Le scale di servizio. Introduzione al libro e alla lettura 8887543402, 9788887543402

Quasi un divertimento che ruota intorno a tutto ciò che riguarda libro, l’autore, il lettore e l’editore, ma anche il fo

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Le scale di servizio. Introduzione al libro e alla lettura
 8887543402, 9788887543402

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Archivio Baldini 1 Collana a cura di Laura Ceradini Leonori

ANTONIO BALDINI

LE SCALE DI SERVIZIO Introduzione al libro e alla lettura A CURA DI NELLO VIAN

ANTONIO BALDINI, Le scale di servizio Metauro Edizioni, 2003 © by Metauro Edizioni S.r.l.. Via Gavardini 5 - 61100 Pesaro Tel. e Fax 0721/714775 - 742133 http://www.metauroedizioni.it [email protected] ISBN

88-87543-40-2

________________________________________ È vietata la riproduzione, intera o parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

A Marta Bruscia e Maria Clotilde Angelini il primo volume di questa collana con amicizia e gratitudine Barberina Baldini

La presente edizione delle Scale di servizio è conforme all’edizione originale in volume curata da Nello Vian (Milano-Napoli, Ricciardi, 1971). Si ringraziano Giovanni Maria, Lorenzo e Paolo Vian per aver gentilmente concesso il loro assenso alla ripubblicazione.

Indice

INTRODUZIONE di Nello Vian Un libro di 200 pagine di 300 grammi

IX 3

Il coperchio e la pila ovvero Della ricerca del titolo Il carro innanzi ai buoi ovvero Delle prefazioni

9 15

Pagina e piè di pagina L’arte di perdere il tempo. Cap. XXVI

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Testo ed illustrazioni alle prese «Ridon le carte...» (La Bibbia di Borso) Leghiamoli pure Le note in margine ovvero Vietato lordare Sento rumore ovvero Delle recensioni Un successo a qualunque costo Gli editori del mio cuore L’editore, lo scrittore e il magazziniere I libri... dell’altro giorno Caratteri del buon lettore L’amor del libro (la voce d’un dissidente) «Promozione a scelta» ovvero Libro e giornale Mala digestio nulla felicitas Del tener la penna in mano

26 33 39 48 51 57 64 72 79 85 92 98 102 109 115

L’uovo e la gallina ovvero Chi sia nato prima: il lettore o lo scrittore Letture di quaresima magro stretto

122 127

Mari e monti (de’ libri per villeggiatura) Leggere e scrivere

133 140

Tu lettore

146

LUOGHI ORIGINALI DI STANPA

153

POSTILLA

155

Sotto un titolo ideato da lui, e che sta a indicare con il suo solito garbo per quale via intende far salire al piano di sopra, si offrono qui un centinaio e mezzo di belle pagine d’Antonio Baldini, quasi nuove. Un libro proprio intorno al libro. Perché egli stimò sempre le operazioni dello stampare, del leggere e dello scrivere strettamente apparentate, quale ne sia la successione. Incominciò, come accade a tutti, da lettore, e con il libro per ogni verso mantenne il più lungo, ininterrotto commercio. Lo svolse con insaziata curiosità, lo maneggiò e soppesò con esperta mano: non bibliofilo nel senso più usato del termine, ma amatore sostanziale e gagliardo. Se non avesse avuto il suo mestiere, sarebbe potuto diventare bibliotecario, come qualche personaggio di Anatole France. Ma sulla carta impressa si formò anche lo scrittore, pastoso e apparentemente di mano facile. Spèrata, come si fa con l’uovo, la sua realmente inimitabile arte si scopre contessuta di esperienze librarie, di una familiarità protratta con i più scelti scrittori classici della nostra e di altre letterature. Non per il gusto linguaiolo che incantò altri, ma per la ragione che quello scrivere bene senza dare a intendere lo studio gli sembrò la posta più alta da raggiungere, qualunque sia il prezzo da pagare in fatica. In fine, si compiacque della bella stampa, e ne descrisse i canoni e i prodotti, persuaso che l’idea per essere comunicata deve tradursi in pagina da torchio. La prima, ornata edizione del Michelaccio, quasi IX

la sua fede di nascita di scrittore, dà forse l’immagine più compiuta di un libro stampato a suo gusto (con i piccoli legni strapaesani e la fiorita lettera dedicatoria in stile seisettecentesco). Pensava già da quel tempo che prefazioni non se n’hanno da scrivere. E non importa perciò mettere in testa a questa raccolta la ragione di che ha indotto a curarla, la più facile da immaginare. Allo scrivere, al leggere, al produrre libri Baldini non si propose mai fini, allo scoperto. Ebbe l’aria di andare avanti a salti di gomitolo, cogliendo le occasioni che gli si davano, alla giornata. Anche il presente volume è venuto fuori così, un capitolo dietro l’altro. Ma come al fondo di lui è stata una delle più oneste coscienze di scrittore che si conoscono, anche queste esteriormente svagate e lievi conversazioni sul libro hanno a fondamento il più genuino amore di esso, quale strumento permanente di ogni civiltà. Proprio ciò s’intende proporre e inculcare. E sia un altro dei «buoni incontri», alla maniera e nello stile baldiniani. Al provveduto lettore, per incominciare, è rivolto l’augurio cordiale di buon divertimento, che rimane ancora il migliore dei profitti da trarre dal bianco e nero delle stampe*.

*

Sul curatore del volume si veda il recente saggio di Paolo Vian, Per una biografia di Nello Vian, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», anno LV, 2001 pp.175-199.

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LE SCALE DI SERVIZIO Introduzione al libro e alla lettura

UN LIBRO DI 200 PAGINE DI 300 GRAMMI

Il giorno che mi venisse fatto d’imbroccare una quaderna mi propongo di scrivere un libro (ma questo è il meno), per avere il piacere di stamparlo a mio modo. Comincerei coll’andare in cerca delle cartiere italiane più rinomate, e anche di quelle che ancora hanno da farsi un nome, per metter le mani sopra un tipo di CARTA ideale: una carta pura, lieve e consistente; d’un giusto peso, perché ho in dispetto i libri che sono troppo più leggeri di quel che dànno a vedere e quando vai per prenderli ti si sollevano in mano come ballerine, né d’altra parte amo il libro che pel suo peso tenda troppo a terra; una carta dolce al volgere, ma non così morbida che ogni pagina, volgendola, non vada a cader esattamente al paro delle altre; d’un colore di neve al sole, che penda un poco nell’avorio e nel miele, piuttosto che nell’azzurrino, nel grigio e nel rossiccio, di modo che la stampa vi faccia spicco e al tempo stesso vi si riposi, grata allo sguardo. Un bel tono di carta aiuta anch’esso l’immaginazione. Le proporzioni del FORMATO le prenderemo con ogni accuratezza, quasi quelle d’una bella finestra, che non pecchino né per largo né per alto; 3

ma non saprei qui nascondere la mia vivissima antipatia pei formati troppo quadri, e, dovendo peccare, amerei peccare piuttosto nell’alto che dà sempre una certa distinzione e alterezza. In ogni modo quello del mio libro non dovrebbe essere un formato da entrare in tasca, perché non potrei soffrire d’essere tirato fuori in tram o sulle panche d’aspetto d’una Pretura. Vorrei essere letto a tavolino. La COPERTINA vuol essere d’una carta resistente, ma molto leggera; d’un colore umile, rimesso (verde canna, rosa stinto, lavagna chiaro o color lupino), dove i caratteri facciano una vista sobria, contegnosa e piuttosto severa. Dio ne scampi dal libro che si concede fin dalla copertina e che pretende richiamare l’attenzione con ornati e colori chiassosi. Un piccolo segno decorativo coll’impresa dello stampatore, una cetra, un grifone,1 una grottesca pur che sia, lo si ammette però ben volentieri, come una serratura o un sigillo che accresca il riserbo e la nobiltà dell’opera. Trovata la carta pel di dentro e il di fuori, bisognerà allungare viaggio per trovare i TIPI DI STAMPA più adatti a un’opera di riposata lettura. Ho l’idea che in qualche vecchia tipografia di provincia, nelle Marche, per esempio, o nella Romagna, s’abbia a trovare quello che fa al caso nostro: qual1

Un segno zodiacale, una sirena che si tien la coda, un vaso di fiori, un cesto di frutta, un mascherone di fontana, un alveare, una casetta porticata, un torrione di fortezza, un lanciabombe, un bel motore a scoppio.

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che impolverato fondo di stamperia pontificia coi tipi che servirono ai libri del Monti, del Perticari, dello Strocchi. Cercherei di fare amicizia con qualche tipografo vecchio del mestiere, e di farlo cantare. Gli pagherei da bere e da fumare e mi farei in breve ora quella competenza che mi manca: imparerei la differenza che corre tra un tipo e l’altro, la varia indole e il vario effetto di ciascuno. Siccome di tipografi ne interrogherei parecchi, finirei coll’impratichirmi anche dei vini. Penso che mi ci vorrebbero dei caratteri sul tipo dei bodoniani, d’un bel tondo e d’un bel chiaroscuro, con delle belle maiuscole e con dei corsivi bene intonati al tondo per le sentenze e le parti in versi che frammetterei al mio volume. Gli SPAZI tra i vari capitoli, tra le parti di ciascun capitolo, tra riga e riga, e le rientrature dei capoversi dovrebbero essere calcolate al millimetro con molte prove e riprove: e siccome il modello dal quale ci si deve scostare quanto meno è possibile è sempre la pagina piena, senza neanche un a capo e nessun altro segno di distrazione (corsivi, numeri romani, diciture in testa e note a piè di pagina), le pagine dovrebbero finire coll’avere respiro solo dagli spazi tra le righe e le lettere. La differenza di un mezzo millimetro può aerare una pagina troppo chiusa, come la differenza d’un altro mezzo millimetro può metterla, come si dice, in corrente e toglierle ogni solidità. Ogni pagina sarebbe da me riveduta sette volte con una buona 5

lente d’ingrandimento, perché bastano tre lettere un po’ deteriorate a far brutto l’insieme di tutta una pagina, e alle volte basta il ripetersi d’un intervallo tra due parole per quattro o cinque righe alla stessa altezza o in istretta scala perché tutta la pagina sembri in procinto di franare.1 L’armonia e la compostezza d’una pagina stampata dipendono pure in gran parte dal MARGINE che l’incornicia. Il margine può far grande e piccola la pagina indipendentemente dal formato: bisogna tener presente che una pagina troppo stretta mette fretta e finisce col comunicare un certo disagio al lettore e che una pagina troppo grande può ingenerare noia anche nella lettura del testo più allegro. Un margine ben calcolato facilita, stuzzica la lettura; un foglio tutto pieno di stampa l’affatica e la scoraggia; un’inquadratura troppo grandiosa finisce col distrarla. Sarete stati qualche volta nello studio d’un pittore. Avrete visto le storie che fanno prima di lasciarvi accomodare avanti a un quadro: e l’appoggiano in terra, e lo mettono sopra una seggiola, e poi sopra il cavalletto e poi stiran le gambe del cavalletto e poi gli dànno un’altra inclinazione, e poi tirano una tenda, e poi vi prendono per un braccio, vi menan di qua e di là, non sono mai contenti. Sul principio sembrano manie; ma poi v’accorgete ch’essi avevano piena ragione e che 1

Esagerato!! (Nota dell’A.).

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l’impressione che vi fa l’opera da quel punto e in quelle condizioni di luce è di gran lunga la migliore. Anche il buono stampatore con tutte le astuzie dell’arte e del mestiere deve mettervi la pagina in così buona luce che l’occhio vi ritrovi istintivamente il taglio e quella certa allegra animazione che invogliano a entrarci dentro. Il libro più appetitoso del mondo, che forse è il Viaggio sentimentale di Sterne, vi farebbe andar via la voglia di leggerlo se lo vedeste impresso in grandi paginone senza margine, con le righe lunghe lunghe da un capo all’altro, che in ognuna c’entrasse un periodo; e il libro più noioso del mondo, che forse è il Galateo di Giovanni Della Casa, stampato con un bell’inchiostro, in paginette bene equilibrate, con delle belle maiuscole nei capoversi, chi sa che non riuscireste a leggerlo invece con qualche diletto. Gl’INCHIOSTRI dovrebbero essere di una nitidezza e d’uno splendore unico, che i nostri nonni potessero leggere il libro senza occhiali, e anche i ciechi, passandoci su una mano, potessero capire a un di presso di che cosa si tratta, talmente rilevate e schiette e bene impresse avrebbero da esser le parole. Il negrore dell’inchiostro e il bianco della carta dovrebbero legarsi naturalmente in un tutto parlante, cordiale, irresistibile. Per la dedica e la prima faccia del libro mi ci vorrebbero caratteri, nello stesso tipo, d’una certa grandezza e direi quasi solennità epigrafica. La DEDICA andrebbe fatta a qualche gran Principe o 7

gran Capitano1 amante delle lettere, da poterci mettere dietro una filza di titoli rimbombanti da stamparsi in tutte maiuscole, con una pompàtica perorazione sul tipo di quelle del buon tempo antico. Per contro, il FRONTESPIZIO dovrebbe essere, come già s’è detto, d’un’estrema semplicità, col titolo seguito dal nome e cognome dell’autore, la città e l’anno della stampa, sempre nell’indole del contesto, su quella carta e con quell’impresa che si son dette; ma quelle poche parole dovrebbero essere collocate con un tal senso della misura e del decoro che il libro per quanto lo si avesse sott’occhio non dovrebbe venire mai a noia, anzi, ogni volta, dovrebbe incoraggiar la mano a risfogliarlo. Un FREGIO, ma che fosse la Modestia in persona, dovrebbe chiudere in un rettangolo onesto e leggero questi caratteri piuttosto scuretti della copertina; e come ultima attrattiva, nel rovescio della copertina ci dovrebbe essere segnato il PREZZO in paoli. Quanto a lunghezza, il libro ve lo do lungo sulle duecento pagine: la giusta media di Paul et Virginie, di Lazarillo de Tormes, delle Metamorphoseon di Lucio Apuleio, delle Mie prigioni e di altre meraviglie dell’arte narrativa: tale insomma da potersi leggere comodamente dentro un pomeriggio d’estate, e da farci magari entrar a lettura finita due passi prima di cena. 1

Trovarlo! (Nota dell’A.).

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IL COPERCHIO E LA PILA OVVERO DELLA RICERCA DEL TITOLO A che punto sei col tuo romanzo? – Terminato. – Finalmente! E s’intitola? – Ancora non te lo so dire. – Ma dunque non si tratta più del libro al quale lavoravi da tanto tempo. – Si tratta ben di quello. – E da quel di tu non sai come l’avresti intitolato? – Non sapevo come sarebbe andato a finire. – Mi pare che una volta lo sapevi. – Cioè, credevo di saperlo: e mi ricordo che allora avevo in pronto non solo il titolo ma anche il sottotitolo. Ma poi, come succede, m’è venuta fuori tutt’un’altra cosa da quella che pensavo. – Non mi rendo bene conto di come questo possa succedere. – Può succedere, e te lo spiego subito con un esempio, come a uno che avesse deciso di chiamare il primo figlio col nome di Garibaldi o di Napoleone, e la moglie invece gli desse alla luce una bella bambina. – T’è venuta dunque fatta una figlia femmina. – Pare. 9

– Eppure un nome o una qualche idea di titolo ce l’avrai. – Il nome non ce l’ho, perché i personaggi principali sono molti, e le idee non hanno niente a che vedere col titolo dei libri. I titoli sono una pura questione di nomi o di cose; Il pastor fido, Paolo e Virginia, Arminio e Dorotea, I promessi sposi, questi son titoli! Solo che nel mio libro purtroppo le cose non vanno così semplici e un titolo piuttosto che un altro potrebbe in un certo senso alterare la prospettiva del romanzo. – Io credo, mio caro, che tu vada troppo nel sottile. Ma allora dagli un titolo che dica poco o nulla, un di quei titoli, sai?, che fanno pensare. – Pensare a cosa? – Voglio dire: un di quei titoli che fanno rimanere in aria il lettore; un titolo come: Quando noi morti ci destiamo, Forse che sì forse che no, La vita comincia domani, La donna che può capire capisca, e simili. – Con tua buona pace, questi non sono titoli. Questi, se mai, mi fanno pensare a delle idee rimaste fuori del libro, e queste idee, se mai, penso che dovrebbero stare dentro la pila, non servire da coperchio. Per un esempio, Le rouge et le noir, resta un bel titolo di un romanzo che dentro risponde degnamente. Mentre Les fleurs du mal, dico, s’intende, come titolo, mi pare già parecchio volgare. È un titolo che vale quello de Gli eroi della soffitta del buon Giuseppe Aurelio Costanzo. – Volgare o meno, io penso che anche tu po10

tresti dare al tuo libro un titolo che sturi le orecchie, che pigli il lettore per la giubba, un titolo come Io cerco moglie! Il padrone sono me; Signora, torna vostro marito!; o altrimenti un titolo a manrovescio, come quel famoso d’Oriani: No. – Abbi pazienza, amico mio; questi non sono titoli di libro: queste sono scritte di cartellone che al sole e alla pioggia fanno molto presto a sbiadire. Passato il momento nessuno legge più il libro, anche se il libro abbia ancora qualche cosa da dire. Dài retta: questi titoli che ti paiono così belli son più facili a mettere insieme di quel che tu non ti figuri; però restan titoli svolazzanti che non riesciranno mai a far corpo col testo. Ed è un fatto che le epoche di maggiore decadenza nell’arte dello scrivere e del comporre sono state sempre le più feconde di titoli bizzarri, originali, piccanti, irresistibili. I titoli dei veri grandi libri, se fai caso, presi a sé non sono mai né belli né brutti, sono come le camelie, senza puzzo e senza odore, e non dicono assolutamente nulla. Invece libri mediocri e nulli hanno spesso e volentieri titoli pieni di squisite suggestioni. Le trésor des humbles, Sagesse et Destinée: pensa un po’, si potrebbero dare titoli più belli di questi? Per contro: Essais, Pensées, Maximes sono fra i titoli più insignificanti del mondo, che l’ultimo di noi butterebbe in un canto come cicche ciccate: eppure La Rochefoucauld, Pascal, Montaigne sotto etichette tanto impersonali hanno esposto idee più conclusive e pene11

tranti di cinquecentocinquanta Maeterlinck messi in fila, o uno sopra l’altro a far la piramide umana. Pensa: Machiavelli in fondo non ha inteso di scrivere altro che dei Discorsi e dei Ritratti, Cesare dei Commentari, Plutarco degli Opuscoli, Teofrasto e La Bruyère dei Caratteri, Leopardi dei Canti, Parini delle Odi e il Giorno, titoli tutt’altro che peregrini e anzi quasi tutti di quarta, quinta e sesta mano. Dante, al solito, sembrerebbe che si fosse fatta la parte del leone, ma bisogna riflettere che alla Commedia l’epiteto di Divina glie l’hanno appioppato in seguito gli entusiasmati lettori. Petrarca, con una modestia che potremo anche dire eccessiva, ha cercato di far passare le sue rime con lo scappellotto d’un titolo senza faccia: Rerum vulgarium fragmenta. In compenso Marinetti ha scritto La conquête des étoiles. E davvero che viene fatto di pensare che spesso lo spirito di molti libri moderni se ne sia svaporato tutto nel titolo. Titoli belli ne abbiamo da vendere. E per questo molti libri sono veramente come certe architetture sei e settecentesche da parco o da giardino, di grandiosissimo frontespizio e di nessun corpo architettonico. Ci fu una volta non ricordo più quale Imperatore di Russia, al quale i ministri, viaggiando egli tra Mosca e Pietroburgo, fecero trovare in vista, di qua e di là della strada, lungo tutto il percorso, allo scopo di romperne la squallida monotonia e dare insieme al Piccolo Padre un’idea delle felici condizioni di civiltà della sua 12

terra, false prospettive, in legno e calce, di fattorie, di chiese, e d’intere borgate: tutti bellissimi scenari da abbattere subito dopo scomparso all’orizzonte il polverone dell’imperial passaggio. Dico che se tu ti fermi avanti alle mostre di certi librai moderni, di titoli appetitosi potrai vederne finché vuoi, ma sarà meglio che anche tu, come quello Czar, t’accontenti di non scendere dalla vettura e non ti attenti a entrare in quelle fattorie, in quelle chiese, a passare per mezzo quelle borgate. Perderesti il tuo tempo e avresti una delusione di più. – E così, caro il-mio-senza-titolo? – E così, io che non sono né Teofrasto, né Machiavelli, né Leopardi e che perciò non posso ambire d’accostarmi alla suprema semplicità, al banale candore di quei loro titoli, vorrei pure darne uno al mio libro che senza minimamente offendere la modestia e senza dare nell’eccentrico facesse un po’ di spicco, toccasse almeno un poco la fantasia, avesse un qualche suo profumo di poesia che non sembrasse appiccarglisi dal di fuori ma nascere dal di dentro del libro medesimo, che fosse inconfondibile e si potesse ritenere facilmente, che promettesse qualche cosa che sapesse di mantenere: un titolo grazioso che non fosse «a veder più che la persona», ecco quel che vorrei. – E non si trova? – Lo cerco e non lo trovo. Si nasconde. Al buio lo stuzzico e non viene. Alla luce non si vede più, 13

e siamo sempre da capo. Però ci giro intorno e sempre non mi scapperà. Quello che mi bisogna è un titolino fatto di cose, non di parole; un titolino sul genere de La pianella perduta nella neve, ch’è la perla di quanti mai titoli abbia letto. Peccato che nel mio romanzo non ci nevichi e nessuna ragazza vada in pianelle. Mi ci vorrebbe un titolo sul genere di questi di Girolamo Brusoni, della metà del Seicento (estrae il taccuino), leggi qua: La gondola a tre remi, Il carrozzino alla moda, La peota smarrita. Un titolo che aprisse al lettore un certo grazioso scenario...

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IL CARRO INNANZI AI BUOI OVVERO DELLE PREFAZIONI Introduzione non va confusa con Prefazione. L’Introduzione è fondamento e base di tutte le parti del libro, le quali su quella crescono a piombo e poggiano con vario peso. Per questo l’Introduzione condiziona rigorosamente il rimanente del libro. Anche la Divina Commedia ha una Introduzione, e questa è il primo canto dell’Inferno, in soprannumero sulla misura delle tre Cantiche, ciascuna di trentatré canti, come ognun sa. La Prefazione si scrive a opera finita. Viceversa vuol essere letta in principio dell’opera: ecco subito qualche cosa che non va. La Prefazione può essere: o di mano diversa o della mano medesima che ha scritto il libro. Se è di mano diversa, questa mano sarà di maggiore, di pari o di minore dottrina di quella che ha condotto a termine il libro. Ma se è di minore dottrina, per questo solo fatto avvilisce e discredita il libro; se di pari dottrina, nulla può aggiungere al libro; se poi è di mano più dotta, o per lo meno più illustre, i casi sono due: o l’opera che presenta ai lettori ha la forza d’imporsi e di fare da sola la sua strada, o non l’ha. Se l’ha, arrogante o per lo meno importuna giudicheremo quella mano che avrà presunto di guidarla; se non l’ha, stolta ci vuol 15

parere quella mano che non può farcela a trarla del pecoreccio. Insomma, che Benedetto Croce faccia la prefazione al libro di Puntolini, che Puntolini la faccia al libro di Cretinetti, che Cretinetti la faccia al libro di Benedetto Croce, son tutte fatiche che tornano in ridicolo o in nulla. O per amore o per condiscendenza, a cagione di questa usanza delle Prefazioni, spesso si danna un vivo alla compagnia d’un morto, costume di popoli ferocissimi. E spesso, quante mariolerie deve fare e di che nera ingratitudine macchiarsi uno scrittor giovane per togliersi di dosso gli obblighi fattigli da una prefazione d’illustre Maestro alle sue prime stampe, per farsi perdonare dagli altri la prepotenza di quella prima notorietà! * Venendo poi a parlare delle Prefazioni scritte dalla medesima mano che ha vergato il testo del libro, i casi sono due: o il libro ha svolto compiutamente il compito che s’era prefisso, o non l’ha svolto ed ha in sé uno o più mancamenti. Se l’ha svolto, altro non si richiede e non è bello insistere. Se non l’ha svolto, bisognava pensarci prima, quando s’era in tempo a rimediare. Ad un architetto che facendo una casa si fosse dimenticato della scala o delle finestre non si manderebbe buona nessuna giustificazione. Il sarto, il cal16

zolaio che abbiano sbagliato un’ordinazione si riprendono ben indietro il lavoro. Perché allo scrittore si dovrebbe passarla liscia? Dire che il libro fu scritto in fretta, confessare che ci sono rimaste delle parti in tronco e che si prende tempo a darne gli sviluppi in un’altra occasione, queste sono cose che si possono anche fare, ma non si dicono. Segnalare che il libro è costato assai tempo e fatica, insinuare che tutti quelli che hanno trattato per l’innanzi lo stesso argomento non hanno fatto che prendere delle cantonate, voler mettere da sé stessi in evidenza i pregi dell’opera, modestia non lo permette. Infine i lettori sono di due maniere: o dotti o ignoranti; se dotti, se ’l sanno; se ignoranti, che gloria farsi grandi a quello specchio? Ma più spesso e volentieri nella Prefazione lo scrittore si studia di conciliare l’inconciliabile, e trovare coerenza e necessità dove non è che puro purissimo arbitrio. Normalmente chi si lascia andare a scrivere una Prefazione è uno scrittore che ha la coda di paglia ed ha una paura maledetta che gli si bruci; e cerca perciò di mettere le mani avanti e arruffianar la gente in qualche modo. Fosse più tranquillo, s’accorgerebbe che il dubbio non è mai se il lettore sappia o non sappia leggere, quanto se lo scrittore abbia o non abbia saputo scrivere in modo da farsi leggere; e si risparmierebbe la fatica e la noia di scrivere una Prefazione. 17

Perché, concludendo, Prefazioni non se n’hanno da scrivere. * Il bello, il magnifico è che troppo spesso la ragione vera e la morale ultima d’un libro all’autore vien fatto di trovarle quando già è arrivato verso la fine del libro, così come la decisiva replica d’una discussione è quasi sempre quella che viene in mente per le scale quando non s’è più in tempo a servirsene; il bello, il magnifico è che spesso la giusta impostazione si finisce col trovarla in fondo a un libro già tutto sbagliato e fuori squadra. Non bastandogli poi il cuore di buttare a mare il già fatto, ecco l’autore che fa di tutto per convincersi che la luce scaturita intera solo da ultimo possa far luce all’opera dal suo bel principio. Senza por mente che situando la sorgente luminosa così alla rovescia son proprio le magagne in ombra che vengono frugate e smascherate senza riguardi e pietà. Se ne arguisce che alle volte bisognerebbe avere il coraggio di sacrificare un libro alla fiamma della sua stessa conclusione, e che di quella tardiva e inconseguente ricapitolazione che vorrebbe trovarvi loco a mo’ di prefazione bisognerebbe aver il coraggio di farne senz’altro il primo capitolo d’un nuovo libro distruggendo quanto precede del vecchio; questa volta, un libro, non occorre dirlo, senza Prefazione. 18

Altrimenti, a scanso di dispiaceri, terminato un libro, il meglio che resti da fare a chi l’ha scritto è di lasciarlo andare per il mondo a suo beneplacito e cercare in nessun modo di non attraversargli la strada. Vuol dire che i temi e le idee che non avrà saputo farci entrare di primo acchito serviranno per un altro libro. Cacciarli in una prefazione non è serio e nemmeno prudente. Bene che la prefazione vada, è il libro in sé che ne soffre. Libri famosi sono rimasti schiacciati da una prefazione ancora più famosa. La Préface al Cromwell s’è messa sotto i piedi lo stesso Cromwell, che in paragone di quella pochissimi hanno letto. Mi rendo benissimo conto del curioso gusto che s’ha da provare scrivendo una Prefazione. Indegnamente, l’ho scritta anch’io. Ma quanto più gusto uno ci prova, tanto più dà a vedere ch’egli non crede alla capacità di persuasione del libro che sta prefazionando: e in un certo senso egli per primo comincia a mancargli di rispetto. A volerne cavar fuori tanti sensi c’è il caso che vada in pezzi ogni cosa. La curiosità che porta lo scrittore a insistere non è sana. Dio ci salvi tutti, ha un po’ della mostruosa curiosità di quel Nerone che volle guardare dentro il ventre della madre assassinata, per vedere dov’era nato. Morale: d’un libro si guarisce scrivendone subito un altro. * 19

A un libro nudrito di fatti, a un racconto, facciamo obbligo strettissimo d’entrare in campo senz’alcuna precauzione di difesa. A un’opera di lirica, di meditazione, si concede di premunirsi, se non altro tipograficamente, dalla curiosità villanzona e distratta dei lettori più grossolani. Le si riconoscono certe particolari necessità musicali e prospettiche. Ammettiamo e anzi ci piace ch’ella si giovi d’un po’ di «corsivo» innanzi al testo, che abbia lo stesso ufficio della paglia sul selciato sotto le finestre dei moribondi, o di quelle tre porte avanti lo studio di Giannozzo Manetti di cui fa parola il cartolaio da Bisticci «che tutte istavano serrate per non sentire istrepito né nulla». Vogliamo però uno scritto dove non si parli affatto del contenuto del libro e che non si possa confondere nemmeno lontanamente con una Prefazione. Suggeriamo in quella vece una Dedicatoria, di quelle vecchio stile: cinque o sei mezze pagine, molto interlineate, de’ più bei caratteri della stamperia.

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PAGINA E PIÈ DI PAGINA

Variamente si comportano i lettori di fronte all’opera che hanno per le mani: e c’è il lettoretigre che le salta addosso come a sua preda ruggendo; c’è il lettore-gatto che ci si trastulla; c’è il lettore-rèmora che si lascia portare; c’è il lettorestruzzo che ingolla le pietre; c’è il lettore-coccodrillo che dopo ci piange; c’è il lettore-elefante che col proprio peso la schiaccia, – e facile sarebbe seguitar di questo passo negli esempi paralleli. Io credo d’appartenere al genere della talpa, che si ficca sotto. Ed è forse per questo che cerco di preferenza i testi con molte note. Entro dalle note, come altri entrerebbe in un palazzo dalla scala di servizio, e mi piace di scavare una lunga tortuosa via sotto il testo. * Ho acquistato in questi giorni una nuova edizione delle Rime del Petrarca, con un commento che ancora non conoscevo. Ora, di Rime del Petrarca, ce n’è fino a sette nella mia libreria. E notate, ch’io sono tutt’altro che un bibliofilo, né ho pel momento sul telaio uno studio speciale sul Petrarca, e, strettamente, non avrei bisogno di nessun commento per intendere un testo così 21

chiaro, aperto, e d’altronde, a me famigliare. Ma son sicuro che questa edizione una prossima volta, alla prima occasione, mi tornerà vantaggiosissima per attaccar di nuovo utilmente uno scrittore tutto invetriato di perfezione quale è sempre il Petrarca e sulla cui opera l’attenzione (come sopra quella dei perfettissimi scrittori) volentieri scivola come acqua sul vetro. E l’incrinatura alle volte d’una spiegazione a piè di pagina, il bucolino di tarlo d’una nota erudita, lo spianamento d’un ètimo che mi spacchi in due una parola già tutta impastata e levigata dal verso possono servirmi a rientrare con animo più vigile nel vivo d’una strofe troppo impeccabile, nel vissuto d’una frase e d’un sentimento. Guadagno il testo spilluzzicando le note. Ascolto e considero il tenore di dietro le quinte. Salgo al tinello dalla cantina avendo già dato un’occhiata a lume di candela all’anno delle varie imbottigliature e succhiato con una paglia la qualità dei vini. * Mazzini, e dietro Mazzini gran turba d’uomini meno sapienti, hanno asserito che Dante s’avrebbe da commentare col cuore. Col cuore si capirà sì e no un quarto dell’opera di Dante. E per capire gli altri tre quarti senza commento bisognerebbe essere tali dottoroni che non so oggi dove possa accadere di trovarli. E più tempo passerà, più Dante avrà bisogno di nuovi commenti e il cuore vedrà così restringersi via via l’angolo della sua 22

illuminante comprensione. Meno sentiranno il logorio dei secoli gli scrittori togati e compassati che pedissequi avranno ricalcato i loro scritti sugli immutabili modelli degli antichi; ma codesti saranno pur sempre gli scrittori meno vivaci e meno originali. E meno avranno bisogno di commenti. Ma uno scrittore vivo e parlante, e non imbalsamato e dottorante, bisogna che si adatti all’idea di passare alla posterità con uno strascico ogni cent’anni più lungo di commenti, di citazioni e di pezze d’appoggio e giustificazione della sua vissuta ed espressa originalità. A questo mondo, di immutabile, non c’è che la faccia della banalità; ma quella dell’originalità, come che volga il sole, s’anima d’ombre e di luci impreviste, s’aggiorna, e vi so dire che ci vuole molta discrezione a penetrarne i veri sentimenti. Onde la necessità perpetua di commento. E quanto più uno scrittore, specialmente italiano, si sarà curato di riuscir naturale, immediato, concettoso, tanto più col tempo farà sentire il bisogno d’un commento assiduo e scrupoloso in rapporto ai tempi e le situazioni. Allora, come pezze d’appoggio e giustificazione, potranno tornare utili anche gli scrittori di quinto e sesto ordine, fornendo ampio materiale di citazioni per le note. Gente che oggi si crede chi sa che, già la vedo nel futuro confinata in fondo alla pagina di chi da vivo non sarà magari mai riuscito ad «attaccare». Quanti che si credon testa e corona finiranno nella coda! 23

La genuina grandezza degli scrittori si vede dalla lunghezza della coda, nella quantità e ricchezza dei commenti. Com’è che a nessuno è venuto in mente di commentare le poesie di Prati o d’Aleardi che pure suscitarono ai loro giorni così grande entusiasmo di lettori? Com’è che non esiste un’edizione commentata delle poesie di Stecchetti? Però vedo che al Carducci ogni giorno va crescendo lo strascico, una gala per volta, ed è una coda che promette sempre meglio. * Anche, del resto, a non volerle degnare d’attenzione, nell’architettura della pagina le note, se stampate con arte, fanno bello e giovano alla lettura. Alleggeriscono la pagina, la gràduano, la sostengono, dànno al lettore anche spericolato quella certa garanzia di soccorso a’ dubbi passi e fanno come da cassa di risonanza al testo. Ottima disposizione della materia delle note è quella su due colonnine, con dei numeri arabi e romani bene appariscenti fra il tondo e il corsivo. Specialmente i versi vi poggiano su con molta grazia, ma anche la pagina di prosa piena se ne giova. Per far più bello alla vista occorre che di pagina in pagina lo spazio delle note salga e scenda, «come onda al primo margo», sì che talvolta resti quasi in secco, talaltra tiri la coperta fin sugli occhi quindi, per qualche pagina, si tenga nella giusta media. 24

* Decoro le note pei libri di pregio, qualche volta esse valgono da sole assai più del libro cui intendon servire. Dalle note c’è sempre qualche cosa da imparare; e talvolta da una semplice citazione con un preciso richiamo ad altro testo, siamo piacevolmente deviati verso mondi migliori. Spesso così avviene di scoprire el oriente por el poniente. E anche per quel che riguarda i grandi capilavori, certi giorni, in certe condizioni di spirito, chi si sentirebbe d’affrontarli in pieno, a tavola bandita? Si preferisce tenersi umilmente alle note; e le note fanno da pane e la locuzione spèrsavi del testo fa da companatico: e per qualche giorno può anche bastare quella frugale merenda. Quel misurato contatto con la grandezza. E le grandi felici parole che nel testo fanno sussultare e ci toccan le fibre più remote dell’anima, è bello vederle una volta almeno giù nelle note, sezionate, spolpate, spremute, confrontate, risciacquate, rivoltate da tutte le parti, appuntate con le spille sulle tavolette della grammatica, per poi rivedersele volare sotto gli occhi più allegre e lucenti che mai. Le note ci stanno anche per questo: per provare la resistenza della pagina. Una pagina mancata si spegne sotto il peso delle note. Una pagina d’arte n’esce trionfante e fiammante come rosa dai pruni. 25

L’ARTE DI PERDERE IL TEMPO CAP. XXVI

Un libro si può anche leggerlo. Ma non è detto che non possa servire a farci passare il tempo in altro modo. Non tutte le donne c’è bisogno di possederle. È già un piacere squisito alle volte quello di passeggiar sotto le finestre d’una ragazza, senz’altra intenzione che di far l’ora di pranzo o di cena. * Quando uno non ha proprio niente da fare, un passatempo magnifico e che alla fine lascia anche l’animo soddisfatto quasi come d’un dovere compiuto può esser quello di correggere nel testo con la penna in mano gli sbagli segnalati nell’Errata corrige che sta in fondo a certi libri. Quell’andare su e giù, volume primo, pagina sette, riga dodici; volume secondo, nota di pagina novanta, e metter a posto quella virgola senza la quale veramente il senso potrebbe restar un po’ dubbio, restituire quella maiuscola al posto che le spetta, mettere le virgolette e chiudere la parentesi al momento dovuto, rettificare una data che per lo scambio di due numeri rischiava di fare crollare tutto un castello di ricerche cronologiche, – e tutto questo lavoro farlo senza curarsi minima26

mente di sapere di che cosa propriamente il libro tratti, son cose che dànno la stessa soddisfazione che dà all’onesto cittadino che va per la sua strada, scansare con la punta del bastone una buccia d’arancio sulla quale qualcuno che venga dopo di lui potrebbe scivolare o un vetro che potrebbe ferire il piede di qualche guaglioncello senza scarpe. * Altro campo da spigolare: l’indice dei luoghi, delle persone e delle cose notabili. Nel mio prossimo libro non mancherò di mettercelo anch’io. Conferisce al volume una cert’aria di scrupolo, di serietà, d’istrumento di soda e pratica cultura. Dispone l’animo a una certa austera malinconia di chiusura, come l’elenco dei caduti in guerra intorno alla base del monumento commemorativo. Bene spesso, se andate a controllare, vi accorgete che è tutto un trucco. Per esempio leggete: Raffaello Sanzio, pagina 234; e dite: andiamo un po’ a vedere che giudizio dà l’autore di quel sommo artista, e trovate in quella un rigo che dice: «quel bambino era bello come un putto di Raffaello...»; oppure: Robespierre, pag. 72. «Apparve sulla veranda Carlo Bisi col colletto della camicia alla Robespierre...». Va in malora! Un elenco dei caduti; ovvero: un registro coi punti accosto al nome di ogni scolaro. Strani punti però, e strani scolari! Bacchilide, 4: Baldini, 9: Balla, 102; un registro dal quale risulterebbe che i più 27

interrogati di tutti sono Croce, D’Annunzio, Dante, Leopardi, i quali raggiungono votazioni ogni volta più alte; un registro nel quale Zùccoli ha l’incarico d’esser sempre l’ultimo (come zuzzerullone è l’ultima parola del vocabolario)... Farete caso che le lettere iniziali più ricche di cognomi sono B, M, P, R, S. Dio, quanti amici ho che cominciano col P! Le più povere di cognomi sono E ed U. * Alle volte d’un libro basta leggere l’indice dei capitoli per saperne giusto quel tanto che può servire per fare, conversando, una buona figura in società. Non vi fate però prendere al laccio. Di solito i libri che hanno gl’indici di capitoli più promettenti, coloriti, pittoreschi son quelli usciti di mano agli scrittori più fiacchi. I promessi sposi quando ancora non eran tali, ma si contentavano d’essere Gli sposi promessi avevano, pei capitoli del primo fra i quattro tomi, dei titoli fatti apposta per stuzzicare la curiosità del lettore: Il causidico, Il tentativo, Peggio che peggio, ecc. Nella forma migliore e definitiva del romanzo i titoli sparvero del tutto. A chi li sappia leggere, i titoli di un indice dicono già da soli molte cose. Il pappagallo, La vecchia del sonno, Ara Mara Amara, Oro Doro Odoro Dodoro: ecco Palazzeschi e le sue poesie. 28

La domenica, La domenica della pioggerella, La domenica dell’orso che balla, La domenica dei cani randagi, La domenica delle recluse: ecco Moretti e le sue poesie. I miei amici, La mia donna, Le mie figliole, Il mio fiume, La mia strada, La mia stella: ecco Papini. In cui i cavalli della carrozza fanno, per paura, quello che non hanno potuto fare sotto la frusta del postiglione; Nel quale si vedono gli eroi di questa storia che non perdono né un giorno né un’ora: Giulio Verne. Ma anche quando un indice si limiti a indicare: capitolo primo, secondo, terzo, pagina tale, tale e tale, non è vero che agli occhi dell’attento perditore di tempo queste schematiche indicazioni non sappiano dir nulla. Dalla successione dei numeri che segnan la pagina iniziale di ciascun capitolo si può almeno arguire se il libro sia costruito con una certa armonia e rispondenza fra le varie parti, se ci siano nel corso del racconto o della trattazione eccessivi inviluppi, indugi o dimostrazioni: la lunghezza dei capitoli rivelando chiaramente il ritmo e il respiro dell’opera. Vedo dall’indice che i capitoli dei Promessi sposi hanno una durata media dalle quindici alle venti pagine, poco più poco meno, e quelli delle Mie prigioni oscillano fra una pagina e mezza e due pagine. Non vi dice già molto questo fatto sulla differente natura dei due scritti? Un perditor di tempo dilettante non saprebbe forse trarre nessun costrutto dall’esame di un indice d’epistolario, con quella grigia successione de’ nomi dei destinatari dove ogni tanto s’apre 29

una lunga serie di lettere scritte allo stesso, allo stesso, allo stesso... Ma sottoponete quell’indice al giudizio di un perditor di tempo di carriera, professionista: egli, dallo studio de’ nomi dei corrispondenti, e solo dalla frequenza e lunghezza delle lettere, si comincerà a fare una prima idea del carattere di queste relazioni, dell’affabilità dell’epistolografo, e di certe sue particolari propensioni. Quante lettere di Michelangelo scritte allo stesso! E quante di Foscolo scritte alla medesima! * E le dediche, non vorreste far caso delle dediche? Chi dedica il libro al Re, chi al generale Cadorna, chi al babbo, chi alla mamma, chi all’amico d’infanzia, chi al mecenate, chi al medico che gli ha ridato la vista coll’operazione della cateratta, chi alla moglie, chi al primo figlio, chi alla memoria dei suoi morti, chi all’infamia dei suoi nemici, chi all’eroe che verrà, chi al liberatore che è venuto, chi ad una città (come Pascoli che dedicò la Canzone del Carroccio a Milano e quella dell’Olifante a Bologna); chi manda poi avanti al libro una letterina di carattere tutto privato che ha l’aria d’esserci caduta per inavvertenza e qualche volta mette nell’imbarazzo il discreto lettore, quasi avesse sbagliato in una casa nuova l’uscio della camera da pranzo con quello della camera da letto degli sposi… 30

* Anche la lettura dello specchietto con le opere dello stesso autore, o più bravamente: Dello stesso, che qualche volta va innanzi al testo può riuscire istruttivo. Conoscer le date, vedere come sono saliti e discesi i prezzi dei vari libri, seguire la Via Crucis delle edizioni attraverso le varie città e le case editrici di maggiore e minore importanza, aver nozione delle ristampe (quanti volumi a fianco dei quali è scritto Esaurito e qualche volta bisognerebbe invece leggere Al macero!) sono tutti particolari che aggiungono alla conoscenza superficiale di uno scrittore. Interessantissima, quando c’è, è la parte che riguarda le opere a venire, quelle cioè in preparazione e quelle in corso di stampa. Per questa parte conviene essere diffidentissimi: troppi esempi e troppo illustri ci sono di bluff del genere. Conservo un «Numero unico» del «Piccolo» di Trieste, in data del 10 gennaio 1911 nel quale si rendeva conto d’un referendum indetto fra gli scrittori italiani e stranieri per conoscere che cosa si proponessero di scrivere entro l’anno. È passato il novecentoundici, il dodici, il tredici – quanti ne son passati? Alla domanda: che cosa prepara per il 1911? Giovanni Verga, il più onesto scrittore italiano allora vivente, rispose: «A Trieste ed all’Istria un 31

saluto fraterno da questo estremo lembo d’Italia». Non si chiamava rispondere a tono; ma in conclusione fu il solo che non dicesse una bugia.

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TESTO ED ILLUSTRAZIONI ALLE PRESE Le letture più belle le ho fatte quando non sapevo ancora leggere e dei libri dovevo contentarmi di guardare le figure. Allora sì che in un libro ci entravo in pieno, allora sì che mi perdevo per veri boschi e mi sentivo sballottare da vere burrasche, allora sì che entravo davvero nella casa dell’Orco e la porta mi si richiudeva alle spalle. Dopo d’allora non si son più date che delle fievoli approssimazioni e non m’è riuscito mai di credere alla effettiva realtà delle cose scritte. O le figure non c’erano, e allora d’ogni descrizione mi restava sempre più d’un particolare in ombra che faceva torto a tutto il rimanente: o mi dovevo accorgere che il testo faceva a cazzotti con le illustrazioni, o le illustrazioni restavano troppo inferiori al testo, o il testo era troppo da meno delle illustrazioni. Sulla soglia di ogni nuova lettura cominciai ad esitare, e né il libro faceva più al caso mio né io facevo più al caso di nessun libro. Per salvar la faccia feci anch’io le viste d’avere letto dei libri bellissimi ed interessantissimi magari senza una figura, senza un fregio, senza un andare a capo: ma mentivo vilmente a me stesso. Una pagina scritta è sempre una cosa troppo suscettibile, è come uno specchio d’acqua che se oggi ci 33

credi riflette il sereno del tuo crederci e se domani sei in un’altra disposizione riflette solo nuvolo, noia e voglia di fare a pugni. Il novanta per cento degli scrittori dànno il mal di mare per questo. Datemi delle figure d’appoggio, fate che mi dimentichi di saper leggere, allora può essere che ripigli sul serio vero gusto a sfogliare un libro. Tante cose, e tanto facilmente, si dimenticano: perché uno non potrebbe disimparare a leggere? Una volta conoscevo la tavola pitagorica, sapevo giocare a briscola, ritenevo a memoria i verbi irregolari greci: oggi ho tutto dimenticato. Perché non potrei dimenticarmi il suono convenuto delle vocali e delle consonanti? Uscire una bella mattina di casa e accorgersi di non sapere più leggere programmi e manifesti! Anno novo vita nova! Mi perdoni, signore, ma ho dimenticato gli occhiali a casa: vorrebbe essere così cortese di leggermi i numeri estratti per la ruota di Roma? * O felice ignoranza! Già mi sento soavemente tornare analfabeta. Rièccomi agli antichi amori. Portatemi un libro con le figure. Ripigliatevi indietro le vostre costose monografie d’arte, le vostre pretenziose pubblicazioni speciali, e lasciatemi solo con un libro illustrato da Gustavo Doré!... Ho un bell’avere educato e tirato su a bocconcini il mio gusto artistico in tutti i musei e le chiese che mi sono trovato a portata di mano, ho un 34

bell’essermi nudrito d’estetica e di storia dell’arte, ho un bell’essere stato col naso in aria le ore e le ore sotto un pezzo da tre asterischi per farmi una ragione della sua eccellenza, ma quando io riapro un libro con le illustrazioni del Doré mi sento cascar da dosso ogni turbante e baraccano di cultura e mi ritrovo, se a Dio piace, nei miei panni, coi miei gusti e trent’anni di meno sulle spalle. Vedo bene che il suo è tutto un mondo di sughero, di bravura e di accatto, ma dentro ci cammino largo come con le ciabatte di mio nonno, dentro ci vedo un mondo a proporzione di gigante, dove uno si perde realmente senza ritorno e non dove ci si ritrova tutti due volte al giorno come dal tabaccaio di piazza. Tanti libri dai quali m’ero separato pieno di gratitudine e di amore, dopo qualch’anno li ho ritrovati freddi e impermeabili a qualunque mia attenzione. Ma un libro illustrato dal Doré, come lo riapro, mi rifà sempre tutta cosa sua e più cerco di rimirarlo a lume d’un giudizio critico più da qualche parte viene una corrente d’aria che mi spegne il lume. Con viva emozione ritrovo dopo trent’anni il brivido di certe romantiche disperatissime contrade schizzate in margine al Don Chisciotte, all’Orlando furioso, alle favole di Lafontaine, e con sempre nuovo entusiasmo dopo quindici anni mi riaffaccio sulle sponde del Mississipì chateaubriandesco d’Atala, sulle stregate marine dell’infernale ballata di Coleridge, e per le strade 35

zingaresche della Spagna corsa in compagnia dell’onesto Davillier. Grandissimo illustratore, tanti il Doré ne ha accompagnati e tanti ne ha traditi. Invano cerchereste nelle pagine di Davillier le luci e le ombre che inscenano la vecchia Castiglia del Doré, invano cerchereste nelle favole di Lafontaine quei tragici sfondi di natura che il focoso alsaziano ha profuso nel gran volume ad esse dedicato (a mio parere l’opera più bella e più studiata del Doré illustratore; ma mi manca di conoscere il Rabelais, del quale ho sentito dir meraviglie). Ma appunto codeste illustrazioni alle favole hanno poco o nulla a che fare col testo. Poeta e pittore sono agli antipodi. L’uno vede le cose attraverso il più limpido dei cristalli, all’altro invece piacciono viste attraverso un vetro affumicato. All’uno piaccion con dimolto sale e all’altro con dimolto pepe. L’uno si sente vicino alla Poetica di Boileau, l’altro alla Prefazione del vittorughiano Cromwell. Quando dopo avere visto quelle illustrazioni si va a leggere qualche verso delle favole può anche venir fatto di pensare a quegli usignuoli che si sentivano cantare nelle pause del bombardamento da una trincea nel bosco. * Ma si domanda: esistono illustrazioni che non siano tradimento dell’opera letteraria voluta illustrare? Alla perfezione non s’illustrano che le opere mediocri o letterariamente nulle. Certo i Tre mo36

schettieri e Michele Strogoff sono illustrati alla perfezione. Ma a illustrar la Commedia di Dante non ci sono arrivati né Michelangelo né Botticelli. Certo Bartolomeo Pinelli ha illustrato a meraviglia il Meo Patacca di Giuseppe Berneri. Ma la colpa è tutta di Berneri, di Dumas, di Verne: i quali, se si lasciano illustrare alla perfezione, è perché la loro fantasia non ha di per sé che assai scarsa consistenza artistica. Pittore e scrittore o si tradiscono dunque a vicenda o se l’uno ha tanta forza da impersonare pienamente agli occhi di chi legge le immaginazioni dell’altro allora è segno che senza sembrare l’ha sostituito. La musica di Verdi abolisce i libretti di Piave nell’atto stesso che dà loro una vita musicale. Ma i libretti di Metastasio probabilmente eran loro ad ammazzare la musica che li commentava. Quando un illustratore imbrocca preciso il bersaglio dello scrittore vuol dire che ha bloccato lo scrittore: per la ragione molto semplice che arte e originalità sono una cosa e non è possibile essere in due originali nella stessa maniera, per la contradizion che no ’l consente. La parola stile in questo caso è valevole contemporaneamente nelle due sue eccezioni; di pugnale e d’arte di comporre. Nel caso dunque che testo ed illustrazioni siano buoni del pari, state certi che le une non hanno nulla a che fare con l’altro se non in linea di puro e semplice pretesto. E in linea d’umile decorazione, quando la parte illustrativa si riduca a fre37

gio e cornice della pagina stampata allora può essere che anche due buoni artisti contemporanei si facciano grata compagnia. Col tempo certe leghe che ci paiono perfette si potranno alterare, ma oggi come oggi l’edizione della Figlia di Iorio con le illustrazioni di De Karolis ci pare ancora una delle buone cose dell’arte libraria italiana; mentre già non ci possiamo più nascondere la stonatura delle illustrazioni di Sartorio, Michetti, Mancini e altri al Libro d’Isaotta Guttadauro pubblicato qualche tempo prima per cura della «Tribuna» di Roma. Certi artisti e certe maniere d’arte invecchiano prima ed altre dopo. È imprudentissimo perciò affidare il proprio carico a più cavalli quando non si può sapere se tutti avranno la stessa resistenza al trotto e se qualcuno non si fiaccherà le gambe per la strada. I preti che la sanno lunga hanno ultimamente pubblicato una edizione dei Vangeli con delle figure che avevan resistito a un collaudo di mezzo millennio: le hanno infatti riprodotte dai dipinti dell’Angelico. Chi va piano va sano e Giovanni Papini gli dà una mano.

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«RIDON LE CARTE...» (LA BIBBIA DI BORSO)

Sfogliandola, data la festosità dei colori, occorre fare di volta in volta uno sforzo di memoria per ricordarsi che in verità abbiamo spesso sotto gli occhi uno dei testi più seri e preoccupanti del mondo. Dalle pagine dei libri di Giobbe, di Geremia, dell’Ecclesiaste ci sentiamo trasportati senza ritorno nella sfera delle pulcherrimae ambages di Artù, di Merlino, e di Morgana. Non già che Taddeo Crivelli, Franco de’ Russi e gli altri alluminatori della Bibbia di Borso non siano stati attenti illustratori del testo; ma la vivezza e lo splendore dei colori hanno sopraffatto lo spirito anche delle situazioni più amare e tremende. Le terribili carneficine, le battaglie così numerose nei Libri dei Re, dei Giudici e dei Macabei, i martirii degli stessi fratelli Macabei e della loro madre, le donne rincorse e trafitte nelle città saccheggiate, le teste e le membra dei vinti infilzate sulle picche, gl’infanti precipitati dall’alto delle mura, le piaghe e la lebbra di Giobbe sullo strame, l’abbacinamento di Sedechia sono raffigurati con la scrupolosa crudezza di buoni discepoli di Cosmè Tura; e non per tanto, tutto resta ingentilito da quei colori preziosi e ingraziosito da quelle piccole proporzioni. La lebbra di Giobbe ha lucenti riflessi d’argento e il sangue è sempre d’un color di rubino schietto. 39

Lo scrupolo degli artisti si vede anche da come hanno sempre cercato di conservare di volta in volta i tratti e le vestimenta dei personaggi principali. Abacuc ha un turbante bianco dal quale spunta una specie di rosso berretto dogale, e un manto verde; Amos ha il manto viola e le calzature scarlatte; Daniele il manto blu e la veste rossa; Giona il manto rosso e la veste verde; Baruc lo si riconosce subito per un vistoso cappuccio verde; Sofonia per un provocante berretto goliardico ed Ezechiele pel vestito d’un rosso acceso. Alla fine di ciascun libro, quando resti un po’ di spazio, si vede il ritratto del traduttore della Vulgata, in caverna o nello studio, col leone accucciato a fargli compagnia, che legge o tempera la penna. In testa alle Epistole e ai Vangeli, gli Evangelisti son figurati in atto di scrivere: Matteo in un suo studiolo di legno, seduto a una scrivania da giovane d’ufficio, con pochi libri in uno scaffale; il barbuto Marco, in uno studio più agiato e con più libri; il canuto Giovanni, avanti a un leggio con l’aquila rannicchiata sotto il tavolino. Paolo, con una barba rossa a punta, in testa alla prima Epistola è seduto a un gran tavolo da geometra e in terra si vede posata un’armatura; in cima alle altre Epistole l’Apostolo dei Gentili è invece figurato fuori dello studio, la spada in pugno, con un fodero che ad ogni capitolo cambia colore. I «protagonisti», i personaggi di maggior nome ed autorità son vestiti «all’antica», ma i personag40

gi accessori, le comparse e le donne portano i costumi del tempo, della fastosa corte di Borso e di Ercole I, di quelle giostre, di quelle partite di caccia che in Ferrara mantennero vivo meglio che altrove lo spirito delle stagioni cavalleresche. Negli stessi anni in cui Franco e Taddeo attendevano all’opera, il conte Boiardo, intimo di Borso, cominciava a scrivere l’Orlando innamorato: e non v’ha dubbio che molte delle miniature della Bibbia illustrerebbero meglio a proposito, con spirito meglio confacente, le avventure terrestri e marinare d’Angelica e Rodomonte, che non facciano i fatti di Ester giudea e del pescatore Pietro, la cui povera barchetta appare tramutata in una sorta di galea di discreto tonnellaggio. Per il Nuovo Testamento, gl’illustratori si sono, come meglio hanno saputo, tenuti stretti all’iconografia allora corrente; ma per il Vecchio, dove erano senza paragone meno sorretti e vincolati da una tradizione figurativa, si sbizzarrirono a concepire le loro figurazioni in ispirito romanzesco e coi costumi più alla moda. I mistici amanti del Cantico dei Cantici si parlano seduti all’ombra di un cespo di rose come due azzimati donzelli di Schifanoia. I cortei pei trasferimenti dell’Arca Santa e le scorte degli idoli di Babilonia (Daniele, 3) fan pensare ai carnasciali del Magnifico Lorenzo. La gente d’arme che entra in Gerusalemme al seguito di Nabucodonosor (Geremia, 39), i bellissimi cavalieri con armature d’oro e sopravvesti 41

di vivo colore, con elmi d’oro, lance d’oro, mazze d’oro, ch’empiono le pagine del Libro dei Macabei, i palafreni, i carri d’assalto trainati da elefanti, le tende, le fortificazioni, i fossati, le battaglie in campo aperto, le città incendiate, le castella crollanti, le navi in fiamme che scendono giù per i fiumi, i vincitori col bottino sulle spalle e nelle carrette, gli smaglianti costumi orientali, fanno pensare agli assedi d’Albracca, piazzaforte del Catai, agli scontri di Agricane e di Marfisa nel poema boiardesco. In queste pagine perfino i Santi portano l’aureola fieramente, come fosse un elmetto. Scene di navigazione illustrano i viaggi di Paolo in Siria (Atti, 21), e nel Vecchio Testamento, Giona gittato da una specie di fusta corsaresca nei gorghi d’un mare corrucciato. Anche i paesaggi hanno un’aria romanzesca, per lo più inculti e deserti con strade tagliate nel vivo della roccia, con cieli d’un turchino carico, serotino, contro il quale si vedono splendere città soavemente rosee a corona dei monti, e castelli lumeggiati d’oro. Spesso, sono paesaggi con apparizioni diaboliche: un uomo rosso come Fafner che sbuca fuor di due rocce verdi tra arbusti senza fronda; un demonio azzurro, color dell’aria, con le corna e le zampe color solfo, che dà fuoco dalla parte deretana e corre a braccia aperte incontro a una specie di povero fraticello. O son vallette desolate con un cervo solo solo che fugge per disperato 42

da invisibili cacciatori. Dolci verdi pendii rafforzati qua e là da gabbioni. Coste d’abeti, fitti come canne d’organo. Nel libro di Giosuè la tribù di Manasse disbosca il monte con l’aiuto di enormi mannaie e sembra una illustrazione avanti lettera del secondo dei Cinque canti dell’Ariosto, quando Carlo Magno fa tagliare il bosco stregato dalla Maga Medea, o del terzo della Gerusalemme liberata, quando il pio Goffredo fa cavar legname per le macchine d’assedio. Un delizioso quadretto di mietitura illustra il capitolo dove Rut entra a spigolare nel campo di Booz: alla quale scena certe curiose fisionomie di falciatori conferiscono un carattere vagamente giapponese. Graziosissima la scena che illustra Amos, là dove il profeta dalla strada parla alle vacche di Basan sul colle, le quali lo considerano assai stupite con aria di dire: padrone, a che cosa rima il vostro discorso? Più frequentemente il cielo è d’un turchino, come s’è detto, crepuscolare, con bave in alto di candide nuvolette, con frange, nuvole e raggi d’oro. Su quel turchino cupo ogni segno, ogni apparizione, e le stesse sagome degli alberi e delle fabbriche prendono un aspetto inquietante. Iddio vi parla a Mosè con geroglifici d’oro. A Ezechiele (10), appare un grappolo di cherubini rossi come peperoni messi a seccare al sole. Cogli occhi fissi al cielo il veggente di Patmo siede alla turca nel bel mezzo d’una isoletta così minuscola da potercisi appena sdraiare. In Apocalisse (15), il 43

mare, torno torno quella specie di sughero galleggiante, entra in fermento e lo si vede fiammeggiare d’uno spirital colore di punch al mandarino. Sull’indaco di quei cieli staccano a meraviglia castelli purpurei con torri e battifredi color lilla e fragola, con le soglie, le cornici e i davanzali di marmo bianco, edifici che di irreale non hanno a volte se non il colore e dove si possono ritrovare uno a uno elementi dell’architettura lombarda e fiorentina. Il pozzo dal quale attinge acqua la Samaritana (Giovanni, 4) è ben l’adorno pozzo dei campielli veneziani. Logge e cupole paion di Brunelleschi o dell’Alberti. I pavimenti bianchi e neri e i marmi colorati sono quelli delle cattedrali e degli altari del tempo. Il portico della piscina di Gerusalemme (Giovanni, 5) dove gli infermi aspettano il movimento dell’acqua turbata dall’Angelo, è quello d’una ben fondata casa colonica ferrarese. Con sì realistici sfondi l’illustrazione sacra diventa volentieri scenetta di genere: come quella delle donne alla fontana senz’acqua (Geremia, 14) coi secchi a bilancia sull’omero come ancora d’uso nel Veneto; quella di Cristo che caccia a bastonate (Giovanni, 2) il venditore d’uova dal Tempio facendogliene fare una frittata sul pavimeno; e quella di Geremia (38) calato come un imbianchino colle funi giù dalle mura della prigione; ed Ezechiele (5) che si taglia da sé con un rasoio barba e capelli per pesarne i peli sulla bilancia. Così la costruzione della Torre di Babele 44

per questi artisti non sa e non vuol essere impresa di maggior momento che la costruzione d’una torre contro i Veneziani, e il padiglione dell’Arca Santa altro di meglio che una sontuosa tenda da spiaggia. Le tine e le bigonce ruzzolanti sul posto dànno al miracolo di Mosè, che ha percorso con la verga l’arida scogliera, il carattere d’una, tutt’al più, allegra svinatura. La pioggia di manna, in forma di coriandoli e pasticche di menta e di zucchero d’orzo, è buon pretesto a una scena di nozze rusticane. Noè affacciato al suo barcone incatramato, sulle acque dove ancora affiorano le cime delle montagne sommerse, tutto vestito di giallo, pare un doganiere che sorvegli le bocche della laguna. Gli manca solo di fumar la pipa. Anche la parte più astratta e puramente decorativa di queste miniature riflette in qualche modo la vita in Corte di Ferrara. Le aquile bianche, il «paraduro» (una specie di cannicciata triangolare aperta alla base, in riva alle acque correnti d’un fiume), e gli altri emblemi estensi dominano il sacro testo con tutte le pompe e le risorse dell’araldica. Il Libro dove debitamente la decorazione sfoggia il suo fiore più puro è quello dei Salmi, e gli indici che occupano molte pagine del secondo volume. Splendono le iniziali di un fuoco di pietre preziose nella pagina carica di targhe e di ghirlande e le sole figure che vi compaiano sono angeli, draghi, sirene, centauri e delfini, senza obbligo di riferimenti al testo. Centauri si rincorrono 45

dalle opposte pagine: a sinistra uno d’essi ha rapito in groppa una ninfa, a destra un altro l’insegue accoccando una freccia. Bionde sirene a piè di pagina sono vestite solo d’una collana di coralli. Amorini suonan la viola seduti sopra una trainante tartaruga. Una giovine nuda come mamma l’ha fatta, naviga ginocchioni sopra un candido cigno del quale tien chiuso con una mano, chi sa mai perché, il becco. Candidi liocorni tuffano il corno nell’acqua corrente. Un amorino cavalca un camello e porta appesa alla sella una tasca da viaggio. Due babbuini sollevano sulle braccia pelose un roseo marmocchio che strilla e pare Saturnino Parandola infante nelle braccia degli scimmioni di Pomotù: e scimmie e macachi con collane e sonagli e un guinzaglio alla vita sottile popolano le pagine dei sacri testi. Fan ricordare quanto in quella società fosse viva la passione per quelli ed altri animali esotici. Non per nulla nella prima pagina del Genesi Iddio Padre comincia la Creazione proprio dagli animali più rari ed eleganti: pavoni, aironi, pappagalli... I numerosi uccelli palustri ritratti con le loro piume iridate fan pensare alle ville e ai ritrovi estensi verso Po di Volano, dove a quel tempo si andava da Ferrara per molte vie di fiume e canali e dove i familiari del Duca eran soliti passare la più grata stagione dell’anno. Tutti i volatili conosciuti e non conosciuti da Giovanni Pascoli fanno il nido o stan sul ramo in queste pagine fiorite, dalla quaglia acquattata tra 46

le rosee pannocchie della saggina, all’anatrella azzurra che tenta di spiccare il volo fuor dell’acqua. Farfalle che paiono appuntate con lo spillo. Smilzi pappagalli di piuma tutta verde col solo becco rosso. Merli, girifalchi, levrieri dallo sguardo umano, caproni neri dall’occhio diavolesco, leopardi e pantere stellate al guinzaglio, timidi orsacchiotti, malinconici elefanti, donnole, puzzole, conigli, cinghiali, cervi, alci... E mentre ripercorro all’indietro queste pagine miracolose di finezza e di festosità, indeciso di separarmi da una così bella vista, ecco mi ferma lo sguardo, non prima notato miracolo d’eleganza, un cespo di garofani azzurri fuori da un vaso rosso e oro.

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LEGHIAMOLI PURE

Nel Mattino (v. 652 e segg.) il Parini fa che tra gli arnesi della toelette del giovin signore si trovi anche un minuscolo prezioso libro, il libro di moda negli ambienti eleganti giusto quella settimana. Ei ti lusingherà forse con liscia purpurea pelle onde fornito avrallo o mauritano conciatore o siro; e d’oro fregi delicati e vago mutabile color che il collo imiti de la colomba v’avrà sparso intorno squisito legator batavo o franco.

Come sempre squisitamente fantastico il poeta ci apre in un lampo la visione, su tre continenti, di conciapelli e rilegatori in faccende, affricani, asiatici ed europei, intesi a dare la veste più straordinaria a un libriccin da nulla. Or tu il libro gentil con lenta mano togli e non senza sbadigliare un poco aprilo a caso, oppur là dove il parta tra l’uno e l’altro foglio indice nastro.

* Dirò in un orecchio al mio lettore che uno dei segni ai quali purtroppo m’accorgo d’invecchiare è che i libri ben rilegati incominciano a piacere 48

anche a me, che pure fino a qualch’anno fa consideravo la rilegatura come la morte del libro, rendendomi pienamente conto di come un autentico amator di libri, Sébastien Mercier, il primo trattamento che facesse a un libro che l’interessava davvero fosse, se rilegato, de lui casser le dos, di schiantargli la schiena. * Se le mie letture più belle restano quelle fatte su libri squinternati, mancanti, adattati, scorretti, stracciati e bisunti, questo non è successo per una malintesa predilezione pei libri comunque sconciati, ma perché la gran passione della lettura nasce naturalmente al tempo che s’hanno pochissimi soldi e nessun comodo di farsi una libreria, e non si conosce che gente che ha meno soldi e comodi di noi. La solita storia: ci sono ottimi denti e poco pane. Quando poi viene il pane cominciano a tremare i denti. E allora, per magra consolazione, i libri non resta che rilegarli. Da giovani, il fuoco che portiamo dentro basta a riscaldare noi, la stanza dove studiamo, la casa, il mondo. Ma appena dentro cominciamo a raffreddarci, ecco che ci pare che tutti debbano aver freddo, e pensiamo di ricoprire perfino i libri. E la tenebra scende su di noi. * Ma se sepoltura ha da essere vorremmo almeno che fosse una splendida sepoltura. E perché una buona rilegatura oggi viene a costare per lo 49

meno il doppio del libro che riveste, ecco che ci troviamo nella necessità di diventare milionari. E siccome io non sono milionario altro che nel sogno, – lasciatemi chiudere gli occhi e vi dirò subito com’è fatta la mia biblioteca. Vedo una fila di stanze grandi, ariose e bene illuminate, in ogni stanza una scrivania di noce vicino alla finestra, le quattro pareti piene di libri, delle scalette appoggiate qua e là. I libri mi contento di annusarli, di accarezzarli e di cambiarli qualche volta di posto, per ragioni d’altezza e di colore. Sopratutto di colore. Certe pareti in piena luce sono variopinte come i tappeti di piume di pappagallo che fanno gl’indiani. Ogni autore ha una rilegatura d’una pelle a sé. Dante è in pelle di leone. Petrarca in pelle d’ermellino. Machiavelli in pelle di lince. Guicciardini in pelle di volpe. L’Aretino in pelle di lupo. Cellini in pelle di leopardo. Shakespeare in pelle di tigre. Swift in pelle di sciacallo. Sterne in pelle di talpa. Dickens in pelle di gatto. Shaw in pelle di serpente. Poe in pelle d’oca. Voltaire in pelle di faina. Rousseau in pelle di coccodrillo. Lafontaine in pelle di rana. Balzac in pelle di zigrino. Zola in pelle d’ippopotamo. Paul de Kock in pelle di scrofa. Loti in pelle di baccalà. Tolstoi in pelle d’alce. Ibsen in pelle di renna. Unamuno o Pirandello in pelle di pipistrello. Pitigrilli in pelle di riccio. Me, per dare soddisfazione a lor signori, in pelle d’asino. 50

LE NOTE IN MARGINE OVVERO VIETATO LORDARE GIURAMENTO. Giuro solennemente che nei riguardi dei libri giacenti nella mia poverissima libreria osserverò quind’innanzi, senza trasgressioni di sorta, una regola rigorosissima. Alcuni dei libri, e siano anche i più, escano, rientrino, vadano alla cerca, si perdano, si contrattino, vadano pure in malora. Ma per altri, per alcuni pochi altri che stanno impressi a caratteri ben chiari nel libro della mia memoria, non uno di più non uno di meno, sia rigorosissima clausura: a nessun patto e per nessuna ragione al mondo scostarsi o separarsi dal loro legittimo padrone: in caso di assenze di lunga durata seguirlo da presso in una col suo bagaglio particolare: in ogni momento essergli sotto mano, e guai a qualunque altro s’avvicini: non si guardi in faccia né grandi né piccoli, né amici né parenti, e venisse il re, venisse il papa, venisse Cristo in persona, giù le mani: quel libro non si presta a nessuno. Ho giurato. E se questa non è verità pôzza murimme; me pozza struppià.

* Uno di questi libri che non avrebbero dovuto a nessun patto uscire dalla mia libreria, uno di questi libri accrescimento dell’anima, uno di que51

sti specchi di consultazione e giardini di riposo ai quali non fu mai ricorso invano senza riportarne un qualche bel fiore di certezza e lume di consolazione, uno di questi libri che quando mancano al posto lasciano davvero negli scaffali il vuoto nero come un tasto che manchi al pianoforte, uno di questi tomi alla mano che oramai conoscono a menadito i nostri gusti e s’apron da sé, per loro grande gentilezza, al punto che ci bisogna e quasi sempre, oltre quel che loro domandiamo, hanno qualc’altra cosa nuova da darci per giunta, uno di questi gelosi cimeli di famiglia – l’avevo dunque prestato tempo addietro all’amico Ipsilon. Non volevo, ma le insistenze da parte sua furono troppe. Però dalle difficoltà opposte prima e dalle raccomandazioni fatte e rinnovategli, sul punto di salutarci, fin sulla porta di casa, dubbio non mi restava ch’io non gli avessi fatto intendere a chiare note come e quanto mi stesse a cuore il libro che gli lasciavo portar via. Ero arrivato perfino a incartarglielo, come un regalo di nozze, come un astuccio di gioielli. Il libro, in capo a un tempo doppio del pattuito, m’è ritornato. Non dico di no: m’è ritornato, ma ascoltate come: con un baffone d’inchiostro e un cul di lampada a petrolio sulla copertina, due gocce di cera a pagina duecento quattordici, una pecetta di carta gommata sopr’uno strappo dell’ultima pagina, e tutte le pagine piene poi di segni d’unghia e d’annotazioni a matita nera e blu. 52

E in cambio d’un simpatico odorino che c’era sempre stato di rinchiuso e di muffa, che a ficcare il naso in fondo ai fogli mi pareva di ringiovanire ogni volta di vent’anni, una puzza d’acido fenico che accora. Il libro m’è ritornato, non dico di no. Ma tanto valeva che l’amico Ipsilon ci avesse tra foglio e foglio spiaccicato e appiccicato una collezione d’insetti e di francobolli. Ho perduto una mezza mattinata per veder di cancellare parte almeno di quei segni. Ma per quanto abbia fatto, unghiate e segni blu si vedono ancora e si vedranno sempre: e in conclusione, tra me e la pagina ci sarà sempre l’immagine di quella mano unghiata che ha distrutto la perfetta comunione e intimità d’una volta. Dice: Tienti alla strada e non guardar nei fossi; leggi lo stampato e lascia andar i margini. Tutto è fattibile; ma dovrò dunque camminar sul mio coi parocchi per la bella faccia d’Ipsilon? Stupefacente mancanza di considerazione e di rispetto per la roba altrui. * Eppoi veder che razza di commenti! che profondità! che peregrinità! Giustissimo. L’ho sempre detto. Non è vero. Superato. Ci mancherebbe altro. Evvia! Paralogismo. Tautologia. Contradizione in termini: e vai su questo tono, rimandi, paralleli, esclamazioni e punti interrogati53

vi che l’amico si poteva benissimo risparmiare e farci miglior figura anche come lettore. Dice: Non farci caso. Una parola! Sarebbe come non far caso a una statua di bel marmo sulle cui reni qualcuno avesse fatto il conto dell’oste e più sotto stampigliato un grido sovversivo. Dice: O piantagrane! se n’acquista un’altra edizione: ce n’è fin che si vuole. Ma, santo Dio, è pure risaputo che noi siamo dei lettori sui generis, malissimo abituati... Dice: Ma i libri tuoi gli annoti pure, e commenti pure; dunque, cosa son queste smanie? * O bella! ma gli annoto per me, a mio intendimento, uso e consumo, e per questo ci tengo moltissimo che i miei segni, le mie intacche, i miei esclamativi e interrogativi non s’abbiano a confondere coi segni degli altri; perché nei miei segni io ritrovo via via le mie letture e le mie prime illuminazioni e interpretazioni, e sulla scorta di quelli posso sempre rintracciare i miei gusti e le loro mutazioni. Quei segni mi dànno il piacere intero della rilettura, ch’è di ritrovar sé stessi pian piano cambiati attraverso il tempo e le stagioni. I segni e le annotazioni fatte in margine a certi libri sono un po’ come i segni fatti sopra un muro per ricordar l’altezza del ragazzo a dieci, poi a dodici, a quindici, a dieciassett’anni. Fino a far quest’osservazione, fino a notar questa bellezza, fino a 54

pigliar per buona questa brutta falsità, ci sono arrivato a questa, a questa e a quest’altra età. Gioco sottile, delicato, e dolcissimo onestissimo perditempo: e vorreste venire a intralciarmelo coi vostri ghirigori? Ma poi basta un rigo, un segno appena percettibile, del quale basti io solo a conoscere il valore: quel che non posso mandar giù è la frase squacquerata, la spiegazione pedante in tutte lettere, quel dire son qua io, le triviali note di W e di , come sulle pareti degli orinatoi.

W

* Joubert, squisitissimo scrittore, empiva i suoi libri in margine di segni che sono rimasti un mistero anche per quelli che li hanno confrontati dedicandoci lunghi studi. Una croce, un triangolo, un fiore, un tirso, una mano, un sole: geroglifici d’una lingua a noi ignota. Alfieri si contentò di segnare i versi che gli piacevano in margine al Canzoniere del Petrarca, senza aggiungerci né sale né pepe. E volete che non avesse saputo motivare anche lui per filo e per segno le ragioni della sua ammirazione? È che le cose che piacciono, una persona discreta lo sa da sé perché gli piacciono e non sente affatto il bisogno di andarlo a spiegare agli altri. * 55

A meno di non farlo a ragion veduta, come Charles Nodier che annotava i libri... ma per venderseli più cari, l’adorabile birbante!

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SENTO RUMORE OVVERO DELLE RECENSIONI

Credi pure a me, egregio lettore, che un libro non può fare a meno delle recensioni. Senza recensioni il libro rimane zitella, diventa ombroso, velenoso e qualche volta arriva a fare del male. Dunque meglio parlarne, se non altro per togliere dal giro queste possibili male influenze. Povero libro, almeno una recensione gli ci vuole: e sia pure carica d’ingiustizia e di cattiveria: ma sempre tale che quel libro possa certificare sé stesso d’essere venuto alla luce e fondare almeno sopra un fatto reale l’attesa e la fiducia d’altre recensioni. Perché il bello delle recensioni non sta tanto nell’averle quanto nell’attenderle. Una volta avute, è difficile che poi non deludano; la curiosità di noi stessi è sempre troppo forte, e per quanto di miti pretese ci parrà sempre che la gente abbia mancato d’attenzione al nostro riguardo. Anche bastonati, la bastonatura non ci parrà mai abbastanza degna di noi. Ma, come dicevamo, porti carezze o meni bastonate, il bello e il buono d’una recensione è nell’aspettarsela, è nel paesaggio di promesse e di rischi che l’attesa ci crea, è in quell’andarle incontro ciecamente senza sapere da quale finestra po57

trà cascarci sul capo, e se saran per essere rami di lauro o torsoli di cavolfiore. Pensate: a uno scrittore fresco di stampa la Befana può capitare d’ogni giorno, da un momento all’altro, la Gloria gli sta sempre sospesa fra capo e collo; ogni venticello che spira può essere benissimo quello che ha da portarlo in cielo, e ogni rumore che si senta crescere in capo alla strada può essere senz’altro quello del suo trionfo. E appunto perché gli torrebbe questa gaudiosa inquietudine d’aspettativa e continuo pizzicore dell’incerto, uno scrittore che si rispetti deplora e rifiuta il soccorso dell’«Eco della stampa». Volete voi mettere l’effetto che fa una pagina o una colonna di stampa, a improvvisa apertura di fascicolo o di giornale, con l’effetto di quella medesima pagina e colonna ritagliate da una forbice mercenaria e ripescate in busta nella cassetta delle lettere? La recensione è un frutto che va colto sul ramo con le proprie mani. Lo scrittore sogna pubbliche soddisfazioni. E s’egli si può trovare in piazza nell’ora che esce il giornale con dentro un articolone a suo conto, quando la gente si stringe intorno agli strilloni e poi si sparpaglia spiegando il foglio, in quel momento per lui può essere davvero «perfetta letizia». Tutta la città fa in quel momento rumore intorno al suo nome, con le sue ruote, le campane, le voci e le trombe, e s’accendono i lumi, e il Campidoglio, là dietro mano, è pronto per l’incoronazione. 58

Che se poi quel signor letterato si tenesse pago a questa prima dolcezza e si ritenesse dal leggere quant’è scritto nel foglio, ivi sarebbe anche più perfetta saggezza: perché, oltre quel punto, ben volentieri cominciano i dolori. In ogni caso è bene che per leggere quella recensione lo scrittore si cerchi un angolino tranquillo, per non mettersi a rischio, sprofondato in una lettura di quel genere, di venire travolto da un autocarro o da un tranvai con in pugno un lembo del foglio accusatore. Che «Ben gli sta» direbbe la gente, non usa a perdonare questo genere di debolezze. Bisogna sopratutto andar cauti nella lettura d’una recensione che ci riguardi. Si sa come si comincia ma non si sa come si può finire. Bisogna avere i nervi a posto e l’occhio fra le righe. A scrivere una recensione tutti son buoni: ma a leggerla, qui ti ci voglio. Bisogna avanti tutto vincere la tentazione d’arrivare subito in fondo all’articolo a scapicolloni diagonali, per non guastare un piacere che così pieno e misurato non potrebbe mai tutto tornare. Nel caso poi che in quella colonna di giornale ci fosse una condanna irrimediabile, a strozzarvela di un fiato che cosa ci guadagnereste? Ogni recensione dunque andrebbe succhiata con una paglia, pian piano, a occhi quasi chiusi, per sentirne meglio i vari sapori. Sorprese d’insidie e d’imboscate, per solito, non mancano. La ricognizione può essere avventurosa: e da parte vostra sarà prudente non pronun59

ciarvi mai prima d’arrivare una volta in fondo e aver rifatto un’altra volta la strada a ritroso: dal titolo alla firma, e viceversa. Dopo queste opportune verifiche, non mai prima, lo scrittore s’abbandoni pure, se crede, alla pazza gioia o prenda quelle altre decisioni che gli convengono. Mai prima. Qualche volta egli potrebbe illudersi d’essere giunto al sicuro, e proprio all’ultima svolta di strada un colpo di doppietta rompe i silenzi alle sue spalle. Qualche volta può accadergli d’esser chiamato a fare un tratto di strada in compagnia d’altri due, tre, quattro scrittori, e di vederseli un dopo l’altro cadere fulminati a lato, e fino all’ultima riga di scritto non potersi dire certo della propria sorte. Ci son poi altri disturbi e altri tormenti ai quali non si pensa: e l’anticamera spinosa che tocca fare in qualche discussione sulla natura e sulla funzione dell’arte e della letteratura, per poi prestarsi a fare da esempio dimostrativo di questo o quel principio letterario; e quando sentirsi buttare da uno sconosciuto e stringere le braccia al collo con una effusione straordinaria (guardare la firma e non capire chi ci covi) e alla fine accorgersi che non per altro questo tale vi stringeva al suo seno che per farsi uno scudo del vostro corpo contro un avversario, vostro nemmeno in parte, ma tutto suo; e quando, per San Bartolomeo! dover tollerare di essere allegramente sparati sul tavolo anatomico perché la gente possa osservare ciò che 60

in quel momento tenevate nel gozzo e nel tubo digerente, e come vi si fossero ingrossati il fegato e la milza: e sentirsi spiattellare sul muso di che male morirete e le ragioni per le quali non sarebbe consigliabile a nessun giocatore di risicare un solo baiocco sul vostro nome. E come se non bastassero i colpi inferti al nostro amor proprio, bisogna aspettarsi anche quelli inferti alla nostra modestia: che non sono meno gravi e alle volte di minori conseguenze; non solo dunque la mazzata in capo, ma bisogna aspettarsi anche l’elogio talmente sperticato da potergli più credere, talmente commosso, lagrimoso e confidenziale da non sapere più da che parte accettarlo: l’elogio che dalla sera alla mattina può coprirvi d’un ridicolo che non si cancella. Perché, come ci son dei tipi ai quali non costa nulla gridare in piazza che voi siete un Petrarca e un Manzoni redivivo, così ci sono altri tipi sempre all’erta che per la paura che voi abbiate potuto credere a smarronate di quella fatta, s’incaricano di perseguitarvi, per farvela, pensano loro, in qualche modo scontare. Quanto poi male possono fare alle volte un elogio e un incoraggiamento spropositati, non ci si pensa. Non è la prima volta che uno scrittore di belle speranze è scivolato e s’è rotto le gambe sulla buccia d’un articolo troppo benigno: e che dopo l’articolo ha fatto come quel cane d’Esopo che portava la carne sopra il ponte e lasciò andare in 61

acqua il pezzo di carne vera per quello che nell’ombra gli era parso assai più gran pezzo. Ma vinte le prime sorprese, lo scrittore s’avvezza a parare criticamente i colpi del suo critico: impara, quand’è il caso, a superare di corsa gli spazi battuti fra due trincee: impara a digerire in tempo relativamente breve qualunque boccone indigesto: impara, se ha la coda di paglia, a governarsela in modo che non gli si bruci. Se non che tornano poi sempre a ripresentarsi recensori alle prime armi, pieni d’irruenza, e di così strane pretese che non si può fare a meno di prenderli in qualche considerazione. E ci sono quelli che si disperano delle cattive compagnie che il loro autore ha frequentato e frequenta; e quelli che per un eccesso d’ammirazione cominciano a piangere fin d’ora sul cadavere futuro; e quei poverini che con tutte le migliori intenzioni del mondo non riescono a trovare il verso di mettere sul piè critico le loro entusiastiche ma vaghissime impressioni, e si dànno un da fare benedetto e vi cercano e cercano senza trovarvi e vi passano sotto il naso senza riconoscervi; e gli avventizi carnefici delle braccia così magroline che per quanto ci si riprovino non riescono mai a staccarvi la testa dal busto e vi gemono intorno per la paura di perdere l’impiego; di tutti i generi un po’: intelligenti e cretini, divertenti e noiosi, eruditi e somari, lividi e rubicondi, stoccofissi e cervi volanti. 62

E solamente qualche rarissima volta, e quando meno ve l’aspettate e andate leggendo senza farci troppa attenzione, ecco un’espressione che vi chiama e vi ferma: ed eccovi venire per l’articolo incontro, come in una tersa luce di specchio, qualcuno che esce improvvisamente dall’ombra e che prima ancora d’averlo conosciuto vi fa battere il cuore forte nel petto; e poi vi fa dire: per bacco, ma quello son io, veramente io. E quelli, chi l’ha provati, dice che sono tra i più bei momenti della vita d’uno scrittore e che da soli pagano malinconie d’ogni sorta.

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UN SUCCESSO A QUALUNQUE COSTO

Quando l’altro giorno andai a trovare il Papa la prima cosa che mi dice vedendomi entrare è: – Dimmi un po’, figliolo, conosci tu bene lo scrittore Stamburè? – Se lo conosco! esclamo. – Da un po’ di tempo, ma non per mia colpa, siamo in rotta; ma per anni e anni siamo stati più che fratelli. – Ebbene, dimmi sinceramente quel che ne pensi. – Nel fondo un buon ragazzo, di talento sveglio, ricco di buone qualità e con una sbalorditiva prontezza di assimilazione. Ha però un difetto grosso assai... – Volevo ben dire. Racconta pure. – Un difetto grosso assai, che, a un dato momento, può fargli commettere come niente delle sciocchezze spaventose, che anche il più balordo degli uomini non farebbe. Lo tiene e lo caccia una furia d’arrivare, frenetica, spasmodica, con questo poi di strano, che dove precisamente voglia arrivare non lo sa nemmeno lui. Le ha provate tutte. Ha tre o quattro lauree. Ha tentato il giornalismo, il commercio, l’ingegneria, il cinematografo, il teatro e perfino la musica; e in tutto quello che gli veniva fatto non è da dire che mancasse 64

mai una scintilla di vero talento, ma immancabilmente vi si notava anche un difetto patentissimo di misura, di proporzioni, di gusto, e poi una mancanza di opportunità, che alla resa dei conti gli faceva ogni volta mancare quel successo al quale lui si crede invece consacrato quasi per investitura divina. Fiaschi, Le so dire, ne ha fatti di tutte le dimensioni, con la paglia e senza la paglia, in tutti i campi dove s’è provato. Ma ehi! dopo ogni caduta si rialzava più vispo e male intenzionato che mai. A sentir lui la colpa era sempre ed esclusivamente del malanimo degli altri. Il fatto di così costanti e replicati insuccessi non l’ha mai indotto a riflettere un pochino sulle ragioni prime e ultime delle sue eventuali manchevolezze, anzi ogni volta era più certo della assoluta bontà dell’opera sua: il torto era quindi sempre del mondo, invidioso e insofferente di vicinare un tanto genio. Non ammetteva la più piccola osservazione, la più piccola censura. Fu per questo che la rompemmo. E noti che forse io sono stato il solo amico che gli abbia voluto veramente bene. Nessuno lo poteva vedere perché non voleva bene che a sé stesso. Quello che dispiace, dicevo, è che in fondo a tutto quello che Stamburè fa c’è sempre un germe di novità che forse un temperamento più tranquillo, un carattere più riflessivo farebbero fruttare chi sa quanto mai bene. Invece... Ora s’è dato al romanzo, e due o tre mesi fa ne ha stampato uno in tre volumi intitolato... 65

– La cattedra volante! – Oh! vedo che Vostra Santità è bene informata. – Ma sta zitto, ch’è davvero un bel tipo il tuo Stamburè! Un’ora fa stava seduto proprio lì dove tu stai... Anch’io mi ricordavo d’averlo conosciuto una quindicina d’anni or sono, a Savona, perché era molto amico del mio nipote Giorgio; conosciuto molto superficialmente, s’intende; ma ne avevo conservato un ricordo abbastanza simpatico perché me lo ricordavo studiosissimo, e mi pareva che per appunto Giorgio, ch’era allora un gran farfallino, avesse bisogno d’un amico serio e riservato come m’appariva questo scrittorello che stava sempre curvo sui libri. Chi avrebbe mai pensato che dovesse poi dar nel matto? – Matto non direi. Direi forse vulcanico, Santità. – Matto, ti dico: stai a sentire. L’altra settimana ricevo una lettera di Giorgio nella quale mi spiega come qualmente l’amico Stamburè voleva ch’io lo ricevessi in udienza particolare e che lui gli aveva dovuto promettere che si sarebbe adoperato per fargliela ottenere, il che faceva con quella lettera; ma che in ogni modo restasse ben chiaro che lui non intendeva fare pressione di sorta perch’io glie l’accordassi. Io non feci allora gran caso a tutta questa insolita diplomazia di mio nipote e, rispondendogli, feci dire senz’altro a Stamburè che venisse pure, che l’avrei rivisto con piacere. 66

E questa mattina, èccoti Stamburè puntuale come un sovrano. Io gli faccio la migliore delle accoglienze, quella che riserbo ai più vecchi amici. Lo tiro su dal bacio della pantofola, gli do subito da sedere vicino a me, e gli chiedo notizie sue e della famiglia. Lui comincia subito a montarsi e a farmi un grande sfogo, e più gli dicevo di star seduto e più eccitato mi saltava davanti. Pareva che dentro avesse una molla. Bisognava vederlo, piccolo com’è, nero in volto, cogli occhi fuori della testa, che Dio mi perdoni, quant’era brutto... E, proprio come dicevi tu, comincia a raccontarmi che tutto il mondo gli è contro e glie ne vuole pel solo fatto che lui è il più gran genio poetico spuntato in Italia da tre secoli a questa parte, e che tutti i letterati, i giornalisti, i direttori di riviste, i librai, gli editori, i capocomici e lo stesso Ministro dell’Istruzione Pubblica hanno ordito una congiura contro di lui per chiudergli tutte le strade e mettergli contro anche quella gente che sarebbe disposta ad aiutarlo. Poi comincia a tirar fuori certe piccinerie che neanche la vergogna di starlo a sentire! e che i librai non gli tengono esposti in vetrina i libri tutto il tempo che dovrebbero starci, e che i direttori dei giornali ritardano apposta gli articoli che parlano di lui, e che Tizio ha scritto una lettera anonima a Caio per guastargli un piano, ma che poi lui stesso li ha messi a posto tutti e due scrivendo per suo conto un’altra anonima a Sempronio e che ha tanto in mano da mandarli 67

tutti in galera. Io non sapevo da che parte cominciare per quietare quella furia. Comincio col dirgli: Figliolo mio caro, so bene che il mondo è pieno di tranelli e che la concorrenza è forte assai anche nel vostro territorio che pure potrebb’essere dei più tranquilli, ma mi pare che tu dipinga la cosa assai più brutta del necessario. Un pochino di calma, per carità. La vita è per tutti una milizia, ma quando il soldato diventa troppo nervoso finisce col non vedere più neanche il bersaglio. Or dunque, per quanto gli affari dei quali mi parli siano fuori al tutto della mia competenza, se in qualche cosa tu stimi ch’io possa giovarti, fai conto d’aprirti con un amico. Si, Santità, mi dice Stamburè, cascandomi a questo punto davanti supplichevolmente in ginocchio, Lei solo può cavarmi da queste pene, Lei solo può rendermi la giustizia e darmi la soddisfazione che io attendo invano da dieci anni dagli uomini del mio Paese: che se anche Lei mi dice di no, se anche presso di Lei non trovo scampo, vuol dire che è proprio suonata l’ora dell’ultima mia rovina. Io ora te la faccio breve, ma credi che la cosa è durata un gran pezzo prima di poterlo indurre a sputarla chiara e tonda come l’aveva in mente. È incredibile poi quel che ha saputo dire e fare per cercare di strapparmi un sì prima ancora di dirmi di che cosa si trattava! Che maniere! Finalmente, dài e dài, sputa l’osso. Indovina un po’ adesso che cosa voleva il tuo Stamburè. Indovina. – Capace di tutto. Voleva per sé il Vaticano? 68

– Peggio, peggio assai! Mi dice: Santità, sono sei mesi ch’è uscita La cattedra volante, il mio capolavoro, e nessuno ne ha voluto ancora parlare e perfino i librai si sono rifiutati di tenerlo più in mostra con la scusa che il libro ha perduto di freschezza. Consapevole della straordinaria, unica, importanza dell’opera, per farla stampare io ho sacrificato tutto il mio avere fino all’ultimo centesimo. Ora, o salgo in cima o vado a fondo. Una via di mezzo non ci può essere. A tutt’oggi se ne sono vendute tre copie. Dipende da Lei, Santità, che dall’oggi al domani tutto il mondo ne parli, che venga tradotto in tutte le lingue, e ch’io mi ritrovi a essere di punto in bianco lo scrittore più letto della terra. Altro che premio Nobel! Mi fa ridere, a me, il premio Nobel, solo che Lei voglia metterci una buona parola. Ma figliolo, gli dico, che cosa ci possiamo entrare, Noi, col tuo romanzo? Spiegati una buona volta, in nome di Dio. Santità, una cosa che a Lei non costa nulla e salva un uomo dalla disperazione. O dunque? Caro mio, bisognava vederlo, il tuo Stamburè, in quel momento, quando ha dato un’occhiata intorno come per vedere se fossimo proprio soli, e poi m’ha strizzato l’occhio dicendomi sottovoce: Santità, faccia mettere all’Indice La cattedra volante e la mia fortuna è fatta. Caro mio, quella strizzatina me la ricorderò finché campo... Naturalmente casco dalle nuvole né trovo lì per lì parole da dirgli. Lui prende il mio silenzio 69

chi sa da che verso e mi si butta ai piedi a baciar la pantofola. La cosa diventava troppo appiccicosa. Suono il campanello sul tavolo e faccio entrar della gente. Stamburè si leva in piedi raggiante, e mi dice: Dunque ci conto. Io gli dico, atterrito e vergognoso per suo conto: Caro il mio figliolo, uscendo in piazza San Pietro tu forse farai bene a sostare un momento vicino alle fontane: quel fresco ti farà bene, ed avrai agio di riflettere al passo che hai fatto, e ti accorgerai subito della curiosa esaltazione, per non dir altro, che ti aveva preso e dalla quale sarà bene che ti riscuota al più presto. Il mondo è duro, lo so bene, ma chi va per la sua strada nessuno può togliergli alla fine la consolazione del cammino fatto e la coscienza del dovere compiuto, che è la sola cosa che conti dopo il santo timor di Dio. Io sono sicuro che il tuo lavoro finirà col darti tutte le soddisfazioni che ti meriti; ma, figliolo, non è il caso, per fare più fretta alla vita, di scherzare con le fiamme dell’Inferno come tu hai fatto questa mattina. Tu ti contenti di dire: vulcanico; ma alla larga! Avresti dovuto vederlo, come s’è alzato di scatto appena ho nominato le fiamme dell’Inferno, e lo sguardo vendicativo che gli s’è acceso in fondo agli occhi, e il gesto di cattiva superbia che ha avuto, battendosi il petto come per dire: le fiamme me le sbrigo io! Se avesse potuto, m’avrebbe mangiato vivo: e mentre stavo ancora così con la mano levata per benedirlo, ha voltato le spalle e se n’è 70

andato via, come il villanzone che è, a gran passi, fulminando, brontolando. Non ti dico poi come c’è rimasta male tutta questa brava gente che mi stava intorno, che non s’era mai sognata in tanti anni di dover assistere, vero?, a una scena simile. I gentiluomini di Camera fecero tutti insieme, abbassando il capo e alzando le palme, un gesto che dinotava lo scandalo e la riprovazione più viva. – E tu, – disse il Papa, – che ne dici adesso del tuo scrittore? – Vulcanico o meno, anche a me la cosa pare un po’ forte, ma se dicessi che mi ha fatto poi proprio tanta meraviglia direi una bugia. Capace lo facevo. Di tutto. Ora so una cosa sola... – E cioè? – Che vi siete fatto un nemico, Santità. Il Papa s’è messo a ridere di gusto, e noi tutti con lui.

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GLI EDITORI DEL MIO CUORE Coi morti sta il mio cuor. G. CARDUCCI

Non sono Bocca o Laterza, Treves o Mondadori, Vallecchi o Zanichelli, Sandron o Battiato, Bemporad o Campitelli. Gli editori del mio cuore furono e resteranno Perino e Salani, Guigoni e Sonzogno: e non parlo, intendiamoci subito, del Sonzogno in veste rammodernata, colle copertine colorate dei libri di Varaldo o di Pitigrilli, ma del Sonzogno per lo meno di vent’anni fa. Dopo, anche lui s’è creduto nella necessità di forzare la linea e di correr dietro a un nuovo pubblico; ma io sono rimasto col pubblico di prima. Non c’è peggio che vedersi cambiare le carte in tavola: vedere che un bel giorno un editore fino allora diletto e rispettato ti vien fuori con delle civetterie tipografiche, con dei fregi e dei caratteri creduti moderni, quasi mostrando di vergognarsi dei vecchi tipi e delle vecchie insegne. * Le sigle editoriali, per esempio. Un bel giorno (anzi diremo: un bruttissimo giorno) vai a comprare un libro di Zanichelli e t’accorgi che al vecchio scudetto coll’enne bianco sullo zeta nero hanno tolto l’enne e sostituito uno zeta bianco in 72

campo nero, e suvvi inalberato un elmo a visiera calata, con due piume arricciolate. Ripassi dopo qualche tempo, e in quella vece scopri un contadino che butta il seme nei solchi. Volti gli occhi, e ritrovi lo stesso contadino dietro i buoi coll’aratro. Ma chi oggi non è stato preso dalla furia di ringiovanire e farsi bello? Lo stesso Treves ha sentito il bisogno di barattar sottomano l’ancora e l’incudine della vecchia impresa con un lucernino di creta. * Altri s’è vergognato di far uscire i propri testi in pubblico con una coperta tipografica nuda e cruda e ha pensato bene di dar mano libera a qualche disegnatore, che ha fatto quel che ha voluto. Ho negli occhi una scelta recentissima delle Poesie di Giuseppe Parini sulla cui coperta appare un Parini nudo in cima a una gradinata, in forme d’atleta, impugnando una sferza. Nudo l’abate Parini! * Non è che di proposito si voglia escludere un disegno dalla copertina. Ma si vorrebbe che questo non uscisse da una linea schiettamente ornamentale e sopratutto non si perdesse in trappole allegoriche e cabalistiche, come per esempio accade in certe collezioni di cultura dove un coltel73

lo che spacca una mela e un trapano che fora un cervello, vorrebbero significare la lotta dei sessi o la forza della volontà. * C’è qualcuno di voi che abbia ancora presente la copertina dei volumetti della «Biblioteca Universale» di Sonzogno, vecchio stile? Quella era quel che si dice una copertina. Da una pila di libri di Storia, Filosofia, Politica, Teatro, Poesia, Romanzo, Economia ammucchiati in disordine in un canto, spiccava il volo una formosissima donna con una stella a cinque punte sopra il capo, i bruni capegli al vento, dando fiato colle gonfie gote ad una lunga tromba, mentre il sole sorgeva raggiante dietro una sintetica veduta dei più noti monumenti delle Cento città, il Duomo di Milano, la Torre di Pisa, il Santo di Padova, ecc. A quella bella giovine volante gli editori hanno creduto di sostituire con vantaggio un dozzinale fregio a ciambella. Non si vola più. Ci si sta seduti. * Altra copertina originale, era quella pensata dallo stesso Sonzogno pei volumi della Biblioteca Classica Economica. Era il disegno, piuttosto ingenuo, d’un libro in prospettiva, del quale si vedessero insieme la costola e il taglio superiore, così come qualche volta sulla scatola d’un medi74

cinale si vede riprodotto il disegno della bottiglia dentro. Hanno sostituita anche quella con qualcosa di più moderno, di più floreale... Malizioso lettore, tu vuoi dirmi che questa e quell’altra copertina ora mi vanno a genio unicamente perché non ci sono più; e insinuare che finiranno col piacermi quelle d’oggi, una volta scomparse anch’esse e sostituite. Credo che ti sbagli. Le vecchie avevano un indiscutibile sapor popolare e queste nuove altro non sono che pacchiane. Certo, alla vista di quelle vecchie copertine, sulle quali s’è primamente aperto il fiore della mia fanciullezza, il cuore ogni volta si risente. * Come si risente, subito e a colpi furiosi, ogni volta che mi ricapitano sotto gli occhi le coperte d’un azzurro più o meno carico dei volumetti dove la casa editrice Guigoni di Milano, stampava le versioni dei viaggi di Giulio Verne e di Gustavo Aimard. Volumetti d’un centinaio di pagine ciascuno con due illustrazioni nel testo e una delle due ripetuta sulla copertina: indiani a bivacco, rapimenti e pistolettate, zattere, aerostati, proietti in partenza per la luna: quante candele e quanto petrolio furon consumati in vostro onore! Pensare che la somiglianza del formato e della copertina ci fecero prendere per buone anche le cattiverie di padre Bresciani e le trombonate del Guerrazzi. Quando si dice il credito dell’etichetta! 75

* Commendo l’editore Adriano Salani perché ha saputo mantenersi senza deflettere nella sua linea. Credo che per questo il favore del pubblico l’abbia ripagato sempre di buona moneta. Egli impiega gli stessi caratteri, lo stesso formato, lo stesso impaginato per la Vita del Passatore, pei Fioretti di San Francesco, per Anna Karenine, per il Segretario galante, per La mano del defunto, pei racconti della Baccini e per le poesie di Leopardi. Le illustrazioni dentro e fuori del pittore Chiostri hanno un taglio sempre limpido e garbato, un colore onesto e gentile, e la scelta dei soggetti è sempre indicatissima, e i caratteri dei personaggi sono sempre bene individuati, tràttisi di Lucignolo o dei Promessi sposi. * Ma più di tutti vicino al cuore tengo il vecchio Edoardo Perino, Roma, Via del Lavatore, 88, stabile proprio. Chi dirà appieno le benemerenze di questo coraggiosissimo tipografo che divulgò a quattro soldi centinaia dei migliori autori della nostra letteratura, a tre soldi tutto il teatro di Goldoni, a dieci soldi tutta l’opera di Walter Scott, e poeti, e storici, e giuristi, e viaggiatori, e naturalisti, in veste ogni volta originale e attirante, togliendone il monopolio agli eruditi bertuccioni scocciatori e rallegrandone a profusione vetrine e bancarelle? 76

Il corpus degli Scrittori Italiani di Laterza verrà certamente, nessuno ne potrebbe dubitare, un’opera colossale, degnissima, che farà onore nei secoli all’arte tipografica italiana, ma intanto chi li legge? I volumetti color crema e sangue della «Bibliotechina Diamante», i volumetti giallofrittata della «Biblioteca d’oro», i ben riquadrati volumi grigi della «Biblioteca classica per il popolo» di Perino, erano scorretti, rappezzati, mal raccolti, peggio stampati, uno scempio, un orrore agli occhi d’uno spulciator di testi, ma la Dio mercé misero Dante, Machiavelli, Berni, Firenzuola, Petrarca, Boccaccio in tutte le tasche, in tutti gli scaffali. Anche gli sbagli di stampa ingrassano, e pel momento l’importante era di stuzzicare l’appetito e di accontentare la fame d’un nuovo pubblico di buona volontà. E mentre i dantisti si cavavano gli occhi sui codici per restituire il vero testo di Dante, Edoardo Perino, Via del Lavatore, 88, stabile proprio, pubblicava a dispense illustrate Gli amori di Dante raccontati da lui medesimo, con prefazione e note di Giacinto Stiavelli. Involgariva la scienza? Faceva benissimo. In verità, la volgarizzava. Se per leggere Dante avessi dovuto aspettare l’edizione critica del Barbi stavo fresco! Si viene poi sempre in tempo a rimettere le virgole a posto, e a sapere che bisognava leggere 77

«uolsi così cola dove si puote». Che poi il commento sia più o meno stupido, stupido sempre resta. * Per mio conto confesso volontierissimo che se alla base della mia conoscenza letteraria voi toglieste le edizioni Perino e Sonzogno, me n’anderei a rotoli come una piramide di bottiglie. Via Pasquirolo, 14. Via del Lavatore, 88. Perché non avere il coraggio di confessare che la nostra scienza viene per tanta parte, se non proprio tutta, di lì? Per quel che vale la scienza in genere! e la nostra in particolare! Figurarsi!

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L’EDITORE, LO SCRITTORE E IL MAGAZZINIERE

Un grande editore m’ha fatto scendere a visitare i magazzini della sua grande casa editrice. Non sono cose che si fanno. Perché dopo, addio volontà di scrivere. * Con precisione non saprei dire qual sentimento animasse l’editore che dico. So che in quel momento in cui l’uscio s’aperse, egli alle mie spalle s’era già mutato in qualche cosa d’Unico e di Simbolico, e non era più l’editore tal dei tali, ma l’Editore con la maiuscola, e così il magazziniere che ci faceva strada con in mano il mazzo delle chiavi, era diventato il Magazziniere, e il povero imbrattacarte ch’io mi trovo ad essere, era diventato né più né meno che lo Scrittore. Tutto quello che noi stavam per vedere e per fare, in quel momento mi sembrò pieno d’un alto significato. Vidi la figura di noi Tre come in un mosaico bisantino o nella pittura d’un primitivo, «io come capra ed ei come pastori», che calavamo a visitar l’uscio dei morti. Ma in un secondo tempo, come spiegherò più sotto, mi parve d’essere Astolfo menato nella Luna 79

dall’evangelista Giovanni in cerca del senno perduto in terra. * Entrando nel magazzino: grande ordine, grande silenzio e poco spazio per aggirarsi, come nelle case dei morti. Libri ci crescon sul capo e a perdita d’occhio da tutte le parti. Impalcature di scaffali salgono dal pavimento fino al soffitto e dentro a migliaia vi stanno volumi a cataste. La disposizione è quella di certi magazzini-vestiari dell’esercito, di scarpe, giubbe, pantaloni e biancheria. Ma lo spazio v’è più misurato, i palchi più fitti, i passaggi più stretti. Queste impalcature zeppe di libri da capo a terra vengono a dividere gli stanzoni come pareti d’un labirinto, e spesso una sola finestra fa lume a quattro, cinque e sei corritoi. Basta che passi una nuvola sulla faccia del sole perché sembri di sprofondare da un magazzino in una cripta; e si potrebbe anche pensare alla stiva d’un enorme bastimento. Coll’ombra cresce intorno l’odor di chiuso e d’inchiostro. Dalle finestre inferriate che dànno su vecchie corti abbandonate o antichi depositi di legname, si scorge lo stesso monotono cielo che si vede dalle bussole delle carceri e dei conventi. È veramente terribile il silenzio di schiavitù che fanno intorno a sé i libri. * 80

I magazzini di questa grande casa editrice comprendono più ali del piano terra dello stesso edificio, e in ciascun’ala i libri vi sono confinati secondo la varietà del formato. Col tempo gli editori hanno poi dovuto affittare locali a terreno d’altri stabili vicini, e così, per andar dall’uno agli altri, si traversa la strada. Una strada tranquilla e piena di luce con delle carrette di verdura ferme avanti agli usci. I bambini gridano, passano biciclette, e non si può dire quanto faccian piacere, nel traversarla, quella vista e quegli allegri rumori di vita. Oh caro a quelli che escon da le bianche e tacite case de i morti il sole! Giunge come il bacio d’un dio.

Aprendo il cancello del colombario, pardon! del magazzino di là dalla strada, appare sul muro in fondo un dipinto che il tempo ha ridotto di soli due colori: il rosso e l’azzurro. In una nicchia azzurra un Pietro Micca rosso come il diavolo si posta a gambe aperte e con la miccia in pugno. Chi minaccia egli in questo luogo sì tranquillo? dov’è il nemico? E dire che con qualche ritocco ci sarebbe da cavarne fuori un magnifico F. T. Marinetti. * Al contrario di quanto accade nei cimiteri, che solo per caso si leggono sul marmo dei nomi conosciuti, qui son pochi i nomi incollati sulle tavolette che stringon le file dei libri che suonino tutti 81

nuovi all’orecchio. Più o meno, s’intende, ricordàti o dimenticàti. E alcuni, veramente, di gente che non potrà risorgere che il gran dì di Giosafat e che già hanno un sapor di cenere cimiteriale. Altri che ancora corrono il mondo da padroni. Molti, che domani risplenderanno in una vetrina della Galleria. Molti, che domani sgombreranno di qui per finire al macero: nella fossa comune. Alcuni che aspettano invano da anni una buona occasione di tornar nel mondo. Altri chiamàti e destàti un bel mattino quando meno se l’aspettavano. Altri gementi d’una grande delusione. Questo che per molti è un vero oltretomba e per altri un sepolcro di vivi, per qualcuno non è che una stazione di passaggio. Un gran silenzio tiene il luogo. Rivali e nemici abitano lòculi della stessa parete o si guardano in faccia senza tradire la natural cattiveria. I caduti vicino ai trionfatori. I critici vicino ai criticati. I maestri vicino agli epigoni. * Non ho potuto resistere alla tentazione di vedere anche il mio lòculo. Il Magazziniere ha fatto strada. Dopo un gran voltare, in un angolo buio ci siamo fermati. Ho riconosciuto subito a quella luce incerta il mio povero libro accatastato in grandi cataste. Burlevolmente, ma non senza una certa vergognosa amarezza di vedermi tanto 82

invenduto, mi sono scoperto il capo, restando nella classica attitudine del ritrovator di tombe. Questo che avanza è sol languore e pianto, e secco è ’l mirto e son le foglie sparte del lauro, speme al giovanil mio canto.

Trista curiosità. Quind’innanzi avrò sempre questa palla di piombo al piede. Dicono i morti: Carpe diem, giovinotto. Cogli la rosa e lascia star la penna. Tutte le tue fatiche convergono a un bel zero. In quella luce di cripta ho ripensato alla bella fantasia ariostesca d’Astolfo nel vallone della Luna dove egli vede ammucchiate tutte le cose che si sprecano quaggiù inutilmente, in figura di minestre versate, di cicale scoppiate, di vesciche rigonfie, di panie con visco, di mantici e di bocce rotte. Rotta la boccia, svaporato il senno. * E se questa è la cripta severa con le tombe allineate dei Re e dei loro Vassalli, la chiesa superiore la farebbero le librerie con le loro vetrine pinte e sfolgoranti come altari e come vetrate, piene di libri dalle vivaci copertine, di riviste, di riproduzioni colorate, di belle rilegature; e se qui sotto ci si batte il petto e si grida il mea culpa, lassù è messa cantata a tutte le ore; e se quaggiù scendono per spirito di mortificazione l’Editore, lo 83

Scrittore e il Magazziniere con le chiavi in mano, e sostano avanti alle pile dei libri di Giovanni Verga invenduti, là sopra giovanotti e signorine sfogliano febbrilmente, e portan via sotto il braccio non precisamente il libro da messa, ma i libri di Pitigrilli e da Verona. * Non c’è più religione.

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I LIBRI... DELL’ALTRO GIORNO

Facilmente ci si immagina l’antiquario come un talpone con occhiali, scaldino e papalina, che passa la sua giornata tra la polvere dei libri. Mal per lui se alla figura corrisponda mai la sostanza, perché se c’è un mestiere nell’esercizio del quale non ci si possa addormentare è proprio quello. Un libraio d’edizioni correnti basta che abbia il suo negozio in una posizione centrale con delle vetrine disposte con un po’ di gusto e d’allegria, vede entrare gente da tutte le porte. Ma per un antiquario la bottega è men che nulla, quando non gli riesca di stabilire dei legami attivamente personali, d’abitudine, e direi quasi di connivenza, coi suoi clienti e non dia prova in ogni occasione di conoscere a dovere l’arte di adescarli e intrattenerli uno per uno, di soddisfare le loro più stravaganti richieste, e riacchiapparli in qualunque modo per le falde sull’uscio. La professione stessa è che gli fa obbligo di svegliare nell’ignaro bibliofilo l’occulta febbre del bibliomane, afferrando a volo non tanto quello che il cliente vuole quanto il rimanente che si può fargli volere, crescendoselo a bocconcini, adattandosi a stargli intorno con viso non già di commerciante ma d’amico, e a fargli visita, e a diventare un po’ il medico di fa85

miglia che di tanto in tanto tocca il polso del su’ omo per vedere se la malattia venga finalmente a una risoluzione. * Arte specialissima è quella di mettere insieme i cataloghi (perché il cliente bisogna tentarlo e perseguitarlo anche a domicilio) d’opere tutte scelte, con un pizzico di ciascun argomento, qua e là con dei prezzi che sorridano veramente d’innocenza come agnelle fra i lupi, con quelle brevi diciture sotto i numeri più attraenti che tocchin le fibre meglio riposte d’un povero cuore di bibliofilo (esemplare molto bello e fresco internamente, non toccato da tarlo, marginosissimo, assai bene stampato e con qualche felice bizzarria di linee ineguali, ecc.) e il tutto poi presentato in modo che ognuno creda di trovarci come per caso quello che per appunto andava cercando. Quante volte un catalogo non è stato compilato solo e proprio per includervi quei due o tre numeri ad alto esplosivo che finiranno infallantemente sotto gli occhi di quell’uno che si conosce pronto a fare magari delle pazzie per non lasciarseli scappare! * Cose curiose che si dànno in vero con questo commercio! Un giorno, per esempio, voi chiedete a questo e quell’antiquario o libraio d’occasione 86

quali siano le principali richieste del momento. Vi dicono, fra l’altro: libri di medicina antica. Avete poi occasione di girare un po’ per l’Italia. Tornate a chiedere. Medicina antica a Roma e a Firenze, medicina antica a Bologna e a Trieste, medicina antica a Milano e a Torino. Voi naturalmente pensate: ecco una moda presa fitta, un’epidemia chi sa di dove importata, e che lo studio della medicina vigoreggi al presente come non mai: e finite col farvi la convinzione che in quel dato momento tutti i raccoglitori di libri antichi abbiano la stessa passata di follia. Invece poi venite a sapere che un medico svedese pieno di passione per l’arte sua e favorito sul momento dalla valuta nazionale s’è messo a ricercare, a qualunque prezzo, libri di medicina antica. Un medico spagnolo ha seguito l’esempio e s’è messo alla medesima cerca; ma tutto si ferma qui. Che cosa, in tanto, è successo? È successo che i librai, sempre all’erta, si sono passata la voce e per settimane e settimane dietro le quinte è stato un rovistare, almanaccare e chiedere affannoso di testi e manoscritti di medicina antica, e tavole e disegni di serviziali in tutti i secoli e tutti i paesi. Due ranocchi, e hanno mosso tutto lo stagno... E siccome certe manie, più prendono forti e più è facile che la gente se ne stanchi, domani che per una ragione o per un’altra la bella fiamma dello svedese, e, di riflesso, dello spagnolo, si venisse a spegnere, ecco che tutti i librai restano con quel po’ po’ di medicina antica sullo stomaco. 87

* Pare che comincino (tanto per raccontarne un’altra) ad avere un certo valore, almeno nella piazza antiquaria di mezza tacca, le edizioni originali dei nostri scrittori del primo Ottocento. Un Foscolo che una volta s’aveva per dieci oggi lo si cerca per mille. Leopardi, idem. Manzoni è sulla strada. Certe collezioni di riviste che una volta si spacciavano a peso di carta, oggi sono venute improvvisamente in grandissimo pregio. Sicché voi vi fate un’idea, naturalmente molto consolante, che tutto questo debba rispondere ad una effettiva simpatia rinascente per quei grandi, e dentro di voi mettete in relazione questo con altri indizi e tirate le conseguenze. Piano. Si tratta d’altro, si tratta non più che di questo. Una bella mattina un antiquario non privo d’una certa genialità è saltato dal letto più vispo del solito e ha cominciato a mettere in ordine i numeri del nuovo catalogo da dare alle stampe. Giunto a Foscolo e a Leopardi, gli si mette a cantare dentro un estro d’innamorato; e a fianco di quei volumi, come amore gli detta dentro, comincia a segnare prezzi di vera affezione. Uno due e tre, è fatta. Gli altri librai hanno mangiato la foglia, e l’Ottocento è sull’altare. E perfino il vecchio Monti, il povero Vincenzaccio che non lo volevano più nemmeno per involgere il salame, ritrova, per certe sue edizioni, un bagliore dell’antica sfolgorante riputazione... 88

* Gente per lo più seria, malinconica, i frequentatori delle librerie d’occasione. Mancano i ragazzi, e di sottane non si vedono che quelle dei preti. Domina il lettore dai trentacinque anni in su, il lettore sensato, posato, fedele, che va ormai rassegnato per la sua strada senza più tentennamenti e distrazioni. Penoso a dirsi, ogni anno che passa, il limite medio d’età di codesta clientela tende a spostarsi verso la quarantina: il che vuole significare che quelli che oggi leggono con qualche passione e intendimento di studio i libri giù di moda sono solo quelli che avevano cominciato a prenderci gusto prima della guerra: e in pari tempo lascia pensare che di qui a dieci anni l’antiquario vedrà probabilmente i suoi giorni più neri. * (Torna la primavera. Io l’ho sentita questa mattina, non tra i boschi o al mare. Dentro una chiusa bottega, tra care cose, che acquisto e che vendo... Antiquario sono, un custode di nobili morti).

Ho trovato il poeta Umberto Saba nel suo riparato negozio in via San Nicolò (Trieste), che schiodava delle casse di libri venutegli da Torino. Impaziente, ma senza fretta, avendo in capo un 89

berretto di ciclista, scoperchiava la cassa dei morti. Ho negli orecchi la voce dell’antiquario Ongania, risuonante sotto i portici di Piazza San Marco (Venezia), con uscite d’autentico rustego goldoniano contro librai, edicolai, pontremolesi, contro tutta Venezia, che non legge più, alta e bassa, grande e piccola, contro il Santo di Padova che si è sugato tutta la clientela di San Marco. Lo rivedo nell’atto d’alzar con gesto desolato la tenda su tutta la vita privata veneziana... Ho ancora negli occhi il grande antiquario (Milano, Firenze) che si china tra i battenti spaventosi della sua cassaforte di forbito acciaio e che si rialza lento lento tenendo in mano delicatamente come un uccellin di nido un messalino ricoperto di seta, simile in tutto e per tutto a quelli che il sommo Urbinate metteva in mano alle sue Madonne, e con l’aria più soave del mondo sparar poi il suo bravo mezzo milione... Ma tutte le mie simpatie vanno a Giovanni Puccinelli antiquario qui in Roma sfrattato mesi addietro da un padrone di casa che ad ogni costo voleva rientrare in possesso dei propri locali in piazza in Lucina, e che non ha saputo trovar niente di meglio che riparare, con tutti i libri che aveva nel negozio, a casa sua; una casa malinconicamente fuori di mano, perduta ai margini della città, fra 90

Policlinico e Cimitero. E se ne sta, il brav’uomo, tutto il giorno in casa, con una stufetta a petrolio che rosseggia tra i libri, così pieno di libri da per tutto da non potercisi quasi muovere. Libri ammassati su libri, in ogni camera, perfino in cucina, perfino sopra il camino, che salgono a piramide fin dentro la cappa rimbiancata. Con santa pazienza e semplicità il brav’uomo aspetta che i clienti lo vadano a cercare in casa. E ci vanno! E quando il libro che gli cercano sa d’averlo in cucina, con mille precauzioni per non inciampicare sui mucchi sparsi, te li porta pari pari in cucina. Ha l’aria di dire: Vediamo che cosa ci ha portato la Befana...

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CARATTERI DEL BUON LETTORE

Salgo una mattina sopra un monte e ad un gomito della strada vedo un vecchio seduto sopra un mucchio di pietre che con un mazzuolo le viene spaccando. Torno giù la sera e trovo lo stesso vecchio allo stesso punto, che dà gli stessi picchi sulle stesse pietre. Mi dicono che da anni e anni non faccia altro lavoro. Muoio della noia solo a pensarci. Ma ora andate adire a quello spaccapietre che in una casa della città c’è un uomo che da trenta o quarant’anni senza mancare un sol giorno non ha fatto altro che leggere libri dietro libri. Il povero spaccapietre non proverà minore compassione o meraviglia di quanta possa averne fatta a noi l’idea di quel suo rude e monotono lavoro all’aria aperta. Noi ci domandiamo: come può resistere il poveretto a spaccare pietre durante tutta la vita? Egli si domanda: come può resistere il poveretto a sfogliare libri durante tutta la vita? Fatto si è che resistono benissimo. * Resistono benissimo perché non è affatto vero che tutte le pietre da spaccare s’assomiglino e che in quella bisogna di spaccarle non si possa dare 92

una tal quale piacevole varietà di casi e d’applicazioni. Solamente uno che non debba spaccarle non se ne potrà mai rendere conto. Così dei libri, uno che non li legga. Anche l’alfabeto è quel che è, vale a dire sempre di ventiquattro segni e i modi di variarne gli accostamenti sono quanto mai limitati; e uno che non sapesse a che fidarsi per giudicare se uno scritto è brutto o bello, buono o cattivo, e pensasse di poter cavare da tutti gli scritti lo stesso inerte profitto (esiste anche questo tipo patentato di portabandiera dell’adattabilità), allora sì che il poverino avrebbe di che spaventarsi. * In primo luogo cominciamo col dire che il vero lettore legge poco. San Girolamo, ch’è il santo patrono dei lettori, raccomanda: «La vostra lettura sia moderata. Non sia mai la stanchezza, ma la prudenza, a farvela interrompere». E Montaigne aveva fatto scrivere sui travicelli della sua biblioteca il motto: «Ne plus sapias quam necesse est, ne obstupescas». Non imparate più del necessario se vi preme di non imbecillire. Per Voltaire una grande biblioteca aveva questo di buono: «qu’elle effraye celui qui la regarde». * Non dimenticate che c’è anche un’arte di dimenticare quello che s’è letto. Ci mancherebbe 93

altro che tutto quel che passa per il nostro cervello dovesse poi lasciarvi una traccia! Ci s’intartarirebbe il cervello come una vecchia pipa. Conosco difatti cervelli così cotti alla lettura che non saprebbero fare alcuna distinzione tra libri buoni e cattivi, e che d’altronde oramai non c’è più verso di svezzarli dal leggere. * Leggere poco e senza fretta. Ho un amico buongustaio che innanzi d’accostarsi a un libro lascia maturare dentro di sé l’interesse per quell’opera fino a non poterne più dalla voglia. Prima di sposare un libro egli insomma ci si fidanza, cerca di conoscerne la parentela ricercando e saggiando le opere più promettenti scritte intorno a quel dato argomento, gli fa la corte, si fa attendere e sospirare: finché una bella notte gli salta addosso col tagliacarte. Bene spesso, il senza fede, dopo aver lusingato per dei mesi il povero libro, finisce col lasciarlo intonso e perdersi dietro altri amori. * Un vero lettore non si concede a tutti i libri e si guarda bene dal finire di leggere tutti i libri incominciati. Il vero lettore s’impegna quando crede, si risparmia quando vuole. Salta quando gli capita. 94

Il vero lettore scherza col libro come il gatto col sorcio. Non c’è di meglio che legger tutto e prender tutto per buono, per far perdere il gusto della lettura. * È necessario contemperare le letture di sostanza con quelle di svago: che sarebbe come ripulire il cannone dopo una giornata di tiri continui. Qualche volta bisogna anche non saper leggere, distraendosi durante la lettura e di proposito fraintendendo. Ci sono dei libri che guadagnano a una lettura disturbata, come certi scenari approssimativi ai lampi della pece greca. Ci sono dei libri che vogliono essere presi di sotto gamba dal bel principio a maggior gloria della seconda parte e delle successive. In certi libri bisogna tuffarsi a capo fitto e adattarsi a gustarne qualche cosa solo verso la pagina cinquanta o sessanta: prima guasterebbe. * «Vous lisez comme si vous mangiez des cerises», diceva un giorno tutto scandalizzato l’ellenista Boissonade a Madame de Tracy; ma molti libri vanno letti appunto così, senza impegnarci di soverchio l’attenzione. Convenite che sarebbe ridicolissimo ridursi in una cella di Montecassino per leggere un romanzetto di (censura). 95

* Il buon lettore non si fida della prima lettura. Sa che la carta stampata fa delle sorprese. Sa che certi libri dolcissimi e inebrianti alla prima bevuta prendono col tempo d’aceto e che certi vinelli da nulla guadagnano invece dallo stare un po’ di tempo in biblioteca. Il buon lettore torna a varie riprese sugli stessi libri, li stuzzica, li rattizza; piglia spasso, armato di testi e di glossari, a riscontrare una pagina la prima volta letta di sfuggita facendosi la barba; si diverte a bere a garganella una pagina sorbita la prima volta a bicchierini. Il bravo lettore misura su certi libri la propria forza, come altri di tanto in tanto si pesa per consiglio del medico. Un buon libro è sempre un palinsesto e sotto la prima scrittura ce n’è dell’altre da scoprire. Il buon lettore si deve mettere in grado d’intenderle quante sono, una dopo l’altra. Il buon lettore non s’affretta mai a giudicare. Di più, egli non ha nessun bisogno d’intrattenere gli altri sulle proprie letture. Segreto professionale. * Il buon lettore non ha luogo fisso dove leggere. Non tutti gli autori vanno bene per ogni stanza. Ci sono dei libri che il loro lettore ideale potrebbero trovarlo solo in prigione con dieci anni avanti a sé senza altra distrazione di progetti e di 96

speranze, tutto per loro, nudo, crudo e povero lettore, seppellito nel più profondo isolamento e silenzio: fuori, con tante distrazioni e tante musiche, quei libri non possono mai essere intesi a fondo. Ci sono libri da poltrona, libri da capezzale, libri da scrittoio, libri da ferrovia, libri da mare, libri da monte. Una prima grande distinzione ci sarebbe da fare tra libri da camera e libri da passeggio. I grandi poeti li metterei nella seconda categoria, prescrivendo vie poco frequentate e preferibilmente di campagna. Un’occhiata al libro, uno sguardo alla campagna; molto igienico e musicale: dà aria al verso e luce alle cose viste. Lo spirito poi li lega. Pane e companatico. * Quale il pane e quale il companatico? Voi sapete che le estetiche sono due: una che sta per l’uovo prima della gallina e l’altra pel viceversa. Una che dice che è il pane ad aver bisogno del companatico e che è la natura ad aver bisogno dell’arte, e l’altra che afferma precisamente il contrario. L’importante è che ci sia l’appetito: allora arte e natura, pane e companatico, hanno lo stesso sapore. Il buon lettore per definizione è di buon appetito. 97

L’AMOR DEL LIBRO (LA VOCE D’UN DISSIDENTE)

Anch’io immagino volentieri che coi libri si possa stringere un’amicizia lunga, fedele e di molte consolazioni – ma non bisogna poi esagerare… Come per qualunque altro amore anche per questo c’è l’insidia della noia e la paura di finire per conoscersi troppo a fondo. Per conto mio ho imparato a diffidare di quelli che fan figura d’esser in perpetua luna di miele con la propria libreria, e che introducendovi la prima volta nell’arca santa del loro studio vi mostrano gli scaffali col gesto trionfale e provocatore di Cornelia romana quando grida: Ecco i miei gioielli! Non ho mai conosciuto razza più noiosa e inconcludente. Essi trattano i libri come non tratterebbero una buona moglie. A far le viste di volerne poi uno in prestito, apparecchiano un viso compunto e cercano delle scuse. Alla forca, te e i tuoi libri! Se le bandiere non le tiri mai fuori degli astucci che onore vuoi che te ne venga? Il libro come libro non acquista pregio che passando per le mani di lettori intelligenti e ritornando ogni volta al suo posto con una nuova cicatrice. Così la penso, e se avessi quattrini vorrei poter comprare i libri che mi servono volta per volta e farmeli poi rubare e portar via appena serviti. Eviterei d’avere sotto 98

gli occhi sempre gli stessi; per impedire che prendessero quella certa mutria di prigionieri di riguardo che li rende così noiosi alla prima apertura. Amo più di tutti perciò i libri che non mi son più visto ritornare. Ho invece una viva antipatia per i più anziani tra quelli che ho in casa: ed è con una gioia perfidissima che ogni tanto ne sfilo uno o due per andarmeli pianamente a vendere. Come vedi, mio caro lettore, io sono uno scapolo libertino della cultura e, quando capita, anche sfruttatore di libri. Ma l’uomo è cacciatore, e qualche volta lo stesso libro, nella stessa edizione, ma in un’altra casa e con differenti macchie e gualciture, ci viene fatto di aprirlo con più voglia e profitto che in casa nostra, dove anche i libri che ci dovrebbero essere più cari non sanno scansare il contagio di tutta l’altra frateria. Tanto per dirne una, rammento che quando ebbi fatto rilegare la copia d’un libro scritto da me e andai per metterlo in libreria in linea cogli altri mi trovai imbarazzatissimo sul loco da fargli. I classici intimavano: Non ti ci provare! I moderni domandavano: Chi è l’insolente? Gli amici, dai loro libri allineati, mi dicevano: Vien con noi, gocciolone! Ma dagli amici mi guardi Iddio. Sicché finii per metterlo, secondo il formato, tra due libri senza infamia e senza lode. Il contagio fu istantaneo, e, quel libro, non m’è stato più possibile di riaprirlo. Ma se poi trovo quello stesso stessissimo libro in casa di qualcun altro, mi succede tal quale quel 99

vecchio don Giovanni che, l’ultima sera di carnovale, correndo dietro una mascherina, giuntola sott’un lampadario, quella gli si scoprì per la mogliera: e in quel caso l’apro volentieri. Insomma il mio amore per il libro è nostalgico e telepatico. Quando, anni indietro, una rivista svizzera indisse un referendum sui volumi che ciascun uomo di dottrina, nel caso che si volesse ridurre in solitudine per tutta la vita, avrebbe voluto con sé, in definitiva e quel certo numero e non più, io, investendomi della parte e figurandomi già d’essere divenuto Robinson con questa cassetta di scrittori immortali, non potevo fare che non morissi dall’uggia solo a pensar all’obbligo di quella compagnia senza mutamento, e già mi vedevo incapace d’aprirne manco mezzo – e trionfare in seguito allegramente la bestia. * Ma non posso escludere che invecchiando e mettendo giudizio, questa vita di scapolo mi possa venire a noia, e che mi trovi allora in caso d’apprezzare secondo il merito, insieme al foco, alla poltrona e al tabacco, anche una buona e scelta libreria a portata di mano. Tanto meno potrei escluderlo io, in quanto da ragazzo, sul destarsi di questa vocazione per le lettere ancora timida, casalinga e controllata, ho sperimentato per qualche tempo un avant– goût tutto umanistico di que100

sta vita di definitivo raccoglimento; non a torto si dice che i vecchi rimbambiscono. Dunque verrà anche per me il giorno che tradurrò Orazio come ogni letterato a riposo che si rispetti. Ma oggi come oggi non sarò certo io che andrò in fondo a qualunque capolavoro se mi avrà seccato sulle prime cinquanta pagine; non sarò certo io che mi lascerò mettere paura e legar le mani e dettar legge dai libri che ho in casa. Non sarò certo io che farò il torto ai miei autori di considerare le loro opere come «strumenti di lavoro», tanto indispensabili quanto obbedienti. E se una edizione fa al mio caso anche scorretta, tanto peggio per chi non l’ha corretta. Preferirò sempre un Dante tascabile di Perino che si può buttare al primo intoppo senza rimorsi, a un Dante monumentale di Olschki da portarsi dietro col mulo e col leggìo. Ma io credo che il mio amore per certi autori sia troppo geloso e traditore e che proprio per questo farebbe volentieri a meno, cosa impossibile, d’ogni intermediario e testimone, compreso l’editore, chiunque egli sia. Parole, parole da non farne conto...

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«PROMOZIONE A SCELTA» OVVERO LIBRO E GIORNALE Tutti possono scrivere sui giornali e difatti tutti ci scrivono. Ma non basta scrivere sui giornali, anche periodicamente, per essere un giornalista. E mentre, giornalisticamente, lo naturale (e cioè il giornalista di buona razza e professione) è sempre senza errore, molti altri ce ne sono che restano al di qua e altri che passano il segno, che errano cioè o per poco o per troppo di vigore, o per poco o per troppo di lettere; che sono, intendo dire o troppo illetterati o troppo letterati. Confusioni agli occhi del mondo ne nascono certamente e con molta facilità, e anche i poeti più trascendentali viaggiano a volte col biglietto a riduzione dei «giornalisti professionisti». Ma il letterato, come il giornalista, si tradisce sempre. * La differenza si vede meglio quando gli scritti dell’uno e dell’altro, apparsi già sul giornale, ricompaiono in volume. Fino a che stanno sulle colonne del giornale, deficienze, incongruenze, falsità, banalità, improprietà, appiccicature, ripetizioni, plagi, contraddizioni saltano meno agli occhi e non s’ha nemme102

no tempo di badarci. Leggere il giornale è un po’ come correre a piedi il centro della città: le cose si guardano alla sfuggita, sempre con paura di finire sotto il primo tram o automobile che passa. A un articolo di giornale, anche di pretese letterarie, si richiede appena un certo taglio, un titolo a rampino, un po’ di colore e il finale alla brava, d’un certo effettaccio. Nessuno poi va a guardarci dentro tanto pel sottile. Anzi, refusi, scorrezioni, righe saltate, periodi spostati ci stanno bene come le cicatrici male ricucite sul viso d’un guerriero. Basta un primo effetto alla lontana. Se le proporzioni non sono giuste e quella che vuol parere pietra è cartone dipinto, signori miei, dico, per quattro soldi non pretenderete mica di pagarvi anche gli studi di perfezionamento! * Ma quando voi commutate la colonna del giornale nei cinque o sei telai corrispondenti delle pagine d’un libro, allora diventa tutto un altro affare. Automaticamente ciascuno rientra nella sua condizione e categoria, come quando è finita la ferma militare e il cafone si rimette le calze di cotone rosso e lo scicchettone quelle di seta nera. I nodi vengono uno per uno al pettine. Mentre nel telaietto del libro la prosa del letterato s’inquadra e incornicia perfettamente e sembra quasi rinascer a nuova vita, quella del giorna103

lista ci sciacqua, diguazza e non s’assesta mai, perde la sua efficacia, mostra i trucchi e le marachelle, scopre la corda e il difetto di rifinitura. Insomma la prosa del giornalista non è un vino da metter in bottiglia. Va bevuto sul posto. E dal momento che i paragoni sono la sola cosa che oggi non costa nulla, eccovi un altro paragone. Siete stati al wagon-restaurant e ne uscite soddisfatti. Non v’è parso vero d’aver potuto mandar giù qualche cosa di caldo e d’aver ingannato quella mezz’ora di tempo. Non v’è parso vero d’aver bevuto un po’ di birra in ghiaccio e d’esservi nettato i baffi con un tovagliolo pulito. Ma se quella stessa colazione invece che in un traballante salone a vapore vi fosse stata servita nel salottino particolare d’un restaurant d’alto rango, con perfetto stile e in perfetto silenzio, avreste cominciato a trovare quei piatti, posate, tazze e bicchieri assolutamente impresentabili, ridicolo il tovagliolo, perfida la birra e tutte le pietanze presso che immangiabili. E d’altra parte poi, se su quella tavola traballante avessero messo vetri, posate e biancheria di lusso, o voi non ci avreste fatto caso oppure avreste detto: guarda che stupidi a metter fuori di questa bella roba, per il gusto di vederla rompere! *

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(Vi chiedo umilmente il permesso d’aprire una parentesi. È vero che un paragone non costa nulla, ma ne ammazza più lui che la spada... Succede sempre la stessa storia. A un certo momento ne tirate uno dentro coll’idea che vi serva di buon appoggio al vostro argomentare, ed èccolo che appena dentro comincia a gonfiare, a soffiare, a ululare come il cane barbone che Faust si tira nella cella. «Che razza di spettro» dice Faust «mi sono io messo in casa! Già già uguaglia un ippopotamo con occhi di fuoco e fauci spalancate!». Il paragone mio di sopra, là dove dice: e d’altra parte, ecc. mi ha preso la mano e m’ha condotto dove meno volevo andare. Sarebbe dunque vana e inopportuna la fatica di scrivere bene sui giornali? Avrebbe dunque torto il povero letterato di tener duro nel suo proposito di battere l’Antigrammatica nel suo campo stesso a furia di Grammatica? Questione più importante di quel che comunemente si possa credere, dal momento che un certo drappello di buoni letterati italiani pare che oggi abbia messo in programma di salvare la propria letteratura attraverso il giornalismo, e da qualche anno se ne stanno lì a cantare le lodi di Dio tra le fiamme rosse e arancione della Gran Fornace sotto gli occhi impassibili di Nabuccodonosor e dei suoi cortigiani, sempre in quella fiducia di ammollirgli i cuori. 105

Oltre che vano, lo spettacolo sarebbe dunque anche risibile?). * Quello che in un articolo di giornale è quasi di rigore, cioè il finale a scoppio, la chiusa insomma alla Rastignac o alla Francesco Coppola, nelle pagine d’un libro fa sempre cilecca. Non si può immaginare una lettura più soffocante della raccolta di scritti di certi famosi polemisti, che si sentono in obbligo di chiudere ogni articolo colle trombe dell’Apocalisse per ricominciare scherzando l’indomani. Fino a quando? E di ciò basta. Ecco. Ahi! non per questo... Taci buffone, ecc., ecc. Queste e altrettali chiuse, che sul giornale fanno l’effetto d’unghiate di leone nel libro diventano strusciature di sangue di cimice. Dentro la candida cornice della pagina in volume fai presto ad accorgerti dei periodi sdruciti e rattoppati, dei ripieghi viziosi del momento, delle capziose argomentazioni, delle approssimazioni grammaticali. E il luogo comune, che nel giornale, lustro e rubicondo come il vero effettivo padron di casa, fa così bel vedere, nella pagina del libro fa sempre figura vera di cane in chiesa. 106

Tal sia detto dei titoli a parafulmine e ad aria compressa che di solito fanno da capitello in cima alle colonne dei giornali. Il libro non parla già ai sordi. Dice semplicemente quel che ha da dire. Altra vuol essere la voce del megafono ed altra quella della conchiglia. E così le parole. Per un giornale tutte le parole vanno bene, tutte le parole rinascono ogni volta allo stesso momento e non sarebbe il caso di far questione di purezza e nobiltà. Una vale l’altra, basta capirsi. Ma sulla pagina levigata del libro ci s’accorge che c’è un’infinità di parole già divenute da un giorno all’altro di dominio pubblico, che non hanno la forza di vivere (con quella compostezza che si richiede in una pagina accuratamente stampata) oltre una certa data. Espressioni tipicamente giornalistiche, che sulla superficie del giornale sono la parte più luccicante e promettente, ma che sono malate d’una golpe inguaribile per cui in breve tempo diventano nere e si riducono in polvere. Parole il cui destino è di spegnersi oscuramente in qualche ritardataria redazione di provincia. Parole, tuttavia, senza le quali la prosa giornalistica in quel dato momento non sarebbe vera prosa giornalistica, così come il salame senza pepe non sarebbe vero salame, e la finocchiona senza seme di finocchio non sarebbe vera finocchiona. * 107

Ciò non toglie che anche il presente articolo un giorno o l’altro possa finire in un volume. Vuol dire che questo medesimo articolo allora potrà servire di recensione allo stesso volume. S’approssimano giorni tali che se un povero scrittore non si rimangerà quello che ha scritto, domando io che cosa gli resterà da mangiare.

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MALA DIGESTIO NULLA FELICITAS

In questi giorni ho letto tre libri in fila di tre scrittori italiani moderni. Dei tre, il primo m’è piaciuto assai, molto il secondo, parecchio il terzo. Inciampi alla lettura nessuno, e da per tutto moltissime cose da ammirare. Ero incantato del fatto d’esser cascato per tre volte consecutive così bene. Mi pareva di volare, d’esser ringiovanito. Se non che, finito di leggere il terzo, ho sentito il bisogno di rivolgermi indietro per dare un’occhiata d’insieme al cammino fatto e di tornare un momento sulle pagine che m’erano parse più belle. Signori miei, che macello! Perdute le distanze, frammischiati e confusi i personaggi, intersecati gli ambienti, accavallati gli avvenimenti, imbrogliate le fila dei tre racconti, l’insieme mi veniva fatto di vederlo appena come dietro un gran polverone che più cercavo di trapassare con lo sguardo, più infittiva e montava alto. La morale è che non riesco a leggere più d’un libro alla volta e solo a una certa distanza di tempo uno dall’altro. * 109

Vuol dire che l’apparato digerente mi s’è andato guastando anno per anno. Non c’è più caso che ora mi segga a tavola colla bella fame d’una volta. Sì e no che spilluzzico. Bisogna che mi contenti di fare degli spuntini. Mi ci vorrebbero sempre piatti piccanti, primizie costose. Se poi tanto mi vien fatto di finire un libro, bisogna che subito dopo faccia del moto o tutt’al più mi limiti a tornare senza impegno sopra altre opere dello stesso autore e in un certo senso complementari della lettura allora terminata; che m’aiutino a tornar senza sforzo sulle impressioni ricevute e a chiarir le ragioni di certe caratteristiche dell’opera. Non posso permettermi il lusso di saltare a un’altra lettura del tutto nuova. Tornato l’appetito, mi può giovare cambiar secolo, alle volte cambiare lingua addirittura. Oggi come oggi due novelle in fila di Boccaccio non mi c’entran più. È buono che alterni una lettura di sostanza con una letturina di svizio. Dopo un romanzo di Guido, una mezza paginetta di Montesquieu o due epigrammi di Marziale son quel che ci vuole per aiutarmi a digerirlo: ma guai per il mio stomaco se facessi conto d’attaccare senz’altro la lettura d’un libro di Panzini, e foss’anche del Panzini più digestivo. Com’è lontano il tempo ch’ero capace di passar senza indugio e appena voltando fianco sul canapè dall’ultima pagina del Fuoco alla prima del Forse che sì forse che no, conservando poi chiare e 110

distinte per anni le impressioni delle due letture, senza ombre e sovrapposizioni! Sono vent’anni e passa che mi lessi uno dopo l’altro una buona diecina di romanzi di Walter Scott: e se oggi riapro a una pagina qualunque un di quei tomi mi ci ritrovo subito dentro come in una villa dove fossi poi ritornato tutte le stagioni. Ma del libro finito di leggere l’altro ieri non mi ricordo né il capo né la fine. * E si noti che le mie letture sono divenute così stente proprio da che le faccio con tutti i sentimenti, armato di tutto punto; e che mentre vent’anni fa pigliavo su e cominciavo a leggere qualunque libro mi capitasse sotto mano, oggi le mie letture me le vado a scegliere col lanternino; e che nello spazio di tempo che allora mi ci voleva a leggere un libro oggi mi leggo quei tre capitoli o poco più. Così, mentre mi ricordo benissimo quello che ci doveva essere anche nelle pagine allegramente saltate nel Gobbo di Parigi o nel Capitano Giaguaro, non riesco a ricordarmi affatto di che cosa trattasse quella pagina dell’altro ieri sulla quale stetti l’intero pomeriggio e che mi dette modo di fare delle considerazioni sull’arte narrativa contemporanea che avevan tutta l’aria di essere capitali e originalissime. Allora leggevo a pezzi e a bocconi, sotto il banco di scuola, in letto, sotto i lampioni, tra uno 111

scapaccione e una bocciatura, e qualche volta eran libri che avevo interesse non mi si cogliesse a leggerli: eppure di quelle letture portate innanzi fra tanti accidenti ancora mi risplende nella memoria la successione dei capitoli un per uno fino allo sviluppo finale. Adesso intorno alla mia persona che legge c’è gran rispetto e silenzio, nemmeno covassi le uova dorate, e nemmeno Dio s’azzarderebbe di togliermi il libro di mano colla scusa che non fa per me; ma proprio ora tutto quello che m’entra da un orecchio m’esce dall’altro, all’infuori forse dei particolari più sciocchi e di qualche amena incongruenza. Ora che so, o credo di sapere, come e perché si sviluppa il fatto letterario e l’importanza o meno e le difficoltà dei resultati ottenuti da uno scrittore, adesso che un libro m’interessa direi quasi professionalmente e che proprio di queste cose mi sono andato a far una ragione di vita (e pensare che si vive una volta sola!), – ecco che non so più leggere. Ecco che la mia memoria è diventata un pozzo senza fondo e tutto quello che ci lascio cadere non mi riesce di saper dove mai diamine vada a finire. * Il libro vuol esser letto, non vuol essere stuzzicato, non vuol essere sfruttato e non vuole sopratutto essere smontato nelle sue parti. Il libro vuole una fantasia disarmata e disposta a lasciarsi sopraffare. Allora dà tutto quello che può; 112

e spesso e volentieri, a seconda dell’innocente disposizione del lettore, infinitamente più di quello che non possa. Ricordo che nel tempo che sapevo leggere, qualunque libro prendeva nella mia tenera immaginazione la stessa luce d’evidenza e lo stesso corpo di realtà. Le ore della giornata mi pigliavano un sentore delizioso dalle letture che facevo, e tutto il giorno e a notte avanzata seguitavo a rivedermi intorno quei personaggi, e anche a libro chiuso li sentivo ragionar tra di loro: e quelli d’Hugo e di Tolstoi avevan per me la stessa vita, la stessa statura e ci vedevo dentro chiaro quanto in quelli di Malot, di Verne, di Rovetta, della Baccini, di Montepin, di Cantù, di Guerrazzi, d’Aimard, di De Cock e di Castelnuovo. Il giorno che ho cominciato a distinguere tra i personaggi di Tolstoi e quelli della Baccini e a mostrare della preferenza pei primi, il mio godimento di lettore è scemato di colpo del cinquanta per cento. Quando si comincia a far dei confronti è una vera iattura, perché non c’è mai opera abbastanza grande o perfetta che non si possa proporle il confronto d’altr’opera che sotto certi aspetti la vinca di grandezza e di perfezione. Chi è più bravo, Dante o Petrarca? Virgilio Brocchi o Salvator Gotta? Col tempo, le nuove letture, i nuovi confronti, le cose debbono poi di necessità peggiorare. E un giorno alla fine venire l’assoluta inappetenza. 113

E questo naturalmente ci accadrà il giorno che avremo a forza di sacrifici e di stenti messa insieme una biblioteca sceltissima, tutta di libri prelibati e senza mancanze capitali, da fare la felicità, a dir poco, di cento studenti.

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DEL TENER LA PENNA IN MANO È adunque, da scrivere bene più che si può. PIETRO BEMBO (Poi, qualche Santo provvede).

Scrittori si nasce. Ma prima d’affermare che sia nato veramente uno scrittore, abbiate pazienza un momentino, lasciate passare un po’ di tempo. Scrivere senza fare sbagli di lingua, riuscire a fermar l’attenzione con qualche fiorita piacevolezza letteraria, non sono ancora fatti che bastino a fare uno scrittore. Più o meno tutti hanno o credono di avere qualche cosa da dire e, più o meno bene, riescono a dire quello che sta loro sul cuore: però spesso è gente che finisce col trovare la sua strada in tutt’altra direzione e coll’accorgersi che la letteratura non gli c’era entrata che per l’uzzolo e l’opportunità d’un momento; insistendo, metterebbero subito allo scoperto la mancanza di qualunque originale vocazione. Lo scrittore è un’altra cosa: ed è proprio quando non ha più nulla da dire e che s’è sfogato e alleggerito alla meglio di tutto quello che lo toccava come uomo, è proprio e solo allora che viene il bello, è proprio e solo allora che s’entra nel buono. Se ne renda conto l’apprendista sul primo scoraggiamento, e quando gli accada di sentirsi spinto verso il tavolino da una forza invincibile e senza ch’egli abbia nemmeno l’ombra 115

d’un’idea nella testa e nessun chiaro sentimento di quello che gli sta per succedere, obbedisca alla spinta, stia allegro, si faccia animo e stappi, se l’ha in casa, una bottiglia: perché quello è il giorno di riconfermare solennemente la fiducia in sé stesso. Per solito, invece, questi momenti vanno accompagnati dalla più dolorosa perplessità, dal più nero scoramento. Lo scrittore si pensa d’essere stato d’un subito abbandonato dall’ispirazione, dubita della sua vocazione, niente lo piglia e tutto lo distrae, egli sembra che il mondo tutto insieme gli abbia voltato la schiena. Il filo del più semplice ragionamento, la trama della più puerile immaginazione non gli riesce più di seguirli altrimenti che colla penna in mano, raspando come un vero principiante sulla carta bianca. Quest’affare di non potersi ritrovare altro che in punta di penna e al chiodo del tavolino, egli sul principio sarebbe portato a prospettarselo come una sciagurata e lamentevole diminuzione di sé stesso, un caso di paralisi o di spinite letteraria. Con gelosa passione ricorda i bei tempi ch’egli tornava ogni volta a casa con un poema già composto dentro la testa, i bei tempi che la vena gli s’apriva e traboccava a fiotti sotto il primo lampione acceso che trovava rientrando in città giù dai colli vicini: quand’egli durava una fatica ladra a tener dietro, sul margine dei giornali e sul rovescio delle buste, all’onda incalzante delle immagi116

ni, al flusso melodioso delle parole dettate dentro: quando pareva che lo stesso Apollo, o chi per esso, gl’insufflasse le più sublimi concezioni; e lo stento che ora dura a far uscire una parola dall’altra, i dubbi che gli vengono ogni momento sul significato delle più comuni, la difficoltà di sgrovigliarne i nodi espressivi, gl’innumerevoli pentimenti paragonati a quell’irruenta facilità d’una volta, non possono a meno d’abbassargli il morale a livello delle cantine e di farlo languire e arrovellare come un cherubino decaduto e messo al bando. * Coraggio, giovinotto. Solo a patto di questo schiavo logorìo tu potrai sapere appieno che cosa voglia dire tener la penna in mano. Che si diventi scrittori passeggiando, sarebbe troppo comodo pensarlo: anzi da cialtroni. Sappi che quel gran foco che ti sentivi dentro a’ tempi che ora ti paiono tanto belli fa presto a freddarsi. E appena ti sia riuscito di scrivere una pagina veramente a modo, con tutte le parole ben scelte e ben piazzate, con tutte le congiunture a posto e le parti del discorso bene avvitate, che insomma davvero soddisfi questa tua nuova scrupolosa esigenza, vai, carino, vai a rileggere una a caso delle pagine scritte sotto l’ingiunzione di quel tuo terribil Nume. O ciel, che veggo! Banalità, enfasi, discordanze, improprietà, periodi con tre gambe, varia refurtiva, diciture 117

antiquate, contradizioni in termini, tutto ciò salta subito agli occhi. Questi erano dunque i bei suggerimenti e i bei consigli di quel tuo Nume barbogio, quest’era la bella scuola che t’andava facendo! L’esempio t’ammaestri una volta per tutte che chi fa per sé fa per tre. Dài retta; a questo mondo non si sa mai con chi si parla: e tu quind’innanzi hai da regolarti come in guerra, che tutti s’erano messi, dal generale al caporale, a chiedere ordini per iscritto. «Colonnello, mi prenda quel monte!»: «Signorsì, ma me lo metta per iscritto». Ed effettivamente lo scritto fa tutto un altro vedere dal sentito. Le rivelazioni dalla nube e dai roveti ardenti, i soliloqui sulle montagne sono tutt’altro che propizi a uno scrittore. Il bibliotecario deve bibliotecare in biblioteca. Qualunque tentazione ti cogliesse alla sprovvista e fuori mano, prima di dirle sì o no farai dunque ottimamente a correre a casa, a cambiare il pennino alla tua penna e a preparar sul tavolo un bel foglio. Il mondo è vasto, gli argomenti sono inesauribili, infiniti sono i modi di svolgerli: ma a scanso di delusioni e di perdite di tempo i tuoi conti tu l’hai da far sempre colla penna in mano. La penna diventa come uno specillo: con quella tu tasti le piaghe e vedi se ti conviene di prendere quel tal malato in cura oppure di rifiutar la posta. All’occorrenza diventa un ferruzzo da orefice che fa saltar le gemme dal castone e, sempre 118

che possa, rimette in moto gli orologi fermi del tempo di nonno. La penna, appena appoggiata sulla carta, sente quello che può dare quel giorno o qualc’altro appresso: e in ogni modo si fa garante solo per quel che si sente. A sforzarla solo un poco, leggera com’è, romperebbe il polso d’un colosso. * La fumante ambiziosa fantasia può sottoporre allo scrittore che sappia l’affar suo un materiale, un ciclo, un filone buono per dieci monumenti letterari, bastante alla gloria del più grande romanziere e poeta dei due mondi. Ma lo scrittore non si sbilancia. Si chiude nel suo studio. Raspa, raspa e fuma sigarette. In capo a tre giorni, vien fuori. Vien fuori col suo amichevole e imperturbabile sorriso e vi mostra non più di venti paginette della sua bella scrittura. Pareva chi sa che: possibile che non vi fosse più di tanto? Per di più si va a leggere e non si trova niente di quello che a grandi linee, per certi indizi, si sarebbe potuto supporre. E pure non si può dubitare che quelle venti pagine egli l’abbia veramente fatte uscire dal materiale che gli fu sottoposto: ma è un fatto che per quanto egli l’abbia raschiato spaccato e frugato in ogni parte a sua posta, non ne ha saputo desumere altro che una certa posizione A, B, C, D, ch’era la sola che gl’interessava, e che in fondo gl’interessava solo in quanto 119

su quella base poteva prendergli figura quell’altra famosa posizione á, â, ã, ä, ch’è la sola fra tante che gli stia veramente a cuore. Egli sa quello che vuole. Meglio ancora sa quello che può, e fa benissimo a tenersi dentro i suoi limiti, ad afforzarvisi e a non rischiare delle sortite di dubbio resultato. Si studia, si sorveglia. Di nuovo tenta solo cautissimi assaggi intorno al tratto già battuto, colla penna bene appuntita. Egli sa che se nuove possibilità ci sono, gli hanno sicuramente da venire d’in fondo alla strada ch’egli percorre e come coronamento al non sempre grato lavoro ch’egli vi compie giorno per giorno. Intanto cerca di non mettere il piede in fallo. Tratta le parole e le sceglie come perle e non se ne lascia cascare una di mano. Se per domare un periodo gli ci volesse anche tutta una nottata, egli non s’impazientisce e va a letto sull’alba più soddisfatto che mai. Per ispuntarla in un passo scabroso si lascerebbe morir di fame; ma per contro non si preoccupa mai di quello che scrive al punto che, se gli si presenti la possibilità di dire delle cose più immediate e più confacenti alle sue possibilità di quel momento, egli non secondi l’invito e non si lasci andare fiducioso da quella parte, lasciando magari in tronco per sempre il lavoro d’una lunga stagione. Perché quello ch’egli cerca per questa via di sacrifici e di macerazione letteraria è pur sempre l’occasione d’abbandonarsi e di servire anch’egli il suo Nume. Abbandonarsi: 120

ma non come una volta a picco giù dalla rischiosa parete della propria insufficienza, ma alla misurata e oramai fida corrente d’uno stil novo. MORALE Al levar delle tende si conosce la festa.

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L’UOVO E LA GALLINA OVVERO CHE SIA NATO PRIMA: IL LETTORE O LO SCRITTORE Vuoi vedere il mondo com’è piccolo? Pensa che c’è qualcuno che m’invidia il semplice fatto di tenere la penna in mano. * – Va là, va là – dice questo qualcuno – ché tu l’hai pensata bene. Ti alzi e vai a letto quando ti pare, scrivi quando hai voglia, butti giù quello che ti passa per la testa, ci schiaffi sotto tanto di firma e sei a posto: il tuo nome si spande, qualcuno paga, hai vacanza e spasso a tutte l’ore. Non hai obblighi di sorta, nessun orario, nessun controllo, nessun capoufficio, nessun padrone. Dove mai si vide esistenza più beata? La tua settimana è veramente quella del paese dei balocchi: di sei giovedì e una domenica. Roba da non morir mai! – Oh guarda, non ci avevo pensato. Sicché cercavo l’asino e ci stavo a cavallo... Però, dal momento che mi sei venuto a tiro, permetti ch’io ti legga quello che in proposito scriveva Annibal Caro a Marcantonio Piccolomini. – Sentiamo anche questa! – Parla dell’invenzione dello scrivere. «Costoro che vogliono che sia una bella invenzione debbono scrivere molto di rado; che se provassero il 122

giorno e la notte di rompersi la schiena, di stemperarsi lo stomaco, di consumarsi gli spiriti, di disgregarsi la vista, di logorarsi le polpastrelle delle dita, di cader di sonno, di assiderarsi di freddo, di morirsi di fame, di privarsi delle lor consolazioni e di star tuttavia accigliati, per non far altro che schiccherar fogli e versarsi all’ultimo il cervello per le mani, parlerebbero forse d’un altro tuono». – Sia pur vero quel che dice il tuo Annibale, e che lo scrivere sia per voi un sacrificio talmente enorme; ma in caso, chi te lo fa fare? – Chi me lo fa fare? Ti basti sapere che lo sto cercando; e che forse lo trovo; e che se lo trovo... – Che gli fai? – Se quel giorno sono armato, gli sparo. Tu ridi; ma faresti bene, fra tanto, di lasciar di leggermi. – O bella, e io che c’entro? – C’entri. Non sei tu uno dei miei lettori? Ora sappi che le mie ricerche hanno fatto emergere gravi indizi a carico del lettore. – Ti prego: mettimi sulle rotaie. – Sarò elementarissimo. Secondo te, chi è venuto prima: il lettore o lo scrittore? – Ci può esser dubbio? Lo scrittore. – Non direi. Mi concedi che il numero dei lettori sia infinitamente superiore a quello degli scrittori? – Concedo. – Allora come puoi fare a credere che Iddio 123

abbia creato i più per soddisfare la vocazione dei meno? – Cioè? – Valga il paragone del pasticciere. Prima cominciano a nascere i ghiottoni, no? e quando ce ne sono cento, cinquecento, mille, ecco che nasce quel mille e uno col talento di soddisfare il desiderio dei primi mille. Potresti ammettere che per far il piacere d’un solo pasticciere Iddio si fosse obbligato di dannare nella gola mille ghiottoni? Così dovrebbe sembrare assai più semplice ammettere che prima al buon Dio fossero usciti di mano cento, cinquecento, mille individui con dentro quel certo rosichìo di leggere e poi quel mille e uno che s’è messo a scrivere, piuttosto che innanzi quest’uno col prurito di scrivere, che l’avrebbe messo nell’impegno di creare altri mille a far la fatica di leggerlo. La fatica è tutta sua, di quest’uno. Non so se ho reso l’idea. – Dividiamo la fatica a metà. – No. La fatica, la stanchezza è da una parte sola. In uno dei più bei romanzi della Deledda, Il Dio dei viventi, c’è un vecchio che a tarda ora sorprende un suo nipotino applicato a leggere. Gli dice: «Studi ancora a quest’ora? E mettilo a dormire quel libro: non vedi ch’è stanco d’esser letto?». Quel vecchio, senza volerlo, dice una grandissima verità: da secoli e secoli ci sono scrittori che sono stanchi di scrivere e libri che sono stanchi d’esser letti; ma un lettore che si stanchi di 124

leggere, che Dio l’abbia in gloria!, ancora ha da nascere. – Mi pare esagerato. – Non far caso alle apparenze. È così. Ci saranno dei lettori che provano, a leggere, meno gusto di certi altri, e alcuni che ce ne provano magari pochissimo; in ogni caso sempre più di quanto ne proviamo noi a scrivere. Certo, fra noi, ce ne sono di quelli che per calcolo o per pudore mascherano più o meno il disgusto d’avere a intinger la penna e magari ci son di quelli che sosterranno di farlo sempre in istato di grazia, d’ebrezza. Lasciali cantare. E lascia cantare i lettori. Conosciamo, conosciamo la loro debolezza. Che è quella di criticare, d’indignarsi, di sbuffare, di non trovar più nulla che valga la pena di leggere, – ma intanto ci leggono; e che tutto quello che noi scriviamo è falso, e che s’è perduta l’arte di mettere in carta dei sentimenti sinceri, e che non si sa più stendere un intreccio, e che i punti di partenza e d’arrivo sono sempre arbitrari, – ma ci leggono; e che tutte le colpe nascon da noi, e che il paese va a rotoli perché impeciato della nostra cattiva letteratura, e che non abbiam più cuore, patria, religione, civismo, senso di responsabilità, gusto, proprietà, grammatica, – eppur ci leggono. Ci leggono per la ragione che s’è detta: che sono infinitamente più lettori loro di quel che noi non siamo scrittori: e che noi di scrivere ne potremmo fare benissimo a meno, ma non così essi di 125

leggere: e che se stiamo alla catena ci stiamo solo per il loro bel viso. Affettano una gran degnazione, si dànno delle grandi arie professorali, a volte mostrano fin d’essere seccati. Ma «non attacca». Vi conosciamo. Sappiamo che all’infuori del mangiare, del bere e dell’andare a letto, la vita ve l’arrangiamo noi, la vostra originalità ve la rifate sulle nostre pagine, i rigiri di maggior successo, le ragioni meglio difese, gl’imbrogli meglio combinati, le migliori figure, le migliori trovate le avete apprese dalle nostre pagine. Vi fate belli delle nostre piume, eloquenti delle nostre parole; e le donne siamo noi che ve le mettiamo in braccio, siamo noi che vi diamo le frasi bell’e fatte, che vi smaliziamo a cogliere le più propizie occasioni, che vi suggeriamo gli approcci e il momento d’allungar la mano: altrimenti restereste lì come tanti salami. Ci sapete fare, eh? a trovar la pappa sempre bell’e fatta! Dunque leggete, e zitti! imparate, e zitti! pagate, e zitti! O dite pure tutte le stupidaggini che volete: avrete pescato anche quelle nei nostri scritti. Ma resti ben chiaro che se c’è una categoria che abbia bisogno dell’altra, i bisognosi, i sollecitatori, gli accattoni non siamo noi. Cercàteli nel vostro specchio.

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LETTURE DI QUARESIMA MAGRO STRETTO Non conosco mezzo più efficace di mortificazione che riprendere in mano un mio libro e rileggerne quattro o cinque pagine con la massima attenzione. Issofatto mi si spalanca sotto i piedi l’abisso della mia leggerezza e della mia prosunzione. In quella pagina che ad altri magari può sembrare tutta unita e innocente io vedo aprirsi dei crepacci per lungo e per largo e sotto lùcervi le fiamme più rosse dell’inferno. In quell’immagine così ben accomodata nel suo letto di frasi scelte nel mazzo della più e squisita favella italiana io vedo brulicare i vermi dell’ultima decomposizione. Vedo i moventi, vedo le puerili intenzioni, vedo gli argomenti fallaci, vedo le bolle, le muffe, il capecchio, la cartapesta, la porporina. Vedo il tempo che mi si mangia da vivo, e anche le pagine che ieri credevo dessero qualche affidamento di potergli resistere questa mattina le trovo attaccate da fiero morbo. Ahimè! nessuno si trova in istato di peccare più leggermente e più stupidamente contro la verità e la decenza, come chi ha la penna in mano. Tristo chi svergogna la carta bianca! «Colui che ne la neve fa sozura» è malcreato tre volte. * 127

Or sei ionto a Collestatte do’ se mostra li toi fatte; le carte son fore tratte del mal e ben c’hai oprato. (Jacopone).

* Ma dato che cambiar mestiere oramai non sarebbe più possibile e che in tutto quel ch’io potessi fare in altro campo si vedrebbe sempre la marca inconfondibile del vecchio letterato inconcludente (muratore, perderei il tempo a scegliere i mattoni e farei seccar la calce; fornaio, farei stracuocere il pane; vetraio, romperei tutti i vetri; spazzino, non farei che trasportare l’immondezza da un canto all’altro delle piazze) almeno cerchiamo di cogliere gli ammaestramenti che posso ricavare dall’accorata contemplazione delle mie malefatte. Intanto è strano che di centinaia e centinaia di pagine che ho vergate – e tante ce n’è di scritte in fretta, col fattorino alla porta, senza nessuna voglia e spontaneità – quasi di tutte mi possa ricordare perché e come furono scritte, in quale paese, in quale alloggio e da che lampada o finestra veniva quel giorno la luce sul tavolino. Nella mia vita, questo fatto di mettere del nero sul bianco ha dunque realmente tanta importanza? Mi meraviglio moltissimo. E il preciso circostanziato ricordo dell’ora in cui buttai le parole sulla carta è 128

in me ancora così vivo e formicolante che rileggendole a quindici anni di distanza sento il sangue montarmi alla faccia: come s’io fossi ancora in dovere di arrossire delle ingenuità d’allora; e sì che fra il mio me d’oggi e quelle uscite di studentello inuzzolito dalle fresche letture ci sono corse perfino delle guerre, delle rivoluzioni (dicono), dei fatti in serie grandi e piccoli che avrebbero dovuto lasciar colare al fondo della memoria brìcciche così personali. Ma per il fatto stesso ch’io mi ricordo benissimo di averle scritte, mi pare che quelle pagine le avrebbe potute scrivere chiunque. Cos’è dunque che mi rifà così pervicacemente presenti quelle pagine? Cosa, se non la cattiva coscienza? Non c’è amnistia pei peccati letterari. Su quelle pagine senza numero io vedo correre un’ombra nera come sui prati quella delle nuvole. Sono pagine inquiete. C’è maretta. Da quindici anni non hanno trovato ancora il modo di posare placate. Né io proprio saprei cosa farci. * A grandi intervalli, fra le tante pagine, fra le troppe, fra le troppissime pagine, ce n’è poi qualche mezza (e non più di mezza) che sotto i miei occhi di giudice inviperito resta tranquilla, anzi immota e con una cert’aria di enigma: e, se insisto, con una cert’aria di sfida. La leggo e rileggo e non mi viene mai da sbadigliare. Perdio! eppure 129

l’ho scritta io, su questo non c’è dubbio. Cerco il verso di aprire e di sforzare come le altre anche quella, e non ne vengo a capo. Chiave e grimaldello non mi servono più. Cerco di ricordarmi in che giorno m’è caduto di scriverla, di dove mi ci piovve, chi me la fischiò all’orecchio, e non mi riesce di poterle drizzare come per le altre la storia dei suoi precedenti. Oh il bel caso! il pretesto, l’occasione che la fece nascere ci s’è distrutta dentro come un’ostrica nel latte. Per me medesimo quel disegno, quella figura è tutta nuova, straniera, non mi dà nessuna confidenza. Una cosa che sta a sé. Me l’ha fatta! Eppure, per il fatto stesso che io non mi ricordo d’averla mai scritta, mi pare che nessun altro all’infuori di me l’avrebbe potuta scrivere. Ed io la posso leggere beato e tranquillo come la pagina d’uno scrittore realmente esistito che un giorno si fosse degnato di portare il mio nome. * Quest’autoriletture in tempo di Quaresima possono servire ottimamente allo scrittore, che non voglia naturalmente chiudere gli occhi sopra la propria realtà storica e letteraria, per controllare e registrare i guadagni e le perdite fatte nel corso dell’anno rispetto agli anni precedenti. Una volta l’anno lo scrittore si levi di buon mattino espressamente per passare in ispezione la strada percorsa. Non può darsi che ogni anno non trovi 130

qualche cosa da notar di nuovo e da segnare a vantaggio delle nuove esperienze. Coll’esame del già fatto vedrà meglio quanto gli resta da fare. Il ricordo degl’inciampiconi presi l’ammaestrerà a tenere d’ora innanzi il passo in mezzo alla strada. La memoria rinfrescata delle cose già scritte gli potrà servire a non ripetere il già detto o l’ammalizierà a presentarle almeno in un’altra forma. Siccome un artista è portato a lavorar di fantasia sul già fatto, volentieri si fa delle illusioni sul proprio conto. È bene che ogni tanto si riguardi allo specchio. Uno specchio che abbia però le qualità di quelle pietre stralucenti onde è tutta murata la rocca di Logistilla, che specchiandosi in esse l’uom sin in mezzo all’anima si vede; vede suoi vizi e sue virtudi espresse sì, che a lusinghe poi di sé non crede, né a chi dar biasmo a torto gli volesse. Fassi, mirando allo specchio lucente sé stesso conoscendosi, prudente.

* – Uh! quante storie! quante smanie! quanti riguardi! O che idea vi siete mai andata facendo di quest’atto così semplice dello scrivere? Estro, fantasia, sensibilità vuol essere, e ogni giorno aria nuova e libera senza tante malinconie e tanto starci a pensare, senza il tanto annaspare e spaccare il capello in quattro come voi fate. Cosa andate a 131

rivangare dentro le fòsse del già fatto... Non avete paura che il coperchio del sepolcro vi ricaschi sul capo? – Caro il mio signor Estroso, queste cose le penso e dico anch’io, ma di Carnevale. Oggi son le Ceneri.

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MARI E MONTI (DE’ LIBRI PER VILLEGGIATURA) Problema grosso di questo mese è di sapere quanti e quali libri portar con noi in villeggiatura. Per non sovraccaricare il nostro bagaglio ci vediamo costretti ad una scelta molto oculata. Dieci o dodici libri sono il carico massimo consentito alla spedizione. * Altri libri vuole il mare, altri libri vuole il monte. È provato che al mare, nei mesi caldi, si legge meno che al monte, e in collina. Perché il mare ti mette in quella mezza sonnolenza alla quale basta una ben piccola spinta per cascare nel più profondo sonno. Innanzi tutto c’è il bagno che ti prostra, eppoi quel perpetuo rumore della risacca che non rifina mai di cantare la ninna-nanna. Quindi al mare ti porterai, di preferenza, libri leggieri, frivoli, piccanti, di brevi composizioni staccate, favolette, aforismi, aneddoti, novellette, ricettari, poesie dialettali, roba di poco impegno. Sotto i mille metri, provvedi storici e romanzieri. Sopra i mille metri, filosofi e poeti. Questo in linea generale. Ma naturalmente poi bisognerà variare, caso per caso, tipo e genere di 133

lettura. Su dieci libri che ti porti al mare, ce ne siano almeno due da mille e uno da sopra mille metri; perché potrà venire il momento in cui tu ti trovi nella disposizione adatta alla lettura di sopra mille e sarebbe troppo grave che ti mancasse acconcia materia di meditazione e di studio. Similmente, su dieci libri che tu ti porti al monte bisognerà che ce ne sia qualcuno di lieve lettura pei giorni, immancabili, di fiacca e di sbadiglio. Di più, stai bene attento a quel che ti dico: provvederai a metter nella sacca un libro in soprannumero, di perfetta attualità, fuori serie, che tu magari non degnerai d’uno sguardo, ma da servirti all’occasione come libro-galeotto, signora o signorina occorrendo, sopra o sotto i mille metri. Letture da approccio. * All’ombra dei castagni fìdati di fare delle buone letture d’ampio respiro e di riposata saggezza. Quel tremolìo delle foglie sulla pagina bianca, varia e rinfresca mirabilmente, l’attenzione. Scegli un luogo bene alto e con la vista sempre d’un poco di pianura lavorata. L’occhio ti correrà dalla pagina gremita a quelle terre così ben divisate e sentirai nel confronto l’ordinata bellezza d’ogni lavoro umano. I panorami troppo slargati làsciali ai turisti: annichilano l’attenzione invece di incoraggiarla. Quell’immenso silenzio, l’ha già detto Leopardi, 134

spaura. Cerca i luoghi da mezzo panorama. Un panorama intero ti si mangerebbe te... con tutto il libro. * D’un bosco, – rimani sulla soglia. Non ti ci andare a ficcare in mezzo. Gli alberi son dispettosi, fanno scherzi di cattivo genere, se ti pèscano solo. Una volta poi messo in mezzo da quegli spiriti favolosi dei boschi, non saresti più padrone di te, delle tue impressioni, dei tuoi giudizi. Fai d’avere perciò sempre un occhio sulla buona campagna lavorata dai tuoi simili, coi casolari che fumano, i bovi che arano, ecc. «Invenies» dice San Bernardo «aliquid amplius in silvis quam in libris». Tu perciò tienti ai libri e non curarti delle cose più grandi. E se pure qualche volta gli alberi intorno, come è loro perfida abitudine, volessero metterti soggezione, pensa fra te e te che, in fondo in fondo, anche la carta dei libri si fa cogli alberi... * Una cicala, due cicale, non disturbano affatto la lettura, anzi solleticano piacevolmente la voglia di leggere. Ma quando sopra te che leggi si mettono a cantare in tante è una vera rottura di rispetto. Un grillo solo che canti, viceversa dà molto fastidio: pare che ti chieda, solo solo, chi sa cosa. 135

Ma una musichetta bene accordata di molti grilli accompagna soavemente la lettura all’ultima luce fuori della villa * L’altr’anno (al mare) sorvegliavo i miei vicini di capanno. C’era un numeroso gruppo di signorine e giovanotti che si radunava mattina e dopopranzo, sempre gli stessi. E vedevo sempre passare lo stesso libro di mano in mano. In quindici giorni non riuscì a sparire. La mattina l’aveva uno, la sera un altro, dell’uno o dell’altro sesso. In breve, m’accorsi che serviva moltissimo, a tutti quanti della brigata, per tutti gli usi, tranne che per quello d’esser letto. Serviva di pretesto per attaccare e staccar discorso, per dar prova di giudizi originalissimi sulla letteratura moderna in generale e per far le viste, al momento buono, di essersi straniati dalla conversazione. L’aprivano a caso, parevano un tratto sprofondarsi tutti in quella lettura, e poi alla prima risata, al primo motto felice d’uno della combriccola, tiravan fuori il capo grondante di riso o di riccioli, chiudendolo di colpo. Serviva insomma per darsi un contegno e le ragazze se lo passavano come le coriste un ventaglio alle prove; serviva per dare ad intendere a lui che tu non t’eri accorta per nulla (presa com’eri nella lettura) d’una cosa che non ti piaceva d’aver veduta, e per dare ad intendere a lei, se ti veniva a taglio, che tu a tutt’altro pensavi che a perdere il tempo con 136

una sciocchina sua pari. Dolci giostre che finirono col primo temporale d’agosto: e il povero libro chi sa nelle mani di chi sarà rimasto. (Gli stavo dietro perch’era scritto da un amico). * Come ho lasciato facilmente intendere, quando io parto per la villeggiatura perdo un grandissimo tempo a scegliere i libri destinati a farmi compagnia pei due o tre mesi che starò lontano. Passo difatti ore e ore avanti alla libreria, incerto spesso tra due libri di pari mole e importanza. D’ordinario poi m’accorgo, appena arrivato sul posto, che mi sono deciso a prender su proprio quello che avrei fatto meglio a lasciare a casa. La verità vera è che i libri, come l’amore, non si fanno comandare e non obbediscono: e l’occasione dell’incontro e la bizzarria della fugace intesa, anche in questo, sono quelle solo che contano. Se tu parti col programma di dedicare l’estate a Platone – è proprio la volta che ti butti affamato su Pitigrilli. * «Io sono uno» diceva un tale «sul tipo di Balzac. Mi piace molto il caffè». Io sto invece diventando uno sul tipo di Ibsen, che non leggeva altro che giornali. D’estate, l’occasione di leggere giornali e giornaletti locali apre 137

nuove dolcissime prospettive. Sui primi giorni magari si ride di certe goffaggini e mancanze della buona piccola stampa di provincia al paragone dei giornaloni de’ quali ci nutriamo in città, ma poi pian piano che si conoscono meglio i luoghi, i tipi, le vicende locali, ci si fa la bocca e si finisce col metterci passione. Alla fine della villeggiatura ci sentiamo spesso anche noi come un po’ del paese, affezionati al foglio regionale. E quando, di ritorno, riapriamo quei nostri giornaloni di città, sulle prime rimaniamo storditi come il villano che s’inurba. Troppe ruote che si muovono! ci viene un’apprensione, una paura che un giorno o l’altro, senza accorgercene, un lembo della nostra veste o della nostra coscienza possa restar preso in quell’ingranaggio furioso * I libri di troppo frivola lettura hanno l’inconveniente che si fanno leggere troppo in fretta. Quelli troppo sostanziosi, sempre agli effetti della villeggiatura dove là per là non puoi sostituirli con altri, hanno l’inconveniente che se alla prima prova non ti riesce d’entrarci, più restan lì e te li vedi diventare ogni giorno più grossi e pesanti. Fin che viene il giorno, pover’a loro!, che volano dalla finestra al grido di: «o fori voi o fori io». Uomo: brutto animale. * 138

Tutti gli anni, all’atto di partire per la villeggiatura, metto nella sacca le Georgiche, come ultimo elemento pacificatore e conciliatore, per quell’idea piuttosto puerile che venendo a contatto più diretto della natura si possa in me risvegliare quel certo sentimento che... ecc. ecc. Bah, speriamo che sia proprio questo l’anno buono...

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LEGGERE E SCRIVERE

Francesco Petrarca aveva una bellissima voce. Boccaccio lo dice «prolatione placidus et iocosus»: placido e giocondo nel profferimento delle parole; e il Villani «vocis sonoræ atque redundantis, suavitatis tantæ atque dulcedinis ut nescirent etiam doctissimi ab eius collocutione discedere »: da non poter insomma far a meno di starlo a sentire. «Lingua dulcis, conversatio familiaris modestaque» dice Sicco Polenton. E Girolamo Squarciafico conferma: «conversatio honesta et iucunda». Pensate ora un po’, con una simile bella voce e un orecchio fine come il suo, come avrà recitato bene Petrarca i suoi versi, quei versi che conosciamo così dolce modulati e con una così accorta grata chiara varia disposizione di vocali e di consonanti! pensate un po’ come dicendoli se li sarà fatti fruttare. Eppure preferisco leggerli da me. Chi recita versi lo strozzerei. * D’un verso in particolare e d’una poesia in genere non saprei dire se è bella o brutta se prima non la vedo scritta. A sentirli recitare è precisamente come se uno pretendesse di spiegarmi una pittura o una scultura con parole sue. Non accet140

to, non bevo. Prima ho bisogno di vedere la figura che hanno le singole parole sulla carta, la lunghezza del verso, la figura delle strofe, e poi ragioniamo. Delle orecchie non mi fido, degli occhi moltissimo. La verità è che chi recita dei versi cerca sempre di rubare sul peso. Conosco benissimo i trucchi del mestiere e i tentativi di mettere nei versi quello che non c’è. La prima norma da inscrivere sul frontone del tempio di poesia è forse questa: Le parole sono nient’altro che quello che sono. Invece questi dicitori credono di cavare da ogni verso dio sa che. Alzano e abbassano la voce, arrotano gli erre, stirano le dieresi come elastici di fionda, dànno in trèmolo, dànno in vàgolo, chiudono lo scappamento, accèlerano alle voltate. Ma io vorrei sempre vedere coi miei occhi se il conto torna o se no dove è lo sbaglio. Invece, è scritto in cielo che capitino tutti proprio a me. Uno insistente e cattivo come quello che m’intoppò sull’Aspromonte il maggio scorso però mi mancava ancora di conoscerlo. * Quello che può essere di bello una giornata di maggio sull’Aspromonte coll’aroma delle erbe infuocate dal sole, il biancheggiare tra il verde delle cascatelle e la vista lontana del mare sfumante nel cielo è tal una cosa che se io riuscissi a descriverla sarei quello scrittore che non mi sogno di essere 141

nemmeno le mattine che più mi sveglio pieno di fiducia col sole in mezzo alla camera. Ero in gita con una carovana di turisti, all’uscir dalla storica pineta che vide un giorno Garibaldi piegare ferito, ed ero rimasto un poco indietro e fuor di strada appunto per godermi in pace quella vista di paradiso. Parola d’onore che stavano lì lì per spuntarmi le ali. Quand’ecco un’ombra si mette a paro della mia fra il timo e la menta e vedo entrarmi di fianco un tomo di mezzo calabresello con una gran chioma arruffata il quale mi chiede imperioso: – Lei scrive sul tale e tal giornale? – Non c’era verso di dirgli di no. – Allora Lei sarà certamente in rapporti con Treves e Mondadori. – E con questo? – Con questo io avrei da fare stampar subito un volume di versi a gran successo. Senta questi – e tira fuori di tasca alcuni foglietti scritti a macchina. – Sono intitolati: Al mare – e attacca. Chi se lo sarebbe aspettato uno scoppio così a bruciapelo? Allungo il passo, che avevo subito già allargato un pochino nella ingenua speranza che il poeta capisse che volevo per il momento esser lasciato in pace, o almeno, così leggendo, che avesse una buona volta a inciampicare; ma sì, quello si poteva dire che ci fosse nato, sull’Aspromonte, e saltava come un veltro di solco in solco senza mettere mai il piede in fallo e mai rompere una battuta al suo dire. O mare o mare, gemeva, prendimi o mare... e io via, e lui dietro, per poco non scappucciavo io. O mare, non ho nessuno, tu vedi, pren142

dimi, son tuo... e giù, una lagna senza capo né coda, una pestilenziale brodaglia dove si sentiva che era stato messo a bollire per la centunesima volta l’osso di prosciutto delle Laudi del mare, del cielo, della terra e degli eroi. E io mi buttavo a destra, e lui prendimi o mare a destra, e io mi fermavo come un palo tra due solchi e lui prendimi o mare sono in ginocchio ai tuoi piedi, cartelle dietro cartelle; e io via, e lui dietro. O mare o mare sono tutto tuo. E il mare vero era laggiù in fondo in fondo, segnato dall’orlo chiaro e leggiero della spiaggia. Ed io in cuor mio chiedevo scusa di lontano alla sua bellezza per quel carbunco che non la smetteva più di nominarlo in vano, solo a vergognarmi della ridicola figura che tutti e due stavamo facendo a quel po’ po’ d’altezza e con quel po’ po’ di panorama avanti agli occhi. Avevo già conosciuto in guerra il desolato risalto che possono prendere certi pur leggiadri paesaggi sotto la cornice rossa e nera degli shrapnells, e avevo allora provato in qual fondo di accorata premura si stampasse collo spostamento d’aria delle cannonate la loro visione durante i bombardamenti. Ora sperimentavo qualcosa di simile, e mi pareva che mare cielo monte mi chiedessero tutt’insieme pietà e mi si raccomandassero che gli portassi via al più presto quella radica di scocciatore, implorando per sé stessi tregua a sì lirico bombardamento. Quel cielo e paese pieni di sole mi si venivano così velando d’un verde di menta glaciale dove si 143

raffreddava di minuto in minuto ogni splendore. S’arrivò come Dio volle in fondo all’ode. * – Adesso le faccio sentire qualche sonetto. Ne ho scritti quattrocento, e tutti d’amore. – A questo punto, finalmente, ritrovai il mio coraggio, e fissando in viso al poeta-del-mare-che-non-se-lopigliava lo sguardo più cattivo che mi sia mai riuscito di fare ai miei giorni, – Caro il mio poeta, – urlai – sonetti poi no – e raddolcendo la voce – I sonetti, voglio dire, anche quelli di Dante e di Petrarca, non li posso soffrire – ; e senza stare oltre a considerare l’effetto ottenuto dalla mia frase voltai le spalle e lo lasciai in asso. * Le letture di merito vanno fatte a bocca chiusa. Possa cascar la lingua a chi ha quel vizio detto di sopra. Passiamo allo scrivere. Le scritture di riguardo andrebbero condotte con invece la porta chiusa a due mani di chiave e il cappello attaccato alla chiave per impedire che altri possa scorgere lo scrittore dal buco della serratura mentre scrive. Ci sono certe operazioni che l’uomo ha da fare al buio, o lontano dalla vista di tutti. Farsi vedere a scrivere è come farsi veder nudo: non è una cosa pulita. Anche se non sta lì a 144

darsi dei pugni nella testa o a rotolarsi per i tappeti come Flaubert, chi scrive ha sempre qualche cosa da nascondere: certi mezzi sospiri, certe sospensioni di perfetta idiozia, certe goffe consultazioni di dizionario, certi melensi ammiccamenti alla mezza pagina scritta, certi sguardi disperati per la finestra o sotto il tavolino, certe grattatine di testa, e quando poi uno se la ride tutto contento (dio mio! di che cosa, contento), quell’aria perpetua di scolaretto o d’impiegato comunale, quella sigaretta accesa a mezzo periodo, quel mozzicone gittato via con impeto a mezzo d’una rabbiosa cancellatura, le biastemuccie d’occasione e sopra ogni altra cosa le fregatine di mano (quelle infernali fregatine!) sono una cosa, no, da non vedersi nemmeno dal buco della chiave. Sia candida quanto si voglia la pagina, ma l’uomo a tavolino con quel suo curioso impegno non è mai una figura accettabile e presentabile. Preparateci pure i vostri intingoli, ma proibiteci per la salvezza del nostro gusto, di vedervi in cucina quando li andate preparando.

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TU LETTORE

Lettore, tu non puoi immaginare quanto mi stai diventando simpatico da un pezzo a questa parte. Troppo, sto per dire. Làsciati dunque fare un po’ di corte: e se qualcuno ci soffre, si volti pel momento dall’altra parte. Pensare invece che una volta facevo come se tu non ci fossi... Non capivo che uno scrittore che scrive solo per sé è come un pittore che dipinga al buio. Oppure, che viene a essere suppergiù la stessa cosa, scrivevo per un lettore del tutto immaginario, che secondo le volte era una specie d’eretico da convertire o di grullo da ammaestrare, di belva da ammansire o di mostro da montarci sopra in figura di San Giorgio a cavallo. Balordaggini e perditempi. Oggi fra me e te la partita vuol essere assolutamente pacifica e, dal momento che fondo tutto il mio lavoro sulla tua reale attenzione, mi guarderei bene dal fare a te quel che non voglio che altri a me faccia. È per questo che oggi ti vengo incontro col cuore in mano e vorrei mettere in carta almeno una delle ragioni che mi ti fanno considerare il mio unico, anche se non sempre fortunato amore. Una volta, pensare l’aria che ci dipartiva, le barriere che ci erano frapposte! Scrivendo non me 146

ne accorgevo, ma nell’atto di posar la penna, o subito dopo, tu sapessi come ti sentivo lontano, perduto nel tempo e nello spazio! Per quanto tempo ho seguitato a parlare al vento? Oggi, tante di quelle barriere sono cadute e la distanza si è notevolmente accorciata; so a un di presso dove trovarti e credo che la mia voce arrivi ormai al tuo orecchio con sufficiente chiarezza. Non fo per dire ma oggi ci si capisce. È ancora poco? è ancora men che nulla? Io dico che è già qualche cosa e che col tempo si potrà forse far anche di meglio. Dico che è molto, e che il merito, se la cosa ha da portar con sé qualche merito, ce lo possiamo dividere noi due in parti uguali: tu sei stato un eccellente maestro e io un discreto uditore; tu senza sapercelo (questo è pacifico) e io arrivandoci poco alla volta. Il corso è durato qualche anno, con rare vacanze. Ora io vorrei che tu mi proclamassi dottore. Studi ne ho fatti anch’io, per gastigo, ma sempre disordinati, e alla fine ci si mise la guerra a mischiare da capo tutte le carte, di modo che non ho avuto mai tempo di andare a ritirare il mio diploma di laurea presso la segreteria dell’Università. Tanto, per quel che serve! Ma se tu potessi, se tu volessi rilasciarmi per ogni buon fine e tanto per cominciare un primo «Attestato di leggibilità» a uso pubblico e privato, oh quello sì, ti giuro che lo farei mettere subito in cornice, sulla parete d’onore del mio studio; tanto sono per147

suaso che quello fatto con te è il solo corso che mi valga, che mi conti. In ogni modo, stat gratia facti. Sei tu il gran Regolatore. Sulle prime fu dura: perché non mi degnavo, capisci. Mi pareva che seguir te significasse di necessità far torto, non so bene, a un’idea, a un clan di giudici (mai visti), insomma a qualcuno ch’io pensavo che dovesse valere assai più di te, e che per scendere al tuo livello, scusami tanto, dovessi fatalmente rinunciare all’onore di più ambiti riconoscimenti, chi sa? sviarmi dalla grande allèa degli spiriti magni, passare sul corpo dei classici, rinnegare la tradizione, far piangere le muse, tradire i compagni. Mi pareva che una volta degradato a «scrittore servente» non avrei avuto più faccia da comparire tra le persone ammodo. Scrivere per esempio in un giornale, oibò, che fallimento, che diserzione! Trasbordare con le proprie scarabattole dalle sponde della filologia e della storia letteraria sulla riva della letteratura «applicata», che caduta, che tonfo! Buon per me che bene o male presi terra. Passa un giorno, passa un altro, di là m’aspettano ancora. Di tante ambizioni che mi tennero in bollore al tempo della mia gioventù non mi è dunque rimasta oggi che quella di tener legata cinque minuti filati la tua attenzione. Disertore! In compenso tu me ne hai insegnate di quelle che nessuna ars poetica mi avrebbe saputo impartire così a proposito. E forse io col mio esem148

pio son servito a dimostrare la bontà di quel detto: Soldato che scappa, buono per un’ altra volta... La prima cosa che ho imparato alla tua scuola è che a fare il difficile e il complicato c’è poco gusto. Tu non hai tempo da perdere e non ci caschi: e per una volta che ti ci si possa prendere, alla seconda fili via ch’è una bellezza. Non ho dunque altro mezzo di restare nelle tue buone grazie che di presentarti il mio argomento per il suo verso più facile. Tu vuoi afferrare subito chiaramente tutto il senso e la portata del discorso. Non ammetti che ci possano essere dei temi così astrusi che uno che sappia davvero il suo mestiere non arrivi a svolgerli in termini d’assoluta chiarezza. Ma nemmeno debbo poi credere che questa tua esigenza di chiarezza mi autorizzi a rivogarti cose già dette e ridette. Anche tu ami le finezze, ma aborri l’impalpabile. La mia bravura di scrittore se io non l’impiego a tempo e proposito a te non fa né caldo né freddo. Certi manicaretti nella confezione dei quali credevo alle volte di avere speso tutto il fiore dell’arte mia, ho visto che tu non li hai voluti nemmeno assaggiare, mentre hai fatto poi bocca di contentarti di due uova cucinate in tutta fretta. Stai agli scherzi, ma non vuoi essere preso, che diamine!, in mezzo. Tolleri che lo scrittore qualche volta s’effonda e si abbandoni, ma non vuoi che ti caschi tra le braccia. Le familiarità eccessive ti lasciano male. Non rifiuti le bizzarrie, ma non vuoi essere stupito di proposito, e gli 149

arzigogoli non fanno per te. Avverti immediatamente quando il tono d’una scrittura diventa falso. Una «stecca» la sopporti, ma due no per dio! Se io mi intenerisco ad arte, o mi entusiasmo, o faccio le finte di sdegnarmi, o parlo con una sufficienza che non può esser la mia e insomma mi voglio fare più bravo e più bello di quello che sono, tu te ne accorgi subito. Non dici nulla, ma hai quell’arma tremenda di lasciar di leggere. Non ammetti scusa, e te la leghi al dito. Con te bisogna rigare sempre dritti. A conti fatti, hai quasi sempre ragione tu. Tu vuoi nello scrittore un tono quieto e non troppo discontinuo. Con gli asmatici non ci resisti. Vuoi essere tirato dentro con una certa energia, trattenuto con una certa dolcezza e messo poi in libertà con un certo garbo. (Quei finali a scoppio che sono così spesso la gran risorsa di noialtri articolisti son sicuro che volentieri tu te li risparmieresti). La scrittura troppo sciatta ti offende, quella in punta di forchetta ti fa sbadigliare. Se sbaglio, correggimi. Chi ti potesse dar sempre ascolto forse sarebbe salvo. Chi avesse l’udito così fino da raccogliere e registrare tutte le onde e le scosse dei tuoi consensi e dei tuoi risentimenti andrebbe lontano. Qualche volta la sento, al buio, la tua vaga presenza di massimo comun denominatore di tutti i possibili lettori, presenza di sesso ambiguo, ma di giudizio inappellabile: e sento benissimo quali sono le parole che di me ricevi e quelle che lasci 150

cadere; ma non si ha sempre il tempo di correggerle... La tua vicinanza, se per un verso mi è d’un certo appoggio concreto, per un altro mi tiene in una grande e sempre nuova perplessità, perché con te davanti, caro mio, si tratta in verità di ricominciare sempre da capo. Da capo, dopo tanti anni! E per di più ogni volta è come se un qualche «terzo incomodo», terribilmente ironico, mi provocasse a entrare nella gabbia del leone. Sudori freddi, allora, e sfiducia nelle proprie forze e una improvvisa grandissima voglia di andare a spasso... (So bene: avrò tanto dissertato su quest’arte benedetta di farsi leggere che non mi sarà più rimasto tempo di cominciare a scrivere). Finalmente mi faccio coraggio, mio leone, perché in fine tu sei il solo riparo che mi sia rimasto e la mia sola giustificazione contro tutti, principalmente contro me stesso. Infine l’hai capita, che io sono arrivato al punto che non mi pare più possibile fare a meno di te. Momento assai delicato; la mia paura è quella d’esser fatto ormai troppo tuo. Ti son venuto, voglio dire, così sotto che a volte mi manca lo spazio indispensabile a creare la mia e tua illusione! Di questo passo, non correrà molto tempo ch’io avrò fatto talmente corpo con la tua figura che anche di mio non resterà intera altro che la voglia e la capacità di leggere. Bella preoccupazione, e bell’imbroglio, per uno scrittore. 151

LUOGHI ORIGINALI DI STAMPA LDG = «I libri del giorno» Un libro di 200 pagine di 300 grammi, LDG, anno VI, numero 3, marzo 1923, pp. 115-6. Il coperchio e la pila ovvero Della ricerca del titolo, LDG, anno VII, numero 5, maggio 1924, pp. 225-6. Il carro innanzi ai buoi ovvero Delle prefazioni, LDG, anno VI, numero 6, giugno 1923, pp. 283-4. Pagina e piè di pagina, LDG, anno VII, numero 9, settembre 1924, pp. 449-50. L’arte di perdere il tempo. Cap. XXVI, LDG, anno VIII, numero 11, novembre 1925, pp. 561-2. Testo ed illustrazioni alle prese, LDG, anno VIII, numero 1, gennaio 1925, pp. 1-2. «Ridon le carte...» (La Bibbia di Borso), in Studi di bibliografia e di argomento romano in memoria di Luigi De Gregori, Roma 1949, pp. 41-5. Titolo originale: La Bibbia di Borso. Leghiamoli pure, LDG, anno VI, numero 12, dicembre 1923, pp. 619-20. Sono stati omessi due capoversi del secondo paragrafo e i due paragrafi ultimi. Le note in margine ovvero Vietato lordare, LDG, anno VII, numero 6, giugno 1924, pp. 281-2. Sento rumore ovvero Delle recensioni, LDG, anno III, numero 7, luglio 1920, pp. 339-41. Un successo a qualunque costo, LDG, anno XI, numero 5, maggio 1928, pp. 257-60. Gli editori del mio cuore, LDG, anno VII, numero 4, aprile 1924, pp. 169-71.

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L’editore, lo scrittore e il magazziniere, LDG, anno VII, numero 7, luglio 1924, pp. 337-8. I libri...dell’altro giorno, LDG, anno X, numero 3, marzo 1927, pp. 113-5. Caratteri del buon lettore, LDG, anno VII, numero 2, febbraio 1924, pp. 57-8. L’amor del libro (la voce d’un dissidente), LDG, anno III, numero 2, febbraio 1920, pp. 59-60. «Promozione a scelta» ovvero Libro e giornale, LDG, anno VII, numero 11, novembre 1924, pp. 561-2. Omesso un capoverso. Mala digestio nulla felicitas, LDG, anno VI, numero 8, agosto 1923, pp. 399-400. Del tener la penna in mano, LDG, anno VI, numero 2, febbraio 1923, pp. 59-60. L’uovo e la gallina ovvero Chi sia nato prima: il lettore o lo scrittore, LDG, anno VIII, numero 6, giugno 1925, pp. 281-2. Letture di quaresima magro stretto, LDG, anno VIII, numero 3, marzo 1925, pp. 113-4. Porta, in testa, la data: «25 febbraio, Le Ceneri». Mari e monti (de’ libri per villeggiatura), LDG, anno IX, numero 7, luglio 1926, pp. 337-8. Leggere e scrivere, LDG, anno IX, numero 9, settembre 1926, pp. 449-50. Tu lettore, nel volume Se rinasco... Fatti personali, Roma 1944, pp. 123-30.

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POSTILLA

La rivista che pubblicò quasi tutti gli scritti qui raccolti cominciò a uscire nella primavera 1918, quando le bocche dei cannoni mandavano ancora fuoco. Portava titoli e notizie di libri nuovi, le grigie in quel tempo edizioni di guerra, e s’intitolava appunto «I libri del giorno». A introdurre i fascicoli venne, a un certo punto, l’idea di una serie di articoli sullo stampare, sul leggere e sullo scrivere. Fu probabilmente Giovanni Beltrami, successore di Emilio Treves nell’impresa editoriale che ne portava sempre il nome, a escogitarla. Chi felicemente prese in mano la penna fu Antonio Baldini, unanime per intesa di spirito con quel suo direttore. Incominciò nel 1920, e andò avanti parecchi anni, con un andare capriccioso, e numerose scorrerie sulla frontiera della critica letteraria italiana contemporanea (sempre, s’intende, in stile di baldinage). Sembrò che ne potesse nascere addirittura un libro sul libro, come lo vede uno scrittore. La volta che Baldini prese a dissertare sul modo di dare principio, spiegando in testa il militaresco e imprecatorio titolo «La “messa in marcia” (miserie, inganni, pene e segreti di questo disgraziatissimo mestiere dello scrittore che malanno a chi ci nasce e accidenti a chi spera di viverci sopra)», Beltrami tentò di metterlo con le spalle al muro. Gli scrisse di avere ammirato ancora una volta la sua sapienza di come si fa a fare un libro, o almeno a cominciarlo, per intimargli: «Ma non c’è pro-

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prio caso che la metta a profitto, tanta sapienza, per farlo lei stesso questo benedetto libro». Si era nel 1925, e il libro Baldini lo aveva già scritto, almeno per una buona metà, ma non si ridusse mai a metterlo insieme, anche se qualche volta gliene tornò l’idea. Scherzosamente, pensava all’opera come di mole; e a uno dei capitoli qui raccolti diede il numero romano di «XXVI», che rimane erratico. Di fatto, ne stese anche più, dipanando quel filo, come gli veniva, e li radunò in una sua cartellina. Nel 1960 ne parlò a chi scrive questa nota, e gli diede anche il titolo che è stato adoperato, così caratteristico dello scrittore e della sua elegante sprezzatura. Ma il raccoglitore deve dichiarare che si è trovato poi a fare da solo. Egli esercita la professione di bibliotecario (e può essere che a fargliela scegliere, abbiano avuto qualche parte queste pagine, lette la prima volta nei suoi anni verdi). Gli è venuto perciò fatto spontaneamente di ordinare gli articoli, che qui diventano capitoli, come un’introduzione al libro e alla lettura. Ciò è stato facile per i primi, che descrivono le parti del libro e discorrono dei suoi elementi costitutivi, i titoli, le prefazioni, i commenti, gl’indici; e aggiuntivi, le illustrazioni, le legature, le note a margine. La bisogna è stata meno agevole, quando egli si è provato a disporre i capitoli dedicati alla lettura, perché Baldini ha così mescolato le carte che mal si riesce a spartirle tra il lettore e lo scrittore, quale a vicenda sentiva di essere. Si veda tutto il ragionamento fatto, da prestigiatore, per scoprire chi dei due sia nato prima. Ma anche questo giuoco abilissimo delle mani concorre a portare dentro il mondo portentoso del libro. Il lettore che viene a cono-

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scere i segreti di fabbrica non perde la voglia di assaggiarne i prodotti, e lo scrittore sicuramente ha da guadagnare a sapere quali sono i gusti, gli umori e fino i capricci del consumatore. Alla fine, viene fuori una specie di solidarietà, quasi d’identità lettore-scrittore, che non può che riuscire a profitto delle due parti. Tutti i «pezzi» sono levitati dalla festevole grazia e dal sapido umorismo, che furono il dono personalissimo di questo scrittore, capace di toccare fino il comico e il farsesco, senza perdere l’elegante misura. A saggio proprio di ciò, si offrono scritti come quello che descrive l’udienza del papa allo scrittore Stamburè e l’altro con l’incontro del «calabresello» seccatore sull’Aspromonte (originale, anche se lavorato sulla filigrana di una delle Satire oraziane). Il materiale, come si è detto, proviene dai «Libri del giorno», quasi tutto. In aggiunta, il raccoglitore non ha saputo resistere alla tentazione di riprodurre un’altra pagina libraria, di squisita fattura, quella sulle miniature della Bibbia di Borso; e le battute finali, sul filo sempre teso e vibratile del rapporto scrittore-lettore. Proprio per vuotare il sacco, confessa di avere preso qualche libertà con uno o due testi, nell’intento di alleggerirli di qualche riferimento troppo datato. I pochi altri nomi rimasti di minori o dimenticatissimi scrittori di quella stagione saranno agevolmente sostituiti nella mente del lettore di oggi. Perché i tipi sono immortali, e «plus ça change et plus c’est la même chose», anche in quel gran teatro del mondo, che è la repubblica letteraria.

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Finitodistamparenelgiugno 2003 pressolaTipografiaMetauro Edizioni Fossombrone(Pesaro) PrintedinItaly