La società post-razionale
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MODERNITÀ E SOCIETÀ

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a cura di Roberto Cipriani

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Cecilia Costa

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LA SOCIETÀ POST-RAZIONALE

ARMANDO EDITORE

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COSTA, Cecilia La società post-razionale ; Roma : Armando, © 2012 144 p. ; 20 cm. (Modernità e società) ISBN: 978-88-6677-229-3 1. Incontro tra sociologia e teologia 2. L’immaginario come approccio sociologico 3. Relativismo etico

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CDD 300

© 2012 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 02-06-032 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]

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Sommario

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Premessa

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Introduzione

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Capitolo primo: Il fenomeno religioso e l’incontro tra sociologia e teologia 1.1 Il fenomeno religioso nella ricerca sociologica 1.2 I rapporti “storici” fra sociologia e teologia 1.3 Il punto di incontro tra sociologia e teologia 1.4 Orizzontalismo sociologico e verticalismo teologico 1.5 Un nuovo dialogo tra sociologia e teologia

37 37 46 51 56 60

Capitolo secondo: L’immaginario come approccio sociologico 2.1 Ansie contemporanee: Dylan Dog 2.2 Aspirazioni immaginarie: Twilight 2.3 Una diversa concezione di eternità

69 76 82 85

Capitolo terzo: Il relativismo etico, il fenomeno religioso 93 e l’immaginario attuale 3.1 Il relativismo etico 93 3.2 Il fenomeno religioso 101 3.3 L’immaginario 104 3.4 Ipotesi di una percezione post-razionale della morte e 110 dell’eternità nel religioso e nell’immaginario Conclusioni

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Bibliografia

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In ricordo di Franco

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Premessa

Al di là degli argomenti affrontati per esteso in questo libro, due suggestioni socio-letterarie del passato e delle domande sulla realtà attuale hanno costituito lo sfondo riflessivo delle sue pagine. In primo luogo, dunque, due suggestioni – giunte da un versante sociologico, Tocqueville e da uno letterario, Manzoni – sono state tra le ispirazioni latenti del saggio perché in esse, in qualche modo, si può cogliere in estrema sintesi il probabile – non certo – vizio di origine della controversa declinazione, da parte dei soggetti contemporanei, della realtà sociale ed esistenziale. Del resto, non è inedito fare ricorso a riflessioni di classici del pensiero per tentare di comprendere l’attualità in quanto, a volte, non è il soggetto contemporaneo ad interrogare un testo del passato, ma è «il testo antico che chiama a sé l’uomo di oggi e si offre a lui come risposta»1. 1 Un esempio della possibilità di avere, grazie ad un testo classico del pensiero, una risposta cronologicamente anteriore a situazioni e problematiche successive ci è dato dal mettere in parallelo il testo spirituale Il Castello interiore, del 1577, di Teresa D’Avila, con il romanzo Il Castello, del 1922, di Kafka. A parte il titolo simile, scelta non casuale da parte di Kafka, Teresa D’Avila, più di trecento anni prima, offre una risposta concreta, certo prettamente religiosa, al disagio dell’epoca moderna espresso nell’opera incompiuta dell’autore boemo. Infatti, Teresa D’Avila, senza la pretesa di essere un’interprete della modernità, ha proposto all’uomo del suo tempo, ma in egual misura anche a quello della modernità, una soluzione per superare le sue paure di essere escluso dalla vita e di non coglierne mai la sua pienezza: la risposta teresiana all’angoscia esistenziale moderna consiste nella possibilità, da lei indicata come risolutiva, di “innestare l’eternità nel tempo” e di raggiungere attraverso la “indìazione” la felicità tanto sospirata. Cfr. Antonio Maria Sicari, Nel “Castello interiore” di Santa Teresa D’Avila. L’inaccessibile castello da Franz Kafka a santa Teresa, Jaca Book, Milano, 2006, pp. 13-15.

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Sostiene Tocqueville:

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Colui che si dedica alla sola ricerca dei beni di questo mondo è sempre sotto pressione poiché non ha che un periodo limitato per trovarli, acquisirli e goderne. La conoscenza della brevità della vita lo perseguita. Indipendentemente dai beni che possiede, questi ne immagina ad ogni istante mille altri che la morte impedirà di acquisire se non si affretta. Questo pensiero lo riempie di apprensioni, di timori e di rimpianti, ne mantiene l’animo in uno stato di trepidazione incessante che lo porta a mutare ogni momento strategie e luoghi2.

Manzoni, in un’evocativa pagina dei Promessi Sposi, invece, quasi facendo un controcanto alla moderna “angoscia del desiderio” denunciata da Tocqueville, con rara sintesi descrive le attitudini etico-esistenziali del Card. Federigo Borromeo; infatti, scrive: egli era persuaso che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a pensare come potesse render la sua utile o santa3.

La sollecitazione tocquevilliana ha aperto un percorso speculativo mirato ad interrogarsi su quanto la scomparsa “dell’autorità del mistero”, l’autoreferenzialità soggettiva e l’emergere nella coscienza pubblico-privata di un’attenzione preminente “ai beni materiali” possano essere una causa del disorientamento collettivo e dell’incertezza individuale. L’accenno ad una pagina del famoso romanzo di Manzoni, viceversa, è servito come pretesto per rifar memoria di momenti storicoculturali in cui, a torto o a ragione, le vicende degli uomini erano 2 Cfr. Alexis de Tocqueville, De la Démocratie en Amérique, II vol., Gallimard, Paris, 1961, p. 143. 3 Cfr. Alessandro Manzoni, I promessi sposi, BUR, Milano, 2000, p. 463.

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ancora legate ad un solido impegno etico, ad una narrazione personale orientata ad un fine che trascendeva il quotidiano e in cui l’autodeterminazione soggettiva si manifestava nella versione “teologica” del libero arbitrio. In secondo luogo, delle domande sulla realtà hanno animato, sempre e solo come sfondo latente, le riflessioni di questo testo: in definitiva, la sociologia, così come la scienza in generale, altro non è che un atteggiamento di curiosità e, insieme, un tentativo di dare risposta a una serie di interrogativi “storicamente maturi”4; o come direbbe Boudon: l’inizio di una qualsiasi indagine – qualitativa o quantitativa – è in generale un “perché”5. Gli interrogativi accennati in questa premessa, a parere di chi scrive, esprimono una singolare commistione di elementi contraddittori presenti nella trama culturale, che non possono essere schematizzati in ambiti disciplinari strettamente settoriali o in ottiche sistemicofunzionaliste, ma conducono per itinerari e metodologie di ricerca estranei a forme di “sociologismo”6. La serie di domande (molte altre ancora potrebbero far parte dell’elenco), accennate in questo contesto riflessivo, sono tendenzialmente sollecitate dalla particolare “mescolanza”, propria del vissuto socio-individuale odierno, di codici etico-culturali contrapposti e oscillanti tra tradizione e modernità, razionalità e irrazionalità o post-razionalità, sacro e profano, agnosticismo e sentimentalismo religioso e tra il nuovo desiderio di continuo cambiamento e quello “antico” di stabilità: quest’ultimo tradotto, però, nel linguaggio della modernità. Questi quesiti possono essere sintetizzati – al solo scopo di meglio evocare la problematica realtà della modernità7 – da una serie 4 Cfr. Franco Ferrarotti, Manuale di sociologia, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 12. 5 Cfr. Raymond Boudon, Metodologia della ricerca sociologica, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 31. 6 Cfr. Pierpaolo Donati, La matrice teologica della società, Rubettino, Soveria Mannelli, 2010, p. IX. 7 Cfr. Peter L. Berger, Questioni di fede, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 15.

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di fenomeni, che spesso la cronaca ci consegna attraverso i mass media. Tali domande non sono l’argomento specifico dei capitoli successivi del libro, ma servono solo per segnalare quanto alcune dinamiche attuali entrino in apparente conflitto con quell’immagine razionale, tecnologica, scettica, eticamente debole e votata alla dimensione estetico-edonistica della vita, attribuita alla mentalità corrente. Questi interrogativi, inoltre, sottolineano un atteggiamento “incongruente” dello spirito moderno che era già stato prefigurato da autori come Weber e Simmel, i quali nelle loro rispettive elaborazioni avevano rilevato una deriva “irrazionalistica” come conseguente riflesso del processo di “razionalizzazione generale dell’esistenza”8. Tra i fenomeni posti in luce in questa premessa, che per la loro “ambiguità” interna alimentano le domande sulla realtà culturale odierna, è annoverabile l’intervento di Celentano, del febbraio 2012, al Festival di Sanremo. Naturalmente, in questa sede, non si vuole né focalizzare in modo particolare l’attenzione su questo episodio né entrare nella polemica sulle affermazioni del cantante a proposito dei giornali cattolici “Avvenire” e «Famiglia cristiana», ma piuttosto soffermarsi su quanto l’elemento religioso e immateriale della vita è tutt’ora presente nell’universo sociale e nella biografia degli individui. L’esternazione sanremese del cantante può servire a mettere in evidenza alcune intrinseche “incongruenze” proprie dell’attualità e sollecitare alcuni interrogativi, come ad esempio: perché un veterano dello spettacolo, interessato ad ottenere il consenso di pubblico in una sua esibizione, ha ritenuto opportuno tematizzare in un contesto di spettacolo e divertimento non tanto la dimensione generica del sacro9 – che 8

Cfr. Alessandro Dal Lago, Il conflitto della modernità, Il Mulino, Bologna, 1994, p. 88. 9 Il sacro è una categoria particolarmente complessa e dibattuta tanto che, come scrive Roberto Cipriani, definirlo “non è impresa agevole, come non lo è definire la religione”: su un unico punto c’è un’opinione corrente, tendenzialmente, condivisa: “il sacro procede storicamente la religione”. In principio, l’idea di sacro aveva una «fondazione ontologica e sovrannaturale, senza alcun riferimento ad una base sociale. Nel corso del XX secolo ed agli inizi del XXI si sono susseguiti invece tentativi più

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è «rivalutata nei confronti della categoria della religione e adattata alla natura post-cristiana della nostra società»10 – ma una più determinata religiosamente: quella cattolica? E, ancora, come mai per ottenere il massimo di audience Celentano (pur non trascurando il fatto che la stessa figura del cantante, qualsiasi cosa dica, è di per sé un evento mediatico) ha voluto “scandalizzare”11 gli ascoltatori con un discorso sulla vecchiaia, sulla transitorietà della vita umana e su una specifica visione della vita oltre la morte: il paradiso? Al seguito di questi primi quesiti, come non domandarsi perché, nelle circostanze più laico-profane, alcuni personaggi famosi (che orientati in senso sociologico, che hanno evidenziato la pervasività del sacro, pur nelle sue continue metamorfosi». Cfr. Roberto Cipriani, Clemente Lanzetti, La religione continua, Studi Arborense, Roma, 2010, pp. 9-17. Nel corso del tempo, molte sono state le interpretazioni del sacro elaborate da numerosi studiosi, tra le quali, per esempio, quella di H. Hubert, che lo intende come il principio della religione: cioè, la religione, per lui, non è che “l’amministrazione del sacro”, o come dice Roger Caillois, il fondamento sul quale si struttura il sentimento religioso, «quello che gli conferisce il suo carattere specifico, che impone al fedele un particolare sentimento di rispetto, che difende la sua fede contro lo spirito critico, lo sottrae alla discussione, lo colloca al di fuori e al di là della ragione». Alcuni autori, come Otto, lo interpretano con il termine “tremendo”. Kant, a proposito del sacro, usa il concetto di “sublime”. Altri studiosi lo confinano ai fenomeni «che accadono all’interno di una chiesa o di un loro equivalente»; qualcun altro ritiene che ogni concezione religiosa del mondo implica, di per sé, la distinzione tra sacro e profano: queste due categorie, in pratica, sono una il riferimento dell’altra, si presuppongono e si escludono. Ad avviso di altri autori, invece, il sacro è «ciò che trascende i nostri poteri di comprensione, comunicazione, azione». Esso è un riflesso dell’esperienza di impotenza quando diventa evidente come sia “ridicolmente breve la vita mortale” rispetto all’eternità; oppure il sacro è inteso “come proprietà stabile o effimera” che appartiene a certe cose (gli strumenti del culto), a certi esseri (il re, il sacerdote), a certi spazi (il tempio, la chiesa, il luogo elevato), a certi tempi (la domenica, il giorno di Pasqua, di Natale, ecc.). Studiosi più contemporanei arrivano a sostenere che: «lavare la macchina la domenica o andare con la famiglia al centro commerciale sia l’odierna incarnazione del sacro». Cfr. Roger Caillois, L’uomo e il sacro, BollatiBoringhieri, Torino, 2001, pp. 13-14; cfr. Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, Bari, 2003, pp. 114-116. 10 Cfr. Giovanni Filoramo, Millenarismo e New Age. Apocalisse e religiosità alternativa, Edizioni Dedalo, Bari, 1999, p. 51. 11 Nella contemporaneità, si è provato con ogni mezzo possibile ad esorcizzare la morte (anche qualsiasi problematica drammatica dell’esistenza), che spesso è assimilata ad un’immagine scandalosa della modernità e della ragione in quanto rappresenta “l’archetipo dei limiti delle potenzialità umane”. Cfr. Zygmunt Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 133.

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ricoprono ruoli diversi e svolgono funzioni dissimili) sentono il bisogno di fare appello ai simboli, ai concetti e alle liturgie pseudoreligiose per sollecitare ondate di emotività e rendere più coinvolgente, significativo e straordinario un evento, un racconto, un fatto o un’azione? Basti pensare ai leaders di alcuni partiti, a connotazione carismatica (o almeno con la presunzione di esserlo) e in cerca di un consenso populistico incondizionato, che per incitare i propri elettori ad una partecipazione più attiva, hanno attinto da un linguaggio espressamente religioso i loro slogans elettorali, quali: “il partito dell’amore; o missionari della libertà”. O ancora, come non domandarsi perché è consuetudine tra gli appassionati di Facebook utilizzare termini di origine religiosa? Gli utenti dei social network mettono in atto “pratiche” di confessione e di condivisione12. In definitiva, come non rilevare che c’è un sottile “reincantamento” della mentalità individuale, proprio in un’epoca post-metafisica e, apparentemente, “disincantata”13, tanto che negli ultimi anni, anche nello spazio pubblico, si risente parlare di Dio. A questa batteria di domande si possono aggiungere ulteriori interrogativi che nascono, anche essi, da altri fenomeni tendenzialmente alternativi al punto di vista di una società razionale-tecnologica: quali possono essere le condizioni probabili che favoriscono la

12 Le narrazioni biografiche degli iscritti a Facebook hanno come modalità della conversazione: la confessione. «L’individuo è spinto a confessarsi, come segno della propria apertura agli altri». Nello stesso tempo, condizione dell’aggregazione sui social network «è l’esistenza di qualche comunanza di mondi vitali [ …] In ogni caso, al di là dell’interesse prevalente, è possibile raggiungere rapidamente un numero ampio di interlocutori, produrre condivisione, termine divenuto ricorrente e che ha catalizzato una quantità di significati e bisogni». Cfr. Maura Franchi, Augusto Schianchi, Scegliere nel tempo di Facebook, Carocci Editore, Roma, 2011, pp. 179, 196. 13 Negli ultimi anni, si è prestata particolare attenzione scientifica alla religione e, nello stesso tempo, si è messo in guardia dall’assumere, in modo semplificato, il tema del disincanto e della secolarizzazione per descrivere l’attuale condizione religiosa postmoderna. Cfr. Charles Taylor, L’età secolare, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2009, p. 12.

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seduzione esercitata dall’invisibile e dall’extrasensory perception14 sull’attuale forma mentis? Oppure, come non interrogarsi sulla forte attrazione esercitata su adulti e bambini dalle favole tradizionali, a cominciare da quelle di Biancaneve e i sette nani, Cenerentola e La bella addormentata nel bosco? Favole che, dopo decenni dalla loro prima apparizione in versione filmica, raccolgono l’interesse di milioni di spettatori15. Forse, perché, ora come nel passato, questi prodotti dell’immaginario, nella loro qualità irreale, propongono soluzioni – ideali o idealizzate – a bisogni millenari e, anche, perché riflettono, esorcizzano o nascondono, molte delle paure concrete degli uomini di oggi come le insidie della vita e la paura della morte. Come non guardare con curiosità scientifica l’audience raggiunta dalle fictions su argomenti religiosi o sulla vita di alcune figure carismatiche del cattolicesimo: un’audience che per la sua consistenza è spesso simile a quella della finale del Festival di Sanremo o della finale dei Mondiali di calcio16. O di seguito, come interpretare il successo riscosso dai film sulle catastrofi apocalittiche, sui demoni, gli esorcismi, e l’interesse manifestato da un esteso target di pubblico – anche se prevalen14 Il mondo extrasensoriale – l’extrasensory perception – che è fiorito in Occidente in modo particolare negli anni ’60 e ’70, «prima che i miti della New Age riempissero quel vuoto spirituale che nessuna escalation tecnologica è stata mai capace di riempire», si ripropone con forza nel panorama culturale attuale, come testimoniato dall’interesse ad esso rivolto dall’autorevole rivista «Journal of Personality and Social Psichology». Cfr. Angelo Aquaro, Ma è possibile una parascienza?, in “la Repubblica”, 05/02/2011, pp. 1, 32-33. 15 Biancaneve è apparsa sugli schermi cinematografici 73 anni fa e Cenerentola 60 anni fa. Queste favole sono state trasmesse ultimamente in prima serata in televisione e hanno raccolto oltre 7 milioni di telespettatori, confermando un successo senza tempo. Cfr. Giuseppina Manin, Biancaneve superstar: su Raiuno la favola hollywoodiana record, in “Corriere della Sera”, 30/12/2010, p. 43. 16 Per esempio, la fiction su Padre Pio, nella versione proposta da “Canale 5”, ha avuto circa 12 milioni di spettatori e quella di “Raiuno”, nella stagione successiva, quasi 13 milioni. Gli stessi alti livelli di ascolto ci sono stati per altre fictions religiose: Jesus, di “Raiuno”, con una media di 10 milioni; Lourdes, “Raiuno”, quasi 9 milioni di spettatori; Papa Giovanni con 13 milioni. Cfr. Stefano Martelli, con la collaborazione di Gianna Cappello e Lorella Moltemi, Il giubileo “mediato”, FrancoAngeli, Milano, 2003, pp. 73-74, 101, 114, 178.

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temente adolescenziale e femminile – per i racconti sui vampiri? Perché non interrogarsi sul come mai, all’interno di una realtà pervasa dai processi di tecnologizzazione e di razionalizzazione, si propaga un’attrattiva verso il fantastico nei suoi diversi aspetti – dall’horror al demoniaco all’apocalittico e al sentimentale favolistico – reso palese da «un modo di essere e di pensare interamente attraversato dall’immagine, dall’immaginario, dal simbolico e dall’immateriale»17? Inoltre, come non interpellarsi criticamente sull’incremento del “turismo nero”: ossia, su quei pellegrinaggi di massa nei luoghi dove sono avvenuti omicidi efferati o disastri come, per esempio, ad Avetrana – luogo dell’uccisione di Sarah Scazzi – o all’isola del Giglio dove è naufragata la Costa Concordia18. Come non soffermarsi a riflettere su quella sorta di catarsi collettiva che si autoalimenta, a scavalco della tabuizzazione della mor-

17

Cfr. Michel Maffesoli, Note sulla postmodernità, Lupetti, Milano, 2005, p. 58. Le vacanze del turismo nero seguono tre filoni: «lo slum tourism, cioè la visita dei luoghi considerati di degrado morale e allo stesso tempo di forte autenticità, come le favelas a Rio o in Sudafrica; il dark tourism o grief tourism, legato al patriottismo o alla memoria dolorosa, come le escursioni ad Auschwitz, a Ground Zero o al Peace Memorial Park di Hiroshima; il black tourism, legato alla volontà morbosa di vivere un luogo di morte». Sono state fatte delle indagini sull’incremento dei visitatori in alcuni di questi particolari luoghi: «ad Avetrana nei quattro mesi seguiti al delitto il numero dei visitatori è deflagrato del 160%; bar, pizzerie, ristoranti vicini al luogo maledetto hanno registrato un balzo in avanti compreso fra l’80 e il 122 per cento». Stesso incremento di turisti si è avuto a Brambate: in questa cittadina, dopo l’omicidio di Yara Gambirasio, «i flussi escursionistici sono aumentati del 55 per cento; fra l’80 e il 122 per cento i consumi nei luoghi di ristoro». Per quanto riguarda, invece, il numero di curiosi accorsi all’isola del Giglio per vedere da vicino la carcassa della nave Concordia, «nel sabato dopo il naufragio, senza contare i soccorritori, le biglietterie dei traghetti hanno staccato 1.080 tagliandi contro i 131 del sabato precedente». Secondo alcuni psichiatri questo tipo di turismo morboso nasce dalla “ricerca della trasgressione” e dal fatto che “il proibito suscita sempre fascino”. In modo particolare, le persone che si affollano nei luoghi dei delitti, sempre secondo gli psichiatri, «non vorrebbero uccidere come l’assassino, ma – con poca spesa – puntano comunque a immedesimarsi. Quindi, questi pellegrinaggi permettono di dare sfogo alla propria istintualità, senza rinunciare ai freni etici». Cfr. Vincenzo Tessadoro, Turismo nero. La voglia di tornare sul luogo del delitto, in «il Venerdì» de “la Repubblica”, 3/08/2012, pp. 38-39. 18

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te19, in occasione dei funerali “spettacolo”, siano essi “sacri” o “profani”? Milioni di persone, infatti, fisicamente o in diretta televisiva, hanno partecipato alle esequie di Giovanni Paolo II, di Madre Teresa di Calcutta e a quelli di Lady Diana o di molti altri protagonisti del nostro tempo. Inoltre, come interpretare gli atteggiamenti della folla dei presenti nei luoghi delle veglie funebri? In quelle occasioni, solitamente, le persone mettono in atto, senza distinzione del ruolo del defunto (pontefice, sportivo o cantante, suora o principessa, ecc.), una medesima liturgia celebrata, all’insegna di “un’effervescenza collettiva”, con bigliettini, candele, lacrime, preghiere, abbracci tra i partecipanti al “rito” di veglia e orsacchiotti di pezza. Si registra in queste situazioni luttuose una sorta di composito combinato di variegati aspetti, dai risvolti non tutti chiari o verificati, che potrebbero rappresentare, sociologicamente, delle variabili comportamentali soggettive che vanno dal “convenire per cercare sintonie emotive”20 alla semplice curiosità; dalla bulimia di emozioni all’aspettativa di una partecipazione comunitaria; dalla voglia di “toccare” lo straordinario o di unire, come nei pellegrinaggi popolar-religiosi, la consuetudine con “l’eccezionale”21 al bisogno di esserci per diventare

19 Le sensazioni che accompagnano le problematiche drammatiche dell’esistenza, insopportabili per la mentalità odierna, sono fatte rientrare dagli attori sociali, come recita la letteratura sull’argomento, nelle categorie della “prevaricazione” e dell’assurdità. Sostanzialmente, la malattia, la decadenza del corpo, il dolore e la morte sono ritenuti, nella postmodernità, dei dati della vita impensabili e innominabili: essi rappresentano un’offesa, “un segreto colpevole”. Specialmente la morte viene considerata “una umiliazione della ragione” e, nel pubblico e nel privato, si cerca di negarne la sua stessa sostanza, “il suo essere la fine di tutto”. Cfr. Christopher Lasch, La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano, 1979, p. 232; cfr. Zygmunt Bauman, Il teatro dell’immortalità, Il Mulino, Bologna, 1995, pp. 24-26, 36, 179. 20 Cfr. Aldo Natale Terrin (a cura di), Riti religiosi e riti secolari, Edizioni Messaggero Padova, Padova, 2007, pp. 75-76. 21 Cfr. Alphonse Dupront, Il sacro, Bollati Boringhieri, Torino, 1993, p. 357; cfr. Liberio Andreatta (a cura di), Un popolo in cammino, Piemme, Casale Monferrato, 2001, p. 90.

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protagonisti di un evento22 o per esprimere l’esigenza di pratiche iniziatiche23 e di riti24. Un’altra possibile spiegazione può venire dalla constatazione che caduto ogni interesse ed emozione per la politica, le manifestazioni di emotività collettiva, come il lutto, “danno, almeno momentaneamente, il senso della condivisione”, prima offerto dalla passione ideologica e dalla politica tradizionale di partito25. Sull’onda di questa serie di interrogativi e delle implicite contraddizioni che sono da essi segnalate, più in generale, ci si può ancora domandare, a fronte della prefigurata “apoteosi” dell’individualismo, quanto le esponenziali chances di autoreferenzialità soggettiva e l’affievolirsi di una visione esaustiva del mondo hanno veramente emancipato – in positivo o in negativo – le singole personalità dalla tendenza comunitaria, dall’assegnazione di un valore prioritario all’approccio relazionale26 e, soprattutto, dal “peso” dell’eterodirezione, del pensiero unico e del conformismo? 22

Potrebbe essere un esempio di una qual somiglianza tra il bisogno di esserci profano e quello sacro la fila sterminata di persone giunte ad Avetrana: è stato una sorta di fenomeno di massa di “turismo nero”, ma per certi versi con caratteristiche simili a un pellegrinaggio anche pseudo-religioso. Infatti, nel paese dove è avvenuto l’omicidio di Sarah Scazzi si sono riversate migliaia di persone, di ogni età ed estrazione sociale, che hanno messo in atto comportamenti ai confini del paradossale: alcuni pregavano, qualcuno curiosava e altri fotografavano i luoghi del crimine. Cfr. Giuliano Foschini, L’horror show di Avetrana, in “la Repubblica”, 18-10-2010, pp. 1, 13. 23 A proposito dell’attrazione esercitata sui soggetti contemporanei dai rituali comunitari, dai pellegrinaggi religiosi, dalle situazioni emotive collettive, è importante segnalare che, anche nel mezzo della “febbre modernizzante”, queste pratiche di incontro e di effervescenza emozionale, come evidenziato in alcune ricerche fatte nel passato in Italia, in Francia, in Belgio, sono particolarmente coinvolgenti per le persone. Studi successivi hanno confermato che le feste, il vivere l’esperienza religiosa nei luoghi consacrati e il partecipare a momenti emozionali condivisi (in parte, il vivere insieme un’emozione è ciò che si vuole sperimentare in molte occasioni non solo religiose) hanno una efficacia sociale e questa constatazione ha anche iniziato a far “vacillare il paradigma della secolarizzazione”. Cfr. Ulrich Beck, Il Dio Personale, Laterza, RomaBari, 2009, p. 33 24 Cfr. Alphonse Dupront, Il sacro, cit., p. 357. 25 Cfr. Frank Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Feltrinelli, Milano, 2008, pp. 66, 71. 26 La rinascita del bisogno di “affinità elettive” comunitarie ha determinato anche una variazione del concetto di distanza sociale e ha avuto una sua ricaduta nella per-

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Secondo alcuni studiosi il nuovo individualismo27 è ormai diventato un fenomeno di massa e ha assunto «un carattere più formale, non veramente vissuto, vittima di un doppio livello di conformismo: da un lato l’assunzione di un’individualità di superficie in conformità ad un modello ormai egemonico e dall’altro la produzione mimetica e passiva del comportamento degli altri invece della creazione di un’individualità altamente singola»28. A proposito della sorta di omologazione conformista e dell’adozione di atteggiamenti imitativi, che sembrano essere l’altra faccia della medaglia dell’imporsi dell’autoriflessività soggettiva, Tocqueville aveva prefigurato la possibilità di una perdita delle prerogative dell’individualità e il suo scadere, per l’affermarsi della corsa al benessere e al relativismo assoluto29, in un “narcisismo di massa” provocato anche dalla rottura del “legame” tra la soggettività moderna e il trascendente che, a suo avviso, è il solo legame in grado di liberare il soggetto “dal potere del senso comune”30. In effetti, in molti casi, pur se è vero che rispetto al passato l’individuo è diventato una sorta di autolegislatore di se stesso, sembra verificarsi la previsione toc-

cezione di vicinanza/lontananza tra esponenti di ceti diversi, tanto che conviene non fermarsi teoricamente in via prioritaria, come nel passato, sui “fattori posizionali”, perché ormai essi non sono gli unici elementi a determinare delle differenze, ma a queste variabili oggettive si devono addizionare fattori soggettivi, che concorrono a produrre determinati principi di simmetria/asimmetria socio-esistenziale. In definitiva, senza che vengano annullate del tutto le variabili strutturali delle differenze di collocazione individuale nella scala sociale – per esempio, la differenza di classe, di status, di livello di istruzione, di capitale economico – sembra delinearsi una disposizione a vivere l’interazione tra persone diverse da sé con un’attenzione ai risvolti immateriali e percettivamente attraenti delle persone. Cfr. Marina D’Amato (a cura di), La distanza sociale. Roma: vicini da lontano, FrancoAngeli, Milano, 2009, p. 133; Cfr. Vincenzo Cesareo (a cura di), La distanza sociale. Una ricerca nelle aree urbane italiane, FrancoAngeli, Milano, 2008, pp. 68-69. 27 Cfr. Alain Laurent, Storia dell’individualismo, Il Mulino, Bologna, 1994, p. 12. 28 Sostanzialmente, secondo alcuni studiosi, nella contemporaneità si è passati “dall’individualismo metodologico a un individualismo sociologico di massa”. Ivi, p. 124. 29 Ivi, p. 12. 30 Cfr. Salvatore Abbruzzese, La sociologia di Tocqueville, Rubettino, Soveria Mannelli, 2005, p. 108.

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quevilliana di una “sottomissione” del pensiero soggettivo all’opinione pubblica. Sotto un altro profilo, il modello di “esasperata” autonomia soggettiva, che rompe l’equilibrio tra libertà e uguaglianza, inibisce la manifestazione qualitativa della singola identità e impedisce il buon esito dell’aspirazione di ognuno “di esprimere e realizzare la propria unicità”31: per concretizzarsi veramente questa unicità, come argomentava Simmel, si dovrebbe certo esprimere un individualismo della differenza, ma coniugarlo con quello dell’uguaglianza32. Oggi, il venir meno di questa capacità di far coesistere le due modalità e la declinazione autoreferenziale delle norme, delle regole, della morale, sembrano condurre a volte, più che verso un’autonomia interiore e una volontà autoaffermativa33, ad identità «decentrate, fluide, ansiose di conferme e di riconoscimento, mosse da desideri inquieti e senza oggetto»34, le quali avvertono il bisogno di certezze, di autorità “carismatiche”, di poteri e di uomini “forti”, di pratiche magiche ed esoteriche35. Forse, come aveva intuitivamente compreso Robert Musil, nella civiltà dell’individualismo radicale, le troppe sollecitazioni, i bisogni, i desideri, le molte opinioni, non consentono più all’individuo 31

Per Simmel, come tiene a sottolineare Paolo Jedlowski, «il concetto di individuo diventa non qui e non più e non tanto l’idea di un’uguaglianza di tutti gli uomini in quanto espressione della medesima natura umana, ma quella della differenza fondata sull’assunto della loro unicità, e della loro responsabilità personale nello sviluppare le potenzialità implicite in tale unicità. Per la cultura che esprime questa idea di individuo, egli conia l’espressione di individualismo qualitativo (o individualismo della differenza)». Cfr. Paolo Jedlowski, Il mondo in questione, Roma, Carocci, 1998, p. 116. 32 L’individualismo dell’uguaglianza e quello della differenza, secondo Simmel, presenti negli stessi ambiti culturali, “o in grandi personalità di confine come Goethe”, pur essendo in «primo luogo in un rapporto di successione temporale, come ideologie caratteristiche dei secoli XVII e XIX», possono – e dovrebbero coesistere – nel medesimo tempo. Cfr. Georg Simmel, La legge individuale, (a cura di Ferruccio Andolfi), Armando Editore, Roma, 2001, pp. 9-10. 33 Ivi, p. 10. 34 Cfr. Elena Pulcini, L’individuo senza passioni, Bollati Boringheri, Torino, 2001, pp. 142, 158-159. 35 Cfr. Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Giancarlo Rovati, La religiosità in Italia, Arnoldo Mondadori, Milano, 1995, p. 179.

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di “essere completo”, ma lo consegnano inerme ad un processo di trasformazione costante che lo potrebbe condurre ad un suo “dissolvimento senza nucleo”36. E, di conseguenza, viene da domandarsi quale modello di individuo esercita la sua libertà di scelta tra una pluralità di opzioni e in un clima culturale relativista? Non sarà, per ipotesi, che le stesse scelte relativiste, più che esprimere una decisione autodeterminata e autofondata soggettivamente all’insegna di una razionalità strumentale, rispondano all’irrazionalismo dell’homo sentimentalis, all’etica “situazionale”, all’indecisione, all’incertezza, ad una «libertà narcisistica fatta di relazioni frammentarie, di immagini caotiche e di comunicazioni istantanee»37, che caratterizzano le identità attuali38? E ci si può chiedere, inoltre, se veramente “l’agire razionale rispetto allo scopo” ha avuto il sopravvento su ogni altro senso, meno strumentale, dell’agire, dal momento che al dispiegarsi della razionalità fa sempre più riscontro un ripiegarsi, di molti e in tante circostanze, sui “residui”, intesi come passioni ed emozioni39? E, sempre più spesso, non solo nella sfera biografica ma anche in altri spazi della realtà sociale, a cominciare

36

Cfr. Robert Musil, “L’uomo senza qualità”. Pagine inedite, Il Saggiatore, Milano, 1983, p. 91. 37 Cfr. Giovanni Filoramo, La Chiesa e le sfide della modernità, Editori Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 48. 38 Cfr. Maura Franchi, Augusto Schianchi, Scegliere nel tempo di Facebook, cit., pp. 66-68, 150. 39 A proposito dell’emotività diffusa, la quale sembra una tendenza pervasiva del contesto culturale, come non ricordare che nell’attualità, a differenza del passato, personaggi istituzionali di rilievo – come per esempio, il Ministro Fornero, il Segretario PD Bersani e il Presidente della Repubblica Napolitano – hanno pianto in circostanze di pubblico confronto, lasciando così spazio alle loro sensazioni intime e non solo alle mere ragioni della politica.

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da quella economica40, le azioni degli attori sociali si configurano come non-logiche41. Infine, come non chiedersi, più ad ampio raggio, perché si ha sempre di meno la “capacità di dominare razionalmente la realtà”? A molti di questi quesiti aveva già dato una risposta Max Weber in quanto contemplava la possibilità che la razionalizzazione potesse “accompagnarsi anche a una maggiore oscurità della conoscenza”: un’oscurità, a suo avviso, determinata nell’uomo disincantato proprio dalla «mancanza di senso del mondo che deriva dal venir meno della fede negli dèi trascendenti»42. Oppure, una tale mancanza di senso può aver preso consistenza nella modernità per l’ipertrofia della facoltà dell’intelletto e per un’atrofia dalla ragione43: e, ancora, perché si è smarrito lo scopo 40 In merito all’approccio odierno alla sfera economica, molti studiosi sostengono che: «è un errore trattare il denaro e gli altri strumenti del genere come se fossero dei fenomeni naturali come quelli studiati nella fisica, nella chimica e nella biologia. La recente crisi economica ci fa vedere che sono prodotti che richiedono una massiccia immaginazione». Cfr. Maurizio Ferraris, Mario Monti? Troppo realista. Con Berlusconi sì che si sognava, in «il Venerdì» de “la Repubblica”, 3/08/2012, p. 154. 41 Raymond Aron, nelle sue riflessioni sugli autori più rappresentativi del pensiero sociologico, evidenzia in modo particolare il fatto che per Pareto la “maggior parte della condotta umana è non-logica”, in quanto la sua principale caratteristica è quella «di lasciarsi guidare dal sentimento e di avanzare giustificazioni pseudologiche per atteggiamenti sentimentali». Cfr. Raymond Aron, Le tappe del pensiero sociologico, Oscar Studio Mondadori, Milano, 1972, p. 384. 42 Cfr. Max Weber, La scienza come professione, (a cura di Paolo Volontè), Bompiani, Milano, 2008, p. 150. 43 Georg Simmel ha sostenuto che nella modernità prende consistenza un atteggiamento soggettivo «calcolistico tanto nei confronti delle relazioni fra le persone quanto nei confronti della vita in generale». Un atteggiamento, a suo avviso, che nasce dall’ipertrofia della facoltà dell’intelletto (Verstand), che risulta essere la più “superficiale delle facoltà” in quanto “essenzialmente logico-combinatoria” e da un’atrofia dalla ragione (Vernunft) che, invece, «è un principio che dà ordine alle conoscenze empiriche […] e non rinuncia al confronto con i sentimenti e con le domande ultime sulla vita ed il valore». Cfr. Georg Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, (a cura di Paolo Jedlowski), Armando Editore, Roma, 2007, pp. 20-21; cfr. Alberto Bondolfi, Roberto Cipriani, Jürgen Habermas, Benjamin R. Mariante, Ingo Mörth, Roberto Vinco, La teoria critica della religione, (a cura di Roberto Cipriani), Borla, Roma, 1986, p. 40; cfr. Magnus Streit, Benedetto XVI, la modernità e la fede, in Knut Wenzel (a cura di), Le religioni e la ragione, Queriniana, Brescia, 2008, p. 110.

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dell’esistenza in conseguenza del “tramonto di un’interpretazione morale del mondo”44. O, forse, molto più semplicemente, bisogna tener conto delle debolezze “delle pretese del sapere scientifico”45 e del fatto che il processo di razionalizzazione non ha condotto ad “un ordine sempre più razionale”, ma si è rivelato una “soluzione acida che dissolve tutte le certezze”46.

44 Cfr. Martin Buber, L’eclissi di Dio, Passigli Editori, Firenze-Antella, 2001 (I° ed. tedesca 1952), p. 105. 45 Cfr. Max Weber, La scienza come professione, cit., p. 40. 46 Cfr. Zygmunt Bauman, Modernità e ambivalenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2010, p. 189.

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Introduzione

Nel primo capitolo di questo libro – lasciando in latenza le due suggestioni socio-letterarie del passato (che non vogliono essere il pretesto per un giudizio di valore sul tempo presente) e la serie di domande sopra-citate che segnalano una moltiplicazione di elementi contraddittori intrecciati nella trama socio-esperienziale dei soggetti – non è stata trascurata speculativamente la dimensione del religioso che trasversalmente influenza, in forma nebulosa o manifesta, i vari fenomeni e che può essere intesa come “più di quanto possa spiegare la teoria”1. Infatti, se da una parte la razionalizzazione rende obsoleti modelli e miti del passato e corrode molti spazi della sfera sacro-religiosa, disancorando le scelte soggettive dal riferimento all’Assoluto, nello stesso tempo, crea le premesse per rianimare – riadattata – quella stessa sfera. Pertanto, nonostante l’apparente diminuzione degli spazi tradizionali di influenza della religione e l’allargamento di quelli della razionalità strumentale – quest’ultimi spesso anche “occupati” da irrazionalità o post-razionalità – non si può fare a meno di richiamarsi teoricamente al sacro e al religioso quando si guarda al sociale e alle modalità dell’esperienza individuale. Il richiamo alla sfera della religione è necessario perché, prendendo a prestito una riflessione del laico Sartre, «il silenzio del 1

Il sociologo tedesco Niklas Luhmann nell’epigrafe in memoria della moglie ha scritto che “la religione per lei significava più di quanto possa spiegare la teoria”: da un lato questa frase è circoscritta all’atteggiamento verso il religioso proprio della moglie di Luhmann; dall’altro lato, essa può essere assunta come un presupposto più generale dell’approccio alla religione. Cfr. Roberto Cipriani, Nuovo Manuale di Sociologia della Religione, Borla, Roma, 20092, p. 276.

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trascendente, unito alla persistenza del bisogno religioso nell’uomo moderno», costituisce un problema con cui si deve fare i conti oggi come ieri2. Inoltre, in considerazione dell’importanza che la dimensione religiosa (in forma diffusa3) riveste tutt’ora nelle dinamiche in atto e in ogni dimensione della vita delle persone – al di là dei processi di privatizzazione e delle basse percentuali di appartenenza ortodossa o di pratica confessionale – si è dato spazio all’idea mai rimossa, ma scarsamente applicata a causa di reciproche “antiche” miopi chiusure, di un confronto tra la sociologia e la teologia. Infatti, uno scambio riflessivo tra queste due discipline – fermo restando l’irrinunciabilità ad alcuni rispettivi principi disciplinari non negoziabili – può aiutare a render ragione di istanze socio-individuali non solo di tipo religioso, ma che riguardano tutto il sociale. Di fatto, se ci si interroga sui «fenomeni storico-empirici, il sociale e il religioso non sono mai nettamente separabili»4, in quanto queste due differenti dimensioni della ricerca scientifica si interessano di «oggetti comuni: l’uomo, le sue azioni, le sue creazioni, l’intera società e la sua storia»5. Del resto, non è per nulla originale – per “facilitare” l’indagi2

Cfr. Martin Buber, L’eclissi di Dio, cit., p. 63. Roberto Cipriani ha ampiamente spiegato che esiste, ed è rilevabile in molti Stati e non solo in Italia, “un carattere diffusivo e storico delle religioni” ed, inoltre, che «una religione a lungo preminente in un dato territorio […] rimane una vera e propria cultura come fenomeno globale intimamente legato al più vasto set di valori e modelli di comportamento, senza profonde fratture, ma con aggiustamenti di volta in volta resi praticabili per il bisogno di superare comunque momenti o motivi di impasse». Cfr. Roberto Cipriani, La religione diffusa, Borla, Roma, 1988, pp. 7-8, 14-15. 4 Secondo Donati, è giunto il momento di instaurare “un dialogo istruttivo” tra sociologia e teologia su una base sgombra «dall’idea restrittiva che esse si confrontino sul solo terreno della religione. Una tale selettività finirebbe per rendere sterile il confronto e condurrebbe fuori strada […] È senza dubbio più utile mantenere aperto l’orizzonte e prospettare un confronto su tutto il sociale o, se si preferisce, sulla totalità delle relazioni umano/divino nel sociale». Cfr. Pierpaolo Donati, La matrice teologica della società, cit., pp. XV, 8. 5 La sociologia e la teologia non solo parlano di “cose comuni”, ma «usano anche alcune tecniche e metodi comuni specie di tipo ermeneutico per l’indagine scientifica». Ivi, p. 10. 3

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ne sulla complessità religiosa odierna (e non solo religiosa) – porre attenzione al confronto tra teologia e sociologia perché, più di un secolo fa, Max Weber ha dedicato al rapporto ancor più complesso tra scienza e teologia le ultime pagine del suo saggio La scienza come professione; pur se, in principio, il suo interesse mirava ad individuare una loro differenziazione ed, invece, alla fine giunse ad evidenziare una loro “affinità di fondo”6. In ogni caso, l’interesse di Weber per il nesso tra scienza e mondo religioso rientra in quella linea speculativa propria dei “padri nobili” della sociologia, i quali, ognuno nel proprio modo, hanno ritenuto fondamentale riflettere su tale connessione e, in particolare, sulla relazione «tra pensiero razionale e sentimento, in funzione tanto dell’esigenza del pensiero scientifico quanto dell’esigenza sociale di stabilità e consenso»7. Nel secondo capitolo, partendo dal presupposto che è produttivo per l’analisi sociologica spogliarsi a volte dei metodi più strettamente convenzionali di fare ricerca, di osservare e interpretare la realtà, è sembrato utile soffermarsi su alcune figure immaginativo-simboliche di questo particolare momento culturale. Infatti, spesso le espressioni della fantasia, così come l’opera d’arte, possono far trasparire in nuce, “sciogliendo la loro unità”, zone d’ombra, contraddizioni della realtà empirica o essere il pretesto per manifestare passioni umane meno evidenti ed esperienze della vita quotidiana8. In ogni caso, la finzione fantastica può suggerire alla ricerca sociologica qualcosa 6 Nel contesto del suo saggio La scienza come professione, Weber formula la seguente domanda: «che differenza c’è tra scienza e teologia, sapere scientifico e sapere teologico-religioso?». Se nel passato la risposta a questo quesito sarebbe risultata universalmente ovvia, oggi invece «gli scienziati dei diversi campi sono in gran parte convinti della sostanziale uniformità dei principi del sapere scientifico, si tratti di scienza naturale, di scienza sociale o di scienza filosofica o teologica. È un aspetto caratteristico dell’odierna cultura occidentale, di quel movimento ideologico e culturale che potremmo chiamare (con grossa generalizzazione) cultura postmoderna, la consapevolezza che i limiti tra scienza e retorica, tra sapere rigoroso e interpretazione arbitraria, sono labili e indefiniti» come molti autori tendono a sottolineare da Lyotard a Deleuze, da Rorty a Vattimo, tanto per citarne alcuni. Cfr. Max Weber, La scienza come professione, cit., pp. 38-39. 7 Cfr. Raymond Aron, Le tappe del pensiero sociologico, cit., p. 285. 8 Cfr. Luigi Russo, Personaggi dei Promessi Sposi, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998 (prima ed. 1945), p. 18.

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che va al di là del suo apparato scientifico, può provocare metodologicamente ed indurre ad aprire la strada a nuove ipotesi, mettere in discussione teorie, procedure, mostrare altre modalità dell’agire, del sentire, di porsi verso il reale, sottolineare «casi, vicende, declinazioni dell’identità e della razionalità che nessuna ricerca empirica riuscirebbe né a immaginare né a registrare»9. La narrazione fantastica e letteraria non solo può porre in luce sentieri sconosciuti all’immaginazione sociologica, ma può ridurre anche la pretesa di imbrigliare la complessità del reale in leggi e generalizzazioni10 e, rompendo gli schemi prefissati, recuperare «tutto ciò che è vietato o dissimulato dalle censure specifiche del campo scientifico»11. In definitiva, un atteggiamento speculativo incline ad assumere come strumento d’indagine la visione creativa dei narratori, dei poeti, degli artisti o dei filosofi classici12, tutto sommato consente di avventurarsi più facilmente nei sentieri misteriosi delle esperienze pratico-riflessive dell’essere umano. Al fine di provare ad evidenziare, in modo solo esplorativo, alcune dinamiche della realtà fenomenica, in una prospettiva euristica lontana da logiche rappresentative, sono state dunque analizzate due produzioni del fantastico attuale, tra loro molto diverse: il fumetto di Dylan Dog e la versione romanzesca, non filmica, di Twlight13. Nel terzo capitolo, in considerazione della difficoltà di interpretare “l’ossimoro” panorama culturale odierno si è tentato di trovare una correlazione tra le espressioni attuali dell’immaginario e quelle del religioso e se si è mantenuta – o se si è consumata – nei singoli mondi vitali la relazione simbolica tra valori, etica e religione e 9 Cfr. Gabriella Turnaturi, Immaginazione sociologica e immaginazione letteraria, Editori Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 17. 10 Ivi, p. 18. 11 Cfr. Pierre Bourdieu, Risposte, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 163. 12 Cfr. Max Weber, Economia e società, Vol. I, Edizioni di Comunità, Milano, 1968, p. 141. 13 Si è inteso considerare solo il primo romanzo della saga vampiresca (vi sono altri libri ai quali si sono ispirati altrettanti film: New Moon; Eclipse; Breaking Dawn) perché nel primo volume c’è l’originaria ispirazione dell’autrice mentre negli altri si legge la necessità commerciale di proseguire un filone narrativo, diluito nella sua creatività, per continuare a trarre profitto dal successo di pubblico riscosso dal primo romanzo.

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quanto questa eventuale relazione delinei, esplicitamente o implicitamente, la formulazione della visione del finito, dell’infinito e dello scorrere irreversibile del tempo. In modo particolare, si è cercato di segnalare la continua tensione esistenziale esperita dai soggetti e lo stato altalenante della loro coscienza, in quanto essi sono spesso attratti, senza soluzione di continuità, da poli divergenti della realtà socio-culturale: il gregarismo e il soggettivismo; l’individualismo e la “crisi” dell’identità; il relativismo radicale e la nostalgia della solidità dei codici unici; il materiale e l’immateriale; lo scetticismo e la credenza. Sulla scia di queste considerazioni, dunque, l’approccio riflessivo di queste pagine è stato anche quello di segnalare – se esistono – alcune “somiglianze”14 in aspetti di fenomeni tra loro diversi, in frammenti della realtà o del simbolico che alla fine trovano una sotterranea relazione probabile e parziale, in una prospettiva weberiana di spiegazione condizionale15. Infatti, la tanto citata complessità, propria di questo lungo – quanto contratto – tempo storico-culturale, sembra essere sempre di più l’espressione del legame16 tra differenti istanze, azioni, eventi e elementi17 che possono essere compresi solo “nei termini del rapporto e della rete di rapporti con altri fenomeni”18 del sistema sociale. Pertanto, si è cercato non di indagare le cause, né di tracciare “nessi causali o ricostruire intenzioni”19 o di proporre “parentele e 14

Cfr. Ruth A. Wallace, Alison Wolf, La teoria sociologica contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 13. 15 La scienza, per Weber, può solo «portare a chiarificazione di quale sia il valore di riferimento che si nasconde, il più delle volte inconsapevolmente, dietro a una certa presa di posizione. Questo è il contributo essenziale che la scienza può portare alla vita umana». Cfr. Max Weber, La scienza come professione, cit., p. 25. 16 Cfr. Gianpaolo Fabris, Il nuovo consumatore: verso il postmoderno, FrancoAngeli, Milano, 2003, p. 25. 17 Cfr. Loredana Sciolla, Sociologia dei processi culturali, Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 86-87. 18 Cfr. Georg Simmel, Filosofia del denaro, (a cura di Alessandro Cavalli e Lucio Perucchi), Utet, Torino, 1984, p. 12. 19 Cfr. Alessandro Ferrara, Massimo Rosati, Affreschi della modernità, Carocci, Roma, 2005, p. 194.

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anologie di strutture”20, ma piuttosto di segnalare, in modo ancora interlocutorio, alcune condizioni probabili “del darsi di un fenomeno” secondo un dato punto di vista21; fermo restando che, a differenza delle evidenze della scienza classica, oggi è consuetudine porre l’accento “sul carattere altamente problematico delle risultanze scientifiche”22. In questo senso, al fine di comprendere dinamiche oggettive e soggettive, delle singole coscienze e dell’intero tessuto socio-culturale, conviene, più che nel passato, assumere come dati sociologici significativi, più che i sistemi sociali e i modelli sociali comuni, “la pluralità delle esperienze e delle manifestazioni della vita”23 nel suo perenne intrecciarsi di dolore e piacere24 così come, per esempio, traspaiono nel mondo immaginario e religioso. Nell’attuale momento storico, dato il prorompere della complessità sociale e un certo fallimento delle potenzialità ordinatrici della razionalità, lo sguardo scientifico deve essere adeguato al livello di svelamento di senso a cui vuole giungere e, quindi, si avverte l’esigenza di accedere al “materiale umano”, alle sensibilità e alle “sfumature individuali”25 e di adottare – lontani da un approccio “ideologico” della conoscenza26 – quel tipo di “metodologia non esplicita” per la quale “la società è sinonimo di vita”27 e perciò impossibile da fissare nella sua totalità o in una logica quantitativa, ma semmai osservarla solo “nella fuggevole perfezione di alcuni microsistemi”28. Una prospettiva di indagine della realtà fenomenica non mera-

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Cfr. Raymond Boudon, Metodologia della ricerca sociologica, cit., pp. 88-89. Cfr. Max Weber, La scienza come professione, cit., pp. 23, 26. 22 Cfr. Franco Ferrarotti, Manuale di sociologia, cit., pp. 8-9. 23 Cfr. Alessandro Dal Lago, Il conflitto della modernità, Il Mulino, Bologna, 1994, p. 47. 24 Cfr. Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, Feltrinelli, Milano, 2011, p. 69. 25 Cfr. Tamara Haraven, Family Time and Industrial Time, Cambridge University Press, Cambridge, 1982. 26 Pierpaolo Donati, La matrice teologica della società, cit., p. IX. 27 Cfr. Alessandro Ferrara, Massimo Rosati, Affreschi della modernità, cit, p. 194. 28 Ibidem. 21

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mente descrittiva o di netta separazione tra fatti e valori29 può meglio interpretare le rappresentazioni simboliche e “i significati che la soggettività elabora a partire dalla realtà”30, ma anche dall’immaginazione e, soprattutto, rispetto allo specifico dato religioso – la variabile più discriminante e complessa di tutto il campo della ricerca empirica – può tener conto di alcuni “fattori non naturali”, che influenzano la dimensione sociale (oltre che soggettiva) più dei “fatti naturali”31. In questo senso, gli elementi della fantasia e del religioso – quest’ultimo inteso come “basso continuo” che non può essere segregato nel solo dato statistico, nelle frequenze e nella predittibilità numerica – possono offrire, in virtù della possibilità “estetica di cogliere motivi e rapporti tra motivi”, un nuovo respiro interpretativo al di fuori di “gabbie costrittive”32. Inoltre, essi possono favorire, “nuovi modi di guardare, rappresentare e quindi costruire il mondo”33 ed aprire l’analisi sociologica allo stupore della scoperta34. Per evocare, in forma letteraria, quanto sia ora necessario uno sguardo scientifico ideografico e aperto al contesto della scoperta, più che a quello della giustificazione35, viene voglia di far propria in 29

Proprio la separazione tra fatti e valori, come sottolineano molti autori – tra i quali Gadamer, Bellah, Habermas, MacIntyre, Challenger – è alla base della crisi di rilevanza in cui “versano le scienze sociali, ripiegate su uno sterile professionismo”. Cfr. Massimo Rosati, Solidarietà e sacro, Laterza, Bari-Roma, 2002, pp. 10-11. 30 Cfr. Chito Guala, Metodi della ricerca sociale, Carocci, Roma 2000, p. 26. 31 Donati riprende le riflessioni di Don Sturzo che ha evidenziato come «il soprannaturale si esprime nel mondo non solo in quanto realtà vissuta e agita dalla parte dell’uomo, ma anche come manifestazione in lui e, attraverso lui, nella storia, di una realtà che non è costruita dall’uomo, una realtà (sociologica) che in sé eccede la natura. O per meglio dire, una realtà sociologica che mette in corrispondenza, coesistenza, correlazione significativa, la società soprannaturale (divina) e la società naturale (umana)» (corsivo mio). Cfr. Pierpaolo Donati, La matrice teologica della società, cit., pp. 161-162. 32 Cfr. Roberto Cipriani (a cura di), La metodologia delle storie di vita. Dall’autobiografia alla life history, EuRoma La Goliardica, Roma, 1987, p. 25. 33 Cfr. Alberto Zanutto, Liberare la ricerca, in Roberto Cipriani (a cura di), L’analisi qualitativa, Armando Editore, Roma, 2008, p. 20. 34 Ibidem. 35 Nella ricerca sociale di solito vengono proposti due paradigmi scientifici: il primo è il paradigma positivista, al quale corrisponde una metodologia quantitativa che si muove nel contesto della giustificazione, ossia il controllo delle ipotesi formulate

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chiave metodologica, mutatis mutandis, una considerazione del cinico Lord Henry, tra i protagonisti de Il ritratto di Dorian Gray, che affermava di essere stato sempre affascinato dai metodi delle scienze naturali, ma alla fine «i normali argomenti di studio di queste scienze gli sembravano banali e privi di importanza». Solo la vita umana gli pareva «l’unica cosa che valesse la pena investigare. Paragonato ad essa il resto non aveva valore. […] Osservare la bizzarria, dura logica delle passioni, la screziata vita emotiva dell’intelletto – seguire dove si incontravano e si allontanavano, cogliere il momento dell’unisono e quello della dissonanza – questo era il vero piacere. Non importava a quale prezzo»36 (per esempio, il prezzo da pagare può essere la non rappresentatività statistica di un fenomeno e una certa asistematicità della speculazione). Probabilmente, prestando attenzione «alla quantità di contrari, situati nella penombra del pensiero dell’uomo moderno che, a turno, si presentano sulla scena»37, così come alla coabitazione di concetti dati tradizionalmente per contrapposti – per esempio, religione e modernità, secolarizzazione e reincantamento, ragione ed emozione – e alla dialettica delle differenze si potrebbe trovare, in parte, il filo rosso della realtà fenomenica contemporanea e si potrebbe anche ipotizzare che la coincidentia oppositorum costituisca la forma dell’intrinseca coerenza delle oscillazioni pratico-spirituali degli attori sociali. In qualche modo, anche il contrasto teorico più evidente tra Comte e Pareto si è basato sulla tesi che l’umanità non procede in modo lineare da uno stadio all’altro; ossia, dal feticismo al positivismo, passando per la teoria e la metafisica. Infatti, al contrario di Comte, Pareto riteneva che l’atteggiamento logico-sperimentale è solo un all’inizio dello studio; il secondo è il paradigma umanistico, o dell’interpretazione, ancorato alla metodologia qualitativa che informa di sé il percorso della ricerca, orientandolo nella direzione della scoperta, in una traiettoria non prevedibile nella fase di avvio dell’analisi. Cfr. Cecilia Costa, Il contesto della scoperta: limiti e opportunità, in Roberto Cipriani (a cura di), L’approccio qualitativo, Guerini Scientifica, Milano, 2006, p. 47. 36 Cfr. Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, cit., p. 69. 37 Cfr. Paul Valéry, La crisi del pensiero, Il Mulino, Bologna, 1994, p. 61.

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modo, non l’unico, di riflettere degli uomini e che i quattro modi di pensare indicati da Comte «si ritrovano normalmente, in gradi diversi, in tutte le epoche. […] Pertanto non esiste un passaggio da un tipo all’altro di pensiero con un processo unico e irreversibile, ma vi sono oscillazioni secondo i momenti, le società e le classi, nell’influenza relativa di ognuno di questi modi di pensare»38 (corsivo mio). A legittimazione di una teoria della coesistenza di dinamiche contrapposte, con tutte le doverose differenze, potrebbe tornare utile anche un’analisi di Tocqueville sui giorni festivo-religiosi e su quelli del lavoro quotidiano in quanto, pur constatando che l’atteggiamento dei soggetti in queste due diverse dimensioni del tempo rispondeva a “due vere e proprie province finite di significato”, egli trovò importante non la «divaricazione degli atteggiamenti, bensì la loro complementarità»39. Ciò che conta, in questa sede, dunque, non è tanto la sua analisi di uno specifico fenomeno, ma il fatto che la sua riflessione teorica abbia sottolineato la complementarità che si instaura tra elementi diversi all’interno di una stessa dimensione fenomenica e non, piuttosto, un processo di esclusione40 in funzione di una necessaria omogeneità. L’intento delle osservazioni di questo saggio – sulla scia della linea speculativa che si appoggia, in generale, sul criterio di una lettura, solo di sfondo, qualitativo-tematica dei fenomeni e, più specificatamente, su alcune espressioni dell’immaginario e sul dato religioso – è stato quello di tentare di riflettere più che sull’egemonica persistenza della tradizione simbolico-religiosa e valoriale, o sulla 38

Cfr. Raymond Aron, Le tappe del pensiero sociologico, cit., p. 406. Bisogna anche dire che la riflessione di Tocqueville sulla complementarità degli atteggiamenti individuali rispetto alla metabolizzazione dei giorni festivo-religiosi e di quelli lavorativi lo aveva portato ad interpretare questa complementarità come provocata dal fatto che la dimensione religiosa è un “momento di ricapitolazione di se stessi”. Cfr. Salvatore Abbruzzese, La sociologia di Tocqueville, cit., p. 115. 40 «Esattamente come attraverso la dottrina dell’interesse bene inteso Tocqueville riesce a coniugare individualismo e materialismo circostante in spirito civico e partecipazione politica, così come attraverso la religione come forma di autonomia e di indipendenza della persona al di fuori del senso comune, questi riesce a far riprodurre al cittadino democratico quelle componenti di autonomia personale e di libertà interiore che altrimenti verrebbero meno». Ibidem. 39

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sua liquefazione, sulla possibile complementarità di alcuni suoi antichi tratti significativi con quelli nuovi: una complementarità – o meglio un’ambivalente coesistenza – che può essere evocata da certe suggestioni dell’immaginario e da alcune percezioni soggettive del religioso. Non a caso, diverse indagini sociologiche – così come, tutto sommato, sottolineato nella serie di domande della premessa – hanno rilevato che, quasi per un’eterogenesi dei fini, proprio in seno alla nostra epoca di disincanto avviata dal positivismo illuminista, segnata dalla ricerca di definizione, di soluzioni positive, di chiarezza, si è incappati, da un lato nell’incerto, nell’imprevedibile e nell’indeterminato41; dall’altro lato, ancor di più, nell’ambivalenza42: anzi, sembra quasi che, raggiunta l’assenza di ideologie, alla fine la vera novità alimentata dalla modernità sia l’ambivalenza43 con la quale lo spitito moderno è “venuto gradualmente a patti”44. Un’ambivalenza, peraltro, che ha avuto tra i suoi primi interpreti Simmel, pensatore della crisi della modernità, il quale – senza mai cercare fondazioni o sicurezze – ha sempre posto in primo piano «il gioco interminabile che si istituisce tra il particolare e la totalità, tra un qualsiasi aspetto del mondo e il suo contrario, tra l’unità e la scissione»45. Forse – solo forse – un possibile criterio teorico-metodologico, per tentare di comprendere l’attualità socio-individuale, può essere quello di considerare come plausibile la coniugazione di aspetti propri del “vecchio” patrimonio culturale con altri più connotativi della “nuova” costellazione di significati ed interessi post-moderni. E riflettere anche sulla possibilità che in questo momento i sentieri della religiosità e quelli dell’immaginario – i quali rivelano un alto livello 41

Cfr. Zygmunt Bauman, Modernità e ambivalenza, cit., pp. 16-17. Ivi, p. 26. 43 A proposito del fenomeno dell’ambivalenza, Hans Jonas ha sostenuto che questa ambivalenza è l’unica forza capace «di salvare la moderna civiltà tecnologica dalle sue conseguenze, programmate o involontarie». Cfr. Hans Jonas, Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino, 1990, p. 278. 44 Cfr. Zygmunt Bauman, Modernità e ambivalenza, cit., p. 26. 45 Alessandro Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., pp. 19-20. 42

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di emotività al di là di ogni consolidato processo di razionalizzazione – potrebbero essere una buona chiave di lettura sociologica del fermento e dell’ambivalenza dell’attuale fase storico-sociale46 o, comunque, utile al pari di una modalità quantitativa di analisi. Infatti, oggi, sembra più probabile cogliere la colonizzazione “fallita” di aspetti della modernità nei mondi della vita, risalire alla grande storia della società e intravederne le sue paure, il suo “sogno” e – se ancora presente – il suo bisogno di Dio, attraverso l’immaginazione fantastica e l’esperienza religiosa. Quest’ultima, intesa simmelianamente come “vitalità centrale”, come un fluire di sentimenti e come fatto spirituale, ha una particolare potenzialità interpretativa nei riguardi della complessità del mondo moderno e delle sue sovrapposizioni, in quanto «non è né una cosa finita, né una sostanza stabile, ma un processo vitale che ogni anima e ogni momento in sé sono sicuri di produrre a fronte di ogni stabilità dei contenuti trasmessi»47 o, si potrebbe aggiungere, nonostante l’instabilità di essi. Una storia degli uomini che si sta sgomitolando sempre più rapidamente – in una stagione storica che sembra aver ridotto in apparenza tutto il tempo nel solo presente, la ragione in mera razionalità e l’esistente nella materialità – e, forse, la cui specificità è determinata non dalla sottrazione, ma dalla addizione e dalla compresenza, di volta in volta più chiara o più in ombra, delle dinamiche e delle istanze del “passato retaggio” con quelle del “nuovo appannaggio” culturale-simbolico e tecnologico accumulato negli ultimi decenni. Un “nuovo appannaggio” che, sostanzialmente, sembra non aver ereditato dal tradizionale patrimonio culturale il vincolo tra modernizzazione e secolarizzazione, come affermato da Habermas e Ratzinger nel loro famoso dibattito sul rapporto tra fede e ragione48, e il quale appare caratterizzato da variabili post-secolari che sottolineano il collasso delle teorie della secolarizzazione. Un collasso ritenu46

Cfr. Michel Maffesoli, Note sulla postmodernità, cit., p. 26. Cfr. Georg Simmel, La religione, (a cura di Carlo Mongardini), Bulzoni, Roma, 1994, p. 25. 48 Cfr. Jürgen Habermas, Joseph Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, (a cura di Giancarlo Bosetti), Marsilio, Venezia, 2005, p. 21. 47

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to molto più rilevante, per esempio, “rispetto al crollo dell’Unione Sovietica e del blocco orientale” e che, secondo la considerazione “apocalittica” di Beck, «minaccia la stessa struttura dei principi fondamentali e delle istituzioni basilari della modernità europea, nonché in definitiva il suo futuro»49. A questo punto, però, se il concetto di post-secolare, scelto dal filosofo e dal teologo – ripreso da altri studiosi per segnalare sia l’errore «di avere confuso i processi storici di secolarizzazione in senso proprio con le presunte conseguenze di tali processi sulla religione»50 e sia il fatto che l’idea di progresso non si correla necessariamente con il disincanto – è valido per dare avvio ad un nuovo criterio interpretativo della modernità del dopo, perché non contemplare la possibilità di rafforzare tale concetto con l’aggiunta della categoria di post-razionalità, che non vuol certo intendere post-ragione. Un’idea di post-razionalità che sia inclusiva semanticamente della “coabitazione” dialettica dei processi di individualizzazione, autoreferenzialità, scetticismo, razionalizzazione con le derive conformiste, il bisogno di relazioni, di comunità e di nostalgia per le certezze incrollabili, di fascinazione verso il mistero e la spiritualità, di una sorta di esagerazione dell’emotività ed, infine, di un percorso di “conversione” da una mentalità secolarizzata ad una pseudoincantata.

49

Cfr. Ulrich Beck, Il Dio personale, cit., pp. 26-27. Cfr. José Casanova, Oltre la secolarizzazione. Le religioni alla riconquista della sfera pubblica, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 36-37. 50

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Capitolo primo

Il fenomeno religioso e l’incontro tra sociologia e teologia

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È per una sorta di aberrazione dell’intelligenza e fondandosi su di una sorta di violenza morale esercitata sulla loro stessa natura, che gli uomini si allontanano dalle credenze religiose; un crinale non aggirabile ve li conduce. L’incredulità è un incidente; solo la fede è lo stato permanente dell’umanità (A. de Tocqueville, De la Démocratie en Amérique, I vol., Gallimard, Paris, 1961, p. 310). Laonde, perdendosi la religione ne’ i popoli, nulla resta loro per vivere in società; né scudo per difendersi, né mezzo per consigliarsi, né pianta dov’essi reggano, né forma per la qual essi sien affatto nel mondo (G. Vico [a cura di F. Nicolini]), La scienza nuova giusta l’edizione del 1744, Laterza, Bari, 1978, pp. 590-591).

1.1 Il fenomeno religioso nella ricerca sociologica La trasversalità della sfera religiosa – tenendo anche conto, come diceva Simmel, che la ragione può effettuare il parallelo tra fenomeni sociologici e religiosi1 – rende fruttuoso riferirsi ad essa per tentare di sviluppare un’analisi ad ampio raggio del contesto socioindividuale attuale. 1

Cfr. Georg Simmel, La religione, (a cura di Carlo Mongardini), cit., p. 75.

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Il ricorso teorico all’elemento religioso per dar conto di fenomeni del sociale di natura apparentemente non ascrivibile alla dimensione della religione, del resto, è stato una costante speculativa dei primi sociologi tanto da far affermare a Cipriani: «avrà pure qualche significato la coincidenza certo non fortuita, che i maggiori esponenti della sociologia cosiddetta generale siano annoverabili fra gli autori classici della sociologia della religione: è il caso di Comte, come di Durkheim, di Simmel, come di Weber, di Sorokin come di Parsons»2. Il fenomeno religioso, dunque, ha riscosso l’interesse di tutti i classici del pensiero sociologico in quanto, per questi autori, la religione non era circoscritta al solo comportamento religioso-formale individuale, bensì la sua problematica riguardava soprattutto la ricaduta dell’elemento religioso nel sociale: una ricaduta dalla quale dipendeva, in qualche modo, lo stesso destino della cultura moderna. In virtù del fatto «che nei fenomeni religiosi, e nelle loro trasformazioni, si è vista una sorta di lente attraverso la quale studiare le dinamiche della società nel suo insieme»3, la riflessione sociologica ha contratto un debito enorme con la sociologia della religione: non a caso, Habermas ha inteso, al pari del diritto, la sociologia della religione come nucleo originario della sociologia4. Se ci sofferma sull’importanza assegnata a tutto tondo al dato religioso in funzione di uno sguardo al più generale panorama sociale, soprattutto nel passato, come non ricordare che Durkheim ha sottolineato l’interdipendenza “tra religione ed identità collettiva”: a suo avviso, la religione era un «sistema di comunicazione di idee ed insieme di norme regolative delle relazioni sociali» in grado di «rinforzare i legami che connettono l’individuo alla società di cui è membro»5. 2

Cfr. Roberto Cipriani, Nuovo Manuale di Sociologia della Religione, cit., p. 5. Cfr. Massimo Rosati, Solidarietà e sacro, cit., p. 27. 4 Cfr. Jürgen Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna, 1986, p. 57. 5 La religione rinforza i legami sociali perché “i simboli ricreano e perpetuano i sentimenti della collettività”. Inoltre, come ricorda la Sciolla, per Durkheim, «le funzioni svolte dalla religione non sono limitate alle religioni primitive, ma sono comuni a tutte 3

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Dal canto suo Max Weber, come ha puntualizzato Aron, ha evidenziato la relazione tra «un pensiero religioso e un atteggiamento nei confronti di certi problemi d’azione» in quanto, a parte il suo interesse per “l’esistenza vissuta”, si è basato sulla convinzione che gli atteggiamenti dei soggetti «nelle diverse società sono intellegibili soltanto nel quadro della concezione generale che gli uomini si sono fatti dell’esistenza» e – giacché «i dogmi religiosi e la loro interpretazione sono parti integranti di tale visione del mondo» – per comprendere il loro comportamento, in special modo quello economico, è necessario rifarsi alla dimensione religiosa6. Nel riepilogo delle otto concezioni della religione adottate da vari autori, in stagioni differenti del cammino secolare della sociologia, anche Luciano Gallino ha messo l’accento su quella di Weber, perché nell’economia della sua speculazione essa è stata presentata come la massima istituzione storica «regolatrice della condotta umana nella sfera sessuale, familiare, politica, economica, estetica, ovvero uno dei più importanti fattori di strutturazione e de-strutturazione dei comportamenti istituzionali»7. Il problema della religione, anche se non sempre in modo manifesto, è anche il tema conduttore dell’intera sociologia “formale” di Simmel. Infatti, per lui, il fenomeno religioso, tutt’altro che marginale per il suo impianto teorico, «è ad un tempo la più semplice e la più complessa delle forme sociali. Esso è un elemento essenziale della costituzione del legame sociale e insieme della vita di gruppo e al tempo stesso è una forma costituzionale con i suoi aspetti costrittivi e normativi sull’organizzazione della vita collettiva»8. In termini critici, a proposito della centralità attribuita alla relile società e quindi hanno un carattere generale». Cfr. Loredana Sciolla, Sociologia dei processi culturali, cit., p. 168. 6 Cfr. Raymond Aron, Le tappe del pensiero sociologico, cit., pp. 477, 483, 489. 7 Cfr. Luciano Gallino, Dizionario di sociologia, Tea, Torino, 1993, p. 542. 8 Il fenomeno religioso per Simmel è di fondamentale importanza, però egli lo elabora teoricamente non a «partire dalla religione come fatto dato, ma a partire dalla religiosità come pulsione individuale che si manifesta non solo, come forma pura, nella religione, ma in molte manifestazioni del sociale». Cfr. Georg Simmel, La religione, (a cura di Carlo Mongardini), cit., pp. 10-11, 26.

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gione dai fondatori della sociologia, F.H. Tenbruk ha sottolineato che essi focalizzavano l’analisi sul fondamentale significato «del suo posto nella società, del suo ruolo storico nello sviluppo della cultura e della sua posizione nell’azione umana»; mentre, successivamente, «la ricerca sociale si è mostrata incapace di collegarsi ai grandi problemi perché ha presentato solo fotogrammi della realtà e si è concentrata sulle condizioni del comportamento rituale»9. Secondo questa versione, i “nuovi” sociologi invece di uscire da un’ottica specialistica si sono preoccupati «più del condizionamento sociale della religione che del condizionamento religioso della società»10 e, in genere, si è sottovalutata l’originarietà della religione per porre «l’attenzione su alcune sue funzioni socio-individuali, trascurando però il fatto che, per quanto rilevanti, tali funzioni non esauriscono mai il significato del fenomeno religioso in quanto tale»11. In ogni caso, a parte le osservazioni critiche rivolte ai sociologi odierni a causa della loro “incapacità” di accogliere la lezione dei classici, tutt’ora il sistema simbolico specifico della religione per molti studiosi ha la funzione “di ridurre la complessità sociale”12 ed è assimilato al principio strutturale «che tiene insieme i diversi ambiti sistemici delle società complesse»13. La religione e, soprattutto, il sacro, che è il dato universalmente alla base dei fenomeni religiosi, entrano in rapporto con la società, ne costituiscono “la grammatica profonda” ed esprimono culturalmente i suoi ideali e valori14. Insomma, religione e società sono interrelate e «forse non è esagerato affermare che la religione costituisce il cuore genetico di ogni cultura, il luogo al quale, in ultimo, vanno 9 La posizione critica di Tenbruk nei confronti dell’atteggiamento “specialistico” dei nuovi sociologi è stata sottolineata, in modo particolare, da Carlo Mongardini. Cfr. Friedrich H. Tenbruk, Max Weber Religionssoziologie – demals und heute, in «Bullettin N.2 der Seigakuin University. General Research Institute», Saitama, 1991, pp. 28-49, citato in Georg Simmel, La religione, (a cura di Carlo Mongardini), cit., p. 11. 10 Ibidem. 11 Cfr. Sergio Belardinelli e Leonardo Allodi (a cura di), Sociologia della cultura, FrancoAngeli, Milano, 2006, p. 237. 12 Cfr. Loredana Sciolla, Sociologia dei processi culturali, cit., p. 169. 13 Cfr. Massimo Rosati, Solidarietà e sacro, cit., p. 29. 14 Ivi, p. 27.

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ricondotti i valori e i convincimenti più profondi, dai quali traggono forza e ispirazione le azioni umane e le diverse forme culturali»15. Inoltre, la religione, con tutti i suoi risvolti, sia nella sua dimensione istituzionale che in quella variegata di “religiosità alternative”, rimane un “indicatore insostituibile” per conoscere la scena culturale contemporanea16. A questo proposito, Martin Buber, uno dei massimi esponenti dell’ebraismo contemporaneo, nonché allievo di Dilthey e Simmel, ha affermato che una delle migliori possibilità di conoscere “il vero volto di un’epoca” è quello di soffermarsi sui rapporti esistenti tra religione e realtà, tanto che «nella misura in cui viene meno la facoltà di affrontare la realtà, da noi indipendente, ma accessibile alla nostra ricerca, viene meno anche la capacità umana di rappresentare in immagini il divino»17. In questa sorta di breve sintesi su come è stato inquadrato sociologicamente il fenomeno religioso, bisogna anche ricordare che nel corso dei secoli, sotto un profilo speculativamente più generale, si è passati attraverso una fase nella quale la teologia spiegava tutto – contro questa concezione si è schierata, ai suoi esordi, la sociologia – ad una fase recente in cui il concetto sociologico di secolarizzazione ha incarnato una sorta di ultima ideologia e ha svolto, come ha fatto a suo tempo la teologia, la funzione euristica di chiave adeguata di lettura “scientifica” dei vari fenomeni e della realtà nel suo insieme. Negli ultimi anni, a causa di una situazione culturale “instabile” e del ritmo del mutamento sociale che ha travolto le forme dell’organizzazione, della convivenza e i modelli di riferimento di ogni ordine e senso, si profila la necessità di una riflessione critica in merito agli strumenti operativi, agli indicatori, alle modalità di analisi (operazione già messa in campo nell’analisi sociologica, ma spesso disattesa), che avverta l’esigenza di interrogarsi anche sulla tenu15 Cfr. Sergio Belardinelli e Leonardo Allodi (a cura di), Sociologia della cultura, cit., p. 237. 16 Cfr. Giovanni Filoramo, Millenarismo e New Age. Apocalisse e religiosità alternativa, cit., p. 12. 17 Cfr. Martin Buber, L’eclissi di Dio, cit., p. 16.

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ta della capacità esplicativa di alcune classificazioni ormai date per scontate. La realtà nella sua complessità e nel suo perenne movimento dimostra spesso che un concetto, un assunto, una classificazione, usati (spesso abusati) quasi per inerzia riflessiva, alla fine possono di fatto evaporare e bisogna sostituirli magari con categorie esplicative o codificazioni differenti. Infatti, la sociologia – nelle intenzioni di alcuni suoi illustri esponenti, a cominciare da Simmel18 e Weber – dovrebbe, per sua vocazione, non considerarsi una scienza “data una volta per tutte e universalmente vera”19, ma essere sempre aperta ad una logica di costante problematizzazione del suo “oggetto”, a rivedere i propri presupposti e a tener presente il variare di qualche sua categoria interpretativa “in funzione di una mutata realtà”20. In ragione del cambiamento della realtà socio-culturale, è quanto mai efficace muoversi disciplinarmente all’insegna di un “minimalismo epistemologico”, lontano da criteri vetero-positivisti, in quanto si avverte l’urgenza di una «parziale ridefinizione semantica, che si estende anche al piano metodologico»21 di concetti consolidati, a cominciare da quello di secolarizzazione che per lungo tempo ha decodificato sinteticamente l’oblio del religioso e una mentalità individuale disincantata. Ormai, questo paradigma interpretativo risulta essere “impraticabile”, in quanto il tema teoricamente produttivo non è l’obsolescenza della religione – secolarizzazione – o, semplicisticamente, la formula concettuale alternativa di “riflusso del sacro”, bensì la frattura «dell’intima relazione fra modernità e razionalità che fino a Max Weber era rimasta ovvia ed oggi è messa

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Georg Simmel non è stato un sociologo sistematico, ma del «tertium datur, di un pensiero che non si risolve mai in una sintesi dialettica e tantomeno in decisioni». Cfr. Alessandro Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 27. 19 Cfr. Max Weber, La scienza come professione, cit., p. 45. 20 Cfr. Georg Simmel, Il conflitto della cultura moderna, (a cura di Carlo Mongardini), Bulzoni editore, Roma, 1976, p. LXXVII. 21 Cfr. Vincenzo Cesareo, La distanza sociale nelle città italiane. Una ricerca nelle aree urbane italiane, cit., p. 10.

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in discussione»22 e l’insorgere di processi di “risacralizzazione del mondo e dell’uomo”23, dagli esiti e presupposti ancora non chiari. La tesi della secolarizzazione24, come «differenziazione ed emancipazione delle sfere secolari dalle istituzioni e dalle norme religiose, rimane valida», ma nello stesso tempo questo processo non rappresenta più un’immagine esaustiva della realtà etico-religiosa, in quanto si può constatare l’emergere di nuove dinamiche, che stanno causando un ribaltamento delle tendenze secolarizzanti. Per esempio, le religioni di tutto il mondo, dopo un periodo di apparente latenza nella dimensione privata, «stanno facendo il loro ingresso nella sfera pubblica e nell’arena della contestazione politica»25. Si intravede, anche, un aspetto di quel versante della “secolarizzazione fallita” che derubrica la presenza del religioso nell’universo della modernità in una «dimensione espressiva delle identità individuali 22 Cfr. Jürgen Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Bari, 1987, p. 5. 23 Cfr. Giovanni Filoramo, Le vie del sacro, Einaudi, Torino, 1994, p. 102. 24 La secolarizzazione – che spesso viene erroneamente confusa con il movimento della “morte di Dio” – è stato uno dei principali filoni della riflessione degli studiosi contemporanei, ma anche dei teologi: quest’ultimi, in qualche caso come, per esempio, Bultmann, hanno dato avvio alla demitologizzazione dei «messaggeri angelici, le voci dal cielo, la concezione miracolosa e l’incarnazione di una persona divina». Ci sono state più espressioni del movimento di secolarizzazione cristiano, portate avanti su sentieri spesso diversi da vari autori, i quali, chi più chi meno, hanno ritenuto che “l’uomo moderno ha una mente empirica”, salvo poi molti di loro, come Cox nel suo testo La città secolare, sfidare “questo assunto pan-empirista”. Anzi, lo stesso Cox sostiene che la secolarizzazione ha “le sue radici nel messaggio autentico della liberazione ebraico cristiana”. Cfr. Robert L. Richard, Teologia della secolarizzazione, Queriniana, 1979, pp. 42, 53-54, 56; Giovanni Vattimo, dal canto suo, ritiene che l’incarnazione di Dio dissolva il sacro violento, appannaggio delle religioni naturali, dal panorama della civiltà moderna e che quindi il Cristianesimo, il quale appunto fa perno “sull’abbassamento” di Dio, «può essere interpretato come la forma più radicale di secolarizzazione», tanto che la secolarizzazione può essere considerata «un effetto positivo dell’insegnamento di Gesù e non un modo di allontanarsene». Da ciò deriva, pertanto, la tesi che se il disincantamento – cioè l’abolizione del sacro violento metafisico-naturale in virtù dell’incarnazione che segna il rapporto di amicizia di Dio con l’uomo – «è l’essenza del Cristianesimo, secolarizzazione e Cristianesimo sono a loro volta l’essenza della modernità». Cfr. Giovanni Vattimo, Credere di credere. È ancora possibile essere cristiani nonostante la Chiesa?, Garzanti, Milano, 1996, p. 36; cfr. Massimo Rosati, Solidarietà e sacro, cit., p. 145. 25 Cfr. J. Casanova, Oltre la secolarizzazione, cit., p. 12.

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e collettive»: una dimensione questa che fa della vita di ognuno “un progetto di autoredenzione”26. Rispetto alla specifica situazione italiana, il modello cattolico e la religiosità, anche se esposti ad alcune modificazioni sotto l’urto della “modernizzazione”, mantengono una costante presenza nell’intimo dei soggetti, nei diversi fenomeni sociali: è possibile individuare, attraverso le rilevazioni empiriche, le aporie, anche psicologiche, in cui può infiltrarsi la fede. Particolarmente significativi sono i dati emersi in alcune ricerche27 che sottolineano, con le loro percentuali, da un lato una minore intensità di appartenenza, una debole pratica religiosa, una prassi soggettiva disgiunta, in linea generale, dalla dottrina confessionale. In sostanza, gli attori sociali sono propensi a rifarsi a criteri di ampia libertà etico-esistenziale e a svincolarsi da norme o da rigidi legami istituzionali. In egual misura, però – come è evidenziato su base idiografica più che su rappresentatività statistica – dall’altro lato gli stessi soggetti, resi incerti da una eccedenza simbolica che aumenta i mondi possibili e i desideri da soddisfare, sono anche preda di una sorta di nostalgia sentimentale per la sfera spirituale che, a tratti, alimenta una loro aspirazione a una “comune appartenenza religiosa”28. Infatti, ancora oggi, soprattutto a livello delle singole biografie, la fede – sia da rilevazioni qualitative e sia quantitative – risulta essere non un «fatto neutro, impermeabile alle vicende dell’esistenza, dai cambiamenti nel lavoro a quelli in famiglia, nell’impatto con il do-

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Massimo Rosati, Solidarietà e sacro, cit., p. 158. Negli ultimi anni, i sociologi hanno condotto molte ricerche sul fenomeno religioso statisticamente rappresentative dell’intero territorio nazionale; tra le diverse ricerche, oltre alla già citata La religiosità in Italia, ne ricordiamo altre, quali: Luca Diotallevi, Religione, Chiesa e modernizzazione: il caso italiano, Roma, Borla, 1999; Franco Garelli, Gustavo Guizzardi, Enzo Pace (a cura di), Un singolare pluralismo, Il Mulino, Bologna, 2003; Loredana Sciolla, La sfida dei valori, Bologna, Il Mulino, 2004; Riccardo Grassi (a cura di), Giovani, religione e vita quotidiana, Il Mulino, Bologna, 2006. 28 Cfr. Roberto Cipriani e Gianni Losito (a cura di), Dai dati alla teoria. Analisi di un evento collettivo, Anicia, Roma, 2008, p. 75. 27

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lore e la sofferenza alla maturazione di nuove convinzioni e visioni della realtà»29. In definitiva, in questa stagione di tecnologia avanzata, di indifferenza alle coordinate etiche, di esaltazione della libertà individuale, il riferimento al trascendente (così come la vocazione fantasticoirrazionalistica ed emozionale) è – pur con tutta la contradditorietà intrinseca che lo caratterizza – una variabile presente nella mentalità collettivo-soggettiva, con cui l’analisi disciplinare deve fare necessariamente i conti. La coscienza dei singoli oscillante tra antichi ancoraggi religioso-simbolici e nuove prospettive tecnico-razionali offre dunque un quadro non omogeneo della situazione socio-biografica attuale, che inclina i sociologi a considerare che le loro analisi possono – e devono necessariamente – essere libere da giudizi di valore ma, secondo la lezione weberiana, non possono – e non dovrebbero – essere “libere da relazioni ai valori ”30. In ogni caso, il momento socio-culturale attuale, caratterizzato “dall’abitare il paradosso”31 e dall’ambivalenza, sollecita gli studiosi, o se vogliamo li provoca, ancor più che nei secoli o nei decenni passati, a fare un ulteriore sforzo intellettuale adeguato alla situazione da comprendere e a questa “provocazione” la speculazione sociologica sembra reagire cercando sintesi concettuali, ricalcando presupposti ancora efficaci, ma bisognosi di integrazione e, nello specifico della fenomenologia religiosa, tentando di interpretare “nella sua radicalità la questione del sacro”32. In questo senso, come è accaduto ai padri fondatori della sociolo29

Cfr. Franco Garelli, Religione all’italiana. L’anima del paese messa a nudo, Il Mulino, Bologna, 2011, p. 17. 30 Cfr. Pierpaolo Donati, Teoria relazionale della società, FrancoAngeli, Milano, 1991, pp. 196-197. 31 Secondo gli ideatori del “pensiero debole” la formula abitare il paradosso significa: “riconoscere le relative contraddizioni” che la complessità propone e «non pretendere di risolverle in fretta, accettare la sfida di un equilibrio sempre instabile». Cfr. Pier Aldo Rovatti, Inattualità del pensiero debole, Forum, Udine, 2011, p. 9. 32 Cfr. Giuseppe Trentin, Etica luogo di incontro tra sociologia e teologia, in Giuseppe Capraro (a cura di), Sociologia e Teologia, cit., p. 296.

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gia, il cui interesse per il mondo che cambiava ha attirato la loro attenzione, in via privilegiata, sul dato religioso, in egual misura questa variabile della realtà fenomenica può rivelarsi l’elemento – non un elemento – la cui declinazione potrebbe far luce su una gran varietà di altri fenomeni socio-individuali. Ed in linea con questa opportuna focalizzazione sulla dimensione religiosa – complessa in tutte le sue articolazioni – può diventare urgente tentare un dialogo tra sociologia e teologia, spesso aperto e mai fino in fondo concretizzato: l’apertura di un loro confronto, ora più che nel passato, potrebbe rivelarsi determinante per la riflessione di entrambe le discipline.

1.2 I rapporti “storici” fra sociologia e teologia Dagli anni Cinquanta in poi, si è tentato di avviare un dibattito tra teologia e sociologia, ma la ricerca di un loro incontro, o almeno di qualche possibile collaborazione, non si è rivelata particolarmente facile. Queste due discipline, oltre ad esprimere un’oggettiva diversità di vedute, soffrono di un certo reciproco clima di “diffidenza”, se non di “ostilità”, che ha caratterizzato, fin dall’esordio della sociologia nel panorama scientifico, i loro scambi dialettici. Bisogna del resto dire che se da un lato alcuni sociologi si sono rifatti, per la loro speculazione, all’“ateismo metodologico” e non hanno avuto quasi nessun “riguardo” verso la teologia e le sue tematiche, a loro avviso, proprie della fede e non della ragione; dall’altro lato, i teologi hanno adottato spesso un atteggiamento apertamente critico, o almeno di scarso interesse sia per le indagini sociologiche sia nei confronti della stessa “realtà” sociale, in fondo ritenuta contingente. Gli stessi fenomeni sociali sono stati considerati dalla meditazione teologica «del tutto secondari, effimeri, non incidenti rispetto alle verità ultime di cui si occupa la teologia»33. 33 Cfr. Pierpaolo Donati, Il confronto fra sociologia e teologia: per una “fondazione” teoretica del punto di vista sociologico, in Giuseppe Capraro (a cura di), Sociologia e Teologia, cit., p. 97.

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I loro alterni e complessi tentativi di rapporto, imbastiti durante gli ultimi decenni, nonostante le premesse poco incoraggianti, possono essere schematicamente articolati, osservabili da un punto di vista teologico, in quattro modelli34: a) il primo modello di nesso può essere sintetizzato nell’idea di una condizione di “ancillarità” delle varie discipline, a cominciare dalla filosofia, nei confronti della teologia; b) il secondo “idealtipo” di contatto è basato su una convinzione di “superiorità” della teologia nei confronti della sociologia, anche se, in questo caso, non vengono sottovalutati gli “elementi di verità” propri di altre discipline “profane” e, in virtù di questo riconoscimento, questi ultimi sono assunti come un accrescimento della speculazione teologica; c) il terzo schema di connessione parte dal presupposto che “il processo conoscitivo è condizionato da opzioni e da interessi”, pertanto non è utile rimanere su piani teorici astratti, in quanto risulta più efficace – sia per la teologia che per la sociologia – operare una selezione e trovare una convergenza all’interno della complessità del sapere scientifico: una convergenza che rende possibile muoversi verso «processi di ricerca comuni e quindi verso una proposta unitaria di soluzione agli stessi problemi»35; d) la quarta ed ultima modalità di relazione è rappresentata dalla tendenza della teologia – soprattutto la teologia pastorale – ad autopercepirsi quasi nei termini di scienza sociale, anche a rischio di mettere tra parentesi le sue specifiche peculiarità36. Le procedure di confronto più volte tentate, però, non si esauriscono in questi quattro “idealtipi”, ma possono essere immaginate anche in modo diverso, a partire dalle posizioni assunte dalla socio34

«Tra le classificazioni ricorrenti del rapporto sociologia/teologia, la più pertinente risulta la seguente, articolata in quattro modalità idealtipiche: 1) paradigma ancilla […]; 2) il paradigma della profezia profana […]; 3) il paradigma delle opzioni convergenti […]; 4) teologia pratica come scienza sociale […]». Cfr. Giuseppe Capraro, Dossier preparatorio: sociologia e teologia di fronte al futuro, in Giuseppe Capraro (a cura di), Sociologia e Teologia, cit., pp. 59-60. 35 Ivi, p. 59. 36 Ivi, p. 60.

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logia verso la religione e a declinare verso la teologia: per esempio, si può fare riferimento all’atteggiamento “polemico” manifestato da alcuni sociologi classici nei suoi confronti. A questo proposito, basti solo pensare alle posizioni di Comte che, soprattutto nel primo periodo del suo pensiero, ha inteso la religione come “un elemento dello stadio primitivo dell’umanità”37 e ha considerato la sociologia – destinata ad essere, in una sua personale classifica, la prima nella scala gerarchica delle varie scienze – come “l’erede legittima delle antiche religioni positive”38. Nello stesso tempo, su quest’onda teorica ottocentesca, i diversi sociologi interessati alla fenomenologia religiosa hanno di frequente – ma non sempre e non tutti – limitato la loro analisi all’interno di un paradigma funzionalistico, prendendo, perciò, in considerazione solo le funzioni, implicite o esplicite, integrative o disgregative, solidaristiche, che la religione può esercitare nel contesto sociale. A partire, dunque, dalla prospettiva funzionalista, così come ancor prima dall’approccio comtiano, “antireligioso”, positivista e votato ad una visione totalizzante della conoscenza, si è fatta strada una mentalità sociologica – con delle eccezioni, a cominciare da alcuni autori classici – incline ad essere egemone e ad “imporsi”39 sulla teologia, grazie al suo “crisma di scientificità”. Lo stesso Max Horkheimer, uno degli esponenti della Scuola di Francoforte, nonostante avesse espresso un particolare interesse intellettuale verso il sacro (è suo il concetto di “nostalgia del totalmente altro”), così come delle considerazioni positive nei confronti della riflessione teologica e del suo importante apporto per “la costruzione della teoria critica”, si è,

37

Cfr. Paolo Jedlowski, Il mondo in questione, cit., p. 33. Cfr. Franco Ferrarotti, Manuale di sociologia, cit., p. 8. 39 Pierpaolo Donati, per sottolineare l’esplicita tendenza della sociologia a sostituire la teologia, si basa sull’invito, rivolto da Luhmann ai teologi cristiani,“di lasciar perdere la Resurrezione”, in quanto, sempre secondo Luhmann, annullato questo “dogma” si può aprire un dialogo tra sociologia e teologia. Cfr. Pierpaolo Donati, Il confronto fra sociologia e teologia: per una “fondazione” teoretica del punto di vista sociologico, in Giuseppe Capraro (a cura di), Sociologia e Teologia, cit., p. 97. 38

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tuttavia, sempre attenuto all’idea che: “di Dio si deve dire solo ciò che non è” 40. In definitiva, nel corso del tempo, la comunicazione (spesso segnata a priori da giudizi di valore) tra sociologia e teologia – come del resto tra fede e ragione, tra il mondo spirituale e quello materiale – negata nella sostanza, o qualche volta accettata in apparenza, si è comunque basata, anche nella migliore delle ipotesi, su un presupposto di differenziazione; nel senso che le due discipline (in particolar modo gli specifici ambiti della sociologia della religione e della teologia pastorale), pur rispettandosi e riconoscendosi a vicenda una dignità culturale, non hanno ritenuto opportuno di dover trovare elementi di correlazione. Qualche variante a questa condizione di “genetica” inconciliabilità è stata portata avanti, come opzione personale, da parte di singoli sociologi o da alcuni teologi meno scettici verso gli “interessi” delle rispettive scienze; in questo caso, si è giunti ad una sorta di mediazione teorico-metodologica con cui si è stabilito che la sociologia fa «le sue ricerche empiriche e le sue descrizioni dopo le quali viene la teologia con le sue valutazioni»41. Forse, dopo la lunga fase di loro incomunicabilità, è giunto il momento di costruire delle basi per un nuovo rapporto, anche perché si è fatta strada una concezione sociologica che, pur ancorata alla ragione scientifica, si è affrancata da assunti “pregiudizialmente” antimetafisici e, perciò, più aperta a sentieri esplorativi meno “garantisti”, che sono percorsi con una sofisticata metodologia integrata, qualitativa/quantitativa42. Sostanzialmente, è stata superata la prospettiva conoscitiva rivolta alle “evidenze” e all’esclusivo ricorso a procedure sequenziali predefinite, propria di una sua prima fase “romantica” della sociologia. 40 Cfr. Roberto Cipriani, Sociologia e/o teologia, in Giuseppe Capraro (a cura di), Sociologia e Teologia, cit., p. 247. 41 Cfr. Pierpaolo Donati, Il confronto fra sociologia e teologia: per una “fondazione” teoretica del punto di vista sociologico, in Giuseppe Capraro (a cura di), Sociologia e Teologia, cit., p. 98. 42 Cfr. Roberto Cipriani (a cura di), Sentieri della religiosità, Morcelliana, Roma 1993, pp. 13-29.

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Oggi, la disciplina sociologica, in modo particolare quella più attenta al paradigma umanista, è meno interessata a “sterilizzare” i dati in funzione di una neutra interpretazione del reale43. E, soprattutto riguardo il fenomeno religioso, si è portati a ritenere, come già intuito da Weber, che la comprensione “dell’agire motivato religiosamente”, in quanto intriso di sentimento, «è possibile a partire dal vissuto, dalle rappresentazioni, dalle finalità soggettive»44. Ultimamente, la ricerca sul religioso – anche in virtù di una sinergia tra una logica dell’intensità (qualitativa) e quella dell’estensione45 (quantitativa) – si è fatta sempre più raffinata, pur se esiste una ulteriore proposta teorica, più mirata qualitativamente, sottolineata da Donati e avanzata a suo tempo da Don Sturzo: ossia, quella di mettere in campo una sociologia del soprannaturale, che potrebbe rispondere all’esigenza non di fare “della teologia, ma della vera sociologia”, perché con questo approccio si studierebbe “il soprannaturale nei suoi valori sociologici”46. La teologia, dal canto suo, ha sotto certi profili abbandonato un’idea “preconciliare” di sé e una certa propensione, al pari della stessa sociologia, ad essere autoreferenziale. Un ripiegamento disciplinare che le ha impedito, in certi casi, di essere pienamente partecipe della realtà contemporanea e che le ha fatto sottovalutare il “doveroso confronto con altre forme di conoscenza strutturata”47: è un’aspirazione al confronto che certo non presuppone una rinuncia, da parte della teologia, alla propria vocazione di fides quaerens intellectum48, né tanto meno il suo scivolamento verso forme di po-

43

Ibidem. Cfr. Arnaldo Nesti, I labirinti del sacro, Borla, Roma, 1993, p. 22. 45 Cfr. Raymond Boudon, Metodologia della ricerca sociologica, cit., p. 100. 46 Cfr. Luigi Sturzo, La vera vita. Sociologia del soprannaturale, Zanichelli, Bologna, 1960 (nuova edizione Rubettino, 2005), p. 16. 47 Cfr. Giuseppe Lorizio, Le frontiere dell’amore, Lateran University Press, Città del Vaticano 2009, p. 15. 48 La teologia è «l’approfondimento della dimensione intellettuale dell’atto di fede e dei suoi contenuti». Cfr. Giuseppe Lorizio, Rivelazione cristiana. Modernità. Postmodernità, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, p. 47. 44

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sitivismo, bensì potrebbe essere funzionale a una più penetrante decodifica dei nuovi fermenti culturali. In linea di massima, ultimamente, sembrerebbe superato il paradigma tradizionale che aveva sclerotizzato la sociologia in un rigido determinismo e la teologia in una dimensione «dottrinaria normativa a contenuto fideistico, più o meno oscurantista, o liberatorio a seconda dei casi»49.

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1.3 Il punto di incontro tra sociologia e teologia In qualche modo, la crisi odierna dell’uomo “secolarizzato” e la sua “ansia” di sacro50, alimentata da un ridimensionamento della pretesa razionalistica – anche perché la ragione ha perso molta della sua forza speculativa tanto che l’Enciclica Fides et ratio è stata scritta per difendere la ragione più che la fede51 – potrebbero diventare uno dei motivi di riflessione non solo per la sociologia, ma anche per la teologia: ciò potrebbe, in effetti, rappresentare un varco attraverso il quale provare ad aprire un dialogo tra loro su basi diverse dal passato. Il quadro sociale descritto dalle molteplici ipotesi di “eclissi del sacro”, pur nello scontro tra visibile ed invisibile, tra fede e ragione, tra tradizione e innovazione, si è rivelato, soprattutto negli ultimi 49 Cfr. Pierpaolo Donati, Il confronto fra sociologia e teologia: per una “fondazione” teoretica del punto di vista sociologico, in Giuseppe Capraro (a cura di), Sociologia e Teologia, cit., p. 99. 50 Cfr. Giovanni Filoramo, Millenarismo e New Age, cit., pp. 11, 51. 51 Il Card. Angelo Scola, a proposito della volontà di salvare la ragione, riporta due affermazioni prese da due contesti diversi: la prima è di Gilbert Keith Chesterton, il quale fa dire a Padre Brown (protagonista della serie dei suoi libri I racconti di Padre Brown): “attaccare la ragione è cattiva teologia”; la seconda affermazione è del card. Biffi: «La fede in Cristo ci salva prima di tutto dalla perdita della ragione, che è il rischio più insidioso della nostra epoca». Cfr. Angelo Scola, Ospitare il reale. Per una “idea” di Università, Mursia, Pontificia Università Lateranense, 1999, p. 109. Inoltre, come non ricordare a proposito della ragione e fede l’affermazione del Card. Newman, convinto assertore della promozione dell’arte e della scienza nell’interesse della religione, che ebbe a scrivere: “Il sapere e la ragione sono sicuri ministri della fede”. Cfr. John Henry Newman, Scritti sull’Università, Bompiani, Milano, 2008, p. 13.

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anni, sempre meno chiaro e netto: non ha registrato, come da più parti ipotizzato, nessuna caduta libera o estinzione delle categorie religiose e anzi si profila una sorta di “riconquista della sfera pubblica” della religione. La divaricazione tra i fedeli e l’ortodossia della Chiesa non può considerarsi un segnale certo dell’obsolescenza del cattolicesimo; essa va inquadrata nel flusso dei cambiamenti intervenuti nel corso del ’900, uno dei quali, il più visibile, consiste nello svuotamento di significato e di incidenza riservato dai singoli al loro rapporto con le istituzioni. O meglio, il passaggio epocale consiste «nel salto dal sistema all’individuo […] dal passaggio dalla struttura al frammento»52; anche il vincolo tra il credente e la chiesa-struttura ha seguito, in parte, lo stesso destino di parziale allentamento del legame istituzionale e normativo. Uno sguardo al contesto socio-individuale consente di rilevare, però, come il processo di secolarizzazione e di de-istituzionalizzazione non rappresentino un’immagine esaustiva della realtà religiosa. Per esempio, in Italia, «la domanda di spiritualità appare oggi più diffusa che nel passato […] la propensione a credere in Dio è del tutto maggioritaria tra gli italiani dal momento che oltre l’80% si dichiara in qualche modo convinto della sua presenza»53. Si avverte, comunque, una domanda soggettiva e collettiva di solidi referenti di senso a cui ancorarsi: un bisogno che nasce dalla perdita dei codici unici, dalla frammentazione culturale, da una “ragione che si riconosce debole” perché, per inseguire l’idea di progresso, ha abdicato alla questione della verità e si è disfatta del principio di non contraddizione. Il nuovo millennio, a dispetto del disincantamento del mondo, offre un’immagine di sé “traboccante di nostalgie per ogni superstizione”54 e contrappone ad ogni innovazione scientifica la ma52

Cfr. Giuseppe Lorizio, Rivelazione cristiana. Modernità. Post-modernità, cit.,

p. 50. 53 Cfr. Franco Garelli, Religione all’italiana. L’anima del paese messa a nudo, cit., pp. 15, 21, 23. 54 Cfr. Paolo Flores D’Arcais, L’individuo libertario, Einaudi, Torino, 1999, p. 8.

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gia, il miracolo e l’afflato verso il trascendente. Del resto Weber, pur avendo sostenuto che i processi di razionalizzazione prendono avvio quando le religioni monoteiste sostituiscono il “mondo incantato degli antichi […] popolato di dèi e demoni” e l’uomo si convince che “l’accadere delle cose” è dominabile dalla ragione umana, dice nello stesso tempo: “purché trovi la volontà e la forza di farlo”55. In virtù di una necessaria definizione, anche semantica, dei processi in atto, nel già citato dibattito, del 2004, tra Habermas e Ratzinger, entrambi sono ricorsi più volte al termine postsecolare sia per denunciare una loro preoccupazione della riduzione della ragione al livello di razionalità positivistico-comtiana, sia per segnalare lo scioglimento del “vincolo che unisce modernizzazione e disincanto” e, di conseguenza, l’incrinatura della saldatura del progresso con la secolarizzazione56. Ratzinger, sul fronte cattolico, e Habermas, sul versante laico, non hanno assunto la categoria di secolarizzazione come formula esaustiva per l’interpretazione della fase religioso-culturale attuale, bensì entrambi hanno ritenuto più utile lo sviluppo di una critica, non esterna, ma interna, della ragione moderna e delle limitazioni che si è autoimposte nel suo ridursi a rappresentare solo “ciò che è verificabile nell’esperimento”57. Del resto, l’illuministica “esagerazione” positivista, che prefigura un congedo della ragione dalla metafisica «per concentrarsi al meglio sulla ragione pratica o addirittura per ridursi al puro agire tecnico», è stato già criticata anche da altri autori come, per esempio, Simmel, Weber, William James e da alcuni esponenti della Scuola di Francoforte58. 55

Cfr. Max Weber, La scienza come professione, cit., p. 145. Cfr. Jürgen Habermas, Joseph Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, (a cura di Giancarlo Bosetti), cit., p. 21. 57 Cfr. Pietro Coda, Se non ascolta le religioni l’Occidente si taglia la testa, in “Avvenire”, 7-04-2008, p. 31. 58 Gli esponenti della Scuola di Francoforte hanno stigmatizzato il dilagare di una idea di sapere ormai inteso come “una nuova forma perversa di potere”. Cfr. Alberto Bondolfi, Roberto Cipriani, Jürgen Habermas, Benjamin R. Mariante, Ingo Mörth, Roberto Vinco, La teoria critica della religione, (a cura di Roberto Cipriani), cit., p. 40. 56

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A proposito del concetto di secolarizzazione, anche Berger ha una posizione particolarmente critica rispetto ad esso, soprattutto se ridotto semanticamente a dissolvimento dei codici sacro-religiosi in quanto, a suo avviso, non solo non si sono spente le “passioni” e le recrudescenze religiose nei paesi occidentali (come gli Stati Uniti), ma lo stesso codice dell’Antico e del Nuovo Testamento è costitutivo della modernità. Pertanto, secondo Berger, visto che l’Antico e il Nuovo Testamento hanno di fatto aperto alla trascendentalizzazione di Dio, alla concomitante “smitizzazione del mondo”, alla razionalizzazione etica e hanno dato «uno spazio alla storia quale arena per le azioni sia divine che umane» si può affermare, semmai, che la secolarizzazione, lungi dal rappresentare una cesura tra modernità e religione, va intesa come elemento fondamentale sia della modernità e sia del codice religioso59. In ogni caso, la razionalità tecnico-strumentale, per un’eterogenesi dei fini, sembra abbia veicolato nella sensibilità collettiva, più che un consolidato disincanto, un’emotività diffusa, un’aspettativa di straordinario (anche dal vago sapore magico-esoterico) e, sotto certi aspetti, una stanchezza per le “illusioni” profane: la stessa religione, lungi dall’essere stata estromessa dallo scenario pubblico e privato, conserva un ruolo importante nel quietare le paure, le angosce, e nel sostenere le speranze. Tendenzialmente, l’atmosfera di profonda incertezza e di “rischio”, che si sta propagando nel vissuto sociale, non ha vanificato il bisogno del Totalmente altro, ma non ha neanche offuscato l’attrazione esercitata dall’edonismo e dal consumismo sulle singole coscienze. In merito all’emergente cultura consumistica – correlata ad una serie infinita di altre dinamiche psico-sociali, non ultime quelle del “consumo” emotivo-religioso – è interessante notare come, per meglio spiegare il dilagare di questo fenomeno, alcune analisi sociologiche abbiano sentito il bisogno di ricorrere al versante teologico. Infatti, per sottolineare sociologicamente il “potenziale simbolico 59

Cfr. Peter Berger, La sacra volta. Elementi per una teoria sociologica della religione, SugarCo, Milano, 1969, pp. 126-129, 132.

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e metaforico” del consumo e le sue “particolari valenze religiose”, si è rinviato al Vecchio e Nuovo Testamento e, in particolare, ci si è rifatti a parti del Vangelo: l’Ultima Cena, le nozze di Cana, la parabola del Figliol prodigo, ecc. Secondo questa chiave di lettura sociologica, suffragata dal discorso teologico, i beni sostanzialmente sono l’espressione dei rapporti fra gli uomini, ma il loro consumo (così come il loro possesso) non viene assimilato con l’ostentazione e con la «ricchezza rapace ed escludente, anzi esprime un modo corale di usare le cose, di confondersi con loro nella gloria del creatore»60. Infatti, Egeria Di Nallo si sofferma, nella sua analisi sul significato sociale del consumo, soprattutto sulla parabola del Figliol prodigo e sull’esclamazione del padre: «Presto portate qua la veste più bella e mettetegliela addosso, ponetegli un anello al dito e calzari ai piedi; menate il vitello ingrassato e ammazzatelo e si mangi e si banchetti»61. In questo modo, afferma la Di Nallo, il padre desidera rendere manifesta e «socialmente apprezzabile la sua gioia per aver ritrovato il figlio, che aveva ormai dato per perduto»62. Senza lunghi e formali dibattiti sull’opportunità, o meno, di aprire un dialogo tra teologia e sociologia, in questo caso concreto di analisi interdisciplinare c’è stato un utilizzo euristico del “discorso” teologico a fini sociologici, pur nel rispetto dei confini disciplinari: ciò rappresenta un esempio, sia per la sociologia e sia per la teologia, di “meticciato” teorico con cui sondare dei fenomeni muldimensionali e difficilmente spiegabili secondo un’unica ottica. Anche perché, come sostiene Cipriani, nell’ambito della ricerca scientifica «tutti i settori hanno pari dignità, indipendentemente dall’oggetto di studio»

60 Secondo l’interpretazione data da Egeria di Nallo, «la liturgia santifica il consumo (la benedizione del cibo, degli oggetti, delle vesti, della casa) ed esprime il sacro attraverso oggetti e beni di consumo: il pane e il vino nell’Eucarestia, le sacre unzioni, ecc.». Cfr. Egeria Di Nallo (a cura di), Il significato sociale del consumo, Editori Laterza, Roma-Bari, 1999, pp. 6-7. 61 Luca, 14, 22-23. 62 Cfr. Egeria Di Nallo (a cura di), Il significato sociale del consumo, cit., pp. 5-7.

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e, soprattutto, nessun ricercatore intellettualmente rigoroso «ha da temere il dibattito interdisciplinare, anche in materia religiosa»63. Tanto più, perché le ricerche sul fenomeno religioso – che possono, in linea di massima, con le loro analisi “avalutative” individuare e illustrare le chiusure e le aperture alla fede presenti nella mentalità collettivo-individuale – permettono una lettura non esaustiva, ma correttamente documentata della complessa situazione di crisi e vitalità della religione e, quindi, preziosa per la teologia: una situazione fatta di luci e di ombre, di inclinazioni a compromessi comportamentali soggettivi e di convincimenti sospesi tra fede e scetticismo. 1.4 Orizzontalismo sociologico e verticalismo teologico L’intento fondamentale dei sociologi è di sviluppare «un processo conoscitivo critico, ossia metodologicamente controllato»64 sulla società, sulle sue strutture istituzionali, sulle sfere politico-economiche, etico-religiose, estetiche, ecc. La speculazione sociologica, pur avendo attenzione alla memoria del passato, è tutta concentrata sul presente dal cui contesto cerca di trarre anche un’anticipazione di probabili trends futuri, nella consapevolezza della complessità e dell’imprevedibilità degli sviluppi dei fenomeni sociali posti sotto osservazione. La sua ricerca, estranea a logiche fideistiche, si fonda su basi empiriche e si dispiega nella realtà immanente: semmai, le indagini sociologiche possono registrare la relazione uomo-Dio, «solo nella misura in cui si sedimenta empiricamente in fatto storico-geografico vissuto all’interno di una cultura»65. La teologia, invece, è una riflessione su Dio e sulle sue varie manifestazioni, si concentra sulla “ricerca credente dell’intelligenza 63

Cfr. Roberto Cipriani, Sociologia e/o teologia, in Giuseppe Capraro (a cura di), Sociologia e Teologia, cit., p. 249. 64 Cfr. Franco Ferrarotti, Manuale di sociologia, cit., p. 5. 65 Cfr. Salvatore Privitera, Il confronto fra sociologia e teologia: per una “fondazione” teoretica del punto di vista teologico, in Giuseppe Capraro (a cura di), Sociologia e Teologia, cit., pp. 129-130, 132.

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della fede”66 e siccome è nata dall’incontro tra messaggio biblico e il pensiero greco – come sottolinea Benedetto XVI – è un «fenomeno peculiare della cultura cristiana: cioè, l’intelligenza della fede come dimensione intrinseca dell’esprimersi storico della fede stessa»67. Essa presuppone un forte ancoraggio al passato e al presente, così come una tensione escatologica verso il futuro, sulla base del messaggio evangelico. La riflessione teologica, dunque, è orientata ad una relazione verticale: questo implica la collocazione del suo discorso sul divino e sull’uomo entro un orizzonte trascendente e, al contrario della sociologia, una sua legittimazione non in virtù di dati oggettivi, bensì grazie alla componente “super-razionale della fede”68. La teologia, certo, si occupa di Dio, mentre la sociologia interroga la società: la prima, quindi, si muove in una sfera trascendente e la seconda in un terreno immanente, ma pur essendo entrambe collocate in dimensioni differenti però, per motivi diversi, si ritrovano a riflettere sullo stesso “materiale” umano e sulla vicenda storica. Apparentemente, queste due discipline non dovrebbero avere nulla in comune, mentre a ben guardare, con la dovuta cautela, si potrebbero trovare dei loro punti di coniugazione magari, mutatis mutandis, anche ricorrendo alla suggestione della “distinzione dei piani” di Maritain (in termini orientativi), che aveva individuato nell’uomo il “piano” d’incontro tra cultura e spiritualità69. 66

«La verità donata nella rivelazione di Dio sorpassa evidentemente le capacità di conoscenza dell’uomo, ma non si oppone alla ragione umana. Essa piuttosto la penetra, la eleva». Cfr. Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, L’elogio della coscienza. La verità interroga il cuore, Cantagalli, Siena, 2009, p. 91. 67 Cfr. Luca Severino (a cura di), Laicità della ragione, o razionalità della fede, Claudiana, Torino, 2008, p. 50. 68 Cfr. Salvatore Privitera, Il confronto fra sociologia e teologia: per una “fondazione” teoretica del punto di vista teologico, in G. Capraro (a cura di), Sociologia e Teologia, cit., p. 129. 69 Secondo Maritain «la fede guida la cultura, la ispira, ma non s’identifica con essa. Infatti, la fede appartiene al piano spirituale e la cultura a quello temporale: due piani nettamente distinti tra loro. Tuttavia, essi non sono separabili, ma s’incontrano nell’uomo». Cfr. Bartolomeo Sorge, Introduzione alla dottrina sociale della chiesa, Queriniana, Brescia, 2006, p. 55.

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L’argomento teologico sul legame uomo-Dio, individualmente e collettivamente considerato, si declina in un contesto temporale, geografico, storico ed è rilevabile sociologicamente, pertanto, come fenomeno religioso: proprio questa concretizzazione del tema specifico della teologia, analizzabile dalla sociologia nel suo oggettivarsi, potrebbe rappresentare la linea di confine «fra l’orizzontalismo del discorso sociologico e il verticalismo della riflessione teologica»70. Infatti, il Cristianesimo non è una religione che dimentica la storia e la società per “salvare la sua promessa”: le situazioni storiche, i fenomeni sociali non sono estranei o esterni ad esso, bensì ne fanno parte, in quanto sono lo scenario concreto in cui «si articola e si sperimenta ciò che i cristiani professano come loro speranza»71. Dunque, l’istituzione cattolica avverte l’esigenza di comprendere il mondo e di collegare nella mentalità postmoderna l’immanenza con la trascendenza: in un certo senso, questa sua necessità di “mediare” tra fede e storia, tra principi etici e prassi sociale, potrebbe richiedere una collaborazione e un raccordo più sistematico della teologia con la sociologia. In definitiva, il loro incontro, pur complesso, è più compatibile di quanto a prima vista possa apparire, tanto da esser stato sollecitato dalla Costituzione Pastorale Gaudium et spes che recita: «Nella cura pastorale si conoscano sufficientemente e si faccia buon uso non soltanto dei principi della teologia, ma anche delle scoperte delle scienze profane, in primo luogo della psicologia e della sociologia, cosicché anche i fedeli siano condotti ad una più pura e matura vita di fede»72. L’uso delle scoperte delle scienze profane nell’azione pastorale, auspicato dalla Gaudium et spes, nasce dalla volontà della Chiesa di captare le speranze, i valori e le angosce degli uomini. 70 Cfr. Salvatore Privitera, Il confronto fra sociologia e teologia: per una “fondazione” teoretica del punto di vista teologico, in G. Capraro (a cura di), Sociologia e Teologia, cit., p. 133. 71 Cfr. Franz X. Kaufmann, J. Baptist Metz, Capacità di futuro, Queriniana, Brescia, 1988, p. 5. 72 Cfr. I Documenti del Concilio Vaticano II, Costituzione Pastorale “Gaudium et spes”, Edizioni Paoline, Roma, 1966, p. 249.

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Questa promettente apertura del Magistero, che orienta la teologia verso una “contaminazione” con altri ambiti della conoscenza, può favorire un suo scambio con la sociologia e promuovere, in un clima di reciproca considerazione e complementarità, altre relazioni problematiche: tra modernità e religione; tra fede e ragione e, ancor di più, tra Vangelo e cultura. Un rapporto mancato, quest’ultimo, anzi una “frattura”, interpretata da Paolo VI, nella sua Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, come “il dramma della nostra epoca”, perché risulta sempre più difficile tradurre il messaggio evangelico «nei valori, nel costume, nel linguaggio e nei simboli della cultura»73 laica contemporanea e, bisognerebbe aggiungere, vista l’importanza che attualmente riveste nell’esperienza dei soggetti, anche nell’immaginario. La svolta epocale, di tipo socio-antropologico, etico-religioso, politico-economico, in cui siamo coinvolti, segnata da una sorta di “vuoto di futuro” e di ripiegamento sul presente, non può essere ben interpretata, secondo alcuni studiosi, se non ci si rivolge ad uno schema concettuale fluido, “non unificato”74, interdisciplinare, svincolato da ipotesi precostituite75. In qualche modo, ciò è stato anche sottolineato dal papa teologo con l’adozione dell’accezione di postsecolare, che con la scelta di questo termine ha voluto anche indicare l’impegno in atto, nella vita sociale e nella cultura, di «comprendere la lingua laica come quella religiosa da una parte e dall’altra»76. Anche in ragione di questa autorevole sollecitazione al confronto tra habitus mentali divergenti è importante creare un circolo virtuoso tra l’indagine sociologica e la riflessione teologica. Probabilmente, in un’atmosfera di cauta e reciproca considerazione, sarebbe più facile classificare le contrastanti esigenze secolari e religiose, che salgono dalle fibre profonde del tessuto sociale: ci sono richieste, da un lato, 73

Cfr. Bartolomeo Sorge, Introduzione alla dottrina sociale della chiesa, cit., p.

19. 74

Cfr. Raymond Boudon, Metodologia della ricerca sociologica, cit., p. 104. Cfr. Roberto Cipriani (a cura di), L’approccio qualitativo, Guerini e Associati, Milano, 2006, p. 52. 76 Cfr. Jürgen Habermas, Joseph Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, (a cura di Giancarlo Bosetti), cit., p. 21. 75

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di modernizzazione e laicizzazione della sfera pubblica correlate ad un’insofferenza individuale a qualsiasi istituzionalizzazione rigida; dall’altro lato, invece, gli stessi processi di modernizzazione (tanto sospirati) stanno alimentando, data la difficoltà di trovare un potenziale simbolico condiviso, aspirazioni a un “reincantamento” del mondo, al meraviglioso e al sacro. In qualche modo, per evocare l’atmosfera culturale ed esistenziale attuale si può ricorrere ad un ausilio letterario, in quanto oggi si manifesta nella coscienza degli uomini quello stato esistenziale, preannunciato nel personaggio di Hans Sepp, che fa alternare «la negazione assoluta dell’anima e il suo vagheggiamento nebuloso»77.

1.5 Un nuovo dialogo tra sociologia e teologia La mentalità socio-culturale contemporanea, se vogliamo postrazionale, nonostante le sue derive nichilistiche, esprime bisogni di sacro, di religioso, di spirituale e, a volte, di magico-miracolistico: questa articolata costellazione di aspirazioni “extra-ordinarie” impone ai sociologi un maggior impegno analitico78 e fa sentire, ancor più intensamente, l’esigenza di un incontro tra “scienza e profezia”. L’approccio sociologico, di per sé, non costituisce l’unica forma di conoscenza delle dinamiche religiose, ma aggiunto all’apporto della ricerca storica, filosofica, psicologica, teologica, garantisce ulteriori spunti di riflessione. In egual misura, i teologi possono focalizzare, grazie ai dati empirici ottenuti con l’indagine sociologica, gli elementi di maggiore fragilità dei credenti (vedi la confessione, la sfera sessuale, ecc.) o i canali privilegiati del messaggio della fede (preghiera, pellegrinaggio, testimonianza, ecc.) verso i quali, eventualmente, essi potrebbero dirigere parte della loro attenzione. 77

Cfr. Robert Musil, “L’uomo senza qualità”. Pagine inedite, cit., p. 91. Molti autori nel corso del tempo hanno tentato di descrivere la sfuggente realtà del sacro, ma alla fine, per diversi motivi e dopo tanti sforzi interpretativi, alcuni sono giunti ad assegnargli “un ruolo marginale nella costruzione dei saperi”. Cfr. Stefano Tomelleri, Martino Doni, Sociologie del sacro, Morcelliana, Brescia, 2009, p. 13. 78

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Da qualche tempo, poi, si è iniziato a parlare, più che di indicatori di religiosità e di appartenenza, di esperienza religiosa, anche perché è passata la stagione prettamente funzionalista in cui la sociologia della religione aveva come prospettive di analisi lo studio della religione, soprattutto, come istituzione sociale, o come gestione e controllo del sacro. La religione non viene più osservata solo come mero “fatto sociale”, all’insegna di un paradigma positivista o post-positivista, secondo una certa tradizione sociologica, e quindi spiegata facendo riferimento ai dati esterni ad essa, cioè in termini strutturali. Sostanzialmente, pur mantenendo fermo l’apparato concettualemetodologico delle scienze sociali, ormai si sono avviati dei percorsi epistemologici aperti, al fine di avere un migliore accesso interpretativo alle aporie, ai fermenti emotivo-cognitivi, razionali-strumentali e simbolici delle singole personalità. Si preferisce enfatizzare, in sintonia con un’ottica qualitativo-umanistica79, la “relazione con il trascendente”, l’esperienza religiosa così come viene esistenzialmente percepita e spiritualmente interiorizzata dalla persona. Del resto, alcuni autori classici, Georg Simmel e William James per tutti, avevano già a suo tempo dato ampio risalto all’aspetto individuale ed esperienziale della religione. James, convinto “nemico” dello scientismo, aveva di fatto negato la subalternità delle elaborazioni spirituali dei singoli alle generalizzazioni oggettive80 e, in linea con questo suo presupposto, aveva privilegiato il dato religioso personale rispetto a quello istituziona79

La concezione positivista è intesa più come una versione paradigmatica ottocentesca, mentre il post-positivismo o neopositivismo prende avvio nel Novecento, con il positivismo logico e, pur rivisitato, mantiene il suo fondamento empirista. La prospettiva umanistica, invece, risale alla prima “formulazione critica nei confronti dello scientismo comtiano”, a opera di Dilthey. Questa prospettiva che intende la conoscenza della realtà umana penetrabile solo attraverso la comprensione, e non sulla base di leggi generali, “entra a pieno titolo nel campo della sociologia” con Max Weber. Essa verrà, in seguito, sviluppata dalla sociologia americana per giungere all’attuale “programma soggettivista”. Cfr. P. Corbetta, La ricerca sociale: metodologie e tecniche. III – Le tecniche qualitative, Il Mulino, Bologna, 2003, pp. 19, 29, 32-33. 80 Cfr. Cecilia Costa, L’Io e Dio. L’esperienza religiosa in William James, Armando Editore, Roma, 2002, p. 20.

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le81. Simmel, da parte sua, aveva distinto la religiosità dalla religione, «sostenendo che la prima in quanto forma interiore dell’esperienza umana precedesse la seconda» e aveva posto in massimo risalto l’esperienza religiosa soggettiva, perché “gravida di rilevanza emozionale”82. Nel passato anche recente, il terreno di confronto tra teologia e sociologia, quando c’è stato, e se c’è stato (a parte i vari modelli idealtipici citati, in cui poteva di volta in volta articolarsi), tendenzialmente si è basato sulla pratica religiosa, in quanto espressione concreta dell’appartenenza all’istituzione-chiesa: attualmente, l’interesse di alcuni sociologi sembra essersi, sostanzialmente, spostato dalla dimensione istituzionale ed esteriore del vissuto religioso alla dimensione interiore della fede e della coscienza soggettiva. Il sentimento religioso sperimentato dai soggetti – simmelianamente la religiosità – offre molteplici aperture semantiche, in quanto incarna elementi diversi posti «al crocevia di dimensioni interiori e sociali, personali e collettive, spirituali e morali»83. Non solo la visuale sociologica rileva un cambiamento di rotta sia sotto il profilo dell’analisi da adottare e sia sotto quello della sensibilità fideistica pubblica e privata, ma anche dal fronte teologico e magisteriale si registra un’inversione di tendenza: lo stesso Benedetto XVI ha sottolineato l’importanza che l’approccio sentimentale intimistico al religioso riscuote nell’immaginario contemporaneo, il quale ignora tendenzialmente l’istituzione e i suoi dogmi e si rivolge alla “esperienza vissuta, l’esperienza del totalmente altro”. Il pontefice, nell’evidenziare questa modalità di approccio alla religione, ci tiene a mantenere una sua personale distanza dal coro delle lamentele contro questa sentimentalizzazione della fede, perché, a suo avviso, pur se in maniera non precisamente ortodossa, 81

James sosteneva che il rapporto tra Dio e l’uomo “è diretto da cuore a cuore, da anima ad anima”. Cfr. Roberto Cipriani, Nuovo manuale di sociologia della religione, cit., pp. 130-131. 82 Ivi, p. 110. 83 Cfr. Alessandro Castagnero, Religione in standby, Marcianum Press, Venezia, 2008, p. 7.

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come si è potuto osservare «nelle grandi giornate mondiali della gioventù […] la fede diventa esperienza e regala la gioia di sentirsi comunità. Qualcosa di estatico, nel senso buono del termine, viene condiviso»84. Le considerazioni del papa teologo trovano riscontro nell’analisi sociologica: infatti, da essa si evince che il mondo religioso, vissuto nel passato nel suo aspetto formale esteriore, viene elaborato, spesso, dai giovani e meno giovani, come esperienza privata di fusione immediata con Dio-padre85, nel segreto e nel quasi sempre esplicito intento di costruire un ponte sentimentale con Lui, a scavalco della rigidità dottrinale, “per sentirlo più vicino”86. Pertanto, gli attori sociali – forse perché scarsamente interessati a concezioni intellettualistiche e, in buona parte, stanchi di una “neutra razionalità” – sono tendenzialmente inclini ad una sensibilità fideistica propensa a vivere il divino nel segno dell’affettività. Anche perché, sotto una certa ottica, l’odierna dimensione della religione è, tendenzialmente, connotata da una sorta di “bulimia” di sensazioni e percepita da molti soggetti, al pari delle altre sfere profane della realtà, come un “campo di sensazioni intense”87, dove l’emotività, più che la nuda razionalità o regole codificate, gioca un ruolo di primo piano nel determinare atteggiamenti e nel ridefinire i contenuti della coscienza. Alla possibilità di un incontro tra teologia e sociologia, tentato a volte sui dati oggettivi della pratica e dell’appartenenza, si sono aggiunti ulteriori motivi di possibile convergenza tra le loro diverse posizioni teoriche, che riguardano appunto l’accento posto dai soggetti sull’istanza intima ed emotiva del coinvolgimento nella fede e sia sull’attuale situazione religiosa, in parte causata dalla problematizzazione e dal pluralismo delle credenze. 84 Cfr. Joseph Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, Queriniana, Brescia, 2007 (nuova edizione), p. 14. 85 Cfr. Franco Garelli, Marcello Offi, Fedi di fine secolo, FrancoAngeli, Milano, 1996, p. 111. 86 Cfr. Michel Vovelle, Ideologia e mentalità, Guida editori, Napoli, 1982, p. 126. 87 Cfr. Zygmunt Bauman, Lavoro, consumismo e nuove povertà, Città Aperta, Troina, 2004, p. 54.

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Infatti, ognuno per i propri intenti conoscitivi, sociologi e teologi segnalano, da una parte, l’esplosione dell’emotività religiosa e, dall’altra parte, una qual somiglianza tra l’epoca contemporanea e i tempi remoti della predicazione di Paolo ad Atene, con le sue forme di “paganesimo”, di slancio emotivo verso il sacro, di pluralismo religioso, di “scelta” e non di “consuetudine” della fede alla quale conformarsi. In merito a questo fenomeno di una sorta di ritorno al periodo vissuto dai primi cristiani, alcuni sociologi affermano che allora, come ora, si registrava la presenza di uno scenario religioso pluralista e, in quel contesto simile alla stagione odierna, “la fede cristiana era possibile solo come scelta deliberata”88. Non a caso, questo inizio di terzo millennio viene interpretato da qualcuno come una “età della fede”, perché alla base della decisione religiosa non c’è la mera tradizione, bensì una adesione volontaria e consapevole89: sulla base di molte indagini, si sostiene che, sebbene gli stili di vita dei singoli attori sociali siano disancorati dai principi dogmatici, ciò non significa che le categorie del religioso non si riaffaccino prepotentemente nelle loro esperienze esistenziali, come opzione possibile, ma non vincolante. I teologi, dal canto loro, molto critici sui termini “opzione” e “non vincolante”, al pari dei sociologi, segnalano il risveglio della religione, pur con una certa perplessità sulla natura delle sue dinamiche. Lo stesso Ratzinger ha affermato: «Nell’opprimente solitudine di un mondo rimasto senza Dio, nella sua monotonia, la ricerca del mistico, di una relazione con il divino torna a sbocciare»90. Anche se, rileva sempre il pontefice, gli interessi della gente verso la molteplicità di figure religiose si polarizzano, alla fine, sulla dimensione “interiore di tutte le diverse forme” e celano un intenso desiderio di “incontro con l’indicibile, con il mistero nascosto”91. 88

Cfr. Peter L. Berger, Questioni di fede, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 9. Cfr. Alan Aldridge, La religione nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 143. 90 Cfr. Joseph Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, cit., p. 14. 91 Ivi, p. 15. 89

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In sostanza, sotto il profilo teologico, come in quello sociologico, si avverte l’esigenza di un’apertura interdisciplinare; non a caso, Benedetto XVI, pur consapevole dei rischi che corre il teologo nell’assumere «dalla cultura del suo ambiente elementi che gli permettono di mettere meglio in luce l’uno o l’altro aspetto dei misteri della fede»92, ritiene opportuna una tale operazione. Infatti, egli sostiene che la teologia “esige”, al fine di portare avanti il suo compito di comprensione del senso della Rivelazione, di utilizzare le acquisizioni della filosofia, delle scienze storiche e delle scienze umane93. Del resto, la Chiesa è impiantata nella società e agisce sempre nel contesto della sua storia e della sua cultura e, di conseguenza, ha bisogno di conoscere la situazione etico-culturale nella quale opera, per comprendere i “segni dei tempi” e per poter con maggiore efficacia annunciare il messaggio evangelico. In conclusione, in base a quanto detto, si potrebbe, in linea di massima, affermare non solo che possono esserci ampi spazi per un dialogo fra la sociologia e la teologia, ma anche che questo dialogo dovrà immancabilmente esserci, perché ognuna delle due discipline, grazie a questo confronto, possa arricchirsi del contributo che solo l’altra può offrire con la sua specifica caratteristica epistemologica. Inoltre, non bisogna trascurare il fatto che, in ragione del pluralismo, il soggetto è “costretto a scegliere” tra opposte alternative e, perciò, deve sviluppare necessariamente un più alto grado di riflessione: «in un certo senso, allora, ogni persona riflessiva, se si interessa di religione, deve diventare una sorta di teologo»94. Tale situazione, sostiene Berger, ha una particolare conseguenza: «più di prima la teologia non dovrebbe essere lasciata ai teologi […] Per lo meno, ci dovrebbe essere un dialogo tra i teologi di professione e coloro che mancano di tali credenziali»95. Alla teologia può risultare utile assumere, quando le serve, gli elementi della religiosità sociologicamente rilevati, soprattutto nel 92

Ivi, p. 97. Ibidem. 94 Peter L. Berger, Questioni di fede, cit., p. 16. 95 Ibidem. 93

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momento in cui deve predisporre nuovi codici di comunicazione dei contenuti dogmatici e fideistici per tradurre nella società il suo discorso; quando deve mantenere saldo il legame tra “centro e periferia” e sostenere il suo mandato profetico. Per esempio, la teologia potrebbe trarre alcune riflessioni dalla persistenza acclarata della pratica del pellegrinaggio, che non subisce flessioni numeriche delle quote di partecipazione rispetto al passato, ma mantiene delle alte percentuali di adesione96 in ogni ceto, classe sociale e livello di istruzione: esso è una forma di pietà popolare, che rompe gli schemi del vissuto ordinario e “interessa in maniera trasversale tutti i gruppi sociali” 97, in ragione di uno stesso bisogno del “sovramondano e dell’invisibile”98 e, anche, di un desiderio fisico dell’altrove. Può anche tornare utile alla teologia riflettere sulla priorità data, soprattutto dalle nuove generazioni, all’identificazione emozionale con il Cristianesimo, che si dimostra, dai dati sociologici, come la modalità emergente di adesione alla fede99. O, ancora, i teologi, sempre sulla scorta degli elementi oggettivi offerti dai sociologi, possono trovare preziosa la registrazione di una certa revoca, decretata ultimamente dalla mentalità collettiva, della presa di distanza emotivo-cognitiva nei confronti della soffe-

96 In Italia, secondo le rilevazioni, con una buona approssimazione, sono circa 8.500.000 le persone che annualmente partecipano ad un pellegrinaggio. Cfr. Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Giancarlo Rovati, La religiosità in Italia, cit., p. 87. 97 Cfr. Carmelina Chiara Canta, Sfondare la notte, FrancoAngeli, Milano, 2004, pp. 22-23. 98 Cfr. Franco Ferrarotti, Una fede senza dogmi, Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 175. 99 Le modalità di identificazione al Cristianesimo sono di vario tipo: patrimoniale (possesso di un’eredità culturale); umanistico (sensibile all’ingiustizia); estetico (fascino dei luoghi spirituali); emozionale. L’identificazione di tipo emozionale è la più perseguita dalle generazioni emergenti; essa conduce ad «un Cristianesimo affettivo che si costituisce, si attiva o si riattiva, per intensificazione emozionale del sentimento di appartenenza comunitaria. La ripetizione possibile di quelle esperienze, riprodotte talvolta nelle Gmg o in altri tipi di raduni, può contribuire ad una stabilizzazione di questi percorsi». Cfr. Danièle Hervieu-Leger, Il pellegrino e il convertito, Il Mulino, Bologna, 2003 pp. 67-70.

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renza, della morte, della malattia: le recenti indagini100 esprimono una realtà meno conforme alla profetizzata “tabuizzazione” di tali problematiche. Al contrario, molti soggetti tornano a elaborare gli appuntamenti dolorosi all’interno di una loro adesione al progetto spirituale cattolico, anche sulla scia dell’esempio personale di sofferenza di Giovanni Paolo II 101: mai come in questa stagione antropologica, il messaggio religioso è rafforzato nelle coscienze dall’esempio rappresentato «dalle figure che testimoniano con la vita gli ideali che proclamano»102. Nei fatti, la sua testimonianza del valore redentivo del dolore in una prospettiva di speranza ultraterrena, si è rivelata una delle maggiori chances di comunicazione della fede103 e ha creato uno strano contrasto con la logica del benessere e dell’edonismo, propri dell’attualità. La ricerca sociologica può parzialmente individuare, dunque, con la sua rilevazione empirica sia di tipo idiografico, ma anche quantitativo, alcune istanze religiose, latenti e manifeste, maturate nei fedeli e in seno alla comunità cristiana: questo “patrimonio di informazioni” colto nel terreno sociale e nelle singole biografie può, volendo, essere utilizzato per alcune riflessioni teologiche. Anche se, questo accesso all’esperienza di fede collettiva e soggettiva, garantito dall’indagine empirica, secondo Ratzinger, non dovrebbe far presupporre di poter sconfinare nel sensus fidei, perché una tale “presunzione” sociologica potrebbe indurre erroneamente i teologi a ritenere che l’opinione di un gran numero di cristiani possa rappresentare «un’espressione diretta ed adeguata del senso soprannaturale della fede». Il sensus fidei, invece, appartiene alla fede teologale, avverte il pontefice, in quanto essa “non può ingannarsi”, mentre il

100

Cfr. Roberto Cipriani (a cura di), Giubilanti del 2000, FrancoAngeli, Milano,

2003. 101 Cfr. Roberto Cipriani e Gianni Losito (a cura di), Dai dati alla teoria sociale, cit., p. 73. 102 Cfr. Franco Garelli, Italia cattolica nell’epoca del pluralismo, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 90. 103 Cfr. Roberto Cipriani (a cura di), Giubilanti del 2000, cit., pp. 141-142.

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fedele può concepire «delle opinioni erronee, perché i suoi pensieri non procedono dalla fede»104. In realtà, l’indagine sociologica non vuole, né può, interpretare una tendenza religiosa come esaustiva dell’afflato dei soggetti verso l’assoluto o, addirittura, come rivelativa del sensus fidei teologale. Alla sociologia spetta il compito di rilevare la mappa della struttura ecclesiale, le dinamiche religiose socio-individuali, il senso di appartenenza all’istituzione-chiesa e più in profondità l’esperienza di fede. Una cooperazione tra sociologia e teologia non presuppone nessuna rinuncia, da parte di entrambe, alle loro specificità disciplinari: la teologia non può, né potrebbe, tradire il suo discorso su Dio, né tanto meno la sociologia potrebbe venir meno al suo compito di descrizione oggettiva della realtà per avventurarsi in improbabili confronti con la “verità assoluta”. Il loro incontro, invece, dovrebbe essere costruito su un’alleanza funzionale a favorire uno scambio e un reciproco arricchimento speculativo. In questo senso, forse non nuocerebbe al metodo scientifico un atteggiamento dei sociologi meno votato all’ortodossia razionalistica e meno “scettico” di fronte al “mistero”: in parallelo, non dovrebbe arrecare alcun danno alla sostanza della fede, e al discorso su Dio, una certa disponibilità dei teologi a soffermarsi sulle “piccole storie” degli uomini e a guardare al mondo non come ad “una categoria residuale”105.

104 Cfr. Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, L’elogio della coscienza. La verità interroga il cuore, cit., pp. 114-115. 105 Cfr. Pierpalo Donati, Il confronto fra sociologia e teologia: per una “fondazione” teoretica del punto di vista sociologico, in Giuseppe Capraro (a cura di), Sociologia e Teologia, cit., p.120.

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Capitolo secondo

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L’immaginario come approccio sociologico

La vita umana – così piccola e limitata come è, e come, considerata semplicemente al presente, è probabilmente destinata a rimanere anche quando l’avanzare del progresso materiale e morale l’avrà liberata dalla maggior parte delle attuali calamità – ha un grandissimo bisogno di un campo più vasto e di una maggiore elevatezza di aspirazioni per se stessa e i suoi destini, che l’esercizio dell’immaginazione può produrre senza essere in contrasto con le prove dei fatti (John Stuart Mill, Saggi sulla religione, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 155).

Ogni stagione storica, come hanno sottolineato, tra gli altri, Simmel o in letteratura Musil, ha una condizione “spiritualmente tipica”1. Tendenzialmente, ogni cultura ha formulato dei suoi modelli riflessivi, delle differenti metabolizzazioni delle esperienze biografiche, delle diverse strutture sociali; ha ridisegnato le dimensioni del tempo e dello spazio2; ha generato dei mondi dell’immaginario, in conseguenza o a causa della complessità delle “dominanti spirituali” del tempo, in stretta correlazione all’evoluzione dei valori, dei simboli, delle credenze, al seguito dell’importanza e alla priorità 1

Cfr. Robert Musil, “L’uomo senza qualità”. Pagine inedite, cit., p. XXX. Cfr. Donatella Pacelli, Maria Cristina Marchetti, Tempo, spazio e società, FrancoAngeli, Milano, 2007, p. 9; cfr. Chiara Giaccardi, Mauro Magatti, L’Io globale, Editori Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 38-39. 2

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attribuita alla fede o alla ragione, alla collettività o all’ideologia del sé3, all’etica o all’edonismo. In linea con la preoccupazione di Manzoni, però, bisogna guardarsi dal rendere l’analisi socio-antropologica eccessivamente semplificata ed attribuire, senza differenze, lo stesso “spirito dominante” del tempo ad un’intera nazione, società o ad «alcune classi di varie nazioni concordi tra loro, e discordi ognuna dagli altri suoi nazionali»4. In ogni caso, senza l’ambizione di giungere ad una sintesi esplicativa della realtà post-secolare – o post-razionale – “geneticamente” complessa, si può in via di ipotesi provare ad individuare alcune dinamiche significative della “concezione generale del mondo” attraverso la proiezione simbolica che emerge da alcuni immaginari sociali ed individuali. Ogni epoca ha gerarchizzato in modo diverso il quadro dei valori e ha rivisitato le proprie interpretazioni sulla vita e sulla morte; sul bene e sul male; sul dolore e sulla felicità; sul sacro e sul profano; sulla libertà e sull’eterodirezione; sull’importanza dello spazio sociale e su quello personale5. Inoltre, ogni periodo determinato ha “condizionato sia l’espressione che la produzione di emozioni”6 e ha modificato, di volta in volta, il mondo dell’immaginario che riflette «un insieme piuttosto vago di elementi: ricordi, sogni, fantasmi, miti, romanzi, finzioni» 7. Fin dal passato remoto, i miti, le leggende, le storie popolari, hanno dato voce alle pulsioni profonde, ancestrali e archetipe degli uomini, compreso il “terrore” nei confronti della morte, dell’aldilà e dello scorrere irreversibile del tempo. Nella contemporaneità, la mentalità socio-individuale tende a

3

Cfr. Edgar Morin, Lo spirito del tempo, Meltemi, Roma, 2008, p. 172. Cfr. Alessandro Manzoni, Osservazioni sulla morale cattolica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1986, p. 302. 5 La perdita di legittimità e di cogenza delle istituzioni aumenta esponenzialmente l’importanza della dimensione soggettiva. Cfr. Chiara Giaccardi, Mauro Magatti, L’Io globale, cit., p. 101. 6 Cfr. Marzio Barbagli, Congedarsi dal mondo, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 19. 7 Cfr. Marina D’Amato, Telefantasie, FrancoAngeli, Milano, 2007, p. 20. 4

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sottoporre a separazione8 gli aspetti razionali del vissuto biografico da quelli emotivo-fantastici. Ma questa linea divisoria, nei fatti, è inesistente perché, ora come nel passato, le varie sensazioni irrazionali annidate nelle profondità, spesso insondabili, delle singole coscienze, alle quali l’immaginario dà forma, incidono nei mondi vitali degli uomini e nella storia sociale. L’uomo di oggi è in condizione, in un certo senso, di attuare alcune delle aspirazioni primordiali dell’umanità, ma per realizzare questi atavici desideri e per conquistare la realtà, come ha sostenuto Musil, ha dovuto rinunciare al “sogno”9. Oppure, contraddizione nella contraddizione, l’immaginario attuale, che non si ferma più alla soglia dell’onirico o della finzione filmica, si trasferisce prepotentemente nel quotidiano dei soggetti e dà vita nella realtà corrente ad una sorta di “sogno risvegliato”10. Un immaginario quello presente che, oltre a far rientrare in una “zona d’ombra del sociale” la morte11 e le ansie antiche, fa trapelare delle inedite angosce che derivano dalle nuove frontiere genetiche, dalla “contaminazione” con il mondo artificiale e dall’inconscia paura avvertita dall’uomo “nei confronti di se stesso e dei propri simili”12. Le fantasie, quindi, nonostante il clima culturale post-illuminista, contribuiscono ancora a costruire il senso della vita e a declinare, in modo determinante pur se latente, le aspettative e le paure degli uomini nella dimensione esistenziale quotidiana, intima, pratica, privata o pubblica. Molti autori classici si sono occupati teoricamente di immaginario, come sostiene la D’Amato, anche se alcuni di essi non hanno fatto direttamente riferimento a tale termine. A questo proposito, per esempio, Pareto ha sottolineato nelle sue speculazioni – senza mai menzionare esplicitamente l’attività imma8

Cfr. Michael Foucault, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino, 1976, p. 10. Cfr. Robert Musil, “L’uomo senza qualità”. Pagine inedite, cit., p. 10. 10 Cfr. Michel Maffesoli, Note sulla postmodernità, cit., p. 114. 11 Cfr. Sergio Brancato, Sociologie dell’immaginario, Carocci, Roma, 2000, p. 9

18. 12

Cfr. Gino Frezza, Fumetti, anime dell’invisibile, Meltemi, Roma, 1999, p. 183.

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ginativa – la preponderante influenza dell’irrazionalità sul comportamento degli individui che, nella maggior parte dei casi, pongono in essere azioni non-logiche perché guidati immediatamente dal sentimento e, solo successivamente, tentano di avanzare “giustificazioni pseudologiche per atteggiamenti sentimentali”13. Se Pareto si è soffermato sulle azioni non-logiche per dar conto, pur non sistematicamente, anche dell’immaginazione, Berger e Luckmann, invece, hanno utilizzato il concetto plurale di universi simbolici14 che, secondo la loro visuale, seguono i medesimi processi di oggettivazione, sedimentazione e accumulazione degli altri “prodotti sociali” (essendo essi stessi prodotti socio-storici) e declinano la totalità dei significati, “socialmente oggettivati e soggettivamente reali”, nei quali rientrano i sogni, le fantasie e i racconti. In linea più generale, gli universi simbolici, non universalmente validi o immutabili15, hanno un ruolo importante nel determinare, in un periodo definito, l’orizzonte di senso di “tutta l’esperienza umana”. Essi hanno anche una funzione fondamentale nell’assegnare valore alle sfere di significato marginale, ossia incomprensibili nella vita ordinaria, in quanto attraverso la loro azione e la loro “potenza trascendente” possono rendere meno terrificante la stessa idea di morte16. Charles Taylor, dal canto suo, ha parlato più esplicitamente di “immaginario sociale”, che è da lui inteso come lo sfondo con cui “gli individui immaginano la loro esistenza sociale” 17 e su cui si basano per il loro vissuto: questo sfondo immaginativo, veicolato da immagini, storie e leggende, spesso non si traduce nella loro coscienza in una formulazione teorica chiara. Ricoeur, anche, ha posto attenzione alla sfera dell’immaginario, ma ha sottolineato che i miti e le credenze non sono più intesi come 13

Cfr. Raymond Aron, Le tappe del pensiero sociologico, cit., p. 384 Cfr. Peter L. Berger, Thomas Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna, 1969, pp. 136-138. 15 Ivi, pp. 138-139. 16 Ivi, p. 139. 17 Cfr. Charles Taylor, Gli immaginari sociali moderni, Meltemi, Roma, 2005, p. 37. 14

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favole (o forse non possono più esserlo), piuttosto essi favoriscono modi diversi, per gli attori sociali, “di porsi in rapporto con la realtà”18. Secondo Ricoeur, questa riabilitazione delle forme di simbolizzazione dei “diversi linguaggi metaforici di tipo mitico, religioso e poetico” è dovuta al fatto che “il linguaggio di tipo logico, fondato sul principio di identità”, avendo smarrito progressivamente la sua «posizione egemonica attribuitagli dalla metafisica e dalla tradizione illuminista», si è rivelato “solo come una tra le altre forme convenzionali di conoscenza”19. In linea con la rilevanza teorica attribuita da alcuni studiosi alla produzione simbolica, è quanto mai opportuno soffermarsi sull’immaginario post-moderno, che evidenza contrastanti fantasie: alcune di esse sembrano essere emanazioni della società tecnologica ed altre, invece, sembrano rifarsi a chimere popolar-tradizionali proprie delle civiltà preindustriali. Si rileva, in definitiva, nella trama della coscienza socio-individuale, attualmente sempre più irriducibile ad una unitarietà praticoriflessiva in ogni dimensione della vita, una sensibilità immaginativa incline a una sorta di “coabitazione” tra rappresentazioni simboliche futuribili e forme arcaico-magiche, religiose e gotico-esoteriche20: 18

Cfr. Franco Crespi, L’esperienza religiosa, Donzelli Editore, Roma, 1997, p.

29. 19

Ibidem. Nella ricerca sulla distanza sociale a Roma, portata avanti nel 2008-2009, sono stati posti dei quesiti ai romani intervistati sui loro possibili atteggiamenti in merito a credenze o pratiche magico-superstiziose. Le risposte hanno dato le seguenti percentuali: il 41,5% segue i consigli dell’oroscopo; il 9,4% dichiara di essere stato da un mago e il 41,5% si è fatto leggere la mano o le carte; il 13,7% sostiene di aver fatto visita ad un guaritore; il 36,8% crede e si è sentito bersaglio del malocchio o di fatture; il 9% ha partecipato a sedute spiritiche. Articolando i dati per ceto e per genere, si rileva che le donne in misura doppia rispetto agli uomini si rivolgono a queste “ricerche spirituali alternative”; le classi più disagiate sono attratte particolarmente da maghi, guaritori, malocchio e spiritismo, mentre vi è una certa omogeneità di interesse, da parte di tutti i ceti, verso la cartomanzia e l’oroscopo. Inoltre, è significativo che molte risposte affermative di coinvolgimento in queste pratiche siano da imputare ad intervistati cattolici. Cfr. Marina D’Amato (a cura di), Roma: vicini da lontano, cit., pp. 136-137. Anche nella ricerca sulla religiosità a Roma, del 1994-1995, sono state poste delle domande sulle credenze paranormali e, in quella occasione, le percentuali delle risposte hanno rilevato che: il 37% crede negli influssi degli astri; il 32% nella possibilità di poter comunicare 20

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questo tipo di sensibilità è un mondo di sensazioni in cui, spesso, si incontrano, si escludono o si sovrappongono, i residui della tradizione, istanze etiche, inclinazioni narcisistiche, considerazioni scettiche e atmosfere misteriose. Da un lato, dunque, il soggetto è immerso in un frenetico flusso razionale-strumentale, estetico-edonistico e consumistico dell’esistenza; dall’altro lato, si abbandona volentieri a suggestioni irrazionali e all’emotività. Nello stesso tempo, la produzione del fantastico esprime nuovi desideri, alcuni dei quali sembrano quasi essere l’esito di una semplificazione delle riflessioni sul soprannaturale e sull’eternità trascendente, in quanto saltano le mediazioni religioso-teologiche. L’immaginario tardomoderno, che si è costruito per stratificazione, non ha cancellato miti, simboli, immagini e archetipi del passato, ma al contrario si è strutturato “in una miscela di arcaico e tecnologico”21 e, in ragione di questa coniugazione, permette di osservare scientificamente più da vicino se si è compiuta o meno la frattura tra moderno e post-moderno. Infatti, questa sfera simbolica – per molto tempo trascurata scientificamente – è un territorio di analisi particolarmente significativo in cui si può cogliere, da una parte, come «la solidità delle forme universali si fonde costantemente con il dinamismo della comunicazione e dei media»22; dall’altra parte, può aiutare a far luce sulle aspirazioni e i bisogni segreti dei singoli, ma anche su alcune categorie sociologiche presenti nel loro tessuto ordinario della vita. Data la complessità e contraddittorietà delle dinamiche culturalesistenziali, al fine di comprendere i fermenti delle singole personalità e dell’intero tessuto sociale, è utile assumere come informacon i defunti e il 20% nei poteri espressi nelle sedute spiritiche; il 27% nel malocchio e nella maledizione; il 25% nella presenza di potenze negative in grado di danneggiare la vita degli uomini; il 17% nella lettura della mano e il 6/7% negli interventi dei maghi e nei consigli degli oroscopi. Cfr. Roberto Cipriani (a cura di), La religiosità a Roma, Bulzoni Editore, Roma, 1997, p. 239. 21 Cfr. Silvia Leonzi, Lo spettacolo dell’immaginario. I miti, le storie, i media, Tunué, Latina, 2010, p. 4. 22 Ivi, pp. 3-4.

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zioni significative le storie degli uomini23, le loro passioni, i loro eccessi emotivi, la varietà delle loro relazioni intime e il loro mondo simbolico-fantastico. Il mondo immaginario, soprattutto in questo momento, proprio per le sue aporie e i suoi “tratti salienti”, potrebbe facilitare la lettura sociologica24 di tale articolata realtà fenomenica. Le immagini, i racconti, i romanzi, la musica, i film, in forme diverse, potrebbero dunque rappresentare uno spazio euristico privilegiato di interpretazione del clima storico-culturale, nel quale si condensano in modo carsico le esperienze affettivo-cognitive, eticospirituali, degli attori sociali e in cui matura la loro nostalgia per il passato, la loro gestione del presente e i loro progetti per il futuro. In quest’ottica, ogni linguaggio immaginativo-subliminale – dalla letteratura ai fumetti, dalla pubblicità ai mondi virtuali – svolge una funzione sostanziale nella definizione delle rappresentazioni della realtà personale e sociale. Inoltre, esso consente scientificamente di rilevare alcune dinamiche sottese al vissuto ordinario, attraverso le quali gli uomini cercano di sanare la diaspora tra il mondo quotidiano e il mondo ideale e, a volte, con la fantasia “magica” abbassare la soglia della tensione emotiva25. L’immaginario, in linea di massima, in virtù di una sua riscrittura in forma filmica, letteraria, fumettistica o favolistica della realtà, favorisce quasi un’esistenza onirica simmetrica alla prassi ordinaria, in cui si declinano fantasie e si “controllano” emozioni estreme, spesso venate da una “malinconia decadente”26. 23 Anche in letteratura, ad opera di Manzoni, si è avviato quel processo di “diseroizzazione” – tanto praticato nella storia, a volte nella filosofia, nella teologia e nella stessa sociologia attenta al dato statistico e ai macrosistemi – che dà voce agli “umili” ai singoli e “fa contare anche coloro che non hanno pagine nella storia”. Cfr. Alessandro Manzoni, Osservazioni sulla morale cattolica, cit., p. 14. 24 Cfr. Michel Maffesoli, Note sulla postmodernità, cit., p. 26. 25 La Sciolla ha sottolineato la tesi di Malinowski, il quale, pur non riferendosi espressamente all’immaginario, ha evidenziato quanto la magia svolga la funzione di “risolvere situazioni di forte tensione emotiva creando sicurezza”. Forse, non a caso, nell’immaginario attuale il magico-misterico è molto presente. Cfr. Loredana Sciolla, Sociologia dei processi culturali, cit., p. 168. 26 Cfr. Chiara Maffioletti, I bambini e la paura (al cinema), in “Corriere della Sera”, 14-11-2009, p. 27.

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In considerazione delle possibilità interpretative del simbolicofantastico e della sua capacità di evidenziare come «elementi razionali coesistono a fianco di tendenze non razionali»27, si è cercato di riflettere in queste pagine, in modo più mirato, su due produzioni dell’immaginario contemporaneo: il fumetto Dylan Dog e il romanzo Twilight.

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2.1 Ansie contemporanee: Dylan Dog Degli esempi significativi della traslazione dal livello cognitivo al livello immaginativo dei temi scottanti della vita ci vengono da alcuni fumetti che, superando il puro intrattenimento, si occupano con una vena intimistico-esistenzialista della malattia, della morte, delle sofferenze dell’amore, delle difficoltà della vita di coppia, del tempo che passa e delle angosce del vissuto quotidiano. In Francia, questa nuova linea fumettistica è proposta da Pierre François Beauchard con il Grande Male: in questo fumetto l’autore ha raccontato la sua infanzia accanto ad un fratello che, via via, sviluppa una grave forma di epilessia. In linea con questo genere impegnato di fumetti si è cimentato Manu Larcenet con Le Combat Ordinaire (Lo scontro quotidiano), il quale narra gli otto anni di analisi del protagonista, Marco, il cui padre ha l’Alzheimer. In Italia, invece, il fumetto Dylan Dog28 fa trasparire nelle avventure del protagonista, con un linguaggio originale rispetto ad altre produzioni di comics, più che i disagi della malattia, il “grido” disperato contro l’euforie dell’attimo fuggente, i facili entusiasmi suscitati dalla civiltà dei consumi e molti dei problemi profondi della vita dell’individuo contemporaneo che nascono dalla sua pretesa «di preservare l’indipendenza e la particolarità del suo essere determi27

Cfr. Silvia Leonzi, Lo spettacolo dell’immaginario. I miti, le storie, i media, cit., p. 13. 28 Dylan Dog, fumetto di Bonelli, nato nel 1986 dalla penna di Tiziano Sclavi, è catalogato nel genere horror.

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nato di fronte alle forze preponderanti della società, della cultura esteriore e della tecnica»29. Dylan Dog, che di professione fa l’Indagatore dell’Incubo, riassume anche nelle sue avventure investigative e nella sua personale riflessione – sul mondo onirico che lo avvolge e lo “impegna lavorativamente” e sul quotidiano che lo circonda – «il dissolversi delle utopie e la percezione della prossimità della morte in ogni angolo»30. Questo investigatore di incubi si avventura – senza alcuna speranza di sconfiggere o porre fine al male – in “viaggi labirintici, spesso ingannevoli”, i quali non sono altro che «sogni che mascherano o, altrimenti, svelano una realtà senza via di scampo»31. Basta soffermarsi su alcuni titoli delle sue storie e sui contenuti delle sue strisce per rendersi conto della sensazione di smarrimento, di incertezza e disorientamento che contengono. Per meglio comprendere come in questo fumetto si trovi il riassunto di alcune istanze, paure, contraddizioni e condizioni proprie dello spirito contemporaneo, si può prendere come esempio anche una sola delle tante storie di Dylan Dog: La strada verso il nulla. In questo esemplificativo racconto fumettistico, Dylan Dog si trova suo malgrado – a causa di un incidente mortale avvenuto sulla solita via da lui percorsa per tornare a casa – a dover prendere una strada sconosciuta per fare più in fretta e arrivare in orario a Londra. Mentre Dylan è ancora sul luogo del disastro, nella confusione prodotta dall’incidente per l’arrivo dei mezzi di soccorso e per la rabbia degli altri automobilisti – più insofferenti al caos che dispiaciuti per le vittime – seduto nella sua macchina, formula tra sé questo pensiero: «uno torna a casa dopo una serata in discoteca, o a una cena con gli amici, pensa già a cosa lo aspetta domani e, a un tratto, non c’è più il domani che lo aspetta. Che senso ha tutto questo?»32. 29

Cfr. Georg Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, (a cura di P. Jedlowski), cit., p. 35. 30 Cfr. Gino Frezza, Fumetti, anime dell’invisibile, cit., p. 160. 31 Ibidem. 32 Cfr. Tiziano Sclavi, Dylan Dog. La strada verso il nulla, Oscar Mondadori, Milano, 2009, p. 13.

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Tra un pensiero e l’altro, più o meno dello stesso tenore “filosofico-metafisico”, egli decide di avventurarsi per un’autostrada vuota, apparsa all’improvviso così come all’improvviso è sparita tutta la baraonda causata dall’incidente mortale: questa nuova autostrada, però, lo riporta, nonostante le miglia percorse, sempre al punto di partenza. Infatti, tutti segnali stradali, che incontra lungo la strada per Londra, segnano ossessivamente: 6,66 miles. Durante questo interminabile e angosciante percorso, che non ha fine e né “speranza” di una fine positiva, Dylan, abbandonata la sua personale speculazione sulla vita in generale, fa un’autoanalisi sulla sua maturità esistenziale e si dice mentalmente: «la mia età mentale è rimasta a sei anni. Credo ancora alle favole, ai Babau, ai mostri sotto il letto. Per contro alla principessa azzurra, al grande amore romantico che non finirà mai»33. In un certo senso, queste sue riflessioni ricalcano alcune ambivalenze emotivo-immaginative attuali in quanto i generi fantastici che coinvolgono un vasto pubblico sono, in effetti, contraddittori: essi vanno dal catastrofico-mostruoso al favolistico-romantico. In questo “paradossale” e spettrale viaggio in macchina, Dylan ogni tanto si “imbatte” in persone, in situazioni surreali e in incubi spaventosi: per prima incontra una ragazza, sbucata all’improvviso sulla strada solitaria, che chiede un passaggio e ha in mano un cartello con sopra scritto: “non importa dove”34. Il protagonista del fumetto avrà con lei un brevissimo incontro d’amore e poi, ad un certo punto, dopo essersi lasciati, non comprendendo né come e né perché, la ritroverà morta, vittima di un incidente stradale. Sempre, nel suo infinito percorso verso il nulla, egli sarà minacciato da un enorme Tir, sbucato anche esso all’improvviso, che cerca di mandarlo fuori strada e il cui conducente è: la morte. Inoltre, nel suo estenuante viaggio in macchina, esasperato da cartelli stradali che continuano ad indicare ogni tanto 6,66 miles a Londra, si imbatte con uno zombi, con un feroce felino, con una fila sterminata di mac33 34

Ivi, p. 18. Ivi, p. 30.

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chine ferme, i cui guidatori sono scheletri parlanti, bloccati da anni in questo singolare “ingorgo”. Ad un certo punto, avviene anche un incontro, particolarmente significativo per lo scambio di battute, con dei ragazzi che stanno gettando sassi da un cavalcavia; Dylan chiede loro: “lanciare sassi dal cavalcavia lo trovate tanto divertente?”. A questa domanda, i ragazzi rispondono: «sì, è un gioco e poi ci fanno il servizio al TG e magari ci invitano a un talk-show!». Dylan continua: «c’è chi è morto per un gioco come questo. Volete uccidere qualcuno anche voi?». E, il gruppo di adolescenti afferma: «Magari! Sarebbe l’ospite d’onore! Sai quelle trasmissioni dove la gente si ritrova, si perdona, e tutti piangono? Noi partecipiamo alla trasmissione, e poi arriva quello che abbiamo ucciso, come ospite d’onore, e ci perdona e ci abbracciamo! E giù lacrime. Un’audience da sballo. È così che va la vita. Non la vedi la tivù ? Bisogna andare in tivù per essere vivi davvero» 35. I problemi sollevati da questo surreale dialogo tra Dylan e il gruppo di ragazzi sono di varia natura – dalla costruzione dell’identità individuale ai valori di riferimento fino alla pervasività e al potenziale socializzante, sia negativo che positivo, degli “strumenti della comunicazione” – con i quali l’analisi sociologica deve fare i conti, nelle sue varie specializzazioni disciplinari. Infatti, il tenore della conversazione tra Dylan Dog e i giovani teppisti evoca, in estrema sintesi, alcune distorsioni prodotte dal sistema dei media (non solo da esso), delle “falsificazioni della realtà” e il bisogno di un riconoscimento dell’identità soggettiva cercato attraverso la popolarità che è ormai quasi la misura dell’immortalità36. In definitiva, Dylan nel suo lungo itinerario verso il nulla si scon35

Ivi, pp. 58-59. In qualche modo, questo stesso bisogno di fama, contemplato nel dialogo tra i giovani e Dylan Dog, era già presente nei tempi passati come esemplificato nel romanzo Il ritratto di Dorian Gray quando uno dei protagonisti, il pittore Basil Hallward, spiega all’amico Lord Harry Wotton la sua volontà di ritrarre il giovane Dorian attraverso la seguente espressione: «Uno dei miei ritratti aveva avuto un buon successo, o per lo meno se ne era parlato nei giornali e questo nel diciannovesimo secolo è la misura dell’immortalità». Cfr. Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, cit., p. 21 36

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tra con una serie di dinamiche e fenomeni inverosimili, alcuni dei quali, però, non estranei al portato dello sviluppo razionale-tecnologico e alle sue patologie: i livelli «di rischio dell’interazione tra sé e l’immagine, il mondo interiore e il cosiddetto mondo oggettivo»37; le “catastrofi emergenti del vissuto”38; le estremizzazioni e, quindi, le esorcizzazioni della morte e l’assenza di speranza. Dylan Dog si misura sia con gli “incubi” ancestrali e sia con gli “incubi” della società a modernità avanzata, e molti di essi ricordano da vicino delle realtà sulle quali si è attardato speculativamente Simmel, come per esempio: le sue analisi sul modo “spiritualmente tipico” di sentire degli uomini all’interno di una “definita costellazione di elementi materiali e culturali”39 e sulle forme dell’esperienza soggettiva metropolitana. Un’esperienza individuale, questa, ben descritta da Simmel e, in qualche modo, sottolineata letterariamente da Kafka con il suo fantasticare sulle relazioni interpersonali, «sul contatto o la mancanza di contatto tra la gente in una strada di una città come Parigi»40. Un vissuto metropolitano nel quale i soggetti devono fare sempre più i conti con un “ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori”41, con il disagio psico-esistenziale prodotto dalla frattura tra dimensione intimo-privato e sfera pubblica e dalla «divaricazione tra i contenuti dello spirito oggettivo e quelli dello spirito soggettivo»42; anche se, in Dylan Dog, le anticipazioni, o se vogliamo, le “profezie” simmeliane sull’esperienza socio-biografica moderna e sulla “interazione del sociale con lo psicologico”43 sono più esasperate. Nelle sue strisce, a volte, si coglie quell’impossibilità di espri37

Cfr. Gino Frezza, Fumetti, anime dell’invisibile, cit., pp. 204-205. Ivi, p. 204. 39 Cfr. Georg Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, cit., p. 16. 40 Kafka descrive il contatto con gli abitanti di Parigi in questo modo: «Tutti ardono di curiosità, sebbene temano il disinganno, respirano in fretta e spingono avanti le loro testine». Cfr. Ronald Hayman, Kafka, Rizzoli, Milano, 1983, p. 77. 41 Cfr. Georg Simmel (1903), La metropoli e la vita dello spirito, cit., p. 36. 42Ivi, pp. 22-23. 43 Ivi, p. 16. 38

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mere pienamente le chances di indipendenza offerte al soggetto nella vita delle metropoli: un’impossibilità che è parte della “tragedia della modernità”, che consiste anche in una “aspirazione utopica” di continua anticipazione, in cui i soggetti non sono più in grado di gestire il ritmo dello sviluppo perché devono «produrre sempre di più, conoscere sempre di più, comunicare sempre di più e sempre più in fretta»44. Le avventure di Dylan Dog narrano, in definitiva, il senso del rischio, di paura45 e il depotenziamento delle energie spirituali annidati nelle pieghe della mentalità socio-individuale, sempre meno capace di metabolizzare le sfide della vita e della morte e raccontano, anche, il rumore delle metropoli, il clima di “asetticità affettiva”, il vuoto di futuro, le “gabbie” istituzionali e burocratiche che permeano il vissuto degli attori sociali. Nello stesso tempo, però, nelle sue storie «tra vita e morte, inferni e purgatori, assurdi mosaici delle emozioni e trasparenti enigmi della ragione, tra quadri surreali e immagini senza senso»46 si intravede il desiderio latente, profondo e insoddisfatto di felicità47. Questo personaggio immaginario è una sorta di condensatore metaforico di molte delle nevrosi e delle frustrazioni proprie della civiltà contemporanea. Una civiltà che, lungi dall’avere ottenuto quei benefici prospettati nella prima fase romantica del paradigma positivista, si è scontrata, nonostante i nuovi margini di autonomia pratico-morali, con le ricadute non previste dell’individualismo esasperato, dell’eccessiva razionalizzazione e della crescita esponenziale delle scoperte scientifiche: tutti questi processi, insieme all’im44

Cfr. Danièle Hervieu-Léger, Il pellegrino e il convertito, cit., p. 31. Le sensazioni di rischio e di paura che avvolgono la società e gli attori sociali postmoderni sono state più volte sostenute da molti autori, tra gli altri Beck e Giddens. Beck ha inteso questa paura in termini ecologici per i disastri che possono essere provocati dall’inquinamento nucleare e chimico; Giddens, invece, vede il rischio in termini più generali in quanto, per lui, esso si può riflettere sullo stile di vita, sulle relazioni interpersonali e sulla costruzione dell’identità. Cfr. Ruth A. Wallace, Alison Wolf, La teoria sociologica contemporanea, cit., pp. 204-205. 46 Cfr. Gino Frezza, Fumetti, anime dell’invisibile, cit., p. 160 47 Ibidem. 45

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possibilità di esaudire gli illimitati desideri, tendono a smentire la profetizzata “equazione tra libertà e felicità”.

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2.2 Aspirazioni immaginarie: Twilight L’umana Isabella Swan (che tutti chiamano Bella), protagonista femminile della storia, silenziosa ed introversa adolescente, ha lasciato la città di Phoenix, dove viveva con la madre e il suo nuovo marito, e si è trasferita stabilmente dal padre nella sperduta e piovosa Forks, una cittadina nella quale vive anche la “famiglia” Cullen. Il vampiro Edward, protagonista maschile di Twilight, è uno dei membri di questa particolare “famiglia”, i cui componenti sono: il padre Carlisle; la madre Esme; i figli, tutti e tre adottivi, Emmett, Alice e lo stesso Edward e i due fratelli gemelli Rosalie e Jasper Hale, che sono stati dati in affidamento ai Cullen. L’unione di questo inedito gruppo familiare di vampiri non è vincolata al proprio interno da concreti legami di parentela, bensì dal comune stile di vita e dalla medesima sensibilità che, sulla scia dell’insegnamento del capo famiglia Carlisle, li porta alla scelta di non nutrirsi di sangue umano. Questa compagine familiare, la cui caratteristica apparente è data dalla rara e “inumana” bellezza del volto di ognuno dei membri (mentre la vera connotazione è il loro essere vampiri), coabita (vivono tutti insieme) in una casa luminosa, ariosa, posta in una radura all’interno di un bosco, che ha grandi vetrate e come colore prevalente il bianco: la facciata esterna è bianca così come le pareti interne, il pavimento, il soffitto e i grandi tappeti. Nel liceo locale, i due ragazzi – Edward e Bella – entrambi studenti, ma con una realtà fisico-esistenziale diametralmente opposta, si incontrano e tra loro nasce immediatamente una profonda attrazione, nonostante le incomprensioni causate dall’atteggiamento, a prima vista, di distacco di Edward nei confronti di Bella e il mistero che circonda tutta la “strana famiglia” Cullen. Edward, pallido e bellissimo, forte e sempre giovane perché immune alla corrosione del tempo (come tutti i componenti della sua 82 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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famiglia), raffinato musicista e compositore di melodie struggenti – nel salone della sua casa è presente uno “spettacolare pianoforte a code”48 – si innamora perdutamente dell’umana Bella, che lo ricambia, subito, appassionatamente. Il sentimento d’amore che li lega non viene alterato nella sua intensità neanche quando Edward svelerà a Bella di essere un vampiro come suo padre, sua madre e i suoi fratelli: anzi, proprio in virtù del suo intenso trasporto per lui, vorrà essa stessa assumere la natura di vampiro. La figura di Edward, nel racconto, è circonfusa da qualità positive e delineata come l’incarnazione del nobile eroe romantico: sensibile, comprensivo, protettivo e generoso di sé. Egli – che riconosce Bella come l’unica donna capace di sanare la sua solitudine e il suo dolore “metafisico” – prova e manifesta un’attrazione amorosa verso di lei quasi dai toni dell’amor cortese, se non ai confini dell’agapico. Infatti, Edward, per amore, tiene a bada le sue passioni, ripudia i suoi bisogni primari e, contro i suoi stessi interessi e desideri tenta di convincere Bella, per non farle condividere il suo destino di estraneità all’umanità, a desistere dalla sua volontà di trasformarsi in non-morta. In sostanza, l’aspirazione di Bella di trasformarsi in vampiro, nonostante le implicazioni negative da lui elencate, è l’unico motivo di dissidio e l’unica causa di un allontanamento temporaneo tra i due innamorati. Non a caso, Edward, ancora fremente per “l’antico dolore” di aver perduto la sua vita normale e infastidito dall’ennesima richiesta di Bella di essere tramutata, le dice quasi con amaro sarcasmo: «dopotutto sei soltanto costretta a rischiare la vita ogni secondo che passi assieme a me. Ti tocca soltanto voltare le spalle alla natura, all’umanità»49. E lei, per nulla preoccupata o dubbiosa di dover abbandonare la sua realtà umana, risponde: «Non mi sembra di dover sopportare una gran rinuncia»50. In questo dialogo, è possibile individuare degli indicatori socio48

Cfr. Stephenie Meyer, Twilight, Fazi Editore, Roma, 2006, p. 271. Ivi, p. 257. 50 Ibidem. 49

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culturali singolari che, a livello ipotetico, sembrano essere una proiezione dei livelli di complessità e di “crisi di senso” raggiunti dalla mentalità collettivo-individuale contemporanea. Intanto, Edward ormai fuori dalla realtà umana (e quindi dalla realtà culturale attuale), in quanto vampiro, è quasi il ventriloquo della tradizione, della stabilità e della “memoria”: non a caso, egli cerca di far retrocedere Bella sulla base di valutazioni spirituali e principi antropologici consolidati nel tempo storico. Bella invece, in quanto umana e figlia della cultura del tempo, fa la sua scelta quasi a dispetto della tradizione, sottovalutando ogni criterio reale e stabilito nel lungo periodo, sulla scia della sua emozione, della “reversibilità del senso”51 e della ricerca di quello che ritiene essere, autoriflessivamente, la sua “autentica felicità”. Inoltre, se ancora si vuole dare una lettura sociologica, sempre di sfondo, entrambi – Edward e Bella – esprimono nei loro desideri contrapposti (lei vuole diventare una non-morta, lui rimpiange la mortalità perduta), ma fusi nel comune sentimento amoroso, la loro simile condizione di dolorosa percezione di “estraneità”52, di non integrazione nel loro contesto sociale (umano per Bella e non-umano per Edward) e la loro aspirazione a diventare – nel caso di Bella – a ritornare – nel caso di Edward – membri di gruppi di riferimento profondamente diversi da quello di loro appartenenza. Si potrebbe quasi parlare di messa in atto, soprattutto da parte di Bella, di un processo di “socializzazione anticipatoria” per l’assunzione progressiva che essa attua di atteggiamenti pratico-riflessivi e di «modelli di comportamento del gruppo al quale non appartiene e al quale desidera appartenere»53. Alla fine della saga (non di questo primo romanzo), dopo mol51

Cfr. Mauro Magatti, Libertà immaginaria, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 212. Una traduzione più appropriata dello straniero risulta essere l’estraneo, perché ciò che vuole sottolineare Simmel con questo concetto è il tema dell’estraneazione; ossia una condizione «di perenne ambiguità socio-psicologica, al confine tra accettazione e rifiuto da parte della società». Cfr. Georg Simmel, La differenziazione sociale, (a cura di Bruno Accarino), Editori Laterza, Roma-Bari, 1982, p. XIII. 53 Cfr. Paolo Ceri, Sociologia. I soggetti, le strutture, i contesti, Laterza, RomaBari, 2007, p. 59. 52

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te vicende e altrettanti dinieghi di Edward, Bella sarà soddisfatta nel suo desiderio e verrà trasformata in vampiro e, senza alcun suo rimpianto o scrupolo morale, vivrà eternamente giovane con il suo innamorato. Senza voler forzare le regole d’indagine, e senza neanche voler semplificare l’eterna lotta che l’umanità ha intrapreso nei millenni contro il suo destino di finitezza, leggendo il romanzo si potrebbe ipotizzare, anche come segno stenografico di fermenti reali presenti nell’universo giovanile (e non solo), che nella battaglia ingaggiata contro la morte, il deperimento fisico e il bisogno di essere riconosciuti – anche quest’ultimo è in fondo un desiderio di eternizzare la propria identità – sia stata scelta come arma più efficace l’amore, che può, come succede in Twilight, «trasformare un’anonima cittadina dello Stato di Washington – Forks – nel paese delle meraviglie»54, quietare le interrogazioni sulla vita e sul mondo, rendere gli individui speciali e donare una sostanza umana diversa: eterna.

2.3 Una diversa concezione di eternità Il mito del vampiro, nella sua versione di “demone nero” e di creatura delle tenebre, ha lontane origini medievali, ma è entrato anche a far parte della cultura illuministica, che lo ha tradotto, però, in una categoria sociologica, stabilendo che: «i vampiri non esistono come non-morti, ma sono reali come originaria attitudine malefica di una parte del genere umano, quella dei ricchi e dei corrotti»55. Nell’Ottocento, inoltre, alcuni scrittori hanno proiettato simbolicamente sull’immagine del vampiro molte delle istanze negative della sensibilità moderna56. Sotto molti profili, il romanzo Twilight della scrittrice Stephe54 Cfr. Rebecca Housel, J. Jeremy Wisnewski (a cura di), La filosofia di Twilight, Fazi Editore, Roma, 2009, p. 70. 55 Cfr. Mario Barzaghi, Il mito del vampiro. Da demone della morte nera a spettro della modernità, Rubettino, Soveria Mannelli, 2010, p. 129. 56 Ivi, p. 156

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nie Meyer, della serie vampiresca di libri e film ad esso ispirati, ha modificato la rappresentazione tradizionale, cupa e negativa pur se oscuramente affascinante, della figura del vampiro assetato di sangue umano, che corrispondeva soprattutto al terribile Dracula, ideato nel 1897 dall’irlandese Bram Stoker. Infatti, per l’odierna fantasia popolare il vampiro si è spogliato degli attributi negativi e ha assunto le qualità positive e le sembianze fisiche, esteticamente perfette, di Edward Cullen. La stessa candida ed asettica abitazione della famiglia Cullen, che più chiaramente di altri dettagli sintetizza una nuova prospettiva narrativa sul vampirismo, è quanto mai distante dal tenebroso, lugubre e diroccato castello del conte Dracula. Inoltre, la differenza più evidente del racconto della Meyer, rispetto al passato, è data dal fatto che i vampiri Cullen hanno dei poteri speciali (leggere nel pensiero, avere una forza e una velocità sovraumane, essere immortali), ma diversamente dal vampiro classico non hanno una dimensione “soprannaturale” e, comunque, «né la loro essenza o i loro rituali sono una perversione del sacro cristiano»57. Del resto Edward e la sua famiglia hanno “respinto la religione, sia quella della luce che quella del buio”: a loro non si possono applicare i «tradizionali rapporti tra bene e male, umano e vampiro, e tra Dio e il mondo»58. Anche se, in Twilight, nonostante sia apparentemente assente la sfera religiosa e sia presente una “confusione” tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, perché tutto è inserito in una nebulosa romantica ed eticamente contraddittoria, si respira una singolare quanto paradossale, data la trama del racconto, atmosfera di profonda nostalgia del bene e si intravede la possibilità di avvicinarsi ad esso grazie alla forza dell’amore. Non a caso, in un momento della storia caratterizzato dal sentimento di gelosia di Edward per Bella emerge, nelle parole da lui pronunciate, lo scontro vissuto nella sua 57 Cfr. Rebecca Housel, J. Jeremy Wisnewski (a cura di), La filosofia di Twilight, cit., p. 79. 58 Ibidem.

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“coscienza” tra l’etica e il desiderio (una dialettica peraltro molto attuale); infatti, egli dice: «Ho passato tutta la notte combattuto mentre ti guardavo dormire, diviso tra ciò che ritenevo giusto, morale, etico, e ciò che desideravo»59. In questa occasione, come in molte altre che si trova a vivere nella sua esperienza vampiresca e d’amore, Edward orienta il suo “libero arbitrio” (tema presente nel romanzo) secondo un principio morale: egli è tendenzialmente e – paradossalmente – votato ad una sorta di comportamento etico, anche per questo, forse, è inteso nell’immaginario, soprattutto giovanile, come l’espressione dell’amore incorruttibile che risolve “l’ansia fondamentale” degli uomini: non morire. Nello stesso tempo, pur se nel romanzo sono apparentemente assenti richiami fideistici, in alcuni rilevanti passaggi del libro, allo scopo di evidenziare rivelazioni eccezionali, vengono imitate situazioni sacro-religiose in modo pagano-secolare. Per esempio, l’immagine del momento in cui Edward svela a Bella definitivamente il mistero della sua vera natura vampiresca ha delle notevoli somiglianze con la descrizione della manifestazione della divinità di Cristo, in presenza di solo tre dei suoi discepoli, che viene fatta dall’evangelista Matteo: «Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello, e li condusse in disparte, su un alto monte. E apparve trasfigurato davanti a loro. La sua faccia diventò splendida come il sole e le vesti candide come la luce»60. Il commento di Bella a proposito della visione dello “svelamento” di Edward non si allontana – descrittivamente – molto dal passo del Vangelo sulla Trasfigurazione: infatti, ella racconta di essere stata portata da Edward in disparte, lontana da tutti, in un bosco e dopo essere stata lasciata sola, per qualche istante, di aver visto, nel luogo dove si erano fermati, «lui uscire nella luce abbagliante del sole di mezzogiorno […] era sconvolgente […] la sua pelle bianca era scintillante, come ricoperta di piccoli diamanti»61. 59

Cfr. Stephenie Meyer, Twilight, cit., p. 256. Mt 17,2. 61 Cfr. Stephenie Meyer, Twilight, cit., pp. 221, 223-224. 60

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Il tema manifesto di Twilight sembra essere quasi solo l’amore, ma attraverso una lettura più approfondita si può intravedere anche un tentativo, pur sempre attraverso il sentimento amoroso, di trasposizione secolarizzata dell’aspirazione umana di eternità e di sacralizzazione dell’umano, o addirittura del non-umano, prendendo a prestito temi e atmosfere religiose. Rispetto al concetto di eternità sarebbe necessario aprire una parentesi in quanto anche in ambito teologico si è posto il problema su come intenderlo e, di conseguenza, anche di come declinare la relazione tra tempo ed eternità: essere senza tempo o uscita dal tempo; eternità come tempo senza fine o come condizione al di là del tempo?62. Così come bisogna anche riflettere su una differenza, spesso sottovalutata o confusa, tra resurrezione e immortalità63. In via di ipotesi, nella specifica trama del romanzo si fa riferimento ad una immortalità e ad un’eternità come tempo senza fine. Infatti, si può leggere nelle pieghe della narrazione la presenza di un desiderio di eternità che si vuole ottenere esclusivamente nella dimensione immanente e non nel tempo religioso-escatologico trascendente: si vuole conquistare una giovinezza e una meta-temporalità del corpo per vivere ed amare in eterno nel mondo, non in un altro mondo al di là del tempo storico. A ben leggere Twilight, l’amore sembra offrire all’uomo della tecnica, orfano delle grandi narrazioni e di Dio, un nuovo racconto in grado di sostituire le vecchie ideologie64, una nuova versione escatologica “secolarizzata” raggiunta con mezzi umani65 ed anche un nuovo “spazio per la trascendenza”66. O forse, come direbbe Italo Calvino, giacché “l’umano arriva dove arriva l’amore”, si potrebbe in modo sofisticato pensare – e inconsciamente l’autrice potrebbe averlo fatto – che l’amore riesca a dare una tale fondamentale valen62

Cfr. Peter L. Berger, Questioni di fede, cit., pp. 246, 250. Ivi, pp. 243-244. 64 Cfr. Zygmunt Bauman, Il teatro dell’immortalità, cit., p. 39. 65 Una delle versioni più conosciuta di “escatologia secolarizzata” è rappresentata dal marxismo. Cfr. Peter L. Berger, Questioni di fede, cit., p. 163. 66 Cfr. Zygmunt Bauman, Il teatro dell’immortalità, cit., pp. 39-40. 63

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za all’essenza umana da far presagire la sua vicinanza al divino. Se così fosse, allora non è Edward che trasforma Bella in non-morta, ma è Bella che riporta il vampiro nell’umanità ed insieme si proiettano, in virtù del loro amore, nella eternità “trascendente” del sentimento. In definitiva, nelle pagine di questa storia d’amore tra la diciassettenne Isabella Swan e il vampiro Edward Cullen, apparentemente suo coetaneo, ma più che centenario in realtà, prendono vita con un “sorprendente” tono tenue, simile a quello della collana rosa di Harmony, alcune delle aspirazioni psico-esistenziali più profonde di oggi. Si evidenzia anche una nuova espressività della mentalità postrazionale: per un verso, si avverte un superamento di qualsiasi istanza religioso-ideologica, anche di tipo consuetudinario e, per un altro verso, data l’affermazione delle istanze irrazionalistico-sentimentali e familistiche (è anche presente un forte legame affettivo familiare nella storia, così come è registrato nella realtà attuale67), si prospetta una “rivalutazione del pathos”68. Nella filigrana narrativa di Twilight sembra profilarsi, da un lato, un’ennesima ipotesi riflessiva su alcune istanze postmoderne della coscienza socio-individuale: traspare un humus esistenziale narcisisticamente più incline a concepire la vita in senso orizzontale e la trascendenza ancorata all’immanenza eternizzata piuttosto che consapevolmente e razionalmente votato a sposare, chiari e definiti, atteggiamenti atei. Dall’altro lato, a fronte del disinteresse religioso e, nello stesso tempo, dell’assenza di una metabolizzazione spirituale dei confini del bene e del male, si registra, nel vissuto dei protagonisti e co-protagonisti, l’intreccio «tra pulsione vitale, fisicità dell’istante e densità emozionale e sensoriale»69, che in definitiva

67

Cfr. Carlo Buzzi, Alessandro Cavalli, Antonio De Lillo (a cura di), Giovani del nuovo secolo. Quinto rapporto Iard sulla condizione giovanile, cit., pp. 525, 527; cfr. Monica Simeoni, I giovani del giubileo, in R. Cipriani (a cura di), I giubilanti del 2000, cit., p. 121. 68 Cfr. Mauro Magatti, Libertà immaginaria, cit., p. 37. 69 Ivi, p. 329.

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appare, autoreferenzialmente, come il loro “vero sé”, il loro orientamento di senso e la loro fondamentale “verità” dell’esistenza. Desideri pseudo-faustiani (anche se intellettualmente meno sofisticati), fantasie psicologiche, “vittoriane” emozioni amorose, “anarchie” (o meglio indifferenze) morali, coesistono e si sovrappongono in questo racconto: in esso, inoltre, al seguito della volontà di dare il massimo spazio al proprio sé, si instaura la reversibilità tra il “senso e il non-senso”70 e prende forma un inedito sincretismo tra bene e male, tra istinti primordiali e consapevolezza di sé, tra ragione e sentimento, tra crudeltà e compassione. Del resto, già il titolo – Twilight – che significa crepuscolo, indica una dimensione liminale del giorno “in cui tutte le cose si fanno buie o si illuminano”71. In qualche modo, l’autrice con questo significativo titolo sembra voglia sottolineare che: «il bene e il male sono concetti ambigui, non chiari e distinti quanto tramanda la tradizione […] dipende da umani e vampiri scegliere l’ambito morale in cui inserire le proprie vite»72. L’ambiguità etica e la fusione spirituale-culturale degli opposti, che caratterizzano la narrazione, sembrano “astutamente” concretizzare, senza le impegnative “complicazioni” etico-religiose, le aspirazioni autoreferenziali dell’attore sociale contemporaneo, anche se ci sono, appunto, nelle pieghe della vicenda, delle scelte esistenziali da parte dei personaggi – però di quelli che dovrebbero essere negativi, in quanto vampiri – di principi premoderni. Insomma, in alcune pagine del romanzo emerge il dibattito attuale sul relativismo etico-valoriale e sull’atteggiamento di scelta deliberata – in positivo o negativo – e autoriflessiva in ogni settore del vissuto. In Twilight si mettono a nudo – in termini immaginativi – dei trends soggettivo-positivisti moderni: ossia, il desiderio di auto-trascendenza, di immortalità, di messa tra parentesi dell’inesorabilità 70

Ivi, p. 212. Cfr. Rebecca Housel, J. Jeremy Wisnewski (a cura di), La filosofia di Twilight, cit., p. 70. 72 Ibidem. 71

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dell’erosione del tempo73, che si avventurarono oltre qualsiasi ordine religioso, antropologico e naturale delle cose. In sostanza, la felicità, la bellezza e l’immortalità che Edward e Bella raggiungono non appartengono a nessuna dimensione razionale o di natura tradizionale religiosa o antropologico-biologica, ma trovano una loro concretizzazione nella sfera immaginifica della trascendenza del sé74 e dell’amore. In questo senso, la produzione del fantastico è capace di portare alla luce nuove frontiere speculative della mentalità socio-individuale, alcune delle quali tendono a “semplificare” e ridurre il concetto stesso di eternità, privandolo di una sua coincidenza con le categorie del soprannaturale e del trascendente: si aspira ad un’eternità immanente che si dispiega nel tempo umano e all’eternizzazione, in un inesauribile presente, degli affetti e degli amori75.

73

Cfr. Gabriele Romagnoli, Miti immortali, in “la Repubblica”, 12/12/2009, pp.

1, 48. 74 Cfr. Rebecca Housel, J. Jeremy Wisnewski (a cura di), La filosofia di Twilight, cit., p. 80. 75 Cfr. Cecilia Costa, La “malattia del corpo”, la “malattia dell’anima” e la felicità, in Roberto Cipriani (a cura di), Narrative-Based Medicine: una critica, «Salute e Società», anno IX, n. 2/2010, FrancoAngeli, Milano, 2010, p. 162.

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Capitolo terzo

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Il relativismo etico, il fenomeno religioso e l’immaginario attuale

3.1 Il relativismo etico Nel contesto odierno, la morale, la religione e lo stesso sistema dei valori sono diventati solo possibili – non obbliganti – fonti di orientamento e, in ogni caso, dogmi, regole, simboli e principi vengono interpretati alla luce delle inclinazioni individuali, sull’onda di un “senso immanente”, provvisorio, edonistico e razionalizzante della vita1. In sostanza, a causa dei vari processi di modernizzazione, sembrerebbe che la sfera etica sia diventata meno imperativa2 e che, inoltre, la sua capacità di esercitare un’influenza regolativa per i soggetti sia condizionata nell’intensità3 a seconda delle aree della vita, degli interessi, dei contesti, delle circostanze e delle decisioni da prendere4. I parametri etici e gli stessi codici religiosi – pur mantenendo, i primi una certa loro influenza nel costrutto sociale e i secondi la

1 Cfr. Raymond Boudon, Declino della morale? Declino dei valori?, Il Mulino, Bologna, 2003, pp. 44- 46. 2 Cfr. Émile Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Milano, 1971, pp. 175-176. 3 Cfr. Roberto Marchisio, Religione e religiosità, Carocci, Roma, 2002, p. 119. 4 Cfr. Danièle Hervieu-Léger, Religione e memoria, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 97.

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capacità di ispirare speranza5 – perdono la loro funzione monopolistica di regolazione in ragione della quale i soggetti sono nel passato riusciti ad attribuire un significato chiaro, negativo o positivo, alle situazioni, alle esperienze, alle cose e alle azioni da intraprendere. Una certa deroga valoriale soggettiva, come del resto si è rilevato in alcune ricerche, è per esempio particolarmente manifesta nella decodifica dei concetti di autorità, di bene, di male e di verità: il concetto di autorità non è annullato, ma interpretato criticamente e legittimato nel suo esercizio, solo se razionalmente espresso e non tradizionalmente trasmesso; si crede nella verità, non in senso assoluto, bensì in una pluralità di punti di vista6; si accetta una distinzione tra bene e male, ma è difficile rilevare una chiara differenziazione di queste categorie negli atteggiamenti pratici degli attori sociali. A proposito di tale “incapacità” soggettiva di avere una concezione definita dei presupposti morali e valoriali, alcuni studiosi, nel passato e nel presente, hanno evidenziato come, a loro avviso, unicamente dal confronto personale con l’Assoluto proviene la certezza delle coordinate etiche: per esempio, Martin Buber ha rilevato che se si fa affidamento solo alla dimensione etica, e non a quella religiosa, «l’uomo non riesce ad attingere da essa l’assolutezza della scala dei valori»7. Il rapporto tra soggetto e trascendenza, come bussola delle scelte di ogni singolo uomo, anche per Manzoni era fondamentale in quanto partiva da una convinzione – acquisita dopo la sua conversione – che “bene e male hanno valore solo se rapportati all’Assoluto”8. Una tesi, questa, sostenuta anche da Tocqueville che riteneva la religione (e, quindi, il rapporto con Dio) l’unica possibilità non solo per man5 «Le religioni abituano a comportarsi in vista di un futuro. In ciò esse non sono meno utili alla felicità in questa vita di quanto non ritengano di esserlo nell’altra». Cfr. Alexis de Tocqueville, De la Démocratie en Amérique, cit., p. 155. 6 Cfr. Raymond Boudon, Declino della morale? Declino dei valori?, cit., p. 24. 7 Buber analizza in modo particolare il rapporto tra religione ed etica e sostiene che si può comprendere «un fondamentale aspetto del cammino, storicamente osservabile, dello spirito umano, se lo si osserva nei mutamenti dei rapporti tra l’etica e il religioso». Cfr. Martin Buber, L’eclissi di Dio, cit., pp. 91, 94. 8 Cfr. Alessandro Manzoni, Osservazioni sulla morale cattolica, cit., p. 18.

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tenere i legami sociali, i valori e temperare i desideri immediati, ma anche per assicurarsi dignità personale, un “bilanciamento dinanzi alla società del quotidiano” e una progettualità per il futuro9. Secondo Chesterton, addirittura, la religione (nella sua visione intellettuale quella cattolica) è la sola cosa «in grado di salvare l’uomo da una schiavitù degradante, quella di essere figlio del suo tempo»10. Oggi, la scelta degli attori sociali di lasciare nell’ombra il loro rapporto con l’Assoluto, a cui consigliavano di ancorarsi per la definizione dei comportamenti Manzoni, Tocqueville ed altri, almeno in alcuni casi, si traduce in una “disinvolta” elaborazione, nella prassi quotidiana, dei valori e dei codici religiosi consolidati nel tempo storico. Del resto, anche Weber spiegava che “nel mondo incantato” i valori, “giustificati” dalla tradizione e dalla credenza religiosa, avevano un loro ordine di importanza e offrivano la possibilità di interpretare la realtà; nella modernità occidentale, invece, l’obliterazione delle grandi narrazioni e delle garanzie soprannaturali avevano creato le condizioni per le quali «tutti i valori se presi per se stessi si pongono sullo stesso piano e non formano una gerarchia oggettivamente precostituita»11. Infatti, i soggetti sono inclini, all’insegna del relativismo interpretativo e di un orizzontalismo valoriale, a privilegiare fattori antitetici a paradigmi rigorosi, a negoziare assunti inflessibili e a non accordare legittimità a gerarchizzazioni valoriali predefinite. Nel panorama di vigente politeismo dei valori, che può essere espresso anche con la formula del “politeismo disincantato”12, l’attore sociale – oltre a “scollegare” i propri criteri valoriali dall’etica dogmatica e dai presupposti religiosi ed evitare gerarchie morali definite – ha una certa tendenza a paventare le difficoltà insite nel contesto della società13 ed è quasi costretto ad improvvisare atteg9

Cfr. Salvatore Abbruzzese, La sociologia di Tocqueville, cit., pp. 111-114. Gilbert K. Chesterton, La Chiesa cattolica. Dove tutte le verità si danno appuntamento, Lindau, Torino, 2010, p. 85. 11 Cfr. Max Weber, La scienza come professione, cit., p. 19. 12 Alessandro Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 18. 13 Cfr. Roberto Cipriani, Giovani e religione, in Raffaele Rauty (a cura di), La ricerca giovanile, Edizioni Kurumuny, Martignano (Le), 2008, p. 29. 10

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giamenti, a sposare principi, ad inaugurare credenze, in funzione delle sfide esperienziali, in quanto non può più basarsi sugli schemi di comportamento interiorizzati nel processo di formazione14. Tale improvvisazione soggettiva è causata sia dalla varietà di situazioni concrete e di rappresentazioni cognitivo-simboliche, irriducibili ad un’unica e determinata risposta pratico-riflessiva, che si devono affrontare nella realtà; sia perché le biografie dei singoli non sono più votate alla coerenza identitaria. L’identità del soggetto, oggi, non stabilizzata “in nessuna forma”15, è il risultato di un’opera di costruzione/decostruzione: essa è la sintesi delle preferenze, delle emozioni, delle esperienze e delle attese di ognuno e può essere aggiornata, o modificata, in ogni momento. La stessa idea, di manzoniana memoria, della vita intesa come un impiego – un impegno personale votato al “bene comune” – si è in parte trasformata, nella mentalità attuale meno attenta all’etica, nell’apertura biografica a vari scenari di scelta e ciò, a sua volta, ha modificato l’identità individuale da un dato, determinato dalla collocazione sociale, a un compito16 individuale da portare avanti con ampia libertà decisionale, che viene spesso gestito, però, con difficoltà e con una sensazione di rischio17. A proposito della sensazione di rischio, Simmel, con largo anticipo, aveva profetizzato una serie di ricadute negative causate dall’acquisizione dell’ampio arbitrio decisionale soggettivo e che esse erano parte della “tragedia” della modernità. A suo dire, l’epoca moderna proprio nell’offrire al singolo l’elaborazione autonoma del proprio destino e “un’idea del proprio Sé come essere multilaterale”18 lo poneva, a causa di queste infinite opportunità di decisioni, di fronte a degli ostacoli insormon-

14

Cfr. Raymond Boudon, Declino della morale? Declino dei valori?, cit., p. 9. Cfr. Andrea M. Maccarini, Lezioni di sociologia dell’educazione, Cedam, Padova, 2003; pp. 220-221. 16 Cfr. Maura Franchi, Augusto Schianchi, Scegliere nel tempo di Facebook, cit., p. 67. 17 Cfr. Ulrich Beck, I rischi della libertà, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 6, 8. 18 Cfr. Georg Simmel, Sull’intimità, (a cura di Vittorio Cotesta), Armando Editore, Roma, 1996, p. 26. 15

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tabili, che di fatto gli alienavano ogni possibilità di garantirsi una gratificante “vita interiore”. Infatti, il depotenziamento del “sistema immunitario spirituale”19, l’assenza di un parametro etico interiore che orienti l’infinità delle scelte da adottare20, la frammentazione identitaria e il relativismo interpretativo, tutto sommato, inibiscono la libertà ordinatrice personale, veicolano nelle coscienze dei singoli il dubbio, la mutevolezza delle opinioni e pregiudicano la possibilità di dare un senso pieno all’esistenza. Inoltre, il pluralismo valoriale e le molteplici possibilità di azione dispongono gli individui ad assumere un atteggiamento morale che “tende a dare lo statuto di tabù a ogni tipo di divieto” perché basato sull’idea che tutto quello che non lede la dignità dell’individuo e che non danneggia l’altro è ammissibile21. Questa logica discrezionale soggettiva, venata da una sorta di evanescenza valoriale «che fa scadere la tolleranza nell’indifferenza e l’etica in un supermarket»22, può essere messa in parallelo con l’atteggiamento privatistico e autorefenziale religioso. Non a caso, nell’ambito religioso non si registrano più alte percentuali di appartenenza forte o, tanto meno, posizioni marcatamente atee, ma semmai le persone ostentano «un paradossale miscuglio di indifferenza religiosa ed esperimenti pseudoreligiosi»23. In ogni caso, l’attuale atteggiamento culturale relativista, ben diverso dal dubbio sistematico, è molto distante da quello metabolizzato dalla mentalità socio-individuale classica che non pretendeva “di possedere la verità, che spetta solo a Dio”, ma non rinunciava comunque ai valori indiscutibili e alla ricerca della verità24. Il criterio relativista, proprio della stagione storica odierna, con il quale i soggetti scelgono in ogni ambito del loro vissuto, non 19

Cfr. Joseph Ratzinger, Cantate al Signore un canto nuovo, Jaca Book, Milano, 1976-2005, p. 42. 20 Cfr. Ralf Dahrendorf, La libertà che cambia, Laterza, Bari, 1980, p. 41. 21 Cfr. Raymond Boudon, Declino della morale? Declino dei valori?, cit., p. 96. 22 Cfr. Claudio Magris, Se il relativismo teme la verità, “Corriere della Sera”, 23/02/2012, p. 41. 23 Cfr. Giovanni Filoramo, La Chiesa e le sfide della modernità, cit., p. 48. 24 Cfr. Claudio Magris, Se il relativismo teme la verità, cit., p. 41.

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solo è caratterizzato da uno scarso interesse per la verità, ma il più delle volte sembra basato più che su una “compresenza di valori differenti”25 su un’inconsapevolezza etica, la quale si produce anche per il fatto che, a differenza del passato in cui vigeva l’influenza religiosa, il legame degli uomini con la moralità si interrompe quando non coincide con il loro stato d’animo26. Questa sorta di a-riflessività socio-individuale rispetto ai principi morali e religiosi di riferimento27 spesso si accompagna all’oscillazione tra una ragione calcolante e l’enfasi emotiva; tra aspirazioni ideali e disagio interiore; tra granitiche certezze e una scarsa stabilità delle idee; tra un desiderio di libertà e la conformistica accettazione di mode e modelli condivisi. In egual misura, in questa situazione culturale di ondeggiamento tra fronti etico-valoriali contrapposti, le persone si dividono anche tra un individualismo radicato e il bisogno di relazioni private familiari, di sentimenti di amicizia e di amore28 proprio per cercare una composizione alla tensione tra se stessi e la società, tra le loro aspettative e la mentalità circostante. In definitiva, nelle singole coscienze e nella trama sociale si riafferma un bisogno di comunità29, tanto da far sostenere a qualche studioso che il declino dei grandi ideali collettivi non testimonia “il trionfo dell’individualismo e la fine della società tout court”, piuttosto indica «il rinascere della socialità in forme nuove […] in forme cioè non più contrattuali e progettuali ma spontanee, quotidiane ed empatiche 25

Cfr. Michel Maffesoli, Note sulla postmodernità, cit., p. 62. Cfr. Gilbert K. Chesterton, La Chiesa cattolica. Dove tutte le verità si danno appuntamento, cit., p. 87. 27 Cfr. Silvia Vegetti Finzi (a cura di), Storia delle passioni, Editori Laterza, RomaBari, 1995, p. XVI. 28 Cfr. Carlo Buzzi, Alessandro Cavalli, Antonio De Lillo (a cura di), Quinto rapporto Iard, cit., p. 41. 29 Il desiderio di una dimensione comunitaria, peraltro, è anche uno dei vari motivi dell’incremento degli adepti nei nuovi movimenti religiosi, in quanto nel movimento l’individuo può trovare “risposta a ogni angosciosa domanda” e può sanare “l’esigenza di un’identità socio-individuale forte, il bisogno di appartenenza”. Soprattutto per gli adepti a un nuovo movimento religioso, il senso di comunità facilita l’autorealizzazione personale, “unico fine ricercato da tutti gli aderenti”. Cfr. Eugenio Fizzotti (a cura di), Sette e nuovi movimenti religiosi, Edizioni Paoline, Milano, 2007, pp. 9-10. 26

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il cui fine è unicamente quello dell’essere insieme, del condividere un’esperienza o un sentimento comune»30. In pratica, nell’attuale scenario socio-culturale tormentato e scarsamente lineare, nel quale ogni dinamica e aspirazione soggettiva tenderebbero a favorire – senza condizioni o regole – il relativo, l’effimero, il ludico e il consumo31, nell’opera di costruzione “libertaria”, autoreferenziale, edonistica e tecnologico-razionale della vita si colgono delle crepe, delle fessure, tanto che alla fine permane anche una ricerca metafisica32 e sembrano riprendere spessore sentimentale delle forme di solidarietà meccanica33: probabilmente, perché c’è una “onnipresenza dell’irrazionalità” e le forze della ragione sono meno potenti34. L’atteggiamento individualizzato nei confronti dell’etica, della gerarchia dei valori e della stessa costruzione della propria identità, ha delle correlazioni con i modi di esperire soggettivamente la religione e il suo apparato istituzionale. Infatti, la determinazione personale nelle scelte da operare è “la chiave di svolta” dell’attuale parte-

30 Elena Pulcini ritiene che sia presente nella mentalità contemporanea il desiderio di comunità e per confermare questa sua riflessione si rifà al pensiero di Maffesoli che, in sostanza, vede l’emergere di un “neotribalismo” e il permanere vitale e potente della Gemeinschaft dentro l’apparente disgregazione del corpo sociale. Cfr. Elena Pulcini, L’individuo senza passioni, cit., p. 168. 31 Il consumo è un fenomeno molto complesso che non si esaurisce nell’acquisto o consumo di oggetti infatti, alcuni studiosi, come Bauman, Beck, Giddens, hanno cercato di dimostrare che molte pratiche del consumo rispondono ad un’intima ricerca degli individui di “costruzione riflessiva dell’identità”. In definitiva, secondo questi autori, consumando l’attore sociale «non solo concorre a fissare una serie di classificazioni culturali, non solo esprime se stesso attraverso i simboli o comunica la propria posizione sociale, ma anche costruisce se stesso e, così facendo, riorganizza il mondo che lo circonda». Cfr. Roberta Sassatelli, Consumo, cultura e società, Il Mulino, Bologna, 2004, pp.140-141. 32 Alcuni studiosi ritengono che la metafisica non è superata, ma piuttosto è vero il contrario, in quanto mai come ora la società ne è alla ricerca. Cfr. Giuseppe Capraro (a cura di), Sociologia e teologia di fronte al futuro, cit., p. 104 33 Cfr. Roberto De Vita, Incertezza e identità, FrancoAngeli, Milano, 1999, p. 124. 34 Cfr. Frank Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, cit., p. 164.

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cipazione religiosa soggettiva35, in quanto la credenza e il significato del credere diventano, nelle odierne società cristiano-occidentali, delle opzioni tra le altre, ma delle opzioni “tormentate”36. Spesso il soggetto si appella alla sua coscienza come unica istanza etica, di conseguenza «l’ethos e la religione perdono la loro forza di creare comunità e scadono nell’ambito della discrezionalità personale»37, anche se il dato religioso rimane ancora un fattore dinamico che, in virtù di modificazioni continue e «agendo in scenari nuovi, genera panorami religiosi a loro volta apportatori di novità»38. Insomma, anche nella dimensione religiosa e nella sua declinazione soggettiva si ripropone, come nella sfera morale-valoriale o nell’atteggiamento individuale egocentrato spesso sfumato di nostalgia di comunità, la presenza di antinomie logico-concettuali che, in questo specifico ambito, sono determinate dall’esistenza “simultanea di religiosità e secolarizzazione”39. Non a caso, a fronte di una messa tra parentesi degli obblighi dogmatici, ancora per molti Dio «è una risorsa di senso necessaria, sia perché insita nella finitudine umana la domanda di una speranza ultramondana, sia perché la fede religiosa può dare una risposta ai punti di rottura e ai grandi interrogativi della vita»40.

35

Cfr. Enrico Lenzi, Lanzetti: si vive la fede come ricerca, “Avvenire”, 28/02/2012,

p. 18 36

Secondo Taylor esistono grandi differenze nelle società cristiane (o post-cristiane) e quelle mussulmane per quanto concerne la credenza e quindi i processi di secolarizzazione. Nelle società cristiane il mutamento storico-culturale ha condotto queste società da una fase «in cui era virtualmente impossibile non credere in Dio, a una in cui la fede, anche per il credente più devoto, è una possibilità umana tra le altre». Cfr. Charles Taylor, L’età secolare, cit., p.14. 37 Cfr. Benedetto XVI, Chi crede non è mai solo. Viaggio in Baviera. Tutte le parole del Papa, Cantagalli, Siena, 2006, p.25. 38 Cfr. Giovanni Filoramo, Millenarismo e New Age. Apocalisse e religiosità alternativa, cit., p. 11. 39 Cfr. Salvatore Abbruzzese, Un moderno desiderio di Dio. Ragioni del credere in Italia, Rubettino, Soveria Mannelli, 2010, p. 14. 40 Cfr. Franco Garelli, Religione all’italiana. L’anima del paese messa a nudo, cit., p. 28.

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3.2 Il fenomeno religioso Gli attori sociali – ripiegati tendenzialmente nella dimensione privata, intesa anche come fondamentale spazio simbolico di felicità – sono calati in un frenetico flusso edonistico-narcisistico dell’esistenza, segnato da una sorta di “idolatria” dell’interiorità41 e da una soggettività autoriflessiva anche in campo religioso42, ma le trasformazioni culturali in atto non segnalano un appiattimento delle coscienze sull’autoreferenzialità, sull’esclusiva razionalità strumentale e sull’estinzione della dimensione religiosa43, però se aprono un dialogo con il trascendente (anche in forme non strutturate di preghiera44) la loro dimensione fideistica è il più delle volte vissuta come libertà interpretativa “di religione e nella religione”45. L’approccio soggettivo al credo religioso non porta solo a strutturare l’atteggiamento di adesione alla fede a seconda di una propria visuale, ma anche a far prevalere l’aspetto dialettico «di porsi domande, di fare scelte […] e darsi risposte a livello individuale»46. Naturalmente, a seguito di questa impostazione religiosa privatistica e di accettazione condizionata dei dogmi in funzione delle personali considerazioni, si sono fatte sempre più complesse e critiche anche 41

Cfr. Richard Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, Bompiani, Milano, 1982,

p. 249 42

Cfr. Danièle Hervieu-Léger, Religione e memoria, cit., p. 97. Secondo Clemente Lanzetti, l’Italia è un paese in cui l’aspetto religioso rimane importante, come evidenziano i dati dell’ultima ricerca (condotta dall’European Values Studies), che raccoglie gli orientamenti di valore dei cittadini europei: infatti, si è registrato in dieci anni un aumento percentuale, dall’82,5 all’84,2, di italiani che affermano di sentirsi religiosi. Cfr. Enrico Lenzi, Lanzetti: si vive la fede come ricerca, cit., p. 18. Anche nell’indagine sulla religiosità nel Nordest (Aquileia; Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige), curata dall’Osservatorio socio-religioso, i dati raccolti segnalano un tipo di cultura improntata alla libertà religiosa, ma anche la buona tenuta di una domanda di spiritualità. Cfr. Francesco Dal Mas, Il Nordest alla ricerca della sua antica anima, “Avvenire”, 17/02/2012, p. 20. 44 Cfr. Riccardo Grassi (a cura di), Giovani, religione e vita quotidiana, cit., p. 35. 45 Cfr. Francesco Dal Mas, Il Nordest alla ricerca della sua antica anima, cit., p. 20. 46 Cfr. Enrico Lenzi, Lanzetti: si vive la fede come ricerca, cit., p. 18. 43

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le modalità di trasmissione, da una generazione all’altra, delle regole di convivenza condivise e delle norme religiose, che non sono più intese come identità da ereditare47. In linea di massima, dunque, come avviene in ogni altro versante fenomenico pure per quanto riguarda l’aspetto della religione, gli attori tendono a rifiutare imposizioni verticistiche, preferendo autodeterminare la propria inclinazione al sacro. In questo senso, i dogmi, i riti, le credenze, sono sottoposti ad una costante riformulazione personale e ad una conseguente mutevolezza di intensità48 nella loro interiorizzazione non più incondizionata, ma subordinata alle circostanze, alle provocazioni esperienziali e alle decisioni da prendere49. Il criterio selettivo, però, con cui le nuove e le vecchie generazioni elaborano sia il sentimento religioso e sia le indicazioni ecclesiastiche, coinvolge lo stesso concetto di religione, che “tende a dilatarsi in modo imprevedibile”50, ma proprio questo comportamento, apparentemente contrario alla sua persistenza nel contesto sociale, favorisce il suo adattamento alle sfide del momento51. Infatti, nonostante l’individualismo del credere – che seleziona i contenuti fondamentali della fede nel segno vistoso di una sostituzione del “criterio dell’osservanza con quello della presenza facoltativa” – i soggetti non assimilano la religione come un “fattore residuale di una modernità incompiuta” o un fattore “marginale di una tarda modernità in crisi”52, bensì continuano ad attingere, in molte occasioni, 47 Nel mondo contemporaneo «le identità religiose non possono più essere considerate come identità ereditate». Cfr. Danièle Hervieu-Léger, Il pellegrino e il convertito, cit., p. 55. 48 Cfr. Roberto Marchisio, Religione e religiosità, cit., p. 119. 49 Il fenomeno di privatizzazione della religione è in parte attivato da una protesta «contro l’inquadramento burocratico dei sentimenti individuali nelle chiese. Questi soprassalti del soggetto contro l’organizzazione corrispondono bene alle tendenze culturali di una modernità centrata sul diritto dell’individuo alla soggettività, anche in campo religioso». Cfr. Danièle Hervieu-Léger, Religione e memoria, cit., p. 97. 50 Cfr. Giovanni Filoramo, Religione e ragione tra ottocento e novecento, Laterza, Bari, 1985, p. XI. 51 Cfr. Roberto Cipriani, Giovani e religione, in Raffaele Rauty (a cura di), La ricerca giovanile, cit., p. 29. 52 Cfr. Giovanni Filoramo, Millenarismo e New Age. Apocalisse e religiosità alternativa, cit., p. 11.

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ai significati fondamentali dell’apparato simbolico della religione53, pur se non fedelmente ancorati ai legami istituzionali. Tutto sommato, il riferimento religioso ha ancora un’importante valenza nella società e nell’intimo delle coscienze e la “volontà” socio-culturale di ridurne l’influenza non riscuote il parere favorevole di gran parte della popolazione54. Infatti, in questa stagione di perenne fermento, a causa delle problematiche sollevate dal dinamismo culturale, se è vero che sempre di più ogni singola biografia tende a stabilire una distanza abissale tra prassi quotidiana e regole rigorosamente predefinite, tra inclinazioni emotive e razionalità, è altrettanto verificato che alcuni ritornano prepotentemente – a volte con ragione e a volte con un sentimentalismo diffuso – a riorientarsi verso la spiritualità. Sostanzialmente, anche nell’era della tecnica, gli individui non smettono di porsi molte domande sul senso più ampio della loro vita e di avvertire aspirazioni profonde, tra le quali: «la nostalgia delle origini e della comunità, la sete di sacro, l’esigenza di una tensione morale, il bisogno di un Dio»55. Non a caso, Taylor, uno degli interpreti di maggior prestigio della modernità, sostiene, in controtendenza con le teorizzazioni del “pensiero debole”, che – al di là delle trasformazioni avvenute nella mentalità degli uomini e a monte di ogni “immaginario sociale” – Dio continua a rappresentare “l’orizzonte degli orizzonti di senso” che si estende oltre ogni sapere, ogni altra possibile condizione, in quanto rappresenta “l’apertura di senso originaria”56. Le domande di significato e lo stesso controverso fermento esistenziale che si leggono nello scenario religioso si possono rilevare nel mondo dell’immaginario, che ha più correlazioni di quanto appaia con l’attuale esperire fideistico soggettivo. Forse, attraverso i linguaggi dell’immaginario l’analisi sociologica potrebbe raggiun53 Cfr. Franco Garelli, Religione all’italiana. L’anima del paese messa a nudo, cit., 2011, p. 217. 54 Ivi, p. 33. 55 Cfr. Franco Garelli, Forza della religione e debolezza della fede, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 18. 56 Cfr. Charles Taylor, La modernità della religione, Meltemi, Roma, 2004, p. 140.

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gere analiticamente gli elementi evanescenti, immateriali, non solo fantastici, dell’universo invisibile e segreto della coscienza socioindividuale – aspetti altrimenti interdetti alla sua interpretazione – e cogliere delle istanze più problematiche, non evidenziate dall’indagine mirata esclusivamente alla fenomenologia religiosa. In linea di massima, si potrebbero comparare, solo a titolo ipotetico e tutto da tarare metodologicamente, alcuni dati empirici sulle credenze individuali rispetto al male, alla morte, all’eternità e il tipo di aspirazioni o paure, che connotano questi stessi temi, così come essi traspaiono nelle produzioni del fantastico, cercando di verificare la tenuta dell’influenza simbolica dell’etica e del religioso sull’immaginazione; o viceversa quanto l’immaginazione rivela delle nuove metabolizzazioni etico-religiose soggettive. Per esempio, nella letteratura fantastica, che è stata analizzata in queste pagine, i concetti di male, di morte, di vecchiaia e di ansia esistenziale non sembrano contemplare rinvii ad accezioni filosofiche, metafisiche o teologiche e meno che mai rispetto a queste tematiche si evince un riferimento a categorie come “colpa” o “errore”57; tuttavia, per certi aspetti, nella filigrana del fumetto Dylan Dog e del romanzo Twilight sono palpabili il dubbio, l’incertezza sull’autosufficienza umana, una diffusa atmosfera tragica e l’ambivalenza eticoesistenziale propria della contemporaneità.

3.3 L’immaginario Già nel testo Un sottile legame tra Mozart, Kierkegaard e Don Giovanni58 è stato rilevato quanto l’aspetto meno apparentemente empirico e più immaginativo possa segnalare risvolti importanti del cambiamento culturale e quanto esso riesca a portare alla luce le credenze, i legami o le rotture con la fede, le ansie e i desideri latenti 57

Cfr. Claudio Ciancio, Del male e di Dio, Morcelliana, Brescia, 2006, p. 35. Cecilia Costa, Un sottile legame tra Mozart, Kierkegaard e Don Giovanni, in Milena Gammaitoni (a cura di), Per una sociologia delle arti. Storia e storie di vita, Cleup, Padova, 2012. 58

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che si agitano nelle coscienze individuali. In base a questo presupposto, in quel saggio sono stati analizzati i vissuti artistico-biografici di Mozart e di Kierkegaard, particolarmente controversi, perché a fronte delle loro enormi capacità creativo-riflessive sembravano patire, nel loro contesto sociale, una certa estraneità culturale, delle frustrazioni sia prettamente biografiche che delle loro potenzialità artistico-filosofiche. Questi due autori sono stati scelti, quasi in senso idealtipico, come l’espressione privilegiata delle loro rispettive epoche perché, pur essendo due menti straordinarie, erano comunque “saturi” delle coordinate etico-valoriali del loro tempo. In quell’occasione interpretativa, però, si è soprattutto ipotizzata l’esistenza di un sottile legame ideale tra Mozart e Kierkegaard basato sulla proiezione della loro sfera simbolico-immaginativa sulla stessa figura mitica: Don Giovanni. Non a caso, è stato fatto presente che i personaggi di qualsiasi opera d’arte, non sono come tali “autonomi e autarchici”, ma essi possono condensare qualcuna «delle infinite mobilissime finzioni del sentimento degli autori, una specie di diaspora ideale del loro stato d’animo»59. Inoltre, sempre in quella circostanza interpretativa, si è anche sottolineato che questa loro medesima proiezione sulla figura di Don Giovanni potrebbe essere intesa quasi come una sintesi non solo del tumulto delle loro menti inquiete60, ma più in generale anche dei fermenti reali ed immaginari della mentalità socio-individuale delle loro diverse stagioni storiche. Del resto, la figura di Don Giovanni, nella sua anarchia trasgressiva, nel suo rifiuto delle convenzioni e delle norme dell’alta nobiltà a cui apparteneva per nascita, è stato uno specchio in cui molti hanno potuto esorcizzare ed esternare le loro frustrazioni, le loro rivolte verso un mondo che non capivano e non li capiva. A proposito di questo, nella traduzione letteraria Don Juan, ou le festin de pierre, fatta in un periodo frustrante della sua carriera per la censura del suo Tartuffe, il drammaturgo Molière affi59

Cfr. Luigi Russo, Personaggi dei Promessi Sposi, cit., p. 18. Cfr. Cecilia Costa, Un sottile legame tra Mozart, Kierkegaard e Don Giovanni, in Milena Gammaitoni (a cura di), Per una sociologia delle arti. Storia e storie di vita, cit., pp. 118-124. 60

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dò, in qualche modo, al personaggio di Don Juan la rappresentazione del suo ambiguo stato d’animo61. In ogni caso, in Mozart e anche in Molière, Don Giovanni non è una figura del tutto negativa, anche perché gli vengono assegnati dei rivali inadeguati: infatti, i codici morali sono difesi dal suo servo e da una statua “fin troppo astrattamente teologica”62. Infatti, malgrado la rappresentazione negativa (tenendo sempre presente che il libretto è stato scritto da Da Ponte), egli diventa una sorta di impavido ribelle e, proprio in virtù di questo suo imprevisto spessore eroico, estraneo alle intenzioni del suo compositore, può essere inteso come la remota rivendicazione di un “io segreto” mozartiano nei confronti di un mondo circostante deludente e dell’etica imposta da quel mondo. Nelle pieghe dell’approccio del compositore e del filosofo al mito dongiovanneo – celebrato dalla musica di Mozart e dal libro dedicato a quella musica e a quel mito da Kierkegaard – forse si può cogliere la loro latente rivolta verso un mondo “nemico” e, nello stesso tempo, la loro volontà di non abbandonare i criteri etico-religiosi dei quali erano pervasi, sia perché figli del proprio tempo e sia perché in loro l’aspirazione al trascendente aveva ancora un’influenza fondamentale. Partendo dall’accennato presupposto proiettivo, Don Giovanni, per Mozart, può aver simboleggiato la sua rivolta, il suo estremo rifiuto alle imposizioni pubbliche, alle regole sociali condivise e la sua amara ironia verso una mentalità socio-politica e una cultura che limitavano la sua genialità, mortificandone la libertà artistica, la sua passionalità e il suo slancio spirituale; una situazione per lui intollerabile tanto da preferire, forse in senso traslato, la stessa sorte tragica del libertino, che sprofonda all’inferno pur di non sottomettersi ai codici imposti dall’autorità. Tutto sommato, l’immagine di Don Giovanni che si scontra con lo spettro del Commendatore – una 61 Cfr. Loredana Lipperini, Don Giovanni. Il potere della seduzione, la musica, il mito, Castelvecchi, Roma (II edizione riveduta e ampliata), 2006, p. 42. 62 Ivi, pp. 42-43.

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statua di pietra – può essere letta come la volontà di contrapporre, in modo definitivo, due antitetiche costellazioni simboliche: da una parte la granitica stabilità sociale, l’esistenza che dura nel tempo e i valori immutabili incarnati dalla statua di pietra; dall’altra parte, la sostanza effimera di amori fragili, delle gioie fugaci63 e “l’atteggiamento deviante, corrosivo dell’istante” esaltati da Don Giovanni64. L’ostinazione coerente del libertino a perdersi può essere interpretata anche come una scelta di estremizzazione eroica di un desiderio di libertà, subliminalmente condivisa da Mozart: però, in nuce permane l’atmosfera teologica del peccato, della colpa, della dannazione, della possibilità della Grazia e del libero arbitrio. Oppure, l’icona di Don Giovanni può esprimere il sapore di morte e il “brivido dell’Eterno”, che in quel momento erano maturati nella coscienza di Mozart, quando ormai la sua vita volgeva alla fine e la sua sensibilità oscuramente percepiva l’approssimarsi di questo definitivo appuntamento65. Non a caso, si è sostenuto che quest’opera è «la formidabile prova della natura inconsapevole dell’espressione artistica», in quanto il musicista, senza accorgersene, esprime qualcosa di diverso dai suoi originari propositi e «manifesta la sua personalità profonda inconsapevole di se stessa, sciolta dal controllo logico della volontà»66. In Kierkegaard, a differenza della prospettiva mozartiana, si sfuma il risentimento viscerale verso la mentalità del tempo in quanto, nelle sue intenzioni, Don Giovanni – “il mito dei miti”67 – può esse63

Cfr. M. Solomon, Mozart, Vol. II, Arnaldo Mondadori Editore, Milano, 1996, p.

467. 64 Cfr. Loredana Lipperini, Don Giovanni. Il potere della seduzione, la musica, il mito, cit., p. 21 65 Nel 1787 nella mente di Mozart sempre di più prendeva consistenza un presagio di morte; infatti, nell’aprile di quell’anno scrisse al padre: «Non mi corico mai la sera senza considerare ch’io forse (per quanto giovane) il giorno dopo non ci sarò». Cfr. Massimo Mila, Lettura del Don Giovanni di Mozart, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2000, p. 40. 66 Ibidem. 67 Don Giovanni rappresenta la «duplice vetta dell’Opera Musicale e dell’evoluzione di un personaggio-cardine della modernità». Cfr. Loredana Lipperini, Don Giovanni. Il potere della seduzione, la musica, il mito, cit., p.5.

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re lo specchio di una perdizione che si vuole allontanare o, addirittura, nella parte estetica kierkegaardiana, è un suo sofisticato ed astuto espediente intellettuale per ricondurre nel recinto della fede le persone inclini ad un finto Cristianesimo. L’esaltazione dell’idealtipica figura del “bianco eroe” potrebbe rappresentare per Kierkegaard una sorta di sua manifesta quanto sofisticata rappresaglia concettuale nei confronti di un pensiero filosofico rigido ed astratto, ma forse anche una sua insofferenza celata contro la rigida disciplina, per altro autoimposta in obbedienza al Cristianesimo mai tradito, ma che delle volte gli appariva come “la crudeltà più inumana”68. A tal proposito, alcuni suoi interpreti sostengono che nell’immagine di figure edonistiche (per esempio, nel personaggio di Don Giovanni) si coglie, alla fine, una segreta complicità kierkegardiana con le loro debolezze; così, come viene espressa, da qualche autore, una certa sorpresa per la “apologia del senso”69 contenuta nel suo elogio all’opera di Mozart. Peraltro, Kierkegaard, lungi dal voler nascondere certi suoi smarrimenti etico-emotivi, a proposito delle sue tribolazioni intime e spirituali, scrisse in una sua confessione autobiografica di essere stato tentato «in molti modi, dalle cose più diverse, purtroppo anche dalla dissolutezza»70. Inoltre, Don Giovanni potrebbe aver oscuramente svolto, sia per il musicista che per il filosofo, la funzione catartica di liberare il loro spirito dal peso di sensazioni contraddittorie, le quali così potevano sfumare nell’irrealtà del racconto. Il protagonista dell’opera potrebbe aver rappresentato una sorta di limbo etico, perché ancora non aggredito dal peccato, nel quale sia Mozart che Kierkegaard, forse, hanno inconsciamente riversato la loro aggressività emotiva, la loro ansia di esistere, la loro attrazione verso il fascino terribile della morte e la loro battaglia interiore tra bene e male. 68 La severa e rigida educazione al Cristianesimo, impartita dal padre, alcune volte aveva procurato a Kierkegaard sofferenza e “una pesante sensazione” di oppressione. Cfr. Sören Kierkegaard, Il mio punto di vista, Meravigli, Vimercate, 1994, p. 53. 69 Cfr. Sören Kierkegaard, Don Giovanni, (a cura di Remo Cantoni), M.A. Denti Editore, Milano, 1945, p. 28. 70 Cfr. Sören Kierkegaard, Diario del seduttore, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1993, p. III.

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Nei due esempi di immaginario contemporanei proposti in questo saggio – Dylan Dog e Twilight – al contrario delle proiezioni di Mozart e Kierkegaard sul Don Giovanni, non si colgono atteggiamenti determinati e consapevolmente maturati di rivolta verso l’ordine costituito o contrari alla morale corrente; né tanto meno si percepisce una “battaglia” interiore tra bene e male e neanche la scelta, magari tragica, di perdersi per sempre o di salvarsi a costo di un sacrificio. Piuttosto, in entrambi gli esempi del mondo fantastico attuale, pur se con alcune differenze, appare evidente una sorta di disinteresse – una messa tra parentesi – in parte come nella realtà empirica, sia per riflessioni espressamente contrarie alla morale e sia per credenze quali: il “giudizio eterno”, le verità trascendenti, il “senso del peccato e il timore della dannazione”71, ma permane, invece, un’ansia mai risolta per gli appuntamenti biografici più drammatici, ad iniziare dal male e dalla morte. Questi appuntamenti dolorosi ed “incomprensibili”, nonostante l’impegno profuso a livello teorico-pratico, non sono stati risolti né annullati. Nel corso dei secoli, l’umanità ha invocato, in modi diversi, un soccorso, un conforto spirituale o una giustificazione convincente della presenza del male nel mondo e, soprattutto, della morte: un profondo bisogno di comprensione di questa “assurda” realtà, che Weber aveva espresso nel suo concetto di teodicea. La prima risposta alla domanda fondamentale sulla morte che, negli ultimi due millenni, gli uomini colpiti nella loro vitalità, come nel loro desiderio di felicità, hanno preso in seria considerazione, è stata prospettata dal Cristianesimo72. Basti pensare, sempre per rimanere nel recinto dell’immaginario letterario, l’atteggiamento di fede e di rispetto verso il tempo dell’età avanzata, intesa come “prefazio della morte e quindi dell’eternità”, che si legge nei Promessi Sposi. Non 71 Cfr. Gianfranco Morra, Il quarto uomo. Postmodernità o crisi della modernità?, Armando Editore, Roma (seconda edizione riveduta e ampliata), 1996, p. 46. 72 Cfr. Sergio Belardinelli, La sofferenza e la morte nell’era della tecnica, in Bioetica del dolore, (a cura di) Sergio Belardinelli, Leonardo Allodi, Ivo Germano, «Salute e società», anno V, 3/ 2006, FrancoAngeli, Milano, p. 217

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a caso, la conversione dell’Innominato, già calato in un’atmosfera religiosa ancor prima di redimersi, prende avvio quando, tra sé e sé, si domanda: “Invecchiare? Morire? e poi?” e, sull’onda di questo interrogativo, coniuga il pensiero della morte – non intesa “come qualcosa di fisico, ma essa stessa come una cosa trascendente”73 – e quello dell’aldilà. Una seconda risposta all’ancestrale richiesta di conforto e “soluzione” dell’ineluttabilità della fine della vita, che si è perfezionata nel tempo, è di tipo medico-tecnologico, considerata dai profeti del progresso come la sola via razionale per sanare le malattie e “addomesticare” la morte74. Ora, sembra esserci quasi una terza risposta di tipo fantastico a mediare tra un’adesione fragile alla concezione cristiana e la fine dell’utopia del progresso: in Dylan Dog questa risposta è l’esposizione – quindi l’esorcizzazione – tragica, repellente ed “incubosa” della morte e delle paure quotidiane; in Twilight invece è la trasformazione della transitorietà umana in una condizione “innaturale” di perenne continuità immanente della vita, che passa anche attraverso l’amore. 3.4 Ipotesi di una percezione post-razionale della morte e dell’eternità nel religioso e nell’immaginario Nel corso delle varie fasi storiche si sono modificati gli atteggiamenti spirituali e gli schemi di riferimento morale, dei singoli e della società, nei confronti dei segni impietosi del tempo sul corpo, della malattia, della morte: si è passati da una concezione generale dell’esistenza e dell’eternità pervasa da un forte sentimento del sacro75 e della fede nella trascendenza all’attuale idea laico-razionale. 73

Cfr. Luigi Russo, Personaggi dei Promessi Sposi, cit., p. 75. Cfr. Sabino S. Acquaviva, Eros, morte ed esperienza religiosa, Laterza, Bari, 1990, p. 126. 75 Cfr. Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità, cit., pp. 114-116; cfr. Roger Caillois, L’uomo e il sacro, cit., pp. 13-14. 74

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Questa transizione da una prospettiva incantata del mondo ad una disincantata ha, progressivamente, circoscritto la lunga durata all’interesse per l’istante, le “cose” eterne alla propria vita pratico-fisica76 e ha sostituito l’immagine di salvezza ultraterrena con quella immanente “nel tempo e col tempo”, l’anima immortale con “molte anime mortali” 77. L’umanità ha tentato invano, soprattutto nel corso dell’ultimo secolo, con ogni espediente di valicare i confini biologici, così come ha cercato in ogni modo di legare finito ed infinito, transitorietà e durata78 o, almeno, di comprendere il senso della morte. L’atteggiamento degli uomini nei confronti della morte, spesso mutevole da un’epoca all’altra, ha da sempre condensato molte delle dinamiche della vita: i disagi, i timori, le angosce e le attese79. Non solo è cambiato, nel lungo periodo, l’approccio alla morte, ma anche a quello del tempo che incide profondamente sia nella visione della fine della vita e sia nella condotta di vita80. Infatti, l’accettazione della morte o viceversa la ribellione alla finitezza del destino umano81 sono scelte soggettive (e sociali) basate, oltre che sulla centralità attribuita al proprio corpo e alla propria identità, sull’importanza del sentimento religioso nel proprio vissuto e, anche, sulla concezione del tempo. La separazione tra religione e ragione consumata nel periodo illu76

Cfr. Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità, cit., pp. 117-118. Cfr. Gianfranco Morra, Il quarto uomo. Postmodernità o crisi della modernità, cit., pp. 20, 67. 78 Cfr. Zygmunt Bauman, La società individualizzata, Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 298, 301. 79 Cfr. Michel Vovelle, La morte e l’Occidente, Laterza, Roma-Bari, 2000, p. 689. 80 «Il senso del tempo cambia con il variare dei sistemi sociali e delle culture […] ci sono culture caratterizzate da una totale indifferenza verso il trascorrere del tempo e società, come la nostra, dove il tempo (o meglio, l’uso del tempo), gioca un ruolo fondamentale […] Tale concezione utilitaristica del tempo penetra così in profondità nel vissuto delle persone da incidere in maniera determinante nella loro condotta di vita». Cfr. Gabriella Paolucci, Il disagio del tempo, Editrice Ianua, Roma, 1986, pp. 15, 26, 29. 81 Cfr. Philip Ariès, L’uomo e la morte dal Medioevo ad oggi, cit., p. 157. 77

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minista82, la consapevolezza dell’irripetibilità del proprio sé83, della centralità del proprio corpo84 e l’acquisizione di un’inedita percezione di un tempo privato hanno portato l’individuo a pretendere un benessere immediato85 e, nello stesso tempo, lo hanno reso insofferente ai suoi limiti bio-antropologici e alla procastinazione dei propri desideri. Questo incontro della razionalità scientifica con le nuove libertà soggettive ha tarlato la trama relazionale intessuta nei secoli tra Dio e l’umanità e, in parte, disperso l’antica abitudine dello spirito a misurarsi con le scadenze ineluttabili della vicenda umana, ma questa stessa logica razionale e le stesse infinite libertà non sono riuscite ad offrire sponde emotive o consolazioni di fronte alle fratture biografiche. Infatti, alcune indagini sociologiche sul fenomeno religioso hanno evidenziato, sulla base di elementi empirici oggettivi, delle dinamiche che ristabiliscono una dialettica tra ambiti dell’esistenza a lungo separati: malattia e religione, dolore e religione, morte e religione86. Tutto sommato, smentendo alcune profezie di scomparsa progressiva dal tessuto sociale della religione, molte ricerche su un campione rappresentativo della realtà italiana87 e altre qualitative – 82

Cfr. Giovanni Filoramo, Religione e ragione tra Ottocento e Novecento, cit., pp. VIII-IX. 83 «La concezione individualista è chiara e matura nel pensiero del Settecento: ogni essere umano è unico, irripetibile, e la sua vita ha due scansioni, la sua nascita e la sua morte». Cfr. Alain Laurent, Storia dell’individualismo, cit., p. 8. 84 Il corpo che nel passato era oggetto di scarsa cura, attualmente suscita una dedizione maniacale e una preoccupazione assoluta, al limite del “misticismo”: il corpo fisico diventa un simbolo centrale, “un dovere primario”, un oggetto prezioso da difendere in quanto “permette di assaporare tutti i piaceri che la vita ha da offrire” e rivela la presenza e le modalità del proprio apparire: nel corpo, infatti, come sostiene Galimberti, “c’è perfetta identità tra essere e apparire”. Cfr. Zygmunt Bauman, La società dell’incertezza, cit., pp. 143, 308; cfr. Umberto Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 2005, pp. 15-16. 85 Cfr. Sergio Belardinelli, La sofferenza e la morte nell’era della tecnica, in Bioetica del dolore, (a cura di S. Belardinelli, L. Allodi, I. Germani), «Salute e Società», cit., p. 18. 86 Cfr. Sabino Acquaviva, Eros, morte ed esperienza religiosa, cit., p. 144. 87 L’indagine “Tipologie culturali e religiose in Italia”, svolta a cura dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è stata condotta su un campione di adulti rappresentativo dell’intera realtà nazionale e offre una analisi capillare del fenomeno religio-

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come quella effettuata in occasione del Giubileo del 2000, con il suo esclusivo valore tematico-ideografico – confermano la tenuta, anche se controversa, di alcuni codici di percezione religiosa individuale, di un riverbero della tensione spirituale nella prassi quotidiana88 e di una correlazione positiva tra un’intensa esperienza di fede e un abbassamento dei livelli di ansia nelle circostanze difficili. Inoltre, esse disegnano uno scenario culturale non più orientato alla tabuizzazione degli appuntamenti dolorosi della vita89. Le grandi tematiche antropologiche si dimostrano sempre fonti di tensioni, dalle quali però, nonostante l’urto della modernizzazione, non viene affatto escluso il riferimento religioso, anche se spesso si prospetta in forme sincretiche. In un certo modo, i dati oggettivi sconfessano alcune semplificazioni sui processi di modernizzazione e sulle loro implicazioni e delineano tutt’ora la presenza di un legame tra le singole coscienze e la trascendenza, il senso del dolore e della vita90. Nelle strisce di Dylan Dog e nelle pagine del romanzo Twilight91 so. Il campione costituito da 4.500 soggetti è articolato in base alle seguenti variabili: sesso, età, stato civile, composizione familiare, livello di istruzione, tipo di occupazione dei componenti del nucleo familiare (o loro disoccupazione), partecipazione a gruppi di ispirazione religiosa, indice di religiosità, ampiezza dei comuni campionati (166), area geografica. Per raccogliere i dati si è utilizzato un questionario con domande a risposta chiusa, focalizzato su categorie religiose ma anche attento a istanze politico-culturali. Cfr. Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Giancarlo Rovati, La religiosità in Italia, cit. 88 L’influenza della religione nel vissuto concreto dei soggetti è stata indagata nella ricerca, del 1999-2000, sul Pluralismo morale e religioso, condotta su un campione di 2.149 unità, rappresentativo della realtà italiana: «il 38% ha dichiarato d’ispirarsi alla fede per stabilire i criteri di bene e male, il 30% ritiene che le convinzione religiose abbiano un riverbero nella propria esperienza di vita, il 28% che le scelte decisive siano, in qualche modo, verificate anche alla luce delle convinzioni religiose». Cfr. Franco Garelli, Gustavo Guizzardi, Enzo Pace (a cura di), Un singolare pluralismo, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 94. 89 Cfr. Roberto Cipriani (a cura di), Giubilanti del 2000, cit., pp. 134-135. 90 Cfr. Cecilia Costa, L’individuo, la morte, la malattia nel mondo contemporaneo, in Roberto Cipriani, Gaspare Mura (a cura di), Il fenomeno religioso oggi, Urbaniana University Press, Città del Vaticano, 2002, p. 537. 91 Le riflessioni sul romanzo Twilight, presenti in questo testo, sono in continuità con altre speculazioni su di esso portate avanti in un saggio di prossima pubblicazione

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pur se, da una parte, si rileva una rimozione, almeno apparente, del mondo religioso – a differenza del trend socio-individuale oggettivo tutt’ora orientato religiosamente – dall’altra si legge comunque il travaglio culturale ed esistenziale della modernità e l’assenza dell’antica enfasi “sulla possibilità ordinatrice della razionalità”92. In un certo senso, attraverso le “mode” di fuga immaginativa – come appunto Dylan Dog e Twilight – e la creatività fantastica (in ogni sua forma espressiva) si decodificano alcuni dinamiche della realtà visibile, a cominciare dall’attuale diffusa vulnerabilità esistenziale. Il linguaggio immaginativo, di fatto, può far accedere a livelli profondi di analisi sociologica e, di conseguenza, può far risaltare aspetti dell’esperienza soggettiva altrimenti censurati nel vissuto razionale in quanto, quasi in contraddizione con i codici della mentalità manifestata in pubblico, le persone con la loro fantasia vivono una sorta di esistenza parallela93, nella quale cercano di esorcizzare le oscurità e di conquistarsi ogni felicità. Non a caso, in linea più generale, gli universi simbolici, ai quali appartiene a pieno titolo la sfera del fantastico, dal momento che “abbracciano l’ordine istituzionale in una totalità simbolica” hanno un ruolo importante nel determinare le disposizioni spirituali, emotivo-cognitive, nell’integrare diverse costellazioni di significato: la società e l’intero vissuto individuale sono visti come avvenimenti che si svolgono al loro interno94. La capacità di questi universi di dare un senso al mondo e all’esistenza non si esaurisce nella sola dimensione della vita sociale, ma la loro azione include la metabolizzazione delle “esperienze più solitarie”95 dell’individuo e l’inseri-

– Tra reale e irreale. Giovani ai margini – scritti da Barbara de Angelis, Cecilia Costa, Susanna Pallini. 92 Cfr. Charles Taylor, La modernità della religione, cit., p. 113. 93 Cfr. Sergio Brancato, Sociologie dell’immaginario, cit., p. 18. 94 Gli universi simbolici seguono i processi di oggettivazione, sedimentazione e accumulazione in quanto essi “sono prodotti sociali che hanno una storia”. Cfr. Peter L. Berger, Thomas Luckmann, La realtà come costruzione sociale, cit., p. 138. 95 Ivi, pp. 136-138.

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mento, nella gerarchia della realtà, delle «sfere di significato marginale, ossia incomprensibili nella vita ordinaria»96. Infatti, il fumetto di Dylan Dog e il romanzo di Twilight, in qualche modo, aiutano ad interpretare le emozioni coltivate nell’interiorità delle coscienze, “le sfere marginali” e l’ansia prodotta da quelle stesse sfere, ma per il magma di antichissime e nuovissime istanze che contengono le due narrazioni potrebbero anche dimostrare la capacità analitica del mondo fantastico di delineare il fermento culturale, i diversi schemi valoriali emergenti e di dare sostanza riflessiva, in chiave immaginativa, anche agli interrogativi filosofici più tradizionali e alle “trasgressioni” etico-antropologiche più moderne. Nel fumetto di Dylan Dog, in cui è evidenziato l’aspetto più onirico e insieme psicologico, se non psichiatrico, dei disagi del vivere, si narra la “tragedia della modernità” nelle sue varie declinazioni, ma, in modo particolare, quella della mancata promessa di spostare sempre più avanti i confini della vita, di sanare ansie e incubi tradizionali e di garantire una felicità, qui ed ora, grazie alla ragione, al progresso e all’innovazione tecnica. In Twilight, invece, non ci si rivolge agli incubi per sublimare o rappresentare fantasticamente le paure reali, ma si cerca di ovviare alle mancate promesse dell’innovazione e al bisogno di superare l’ansia fondamentale con la rinuncia “all’umano in cambio dell’eternità”; o meglio, di superare l’umano e il suo limite mortale. Alla fine, però, i vampiri, pur avendo superato i limiti mortali, non sono sottratti alla «inquietudine dell’essere umano verso questa artificiosità del sovraumano»97 tanto che Edward, non convinto del suo modello di eternità, dirà a Bella: “io sono un mostro”. Questo “sconcerto” di Edward per la sua condizione di non-morto potrebbe in parte essere inteso come una metafora del timore reale avvertito dalle coscienze

96 Gli universi simbolici seguono i processi di oggettivazione, sedimentazione e accumulazione in quanto essi “sono prodotti sociali che hanno una storia”. Ivi, p. 138139, 144. 97 Cfr. Vittoradolfo Tambone e Luca Borghi (a cura di), La medicina dei Nuovi Vampiri, Accademia Universa Press, Milano, 2010, p. 12.

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soprattutto di fronte al superamento delle barriere bio-mediche, a cominciare da quelle della manipolazione genetica98. Nei due testi immaginari che sono stati presi in considerazione, i protagonisti non sono influenzati nel loro approccio alla morte e all’eternità da istanze religiose o sacre; in egual misura, il loro atteggiamento rispetto a queste problematiche è anche estraneo a una logica tecnico-scientifica e medico-biologica. Ciò è tanto vero da far preferire, al posto di soluzioni trascendenti o di genetica medica, la traduzione delle paure in incubi in Dylan Dog – dai quali tutto sommato alla fine ci si potrebbe risvegliare – e l’aspirazione all’eternità in sovraumanità in Twilight. Questo tipo di risposta sovraumana risolutiva delle ansie e dei bisogni, presente nel romanzo sui vampiri, pur se da molto lontano, potrebbe anche correlarsi sia con l’attuale inclinazione soggettiva al paranormale, come evidenziato in molte ricerche e sia, mutatis mutandis, con l’insofferenza nei riguardi degli elementi considerati più ostici della fede, tra i quali: il giudizio eterno, il destino finale dell’uomo e la sua vocazione soprannaturale99. Negli scenari immaginari di Dylan Dog e di Twilight, da una parte, non ci si avvale di quell’istante passionale della fede, sottolineato da Kierkegaard, in cui “l’uomo dice addio a tutta la sua conoscenza” – si potrebbe aggiungere a tutte le sue paure, i suoi desideri immediati – per “abbandonarsi a Dio con tutta la sua debolezza” tanto da far nascere, da questo slancio religioso e da questa speranza anche di fronte all’impossibile, la concezione stessa di “individualità e immortalità”100. Dall’altra parte, però, in entrambe le narrazioni fantastiche, come nella realtà registrata nelle varie ricerche sociologiche, si manifesta l’inclinazione a rivedere le posizioni di incondi-

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Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Giancarlo Rovati, La religiosità in Italia, cit., pp. 183, 186. 99 Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Giancarlo Rovati, La religiosità in Italia, cit., pp. 33-34. 100 Cfr. Sören Kierkegaard, Timore e tremore, Edizioni di Comunità, Milano, 1952, p. XXVII.

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zionata fiducia in un ordine scientifico-razionale perfetto e di tacita “congiura del silenzio” sulla morte101. In queste due produzioni del fantastico è presente un disagio sottile, fumoso e “tragico” di una coscienza collettivo-individuale che da libera non riesce a godere di questa libertà, ma che viceversa vive gli aspetti più controversi dell’emancipazione dalle forme rigide dell’etica, della religione e delle strutture sociali, quali: l’ansia esistenziale provocata dalle molte sollecitazioni; la frammentazione biografica veicolata anche dall’eccedenza degli stimoli, delle scelte, delle cerchie sociali; la perplessità sul progresso tecnico; lo spaesamento prodotto dalla mancanza di referenti di senso e dal sentimento di continua contingenza e precarietà; l’obbligo di decidere e l’incubo dell’assenza di futuro. Soprattutto in Twilight ci sono, a scapito della vocazione soprannaturale dell’uomo, l’esaltazione della salvezza umana102, l’ansia di conquista di una inesauribile giovinezza, un desiderio di eternità del presente103 e un’eternizzazione del sé che passa per l’amore di cop101 Ogni limite biologico è considerato attualmente come una “prevaricazione sulla razza umana”. La morte è stata fatta rientrare nelle categorie dell’“osceno” e del “pornografico”: essa rappresenta “lo scandalo della modernità” in quanto è “l’archetipo dei limiti delle potenzialità umane”. Si è anche fatto ricorso a forme spersonalizzate di contatto con la malattia e la morte: esse, private da simboli e rituali coinvolgenti, sono state medicalizzate, ospedalizzate. Infatti, una delle risposte tardo-moderne alla sfida della morte si è concretizzata in una sorta di scomposizione di essa in una quantità di disturbi e patologie che prese singolarmente potevano esser curate. Il luogo del decesso o del dolore fisico si è trasferito dalla casa all’ospedale, che è ormai il posto nel quale le circostanze più dure possono «sfuggire alla pubblicità – o a quanto ne sopravvive – considerata del resto come una sconvenienza morbosa». Cfr. Cristopher Lasch, La cultura del narcisismo, cit., p. 232; cfr. Zygmun Bauman, La società dell’incertezza, cit., p. 133; cfr. Philip Ariès, L’uomo e la morte dal Medioevo ad oggi, Laterza, Bari, 1989, p. 673. 102 Nelle indagini sul fenomeno religioso si rileva, in parte, la stessa situazione evidenziata dai personaggi di Twilight: infatti, nei dati espressi dalle ricerche si dimostra che gli intervistati hanno molte difficoltà a conciliare le realtà ultime della fede con la loro razionalità e la loro sensibilità; così come risulta che la “rincorsa allo spirito del tempo” li porta a sacrificare le ragioni della fede a quelle del mondo. Cfr. Vincenzo Cesareo, Roberto Cipriani, Franco Garelli, Clemente Lanzetti, Giancarlo Rovati, La religiosità in Italia, cit., pp. 33-34. 103 Cfr. Gianfranco Morra, Il quarto uomo. Postmodernità o crisi della modernità?, cit., p. 68.

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pia, ma è un’eternità asfittica perché affidata ad uno scorrere del tempo “a-storico”, senza soluzione di continuità. Infatti, nella sua trama è possibile cogliere un tentativo di trasposizione, tra il fantastico e il misterico, del desiderio umano di salvezza, ma di una salvezza che si vuole ottenere nel tempo “a-storico” e non nel tempo escatologico della religione. In questa narrazione, che dopo il successo di Harry Potter ha appassionato milioni di persone, si percepisce, in modo paradigmatico, la volontà camuffata, sublimata, di superare i confini dell’uomo per non essere toccati né dall’erosione né dalla inesorabile fine del tempo104: la conquista della perenne giovinezza e dell’eternità sono raggiunte, però, in linea con il trend relativista contemporaneo, senza tante implicazioni spirituali o morali. La stessa volontà di non subire le ingiurie del tempo propria dei personaggi di Twilight, per fare ancora una comparazione con un immaginario non attuale, è presente nel Ritratto di Dorian Gray, ma in questo testo – simbolo del decadentismo e dell’estetismo (1890-91) – più lontano nel tempo e più sofisticato letterariamente della saga vampiresca, nonostante tutto c’è un messaggio etico e si riconosce ancora il territorio del bene e quello del male. Infatti, ad un certo punto il protagonista, dato il tenore della sua storia, quasi sorprende il lettore per la profondità morale delle sue affermazioni, in quanto dice: «so che cos’è la coscienza. È quanto di più divino esiste in noi […] L’anima ha una sua terribile realtà. Può essere comprata, venduta, barattata. La si può avvelenare, o rendere perfetta»105. Non 104 Alla fine del XIX secolo si fa strada con forza l’idea che «dal punto di vista biologico invecchiare significa vedere progressivamente compromesse le capacità di risposta dell’organismo alle pressioni ambientali, con il rischio crescente per le malattie correlate all’età. Di conseguenza la vecchiaia viene definita una malattia e proprio per questo viene odiata e temuta perché distrugge il corpo e la mente». Questa nuova concezione della mentalità socio-individuale sulla vecchiaia e per contrasto sulla gioventù, propria dell’immanentismo, ha influenzato fortemente i modi di pensare, di guardare al mondo e al senso della vita degli uomini. Non a caso, alcuni autori, come Alexis Carrel, hanno sostenuto che è stato l’immanentismo, proprio dell’epoca moderna e della civiltà scientifica, a sollecitare la ricerca dell’eterna giovinezza e a far preferire il mondo della materia piuttosto che quello dell’anima. Cfr. Vittoradolfo Tambone e Luca Borghi (a cura di), La medicina dei Nuovi Vampiri, cit., p. 57. 105 Cfr. Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, cit., pp. 108, 228.

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a caso, alla fine del romanzo, Dorian prova “orrore della propria bellezza”; si rende conto di essere «stato rovinato dal proprio fascino, e da quella gioventù che egli stesso aveva invocato»; ha la netta percezione che «la sua bellezza non era stata che una maschera, la sua gioventù una beffa»106 e, in un impeto di dolore, scaraventa lo specchio, nel quale si sta guardando, al suolo e lo calpesta fino a ridurlo in schegge. La consapevolezza etica di aver trasgredito ogni norma eticoantropologica e il rimorso per questa trasgressione, mentre sono intensamente avvertiti da Dorian Gray, non sono contemplati nelle riflessioni dell’umana Bella, ma paradossalmente si sente l’eco di questi sentimenti in alcune frasi del vampiro Edward e nella sua ostinazione a non volerla “mutare” nella sua specie: anche in questa immaginazione, peraltro la più lontana da un’atmosfera sacra, sembra alla fine, in modo sottile e criptico, riproporsi l’oscillazione spirituale delle coscienze tra l’immanenza e la trascendenza (in questo caso, non esperita da una singola persona, ma rappresentata dalle posizioni divergenti dei due protagonisti), che si percepisce nella realtà socio-individuale contemporanea.

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Ivi, pp. 108, 228, 233.

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Conclusioni

Gli interpreti della “postmodernità” insistono sul fatto che le attuali società hanno al loro interno delle evidenti componenti razionali e narcisistiche, ma anche che alcune loro caratteristiche emergenti sono determinate dall’esplosione di emozioni, intuizioni, riflessioni, esperienze personali, violenza, metafisica, tradizioni, magia, mito, sentimento religioso ed esperienza mistica1. L’epoca contemporanea è una dimensione storica nella quale è quasi impraticabile riferirsi alla realtà «come ad una struttura saldamente ancorata a un unico fondamento» o, a causa del pluralismo religioso-culturale, sperare che essa si lasci «interpretare da un pensiero che la vuole a tutti i costi unificare in nome di una verità ultima»2. Nello stesso tempo, risulta ancor più impraticabile cercare di riassumere i processi di modernizzazione, di razionalizzazione e la fine delle ideologie con qualche esaustivo paradigma teoricoscientifico come, per esempio, quello della secolarizzazione. Infatti, la coscienza individuale e sociale, meno compatta del passato, se da un canto è incline ad accogliere come faro di senso i codici tecnicoprocedurali, in egual misura mantiene un certo “carattere religioso anti-secolare”3 e una propensione al fantastico. 1

Secondo Ritzer, che riporta le tesi di vari autori, a cominciare da quella di Pauline Marie Rosenau, la mentalità post-moderna, per quanto sia pervasa da razionalità, è incline al reincanto. Cfr. George Ritzer, L’era dell’iperconsumo, FrancoAngeli, Milano, 2003, pp. 168-169. 2 Cfr. Gianni Vattimo, Dopo la cristianità. Per un Cristianesimo non religioso, Garzanti, Milano, 2002, p. 8. 3 Cfr. Rocco Caporale, Rainer Döbert, Religione moderna e movimenti religiosi, Fondazione Agnelli, Torino, 1977, p. 8.

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La demitizzazione, che secondo alcuni è un portato certo della modernità e delle sue scoperte scientifiche, è meno concreta di ciò che viene sostenuto perché, viceversa, «gli uomini moderni sono senza dubbio assai inclini ad accettare ogni sorta di miracoli nonché visioni del mondo interamente mitologiche»4. Sostanzialmente, il soggetto postmoderno sembra votato – oltre che ad una razionalità strumentale non esente da derive superstiziose premoderne – a una dissonanza tra strutture di plausibilità differenti, all’incertezza, all’indeterminazione, alla contraddizione e, soprattutto, all’ambivalente compresenza di antinomici riferimenti etico-valoriali e biografico-esistenziali. Infatti, da un lato, all’insegna di un “individualismo qualitativo”5, l’attore sociale afferma “brutalmente” la sua autonomia di azione e di giudizio; il primato della ragione sulla metafisica; la sua emancipazione dai residui del passato, dalle regole, dai codici, dagli apparati istituzionali, dal controllo delle norme eteronome. Dall’altro lato, quasi senza soluzione di continuità, esso si assesta su un conformismo sostanziale; sconfessa di fatto i presupposti razionali e le mete raggiunte di autonomia di giudizio; è attratto dall’idea di comunità “meccanica”, da immagini del fantastico, da fantasie gotiche, da “revivals religiosi”6, da antiche costellazioni e figure del sacro e si interroga ancora sul senso profondo dell’esistenza, che spesso gli sfugge. Sotto certi profili, come è stato impietosamente stigmatizzato letterariamente, nella stagione moderna di transizione, “solo le cose inutili sono veramente indispensabili”7 e l’uomo di tale modernità ritiene “di sapere tutto”, ma “non conosce il valore di niente”8. Al contrario, però, di questa impronta di superficialità etico-spirituale, si fanno anche strada, data la consunzione delle “categorie di speranza ed unità”9, nelle pieghe più intime dei mondi vitali dei desideri di 4

Cfr. Peter L. Berger, Questioni di fede, cit, p. 97. Cfr. Paolo Jedlowski, Il mondo in questione, cit., p. 116. 6 Cfr. Salvatore Abbruzzese, La sociologia di Tocqueville, cit., p. 111. 7 Cfr. Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, cit, pp. 25, 59. 8 Ibidem. 9 Cfr. Franz- Xaver Kaufmann, Johann Baptist Metz, Capacità di futuro, cit., p. 5

27.

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relazioni autentiche10, di irrazionalità, di fascinazione per il mistero, di forme di religiosità resistenti a qualsiasi processo di dissoluzione11 e un certo rimpianto per il valore delle cose. L’uomo di oggi – insoddisfatto protagonista di “avventure disordinate” dello spirito e incerto autore di «conclusioni razionali (di una ragione senza verità) e atti di fede (di una fede senza verità)» – come ha sottolineato Pareyson, è in continua altalena esistenziale «fra la nostalgia della fede antica e l’attuale impossibilità di aderirvi, egualmente insoddisfatto della religione e della sua negazione, insieme desideroso di credere e incapace di credere.[…] Per un verso sconsacra ogni fede corrodendola con il dubbio, mentre per l’altro imprime il carattere di fede alla professione di razionalismo»12. A causa di questa sorta di commistione tra forme di materialismo scettico, razionalità strumentale, “eclissi della ragione” – o “sonno dell’intelligenza” – e “riflussi del sacro”, per penetrare concettualmente il livello di complessità dello scenario religioso-valoriale è opportuno affrontare l’analisi del sociale con sentieri euristici fluidi, che prendano le distanze dall’idea di dover necessariamente contrapporre, sostituire, sottrarre o escludere: è più valido, quindi, l’uso di formule interpretative che contemplino la statificazione, la sovrapposizione, la coesistenza e l’addizione di istanze sacre con principi laici, di nostalgie tradizionali con dinamiche moderne, di solidarietà 10

Il tema dell’autenticità è una nota dominante della cultura contemporanea, ma non tutti gli studiosi convergono su un suo tratto positivo. Alcuni studiosi, come Sennett, propendono per una sua interpretazione in chiave negativa in quanto, a loro avviso, il desiderio di autenticità deriva da una paura dell’impersonalità e da una concezione della comunità in una versione moderna ossia, sempre secondo Sennett, come una “comunità sentimentale”, in virtù della quale si instaurano relazioni autentiche che tendono, per la loro stessa natura, ad escludere coloro che hanno sentimenti diversi: in questo senso, le “comunità psicologiche” entrano “in conflitto con la complessità sociale”. Cfr. Richard Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, cit., pp. 177, 180, 221. 11 Cfr. Franco Garelli, Gustavo Guizzardi, Enzo Pace (a cura di), Un singolare pluralismo, cit., p. 78. 12 Cfr. Luigi Pareyson, Verità e Interpretazione, Mursia, Milano, 1971, p. 190. Per un approfondimento del pensiero di Pareyson e della sua analisi sul disorientamento dell’uomo contemporaneo si rimanda al testo di Claudia Caneva. Cfr. Claudia Caneva, Bellezza e persona. L’esperienza estetica come epifania dell’umano, Armando Editore, Roma, 2008.

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sociali con interessi soggettivi, di stabilità etico-normative con relativismi culturali-valoriali. In questo senso, sembra servire una diversa sensibilità concettuale alla quale non sfugga il processo di continuo rimando dalle antiche formule della convivenza e della stabilità alle dopo-moderne istanze della soggettività e della mobilità. Infatti, è stato sottolineato che non è produttivo affidarsi ad un tipo di “ricostruzione storica sottrattiva”, la quale si avvale soprattutto della spiegazione basata sul disincanto, perché la «nascita della modernità non si riduce alla storia di una perdita, di una sottrazione»13. Un esempio concreto della somma degli elementi tradizionali e post-moderni, così come della sottostante critica verso il patrimonio valoriale occidentale, è offerto dalla natura dei nuovi movimenti religiosi, all’interno dei quali si “assemblano” sincreticamente riferimenti dottrinali, simboli, stili di comportamento e modelli di spiritualità di origine diversa, ma ereditati dal passato e proiettati nel futuro. La forma a questi gruppi religiosi alternativi – che rappresentano anche un tentativo degli individui di ritrovare il senso della vita – è data “per costruzione e decostruzione, per addizione di nuovo sul vecchio”14. Insomma, pur nella consapevolezza dell’impossibilità di comprendere esaustivamente “i molteplici livelli del mondo dei significati”15 perché, come già sostenuto da Simmel, ogni eventuale interpretazione cancella tutte le altre, sembra necessario per tentare nuove sintesi delle forme del sociale, comporre e scomporre gli elementi dei fenomeni ed individuare le loro scambievoli influenze, la possibile “sinergia tra fenomeni arcaici e lo sviluppo tecnologico”16 e, in particolare, non trascurare la permanenza dell’afflato spirituale e di una certa dimensione immaginativo-irrazionale. Del resto, questa strana coesistenza di opposti è presente anche nel romanzo Twilight; infatti 13

Charles Taylor, L’età secolare, cit., p. 43. Cecilia Gatto Trocchi, I nuovi movimenti religiosi, Editrice Queriniana, Brescia, 2000, pp. 154, 158. 15 Zygmunt Bauman, Modernità e ambivalenza, cit., p. 202. 16 Michel Maffesoli, Note sulla postmodernità, cit., p. 24. 14

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nelle pieghe della storia tra Bella ed Edward si combinano momenti antinomici e ambivalenze sostanziali: “amore e morte, vita non-vita, luce ed ombra, natura e cultura”17. In conclusione, risulta sempre più evidente che proprio nell’epoca “del transitorio”18 – in cui si producono nuove forme di esperienza, di protagonismo delle singole identità, di ansie, di desideri, di libertà, di appartenenza o abissale distanza dal religioso – si attivano, all’interno dei processi di razionalizzazione, delle dinamiche immaginative che la stessa razionalità tende a “scomporre”, a ricomporre19 e che, spesso, aprono varchi ad ansie psico-esistenziali, sociali, così come ad una “paradossale” nostalgia del sacro, del mito, del mistero; e, ancor di più, alla pretesa di autosufficienza dell’uomo o di una sua sacralizzazione. A tal proposito, si potrebbe riprendere ancora una volta una prospettiva di Simmel (con tutte le dovute differenze), il quale ha presupposto che l’unica garanzia dinanzi al “dissolvimento di tutto ciò che è sostanziale”, o al “soggettivismo e scetticismo sfrenati”, può essere la collocazione «al posto dei valori stabili e sostanziali l’interattività vitale di elementi che a loro volta soggiacciono allo stesso dissolvimento all’infinito. I concetti centrali di verità, di valore, di oggettività appaiono allora come realtà interattive, come contenuti di un relativismo che ora non significa più la dissoluzione scettica di ogni elemento solido, ma al contrario la garanzia contro tale dissoluzione mediante un nuovo concetto di solidità»20 o di gerarchia di influenza nella trama etico-culturale. Se si parte da un principio di interattività o comunque di sovrapposizione – meglio ancora giustapposizione – anche per l’analisi sociologica torna utile quel particolare stile di scrittura e di pensiero messo in atto da un autore come Kafka, che utilizzava “ossessivamente” il ma nei suoi scritti. Egli non prendeva per nulla in 17 Cfr. Vittoradolfo Tambone e Luca Borghi (a cura di), La medicina dei Nuovi Vampiri, cit., p. 31. 18 Cfr. Georg Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, cit., pp. 19-20. 19 Cfr. Danièle Hervieu-Léger, Il pellegrino e il convertito, cit., p. 31 20 Alessandro Dal Lago, Il conflitto della modernità, cit., p. 93.

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considerazione, per sviluppare le sue riflessioni ed interpretazioni, nessuna gerarchia, né la necessità di una scelta tra opposte versioni o spiegazioni, bensì si avvaleva di “giustapposizioni”. Ossia, le interpretazioni di eventi e azioni si accumulavano le une accanto alle altre, in una architettura di proposizioni e frasi “coordinata più che subordinata”, così da non offrire al lettore «alcun indizio su quale versione si debba preferire, quale occupi il posto centrale nella struttura dell’interpretazione», neanche veniva indicato nessun subordine tra le varie interpretazioni, né tanto meno se esse dovessero essere considerate insieme o trattate da realtà separate21. Non a caso, Kafka, uomo del tempo dell’ambivalenza, pensava che “la vita era un guazzabuglio di esperienze, incontrollabili” e, per lui, l’unica cosa che si poteva fare per tentare di conoscere «era scivolare accanto alle sensazioni e agli avvenimenti e cercare di afferrarli al volo»22. A suo avviso, la conoscenza procedeva in un modo particolare in quanto si accavallavano «interconnessioni insospettate che però non avevano niente di arbitrario, collegamenti che nessuno aveva mai notato, percezioni minime ma precise, con le quali veniva voglia di costruire un nuovissimo sistema di conoscenza»23. Questa idea kafkiana non è molto distante dalla visione simmeliana che non immagina una condizione umana come definita, ma la vede modificarsi continuamente: essa è uno spettacolo in continua costruzione che «non ha inizio né fine, non ha unità di tempo, luogo o azione, non ha uno scioglimento né un finale scritto a priori. Al contrario, si divide in episodi senza causa né conseguenza»24. Per Simmel, in sostanza, la società e la condizione moderna erano una realtà nella quale «tutte le versioni della descrizione galleggia21 Kafka usava delle “giustapposizioni paratattiche: versioni, spiegazioni e interpretazioni di eventi e azioni si accumulavano le une su le altre, sono narrate le une accanto alle altre; ognuna per conto suo, separata, apparentemente sensata, e tuttavia insieme non hanno senso a causa di contraddizioni logiche e di un’incompatibilità in virtù della quale si escludono a vicenda”. Cfr. Zygmunt Bauman, Modernità e ambivalenza, cit., pp. 201-202. 22 Cfr. Ronald Hayman, Kafka, cit., p. 73. 23 Ivi, p. 79. 24 Cfr. Zygmunt Bauman, Modernità e ambivalenza, cit., p. 209.

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no, per così dire, con la stessa gravità specifica, sono una uguale all’altra»25. Nel nostro tempo di modernità avanzata, che tende a fuggire ogni forma26 ed è votato alla mutabilità, partendo da quanto rilevato in queste pagine si potrebbe in parte sostenere che il carsico mondo del fantastico e il dato religioso possano costituire il “terreno di cultura” delle espressioni non solo irrazionali-simboliche, ma anche razionali della realtà: essi possono essere di conforto euristico al fine di cogliere giustapposizioni, galleggiamenti, mutamenti o permanenze di aspetti tradizionali tutt’ora significativi, non dimenticando un travaso, negativo o positivo, dall’uno all’altro dei due spazi simbolici e la loro intersecazione. Inoltre, leggendo storie come Twilight, sembra quasi che al mondo immaginifico, sotto alcuni profili, venga attribuita la funzione di sanare le “negligenze” della ragione: una ragione che – senza arrivare alla considerazione di Horkheimer che la vede affetta da “malattia” – è privata della sua costitutiva “intenzione di scoprire la verità”27, circoscritta in ambiti sempre più ristretti e incapace di indicare il senso della vita. Il “disincantamento del mondo” che ha veicolato l’ambizione “razionale” di assicurarsi, in un perpetuarsi immutabile, le condizioni fisico-esistenziali di eternità intramondana, di continuità, non trascendente ma infinita e che, nel periodo moderno, ha “accumulato significati differenti e non coincidenti”, ora subisce “una certa eclissi”28 a favore di una sorta di nuovo “incantamento”. L’immaginazione, per certi versi, fa trasparire un tramonto della fede nella ragione e la volontà soggettiva di soluzioni fantastiche ai disagi: inoltre, delinea nuovi paradigmi esistenziali e valoriali e una serie di possibili “concetti sensibilizzanti” utili per tentare alcune 25

Ivi, p. 202. Georg Simmel, Il conflitto della cultura moderna, (a cura di C. Mongardini), cit., p. 107. 27 M. Horkheimer, Eclissi della ragione, Einaudi, Torino, 1982, p. 151. 28 Nella modernità sono stati molteplici i significati attribuiti alla ragione: «riflessione e speculazione filosofica, ragione giuridica, ragione storica, ragione scientifica, ragione strumentale». Cfr. Luca Severino (a cura di), Laicità della ragione, o razionalità della fede, cit., pp. 77, 79. 26

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risemantizzazioni di aspetti della fenomenologia culturale ed eticoreligiosa. Insomma, spesso dalle speculazioni non solo astratte, ma legittimate empiricamente sulla base delle molte indagini effettuate, così come dagli scenari dell’immaginario, più che la crisi del sacro-religioso si constatata una condizione culturale post-razionale, o come sottolineato da Habermas e Kaufmann di nuova confusione29: una post-razionalità, o se vogliamo “confusione”, forse anche provocata dall’insofferenza per la «contrapposizione tra modernità e religione, tra esigenze di emancipazione e di affermazione soggettiva da un lato e desiderio vitale di superamento del reale e di ricostruzione di un senso dell’esistenza dall’altro»30. In definitiva, come sostengono Berger e Luckmann, in questa epoca, nonostante l’invadenza della razionalità, o a causa di essa, e nonostante la tendenza a voler superare i limiti umani con espedienti medico-tecnologici o immaginifici, sia nelle pieghe della realtà che in quelle dei mondi fantastici, si riode “l’antico lamento” dell’uomo sull’ordine del mondo e su come la vita umana “possa trovare il suo significato” e quel lamento ha la forma del dubbio, o meglio dell’oscillazione tra opposte inclinazioni riflessivo-spirituali: il senso della realtà si può trovare “soltanto in una storia salvifica di tipo trascendente”, o al contrario tale “significato non esiste ?”31.

29

Cfr. Franz-Xaver Kaufmann, Johann Baptist Metz, Capacità di futuro, cit., p.

14. 30

Salvatore Abbruzzese sostiene che: «Di fatto è l’indifferenza religiosa quando non addirittura l’assenza totale di fede che resta un affare di minoranza, non di certo l’adesione e l’appartenenza» alla religione. Cfr. Salvatore Abbruzzese, Un moderno desiderio di Dio. Ragioni del credere in Italia, cit., pp. 104, 134, 237. 31 Cfr. Peter L. Berger, Thomas Luckhmann, Lo smarrimento dell’uomo moderno, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 7.

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2012

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