-48, 2015, p. 88). 67  Per una rapida rassegna delle recensioni di Cesare Cantù, Giovanni Bolza, Francesco Ambrosoli e altri cfr. ivi. 68  Giuseppe Mazzini a Gaspare Ordoño de Rosales, 6.6.1835, in Scritti editi ed inediti, vol. X, Epistolario, vol. III, Galeati, Imola 1911, p. 451.

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questa circostanza che egli chiede a Scalvini di scrivere una nuova introduzione per sostituire quei Cenni «mendicati» all’estero; in alternativa si dichiara pronto a scrivere egli stesso un saggio «sul concetto generatore dell’opera». Infine, gli chiede, per completare il lavoro, se sia disposto a tradurre anche l’Elena: significativamente non l’intera seconda parte dal Faust, che era stata pubblicata nel ’32 ma godeva, ça va sans dire, di cattiva fama tanto in Germania quanto in Italia. Vale la pena di riportare un ampio brano di questa lettera, che testimonia lo stretto intreccio fra militanza politica e letteraria, fra attività traduttiva e editoriale, fra esperienza dell’esilio e allargamento degli orizzonti, nel segno di una «critica che ha per intento di formare una sintesi letteraria europea agli ingegni e un popolo agli scrittori»: una versione mazziniana e italiana dell’idea di Weltliteratur coniata da Goethe e consacrata a Parigi dal «Globe». L’altro [favore] è che vogliate, se mandate il Faust, dirmi francamente se stampandolo io potrei prefiggere uno scritto critico sul concetto generatore dell’opera, sull’idea di che il Faust è, o parmi, simbolo. Meglio se scrivete voi medesimo. Dove no, vorrei pure, curandone la ristampa, sostituire qualche cosa d’italiano a quei Cenni che il Silvestri ha cavato dalla Rivista straniera [«Foreign Review»]: perché mendicare dall’estero anche la critica mi par troppo. Né io, se rimanete, avrò difficoltà di mandarvi il discorso, perché vediate se può stare colla vostra traduzione o se v’incresce. Questa mia domanda si connette a un pensiero che tentiamo verificare, quello cioè di pubblicare via via una serie di volumetti che presentino tradotte le migliori cose tedesche, ma con un intento di scuola, accoppiando sempre la critica e gli esempli, facendo tutta intera la serie rappresentazione e sviluppo d’una idea di rinnovamento letterario che avrete veduto accennata, se pur è giunto in Bruxelles, nel primo articolo dell’«Italiano». Sarebbe intenzione di scegliere nelle letterature straniere tanto che rappresenti tutte le varie tendenze che la letteratura così detta romantica ha indicate per poi desumere quell’una da cui avrebbe a prender le mosse la nuova letteratura. Di questo nostro pensiero, tutto italiano, l’Ugoni potrà dirvi altro, (cominciando dal Werner, che ha ritentato il dogma greco orientale della fatalità, e trapassando per gli scrittori che rappresentano le fasi intermedie del problema, si verrebbe a conchiudere con una edizione di tutte le cose drammatiche di Schiller, nel quale albeggia, se non erro, la scuola sociale, la scuola della Provvidenza. Sarebbe, se avesse effetto, un corso di letteratura applicata – una rivista filosofica della scuola di letteratura oggi spenta o morente – un riassunto di quanto ha insegnato

i. individuazione di un capolavoro

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di vero, perché l’intelletto italiano potesse farne suo pro’ e fondare, aggiungendovi ciò che il pensiero dell’epoca vuole, una letteratura Europea per l’intento e pel pensiero, italiana per le forme e pel teatro che avrebbe. Il Faust entrerebbe naturalmente nella serie di queste pubblicazioni, ma la parte teorico-critica sarebbe necessaria. Un’altra cosa: perché non tradurreste l’Elena, ignota all’Italia ed anche alla Francia? So che la dicono poca cosa; ma non mi fido in questo a’ giudizi tedeschi, perché oggi v’à reazione democratica giovanile contro il Goethe, e per combattere l’uomo gittano l’anatema anche all’ingegno; dagli estratti ch’io ne ho veduti in un numero antico d’una rivista inglese e nell’«Au delà du Rhin» del superficialissimo Lerminier, direi vi fosse del bello, e in ogni modo forma un tutto col Faust, e forse è necessaria a darne la chiave. Tradurla mi parrebbe ben fatto, e non vedo che voi per farlo, dacché avete così ben tradotto il Faust. Vogliate pensarvi e rispondere qualche cosa. Avete altre traduzioni di cose lunghe o brevi, tedesche? Conoscete altri che n’abbia? Io non ho mai potuto vedere l’Eleonora di Bürger, tradotta dal Berchet, e che forse, unendovi qualche altra piccola cosa dello stesso autore, gioverebbe ristampare. Tutto dipende dal successo del primo volumetto in Italia, perché se abbiamo da andare innanzi, è necessario che venga alimento dai compratori. Queste idee mi paiono utili. La critica è in oggi l’unica che possa rifare una letteratura all’Italia, ma la criticaeducazione, la critica che ha per intento di formare una sintesi letteraria europea agli ingegni e un popolo agli scrittori. Tutto sta nel modo di verificarla. E però chiedo il vostro aiuto e di quanti credono che s’abbia, su qualunque terreno possibile, intellettuale e politico, a far qualche cosa per l’Italia e ad emanciparla dalla servitù domestica e forestiera che occupa non solo il popolo, ma gli intelletti69.

8. Nel repertorio italiano della letteratura mondiale A partire all’incirca dal 1827, dunque, Goethe, che fino a quel momento era rimasto ai margini del repertorio letterario italiano, vi viene riposizionato e risignificato da un piccolo gruppo di letterati (Scalvini, Ugoni, Mazzini, Passerini e altri) che nell’esilio parigino operano una nuova selezione, marcatura e lettura dei suoi lavori. Questi letterati appartengono per la gran parte a una borghesia di tendenze giacobine, prendono parte ai 69  Giuseppe Mazzini a Giovita Scalvini, 12.10.1836, in Scritti editi ed inediti, vol. XII, Epistolario, vol. V, Galeati, Imola 1912, pp. 152-154.

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movimenti politici più radicali (Carboneria, moti parigini del ’30, Giovine Italia) e sono indotti dall’esperienza dell’esilio a rielaborare profondamente le loro idee politiche e letterarie. Il loro scritti e le loro traduzioni vengono pubblicati o da case editrici e riviste straniere (Baudry, Ruggia, il «Globe») oppure, per lo più anonimi o sotto pseudonimo, su riviste italiane che si presentano come moderate ma sono aperte a prese di posizione politiche e letterarie radicali («Antologia», «Indicatore Livornese», «Indicatore Lombardo»). Sono loro a individuare il Faust come “capolavoro”, associandolo saldamente ai Promessi sposi, e a presentare agli italiani un nuovo Goethe, ora capofila insieme a Manzoni di una nuova letteratura europea. Così ha inizio la traiettoria italiana del Faust, che nel corso dei decenni muoverà progressivamente dai margini verso il centro del repertorio nazionale della Weltliteratur.

Capitolo secondo Gli editori e il repertorio della letteratura tradotta Breve storia delle edizioni del Faust (1835-2018)

1. Traduzioni-libro vs. traduzioni-testo: le edizioni come prese di posizione Del Faust di Goethe, della sola prima parte della tragedia o di entrambe, esistono attualmente ventidue traduzioni italiane1, alcune ripubblicate più volte, da editori diversi, con diverse prefazioni e commenti. Queste traduzioni sono state più volte messe a confronto in quanto produzioni linguistiche (testi)2, ma non sono mai state collocate nello spazio letterario in quanto produzioni sociali (libri), indagando cioè il capitale simbolico di cui ciascuna edizione è fornita e la posizione che occupa nel repertorio della letteratura italiana. Il Faust curato da Cesare Cases nel 1965 per l’Einaudi si colloca, per esempio, in tutt’altra zona 1  Le ha contate Felice Motta nell’utile bibliografia ragionata Le traduzioni italiane del Faust di Goethe. Alcune considerazioni, piccoli commenti e una tabella riassuntiva finale (2012), consultabile sul sito www.liberaconoscenza.it (ultima consultazione: 10.10.2018). Alle traduzioni elencate da Motta se n’è recentemente aggiunta un’altra: J. W. Goethe, Faust, a cura di N. Muzzi, Effigi, Arcidosso 2017. 2  Lo ha fatto recentemente Paola Del Zoppo nel suo Faust in Italia. Ricezione, adattamento, traduzione del capolavoro di Goethe, Artemide, Roma 2009. Ma si vedano anche Walter Weiss, Zu den italienischen Übertragungen der Faustdichtung Goethes, «Siculorum Gymnasium», IX.1-2, 1956, pp. 40-77; Giovanni Ercole Vellani, Le traduzioni italiane del Faust di Goethe, «Convivium», 4, 1960, pp. 408-432; Roberto Fertonani, Le traduzioni del Faust, «Paragone. Letteratura», 184, 1965, pp. 165-170; Paola Maria Filippi, Di alcune traduzioni italiane del Faust, in Settecento tedesco ed Europa romanza: incontri e confronti, a cura di G. Cantarutti, Patron, Bologna 1995, pp. 195-223; e soprattutto Luigi Reitani, Faust in Italien, «Sprachkunst», 23, 1993, pp. 191-211. Per una considerazione più ampia della ricezione del Faust, dal cinema al fumetto, si veda invece Ida De Michelis, Il viaggio di Faust in Italia: percorsi di ricezione di un mito moderno, Viella, Roma 2018.

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traiettorie

del campo letterario rispetto a quello pressoché contemporaneo tradotto da Antonio Buoso e pubblicato a Treviso da Longo e Zoppelli; e, di conseguenza, gode di ben altro riconoscimento. Su questo aspetto ha portato l’attenzione Pierre Bourdieu3, alla cui analisi sociale del mondo letterario queste pagine si rifanno. L’editore, ha osservato Bourdieu, è colui che ha il potere assolutamente straordinario di assicurare la pubblicazione, ovvero di far accedere un testo o un autore all’esistenza pubblica (Öffentlichkeit), conosciuta e riconosciuta. Questa specie di “creazione” implica nella gran parte dei casi una consacrazione, un trasferimento di capitale simbolico (analogo a quello che opera una prefazione) che è tanto più rilevante quanto più consacrato è colui che lo compie, nella fattispecie attraverso il suo “catalogo”, l’insieme degli autori, essi stessi più o meno consacrati, che ha pubblicato in passato4.

La tendenza a identificare la traduzione con il solo testo tradotto (che nel migliore dei casi viene interpretato riconducendolo all’autorialità, debole o forte che sia, del traduttore), è il prodotto di una disposizione scolastica che definisce gli oggetti di studio occultandone le condizioni sociali di produzione, dematerializzandoli5. Considerare la traduzione anche come libro, come hanno cominciato a fare alcune ricerche recenti, porta invece a mettere in evidenza le operazioni sociali – di selezione, di marcatura e di lettura – di cui è il risultato, operazioni svolte da editori, critici, consulenti, la cui autorevolezza contribuisce in misura determinante a costituire il valore simbolico del prodotto finale (e quindi a garantirne la diffusione e la durata). La traduzione di un’opera, precisa Bourdieu, è sempre anche la presa di posizione di un agente (o di un insieme di agenti) all’interno di uno spazio dei possibili (editoriali, ma allo stesso tempo economici, culturali, politici), volta a distinguersi dai posizionamenti precedenti (con l’effetto, se l’operazione riesce, di farli apparire 3 

Per questi aspetti di metodo si veda l’introduzione al presente volume. P. Bourdieu, Une révolution conservatrice dans l’édition, cit., p. 3 (trad. mia). 5  Per la critica alla disposizione scolastica cfr. Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane, Feltrinelli, Milano 1998; per l’illusio specifica di chi si occupa di letteratura cfr. Le regole dell’arte, cit., in particolare la terza parte, Comprendere il comprendere, che ricostruisce la genesi storica della disposizione estetica “pura”. 4 

2. gli editori e il repertorio della letteratura tradotta

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obsoleti) e a trasformare lo stesso spazio dei possibili sulla base di un disegno più o meno esplicito e coerente. In questo studio vorrei dunque lasciare sullo sfondo le traduzioni-testo del Faust e concentrarmi sulle traduzioni-libro per provare a interpretarle come prese di posizione, analizzando in ciascun caso le caratteristiche specifiche dell’editore (la sua posizione e il suo riconoscimento nel campo letterario), della collana (i suoi responsabili e la logica culturale che la informa), del traduttore (la sua posizione, la sua poetica) e del prefatore (la sua posizione, la lettura che dà del testo e la teoria letteraria a cui si appoggia, più o meno esplicitamente: per esempio a Croce, o a Lukács). E poiché una presa di posizione, afferma Bourdieu, non può essere compresa che relazionalmente, ovvero in ciò che la distingue da altre prese di posizione, precedenti e coeve, sarà necessario soffermarsi rapidamente su tutte le principali traduzioni-libro del Faust realizzate dal 1835 a oggi, per poi concentrare l’attenzione sulle tre che hanno dominato il repertorio del secondo Novecento e che, in larga misura, orientano ancora oggi la nostra lettura del capolavoro di Goethe: quella, già citata, della nuova universale einaudi, curata da Cesare Cases nel 1965; quella dei meridiani Mondadori, curata da Franco Fortini nel 1970; e quella dei grandi libri Garzanti, curata da Andrea Casalegno nel 19896. Ciò che vorrei mostrare è che ogni traduzione-libro del Faust, come di qualsiasi altra opera, è il prodotto di un concorso di attori in un particolare momento storico, ovvero di particolari traiettorie e interessi specifici, nonché della particolare concezione della letteratura di cui sono portatori: traiettorie, interessi e concezioni che, in genere in conflitto con altre, determinano il posizionamento dell’opera nel repertorio della letteratura italiana e il modo stesso di interpretarla. In alcuni casi questa marcatura, di cui col tempo si affievolisce la percezione, resta impressa per decenni in un volume ristampato o riedito, mentre tutto il resto, fuori, continua a cambiare. 6 Mi soffermerò anche sull’edizione Feltrinelli, curata da Giovanni Vittorio Amoretti, la sola che rivaleggi con queste sul piano della diffusione, anche se non su quello del capitale simbolico.

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traiettorie

Anno Rist.

Parte del Faust

Traduttore Prefatore

Editore Collana

1835

I

Scalvini [Carlyle], G. A.

Silvestri biblioteca scelta di opere tedesche, 11

1857

I, II

Scalvini, Gazzino [Carlyle]

Le Monnier [fuori collana]

1862

I, II

Scalvini, Gazzino Widmann

Le Monnier biblioteca nazionale

1866 18784

I, II

Maffei Checchi

Le Monnier biblioteca nazionale

1882 193614

I

Scalvini [anonimo]

Sonzogno biblioteca universale, 3

1883 193210

II

[Gazzino] [anonimo]

Sonzogno biblioteca universale, 35-36

1900

I, II

Biagi Franchetti

Sansoni [fuori collana]

1923

I

Baseggio Baseggio

Facchi collezione dei capolavori

1932 19555

Urfaust

Baseggio Baseggio

utet i grandi scrittori stranieri, 20

1932 19608

I, II

Manacorda Manacorda

Mondadori [fuori collana]

1933

I

Scalero Scalero

Maglione [fuori collana]

1941 19483

I

Errante Errante

Sansoni opere di vincenzo errante

1942 19483

II

Errante Errante

Sansoni opere di vincenzo errante

1949 19542

I, II

Manacorda Manacorda

Sansoni biblioteca sansoniana straniera, 92-95

1949

I

Scalero Scalero

Rizzoli biblioteca universale rizzoli, 39-40

1950

I, II

Allason Allason

De Silva il nobile castello, 4

2. gli editori e il repertorio della letteratura tradotta

75

1950 19753

I, II

Amoretti Amoretti

utet i grandi scrittori stranieri, 141

1951

II

Scalero Scalero

Rizzoli biblioteca universale rizzoli, 339-342

1951

I, II

Errante Mazzucchetti

Sansoni i grandi classici stranieri, 4

1953 19602

I

Scalvini Sàito

Einaudi universale einaudi, 16

1965 199412

I, II

Allason Cases

Einaudi nuova universale einaudi, 53

1965 201414

I, II, Urfaust

Amoretti Amoretti

Feltrinelli universale economica, 500-1

1966 19732

I, II

Errante Magris

Sansoni i capolavori sansoni, 47

1970 200917

I, II

Fortini Fortini

Mondadori i meridiani

1970 19894

I, II

Errante, Santoli Santoli, Mann

Sansoni le voci del mondo (in Goethe, Opere)

1980 201220

I, II

Fortini Fortini

Mondadori oscar grandi classici, 4

1989

I, II, Urfaust

Casalegno Garzanti Mattenklott, Trunz i classici

1990

I, II, Urfaust

Casalegno Garzanti Mattenklott, Trunz i libri della spiga

1994 20117

I, II, Urfaust

Casalegno Chiusano

Garzanti i grandi libri, 546-546

2005 20138

I, II

Manacorda Mann, Schiavoni

bur classici moderni

Tav. 1 Specchio delle principali edizioni italiane del Faust (Sono escluse le traduzioni che non hanno avuto ristampe o riedizioni. I numeri delle ristampe posti in esponente sono indicativi).

76

traiettorie

Prendiamo la prima traduzione-libro, quella del 18357. Per ricostruire l’insieme di interessi specifici di cui è il prodotto occorre prendere in considerazione un fascio di traiettorie di cui quella del traduttore, Giovita Scalvini, non è necessariamente la principale. Il lavoro di Scalvini presuppone l’esilio parigino di un consistente gruppo di letterati italiani in seguito ai moti carbonari del ’21, le prese di posizione politiche di Mazzini e quelle estetiche di Manzoni, la lungimiranza imprenditoriale del tipografo milanese Giovanni Silvestri, e perfino un intervento di Thomas Carlyle nel ruolo di inconsapevole prefatore. Tutto questo, sullo sfondo della polemica italiana tra romantici e classicisti, e della legittimazione parigina dell’idea goethiana di Weltliteratur, che rimbalza dalle pagine del «Globe» a quelle dell’«Antologia», fa del Faust di Scalvini/Silvestri un Faust “militante”, “risorgimentale”, “weltliterarisch” e “protoindustriale”. Etichette come queste, il cui significato sarà di volta in volta precisato sulla base del contesto, mi serviranno a rilevare sinteticamente le somiglianze, e soprattutto le differenze, di una traduzione-libro rispetto alla serie delle precedenti. Usate come dei tags, e dunque tenendo sempre a mente che si tratta di semplificazioni descrittive e non di giudizi assertivi (sul piano storico, politico, estetico, ecc.), serviranno a mettere in evidenza il meccanismo di distinzione che presiede alla produzione di ogni nuovo Faust. Così, per indicare che il Faust pubblicato da Le Monnier nel 1866 rientra in un progetto editoriale volto a dare all’Italia appena unificata – negli stessi anni in cui De Sanctis le stava dando una Storia della letteratura – un canone letterario, lo definirò un Faust “nazionale”; e per sottolineare il riconoscimento di cui godeva Andrea Maffei come poeta in quanto traduttore, caso ben raro nella storia letteraria, lo dirò un Faust “en poète”. Queste definizioni sommarie vanno intese sempre come tali, come se fossero tra virgolette anche quando le virgolette, che appesantirebbero la trattazione, non ci saranno. Sono come segnali stradali per orientarsi lungo un percorso che si dipana per quasi due secoli: indicano un dosso, una curva, una città, ma non sono il dosso, la curva, la città. 7 

Cfr. 1. Individuazione di un capolavoro, pp. 41-68.

2. gli editori e il repertorio della letteratura tradotta

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Può essere utile anticipare le principali tappe del percorso. Alla serie dei Faust ottocenteschi (1835-1883) segue quella dei Faust moderni del primo Novecento (1932-1950), che presuppongono la nascita della germanistica come disciplina accademica, l’industrializzazione dell’editoria, l’egemonia culturale di Benedetto Croce, l’avvento del regime fascista e più tardi della repubblica: le differenze tra i Faust di Guido Manacorda (Mondadori 1932), Vincenzo Errante (Sansoni 1941), Barbara Allason (De Silva 1950) e Giovanni Vittorio Amoretti (utet 1950), tutti ormai tradotti da germanisti di professione, con o senza cattedra, si giocano infatti su polarità quali fascista/antifascista, crociano/anticrociano, industriale/autonomo, en poète/di servizio, accademico/popolare, a seconda del posizionamento degli attori. Chiude questa serie il primo Faust proposto dalla giovane casa editrice Einaudi nel 1953, una riedizione a cura di Nello Sàito di quello risorgimentale e militante di Scalvini, ulteriormente connotata in chiave crociana e antifascista, ma anche popolare, per la scelta, caratteristica del dopoguerra, di collocarlo in una collana universale a basso costo destinata a un pubblico operaio. I Faust del secondo Novecento (1965-1994), presuppongono invece il boom economico e la formazione di un nuovo ceto intellettuale, la crisi di egemonia del Partito comunista e la nascita della Nuova sinistra, il ’56, il ’68 e il ’77, il conflitto tra neorealismo e neoavanguardia, e, sul piano delle categorie interpretative, la sostituzione dell’estetica di Benedetto Croce con quella di György Lukács, che in Italia è rappresentata in misura non trascurabile proprio da Cesare Cases. Se i Faust della prima metà del secolo sono in aperto conflitto tra loro, quelli della seconda metà escono sostanzialmente dallo stesso laboratorio: sono Faust intellettuali, militanti, comunisti o socialisti, comunque marxisti (più o meno critici), lukácsiani (o post-lukácsiani), legati all’ambiente einaudiano e alla Nuova sinistra. Dietro il Faust di Cases (Einaudi 1965) ci sono, oltre a Barbara Allason, anche Giulio Einaudi e Giulio Bollati, Franco Antonicelli e Renato Solmi, i «quaderni piacentini» di Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, c’è il conflitto tra gli intellettuali degli anni ’50 e la neoavanguardia di Sanguineti, Eco e Filippini, e naturalmente c’è la ricezione italiana di Lukács, che qui si incrocia con quella

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traiettorie

di Adorno e di Brecht. Dietro il Faust di Fortini (Mondadori 1970) c’è Alberto Mondadori con la sua idea di editoria militante contrapposta a quella monopolistica del padre, c’è Vittorio Sereni in cerca di consacrazione come poeta e di spazi di autonomia come direttore editoriale in Mondadori, c’è il Lukács di Cases, ulteriormente corretto con Benjamin, c’è ancora il corpo a corpo fortiniano con il Gruppo 63, ma anche con i consacrati Montale e Ungaretti e, sul fronte opposto, con il radicalismo ostile alla letteratura dei giovani ripoliticizzatisi sullo scorcio degli anni ’60. Infine, dietro il Faust di Casalegno (Garzanti 1989), ci sono gli anni dei movimenti e del terrorismo, la nuova letteratura italiana degli anni ’80, ci sono Livio Garzanti e sua moglie Gina Lagorio, i germanisti Giorgio Cusatelli e Italo Alighiero Chiusano, c’è ancora Lukács, dal quale di edizione in edizione si prendono progressivamente le distanze, ci sono «La Repubblica», la caduta del muro di Berlino e la fine dell’utopia comunista coltivata da Cases e Fortini. È l’occasionale convergenza delle traiettorie di questi attori, coi loro interessi specifici e le loro poste in gioco, a generare di volta in volta la massa critica necessaria a produrre una nuova traduzione-libro del Faust, che reca dunque nel testo e nei paratesti, nel marchio editoriale e nella copertina, le tracce dei conflitti – letterari, politici, economici – rispetto ai quali costituisce una presa di posizione. 2. I Faust ottocenteschi: da Scalvini & Silvestri a Maffei & Le Monnier e ritorno Quali che ne siano la qualità e la diffusione, la prima traduzione di un’opera letteraria acquisisce, per il solo fatto di essere la prima, un valore inaugurale, e di conseguenza un suo specifico capitale simbolico. Conviene ribadirlo: prima della prima traduzione italiana del Faust, il Faust non fa parte del repertorio letterario italiano, oppure vi è presente soltanto come spettro, attraverso l’originale tedesco (per chi può accedervi), la traduzione francese (che ancora per tutto l’Ottocento è la lingua di mediazione per eccellenza) o gli scritti che ne parlano (articoli in

2. gli editori e il repertorio della letteratura tradotta

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rivista, storie letterarie, ecc.); dopo la prima traduzione il Faust, come ogni altra opera tradotta, entra nel repertorio letterario italiano, e vi entra con precisi connotati simbolici – in primo luogo estetici e politici – rispetto ai quali tutte le successive dovranno necessariamente prendere posizione. Nel caso del Faust, la Erstübersetzung di Giovita Scalvini & Co. pubblicata da Giovanni Silvestri nel 1835 e in seguito riproposta da diversi editori, costituisce fino agli anni ’30 del Novecento, quando viene resa obsoleta dall’affermarsi di un nuovo sistema di produzione delle traduzioni, la versione italiana del Faust per eccellenza, della quale solo quella di Andrea Maffei, il “principe dei traduttori” ottocenteschi, riesce, dopo il 1866, a insidiare il prestigio. Come abbiamo visto, questa prima traduzione-libro del Faust, frutto del lavoro dei letterati esuli a Parigi – e malgré lui di Carlyle – e pubblicata nella biblioteca scelta di opere tedesche tradotte in lingua italiana, si presenta da una parte come il prodotto di un’impresa editoriale all’avanguardia, destinata ad aprire la strada a disegni culturali di più ampio respiro, dall’altro come una presa di posizione politica radicale, riconducibile al fuoriuscitismo di matrice repubblicana avverso al governo austriaco nel Lombardo-Veneto: un Faust, in estrema sintesi, militante, risorgimentale, weltliterarisch e protoindustriale. A raccogliere il testimone di Silvestri è il francese Felice Le Monnier (1806-1884), che a partire dalla metà degli anni ’40 si afferma come il principale editore politico in area italiana e punto di riferimento per i letterati che aspirano all’unità e all’indipendenza del paese. La sua casa editrice, con sede a Firenze e assai vicina al gruppo dell’«Antologia» di Vieusseux, si è fatta un nome grazie a una collana di larghissimo successo, la biblioteca nazionale. In essa Le Monnier riesce a comporre in un progetto editoriale unitario il più completo e autorevole repertorio della letteratura italiana classica e contemporanea, pubblicando tra l’altro le opere complete di Leopardi (a cura di Antonio Ranieri), di Foscolo (a cura, tra gli altri, di Mazzini e di Camillo Ugoni), di Monti (a cura di Andrea Maffei), I promessi sposi di Manzoni e anche gli Scritti di Scalvini (a cura di Tommaseo). In questo repertorio espressamente “nazionale”

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traiettorie

accoglie anche alcune traduzioni, implicitamente contrassegnandole come opere italiane: sono quasi tutte di mano di uno dei suoi principali collaboratori, Andrea Maffei (1798-1885), autore di celebratissime versioni da Schiller, ma anche da Gessner, Byron, Milton, Shakespeare e Goethe. È probabilmente dietro suo suggerimento che Le Monnier, nel 1857, ripubblica il Fausto di Scalvini completandolo con la traduzione del secondo Faust firmata da Giuseppe Gazzino, e nel ’62 lo inserisce nella biblioteca nazionale, prima di sostituirlo nel ’66 con la versione, integrale e non più in prosa ma in versi, dello stesso Maffei8. La successione delle introduzioni è significativa quanto quella delle traduzioni-testo: l’edizione preunitaria del ’57 è ancora preceduta dai politicissimi Cenni su la vita e l’opera di Volfango Goethe; quella del ’62, fatta ormai l’Italia, li sostituisce con l’anodina traduzione di una delle fonti di Goethe, la cinquecentesca Leggenda di Giovanni Faust di Georg Rudolf Widmann; quella del ’66, pubblicata in una Firenze da poco divenuta capitale, reca appena una breve, modesta nota del traduttore. L’imbarazzo che da oltre un trentennio impedisce di premettere al Faust un’introduzione adeguata viene meno solo con l’edizione del 1869, che si apre con un fluviale scritto del garibaldino Eugenio Checchi intitolato Il Fausto di Volfango Goethe, una densa e informata lettura critica dell’opera, che si propone in primo luogo di dimostrare agli italiani, ancora decisamente scettici, il valore 8 Si tratta rispettivamente di: 1) Fausto. Tragedia di Volfango Goethe. Prima traduzione italiana completa [di Giovita Scalvini e Giuseppe Gazzino], Felice Le Monnier, Firenze 1857; 2) Fausto. Di Wolfango Goethe. Traduttori Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino. Seconda edizione. Coll’aggiunta della leggenda del Widmann, Felice Le Monnier, Firenze 1862, biblioteca nazionale (la collana non reca numeri di serie); 3) Fausto. Tragedia di Wolfango Goethe. Tradotta da Andrea Maffei, Successori Le Monnier, Firenze 1866, biblioteca nazionale. Tralascio qui di discutere le altre traduzioni pubblicate negli anni dell’Unità d’Italia, quelle di Giuseppe Rota (Gnocchi, Milano 1860) e Federico Persico (Fibreno, Napoli 1861), perché, indipendentemente dai pregi letterari, il capitale simbolico dei loro autori e editori non è paragonabile a quello di Maffei e Le Monnier. Sarebbe tuttavia importante ricostruire il loro ruolo nell’effettiva consacrazione italiana del Faust che avviene solo nel corso degli anni ’60 e culmina nella riduzione operistica realizzata da Arrigo Boito col Mefistofele (1868). Per lo stesso motivo non mi soffermo sulle successive di Anselmo Guerrieri-Gonzaga (Le Monnier, Firenze 1873) e di Giuseppe Biagi (Sansoni, Firenze 1900).

2. gli editori e il repertorio della letteratura tradotta

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di Goethe, e in secondo luogo di ribadire il particolare statuto del nuovo Fausto di Maffei, «opera che torna in grandissimo onore della letteratura italiana»9. Quando esce il suo Faust, Maffei, quasi settantenne, è una gloria patria, celebrata quasi quanto l’amico Giuseppe Verdi, che ha messo in musica la sua traduzione dei Masnadieri di Schiller: il suo riconoscimento come poeta e come traduttore è tale da consentirgli di consacrare l’autore tradotto, piuttosto che esserne consacrato10. Il prestigio letterario e politico di cui godono Maffei e il suo editore, insomma, contribuisce al riconoscimento della loro traduzione-libro almeno quanto la precisione e l’eleganza della traduzione-testo, in cui Maffei sfrutta abilmente la lezione neoclassicista del suo maestro Vincenzo Monti per confezionare un prodotto perfettamente in linea con il gusto del più vasto pubblico dei lettori11. In effetti la posta in gioco della strategia comune di Le Monnier e Maffei è proprio questa: accreditarsi, il primo, come editore dell’Italia unita, che per i suoi meriti risorgimentali rivendica il potere di definire il repertorio della letteratura nazionale; e affermarsi, il secondo, come autorevole interprete nazionale di alcuni dei maggiori autori della letteratura mondiale, e dunque come poeta in quanto traduttore. È solo con questa abile operazione che il Faust – e con esso Goethe – esce dal ristretto circuito di produttori e lettori che condividono le posizioni politiche e estetiche di Scalvini e del suo gruppo, per accedere allo statuto di capolavoro, magari discusso, ma ormai riconosciuto come tale12. E per circa un ventennio 9  Eugenio Checchi, Il Fausto di Wolfango Goethe, in Fausto. Tragedia di Wolfango Goethe. Tradotta da Andrea Maffei, seconda edizione riveduta, Successori Le Monnier, Firenze 1866, biblioteca nazionale, p. LIII (corsivo mio). 10  Sulle circostanze in cui un traduttore può consacrare o viceversa essere consacrato dall’autore che traduce cfr. Pascale Casanova, Consécration et accumulation de capital littéraire. La traduction comme échange inégal, «Actes de la recherche en sciences sociales», 144, 2002, pp. 7-20. 11  Su questo cfr. P. M. Filippi, Di alcune traduzioni italiane del Faust, cit. 12  Senza tenere presente il notevole capitale simbolico acquisito a questa altezza dal duo Maffei/Goethe, se cioè essi non costituissero un bersaglio di tutto rispetto, non si comprenderebbe la feroce stroncatura con cui Vittorio Imbriani accoglie l’uscita della traduzione (Un capolavoro sbagliato, 1866, poi raccolta nel ’77 nel volume dall’eloquente titolo Fame usurpate). Proprio da questa stroncatura, alla quale allude pur senza citarla esplicitamente, Checchi difende Goethe e Maffei nella sua

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traiettorie

il loro Faust nazionale13 e en poète diventa la traduzione-libro del Faust dell’Italia unita, subentrando a quella weltliterarisch e risorgimentale di Scalvini. Quest’ultimo torna in auge verso la metà degli anni ’80 grazie a Edoardo Sonzogno (1836-1920), fondatore del quotidiano progressista «Il Secolo» e pioniere di un’editoria popolare a base di classici e romanzi d’appendice che fa da pendant a quella borghese del suo maggior concorrente, anch’egli milanese, Emilio Treves. Inaugurata nel 1882, la sua biblioteca universale, collana di volumetti in brossura al costo di 25 centesimi pensata per diffondere a grandi tirature i capolavori della letteratura di tutto il mondo, raggiunge in soli quattro anni i 170 titoli, non pochi dei quali rilevati dal catalogo Le Monnier. Il Fausto, pubblicato come terzo fascicolo della collana e dunque consacrato come capolavoro della letteratura universale accanto a opere di Cervantes, Shakespeare e Voltaire, è presentato nella traduzione Scalvini non solo perché, come si rileva nell’anonima nota introduttiva, «è reputata un giojello letterario», ma anche perché «ha il merito di risuscitare alla memoria degli italiani il nome d’un precursore della nostra indipendenza, troppo presto obliato nei tempi prosperi»14. Anche in questo caso le scelte editoriali rispondono a un più vasto progetto politico-letterario, e ancora una volta è la frazione più radicale della borghesia italiana a interessarsi al Faust, producendone una nuova versione democratica e popolare, in marcata continuità con la prima traduzionelibro e in non troppo velata discontinuità rispetto a quella di Le Monnier e Maffei, che a quest’altezza fanno saldamente parte dell’establishment nazionale. introduzione alla traduzione-libro del 1869, che Imbriani prenderà a bersaglio in un nuovo saggio polemico, Traduttore, traditore: Andrea Maffei (poi raccolto anch’esso in Fame usurpate). 13  Il volume reca in epigrafe una dedica a Giovanni di Sassonia, re letterato e traduttore della Commedia di Dante in tedesco, che era stato tra i primi a riconoscere il neonato Regno d’Italia. 14  Fausto. Tragedia di Volfango Goethe. Traduzione di Giovita Scalvini, Edoardo Sonzogno Editore, Milano 1882, biblioteca universale, 3, p. 4. È da notare che, riproponendo il testo di Scalvini, l’editore sceglie di non realizzare una nuova traduzione dell’opera, come invece fa in altri casi; opzione che rivela, anch’essa, uno specifico disegno editoriale e culturale.

2. gli editori e il repertorio della letteratura tradotta

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Il Faust di Sonzogno, completato nel 1883 dalla seconda parte della tragedia nella versione di Giuseppe Gazzino15, è quello che viene davvero letto da tutti per oltre un cinquantennio, arrivando a contare oltre una dozzina di ristampe. La longevità dell’edizione Sonzogno farà sì che l’aura mazziniana delle traduzioni-libro risorgimentali del Faust continui ad aleggiare intorno all’opera di Goethe per tutto il primo trentennio del Novecento, e che ad essa possano ispirarsi, con i dovuti aggiornamenti, i primi Faust del dopoguerra, da quello di Barbara Allason e Franco Antonicelli a quello curato da Cases per Einaudi. 3. I Faust moderni del primo Novecento: da Manacorda & Mondadori a Amoretti & utet Perché venga prodotta una nuova traduzione-libro del Faust bisogna attendere gli anni ’30, quando i mutamenti strutturali intervenuti nel campo letterario italiano all’inizio del nuovo secolo cominciano ad avere effetti sistemici: mi riferisco all’affermarsi della grande editoria industriale, con l’ascesa di Mondadori e la fine di Treves, e alla conseguente polarizzazione del campo editoriale16; alla nascita della germanistica come disciplina accademica autonoma, con il moltiplicarsi delle cattedre di letteratura tedesca17; e alla progressiva fascistizzazione della vita culturale del paese18. Il principale effetto di questa modernizzazione sul piano editoriale è quello di sancire la priorità della struttura sull’iniziativa individuale. Se Scalvini, e in una certa misura ancora Maffei, decidono di tradurre il Faust all’interno di un proprio progetto letterario, che poi si incontra con il progetto di editori come Silvestri e Le Monnier, ora sono sempre più le case editrici a cercare traduttori per le opere che pianificano di inserire nelle loro collane. 15  Fausto. Tragedia di Volfango Goethe. Parte seconda, Edoardo Sonzogno Editore, Milano 1883, biblioteca universale, 35-36. 16  Cfr. A. Baldini, D. Biagi, S. De Lucia, I. Fantappiè, M. Sisto, La letteratura tedesca in Italia, cit., in particolare i primi due capitoli. 17  Cfr. 3: Nascita di una disciplina, pp. 157-176. 18  Cfr. in particolare Ruth Ben-Ghiat, La cultura fascista, il Mulino, Bologna 2000.

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traiettorie

Tradurre il Faust costa. Costa anni di lavoro: Manacorda e Errante, stando alle loro dichiarazioni, ne impiegano rispettivamente una ventina; Allason circa quindici; Amoretti almeno tre, dopo decenni di studio; Fortini cinque; Casalegno sei. Questo lavoro va remunerato: sul piano simbolico, quando si tratta di professori universitari che hanno già uno stipendio ma anche l’interesse a legittimarsi appropriandosi di un’opera ormai canonica come quella di Goethe (Manacorda, Errante, Amoretti, Santoli); o sul piano strettamente economico, nel caso di chi, per scelta o necessità, o per le due cose insieme, fa della traduzione una professione (Allason, Fortini, Casalegno)19. Certo, ci sono sempre singoli che prendono in proprio l’iniziativa di tradurre il Faust – sono diplomatici (Guerrieri-Gonzaga, Biagi, Hausbrandt), professori di scuola (Vellani, Veneziani) o giovani volenterosi (Baseggio, Scalero, Cetrangolo) – ma il loro lavoro, quando pure trovi uno sbocco editoriale, è destinato a restare ai margini di uno spazio simbolico sempre più dominato da progetti culturali organici rappresentati da collane in costante crescita come quelle di Sansoni, utet, Mondadori, Einaudi, Feltrinelli e Garzanti20. Da questo punto di vista i Faust di Manacorda e di Errante, che si contendono l’egemonia su questo spazio fra il 1932 e il 1950, possono essere considerati come prodotti di transizione, perché i due traduttori sono professori universitari e fondatori di collane editoriali, e rivestono dunque allo stesso tempo sia il ruolo di committenti che quello di fornitori delle traduzioni. 19  La traduzione di Fortini, probabilmente la più costosa, viene pagata 7.200.000 lire, versate come stipendio mensile di 200.000 lire dal 1964 (Siena, Archivio Fortini, Contratti editoriali, n. 30). Nel 1970 lo stipendio di un operaio era di 120.000 lire, e una casa in zona semicentrale a Milano costava 200.000 lire al metro quadro. 20  Le loro traduzioni vengono pubblicate da editori periferici: quella di Giuseppe Biagi dall’appena fondata Sansoni di Firenze (1900), quella di Cristina Baseggio dal milanese Facchi, vicino ai futuristi (1923), quella di Giovanni Ercole Vellani dal milanese Cogliati (1927), quella di Liliana Scalero dalla libreria editrice romana P. Maglione (1933), quella di Enzio Cetrangolo dal pesarese Federici (1942), quella di Antonio Buoso dal trevigiano Longo e Zoppelli (1941e 1962); quella di Mauro Veneziani, pronta nel 1948, esce postuma per Schena, a Fasano, nel 1984. Di queste solo le versioni di Baseggio e Scalero hanno una diffusione di rilievo, la prima in una versione per le scuole del 1927 (nella collezione sansoniana scolastica di lingue e letterature straniere, ristampata fino al 1960), la seconda nella riedizione fattane per la bur nel 1949, su cui tornerò più avanti.

2. gli editori e il repertorio della letteratura tradotta

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Guido Manacorda (1879-1965), il cui Faust esce per Mondadori nel 193221, fa parte del ristretto manipolo dei fondatori della germanistica e dell’editoria moderna. Professore straordinario di letteratura tedesca a Napoli dal 1913 dirige anch’egli, come altri germanisti della prima leva quali Arturo Farinelli e Giuseppe Antonio Borgese, una delle prime collane di traduzioni, quegli scrittori stranieri Laterza (1912-1915) affidatigli da Benedetto Croce per i quali comincia nel 1913 a lavorare alla traduzione del Faust. Dopo la rottura con Croce, che diventerà per lui l’avversario di una vita, fonda la biblioteca sansoniana straniera (1921-1955), la prima collana italiana di classici moderni con testo a fronte, inaugurandola con la sua traduzione delle Elegie di Goethe e caratterizzandola con molte versioni goethiane e wagneriane22. Quando nel ’31 finisce la traduzione del Faust, il germanista, che nel frattempo ha rotto anche con Farinelli, Borgese e Gentile, si sente messo ai margini di un campo culturale sempre più egemonizzato da Croce e dalla sua idea di cultura: per reazione Manacorda è divenuto portavoce fin dai primi anni ’20 di posizioni «universalistico-misticizzanti»23 espressamente anti-idealistiche. Col suo trasferimento alla cattedra di Firenze nel ’24, si è inoltre accostato alla cerchia cattolica e anticrociana di Papini, Bargellini e della rivista «Il Frontespizio», e alla vigilia dei Patti Lateranensi, criticati da Croce, ha aderito alla Chiesa romana. È ormai molto vicino al fascismo, tanto quanto Croce se ne è ormai allontanato promuovendo nel ’25 il Manifesto degli intellettuali antifascisti. Le celebrazioni goethiane, a cui il regime dà straordinario rilievo nel quadro di una politica di avvicinamento alla 21  Il Faust. Versione integra dall’edizione critica di Weimar con introduzione e commento a cura di Guido Manacorda, Mondadori, Milano 1932. Due volumi, di cui il secondo di commento. La traduzione è in prosa. 22 Per il particolare impegno della Sansoni nella pubblicazione delle opere di Goethe si veda Kathrin Schmeißner, «Goethe è tedesco, ma è anche nostro». Die Goethe-Rezeption in Italien (1905-1945), dobu, Hamburg 2009, pp. 86-99. 23 Giuseppe Vedovato, Guido Manacorda tra Italia, Germania e Santa sede, «Rivista di studi politici internazionali», 301, 2009, p. 100. Vedovato fa una dettagliata analisi dei rapporti di Manacorda con il fascismo e delle sue articolate e contraddittorie posizioni politiche, riconducibili a grandi linee a un anticapitalismo romantico a base mistico-cattolica.

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traiettorie

Germania pre-hitleriana (che include tra l’altro la fondazione dell’Istituto Italiano di Studi Germanici in Roma), sono per lui un’occasione eccellente per regolare i conti con l’antico mentore. Se il Faust non esce nella biblioteca sansoniana straniera – nella quale troverà posto solo nel dopoguerra24 – è probabilmente perché nel 1927 Paolo Emilio Pavolini, uno degli intellettuali più in vista del fascismo fiorentino, preside della Facoltà di Lettere e presidente del Gabinetto Vieusseux, gli subentra alla direzione, ma anche perché Arnoldo Mondadori (1889-1971), che in quegli anni ha già quasi «ingoiato casa Treves» (l’espressione è sua) affermandosi come il maggiore editore italiano, gli offre, per così dire, una potenza di fuoco molto maggiore. Come hanno osservato Nicola Tranfaglia e Albertina Vittoria, l’ascesa di Mondadori è avvenuta «nel compromesso e grazie al regime fascista»25: l’editore ha stampato i volantini della Marcia su Roma, si è tesserato nel ’24, ha ottenuto l’esclusiva sul libro di Stato per le scuole elementari e ha accolto in catalogo buona parte della nomenclatura del regime. Il 5 febbraio 1931, dunque, Manacorda gli scrive, offrendogli la sua traduzione: Illustre Mondadori, il prossimo anno 1932 sarà centenario goethiano. L’Italia, fuori delle traduzioni antiche del Maffei e dello Scalvini rispettabili per i loro tempi ma condotte su testi lacunosi e sciagurati e con criteri romantici, non ha ancora una versione integra e sicura del Faust. E tanto meno, s’intende, la più lontana ombra d’un commento. Posso offrirle una mia versione del capolavoro goethiano condotta sul testo critico di Weimar, frutto di oltre un decennio di lavoro. E insieme un commento compiuto dell’opera, nel quale saranno raccolti i risultati di ben sei anni di corsi faustiani da me tenuti all’Università. […] L’importanza del Faust e l’occasione del centenario m’inducono a presagire che codesto successo sarà di gran lunga battuto. […] Mi rivolgo a Lei, Mondadori, a preferenza di ogni altri per due ragioni: perché è evidente che nessun altro editore italiano saprebbe prendere a cuore la cosa e metterla in esecuzione, come la metterebbe e la prenderebbe Lei. E perché mi è grato ricordare che nella nostra ultima conversazio-

24 Nella

BSS il Faust di Manacorda uscirà in effetti nel 1949: cfr. infra. Tranfaglia, Albertina Vittoria, Storia degli editori italiani. Dall’unità alla fine degli anni Sessanta, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 304. 25  Nicola

2. gli editori e il repertorio della letteratura tradotta

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ne a Milano, Ella mi manifestò cortesemente il piacere che avrebbe avuto di pubblicare un giorno qualche mia opera, che rispondesse alle nobili finalità della sua Casa26.

La proposta, nella quale Manacorda non manca di chiedere un sostanzioso 20% sulle vendite, viene sottoposta a Vincenzo Errante, allora direttore editoriale presso Mondadori, nonché autore del ponderoso studio Il mito di Faust (1924) e aspirante alla cattedra di letteratura tedesca lasciata vacante da Borgese a Milano. Il giorno dopo Errante scrive all’editore: Credo non occorrano mie parole a “commentare” l’eccezionalissimo valore dell’offerta. Valore letterario – perché il Faust goethiano è uno dei vertici della poesia mondiale: ed è vergognoso che in Italia non si abbiano che versioni vecchie, ormai scorrette, e per di più introvabili in commercio. Valore commerciale – perché in anno di centenario goethiano (1932) quest’opera potrebbe avere un largo smercio sicuro. Dei germanisti italiani, reputo che nessuno potrebbe aver fatto, o fare, opera più perfetta di quella preparata dal Manacorda. Nella versione, che sarà certo bella e fedele. Nel commento, che sarà luminoso. […] Se Ella accetta, offro di curarla io, editorialmente, in volume in carta Oxford – siccome credo d’avere un po’ di diritto di fare come germanista27.

Mondadori, naturalmente, ha tutto l’interesse a investire risolutamente nel centenario goethiano, patrocinato dal regime. Pubblicando il Faust fuori collana, lui, l’inventore delle più decisive collane moderne28, dà all’edizione connotati tanto più istituzionali. Fa pubblicità in grande stile al volume, che invia al re 26  Guido Manacorda a Arnoldo Mondadori, 5.2.1931, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori (FAAM), Milano, Archivio storico Arnoldo Mondadori editore (ArchAme), sez. Arnoldo Mondadori (Arn), Fasc. Guido Manacorda. 27  Vincenzo Errante a Arnoldo Mondadori, 6.2.1931, ivi. 28  La casa editrice, che in quegli anni inventa collezioni innovative e fortunate come i libri gialli, la biblioteca romantica, i libri della palma e medusa, non dispone ancora, peraltro, di una collana di classici. L’anniversario goethiano del 1932 fornisce tuttavia a Mondadori l’occasione di varare una piccola, lussuosa collana di classici (tedeschi), senza nome, ma chiaramente identificabile per la veste editoriale. Oltre al Faust, che successivamente vi viene ristampato in un unico volume di 754 pagine, vengono pubblicati i volumi Liriche scelte. Dalle migliori traduzioni italiane di J. W. Goethe (a cura di T. Gnoli e A. Vago, 1932) e Antologia lirica. Dalle migliori traduzioni italiane di H. Heine (a cura dei medesimi, 1935).

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e al capo del governo. Una riduzione dell’opera viene trasmessa alla radio di stato e messa in scena al Licinium di Erba, una delle arene all’aperto del teatro di massa fascista, da Guido Cantini, tra i grandi nomi della drammaturgia di quegli anni. L’investimento dell’editore si rivela fruttuoso: con la quinta ristampa, nel ’43, la tiratura complessiva arriva a 15.000 copie. La dignità accademica del traduttore e il ponderoso commento fanno della traduzione-libro di Manacorda/Mondadori, basata sull’edizione critica weimariana di Erich Schmidt e corredata da ricchissime note, il primo Faust filologico, o meglio germanistico, pubblicato in Italia. Dal punto di vista dell’interpretazione si tratta di un Faust cattolico, o per meglio dire di un Faust letto e interpretato da un cattolico che, al contrario del gesuita Alexander Baumgarten e di altri commentatori, ne rileva la totale estraneità alla visione del mondo cattolica29. Come ha notato Luigi Reitani, l’enfasi con cui Manacorda legge la tragedia di Faust come tragedia dell’uomo animato da Streben ma privo di fede è sospetta. A cent’anni dalla sua morte Goethe viene letto nella chiave critica di un cattolicesimo che si schiera decisamente dalla parte del fascismo. Anche per Manacorda, come per Mazzini, la figura di Faust ci è di ammonimento. È l’eroe del vitalismo pessimistico della fin de siècle, che può essere superato solo con la fede in Dio e nella Patria30.

Del resto l’idea di Faust come eroe negativo e della tragedia goethiana come «libro nero dello spirito germanico» era stata polemicamente sostenuta proprio da Papini alla vigilia della prima guerra mondiale, quando Manacorda si accingeva alla

29 Secondo Manacorda l’opera di Goethe sarebbe un capolavoro pagano, espressione di quel «germanesimo della Selva» (la natura anteposta allo spirito: Apollo-Dioniso, romanticismo, razzismo, idealismo) a cui si contrapporrebbe il «romanesimo del Tempio» (lo spirito anteposto alla natura: Cristo, classicismo, universalità, realismo): «Solo chi di Goethe conservasse gelosamente il vecchio cliché olimpico-classicistico del buon Eckermann potrebbe ancora stupirsi del fermento odinico-barbarico, che si nasconde ed opera sotto tante raffinate espressioni del suo grande spirito» (Guido Manacorda, La selva e il tempio. Studi sullo spirito del germanesimo, Bemporad, Firenze 1933, p. 138). 30  L. Reitani, Faust in Italien, cit., pp. 204-205 (trad. mia).

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sua traduzione31. Ma quello di Manacorda è in primo luogo un Faust anti-crociano, perché di Croce nella lunga introduzione il traduttore confuta puntigliosamente non solo l’interpretazione dell’opera di Goethe (Goethe, Laterza, 1919) ma anche l’intero sistema estetico, al cui hegelismo contrappone una propria «estetica del trascendente». Queste prese di posizione fanno del suo Faust un caso politico: mentre Papini e i gesuiti della «Civiltà cattolica» ne acclamano l’uscita, Croce, recensendolo sulla «Critica», nega ogni valore e utilità sia alla traduzione che al commento del «neoconvertito», suscitandone la stizzita replica32. L’attestazione di simpatia che Mussolini fa pervenire a Manacorda in questa circostanza determina l’inizio del rapporto personale, tutt’altro che privo di contrasti, fra il germanista e il duce, che nel ’37 gli conferisce motu proprio la tessera del PNF «per meriti politici», a riconoscimento dell’attività diplomatica svolta in favore dell’avvicinamento alla Germania di Hitler, al quale Manacorda consegna personalmente una copia del Faust nel ’3533. La notorietà acquisita dal germanista grazie alla polemica con Croce e il suo aperto sostegno al regime fanno sì che la sua traduzionelibro non possa non apparire anche come un Faust fascista. Una posizione analoga va a occupare anche quello del collega Vincenzo Errante (1890-1951), pubblicato da Sansoni nel 1941-4234. Dopo una carriera editoriale che lo vede per alcuni anni condirettore editoriale della Mondadori, presso cui, come abbiamo visto, appoggia la pubblicazione del Faust di Manacorda, nel ’32 Errante ottiene, grazie allo stesso Manacorda, che figura tra i commissari del concorso, la cattedra di letteratura 31 

Giovanni Papini, L’eroe tedesco, «Lacerba», III.3, 17.1.1915, pp. 1 e 17-19. Si vedano: Giovanni Papini, Il Faust svelato, «Corriere della Sera», 26.4.1932, l’anonimo Il Faust di Volfango Goethe nella traduzione e nel commento di G. Manacorda, «La Civiltà cattolica» LXXXIII.2, 1932, pp. 557-575, la recensione di Croce in «La Critica», XXX, 1932, pp. 345-358, e il pamphlet di Manacorda Benedetto Croce o Dell’improntitudine, Bemporad, Firenze 1932. 33  Cfr. FAAM, ArchAme, Arn, Guido Manacorda. 34  Faust. Tragedia. Traduzione in versi italiani di Vincenzo Errante. Prima parte, Sansoni, Firenze 1941-XIX, e Seconda parte, ivi, 1942-XX. Collana le opere di vincenzo errante, contrassegnata da un ex libris con aquila e serpente e dal motto: «Non giova l’ala a chi non abbia artigli». 32 

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tedesca all’Università di Milano, rimpiazzando Giuseppe Antonio Borgese, espatriato l’anno prima negli Stati Uniti per motivi politici. Emulo di Gabriele D’Annunzio sia nella poetica estetizzante che nella postura da «vate» (si stabilisce a Riva del Garda nella villa del Ninfale, sulla sponda opposta al Vittoriale), Errante lega il suo nome dal ’29 alla traduzione delle Opere di Rilke per la casa editrice Alpes di Franco Ciarlantini, organica al fascismo. Il suo Faust – in versi, senza testo a fronte, senza note e senza commento – è, sulla falsariga di quello di Maffei, un Faust en poète, una Nachdichtung, com’egli stesso afferma nell’introduzione. Contro Croce, Errante afferma il primato della poesia sulla filosofia, e contro Manacorda, quello della poesia sulla filologia35: nel senso di questa religione poetica, o culto della poesia come primum, la sua versione del Faust può essere definita estetizzante. La traduzione trova il suo editore nella Sansoni, controllata dal ’32, attraverso il figlio Federico, da Giovanni Gentile (1875-1944), che ne fa «uno strumento non solo per la diffusione del pensiero filosofico suo e della sua scuola, ma anche e soprattutto per la trasmissione di una certa visione della cultura e della storia d’Italia, così come lo era – seppure in termini diversi – l’Enciclopedia italiana»36. E a sottolineare la precedenza accordata alla figura del traduttore su quella dell’autore, il libro esce in una collana appositamente dedicata alle opere di vincenzo errante (1942-1952). Solo nel 1944 Errante dà alla sua traduzione una collocazione meno elitaria, ripubblicandola nella collana antologica scrittori stranieri: il fiore delle varie letterature (1944-1953), da lui stesso ideata e diretta con Ferdinando Palazzi per un nuovo editore, Aldo Garzanti, che nel ’38 ha rilevato l’antica e prestigiosa Treves mutandone la ragione sociale in ottemperanza alle leggi razziali37. La buona riuscita del Faust di Errante, a cui lo stesso Mussolini guarda con favore, suscita il dispetto di Manacorda, che 35  Si vedano Vincenzo Errante, Il mito di Faust, Zanichelli, Bologna 1924, p. X, e l’introduzione al vol. II del Faust, p. XII. 36  N. Tranfaglia, A. Vittoria, Storia degli editori italiani, cit., pp. 273-274. 37  Goethe. Introduzione e scelta di Tommaso Gnoli, versioni di Tommaso Gnoli e Vincenzo Errante, Garzanti, Milano 1944, scrittori stranieri, vol. II: Wilhelm Meister, Faust, Torquato Tasso.

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accusa il rivale aver «attinto a piene mani e senza riguardi» alla sua traduzione, innescando un botta e risposta che si trascina per alcuni mesi sulle riviste di regime «Primato» e «Augustea»38. Quando nel ’41 viene a sapere che la traduzione di Errante sarà messa in scena nella stagione teatrale romana, Manacorda scrive al «Ministro ed amico» Alessandro Pavolini una lunghissima lettera di protesta, che invia in copia a Mondadori aggiungendo: «Ma bisogna fare di più: impedire a qualunque costo la profanazione, prevenirla e riuscire a sostituirla con una rappresentazione del mio Faust, che sarebbe davvero il miglior coronamento e suggello dell’Asse culturale e che riconoscerebbe finalmente in modo degno le nostre lunghe e comuni fatiche»39. Ancora nel ’44 per Manacorda il rivale è un «inverecondo saccheggiatore, irriducibile antifascista, antinazista e spregiatore altrettanto irriducibile dei due dittatori»40. Accuse forse eccessive, dal momento che dopo la Liberazione entrambi, i soli tra i germanisti italiani, lasciano l’università dopo essere stati sottoposti all’inchiesta della Commissione di epurazione dei professori fascisti. Se il Faust germanistico e anti-crociano di Manacorda/Mondadori e quello en poète e dannunziano di Errante/Sansoni, prodotto di una modernizzazione che per un ventennio corre entro i binari del fascismo41, rompono con la tradizione democratica 38  La polemica inizia con una lettera di Luigi M. Personè pubblicata su «Primato» (1.10.1941), in cui si insinua che Errante abbia copiato in alcuni punti la traduzione di Manacorda; e prosegue sotto la rubrica Tribuna con una lettera di risposta di Errante, una lettera di Personè in replica a questa, che a sua volta include come allegato un brano di una lettera di Manacorda a Personè (15.12.1941); si sposta quindi su «Augustea. Rivista imperiale del nostro tempo diretta da Farinata», dove Errante pubblica il lungo articolo Manacorda locutus est (Polemica illuminante) (n. 1, 1-15.1.1942, pp. 24-27); e si chiude con gli interventi di Manacorda e Errante sulla stessa rivista (n. 4, 16-28.2.1942, pp. 118-119). 39 Guido Manacorda a Arnoldo Mondadori, 18.6.1941, FAAM, ArchAme, Arn, Guido Manacorda. 40  Guido Manacorda, Appunti per servire alla storia della mia esperienza politica (1944), documento inedito citato da G. Vedovato, Guido Manacorda tra Italia, Germania e Santa sede, cit., p. 114. 41  L’adesione all’estetica fascista è evidente anche nel carattere tipografico razionalista adottato per copertine sansoniane del Faust di Errante, così come delle Liriche di Hölderlin e delle Opere di Rilke. Uno studio delle copertine, p.es. di editori come Alpes, Sansoni, Mondadori, Bompiani, Frassinelli, Einaudi, mostrerebbe in che misura il consenso e il dissenso si affrontassero anche sul piano della tipografia e della grafica.

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e progressista della borghesia risorgimentale rappresentata dalle traduzioni-libro Scalvini/Silvestri, Maffei/Le Monnier e Scalvini/Sonzogno, quello curato dall’antifascista Barbara Allasòn (1877-1968), e pubblicato nel 1950 dalla De Silva dell’antifascista Franco Antonicelli, si colloca invece espressamente nel solco di questa tradizione, rivendicata fin dal risvolto di copertina con una citazione da Francesco De Sanctis42. E a buon diritto. Mentre Manacorda e Errante traggono dall’adesione al regime non pochi vantaggi per la loro carriera accademica, Allason, allieva di Farinelli vicina a Croce e a Gobetti, nel 1929 si vede revocare la libera docenza per aver scritto a Croce una lettera privata nella quale deplorava gli insulti rivoltigli da Mussolini in Senato durante la discussione sui Patti Lateranensi. Licenziata per lo stesso motivo anche dal liceo torinese in cui insegnava, la germanista aderisce a Giustizia e Libertà, cosa che le costerà un paio di perquisizioni in casa e alcune settimane di carcere nel 1934. Ma soprattutto: per mantenersi comincia a tradurre. Suo principale datore di lavoro è proprio Arturo Farinelli (18671948), che pure è tanto vicino al fascismo da accettare la nomina ad Accademico d’Italia. Nel ’30 egli fonda infatti presso la utet di Torino, erede dell’antica e prestigiosa tipografia di Giuseppe Pomba e allora seconda per dimensioni solo a Mondadori, i grandi scrittori stranieri (1930-1985), la più importante collana di classici stranieri tradotti dopo la biblioteca sansoniana straniera di Manacorda. Nel suo ampio e autorevole repertorio, che va da Shakespeare a Tolstoj, Farinelli dà spazio, fra i tedeschi, soprattutto ai romantici, ai quali aveva dedicato gran parte dei suoi corsi universitari (Hölderlin, Heine, Jean Paul, Eichendorff, Hebbel, Nietzsche, Keller, Kleist, Hoffmann, Grillparzer), spesso affidando la cura dei volumi ai suoi allievi. A Barbara Allason commissiona traduzioni da Lessing, Hebbel, 42  Faust. Traduzione e prefazione di Barbara Allason, Francesco De Silva, Torino 1950, il nobile castello, 4. La traduzione è integrale (Faust I e II) e in prosa. La quarta recita: «Il Faust è un lavoro potentissimo, creazione dantesca, dove un ardito pennello dipinge sicuramente gli affannosi dubbi e i pensieri di un’intera generazione intorno al tremendo mistero della vita». De Sanctis era stato riportato in auge da Croce, che lo aveva inserito nella genealogia dell’idealismo: all’autore della Storia della letteratura italiana si rifanno sia l’antifascismo torinese di Allason e Antonicelli, sia anche la prima Einaudi, che nel dopoguerra ne ripubblicherà l’opera completa.

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Nietzsche e Fichte, e intorno al ’36 quella del Faust. Quando il manoscritto va distrutto durante i bombardamenti di Torino del ’4343, la traduttrice inizia una nuova versione, che però non esce nei grandi scrittori stranieri, probabilmente perché nel ’48, con la morte di Farinelli, la direzione della collana passa al suo allievo Giovanni Vittorio Amoretti, che, come vedremo, ha altri programmi. Ad accogliere la traduzione di Allason è, nel 1950, la piccola casa editrice Francesco De Silva, fondata nel 1942 dall’amico Franco Antonicelli (1902-1974) e intitolata al tipografo che nel 1495 aveva stampato in Piemonte il primo libro in volgare italiano. Antonicelli, che a sua volta ha scontato un anno di confino e ha presieduto il cln piemontese, nei primi anni ’30 aveva contribuito alla nascita dell’editoria di cultura italiana dirigendo la biblioteca europea di Frassinelli e pubblicandovi, con l’aiuto di Leone Ginzburg e Cesare Pavese, le prime traduzioni italiane di Kafka, Joyce, Babel’ e Melville. Un decennio più tardi, proseguendo il suo disegno editoriale con la De Silva in collezioni di chiara marca antifascista come la collana leone ginzburg e maestri e compagni, si assicura la collaborazione di Allason, che alimenta con le sue traduzioni la collana più letteraria della casa editrice, il nobile castello (1943-1953): le Massime e riflessioni di Goethe (in prima traduzione italiana), il Teatro di Schiller (il cui primo volume reca il titolo eloquente di Tre drammi per la libertà) e, infine, il Faust. Anche nel campo editoriale, dunque, Allason, prendendo parte a uno dei più significativi esperimenti di quell’editoria di cultura di marca gobettiana che troverà la sua massima espressione nell’Einaudi del dopoguerra, si colloca al polo opposto rispetto a Manacorda e Errante, che invece pubblicano per le case editrici maggiori e più vicine al regime. Il suo Faust è il primo ad essere commissionato da un editore (anche se viene poi pubblicato da un altro): l’esistenza della traduzione-libro Allason/De Silva non 43  Barbara Allason, Memorie di un’antifascista. 1919-1940 [1946], Spoon River, Torino 2005, p. 263. Su Barbara Allason si veda Gian Franco Petrillo, Zia Barbara e Anita. Due grandi traduttrici dal tedesco: Barbara Allason e Anita Rho, «tradurre. pratiche teorie strumenti», 2 e 3, 2012, rivistatradurre.it/2012/05/zia-barbara-eanita-1-2/ (ultima consultazione: 10.10.2018).

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si deve dunque più all’interesse specifico del traduttore – scrittore, dilettante o germanista che sia – ma a un preciso progetto editoriale, quello farinelliano dei grandi scrittori stranieri, che richiede di essere costantemente alimentato di “classici”. Ci troviamo dunque proprio sullo spartiacque tra due diversi sistemi di produzione delle traduzioni. Il Faust di Allason/De Silva è, inoltre, il primo a essere prodotto entro quel circuito che Bourdieu definisce campo di produzione ristretta, nel quale la logica autonoma dell’arte prevale sulle logiche del mercato, della politica, della religione o dell’istituzione accademica, percepite come eteronome. In questo senso (ma solo in questo) possiamo dunque definirlo un Faust autonomo, realizzato dai e per i pochi che tengono in vita l’editoria di cultura. Ma è anche un Faust inequivocabilmente politico: antifascista, non solo per l’aura antonicelliana della casa editrice, ma anche perché nell’immediato dopoguerra il nome della traduttrice è giocoforza associato al volume autobiografico Memorie di un’antifascista, pubblicato nel 194644. La forte politicizzazione di tutto campo letterario negli anni tra il 1925 e il 1975 non deve tuttavia far perdere di vista le logiche di produzione e di consacrazione specifiche: sarebbe un errore liquidare i Faust di Manacorda e Errante tout court come prodotti del fascismo, quando nei decenni centrali del secolo erano riconosciuti dagli addetti ai lavori come il massimo risultato, rispettivamente, di traduzione filologica e di traduzione poetica dell’opera goethiana. La stessa Allason non manca di rendere omaggio ai due predecessori, presentando il proprio lavoro, che pure non manca di tutta l’accuratezza filologica garantita da un’allieva di Farinelli, come modesto tentativo di dare, in prosa, una traduzione il più possibile «esatta»45. Il medesimo intendimento di «aderenza al testo» e «modestia formale» anima un altro allievo di Farinelli, Giovanni Vittorio 44  Allason dedica la traduzione a suo figlio Gian Carlo Wick, professore di fisica a Berkeley, che nel ’50 rifiuta di prestare il giuramento maccartista richiesto dalle autorità accademiche californiane. Pur non essendo comunista, ma liberale come la madre, Wick deve lasciare la sua università e passare a quella di Pittsburgh. 45 Nella Nota bibliografica Allason definisce il commento di Manacorda «indispensabile», sebbene accompagnato a una traduzione «imperfettissima», e la versione di Errante «senza confronto la migliore che si abbia sinora del Faust, e non in Italia soltanto» (pp. XXXIX e XLI).

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Amoretti (1892-1988), divenuto nel 1932 ordinario di letteratura tedesca a Pisa, che pubblica la sua traduzione del Faust in quello stesso 1950, e proprio in quei grandi scrittori stranieri utet in cui avrebbe dovuto uscire la traduzione di Allason. Assunta nel ’48 la direzione della collana, Amoretti inizia immediatamente a tradurre il Faust e lo pubblica come primo titolo tedesco della sua gestione46. In realtà il suo è, fin dalla accademicissima introduzione, un Faust germanistico, che nasce nella separatezza delle aule universitarie (è dedicato «ai discepoli») e si pone espressamente nella scia dei colleghi Manacorda e Errante, ma con intenti dichiaratamente più modesti, senza l’ampio commento del primo (qui limitato a poche note essenziali), senza le ambizioni poetiche del secondo (la traduzione è in prosa), e soprattutto senza la pretesa di fornire un’interpretazione diversa da quella dominante negli studi letterari tedeschi e italiani: un Faust, potremmo dire, di servizio. Data la somiglianza tra le due operazioni si capisce bene perché Amoretti avesse interesse a pubblicare il proprio Faust, piuttosto che quello di Allason, in una collana di grande autorevolezza e diffusione come i grandi scrittori stranieri, nella quale infatti sarebbe stato ristampato per un quarto di secolo (fino al 1975). Sembra mancare all’appello, in questa ricostruzione dello spazio simbolico del primo Novecento, un Faust crociano, una traduzione-libro che costituisca il côté letterario di quel volume dedicato a Goethe continuamente ristampato e arricchito da Croce (esce nel 1918 sulla «Critica», poi in volume nel 1919, 1934, 1939 e 1946), e che dunque si contrapponga strutturalmente alle traduzioni anti-crociane di Manacorda e Errante47. 46  Faust (I e II parte). Versione italiana integrale, introduzione note a cura di G. V. Amoretti, utet, Torino 1950, i grandi scrittori stranieri, 141. La traduzione è in prosa. È grazie al potente strumento editoriale costituito dalla collana utet che Amoretti elabora il programma di «offrire un corpus goethiano (dal Faust/Urfaust al Werther e alle Affinità elettive, dai Colloqui dell’Eckermann al Viaggio in Italia e all’Egmont, Ifigenia, Tasso) in una versione piana e concreta che trovi consonanze nel gusto contemporaneo» (Giorgio Sichel, Premessa, in Giovanni Vittorio Amoretti, Saggi critici, 2a edizione ampliata ed aggiornata, Bottega d’Erasmo, Torino 1968, p. XI). 47  Una traduzione alla quale Croce aveva dato, letteralmente, il suo imprimatur è il lungo frammento del secondo Faust volto in italiano da Francesco De Sanctis, da lui

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In qualche misura potremmo riconoscerlo nel Faust di Allason, che come si è visto era per più rispetti molto vicina a Croce. Ma abbiamo notizia di un altro Faust, che fin dagli anni ’30 Croce aveva messo in programma in una delle collane della Laterza da lui controllate, probabilmente in quella stessa biblioteca di cultura moderna in cui stava pubblicando Gli anni di viaggio di Guglielmo Meister (1938-50)48. Il lavoro era stato affidato al crociano Vittorio Santoli (1901-1971), titolare della cattedra di letteratura tedesca a Firenze dal 1937 al 1967 e autore di approfonditi studi sul Faust, in particolare sulle sue interpretazioni italiane da Mazzini a Imbriani, culminanti – appunto – in quella di Croce49. La sua traduzione della prima parte della tragedia viene data alle stampe solo nel 197050, quasi vent’anni dopo la morte del filosofo, ma segue scrupolosamente i criteri che questi aveva definito nel corso della sua polemica con Manacorda: fedele ai principi dell’intraducibilità delle opere di poesia, dell’esattezza filologica e della separatezza dell’arte dalle altre sfere dello spirito, una traduzione-libro crociana avrebbe dovuto essere in prosa, accuratamente rivista sull’originale e del tutto priva di introduzione e di commento. E così fu51. ritrovato e pubblicato negli «Atti dell’Accademia Pontaniana» (vol. XLIV, 1914), in seguito da lui più volte richiamato, in particolare nella polemica contro Manacorda. 48  Vedi l’introduzione a J. W. Goethe, Faust, traduzione di M. Veneziani, a cura di G. Dell’Olio, A. Papagni, Schena, Fasano 1984, p. X. 49  Santoli aderisce alla linea interpretativa filologico-storica ed estetica di Imbriani e Croce (all’insegna dell’«autonomia dell’arte») contro quella ideologica e contenutistica di Mazzini e Scalvini («eteronomia dell’arte»), a cui riconduce anche le letture di Borgese e Errante (cfr. Vittorio Santoli, Critici italiani del Faust, «Il Veltro», VI.1, 1962, pp. 213-226). Per l’influenza di Croce su Santoli si veda il suo Dal diario di un critico. Memorie di un germanista, 1937-1958, a cura di G. Bevilacqua, M. Fancelli, Olschki, Firenze 1981, pp. 19-21. 50  La traduzione, in prosa, esce nelle Opere di Goethe curate dallo stesso Santoli per Sansoni, ed è ora ristampata nel volume Faust, traduzione e commento di V. Santoli, prefazione di F. Cambi, AICC, Castrovillari 2014. 51 Nel carteggio Croce-Laterza, a dire il vero, non si fa accenno al Faust di Santoli. In una lettera del 1939, richiesto di esaminare la traduzione parziale di Enzio Cetrangolo, e trovatala «infedele» e «brutta», Croce osserva: «Del Faust sono state pubblicate di recente ben tre versioni italiane. Stimo inopportuna una quarta, salvo che non si trattasse di un capolavoro, come poteva farlo il Carducci o magari il Kerbaker. […] Non posso dunque consigliarvi questo volumetto, che sfigurerebbe nella vostra BCM e la screditerebbe. […] Di trad. d. Faust ce ne sono già troppe, e

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4. Il primo Faust Einaudi (1953) Ma torniamo al 1950. Grazie all’opera collettiva di un pugno di critici, germanisti, editori e direttori di collana in lotta gli uni con gli altri per il primato nei rispettivi campi, il Faust è divenuto un’opera centrale nel repertorio della letteratura tradotta, il cui capitale simbolico, accumulatosi attraverso scontri decennali a cui prendono parte a più riprese Croce e Farinelli, Papini e Borgese, Manacorda e Errante, Tilgher e Allason, editori di massa e d’avanguardia, ma anche il Fascismo e la Chiesa, non era mai stato così alto. L’apogeo della fortuna italiana del Faust coincide non a caso con il quarantennio 1930-1970, epoca cruciale della modernizzazione del paese, ma anche di maggiore autonomizzazione del campo di produzione ristretta, ovvero di quello spazio, secondo Bourdieu, sottratto alle logiche dell’economia, della politica e della religione e sottoposto in primo luogo alla logica specifica della produzione artistica. Ogni nuovo editore che nel dopoguerra voglia affermarsi in questo spazio non può fare a meno di proporre un proprio Faust, mettendosi in concorrenza con le edizioni che negli anni ’30-’40 avevano contribuito a fare dell’opera di Goethe un “classico” inaggirabile. Proprio mentre escono i Faust di utet e De Silva, una terza casa editrice torinese, Einaudi, mette in cantiere il suo. Fondata dodici anni prima da alcuni ex compagni di liceo, allievi di Augusto Monti al D’Azeglio e successivamente aderenti a Giustizia e Libertà, la giovane casa editrice esibisce fin dagli esordi quell’habitus gobettiano che a Torino aveva già dato impulso a imprese come la Slavia di Alfredo Polledro, la F.lli Ribet di Mario Gromo e la già citata Frassinelli di Franco Antonicelli52: tanto Giulio Ei[…] bisognerebbe, se mai, pensare a una traduzione completa di tutte e due le parti, o a ristampare con qualche ritocco quella del Biagi, edita da Sansoni e ora esaurita» (Benedetto Croce, Giovanni Laterza, Carteggio 1931-1943, a cura di A. Pompilio, Laterza, Roma-Bari 2009, tomo II, p. 991, corsivo di Croce). Croce afferma di preferire la traduzione di Giuseppe Biagi, «un po’ dura ma fedele» alla lettera e al metro dell’originale, anche nei Nuovi saggi sul Goethe (Laterza, 1934, p. 60). 52 Angelo D’Orsi, Il modello vociano. Esperienze culturali nella Torino degli anni Venti, in «Studi storici», XXXI.4, 1990, pp. 867-887. Per la storia dell’Einaudi si veda Luisa Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999.

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naudi (1912-1999) quanto Cesare Pavese (1908-1950) e Leone Ginzburg (1909-1944) perseguono pratiche che li pongono all’avanguardia sia politica, nel segno dell’antifascismo, sia letteraria, con la prossimità a riviste come «Solaria», sia editoriale, nel tentativo di dar vita a un’editoria autonoma di cultura. I profitti simbolici di queste disposizioni, che costano a Leone Ginzburg e Giaime Pintor la vita, e a gran parte dei redattori il carcere o il confino, vengono riscossi nel dopoguerra, quando, mentre Elio Vittorini rivoluziona il campo letterario con «Il Politecnico» e Pavese progetta collane come i millenni, i coralli e i supercoralli, che costituiscono tuttora le colonne di sostegno della casa editrice, il Partito comunista decide di affidare all’Einaudi la pubblicazione delle Lettere e dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci. Alla morte di Pavese, nel 1950, l’Einaudi è universalmente riconosciuta come la casa editrice di riferimento degli intellettuali progressisti italiani, che negli anni della Resistenza e della Repubblica guardano con evidente identificazione alle lotte risorgimentali di un secolo prima. «Risorgimento» si chiama la rivista diretta nel 1945 da Carlo Salinari sotto le insegne dello Struzzo, nelle cui collane vengono ripubblicati, accanto al Manifesto del Partito comunista, Le confessioni di un Italiano di Nievo, il Saggio sulla Rivoluzione di Pisacane, le opere complete di Francesco De Sanctis e anche un’ampia raccolta degli scritti di Giovita Scalvini, con il titolo Foscolo Manzoni Goethe (1948). In un primo momento – siamo nell’ottobre 1950 – il consiglio editoriale prende in considerazione il Faust per i millenni53, la collana più canonizzante e prestigiosa della casa editrice, nella quale erano usciti i Quarantanove racconti di Hemingway, il Canzoniere di Saba e l’Antologia di Spoon River. Si pensa di commissionarne una nuova traduzione, affidandola a Ervino Pocar, uno dei più accreditati professionisti del momento, che ha appena finito di tradurre il Doctor Faustus di Thomas Mann. 53  Che il progetto di un Faust einaudiano sia legato alla ricerca di titoli per i millenni è documentato dai verbali delle riunioni editoriali. Si vedano I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1943-1952, a cura di T. Munari, Einaudi, Torino 2011, pp. 174, 211-212, 263 e 296 (ottobre 1950 - luglio 1951), e in particolare I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi 1953-1963, a cura di T. Munari, Einaudi, Torino 2013, pp. 139-140 (ottobre 1954).

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Poi, su proposta di Sergio Romagnoli, allora ventottenne studioso di Nievo e di De Sanctis, si decide invece di ripubblicare la traduzione risorgimentale di Scalvini, e di inserirla nell’universale einaudi (per la quale lo stesso Romagnoli aveva tradotto Il povero suonatore di Grillparzer e Ecce homo di Nietzsche). L’operazione è del tutto diversa: nel caso di una nuova traduzione fatta da Pocar per i millenni avremmo avuto un Faust d’élite, allo stesso tempo classico e contemporaneo, inserito in un repertorio che andava dalle Fiabe dei Grimm alle nuovissime Poesie e canzoni di Brecht; riproporre il testo di Scalvini nell’universale significa invece, data l’impostazione della collana, conferire fin da subito alla traduzione-libro una connotazione popolare e politica in chiave antifascista, presentandola come un classico risorgimental-resistenziale. Varata da Pavese, l’universale einaudi (1942-1962) è infatti affidata ad alcuni giovani intellettuali vicini al Partito comunista: a dirigerla è Carlo Muscetta (1912-2004), assistente alla cattedra di letteratura italiana di Natalino Sapegno a Roma, e ad alimentarla è la redazione romana della casa editrice, presieduta da Mario Alicata. Pensata sul modello della britannica everyman’s library, della tedesca universalbibliothek Reclam e della biblioteca universale Sonzogno, che in quegli anni andava lentamente estinguendosi, entra in diretta concorrenza con altre imprese analoghe: corona (1942-1947), diretta da Vittorini per Bompiani, meridiana (1943-1944), diretta da Federico Gentile per Sansoni, e più tardi la universale economica Colip (1949-1955), poi rilevata da Feltrinelli, e la biblioteca universale rizzoli (19491972), ideata da Luigi Rusca. Proprio la bur precede l’Einaudi nel produrre un Faust “universale”: nel 1949 ripubblica infatti nei suoi spartani ed economicissimi volumetti grigi la traduzione (in versi) del Primo Faust di Liliana Scalero (1895-1976), realizzata nel 1933 sotto gli auspici di Giuseppe Antonio Borgese e Adriano Tilgher. Un Faust, dunque, originariamente en poète che diventa così il primo Faust di massa, con cinque edizioni ad alta tiratura54. 54  Il primo Faust, traduzione di L. Scalero, Rizzoli, Milano 1949, biblioteca universale rizzoli, 39-40. In questa circostanza Scalero traduce anche il Secondo Faust, Rizzoli, Milano 1951, biblioteca universale rizzoli, 339-342.

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Rivolta a «un pubblico nuovo, più mosso, meno colto, meno “severo”»55 di quello generalmente raggiunto da via Biancamano, l’universale einaudi doveva rappresentare, secondo l’editore, «il frutto maturo, il frutto più bello del lavoro di tutta la Casa editrice, ed in definitiva dare il tono a tutto il nostro lavoro editoriale». Non «un tentativo di volgarizzamento», dunque, ma «un contributo fattivo a un riesame serio e consapevole del patrimonio culturale universale»: una collana di progetto, come corona, che “inventa” i libri, selezionando e assemblando testi del passato e del presente. La collana si apre con il romanzo politico italiano par excellence, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, curato dallo stesso Muscetta, e tra i tedeschi propone prevalentemente testi di quei romantici che la scuola torinese di Arturo Farinelli e le riviste di Papini e Prezzolini avevano largamente contribuito a legittimare in Italia all’inizio del secolo, da Novalis (Cristianità o Europa) a Kleist (Michele Kohlhaas), ma riletti ora con quel nuovo sguardo critico e autocritico di cui le Considerazioni sulla storia di Nietzsche curate da Giaime Pintor nel 1943 costituiscono l’esempio più noto e riuscito. Attraverso Muscetta la cura del Faust viene affidata a Nello Sàito (1920-2006), giovane germanista e romanziere romano di origine siciliana, che dal 1941 collabora con la casa editrice svolgendo per qualche anno quel ruolo di consulente privilegiato per la letteratura tedesca che era stato inaugurato da Giaime Pintor, e che in seguito sarebbe stato ricoperto da Roberto Bazlen e, per decenni, da Cesare Cases. Nel 1948 aveva curato per la stessa universale einaudi il volumetto Del poeta di Rilke, e nel 1954 sarebbe entrato con il romanzo Gli avventurosi siciliani nei gettoni di Vittorini, da lui considerato un maestro. Ai connotati di popolarità e antifascismo dati alla traduzione-libro dal marchio dell’editore e dalla collocazione in collana, Sàito ne aggiunge di ulteriori. Innanzitutto il suo è un Faust filologico, che, nonostante la destinazione popolare, non deroga alle regole della germanistica: rispetto all’edizione Sonzogno, ristampata per l’ultima volta nel 1936, la traduzione è «per la prima volta 55  L. Mangoni, Pensare i libri, cit., pp. 110. Da cui anche le due seguenti citazioni, rispettivamente dalle pp. 127, 129.

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corretta e integrata sul testo della prima edizione milanese del 1835»56, e corredata di note che rettificano gli errori interpretativi di Scalvini. In secondo luogo è un Faust per certi aspetti crociano, perché a Croce, di cui Sàito subisce l’influenza attraverso Sapegno e Muscetta, è riconducibile sia l’interpretazione dell’opera (tutta dalla parte dell’umano e disincantato Mefistofele e contro l’appassionato ma disumano Faust), sia la difesa della traduzione di Scalvini (considerata per il suo valore storico e poetico superiore a quelle di Manacorda ed Errante, qui giudicate molto severamente)57. Infine è un Faust militante, nella misura in cui Sàito, in linea con il programma culturale einaudiano, fa di Scalvini un precursore della nuova figura di intellettuale critico, illuministicamente concreto e insofferente a qualsiasi «ventata irrazionalistica» così come a ogni romantico «rivoluzionarismo verbale». Egli, scrive Sàito, avvertiva la decadenza della «fantasia» e, al contrario, il risorgere più vigoroso del pensiero dovuto ai nuovi tempi, alle nuove lotte, alle nuove necessità. Anche nella poesia cercava un contenuto di pensiero nuovo, più che una generica sollecitazione morale; cercava insomma una problematica, come diremmo oggi, e i problemi per lui dovevano essere solo vivi e moderni58.

56  Faust, traduzione di G. Scalvini, introduzione e note di N. Sàito, Einaudi, Torino 1953, universale einaudi, 16. Naturalmente si tratta del solo primo Faust, e in prosa. 57  Ivi, si veda in particolare la lunga nota a p. XVIII, tutta dedicata alle affinità fra Scalvini e Croce, il quale aveva a sua volta contribuito alla riscoperta di Scalvini con il saggio Di Giovita Scalvini, dei suoi manoscritti inediti e dei suoi giudizii sul Goethe, «La Critica», XXXVIII, 1940, pp. 241-254. 58  Ivi, p. XV. È interessante osservare come il taglio illuministico dato da Sàito alla sua lettura del Faust non sia accolto senza riserve in casa editrice. A Sàito, che alla consegna del lavoro, il 1° luglio 1952, sottolinea che «è stato preposto un ampio e documentatissimo saggio introduttivo al Faust (e in secondo luogo allo Scalvini), saggio che vuol proporre, appunto, in occasione di questa ristampa, una nuova interpretazione del poema goethiano sulla traccia di quelle istanze illuministiche che proprio Scalvini mise in luce», Renato Solmi risponde, inviandogli le prime bozze il 4 novembre 1952: «A nostro avviso, l’aspetto “illuministico” del Faust (che c’è, ma non può dirsi preponderante) andrebbe attenuato e nuancé. È proprio necessaria tutta la lunga nota 2 a p. XVIII? In un’introduzione a un volume dell’Universale, essa ci sembra un po’ stravagante» (Archivio di Stato di Torino [ASTo], Giulio Einaudi Editore[ArchGee], Corrispondenza con autori e collaboratori italiani [CorrIt], Nello Sàito).

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Proviamo ora a immaginare che nel ’53 un giovane intellettuale italiano entri in libreria in cerca del Faust di Goethe. Si sentirebbe rispondere che può scegliere – caso assolutamente senza precedenti – tra ben sei diverse edizioni. Un libraio ben provvisto sciorinerebbe sul bancone il ponderoso Faust di Manacorda edito da Mondadori (germanistico, anti-crociano, cattolico, fascista), disponibile anche, a prezzo più tenue, nell’edizione in tre volumetti della biblioteca sansoniana straniera59; spenderebbe parole di elogio per il grosso tomo IV delle Opere di Goethe curate, sempre per i grandi classici stranieri Sansoni, da Lavinia Mazzucchetti, in cui è stato da poco ristampato il Faust di Errante (germanistico, en poète, dannunziano, fascista), magari proponendo uno sconto in caso di acquisto di tutti i cinque volumi60; sorvolerebbe rapidamente sugli economicissimi quadernetti della bur corrispondenti al Primo e al Secondo Faust di Liliana Scalero (en poète, di massa) per soffermarsi, dopo aver dato un’occhiata all’abito del cliente, sul buon compromesso rappresentato dal Faust di Amoretti (germanistico, accademico, di servizio), pubblicato nella vecchia e accurata collana utet i grandi scrittori stranieri. Forse ritroverebbe su uno scaffale poco in vista anche l’ormai quasi introvabile Faust di Barbara Allason (autonomo, di servizio, antifascista), uscito nella collana il nobile castello di una casa editrice cha ha da poco chiuso i battenti, la De Silva di Torino; ma certo esibirebbe, fresca di stampa, la riedizione del famoso Faust di Giovita Scalvini nella universale einaudi, a cura di Nello Sàito (autonomo, popolare, risorgimental-resistenziale, antifascista, germanistico, crociano, militante). Il malcapitato giovane, frastornato da tanta offerta, mediterebbe magari fra sé sui pro e i contra dell’industria culturale; poi, ripensando con tenerezza 59  Mondadori continua a ristampare il libro fino al 1960, giungendo al 30° migliaio (FAAM, ArchAme, Arn, Manacorda), mentre nel ’49 la Sansoni, che nel dopoguerra continua a essere diretta da Federico Gentile, ne pubblica un’edizione economica, come numeri 91-95 della collana fondata nel ’21 dallo stesso Manacorda. 60  Il volume IV dell’edizione sansoniana delle Opere di Goethe affidata a Lavinia Mazzucchetti (5 voll., 1944-1961) esce nel 1951; la traduzione di Errante apparirà ancora nell’edizione delle Opere in un solo volume curata da Vittorio Santoli nel 1970; per l’edizione tascabile del solo Faust nei capolavori sansoni (1966) cfr. infra.

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agli altri libri col marchio dello Struzzo ammucchiati nella sua stanza, probabilmente taglierebbe la testa al toro optando per lo Scalvini. E, chissà, nell’uscire, poserebbe l’occhio, tra le novità esposte in vetrina, su un volume arancione dal titolo attraente, Il marxismo e la critica letteraria, di György Lukács, curato per i saggi Einaudi da un certo Cesare Cases. 5. «Con i metodi e nelle prospettive del socialismo»: il Faust di Cases nella nuova universale einaudi (1965) Quando comincia a collaborare con l’Einaudi, Cases ha poco più di trent’anni, ed è supplente di francese in un liceo di Milano61. Nato nel 1920 in una famiglia della borghesia ebraica del tutto laica e assimilata, Cases frequenta il liceo classico Parini, dove riceve un’istruzione a base di latino, greco e idealismo crociano. Opta poi per la facoltà di chimica, come Primo Levi, perché in tempo di persecuzioni, gli raccomandano i familiari, è bene «avere un mestiere», e poco dopo ripara in Svizzera, dove conosce Franco Fortini. Nel ’43 passa dalla Facoltà di Chimica a quella di Lettere del Politecnico di Zurigo, dove segue le lezioni di Lucien Goldmann. È lui a fargli conoscere Storia e coscienza di classe di Lukács: «un libro che galvanizzava gli intellettuali», ricorderà poi con ironia, «perché sembrava che la salvezza del mondo dipendesse da loro e che i destini del mondo si decidessero nelle dispute intellettuali»62. Tornato a Milano, conclude gli studi con il germanista Carlo Grünanger e nel ’46 si laurea in estetica con Antonio Banfi ed Enzo Paci, discutendo una tesi su Ernst Jünger63. Per alcuni anni insegna alla Scuola ebraica, incerto tra diverse carriere: si propone come giornalista al «Corriere della sera», traduce per Mondadori La rivoluzione del nichilismo di Hermann Rauschning, corregge bozze per l’Agenzia 61 Per la biografia di Cases si vedano le sue Confessioni di un ottuagenario, Donzelli, Roma 2005. 62  Luigi Forte, Intervista a Cesare Cases, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2006, p. 24. 63  Cesare Cases, La fredda impronta della forma. Arte, fisica e metafisica nell’opera di Ernst Jünger, a cura di H. Dorowin, La Nuova Italia, Firenze 1996.

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Letteraria Internazionale di Luciano Foà, e scrive perfino un romanzo satirico, Cronica del finimondo, che sottopone all’Einaudi nel ’51 ottenendo un garbato rifiuto da Italo Calvino. È a questo punto che l’Einaudi, auspice l’amico Renato Solmi, altro milanese da poco approdato in casa editrice, gli affida la cura di un’antologia degli scritti teorico-letterari di Lukács. Non si tratta di una semplice traduzione, ma di un’operazione ben più articolata: il volume viene «concepito dal traduttore, con l’assenso dell’autore», assemblando i saggi che «più direttamente investono la funzione della letteratura e della critica», «le grandi questioni generali di fronte alle quali si trovano lo scrittore e il critico nella società capitalista e in quella socialista»64. Né Cases si limita a diffondere e discutere gli scritti di Lukács, ma ne adotta il metodo critico nei saggi che pubblica sulle principali riviste di cultura del Pci, «Il Contemporaneo» e «Società», con cui è entrato in contatto grazie a Muscetta, e dove, non senza una buona dose di ironia, ama fare la parte del «marxista ortodosso». Contribuisce così in misura tutt’altro che irrilevante all’affermazione della critica letteraria marxista, che egemonizza l’area più avanzata del campo letterario italiano dopo la scomparsa di Croce, individuando i suoi teorici principali in Gramsci e in Lukács. Ma è tra il ’58 e i primi anni ’60 che il nome di Cases comincia a godere di un certo prestigio anche al di fuori del circuito delle riviste legate al Pci. Quando, con la pubblicazione dell’articolo Di alcune vicende e problemi della cultura nella Rdt, si consuma il suo distacco dal partito, cominciano a contendersi la sua penna riviste di altre aree, come «Mondo operaio», «Città aperta», «Passato e presente», «Il Ponte» e soprattutto «Nuovi argomenti», che lo intervista a più riprese nell’ambito delle inchieste letterarie allora in voga. Nel ’58 esce il suo primo libro, il pamphlet Marxismo e neopositivismo (nei libri bianchi Einaudi, la stessa collana che ospita Il significato attuale del realismo critico di Lukács), e nel 1963 il secondo, la raccolta Saggi e note di letteratura tedesca (che, pubblicato nei saggi Einaudi, si chiu64  Cesare Cases, Prefazione, in György Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, nuova ed., Einaudi, Torino 1964, p. 7.

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de con un Omaggio a György Lukács). Anche in casa editrice, dopo anni di apprezzato ma oscuro lavoro come autore di pareri di lettura65, la sua autorevolezza va crescendo: nel ’59, quando inizia la sua carriera universitaria a Cagliari, viene incaricato del completamento delle due principali operazioni einaudiane nell’ambito della letteratura tedesca, le edizioni del Teatro di Brecht e dell’Uomo senza qualità di Musil, mentre la concorrenza, Feltrinelli, gli commissiona una prefazione nientemeno che all’Estetica di Hegel (che però non porterà mai a termine); nel ’60 è nominato consulente per la letteratura tedesca in esclusiva per la casa torinese, nonché rappresentante generale della succursale romana, che dirigerà per un decennio; dal ’61 prende parte alle riunioni del mercoledì, alle quali sarà assiduo fino al 199566. È in questo periodo che comincia a firmare le prefazioni ad alcuni dei libri tedeschi più importanti del decennio, dalla Teoria del dramma moderno di Szondi e dai Dialoghi di profughi di Brecht fino all’Uomo senza qualità di Musil e all’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Benjamin. «Caro Cases», gli scrive Calvino nel dicembre del ’62, ti scrivo per dirti che ho letto lo Szondi [Teoria del dramma moderno] e che mi ha appassionato moltissimo; mi sarei molto arrabbiato per l’insipienza dell’autore in fatto di valori, se la tua prefazione, avendomi già avvertito di tutti i limiti e avendomi dato insomma perfette istruzioni per la lettura, non mi avesse permesso di leggere il libro sine ira ma con studio e profitto. Bellissima prefazione, in cui pure le idee del Maestro [Hegel] e di tutta la costellazione dei suoi cattivi allievi vengono inquadrate in maniera persuasiva. Ora poi ho letto la tua prefazione a Brecht [Dialoghi di profughi] e la trovo un ritratto finissimo ed esauriente di questo autore che solo ora finalmente comincio a capire. Insomma, è un raro momento in cui vorrei che tutti i libri che leggo avessero una tua prefazione67.

65  Cesare Cases, Scegliendo e scartando. Pareri di lettura, a cura di M. Sisto, Aragno, Torino 2013. 66  Traggo queste informazioni, oltre che dalle citate Confessioni di un ottuagenario, da ASTo, ArchGee, CorrIt, Cases. 67 Italo Calvino a Cesare Cases, 8.12.1962, in Italo Calvino, Lettere. 19401985, a cura di L. Baranelli, Mondadori, Milano 2000, pp. 713-714.

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Non solo come germanista, ma anche per il suo rapporto con la casa editrice e, come vedremo, per le sue posizioni politiche e estetiche, Cases è dunque il candidato naturale a scrivere la prefazione a un nuovo Faust einaudiano. Ma come si arriva alla decisione di fare un Faust che sostituisca quello di Scalvini/Sàito? Come per molti altri libri einaudiani si tratta anche in questo caso di un iter piuttosto lungo. Poco dopo l’uscita del Faust della universale einaudi, l’editore in persona torna sulla questione. Registrano i verbali: Einaudi desidera che Goethe sia degnamente rappresentato nei millenni. Si penserebbe a una nuova versione del Faust e a due volumi contenenti i romanzi, in cui si ristamperebbero le nostre versioni del Werther e delle Affinità elettive, aggiungendo il Wilhelm Meister e la Novella. Si conta sulla collaborazione di tutti i consulenti per trovare i traduttori più adatti68.

Su indicazione di Delio Cantimori, la casa editrice propone il lavoro a Vittorio Santoli69, che come sappiamo aveva cominciato a tradurre il Faust per Croce, ma non si arriva a un accordo. Così, quando nel ’57 Sàito, il quale ha finalmente ritrovato quella preziosa copia del Fausto di Scalvini con correzioni autografe che lo stesso Croce aveva cercato invano per anni, si candida a curare un’edizione rivista e corretta del libro già uscito nel ’53, la proposta, in mancanza di alternative, viene accolta70. La nuo68  I verbali del mercoledì. 1953-1963, cit., pp. 139-40 (riunioni del 6 e 13 ottobre 1954). Questo programma sarà realizzato non nei millenni, nei quali uscirà solo il Teatro, ma nella nuova universale einaudi nel corso degli anni ’60 (cfr. infra). 69  I verbali del mercoledì. 1953-1963, cit., pp. 175-176: «Goethe: Ponchiroli riferisce sul suo incontro con Santoli. Santoli vedrebbe bene due volumi: il primo contenente il Faust nella versione di Scalvini, una scelta di brani del Faust nelle migliori traduzioni dell’800, una scelta delle liriche nelle versioni di Pirandello, De Sanctis, Gnoli, ecc., il Tasso nella versione di Diego Valeri, e l’Egmont; il secondo volume conterrebbe il Werther, Poesia e verità, il Viaggio in Italia (nella traduzione di Zaniboni) e le Affinità elettive nella traduzione di Mila. Santoli scriverebbe un’introduzione generale, un’avvertenza a ogni singola opera, e correderebbe il volume di referenze e note critiche. serini è contrario a mettere insieme traduzioni ottocentesche e traduzioni moderne, e si riserva di studiare il problema in modo da proporre a Santoli alcune modifiche al suo progetto. (9.2.55)». 70  Faust, traduzione di G. Scalvini, introduzione e note di N. Sàito, seconda edizione riveduta su nuovi documenti, Einaudi, Torino 1960, universale einaudi, 16. Per questa edizione Sàito tiene conto delle centinaia di correzioni autografe apposte

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va versione della traduzione-libro Scalvini/Sàito, che si decide di realizzare con modifiche minime rispetto alla precedente71, appare nel 1960 tra le ultime uscite di una universale einaudi già in crisi. Del resto la riproposta della traduzione di Scalvini, per quanto coerente con il progetto della vecchia universale di Muscetta e meritoria dal punto di vista storico-filologico, non risolve il problema posto dall’editore: dare una «nuova versione» del Faust marca Einaudi. A quest’altezza, «nuova versione» non significa più necessariamente nuova traduzione. In quello stesso 1960 Cases e l’amico Solmi stanno infatti passando al vaglio le traduzioni del Faust esistenti, in cerca, evidentemente, di quella più adatta ad essere ripubblicata. «Carissimo», si legge in una cartolina indirizzata a Solmi, ti scrivo ancora a proposito delle traduzioni del Faust. Nel n. 4 (luglioagosto ’60) di «Convivium» c’è un articolo di un certo Giovanni Ercole Vellani sulle traduzioni italiane del Faust. L’art. è confuso e ci si ricava poco ma ha qualche interesse perché passa in rassegna tutte le traduzioni, demolendo Scalvini (a ragione), Manacorda, la Allason, salvando Errante (!) e qualche cosa dei seguenti: Scalero (B.U.R.) Giuseppe Biagi (vers. metrica), Sansoni, 1900 Antonio Buoso (vers. ritmica, cioè senza rime), Treviso, Arti grafiche Longo e Zoppelli, 1941 e infine naturalmente G. E. Vellani (vers. metrica), Cogliati, 1927¹ e La Prora, 1937² Questo Vellani ha la fissazione delle versioni metriche, mentre sia tu che io preferiamo la prosa. Comunque potresti chiedere alla S.E.I. (che pubblica «Convivium») l’indirizzo di questo Vellani e scrivergli che mandi la sua traduzione perché vorremmo esaminarla. Sarà certo felicissimo72. da Scalvini sulla sua copia a stampa, ritrovata grazie al germanista Giovanni Angelo Alfero. Nell’introduzione, anch’essa rivista e ampliata, Sàito è ancora più esplicito nel richiamarsi all’interpretazione di Croce (e ai più recenti saggi di Santoli), soprattutto per quanto riguarda la non-unità e la stratificazione storica del Faust, il cui senso complessivo verrebbe modificato a più riprese da Goethe. 71  Sàito aveva proposto di aggiungere in appendice alla traduzione gli scritti di Scalvini su Goethe, una cinquantina di pagine da trarsi dal volume curato da Marcazzan e arricchite da alcune altre da lui stesso ritrovate in archivio. Ma per ragioni editoriali si preferisce mantenere l’edizione identica alla precedente (cfr. ASTo, ArchGee, CorrIt, Sàito). 72  Cesare Cases a Renato Solmi, 12.12.1960, ASTo, ArchGee, CorrIt, Cases.

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Sono i mesi in cui Solmi lavora al progetto della collana nuova libreria, il cui elemento caratterizzante doveva essere l’ampia introduzione, «una piccola storia della letteratura e del pensiero in questione, delle sue principali fasi e correnti, dei suoi diversi sviluppi», che avrebbe dovuto «acquistare una sua autonomia ed essere quasi un’operetta a sé»73. Possiamo supporre che sia questo il contesto in cui si afferma l’idea che a contraddistinguere la «nuova versione» einaudiana sarebbe stata non un nuova traduzione, ma una nuova introduzione. Dal carteggio risulta peraltro che Cases non conosce ancora la traduzione di Allason, che Solmi gli spedisce a Roma nel gennaio del ’61. Manca, nell’archivio Einaudi, una valutazione di Cases sulle diverse traduzioni, anche se è verosimile che si stesse orientando su quella di Allason, nonostante più tardi la definisca la «traduzione della casalinga»74. A decidere la questione è però, come spesso accade, un fattore esterno: nel febbraio 1962 Franco Antonicelli, da tempo tra i consiglieri più influenti della casa editrice, mette a disposizione alcuni titoli dell’ormai estinta casa editrice De Silva, che La Nuova Italia, pur avendone rilevato il catalogo, non intende ristampare. Tra queste ci sono diverse traduzioni di Barbara Allason uscite nel nobile castello, come il Teatro di Schiller e il Faust di Goethe75. Il Faust di Allason/Antonicelli, vecchio di appena una dozzina d’anni, si può considerare in buona misura un Faust di per sé organico a casa Einaudi, dal momento che della cerchia gobettiana e giellina della casa editrice torinese fanno parte sia la traduttrice sia il primo editore. Non resta che fare di questo Faust, già connotato come autonomo, antifascista, germanistico e di servizio, un Faust “einaudiano”. Il compito, come forse erat in votis già ai tempi della nuova libreria di Solmi, viene dunque affidato a Cases, che è ormai il germanista di punta della casa editrice. Ma intanto il progetto della nuova libreria è stato messo da parte, o meglio: da quel cantiere è nata una nuova collana, la 73  Renato Solmi a D. Gnoli, 26.10.1961, citato in L. Mangoni, Pensare i libri, cit., p. 882. 74  L’espressione mi è stata riferita da Andrea Casalegno. 75  I verbali del mercoledì. 1953-1963, cit., p. 542 (riunione del 14.2.1962). Il Teatro di Schiller sarà pubblicato nei millenni nel 1969.

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nuova universale einaudi, per la quale viene infine messo in programma il nuovo Faust. È dunque utile ricostruirne in breve la genesi e il carattere, frutto di un sofferto e articolato riposizionamento della casa editrice nel campo editoriale e nello spazio simbolico. Sullo scorcio degli anni ’50 casa Einaudi si trova infatti a fronteggiare non solo la transizione politica apertasi con la crisi del rapporto col Pci dopo i fatti del ’56, ma anche, e più ancora, la transizione economico-sociale da cui sta nascendo l’Italia contemporanea76. In campo editoriale questa si manifesta attraverso la concorrenza di nuovi entranti come Il Saggiatore di Alberto Mondadori e Feltrinelli, entrambi prossimi all’Einaudi per posizionamento politico e capitale intellettuale. Temibile è soprattutto Feltrinelli, che da una parte rivoluziona il mercato con l’estremo dinamismo delle sue collane e la sua nuova e agilissima rete di librerie, mentre dall’altra si propone come pioniere della nuova letteratura stringendo un’alleanza con la neoavanguardia di Sanguineti, Eco, Balestrini e Filippini, questi ultimi due peraltro organici alla casa editrice, di cui sono redattori. Lasciamo però da parte, per ora, lo scontro fra poetiche neoavanguardiste e neo-realiste, a cui lo stesso Cases prende combattivamente parte, per soffermarci in primo luogo sulla lotta tutta editoriale tra diversi modelli di collane universali. Di fronte all’enorme penetrazione della universale economica del Canguro rilevata nel 1955 da Feltrinelli, che ne fa l’asse portante del suo catalogo (come i saggi lo sono per l’Einaudi) smerciandone i volumetti al ritmo di 30 titoli l’anno fin nelle edicole delle stazioni, l’universale einaudi e con essa la piccola biblioteca scientifico-letteraria, tra le collane più caratteristiche dell’Einaudi del dopoguerra, segnano il passo: appaiono lente e invecchiate. Il loro tentativo di attuare, almeno in linea di principio, il programma gramsciano di formare una cultura nazional-popolare nelle classi subalterne, si scontra con la realtà di un’Italia ormai trasformata dal miracolo economico (la stessa Einaudi era diventata, nel 1954, una società per azioni), nella 76  Per una ricostruzione di questa crisi si veda, oltre al citato volume di Luisa Mangoni, l’introduzione di Tommaso Munari a I verbali del mercoledì. 1953-1963, e la mia ai pareri di Cases, Scegliendo e scartando, cit.

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quale le prospettive rivoluzionarie apertesi con la Liberazione e la nascita della Repubblica, a cui lo stesso Cases aveva orientato la propria azione culturale77, risultano ormai sbiadite. Tra il 1960 e il ’62 le due collane vengono chiuse, e l’incarico di progettarne di nuove affidato inizialmente a Franco Fortini, per la piccola biblioteca einaudi, e a Renato Solmi, per la nuova libreria, con l’intento di affiancarle alla collana di analisi della contemporaneità diretta da Raniero Panzieri, la nuova società. Fortini, Solmi e Panzieri78: per un paio d’anni sembra che la risposta alla crisi einaudiana debba venire da questi tre intellettuali, fra i più vicini a Cases, fautori della difficile ricerca di una modernità alternativa tanto al modello sovietico quanto al neocapitalismo, e di lì a poco tra i principali ispiratori della Nuova sinistra. Poi, sul crinale del decennio, il normalista Giulio Bollati (1924-1996) subentra a Solmi nel ruolo di «secretarius ideologicus» di Giulio Einaudi, portando la casa editrice verso posizioni meno radicali, o, da un altro punto di vista, verso la realistica presa d’atto di una trasformazione già avvenuta79. È lui, alla fine, a tenere a battesimo la nuova universale einaudi, che raccoglie l’eredità della nuova libreria, rivolgendosi espressamente a quel nuovo tipo di lettori che la costante crescita del livello di scolarizzazione va producendo80: estremizzando, non più il cittadino in genere, da accompagnare nella sua crescita culturale al di là della sua appartenenza di ceto o di classe, ma l’intellettuale specifico, sempre più specializzato dalla divisione del lavoro. Diretta da Gian Carlo Roscioni, di stanza nella filiale romana dell’Einaudi allora presieduta da Cases, la collana si propone di pubblicare i classici della letteratura, del pensiero filosofico, scientifico, economico considerati «essenziali per 77  Per questi aspetti si veda il mio «Un fuorilegge della critica». Cesare Cases critico militante negli anni cinquanta, in Per Cesare Cases. Atti della Giornata di studio (Torino, 24 novembre 2008), a cura di A. Chiarloni, L. Forte, U. Isselstein, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2010, pp. 99-118. 78  Cfr. L. Mangoni, Pensare i libri, cit., p. 883. 79  La resa dei conti fra le due visioni della casa editrice avverrà, com’è noto, nel ’63 a proposito dell’inchiesta di Goffredo Fofi sull’immigrazione meridionale alla Fiat. cfr. L. Mangoni, Pensare i libri, cit., pp. 884 sgg. 80  Cfr. la relazione di Fortini alla riunione editoriale del 13.6.1962 in I verbali del mercoledì. 1953-1963, cit., pp. 630-631.

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la comprensione del presente», in edizioni curate «secondo le esigenze di lettura e di studio» e preceduti «da prefazioni che inquadrano l’opera e l’autore»81. Si avvia così a diventare, insieme alla pbe, la collana di riferimento dell’intellettualità di sinistra italiana, contraddistinguendo fino ad oggi in modo inconfondibile il profilo culturale e politico della casa editrice. Il numero 1 della collana non è più il politicissimo e risorgimentale Ortis curato da Muscetta per la prima universale, ora scivolato al numero 22, ma i Canti di Leopardi, curati da Niccolò Gallo e Cesare Garboli. La disposizione militante non viene meno, ma è intesa con minor immediatezza: deve passare il filtro di uno studio più lungo e approfondito. Dei romantici tedeschi riletti col bisturi di Pintor non resta quasi traccia82: l’autore tedesco più rappresentato, accanto a Marx, è senz’altro Goethe, con il Werther di Alberto Spaini, le Affinità elettive di Massimo Mila e il Faust di Cases83. «Per i primi di novembre uscirà il Faust della Allason. Aspetto da te il promesso saggio introduttivo, neh!», gli scrive Daniele Ponchiroli dalla redazione nell’agosto ’6284. Cases, che oltre a dirigere la filiale Einaudi a Roma e a insegnare letteratura tedesca come incaricato a Padova si sta preparando per il concorso a cattedra del 1963 (occasione per la quale raccoglierà finalmente in volume i suoi Saggi e note di letteratura tedesca), prende tempo, suggerisce di affidare l’introduzione a Ladislao Mittner, che ne sarebbe felice perché sta lavorando ai capitoli goethiani della sua Storia della letteratura tedesca, ma in casa editrice non sentono ragioni, sono disposti ad aspettare. Anche due anni. Finalmente, nel novembre ’64, Ponchiroli può ringra81  Così la presentazione della collana nel Catalogo Einaudi 1933-1983, Einaudi, Torino 1983. 82  Ci sono invece l’Epistolario di Nietzsche tradotto da Barbara Allason, seguito a stretto giro dal Manifesto del partito comunista e dal Libro dei canti di Heine, le Poesie e canzoni di Brecht tradotte da Fortini, le Poesie di Hölderlin curate da Giorgio Vigolo, le Osservazioni e pensieri di Lichtenberg a cura di Nello Sàito. 83  Il contributo che questi dà alla nuova collana è di primo piano: traduce l’introduzione di Hans Mayer alla splendida edizione in un solo volume del Teatro di Brecht (1965), introduce Il romanzo storico di Lukács (1965) e I Buddenbrook di Mann (1967), e cura il Me-ti di Brecht (1970). 84  Daniele Ponchiroli a Cesare Cases, 29.8.1962, ASTo, ArchGee, CorrIt, Cases.

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ziarlo per «la lunga (benissimo!) prefazione al Faust, che è già andata in composizione»85. Quali sono i problemi critici – e politici – alla luce dei quali Cases elabora la sua nuova lettura “einaudiana” dell’opera di Goethe? Verso la metà degli anni ’60 Cases è ormai saldamente accreditato nel campo letterario come «missionario» di Lukács «in partibus infidelium»86, ma è anche ben consapevole che la rapida trasformazione della scena letteraria, soprattutto ad opera del Gruppo 63, minaccia di rimettere in discussione, rendendo obsoleta l’estetica lukácsiana, il riconoscimento come critico che si è da poco conquistato. La percezione della crescente inattualità delle proprie posizioni è chiaramente espressa nella prefazione alla nuova edizione del Marxismo e la critica letteraria, pubblicata nel ’64, di cui vale la pena citare per esteso la conclusione: A questo disagio nel mondo socialista, che impedisce l’ascesa del realismo socialista, auspicata da Lukács, anche dopo la caduta di molti elementi costrittivi, corrisponde nel mondo occidentale il consolidarsi della società neocapitalista nella sua polarità tra benessere e paura atomica. Se questo da una parte dà nuova vita alle varie forme di avanguardia, dal nichilismo di Beckett alla descrittività reificata del «nouveau roman» [ma leggi anche: alla neoavanguardia italiana], d’altra parte spinge la rivolta umanistica su binari che spesso l’allontanano dal «realismo critico», la cui riposata analisi sembra contrastare con l’urgenza dei compiti e l’omogeneità dei destini. Di fronte alla – teoricamente esatta – polemica di Lukács contro l’arte di agitazione sembra riacquistare valore il radicale pragmatismo del Brecht dell’epoca dei Lehrstücke, oppure, mutatis mutandis, l’esortazione di Benjamin a contrapporre all’«esteticizzazione della politica», propria della propaganda bellicistica fascista, la «politicizzazione dell’arte». Ma se questo stato di necessità può rendere temporaneamente inoperanti le verità che hanno trovato classica espressione in questi saggi di Lukács, è ad esse che si dovrà ritornare quando se ne sarà usciti87.

Chiaramente, quando accenna alla vitalità delle «varie forme di avanguardia», Cases ha in mente, per l’Italia, il Gruppo 63. È il successo dell’offensiva dei nuovi entranti a costringere il qua85 

Daniele Ponchiroli a Cesare Cases, 13.11.1964, ASTo, ArchGee, CorrIt, Cases. Cesare Cases, Su Lukács, Einaudi, Torino 1985, p. XI. 87  C. Cases, Prefazione, in G. Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, cit., p. 12. 86 

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rantenne critico einaudiano, che aveva ottenuto la consacrazione affrontando la problematica del «realismo» nella prospettiva marxista dominante negli anni ’50, a riposizionarsi, mettendo in dialogo le posizioni anti-avanguardistiche di Lukács con quelle filo-avanguardistiche di Adorno, di Benjamin, di Hans Mayer, e soprattutto di Brecht. Questo lavoro sul piano estetico, condotto di concerto con Fortini, ha un corrispettivo sul piano politico nell’elaborazione di quel marxismo critico che di lì a poco troverà espressione, come vedremo, sui «quaderni piacentini». In questa delicata congiuntura, che vede minacciata non solo la sua posizione nel campo ma la sua stessa idea di cultura e tutto il lavoro collettivo fatto nel corso di un ventennio per affermarla, Cases scrive, introducendo il Faust, uno dei suoi saggi più impegnativi, nonché la più ampia introduzione al Faust pubblicata nel Novecento88: più lunga anche di quella di Manacorda e pari solo a quella del garibaldino Checchi nell’edizione Le Monnier/ Maffei. Certo, l’importanza di un saggio critico non si misura in base alle sue dimensioni, ma queste non sono affatto irrilevanti se vogliamo comprendere il gesto: scrivere un’introduzione di 84 pagine significa voler dire sul Faust una parola, se non definitiva, dalla quale per molto tempo non si potrà prescindere. E non una parola qualsiasi: la nota apposta in chiusura, in cui Cases avverte di aver utilizzato gli Studi sul Faust di Lukács «in misura ben più larga di quanto possa emergere dai riferimenti», è da prendere alla lettera. Si tratta di un’introduzione fieramente lukácsiana, scritta «con i metodi e nelle prospettive del socialismo»89. Gli Studi sul Faust, scritti nel 1940, erano stati inclusi da Lukács nel volume Goethe e il suo tempo, uscito nel ’47 e pubblicato in Italia da Alberto Mondadori con una prefazione epistolare di Thomas Mann: così il critico marxista era stato introdotto nel campo letterario italiano (e subito stroncato da Croce, che vedeva in lui, a ragione, un temibile concorrente). Cases, che considererà sempre gli Studi sul Faust il miglior libro di Lukács, nella sua introduzione ne fornisce un esteso compendio, spesso al 88  Faust, introduzione di C. Cases, traduzione di B. Allason, Einaudi, Torino 1965, nuova universale einaudi, 53 (l’introduzione è alle pp. V-LXXXVIII). 89  C. Cases, Introduzione, in Faust, cit., p. LXXXVIII.

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limite della parafrasi. Ma al tempo stesso li approfondisce, applicando il gesto critico del maestro a nuovi aspetti dell’opera. Presupposto condiviso è la lettura del Faust come «dramma del genere umano», inteso però non in senso astratto, bensì strettamente storico: come il dramma dell’uomo moderno colto nel passaggio dall’età feudale all’età borghese, e posto di fronte alla necessità di superare dialetticamente anche quest’ultima. Sulla scorta di questa impostazione schiettamente hegeliana, Cases convoca a commentare il Faust anche Marx e Nietzsche, Adorno e Brecht. Riducendo tuttavia al minimo indispensabile la ricostruzione del contesto storico-sociale, tra illuminismo, ascesa della borghesia e rivoluzione francese, che dà per assodata, può indugiare più a lungo sull’analisi delle singole scene. Il risultato, rispetto al modello, è una sorta di close reading saldamente orientato «ai problemi concreti dello sviluppo individuale e collettivo»90. Ai cinque capitoli degli Studi sul Faust, sostanzialmente ripresi nei paragrafi 2-6 dell’introduzione, Cases ne aggiunge altri due, quello iniziale dedicato al mito di Faust, che in Italia era stato ampiamente studiato, da Errante fino a Amoretti, e quello finale, in cui compie un’operazione del tutto nuova: storicizza le diverse interpretazioni del Faust, ricollocandole nel contesto storico che le aveva prodotte, da Gervinus a Thomas Mann, passando – inevitabilmente – per Croce. Al Goethe di quest’ultimo riconosce che «nonostante i suoi limiti, inerenti ai limiti del pensiero del filosofo, costituiva una salutare reazione agli eccessi [superomistici, elitistici, imperialistici] della critica tedesca e offriva una rilettura spregiudicata del poema»91. Il Faust lukácsiano di Cases si presenta quindi non come anti-crociano, ma come post-crociano, nel senso del superamento del pensiero del filosofo auspicato da Gramsci, e realizzato attraverso Lukács. È certo, indubbiamente, anche un Faust germanistico, ma, al contrario di quello di Amoretti, ripubblicato da Feltrinelli in quello stesso 1965, tutt’altro che asetticamente accademico. Se Cases non manca nell’introduzione di dialogare con i colleghi Santoli e Mittner, coinvolge tuttavia nella conversazione anche 90  91 

Ivi, p. LXXXI. Ivi, p. LXXXVII.

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Günther Anders, Karl Jaspers e Ernst Bloch, facendo della traduzione-libro einaudiana un Faust militante, letto alla luce delle più pressanti domande della contemporaneità, dagli sviluppi del neocapitalismo e del socialismo alla minaccia atomica. La presa di posizione storico-politica sul presente va di pari passo con la presa di posizione estetico-letteraria. Questo stretto nesso, che già caratterizzava le riflessioni di Scalvini su Goethe e Manzoni, determina l’impostazione di tutta l’introduzione, ma è messo in particolare evidenza in un passaggio chiave, che non a caso lo stesso Cases sceglie di far riportare sul risvolto di copertina92, e che nella sua interezza recita così: Per intendere la necessità della forma del Faust, e quindi la reale unità del poema, occorre uscire dall’ambito letterario formale per trovare non già una rigida equivalenza di strutture concettuali, ma un riferimento concreto ai problemi dello sviluppo individuale e collettivo, come abbiamo tentato di fare nelle pagine che precedono. Goethe vive in un’epoca in cui tali problemi si presentano con particolare urgenza, e i «privilegi barbarici» [la mescolanza dei generi letterari] gli permettono di affrontarli con un’ampiezza inconsueta. Nel romanzo ottocentesco si scorge da una parte il divario tra individuo e società, dall’altra l’accettazione della «prosa della vita» di cui parlava Hegel, a proposito del romanzo, come punto di partenza dell’arte, con la conseguente rinunzia all’ideale dell’«arte bella». In quanto autore di romanzi, Goethe accettava sostanzialmente queste premesse. Ma il Faust le rifiuta entrambe. In quest’opera l’individuo, grazie al soccorso del diavolo, è sempre in grado di affrontare le istanze oggettive del mondo senza lasciarsene schiacciare, anzi rivelandone le contraddizioni e passando quindi a un nuovo stadio. E questa possibilità di risolvere il peso dell’oggettività inverandola e superandola permette anche di escludere la «prosa della vita», di continuare ad aspirare al raggiungimento della bellezza e di scrivere l’ultima grande opera letteraria occidentale in versi93.

Rifiutare la «prosa della vita», «affrontare le istanze oggettive del mondo senza lasciarsene schiacciare», rivelare «le contraddizioni», passare «a un nuovo stadio»: un linguaggio che testimonia come il controverso Streben faustiano si traduca, per Cases (e per 92  Cfr. Daniele Ponchiroli a Cesare Cases, 11.12.1964, ASTo, ArchGee, CorrIt, Cases. Il brano viene poi abbreviato per esigenze redazionali. 93  C. Cases, Introduzione, in Faust, cit., pp. LXXXI-LXXXII.

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almeno due generazioni di intellettuali italiani), nella contraddittoria tensione comunitaria a realizzare il marxiano «sogno di una cosa». Sul piano politico questo equivale a ricercare nuove strade perché il «dramma del genere umano» non abbia come esito ultimo l’incubo disumano di «una società completamente organizzata in cui l’individuo è forgiato e controllato da strapotenti forze economiche»94: un esito verso il quale il neocapitalismo di marca americana spinge a piene macchine, ma che il socialismo di stampo sovietico non mostra di voler e saper scongiurare. In quello stesso 1965 in cui scrive l’introduzione al Faust, seguendo ancora una volta le orme dell’amico Fortini, Cases comincia a collaborare assiduamente con i «quaderni piacentini», una piccola rivista nata in provincia che nel giro di pochi anni si rivelerà determinante per lo sviluppo del marxismo critico e la nascita della Nuova sinistra. Ma l’altro corno del problema è strettamente letterario. Se in politica Cases rifiuta le opzioni opposte e complementari di una modernizzazione alla sovietica o all’americana, in letteratura tenta di sottrarsi alla polarizzazione tra quel “realismo” alla cui affermazione egli stesso aveva contribuito facendosi portavoce delle idee di Lukács, e quelle poetiche dell’“avanguardia” su cui le correnti letterarie in ascesa in tutto l’occidente, dal nouveau roman al Gruppo 63, sembrano concordemente puntare. Per questo, messo tra parentesi il realismo critico di Lukács (le «verità a cui si dovrà ritornare»), apre a forme più stilizzate di rappresentazione estetica, contrapponendo per esempio la schematica ma efficace rappresentazione dell’alienazione umana nel teatro epico di Brecht ai giovani «gregari» che si spartiscono «fraternamente la piccola alienazione, quella da elettrodomestici, da sbronze e da sesso»95. È in contrapposizione a questo superficiale formalismo che Cases trova nel Faust, e in particolare nella sua seconda parte, un modello di forma in grado di tenere insieme, senza necessaria conciliazione, totalità epica e sviluppo drammatico, esigenza classica di unità ed estrema libertà stilistica, mimesi realistica e rap94 

Ivi, p. LXXXVIII. Cases, Introduzione, in Peter Szondi, Teoria del dramma moderno, Einaudi, Torino 1962, p. XXXVI. Per la battaglia di Cases contro la neoavanguardia rimando al mio Mutamenti del campo letterario italiano 1956-1968: Feltrinelli, Einaudi e la letteratura tedesca contemporanea, «Allegoria», 55, 2007, pp. 86-109. 95 Cesare

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presentazione allegorica. L’opera di Goethe è letta, hegelianamente, come un epos non romanzesco della modernità96, in grado di rappresentarne fino in fondo le contraddizioni, come i più grandi romanzi, ma anche di conservare in una forma letteralmente “utopica” quella prospettiva umanistica, lukácsiana, che la storia sembra smentire. In questa chiave, secondo Cases, si comprende l’ambientazione cristiana data da Goethe al finale: un’allegoria religiosa nella forma, ma “a-teologica” nella sostanza. Da una parte egli [Goethe] vede che la positività dello Streben umano, individuale e collettivo, è insidiato dall’elemento mefistofelico necessario alla sua realizzazione, dall’altra egli postula l’avvento di una libera umanità che abbia abdicato al diavolo. Ma siccome non gli è dato in alcun modo di definire le condizioni di tale avvento, esso rimane un potenziale preannunciato in punto di morte e brutalmente smentito dai Lemuri che preparano la fossa. La «metà della colpa» di Faust [l’altra è, rousseauianamente, della società] può essere cancellata solo al di fuori dall’immanenza: in altre parole, la garanzia che la via dell’umanità, nonostante le contraddizioni di cui è pavimentata, è la via giusta, non può essere data in una prospettiva storica che al tempo di Goethe doveva essere necessariamente gratuita, ma solo uscendo dalla storia in un’allegoria religiosa97.

La traduzione-libro di Cases/Einaudi va dunque intesa come una precisa presa di posizione nel campo letterario: provvisoriamente post-realistica (nel senso di post-lukácsiana) in quanto anti-avanguardistica, e destinata ad inaugurare una stagione di interesse senza precedenti per il secondo Faust, di cui l’amico Fortini sarà uno dei protagonisti. Se nello sforzo di aprire nuovi spazi in politica Cases sarà tra i pionieri dell’alternativa, in lette96  «Con il Faust», ricorderà peraltro Cases anni dopo, «ho avuto un rapporto immediato, un entusiasmo particolare fin da ragazzo, ma proprio perché la poesia in questo caso non è lirica, ma epico-drammatica; non si legge solo in forza della parola, ma anche del contenuto» (L. Forte, Intervista a Cesare Cases, cit., p. 95). La preminenza assegnata al contenuto fa sì che Cases preferisca una traduzione in prosa come quella di Allason a quelle in versi, che, prima di Fortini, tendevano a sacrificare il contenuto alla forma. 97  C. Cases, Introduzione, in Faust, cit., p. LXII. Che la «via dell’umanità» venga sbarrata dall’autodistruzione ad opera della bomba atomica è una possibilità che Cases non esclude, soffermandovisi anzi nel finale del suo saggio. Ma la sua visione del mondo robustamente utopico-idealistica fa sì che la tratti appunto solo come una possibilità tra le altre.

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ratura non andrà di fatto oltre Brecht, ma la sua collaborazione ai «quaderni piacentini» contribuirà, tra il 1965 e il ’68, a una generale ripoliticizzazione dello spazio letterario, a tutto sfavore del fino allora trionfante Gruppo 63. In questo contesto di lotte politiche e letterarie, ma anche editoriali, che nel giro di pochi anni producono repentini mutamenti, il Faust di Cases fa il suo ingresso munito di uno straordinario capitale simbolico: la traduzione dell’antifascista Allason, già pubblicata da Antonicelli, e ora introdotta dal germanista comunista Cases, interprete critico dell’estetica marxista di Lukács, appare infatti sotto le prestigiose insegne dell’intellettualissima nuova universale einaudi di Bollati. Per avere la misura della forza simbolica di questa operazione è utile confrontarla con quelle, contemporanee, di Feltrinelli e Sansoni. Nel ’65 infatti anche quell’universale economica Feltrinelli che tanto aveva impensierito l’Einaudi, giunta ormai a 500 titoli, non può esimersi dal proporre a sua volta almeno un titolo di Goethe. Coerentemente con il profilo della collana, l’editore sceglie di fare un buon libro con poca spesa, ristampando su licenza il Faust di Amoretti uscito nel 1950 per la utet (e arricchitosi nel 1959 di un’appendice comprendente l’Urfaust)98. Mentre però la vecchia traduzione di Allason, anch’essa del 1950, grazie all’introduzione di Cases e al riposizionamento nella nuova universale einaudi diventa qualcosa di sostanzialmente nuovo e attualissimo, l’operazione di Feltrinelli consiste semplicemente nello spostare la traduzione-libro di Amoretti dal segmento di mercato del libro di studio, in cui si collocano i grandi scrittori stranieri utet, a quello del libro economico di massa. Anche il packaging fa la sua parte: sulla copertina campeggia la scritta «Faust» a caratteri gotici con un’enorme «F» in evidenza, e per la quarta vengono rispolverate due celebri ma ormai logore citazioni da Puškin e De Sanctis99. 98  Faust (I e II parte). Urfaust, traduzione, introduzione e note di G. V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 1965, universale economica, 500-501. Solo nel 1980 ne viene data una «nuova edizione riveduta e ampliata». 99 «Il Faust è una grandiosa creazione dello spirito poetico e rappresenta la nuova poesia, come l’Iliade è il monumento dell’antichità classica»: con una parafrasi di questa sentenza puškiniana si aprono gli Studi sul Faust di Lukács. Per la frase di De Sanctis cfr. la nota 42.

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Nel ’65 anche Sansoni inaugura una nuova collana universale, i capolavori sansoni, nella quale l’anno dopo ristampa la traduzione del Faust che aveva in casa, quella di Errante. La prefazione viene affidata a Claudio Magris (n. 1939), che ad appena venticinque anni è già una celebrità. La sua tesi di laurea, da Einaudi pubblicata (su parere positivo di Cases100) nel ’63 col titolo Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, ha ottenuto consensi così vasti da portarlo già nel ’67 a diventare una firma del «Corriere della Sera». Di vent’anni più giovane di Cases, Magris ha una carriera accademica folgorante, che lo porta a ottenere la cattedra di letteratura tedesca, nel 1968 a Trieste, appena un anno dopo il più anziano collega. Più dell’eclettico e irregolare Cases – del quale leggi razziali e la guerra avevano condizionato e rallentato la formazione universitaria, facendogli per contro conoscere molto per tempo l’opera di Lukács – viene da una solida scuola germanistica: ha studiato a Torino con Leonello Vincenti, il successore di Farinelli, formandosi però anche alla lezione del conterraneo istriano Ladislao Mittner. E nella sua introduzione, scritta con vivace piglio giornalistico, interloquisce innanzitutto con i colleghi: a partire dallo stesso Cases, in un fitto contrappunto all’introduzione einaudiana, poi con Mittner, Santoli, Amoretti, Errante. Mentre però il Mito absburgico aveva un solido impianto lukácsiano, che gli era valso molti apprezzamenti ma anche critiche da parte di amici (come Biagio Marin), la sua lettura del Faust non ha alcun orientamento politico: sembra anzi rifiutarlo espressamente quando in chiusura celebra il «capolavoro» goethiano come rappresentazione di una modernità aperta a diversi esiti. Suggestivamente Magris definisce il Faust non un’«Iliade moderna», come avevano fatto Puškin e dopo di lui Lukács, ma un’«Odissea moderna», sostituendo alla chiave di lettura conflittuale della guerra quella esperienziale del viaggio, con «tre o quattro finali possibili». E, forse, il Faust non ha una sola fine [leggi: un solo finale] ma accoglie, con la suprema superiorità goethiana, tutte le possibilità e i momenti 100  Per il parere di Cases sul libro di Magris cfr. Scegliendo e scartando, cit., pp. 381-382.

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della vita: in cui esistono, e sono forse altrettanto legittimi, la fede creatrice nell’agire storico, il disperato e radicale vuoto del nichilismo e della morte, l’abbandono e la speranza nella Grazia. Come in Shakespeare nella sofferta indifferenza di Goethe v’è posto per tutte le verità101.

Non si potrebbe essere più lontani dalla prospettiva fortemente schierata di Cases, per il quale la «verità» del socialismo – qui: la «fede creatrice nell’agire storico» – conserva, pur nelle sue contraddizioni, un netto primato sulle altre. Alla programmatica parzialità di Cases, Magris, che appartiene alla generazione dei superatori degli anni ’50, oppone un umanesimo integrale che ha le sue radici nell’universalismo accademico di un Farinelli o di un Tecchi, e ben si accorda con il clima di una società che negli anni ’60 si sta entusiasticamente pluralizzando, e di cui Opera aperta di Umberto Eco è una sorta di manifesto critico-letterario. Ma dopo il maggio francese, con l’aprirsi della nuova stagione di conflitti che intellettuali come Cases avevano contribuito a preparare, l’apertura ecumenica di Magris è destinata ad apparire inattuale (per riprendere quota alcuni anni dopo, quando l’utopia cede al disincanto). Così nel ’71 il Faust einaudiano arriva alla quarta edizione, mentre quello di Sansoni non viene più ristampato, e quello di Feltrinelli dovrà attendere la prima ristampa per oltre dieci anni. Se dunque in un primo momento queste tre traduzioni-libro si contendono senza eccessive disparità di partenza lo spazio simbolico, il ’68, che peraltro segna un ritorno di interesse anche per le posizioni di Lukács, vede la provvisoria affermazione del Faust militante e comunista, o più precisamente marxista critico, di Cases. Il volumetto nue, con l’inconfondibile copertina bianca attraversata da strisce rosse, diventa una presenza familiare nelle biblioteche di intellettuali e studenti, accanto ad altri titoli della stessa collana che definiscono il contesto in cui esso viene letto in quegli anni: dal Manifesto del Partito comunista di Marx al Diario di Anna Frank, dai Dannati della terra di Fanon alle Poesie e canzoni di Brecht tradotte da Fortini.

101  Faust, traduzione di V. Errante, introduzione di C. Magris, Sansoni, Firenze 1966, i capolavori sansoni 47, p. 19.

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6. «Noi siamo allegorie»: il Faust di Fortini nei meridiani Mondadori (1970) Se il Faust nue del ’65 va dunque situato entro i tentativi di Cases di costituire una nuova posizione in campo politico (non più col Pci né col capitale) e letterario (non più col neorealismo né con la neoavanguardia), negli anni successivi, quando quella posizione comincia a esistere, quantomeno politicamente, con la Nuova sinistra, il testo di Goethe continua a costituire per lui un oggetto di riflessione pressoché quotidiana. Mentre sui «quaderni piacentini» discute le idee politiche di Havemann e di Lukács e presenta le Elegie hollywoodiane e il Me-ti di Brecht, rivede infatti verso per verso la traduzione del Faust che l’amico Fortini sta realizzando per Mondadori. Le circostanze di questo lavoro sono note: è Fortini stesso, che ha cominciato la sua traduzione nel dicembre 1964 con l’aiuto della moglie Ruth Leiser, a richiedere, due anni dopo, la consulenza di un germanista, insistendo con l’editore perché sia proprio Cases. E questi, a partire dal febbraio 1967, gli invia quelle pagine fitte di «perplessità, reprimende e proposte» che nel loro insieme costituiscono un ampio commento «a briglia sciolta» al Faust102. Prima di vedere quale sia stato il ruolo di Cases in questa traduzione-libro, occorre ricostruire in breve la genesi del Faust fortiniano dei meridiani e la sua collocazione nello spazio simbolico quando, nel giugno 1970, arriva in libreria. Come abbiamo visto, Mondadori aveva già in catalogo dal ’32 un suo Faust, quello germanistico e fascista di Manacorda, ristampato fino al 1960. Ma continuare a riproporlo in un clima culturale e politico che stava radicalmente mutando, avrebbe voluto dire di fatto perdere la battaglia con i concorrenti più agguerriti. Dopo la guerra infatti Mondadori conserva sì il suo primato in campo editoriale, ma nel corso degli anni ’50 il maggior dinamismo di Einaudi, Feltrinelli, Garzanti e Bompiani nell’intercettare (e nel fare) le principali novità italiane e stra102  Si veda l’«Ospite ingrato» IV-V, 2001-2002, dove è pubblicata una parte della corrispondenza fra Cases e Fortini, Lettere scelte 1966-1968, il saggio di Roberto Venuti, «Poeta suavissime», «Magister clarissime». Fortini, Cases e la traduzione del Faust, e la conferenza di Fortini Venture e sventure di un traduttore.

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niere, deposita una patina di polvere sul suo catalogo letterario: anche una collana pionieristica e di largo successo come medusa (1933-1969), a trent’anni dalla sua fondazione, appare superata e lentamente si estingue, così come la principale concorrente dei millenni einaudiani, i classici contemporanei italiani (1946-1976) e stranieri (1947-1975), varata nel dopoguerra e contenente le opere, quasi sempre complete, di Pascoli, Pirandello, D’Annunzio, Papini, Cardarelli, Cecchi, Panzini tra gli italiani, D. H. Lawrence, Hemingway, Faulkner, Joyce, Hesse, Kafka, Th. Mann tra gli stranieri, appare troppo legata agli autori del catalogo mondadoriano per svolgere una efficace funzione di indirizzo sulla letteratura contemporanea. Tra le contromisure volte a riconquistare capitale simbolico c’è, oltre al rinnovato rapporto con Elio Vittorini dopo i suoi anni in Einaudi, l’assunzione alla Direzione letteraria di un poeta ancora poco noto, fino ad allora impiegato all’ufficio stampa della Pirelli ma già autore per la casa di alcune traduzioni da Julien Green e da Paul Valéry: Vittorio Sereni (1913-1981). Dal 1958 al 1975 è Sereni, con Alberto Mondadori e con lo stesso Vittorini, il principale responsabile della riorganizzazione delle collane mondadoriane non commerciali: mentre la casa conquista il nuovo mercato del libro super-economico con gli oscar, i «libri transistor» messi in vendita nelle edicole dal 1965, Sereni vara il tornasole (1962-1968), la nuova collezione di letteratura (1966-1968), riapre la storica collana dello specchio alla poesia contemporanea e alimenta con i suoi pareri la neonata collana di narrativa affidata a Vittorini, nuovi scrittori stranieri (1964-1969). «Poeta e di poeti funzionario», secondo un’efficace definizione dello stesso Fortini ripresa da Ferretti103, Sereni, che ha esordito nei circuiti della letteratura più autonoma su riviste di fine anni ’30 come «Corrente» e «Letteratura», ha sull’editoria commerciale un giudizio quasi altrettanto severo dell’amico Fortini, al quale già nel ’58 – dunque cinque anni prima del disincantato ritratto dell’ambiente editoriale tracciato nel racconto L’opzione – scrive: 103  Gian Carlo Ferretti, Poeta e di poeti funzionario. Il lavoro editoriale di Vittorio Sereni, Il Saggiatore/Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 1999.

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Un discorso che vorrei farti riguarda l’attuale industrializzazione – monopolistica e come – di certe faccende che ci riguardano. Spero di dimostrarti che quelle che parevano caste infrangibili erano niente rispetto alla formidabile organizzazione di talune consorterie attuali in cui tu ed io contiamo degli amici. I monopoli di una volta riguardavano le rivistine che nessuno leggeva: quelli di ora controllano, persino per la poesia, le principali case editrici. Possibile che tu non te ne sia accorto? E il bello è che gli editori si scannano tra loro persino per un libro di versi, ormai. Senza accorgersi che quelli che tirano i fili sono invece d’accordo tra loro104.

Negli stessi anni in cui Fortini, anche sulla base della sua esperienza in Einaudi, compie la sua indagine sulle istituzioni letterarie poi consegnata a Verifica dei poteri, Sereni si fa portavoce della logica specifica della letteratura all’interno del grande apparato mondadoriano. Con alterni successi. Uno di questi è l’ideazione nel 1969 dei meridiani, nei quali uscirà il Faust105. Ma nel momento in cui la traduzione viene commissionata a Fortini, la nuova collana non è ancora stata concepita. Certo, un editore come Mondadori non può permettersi di non avere in catalogo il Faust Goethe: e intorno al 1964, proprio mentre Einaudi, Feltrinelli e Sansoni preparano i loro Faust, mette in cantiere il suo. Ad occuparsene, insieme a Sereni, è Alberto Mondadori, allora direttore editoriale dell’azienda paterna oltre che editore in proprio con Il Saggiatore. Non sappiamo dunque a quale collana fosse originariamente destinata la traduzione fortiniana del Faust (forse alla vasta biblioteca moderna mondadori, in cui erano apparsi il Werther tradotto da Borgese e La missione teatrale di Wilhelm Meister e Le affinità elettive tradotte da Silvio Benco); possiamo tuttavia ricostruire, almeno in parte, quali caratteristiche dovesse avere la traduzione secondo la committenza. Alcune indicazioni ci vengono dal contratto sottoposto a Fortini, altre – le più rilevanti – dal contesto di interessi e di tensioni che fa sì che il Faust (e proprio il Faust) venga affidato a Fortini (e proprio a Fortini). 104  Vittorio Sereni a Franco Fortini, 2.3.1958, in Vittorio Sereni, Scritture private con Fortini e con Giudici, a cura di Z. Birolli, Edizioni Capannina, Bocca di Magra 1995, pp. 15-16. Si veda anche Vittorio Sereni, L’opzione, Scheiwiller, Milano 1964. 105  Faust, introduzione, traduzione con testo a fronte e note a cura di F. Fortini, Mondadori, Milano 1970, i meridiani (la collana non reca numero di serie).

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Com’è noto, all’origine dell’incarico c’è innanzitutto un fattore personale: l’amicizia, tormentata ma salda, fra Fortini e Sereni, che si frequentano almeno dai tempi del «Politecnico», tra Milano e Bocca di Magra, e nel corso degli anni ’50 instaurano un sodalizio per cui si sottopongono e commentano reciprocamente (e severamente) le rispettive produzioni poetiche. Quando gli propone di tradurre il Faust Sereni sa bene non solo che l’amico è da tempo interessato a Goethe, di cui ha già tradotto il Götz (per il Terzo canale RAI) e sta traducendo il Wilhelm Meister (per Garzanti), ma anche, e soprattutto, che dal ’63 sta attraversando un periodo di difficoltà economica e di isolamento intellettuale, aggravato dalla fine della sua collaborazione con Einaudi e dal ritorno all’insegnamento a scuola. Nel novembre 1964 Fortini scrive ad Alberto Mondadori, che sta per dare alle stampe col Saggiatore Verifica dei poteri: Caro Alberto, ho ricevuto il contratto per il Faust. So che cosa vuol dire e so che tu lo sai. Per cavarmi dalla condizione di questi anni, per me molto pesanti, questo lavoro è aiuto rischioso ma potente. Voglio tu sappia però qui, parola per parola, la mia riconoscenza. Ho sul mio tavolo una dozzina di edizioni del rugginoso poema: addosso!106

Ma prima delle ragioni dell’amicizia e della stima va tenuta in considerazione la comunanza di interessi legata alla posizione dei due amici nel campo letterario. Sia Sereni che Fortini, di quattro anni più giovane, appartengono alla generazione che aspira a succedere a Ungaretti e Montale, e che nel dopoguerra cerca di rinnovare la lingua poetica codificata negli anni ’30 106  Franco Fortini a Alberto Mondadori, 14.11.1964, in ArchAme, sez. Alberto Mondadori (fondo Il Saggiatore), Fasc. Franco Fortini. Ricorda il germanista Roberto Fertonani, allora capo sezione letterario estero in Mondadori: «La traduzione del Faust Fortini la fece non dico contro voglia, ma in un periodo molto difficile della sua vita, possiamo dirlo: era rimasto disoccupato. Vittorio Sereni gli inventò questo lavoro, e credo che messo di fronte alla realtà Fortini abbia reagito splendidamente» (Franco Fortini traduttore di Bertolt Brecht. Atti del seminario, Milano, Libreria Claudiana, 26 settembre 1996: interventi di Cesare Cases, Mavì De Filippis, Roberto Fertonani, Giovanni Raboni, sul sito della rivista «L’ospite ingrato», www. ospiteingrato.org/bertolt-brechtfranco-fortini/, ultima consultazione 10.10.2018). Poco dopo Mavì De Filippis osserva che Fortini non era disoccupato ma insegnava a scuola, e traduceva Goethe tornato a casa dopo sette-otto ore di lavoro.

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adeguandola alla nuova cultura dell’Italia repubblicana e dunque raccogliendo la sollecitazione a nuove responsabilità sociali e politiche esercitata sui letterati – che proprio in quegli anni diventano “intellettuali” – dalla modernizzazione capitalistica e dall’opzione rivoluzionaria. È questa la problematica che affrontano, con esiti diversi, non solo Sereni e Fortini ma un intero gruppo di poeti con cui questi sono in dialogo, da Pasolini a Giudici e Roversi fino a Zanzotto. Alla fine degli anni ’50 però la lenta ascesa di questi pretendenti (la rapida celebrità di Pasolini fa caso a sé) è insidiata dalla assai meglio organizzata sortita dei Novissimi, che con piglio futurista fanno tabula rasa delle faticose sperimentazioni del dopoguerra proponendo poetiche che rompono ostentatamente con la lingua dell’ermetismo e della tradizione per alimentarsi in primo luogo alla varietà dei linguaggi tecnici e parlati del presente. Di fronte alla minaccia della marginalizzazione, gli interessi dei minacciati finiscono per convergere. Così, nel decennio successivo, in aperta polemica con la neoavanguardia107, le poetiche di Fortini e di Sereni, pur nella loro diversità, sono accomunate dal tentativo di salvaguardare le sperimentazioni degli anni ’50 e di proseguirle prospettando una modernità nutrita di tradizione, della quale additano modelli produttivi soprattutto nelle traduzioni da Brecht (Fortini: Poesie e canzoni, 1959) e di William Carlos Williams (Sereni: Poesie, 1961). Entrambi, inoltre, cercano di definire questa nuova posizione e poetica, che per più aspetti accompagna e prepara la nuova stagione di lotte sociali del ’68, animando alcune riviste: Sereni fonda «Questo e altro» (1962-1964), a cui collabora anche Fortini, il quale a sua volta comincia a scrivere sui «quaderni piacentini» (1962-1980). È qui, tra l’altro, che si consolidano i rapporti tra la loro generazione e quella dei nati negli anni ’30, grossomodo coetanei dei Novissimi ma di opposto orientamento, come Piergiorgio Bellocchio, Grazia Cherchi, Giovanni Raboni, Goffredo Fofi, Alfonso Berardinelli. Infine, mentre Sereni contribuisce sensibilmente alla consacrazione di Fortini poeta ri107  Per gli argomenti fortiniani contro la neoavanguardia si vedano Due avanguardie (1966) e Avanguardia e mediazione (1968), pubblicati nella seconda edizione di Verifica dei poteri, e ora in Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Milano 2003, pp. 77-106.

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organizzando e ripubblicando nello specchio – dunque accanto a Montale, Ungaretti, Saba, Quasimodo, Noventa – le raccolte Una volta per sempre (1963) e Poesia e errore (1969), gli interventi di Fortini, a partire dalla lunga recensione a Gli strumenti umani (1966) apparsa su «quaderni piacentini», sono decisivi per la consacrazione di Sereni. Va dunque letta entro questo spazio di tensioni la scelta di affidare la traduzione del Faust a Fortini, che nel ’64 è noto solo a una cerchia ristretta di intellettuali, rispetto ai quali peraltro è sempre più isolato, e come poeta non gode di maggior riconoscimento del “novissimo” Sanguineti, e rischia anzi di essere bollato come “vecchio” prima ancora di aver raggiunto la consacrazione. Una posizione, nel campo della poesia, non dissimile da quella di Cases nel campo della critica. Che la nuova traduzione-libro del Faust fosse intesa sia dai committenti sia dal traduttore come una presa di posizione nel campo della letteratura contemporanea emerge anche dal contratto: l’introduzione dovrà essere «non tanto un saggio critico, quanto un’espressione dei criteri seguiti, dei problemi affrontati e un’illustrazione delle chiavi essenziali di lettura dell’opera con particolare riferimento alla sua vitalità odierna»108. Oltre alla consulenza di un germanista, è inoltre prevista per contratto la possibilità di avvalersi «dell’opera di un consulente letterario, con compiti di controllo e verifica sul piano stilistico-espressivo»109. Nella densa Introduzione per i criteri seguiti dal traduttore Fortini definisce le proprie scelte a partire da una doppia presa di distanza rispetto ai concorrenti del momento: da una parte dai poeti più consacrati, dall’altra dai nuovi pretendenti della neoavanguardia, che proprio nel ’69 arrivano ad affermare il loro canone con una pubblicazione fortemente legittimante quale l’antologia Poesia italiana del Novecento curata da Sanguineti per Einaudi. La presa di distanza si manifesta su due piani: quello delle scelte traduttive e quello delle istituzioni letterarie. Quando afferma di aver rinunciato «ad ogni conforto, agli aro108 Centro Studi Franco Fortini (CSFF), Siena, Archivio Franco Fortini (ArchFor), Contratti editoriali, n. 30, 2.11.1964, art. 2.B (corsivo mio). 109  Ivi, art. 8. Non è noto se ci si sia in effetti avvalsi di questa consulenza.

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mi di incorruttibilità che l’età tardo simbolista, da noi così a lungo protratta, ha cercato con le sue versioni dai greci e dai cinesi, dagli stilnovisti o da Hölderlin»110 Fortini allude all’ermetismo e ad alcune ben note traduzioni di Quasimodo, Montale e altri; pensa invece ai Novissimi quando scrive di aver evitato «tanto il forcing linguistico del brutalismo informale quanto il cerimonioso falso-ottocento di fresca moda»111. Se il Faust dannunziano di Errante rappresenta pienamente la prima tendenza, per avere un’idea della seconda possiamo leggere un brano da Faust. Un travestimento di Sanguineti: FAUST Ahimè, ahimè! ho studiato la psicologia dell’età evolutiva, la sociologia delle comunicazioni di massa, la bibliografia e biblioteconomia, la semiotica, la semantica, la cibernetica, la prossemica, l’informatica, la telematica, la biologia — e, accidenti, l’ecologia — e poi la micro e la macrofisica, la meta e la patafisica, da cima a fondo, con tanto zelo! E adesso, eccomi qui, povero idiota, e furbo come prima. Mi chiamano l’egregio, l’illustre, il chiarissimo, e il prof, e il dott, e il maestro, magari, madonna! E sarà dal ’77 — ma che dico io mai? — sarà dal ’68, ecco, che me lo meno, con i miei studenti112.

A questi due orientamenti, accomunati secondo lui dalla tendenza a sostituirsi completamente al testo originale, Fortini oppone una traduzione «critica» e «saggistica», che faccia av110  Franco Fortini, Introduzione per i criteri seguiti dal traduttore, in Faust, cit., p. XXII. Le versioni dai lirici greci erano uno dei lavori più riconosciuti di Quasimodo; Montale aveva scritto una prefazione alle Liriche cinesi tradotte da Giorgia Valensin nel ’52 e ripubblicate fino al ’68 da Einaudi; le più celebri traduzioni da Hölderlin erano quelle di Diego Valeri e Leone Traverso. 111  Ivi, p. XVIII. 112 Edoardo Sanguineti, Faust. Un travestimento, Costa & Nolan, Genova 1985. Non importa che sia stato scritto quindici anni dopo: nel 1969-1970 uscivano la sua traduzione del Satyricon di Petronio e Il giuoco del Satyricon che vanno nella stessa direzione del «travestimento».

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vertire al lettore «il rinvio continuo ad un testo anteriore, il sapore di traduzione, il suo farsi»113: negli anni cui più si avvicina alla consacrazione come poeta, Fortini sembra apparentemente rinunciare ai privilegi della traduzione en poète, e voler fare una traduzione di servizio. Ma anche una traduzione di servizio deve optare per una lingua (o più lingue), se non vuole adottare «panneggi stilistici» datati, scolastici, inconsapevolmente «presi a prestito»114. Posto dunque di fronte alla necessità di scegliere, Fortini rivendica di «aver scritto intenzionalmente in una lingua che è almeno di dieci anni alle spalle di quella che è oggi oggetto della ricerca letteraria»115: quella, poetica e prosastica, degli anni ’50. Uno studio analitico della traduzione potrebbe verificare in che misura essa effettivamente riprenda e prosegua le sperimentazioni dello stesso Fortini, ma anche di Sereni, Noventa, Luzi e Pasolini116. Certo, se sul piano testuale Fortini fa le viste di rinunciare alla traduzione en poète, sul piano socio-simbolico il gioco è tutto un altro: a tradurre il Faust è proprio il poeta di Una volta per sempre e Poesia e errore, che si è affermato traducendo Eluard e Brecht, e che si mette in competizione con Maffei ed Errante, traducendo la tragedia di Goethe non solo in una lingua poetica nuova, delle cui caratteristiche si è detto, ma incarnando un nuovo statuto sociale del poeta, all’altezza dei tempi, quello del poeta “intellettuale militante” à la Brecht. Che del 113 

F. Fortini, Introduzione per i criteri seguiti dal traduttore, cit., p. XII. Ivi, p. XXI. 115  Ivi, p. XVIII. Subito dopo Fortini spiega: «Cases faceva osservare che, ad esempio, per la locuzione biblica Die drei Gewaltigen (p. 906), ci si sarebbe dovuti rifugiare nel falsetto di un passato remoto, con “I tre bravacci” o “I tre ribaldi” oppure portarsi decisamente a “I tre supermen”; e che la traduzione ideologicamente corretta del celebre Genießen macht gemein (v. 10259) avrebbe dovuto essere: “Godere è democratico”. Invece qui si leggerà: “I Tre Uomini Forti” e “Godere rende eguali”». Aggiunge inoltre di aver «messo a profitto», per rendere il registro prosaico delle parti mefistofeliche, «quanto la lingua letteraria è venuta elaborando nel primo decennio dopo l’ultima guerra». 116  Sono questi i poeti che, nel saggio Le poesie italiane di questi anni (1959), Fortini individua come «gli autori che meglio provano la permanenza di certe costanti morali e stilistiche e insieme il mutamento di prospettive e di gusto» (ora in Saggi ed epigrammi, cit., p. 550). I loro equivalenti tra i prosatori sono riconosciuti in Cassola, Bassani, Calvino, Pratolini e, naturalmente, Vittorini (si vedano i Saggi italiani). 114 

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resto Fortini aspirasse a un più alto riconoscimento nel campo poetico italiano, non più solo come traduttore di Brecht ma come poeta in grado di interpretare Goethe, è indirettamente confermato dal fatto che quella del Faust è la prima traduzione dal tedesco che firma da solo, senza esplicitare il contributo – mai venuto meno – della moglie Ruth. Ma il Faust mondadoriano, per competere con i rivali, non può definirsi solo come Faust en poète: deve essere anche inappuntabilmente germanistico. I termini di confronto, in quest’ambito, sono la traduzione-libro di Manacorda e quella di Cases/ Allason appena pubblicata da Einaudi. E qui rientra in scena Cases. Che non solo è, come Sereni, da tempo legato a Fortini da vincoli di amicizia e stima, ma dopo la pubblicazione del Faust nuova universale einaudi è considerato tra i massimi studiosi italiani dell’opera goethiana. Fortini, che redige le note di commento tenendo conto dei suggerimenti dell’amico, riconosce espressamente e ampiamente il suo debito nell’Introduzione: La collaborazione di Cesare Cases è stata decisiva. Ha letto e analizzato la mia traduzione parola per parola. La sua conoscenza della lingua goethiana, l’erudizione e l’intelligenza critica sue, se le chiamo eccezionali non lo debbono davvero all’amicizia durata tanti anni. Annotazioni, perplessità, reprimende e proposte hanno preso forma di decine e decine di pagine fitte, volte a ricordarmi – come egli aveva già ricordato ad Adorno – che «la filologia non è solo il dominio del diavolo», sebbene il suo sarcasmo me lo abbia spesso raffigurato avvolto nella medesima vecchia pelliccia accademica che Mefistofele indossa nel corso del dialogo col Baccalaureus. Con l’accanimento della passione e dell’ironia mi ha corretto errori e chiarito incertezze. Quasi tutte le sue proposte di mutamento e le sue interpretazioni le ho accettate117.

Ma Cases non è un germanista qualsiasi: il suo approccio non accademico ma militante, quale interprete critico delle idee estetiche di Lukács, conferisce alla traduzione-libro da lui rivista e corretta una connotazione politica che non può certo dispiacere a Fortini e Sereni, né al giovane Mondadori. Anche in questo caso la convergenza di interessi simbolici specifici si sovrappone 117  F. Fortini, Introduzione per i criteri seguiti dal traduttore, cit., pp. XXVIIXXVIII.

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ai rapporti personali, relegandoli in secondo piano. Per la precarietà delle loro traiettorie – passati i quarantacinque anni sia Fortini sia Cases non sono ancora approdati a posizioni stabili, e anche i loro investimenti simbolici rischiano di perdere rapidamente di valore a causa della concorrenza – i due amici sono accomunati da tempo nella ricerca di vie d’uscita da un’impasse sia politica sia letteraria che minaccia di marginalizzarli. Sia nel campo politico sia in quello letterario si trovano ad affrontare gli stessi avversari: il neocapitalismo e lo stalinismo del Pci nel primo; i consacrati ermetici e i nuovi entranti neoavanguardisti nell’altro. Entrambi, dunque, trovano nei «quaderni piacentini» uno spazio in cui pensare un’alternativa politica e restano fedeli a Lukács come baluardo teorico contro i letterati concorrenti. «Il nucleo della valutazione dell’opera che, rifacendosi soprattutto a Lukács, Cases ci ha proposto sèguita a parermi persuasiva», scrive Fortini nell’Introduzione118. Si tratta della lettura storico-materialista degli Studi sul Faust: il genere umano non può che affrontare e compiere il suo dramma nel qui e ora dell’immanenza, cosa che a metà degli anni ’60 significava, per larga parte degli intellettuali italiani, prendere parte attivamente ai movimenti di rinnovamento politico del paese in una prospettiva socialista119. Anche quello di Fortini è dunque, almeno durante la sua gestazione, un Faust ancora lukácsiano o meglio marxista critico: «Il lettore scopre con raccapriccio che è a lui che l’autore chiede di scommettere. Scommessa sul trionfo finale, nell’umanità, del positivo sul negativo, del senso sul non-senso»120. 118 

Ivi, p. XXVIII. p. XXVIII: «Per essere chiaro fino in fondo: quando – a proposito del punto più controverso della tragedia, che ogni altro riassume e contiene, [Cases] scrive che “Faust è troppo sicuro che la terra è l’unica realtà per non portare questa certezza anche in cielo e d’altra parte è soltanto in cielo che può cancellare la propria metà di colpa”, al di là della lettera di queste parole è evidente una prospettiva e un modo di stare al mondo fuor della quale si trovano solo gli “sciagurati spettri” (Unselige Gespenster, v. 11487) che Faust sfida poco prima della morte e che spesso avevano perseguitato il suo autore. Quel modo di stare al mondo va tanto più riaffermato quanto più molta odierna e pur valorosa critica goethiana prende risolutamente la parte degli spettri». (Qui Fortini allude forse a Pietro Citati, il cui Goethe esce in quello stesso 1970). 120  Ivi, p. XXV. 119  Ivi,

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Mentre Cases e Fortini lavorano al Faust esplode il ’68. Una data decisiva per entrambi. La rapida ripoliticizzazione del campo letterario favorita dall’emersione della Nuova sinistra come nuovo soggetto politico proietta i due amici da posizioni di retroguardia minacciata a posizioni di avanguardia pionieristica, arrestando al contempo l’ascesa del Gruppo 63. Infatti, mentre la rivista della neoavanguardia «quindici» chiude nel ’69 dopo soli due anni di vita, «quaderni piacentini» si afferma come una delle più autorevoli del movimento. Con Ventiquattro voci per un dizionario di lettere, pubblicato nel ’68 ancora una volta dal Saggiatore di Alberto Mondadori, Fortini torna sul problema, divenuto attualissimo, dello statuto del letterato e delle istituzioni letterarie già affrontato in Verifica dei poteri, che giunge alla seconda edizione, mentre la sua traduzione delle Poesie e canzoni di Brecht arriva alla sesta (1970). Raggiunge il culmine della consacrazione nel ’71, quando ottiene la libera docenza all’Università di Siena, dove insegnerà Storia della critica letteraria. Cases, mentre le sue prefazioni accompagnano le edizioni einaudiane di alcuni testi chiave del momento (Dialettica senza dogma di Havemann, L’uomo senza qualità di Musil, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Benjamin) e il pensiero di Lukács conosce un nuovo momento di grande interesse, ottiene a sua volta la cattedra di letteratura tedesca a Pavia nel ’67, e poi a Torino nel ’70. Qui, nella rossa Facoltà di Magistero capitanata da Guido Quazza, fautore dei primi gruppi di studio con il voto collettivo, Cases sta decisamente dalla parte degli studenti, anche se più tardi si divertirà a dipingersi come un accademico legato ai modi tradizionali dell’insegnamento: L’idea del mio amico anglista di Roma Nemi D’Agostino, di leggere Il capitale di Marx nella versione inglese, mi pareva semplicemente empia, ma anche a me, che pure avrei potuto far ricorso all’originale, non passava nemmeno per la testa: io ero stato reclutato per insegnare letteratura tedesca e non economia politica, di cui sapevo assai poco, il Faust e non Il capitale. Che poi nel primo sia adombrato il secondo è verissimo, e lasciate fare a me121.

121 

C. Cases, Confessioni di un ottuagenario, cit., p. 144.

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All’inizio del ’69 intanto, mentre Fortini firma la prefazione alle poesie di Mao per Samonà e Savelli, Vittorio Sereni e Alberto Mondadori progettano la collana che ospiterà il Faust: i meridiani. Nata in concorrenza con i millenni einaudiani e dall’esigenza editoriale di ammodernare i classici contemporanei italiani e stranieri, aumentandone il ritmo di produzione con l’apertura ad autori pre-novecenteschi e non mondadoriani (inizialmente era previsto anche un “Meridiano” di Brecht, autore di punta dell’Einaudi), la collana ha per modello dichiarato la prestigiosa bibliothèque de la pléiade di Gallimard, ma reca la riconoscibile impronta di Vittorini, scomparso nel ’66, la cui influenza sia su Sereni sia sull’amico Giansiro Ferrata, che dei meridiani è il primo direttore, non va sottovalutata. Vittoriniana è l’apertura “politecnica” che nei primi anni porta all’inclusione di titoli tutt’altro che strettamente letterari come gli Scritti economici e civili di Luigi Einaudi e Da Cimabue a Morandi di Roberto Longhi; ma vittoriniana è soprattutto l’idea che l’editoria debba contribuire con i libri che produce alla perpetua trasformazione della cultura e, per quanto riguarda la letteratura, delle poetiche e dei canoni122. I meridiani, insomma, non nascono come la collana canonizzante di classici che oggi conosciamo123, ma pretendono piuttosto di indicare, come recita il sottotitolo, «le vie maestre della letteratura mondiale»: non un canone fisso ma, appunto, le «vie» ancora aperte, percorribili dalla letteratura del presente. Questo spirito, a cui all’inizio corrispondeva un prezzo relativamente tenue per volumi assai curati ed eleganti, si può far risalire, se non addirittura all’esperienza della biblioteca romantica di Giuseppe Antonio Borgese, almeno alle collane Bompiani degli anni ’40 pantheon e soprattutto corona, sul cui risvolto di copertina Vittorini aveva fatto stampare il suo programma: 122  Per il ruolo di Vittorini nel campo letterario del dopoguerra si veda Anna Boschetti, La genesi delle poetiche e dei canoni. Esempi italiani (1945-1970), «Allegoria», 55, 2007, pp. 42-85. 123  Cfr. Patrizia Landi, Come una Pléiade. Appunti per una storia dei «Meridiani», «Rivista di letteratura italiana», XXI.3, 2003, pp. 89-124. E anche Patrizia Landi, C’è un classico in questa collana? Gli “estremi” della manipolazione editoriale: www.griseldaonline.it/dibattiti/fahreneit-151/classico-estremi-manipolazioneeditoriale-landi.html#note (ultima consultazione: 10.10.2018).

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La cultura non è una professione per pochi: è una condizione per tutti, e completa l’esistenza dell’uomo. Ma ad ogni epoca la cultura cambia aspetto; continuamente rigetta opere che un tempo aveva magari venerato; e accoglie creazioni nuove, riscopre testi che aveva trascurato, esige che antichi o recenti capolavori stranieri vengano ritradotti. Scopo di questa nostra raccolta è di dare ad ognuno la possibilità di conoscere gli autori e le opere che costituiscono i principali punti fermi della cultura d’oggi: quegli autori e quelle opere, di narrativa e di poesia, di teatro e storia, di filosofia, arte figurativa e religione, che fanno corona, ossia sono di emergenza, nel lavoro intellettuale della nostra epoca. Antichi e moderni, italiani e stranieri, classici e romantici corona presenterà in eleganti volumi; e sarà una raccolta di quello che rimane di vivo del passato insieme a quello che di vivo rimarrà del presente.

Le «vie maestre della letteratura mondiale», nel caso dei meridiani come di ogni collana, non sono obiettive, ma stabilite dagli attori che fanno i libri, come era stato il caso di Vittorini per il pantheon Bompiani e di Pavese per i millenni Einaudi. La scelta degli autori e dei titoli dipende dunque, anche in questo caso, dalle poetiche dei decisori, primo fra tutti Sereni124, nonché dal catalogo mondadoriano, il bacino a cui per ovvi motivi la collana prevalentemente attinge. Abbiamo dunque da una parte volumi dedicati ad autori da tempo mondadoriani – e largamente riconosciuti – come Ungaretti, Pirandello, Joyce e Kafka, dall’altra nuove acquisizioni: da queste, e dai «particolari connubi creati tra autore e prefatore o curatore»125, è possibile valutare gli orientamenti di Sereni, e il margine – relativamente alto: probabilmente il più alto possibile a una collana entro una grande azienda come Mondadori – di autonomia di un progetto affidato a letterati che godono di un considerevole riconoscimento specifico, come appunto Sereni e Ferrata. Se i volumi inaugurali, Vita d’un uomo di Ungaretti e i Romanzi di Kafka a cura di Ervino Pocar, sono tratti tout court dal catalogo mondadoriano, i successivi due danno la misura di quanto gli orientamenti e la poetica di Sereni siano decisivi: i 124  L’articolo di Patrizia Landi mostra come, nonostante Ferrata ne fosse ufficialmente il direttore, l’orientamento della collana fosse in larga misura definito da Sereni. 125  P. Landi, Come una Pléiade, cit., p. 98.

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Cantos di Ezra Pound, autore portato in Italia nelle edizioni di poesia All’insegna del pesce d’oro di Giovanni Scheiwiller e solo nel ’60 acquisito allo specchio dallo stesso Sereni, e il Faust di Fortini. A scorrere i nomi dei curatori e prefatori dei meridiani nel primo decennio di vita della collana si osserva inoltre come Sereni condivida nella pratica la battaglia dell’amico (e di Cases) contro la neoavanguardia: non troviamo infatti nessun esponente del Gruppo 63, salvo Giorgio Manganelli (per E. A. Poe), peraltro considerato da Sereni personaggio «alquanto sofisticato e intellettualistico» ma «interessante e oggi abbastanza di moda»126; mentre abbondano invece gli scrittori della generazione precedente: Luzi per François Villon, Cassola per i romanzi di Thomas Hardy, Moravia per il marchese de Sade (in un primo momento viene interpellato anche Calvino per le opere di Vittorini127). Quindi nel giugno 1970 il Faust di Fortini/Sereni/Cases appare nei meridiani come presa di posizione militante nel campo della letteratura contemporanea. Non solo l’assenza di un’introduzione storico-interpretativa all’opera, che del resto il lettore poteva trovare, a firma di Cases, nella complementare edizione Einaudi128, ma l’incipit stesso del saggio introduttivo di Fortini conferma questa intenzione, precisandone il senso. Per Fortini il Faust è un poema vestito di letteratura, anzi di dieci letterature diverse – dalla rococò alla neogotica, dalla alessandrina alla elisabettiana – che annuncia con settanta o ottant’anni di anticipo sulle prime avanguardie la distruzione di istituzioni letterarie secolari e, in una certa misura, della poesia stessa129.

La problematica che rende “contemporaneo” il Faust e utile una sua traduzione è dunque quella delle istituzioni letterarie. Agli inizi della modernità Goethe porrebbe – ma con ben maggiore ampiezza di prospettiva – lo stesso problema che la (neo) avanguardia pone nel presente: quello della dissoluzione delle forme tradizionali. Le «istituzioni letterarie» non sono però, per Fortini, soltanto i generi, gli stili, i metri: «Chiamo istituzioni 126 

Citato ivi, p. 100, nota 26. Ivi, p. 101. 128 Fortini stesso scriverà un’introduzione di questo tipo, ma solo nel 1980, quando la sua traduzione verrà ripubblicata negli oscar mondadori. 129  F. Fortini, Introduzione per i criteri seguiti dal traduttore, cit., p. XI. 127 

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letterarie – scrive in Verifica dei poteri – tanto il sistema di convenzioni formali che in una data società fanno considerare letteratura certe forme di comunicazione e di espressione quanto il complesso delle attività che hanno per oggetto la letteratura già esistente: cioè la critica, l’editoria, le ricerche di sociologia letteraria ecc.»130. Il problema ha due corni: la traduzione-libro del Faust affronta il primo, quello formale; il secondo è affrontato nell’altro grande libro fortiniano del decennio: Verifica dei poteri. Col quale andrebbe letto insieme. Fortini se la prende sia con la vecchia generazione dei consacrati sia con quella dei giovani aspiranti: per quanto riguarda la tradizione, i vecchi la danno per perenne, i giovani per dissolta (o sono sul piede di dissolverla); per quanto riguarda le strutture (editoriali, economiche), nessuno si pone il problema. Mentre caratteristico di Fortini è collegare il rinnovamento delle forme non solo alla rielaborazione della tradizione, ma anche al mantenimento e all’egemonia delle strutture (dove operano Sereni, Cases e occasionalmente lui stesso). Tradurre il Faust, rileggerlo, rimetterlo in circolazione nel 1970 significa dunque offrire materiali per una soluzione alternativa a quella del Gruppo 63. «È un libro che si lascia perdere di vista; ma solo finché c’è nebbia. Bisogna ricorrere alla vecchia immagine della montagna. Il Faust fa parte del grande sistema orografico tedesco dell’età sua. Ne scorrono fiumi ancora nostri»131. La traduzione-libro mondadoriana è dunque contrassegnabile anche come anti-(neo)avanguardistica (e, con minor virulenza, anti-ermetica). Non intendo tuttavia ridurla a una resa dei conti con Sanguineti & Co. La polemica contro gli avversari del momento è soltanto lo stimolo che spinge Fortini a elaborare, attraverso la traduzione, una proposta poetica per il presente. Le proposta, l’abbiamo visto, è anche politica. Ma se nel 1970 Fortini sembra ancora coltivare la fiducia che in oriente il socialismo (cinese più che sovietico) e in occidente la contestazione possano far intravvedere il «termine della storia della 130  Franco Fortini, Istituzioni letterarie e progresso di regime, ora in Saggi ed epigrammi, cit., p. 69. 131  Ibidem (corsivo di Fortini).

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borghesia»132, nel ’72, all’uscita della seconda edizione, ritiene necessario aggiungere all’introduzione un paragrafo, il quinto133, nel quale enuncia una prospettiva diversa, una diversa via alla realizzazione di un umanesimo integrale: I medesimi eventi della cultura e della storia mondiale contemporanea che hanno reso inattuale il faustismo possono, credo, promuovere una lettura post-decadente dell’opera, che si lasci indietro non soltanto le due simmetriche e opposte e estreme interpretazioni del passato – la spiritualistica e nazionalista che vedeva in Faust l’eroe della volontà e dello Streben, e la esistenzialistica che in lui vedeva il modello negativo e religioso dello «scacco» – ma anche quella che, con Lukács, tendeva a salvare l’umanesimo della filosofia (e della poesia) classica tedesca in un presente o prossimo avvenire socialista. […] Si può quindi supporre che la sostanza della interpretazione «umanistica» (Faust come «rappresentante dell’umanità») possa essere ripresa al di là del modello storico che quarant’anni fa Lukács proponeva come rivoluzione socialista; e con altre dimensioni e implicazioni134.

La nuova prospettiva indicata da Fortini ha evidentemente come sfondo le esperienze dei coevi movimenti politici internazionali – studentesco, operaio, pacifista, antisegregazionista, terzomondista, ecc. – che avevano messo in discussione il modello leninista del partito come avanguardia della rivoluzione. Ma la sua preoccupazione sta innanzitutto nell’assegnare, entro questa nuova prospettiva, un ruolo di primo piano alla letteratura. Lo fa insistendo su una lettura “allegorica” del secondo Faust che, già accennata nella traduzione-libro di Cases, diventa qui dominante, marcando un netto rovesciamento rispetto alle letture che, da Scalvini a Croce e allo stesso Lukács, avevano privilegiato, della tragedia, la prima parte135. Sulla scorta di Walter 132 

F. Fortini, Introduzione per i criteri seguiti dal traduttore, cit., p. XXV. paragrafo è di fatto è una rielaborazione di alcuni brani dell’intervista rilasciata a Mario Miccinesi l’anno precedente: Il Faust di Fortini, «Uomini e libri», VII.32, febbraio 1971, pp. 17-22. 134  Franco Fortini, Introduzione per i criteri seguiti dal traduttore, in Faust, seconda edizione, Mondadori, Milano 1972, i meridiani, pp. XXV e XVIII. D’ora in poi: Introduzione 1972. 135  In realtà in questa direzione comincia a muoversi lo stesso Croce a partire dai Nuovi saggi sul Goethe, pubblicati nel 1934. 133 Il

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Benjamin, del quale in quegli anni proprio Cesare Cases e Renato Solmi introducono in Italia i primi scritti, Fortini elabora una propria poetica dell’allegoria, destinata a svilupparsi negli anni successivi: Il Faust II apparirebbe bensì con i caratteri tipici della dissoluzione della parodia, della ironia, della abnormità, ma tale «catastrofe» potrebbe apparire come il paradossale assemblage di una tradizione e, a un tempo, tradizione essa stessa. Il sincretismo stilistico e l’eclettismo del materiale figurativo e verbale del Faust II […] ci consente forse di sentire tutta l’opera come anticipazione e ripresa d’una condizione profonda della nostra età: la compresenza e convivenza di gradi diversi di autenticità e di vita, di cristallizzato e di fluido, di semivivi e di semiferini, di «idoli» ed organismi. «Noi siamo allegorie» qui si dice: e molti avvertono oggi l’oscuro carattere allegorico, quindi larvale, nel senso di maschera, di ruolo e allusione, della nostra umanità, gruppi e individui136.

«Wir sind Allegorien» dice al v. 5531 l’Adolescente Auriga, in cui Goethe rappresenta il Poeta, prodotto e allo stesso tempo avversario di Pluto, il dio della ricchezza. L’esaltazione della poesia, fino a quel momento estranea, e persino sospetta, a Fortini, la sua insistenza sulla letteratura come «figura» di rapporti umani in potenza, è dovuta all’avvento di un nuovo gruppo di letterati che minacciano non solo la sua posizione ma la letteratura stessa: i «giovani politici o politicizzati»137 che considerano il fare letteratura cosa regressiva e inutile quando c’è da fare la rivoluzione. Di fronte a questo nuovo pericolo, opposto a quello formalistico costituito della neoavanguardia, Fortini ammette l’errore, compiuto negli anni in cui era stato tra i principali fautori di una ripoliticizzazione del campo, «di non aver sufficientemente difeso la insostituibilità del discorso letterario»138. All’Asor Rosa di Scrittori e popolo risponde: «Chi ha detto che lo scrittore deve stare di fronte al “popolo” come il bufalo d’acqua di fronte al ragazzo che lo guida e ci giuoca?»139. Il Faust, so136 

F. Fortini, Introduzione 1972, p. XXVI. Franco Fortini, Prefazione alla seconda edizione (1969) [di Verifica dei poteri], ora in Saggi ed epigrammi, cit., p. 395. 138  Ibidem (corsivo di Fortini). 139  Ibidem. 137 

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prattutto la sua seconda parte, può dunque ora essere letto come «rappresentazione dell’enorme macchina di fantasime che assedia, tenta e minaccia ogni tentativo umano di autenticità»140: tutti, a cominciare da quelli dei giovani politicizzati così come da quelli dello stesso Fortini, che qui giunge forse al culmine della sua tormentata autocritica di questi anni. Oggi il testo goethiano si presenta tale che solo una visione anamorfica, ossia obliqua, può rivelarne a tratti l’immagine latente. Ricostruirla accessibile e «normale» almeno per i figli di coloro che oggi ancora, per intima disperazione, si rifiutano di riconoscerla e ricoverarla nel tesoro della tradizione viva, non è compito solo di traduttori e di critici, naturalmente e per fortuna141.

Questo il viatico con cui Fortini consegna ai lettori il suo Faust, che della Nuova sinistra è al tempo stesso evocazione, prospettiva e autocritica. A passare in rassegna le diverse componenti del capitale simbolico di questa traduzione-libro non stupisce che essa resti, a quasi mezzo secolo di distanza, indiscutibilmente la più riconosciuta: il Faust di Fortini/Sereni/Cases/Mondadori è un Faust en poète, al tempo stesso post-decadente e anti-neoavanguardista, che oscura i precedenti di Scalvini, Maffei e Errante; è, anche grazie a Cases, un Faust germanistico, dinamicamente lukácsiano e post-lukácsiano (già quasi benjaminiano), che si lascia ampiamente alle spalle Manacorda e Amoretti; è un Faust militante sia in senso politico – quello di Cases e Fortini – sia letterario – quello di Vittorini e Sereni –, a cui la collocazione nei meridiani, e con testo a fronte, conferisce una ulteriore connotazione canonica e, per così dire, istituzionale. Nel concentrare in sé il massimo (o quasi) del capitale editoriale, accademico, politico e letterario, è un monstrum simbolico, paragonabile forse solo alla Erstübersetzung di Scalvini.

140 Fortini, 141 

Introduzione 1972, p. XXVII. Ivi, p. XXVIII.

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7. «Un testo che è un mondo»: il Faust di Casalegno per Garzanti (1989) Anche la terza traduzione-libro del Faust in cui Cases ha un ruolo di rilievo, quella firmata da Andrea Casalegno per Garzanti, ha le sue radici in un ambiente che possiamo definire, in senso lato, einaudiano. Proprio in Einaudi Casalegno (n. 1944) inizia a lavorare come redattore per le traduzioni dal tedesco a partire dal ’73, dopo aver curato l’edizione dell’imponente Storia della città di Roma nel medioevo di Ferdinand Gregorovius. In via Biancamano conosce Cases, che partecipa assiduamente ai consigli editoriali del mercoledì da quando, nel 1970, si è trasferito da Pavia a Torino per insegnare alla Facoltà di Magistero. Ad avvicinarli c’è, tra l’altro, la politica: se Casalegno ha la sua iniziazione politica proprio nel ’68, da neolaureato in diritto, partecipando all’occupazione di Palazzo Campana, Cases, in redazione, è accreditato tra i maoisti (è lui tra l’altro a sollecitare, scrivendone a Baranelli, la pubblicazione in volume dei saggi di Edoarda Masi). Nel ’72 Casalegno aderisce a Lotta Continua, nata da una costola del movimento studentesco torinese, la sola formazione della Nuova sinistra, insieme al «Manifesto», a cui, per anni, Cases si sente vicino: all’università di Torino, ricorda, «feci in tempo a diventare presidente del Circolo culturale “Ottobre”, emanazione di Lotta Continua […], ma non mi risulta che questo circolo abbia mai iniziato la sua attività»142. In casa editrice collaborano a un progetto pianificato fin dal ’69: un’edizione delle opere scelte di Lukács, il cui primo volume, dei dodici previsti, Scritti sul realismo, viene affidato alla cura di Casalegno. Oltre a raccogliere alcune traduzioni già esistenti, tra cui quelle di Cases e Solmi già apparse per Einaudi, Casalegno ritraduce ex novo quel Goethe e il suo tempo comprendente gli Studi sul Faust, che come abbiamo visto Cases considerava il libro migliore di Lukács. Dopo lo scioglimento di Lotta Continua seguito al congresso di Rimini del ’76 Casalegno si allontana dal movimento. Il 16 novembre del ’77 suo padre Carlo, vicedirettore della «Stampa» di 142  C. Cases, Confessioni di un ottuagenario, cit., p. 147. Nel 1978 Cases recensisce sul quotidiano «Lotta Continua» Lavoro e capitale monopolistico di Harry Braverman, appena pubblicato da Einaudi.

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Torino, viene assassinato dalle Brigate Rosse143. All’inizio del ’78 esce Scritti sul realismo I144. L’edizione è splendida, ma il secondo volume non vedrà mai la luce a causa della crisi della casa editrice. Il commissariamento dell’Einaudi, nel 1983, è il segnale più eloquente che la lotta iniziata al principio del secolo per un’editoria autonoma, dopo aver ottenuto i suoi maggiori successi nel secondo dopoguerra, segna il passo. Anche questo è un risvolto della restaurazione sociale in corso. Negli anni che Gian Carlo Ferretti definisce dell’«apparato» (1971-1983) il capitale extra-editoriale fa il suo ingresso nel mercato librario alla ricerca del profitto economico e del controllo ideologico del consenso. Questo processo «viene sostituendo alla forte personalizzazione del progetto e del catalogo una sorta di dio ascoso le cui decisioni strategiche vengono da forze economiche e politiche spesso non rintracciabili negli organigrammi e secondo disegni che spesso trascendono il destino stesso del libro. Di qui un tendenziale appiattimento delle differenze»145. In una riunione del Consiglio editoriale Cases dice chiaro e tondo a un Giulio Einaudi esautorato ma ancora combattivo che ormai ha poco senso che un libro appaia da lui oppure da un altro editore: «Lui mi guardò con incomprensione, sibilò “Sei il solito scettico!”. E mi voltò le spalle»146. Proprio nel 1983, mentre la sua traduzione di Goethe e il suo tempo viene pubblicata come volume a parte nella pbe, Casalegno, che nel frattempo ha accresciuto il suo credito come traduttore con libri quali Viaggio in Russia di Joseph Roth (Adelphi 1981), Il frutto del fuoco di Elias Canetti (Adelphi 1982) e la partecipazione al volume Lieder e prose di Lutero (Mondadori 1983), riceve la proposta di tradurre il Faust. A fargliela è la scrittrice piemontese Gina Lagorio (1922-2005), moglie di Livio Garzanti (1921-2015) e direttore responsabile della collana i grandi libri. 143 Sull’episodio e sulle sue conseguenze vedi Andrea Casalegno, L’attentato, Chiarelettere, Roma 2007. 144  György Lukács, Scritti sul realismo, vol. I, a cura di A. Casalegno, Einaudi, Torino 1978. L’opera va ad affiancarsi nella biblioteca di cultura filosofica alle altre maggiori di Lukács uscite tra 1959 e il 1970: La distruzione della ragione, Il giovane Hegel e l’Estetica. 145  Gian Carlo Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia 1945-2003, Einaudi, Torino 2004, p. 226. 146  C. Cases, Confessioni di un ottuagenario, cit., p. 131.

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Con un certo ritardo rispetto alle altre collane universali del dopoguerra, anche Garzanti, infatti, è entrato nel settore dei tascabili. Dopo un primo tentativo poco fortunato nel 1965 con i garzanti per tutti, nel ’73 ha riprogettato completamente la collana e ha cominciato a pubblicare al ritmo di un volume alla settimana: L’idiota di Dostoevskij, La cugina Bette di Balzac, Figli e amanti di D. H. Lawrence, Moby Dick di Melville. Così si è guadagnato un posto stabile nelle librerie, dove i suoi volumi si fanno notare per i diversi colori che contraddistinguono le diverse letterature: grigio per la greca e la latina, verde per l’italiana, rosso per la francese, marrone per l’inglese, azzurro per la tedesca, che nel 1983 annovera già una ventina di titoli, a cominciare – manco a dirlo – da I dolori del giovane Werther (n. 6 della collana), per arrivare a Mann, Kafka, Kleist, Novalis e molti altri. Dopo un decennio di attività anche la collana economica garzantiana esige un suo Faust con cui fare concorrenza a quelli della nuova universale einaudi, dell’universale economica Feltrinelli (Amoretti) e degli oscar Mondadori (dove nel 1980 è stata riproposta in edizione tascabile la versione di Fortini). Casalegno accetta di tradurre il Faust a una condizione: che la redazione dell’apparato di note venga affidata a Cases. Al contrario di quanto era avvenuto con Fortini, questa volta traduttore e commentatore lavorano in assoluta autonomia. Il primo, che nel 1985 lascia l’Einaudi per «Il Sole 24 ore», dove scrive di editoria e di letteratura tedesca, dedica alla traduzione sei anni, pur intervallandola con altre, tra cui quella dei Racconti di Kleist (che escono nell’88 nei grandi libri con introduzione di Giuliano Baioni). Per favorire la concisione sceglie la forma chiusa, coltivando, al contrario di Fortini, un metro regolare e facendo corrispondere, ancora più rigorosamente che nell’edizione dei meridiani, un verso a ciascun verso originale: si preoccupa di rendere con esattezza il significato, ma soprattutto di differenziare le voci dei personaggi, che Fortini spesso, al di là delle intenzioni, tendeva invece a ridurre alla propria lingua poetica147. Siamo lontanissimi dalla postura en poète e 147  Traggo le informazioni per questo paragrafo da un colloquio con Andrea Casalegno svoltosi a Torino il 27 dicembre 2013.

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dalle battaglie letterarie degli anni ’60: nella sua programmatica sobrietà quello di Casalegno è piuttosto un Faust en traducteur, il primo la cui qualità letteraria sia garantita dal riconoscimento che nel corso degli anni questa figura si è conquistata. La «pratica» e il «gusto» del traduttore fanno le veci della competenza del germanista e dello stile dello scrittore. Non che la lingua di Casalegno sia neutra, anzi. È, come ogni lingua letteraria, il prodotto di diversi fattori, dall’esperienza personale all’educazione scolastica, e risente naturalmente della lingua letteraria egemone. Quella degli anni ’80 si è avvicinata molto al parlato, sia per l’influenza di radio e televisione, sia grazie alle operazioni compiute da scrittori come Celati o Tondelli, e, in poesia, Sanguineti o Caproni. Di qui, nonostante il verso, una lingua piana, in cui lo scarto rispetto a quella quotidiana è deliberatamente ridotto. Nei primi mesi del 1989 la traduzione, che comprende anche l’Urfaust, è compiuta. Parallelamente Cases lavora al commento: dopo l’introduzione-saggio per la nue e la revisione della traduzione di Fortini, è l’ultima forma di mediazione della tragedia goethiana in cui gli rimane da cimentarsi (a prescindere dalla traduzione, che tuttavia non prende mai in considerazione). Inizia a lavorarvi nel 1985148, in un periodo in cui il suo interesse per il Faust è più vivo che mai, e l’incarico contribuisce con tutta probabilità a ravvivarlo ulteriormente, dandogli continuità. L’elenco dei suoi interventi faustiani di questi anni è di per sé eloquente: nel 1978 dedica al monologo finale del Faust la sua relazione al convegno su Classicismo tedesco e rivoluzione tenutosi all’Istituto Italiano di Studi Germanici in Roma, nell’82 parla del futuro dell’uomo nel secondo Faust al convegno dell’Istituto Gramsci di Venezia dedicato alle prospettive dell’umanesimo dopo Goethe, nell’83 pubblica un intervento su Faust come artista nel fortunato manuale di letteratura italiana per licei di Remo Ceserani e Lidia De Federicis Il materiale e l’immaginario, nell’85 parla degli Studi sul Faust al convegno organizzato a Urbino per il centenario della nascita di Lukács, nell’86 in148  È lo stesso Cases a ricordare questa data nelle Confessioni, associandola alla morte dell’amico Italo Calvino (p. 151).

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terviene sull’Urfaust al convegno sul giovane Goethe tenutosi al Centro Teatrale di Brescia, tra l’87 e l’88 soggiorna al Wissenschaftskolleg di Berlino (Ovest) per una ricerca intitolata «Kommentar zu Johann Wolfgang von Goethes Drama Faust», nell’89 pubblica il saggio Trono e scettro di Mefistofele nel volume dedicato a Fortini per il suo ritiro dall’insegnamento universitario149. Già durante il soggiorno berlinese, tuttavia, la redazione del commento procede con scarsa lena e al ritorno in Italia viene interrotta del tutto. Problemi di salute: Cases deve sottoporsi a un’operazione chirurgica150. Da quel momento rinuncia a tutti i lavori editoriali e accademici più gravosi, dedicandosi pressoché esclusivamente alla scrittura giornalistica, coltivata fino agli ultimi anni nelle lunghe e brillanti recensioni che escono sull’«Indice dei libri del mese», di cui nel ’90 assume la direzione dopo aver concluso la sua carriera universitaria, e a partire dal ’97 sul supplemento domenicale del «Sole 24 ore», non di rado alternate a quelle di Casalegno. Venuto meno il contributo di Cases, nel 1989 Garzanti si trova fra le mani una traduzione che, per rientrare del grosso investimento sostenuto, ha fretta di pubblicare: prima di stamparlo in edizione economica nei grandi libri vuole, secondo una pratica assai comune in editoria, presentarla in una collana di lusso per il mercato delle strenne natalizie. Mancano però note e introduzione. Al primo problema pone rimedio lo stesso Casalegno, redigendo in tutta fretta un commento chiaro e accurato, senz’altro il migliore ad oggi disponibile in italiano. E l’introduzione? È probabilmente il germanista Giorgio Cusatelli, professore alla Statale di Milano e collaboratore di Garzanti fin dagli anni ’60, a suggerire la soluzione: uno dei testi più autorevoli sul Faust è senza dubbio il saggio premesso alla prestigiosa Hamburger Ausgabe dal suo curatore Erich Trunz. Casalegno, che del resto lo conosce bene, perché ha scelto la Hamburger Ausgabe come testo di partenza per la sua versione, 149  Ancora nel 1994 Cases tiene un seminario sul Faust all’Università di Firenze, del quale esiste una registrazione su nastro magnetico (devo questa informazione a Fabrizio Cambi). 150 Nelle Confessioni di un ottuagenario Cases parla di «forme degenerative del tessuto cerebrale» (p. 153).

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lo traduce in italiano, col titolo «Faust»: immagine del mondo e trama simbolica. Ma sebbene presentato «nell’ultima versione, rivista e ampliata» si tratta pur sempre di un testo scritto originariamente nel 1949. Per affiancagli una lettura più aggiornata viene scelto un secondo saggio, che l’editore si trova, come si suol dire, in casa: il Goethe poeta della naturalezza di Gert Mattenklott, scritto nel 1977 per l’Enciclopedia Europea Garzanti, già allora grazie all’intermediazione di Cusatelli. Con questo corredo il Faust di Casalegno esce in edizione di lusso per ben due volte: prima, nel novembre 1989, in due volumi nella collezione i classici, varata quello stesso anno e chiusa nel ’94; poi, nell’ottobre 1990, in volume unico nei libri della spiga (1982-1996), l’equivalente garzantiano dei millenni Einaudi e dei meridiani Mondadori151. Il risultato è una traduzione-libro che, nonostante l’assenza di Cases, ha caratteristiche molto prossime a quelle che il suo commento gli avrebbe conferito. È un Faust ancora più germanistico di quello mondadoriano, grazie alla presenza – oltre al testo a fronte, all’Urfaust, all’ampio commento, alla bibliografia curata da Emilio Bonfatti – di quelli che lo stesso Cases definirà «due prodotti, uno della più venerabile, l’altro della più aggiornata tradizione critica tedesca»152 (Trunz era pressappoco coetaneo di Croce, Mattenklott più giovane di Magris). Il saggio di Mattenklott, allievo di Peter Szondi appartenente alla generazione successiva al ’68, che cerca di integrare il pensiero dialettico di Lukács con quello estetico di Benjamin, Warburg e Nietzsche, ne fa anche un Faust marxista e post-lukácsiano, dai connotati non troppo distanti da quello di Fortini. E come Fortini, anche Mattenklott aggiunge al suo saggio del ’77, ristampato tal quale nell’edizione “provvisoria” dell’89, un nuovo paragrafo in occasione della riedizione del ’90 nei libri della spiga, destinata a 151  Faust. Urfaust, introduzione di G. Mattenklott, prefazione di E. Trunz, traduzione, note e commenti di A. Casalegno, Garzanti, Milano 1989, i classici (la collana non reca numero di serie). Faust. Urfaust, introduzione di G. Mattenklott, prefazione di E. Trunz, traduzione, note e commenti di A. Casalegno, Garzanti, Milano 1990, i libri della spiga (la collana non reca numero di serie). 152  Così Cases nella sua scheda apparsa sull’«Indice dei libri del mese», XII.2, febbraio 1995, p. 37. Fin troppo germanistico, sottolinea Cases, perché i due cospicui saggi «non appiana[no] certo l’ascesa al mondo faustiano».

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vita più duratura. Come Fortini – e Cases – Mattenklott assume come base la lettura lukácsiana153 per concentrare poi la sua attenzione soprattutto sulla forma, e in particolare sulla forma allegorica della seconda parte della tragedia. «Il tema dell’opera», osserva nel paragrafo aggiunto nel 1990 (intitolato Arte, società e verità nel secondo «Faust»), è infatti la prosa della storia dell’individuo borghese, dalla sua prefigurazione medievale, lo spirito del mago, fino alla realizzazione violenta della sua concezione economica e sociale nel XIX secolo. Ma l’opera non poteva essere realizzata in prosa, in senso aristotelico, in modo lineare e coerente: è invece allegorica, e in ciò si ricollega a una tradizione letteraria ben più antica, e già estranea al mondo contemporaneo154.

Anche per Mattenklott la posta in gioco non è tanto l’interpretazione delle allegorie che costellano l’opera, quanto la comprensione generale del metodo allegorico messo a punto da Goethe. Se Fortini aveva preso alla lettera il «noi siamo allegorie» per formulare, sulla scorta di Benjamin, un’estrema e paradossale prospettiva utopica, Mattenklott, in questo più vicino all’ultimo Cases, legge Goethe piuttosto attraverso Brecht, analizzando «i significati complessi dei nessi allegorici tra eventi, personaggi e ruoli» nel secondo Faust: «La verità sulla società borghese non è più pronunciata dai personaggi che la rappresentano, ma dai loro “rapporti funzionali”: questa idea, realizzata dall’Opera da tre soldi di Brecht, è già presente nell’ultima opera di Goethe»155. 153 Il Faust, si legge a conclusione della versione del ’77, si basa «su una profonda intelligenza delle strutture storiche e sociali del mondo feudale e del mondo borghese capitalista», e soprattutto la seconda parte «può valere come summa simbolica della società borghese e della sua preistoria, a un livello di esperienza conoscitiva che è stato paragonato a quello del Capitale di Marx» (Faust. Urfaust, Garzanti 1989, cit., p. XXI). 154  Gert Mattenklott, Goethe poeta della naturalezza, in Faust. Urfaust, Garzanti 1990, cit., pp. XXI-XXII. 155  Ivi, p. XXIV. La chiave di lettura scelta da Mattenklott viene da una citazione dalla Teoria dei colori: «Il tentativo di esprimere l’essenza di una cosa è in realtà fatica vana. Noi percepiamo effetti, e una storia completa di questi effetti ne abbraccerebbe l’essenza. Invano ci sforziamo di descrivere il carattere di un uomo; ma se riuniremo le sue azioni ci balzerà incontro il ritratto del suo carattere. I colori sono azioni della luce, azioni e passioni. Da esse possiamo trarre conclusioni su di essa» (cit. a p. XXVI).

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La traduzione-libro apparsa nei libri della spiga rimane dunque sostanzialmente nel solco della tradizione marxista inaugurata da Lukács con gli Scritti sul Faust, dominante nel periodo 1965-1990. Ma la lettura socialista, pur rivista e aggiornata, è messa a dura prova dall’avanzamento, anche in Italia, della modernità capitalistica e dal sostanziale scacco dei movimenti sociali che le oppongono modernità alternative. Lo stesso Casalegno, che ben conosce gli scritti di Lukács senza tuttavia amarlo, all’inizio del suo commento prende sobriamente le distanze da ogni tentativo di «ridurre» l’opera goethiana a «un’interpretazione univoca», giacché «ogni generazione l’ha arricchita, o impoverita, con la propria esperienza»156. In effetti la storia sembra favorire questo rovesciamento. In una recensione a tutta pagina sulla «Repubblica» del 26 gennaio 1991, Italo Alighiero Chiusano accoglie il Faust di Casalegno/ Garzanti associandolo alla caduta del muro di Berlino, «simbolo di tanti muri di pietra e di idee»157. Collaboratore di lungo corso di «Repubblica», Chiusano (1926-1995) è uno dei più autorevoli commentatori di letteratura tedesca della stampa italiana, autore di vivaci e fortunati volumi come Vita di Goethe e Literatur: un «germanista senza cattedra», come ama definirsi egli stesso. Culturalmente è un cattolico critico (nello stesso senso in cui Cases è un marxista critico), molto vicino per questo a Heinrich Böll, di cui è il principale traduttore e interprete italiano. «A far festa, in senso alto, per la riunificazione dei due tronconi della Germania – scrive – Garzanti pubblica un libro che io considero un evento storico»: il Faust è da lui presentato come un testo cardinale della modernità, di straordinaria complessità e ricchezza, e soprattutto come opera aperta a interpretazioni molteplici. Vale la pena riportare un brano esteso, perché nella sua bulimia elencatrice ben rappresenta lo spirito del tempo. Poema iniziatico di un uomo (Faust) che sta per tutti gli uomini, e che ha un immenso bisogno di farsi maturare dagli eventi e dagli incontri uma156 Andrea Casalegno, Commento, in Faust. Urfaust, Garzanti 1990, cit., p. 1205 (corsivo mio). 157 Italo Alighiero Chiusano, Un giocattolo per Goethe, «la Repubblica», 26.1.1991.

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ni e ideali della vita, il Faust è anche il massimo laboratorio sperimentale dell’intelligenza moderna (sia nel campo della speculazione filosofico-religiosa, sia in quello delle forme artistico-letterarie); un tipo originalissimo di romanzo evolutivo o di formazione (da Goethe espresso in forma canonica, cioè narrativa, nel Wilhelm Meister); un coacervo di drammi storici (nel senso che riflette l’atmosfera di un’epoca, ad esempio il Medioevo o il Rinascimento, e che rifà il verso a forme drammaturgiche ormai estinte ma qui genialmente reinventate, come la moralità teatrale alla Hans Sachs, il dramma elisabettiano, la tragedia greca); una rivista satirica che, rifacendosi ad Aristofane, già sembra dare la mano a Offenbach, e con la stessa spregiudicata e divertita malignità, anche se con una vastità di bersaglio davvero universale; un esempio curiosissimo di teatro anticonvenzionale, costruito artigianalmente sotto l’occhio del pubblico con l’intento di smaliziarlo (insomma, è già nell’aria Brecht) e di opera in musica fatta di parole, quasi un pendant letterario, ma quanto più culturalmente e filosoficamente maturo, del Flauto magico (alludo al libretto di Schikaneder, perché la musica di Mozart poi arriva dove vuole); una superfiaba per bambini adulti che, Dio li benedica, non hanno buttato via il più bello di tutti i giocattoli mai inventati: il teatro; una storia d’amore (Margherita o Greta) e di amori (non si dimentichi Elena) che vanno a confluire in quell’Eros assoluto, cosmico e trascendentale (ma anche immanente) che finì per essere la più profonda religione di Goethe. Insomma, un testo che è un mondo158.

Il carattere aperto, post-ideologico di questa lettura deve avere persuaso Garzanti ad affidare proprio a Chiusano l’incarico di scrivere l’introduzione che nel 1994 sostituirà i seriosi testi di Trunz e Mattenklott nell’edizione economica dei grandi libri159. Per l’occasione Chiusano riprende quasi alla lettera il suo articolo, passando in rassegna una buona dozzina dei percorsi interpretativi messi nel frattempo in luce dalla critica letteraria, dalla «sacra rappresentazione» all’«opera d’avanguardia». In questo caleidoscopio di letture tutte ugualmente legittime, del lukácsiano «dramma del genere umano» non rimane quasi traccia. L’interpretazione socialista in chiave di critica alla borghesia è ridimensionata a una fra le tante, mentre il saggista porta garbatamente in primo piano la propria lettura religiosa: «Il Faust è uno sterminato poema d’amore che in ultimo sfocia nell’Amore 158 

Ibidem (corsivi miei). Faust. Urfaust, introduzione e prefazione di I. A. Chiusano, traduzione, note e commenti di A. Casalegno, Garzanti, Milano 1994, i grandi libri, 545-546. 159 

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assoluto. E tale Amore assoluto non è altri che Dio, comunque Goethe lo intendesse e lo concepisse. Leggere la scena finale del Faust e negare che tale fosse lo sbocco di tutto il poema e del suo stesso autore mi pare negazione dell’evidenza»160. Se fra le traduzioni-libro nue, meridiani e della spiga c’era una continuità, dovuta all’appartenenza dei mediatori allo stesso circuito di produzione e alla condivisione di analoghi orizzonti politico-culturali, con la nuova prefazione di Chiusano il Faust di Casalegno/Garzanti entra a far parte di un orizzonte nuovo, plurale e postmoderno. Nel recensirlo sull’«Indice del libri del mese» Cases non entra nella questione, elogiando le «alte doti di divulgatore» di Chiusano e il «generoso ed esatto apparato di note» di Casalegno, la cui traduzione, scrive, «rimane la migliore dopo quella del compianto Fortini, forse ad essa inferiore per forza poetica, ma superiore per leggibilità e recitabilità»161. Altrove però non nasconde la sua insofferenza di fronte a un mutamento culturale a cui la storia sta dando ragione, e che tende a rendere obsoleta non solo la sua lettura del Faust, ma la stessa idea di letteratura (e di società) di cui era il prodotto. Intervistato per i suoi settant’anni, prende atto del rovesciamento in corso, riconoscendo di trovarsi dalla parte degli sconfitti: La mia formazione ideologica risale a Lukács anche se molte cose, come il realismo socialista, si sono rivelate fallimentari o inesistenti. Tanto per fare un esempio, l’alternativa posta da Lukács fra Thomas Mann e Franz Kafka – e da lui risolta a favore di Mann – è stata smentita clamorosamente dai fatti. Oggi è chiaro che Kafka si è rivelato in tutta la sua grandezza, mentre proprio le utopie umanistico-borghesi di Thomas Mann che piacevano tanto a Lukács non convincono più. Egli resta comunque un pensatore di notevole statura, il quale anche nelle sue unilateralità, nei suoi eccessi e giacobinismi, ha costantemente fornito l’esempio di un intellettuale che non accetta, che non si arrende all’esistente. Oggi regna invece la convinzione secondo cui bisogna lasciare che le cose seguano il loro corso, e che l’economia stessa, le forze stesse del mercato risolveranno tutto. Di fronte ad una simile impostazione preferisco since160  Italo

Alighiero Chiusano, Prefazione, in Faust. Urfaust, Garzanti 1994, p.

LIV. 161 

C. Cases, scheda sul Faust, Garzanti 1994, in «L’Indice», cit.

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ramente fare la fine di Lukács e teorizzare il realismo socialista, piuttosto che assomigliare a quelli che ormai si avventano come iene su chiunque metta in dubbio l’assoluta necessità del capitalismo, diventato l’alfa e l’omega, la panacea di tutti i mali162.

8. Le edizioni del Faust oggi Immaginiamo che il nostro giovane lettore del ’53 torni oggi in libreria: una “Feltrinelli” o una “Mondadori”163. Che cosa troverebbe? Appena quattro traduzioni-libro, contro le sei di cinquant’anni prima. Quali? Innanzitutto, la quattordicesima edizione del Faust di servizio e accademico di Giovanni Vittorio Amoretti – una traduzione del 1950, con una prefazione del 1950 – ripubblicata nel 2014 in un unico volume nella universale economica feltrinelli, col nuovo numero di collana 2018-2019 e una nuova copertina rosso fiammante. Poi, senz’altro, la tredicesima edizione del Faust di Fortini nei meridiani, un Faust, come abbiamo visto, en poète, anti(neo)avanguardistico e anti-ermetico, lukácsiano e marxista critico, e grazie a Cases solidamente germanistico: traduzione del 1970, con l’Introduzione per i criteri seguiti dal traduttore del 1970-1972. La collana inaugurata da Alberto Mondadori con Sereni e Ferrata nel ’69, divenuta nel frattempo la più prestigiosa e canonizzante del sistema letterario italiano, le garantisce un capitale simbolico ancora maggiore di allora. A minor prezzo, si potrebbe acquistare la ventesima edizione della stessa traduzione negli oscar classici, identica a quella dei meridiani, salvo che per l’introduzione generale all’opera di Goethe, aggiunta da Fortini nel 1980. Accanto a questa, ecco anche la settima edizione del Faust di Casalegno/Chiusano nei grandi libri Garzanti, giunti nel frat162  Cases, i settant’anni di un critico, intervista a cura di L. Mannarini, «La Stampa», 24.3.1990, p. 7. 163  Più verosimilmente oggi digiterebbe le parole chiave “Goethe” e “Faust” in amazon.it. Il risultato sarebbe quasi lo stesso, ma includerebbe, per fortuna, l’usato, di cui Amazon si fa intermediario, e, purtroppo, una serie di ristampe piratesche di vecchie edizioni in versione e-book.

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tempo a quasi 900 titoli: traduzione del 1989, con prefazione post-ideologica e festosamente post-moderna del 1994. Con qualche sconcerto, poi, il nostro lettore riconoscerebbe, nonostante il rosso diavolo cornuto che campeggia in copertina, il Faust germanistico, cattolico e fascista di Guido Manacorda164. Nel 2005 infatti la bur, che da decenni non ristampava più i due Faust di Liliana Scalero, lo ha riproposto addirittura in versione anastatica, completa di testo a fronte e commento (con bibliografia aggiornata), arrivando in pochi anni a otto edizioni. Un’operazione meritoria, che avrebbe guadagnato in trasparenza e profondità storica se fossero stati richiamati il profilo di Manacorda e le delicate poste in gioco letterarie, politiche e religiose che orientano la sua versione. Invece, l’introduzione originale è stata semplicemente rimpiazzata dal saggio Sul Faust di Goethe (1938) di Thomas Mann, e in una succinta Nota al testo il curatore Giulio Schiavoni presenta il germanista come «un esponente significativo della generazione di Benedetto Croce»165, sorvolando sulla virulenta polemica anti-crociana che pervade il commento, riproposto tal quale. A proposito della traduzione, Schiavoni osserva giustamente che è tra le «traduzioni “storiche” più importanti avutesi in Italia», omettendo però di rilevare le pesanti riserve espresse dallo stesso Croce, da Errante e da Allason166. 164  Se anziché circolare sul mercato librario circolasse su quattro ruote, la traduzione di Manacorda non potrebbe non suscitare il nostro stupore, perché avrebbe la carrozzeria (ma a voler essere più rigorosi nella similitudine: il motore) di una fuoriserie degli anni ’30, magari una Isotta Fraschini del lussuoso Tipo 8A; analogamente, se incrociamo le date di produzione delle traduzioni con quelle di coevi modelli automobilistici, quella di Amoretti ci verrebbe incontro con le forme eleganti di una FIAT 1100, o di una Topolino amaranto, quella di Fortini come un’Alfa Giulia, e quella di Casalegno come una Lancia Delta. 165  Faust, con un saggio introduttivo di Thomas Mann, traduzione e note di G. Manacorda, nota al testo di G. Schiavoni, testo tedesco a fronte, bur, Milano 2005, classici moderni, p. CXXX. 166  Di quest’ultima viene citata – dall’edizione De Silva e poi Einaudi – una frase di elogio all’«indispensabile» commento di Manacorda, ma non quella successiva: «La traduzione, invece, appare imperfettissima, e tale da dare del Faust uno scadentissimo concetto: gaucherie e pesantezze costanti del dialogo, in luogo della grazia, dello scherzo leggero; impaccio e oscurità in luogo del sentimento profondo. Di più – questo in una traduzione mi pare gravissima menda – dove non capisce o dubita il Manacorda si trincera dietro una versione supinamente letterale adattandosi alla

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Perché le traduzioni-libro di Feltrinelli, Mondadori e Garzanti non hanno mai smesso di circolare, nonostante l’età?167 Perché queste case editrici, con le loro collane, sono tutto sommato in buona salute, e hanno interesse a valorizzare il loro catalogo e gli investimenti fatti anche decenni prima. Così la bur, che con la nuova serie inaugurata nel ’74 è cresciuta fino al punto da trasformarsi da collana in casa editrice a sé stante, con circa 3500 titoli in catalogo distribuiti in oltre una dozzina di collane, non poteva non includere nei suoi classici moderni un’edizione del Faust: non volendo investire in una nuova traduzione, la scelta è caduta su Manacorda, ma avrebbe potuto, con ragioni altrettanto buone, cadere per esempio su Errante. Ciò che il lettore non troverebbe più in libreria è proprio la traduzione di Barbara Allason con l’introduzione di Cases, ristampata per l’ultima volta nel 1994. La nue di Bollati si è infatti estinta nel 2003, e il Faust antifascista e autonomo, germanistico e intellettuale, lukácsiano e marxista critico di Cases/Allason non è tra i titoli che sono stati travasati nei tascabili einaudi, la nuova collana universale economica inaugurata nel 1993. Perché i non meno datati e connotati Faust di Manacorda e Amoretti continuano ad avere posto nello spazio letterario contemporaneo, e questo no? Certo l’introduzione militante di Cases, che si chiude con un riferimento alla guerra atomica (molto discussa nel ’65 ma oggi derubricata dall’ordine del giorno), è meno in linea coi tempi rispetto all’ottimistico saggio di Chiusano; ma quella di Fortini non è meno militante, ed è sempre lì. Ed è anche vero che la prossimità politica e letteraria fra il Faust di Fortini e quello di Cases fa di quest’ultimo, in una certa misura, un doppione. D’altra parte va osservato come, sul piano editoriale, non sia opportuno che l’Einaudi, acquisita nel 1990 da Mondadori, faccia concorrenza al Faust fortiniano dei meridiani e degli oscar. maggiore oscurità, che è un tradimento del pensiero goethiano limpido e precisissimo per sua natura». Segue una pagina di esempi di cattiva traduzione (cfr. Faust, Einaudi, cit., pp. CIV-CV). 167  Al momento dell’ultima revisione di questo studio (ottobre 2018) l’edizione Garzanti, regolarmente distribuita fino a pochi mesi fa, risulta indisponibile: c’è da augurarsi che l’editore la ristampi quanto prima.

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Il punto fondamentale, che spero di aver messo in evidenza, è che la presenza o meno di una traduzione-libro del Faust sul mercato e nello spazio simbolico, così come le sue caratteristiche specifiche, dipendono, nel presente come nel passato, dai mediatori – editori, traduttori, critici, scrittori – che operano giorno per giorno nel campo letterario, dalle loro traiettorie e dai loro interessi specifici. Oggi l’esistenza pubblica di appena quattro Faust168 si deve all’operato dei responsabili di alcune collane di Mondadori, Garzanti, Feltrinelli e bur; mentre l’assenza di un nuovo Faust – quello di Casalegno ha ormai un quarto di secolo – si deve all’insufficiente interesse di vecchi e nuovi mediatori a farlo esistere169. Il lavoro di questi mediatori è sempre collettivo: non solo non avremmo il Faust di Fortini senza la Mondadori, Sereni e Cases, né avremmo avuto quello di Scalvini senza Silvestri, i fratelli Ugoni, Carlyle e il suo anonimo traduttore. Questi Faust non sarebbero quello che sono senza il campo di tensioni di cui sono il prodotto, un campo che va molto al di là dell’opera del singolo traduttore e del progetto della singola casa editrice. Il Faust di Fortini presuppone l’appannarsi dell’egemonia del Pci in Italia e la costruzione di una Nuova sinistra, l’ascesa della neoavanguardia e la risposta dei poeti “realisti”, la legittimazione e la crisi dell’estetica di Lukács e della figura dello scrittore-intellettuale, così come il Faust di Manacorda presupponeva la nascita della germanistica accademica e l’industrializzazione dell’editoria, Mussolini e il fascismo, l’idealismo di Croce e l’anti-idealismo mistico di Papini. Ogni Faust presuppone una comunità – spesso, come abbiamo visto, animata da istanze politiche – che Bourdieu definisce circuito di produzione e che in genere, de-materializzandola, chiamiamo cultura. Le redazioni delle case editrici, e in 168  Fra le traduzioni-libro che per l’attuale stato dei canali di distribuzione non arrivano in libreria vale la pena ricordare almeno la riedizione di quella di Scalvini (Morcelliana, Brescia 2012, primo volume dell’Edizione Nazionale delle Opere di Giovita Scalvini) e quella di Santoli (AICC, Castrovillari 2014). 169  Nel ’53 ad avere un quarto di secolo era la più vecchia (Scalero), e ce n’erano due appena uscite (Allason e Amoretti); quella di Manacorda aveva vent’anni, quella di Errante dieci). Il recente Faust di Nino Muzzi non cambia le cose, perché, per quanto letterariamente interessante, editorialmente non è che un’autoproduzione del traduttore, destinata a una circolazione limitatissima.

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particolare le collane, sono, almeno tra Otto e Novecento, il luogo in cui le traiettorie e gli interessi dei produttori convergono nel prendere posizione nel campo letterario, contribuendo, con ogni traduzione-libro, alla definizione del repertorio della letteratura consacrata, proposta a modello per la produzione della letteratura del presente – e del futuro.

Capitolo terzo Nascita di una disciplina Le prime cattedre di germanistica in Italia (1898-1915)

Le prime cinque cattedre stabili di letteratura tedesca vengono create, in un momento storico in cui diverse nuove discipline giungono per la prima volta in Italia all’istituzionalizzazione accademica1, rispettivamente alla Regia Accademia ScientificoLetteraria di Milano nel 1898, all’Università di Roma nel 1906, all’Università di Torino nel 1907, all’Università di Napoli nel 1913 e all’Università di Genova nel 1915. La loro assegnazione definisce di fatto gli indirizzi sia tematici che metodologici della disciplina almeno fino agli anni ’302, con ricadute importanti anche sulla definizione del repertorio italiano della letteratura tedesca e del modo di interpretare autori e opere. In questo studio ripercorrerò le traiettorie di alcuni dei letterati che hanno vinto (o deciso) i primi concorsi, e le poste in gioco che hanno determinato il loro occasionale convergere o divergere. Lo farò a partire dai casi di Cesare De Lollis (1863-1928) e Giuseppe 1  Per la storia dell’università italiana si vedano almeno L’Università tra Otto e Novecento: i modelli europei e il caso italiano, a cura di I. Porciani, Jovene, Napoli 1994; L’università nell’Italia liberale, introduzione al volume L’istruzione universitaria (1859-1915), a cura di M. Moretti e I. Porciani, Ministero per i beni e le attività culturali, Roma 2000, e i (finora) 18 volumi degli «Annali di storia delle università italiane» (1998-2014). 2  Sulla germanistica italiana si vedano almeno Geschichte der Germanistik in Italien (Akten des Internationalen Symposiums “Geschichte der Germanistik in Italien”, Macerata, 21-23 Oktober 1993), hrsg. von H.-G. Grüning, Nuove Ricerche, Ancona 1995 e le voci relative ai germanisti italiani presenti nei tre volumi dello Internationales Germanistenlexikon 1800-1950, hrsg. von Ch. König, De Gruyter, Berlin 2003. Sugli sviluppi della disciplina nei paesi di lingua tedesca rimando agli studi di Pier Carlo Bontempelli, Storia della germanistica: dispositivi e istituzioni di un sistema disciplinare, Artemide, Roma 2000, e SD: l’intelligence delle SS e la cultura tedesca, Castelvecchi, Roma 2006.

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Antonio Borgese (1882-1952), due figure che di rado vengono associate alla germanistica, ma che hanno avuto un ruolo di tutto rilievo nella fase di prima strutturazione e legittimazione della disciplina. È in primo luogo attraverso la loro temporanea alleanza – oltre che attraverso l’attività di Arturo Farinelli – che nella germanistica trovano rappresentanza, per alcuni anni decisivi, gli interessi specifici e gli orientamenti letterari di Benedetto Croce, allora capofila emergente di una nuova avanguardia critica3. 1. Cesare De Lollis germanista (1885-1905) Cesare De Lollis inizia la sua carriera accademica nel 1887 ottenendo la libera docenza in Storia delle letterature neolatine e viene chiamato alla Regia Università di Roma – da Genova, dove aveva ottenuto l’ordinariato – nel 1905 sulla cattedra di Letterature francese e spagnola moderne: a rigore, De Lollis è dunque quello che in ambito germanico si definisce un “romanista”. Che avesse anche cospicui titoli nel campo della letteratura tedesca è oggi assodato grazie al volume Scrittori di Germania4, che ne raccoglie gli scritti germanistici completando idealmente una trilogia postuma iniziata da Gianfranco Contini e Vittorio Santoli con Scrittori d’Italia (1968) e Scrittori di Francia (1971). La competenza in materia di letteratura tedesca gli era del resto riconosciuta anche all’epoca, se è vero che Angelo De Gubernatis, ordinario di Letteratura italiana a Roma, proponeva di chiamarlo sulla cattedra di Lingue e letterature germaniche o di Filologia germanica, che sarebbero state istituite apposta per lui5. Ma vediamo in breve quali fossero i titoli del De Lollis “germanista”. Alla letteratura tedesca inizia a interessarsi poco più che ventenne, con alcuni saggi su autori minori della generazione 3  Cfr. Anna Baldini, Avanguardia e regole dell’arte a Firenze, in A. Baldini, D. Biagi, S. De Lucia, I. Fantappiè, M. Sisto, La letteratura tedesca in Italia, cit., pp. 23-56. 4  Cesare De Lollis, Scrittori di Germania, a cura di F. De Sanctis, sigraf, Pescara 2010. 5 Alessandra Staderini, La Facoltà nei primi decenni del Novecento (19001920), in Storia della Facoltà di Lettere e Filosofia de La Sapienza, Viella, Napoli 2000, p. 459: la discussione in cui De Gubernatis avanza la proposta è del 1903.

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appena estinta come Clemens Maria Brentano, Hans Hopfen e Nikolaus Lenau pubblicati tra il 1885 e il 1886 sulla «Domenica letteraria», su «Cronaca Bizantina» e sul «Fanfulla». Circa dieci anni dopo, divenuto professore ordinario e dopo l’uscita dell’opus magnum Cristoforo Colombo nella leggenda e nella storia (Treves 1892), un De Lollis più maturo, ormai trentacinquenne, torna a occuparsi di letteratura tedesca nell’ambito di una ormai stabile collaborazione con la prestigiosa «Nuova Antologia», sulla quale tra il 1897 e il 1904 pubblica una serie di saggi su August von Platen (nell’insieme quasi una piccola monografia) e singoli articoli su Gerhart Hauptmann e Paul Heyse (due contemporanei in via di consacrazione), oltre che su Heine e Goethe (i due grandi classici dell’Ottocento italiano). Il culmine della sua attività germanistica è senza dubbio, nel 1899, la prima monografia italiana dedicata a Gerhart Hauptmann, pubblicata presso Le Monnier6: Hauptmann è allora autore di grido anche in Italia, assai discusso rappresentante del naturalismo, pubblicato in traduzione da Treves, il massimo editore del tempo, e messo in scena in molti teatri. Lo studio di De Lollis è certo una delle sue cose più vivaci: si legge ancora oggi con gusto, soprattutto per la lucidità con cui sa mettere in luce, senza pregiudizi positivi o negativi, i pregi e i difetti della poetica e delle singole opere del drammaturgo. Seguono, tra il 1907 e il 1908, alcuni interventi di minor respiro su «La Cultura», la rivista di Ruggiero Bonghi di cui, approdato a Roma, De Lollis assume la direzione insieme a Nicola Festa. Nel complesso, al momento della sua chiamata all’ateneo romano, lo studioso può vantare oltre una dozzina di saggi (pubblicati in riviste che oggi sarebbero “di fascia A” come la «Nuova Antologia») e una monografia di peso (pubblicata per i prestigiosi tipi di Le Monnier). Per gli standard dell’epoca era più che sufficiente per aspirare a una cattedra di Lingua e letteratura tedesca, cattedra che in effetti sarebbe stata istituita e messa a concorso nel 1906. In via del tutto ipotetica De Lollis avrebbe dunque potuto diventare uno de primi germanisti italiani, anzi uno dei fondatori della germanistica italiana. 6  Cesare

De Lollis, Gerardo Hauptmann e l’opera sua letteraria, Successori Le Monnier, Firenze 1899.

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2. Le cattedre italiane di letteratura tedesca fino al 1905: la vicenda di Sigismondo Friedmann Qual era, infatti, la situazione delle cattedre di germanistica nel 1905? Diamo qualche elemento di contesto. Nel 1905 in Italia esisteva solo una cattedra stabile di Lingua e letteratura tedesca, istituita nel 1898 alla Regia Accademia Scientifico-Letteraria di Milano (che negli anni ’20 sarà riorganizzata e ribattezzata Università Statale). Nelle altre università questo insegnamento, ove esistente, era tenuto da liberi docenti o docenti incaricati, in genere filologi classici o linguisti7. La cattedra di Milano, peraltro, era stata creata in seguito a un lungo braccio di ferro tra il viennese Sigismondo Friedmann (1852-1917) e il Consiglio di Facoltà, che quella cattedra non voleva, o non voleva affidare a lui. Il fascicolo relativo a Friedmann conservato all’Archivio Centrale dello Stato nel fondo del Ministero della Pubblica Istruzione consente di ripercorrere la vicenda che ha portato alla costituzione di questa cattedra, vicenda tanto bizzarra che vale la pena di riassumerla rapidamente. Friedmann era stato assunto come docente straordinario alla Sezione di Lingue Moderne della Regia Accademia ScientificoLetteraria nell’a.a. 1886-87. La Sezione di Lingue Moderne, costituita in seguito a un accordo tra il Ministero della Pubblica Istruzione e il Comune di Milano, non faceva però parte in senso stretto della Regia Accademia (gli stipendi dei docenti non erano dunque a carico dello Stato centrale, ma del Comune), e quando, trascorsi i tre anni di rito, Friedmann chiede di passare da straordinario a ordinario, la Facoltà si oppone, non formalmente, ma nella sostanza, affidando a Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907), 7  È questo il caso anche di uno dei padri – di fatto – della germanistica italiana, Carlo Fasola (1861-1942), docente di Lingua e letteratura tedesca all’Istituto di Studi Superiori di Firenze dal 1893 al 1918 e fondatore della «Rivista di letteratura tedesca» (1907-1911), che tuttavia rimane per tutta la sua carriera libero docente (e più tardi docente incaricato), senza ottenere mai la cattedra (che viene istituita solo nel 1924, e assegnata a Guido Manacorda). Insieme al collega Augusto Foà, Fasola fu il – non troppo brillante – maestro di cose tedesche per molti vociani. Su di lui cfr. il bel saggio di Matteo Galli, “Gittando semi di titoli piuttosto che semi di pensiero”: Carlo Fasola und die «Rivista di letteratura tedesca» (1907-1911), in Geschichte der Germanistik in Italien, cit., pp. 123-139.

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allora anziano e riverito titolare della cattedra di Linguistica, il compito di tenere alla porta il collega. Compito che Ascoli assolve brillantemente dal momento che, eletto per due volte presidente della commissione concorsuale, per due volte fa bocciare Friedmann, prima nel 1890 e poi nel 1894. Nel primo caso, del resto, ha gioco facile, perché Friedmann presenta due sole pubblicazioni: una è un Manuale di gotico, peraltro in manoscritto e dunque non valutabile; l’altra, dal titolo I poemi epici regionali della Germania: saggio storico-letterario, «sopraggiunt[a] all’ultimo minuto e che si rileva essere finora semplice frammento», non riguarda in alcun modo la letteratura moderna, mentre, specifica la commissione, «la Sezione dell’Accademia Scientifico-Letteraria a cui appartiene la cattedra del prof. Friedmann è una scuola di Lingue e Letterature moderne, indirizzata a formare buoni maestri di queste lingue e letterature»8. Quando si presenta al concorso per la seconda volta, nel 1894, Friedmann si è messo in regola, pubblicando finalmente una monografia attinente alla letteratura contemporanea, Il dramma tedesco del nostro secolo, su Kleist, Hebbel e Grillparzer9. La commissione, ancora una volta presieduta da Ascoli, la giudica sufficiente, anche se compilativa e poco rigorosa nel metodo critico, ma boccia di nuovo il candidato facendo appello a una delibera del Consiglio di Facoltà della Regia Accademia Scientifico-Letteraria – Consiglio al quale Ascoli stesso era stato presente in quanto membro effettivo – che, in riferimento all’attività d’insegnamento di Friedmann, faceva osservare come egli mostrasse «attitudine didattica molta, diligenza sufficiente»10: tale espressione, ne deducono i commissari, «accenna non dubbiamente al difetto di buon volere»11. Dalla corrispondenza tra 8  Verbali del concorso del 28.9.1890, conservati all’Archivio Centrale dello Stato (ACS), Ministero della Pubblica Istruzione (MinPI), Direzione Generale per l’Istruzione Superiore (DGIS), Fascicoli personale insegnante, 2° versamento, 1ª serie, B. 63, Sigismondo Friedmann. 9 Sigismondo Friedmann, Il dramma tedesco nel nostro secolo. Lezioni fatte nella Regia Accademia Scientifico-Letteraria di Milano, voll. I-III, Libreria Editrice Galli, Milano 1893. 10  Delibera del Consiglio di Facoltà della Regia Accademia Scientifico-Letteraria del 24.6.1893, ACS, MinPI, DGIS, Friedmann. 11  Verbali del concorso del 24.10.1894, ACS, MinPI, DGIS, Friedmann.

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il Preside di facoltà Virgilio Inama e il Ministero emerge che Friedmann avrebbe peccato di assenteismo, affidando molte delle sue lezioni a un docente esterno pagato di tasca sua. Se questa sia la causa effettiva della seconda bocciatura, o piuttosto una conseguenza della prima, non è dato sapere. Certo è che la Facoltà si risolve ad ammettere Friedmann come ordinario solo dopo che il Ministero ha dato sufficienti garanzie che la sua stabilizzazione non avrebbe sottratto posti (oggi diremmo: “punti organico”) al corpo docente della Regia Accademia Scientifico-Letteraria, che all’epoca contava appena sette ordinari. Nel luglio 1897 dunque si riunisce per la terza volta una commissione nazionale per valutare il prof. Friedmann e, presieduta questa volta non da Ascoli ma da Michele Kerbaker, ordinario di Lingue e letterature comparate a Napoli, lo giudica idoneo. Così, nel 1898 viene istituita, potremmo dire grazie all’austro-ungarica ostinazione di Sigismondo Friedmann e alla sua personale battaglia sindacale, la prima cattedra stabile di Lingua e letteratura tedesca. Essendo peraltro la prima cattedra di questa disciplina, non c’erano, ovviamente, ordinari di Lingua e letteratura tedesca da chiamare a far parte delle commissioni giudicanti. È dunque interessante vedere quali docenti venissero presi in considerazione dal Ministero: per il primo concorso sono Adolfo Hohn (Napoli, Storia antica), Giuseppe Müller (Torino, Letteratura greca), Graziadio Ascoli (Milano, Linguistica), Arturo Graf (Torino, Letteratura italiana), Pio Rajna (Firenze, Lingue romanze), Michele Kerbaker (Napoli, Lingue e letterature comparate), Emilio Teza (Padova, Filologia indoeuropea) e Bonaventura Zumbini (Napoli, Letteratura italiana), ai quali nel secondo e terzo concorso si aggiungono Teodoro von Sichel (Direttore dell’Istituto storico austriaco di Roma) e Francesco D’Ovidio (Napoli, Storia comparata delle lingue neolatine)12. Si tratta di studiosi di origine tedesca, di linguisti o di docenti di materie letterarie che per motivi personali o disciplinari avevano familiarità con le lingue e le letterature germaniche, spesso professori di letteratura italiana 12  Queste liste di nomi elaborate dal Ministero sono conservate in ACS, MinPI, DGIS, Friedmann.

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o di letterature straniere moderne. Vedremo ora come lo stesso De Lollis venga coinvolto in alcuni dei concorsi decisivi della nascente germanistica italiana. 3. De Lollis e il primo concorso all’Università di Roma (1906): Eduardo Giacomo Boner Quando nel 1906 viene bandito a Roma il concorso per la seconda cattedra italiana di Letteratura tedesca, De Lollis, il quale, benché fosse stato chiamato a Roma solo l’anno prima, era divenuto ben presto «elemento fondamentale per la gestione della Facoltà»13, si preoccupa di essere eletto nella cinquina che valuterà i candidati. Per questo chiede all’amico Nicola Zingarelli, appena nominato ordinario di Storia comparata delle letterature neolatine a Palermo, di sostenerlo, suggerendogli di proporre, nella votazione nazionale per la nomina della commissione, i nomi di Sigismondo Friedmann, Arturo Graf, Nicola Zingarelli, Cesare De Lollis, Paolo Emilio Pavolini14. Quest’ultimo, ordinario di Sanscrito all’Istituto di Studi Superiori di Firenze, viene in seguito giudicato da De Lollis «troppo cieco istrumento nelle mani di [Guido] Mazzoni»15, carducciano di stretta osservanza e potente ordinario di Letteratura italiana a Firenze, che si era dimostrato ostile all’istituzione delle nuove cattedre di filologia moderna e l’anno precedente aveva osteggiato il trasferimento di De Lollis a Roma. In giugno, ancora nelle more della nomina della commissione, De Lollis scrive allarmato all’amico Francesco Novati, ordinario di Storia comparata delle letterature neolatine a Milano: «Tra i “concorrenti” c’è… Friedmann! Me lo assicura il [Nicola] Festa, che ha visto l’elenco dei concorrenti. O a che mira codesto cristianissimo?»16. Che Friedmann non volesse restare a Milano, dati i rapporti non proprio idilliaci con i colleghi? 13 

A. Staderini, La Facoltà nei primi decenni del Novecento (1900-1920), cit., p. 459. De Lollis a Nicola Zingarelli, 28.4.1906, Archivio del Centro Studi Cesare De Lollis, Casalincontrada. Sono grato a Fausto De Sanctis, che mi ha messo a disposizione queste lettere. 15  Cesare De Lollis a Nicola Zingarelli, 15.5.1906, ivi. 16  Cesare De Lollis a Francesco Novati, 21.6.1906, ivi. 14  Cesare

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Nella commissione alla fine verranno nominati Friedmann, che dunque non partecipa come concorrente ma come giudice, Graf, Zingarelli, De Lollis e Michele Kerbaker. Il concorso si tiene a Roma l’8 ottobre 1906, e la cattedra viene assegnata al messinese di origine svizzera Eduardo Giacomo Boner (18641908)17. Il vincitore godeva certo della stima di De Lollis, almeno sul piano umano, dal momento che è proprio quest’ultimo, all’indomani della morte di Boner nel terremoto di Messina del dicembre 1908, a incaricarsi di scrivere il necrologio nell’annuario dell’ateneo romano: «Come studioso», ammette De Lollis, «un erudito propriamente non fu», piuttosto «ebbe assai del poeta»; consapevole di questo, si sforzava di dare una veste di rigore scientifico ai suoi scritti e alle sue lezioni; dunque, paradossalmente, «quando per l’indole del soggetto o del pubblico a cui si rivolgeva era costretto a scuotere il giogo dell’erudizione, ecco che in lui veniva fuori la nota che direi senz’altro geniale»18. Certo, non è un ritratto troppo lusinghiero, né privo di riserve19. Ciononostante possiamo sostenere, senza tema di allontanarci troppo dal vero, che De Lollis ha senz’altro contribuito a mettere in cattedra il secondo germanista della storia dell’università italiana. 4. Arturo Farinelli, Benedetto Croce e il secondo concorso all’Università di Roma (1910): Giuseppe Antonio Borgese In seguito alla morte di Boner, la cattedra di Lingua e letteratura tedesca di Roma viene rimessa a concorso nel giugno 1909. Ora però si è aggiunta, accanto a quella di Milano, una terza cattedra stabile, quella di Torino, alla quale nel 1907 è stato chiamato Arturo Farinelli (1867-1948). Farinelli, già “romanista” a Innsbruck (quindi vicino per interessi e competenza a De Lollis, che lo apprezza pur definendolo «un Werther in 17 

Non ho visto i verbali, conservati anch’essi in ACS, MinPI, DGIS. Università degli Studi di Roma, Annuario dell’anno scolastico 1908909. Anno DCVI dalla Fondazione, Pallotta, Roma 1909, pp. 237-238. 19  Ancora più severo è il ritratto di Boner consegnato da Luciano Zagari al Dizionario Biorgafico degli Italiani (cfr. www.treccani.it). 18  Regia

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ritardo»20 a causa della sua tendenza all’autocommiserazione), sarà il fondatore della prima scuola germanistica italiana, dalla quale usciranno tra gli altri Giuseppe Gabetti, Giovanni Angelo Alfero, Giovanni Vittorio Amoretti e Leonello Vincenti, che dal dopoguerra si insedieranno rispettivamente sulle cattedre di Roma, Genova, Pisa e Torino21. Carismatico studioso del romanticismo tedesco, e dotato di un’allure assai poco accademica di battagliero irregolare, Farinelli è inoltre in questi anni molto vicino a Benedetto Croce, di cui De Lollis sta diventando uno dei principali alleati, e al gruppo «vociano» di Papini e Prezzolini, con i quali condivide la crociata antipositivista. La commissione, che si riunisce nel febbraio del 1910, è composta dunque da Friedmann e Farinelli, i due ordinari di tedesco, da Nicola Zingarelli e Paolo Emilio Pavolini, che già conosciamo, e da Emanuele Loewy, l’ordinario di Archeologia di Roma che – su proposta di De Lollis – aveva assunto la supplenza di Letteratura tedesca dopo la morte di Boner. Questa volta De Lollis non fa parte della commissione, ma è da supporre che abbia seguito i lavori da vicino attraverso Zingarelli e Loewy, e che non abbia mancato di esercitare la sua influenza. Il candidato più forte è senza dubbio il ventiseienne Giuseppe Antonio Borgese, che può presentare pubblicazioni di tutto rispetto: quella Storia della critica romantica in Italia pubblicata nel 1905 da Croce nelle Edizioni della Critica, che non solo è all’origine della sua consacrazione pubblica ma tratta ampiamente anche della ricezione italiana della critica e della storiografia letteraria tedesca; l’intervento al III Congresso internazionale di filosofia tenutosi a Heidelberg nel 1908, dal titolo Critica del concetto di originalità nell’arte (nel volume degli atti, Carl Winter, 1909); le corrispondenze berlinesi, in parte anche letterarie, raccolte nel volume La nuova Germania, edito da Bocca nel 1909; e infine il notevole saggio sul Faust di Goethe intitolato La disfatta di Mefistofele, uscito sulla rivista «Il Rinnovamento» nel 1909. Anch’egli alleato di Croce e dei «vociani» nella critica 20  Cesare De Lollis a Nicola Zingarelli, 15.5.1906, Archivio del Centro Studi Cesare De Lollis, Casalincontrada. 21  Per una meno succinta caratterizzazione di Farinelli e della sua attività cfr. 4: Condizioni necessarie, pp. 184-187.

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alle istituzioni culturali dominanti e al positivismo che vi alligna, gravita inoltre intorno alla cattedra di Farinelli all’Università di Torino, dove pare che tenga un corso nell’anno accademico 1908-09, e dove collabora con «La Stampa», prima come corrispondente da Berlino, poi come firma della terza pagina. Infine, una singolare coincidenza: quando Boner perde la vita nel terremoto del dicembre 1908, Borgese si trova per caso sul posto, e le sue corrispondenze per «La Stampa» sono tra le prime e le più documentate sulla catastrofe che colpisce Messina. Tra le macerie, altra coincidenza, c’è anche Guido Manacorda, bibliotecario di fresca nomina all’Universitaria di Catania, che partecipa al recupero dei manoscritti della Biblioteca Universitaria messinese, e che l’anno seguente si presenta a sua volta al concorso di Roma, con un curriculum non meno ricco di quello di Borgese. Specializzatosi alla Normale di Pisa, Manacorda (18791965) esordisce con alcuni studi sugli umanisti italiani e solo a partire dal 1907 si dedica alla letteratura germanistica, pubblicando sulla «Rivista di Letteratura Tedesca» di Carlo Fasola – probabilmente suo maestro e mentore all’Istituto di Studi Superiori di Firenze – un saggio su Ludwig Tieck, e diversi altri negli «Studi di filologia moderna», da lui stesso fondati a Catania nel gennaio del 1908: una rivista, potremmo dire oggi, di letterature moderne comparate, nata con il programma di conciliare la scuola del «positivismo storico» di Carducci, D’Ancona, Bartoli e Ascoli con il nuovo «idealismo critico» di Croce (che tuttavia, prudentemente, non viene nominato nel programma apparso sul primo numero22). Qui Manacorda pubblica studi su Jean Paul (1909) e Wieland (1909), e in seguito ne pubblicherà diversi altri (dirige la rivista fino al ’14), ma la sua reputazione nel campo della letteratura tedesca è legata alla ponderosa Germania filologica23, uscita anch’essa nel 1909, 22  Cfr. Guido Manacorda, Il nostro programma, «Studi di filologia moderna», I.1-2, 1908, pp. 1-3. Sulla rivista cfr. Michele Cometa, Die Germanistik in Ostsizilizien (1800-1965), in Geschichte der Germanistik in Italien, cit., pp. 410-414. 23  Guido Manacorda, Germania filologica. Guida bibliografica per gli studiosi e per gl’insegnanti di Lingua e letteratura tedesca, con circa 20.000 indicazioni, Fezzi, Cremona 1909.

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che è decisamente il titolo più cospicuo col quale si presenta al concorso24. Ora, da una parte Manacorda, benché si occupi “scientificamente” di letteratura tedesca da appena un paio d’anni, può vantare un profilo perfino più specialistico di quello di Borgese; dall’altra proprio la sua Germania filologica è oggetto di una clamorosa stroncatura da parte di Arturo Farinelli, il quale – probabilmente dopo aver esaminato la bibliografia manacordiana in occasione del concorso – la fa a pezzi in una recensione fiume di 166 pagine25. Ne scaturisce, tra il 1910 e i primi mesi del 1912, un botta e risposta che ha larga eco anche al di fuori dell’ambiente accademico26: la polemica è talmente furibonda che vi interviene anche Papini, il quale sulla «Voce» prende le parti di Farinelli difendendo non solo la sua recensione critica alla Germania filologica ma anche la sua decisione di preferire, nel concorso di Roma, «un uomo d’ingegno a un semplice schedaiolo». È giusto, aggiunge ancora Papini, «che il dott. Manacorda non sia stato chiamato ad insegnar letteratura tedesca ai giovani dell’università di Roma»27. La polemica si consuma subito dopo il concorso, ma possiamo ipotizzare che i rapporti tra Farinelli e Manacorda fossero già incrinati all’inizio del 1910, come del resto è verosimile dal momento che Farinelli aveva ogni intenzione di favorire Borge24  Per la successiva traiettoria di Manacorda, fino alla traduzione del Faust, cfr. 2: Gli editori e il repertorio della letteratura tradotta, pp. 85-92. 25  Arturo Farinelli, Per un dizionario bibliografico di scrittori tedeschi: a proposito di una compilazione recente, «Rivista di letteratura tedesca», IV.1-6, 1910, pp. 5-170. Farinelli aveva già stroncato in modo simile – ma in sole 60 pagine! – un altro saggio di Manacorda, Della poesia latina in Germania durante il Rinascimento, sul «Giornale storico della letteratura italiana», LIV, 1909, pp. 145-206. 26  Guido Manacorda, Per due zibaldoni di Arturo Farinelli, «Rivista di letteratura tedesca», V.1-6, 1911; Arturo Farinelli, Poche parole di risposta al compilatore della Germania filologica: contributo minimo a una storia della coscienza e del carattere, Baravalle e Falconieri, Torino 1911 (edizione fuori commercio); Guido Manacorda, La fine di una polemica: per un terzo ed ultimo Zibaldone di Arturo Farinelli, «Studi di filologia moderna», IV.3-4, 1911, pp. 3-15. 27  Giovanni Papini, Per Farinelli e la verità, «La Voce», V.1, 4 gennaio 1912. Anche in questo caso Manacorda non lascia correre, ma scrive alla «Voce» per aver ragione delle insinuazioni di Papini, al che Prezzolini deve farsi garante e convocare un giurì – formato da Gaetano Salvemini, rappresentante di Mancorda, Giovanni Amendola, rappresentante di Farinelli, e Ernesto Parodi, presidente – perché giudichi della fondatezza delle affermazioni di Papini; e il giurì darà ragione a Manacorda.

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se28. La scelta infatti, per questo e numerosi altri concorsi negli anni del crescente prestigio di Croce e dei vociani, si pone nei termini di una scelta non tanto fra due candidati più o meno qualificati, ma tra rappresentanti di una cultura accademica tendente al positivismo e all’erudizione (lo «schedaiolo» Manacorda) e rappresentanti di una “nuova” cultura “critica”, antipositivista, idealista e militante (l’«uomo d’ingegno» Borgese). In questo senso Farinelli, alleato di Croce, non poteva che favorire Borgese, a sua volta alleato di Croce. Si può dunque supporre che anche De Lollis, il quale proprio in quegli anni porta «La Cultura» nell’orbita crociana dandole un nuovo indirizzo “idealistico” e arrivando persino ad affidarla a Laterza, l’editore della «Critica» e delle opere di Croce, abbia sostenuto Borgese: proprio mentre si celebra il concorso, del resto, nel febbraio 1910, «La Cultura» ospita un pezzo “germanistico” di Borgese29. Intorno a quello che potrebbe apparire un semplice concorso per una cattedra di letteratura tedesca si gioca in realtà una partita che riguarda gli indirizzi culturali dell’università italiana. Questi conflitti, nei quali ha un peso determinante una corrente extra-accademica legata a Benedetto Croce che sta accumulando prestigio e influenza, saranno cruciali non solo per l’assegnazione di diverse cattedre, ma anche per decidere cosa si studierà, e come, nei decenni a venire. Dunque è assai probabile che De Lollis abbia indotto i componenti romani della commissione a unirsi a Farinelli nel sostenere il candidato più “crociano”. La commissione proclama dunque vincitore del concorso Borgese30, e «La Stampa», il giornale di cui da un anno e mezzo 28 Che ci sia una «corrente favorevole» per Borgese è testimoniato anche da una lettera di Teresita Friedmann Coduri, moglie di Sigismondo, a Giovanni Boine, datata 22 febbraio 1910: «Mio marito è ancora a Roma per il concorso a quella cattedra di tedesco, e io gli avevo già molto raccomandato Borgese e specialmente dopo aver letto la Disfatta di Mefistofele. So che nella commissione c’era una corrente assai favorevole per lui e spero che abbia prevalso» (Giovanni Boine, Carteggio, vol. 4: Giovanni Boine, amici della Voce, vari: 1904-1917, a cura di M. Marchione e S. Eugene Scalia, prefazione di G. V. Amoretti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1979, pp. 132-133). 29  Giuseppe Antonio Borgese, Questioni goethiane, «La Cultura», 3, 16.2.1910, pp. 106-115. 30  Non ho potuto vederne i verbali perché nella cartella dove dovrebbero trovarsi all’Archivio Centrale dello Stato non sono presenti, anche se nel 2000 Alessan-

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è il critico letterario di punta, può commentare, riecheggiando i termini della discussione avvenuta tra i commissari: La commissione vide giusto: diede maggior importanza alla singolare vastità d’un ingegno, che aveva dimostrato di comprendere e conoscere integralmente la vita germanica, che non alla piccola sudata ed annotata monografia intorno al dimenticato commentatore di Lutero: decretò all’unanimità la cattedra al Borgese e, ne siamo fermamente convinti, si rese benemerita dell’alta cultura italiana31.

5. Le «intime relazioni» tra Borgese e De Lollis, e il concorso all’Università di Napoli (1913): Guido Manacorda La terza cattedra italiana di letteratura tedesca ha ora il suo autorevole titolare. Borgese prende servizio il 1° aprile 1910, e il 14 aprile tiene la sua prolusione dal titolo La personalità di Goethe, prontamente pubblicata sulla «Nuova Antologia» il 16 luglio. Il 22 aprile inizia il suo primo corso, dedicato al Faust, a cui ne seguiranno uno sullo Sturm und Drang (a.a. 1910-11) e uno sul dramma tedesco da Gottsched al classicismo weimariano (a.a. 1911-12)32. I rapporti con De Lollis devono essere buoni, dal momento che Borgese collabora assiduamente alla «Cultura» e nel corso del 1912 decidono di riorganizzare insieme la rivista dandole una nuova linea e un nuovo titolo: «La Nuova Cultura» uscirà a partire dal gennaio 1913 con un nuovo editodra Staderini deve averli visti, dal momento che nel suo saggio (p. 475) definisce il concorso «contestatissimo», rinviando in nota alla collocazione ACS, MinPI, DGIS, B. 375. Da M. Galli, “Gittando semi di titoli piuttosto che semi di pensiero”, cit., si evince tuttavia che tra i partecipanti c’era anche il quarantottenne Carlo Fasola e che anche il suo profilo di germanista era prossimo a quello di uno «schedaiolo» con l’ossessione per la bibliografia: al suo attivo non aveva alcuno studio monografico, e anche la sua «Rivista di letteratura tedesca» era poco più che la ristampa di tutti gli articoli e articoletti da lui già pubblicati a partire dal 1892, mescolati ai contributi originali di pochi colleghi e molti studenti. L’ossessione per la bibliografia, va detto, è uno dei tratti caratteristici della prima generazione di germanisti – Farinelli, Fasola, Manacorda –, formatisi in clima positivista e preoccupati innanzituto di dare una base scientifica (o per lo meno bibliografica) alla disciplina. 31  «La Stampa», 23.2.1910. 32  Cfr. i libretti dei corsi conservati all’Archivio Storico di Sapienza Università di Roma.

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re, non più il crociano Laterza ma il borgesiano Bocca, e sotto la direzione congiunta – come recita il frontespizio – di «G. A. Borgese – C. De Lollis – N. Festa, Professori nella R. Università di Roma»33. Il primo numero si apre con un articolo di De Lollis poi divenuto celebre, Cervantes reazionario, recensione alle Novelle di Cervantes tradotte da Alfredo Giannini per gli scrittori stranieri Laterza, una collana appena varata sotto l’egida di Benedetto Croce; segue un pezzo di Croce in persona, Una vecchia critica italiana della «filosofia della storia»; e il fascicolo si chiude con due ampie recensioni, una di Borgese al volume Goethes Faust di Wilhelm Büchner e una di Festa alle Opere scelte del greco Paparrigopulos, uscite anch’esse nella collana scrittori stranieri di Laterza. La rivista esordisce, insomma, senz’altro sotto l’egida di Croce: è, anzi, “crocianissima”. E la collaborazione tra i direttori prosegue, apparentemente senza attriti, per alcuni mesi, mentre si viene configurando una precisa divisione del lavoro, con De Lollis che si occupa delle letterature moderne rinunciando alla germanistica, affidata a Borgese, e Festa che sovraintende alle letterature classiche. Ma nel corso del 1913 i rapporti fra De Lollis e Borgese si deteriorano fino a una clamorosa rottura. Alessandra Staderini registra, nei verbali dei consigli di Facoltà, un diverbio tra i due, su questioni procedurali del tutto secondarie ma sintomatiche di un clima generale, protrattosi dal dicembre 1913 al febbraio 1914, «con toni accesi e accuse personali, tanto che il 20 dicembre [Ettore] De Ruggiero tentò il ruolo di paciere, augurandosi che si ristabilissero le “intime relazioni di un tempo fra i professori De Lollis e Borgese”»34. Staderini commenta: «il rispetto delle procedure invocato da De Lollis, pur se importante, nascondeva un pesante contrasto con Borgese per il suo abbandono polemico della collaborazione a «La Cultura», e soprattutto per gli attacchi non certo diplomatici che egli aveva mosso al crocianesimo di De Lollis, definito “intransigente”, di “estrema destra e certo più crociano di Croce”»35. 33  Per la storia della rivista si veda Gennaro Sasso, Variazioni sulla storia di una rivista italiana: «La Cultura» (1882-1935), il Mulino, Bologna 1992. 34  A. Staderini, La Facoltà nei primi decenni del Novecento (1900-1920), cit., p. 476. 35  Ibidem.

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In effetti la tensione tra i due può essere spiegata come una conseguenza della rottura consumatasi in quegli stessi mesi tra Borgese e Croce. Come abbiamo visto, Borgese aveva vinto il concorso anche in quanto rappresentante della nuova cultura crociana; ma nell’aprile 1911, recensendo sulla «Stampa» e sul «Mattino» l’atteso libro di Croce su Vico36, inizia una resa dei conti col maestro, dal quale rivendica un’autonomia d’azione e di pensiero che questi non intende riconoscergli. Croce risponde sulla «Critica», dedicando sette pagine a recensire la recensione dell’allievo, il quale a sua volta risponde con l’articolo Croce e Vico, Croce e i giovani37. Ma questa resa dei conti tra Borgese e Croce è già in corso nel ’12, mentre «La Nuova Cultura» viene inaugurata all’inizio del ’13: a quest’altezza dunque i rapporti tra De Lollis e Borgese sono ancora sufficientemente buoni da consentire la ristrutturazione e la condirezione di una rivista che per De Lollis è preziosissima, essendo di fatto una sua creatura. Non solo: nel marzo del 1913 si svolge ancora un episodio che vede Borgese e De Lollis coinvolti in prima persona nella decisione dei destini della germanistica italiana. Si celebra infatti a Napoli il concorso per una quarta cattedra di letteratura tedesca, ed entrambi fanno parte della commissione, che si riunisce il 25 marzo38. Il vincitore questa volta è… Guido Manacorda, il quale già a partire dal 1911 si era avvicinato a Benedetto Croce, che gli aveva affidato la direzione della collana scrittori stranieri di Laterza, pendant dei prestigiosi scrittori d’italia. Il candidato che nel 1910 a Roma non era abbastanza vicino alla corrente crociana, ora – e proprio nella città di Croce – si presenta forte del placet del maestro. Il fronte crociano della germanistica, rappresentato da Farinelli, Borgese e De Lollis, si ricompatta, guadagnando una nuova cattedra.

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Benedetto Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Laterza, Bari 1911. Giuseppe Antonio Borgese, Croce e Vico, Croce e i giovani, «La Cultura Contemporanea», IV. 3-4, marzo-aprile 1912, poi ristampato nella terza serie de La vita e il libro, Bocca, Torino 1913. 38  Non ho potuto vedere i verbali, ma è probabile che della commissione facessero parte, per competenza, anche Friedmann e Farinelli. 37 

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6. Con Croce o contro Croce: la fine della «Nuova Cultura» La rottura fra De Lollis e Borgese si consuma dunque nel corso del 1913, e diventa pubblica quando, in apertura del numero di luglio della «Nuova Cultura», De Lollis pubblica una breve nota in cui comunica la sua uscita dalla rivista: Ai professori G. A. Borgese e N. Festa, Egregi Colleghi, non ho più tempo da dare alla «Cultura»; e non mi rimane quindi che ritirarmi e pregarvi di pubblicare queste mie due parole nel prossimo fascicolo della rivista. Aff.mo Cesare De Lollis39

L’uscita è senza polemiche, ma clamorosa: perché «La Cultura» è la rivista di De Lollis, che infatti tornerà a dirigerla – da solo – dopo la guerra. Che cosa è accaduto tra il marzo e il luglio del ’13? A sfogliare i fascicoli della rivista non si può non osservare che gli interventi di Borgese tendono a portarla via via fuori dall’orbita crociana e ad annetterla invece a un circuito di produzione dominato da Borgese stesso (l’editore Bocca, la collana antichi e moderni da lui diretta per Carabba, di cui compaiono sempre più frequenti gli annunci)40, e a un lavoro culturale volto a proporre una nuova estetica, che rifiuta il concetto crociano di intuizione lirica e dà molto più spazio alla dimensione tecnica e architettonica dell’opera d’arte. In questa direzione andava la prolusione goethiana del 1910, che sosteneva l’unità estetica del Faust contro la distinzione tra parti poetiche e parti letterarie che Croce difenderà ancora nella sua monografia su Goethe del 1918-19. Anche la citata recensione al volume di Wilhelm Büchner sul Faust apparsa sul primo numero della «Nuova Cultura» sostiene, ancora una volta contro Croce, l’unità del Faust. Ma tutto ciò era evidentemente ben noto, e da tempo, a De Lollis. 39 

«La Nuova Cultura», I.7, 1913, p. 481. una più ampia caratterizzazione di questo circuito di produzione e per i suoi rapporti con quello dominato da Benedetto Croce cfr. Michele Sisto, Gli editori e il repertorio, in A. Baldini, D. Biagi, S. De Lucia, I. Fantappiè, M. Sisto, La letteratura tedesca in Italia, cit., pp. 57-89, in particolare pp. 80-82. 40  Per

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La novità del ’13 è che in quasi tutti i fascicoli della «Nuova Cultura» sono presenti saggi di Adriano Tilgher (1887-1941), che, già allievo di Croce, proprio in quegli anni aveva a sua volta iniziato una revisione critica del pensiero estetico del maestro, dedicandovi una serie di saggi apparsi proprio sulla «Cultura» di De Lollis e Festa fra il 1911 e il 1912, nonché il volume Arte, conoscenza e realtà (Bocca 1911). Sui fascicoli 2 e 3 della «Nuova Cultura» Tilgher pubblica nientemeno che dei Lineamenti di estetica; e sul numero 3 discute inoltre col filocrociano Luigi Miranda il problema della volontà e libertà nella filosofia di Benedetto Croce. Insomma, Tilgher inizia a fare concorrenza a Croce sul piano della teoria estetica; anzi tenta di elaborare, come forse solo Borgese e in una certa misura Gentile ardiscono fare nel primo trentennio del Novecento, un’estetica alternativa a quella di Croce. Quando sul fascicolo di giugno escono ben due saggi di Tilgher di argomento estetico, Sul concetto di Einfühlung e L’estetica di Enrico Bergson, De Lollis deve aver giudicato che si era passato il segno; oppure lascia la rivista per dissociarsi dalla pubblicazione, che avverrà sul fascicolo di agosto, dell’ennesimo saggio di Tilgher, Teoria della critica d’arte, in cui questi, citando abbondantemente Borgese, prende posizione per una storiografia letteraria idealistica diversa da quella di Croce, più improntata cioè a un paradigma fenomenologico. Non è questa la sede per entrare nel merito della questione: basti aggiungere che sul fascicolo di ottobre appare il saggio Deduzione della legge e del diritto, nel quale Tilgher si presenta fin dalla prima pagina come “superatore” di Croce, assumendosi il compito di confutare la tesi crociana dell’impossibilità di una filosofia del diritto. Ciò che dunque De Lollis non può perdonare a Borgese – al punto da lasciargli la propria rivista – è assai probabilmente la volontà programmatica dell’ex sodale di non limitarsi alla propria resa dei conti personale col maestro, ma di promuovere la ricerca di posizioni alternative e autonome rispetto a quella di Croce, in particolare nel campo dell’estetica, della critica e della storiografia letteraria: e di usare «La Nuova Cultura» a questo scopo. Alla luce di queste tensioni si può meglio comprendere cosa intenda Borgese quando, ripercorrendo la storia della rivista nell’articolo Breve storia della «Cultura» e annuncio del «Conciliatore» apparso sul fascicolo del dicembre 1913, scrive:

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Nella sua parte più assertiva la terza «Cultura» [quella di De Lollis e Festa] fu crociana. Diciamo pure: non v’è nessun documento di crocianesimo intransigente e conseguente come quello che ci offre la collezione di questa rivista: un crocianesimo di estrema destra e, certo, più crociano di Croce. […] L’errore fondamentale del Croce filosofo e del Croce critico, di considerare l’opera d’arte come una monade, è divenuto dogma, senza nemmeno quelle sfumature e quegl’incerti tentativi di transazioni che rivelavano in Croce il travaglio del pensiero insoddisfatto. […] Io entrai nella direzione della «Cultura» quand’essa era già malata della rapida e profonda crisi che da un paio d’anni travagliava il crocianesimo. […] Non è casuale che gli scritti più importanti pubblicati in quest’ultima annata siano quelli nei quali il Tilgher ha sottoposto l’estetica crociana a una delle più serie e complesse revisioni che essa abbia subite41.

In seguito alle dimissioni di De Lollis, che erano state precedute, in privato, da quelle di Festa, Borgese rimane solo alla direzione, e decide di mutare ancora una volta nome e struttura della rivista. Ribattezzandola «Il Conciliatore», nelle due annate 1914-1915 ne farà l’organo “accademico” del proprio circuito di produzione e delle proprie posizioni critico-estetiche, in fase di progressiva elaborazione. Il risultato, di fatto, è che Borgese si impossessa della creatura di De Lollis: ragione più che sufficiente a spiegare le tensioni nei consigli di Facoltà tra la fine del 1913 e l’inizio del 1914. 7. Il concorso all’Università di Genova (1915): Giuseppe Gabetti. Epilogo Alla vigilia della guerra Borgese e De Lollis si trovano su fronti opposti: il primo è, come i più, interventista; l’altro coraggiosamente neutralista (per la qual cosa, com’è noto, viene chiassosamente contestato da gruppi di studenti nazionalisti durante le sue lezioni). Entrambi però parteciperanno al conflitto: De Lollis, ormai più che cinquantenne, combattendo da volontario in prima linea; Borgese prevalentemente sul fronte interno, lavorando al Sottosegretariato per la stampa e la propaganda. Entrambi verranno decorati al valor militare. 41 Giuseppe Antonio Borgese, Breve storia della «Cultura» e annuncio del «Conciliatore», «La Nuova Cultura», I.12, 1913, pp. 886-888.

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La quinta cattedra italiana di letteratura tedesca viene istituita poco prima dell’entrata in guerra dell’Italia: a Genova nel 1915. Nella commissione concorsuale, che viene nominata in febbraio, questa volta De Lollis non c’è, e così sarà anche nei concorsi successivi, perché ormai il numero di titolari di cattedra di letteratura tedesca è sufficiente a far sì che non sia necessaria la partecipazione di colleghi di materie affini. Ne fa parte invece Borgese, stabilizzato nell’aprile del ’13, e probabilmente ne fanno parte Friedmann, Farinelli, Manacorda e un membro interno della locale università42. Il vincitore è Giuseppe Gabetti (1886-1948), un allievo di Farinelli, dunque anch’egli, benché di formazione integralmente accademica, accreditabile latu sensu alla corrente crociana (qualunque cosa ciò voglia ormai dire nel ’15). Gabetti non prende servizio, perché chiamato alle armi, e nel ’17 verrà chiamato all’Università di Roma a prendere il posto di Borgese, che a sua volta, promosso a ordinario nel ’16, nel ’17 viene trasferito a Milano su quella che era stata la cattedra di Sigismondo Friedmann, morto all’età di 65 anni. Dunque alla fine della guerra le cattedre di Letteratura tedesca restano quattro, con Borgese a Milano, Gabetti a Roma, Farinelli (decano) a Torino, e Manacorda a Napoli, mentre quella di Genova rimane temporaneamente vacante, e solo nel ’27 verrà assegnata a un altro allievo di Farinelli, Giovanni Angelo Alfero (1888-1962). De Lollis, come si è detto, non si occuperà più di letteratura tedesca, ma si manterrà molto vicino a Croce. Nel 1925 è tra i firmatari del manifesto degli intellettuali antifascisti, e nella biblioteca di cultura moderna Laterza diretta da Croce appaiono via via i suoi Saggi di letteratura francese (1920), Alessandro Manzoni e gli storici liberali francesi della restaurazione (1926) e, alla sua morte, i Reisebilder e altri scritti (1929) e soprattutto i Saggi sulla forma poetica italiana dell’Ottocento (1929). Anche Borgese, a Milano, passa dalla cattedra di Letteratura tedesca a quella di Estetica, appositamente istituita per lui a richiesta dalla Facoltà nel 1925, e da quella sede continua la sua elaborazione di un’estetica alternativa a quella crociana, che culmina in Poeti42 

Anche di questo concorso non ho visto i verbali.

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ca dell’unità (Treves, 1934; mentre anche Tilgher nel ’31 pubblica la sua Estetica: teoria generale dell’attività artistica). I nostri due protagonisti lasciano dunque entrambi il terreno della letteratura tedesca. La contesa tra filocrociani e anticrociani nella germanistica italiana (come in molte altre discipline) non si esaurirà se non parecchi anni dopo la morte di Croce. Ma all’inizio di questa vicenda, negli anni decisivi della nascita della germanistica italiana, una corrente crociana extra-accademica, di cui De Lollis e Borgese sono tra i principali rappresentanti all’interno dell’università, ha un’influenza decisiva nell’attribuzione delle prime cattedre e nel determinare gli indirizzi della disciplina.

Capitolo quarto Condizioni necessarie Georg Büchner nel campo letterario italiano (1914-1955)

1. Tre condizioni necessarie all’individuazione di un autore Prima del 1914 Georg Büchner è del tutto assente dal repertorio letterario italiano1. Nulla di strano: anche in Germania la sua consacrazione, avviatasi solo tardivamente con l’edizione completa delle opere curata nel 1879 da Karl Emil Franzos, procede con molta lentezza, via via che le avanguardie letterarie lo “riscoprono” e lo riconoscono come loro “precursore”, prima all’insegna del naturalismo (Hauptmann, Wedekind), poi del simbolismo (Hofmannsthal), infine dell’espressionismo (Heym, Jahnn). La sua fama travalica la ristretta cerchia degli addetti ai lavori solo nel 1913, col centenario della nascita, grazie ad alcune importanti messe in scena e alla nuova edizione delle Gesammelte Schriften a cura di Paul Landau nella popolare insel-bücherei2. Sono dunque in primo luogo i nuovi entranti nel campo letterario tedesco 1 Solo recentemente Michele Flaim ha individuato una traduzione parziale e molto rimaneggiata del Dantons Tod, uscita col titolo Danton. Dramma storico in tre atti a firma di Gustavo Strafforello sulla «Rivista contemporanea nazionale italiana» di Angelo De Gubernatis (XVII.56, 1869, n. 185, marzo, pp. 404-428; n. 186, aprile, pp. 85-106; n. 187, maggio, pp. 258-271): cfr. Michele Flaim, Italia in Leonce und Lena, Leonce und Lena in Italia, in Büchner artista politico, a cura di E. Piergiacomi e S. Pietrini, Università degli Studi di Trento, Dipartimento di Lettere e Filosofia, Trento 2015, pp. 131-164. Era invece piuttosto noto suo fratello Ludwig Büchner, autorevole esponente del materialismo filosofico: sulla scia della ricezione francese a partire dagli anni ’60 erano state tradotte diverse sue opere, tra cui Forza e materia (1867), Scienza e natura (1868), L’uomo considerato secondo i risultati della scienza (1870). 2  Sulla fortuna di Büchner in Germania cfr. Georg Büchner und die Moderne (1875-1945). Texte, Analysen, Kommentar, hrsg. von D. Goltschnigg, Schmidt, Berlin 2001.

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allora in via di costituzione3 che, in cerca di legittimazione, hanno interesse a segnalarsi come scopritori del “dimenticato” Büchner4. Solo molto più tardi il suo valore letterario viene riconosciuto anche dalla germanistica, che fino agli anni ’30 si mostra anzi «piuttosto riluttante»5, limitandosi in genere a menzionarlo nelle storie letterarie e lasciando la cura delle successive edizioni delle opere a studiosi esterni all’ambiente accademico6. Non diversamente avviene in Italia, dove il primo germanista che menziona Büchner lo fa solo per corroborare la sua esclusione dal canone. Si tratta di Sigismondo Friedmann (1852-1917), titolare della prima cattedra italiana di letteratura tedesca, istituita presso la Facoltà di Lettere della Regia Accademica scientifico-letteraria di Milano7, che nella monografia Il dramma tedesco del nostro secolo gli dedica appena una nota a piè di pagina: Non possiamo invece riconoscere un precursore di Hebbel in Giorgio Büchner. Il suo dramma La morte di Danton ha bensì moltissimo che si allontana dal comune, ma più nel male che nel bene. Il lettore – giacché di uditori non si può nemmen parlare – resta specialmente offeso dalle frequenti immagini e locuzioni tolte all’ospedale e a certe malattie poco 3  Cfr. Christine Magerski, Die Konstituierung des literarischen Feldes in Deutschland nach 1871. Berliner Moderne, Literaturkritik und die Anfänge der Literatursoziologie, Niemeyer, Tübingen 2004. 4  Un analogo interesse si manifesta nella coeva avanguardia politica socialista, i cui esponenti (Harden, Mehring) riconoscono a loro volta in Büchner un precursore. 5  Wulf Koepke, Georg Büchner in der Sicht des Exils nach 1933, in Georg Büchner. Neue Perspektiven zur internationalen Rezeption, hrsg. von D. Sevin, Schmidt, Berlin 2007, p. 41. 6  In effetti i curatori delle prime edizioni delle opere di Büchner non sono germanisti, ma scrittori, giornalisti o collaboratori di case editrici, e per lo più all’inizio della loro carriera: Karl Emil Franzos (1848–1904, curatore dei Georg Büchners Sämmtliche Werke und handschriftlicher Nachlass per Sauerländer nel 1879) e Paul Landau (1880–1951, curatore dei Georg Büchners Gesammelte Schriften per Cassirer nel 1909) sono entrambi scrittori e appartengono all’intellighenzia ebraico-tedesca; Wilhelm Hausenstein (1882–1957, curatore dei Georg Büchners Gesammelte Werke, nebst einer Auswahl seiner Briefe per Insel nel 1915) è un politico della SPD, attivo anche come critico d’arte; Fritz Bergemann (1885-1963, curatore dei Sämtliche Werke und Briefe apparsi anch’essi per Insel nel 1922) lavora per la casa editrice Insel, il cui direttore, Anton Kippenberg, era entrato in possesso dei manoscritti di Büchner attraverso un nipote dello scrittore. 7  Per la traiettoria di Sigismondo Friedmann cfr. 3: Nascita di un nuova disciplina, pp. 160-163.

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pulite. Ed anche se ciò si comprende nel giovane rivoluzionario e medico di professione, tuttavia possiamo agevolmente dubitare se, anche vivendo più a lungo – egli morì invece all’età di 24 anni (1837) –, Büchner sarebbe divenuto un vero poeta drammatico. La storia letteraria, per il bisogno che ha di raggruppare, lo riunisce bensì a Hebbel e a Ludwig – e senza dubbio essi hanno comune una certa tendenza rivoluzionaria, non dissimile a quella del periodo che precedeva i classici –; ma fra l’avere una certa affinità o meglio una comunanza negativa nel combattere un indirizzo e l’esser precursore del nuovo indirizzo, ci corre un bel tratto8.

Come i suoi colleghi tedeschi, Friedmann non solo non ha (ancora) interesse a riconoscere in Büchner un autore degno di studio accademico, ma la doxa letteraria tardoromantica entro la quale si è formato gli impedisce di riconoscere qualsiasi valore a un autore la cui crudezza non può non apparirgli offensiva. Poiché, come ha mostrato Pierre Bourdieu9, una nuova doxa può affermarsi soltanto con la comparsa nel campo letterario (o accademico, o teatrale) di nuovi entranti “eretici” che mettono in discussione l’“ortodossia” dei dominanti, per spiegare come, quando e perché le opere di Büchner sono state lette, tradotte, e rappresentate in Italia occorre individuare chi aveva un interesse specifico a farlo, e ricostruire la posizione che in quel momento occupava all’interno di un certo campo. In molti casi si potrà osservare come l’importazione e appropriazione di un autore ancora privo di capitale simbolico si debba non solo a singoli nuovi entranti (professori universitari, scrittori, traduttori, registi), ma anche a istituzioni (cattedre, riviste, case editrici, teatri) a loro volta nuove o in via di riposizionamento. Si vedrà quindi che la “tra-duzione” di un autore, ovvero la sua “ri-produzione” in un nuovo campo letterario, non può essere compresa come un’iniziativa individuale, perché presuppone un lungo e costante “lavoro collettivo”, attraverso il quale vengono costruiti lo “spazio di possibilità” e la “problematica” all’interno dei quali l’atto di mediare un’opera (traducendola, pubblicandola, interpretandola, mettendola in scena) acquista un senso e un valore. 8 S. Friedmann, Il dramma tedesco del nostro secolo, cit., vol. II: I psicologi (Federico Hebbel), p. 17, nota. 9  P. Bourdieu, Le regole dell’arte, cit., in particolare le pp. 303-311.

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La mia tesi è che l’individuazione di Georg Büchner in Italia – come quella di molti autori stranieri nello stesso arco di tempo – sia legata a tre trasformazioni strutturali avvenute nel corso dei primi decenni del Novecento: la nascita della germanistica nel campo accademico, la genesi di un circuito di produzione ristretta nel campo editoriale e la rivoluzione della regia nel campo teatrale. Queste trasformazioni hanno creato le “condizioni di possibilità” necessarie (anche se certo non sufficienti) perché all’interno di determinati circuiti culturali si generasse un “interesse specifico” per la personalità e l’opera di un autore come Büchner. Per esigenze di chiarezza le esaminerò in tre capitoli successivi anche se di fatto sono simultanee e, anzi, si influenzano reciprocamente. A questa influenza reciproca si deve peraltro la circostanza – casuale ma significativa – che il primo studio accademico su Büchner (quello di G. V. Amoretti), la prima traduzione di un suo testo (quella di Alberto Spaini e Rosina Pisaneschi per Gino Carabba Editore) e la prima messa in scena di un suo dramma (quella di A. G. Bragaglia al Teatro Sperimentale degli Indipendenti) rechino la stessa data: il 1928. 2. La trasformazione del campo accademico: nascita della germanistica italiana Il primo scritto italiano su Büchner10, una recensione della citata edizione Insel delle Gesammelte Schriften, esce nel 1914 sulla rivista «Il Conciliatore» a firma di Rosina Pisaneschi, una giovane studiosa e traduttrice il cui nome è noto a ben pochi11. Per spiegare come abbia origine il suo interesse per Büchner occorre osservare più da vicino la sua traiettoria, che non casualmente è quella di una delle primissime donne laureate in letteratura tedesca nel nostro paese12. 10  Per le prime prese di posizione su Büchner in Italia si veda il Repertorio bibliografico della letteratura tedesca in Italia (1900-1965), a cura dell’Istituto Italiano di Studi Germanici, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1966. 11 Rosina Pisaneschi, Georg Büchner (Dantons Tod, Leonce und Lena, Wozzeck), «Il Conciliatore», I.2, settembre 1914, pp. 267-272. I tre titoli corrispondono ai nn. 88, 91 e 92 della insel-bücherei. 12  Per le traiettorie di Rosina Pisaneschi e del marito Alberto Spaini cfr. A. Baldini, D. Biagi, S. De Lucia, I. Fantappiè, M. Sisto, La letteratura tedesca in Italia, cit., in particolare pp. 191-200 e 211-218.

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Rosina Pisaneschi (1890-1960), senese, frequenta la Facoltà di Lettere dell’Istituto di Studi Superiori (poi Università degli Studi) di Firenze dove entra in contatto con la cerchia della «Voce» di Giuseppe Prezzolini (1882-1982), un gruppo di nuovi entranti in cerca di legittimazione impegnato in un programmatico rinnovamento della doxa e del repertorio letterario dominante13. Qui conosce il triestino Alberto Spaini (1892-1975) che negli anni ’20 si affermerà come uno dei primi traduttori professionisti di letteratura tedesca14. Dal 1911 i due vivono insieme a Roma, frequentando i corsi di letteratura tedesca di Giuseppe Antonio Borgese. Tra il 1912 e il 1913 soggiornano a lungo a Berlino, dove esplorano la letteratura contemporanea da Thomas Mann agli impressionisti, e assistono alle prime messe in scena del Wozzeck e di Leonce und Lena al Lessingtheater: nella capitale tedesca Büchner è uno degli autori del momento. Nel 1913 esce la loro prima traduzione, Le esperienze di Wilhelm Meister di Goethe, realizzata a quattro mani su commissione di Prezzolini e pubblicata da Laterza nella collana di Benedetto Croce scrittori stranieri15. Nel 1914, pochi mesi prima di sposarsi, si laureano entrambi con Borgese: Alberto discutendo la tesi Federico Hölderlin: vita dell’uomo e dell’artista, Rosina un Saggio sullo svolgimento poetico di Novalis. Quello stesso anno Rosina pubblica sia la sua traduzione dell’Enrico di Ofterdingen di Novalis nella collana di Borgese antichi e moderni16, sia la sua recensione alle opere di Büchner sul «Conciliatore», anch’esso diretto da Borgese. Il primo saggio italiano su Büchner è dunque opera di un’allieva di Borgese legata all’avanguardia vociana, ed esce sulla rivista del suo maestro17, che in quel momento è tra i protagonisti della nascita di una ger-

13  Cfr. M. Sisto, Gli editori e il repertorio, in A. Baldini, D. Biagi, S. De Lucia, I. Fantappiè, M. Sisto, La letteratura tedesca in Italia, cit., pp. 25-55. 14  Su Alberto Spaini cfr. anche Carla Galinetto, Alberto Spaini germanista, Istituto giuliano di storia, cultura e documentazione, Gorizia 1995, e Albertina Vittoria, Alberto Spaini e «La Voce», «Rivista di letteratura italiana» 15.1-3, 1997, pp. 276-286. 15  Cfr. M. Sisto, Gli editori e il repertorio, cit., pp. 68-73. 16  Cfr. ivi, pp. 80-82. 17  Sullo stesso fascicolo della rivista viene pubblicato anche un articolo di Alberto Spaini: Franz Werfel (Der Weltfreund, Die Versuchung, Wir sind), «Il Conciliatore», I.2, settembre 1914, pp. 262-267.

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manistica italiana18. È questa, dunque, la trasformazione che occorre per sommi capi ricostruire. Nel 1907, in un periodo di progressiva differenziazione dell’insegnamento delle lingue e letterature moderne nell’università italiana, viene creata a Torino la terza cattedra italiana di letteratura tedesca dopo quelle di Milano e Roma, e vi viene chiamato Arturo Farinelli19, romanista di grande carisma con una importante esperienza d’insegnamento a Innsbruck. In questi anni, e fino all’inizio della prima guerra mondiale, Farinelli è considerato, accanto a Croce e Gentile, uno dei capofila dell’insurrezione contro il positivismo dominante nell’università italiana: mentre questi ultimi tuttavia combattono in nome dell’idealismo filosofico e di una poetica sostanzialmente classicista, Farinelli incarna – anche con la sua figura pubblica – lo spirito dei romantici, che considera, non senza identificazione, «i veri precursori del nostro idealismo»20. Con chiari intenti polemici ne raccomanda lo studio «ai giovani, perché ne traggano conforto, stimolo a penetrare di cielo gl’ideali vagheggiati, a mettere spirito dov’è plumbea materia, e ad ascendere veramente il calle della vita, guardando lassù dove s’alza il sole»21. La retorica infiammata con cui invita a prenderli a modello e a elaborare, come loro, una nuova religione per la modernità, non lascia indifferenti coloro che aspirano a rovesciare i rapporti di forza nei rispettivi campi, soprattutto in quello letterario: Siamo almeno grati a questi ribelli, spinti da divina follia ad abbattere le trincee e barriere, che rinserrano lo spirito anelante alla libera vita, sotto libero cielo, e all’attività dell’uomo un nuovo mondo conquisero. Infransero le leggi, sconvolsero, turbarono, distrussero gli ordini prestabiliti, offesero le tradizioni rispettate, alla terra, che placida seguiva per l’orbita sua, diedero moto tormentoso. Gridate anatema voi che credete alla fissità di questa vita instabile e mutabile, e ritenete fatti gli uomini dagli ordinamenti, dalle 18 

Cfr. 3: Nascita di un nuova disciplina, pp. 157-176. Cfr. ivi, pp. 164-165. 20  Arturo Farinelli, Il Romanticismo in Germania. Lezioni introduttive, Laterza, Bari 1911 (biblioteca di cultura moderna, 41), p. 4. Si vedano anche i tre volumi del suo lavoro più ampio, Il Romanticismo nel mondo latino, Bocca, Torino 1927 (letterature moderne, 15-17). 21  Ivi, p. 91. 19 

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leggi, dagli editti, dalle norme, dalle prescrizioni, dalle regole; e non le regole, gli editti e le leggi fatte dagli uomini, costrette a seguire quindi l’eterno fluire di vita, lo svolgersi perpetuo dell’anima umana22.

A partire dal 1909 le sue lezioni torinesi sul romanticismo trovano vasta eco, anche nelle avanguardie letterarie: Prezzolini lo invita a pronunciarle anche alla Biblioteca Filosofica di Firenze e Croce le fa stampare nella biblioteca di cultura moderna Laterza. «La Voce» pubblica i suoi saggi sui fratelli Schlegel, Novalis, Wackenroder e Tieck, e nel 1910 sostiene pubblicamente la sua chiamata alla cattedra di letteratura italiana di Bologna, che era stata di Pascoli. Farinelli ha un ruolo importante anche nella consacrazione di Friedrich Hebbel, il primo drammaturgo tedesco accolto nel repertorio dell’avanguardia letteraria italiana, grazie soprattutto alle traduzioni di Scipio Slataper: ampiamente discusso dai nuovi entranti come rappresentante di una sensibilità “moderna” e “pre-nietzschiana”, sarà il principale termine di confronto evocato nelle prime prese di posizione su Büchner23. Ma, soprattutto, Farinelli, col suo interesse per il romanticismo, è determinante nel definire gli indirizzi di ricerca della germanistica italiana nei suoi primi decenni di vita. Continua a insegnare a Torino fino al 1937 – alle sue lezioni assistono anche Gramsci, Togliatti, Gobetti – e molte delle nuove cattedre di letteratura tedesca inaugurate a partire dagli anni ’10 vengono occupate dai suoi allievi. Come ha osservato Leonello Vincenti, suo successore sulla cattedra di Torino, [n]essun altro periodo della letteratura tedesca fu in Italia maggiormente studiato del Romanticismo. La generazione che aveva vent’anni al principio del secolo imparava dai Maestri del nuovo idealismo che tutto l’Ot22  Ivi, p. 90. Per avere misura della parzialità di questa lettura del romanticismo come movimento rivoluzionario si veda l’interpretazione opposta che ne darà più tardi György Lukács in Breve storia della letteratura tedesca dal Settecento a oggi, Einaudi, Torino 1956. 23  Cfr. Arturo Farinelli, Hebbel e i suoi drammi, Laterza, Bari 1912 (biblioteca di cultura moderna, 62). Tra i letterati che in questi anni si confrontano con Hebbel troviamo Giuseppe Antonio Borgese, Benedetto Croce, Emilio Cecchi, Vincenzo Cardarelli, Giovanni Boine e soprattutto Scipio Slataper, con le sue traduzioni della Giuditta (1910) e del Diario (1912): cfr. M. Sisto, Gli editori e il repertorio, cit., in particolare pp. 75-81.

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tocento era stato fecondato dai germi sparsi dal Romanticismo, e sentiva dentro di sé che gli insegnamenti e gli esempi di questo erano ancora suggestivi. I cenacoli fiorentini del «Leonardo» e della «Voce» si aprivano agli spiriti romantici d’oltralpe, e d’oltralpe venne all’università di Torino un Maestro, romantico di natura, che ebbe subito d’intorno una scuola. Importanza programmatica ebbero le lezioni che A. Farinelli tenne dalla cattedra torinese nell’inverno 1909-1910 […]. Gli scolari del Farinelli, e altri che s’accompagnarono a loro, si volsero alla trattazione monografica studiando la Allason Caroline Schlegel e Bettina Brentano, il Gabetti Z. Werner, l’Alfero Novalis e Chamisso, il Bottacchiari Hoffmann, il Vincenti Brentano, il Tecchi Wackenroder, l’Errante Lenau, il Maione in una duplice serie di profili tutti i principali rappresentanti dell’età romantica24.

Borgese non appartiene in senso stretto al gruppo degli allievi di Farinelli, ma agli inizi della sua carriera gli è molto vicino. Nel 1908, al rientro da Berlino, dove aveva trascorso due anni come corrispondente della «Stampa», si stabilisce a Torino, dove per la casa editrice F.lli Bocca pubblica prima una raccolta delle sue corrispondenze, La nuova Germania (1909), poi tre volumi di recensioni e saggi critici sulla letteratura contemporanea, La vita e il libro (1910-13), il primo dei quali reca la dedica «Ad Arturo Farinelli / pellegrino di tutte le poesie / anima di esule / cor cordium»25. Farinelli per contro riconosce nel giovane critico, almeno inizialmente, «un amico ideale», la cui attività culturale non si limita all’ambito universitario ma è «capace di uscire dalla fortezza propria per entrare nel cuore della nazione»26. Anche la loro alleanza ha le sue radici nella comune battaglia contro i “positivisti” che controllano le principali cattedre italiane, battaglia nella quale Borgese stesso è in prima fila dai tempi del «Leonardo» e di «Hermes» (1903) e della tesi di laurea sulla 24  Leonello Vincenti, Gli studi di letteratura tedesca [1950], in Id., Alfieri e lo Sturm und Drang e altri saggi di letteratura italiana e tedesca, Olschki, Firenze 1966, p. 163. 25  Giuseppe Antonio Borgese, La vita e il libro. 1: 1909-1910, Bocca, Torino 1910. 26  Arturo Farinelli, Episodi di una vita, Garzanti, Milano 1946, p. 186. Nelle righe immediatamente successive il germanista, evidentemente deluso per non aver trovato in Borgese un docile prosecutore del suo programma di studi, deplora «il suo feroce egoismo, la spavalderia, l’ambizione luciferesca, la noncuranza estrema per chiunque non agisse per venire a lui in aiuto e accrescergli fama e ricchezza», ecc.

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Storia della critica romantica in Italia (pubblicata nel 1905 da Croce). Così, quando nel 1910 Borgese si presenta al concorso per la cattedra di letteratura tedesca di Roma, Farinelli, che è in commissione, lo preferisce al rivale “positivista” (o almeno non altrettanto crociano) Guido Manacorda. Nei confronti del romanticismo, invero, Borgese è piuttosto critico, come testimoniano i suoi saggi su Heine, Hebbel, Nietzsche e Wagner27: i suoi interessi si rivolgono piuttosto alla tradizione del romanzo europeo, da Goethe a Tolstoj, in cui riconosce la via maestra al superamento dell’egemonia “ultraromantica” di Pascoli e D’Annunzio. Nondimeno riconosce nel romanticismo tedesco di primo Ottocento fermenti etici ed estetici che potrebbero contribuire alla genesi di nuove forme “classiche”: per questo nella collana antichi e moderni pubblica opere di Jean Paul, Novalis e Hoffmann (gli ultimi due nella traduzione di Rosina Pisaneschi)28; e quando nel 1914 prende il controllo della «Cultura» ne muta il nome in «Il Conciliatore», richiamandosi appunto alla storica rivista dei romantici italiani che un secolo prima aveva cercato di “conciliare” classicismo e romanticismo. Questo è dunque il contesto in cui vede la luce la recensione di Rosina Pisaneschi. Non si tratta peraltro, come ci si potrebbe aspettare, di un lavoro scolastico: al contrario, il punto di vista di Pisaneschi mostra una certa originalità29, allontanandosi sia dalla farinelliana esaltazione dello spirito romantico, sia dalla prospettiva “conciliatoria” di Borgese. La chiave di lettura adottata è vicina piuttosto alle riflessioni dei giovani letterati della «Voce», e in particolare all’idea di «modernità» alla luce della quale Prezzolini legge Novalis, Slataper Hebbel e lo stesso Spaini Goethe30. Inquadrato all’interno della problematica vociana della condizione dell’uomo moderno e della sua ricerca di una nuova religione – intesa come sistema di valori, anche laico – che sopperisca alla crisi 27  Cfr. tra l’altro Giuseppe Antonio Borgese, Studi di letterature moderne, Treves, Milano 1915. 28  Sulla sua attività di direttore di collana cfr. A. Baldini, D. Biagi, S. De Lucia, I. Fantappiè, M. Sisto, La letteratura tedesca in Italia, cit., pp. 177-182. 29  Pisaneschi propone addirittura una correzione all’ordinamento delle scene del Woyzeck stabilito da Landau. 30  Cfr. M. Sisto, Gli editori e il repertorio, cit., pp. 74-75.

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dei valori tradizionali, Büchner assumerebbe, secondo Pisaneschi, una posizione decisamente originale: non avendo alcun credo da proporre, egli sarebbe «il nichilista perfetto»31. Agli amici di Firenze, con i quali aveva a lungo discusso di questi problemi, la giovane studiosa sembra spiegare: alla morte di Dio Büchner non oppone né la strenua ricerca hebbeliana di una nuova fede né la fede nietzschiana nel singolo, nel superuomo. In Büchner la sistematica negazione degli antichi valori, incominciata sino dalla Sturm und Drang, e, in filosofia, con la Critica della ragion pura, giunge all’estremo, ed in realtà non è capace di crearne di nuovi, di presenti, atti a nobilitare la presente vita32.

L’unica via per sottrarsi alla mancanza di senso è, per i suoi personaggi, la follia, oppure la morte. Per questo l’arte di Büchner raggiungerebbe la grandezza solo in una disperata «satira della politica, della filosofia, della poesia romantica allora in voga, delle leggi, dell’amore quando non è sensuale e non serve da passatempo»: una satira che fa tabula rasa di tutto, risparmiando come degno di rispetto soltanto il dolore. «Dalla venerazione per il dolore degli uomini, nacquero Lenz e Wozzeck»33. Sebbene fortemente influenzata dalle discussioni della «Voce», la recensione di Pisaneschi, che cita ampiamente Büchner in tedesco senza preoccuparsi di tradurlo, resta uno scritto per specialisti. Così come specialisti sono Leonello Vincenti e Giuseppe Vittorio Amoretti, i due allievi di Farinelli a cui si devono i pochi scritti su Büchner apparsi in Italia nel corso degli anni ’20. Pressoché coetaneo di Pisaneschi (che non fa carriera accademica, ma è attiva come traduttrice fino alla metà degli anni ’30, lavorando per lo più a quattro mani col marito, spesso su commissione di Prezzolini o Borgese), Leonello Vincenti (18911963) dopo la laurea si trasferisce a Monaco, dove dal 1922 è lettore di italiano presso la cattedra di filologia romanza di Karl Vossler, e tornerà a Torino nel 1937 per succedere al maestro su quella di letteratura tedesca. Duranti gli anni da romanista in 31 

R. Pisaneschi, Georg Büchner, cit., p. 18. Ivi, p. 20. 33  Ivi, p. 19. 32 

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Germania traduce La Divina commedia studiata nella sua genesi e interpretata di Vossler, che esce nel 1927 nella biblioteca di cultura moderna di Croce, e lavora a una tesi di abilitazione, Brentano. Contributo alla caratteristica del romanticismo germanico, pubblicata nel 1928 nella collana letterature moderne fondata e diretta da Farinelli per Bocca34. All’inizio degli anni ’20 scrive per «La Stampa» di Torino numerose corrispondenze teatrali da Monaco, dove i giovani registi dell’espressionismo riscoprono i drammi di Grabbe, Kleist e Büchner, tra cui la «tragedia del popolo»35 Wozzeck e la fiaba «vestita di significati gravi»36 Leonce e Lena. Il suo interesse specifico per la scena tedesca contemporanea si traduce in due libri importanti: il pionieristico volumetto Il teatro tedesco del Novecento, pubblicato nel 1925 per le edizioni di Piero Gobetti, e la grande antologia Teatro tedesco, assemblata nei primi anni della guerra insieme a Giaime Pintor per la collana pantheon diretta da Elio Vittorini per Bompiani e data alle stampe nel 1946. Mentre nel primo si limita alla rituale menzione di Büchner come precursore dell’espressionismo37, nel secondo inserisce la traduzione integrale del Woyzeck, nella cui «atmosfera popolaresca» riconosce «la musica d’una ballata dolorosa»38. Ma al di là delle rassegne critiche di Vincenti, che in fin dei conti non sembra apprezzare troppo il nostro drammaturgo, il vero iniziatore degli studi su Büchner in Italia è Giovanni Vittorio Amoretti (1892-1981), il primo che ha interesse a dedicar34  Leonello Vincenti, Brentano. Contributo alla caratteristica del romanticismo germanico, Bocca, Torino 1928 (letterature moderne, 18). 35  Leonello Vincenti, Drammi della rivoluzione [Grabbe, Büchner], «La Stampa», 14.2.1921, p. 2; dello stesso Vincenti cfr. Woyzeck di Georg Büchner, «La Stampa», 3.7.1925, p. 2. 36  Leonello Vincenti, Commedie tedesche [Grabbe, Büchner, Kleist], «La Stampa», 10.12.1922, p. 3. 37 Leonello Vincenti, Il teatro tedesco del Novecento, Gobetti, Torino 1925, p. 15. 38  Teatro tedesco. Scelta di drammi e commedie dalle origini ai giorni nostri, a cura di L. Vincenti e G. Pintor, Bompiani, Milano 1946, p. 771. Il Woyzeck è pubblicato nella traduzione di Vincenzo Villa, allievo di Amoretti. Per il ruolo di Vittorini e Pintor nella selezione e traduzione dei testi cfr. Anna Boschetti, Elio Vittorini e la letteratura tedesca, www.ltit.it/scheda/persona/vittorini-elio__555 (ultima consultazione il 10.10.2018).

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gli un saggio accademico: siamo ormai nel 192839. Laureatosi anch’egli a Torino con Farinelli, dal 1920 Amoretti è lettore d’italiano a Bonn da Wilhelm Meyer-Lübke e Ernst Landsberg, e nel 1925 viene chiamato alla cattedra di letteratura tedesca appena creata all’università di Pisa, dove rimarrà fino al 1962. In Germania scrive un libro su Giovanni Boine (1887-1917), l’amico di giovinezza grazie al quale aveva seguito da vicino le discussioni dell’avanguardia vociana, cura un’edizione tedesca delle Lezioni sull’arte e la letteratura drammatica di A. W. Schlegel, e traduce in italiano il Peter Schlemihl di Chamisso40. Anche i suoi interessi si inquadrano dunque nella problematica farinelliana del romanticismo e in quella vociana della modernità. Nel 1926 pubblica anch’egli la sua tesi di laurea, Hölderlin, nella collana letterature moderne di Farinelli, e recensisce Il teatro tedesco del Novecento del collega Vincenti41. Mentre quest’ultimo eredita la cattedra del maestro, Amoretti gli subentrerà nel 1948 alla direzione della fortunata collana di letteratura straniera che Farinelli aveva fondato nel 1930 per utet, i grandi scrittori stranieri: e proprio qui pubblicherà nel 1963 il volume Opere e lettere di Büchner, di cui scrive egli stesso l’introduzione42. Nel saggio del 1928 Amoretti adotta il metodo biografico della “caratteristica”, che Farinelli aveva ripreso dalla critica letteraria romantica (F. Schlegel) attraverso la mediazione della germanistica tedesca contemporanea, e distingue tra un primo Büchner ribelle e politico – quello che era piaciuto ai giovani espressionisti – e un se39  Giovanni Vittorio Amoretti, Georg Büchner, «Annali delle Università Toscane», 12.1, 1928, pp. 1-43, ora in Id., Saggi critici, Bottega D’Erasmo, Torino 1968, pp. 71-110. 40  Giovanni Vittorio Amoretti, Giovanni Boine e la letteratura italiana contemporanea, Schroeder, Bonn-Leipzig 1922 (veröffentlichungen des romanischen auslandsinstituts der rheinischen friedrich-wilhelms-universität bonn, 1); August Wilhelm Schlegel, Vorlesungen über dramatische Kunst und Literatur, Kritische Ausgabe eingeleitet und mit Anmerkungen vorgesehen von G. V. Amoretti, Schroeder, Bonn-Leipzig 1923; Adalbert Chamisso, Storia meravigliosa di Pietro Schlemihl, traduzione di G. V. Amoretti, Facchi, Milano 1923. 41 Giovanni Vittorio Amoretti, Hölderlin, Bocca, Torino 1926 (letterature moderne, 12); Id., recensione di Leonello Vincenti, Il teatro tedesco del Novecento, «Leonardo», II.1, 20.1.1926, pp. 17-18. 42  Georg Büchner, Opere e lettere, a cura di A. Bürger-Cori, prefazione di G. V. Amoretti, utet, Torino 1963 (i grandi scrittori stranieri, 261).

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condo Büchner che avrebbe imparato più da Shakespeare che dallo Sturm und Drang, un autentico «realista» il cui capolavoro sarebbe da individuare nell’apolitico e fiabesco Leonce und Lena. Qui [i]l poeta non lancia più proclami, vede le cose e gli uomini quali essi sono e li accetta senza farsene schiavo. Non è più un dover essere, vive la vita quale essa è. Pertanto il suo Leonce und Lena è opera dove la fantasia regna sovrana e dove il poeta e l’artista errano al di là e al di sopra di qualsiasi preoccupazione di tendenza o d’intenti, dove i modelli, per quanto numerosi e ancora rintracciabili, sono trasformati dallo spirito del poeta, pago della sua creazione nella quale egli si dice e si paca e dove, dopo i tormentosi uragani del Danton, del Woyzeck e del Lenz, egli leva alla vita un inno pervaso di dolce malinconia e di dolorosa amara tristezza. Una perdonante ironia fascia il tutto; il poeta osserva: il cuore non gli sanguina più. A che giova? Più che una riconciliazione cogli uomini è un superamento, un andar sorridendo per le vie del mondo a tu per tu con gli altri, e pur solo, con entro nel cuore un demone maligno e scherzoso che trasforma all’avida fantasia quell’agitarsi degli uomini intorno e dà al loro tragico dolorare, sospirare, soffrire la parvenza d’una allegra spensierata commedia43.

Ancora una volta Büchner è letto attraverso il filtro della problematica letteraria italiana del tempo, di cui Amoretti continua ad essere un attento osservatore44. Ora però non si tratta più di guardare in faccia il nichilismo moderno e di esplorare i modi di superarlo, come volevano i vociani con le loro interpretazioni di Novalis, Hebbel e Nietzsche. Nel nuovo clima letterario del dopoguerra all’arte è richiesto di sollevarsi al di sopra delle contese del giorno, come aveva suggerito il tardo Goethe, quello “olimpico” additato a modello sia da Benedetto Croce sia dai rondisti, che proprio in questi anni legittimano la prosa d’arte, con la sua malinconica ironia, quale genere letterario dominante nel campo di produzione ristretta. Proprio Leonce und Lena, in cui «una perdonante ironia fascia il tutto» così che la tragedia della modernità prende le forme di «un’allegra e spensierata commedia», è il dramma che meglio si 43 

G. V. Amoretti, Giorgio Büchner, cit., p. 106. 1927 cura per la rivista tedesca «Wege nach Orplid» (III.5, 1927, pp. 1-80), diretta da Martin Rockenbach, un numero monografico sulla letteratura italiana contemporanea intitolato Junges Italien, per cui fornisce egli stesso sia le traduzioni sia i testi di commento. 44  Nel

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presta a una lettura in linea con la nuova doxa dominante, al punto che il realismo tragico di Büchner sembra rivelare insospettate affinità con il “realismo magico” di Massimo Bontempelli. Una lettura, questa di Amoretti, che come vedremo meglio più avanti non è affatto isolata, e appare anzi particolarmente legittima a causa delle trasformazioni nel frattempo intervenute nel campo letterario. Proprio nel 1928, infatti, al Büchner dei germanisti45 si affiancano anche un Büchner degli editori e un Büchner dei registi, le cui rispettive condizioni di possibilità occorre a loro volta ricostruire. 3. La trasformazione del campo editoriale: genesi di un circuito di produzione ristretta La prima traduzione italiana di Büchner è, come noto, l’edizione in tre volumi delle Opere pubblicata nella collana scrittori italiani e stranieri della casa editrice Gino Carabba fra il 1928 e il 193146. I traduttori, Rosina Pisaneschi e Alberto Spaini, avevano cominciato a lavorarci durante la guerra e un testo – forse proprio Leonce und Lena, che, con una significativa inversione rispetto all’ordine di composizione, occupa il primo volume e che, come vedremo, viene messo in scena al Teatro degli Indipendenti di Bragaglia – era già pronto nel marzo del 1919, come si evince dal carteggio tra Spaini e Prezzolini: Caro Prezzolini, ti spedisco oggi il Büchner, per cui attenderò un tuo giudizio ed un tuo consiglio. La cosa è durata un poco, perché non avevamo qui il testo tedesco, e s’è dovuto attenderlo da Siena. Mia moglie aspetta poi il tuo avviso per mettersi al lavoro del Hoffmann47.

45  Sulle ulteriori prese di posizione su Büchner nel campo della germanistica cfr. Giusi Zanasi, Aspekte der Büchnerrezeption in Italien, in Büchner-Rezeptionen – interkulturell und intermedial, hrsg. von M. Castellari, A. Costazza, Peter Lang, Bern 2015, pp. 137-147. 46  Georg Büchner, Opere, traduzione di R. Pisaneschi e A. Spaini, Gino Carabba Editore, Lanciano, 1: Lena e Leonce, 1928, 2: La morte di Danton, 1929, 3: Wozzeck, Lenz, 1931 (scrittori italiani e stranieri, 304, 305, 306). 47  Alberto Spaini a Giuseppe Prezzolini, 17.3.191[9]. Il carteggio completo, conservato all’Archivio Giuseppe Prezzolini presso la Biblioteca Cantonale di Lugano (AP FPr/1/SPAI.A/1), è in corso di pubblicazione.

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Nel primo dopoguerra Prezzolini, che dopo la chiusura della «Voce» nel 1916 ne aveva proseguito l’attività in ambito editoriale con i quaderni della voce (1910-1922), stava lavorando al progetto di una nuova collana sempre per le Edizioni della Voce, il libro per tutti (1919-1920). A questa collana, per la quale aveva chiesto la collaborazione di amici come Jahier, Gobetti, Linati e Rebora per tradurre opere di Claudel, Tolstoj, Stevenson e Kuprin, e il cui primo titolo sarà in effetti Il vaso d’oro di E.T.A. Hoffmann nella traduzione di Rosina Pisaneschi48, Prezzolini intendeva forse destinare anche un volume büchneriano. Non è stato possibile accertare se abbia poi rifiutato di pubblicarlo (come nel 1913 aveva rifiutato di stampare sulla «Voce» un saggio di Spaini su Thomas Mann49) o se non abbia potuto farlo (forse per il precoce fallimento della collana, cessata dopo appena un anno e soli sei titoli). Il fatto stesso che figuri ancora una volta nelle vesti del committente, o quantomeno del mediatore, ci induce tuttavia a ripercorrere la trasformazione del campo editoriale di cui da circa un decennio è uno dei protagonisti. Questa trasformazione ha inizio intorno al 1905, quando prima Benedetto Croce, poi Giovanni Papini, inaugurano presso case editrici di provincia come Laterza e Carabba alcune collane legate alle riviste da loro dirette, «La Critica» e «L’Anima»: in pochi anni la biblioteca di cultura moderna, i classici della filosofia moderna, gli scrittori d’italia e gli scrittori stranieri Laterza insieme a cultura dell’anima, scrittori nostri e altre collane Carabba inaugurano un circuito di produzione alternativo a quello della grande editoria, dimostrando, con una produzione complessiva di un centinaio di titoli l’anno, che è possibile fare libri non solo secondo la logica del mercato o della politica ma anche sulla base degli interessi specifici – letterari, filosofici, artistici – di un più ristretto gruppo di produttori e fruitori. Anche Prezzolini, attirato dalla possibilità di fare un’editoria al servizio del proprio progetto culturale, fonda nel 1910, insieme ai collaboratori della sua rivista, la Società Ano48  E.T.A. Hoffmann, Il vaso d’oro e La loggia di re Artù, traduzione di R. Pisaneschi, La Voce, Roma 1920 (il libro per tutti, 1). 49  Cfr. A. Baldini, D. Biagi, S. De Lucia, I. Fantappiè, M. Sisto, La letteratura tedesca in Italia, cit., pp. 266-267.

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nima Libreria della Voce e i citati quaderni della voce. Nel 1912 lo segue anche Borgese, che avvia a sua volta con Rocco Carabba antichi e moderni, collana poi legata al «Conciliatore». Nell’ambito di queste nuove imprese editoriali molti nuovi entranti organici alle avanguardie fanno le loro prime esperienze nella produzione libraria, in veste di curatori o traduttori: tra questi Emilio Cecchi, Giovanni Boine, Piero Jahier, Ardengo Soffici, e traduttori dal tedesco come Scipio Slataper, Vincenzo Errante, Ervino Pocar, e infine anche i nostri Rosina Pisaneschi e Alberto Spaini. L’effetto combinato di queste iniziative porta non solo a una trasformazione del campo editoriale italiano, nel quale ora alla produzione di massa dei grandi editori si contrappone stabilmente un circuito di produzione ristretta fatto da e per intellettuali, ma anche a una ristrutturazione complessiva del repertorio della letteratura tradotta. Per quanto riguarda la letteratura tedesca, accanto ai romanzi commerciali di Treves (E. Werner, W. v. Heimburg, E. Eckstein, H. Sudermann) e ai classici popolari di Sonzogno (da Lessing a Paul Heyse passando per Heine) si afferma un nuovo repertorio di autori “moderni”, o modernamente riletti, la cui legittimità letteraria è riconosciuta e per così dire garantita dagli stessi fondatori del circuito di produzione ristretta: al centro di questo repertorio vengono collocati Nietzsche, Novalis, Hebbel e Goethe, a più riprese pubblicati e commentati da Croce, Papini, Prezzolini, Borgese, Slataper, Farinelli e dai loro sodali50. Inserendosi in questo circuito, anche Gino Carabba, il figlio maggiore di Rocco, fonda una propria casa editrice indipendente e inaugura la longeva e produttiva collana scrittori italiani e stranieri (1911-1943, 421 volumi). Pur richiamandosi ai principi dell’autonomia letteraria fin dal motto («Ex arduis perpetuum nomen»), né il progetto, che imita fin nella grafica delle copertine la everyman’s library lanciata nel 1906 a Londra da Ernest Rhys, né il catalogo, costruito soprattutto grazie alla collaborazione di studiosi attempati come Domenico Ciampoli (185250  Per una più ampia ricostruzione di questa trasformazione cfr. A. Baldini, D. Biagi, S. De Lucia, I. Fantappiè, M. Sisto, La letteratura tedesca in Italia, cit., pp. 5989; sull’attività editoriale Prezzolini cfr. in particolare le pp. 36-38, 74-79 e 201-210.

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1929) e Federigo Verdinois (1844-1927), sono paragonabili per originalità e rigore alle collane dei letterati dell’avanguardia, né godono di altrettanto riconoscimento nel campo di produzione ristretta. Il carattere piuttosto eterogeneo della collana è tuttavia compensato da un duplice vantaggio: un volume di produzione notevolissimo, intorno ai venti titoli l’anno, e un’apertura alle opere più diverse e ricercate. Si guadagna infatti una certa considerazione per alcune delle prime traduzioni di autori russi classici e contemporanei condotte sull’originale (Griboedov, Fonvizin, Gogol’, Lermontov, Saltykov-Ščedrin, Gončarov, Leskov, Andreev, Bunin) e per la particolare attenzione alle letterature del vicino e lontano oriente (Omar Kayyâm, Saadi, Kālidāsa, Mirza Shafi Vazeh), incluso Tagore, che pubblica poco prima del conferimento del Nobel nel 1913. Anche sul fronte della letteratura tedesca alterna operazioni di retroguardia, come il recupero di una vecchia e rimaneggiatissima traduzione del Wilhelm Meister di Goethe (molto contestata dai vociani e in particolare proprio da Spaini)51, a operazioni d’avanguardia, come la prima traduzione italiana dei racconti di Gustav Meyrink (poi ristampata con una prefazione dello stesso Spaini)52. Uno spazio consistente è riservato, secondo la concezione della letteratura herderiana e tardoromantica di Ciampoli, ai generi più rappresentativi delle tradizioni dei diversi popoli, dai canti ai testi religiosi al teatro, filoni che, in una collana che sempre più si va profilando come “universale”, richiedono di essere costantemente alimentati con nuove traduzioni: è dunque accanto a testi di Molière, Tommaseo, Caragiale, Tolstoj, alla Vergine d’Orléans di Schiller a alla Morte di Empedocle di Hölderlin che trovano infine posto, a dieci anni dal primo tentativo prezzoliniano, anche le Opere di Büchner53. 51  Cfr. la polemica fra Ciàmpoli, Spaini e Mazzucchetti sulle traduzioni in A. Baldini, D. Biagi, S. De Lucia, I. Fantappiè, M. Sisto, La letteratura tedesca in Italia, cit., pp. 249-253. 52  J. W. Goethe, Gli anni di noviziato di Guglielmo Meister, traduzione di G. Berchet, a cura di D. Ciampoli, Gino Carabba Editore, Lanciano 1913 (scrittori italiani e stranieri, senza numero); Gustav Meyrink, Il baraccone delle figure di cera, traduzione di A. Silvestri Giorgi, Gino Carabba Editore, Lanciano 1920 (scrittori italiani e stranieri, 162-163). 53  È ipotizzabile che verso la fine degli anni ’20 si instauri un rapporto piuttosto stretto fra la casa editrice di Gino Carabba e il Teatro Sperimentale degli Indipen-

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Che l’operazione non rientri in un progetto letterario più organico è testimoniato da un passaggio dell’introduzione di Alberto Spaini: «In Germania per Giorgio Büchner c’è oggi un culto al quale forse si deve anche l’attuale traduzione italiana delle sue opere, come un riflesso di un movimento culturale che, al di là delle Alpi, ha appunto suscitato questo culto»54. Il movimento culturale a cui si allude è l’espressionismo, di cui Spaini è in questi anni uno dei più acuti osservatori proprio in virtù della sua personale esperienza nelle omologhe avanguardie italiane, prima quella fiorentina della «Voce», poi quelle romane della «Ronda», di «900» e del Teatro degli Indipendenti. Questa sua traiettoria gli consente di accreditarsi nel corso degli anni ’20 come uno dei primi storici dei movimenti d’avanguardia novecenteschi: il suo lavoro più compiuto in questo senso è il volume Il teatro tedesco55, nel quale, lasciando deliberatamente in secondo piano il giudizio estetico, privilegia un’impostazione sociologica, più adeguata a mettere in evidenza la logica del superamento reciproco che aveva governato le diverse avanguardie teatrali (naturalisti, simbolisti, neoclassicisti, neoromantici, neonaturalisti, espressionisti, ecc.) in concorrenza per l’egemonia simbolica. Anche nel suo secondo mestiere, quello di traduttore (il primo è quello di giornalista), Spaini assume un habitus avanguardistico, specializzandosi in prime traduzioni di autori tedeschi contemporanei ancora sconosciuti in Italia: accanto al Wilhelm Meister e alle Opere di Büchner firma infatti, per lo più insieme a Rosina Pisaneschi, la raccolta di racconti di Frank Wedekind Fuochi d’artificio (Potenza, 1921), quella di Thomas Mann Ora greve, Tristano e altri racconti (Morreale, 1926), l’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht (messa in scena da Bragaglia nel 1930), Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin (Modernissima, 1931) e Il processo di Franz Kafka (Frassinelli, 1933). Proprio queste sue disposizioni avanguardistiche lo portano spontaneamente a interpretare Büchner, un autore che come sapdenti, dove Bragaglia mette per la prima volta in scena Leonce und Lena. A fare da tramite è probabilmente lo scrittore abruzzese Nicola Moscardelli (1894-1943), già collaboratore della «Voce» e più tardi collaboratore di Bragaglia. Nel 1932 quest’ultimo firma per scrittori italiani e stranieri la prefazione a Tutta l’America del poeta modernista brasiliano Ronald de Carvalho. 54  Alberto Spaini, Introduzione, in G. Büchner, Lena e Leonce (Opere: 1), cit., p. II. 55  Alberto Spaini, Il teatro tedesco, Treves, Milano 1933.

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piamo frequentava ormai da tre lustri, attraverso il filtro della problematica dominante negli ambienti letterari a cui è legato alla fine degli anni ’20, il teatro di Bragaglia e la cerchia novecentista di Bontempelli, allora impegnati a superare in una nuova sintesi la contrapposizione tra la rivolta “romantica” del futurismo e il “classicismo” formale della «Ronda». Scrive Bontempelli: La funzione storica di Bragaglia è chiara. Il suo teatro ha rappresentato per sei anni tra noi quello che altrove sono stati venti o trent’anni d’«avanguardia» di vario genere. Noi non ne avevamo nessuna, a teatro; Bragaglia ce le ha date tutte: futurismo; impressionismi di fabbriche varie; intellettualismo di quello che chiamano, Dio sa perché, neoclassico; cubismo; dadaismo; estetismo; espressionismo; e via via, anche il «novecentismo», che è la liquidazione attiva di tutte le avanguardie56.

Su Bragaglia torneremo più avanti. Massimo Bontempelli (1878-1960), che negli anni ’10 aveva debuttato come carducciano in ritardo e anti-vociano, dopo la guerra si era convertito al futurismo e poi al fascismo, diventando uno degli scrittori, giornalisti e polemisti più influenti sulla scena letteraria. Attraverso la rivista «900» (1926-1929) cerca di affermare la sua nuova poetica con le parole d’ordine di “novecentismo” e di “realismo magico” o “metafisico”. Si presenta come portavoce di un movimento che pretende di superare le opposizioni correnti fra modernità e tradizione, nazionalismo e universalismo, idealismo e realismo in tutte le arti, dalla letteratura alla pittura e al cinema. L’artista deve «inventare miti» per mezzo dei quali «il mondo immaginario si verserà in perpetuo a fecondare e arricchire il mondo reale»57. Nel tentativo di guadagnare a questa causa artisti di tutto il mondo pubblica su «900», che esce prima in francese a Parigi e poi in italiano a Roma, testi di scrittori le cui poetiche non potrebbero essere più distanti tra loro, come James Joyce, Georges Soupault, Georg Kaiser, Virginia Woolf, Blaise Cendrars, Yvan Goll, Max Jacob e tra gli italiani Filippo 56  Massimo Bontempelli, Come la pensavo nel ’28, in Id., L’avventura novecentista [1938], a cura e con introduzione di R. Jacobbi, Vallecchi, Firenze 1974, p. 237. 57 Massimo Bontempelli, Justification, «900», I.1, 1926, p. 7, cito dalla traduzione dell’autore in Id., Opere scelte, a cura di L. Baldacci, Mondadori, Milano 1978, p. 750.

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Tommaso Marinetti, Anton Giulio Bragaglia, Umberto Barbaro e Alberto Moravia. La sua personale produzione si avvicina tuttavia soprattutto al surrealismo francese, pur senza condividerne le tensione politica, rispetto a cui anzi privilegia un implicito «disimpegno umoristico»58. I suoi drammi più importanti, Eva ultima (1923), Nostra Dea (1925) e Minnie la candida (1927), sono presentati come «favole magiche» o «metafisiche», nelle quali personaggi in carne e ossa convivono sul palcoscenico con automi e marionette all’insegna di un’ironia alienante che dovrebbe distruggere la percezione ordinaria del mondo per suggerirne di nuove. In uno dei testi fondativi del “novecentismo” Bontempelli spiega: I lenti funerali del romanticismo sono stati un’operazione magica, che ci ha aperto improvvisi squarci su spazi poco noti. Per questi squarci, in ognuna delle nostre avventure d’ogni giorno penetrano soffi da quelle atmosfere che ancora non sappiamo misurare. Questo preteso “fumismo” (in cui sboccò l’esperienza dell’ironia), quel “funambulismo” col quale i critici gravi hanno creduto liberarsi con una parola da tanti problemi personali degli scrittori nuovi, non è che il primo tirocinio magico del nostro nuovo senso di quegli orizzonti in formazione. L’hanno anche chiamato (specialmente in pittura) “metafisica”, che non era trovato male59.

Nella sua introduzione Spaini, oltre a menzionare la recente rappresentazione del Leonce und Lena al Teatro degli Indipendenti, non manca di osservare che «[m]olte scene di Lena e Lonce (e ancor più della Morte di Danton) potrebbero essere state scritte da Kaiser (o da Bontempelli)»60. Ma è soprattutto la sostanza dell’argomentazione a rivelare l’origine dello schema di lettura adottato. L’opera di Büchner, «autore straordinariamente moderno e contemporaneo nostro», scrive Spaini, «riguarda in realtà anche noi»61: la sua «modernità come artista» si manifesta in quello che con terminologia bontempelliana definisce il «pro58 

Così Luigi Baldacci, Introduzione, ivi, p. XXXI. Massimo Bontempelli, Fondamenti [1926], ivi, pp. 758-759. 60  A. Spaini, Introduzione, in Büchner, Lena e Leonce (Opere: 1), cit., pp. VIIVIII. Al teatro di Bontempelli più avanti Spaini dedicherà il saggio Il teatro di Massimo Bontempelli, «Rivista Italiana del Dramma», I.2, 15 marzo 1937, pp. 129-143. 61  A. Spaini, Introduzione, in Büchner, Lena e Leonce (Opere: 1), cit., pp. III e IX. 59 

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cedimento metafisico»62 adottato nel Lenz e la «feroce ironia»63 di certe scene, o in gergo futurista-bragagliano la «concezione teatrale tutta sintetica»64 delle sue opere: Vedete la concezione teatrale tutta sintetica che egli ha. Il suo modo di creare una situazione per gradi e per momenti, senza mai dare una scena vera e propria di conflitti, ma concentrando tutto in tanti punti illuminati eccessivamente, in cui ogni cosa stride per il colore, e gli alti si staccano accecanti, i bassi scompaiono in abissi d’ombra, mentre i passaggi non vi sono, oppure sono dati per mezzo di insinuazioni e di allusioni che vengono da elementi estranei al dramma stesso: le scene della folla e del popolo nel Danton, i monologhi di Valerio nel Leonce e Lena, o le entrate comiche del professore, del capitano e del domatore e le scene fantastiche nell’osteria del Wozzeck. Soprattutto in queste scene Büchner raggiunse una perfezione esecutiva che fa stupire in un artista così giovane. I monologhi arlecchineschi di Valerio non fanno certo ridere come non fanno ridere gli spassi di Leonce e di Danton: sono risi spettrali, senza scintillio di pupille. E qui, in questa ironia feroce, Büchner raggiunge veramente i punti più perfetti della sua arte65.

Leggendolo all’interno della specifica problematica teatrale di Bontempelli e Bragaglia, Spaini è portato a individuare – e dunque a produrre – un Büchner “surrealista”, o meglio “novecentista”, e a trascegliere fra le sue opere Leonce und Lena come la più rispondente alla poetica del giorno. E proprio Leonce und Lena è il primo dei drammi di Büchner a essere messo in scena in un teatro italiano. 4. La trasformazione del campo teatrale: la rivoluzione del teatro di regia La prima rappresentazione di Leonce e Lena presuppone un’ulteriore trasformazione strutturale e simbolica, quella del campo teatrale. Nel corso della prima metà del Novecento al teatro commerciale delle compagnie itineranti, con i suoi capocomici, i suoi 62 

Ivi, p. XI (corsivo mio). Ivi, p. IX (corsivo mio). 64  Ivi, p. IX (corsivo mio). 65  Ivi, p. IX. 63 

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grandi attori e il suo repertorio prevalentemente d’importazione francese cominciano a contrapporsi i primi esperimenti di teatro “d’eccezione” o “d’arte”, in cui le scelte di repertorio, recitazione e messa in scena rispondono alla logica autonoma dell’arte prima che a quella eteronoma del mercato: questi esperimenti hanno un denominatore comune nell’idea del “teatro di regia”, in cui il garante del valore artistico della rappresentazione è individuato in una nuova figura professionale, definita di volta in volta “direttore”, “allestitore”, metteur en scène, “inscenatore”, régisseur, e infine, con un neologismo appositamente coniato, “regista”66. Dopo i primi isolati tentativi di Gabriele D’Annunzio e Virgilio Talli all’inizio del secolo, a promuovere questa trasformazione sono in primo luogo i futuristi, che nel 1915 pubblicano il manifesto Il teatro futurista sintetico (atecnico – dinamico – simultaneo – autonomo – alogico – irreale) e con i loro esperimenti di teatro d’avanguardia contribuiscono in misura sostanziale alla formazione di una nuova generazione di professionisti dell’arte della messa in scena67. Negli anni ’20, poi, la battaglia per il teatro di regia68 vede in prima linea tre figure fra loro molto diverse ma le cui traiettorie si trovano in più occasioni a convergere per la comunanza di interessi specifici: Luigi Pirandello (1867-1936), che tra il 1925 e il ’28 dirige a Roma il Teatro d’Arte (dove tra l’altro va in scena la prima di Minnie la candida di Bontempelli) e in drammi come Questa sera si recita a soggetto (1930) elabora la sua personale visione della pratica registica a partire dall’esperienza fattane a Berlino con Max Reinhardt; Silvio D’Amico (1887-1955), che nel 1932 nel primo fascicolo della sua rivista «Scenario» introduce nella lingua italiana la parola regista e nel 1935 fonda a Roma l’Accademia Nazionale 66  Roberto Alonge, Francesca Malara, Il teatro italiano di tradizione, in Storia del teato moderno e contemporaneo, diretta da R. Alonge e G. Davico Bonino, vol. III: Avanguardie e utopie del teatro. Il Novecento, Einaudi, Torino 2001, pp. 567701. 67  Günter Berghaus, Italian Futurist Theatre. 1909-1944, Clarendon Press, Oxford 1998, p. 18. 68  Tra i più significativi esperimenti di teatro di regia degli anni ’20 si segnalano il Teatro del Convegno (1924-1931), Teatro della Sala Azzurra (1924-25), il Teatro della Piccola Canobbiana (1924) e la compagnia di Tatiana Pavlova, allieva di Stanislavskij: cfr. Gianfranco Pedullà, Il teatro italiano nel tempo del fascismo, Titivillus, Corazzano 2009, p. 64.

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di Arte Drammatica; e Anton Giulio Bragaglia, che fra il 1922 e il 1930 nel suo Teatro Sperimentale degli Indipendenti «dedica tutte le sue energie alla tecnica teatrale e al repertorio», come scrive lo stesso Alberto Spaini69, fin dall’inizio coinvolto nell’impresa come traduttore e autore di drammi in proprio. Dopo il suo debutto sulla scena fotografica e cinematografica del futurismo degli anni ’10, Anton Giulio Bragaglia (18901960) aveva aperto una galleria d’arte a Roma e fatto le sue prime esperienze teatrali nella compagnia di Virgilio Talli. Nel 1922 fonda a Roma, nei sotterranei delle Terme di Settimio Severo in via degli Avignonesi, il Teatro Sperimentale degli Indipendenti, che si rifà al modello dei teatri d’avanguardia europei, come il Théâtre Libre a Parigi, la Freie Bühne a Berlino, i Kammerspiele a Monaco. Nel suo piccolo teatro-laboratorio, che si finanzia coi proventi del ristorante e tabarin al piano superiore, quest’«uomo della messa in scena»70 collauda le moderne teorie registiche di Appia, Craig, Nemirovič-Dančenko, Marinetti, Copeau e Piscator, integrandole con la tradizione italiana della scena barocca (Ricciardi, Torelli), della Commedia dell’arte e della pantomima. Al teatro dei letterati e a quello degli attori contrappone un «teatro teatrale», e al grido «Il teatro ai teatranti come la terra ai contadini!» cerca di legare la sua rivoluzione teatrale alla rivoluzione fascista71. Il suo lavoro, riconosciuto e incoraggiato da registi quali Antoine, Reinhardt e Mejerchol’d, diventa un punto di riferimento e una palestra per molti giovani che aspirano ad affermarsi nel campo teatrale. Il suo risultato più importante è, accanto all’innovazione tecnica, il radicale rinnovamento del repertorio. Al Teatro degli Indipendenti, che viene inaugurato il 18 gennaio 1923 con Siepe a Nord-ovest di Bontempelli, vengono infatti messi in scena lavori dei nuovi e nuovissimi drammaturghi italiani, come Pirandello Marinetti, Rosso di San Secondo, Italo Svevo, Umberto Barbaro, Antonio Aniante e lo stesso Alberto Spaini, ma soprattutto le più audaci e diverse novità del repertorio straniero, tra cui 69 

Alberto Spaini, Italiens neues Theater, «Italien», I.10, 1928, p. 556 (trad. mia). Ibidem. 71  Cfr. Anton Giulio Bragaglia, Del teatro teatrale ossia Del teatro, Tiber, Roma 1929 e Il teatro della rivoluzione, Tiber, Roma 1929. 70 

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drammi di Apollinaire, O’Neill, Čechov, Strindberg, Laforgue, Čapek, Ribemont-Dessaignes e l’Ubu Re di Afred Jarry, che diventa il suo maggior successo. Molte di queste novità vengono dalla Germania:

Opere tedesche messe in scena al Teatro Sperimentale degli Indipendenti diretto da Anton Giulio Bragaglia (1923-1929)1 Frank Wedekind, La morte e il diavolo (19.3.1923, trad. A. Spaini) Frank Wedekind, Il castello di Wetterstein (17.5.1925, trad. A. Spaini) Carl Sternheim, Snob (3.1.1926, trad. S. Rouk Richter) Arthur Schnitzler, Girotondo (6.3.1926, trad. anonima) Curt Goetz, La fiaba, L’assassino, La zia morta (13.4.1927, trad. anonima) Klaus Mann, Ania ed Ester (26.11.1927, trad. E. Giovannetti) Georg Büchner, Lena e Leonce (10.2.1928, trad. A. Spaini) Georg Kaiser, La cartiera (11.4.1928, trad. anonima) Fred Antoine Angermayer, La commedia di Rosa (28.3.1929, trad. A. Salvatore) 1  Dati

tratti da Il teatro sperimentale degli indipendenti (1923-1936), a cura di A. C. Alberti, S. Bevere, P. Di Giulio, Bulzoni, Roma 1984.

Si tratta di un repertorio selezionatissimo per qualità artistica ma aperto alle tendenze letterarie più diverse: Bragaglia ha infatti bisogno di mettere in scena un paio di spettacoli al mese – dunque svariate decine in sette anni – per dimostrare le proprie doti di “mettinscena”, “scenotecnico” o “coràgo” (questi i termini da lui proposti), e con esse la necessità stessa della figura del regista. A questo scopo gli servono testi, copioni: non importa quali, purché nuovi, meglio se internazionalmente riconosciuti. Ed è certamente Spaini, che all’impresa di Bragaglia contribuisce non solo con traduzioni e articoli ma anche con riduzioni (quella del Pierrot fumiste di Jules Laforgue) e testi propri (come La cattura di Sansone ovvero Quel che piace alle donne), a proporre Büchner, e in particolare Leonce und Lena, che viene rappresentato il 10 febbraio 1928 con il titolo – curiosamente rovesciato, forse per dare più centralità alla protagonista femminile (come in gran parte dei

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drammi di Bontempelli) – Lena e Leonce72. L’anonima recensione che ne appare sulla «Fiera letteraria», rivista allora di fresca fondazione e alla quale Bragaglia collabora regolarmente, riferisce gli intendimenti del traduttore e del regista così fedelmente che sembra riprodurne le parole pressoché alla lettera: Noi oggi, rappresentando Büchner, discutendolo ed ammirandolo come il padre nobile di tutti gli avanguardismi, compiamo la grande vendetta, ed è tutta rinchiusa nell’opera letteraria di lui. Nessun critico arriverebbe mai infatti a mettere così palesemente in evidenza tutti i difetti e tutte le esagerazioni delle scuole letterarie che, a cavallo dei due secoli che precedono il nostro infelicissimo, dominarono. In questa Lena e Leonce in particolar modo Büchner si abbandona alla libera fantasia, costruendo in un modo fiabesco la satira più feroce della letteratura teatrale e della poesia di tutti i tempi73.

Questa lettura, parzialissima ma non priva di fondamento, fa di Büchner un distruttore di ogni tradizione letteraria codificata, una sorta di futurista o novecentista ante litteram così come in Germania era stato letto come un espressionista ante litteram74. 72  Sulla locandina del Teatro degli Indipendenti la traduzione è attribuita al solo Spaini, mentre il frontespizio dell’edizione Carabba delle Opere indica come traduttori sia Pisaneschi che Spaini. È possibile che marito e moglie si siano divisi i quattro testi dell’edizione a stampa, e che Lena e Leonce sia stata effettivamente tradotta dal solo Spaini, ma più probabilmente il nome di Pisaneschi è stato omesso dalla locandina – come più tardi dall’edizione Rosa e Ballo delle opere di Büchner – per dare maggiore rilievo a Spaini, che a differenza della moglie aspira in quegli anni ad accreditarsi nell’ambiente teatrale. Peraltro, non si tratta a rigore della prima rappresentazione, perché nel luglio 1927 viene messo in scena al Teatro Nazionale di Firenze La morte di Danton, in una traduzione diversa da quella di Pisaneschi e Spaini e che non è stato possibile rintracciare: cfr. G. Zanasi, Aspekte der BüchnerRezeption in Italien, cit., p. 145. 73  Vice [pseudonimo], Cronache delle scene e dei ridotti. A Roma. Lena e Leonce di Giorgio Büchner agli Indipendenti, «La Fiera Letteraria», 19.2.1928, p. 3 (corsivo mio). L’argomentazione riprende le idee esposte da Spaini nell’introduzione a Büchner, Lena e Leonce, cit. L’importanza di questa rappresentazione per le avanguardie italiane è stata sottolineata da Achille Castaldo, Esperienze d’avanguardia nell’Italia tra le due guerre. L’espressionismo di Marcello Gallian. L’immaginismo di Umberto Barbaro e Dino Terra, Tesi di dottorato, Relatore S. Cirillo, Università degli studi di Roma “Sapienza”, Dipartimento di Studi greco-latini, italiani, scenico-musicali, 2011, pp. 7-8. 74  La recensione riferisce le opinioni di Bragaglia e Spaini anche sulla qualità delle traduzioni ad uso del teatro («La traduzione di Alberto Spaini è quello che noi intendiamo per traduzione: avvicinare un’opera d’arte a un pubblico determinato

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L’attività del Teatro degli Indipendenti si chiude nel 1930 con la prima rappresentazione italiana dell’Opera da tre soldi di Brecht, messa in scena in diverse città italiane nella traduzione di Alberto Spaini e Corrado Alvaro e col titolo La veglia dei lestofanti. E proprio a Brecht viene associato Büchner nella tappa successiva della sua consacrazione italiana, che ancora una volta è legata alla progressiva legittimazione del teatro di regia. Il nuovo entrante questa volta è Paolo Grassi (1919-1980), che inizia la sua traiettoria nel campo teatrale intorno al 1940, in veste di critico per il quotidiano milanese «Il Sole». In questo periodo conosce il futuro regista Giorgio Strehler (1921-1997), fonda il circolo teatrale d’avanguardia Palcoscenico, che mette in scena opere di Yeats, Synge, O’Neill e Pirandello, e soprattutto si associa alla campagna di Silvio D’Amico contro il vecchio teatro e per il teatro di regia. Fallito il tentativo di affermarsi come regista in proprio, a partire dal 1945 riprende il progetto di D’Amico di istituire un teatro nazionale sovvenzionato dallo Stato, e in pochi anni compie una vera e propria rivoluzione nel campo teatrale, dando vita con Strehler al Piccolo Teatro di Milano, tempio del teatro di regia e primo di una rete nazionale di teatri stabili. Questa rivoluzione è resa possibile anche dal rovesciamento dei rapporti di forza nel campo del potere: mentre a fine anni ’20 Bragaglia, come Pirandello e D’Amico, aveva corteggiato il fascismo, la caduta del regime e la nuova egemonia culturale dei partiti della sinistra consentono a Grassi, che fra il 1945 e il ’47 è critico teatrale del quotidiano socialista «Avanti!», di affermarsi come uno degli intellettuali più rappresentativi del dopoguerra. La sua irresistibile ascesa, che ha tra le sue tappe principali la fondazione delle due principali collane teatrali del periodo, teatro moderno per Rosa e Ballo (1944-1950) e la collezione di teatro per vuol dire tradurre non solo le parole, ma, quando è necessario, le idee, le allusioni, le imagini. Non esitiamo a dichiarare che di metà buona del successo entusiastico dello spettacolo va dato merito all’intelligenza del traduttore») e sul riconoscimento di cui il Teatro di via degli Avignonesi gode dopo cinque anni di esperimenti («Il successo, ripeto, fu pieno ed entusiastico, né la critica fu di parer contrario a quello del pubblico che ogni sera va confermandone il giudizio. Pubblico vasto, ormai questo degli Indipendenti; che hanno cessato da un pezzo di essere un ritrovo di intellettuali, e soddisfano un pubblico in nulla diverso da quello dei grandi teatri, e forse più eclettico»): Vice, Cronache delle scene e dei ridotti, cit.

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Einaudi (1962-oggi, con Gerardo Guerrieri), e l’acquisizione in esclusiva dei diritti sull’opera di Bertolt Brecht, è determinante per la consacrazione italiana di Büchner. Quando nel 1943 Achille Rosa e Ferdinando Ballo, che come lui frequentano il circolo di «Corrente», lo incaricano di dirigere una collana di teatro per la casa editrice che hanno appena fondato75, il giovane Grassi vi riconosce lo strumento ideale per riprendere, con altri mezzi, l’operazione avviata da Bragaglia agli Indipendenti: legittimare il teatro di regia attraverso il rinnovamento del repertorio. Nelle intenzioni di Grassi teatro moderno dev’essere una collezione pressoché completa dei capolavori del teatro straniero del Novecento. Per realizzarla ha bisogno di collaboratori e alleati, che trova in parte nella cerchia milanese della casa editrice, ma soprattutto nella giovane generazione di registi e critici teatrali nati intorno al 1920 che frequentano le cerchie romane dell’Accademia Nazionale di Arte Drammatica di D’Amico e del nuovo Teatro delle Arti di Bragaglia, tra cui Gerardo Guerrieri, Vito Pandolfi e Ruggiero Jacobbi. Col loro aiuto pubblica fra il 1944 e il 1950 ben 46 volumi, mettendo a disposizione dei lettori italiani, ma soprattutto degli addetti ai lavori, opere di Joyce, Strindberg, Synge, Yeats, García Lorca, Cocteau e Majakovskij, spesso tradotte per la prima volta. Gli autori tedeschi sono i più rappresentati sia in teatro moderno sia nella collana parallela teatro, dedicata alle opere precedenti il 1900: vi troviamo lo Hebbel dei vociani (Agnese Bernauer, 1944), il Wedekind di Gobetti76 (La morte e il diavolo, 1944, tradotto dallo stesso Grassi) e il Kaiser di Bragaglia (Da mezzogiorno a mezzanotte, 1944), ma anche Hugo von Hofmannsthal (La leggenda di Ognuno, 1945), Ernst Toller (Uomo massa, 1946, tradotto da Vito Pandolfi) e Bertolt Brecht (L’opera da tre soldi, 1946, nella nuova traduzione di Emilio Castellani). All’interno di questa vasta operazione di importazione e appropriazione, in cui è centrale l’interesse per l’espressionismo tedesco, Grassi dedica particolare attenzione a Büchner: ne pub75  Per un’esposizione più analitica della parte che segue cfr. 7: Un repertorio per il teatro di regia, pp. 289-299. 76  Cfr. 5: La genesi di un nuovo habitus editoriale, pp. 225-226.

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blica, caso unico nella collana, le opere complete; chiede ad Alberto Spaini (il nome di Rosina Pisaneschi non compare più) di rivedere la traduzione sulla base della più recente edizione tedesca77; scrive personalmente, caso unico anche questo, una breve prefazione sia a La morte di Danton sia a Leonce e Lena, affidando invece a Bruno Revel l’introduzione al Woyzeck. Inverte inoltre l’ordinamento delle opere rispetto all’edizione Carabba, ancora una volta senza rispettare la cronologia originale, ma specificando sul frontespizio, com’è regola nella collana, l’anno di composizione: non più, dunque, Leonce - Danton - Wozzeck - Lenz, ma Woyzeck: 1837 (teatro, 2) - La morte di Danton: 1835 (teatro, 4) - Leonce e Lena: 1836 (teatro, 5, col titolo ripristinato) - Lenz (nella collana varia, non trattandosi di un testo teatrale). Secondo Grassi «il capolavoro del Büchner»78 è Woyzeck, in quanto «originatore lontano del mondo espressionista, tanto nel linguaggio e nella forma quanto nello spirito e nella sostanza»79; segue il Danton, la sua «cosa più complessa e forte»80; e solo all’ultimo posto viene il Leonce, «satira politica» alleggerita da «un “humor” scintillante»81. A orientare la nuova lettura di Büchner non è più la problematica vociana della religione della modernità, né quella novecentista del superamento ironico di tutte le avanguardie; all’indomani della caduta del fascismo e nel pieno della resistenza – i primi due volumi sono stampati nel luglio 1944, il Leonce in novembre – l’interesse di Grassi per Büchner è allo stesso tempo artistico e politico: il giovane drammaturgo tedesco, scrive, è «un temperamento libertario, democratico e al tempo stesso violento»82, e la sua opera contiene «i germi […] di quell’espressionismo che doveva informare di sé, 77  Si tratta dei Werke und Briefe curati di Fritz Bergemann per lo Insel-Verlag nel 1922, e precisamente della terza edizione riveduta e ampliata, pubblicata nel 1940. Per le differenze rispetto all’edizione Carabba cfr. la nota al testo in Georg Büchner, Woyzeck, Rosa e Ballo, Milano 1944, pp. 55-57. 78  Paolo Grassi, Introduzione, in Georg Büchner, Leonce e Lena, Rosa e Ballo, Milano 1944, p. X. 79  Ibidem. 80  Paolo Grassi, Introduzione, in Georg Büchner, La morte di Danton, Rosa e Ballo, Milano 1944, p. IX. 81  P. Grassi, Introduzione, in G. Büchner, Leonce e Lena, cit., p. X. 82  P. Grassi, Introduzione, in G. Büchner, La morte di Danton, cit., p. X.

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un secolo dopo, l’arte germanica e che noi teniamo a considerare come uno dei più importanti, fondamentali eventi artistici del Novecento»83. L’ampia introduzione al Woyzeck affidata a Bruno Revel testimonia questi due motivi di interesse, aggiungendone altri due: quello dell’editore-musicologo Ferdinando Ballo per il Woyzeck, legato alla riduzione operistica di Alban Berg84, e il proprio per una lettura del dramma in chiave religiosa. Di famiglia valdese, Bruno Revel (1895-1959) è allievo di Piero Martinetti, dal 1933 al ’45 insegna lingua tedesca all’Università Bocconi e traduce i romanzi di Hans Fallada per Mondadori (e il Mein Kampf di Hitler per Bompiani). Pur inquadrando marxianamente il Woyzeck nella «storia della miseria senza luce e senza fondo del proletariato europeo»85, e osservando come la scoperta di Büchner in questo dramma sia che «la morale, e fin la discussione sulla libertà, è cosa dei ricchi»86 (siamo già dalle parti di Brecht), lo interpreta poi sostanzialmente in chiave esistenziale, come una romantica “tragedia del destino” che rivela il fallimento del tentativo dei moderni «di sterilizzare il peccato originale, di toglierlo di mezzo, di buttarlo nella pattumiera dei residuati che non servono più»87. Proprio «codesto intreccio o contaminazione del tema sociologico e di quello metafisico» sarebbe il motivo che conferisce al dramma di Büchner «la potenza, la violenza e la luce che ne fanno, a ragion veduta, un capolavoro»88. Una lettura più schiettamente politica di Büchner comincia a farsi strada solo a partire dal 1950, quando Strehler mette in scena La morte di Danton al Piccolo Teatro89. Anche se questa regia è tutt’altro che un modello di teatro politico, e proprio per questo

83 

Ivi, p. XI. occasione della prima rappresentazione italiana, andata in scena al Teatro dell’Opera di Roma il 3 novembre 1942, Ballo aveva pubblicato presso la piccola casa editrice La Lampada, che allora dirigeva, una guida musicale al Wozzeck, curata da Alberto Mantelli. Ma l’edizione italiana della partitura esce per Ricordi già nel 1935. 85  Bruno Revel, Introduzione, in G. Büchner, Woyzeck, cit., p. XII. 86  Ivi, p. XVII. 87  Ivi, p. XX. 88  Ivi, p. XXI. 89  Cfr. Georg Büchner, La morte di Danton: dramma in tre tempi, nuova riduzione di G. Strehler, regia di G. Strehler, Piccolo Teatro della città di Milano, Milano 1950. 84  In

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viene criticata dall’«Unità»90, cade in un momento di progressiva politicizzazione del teatro, che culmina nel 1956 con la storica messa in scena dell’Opera da tre soldi al Piccolo Teatro, alla presenza di Brecht91. È in questo contesto che Büchner ottiene anche in Italia la consacrazione di classico della letteratura, con la nuova traduzione delle sue opere inserita nella biblioteca universale rizzoli, fondata nel 1949 sul modello della universalbibliothek Reclam: il volume, che esce nel 1955, si intitola La morte di Danton, Woyzeck e gli altri scritti, e si apre con il pamphlet Il messaggero dell’Assia92. 5. Effetti di un «lavoro collettivo» Fra il 1914 e il 1955 il «lavoro collettivo» di diversi attori e istituzioni del campo letterario italiano produce le condizioni necessarie perché Büchner possa essere incluso nel repertorio 90 Cfr. Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano: la generazione dei registi, Sansoni, Firenze 1984, pp. 334-341. 91  Sulle successive messe in scena di Büchner in Italia cfr. Valentina Valentini, Georg Büchner e il nuovo teatro in Italia (1950-1989), «Studi Germanici», 3-4, 2013, pp. 89-113. 92  Georg Büchner, La morte di Danton, Woyzeck e gli altri scritti, traduzione di F. Filippini, Rizzoli, Milano 1955 (biblioteca universale rizzoli, 857-858). Nel clima politicamente restaurativo a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 si osserva invece una tendenza opposta: la casa editrice Adelphi, che all’inizio della sua traiettoria aveva pubblicato la prima edizione completa degli scritti di Büchner, comprendente anche le lettere, a cura del germanista Giorgio Dolfini (Opere, Adelphi, Milano 1963), sceglie, negli anni in cui sotto la direzione di Roberto Calasso si avvia a diventare la più influente casa editrice di cultura del paese, di dividerla in due volumetti, Teatro (a cura di G. Dolfini, premessa di G. Guerrieri, 1978, piccola biblioteca adelphi, 64) e Lenz (a cura di G. Dolfini, 1989, piccola biblioteca adelphi, 236), che non includono né le lettere né Il messaggero dell’Assia, e che tuttavia restano a tutt’oggi la principale edizione di riferimento in Italia. Non riescono infatti a farle concorrenza le tre edizioni del solo Woyzeck (traduzione di C. Magris, a cura di H. Dorowin, Marsilio, Venezia 1988; trad. e cura di G. Schiavoni, bur, Milano 1995; trad. e cura di G. Corti, Garzanti, Milano 1999), né quella del Lenz (a cura di G. Schiavoni, Marsilio, Venezia 2008) o quella recente della Morte di Danton (traduzione di A. Raja, Einaudi, Torino 2016, messa in scena da Mario Martone), mentre l’unica, ottima edizione completa delle Opere (a cura di M. Bistolfi, Oscar Mondadori, Milano 1999) è da tempo fuori commercio. Per il lavoro di Dolfini su Büchner cfr. G. Rovagnati, Giorgio Dolfinis doppeltes Engagement für Georg Büchner, in BüchnerRezeptionen – interkulturell und intermedial, cit., pp. 291-299.

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letterario italiano. La nascita della germanistica (Farinelli, Borgese) allarga il numero dei professionisti disposti a scandagliare la letteratura tedesca del passato, e ne orienta il lavoro in particolare sul romanticismo: così i nuovi entranti Pisaneschi, Vincenti e Amoretti hanno interesse a includere Büchner nel canone, assegnandogli un posto nella storia della letteratura tedesca fra la rivolta dello Sturm und Drang e il nichilismo di Nietzsche, ora come precursore dell’“espressionismo” ora del “realismo”. La rivoluzione dei teatri “sperimentali” o “d’arte” (Pirandello, D’Amico, Bragaglia) genera una richiesta di testi da mettere in scena per legittimare la nuova figura del regista: si crea così lo spazio perché Büchner venga rappresentato, e la scelta cade, attraverso Spaini, su Lena e Leonce, che viene letto e presentato all’insegna del “realismo magico” di Bontempelli. La costituzione di un circuito di produzione ristretta nel campo editoriale (Croce, Papini, Prezzolini, Borgese) crea la necessità di traduzioni di letteratura legittima – non commerciale – per alimentare collane di diversa impostazione, tra cui la universale di Gino Carabba, dove nel ’28 trovano ospitalità le Opere di Büchner. Infine, traendo profitto dal lavoro collettivo fin qui svolto, registi ormai in via di legittimazione (Grassi, Strehler) possono includere Büchner nel repertorio dei nascenti teatri stabili di età repubblicana, individuandone i capolavori nei drammi “politici” Woyzeck e La morte di Danton93. Gli spazi di possibilità apertisi grazie a queste trasformazioni non riguardano, naturalmente, il solo Büchner. Gran parte degli autori stranieri, tedeschi e non, devono gli inizi della loro traiettoria italiana alle stesse circostanze, e in gran parte agli stessi mediatori e alle stesse strutture: lo si può riscontrare facilmente, rimanendo in ambito teatrale, per Wedekind, Schnitzler, Kaiser o Brecht, ma anche, con poche indispensabili integrazioni, per Thomas Mann, Kafka, Döblin o Kästner94, e perfino per scrittori più remoti come Keller, Fontane o Grimmelshausen. Il processo 93  Non mi sono soffermato sul campo musicale, ma si potrebbe allo stesso modo ricostruire chi e sulla base di quali interessi abbia portato il Wozzeck di Berg in Italia, e in che misura la consacrazione di quest’opera abbia contribuito a quella del dramma di Büchner. 94  Cfr. 6: La consacrazione del romanzo, pp. 244-276.

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di produzione di un Büchner italiano – o meglio dei Büchner italiani – e con lui di altri scrittori stranieri, prosegue anche dopo che da perfetti sconosciuti sono diventati, talora, autori canonici. Per Büchner ciò avviene con l’inclusione nella bur nel 1955. Ma nessuna canonizzazione è definitiva, e per spiegare perché e come un autore continui ad essere ri-prodotto, e mantenga così un suo posto nel repertorio, occorre ripercorrere le storie specifiche dei diversi campi in permanente trasformazione. Fino al presente.

Capitolo quinto La genesi di un nuovo habitus editoriale Piero Gobetti e la letteratura tedesca del «Baretti» (1919-1926)

1. Piero Gobetti nel campo letterario degli anni ’20 La rivista e la casa editrice fondate da Piero Gobetti e intitolate al polemista e traduttore settecentesco Giuseppe Baretti detengono diversi primati nell’esplorazione delle letterature straniere contemporanee. È di prammatica ricordare il fascicolo dedicato alla letteratura francese con in prima pagina il Proust di Giacomo Debenedetti, il lungo e informato articolo di Silvio Benco su Joyce, quelli di Alfredo Polledro e Leone Ginzburg sulla letteratura russa, così come Il paradosso dello spirito russo dello stesso Gobetti, uno dei testi fondativi della nascente slavistica italiana. Per quanto riguarda la letteratura tedesca «Il Baretti» è la prima rivista in Italia a presentare Stefan George e tra le prime a occuparsi di Rainer Maria Rilke, con articoli e traduzioni1. È anche la prima a interessarsi all’espressionismo2, insistendo in particolare sul teatro di Fritz von Unruh e di Georg Kaiser. Accanto alle traduzioni e agli articoli usciti sulla rivista tra il dicembre 1924 e il febbraio 1926 – quando Gobetti muore, a Parigi, lasciando la direzione all’amico Santino Caramella – vanno inoltre considerati due importanti volumi pubblicati nelle Edizioni del Baretti: il primo studio organico sul Teatro tedesco del Nove1  Una prima messa a fuoco sul tema è la breve comunicazione di Michaela Eva Fuhrman, Gobetti e la letteratura tedesca, pubblicata sul portale «Republik» senza data (ma risalente alla seconda metà degli anni ’90): indy78.altervista.org/Letteratura/gobetti.htm (ultima consultazione 10.10.2018). 2  Se si eccettuano i tempestivi interventi di Lavinia Mazzucchetti su «I libri del giorno» di Treves (1919-24) e alcuni brevi articoli di Rodolfo Bottacchiari su «La Cultura» di De Lollis (1923-25).

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cento, uscito nel 1925 a firma di Leonello Vincenti e la prima Antologia della lirica tedesca contemporanea, curata nel 1926 da Elio Gianturco. Un cenno andrà dedicato, infine, a Wedekind, tra i pochi tedeschi di cui Gobetti scrive personalmente, dedicandogli nel 1921 alcune delle recensioni che andava pubblicando sull’«Ordine nuovo» di Gramsci. I tedeschi del «Baretti», gli autori di lingua tedesca che Piero Gobetti contribuisce a introdurre e legittimare nel repertorio della letteratura tradotta in Italia sono dunque appena una manciata: in una prima fase Wedekind, successivamente George e Rilke, e infine gli espressionisti, in particolare Unruh e Kaiser. Ma più della quantità e della qualità degli autori importati è il gesto dell’editore, come vedremo, a costituire una novità: nuovo è, infatti, l’habitus, l’insieme delle disposizioni con cui Gobetti esplora le letterature straniere come direttore di rivista e editore, un habitus che ha le sue origini nella trasformazione del campo editoriale verificatasi negli anni ’103, e che ritroveremo in alcune delle più importanti case editrici di avanguardia – ovvero di cultura, o di progetto – degli anni ’30, da Frassinelli a Einaudi. Quando nel 1918 Gobetti fa il suo ingresso nel campo come direttore di «Energie nove» e aspirante editore deve infatti posizionarsi rispetto alle riviste e collane fondate dalla generazione che lo ha preceduto, ancora in buona parte attive, e ai progetti letterari di cui sono portatrici. Ma vediamo da vicino quali sono le sue disposizioni di nuovo entrante e la traiettoria che lo porta al «Baretti» e a “scoprire” George, Rilke e gli espressionisti. 2. Traiettoria e prese di posizione di un nuovo entrante: la genesi di un habitus Da dove vengono le disposizioni che a posteriori potremmo essere tentati di definire “rabdomantiche” di Piero Gobetti? Nato a Torino nel 19014 in una famiglia della piccola borghesia, Gobetti 3 

Cfr. 4: Condizioni necessarie, pp. 192-194. bibliografia sulla vita e l’azione politica di Gobetti è vastissima. Si vedano almeno: Franco Brioschi, L’azione politico-culturale di Piero Gobetti, Principato, Milano 1974; Paolo Spriano, Gramsci e Gobetti: introduzione alla vita e alle opere, 4  La

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è privo di capitale economico e relazionale di partenza e concepisce la cultura come strumento di riscatto sociale. Nonostante un corso di studi regolare, che dal liceo classico lo porta alla laurea in giurisprudenza, sviluppa la sua idea di cultura largamente in proprio, rifiutando, come già gli autodidatti Prezzolini e Papini, quella scolastica e accademica. Come testimonia l’amico Umberto Morra di Lavriano, si avvicina al neoidealismo di Gentile attraverso il suo professore di filosofia al liceo Balbino Giuliano; legge Croce, De Sanctis, «La Voce» di Prezzolini e «L’Unità» di Salvemini; annota fittamente i classici della biblioteca universale Sonzogno e delle collane Carabba di Papini e Borgese; i suoi principali punti di riferimento tra i contemporanei sono Slataper e Jahier, Boine e Michelstaedter, e il Papini dell’Uomo finito5. Diplomatosi con un anno di anticipo nel 1918, all’università segue le lezioni di Arturo Farinelli, il grande alfiere del Romanticismo tedesco, di Luigi Einaudi, che lo introduce alla teoria economica del liberalismo, e di Gioele Solari, col quale si laurea in giurisprudenza nel 1922 con una tesi su La filosofia politica di Vittorio Alfieri. In sintesi Gobetti è un marginale, intellettualmente molto dotato, che forma il suo habitus culturale in larga misura su modelli non scolastici: quelli degli organizzatori di cultura Croce e Gentile, Prezzolini e Salvemini. A questi modelli, soprattutto alla «Voce» e all’«Unità», entrambe scomparse da pochi anni, si richiama esplicitamente nel momento in cui, dopo alcune esperienze giornalistiche presso grandi quotidiani, dà vita successivamente a tre riviste e a cinque case editrici. Le riviste sono: 1) «Energie nove», quindicinale studentesco, novembre 1918 – febbraio 1920; 2) «La rivoluzione liberale», febbraio 1922 – novembre 1925; 3) «Il Baretti», dicembre 1924 – dicembre 1928 (che però Gobetti dirige solo fino al febbraio 1926). A queste è da aggiungersi l’assidua collaborazione in qualità di critico teatrale con «L’Ordine nuovo» di Gramsci e Togliatti, gennaio 1921 – maggio 1924. Einaudi, Torino 1977; David Ward, Piero Gobetti’s new world: antifascism, liberalism, writing, University of Toronto Press, Toronto 2010; l’ampia introduzione a Piero Gobetti, Carteggio 1918-1922, a cura di E. Alessandrone Perona, Einaudi, Torino 2003; e la rivista del Centro Studi Piero Gobetti «Mezzosecolo». 5  Umberto Morra di Lavriano, Vita di Piero Gobetti, utet, Torino 1984, passim.

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Le case editrici da lui fondate6, che tra il 1919 e il 1926 pubblicano nell’insieme 84 volumi, sono invece: 1) Biblioteca di Energie Nove, 1919, per cui esce solo la novella di Leonid Andreev L’abisso; 2) Edizioni di Rivoluzione Liberale, 1922, che pubblica appena il volume Collaborazionismo di Ubaldo Formentini; 3) A. Pittavino & C., 1922-1923, che dopo aver pubblicato tre volumi – Io credo di Prezzolini, Scuola classica e Vita moderna di Augusto Monti e Il problema italiano di Arcangelo di Staso – chiude per divergenze politiche con il tipografo e titolare Arnaldo Pittavino; 4) Piero Gobetti Editore, che all’insegna del motto montiano «Che ho a che fare io con gli schiavi?» pubblica 15 titoli nel 1923, 27 nel 1924, 47 nel 1925, suddivisi nelle collane polemiche, teatro, edizioni d’arte, opere di luigi einaudi, e – la più importante – quaderni di rivoluzione liberale ispirata ai quaderni della voce; 5) Edizioni del Baretti, 1926-1928, con cui Gobetti prosegue l’attività editoriale dopo aver dato le dimissioni da direttore della rivista in seguito alla diffida comminatagli dalla Questura di Torino nel novembre ’25 in considerazione della sua «azione nettamente antinazionale»: le collane annunciate scrittori del baretti e nuova collezione europea non vedranno la luce, ma nel corso del 1926 escono una decina di volumi, tra cui Amedeo e altri racconti di Giacomo Debenedetti e, postume, le Opere dello stesso Gobetti. Nei primi mesi del 1919, proprio al suo esordio, un Gobetti appena diciottenne pubblica su «Energie Nove», firmandolo con lo pseudonimo Rasrusat, che in russo significa “distruggere”, il lungo articolo La cultura e gli editori7, nel quale descrive lo stato 6  Su Gobetti editore si vedano: Piero Gobetti, L’editore ideale: frammenti autobiografici con iconografia [1966], a cura e con prefazione di F. Antonicelli, introduzione di M. Revelli, Lacaita, Manduria 2006; Maria Accame Lanzillotta, Le edizioni e i tipografi di Piero Gobetti: studio di bibliografia storica, Sansoni, Firenze 1980; Maria Adelaide Frabotta, Gobetti: l’editore giovane, il Mulino, Bologna 1988; Ersilia Alessandrone Perona, Gobetti editore: dal modello vociano all’editore ideale, in Giulio Einaudi nell’editoria di cultura del Novecento italiano (Atti del convegno Torino, 25-26 ottobre 2012), a cura di P. Soddu, Olschki, Firenze 2015, pp. 13-31. 7  Piero Gobetti, La cultura e gli editori, «Energie nove» II.1, 5 maggio 1919, pp. 14-15 (parte prima) e II.6, 25 luglio 1919, pp. 127-129 (parte seconda), ora in Opere complete, vol. II: Scritti storici, letterari, filosofici, a cura di P. Spriano, Einaudi, Torino 1969, pp. 458-466.

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del campo editoriale con tutta la lucidità e l’improntitudine del nuovo entrante. L’articolo è un documento preziosissimo del posizionamento e del capitale simbolico delle principali case editrici italiane, che riprende e aggiorna le indagini compiute da Prezzolini e Papini nella Coltura italiana (1906) e da Renato Serra ne Le lettere (1914). Al tempo stesso è una netta presa di posizione: lo si può infatti leggere come un manifesto dell’editoria d’avanguardia, quella che opera nel campo di produzione ristretta, della quale Gobetti si presenta come teorico e alfiere. Dato il valore di questo articolo per la storia degli habitus editoriali e della loro trasformazione all’indomani della prima guerra mondiale, vale la pena di esaminarlo da vicino. «Cultura è organizzazione», argomenta Gobetti, con piglio gramsciano: Il sapere come mero dilettantismo è un fatto particolare, individuale; acquista importanza nazionale e umana, in quanto diventa organizzazione, principio di forza, di superiorità, di vitalità. Lo spirito è fattivo quando da possibilità inerte si fa sistema, cultura. Il processo della cultura s’identifica con la formazione intellettuale. […] È qui che entra in gioco l’editore8.

In pochi tratti Gobetti definisce la polarizzazione del campo editoriale fra editoria commerciale, rappresentata da Treves, e la nascente editoria di progetto, che identifica nelle collane di Laterza, Carabba e della Libreria della Voce (a cui aggiunge Formiggini): «La cultura generale in Italia», afferma, «è patrimonio e deposito esclusivo della casa editrice Treves. Il nome è un simbolo, e lo vedremo, di tutta la vuotezza italiana», perché «i movimenti seri, profondi [le imprese editoriali di Croce e di Prezzolini] non hanno ancora avuto il successo che meritavano»9. Al polo dominante, dunque, abbiamo il grande editore di massa, eclettico e senza progetto, ma con ampi riscontri di vendite, al cui modello si conforma gran parte degli altri editori: «La produzione libraria italiana», scrive Gobetti sarcastico, «è per

8  9 

P. Gobetti, Opere complete, II, cit., pp. 458-459. Ibidem.

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tre quarti sotto l’alta giurisdizione della casa editrice Treves»10. Sotto le sue insegne si pubblicano – senza alcun «organismo», senza «calore d’iniziativa», senza «carattere» e senza «originalità» – i libri di «fortunati falliti della repubblica delle lettere» per intrattenere «sartine» e «signore intellettuali» alla moda, «cicisbei in trentaduesimo» e «pallide frequentatrici di salotti»11. La conclusione – «Treves è solo un tipografo»12 – suona ancora più impietosa se ricordiamo che la distinzione fra tipografo e editore si sta codificando proprio in questo periodo. Gobetti non potrebbe tuttavia riconoscere e condannare Treves come editore di massa se quello della casa milanese fosse il solo modo di fare editoria: è stata proprio l’entrata in campo dei primi editori d’avanguardia, un decennio prima, a generare per contrasto il concetto di editoria commerciale, entro il quale vengono relegati tutti gli editori dominanti. «Treves ha la mentalità del gran pubblico. Questo gli rimproveriamo. […] Dinanzi a un progetto editoriale quest’uomo, o questa società, questo sistema di uomini, vede solo il fatto della vendita»13. La polarizzazione individuata da Gobetti si manifesta anche sul piano delle traduzioni: «Noi in Italia non abbiamo ancora delle buone traduzioni dalle opere importanti delle letterature straniere. E infatti badate: antichi e moderni di R. Carabba, le traduzioni della Libreria della Voce e anche quale altra iniziativa sono stati tentativi sporadici: il campo è occupato dalla biblioteca amena»14. Il che non sarebbe in sé un male se le traduzioni di Treves fossero ben scelte e ben fatte: Ma nel libro l’editore milanese vede la copertina, l’esteriorità, la réclame, e vi si ferma. Lo riconoscete in ogni sua opera. La biblioteca amena è uno dei suoi capolavori; si tratta, specialmente riguardo alle traduzioni, di una sciagurata e spudorata mistificazione. Ora è evidente che qui l’interesse commerciale stava proprio nel far bene questa collezione libraria, nel dare traduzioni accurate a testi genuini (come cerca di fare e fa discretamente Gino Carabba [con gli scrittori italiani e stranieri di 10 

Ivi, p. 461. Ivi, pp. 461-462. 12  Ivi, p. 463. 13  Ivi, p. 464. 14  Ivi, p. 465. 11 

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Domenico Ciàmpoli e Federigo Verdinois] e meglio Rocco Carabba [con cultura dell’anima di Papini e antichi e moderni di Borgese], mantenendo la popolarità dell’edizione). Ma Treves ha una concezione tutta sua dello scambio e del commercio per cui crede che non sia possibile realizzare guadagni se non ingannando il compratore. Perciò traduce dal francese i libri russi, stampa su carta di lusso e copertine… (diciamo così) affascinanti il libro che non val nulla e sarà comprato solo per questa sua attrattiva; […] s’impegna nella traduzione delle grandi opere internazionali, anche se sono grandi opere solo per modo di dire e ci sarebbe altro e di meglio da tradurre15.

Nel proporre un’alternativa concreta al modello Treves, Gobetti contesta innanzitutto, sul piano sociologico, quello che ancora oggi è il principale argomento a sostegno dell’editoria commerciale: «Il pubblico ha l’editore che si merita»16. Se questo è un dato di fatto, osserva, è vero anche l’opposto: «che l’editore si crea il suo pubblico, cioè che può influire lui sulla cultura generale»17. Chi opera nel campo editoriale è dunque tenuto a compiere una scelta, a prendere posizione: «Per me», scrive Gobetti, «un editore deve essere tutt’altro che uno speculatore e un mercante»18. Al contrario: «L’editore deve rappresentare un intero movimento d’idee. Deve esserne convinto, conoscerlo 15  Ivi, p. 464. A queste pratiche Gobetti si oppone da subito in prima persona come traduttore-editore: nella biblioteca di energie nove pubblica, dopo averlo tradotto egli stesso sulla sua rivista insieme alla futura moglie Ada Prospero, L’abisso di Andreev (1919); per la biblioteca universale di Sonzogno traduce, sempre di Andreev e sempre a quattro mani con Ada, Figlio dell’uomo e altre novelle, “con uno studio critico sull’autore” (1920); nella collana il libro per tutti diretta da Prezzolini per le Edizioni della Voce presenta Allez! di A. I. Kuprin (1920); e infine, nella collana moderni di Taddei & Figli, ancora un Andreev, il dramma Savva (ignis sanat), ancora a quattro mani (1921). Le prese di posizione di Gobetti, insieme a quelle di Federigo Verdinois, Alfredo Polledro e Ettore Lo Gatto, saranno decisive nell’affermare la pratica di tradurre dalla lingua originale anche nel caso del russo. Si veda, tra l’altro, la significativa recensione del 1920 alla traduzione della Felicità domestica di Tolstoj fatta da Clemente Rebora per il libro per tutti (Opere complete, II, pp. 477-481). 16  Ivi, p. 459. 17  Ibidem. E aggiunge: «Ed è questo il fatto centrale. E logicamente, non praticamente per ora purtroppo. Tanto che un amico a cui esprimevo queste idee mi chiedeva molto seriamente se può esistere un editore colto o che pensi alla cultura. E rappresentava una convinzione comune». 18  Ibidem.

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profondamente. Tanto meglio se vi ha portato il suo contributo anche lui, tanto meglio se è lui addirittura l’iniziatore»19. Occorre «che a tutta la sua attività editoriale egli imprima i caratteri del movimento suo, che veda attraverso le sue condizioni il mondo della dottrina e dell’arte»20. Il nuovo modello di editoria che Gobetti vede profilarsi è proprio quello “rivista + collana” messo a punto un decennio prima da quelli che considera i suoi maestri: Se si guarda il movimento editoriale molti preludi di un risveglio qual è nell’animo mio si scorgono qua e là. Intanto, per esempio, moltissime case editrici nascono e si sviluppano intorno ad una rivista per completarla e rappresentare con essa un gruppo d’idee. E se la rivista origine centro [sic!] non è eclettica, ma è un focolare di vita non si può certo augurare nulla di meglio per il bene della civiltà nostra. […] Dalle riviste vive son nate sempre case editrici vive. In Italia basta citare «La Critica» e «La Voce». Sono nate dall’idealismo. […] Pensate quale risveglio culturale vi sarebbe in Italia se la casa editrice dell’«Avanti!» avesse un direttore intelligente ed esaminasse dal punto di vista socialista tutta la civiltà contemporanea! E così facessero i cattolici, e liberisti, e mazziniani, e pragmatisti!21

Il sistema di Treves, dunque, non è il solo possibile in campo editoriale, né opporvisi conduce necessariamente alla bancarotta: «Laterza, per esempio, tira avanti benissimo, e non truffa nessuno e tanto meno il pubblico e conserva la sua organicità. […] Oggi abbiamo degli editori nuovi, che faranno essi veramente della grande arte editoriale; ma non sono scolari di Treves, si chiamano Prezzolini, Laterza e, speriamo, Vallecchi [che grazie a Papini stava acquisendo il catalogo della Libreria della Voce], e speriamo molti altri ancora»22. Questa analisi straordinariamente circostanziata del sistema di produzione culturale italiano costituisce una sorta di vademecum, al quale Gobetti si attiene scrupolosamente: molti dei suoi articoli si possono leggere come nitide prese di posizione volte a definire il suo «movimento d’idee» e a situarlo nel campo ri19 

Ivi, p. 460. Ibidem. 21  Ivi, pp. 460-461. 22  Ivi, p. 465. 20 

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spetto ai principali gruppi di attori che nel primo dopoguerra si contendono l’egemonia sul campo di produzione ristretta. Gobetti rintraccia l’origine delle proprie disposizioni nei suoi maestri torinesi Arturo Farinelli («l’ultimo rappresentante della generazione romantica», che ha incarnato «l’affermazione prepotente dell’individuo contro la vita convenzionale e meccanica»23) e Augusto Monti («un maestro classico di modernità»24), ma anche nei vociani Papini (l’«iconoclasta» di cui apprezza «l’inquietudine inappagata e ricercante eternamente»25) e Scipio Slataper («un maestro di vita», esempio di chi sa rinunciare alla «rigida aridezza di studi diligenti e pacati» per cercare nell’azione «la consacrazione del momento eroico per cui [è] vissuto»26). Il modello più ammirato resta però – accanto a Croce e Gentile – Prezzolini, «l’organizzatore del movimento idealista», dotato del talento di «scorgere le persone utili della generazione e farne valere il lavoro»27, la cui rivista «resterà a testimoniare la ricostruzione della nostra cultura»28. Un atteggiamento più critico, teso a mettere in rilievo più le divergenze che le affinità, mostra invece nei confronti di Marinetti e del futurismo, di Borgese, di Ojetti, e svariati altri. Sarebbe troppo lungo ricostruire l’occasione e il merito anche solo delle prese di posizione più significative. Mi limiterò quindi a due di esse, particolarmente rivelatrici. La prima risale al 1925, a un anno dalla fondazione del «Baretti». Il bersaglio è una rivista di scuderia, «La Fiera letteraria», che un nuovo entrante nel campo editoriale, la Unitas dell’avvocato antifascista Gian Luca Zanetti, ha appena inaugurato, affidandola a Umberto Fracchia, perché faccia concorrenza a «I libri del giorno» del dominante Treves. In una lettera all’amico Giovanni Ansaldo, Gobetti scrive: Non capisco perché dovremmo prendere esempio dalla «Fiera». È industrialismo letterario che si capisce nelle «Nouvelles littéraires» dove 23  Cfr. P. Gobetti, Opere complete, II, cit., pp. 505-506: la presa di posizione è del 1921. 24  Ivi, p. 561, 1923. 25  Ivi, p. 520, 1921. 26  Ivi, pp. 555 e 561, 1923. 27  Ivi, pp. 509-510, 1921. 28  Ivi, p. 485, 1920.

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c’è una letteratura industrializzata seria: ma se le grandi firme di Fracchia sono Chiarelli e Pancrazi o Panzini-Bontempelli impegnati a vuotare i cassetti una volta la settimana! C’è tutto il gusto letterario di Alberto Albertini e la terza pagina del «Corriere». […] Ma vedrai che la «Fiera» non arriverà al grande pubblico. Mondadori non è Grasset e la povera Unitas non è Larousse! Aggiungi che la rivista di Fracchia è vera e propria arte di Stato. Del «Baretti» dovremo fare una «Rivoluzione Liberale» letteraria29.

Rifiutando l’«industrialismo letterario» e l’«arte di Stato» Gobetti manifesta, anche quando si tratta di fare una rivista letteraria, la sua disposizione a collocarsi non nel campo di produzione di massa ma in quello di produzione ristretta, al cui interno, a sua volta, definisce progressivamente la sua posizione marcando la sua prossimità ad alcuni attori (p.es. Croce e Prezzolini) e la sua distanza da altri (p.es. Cecchi e Cardarelli). Lo si vede bene con la seconda presa di posizione, che ci riporta a cinque anni prima, allorché «La Ronda» si sta affermando come l’organo più prestigioso dell’avanguardia in via di consacrazione: recensendo nel settembre 1920 Viaggi nel tempo di Cardarelli, Gobetti delegittima, da posizioni crociane, l’arte per l’arte, giudicando il programma della rivista «inutile, astratto» e fondato su una retorica «comunanza speculativa» con gli scrittori del passato e i colleghi del presente: «ingenue immaginazioni di collegiale in ritardo», prodotto di «uno spirito limitato» che ignora «l’esistenza di una solida cultura idealistica italiana, che s’è venuta assimilando in questo principio di secolo il meglio della nostra tradizione filosofica e del nostro gusto letterario»30. Cardarelli, che in quel momento gode di un riconoscimento ben maggiore del suo giovane avversario, si prende allora la briga di rispondere al «tal» Piero Gobetti, che definisce «un buon virgulto della scuola di Farinelli e della filosofia crociana», per colpire, di fatto, il detentore dell’egemonia critica in campo letterario, Benedetto Croce, rivendicando l’autonomia dell’arte per l’arte di fronte alle “ingenue” ingerenze dell’idealismo e della filosofia. 29  Piero Gobetti a Giovanni Ansaldo, 29.12.1925, in Lettere di Piero Gobetti a Giovanni Ansaldo. 1919-1926, a cura di G. Marcenaro, «Mezzosecolo», 3, 197879, pp. 107-108. 30  L’articolo, apparso sulla rivista veronese di Antonio Scolari «Poesia ed Arte» nel settembre 1920, è citato in R. Morra di Lavriano, Vita di Piero Gobetti, cit., p. 125.

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Non a caso l’articolo si intitola Dico a te, nuora: «Non sappiamo che farci di una filosofia dell’arte che fallisce nelle esemplificazioni. Che è quanto dire che noi siamo degli scettici e degli uomini perduti. Ma voi, volete darci ad intendere di possedere la pietra filosofale? Fate qualche opera d’arte, modestissima quanto si vuole, ma tentate»31. La faglia di conflitto è, qui, tra due poetiche avverse, due concezioni della letteratura in concorrenza tra loro: da una parte come pura realizzazione di opere d’arte, dall’altra come momento particolare di una complessiva azione critica e di organizzazione della cultura. Gobetti si schiera decisamente per quest’ultima, che vorrebbe veder prevalere nel campo di produzione ristretta, mentre invece sarà la prima a detenere l’egemonia per tutti gli anni ’20 e ’30. Decisivo per la nostra analisi è che Gobetti, nella sua strategia di distinzione dai concorrenti, modifica il proprio habitus fino a incorporarvi nuove disposizioni. Quella che ritengo più interessante, perché quasi non se ne trova traccia nei suoi predecessori, è la disposizione a esplorare sistematicamente la letteratura contemporanea consacrata nel campo di produzione ristretta di ciascun paese straniero. Se Treves traduce letteratura commerciale, se gli accademici si occupano prevalentemente di autori che conferiscono prestigio (i classici o quelli che rientrano negli interessi di una scuola, come i romantici per Farinelli), se Croce riscrive la storia della letteratura europea ma si ferma alle soglie del Novecento, se i vociani studiano e traducono gli esponenti, soprattutto sette e ottocenteschi, di una sensibilità “moderna” alla quale in Italia non sarebbe ancora stata data adeguata espressione, se Borgese cerca di conciliare “antichi” e “moderni”, se i futuristi traducono (nei pochi casi in cui lo fanno) soltanto ciò che è organico al loro movimento, se i rondisti guardano sostanzialmente alla tradizione nazionale e a Goethe, che cosa resta da importare? Non tanto la letteratura contemporanea tout court, che dovrà aspettare il boom editoriale della fine degli anni ’20, quanto le avanguardie letterarie in via di consacrazione o consacrate dei paesi stranieri, che con l’eccezione di quelle francesi sono pressoché del tutto sconosciute in Italia. 31 

L’articolo, apparso sulla «Ronda», è citato ivi, p. 126.

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Alla loro esplorazione e importazione si dedicano, ciascuno a suo modo, diversi gruppi di nuovi entranti che, venendo dopo «La Ronda», si trovano in una posizione omologa a quella dei “colleghi” esteri: da Enzo Ferrieri col «Convegno» a Massimo Bontempelli con «900», da Anton Giulio Bragaglia col Teatro Sperimentale degli Indipendenti a Gobetti con le sue diverse imprese editoriali. Ma mentre «Il Convegno», la rivista senz’altro più vicina al «Baretti» come indirizzo, è sostanzialmente eclettico, e mentre «900» tende ad appropriarsi di autori e opere che, per quanto eterogenei, corroborino la poetica del “novecentismo” o “realismo magico” di Bontempelli, Gobetti, che non ha una poetica propria da affermare, fa un’operazione diversa, andando in cerca di quegli autori e di quei testi che meglio rappresentano, come direbbe lui, l’attuale «spirito di una nazione» attraverso la sua letteratura, o, come direbbe Bourdieu, lo stato del campo di produzione ristretta di un dato paese. Gobetti incarna un habitus letterario-editoriale nuovo, che ha buone ragioni di definire «stile europeo»32, perché nella sua pratica editoriale l’esplorazione precede l’appropriazione (pur non escludendola affatto). Così si esprime, abbozzando il programma del «Baretti» per le letterature straniere, in una lettera a Morra di Lavriano del 17 gennaio 1925: Francia: Gide. Proust. Valéry. Il teatro. I critici. Dadaismo. Germania: Teatro (Kaiser, Unruh, Toller, ecc.) Lirica (George e i nuovi) Romanzo (Schnitzler, ecc.) Critica (Gundolf, ecc.). Inghilterra: Conrad. Galsworthy – Irlandesi (primi) – Joyce – Poesia: Chesterton. Belloc; critici; Teatro. Spagna id. Valle Inclan Miro Ramon Gomez. Romanzo dopo Baroia Pensiero dopo Unamuno. Insomma il nuovo spirito di tutti questi popoli: niente Hauptmann, Blasco Ibanez, niente i vari Bourget di tutto il mondo33.

Il programma viene realizzato solo in parte. Gobetti muore a Parigi nel febbraio del ’26; ma per tutto il 1925 continua a progettare le sue esplorazioni, e in settembre annuncia il varo di una «collezione di letteratura europea contemporanea» delle Edi32  Sono le parole con cui si chiude l’editoriale del primo numero del «Baretti», Illuminismo [1924], ora in P. Gobetti, Opere complete, II, cit., pp. 600-602. 33  La lettera è citata da Mario Fubini nella sua introduzione alla ristampa anastatica de «Il Baretti», Bottega d’Erasmo, Torino 1977, s.i.p.

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zioni del Baretti34, che all’inizio dell’anno successivo pubblica l’Antologia dei poeti catalani contemporanei di Cesare Giardini e l’Antologia della lirica tedesca contemporanea di Elio Gianturco. Fra i titoli in preparazione, segnalati nelle pagine interne dei volumi, sono annunciati un’antologia di lirici spagnoli e sudamericani a cura di Edoardo Persico e una di poesia russa a cura di Alfredo Polledro, che però non vedono la luce35. 3. I tedeschi del «Baretti»: Wedekind, George, Rilke, il teatro espressionista Quando inaugura la sua rivista letteraria Gobetti sa poco o nulla di letteratura tedesca contemporanea. Pur avendo studiato con Farinelli non è certo uno specialista, come lo è invece per la russa. La sua visione dello sviluppo storico della letteratura tedesca si può rintracciare in una recensione del 1921 allo Spirito della terra di Frank Wedekind, messo in scena a Torino dalla compagnia di Maria Melato36. Per Gobetti, che ammirava Wedekind per averne letto sulla «Voce» e su «Lacerba», l’epoca d’oro della letteratura tedesca culmina in Nietzsche, che compiendo la parabola iniziata dai romantici e proseguita con Hebbel (gli autori più studiati da Farinelli), quasi arriva a eguagliare le altezze di Goethe. Dopo di lui, tra il 1880 e il 1910, si assiste a un periodo di «disordine», nel quale, come aveva fatto il futurismo in Italia, si rompono i legami con la cultura del passato: Si tratta di un futurismo nato (per un processo opposto al nostro) dall’esuberanza di una tradizione: la rinuncia di questi scapigliati alla classica dignità di ogni artista, la dimenticanza completa dei valori passati 34 

«Il Baretti», II.13, 1-30 settembre 1925. Come del resto le successive sulla poesia francese, inglese e scandinava di cui si dà notizia la primavera dell’anno seguente (cfr. «Il Baretti», III.4, aprile 1926). 36  Subito dopo la morte di Wedekind (1864-1918) l’editore Georg Müller pubblica le sue opere complete (1919-20), e anche in Italia si manifesta un certo interesse per lo scrittore: nel 1921 escono il dramma Risveglio di primavera, tradotto da Giacomo Prampolini per Il Convegno Editoriale, e i racconti Fuochi d’artificio - Mine Haha nella traduzione di Alberto Spaini e Rosina Pisaneschi per Leonardo Potenza, a Milano. 35 

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giustifica lo stupore con cui vennero accolti in Germania. L’arte negava la sua posizione aristocratica; penetrava, fosse pure per una “posa”, in tutti i fatti quotidiani, trovava la sua espressione nelle riviste e nei giornali; preludeva al processo libertario di negazione d’ogni formalismo eroico, e di democratizzazione degli spiriti che si attuò col fallimento della guerra. […] Anticlericalismo, simbolismo, critica ai costumi borghesi, ricerche futuristiche, esplosioni rivoluzionarie si univano tortuosamente e incoerentemente a determinare stati d’animo, aspirazioni, dilettantesche propagande febbrili. Il processo spirituale che noi abbiamo genericamente riassunto doveva irrimediabilmente far naufragare ogni tentativo di perfetta espressione. Mancava la misura, mancava la sintesi creativa che generasse un rapporto di aderenza fra gli ardori di pensiero neoidealistico e il cinico naturalismo sentimentale e le ricerche stilistiche avviate secondo i modi dei decadenti e dei simbolisti37.

È probabile che queste considerazioni scettiche sulla letteratura tedesca contemporanea – che in quegli stessi anni un Alberto Spaini o una Lavinia Mazzucchetti non avrebbero certo sottoscritto – debbano molto a Farinelli. Ma se la dipendenza dal maestro si vede ancora nella pubblicazione della Agnese Bernauer di Hebbel38, un autore che Farinelli insieme a Scipio Slataper aveva imposto in Italia, l’esperienza di recensore teatrale per l’«Ordine nuovo» di Gramsci gli consente di sviluppare una sensibilità autonoma a cominciare dalla letteratura drammatica. Il teatro è il genere con cui Gobetti ha maggiore familiarità39, e sul «Baretti» promuove con Edoardo Persico e Mario Gromo un rinnovamento sia della tecnica teatrale, in direzione dell’introduzione della regia, sia della scrittura drammatica (nel 1923 pubblica il dramma Rosa di Sion di Enrico Pea). Non a caso la sua esplorazione delle avanguardie tedesche comincia dal teatro. Non possedendo le nozioni per orientarsi negli sviluppi più re37  Piero Gobetti, Frank Wedekind, «L’Ordine nuovo», 15.11.1921, ora in Opere complete, III: Scritti di critica teatrale, a cura di G. Guazzotti e C. Gobetti, Einaudi, Torino 1974, pp. 379-384. 38  Il volume esce nella traduzione di Giovanni Necco, altro allievo di Farinelli, per P. Gobetti Editore nel 1924. 39 Recensisce tra l’altro, stroncandolo, Anime solitarie di Gerhart Hauptmann nell’interpretazione «completamente mancata» del mattatore Ermete Zacconi («L’Ordine nuovo», 20.4.1921, ora in Opere complete, III, cit., pp. 223-224).

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centi della letteratura tedesca ricorre al consiglio di amici e collaboratori più o meno prossimi, primi fra tutti Giovanni Ansaldo, Leonello Vincenti ed Elio Gianturco. A questi sono da aggiungersi altri allievi di Farinelli, come Giovanni Vittorio Amoretti, Giovanni Necco, Barbara Allason, Emma Sola e Italo Maione. Nei mesi del varo della rivista, nel gennaio 1925, Gobetti scrive a Giovanni Ansaldo – una delle firme più brillanti e autorevoli della «Rivoluzione liberale», già collaboratore dell’«Unità» di Salvemini e allora redattore capo del quotidiano socialista «Il Lavoro» – che dati i suoi frequenti soggiorni in Germania era diventato il suo principale consulente per la politica tedesca, e anche per la letteratura: Vorrei fare un numero del «Baretti» sulla letteratura e fors’anche cultura in genere tedesca contemporanea: ma parlar di cose nuove, che gli italiani non conoscono. Come mi consigli d’impostarlo? Di quali scrittori converrà parlare oltre Unruh, Kaiser, George? Tu mi fai Keyserling? [Santino] Caramella che cosa può fare? Poi faremo lavorare Vincenti, Amoretti, la Mazzucchetti, [Pietro] Solari, forse Farinelli. L’importante adesso è che tu trovi mezz’ora per scrivermi i tuoi consigli e dirmi su che scriverai. Si potrebbe dare anche qualche traduzione di frammenti. Conosci qualche scrittore tedesco (oltre [Ernst Robert] Curtius) che si possa far collaborare?40

Ansaldo gli risponde con una lettera fitta di suggerimenti: Il numero sulla Germania del «Baretti» sarà una buona cosa. Bisognerà – a mio avviso – che tu [lo] faccia doppio, per darvi qualche risalto. Elemento prezioso è la Mazzucchetti, che vale da sola tutti gli altri di cui mi fai i nomi. […] Molto buono il Curtius. Che – suppongo – ti avrà fatto conoscere l’Amoretti a Bonn. I°) Teatro. Se lo fa[i] sulla letteratura soc[iale] ti conviene trattare, oltre che Unruh e Kaiser anche Werfel, Bronnen, Toller e Hasenclever. Questi sono i giovani drammaturghi del dopoguerra. Vincenti potrebbe farti un quadro d’insieme della moderna letteratura drammatica; ma mettigli, come pulci nell’orecchio, i nomi che ti ho fatto davanti. Tempo fa uscì sulla «Frankfurter» una rassegna drammatica di Kurt Pinthus, assai buona: Vincenti potrebbe tenerne conto: io gliela posso mandare. 40  Piero Gobetti a Giovanni Ansaldo, 12.1.1925, in Lettere di Piero Gobetti a Giovanni Ansaldo, cit., p. 102 (corsivi di Gobetti).

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II°) Critica. Bisogna trovare uno che parli di Gundolf, che ora è il critico che va per la maggiore. Almeno di questo. (Mazzucchetti). III°) Poesia. George. È già – intendiamoci – un po’ vecchio. Ma parlano di un neues Ton, e poi in Italia è nuovo. Prova a far fare qualche cosa a Amoretti, con riflesso anche agli studi del Gundolf su George. Altri ce n’è a carri: una cosa informativa soltanto diventerebbe pesante elencazione: tuttavia qualche cosa bisogna dire. IV°) Romanzo. Schnitzler, ecc. Prova a scrivere a [Igino] Giordani, quello del «Mondo»: forse potrebbe farti una inquadratura generale. Di Schn[itzler] si è occupato di proposito. Ti ci vogliono quattro italiani che ti diano quattro saggi su questi quattro argomenti. Il resto va bene, qualunque cosa venga: ma l’ossatura di un buon numero la concepisco con quattro buoni articoli su teatro, critica, poesia e romanzo. Avvertimento. Non tollerare che Solari o altri ti parlino, p[er] e[sempio], di Harden, o di Hauptmann, o di altri simili monumenti. È roba che farebbe ridere ogni tedesco che vedesse un numero unico sulla giovine Germ[ania] letteraria con simili nomi. Volendo estenderti, puoi far fare a Caramella un quadro della filosofia, con Keyserling. Io a K[eyserling] non mi ci attacco neppure, perché è prima di tutto un filosofo, e io non me ne occupo. In questi giorni vedrò la Mazzucchetti, e ne parleremo insieme. Poi ti scriverò41.

Lavinia Mazzucchetti (1889-1965)42, che proprio allora sta per pubblicare con Zanichelli Il nuovo secolo della poesia tedesca (uscirà all’inizio del ’26), non è disponibile, forse perché già impegnata come consulente fissa per le letterature germaniche con «I Libri del giorno» e «Il Convegno». Gobetti può contare solo su Curtius, Vincenti e Gianturco,43 e il progettato numero sulla cultura tedesca si rifrange così in tre diversi fascicoli del «Baretti» pubblicati nel corso del 1925. 41  Giovanni Ansaldo a Piero Gobetti, 14.1.1925, in Lettere di Giovanni Ansaldo a Piero Gobetti (1923-1925), a cura di M. Scavino, «Mezzosecolo», 11, 1994-1996, pp. 103-104. 42  Su questa figura fondamentale per la storia della letteratura tedesca in Italia si veda Lavinia Mazzucchetti. Impegno civile e mediazione culturale nell’Europa del Novecento, cit. 43  Un altro specialista di cui Gobetti avrebbe potuto avvalersi è Alberto Spaini, che proprio nel ’25 pubblica un articolo su Pregi e difetti dell’espressionismo tedesco («Comoedia», 13, 1.7.1925, pp. 567-569).

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Sul n. 4 (marzo 1925) appare, in prima pagina, una Presentazione di Stefan George a firma di Ernst Robert Curtius, allora quarantenne romanista a Bonn, con cui Gobetti entra in contatto grazie a Giovanni Vittorio Amoretti, allievo di Farinelli e futuro germanista che si trovava lì come lettore di italiano: Curtius elogia George come il «più grande poeta tedesco dai tempi di Hölderlin» e «dopo Nietzsche, dopo Hölderlin, uno dei grandi profeti tedeschi, che dall’intimo composero l’immagine di un mondo ed invocano la sua realizzazione»44. Il n. 11 (luglio 1925) reca sulla testata il sottotitolo «Numero dedicato al teatro tedesco del Novecento», mentre il n. 13 (settembre 1925) è «Dedicato alla lirica tedesca contemporanea»45. Vale la pena osservarli da vicino per verificare in che misura all’habitus editoriale innovativo di Gobetti corrisponda un’effettiva innovazione anche sul piano critico e traduttivo. Il numero sul teatro, che verrà ristampato in volume pochi mesi dopo per Piero Gobetti Editore col titolo Il teatro tedesco del Novecento, è affidato a Leonello Vincenti. Pressoché coetaneo di Mazzucchetti, Vincenti (1891-1963), che Gobetti conosceva dai suoi anni universitari, si era laureato nel 1914 a Torino con Farinelli e dal ’22 era lettore di italiano a Monaco con Karl Vossler46. La struttura del saggio rivela una forte influenza delle indicazioni di Gobetti: inizia con Wedekind (e non con Hauptmann e la Freie Bühne, come la maggior parte delle trattazioni sul teatro tedesco contemporaneo), si sofferma su Strindberg (altro autore familiare a Gobetti, svedese, ma di larga influenza sulle scene tedesche), dedica un paragrafo alla Tecnica drammatica (altro interesse di Gobetti, che segue con simpatia gli esperimenti di Bragaglia) per poi concentrarsi sull’espressionismo, mettendo in risalto, con due capitoli ad essi dedicati, proprio Fritz von Unruh e Georg Kaiser. Sostanzialmente Vincenti, che adotta un punto di vista crociano o farinelliano («La vera madre dell’arte 44  «Il Baretti», II.4, 5.3.1925. Di George (1868-1933) erano apparse tre poesie (Spiaggia del Sud: Danzatori; Il combattimento; e un brano da Der siebente Ring: «Torbida anima…») sul n. 1 della precedente annata (23.12.1924) nella traduzione dannunzianeggiante di Guglielmo Alberti e Alessandro d’Entrèves. 45  «Il Baretti», II.11, luglio 1925, e II.13, 1-30 settembre 1925. 46  Cfr. 4: Condizioni necessarie, pp. 188-190.

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[…] è la ingenua fantasia»47), dà del nuovo teatro tedesco un giudizio molto simile a quello che Gobetti stesso aveva dato del futurismo italiano: «L’espressionismo è stato certo un’esperienza utile per gl’insegnamenti prevalentemente negativi, che se ne possono trarre»48. Per valutare l’operazione di Vincenti è interessante dare la parola alla stessa Mazzucchetti, che nel 1964 vi si sofferma nella conferenza Primo ingresso dell’espressionismo letterario in Italia: «Il saggio di Vincenti», scrive, «è sostanzialmente negativo, di impostazione ironica» e «stronca un po’ tutti»,49 tra l’altro respingendo «ogni alleanza dell’arte con la politica e con ciò l’intero Toller»50, e concedendo qualcosa solo a Fritz von Unruh. «Il critico – chiosa Mazzucchetti – era allora poco più che trentenne, ma non lo si direbbe in nulla vicino a quel suo tempo». E aggiunge con ironia: Il perplesso ottimismo del mio libro [Il nuovo secolo della poesia tedesca], che già nella breve premessa esprime il proposito di studiare la crisi con tutta «la simpatia che la nostra generazione doveva sentire per il tormento e le speranze del tempo nostro», e nella coscienza che un analogo processo di crollo e di riedificazione fosse latente dovunque, non potrà che apparire ingenuo e superficiale nel confronto con il disincantato e lucido storicismo del collega torinese51.

Lo studio di Vincenti, secondo Mazzucchetti, avrebbe contribuito a indebolire il già fievole interesse degli scrittori e critici italiani per l’espressionismo tedesco, che è stato tradotto poco e tardivamente, e di cui nessuno si è “appropriato” se non, in misura minima, Bragaglia col suo Teatro degli Indipendenti che negli anni ’20 mette in scena Kaiser e Brecht, e negli anni ’40 il 47 

L. Vincenti, Il teatro tedesco del Novecento, cit., p. 50. Ibidem. Cfr. Piero Gobetti, Il futurismo e la meccanica di F. T. Marinetti, «Energie Nove», I.6, 31 gennaio 1919, pp. 86-89, ora in Opere complete, II, cit., pp. 450-457. 49  Lavinia Mazzucchetti, Primo ingresso dell’espressionismo letterario in Italia [relazione tenuta al Convegno internazionale di Studi sull’Espressionismo, Firenze, 18-23 maggio 1964], in Ead., Cronache e saggi, a cura di E. e L. Rognoni, il Saggiatore, Milano 1966, p. 315. 50  Ibidem. 51  Ibidem. 48 

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gruppo di Paolo Grassi e Giorgio Strehler gravitante intorno alla casa editrice Rosa e Ballo e poi al Piccolo Teatro di Milano52. Il numero sulla «lirica tedesca contemporanea» è opera invece di Elio Gianturco (1900-1987), un quasi-coetaneo di Gobetti a proposito del quale è difficile trovare notizie biografiche. Napoletano, rampollo dell’élite politica della bell’époque, figlio dell’insigne giurista e ministro Emanuele Gianturco, studia all’Università di Napoli e apprende il tedesco forse sulla scia degli studi giuridici del padre, importatore in Italia del metodo giuridico positivista di Rudolf von Jehring e Joseph Unger. La scrittrice Fabrizia Ramondino, ricordando com’egli fosse stato il primo amore di sua madre, lo descrive così: «Bello, spregiudicato, elegante nella persona e raffinato nei gusti letterari, traduttore di poeti tedeschi e poeta egli stesso, un po’ dannunzianeggiante e “vincenzerrantesco”»53. Certo Gianturco aspirava alla carriera poetica, dal momento che pubblica tre sillogi e viene accolto in due antologie54. Molto probabilmente Gobetti lo contatta – forse attraverso il comune amico Edoardo Persico – perché nel dicembre 1923 erano apparse sul «Convegno» alcune sue traduzioni da Rilke, le prime in Italia (molto apprezzate da Vincenzo Errante)55. È interessante vedere come Gianturco compone la sua antologia – che esce prima in versione ridotta sul «Baretti», quindi 52  Cfr. 4: Condizioni necessarie, pp. 204-208 e 7: Un repertorio per il teatro di regia, pp. 289-299. 53  Fabrizia Ramondino, Passaggio a Trieste, Einaudi, Torino 2000, pp. 6-7. A fine anni ’20 Gianturco si trasferisce prima in Argentina, poi a New York, dove si addottora alla Columbia University nel 1934 discutendo una tesi su Joseph De Maistre and Giambattista Vico (pubblicata nel ’37) e dà avvio a una carriera accademica di italianista negli Stati Uniti (Columbia, California, Chicago, Hunter’s College). 54  Le sillogi sono: Liriche dell’estasi e dell’oblio (Zanichelli, 1923), Sarabande (Le Monnier, 1924) e L’orto dei cigni (Alpes, 1925). Nel 1928 alcuni testi di Gianturco compaiono nella – invero non molto autorevole – antologia Mondadori Poeti Novecento (priva di curatore) e nel ’29 nella seconda edizione della – più prestigiosa ma poco selettiva – antologia in 8 volumi Le più belle pagine dei poeti d’oggi curata da Olindo Giacobbe per Carabba. 55 «Il Convegno», IV.11-12, 25 dicembre 1923. Nel 1924 Gianturco aveva inoltre pubblicato la plaquette di traduzioni Quattro corde della cetra germanica: Klopstock, Goethe, Novalis, Lenau (Le Monnier, 1924) e nel ’27 avrebbe tradotto per Sonzogno Novelle e scritti minori sulla musica di Wagner (Sonzogno, 1927). Altre sue traduzioni rilkiane saranno riproposte sul numero speciale del «Convegno» dedicato a Rilke (VIII.10, 1927).

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ampliata in volume per le Edizioni del Baretti – seguendo, come già Vincenti, indicazioni di Gobetti, dal cui interesse si sente lusingato56. Il nucleo originario è costituito dalle 19 liriche rilkiane già apparse sul «Convegno», che vanno a formare la sezione di gran lunga più cospicua del volume. A queste Gianturco aggiunge svariate traduzioni da una quarantina di poeti (il volumetto sfiora le 180 pagine), traendo tre quarti dei testi da una fortunata antologia di Hans Bethge, Deutsche Lyrik seit Liliencron, più volte ristampata e ampliata, e gli altri dall’antologia di Rudolf Kayser Verkündigung57. Dalle due raccolte tedesche Gianturco esclude parecchi nomi, alcuni dei quali sono oggi canonici58, mentre quelli da lui scelti sono per lo più dimenticati. Infine aggiunge alcune poesie di George, anche queste con tutta probabilità su richiesta di Gobetti. Il volume non reca indicazione delle fonti né bibliografia critica. Nell’introduzione, intitolata La lirica tedesca nell’ultimo trentennio, Gianturco costruisce un percorso che solo in parte coincide con la successione dei testi antologizzati. Ha inizio con Liliencron (come in Bethge) e ha le sue tappe principali in Richard Dehmel, Gustav Falke, Stefan George, Max Dauthendey, Hugo von Hofmannsthal, Reiner Maria Rilke, «senza dubbio il grande melopèo del momento»59, e gli espressionisti (Adler, Becher, Däubler, Heym, Heynicke, Loerke, Schürer, Toller, Vagts). La narrazione adottata è quella del passaggio dal «germanico primitivo», rappresentato dal «naturalismo» e dall’«assolutismo» di Liliencron, alla modernità, che culminerebbe 56  Elio Gianturco, Antologia della lirica tedesca contemporanea, Le Edizioni del Baretti, Torino 1926, ristampa anastatica con postfazione di W. Busch, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2013; il volume contiene un’utile scheda di Alessia Pedio, che mostra tra l’altro come Gobetti desse per lettera a Gianturco indicazioni su quanti e quali poeti (p.es. Liliencron) dovessero essere antologizzati. 57  Si vedano Deutsche Lyrik seit Liliencron, hrsg. von H. Bethge, Hesse & Becker, Leipzig 1906 (in cui i poeti sono disposti semplicemente in ordine alfabetico, senza introduzione né altre indicazioni) e Verkündigung. Anthologie junger Lyrik, hrsg. von R. Kayser, Roland, München 1921 (da cui sono tratti testi di Adler, Benn, Blass, Däubler, Heynicke, Kasack, Loerke, Toller, Urzidil, Vagts, E. Weiss). 58  P.es. Nietzsche, Ehrenstein, Hasenclever, Hermann Hesse, Robert Walser, Frank Wedekind, Franz Werfel e Stefan Zweig (da Bethge) e Brod, Ehrenstein, Hasenclever, Liechtenstein (da Kayser). 59  E. Gianturco, Antologia della lirica tedesca contemporanea, cit., p. 45.

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nel «sensazionalismo», nell’«estetismo», nell’«erotismo», nel «perversismo» e nell’«esotismo» di George, con il quale «fa il suo ingresso ufficiale nella letteratura militante […] l’internazionalismo giudaico»60, per poi acquietarsi nella «lirica religiosa» di Rilke e nella profondamente umana e antiretorica «lirica di guerra» degli espressionisti. L’itinerario proposto da Gianturco è interessante soprattutto per i paragoni che propone per orientare il lettore italiano in una selva di poeti pressoché sconosciuti: Liliencron è accostato all’impressionismo e a Ceccardo Roccatagliata Ceccardi; Dehmel, l’unico di cui esistesse un volume in traduzione (pubblicato da Borgese in antichi e moderni61), a Whitman per il verso libero e la postura del poeta come «fabbro dell’avvenire»62; Falke a Pascoli per la sua lirica del «raccoglimento familiare»63; George, naturalmente, a Mallarmé; Rilke ai crepuscolari e a Angelus Silesius (autore riscoperto da Papini), nella cui tradizione di lirica religiosa sarebbe da inquadrare. Gli espressionisti sono trattati in blocco, senza dare rilievo ad alcuna personalità, cosa che rende meno persuasiva una valutazione che si colloca a metà strada fra quella empatica di Lavinia Mazzucchetti e quella negativa di Vincenti e Gobetti, pencolando però vistosamente verso quest’ultima: Con l’espressionismo, per quanto segni una esagerazione esasperata delle caratteristiche della lirica alemanna dopo Nietzsche, e cioè dell’individualismo parossistico, dell’impiego di dissonanze sempre più assidue, del tumulto caleidoscopico dei colori, dello squilibrio e dell’abbandono di quelli che si ritenevano un giorno i cardini della costruzione poetica, soffia una raffica ampia e unificatrice di umanità, che era del tutto assente dalle creazione dell’Ottocento ultimo. È il senso della vera sofferenza, ormai ritornata pura e bruta, non inquinata da alcuna fornicazione letteraria, sofferenza di nervi consunti, doglia puramente fisica, ma divinizzata dal suo contatto con la universalità degli esseri che patiscono. Una formidabile volontà solleva i poemi dell’espressionismo. Esso spazza via, con una voluttà di fracassare (Lust

60  61 

Ivi, p. 24. Riccardo Dehmel, Poesie scelte, a cura di T. Gnoli, Rocco Carabba, Lanciano

1914. 62  63 

E. Gianturco, Antologia della lirica tedesca contemporanea, cit., p. 10. Ivi, p. 19.

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am Zersetzen), tutto ciò che lo precede; in preda a un’acerba bramosìa di negazione. […] Una immensa stanchezza intride questa lirica: ma non v’è mai uno scatto di rabbia, un accesso di furia verso le potenze implacabili che ci dominano64.

Non a torto, dunque, proprio Edoardo Persico criticherà l’antologia dell’amico, che attinge a modelli tedeschi letterariamente datati, mentre trascura l’antologia-manifesto dell’espressionismo, ancor oggi canonica, Menschheitsdämmerung di Kurt Pinthus65: «Peccato che neanche Gianturco lo conosca!» scrive a Gobetti. «Avresti pubblicato fin d’ora un’antologia perfetta: infatti, il mio caro Elio, con la sua grossa fatica mostra di tenere in nessun conto questo benedetto espressionismo, che è, poi, tutta la Germania d’oggi»66. Gianturco scrive in una prosa ricercata, preziosa, e con essa modella anche le sue traduzioni. Queste sono uniformate alla misura e al gusto poetico del traduttore, che operando en poète fa parlare gli oltre quaranta lirici tedeschi con una sola voce italiana, che peraltro sembra quella di Carducci, appena rinfrescata con qualche innesto pascoliano e dannunziano, come se Gianturco ignorasse il rinnovamento della lingua poetica portato dai vociani e dai futuristi, e ancor più da poeti allora in via di consacrazione come Saba, Ungaretti o quel Montale che lo stesso Gobetti aveva appena pubblicato67. L’impressione complessiva è che la poesia tedesca contemporanea sia – almeno attraverso la voce di Gianturco – piuttosto monotona e poco sorprendente. Dopo la morte di Gobetti la rivista e la casa editrice pubblicano ancora alcuni articoli68 e la traduzione della Favola di Goethe 64 

Ivi, p. 56. Menschheitsdämmerung. Symphonie jungster Dichtung, hrsg. von K. Pinthus, Rowohlt, Berlin 1920. 66  Elio Gianturco a Piero Gobetti, 14.12.1925, lettera conservata in fotocopia al Centro Studi Piero Gobetti di Torino, e citata nella scheda di Alessia Pedio in E. Gianturco, Antologia della lirica tedesca contemporanea, cit., p. 196. 67  Eugenio Montale, Ossi di seppia, Piero Gobetti Editore, Torino 1925. 68  Mario Lamberti, Fritz von Unruh: poeta della volontà di pace (III.7, luglio 1926, in prima pagina), Leonello Vincenti, Stefan George e la guerra (III.10, ottobre 1926, in prima pagina), Giovanni Necco, Lo Stundenbuch di R. M. Rilke (III. 12, dicembre 1926, con antologia poetica), Emma Sola, Goethe favolista (IV.11-12, novembre-dicembre 1927, in contemporanea con la pubblicazione in volume della 65 

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a cura di Emma Sola, che tuttavia nel loro complesso non introducono alcuna novità rispetto all’impostazione che egli aveva data. 4. Effetti e influenze di un habitus Benché i due numeri speciali e i volumi sul teatro e la poesia tedesca costituiscano un indubbio progresso nelle pratiche dell’editoria italiana, giacché fino a quel momento non era stata tentata alcuna operazione altrettanto ampia e organica sulla letteratura tedesca contemporanea, bisogna prendere atto che essi non producono né – nel caso di Vincenti – quell’avvicinamento alla letteratura tedesca che Gobetti si riprometteva, né – nel caso di Gianturco – testi che contribuiscano a modificare significativamente il repertorio della poesia italiana. Segno che, anche quando l’operazione culturale e editoriale sia all’avanguardia, non può esserci rinnovamento efficace senza categorie di lettura e senza una poetica traduttiva altrettanto all’avanguardia: Vincenti e Gianturco rimangono indietro rispetto all’habitus innovatore di Gobetti perché non hanno un habitus altrettanto innovatore nei rispettivi campi. Se George rimarrà di fatto un autore marginale nella cultura letteraria italiana, Rilke vi entrerà a pieno titolo solo nel corso degli anni ’30, quando sarà oggetto di scontro fra progetti traduttivi diversi, come quelli di Vincenzo Errante, Leone Traverso e Giaime Pintor, questi ultimi due in posizione d’avanguardia nel campo di produzione ristretta. Più in generale, se si guarda ai soli prodotti (articoli e volumi) realizzati da Gobetti, il bilancio per quanto riguarda la letteratura tedesca è piuttosto magro: una manciata di articoli su Wedekind, George e Rilke, i due volumi sul teatro e sulla poesia, e altri due che precedono e seguono la sua direzione del «Baretti», la Agnese Bernauer di Hebbel (tardo prodotto della scuola farinelliana) e la Favola di Goethe (tardo prodotto della scuola crociana). Niente di paragonabile all’innovazione della «Voce» e dei suoi sodali traduzione di Favola), Italo Maione, La lirica di Dehmel (V.4, aprile 1928), Leonello Vincenti, Stefan George (V.7-8, luglio-agosto 1928, in prima pagina, e per quasi tutto il numero), Italo Maione, Il canzoniere di Storm (V.9, settembre 1928).

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(Nietzsche, Novalis, Hebbel, il Wilhelm Meister); nulla che entri nel processo di produzione e riproduzione della letteratura italiana. Ma se si considera l’habitus editoriale da lui introdotto (e quanto effettivamente ha fatto per altre letterature, come l’inglese o la francese) si può immaginare ciò che avrebbe potuto realizzare se la sua attività letteraria – che se ci limitiamo al «Baretti» si concentra in meno di un anno e mezzo! – non fosse stata interrotta dalla morte. L’innovazione portata da Gobetti sta sullo stesso piano di quella introdotta dal suo modello, il Prezzolini della «Voce», l’organizzatore di cultura. Rispetto a quel modello Gobetti fa un passo avanti, introducendo (o contribuendo a introdurre) la disposizione a portare in Italia gli autori e i testi delle avanguardie consacrate in ciascuna nazione straniera, che si trovano in posizione omologa a quella dei loro mediatori italiani. Non ciò che vende, come Treves, ma ciò che meglio rappresenta lo stato del campo di produzione ristretta di un determinato paese (con un’attenzione particolare all’Europa): «il poeta riconosciuto della sua nazione», «la figura spirituale centrale della Germania odierna», come Curtius definisce George nel suo articolo. Gobetti costituisce l’anello di congiunzione tra le avanguardie letterarie e editoriali sorte intorno alla «Critica» di Croce e alla «Voce» di Prezzolini, e quelle che si svilupperanno a Torino con la Slavia di Alfredo Polledro (1926-34, Rachele Gutman, moglie di Polledro, era stata l’insegnante di russo di Piero e Ada Gobetti), la biblioteca europea Frassinelli diretta da Franco Antonicelli (1932-36), l’Einaudi di Leone Ginzburg e Cesare Pavese (1933-50)69. Questo modello sarà ripreso con successo soprattutto dall’Einaudi, che non solo acquisirà parte del catalogo di Gobetti (e ne pubblicherà le Opere complete), ma riprodurrà a sua volta la sintesi avanguardistica di “rivista + collana”, prima con «La Cultura» di De Lollis, poi – e a questo deve in larga misura il suo capitale simbolico – con «Il Politecnico» di Vittorini.

69  È la tesi di Angelo D’Orsi, Il modello vociano. Esperienze culturali nella Torino fascista, «Studi storici», 31, 1991, pp. 867-887.

Capitolo sesto La consacrazione del romanzo Traiettorie delle collane di narrativa straniera nel campo editoriale (1929-1935)

1. 1930: l’irresistibile ascesa del romanzo Intorno al 1930 si assiste a quell’improvvisa impennata nell’importazione di letteratura straniera per la quale uno dei suoi protagonisti, Cesare Pavese, parlò di «decennio delle traduzioni»1. L’aspetto quantitativo di questo mutamento è spiegabile con la logica del mercato: editori vecchi e nuovi, in gran parte milanesi come Treves, Sonzogno, Mondadori, Bompiani, Sperling & Kupfer, Modernissima o Barion, individuano un nuovo pubblico di lettori, sommergendolo di romanzi rosa e gialli, opere sperimentali e capolavori di premi Nobel. Contemporaneamente, però, si assiste a un mutamento qualitativo altrettanto rilevante, la cui genesi è più complessa e difficile da ricostruire: il romanzo, un genere che da almeno un ventennio le avanguardie letterarie avevano messo al bando proprio perché troppo compromesso col mercato – non a caso i romanzi oggi canonizzati di Pirandello, Tozzi, Svevo e Borgese incontrano inizialmente l’indifferenza o il disprezzo della società letteraria che conta –, comincia a riconquistare legittimità nel campo di produzione ristretta, dove alcuni degli scrittori e dei critici più avanzati ne fanno il terreno privilegiato delle loro ricerche letterarie. La spiegazione tuttora più accreditata di questa rivoluzione nella gerarchia dei generi, fornita da un altro protagonista dell’epoca, Giacomo Debenedetti, ne individua la causa principale in una modernizzazione della forma romanzo, che si avvia all’estero (Proust, 1  Cesare Pavese, L’influsso degli eventi [1946], in La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1951, p. 223.

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Joyce, Kafka) e a cui partecipa anche l’Italia (Borgese, Svevo, Moravia)2. Qui vorrei però percorrere un’altra strada, muovendomi non tanto sul piano estetico quanto su quello storico e sociale. Richiamerò dunque brevemente in quali circostanze e in quale zona del campo letterario il romanzo era stato sottoposto a una sorta di interdetto, per poi osservare come a distanza di circa un ventennio, in quella stessa zona del campo letterario, esso cominci ad essere riconosciuto come genere “artistico”. Concentrerò la mia attenzione non tanto sulle avanguardie letterarie che si cimentano col romanzo3 quanto sugli editori che pubblicano narrativa tradotta, e in particolare su quelli che operano in alleanza con alcune avanguardie letterarie, perché sono loro – questa è la mia tesi – a giocare un ruolo decisivo nel conferire al romanzo un nuovo capitale letterario, grazie al loro posizionamento nel campo e ad alcune strategie specifiche tipiche della produzione ristretta. Dopo una schematica ricostruzione del campo editoriale intorno al 1930 approfondirò il caso particolare della casa editrice Bompiani e dei romanzi da essa proposti in traduzione. Anche in questo caso, l’esemplificazione sarà prevalentemente condotta sulla letteratura tedesca. 2. La polarizzazione del campo letterario e la genesi dell’interdetto sul romanzo (1909-1929) In Italia la produzione di romanzi, autoctoni e tradotti, non conosce crisi: per tutto il primo trentennio del secolo le due maggiori case editrici del paese, Treves e Sonzogno, così come le molte altre che si collocano nella loro scia, da Salani a Baldini & Castoldi a Bietti, continuano a pubblicarne a centinaia, e il pubblico a leggerne in tirature perfino di centinaia di migliaia. Si tratta però di una produzione che non distingue tra letteratura commerciale e letteratura d’autore: nella biblioteca amena Treves, la collana 2  Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento. Quaderni inediti, Garzanti, Milano 1971. 3  Per questo cfr. Anna Baldini, Un editore alla ricerca di un’avanguardia: Valentino Bompiani e la «tenzone del romanzo collettivo», in Stranieri all’ombra del duce. Le traduzioni durante il fascismo, a cura di Anna Ferrando, Franco Angeli, Milano 2019, pp. 121-143.

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di narrativa senz’altro più prestigiosa e diffusa del fin de siècle, si avvicendano indistintamente Balzac e De Amicis, Tolstoj e Cordelia, D’Annunzio e Prévost (e innumerevoli altri oggi del tutto dimenticati); tra i tedeschi, non si traducono Thomas Mann o Franz Kafka, ma i romanzi storici di Ernest Eckstein (I Claudii, 1902) o quelli scandalistici di Max Nordau (Morganatico, 1904), mentre il nome di punta è quello di Elisabeth Bürstenbinder, autrice di romanzi sentimentali pubblicati sotto lo pseudonimo E. Werner. Le cose cambiano grossomodo a partire dal 1909, quando un’avanguardia di scrittori e critici capeggiata da Benedetto Croce, Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini e Giuseppe Antonio Borgese dà vita a un circuito di produzione alternativo, alleandosi con giovani editori di provincia come Giovanni Laterza e Rocco Carabba. Le collane che essi stessi fondano e alimentano, come cultura dell’anima (1909), quaderni della voce (1910), antichi e moderni (1912) e scrittori stranieri (1912), creano un nuovo spazio nel campo editoriale, in cui è possibile pubblicare opere che sarebbero poco appetibili per i bilanci dei grandi editori, ma alle quali, entro una cerchia che coincide in larga misura con i collaboratori e i lettori della «Critica», della «Voce», della «Cultura», di «Lacerba» e di altre riviste legate alle avanguardie letterarie, viene riconosciuto un valore specifico: non economico ma simbolico. La contrapposizione strutturale tra questi nuovi entranti e i vecchi editori, che genera a sua volta la distinzione simbolica fra “letterario” e “commerciale”, determina una generale ristrutturazione del campo letterario e editoriale, basata sull’opposizione tra un “polo di produzione ristretta”, dove prevale la logica autonoma della letteratura, e un “polo di produzione di massa”, dove invece prevale la logica eteronoma del mercato (Ill. 1). Con la loro attività editoriale – che mette in circolazione alcune centinaia di volumi in pochi anni – gli scrittori e critici delle avanguardie consacrano entro il circuito di produzione ristretta un repertorio assai selezionato di autori e opere, ma anche di generi letterari, stili e poetiche, a cui riconoscono uno specifico valore letterario. Gli autori tedeschi che per primi ottengono questo riconoscimento sono Nietzsche, Novalis, Hebbel e Goethe, oggetto di traduzioni e studi critici, e spesso presi a modello per nuovi progetti di scrittura, da Un uomo finito di Papini a Il mio Carso di Slataper. Al romanzo,

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invece, questo valore letterario viene negato: gli scrittori e critici delle avanguardie lo giudicano un genere meccanico, artificiale, inautentico, troppo compromesso col mercato. Per loro scrivere o tradurre un romanzo (a meno di non farlo passare per qualcos’altro) significherebbe compromettersi a propria volta4.

Ill. 1. Progressiva polarizzazione del campo editoriale intorno al 1910. Le case editrici e le collane indicate non sono che una minima parte di quelle realmente operanti, ma costituiscono un campione rappresentativo delle principali posizioni nel campo: in alto le più antiche, in basso le nuove entranti; a destra le più “letterarie”, a sinistra le più “commerciali”5. 4  Per questa ricostruzione cfr. A. Baldini, D. Biagi, S. De Lucia, I. Fantappiè, M. Sisto, La letteratura tedesca in Italia, cit., in particolare le pp. 25-89. 5  Questa illustrazione, come quelle che seguiranno, non è che un tentativo molto schematico di rappresentare spazialmente la struttura del campo dell’editoria letteraria e il suo mutare nel tempo.

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L’interdetto sul romanzo continua a vigere, con poche eccezioni, ancora per tutti gli anni ’20 sia presso le nuove avanguardie, dalla «Ronda» a «Solaria», che eleggono a genere principe la prosa d’arte, sia presso gli editori ad esse legati che tengono in vita il circuito di produzione ristretta, come Vallecchi, erede del consacratissimo catalogo della Libreria della Voce. I romanzi, e in particolare la narrativa straniera, restano appannaggio degli editori “commerciali”, con conseguenze sulla selezione dei testi e sulla qualità delle traduzioni che il giovane Piero Gobetti è tra i più duri a stigmatizzare: «Noi in Italia», scrive nel 1919, «non abbiamo ancora buone traduzioni dalle opere importanti delle letterature straniere. E infatti badate: gli antichi e moderni di R. Carabba, le traduzioni della Libreria della Voce e qualche altra iniziativa sono stati tentativi sporadici: il campo è occupato dalla biblioteca amena»6. Che per tutti gli anni ’20 continua a ristampare E. Werner, affiancandole titoli come Tre figlie uniche di Berthold Auerbach (morto nel 1882), Amore fallito di Hans Hopfen (morto nel 1904) o Il segreto della vecchia zitella di E. Marlitt (morta nel 1887). Paradigmatica è l’esperienza del traduttore Alberto Spaini, formatosi nel circuito di produzione ristretta tra «La Voce» di Prezzolini e la cattedra romana di letteratura tedesca di Borgese, e primo importatore in Italia di alcuni dei maggiori scrittori tedeschi della modernità, tra cui Mann, Kafka e Brecht7. Per anni le sue traduzioni, tutte di interesse prevalentemente specifico, che egli sottopone alle maggiori case editrici, vengono regolarmente respinte: «Perché il punto è questo», lamenta nel 1925: «che nessuna traduzione presenta all’editore la probabilità di un successo commerciale. Non è vero che in Italia non si traduca: basta leggere il catalogo della biblioteca amena, la cosiddetta Biblioteca Gialla del Treves: c’è tradotta metà della letteratura mondiale (è vero che quasi tutte le traduzioni sono peggio che pietose)»8. Eppure, Spaini è costretto a 6 

P. Gobetti, La cultura e gli editori [1919], cit., p. 465. Su Spaini cfr. 4: Condizione necessarie, pp. 183, 196-199. 8  Alberto Spaini, Le disgrazie del traduttore, «Leonardo», I.11, novembre 1925, p. 241. È significativo che Spaini aggiunga, subito dopo: «Ad ogni modo nessuno ne sa niente». Nessuno ne sa niente perché gli editori “commerciali” non hanno capitale letterario sufficiente per distinguere un autore, un’opera, dal mare magnum di tutti gli altri, gesto riservato agli attori del circuito di produzione ristretta. 7 

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chiedersi «perché due dei più importanti editori italiani si tengano da cinque anni nel cassetto romanzi e novelle di Thomas Mann e di Gustav Meyrink, che in Germania si vendono a centinaia di migliaia di copie»9. I racconti di Mann a cui fa riferimento, Ora greve e Tristano, da lui stesso tradotti con la moglie, escono infine nel 1926 grazie al coraggioso ma effimero editore Giuseppe Morreale, che in quegli anni è peraltro l’unico in Italia ad accettare di pubblicare, a pagamento, Italo Svevo, ritrovandosi così in catalogo, più per caso che per scelta, due romanzieri oggi canonici e per molti versi affini. 3. Il romanzo nel circuito di produzione ristretta: tentativi di consacrazione, da Slavia a Frassinelli L’assetto del campo letterario comincia in effetti a mutare verso la metà degli anni ’20. La casa editrice che per prima nel circuito di produzione ristretta estende al romanzo le pratiche di consacrazione tipiche delle avanguardie è la Slavia di Alfredo Polledro e Rachele Gutman, nata a Torino con il programma di portare in Italia i maggiori narratori russi dell’Ottocento – Dostoevskij, Tolstoj, Turgenev, Gogol’, Čechov – in traduzioni condotte non più sul francese ma rigorosamente sull’originale: i russi, in gran parte giunti in Italia attraverso la biblioteca amena, erano infatti sostanzialmente considerati letteratura di consumo, al punto che ancora nel ’26 i solariani si sentono in dovere di precisare: «Per noi, insomma, Dostojewski è un grande scrittore»10. Affermando che quest’operazione era «da lunghi anni attesa, auspicata, suggerita dai nostri critici e letterati più sagaci: da Thovez ad Ojetti, da Papini a Prezzolini, da Moscardelli a Gobetti»11, Polledro si richiama espressamente alla logica specifica del polo autonomo. E le sue collane, il genio russo (1926-1934, 57 titoli) e il genio slavo (1928-1934, 28 titoli), che si avvalgono di collaboratori a loro volta in via di consacrazione, come Ettore Lo Gatto, Leone Ginzburg, Rinaldo Küfferle o Ada Gobetti, riprendono e aggior9 

Ibidem. Editoriale anonimo del primo numero, «Solaria», I.1, 1926, p. 3. 11  Alfredo Polledro, Presentazione, in Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, Slavia, Torino 1926, vol. I, p. V. 10 

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nano modalità di selezione, marcatura e lettura che erano state messe a punto dalle avanguardie degli anni ’10: 1) nella selezione la logica letteraria prevale su quella economica: gli autori e testi da tradurre vengono individuati non in base al loro potenziale di vendita ma al valore loro riconosciuto all’interno del circuito di produzione ristretta e al progetto letterario definito dalla singola collana; 2) gli autori e testi tradotti vengono sottoposti a una marcatura consacrante, attraverso varie strategie tra cui: l’apposizione del marchio del progetto editoriale (il logo dell’editore, il titolo della collana, il nome del direttore e del traduttore evidenziati in copertina), l’accostamento ad autori e testi più consacrati (p.es. Fedin e Leonov accanto a Dostoevskij e Tolstoj), l’adozione di trattamenti tradizionalmente riservati ai testi letterari più prestigiosi (p.es. i classici grecolatini e italiani) sia nella traduzione (integrale, condotta sull’originale e eseguita da professionisti), sia nei paratesti (note al testo, prefazioni critiche), e infine la messa in vendita a una cifra che evidenzi quanto “preziose” siano tanto l’opera quanto la cura dedicatale (10-15 lire al volume, contro le 5 della biblioteca amena); 3) degli autori e dei testi viene proposta, attraverso il posizionamento in collana e le prefazioni, una lettura secondo le categorie vigenti nel campo letterario d’arrivo e più o meno legata al progetto editoriale in cui sono inseriti (in Slavia questa operazione viene riservata agli autori meno noti: cfr. le prefazioni di Ettore Lo Gatto a Gončarov, Cristina Agosti Garosci a Zeromski, o dello stesso Polledro a Fedin). Riprendendo la formula collaudata da Slavia, anche altre collane di progetto dedicate alla narrativa vanno a posizionarsi in prossimità del polo di produzione ristretta. La più importante è senza dubbio la biblioteca romantica diretta da Giuseppe Antonio Borgese per Mondadori (1930-1942, 50 titoli, 20 lire al volume). Ideata nel 1926 l’impresa di Borgese, che era stato tra i fondatori del circuito di produzione ristretta ma non aveva mai condiviso l’interdetto antiromanzesco, mira espressamente a consacrare per la prima volta in Italia un repertorio di classici del romanzo, e per questo ha bisogno di operare una radicale rottura simbolica: mentre il nome della collana riprende esplicitamente quello della popolarissima biblioteca romantica di Sonzogno,

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biblioteca romantica (1930-1942, 50 titoli) diretta da Giuseppe Antonio Borgese per Arnoldo Mondadori Editore, Milano. Primi venti titoli Stendhal (F. Martini, G. A. Borgese), La Certosa di Parma, 1931, n. 1 J. W. Goethe (G. A. Borgese), I dolori del giovane Werther, 1931, n. 2 H. Murger (A. Panzini), Vita di bohème, 1931, n. 3 D. Defoe (G. Biagi), Lady Roxana, l’amante fortunata, 1931, n. 4 J. P. Jacobsen (G. Gabetti), Maria Grubbe, 1931, n. 5 E. Mörike (T. Gnoli), Mozart in viaggio per Praga, 1931, n. 6 H. de Balzac (G. Deledda), Eugenia Grandet, 1931, n. 7 N. Hawthorne (F. M. Martini), La lettera scarlatta, 1931, n. 8 A. P. Čechov (L. Kociemski), Il duello, 1931, n. 9 A. F. Prévost (A. Negri), Storia di Manon Lescaut e del cavaliere di Grieux, 1931, n. 10 G. de Maupassant (M. Moretti), Una vita, 1931, n. 11 F. Dostoevskij (R. Küfferle), I demoni, 1931, n. 12 J.-H. Bernardin de Saint-Pierre (U. Fracchia), Paolo e Virginia, 1931, n. 13 A. Daudet (A. Palazzeschi), Tartarino, 1932, n. 14 J. Austen (G. Caprin), Orgoglio e prevenzione, 1932, n. 15 J. W. Goethe (S. Benco), La missione teatrale di Guglielmo Meister, 1932, n. 16 A. France (F. Chiesa), Taide, 1932, n. 17 H. de Balzac (M. Maffi), Il colonnello Bridau, 1932, n. 18 N. Gogol’ (N. Festa), Taras Bul’ba, 1932, n. 19 L. Sterne (U. Foscolo), Viaggio sentimentale / F. Schiller (G. Berchet), Il visionario, 1932, n. 20 Tra parentesi tonda è riportato il nome del mediatore italiano dell’opera (traduttore e/o prefatore).

la più fortunata collezione di romanzi a fascicoli dell’Ottocento12, i titoli vengono invece selezionati non più tra i feuilleton di Dumas, Sue o Richebourg, ma rappresentano un campione della produzione romanzesca moderna di più riconosciuto valore artistico, da Cervantes a Wilde, e sono a loro volta nobilitati da traduzioni e prefazioni affidate a scrittori consacrati quali Aldo Palazzeschi, 12 Dalla biblioteca romantica illustrata, fondata nel 1866 a corredo del settimanale «Il Romanziere Illustrato», deriveranno poi la biblioteca romantica economica e la biblioteca romantica tascabile, pubblicate fino agli anni ’40 del Novecento.

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Massimo Bontempelli, Marino Moretti, Sibilla Aleramo, Corrado Alvaro e Grazia Deledda (premio Nobel nel ’26), oppure a critici letterari e traduttori professionisti. A dare un’idea della novità dell’operazione basti ricordare che romanzi come Orgoglio e prevenzione (sic!) di Jane Austen o Il mulino sulla Floss di George Eliot non erano mai stati tradotti in italiano, mentre gran parte degli altri circolava in traduzioni datate e tutt’altro che rigorose. A corroborare lo sforzo di Borgese nel valorizzare la tradizione del romanzo concorrono indirettamente le imprese di due suoi colleghi germanisti: la biblioteca sansoniana straniera (19211955, 113 volumi) fondata da Guido Manacorda a Firenze per Sansoni, e la «collana di traduzioni» i grandi scrittori stranieri, pubblicati da Arturo Farinelli a Torino per utet (19301948, 235 volumi). Pur essendo due collane di studio (quella di Manacorda è la prima a introdurre il Italia il testo originale a fronte), che non contemplano la narrativa contemporanea e che anzi ospitano soprattutto poesia, teatro e saggi, proprio per la loro destinazione scolastico-accademica contribuiscono a legittimare i non molti romanzi che danno alle stampe, sempre in traduzioni accurate e con ampie introduzioni affidate a specialisti. Tra i primi titoli della biblioteca sansoniana straniera troviamo la prima traduzione novecentesca dei Dolori del giovane Werther (1921), La certosa di Parma (1922) e il Don Chisciotte (1923); nei grandi scrittori stranieri, che esordisce nello stesso anno della biblioteca romantica ed è più aperta alla narrativa, appaiono l’Iperione di Hölderlin (1931), Le affinità elettive di Goethe (1933), Un viaggio sentimentale di Sterne (1932, in una traduzione finalmente diversa da quella di Foscolo), Oblomov di Gončarov (1933) e Il ritratto di Dorian Gray di Wilde (1933). Una collana che adotta strategie analoghe al genio russo, applicandole alla narrativa tedesca contemporanea, è narratori nordici (1929-1942, 24 titoli, 8-10 lire al volume), fondata da Lavinia Mazzucchetti, assistente di Borgese alla cattedra di letteratura tedesca dell’Università di Milano13. Anche Mazzucchetti, come Spaini, ha cercato per anni un editore per Thomas Mann 13  Su Lavinia Mazzucchetti cfr. 5: La genesi di un nuovo habitus editoriale, pp. 227-228.

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narratori nordici (1929-1942, 24 titoli) diretta da Lavinia Mazzucchetti per Sperling & Kupfer, Milano. Primi venti titoli Th. Mann (L. Mazzucchetti), Disordine e dolore precoce, 1929, n. 1 L. Frank (G. Prampolini), Carlo e Anna, 1929, n. 2 J. Wassermann (E. Rocca), Le orecchie del signor Marchese, 1929, n. 3 F. Werfel (S. Caramella), La morte del piccolo borghese, 1929, n. 4 F. Timmermans (G. Prampolini), Il parroco della vigna fiorita, 1930, n. 5 A. Schnitzler (C. Baseggio), Il ritorno di Casanova, 1930, n. 6 S. Zweig (E. Rocca), Amok, 1930, n. 7 R. Huch (C. P. Winspeare), L’ultima estate, 1930, n. 8 H. E. Jacob (E. Pocar), Jacqueline tra i giapponesi, 1930, n. 9 Klabund (A. Oberdorfer), Moreau, 1930, n. 10 A. Schnitzler (E. Ferrari), La signora Berta Garlan, 1930, n. 11 O. Duun (G. Prampolini), Odin, 1931, n. 12-13 H. Hesse (B. Allason), L’ultima estate di Klingsor, 1931, n. 14 S. Undset (C. Giannini), Una donna e l’amore, 1931, n. 15 G. Hauptmann (L. Mazzucchetti), Carnevale, 1932, n. 16 S. Zweig (B. Burgio Ahrens), Lettera d’una sconosciuta, 1932, n. 17 H. Carossa (G. Prampolini), Il medico Gion, 1933, n.18 E. Wiechert (A. Scalero), La serva di Jürgen Doskocil, 1934, n. 19 A. Kallas (P. Faggioli), La sposa del lupo, 1934, n. 20

senza trovare accoglienza nemmeno presso Treves, della cui rivista di scuderia «I libri del giorno» è collaboratrice stabile dai primi anni ’20: «Per ora nessuna risposta a proposito del libretto di Mann – il che mi irrita perché Treves Libri… paga ancora peggio che l’anno passato», si lamenta in una lettera dell’aprile del ’27; e in maggio: «Per la novella di Mann non ho notizie da un altro editore: sono così irritata che probabilmente la darò al «Convegno», che è prestigioso ma paga assai poco. Solo per non pensarci più»14. Così, nell’autunno del 1929, grazie alla disponibilità del nuovo direttore della Sperling & Kupfer Harry Betz, deciso ad allargare il 14 Lavinia Mazzucchetti a Waldemar Jollos, 21 aprile e 31 maggio 1927, in FAAM, Milano, Archivio Lavinia Mazzucchetti (trad. mia). Sono grato ad Anna Antonello per queste informazioni. Il racconto di Thomas Mann Disordine e dolore precoce esce in effetti su «Il Convegno», VIII.7, 25 luglio 1927, come numero monografico.

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catalogo prevalentemente tecnico-scientifico della casa editrice alla narrativa, inaugura la sua collana, proprio con il libro di Mann rifiutato da Treves, Disordine e dolore precoce, prima traduzione italiana in volume di un’opera di Mann dopo quella di Spaini per Morreale. L’obiettivo questa volta non è consacrare nel circuito di produzione ristretta il romanzo russo (Polledro) o il romanzo toutcourt (Borgese), ma semplicemente far conoscere in Italia autori ancora non accessibili in traduzione come Mann, Hesse e Zweig: data l’esiguità del capitale a disposizione, anzi, Mazzucchetti rinuncia ai romanzi veri e propri ripiegando programmaticamente su opere brevi ma rappresentative (racconti lunghi o novelle dal respiro romanzesco). L’adozione della formula caratteristica dell’editoria d’avanguardia – anche qui le traduzioni, come le brevissime note introduttive, sono affidate per lo più a professionisti quali Giacomo Prampolini, Enrico Rocca, Cristina Baseggio, Aldo Oberdorfer, Ervino Pocar, che Mazzucchetti conosce grazie alla sua lunga frequentazione dell’ambiente accademico e editoriale, oppure a letterati come Santino Caramella, successore di Gobetti alla direzione del «Baretti» – fa sì tuttavia che anche narratori nordici vada a posizionarsi verso il polo di produzione ristretta. A prendere a oggetto di operazioni analoghe la narrativa contemporanea sono – sulla strada aperta, come vedremo, da scrittori di tutto il mondo della Modernissima – altre due collane torinesi: occidente della Slavia e biblioteca europea di Frassinelli, la più legittima erede dell’habitus editoriale incarnato da Gobetti15. Con occidente, dedicata agli «Scrittori stranieri moderni» (1931-1932, 7 volumi), Luigi Polledro, il figlio di Alfredo e Rachele, tenta di allargare l’impresa della Slavia alle letterature del resto del mondo: la collana ha breve vita, ma porta in Italia Sherwood Anderson, il secondo titolo di Ramón Pérez de Ayala e di Enrique Larreta, due opere ancora non tradotte di Conrad e Hamsun, e allunga la serie della traduzioni di Schnitzler. La biblioteca europea (1932-1936, 9 titoli), a sua volta, fondata da Franco Antonicelli, un intellettuale legato tanto alla vecchia cerchia gobettiana quanto al futuro gruppo dirigente einaudiano, pubblica in quattro anni appena nove titoli, ma stampati con raffinatissima 15 

Cfr. 5: La genesi di un nuovo habitus editoriale, pp. 214-224 e 235-236.

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arte tipografica – Frassinelli si era formato come tipografo nell’alveo del futurismo – in edizioni di lusso a 12-15 lire il volume, con sovraccoperta e cofanetto, muniti di ampie prefazioni critiche legittimanti firmate, come le traduzioni, da giovani letterati in via di consacrazione come Renato Poggioli, Cesare Pavese, Alberto Rossi, tutti collaboratori di «Solaria», nonché del già citato Alberto Spaini. L’operazione è magistrale: cinque degli autori proposti (Babel’, Melville, O’Neill, Joyce e Kafka) appaiono nella loro prima traduzione italiana, uno nella seconda (Anderson, già tradotto in occidente), mentre due scrittori tra i più compromessi con la produzione di massa (Twain e Stevenson) vengono per la prima volta riconosciuti per le loro qualità letterarie. Se volessimo identificare un caso di adozione rigorosa della logica specifica – paragonabile a quelli francesi descritti da Bourdieu – applicata alla narrativa contemporanea, questo non potrebbe che essere biblioteca europea.

occidente (1931-1932, 6 titoli) diretta da Luigi Polledro per Slavia, Torino. R. Pérez de Ayala (A. Marcori), Bellarmino e Apollonio, 1931, n. 1 S. Anderson (A. Prospero), Solitudine, 1931, n. 2, A. Schnitzler (B. Allason), Morire, 1931, n. 3, J. Conrad (G. D’Arese), Il reietto delle isole, 1932, n. 4-5 E. Larreta (C. Berra), La gloria di don Ramiro, 1932, n. 6, K. Hamsun (G. Bach), Un vagabondo suona in sordina, 1932, n. 7

Biblioteca Europea (1932-1936, 9 titoli) diretta da Franco Antonicelli per Frassinelli, Torino. I. Babel’ (R. Poggioli), L’armata a cavallo, 1932, n. 1 H. Melville (C. Pavese), Moby Dick o La balena, 1932, n. 2 S. Anderson (C. Pavese), Riso nero, 1932, n. 3 E. O’Neill (A. Prospero), La luna dei caraibi, 1932, n. 4 J. Joyce (C. Pavese, A. Rossi), Dedalus, 1933, n. 5 F. Kafka (A. Spaini), Il processo, 1933, n. 6 M. Twain (L. Berti), Le avventure di Huck Finn, 1934, n. 7 F. Kafka (A. Rho), Il messaggio dell’imperatore, 1935, n. 8 R. L. Stevenson (E. M. Giachino), Il principe Otto, 1936, n. 9

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In questa provvisoria mappatura del circuito di produzione ristretta non si può infine non includere Vallecchi, l’erede diretto della Libreria della Voce, che negli anni ’20 ha accumulato un cospicuo capitale simbolico come editore di Papini, dei Pesci rossi di Cecchi, e di riviste letterarie come «Il Frontespizio»: tra i pochissimi titoli di narrativa straniera che pubblica c’è infatti la prima traduzione della Metamorfosi di Kafka (1934, fuori collana), una lettura imprescindibile per gli scrittori formatisi nell’orbita dell’ermetismo fiorentino, da Landolfi a Fortini16. Come le collane d’avanguardia degli anni ’10, operazioni quali il genio russo, narratori nordici, biblioteca romantica, occidente e biblioteca europea contribuiscono nel loro insieme a costruire uno spazio per l’importazione di un nuovo repertorio, che ora tuttavia include il romanzo e, anzi, lo vede prevalere sugli altri generi, almeno sul piano della quantità. Come le loro antesignane anche queste collane sono legate, più o meno strettamente, ai gruppi letterari d’avanguardia, ai quali appartengono, quando non i loro fondatori, molti dei loro collaboratori più stretti: se il genio russo e occidente sono contigue all’ambiente del «Baretti», narratori nordici lo è al «Convegno» di Enzo Ferrieri, la biblioteca europea è saldamente collegata a «Solaria» e poi alla «Cultura» (che dal 1933 è rilevata da Einaudi), e la pubblicazione della Metamorfosi di Kafka per Vallecchi si deve alla cerchia del «Frontespizio», mentre Borgese ha un capitale simbolico tale da poter ormai esercitare il gesto del consacratore senza appoggiarsi ad alcun gruppo. Non è un caso che proprio queste avanguardie – con la sola eccezione di quella “pre-ermetica” che fa capo al «Frontespizio», il cui impegno promuovere la traduzione della Metamorfosi di Kafka è solo episodico – siano tra le più attive anche sul piano teorico nel discutere di tecnica narrativa e della posizione del romanzo nella gerarchia dei generi legittimi.

16  Cfr. Simone Costagli, Moderno e metafisico. Quando La metamorfosi arrivò in Italia, in Metamorfosi di Kafka. Teatro, cinema e letterature, a cura di L. Mor e F. Rognoni, Sedizioni, Milano 2014, pp. 85-107 , e Michele Sisto, «Cose dell’altro mondo». Tradurre e leggere Kafka in Italia nel 1933, in Franz Kafka, Il processo, Quodlibet, Macerata 2019, pp. 5-32.

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4. Il romanzo nel circuito di produzione di massa: la riorganizzazione delle collane di narrativa, da Treves a Barion Adottando le strategie caratteristiche della produzione ristretta, le collane che abbiamo passato in rassegna si contrappongono alla grande editoria sul piano simbolico, ma, pubblicando un numero esiguo di titoli e con tirature contenute, non le fanno concorrenza su quello strutturale; anzi, di fatto la surrogano in settori da essa lasciati scoperti perché ritenuti poco redditizi (la biblioteca romantica, pubblicata da un grande editore in ascesa come Mondadori, col suo abilissimo mix di capitale economico e capitale letterario fa caso a sé). A impensierire Treves è piuttosto la collana che Gian Dàuli, direttore editoriale della casa editrice Modernissima e romanziere in proprio, lancia alla fine del 1928: scrittori di tutto il mondo. Dopo alcuni tentativi spericolati quanto fallimentari, come la serie delle opere complete di jack london (19241930, 26 titoli), Dàuli importa la formula editoriale collaudata dalle avanguardie nel circuito di produzione di massa, applicando sistematicamente le stesse strategie di selezione, marcatura e lettura del genio russo (narratori nordici e biblioteca romantica sono ancora di là da venire) al repertorio tradizionalmente più commerciale dominato dalla biblioteca amena: quello della narrativa straniera contemporanea. Anche in questo caso le traduzioni sono rigorosamente affidate a professionisti (Giacomo Prampolini, le sorelle Scalero, Alberto Spaini, a volte a scrittori come Lauro De Bosis) e i volumi, messi in vendita a 10-15 lire, sono corredati da prefazioni di scrittori e giornalisti di fama (Guido da Verona, Antonio Baldini, Sibilla Aleramo, Luigi Tonelli, Tommaso Gallarati Scotti, l’editore stesso), ma questa volta l’intento è quello di portare in Italia un repertorio di autori in gran parte sconosciuti e di opere pubblicate da non più di dieci anni, puntando a un largo smercio nel circuito di produzione di massa senza rinunciare ai profitti simbolici della consacrazione nel circuito di produzione ristretta.

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scrittori di tutto il mondo (1929-1932, 37 titoli) diretta da Gian Dàuli per Modernissima, Milano. Primi venti titoli A. Neumann (A. Albertini), Il diavolo, 1929, n. 1 R. Hall (A. Lami, G. da Verona), Il pozzo della solitudine, 1929, n. 2 L. Feuchtwanger (B. Giachetti Sorteni, L. Tonelli), Süss l’ebreo, 1929, n. 3 J. W. Vandercook (G. Prampolini), Sua Maestà nera, 1929, n. 4 G. Bernanos (C. V. Lodovici, T. Gallarati Scotti), Sotto il sole di Satana, 1929, n. 5 A. Schnitzler (M. Benzi, A. Baldini), La signorina Elsa, 1929, n. 6 C. Van Vechten (G. Dàuli), Il paradiso dei negri, 1930, n. 7 L. Feuchtwanger (B. Giachetti Sorteni, L. Tonelli), La brutta duchessa, 1930, n. 8 A. Schnitzler (B. Giachetti Sorteni, S. Aleramo), Teresa, 1929, n. 9 M. Arlen (M. Fabietti, M. Ramperti), Il cappello verde, 1929, n. 10 Th. Wilder (L. De Bosis, G. Dàuli), Il ponte di San Luis Rey, 1929, n. 11 J. Lowell (T. Diambra, G. Milanesi), La figlia del mare, 1929, n. 12 C. McKay (A. Scalero), Ritorno ad Harlem, 1930, n. 13 A. Sytin (L. Neanova), Il pastore delle stirpi, 1930, n. 14 A. Döblin (A. Spaini), Berlin Alexanderplatz, 1931, n. 15 A. Neumann (A. Albertini), Il patriota – Re Haber, 1931, n. 16 S. Lewis (L. Scalero), Babbitt, 1931, n. 17 J. Wassermann (A. Scalero), Il caso Mauritius, 1931, n. 18 Th. Mann (B. Giachetti Sorteni), La montagna incantata, 1932, n. 19 J. Dos Passos (A. Scalero), Nuova York (Manhattan Transfer), 1932, n. 20

Dei 17 scrittori rappresentati nei primi 20 titoli 15 costituiscono novità assolute (solo Wassermann e Thomas Mann erano già presentati in narratori nordici, e comunque Dàuli, nella corsa ad aggiudicarsi le opere di Mann scatenatasi dopo il Nobel del ’29, riesce a mettere in catalogo il romanzo più ambizioso: La montagna incantata): se pure alcuni hanno solo una ricezione episodica (Hall, Vandercook, Van Vechten, Harlen, Lowell, McKay, Sytin), la maggior parte degli altri contano tra i più letti degli anni ’30 (Neumann, Feuchtwanger), quando non scatenano successi di scandalo (Bernanos con Sotto il sole di Satana, Lewis con Babbit) o accendono la discussione letteraria più specifica, come Nuova York di Dos Passos, La signorina Elsa e Teresa di Schnitlzer (noto fino ad allora solo come drammaturgo) e Berlin Alexanderplatz di Döblin. Queste ultime due opere – per limitarci ancora ai tedeschi – testimoniano

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bene la ricerca anche della consacrazione letteraria: la prefazione a Teresa di Sibilla Aleramo, scrittrice chiacchieratissima ma non priva di riconoscimento presso le avanguardie, accosta l’opera di Schnitzler al romanzo psicologico al femminile a cui in quegli anni stanno lavorando scrittrici come Anna Banti, Maria Borgese o Alba de Cespedes; mentre Berlin Alexanderplatz, grazie anche alla prefazione “tecnica” di Spaini, diventa un modello per l’avanguardia “neorealista” di Umberto Barbaro, Ugo Dèttore e Carlo Bernari17. L’effetto prodotto dal sommarsi di imprese più specifiche, come il genio russo di Polledro, a operazioni più aggressivamente commerciali, come scrittori di tutto il mondo di Dàuli, fa sì che proprio intorno al 1929 gli editori che dominano il circuito di produzione di massa intraprendano una radicale riorganizzazione delle loro collane, emulando la concorrenza nel tentativo di neutralizzarla. Alla fine degli anni ’20 la F.lli Treves è ancora la massima casa editrice letteraria del paese, anche se non è più la dominatrice incontrastata del mercato editoriale contro cui polemizzava Gobetti dieci anni prima18. Da qualche anno Mondadori le ha sottratto D’Annunzio, ma continua a pubblicare scrittori di punta come Borgese e Ojetti. Dal 1926 – Emilio Treves è morto nel ’16 – è diretta da Calogero Tumminelli, già editore in proprio, vicino a Ojetti e direttore con Gentile dell’Enciclopedia Italiana Treccani, che la traghetta nell’orbita dello stato fascista e nel 1931 ne cambia la ragione sociale in Società Anonima Treves-Treccani-Tumminelli. Per rilanciare la società Tumminelli non solo le affida la stampa dell’Enciclopedia Italiana e delle opere complete di Gentile, ma rinnova completamente le collane di narrativa. La veneranda biblioteca amena viene chiusa nel 1930 (raggiunti i 1030 titoli), e al suo posto vengono inaugurate due collane distinte: scrittori stranieri 17 Cfr. Mario Rubino, La Neue Sachlichkeit e il romanzo italiano degli anni Trenta, in Gli intellettuali italiani e l’Europa (1903-1956), a cura di F. Petroni e M. Tortora, Manni, San Cesario 2007, pp. 235-274. 18  Oltre alla biblioteca amena e a numerose altre collane il suo circuito di produzione include «L’Illustrazione italiana» (1875-1932), il settimanale più popolare presso la borghesia nazionale, e «I libri del giorno» (1918-1930), il più importante mensile d’informazione libraria.

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moderni, lanciata nell’estate del 1929 e riservata agli scrittori provvisti di (anche recentissima) consacrazione letteraria, e la nuova biblioteca amena, varata nel 1931 e dedicata invece alla letteratura più popolare. scrittori stranieri moderni (1929-1935, 20 titoli) riproduce con tutta evidenza la formula di scrittori di tutto il mondo di Dàuli, potendo però contare su ben altro capitale economico e simbolico. Anche la nuova collana aspira a cumulare i profitti economici del mercato con quelli simbolici della consacrazione letteraria. I volumi, venduti al prezzo di 10-20 lire, sono tradotti e introdotti da nomi ben accreditati (anche se non viene meno la vecchia pratica della traduzione anonima, come nel caso di Daisy Miller di James, affidato a «una gentildonna milanese che si adombra sotto il nome shakespeariano di Jessica»19): accanto a firme di successo di casa Treves (Milly Dandolo) e a professionisti della traduzione (il germanista Giuseppe Gabetti, titolare della cattedra di letteratura tedesca di Roma, o il poligrafo Giacomo Prampolini, autore per utet della titanica Storia universale della letteratura), figurano scrittori che godono di solido riconoscimento nel campo di produzione ristretta, appartenenti per lo più ad avanguardie da tempo consacrate: Carlo Linati, Corrado Pavolini, il rondista Lorenzo Montano, e perfino Giuseppe Prezzolini ed Emilio Cecchi, quest’ultimo in veste di prefatore di Virginia Woolf. La selezione, tuttavia, è meno rigorosa di quella di scrittori di tutto il mondo: come la vecchia biblioteca amena, la nuova collana mescola autentiche scoperte (che però sono appena quattro fra i primi venti titoli, segno di scarsa propensione al rischio: JensPeter Jacobsen, Katherine Mansfield, Joseph Roth, Richard Hughes), novità relative (scrittori di cui è già tradotto almeno un libro: Mann, Mauriac, O. Henry, Undset, van Schendel, Huch, Woolf), vecchie conoscenze (Bernardin de Saint-Pierre, Voltaire, Anatole France, Strindberg) e riscoperte (il Lucien Leuwen di Stendhal, il Carteggio con Goethe di Bettina Brentano).

19 

Così Carlo Linati nella recensione apparsa su «Pégaso» II.8, 1930, p. 255.

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scrittori stranieri moderni (1929-1935, 20 titoli) diretta da Calogero Tumminelli per F.lli Treves, Milano. J. P. Jacobsen (G. Gabetti), Nils Lyhne, 1929, n. 1 D. H. Lawrence (C. Linati), La volpe; La coccinella, 1929, n. 2 A. France (P. Schinetti), Gli dei sitibondi, 1929, n. 3 Stendhal (C. Pavolini), Il rosso e il bianco (Lucien Leuwen), 1929, n. 4-5 H. James (Jessica), Daisy Miller, 1929, n. 6 Voltaire (L. Montano), Candido o Dell’ottimismo, 1930, n. 7 H. Bernardin de Saint-Pierre (M. Dandolo), Paolo e Virginia, 1930, n. 8 F. Mauriac (G. Prezzolini), Il bacio al lebbroso, 1930, n. 9 Th. Mann (E. Virgili, P. Milano), La morte a Venezia, 1930, n. 10 O. Henry (G. Prampolini), Racconti, 1931, n. 11 S. Undset (A. Vangesten, G. Gabetti), Kristin, figlia di Lavrans, 1931, n. 12 K. Mansfield (N. Ruffini), Preludio e altri racconti, 1931, n. 13 A. van Schendel (G. Prampolini), I fiori dell’amore, 1931, n. 14 B. Brentano (G. Necco), Il carteggio di Goethe con una bimba, 1931, n. 15 J. Roth (G. Necco), Giobbe: storia di un uomo semplice, 1932, n. 16 R. Hughes (L. Jahn), Un ciclone nella Giamaica, 1933, n. 17 R. Huch (E. Sola), Confalonieri, 1934, n. 18 V. Woolf (G. Calenza, E. Cecchi), Gita al faro, 1934, n. 19 A. Strindberg (B. Ducati), Quelli di Hemso, 1935, n. 20

Il repertorio della vecchia collana ammiraglia di Treves viene invece ripreso in larga misura nella nuova biblioteca amena (1931-1936, 57 titoli), che ne alza il livello qualitativo (con traduzioni rinnovate, anche se non prestigiose) ma allo stesso tempo ne sancisce il declassamento (scorporando gli autori di più recente consacrazione): tra i suoi titoli, pubblicati in brossura a 5 lire, si alternano scrittori italiani e stranieri di consolidata popolarità, che possono dunque contare su un pubblico sicuro (dal Capitan Fracassa di Gautier a Maupassant e Čechov), e contemporanei generalmente privi di riconoscimento specifico (dal tedesco, p.es., viene tradotto Casa dei tigli di Astrid Ehrencron Müller [n. 47], che si colloca nella scia di E. Werner), senza prefazioni o commenti. A metà strada fra gli scrittori stranieri moderni e la nuova biblioteca amena, e forse più verso quest’ultima, si colloca i romanzi della vita moderna (1930-1933, 11 titoli, 8-10 lire

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nuova biblioteca amena (1931-1936, 57 titoli) diretta da Calogero Tumminelli per Treves-Treccani-Tumminelli, Milano. I primi venti titoli. A. F. Prevost (L. Aureli), Storia del cavaliere Des Grieux e di Manon Lescaut, 1931, n. 1 I. Turgenev (A. Montalti), Un nido di gentiluomini, 1931, n. 2 P. Louÿs (A. Sacchi), La donna e il burattino, 1931, n. 3 B. Bjørnson (A. Tovajera), Le vie di Dio, 1931, n. 4 G. de Maupassant (M. dell’Isola, A. F. Perri), Bel-Ami, 1931, n. 5 K. Mikszáth (S. Gigante), Il vecchio farabutto, 1931, n. 6 A. Kuprin (M. Rakowska), Racconti russi, 1931, n. 7 H. Bordeaux (A. Bertuccioli), La via senza ritorno, 1931, n. 8 P. Mérimée (C. Candida), La notte di San Bartolomeo, 1931, n. 9 L. Capuana, Giacinta, 1931, n. 10 G. Sand (F. Maffi), La palude del diavolo, 1931, n. 11 G. Deledda, L’incendio nell’oliveto, 1931, n. 12 Th. Gautier (C. Siniscalchi), Capitan fracassa, 1931, n. 13-14 A. P. Čechov (E. Cadei), Romanzi brevi, 1932, n. 15 E. De Marchi, Redivivo, 1932, n. 16 A. Bennett (A. Salvatore), Anna delle cinque città, 1932, n. 17 A. T. Quiller-Couch (G. Maggiore), Lo scoglio del morto, 1932, n. 18 E. Rod (B. Olmo), Rocce bianche, 1932, n. 19 F. Herczeg (S. Gigante), Il violino d’oro, 1932, n. 20

al volume) di Enrico Bemporad, altro editore di lunga tradizione (Pirandello, Guido Da Verona), noto soprattutto per la narrativa per l’infanzia (Collodi, «Il giornalino di Gian Burrasca»), che tenta di riposizionarsi rispetto ai mutamenti in corso nel campo della narrativa: la collana si orienta nella selezione sulla narrativa contemporanea, intercettando autori di un certo pregio (Ernst Glaeser, Leonhard Frank) e almeno un grande successo (Grand Hotel di Vicki Baum), ma senza intenti consacranti (traduttori poco prestigiosi, assenza di prefazioni). Mentre Tumminelli fa i conti con la progressiva polarizzazione del campo editoriale tentando di riposizionare le collane Treves sia nella zona più commerciale sia in quella più specificamente letteraria, Alberto Matarelli, che dopo la morte del titolare nel 1920 dirige la Sonzogno, prende atto del progressivo scivo-

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i romanzi della vita moderna (1930-1933, 11 titoli) diretta da Enrico Bemporad per R. Bemporad & Figli, Firenze. H. Iswolsky, A. Kscina (R. Naldi), Giovinezza rossa, 1930, n. 1 E. Glaeser (T. Gasperi Campani), Classe 1902, 1930, n. 2 J. Sahel (M. Rinaudo), Un dramma nella grande industria, 1930, n. 3 R. Lehmann (S. Invrea), Polvere, 1930, n. 4 E. Torrioli, Casteldiano, 1931, n. 5 A. Brener Schultz (T. Gasperi Campani), Storia di Mary Linden, 1931, n. 6 P. Benoit (M. Rinaudo), Il sole di mezzanotte, 1931, n. 7 E. Glaeser (T. Gasperi Campani), Pace, 1930, n. 8 I. Odoievtzev (E. Vacalopulos), Le ali nere, 1931, n. 9 V. Baum (D. Dolci Rotondi), Grand Hotel, 1932, n. 10 L. Frank (E. Sola), Tre di tre milioni, 1933, n. 11

lamento della propria casa editrice nel circuito di produzione di massa, redditizio ma a basso capitale letterario, riorganizzando le sue collane per coprire più efficacemente le diverse aree della lettura popolare. Se la biblioteca universale si arresta sostanzialmente al 1920 (a 532 titoli, ristampati però per altri vent’anni con appena una manciata di integrazioni) senza andare oltre Paul Heyse e Gerhart Hauptmann (premi Nobel rispettivamente nel 1910 e nel 1912), la vecchia e gloriosa biblioteca romantica illustrata a fascicoli viene sdoppiata in una biblioteca romantica economica (1924-1937, 300 titoli, in fascicoli di 100 pagine a una lira), riservata agli autori del catalogo ottocentesco dominato dal feuilleton francese (Prévost, Daudet, Dumas, Sue, fino a Zola e Bourget, tra i tedeschi Felix Hollaender, Adalbert Stifter, Karl Rosner, Ernest Eckstein, Fedor von Zobeltitz, Paul Heyse, Friedrich Huch), e in una biblioteca romantica mondiale (1928-1935, 124 titoli, in volumi a 5 lire), dedicata invece ai nuovi successi, prevalentemente anglo-americani (Jack London, Joseph Conrad, J. O. Curwood, Zane Grey, Blasco Ibáñez, e tra i tedeschi Peter Freuchen), mentre la produzione più prestigiosa viene finalmente distinta in una collezione dei grandi autori (1929-1938, 72 titoli, in volumi a sei lire), che

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recupera dal vecchio catalogo solo i romanzi di autori che godono di un certo riconoscimento letterario, come Il rosso e il nero di Stendhal, Le avventure di Oliviero Twist di Dickens o Delitto e castigo di Dostoevskij o, tra i pochissimi contemporanei, Misteri di Hamsun20: è qui che troviamo, ancora nel 1932, Le affinità elettive di Goethe, arrivato in Italia appena vent’anni prima nella biblioteca amena. Il riscatto del romanzo di Goethe dalla letteratura popolare comincia solo nel 1933, con la nuova traduzione e introduzione pubblicata nei grandi scrittori stranieri di Farinelli, a cura della professionista Cristina Baseggio, e si compirà solo nel 1943, con la comparsa della traduzione di Massimo Mila nei narratori stranieri tradotti Einaudi: lo stesso accade a Dostoevskij o Flaubert grossomodo negli stessi anni, mentre autori come Conrad e London, molto saldamente legati al campo della letteratura popolare-commerciale, dovranno attendere decenni. Nella zona della letteratura popolare dominata da Sonzogno si collocano anche case editrici come Bietti e Barion, che ne emulano in larga misura il catalogo, senza però rinunciare a incursioni nella zona dissodata dagli scrittori di tutto il mondo di Dàuli. Nella biblioteca internazionale Bietti (1929-1933, 152 titoli, 3-5 lire al volume) lanciata all’inizio del ’29 compaiono, accanto ai soliti autori (London, Conrad, Gorki, Blasco Ibáñez, Dostoevskij, Čechov, Wodehouse), Il tunnel di Bernhard Kellermann (1929), Borgia di Klabund (1930), La signora Berta di Schnitzler (1930) e persino La morte a Venezia di Mann (1930, ma su licenza delle Edizioni del Quadrante, altra impresa dell’instancabile Gian Dàuli), mentre fra le numerosissime collane della «casa editrice per edizioni popolari» Barion, diretta da Ettore Fabietti e nota soprattutto per la pubblicazione di libretti d’opera e delle opere di Jack London (rilevate da Modernissima), accanto a Carolina Invernizio, Neera, Felice Cavallotti e all’immancabile E. Werner, troviamo le prime traduzioni dei Buddenbrook (1930) e di Altezza Reale (1933) di 20  Un primo tentativo di distinzione della produzione più prestigiosa era stata tentata già alla vigilia della guerra con la collezione sonzogno (1915-1932, 168 titoli), dove accanto a numerosi titoli di Ohnet, Rosny e Foley figuravano Balzac, Dumas, Hugo, Flaubert, Bourget, D’Annunzio e tra i tedeschi Heine e O. Bilse.

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Ill. 2. Progressiva differenziazione del campo editoriale intorno al 1930: le collane.

Thomas Mann, presto ripubblicate insieme a opere di Conrad, Kipling, Wells, Merežkovskij nella collana tesaurizzante i migliori romanzi del nostro tempo (1933-1934, ca. 20 titoli, 4 lire al volume). Grazie a queste nuove collane, influenzate dalla presenza di un polo di produzione ristretta in via di rafforzamento, anche il circuito di produzione di massa si ristruttura, distinguendo il suo repertorio romanzesco grossomodo in tre aree (Ill. 2): quella della narrativa commerciale a basso capitale letterario, in cui domina la produzione seriale e la marcatura di collana prevale su quella d’autore (un romanzo viene pubblicato e letto non

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tanto per chi lo firma quanto per il genere a cui appartiene: p.es. le romantiche Sonzogno e buona parte del catalogo Bietti e Barion); quella della narrativa commerciale a medio capitale letterario, che raccoglie sia opere conformi ai modelli romanzeschi più popolari (sentimentale, avventuroso, criminale, ecc.), sia opere che si sono assicurate il favore dei lettori da decenni, inclusi molti classici, da Prévost a Čechov (nuova biblioteca amena Treves, i romanzi della vita moderna Bemporad, collezione dei grandi autori Sonzogno, biblioteca internazionale Bietti, i migliori romanzi del nostro tempo Barion); e infine quella della narrativa commerciale ad alto capitale letterario, che tenta di conciliare le logiche di consacrazione del polo di produzione ristretta con i grandi volumi di vendita (scrittori di tutto il mondo Modernissima, scrittori stranieri moderni Treves). 5. La struttura del campo della narrativa tradotta intorno al 1930 e l’egemonia di Mondadori La grande abilità di Arnoldo Mondadori, senza dubbio il più importante fra gli editori che fanno il loro ingresso nel campo della narrativa straniera a fine anni ’20, è quella di insediarsi rapidamente in tutte e tre queste aree, egemonizzandole rapidamente con una produzione che per quantità e qualità surclassa la concorrenza. Muovendo dal polo commerciale – i suoi inizi come editore letterario si devono, nel 1920, all’acquisizione al suo catalogo di Virgilio Brocchi, romanziere Treves tra i più venduti del momento – accumula via via un cospicuo capitale letterario, per lo più assicurandosi le opere di scrittori di solida consacrazione (Borgese nel 1923, D’Annunzio nel 1927, Pirandello nel 1930), ma anche con operazioni più sofisticate, come l’istituzione del Premio Mondadori per la giovane letteratura (1923), la fondazione dell’Accademia Mondadori (1924) e dell’Almanacco letterario (1925) o il sostegno dato alla nascita della «Fiera Letteraria» di Umberto Fracchia (1925). Ma è solo a partire dal 1929 che questo nuovo entrante comincia a competere seriamente con Treves – «Io, sapete, ingoierò casa

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Treves», pare abbia confidato a Marino Moretti21 –, inaugurando una serie di collane di narrativa strategicamente posizionate in tutte le aree sopra descritte. Comincia dalla produzione più commerciale, a basso capitale letterario, con i libri gialli (1929-1941, 266 titoli, 5-6 lire al volume), che si colloca nel solco dei romanzi polizieschi Sonzogno (1914-1924, dedicata per lo più alle opere di George Meirs); ma subito dopo, come abbiamo visto, realizza un’operazione che, per quanto con tirature consistenti, risponde alla logica specifica del circuito di produzione ristretta, la biblioteca romantica (1930), che si pone sulla scia del genio russo; successivamente si insedia nell’area della narrativa commerciale a media consacrazione specifica con i romanzi della guerra (1930-1932, 13 titoli, 5 lire al volume), e i romanzi della palma (1932-1940, 186 titoli, 3 lire al volume), che si collocano in prossimità dei romanzi della vita moderna Bemporad e della nuova biblioteca amena Treves; e solo da ultimo accede all’area della narrativa ad alta consacrazione specifica con medusa, «i grandi narratori d’ogni paese» (1933-1969, 789 titoli, 10 lire al volume), che si pone in diretta concorrenza con scrittori di tutto il mondo Modernissima e soprattutto con scrittori stranieri moderni Treves. Nonostante rispetto a quest’ultima la propensione all’innovazione sia più alta (sui 18 autori rappresentati nei primi 20 titoli 8 sono in prima traduzione italiana: Alain Fournier, Hans Fallada, Pearl S. Buck, Marcus Lauesen, Jacques de Lacretelle, Wilhelm von Scholz, Virginia Woolf, a cui va aggiunto Arnold Zweig, già presente nei romanzi della guerra; al secondo libro sono Heinrich Mann e Hermann Hesse, mentre hanno già più di tre traduzioni Galsworthy, Maurois, Huxley, Feuchtwanger, Wassermann, Morand, Colette e Gide, che Mondadori strappa alle collane concorrenti o all’editoria minore), la selezione più rigorosa (le opere tradotte hanno tutte meno di dieci anni), le traduzioni di buona qualità (regolarmente affidate a professionisti) e la capacità produttiva enormemente superiore (nel solo 1933 21  Marino Moretti, Il giovane Arnoldo, in Il cinquantennio editoriale di Arnoldo Mondadori (1907-1957), Mondadori, Verona 1957, p. 13.

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i romanzi della palma (1932-1940, 186 titoli) diretta da Arnoldo Mondadori (con numerosi consulenti) per Arnoldo Mondadori Editore, Milano. I primi venti titoli U. Parrott (N. Danesi Murray), Ex moglie, 1932, n. 1 A. de Saint-Exupéry (C. Giardini), Volo di notte, 1932, n. 2 Y. Schultz (S. Incisa), Nell’artiglio dei negrieri, 1932, n. 3 V. Baum (B. Allason), Elena Willfüer, studentessa in chimica, 1932, n. 4 H. Sudermann (A. Tenca), Trottola, 1932, n. 5 F. Mauriac (M. Dussia), Groviglio di vipere, 1932, n. 6 A. Maurois (E. Piceni), Sua figlia, 1932, n. 7 G. Millen (O. Farcito de Vinea), Un negro irresistibile, 1932, n. 8 E. Estaunié (G. Monicelli), Un mistero in provincia, 1932, n. 9 Th. Sandre (A. Gabrielli), Il cameriere gentiluomo, 1933, n. 10 G. Hauptmann (B. Allason), Il naufragio del transatlantico, 1933, n. 11-12 S. Lewis (G. Peluso), L’amore in automobile, 1933, n. 13 G. B. Shaw (C. Giardini), Il nodo impossibile, 1933, n. 14 V. Baum (A. Ricotti), Il lago delle vergini, 1933, n. 15 M. Prévost (C. Serena), Maria la spagnola, 1933, n. 16 S. Boo (G. Prampolini), Cameriera per scommessa, 1933, n. 17 M. Kennedy (D. Secco Suardo), Non oso ritornare, 1933, n. 18 E. Lothar (R. Smizzer), Piccola amica, 1933, n. 19 V. Baum (G. D. Leoni), Tutti matti a Lohwinckel, 1933, n. 20

pubblica 26 titoli, più degli scrittori stranieri moderni nel loro insieme), la collana mondadoriana, che peraltro solo di rado ricorre a prefazioni (e mai affidate a scrittori con intento consacrante), non riesce, almeno all’inizio, a insidiare la più anziana rivale sul piano del prestigio letterario. Ma nel giro di tre anni arriva ugualmente a egemonizzare l’intera area, affermandosi come la principale collana di narrativa commerciale straniera contemporanea ad alto capitale letterario. Nel ’39 raggiunge i 100 titoli, un numero che equivale all’intera produzione della concorrenza negli stessi anni, mentre le collane rivali chiudono o si ridimensionano: occidente cessa le pubblicazioni già nel 1932, i romanzi della vita moderna nel ’33, il genio russo nel ’34, scrittori stranieri moderni nel ’35, biblioteca europea nel ’36; narratori nordici si estingue lentamente dopo il ’33 (appena cinque titoli in dieci anni, fino alla chiusu-

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medusa (1933-1969, 789 titoli) diretta da Arnoldo Mondadori (con numerosi consulenti) per Arnoldo Mondadori Editore, Milano. I primi venti titoli Alain-Fournier (A. Banti), Il grande amico, 1933, n. 1 H. Fallada (B. Revel), E adesso, pover’uomo?, 1933, n. 2 J. Galsworthy (M. Casalino), Ancella, 1933, n. 3 A. Maurois (M. Ferro), Destini, 1933, n. 4 A. Huxley (L. Barzini jr, E. Ceretti), Il sorriso della Gioconda, n. 5 L. Feuchtwanger (E. Pocar), La fine di Gerusalemme, 1933, n. 6 A. Zweig (E. Burich), Giovane donna del 1914, 1933, n. 7 A. Maurois (E. Piceni), Bernardo Quesnay, 1933, n. 8 P. S. Buck (A. Damiano), La buona terra, 1933, n. 9 J. de Lacretelle (M. Dussia), Sabina, 1933, n. 10 M. Lauesen (G. Prampolini), Ed ora aspettiamo la nave, 1933, n. 11 H. Mann (O. Ferrari), Una vita difficile, 1933, n. 12 P. Morand (M. Ferrigni, A. Mondadori), Campioni del mondo, n. 13 W. von Scholz (E. Pocar), Perpetua, 1933, n. 14 V. Woolf (A. Scalero), Orlando,1933, n. 15 Colette (C. Prosperi), La vagabonda, 1933, n. 16 J. Wassermann (B. Allason), L’avvocato Laudin, 1933, n. 17 A. Huxley (L. Gigli), Il mondo nuovo, 1933, n. 18 A. Gide (C. Giardini), I sotterranei del Vaticano, 1933, n. 19 H. Hesse (C. Baseggio), Narciso e Boccadoro, 1933, n. 20

ra nel ’42), mentre Mazzucchetti e i suoi collaboratori vengono reclutati in blocco da medusa; sopravvive scrittori di tutto il mondo, che Enrico Dall’Oglio salva dal fallimento nel ’32, continuando a pubblicarla sotto le insegne di Corbaccio fino al ’42. Frattanto nascono altre collane, che però non intaccano i rapporti di forza, come pandora, «voci di tutti i popoli» (19331942, 25 titoli), di Sperling & Kupfer, un’eredità di Mazzucchetti, dove escono titoli di Stefan Zweig, Max Brod e Erich Kästner. Nel 1938 Treves, che da sessant’anni era la massima casa editrice di narrativa dell’Italia unita, e che sembrava indistruttibile, viene effettivamente “ingoiata”: il marchio è cancellato dalle leggi razziali e il catalogo rilevato dal nuovo entrante Aldo Garzanti, mentre la produzione di narrativa nel campo di produzione di massa è ormai saldamente dominata da Mondadori.

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Riepilogando: la comparsa, fra il 1929 e il 1933, di almeno una ventina di nuove collane di narrativa tradotta – quelle citate non sono che le principali – fa sì che le traduzioni di romanzi stranieri si moltiplichino, rovesciando la situazione precedente il 1929, quando Spaini e Mazzucchetti stentavano a trovare un editore per Thomas Mann. Tra le cause di questa espansione, accanto all’allargamento del pubblico dei lettori, al minor costo delle traduzioni, alla regolamentazione del diritto d’autore e alle politiche dello stato fascista, credo vadano annoverate alcune spinte interne al campo editoriale che datano almeno dagli anni ’10: come abbiamo visto, la Slavia di Polledro realizza gli auspici di Gobetti facendosi carico delle istanze del polo di produzione ristretta, la Modernissima di Dàuli riesce in un esperimento di successo dopo una serie di tentativi falliti, Mondadori si espande gradualmente per dare la scalata a Treves, Barion e Bietti fanno grossomodo lo stesso con Sonzogno, e così via. L’allargamento del circuito di produzione della narrativa tradotta è contestuale alla sua progressiva differenziazione interna: ne è in parte la causa, in parte l’effetto. L’adozione di criteri di reciproca distinzione sempre più raffinati fa sì che ciascuna collana si collochi nel campo in una posizione diversa, in base alla composizione del capitale di cui dispone (simbolico, ma anche economico, e politico22) e alle strategie che adotta per accumularlo. Il posizionamento delle collane si riflette a sua volta su quello degli autori tradotti (soprattutto su quelli che arrivano in prima traduzione, ma non solo): attraverso le operazioni di selezione, marcatura e lettura, viene loro assegnata una posizione “in ingresso” nel campo, non solo in quello editoriale, ma anche in quello letterario, che spesso è determinante per la loro ricezione successiva, almeno sul medio periodo. Essere pubblicati in collane legate alle avanguardie letterarie come occidente, biblioteca europea o, come vedremo fra poco, letteraria Bompiani, significa trovarsi simbolicamente al polo opposto rispetto ai per lo più anonimi serialisti della romantica economica o dei libri gialli. 22  Ho lasciato quest’ultimo deliberatamente in secondo piano. Il capitale politico delle case editrici, così come il loro rapporto col governo fascista, è un aspetto fondamentale, ampiamente preso in considerazione anche negli studi più recenti. Qui tuttavia mi premeva piuttosto mettere in rilievo gli effetti strutturanti del capitale economico e soprattutto di quello simbolico.

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Ill. 3. Progressiva differenziazione del campo editoriale intorno al 1930: gli autori tradotti.

Provando a visualizzare spazialmente questi diversi posizionamenti (Ill. 3), possiamo osservare una gamma che va da un capitale letterario minimo (dagli oggi sconosciuti Felix Hollaender e Rudolph Stratz alla letteratura “femminile” di E. Werner e Vicki Baum), a una zona mediana (Roth, Fallada, Th. Mann, Feuchtwanger, Döblin, Zweig), a una zona a più alto capitale letterario (Kästner, Schnitzler, Kafka). Vediamo così, per esempio, che uno scrittore come Leo Perutz, oggi rivalutato grazie al suo inserimento nel catalogo Adelphi, fa il suo ingresso nel campo editoriale come autore di gialli quasi del tutto privo di capitale letterario, o che il capitale di Thomas Mann è indebolito dalla

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sua dispersione in diverse aree del campo (un’anomalia senza dubbio causata del premio Nobel conferitogli nel ’29), mentre quello di Kafka, al contrario, è rafforzato da posizionamenti che avvengono esclusivamente in prossimità del polo di produzione ristretta (Ill. 4) È utile, inoltre, incrociare questo dato con un altro indicatore prezioso, ovvero le prefazioni, presenti solo laddove il mediatore italiano si adoperi attivamente per costituire un capitale simbolico d’ingresso all’autore tradotto. Questo l’elenco dei prefatori dei volumi di narrativa tedesca pubblicati fra il 1929 e il 1934 nelle collane prese in esame23: L. Feuchtwanger, La brutta duchessa, Modernissima 1929: Luigi Tonelli L. Feuchtwanger, Süss l’ebreo, Modernissima 1929: Luigi Tonelli A. Schnitzler, La signorina Else, Modernissima 1929: Antonio Baldini A. Schnitzler, Teresa, Modernissima 1929: Sibilla Aleramo A. Schnitzler, Morire, Slavia 1931: Barbara Allason A. Döblin, Berlin Alexanderplatz, Modernissima 1931: Alberto Spaini J. Roth, Giobbe, Treves-Treccani-Tumminelli 1932: Giovanni Necco Th. Mann, Sua altezza reale, Barion 1933: Lamberto Brusotti E. Kästner, Fabian, Bompiani 1933: Massimo Bontempelli F. Kafka, Il processo, Frassinelli 1933: Alberto Spaini F. Kafka, La metamorfosi, Vallecchi 1934: Rodolfo Paoli F. Kafka, Il messaggio dell’imperatore, Frassinelli 1935: Anita Rho

Ci sono autori, come Kafka e Schnitzler, dei quali ogni opera sembra meritare (o necessitare) una prefazione autorevole (o di addetti ai lavori organici alle avanguardie, come Spaini, Paoli, Allason e Rho, o di scrittori di fama come Baldini e Aleramo); altri, come Döblin e Kästner, per cui l’attenzione si concentra su un’opera particolare (Berlin Alexanderplatz, Fabian); altri, infine, come Feuchtwanger, Roth e Mann, che vengono introdotti da personalità meno riconosciute nel campo di produzione ristretta (il giornalista Luigi Tonelli, il germanista Giovanni Necco, il traduttore Lamberto Brusotti), a conferma che, almeno nei primi anni ’30, le traduzioni si rivolgono a un lettore generico più che a quello specifico delle avanguardie letterarie. 23  Dall’elenco sono esclusi i volumi apparsi nei narratori nordici, tutti accompagnati da una brevissima nota del traduttore.

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Ill. 4. Posizionamento di tre scrittori tedeschi in diverse zone del campo editoriale.

Ma è proprio qui, nel circuito di produzione ristretta, che la convergenza di interessi fra le avanguardie letterarie che investono sul romanzo e case editrici che investono sulla narrativa straniera opera la trasvalutazione simbolica per cui l’enorme espansione quantitativa del repertorio romanzesco si rovescia in una progressiva distinzione qualitativa: l’attribuzione di un valore specifico, di un capitale letterario ad alcuni autori, testi e forme, o in altri termini l’individuazione di un repertorio consacrato – tra i tedeschi in primo luogo Kafka, Schnitzler, Döblin, Kästner – dà avvio alla lenta consacrazione del romanzo come genere artistico.

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6. I “tedeschi” di Bompiani nel campo letterario: Kästner, Brunngraber e il romanzo collettivo Il caso dei “tedeschi” di Bompiani – in particolare Fabian di Kästner e Karl e il XX secolo di Brunngraber24 – mostra bene quali forme possa assumere l’investimento di un’avanguardia letteraria sulla letteratura tradotta. Quella di Bompiani è un’avanguardia peculiare25, aggregata e promossa dell’editore stesso, il quale, a differenza dei suoi concorrenti, è scrittore a sua volta. Privo del capitale economico di un Mondadori, presso il quale si è formato, Bompiani investe fin dagli esordi della sua casa editrice sull’accumulazione di capitale specifico, rilevando l’Almanacco letterario (1930), che trasforma in un raffinato ibrido tra notiziario editoriale e rivista letteraria, e inaugurando la sua collana di narrativa, letteraria (1930-oggi, oltre 500 titoli, messi sul mercato a 12 lire al volume), con due autori che non solo godono di solido riconoscimento nel circuito di produzione ristretta, ma rappresentano le avanguardie che nel corso degli anni ’20 più si sono impegnate nella promozione del romanzo: Bontempelli e Borgese. La collana, che all’inizio può proporre non più di cinque titoli l’anno ed è piuttosto disorganica (non reca numero di serie, e a volte neppure il nome della collana), fa di necessità virtù, puntando in un primo momento su una nuova leva di – meno costosi – scrittori italiani (Masino, Frateili, Dèttore, Bartolini, Zavattini, senza trascurare utili sodali come Lorenzo Gigli, direttore del Diorama letterario sulla «Gazzetta del Popolo»), e aprendosi poco a poco alla narrativa straniera contemporanea (Erskine, Jelusich, Ashford, Herczeg, Körmendi): una decina di titoli in tutto fra il 1930 e il ’33, che certo non impensieriscono colossi come scrittori stranieri moderni o, più tardi, medusa.

24  Mi soffermo qui soprattutto su quest’ultimo, rinviando per il primo al saggio di Daria Biagi, Modernità per moralisti. Fabian di Erich Kästner nell’Italia degli anni Trenta, nel volume Stranieri all’ombra del duce, cit., pp. 177-198. 25  Si veda per questo il già citato saggio di Anna Baldini, alla cui ricostruzione si fa ampio riferimento nelle pagine che seguono.

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letteraria (1930-oggi, oltre 500 titoli) diretta da Valentino Bompiani per Valentino Bompiani Editore, Milano. I primi venti titoli M. Bontempelli, Vita e morte di Adria e dei suoi figli, 1930 G. A. Borgese, Giro lungo per la primavera, 1930 P. Masino, Monte Ignoso, 1930 L. Bartolini, Il molino della carne, 1931 U. Dèttore, L’aureola grigia, 1931 J. Erskine (G. Prampolini), Lancillotto e suo figlio, 1931 C. Zavattini, Parliamo tanto di me, 1931 M. Jelusich (G. Prampolini, A. Tenca), Caesar, 1931 D. Ashford (M. Tibaldi Chiesa, M. Bontempelli), I giovani “invitatti”, 1932 L. Pietravalle, Marcia nuziale, 1932 E. Barisoni, Cacciatore si nasce, 1932 A. Frateili, Capogiro, 1932 F. Herczeg (S. Gigante), Sette maniere di trovar marito, 1932 F. Körmendi (S. Gigante, I. Balla), Un’avventura a Budapest, 1932 P. M. Rosso di San Secondo, Luce del nostro cuore, 1932 P. Masino, Periferia, 1933 E. Kästner (C. Coardi, M. Bontempelli), Fabian, 1933 G. Kaus (S. S.), Transatlantico, 1933 F. Körmendi (S. Gigante), Via Bodenbach, 1933 L. Gigli, Vita di Gobineau, 1933 I titoli della collana letteraria non recano numerazione. I dati del Catalogo generale Bompiani 1929-2009 sono qui integrati con il profilo della collana riportato nei fogli di guardia della prima edizione del Fabian di Erich Kästner, Bompiani 1933.

Bompiani ha dunque tutto l’interesse a distinguere i pochi titoli da lui pubblicati dalla grande massa di quelli dei rivali ricorrendo alle strategie dell’editoria d’avanguardia e posizionandosi nella zona della produzione ristretta a più alto capitale letterario, in prossimità di Vallecchi, Slavia e Frassinelli. La discussione sul «romanzo collettivo», che egli contribuisce a promuovere con il sostegno di Bontempelli, uno dei “suoi” autori, rientra in questa strategia: fa infatti abilmente leva su uno dei temi più dibattuti nel circuito di produzione ristretta, dove alcune delle nuove avanguardie stanno investendo sul romanzo nella lotta per la successione alla vecchia avanguardia consacrata della «Ronda»,

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capeggiata da scrittori come Cecchi, Baldini e Cardarelli, che si era imposta consacrando come genere letterario più legittimo la prosa d’arte (la quale peraltro continuerà a dominare il campo almeno fino al dopoguerra: il testo canonizzante, Capitoli: per una storia della nostra prosa d’arte, di Enrico Falqui, esce nel 1938). Nel marzo 1934, quando pubblica il suo Invito editoriale al romanzo “collettivo”26, Bompiani ha in catalogo appena quattro titoli di narrativa tedesca: Caesar (1931) del nazionalsocialista austriaco Mirko Jelusich, romanzo storico sulla più carismatica personalità di “duce” del mondo antico; Transatlantico (1933) dell’ebrea progressista Gina Kaus, prodotto di buona fattura della moderna letteratura femminile à la Vicki Baum; il Fabian (1933) di Erich Kästner, ampiamente pubblicizzato sull’Almanacco letterario come l’opera che «ha rivelato nell’autore di Emilio e i detectives il primo romanziere della nuova letteratura tedesca»27; e, in preparazione, Karl e il XX secolo del socialista austriaco Rudolf Brunngraber. Mentre i primi due sono prodotti troppo eteronomi per giustificare una loro valorizzazione in termini di capitale letterario, i romanzi di Kästner e Brunngraber costituiscono in effetti due dei più interessanti tentativi in area germanica di rinnovare tecnicamente il romanzo sulla base delle sperimentazioni delle avanguardie letterarie del decennio precedente. Esserseli aggiudicati entrambi dipende tanto dalla politica editoriale della casa editrice quanto dalle circostanze: il romanzo di Kästner viene fatto perché l’autore aveva già un legame con la casa editrice, per la quale Lavinia Mazzucchetti aveva tradotto i suoi racconti per ragazzi, pubblicati nella collana i libri d’acciaio; il romanzo di Brunngraber, invece, era stato rifiutato da Mondadori, che avrebbe senz’altro avuto il capitale e le relazioni per assicurarselo, per ragioni essenzialmente politiche. Il parere di lettura di Lavinia Mazzucchetti, consulente per la letteratura tedesca per le nuove collane mondadoriane, ne metteva infatti in luce la novità tecnica, il «coerente parallelismo tra vita pubblica e privata», ma anche, non senza ironizzare sulle «direttive» del 26  Valentino Bompiani, Invito editoriale al romanzo “collettivo”, «Gazzetta del Popolo», 14 marzo 1934, p. 3. 27  Almanacco letterario 1933, Bompiani, Milano 1932, passim.

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regime, l’«inattualità» politica, a causa della quale avrebbe potuto facilmente incorrere nella censura: Mi pare sia da respingere senz’altro, malgrado sia un libro notevole. Per palma è fuor di discussione: è un libro ultra serio, politico sociale, pessimista e tragico. Per medusa, a meno che si delinei un successo eccezionale, e non ne vidi sinora affatto i sintomi, arriveremmo tardi e entreremmo nella zona dei libri di realtà postbellica tipo Glaeser o tipo Fallada, dai quali è prudente allontanarsi. È intanto un libro di idee così... affini alle mie, da non esser certo consigliabile ai giorni nostri. La vita di un uomo singolo inserito in quella dell’Europa dal 1900 in poi, per arrivare a dimostrare la mostruosità di tutti quelli che sono gli idoli del presente: guerra, capitalismo, nazionalismo, ecc. È un j’accuse continuo contro la continua menzogna della vita politica internazionale, delle conferenze e dei trattati, ecc. La originalità e la curiosità del libro stanno appunto in questo coerente parallelismo tra vita pubblica e privata, in questa riesumazione di fatti, di statistiche, di mostruosità economico-finanziarie-sociali che fanno da basso al violino della biografia di un proletario che si innalza con gli studi e finisce per riprecipitare nella fame dopo la guerra (siamo in Austria: fame e inflazione ecc. ecc.). Ma per dire come il libro sia... inattuale, basterebbe richiamare l’attenzione sulla pagina 18 dove si riproduce la nota tabella di calcolo su tutto quello che si sarebbe potuto fare a favore del vero progresso umano con i miliardi sciupati nella “inutile strage”. Se non dovessero editorialmente prevalere tanti timori e tanti criteri d’opportunità, io sarei caldamente per questo libro, che dovrebbe trovare molti lettori fra uomini per il suo curioso dualismo tra vita privata e pubblica. Non escludo, dato che nelle stesse direttive attuali politiche italiane vi è anche quella del pacifismo ed europeismo di cui l’Italia è campione contro il guerrafondaismo dei mestatori di altre razze, che vi sia un editore che abbia il coraggio di tradurlo e che ciò possa accadere senza complicazioni, ma data la sovrabbondanza di possibilità è meglio stare alla larga dai fastidi28.

In calce al parere il direttore editoriale, o forse Mondadori stesso, annota: «No. Seccante»29. Così per Bompiani, che da nuovo entrante ha maggiore interesse a rischiare e del resto ha appena ac28 Lavinia Mazzucchetti, parere su Rudolf Brunngraber Karl und das XX. Jahrhundert (1932), in Non c’è tutto nei romanzi. Leggere romanzi stranieri in una casa editrice negli anni ’30, a cura di P. Albonetti, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 1994, pp. 203-204. Questo peculiare romanzo avrebbe suscitato l’interesse anche di Cesare Cases, che nel 1984 firmerà la prefazione all’edizione Marietti. 29  Ibidem.

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quisito un grosso credito con il governo incaricandosi della traduzione italiana del Mein Kampf di Hitler (1934), si apre la possibilità di acquisirlo in letteraria. Ben ponderando le diverse qualità del romanzo, l’editore sceglie di puntare non tanto su un poco probabile successo di pubblico, che avrebbe peraltro potuto attrarre l’attenzione della censura, quanto sulla consacrazione letteraria, e adotta di conseguenza una sofisticata strategia promozionale. Nell’Invito editoriale al romanzo “collettivo” cita lo sconosciuto Brunngraber fra i pochissimi scrittori di cui fa il nome, collocandolo abilmente non tra le prime file, in cui inserisce Kästner, ma nel gruppo degli autori che indica come rappresentativi di una tendenza: Se ora osserviamo gli scrittori di avanguardia più celebrati e discussi (sempre limitandoci agli stranieri), i Döblin, i Kästner, i Dos Passos, i Malraux, i Körmendi, e cerchiamo, saltando all’aritmetica, un minimo comune denominatore, ci pare proprio di trovarlo nel tentativo di conciliare i due termini: l’individuo e la società; il vasto e il minuto. E intorno a questi astri maggiori non solo si possono radunare altri numerosi esempi come Hauser, Brunngraber, Traven, Hilton, ma anche richiamare i casi di scrittori più o meno tradizionalisti, i quali hanno compiuto un rivolgimento in direzione analoga30.

Nell’articolo, inoltre, Bompiani può soffermarsi più diffusamente sul romanzo, la cui traduzione31 deve ancora andare in stampa, con il fare disinteressato di chi sta solo presentando un tentativo fra i tanti di realizzare quello che definisce “romanzo collettivo”: Rudolf Brunngraber, giovane scrittore tedesco, nel suo Karl e il ventesimo secolo, racconta la vita di un uomo qualunque insieme con storia politica economica e sociale dell’ultimo quarantennio. Amore e statistiche di produzione, razionalismo e conflitti d’anime, lotte di classe e vicende familiari sono intrecciati nel romanzo come lo sono stati nella vita del suo protagonista32. 30 

V. Bompiani, Invito editoriale al romanzo “collettivo”, cit., p. 3. nel caso del Fabian la traduzione, di buona qualità, non è affidata a uno scrittore o un professionista, ma a un traduttore occasionale, Carlo Piazza, che in quegli anni volge in italiano una mezza dozzina di libri, per Bompiani, Sperling & Kupfer, Corticelli. 32  Ibidem. 31  Come

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Anche nella promozione più strettamente pubblicitaria Bompiani rinuncia, questa volta, alla clamorosa strategia di lancio adottata per il Fabian, munito della prestigiosa e ortodossa prefazione dell’Accademico d’Italia Bontempelli e annunciato a caratteri cubitali in innumerevoli inserzioni come «il romanzo intimo e impressionante di una disgregazione nazionale» e, ammiccando allo scandalo, come libro «solo per adulti»33. Ricorre invece a una formula ingegnosa e discreta: al posto di titoli o immagini di grande formato sceglie di riprodurre un testo autobiografico dell’autore, che da una parte deve suscitare l’empatia di quei lettori che condividono con lui la stessa traumatica esperienza dell’estrema modernità, culminante nella crisi del ’29, dall’altra sembra fare appello alla problematica del romanzo così come si è definita nel circuito di produzione ristretta. Vale la pena leggerlo quasi per intero: A 10 anni, copiai un capitolo di Alessandro Dumas, poiché la costa della Provenza vi era descritta a colori vivaci. Amavo soprattutto nelle cose del mondo il festoso e il musicale, forse per contrasto con la mia giovinezza, che trascorreva in una drammatica povertà. Mio padre era muratore ma soprattutto ubriacone; mia madre faceva la lavandaia, santa donna resistente come la pietra. Nonostante tutto io avevo fiducia nel futuro e nel mondo, e sentivo di più la varietà degli avvenimenti che non la loro miseria, e credevo fermamente che ciascuno si fabbrica il suo destino. Con lo stesso coraggio completavo gli studi di maestro, guadagnandomi il denaro necessario. La mia prima opera fu un poema in cinque volumi, che difendevano il bramanesimo, che apparve ai miei occhi come la salvezza del mondo. La guerra e i disordini che ne seguirono m’impedirono d’iniziare la mia professione d’insegnante, e allora m’incamminai, sperduto viandante, per le strade europee. La mia relazione col mondo non era più quella di prima, quando leggevo Dumas e raccoglievo francobolli, ma la fede era forse ancor più grande e mi offrii al mondo, se così posso dirlo, con candida bontà. Fui variamente operaio, sguattero, violinista nelle orchestrine di cinematografo, insegnante privato, decoratore, commesso, giornalaio, taglialegna, copista di antichi maestri, giornaliero alla cava, scaricatore di porto, incisore d’avorio, e qualche altra cosa ancora. Poi sopravvenne la crisi mondiale, e le mie peregrinazioni si estesero come le mie sofferenze. Giunsi così nella regione dei Laghi Lapponi. Ri33 

Si vedano gli annunci pubblicitari sull’Almanacco letterario 1933, passim.

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tornai a Vienna, credendo di trovare in Patria il migliore rifugio, e caddi invece nella terribile miseria che non conosce sotto di sé che la strada della città. Vero Robinson della gran capitale, mi smarrivo nell’infinità delle strade, e una notte, affamato, sognai gli ingorghi delle merci sui mercati mondiali. Il mondo, il gran mondo, mi divenne finalmente comprensibile, seppure non più con la lirica dei suoi prati e delle sue nuvole colorate, ma con lo spirito degli altiforni spenti e dei porti paralizzati; non più con la festosità dei suoi orizzonti avventurosi, ma coll’incubo dei suoi grattacieli; non più coll’eredità spirituale dei suoi eroi e dei suoi santi, ma coi problemi della sua forma economica, la quale ha eretto una deserta barriera d’acciaio e di denaro fra l’uomo e la sua terra. Ormai toccavo i trent’anni e vidi che la mia vita nulla aveva concluso: compresi allora anche la guerra che avevo anch’io combattuto; mi ero destato e avevo visto il volto del mio cuore, che aveva cercato l’essenziale sempre fuori di sé, nel mio secolo. Tuttavia, il vagare del mondo, questo incerto vagare nei cieli del pensiero non era strozzato. Ma dovette ritrarsi dalle vaste arene della fantasia e della natura verso una cosa più vicina: i miei simili. Mi parve di diventar più sensibile per il fatto di non essere l’unica vittima del secolo, ma soltanto uno dei milioni di individui che soffrono in eguali condizioni. Diventai più sensibile al fascino del sapere, commosso ancora di più che dalla mia propria miseria dal contrasto tra la miseria dell’umanità d’oggi e la sua ricchezza di beni. Giunsi così, quasi d’improvviso, all’idea del libro: Karl e il XX secolo34.

Una strana forma di annuncio pubblicitario. Ma come poteva interpretare questo frammento autobiografico un giovane scrittore o un giovane critico che nel 1934 seguisse la discussione letteraria se non come il resoconto di una conversione al “romanzo collettivo”? Il testo descrive il passaggio da una visione lirica del mondo (la Provenza di Dumas, il poema sul bramanesimo) a una romanzesca, ed entro questa dalle fantasie del romanzo d’avventure al tentativo di afferrare la realtà contemporanea in una nuova forma di romanzo a cui ben si attaglia la definizione coniata da Bompiani. Per sapere se Karl e il XX secolo sia stato letto da qualche giovane scrittore italiano come Berlin Alexanderplatz o Il processo, e magari in una certa misura preso a modello, sarebbe necessario 34  L’autore di Karl e il XX secolo parla della sua vita, in Almanacco letterario 1935, Bompiani, Milano 1934, p. CIII.

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uno studio che esula da queste pagine35. Di certo il romanzo non arriva neppure alla prima ristampa. Ma l’operazione di cui Bompiani lo fa oggetto, insieme al Fabian di Kästner e ai romanzi di Malraux, Körmendi e molti altri in seguito, è un episodio rilevante dell’enorme lavoro collettivo che all’inizio degli anni ’30 contribuisce al superamento dell’interdetto sul romanzo. Appunto promuovendo testi letterariamente significativi, anche se economicamente poco redditizi, Bompiani mostra di credere nei valori specifici della letteratura: ottiene così il riconoscimento del circuito di produzione ristretta e accumula capitale letterario tanto per sé quanto per l’oggetto dei suoi investimenti, il romanzo. Per la qualità delle sue prese di posizione, più ancora che per l’effettivo repertorio di opere straniere e italiane pubblicate, si afferma in questi anni come l’editore più rappresentativo di una nuova avanguardia “romanzesca”, e insieme a collane come scrittori di tutto il mondo, biblioteca romantica e biblioteca europea, la sua letteraria contribuisce a far sì che nuove generazioni di scrittori riconoscano nel romanzo, più che nella lirica o nella prosa d’arte, il genere più legittimo del loro tempo.

35 

E di cui il citato studio di M. Rubino è un buon esempio.

Capitolo settimo Un repertorio per il teatro di regia Paolo Grassi e i “tedeschi” di Rosa e Ballo (1942-1947)

1. La parte di Rosa e Ballo nella storia del campo letterario italiano Negli anni tra la caduta del fascismo e la nascita della repubblica la piccola casa editrice Rosa e Ballo1 ha un ruolo cruciale nel rinnovamento del repertorio della letteratura tedesca in Italia. Il suo habitus editoriale, non dissimile a quello di altre più o meno fortunate case nate durante la seconda guerra mondiale, è orientato all’esplorazione e divulgazione delle esperienze letterarie, musicali, cinematografiche, architettoniche e nel senso più lato artistiche delle avanguardie storiche europee: sia di quelle che avevano già incontrato interesse in Italia negli anni ’20 e ’30, sia di quelle che erano state ignorate o apertamente avversate. In questo senso l’operazione di Rosa e Ballo si può definire enciclopedica, umanistica e “politecnica”. Il riferimento al «Politecnico», la cui vicenda si svolge negli stessi anni e nello stesso luogo, a Milano, non è casuale. Sebbene prossima alla rivista einaudiana diretta da Elio Vittorini – per il suo posizionamento nel campo culturale, per il repertorio proposto e perfino per l’orientamento politico – Rosa e Ballo non giunge ad accumulare, come Einaudi, un capitale simbolico tale da produrre trasfor1  Per la storia della casa editrice si vedano: Anna Modena, Breve storia (con catalogo) della casa editrice Rosa e Ballo, Studi di storia dell’editoria, a cura di G. Tortorelli, Baiesi, Bologna 1995, pp. 233-250, e il volume Un sogno editoriale: Rosa e Ballo nella Milano degli anni ’40, a cura di S. Casiraghi, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 2006 (in particolare l’ottimo contributo di Oliviero Ponte di Pino). La mia fonte principale sono le carte dalla serie Corrispondenza con autori e collaboratori dell’Archivio storico Rosa e Ballo, conservato alla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori di Milano (FAAM, AsReB).

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mazioni di vasta portata nei campi artistici; contribuisce tuttavia in misura tutt’altro che trascurabile alla legittimazione delle poetiche e del repertorio di quella «nuova cultura» che Vittorini andava propugnando dalle pagine della sua rivista2. Il campo in cui senza dubbio la casa editrice milanese produce il rinnovamento più significativo è quello teatrale: sotto la direzione del giovanissimo Paolo Grassi, le sue collane più organiche e longeve, teatro e teatro moderno, portano in Italia alcuni dei drammi più innovativi del primo Novecento europeo, con particolare attenzione all’area germanica, da Strindberg a Brecht. Si tratta di 46 volumi, pressappoco la metà dell’intera produzione della casa editrice (95 titoli)3. La (doppia) collana ha una notevole importanza storica per almeno tre motivi: 1) è la prima collana d’avanguardia nell’editoria italiana del Novecento dedicata al teatro straniero4; 2) è strettamente legata all’attività di allestimento e regia del gruppo (Grassi, Strehler, Pandolfi) che nel 1947 darà vita al Piccolo teatro di Milano e quindi al sistema dei teatri stabili italiani; 3) troverà una prosecuzione nella collezione di teatro Einaudi, fondata e diretta dallo stesso Paolo Grassi insieme a Gerardo Guerrieri tra il 1953 e il 1962, che, successivamente ripensata e allargata, è tuttora la principale collana di teatro italiana, con oltre 400 titoli (e 5 milioni di copie vendute); 4) detiene una serie di primati relativi all’importazione di letteratura tedesca: introduce infatti in Italia i principali esponenti dell’espressionismo teatrale tedesco (Toller e Kaiser), ripropone in forma organica l’opera dei loro “precursori” (Büchner, Hebbel, Wedekind) e pubblica la prima traduzione italiana da Brecht, L’opera da tre soldi. Per ricostruire gli interessi e le poste in gioco nell’operazione di Grassi, e più in generale degli animatori della casa editrice, mi soffermerò in primo luogo sulla genesi della rete intellettuale del direttore editoriale, Ferdinando Ballo, quindi sulla costituzione 2 

Cfr. A. Boschetti, La genesi delle poetiche e dei canoni, cit., pp. 42-85. Per l’elenco completo cfr. infra. 4 Tra i più significativi precedenti di editoria di ricerca in ambito teatrale si segnalano teatro straniero della Libreria Editrice (Milano, 1876-1886) e teatro contemporaneo internazionale di Max Kantorowicz (Milano, 1891-1895), entrambe in seguito assorbite – e convertite alla produzione di massa – in teatro straniero dei F.lli Treves (Milano, 1886-1916). 3 

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della redazione della casa editrice, e infine sulle collane teatrali, osservando i successivi posizionamenti di Grassi e dei suoi rispetto agli altri attori del campo. Vorrei anticipare qui le mie tesi: 1) la selezione, la marcatura e la lettura dei “tedeschi” di Rosa e Ballo è determinata in primo luogo dalla disposizione dei nuovi entranti a distinguersi dagli attori dominanti nel campo teatrale puntando su una sovversione della doxa vigente sia sul piano del repertorio e delle pratiche di messa in scena (rivoluzione della regia) sia su quello del rapporto con il pubblico (rivoluzione dei teatri stabili); 2) la rete di critici, registi e traduttori costituita da Grassi a partire dall’estate del 1943 si fonda su un efficace compromesso tra i nuovi entranti e alcune frange dell’avanguardia consacrata e di quella in via di consacrazione, allo scopo di acquisire il capitale simbolico necessario per legittimare il nuovo repertorio proposto e la nuova idea di letteratura e di teatro ad esso legata; 3) la sovversione organizzata da Grassi, che data almeno dall’inizio degli anni ’40, si sarebbe attuata comunque, anche sotto il fascismo, se questo non fosse crollato, ma indubbiamente trae vantaggio a partire dall’aprile del 1945 da una sanzione esterna al campo, ovvero dalla possibilità di delegittimare i vecchi dominanti in quanto compromessi col fascismo e di legittimare se stessa come antifascista; 4) il successo della sovversione è dovuto non solo a questa sanzione esterna ma soprattutto alla capacità di Grassi di agire in più campi – teatrale, editoriale, letterario, artistico, giornalistico – riuscendo a far convergere sulla sua operazione una serie di attori e di interessi assai disparati, e talora in conflitto tra loro, fino a suscitare la percezione di un movimento artistico organizzato, di un’avanguardia. 2. Traiettoria di Ferdinando Ballo fino alla fondazione della casa editrice (1924-1942) La casa editrice, com’è noto, prende il nome dai due fondatori, Achille Rosa (1903-1949) e Ferdinando Ballo (1906-1959). La divisione dei compiti è netta: il primo, già proprietario della Filati Serici e Affini, liquidata nel 1942, mette il capitale econo-

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mico; il secondo, che dal ’35 era stato collaboratore amministrativo dell’azienda di Rosa, mette il capitale culturale e sociale (relazionale). Per capire dunque come nasce e come si estende la rete dei collaboratori della casa editrice è indispensabile ripercorrere la traiettoria di Ferdinando Ballo fino all’autunno del 1942, data alla quale risalgono le prime lettere da lui inviate a Massimo Mila, a Mario Bonfantini, a Carlo Levi, per coinvolgerli nella sua nuova iniziativa. Di origine orvietana, Ballo è a Milano dal 1924, dove intraprende la carriera musicale, come pianista e come critico per «L’Ambrosiano». Il suo ingresso nel campo letterario risale al 1928 quando, ventiduenne, è tra gli animatori della rivista novarese «La Libra» (1928-1930), diretta da Mario Bonfantini (19041978). Versione provinciale e povera di capitale simbolico della più longeva e celebre «Solaria» (1926-1936), «La Libra» si rifà da una parte all’eredità della «Ronda» (il rigore stilistico, lo studio dei classici, l’attenzione alle arti figurative), dall’altra all’umanesimo militante del «Baretti» (Bonfantini ha studiato a Torino, dove ha incrociato il gruppo dei gobettiani), condividendo con «Il Convegno» di Enzo Ferrieri l’apertura alle letterature straniere nella prospettiva di una “rigenerazione” della letteratura nazionale. L’editoriale-manifesto del primo numero rivendica, come già quello di «Solaria», l’assenza di un programma definito: i redattori sono «tutti buoni amici» che «non da oggi, si conoscono e sanno di trovarsi d’accordo in quel che veramente importa»5. Tra questi ci sono Mario Soldati (1906-1999) ed Enrico Emanuelli (1909-1967), mentre tra i collaboratori figurano Guido Piovene, Giacomo Debenedetti e Giacomo Noventa. Temi principali: la resa dei conti con Croce e D’Annunzio, l’europeismo, la contesa fra “ottocentisti” (Borgese) e “novecentisti” (Bontempelli), nella quale i novaresi si schierano dalla parte dei primi, pur interessandosi anche a Pirandello, Svevo, Gozzano, Proust e Joyce. Negli stessi anni Ballo si avvicina alla «Rassegna Musicale» (1928-1941) di Guido M. Gatti, uno dei principali organi del rinnovamento della scena musicale italiana, dove si discutono Debussy, Schönberg e gli italiani Casella, Dallapiccola, Malipie5 

Mario Bonfantini, Per il programma, «La Libra», I.1, 1928, p. 4.

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ro e Pizzetti. È probabilmente in questa circostanza che Ballo conosce Massimo Mila (1910-1988), Gianandrea Gavazzeni (1909-1996), Fedele D’Amico (1912-1990) e Luigi Rognoni (1913-1986). Ballo collaborerà anche con altre riviste («Leonardo», «Pan», «L’Italia letteraria» e «Cronache latine»), ma queste prime esperienze con «La Libra» e «La Rassegna Musicale» sono decisive nel plasmare sia la cerchia dei suoi interlocutori principali sia il suo habitus estetico, orientato a un vaglio delle avanguardie europee del Novecento funzionale al rinnovamento di una cultura fondamentalmente umanistica (lontana, per intenderci, dal radicalismo futurista). Nei primi anni ’30 entra nell’orbita del napoletano Edoardo Persico (1900-1936), «il leader indiscusso di un gruppo di artisti, molti dei quali come lui provenienti dal centro-sud, tra cui Quasimodo, Gatto, Cantatore, Carrieri, Sinisgalli, che ammirano la sua missione profetica nei confronti dell’architettura moderna e la sua dimensione culturale europea»6. Persico ha trascorso alcuni anni a Torino, dove ha collaborato con Piero Gobetti e diretto la casa editrice dei fratelli Ribet (quella della seconda edizione degli Ossi di seppia di Montale). A Milano gestisce dal ’30 la galleria Il Milione, dove espone Max Ernst e Kandinskij, organizza incontri sul modernismo architettonico, dal Bauhaus a Lloyd Wright, e sulla nuova musica dodecafonica (probabilmente proprio grazie a Ballo e Rognoni, co-fondatori della galleria); nel ’34 diventa il principale redattore di «Casabella», a cui Ballo inizia collaborare dopo la sua estromissione dall’«Ambrosiano» per motivi politici (antifascista dichiarato, è vicino al socialismo umanitario milanese, e nel ’45 diventerà critico musicale dell’«Avanti!»). Attraverso Persico, Ballo conosce l’architetto Raffaello Giolli (1889-1945), anch’egli collaboratore dell’«Ambrosiano», la storica dell’arte Giulia Veronesi (19061973) e suo fratello, il pittore Luigi Veronesi (1908-1998), ma anche Carlo Levi e Felice Casorati. Persico muore nel ’36, diventando, come Gobetti per l’Einaudi, uno dei padri morali della Rosa e Ballo, che nel 1947 ne raccoglierà in volume gli Scritti critici e polemici. 6 

A. Modena, Breve storia, cit., p. 234.

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Con Giulia e Luigi Veronesi, Ballo prende parte al movimento di «Corrente di vita giovanile» (1938-40), la rivista fondata da Ernesto Treccani (1920-2009), già allora aderente al Partito Comunista clandestino, dove conosce Giansiro Ferrata (1907-1986), Giulio Carlo Argan (1909-1992), Luciano Anceschi (1911-1995), Carlo Bo (1911-2001), Vittorio Sereni (1913-1983), Luigi Comencini (1916-2007), Paolo Grassi (1919-1981) e i più anziani Carlo Carrà e Carlo Emilio Gadda. All’interno del gruppo si lega soprattutto ad Alfonso Gatto (1909-1976) e Vasco Pratolini (1913-1991), che negli stessi anni fondano «Campo di Marte» (1938-1939), su cui compaiono numerosi articoli di Ballo e di Giulia Veronesi. Nel ’42 Ballo fa la sua prima esperienza editoriale, dirigendo per i tipi della Libreria La Lampada una collana di guide musicali a opere contemporanee (Mila sulla Donna serpente di Casella, Mantelli sul Wozzeck di Berg, Ballo stesso sull’Arlecchino di Busoni). La Lampada è gestita da Renzo Cantoni, fratello del filosofo Remo, ed è frequentata, oltre che dal gruppo di «Corrente», anche da Enzo Paci, Bruno Maffi e altri. In questo periodo la casa di Ballo, ricchissima di volumi e riviste introvabili grazie al suo secondo mestiere di commerciante di libri, diventa un punto di riferimento tra i giovani intellettuali milanesi – tra cui Bruno Revel e Emilio Castellani – che vi si ritrovano per aggiornarsi sulle principali correnti artistiche contemporanee e per ascoltare rari dischi dei principali autori moderni, da Eric Satie al Kurt Weill dell’Opera da tre soldi. Quando dunque, nell’autunno del 1942, Ballo comincia a pensare al programma e ai potenziali collaboratori della nuova casa editrice non fa che mettere a frutto il notevole capitale relazionale di cui dispone, che gli dà accesso ad alcuni dei principali esponenti delle avanguardie in via di consacrazione, allora all’incirca trentenni. 3. Costituzione della redazione e della rete dei collaboratori (1942-1943) Uno dei primi amici a cui Ferdinando Ballo scrive – dopo Alfonso Gatto, che già nell’ottobre del ’42 mette a disposizione della nascente casa editrice il manoscritto del racconto milanese Il piccolo sole – è Massimo Mila. Questi gli risponde:

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Straordinario: tutti i miei amici si mettono a fare l’editore. Einaudi, Antonicelli, Dettore, ora tu. Ti ringrazio infinitamente per l’offerta di collaborazione: io con Einaudi sono legato da un preciso contratto d’impiego, ma questo non mi vieta di lavorare per altri editori. Per esempio, sono da due anni il consigliere e l’eminenza grigia di Frassinelli. […] Se per caso ti interessasse una raccolta di miei articoli, scelti tra quelli ai quali tengo ancora, te li darei, naturalmente per niente, col massimo piacere7.

Negli stessi giorni Ballo scrive a un altro amico torinese, Carlo Levi, al quale in seguito, in una lunga lettera datata 2 gennaio 1943, illustra l’indirizzo che vorrebbe dare alla casa editrice: Il mio programma è abbastanza largo, in questo momento si tende a superare la cultura specializzata, tecnicizzata, per ricercare invece il senso di un centro, di una unità che raccolga tutti gli aspetti della cultura […]. Vorrei pubblicare una serie di libri sui “movimenti” dell’arte moderna, l’impressionismo, il cubismo, il surrealismo, il razionalismo, l’astrattismo, il novecento italiano ecc. ecc., non delle storie ma delle revisioni critiche e senza distinzioni tra le varie arti8.

Ma l’amico che assumerà un ruolo chiave nella redazione della casa editrice e nella definizione del suo programma è Mario Bonfantini: Il dr. Rosa, proprietario della mia giornata è spaventato dal numero di milioni che (bontà anche mia) possiede e meravigliato dal successo delle mie pubblicazioni ed ha quindi deciso di investire una parte dei suoi denari e me in una impresa editoriale. […] Vuoi collaborare? […] Vorrei proprio riuscire a impiantare una impresa abbastanza solida, senza pesi morti, e tale da avere già nome ed esperienza, e quindi un complesso di pubblico e collaboratori, al momento del ritorno alla vita normale9.

Nell’autunno del ’42 l’avanzata militare dell’alleanza nazifascista, fino ad allora vittoriosa, è stata arrestata a Stalingrado e El Alamein, e nelle città italiane si comincia a sentire il tempo di guerra, con i primi razionamenti, l’irrigidimento della censu7  Massimo Mila a Ferdinando Ballo, 3.12.1942, FAAM, AsReB, b. 4, fasc. 7. Le case editrici fondate dagli amici di Mila sono la Giulio Einaudi Editore nel ’33, la Bianchi-Giovini di Dèttore nel ’39 e la Francesco Da Silva di Antonicelli nel ’42. 8  Ferdinando Ballo a Carlo Levi, 2.1.1943, FAAM, AsReB, b. 3, fasc. 18. 9  Ferdinando Ballo a Mario Bonfantini, 26.12.1942, FAAM AsReB, b. 2, fasc. 10.

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ra, la minaccia dei bombardamenti aerei. La casa editrice nasce quindi, come il programma di riviste quali «Rinascita» e «Il Politecnico», in un momento di stallo che prelude a un cambiamento del quale è impossibile prevedere la portata (potrebbe coincidere con la caduta del fascismo, ma anche con una sua trasformazione), ma che lascia chiaramente intravedere l’approssimarsi di un rinnovamento culturale, ovvero di una trasformazione della struttura dei campi culturali (letterario, editoriale, teatrale ecc.) e della loro interazione nel campo del potere. A differenza di Gatto, Levi e Mila, Bonfantini ha una solida esperienza editoriale, sia come redattore, in forza a Bemporad dal 1935, sia come collaboratore, in qualità di curatore di classici francesi (per Paravia, Sansoni, utet, Formiggini), di una Antologia della letteratura italiana per la scuola superiore (Corticelli, 1940) e del volume dedicato alle Sacre rappresentazioni italiane (1942) della collana pantheon di Bompiani diretta da Vittorini (la stessa in cui esce Americana). È in grado quindi di fornire a Ballo una serie di suggerimenti non solo culturali, ma tecnici, dagli schemi dei contratti alle tabelle per i pagamenti ai calcoli delle spese e dei ricavi. A lui verrà affidata la direzione di ben tre collane, che egli stesso contribuisce a concepire: le divulgative guide bibliografiche sui principali movimenti e problemi della cultura europea tra Otto e Novecento, la collezione europea, di narrativa otto e novecentesca, e una collezione politica. Accanto a Bonfantini viene coinvolto, almeno a partire dal marzo ’43, un altro amico di Ballo, Raffaello Giolli, che assume insieme allo stesso Ballo, a Luigi Veronesi e a Giansiro Ferrata, la direzione della collana divulgativa pensata per essere la spina dorsale della casa editrice: i documenti d’arte contemporanea, opuscoli quindicinali illustrati sui principali movimenti dell’arte del Novecento. Dall’estate del ’43 ha inizio la collaborazione di Paolo Grassi, sul quale in un primo momento Ballo esprime qualche perplessità, definendolo «una specie di “avanguardista veloce”, un balcanico, della cultura» e ancora un «dilettant[e] di modernismo capac[e] di sfruttare l’equivoco di certi ambienti»10. L’habitus di 10  Ferdinando Ballo a Gianandrea Gavazzeni, 10.6.1943, FAAM, AsReB, b. 32, fasc. 11.

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Grassi, appena ventiquattrenne e di famiglia immigrata (il padre pugliese, la madre di origini bavaresi), sembra in effetti radicalizzare la disposizione alla sovversione culturale del più anziano (e anch’egli immigrato) Ballo. Ma i due s’incontrano se non altro nel comune interesse per l’espressionismo e per alcuni autori tedeschi che in massimo grado rappresentavano quella sintesi di teatro e musica d’avanguardia così decisiva per la nascita stessa della casa editrice: il Büchner del Wozzeck, il Wedekind della Lulu, entrambe musicate da Berg, e il Brecht dell’Opera da tre soldi con i songs di Weill. Abbandonato l’esercito e rientrato a Milano dopo l’8 settembre, Grassi assume con piglio deciso la direzione delle due collane teatro e teatro moderno. Ballo tiene per sé la direzione del grande Dizionario della arti contemporanee (mai realizzato) e delle collane minori (il pensiero, testi-pretesti, libri per bambini e varia). Completa l’organigramma della casa editrice in questa prima fase Giulia Veronesi, che svolge il ruolo di segretaria di redazione dall’inizio del ’43 all’estate del ’44, quando si dimette per motivi di salute, rimanendo tuttavia tra i collaboratori esterni. Parallelamente al definirsi dell’organigramma della casa editrice – che viene costituita con atto notarile del 17 aprile 1943 – prosegue la costruzione della rete dei collaboratori. Non mi soffermo sui numerosi musicisti, architetti, pittori interpellati da Ballo tra i suoi conoscenti, per concentrarmi sugli scrittori e i critici letterari. Lo scrittore indubbiamente più assiduo, e più pubblicato dalla casa editrice, è Alfonso Gatto. Ma fin dall’estate del ’43 Ballo contatta, per una progettata collana di poesia, anche Mario Soldati, Agostino Richelmy e Giacomo Noventa. Negli stessi mesi Giolli invita a condividere la direzione dei documenti d’arte contemporanea Giansiro Ferrata, che grazie alla sua esperienza di co-direttore di «Solaria» e alle sue numerose collaborazioni con riviste e case editrici consente di allargare ulteriormente la rete della Rosa e Ballo. Si progetta di affidare fascicoli della collana a Carlo Bo (sul surrealismo), a Giaime Pintor (sulla poesia espressionista), a Leone Traverso (che aveva appena curato l’antologia Germanica per la collana pantheon di Vittorini), a Mario Luzi (su Mallarmé), a Eugenio Montale (sulla letteratura

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inglese contemporanea), a Tommaso Landolfi (sulla letteratura russa). Giulia Veronesi scrive a sua volta ad autori a cui è legata da rapporti di amicizia, come Carlo Emilio Gadda (prima per la traduzione del Rinconete e cortadillo di Cervantes, poi per il libro per l’infanzia La città dei bimbi, infine per il «libro di sole note» Variazioni senza tema suggerito da Ballo dopo la lettura dell’Adalgisa; tutti progetti che non vanno in porto) e Vasco Pratolini (per la traduzione di Bubù di Montparnasse di Charles Louis Philippe). In un primo momento anche Mario Bonfantini fa la stessa cosa, ma per allargare la rete dei collaboratori e assicurarsi qualche nome di prestigio nel settembre del ’43 scende a Roma, dove incontra Delio Cantimori, Carlo Muscetta, Carlo Antoni e soprattutto Emilio Cecchi. Consapevole dello scarso capitale simbolico di una casa editrice che non ha ancora pubblicato nulla, insiste con Ballo sulla tempestività e generosità dei pagamenti: Mentre agli altri […] ho promesso cinque mila, a Cecchi ho promesso sei mila: che mi par giusto, dato il richiamo del suo nome presso un certo pubblico, la sua età, ecc. […] Ti ripeto che è mia opinione che è meglio far presto con questi contratti: e perché i buoni autori sono oggi molto ricercati ed è meglio legarseli subito, e perché conviene dare a questi primi (che ci aiuteranno a procurarcene altri) qualche prova positiva dell’esistenza e serietà della ns. Casa (devi pensare che finora, a Roma, essi ci hanno creduto quasi esclusivamente sulla mia parola)11.

Né il denaro di Rosa né le relazioni di Ballo, Giolli e Bonfantini, nessuno dei quali gode di un solido riconoscimento nel campo letterario, sono tuttavia sufficienti a consolidare intorno alla casa editrice un nucleo di scrittori e critici disposti a investire seriamente nell’impresa, i cui obiettivi dovevano apparire troppo nebulosi ai più. Se in campo musicale e architettonico, grazie alla reputazione di Ballo, Giolli e Veronesi, la casa editrice riesce ad assicurarsi alcune preziose collaborazioni e a pubblicare alcuni libri importanti12, i letterati, con poche eccezioni (Gatto, 11 

Mario Bonfantini a Ferdinando Ballo, 8.9.1943, FAAM, AsReB, b. 2, fasc. 10. Cent’anni di musica moderna di Massimo Mila, L’armonioso labirinto di Gian Francesco Malipiero, Scritti critici e polemici di Edoardo Persico (curati da Giulia Veronesi), Architettura e democrazia di Frank Lloyd Wright e I pionieri del 12 

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Pratolini, Bo, Emanuelli), la considerano con opportunismo o condiscendenza, soprattutto quelli le cui azioni sono in ascesa e per questo sono contesi da altri editori (così Cecchi, Bragaglia, Quasimodo, Montale, Gadda, Soldati). Nel frattempo il fascismo è caduto (25 luglio), Milano è stata pesantemente bombardata dagli alleati (8-16 agosto) – e la casa editrice ha dovuto provvisoriamente spostare la sua sede a Treviglio –, il generale Badoglio ha firmato l’armistizio (8 settembre). Dopo lo sbandamento dell’esercito Grassi, che era di stanza in Liguria, può rientrare a Milano e riprendere a lavorare alla sua sovversione teatrale, anche attraverso le collane dirette per Rosa e Ballo. 4. Le collane teatrali di Paolo Grassi (1944-1947) Proprio nei mesi in cui inizia la sua collaborazione con la casa editrice, Grassi scrive sulla rivista «Eccoci» di Silvio D’Amico, uno degli ispiratori della rivoluzione del teatro di regia in opposizione al teatro dei capocomici e dei divi13: Dai fischi e dalle organizzazioni di «sciacalli» milanesi da me diretti, che impaurirono le sagaci direzioni dei teatri della mia città, io sono passato ad uno stato di tangibile indifferenza nei riguardi del cosiddetto teatro «normale». […] Leggo, seguo, controllo, prendo nota, ma a freddo. Tutto questo mondo è così lontano; così stantio, così rancido, così scaduto alla «nostra» storia, così inaderente alla nostra cultura, alla nostra civiltà […]. Penso che il nostro compito, il compito di noi giovani sia attualmente quello di immagazzinare libri, notizie, dati, cognizioni, conoscenze, documenti; quello che necessita è un lavoro oscuro, durissimo di studio, di preparazione, di affinamento dei nostri mezzi e delle nostre qualità […]. Il mio personale voto è che si abbia a formare nel nostro Paese un nucleo vasto di giovani colti, documentati, sensibili e onesti, che sappiano e vogliano lavorare, per il teatro, solo per esso, senza dilettantismi […], senza la abituale incoscienza14. movimento moderno di Nikolaus Pevsner (tradotti da Giuliana Baracco), il fascicolo dei documenti su Le Corbusier (curato da Giancarlo De Carlo). 13  Cfr. 4: Condizioni necessarie, pp. 199-201. 14  Paolo Grassi, Lettere sul teatro, «Eccoci», 1.6.1943, citato in Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano, cit., p. 100.

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Il nuovo entrante Grassi condivide e estremizza la disposizione enciclopedica di Ballo a studiare e documentarsi: fare lo “stato dell’arte” significa dotarsi degli strumenti specifici per mettere in discussione le pratiche e le poetiche dominanti (il teatro «normale») e per elaborarne e affermarne di nuove. In questo caso il nuovo ha contorni più precisi del rinnovamento senza programma perseguito dalla Rosa e Ballo. Si tratta della rivoluzione della regia avviata da circa un ventennio, sebbene da prospettive molto diverse, da Silvio D’Amico, Luigi Pirandello e Anton Giulio Bragaglia, ovvero di una riforma del teatro basata sul primato della figura autoriale, fino ad allora inesistente, del regista. Non entro nel merito di quale concezione di regia (Meldolesi passa in rassegna quelle, in parziale concorrenza tra loro, di Grassi, Pandolfi, Jacobbi e Pavolini)15: ciò che qui importa sottolineare è come la generazione dei nati intorno al 1920 sia concorde nel vedere nelle traduzioni di teatro straniero una testa d’ariete per scardinare le pratiche dominanti. Mettere in scena un testo tradotto – il cui autore, meglio se prestigioso, è lontano e non può interferire – è uno dei modi più efficaci per dimostrare l’autorialità e le potenzialità dell’intervento registico. Per questo quasi tutti rispondono all’appello di Grassi, collaborando ampiamente a selezionare, tradurre e prefare. La sua linea editoriale del resto è chiarissima, e non nasconde le sue ambizioni egemoniche: La collana teatro da me diretta vorrebbe finalmente essere una serie definitiva di volumi (assai ampia) comprendenti tutte le migliori opere prodotte dal teatro straniero negli ultimi cinquant’anni16.

Ora, la rete intellettuale che Grassi ha bisogno di costruire coincide solo in parte con quella di Ballo, Giolli e Bonfantini: innanzitutto gli servono uomini di teatro (critici, registi, organizzatori), quindi traduttori dal tedesco (perché quello germanico è il principale bacino a cui intende attingere), infine gli serve – come a Bonfantini – un contatto con Roma, che in quel momento è la capitale dell’avanguardia teatrale, dove operano – oltre 15 

C. Meldolesi, I fondamenti del teatro italiano, cit., pp. 43-50. Paolo Grassi a Odoardo Campa, 15.4.1944, FAAM, AsReB, b. 2, fasc. 14 (il maiuscolo è di Grassi). 16 

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a Silvio D’Amico e alla sua Accademia Nazionale d’Arte Drammatica – anche Anton Giulio Bragaglia, Alberto Spaini, Enrico Prampolini, Orazio Costa, Vito Pandolfi, Gerardo Guerrieri e Ruggiero Jacobbi (mentre finora i contatti della Rosa e Ballo erano per lo più limitati a Milano, Torino e Firenze). Grassi comincia a tessere la sua rete a partire da Vito Pandolfi (1917-1974), che nella Roma dei primi anni ’40 è uno dei più vivaci teorici di un nuovo teatro popolare (la linea, per intenderci, del recupero della commedia dell’arte, che porterà a Dario Fo), per poi passare nel 1945 a Milano, dove sarà tra i più attivi collaboratori del «Politecnico», su cui scriverà di Brecht. È il primo “romano” contattato da Grassi, già verso la fine dell’agosto ’43. Pandolfi risponde: Ti ringrazio per le traduzioni che mi offri. Io proporrei: Wedekind Erdgeist (Il vaso di Pandora l’ho già impegnato), Hasenclever Antigone, Bronnen Vatermord, Brecht Trommeln in der Nacht. Sono tutti lavori che io ho a disposizione fin d’ora17.

Il secondo contatto romano è Alberto Spaini, il cui indirizzo postale Ballo recupera quasi per caso nel novembre 194318, negli stessi giorni in cui chiede a Mila il recapito di Giaime Pintor (il quale «pubblica da Bompiani una antologia del teatro germanico, dovrebbe quindi avere testi e traduzioni per la collezione mia»19: ma Pintor sarebbe morto il 1° dicembre, e l’antologia Teatro tedesco, da lui curata con Leonello Vincenti per la collana pantheon, sarebbe uscita solo nel luglio del ’46). Spaini è non solo uno dei primi traduttori professionisti dal tedesco, tra l’altro dell’Opera da tre soldi di Brecht, ma nel corso degli anni ’20, grazie alla frequentazione di Bragaglia e della scena teatrale romana e a ricorrenti soggiorni in Germania, si è affermato come uno dei massimi specialisti di teatro tedesco d’avanguardia e di regia: è stato tra i 17  Vito Pandolfi a Paolo Grassi, 2.9.1943, FAAM, AsReB, b. 4, fasc. 14. In una lettera successiva Pandolfi proporrà anche «Toller Uomo massa e Brecht L’opera da quattro soldi». 18  Lo trova in una lettera della scrittrice e traduttrice Orsola Nemi, di cui stava pubblicando il racconto per ragazzi Lena e il bombo: cfr. Ferdinando Ballo a Giulia Veronesi, 27.11.1943, FAAM, AsReB, b. 2, fasc. 18. 19  Paolo Grassi a Massimo Mila, 28.11.1943, FAAM, AsReB, b. 4, fasc. 7.

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collaboratori della rivista di D’Amico «Scenario» (1932-1936), nella cui collana il teatro del novecento, edita da Treves, pubblica nel ’33 il notevole volume Teatro tedesco. Nel 1928-1931, inoltre, ha pubblicato per la casa editrice Carabba la prima traduzione italiana delle opere di Georg Büchner, autore del quale Grassi intende fare una delle colonne portanti della collana teatro20. Attraverso Pandolfi, nei mesi successivi, Grassi entra in contatto con Gerardo Guerrieri (1920-1986). Questi aveva esordito alla regia al Teatro dell’Università di Roma da lui stesso fondato con Viaggio felice di Thornton Wilder e poi con il settecentesco Sturm und Drang di Maximilian Klinger, prima di entrare nel Teatro delle Arti di Bragaglia. La loro corrispondenza rivela da subito una notevole convergenza di interessi: progettano di pubblicare La mia vita di Stanislavskij e Il teatro politico di Piscator21, anche se condurranno in porto solo la traduzione de I giorni della vita di Saroyan. Ma ne nascerà un sodalizio intellettuale che si prolungherà assai a lungo nel dopoguerra. Attraverso Spaini, infine, Grassi arriva ad Anton Giulio Bragaglia (1890-1960), che in quegli anni è riconosciuto come il pioniere della regia teatrale e il principale rinnovatore del repertorio. Pressoché tutti gli autori tedeschi (e non solo) che Grassi intende pubblicare – Büchner, Wedekind, Schnitzler, Kaiser, Brecht – sono stati messi in scena per la prima volta a Roma, al Teatro Sperimentale degli Indipendenti. Ma se la collaborazione con i coetanei Pandolfi e Guerrieri si attiva con estrema facilità, quella con il “maestro” è più difficoltosa: mentre le lettere dei più giovani sono piene di entusiasmo progettuale, quelle di Bragaglia, come quelle di Cecchi o Cantimori, si riducono quasi esclusivamente a questioni di soldi. Bragaglia propone un’Antologia di Pulcinella, «ampio volume di farse pulcinellesche introvabili», e si candida a curare la riedizione del «primo trattato di 20  Nell’Archivio Rosa e Ballo non è conservata la corrispondenza con Spaini. Per la sua traiettoria e il suo lavoro per le collane di Grassi cfr. 4. Condizioni necessarie, pp. 182-183 e 192-199. 21  La proposta di tradurre Piscator viene probabilmente dallo stesso Spaini, che Guerrieri frequentava nella cerchia di Bragaglia: nel maggio 1945 Grassi invita l’amico a dare il via libera alla traduzione, che però uscirà solo nel 1960 per Einaudi (cfr. Paolo Grassi a Gerardo Guerrieri, 22.5.1945, FAAM, AsReB, b. 3, fasc. 16).

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Regia e tecnica scenica di Leone de Sommi», del 152422. Grassi naturalmente accetta, ma entrambi i progetti decadono. Oltre a costruire il suo proprio network23 Grassi non trascura di mettere a frutto i contatti già esistenti grazie agli altri direttori di collana della casa editrice: a Giulia Veronesi chiede di tradurre Assassinio, speranza per le donne e Il roveto ardente di Oskar Kokoschka e Methusalem di Yvan Goll24; con Carlo Bo, a cui Ferrata aveva commissionato alcune guide (Lorca, Ungaretti, Il surrealismo), concorda la traduzione di Yerma di García Lorca e di Angelita di Azorín25; al germanista Alessandro Pellegrini (1897-1985), di cui Ballo stava pubblicando un volume su Strindberg, affida quella di cinque drammi dello scrittore svedese26; al traduttore mondadoriano Ervino Pocar (1892-1981), a cui Bonfantini aveva commissionato una guida sul Teatro tedesco da Hebbel ai giorni nostri, propone di ripubblicare i Piccoli drammi di Hofmannsthal, usciti vent’anni prima per Carabba, e di tradurre ex novo Lo spirito della Terra e Il vaso di Pandora di Wedekind27; al dirigente dell’EIAR Enzo Ferrieri (1890-1969), animatore del circolo e del teatro del «Convegno», chiede Il gabbiano di Čechov e Il magnifico cornuto di Crommelynck; al francesista e germanista Bruno Revel (1895-1959), amico di Ballo, fa tradurre i drammi di Georg Kaiser; a Emilio Castellani (1912-1985), che attraverso la cerchia di Ballo e Revel si era accostato ai drammi musicali di Brecht e Weill28, commissiona la traduzione dell’Opera da tre soldi e di Mahagonny. 22 

Anton Giulio Bragaglia a Paolo Grassi, 28.3.1944, FAAM, AsReB, b. 2, fasc. 12. marzo 1944 Grassi conosce a Venezia anche Corrado Pavolini, che subito incarica di tradurre Amphitrion 38 di Jean Giraudoux. È Pavolini a segnalargli Clotilde Viana, traduttrice della Agnese Bernauer di Friedrich Hebbel, «che vado domani a mettere in scena al maggio musicale» (Corrado Pavolini a Paolo Grassi, 16.4.1944, FAAM, AsReB, b. 4, fasc. 16). 24  Ferdinando Ballo a Giulia Veronesi, 6.7.1944, FAAM, AsReB, b. 5, fasc. 18. Veronesi rinuncerà dopo pochi mesi, considerando i testi intraducibili. 25  Paolo Grassi a Carlo Bo, 31.3.1944, FAAM, AsReB, b. 2, fasc. 7. 26  L’ampia corrispondenza, tenuta soprattutto da Giulia Veronesi, inizia nel dicembre 1943: cfr. AsReB, b. 5, fasc. 17. 27  Paolo Grassi a Ervino Pocar, 22.4.1944 e 9.8.1944, FAAM, AsReB, b. 4, fasc. 22. 28  Emilio Castellani, Was und wie wir lasen…, in Die andere Achse. Italienische Resistenza und geistiges Deutschland, hrsg. von L. Jollos-Mazzucchetti, Claassen, Hamburg 1964, pp. 27-37. 23  Nel

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traiettorie

È dunque grazie a Ballo e Grassi che Castellani, allora redattore di «Giustizia e Libertà», comincia a cimentarsi con i drammi di Brecht, del cui Teatro qualche anno dopo curerà la fondamentale edizione Einaudi in quattro volumi. «Caro Nando», scrive nell’agosto del 1944 a Ballo, grazie di Undine: mi rimetto oggi stesso all’opera e spero di terminare presto. Poi attaccherò il Brecht: terribile di difficoltà, a quanto ho potuto constatare da qualche tentativo già compiuto. Per di più, tradurlo prescindendo dalla musica mi sembra fatica vana. Potrei intanto cominciare dalle parti in prosa, riservando a più tardi (cioè a quando, rientrato a Milano, potrò ritrovare la mia Dreigroschenoper e avere in prestito da te Mahagonny) le parti poetiche e ritmiche. Mahagonny non è mica per caso tutta musicata, no? A proposito di Dreigroschenoper: io non ho avuto da te l’incarico della traduzione; invece Paolo [Grassi], in una letterina che mi manda acclusa a quella della Carla, parla anche di questo lavoro come definitivamente affidato a me. Io ne sarei fierissimo e felice: ma non c’è già una traduzione, o almeno un rifacimento, di Bragaglia? Attenzione ai diritti29.

Solo in parte, in effetti, quelle ospitate nelle collane di Grassi sono prime traduzioni: molte sono già apparse sulla «Ronda», sul «Convegno», sul «Dramma» o in volumi nel frattempo divenuti rari30. È il caso anche di molte opere di Büchner e Wedekind31, e persino dell’Opera da tre soldi, già tradotta da Alberto Spaini e Corrado Alvaro nel 1930 per la messa in scena 29  Emilio Castellani a Ferdinando Ballo, 6.8.[1944], FAAM, AsReB, b. 5, fasc. 26 (Corrispondenza non identificata). La lettera è firmata «Mino», ed è senz’altro da attribuirsi a Castellani; non reca l’anno, ma con tutta probabilità risale al 1944 (quando la casa editrice chiede al Ministero della Cultura Popolare il permesso di tradurre Undine) e comunque non oltre il 1945 (data della prefazione dell’edizione a stampa dell’Opera da tre soldi, pubblicata nel gennaio 1946). La traduzione di Undine di Friedrich de la Motte Fouqué non fu mai pubblicata. Carla è probabilmente la dedicataria della traduzione del dramma di Ernst Toller Oplà, noi viviamo, conclusa da Castellani nel settembre del 1945 e pubblicata da Rosa e Ballo nel 1946: «A Carla Petrali / in ricordo dell’inverno ’43-’44 / dedica il traduttore». 30  Cfr. A. Modena, Breve storia, cit., pp. 236-237. 31  Per le traduzioni di Büchner cfr. 4. Condizioni necessarie, pp. 192-199. La morte e il diavolo e Il castello di Wetterstein erano stati tradotti da Alberto Spaini per il Teatro degli Indipendenti di Bragaglia, Risveglio di primavera da Giacomo Prampolini per «Il Convegno» di Ferrieri: ma per la sua collana Grassi stesso (ri)traduce La morte e il diavolo e La censura.

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di Bragaglia32. Gli stessi autori tradotti sono per lo più già noti nell’ambiente teatrale, e alcuni ben al di là di esso: Hebbel per esempio, la cui Agnese Bernauer apre la collana teatro, era stato portato in Italia da Slataper nei prezzoliniani quaderni della voce, e più tardi ripreso da Piero Gobetti nelle Edizioni del «Baretti». Grassi cerca le traduzioni dove sa di poterle trovare; solo in una metà dei casi ne commissiona di nuove. Il suo obiettivo non è tanto proporre novità, quanto aggregare un corpus di testi, costituire un repertorio. Le traduzioni, e a maggior ragione quelle nuove, sono pensate ed elaborate appositamente per la messa in scena: «Questa», precisa Emilio Castellani introducendo l’Opera da tre soldi, «è stata fatta avendo di mira principalmente lo scopo di rendere il lavoro senz’altro rappresentabile in lingua italiana»33. Il 20 luglio 1944, a meno di un anno dalla loro pianificazione, i primi dieci volumetti delle sue collane sono già stampati e in breve tempo diventano il maggior successo della casa editrice. Ma l’habitus pragmatico e l’impetuoso attivismo del «balcanico» Grassi si scontrano con l’«elegante aristocratica ironia» borghese di Ballo e del suo socio imprenditore, ai quali egli rimprovera la cronica disorganizzazione: «Da noi c’è un caos assoluto», si lamenta, «c’è un sacco di gente che non combina, ci sono idee, c’è la festa del “faremo” ma non si fa nulla»34. Delle altre ambiziose imprese di Ballo ben poche vanno in porto: il Dizionario si arresta alla fase di gestazione, così come le guide; dei documenti usciranno, profondamente ripensati, appena tre volumi (Lautréamont, Le Corbusier, Grosz), e altrettanti nella collana politica (Borsa, Boneschi, Lenin). Da quando la casa editrice inizia le pubblicazioni alla fine del ’44, vale a dire in circa sei mesi, escono in tutto 16 titoli (contro i 25 delle collane di Grassi) quasi un terzo dei quali risultano relegati nella varia, ovvero fuori dalle politiche di collana. 32  Questa

traduzione, intitolata La veglia dei lestofanti, non è mai stata pubblicata. Castellani, Introduzione, in Bertolt Brecht, L’opera da tre soldi, Rosa e Ballo, Milano 1946, p. XIII. 34  Paolo Grassi a Achille Rosa e Ferdinando Ballo, 16.4.1944: la lunghissima lettera, in cui Grassi espone i motivi del suo malcontento, è riportata integralmente in Un sogno editoriale, cit., pp. 153-156. 33  Emilio

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traiettorie

teatro moderno (1944-1950, 37 titoli) diretta da Paolo Grassi per Rosa e Ballo, Milano (copertine rosso mattone). J. Joyce (C. Linati), Esuli (1918), 1944, n. 1 A. Strindberg (A. Pellegrini), Pasqua (1901), 1944, n. 2 A. Gatto, Il duello (1942), 1944, n. 3 J. M. Synge (C. Linati), Il furfantello dell’ovest (1907), 1944, n. 4 G. Kaiser (B. Revel), Da mezzogiorno a mezzanotte (1916), 1944, n. 5 A. Strindberg (A. Pellegrini), La sonata dei fantasmi (1907), 1944, n. 6 G. Kaiser (B. Revel), Il cancelliere Krehler (1922), 1944, n. 7 A. Strindberg (A. Pellegrini), L’incendio (1907), 1944, n. 8 J. M. Synge (C. Linati), La fonte dei santi (1902) e Cavalcata a mare (1904), 1944, n. 9 S. O’ Casey (C. Linati), Il falso repubblicano (1923), 1944, n. 10 A. Strindberg (A. Pellegrini), Lampi (1907), 1944, n. 11 J. M. Synge (C. Linati), L’ombra della vallata (1902), 1944, n. 12 F. Wedekind (P. Grassi), La morte e il diavolo (1909) e La censura (1908), 1944, n. 13 A. Strindberg (A. Pellegrini), Il pellicano (1907), 1944, n. 14 W. B. Yeats (C. Linati), Tre atti unici (1894-1902), 1945, n. 15 F. García Lorca (C. Bo), Yerma (1934), 1944, n. 16 F. Crommelynck (E. Ferrieri), Il magnifico cornuto (1922), 1944, n. 17 W. Saroyan (G. Guerrieri), I giorni della vita (1939), 1945, n. 18 W. B. Yeats (C. Linati), Lady Cathleen (1892), 1944, n. 19 J. M. Synge (C. Linati), Deirdre l’addolorata (1910), 1944, n. 20 H. von Hofmannsthal (L. Budigna), La leggenda di Ognuno (1911), 1945, n. 21 G. Kaiser (C. Bosco, R. Jacobbi), Giorno d’ottobre (1928), 1946, n. 22 F. Wedekind (E. Pocar), Lo spirito della terra (1893), 1946, n. 23 F. Wedekind (E. Pocar), Il vaso di Pandora (1904), 1946, n. 24 B. Brecht (E. Castellani), L’opera da tre soldi (1927), 1946, n. 25 E. Toller (V. Pandolfi), Uomo massa (1919), 1945, n. 26 E. Toller (E. Castellani), Oplà, noi viviamo! (1927), 1946, n. 27 V. Majakovski (A. Iljina), La cimice (1929), 1946, n. 28 V. Ivanov (A. Iljina, G. Viazzi), Il treno blindato 1469 (1922), 1946, n. 29 G. Kaiser (L. Comencini), Il soldato Tanaka (1940), 1947, n. 30 G. Kaiser (E. Gaipa, R. Jacobbi), L’incendio del teatro dell’opera (1919), 1947, n. 31 J. Cocteau (M. Vallini, J. Cocteau), I parenti terribili (1938), 1947, n. 32 A. Schnitzler (B. Maffi, E. Castellani), Il pappagallo verde (1899), 1948, n. 33 An-Ski (A. Pellegrini), Dibbuk [s.d.], 1948, n. 34 G. Kaiser (C. Bosco, E. Gaipa), Mississippi (1930), 1949, n. 35 V. Bompiani (pref. S. Giovaninetti), Paura di me (1948), 1950, n. 36 V. Majakovski (A. Iljina, D. Paccino), Il bagno (1930), 1950, n. 37

7. un repertorio per il teatro di regia

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teatro (1944-1946, 9 titoli) diretta da Paolo Grassi per Rosa e Ballo, Milano (copertine grigio metallico). F. Hebbel (C. Viana), Agnese Bernauer (1855), 1944, n. 1 G. Büchner (A. Spaini, B. Revel), Woyzeck (1837), 1944, n. 2 A. Čecov (E. Ferrieri), Il gabbiano (1896), 1944, n. 3 G. Büchner (A. Spaini, P. Grassi), La morte di Danton (1837), 1944, n. 4 G. Büchner (A. Spaini, P. Grassi), Leonce e Lena (1836), 1944, n. 5 Th. Heywood (C. Linati), Una donna uccisa con la dolcezza (1603), 1945, n. 6 H. Ibsen (E. Pocar), Quando noi morti ci destiamo (1900), 1945, n. 7 H. Becque (G. Falco), I corvi (1882), 1945, n. 8 E. Verhaeren (G. Viazzi), Le albe (1898), 1946, n. 9

Ciò è dovuto anche al fatto che quattro delle principali collane della casa editrice rimangono orfane proprio mentre i primi volumi vanno in stampa. Dal settembre del 1943 Milano, come tutta l’Italia centro-settentrionale è sotto l’occupazione nazifascista. Nel maggio del ’44 Bonfantini viene arrestato e portato nel campo di concentramento di Fossoli: riesce a saltare dal treno che lo porta in Germania e aderisce alla Repubblica partigiana dell’Ossola. In settembre viene invece arrestato Giolli, che deportato a Mauthausen muore il 6 gennaio del 1945. Grassi resta a Milano e non viene colpito dai nazifascisti. Ma anche la sua attività editoriale, e in particolare la riscoperta dell’espressionismo tedesco, viene via via assumendo il valore simbolico di una forma di Resistenza, come testimonia l’indefessa antifascista Lavinia Mazzucchetti, che fin dal primo dopoguerra aveva informato i lettori italiani del «grido di giustizia e di protesta» degli espressionisti tedeschi: Fu con grata sorpresa e calda comprensione che a Milano, nell’ultimo non dimenticabile periodo della Resistenza, io ascoltai i propositi e le speranze del gruppo di Paolo Grassi, Bruno Revel, Luigi Rognoni, Emilio Castellani, Giorgio Strehler ed altri, i sogni concretati poi dalla piccola tenace impresa editoriale Rosa e Ballo. Quei trentenni impazienti di attuare il proprio Sturm und Drang, riportavano fuori dalle mace-

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traiettorie

rie la nostra giovinezza sconfitta e tendevano istintivamente la mano ai vecchi sodali tedeschi caduti nella prima tappa di una lotta non troppo dissimile35.

5. teatro moderno e la rivoluzione del teatro di regia «Le lotte interne», ha osservato Bourdieu, «sono in qualche modo arbitrate dalle sanzioni esterne»: Una rivoluzione riuscita, in letteratura o in pittura […]. è il prodotto dell’incontro fra due processi, relativamente indipendenti, che avvengono nel campo e fuori dal campo. I nuovi entranti eretici che, rifiutando di inserirsi nel ciclo di riproduzione semplice, fondato sul mutuo riconoscimento degli “anziani” e dei “nuovi”, rompono con le norme di produzione in vigore e deludono le aspettative del campo, il più delle volte possono riuscire a imporre il riconoscimento dei loro prodotti solo grazie a cambiamenti esterni: i più decisivi fra tali cambiamenti sono le fratture politiche che, come le crisi rivoluzionarie, trasformano i rapporti di forza all’interno del campo (così, la rivoluzione del 1848 rafforza il polo dominato, determinando una traslazione provvisoria degli scrittori verso l’“arte sociale”), oppure la comparsa di nuove categorie di consumatori i quali, essendo in sintonia con i nuovi produttori, assicurano il successo dei loro prodotti36.

Nella primavera del ’45 teatro moderno si sta affermando tout court come la collana dell’avanguardia teatrale italiana: «Ormai è talmente vasta che è sciocco farle concorrenza», scrive Grassi all’amico Guerrieri37. Ma è nell’immediato dopoguerra che ottiene la definitiva consacrazione, quando la presa di posizione specifica a favore del teatro di regia viene simbolicamente associata alla presa di posizione politica a favore di una rivoluzione sociale nell’Italia liberata. A questo chiaramente allude Castellani nella sua prefazione all’Opera da tre soldi, presentando il teatro di Brecht: 35  L. Mazzucchetti, Primo ingresso dell’espressionismo letterario in Italia, cit., p. 316. 36  P. Bourdieu, Le regole dell’arte, cit., p. 332. 37  Paolo Grassi a Gerardo Guerrieri, s.d., FAAM, AsReB, b. 3, fasc. 16. Ciò è vero al punto che la collana sopravvivrà perfino alla casa editrice, che cessa le pubblicazioni nel 1947: gli ultimi volumi usciranno per le edizioni La Fiaccola.

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Il drammaturgo deve considerarsi all’avanguardia dell’opera riformatrice e incidere quanto più profondamente può nei modi di un’arte in cui si rispecchia il volto dell’epoca che la determina: attraverso la sua azione egli deve trovarsi in primissima linea nel recare il suo apporto alla trasformazione del “sistema” di questa epoca. Riforma del teatro, dunque, come primo passo sulla via di una rivoluzione economica e sociale; riforma del teatro come rivoluzione nelle idee, presentazione di una vita effettiva e suggerimento di un’altra possibile alle grandi masse di cui il teatro moderno è capace. Criteri nuovi, teatro nuovo: e non già soltanto nella forma, alle radici38.

L’omologia di posizione tra i nuovi entranti nel campo teatrale e i nuovi entranti nel campo politico – i partiti comunista, socialista e azionista – conferisce a Grassi, che dal ’45 diviene critico letterario per il quotidiano socialista «L’Avanti!», il capitale simbolico necessario per realizzare quella trasformazione del teatro a cui un’agguerrita avanguardia lavorava fin dai tempi del Teatro Sperimentale degli Indipendenti di Bragaglia. Le collane teatrali di Rosa e Ballo contribuiscono in misura rilevante all’accumulazione primaria, potremmo dire, del capitale. Attraverso di esse Grassi riesce ad aggregare i nuovi entranti fautori del teatro di regia facendo convergere gli interessi dei singoli in un progetto unitario, e accumulando così il capitale relazionale e simbolico necessario a fondare, nel 1947, il Piccolo Teatro di Milano e quindi la rete dei teatri stabili italiani.

38 

E. Castellani, Introduzione, in Brecht, L’opera da tre soldi, cit., pp. VIII-IX.

Indice delle collane

antichi e moderni (Rocco Carabba) 28, 172, 183, 187, 194, 218-219, 233, 241, 243 biblioteca amena (Treves) 28, 31, 218, 240, 243-245, 252, 254-255, 259 biblioteca di cultura filosofica (Einaudi) 140 biblioteca di cultura moderna (Laterza)  96, 175, 184-185, 189, 193 biblioteca di energie nove (Energie Nove)  216, 219 biblioteca europea (Frassinelli) 31, 93, 236, 249-251, 263, 265, 276 biblioteca internazionale (Bietti) 259, 261 biblioteca moderna (Baldini & Castoldi) 242 biblioteca moderna mondadori (Mondadori) 123 biblioteca nazionale (Le Monnier) 29, 74, 79-81 biblioteca romantica (Mondadori) 31, 87, 132, 245-247, 251-252, 262, 276 biblioteca romantica (Sonzogno)  31, 245 biblioteca romantica economica (Sonzogno)  246, 258 biblioteca romantica illustrata (Sonzogno)  246, 258 biblioteca romantica mondiale (Sonzogno) 258 biblioteca romantica tascabile (Sonzogno) 246

biblioteca sansoniana straniera (Sansoni)  74, 85-86, 92, 102, 247 biblioteca scelta di opere francesi tradotte in lingua italiana (Silvestri) 64 biblioteca scelta di opere greche e latine tradotte in lingua italiana (Silvestri)  64 biblioteca scelta di opere italiane antiche e moderne (Silvestri)  64 biblioteca scelta di opere tedesche tradotte in lingua italiana (Silvestri)  29, 63-64, 74 biblioteca universale (Sonzogno)  28, 74, 82, 83, 99, 215, 219, 258 biblioteca universale rizzoli (Rizzoli)  75, 99, 208 bibliothèque de la pléiade (Gallimard) 132 classici contemporanei italiani (Mondadori)  122, 132 classici contemporanei stranieri (Mondadori)  122, 132 classici del ridere (Formiggini)  242 classici della filosofia moderna (Laterza) 193 classici moderni (bur)  75, 150-151 collana leone ginzburg (De Silva) 93 collezione dei capolavori (Facchi) 74 collezione dei grandi autori (Sonzogno)  258, 261 collezione di teatro (Einaudi) 32, 204, 280

302 collezione europea (Rosa e Ballo) 286 collezione politica (Rosa e Ballo) 286 corona (Bompiani) 23, 89, 100, 132133 cultura dell’anima (Rocco Carabba) 28, 193, 219, 241 documenti d’arte contemporanea (Rosa e Ballo)  286-287 edizioni d’arte (Piero Gobetti Editore) 216 everyman’s library (J. M. Dent & Sons)  99, 194 i capolavori sansoni (Sansoni) 75, 102, 119-120 i classici (Garzanti)  75, 144 i coralli (Einaudi)  98 i garzanti per tutti (Garzanti)  141 i grandi classici stranieri (Sansoni)  75, 102 i grandi libri (Garzanti)  73, 75, 140141, 143, 147, 149 i grandi scrittori stranieri (utet) 74, 75, 92-95, 102, 118, 190, 247, 259 i libri della spiga (Garzanti)  75, 144, 146 i libri gialli (Mondadori) 31, 87, 262, 265 i meridiani (Mondadori) 29, 73, 75, 121, 123, 132-134, 136, 138, 141, 144, 148-149, 151 i migliori romanzi del nostro tempo (Barion)  260-261 i millenni (Einaudi)  98, 99, 106, 122, 132, 133, 144 i romanzi della guerra (Mondadori) 262 i romanzi della palma (Mondadori) 262-263, 272 i romanzi della vita moderna (Bemporad)  256, 258, 261-263 il genio russo (Slavia) 31, 244, 247, 251-252, 254, 262-263

indice delle collane il genio slavo (Slavia)  244 il libro per tutti (Edizioni della Voce)  193, 219 il nobile castello (De Silva)  74, 9293, 102, 108 il pensiero (Rosa e Ballo)  287 il teatro del novecento (Treves) 292 il tornasole (Mondadori)  122 insel-bücherei (Insel)  179, 182 la nuova libreria (Einaudi)  108, 110 la nuova società (Einaudi)  110 le voci del mondo (Sansoni)  75 letteraria (Bompiani) 31, 265, 269270, 273, 276 letterature moderne (utet) 184, 189-190 libri per bambini (Rosa e Ballo)  287 lo specchio (Mondadori) 122, 126, 134 maestri e compagni (De Silva)  93 medusa (Mondadori)  31, 87, 122, 262, 264, 269, 272 meridiana (Sansoni)  99 moderni (Taddei & Figli)  219 narratori nordici (Sperling & Kupfer)  31, 247-249, 251-253, 263, 267 narratori stranieri tradotti (Einaudi) 259 nuova biblioteca amena (Treves)  255-257, 261-262 nuova collezione di letteratura (Mondadori) 122 nuova collezione europea (Edizioni del Baretti)  216 nuovi scrittori stranieri (Mondadori) 122 occidente (Slavia)  249-251, 263, 265 opere complete di jack london (Modernissima) 252 opere di luigi einaudi (Piero Gobetti Editore) 216 opere di vincenzo errante (Sansoni) 74, 89-90

303

indice delle collane oscar (Mondadori)  75, 122, 134, 141, 149, 151

teatro straniero (Treves)  280 testi-pretesti (Rosa e Ballo)  287

pandora (Sperling & Kupfer)  264 pantheon (Bompiani) 132-133, 189, 286-287, 291 piccola biblioteca adelphi (Adelphi) 208 piccola biblioteca einaudi (Einaudi) 110 piccola biblioteca scientifico-letteraria (Einaudi)  109 polemiche (Piero Gobetti Editore) 216

universalbibliothek (Reclam) 99, 208 universale economica (Colip) 99, 109 universale economica (Feltrinelli)  75, 109, 118, 141, 149 universale einaudi (Einaudi) 75, 99102, 106-107, 109, 118

quaderni della voce (Quattrini/Libreria della Voce) 28, 193-194, 216, 241, 295 quaderni di rivoluzione liberale (Piero Gobetti Editore) 216 romanzi polizieschi (Sonzogno) 262 saggi (Einaudi)  103-104, 109 scrittori d’italia (Laterza)  171, 193 scrittori del baretti (Edizioni del Baretti) 216 scrittori di tutto il mondo (Modernissima)  31, 249, 252-255, 259, 261-262, 264, 276 scrittori italiani e stranieri (Gino Carabba)  192, 194-196, 218 scrittori nostri (Rocco Carabba) 193 scrittori stranieri (Garzanti)  90 scrittori stranieri (Laterza) 28, 85, 90, 170 scrittori stranieri moderni (Treves) 31 supercoralli (Einaudi)  98 tascabili einaudi (Einaudi) 151 teatro (Piero Gobetti Editore) 216 teatro (Rosa e Ballo) 32, 280, 287, 290, 292, 295, 297 teatro contemporaneo internazionale (Kantorowicz)  280 teatro moderno (Rosa e Ballo) 32, 204-206, 280, 287, 296, 298 teatro straniero (Libreria Editrice)  280

Indice dei nomi

Accame Lanzillotta, Maria  216 Acerbi, Giuseppe  49 Adler, Paul  232 Adorno, Theodor Wiesengrund  78, 113114, 129 Agosti Garosci, Cristina  145 Aguzzi, Luciano  55 Alain-Fournier (Henri-Alban Fournier) 264 Albergoni, Gianluca  36, 44 Alberti, Alberto Cesare  202 Alberti, Guglielmo  229 Albertini, Alberta  253 Albertini, Alberto  222 Alciati, Roberto  36 Aleramo, Sibilla  31, 247, 252-254, 267 Alessandrone Perona, Ersilia  215-216 Alfero, Giovanni Angelo  107, 165, 176, 186 Alfieri, Vittorio  46, 186, 215 Allason, Barbara 74-75, 77, 83-84, 9297, 102, 107-108, 111, 113, 117118, 129, 150-152, 186, 227, 248, 250, 263-264, 267 Alonge, Roberto  200 Alvaro, Corrado  204, 247, 294 Amendola, Giovanni  167 Amoretti, Giovanni Vittorio  73, 75, 77, 83-84, 93, 95, 102, 114, 118-119, 138, 141, 149-152, 165, 168, 182, 188-192, 209, 227-229 Anceschi, Luciano  284 Anders, Günther  115 Anderson, Sherwood  249-250 Andreazza, Fabio  25, 27, 36 Andreev, Leonid  195, 216, 219

Andres, Juan  47 Angelus Silesius (Johann Scheffler) 253 Angermayer, Fred Antoine  202 Aniante, Antonio  201 Ansaldo, Giovanni  221-222, 227-228 Antoine, André  201 Antonello, Anna  26, 37, 248 Antoni, Carlo  288 Antonicelli, Franco 77, 83, 92-94, 97, 108, 118, 216, 236, 249-250, 285 Appia, Adolphe  201 Arconati Visconti, Costanza  50, 54, 6263 Argan, Giulio Carlo  284 Arrivabene, Giovanni  50-57, 62 Ascoli, Graziadio Isaia  160-162, 166 Ashford, John  269-270 Asor Rosa, Alberto  137 Auerbach, Berthold  243 Austen, Jane  246-247 Avanzi, Giannetto  44 Azorín (José Martínez Ruiz)  293 Babel’, Isaak  93, 250 Baioni, Giuliano  141 Baldacci, Luigi  197-198 Baldini, Anna  17, 25-26, 28-29, 37, 83, 158, 172, 182-183, 187, 193-195, 240-241, 269 Baldini, Antonio  31, 252-253, 267, 271 Balestrini, Nanni  109 Ballo, Ferdinando 32, 205, 207, 280299 Balzac, Honoré de  141, 241, 246, 259 Bampi, Massimiliano  36 Banfi, Antonio  103

306 Banti, Anna  254, 264 Baranelli, Luca  36, 105, 139 Barbaro, Umberto  198, 201, 203, 254 Barberis, Walter  36 Baretti, Giuseppe  213 Baroja, Pio  224 Barrale, Natascia  36 Bartoli, Adolfo  166 Bartolini, Luigi  269-270 Baseggio, Cristina 74, 84, 248-249, 259, 264 Basevi, Anton Giulio  48 Bassani, Giorgio  128 Bassnett, Susan  13 Battaglia, Gacinto  42, 59 Baum, Vicki  257-258, 263, 266, 271 Baumgarten, Alexander  88 Bazlen, Roberto  100 Becher, Johannes R.  232 Beer, Michael  43 Belardelli, Giovanni  58 Bellini, Barbara Julieta  36 Belloc, Hilaire  224 Bellocchio, Piergiorgio  77, 125 Belski, Franca  48, 57 Bemporad, Enrico  257-258 Benaglia, Cecilia  36 Benco, Silvio  123, 213, 246 Ben-Ghiat, Ruth  83 Benjamin, Walter 105, 112-113, 131, 137, 144-145 Benn, Gottfried  232 Berardinelli, Alfonso  125 Berchet, Giovanni  45, 67, 195, 246 Berengo, Marino  59, 64 Berg, Alban  207, 209, 284, 287 Bergemann, Fritz  180, 206 Berghaus, Günter  200 Bernanos, George  253 Bernardin de Saint-Pierre, Jacques-Henri 246, 255-256 Bernari, Carlo  254 Berni, Bruno  36 Bertola de’ Giorgi, Aurelio  47, 64 Bethge, Hans  232 Betz, Harry  248 Bevere, Sandra  202 Bevilacqua, Giuseppe  96

indice dei nomi Biagi, Daria  26, 28-29, 37, 74, 83, 158, 172, 182-183, 187, 193-195, 242, 246, 269 Biagi, Giuseppe  74, 80, 84, 97, 107 Biagi, Guido  246 Bibbò, Antonio  36 Billiani, Francesca  12, 35-36 Birolli, Zeno  123 Bistolfi, Marina  208 Blasco Ibáñez, Vicente  224, 258-259 Blass, Ernst  232 Bloch, Ernst  115 Bo, Carlo  284, 287, 289, 293 Boine, Giovanni 168, 185, 190, 194, 215 Boito, Arrigo  29, 80 Böll, Heinrich  146 Bollati, Giulio  77, 110, 118, 151 Bolza, Giovanni  65 Bompiani, Valentino  240, 269-276, 296 Bonavita, Riccardo  25 Boner, Eduardo Giacomo  163-166 Boneschi, Mario  232 Bonfantini, Mario 282, 285-286, 288, 290 Bonfatti, Emilio  144 Bonghi, Ruggiero  159 Bonifazio, Massimo  36 Bontempelli, Massimo 31, 192, 196201, 203, 209, 222, 224, 247, 267, 269-270, 274, 282 Bontempelli, Pier Carlo  36, 157 Borgese, Giuseppe Antonio 26, 28-29, 31-32, 56, 85, 87, 90, 96-99, 123, 132, 158, 164-176, 183, 185-188, 194, 209, 215, 219, 221, 223, 233, 239-241, 243, 245-247, 249, 251, 261, 269-270, 282 Borgese, Maria  254 Borsa, Mario  232 Boschetti, Anna  11, 17-18, 20, 25, 36, 132, 189, 280 Bottacchiari, Rodolfo  186, 213 Bottaro, Emanuele  17 Bourdieu, Pierre 9, 16-25, 28, 30, 44, 72-73, 94, 97, 152, 181, 224, 250, 298 Bourget, Paul  224, 258-259

indice dei nomi Bragaglia, Anton Giulio 30, 32, 182, 192, 196-199, 201-205, 209, 224, 229-230, 289-295, 299 Bravermann, Harry  139 Brecht, Bertolt  29-30, 78, 99, 105, 111114, 116, 118, 120-121, 124-125, 128-129, 131-132, 145, 147, 196, 204-205, 207-209, 230, 243, 280, 287, 291-295, 298-299 Brentano, Bettina  186, 255-256 Brentano, Clemens Maria  159, 186 Brioschi, Franco  214 Brocchi, Virgilio  261 Brod, Max  252, 264 Bronnen, Arnolt  227, 291 Brunngraber, Rudolf  269-275 Brusotti, Lamberto  267 Büchner, Georg  30, 35, 179-210, 280, 287, 292, 294, 297 Büchner, Ludwig  179 Büchner, Wilhelm  170, 172 Buck, Pearl S.  261, 264 Bunin, Ivan  195 Buoso, Antonio  72, 84, 107 Bürger, Gottfried August  45, 67 Bürger-Cori, Alba  190 Busch, Walter  232 Busoni, Ferruccio  284 Cadioli, Alberto  12, 23 Calasso, Roberto  14, 208 Calvino, Italo  23, 104-105, 128, 134, 142 Cambi, Fabrizio  36, 96, 143 Campa, Odoardo  290 Cancarini, Margherita Pietroboni  51 Canetti, Elias  140 Cantarutti, Giulia  71 Cantimori, Delio  106, 288, 292 Cantoni, Remo  284 Cantoni, Renzo  284 Cantù, Cesare  48, 52, 65 Čapek, Karel  202 Capponi, Gino  51, 57 Caprin, Giulio  246 Caproni, Giorgio  142 Carabba, Gino  182, 192, 194, 195, 209, 218 Carabba, Rocco  172, 194, 215, 219, 241

307 Caragiale, Ion Luca  195 Caramagno, Alida  36 Caramella, Santino  213, 227-228, 248249 Cardarelli, Vincenzo  122, 185, 222, 271 Carducci, Giosuè  96, 163, 166, 234 Carli, Maddalena  36 Carlyle, Thomas 5, 42-43, 56, 59-61, 64-65, 74, 76, 79, 152 Carmassi, Carlo  43-46 Carpi, Umberto  59 Carrà, Carlo  284 Carvalho, Ronald de  196 Casalegno, Andrea 6, 36, 75, 78, 84, 108, 139-144, 147-150, 152 Casanova, Pascale  12, 23, 81 Casella, Alfredo  282, 284 Cases, Cesare 29, 34-35, 71, 73, 75, 77-78, 83, 100, 103-121, 124, 126, 128-131, 135-146, 148-149, 151, 272 Casiraghi, Stella  279 Casorati, Felice  283 Cassola, Carlo  134 Castaldo, Achille  203 Castellani, Emilio  205, 284, 293-297 Castellari, Marco  35, 192 Cataldi, Pietro  36 Cavallotti, Felice  259 Cavazzuti, Anna Lisa  36 Cazzaniga, Gian Mario  49 Cazzola, Roberto  36 Cecchi, Emilio  31, 122, 185, 194, 222, 251, 255-256, 272, 288-289, 292 Čechov, Anton  202, 244, 246, 256-257, 259, 261, 293 Celati, Gianni  142 Cendrars, Blaise  197 Cerati, Roberto  36 Cervantes, Miguel de  82, 170, 246, 288 Ceserani, Remo  14, 142 Cetrangolo, Enzio  84, 96 Chamisso, Adalbert von  186, 190 Charle, Christophe  28, 34, 53, 55, 288 Checchi, Eugenio  74, 80-81, 113 Cherchi, Grazia  77, 125 Chesterton, Gilbert Keith  224 Chevrel, Yves  18

308 Chiarloni, Anna  36, 110 Chiesa, Francesco  246 Chiesa, Tiziano  36 Chiusano, Italo Alighiero 75, 78, 146149 Ciampoli, Domenico  194-195, 219 Cirillo, Silvana  203 Claudel, Paul  193 Cocteau, Jean  30, 205, 296 Colette, Sidonie Gabrielle  262, 264 Collodi, Carlo  257 Comencini, Luigi  284, 296 Comte, Auguste  53 Confalonieri, Federico  49-50, 52, 256 Conrad, Joseph  224, 249-250, 258-260 Constant, Benjamin  53 Copeau, Jacques  201 Cordelia (Virginia Tedeschi-Treves)  241 Costa, Orazio  291 Costagli, Simone  36, 251 Costazza, Alessandro  35, 192 Cousin, Victor  53, 55 Craig, Gordon  201 Croce, Benedetto 14, 23, 28-29, 73, 77, 85, 89-90, 92, 95-97, 101, 104, 106-107, 113-114, 136, 144, 150, 152, 158, 164-166, 168, 170-176, 183-185, 187, 189, 191, 193-194, 209, 215, 217, 221-223, 236, 241, 282 Culeddu, Sara  36 Curran, Eileen M.  42 Curtius, Ernst Robert  227-229, 236 Curwood, J. O.  258 Cusatelli, Giorgio  78, 144 D’Agostini, Maria Enrica  41 D’Agostino, Nemi  131 D’Amico, Fedele  283 D’Amico, Silvio 204-205, 209, 289, 291-292 D’Annunzio, Gabriele 90, 122, 187, 200, 241, 254, 259, 261, 282 D’Entrèves, Alsessandro  229 D’Intino, Franco  36 D’Orsi, Angelo  97, 236 D’Ovidio, Francesco  162 Da Verona, Guido  252, 253, 257

indice dei nomi Dall’Oglio, Enrico  264 Dallapiccola, Luigi  282 Dalmas, Davide  25, 36 Dandolo, Milly  255 Däubler, Theodor  232 Daudet, Alphonse  246, 258 Dàuli, Gian  31, 252-255, 259, 265 Dauthendey, Max  232 Davico Bonino, Guido  200 De Amicis, Edmondo  241 De Bosis, Lauro  252-253 De Carlo, Giancarlo  289 De Cespedes, Alba  254 De Federicis, Lidia  142 De Filippis, Mavì  124 De Gubernatis, Angelo  158, 179 De Lollis, Cesare 35, 157-159, 163165, 169-176, 213, 236 De Lucia, Stefania 26, 28-29, 37, 83, 158, 164, 172, 182-183, 187, 193195, 242, 284 De Michelis, Ida  65, 71 De Ruggiero, Ettore  170 De Sanctis, Francesco 11, 76, 92, 95, 98-99, 106, 118, 158, 163, 215 Debenedetti, Giacomo 23, 213, 216, 239, 240, 282 Debussy, Claude  282 Defoe, Daniel  246 Dehmel, Richard  232-233, 235 Del Zoppo, Paola  36, 71 Deledda, Grazia  31, 246-247, 257 Dèttore, Ugo  254, 269-270, 285 Di Battista, Flavia  36 Dickens, Charles  259 Döblin, Alfred  29, 32, 196, 209, 253, 266-268, 273 Dolfini, Giorgio  208 Dorowin, Hermann  103, 208 Dos Passos, John  253, 273 Dostoevskij, Fëdor  141, 244-246, 259 Dubois, François  53 Dumas, Alexandre  246, 258-259, 274275 Dylan, Bob  14 Eckstein, Ernest  194, 241, 258 Eco, Umberto  77, 109, 120

indice dei nomi Ehrencron Müller, Astrid  256 Ehrenstein, Alfred  232 Einaudi, Giulio  77, 106, 110, 140, 285 Einaudi, Luigi  132, 215, 216 Eliot, George  247 Eluard, Paul  128 Emanuelli, Enrico  282, 289 Ernst, Max  283 Errante, Vincenzo 74, 75, 77, 84, 87, 89-97, 101-102, 107, 114, 119120, 127-128, 138, 151-152, 186, 194, 231, 235 Erskine, John  269-270 Espagne, Michel  12 Esposito, Edoardo  35-36 Even-Zohar, Itamar  12-13, 15-17, 24 Fabietti, Ettore  259 Falke, Gustav  232 Fallada, Hans  207, 262, 264, 266, 271 Falqui, Enrico  271 Fancelli, Maria  96 Fanon, Frantz  120 Fantappiè, Irene  26, 28-29, 37, 83, 158, 172, 182-183, 194-195, 242 Farinelli, Arturo 31, 85, 92-94, 97, 100, 119-120, 158, 164-169, 171, 175, 184-190, 194, 209, 215, 221223, 225-227, 229, 235, 247, 259 Fasola, Carlo  48, 160, 166, 169 Faulkner, William  122 Fedin, Konstantin  245 Ferme, Valerio  12 Ferrando, Anna  35-36, 240 Ferrari, Fulvio  36 Ferrario, Pompeo  45 Ferrata, Giansiro 103, 149, 284, 286287, 293 Ferretti, Gian Carlo  23, 122, 140 Ferrieri, Enzo 224, 251, 282, 2913294, 296-297 Fertonani, Roberto  71, 124 Festa, Nicola 159, 163, 170, 172-174, 246 Feuchtwanger, Lion  253, 262, 264, 266-267 Filippi, Paola Maria  36, 71, 81 Filippini, Enrico  77, 109, 208

309 Finocchi, Luisa  36 Flaim, Michele  179 Foà, Augusto  160 Foà, Luciano  104 Fofi, Goffredo  110, 125 Fontane, Theodor  209 Fonvizin, Denis  195 Forte, Luigi  103, 110, 117 Fortini, Franco  29, 34, 73, 75, 78, 84, 103, 110-111, 113, 116-117, 120138, 141-145, 148-152, 251 Foscolo, Ugo  47-51, 58, 79, 246 Fouqué, Friedrich de la Motte  294 Fourier, Charles  55 Fracchia, Umberto  221-222, 246, 261 France, Anatole  255-256 Franchetti, Augusto  74 Frank, Anna  120 Frank, Leonhard  248, 257-258 Franzos, Karl Emil  179-180 Frassinelli, Carlo  250, 285 Frateili, Arnaldo  269-270 Freuchen, Peter  258 Friedmann Coduri, Teresita  168 Friedmann, Sigismondo 160-165, 168, 171, 175, 180-181 Fubini, Mario  224 Fuhrman, Michaela Eva  213 Fukari, Alexandra  18 Gabetti, Giuseppe  165, 175, 186, 246, 255-256 Gadda, Carlo Emilio  284, 288-289 Gado, Roberta  36 Gallarati Scotti, Tommaso  252-253 Galli, Matteo  36, 160, 169 Gallo, Niccolò  111 Galsworthy, John  224, 262, 264 Ganni, Enrico  36 Garboli, Cesare  111 García Lorca, Federico 30, 205, 293, 296 Garzanti, Aldo  90, 264 Garzanti, Livio  78, 140 Gatti, Guido M.  282 Gatto, Alfonso  283-284, 286-288, 296 Gautier, Théophile  256-257 Gavazzeni, Gianandrea  283, 286

310 Gazzino, Giuseppe  42, 74, 80, 83 Gennaro, Rosario  36 Gentile, Federico  99, 102 Gentile, Giovanni 85, 90, 173, 184, 215, 221, 254 Gentile, Luisa  36 George, Stefan  213-214, 224, 225, 227229, 232-236 Gervinus, Georg Gottfried  114 Gessner, Salomon  45, 64, 80 Giacobbe, Olindo  231 Giannini, Alfredo  170 Gianturco, Elio 214, 225, 227-228, 231-235 Gianturco, Emanuele  231 Giardini, Cesare  225, 263-264 Gide, André  224, 262, 264 Gigli, Lorenzo  264, 169-270 Ginzburg, Leone  93, 98, 213, 236, 244 Giolli, Raffaello  283, 286-288, 290, 297 Giordani, Igino  228 Giudici, Giovanni  125 Giuliano, Balbino  215 Glaeser, Ernst  257-258, 272 Gnoli, Domenico  108 Gnoli, Tommaso  87, 90, 223, 246 Gobetti, Ada  219, 236, 244, 250 Gobetti, Carla  226 Gobetti, Piero 30, 35, 92-93, 97, 108, 185, 189, 205, 211, 213-236, 243244, 249, 254, 265, 282-283, 295 Goethe, Johann Wolfgang 26-27, 29, 34, 39, 41-50, 52-68, 71, 73, 75, 80, 81-85, 87-90, 93, 95-98, 101102, 106-108, 111-115, 117-118, 120-121, 123-124, 128-130, 134, 136-137, 139-140, 142-150, 159, 165, 169-170, 172, 183, 187, 191, 194-195, 223, 225, 231, 234-235, 241, 246-247, 255-256, 259 Goetz, Curt  202 Gogol’, Nikolaj  195, 244, 246 Goldmann, Lucien  103 Goll, Francesca  36 Goll, Yvan  197, 293 Gómez de la Serna, Ramón  224 Gončarov, Ivan Aleksandrovič  195, 245, 247

indice dei nomi Gor’kij, Maksim  259 Gozzano, Guido  282 Grabbe, Christian Dietrich  189 Graf, Arturo  162-164 Gramsci, Antonio 98, 104, 109, 114, 142, 185, 214-215, 217, 226 Grassi, Paolo 30, 32, 204-206, 209, 231, 277, 280, 281, 284, 286-287, 289-299 Green, Julien  122 Gregorovius, Ferdinand  139 Grey, Zane  258 Griboedov, Aleksandr  195 Grillparzer, Franz  92, 99, 161 Grimmelshausen, Han Jakob Christoffel 209 Gromo, Mario  97, 226 Grossi, Tommaso  63 Grosz, Georg  295 Grünanger, Carlo  103 Grüning, Hans-Georg  157 Guerrazzi, Francesco Domenico  58 Guerrieri, Gerardo  205, 208, 280, 291292, 296, 298 Guerrieri-Gonzaga, Anselmo  80, 84 Guglieri, Francesco  36 Guizot, François  53 Gundolf, Friedrich  224, 228 Gutman, Rachele  236, 244 Hall, Radclyffe  253 Hamsun, Knut  249, 250-259 Harden, Maximilian  180, 228 Hardy, Thomas  134 Hasenclever, Walter  217, 232, 291 Hauptmann, Gerhart  159, 179, 226, 228, 248, 258, 263 Hausenstein, Wilhelm  180 Havemann, Robert  121, 131 Hawthorne, Nathaniel  246 Hebbel, Friedrich  29, 92, 161, 180-181, 185, 187-188, 191, 194, 205, 225226, 235-236, 241, 280, 295, 297 Heilbron, Johan  18, 20 Heimburg, Wilhelmine von  194 Heine, Heinrich  29, 87, 92, 111, 159, 187, 194, 259 Hemingway, Ernest  98, 122

indice dei nomi Henry, O. (William Sydney Porter)  255256 Herczeg, Ferenc  257, 269-270 Hermans, Theo  13 Hesse, Hermann  122, 232, 248-249, 262, 264 Heubeck, Lothar  41, 50, 54, 65 Heym, Georg  179, 232 Heynicke, Kurt  232 Heyse, Paul  154, 194, 258 Hitler, Adolf  89, 207, 273 Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus  29, 92, 186-187, 192-193 Hoffmeister, Gerhart  48 Hofmannsthal, Hugo von  179, 205, 232, 293, 296 Hohn, Adolfo  162 Hölderlin, Friedrich  29, 91-92, 111, 127, 183, 190, 195, 229, 247 Hollaender, Felix  258, 266 Hopfen, Hans  159, 243 Huch, Friedrich  258 Huch, Ricarda  248, 255 Hughes, Richard  255-256 Huxley, Aldous  262, 264 Imbriani, Vittorio  48, 81-82, 96 Inama, Virgilio  162 Invernizio, Carolina  259 Isselstein, Ursula  110 Jacob, Heinrich Eduard  248 Jacob, Max  197 Jacobbi, Ruggiero  197, 205, 290-291, 296 Jacobsen, Jens-Peter  246, 255-256 Jahier, Piero  193-194, 215 Jahnn, Hans Henny  179 James, Henry  255-256 Jaspers, Karl  115 Jehring, Rudolf von  231 Jelusich, Mirko  269-271 Jollos, Waldemar  248 Joyce, James  30, 93, 122, 133, 197, 205, 213, 224, 240250, 282, 296 Jurt, Joseph  18, 36

311 Kafka, Franz  25, 29, 32, 93, 122, 133, 141, 148, 196, 209, 240-241, 243, 251, 266-268 Kaiser, Georg  197, 202, 213, 229, 293 Kālidāsa  195 Kandinskij, Vassilij  283 Kasack, Hermann  232 Kästner, Erich  32, 209, 264, 266-271, 276 Kaus, Gina  270-271 Kayser, Rudolf  232 Kayyâm, Omar  195 Keller, Gottfried  92, 209 Kellermann, Bernhard  259 Kerbaker, Michele  92, 162, 164 Keyserling, Hermann  227-228 Kipling, Rudyard  260 Kippenberg, Anton  180 Klabund (Alfred Henschke)  248, 259 Klinger, Maximilian  292 Klopstock, Friedrich Gottlieb  45, 64 Koepke, Wulf  180 Kokoschka, Oskar  293 König, Christoph  157 Körmendi, Ferenc  269-270, 273, 276 Kotzebue, August  45 Küfferle, Rinaldo  244-246 Kunz, Fabien  36 Kuprin, Aleksandr  193, 219, 257 La Fayette, Gilbert du Motier marchese de 50, 53 La Penna, Daniela  35-36 Lacretelle, Jacques de  262, 264 Laforgue, Jules  202 Lagorio, Gina  78, 140 Lamberti, Mario  234 Lampato, Francesco  57 Lancaster, Joseph  51 Landau, Paul  179-180, 187 Landi, Patrizia  132-133 Landolfi, Tommaso  251, 288 Landsberg, Ernst  190 Larreta, Enrique  249-250 Laterza, Giovanni  97, 168, 241 Lauesen, Marcus  262, 264 Lautréamont (Lucien Ducasse)  295 Lavenia, Vincenzo  36

312 Lawrence, David Herbert 122, 141, 256 Le Corbusier (Charles-Édouard Jeanneret Gris)  295 Leiser, Ruth  121 Lenau, Nikolaus  159, 186, 231 Lenin, Vladimir Il’ič Ul’janov 295 Lenz, Jakob Michael Reinhold  51 Lenzini, Luca  36, 125 Leone de’ Sommi  293 Leonov, Leonid  245 Leopardi, Giacomo  47, 79, 111 Lermontov, Michail  195 Leskov, Nikolaj  195 Levi, Carlo  282-283, 285, 386 Levi, Primo  103 Lewis, Sinclair  253, 263 Liechtenstein, Alfred  232 Liliencron, Detlef von  232-233 Linati, Carlov193, 255-256, 296-297 Lloyd Wright, Frank  283, 288 Lo Gatto, Ettore  26, 219, 244-245 Loerke, Oskar  232 Loève-Veimars, François-Adolphe  48 Loewy, Emanuele  165 Lombez, Christine  18 London, Jack  252, 258-259 Longhi, Roberto  132 Ludwig, Emil  181 Lukács, György 73, 77-78, 103-104, 111-114, 116-121, 129-131, 136, 138-140, 142, 144-14149, 151152, 185 Lüsebrink, Hans-Jürgen  34, 53 Luzi, Mario  128, 134, 287 Luzzatto, Sergio  11 Maffei, Andrea 42, 63, 74, 76, 78-83, 86, 90, 92, 113, 128, 138 Maffi, Bruno  284, 296 Maffi, Mario  246 Magerski, Christine  180 Magris, Claudio  75, 199-120, 144, 208 Maione, Italo  186, 227, 235 Majakovskij, Vladimir  205, 296 Malamani, Vittorio  47 Malara, Francesca  200 Malipiero, Gian Francesco  288

indice dei nomi Mallarmé, Stéphane  233, 287 Malraux, André  273, 276 Manacorda, Giorgio  46-47 Manacorda, Guido  74-75, 77, 83-97, 101-102, 107, 113, 121, 129, 138, 150-152, 160, 166-169, 171, 175, 187, 247 Manganelli, Giorgio  134 Mangoni, Luisa  97, 100, 108-110 Mann, Heinrich  262, 264 Mann, Klaus  202 Mann, Thomas  29, 75, 98, 111, 113114, 122, 141, 148, 150, 183, 193, 196, 209, 241, 243-244, 247, 248249, 253, 255-256, 259-260, 265267 Mansfield, Katherine  255-256 Mantelli, Alberto  207, 284 Manzoni, Alessandro 49, 51, 53-54, 56-58, 68, 76, 79, 115 Marcazzan, Mario  42, 107 Marcenaro, Giuseppe  222 Marinetti, Filippo Tommaso 198, 201, 221, 230 Marlitt, E. (Eugenie John)  243 Marri Tonelli, Marta  63 Martinez, Carlo  36 Martini, Fausto Maria  246 Martini, Ferdinando  246 Martinola, Giuseppe  54 Masi, Edoarda  139 Masino, Paola  269-270 Masson, Jean-Yves  18 Matarelli, Alberto  257 Mattenklott, Gert  75, 144-145, 147 Maupassant, Guy  de 246, 256-257 Mauriac, François  255-256, 263 Maurois, André  262-264 Mayer, Hans  111, 113 Mazzini, Giuseppe 27, 47-49, 54, 56, 58-60, 65-67, 76, 79, 83, 88, 96 Mazzucchetti, Lavinia 12, 26, 31, 45, 75, 102, 195, 213, 226-230, 247249, 264-265, 271-272, 293, 297298 Meiners, Christoph  64 Mejerchol’d, Vsevolod  201 Melato, Maria  225

indice dei nomi Meldolesi, Claudio  208, 289-290 Melville, Hermann  93, 141, 250 Mengs, Rapahel  64 Menzel, Wolfgang  48, 55-56, 61 Merežkovskij, Dmitrij  260 Meyer-Lübke, Wilhelm  190 Meyrink, Gustav  195, 244 Miccinesi, Mario  136 Miglio, Camilla  36 Mila, Massimo 111, 259, 282-285, 288, 291 Milani, Mila  36 Milton, John  50, 80 Miró, Joan  224 Mirza Shafi Vazeh  195 Mittner, Ladislao  111, 114, 119 Mix, York-Gothart  53 Modena, Anna  279, 283, 294 Molière (Jean-Baptiste Poquelin)  195 Mondadori, Alberto 122, 123, 124, 131-132, 149 Mondadori, Arnoldo 86-87, 91, 246, 261, 263-263 Montale, Eugenio 78, 124, 126-127, 234, 283, 287, 289 Montani, Giuseppe  57 Montano, Lorenzo  255-256 Monti, Augusto  97, 216, 221 Monti, Vincenzo  47, 49-51, 81 Morand, Paul  262, 264 Moravia, Alberto  134, 198, 240 Moretti, Marino  246-247, 262 Mörike, Eduard  246 Morra di Lavriano, Umberto  215, 222, 224 Morreale, Giuseppe  244 Moscardelli, Nicola  196, 244 Motta, Felice  71 Müller, Georg  225 Müller, Giuseppe  162 Munari, Tommaso  98, 109 Murger, Henri  246 Muscetta, Carlo  99-101, 104, 107, 111, 288 Musil, Robert  105, 131 Mussolini, Benito  89-90, 92, 152 Muzzi, Nino  71, 152

313 Nardon, Walter  36 Necco, Giovanni 226-227, 234, 256, 267 Neera (Anna Zuccari Radius)  259 Negri, Ada  246 Nelva, Daniela  36 Nemi, Orsola  291 Nemirovič-Dančenko 201 Nencini, Elisabetta  36 Nerval, Gérard de  58, 60 Neumann, Alfred  253 Nietzsche, Friedrich  29, 92-93, 99-100, 111, 114, 144, 187, 191, 194, 209, 225, 229, 232, 233, 236, 241 Nordau, Max  241 Novalis (Friedrich von Hardenberg)  29, 60, 100, 141, 183, 185-187, 191, 194, 236, 241 Novati, Francesco  163 Noventa, Giacomo  126, 128, 282, 287 O’Neill, Eugene  202, 204, 250 Oberdorfer, Aldo  248-249 Offenbach, Jacques  147 Ojetti, Ugo  221, 244, 254 Omero 14 Ordoño de Rosales da Grenchen, Gaspare 65 Owen, Robert  254 Paci, Enzo  103, 284 Palazzeschi, Aldo  31, 246 Pancrazi, Pietro  222 Pandolfi, Vito  205, 280, 290-292, 296 Panzini, Alfredo  122, 222, 246 Paoli, Rodolfo  267 Papini, Giovanni  23, 28, 85, 88-89, 97, 100, 122, 152, 165, 167, 193, 194, 209, 215, 217, 219-221, 233, 241, 244, 251 Parodi, Ernesto  167 Pascoli, Giovanni  122, 185, 187, 233 Pasolini, Pier Paolo  125, 128 Passerini, Giovanni Battista 27, 55-56, 62, 67 Patey, Caroline  35 Pavese, Cesare  31, 93, 98-99, 133, 236, 239, 250

314 Pavlova, Tatiana  200 Pavolini, Alessandro  91 Pavolini, Corrado  255-256, 290, 293 Pavolini, Paolo Emilio  86, 163, 165 Pea, Enrico  226 Pedio, Alessia  232, 234 Pedullà, Gabriele  11 Pedullà, Gianfranco  220 Pellegrini, Alessandro  293, 296 Pellico, Silvio  49, 51, 54 Pendergast, Christoph  12 Pérez de Ayala, Ramón  249-250 Perini, Irene  41, 63 Persico, Edoardo 225-226, 231, 234, 283, 288 Persico, Federico  42, 80 Personè, Luigi M.  91 Pertici, Roberto  28 Petrali, Carla  294 Petrella, Laura  36 Petrettini, Giovanni  46-47 Petrillo, Gian Franco  93 Pevsner, Nikolaus  289 Philippe, Charles Louis  288 Pinthus, Kurt  227, 234 Pintor, Giaime  98, 100, 111, 189, 235, 287, 291 Piovene, Guido  282 Pirandello, Luigi 106, 122, 133, 200201, 204, 209, 239, 257, 261, 282, 290 Pirro, Maurizio  34, 36, 47, 64 Pisacane, Carlo  98 Pisaneschi, Rosina 30, 182-183, 187188, 192-194, 196, 203, 206, 209, 225 Piscator, Erwin  201, 292 Pizzetti, Ildebrando  283 Platen, August von  159 Pocar, Ervino 98-99, 133, 194, 248249, 264, 293, 296-297 Poggioli, Renato  250 Polledro, Alfredo 97, 213, 219, 225, 236, 244-245, 249, 254, 265 Polledro, Luigi  249-250 Ponchiroli, Daniele  106, 111-112, 115 Ponte di Pino, Oliviero  279 Potenza, Leonardo  225

indice dei nomi Pound, Ezra  134 Prampolini, Enrico  291 Prampolini, Giacomo 225, 248-249, 252-253, 255-256, 263, 264, 270, 294 Pratolini, Vasco  128, 284, 288-289 Prévost, Antoine François 241, 246, 257, 258, 261 Prévost, Marcel  263 Prezzolini, Giuseppe 14, 23, 28, 36, 100, 165, 167, 183, 185, 187-188, 192-195, 209, 215-217, 219-222, 236, 241, 243-244, 255-256, 295 Prospero, Ada v. Gobetti, Ada Proust, Marcel  30, 213, 224, 239, 282 Prunas, Paolo  60 Puškin, Aleksandr  118-119 Quasimodo, Salvatore 126-127, 283, 289 Quazza, Guido  131 Raboni, Giovanni  124-125 Ragone, Giovanni  12 Raimondo, Riccardo  36 Raja, Anita  208 Rajna, Pio  162 Ramondino, Fabrizia  231 Ranieri, Antonio  79 Rath, R. John  49 Rauschning, Hermann  103 Rebora, Clemente  193, 219 Reinhardt, Max  200-201 Reitani, Luigi  71, 88 Revel, Bruno 206-207, 264, 284, 293, 296-297 Rho, Anita  93, 250, 267 Richebourg, Emile de  246 Richelmy, Agostino  287 Rilke, Rainer Maria 29, 90-91, 100, 213-214, 225, 231-235 Rispoli, Marco  36 Rocca, Enrico  248-249 Roccatagliata Ceccardi, Ceccardo  233 Rockenbach, Martin  191 Rognoni, Eva  230 Rognoni, Luigi  230, 283, 297 Romagnosi, Gian Domenico  59

indice dei nomi Rosa, Achille  205, 281, 288, 295 Roscioni, Gian Carlo  110 Rosner, Karl  258 Rossi, Alberto  250 Rossi, Francesco  36 Rosso di San Secondo, Pier Maria  201, 270 Rota, Giuseppe  42, 80 Roth, Joseph  140, 255-256, 266-267 Rousseau, Jean Jacques  50 Rovagnati, Gabriella  208 Roversi, Roberto  125 Rubino, Mario  12, 254, 276 Rüesch, Diana  36 Ruggia, Giuseppe  54-56, 62, 64, 68 Rundle, Christopher  12, 36 Saba, Umberto  98, 126, 234 Saint-Simon, Henri de  55 Sàito, Nello  63, 75, 77, 100-102, 106107, 111 Salinari, Carlo  98 Salom, Michiel  47-48, 75 Saltykov-Ščedrin, Michail  195 Salvemini, Gaetano  167, 215, 227 Salvotti, Antonio  51 Sanguineti, Edoardo  77, 109, 126-127, 135, 142 Santoli, Vittorio 75, 84, 96, 102, 106107, 114, 119, 152, 158 Santoro, Marco  17 Sapegno, Natalino  99, 101 Sapiro, Gisèle  18 Saroyan, William  292, 296 Satie, Eric  284 Savettieri, Cristina  36 Say, Jean-Baptiste  55 Sbarra, Stefania  36 Scaglia, Bernardo  50 Scalero, Alessandra  248, 252, 253, 264 Scalero, Liliana 74-75, 84, 99, 102, 107, 150, 152, 252, 253 Scalvini, Giovita  27, 29, 41-42, 50-52, 54-67, 74-83, 86, 92, 96, 98-99, 101-103, 106-107, 115, 136, 138, 152 Scheidlein, Johann Georg Edler von  64 Scheiwiller, Giovanni  134

315 Schiavoni, Giulio  75, 150, 208 Schiller, Friedrich 12, 27, 29, 45-47, 49, 60, 63-66, 80-81, 93, 108, 195, 246, Schio Serego Alighieri, Anna da  52 Schlegel, August Wilhelm  45, 47-48, 50, 185, 190 Schlegel, Caroline  186 Schlegel, Friedrich  185, 190 Schmeißner, Kathrin  85 Schmidt, Erich  88 Schnitzler, Arthur 32, 202, 209, 224, 228, 248-250, 253-254, 259, 266268, 292, 296 Scholz, Wilhelm von  262, 264 Schönberg, Arnold  282 Schürer, Oskar  232 Scolari, Antonio  52, 222 Sereni, Vittorio 78, 122-126, 128-129, 132-135, 138, 149, 152, 284 Serra, Renato  217 Sevelinges, Charles Louis de  46 Sevin, Dieter  180 Sichel, Giorgio  44, 95 Sichel, Teodoro von  162 Silvestri Giorgi, Agnese  195 Silvestri, Giovanni 29, 41-42, 44, 6364, 66, 74, 76, 78-79, 83, 92, 152 Sinisgalli, Leonardo  283 Sismondi, Jean Charles Léonard Simonde de 50 Slataper, Scipio 185, 187, 194, 215, 221, 226, 241, 295 Soffici, Ardengo  194 Sola, Emma  227, 234-235 Solari, Gioele  215 Solari, Pietro  227-228 Soldati, Mario  282, 287, 289 Solmi, Renato 77, 101, 104, 107-108, 110, 137, 139 Sonnenfels, Joseph von  64 Sonzogno, Edoardo  82, 257 Soupault, Georges  197 Spaini, Alberto 14, 30, 31, 36, 111, 182, 183, 187, 192-196, 198-199, 201-204, 206, 209, 225-226, 228, 243, 247, 249-250, 252, 253-254, 265, 267, 291-292, 294, 297

316 Spampinato, Salvatore  37 Spriano, Paolo  214, 216 Staderini, Alessandra 158, 163, 169170 Staël, M.me de (Anne-Louise Germaine Necker, baronessa di Staël-Holstein) 27, 44, 47, 48, 49, 64 Stanislavskij, Konstantin  200, 292 Stapfer, Albert  53 Stendhal (Henry Beyle)  53, 246, 255256, 259 Sterne, Lawrence  246-247 Sternheim, Carl  202 Stevenson, Robert Louis  193, 250 Stifter, Adalbert 258 Strafforello, Gustavo 179 Strehler, Giorgio 204, 207, 209, 231, 280, 297 Strindberg, August 202, 205, 229, 255256, 280, 293, 296 Sudermann, Hermann 194, 263 Sue, Eugène 246, 258 Sullam, Sara 37 Svevo, Italo 201, 239-240, 244, 282 Synge, John Millington 204-205, 296 Szondi, Peter 105, 116, 144 Tagore, Rabindranath 195 Talli, Virgilio 200 Tesio, Giovanni 23 Testa, Martina 14 Teza, Emilio 162 Thovez, Enrico 244 Tibaldi Chiesa, Mario 270 Tieck, Ludwig 60, 166, 185 Tilgher, Adriano 97, 99, 173-174, 176 Timmermans, Felix 248 Toller, Ernst 205, 224, 227, 230, 232, 280, 292, 294, 296 Tolstoj, Lev 92, 187, 193, 195, 219, 241, 244, 245 Tommaseo, Niccolò 54, 57, 79, 195 Tondelli, Pier Vittorio 142 Tonelli, Luigi 251-253, 267 Tortora, Massimiliano 37 Tortorelli, Gianfranco 279 Toury, Gideon 13 Tozzi, Federigo  239

indice dei nomi Tranfaglia, Nicola  86, 90 Traven, B. (Bruno Traven)  273 Traverso, Leone  127, 235, 287 Treves, Emilio  82, 254 Trunz, Erich  75, 143-144, 147 Tumminelli, Calogero  254, 256-257 Turgenev, Ivan  244, 257 Twain, Mark  250 Ugoni, Camillo 27, 50, 51-57, 62-63, 65-67, 79, 152 Ugoni, Filippo  53-56, 62, 65, 152 Unamuno, Miguel de  224 Undset, Sigrid  248, 255-256 Unfer Lukoschik, Rita  45 Ungaretti, Giuseppe  78, 124, 126, 133, 234, 293 Unger, Joseph  231 Unruh, Fritz von 213-214, 224, 227, 229-230, 234 Urzidil, Johannes  232 Vago, Amalia  87 Vagts, Alfred  232 Valensin, Giorgia  127 Valentini, Valentina  208 Valeri, Diego  106, 127 Valéry, Paul  122, 224 Valle Inclan, Ramón de  224 Vallecchi, Attilio  220, 243, 251 Van Nuffel, Robert  50, 54 Van Vechten, Carl  253 Vedovato, Giuseppe  85, 91 Vellani, Giovanni Ercole  71, 84, 107 Veneziani, Mauro  84, 96 Venuti, Roberto  35, 121 Verdi, Giuseppe  81 Verdicchio, Stefano  37 Verdinois, Federigo  195, 219 Veronesi, Giulia  283-284 Veronesi, Luigi  283-284, 286-288, 291, 293 Vico, Giambattista  171 Vieusseux, Giovanni Pietro  51, 57, 60, 79, 86 Vigolo, Giorgio  111 Villemain, Abel-François  53 Villon, François  134

indice dei nomi Vincenti, Leonello 119, 165, 185-186, 188-190, 209, 214, 227-230, 232235, 291 Vittoria, Albertina  37, 86, 90, 183 Vittorini, Elio 23, 98-100, 122, 128, 132-134, 138, 189, 236, 279-280, 286-287 Voltaire (François-Marie Arouet)  82, 255-256 Vossler, Karl  188-189, 229 Wackenroder, Wilhelm Heinrich  185186 Wagner, Richard  85, 187, 231 Walser, Robert  232 Ward, David  215 Wassermann, Jakob  248, 253, 262, 264 Wedekind, Frank 29, 179, 196, 202, 205, 209, 214, 225-226, 229, 232, 235, 280, 287, 291-294, 297 Weill, Kurt  284, 287, 293 Weiss, Ernst  232 Weiss, Walter  71 Wells, Herbert G.  260 Werfel, Franz  183, 227, 232, 248 Werner, E. (Elisabeth Bürstenbinder)  28, 194, 241, 243, 251, 259, 266 Werner, Michael  12 Werner, Zacharias  60, 65, 66, 186 Whitman, Walt  233 Wick, Gian Carlo  94 Wieland, Christoph Martin  45, 166 Wilde, Oscar  246-247 Wilder, Thornton  253, 292 Williams, William Carlos  125 Winckelmann, Johann Joachim  45 Wodehouse, P. G.  259 Wolf, Michaela  18 Woolf, Virginia  197, 255-256, 262, 264 Yeats, William Butler  204-205, 296 Zacconi, Ermete  226 Zagari, Luciano  164 Zanasi, Giusi  192, 203 Zanetti, Gian Luca  221 Zanzotto, Andrea  125 Zapperi, Roberto  48

317 Zavattini, Cesare  269-270 Zeromski, Stefan  245 Zimmermann, Johann Georg  64 Zobeltitz, Fedor von  258 Zola, Emile  258 Zumbini, Bonaventura  162 Zweig, Arnold  262, 264 Zweig, Stefan  232, 248-249, 264, 266

Quodlibet Studio

letteratura tradotta in italia Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè, Michele Sisto, La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione (1900-1920) Michele Sisto, Traiettorie. Studi sulla letteratura tradotta in Italia

Finito di stampare nel mese di maggio 2019 a cura di nw srl presso lo stabilimento di LegoDigit srl, Lavis (tn) per conto delle edizioni Quodlibet