Lettere di Giovanni. Lettera di Giuda. Introduzione, traduzione e commento 882157606X, 9788821576065

Testo greco a fronte. Il volume presenta il testo greco delle Lettere di Giovanni e della Lettera di Giuda, la traduzion

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Italian Pages 232 [236] Year 2012

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Lettere di Giovanni. Lettera di Giuda. Introduzione, traduzione e commento
 882157606X, 9788821576065

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MATTEO FOSSATI, nato a Monza il 5 dicembre 1973, ha conseguito presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale la Licenza in teologia (in­ dirizzo di Studi Biblici) con la tesi: Un vangelo in due parole. Le beatitudini giovannee (Gv l 3, l 7; 20,29): sorgente e specchio di vita cristiana.

È

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cente di Greco biblico presso il Seminario Teo­ logico Internazionale del PIME a Monza e inse­ gnante di religione nella Scuola Secondaria di primo grado. Scrive articoli e tiene conferenze di argomento biblico, con particolare attenzione alla letteratura giovannea. Ha pubblicato un libro di testo per l'insegnamento della religione cattolica, Alza lo sguardo! (2009), e ha collaborato con la redazione biblica delle Edizioni San Paolo, per opere come l quattro vangeli. Una "bella notizia" da leggere insieme (2008) e il Dizionario Temi teo­ logici della Bibbia (20 l 0).

Copertina: Progetto grafico di Angelo Zenzalari

Presentazione :\l OV . \

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I

a Nuova versione della Bibbia dai testi antichi si pone sulla scia di una Serie inaugurata dall'editore amar____j gine dei lavori conciliari (la Nuovissima versione della Bibbia dai testi originali), il cui primo volume fu pubblicato nel 1967. La nuova Serie ne riprende, almeno in parte, gli obiettivi, arricchendoli alla luce della ricerca e della sensibilità contemporanee.

I volumi vogliono offrire anzitutto la possibilità di leggere le Scritture in una versione italiana che assicuri la fedeltà alla lingua originale, senza tuttavia rinunciare a una buona qualità letteraria. La compresenza di questi due aspetti dovrebbe da un lato rendere conto dell'andamento del testo e, dall'altro, soddisfare le esigenze del lettore contemporaneo. L'aspetto più innovativo, che balza subito agli occhi, è la scelta di pubblicare non solo la versione italiana, ma anche il testo ebraico, aramaico o greco a fronte. Tale scelta cerca di venire incontro all'interesse, sempre più diffuso e ampio, per una conoscenza approfondita delle Scritture che comporta, necessariamente, anche la possibilità di accostarsi più direttamente ad esse. Il commento al testo si svolge su due livelli. Un primo livello, dedicato alle note filologico-testuali-lessicografiche, offre informazioni e spiegazioni che riguardano le varianti presenti nei diversi manoscritti antichi, l'uso e il significato dei termini, i casi in cui sono possibili diverse traduzioni, le ragioni che spingono a preferime una e altre questioni analoghe. Un secondo livello, dedicato al commento esegetico-teologico, presenta le unità letterarie nella loro articolazione, evidenziandone gli aspetti teologici e mettendo in rilievo, là dove pare opportuno, il nesso tra Antico e Nuovo Testamento, rispettandone lo statuto dialogico. Particolare cura è dedicata all'introduzione dei singoli libri, dove vengono illustrati l'importanza e la posizione dell'opera nel canone, la struttura e gli aspetti letterari, le linee teologiche

PRESENTAZIONE

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fondamentali, le questioni inerenti alla composizione e, infine, la storia della sua trasmissione. Un approfondimento, posto in appendice, affronta la presenza del libro biblico nel ciclo dell'anno liturgico e nella vita del popolo di Dio; ciò permette di comprendere il testo non solo nella sua collocazione "originaria", ma anche nella dinamica interpretativa costituita dalla prassi ecclesiale, di cui la celebrazione liturgica costituisce l'ambito privilegiato.

I direttori della Serie Massimo Grilli Giacomo Perego Filippo Serafini

Annotazioni di carattere tecnico NL O\ A \'EHSIO:\E DEl .l,;\ BIBBIA DAl

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Il testo in lingua antica Il testo greco del Nuovo Testamento stampato in questo volume è quello della ventisettesima edizione del Novum Testamentum Graece curata da B. Aland - K. Aland - l Karavidopoulos -C.M. Martini (1993) sulla base del lavoro di E. Nestle (la cui prima edizione è del1898). Le parentesi quadre indicano l'incertezza sulla presenza o meno della/e parola/e nel testo.

La traduzione italiana Quando l'autore ha ritenuto di doversi scostare in modo significativo dal testo stampato a fronte, sono stati adottati i seguenti accorgimenti: i segni • • indicano che si adotta una lezione differente da quella riportata in greco, ma presente in altri manoscritti o versioni, o comunque ritenuta probabile; le parentesi tonde indicano l'aggiunta di vocaboli che appaiono necessari in italiano per esplicitare il senso della frase greca. Per i nomi propri si è cercato di avere una resa che non si allontanasse troppo dall'originale ebraico o greco, tenendo però conto dei casi in cui un certo uso italiano può considerarsi diffuso e abbastanza affermato.

I testi paralleli Se presenti, vengono indicati i paralleli al passo commentato con il simbolo l l; i passi che invece hanno vicinanza di contenuto o di tema, ma non sono classificabili come veri e propri paralleli, sono indicati come testi affini, con il simbolo +.

La traslitterazione La traslitterazione dei termini ebraici e greci è stata fatta con criteri adottati in ambito accademico e quindi non con riferimento alla pronuncia del vocabolo, ma all'equivalenza formale fra caratteri ebraici o greci e caratteri latini.

L'approfondimento liturgico ·Redatto sempre dal medesimo autore (Gaetano Comiati), rimanda ai testi biblici come proposti nei Lezionari italiani, quindi alla versione CEI del 2008.

LETTERE DI GIOVANNI, LETTERA DI GIUDA Introduzione, traduzione e commento

a cura di Matteo Fossati

~

SAN PAOLO

Nestle-Aland, Novum Testamentum Graece, 21'1' Revised Edition, edited by Barbara Aland, Kurt Aland, Johannes Karavidopoulos, Carlo M. Martini, and Bruce M. Metzger in cooperation with the Institute for New Testament Textual Research, MUnster/Westphalia, © 1993 Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart. Used by perrnission.

© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2012 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.L Corso Regina Margherita, 2- 10153 Torino ISBN 978-88-215-7606-5

INTRODUZIONE

TITOLO E POSIZIONE NEL CANONE

Le lettere Cattoliche All'interno del Nuovo Testamento, le lettere di Giovanni fanno parte del più ampio gruppo delle cosiddette «lettere Cattoliche», che comprende anche la lettera di Giacomo, le due di Pietro e quella di Giuda. La denominazione di «Cattoliche», ossia universali, è generalmente collegata al fatto che, a differenza delle lettere paoline, indirizzate a comunità cristiane ben determinate (come, p. es., quelle di Roma, di Corinto, di Efeso), queste si rivolgono ad ampi gruppi di Chiese o addirittura a tutti i cristiani. Soprattutto in Occidente il titolo di «Cattoliche» venne anche interpretato come indice della generale accoglienza riservata a queste lettere nella Grande Chiesa. Qualunque sia il significato da attribuire al termine, esso è da tenere in considerazione in quanto antico, visto che Eusebio di Cesarea ci informa che al principio del IV secolo le sette lettere in questione erano già conosciute con il nome di katholikafl. Per quanto riguarda le lettere giovannee, se tale aggettivo sembra fuori luogo quando applicato a 3 Giovanni (un biglietto privato «al carissimo Gaio»: cfr. 3Gv l) e un po' forzato per 2 Giovanni (indirizzata «ali' eletta signora e ai suoi figli»: cfr. 2Gv l ; la metafora si riferisce a una comunità particolare), esso si adatta benissimo a l Giovanni, il cui respiro universale è incontestabile. Anzi, non è inverosimile pensare che fu proprio questa la prima epistola a 1 Eusebio

di Cesarea, Storia della Chiesa 2,23,25.

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meritare il titolo di «cattolica», definizione che fu poi estesa per analogia alle altre sei. Conoscenza, uso e ingresso nel canone delle lettere giovannee Per quanto riguarda la vicenda dell'accettazione delle tre lettere giovannee nel canone delle scritture cristiane è bene premettere che non fu riservato il medesimo trattamento a tutti e tre gli scritti. Se è fuori di dubbio che la prima epistola fosse generalmente accolta già nella seconda metà del II secolo, per le altre due il percorso fu più lungo e tortuoso, come ci testimonia Eusebio di Cesarea, che più di un secolo dopo le inseriva ancora fra gli antilegomena, testi conosciuti ai più, ma sulla cui canonicità si nutrivano dei dubbi. La difficoltà maggiore nell'accettazione di 2 e 3 Giovanni, al di là della loro brevità, sembra essere stata la dubbia apostolicità: se la Prima lettera di Giovanni, giunta a noi in forma anonima, per le palesi affinità con il quarto vangelo fu infatti da subito attribuita a «Giovanni, il discepolo del Signore, quello che riposò sul suo pettm>2, per le altre due non si aveva la medesima certezza3• Tralasciando per un momento la questione dell'attribuzione di queste lettere, resta comunque interessante notare che gli scritti in esame erano conosciuti e usati già nella prima metà del II secolo. Certo, per avere citazioni dirette è necessario attendere Ireneo di Lione, il quale, verso la fine di tale secolo, riporta frasi di l e 2 Giovanni come provenienti da un'unica lettera che attribuisce al medesimo autore del quarto vangelo4 • Ma già molto prima si possono trovare echi del .loro pensiero e linguaggio: nella Didachè, scritto risalente alla fine del I secolo e tenuto in grande considerazione nell'antichità cristiana, in 10,5 c'è un accenno al tema della perfezione nell'amore, che può richiamare l Gv 4, 18; nella Seconda Ireneo, Contro le eresie 3,1,1. Nel prescritto di entrambe, infatti, il mittente identifica se stesso con il titolo di «presbitero», dettaglio che ha portato molti ad avvicinarlo a quel «presbitero Giovanni» che, secondo l 'informazione di Papia, sembra essere persona diversa dali' apostolo (cfr. Eusebio, Storia della Chiesa 3,39,4). 4 lreneo, Contro le eresie 3,16,5 e 3,16,8. Dopo Ireneo, l'uso di l e 2 Giovanni è abbastanza diffuso: le troviamo citate da Clemente Alessandrino e da Tertulliano a cavallo tra il II e il III secolo, e poco dopo anche da Origene, che sembra conoscere pure 3 Giovanni. 2 3

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lettera di Clemente Romano ai Corinti, che, pur essendo pseudepigrafa, è un testo di grande valore in forza della sua antichità (prima metà del II secolo), si legge che Dio «ci prodigò la luce; come un padre ci chiamò suoi figli» (2 Clemente 1,4), parole che ricordano l Gv 3, l; le affermazioni di Erma, secondo cui «il Signore è veritiero in ogni parola e non v'è menzogna in lui» (Pastore di Erma 3, l )5 , non possono non richiamare alla memoria l Gv 2,27. E anche chi dubitasse del fatto che le citazioni appena riportate siano prove certe di una conoscenza del testo delle lettere giovannee deve arrendersi all'evidenza di quello che è il parallelo più chiaro con tali scritti nella prima metà del II secolo: una frase della Lettera ai Filippesi di Policarpo (datata dalla paleografia al120-130 d.C.), in cui si legge che «chiunque non confessi Gesù Cristo venuto nella carne è Anticristo. E chi non confessi il martirio della croce è dal diavolo» (7,1). L'influenza di lGv 4,2-3 e 2Gv 7 su un testo del genere è difficilmente escludibile. Dal confronto dei dati in nostro possesso si può quindi dedurre che la lettera giovannea accolta per prima dalla Chiesa fu l Giovanni: questo avvenne già nella prima metà del II secolo, soprattutto grazie alla sua consistente lunghezza, alla profonda articolazione teologica e all'evidente parentela con il quarto vangelo. La storia ci dice che presto le venne affiancata nella conoscenza e nell'uso anche 2 Giovanni, seppur non sempre come lettera separata6 • Le prime attestazioni della conoscenza di 3 Giovanni risalgono invece alla prima metà del III secolo (Origene e Dionigi di Alessandria). Per una testimonianza della piena accoglienza di tutte e tre le lettere nella Sacra Scrittura bisogna invece attendere la fine del IV secolo, con la trentanovesima Lettera festa/e di Atanasio (367) e i documenti del Sinodo di Ippona (393) e del Concilio di Cartagine (397). s Lo scritto risale all'epoca del papato di Pio (fratello dell'autore Enna), che sedette sul seggio episcopale di Roma dall40 al 155. 6 Come si è visto, p. es., nel caso di Ireneo. Un 'ulteriore testimonianza dell'accettazione di queste prime due lettere si trova nel Frammento muratoriano, documento latino comunemente datato alla fine del II secolo, il quale contiene un elenco di libri che in seguito vennero accettati nel canone delle Scritture cristiane: questo codice riporta il vangelo di Giovanni e le sue lettere, «due delle quali accettate dalla Chiesa cattolica}}. L'interpretazione di questo passo non.è univoca, ma le lettere menzionate sembrerebbero proprio l e 2 Giovanni.

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ASPETTILETTERAJU Dal punto di vista letterario le lettere giovannee pongono gli. esegeti di fronte a molteplici e ardue sfide. Viene in mente la famosa espressione di Rudolf Otto, secondo cui l'uomo percepisce il divino come mysterium tremendum et fascinans. Ebbene, fatte le dovute proporzioni, non è fuori luogo applicare tale definizione anche a queste poche pagine, che hanno ora atterrito ora attratto i commentatori di ogni epoca7 • Il fascino delle lettere di Giovanni è innegabile: si sprigiona in modo prepotente dalla bellezza delle immagini usate, dalla forza dei concetti, dalla profondità della riflessione teologica. Questi scritti sono uno splendido richiamo ai temi fondamentali della vita cristiana - in primo luogo la fede e l'amore - e hanno ammaliato quei lettori particolarmente sensibili a essi. Per sant'Agostino le parole di l Giovanni sono infatti gioia per le orecchie e «come olio per una fiamma» 8 • Nel commentarla scrisse: «Quanto più volentieri parlo della carità, tanto meno vorrei terminare la spiegazione di questa lettera. Nessun altro testo, infatti, la celebra in modo così appassionato»9 • Ritroviamo un trasporto simile nelle parole di Lutero, che esclamò: «Questa è un'epistola straordinaria. È capace di risollevare i cuori afflitti» 10 • Oltre al fascino, però, dai numerosi studi dedicati alla letteratura epistolare giovannea trapelano affermazioni che tradiscono, se non il terrore, quanto meno il timore e lo sconforto dei biblisti, soprat7 Sarebbe più preciso affermare che gli studiosi sono rimasti ora atterriti ora attratti da l Giovanni: è infatti questo lo scritto che ha catalizzato l'attenzione di qualsiasi commentatore del corpus epistolare giovanneo. Ciò è pressoché inevitabile, considerata sia la sua lunghezza (con le sue 2141 parole è circa dieci volte più lunga di ciascuna delle altre due lettere, poiché 2 Giovanni conta 245 parole e 3 Giovanni 219) sia la profondità della riflessione. Il lettore vorrà quindi scusare se anche in questa introduzione si dovranno fare molte più considerazioni riguardo alla prima delle tre lettere giovannee: ciò non vuoi dire, però, che le altre due siano state dimenticate. Tutto ciò che viene detto di l Giovanni può aiutarci a comprendere meglio tutti e tre i testi in esame. Infatti, se in questa introduzione le tre lettere sono trattate insieme, è perché sono testimonianza di un comune ambiente, caratterizzato da un medesimo pensiero teologico e da sottolineature morali condivise. 8 Agostino, Commento alla Prima lettera di Giovanni, Prologo. 9 Agostino, Commento alla Prima lettera di Giovanni, 8,14. 10 M. Lutero, «Vorlesung iiber den l. Johannesbrief», Kritische Gesamtausgabe, vol. 20, Weimar 1898, p. 600.

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tutto in merito ai problemi letterari, che disorientano perfino i più esperti tra gli interpreti. K. Wengst nel 1978 riteneva «condannato al fallimento» ogni tentativo di trovare in l Giovanni una struttura artistica 11 • La medesima impresa è stata definita «disperata» un decennio più tardi da F. F. Segovia12 , mentre R. E. Brown ha confessato di essersi irritato·a causa dell'oscurità della lingua usatavi 13 • Insomma, l'annosa questione della struttura letteraria di tale scritto contribuisce a farne «uno dei testi più difficili del NT» 14 • Genere letterario e struttura di l Giovanni Genere letterario Anche la semplice identificazione del genere letterario di l Giovanni è tutt'altro che scontata. In essa è infatti assente l'elemento più riconoscibile della classica forma epistolare, ossia la cornice, composta da prescritto e congedo finale. Questa insolita mancanza, oltre a lasciare nell'indeterminatezza le identità di mittente e destinatari, ha obbligato gli interpreti a lanciarsi in fantasiose ricostruzioni di ipotetici generi letterari che, a dire il vero, spesso non riescono a rendere perfettamente ragione né della singolarità né della complessità del testo in esame. Chi considera la sua profonda dottrina pensa a una sorta di trattato religioso universale; chi sottolinea l'alternarsi di sezioni dottrinali e parenetiche propende per considerarla un saggio teologico pastorale; chi vuole evidenziarne i toni esortativi parla di omelia scritta. L'indeterminatezza del destinatario ha fatto invece pensare a una lettera circolare; il suo carattere polemico ha fatto parlare di diatriba; la vicinanza letteraria e teologica al vangelo di Giovanni ha condotto altri a considerarla un suo scritto accompagnatorio. In realtà, non mancano tentativi di valorizzare la retorica episto11 K. Wengst, Der erste, zweite und dritte Brief des Johannes, Gutersloh-Wfuzburg 1978,p. 28. 12 F.F. Segovia, «Recent Research in the Johannine Letters», Religious Studies Review 13 (1987) 133. 13 Cfr. R.E. Brown, Le lettere di Giovanni, Cittadella, Assisi 2()()()2, p. 52. 14 G. Giurisato, Strnttura e teologia della Prima Lettera di Giovanni. Analisi letteraria e retorica, contenuto teologico, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1998, p. 7.

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lare del testo 15 , che emerge soprattutto dal confronto con il quarto vangelo. L'ipotesi è quella dell'esistenza di un materiale giovanneo di base, di carattere kerygmatico e catechetico, elaborato successivamente in una duplice forma, narrativa nel vangelo ed epistolare nelle lettere. In tal modo queste ultime risulterebbero «un'esposizione teologica volta a commentare il dato fondante giovanneo» 16 • Questo permette di mantenere l, 2 e 3 Giovanni all'interno del loro ambiente vitale, senza però doversi sbilanciare in una precisa ricostruzione storica e letteraria dei loro rapporti con la forma scritta del vangelo - ricostruzione che attualmente rischia di rimanere ipotetica-, e non costringe ad abbandonare, per l Giovanni, la tradizionale denominazione di lettera, titolo che l'ha accompagnata fin dall'antichità e che non può essere troppo categoricamente rifiutato. In essa, infatti, l'autore non argomenta mai in modo puramente astratto, ma si rivolge costantemente a degli interlocutori 17 • In più, egli fa riferimento per ben tredici volte all'atto dello scrivere 18 • È vero: questi due elementi da soli non hanno forza sufficiente per dimostrare l'appartenenza di l Giovanni al genere epistolare, ma possono, se non altro, fornire una base testuale a chi ritiene che questo scritto vada considerato una pur singolare forma di lettera.

La questione della struttura di l Giovanni Come già accennato, l'individuazione di una chiara e convincente organizzazione artistica, tematica e letteraria nel testo di l Giovanni è la vera sfida che ogni suo commentatore si trova a dover affrontare. Già sant'Agostino, intuendo la delicatezza del problema, preferì aggirarlo in modo elegante, affermando che Giovanni «parla a lungo e quasi esclusivamente dell'amore» 19, soluzione che sarebbe poi 15 Cfr. la proposta di F. Vouga: «La réception de la théologie johannique dans les épitres», in J. -D. Kaestli - J. -M. Potfet - J. Zurnstein (ed.), La communauté johannique et son histoire, Labor et Fides, Genève 1990, pp. 283-302. 16 M. Morgen, Les épitres de Jean, Cerf, Paris 2005, p. 28. 17 Li chiama «fratelli>> (lGv 3,13), «fanciulli» (IGv 2,14.18), > erano: «Andrea, Pietro, Filippo, Tommaso, Giacomo, Giovanni, Matteo e qualunque altro dei discepoli del Signore; inoltre Aristione e Giovanni l'Anziano, discepoli del Signore>>. Questo suo frammento, riportatoci da Eusebio (Storia della Chiesa 3,39,4), pare distinguere i primi sette nomi, appartenenti a personaggi del passato, da quelli di Aristione e di Giovanni l'Anziano, che in effetti furono contemporanei di Papia e con i quali egli stesso ebbe contatti personali. Eusebio conferma tale tradizione testimoniando l'esistenza, a Efeso, di due tombe che portano il nome di Giovanni (Storia della Chiesa 3,39,5-6). Le parole di Papia sono alla base del fraintendimento tra i due Giovanni presenti in ogni studio della questione giovannea, che a volte sono ritenuti essere due persone distinte, mentre in altri casi vengono sovrapposti, nell'ipotesi che l'apostolo, per modestia, chiamasse se stesso semplicemente ho presbyteros, titolo reso in italiano talvolta con il calco «il presbiterm>, talaltra con la traduzione «l'anziano». 48 Cfr. R. E. Brown, Giovanni, Cittadella, Assisi 20056 ( 1979), pp. XLIII-L.

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scuola41 , si assistette a una decisiva svolta negli studi giovannei. Se l'affinità che si respira leggendo il vangelo e le lettere di Giovanni non basta a provare che furono composti da un medesimo autore42 , è tuttavia indubbio che tali scritti riflettano una tradizione omogenea, chiaramente indipendente dal resto del Nuovo Testamento, che si esprime in enunciati originali e organizzazione tematica propria. Questa tradizione viene fatta risalire a un testimone oculare - il Discepolo amato di cui parla il quarto vangelo - che rappresenta l'autorità fondante della comunità e degli scritti. Oggi la scienza biblica non è ancora in grado di ricostruire con certezza tutti i passaggi della vicenda redazionale del vangelo e delle lettere di Giovanni: si può affermare che in genere queste ultime sono considerate successive al vangelo, in quanto testimoni di una divisione interna alla comunità di cui non vi è alcuna traccia in esso. La redazione dei testi dovette procedere, parallelamente alle vicende storiche della comunità, in almeno quattro momenti successivi: una fase pre-redazionale, in cui il materiale fondamentale del cristianesimo nascente venne elaborato nella predicazione e nella catechesi (55-80 d.C.); la fase della redazione del vangelo (90 d.C. ca.); una diatriba interna alla comunità, che portò alla 41 Cfr. R.A. Culpepper, The Johannine school: an evaluation of the Johannine-school hypothesis based on an investigation of the nature of ancient schoo/s, Scholars Press, Missoula (MT) 1975. Importanti furono anche i contributi di O. Cullmann, G. Richter, H. Thyen, M.-É. Boismard e, ovviamente, R.E. Brown. Più recentemente è degno di nota lo studio di M. Hengel (La questione giovannea, Paideia, Brescia 1998). 42 Dal confronto tra gli scritti si ricavano molti punti di contatto, ma anche importanti divergenze, sia a livello stilistico, sia di pensiero. La palese vicinanza di contenuto e vocabolario lascia infatti spazio a differenze per quanto riguarda le caratteristiche grammaticali minori, quali l'uso di verbi composti, particelle e preposizioni, fatto che potrebbe tradire inconsapevolmente paternità diverse (cfr. C.H. Dodd, «The First Epistle of John and the Fourth Gospel», Bulletin oftheJohn Rylands Library 21 [1937] 129-156). Dal punto di vista del pensiero sembra poi che le lettere (in particolare l Giovanni) testimonino, a tratti, una teologia più arcaica di quella evangelica: invece dell'escatologia realizzata dominante nel vangelo, vi si trova l'attesa di un imminente ritorno del Risorto; invece della presentazione della mort~ in croce come glorificazione, si insiste sul valore riparatore del sacrificio di Cristo; inoltre, rispetto al vangelo, le lettere dimostrano un'attenzione minore all'agire dello Spirito Santo e non citano la Scrittura (se si esclude il caso di Caino in lGv 3,12). Quello che importa, però, è notare come l'interpretazione di questi dati non sia mai univoca: ogni vicinanza può essere vista come una prova di paternità comune o come indizio di imitazione; ogni divergenza può essere imputata a differente paternità o a diversità di epoca, circostanze, finalità, genere letterario.

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secessione testimoniata dalle lettere (100 d.C. ca.); la fusione del movimento giovanneo con la Grande Chiesa (Il secolo). Anche se gli scritti videro la luce probabilmente per mano di personaggi diversi, i singoli autori appartenevano a una medesima scuola o comunità, che sola poteva dare loro l'autorità di scrivere. È sicuramente all'interno di questa comunità, quindi, che si devono cercare sia l'evangelista, che considera se stesso il primo responsabile della custodia e della fedele trasmissione di quel dato fondante, sia l'autore delle lettere, che scrive per ribadire la verità della medesima testimonianza (cfr. l Gv l ,5)43 • Fu quindi la comunità il soggetto unitario di tutto il processo e il garante della fedeltà alla testimonianza del Discepolo amato. L'esistenza di una comunità riesce dunque a spiegare in modo convincente la continuità e insieme l'evoluzione del pensiero che si riscontra negli scritti giovannei, i quali rimangono fedeli all'annuncio del testimone, ma lo esprimono in modalità diverse, per adattarsi alle sempre nuove-situazioni storiche. Essa riesce inoltre a chiarire l'altrimenti imbarazzante indecisione tra il singolare e il plurale che si trova nelle sezioni del vangelo e della prima lettera composte in prima persona: entrambi questi testi si aprono, infatti, con un «noi abbiamo visto» (Gv 1,14; lGv 1,1-3) e si chiudono con un «noi sappiamo» (Gv 21,24; lGv 5,15.18.19.20), ma chi scrive usa anche il singolare (Gv 19,35; 21,24.25; lGv 2,1.7.12-14). Probabilmente nessuno degli scritti giovannei fu un'opera comunitaria, ma chi stilò il testo era consapevole di rappresentare (oltre che di rivolgersi a) una comunità. Data e luogo di composizione Da quanto emerso finora, sembra sensato situare la composizione delle lettere giovannee verso la fine del I secolo: questa datazione parte dall'ipotesi che il quarto vangelo abbia visto la luce, almeno nella sua forma base, senza le aggiunte del redattore finale, attorno al 90 d.C. Da quella data bisogna poi far passare qualche tempo perché nelle comunità giovannee potessero nascere 43 L'argomento viene approfondito, anche se con qualche scelta diversa, in R.E. Brown, Le lettere di Giovanni, cit., pp. 149-152.

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le diatribe e i conflitti di autorità che richiesero l'intervento della voce autorevole che si espresse nelle tre lettere. Sono tuttavia da escludere datazioni troppo tarde, in quanto già nei primi decenni del II secolo erano conosciute e usate almeno le prime due lettere di Giovanni. Ammesso quindi che i tre scritti furono composti approssimativamente nello stesso periodo, li si può situare grosso modo attorno all'anno 100 d.C. Per quanto riguarda il luogo di composizione, esso va ricercato nell'area geografica in cui è più probabile che la comunità giovannea si sia sviluppata, ossia Efeso, Antiochia di Siria o Alessandria d'Egitto. Siccome l'organizzazione ecclesiale che emerge dali' epistolario giovanneo richiede l'esistenza di un importante polo cittadino, sede della comunità principale guidata dall'autore, circondato da un territorio più ampio, con altre comunità raggiungibili in pochi giorni di viaggio, le notizie storiche che si trovano nei primi capitoli dell'Apocalisse e nelle lettere di Ignazio di Antiochia indicherebbero Efeso come la Chiesa meglio rispondente a tali caratteristiche44. La l Giovanni fu indirizzata con ogni probabilità alla Chiesa madre - l'autore infatti non menziona mai alcuna distanza tra sé e i «figlioli»; le altre due, invece, a comunità più distanti, che a quel tempo dovevano essere piccoli gruppi di cristiani che si riunivano nelle case degli esponenti più facoltosi, fungenti da guide di tali Chiese domestiche (cfr. Diotrefe e Gaio )45 •

TESTO E TRASMISSIONE DEL TESTO

Ali 'interno del panorama del Nuovo Testamento l 'insieme delle lettere Cattoliche fa gruppo a sé: non essendo infatti composto 44 In Ap 2-3 e nelle lettere di Ignazio questo territorio è anche descritto come afflitto dalla presenza di molti falsi profeti e dalla diffusione di un accentuato lassismo morale: è un ritratto che combacia con ciò che emerge da l, 2 e 3 Giovanni. 45 È proprio 3 Giovanni a fornire importanti notizie storiche: non inserendo il conflitto di autorità nella scia delle dispute dottrinali con i secessionisti che fanno da sfondo a l e 2 Giovanni, essa testimonia che l 'unità delle comunità cristiane di tradizione giovannea nel I secolo era minata non solo a livello teologico dalle false dottrine diffuse dai predicatori secessionisti, ma anche a livello pratico da litigi e screzi personali che interrompevano le comunicazioni tra alcune comunità periferiche e la Chiesa madre di Efeso, in cui risiedevano le guide storiche della scuola giovannea.

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da testi particolarmente frequentati né nella lettura liturgi~a né in quella privata, non è rappresentato in tutte le famiglie di codici che normalmente riportano i vangeli, gli Atti degli Apostoli e le lettere di Paolo. La testimonianza testuale più antica di un frammento di l Giovanni si trova in un papiro del III secolo (çp9). Il testo delle tre lettere giovannee è comunque riportato per intero già nei codici onciali greci del IV e V secolo- il Sinaitico (N), il Vaticano (B), l' Alessandrino (A), il codice di Efrem riscritto (C)- e in codici minuscoli del IX e X secolo- soprattutto 33 (Parigi) e 1739 (monte Athos). La lacuna più significativa è quella del codice di Beza (V secolo), nel quale mancano totalmente. Altri testimoni particolarmente antichi, che riportano però solo alcune sezioni dei testi che qui interessano, sono: per l Giovanni il papiro 74 (VII secolo) e gli onciali 048 (V secolo), 0245 e 0296 (VI secolo); per 2 Giovanni l'onciale 0232 (V secolo); per 3 Giovanni l' onciale 0251 (VI secolo). Se si esclude il famoso caso del cosiddetto «comma giovanneo» - ossia la glossa introdotta nei testi della Vetus latina e della Vulgata nei secoli VII e VIII per spiegare l'oscurità del greco di lGv 5,7-8 (cfr. le note a questi versetti nel commento) -, non si riscontrano nelle lettere giovannee grossi problemi di critica testuale. Laddove occorra, le varianti più significative saranno riportate nelle note filologiche. Elenco dei manoscritti citati nel commento Papiro di Oxyrhynchus 402 (çp9), del250 d.C., conservato presso la Houghton Library di Harvard; contiene l Gv 4,11-12.14-17. Papiro Bodmer XVII (çp 74), del 650 d.C., conservato presso la Bodmer Library a Cologny; contiene 1Gv 1,1.6; 2,1-2.7.13-14.1819.25-26; 3,1-2.8.14.19-20; 4,1.6-7.12.16-17; 5,3-4.9-10.17; 2Gv 1.6-7.13; 3Gv 6.12; Gd 3.7.12.18.24. Codice Sinaitico (N), onciale del IV secolo; scoperto nel monastero di santa Caterina al monte Sinai da C. von Tischendorf, è ora conservato presso la British Library di Londra. Codice Vaticano (B), onciale del IV secolo, conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana.

INTRODUZIONE

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Codice Alessandrino (A), onciale del V secolo; conservato a lungo ad Alessandria d'Egitto, fu donato nel XVII secolo a re Carlo I d'Inghilterra; è ora custodito alla British Library di Londra. Codice di Efrem riscritto (C), onciale del V secolo, conservato presso la Bibliothèque Nationale di Parigi; contiene lGv 1,3-4,2; 3Gv 3-15; Gd 3-25. Codice vaticano greco 2061 (048), onciale del V secolo, conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana; contiene l Gv 4,6-5,13.17-18.21; 2Gv 1-13 e 3Gv 1-15. Codice 0232, onciale del V secolo, conservato presso l' Ashmolean Museum di Oxford; contiene 2Gv 1-9. Codice 0245, onciale del VI secolo, conservato nella Selly Oak Collection a Birmingham; contiene lGv 3,23-4,1.3-6. Codice 0296, onciale del VI secolo, custodito nel monastero di santa Caterina al monte Sinai; contiene lGv 5,3-13. Codice di Mosca (K), onciale del IX secolo, proveniente dal monte Athos e attualmente conservato al Museo Storico di Mosca. Codice Angelico (L), onciale del IX secolo, custodito presso la Biblioteca Angelica di Roma. Codice Porfiriano (P), onciale del IX secolo, conservato alla Biblioteca Nazionale Russa di San Pietroburgo; contiene lGv 1,1-3,19; 5,1-21; 2 Giovanni; 3 Giovanni e Gd 1-3.16-25. Codice della Laura del monte Athos (lP), onciale del IX secolo, conservato nel monastero della Grande Laura al monte Athos. Codice greco 14 di Parigi (33), minuscolo del IX secolo, conservato presso la Bibliothèque Nationale di Parigi. Codice 1739, minuscolo del X secolo, conservato nel monastero della Grande Laura al monte Athos. La dizione «testo bizantino» indica quello riportato dalla maggioranza dei manoscritti greci esistenti; essa viene usata perché si tratta del testo adottato dalla Chiesa di Bisanzio a partire dal IV secolo.

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IOANNOY A'

PRIMA DI GIOVANNI

PRIMA DI GIOVANNI 1,1

34

1

"0 ~V à:n' à:pxfjç, OÒ:KTJKOU}lEV, OÈwpaKUJ.lEV -roiç Òc:p9aÀ}lOtç ~}lWV, OÈ:9EUOcX}lE9a KaÌ aÌ XEtpEç ~}lWV È:\j)rJÀcX) del v. 3. Il pronome neutro, che non concorda né col maschile tou J..oyou (v. l) né col femminile~ (wi)(v. 2), è scelto dall'autore per indicare in modo complessivo l'opera, il messaggio e la persona del Verbo della vita. Da principio (a1r' &pxry;)- Il termine &px~ riveste una grande importanza teologica nella letteratura giovannea, che, tra l'altro, ne fa registrare la presenza più massiccia di tutto il NT (otto occorrenze nel vangelo, dieci nelle lettere, tre nell'Apocalisse). Nel nostro caso l'espressione è ambigua, poiché potrebbe riferirsi all'inizio della predicazione di Gesù ai discepoli o alla preesistenza del Verbo al di là del tempo. Questa seconda interpretazione sembra tuttavia preferibile. Se si legge in alT' &pxry; un riferimento

o,

ali' eternità precedente la creazione del mondo, il paragrafo avrebbe infatti una costruzione concentrica, racchiudendo le quattro righe centrali relative alla manifestazione storica del Figlio nella cornice esterna dedicata all'esistenza pre-storica del «Verbo della vita» che esiste «da principio». Tra l'altro, lo stacco tra la prima frase relativa e le seguenti è sottolineato anche dalla grammatica, in quanto il pronome ofunge logicamente da soggetto nel primo caso, da oggetto negli altri tre. In questo modo si mantiene per ognuno dei tre paragrafi iniziali (lGv 1,1.2.3) il duplice riferimento al Verbo eterno e alla sua manifestazione storica Tale lettura, infine, permette di instaurare un parallelo con il prologo del quarto vangelo (Gv l, l). 1,2 Si manifestò (~ocvepwe,)- Il verbo, coniugato all'aoristo per sottolineare la puntualità storica dell'evento della rivelazione, è usato per indicare l'incarnazione del Figlio

PROLOGO: IL FONDAMENTO DELLA VERITÀ (1,1-4) Questo esordio è obiettivamente insolito per una lettera: non vi è infatti alcuna traccia del prescritto (praescriptum ), la classica apertura dell'epistola grecoromana che riportava mittente (superscriptio) e destinatario (adscriptio) seguiti da un saluto benaugurate (salutatio ). Qui si è invece di fronte a quello che viene unanimemente riconosciuto dalla critica come il «prologo» della l Giovanni, e l'uso di questo termine non è casuale, in quanto intende sottolineare una vicinanza con l'apertura del maggiore tra gli scritti giovannei: il quarto vangelo. La corrispondenza tra l Gv l, 1-4 e Gv l, 1-18 è sia terminologica sia teologica. Chi compone i due testi si serve di un vocabolario distintivo: notevole è la presenza dei sostantivi «principio» (lGv 1,1; Gv 1,1), «Verbo» (lGv 1,1; Gv 1,1.14), «Padre» (IGv 1,3; Gv 1,14.18), «vita» (lGv 1,1.2; Gv 1,4), e dei verbi (lGv 1,2; Gv 1,7.8.15). Per quanto riguarda la visione teologica, pur senza pretendere di trovare nel prologo della l Giovanni la complessità e la varietà dei temi presenti nell'apertura delquarto vangelo (il genere letterario è differente, così come l'intento dell'autore e l'ampiezza dello scritto), non si può ignorare il forte accento posto da entrambi i testi sui due momenti dell'esistenza del Verbo: quello dell'eternità

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PRIMA DI GIOVANNI l ,2

l

'Quanto era da principio, quanto abbiamo udito, quanto abbiamo visto con i nostri occhi, quanto contemplammo e le nostre mani toccarono, ossia il Verbo della vita - 2si, la vita si manifestò e noi l'abbiamo vista, così ora testimoniamo di Dio. La sua ripetizione incornicia il versetto in una chiara inclusione. L 'abbiamo vista (ÈwpttK!Xj.LEV) - Il perfetto del verbo òpliw è spesso usato in Giovanni per indicare una visione fisica che sfocia in una professione di fede (cfr. Gv 9,35-38; 20,18.25.29). Qui riassume tutti i verbi di percezione del v. l, che si riferiscono al contatto personale avvenuto storicamente tra i discepoli e Gesù, contatto che abilita chi scrive alla testimonianza e all'annuncio. In questi versetti iniziali l'esperienza della visione è presentata come centrale nella dinamica testimoniale che sostiene la l Giovanni: il verbo ÈwpttK!Xf.lEV viene infatti ripetuto tre volte, una per ogni versetto, ed è rafforzato in l, l da un secondo verbo di visione (É9Eao~9a). A noi ('Ì!!-Liv) -A chi si riferiscono questo pronome plurale e l'aggettivo personale corrispondente (!}!E-rÉpa, v. 3), che compaiono

complessivamente ben sette volte nel prologo? Il «noi» che spesso nella letteratura giovannea viene usato dall'autore (Gv 1,14; 21,24; lGv 1,1-5; 5,18-20) non va interpretato come un semplice plurale maiestatis o editoriale, dietro il quale si nasconderebbe la persona singola dello scrivente. In questo caso il «noi» è un vero plurale, utilizzato in modo distintivo, vale a dire non come artificio letterario che accomuni lo scrivente ai suoi lettori (così, p. es., in lGv 1,6-10; 2,19; 3,2), ma come indizio dell'esistenza di un gruppo autorevole di testimoni di cui chi materialmente scrive è portavoce ufficiale presso un , è una novità nel panorama biblico. Si potrebbero trovare dei precedenti illustri nella letteratura sapienziale e profetica- (Sal27 ,l); «Il Signore sarà per te Wla luce eterna>> (ls 60,19); «Se siedo in mezzo alle tenebre, il Signore è la mia luce>> (Mi 7,8) -,ma la loro formulazione è sempre circostanziata, assumendo così Wl sapore nettamente diverso. Per comprendere l'affermazione della l Giovanni bisogna tenere conto, da Wl lato, del fatto che il forte valore simbolico del concetto di luce è sfìuttato ampiamente dalla letteratura giovannea per indicare la realtà di Dio, soprattutto in opposizione con il male, identifìcatopermezzodelletenebre(Gv 1,4-5; 3,19-20; 8,12; 12,35-36; lGv 2,8-11 ; Ap 21 ,23-25; 22,5); dali' altro, che la formulazione stessa dell'espressione è di stile giovanneo: nel vangelo si legge, infatti, «Dio è spiritm> (Gv 4,24) e nella nostra lettera «Dio è amore>> (lGv 4,8.16). L'applicazione morale e parenetica che la pericope fa di questo annuncio non deve però trarre in inganno: nel linguaggio giovanneo affermare che il Verbo è «la luce vera>> (Gv 1,9; cfr. anche 1,4-5) e che «Dio è luce>> è dire più di quanto intendeva il salmista con «Lampada per il mio piede è la tua parola e luce per il mio camminm> (Salll9,105). Qui non si sta solo affermando che Dio illumina l'uomo, mostrandogli la via del bene. L'autore sta facendo Wl' affermazione teologica: la luce è intesa come realtà simbolica universale, capace di comunicare l'idea della pienezza della vita e della salvezza. Essa non è semplicemente un dono fatto da Dio e nemmeno un suo attributo: è come Wl suo nuovo nome. La portata dell'affermazione è chiara nel prologo del quarto vangelo: come la luce fisica è vita per il mondo - e questa è una verità universale -, così Dio può essere chiamato luce poiché per l'uomo Egli è grazia (Gv 1,14.16.17}, verità (Gv 1,14.17), vita (Gv 1,4) e quindi pienezza (Gv l, 14.16) di gioia e salvezza. Siccome tutte queste realtà sono state donate ali 'uomo con l'incarnazione, l'autore vi allude coerentemente con l'espressione «era la luce vera, che illumina ogni uomo, quella che veniva nel mondm> (Gv l ,9). Dal punto di vista letterario questo versetto iniziale lega saldamente al prologo della l Giovanni tutta la pericope, grazie alla ripresa del tema del suo verbo principale (1,2.3: apaggéllomen, «annunciamo>>) mediante il sostantivo aggelia, «annuncim>, e il verbo anaggé/16, «proclamare>>. La dinamica della trasmissione di fede che emerge da questo testo è quella binaria tipicamente giovannea: a dif-

PRIMADIGIOVANNI 1,6

40

on

'Eàv flltW]JEV KOtvwv{av EXO]JEV ]JET' a\rrou KaÌ ÈV r): se si esclude Sir 29,1, unica occorrenza di tT]p~w in questo sintagma nell' AT, la Bibbia greca mostra di preferire cjluÀ.Iiaaw (che tra l'altro è presente nella lezione del nostro testo riportata dalla prima mano del codice Sinaitico [l't]). L'opera giovannea, invece, predilige tT]pÉw, che originariamente vuoi dire «custodire)).

cessione del Risorto presso il Padre in difesa dei peccatori. L'immagine processuale

è tratta dalla religiosità giudaica, che era solita raffigurare Dio in qualità di giudice, seduto sul trono e affiancato da due angeli: uno in veste di «accusatore>>, con il compito di mostrare i peccati degli uomini (è la funzione di Satana: cfr. Gb l ,612; Zc 3,1; Ap 12,10), l'altro in veste di «intercessore>>, con il compito di mediare tra Dio e il peccatore e di invocare per quest'ultimo il perdono (Gb 33,23-24; 1b 12,12; Ap 8,3). I credenti non devono temere il giudizio di Dio, poiché sarà il Signore Gesù stesso a prendere le loro difese; Egli che, secondo le parole di Paolo, «è morto, anzi. .. è risuscitato, lui che siede alla destra di Dio, lui che intercede in nostro favore»! (Rm 8,34). La sicurezza che deve accompagnare i cristiani risiede proprio nel fatto che la risurrezione rende eterna questa mediazione salvifica di Cristo, «essendo [Egli] sempre vivente per intercedere in loro favore» (Eh 7,25). È in questo contesto che va interpretata anche la decisamente inusuale definizione di Gesù come «espiazione» (hilasmos). Il vocabolo si rifà al rituale ebraico dello Yom Kippur, il «Giorno dell'espiazione», con cui annualmente il sommo sacerdote, in osservanza di un comando di Dio stesso (cfr. Lv 16,34), aspergendo con il sangue delle vittime sacrifìcali il Èo}JEV. 6 ÒÀÉ'(WV Èv aÙ'rq> }JÉvE1V Ò del v. Sa, esso sarebbe una forzatura della grammatica, in quanto in greco il termine ÉvtoÀ~ è di genere femminile. Invece di cercare complicate spiegazioni per questa incongruenza, sembra preferibile considerarlo come l'equivalente di un pronome dimostrati-

vo (questa è, tra l'altro, la funzione originaria del relativo) che, volendo riassumere tutto il concetto espresso nella massima di 2,7-Sa, è correttamente utilizzato nella forma neutra. In sé (~v a&t) per antonomasia: «Un comandamento nuovo vi do: che vi amiate gli uni gli altri; come io ho amato voi, anche voi amatevi gli uni gli altri)) (Gv 13,34; cfr. anche Gv 15, 12). 2,8b-17 Elaborazione: la fedeltà al comandamento mantiene nella luce L'elaborazione del tema annunciato in 2,7 avviene in una modalità simile a quella incontrata nella prima pericope: l'autore si serve di quattro brani argomentativi, che si richiamano a due a due secondo lo schema AB B' A' (A: 2,8b; B: 2,9-11; B': 2, 15b-16; A': 2, l 7), lasciando al centro lo spazio per la parenesi, che in questo caso assume una forma decisamente complessa. L'esortazione vera e propria (2,15a: «Quindi: non amate il mondo né le cose del mondO>)) è infatti introdotta da un articolato elenco dei destinatari dello scritto e dei messaggi loro indirizzati (2,12-14). L'autore richiama ai suoi interlocutori la necessità di mettere in pratica il comandamento dell'amore, che viene riproposto in due diverse contestualizzazioni: amare i fratelli (B: 2,10) e non amare il mondo né le cose del mondo (l'esortazione centrale: 2, 15a), poiché tale amore è incompatibile con l'amore per Dio (B': 2,15b). L' argomentazione prende l'avvio dall'affermazione menzognera di chi sostiene di essere nella luce, mentre in realtà disprezza i fratelli (B: 2,9). L'autore usa quindi il comandamento dell'amore per smentire la pretesa di questi falsi maestri: solo chi ama i fratelli dimora nella luce (B: 2,10). Nella seconda parte dell'argomentazione (B' -A'), alla coppia di antonimi luce/tenebra l'autore sostituisce quella Padre/mondo e specifica che non ogni tipo di amore è buono: chi ama Dio non può amare il mondo (B': 2,15); deve invece fare la sua volontà e assicurarsi in tal modo la vita eterna (A': 2,17). L'unità dell'argomentazione è accentuata dali' autore in modo raffinato, legando insieme i due termini negativi delle coppie di antonimi luce/tenebra e Padre/mondo mediante la ripetizione del verbo paragetai, che fa da inclusione a tutta l' elaborazione del tema: (, ossia nella situazione storica concretamente vissuta dai destinatari dello scritto. A una lettura più attenta, sembra però più corretto affermare che ciò che viene proclamato «vero in sé e per voh> non è, in prima battuta, il comandamento dell'amore vicendevole- nessun riferimento specifico al contenuto di questo comandamento è infatti presente nell'annuncio del v. 7 -, bensì l'enigmatica dinamica per la quale tale comandamento possa essere sia antico sia nuovo, che è il contenuto proprio della massima che apre la pericope. La frase, pur rimanendo velata di misteriosa ambiguità, può essere spiegata nel modo seguente: come alle origini Gesù aveva affidato come nuovo, ai suoi discepoli, un comandamento che, nella sostanza, era già presente nella tradizione di Israele (cfr. Dt 6,5; Lv 19,18), così ora la comunità giovannea propone il medesimo comandamento come nuovo a chi, confuso dalle dottrine ingannevoli di falsi maestri, rischia di cadere in balìa di idee progressiste che però non hanno alcun valore, non venendo «da principio>>. La forza del «comandamento nuovo» dato da Gesù non risiedeva nell'essere recente né mai udito prima, bensì in una comprensione e in un'attuazione del tutto nuove: il sacrificio totale di sé a cui Egli si stava sottoponendo per amore dei suoi. Questa è la vera novità di quel comando: l'eroicità di un amore capace di arrivare al dono di sé per la salvezza del mondo intero (Gv 1,9; 3,16; 4,42; 6,33.51). Tale novità non può essere intaccata dal tempo che passa. Gli amati destinatari della lettera vengono dunque messi in guardia dal catalogare come sorpassato il «comandamento nuovo» affidato «da principio» da Gesù ai suoi, e incoraggiati a capirne la travolgente novità, facendo proprio lo stile di vita da esso richiesto. L'attuazione del comandamento dell'amore da parte dei credenti è infine messa in relazione con l'avvento escatologico della salvezza, indicata con le due frasi in parallelismo antitetico «la tenebra sta svanendo» e «già sorge la luce vera». La

PRIMA DI GIOVANNI2,9

56

'0 ÀÉ:yWV Èv T~ KOO'}llfl. M:v nç àyan~ ròv KOO'}lOV, oÙK Ecrnv JÌ àyan11 rou narpòç Èv aùr4>· 14

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2,14 Ho scritto (Eypo:ljro:)- Perché l'autore coniuga il verbo yplitjlw tre volte al presente e tre volte all'aoristo? La tendenza attuale è quella di interpretare il cambiamento di tempo come pura variazione stilistica, richiesta dalle figure della conduplicatio e della commoratio, per evitare monotonia nella ripetizione. Si esclude quindi che i tre €ypo:ljroc si riferiscano alla prima parte della lettera o a uno scritto precedente (è difficile infatti ritrovare chiari paralleli delle affermazioni del v. 14 sia in lGv 1,1-2,11, sia in 2 Gio-

vanni, sia nel quarto vangelo, che sono i testi tradizionalmente chiamati in causa da chi non voglia ipotizzare uno scritto precedente andato perduto). Siete forti (Loxupo( eon)- L'aggettivo è un hapax nella nostra lettera e non si trova né in 2 o 3 Giovanni né nel quarto vangelo. Il significato è comunque chiaro e l'accenno alla forza ben si sposa con quello alla giovinezza, anche se è utile ricordare che, in ambito biblico, la forza non è solo una qualità fisica, ma soprattutto è un dono

A questo punto è naturale chiedersi il perché di tutte queste ripetizioni. La risposta deve essere cercata ancora nella retorica antica, che classificherebbe il nostro testo come una enumeratio. Questa figura consiste nel ripartire determinate realtà- cose o persone - in vari gruppi, al fine di richiamare alla memoria quanto trattato precedentemente e di preparare un'esortazione. Questa considerazione permette di proporre una delimitazione della pericope un po' insolita, che unisce all'elenco dei destinatari (2,12-14) anche la frase imperativa che apre il v. 15: «Quindi: non amate il mondo né le cose nel mondo», dal chiaro tono ammonitorio. Essa esplicita la caratteristica esortativa dell' enumeratio e indica ciò che chi scrive si propone di ottenere da parte di ciascuna delle categorie di persone appena ricordate. Con tale aggiunta la sintassi del brano si complica ulteriormente, poiché quest'unica frase è da leggersi come il completamento di ciascuna delle sei proposizioni introdotte da gréJphOIégrapsa: tale figura di soppressione è nota con il nome di zeugma e nel nostro caso crea un effetto di grande sorpresa- poiché le frasi precedenti potevano anche sembrare in sé concluse -con il risultato di porre un grande accento ~l'esortazione conclusiva. L'arte dell' autore è messa quindi al servizio di un precis9 scopo teologico, che è quello di ricentrare l'attenzione del lettore sul tema principale di tutta la pericope: quello dell'amore. Dal punto di vista interpretativo è inoltre importante chiarire quanti siano i gruppi di persone ai quali l'autore vuole rivolgersi con questa enumeratio. Egli usa infatti quattro diverse apostrofi per indicare i propri destinatari: >. I gruppi sono dunque quattro? Oppure tre? O meno? In realtà il primo appellativo di ciascuna serie potrebbe indicare la totalità dei destinatari: «figlioli» e «fanciulli» sono infatti due sinonimi e vengono usati con questa accezione generica in altri luoghi della lettera (cfr. l Gv 2, 1.28; 3,7.18; 4,4 e 5,21 per il primo; 2, 18 per il secondo). «Padri» e «giovani» individuerebbero invece una suddivisione interna al gruppo: in nessun luogo del Nuovo Testamento, infatti, uno di questi due termini viene adoperato per indicare la totalità di una comunità cristiana, e una ripartizione in giovani e anziani veniva già usata nell'Antico Testamento in riferimento al popolo dell'alleanza (cfr. Es 10,9; Is 20,4; Ger 31,34). Pur non essendo in grado di definire in modo chiaro i contorni di questi due sottogruppi, si può presumere che con > (Gen 3,6). Lo sguardo è attratto dal potere (Sal 18,28; Pr 6,17; 30,13), dalla ricchezza (Qo 4,8; Sir 14,10) e dal sesso (Gen 39,7; Gb 31,1). Considerata l'importanza che nel quarto vangelo riveste la tematica del «vedere» in quanto capacità di scorgere la realtà spirituale che si nasconde dietro quella materiale (cfr. Gv 9; 12,37-50; 20,8.18.24-29), anche in questo caso sembra opportuno considerare la «bramosia degli occhi» come la tendenza peccaminosa dell'uomo a fermare il proprio sguardo solo sulle realtà mondane.

(~ à:la(OII{LO: toi> ~(ou) - La decifrazione del!' espressione è resa complessa dalla rarità dei due termini e dall'ambiguità del loro nesso. B(oc;, che compare solo dieci volte in tutto il NT, si riferisce alla «vita terrena» (in opposizione alla vita eterna, indicata nelle opere giovannee con (WJ1), ma anche ai mezzi di sussistenza e quindi alla ricchezza. 'Ala( oli{ L«, invece, in tutto il NT ricorre solo qui e in Gc 4, 16; nel greco classico, il termine indicava soprattutto la «vanità», in quello ellenistico l' «ostentazione». I due usi neotestamentari sembrano accentuarne il senso di > si inserisce bene

2,17 La sconfitta del mondo

Questo versetto chiude la pericope dando \Ula solida motivazione escatologica al precedente divieto di amare il mondo e le cose del mondo: se in2,15b-16l'autore argomentava che il cristiano non deve amare il mondo poiché le passioni mondane sono inconciliabili con l'amore per Dio, qui scredita ulteriormente l'amore per il mondo ricordando ai suoi amati destinatari che tutto ciò che è nel mondo è destinato a finire. La costruzione di l Gv 2, 17 è molto incisiva nella sua semplicità: due frasi antitetiche i cui elementi sono disposti a formare Wl chiasmo. Esternamente si trova l'antitesi dei verbi («svanisce», «rimane in eterno»), ali' interno quella dei sostantivi («la sua [del mondo] bramosia>>, «la volontà di Dio»). Oltre a inserirsi perfettamente nel contesto, grazie ali 'uso della parola-gancio «mondo» (2, 16.1 7), il versetto sigilla l'intera pericope con \Ula ben studiata inclusione, ottenuta grazie alla ripresa del verbo paragetai, «svanisce», già usato in 2,8 con riferimento alla tenebra. Il messaggio con cui l'autore chiude questa sezione della lettera è una promessa altissim3, volta a rincuorare i destinatari sconfortati a causa di \Ula dolorosa divisione interna alla comunità: chi uniforma il proprio agire alla volontà di Dio - e questo richiamo, nel presente contesto, assume i chiari contorni dell'osservanza del coman-' damento nuovo dell'amore per i fratelli (2,8.9-11)- non deve temere la morte, perché vivrà in eterno. Non rimarrà invischiato nel destino mortale del mondo e delle sue ricchezze che svaniscono (2, 16-17), ma erediterà la vita eterna Queste parole ricordano da vicino quelle di Gv 8,51, dove il Signore aveva ann\Ulciato ai Giudei: «Se WlO osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno». Ma come è possibile ciò? Il fondamento della promessa è essenzialmente cristologico: infatti è proprio il Cristo il

65

PRIMA DI GIOVANNI 2,18

E il mondo, con la sua bramosia, svanisce; invece, chi fa la volontà di Dio rimane in eterno. 17

Fanciulli, è l'ora finale. Come avete udito che sarebbe venuto

18

nell'attesa apostolica della grande tribolazione che sarebbe venuta negli «ultimi giorni» (Eoxatln fv,.LépaL: cfr. 2Tm 3,1; 2Pt 3,3; Gc 5,3) o alla «fine del tempo» ("roxatoç :xpovoç: cfr. Gd 18) e che avrebbe preceduto il giudizio dell'«ultimo giorno» (éox&.tTI 1ÌI-!Épa: cfr. Gv 6,39; 12,48). Il NT non precisa mai né il momento né la durata di quest' «ora finale». Tale indeterminatezza è accresciuta dal fatto che le suddette espressioni escatologiche sono usate anche per indicare il momento storico della passione di Gesù (Eb l ,2; l Pt 1,20), ambivalenza che si ritrova pure negli scritti giovannei, dove, con il termine~ wpa, si indicano sia avvenimenti del ministero di

Gesù (il suo parlare apertamente [Gv 16,25], la dispersione dei discepoli dopo il suo arresto [Gv 16,32], la sua passione [Gv 12,23.27; 13,1]), sia eventi di un futuro più o meno lontano (l'adorazione in Spirito e verità [Gv 4,21.23], le sofferenze finali dei discepoli [Gv 16,2.4], il momento della risurrezione dei morti [Gv 5,25.28]). La l Giovanni sembra quindi usare l'espressione «ora finale>> in continuità con le affermazioni del Gesù giovanneo su «l'ora» che viene (Gv 16,2.4) e mostra di intuire un legame profondo tra l'esperienza storica della comunità giovannea di quel tempo e la passione redentrice del Cristo.

primo a fare la volontà di Dio (cfr. Gv 4,34; 6,38) e a ricevere da Lui il premio della risurrezione (Gv 8,28-29). E come il Figlio l«ma», a indicare una correzione: non avete bisogno dell'insegnamento di alcuno, ma rimanete fedeli all'unzione ricevuta. Per quanto riguarda le frasi rimanenti, quella più lunga al centro del versetto, introdotta da hOs, che può avere significato modale («come») o causale («poiché»), indica la ragione per cui i destinatari non hanno bisogno di alcun maestro: l'unzione stessa insegna loro ogni cosa. Le due successive, in forma di parallelismo antitetico - «essa che è veritiera e senza menzogna (letteralmente: e non è una menzogna)»-, formano come una parentesi all'interno dell'argomentazione, volta a confermare l'affidabilità dell'insegnamento dell'unzione. L'ultima, introdotta da kathlis e tradotta liberamente con

77

PRIMA DI GIOVANNI 2,27

Quanto a voi, invece, l 'unzione ricevuta da lui dimora in voi, così non avete bisogno dell'insegnamento di alcuno; è la sua unzione infatti che vi insegna ogni cosa - essa che è veritiera e senza menzogna- e voi, seguendone l'insegnamento, dimorate in essa.

27

poiché in questo paragrafo l'autore sta argomentando e non esortando. Non avete bisogno (oò XpElo:v ~Xt:n 'tvo:)L'uso di 'Lvo: al posto di un semplice infinito dopo la locuzione XpE(o:v exw è tipicamente giovanneo (cfr. Gv 2,25; 16,30). Dimorate UJ.Évut:)- Sembra meglio considerare il verbo j.LÉvut: come un presente indicativo, non imperativo. Si può così apprezzare il parallelismo delle due espressioni che indicano l'immanenza reciproca tra i credenti e l'unzione (j.J.Évu Èv 4.L1v ... ~VE'n iv aùt4ì). In questo modo, inoltre, il messaggio del paragrafo risulta più coerente (le tre frasi principali avrebbero un collegamento perfetto: voi non avete bisogno che alcuno vi istruisca, poiché l'unzione dimora in voi

e voi dimorate in essa) e non c'è alcuna ripetizione con ilj.LÉvnt: del v. 28, il cui valore imperativo è fuori discussione. In essa (È v o:Òtc\ì) - Ancora una volta la l Giovanni costringe a fare i conti con l'ambiguità del suo uso dei pronomi: a chi si riferisce questo o:Òtc\ì? La scelta può cadere su Gesù Cristo oppure su tò xp1crj.LIX, che è il soggetto neutro sottinteso dell'ultimo verbo (Ml~t:v), nonché della maggior parte dei verbi del versetto. Per rinforzare la coerenza interna del messaggio sembra preferibile attribuire il pronome a tò xp1crj.La (come in 2, l O lo si era attribuito alla luce), anche in base al già citato criterio della reciprocità tra i destinatari e l'unzione, che sembra essere l'asse portante del paragrafo.

«seguendone l'insegnamento», ha valore modale e riprende in forma abbreviata la proposizione centrale introdotta da hos: come spesso accade nella letteratura giovannea, la congiunzione kath6s può indicare un legame teologico profondo tra le due realtà che unisce, suggerendo, in questo caso, non solo che il credente è chiamato a seguire l'insegnamento proveniente dall'unzione, ma che l'unzione stessa gli comunica la forza e la grazia per rimanervi fedele (cfr. l Gv 2,6). Dal punto di vista compositivo, è chiaro che questo brano è parallelo a quello di 2,20-21: entrambi, infatti, usano il termine e della e, a volte, il «coraggio» necessari per affennare la verità. In seguito il sostantivo passò dali 'uso politico a quello privato, per designare le qualità morali positive dell'amico («schiettezza», >. La nostra lettera è poi la prova che nella comunità del Discepolo amato questo insegnamento fu conservato e tramandato, tanto che chi scrive può basare tutta la sua argomentazione sul fatto che i suoi figlioli «sanno» che «Dio è giusto». Anche la presente pericope appare quindi come l'elaborazione di un dato presente nella predicazione giovannea originaria: quello della giustizia di Dio, che permette all'autore di dimostrare la figliolanza divina di tutti coloro che praticano la giustizia.

PRIMA DI GIOVANNI 3,1

3

82

"15E"C€ ltO"Calt~V àycXltflV 5É5WK€V ~}llV Olta"C~p, lVa "CÉKva eeou KÀfl8W}l€V, KaÌ ÈO'}lÉV. 5tà tOUtO KOO'}lOJ.ttv) nel codice Vaticano (B) e nel codice di Mosca (K). La lezione scelta è riportata dal Sinaitico (K),

o

dal codice di Efrem riscritto (C), dal codice Porfìriano (P) e dal testo bizantino, Essere chiamati figli di Dio (C va. tÉKva. 9Eou KÀT]9W~-tEv)- La congiunzione 'L va., correlata al pronome 1Tota.1T~v, è usata qui in modo anomalo: la lingua greca richiederebbe una frase con verbo all'infinito. Il suo valore, comunque, è dichiarativo. 3,2 Quando sarà manifesto (Èàv $a.VEpw9fl)

3,1-10 Elaborazione: i figli di Dio compiono la giustizia, non il peccato L'elaborazione del tema annunciato in 2,29 è simile a quella incontrata nelle

prime due pericopi della lettera (l ,5-2,6 e 2, 7-17), in quanto si basa su quattro brani di stile argomentativo disposti in modo concentrico (A: 3,1-2; B: 3,3-6; B': 3,7b-9; A': 3,10) attorno a una breve esortazione: «Figlioli, nessuno vi inganni!» (3,7a). L'autore vuole dimostrare un forte legame tra l'agire concreto dell'uomo- che può essere improntato o alla giustizia o al peccato - e la sua provenienza divina o diabolica. L'argomentazione appare accurata e completa, creando precise connessioni tra il comportamento degli uomini, le sue cause e i suoi effetti: la pericope dimostra, infatti, che ogni uomo manifesta di chi è figlio e dove sta andando proprio nelle sue scelte quotidiane, a cui si fa riferimento con i due sintagmi antitetici «compiere la giustizia» (2,29; 3,7b) e «compiere·il peccato»l«peccare)) (3,4.6.8), affiancati dai due complementari di forma negativa «non compiere peccat@/«non peccare)> (3,6.9) e «non compiere la giustizia» (3, l 0). La strutturazione raffinata di questa elaborazione riporta ancora una volta l'attenzione del lettore sulla necessità di discernere ciò che risponde a verità e ciò che invece non è che inganno e falsità. L'autore suggerisce quindi le seguenti corrispondenze tra ciò che appare e ciò che è in realtà: chi compie la giustizia e non pecca proviene da Dio (A: 3,1; B: 3,6a; B': 3,9) e va verso Dio (A: 3,2); chi invece pecca e non fa la giustizia non conosce Dio e moltiplica l'empietà (B: 3,6b), dimostrando infine di provenire dal diavolo (B': 3,8; A': 3,10). 3,1-2 La manifestazione futura dei figli di Dio

Come nella seconda pericope, anche qui l'annuncio del tema è seguito da un commento: là per mettere in evidenza la verità di quanto annunciato (2,8b ), qui per esaltarne la gÌ'andezza (3, l). Il tono appassionato di questo brano invita infatti a considerare con meraviglia che il nostro essere figli di Dio - affermazione che

83

3

PRIMA DI GIOVANNI 3,2

Vedete quale grande amore ci ha riservato il Padre: essere chiamati figli di Dio ... E lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: poiché non ha conosciuto lui. 2Amati, ora siamo figli di Dio; che cosa saremo non è ancora manifesto. Sappiamo comunque che quando sarà manifesto, ci scopriremo simili a lui, poiché lo vedremo così com'è. 1

- Letteralmente: «quando si dovesse manifestare», con una sfumatura eventuale che indica l'incertezza del momento ditale manifestazione (cfr. lGv 2,28). C'è chi interpreta la frase come riferita a Cristo: ((quando egli si dovesse manifestare». La costruzione del brano suggerisce piuttosto di leggere questo verbo come parallelo al precedente ~ljlav~pw9T) e di riferirlo quin-

di alla manifestazione dell'identità futura dei figli di Dio (l'accenno alla parusia del Cristo sarebbe infatti un elemento estraneo in questa pericope). D'altra parte, nella l Giovanni il verbo cjlav~pow si riferisce a diverse manifestazioni: all'incarnazione del Figlio in 3,5.8, alla sua manifestazione escatologica in 2,28 è qui ali' identità futura dei figli di Dio.

riprende la conclusione del sillogismo che apriva la pericope (2,29) - è segno detl 'immensità del suo amore. Queste due realtà -l'amore di Dio e il nostro essere suoi figli- appaiono in tal modo collegate in un rapporto di causa-effetto. L'invito a questa contemplazione meravigliata offre poi lo spunto per una deduzione amara: in quanto figli di Dio, i cristiani subiscono il medesimo trattamento riservato dal mondo al Padre, venendo ignorati e misconosciuti proprio come Lui. Il brano prosegue con altri due periodi di tono argomentativo, strettamente connessi tra loro, che vanno analizzati con cura per rendeme trasparente il messaggio potenzialmente ambiguo. L'autore avvia il discorso con una frase che ribadisce la figliolanza divina dei veri credenti («Amati, ora siamo figli di Dio») per poi gettare lo sguardo sul loro futuro, che appare ancora misterioso, poiché «che cosa saremo non è ancora manifesto». Il terzo periodo, di tipo ipotetico- con protasi («quando sarà manifesto»), apodosi («ci scopriremo simili a lui>)) e motivazione («poiché lo vedremo così com'è») -, è costruito in modo parallelo al secondo, del quale riprende i verbi fondamentali (ephanerbthelphanerothii: «è/sarà manifesto»; es6metha: «saremo/ci scopriremo»), rispondendo alla questione su «che cosa saremo)>. Il filo del ragionamento dell'autore sembra il seguente: ora siamo «figli di Dio», ma non sappiamo che cosa saremo; quando però negli ultimi tempi vedremo Dio, ci scopriremo «simili a lui>). Ci si può chiedere che differenza ci sia tra queste due affermazioni: tra Dio e noi può esistere un grado di somiglianza più elevato che l'essere suoi figli? Sul piano dell'essere la risposta è di certo negativa, come sosteneva già sant'Agostino: «Che altro saremo, infatti, se non figli di Dio?)) (Commento alla Prima lettera di Giovanni 4,5). È sul piano della conoscenza che ci sarà un cambiamento: ora sappiamo di essere figli di Dio, ma ci manca il termine di paragone, quindi non possiamo apprezzare la nostra somiglianza con Lui; quando invece potremo vedere Dio faccia a faccia, questa visione ci permetterà di scoprire come e quanto siamo

84

PRIMA DI GIOVANNI 3,3

K àyv{~Et ÈI.Kau)ç Èotw, «è giusto»), 3, 7 (Ka9Wc; ÈKE1voç I>(Kat&; Èmw, «come egli è giusto>>) e quella che segue la nostra (Kaewç ÈKE:Lvoç àyvoç Èonv, «come egli è purm>). Si purifica (rxyvil,H axm6v)- Il verbo U.yvil,w, : ullo lìwj36J.ou ). Questo appellativo giovanneo può rifarsi a Gv 8,44, dove si afferma che i Giudei hanno per yvWOO]JE9a ÈK rijç > una persona assalita da ira, paura o turbamento (sarebbe il significato migliore, p. es., per Mt 28,14, dove la CEI traduce «persuaderemo»). Questo secondo significato sembra il più adatto nel nostro caso, poiché indicherebbe l'atto di portare la pace in un cuore turbato. Il ... cuore (t~v Kapotav)- Nel linguaggio antropologico biblico il sostantivo Kap&ta, normalmente tradotto con «cuore», può assumere diverse sfumature di significato: il cuore come sede delle emozioni (2Cor 7,3; Fil 1,7), la coscienza come sede delle decisioni morali (At 2,37), la mente come sede dell'intelligenza (At l ,24). Nel nostro caso il riferimento semantico migliore è quello alla

prova per testame la verità, come quelle già fomite nelle pericopi precedenti per smascherare le varie pretese degli avversari: quella di essere in comunione con Dio (1,6) e di conoscerlo (2,4), quella di dimorare nella luce {2,9.11), quella di possedere il Padre (2,23) o di esserne stati generati (3,7-9). L'autore ha già spiegato che l'autenticità di ciascuna di queste pretese doveva essere provata con atteggiamenti concreti: il camminare nella luce (1,7),l'osservare i comandamenti di Dio (2,3), l'amare i fratelli (2,10), il professare la fede in Gesù Cristo (2,23), il compiere la giustizia (2,29; 3,7) e il non commettere peccato (3,9). Questa volta sostiene molto semplicemente che il vero amore non è quello puramente affermato, bensì quello concretizzato nelle scelte quotidiane. Collegando quest'esortazione al brano precedente si può concludere che l'espressione massima del vero amore è proprio il dono della vita compiuto da Gèsù per i fratelli. 3,19-22 La grandezza di Dio, nostra salvezza La seconda tavola di questo secondo dittico è un vero grattacapo per gli esegeti, a motivo dell'ambiguità e complessità della sua costruzione gre-

99

PRIMA DI GIOVANNI 3,21

ln questo, infatti, sapremo di provenire dalla verità, così dinanzi a lui rassicureremo il nostro cuore, 20qualsiasi cosa esso ci rimproveri, poiché Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. 21 Amati, se poi il cuore non ci rimprovera, possiamo stare a testa alta di fronte a Dio 19

coscienza, pur mantenendo nella traduzione il più evocativo «cuore». 3,20 Qualsiasi cosa (6n M.v)- L'interpretazione che a mio giudizio riserva il significato più limpido a questo difficile versetto è quella che legge il primo ot L non come congiunzione («che», «poiché»; cosi la Vulgata), ma come la forma dell'accusativo neutro del pronome relativo indefinito oonç, ilnç, on, «chiunque», «qualunque>> (anche se regolarmente il nominativo e l'accusativo neutro singolari dovrebbero essere scritti separatamente: o n). La grammatica la supporta egregiamente, poiché il verbo K«taywooKw, suo Spirito, ossia parte del suo Spirito. Altrimenti detto: ci partecipò il suo Spirito, ci rese partecipi di esso.

del ) e afferma che l'obbedienza ai comandamenti è una prova evidente della comunione intima tra il cristiano e Dio (realtà evocata dalla formula dell'immanenza reciproca: egli «dimora in Dio e Dio in lui»). L'altro pe~odo- «Inoltre sappiamo ... »- aggiunge un'ulteriore prova alla già descritta realtà di comunione, espressa in questo caso da una formula di immanenza unilaterale («che [Dio] dimora in noi»): l'essere resi partecipi del dono dello Spirito Santo. Il procedimento usato è quello abituale della nostra lettera: l'autore fornisce ai suoi destinatari alcune semplici prove con cui testare la verità di una pretesa realtà spirituale. In questo caso la realtà interiore da verificare è la comunione con Dio e i suoi segni esteriori sono due: l'osservanza dei comandamenti (ovviamente quelli della fede e dell'amore ricordati in 3,23) e il possesso dello Spirito, di cui si parlerà nel versetto seguente.

PRIMA DI GIOVANNI 4,1

4

1 ~yamrroi,

104

ll~ navt'Ì nvEU].lan mcrt'EUE'tE à.Mà

ÒOKl.].lcX~Et'E 'tà nvEU].la'ta Ei ÈK t'OU 8EOU Ècrnv, on noÀÀoÌ \jJEuÒonpo) (4,2)- é alla

106

PRIMA DI GIOVANNI 4,3

mxv ltVEU}l(l O}l~ Ò}lOÀoyei TÒV 'lfJCYOUV f:K TOU eeou OÙK EO'TlV' KaÌ TOUTO Èanv TÒ TOU àvnxptO'TOU, 8E>)- sia per articolazione del pensiero- in entrambi l'autore, usando la prima persona plurale, inserisce il proprio scritto nel

115

PRIMA DI GIOVANNI4,15

Noi abbiamo contemplato e testimoniamo che il Padre ha inviato suo Figlio come salvatore del mondo. 15 Chi confessa che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio. 14

perché richiama il discorso sul fondamento della verità espresso nel prologo della lettera (cfr. 1,1). Salvatore (ow-olp)- Questo termine, un hapax nelle lettere giovannee, è in realtà un titolo che i cristiani attribuirono a Gesù solo in epoca recente. Il quarto vangelo lo usa una sola volta, nella professione di fede della Samaritana (Gv 4,42).

4,15 Dio dimora in lui ed egli in Dio (ò 6Eòc;

i: v llÒt>), rendendo così il tutto: «Questo sappiamo: che dobbiamo amare i figli di Dio, se vogliamo amare Dio e metterne in pratica i comandamenti)).

Mettiamo in pratica (lTOl~Ev) -Alcuni codici, tra cui il Sinaitico (K) e il Porfiriano (P),

cosi come il testo bizantino, sostituiscono lTOlWJ..LEV con tT)pWJ..LEV, «osserviamo)), che uniforma la frase a quella successiva del v. 3. La versione riportata, che è lectio difficilior, è invece sostenuta dal codice Vaticano (B), da quello della Laura del monte Athos ('P), da molti minuscoli greci, dalla Vulgata e da alcuni Padri latini.

osservanza è richiesta ai cristiani dall'autorità stessa di Dio, che ha comandato agli uomini di amare Lui (Dt 6,5) e il prossimo (Lv 19,18). Non si può non vedere in questa formulazione un ricordo della predicazione di Gesù, che riassunse tutta la Legge e i Profeti proprio nel duplice comandamento dell'amore per Dio e per il prossimo (Mt 22,34-40). 5,1-4 La fede e l'amore dei .figli di Dio vincono il mondo La pericope si chiude con questo brano dalla costruzione complessa che fonde insieme i due temi della fede e dell'amore, ricapitolando alcuni motivi sopra trattati: la fede in Gesù come segno dell'essere generati da Dio (5,1; 4,2), l'inscindibilità dell'amore per Dio e per i fratelli (5,1-2; 4,20-21 ), l:;t necessità di osservare i comandamenti (5,2-3; 3,24) e la vittoria dei figli di Dio sul mondo (5,4; 4,4). L'unità del brano è sottolineata dall'inclusione formata da «chiunque crede» (ptis ho pisti!Uon, v. l) e «la fede» (he pistis, v. 4), nonché dalla ripetizione di termini significativi: «generare», «amare» e «amore», . In questo modo l'autore si aggancia alla pericope precedente, che si chiudeva con l'accenno alla vittoria sul mondo operata dalla fede dei cristiani, specificandone meglio il senso: passa dal concetto astratto di «fede>> al più concreto «credere>>, e ne esplicita anche il contenuto, ossia «che Gesù è il Figlio di Dio>>. n fondamento di quest'affermazione è da rintracciare nelle parole affidate da Gesù ai propri discepoli e conservate in una pagina del quarto vangelo:·«Abbiate coraggio: io ho vinto il mondo» (Gv 16,33). Non è la fede in sé che permette al cristiano

124

PRlMA DI GIOVANNI 5,6

où-r6ç Ècrnv ò ÈÀ9wv òt' uòa-roç KaÌ at}laToç, 'lf'IOOU da apposizione. A essere venuto (o Èì..GWv)-Nellalinguagreca il participio aoristo non indica necessariamente un'azione passata, ma piuttosto un'azione momentanea. Nel nostro caso o Èì..GWv, ~~co-

o

lui che viene/è venuto», participio aoristo del verbo i'pxCJiuiL, è usato per riferirsi al preciso momento storico della venuta di Gesù, della sua missione terrena, secondo l'uso tipico giovanneo di questo verbo (cfr. Gv 1,9.11; 3,19; 5,43; 12,46). Per migliorare la fonna italiana, nella traduzione si è scelto di svolgere il participio in una frase esplicita: «a essere venuto». Attraverso acqua e sangue (OL' i>futoç Kt:Ù ai:~Jatoç)- Questa versione testuale è sostenuta dal codice Vaticano (B), da quello della

di vincere il mondo: essa si prospetta piuttosto come la via maestra per partecipare all'unica vera e definitiva vittoria sul mondo, ossia quella del Cristo che sconfigge la morte. Questo tema della vittoria sul mondo è tipico della letteratura giovannea; fuori di essa l'espressione che più vi si avvicina è un accenno al combattimento morale del cristiano in Rrn 12,21: «Non !asciarti vincere dal male, ma vinci il male col bene». La fonnulazione di l Gv 5,5 è comunque chiaramente ispirata al passo del discorso di addio pronunciato dal Gesù giovanneo (Gv 16,25-33). I contatti tra la nostra pericope e quella sono molteplici: anzitutto il tema della vittoria sul mondo (di Gesù in Gv 16,33 e del credente in l Gv 5,5), in secondo luogo quello della fede in Gesù come Figlio di Dio (Gv 16,30; lGv 5,5), poi quelli delle richieste rivolte a Dio nel nome di Gesù (Gv 16,26) e dellaparrhésia (di Gesù in Gv 16,25.29 e dei cristiani in lGv 5,14; il termine greco assume due sfumature di significato differenti: «franchezza» o «chiarezza» nel vangelo, nella nostra lettera; cfr. nota a 2,28). Anche in questo caso, quindi, pur non essendoci nell'annuncio del tema alcun riferimento diretto alla persona di Gesù e alle sue parole, si può facilmente dimostrare che nella nostra pericope è presente il ricordo di un insegnamento risalente al Maestro e conservato nella predicazione del Discepolo amato, che viene qui ripreso ed elaborato. 5,6-17 Elaborazione: i testimoni della fede in Gesù

Anche in quest'ultima pericope della l Giovanni l'elaborazione del tema viene fatta attraverso diversi brani di carattere argomentativo - per la precisione sei: 5,6a; 5,6b-8; 5,9-10; 5,11-12; 5,14-15; 5,16-17- che racchiudono, in questo caso un po' decentrata, un'esortazione {5,13). I sei brani possono essere suddivisi in una serie di tre coppie parallele. I primi quattro intendono anzitutto rassicurare i cristiani che la loro fede in Gesù è ben riposta - grazie alla presentazione in un climax ascendente di tre diversi testimoni: l'opera stessa di Gesù (A: 5,6a), lo Spirito Santo donato ai suoi fedeli (A': 5,6b-8), il Padre (B: 5,9-10)- e infine mo-

125

PRIMA DI GIOVANNI 5,7



lui infatti a essere venuto attraverso acqua e sangue: Gesù Cristo. E non nell'acqua soltanto, ma nell'acqua e nel sangue. È lo Spirito a testimoniar(lo), poiché lo Spirito è la verità. 7In Laura del monte Athos ('l'), dal testo bizantino, dalla Vulgata e da alcuni Padri latini. Sono da segnalare, però, molti casi di sostituzioni e aggiunte: c'è chi legge nVEI)j.latoc;, «spirito», al posto di at~-Latoç, «sangue>> (alcuni minuscoli greci e sant'Ambrogio), e chi aggiunge 1TVEI)j.latoc;, «spirito», come terzo elemento dopo a'(~-~«toç, , 6 }l~ mcr-reuwv "t«f'> 9EQ \fJeUO""tl'lV nEnOl11KEV aÙ"tOV, on OÙ nEntO"TEUKeV EÌç ~V }lapwpiav ~v }JE}Jap-rup11KEV ò eeòç nepi -rou uiou aù-rou. 11 Kaì au"tl'l ècr-riv ~ }laprupia, on >, ed è usato per individuare Wl bene non passeggero o parziale, bensì globale e definitivo. È Dio solo che può donare sèilom all'uomo nel tempo presente e in quello futuro(ls 9,5; 45,7; 57,19; Ez 37,26). È interessante notare come anche il Risorto, quando appare ai suoi discepoli, li saluta augurando loro la pace (Gv 20,19 .21.26), ossia la pienezza dei doni promessi da Dio a Israele e ora realizzati in Lui per i credenti. 4 Secondo il comandamento che abbi(/Tr/() rice-

vuto dal Padre (K«ElW) è più insolita di un triplice , «insegnamentO>>, ricorre solo in quest'occasione (2Gv 9.10). Lo si incontra invece tre volte nel quarto vangelo (Gv 7,16.17; 18,19), e sono proprio questi tre utilizzi che suggeriscono di leggere il genitivo «di Cristo» come sog-

duplice periodo ipotetico con frasi participiali egli contrappone i due casi opposti di chi non dimora nell'insegnamento di Cristo e di chi, invece, vi dimora. Dal punto di vista linguistico l'autore affianca al «non dimorare)) nell'insegnamento di Cristo anche l'azione dello «spingersi oltre)), espresso mediante l'hapax giovanneo proago; con questo verbo egli vuole sottolineare ancora una volta che la verità alla quale rimanere fedeli è quella ricevuta «da principiO>>, mentre tutte le altre idee, anche se spacciate per progressiste, in realtà si allontanano da quanto insegnato da Cristo e testimoniato dagli apostoli e sono dunque da guardare con sospetto, perché fonte di errore e di divisione. Per quanto riguarda l'argomentazione, l'autore prende l'atteggiamento esteriore del dimorare o meno nell'insegnamento di Cristo come prova visibile della realtà spirituale invisibile del «possedere Dio)): cosi egli afferma che chi non dimora in Cristo non possiede Dio e, viceversa, chi dimora in Cristo possiede sia il Padre sia il Figlio. L'espressione «possedere Dio)), che riprende toni propri del vocabolario anticotestamentario dell'alleanza («lo sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolO>>, Ger 7,23; cfr. anche Lv 26,12; Dt 29,12; Ger 24,7; 30,22; 31,33; 32,38; Ez 11,20; Zc 8,8), è una delle modalità usate nella letteratura giovannea per esprimere l' inabitazione comunionale profonda del credente in Dio (l Gv 2,23;

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SECONDADIGIOVANNI 1,11

il fiutto del nostro lavoro, ma di ottenere una ricompensa piena. Chlm1que si spinge oltre e non dimora nell'insegnamento di Cristo non possiede Dio; chi invece dimora nell'insegnamento possiede sia il Padre sia il Figlio. 10Se qualcm1o si presenta da voi senza portare questo insegnamento, non accoglietelo in casa e non rivolgetegli il saluto; "chi infatti gli rivolge il saluto entra in comunione con le sue opere maligne.

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gettivo: l'autore sta verosimilmente parlando dell'insegnamento che proviene da Gesù, l'insegnamento udito «da principio», come spesso ribadito nell'epistolario giovanneo (lGv 1,1-3; 2,7.24; 3,11; 2Gv 5.6). lO Non accoglietelo in casa (1.1~ ~VHE airròv Eic; oidav)- Tra gli interpreti non c'è consenso sul significato da attribuire al termine oiKla: si tratta delle abitazioni private dei membri della comunità, oppure della casa usata come chiesa domestica per le riunioni sacre? Il fatto che spesso, nell' epistolario paolino, il termine che indica la chiesa domestica sia oiKoç e non oiKla (Rm 16,5; l Cor 16,19; Col4,15) depone a favore della prima interpretazione: il presbitero starebbe vietando ai cristiani di offrire ospitalità anche solamente privata ai secessionisti.

ll Con le sue opere maligne (to1c; €pyoLç aùrou -ro1ç noVT)po1c;)- L'aggettivo noVT]p6ç, , nella letteratura giovannea assume spesso il significato di «vita» (cfr. Gv l O, 11.17; 12,25; 13,37.38; 15,13; lGv 3,16); per questo in 3Gv 2 potrebbe alludere alle recenti scelte di vita cristiana operate da Gaio e approvate dal presbitero. La traduzione «cammino spirituale» vuole inoltre recuperare il riferimento alla «strada» presente nel verbo eu~,

E0000009at KOCÌ.

che in italiano andrebbe altrimenti perso. 3 Sono molto felice infatti (~xapl)v yàp Ha v) -Come in 2Gv 4, l'aoristo greco può essere interpretato come epistolare ed è quindi traducibile in italiano con un presente: l'uso si spiega immaginando che l'autore si sia messo nei panni dei lettori e si sia riferito con verbi passati a tutte le cose che egli stava sperimentando nel presente, sapendo che al momento della ricezione della lettera esse sarebbero effettivamente già successe. Per quanto riguarda la trasmissione del testo va notato che il yap (che differenzia questa espressione da quella, analoga, di 2Gv 4), pur essendo omesso dal codice Sinaitico (K) seguito da una manciata di minuscoli, va mantenuto, poiché testimoniato dalla maggior parte dei codici. 4 Gioia (xapliv)- Il codice Vaticano (B),

TESTIMONIANZE DI VITA CRISTIANA (3-12) Il corpo della Terza lettera di Giovanni può essere diviso in tre paragrafi (vv. 3-8.9-10.11-12). Quello centrale è ben delimitato dall'inclusione ottenuta grazie alla ripetizione del termine «Chiesa» e del verbo «accogliere»: sono i vv. 9-10, che si differenziano dal resto anche per il contenuto, in quanto dedicati a Diotrefe e alla sua riprovevole condotta, ostile nei confronti del presbitero. Per quanto riguarda gli altri due paragrafi, il primo (vv. 3-8) è introdotto da una formula di ringraziamento (vv. 3-4) simile a quella di 2Gv 4, che conduce direttamente al cuore del discorso, in cui chi scrive si complimenta con Gaio per la sua condotta leale nei confronti dei fratelli, anche stranieri; il terzo (vv. ll-12) contiene un'esortazione a imitare il bene, seguita da una presentazione di Demetrio, un cristiano di fede comprovata, che l'autore vuole presumibilmente mettere in buona luce agli occhi di Gaio allo scopo di convincere quest'ultimo a ospitarlo. Dal punto di vista lessicale ci sono chiare corrispondenze tra il primo e il terzo paragrafo: essi contengono infatti diversi richiami ai temi della testimonianza (martyréo nei vv. 3.6.12; martyria nel v. 12) e della verità (alétheia nei vv. 3.4.8.12; aletMs nelv. 12), riportano l'allocuzione «amato» (agapeté, vv. 5.ll) e le uniche occorrenze del sostantivo «Dio» (the6s, vv. 6.ll ).

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TERZA DI GIOVANNI 1,4

Sono molto felice infatti che siano venuti dei fratelli a testimoniare in favore della tua verità, cioè di come tu stia camminando nella verità. 4Per me non c'è gioia più grande di sentire che i miei figli camminano nella verità. 3

insieme a un paio di minuscoli, alla versione copta bohairica e a qualche testimone latino, riporta la Variante XUPLV, «grazia», al posto di x~Xp(lv, «gioia>>. In questo tali versioni possono essere state influenzate dal linguaggio della «grazia)) presente all'inizio di molte lettere di Paolo (cfr. 1Cor 1,3; 2Cor 1,2; Gal 1,3; Col l ,2). Il riferimento alla gioia sembra invece caratteristico della produzione epistolare giovannea (cfr. anche 1Gv 1,4; 2Gv 4; 3Gv 3). Più grande (j..LEL(otÉpcxv) - Questo è un doppio comparativo di j..LÉycxç, «grande)). La lingua greca conosceva il comparativo 1-LE'((wv, «più grande)) (cfr. Gv I5,13), che nel tardo ellenismo viene enfatizzato con la fonna j..LEL(onpoç, un «comparativo di comparativo)), come se in italiano

si dicesse «inaggionnente più grande>>.

I miei figli (tà Èj..là tÉKvcx) - Questa espressione è un po' più fonnale dell'affettuoso tEKvla, «figlioli)), che si trova frequentemente in I Giovanni (lGv 2,1.12.28; 3,7.18; 4,4; 5,2I) con un significato pressoché analogo. Non bisogna quindi dare troppa importanza a questa differenza, poiché dedurne una maggior vicinanza del presbitero ai cristiani della propria comunità, a cui rivolge la prima delle sue lettere, sarebbe una forzatura. Più probabilmente siamo di fronte a una semplice variazione fonnale. Camminano nella verità (Èv tij cÌÀT)9~(Q: i!EpL ncxtoiìvtcx) - Per la spiegazione del significato di questo uso semitico del verbo i!EpL ncxtÉw, «camminare)), cfr. la nota a I Gv l ,6 e il commento a 2Gv 4-6.

3-8 La verità e l'amore di Gaio Come già in 2 Giovanni, l'autore si serve di una frase di rallegramento per passare dal prescritto al corpo della lettera. In questo caso il motivo della gioia del presbitero risiede nell'aver ascoltato la testimonianza di alcuni cristiani in favore della buona condotta di Gaio. Questo è il significato che deve essere dato all'espressione «camminare nella verità»: come avviene in modo caratteristico in tutta la letteratura giovannea, il concetto di verità non è da intendersi in senso puramente formale, né da limitare all'ambito della retta dottrina di fede; esso contiene piuttosto un riferimento al Cristo e al suo insegnamento sull'amore che arriva fino al dono di sé (cfr. Gv 13,34; 15,12-13; lGv 2,7; 3,11.18.23; 4,7.11; 2Gv 4-6). «Camminare nella verità» equivale dunque a camminare «come camminò lui» (l Gv 2,6). Il rallegramento del v. 3 viene poi rinforzato e motivato con un'affermazione di carattere generale riguardante l'intensità della gioia procurata al presbitero dal sapere che i suoi figli camminano nella verità. Infine, il fatto che l'autore si rivolga ai credenti delle sue comunità chiamandoli «fratelli» (v. 3) e «miei figli» (v. 4) fornisce anche un indizio sul legame che lo unisce a loro, cristiani della cui fede egli si sente responsabile perché appartengono a una comunità di tradizione giovannea, o forse addirittura perché arrivarono al battesimo grazie alla sua stessa predicazione.

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TERZADIGIOVANNI 1,5

o

1\yamtTÉ, moTòv notEiç €àv €pyaon dç Toùç à8EÀ>- «Non vi chiamo più servi.. .. Vi ho chiamati amici» (Gv 15,15) -, così il presbitero perpetua nella Chiesa la tradizione di rivolgersi ai fratelli nella fede con lo stesso appellativo, che eleva l'umanissimo sentimento dell'amicizia allivello del divino legame che spinse il Signore a portare a compimento la sua missione di amore nell'estremo dono di sé per «i suoi che erano nel mondo» (Gv 13,1).

LETTERA DI GIUDA

INTRODUZIONE

TITOLO E POSIZIONE NEL CANONE

L'iscrizione che la maggior parte dei codici antichi riporta come titolo dello scritto è il semplice nome dell'autore: «Giuda». Alcuni - tra questi il più antico è il papiro VII della collezione Bodmer [~ 72 ], del III secolo d.C.- aggiungono anche l'indicazione del suo genere letterario, che è quello epistolare: «Lettera di Giuda». Testo tra i più brevi di tutto il Nuovo Testamento (conta infatti solo venticinque versetti e quattrocentosessantuno parole), forse anche per questo nel canone biblico è stato posto a conclusione del gruppo delle sette lettere Cattoliche, dopo Giacomo, 1-2 Pietro, 1-2-3 Giovanni, subito prima dell'Apocalisse. A dire il vero, la Lettera di Giuda non sembra aver lasciato particolare traccia di sé né nella letteratura neotestamentaria, né in quella cristiana extrabiblica dei primi due secoli della nostra era. All'interno del Nuovo Testamento, infatti, il suo unico legame letterario universalmente riconosciuto è quello con 2 Pietro, che a oggi rappresenta il più antico testimone della sua esistenza, visto che la utilizza a più riprese nel proprio capitolo centrale (cfr. le corrispondenze tra Gd 5-16 e 2Pt 2, 1-22); nella letteratura extracanonica dei primi due secoli non è dimostrabile alcuna influenza diretta del nostro testo, anche se c'è chi ne ha riconosciuto degli echi nella Didachè, nella Prima lettera di Clemente Romano ai Corinzi, nello scritto del Pastore di Erma, nonché in Barnaba, Policarpo e Giustino. La situazione cambia dalla fine del II secolo in avanti, in quanto

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le attestazioni della Lettera di Giuda iniziano a moltiplicarsi. Tra tutti basti ricordare i nomi di Clemente Alessandrino 1 e Origene2, che tra la fine del II e l'inizio del III secolo la citano ritenendola canonica. Eusebio di Cesarea\ all'inizio del IV secolo, la inserisce accanto a 2 e 3 Giovanni nel gruppo dei testi disputati, ossia riconosciuti dai più, ma rifiutati da altri. Lo stesso Girolamo4 la accoglie, ma ammette che, anche ai suoi tempi, molti nutrono dubbi sulla sua canonicità, soprattutto a causa del fatto che essa utilizza come Scrittura alcuni apocrifi giudaici, in particolare il Primo libro di Enok. Al di là di queste perplessità, il gran numero delle attestazioni della lettera parla chiaro e testimonia che la questione della sua canonicità non fu poi così dibattuta: fin dal principio, infatti, essa si impose alla Grande Chiesa con meno difficoltà di quella di Giacomo o della seconda e terza di Giovanni. La resistenza maggiore ad accogliere nel canone questo scritto fu opposta dalle Chiese di lingua siriaca, che non inserirono la Lettera di Giuda nelle prime versioni della Peshitta (essa fece la sua comparsa nelle raccolte Filosseniana e Arclense solo nel VI secolo). Per quanto riguarda il resto della cristianità, essa fu invece riconosciuta universalmente: la Chiesa di Roma la nomina tra i testi sacri già alla fine del II secolo (Canone muratoriano) e la inserisce ufficialmente nel canone delle Scritture cristiane con il sinodo romano del382. Lo stesso avviene per le Chiese d'Africa nel concilio di Cartagine del397. Le Chiese copte la includono nelle versioni sahidica e bohairica della Bibbia all'inizio del III secolo.

ASPETTILETTERAJU Lingua e fonti L'autore della Lettera di Giuda si distingue per l'ottima padronanza della lingua greca: il suo vocabolario è ricco e Clemente Alessandrino, Pedagogo 3,8,44-45; Stromati 3,2, 11. Origene, Omelia sulla Genesi 13,2; Omelia su Giosuè 7, l; Commento a Matteo 17, l. Origene ammette però che alcuni avanzano dubbi a riguardo della canonicità di Giuda. 3 Eusebio, Storia della Chiesa 2,23,25; 3,25,3. 4 Girolamo, Gli uomini illustri 4. 1

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vario 5 , sempre appropriate e incisive sono le scelte lessicali, significativa è la conoscenza di espressioni che appartengono a un greco elevato, letterario e perfino poetico 6 • Anche la costruzione delle frasi, pur essendo abbastanza semplice, non scade mai nella banalità, è attenta all'effetto retorico e predilige l'ipotassi. Notevole è infine la presenza di assonanze e allitterazionF, ed evidente la passione dell'autore per le espressioni ternarie, che rappresentano un suo peculiare marchio stilistico (cfr. Gd 1-2.5-7.11). Nonostante le appena citate qualità del greco della nostra lettera, altri suoi aspetti di carattere sia linguistico sia culturale rivelano come la formazione del suo autore sia in realtà giudaica. Per quanto riguarda il primo aspetto, quello linguistico, va ammesso che il greco in cui è composto il nostro testo rivela un'impronta ebraica (seppur in misura minore che nella maggior parte della produzione giudaica in lingua greca) riconoscibile nella presenza di espressioni tipiche - quali, per esempio, «dalla terra d 'Egitto» (v. 5), «Guaialoro!»(v. 11), «incamminarsi sulla strada di ... » (v. 11)-, n eli 'uso di aoristi profetici (cfr. vv. 11.14) e nella composizione di chiasmi e parallelismi sinonimici e antitetici (vv. 1.5-6.10). Tutte queste caratteristiche sono catalogabili come semitismi. Per quanto riguarda il secondo aspetto, quello culturale, è innegabile che l'autore abbia una profonda conoscenza della letteratura 5 Si contano abneno dieci termini che non sono usati altrove in tutta la Bibbia greca: apodiorizo, «portare divisione» (v. 19); goggystis, «mormoratore» (v. 16); defgma, «esempiO>> (v. 7); epagonizomai, «lottare>> (v. 3); epaphrizo, «schiumare» (v. 13); mempsimoiros, «lamentoso» (v. l6);pareisdjo, «insinuarsi» (v. 4); spiltis, «scoglio» (v. 12);phthinoporinos, «di fine stagione», «autunnale» (v. 12); physilWs, «secondo natura», > (Gd 8), «animali irragionevoli» (Gd 10), «infidi scogli» (Gd 12), «lamentosi mormoratori» (Gd 16), «gente carnale, che non possiede lo Spirito» (Gd 19). Sono minacciati di subire le medesime punizioni dei peccatori, ai quali sono equiparati per la loro condotta immorale: gli increduli dell'Esodo (Gd 5), gli angeli ribelli (Gd 6), gli abitanti di Sodoma e Gomorra (Gd 7), Caino, Balaam e Kore (Gd 11). Vengono loro applicati gli oracoli di giudizio e condanna proclamati da Enok (Gd 14-15) e dagli apostoli (Gd 17-18). Questi toni infuocati e sanguigni servono all'autore per puntare severamente il dito contro i peccati da loro commessi e dai quali cerca di mettere in guardia i propri fedeli: i piaceri della carne, in particolare la lussuria (Gd 4.7-8.10.16.19) e la gola (Gd 12), la supponenza spirituale, rivelata dal loro linguaggio blasfemo nei confronti delle creature angeliche (Gd 8) e dall'arroganza nei confronti di Dio stesso (Gd 8.10.16), il rinnegamento della fede in Cristo Gesù (Gd 4). I destinatari della lettera sono così invitati a considerare seriamente le terribili condanne meritate dai peccatori del passato e a stare lontano dai falsi maestri per non incorrere nelle medesime tremende punizioni. Per rimanere nell'amore di Dio essi sono infine esortati a custodire la propria fede, a innalzare preghiere a Dio sotto la guida dello Spirito Santo e a sperare nella misericordia del Cristo (Gd 20-21). Questo ci conduce all'ultimo - ma non meno significativo asse portante del pensiero del nostro autore: la spiccata tensione escatologica, espressa nel caratteristico linguaggio apocalittico del tardo giudaismo rivisitato in chiave cristiana. L'attesa del ritorno del Cristo nelle vesti di giudice dell'umanità è viva e dà forza alla parenesi dello scritto: la partita per assegnare il destino eterno di ciascuno è ancora aperta e il suo risultato dipende da due fattori, uno certo e uno incerto. Quello certo è la misericordia di Cristo, cui ogni credente si deve affidare (Gd 21). Quello incerto è l'agire concreto del singolo: per quanti scelgono la via del male è riservato il regno dell'ombra in cui subire una diuturna punizione tra

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fiamme eterne, imprigionati da lacci indissolubili (Gd 6-7); per quanti invece si mantengono fedeli all'insegnamento apostolico si schiuderà un futuro luminoso, in cui sperimentare nell'esultanza l'amore paterno di Dio (Gd 21.24-25).

DESTINATARI, AUTORE E DATAZIONE

Occasione storica della composizione: destinatari, avversari, tempo e luogo Data la brevità della lettera e l'esiguità delle coordinate storiche che essa fornisce, bisogna cercare di trarre qualche informazione su autore, destinatari e circostanze della sua scrittura a partire dagli indizi sulla polemica con gli avversari in essa combattuti e dalle notizie che altri libri neotestamentari offrono sulla vita e sui problemi delle prime comunità cristiane. Benché dalla lettera appaia chiaramente l'intento di denuncia della condotta di alcuni falsi maestri, in realtà chi scrive non fornisce alcuna indicazione precisa riguardo alla loro identità. Dal testo si evince che tali persone, a cui l'autore si .riferisce sempre con toni spregiativi, sono caratterizzate da grande arroganza spirituale, che le fa illudere di essere superiori agli altri uomini e perfino agli angeli, immuni davanti al potere delle tenebre, tanto da lasciarsi andare alle più basse passioni carnali fino a essere completamente dominate dai propri istinti, sia per quanto riguarda l'esercizio della sessualità (Gd 4.8), sia per quanto riguarda il cibo (Gd 12). Inoltre le loro bocche si macchiano di ogni specie di turpiloquio (Gd 8.10.15.16) e i loro cuori sono prigionieri dell'avidità (Gd 11.16). Vista l'urgenza dell'intervento dell'autore (Gd 3-4), si può supporre che tali falsi maestri fossero dei predicatori itineranti, non ancora organizzati in un movimento che si opponeva apertamente al deposito della fede apostolica, ma che tentavano di infiltrarsi in sordina nelle varie comunità con l'intento di corromperle. A loro riguardo non sembra opportuno parlare di gnosticismo, in quanto nella polemica della lettera è assente qualsiasi riferimento al rigido dualismo cosmico che sarebbe diventato la caratteristica principale

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di questa eresia. Inoltre chi scrive lascia intendere che il problema principale non fosse di carattere dottrinale, bensì morale: la pericolosità di tali seduttori stava nel loro fattivo disprezzo della Legge che, oltre a corrompere i costumi e le coscienze dei credenti, alla lunga avrebbe messo in crisi tutta la dottrina salvifica cristiana. Sembra quindi che l'autore fosse di fronte a un movimento pregnostico con caratteristiche carismatiche e libertine, simile a quello affrontato da Paolo a Corinto. Quali indicazioni fornisce un tale quadro rispetto ali' indirizzo e alle circostanze storiche della composizione del nostro scritto? Per quanto riguarda i destinatari, dal momento che il prescritto rimane nel vago («agli eletti, amati da Dio Padre e custoditi da Gesù Cristo» [v. l]), bisogna accontentarsi di ipotizzare che fossero cristiani appartenenti a una o più comunità miste, formate cioè da persone provenienti sia dal giudaismo sia dal paganesimo, oppure a comunità giudeo-cristiane stabilitesi in territorio pagano. Questo perché, se da un lato il forte radicamento culturale giudaico della lettera implica destinatari giudei, dall'altro è difficile immaginare che un'eresia caratterizzata da tale libertinaggio morale potesse avere qualche chance di affermarsi o anche solo di mettere seriamente in crisi comunità cristiane di solida tradizione giudaica. Tutto ciò farebbe pensare ali' Asia minore come localizzazione più probabile di Chiese con tali caratteristiche. Anche per quanto riguarda la datazione non è possibile arrivare a una soluzione definitiva della questione, che è tutt'oggi dibattuta. Ci sono due punti fermi da tenere in considerazione: da un lato, il sostanziale accordo degli studiosi neli' affermare che 2 Pietro è a conoscenza del testo della Lettera di Giuda impedisce di ritenere che questa sia stata scritta dopo la fine del I secolo (2 Pietro è infatti datata nel primo decennio del II secolo); dall'altro lato, bisogna ammettere che movimenti libertini con caratteristiche simili a quelli combattuti da Giuda erano presenti a Corinto già attorno ali' anno 50, il che permetterebbe anche una datazione molto alta del nostro scritto. L'arco di tempo così individuato è piuttosto ampio, a dire il vero, però la maggior parte degli studiosi propende per datare la Lettera di Giuda tra il 70 e il 90 d.C., tenendo conto del fatto che

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Gd 17-18 sembra supporre una certa distanza dai tempi apostolici, che però non devono essere passati da molto, vista l'ancora viva attesa dell'imminente parusia (cfr. vv. 18.21). Autore Nel prescritto della lettera l'autore fornisce di sé le seguenti informazioni: «Giuda, servo di Gesù Cristo e fratello di Giacomo». Rispetto all'indeterminatezza cui ci aveva abituato l'epistolario giovanneo, qui troviamo un nome proprio, «Giuda», l'indicazione di un ruolo, «servo di Gesù Cristo», e quella di una parentela, «fratello di Giacomo», il che sembra essere una gran quantità di materiale! Sfortunatamente, però, la larghissima diffusione dei due nomi Giuda e Giacomo nelle prime comunità cristiane di tt:adizione giudaica complica la questione. Se l'autore specifica di essere «fratello di Giacomo», ciò significa che questo Giacomo doveva godere di grande stima presso le comunità cui Giuda si stava rivolgendo. Tale considerazione farebbe pensare al Giacomo originario di N azaret e nominato come fratello di Gesù insieme a «Giuseppe, Simone e Giuda» in Mt 13,55 e Mc 6,3. Questi non è da confondere con l'apostolo Giacomo, figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni (Mc l, 19), che fu messo a morte nel 44 d.C. da Erode Agrippa. Il Giacomo in questione è quello anche detto «il Minore» (Mc 15,40) e «il fratello del Signore» (Gal l, 19), uomo che, al pari degli altri parenti di Gesù, non lo seguì come discepolo negli anni della sua predicazione (Gv 7,3-5), ma si convertì e credette in Lui solo dopo la sua morte, in seguito a una sua apparizione da Risorto (lCor 15,7). Egli fu poi considerato una delle tre «colonne» della comunità di Gerusalemme (Gal 2,9) e fu posto a guida di tale Chiesa (cfr. At 12,17; 15,13; 21,18). Questi probabilmente è il Giacomo a cui si deve la scrittura dell'omonima lettera conservata nel Nuovo Testamento (cfr. Gc l, l). A questo punto dovrebbe essere più facile stabilire l'identità dell'autore della nostra lettera: se è vero quanto egli afferma (e cioè che sarebbe «fratello di Giacomo») e se è corretto quanto si è cercato di dimostrare sopra (ovvero che questo Giacomo è il «fratello del Signore»), allora il nostro Giuda non deve essere identificato

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con nessuno dei due appartenenti al gruppo dei Dodici che portano lo stesso nome, ossia l'«Iscariota» (Mt 10,4; Mc 3,19; Le 6,16; Gv 6,71) e il «figlio di Giacomo» (Le 6,16; cfr. anche At 1,13), che nelle liste di Matteo e Marco è sostituito da un certo Taddeo (Mt 10,3; Mc 3,18), con il quale è tradizionalmente identificato. I ~j)lO'tT)'ta OÈ à8E'tOUO'lV ò6~aç ÒÈ 7

~Àa: l'accenno iniziale alla loro futura condanna trova quindi in questo oracolo il suo compimento più tragico. È interessante anche notare come chi scrive ritorni qui sui peccati che i suoi avversari hanno commesso con la parola: pretendendo di essere maestri, sarà inevitabile per loro venire giudicati pure per tutto quanto avranno fatto uscire dalla loro bocca! A questo punto l'autore, per non lasciare adito a dubbi, passa all'accusa diretta dei falsi maestri (v. 16), dando in tal modo piena giustificazione alla precedente minaccia di giudizio. Egli li definisce anzitutto goggystaì mempsimoiroi, «lamentosi mormoratori», usando due termini greci molto rari che richiamano però, in modo assai preciso, quello che può essere considerato il peccato originale degli lsraeliti nel deserto: la mormorazione contro Dio, ossia il pensare di essere in grado di gestire la propria vita meglio di quanto stesse facendo il loro liberatore (cfr. Es 16,2.12; Nm 14,2.26-30.36-38; Dt 1,27; cfr. anche 1Cor 10,10). Tale mormorazione contro Dio, per di più, non rimane un puro affronto verbale: indica una totale perdita di fiducia nei suoi confronti, che si concretizza in primo luogo in un categorico rifiuto della sua parola e dei suoi comandamenti, istarttaneamente sostituiti da parole e desideri umani. In tal modo la superbia e la caparbietà dell'uomo finiscono per farlo cadere nella schiavitù dei propri istinti (cfr. Ger 18,12). Ecco fin dove si sono spinti tali impostori: tranciato ogni legame con Dio, proferiscono contro di Lui bestialità di ogni sorta, accusandolo di ogni loro insoddisfazione, mentre blandiscono con parole suadenti i potenti del mondo, di cui sono pronti a coprire ogni colpa e ad assecondare ogni turpe disegno pur di ricavame potere, ricchezza e fama.

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GIUDA 1,17

'Y}leiç OÉ, àyamrroi, }lV~oerrrE rwv prl}l>, che nel caso di una lettura pubblica del messaggio sarebbe stata pronunciata in forma assembleare, l'autore invita i propri destinatari a unirsi a lui in questa proclamazione di lode e ad affidare personalmente la propria vita al Dio di Gesù Cristo, unico vero Salvatore dell'uomo.

LE LETTERE DI GIOVANNI E GIUDA NELL'ODIERNA LITURGIA

Le lettere di Giovanni nel mistero pasquale Le lettere di Giovanni sono presenti nei Lezionari in modo quasi esclusivo attraverso la prima lettera, che da sola offre alla liturgia circa sessanta letture, distribuite praticamente lungo tutto l'anno liturgico. Per dare avvio al nostro percorso di scoperta prendiamo tra le mani quanto è previsto per liturgia festiva dell'Anno B quando, nel Tempo di Pasqua, la seconda lettura è sempre tratta dalla Prima lettera di Giovanni. Conviene ricordare come il Lezionario, nei tempi "forti" (Avvento/Natale, Quaresima/Pasqua, solennità ... ), adotta un criterio che collega in modo diretto e unitario tutte e tre le letture, offrendo alla comunità un quadro tematico ricco e composito, esplicitato dal Messale italiano nella Colletta propria, che sappiamo essere composta ad hoc. Nella seconda domenica di Pasqua il trittico scritturistico è formato da Gv 20,19-31 (Gesù e Tommaso con i discepoli, brano comune a tutti e tre i cicli), daAt 4,32-35 (la comunione dei beni nella comunità cristiana) e lGv 5,1-6 (l'amore per Dio genera l'amore per i fratelli). La preghiera che il sacerdote innalza a conclusione dei Riti di introduzione, mette in luce la verità profonda del mistero che si sta celebrando: «0 Dio, che in ogni Pasqua domenicale ci fai vivere le meraviglie della salvezza, fa' che riconosciamo con la grazia dello Spirito il Signore presente nell'assemblea dei fratelli, per rendere testimonianza della sua risurrezione». In questo orizzonte la pericope di l Gv sottende e custodisce le motivazioni profonde e irrinunciabili che spingono la Chiesa a formulare la petizione contenuta nell'eucologia: «Chi ama colui che ha generato (Dio,

LE LEITERE DI GIOVANNI E GIUDA NELL'ODIERNA LITURGIA

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ndr), ama anche chi da lui è stato generato (fratelli, ndr)» (lGv 5,1). L'autore della Lettera non lascia spazio a dubbi: riconoscere il Cristo risorto e testimoniarlo è possibile solo se, rigenerati da Dio, ci si dedica ali' amore per il fratello nella vita comunitaria. La terza domenica, a partire dalla glorificazione di Cristo «vittima di espiazione per i nostri peccati» (l Gv 2,2) messo a morte per l'ignoranza degli uomini e risuscitato da Dio (At 3,15.17), insiste sul tema della conversione (Colletta), secondo il comando stesso di Gesù che invia i propri discepoli a predicare il perdono dei peccati (Le 24,35-48). La finezza e genialità di l Gv si fa apprezzare in tutta la sua forza, permettendoci di tenere unito il tema della metànoia personale con quello dell'annuncio al mondo: chi conosce e annuncia veramente Gesù Cristo? Chi osserva la sua parola (lGv 2,5). Piuttosto articolata risulta essere l'orazione per la quarta domenica, che dello scritto giovanneo riprende il motivo della filiazione divina, così come la breve pericopescelta (lGv 3,1-2) afferma con forza e stupore: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (lGv 3,la). La Colletta sintetizza la lectio evangelii (Gv l O, 11-18) parlando di «unità di una sola famiglia» quando invece ci saremmo potuti aspettare l'espressione «unità di un solo gregge»: la scelta dà in questo modo una significativa priorità al campo semantico della Lettera rispetto a quello del Vangelo stesso.. La quinta domenica, stando alla seconda lettura (lGv 3,18-24) e al Vangelo (Gv 15,1-8), presenta due tratti meravigliosi della letteratura giovannea quali la forza icastica e la plasticità simbolica. Stando al solo incipit della pericope che a noi ora interessa trattare, apprezziamone la salutare e inequivocabile schiettezza: «Figlioli, non amiamo né a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità». Il Messale italiano, nella Colletta del giorno, sceglie di rendere questa fattiva qualità dell'amore con l'aggettivo «sincero», utilizzato nella Vulgata prevalentemente per tradurre Paolo ma molto presente nell'eucologia latina sotto varie forme, non da ultimo nella Preghiera eucaristica IV, quando nelle intercessioni si prega per coloro che cercano Dio «con cuore sincero». L'ermeneutica liturgica, grazie a queste comparazioni, ci permette di intendere e

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dire qualcosa che raramente nel linguaggio comune e nel discorso morale riusciamo a mostrare: la sincerità è praticamente di quella carità che promana dall'unione a Cristo, è trasparenza del "rimanere" in Dio. La sesta domenica, nuovamente, ha in l Gv 4, 7-l O il tesoro semantico e lessicale che permette la sorprendente apertura dell'orazione di Colletta, dove ci si rivolge al Padre riconoscendo in lui l'originante e originaria gratuità della salvezza: «0 Dio, che ci hai amato per primo e ci hai dato il tuo Figlio, perché riceviamo la vita per mezzo di lui, fa' che nel tuo Spirito impariamo ad amarci gli uni gli altri come lui ci ha amati, fino a dare la vita per i fratelli». Il testo eucologico attinge poi esplicitamente al brano evangelico che in quel giorno viene proclamato, ossia Gv 15,9-17, risultando felice per la capacità di mettere in rilievo l'asimmetrica e prioritaria libertà di Dio che precede e rende possibile ogni risposta umana. Infine, nella settima domenica, lì dove il testo evangelico riconduce la comunità cristiana al sublime, intimo, intenso dialogo di comunione tra Gesù e il Padre (Gv 17,11b-19), 1Gv 4,11-16 giunge all'affermazione forse più alta e rivelativa di tutta l'opera: «Dio è amore; chi rimane nell'amore rimane in Dio e Dio rimane in lui». Il mistero della vita cristiana? Stare nella danza amorosa che ritma il cuore di Dio. Sul versante strettamente eucologico ci accorgiamo che il Tempo di Pasqua offre alla preghiera della Chiesa due prefazi che attingono dali' orizzonte teologico e lessicale di l Gv, ossia il Prefazio di Pasqua I e il Prefazio di Pasqua III. Tra i due, merita una particolare attenzione il secondo, perché integra un aspetto proprio della Lettera, lì dove ai versetti 2, l b-2 leggiamo: «Se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre, Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo». Balza subito agli occhi come, a differenza del quarto vangelo, l'appellativo "Paràclito" non indica lo Spirito Santo ma il Figlio, riconosciuto come colui che, in virtù dell'offerta di sé, è costituito come intercessore presso Dio. Durante la Messa, in apertura della Preghiera eucaristica, poco prima di unire le voci nel canto del Sanctus, il presbitero potrà quindi

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pregare: «È veramente cosa buona e giusta ... , o Signore, ... esaltarti in questo tempo nel quale Cristo, nostra Pasqua, si è immolato. Egli continua a offrirsi per noi e intercede come nostro avvocato: sacrificato sulla croce più non muore, e con i segni della passione vive immortale». Nel contesto di questo paragrafo incentrato sul mistero pasquale possiamo apprezzare la scelta compiuta dal Lezionario per le Messe dei defunti: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente ... » (1Gv 3,1-2).

Il tempo della manifestazione di Dio Udire, vedere, contemplare, toccare: queste le molteplici sfaccettature della totalizzante esperienza di fede che il Discepolo, traboccando di stupore, chiama in causa per testimoniare il dono ricevuto nella fede. Al principio della vita credente, al principio della comunione ecclesiale, al principio dell'annuncio missionario, vi è Gesù Cristo, il Verbo della vita (1Gv 1,1). I libri liturgici non mancano di designare il Signore con questo tipico appellativo giovanneo - Verbum vitae- in celebrazioni che potremmo dire dal "carattere originante", quali la Messa rituale del battesimo (Colletta: Dio che rigenera per mezzo del Verbo della vita), la Dedicazione di una chiesa (intercessioni della Preghiera eucaristica: la Chiesa condotta alla Gerusalemme celeste dal Verbo della vita), la Messa per l'evangelizzazione dei popoli (Colletta: il popolo di Dio riunito grazie al Verbo della vita). Proseguendo con 1Gv 1,2 afferma: « ... la vita infatti si manifestò, noi l'abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi». La Lettera si apre quindi riferendosi al gratuito e incondizionato darsi di Dio in Gesù Cristo e intercetta così il lessico più proprio al linguaggio simbolico-rituale, tutto incentrato sul mistero della "manifestazione" del divino. La liturgia è ricchissima di riferimenti più o meno espliciti alla riflessione giovannea, sia nei prefazi che nelle orazioni, poiché ogni celebrazione sacramentale è atto attraverso il quale dalle realtà visibili si procede alla contemplazione del Dio invisibile. Stando al versetto poc'anzi citato possiamo leggere l'edizione

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latina del Prefazio Comune VI, dove si ringrazia il Padre per il dono del Figlio qui voluntatem tuam adimplens.et populum tibi sanctum acquirens exténdit manus cum paterétur, ut mortem so/vere! et resurrectionem manifestare!. Distruggere la morte e manifestare la resurrezione è quindi il compito affidato al Salvatore: ciò che si realizza nel mistero pasquale ha il proprio cardine nell'incarnazione, come il Prefazio di Natale I afferma meravigliosamente. «Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente la luce nuova del tuo fulgore, perché conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all'amore delle realtà invisibili». Torniamo ora, per un istante, ai Lezionari del Tempo di Natale che, nel ciclo della feria e nel proprio dei santi, offrono di fatto una /ectio continua di l Gv scandita in ben 17 brani. Il mistero della nascita del Salvatore si sviluppa e amplifica nel calendario liturgico con sublime e mistica intensità: dopo Stefano, primo martire, con Giovanni apostolo e con i santi Innocenti, la Chiesa celebra il mistero dell'incorporazione a Cristo. La Prima lettura scelta per il 27 dicembre è l Gv l, 1-4 mentre per il 28 è l Gv l ,5-2,2: la proclamazione esistenziale del Vangelo - che prima d'essere un libro è Cristo stesso! -si radica nell'esperienza comunitaria dell'essere stati toccati/aver toccato il Verbo della vita, vittima di espiazione per i nostri peccati. Nella celebrazione dei sacramenti siamo messi in grado di attingere, e allo stesso tempo di approfondire, l'origine teologale della martyria cristiana: il testimone, può annunciare Cristo con la parola, la penna, il sangue, solo perché Dio abita la sua carne. Illuminante la colletta del 28 dicembre (da leggersi con il Prefazio dei Martiri, dove si cita l Gv 4, 15): «Signore nostro Dio, che oggi nei santi Innocenti sei stato glorificato non a parole ma col sangue, concedi anche a noi di esprimere nella vita la fede che professiamo con le labbra». Nella Messa per l'istituzione dei Lettori l Gv l, 1-4 torna puntualmente a ribadire: «quello che abbiamo visto e udito, questo annunziamo a voi» (così sintetizza il brano l' Ordo Lectionum Missae ).

Dio è luce Dunque, in Gesù, Dio si manifesta come luce (lGv 1,5). Nel Prefazio dell'Epifania, che fra i testi ispiratori ha anche l Gv 3,2

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leggiamo: «Oggi in Cristo luce del mondo tu hai rivelato ai popoli il mistero della salvezza, e in lui apparso nella nostra carne mortale ci hai rinnovati con la gloria dell'immortalità divina». Su questa linea, una delle preghiere di benedizione delle candele prevista per la Presentazione del Signore, dice: «0 Dio, creatore e datore di verità e di luce, guarda noi tuoi fedeli riuniti nel tuo tempio e illuminati da questi ceri ... ». Per quanto apprezzabile la traduzione italiana non permette di cogliere l'esplicito riferimento a lGv 2,8 e impoverisce la densità teologica dell'orazione, per cui scegliamo di citarla anche in latino: Deus, lumen verum, aeternae lucis propagator et auctor, cordibus infunde fidelium perpetui luminis claritatem, ut, quicumque in tempio sancto tuo splendore praesentium luminum adornantur, ad lumen gloriae tuae feliciter valeant pervenire. Cristo, vera luce mandata nel mondo, è anche al centro di una delle Collette legate alle celebrazioni "Per l'evangelizzazione dei popoli": «0 Padre, che hai mandato nel mondo il Cristo, vera luce, effondi lo Spirito Santo, che sparga il seme della verità nel cuore degli uomini e li disponga ali' obbedienza della fede, perché tutti i tuoi figli, ngenerati mediante il Battesimo, formino l 'unico popolo della nuova alleanza». Il contesto di una preghiera per l'evangelizzazione non può che concludersi con un riferimento iniziatico: il diradarsi delle tenebre (lGv 2,8) dipende dal cammino di progressiva incorporazione a Cristo nella Chiesa, attraverso l'esperienza catecumenale. Ecco che il Prefazio proprio della quarta domenica di Quaresima, costruito sull'episodio giovanneo del cieco nato, non manca di citare esplicitamente lGv 1,6: «Nel mistero della sua incarnazione egli (Cristo) si è fatto guida dell'uomo che camminava nelle tenebre, per condurlo alla grande luce della fede. Con il sacramento della rinascita ha liberato gli schiavi dell'antico peccato per elevarli alla dignità di figli». Anche la Colletta prevista per la memoria di sant' Ansgario (Oscar), il3 febbraio, chiede a Dio di poter camminare sempre nella luce della verità (in tuae veritatis luce iugiter ambulemus).

Dio è carità La solenne definizione teologica di l Gv 4,8 «Dio è carità» è introdotta non da argomentazioni di carattere sistematico e dottrinale

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quanto da una riflessione concernente la qualità della vita cristiana che, nella pratica dell'amore fraterno fondato su Cristo (lGv 4,11), giunge progressivamente alla scoperta di ciò che Dio è. Colui che in l Gv l ,5 si manifesta come luce, viene esperito come amore incondizionato a patto di accettare la compromissione ecclesiale, l'essere cioè immersi nelle dinamiche relazionali comunitarie scaturite dalla morte e resurrezione di Cristo. Nel Prefazio della Beata Vergine Maria Madre della Chiesa vengono riuniti tutti questi temi con un chiaro riferimento alle parole di Giovanni: «In questo sta l'amore (in hoc est caritas): non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri» (l Gv 4, l 0-11 ). Nel Messale infatti leggiamo: «Ai piedi della croce, per il testamento d'amore (testamentum divinae caritatis) del tuo Figlio, (Maria) estese la sua maternità a tutti gli uomini, generati dalla morte di Cristo per una vita che non avrà mai fine». Prima dell'epiclesi, nella Preghiera eucaristica dei fanciulli III, il sacerdote dice: «Padre veramente santo, pieno di bontà e di amore verso tutti noi, ti lodiamo e ti ringraziamo perché ci hai donato il tuo Figlio Gesù. Egli è venuto tra gli uomini che erano lontani da te e divisi tra loro a causa del peccato. Ha aperto i nostri occhi e il nostro cuore perché impariamo a riconoscere te, Padre di tutti, e ad amarci tra noi del suo stesso amore». La traduzione italiana, peraltro molto bella, non ci permette di vedere la citazione esplicita di l Gv 4,11 visto che il testo latino dice: lpse (Iesus) oculos nostros et aures aperuit, ut te Patrem omnium nostrum agnosceremus et nos alterutrum diligeremus. Nella cura concreta e verifìcabile, palpabile addirittura, Giovanni vede il realizzarsi della presenza divina: «Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (l Gv 3,18): prontamente la Post communionem della IX domenica del Tempo ordinario chiude la liturgia eucaristica dicendo: «0 Padre, che ci hai nutriti con il corpo e sangue del tuo Figlio, guidaci con il tuo Spirito perché non solo con le parole, ma con le opere e la vita possiamo renderti testimonianza e così entrare nel regno dei cieli». Non meno intensa la Colletta per la memoria di san Pietro Claver

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(9 settembre): «... concedi a noi (Padre), per sua intercessione, di cercare Gesù Cristo nel nostro prossimo amandolo con i fatti e nella verità». Possiamo qui citare l'unica Colletta, da utilizzarsi in occasione di una riunione spirituale o pastorale, che con certezza è tratta dalla Seconda lettera di Giovanni (2Gv 3) e che nella edizione tipica latina (non nella traduzione italiana) prega Dio di poter sperimentare misericordia e pace nella verità e nella carità. Tra i testi eucologici che esprimono chiaramente questo retroterra annoveriamo alcune Collette composte in riferimento al tema della perfezione e della santità cristiana. Alle parole di Giovanni «Chi invece osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto. Da questo conosciamo di essere in lui» (lGv 2,5) ecco fare eco l'orazione per il Comune dei Santi religiosi: «0 Dio, che hai chiamato san ... a cercare con tutte le forze il regno dei cieli nella via della perfetta carità (per caritatis perfectae prosecutionem vocasti), concedi anche a noi, che confidiamo nella sua intercessione, di progredire in cristiana letizia nel cammino del tuo amore». Il riferimento all'amore perfetto che si realizza in chi obbedisce a Dio è esplicito in altre due Collette: la prima, indicata per l'anniversario di professione religiosa, prega: «Rinnova Dio in lui (lei) lo spirito di perfetta carità»; la seconda, pregando per un religioso defunto, lo indica come colui che per amore di Cristo ha percorso la via della perfetta carità (pro Christi amore perfectae caritatis viam percurrit). Proprio tra le pagine del Proprio dei santi (25 agosto) ci imbattiamo in quella Colletta, forse la sola, che si ispira alla Terza lettera (3Gv 8): «0 Dio, che hai dato al tuo sacerdote san Giuseppe Calasanzio doni straordinari di carità e di sapienza... concedici di essere come lui cooperatori della tua verità». Che la Prima lettera di Giovanni si offra magnificamente per evidenziare e approfondire lo stretto rapporto che unisce l'amore degli uomini con l'amore di Dio lo dimostra il largo uso che ne fa il Lezionario nel Proprio dei Santi ( 15 letture) e nel Comune dei Santi e delle Sante (4 letture possibili) oltre alle Messe rituali per il matrimonio e nella consacrazione delle vergini e professione religiosa. A motivo della drammatica, toccante, delicata esperienza della morte, all'assemblea che nella celebrazione delle esequie si pone

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in ascolto di l Gv 3,14-16, è dischiusa la verità profonda del vivere cristiano: «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli ... ». Amare, per Giovanni, è atto escatologico!

La salvezza di tutto il mondo La Prima lettera di Giovanni ribadisce con forza la portata universale della salvezza offerta da Dio, mettendo in guardia la propria comunità cristiana da ogni potenziale deriva settaria ed elitaria. Cristo è vittima di espiazione per i peccati di tutto il mondo (l Gv 2,2): pro totius mundi. Nella Messa "Per l'evangelizzazione dei popoli", schema B, la preghiera Super oblata (che possiamo citare solo in latino a motivo dell'incompleta traduzione nel Messale italiano) dice: Munera supplicantis Ecclesiae, Domine, in conspectum maiestatis tuae ascendant accepta, cui pro totius mundi salute grata exstitit Filii tui passio gloriosa. Se poi consideriamo il sintagma totius mundi senza la preposizione pro, possiamo contare almeno 12 occorrenze nel solo Messale, tra le quali: Cristo ottiene la salvezza a tutto il mondo (Super oblata, venerdì quinta settimana di Quaresima), il sacrificio di redenzione cancella i peccati di tutto il mondo (Sulle offerte, san Gregorio Magno, 3 settembre), nell'altare della croce è tolta l'offesa/peccato del mondo (Sulle offerte, Esaltazione della Santa Croce, 14 settembre), grazie all'offerta di Cristo il Padre "scioglie" i delitti del mondo (Sulle offerte, Comune dei pastori; Sulle offerte, Commemorazione di un defunto), il sangue di Cristo lava i peccati di tutto il mondo (Preparatio ad missam, oratio S. Ambrosii), e.- non certo da ultimo - nella Preghiera eucaristica III "Per questo sacrificio di riconciliazione dona, Padre, pace e salvezza al mondo intero".

Il tempo della lode Attraverso le pagine della Liturgia delle Ore cerchiamo ora di guardare sinteticamente, secondo la scansione dell'Anno liturgico, alle Lettere di Giovanni. È il giorno di Natale ad aprire l'uso della Prima lettera, attraverso le Letture brevi. L'amore di Dio si è manifestato, il Padre ha mandato il suo Figlio, la vita si è manife-

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stata: a partire dal capitolo l si recupera il tema dello stupore, della gratitudine, della testimonianza. Il fine dell'offerta compiuta da Cristo? La comunione e la pienezza della gioia. Il Tempo di Natale esalta poi il capitolo l: Dio è luce e noi, suo popolo, camminiamo nella luce vivendo in comunione. A queste pericopi si aggiunge, la seconda domenica dopo Natale, il capitolo 5: la venuta di Cristo ci dà l'intelligenza per conoscere il vero Dio. Sul finire della Quaresima, il sabato della quinta settimana, il mercoledì, venerdì e sabato santo, le letture brevi dell'Ora media si soffermano sul tema del peccato, recuperando il capitolo l : non possiamo dire di essere senza peccato e, se confessiamo le nostre colpe, il Signore ci perdona, mediante la purificazione che viene dal suo sangue. Il capitolo 2 ha largo spazio nelle letture del sabato santo: Gesù è vittima di espiazione per i nostri peccati e per quelli di tutto il mondo. Così giungiamo al tempo di Pasqua, periodo mistagogico per antonomasia, che, riprendendo pericopi quali lGv 5,5-6a si rivolge ai credenti riportandoli a quel mistero di rigenerazione sacramentale (''sangue e acqua") che li ha uniti alla vittoria di Cristo sul mondo. Dalla sesta domenica di Pasqua al giovedì della settima è proposta la lettura dell'intera Lettera. Le pericopi sono accompagnate da scritti patristici molto ricchi e suggestivi, che approfondiscono contemporaneamente i temi del mistero di riconciliazione, del mistero dell'ascensione del Signore, del mistero di Cristo e della venuta dello Spirito Santo. Nelle solennità, per l'Annunciazione del Signore (25 marzo), ben tre Letture brevi sono tratte dal capitolo l : Primi vespri, Ora sesta, Secondi vespri. Il tema è nuovamente quello della manifestazione, della testimonianza e dell'annuncio del Figlio, dono d'amore del Padre, vittima d'espiazione per i nostri peccati. Nella Trasfigurazione del Signore (6 agosto) il responsorio dell'Ufficio delle letture utilizza lGv 3,1-2: noi un giorno saremo simili a Lui e potremmo vederlo com'è. Il Proprio dei santi ha, il 27 dicembre, festa di san Giovanni evangelista, come Prima lettura dell'Ufficio, l'introduzione alla Lettera sottolineando i temi dell'annuncio e della testimonianza apostolica come mezzo per la comunione tra fratelli, con il Padre

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e con il Figlio. Il responsorio ribadisce il senso dell'Opera agiografica: lo scrivere di Giovanni vuole condurre alla pienezza della gioia. Miglior pericope per l'evangelista non si poteva trovare! Il Comune dei santi della carità si sente perfettamente a proprio agio citando, come Prima lettura dell'Ufficio, il capitolo lGv 4, tutto incentrato sull'amore: Dio è amore, ci ha amati per primi e quindi dobbiamo amarci affinché possiamo essere in lui. Chi ama Dio ama suo fratello: il responsorio chiude con l Gv 5,3 ricordando che l'amore di Dio consiste nell'osservare i suoi comandamenti, non gravosi: amare come Dio ama è liberante!

La lettera di Giuda nei Lezionari Per brevità e stile, per contenuto e lessico, la Lettera di Giuda non sembra trovare grande fortuna tra i Lezionari e i testi eucologici. Cercando e ricercando nel messale e nei rituali, leggendo e rileggendo il testo ispirato, qualche piccola traccia forse possiamo scovarla. Proprio lì, nell'incipit, mentre il fratello di Giacomo rivolge il proprio saluto ai destinatari, stimola la nostra curiosità un'espressione molto bella, più unica che rara nel Nuovo Testamento, secondo la quale i credenti sono definiti «i custoditi da Gesù Cristo» (Gd l). Il testo della Vulgata utilizza in questo versetto il verbo conservo, presente in più orazioni, antifone, inni, formule (oltre una ventina di volte solo nel messale), con soggetto generalmente Dio (Dominus). In due importanti casi però, conformemente alla Lettera di Giuda, soggetto di questo conservare-custodire è Cristo stesso. In primis abbiamo la formula di preparazione del cero, durante il lucernario della veglia pasquale, nella notte santa. Dopo che il celebrante vi ha inciso una croce e vi ha segnato l'alfa e l' omega e le quattro cifre dell'anno corrente, può infiggere sulla figura appena tracciata cinque grani di incenso, dicendo: «Per mezzo delle sue sante piaghe gloriose ci protegga e ci custodisca il Cristo Signore. Amen». L' editio typica scrive: Per sua sancta vulnera gloriosa custodia! et conservet nos Christus Dominus. Amen, e il Messale italiano, traducendo conservo con «custodire», compie la medesima operazione avvenuta in Gd l.

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Nel sacramento dell'unzione e cura pastorale degli infermi, quando il rito viene celebrato nella forma ordinaria, giunti alla conclusione il sacerdote ha facoltà di scegliere tra due benedizioni possibili, molto essenziali e dense. La seconda, in modo particolare, fa al caso nostro. È centrata cristologicamente e, rivolgendosi al malato, dice: «Il Signore Gesù Cristo sia accanto a te per proteggerti. Sia dinanzi a te per guidarti, sia dietro a te per difenderti. Rivolga a te il suo sguardo, ti assista e ti benedica». L'ultima invocazione traduce te conserve! con «ti assista», non lasciando così intendere - diversamente dalla formula precedentemente esaminata - il possibile riferimento alla Lettera di Giuda. Rimane comunque interessante notare come in questi esempi le locuzioni conserve! nos - conserve! te hanno un sapore cristologico e, inserite in un contesto di guarigione non solo terrena ma anche e soprattutto escatologica, aprono il tema della "custodia" nel tempo presente al tema del "giudizio" nel «grande giorno» (Gd 6), poiché Colui che protegge e sana è Colui che salva. La dossologia e benedizione finale (Gd 24-25), riprende nuovamente il verbo a noi prezioso, ricollocandolo teologicamente nel più classico riferimento a DioPadre, dicendo: «A colui che può preservarvi (vas conservare) da ogni caduta e farvi comparire davanti alla sua gloria senza difetti e colmi di gioia, ali 'unico Dio, nostro salvatore, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, gloria, maestà, forza e potenza prima di ogni tempo, ora e per sempre. Amen». In Cristo Gesù allora si manifesta e realizza l'eterna premura di Dio! L'unica presenza della Lettera prevista dall'Orda Lectionum Missae è situata il sabato della VIII settimana, anno IL La pericope ritaglia il versetto 17 per unirlo a 20-25, potendo così sintetizzare in poche righe le indicazioni tipiche delle esortazioni neotestamentarie: fedeltà all'insegnamento apostolico, saldezza nella fede, preghiera e amore di Dio, reciproco aiuto e correzione fraterna, rifiuto di ogni contaminazione con il male. Il salmo interlezionale (Sal62) si accorda soprattutto con i versetti 20 e 24-25 dello scritto, facendo della comunità a cui Giuda si rivolge l'immagine dell'arante e del credente che cerca Dio, desiderato come il bene più prezioso e necessario: «Ha sete di te l'anima mia, desidera te la mia carne

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in terra arida, assetata, senz'acqua». Il versetto al Vangelo, tratto da Col3,16a.17c, pone l'accento su Gd 17, unendolo idealmente a Gd 24: ascolto della parola di Cristo e rendimento di grazie al Padre scandiscono il movimento esistenziale di tutta la Chiesa, chiamata da Dio alla perfezione e alla gioia piena. La gravità delle parole di Giuda vengono perciò inserite in un'economia ampia, dove l'accento è posto sul dono che genera il giudizio più che sul peccato che genera castigo. La lettera di Giuda nella Liturgia delle Ore La Liturgia delle Ore compie una interessantissima scelta inserendo i versetti di Gd 20-22 nella VII settimana di Pasqua, alle lodi mattutine del sabato, ossia dopo l'Ascensione e a pochissime ore dai primi vespri di Pentecoste. Si evince che l'ambito delle celebrazioni liturgiche rappresenta quell'ambiente vitale dove la Scrittura si rigenera innumerevoli volte e in sempre nuovi modi per indicare e permettere l'accesso al mistero di Dio. Infatti, ad essere esaltato, è ora l'impianto trinitario del piccolo brano, facendoci edotti sulla presenza e sul ruolo dello Spirito Santo: «Voi, carissimi, costruite il vostro edificio spirituale sopra la vostra santissima fede, pregate mediante lo Spirito Santo, conservatevi nell'amore di Dio, attendendo la misericordia del Signore nostro Gesù Cristo» (versione CEI del 1974). Il responsorio breve dirà, poco dopo: «Manda Signore, lo Spirito nei nostri cuori. In lui siamo tuoi figli», inquadrando la lettura in una dimensione pneumatologica che trova la chiave interpretativa in ordine al tempo che la Chiesa sta vivendo. Scorrendo il IV volume della Liturgia delle Ore, proprio nell'ultimo giorno dell'anno liturgico, l'Ufficio delle letture sceglie come prima lettura l'intera Lettera di Giuda, che l'edizione intitola: «Denuncia degli empi. Esortazione dei fedeli». Ad essere precisi, nel sabato della XXXIV settimana, abbiamo tra le mani una versione un po' "addomesticata", poiché espunta di quei versetti che fin dai primi secoli della cristianità hanno suscitato da parte di alcuni pensatori dubbi sulla canonicità dello scritto. Mancano i versetti 9-11 e 14-16, rei di citare esplicitamente la letteratura apocrifa. La scelta compiuta dal redattore ha un peso importante sulla recezione

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ecclesiale del Libro. Una domanda ·sorge spontanea: vista la modesta estensione della Lettera di Giuda perché non offrirla nella sua canonica integralità? La meditazione e la preghiera trovano effettivo giovamento dali' eliminazione di questi sei versetti? L'occasione ci è buona per riflettere - più in generale - sul fatto che compilare una raccolta di testi per la liturgia è operazione molto delicata e complessa, non innocua. La scelta dell'Ufficio potrebbe apparire come il tentativo di offrire una edizione del testo- diremmo oggiriveduta e corretta, priva di suggestioni, temi e argomentazioni che potrebbero risultare "problematiche" ma che sono caratterizzanti. Proporre una selezione di versetti è, infatti, un'operazione ermeneutica che rischia di modificare l'identità letteraria: tra !'"estrarre" un significato proprio ali' opera (esegesi) e l "'introdurre" un significato imputato (eisegesi), il passo è talvolta breve. Tornando all'Ufficio, notiamo che il responsorio posto di seguito alla prima lettura si ispira a Tt 2,12-13 e a Eb 10,24: «Viviamo con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo; cerchiamo di stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo». Anche qui, la linea esortativa, è privilegiata, con argomenti radicati su una solida visione escatologica. In chiusura ci chiediamo quanto e come la Lettera di Giuda sia stata apprezzata e valorizzata dai nuovi libri liturgici. Indubbiamente oggi ha posto stabile e sicuro nella preghiera della Chiesa, come mai aveva avuto prima. A mo' di provocazione potremmo annotare: se avessimo resistito con più coraggio alla tentazione di limame i punti critici? Se avessimo (con una lettura patristica ad hoc) approfondito il tema della venerazione degli angeli? La Lettera di Giuda, più che una predica morale, offre una visione delle cose. Dalle variegate voci che compongono il coro delle Scritture, il timbro giudeo-cristiano consegnatoci nel Libro, forse poteva essere maggiormente armonizzato nella liturgia. Senza temere stonature.

INDICE

PRESENTAZIONE ANNOTAZIONI DI CARA1TERE TECNICO

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LETTERE DI GIOVANNI

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INTRODUZIONE Titolo e posizione nel canone Aspetti letterari Linee teologiche fondamentali Destinatari, autore e datazione Testo e trasmissione del testo Bibliografia

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PRIMA DI GIOVANNI Prologo: il fondamento della verità {1,1-4) La vera comunione con Dio (l ,5-2,6) Il vero dimorare nella luce (2, 7-17) I veri possessori del Padre (2, 18-28) I veri figli di Dio (2,29-3,10) Il vero dimorare nella vita (3,11-22) La vera fede e il vero amore (3,23-5,4) La vera testimonianza (5,5-17) Epilogo: il vero Dio {5,18-21)

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SECONDA DI GIOVANNI Prescritto (1-3) Vita nell'amore e fedeltà all'insegnamento (4-11) Conclusione· ( 12-13)

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TERZA DI GIOVANNI Prescritto (1-2) Testimonianze di vita cristiana (3-12) Conclusione (13-15)

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LETTERA DI GIUDA

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INTRODUZIONE Titolo e posizione nel canone Aspetti letterari Linee teologiche fondamentali Destinatari, autore e datazione Testo e trasmissione del testo Bibliografia

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GIUDA Prescritto (1-2) Intenzione dell'autore e occasione dello scritto (3-4) Gli impostori: i loro peccati e la loro condanna (5-16) Esortazione ai fedeli (17-23) Dossologia conclusiva (24-25)

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LE LETTERE DI GIOVANNI E GIUDA NELL'ODIERNA LITURGIA Le lettere di Giovanni nel mistero pasquale Il tempo della manifestazione di Dio Dio è luce Dio è carità La salvezza di tutto il mondo Il tempo della lode La lettera di Giuda nei Lezionari La lettera di Giuda nella Liturgia delle Ore

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