La memoria di lei. Storia delle donne, storia di genere 8805055549


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La memoria di lei. Storia delle donne, storia di genere
 8805055549

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Gabriella Zarri

LA MEMORIA DI LEI Storia delle donne, storia di genere

CHRISTABEL PANKHURST

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COLLANA Sei NUOVO LAVORO STORICO diretta da

Gianluca Solfaroli Camillocci

Sezione Guide

Gabriella Zarri

LA MEMORIA DI LEI Storia delle donne, storia di genere Con la collaborazione di Claudia Pancino e Fiorenza Tarozzi

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE TO

In copertina: Christine de Pisan offre le sue opere ad Isabella di Baviera regina di Francia Miniature borgognone del xv secolo. Manoscritto Harley 4431, carta 3/r. British Museum, Londra

Manifestazione di suffragette, Londra 1902 Archivi Alinari, fototeca

La parte Le donne nella storia è stata curata da: G. Zarri Donne e religione, Ruoli trasgressivi . C. Pancino

F. Tarozzi

Dorne e scienza

Donne e politica, Donne e lavoro, Ruoli effettivi e assenze di rilevanza, Ruoli professionali

Foto Archivio SEI Le foto delle tavole 12, 18, 19 provengono dalla fototeca degli Archivi Alinari

© by SEI - Società Editrice Internazionale Torino 1996

L’Editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare, nonché per eventuali, involontarie omissioni o inesattezze

nella citazione delle fonti dei brani o delle illustrazioni riprodotti. Tutti i diritti sono riservati. E vietata la riproduzione dell’opera o di parti di essa con qualsiasi mezzo, compresa stampa, copia fotostatica, microfilm e memorizzazione

elettronica, se non espressamente

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La SEI potrà concedere a pagamento l'autorizzazione a riprodurre una por-

zione non superiore a un decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate all'Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere a Stampa / AIDROS - via delle Erbe, 2 - 20121 Milano Tel. 02/86.463.091

- Fax 02/89.010.863.

Officine Grafiche Subalpine - Torino

Aprile 1996

ISBN 88-05-05554-9

INDICE

STORIA DELLE DONNE

La guida, 1 Capitolo primo

Le donne come oggetto e soggetto di storia, 3 1. La donna vista dagli uomini, 3 2. Donne e storia, 11

3. Donne che scrivono storia, 18 Capitolo secondo

La formazione della “storia delle donne”, 26 1. Tra militanza e ricerca, 26

2. Storia, storia delle donne e storia di “genere”, 31 Capitolo terzo

Verso l’istituzionalizzazione della disciplina, 37 1. Questioni aperte: le fonti, la periodizzazione, la soggettività, 37 2. Le mappe della ricerca attuale: tendenze e prospettive, 42 3. Centri di ricerca, riviste, associazioni, 47 4. La trasmissione dei risultati, 51

Bibliografia, 59

LE DONNE

NELLA STORIA

Campi di ricerca, 71 Donne e religione (di G. Zarri), 75 Caterina di Jacopo di Benincasa, patrona d’Italia, 79 Nr

Angela Merici, fondatrice della Compagnia di Sant'Orsola, 82 Francesca Cabrini, patrona degli emigranti, 85 Donne e scienza (di C. Pancino), 89 Ildegarda da Bingen, mistica e terapeuta, 95 Anna Morandi Manzolini, maestra in ceroplastica anatomica, 98 Marie Sklodowska Curie, scienziata e premio Nobel, 101

Donne e politica (di F. Tarozzi), 105 Matilde di Canossa, 111 Elisabetta I, regina d’Inghilterra, 114 Olympe de Gouges e la Dichiarazione dei diritti della donna, 116

Anna Kuliscioff, la “signora del socialismo italiano”, 118 Donne e lavoro (di F. Tarozzi), 122

Maria Dalle Donne e la Scuola per le levatrici dell’Università di Bologna, 128 Argentina Bonetti Altobelli e l'emancipazione delle donne: “lavoro, suffragio, educazione”, 130 Coco Chanel, stilista e creatrice di moda, 133

Ruoli effettivi e assenze di rilevanza (di F. Tarozzi), 136 Vivere la vedovanza, 142 Esperienze di madri, 145 Padrone, anzi, regine dei salotti, 147

Ruoli trasgressivi (di G. Zarri), 151 Veronica Franco, cortigiana del secolo xvI, 157 Gostanza da Libbiano, guaritrice e strega, 161 Virginia Maria De Leyva, monaca e Signota di Monza, 165

Ruoli professionali (di F. Tarozzi), 169

Zita, patrona universale delle lavoratrici di casa, 175 Adelaide Ristori ed Eleonora Duse: due attrici, due epoche, 177

Giuseppina Cattani: una vita tra ricerca scientifica e professione medica, 180 Le “maestrine” di Edmondo De Amicis, 182

Repertorio iconografico, tavv. 1-24

VI

STORIA DELLE DONNE

La guida

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CAPITOLO PRIMO

Le donne come oggetto e soggetto di storia

1. La donna vista dagli uomini Nulla pare introdurre più efficacemente un discorso sulla storia delle donne di un’indagine sul significato attribuito al termine donna nelle maggiori Enciclopedie e Dizionari degli ultimi due secoli. La rivoluzione culturale che segna la nascita delle discipline e vede il radicale mutamento dei mezzi di comunicazione nel periodo che intercorre tra la comparsa dell’Excyclopédie di Diderot (1760) e l'Enciclopedia Einaudi (1978) giunge solo nell’ultimo ventennio a operare una significativa innovazione nel discorso sulle donne. Da discorso degli uomini sulle donne diviene discorso di donna: il fatto che i curatori dell’Enciclopedia Einaudi abbiano affidato a una donna il compito di redigere la voce relativa è la più esplicita presa d’atto della definitiva legittimazione delle donne a ricoprire un ruolo come soggetto di storia. Il cammino è stato lungo, ed è appena agli inizi. Non stupirà constatare che varietà, ambiguità, incertezze nella redazione della voce nelle singole enciclopedie, pur in una uniformità e continuità di impostazione che subisce scarse oscillazioni nel corso di due secoli, denuncino chiaramente la difficoltà di considerare la donna perfino come oggetto di storia. Manca innanzitutto una positiva definizione del termine donna che si qualifica unicamente in relazione all’uomo. L’espressione “la femmina dell’uomo” con cui l’Encyclopédie e il Dizionario enciclopedico italiano Treccani edito nel 1970 aprono la serie dei significati della parola donna indica la difficoltà di riconoscere autonomia culturale ad un soggetto che è stato sempre considerato in rapporto al maschile. Il sesso e il corpo qualificano il femminile rispetto al maschio della stessa specie non soltanto nella definizione del maggiore Dizionario italiano ma anche nelle voci delle più importanti Enciclopedie che affidano la redazione dell’articolo donna non tanto a storici quanto piuttosto a esperti di etnologia o di diritto. La donna, assente dalla

3

storia, trova la sua collocazione originaria accanto all'uomo, come

femmina della specie. Così fino a tempi assai recenti intellettuali di non trascurabile livello hanno contribuito a definire il ruolo della donna esclusivamente nell’ambito del matrimonio e del privato e a codificarne l’irrilevanza come soggetto storico. Un breve excursus sugli articoli dedicati alla voce donna nelle diverse Enciclopedie consente di illustrare alcune tappe di un lungo e lento cammino verso l’affermazione di una autonomia culturale della “femmina dell’uomo” e di una sua presenza nella storia. Dopo aver dedicato alcune pagine alla antropologia femminile e aver ricordato che per secoli gli anatomisti hanno considerato la femmina come uomo mancato, i redattori della voce

“Femme”

dell’ Ex-

cyclopédie di Diderot dichiarano che i diversi pregiudizi sulla superiorità dell’uomo sulla donna sono stati prodotti dai costumi dei popoli antichi, dai sistemi politici e religiosi che si sono modificati a loro volta. Diverso è stato il ruolo della religione cristiana che ha stabilito una reale superiorità dell’uomo, conservando tuttavia alla donna diritti di uguaglianza. L’inferiorità della donna rispetto all’uomo appare agli enciclopedisti un problema eminentemente culturale tale da far loro dichiarare che l'educazione delle donne presso tutti i popoli è stata tanto trascurata che sorprende contare nell’antichità e ai loro tempi un così grande numero di donne illustri per erudizione e opere. La consapevolezza di una disparità culturale e non naturale tra uomo e donna viene ribadita nell’articolo “Femme droit naturel” compilato dal cavalier de Jaucourt. E interessante rilevare che il termine Femme viene in questo articolo fatto derivare dal latino uxor ed è definito come «femme de l’homme, considerée en tant qu'elle lui est unie par des liens du mariage». L'uomo e la donna formano una società che ha per fine principale la procreazione e la conservazione dei figli che nascono ed essi debbono dedicarsi al perseguimento di questo fine. Il marito e la ferzzze hanno i medesimi interessi nella loro società ed è pertanto necessario che l'autorità di governo appartenga all’uno o all’altro: il diritto positivo delle nazioni civili, le leggi e i costumi dell'Europa danno questa autorità unanimemente e definitivamente al maschio come colui che, essendo dotato di una maggiore forza di spirito e di corpo, contribuisce meglio al bene comune tanto nelle cose umane che sacre; cosicché la donna deve necessariamente essere

subordinata a suo marito e ubbidisce a degli ordini in tutte le incombenze domestiche. Questa è l’opinione dei giureconsulti antichi e moderni e la decisione formale dei legislatori. Nel ricordare che la più recente applicazione di questo principio

è il codice di Federico di Prussia pubblicato nel 1750 che pare aver tentato di introdurre un diritto certo e universale dichiarando che il marito è per sua natura stessa il governatore della casa e il capo della famiglia e la donna deve essergli sottomessa, il cavalier de Jaucourt prende le distanze da questa posizione. Egli dichiara infatti che è difficile dimostrare che l'autorità maritale viene dalla natura perché questo principio è contrario all’uguaglianza naturale degli uomini e perché dal fatto che uno comanda non consegue che ne abbia attualmente il diritto. Vi sono poi altre due considerazioni che contraddicono la “naturalità” del rapporto di subordinazione della donna dall’uomo: l’uomo non ha sempre maggiore forza di corpo, saggezza di spirito e di comportamento della donna e i precetti delle Scritture sono stabiliti in forma di pena indicando così che sono di diritto positivo. Si può dunque sostenere, secondo gli enciclopedisti, che nella società coniugale non c’è altra subordinazione che quella della legge civile e per conseguenza nulla impedisce che convenzioni particolari non possano cambiare la legge civile dal momento che legge naturale e religione non determinano nulla in contrario. Dopo aver sostenuto con chiarezza che la subordinazione femminile non deriva dal diritto naturale ma positivo, i compilatori dell’Encyclopédie ribadiscono nella voce “Femme morale” redatta da Desmahis l’importanza della cultura nel mantenimento dello stato di soggezione della donna all'uomo. Con una intuizione che anticipa le teorie dibattute attualmente dalla storia dalle donne, l’articolista

dichiara che i due sessi si qualificano per delle differenze all’interno di una uguaglianza di fondo e che la cultura ha un ruolo determinante nell’accentuare o smussare queste differenze. Dopo aver passato in rassegna gli attributi più frequentemente riconosciuti come propri del carattere femminile, l’articolista conclude con un ritratto ideale della donna e della madre le cui virtù sono piuttosto il risultato della ragione che della natura. All’età dei lumi è dunque assegnato dagli enciclopedisti il compito di predisporre un ambiente culturale favorevole alla donna, che va paternalisticamente educata per svilupparne le positive potenzialità. Ottant’anni dopo l’edizione dell’ Encyclopédie viene stampata in Francia l’Encyclopédie Nouvelle (1846) che dedica alle donne un lunghissimo articolo, poi stampato in volume a parte, composto da Ernest Leguvé, esponente del socialismo umanitario. Tanto l'ideologia connessa con questa corrente di pensiero, che reputa che solo nella libertà e nell’indipendenza dai bisogni materiali sia possibile l'affrancamento del popolo e del proletariato, quanto la mutata condizione culturale delle donne che nel ventennio 1830-1850 avevano dato vita in Fran5

cia a riviste e giornali pensati e realizzati interamente da donne, consentono al Leguvé di redigere una voce profondamente innovativa rispetto all’illustre precedente dell’Encyclopédie. Bisogna innanzitutto notare che l’articolo, redatto in forma dialogica, è intitolato alle “donne”, al plurale, ed è caratterizzato dalla volontà di prospettare una visione storica della loro condizione e non a tratteggiare un tipo ideale. La storia delle donne — come sottolinea Marisa Forcina, cura-

trice di una recente traduzione e edizione della voce “femmes” dell’Encyclopédie Nouvelle — viene delineata come storia della loro libertà dall’oppressione maschile, dal bisogno, dall’ignoranza e viene proposta come storia fatta dalle donne per la loro capacità di porsi in relazione con il mondo, non tanto in nome della legge e del diritto quanto piuttosto in nome dell’affetto che mette in moto relazioni costruttive. Leguvé dimostra l'assurdità della esclusione delle donne dalle funzioni politiche e civili e sottolinea la necessità del riconoscimento della totale uguaglianza di uomini e donne pur nel rispetto delle differenze. Egli delinea un percorso segnato da lenti progressi in cui l’associazione e il lavoro diventano per le donne strumento di liberazione e riconosce alle stesse la capacità di intervenire sui destini del mondo con strumenti lontani dalla politica quali la carità, la penitenza e anche “la non adesione al mondo” come forma di opposizione e di resistenza costruttiva. In questo contesto il cristianesimo è visto come una vera e propria rivoluzione culturale che, anche se non si propone l'emancipazione femminile, trova nelle donne sicure alleate nel percorso volto a un radicale mutamento di costumi. Nell’ambito della religione il Leguvé segnala quel movimento che ha dato vita a «uno dei più reali progressi» del suo secolo: «la creazione d’una professione per le giovani donne». Bisogna risalire al primo Seicento, egli scrive, per individuare l’origine di quell’istituto delle Orsoline promosso da due donne, l’una in Italia e l’altra in Francia, che «sentirono tutte e due una schiavitù in quella legge dell’ignoranza che

pesava sulla massa delle donne e formularono quasi nello stesso tempo il progetto di educare le fanciulle e le istitutrici delle fanciulle. Era una vera e propria rivoluzione, e, cosa abbastanza rara, quelle che la facevano se ne rendevano conto. Bisogna, dicevano, rinnovare mediante le più giovani questo mondo corrotto: le fanciulle riformeranno le loro famiglie, le famiglie riformeranno le province, le province riformeranno il mondo». È sufficiente questa citazione per comprendere come il Leguvé si interessasse all’operato delle donne e alla loro capacità di incidere e trasformare il reale con consapevolezza del loro specifico ruolo. 6

Di carattere eminentemente storico è la voce “Donna” pubblicata nel 1932 nell’Enciclopedia Italiana della Fondazione Treccani. La profonda trasformazione avvenuta nella società e nella cultura nel periodo che intercorre tra la comparsa dell’Encyclopédie Nouvelle e la redazione dell’impegnativa impresa culturale italiana rende ragione della diversa impostazione dell’articolo. Le vittorie conseguite dai movimenti emancipazionisti tra fine Ottocento e inizi del Novecento, l'affermazione delle donne in campo culturale e il loro crescente impegno politico segnalano ormai l'elemento femminile come soggetto specifico di storia. Anzi una parte della voce è redatta da una donna, Valeria Benetti Brunelli. Nell’ Enciclopedia Italiana la donna non viene più definita come femmina dell’uomo, ma significativamente la sua storia è ancora concepita in relazione alla famiglia e all'educazione. Non a caso i redattori della voce sono docenti di antichità classica e di storia dell’educazione. Dopo aver tracciato un profilo della condizione della donna nell’antichità e nel medioevo e aver posto in rilievo il ruolo della religione e dell’educazione nel basso medioevo e nel rinascimento nel promuovere un affrancamento della donna dalla persistente soggezione maschile, l'articolo dell’enciclopedia ripercorre con precisione le principali tappe delle conquiste femminili in materia di diritti civili e politici. Il ripristino dell’autorità maritale sancito dal codice napoleonico viene segnalato come condizione restrittiva rispetto alle libertà acquisite dalla donna nel periodo rivoluzionario e si indica pure la perdita dei diritti tradizionali in materia di protezione e inalienabilità della dote. Un mutamento radicale nella condizione femminile viene individuato nell’introduzione della legge sul divorzio che «asseconda non già il desiderio di porre la sanatoria a questo o a quel caso di unione infelice, ma definisce un vero inizio di disfacimento dell’unione matrimoniale, nel suo vecchio contenuto di soggezione femminile». La diffusione europea della legge del divorzio, estesa nel primo dopoguerra a quasi tutti gli stati, non indica tuttavia per gli estensori dell’articolo dell’ Enciclopedia Italiana un dissolvimento irreparabile della famiglia. In accordo con la politica culturale del regime fascista volta a incrementare l’istituto familiare e a incentivare la procreazione, i redattori della voce segnalano le iniziative del movimento internazionale femminile in favore della ricostruzione della famiglia e specialmente le iniziative italiane. «Nei tre grandi congressi organizzati dal Consiglio nazionale delle donne italiane (1908, 1914, 1923) le discussioni e i lavori s’incentrano sempre più sul tema della elevazione della famiglia e delle riforme giuridiche, economiche e morali che questa implica. Nell’ultimo decennio il movimento dei Fasci fem7

minili, novellamento sorto, e il cattolico, rinforzatosi, si avanzarono più decisamente che mai nella stessa direzione: ciascuno recando una visione propria del complesso problema». Analoga preoccupazione per le conquiste del movimento emancipazionista femminile ritenute negative per la solidità dell'istituto familiare si riscontrano nella voce “Donna” dell’Enciclopedia Cattolica, pubblicata nel 1950, che conclude il suo articolo riproponendo come ottimali, se non naturali, la tradizionale divisione dei ruoli che vede gli uomini impegnati nella vita pubblica e la donna nella famiglia: «Pure ammettendo la identica natura e la parità fondamentale dei diritti, si deve ricostruire la diversa funzionalità sociale dei sessi: l’attività dell’uomo è principalmente nella società e nello Stato, quella della donna nella famiglia». In sintonia con un interesse soprattutto morale che alimenta l’impresa di una riduzione del pensiero cattolico a sapere enciclopedico, l’articolo redatto nel primo dopoguerra, all’indomani della concessione del suffragio universale femminile e della definitiva acquisizione dei diritti politici alle donne, tradisce una crescente preoccupazione per le conseguenze di ordine pratico e morale della nuova condizione femminile, del massiccio ingresso delle donne nel mondo del lavoro, delle loro affemazioni in campo sociale e culturale. A differenza dell’articolo dell’ Enciclopedia Italiana, la voce “donna” del dizionario cattolico non segue un andamento storico, riprende piuttosto alcune delle tematiche che erano state proprie delle prime enciclopedie. Vediamo così ritornare, attraverso i contributi di tre diversi estensori, le trattazioni relative alla natura e personalità della donna, alla

donna nel diritto e nell’etnologia. Il paragrafo “Natura e personalità” della donna si apre con l’affermazione dell'uguaglianza dei due sessi e se ne indicano i fondamenti scritturistici e teologici, si aggiunge tuttavia che i due sessi sono caratterizzati da differenze. Significativamente il tema della differenza nell’uguaglianza, già presente nell’articolo dell’ Encyclopédie Nouvelle e caro alla odierna storiografia delle donne, è introdotto non tanto per individuare uno specifico nella promozione della condizione femminile quanto piuttosto per sancire una esclusione: «In armonia con il carattere proprio dell’uomo e della donna, Gesù ha voluto che nella sua Chiesa soltanto gli uomini fossero chiamati ad avere ed esercitare l'autorità e il potere spirituale, con esclusione assoluta delle donne, le quali perciò non sono capaci di ricevere validamente il sacramento dell'Ordine sacro. Tutto ciò viene eseguito dagli uomini, non perché la donna sia meno dell’uomo, ma perché la donna è diversa dall'uomo». Nel paragrafo “La donna nel diritto” questa incapacità della donna a ricevere gli Ordini e quindi anche la potestà 8

d'ordine viene addirittura definita, sulla base del Codice di diritto canonico del 1917, una disposizione di diritto divino. Alla data in cui fu redatto l’articolo dell’Enciclopedia cattolica,

e anche oggi, l’esclusione della donna dal sacerdozio restava una delle poche incapacità giuridiche riconosciute per secoli al sesso femminile. L'acquisizione dei diritti civili e politici, l’ingresso nel mondo del lavoro e delle professioni avevano aperto la via ad una nuova condizione delle donne che l’ambiente culturale cattolico percepisce come problematico e carico di potenzialità negative. L’eco di una polemica ancora aperta in Italia sulla concessione del voto alle donne si avverte nella premura dell’articolista di precisare che è sbagliato affermare che il diritto al voto politico in senso attivo e passivo è un diritto naturale, ma neppure si deve ritenere che la concezione dei diritti politici alle donne sia in contrasto con il diritto naturale e i principi del cristianesimo. L'esercizio del voto, ribadisce il dizionario catto-

lico, non può considerarsi come il supremo impegno nella vita pubblica, perché la donna può avere altri mezzi per influire in maniera radicale sull'andamento della vita politica, «ed il principale e più efficace è la sua attività come buona moglie e buona madre, formatrice del carattere dei suoi figli, futuri cittadini e forse futuri governanti». Anche le donne che non sono spose e madri possono essere chiamate a compiti sociali: esse si renderanno più utili al bene della società e del popolo se sceglieranno «lavori propriamente femminili, a cui sono portate dalla loro stessa costituzione fisica e psichica: ad esempio, come governanti, come infermiere di ogni specie, come maestre di scuola, direttrici o assistenti di colonie per bambini, e simili». Nei

primi anni Cinquanta la differenza dei sessi viene nuovamente utilizzata dalla cultura cattolica come ricerca di specificità che riconducono la donna al privato dopo il raggiungimento della parità dei diritti civili e politici e l'avvio di una nuova condizione femminile che si considera carica di potenziali elementi disgregatori della famiglia. Nel paragrafo “La donna e il lavoro” queste preoccupazioni si esplicitano chiaramente nell’affermazione che il lavoro della donna “fuori casa” è un “grave male sociale” e si esortano i datori di lavoro a non accettare donne maritate come lavoratrici.

La posizione conservatrice e anzi intimidatoria della cultura cattolica italiana del primo dopoguerra, così come appare codificata dall’autorevole “summa” del suo pensiero, non può tuttavia modificare la condizione di parificazione della donna all'uomo a tutti gli effetti politici e giuridici sancita dalla Costituzione italiana, né può arginare il progressivo ampliamento delle capacità di diritto pubblico sancite con la legge del 9 febbraio 1963 che riconosce alla donna l’ammissione ai pubblici uffici e alle professioni. Nello stesso anno, anzi, 9

come attesta l’Enciclopedia del Diritto stampata nel 1964, la legge del 9 gennaio introduce una importante norma di tutela del lavoro femminile assicurando alla donna nubile che si sposa la conservazione del posto di lavoro. La legge vieta infatti il licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio applicato da molti datori di lavoro che, forti anche dell’esortazione rivolta loro dal mondo cattolico, attuavano pratiche discriminatorie nei confronti del lavoro maschile e femminile. Il Dizionario enciclopedico Treccani, stampato nel 1970, dedica la voce “donna” ad un breve profilo giuridico, non rimpiazzando l’articolo di carattere storico che aveva contrassegnato il primo e più impegnativo testo dell’Enciclopedia Italiana. La voce sintetizza limpidamente le principali tappe che dall’età romana ai nostri giorni hanno condotto le donne all’acquisizione delle capacità giuridiche per secoli riservate agli uomini. Il redattore della voce collega a ragione l’esclusione della donna dalla vita pubblica nella società romana e feudale al regime militare di quelle società, e ricorda come «furono le leggi rivoluzionarie francesi ad affermare l'uguaglianza dei sessi, fino alla celebre Déclaration des droits de la ferme (20 brumaio, anno II, 10 novembre 1793), che proclamò l'ammissione della donna a tutti i posti e uffici pubblici». All’acquisizione dei diritti in campo civile e politico si accompagna nell’ultimo dopoguerra un più generale accesso delle donne agli studi e una maggiore consapevolezza culturale. Il movimento femminista nato negli Stati Uniti e diffusosi in Europa negli anni Settanta non si caratterizza tanto per la richiesta di ulteriori rivendicazioni politiche e sociali, che pure non mancano, quanto piuttosto pet un profondo movimento culturale che pone il femminile come elemento di riflessione teorica, che spinge le donne a prendere coscienza di sé interrogandosi sulla propria differenza rispetto al sesso maschile. Un primo esito di questa posizione è il desiderio di rendersi presenti come donne nella storia, di non delegare ad altri la memoria del passato. Ne emerge innanzitutto una posizione militante della storia che viene bene espressa dalla voce “Donna” della Enciclopedia Einaudi, stampata nel 1978. Interamente redatto da una studiosa, Franca Ongaro Basaglia, l’articolo di questa enciclopedia segna il passaggio da una storia della donna vista dagli uomini e una storia al femminile, percepita come secolare lotta della donna contro la natura, contro la cultura, contro l’asimme-

tria del potere e orientata verso la riscoperta, attraverso un processo di autocoscienza, della diversità femminile. «E alla luce di questa lotta che si può vedere qual è stata la storia della femmina dell’uomo, così com'è alla luce di questa lotta che si può incominciare a intravedere quale potrà essere la storia dell’essere umano femmina». 10

2. Donne e storia

Se si esaminano accuratamente anche i più recenti manuali di storia in uso nei licei italiani viene spontaneo fare proprie le ironiche considerazioni di una fine osservatrice del secolo xvm, Jane Austen: «Quanto alla storia vera e propria, la storia seria e solenne, non riesco a trovarla interessante (...). La leggo un po’ per dovere, ma non | mi dice niente che non mi irriti o mi annoi. Ad ogni pagina, litigi di papi e imperatori, guerre e pestilenze. Gli uomini in genere sono dei buoni a nulla e le donne, praticamente, non ci sono mai: è una noia terribile». La menzione di alcune regine, e eroine o sante,

insomma figure singole, non compensa la sensazione che il teatro dell'umanità sia sempre stato e resti esclusivamente maschile. Eppure le profonde trasformazioni avvenute soprattutto nell’ultimo secolo fanno sì che la presenza della donna debba essere considerata elemento imprescindibile e quantitativamente rilevante nella storia demografica, economica, sociale e culturale. Diverse indagini recenti ci consentono ormai di indicare gli aspetti più significativi della partecipazione femminile ai processi di trasformazione che hanno interessato il mondo occidentale e documentano soprattutto il grado di autocoscienza e la molteplicità di strumenti organizzativi e culturali con cui gruppi di donne hanno promosso e sostenuto interventi a favore del riconoscimento dei diritti della donna in campo politico, giuridico e sociale. Non si dovrà sottovalutare l'impatto culturale che strumenti della pubblica amministrazione, come l’introduzione dell’anagrafe, o più tardi la nascita delle scienze statistiche hanno esercitato sul piano storico. Non solo hanno consentito lo sviluppo della demografia storica, ma l’analisi dei fenomeni economici e sociali di lungo periodo hanno alimentato per decenni una nuova metodologia della storia definita storia quantitativa. Pur con le approssimazioni e le carenze che sempre si debbono mettere in conto nella ricostruzione del passato, le conoscenze che ora abbiamo degli andamenti della popolazione, della sua distribuzione geografica e della composizione sociale ci consentono di dare uno spessore definito a quella “metà del cielo” che è saldamente radicata nella terra. Per fare solo un esempio della rilevanza quantitativa delle donne, basterà ricordare che a cavallo dei secoli xIX e xx, quando si registra un incremento demografico mai riscontrato nella storia a causa della diminuita mortalità e pur in presenza di un notevole calo di fertilità dovuto alla diffusione delle pratiche contraccettive, la popolazione femminile è superiore a quella maschile in diversi stati europei, come l’Inghilterra e la Francia, mentre ne resta al di sotto in Italia. 11

Uno degli aspetti più rilevanti del nuovo andamento demografico, connesso con i progressi della medicina e il miglioramento delle condizioni di vita, ma anche con il già ricordato fenomeno del calo della natalità, è la diminuzione della mortalità femminile a causa del

parto che aveva segnato per secoli il destino delle donne. Gli studi demografici, con l’analisi degli aggregati familiari, dell'età dei matrimoni, della quantificazione di nati legittimi e illegittimi, e poi delle separazioni e dei divorzi, ci danno conto inoltre della trasformazione dell’istituto familiare che nel corso dell'Ottocento e Novecento rappresenta uno dei fenomeni sociali in più rapido mutamento. Non sarà possibile neppure comprendere a pieno l’origine e lo sviluppo di macroscopici processi economici come la prima industrializzazione in Italia se si prescinde dall’apporto ad essa recato dalle donne. Nell’industria metalmeccanica le presenze femminili erano inferiori a quelle maschili, ma l’incremento e il profitto dell’industria tessile non è scindibile dal massiccio impiego di donne e ragazzi ai telai e alle macchine. Se nel settore della lana gli uomini prevalgono numericamente sulle donne ai primi del Novecento, nel settore della seta donne e bambini li superano largamente. É noto che l’impiego di mano d’opera sotto costo come quella costituita da operaie

e ragazzi cui viene attribuito un salario inferiore a quello degli uomini è fenomeno europeo, che giustifica le specifiche rivendicazioni in materia di tutela del lavoro e la richiesta di parità del salario che costituiscono per decenni oggetto di discussioni legislative e offrono occasione per iniziative di tipo filantropico, ma è proprio questa presenza imprescindibile delle donne nei settori emergenti e trainanti della vita economica dei paesi industrializzati che pone con evidenza il problema del riconoscimento dei loro diritti sul piano politico e civile. Non molto diversa è la situazione se si osserva il settore della vita economica dove fino alla metà di questo secolo trova ancora occupazione la maggior parte della popolazione italiana: l'agricoltura. In notevole misura impiegata nell'azienda familiare, gran parte della forza lavoro femminile è tuttavia costituita da braccianti agricole a giornata che alimentano il profitto del capitalismo agrario soprattutto padano e che aderendo alle prime organizzazioni sindacali saranno protagoniste di manifestazioni di protesta prettamente femminili come gli scioperi delle mondine della fine del x1x secolo e del primo decennio del xx. Mentre assai lentamente, all'indomani dell’unità d’Italia e dopo la promulgazione delle leggi relative alla scuola, le donne cominciano ad avere accesso all’istruzione anche in funzione di un’attività professionale, il lavoro femminile nel settore industriale e agricolo costi12

tuisce un fenomeno rilevante della vita sociale che non solo è indice di un mutamento culturale e dei costumi riassumible nell’espressione “donna moderna”, ma pone anche con evidenza la necessità di riconoscere politicamente e giuridicamente alle donne quel ruolo attivo e indipendente dalla tutela paterna o maritale che esse ormai conducono nella sfera economica e nella società. Spetterà ad alcune donne di elevato ceto sociale, di notevole cultura, spesso in contatto o addirittura congiunte con parlamentari dei singoli stati farsi carico del riconoscimento dei diritti politici delle donne, porre il problema della disuguaglianza nei diritti civili e sostenere iniziative filantropiche a favore della protezione delle fasce più disagiate della popolazione femminile. Anche se la prima coerente e teoricamente espressa rivendicazione dei diritti di cittadinanza alle donne deve farsi risalire alla Dichiarazione dei diritti delle donne scritta nel 1791 da Olympe de Gouges all'indomani della rivoluzione francese, è nella seconda metà dell’Ottocento che l’aspirazione femminile ad una piena partecipazione alla vita politica si esprime in un movimento organizzato per la richiesta

del voto: il suffragismo. Nato in Inghilterra e negli Stati Uniti, ove si organizza attraverso la costituzione di Societies for Woman's Suffrage (1868-70) e di Woman's Suffrage Association (1869) che si avvalgono anche di giornali per far conoscere le proprie iniziative e i propri programmi, il movimento suffragista opera attivamente proponendo progetti di legge sul voto delle donne e sull’acquisizione dei pieni diritti civili, mentre alcuni dei suoi membri sono particolarmente attivi nella promozione di istituti di istruzione superiore femminile. In Italia i movimenti emancipazionisti esercitano la loro pressione particolarmente in occasione delle discussioni parlamentari sulle riforme elettorali richiedendo innanzitutto l'ammissione al voto amministrativo. Cultura e ideologia dell’Italia liberale sono ancora tuttavia fortemente restie ad ammettere un coinvolgimento delle donne nella sfera pubblica e giungono solo lentamente ad abolire le molte restrizioni della capacità giuridica femminile. Nel 1887 si ha l’abrogazione delle disposizioni sull’esclusione delle donne come testimoni negli atti pubblici e privati e nei due decenni successivi vengono riconosciuti diritti di eleggibilità in organismi societari, come le Congregazioni di Carità e le associazioni benefiche, nei collegi dei probiviri, negli organi delle Camere di Commercio e uffici elettivi delle scuole. Ma la pienezza del riconoscimento delle capacità giuridiche della donna e la parità fra uomo e donna nel diritto privato con l’abolizione dell’autorizzazione maritale a compiere atti come i contratti di compra-vendita giunge soltanto nel 1919, all’indomani del primo 13

conflitto mondiale in cui il forte coinvolgimento femminile nelle attività economiche e produttive aveva decisamente provocato una svolta di costume espressa anche visibilmente dall’accorciamento delle gonne e dal taglio dei capelli alla “maschietta”. Nello stesso anno le donne venivano ammesse anche alle professioni di avvocato, procuratore legale e agli impieghi pubblici, con l'esclusione degli incarichi che comportavano poteri giurisdizionali. Il cammino verso il raggiungimento del voto politico doveva essere ancora lungo. Mentre in Inghilterra e negli Stati Uniti le donne acquisivano il suffragio rispettivamente nel 1918 e nel 1920, in Italia, ove dal 1911 era in vigore il suffragio universale maschile, la discussione sul voto amministrativo venne ripresa all'indomani della guerra. L’interruzione della legislatura impedì l’approvazione della legge, riproposta e approvata nel 1925 durante il periodo fascista e mai applicata per l’istituzione del regime podestarile nelle amministrazioni locali. Fu solo nel 1945, all'indomani del secondo conflitto mondiale, che venne riconosciuto alle donne il diritto di voto, l’esercizio del quale venne espletato per la prima volta il 2 giugno 1946 in occasione del referendum istitutivo della Repubblica italiana. I ritardi nel riconoscimento dei diritti civili e politici alle donne, per altro sanciti dopo traumatici eventi quali le guerre mondiali che avevano mostrato la capacità di mobilitazione femminile e avevano provocato una forte accelerazione dei mutamenti di costume, appaiono tanto più gravi quanto più si consideri l'inserimento delle donne non solo nelle attività produttive industriali e agrarie, ma anche nel settore del terziario in rapido sviluppo nell’Italia liberale. Né si deve sottovalutare l’importanza culturale e politica dei movimenti eman-

cipazionisti e dell’associazionismo femminile che all’inizio del secolo dette vita a organizzazioni nazionali per la protezione e la promozione dei diritti delle donne che non hanno precedenti nella storia della nazione. Per quanto lento il processo di alfabetizzazione dei più ampi strati della popolazione, l'istruzione femminile raggiunge fasce non trascurabili di giovani donne che, a differenza dei periodi storici precedenti, cominciano a considerare l'acquisizione di capacità culturali anche in funzione di una professione: con lo stato unitario nuove possibilità di impiego si aprono alle donne tanto nell’insegnamento quanto nelle pubbliche amministrazioni, mentre innovazioni tecnologiche quali il telegrafo, il telefono e la macchina per scrivere fanno nascere nuove professioni divenute di fatto eminentemente femminili. Le leggi dello stato italiano relative alla scuola si presentano in realtà assai liberali anche in rapporto all’analoga legislazione degli altri paesi. Fin 14

dal 1876 viene concesso l’accesso alle donne alle facoltà universitarie e dal 1881 anche alle scuole superiori, nel 1911 inoltre si procede alla statizzazione delle scuole elementari prima affidate alle amministrazioni locali. Le scuole più frequentate dalle donne sono inizialmente le Scuole Normali che abilitano all'insegnamento elementare. La figura della “maestrina” assume già nell'Ottocento un valore emblematico e nei primi decenni del secolo successivo costituisce un impiego prevalentemente femminile. Anche l’istruzione universitaria vede un’adesione di donne sempre crescente, specie nella Facoltà di Lettere, di Medicina e di Giurisprudenza, anche se l’esercizio della professione subisce a volte limitazioni. i Acculturate, spesso redattrici di giornali che esprimono ideologie e programmi politici, sono le emancipazioniste che danno vita

a gruppi femminili di ispirazione laica e cattolica. Nel primo decennio del Novecento esse raggiungono un alto grado di mobilitazione promuovendo una federazione delle associazioni e istituendo un Consiglio Nazionale della donna che nel 1908 organizza un Congresso Nazionale. La federazione unitaria è di breve durata per il distacco dei gruppi cattolici, per altro divisi tra loro per ispirazione e conduzione, ma significativa è la sua costituzione, prova tangibile di una convergenza di aspirazioni e di iniziative in favore di un più pieno riconoscimento dei diritti delle donne. Attive soprattutto sul piano sociale, esse avviarono lotte per l'approvazione di importanti leggi di assistenza, come nel caso della Cassa di maternità del 1910, che fu il primo provvedimento di welfare state in Italia. L’associazionismo femminile politico e sociale dei primi decenni del secolo si presenta ancora fortemente élitario, ma esso costituisce un significativo precedente di altre forme associative che, con diverse ispirazioni, forniranno a più generazioni di donne la possibilità di operare sul piano sociale, di acquisire esperienze culturali e capacità

di gestione organizzativa. La prima associazione femminile di massa è costituita dalla Gioventù femminile di Azione Cattolica, fondata da Armida Barelli all’indomani del primo conflitto mondiale, che ha organizzazione capillare con ramificazioni in tutte le parrocchie. Pur essendo la sua finalità religiosa piuttosto che sociale, essa costituisce

esemplare espressione di un definitivo riconoscimento del valore educativo e di socializzazione delle aggregazioni femminili. I Fasci femminili nel ventennio sono un’altra manifestazione del tentativo di incidere culturalmente sul mondo delle donne attraverso l’associazionismo. Mentre occorrerà attendere il secondo dopoguerra per vedere il ricostituirsi di gruppi femminili organizzati con finalità politiche e sociali, come l'Unione Donne Italiane di emanazione comunista e il Centro Italiano Femminile di ispirazione cattolica. 5

Nel panorama complessivo delle attività lavorative, dello sviluppo dell’istruzione e del progressivo inserimento delle donne nelle attività sociali e professionali non va dimenticato il contributo delle religiose, con il loro imponente apparato di opere educative, assisten-

ziali e sociali. Pur nel complesso e teso panorama dei difficili rapporti tra Stato italiano e Santa Sede, che caratterizza il lungo periodo apertosi dopo l’unità d’Italia, il fiorire di congregazioni religiose femminili di vita attiva non viene meno. Anche se nel secolo xIx si estende il processo di secolarizzazione che riduce notevolmente l'adesione alla fede in altre epoche incontrastata, ancora forte è il radicamento della cultura cattolica e del suo patrimonio istituzionale in tutto il territorio italiano. Anzi tra Ottocento e primo Novecento l’ingresso nella gerarchia ecclesiastica e nelle fila degli ordini religiosi dei ceti medi e contadini costituisce un importante elemento di mobilità sociale che favorisce il costituirsi di istituzioni ecclesiastiche secolari e regolari numericamente imponenti. Ancora nel 1959 I Anzuario delle religiose d’Italia testimonia che le case femminili nel nostro paese sono 15 678 e le religiose, complessivamente, 150 789. E vero che un esame dei censimenti italiani, put registrando un continuo aumento in termini assoluti delle religiose dal 1881 al 1951, indica un notevole calo proporzionale in relazione alla popolazione italiana nel ventennio 1931-1951, ma nel cinquantennio precedente le suore sono in continua crescita sia in termini assoluti che proporzionali. Esse gestiscono opere d’istruzione, di assistenza sanitaria e di servizi sociali in taluni casi sostitutive delle istituzioni pubbliche, basti pensare che nel 1959 il 31,3% delle scuole medie, il 31,1% dei ginnasi-licei classici e il 51,2% degli istituti magistrali era costituito da scuole private parificate rette da religiose. Assai ampio è anche l’impiego di suore nel-

l’assistenza sanitaria: alla stessa data, 1855 istituti di cura pubblici e privati si avvalgono del servizio di religiose, le quali curano la loro formazione professionale conseguendo diplomi, specializzazioni e talvolta anche la laurea in medicina. Non si può concludere un breve panorama delle attività lavorative e delle professioni femminili nel primo Novecento senza ricordare le tante donne addette ai servizi domestici. Impiego tradizionale, che per secoli aveva comportato forza lavoro maschile e femminile, il lavoro domestico si femminilizza sempre più nel corso dell'Ottocento fino a divenire occupazione prevalente di donne. Tra il 1911 e il 1936 la percentuale femminile degli addetti ai servizi domestici passa infatti dall’81% all’88,5%. Per molte giovani donne di campagna il lavoro domestico ha rappresentato la via per l’inurbamento, il matrimonio e una ascesa sociale; per altre ha comportato, 16

come spesso nel passato, una condizione di nubilato dedicata al servizio della famiglia acquisita. Figura socialmente più rilevante, ma molto spesso accomunata al destino delle lavoratrici domestiche, è l’istitutrice che tra Otto e Novecento completa il ruolo delle “maestrine”. La presenza delle donne nel mondo del lavoro, l’ingresso massivo nella vita pubblica, le iniziative organizzate per il riconoscimento dei diritti giuridici e politici subiscono una svolta nel periodo fascista, la cui politica è volta a ricondurre le donne nella sfera privata,

incrementando il mito della famiglia tradizionale e numerosa e incentivando sul piano legislativo provvedimenti a favore della maternità e infanzia. Ma il secondo conflitto mondiale è occasione di un nuovo coinvolgimento delle donne nella sfera pubblica e le vede protagoniste anche nella politica attiva. Il conseguimento del suffragio femminile nel 1945 consente che anche le donne possano essere elette negli organismi rappresentativi della nascente repubblica. Il fatto che 21 di queste fossero chiamate a far parte dell’assemblea costituente e che 4 fossero designate tra imembri incaricati di redigere il progetto di costituzione è un pieno riconoscimento del contributo femminile alla lotta di liberazione nazionale. E anche l’elezione di 44 parlamentari nella prima legislatura del 1948 rappresenta un significativo ingresso delle donne in politica, riscontrabile con un'elevata presenza femminile nelle amministrazioni locali. È anzi interessante constatare che nelle legislature successive vi fu una diminuzione della rappresentanza femminile in parlamento per ragioni che non mi risultano finora indagate, ma certo, se forse ancora erano carenti organismi di formazione politica per le donne, una parte dovevano pur avere i meccanismi di inclusioni o esclusione nelle liste elettorali controllate da chi da più tempo era allenato a gestire il potere. E nel periodo repubblicano, negli anni della ricostruzione e soprattutto del boom economico favorito dai rapidi processi di trasformazione tecnologica e culturale, che si compie gradualmente il cammino verso il riconoscimento della parità dei diritti giuridici della donna iniziato ai primi del Novecento. Basterà ricordare sul piano economico l’ottenimento della parità salariale sancita nel 1960 e sul piano giuridico la dichiarazione di incostituzionalità dell’esclusione delle donne da determinati uffici pubblici, emessa nello stesso anno. In questo periodo, al miglioramento delle condizioni materiali di vita, fino al raggiungimento del “benessere”, si accompagna la scolarizzazione di massa e l’accesso sempre più massiccio all’università. Questi fenomeni, che hanno dimensione mondiale e che con il progresso dell’acculturazione femminile favoriscono anche una rinnovata rifles1

sione sulla condizione della donna e la sua specificità rispetto al maschile, daranno vita al nuovo femminismo, al cui impulso si deve in parte l’attuale sensibilità ai problemi della condizione delle donne non solo nel mondo occidentale. Per quanto si riferisce al nostro paese bisognerà almeno ricordare che le trasformazioni culturali e sociali che riguardano il rapporto tra i sessi si riflettono soprattutto nella legislazione attinente la famiglia, il matrimonio e la procreazione: è del 1970 la legge sul divorzio, del 1978 quella sull’aborto e del 1975 il nuovo diritto di famiglia. AI raggiungimento dell’uguaglianza dei diritti tra uomo e donna nel mondo occidentale non si accompagna sempre una condizione di

fatto che consenta alle donne di esercitare in pienezza tali diritti. E questo il motivo per cui, su sollecitazione dell'ONU, è stata istituita nel 1984 presso la Presidenza del Consiglio la Corzzzissione per la realizzazione delle pari opportunità tra uomo e donna, seguita dall’istituzione di analoghe commissioni negli enti locali e presso il Ministero della Pubblica Istruzione. Scopo di questi istituti è promuo-

vere iniziative di tipo culturale volte allo studio delle realizzazioni e delle carenze in materia di parità sul piano legislativo o dell’istruzione e alla valorizzazione delle attività culturali delle donne. Si deve anche alla sensibilità al problema della oggettiva difficoltà a raggiungere di fatto, nella sfera pubblica e privata, la parità, ormai quasi integralmente riconosciuta dal diritto, l’attenzione volta dalle amministrazioni pubbliche locali a favorire iniziative di donne e per le donne. In questo contesto si può comprendere l’appoggio politico e finanziario concesso dagli enti locali alla costituzione di centri culturali, biblioteche e corsi di aggiornamento. Proprio queste iniziative hanno consentito negli ultimi due decenni che parte del patrimonio culturale elaborato dal movimento femminista degli anni Settanta e arricchito dalla riflessione e studio di nuove generazioni non andasse disperso, ma anzi costituisse punto di partenza per più approfondite conoscenze. Diversi di questi istituti hanno promosso la costituzione di centri di documentazione per la storia delle donne. Il legame tra donne nella storia e storia delle donne sembra così consolidarsi e farsi più stretto. 3. Donne che scrivono storia

In un saggio famoso, in cui passava in rassegna le scrittrici del passato, Virginia Woolf diceva di non meravigliarsi per lo scarso numero di donne scrittrici: poche avevano «una stanza tutta per sé». La Woolf voleva sottolineare l'assenza, fino al xx secolo, delle con18

dizioni materiali che potevano favorire l’attività intellettuale. Più del previsto tuttavia erano le donne che potevano coltivare gli studi e la scrittura all’interno di una cella o di una dimora patrizia. Diverse di queste composero opere storiche. È vero che la storiografia ufficiale non ne ha lasciato memoria. Il più famoso manuale di storia della storiografia, quello di Eduardo Fueter, menziona soltanto Madame de Staél (1776-1817), ma indagini recenti hanno già por-

tato alla luce la testimonianza di una produzione storica femminile presente fin dal secolo xv e caratterizzata da elementi significativi di tipicità. Si deve a Margaret Lucas (1623-1673), moglie del duca di Newcastle William Cavendisch, una riflessione sul proprio modo di comporre la storia che l'americana Natalie Zemon Davis ha assunto come specifica del genere femminile: la “storia particolare”. Margaret Cavendisch, autrice di scritti diversi tra cui una complessa opera utopica, scrive la biografia del marito, famoso generale al servizio di Carlo I Stuart e a lungo impegnato nella guerra civile inglese. In questa opera biografica, in cui si riflettono aspetti della vita politica, economica e sociale del ceto aristocratico tra rivoluzione e restaurazione,

la scrittrice riflette e trasmette quanto aveva potuto apprendere dalle esperienze e vicende familiari e dalle conversazioni di politici e intellettuali, tra cui Hobbes, che frequentavano la propria casa. In un interessante tentativo di classificazione delle opere storiche, che lascia trasparire il grado di autoconsapevolezza con cui la donna si dedicava al lavoro intellettuale, la Cavendisch distingue tra storia generale, o descrizioni dei modi di vita e dei costumi dei popoli conosciuti, utile per mercanti e viaggiatori e per lo più composta dagli stessi, storia nazionale, dai contenuti politici e che tratta delle contese fra fazioni e paesi, scritta da uomini di stato, e infine storia particolare, o genere biografico, scritta dagli attori o spettatori delle azioni descritte. La “storia particolare”, che ruota intorno a vicende controllabili personalmente e sperimentate, è anche la più veritiera. Secondo la definizione della Cavendisch stessa la “storia particolare” è «the most secure; because it goes not out of its own circle, but turns on its own axis, and for the most part keeps within the circumference of truth». E non c’è dubbio, come arguisce Natalie Davis, che la “storia particolare” è la forma tipica delle storiche del passato. Non era infatti sufficiente per poter scrivere storia possedere “una stanza tutta per sé” o i mezzi sufficienti per sostentarsi, ma occorreva anche l’accesso alle fonti storiche. Di fatto le donne non potevano consultare collezioni documentarie contenute nelle biblioteche monastiche né cono19

scere i dispacci di ambasciatori e principi, tutt'al più accessibili a chi esercitava funzioni di segretariato o cancelleria al servizio di repubbliche e principati: le donne potevano conoscere e apprendere direttamente ciò che entrava nel circuito più o meno allargato delle loro esperienze di status, fosse questo religioso o laico. Se è vero che per secoli poterono avere accesso alla scrittura unicamente donne educate nei monasteri o avviate agli studi da precettori privati nelle case patrizie, è proprio all’interno di queste istituzioni ed esperienze che si sviluppa un interesse a trasmettere una memoria storica che assume

la forma di “storia particolare”. Né bastava conoscere i fatti per giungere alla determinazione di scrivere storia: occorreva anche una specifica conoscenza dei generi storici, cui le donne arrivarono soltanto nel secolo xvi quando furono ammesse alla lettura della storia, e occorreva infine un pubblico, più facilmente reperibile all’interno dell’ordine religioso di appartenenza o nella sfera dell'ambiente familiare e di corte. Sulla base delle storiche del passato fin qui censite, Natalie Davis individua nei secoli xv-xvI, oltre il genere biografico o autobiografico, comune anche agli scrittori di sesso maschile, due aree di ricerca storica che si collocano all’interno della “storia particolare”: la storia religiosa “di piccola scala” e la storia familiare. Primo in ordine di tempo e di importanza è l’impegno delle donne storiche nell’ambito biografico e autobiografico, che assume connotazioni diverse a seconda del periodo storico e in connessione con l’evolversi stesso del genere letterario. Il racconto biografico e autobiografico si sviluppa, pur con caratteristiche e finalità diverse, tanto fra le donne laiche che fra le religiose. Mentre per le prime il modello è fornito dall’esempio classico della storia degli uomini illustri iniziata da Plutarco e riproposta nel rinascimento dal Boccaccio e dai suoi imitatori, per le seconde il genere immediato di riferimento è il modello agiografico, ordinato a fare memoria dei fatti prodigiosi e dei miracoli, attribuito al “santo”, ma anche a proporre tipologie imitabili di virtù e comportamento. Basteranno due esempi del secolo xv per illustrare la precoce adesione delle donne alla trasmissione di una memoria storica femminile forgiata sulla base dei canoni letterari allora vigenti, ma espressione anche di una notevole originalità e autonomia di elaborazione. La Cité des dames, composto nel 1405 da Christine de Pisan, fu

un modello letterario per le donne per circa un secolo e mezzo. In forma di trattato politico utopico, la francese di origine italiana traccia un profilo delle donne illustri dall’antichità ai suoi tempi dando origine precocemente al genere della Quere/le des femmes destinato 20

a grande fortuna per tutto il periodo rinascimentale e barocco. Figlia di un noto fisico e astrologo che ricopriva la prestigiosa carica di cancelliere del re francese Carlo V e vedova di un segretario reale, Christine indirizzò le sue scritture ad uomini politici e ricevette l’incarico di scrivere la storia del regno di Carlo V. Ella assolse a questo compito, componendo un’opera che rimase manoscritta fino al secolo xvi. Grande diffusione ebbe invece la Cité des dames, varie volte

stampata e tradotta in più lingue. Christine de Pisan rappresenta un esempio precoce di storica che poteva produrre opere che si estendevano dalla “storia particolare” ad una più ampia storia nazionale in virtù dell’osservatorio privilegiato in cui si trovava a vivere. Analogamente Illuminata Bembo, clarissa veneziana vissuta a Ferrara e Bologna e compagna di Caterina de’ Vegri venerata come santa fin dalla morte avvenuta nel 1456, poté scrivere per le consorelle una biografia della compagna defunta che si distacca notevolmente dallo sterotipo agiografico consolidato per assumere il carattere di una storia individuale saldamente intrecciata con il vissuto comunitario monastico. Alla Bembo non interessa soltanto ricordare le virtù e i miracoli dell’abbadessa defunta, ma perpetuare il suo insegnamento all’interno del convento. Le esortazioni della beata Caterina sono riportate in forma di “detto” così da ricostituire la trama di una “sacra conversazione” entro il tessuto comunitario. L’opera di Illuminata Bembo, che servì da fonte alla prima biografia a stampa di Caterina de’ Vegri composta da Sabadino degli Arienti, rimase per secoli manoscritta e fu pubblicata soltanto nel secolo xv in occasione del processo di canonizzazione della Vegri. Manca tuttora un’edizione critica dello scritto. Attive sul piano biografico, le donne laiche e religiose composero anche autobiografie. Più spesso redatte in forma di memorialistica e contrassegnate da un carattere apologetico piuttosto che introspettivo, le autobiografie delle donne laiche sono volte a lasciare ricordo di eventi particolari di cui sono state protagoniste, come le Memorie di Camilla Faà Gonzaga costretta a monacarsi dopo lo scioglimento del suo matrimonio con il duca d'Este. Decisamente volte all’introspezione, quasi dettate da un desiderio pre-psiocoanalitico di rappresentarsi attraverso la scrittura e spesso redatte su imposizione del confessore o dell’inquisitore, sono le autobiografie di religiose soggette a fenomeni mistici fuori della norma. Genere ben rappresentato dalla secentesca Historie de la possession de la Mère Jeanne des Anges, ma presente in una quantità impensabile di manoscritti, anche italiani, il cui censimento potrebbe costituire una mappa significativa della scrittura storica e mistica femminile. Oltre ad esprimersi nel genere biografico e autobiografico, la scrit21

tura storica femminile dei secoli xvi-xvm si esercita nella “storia religiosa di piccola scala” e nella storia familiare. Esempio significativo dell’interesse storico delle religiose sono quelle cronache del convento, per lo più redatte per fini pratici allo scopo di fare memoria di ingressi, professioni, morte delle monache o acquisti e vendite di immobili, che allargano lo sguardo oltre le mura monastiche per registrare eventi cittadini. Significative al riguardo sono il Memoriale delle clarisse perugine di Monteluce e la Cronaca della modenese suor Lucia Poppi. Ad un livello più elaborato, che prova la possibilità di una religiosa di attingere documentazione storica anche all’interno del rispettivo ramo maschile dell’ordine, sono le scritture della fiorentina suor Fiammetta Frescobaldi, i cui mano-

scritti, non ancora pubblicati, raccolgono testimonianza degli eventi dell’ordine domenicano dal periodo savonaroliano alla fine del secolo xvi. Se gli scritti di Fiammetta Frescobaldi rientrano ancora nel genere cronachistico senza particolare attenzione pet l'indagine documentaria, gli Annali della bresciana suor Angelica Baitelli possono già qualificarsi come storiografia erudita. In un’opera che vedrà anche l'edizione a stampa (1657), la Baitelli persegue infatti l’intento di rappresentare l’antichità, la nobiltà e i diritti del monastero di Santa Giulia attingendo e trascrivendo le più importanti testimonianze documentarie conservate nell’archivio del convento. Nell’ambito della storia religiosa si devono anche segnalare fuori d’Italia contributi femminili alla memorialistica di eventi traumatici come le guerre di religione e, nel periodo successivo, scritti sull’origine, fondazione ed espansione dei nuovi ordini religiosi della controriforma. Così nell'Impero germanico possiamo ricordare la cronaca della badessa di Nuremberg Caritas Pirckeimer che narra la resistenza opposta alla Riforma in un convento di clarisse e in Svizzera la storia politico-religiosa di Marie Dentière, ex abbadessa di Tournai sposatasi con un pastore protestante, che descrive le guerre della città di Ginevra. Sul piano della celebrazione delle nuove fondazioni religiose dobbiamo ricordare almeno le opere francesi che narrano l'origine dell'ordine della Visitazione, della sua fondatrice Jeanne de Chantal e delle religiose più illustri, e le famose cronache del monastero di Port Royal e delle Orsoline che ebbero risonanza anche fuori dell’ordine. Nell’ambito della “storia particolare” va annoverata soprattutto la storia familiare. Genere letterario iniziato nel secolo xIv dai mercanti-scrittori fiorentini, le “ricordanze” della famiglia sembrano rimanere in Italia una prerogativa maschile, in Francia ed Inghilterra invece furono scritte anche da mogli e vedove e vennero indirizzate ai figli piuttosto che a un pubblico ampio. Quando le conoscenze o 22

l’attività dei mariti esorbitavano dalla semplice cura degli interessi della casa queste cronache familiari potevano assumere anche l’aspetto politico: così avvenne per le Mémoires de Madame de Mornay, l’ugonotta Charlotte Arbaleste, che attraverso dispacci o lettere a lei indirizzate ricostruisce le implicazioni della propria famiglia nelle fasi più accese delle guerre di religione in Francia, o per la vita di William Cavendisch scritta dalla già citata Margaret Lucas e pubblicata nel 1667 e nel 1675 e tradotta anche in latino nel 1668. Nel secolo xvu alle biografie e memorie familiari si mescolarono spesso narrazioni di carattere più letterario. Soprattutto in Francia si verificò una situazione fluida in cui i confini tra novella, storie, storia e memoria non erano ben definiti e a questo contribuirono anche

molte aristocratiche tra cui Madame de Lafayette e Mademoiselle de Montpensier. Nel secolo xv nei sa/ors, in cui erano protagoniste le dame, fiorisce, specialmente in Inghilterra, un’ampia produzione di pamphlets politici, mentre in Francia donne letterate pubblicano una notevole varietà di opere storiche ormai decisamente orientate all’utilizzo delle fonti documentarie o antiquarie. In questo secolo anche le donne allargano il loro interesse dalla memorialistica alla storia politica. Ne è un famoso esempio la storia dell’Inghilterra dal regno di Giacomo I, scritta da Catharine Sawbridge Macaulay e pubblicata in otto volumi tra il 1763 e il 1783; ma anche in questo caso, che ci presenta una versione wbig della storia d’Inghilterra in contrapposizione all'opera di David Hume, il bagaglio culturale e il tessuto informativo della storica non è scindibile dalla storia della famiglia d’origine e dal circolo intellettuale che frequentava la casa del marito, il famoso fisico Dr. Macaulay. Ancora agli eventi familiari e politici deve ricollegarsi l'interesse alla storia di Madame de Staél. Figlia del famoso banchiere svizzero Jacques Necker, più volte direttore generale delle finanze per Luigi xvI e travolto anch’egli, dopo alterne vicende, nel terremoto politico della rivoluzione francese, Germaine seppe nelle Considérations sur les principaux événements de la révolution francoise (1818) allar-

gare il proprio sguardo dagli avvenimenti relativi al turbolento momento politico a più generali considerazioni di ordine filosofico sugli stadi del progresso storico e gli effetti delle istituzioni politiche e sociali sulla cultura letteraria e il carattere nazionale. Fu questo avvicinarsi alla “storia filosofica”, che contrassegnava ormai l’indirizzo prevalente nella storiografia del secolo x1x, che, a differenza delle altre storiche, valse alla de Staél una menzione nel manuale del Fueter.

Già presenti nei secoli dell’età rinascimentale e moderna con una produzione storica ricollegabile alla tipologia della “storia particolare” che può effettivamente considerarsi come una categoria di 20

“genere” sessuale, le donne continuano con pari e intensificato interesse a dedicarsi alla produzione storica anche nei secoli successivi. Meno attive nell’ambito italiano, esse compaiono in nutrita schiera fin dall’Ottocento in Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Qui le storiche presentano una produzione poliedrica, che va dagli studi storici e antiquari ai trattati scientifici, ai saggi didattici e morali, alle biografie, alle opere letterarie. Bisogna almeno ricordare Thiroux d’Arconville (1720-1805), autrice tra l’altro di una biografia di Maria de’

Medici, e soprattutto la feconda Louise Keralio Robert (1758-1821), che scrisse una storia di Elisabetta I in quattro volumi e un’ampia antologia di donne scrittrici, oltre a pubblicare un giornale durante la rivoluzione francese. Molte delle storiche dei secoli xtX e xx si dedicarono anche ai lavori di traduzione: si deve a due donne, Sarah Taylor Austin (1793-1867) e Cecilia M. Ady (1881-1958), la diffusione nel mondo anglosassone delle opere di Leopold Ranke e di Benedetto Croce; mentre in Francia Clémence Royer (1830-1902) tradusse Charles Darwin. Talune donne si dedicarono alla traduzione di biografie femminili, altre, come la Austin e la connazionale Mary Berry (1763-1852), estesero i loro sforzi nel campo della storia comparativa. Assai presto nell'Ottocento si diffuse la moda storiografica delle biografie delle donne illustri e alle storiche si deve anche la compilazione di numerosi dizionari di donne famose o antologie di scrittrici. Dal campo biografico l’interesse delle storiche si volse successivamente all’ambito sociale, così la storia delle donne nella vita inglese divenne campo d’indagine di Georgiana Hill alla fine del x1x secolo e di Eileen Power (1889-1940) nel xx. In molte storiche di questo periodo l’in-

teresse verso la donna come oggetto di storia risulta prevalente. Talvolta la storia sociale è accompagnata da una preoccupazione di tipo morale e in taluni casi appare evidente l’intenzione di costruire una tradizione di tipo “maternalistico” che suggerisca una cultura femminile, separata da quella maschile, caratterizzata dal senso della giustizia e del pacifismo. Alla fine dell'Ottocento l’interesse politico della storia delle donne si afferma soprattutto in relazione alla nascita del movimento suffragista in Inghilterra e negli Stati Uniti. Le indagini finora condotte sulle storiche dell’epoca passata hanno fatto emergere un numero notevole di donne colte, autrici di opere che spesso raggiungono la stampa e che tuttavia sono ignorate dalla storiografia ufficiale. In tempi più vicini a noi, fino agli anni Settanta di questo secolo, le donne paiono scomparire anche come oggetto di storia. Una possibile spiegazione di questo fatto è stata avanzata dall’americana Susan Mosher Stuard che individua nell’avvento della storiografia scientifica, collocabile nel periodo della III Repubblica, 24

il motivo dell’eclissi femminile dall’universo storiografico. Nell’intento di staccarsi dalla storiografia letteraria dei romantici, la nuova storia definisce come sottogenere la biografia relegandola nell’anedottica e nella storia della vita privata e privilegia la storia politica negando alla “storia particolare” statuto di scienza. È vero che tra Ottocento e primo Novecento non mancano storiche che continuano

a dedicarsi in parte all'indagine di soggetti e questioni femminili, ma esse lavorano per lo più al di fuori dell'accademia, ai margini della disciplina scientifica. Non è un caso che nel 1885 nessuna donna comparisse tra i soci fondatori dell’ American Historical Association e che nel primo elenco dei soci, composto di 350 membri, soltanto 15 fossero donne. Ancora nella prima metà del secolo le storiche americane insegnarono per lo più in collegi femminili e in istituzioni di secondo piano; in anticipo tuttavia rispetto alla situazione italiana esse poterono raggiungere posizioni accademiche di prestigio, come ad esempio la presidenza della citata American Historical Association che nel 1943 andò a una donna. La presenza delle storiche nell’accademia italiana è un evento relativamente recente. Anche in connessione all’aumento dell’istruzione femminile universitaria che come fatto massivo è databile soltanto al secondo dopoguerra, assai lentamente le donne entrano a far parte dell’organico universitario. Nel 1951-52 il tasso di femminilizzazione dei docenti, come ci viene trasmesso dall’ Annuario

statistico dell’I-

struzione Universitaria, è assai basso. Sul totale dei docenti la presenza femminile risulta dell 1,8% nel ruolo degli ordinari, del 5,7% in quello degli incaricati e del 12,9% in quello degli assistenti e borsisti. Un notevole incremento si constata invece un trentennio dopo, anche in considerazione dell'aumento della popolazione studentesca verificatosi nei primi anni Settanta. Nel 1981-82 infatti la femminilizzazione dei docenti risulta del 6,9% nel ruolo degli ordinari, del 24,9% in quello degli incaricati, del 29,9% in quello degli assistenti,

del 40,6% in quello dei contrattisti e borsisti e del 36,5% nel nuovo ruolo dei ricercatori. La massiccia immissione negli anni Settanta del personale docente più giovane, dapprima qualificato come borsista e contrattista in via di formazione, poi inquadrato nel ruolo di ricercatore diminuisce il divario tra presenza maschile e femminile nei ruoli della docenza universitaria, ma resta tuttora assai lento il recu-

pero percentuale della presenza femminile ai livelli più alti della carriera accademica. In questo quadro, la presenza delle storiche appare caratterizzata da una percentuale maggiore nelle discipline di più antica istituzione, come l’antichistica e la medievistica, o in quelle più recenti, come la storia contemporanea. 25

CAPITOLO SECONDO

La formazione della “storia delle donne”

1. Tra militanza e ricerca

Anche se, come abbiamo visto, la scrittura storica è stata praticata dalle donne fin dai secoli passati, è solo nell’ultimo ventennio che la “storia delle donne” ha acquisito uno statuto specifico nella storiografia. La storia delle donne come disciplina deve collegarsi alla nascita e allo sviluppo del movimento femminista. L'espressione italiana “storia delle donne”si connette strettamente con gli “wozzen's studies” americani, termine con cui si intende la vasta produzione culturale che comprende studi sulle donne e delle donne. L'ampiezza semantica dell'espressione “worzen’s studies” aveva fatto preferire questo termine al più specifico “ferzinist studies” che designava propriamente l’ambito culturale in cui si collocavano gli studi delle donne. La riflessione storica, la ricostruzione di una memoria o di una tradi-

zione culturale femminile, costituiscono un solo aspetto di un più vasto movimento che nasce da istanze politiche e si mobilita per il raggiungimento di precisi obiettivi legislativi, ma pone al centro del proprio interesse l’analisi della specificità e la ricostruzione del soggetto femminile e il rapporto della donna con il sesso maschile. Questo tipo di analisi è prettamente interdisciplinare e si sviluppa contemporaneamente su diversi piani, sia su quello psicologico e psicanalitico, sia su quello filosofico e antropologico, fino al campo linguisticoletterario e pedagogico. La storia delle donne acquisisce in questo ambito la funzione di recupero di una tradizione culturale femminile e contribuisce ad analizzare i caratteri di quella specificità che è oggetto d’indagine prioritaria del movimento. Alcune linee dello sviluppo del femminismo italiano degli anni Settanta contribuiranno a evidenziare le connessioni tra la riflessione teorica e la pratica politica del movimento e il costituirsi della storia delle donne come disciplina specifica. L’inizio della prima riflessione femminista può farsi risalire al gruppo milanese che ha espresso il documento designato con il nome 26

di Demau (demistificazione autoritarismo), stilato nel 1966 ma pubblicato soltanto nel 1969 sul quotidiano della sinistra extraparlamentare “Il manifesto” un anno dopo la dispersione del gruppo. Il documento sosteneva che la risposta alla oppressione delle donne non doveva ricercarsi nella loro incorporazione in un sistema sociale di uguaglianza agli uomini, ma affermava che nell’oppressione delle donne c’è qualcosa di specifico. Si avverte nel documento una presa di distanza dalle precedenti analisi emancipazioniste e si individua nella sfera della sessualità l'ambito specifico all’interno del quale deve ricercarsi l'origine della discriminazione dei sessi. L’ottica è quella della ricerca di “autonomia” da parte delle donne. Il clima culturale in cui nasce la riflessione del gruppo Demau è quello che precede la contestazione studentesca del 1968 e ha qualcosa in comune con le contemporanee elaborazioni del neo-femminismo americano che si sviluppa appunto in quegli anni. Nel 1969 si costituisce in Italia il Movimento di liberazione della donna, legato al partito radicale. È poi nel 1970 che inizia il movimento femminista con la formazione di gruppi politicamente legati alla sinistra extra-parlamentare, che trova una prima espressione programmatica nel manifesto “Rivolta femminile”, firmato da tre donne tra cui Carla Lonzi. Tali gruppi danno vita a due collettivi a Roma e a Milano. Nello stesso anno a Milano si forma anche il collettivo Anabasi che introduce come forma di riflessione culturale del gruppo il metodo americano dell’autocoscienza. Esso implicava il riconoscimento e la testimonianza personale con metodi debitori a pratica e concetti psicanalitici volti a investigare la percezione individuale di sé e a controllare il comportamento quotidiano. L’autocoscienza, che diviene la forma principale di aggregazione di tutti i collettivi che nascono in questi anni, assume anche una forte valenza politica. Alla base della costituzione del movimento femminista sta infatti un deciso rifiuto della politica tradizionale, sperimentata sia all’interno dei partiti storici della sinistra sia nelle nuove formazioni extraparlamentari, che considerano la questione femminile nell’ambito di un’ottica emancipazionistica, di raggiungimento cioè di una presunta parità tra uomo e donna, e che privilegia il confronto politico nei termini di lotta di classe, considerando la contraddizione uomo-donna come secondaria rispetto a quella capitale-lavoro. Scopo politico del movimento femminista è invece quello di porre il problema della differenza dei sessi all'origine del dato storico dell'oppressione delle donne. In questa fase dello sviluppo del movimento l’interesse per la storia delle donne nasce fuori dell’ambito accademico, come processo di costruzione dell’identità femminile in quanto soggetto di analisi storica. 2.

ZARRI, La memoria di lei

24

In sostanza, come sintetizza la storica americana Caldwell, il femminismo italiano può essere messo in rapporto con tre principali pro-

cessi della vita e cultura del nostro paese: l’importanza della tradizione emancipazionista, il ruolo degli intellettuali e la centralità della famiglia e, in essa, della madre. Riguardo al problema dell’emanci-

pazionismo, sostenuto dai partiti della sinistra parlamentare come il PCI che promuove l’uguaglianza dei sessi nei diritti politici e civili senza tuttavia criticare la famiglia come sfera separata e la divisione dei ruoli, il movimento femminista denuncia che l’emancipazionismo femminile è divenuto una strategia individuale che dà solo ad alcune donne la possibilità di uguaglianza con gli uomini. In questo contesto il ruolo delle femministe deve consistere nel riconoscere la loro marginalità, da combattersi con l’“affidamento”, come teorizza nel 1987 il collettivo della Libreria delle donne di Milano nel volume Non credere di avere dei diritti, pratica che stabilisce relazioni tra donne e differenti poteri, volta soprattutto a conferire sicurezza alle più giovani e a favorire i loro rapporti sociali. Centrale nel movimento è il ruolo intellettuale, diretto a costruire le basi di una genealogia femminile che dia autorità al lavoro politico delle donne. Per quanto riguarda la famiglia, mentre si raggiunge negli anni Settanta l’uguaglianza dei diritti sul piano legislativo, uno degli obiettivi femministi diviene indagare sul ruolo della madre. Il primo periodo del femminismo, collocabile negli anni 1970-1974, è contrassegnato dal “separatismo”, negazione e estraneità delle donne dalla politica attiva per attuare una pratica sociale mirata alla modificazione delle strutture socio-economiche che ha come obiettivo finale la liberazione delle donne e la formazione di una nuova identità femminile e maschile attraverso il cambiamento soggettivo. Riflessione e azione sociale sono in quegli anni concentrati sulla sfera privata considerata ambito privilegiato di analisi e pratica politica (slogan “Il personale è politico”) e sul problema della liberazione della sessualità e dell’autodeterminazione della donna nel campo della procreazione (slogan: “Il corpo è mio e lo gestisco io”). L'attenzione è volta a favorire una legislazione di liberalizzazione dell’aborto. Nel 1974, anno del referendum d’abrogazione della legge del divorzio che vede una maggioranza di elettori favorevoli al mantenimento della legge, segna l'apice del successo del femminismo, trasformatosi ormai in movimento delle donne, cioè in una più ampia corrente d’opinione che ha permeato tutta una serie di settori del sociale, come il sindacato, i partiti, il mondo del lavoro, fino a quel momento esenti da

tematiche specificamente femminili. In quell’anno il movimento femminista abbandona la pratica del separatismo per iniziare quella del 28

“riconoscimento” contraddistinta dalla riflessione sulla specificità femminile e sull'analisi della differenza sessuale e dalla giustificazione teorica della presenza nel sociale e culturale. Nel 1975 inizia la fase della diffusione a largo raggio delle tematiche femminili attraverso l'avviamento di corsi monografici nell’ambito del diritto riconosciuto ai lavoratori di 150 ore destinate all’istruzione. Nello stesso anno si pubblica anche la prima rivista di “women's studies” in Italia: “DwF, Donna Woman Femme”. Tra il 1976 e il 1979 si sciolgono i collettivi di autocoscienza e finisce la fase del femminismo di massa. Negli anni Ottanta l’impegno politico è vissuto come impegno culturale, volto a fondare un “soggetto” che riflette su di sé e si dà un significato in una cultura e in un linguaggio che lo hanno espresso. E a partire da questa data che si verifica la ricerca di spazi e luoghi d’incontro femminili, si costituiscono così i primi centri culturali e le librerie delle donne. La storia della donna si avvicina all'ambito accademico e comincia a fondare il proprio statuto scientifico, mentre nel 1981 esce il primo numero di una rivista italiana di storia delle donne: “Memoria”. Fino alla metà degli anni Ottanta il femminismo si esprime in movimento culturale in fase di espansione. L'attuazione delle leggi della parità e la costituzione delle Commissioni Pari opportunità nelle amministrazioni locali consentono, come si vedrà, l’istituzione di centri di ricerca e documentazione sulla donna, ma a partire dal 1985, in connessione anche con la caduta in Italia di molte giunte di sinistra in occasione delle elezioni politiche, la fase di mobilitazione può dirsi tramontata. A questa data la riflessione storica del movimento femminista ha tuttavia già fornito alcuni prodotti della sua elaborazione e aperto problematiche discusse al proprio interno. E significativo constatare che il primo libro italiano di storia che rispecchia gli interessi culturali del femminismo e che è stato assunto come manifesto emblematico della prima fase del movimento stesso non è stato scritto da una storica, ma da una filosofa: Luisa Muraro.

Si tratta del volume La signora del Gioco che analizza il fenomeno della stregoneria come espressione tipica dell’oppressione storica della donna; ma anche della sua ribellione. Mentre nei collettivi femministi si riflette sul problema della differenza sessuale applicando il separatismo come metodo, in campo storico prevale l’interesse verso le diverse forme di oppressione femminile. A questa fase segue poi quella del riconoscimento che comporta la polarizzazione dell’attenzione sui valori femminili con l’impegno a costruire una visibilità delle donne e dà luogo sul piano storico a una serie di indagini su “temi obbligati”, come il corpo e la solidarietà femminile. Numerose sono anche 29

le ricerche volte a tratteggiare immagini di donne considerate di volta in volta esplicative dell’intera condizione femminile. Sandra Cavallo afferma che «il nesso movimento-storia delle donne si può raccontare come una sequenza di enfatizzazioni e superamento

di figure di donne». Studi che portano alla ribalta le donne emergenti (biografie delle donne illustri, carriera delle leader) rispecchiavano una prospettiva egualitarista e corrispondevano a un’istanza di legittimazione del movimento. Studi sul lavoro femminile in prospettiva emancipazionistica riflettevano una fase rivendicativa. Studi sulla rivalutazione del lavoro domestico e indagini sulla famiglia in cui l’oppressione delle donne veniva interpretata come perdita di un potere che esse avrebbero posseduto nel passato si collegavano alla fase separatista del movimento, in cui si discuteva sulla divisione dei ruoli ses-

suali nella famiglia descritti come specifici e complementari. «Il riconoscimento di un mondo separato è stato — continua Sandra Cavallo — ricco di sviluppi successivi: ha operato una sorta di rovesciamento portando alla superficie conoscenze, linguaggi, modi di espressione prima considerati negativi o irrilevanti, ora fondanti uno “specifico” femminile». A questa prospettiva deve ricollegarsi l'enfasi sulla cultura femminile e la valorizzazione delle competenze delle donne sul corpo, sulla natura, sui rimedi come loro poteri peculiari ed esclusivi. L'esperienza separatista del movimento ha anche ispirato una valutazione della segregazione sessuale non tanto in chiave di esclusione ma piuttosto di ambito non toccato dall’ingerenza maschile in cui si sviluppano forme di solidarietà fra donne. Ciò ha ispirato studi sulle reti di relazione femminile, come il rapporto madre-figlia, le donne nella famiglia, il vicinato e l’analisi delle istituzioni ecclesiastiche femminili come luoghi privilegiati di convivenze monosessuali. Un altro tema centrale della riflessione femminista è quello relativo al corpo visto come fonte di potere e non come qualcosa che condiziona la donna a un destino di inferiorità. In questo ambito a studi che indagano sui poteri del corpo femminile si affiancano altri sul controllo del corpo, considerato sia pericoloso (contaminazioni e contagi) che in pericolo (istituti per la conservazione o il recupero dell'onore femminile). Manca in questo periodo una produzione di storia politica sia perché il femminismo si sviluppa in un tempo di crisi del concetto tradizionale di politica, sia perché esso si era fondato, come il movimento studentesco del 1968, sull’affermazione che «tutto è politica». Il nesso movimento femminista-storia della donna, qui soltanto esemplificato, caratterizza soprattutto la ricerca degli anni Settanta in cui la pratica storica non è ancora sostenuta da un’adeguata rifles30

sione teorica e i principali impulsi culturali del femminismo provengono da altre discipline come la psicanalisi o la filosofia. Né può sfuggire l'ambiguità di questa posizione. Se da un lato appare culturalmente importante la convinzione che il processo di costruzione delle donne in quanto soggetto di analisi storica concorra al rinnovamento degli studi in questo campo, dall’altro lato critiche e autocritiche denunciano l’eccessiva ideologizzazione della storia delle donne. Frequentemente, soprattutto in questa fase che ha dato luogo a una produzione definita “storia aggiuntiva” perché finalizzata a introdurre la donna nella storia senza mutarne il quadro concettuale, il movimento ha fatto un uso strumentale del passato cercandovi quanto era funzionale al presente e riconducibile al femminismo, invece di interrogare le testimonianze. Dalla fine degli anni Settanta la pratica storica è accompagnata tuttavia da una progressiva concettualizzazione che si sviluppa anche in connessione con il femminismo americano: si vuole soprattutto ricostruire le basi di una tradizione intellettuale femminile e inserire la storia delle donne in nuovi quadri concettuali. Le interpretazioni storiche allora prevalenti, come la psicanalisi o il marxismo, paiono insuf-

ficienti a rispondere alle domande della storia delle donne. Scienze sociali e antropologia forniscono strumenti più adeguati ad analizzare l'oggetto storico femminile. In questo ambito gli studi di Natalie Zemon Davis e di Gianna Pomata hanno rappresentato momenti forti di una nuova riflessione culturale.

2. Storia, storia delle donne e storia di “genere” Abbiamo visto che la presenza delle donne come scrittrici di storia pare eclissarsi nel secolo xIx in conseguenza del costituirsi della storia come disciplina scientifica. Anche se uno dei massimi studiosi dell'Ottocento, Jules Michelet, vide nella relazione dei sessi una delle forze trainanti della storia, modulata da un latente conflitto tra

donna/natura e uomo/cultura, la storia positivistica, soprattutto per l’influenza di Charles Seignobs, ridusse l'interesse verso le relazioni sessuali e i comportamenti quotidiani e divenne esclusivamente politica. Eventi diplomatici e militari occuparono la scena delle storie nazionali. In questo contesto lo spazio dato alle donne variava e dipendeva dall’attenzione degli uomini che erano gli unici storici. Con l’influenza della scuola della rivista francese “ Annales”, dopo gli anni Trenta del nostro secolo, il campo della storia si estese, ma predominavano gli aspetti economici e sociali. Si introdussero nell’analisi storica tematiche fino allora inesplorate, come il clima, si 31

privilegiò tuttavia lo studio delle strutture, delle categorie sociali, della lotta di classe. La dimensione sessuale era tenuta in poco conto e scarso spazio era dato anche a un elemento essenziale dei rapporti sociali come la famiglia. Tra il 1920 e il 1960 la storia delle donne, confusa con la storia del femminismo, era il campo di pochi e isolati studiosi. Se negli anni Venti la socialista Alice Clark produsse uno studio sul lavoro delle donne nel secolo xva (1919), e l’ebreo francese Léon

Abensur fu autore di un libro sulle donne e il femminismo prima della Rivoluzione (1923), bisogna giungere agli anni Quaranta perché uno dei fondatori delle “ Annales”, Lucien Febvre, maturasse il proprio interesse per la storia delle donne in relazione all'importante profilo biografico e culturale di Margherita di Navarra: Autour de l’Heptameron, amour sacré, amour profane (1944). In questo periodo di tempo anche la demografia storica aveva poco da dire sulle donne perché prendeva in considerazione le famiglie e quindi censiva solo le donne sposate; inoltre nella ricostruzione delle famiglie esaminava solo i patronimici maschili, contribuendo a perpetuare una visione patrilineare della storia. E solo alla fine degli anni Settanta che i demografi dovevano cambiare direzione, aprendosi a campi d’indagine che contemplavano anche il fattore femminile nella popolazione. A partire dagli anni Sessanta, tuttavia, diversi elementi concor-

rono a operare un mutamento nella storia: innanzitutto la nascita dell’antropologia storica, che concentra il proprio interesse sulla famiglia e i ruoli sessuali al suo interno, e lo sviluppo della “nuova storia”, ancora una volta legata alla scuola delle “Annales”, che vuol dar conto del quotidiano, del comportamento e delle mentalità. L'analisi marxista delle classi sociali si apre inoltre a nuove tematiche come lo studio dei ceti popolari e dei gruppi marginali. Nell’ambiente accademico e degli storici di professione c'è dunque un clima più recettivo per la storia delle donne, ma questa si sviluppa, come si è detto, soprattutto per l’impulso del movimento femminista e delle molte questioni da esso poste. Le donne si esprimono con particolare forza negli anni 1970-1975, periodo che corrisponde all’impegno politico del movimento di liberazione delle donne e alla nascita della stampa femminile. A questi anni risalgono le prime importanti riflessioni sulla storia delle donne come disciplina specifica. Negli anni Sessanta le femministe avevano chiesto soprattutto una storia che fornisse eroine, che potesse mostrare l’azione delle donne e spiegasse i motivi della loro oppressione. Si pose enfasi soprattutto sulla ricostruzione del passato storico delle donne, nel tentativo di dare visibilità a un sesso tradizionalmente escluso dalla storia. Ma non ci si accontentò di fissare l’attenzione su un nuovo tema 32

storico, né si riteneva che il compito della storia delle donne fosse quello di includere la donna come oggetto di studio, di creare cioè una “storia aggiuntiva”; essa doveva darsi invece più estesi obiettivi concettuali e contribuire a una modificazione della storia generale. Il primo passo fu quello di considerare le donne come soggetto storico e di smascherare la pretesa della storia occidentale, il cui soggetto è stato quasi esclusivamente identificato con il maschio bianco, a presentarsi come storia universale. La storia delle donne si confrontava allora con il “dilemma della differenza”. Non solo si denunciava la priorità data alla storia al maschile (his-story), considerata come opposta alla storia al femminile (ber-story), rivelando la gerarchia implicita in molti resoconti storici, ma si rivendicava il ruolo delle donne come soggetti attivi di scrittura storica. Questo concetto era sinte-

tizzato da Joan Kelly nel 1976 in un noto articolo della rivista “Signs” in cui si affermava che non era solo questione di restituire le donne alla storia, bensì di restiture la storia alle donne. In questa prima fase la storia delle donne otteneva una legittimazione come impresa storica affermando la natura separata, la separata esperienza delle donne, basata sulla costruzione di un’identità femminile collettiva. Fino alla metà degli anni Settanta la storia delle donne era ancora in fase di sperimentazione e concettualizzazione. Il separatismo, fondato sull’opposizione binaria delle categorie di maschile/femminile concepite come gruppi d’interesse contrapposti, era in crisi; d’altra parte il concetto di differenza sessuale esigeva un’analisi che ponesse in primo piano gli aspetti relazionali dei sessi. Una svolta nella riflessione della storia delle donne fu favorita da un approfondito saggio di Natalie Zemon Davis, apparso nel 1976 su “Feminist Studies” e pubblicato l’anno successivo in Italia su “DWF” con il titolo La storia delle donne in transizione: il caso europeo. Interrogandosi sulla storiografia delle donne come genere letterario, e dopo aver analizzato alcune opere del primo Novecento mettendole a confronto con gli interrogativi posti dal nuovo contesto storiografico, la Davis individua nella relazione dei sessi uno degli aspetti fondamentali della dinamica storica, anticipando quel concetto che verrà successivamente definito come storia di “genere”. «Mi sembra, però, — ella scriveva — che noi dovremmo essere interessate alla storia sia delle donne che degli uomini, che non dovremmo trattare unicamente il sesso oppresso così come lo storico delle classi sociali non dovrebbe limitarsi a focalizzare la sua ricerca unicamente sui contadini. Il nostro scopo è quello di capire l’importanza dei sessi e del gruppo delle donne e del gruppo degli uomini del passato. Il nostro intento è di scoprire l’assortimento dei ruoli sessuali e dei simbolismi sessuali in società e periodi storici 33

diversi e di trovare il significato che hanno e in che modo sono funzionali al mantenimento di un dato ordine sociale o capaci di condurre a un mutamento sociale». E ancora nello stesso articolo la Davis mostrava consapevolezza dell'impatto che la storia delle donne, intesa come storia delle relazioni sessuali, produce sulla storia generale, richie-

dendo una sua profonda riconsiderazione: «Lo studio dei ruoli sessuali dovrebbe quindi condurre al ripensamento di alcuni dei temi centrali affrontati dagli storici: il potere, le strutture sociali, la proprietà, i simboli, la periodizzazione. Questo ci sembra estremamente

importante per la scienza storica». Né venivano ignorati i problemi concreti relativi alla ricerca storica sulle donne, come l’esigenza di individuare nuove fonti, e si sollecitava anche l'opportunità di approcci interdisciplinari. A una definizione esplicitamente interdisciplinare di storia delle donne perveniva nel 1983 il saggio di Gianna Pomata, sottotitolato: Una questione di confine, che presentava tale storia come riattraversamento di un sapere disciplinare e come risultato dello scompaginamento delle tradizionali divisioni tra storia e antropologia. A questo saggio si deve anche l’aver individuato con chiarezza alcune delle ragioni culturali che spiegano l'assenza delle donne dalla storia. Dopo aver premesso che «la ricostruzione del passato è un aspetto del modo complesso in cui un ordine sociale viene rappresentato e giustificato» e che «per capire perché le donne non sono presenti nella storia, dobbiamo cercare di capire quali regole determinano la rappresentazione della scena storica, la comparsa e l’assenza, la centralità e la marginalità di questo spazio», Pomata fa proprie e sviluppa alcune affermazioni di Edward P. Thompson, uno storico attento alla complessità della vita sociale: «Se siamo interessati soltanto al divenire, — afferma lo studioso inglese — ci sono interi periodi in cui tutto un sesso

è stato dimenticato dalla storia, perché raramente si sono viste donne come protagoniste nella vita politica, militare ed economica. Se siamo invece interessati alla struttura, l’esclusione delle donne ridurrebbe la storia a una futilità. Non possiamo capire il sistema economico dei piccoli agricoltori senza esaminare gli usi ereditari, le doti, e quando è il caso, il ciclo di sviluppo familiare. E queste pratiche sono fondate, a loro volta, sugli obblighi e le reciprocità della parentela, ed è ampiamente documentato come fosse peculiare responsabilità delle donne conservare nel tempo e nelle forme tali pratiche». Il fatto è, prosegue Thompson, che i sistemi di parentela, come le relazioni sessuali e coniugali, sono un tipo di rapporti sociali che «appaiono ai contemporanei come completamente “naturali” e di conseguenza spesso lasciano le più imperfette fonti storiche». Sulla base di queste

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affermazioni, Pomata mette dunque in rilievo che le donne sono collocate concettualmente “nella sfera della stabilità, nella sfera di quel che appare come “naturale”, e quindi immutabile nei rapporti umani». Per contro quel che la storia mette a fuoco come suo oggetto privilegiato non è «il mutamento in genere ma soprattutto il grande mutamento dei processi, per definizione inarrestabili, che culminano teleo-

logicamente nella società presente, l’industrializzazione, l’urbanizzazione, la secolarizzazione — in una parola, lo “sviluppo”. E la marcia della “civiltà”, la dinamica del “progresso”; 0, come la chiamava

Adorno con amara ironia, la dinamica del “sempre-uguale”, che ripropone ovunque il modello occidentale come chiave e parametro del mutamento. Quel che si muove vischiosamente rispetto al “progresso”, anche all’interno delle società occidentali, viene assimilato implicitamente a ciò che è culturalmente alieno, al campo di studi dell’antropologia». Il collocarsi diversamente delle donne e degli uomini rispetto al mutamento ha determinato l’esclusione delle donne dalla storia e assegnato all’antropologia il compito di studiare l’evoluzione teorica dei processi sociali che coinvolgono le donne. Di qui la necessità di mettere in discussione lo statuto disciplinare della storia e di creare un più stretto legame tra storici e studiosi di antropologia. La messa a punto di Gianna Pomata sulla storia delle donne coincide con il parallelo interrogarsi degli storici francesi sulla possibilità di fare questo tipo di storia, che trae legittimità da un primo bilancio delle ricerche (Symposium su Ure histoire des femmes est-elle possible?, 1984); ma coincide anche con un effettivo mutamento degli

studi storici che, aprendosi a tematiche e metodi delle scienze etnografiche e antropologiche, mettono a fuoco la storia delle rappresentazioni sociali e culturali (“ Annales”, 1986), che consente la concet-

tualizzazione della storia di “genere”. La storia delle donne è stata in un primo tempo storia del loro corpo, motivata dalla convinzione che la donna deve trovare la sua identità assumendo e proclamando il suo sesso. Ma ciò ha rischiato di ridurre la categoria di sesso alla determinazione biologica, trascurando le funzioni sociali e identificando il sesso con il genere femminile. Si avvertiva quindi la necessità di un superamento di questa posizione, mettendo il rilievo l’importanza della relazione dei sessi e l'opportunità di uno studio parallelo dei ruoli femminili e dei ruoli maschili. Le femministe americane introdussero l’uso del termine gender per ribadire la qualità sostanzialmente sociale delle distinzioni basate sul sesso e l’aspetto relazionale delle definizioni normative della femminilità; in questo modo uomini e donne venivano definiti in termini di reciprocità. Alla storia delle donne si affiancava dunque la 35

storia di “genere”, che poteva essere assunta, insieme ai concetti di classe e razza, come categoria analitica per scrivere una nuova storia. A differenza del sesso, di sostanziale determinazione biologica, il “genere” è una costruzione sociale, definita dai ruoli, dalle pratiche culturali e dalle rappresentazioni simboliche. Come agisce il genere nei rapporti sociali tra gli uomini? Quale significato conferisce all’organizzazione e alla percezione della conoscenza storica? Da queste domande parte Joan Scott (1987) per proporre una concettualizzazione della categoria di “genere” costruita sulla interrelazione di due piani diversi, ma tra loro collegati: a un primo livello il genere è un elemento costitutivo delle relazioni sociali fondate su una cosciente differenza tra i sessi, a un secondo livello il genere è un fattore primario del manifestarsi dei rapporti di potere. Come elemento costitutivo delle relazioni sociali il genere coinvolge quattro elementi correlati: 1) simboli culturali e miti, 2) concetti normativi, 3) politica come riferimento alle istituzioni e organizzazioni sociali, 4) identità

soggettiva. Compito della ricerca è quello di individuare piste d’indagine che consentano di analizzare questi elementi inserendoli in uno specifico contesto che introduca il “genere” come fattore fondante della disciplina storica. Nel prendere in considerazione la produzione di storia delle donne, Scott lamenta una mancanza di concettualizzazione che consenta di superare lo stadio della descrizione

per arrivare alla spiegazione. Ella si mosta insoddisfatta sia della “storia al femminile” (ber-story) di tipo compensativo, sia della storia sociale che «ha ridotto il ruolo delle azioni umane a una funzione di forze economiche, e il gender ad uno dei suoi molti sottoprodotti» e propone il decostruzionismo come metodo per mettere in discussione gli attuali paradigmi storici: «una vera e propria storicizzazione e decostruzione delle condizioni di differenza sessuale (...) che analizzi nei vari contesti il modo di operare dell’opposizione binaria e che ne rovesci e rimuova la struttura gerarchica invece di accettarla come reale o ovvia o come facente parte della struttura delle cose» (1988).

La concettualizzazione di “genere” proposto da Scott, basata su teorie post-strutturaliste piuttosto che sul metodo delle scienze sociali, ha aperto un dibattito che coinvolge il rapporto tra teoria e politica del movimento femminista e che è vivo soprattutto nell’ambiente culturale statunitense. Per quanto riguarda il piano della ricerca, la storia di “genere” che ha coinvolto inizialmente gli studiosi angloamericani si è ora estesa all'ambito europeo. Si deve tuttavia rilevare che il gender non deve sostituire la storia delle donne, ancora essenziale, come osserva Gianna Pomata, per superare la penuria dei fatti. 36

CAPITOLO TERZO

Verso l’istituzionalizzazione

della disciplina

1. Questioni aperte: le fonti, la periodizzazione, la soggettività Gran parte di ciò che conosciamo delle donne del passato ci viene trasmesso dagli uomini: opere letterarie, testi normativi, espressioni artistiche, trattati morali costituiscono il discorso degli uomini sulle donne. Testimonianze non trascurabili ma che debbono essere decodificate e affiancate da altri tipi di fonti capaci di trasmettere in modo più diretto l’esperienza e il pensiero delle donne. Va da sé che per ogni epoca del passato la ricchezza e la varietà della documentazione dipende da una specifica concezione della “memoria” storica e della selezione dei fatti trasmessi ed è quantitativamente proporzionale al grado di alfabetizzazione e burocratizzazione della società. Soprattutto le opere di Charles Foucault hanno mostrato un’azione diretta del potere nel costituire una storia e una memoria che, controllando, selezionando e cancellando le fonti, ha di fatto lasciato in ombra il mondo delle donne, relegandole nella vita privata. Ecco perché per andare oltre l’opacità delle istituzioni occorre superare la metodologia storica tradizionale e seguire piste, tracce, indizi dell’esistenza ignorata delle donne del passato non solo nelle fonti documentarie, ma anche in quei materiali, come l’etnografia e le fonti orali, che costituiscono oggetto d’indagine di altre discipline. Per quanto riguarda la storia delle donne le fonti documentarie sono in grado di fornirci maggiori informazioni sulle istituzioni che sulle persone, sui ceti nobiliari o borghesi piuttosto che sulle classi subalterne. Non è tuttavia impossibile ricostruire casi esemplifica-

tivi di storie individuali e aspetti di vita dei ceti popolari. Per la ricostruzione delle condizioni di vita delle donne nei secoli passati si è indagato specialmente sull’istituto familiare, sulla realtà monastica e sulle istituzioni dove le donne venivano rinchiuse per tutelare la loro verginità o per recuperare l’onore perduto, come le convertite. In questo tipo d’indagine le fonti di tipo documentario, 3°

come i contratti dotali, o le diverse carte delle istituzioni ci consentono di analizzare caratteri e ruolo di questi istituti sotto il profilo della storia sociale ed economica e consentono talvolta di ricostruire biografie o spaccati di vita quotidiana. Le fonti istituzionali, tuttavia, raramente conservano memorie individuali.

Per attingere direttamente a voci femminili, al di là della scrittura, si può ricorrere a fonti processuali: gli “archivi della repressione” in primo luogo, come quelli inquisitoriali e criminali, ma anche archivi di magistrature ecclesiastiche e civili. Le testimonianze processuali vanno ovviamente vagliate, ma ci pongono a diretto contatto con eventi ed esperienze di vita la cui versione è esposta da donne. Le fonti inquisitoriali ci consentono pertanto di ricostruire casi di supposta stregoneria e quelle criminali ci dischiudono soprattutto episodi di rissa e di infanticidio. Le immagini di donne oppresse e ribelli, indagate soprattutto nel periodo iniziale della storia delle donne, ci vengono trasmesse prevalentemente da questo tipo di fonti. Gli archivi ecclesiastici sono depositari di carte processuali che ci consentono di far luce su aspetti della vita matrimoniale e della sessualità; essi contengono infatti le cause matrimoniali discusse dinnanzi ai vescovi per casi di separazione, maltrattamenti o concubi-

nato, fonti su cui sono state ricostruite vicende esemplari come la storia del matrimonio di Giovanni e Lusanna nella Firenze del Quat-

trocento raccontata da Gene Brucker. Alle voci delle donne mediate dall’istituzione, che pone le domande e registra le risposte, si affiancano anche altre fonti, come le lettere, che ci consentono di ricostruire aspetti ed episodi di vita femminile attraverso testimonianze dirette in forma di scrittura. Sono soprattutto aristocratiche e monache, donne cioè acculturate e con una estesa

rete di relazioni, che ci hanno lasciato questo tipo di testimonianza nei secoli passati. Ma in tempi più vicini a noi è possibile rinvenire carteggi conservati in istituzioni di assistenza o in collegi che ci dischiudono spiragli di esperienze femminili. Una forma particolare di lettera è costituita dalla supplica, rivolta a principi, a superiori ecclesiastici o a magistrature per presentare particolari richieste o chiedere

protezione. Su questo tipo di documento rivolto da vedove fiorentine alla Magistratura dei Pupilli Giulia Calvi ha proposto una lettura innovativa dell'amore materno nei secoli della prima età moderna. Assai rare le biografie e le autobiografie, il più delle volte riconducibili a esperienze spirituali scritte per comando dei confessori, che svolgono non tanto una funzione promozionale nei confronti delle loro penitenti quanto piuttosto una forma di controllo sulla loro ortodossia. Una scrittura autobiografica può considerarsi anche la deposi-

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zione di Cecilia Ferrazzi resa dinnanzi all’inquisizione veneziana nel secolo xv, consegnataci da Anne Schutte. Discorso a parte meritano le fonti iconografiche, rappresentate da dipinti, stampe su foglio o altre raffigurazioni artistiche, il cui uso richiede particolari competenze, ma che si prestano efficacemente sul piano storico a ricostruire modelli femminili socialmente diffusi. Per quanto riguarda l’arte sacra, concentrata in monasteri di monache o in chiese di ordini religiosi, lo studio delle committenze femminili può dirci molto sulla devozione e i rapporti culturali delle committenti. Per l’età contemporanea, pur in presenza di una maggiore acculturazione femminile e di una più larga disponibilità di testimonianze narrative o documentarie, la storia delle donne ha fatto ampio uso delle fonti orali, specialmente sotto forma di intervista. La ricostruzione storica attraverso il ricordo di chi ha partecipato a eventi che hanno visto un diretto coinvolgimento delle donne, come la militanza nelle organizzazioni clandestine dell’ultima guerra o l'appartenenza a gruppi del movimento femminista, consente anche di mettere a fuoco esperienze di vita e trasformare così la testimonianza orale in una sorta di biografia, forma privilegiata per l’espressione della soggettività.

Per quanto mediate, circoscritte e disperse non mancano fonti documentarie per ricostruire aspetti della vita delle donne nei diversi periodi storici, ma non c’è dubbio che domande, materiali e metodi d’indagine mutuati da altre discipline hanno arricchito in modo determinante le più recenti ricerche “al femminile”. L'assenza delle donne dalla storia è quindi prima di tutto una questione di statuto disciplinare. Sotto il profilo interpretativo della storia delle donne alcuni problemi restano tuttavia aperti. In primo luogo quello della periodizzazione. Se è vero, come si è detto, che la storia occidentale viene presentata come l’avvicendarsi di eventi scanditi da movimenti culturali, istituzionali o economici che si presentano come universali ma che

vedono prevalentemente un coinvolgimento maschile, occorre chiedersi se la storia delle donne non abbia ritmi e scansioni diverse, se

non sia contrassegnata da una diversa periodizzazione. A questo problema si richiamava esplicitamente Joan Kelly quando nel 1976 poneva il quesito se esiste un Rinascimento femminile. Con il termine “rinascimento”, come è noto, si designa tanto un

arco cronologico quanto bra caratterizzare quel pensiero, accompagnata libertà e contrassegnata

la grande rerovatio culturale e civile che semmomento storico. Il rifiorire dell’arte e del da una nuova concezione della vita e della da un forte impegno civile, hanno fatto sì 39

che il rinascimento sia stato unanimente considerato un movimento progressivo. È vero che nel concetto di rezovatio vi è una forte mitizzazione, nata tra i contemporanei stessi e confermata dagli storici del secolo x1x, e che nella cultura rinascimentale sono presenti, come osserva Ottavia Niccoli, anche aspetti oscuri, come l’attenzione per le congiunzioni astrali presaghe di sconvolgimenti anziché di rinnovazione, ma è indubbio che il movimento si presenta nel suo complesso come positivo, capace di catalizzare energie che si traducono

in un ampliamento della riflessione culturale e degli spazi di libertà individuali. Secondo gli storici dell'Ottocento, come Jacob Burckhardt, anche le donne parteciparono di questa congiuntura favorevole, anche a loro si dischiuse l’istruzione: «Finalmente, — egli scri-

veva nel suo volume La civiltà del Rinascimento in Italia — per ben intendere la vita sociale dei circoli più elevati del rinascimento, è da sapere che la donna in essa fu considerata pari all'uomo». É continuava: «Anzitutto l'educazione della donna nelle classi più elevate era essenzialmente uguale a quella dell’uomo». Infatti esse si segnalarono nell’istruzione letteraria e filologica, nella partecipazione attiva alla poesia italiana «onde un numero considerevole di donne acquistarono una grande celebrità». È a partire da queste asserzioni che Joan Kelly riconsidera il periodo rinascimentale sotto il profilo della storia delle donne e giunge a considerazioni opposte a quelle di Burckhardt. Non mancarono, è vero, donne erudite come la veronese Isotta Nogarola, ma essa ottenne di essere introdotta nel consorzio degli uma-

nisti solo rinunciando al matrimonio ed esibendo la sua pietà e cultura religiosa. Se dal piano della erudizione si sposta poi lo sguardo ai più significativi mutamenti culturali del periodo rinascimentale, come fa la Kelly, si può constatare che una nuova classe emergente crea nuove forme di organizzazione politica e sociale che tendono a ridurre gli spazi di libertà e le opportunità di scelte femminili. Ha insomma inizio quella moderna relazione tra i sessi che vede una maggiore subordinazione della donna all'uomo. Né le cose mutano sostanzialmente se si osservano altri momenti storici contrassegnati da decisivi mutamenti, come la rivoluzione francese o il socialismo. La partecipazione anche femminile al sorgere e al dispiegarsi di questi eventi non comporta una assunzione delle donne all’interno dei movimenti, se non in funzione subordinata e con esclusione da ruoli direttivi, né produce una evoluzione di rilievo nella condizione della loro vita. La discussione sul rinascimento femminile è significativa di uno dei nodi teorici della storia delle donne ancora irrisolto. Se alcune storiche avanzano l’ipotesi che la comparsa e l’uso dei contraccet40

tivi, ad esempio, è evento tale da operare un mutamento nella condizione femminile assai più incisivo di altri processi economici o sociali, è anche vero che gli attuali manuali di storia delle donne non hanno ancora affrontato il problema di una periodizzazione diversa da quella tradizionale. Né il problema è di facile soluzione, soprattutto in prospettiva della storia di genere considerata negli aspetti relazionali maschile/femminile. Senza tener conto del fatto, rilevato da Roger Chartier, dell’inerzia, nella lunga durata, delle rappresentazioni che fondano in natura l’estraneità, inferiorità o esclusione delle donne

dalla storia. Queste rappresentazioni si modificano infatti quando si trasforma l’intero mondo sociale e culturale. Un altro aspetto teorico connesso con la storia delle donne è quello della soggettività. Alla fine degli anni Settanta il termine soggettività, che nasce in ambito filosofico e linguistico, si allontana dai territori disciplinari e semantici d’origine e pervade molti settori delle scienze umane assorbendo significati diversi da ciascuna di esse e acquistando un posto centrale anche nel dibattito politico delle donne. Nel contesto della storia delle donne Paola Di Cori rileva nel 1990 l’esistenza di una molteplicità di significati del termine soggettività, tre dei quali risultano di particolare importanza: 1) l’uso “semplice” del termine, in cui la soggettività «è intesa come oggetto, come pluralità grammaticale piuttosto che come categoria filosofica, ed è del tutto indifferente all’appartenenza sessuale di chi studia», 2) l’uso “forte” del termine, particolarmente diffuso nell’ambito del dibattito femminista in cui la “soggettività” indica «la piena capacità di decidere e di volere, la consapevole e protagonista coscienza di sé da parte dei soggetti femminili», 3) l’uso limitato che della parola si fa nell’articolazione e organizzazione della ricerca scientifica, in cui talvolta il termine viene fatto coincidere con “identità”. Nel complesso gli studi specifici sulla soggettività in storia e sul rapporto tra questa e la storia delle donne sono ancora scarsi e si concentrano principalmente nell’area della storia orale e della biografia. In linea di massima l’uso più diffuso che le storiche fanno del termine è ancora quello che indica il privilegiamento di un oggetto specifico d’indagine, i soggetti femminili; meno presente è il secondo significato che fa riferimento all’approccio alla ricerca e chiama in causa il “soggetto ricercante”. Una delle ragioni di questa “mancata adozione” della soggettività deve forse ricercarsi nella diffusa resistenza ad accordarle uno statuto scientifico e alla forte carica di intenzionalità politica e di ideologia che esso ha acquisito all’interno del movimento femminista. 41

2. Le mappe della ricerca attuale: tendenze e prospettive Nonostante la concettualizzazione della storia delle donne e della storia di genere debba molto al movimento femminista e larga parte delle ricerche degli anni Settanta e Ottanta siano strettamente connesse a domande poste dal movimento stesso, in funzione anche dei suoi obiettivi politici, la ricerca storica sulle donne non era stata completamente estranea al panorama degli studi precedenti. Studi sulla famiglia, la sessualità, la politica, la religione, avevano permesso di accumulare una serie di dati poi risultati indispensabili al proseguimento delle ricerche, d’altra parte le domande poste dalla storia delle donne avevano fortemente influenzato il campo d’indagine sia nella scelta dei temi che a livello interpretativo. Abbiamo già dato nelle pagine precedenti una esemplificazione dei “temi obbligati” della ricerca storica nel primo periodo del femminismo e abbiamo indicato i bilanci fatti dalle storiche italiane stesse sulla loro produzione fino alla metà degli anni Ottanta. Per un completamento del quadro informativo rinviamo ad alcune rassegne, indicate in bibliografia, che fanno il punto sullo stato degli studi in alcuni settori della ricerca a metà degli anni Ottanta. Per comprendere le attuali tendenze della storia delle donne bisogna tener conto delle profonde trasformazioni intercorse nell’ultimo decennio sia sul piano politico-culturale che su quello delle ricerche. Il progressivo attenuarsi della spinta propulsiva del femminismo a livello politico ha in qualche modo allentato la pressione ideologica sulla ricerca consentendole di orientarsi secondo dinamiche proprie; la progressiva istituzionalizzazione della storia delle donne come disciplina specifica, ha in gran parte trasferito in un ambito accademico la riflessione teorica e la fase progettuale della ricerca; la concettualizzazione del gender ha consentito di porre le basi di quella “riscrittura della storia” che era stata uno degli obiettivi del movimento e chiama in causa la relazione maschile/femminile non escludendo dalla riflessione gli storici maschi; il favore accordato dall’editoria alla storia delle donne ha influenzato indubbiamente gli orientamenti della ricerca, soprattutto accelerando la fase di divulgazione e favorendo la fissazione di temi; e infine l’ingresso nel campo degli studiosi e dei ricercatori della generazione che non ha vissuto direttamente la lotta politica del femminismo e rivolge altre domande alla storia delle donne. Questi eventi hanno posto fine alla fase “separatista” della storia delle donne, in gran parte legata alla riflessione sui motivi della subordinazione e dell’oppressione femminile, e hanno favorito un rio42

rientamento degli studi che, pur non abbandonando alcuni dei temi specifici della storia delle donne, sono più attenti alla dinamica dei rapporti mobili e storicamente variabili tra uomo/donna e ai sistemi normativi.

Non si potrà qui che accennare ad alcune delle tendenze più recenti nella ricerca italiana, rinviando alla seconda parte del volume e alla bibliografia analitica per un approfondimento degli argomenti. Uno degli argomenti centrali della riflessione femminista era rappresentato dal corpo, la cui storia ha continuato ad essere oggetto di studio e di approfondimento, tanto sul piano della ideologia che della realtà. Tema eminentemente interdisciplinare perché si situa nel punto in cui si intersecano storiografia, storia della letteratura e dell’arte, storia del pensiero politico, sociologia, giurisprudenza, medicina, psicologia ed altre discipline con la relativa dimensione storica, la ricerca ha mostrato il corpo delle donne come una realtà in trasformazione di cui si possono analizzare imutamenti ciclici e quelli irreversibili. Essa ha messo anche in luce come i corpi rappresentino, pur nell’apparente invariabilità e immutabilità una costruzione culturale, che ha consentito di classificare le donne nell’ordine della

natura. Basti pensare allo spostamento dell’età media in cui si raggiunge il menarca o la menopausa o ai diversi incrementi dell’aspettativa di vita media degli uomini e delle donne, che dipendono dalle diverse condizioni socio-culturali, per comprendere quanto il corpo anche nella sua materialità sia storicamente determinato. Da questa considerazione discende la necessità di riconoscere nel corpo femminile non una categoria “biologica”, ma socioculturale. A riflettere sul significato di questa affermazione ci indirizza Gisela Bock, studiosa tedesca che ha indagato sull’origine del concetto di biologia e del suo costituirsi come disciplina all’inizio di questo secolo. Come ella scrive nel libro I/ corpo delle donne, pubblicato nel 1988, la bio-

logia all’epoca della sua introduzione e affermazione era una categoria sociale usata particolarmente per denotare ambiti e attività considerati socialmente inferiori e indicava una prospettiva di mutamento sociale attraverso interventi “biologici”, ossia interventi nel corpo e nella vita degli esseri umani. Di qui anche l’eugenetica e la politica nazista, “biologicamente” fondata, della sterilizzazione di migliaia di donne e lo sterminio di massa degli ebrei. Il rapporto delle donne con il proprio corpo è anche al centro degli interventi sulla “vita” sviluppatisi in seguito al dibattito sull’aborto e dei nuovi problemi suscitati dalle tecniche di manipolazione genetica. Un contributo alla chiarificazione dei termini in una discussione con forti implicazioni morali proviene dalla ricerca della studiosa tede43

sca Barbara Duden sulla storia della gravidanza e sulla scoperta del feto nella società moderna. Un altro tema d’indagine che aveva costituito oggetto di ricerche di storia culturale e sociale negli anni Settanta resta presente nella storiografia contemporanea, pur con diversa caratterizzazione: la sessualità. In origine legata alla storia della famiglia e all’indagine demografica, soprattutto in connessione con la quantificazione e i flussi delle nascite illegittime, poi analizzata in prospettiva della ricerca storica sull’omosessualità, la storia del sesso è ora vista prevalentemente come costruzione sociale. La gender history ha suscitato interesse verso figure di attraversamento del genere, come il travestito e l’ermafrodito, e verso l’analisi di società particolari come quella greca dove la diffusa bisessualità consente di indagare la relazione tra erotismo maschile e femminile. Gli women's studies hanno trovato uno specifico campo di ricerca nel territorio della storia della famiglia, tipico ambito di studi interdisciplinare. Qui hanno contribuito particolarmente a far luce sui rapporti tra donne o tra fratelli e sorelle, pur assumendo come precipuo oggetto di studi il problema della struttura della parentela. A lungo ancorata alla netta contrapposizione tra i sistemi di parentela patrilineari e bilineari quali risultano dalla classificazione antropologica, la ricerca storica indaga ora più profondamente sulla coesistenza e gli intrecci della rappresentazione agnatizia della parentela, che rinvia a una struttura genealogica eminentemente maschile, e di quella cognatizia, che riconosce anche l’efficacia, creatrice di legami, del sangue materno. Le categorie di agnazione e cognazione sono analiz-

zate nell’ambito del diritto romano e nella storia sociale delle famiglie, mostrando l’importanza del ruolo materno anche in epoca rinascimentale, in cui la cultura del lignaggio sembra fondarsi esclusivamente sull’agnazione. Sempre all’interno degli studi sulla famiglia il ruolo femminile è stato indagato soprattutto in relazione al valore sociale attribuito alle donne. Di qui le numerose ricerche sulla dote, le successioni e la gestione femminile di patrimoni. Nell’ambito dei legami familiari e dei rapporti tra donne si collocano anche i recenti studi sulla maternità, sia quelli che hanno come oggetto precipuo la nascita e la manifestazione dell’affetto materno, sia quelli rivolti a far luce sulla relazione madre-figlia. Ma lo studio storico della maternità si colloca anche all’incrocio di un nodo tematico essenziale della storia delle donne: quello legato alla funzione riproduttiva, che ha contribuito in maniera essenziale a identificare la donna con il suo ruolo biologico e a collocarla nell’ambito del concetto di “natura” contrapposto a quello di “cultura”. Le teoriche del

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femminismo si sono mostrate divise di fronte al problema della maternità, ora considerandola la principale fonte di oppressione per le donne, ora esaltandola come speciale “potere” di creatività e di capacità intuitive nei confronti del quale gli uomini cercano di esercitare un controllo. La gender history ha privilegiato lo studio della maternità nell’ottica della dinamica storica del ruolo materno e ha mostrato la “costruzione sociale” che si sovrappone al fatto biologico. In questo senso il volume Madri, a cura di Giovanna Fiume, rappresenta un importante contributo. Un altro tema d’indagine in cui la storia delle donne ha prodotto recentemente felici risultati è quello delle tipologie femminili. Esaminate in tutte le epoche, dalla società greca all’età contemporanea, e in molteplici contesti, la famiglia, il lavoro, il diritto, la religione, le ricerche sulle tipologie hanno mostrato come la donna si trovi ad essere collocata all’interno di una specifica classificazione che la definisce e la descrive in una categoria e in un luogo precisi: la maritata, la vedova, la zitella, la monaca, la santa, la prostituta, la regina, la suffragista ecc. Questa classificazione, che ha in se stessa un effetto

“naturalizzante” che costituisce il supporto per determinare l’identità femminile, si basa su categorie socialmente costruite da diversi apparati discorsivi che mutano storicamente. La ricerca ha già iniziato a mostrare la variabilità e le trasformazioni di queste tipologie che non possono quindi essere assunte come componenti universali della “femminilità”. In questo ambito una categoria specifica sembra suscettibile di ulteriori approfondimenti: quella della donna nubile, cui sono normalmente associate valutazioni negative derivanti dal pre-

giudizio di uno stato di vita non scelto e non accettato, ma che può invece rappresentare una categoria privilegiata per comprendere

aspetti e svolte determinanti nell’evoluzione e nel mutamento della condizione femminile. La scelta del nubilato nel Cinquecento, ad esempio, normalmente osteggiata dalla società che la considerava condizione pericolosa per la conservazione della verginità e disonorevole per la famiglia, diviene possibile e accettata socialmente attraverso la mediazione di forme di associazionismo religioso. Il costituirsi di compagnie spirituali come le orsoline e le dimesse consentono alle donne che rifiutano il matrimonio e il chiostro di dedicarsi ad attività sociali quali l'insegnamento e l’assistenza; per il tramite di queste istituzioni la condizione femminile si svincola da una esclusiva opzione binaria per aprirsi ad una “terza vita”. Come le tipologie, anche le biografie hanno recentemente rappresentato un fiorente campo di studi. Sulla scia di un rinnovato interesse della storia generale verso la biografia e la narrazione storica, 45

la storia delle donne ha alimentato un notevole flusso di ricerche verso la ricostruzione di vite e esperienze femminili. L'analisi di figure particolari, ritratte attraverso fonti che consentano di dare voce ed espressione alle vicende individuali, si presta infatti più di ogni altra indagine storica a esprimere la “soggettività”, il vissuto e la coscienza di sé. A differenza della storia biografica tradizionale, normalmente volta a ricostruire la vita di donne e uomini illustri, legati a particolari aspetti e momenti della storia politica o militare, la ricerca attuale ha polarizzato la sua attenzione verso soggetti femminili scarsamente sconosciuti o oscuri, appartenenti anche a ceti sociali bassi. Monache o sante che hanno lasciato memoria di sé in autobiografie o lettere, streghe, prostitute e infanticide la cui storia sia emersa da docu-

menti inquisitoriali o criminali, mogli infelici che vogliono separarsi dal marito e narrano le loro vicende dinnanzi alla corte vescovile sono divenute protagoniste di altrettante storiadi vita. Questo filone di studi, particolarmente significativo per acquisire nuove conoscenze sull’esperienza delle donne nei diversi periodi storici, è stato alimentato anche da iniziative editoriali che hanno privilegiato questa forma di storia “al femminile”. L’interesse anche didattico e divulgativo verso la biografia non deve tuttavia far dimenticare che questa particolare forma storiografica ha efficacia nella misura in cui la storia individuale consente di far emergere il più ampio contesto culturale, politico e sociale. La storia delle donne non è neppure rimasta estranea all’interesse verso gli studi religiosi, anche se il campo focale è stato rivolto alle figure e alle tipologie femminili piuttosto che alle idee religiose. In questo contesto numerose indagini sono state dedicate alle donne nel primo cristianesimo, alle sante medievali e della prima età moderna e ad alcune figure di eretiche. Il fenomeno monastico è stato indagato sotto il profilo istituzionale, non solo in relazione al problema della monacazione forzata, ma anche in funzione del significato culturale e dell’esercizio del potere gestito da donne. Importante è anche l’analisi del significato simbolico dei modelli di santità femminili e lo studio delle diverse forme di intervento autorevole delle donne nella chiesa, primo fra tutte la profezia. Come aspetto collaterale al fenomeno religioso e considerati piuttosto espressione tipica dei rapporti sociali nel periodo dell’antico regime sono stati studiati i “sistemi di carità”, ossia le diverse forme di assistenza alle donne che ave-

vano il duplice scopo di protezione e controllo. In questo ambito è particolarmente significativa la ricerca di Angela Groppi che segna una svolta nella prevalente interpretazione di stampo foucaultiano dei luoghi di reclusione — repressiva o assistenziale — come luoghi 46

segregati e mostra invece un attivo scambio tra esterno e interno delle istituzioni, cui partecipano numerose autorità e soggetti sociali.

Non bisogna dimenticare infine una recente tendenza della storia delle donne: il ritorno allo studio della politica. Aspetto volutamente trascurato dal movimento femminista che proclamava la valenza pubblica del privato, la riflessione storica è ora tornata a momenti e aspetti fondativi della storia politica femminile. Ne sono espressione due volumi recenti, curati rispettivamente da G. Bonacchi e A. Groppi, D. Gagliani e M. Salvati. Il primo è dedicato allo studio dei diritti e doveri delle donne in ordine al problema della cittadinanza, il secondo è volto a ricostruire percorsi di storia delle donne nella sfera pubblica in età contemporanea.

3. Centri di ricerca, riviste, associazioni Sviluppatisi sulla scia del movimento femminista post-sessantottesco, gli worzen's studies si organizzano negli Stati Uniti intorno ad alcune riviste nate nei primi anni Settanta: “Feminist Studies” (1972),

“Womens Studies” (1972) e “Signs” (1975). Nel medesimo periodo anche in Francia si dà vita a “Le cahiers du Grif” (1973) e in Italia a “DWF Donnawomanfemme” (1975), periodici che raccolgono studi sulle donne senza un’esclusiva connotazione storica. E all’interno di queste pubblicazioni tuttavia che si sviluppano le prime riflessioni sulla storia delle donne, che nel decennio successivo giungerà a maturazione dando origine a numerose riviste specializzate sia negli Stati Uniti che in Europa. In Italia, la produzione intellettuale femminile si esprime soprattutto in quegli anni attraverso una molteplicità di aggregazioni delle donne che promuovono manifestazioni culturali e che producono un processo di socializzazione e diffusione del femminismo. Maria Luisa Boccia distingue ben sei tipi di aggregazione femminile, i più importanti dei quali sono i Centri di documentazione e iniziative culturali e le Cooperative e i centri di ricerca. Sorti inizialmente come luoghi di discussione ed elaborazione politica, finalizzati anche alla conservazione del materiale culturale prodotto dal movimento femminista, questi centri si organizzano e trasformano in associazioni culturali grazie anche all’intervento promozionale di molte amministrazioni locali. Primi in ordine di tempo e di importanza sono il Centro di documentazione e studi sul femminismo di Roma (1972), trasformatosi

in associazione culturale nel 1976, e il Centro culturale Virginia Woolf,

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sorto nella stessa città, che dal 1979 promuove corsi organizzati in programmi che assumono la denominazione di Università delle donne. Anche a Milano si costituisce dapprima un Centro di studi storici sul movimento di liberazione della donna presso la Fondazione Feltrinelli (1979) e successivamente una associazione per una Libera Università delle donne, nata nel 1987 dai corsi sulla condizione femminile organizzata nell’ambito delle 150 ore destinate ai lavoratori e patrocinata dal Comune e dalla Provincia. A Cagliari un Centro studi e documentazione della donna viene fondato nel 1977 dalla cooperativa La Tarantola, nel cui ambito si svilupperà una iniziativa editoriale. Nei primi anni Ottanta molte città vedranno la costituzione di Centri studi e documentazioni sulle donne: Ferrara (1980), Pisa (1983)

e Bologna (1983). A Verona e L’ Aquila tali istituti vengono promossi da associazioni culturali di diverse denominazioni, rispettivamente Il filo di Arianna e Melusine. Annesse ai centri studi sono anche biblioteche specializzate e uno dei primi intenti di queste associazioni culturali è quello di fornire indicazioni bibliografiche per l’approfondimento degli wozzen's studies. Così, tra le iniziative del Centro di Ferrara vi è la pubblicazione del bollettino trimestrale “Leggere donna” (1980) e il Centro di Pisa raccoglie una bibliografia degli studi italiani pubblicati tra il 1975 e il 1984 su Soggetto donna, ricerca pubblicata con questo titolo sul numero 14 di “Memoria” (1985). Il patrimonio librario più cospicuo e il maggior numero di riviste femminili si raccoglie presso il Centro di documentazione delle donne di Bologna, ove ha tuttora sede la Biblioteca nazionale delle donne. All’azione promozionale di studi sulla donna svolta dai Centri di documentazione e dalle biblioteche annesse, si affianca contem-

poraneamente un’altra forma di più larga diffusione della produzione culturale femminile: l'apertura in diverse città italiane di Librerie delle donne. Anch’esse luoghi di aggregazione e di dibattito politicoculturale, le librerie assolvono la funzione di rendere disponibile e far circolare le novità delle maggiori case editrici, ma anche la produzione dei circuiti editoriali femminili e femministi. Tra le Librerie delle donne quella di Milano acquisisce una particolare importanza per iniziative culturali, tra cui la pubblicazione della rivista “Via Dogana”. Nell'ambito delle attività promosse da questi luoghi di aggregazione con finalità politico-culturali si sviluppa inizialmente la prima riflessione sulla storia delle donne che trova la sua più incisiva espressione nella pubblicazione di “Memoria. Rivista di storia delle donne” (1981), costituitasi all’esterno del mondo accademico, anche se pro-

dotta da studiose che lavoravano a vario titolo in diverse Università. 48

E a questa rivista che occorre fare riferimento per individuare gli orientamenti e gli sviluppi della ricerca italiana sulla storia delle donne fino al 1991, anno in cui “Memoria” cessa la pubblicazione per motivi editoriali e redazionali e per le mutate condizioni del movimento politico e della ricerca femminista. In questo decennio tuttavia il mondo accademico non era rimasto compattamente insensibile agli stimoli culturali provenienti dalla riflessione teorica e dalla indagine pratica sulla storia delle donne e altre riviste saldamente affermate nel mondo scientifico nazionale e internazionale, come “Quaderni storici”, si

aprivano a queste problematiche. Mentre i Centri studi, le biblioteche e le librerie sopra menzionate avevano come finalità prioritaria la promozione degli worzar's studies intesi nell’accezione più ampia, senza una particolare opzione disciplinare e nuove aggregazioni più specialistiche, come la comunità filosofica Diotima per lo studio della differenza sessuale si costituivano, un decisivo impulso verso l'affermazione della storia delle donne come disciplina scientifica e un suo più radicato inserimento nel mondo accademico proveniva nella seconda metà degli anni Ottanta dal Centro studi e documentazione donna di Bologna. Con la promozione di un convegno che vide il concorso di numerose studiose di diversa provenienza culturale e che contribuì a segnare una svolta negli studi di storia delle donne, spostando l’attenzione dalla prevalente linea interpretativa del rapporto maschile/femminile incentrata sul binomio dominio/soggezione all’analisi delle più complesse relazioni di patronage specialmente in ambito femminile, il Centro si presentava di fatto come punto d’incontro delle studiose che operavano in questo settore. Di lì a pochi anni queste diedero vita alla Società italiana delle Storiche (1989), con lo scopo di creare un coordinamento fra le donne impegnate in Italia nella ricerca storica e di «rinnovare ricerca ed insegnamento sulla base di specifici ed adeguati criteri di rilevanza e di priorità», come dichiara lo statuto. La Società delle storiche, che ha sede a Bologna, è un’associazione non esclusivamente rivolta a quante operano nel settore a livello professionale, ma anche a insegnanti e giovani laureate interessate ad approfondire la storia delle donne sotto il profilo dei processi educativi e della ricerca. Fra le attività promosse dalla Società, oltre a numerosi gruppi di lavoro, tra cui una commissione didattica finalizzata allo studio dei problemi di trasmissione e insegnamento della storia, c'è la pubblicazione di un’ “Agenda” semestrale di informazione e la realizzazione di una scuola estiva di storia delle donne presso l’Università di Siena. All’attività culturale svolta dalle donne nei “luoghi separati”, come 49

Centri, biblioteche, associazioni, ora in gran parte associati alla rete informativa di genere femminile Lilith (a cura del Cenro di docu-

mentazione e studi delle donne cooperativa “La Tarantola” di Cagliari) e agli indubbi progressi della ricerca scientifica, non fa riscontro in Italia un adeguato riconoscimento della storia delle donne nell’ambito accademico. Eccezionali sono i casi di inserimento a statuto di questa disciplina nelle università, anche se si moltiplicano i corsi che hanno per oggetto le donne e la loro storia. Numerose sono tuttavia le tesi di laurea dedicate all’esplorazione di aspetti della storia femminile. Pur avendo scarso riconoscimento sul piano istituzionale, la storia delle donne ha assunto nelle università un rilievo sempre maggiore sul piano della ricerca. Presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Milano è stato costituito informalmente fin dal 1973 un gruppo di ricerca sulla famiglia e la condizione femminile (Griff). A Torino ha avuto origine nel 1991 il Centro interdipartimentale di ricerche e studi delle donne (Cirsde) che dal 1995 pubblica anche un notiziario e che lavora su un progetto di ricerca, convenzionato con la Commissione Pari Opportunità della regione Piemonte, su L'immagine della donna nei mass-media in Piemonte. Un importante passo avanti verso il riconoscimento istituzionale della disciplina è stata l'approvazione in sede ministeriale di un Dottorato di ricerca di storia moderna e contemporanea su “Storia della famiglia e

dell’identità di genere tra Settecento e Novecento” con sede a Napoli, promosso da docenti appartenenti alla Società delle storiche. Diversamente da quanto accade nelle università italiane, l’Istituto Universitario Europeo, con sede a Firenze, ha già inserito da diversi anni un insegnamento specifico di storia delle donne e di genere. Un forte impulso alla produzione di studi sulla storia delle donne è venuto nell’ultimo decennio dell’editoria, che fin dalla metà degli anni Ottanta ha recepito l’interesse e la richiesta del mercato a questo riguardo. In Italia le iniziative promose dagli Editori Laterza hanno indubbiamente contribuito a favorire la ricerca delle e sulle donne e la sua trasmissione a un pubblico di non specialisti, imponendosi anche a livello mondiale con l'edizione di uno dei più riusciti manuali di storia al femminile. Uno stimolo a promuovere studi di storia delle donne viene anche dagli uffici cultura delle amministrazioni locali, specialmente dalle commissioni Pari opportunità, nel cui ambito possono essere promosse iniziative volte al recupero delle espressioni più significative di cultura femminile. Una iniziativa molto opportuna è stata avviata nel 1990 dal comune di Firenze con l’istituzione del premio “Franca Pie50

roni Bortolotti”, destinato a offrire un riconoscimento ai giovani ricercatori segnalando annualmente la miglior tesi di laurea e di dottorato e il più meritevole libro di storia delle donne. Una raccolta dei lavori inviati per essere sottoposti a selezione è stata costituita presso

la Biblioteca Comunale Sant'Egidio di Firenze ed è consultabile. Anche se nei paesi europei l’istituzionalizzazione della disciplina a livello accademico incontra resistenze e ostacoli maggiori che negli Stati Uniti, dove la storia delle donne è da tempo insegnata come disciplina specifica, la ricerca è indubbiamente avanzata in tutti i paesi. Dopo le prime riviste scientifiche fondate negli anni Settanta, altri periodici specializzati hanno iniziato la pubblicazione, sottolineando il nuovo orientamento della ricerca della storia delle donne verso la storia di “genere”: negli Stati Uniti si stampano il “Journal of woman's history” (1989) e “Gender and history” (1989); in Austria “L’Hom-

me” (1994); in Inghilterra l’“History workshop journal” (1995). Il femminismo ha influenzato anche il pensiero religioso, suscitando una riflessione specifica delle donne nel campo della teologia e della storia. Soprattutto dagli Stati Uniti, dove dal 1985 si pubblica il “Journal of feminist studies in religion”, e da alcune studiose in particolare, come Mary Daly, Elisabeth Schussler Fiorenza e Rosemary Radford Ruether, sono venute originali interpretazioni sull’ermeneutica biblica, la mariologia e la teologia femminista. La norvegese Kari Elisabeth Borresen e la statunitense Caroline Walker Bynum si sono distinte invece per la ricerca storico-teologica sulle donne. Anche in Italia si guarda con attenzione alla teologia femminista nel cui ambito si segnala soprattutto Cettina Militello. Sul piano storico Adriana Valerio ha promosso e dirige una collana di studi che assume la riflessione teologica come componente essenziale dell’interpretazione di storia e storie al femminile. 4. La trasmissione dei risultati

L’esigenza di compendiare e di rivolgere a un pubblico più ampio rispetto a quello degli specialisti i risultati della ricerca storica sulle donne è stato avvertito dapprima negli Stati Uniti, dove la disciplina si muoveva per tempo verso l’itituzionalizzazione. E qui che compaiono i primi manuali di storia delle donne che, ciascuno con caratteristiche proprie, affrontano alcuni dei problemi aperti nella discussione storiografica. I più importanti manuali americani compaiono tra il 1976 e il 1989 e riflettono ovviamente lo stato degli studi al momento della pubblicazione e la sua continua evoluzione. E significativo il fatto che la prima di queste sintesi, apparsa nel 1976 con Di

il nome di Becoming visible, venga rielaborata completamente dieci anni dopo e al momento della riedizione si pensi, senza che questo venga poi attuato, di mutarne il titolo in No longer invisible. La discussione dei curatori e redattori del manuale sul titolo non intende soltanto sottolineare un mutamento sostanziale delle due edizioni conseguente l’arricchimento degli studi sulla storia delle donne intervenuto nel decennio intercorso, ma riflette anche la convinzione che

le donne abbiano acquisito un posto nella storia, che la storia delle donne sia ormai riconosciuta come disciplina scientifica. I problemi sottesi alla finalità di sistematizzazione che è propria del genere manualistico sono molteplici. Per quanto riguarda la storia delle donne essi si concentrano prevalentemente intorno a due poli: la tensione tra la sua presentazione in termini di separatezza, di specificità femminile in rapporto a una storia “altra”, o in termini di integrazione, di inserimento nella storia generale. A questo riguardo due dei più importanti manuali americani hanno adottato prospettive diverse. Vediamone brevemente la caratterizzazione. Becoming visible nella sua prima edizione intendeva inserire le donne nel contesto delle discipline tradizionali che le avevano ignorate. Riflettendo l'impostazione tipica degli womzan's studies degli anni Settanta i curatori e gli autori del volume vogliono estirpare i miti della femminilità, si interrogano sull’origine della disuguaglianza e utilizzano specialmente le fonti che testimoniano l’oppressione delle donne. Partendo dal proposito di rendere visibili le donne nella storia, essi adottano il taglio cronologico tradizionale, tracciando le linee di una diversa modalità della presenza femminile dal mondo classico all’età industriale. Essi sono tuttavia consapevoli della problematicità dell’applicazione indiscriminata della cronologia della storia generale alla storia delle donne. Ed è proprio in questa occasione che Joan Kelly pone il quesito della periodizzazione interrogandosi sul rinascimento femminile. La seconda edizione di Becorzing visible, nonostante la riflessione sulla periodizzazione suscitata dal volume stesso, non rinuncia al precedente impianto cronologico, anche in considerazione della diversa impostazione del manuale. Recependo i nuovi risultati delle ricerche e il mutamento storiografico conseguente la concettualizzazione del gender, la nuova edizione assume come campo focale le donne come attori storici e l’analisi della costruzione sociale del genere nel tempo e attraverso le culture. I saggi illuminano aree sconosciute del passato e pongono le donne in un contesto sociale più vasto. Si esamina il contributo femminile alla manipolazione delle norme culturali prevalenti per massimizzare il loro potere e come giungono a cambiare norme oppressive. Si esaminano i diversi femminiD2

smi. Mentre nella prima edizione si volevano estirpare i miti della femminilità e restituire la donna alla storia, nella seconda si torna a quei miti per analizzare le loro relazioni ai contesti sociali che li hanno prodotti. Di diversa impostazione è il secondo manuale, stampato nel 1988 negli Stati Uniti con il titolo A history of their own. Women in Europe from prebistory to the present e tradotto in italiano nel 1992 con il titolo Le donne in Europa. Questo manuale, diviso in quattro volumi, abbandona il taglio cronologico e assume uno schema spaziale. Le autrici partono dalla constatazione, ormai provata dalla storiografia, che la narrazione storica ha escluso le donne dalla storia e che la periodizzazione tradizionale riflette le esperienze degli uomini. Esse intendono rispondere alle domande relative alla vita quotidiana delle donne, ai motivi dei contrasti tra genere di vita degli uomini e delle donne e dei contesti culturali che hanno fondato la nozione di inferiorità della donna in natura, e si interrogano infine sul perché le donne hanno accettato queste limitazioni e che significato assumono in rapporto alle altre donne le “eccezioni” che sono state incluse nella storia. Punto focale della loro indagine è la convinzione che il gender è stato il fattore più importante nel dar forma alla vita delle donne europee. Gli uomini sono stati considerati a seconda della divisione per classi, nazioni, epoca storica, le donne “come donne, una categoria separata dell’essere”. La differenza di epoche, classi e nazioni non hanno avuto lo stesso peso per uomini e donne. Nascere maschio o femmina è il primo fattore che delinea l’esperienza delle donne separandola da quella degli uomini e dando una comunanza di base alla vita di tutte le donne europee. Fino ad epoche recenti le donne venivano definite a seconda della relazione con gli uomini, come figlie, mogli, madri o spose di Cristo. La periodizzazione tradizionale non è considerata significativa per le autrici del volume per ricostruire le “vita separata” delle donne. L'impostazione del manuale si distacca dunque da quella del precedente. Per collocare le donne “al centro” della storia e dare un senso alla loro esperienza le autrici di questo volume hanno usato i concetti di “luogo” e “funzione”, mettendo a fuoco le costanti e le trasformazioni della vita femminile in spazi storici diversi. Esse esaminano successivamente la vita nei campi e nelle chiese, nei castelli e nelle città, nelle corti e nei salotti, nella città moderna, rilevando come

in certi periodi storici le categorie di luogo e di funzione vengano a coincidere con la classe sociale. L'impostazione di questo manuale è più sensibile ai temi della vita quotidiana, della cultura materiale, dei riti, mostrando apertura ai contributi dell’antropologia e del folk53

lore. Il taglio della ricerca non può dirsi particolarmente originale, ma è innovativo in un manuale. A una iniziativa editoriale italiana e a una realizzazione prevalentemente francese si deve invece il manuale che risponde attualmente ai caratteri di maggiore esaustività e diffusione. Con il titolo di Storia delle donne in Occidente, veniva infatti stampato in Italia tra il 1990 e il 1992 un excursus storico in cinque volumi. Progettata quando ormai la storia delle donne aveva acquisito piena legittimazione scientifica ed era stata accolta la concettualizzazione di storia di genere, quest’opera rispecchia gli orientamenti metodologici e le acquisizioni più recenti della storiografia di diversi paesi. L’introduzione dei curatori del manuale mette in evidenza le ragioni pratiche, dovute soprattutto allo stato degli studi, e non ideologiche della scelta dell'Occidente come campo d’osservazione. Una storia che risulta in definitiva eurocentrica non comporta la sottovalutazione di altre culture, né la consapevolezza dello stretto legame che unisce la storia delle donne europee a quella delle donne dell'America latina tramite l'importazione fin dal secolo xvi di modelli femminili iberici. «Questa storia delle donne bianche non implica nessuna volontà di esclusione o giudizi di valore; essa mostra i nostri limiti e richiede delle continuazioni».

Chiariti i motivi della scelta geografica, i curatori dell’opera sono altrettanto espliciti sul problema della periodizzazione. «Certamente — e ciò può essere discutibile — noi abbiamo ripreso la periodizzazione abituale della storia occidentale; abbiamo ammesso implicitamente, insomma, che essa fosse valida per la storia dei rapporti di sessi». Il manuale segue infatti la cronologia della storia generale dedicando un volume all’antichità, uno al medioevo, uno all’età moderna, uno all'Ottocento e l’ultimo al Novecento. Scopo prioritario dell’opera è analizzare i discorsi sulle donne, i modelli e le immagini femminili e la loro evoluzione. Le donne sono rappresentate prima di essere descritte o raccontate, per questo motivo una sezione dei singoli volumi è dedicata a illustrazioni che non costituiscono una semplice raccolta di immagini, ma un materiale da decifrare. Ampio spazio è poi dedicato alle immagini letterarie, ai discorsi «che vengono dai pensatori, dagli organizzatori o dai porta-parola di un'epoca». Quando possibile si dà la parola direttamente alle donne. «L'ascolto diretto della loro voce dipende tuttavia dal loro accesso ai mezzi espressivi: il gesto, la parola, la scrittura». Altro aspetto qualificante dell’opera è che essa vuole essere storia dei rapporti tra i sessi, più che storia delle donne, in quanto è questa relazione che definisce l’alterità e l’identità femminile. Per tale motivo la domanda 54

che percorre tutti i volumi è relativa alla natura di questo rapporto e alla sua evoluzione nelle diverse epoche storiche. La relazione maschile/femminile non si esamina tanto sotto il profilo del dominio e dell’oppressione, che si dà comunque per acquisito, ma tenendo conto del fatto che esistono anche poteri femminili che si esprimono in resistenze, compensazioni, consensi che rendono più problematico e dialettico il rapporto dei sessi. L’ampio quadro della storia delle donne in occidente non esaurisce ovviamente la ricerca in questo settore; l’opera stessa nel suo complesso non può che tener conto se non parzialmente dei quadri nazionali e presenta un primo resoconto sui diversi periodi storici. Per questo motivo altri manuali più circoscritti e mirati si accostano a questo primo indispensabile testo di consultazione. Accenneremo brevemente ad alcune altre opere pubblicate recentemente che costituiscono un parziale complemento di questo manuale. Per dare maggiore spessore ai quadri nazionali e approfondire specifici aspetti della storia femminile si è avviato il progetto di una Storia delle donne in Italia, di cui è uscito il primo volume. A differenza dell’opera precedente questo nuovo manuale si caratterizza per la specificità geografica e per la scelta tematica dei volumi. Il primo, dal titolo Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, è dedicato alla vita religiosa. Seguiranno altri libri sulle donne e il lavoro, sul matrimonio e sulla maternità. Caratteristica comune di questi testi è quella di alternare quadri di sintesi che presentino l'evoluzione storica del problema trattato inserendola in un’ampia cronologia e saggi tematici su aspetti rilevanti della storia delle donne nelle diverse epoche. Donne e fede si propone di analizzare il rapporto delle donne con la religione in Italia esaminando specialmente l’evoluzione dei modelli di santità e delle istituzioni religiose femminili, cercando di far emergere in tutta la sua complessità il rapporto ambiguo tra donna e religione. Elemento determinante nella costruzione di discorsi che hanno fondato il dominio maschile sulle donne e talvolta anche strumento di persecuzione, la religione ha però rappresentato per secoli un mezzo offerto alle donne per sottrarsi alle limitazioni imposte dal proprio ruolo biologico (matrimonio imposto e maternità ripetute), per assolvere a un ruolo pubblico come abbadesse di monasteri da cui dipendevano proprietà terriere, personale laico ed ecclesiastico, per esercitare un'influenza anche politica attraverso il potere della parola profetica e infine per istruirsi e svolgere un ruolo intellettuale o addirittura imprenditoriale con l’organizzazione di fondazioni religiose che esigevano il reperimento e l’impiego di capitali. L'analisi dei modelli di santità femminile, perseguita attraverso l’uso di fonti let55

terarie e iconografiche cui è riservata una sezione specifica per ogni periodo storico, è accompagnata costantemente dal raffronto con l’evoluzione delle istituzioni ecclesiastiche che riflettono una più tempestiva e flessibile modalità di reazione e risposta della chiesa a istanze specifiche della condizione femminile. La periodizzazione adottata dal volume si discosta da quella della storia generale e risponde alla specificità stessa della materia trattata, per la quale le cesure rappresentate dalle rivoluzioni o da altri eventi politici e militari non rappresentano elementi di novità, data la persistenza dei modelli e degli istituti tradizionali oltre il verificarsi del processo rivoluzionario. Forse è arbitrario estendere questa periodizzazione ad altri aspetti della condizione femminile, tuttavia il volume propone di interrogarsi su un eventuale specifico atteggiamento e ruolo delle donne nei confronti di eventi traumatici quali guerre e rivoluzioni. Lo spazio geografico europeo e una più ristretta cronologia, l’età moderna, sono le coordinate entro cui si muovono due recentissimi

volumi americani che hanno il carattere di sintesi e di esposizione problematica delle più recenti acquisizioni della storia delle donne e del gender. Women and gender in Early Modern Europe (1993), è un testo destinato agli studenti americani di storia delle donne, storia della prima età moderna in Europa e storia comparativa. La struttura del libro riflette la divisione dell’essere — corpo, intelletto e spirito — tradizionale nella filosofia occidentale. Le questioni analizzate comprendono pertanto sintesi storiche relative al corpo (i cicli di vita femminili, la sessualità, il ruolo economico delle donne), alla mente (la letteratura, le creazioni artistiche, le donne e la cultura) e allo spirito

(la pietà e la stregoneria). Si toccano infine alcuni aspetti relativi a gender, potere politico e ordine sociale. Il testo intende dunque presentare i più recenti risultati della ricerca su donne e genere, ma l’autrice premette una chiara precisazione sui rapporti delle due diverse pratiche storiche: lo studio del gender non ha sostituito la storia delle donne, perché abbiamo ancora molte più informazioni sulla vita maschile che su quella femminile, ha tuttavia contribuito a porre nuove domande sulla vita degli uomini e la relazione dei sessi. The prospect before her. A history of women in western Europe (di cui è in corso la traduzione italiana) rappresenta molto di più di un manuale in quanto non fornisce soltanto una sintesi degli studi esistenti ma approfondisce singoli argomenti con documentazione di prima mano. Il carattere di particolare ampiezza della ricerca, che spazia sui diversi paesi dell'Europa occidentale, sia pur con prevalenza di riferimenti alla storia francese e inglese, e la chiara colloca56

zione della storia delle donne all’interno di alcune delle più attuali tematiche storiografiche generali come la storia della famiglia, dell'infanzia, della “civilizzazione” ne fanno uno strumento prezioso di accesso alla storia femminile anche da parte di non specialisti. La struttura del libro, che su molti aspetti trattati propone nuove interpretazioni, segue un’articolazione che va dall’esame del modello ideale a quello dei diversi ruoli femminili per valutare continuità e cambiamenti nella vita delle donne nelle diverse classi sociali e nei vari paesi. Vengono analizzati in successione la costruzione della donna nelle espressioni artistiche e letterarie, il matrimonio, la maternità, la vedovanza; seguono capitoli sulle donne che hanno commesso crimini, le

prostitute, le streghe per finire con il rapporto tra donne e religione. Frequente nel libro è il ricorso alle fonti letterarie, più adatte a esprimere il discorso degli uomini sulle donne che non la realtà storica, tuttavia a questo proposito è importante l’affermazione dell’autrice per cui il libro tenta di distinguere tra donne e versioni di femminilità, ma riconosce che le idee sulla donna hanno indubbiamente contribuito a fissare i limiti di ciò che era possibile alle donne reali nella società della prima età moderna. La molteplicità e la varietà dei manuali in un campo d’indagine giovane come la storia delle donne indica da un lato l’intento di dare uno statuto specifico alla disciplina e favorirne l’istituzionalizzazione e riflette dall’altro la tendenza a diffonderne le acquisizioni anche ai non specialisti. In effetti il problema della trasmissione è aspetto centrale della storia delle donne in quanto strettamente connesso con il proposito politico-culturale di contribuire alla costruzione dell’identità femminile — perseguita specialmente, sul piano pedagogico, dall’educazione alla differenza sessuale — fornendo elementi per costituire una “genealogia” che conferisca autorità al soggetto femminile. L’insegnamento della storia della donna entra così in un più ampio progetto di costruzione della soggettività, in un proposito di fornire agli studenti gli strumenti per narrarsi, essere soggetti di un racconto, costruire la propria memoria, interpretare la propria storia. «Stabilire un rapporto tra vita vissuta e biografia raccontata — afferma Maria Teresa Sega — è operazione di attribuzione di senso al proprio essere al mondo in relazione agli altri, agli eventi, al tempo». Nell'ambito della Società delle storiche, molte delle quali esercitano la professione di insegnante, opera una commissione cui fanno capo progetti e verifiche di sperimentazioni didattiche. Alcune di queste sono proposte nel volume Generazioni. Trasmissione della storia e tradizione delle donne. Altri esempi di lavoro di gruppo nell’ambito 57

della scuola sono stati attuati da insegnanti collegate al movimento delle donne di Milano. I risultati di una ricerca interdisciplinare sulla Libertà femminile nel 600 sono stati raccolti in un numero speciale della rivista della Libreria delle donne di Milano, “Via Dogana”. Né si può ignorare, ovviamente, il contributo della didattica che viene dalle riviste specializzate.

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BIBLIOGRAFIA

La bibliografia, che intende fornire una selezione delle opere più importanti relative alla storia delle donne, con prevalenza dei saggi italiani più recenti, si articola in tre settori: 1) manuali e opere di consultazione generale, 2) testi pertinenti la prima parte del volume con riferimento ai diversi capitoli in cui è suddiviso, 3) bibliografia essenziale relativa

alle diverse epoche storiche. Essa è integrata dalle bibliografie specifiche che corredano la seconda parte del volume.

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— M. Gramaglia, “Memoria” e la politi ca degli anni Ottanta, in “ Agenda della Società Italiana delle storiche”,

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Una ricchissima raccolta di periodici femministi e di storia delle donne è quel

la della Biblioteca del Centro di documentazione donne di Bologna, il cui catalogo è stato pubblicato: Centro di documentazione delle donne, Catalogo dei periodici, a cura di M. Brugnoli, I. Cavassa, I. Fiorini, Bologna, aprile 1992.

Per una prima informazione sulla teologia femminista: — M.T. van Lunen-Chenu e R. Gibellini, Donna e teologia. Editoriale di A. Valerio, Brescia, Queriniana, 1988; — G. Heinzelmann, Donna nella chiesa. Problemi del femminismo cattolico, Milano, Xenia Edizioni, 1990. 7. La trasmissione dei risultati

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— E. Cantarella, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell'antichità greca e romana, Roma, 1981.

— G. Arrigoni, (a cura di), Le donne in Grecia, Roma-Bari, Laterza, 1983.

— I. Savalli, La donna nella società della Grecia antica, Bologna, 1983.

— L. Peppe, Posizione giuridica e ruolo sociale della donna romana in età repubblicana, Milano, Giuffré, 1984. — R. Uglione (a cura di), La donna nel

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Età contemporanea

Oltre ai testi citati nel paragrafo “Donne e storia”, si vedano i seguenti: — A. Bravo (a cura di), Dozne e uomini nelle guerre mondiali, Roma-Bari, Larerza Ri99.1

— M. Salvati, L’inutile salotto. L’educazione piccolo-borghese nell'Italia fascista, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.

— A. Groppi, I conservatori della virtà, Roma-Bari, Laterza, 1994.

— A. Gigli Marchetti, Da/la crinolina alla minigonna. La donna, l’abito e la società dal xv al xx secolo, Bologna, CLUEB,

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— A. Bravo e A.M. Bruzzone, Ir guerra senza armi. Storie di donne. 1940-1945, Roma-Bari, Laterza, 1995.

— G. De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 19221939, Torino, Bollati Boringhieri, 1995A

— Paura non abbiamo... L'Unione donne italiane di Reggio Emilia nei documenti, nelle immagini, nella memoria

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— A. Pasi, P. Sorcinelli (a cura di), Arzori e trasgressioni. Rapporti di coppia tra ’800 e ’900, Bari, Dedalo, 1995. Famiglia — P. Melograni (a cura di), La farziglia italiana dall’Ottocento a oggi, RomaBari, Laterza, 1988.

— P. Guidicini, C. Alvisi, L’arzdaura. Donne e gestione familiare nella realtà contadina, Milano, Franco Angeli, 1994.

— G. Campanini (a cura di), Le stagioni

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Educazione e cultura — A. Buttafuoco, Le Mariuccine. Storia di un'istituzione laica. L’ Asilo Mariuccia, Milano, Franco Angeli, 1985.

— S. Franchini, Elites ed educazione femminile nell'Italia dell'Ottocento. L’Istituto della SS. Annunziata di Firenze, Firenze, Leo S. Olschki, 1993. Religione

— G. Rocca, Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli x1x-xx, Roma, 19954

— D. Veneruso, La Congregazione delle Piccole Figlie di San Giuseppe dalle origini al 1932, Torino, Società Editrice Internazionale, 1994. — G. Rumi, Santità sociale in Italia tra Otto e Novecento, Torino, Società Editrice Internazionale, 1995.

Biografie — M. Sticco, Una donna tra due secoli: Armida Barelli, Milano, Edizione Or, 1983.

— N. Revelli, L'anello forte. La donna: storie di vita contadina, Torino, Einaudi, 1985.

— A. Buttafuoco, M. Zancan (a cura di), Svelamento. Sibilla Aleramo: una biografia intellettuale, Milano, Feltrinel-

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— C. Molinari, L’attrice divina. Eleonora Duse nel teatro italiano fra i due secoli, Roma, Bulzoni, 1989.

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— D. Agasso, Maria Mazzarello. Il comandamento della gioia, Torino, Società Editrice Internazionale, 1993.

Si segnalano infine alcuni numeri della

menti della biografia femminile.

— n. 53 (1983), Sisterzi di carità. Esposti e internati nelle società di antico regime.

— n. 75 (1990), Verginità.

rivista “Quaderni storici” dedicati a tematiche femminili:

— n. 79 (1992), Maschile e femminile.

— n. 44 (1980), Parto e maternità. Mo-

— n. 86 (1994), Costruire la parentela.

70

— n. 83 (1993), Fratello e sorella.

LE DONNE

NELLA STORIA

Campi di ricerca

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Questo volume intende essere una guida per lo studio della storia delle donne e per un inserimento del problema della soggettività femminile nel processo educativo che è connesso con ogni tipo e grado di insegnamento. Mentre nella prima parte esso fornisce soprattutto una sintesi dei principali contributi storiografici e una essenziale informazione bibliografica, in questa seconda parte suggerisce temi d’indagine e campi di ricerca, non rinunciando a proporre la biografia come componente privilegiata della storia delle donne. Il complesso rapporto tra storia delle donne e storia generale deve ovviamente tener conto, anche sul piano didattico, della concettua-

lizzazione del gender, che introduce nella storiografia una categoria diversa da quelle di ceto e classe con cui a livello manualistico si spiega normalmente la dinamica dei rapporti sociali. Certo il “genere” non sostituisce i concetti precedenti, che continuano ad avere una specifica funzione epistemologica correlata all'analisi dei ruoli sessuali, ma arricchisce il livello ermeneutico assumendo la dinamica maschile/femminile come elemento qualificante della storia. Così nello studio dei fenomeni politico-sociali relativi alla storia delle donne non si potranno ignorare le differenze di ceto e classe in cui si collocano figure singole o eventi indagati, e nell’analisi della costruzione di “genere” resta fondamentale considerare il contesto culturale in cui si sviluppano e definiscono i ruoli sessuali; tuttavia le questioni poste dalla gender bistory devono essere tenute presenti in una ricostruzione del passato che rifugga da teorie interpretative totalizzanti e aprioristicamente definite. All’importanza del “genere” si possono ricollegare inoltre altri recenti settori di ricerca. Le suggestioni fornite alla storia dalla antropologia hanno infatti introdotto nel territorio dello storico temi d’indagine che tengono conto dei gruppi sociali e delle classi di età: si è così cominciata a scrivere la storia dell'infanzia o dei giovani, che costituisce un utile attraversamento della storia di “genere” e ne rap70

presenta un complemento. In un contesto storiografico così arricchito anche la didattica della storia richiede un nuovo orientamento. La sezione di questo volume dedicata ai “Campi di ricerca” ha lo scopo di presentare alcuni risultati della più recente produzione scientifica della storia delle donne e di indicare settori e linee di approfondimento. Si ritiene infatti che, nonostante numerosi studi abbiano arricchito la nostra conoscenza nel territorio della storia “al femminile”, molti siano ancora i fatti e le figure che richiedono supplementi

d’indagine o i fenomeni che possono dar luogo a nuove ipotesi interpretative. Qui si propone innanzitutto di riconsiderare alcuni dei settori tradizionali della storia tenendo presente la componente femminile e la sua specificità. Così si suggerisce di riflettere sulle grandi tematiche del rapporto delle donne con la religione, la scienza, la politica e il lavoro nei diversi periodi storici, considerando soprattutto i fattori di mutamento. Inoltre, nella prospettiva della storia di “genere”, si indicano le linee per un approfondimento dei ruoli femminili, sia quelli più direttamente rapportabili alla determinazione del sesso, sia quelli più strettamente connessi a contesti culturali e sociali specifici. Ciascun campo di ricerca è introdotto da alcune linee evolutive e interpretative del problema. Ai diversi settori d’indagine si affiancano inoltre profili biografici, che si prestano a essere assunti come esemplificativi della presenza e dell’apporto femminile a particolari momenti storici e che, a livello didattico, possono costituire oggetto di ulteriori ricerche, soprattutto avvalendosi delle fonti segnalate in bibliografia.

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Donne e religione di G. Zarri

E pratica antica attribuire un genere a manifestazioni di potere sacro nel mondo. Per lo più tali manifestazioni sono dette “femminili” quando hanno una funzione analoga ai modi più comuni dell’attività fisiologica e/o culturale delle donne. É comunemente considerato femminile tutto ciò che contiene, come in grembo, qualcosa

che può essere percepito come gestazione, ad esempio il seme nella terra. Analogamente ciò che nutre, ciò che cambia periodicamente,

ciò che si trasforma attraverso un lavoro. Simboli e divinità femminili erano prevalenti nei sistemi religiosi delle culture antiche e continuano ad essere importanti nelle società agrarie e tra i popoli cacciatori che ancora sopravvivono. È soprattutto in natura che si riscontrano forme di sacralità femminile connesse con quelle porzioni del mondo che si producono e riproducono senza l’intervento umano, come la terra, organismo vivente che può essere considerato come madre di tutti gli esseri animati. Altri elementi naturali sono percepiti dai popoli antichi o da culture diverse da quella occidentale come portatori di un potere sacro “femminile”: la grotta e la caverna, originale grembo della terra, l’acqua, considerata da alcune cosmogonie matrice da cui è nata la terra, le montagne e le rocce, come estensione della terra stessa. Anche il buio, la notte e la luna sono frequentemente associati al sacro femminile, mentre il sole e il fuoco sono per lo più percepiti come poteri maschili. Fa eccezione il focolare domestico che nell’antico mondo mediterraneo era considerato una divinità femminile (la greca Hestia e la romana Vesta). Anche nel mondo culturale, oltre che in natura, alcuni processi sono percepiti come poteri femminili in quanto agenti di crescita e trasformazione: il giardinaggio, la tessitura, il cucinare o pre-

parare il pane. Nella cultura occidentale cristiana anche processi di trasformazione spirituale vengono definiti con metafore femminili: la chiesa come istituzione che offre nutrimento spirituale è chiamata madre del gregge di Cristo o sposa di Cristo. In molte culture medi75

terranee o orientali al sapere e alla saggezza è assegnato il genere femminile. Nella chiesa cattolica e nelle chiese ortodosse la figura della Vergine Maria compendia nel modo più pieno i diversi aspetti del potere sacro femminile. Pur investite di un alto potere simbolico ed elevate a divinità in numerose culture antiche, nel mondo mediterraneo le donne sono escluse dalla gestione rituale del sacro. Il sacerdozio resta prerogativa essenzialmente maschile. Solo nel mondo romano le vestali, incaricate di alimentare perpetuamente il fuoco acceso nel tempio della dea Vesta, esercitano una funzione sacerdotale e sono inserite in un ordine che riveste alta dignità e comporta l'obbligo della verginità. La misoginia che contraddistingue la cultura del mondo classico trova una parziale attenuazione nel cristianesimo che non esclude le donne

dall’ascolto della parola di Cristo, ma anzi le abilita alla diffusione del messaggio della salvezza. Non solo nel periodo evangelico, ma anche nell’età apostolica numerose donne accompagnano i discepoli di Gesù e li soccorrono in vari modi partecipando alla loro attività di proselitismo. É soprattutto l’associazione al martirio in tempo di persecuzione che conferisce alle donne cristiane dignità spirituale pari a quella degli uomini. L’età costantiniana, ponendo fine alla clandestinità, consente una organizzazione della vita religiosa che vede il sorgere delle prime comunità femminili di vergini dedicate alla preghiera e al servizio di Dio che prefigurano la forma di vita che sarà tipica dei secoli successivi. Lo sviluppo del monachesimo favorisce il costituirsi dei secondi ordini regolari, ossia di comunità di religiose che professano i voti di povertà, castità e ubbidienza vivendo in un monastero e conformando la propria condotta alla osservanza di una regola e di costituzioni che le vincolano giuridicamente. La vita monastica diviene il perno su cui si struttura la vita religiosa femminile dall’età longobarda all’età napoleonica. Movimenti di rinnovamento in seno alla società e alla chiesa fanno emergere periodicamente nel lungo spazio di tempo compreso tra vir e xvm secolo forme di vita che si discostano da quella rigidimente claustrale, prevedendo aggregazioni religiose più libere o ispirate a diversi principi spirituali. Il modello monastico resta tuttavia il principale referente della vita religiosa femminile anche per il supporto dato ad esso dalla cultura e società medievali che individuano nel monastero il luogo più adatto alla custodia dell’onore delle donne che le diverse strategie familiari escludono dal mercato matrimoniale. Costrette alla clausura dal 1300, le religiose sono impossibilitate a compiere un servizio attivo all’interno della chiesa e della società. Movimenti non claustrali come quello delle terziarie aggregate agli 16

ordini mendicanti o la Compagnia di Sant'Orsola, fondata nel secolo xVI da Angela Merici, consentono una maggior partecipazione delle donne alla vita della chiesa e godono talvolta dell’appoggio della gerarchia, pur essendo aggregazioni ritenute meno controllabili e più soggette a disordini morali o deviazioni dottrinali. In genere sottratte alla vita attiva e dedicate a quella contemplativa, le donne si impongono all'attenzione della chiesa attraverso la parola. Misticismo e profezia appaiono caratteri tipici della religiosità femminile dal x1v al xvII secolo, fino a quando cioè la controriforma impone un’azione di disciplinamento dei costumi e della vita religiosa che coinvolge anche le manifestazioni tradizionalmente considerate espressione di santità. Controllato e represso soprattutto nelle sue espressioni anomiche, e cioè a livello popolare o di gruppo, il misticismo resta tuttavia vivo nei chiostri e comunicato sempre più frequentemente in forma di scrittura. La soppressione dei monasteri di clausura in età napoleonica interrompe una tradizione secolare e consente un definitivo mutamento del rapporto tra donne e religione. Cessato il privilegiamento della vita contemplativa, l’azione sociale e apostolica costituisce la finalità prioritaria delle nuove congregazioni femminili che si fondano nei secoli xrx e xx. Insegnamento, assistenza ospedaliera e agli infanti, missioni pongono le religiose in posizione di primo piano nell’esercizio di professioni e attività che anche nella società civile vedono ormai

la partecipazione delle donne. Fondazioni e istituti che hanno carattere sovranazionale consentono talvolta alle religiose di favorire un processo di emancipazione femminile che trova tuttavia nel mondo laico il suo principale propulsore. In analogia con quanto avviene sul versante maschile, nel secolo XIX e ancor più nel primo Novecento il reclutamento delle religiose coinvolge profondamente i ceti popolari. Congregazioni come quelle delle Minime dell’ Addolorata che devono il proprio inizio a una prima fondazione istituita nella campagna emiliana ad opera di una giovane rurale, Clelia Barbieri, non rappresentano una eccezione. Esemplare

è anche il caso della piemontese Maria Mazzarello, contadina analfabeta che con l’appoggio di Giovanni Bosco fonda la congregazione delle Salesiane. Elemento innovativo rispetto ai movimenti religiosi dei secoli precedenti, è la costituzione dell’associazionismo laico, dall'opera dei Congressi all’ Azione Cattolica, che si struttura nei primi decenni del Novecento in ramo femminile cui convergono successivamente le donne adulte e le giovani, poi le bambine di ogni età. Scopo di queste associazioni è l’affiancamento della gerarchia nelle funzioni pastoTY

rali e catechetiche, nella formazione religiosa degli iscritti, ma la struttura associazionistica fornisce anche in diversi momenti e misura un supporto politico, specialmente in Italia, alle aspirazioni e prese di posizione della gerarchia riguardo i problemi sociali e politici del paese. Un coinvolgimento nelle attività sociali e un impegno religioso vissuto nell’ambito della famiglia e della professione caratterizza anche il sorgere nel secolo xx di forme di consacrazione religiosa vissuta al di fuori dei conventi: il Movimento della regalità o quello dei focolarini, fondato dalla trentina Chiara Lubich durante la seconda guerra mondiale, vedono una forte partecipazione femminile. Apice del riconoscimento della gerarchia ecclesiastica nei confronti dell’apporto femminile alla pastorale e catechesi cattolica è la partecipazione di alcune donne in qualità di osservatrici alle assise del Concilio ecumenico Vaticano II. Alla feconda stagione conciliare si deve anche collegare un impegno sempre più esteso delle donne allo studio della teologia fino alla fondazione di un movimento di teologhe femministe, vivace soprattutto negli Stati Uniti. La sempre più estesa partecipazione femminile ad azioni di supporto della gerarchia nella pastorale, soprattutto nei paesi di missione e nelle società secolarizzate che vedono una consistente diminuzione dell’accesso maschile al sacerdozio, sembra costituire il presupposto di‘un ripensamento del divieto tuttora esistente nella chiesa cattolica dell'accesso femminile al sacerdozio. La recente consacrazione al ministero sacerdotale concessa alle donne nella chiesa anglicana costituisce una tappa imprescindibile nel riconoscimento dell’apporto femminile alla religione.

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italiane,

Genova,

Caterina di Jacopo di Benincasa, patrona d’Italia Quando l’Italia stava per entrare nell’ultimo conflitto mondiale il pontefice Pio XII elesse due santi come speciali protettori della nazione: Francesco d’Assisi e Caterina da Siena. «Decoro della patria e difesa della religione» furono le parole con cui il papa definì nel Motu proprio del 18 giugno 1939 la giovane donna vissuta sei secoli prima. In tempi ancora più vicini a noi, nel 1970, il pontefice Paolo VI proclamò Caterina Dottore della chiesa, associandola alla consorella carmelitana Teresa d’Avila, e tributandole un onore mai rico-

nosciuto prima a una donna. La personalità eccezionale di Caterina giustifica di fatto tali riconoscimenti e una così lunga memoria. Nessuna donna nel passato storico della nostra nazione ebbe una influenza incisiva e duratura sul piano civico, religioso e letterario come la sua. Ventiquattresima e penultima figlia diJacopo di Benincasa e Lapa di Nuccio Piagenti, Caterina nacque a Siena, nella contrada dell'Oca, nel rione di Fontebranda, da una famiglia della piccola borghesia. Il padre esercitava il mestiere di tintore. L’anno di nascita, il 1347, ci è stato tramandato dall’agiografo di Caterina, il domenicano Raimondo di Capua, che ha forse voluto fissare una data simbolica: essendo morta a Roma nel 1380, la giovane donna avrebbe concluso la sua vita nel trentatreesimo anno di età, sanzionando così emblematicamente la sua conformazione al Cristo crocifisso già iniziata con

la ricezione del dono mistico delle stimmate. Ancora all’agiografo siamo debitori delle notizie relative all’infanzia e alla prima giovinezza di Caterina. Sappiamo così di una vita contrassegnata da un rapporto di comprensione con il padre e di contrasto con la madre che tentava di opporsi alle pratiche di penitenza, già orientate alla scelta di vita religiosa, che la santa avrebbe esercitate fin da fanciulla. Vita ritirata nella propria camera trasformata in cella monastica, digiuni prolungati fino a raggiungere l'anoressia, preghiera e rapimenti estatici precedono la decisione di assumere l’abito di terziaria domenicana. A sedici anni Caterina veste l’abito delle mantellate, come

venivano chiamate le terziarie che indossavano un largo mantello nero sopra la veste bianca dell’ordine domenicano, compiendo un gesto allora fuori della norma: abitualmente infatti vestivano quell’abito donne vedove e non giovani fanciulle, alle quali era riservato il monastero. Caterina tuttavia non voleva essere posta in clausura e preferiva dedicarsi a opere di carità come l’assitenza ai malati. Questo suo stato di vita religiosa nel mondo le consentì inoltre di dedicarsi a un impegno civico e al servizio della chiesa conferendole quella libertà di movimento normalmente preclusa alle donne della sua età. L’in79

gresso di Caterina nel terz’ordine domenicano ebbe anche l’effetto di rafforzare questo istituto, la cui regola, composta nel 1285 da Munio de Zamora, non era ancora stata ufficialmente approvata dalla chiesa che la confermò nel 1405. Vestire l’abito delle mantellate non significava allontanarsi dalla famiglia. Caterina continuò dunque ad abitare nelle mura domestiche, costituendosi tuttavia una più ampia “famiglia” spirituale di cui facevano parte uomini e donne, laici e religiosi, che condividevano con lei gli ideali di vita ascetica e che nutrivano forte venerazione per la giovane donna tanto da chiamarla mamma. Erano membri attivi del cenacolo, oltre che alcuni padri domenicani confessori e poi biografi della santa, anche religiosi di altri ordini, come l’agostiniano Guglielmo Flete, eremita inglese, e il vallombrosano Giovanni dalle

Celle, il rapporto con i quali contribuì ad affinare la cultura di Caterina, che aveva appreso a leggere il breviario e la vita dei santi e anche a scrivere. Non conosciamo il momento preciso in cui la donna cominciò a

occuparsi di politica. Fu forse intorno al 1370, anno di morte del pontefice Urbano V. Non si può escludere che Caterina avesse avuto qualche forma di contatto con questo papa, già legato alla carismatica Brigida di Svezia che lo esortava con le sue profezie a riportare il soglio pontificio da Avignone a Roma. E certo tuttavia che la santa di Siena entrò ben presto in rapporto con il successore di Urbano V, Gregorio XI, nei confronti del quale continuò un’azione suasoria

rafforzata dalla convinzione di parlare in nome di Dio. L’accento profetico della giovane donna è chiaramente percepibile dalle parole con cui si rivolge al pontefice in più di una lettera: «Voi mi dimandate dall’avvenimento vostro, e io rispondo e dico da parte di Cristo crocifisso che voi veniate» (lett. 229). Se il ritorno del papato in Roma dopo decenni di “esilio” avignonese era la prima finalità dell’azione politica di Caterina, non c’è dubbio che alla santa stava a cuore anche un’altra impresa che avrebbe dovuto restituire prestigio e onore alla cristianità: la realizzazione della crociata che intorno agli anni 1375-1376 alcune autorità del mondo cristiano sembravano voler intraprendere. La realizzazione del “santo passaggio” è oggetto di numerose prese di contatto di Caterina con autorevoli personalità del mondo politico del tempo, dal signore di Milano Bernabò Visconti, al fratello del re di Francia, Luigi duca d'Angiò, alla regina Giovanna di Napoli. Oltre che rivolta a due grandi imprese che consentivano alla santa senese di esercitare l’influenza del suo potere carismatico e profetico, l’attività pubblica di Caterina fu rivolta anche a questioni più 80

strettamente politico-diplomatiche volte alla pacificazione delle città toscane tra loro e con la Santa Sede. In queste missioni l’incidenza della giovane donna fu scarsa e non ebbe successo. Resta tuttavia notevole l’indubbio prestigio di cui Caterina godeva nella sfera non soltanto ecclesiastica, ma pubblica, come testimoniano le numerosissime lettere inviate a principi e autorità cittadine. Quando si parla dell’attività e dei viaggi di Caterina presso la corte romana o altre corti e città non si può disgiungere l’azione della santa da quella del piccolo drappello della “famiglia” spirituale che la accompagnava, primo fra tutti frate Raimondo da Capua e i segretari ai quali la donna dettava la corrispondenza. L’effettivo ritorno del papa Urbano VI, successo a Gregorio XI, nella sede romana nel gennaio del 1377 sembrò sanzionare il potere carismatico di Caterina, confermato anche dal suo soggiorno a Roma dell’anno successivo e dal tentativo di convocare per il gennaio 1379 una commissione di religiosi e uomini di santa vita che redigessero una sorta di riforma della chiesa. Se questo tentativo fallì, se il ritorno a Roma del papa fu seguito dalla elezione di un secondo pontefice di osservanza avignonese, provocando quello scisma della chiesa che riuscì a comporsi solo molti decenni dopo, nulla toglie alla complessiva eccezionalità della esperienza di Caterina. Certo non si possono attribuire alla santa senese anacronistici sentimenti di nazionalità, come fecero alcuni critici nel secolo scorso, ma è indubbio che la sua

personalità può figurare a buon diritto tra le più rappresentative della cultura italiana, sia per il valore di esemplarità della sua figura accentuato dalla precoce canonizzazione (1461), sia per la suggestione eser-

citata dai suoi scritti. Aspetto notevole di Caterina è infatti la sua attività di scrittrice. A lei si deve infatti un nutritissimo epistolario (381 lettere pervenute), alcune preghiere e soprattutto un libro di profondo interesse teologico e spirituale. La cultura di Caterina appare senza dubbio superiore a quella delle donne del suo tempo. Non ci sono dubbi sulla sua capacità di scrivere, testimoniata dalla presenza di autografi. Per la sua intensa attività scrittoria ella si avvalse tuttavia di segretari a cui dettava lettere e scritti. Anche la sua opera maggiore, il Dialogo della divina dottrina, o divina provvidenza, che la santa designava semplicemente come il Libro, venne dettato interamente in breve spazio di tempo, negli anni immediatamente precedenti la sua morte. Anche se non va disconosciuta la mediazione ecclesiastica, non c’è ragione di credere che il libro non rifletta effettivamente le parole di Caterina, dirette a quella “famiglia” spirituale così attenta a registrare, pet poi trasmettere in forma di memoria, i detti e i fatti della donna in cui si riconosceva la voce di Dio. 81

Bibliografia — P. Misciattelli (a cura di), Epistolario, voll. 6, Siena, 1913-21. di). Il dialogo della G. Cavallini ( — G. Cavallini (a cura di), I/ dialogo de divina provvidenza ovvero il libro della n CELA ; soi A o ORLO

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nati, 1982.

Angela Merici, fondatrice della Compagnia di Sant'Orsola Nata a Desenzano sul Garda tra il 1470 e il 1475 e morta a Brescia nel 1540, Angela Merici, fondatrice della Compagnia di Sant’Orsola, può considerarsi la più originale interprete delle istanze religiose e sociali del mondo femminile nel secolo xvI. Preoccupata anzitutto di fornire protezione e aiuto materiale a giovani povere o orfane, ella avverte la necessità di dare fondamenti educativi alla istituzione da lei fondata e pone le basi per la promozione dell’istruzione femminile. Di modeste origini, ma non totalmente privi di beni di fortuna, i Merici erano piccoli proprietari terrieri. Rimasta orfana in tenera età, Angela venne accolta ed allevata da uno zio che abitava a Salò. Qui la giovane donna cominciò a frequentare la chiesa dei frati francescani e assunse l'abito del terz’ordine della penitenza per potersi dedicare più agevolmente alla vita devota. Morto anche lo zio, Angela tornò a Desenzano per poi trasferirsi nel 1516 a Brescia, nella casa di una facoltosa vedova, dove fa la conoscenza di persone che iniziano a nutrire per lei speciale devozione e le saranno di aiuto nella realizzazione di quell’opera religiosa e sociale che ella deciderà di intraprendere a favore del mondo femminile. Non bisogna dimenticare infatti che i primi decenni del Cinquecento sono contrassegnati dalla grave crisi sociale e religiosa conseguente le guerre d’Italia e la prima diffusione delle idee della riforma luterana; la città di Brescia ne è particolarmente segnata, sia per la destrutturazione causata dal sacco della città sia per la attiva presenza di un gruppo religioso di ispirazione erasmiana. Per far fronte alle necessità sociali causate dalla guerra e dal diffondersi delle malattie epidemiche, alcuni cittadini bresciani, tra cui i “discepoli” della Merici, organizzano un ospedale degli Incurabili, seguendo un modello di intervento assistenziale promosso in altre città, come Genova e Roma, dalle Confraternite dette del Divino amore. A questa iniziativa Angela pare estranea. Tra il 1520 e il 1530 ella continua a vivere devotamente, portando la sua abitazione presso 82

diverse famiglie della nobiltà bresciana e continuando ad acquisire credito come donna devota dotata di speciali doni carismatici. In questo periodo ella compie diversi pellegrinaggi, accompagnata dai suoi discepoli, tra cui un viaggio in Terra Santa e uno a Roma. Invitata dalle autorità a fermarsi in città come Milano o Venezia per organizzarvi strutture assistenziali, la Merici rifiuta e torna a Brescia dove

abbandona le case nobiliari che fino a quel momento l’avevano ospitata per stabilirsi presso la chiesa di Sant'Afra, appartenente ai Canonici regolari Lateranensi dove vivrà come in una cella per il resto della sua vita. E in questo periodo che ella inizia quell’attività a favore delle giovani povere e orfane che era destinata a propagarsi con estrema rapidità e successo. Dopo aver riunito intorno a sé un gruppo di fanciulle cui forniva aiuto materiale e istruzione religiosa, Angela Merici costituisce una Compagnia spirituale dedicata a Sant'Orsola la cui caratteristica è quella di proporre un ideale monastico vissuto nel mondo. Motivi pratici e ideologici muovono questa scelta. Non tutte le ragazze che lo desiderano possono entrare in monastero perché occotre pagare una dote che limita l’accesso alle fasce sociali più elevate; l'ingresso in monastero non è in quel particolare momento storico la miglior garanzia per condurre una vita di perfezione; la consacrazione religiosa vissuta nel mondo riproduce l’ideale della chiesa primitiva dove non esistevano chiostri e clausure.

Chi entra nella Compagnia spirituale deve sottoporsi all'osservanza di una regola, ma non professa formalmente i voti monastici; deve però essere vergine, non promessa in matrimonio né impegnata a pro-

fessare in un monastero, e dopo un periodo di prova può essere “stabilizzata” nella Compagnia promettendo di conservare la condizione verginale. Le iscritte alla Compagnia continuano a vivere in famiglia e talvolta a praticare un lavoro; si riuniscono periodicamente per pregare ed istruirsi insieme; sono assistite costantemente nelle loro necessità materiali e spirituali da una struttura per così dire piramidale della Compagnia. L’istituto è a base cittadina e la compagnia è divisa in quartieri, corrispondenti alle suddivisioni territoriali della città; a capo di ogni quartiere vi è una vergine più anziana o più esperta,

detta “colonnella”, che ha un compito di controllo e guida nei confronti delle iscritte; vigilano dall’esterno sul buon andamento della compagnia alcune matrone vedove che si assumono la tutela della vergini. A capo di questa struttura sta la maestra generale eletta dalle iscritte.

La formazione religiosa è affidata ad un sacerdote designato dal vescovo. Caratteristica di questa istituzione è infatti la dipendenza 83

dall'ordinario diocesano e non da un ordine religioso come il più antico istituto delle terziarie che nel primo Cinquecento attraversa una fase di crisi in parte dovuta al disorientamento e alle defezioni apertesi nel mondo dei religiosi per l’adesione di molti di questi alle idee protestanti. L’istituto è ordinato da una Regola composta tra il 1532 e il 1535,

approvata dal vescovo locale nel 1536 e successivamente confermata dal pontefice. Precisano finalità e modalità di vita dell’istituto due importanti scritti dettati da Angela Merici, insieme alla regola, al segretario Gabriele Cozzano: i Ricordi indirizzati alle colonnelle e il Testamento o Legati, rivolto alle gentildonne vedove governatrici della Compagnia. Ciò che contraddistingue questi scritti è la preoccupazione educativa, l’ansia della fondatrice di comunicare alle sue collaboratrici un metodo per accostarsi alle giovani iscritte alla compagnia,

metodo direttamente ispirato all'educazione materna. Questi scritti sono stati a ragione classificati come pedagogici, quanto potevano esserlo in un periodo non ancora contrassegnato dalla sistematizzazione delle idee educative. Inizialmente destinato a giovani povere e finalizzato soprattutto alla formazione morale e spirituale, l'istituto delle Orsoline era destinato a trasformarsi nel periodo post-tridentino. Sostenuta da Carlo Borromeo che ne riformò le regole e lo introdusse nella propria diocesi, la Compagnia di Sant'Orsola trovò diffusione in diverse città dell’Italia padana. Tra la fine del ’500 e l’inizio del 600 mutò la base sociale del reclutamento: anche giovani nobili si iscrissero alla Compagnia. Vennero costituiti anche collegi di orsoline, dove le vergini vivevano insieme dedicandosi all’educazione delle fanciulle. Trasportato in Francia, l’istituto assunse per lo più la caratterizzazione claustrale trasformandosi in ordine religioso, che mantenne però una finalità educativa nei confronti delle fanciulle. In sintesi, sorta come

istituzione spirituale e assistenziale sorretta da una forte pulsione educativa, la Compagnia di Sant'Orsola si trasformò, anche per impulso dell’analogo fenomeno che investiva il mondo maschile attraverso l’azione della Compagnia di Gesù, in un istituto religioso insegnante. Nel Sei e Settecento il termine orsolina si identificò con quello di maestra. Un’attenzione speciale venne sempre riservata alle giovani povere, per cui si organizzarono scuole esterne da parte delle Orsoline congregate (e in Francia anche dalle monache). Si aprirono poi educandati interni ai collegi dove soggiornavano nobili e ricche borghesi per ricevere un'istruzione adeguata al loro rango sociale. Nella duplice forma di Compagnia laicale le cui iscritte continuavano a vivere in famiglia o istituivano dei collegi, le orsoline pos84

sono dirsi all’avanguardia di un processo di emancipazione della condizione femminile. Attraverso questo istituto il nubilato, considerato fino alla fine del secolo xvI condizione pericolosa e sospetta, venne socialmente legittimato esaltando la proficuità dell’azione svolta dalle giovani orsoline nei confronti della famiglia e della parrocchia. Anche l’opera di istruzione femminile cui si dedicarono i collegi rimase per lungo tempo l’unica forma di educazione delle fanciulle povere della città per cui non erano previste scuole pubbliche. Fiorente fino al secolo xvm, alla fine del Settecento e durante

il periodo napoleonico molti istituti vennero soppressi per essere sostituiti con educandati promossi da istituzioni pubbliche. Ma la vitalità dell'istituzione si mostrò nel secondo Ottocento, quando vennero fondati istituti diocesani che si ispiravano alle finalità della Compagnia di Sant'Orsola e che in seguito ne assunsero le regole, dando vita successivamente ad una federazione con sede a Roma. Bibliografia — L. Mariani, E. Tarolli, M. Seynaeve, Angela Merici. Contributo per una biografia, Milano, L’Ancora, 1986. Il testo riproduce anche gli scritti attti-

monio delle vergini nel secolo xVI, in “Rivista di storia e letteratura religiosa”, XXIX, 1993, pp. 527-554. _ ‘T. Leddchowska e n Oroteta

buiti ad Angela Merici: la Regola, il Testamento e i Legati. — G. Zarri, Orsola e Caterina. Il matri-

“Dizionario degli Istituti di Perfezione”, VI, Roma, Edizioni Paoline, 1980, colonne 834-857.

Francesca Cabrini, patrona degli emigranti Una donna che tutte le testimonianze ci descrivono esile e gracile e che è raffigurata nel ritratto con uno sguardo penetrante e vivace può ben essere assunta come figura esemplare del coraggio, della forza morale e dello spirito di imprenditorialità che contraddistingue diverse delle fondatrici di congregazioni religiose nel secolo xx. Francesca nacque nel 1850 a Sant'Angelo Lodigiano, ultima di tredici fratelli, morti in gran parte in tenera età. Il padre Francesco Cabrini era cugino di quell’Agostino De Pretis che divenne primo ministro del regno d’Italia. La madre, Stella Oldini, apparteneva a famiglia profondamente religiosa. Figlia di agricoltori possidenti, Francesca poté studiare e divenne maestra. Rimasta orfana a vent'anni, insegnò a Vidardo dal 1872 al 1874, ma preferì votarsi alla vita religiosa. Nel 1874 entrò a far parte di una istituzione da poco fondata a Codogno, le Sorelle della provvidenza, nella cui casa venivano raccolte pic85

cole orfane. Nel 1880 tuttavia la comunità venne sciolta, né del resto

questo tipo di istituto rispondeva alle aspirazioni di Francesca che desiderava divenire missionaria. In quel tempo però non vi erano congregazioni religiose di missionarie e il vescovo di Lodi, che aveva dapprima voluto la Cabrini impegnata nell’opera delle Sorelle della provvidenza, le suggerì di fondare un nuovo istituto. Senza esitare, lo stesso anno la Cabrini e sette compagne che venivano dalla medesima esperienza religiosa fondarono l’Istituto delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù. Si dedicarono ancora inizialmente all'assistenza delle orfane e alle opere parrocchiali, ma nelle costituzioni dell’Istituto, redatte dalla Cabrini e approvate dal vescovo di Lodi, si faceva esplicita menzione della finalità missionaria della nuova comunità religiosa che si proponeva di lavorare al bene delle anime anche nei paesi che non professavano la religione cristiana. Aspirazione ultima della giovane suora era recarsi in Cina. Rifiutò a questo scopo numerose

proposte di fondazioni locali e nel 1887 aprì a Roma la casa centrale dell'Istituto, ricevendone l’anno seguente l'approvazione pontificia. Fu nel 1888 che il vescovo di Piacenza, mons. Giovanni Scalabrini la invitò, anche a nome dell’arcivescovo di New York, a recarsi negli Stati Uniti a svolgere la sua azione missionaria a favore degli

emigranti italiani. La Cabrini fece resistenza: non voleva rinunciare al suo proposito di evangelizzazione dell'Oriente; ma perfino il pontefice Leone XIII intervenne per indirizzarla verso questa nuova e impellente forma di apostolato sociale. La piccola suora non ebbe più esitazioni e in quindici giorni organizzò il suo primo viaggio oltre oceano. Giunse a New York il 31 marzo 1889. La condizione di povertà e di disagio in cui versava la comunità italiana in America ci viene descritta con partecipazione nei resoconti

di viaggio e nelle lettere che la Cabrini ha lasciato. Un vasto campo di azione missionaria e sociale si schiudeva agli occhi delle poche sorelle che l’accompagnavano. Contrariamente al previsto, l'arcivescovo di New York prestò scarso aiuto alla nuova comunità. Ci vollero determinazione e spirito di intraprendenza per poter dar inizio a una fondazione. Inizialmente le suore vissero in un alloggio di fortuna, ma non rinunciarono fin dai primi mesi del loro arrivo ad accogliere orfane nella loro casa e ad aprire una scuola per le figlie degli emigranti. Quel piccolo gruppo di modeste suore cominciò ad essere notato. Un giornale locale, il New York Sun, scriveva il 30 giugno 1889: «Nelle ultime settimane, donne di carnagione scura nelle vesti di suore della carità, hanno percorso i quartieri italiani del Bend e della piccola Italia, arrampicandosi per irte, strette scalinate, scendendo in sporchi scantinati e in caverne dove persino un poliziotto di New York non si 86

azzarderebbe a entrare senza assistenza». La motivazione religiosa che ispirava il proposito missionario delle piccole sorelle si accompagnava a un altrettanto profondo impegno sociale. Così infatti la Cabrini descriveva a un cronista la sua missione: «Il nostro proposito è di salvare gli orfani italiani di questa città dalla miseria e dai pericoli che li minacciano, per farli diventare buoni cittadini». Per questo motivo nelle sue scuole l'insegnamento della lingua inglese o altra lingua locale, che consentiva almeno ai giovani figli degli emigranti di aspirare ad una integrazione nel paese che li ospitava, ebbe sempre un posto di primaria importanza. Sarà interessante notare che quando ormai l’Istituto delle Missionarie del Sacro Cuore si era da tempo consolidato e le fondazioni della Cabrini si erano moltiplicate in entrambe le Americhe, allargando anche all’assistenza degli ammalati il campo di azione, la intraprendente e sensibile suora dovette rispondere a un’accusa di scarsa “italianità” da parte del Commissario Generale per l’Emigrazione, sfavorevolmente informato sul sistema educativo dell’orfanotrofio di New Orleans che non avrebbe sufficientemente istillato l’amor di patria nei giovani italiani all’estero. La risposta della Cabrini, in data 13 maggio 1910, appare ferma e determinata nel proposito di fornire innanzi tutto agli emigranti gli strumenti essenziali per poter uscire dallo stato di isolamento e ghettizzazione che la condizione di povertà, sfruttamento e inadeguatezza culturale rendevano arduo superare: «Riguardo all’istruzione, è certo che essa deve essere data nella lingua del paese ospitante e l’italiano deve essere insegnato come materia secondaria. Ciò per venire incontro alle necessità dei bambini, che hanno da guadagnarsi il pane nel paese di adozione, nel quale i loro genitori li hanno portati». Scuole e ospedali furono le prime opere promosse dalla missionaria nelle città in cui venne invitata a stanziarsi. Le fondazioni si susseguirono con estrema rapidità tanto nelle Americhe quanto in Europa. Dopo New York, dove suor Francesca iniziò per gli emigrati italiani il Columbus Hospital, destinato a divenire un centro competitivo con le strutture sanitarie locali, una seconda casa venne aperta in Nicaragua, una terza a New Orleans. Seguirono poi fondazioni a Rio de Janeiro, Buenos Aires, Denver in Colorado e Chicago. In tutti questi luoghi le suore missionarie rivolgevano la loro attività evangelizzatrice “a tutti, senza aver riguardo a nazionalità”, ma agli italiani riservavano le maggiori attenzioni e cure. A Denver, zona mineraria, le suore giungevano al punto di seguire i minatori nel sottosuolo per portare loro parole di conforto e istruirli nella fede. Certamente esse potevano compiere opere di alto significato sociale, realizzando nell’ambito locale quell’impegno politico ancora precluso alle donne 87

e ormai largamente rivendicato dai movimenti suffragisti. Una lettera inviata nel 1906 da Chicago alle alunne di Magistero Superiore testimonia la consapevolezza politica della Cabrini che, pur sapendo di agire in direzione diversa dalle posizioni dei movimenti emancipazionistici, pare collocare l’azione del suo istituto all’interno di uno specifico ruolo politico delle donne: «Vi assicuro intanto che mi è di sommo conforto il constatare nel mio giro delle nostre missioni il bene che si fa dalle nostre istituzioni a favore degli emigrati. Quello che per la nostra condizione di donne non ci è lecito fare su ampia scala, aiutando a risolvere importanti problemi sociali, nella nostra

piccola sfera si fa in ogni Stato, in ogni città dove sono aperte le nostre case». Nel febbrile lavoro di impiantazione e consolidamento delle diverse fondazioni nel continente americano, la Cabrini non dimentica il vecchio mondo. Case delle Missionarie del Sacro Cuore vengono aperte anche a Madrid, Londra e Parigi. La madre fondatrice si divide tra le due sponde dell’oceano. Tra il 1889 e il 1912 compie ventiquattro viaggi in mare. L'Istituto riceve la definitiva approvazione pontificia nel 1907 e pochi anni dopo si tiene il primo capitolo generale delle suore che eleggono la Cabrini superiora generale a vita. Tornata nel 1912 negli Stati Uniti, la missionaria degli emigranti muore a Chicago nel 1917. La fama dell’istituto promosso dalla piccola suora e la venerazione verso la sua persona inducono le autorità ecclesiastiche a promuoverne la causa di beatificazione a soli vent’anni dalla morte, derogando dalla regola che richiede un intervallo di cinquant’anni dal decesso prima di iniziare le procedure per il riconoscimento del culto. Proclamata beata nel 1938, Francesca Cabrini diviene santa nel 1946. Quattro anni dopo lo stesso Pio XII che l'aveva canonizzata la proclama “Celeste Patrona di tutti gli Emigranti”. Bibliografia — I. Cipolla (a cura di), Tra un'onda e l’altra. Viaggi di Francesca Saverio Cabrini, Roma, Centro cabriniano,

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88

tolica”, 119, 11, 1968, pp. 555-564.

Donne

e scienza

di C. Pancino

Il mondo della scienza occidentale è stato fin dalla sua nascita un mondo maschile, e a tutt'oggi, nonostante le profonde trasformazioni nel rapporto fra i sessi e imutamenti avvenuti nel mondo scientifico, le presenze femminili rappresentano nelle istituzioni scientifiche se non ancora un’eccezione, sicuramente una minoranza, tanto che quello della scienza è stato talora definito un “mondo senza donne”. Le donne sono state infatti tradizionalmente assenti dal mondo della scienza e questa assenza rappresenta sicuramente uno dei grandi limiti della scienza moderna occidentale, e ne ha altrettanto sicuramente caratterizzato anche il ruolo centrale nel processo di modernizzazione che ha portato alla rivoluzione industriale del diciottesimo secolo ed al capitalismo. I perché dell’assenza delle donne dal mondo scientifico vanno ricercati innanzitutto nella storia dell'origine della scienza moderna; le donne furono infatti assenti — o escluse — nel periodo di gestazione della scienza moderna, così come nella rivoluzione scientifica del Seicento e nel successivo evolversi della storia del pensiero scientifico. Infatti, si può sì pensare che la storia della scienza sarebbe andata in un modo molto diverso se ad essa avessero partecipato congiuntamente i due sessi, ma è altrettanto vero che l'assenza delle donne non è stata un fatto casuale, ed è anzi strettamente connessa con la

nascita e l’evoluzione del nostro sistema scientifico. Innanzitutto la condizione femminile nella storia e l’organizzazione sociale del sapere non hanno permesso la partecipazione al mondo scientifico che a un manipolo di donne eccezionali o di eccezionale condizione, per un semplice motivo di segregazione e rigidità dei ruoli sessuali che hanno caratterizzato le diverse organizzazioni del vivere sociale succedutesi sulla scena della storia delle società occidentali. Così, la particolarità della vita dedicata alla ricerca scientifica e allo studio non poteva che essere appannaggio del sesso maschile, o meglio, non poteva che manifestarsi nei tempi di vita quoti89

diana di persone benestanti di sesso maschile sottoposte a ritmi, biologici innanzitutto, ben diversi da quelli delle donne dello stesso ceto sociale di appartenenza, uomini dunque che occupavano spazi sociali, ma anche fisici — i luoghi della cultura erano perlopiù maschili — ben diversi da quelli destinati alle donne. Si può quindi supporre che nei secoli xvI-xvII, in quel periodo cioè della storia della cultura europea che è stato definito “rivoluzione scientifica”, generalmente le donne non potessero accedere agli strumenti di formazione del sapere scientifico, e che fosse loro preclusa quella possibilità di sperimentare e comunicare necessaria ad ogni progetto scientifico.

Ma riflettendo sul ruolo sociale delle donne nei secoli del definirsi della scienza moderna si spiega però un’esclusione delle donne da un luogo sociale, quello scientifico in questo caso, in modo non dissimile dalla loro estraneità ad altri luoghi sociali. In realtà la caratterizzazione al maschile della scienza moderna è intrinseca al suo statuto epistemologico, ai suoi ideali e alla sua ragion d’essere. Basta infatti pensare al concetto di “razionalità” che ha caratterizzato dall’inizio del Seicento le ricerche scientifiche, e quindi la definizione stessa di scienza moderna, per comprendere che quell’idea, di razionalità e di scienza, era prodotto di una forma di pensiero che non apparteneva alle donne, ma piuttosto le respingeva. Il concetto di razionalità, infatti, non poteva che escludere a priori

le donne le quali, in base alle teorie antiche, erano ancora considerate esattamente il contrario della razionalità. A causa del loro temperamento caldo e umido — secondo la teoria umorale — le donne sono “naturalmente” emotive e sensibili, incostanti e delicate, stret-

tamente legate ai ritmi della loro sessualità, e quindi irrazionali. In base a quella forma di pensiero, le donne piuttosto parevano naturalmente e strettamente legate all'oggetto della scienza e cioè alla natura, e a tutto quanto la scienza si proponeva di ordinare e siste-

matizzare: il disordine degli elementi, gli eventi incontrollabili e.i fenomeni inspiegabili. Di quel mondo le donne facevano parte integrante e non avrebbero quindi potuto in alcun modo venir associate al ruolo ordinatore e disciplinante attraverso il quale gli scienziati si autodefinivano e definivano la loro attività. Inoltre, il ruolo attivo nella creazione della vita, che fu e continua a essere uno dei miraggi della scienza occidentale, se è stato spesso visto come un tentativo di sostituirsi dell’uomo-scienziato alla divinità creatrice — e quindi il segno del sottrarsi della scienza al mondo della teologia — può essere altrimenti, e parallelamente, interpretato come una modalità maschile di appropriarsi, attraverso appunto la scienza e la tecnica, del potere femminile di dare la vita. E certamente il desiderio e la volontà di 90

modificare l'ordine naturale, la tensione verso un costante progresso nel rapporto fra gli uomini e le forze della natura sono alternative a un ruolo sessuale e sociale, quello femminile, fortemente determinato dalla maternità e quindi dalla possibilità di partecipare alla creazione di forme di vita in perfetto accordo con le leggi della natura. Bisogna inoltre tener presente il contesto in cui si andarono sviluppando gli embrioni della scienza moderna: una cultura cristiana fortemente determinata da una gerarchia ecclesiastica esclusivamente maschile che deteneva il monopolio dei luoghi della cultura dotta, in particolare nelle accademie e nelle università. Senza voler vedere in questo necessariamente una filiazione della scienza moderna dalla cultura ecclesiastica della cristianità latina — come tuttavia è stato talora sostenuto — sicuramente però quella contestualizzazione, cristiana e maschile, non fu ininfluente ed ebbe invece il suo peso nell'origine e nella successiva evoluzione di una scienza in cui le presenze femminili sarebbero per secoli state sporadiche ed eccezionali. Nonostante tutto questo non si deve comunque escludere che le donne siano sempre state estranee alla cultura dotta dell’occidente; da studi recenti pare addirittura plausibile supporre che nel primo millennio dell’era cristiana il loro ruolo fosse — almeno nei ceti elevati — sensibilmente diverso, che fosse cioè caratterizzato da maggiore presenza e considerazione, e che esistesse una minore rigidità

nella selezione per sesso dell’accesso alla cultura, in rapporto a quanto si sarebbe poi verificato. Tuttavia è anche da rilevare che l'assenza delle donne non ha solo caratterizzato l'origine della scienza; infatti lo sviluppo del pensiero scientifico moderno — che si vorrebbe razionale ed obiettivo — non è esente dall’essere stato condizionato da una presenza quasi esclusivamente maschile, che ne ha influenzato ben oltre il periodo della “rivoluzione scientifica” metodi e linguaggi, categorie interpretative e ambiti di indagine. Tutto questo è stato solo recentemente visto come una particolare “curiosità” dell’occidente che ha ospitato in un settore così pregnante nella storia di una civiltà solo metà del genere umano che ne faceva parte: da ciò risulterebbe la particolare “stranezza” di questa cultura scientifica, basata su una sostanziale limitazione fin dalle sue origini. Non si tratta quindi solo dei presupposti culturali, primo fra tutti il concetto di razionalità, ad essere il segno, e la causa, dell’assenza

delle donne, ma a quella segregazione originaria possono essere fatti risalire prima ancora che gli obiettivi, molte questioni scientifiche legate a scelte metodologiche. Basti pensare ad esempio alla rigida separazione fra oggetto e soggetto, alla priorità dell’oggettivo sul sogget4

ZARRI, La memoria di lei

91

tivo e dell’astratto sul concreto, ma anche alla sostanziale conflittualità fra impegno scientifico-professionale e vita affettiva e familiare. Non solo, l’immagine della donna nei diversi momenti della storia, nonché il ruolo socialmente attribuitole, hanno fortemente deter-

minato forme di pensiero e teorie, come è ad esempio evidente in quel settore emblematico della storia del pensiero filosofico e scientifico che sono le teorie della generazione. Quel tentativo plurisecolare, e affascinante, di spiegare il formarsi della vita, non poteva che essere maschile, perché tutt’altri sono stati i modi e i luoghi in cui le donne hanno accumulato esperienza e conoscenza relative alla generazione: il vissuto quotidiano di gravidanza e parto, le conoscenze relative al corpo ottenute grazie alla esperienza personale dei propri cicli vitali e alla pratica di compiti di cura, la trasmissione orale della conoscenza, ma anche forme di sapere e di sentire estranee alla sistemazione scientifica e strettamente legate alla fisicità della vita e delle relazioni. Fra queste basti pensare alla quantità di piccoli riti quotidiani, a cavallo fra il religioso e il magico, alla sapienza delle fiabe e dei racconti popolari, ai giochi, al linguaggio gestuale e alle grandi capacità manuali che venivano messe a servizio della terapia e della creazione di cibi, di oggetti di consumo e d’uso necessari alla vita familiare, o destinati a rendere accogliente l’ambiente in cui si nasceva, si cresceva e si moriva, si mangiava, si lavorava e si dormiva.

Rimangono pertanto da indagare, né sarà facile il compito, non solo le tracce di presenze femminili concrete nella storia della scienza, ma piuttosto quanto la presenza concreta delle donne nelle società di cui gli scienziati facevano parte, e l’immagine del femminile dominante in quelle società, abbiano comunque influenzato il cammino della scienza. E questo si dovrà fare tenendo presente che in ogni caso il percorso della scienza non è mai stato così lineare e conseguente come una certa visione positivista continua a proporre, come

sta per esempio ad indicare il fatto che la magia e la scienza non sono sempre stati due mondi così distanti e separati come oggi si potrebbe credere. Quindi, allora, alcune forme di sapere femminile “irrazionale” hanno forse avuto un tempo qualche spazio in comune con il

sapere degli scienziati. All’interno di un panorama generale non è da tralasciare qualche considerazione sul fatto che l’organizzazione delle scienze come oggi la conosciamo è solo il risultato di un lungo percorso e che la separazione fra le scienze, il rapporto fra teoria e pratica, la distinzione dei ruoli e delle competenze relativi ad una determinata area disciplinare, o ambito di conoscenza, sono profondamente mutati nel tempo. In una diversa organizzazione sociale delle conoscenze e delle 92

competenze talvolta le donne hanno allora potuto godere di un ruolo di un certo rilievo. E questo il caso delle scienze mediche che hanno visto per secoli donne nel ruolo di curatrici nei villaggi e presso ceti più bassi della popolazione, accanto ai medici che mettevano più spesso il loro sapere al servizio dei ceti più abbienti e delle malattie più gravi. Spesso illetterate, ma con molta esperienza pratica e con un grosso

bagaglio di conoscenze empiriche, riguardanti soprattutto l’uso delle mani e l’utilizzo di minerali e di piante medicinali, le guaritrici furono talvolta tenute in gran considerazione da illustri medici del passato che, da Ippocrate in poi, riconobbero di essere in debito con delle donne per molte osservazioni e indicazioni diagnostiche o terapeutiche. Con l’organizzazione che, soprattutto a partire dal Seicento, si diede la scienza medica quel tipo di riconoscimento e di collaborazione tese a scomparire, a favore di una più “moderna” organizzazione del curriculum formativo dei terapeuti e della gerarchia dei ruoli professionali sanitari. In questo senso esemplare è la storia dell’assistenza al parto che, tradizionalmente femminile, aveva dato luogo nei secoli a un vero e proprio mestiere, quello della levatrice, regolamentato in vario modo dalle autorità civili ed ecclesiastiche, ma estraneo fino al Sei-Settecen-

to, agli interessi dei medici e delle istituzioni che garantivano il loro sapere e i loro ruoli professionali. Le levatrici, spesso illetterate, sapevano probabilmente far andare a buon fine un parto naturale, mentre i medici-scienziati che avevano sicuramente maggiori conoscenze riguardo all’anatomia e alla fisiologia non conoscevano le tecniche di assistenza ostetrica, e non assistevano infatti le partorienti. Quando a partire da fine Seicento in Francia, e poco dopo in altri stati europei, la medicina scientifica riconobbe l’ostetricia come parte delle sue competenze, medici e chirurghi-ostetrici vollero appropriarsi del mestiere delle levatrici relegandole in un ruolo subalterno, e soprattutto delegittimando il loro sapere, “irrazionale” e non “scientifico”, contrapponendovi un curriculum formativo più “moderno”. Quel cambiamento che provocò conflitti di vario tipo, culturali e sociali in primo luogo, e poi di interessi professionali, ebbe come effetto di lungo periodo quella che sarà poi definita “medicalizzazione del parto”, e come effetto immediato non migliorò le condizioni di assistenza al parto — ché anzi alcune ricerche starebbero ad indicare un’aumentata mortalità e morbilità da parto a causa dell’utilizzo crescente di strumenti ostetrici — e creò soprattutto una profonda cesura fra sapere femminile e ostetricia medica e maschile. Le ricerche condotte sul tema delle donne nella scienza, soprattutto nell’ambito degli studi femministi degli ultimi decenni, oltre 93

ad affrontare i grandi quesiti relativi all'assenza di donne dalla scena del mondo scientifico fino all’alba dei nostri giorni, non hanno tuttavia tralasciato di mettere in risalto figure femminili a volte dimenticate, che hanno offerto un contributo diretto alla storia del pensiero scientifico: matematiche, fisiche, astronome, biologhe, etc. Come diceva già nel 1600 Lucrezia Marinella, «Credono alcuni poco pratici dell’historie, e non vi sieno state, e sieno donne nelle scienze perite, et dotte. E questo appresso loro pare impossibile, né si possono ciò dare ad intendere, anchor che lo vedono e odono tutto il

giorno: persuadendosi che Giove habbia dato l'ingegno, e l’intelletto a maschi solamente, lasciandone le donne ancorché della medesima specie prive. Ma se quelle hanno la medesima anima ragionevole, che ha l’homo... e anco più nobile: perché ancho più perfettamente non possono imparare le medesime arti, e scienze le quali imparano gli huomini? Anzi quelle poche, che alla dottrine attendono, divengono tanto nelle scienze ornate, che gli huomini nelle scienze le invidiano, e le odiano come sogliono odiare i minori i maggiori». Lucrezia così introduceva cinque fitte pagine di nomi ed opere di donne che si erano fatte onore nelle scienze. Delle donne citate da Lucrezia Marinella, poco si sa relativamente alla biografia, ma dalla ricostruzione della vita di altre studiose, più vicine nel tempo o comunque più note, si può dedurre che luoghi o condizioni particolari resero talora possibile l’accesso femminile al mondo della scienza. L'appartenenza a ceti elevati innanzitutto fu sempre la precondizione necessaria, oltre a questo il clima intellettuale della famiglia, come fu sicuramente il caso di Lucrezia Marinella, figlia del celebre medico Giovanni Marinello. Per altre fu il monastero il luogo che, ben prima delle università e delle accademie, diede la possibilità di dedicare buona parte della propria vita allo studio. Altre volte la vicinanza di un marito già introdotto nel mondo scientifico divenne l’occasione per la donna di accedere a una carriera eccezionale. Ma spesso la volontà personale fu la condizione determinante, e come nel caso di Marie Curie, la vicinanza di un marito scienziato fu solo il corollario di una situazione che già si era determinata. Quello che accomuna le scienziate del passato sono quasi sempre le grandi difficoltà affrontate con coraggio e volontà, per accedere a un mondo prima ancora che ad un’attività che alle donne erano generalmente precluse. Si tratta quindi di storie di grandi fatiche, di conflitti e sfide, delusioni e frustrazioni, superate grazie all’intelligenza e alla determinazione di voler mettere le proprie capacità e le proprie energie nella ricerca scientifica, a fianco degli scienziati. 94

Oltre a questo nella biografia e nell’opera di alcune scienziate è percepibile un particolare modo femminile di partecipare al mondo della scienza: l’intreccio fra vita familiare e attività scientifica in Marie Curie, il particolarissimo linguaggio — affettivo e poetico — dei testi medici di Ildegarda da Bingen, come invece sarà per altre la scelta dei campi d’indagine, e le modalità stesse della ricerca.

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Ildegarda da Bingen, mistica e terapeuta Decima figlia di una nobile famiglia renana, Ildegarda (1098-1177) entra in convento a otto anni sotto la direzione di Jutta von Sponheim, nel monastero di Disibondenberg dove quindicenne prenderà il velo. Quando Jutta morirà, sarà Ildegarda, ormai trentottenne, a

prendere in qualità di badessa, la direzione del convento. Ildegarda fonderà poi un nuovo monastero a Rupertsberg, vicino a Bingen, e vi si trasferirà con le sue consorelle, non senza essersi scontrata con

il parere dei suoi superiori. Un altro monastero fu da lei fondato nel 1165 a Eibingen. Personalità complessa e dotata di un carattere molto sensibile, di salute incerta e sofferente per la sua instabilità emotiva, fin dai sette anni Ildegarda viene turbata da visioni che l’accompagneranno durante tutta la vita, ma di cui lei parlerà solo dopo essere stata nominata badessa. Le visioni, che spaventarono Ildegarda bambina, le apparvero dapprima in forma di luce e con l’andar del tempo in forma sempre più articolata: «vedo una luce non delimitata nello spazio senza 95

misura, più splendente di una nuvola quando questa avvolge il sole. Come il sole e le stelle si specchiano nell’acqua, così le parole scritte e dette, tutto, io vedo prender forma in quella luce splendente e conservo la memoria delle cose apprese nella visione». Viaggiò molto in Germania e in Francia; famosa già durante la sua vita per le sue visioni e le sue doti profetiche, oltre che per le sue capacità terapeutiche, l’intelligente e colta Ildegarda fu una donna che si sentiva priva di certezze: «Dio non ha mai permesso che io vivessi in tranquilla sicurezza».

Nelle molte opere che ha lasciato, la scrittura di Ildegarda risente fortemente della sua personalità e delle sue emozioni: è una scrittura poetica non solo negli scritti mistici o lirici, ché il suo linguaggio non varia a seconda delle materie trattate. Sebbene riconosciuta dalla critica essenzialmente come mistica,

sempre più negli ultimi anni è stato messo in luce anche il suo particolare modo di essere donna di scienza e terapeuta, così come appare essenzialmente dai suoi scritti medici. Tre sono i libri che Ildegarda dedica alle sue visioni: Scivias, Liber vitae meritorum, Liber divino-

rum operum. Altri scritti Ildegarda dedica alla composizione poetica, canti, poesie, inni liturgici, un dramma.

i

Alcuni studi sono quelli sulla vita di alcuni santi, una spiegazione dei Vangeli, un trattato contro i Catari. Un testo molto particolare è il dizionario, Lingua ignota, la lingua da lei inventata e usata con le altre monache. Ma forse più eccezionale per una monaca è la sua produzione scientifica. Scrive di botanica e astronomia, biologia e scienze naturali, ma è soprattutto nella cura del corpo umano che sembra catturata la sua curiosità intellettuale. E nel Subtlitatis diversarum naturarura libri novem che Ildegarda si occupa di medicina rimedi e terapie; l’opera è divisa in due parti, il Liber simzplicis medicinae, e il Liber compositae medicinae, più noto come Causae et curae. Gli argomenti sono le erbe medicinali, i semplici, le proprietà terapeutiche di vegetali e minerali, i rimedi per varie malattie e poi, soprattutto nella seconda parte, sono trattati molti temi della medicina del tempo, dalle teorie sul microcosmo umano, alla descrizione di malatUSIEICOrE:

Prescindendo, per quanto possibile, dal misticismo e dal pensiero teologico di Ildegarda, e soffermandosi sui suoi scritti medici, si osserva che da una parte il suo modo di pensare è fortemente legato alla scienza antica e si tratta quindi di un fenomeno appartenente all’ambiente medievale — non discostandosi le affermazioni di Ildegarda sostanzialmente dalla scienza del tempo — d’altro canto è la sua particolarissima interpretazione di quelle conoscenze a farne un 96

fenomeno assolutamente atipico. In verità particolare è la sua interpretazione di molte altre cose, ad esempio la valorizzazione del corpo e della bellezza, sicuramente non condivisa dai teologi e dagli ecclesiastici del suo tempo, che vi ravvisavano piuttosto prossimità di peccato. Al contrario Ildegarda — sfidando lo scandalo — agghindava le sue sorelle con abiti bianchi, ornamenti e gioielli perché anche così, nella loro bellezza, esprimessero l’amore per lo sposo celeste. Il suo pensiero scientifico è fortemente influenzato da quel neopolatonismo che cercava di accordare il Tizzeo di Platone con le sacre scritture, ed è quindi a quel filone di pensiero che vanno ricondotte le molte disquisizioni di Ildegarda sui rapporti fra cosmo e microcosmo. Ildegarda — che non sempre distingue fra eventi fisici, verità morali ed esperienze mistiche — sebbene mostri grande familiarità con i temi ricorrenti della scienza medievale, sempre li interpreta in modo del tutto personale e dimostra grandi capacità di descrivere i fenomeni che osserva. Ildegarda affermava di non dovere la sua notevole cultura alla modesta educazione ricevuta, ma di aver avuto dalle visioni buona parte della sua scienza, per quanto riguarda poi le conoscenze relative alla pratica terapeutica, si sa che apparteneva già a quel tempo alla cultura monastica la conoscenza delle erbe medicinali e dei semplici, soprattutto nella regola benedettina a cui Ildegarda apparteneva, e che prevedeva inoltre che monaci e monache si dedicassero alla cura degli infermi. Quel tipo di contatto con la gente, oltre a fornire la possibilità di praticare la medicina, era probabilmente un privilegiato canale di passaggio di conoscenze terapeutiche provenienti dalla cultura popolare dei luoghi in cui Ildegarda visse. Ed è probabilmente nei contatti quotidiani con le donne che si rivolgevano a lei per riceverne consigli e cure, che la badessa mette a punto il suo originale pensiero sulla sessualità femminile e sui problemi legati alla generazione. Nei suoi scritti medici viene sottolineata l'influenza dell’ambiente sul regizzen sanitatis e la continua necessità di quella moderazione (discretio) che deve far da guida alla tutela della salute. Fra i temi che più le furono cari si trovano la nascita e la morte, ma non mancano indicazioni per malattie comuni — come la gotta di cui soffrivano i ceti più abbienti che consumavano grandi quantità di carni — per la cura delle ferite, per i salassi... Nel Causae et curae, il suo testo medico per eccellenza, la cosa più sorprendente è che Ildegarda, monaca del Medioevo, afferma costantemente la inscindibilità della tematica affettiva da quella medico-fisica per tutto quel che riguarda la generazione, ricordando in questo il pensiero di Sorano, che non aveva certo avuto molto seguito con le sue teorie “psicologiche” su DI

sessualità e riproduzione. Ildegarda inoltre dà un valore altamente

positivo alla sessualità, all'amore fisico ed all’unione coniugale (l’af-

fetto dei due sposi è una variabile fondamentale nel processo del concepimento). In quel contesto, come in tutto il discorso della generazione, non esiste una gerarchia dei sessi, ma una complementarietà dei due generi, fra cui non esiste supremazia ma “servizio” e scambio: «la donna plasmata dalla carne e dal sangue, e non dal fango come il maschio, possiede una scienza che mette al servizio del suo compagno che si rivolge a lei per riceverne le cure». I ruoli e le interpretazioni note sembrano a volte ribaltati, a conferma dell’eccezionale laicità del pensiero di Ildegarda. Di Ildegarda da Bingen vanno ancora ricordate le capacità di amministrare il suo monastero in grande autonomia, affrontando o aggirando con grande abilità politica contrasti e dissensi con la gerarchia ecclesiastica o con le autorità secolari. Le numerose lettere indirizzate ad autorevoli superiori ecclesiastici, così come ai potenti d’Europa, sono la testimonianza del suo essere anche, in qualche modo, una donna che sapeva ben districarsi nel mondo del potere. Bibliografia

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LOO26

— M. Fumagalli, Beonio, Brocchieri, In

Anna Morandi Manzolini, maestra in ceroplastica anatomica Bolognese, Anna Morandi (nata nel 1716) viene educata allo studio del disegno e della scultura, abilità che le renderanno poi possibile di accedere a quella specialità settecentesca che la renderà celebre: la ceroplastica anatomica. Conosce e sposa a 24 anni Giovanni Manzolini, disegnatore e pittore, da cui avrà due figli, Giuseppe e Carlo. Giovanni Manzolini, buon conoscitore dell'anatomia umana, diverrà due anni dopo il matrimonio collaboratore di Ercole Lelli, 98

celebre autore di sculture anatomiche. Sculture in cera, in creta, ed

in altro materiale, rappresentavano il corpo umano o, più spesso, alcune sue parti, e servivano per le dimostrazioni che venivano offerte agli studenti in medicina, ed alle allieve levatrici. L'insegnamento dell'anatomia si avvaleva infatti, soprattutto nello Stato pontificio di macchine e manichini che rappresentavano il corpo umano e che, come disse il chirurgo bolognese Gian Antonio Galli, “imitando le belle operazioni della natura vanno arrecando non piccol vantaggio all'umanità”. A questo scopo si produsse in Italia nel corso del xv secolo una ricca collezione di pezzi osteologici, e di parti anatomiche conservate nell’alcool, ma soprattutto si sviluppò appunto presso artisti e scultori lo studio dell’anatomia e la sua applicazione alle arti figurative per espressa finalità scientifica. In questo tipo di attività dunque Giovanni Manzolini si trova a lavorare a fianco di Lelli a cui era stata commissionata da Benedetto XIV una serie di sculture anatomiche. Ma, rotto il sodalizio, il Manzolini si ritira a lavorare nella propria abitazione, dove inizia a poco a poco la collaborazione della moglie. All’esercizio del disegno e della scultura si affianca quindi nell’attività di Anna Morandi lo studio dell’anatomia, in cui all’insegnamento del marito e all’approfondimento teorico si unisce anche la pratica della dissezione dei cadaveri, attività che suscitò non poca meraviglia nei suoi contemporanei. Impadronitasi dell’arte del marito, Anna Morandi assieme a lui crea una serie di sculture anatomiche

pet cui i due coniugi divennero presto celebri, e che diventarono motivo di viaggi e di visite di celebri personaggi, fra cui si ricorda, nel 1769, l’imperatore Giuseppe II. Rimasta vedova nel 1755, a 39 anni, Anna Morandi decide di continuare l’attività che aveva svolto accanto al marito. I riconoscimenti non mancarono a questa donna abile, coraggiosa e capace, e

non insensibile al successo. Accolta nel 1755 all’ Accademia clementina, nel 1760 viene nominata modellatrice in cera pressso la Cattedra di anatomia dell’ Ateneo bolognese. Alcuni anni dopo, insoddisfatta delle 300 lire bolognesi percepite per il suo lavoro, presenta i suoi reclami e richiede un cospicuo aumento nel suo onorario. Dopo aver conservato per lunghi anni la “suppellettile” anatomica creata dapprima col marito e poi nel suo lavoro solitario dopo la vedovanza, accetta nel 1765 l’offerta del conte Girolamo Ranuzzi

di acquistare le sculture, gli strumenti e i libri anatomici e di trasportarli nel suo palazzo, all’interno del quale viene riservato ad Anna Morandi un appartamento. Solo due anni dopo la morte di Anna Morandi avvenuta nel 1774 la “suppellettile” verrà acquistata dal senato del pubblico studio bolo29

gnese, che la collocherà nel museo anatomico dell'Istituto delle scienze accanto alle opere di Ercole Lelli. Nel 1777 Luigi Galvani se ne servirà per le sue lezioni e coglierà allora l’occasione per tessere le lodi

dell’autrice di tali capolavori. Galvani a dire il vero non riconosce ad Anna Morandi Manzolini altro che capacità eccezionali nella scultura anatomica, in cui essa si troverebbe a perfezionare la tecnica di tutti i suoi predecessori: «ella dimostrò tanta perfezione in questo genere da avere offerto alla vista non solo le parti più grosse e più facili del corpo umano, come le presentavano prima di lei altri, ma anche le più diafane, difficilissime, pertinenti ai sensi ed agli organi della voce e della generazione, fabbricate parte in cera, parte d’altra materia, e tutto questo per prima». Altri vuole che il suo valore vada riconosciuto anche in particolari osservazioni anatomiche, riportate da lei non certo in dotte trattazioni scientifiche, bensì in particolarissime riproduzioni in cera. Tali sarebbero quelle relative al “muscolo inferiore obliquo dell'occhio” e quelle riguardanti le supposte “appendici venose dell’utero”. La sua opera risente fortemente dello sviluppo settecentesco delle ricerche anatomiche e pur affrontando aspetti già trattati dalla ricerca scientifica, vi si avvicina con una sua particolare capacità di coglierne gli aspetti più profondi. Le tavole giunte fino a noi rappresentano la sezioni di un rene, la lingua, l'anatomia del feto e dell’utero, degli organi di senso. La “suppellettile” si compone inoltre di rappresentazione della faccia con i suoi muscoli, del torace e degli organi che esso contiene, molti studi sul cuore, varie rappresentazioni di muscoli

e degli arti. La cera ingentilisce nei manufatti di Anna Morandi la conoscenza che viene dall’approccio diretto al cadavere umano; a volte quello che le sue mani non hanno saputo addomesticare viene ingentilito da un semplice elemento ornamentale, come un piccolo nastro. Come dirà Galvani «l'anatomia stessa... finalmente questo ha raggiunto, di non presentare più nulla che distolga dall’amarla le persone un pochetto o anche molto delicate. Infatti queste parti, vere e naturali, non hanno come quelle dei cadaveri, nulla di tetro né di putrido per cui i più tenerelli possano stomacarsene o mal sopportarle; anzi così come sono, belle ed eleganti, perfino allettano alla conoscenza e regalano un certo quasi incredibile piacere a coloro che apprendono». Partecipe di un periodo molto vivace della cultura bolognese, Anna Morandi seppe dare il suo contributo al mondo scientifico della città in una specialità in cui l’arte associata alla scienza creava conoscenza e meraviglia, e dove affrontato un terreno così tradizionalmente maschile come l’anatomia, ne riportava modellando cera le sue informazioni. Come ebbe a dire Michele Medici che nel 1856 100

ne scrisse un elogio, «niuno studio esige più pazienza, niuno studio costa più fatica, niuno studio è più lontano dall’offrire grazie, ed amabilità, niuno studio è più fastidioso, più tristo, più riluttante, niuno studio in somma comanda anche al viril sesso più sagrifigi di quello della notomia. Ora che in esso sia diventata dottissima, ed espertissima una gentile, e leggiadra donna, un’ Anna Morandi Manzolini, questa è veramente gran cosa, ed innanzi lei inaudito». Bibliografia — V. Ottani, G. Giuliani Piccari, L’opera di Anna Morandi Manzolini nella ceroplastica anatomica

bolognese, in Al-

“Memorie dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna”, tomo VIII, Bologna, 1857.

Si studiorum. La presenza femminile dal xv al xx secolo. Bologna,

_ L. Galvani, De manzoliniana suppellectili. Bologna. 1777

— M. Medici, Elogio di Giovanni e di Anna Morandi coniugi Manzolini, in

— Atti del I Congresso internazionale sulla ceroplastica nella scienza e nell'arte, Firenze, 1975.

Clueb 1988.

IV

ARRAO

FICA

Marie Sklodowska Curie, scienziata e premio Nobel Nasce nel 1867 nella Varsavia della dominazione zarista ultima di cinque fratelli, in una famiglia di insegnanti non in buone condizioni economiche, condizioni che tenderanno a peggiorare con la malattia che costringerà la madre ad abbandonare il lavoro, e con le sempre maggiori difficoltà di lavoro del padre. La madre apparteneva alla piccola proprietà terriera, aveva seguito il corso di studi per l'insegnamento, per diventare poi direttrice di un pensionato femminile; il padre, uomo di vasta cultura, figlio di un intellettuale, aveva

studiato scienze all’università di Pietroburgo, per dedicarsi alla fine degli studi all'insegnamento di matematica e fisica prima in un liceo e poi in un ginnasio di Varsavia di cui diverrà direttore poco prima della nascita di Marie. La carriera di Wladislaw Sklodowski sarà sempre ostacolata dal regime soprattutto dopo la rivolta polacca del 1872. Fortemente stimolata dal clima intellettuale che si respirava nella sua famiglia, duramente segnata dai lutti familiari (la sorella Zosia era morta di tifo nel 1876, due anni dopo moriva la madre di tubercolosi), dalle difficoltà economiche della famiglia, dalla mancanza di libertà nella vita pubblica che tra l’altro rendeva impossibile a una donna accedere agli studi universitari, Marie è fortemente attratta 101

dallo studio scientifico e sfrutta tutte le possibilità che incontra per approfondire le sue conoscenze, conservando nel cassetto il sogno di accedere un giorno alla Sorbona. Finito il liceo, con la medaglia d’oro, per far fronte assieme ai fratelli alle difficoltà familiari Marie lavora dando ripetizioni private. Abbandonata dopo la morte della madre la fede religiosa, Marie è divisa fra le sue aspirazioni scientifiche e un forte coinvolgimento emotivo ed intellettuale per le sorti del suo paese. Il positivismo unisce i giovani intellettuali di Varsavia che frequentano le lezioni segrete offerte dall’ “Università volante”, che si prefiggeva non solo di completare l'educazione dei ragazzi usciti dal ginnasio con lezioni di anatomia, storia naturale, sociologia, ma soprattutto di mantenere viva la cultura polacca e, con quella, la possibilità del formarsi di un nuovo ceto intellettuale. L'impegno umanitario e patriottico di Marie rimane sempre all’interno di un impegno intellettuale che non arriva comunque mai a condividere l'ideologia socialista di molti suoi compagni di studio di Varsavia, ma che si prodiga nell'offerta di lezioni, letture, biblioteche clandestine e altri servizi culturali rivolti al popolo, ma soprattutto alle operaie, alle donne e ai bambini. Nel 1885 Marie si decide ad abbandonare quella che poi definirà “atmosfera simpatica di cameratismo intellettuale e sociale” per impegnarsi come istitutrice privata, prima a Varsavia e poi, scelta ancor più dolorosa, in campagna. Scopo di questo sacrificio un accordo con la sorella maggiore Bronia: contribuire alle spese perché Bronia possa studiare medicina a Parigi, col patto che una volta ultimati i suoi studi ricambi il favore contribuendo al mantenimento di Marie a Parigi, alla Sorbona. Marie arriva alla fine della prova sfinita e demotivata a proseguire nella rincorsa al suo antico sogno, avendo tuttavia passato quegli anni difficili a coltivare le sue inclinazioni intellettuali, esita quasi un anno prima di accettare il richiamo e l’invito che le viene da Bronia a Parigi: «avevo sognato Parigi come la redenzione, ma da molto la speranza di recarmivi mi aveva abbandonata. E ora che questa possibilità si offre a me, non so più che cosa fare... e d’altra parte, il mio cuore si spezza quando penso alle mie attitudini sciupate che, tutto calcolato, dovevano pur valere qualcosa...». Partirà da Varsavia per Parigi nel 1891, a 24 anni.

I primi anni da studentessa vedono Marie completamente impegnata nello studio, vivere in condizioni materiali più che modeste, frequentare oltre alle aule e ai laboratori solo la sorella, il cognato e altri giovani polacchi. Dall’arrivo di Marie a Parigi, la sua vita si confonde con l’impegno scientifico. L’incontro nel 1894 con il fisico Pierre Curie, a cui 102

seguirà l’anno seguente il matrimonio, segna l’inizio della collaborazione dei due nella ricerca scientifica, che si concluderà bruscamente

con la precoce morte di Pierre nel 1906, in seguito ad un incidente stradale. Dal matrimonio nascono due figlie, Irene ed Eve. Marie morirà nel 1934 in seguito a una forma di leucemia dovuta a quel radio che aveva scoperto e che per tanti anni aveva maneggiato. Proprio quando incontra Pierre Curie, Marie sta iniziando una ricerca a proposito delle proprietà magnetiche di diversi metalli: alla nascita della figlia Irene, Marie è licenziata in fisica (1893), licenziata in scienze matematiche (1894), ha concluso il suo studio sulla

magnetizzazione degli acciai temprati e si sta approcciando all’argomento del suo dottorato: i “raggi di Becquerel”. Si sapeva che i sali d’uranio emettevano spontaneamente raggi di natura ignota; alla ricerca della natura di quelle radiazioni scoperte da poco da Becquerel si dedica la ricerca di Marie, che sarà più tardi affiancata dall’opera del marito (che poté agevolare il lavoro di Marie anche con strumenti di sua invenzione). In anni di lavoro, anche molto faticoso e

ripetitivo, in condizioni disagiate, i due coniugi isolano dalla pechblenda (ossido di uranio) i due elementi che chiamano polonio — “dal

nome del paese di uno di noi” — e radio. Questa scoperta (1898) e la successiva identificazione delle proprietà del radio, fecero ottenere ai due Curie nel 1903 metà del premio Nobel per la fisica (l’altra metà andava a Becquerel). In questa come in molte altre importanti occasioni del loro lavoro comune Pierre e Marie non vollero distinguere il lavoro e le osservazioni dell’uno e dell’altra. A soli tre anni dal riconoscimento del Nobel Pierre moriva, lasciando Marie per lungo tempo desolata dalla perdita, con due figlie da allevare e con l'eredità di un pesante progetto scientifico da perseguire. Già incaricata dell’insegnamento della fisica all’Ecole Normale Supérieure di Sèvre, alla morte di Pierre Marie gli succede nell’incarico di assistente alla Sorbona, dove le verrà poi conferito il ruolo di professore. Le sue successive ricerche sul radio le valsero il premio Nobel per la chimica nel 1911, che questa volta non divise con nessuno; nel discorso che tenne a Stoccolma accettò però il Nobel ricordando il merito che nella ricerca premiata andava a Pierre Curie. L’insegnamento e soprattutto la ricerca di Marie Curie durarono tutta la sua vita; nel corso della prima guerra mondiale riuscì con scarsissimi mezzi e di sua iniziativa ad organizzare un servizio radiologico ambulante per le truppe che la vide sempre impegnata in prima persona, di ospedale in ospedale, seguendo gli spostamenti dei combattimenti. 103

Il successo e i riconoscimenti non cambiarono quella donna schiva, sempre piena di nostalgia per la sua Polonia, che vedeva ogni impegno ufficiale come una perdita di tempo per la ricerca e ogni pubblico riconoscimento come un attentato alla tranquillità della sua vita privata e al suo quotidiano lavoro di laboratorio. Accanto all’estrema dedizione alla ricerca, il rapporto con le figlie fu l’altro filo conduttore della sua vita dopo la morte di Pierre. E il legame con quella madre che con la stessa abilità con cui maneggiava i pentoloni di pechblenda preparava conserve e marmellate, Irene testimoniò con il suo impegno nella carriera scientifica, ed Eve con la biografia dedicata a Marie in cui non si cela l’incondizionata ammirazione di una figlia. Bibliografia — E. Curie, Vita della signora Curie, Milano, Mondadori, 1980. — E. Cotton, Les Curie, Parigi, 1963.

— F. Giroud, Marie C., Milano, Rizzoli, 1982.

104

— F. Gambino, M. Curie. La donna che scoprì il radio, Milano, Mursia, 1971.

Donne e politica di F. Tarozzi

Anche se il termine politica deriva dall’aggettivo greco politikos (da polis) significante tutto ciò che si riferisce alla città e quindi cittadino, civile, pubblico — senza distinzione di genere —, la politica come arte e scienza del governo è stata intesa per lungo tempo come prerogativa dell’uomo-cittadino. Le trasgressioni in questo campo venivano a disturbare la pratica e il valore simbolico nelle società bene ordinate gerarchicamente, tanto che non si esitava a definire “mostruoso regime delle donne” — mostruoso cioè contro natura — l’opera di governo di Maria Tudor, Maria Stuarda o Caterina de’ Medici. Le donne, affermava Jean Bodin ragionando sui diversi ordini e gradi dei cittadini di una repubblica (Sei 4bri della Repubblica, 1586), debbono occuparsi solamente delle faccende domestiche e devono essere tenute lontane da tutte le magistrature, i luoghi di comando,

le assemblee pubbliche e i consigli. Era naturale che le donne non portassero le armi in battaglia: quelle di loro che si spostavano al seguito degli eserciti moderni erano cuoche, serve, vivandiere, prostitute. Comunque non mancavano esempi, più o meno mitici di donne in armi: le storie delle Amazzoni rientravano nel panorama letterario di molte culture europee, così come l’epica vicenda di Giovanna d'Arco pur presentandosi come un’anomalia mostrava fin dove le donne potessero arrivare sia pure in condizioni eccezionali. E anche vero che nello stato di antico regime le donne, pur essendo soggetti di contratti e potendo anche firmarli, non potevano mai fungere da testimoni per un contratto; né essere giudici anche nelle più insignificanti giurisdizioni periferiche, né tantomeno essere notai o membri di tribunali. Nel Medio Evo la società era improntata sull’uomo e la sua egemonia si determinava in tutti i campi: desideri e aspirazioni delle donne possono essere intuiti solamente dietro il velo della tutela e 105

delle regole esercitate e imposte da padri, mariti, fratelli e confes-

sori. Questa tutela ne limitava l'inserimento nella carriera politica,

anche se poi le donne furono presenti sui troni di molte regioni europee e alcuni periodi chiave, come il conflitto politico e ideologico noto come lotta per le investiture, videro primeggiare una figura femminile — Matilde di Canossa — tanto da far parlare di “epoca di Matilde”. A Canossa, nel gennaio del 1077 momento cruciale dello scontro tra Impero e Papato, oltre a Matilde registriamo la presenza di altre due figure femminili coinvolte nelle vicende dei protagonisti: Berta di Savoia (moglie di Enrico IV) e sua madre Dacelide. Donne la cui

storia era significativa del portato culturale dell’epoca: esse vivevano, come doloroso dramma personale, l’involontario privilegio di essere nate in famiglie potenti e la loro condizione di spose maritate in funzione di un pegno determinante per il mantenimento di vecchie alleanze o la conclusione di nuove, coinvolte in giochi di potere più grandi di loro e di cui erano le prime vittime se si verificava un rovesciamento di tendenza o di alleanze. Se poi il destino le voleva non solo pedine di un gioco altrui, ma protagoniste dirette, allora erano attaccate, calunniate per la presunta immoralità del loro compor-

tamento. Nello stato moderno la donna, come cittadina, aveva diritto alla

protezione della legge della sua città, ma raramente veniva chiamata a partecipare a un’assemblea elettiva o consultiva o poteva entrare in un consiglio cittadino. L’unico luogo dell’amministrazione cittadina dove le donne di alcune città (è il caso di Amsterdam) erano

ammesse era la direzione degli ospedali, probabilmente perché si riconoscevano le loro capacità filantropiche, anche se poi messe alla prova apparvero essere autorevoli al pari dei colleghi uomini. Nel complesso il governo della città era un affare di uomini, che “sapevano” cosa andava fatto per il bene delle loro famiglie. Questo avveniva soprattutto là dove gli stati erano organizzati in repubbliche; al contrario le grandi monarchie riservavano spazi all’azione politica delle donne che si trovavano a essere regine, a svolgere azioni di consigliere del re o anche — è il caso dell’Inghilterra dove tra l’altro sia pure in epoche diverse due regine, Elisabetta I nel secolo xvI e Vittoria nel x1x, primeggiarono a livello internazionale — a governare con pieno diritto in assenza di un erede maschio. Quando Elisabetta salì al trono si scontrò con la diffidenza nei confronti del governo delle donne e il suo regno fu sempre sotto giudizio e la sua immagine sempre ricondotta a stereotipi creati ad arte su di lei. Per il suo popolo fu sempre la Vergine Regina, anche quando 106

si cercava di studiarle strategie matrimoniali per rispondere a precise esigenze diplomatiche. La regina doveva apparire a seconda del caso come guerriera capace di guidare i suoi uomini — e le sue vesti severe, anche se ricche di perle, sembravano ricoprirla al pari di una armatura —, e come vergine, degna sostituzione — in terra protestante

— della Vergine Maria. Se il regno di Elisabetta non fu privo di malcontenti e opposizioni, nel complesso la regina seppe creare uno stile di autocontrollo femminile che bene funzionò nel quadro del pensiero gerarchico del xvi secolo e che divenne modello in quelli successivi. Anche se le corti femminili correvano il rischio di essere definite come “mascoline” — con un’accentuazione sempre più evidente della categoria della politica col genere maschile — la presenza delle regine, il loro ruolo attivo e propositivo incoraggiava le donne all’azione politica nell’ambito della struttura delle monarchie sovrane dove spesso diventavano consigliere, influenti condizionatrici dell’azione del sovrano. Luigi XIV riceveva spesso consigli e ascoltava i pareri della “favorita” Madame de Maintenon; ovviamente si trattava di un’in-

fluenza nascosta, non documentabile, ma ugualmente avvertita dagli uomini che circondavano il sovrano al punto che non esitavano a definirla una “donna fatale”, in grado di dominare il re e il suo governo. Quando, all’inizio del xv secolo, si aprì la questione della succes-

sione spagnola i ministri di Luigi XIV venivano riuniti e ascoltati nelle stanze della Maintenon e i dispacci diplomatici erano letti alla sua presenza; il suo parere inoltre era tenuto in gran conto dal sovrano all’atto di assumere così importanti decisioni. Negli stessi anni in Inghilterra la regina Anna poteva contare sulla “collaborazione politica” di Sara, duchessa di Malborough, che si considerava “donna di stato”. AI di fuori degli ambienti di corte erano, in teoria, possibili altri spazi, sia pur minimi, per l’azione politica delle donne. Nella Francia di antico regime esse godevano del diritto di partecipare alle assemblee locali per scegliere i deputati agli Stati Generali, dove peraltro non vi furono mai rappresentanti donne. Ugualmente in Inghilterra le donne non sedevano alla Camera dei Lords, anche in caso di successione, e tantomeno venivano elette alle Camere dei Comuni; comunque le dame dell’aristocrazia potevano offrire il loro sostegno a uno dei candidati e, soprattutto con l’affermarsi del sistema dei partiti nel secolo xvm, le mogli dei candidati occupavano buona parte del loro tempo impegnandosi nella campagne elettorali dei mariti e creando reti di amicizie influenti spendibili in occasione delle elezioni. La crescente alfabetizzazione delle donne, specie quelle dei ceti 107

più elevati e la conseguente acquisita possibilità di leggere, contribuì ad avvicinarle alla politica: per loro e anche da parte loro iniziarono a diffondersi opuscoli, pamphlet che divenivano strumenti di fondamentale importanza per divulgare le idee, aprire discussioni, sollecitare quei cambiamenti che alla fine del secolo xvi avrebbero portato al dibattito sul diritto naturale delle donne alla cittadinanza. È in occasione delle grandi rivoluzioni di fine Settecento, in America prima e in Francia poi, che alla donna, spesso presente sulle barricate, appare sempre più evidente il proprio status ambiguo di cittadina priva di cittadinanza. In Francia nel 1789, come nel 1793 e ancora nel 1795, furono

le donne le prime a scendere in piazza e a incitare gli uomini all’azione: affermavano di “dover” essere loro ad “aprire le danze”, gli uomini sarebbero venuti dopo. Questo ruolo attivo nella fase d’avvio della rivolta era loro perfettamente riconosciuto, ma una volta avviata il rapporto tra i sessi si rovesciava ed erano le stesse donne a dire che il loro compito era quello di appoggiare gli uomini, ridivenuti soggetti attivi. Ruoli diversi per momenti diversi: uomini che seguono le donne, donne che appoggiano gli uomini; è il delinearsi di una distribuzione non egualitaria dei ruoli sessuali, intesa dalla popolazione come uno dei dati forti del movimento popolare. La partecipazione delle donne alla rivoluzione francese non si esaurì comunque sulle barricate. Non potendo prendere parte alle assemblee politiche, in quanto cittadine prive di cittadinanza, esse affollarono le tribune aperte al pubblico, e non furono una presenza silenziosa. Presero la parola affermando in tal modo il loro diritto a essere soggetti politici attivi. La presenza sulle tribune assumeva infatti un alto valore simbolico, il prendervi parte significava fare parte del Popolo sovrano, esercitare parte di una sovranità da cui in teoria si era ancora esclusi. E nacquero i primi clubs femminili dove si discuteva di politica, si commentavano le leggi, si leggevano i giornali. Va comunque detto che tutto questo fermento rappresentò un fenomeno esclusivamente cittadino, anzi quasi solo parigino. Se si usciva dalla capitale difficilmente si incontravano capannelli di donne che discutevano di politica. Anche in città, poi, si possono cogliere delle differenze: erano soprattutto le donne dei ceti più popolari a scendere sulle piazze o ad affrontare le pubbliche tribune; le aristocratiche vivevano la loro rivoluzione e il loro incontro con la politica nei salotti. Il salotto settecentesco si trasformò da luogo privato in luogo pubblico e si aprì agli incontri politici. Nei salotti si preparavano le sedute delle assem108

blee; il salotto, orchestrato da una donna (in genere la padrona di casa) divenne il luogo degli scambi politici anche fra i sessi. Meno eclatante la presenza femminile nella rivoluzione americana. Le donne americane del xvm secolo non prendevano parte alla vita della collettività, e solo la religione consentiva loro spazi di affermazione pubblica attraverso la creazione di gruppi di preghiera e di ascolto. Ma il ruolo della donna era più sociale che pubblico e come tale fu vissuta anche la partecipazione alla rivoluzione, salvo poi chiedere che, mutati i tempi, mutassero anche i rapporti tra i sessi. Se, oltre oceano, alle richieste sempre più pressanti delle donne di svolgere un ruolo attivo nella costruzione politica della nazione venne data una risposta fondamentalmente conservatrice con la creazione del modello della “madre repubblicana”, buona educatrice dei figli a cui doveva insegnare l’amore per la libertà e per l'uguaglianza costringendone l’azione all’interno delle famiglie, è dalla Francia che venne la proposta più radicale con la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina formulata da Olympe de Gouges, la cui approvazione avrebbe significato il riconoscimento per la donna degli stessi diritti naturali dell’uomo e quindi anche una sua presenza attiva nella sfera pubblica. Nonostante il moltiplicarsi di tesi a favore del diritto delle donne alla cittadinanza il progetto della de Gouges venne respinto e per i movimenti femminili si apriva un lungo periodo di battaglie e di scontri sul terreno politico, economico e sociale. All’affermazione che il riconoscimento di un ruolo pubblico alle donne si poneva in contraddizione con quello materno, che aveva radici più profonde nella loro cultura e nella loro tradizione, si contrapponeva il grande sforzo teorico delle suffragiste impegnate a dimostrare che proprio nella maternità stava una potenzialità di valori che dalla sfera della famiglia poteva fecondamente essere trasportata nella sfera sociale. Alle battaglie ideologiche si affiancarono quelle più immediate per la parità giuridica: il diritto al voto come il diritto al salario individuale e al lavoro in fabbrica costituirono alcuni momenti chiave del movimento suffragista ottocentesco. Obiettivo primario del movimento suffragista e delle numerose associazioni emancipazioniste fu quello di dare valore alla donna, attraverso il raggiungimento della sua indipendenza giuridica ed economica. Le suffragiste e le emancipazioniste, partendo da una realtà in cui la donna era assolutamente dipendente perché non aveva accesso alla proprietà non solo dei beni, ma neppure della propria persona, lottarono per l’affermazione di una individualità femminile che andasse oltre la conquista dei diritti civili e, contemporaneamente, di una autonomia economica cruciale anche per le donne del proleta109

riato. Infatti l'esclusione delle donne sposate da ogni diritto di proprietà significava che anche le operaie sposate potevano vedersi togliere il salario dal marito. Fu un compito non facile quello delle suffragette: derise dalla borghesia conservatrice, accusate di “essere borghesi” dai socialisti e “pericolose” dai cattolici, molto spesso rimasero isolate. Ne è chiara dimostrazione nel nostro paese la riforma elettorale di Giolitti che — nonostante l’impegno di protagoniste quali Anna Maria Mozzoni, Gualberta Alaide Beccari, Anna Kuliscioff — escluse le donne dal voto assieme a minorenni, condannati e dementi. Nel 1907 nel nostro paese era stata istituita una Commissione

ministeriale allo scopo di “esprimere un parere autorevole” sulla concessione della rappresentanza amministrativa alle donne quale primo passo ad un pieno riconoscimento della parità dei diritti amministrativi e politici. Dopo cinque anni di lavoro la Commissione espresse parere negativo. La questione fu riaperta nel primo dopoguerra con il progetto Nitti del luglio 1919 per la concessione del voto politico e amministrativo alle donne, approvato con amplissima maggioranza da un solo ramo del Parlamento per la chiusura anticipata della legislatura. Un disegno di legge per una concessione restrittiva del solo voto amministrativo ad alcune categorie di donné veniva presentato ancora nel 1923 da Mussolini, ma trovava l'opposizione della maggioranza dei deputati fascisti. La partecipazione delle donne alla Resistenza e alla guerra di Liberazione impose di fatto la presenza femminile come soggetto politico a cui non poteva più essere negato il pieno esercizio dei diritti civili. AI decreto del 31 gennaio 1945 che riconosceva formalmente piena cittadinanza politica alle donne italiane, si giunse in assenza di conflitto politico; senza sminuire l’operato del comitato pro-voto allora costituitosi e la rilevanza delle pressioni femminili, bisogna riconoscere che l’atto concreto di quel decreto legge fu accettato nel clima di riconoscimento e difesa dei diritti democratici dell'individuo, che precedeva la convocazione dell’ Assemblea Costituente all'indomani della caduta del fascismo. La strada dell’emancipazione politica delle donne d’altronde non si era rivelata più semplice neppure nei paesi dove il movimento femminile era più forte, tant'è che la concessione del voto alle donne in America come in Inghilterra nei primi decenni del secolo xx si accompagnò all’adozione di argomenti — come il ruolo e i servizi resi durante la grande guerra — che le suffragette avevano cercato di combattere. Il voto veniva visto come il riconoscimento dei ruoli femminili di assistenza, di soccorso, di dedizione incondizionata. Le donne acquisirono il diritto alla cittadinanza, dunque, in quanto “generose verso gli 110

altri”, non perché “giuste verso se stesse”. Sono ancora le specificità femminili quelle dominanti e quelle attraverso cui si vede la proiezione della sapienza femminile nella società. Non a caso l’esperienza delle donne nella politica, anche negli anni più vicini a noi, è in gran parte stata intesa come impegno nel campo dei servizi sociali e delle varie forme di assistenza, mentre molto più irto di ostacoli continua a essere il cammino verso l’affermazione di una piena individualità delle donne e, oltre la stessa parità giuridica, di una piena cittadinanza. Non è forse un caso che in molti paesi occidentali nell’esercizio concreto dei diritti politici la parità dei sessi sia ancora un obiettivo lontano da raggiungere. La superiorità numerica degli uomini è ancora palese in tutti gli organismi di decisione politica, siano questi elettivi o nominativi. Per le donne si continuano a predisporre solo occupazioni finalizzate a “opere buone”, ricreando sul piano propriamente politico la vecchia distinzione: maschile/politico, femminile/sociale. E le donne impegnate in politica si sono viste affidare solamente compiti che fino a quel momento avevano gestito nella famiglia. Agli uomini si affidano gli incarichi della difesa, degli esteri, dell'ordine pubblico, della giustizia, dell'economia, delle finanze; alle donne il sociale, il familiare, al massimo l’istruzione. E una divisione che ritro-

viamo non solo nel nostro paese, ma quasi ovunque; una risposta precisa a una richiesta di accesso alla sfera propriamente politica, nel tentativo, forse di coprire o cancellare una trasgressione operata. Bibliografia — G. Duby, M. Perrot (a cura di), Storia delle donne, 5 voll., Roma-Bari, Laterza, 1990-1992.

fragista, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990. — E. Pieroni Bortolotti, Alle origini del

1 * — A. Fraser, Regine guerriere. Le grandi protagoniste della storia: realtà, mito e da, Milano, Rizzoli, 1990. Ei no, Dzzon

movimento femminile in Italia, 18481892, Torino, Einaudi, 1963.

— A. Rossi Doria, La libertà delle donne. Voci della tradizione politica suf-

— D. Gagliani, M. Salvati (a cura di), La sfera pubblica femminile, Quaderni del Dipartimento di Discipline Storiche, n. 2, Bologna, CLUEB, 1990.

Matilde di Canossa

Gli ultimi trent'anni del secolo x1 — un secolo di grandi trasformazioni nella cultura, nell’arte e nella società, un secolo che si apriva su quella che sarebbe diventata la grande stagione dell’età dei Comuni — furono dominati da tre figure: l'Imperatore, il Papa e Matilde di ilatal

Canossa. E quest’ultima proprio vi assunse un ruolo così determinante da fare sì che quel periodo venisse indicato come età di Matilde. La contessa nacque probabilmente nel 1046 a Mantova. Dopo la morte violenta del padre e quella dei fratelli maggiori si trovò erede di vasti possedimenti. Erano anni molto difficili: le seconde nozze della madre, la lorenese Beatrice con Goffredo il Barbuto, duca della Bassa Lorena, fecero temere all'Imperatore che questa regione acqui-

sisse una eccessiva potenza e le due donne vennero deportate in Germania. Da qui Matilde poté allontanarsi solo in occasione del matrimonio col figlio di primo letto del padrigno, un’unione subita più che voluta e tragicamente conclusasi. Ma proprio quegli anni furono quelli che la videro avvicinarsi al Papato e schierarsi a difesa della Chiesa nello scontro apertosi con l'Imperatore. Lo stretto sodalizio politico tra regni e gerarchie episcopali aveva portato, nel tempo, al consolidamento dell’atto dell’investitura da parte del re o dell’imperatore a favore dei vescovi al momento della loro elezione. La volontà di rinnovamento manifestatasi all’interno della Chiesa nell’x1 secolo portò come conseguenza il tentativo di abolire l’investitura laica di vescovi e abati e di escludere l’intervento imperiale nell’elezione del Papa e aprì quella contesa che venne definita come lotta per le investiture. Uno scontro che coinvolse Impero e Papato per quarant’anni a cavallo tra x1 e xII secolo e che si accese soprattutto sotto il pontificato di Gregorio VII, quando l’imperatore Enrico IV venne costretto a quella che comunemente è conosciuta come l’umiliazione di Canossa, dal castello reggiano di Matilde e caposaldo di grande importanza strategica nel sistema difensivo delle terre della contessa. Qui, sul finire del 1077, era ospite il papa Gregorio VII in una sosta durante il viaggio che doveva portarlo in Germania dove avrebbe dovuto presiedere la Dieta di Augusta convocata allo scopo di giudicare l’imperatore scomunicato. Qui giunse la notizia che proprio Enrico IV, attraversate nonostante il rigido inverno le Alpi, era sceso in Italia per venirgli incontro. Nel castello di Bianello, anche quello possedimento di Matilde, che di Enrico era cugina, l’imperatore trascorse tre giornate in trattative che videro impegnata in prima persona la stessa contessa insieme ad altri intermediari, tra cui l’abate Ugo di Cluny. Seguirono altre attese e alla fine Ugo e Matilde, convinti dalla buona volontà del sovrano, tornarono dal pontefice che acconsentì al perdono purché Enrico dichiarasse di mantenersi fedele a lui e alla Chiesa romana. Enrico comprese che il perdono religioso era vicino e, pur consapevole delle conseguenze politiche del suo gesto, dl

salì a Canossa dove dopo un’attesa di tre giorni venne ammesso alla presenza di Gregorio. Nel grande e complesso conflitto tra Impero e Papato, Matilde mantenne sempre un atteggiamento di grande coerenza: fedele alle proprie scelte politiche, non se ne allontanò neppure quando parve che la sconfitta della riforma fosse irreversibile; e soprattutto fu in molte città lo strumento politico e militare che favorì l’elezione di vescovi fedeli a Roma, contribuendo in tal modo a far prevalere il partito della riforma. Matilde visse il proprio ruolo politico come espressione del modello culturale dei tempi di cui era figlia: quello del feudalesimo. Contraria alle autonomie cittadine, negò sempre il benché minimo spazio alle forze locali e governò una vera e propria corte. Da ricordare come straordinario manifesto ideologico la sottoscrizione che appare in calce ai documenti di Matilde: «Mazbildis Dei gratia si quid est (sum)» «Matilde per grazia di Dio se è (sono) qualcosa». Con essa Matilde sottolineava, in maniera esplicita e clamorosa, analogamente a re e imperatori, la coscienza dell'eccellenza e dell'autonomia del proprio potere. E non vanno dimenticati neppure il suo impegno a favore della cultura letteraria e giuridica, evidente nel gruppo di scrittori che “fecero corona attorno a lei” e dei giudici e degli esperti di legge che operarono ai suoi ordini e costituirono il fulcro della sua potenza. Gli anni che seguirono all’umiliazione di Canossa non furono tranquilli. Le riprese ostilità tra Papato e Impero rividero Matilde protagonista fino allo scontro armato con Enrico IV assediante le terre di Canossa e sconfitto dalle truppe matildiche. Fu un successo della contessa che negli anni successivi poteva consolidare la propria autorità sui suoi feudi, sempre ostile alle richieste di autogoverno che venivano dalle comunità cittadine, tanto da imporre con la forza, di fronte ad alcune rivolte, il potere feudale. Matilde morì a Bondeno nel luglio del 1115. Sepolta nel monastero di San Benedetto in Polirone i suoi resti vennero traslati a Roma successivamente e ora si trovano nella basilica di S. Pietro, in un sarcofago monumentale, ideato e in parte eseguito dal Bernini. Bibliografia — P. Golinelli, Matilde e i Canossa nel cuore del Medio Evo, Milano, Camunia, 1991.

— F. Bocchi (a cura di), Matilde di Canossa. Una donna del Mille, in “Storia e dossier”, n. 38, marzo 1990.

— A. Overmann, La contessa Matilde di Canossa, Roma, Multigrafica editrice, 1880.

DURO,

Elisabetta I, regina d’Inghilterra Figlia di Enrico VIII e della sua seconda moglie Anna Bolena, Elisabetta nacque nel 1533 e a soli tre anni venne dichiarata illegittima allorché la madre fu accusata di adulterio e decapitata. Nonostante ciò continuò a vivere a corte e un atto del Parlamento nel 1544 la proclamava terza nell’ordine della successione al trono, dopo Edoardo, nato dal terzo matrimonio di Enrico VIII e dopo Maria, figlia di primo letto. A vent'anni, ormai erede presunta, veniva sospettata di organizzare gli oppositori di Maria e trascorreva gran parte delle sue giornate sotto sorveglianza o nella Torre. Elisabetta era sicuramente la più colta dei Tudor; il suo precettore Roger Ascham le aveva insegnato l’amore per i classici che leggeva in greco e latino, ma altrettanto sicura era la conoscenza di lingue correnti come il francese e l'italiano. Resa prudente dalle avversità, sapeva giocare bene le carte della sua intelligenza, del realismo e anche della sua persona: i rossi capelli, gli occhi scuri, le mani affusolate. Quando a venticinque anni saliva al trono, Elisabetta aveva bene imparato l’arte della dissimulazione e soprattutto sapeva nascondere la sua indole autoritaria sotto apparenze di femminile dolcezza e affabilità. Regina esposta alle idee correnti sulle donne, deboli, illogiche e capricciose, Elisabetta era assiduamente invitata a sposarsi e a dare un erede al trono. Ma la giovane, presto convinta al nubilato, non cedette mai, come sempre rifiutò di designare un successore. Intorno a questa sua scelta di vita finì per costruirsi un modello che divenne nell’arte e nella poesia di corte oggetto di un vero e proprio culto, senza dubbio fondamentale in un mondo politico al maschile. Elisabetta è così Astrea, la vergine dello zodiaco, la vergine della giustizia della IV egloga di Virgilio che instaurerà l’Età dell'Oro, la regina il cui trono lunare farà sempre più grande l’Inghilterra. Con pochi ma scelti collaboratori la regina affrontò una situazione internazionale e interna irta di difficoltà. Per reazione femminile, temperamento autocratico o per una sua preferenza per una politica segreta, Elisabetta riunì il Parlamento solamente nelle “più giuste, più gravi e grandi occasioni” e ciò si verificò solamente dodici volte in 45 anni di regno. Eppure gravi questioni le si presentarono fin dall’inizio. Prima di tutto doveva far valere il suo titolo contro la persistente taccia di nullità fondata sulle circostanze della sua nascita. Strettamente legato al problema dinastico era quello religioso, e su questo terreno Elisabetta procedette con grande circospezione e abilità, mossa dal desiderio di dare pace e stabilità al paese in una situa114

zione di compromesso tra le varie correnti e i diversi gruppi religiosi presenti. Così mantenne la gerarchia episcopale pur ribadendo l’indipendenza della chiesa anglicana da Roma e la supremazia religiosa della corona; il dissenso religioso era tollerato fino a quando non assumeva carattere di insubordinazione politica. Sempre a un programma di ricostruzione e di unità nazionale Elisabetta ispirò tutta la propria politica interna ed esterna. Negli anni del suo regno l’Inghilterra viveva profonde trasformazioni: alla crisi, anche numerica, della

nobilità faceva riscontro l’espansione continua della gertry, più abile negli affari e nei commerci e aperta all’infiltrazione dei nuovi ceti professionali e mercantili. Quella elisabettiana fu un’età caratterizzata da grande mobilità sociale. Nelle campagne le scelte dei proprietari di procedere alla recinzione delle terre e di trasformare l’arativo in pascolo provocava l'espulsione dei contadini poveri dalle terre e si gonfiavano i fenomeni di vagabondaggio, mendicità e criminalità. Le città vedevano crescere continuamente la popolazione anche in conseguenza di un positivo tasso di natalità e nei sobborghi aumentava la presenza di artigiani più o meno specializzati, ma anche di poveri disoccupati. Lontana da tutto ciò Elisabetta viveva nella sua corte. Spesso vestita di satin bianco o di velluto porpora trapuntato di perle e d’oro, ornata di anelli, bracciali, di guanti ricamati o di ventaglio, la regina conduceva le feste, le cacce d’autunno, le processioni, le giostre a

cavallo, i tornei. Circondavano la regina quattro dame d’onore della camera da letto che si occupavano della sua persona. Queste dame,

spesso mogli di grandi ufficiali della Corte o della Corona, non avevano un ruolo politico dichiarato, ma informavano la regina e procuravano ai postulanti cariche di ogni specie. Attenta alla politica, Elisabetta, controllava il Parlamento con un miscuglio di dichiarazioni condiscendenti, di gesti di spettacolare affettuosità e di manovre di corridoio dei suoi consiglieri. Questo sistema iniziò a degradarsi dopo il 1590 con la scomparsa o la vecchiaia dei grandi consiglieri di Elisabetta e con l’aggravarsi della situazione finanziaria dovuta alla guerra. Gli atti di pirateria e il contrabbando ai danni delle navi e delle colonie spagnole avevano contribuito a un progressivo deterioramento dei rapporti con la Spagna fino allo scontro diretto. La sconfitta dell’Invincibile Armada di Filippo II aveva significato l’affermazione della politica di espansione marittima e commerciale perseguita da Elisabetta, ma la guerra con la Spagna non si chiuse e continuò con dispendio di forze e di denaro. Gli ultimi anni di regno furono pieni di tristezza e di sofferenza. Scomparsi gli amici più fidati, 115

priva di un erede, la regina era sempre più sola in un paese che, più volte visitato da peste e carestie, cominciava a protestare contro le prerogative della corona e contro la corruzione sempre maggiore all’interno della corte, un paese che, quando nel 1603 la regina moriva, già preparava festose accoglienze al suo successore.

Bibliografia — L. Stone, La crisi dell’aristocrazia. L’Inghilterra da Elisabetta a Cromwell, Torino, Einaudi, 1973.

— D.M. Palliser, The age of Elizabeth. England under the later Tudors 15471603. London, Longman, 1992.

— F.A. Yates, Astrea. L’idea dell’impero nel Cinquecento, Torino, Einaudi, NO765

Olympe de Gouges e la Dichiarazione dei diritti della donna Quella di Olympe poteva essere la vita di una donna qualunque, semianalfabeta, di umili origini, e invece fu la vita di una donna curiosa che negli anni confusi della Rivoluzione francese, sullo sfondo di un tempo eccezionale quale fu il triennio dal 1789 al 1793, riuscì a lasciare una traccia riconoscibile e indimenticabile della propria voce. Olympe — il cui vero nome era Marie Gouze — era nata nel 1748 a Montauban un piccolo centro della Provenza; suo padre era un modesto fornaio e la madre contribuiva al bilancio famigliare vendendo abiti usati. Dopo un’infanzia povera e senza studi Marie sposò un anziano ufficiale di cavalleria che a diciotto anni la lasciò vedova, con un figlio e con un piccolo gruzzolo. La giovane, con una scelta “inaudita e scandalosa” per quei tempi, lasciato alla madre il bambino si recò a Parigi. Prima, però, cambiò nome adottando il prerorz Olympe («ha qualcosa di celeste”, scriveva) e nobilitando in de Gouges il cognome. Della grande capitale l’attraevano soprattutto la grazia e la saggezza delle donne di gran rango che la popolavano; era alla grande tradizione delle fees savantes — le preziose che nel corso del secolo xvIm avevano alimentato la vita dei salotti — che guardava e che si ispirava. Sapeva bene che erano state ed erano donne influenti, in grado di condizionare le scelte politiche dei monarchi e dei loro ministri, di scegliere, anche se nessuna di loro ne faceva parte, chi doveva entrare all’Académie Frangaise, di intrattenere dispute e conversa116

zioni con i più bei nomi della Francia colta e letterata. Era ciò che rappresentavano quelle donne ad attrarre Marie a Parigi, strappandola dalla pigra e sonnolenta vita di provincia. Ma a Parigi Olympe trovò una realtà ben diversa ad attenderla: non i fasti della reggia, bensì una città densamente abitata nelle cui strade, nelle cui piazze,

nei cui vicoli viveva “un popolo di donne al lavoro”: sarte a domicilio, lavoratrici delle filande, venditrici di ogni genere, merciaie, ricamatrici. Ricevevano un salario inferiore a quello degli uomini, nessuna di loro aveva diritto ad amministrare il proprio patrimonio, non era loro concesso accedere ad alcun impiego pubblico. In questo quadro così diverso da quello che si era rappresentata, Olympe cercò un proprio spazio, adeguandosi alle condizioni sociali pubbliche e politiche delle donne, ma ben decisa a non piegarvisi. Iniziò a scrivere testi teatrali per la Comedie Frangaise, testi politici contro lo schiavismo e per una soluzione dei più evidenti problemi sociali. Poi si aprirono i giorni della Rivoluzione; Olympe non poteva restarne fuori. Avrebbe voluto creare un giornale su cui scrivere delle questioni sociali, delle condizioni di vita dei poveri, ma era impossibile trovare finanziamenti adeguati. E allora scriveva pamphlet che distribuiva e che molto spesso lei stessa leggeva nei caffè del Palais Royal; opuscoli che incontravano una diffusione straordinaria. Il 4 maggio 1789, affacciata alla terrazza del suo appartamento, vide sfilare i deputati che si accingevano ad aprire gli Stati Generali. Era l’inizio di un periodo in cui nulla più pareva poter restare immutato, si apriva il processo rivoluzionario. Anche le donne stavano alla testa dei cortei agitando bandiere e coccarde, partecipavano alla presa della Bastiglia e invadevano Versailles. Tornava anche l’ora della politica. Olympe, assieme ad altre poche ed eccentriche, ne coglieva a pieno i rischi, ma non li rifiutava. Il suo interesse politico si precisava e diventava sempre più cosciente,

il tema attorno cui apriva il dibattito era quello dell’uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne. A suo vedere le donne dovevano raggiungere l’uguaglianza attraverso l’istruzione e il lavoro, nel nuovo ordine della Francia la libertà riconosciuta agli uomini doveva includere anche le donne. Non una libertà astratta, ma una serie di diritti che incidessero a fondo sulla vita delle donne: il diritto al divorzio, il diritto a essere elette nelle assemblee, il diritto al voto e quello al lavoro. Tutto ciò Olympe lo raccoglieva e riassumeva nella Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, testo pubblicato fra il 4 e il 14 settembre 1791. Si trattava di uno straordinario esempio di riven117

dicazione politica cosciente e compiuta. Ribadiva come la libertà delle donne non fosse uguale a quella degli uomini, essendo il genere femminile sempre dominato da quello maschile; richiedeva il diritto al suffragio in quanto alle donne cittadine non doveva essere disconosciuto quanto si attribuiva all’uomo cittadino. Nei mesi che seguirono Olympe, che aveva visto respinto il proprio progetto dalla Convenzione, apriva una dura polemica con quanti stavano portando la Rivoluzione verso il terrore e, soprattutto, ingaggiava uno scontro diretto con Robespierre. E contro di lei si accanì la macchina poliziesca del Terrore i cui uomini la colpirono attraverso una violenta campagna denigratoria. Del resto neppure la maggioranza delle donne la capiva, nessuno la difendeva. La mattina del 3 novembre 1793, o meglio il 13 brumaio dell’anno II della Repubblica, la coraggiosa Olympe de Gouges veniva condotta alla ghigliottina; era accusata di tradimento per aver proposto un modello di stato inconciliabile con lo Stato Uno e Indivisibile. In realtà se ne temeva la diversità e la pericolosità, del resto, a testimonianza di ciò, stanno le parole del medico inviato a visitarla in carcere. Scriveva il dottor Guillos che Marie aveva uno spirito «rovinato da un desiderio eccessivo di originalità, da bizzarre idée femministe e da una demente vanità, segno evidente di un disordine degli organi femminili», e concludeva che «Olympe de Gouges può essere classificata tra le personalità deliranti, colpite da paranoia reformatoria». Bibliografia — O. de Gouges, Dichiarazione dei diritti. della donna e della cittadina, in “Il Bimestrale”, suppl. al n. 25 de “Il Manifesto”, 31 gennaio 1989.

— M. De Leo, Olympe de Gouges, Venezia, Centro internazionale della grafica, 1990.

Anna Kuliscioff, la “signora del socialismo italiano” Il 5 gennaio 1880 si concludeva presso la Corte d’Appello di Firenze il processo agli internazionalisti accusati di tentato regicidio e del lancio di una bomba contro un corteo di manifestanti che solidarizzavano con il re, bomba che aveva provocato quattro morti e numerosi feriti. In quel processo un’imputata era stata al centro dell’attenzione: Anna Kuliscioff. La giovane russa di ventisei anni, venuta 118

da terre lontane, in mezzo a quei “malfattori” dalla terribile fama, oltre a portare un tocco di gentilezza femminile fece impressione per la fermezza e la lucidità con cui espose le proprie idee di militante socialista. Un cronista fiorentino scriveva di lei: «con una testa da madonna, con la carnagione bianca, imporporata di salute, con le trecce lunghe, d’un biondo luminoso per le spalle, essa faceva pensare alle donne graziose dei preraffaelliti». La Kuliscioff e i suoi compagni erano in carcere da un anno e contro questo prolungato car-

cere preventivo essi avevano a lungo protestato. Il processo si concluse con un’assoluzione generale. Anna, il cui vero nome era Anna Rozenstein, era nata nel 1854

da una famiglia di commercianti ebrei convertiti alla religione ortodossa. Non essendo ancora le donne ammesse agli studi universitari in Russia, si era iscritta al Politecnico di Zurigo, ma fu ben presto attratta dalla politica. Nel suo paese si era avvicinata al movimento populista e compromessa per queste sue idee politiche sovversive viveva a Lugano in casa di due anarchici italiani. In Svizzera, a S. Imier, un piccolo centro del Giura, nel 1877 conobbe Andrea Costa e fu subito attratta dal focoso romagnolo con cui stabilì un legame affettivo e da cui ebbe anche una figlia Andreina. Il loro rapporto non fu facile, li univa il comune ideale rivoluzionario e una forte passione, ma li divideva un diverso modo di intendere l’attività politica e il rapporto fra i generi. Anna era una donna moderna, aveva della questione operaia una visione di respiro europeo che spesso si scontrava con il provincialismo di Andrea; Anna credeva e si batteva per l'emancipazione delle donne, mentre Andrea pensava che le donne erano sempre e soltanto donne e una volta divenute madri pensavano e dovevano pensare solamente ai figli. Espulsa dall’Italia nel 1881 Anna si rifugiava in Svizzera e mentre vedeva spegnersi il suo rapporto affettivo con Costa riprendeva gli studi universitari a Berna dove si iscriveva alla Facoltà di Medicina; si laureava poi in Italia a Napoli nel 1887. L’anno successivo si trasferiva a Milano dove iniziava la sua attività professionale e dove si legava a Filippo Turati, il leader del socialismo italiano. Così la descriveva Mario Borsa, futuro giornalista del giornale radicale il “Secolo”: «Quando Anna Kuliscioff esercitava la professione, molte povere case della vecchia Milano la vedevano spesso salire, gracile e leggera, fino lassù, in alto, al terzo o al quarto piano. Erano operaie, bambine, giovinette ammalate; mogli, madri, sorelle di modesti impiegati o professionisti. Tutta gente in pena. La visita della “dottora” — così la chiamavano negli ambienti popolari — era sempre attesa come una 119

benedizione... La sua clientela si era poi allargata anche ad altri ceti. I pregiudizi e le prevenzioni, che raffiguravano in certi ambienti una Kuliscioff di maniera, cadevano appena la si avvicinava. Parecchie signore della borghesia si affidavano alle sue cure, e quando l’avevano conosciuta cercavano di lei, sentivano il bisogno di rivederla, di diventarle amiche». Accanto a Turati, la Kuliscioff lavorò alla costruzione del socialismo italiano e questo non significò per lei trascurare l'impegno per

la liberazione della donna. Anna infatti pensava che non ci sarebbe stata piena uguaglianza fra i sessi senza socialismo, ma anche che il socialismo non sarebbe stato tale senza la totale liberazione della donna. La Kuliscioff vedeva un nesso inscindibile tra milizia socialista e impegno femminista e rifiutava la tesi di Anna Maria Mozzoni che invece riteneva indispensabile anche un autonomo movimento delle donne. Era soprattutto nell’indipendenza economica che Anna vedeva affermarsi l'emancipazione femminile. Nel pensiero di Anna il cammino verso l’indipendenza economica della donna era infatti destinato a coinvolgere nella sua azione trasformatrice un'infinità di aspetti della vita sociale, dai più quotidiani e banali ai più complessi, come quelli giuridici e morali. Con queste idee Anna Kuliscioff, nell’agosto del 1891, partecipava quale delegata della Lega Socialista Milanese al congresso di Bruxelles della II Internazionale e qui assieme ad altre donne redasse e firmò la mozione, poi approvata alla quasi unanimità, che chiamava “i partiti socialisti di tutti i paesi ad affermare energicamente, nei loro programmi, l’uguaglianza completa dei due sessi e a chiedere innanzi tutto l'abrogazione di tutte le leggi che collocano la donna fuori dal diritto comune e pubblico”. Fu ancora la Kuliscioff ad aprire all’interno del giovane Partito Socialista italiano la questione del suffragio femminile, accettando anche lo scontro ideologico con il compagno Filippo Turati. In un articolo del 1910 apparso sulla rivista“Critica sociale”, Anna chiedeva: «se agli analfabeti spettava il diritto elettorale perché sono anch'essi produttori, forse che le donne non sono operaie, contadine, impiegate, ogni giorno più numerose? Non equivale, almeno, al servizio militare la funzione e il sacrificio materno, che dà i figli all’esercito e all’officina?». Alla risposta dubbiosa di Turati, Anna rispose con ironia e acutezza ribadendo i propri convincimenti, e per le proprie idee continuò a battersi, utilizzando anche le pagine di un giornale, “La difesa della lavoratrice” da lei fondato e diretto, fino alla morte nel 1925. 120

Bibliografia — A. Kuliscioff, Lettere d’amore a Andrea Costa, a cura di P. Albonetti, Milano, Feltrinelli, 1976.

— M. Casalini, La signora del socialismo italiano. Vita di Anna Kuliscioff, Roma, Editori Riuniti, 1987.

— F. Turati, A. Kuliscioff, Carteggio, 3 voll., Torino, Einaudi, 1946-1977.

— A. Roveri, Giovinezza e amori di Anna Kuliscioff. Romanticismo e socialismo di una grande femminista, Firenze, Atheneum, 1994.

— Anna Kuliscioff, e l’età del riformismo. Atti del convegno di Milano del 1976, Roma, Mondo Operaio ed. Avanti!, 1978.

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Donne e lavoro di F. Tarozzi

È nel secolo xrx che la donna lavoratrice ha acquisito un rilievo straordinario, non a caso essa fu osservata, descritta e documentata con un’attenzione che non aveva precedenti e i contemporanei discu-

tevano dell’appropriatezza, della moralità e anche della legalità delle sue attività salariate. La rilevanza della donna lavoratrice non fu determinata tanto dal fatto che la meccanizzazione, fattore portante della rivoluzione industriale, creasse per lei posti di lavoro (anche se questo si verificò in alcune zone), quanto dalla percezione della donna lavoratrice come problema da risolvere con urgenza. Un problema che coinvolgeva il valore stesso della femminilità e che apriva alla discussione in termini morali attorno a domande di fondo. La donna deve lavorare per un salario? Quale è l’impatto del lavoro salariato sul corpo della donna e sulla sua capacità di adempiere ai suoi ruoli materni e familiari? Quale è il genere di lavoro adatto alle donne? La questione di fondo diveniva dunque la discussione sul ruolo delle donne nel momento del trasferimento della produzione dal nucleo familiare alla fabbrica. Si pensava che mentre nel mondo preindustriale le donne avessero coniugato con successo l’attività produttiva e la cura dei figli, il lavoro e la vita familiare, diversamente il mutamento del luogo di lavoro avesse reso difficile, se non impossibile,

questa combinazione. Si riteneva anche che le donne potessero lavorare per brevi periodi e non acquisire ruoli professionali specializzati, che dovessero ritirarsi dall'impiego salariato se sposate e con figli e che potessero riprendere il lavoro solo nel caso in cui i mariti non potessero mantenere la famiglia. La questione della donna lavoratrice diveniva dirompente nel momento in cui lavoro retribuito e impegni familiari apparivano entrambi compiti a tempo pieno, ma separati spazialmente: casa e luogo di lavoro non erano più gli stessi al contrario di quanto si era verificato nei secoli precedenti. Perché, in realtà, la presenza delle donne nel mondo del lavoro aveva una lunga storia alle spalle. In età medievale la maggioranza delle perde

sone viveva in campagna e nel lavoro dei campi l’apporto delle donne era rilevante. Fonti letterarie e iconografiche testimoniano una presenza femminile al lavoro nei campi tutt'altro che episodica, anche se occorre tenere conto delle diversità territoriali e cronologiche. Studi sulla mezzadria in Toscana, ad esempio, hanno evidenziato una par-

tecipazione femminile all'azienda domestica intensa e di diversa natura: come soggetto attivo delle formulazioni contrattuali, come soggetto impegnato nei lavori e infine come elemento utile al funzionamento della casa (cura dell’orto, del pollaio, del porcile, vendita dei prodotti del cortile, ma anche filatrice, tessitrice). Quando nel basso Medio Evo le città acquisirono una crescente rilevanza economica, sia come sedi di mercato sia come luoghi di produzione, aumentò l'impegno delle donne nelle attività artigianali. Nelle città le donne tentarono anche la via del piccolo commercio di merci di propria produzione o acquistate o importate. Se in genere l’attività di queste “merciaie”, “bottegaie” — come variamente venivano chiamate queste piccole commercianti — era molto limitata, non mancarono casi di donne che alla morte lasciarono ingenti eredità: è il caso di Mechthild di Brema o della concittadina Alheyd che lasciò al marito un patrimonio considerevole in marchi, gioielli e preziosi e anche la proprietà della casa. Tuttavia la presenza femminile nel grande commercio fu limitata alle grandi città e progressivamente anche questa forma di lavoro si scontrò con l’esigenza per le donne di coniugare lavoro di produzione o salariato e esigenze domestiche. Nel campo delle professioni alle donne era lasciato spazio di svolgere attività legate alla medicina e alla ginecologia; quest’ultima, soprattutto, era ritenuta terreno privilegiato dell’abilità e dell’esperienza femminile. Fu la figura dell’ostetrica a primeggiare: se per lungo

tempo la morale comune vietò agli uomini di effettuare visite ginecologiche — mentre loro restava il compito dello studio e della ricerca medica — le levatrici si distinsero per la capacità pratica. Già dalla fine del x1 secolo ci si orientò in favore di una professionalizzazione dell’ostetricia in modo da stabilire delle regole sicure e sufficienti a garantire una funzionale assistenza alle partorienti. Nelle città maggiormente organizzate era creato un sistema pubblico di assistenza sanitaria fornita da medici e ostetriche al servizio della comunità; a questi primi interventi fecero seguito ordinamenti per regolamentare in maniera sempre più precisa i modi di operare e le competenze delle ostetriche. Successivamente la qualificazione di queste professioniste divenne materia di codificazione giuridica e si diffusero gli ordini delle ostetriche istituiti non solo per regolamentare la formazione professionale e i compensi delle ostetriche, ma anche 5.

ZARRI, La memoria di lei

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i loro doveri di sorveglianza in qualità di pubblici organi di controllo, soprattutto nei casi di pazienti non maritate, potenziali infanticide. La valorizzazione delle competenze delle ostetriche, si accompagnò alla richiesta di una sempre maggiore professionalità: tutto ciò evidenziò la necessità di minore improvvisazione e maggiore specializzazione, esigenze a cui si tentò di dare risposta con l’attuazione di vere e proprie scuole di ostetricia come quella creata a Bologna e diretta da Maria delle Donne. Sia pur entro limitati spazi era dunque consentito alle donne svolgere un lavoro che portasse guadagno; tuttavia, specie in età moderna, il modello della donna salariata venne ampiamente combattuto. La donna indipendente era vista come una figura innaturale e detestabile, mentre si riteneva che il padre o il marito avrebbero dovuto darle una casa contribuendo anche al suo mantenimento. E nella casa si doveva svolgere tutta la sua attività; se il bilancio familiare chiedeva l’intervento attivo della donna essa poteva guadagnarsi da vivere lavorando a domicilio come filatrice o tessitrice, secondo l’immagine di una forza lavoro in cooperazione — in cui il padre intrecciava, la madre e le figlie filavano mentre i bambini preparavano il filo — messa in discussione solamente con l’affermarsi della rivoluzione industriale e il crescere della fabbrica. E fu un modello forte se ancora nel xx secolo il lavoro a domicilio continuò a sopravvivere a fianco della manifattura meccanizzata. Nel settore dell’abbigliamento (sarte, cuci-

trici, camiciaie) tale continuità con il passato è evidentissima. A queste lavoratrici era apparentemente consentito di conciliare l’impegno domestico con l’esigenza di far entrare nella famiglia un salario aggiuntivo a quello del marito. Il loro guadagno restava comunque molto basso e, quando non erano lavoratrici autonome ma dipendevano da un industriale, venivano sfruttate con il sistema della retribuzione

a cottimo, che garantiva loro salari minimi mentre imponeva ritmi di lavoro intensi, tali da lasciare ben poco tempo da dedicare ai lavori domestici. Ma nella società ottocentesca nuovi impieghi — oltre quelli di operaie salariate — si aprivano al mondo femminile fuori dalle mura domestiche: le occupazioni da “colletto bianco”. Questi lavori divennero disponibili verso la fine del secolo xIx con l’espandersi dei servizi e dei commerci. Gli uffici statali e le compagnie di assicurazioni assunsero segretarie e dattilografe; le compagnie telefoniche e del telegrafo impiegarono donne come operatrici; i negozi e i grandi magazzini accolsero giovani commesse. In genere i datori di lavoro fissavano

un limite di età per le loro dipendenti e non mancavano i casi in cui era previsto il licenziamento in caso di matrimonio; tutto ciò per man124

tenere una forza lavoro-modello costituita da giovani donne in genere al di sotto dei venticinque anni e non sposate. Anche se era cambiato il luogo di lavoro si voleva continuare a non confondere, e soprattutto a non mutare, il tipo di relazione fra la casa e il lavoro per le lavoratrici stesse, nella consapevolezza, comunque, che il lavoro portava via le donne dalla casa e che ciò non era bene per la moglie e per la madre. Ciononostante tutto questo fece sì che si verificasse un massic-

cio spostamento dal lavoro domestico (urbano e rurale, familiare, artigianale e agricolo) a quello impiegatizio. Le commesse di negozio aumentarono in Germania da 32000 nel 1882 a 174000 nel 1907 (pari circa al 40% del totale). In Inghilterra l’amministrazione pubblica centrale e locale impiegava 7 000 donne nel 1881 e 76 000 nel 1911; e il numero delle donne impiegate in esercizi e aziende private era salito nello stesso periodo da 6000 a 146 000. Se l’economia dei servizi e delle altre occupazioni terziarie offriva una garanzia sempre più ampia di posti di lavoro per le donne, l’avvento di una economia di consumi le rendeva anche il principale obiettivo del mercato capitalistico. E il lancio della “donna nuova” fu al centro dell’impegno delle industrie pubblicitarie che entravano nella loro prima fase di splendore. La pubblicità si concentrava sulle donne perché erano loro che decidevano per lo più gli acquisti di casa. La donna andava trattata con maggior rispetto almeno da parte di questo settore della società capitalistica: la trasformazione del sistema distributivo — i negozi multipli e i grandi magazzini che progressivamente si sostituivano ai negozietti e al mercato, così come le vendite su cataloghi per ordinazione tramite posta che soppiantavano i venditori ambulanti — formalizzò questo rispetto con la deferenza, l’adulazione, le vetrine e la pubblicità. Erano soprattutto le signore della borghesia ad essere trattate con rispetto, esse infatti potevano permettersi di spendere in oggetti utili per la casa ma anche in articoli voluttuari come gli oggetti da toeletta e in abbigliamento alla moda. Se il messaggio pubblicitario contribuì a creare nuovi stereotipi femminili, occorre anche sottolineare come il mercato femminile contribuisse, a sua volta, a generare un numero cospicuo di nuovi impieghi per le donne. La sempre più consistente presenza femminile nel lavoro “fuori di casa” comportò anche il cambiamento di una mentalità diffusa circa il ruolo e le capacità delle donne. Fu un processo non sempre facile, tant'è vero che si tentò di oppotvi argini quali un salario inferiore, l'assenza di norme giuridiche e di tutela e ancora la ricerca di “lavori femminili”, “da donne”. Anche da qui emerse la “questione” della lavoratrice dibattuta nei partiti politici e nei sindacati, 125

anche e soprattutto da donne come Argentina Altobelli, segretaria nazionale della Federazione nazionale dei lavoratori della Terra all’inizio del Novecento, che sulle pagine dei giornali, nelle conferenze e con suo impegno attivo all’interno delle organizzazioni sindacali e di partito si batté per ottenere riconoscimenti economici, norme giuridi-

che e ruolo sociale definito e riconosciuto per la lavoratrice salariata. Di fatto le condizioni di partenza delle donne sul mercato del lavoro erano molto più deboli rispetto a quelle degli uomini. Da un’indagine statistica pubblicata nel 1905 su “La Donna socialista” — uno dei primi giornali politici femminili, uscito a Bologna nei primi anni del xx secolo — risulta che la donna era occupata nel lavoro tanto diurno che notturno e che la sua giornata di lavoro — in media — era di 12 ore, ma sovente anche di 13 e di 14, arrivando fino a 15. E i salari erano nettamente inferiori a quelli dell’uomo: «abbiamo che di 197 842 donne, superiori ai 15 anni, che lavorano 3 169 non guadagnano più di 10 soldi al giorno, 21 192 hanno dai 50 ai 75 centesimi il giorno, 55 230 dai 76 centesimi a una lira: 70 484 stanno tra la lira e la mezza lira; 26 540 oscillano fra i 30 soldi e le due lire; 8798 raggiungono lauti guadagni superiori alle due lire, ma non alle 2,50 e finalmente solo 2069 possono dire: guadagno una giornata umana. Perché prendo più di 50 soldi al giorno». Nei campi poi il lavoro delle donne era ancora meno retribuito e riconosciuto. La realtà del mondo del lavoro, sfatava la leggenda della donna del buon tempo antico, che accudiva serena alla casa e ai figli. Anzi la stessa maternità — come veniva denunciato sulle pagine dei giornali per le donne, quelli più politicizzati e non dedicati esclusivamente alle signorine borghesi, ma volti alla formazione della “donna nuova”, della donna “moderna” — era spesso un dolore, una croce per le ore rubate al sonno dopo il duro lavoro, per la povertà della famiglia che “non ha il pane, non ha vesti” da dare a quei figli che quando saranno cresciuti, se sopravviveranno — perché le tragedie della maternità quali l'aborto, la morte per indigenza erano frequentissime — andranno a lavorare duramente nei campi e nelle officine. Solamente quando «la libertà che noi invochiamo e vogliamo sarà un fatto compiuto, allora solamente la maternità non avrà vergogne, non paure, non ipocrisie, non delitti, ma sarà l'orgoglio e il trionfo della donna due volte benedetta, nell'amore e nella fecondità». Maggiormente sfruttate dal mondo della fabbrica erano poi le piccole proletarie, cercate dagli imprenditori per il basso costo e per le abilità particolari in alcuni lavori, così come risulta da numerose ricerche effettuate nei decenni a cavallo tra x1x e xx secolo dalle prime camere del lavoro e dalle organizzazioni assistenziali. 126

Certo non mancavano gli ostacoli all’affermazione di quella donna nuova di cui tanto si parlava, della donna moderna produttrice di ricchezza sociale, compagna dell’uomo, lavoratrice intelligente e energica che nella vita assumeva la propria parte di responsabilità civile e morale e non riparava nell'ombra della protezione maritale o paterna “come una pianta parassita che da sola non sa e non può vivere”. In una realtà in evoluzione, nelle mutate condizioni economiche, la donna — diventata «una compagna e, purtroppo talvolta, una concorrente dell’uomo nei campi, nelle officine, negli uffici» — non doveva, comunque più essere schiava o nemica, ma dotata di un «più dignitoso sentimento della propria personalità, per ottenere una reciproca promessa di aiuto e di consiglio, una più umana corrispondenza degli affetti, un più equilibrato concetto della giustizia sociale». Dalla donna moderna ci si aspettava che, pur rimanendo femminilmente dolce e buona, sapesse difendere la propria dignità e mettere un prezzo al proprio lavoro: infatti donna moderna è quella che «si cinge i lombi di forza, fortifica le sue braccia e non mangia il pane della pigrizia». E l’uomo cosciente, che volesse seriamente il bene del proprio simile non poteva che vedere di buon occhio questo movimento di risveglio delle donne, di emancipazione anche nel campo del lavoro. Ma non solo, doveva anche incoraggiarlo con tutte le sue forze, contro quella figura di donna incapace di affrontare con tenacia e costanza i problemi, eternamente pupilla dell’uomo, “edera che si appoggia alla quercia”. E solo nel nostro secolo che si evidenzia sempre più la crescente influenza delle donne negli ingranaggi della società, sia pure con un percorso non sempre lineare. Se negli anni della grande guerra le donne sperimentarono spazi fino a quel momento loro preclusi, la fine del conflitto parve riportarle, spesso col loro consenso, nel ruolo tipico di madre e di sposa. Certamente le donne, prima ancora che gli uomini, subiscono le scosse di economie in crisi e pagano per prime l’adattamento del mercato di lavoro. Oggi le donne vanno a scuola, per poi lavorare, incoraggiate da molteplici obiettivi, ma principalmente dal desiderio dell’affermazione di se stesse come individui autonomi, economicamente indipendenti, capaci anche di inventarsi una propria carriera. Le donne si pongono come competitive anche in attività in cui spesso erano state discriminate (chirurghi, scienziate, imprenditrici). Ma è una scelta non priva di difficoltà. Se Coco Chanel, la grande creatrice di moda, poteva

apparire eccentrica, sicuramente fuori dalla norma per stile di vita e di comportamenti, quanto decideva di aprire nel cuore di Parigi un proprio atelier, anche le donne-manager a noi più vicine, poche (CI

sottoposte a conmaPisisempre di più, vengono guardate con diffidenza, fata definite “superfemminilità, tinui esami e, quasi a snaturarle della loro women” o come titolava un film di discreto successo “donne in carriera”.

Bibliografia — M.G. Muzzarelli, P. Galletti, B. Andreolli (a cura di), Dorne e lavoro nell’Italia medievale, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991.

— C. Pancino, I/ bambino e l’acqua sporca. Storia dell’assistenza al parto dalle mammane alle ostetriche (secoli xvixIx), Milano, Angeli, 1984. — L.A. Tilly, J.W. Scott, Donne, lavoro e famiglia nell’evoluzione della società

— M.V. Ballestrero, Dalla tutela alla parità. La legislazione italiana sul lavoro delle donne, Bologna, Il Mulino, 1979.

— Club Olimpya (a cura di), La donna socialista. Ines Oddone Bitelli: una donna, un giornale, Bologna, Cappelli, 1993"

— A. Groppi (a cura di), I/ lavoro delle donne, Roma-Bari, Laterza, 1996.

capitalistica, Bari, De Donato, 1981.

Maria Dalle Donne e la Scuola per le levatrici dell’Università di Bologna Maria Dalle Donne viene ricordata come la prima insegnante della Scuola per le levatrici, istituita presso l’Università di Bologna nel 1804, ma in quegli anni era già nota nell’ambiente colto cittadino per la sua vasta cultura in ambito sia scientifico che letterario. Il primo interesse di Maria erano infatti stati gli studi filosofici, poi, considerata la sua predisposizione, si impegnò nel campo della medicina. Maria Dalle Donne era nata in un piccolo paese delle colline bolognesi nel 1778, dove i suoi genitori erano semplici agricoltori. Fu un sacerdote, cugino del padre, che ebbe cura della sua istruzione; colpito dalla vivacità e dall’intelligenza della bambina, don Giacomo la presentò al medico condotto di Medicina, il paese dove egli esercitava il suo ministero, che la volle con sé per istruirla in maniera sempre più approfondita nelle lettere italiane e latine. Maria non deluse le attese dei suoi maestri avviandosi a una brillante carriera scolastica che nel 1799 si concludeva con la laurea. Era il primo pomeriggio del 19 dicembre 1799 quando, accompagnata da Clotilde Zamboni, Maria entrava nel Teatro anatomico dell’ Archiginnasio dove avevano già preso posto i rappresentanti dei Collegi di Medicina e di Filosofia e un folto e scelto pubblico tra cui molte nobildonne. 128

Con abilità e grande eloquenza discusse le tesi attribuitele e la laurea le venne assegnata per acclamazione. Fu un avvenimento che non passò sotto silenzio e la stampa bolognese dell’epoca, di solito più attenta alla politica che non alla cronaca, le dedicò l’onore della prima pagina. Pochi mesi dopo, ancora sulla “Gazzetta di Bologna”, si leggeva che Maria Dalle Donne aveva sostenuto con plauso tre pubbliche dispute, di cui una riguardante argomenti di ostetricia, quale prova richiesta per ottenere incarichi di insegnamento all’Università. Nelle sue tesi, Maria Dalle Donne rifletteva le conoscenze scientifiche del-

l'epoca, ma esprimeva anche idee personali; attribuiva, ad esempio, grande importanza all’osservanza delle regole igieniche, soprattutto alimentari, il che consentiva, a suo parere, una vita più sana ed un

minor ricorso agli altri due tipi di terapia: la chirurgica e la farmacologica. Il 31 maggio 1800 Maria venne iscritta “come Accademica soprannumeraria, ossia straordinaria, all'Ordine de’ Benedettini Accademici Pensionati”, titolo che in precedenza era stato conferito solamente a un’altra donna, Laura Bassi. Questa decisione presa dal Governo austriaco, che in quel momento dominava in città, venne ribadita l’anno successivo dai membri della Repubblica Cisalpina. Ma la carriera di Maria non era che all’inizio. In quegli anni, sulla spinta delle innovazioni apportate dall’occupazione francese, si stava manifestando un sempre maggiore interesse per il problema dell’assistenza

alle partorienti e dell’istruzione delle levatrici. Fino ad allora l’istruzione di queste ultime era stata affidata alle comari più esperte e in misura minore a chirurghi “ostetricanti”, che impartivano lezioni private. Se la creazione nel 1757 della prima Scuola di Ostetricia italiana presso l’Istituto delle Scienze bolognese aveva contribuito notevolmente a migliorare il grado di preparazione delle levatrici, tuttavia i corsi tenuti a un livello scientifico molto alto facevano sì che solo le più istruite, quanto meno le alfabetizzate, potessero seguirli. Per ovviare a ciò si pensò di istituire una Scuola per levatrici, sul modello di quella esistente presso l'Ospedale Santa Caterina di Milano. Era il gennaio del 1804 e a Maria Dalle Donne venne affidata la direzione della scuola. Maria si impegnò notevolmente per definirne il regolamento e, cosa ancora più difficile, per trovarvi una sede, soprattutto in considerazione del fatto che ella partiva dalla convinzione che tale Scuola dovesse essere inserita in un reparto ospedaliero per consentire che alle lezioni teoriche potessero accompagnarsi quelle pratiche sulle partorienti. Le difficoltà a trovare finanziamenti ostacolavano l’avvio di una pur così utile iniziativa, allora Maria decise di tenere le lezioni nella L29

propria abitazione, ottenendo il permesso ufficiale dal Governo. L’attività didattica della dottoressa Dalle Donne si protrasse per quasi tutta la prima metà del secolo. Nelle sue lezioni alla competenza scientifica univa doti di chiarezza e semplicità, poiché era ben consapevole del basso livello culturale delle allieve. Non le faceva difetto neppure un sentito rigore: infatti si mostrava piuttosto severa nell’ammettere le allieve all’esame finale ben sapendo che l’ignoranza e l’inesperienza avrebbero potuto mettere in serio pericolo la vita della madre e del nascituro. Nonostante l'ammissione dell’importanza della Scuola e il suo riconoscimento ufficiale da parte delle autorità governative, il peso e la cura di tutta l’attività svolta era sulle spalle della Dottoressa, che solamente nel 1815 potè valersi di un regolamento la cui definitiva approvazione si ebbe dieci anni più tardi, nel 1825. Da quel momento la consuetudine diveniva norma: le aspiranti levatrici dovevano frequentare un corso della durata di un anno e mezzo e fare pratica per sei mesi presso uno studio medico o presso un’altra levatrice; al termine di questo periodo l’allieva otteneva un attestato di idoneità dalla maestra che le consentiva di sostenere l’esame finale, superato il quale riceveva una patente, Put per esercitare la professione. Il numero sempre crescente di allieve rappresentava il successo della scuola, ma anche, e soprattutto, della sua Maestra che continuò a dedicarvisi fino alla sua morte avvenuta improvvisamente nel 1842.

i

Bibliografia — O. Sanlorenzo, Maria Dalle Donne e la Scuola di Ostetricia nel secolo xIx, in “Alma Mater Studiorum”. La pre-

senza femminile dal xv al xx secolo, Bologna, CLUEB, 1988.

— A. Bellei, La dottoressa Maria Dalle Donne prima insegnante della Scuola delle levatrici in Bologna, in “Bullet-

tino delle Scienze Mediche”, Bologna 1941.

Argentina Bonetti Altobelli e l'emancipazione delle donne: “lavoro, suffragio, educazione” Argentina nacque a Imola nel 1866 e fin da bambina respirò il clima di forte politicizzazione che pervadeva gran parte degli ambienti della sua città. La sua famiglia di origine aveva sempre manifestato ideali liberali, ma Argentina si orientò fin da giovanissima verso il 130

mazzinianesimo per poi approdare, in ciò sicuramente influenzata dalla propaganda e dall’azione del concittadino Andrea Costa, al socialismo. Il suo impegno, segnato da un solerte attivismo, la portò a Bologna dove, negli anni Ottanta del secolo scorso divenne presidentessa della Società Operaia femminile — nel momento in cui l'associazione si separava dalla consorella maschile per avviarsi sulla strada delle realizzazioni autonome — e successivamente membro della commissione esecutiva della Camera del lavoro. Nel 1901 fu tra coloro che fondarono la Federazione nazionale dei lavoratori della Terra, di cui nel 1906 divenne segretaria. Nell’impegno di sindacalista mise in evidenza tutta la propria sensibilità umana, impegnandosi in battaglie per la difesa delle mondariso, per la contrattazione e per la creazione di cooperative agricole. Animata da un forte sentimento umanitario Argentina non si limitò a occuparsi delle condizioni di lavoro dei contadini, ma prestò attenzione anche ai diversi aspetti della loro vita famigliare, dalle abitazioni alla situazione igienico-sanitaria. Nel 1901 scriveva sulle pagine dell’“Avanti!”: «Reclamiamo la casa igienica, ampia, pulita, dove le donne possano compiere il loro ufficio di ordine e di nettezza, dove il lavoratore possa godere nelle ore stanche le dolcezze del riposo, dove non si viva accatastati come bestie né colle bestie come fanno d’inverno rifugiandosi nella stalla unico ambiente riparato; dove i loro figli possano accorgersi che hanno una famiglia non più dispersa per il fienile o nella stalla, ed abbiano un angolo tranquillo in cui poter studiare e sentire la dignità di uomini». Argentina collaborò anche a parecchi giornali, tra cui “Su, compagne” e “La difesa della lavoratrice”, dedicati questi due alla pro-

paganda fra le donne. L’Altobelli del resto svolse un ruolo di attiva conferenziera in tutte le campagne sostenute dai socialisti italiani a favore dell’emancipazione femminile, da quella per il suffragio (nel 1904 fu presente come delegata dell'Alleanza femminile italiana al Congresso internazionale femminile di Amsterdam) o per il divorzio, alla propaganda per la partecipazione delle donne alla vita politica e sociale. Non esitò neppure ad assumere atteggiamenti polemici nei confronti del Partito Socialista, come quando nel 1921 ebbe a dire ai suoi compagni «Alla direzione del partito bisogna porre il dilemma: O dovete ottemperare allo statuto che ha nei suoi commi l’emancipazione della donna, o dovete dire che ciò esula dal nostro compito». L’idea che donne come Argentina Altobelli avevano della questione femminile era di un impegno e di una lotta completamente inserita nella lotta di classe, per la quale era in primo luogo necessaria l’organizzazione politica. Per la segretaria della Federterra una reale rivoluzione delle coscienze era possibile solo a partire dall’edu16:

cazione delle donne e delle madri. Il suo impegno a favore delle lavoratrici fu incessantemente percorso da tre richieste: lavoro, suffragio ed educazione. Attraverso la proposta di un’attività politica che perseguisse questi obiettivi e attraverso la rielaborazione in chiave socialista della figura della madre, traspare il progetto di una trasformazione dell'identità femminile, così presente nelle attiviste socialiste. Colei di cui si attendeva il risveglio dal secolare sonno della schiavitù sessuale, colei i cui connotati sembravano comparire sui volti delle mondariso scioperanti o delle vendemmiatrici abruzzesi, era la nuova donna socialista, lavoratrice, fiera del proprio ruolo, cosciente dei propri diritti e pronta a combattere per farli valere, ma anche capace di profonda solidarietà e di convinto sacrificio. Argentina aveva ben presente sempre il quadro intenso e doloroso delle condizioni di sfruttamento delle lavoratrici italiane all’inizio del secolo e si batteva per affermarne i diritti: prima di tutto la necessità di percepire salari più alti e di condurre una vita più dignitosa. E su questi temi invitava le donne a organizzarsi, a essere solidali con le compagne in lotta. Se era vero che il lavoro in fabbrica concedeva alla donna la disponibilità, per lei altrimenti sconosciuta, di un po’ di denaro e dunque la avviava sulla strada dell’emancipazione, altrettanto vero era che il lavoro le chiedeva in cambio sacri-

fici insopportabili. Soprattutto le chiedeva di venir meno al proprio dovere di madre. La madre lavoratrice era, suo malgrado, meno madre,

poiché aveva meno tempo da trascorrere con i figli e, distrutta dalla fatica, spesso li trascurava, occupandosi di loro con insufficiente dedizione. Per rompere queste sofferenze, Argentina, al pari delle altre propagandiste socialiste, pensava e credeva in un diverso ruolo della famiglia e soprattutto sognava il realizzarsi della “famiglia socialista”, in cui i coniugi fossero compagni nella politica, negli affetti e nella solidale educazione dei figli. Il privato dunque restava centrale nel progetto di identità femminile di una donna come Argentina Altobelli che nel pubblico impegnava tutta se stessa, un privato secondo il quale le donne avrebbero arricchito la società infondendo nella vita pubblica valori e sentimenti della propria vita familiare e intima. La famiglia di Argentina sembrò essere rispondente a quel modello: sposa di Abdon Altobelli, anch'egli socialista, educarono il figlio Demos al loro ideale fino a farne uno dei più attivi propagandisti del socialismo bolognese. Con l'avvento del fascismo e lo scioglimento forzato della Federterra, Argentina rientrava nell'anonimato, iniziava a lavorare come impiegata e si dedicava alla famiglia. Moriva nel 1942. 132

Bibliografia — G. Casalini, Argentina Altobelli, epi-

sodi di una donna battagliera, Forlì, sint. e s.d.

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stione femminile in Italia, 1892-1922, Milano, Mazzotta,

1974.

pazionista în Italia, Siena, Diparti-

Coco Chanel, stilista e creatrice di moda La giovane Gabrielle Bonheur Chanel nasceva a Saumur in Francia nel 1883 e niente si conosce della sua infanzia e della sua formazione,

anche se è possibile ipotizzare che avesse già fatto pratica in sartoria e come modista ancor prima di trasferirsi a Deauville per lavorare in un negozio di cappelli. Deauville era, in quegli anni, uno dei più importanti centri balneari francesi, un posto alla moda. Proprio lì, mentre esplodeva in tutta Europa la mania della balneazione e sempre più si diffondeva il fenomeno borghese della villeggiatura al mare, spuntavano le prime tende sulla spiaggia, tende simili a quelle militari, con verande di tela e apparivano anche i primi ombrelloni avvolti da teloni con la doppia funzione di riparare e di proteggere dal vento e dal sole. A Deauville, Coco si trasferiva nel 1910 e, dopo due anni trascorsi a lavorare come modista, vi apriva una propria attività completata, nel 1914, con l’avvio di un negozio a Parigi. All’interno delle due piccole imprese la giovane sperimentava le proprie capacità di stilista e manageriali: creava e vendeva cappelli, semplici e morbide bluse e camicette. Secondo i dettami di una moda che volevano la donna sempre più libera nei movimenti, anche perché sempre più portata verso le pratiche sportive, gli abiti di Coco Chanel erano concepiti per essere portati senza busti e corsetti, avevano fodere più leggere del consueto per renderli meno rigidi. Nel 1914 lanciò lo chemisier, nel 1916 in pieno conflitto mondiale, iniziò a creare abiti, quelli che sarebbero presto divenuti i suoi famosi tailleur, in jersey, un tessuto poco costoso. Lo stile Chanel ben presto divenne per le signore della media e alta borghesia un modello a cui ispirarsi, anche se spesso, pur nella sobria eleganza, poteva apparire trasgressivo. Nel 1918, adattati i maglioni da uomo alla figura

femminile, li proponeva abbinati a gonne dritte; nel 1920, ispirandosi al modello a campana di stile marinaro introdusse i pantaloni 133

a gamba larga per le donne; due anni più tardi questi furono seguiti da ampi pigiami da spiaggia dal taglio morbido. Se nella sua attività di stilista spesso si ispirò alla vita marinara fu anche perché l’era balneare aveva preso il via. E Coco Chanel ne fu la cantatrice. Sicuramente non “inventò” l'abbronzatura come vogliono i suoi apologeti, ma la legalizzò facendola assurgere a moda. AI culto anglosassone del sole diede l'impronta dello chic, rovesciò il colore della miseria in un simbolo di status. Come scrisse di lei nel 1931 Janet Flanner, corrispondente del “New Yorker”: «Chanel ha lanciato la gente povera, ha introdotto al Ritz la maglia, reso elegante il colletto e la cresta della donna di servizio, utilizzato il foulard del terrazziere e vestito le regine con combinazioni da meccano». Ma come è avvenuto più in generale nel campo dell’abbigliamento, il capovolgimento dell’ordine dei segni distintivi si è palesato solo quando l’abbronzatura è stata completamente svuotata del suo significato originario. Era necessario cioè che la pigmentazione scura del bagnante, sportivamente vestito e svestito in riva al mare, non avesse niente più di riconducibile al contadino. Esiste una fotografia proprio di Coco Chanel del 1918 distesa al sole, molto emblematica al proposito. Essa offriva il volto al sole ma teneva i guanti alle mani «perché le mani abbronzate erano oggetto di un pregiudizio più definitivo di quello dei volti. Una donna di mondo non poteva né in pubblico né in privato mostrare delle mani da lavoratrice». La vita privata di Coco, portata spesso alla ribalta della cronaca, accrebbe la sua popolarità e la sua influenza sulla moda negli anni successivi la prima guerra mondiale. Era solita indossare lei stessa i capi che aveva riadattato dal guardaroba maschile: impermeabili con cintura, camicie da indossarsi a collo aperto, pantaloni, morbidi berretti. Altre innovazioni quasi rivoluzionarie per l'epoca furono i grandi fiocchi, i bottoni dorati, i sandali con cinturino, borsellini e borsette

con la tracolla costituita da una catena dorata. Ma la vera grande rivoluzione la donna Coco la attuò nel 1929 aprendo e gestendo personalmente, dimostrando in tal modo anche notevoli capacità manageriali, un proprio salone a Parigi con annessa boutique dove vendeva accessori da lei stessa disegnati. Tanto spirito d’iniziativa colpì anche il più smaliziato mondo americano che nel 1930 la chiamò a Hollywood per disegnare costumi da film. E con la United Artists collaborò fino a metà degli anni Trenta, quando tornò in Francia per riprendere il proprio “mestiere” originario: la produzione di abbigliamento. Nel 1939 Coco chiudeva il suo salone e la sua avventura pareva destinata agli annali della moda. Ma, donna imprevedibile, sempre pronta a nuove avventure, nel 1954, a settan134

tun anni riapriva la casa di moda Chanel, presentando una nuova collezione di abiti che si ispirava chiaramente ai modelli in voga negli anni della prima guerra mondiale. Fu una sfida, ma una sfida vincente: il mondo della moda ebbe uno choc al vedere riproposti quegli abiti, eppure le donne iniziarono ad acquistare con rinnovato entusiasmo i tailleur Chanel, il cui modello, negli anni Sessanta costituì

il simbolo dell’eleganza tradizionale. Coco moriva nel 1971. Bibliografia — E. Charles-Roux, Le temps Chanel, Paris, 1979.

— G. O'Hara, Il dizionario della moda. I protagonisti, i movimenti, i segni, le

— G. Triani, Pelle di luna pelle di sole 3 j

parole: tutto ciò che fa moda dal 1840 ai giorni nostri, Bologna, Zanichelli,

Nascita e storia della civiltà balneare 1700-1946, Venezia, Marsilio, 1988.

1950.

135

Ruoli effettivi e assenze di rilevanza di F. Tarozzi

«Una casa senza donna è come un focolare spento». Nella casa e nella famiglia, nel ruolo di madre e di sposa, la vita delle donne si è silenziosamente realizzata in secoli di storia tanto da fare affermare a quei manualisti che nel secondo dopoguerra fornivano alle giovani studentesse italiane della scuola media inferiore “nozioni di economia domestica” (materia che occupava un suo preciso spazio

tra gli insegnamenti ufficiali): «umile compito può apparire quello della donna: è in effetti umile e grande, anche se ella non può infrangere, senza compromettere la propria felicità, certi limiti che la natura e la tradizione hanno posto alla sua attività». (C. Piersanti, Lezioni di economia domestica per le alunne della scuola media, Bologna, Zanichelli, 1950).

Dove stava nascosta tale umile grandezza? Nell’impegno quotidiano di madre che alleva, educa e conforta i figli; che assiste i vec-

chi genitori; che prepara il “nido domestico” al marito che col suo lavoro è il perno di tutta la famiglia. Ben poco pare cambiato rispetto al modello dominante che l’Ottocento aveva stigmatizzato nel binonio cervello-cuore a rappresentare la coppia borghese e che si realizzava di fatto in questi termini: l’uomo come l’attività esteriore e il cervello, la donna come l’interiorità domestica e il cuore.

Neppure di fronte all’evidenza dei fatti — la società di massa aveva chiamato e continuava a chiamare le donne fuori di casa, a un lavoro

necessario al bilancio familiare, così come l’allargarsi delle opportunità e delle capacità le aveva spinte a impegni professionali per anni a loro preclusi — si voleva ammettere che la donna potesse pensare di rinunciare al suo ruolo di madre e di sposa, a quella domesticità che la voleva prima lavoratrice in casa — e meglio ancora solamente “casalinga” — e poi, eventualmente, fuori. “Vi sono madri — si legge ancora nel testo di Carlo Piersanti — che debbono disertare la casa per qualche ora del giorno, per accudire altrove a un lavoro indispensabile al benessere della famiglia. Molte lavorano al pari di un uomo; 136

ma prima di allontanarsi, hanno già provveduto perché i piccini non sentano il disagio della loro assenza. Quando poi tornano, lasciano sulla soglia il tedio del mondo estraneo, per non intristire la casa col residuo opaco della loro stanchezza, e porgono premurose l’orecchio alle confidenze del compagno, che riversa in loro le proprie gioie ed i propri dolori. Quelle che, pur essendo state educate a studi virili, hanno il privilegio di vivere tutte nella casa e per la casa, umanizzano la cultura facendosene strumento di comprensione amorosa, ponendola al servizio dei figli che crescono e del marito che chiede alla loro intelligenza il lume di un accorto consiglio”. In altre parole, ma non con dissimile retorica, venivano ribaditi quei consigli che le precettiste dell'Ottocento — le autrici di galatei, di romanzi educativi popolari, di libri di “buone maniere” tra cui emergevano per qualità e ricchezza di produzione Tommasina Guidi, la Marchesa Colombi (Maria Antonietta Torriani Torelli Violier), Mantea (Gina Sobrero),

Matilde Serao, Emilia Nevers — davano alle giovani spose: presentarsi sempre ordinate («se tuo marito ti trova bella, se gli piaci, è il suo amore che guadagni»), accurate nel vestire in casa come fuori, curare il guardaroba del marito e tenere con ordine la corrispondenza perché “serve alle sue relazioni sociali”, accettarne i doni con entusiasmo, senza lamentarsi di eventuali dimenticanze.

Dunque sfera pubblica e sfera privata erano quasi totalmente occupate dalla presenza maschile. Sul rapporto uomo-donna si andava a costruire l’identità maschile che si estrinsecava nella capacità professionale e nell’appartenenza a un gruppo politico. Mentre il marito borghese si affermava in una società in rapida trasformazione, nella quale per lui si accrescevano le possibilità di carriere, di ascesa sociale, di arricchimento, la moglie, chiusa nel suo mondo domestico, colti-

vava virtù tipicamente femminili quali sensibilità, dolcezza, innocenza. La cultura borghese ottocentesca codificava di fatto nei suoi modelli comportamentali i ruoli dell’uomo e della donna, ancor più di quanto non fosse avvenuto nei secoli precedenti. Già in età medievale il matrimonio e la famiglia avevano costituito la cornice ideale entro cui racchiudere il quadro dell’esistenza femminile; un’esistenza pilotata da altri perfino nella scelta matrimoniale. L'unione tra due giovani, ad esclusione ovviamente di quelli appartenenti ai ceti socialmente più bassi, era infatti tra gli strumenti fondamentali per il mantenimento di strutture di potere e di capitali e alle donne era impedita qualsiasi ingerenza nella scelta indirizzata dalle generazioni più anziane. Tutto ciò portava la donna a condurre una vita familiare accanto a un marito imposto e per giunta totalmente votata ai suoi interessi e ai suoi bisogni. A rafforzare norme 137

di vita consuetudinarie si aggiungeva poi la morale cattolica che considerava un buon matrimonio solamente quello in cui la donna obbe-

diva e il marito, incondizionatamente, dominava. Un quadro non certamente idilliaco, rotto a volte da reazioni vivaci come testimoniano le richieste di separazione e anche le denunce contro i mariti per oltraggi o percosse, più spesso da piccole e grandi ribellioni che vedevano le donne ignorare o non rispettare le volontà e i segreti del marito-padrone, avviare relazioni extraconiugali contravvenendo a

quella norma che voleva che la fedeltà coniugale avesse più valore per le mogli che non per i mariti. A rompere questo modello erano le donne della nobiltà: forti del potere economico che mantenevano anche dopo sposate, esse erano autorizzate a disporre dei propri beni anche nella casa maritale, a gestire le proprietà terriere personali sia pure con l’aiuto di potenti amministratori e a dirigere il personale di servizio. Ciononostante anche «la vita matrimoniale delle nobili nel tardo Medioevo si caratterizzava ugualmente per la scarsa intensità dei ritmi e delle emozioni». Meno repressive erano le consuetudini di vita all’interno della famiglia borghese cittadina, dove comunque non si rompeva la regola della sottomissione della volontà femminile a quella del marito padrone. Tuttavia alle donne si attribuiva il compito di gestione delle entrate della casa e di governo di una schiera numerosa di domestici e servitori. Se poi ci riferiamo alle famiglie borghesi dell'Europa centro-settentrionale, vediamo come spesso le donne avessero un ruolo attivo anche nel commercio e nell’attività artigianale del coniuge specie laddove casa e bottega erano indistinte. A dare un significato positivo alla vita di queste donne compresse nella realtà angusta della casa e della famiglia era la maternità: nell'educazione dei figli si affermava uno dei valori più alti della donna e si definiva quel ruolo di madre che avrebbe accompagnato per secoli l'universo femminile. In età moderna le figure di nutrice e educatrice dei figli stigmatizzarono i comportamenti femminili. Era compito della donna tenere caldo il bambino, nutrirlo, pulirlo; ad assolvere tale impegno erano

però spesso le nutrici e le balie a cui aristocratiche come donne del ceto medio e lavoratrici affidavano i figli per essere le une più libere di assolvere i propri “doveri” sociali e le altre per necessità. Superata però l’età dell’infanzia il bambino trovava nella madre la sua prima educatrice; ma il significato di questa parola assumeva contenuti diversi a seconda del ruolo sociale, del luogo e del momento. Il primo insegnamento, sempre e ovunque, era rivolto ad inculcare nella prole l’idea della necessità di bene comportarsi nel mondo 138

in cui si viveva, nel gruppo che si rappresentava. Così la signora dell'aristocrazia, circondata da balie e governanti che l’aiutavano, insegnava le regole del buon comportamento e, specie alle figlie femmine — il cui successo sociale sarebbe stato premio al suo nascosto lavoro — a sapersi presentare, parlare, vestire, danzare, eseguire ricami, suonare uno strumento. Tra i primi e fondamentali insegnamenti, invece, che la madre del ceto medio trasmetteva alle figlie vi era quello di tenere i conti della casa e di gestire servitori e dipendenti. Se gran parte delle regole venivano tramandate oralmente da madre a figlia, a partire dal xvi secolo cominciarono a diffondersi i primi libri sulla condotta domestica, a cui si aggiunsero progressivamente trattati e manuali di buon comportamento — veri e propri codici “delle leggi di convivenza civile”, di “buone usanze” —, il primo e più importante regalo di nozze che qualche parente premuroso non mancava mai di far recapitare alla giovane sposa. Norme comportamentali, ma spesso anche norme giuridiche, definivano il ruolo della donna nella famiglia. Istituzione sempre più riconosciuta nei paesi dell’Eruropa occidentale come fondamento dell’ordine sociale, la famiglia è la “piccola patria”, in cui nasce e si rafforza l'attaccamento verso la “patria più grande”, cioè lo Stato. Nel rapporto di coppia si stabiliva una precisa gerarchia partendo dal principio che «il marito deve protezione alla propria moglie, la moglie ubbidienza al marito» come recitava art. 213 del Codice francese, ma che anche si ritrovava scritto più o meno esplicitamente in tante altre legislazioni. La moglie assumeva di solito la nazionalità del marito e il suo cognome; doveva abitare presso la residenza del marito; doveva essere prima di tutto madre senza tuttavia avere diritti sui figli, nei confronti dei quali il padre esercitava la propria “potestà”. A lei tuttavia spettava il compito di educare i figli, di formare il cittadino e su questo ruolo si rafforzò l’idea che soprattutto una buona cittadina potesse formare un buon cittadino, idea alla base di gran parte del movimento emancipazionista ottocentesco.

Ma quali erano le prospettive di quelle donne che erano o restavano sole? Di quelle cioè che per libera scelta non sceglievano la via del matrimonio o che i casi della vita rendevano vedove? Già nel Medioevo il numero delle persone non sposate era elevato sia in città che in campagna: per le donne la scelta del nubilato poteva significare la via del convento o quella della definizione di un ruolo particolare che nella società a noi contemporanea è segnato col termine di “single”, e in passato con quello di “zitella”. Poi c'erano le vedove. Per le donne la morte del marito significava la perdita del signore e del padrone. Diversa era la sorte delle 109

vedove a seconda del loro stato sociale: nella società nobiliare tardo medievale, ad esempio, esse godevano di una discreta libertà e potevano anche pensare a un eventuale nuovo matrimonio, ben sapendo di avere ottime possibilità di risposarsi. Altre ancora sceglievano la via del convento dove spesso si ricreavano quelle gerarchie per cui le donne dei ceti inferiori potevano al massimo entrare nelle comunità religiose al servizio delle donne nobili che grazie al loro patrimonio potevano assumere posizioni di privilegio. Le possibilità di una più autonoma gestione delle proprie sostanze e della propria persona da parte di una vedova aumentarono in età moderna. Un’aristocratica era, almeno teoricamente, padrona del suo appannaggio vedovile o quantomeno della rendita che le era stata accordata all’atto del matrimonio in caso di morte del marito. Ancora maggiore libertà d’azione era lasciata alle vedove delle famiglie artigiane urbane: esse erano ancora meglio preparate all’eventualità della morte del coniuge in quanto potevano continuare quell’attività commerciale a cui già contribuivano da maritate. E troviamo infatti, in età moderna, un vasto numero di taverne, caffè, negozi di vivande gestiti

da vedove con i propri figli. Più grama era la vita delle zitelle, a meno che non avessero alle spalle una famiglia in grado di mantenerle. Il basso rilievo delle paghe femminili e le scarse possibilità occupazionali spingevano le donne nubili a raggrupparsi tra loro creando delle reti amicali di sostegno delle une con le altre, oppure a vivere assieme ai fratelli. Certo è che fino alle soglie dell’età contemporanea al di fuori della famiglia e dei ruoli stabiliti di figlie, madri e mogli, le donne vedevano ben poche prospettive e ciò andava a rafforzare quei modelli, imposti da cui solo un atteggiamento “rivoluzionario”, una scelta di rottura, le avrebbe liberate. A metà del x1x secolo la società vittoriana denunciava, attraverso

la stampa, il crescente fenomeno delle donne sole: per caso, perché vedove, o per necessità, perché era più facile trovare un lavoro per quelle che non erano gravate dalla famiglia. Se le domestiche e le governanti vivevano la loro solitudine in casa d’altri, al servizio di quelle signore a cui la società borghese trionfante aveva moltiplicato gli impegni sociali e di rappresentanza (il salotto, il teatro, la villeggiatura), erano però le operaie quelle che soffrivano maggiormente le trasformazioni imposte da un allargato mercato del lavoro che generava spesso nuove solitudini. Ne costituirono un emblematico esempio i conventi-setifici sorti a Lione attorno al 1830 sul modello Lowell americano, dove le fanciulle trovavano riparo e difesa della loro mora140

lità e dove contribuivano con il loro lavoro al mantenimento della famiglia, ma dove conducevano una vita solitaria da vere e proprie “recluse”. La riflessione sul moltiplicarsi di questi ruoli femminili subordinati fu sicuramente all’origine della protesta delle donne attraverso la scrittura prima e l’organizzazione di movimenti e associazioni poi. Forte divenne la richiesta di una maggiore libertà di scelta — inclusa quella del divorzio — dell’abbattimento di pregiudizi inveterati, tra cui quello di stigmatizzare le donne sole come zitelle o di ridurle al ruolo di recluse. Certo che lo spauracchio grottesco della zitella continuò a riproporsi per lungo tempo e le manualiste ottocentesche non smisero di sollecitare le signorine a trovarsi un marito, a concludere anche un matrimonio “di convenienza” pur di non rimanere sole. Quando ci si fidanzava e maritava dopo i vent’anni, soglia massima oltre la quale si entrava nel gruppo delle zitelle, occorreva comportarsi in maniera più riservata e non pubblicizzare una azione più obbligata che non scelta liberamente. «Cambiano alquanto le cerimonie se la sposa ha oltre passato i trent'anni: in questo caso ella darà prova di buon senso non facendo pompa dei suoi sentimenti: il suo matrimonio, anche se ispirato dall’affetto, ha per il mondo piuttosto scettico, l'apparenza di un affare» (T. Guidi, I/ bro della vita delle donne italiane, 1912).

Altrettanto difficile da scalfire risultò lo stereotipo della donna angelo del focolare, della donna casalinga che permane anche nella società di massa del xx secolo e che viene periodicamente riproposto come “modello alto” specie nei momenti di crisi e di recessione economica. Il regno della donna resta la casa e nella sua condizione come nell’educazione dei figli essa deve realizzarsi. Per conciliare le aspirazioni a una indipendenza economica o anche permettere di essere di aiuto al buon andamento del bilancio familiare con l’ubbidienza a doveri consolidati dalla tradizione, per consentire alle donne di essere sia madri di famiglia che lavoratrici si offre loro la possibilità del lavoro part-time: un’invenzione legale di svalutazione del lavoro femminile, sminuito, meno retribuito, privo di prospettive di promozione, di carriera, ma salvaguardia dei due poli dell’attività femminile di oggi: la famiglia e il lavoro. A questo quadro si può aggiungere tuttavia un dato positivo: nell’ultimo cinquantennio del nostro secolo le famiglie hanno visto mutare notevolmente il loro universo domestico e il lavoro casalingo; parliamo ovviamente dei paesi ad avanzato sviluppo capitalistico, ma vi sono realtà dove debolezza economica e forme di integralismi culturali mantengono la donna in uno stato di povertà e di dipendenza 141

dall’uomo. Laddove invece è esplosa quella che è stata definita la società del benessere la nuova casa è stata costruita secondo standard di modernità: più ampli spazi disponibili, servizi efficienti in grado di rendere meno pesante il lavoro della casalinga. Il collegamento degli alloggi ai centri di distribuzione di acqua e di energia non ha solamente eliminato i compiti più gravosi, ma anche permesso la “meccanizzazione” di molti lavori domestici e oggi in quasi tutte le nostre case non mancano la lavatrice, la lavapiatti, il frigorifero, il congelatore, ecc. I lavori casalinghi sono stati trasformati anche dalla messa a punto e dall’utilizzazione sempre più massiccia di sostanze moderne (prodotti semipreparati e surgelati, detersivi, articoli di carta a uso domestico); tutto questo ha permesso alla donna

di liberarsi da antiche schiavitù e di trovare nuovi spazi per se stessa, nuovi tempi da riempire in funzione della propria persona, della propria famiglia, ma anche dell'impegno sociale fuori dalle mura domestiche.

Bibliografia — G. Duby, M. Perrot (a cura di), Storia delle donne, 5 voll., Roma-Bari, Laterza, 1990-1992.

— M. Pelaja, Matrimonio e sessualità a Roma nell'Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1994.

— P. Ariès, G. Duby (a cura di), La vita

— M. De Giorgio, Le italiane dall'Unità

privata, 5 voll., Roma-Bari, Laterza, 1986-1990.

— G. Calvi, I/ contratto morale. Madri e

— E. J. Hobsbawm, L'età degli imperi 1875-1914.

a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1992.

Roma-Bari,

Laterza,

1987. — L. Guerci, La sposa obbediente. Donna e matrimonio nella discussione dell’Italia del Settecento, Tortino, Tirrenia Stampatori, 1988.

figli nella Toscana moderna, RomaBari, Laterza, 1994.

— G. Fiume (a cura di), Madri. Storia di un ruolo sociale, Venezia, Marsilio, 19954

Vivere la vedovanza

Uno dei tratti caratterizzanti l’età moderna fu il basso livello medio di vita di uomini e donne: carestie, epidemie, guerre e mille altri piccoli e grandi “accidenti“ (duelli, assalti di briganti, razzie di eserciti mercenari, ecc.) strappavano alle famiglie membri più o meno giovani e nei genitori era presente la consapevolezza del rischio di lasciare 142

orfani i propri figli. Se la vedovanza per l’uomo rappresentava un problema specie in rapporto all’educazione dei figli a cui provvedeva o affidandoli alle cure della figlia maggiore o contraendo un secondo matrimonio, per le donne la perdita del marito, in una società che le voleva dipendenti dall'uomo, costituiva un evento in alcuni casi traumatico, sicuramente gravido di pesanti conseguenze economiche,

sociali e psicologiche. Ovviamente la vita delle donne vedove era diversa da luogo a luogo, ma anche riflesso della loro condizione sociale. Così le aristocratiche, padrone del loro appannaggio vedovile, potevano gestire la propria vita con una relativa autonomia e anche contrarre altri matrimoni per libera scelta; mentre le borghesi, che ancora in vita il marito ne avevano condiviso l’attività di bottega o di commercio, potevano continuare a operare nello stesso settore e il loro lavoro era visto come necessario per il mantenimento dei figli. Diversamente nei ceti sociali più bassi la vedovanza costituiva un serio problema per le donne che spesso dovevano fare ricorso alla carità e alla beneficenza pubblica. In questa eterogeneità di situazioni le esperienze furono molteplici e pertanto non è possibile assumerne alcune come modello, ma solamente raccontare storie di vita, così come hanno fatto Maria Giu-

seppina Muzzarelli e Claudia Evangelisti nel volume collettaneo Rinascimento al femminile.

Alla penna della prima si deve il profilo della marrana Beatrice De Luna (nata Gracia Nasi), la cui vita si condusse tra il Portogallo (terra di nascita), Anversa, Venezia, Ferrara (città in cui fu successi-

vamente spinta dalla sua condizione di ebrea convertita) e la Turchia (dove morì). Di famiglia facoltosa, Beatrice unì al proprio patrimonio quello del marito, un ricco commerciante anch’egli marrano. Rimasta vedova a soli ventisei anni, con una figlia, Beatrice si tra-

sferì ad Anversa dove il fratello del marito (imparentato doppiamente con lei perché ne aveva anche sposato la sorella) la rese cointeressata alla gestione del patrimonio famigliare dei Mendes. In conseguenza alla successiva morte anche del cognato, Beatrice, nominata esecutrice testamentaria, ereditò metà del capitale e divenne amministratrice dell’intero capitale. Ciò rendeva le due sorelle De Luna, vedove Mendes, e le loro figlie, ancora minorenni, fortemente appetibili sul mercato matrimoniale e ovunque si trasferissero, a Venezia prima come

a Ferrara poi, non mancavano i pretendenti. A complicare una vita economicamente solida furono i conflitti di interesse fra le due sorelle e, soprattutto, la loro posizione di “cristiane nuove”. In realtà, come 143

molti ebrei convertiti, Beatrice e Brianda non si erano mai totalmente

staccate dalla religione originaria e proprio Beatrice impegnò gli ultimi anni della sua vita in Turchia — dove aveva ripreso il nome ebraico — a sostenere e ad affermare la cultura di appartenenza. AI di là di questo la vita di Beatrice (1510-1569 ca.) è significativa per il ruolo che ebbe nella sua famiglia e nel suo privato. Le donne ebree potevano, specie quelle appartenenti a una famiglia ricca e importante, amministrare e gestire grandi fortune. E soprattutto una vedova ebrea non si trovava a dipendere dalla famiglia del marito né tantomeno era costretta a tornare nella casa paterna. Le donne ebree anzi continuavano l’attività del marito ed esercitavano il potere tutorio sui figli. «Esattamente quello che fece Beatrice che si sposò come d’uso giovanissima e, morto il marito, si occupò sia degli affari della ditta Mendes sia della figlia e del relativo matrimonio». Ben diversa la vicenda di Angela Vallerani

(1559-1600

ca.),

anch’essa rimasta vedova giovanissima e con un figlio nato alcuni mesi dopo la morte violenta del marito e del suocero. Ad Angela — che viveva in un piccolo comune della montagna bolognese e non aveva le esperienze europee di Beatrice e neppure una cultura paragonabile con quella della giovane marrana, ma che era stata allevata per essere moglie e madre —, dopo la morte dei congiunti non solo venne tolta la tutela del figlio e del suo patrimonio, ma non le si riconobbe neppure la disponibilità della propria dote. Angela era, come si detto, una giovanissima sposa che viveva la propria esperienza in un ambiente geograficamente molto circoscritto. Sia la famiglia di origine che quella coniugale appartenevano a un ceto sociale ed economico medio-alto, dove vincoli e consuetudini erano rigidamente rispettati. Il ritorno alla casa paterna dopo la prima vedovanza riportò Angela a un’esistenza chiusa e solitaria, da cui sembrò trarla il secondo matrimonio con il bandito Battistino, matrimonio seguito a un rapimento e contratto nonostante l'opposizione paterna. L'arresto e la condanna a morte eseguita, di Battistino, resero di nuovo vedova la giovane che si vide ancora, e questa volta per sempre, ricondotta alla casa paterna. «Una vita — scrive Claudia Evangelisti — costantemente subordinata alla volontà e ai dettami paterni, ma anche segnata dai continui tentativi di liberarsi dal suo controllo e dalla sua tutela... Una lotta impari, destinata a fallire: troppo forti sono le resistenze di un sistema sociale patriarcale e di una mentalità maschile profondamente radicata che vede nella donna esclusivamente una figlia, una moglie e una madre obbediente».

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Bibliografia — M.G. Muzzarelli, Beatrice De Luna, vedova Mendes, alias Donna Gracia

Nasi: un’ebrea influente (1510-1569

vedova (1559-1600 ca), in “Rinascimento al femminile”, a cura di O. Nic-

coli, Roma-Bari, Laterza, 1991.

ca.) e C. Evangelisti, Angela Vallerani,

Esperienze di madri Nella società ottocentesca all’interno delle famiglie dei ceti medioalti, ibambini assunsero valori e risalti particolari fino a divenire veri e propri oggetti di “investimento” da parte dei genitori. Nella famiglia nucleare, distinta dai legami di parentela, andavano cambiando i metodi e i contenuti dell’educazione fino a considerare l'avvenire dei figli e la loro promozione sociale uno degli scopi essenziali e permanenti della strategia famigliare. In questo contesto un ruolo sempre maggiore assumevano le madri, viste nella loro funzione, di educatrici. Nella casa le donne divenivano padrone di un mondo protetto sempre dall’autorità del marito, ma in cui esse erano custodi dell’ordine, della moralità, del benessere dei famigliari e, soprattutto, le trasmettitrici di quelle regole, di quei comportamenti, di quei valori

in cui erano state a loro volta educate. La madre doveva rappresentare la virtù, la bontà, la dolcezza, ma anche il punto di riferimento di tutta una vita; e vi sono ricordi, di uomini diversi per origine e collocazione sociale — i fratelli Cairoli, Luigi Settembrini, Giuseppe Mazzini, Quintino Sella, Massimo

d’Azeglio — che testimoniano come, nel tempo, la presenza materna fosse rimasta una costante presenza affettiva (Adelaide Cairoli e i suoi figli. Lettere dal 1841 al 1871, a cura di E. Ghiglione Gulietti, Pavia, 1960; L. Settembrini, Ricordanze della mia vita; M. D’ Azeglio, I miei ricordi). Scriveva Massimo D’ Azeglio: «Chi se non la madre, ebbe da Dio l’incarico di imprimere i primi e più indelebili lineamenti del carattere dell’uomo? E quella che tanto mirabilmente seppe quest'arte creatrice delle forti generazioni, quindi delle grandi epoche, dovrebbe rimanere ignorata, mentre primo bisogno d’Italia è appunto trovare uomini e chi sappia educarli e rendere forte e generoso il carattere?». L’Ottocento si è detto essere stato il secolo della Madre e — come ha scritto Ilaria Porciani — la stessa classe dirigente riproponeva con insistenza alle donne il mito della “carità educatrice”, elaborato ancora negli anni trenta del xx secolo. La madre, una donna sollecita nella 145

cura e nell’educazione dei figli, dedita alla sua missione di insegnante che poteva ugualmente essere condotta in casa o all’esterno, nelle scuole dove le fanciulle dei ceti medi cominciavano a trovare occupazione.

Ovviamente i principi educativi si muovevano lungo binari ben segnati: le donne dei ceti alti dovevano imprimere nell’animo dei figli i sentimenti del dovere e del valore, la coscienza della responsabilità che li attendeva quali cittadini di primo piano, quale classe dirigente e garante dei destini della nazione; al tempo stesso le donne del popolo dovevano allevare i figli nel segno dell’obbedienza, del rispetto, dell’onestà, del lavoro e del risparmio: e, infine, le donne dei ceti medi

dovevano, secondo i programmi di una educazione borghese, indirizzare i figli alla costruzione di una società meritocratica nella quale più che l’etica dell'onore occorreva affermare la nobiltà dell’ingegno e l’etica del saper vivere. Purtroppo non è facile ripercorrere esperienze individuali, perché poche hanno lasciato (in racconti, diari, epistolari) memoria di

sé; anzi questa documentazione è ancora oggi rintracciabile solamente per le donne dei ceto medio-alti, dove la memoria familiare era patrimonio culturale consolidato nel tempo. É questo il caso di Costanza Alfieri di Sostegno, sposa di Roberto D’ Azeglio, fratello di Massimo. Costanza aveva ricevuto dalla madre una severa educazione e ciò le permise alla morte di questa di essere guida dei fratelli e vigile conservatrice della casa paterna. Donna saggia, paziente, disponibile verso gli altri, Costanza ci appare come il modello delle signorine del suo tempo: sposa giovanissima, madre solerte alle cure familiari, signora impegnata nelle attività benefiche. Tutto ciò traspare nelle lettere al figlio Emanuele che il lavoro di diplomatico portò lontano da casa, a Monaco, a Vienna, a Pietroburgo, a Londra. Sono lettere lunghe che ci raccontano fatti riguardanti la famiglia, ma anche la città, gli ambienti politici, la cerchia degli amici, le feste, le mode. Ma al centro delle lettere c’è sem-

pre lei, “donna sempre presente di fronte ai bisogni delle persone care: ammalati da assistere, anziani ai quali fare compagnia (il padre), giovani da rimproverare per cotreggerne gli atteggiamenti indisciplinati (il nipote Carlo Alfieri), coniugi da esortare al rispetto reciproco e alla tolleranza (il cognato Massimo e la moglie Luisa Blondel)”.

E se al figlio non mancava di ricordare la fierezza di appartenere a una famiglia illustre da onorare e da consolidare, alla figlia chiedeva di essere depositaria e trasmettitrice a sua volta di valori morali e di principi cristiani. Costanza aveva anche chiaro che la promozione sociale del figlio 146

passava attraverso l’attività prescelta e il matrimonio. Soprattutto quest’ultimo rappresentava una delicata questione: amore, attrazione

fisica e sentimenti non appartenevano alla mentalità di Costanza che vedeva invece quali elementi fondanti per un’unione sicura “nome, buona condotta, buon carattere, buona educazione, solidi principi morali”. Così si spiegano le lettere indirizzate al figlio quando questi, innamoratosi di una signorina belga, pareva allontanarsi dalla strada “più corretta”, lettere piene di suggerimenti ma anche di espli-

citi inviti a evitare un errore che avrebbe potuto rivelarsi fatale alla carriera del giovane, e quelle in cui si gioiva per l’errore evitato, per il pericolo scampato. Emanuele finì per non sposarsi mai e invecchiò solo, ma certo, anno dopo anno, che la continua e attenta sorveglianza della madre e della famiglia aveva dato i suoi frutti. «Il giovane inquieto, un po’ spendaccione, non troppo amante dello studio, sensibile al fascino femminile che traspare dalle prime lettere materne, a poco a poco lasciava il posto ad un uomo passato, forse un po’ pedante, che la madre non ha più motivo di rimproverare e di cui, anzi, loda compiaciuta l'operato e le doti delle quali si sente l’artefice principale e indiscussa». Bibliografia — D. Maldini Chiarito, Trasmissione di valori e educazione familiare: le lettere al figlio di Costanza D'Azeglio, in “Passato e presente”, n. 13, 1987. — I. Porciani. I/ Plutarco femminile e D. Maldini Chiarito, L'educazione di

stanza D'Azeglio al figlio, in L'‘educazione delle donne, a cura di S. Soldani, Milano, Angeli, 1991. — M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal xv al xx secolo, Bologna, il Mulino, 1984.

un giovane aristocratico. Lettere di Co-

Padrone, anzi, regine dei salotti Nella disposizione delle case ottocentesche si affermò uno spazio non grande, con arredo poco vistoso ma funzionale ad accogliere e a facilitare la conversazione di quanti, spesso anche decine di persone, vi si raccoglievano: il salotto. Piccolo spazio in cui in orari diversi

si esercitava il gusto all’incontro, al confronto delle idee, e anche il

piacere delle chiacchiere. Si sa che Clara Maffei riceveva regolarmente dalle tre alle sei del pomeriggio — ma come scriveva Raffaello Bar-

biera nel 1895 (I/ salotto della contessa Maffei e la società milanese)

147

— in casa Maffei «si era certi di trovare sempre qualcuno»; Ersilia Lovatelli apriva la propria casa tutte le sere ad amici e conoscenti e ugualmente facevano Olimpia Savio ed Emilia Peruzzi, mentre — come ricorda Massimo D'Azeglio (I rziei ricordi)

«Luisa Stolberg d’Al-

bani riceveva preferibilmente di sera, pur senza impedire a intellettuali e conoscenti sceltissimi di farle visita anche nel pomeriggio». Per tutto l’Ottocento il salotto pare definirsi come il luogo in cui si affermava il piacere dell’incontro; in realtà divenne anche luogo

di confronto, di dibattito politico e culturale, assumendo anche — è il caso dei salotti milanesi durante il ‘48 — il carattere di “circolo

politico”. Nel salotto la figura dominante era quella della padrona di casa, ma meglio sarebbe dire delle padrone, in quanto era rarissimo trovare salotti retti da un personaggio maschile. E tanto preminente era la presente femminile, che i salotti sono ricordati col nome della signora che lo “guidava”. Si trattava in genere di aristocratiche per nascita come Clara Maffei, Costanza Alfieri di Sostegno, o per matrimonio come Teresa Malvezzi Carniani o Laura Mancini Oliva. Tranne rare eccezioni (è il caso di Vittoria Cima, il cui salotto nella Milano di fine secolo fu frequentato dai membri più illustri della Scapigliatura), tutte le donne che tennero salotto avevano contratto un rap-

porto matrimoniale, non aveva poi importanza che tale vincolo si fosse rotto o allentato nel tempo. Di fatto, salvo rarissime eccezioni, la dama salottiera dell’Ottocento era sposata, al più poteva essere separata o vedova, ma mai nubile. «Le ragioni di questo fenomeno, che rende queste donne così diverse dalle dame dei salotti parigini settecenteschi, sono probabilmente da attribuire, prima ancora che alla morale corrente, ai principi che governano le varie leggi sul diritto di famiglia nei diversi stati italiani, e che rendono impossibile alla donna la gestione del patrimonio familiare, compresi i beni immobili. Soggetta alla patria potestà da nubile, con il matrimonio la donna

passa a un regime sostanzialmente analogo; dato che ha bisogno, per qualsiasi atto che abbia valore giuridico, dell’autorizzazione maritale. Solo nei territori sottoposti al dominio austriaco, dove il vento delle riforme giuseppine prima e del codice napoleonico poi ha creato una differente coscienza giuridica, la donna può godere di una relativa libertà. Può succedere allora, è il caso di Clara Maffei nata CarraraSpinelli, che una donna appartenente, è bene sottolinearlo, alla classe aristocratica, possa liberarsi senza drammi e soprattutto senza gravi

limitazioni per il suo patrimonio e per la sua libertà personale, di un vincolo matrimoniale indesiderato» (Palazzolo).

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Per queste dame della buona aristocrazia il ricevimento in salotto assumeva il significato di educazione alla socialità, ma per tenere salotto occorreva anche esservi state educate. Nei salotti si parlava spesso in francese e alle volte in inglese o in spagnolo e allora ecco che «fra gli studi delle donne più pregevoli sono le lingue per l’agio della conversazione». Del resto quando Balzac entrò nel salotto della contessa Maffei, la padrona di casa «lo presentò a una bionda poetessa, Giulietta Pezzi di Milano, e ad altre amiche che parlavano bene il francese» (R. Barbiera).

Nel salotto le donne rappresentavano l’unica autorità morale, un ruolo a cui erano state educate per anni attraverso l'abitudine all’ascolto, l’attenzione e il rispetto per le opinioni dell’ospite, la capacità di avvicinare tra loro persone diverse, la sensibilità di accostare parole e silenzi. Mirabilmente Leone Tolstoy così ci descrive Anna Pavlovna: «Ritornò alle sue occupazioni di padrona di casa, continuando ad ascoltare e a guardare, pronta a dare aiuto in quel punto dove il discorso languiva. Come il padrone di una filanda, dopo aver messo i lavoranti ai loro posti, passeggia per lo stabilimento e, notando che un fuso sta immobile o fa un rumore inusitato, stridulo, troppo forte, va in fretta per arrestarlo o spingerlo secondo il bisogno, così anche Anna Pavlovna, passeggiando per il suo salotto, si avvicinava a un gruppo dove si taceva o dove si parlava troppo, e con una parola o con un piccolo spostamento tornava a far funzionare in modo regolare e conveniente la macchina dei discorsi» (Guerra e pace). In questa microsocietà la padrona di casa era libera tanto di stabilire le regole di comportamento come di scegliere le proprie reti amicali: la figura del marito scompariva e la donna si affermava dimostrando di non avere bisogno dell’autorità maritale per legittimare la propria attività. Così Clara Maffei apriva la propria casa alla chiacchieratissima Cristina Belgiojoso come agli amanti Franz Liszt e Marie d’Agout e del resto la stessa Maffei tenne un lungo epistolario con l’estrosa amica George Sand. «La verità è che, nella prima metà dell’Ottocento, la partecipazione dell’aristocrazia intellettuale consentiva libertà, delle azioni e dei comportamenti, che non erano ammesse nelle altre classi; costituiva un porto franco che dilatava le possibilità e ammetteva le trasgressioni». Nel nostro secolo il salotto letterario ha finito col perdere la sua funzione di centro di dibattito politico e culturale; tuttavia non se ne è persa completamente la tradizione — si pensi alla funzione avuta dal salotto di Maria Bellonci per la nascita del Premio Strega —, anche se, ovviamente, sono cambiate le modalità di ricevimento e le dinamiche di relazione.

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Bibliografia — M.I. Palazzolo, I salotti di cultura nell’Italia dell’800. Scene e modelli, Milano, Angeli, 1985. — M. Salvati, L’inutile salotto, Torino,

Bollati Boringhieri, 1993. — M. Agulhon, I/ salotto il circolo e il caffè. I luoghi della sociabilità nella Francia borghese (1810-1848), Roma, Donzelli, 1993.

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Tra le fonti, oltre ai volumi già citati nel testo, si ricordano:

— E. De Amicis, Ur salotto fiorentino del secolo scorso, Firenze, 1902.

— R. Ricci, Memorie della baronessa Olimpia Savio, Milano, 1911.

Ruoli trasgressivi di G. Zarri

L’immaginario rinascimentale, con la ricchezza delle testimonianze letterarie e pittoriche relative ai modelli femminili, alimentate anche da un dibattito ideologico sulla superiorità dei sessi che non aveva avuto precedenti nella storia, mi sembra un buon punto d’osservazione per esplorare i ruoli che la memoria e la coscienza collettiva identificava come trasgressivi. A parte l’ampio spazio che la novellistica, dal Boccaccio al Bandello all’ Aretino, dedica alle donne, facendo oggetto di divertimento e irrisione situazioni complicate le cui protagoniste emergono come ingegnose adultere, esperte cortigiane e monache dissolute, l’emblematica e l’incisione su foglio, nuovo mass-

media in grado di riflettere e forgiare la mentalità del secolo xvI, ci consente di selezionare e classificare le immagini femminili ritenute trasgressive. Una ricerca condotta sulle stampe francesi del secolo xVI conservate alla Biblioteca di Parigi costituisce un ottimo campione per esaminare la rappresentazione della donna nell’età rinascimentale. Occorre dire anzitutto che il secondo sesso viene ritratto in modo bivalente e antitetico: l’angelo e il diavolo sembrano esserne gli estremi modelli di riferimento. Ma sarà soprattutto nella classificazione dei difetti femminili, nella rappresentazione negativa della donna che emergono alcuni dei ruoli trasgressivi che appaiono talmente radicati nella cultura e nella mentalità da costituire forme e modi di vita per così dire istituzionalizzati in ogni epoca. Tra le personificazioni dei vizi femminili occupano il primo posto lussuria e vanità, seguono poi falsità e ira. Anche situazioni di violenza e conflitto che vedono protagoniste le donne vengono rappresentate, così da costituire topoi che rinviano a specifici contesti sociali, come le liti con le vicine e la negazione della maternità. Per la personificazione della crudeltà femminile si cercano invece nella storia biblica o nell’antichità greco-romana figure mitiche adatte a provare la ferocia delle donne: si raffigura così la sanguinaria Jezebel come prototipo del potere distruttivo delle regine e dell’influenza nefasta che 151

possono avere nella politica nazionale, si presenta Medea come perfida strega, infanticida e fratricida, si alimenta poi il mito delle amazzoni come vergini guerriere. Anche alcune delle immagini che raffigurano il “mondo alla rovescia” riguardano le donne: da Santippe che batte Socrate, al marito che accudisce ai bambini mentre la moglie sl incipria.

Queste immagini, che raffigurano ruoli trasgressivi che si ritengono codificati fin dall’antichità, stigmatizzano situazioni che costituiscono per secoli, pur nel mutare delle forme espressive, delle costanti nella storia delle donne: la violenza che si esplica prevalentemente nell’ambito domestico o del vicinato, la negazione della maternità e il mercimonio del corpo. Trova scarso riscontro nell’emblematica, ma costituisce invece oggetto di raffigurazione in molteplici dipinti ed incisioni la figura della strega. Costruzione sociale dei secoli xIV-xVII, nell’età rinascimentale la strega viene assimilata a figure mitiche dell’antichità greco-romana così da fornire spessore temporale a una credenza la cui origine è circoscrivibile ad un preciso contesto storico e culturale. Ne emerge la configurazione della strega come di una personificazione femminile del male presente in tutte le società. Un altro significativo ambito di trasgressione, che viene esaltato soprattutto nella novellistica e che pur essendo di durata secolare ha una precisa collocazione nel tempo, è quello della monaca ribelle. Certamente atipico è il caso della spagnola Catalina de Erauso, vissuta nel secolo xvm e autrice di un libro delle sue memorie. Ella era infatti fuggita dal convento per condutre una vita tipicamente maschile: travestita da uomo e fingendosi castrata, si arruola e combatte per circa vent'anni nel Nuovo Mondo senza mai essere smascherata. Altrettanto singolare, ma non eccezionale, è invece l'accettazione da parte di alcune religiose, come le clarisse udinesi del secolo xvI, di idee eterodosse in opposizione all’obbligo della professione voluta dalla famiglia e codificata dalla chiesa del tempo. La forma più tradizionale in cui si esplica la ribellione delle donne alla prassi della monacazione forzata è tuttavia la trasgressione del voto di castità. Di molte storie individuali non ci è rimasta testimonianza, ma almeno un caso, quello della monaca di Monza, è divenuto emblematico di una situazione certamente più diffusa. Tra i ruoli trasgressivi che costituiscono una costante nella storia delle donne bisogna senz'altro considerare un notevole tasso di violenza che si manifesta prevalentemente nell’ambito domestico o del vicinato, ma che non rifugge dall’assumere anche un connotato politico nella partecipazione ai movimenti sovversivi, specie le rivolte per il pane, che si susseguono con una certa frequenza nei secoli del152

l’età moderna. Numerose ricerche sulla criminalità nell’ancién regime hanno messo in luce un elevato protagonismo femminile nelle liti che coinvolgono parenti e vicini. Più spesso oggetto di violenza da parte dei mariti, per altro protetti da una legislazione che non considerava reato il picchiare le mogli, le donne non erano esenti dall’esercitare e provocare lo scontro fisico specialmente nell’ambito dello stesso sesso. Raro era tuttavia il caso di omicidio. Discorso a sé merita l’infanticidio. Fin dall’antichità l’infanticidio, specialmente rivolto alla eliminazione dei bambini nati con difetti fisici, costituisce senz'altro una delle risposte più elementari alla necessità di contenimento demografico di una società che non conosce forme di contraccezione ed è sottoposta a frequenti crisi alimentari. Un’alternativa all’infanticidio era l'abbandono, ma non c’è dubbio che anche questo si risolveva spesso nella morte dell’infante. Non è un caso che figure mitiche della storia biblica e dell’antichità classica abbiano come protagonisti bambini abbandonati e miracolosamente salvati, da Mosé a Romolo e Remo. È interessante constatare come proprio a questi “scarti” della società sia riservato un destino eccezionale, quasi a dimostrare come una pratica usuale e istituzionalmente accettata come

quella dell'abbandono fosse tuttavia avvertita come trasgressiva e socialmente riprovata. In realtà, come ha dimostrato Boswell, la prassi dell'abbandono, già in uso nel mondo romano e praticata a tutti i livelli sociali con particolare riferimenti ai figli illegittimi, continua nel mondo occidentale per tutto l’arco dell’età medievale. L’uso di abbandonare e vendere i figli indesiderati o il cui mantenimento era precluso per la povertà del nucleo familiare non è perseguito per secoli con sanzioni penali, ma sviluppa piuttosto forme di solidarietà che trovano la loro più compiuta espressione nell’istituto romano degli alunni, esposti allevati come figli adottivi, o in quello medievale degli oblati, bambini offerti ai monasteri e destinati a intraprendere la carriera ecclesiastica. A fronte di un’ampia tolleranza dell’abbandono, che può riservare ai sopravvissuti destino di servitù e miseria, ma anche di elevazione culturale e sociale, l’infaticidio viene ben presto identificato dalla chiesa come altamente riprovevole. La raccolta di decreti canonici compilata nel 906 da Reginone di Prum prevede pene severe per l‘infanticidio, per la morte accidentale per soffocamento e per la possibilità di responsabilità dei genitori nella morte di infanti per incuria. Tali pene vengono poi confermate nei penitenziali successivi. La stigmatizzazione della morte accidentale per soffocamento rivela 153

l’estendersi di una pratica con cui veniva in realtà mascherato l’infanticidio. Anche nei secoli successivi i decreti sinodali dei vescovi non tralasciano di riprovare l’uso dei genitori di far dormire i neonati nei loro letto provocandone frequentemente la morte. Se non scomparso, l’infanticidio viene certamente attenuato nel basso medioevo che vede invece il protrarsi del fenomeno dell’abbandono anche in seguito all’incremento demografico della società occidentale nel secondo millennio. Forme istituzionalizzate di assistenza agli esposti si concretizzano fin dal secolo x1v con la creazione di ospedali per gli “innocenti” e con la predisposizione di un semplice strumento, la ruota, in cui collocare l’infante per proteggerlo da pericoli finché non venga accolto dall'istituto. Per secoli, pur nel mutare delle contingenze demografiche ed economiche, nell’evolversi delle strutture familiari e dei rapporti affettivi all’interno della famiglia, l’abbandono resterà una pratica largamente attuata che coinvolgerà a poco a poco soprattutto le gravidanze illegittime. Il venir meno della solidarietà sociale alla pratica dell'abbandono e l’accettazione di una sua risoluzione nell’internamento in una struttura assistenziale non risolve la situazione di precarietà cui è destinato il bambino abbandonato, spesso vittima di un’insufficiente cura prestata dall’istituto, e finisce per colpevolizzare unicamente le donne qualificandole come madri snaturate. L’infanticidio e l'abbandono dei bambini si configura così come ruolo trasgressivo di lunga durata progressivamente identificato con l’ambito femminile. Anche la mercificazione del corpo femminile appare fenomeno di lunga durata. Ben nota anche alla cultura greco-latina dove riceve una sorta di istituzionalizzazione talvolta incentivata dallo stato per combattere la pratica della sodomia ritenuta riprovevole e non accettabile socialmente, la prostituzione assume nel medioevo i caratteri di una professione riconosciuta legalmente e soggetta a ordinanze e controlli da parte delle città e degli stati. Si procede anzitutto alla identificazione delle donne, in gran parte forestiere, che si stanziano nelle diverse città per esercitare il meretricio, si stabilisce una delimitazione spaziale dei loro alloggiamenti, si sottopone a tassazione la loro attività, si legifera sui loro abiti e ornamenti, fino a stabilire in età rinascimentale che si rendano riconoscibili attraverso un segno distintivo nel loro abbigliamento. La pratica del meretricio, organizzata fin dal secolo xv con il concorso di lenoni in funzione di procacciatori di clienti e sfruttatori del commercio sessuale, è indubbiamente avvertita come pratica trasgressiva rispetto ad una concezione della sessualità che si svolge nell’ambito del matrimonio o almeno all’in154

terno di una relazione stabile come il concubinato, ma è tollerata, anzi istituzionalizzata, per motivi culturali e sociali. La separazione dei sessi, che al di là di una notevole promiscuità all’interno della famiglia si impone progressivamente nella vita sociale per salvaguardare l’onore femminile considerato fondamento della legittimità della prole nell’ambito matrimoniale, l’alto tasso di celibato maschile, sia laico che ecclesiastico, e la pratica del matrimonio tardivo costituiscono le premesse imprescindibili di un mercato della prostituzione che non accenna a diminuire se non in presenza di radicali mutamenti sociali. Pur registrando variazioni quantitative e qualitative nel corso dei secoli, la prostituzione appare tuttavia il ruolo trasgressivo che per più tempo ha ricevuto un riconoscimento istituzionale. Se è significativo ricordare il periodo rinascimentale come momento di maggiore consenso sociale riservato alla prostituzione attraverso il riconoscimento del fenomeno della cortigiana “onesta”, se è legittimo considerare il cicisbeismo settecentesco come una forma mascherata di prostituzione, se è dato riscontrare nell'Ottocento e Novecento una diminuzione del fenomeno in connessione con un’evoluzione del concetto dell’amore e della condizione femminile, è pur vero tuttavia che in Italia la soppressione delle “case chiuse”, forma legalizzata del meretricio, avviene soltanto nel dopoguerra con la legge Merlin. Nonostante la prostituzione, data la diffusione e la continuità del fenomeno, paia potersi indicare come la condizione anomica più rilevante in relazione alla donna, non si può ignorare che il ruolo trasgressivo femminile per eccellenza è stato identificato per secoli nella stregoneria. Anche se l’immagine della strega come ribelle alla società è una costruzione ottocentesca dovuta allo storico francese Jules Michelet, non c'è dubbio che le donne individuate come streghe operavano frequentemente in ambiti dai contorni culturali ambigui, ai margini del lecito e dell’illecito, del sacro e del magico, e potevano quindi apparire come propense alla trasgressione, incuranti delle norme. Numerosi studi ci possono oggi aiutare a capire con minor approssimazione le origini di un fenomeno culturale di vasta portata come la credenza nella stregoneria nell'Europa rinascimentale, ci consentono di delineare con un buon numero di testimonianze l’ampiezza e l'estensione della feroce caccia alle streghe, ci permettono infine di individuare socialmente le categorie di donne più spesso indiziate di stregoneria. Per lo più vittime di pregiudizi, di paure e allucinazioni collettive, ma talvolta esse stesse prede del meccanismo perverso della cre6.

ZARRI, La merroria di lei

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denza che le faceva confessare spontaneamente di aver compiuto quelle azioni che le identificavano come seguaci della setta di Satana, le streghe erano spesso donne anziane e sole che vivevano di elemosina o praticavano la medicina popolare. La trasgressione non si compiva nella realtà, se non nel ricorso a un sapere magico riprovato dalla chiesa ma socialmente accettato, e apparteneva piuttosto a un mondo oni-

rico che accomunava accusati e accusatori. La figura della strega benefica, in funzione di guaritrice, depositaria dei segreti per indurre ad amore o per trovare tesori o cose perdute, appartiene a un patrimo-

nio culturale che supera i limiti del mondo occidentale, in cui per altro è prosperato per secoli e non è ancora estinto; l’identificazione di questa con la strega malefica seguace di satana e portatrice di malocchio è invece una costruzione mentale circoscrivibile temporalmente e spazialmente. Altrettanto delimitabile nel tempo è il ruolo trasgressivo della monaca ribelle. Il monachesimo femminile, organizzatosi nell’vm secolo nella forma di convivenza collettiva di donne che vivono secondo una regola, professando i voti di povertà, castità e obbedienza, assume all’inizio del x1v secolo anche il carattere di assoluta separa-

zione dalla società attraverso l’obbligo della clausura. In una comunità regolata da norme le occasioni di trasgressione sono molteplici, ma quelle ritenute più gravi sono ovviamente quelle che riguardano la sfera sessuale. La violazione al voto di castità da parte di una monaca, considerata sposa di Cristo, è equiparata all’adulterio. Le sanzioni contro la ribelle e il suo complice sono molto severe e comportano la morte: esecuzione per il seduttore e carcerazione a vita per la professa. Pene già previste per le vestali, unica condizione religiosa dell’antichità classica equiparabile alla figura cristiana di monaca. Nonostante la riprovazione morale e sociale che la ribellione della religiosa comporta, le trasgressioni in questo ambito non sembrano mancare, specialmente nel periodo di più intensa pratica delle monacazioni forzate. Talvolta la ribellione non si traduce in comportamenti trasgressivi, ma si esprime, come nel caso della colta veneziana Arcan-

gela Tarabotti, in un manifesto di protesta contro la tirannia paterna e la “ragion di stato” che condannano alla carcerazione perpetua in quello che viene definito “inferno monacale” tante donne non consenzienti. Le trasgressioni delle religiose cessano evidentemente di divenire casi rilevabili socialmente e perdono il carattere di stereotipi culturali in connessione con il venir meno delle monacazioni forzate e l’estendersi di una forma di vita religiosa non segregata dalla società.

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Veronica Franco, cortigiana del secolo xVI Fra le numerose cortigiane del secolo xvI che si distinsero per non comune educazione letteraria tanto da poter dare alle stampe una raccolta di rime, Veronica Franco rappresenta un esempio significativo. Quanto sappiamo di lei e della sua vita può essere infatti integrato da un epistolario, pure pubblicato, che ci consente di penetrare parzialmente nel mondo delle sue relazioni clientelari e letterarie e di cogliere dalla sua stessa voce sentimenti e giudizi sulla condizione di vita da lei apertamente praticata e mai, a nostra conoscenza, sconfessata. Nata nel 1546 a Venezia da Francesco, cittadino di condizione

“mezzana”, appartenente ad un ceto intermedio tra la condizione plebea e la nobiltà, che poteva anche fregiarsi di uno stemma familiare, le origini di Veronica non sono oscure come quelle della maggior parte delle donne che si prostituivano. Come molte di queste, tuttavia, ella fu avviata alla prostituzione della madre Paola, che figura nel Catalogo di tutte le principal et più honorate Cortigiane di Venetia come sua mezzana. Giovanissima andò sposa al medico Paolo Panizza 157

da cui si dovette separare molto presto se nel 1564, appena diciottenne e incinta del figlio di un altro uomo, chiedeva alla madre di farsi restituire la dote. Comincia forse da questa data la sua carriera di cortigiana, segnata dalla nascita del figlio Achille, che ella fece educare da un precettore, e seguita da quella di altri cinque figlioli, tre dei quali soltanto sopravvissero. Paternità diverse (alcune delle quali attribuibili a personaggi in vista del patriziato veneziano come Andrea Tron) che non ostacolarono la professione della cortigiana, né oscurarono la sua grazia e la sua fama che doveva raggiungere il culmine nel 1574. Fu in questa data infatti che ella doveva ricevere la visita del re di Francia Enrico III di Valois di passaggio per Venezia e accolto trionfalmente dalla città e dal Senato della Repubblica. Oltre ai festeggiamenti ufficiali il giovane principe poté godere infatti di un privato intrattenimento nel salotto della celebre cortigiana, la quale gli offrì in dono un ritratto e gli propose di patrocinare la sua raccolta di rime, come si deduce da una lettera indirizzata da Veronica allo stesso Enrico di Valois. Consapevole della propria capacità letteraria, tanto da rispondere baldanzosamente a una satira dell’avversario Maffio Venier dicendosi pronta a competere in versi con lui nei diversi dialetti italiani, Veronica può offrire ai frequentatori della sua casa molto di più di un semplice intrattenimento. Ella mantiene infatti relazioni con i letterati che si collegano al ridotto di “Cà Venier”, il cui animatore

Domenico è poeta erudito di tendenza manierista. Corrisponde con Marco Venier, parente di Domenico. E legata di amicizia con altri aristocratici e letterari veneziani che compaiono come suoi esecutori

testamentari o affidatari dei figli e come corrispondenti o destinatari di composizioni in versi o in prosa. Quanto l’amore per lo studio e le lettere corrispondesse ad una profonda aspirazione e non fosse solo conformismo al modello allora in voga nell'ambiente cortigiano lo prova una sua esplicita dichiarazione: «io farei tutta la mia vita e spenderei tutto il mio tempo dolcemente nell’academie degli uomini virtuosi». E all’attività letteraria Veronica si rivolge con passione, inserendosi anche vivacemente e con originalità nel dibattito allora ineludibile della querelle des femmes, come mostra il capitolo a Maffio Venier: «Torno al mio intento, ond’era uscita fuore, / e vi disfido a singolar battaglia, / cingetevi pur d’armi e di valore; / vi mostrerò quanto al vostro prevaglia / il sesso femminil; pigliate quali / volete armi...».

Alla passione per le lettere Veronica unisce l’esercizio di una professione perseguita con convinzione e presumibilmente fonte di soddisfazione e guadagni. Per sua ammissione, confermata per altro dai 158

ritratti, ella è donna bella e ammirata: «la mia gratia ancor, la mia bellezza / da molti spirti nobili s’apprezza / forse ch’è buona in ciò la sorte mia». Non vi è dunque in lei vergogna o nascondimento della condizione di cortigiana, ma quasi un’esaltazione di quel ruolo come espressione di “valore della vita terrena, della naturalità, dell’azione, dell’umanesimo”, come afferma il Croce. La bellez-

za del corpo del resto, per ammissione della stessa Veronica, era un dono di cui ogni uomo doveva gioire: «Data è dal ciel la feminil bellezza / perch’ella sia felicitate in terra / di qualunque huom conosce gentilezza». Quanta felicità e ricchezza la professione di cortigiana avesse effettivamente apportato a Veronica Franco non ci è dato sapere. I due testamenti redatti ancora durante la giovinezza rivelano una discreta

fortuna, ma da altre fonti sappiamo che in seguito ad un periodo di calamità gran parte del suo patrimonio venne disperso e che nel 1580 la donna redasse un memoriale da presentare alla Signoria di Venezia in cui si chiedeva tra l’altro un sussidio per sé e per la sua famiglia. Il sussidio non le venne accordato, né del resto sappiamo se il memoriale venne realmente presentato. Le testimonianze tacciono sull’ultima parte della vita della cortigiana, che morì di febbri a quanrantacinque anni nel 1591. I riconoscimenti letterari, le amicizie altolocate, la vita brillante condotta da Veronica Franco per gran parte della sua esistenza dovettero in parte compensare le difficoltà e i disagi che una condizione come quella della cortigiana inevitabilmente comportava. Né l’accettazione sociale di un ruolo evidentemente fuori della norma poteva far sì che esso venisse moralmente giustificato. E il cumulo dei pregiudizi relativi a pratiche magiche associate alla prostituzione si riversarono anche sulla colta cortigiana causandole un non trascurabile travaglio personale. Nel 1580 ella dovette infatti presentarsi di fronte al tribunale del Sant'Uffizio di Venezia per rispondere di accuse di superstizione e di eresia. A trascinarla in questa causa, per motivi a noi oscuri, furono il precettore del figlio Achille e due servitori. Essi poterono trovare ascolto presso gli inquisitori proprio perché presentarono generici capi d’accusa contro la loro padrona che rispondevano a profondi stereotipi culturali. Veronica si sarebbe servita di filtri amorosi per attrarre gli innamorati e i clienti, avrebbe praticato sortilegi per ritrovare oggetti smarriti, non avrebbe osservato i digiuni né il precetto festivo, avrebbe infine simulato un matrimonio al solo fine di poter indossare gioielli che la legge non consentiva alle meretrici. Ce n’era abbastanza per poter provocare una condanna 159

che avrebbe potuto presentarsi anche come esemplare nel clima restauratore della controriforma. La cortigiana veneziana ebbe tuttavia fortuna. Ella poté dimostrare la falsità degli accusatori provando che gli oggetti smarriti le erano stati sottratti da loro, ma forse fu anche favorita da un atteggiamento relativamente illuminato del tribunale del Sant’Ufficio veneziano. La vulnerabilità di condizioni anche socialmente accettate come quella della cortigiana è aspetto non secondario dei rischi e dei pericoli connessi con una professione che, mentre esalta il valore del non conformismo alla norma morale dominante, deve tuttavia assoggettarsi a pratiche che limitano fortemente la libertà personale. E la stessa Veronica a dichiararlo in una lettera in cui descrive con la stessa vivacità espressiva con cui aveva lodato la vita cortigiana le miserie della professione: «mangiar con l’altrui bocca, dormir con gli occhi altrui, muoversi secondo l’altrui desiderio, correndo in manifesto naufra-

gio sempre della facoltà e della vita: qual maggior miseria?... Credete a me: tra tutte le sciagure mondane questa è l’estrema; ma poi, se s’aggiungeranno ai rispetti del mondo quei dell’anima, che perdizione e che certezza di dannazione è questa? ». Pentimento o conversione della cortigiana? Anche questo si è ipotizzato, ma forse si tratta soltanto del bilancio di una vita. L'occasione è rappresentata dal desiderio di dissuadere una madre dall’avviare la figlia alla prostituzione. Veronica scrive alla donna appassionatamente raccomandandole di aver cura della verginità della figlia, magari inviandola in un istituto al cui accoglimento e finanziamento avrebbe ella stessa provveduto, e mostrandole anche con spietata chiarezza le poche possibilità di fortuna che la fanciulla avrebbe avuto nella professione a causa della scarsa avvenenza. Segue poi una lunga esposizione dei pericoli e delle difficoltà della vita cortigiana. Quanto, avviandosi al raggiungimento

della maturità, il bilancio della vita di Veronica fosse maggiormente volto a evidenziare gli aspetti negativi che quelli positivi della professione da lei esercitata con soddisfazione e fortuna, lo prova anche il memoriale preparato per il Senato della repubblica veneziana. In linea con le iniziative di politica sociale e di riforma ecclesiastica che in diverse città italiane si andavano attuando per impulso anche della nuova spinta moralizzatrice e religiosa post-tridentina, la Franco propone di istituire una casa per meretrici che vogliano abbandonare la professione ed essere avviate ad un reinserimento sociale. Proposta condivisa nei medesimi anni anche da aristocratiche veneziane che legheranno il loro nome alla fondazione di quella Casa del Soccorso auspicata anche da una non comune e brillante cortigiana. 160

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Gostanza da Libbiano, guaritrice e strega Quanto sappiamo di Gostanza ci viene trasmesso dal processo inquisitoriale cui la donna fu sottoposta alla fine del secolo xvi. Alcune informazioni ci vengono dai denuncianti e testimoni che ne descrivono l’attività di guaritrice e ostetrica adombrandone al tempo stesso la natura di strega. Altre informazioni ci vengono dalla protagonista della storia che offre singolarmente una duplice versione degli eventi della sua nascita e vita, non consentendoci di distinguere tra realtà e immaginario onirico. Quel che è certo è che pur operando in zone periferiche del Granducato di Toscana, situate nel Valdarno inferiore, Gostanza era nata a Firenze e della città ricordava la maestosità e la ricchezza dei palazzi, tanto da collocare in una città il luogo del sabba, in controtendenza con il topos che voleva in campagna o in uno spazio comunque appartato il punto di ritrovo di streghe e diavoli. A parte la singolarità dell'immaginario, la storia di Gostanza costituisce un esempio tipico della rappresentazione mentale della stregoneria e della possibilità di individuare le caratteristiche della strega in soggetti sociali che si trovavano in particolari condizioni di vita ed esercitavano pratiche mediche al confine con la superstizione e

la magia. Anche la vicenda processuale della donna rientra nella norma: sospettata e denunciata come strega, Gostanza si difende, ma sotto

tortura ammette di essere andata al sabba, pur non abiurando mai la fede. Diversamente da altri casi simili al suo, Gostanza non viene 161

creduta dall’inquisitore che la qualifica come visionaria e la assolve dall'accusa di stregoneria. Il 3 novembre 1594, a Lari in Valdarno, paese del Granducato fiorentino non appartenente alla diocesi di Lucca, il vicario del vescovo lucchese Tommasio Roffia inizia l'interrogatorio di alcuni testimoni a carico di Gostanza da Libbiano, accusata di aver provocato la morte di alcuni bambini e di praticare la medicina col concorso di arti magiche. Ritenuta una strega sulla base delle denunce, la donna viene arrestata e da quel momento prende l’avvio il processo inquisitoriale che durerà più di un mese. Il 4 novembre ha inizio il primo costituto di Gostanza, figlia di Michele da Firenze e vedova di Francesco da Vernia, che abita al

Bagno, località individuabile con Bagni a Acqua nel lucchese, oggi Casciana Terme. La donna si è trasferita in quella terra dopo aver abitato a Libbiano e prima ancora, vivo il marito, a Ghizzano di Volterra. Ha tre figli, un maschio e due femmine e da circa quattro anni vive sola. Non ha risorse e “vive della gratia di Dio”. Oltre a filare, la donna pratica il mestiere di ostetrica da trent'anni. Conosce la formula del battesimo e dimostra che all’occorrenza sa battezzare i neonati in pericolo. Interrogata se durante il parto pratica qualche atto particolare o ha “secreto alcuno di parole, di erbe o d’altro” ammette di avere delle candele benedette che pone sul petto delle partorienti. Ella è anche in grado di guarire i malati usando erbe o unguenti. Ha imparato in modo empirico “con vedere medicare li altri”. Una parte dell’interrogatorio di Gostanza è volto ad accertare se abbia usato pratiche magiche per curare i malati come ripiegare indumenti del paziente. La donna nega, ma posta a confronto con “monna Magdalena” deve ammettere “esser vero che li radoppiò detti calzoni”. Concluso questo primo costituto, la supposta strega viene condotta nel carcere di San Miniato al Tedesco e il processo continua con l’escussione di altri testimoni. Le dichiarazioni dei testi sono unanimi nel provare la fama di Gostanza come guaritrice: da molto tempo e da paesi vicini le vengono portati malati e animali da curare. Qualche volta ella riceve in compenso del denaro, più spesso dei beni in natura. Circa i mezzi da lei impiegati nella cura, tutti affermano che usa “misurare” i panni. Tra i testimoni uno avanza una grave accusa: giudica Gostanza respon-

sabile della morte della figlia e del suo bambino di dieci mesi “grasso et frescho”. Emerge qui uno dei punti centrali del meccanismo mentale che consente di comprendere l’accusa di stregoneria rivolta contro la vedova di Libbiano: si riteneva infatti che chi sapeva guarire 162

sapesse anche ammaliare e ogni cura non riuscita era a forte rischio. Nel caso specifico di Gostanza inoltre bisogna ricordare che il processo prende avvio in un periodo di crisi sociale: carestia ed epidemie verificatisi in quegli anni avevano portato ad un aumento di mortalità e quindi ad una più facile accusa di interventi esterni, di carattere diabolico, nella causa dei decessi.

Interrogata di nuovo dopo le deposizioni di questi testimoni, Gostanza ammette sotto tortura di conoscere e aver praticato malie e di aver procurato la morte, tramite queste, di quattro o cinque persone. Dopo aver invitato la donna a enumerare casi e nomi, l’inquisitore inizia a rivolgerle domande dirette ad accertare l’accusa di stregonerira. Gostanza dichiara allora di essere andata al sabba in compagnia di altre donne, recandovisi su un capretto di nome Polletto che la portava in un luogo «dove si ballava et cantava et mille feste». Inoltre si mangiavano buone vivande e si faceva «riverentia al nimico che stava in una sedia bella bellissima». Il diavolo pretendeva di essere adorato. Alcune donne portavano ostie e le profanavano e poi «usavano con li demonii». Sciolta dalla fune con cui era torturata, Gostanza viene riportata in carcere. Due giorni dopo il vicario vuole risentirla per avere la conferma della sua deposizione, ma la donna ritratta dicendo di aver avuto paura della tortura. Legata nuovamente alla fune, la guaritrice lucidamente implora: «se volete che io dica le bugie le dirò... ascendetemi che vi dirò ogni cosa». Quel giorno e altri successivi Gostanza parla descrivendo il sabba e mostrando di adeguarsi agli stereotipi culturali relativi alla stregoneria che circolavano al tempo e che già erano divenuti patrimonio comune delle credenze popolari. Il vicario foraneo del vescovo di Lucca di fronte al qual si erano svolti gli interrogatori ha ormai in mano tutti gli elementi per emettere una sentenza. A questo punto interviene però l’inqusitore di Firenze, Dionigi da Costacciaro, che è propenso a considerare Gostanza una donna debole di mente, vittima di delazioni, piuttosto che strega ed inizia una nuova inquisizione. Rispondendo a fra Dionigi l’anziana vedova propone una nuova versione della sua vita, mettendo in luce le angosce e i soprusi sofferti nella sua infanzia e giovinezza. Ella sarebbe stata figlia di un nobile fiorentino e della sua serva, sarebbe stata rapita dalla casa paterna e affidata a pastori, costretta poi giovanissima a sposare il figlio di Francesco da Vernio, «et pensate che strazio fu in dormire con detto Lenzo mio marito, essendo

io di poca età!». Questa condizione di violenza, comune del resto a molte donne 163

del tempo, induce forse Gostanza a rifugiarsi in un mondo onirico in cui il rapporto con il diavolo viene idealizzato. Ella infatti confessa di essere andata al sabba e di aver conosciuto con il demonio un piacere amoroso mai provato con il marito. Descrive inoltre il luogo dei convegni come una splendida città. L’inquisitore, interessato dal suo punto di vista ad approfondire la natura dell’entità demoniaca, chiede ripetutamente se il diavolo assuma forma corporea e Gostanza ribadisce di aver “usato” con il demonio che le appariva in forma di persona. A questo primo interrogatorio di Dionigi da Costacciaro ne seguono altri in cui la donna aggiunge nuovi particolari sui convegni diabolici, dice il nome di diverse persone con cui vi si recava, ammette

ancora di aver praticato malie e dà sfogo ad una fertile immaginazione. Nell’interrogatorio del 24 novembre tuttavia ella ritratta fermamente: «Padre io vi ho detto le bugie et ho detto per il timore et a spavento di quella corda, et per il dolore et paura della corda...». Ammette inoltre di aver detto quelle bugie perché pensava che sarebbe stata giustiziata e che la morte sarebbe stata preferibile ai tormenti: «et pensava che il boia fosse quivi, et che m’havesse a levare la testa a un tratto, et io dicevo in me stessa: “in ogni tnodo sono morta et

quel dolore passerà presto”, et da me stessa chinavo giù il capo, et da me stessa, essendo in prigione, mettevo il capo in sur uno legno, et dicevo: “a ogni modo ho da morire una volta” ». Dopo la ritrattazione di Gostanza e l’esame di un’altra imputata coinvolta dalla stessa nel processo, il 28 novembre il vicario foraneo Tommaso Roffia, constata che le dichiarazioni della guaritrice di Libbiano “contengono cose spectante al Santo Offitio et S.ma Inquisitione”, consegna la causa a fra Mario Porcacchi, francescano e inquisitore della diocesi di Lucca, affinché deliberi sul caso insieme

all’inquisitore generale dello Stato fiorentino Dionigi da Costacciaro che ha assistito a parte del processo. A questo punto l’opinione del Costacciaro diventa determinante. In una lettera al Porcacchi l’Inquisitore fiorentino dichiara che dal processo «s’è veduto che cotesta povera vecchia il tutto ha detto per tormenti et non è vero nulla, come ha deposto ultimamente» e gli suggerisce di rilasciarla ingiungendole di cessare la sua professione di guaritrice, di abbandonare la località del Bagno e di non accostarsi nei dintorni entro il raggio di tre miglia, pena il carcere. La vicenda di Gostanza si conclude così con la liberazione dal carcere, la restituzione dei denari e effetti personali, non essendo la donna tenuta a pagare le spese processuali fatte “ad istanzia del Vescovo”. 164

Bibliografia — F. Cardini (a cura di), con una postfa-

— A. Prosperi, L’Inguisizione fiorentina

zione di A. Prosperi, Gostanza, la strega di san Miniato, processo a una guari-

dopo il Concilio di Trento, in “ Annuario dell’Istituto storico italiano per

trice della Toscana medicea,

Roma-

Bari, Laterza, 1989. — S. Mantini, Gostanza da Libbiano, guaritrice e strega (1534-2), in Rinascimento al femminile, a cura di O. Niccoli, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 143-162.

l'età

moderna

e contemporanea”,

XXXVII-XXXVIII, 1985-1986, pp. 97-124.

Virginia Maria de Leyva, monaca e Signora di Monza La “sventurata” monaca di Monza descritta dal Manzoni può essere assunta come esempio di ribellione alla condizione di violenza cui furono sottoposte per secoli le donne appartenenti a ceti privilegiati della società il cui destino era condizionato dalle strategie familiari volte a conservare e ad accrescere il potere della casata attraverso la legge della primogenitura. Il suo caso, pur estremo ed eccezionale perché accompagnato da omicidi multipli, non fu certamente unico. Altre monache risposero a profferte d'amore sfidando le severe leggi della clausura e subendo talvolta punizioni esemplari come il carcere a vita. La vicenda di suor Virginia poté assumere tuttavia dimensioni più rilevanti, per coinvolgimenti interni e ampiezza della durata, data la condizione di feudataria del luogo in cui si svolsero gli avvenimenti. Gli atti del processo che ricostruiscono il caso clamoroso ci consentono anche di dar voce alla protagonista e di ascoltare la sua versione dei fatti. Alla fine del 1575 o all’inizio del 1576 nacque a Milano una bambina di nome Marianna. Era figlia di Martino de Leyva, appartenente a una famiglia di recente nobiltà che aveva ottenuto la contea di Monza nella prima metà del secolo, godeva del titolo di principe d'/ ed esercitava il mestiere delle armi. La madre Virginia proveniva dalla nobile famiglia dei Marino, duchi di Terranova di Calabria, e si era unita a Martino in seconde nozze, dopo essere rimasta vedova di Ercole Pio di Savoia, signore di Sassuolo. Marianna non ebbe fortuna. La madre morì quando la bambina non aveva ancora un anno

e il padre la affidò alle cure della balia e delle zie, essendo costantemente impegnato nelle sue campagne militari. Vi fal'eno'anchecome plicazioni riguardo l’eredità materna, contesa tra il de Leyva e i Pio di Savoia, che videro alla fine un depauperamento dei diritti spet165

tanti a Marianna. Nel 1586 tuttavia da un carteggio di Martino con il re di Spagna Filippo II si apprende che il de Leyva era riuscito a salvaguardare un patrimonio di 7000 ducati con cui costituisce la dote alla figlia. Il destino della bambina non era ancora deciso. Pochi anni dopo però il padre si riposò ed ebbe un’altra figlia; per di più subì un tracollo finanziario. Marianna doveva dunque diventare monaca. Il monastero prescelto fu quello di Santa Margherita, posto nel feudo familiare di Monza. La comunità era scarsamente numerosa e la giovane Signora, che nel 1589 vestì l’abito assumendo il nome materno di Virginia e nel 1591 pronunciò i voti solenni, poté godere di una autorità che le derivava anche dall’effettivo esercizio del potere. Ella infatti governava il feudo in sostituzione del padre. Fin dalla professione ricoprì incarichi all’interno della comunità; il conferimento dell’ufficio di sagrestana e di maestra delle educande indicano un buon avvio alla vita monastica. L’incontro con Giovanni Paolo Osio nel 1597 segnò tuttavia una svolta nella vita della monaca poco più che ventenne. Le circostanze dell’incontro non sono eccezionali: l’Osio era un vicino di casa il cui giardino confinava con l’edificio monastico. Le finestre che si affacciavano sul giardino non erano ancora state murate come prescrivevano le norme della clausura miranti a impedire qual-

siasi “prospetto”. Era quindi possibile vedere ed essere visti. Il giovane aveva anche familiarità con il monastero, conoscendone la superiora e frequentando un’educanda nei confronti della quale assunse comportamenti che suor Virginia non esitò a denunciare. Nonostante l’iniziale diffidenza nei confronti del giovane, aggravata dall’omicidio di un agente di casa de Leyva da parte dello stesso Osio, suor Virginia finì con l’acconsentire ad un rapporto che, dapprima superficiale e giocosamente trasgressivo, la coinvolse poi profondamente. Cominciò con l’affacciarsi alla finestra, a guardare il giardino inosservata, poi a farsi vedere e a parlare. Ai colloqui seguirono doni e infine visite all’interno del monastero. La relazione amorosa che ne seguì fino alla gravidanza e al parto di una bambina non poté avvenire senza la complicità di altre monache e senza la condizione di relativa autonomia e di potere di cui suor Virginia godeva all’interno della comunità in qualità di feudataria. Il protrarsi della relazione e l’ambiente ristretto del convento e del paese tradirono tuttavia il segreto della Signora di Monza. La trasgressione alle regole e al voto di castità si accompagnò da quel momento ad altre e ripetute colpe, fino al delitto. La determinazione di una conversa di rivelare al vicario del vescovo le indiscipline che 166

si verificavano nel monastero condusse all’assassinio della donna da parte dell’Osio e all’occultamento del cadavere attuato col concorso

delle monache amiche di suor Virginia, le quali infrangendo un muro della clausura simularono una fuga della conversa stessa. Questo grave episodio poté ancora passare sotto silenzio. Furono invece altri delitti di Giovanni Paolo Osio, compiuti ai danni di abitanti monzesi forse al corrente della sua relazione con la Signora, che attirarono infine l’attenzione della giustizia. L’Osio venne imprigionato e suor Virginia, anche in seguito ad una visita e a un colloquio con l’arcivescovo di Milano Federico Borromeo, appare sempre più determinata a troncare il rapporto con lui. Non passò molto tempo tuttavia che il giovane riuscì a fuggire e riprese abitudini di vita violenta. A seguito di un assassinio perpetrato dai bravi dell’Osio, che le monache tentarono di attribuire ad una equivoca figura di prete, Paolo Annigone, implicato nei disordini del convento, Giovanni Paolo venne di nuovo ricercato e trovò rifugio all’interno del monastero che godeva dell’immunità ecclesiastica. Questo nuovo evento suscitò la ribellione delle professe che fino a quel momento avevano ignorato o non avevano voluto denunciare la pratica irregolare della loro Signora. Il cardinale venne avvertito e dopo pochi giorni suor Virginia fu condotta in un monastero milanese in attesa che si svolgesse una formale inquisizione da parte dell'autorità ecclesiastica sugli avvenimenti che l’avevano vista protagonista. L’Osio abbandonò il convento e si nascose nei dintorni di Monza. Il 27 novembre 1607 il vicario designato dal Borromeo iniziò l’interrogatorio inquisendo la superiora e alcuni servitori del convento.

Le monache complici di suor Virginia si sentirono in grave pericolo e due di esse ricorsero all’Osio per essere protette. Si organizzò una fuga dal monastero, ma durante il percorso il giovane tentò di sbarazzarsi delle scomode testimoni. Una monaca venne colpita e ridotta in fin di vita, l’altra fu gettata in un pozzo. Entrambe riuscirono a sopravvivere e, soccorse, furono riportate in monastero. La prima

monaca non si riprese dalle ferite, la seconda invece guarì e poté testimoniare. A Giovanni Paolo non rimase che nascondersi e condurre la vita di un fuggiasco. Nel monastero intanto era continuato il pro-

cesso che doveva mettere in luce circostanze, durata, complicità della

vicenda. Anche suor Virginia testimoniò e non negò la responsabilità degli eventi. La sua strategia difensiva consistette nell'attribuire a maleficio e malia la forza incoercibile che l’avea spinta a quella relazione e che le impediva di interromperla nonostante fermi propositi e ripetuti tentativi. Contro Giovanni Paolo Osio agiva la giustizia 167

civile. Vennero raccolte prove dei ripetuti assassinii e del tentato omicidio nei confronti della monaca complice, e nel febbraio 1608 venne infine condannato alla forca, al bando e ad altre pene esemplari come la distruzione della casa e l’erezione in suo luogo di una colonna che ricordava la condanna. La sentenza non poté avere immediata esecuzione a causa della latitanza dell’Osio. Poté così terminare anche il processo ecclesiastico che vide una seconda deposizione di suor Virginia e che si concluse con una condanna alle galere per tre anni del prete Annigone e con la carcerazione perpetua della Signora di Monza e di tre monache complici. Suor Virginia dovette scontare la sua pena nel monastero milanese delle convertite di Santa Valeria vedendo così il suo rango equiparato a quello delle prostitute. Sopravvisse quattordici anni alla solitudine di uno stretto camerino illuminato da un pertugio che le consentiva di leggere il breviario e di ricevere i pasti. Non venne sopraffatta dalla disperazione. Accettò la dura sentenza come espiazione. Quando nel 1622 venne scarcerata e poté riallacciare relazioni con l’esterno, favorite anche da un rapporto di fiducia e di corrispondenza con il cardinal Borromeo, scrisse lettere che testimoniano una fede profonda. Disperata appare invece la fine di Giovanni Paolo Osio. Tradito e denunciato da un conoscente, venne preso e giustiziato. Bibliografia — Vita e processo di suor Virginia Maria de Leyva monaca di Monza. Presentazione di G. Vigorelli, Milano, Garzanti, 1985 (che contiene anche la tra-

scrizione integrale del processo).

168

Ruoli professionali di F. Tarozzi

Il xx secolo, secolo della psicologia e dell'immagine, ha mostrato alle donne e ha aperto per le donne diversi, e a volte ambigui, percorsi per affermazioni personali quali protagoniste della vita civile nella sua complessità. Alla donna emancipata si è continuato ad affiancare il modello della madre-moglie che non lavora — modello trasmesso da nuovi media quali il cinema, le riviste, la pubblicità — quasi a definire ancora una specificità femminile al servizio dell’uomo e della famiglia. Tuttavia, pur nel prevalere della pressione pubblica in favore della donna casalinga, la donna del nostro secolo è simboleggiata anche da un tipo fisico ispirato da star e da mannequin, imposto da concorsi di bellezza e dalla magrezza delle top-model. Proprio queste ultime rappresentano nella società a noi contemporanea una figura professionale nuova — su cui si modellano e a cui aspirano numerose figlie della più giovane generazione — paragonabile nell’influenza esercitata sull’immaginario collettivo a quella delle attrici del secolo scorso o delle “dive e divine” degli anni Trenta del Novecento. Ma di ruoli professionali giudicati e quasi imposti come specificatamente femminili è percorsa l’intera storia dell'umanità: maestre, dottoresse, infermiere, balie, domestiche e serve hanno riempito intere

pagine della letteratura, ma anche rappresentato la realtà del mondo delle donne nel corso dei secoli. Nel Medio Evo, in presenza di una società improntata all’uomo, dove gran parte delle espressioni culturali portano il marchio di un predominio maschile, le donne — almeno così ci dicono i documenti rimasti (ci riferiamo ai libri di mestiere o ai registri delle imposte) — avevano scarse possibilità di poter esercitare attività insieme al marito o indipendentemente da lui. Inoltre è bene ricordare come la schiavitù fosse una realtà ancora molto presente. Gli schiavi — sia pure non più tanto numerosi come durante l'Impero Romano o nei primi secoli successivi alla sua caduta — scomparivano lentamente soprattutto al Nord (Scandinavia, Irlanda) e al Sud (Italia e Spagna). 169

E pure tra gli schiavi si avvertiva una netta differenziazione tra i sessi, le donne-schiave erano destinate alla prostituzione o al servizio domestico (che spesso implicava anche il sottostare ai desideri del padrone). Anche al di fuori dello stato di schiavitù il lavoro di servizio si è accompagnato per lungo tempo alla storia delle donne: serve prima, domestiche in seguito e, oggi, collaboratrici familiari (o come spesso si dice “colf”). In età moderna la ragazza che entrava a far parte di

una casa con molti servitori spesso doveva partire dai livelli più bassi e affrontare compiti di servizio in cucina, in lavanderia, lavare piatti e pavimenti, accendere il fuoco, portare acqua... I lavori migliori si ottenevano attraverso i contatti e scalando la gerarchia della servitù man mano che si acquisivano capacità ed esperienza. Nell’ Europa nord-occidentale, verso la fine del xvi secolo una ragazza che cercasse un impiego in una casa benestante con l’idea di avanzare oltre le faccende di bassa cucina doveva dimostrare di avere un certo grado di alfabetizzazione, di saper parlare in modo corretto e di saper cucire. Di solito i padroni si preoccupavano che la ragazza venisse da una famiglia onesta per evitare furti o comportamenti disdicevoli e spesso il personale impegnato nelle residenze urbane proveniva dalle tenute di campagna dei signori. Generalmente le‘serve e le domestiche provenivano da zone povere, poco sviluppate economicamente, e “andare a servizio” diveniva pur sempre, secondo un convincimento che si è conservato fino a tempi non lontani, una maniera per sfuggire alla miseria e un modo per conoscere nuovi ambienti e sfruttare eventuali diverse possibilità che poteva offrire la città. Nel corso del xv e del xv secolo la servitù femminile costituf un consistente gruppo occupazionale nelle società urbane e si pensa che essa rappresentasse il 12% della popolazione complessiva di ogni città europea. Se a Londra nel 1796 si ipotizza una presenza di circa 200 mila servitori di ambedue i sessi con un numero doppio però di donne rispetto agli uomini, nello stesso periodo un dato analogo è riscontrabile in altri centri dell'Europa del Nord. Esistevano, anche nel settore domestico, diverse condizioni di

status e diverse realtà professionali. Nelle case aristocratiche si potevano trovare anche più di trenta servitori (uomini e donne, in questo caso alle donne erano riservati i lavori più bassi). Il numero dei domestici era anche un indicatore sociale e tra i primi lussi che una famiglia cercava di permettersi vi era quello di procurarsi un domestico o meglio ancora una domestica, poiché la manodopera femminile era pagata di meno. Erano giovani tuttofare: icommercianti potevano impiegarle anche come lavoranti di servizio in bottega, gli osti utilizzarle come bariste o sguattere. 170

Una attività propriamente femminile era quella della balia. A partire dall’età moderna il mandare il bambino “a balia” assunse per

alcuni ceti sociali (borghesi o proletari) il carattere della necessità, per altri (aristocratici) quello della moda. Nel corso del xvi secolo,

in conseguenza anche della propaganda che bollava questo fenomeno

come pericoloso e immorale, sembra esserci stato un calo consistente

del baliatico, anche se per le prime donne impegnate nel lavoro di fabbrica rimase una necessità fondamentale. Le famiglie benestanti,

invece, cominciarono a cercare una nutrice che accettasse di essere

ospitata in casa e che doveva in ogni caso essere una donna sana e ben nutrita. La città era sempre stata, anche nei secoli passati, un luogo dove

le possibilità per cambiare non mancavano. Ancora in età medievale e moderna in alcune aree geografiche del nord e centro Europa — specie là dove il centro urbano cominciava a prevalere sulla campagna e dove i commerci aprivano sempre maggiori spazi e nuove pro-

fessioni — le donne cominciavano a entrare nel mondo delle professioni. Un ruolo attivo delle donne nel commercio imponeva anche per loro una sia pur minima istruzione per essere in grado di fare i conti, leggere e scrivere. Ecco dunque che in Inghilterra si chiedeva alle donne un periodo di tirocinio e studio prima di entrare nelle gilde. Più spesso però la formazione delle donne avveniva in casa, anche se si hanno notizie di scuole cittadine nei grossi centri commerciali delle Fiandre. Questa pionieristica presenza femminile a scuola faceva sì che si aprisse per le donne una nuova professione, quella di maestre. E già alla fine del xm secolo a Parigi si registrava l’esistenza di scuole dirette da donne e con personale femminile ad insegnare; lo stesso avveniva nei paesi di lingua tedesca. Le loro condizioni economiche variavano da luogo a luogo e spesso avevano guadagni irregolari corrisposti da allievi e allieve. Certo è ancora presto per parlare di una vera e propria professione, anche perché per esercitare l'insegnamento non era richiesto alcun titolo, anzi spesso era alla moglie del maestro che si attribuiva un ruolo di educatrice nei confronti delle fanciulle. In età moderna l’insegnamento da parte di personale laico fu comunque molto limitato e a tale funzione erano deputati principal mente religiosi e nei piccoli centri i parroci e le monache. Fu nell’Ottocento che la maestra assunse un vero e proprio carattere professionale. L’allargamento dell’istruzione alle donne produsse infatti un duplice effetto: da un lato la maggiore presenza di bambine a scuola chiedeva un numero sempre maggiore di personale femminile, dall’altro si vide nella maestra il riprodursi all’esterno della famiglia del 171

ruolo e della funzione materna, verso cui la donna doveva profondere ogni suo impegno e ogni suo sforzo. Crebbero, soprattutto nella seconda metà del secolo, le scuole normali per la formazione dei maestri, a cui si richiedeva per esercitare la professione di essere forniti di diploma. E le Scuole Normali, nate per preparare gli insegnanti, si riempirono di fanciulle che cercavano nel lavoro di maestre una professione che consentisse loro di guadagnare, di rendersi indipendenti dalle famiglie, di poterne anche contribuire al mantenimento. Fu una vera esplosione di presenza femminile sul mercato del lavoro: basti pensare che in Italia, a quindici anni dalla legge Casati del 1859 (legge emanata per il riordino del sistema scolastico del nuovo stato unitario e che pur prevedendo per le donne molto minori opportunità scolastiche, tuttavia non ne escludeva esplicitamente l’accesso ai gradi superiori dell’istruzione), il numero delle maestre superava abbondantemente quello dei maestri. E ciò pose il problema di dove collocarle: solo nelle sezioni femminili o anche in quelle maschili? Non è forse inopportuno ricordare che per lungo tempo — nel nostro paese ciò è avvenuto fino ad anni non lontani dai nostri — in città le classi elementari erano ben distinte tra maschili e femminili in nome di una morale rigida che ribadiva come non si potessero «lasciare insieme lupi e agnelli, nibbi e colombe». E poi si aggiungeva — in questo la letteratura ottocentesca è un documento storico eccezionale — che le donne mancavano di «quella forza morale che è pur indispensabile nel maestro per mantenere la scolaresca disciplinata» e inoltre le maestre manifestavano «una snervante mollezza di carattere» dannoso per gli alunni. Insomma erano proprio quei tratti materni che tanto si volevano vedere emergere nelle donne a essere considerati un freno alle loro professionalità. Tuttavia, nel tempo, anche i più antichi pregiudizi vennero a cadere e all’inizio del nostro secolo non solo non si guardava più con malcelata insofferenza alle maestre, ma anzi prendeva corpo l’idea (anche questa poi lenta a modificarsi) che proprio l'insegnamento fosse la professione più adatta per le donne. Anche in altro e tutto diverso settore si colsero specificità professionali femminili: la medicina ne è un esempio. Già nel Medio Evo di gran rilievo era l’attività svolta dalle donne specie nel campo della ginecologia, ritenuta terreno privilegiato dell’abilità e dell'esperienza femminile. Ciononostante dal momento in cui vennero istituite le facoltà di Medicina, gli uomini cercarono di ostacolarvi la presenza femminile, in difesa della loro scienza e della loro professione. Comunque nelle grandi città europee le donne continuarono a esercitare la professione medica, come quella di infermiere, anche se non 172

è dato stabilire — almeno fino al x1x secolo inoltrato — in quale numero. La laurea in medicina divenne proprio nel secolo scorso il varco attraverso il quale le donne riuscirono a entrare nelle università. Negli Stati Uniti, il paese all'avanguardia nel campo dell’istruzione femminile, la prima scuola superiore fu il collegio femminile di medicina aperto a Boston nel 1848 e incorporato nel 1873 nell'Università di Harvard. E anche in Europa le prime studentesse universitarie trovarono accesso presso le facoltà mediche dove si specializzavano prevalentemente in ginecologia e pediatria. La proclamata necessità del pudore femminile e la riconferma dell’identità di madre nella cura dei bambini furono gli argomenti attraverso cui vennero superate e messe a tacere le proteste di coloro che si opponevano all'accesso delle donne all’università. Ma laurearsi non sempre significava poi trovare libero accesso alla professione. In Italia ancora nel 1900, secondo i dati di un’indagine statistica, solamente tre erano le donne medico presenti nelle strutture ospedaliere pubbliche: Maria Montessori nella clinica universitaria di Roma, Emilia Concornotti nell’ospedale della Maternità di Napoli e Giuseppina Cattani nell’ospedale di Imola. Sono queste le anticipatrici di quella folta presenza di camici bianchi al femminile che noi oggi vediamo quotidianamente nelle strutture assistenziali pubbliche e private e che non guardiamo più come “eccezionali”. Spesso la conquista di corsi femminili nelle università si rivelava un’arma a doppio taglio; ad essi infatti si associava immediatamente l’idea che fosse necessario organizzarli in funzione di una preparazione “adatta alle donne”, con meno anni di corso e studi meno impe-

gnativi. Un ghetto, cioè, da cui era poi difficile alle giovani allieve sottrarsi ed emergere per rivendicare pari dignità professionali. Il vincolo all’esercizio di professioni quali l'avvocatura, l'ingegneria, la docenza universitaria e lo stesso insegnamento a livelli superiori in classi non femminili limitava poi fortemente la scelta di studio: la massima frequenza dopo medicina si aveva nelle facoltà letterarie, mentre scarsa era in quelle giuridiche, e pressoché nulla in quelle scientifiche e nei politecnici. E questo nel nostro paese non diversamente che negli altri. Emblematico di questa realtà preclusiva fu il caso di Lidia Poet, che, laureata in giurisprudenza a Torino nel 1881, non riuscì mai ad esercitare. Regolarmente iscritta all'Ordine degli Avvocati, nel 1883 la Procura Generale del capoluogo piemontese oppose un netto rifiuto allo svolgimento della sua attività professionale. «Che le attitudini,

le inclinazioni, la missione naturale e particolare della donna, il suo

speciale ingenio e la debolezza fisica del suo organismo, di fronte a 173

quello dell’uomo — scriveva la stessa Poet, in risposta alla decisione della Procura — siano inconciliabili con la professione dell’avvocato, può essere soltanto opinione di uno o più individui, opinione che forse il tempo e i fatti potranno modificare. E del resto supposizione infondata che la donna, la quale si occupa di discipline legali, debba necessariamente trascurare gli affari domestici, infrangere le armonie della famiglia e colpirne i più vitali interessi. Tali doveri non sono gli uni con gli altri assolutamente incompatibili e, d'altronde, queste considerazioni come non valsero a vietare alle donne di farsi maestre comunali e in questi ultimi tempi di esercitare la professione di medico, ingegnere, professore, come non impediscono né impedirono mai alle operaie di passare il giorno intiero lontano dalle famiglie per guadagnare il pane quotidiano, né ad altre classi di attendere al commercio o ad altre occupazioni assidue o delicate, così non possono aver peso nell’ammettere o non ammettere le donne all’esercizio dell’avvocatura. Invero, la questione sta tutta nel saper se le professioni sono libere a tutti coloro che riuniscono le condizioni stabilite dalla legge e se il sesso sia fra le condizioni per poter esercitare la professione di avvocato». L’esercizio dell’avvocatura alle donne fu permesso in Francia soltanto nel 1900 e nel nostro paese addirittura nel 1919. Certo l’eccezionalità, per modi e tempi di vivere, si è sempre accompagnata come etichetta distintiva a un altro tipo di professioniste: le attrici. La loro vita libera, i loro comportamenti “spregiudicati” o comunque al limite della norma, i modi di fare e di vestire colpivano l'immaginario, stimolavano la curiosità e anche l’imitazione, ma, al tempo stesso, le emarginavano fino a giungere ad avvicinarle alle prostitute. Costrette a subire i danni di questi persistenti stereotipi le donne lottarono per secoli per farsi riconoscere come attrici e legittimare la propria attività e già nel xvi secolo ottennero il diritto di svolgere la professione teatrale. Furono principalmente le compagnie italiane a utilizzare, già in età moderna, attrici professioniste e in alcuni casi esse divennero titolari di compagnie vere e proprie. Il loro riconoscimento in Italia, Francia, Spagna, coincise con la professionalizzazione del teatro in questi paesi, specialmente con l’avvento delle compagnie della Commedia dell’ Arte cresciute tra la seconda metà e la fine del xvi secolo. Si avviava una tradizione di donne di teatro che nel corso dei secoli vide emergere, anche nel nostro paese, protagoniste di spiccata personalità e di grande capacità organizzativa come Adelaide Ristori, Giacinta Pezzana, Eleonora Duse, il cui impegno si accom-

pagnò per molti versi all’emancipazionismo femminile sia attraverso 174

legami diretti tra alcune di esse e le esponenti del movimento eman-

cipazionista, sia, anche, per il modello nuovo di donna libera e

moderna che esse stesse furono in grado di offrire. Sul palcoscenico esse vivevano e facevano vivere tante passioni e tante avventure e offrivano a un pubblico femminile sempre più vasto e articolato (le giovani borghesi, come le piccole proletarie) immagini di un mondo

femminile sconfinato e rinnovato. Bibliografia =D Nava (a cura di), Operaie, serve, maestre, impiegate, Torino, Rosenberg & Sellier, 1992.

— S. Soldani (a cura di), L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell'Italia dell'Ottocento,

— A. Arru, Servi e serve: le particolarità del caso italiano, in M. Barbagli, D.I. Kertzer, Storia della famiglia italiana 1750-1950, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 274-306.

Milano, Angeli, 1991. — L. Mariani, Il tempo

delle attrici.

Emancipazionismo e teatro in Italia fra Ottocento e Novecento, Bologna, Edi-

toriale Mongolfiera, 1991.

Zita, patrona universale delle lavoratrici di casa Servire sotto padroni fu un’occupazione di uomini e di donne — poi, sempre più, di donne — fin dai tempi antichi. E fu un lavoro che richiese, sempre, il rispetto di precisi doveri — primo fra tutti l'obbedienza e il rispetto nei confronti del padrone e verso il patrimonio dei padroni — e norme di comportamento raccolte in libretti pedagogico-educativi molto didascalici, in guide e in catechismi contenenti istruzioni, regolamenti, consigli. Al servo si chiedeva anzitutto fedeltà, considerata la principale qualità e il tratto distintivo del suo stato; fedeltà intesa come riservatezza riguardo a tutto ciò che concerneva la famiglia presso cui prestava servizio e con cui viveva, e anche come cure e affetto totale verso il patrimonio del padrone al punto di farne sempre gli interessi e non assumere mai atteggiamenti che potessero procurargli danno. Ovviamente il servo e la serva dovevano ben guardarsi dal furto, considerato peccato gravissimo sia dalla morale laica sia da quella religiosa. E fu proprio la Chiesa, sia in età medievale che moderna, a farsi dispensatrice di consigli attraverso la diffusione scritta, ma anche e soprattutto orale in considerazione del totale analfabetismo delle genti, con l'edificazione di simboli alti, proposti al culto dei fedeli non come modelli astratti, ma quali esempi di vita da imitare. 175

Numerosi furono i santi che in vita avevano esercitato il lavoro servile, il cui esempio era utilizzato quale vero e proprio “strumento di propaganda” dai padroni verso i propri domestici e le cui vite narrate.in toni agiografici entrarono a far parte della cultura popolare. È il caso di Zita, giovane serva vissuta nel Duecento nella città di Lucca, la cui vita divenne un esempio di virtù domestiche e di santità. Nei racconti che a più riprese, in momenti diversi fino alla seconda metà del xv secolo, vennero pubblicati gli autori non mancavano di sottolineare come Zita avesse mostrato, nei quarant'anni

passati al servizio della famiglia Fatinelli, grande attaccamento al lavoro e incapacità di trascorrere momenti in ozio. Ad ascoltare le parole del suo primo biografo — la cui opera non datata si può fare risalire tra la fine del Duecento e il principio del Trecento — Zita non è solo serva fedele e obbediente, ma anche persona di grande devozione e umanità. Così si legge che si immergeva nella preghiera fino ad arrivare di scordarsi di preparare il pane; e cedere nella notte di Natale a un povero bisognoso il mantello che il padrone le aveva prestato; a distribuire ai poveri cibarie della casa nei periodi di grande carestia. Se ciò può apparire in contrasto con l’etica imposta dell’obbedienza e della tutela del patrimonio padronale, non si manca di sottolineare come attraverso quelle opere edificanti Zita risplendesse di carità cristiana, rigore ascetico, umiltà e mansuetudine. Il padrone divino del resto, quando Zita disattendeva ai suoi doveri terreni, interveniva col miracolo. La giovane si dimenticava di impastare il pane e allora mani celesti lo facevano per lei; il mantello donato così generosamente veniva restituito da un essere soprannaturale; vuotava le casse dei cibi e queste miracolosamente erano sempre piene. Dunque niente viene a mettere in discussione l’onestà e il vissuto quotidiano della giovane serva. Questo modello, in cui obbedienza al padrone e fedeltà al signore celeste non sono disgiunti, fa parte di una agiografia lontana che si modifica nei secoli rapportandosi con le diverse culture succedutesi. Così la riproposizione nella seconda metà del Cinquecento del primo racconto agiografico ha come chiaro intento quello di portare lustro e onore alla famiglia Fatinelli presso cui la giovane aveva vissuto. Sono infatti i padroni, si affermava, che fortemente caritatevoli le permet-

tevano di distribuire i loro beni in elemosine. Alla fine del Seicento, invece, la pubblicazione anonima di una

vita della Zita aveva lo scopo di fornire al personale domestico un modello da imitare, con ampie e motivate sottolineature dei casi in cui il servo è tenuto al rispetto dei beni della famiglia padronale e di quelli in cui, eccezionalmente, li può anche alienare.

Ancora successivamente nel Settecento Zita è un esempio, anche 176

se con forza si evidenzia come servi e serve possano e debbano imitarla solo in ciò che è proprio della perfetta domestica, non in ciò che è proprio della santa. «Lei stessa, d’altra parte, ha conseguito la santità /.../ camminando per la via ordinaria e sicura dell’esatta soddisfazione del proprio stato: solo una volta raggiunta la perfezione come serva le è stato possibile “senza licenze dei Padroni e senza peccato, anzi con merito e con lode far elemosine con roba non sua” ». E comunque nell'Ottocento che il modello di vita di Zita divenne un esempio specifico di virtù domestiche, quando, non a caso, questa occupazione era sempre più femminile e sempre meno maschile. Il suo nome ricorre spesso nei testi per le domestiche e non si manca di intitolare ricoveri, educandati, associazioni di stampo mutualistico create appositamente per il ricovero, l'assistenza, la formazione e il

controllo delle serve. Tutto ciò ovviamente in un clima culturale profondamente mutato, e in un’epoca in cui il lavoratore chiede, oltre che dare, il rispetto e il riconoscimento dovuto all’opera e all’impegno prestati. Da quel momento si rafforza la rappresentazione di Zita

come modello per le domestiche e per le donne di servizio fino a farne una loro specifica protettrice. E un processo che si chiude nel 1955, quando il pontefice Pio XII, dando seguito a richieste e suppliche di religiosi, fedeli e collaboratrici domestiche, proclama Zita patrona universale delle lavoratrici di casa. Bibliografia — R. Sarti, Zita, serva e santa. Un modello

da imitare, in Modelli di santità e modelli di comportamento, a cura di F. Scorza

Barcellona,

M. Caffiero, Torino,

G.

Barone,

Rosenberg

nell'economia,

secc.

xm-xvi.

Atti

della “Ventunesima Settimana di Studi”, a cura di S. Cavaciocchi, Firenze, Le Monnier,

1990.

&

_ Comune di Carpi, Operaie, serve, mae-

Sellier, 1994. — Istituto Internazionale di Storia Economica “F. Datini”, Prato. La donna

stre, impiegate, a cura di P. Nava, Torino, Rosenberg & Sellier, 1992.

Adelaide Ristori ed Eleonora Duse: due attrici, due epoche Tra Otto e Novecento si registrò una ricca fioritura di libri sulla vita delle attrici e tutti puntavano a metterne in rilievo la femminilità e a trattare con curiosità la loro esperienza. Ad alimentare questo interesse fra gli scrittori come tra i lettori fu anche la “forte” presenza delle attrici nel teatro, anzi si può affermare che, dopo la nascita del professionismo, le attrici risultarono importanti tanto 1'k/

quanto, e forse più, degli attori e quindi la storia deve fare i conti con qualcosa di più consistente delle tracce femminili che fino a quel momento si ricordavano. Non solo i biografi, ma anche i più attenti e significativi studiosi del teatro hanno sottolineato la centralità di alcune attrici-guida per la cultura e la vita teatrale del secolo scorso e dei primi decenni del nostro; anzi alcuni ne hanno evidenziato ruolo e importanza lungo un percorso che dalla nascita della Commedia dell’Arte arriva fino ad Eleonora Duse. Certo l’Ottocento resta il secolo di maggiore fioritura delle grandi attrici: e tra le due “eccelse” — Adelaide Ristori e Eleonora Duse — vi è una generazione “di mezzo” non meno grande, non meno significativa — Giacinta Pezzana, Adelaide Tessero, Virginia Marini —

che ebbe anche stretti rapporti col movimento emancipazionista femminile. Non a caso dal teatro vennero incisivi stimoli per il movimento politico delle donne e si pensi solo al lancio di un personaggio femminile quale Nora, protagonista di Casa di Bambola, di Ibsen, attorno a cui si coagula un vivace dibattito. Ma anche nelle scelte di vita le grandi attrici costituirono un modello per una società che vedeva allargarsi la presenza femminile nel mondo del lavoro, nella scuola, nella cultura, nella politica. Adelaide Ristori (1822-1906), come Eleonora Duse (1854-1924),

erano figlie d’arte. La prima, nata a Cividale del Friuli da umili attori, esordì sulla scena a 14 anni e si affermò presto nella Compagnia Reale Sarda fino a divenirne prima attrice, per passare poi ad altre e, dopo il matrimonio con il conte Capranica del Grillo, a gestitne una propria. Nello scrivere le sue memorie Adelaide affermava: «Il proverbio che assimila la vita umana ad un viaggio, pare inventato apposta per me. La mia esistenza infatti è trascorsa quasi interamente in continui e lun-

ghi viaggi per fare valere l’arte mia in ogni paese. Sotto i climi più diversi mi fu dato rappresentare la parte di protagonista in capolavori immortali, e riconobbi che gl’interpreti delle umane passioni suscitavano sensazioni intense fra i popoli d’ogni razza». C’è qualcosa di nuovo e qualcosa di vecchio in queste parole, in esse trascorre quasi

la storia del teatro professionista dalle compagnie viaggianti (così tipiche della Commedia dell’ Arte) alle compagnie stabili, al ritorno a un “nuovo nomadismo” con le grandi toumées all’estero. E Adelaide recitò in tutte le regioni del vecchio mondo, ma anche nel Nuovo. Anzi tra il 1874 e il 1876 la Ristori compì quello che lei stessa definì il suo sensazionale “giro del mondo”: 312 recite in venti mesi e dodici giorni. Ma già prima, nel 1866, aveva conquistato l'America del Nord nelle vesti di Medea, Adriana di Le178

couvreur, Pia de’ Tolomei, Maria Stuarda, Lady Macbeth, Maria Antonietta... Verso la fine del secolo una profonda modificazione avvenne in

campo teatrale con l’affermarsi del teatro di regìa: ai grandi attoriprotagonisti si sostituirono progressivamente quelli che la critica teatrale definì i “mattatori”, interpreti del testo diretti e impostati da abili mani guida. Eleonora Duse visse in prima persona questa fase di passaggio. Aveva esordito a solo 4 anni, a 14 era stata una lodatissima Giulietta

all'Arena di Verona e otto anni dopo venne salutata come “rivelazione” ne La principessa di Bagdad di Dumas figlio. Il 1887 rappresentò un anno di svolta per la grande attrice: nacque l’amicizia con Arrigo Boito, certo meno intensa di quella che successivamente la legò a Gabriele D’ Annunzio, ma importante perché segnò il cambiamento nel suo modo di fare teatro. Per Eleonora fu l'abbandono del mondo dei guitti e l’incontro col teatro di cultura: Shakespeare, Ibsen, D'Annunzio. E D'Annunzio per la Duse non fu solo autore, ma diresse prove, disegnò costumi, scene, mobili, fu insomma assai simile a un regista.

Spentosi l’amore e chiuso il rapporto di lavoro con D'Annunzio, la Duse riprese la vita nomade delle attrici ottocentesche in Italia e fuori d’Italia. Si ritirò dalle scene tra il 1909 e il 1921. Poi la frenetica ripresa che la portò a morire, nel 1924, mentre era in foumée a Pittsburg. Degli anni di assenza dalla scena va ricordato il tentativo di creare a Roma, in una villetta di via Nomentana, una Casa delle attrici «perché le nostre attrici randagie» vi avessero «il riposo e l’onore di una bella casa, piena di libri e di luci». Contrariamente alle sue speranze il mondo del teatro rifiutò il progetto o forse non lo capì e rimase ancorato all’idea di “saper bastare a se stesso”, di non volere “elemosine: né fiori, né libri, né pani e tanto meno alberghi gratuiti”. Bibliografia — R. Alonge, Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento, Roma-Bari, Laterza,

Duse nel teatro italiano fra i due secoli, Roma, Bulzoni, 1985.

1888. — L. Mariani, Il tempo delle attrici. Emancipazionismo e teatro in Italia tra Ottocento e Novecento, Bologna, ed.

— A. D'Amico, La monarchia teatrale di Adelaide Ristori: 1855-1885, in Teatro

Mongolfiera, 1991. — C. Molinari, L’attrice divina. Eleonora

— R. Ristori, Ricordi e studi artistici, Rou, Torino-Napoli, 1887.

dell’Italia Unita, a cura di S. Ferrone, Milano, Il Saggiatore, 1980.

179

Giuseppina Cattani: una vita tra ricerca scientifica e professione medica «Le brave signorine Giuseppina Cattani e Giulia Cavallari di Imola — scriveva nel 1879 la direttrice Gualberta Alaide Beccari su La donna — che più volte ebbi occasione di rammentare nel mio periodico, tributando ad esse i dovuti elogi e per il loro brillante ingegno e per la forza d’animo non comune, dimostrata col frequentare quelle scuole, che fino a ieri erano, e per legge e per consuetudine, luoghi proibiti al nostro sesso, terminato ch’ebbero l’anno scorso, con ottimo successo, lo studio liceale /.../ s’iscrissero tutte e due, a tempo debito, alla nostra università. L'una, la Cattani, quale studente di medicina,

l’altra, la Cavallari, quale studente di filologia. La prima nell’esperimento finale del 1° corso della propria materia, ebbe voti pieni assoluti /.../ la sola tra gli studenti maschi anche del quarto corso che ottenne voti pieni assoluti /...J. Facciamo notare che tanto lo studio della medicina, quanto quello della filologia, sono tra i più severi e che i dotti esaminatori vanno ben cauti nel lasciare certificati così onorifici come quelli ottenuti dalle mie brave amiche Giuseppina e Giulia e stimo che, per avventura, gli esaminatori saranno stati questa volta ancora più ligi alla propria massima trattandosi di due fanciulle /.../. Giuseppina Cattani e Giulietta Cavallari incarnano un nobile esempio, degno d’imitazione». Giuseppina Cattani era figlia di un sarto e di una levatrice: le modeste condizioni economiche della famiglia, unite a un ottimo profitto scolastico, le consentirono di ottenere sempre l’esenzione del pagamento delle tasse universitarie. Fu probabilmente il mestiere della madre a stimolare l’interesse per gli studi medico-scientifici, non disgiunto tuttavia da un amore per le umane lettere, testimoniato dal fatto che Giuseppina, nel primo anno di università, inserì come

corso libero anche lo studio della letteratura italiana insegnata dal Carducci. L'importanza della figura materna era confermata anche dalla scelta della sorella minore Augusta, che negli stessi anni frequentava la Scuola di ostetricia, un’autonoma istituzione di antica tradizione collegata alla Facoltà di Medicina. Le poche notizie che ci sono giunte su Giuseppina come donna ce la descrivono come una persona dai lineamenti dolci, dotata di una energia e franchezza eccezionali nella vita e di una intelligenza vivace unita ad una grande modestia. Queste sue doti e la simpatia naturale che ispirava le conquistarono l’amicizia e la stima di molte delle personalità del suo tempo come Carducci, Saffi, Costa, come

pure di scienziati quali Bizzozero, Virchow, Ziegler e di quanti altri ebbero occasione di conoscerla. 180

Laureatasi con lode nel 1884, Giuseppina ottenne per la sua tesi di laurea larghi riconoscimenti e premi e il suo lavoro sperimentale venne pubblicato in riviste scientifiche di respiro nazionale. Attratta fin dagli anni di studio universitario dalla ricerca scientifica la Cattani aveva iniziato a frequentare il gabinetto di Patologia generale diretto dal prof. Guido Tizzoni, prima come allieva provvisoria, poi come assistente e infine, dal 1885 al 1887, con posto governativo di perfezionamento all’interno. Nel 1886 conseguì la libera docenza e dal 15 dicembre 1888 fu titolare di un corso libero presso l’ateneo bolognese, incarico che ricoprì fino al 1902. Sempre in quegli anni, animata da un indomabile desiderio di allargare le proprie conoscenze scientifiche, avrebbe desiderato recarsi a Strasburgo per perfezionarsi nelle ricerche di chimica patologica, ma, con suo grave disappunto, questa esperienza non le fu concessa in quanto in Germania era ancora

vietato alle donne di frequentare gli istituti universitari. Fu dunque nel nostro paese che Giuseppina continuò a lavorare e studiare con ricerche intorno alla diffusione e resistenza del vibrione colerico, alle alterazioni anatomiche che si producono durante l’infezione, alla permanenza del vibrione nell’apparato intestinale e alla sua diffusione ad altre parti dell'organismo umano. Questo interesse intorno all’infezione colerica nasceva anche da una sentita attenzione per i problemi sociali dell’epoca, infatti nel 1886 Bologna, come altre città italiane, era stata colpita da un’epidemia di colera che aveva prodotto numerose vittime. Nella stessa direzione andarono i successivi studi sul tetano, per combattere il quale la Cattani assieme al Tizzoni sperimentarono un siero di grande efficacia che ottenne anche risonanza internazionale: «Questo metodo fa impressione di una vera vittoria nel campo terapeutico, un vero beneficio nella cura di una malattia sì terribile, per lo più letale» (Clinica chirurgica di Innsbruck). Ma la vita del medico Cattani conobbe anche altre esperienze. Nel 1897 ritornò a Imola, sua città natale, dove ricoprì l’incarico di anatomo-patologo della Congregazione di Carità con l’obbligo di prestare la sua opera nel laboratorio dell’ospedale. Le fonti dell’epoca ricordano come Giuseppina disimpegnasse con amore e competenza tale varietà di compiti e funzioni ospedaliere che la videro contemporaneamente medico radiologo, analista e anatomo patologo. Inoltre Giuseppina fu donna piena di interessi, sensibile ai problemi dei più poveri, dei bisognosi, dei carcerati e si impegnò attivamente nella vita politica come testimonia la sua presenza fin da giovanissima nelle file internazionaliste che il suo concittadino Andrea Costa andava 181

organizzando e di cui diresse anche uno dei gruppi giovanili. La Cat-

tani morì nel 1914 dopo lunghe sofferenze causate da un tumore da radiazioni probabilmente dovuto all’uso di apparecchi radiologici rudimentali non ancora muniti di adeguata protezione. Dagli annuari universitari dell'Ateneo bolognese risulta che bisognerà attendere fino al 1944 (e siamo in piena guerra) per trovare un’altra donna incaricata di insegnamento presso la facoltà di Medicina e al 1955 per trovarne un seconda. Se poi la presenza femminile nell’insegnamento universitario in campo medico aumenta a partire dagli anni Settanta, è solo nel 1980 che una donna, nell’università di Bologna, viene richiamata a ricoprire un posto da professore ordinario titolare di cattedra: sono passati quasi cento anni da quando aveva tentato il concorso Giuseppina Cattani. Bibliografia — La Dott. Giuseppina Cattani, in “Bollettino delle Scienze mediche”, a. LXXXVI, serie IX, vol. 3°, 1915. — Alma Mater Studiorum, La presenza femminile dal xv al xx secolo, Bologna, Clueb, 1988, in particolare:

Le “maestrine” di Edmondo

B. Dalla Casa-F. Tarozzi, Da “studentinnen” a “dottoresse”: la difficile conquista dell’istruzione universitaria tra 800 e ‘900, pp. 159-174 e M. Zannotti, Giuseppina Cattani e la ricerca batteriologica sul tetano, pp. 175-180.

De Amicis

«Ma ce n’è un’altra che mi piace pure: la maestrina della prima inferiore numero 3, quella giovane col viso color rosa, che ha due belle pozzette sulle guance, e porta una gran penna rossa sul cappellino e una crocetta di vetro giallo appesa al collo. E sempre allegra, tien la classe allegra, sorride sempre, grida sempre con la sua voce argentina che par che canti, picchiando la bacchetta sul tavolino e battendo le mani per impor silenzio; poi quando escono corre come una bambina dietro all’uno e all’altro, per rimetterli in fila; e a questo tira su il bavero, a quell’altro abbottona il cappotto perché non infreddino, li insegue fin nella strada perché non s’accapiglino, supplica i parenti che non li castighino a casa, porta delle pastiglie a quei che han la tosse, impresta il suo manicotto a quei che han freddo; ed è tormentata continuamente dai più piccoli che le fanno carezze e le chiedon dei baci, tirandola pel velo e per la mantiglia; ma essa 182

li lascia fare e li bacia tutti, ridendo, e ogni giorno ritorna a casa arruffata e sgolata, tutta ansante e tutta contenta, con le sue belle pozzette e la sua penna rossa. E anche maestra di disegno delle ragazze, e mantiene col proprio lavoro sua madre e un fratello». Così Edmondo De Amicis, tra tante figure femminili presenti nella scuola del giovane protagonista di Cuore spesso tristi e sofferenti, trova toni vivaci per descriverci una figura femminile. Ma il gran numero delle protagoniste femminili del romanzo ottocentesco vivono vite di stenti riflettendo, del resto, una realtà che vedeva spesso le “maestrine” fare scuola al freddo e all’umido, nutrirsi poco e urlare tanto ai loro numerosi e, si suppone, tumultuanti scolari. Così Matilde Serao ne scriveva: «la Pessenda non potendo aspettare il concorso ha subito accettato il posto di maestra rurale, comune di Olevano, nel Cilento, con cinquecento franchi l’anno di retribuzione. Nel grave freddo di due anni fa, non aveva potuto ottenere una indennità per il fuoco di casa, dopo aver invano scritto più volte all’ispettore scolastico e al provveditore, per qualche sussidio, la vecchia madre le si è ammalata di bronchite e le è morta. Nell’anno seguente, il comune di Olevano, avendo dovuto sopportare qualche spesa maggiore di bilancio, ha diminuito di cento lire la retribuzione della maestra elementare; la Pessenda è rimasta, contentandosi di quello, in mancanza di meglio, visto che non vacavano altri posti di maestra rurale e che i concorsi in città si facevano sempre più difficili». (Scuola normale femminile). E in quegli stessi anni Renato Fucini nel racconto La weaestrina aggiungeva a questo quadro un altro elemento che spesso si accompagnava a queste pioniere che lasciavano la casa per un lavoro e un

ben misero guadagno: la calunnia. La maestrina ne era stata colpita “con scritti e figure sui muri, con lettere anonime e storielle cantate a squarciagola nelle case e nell’aperta campagna”. Si può cogliere in questa letteratura la linea dominante della cultura ottocentesca: quando la donna voleva rendersi indipendente rischiava di mettere a repentaglio il ruolo a lei giudicato più consono nella casa e nella famiglia. La calunnia, la maldicenza, i pericoli, il

rischio che derivavano da una vita lontana dalla famiglia erano concetti ricorrenti, del resto, anche nelle relazioni, nelle inchieste, nei

dibattiti. Di fatto questi scritti nel loro complesso disegnavano una realtà propria dello stato italiano post-unitario. La necessità di allargare a più vasti strati della popolazione la scolarizzazione richiedeva anche un numero maggiore di maestri e maestre; all’inizio si utilizzò il per183

sonale esistente, ma poi con l’istituzione di scuole ad hoc vennero formati i nuovi insegnanti: le Scuole Normali, da cui uscivano i maestri diplomati, frequentate sempre più dalle donne. E le maestre creavano non pochi problemi. Un po’ dovunque si disse per decenni che bisognava fare in modo che nei paesi insegnassero ragazze del luogo, sia per motivi morali, sia per poterle pagare poco essendo alloggiate presso la propria famiglia. Spesso, poi, le maestre ricevevano salari inferiori rispetto ai colleghi uomini ai quali, peraltro, si dava preferenza in occasione dei concorsi. Le cose cominciarono a cambiare all’alba del nuovo secolo, grazie anche all’affermarsi di organizzazioni associative dei maestri e delle maestre, in grado di tutelare economicamente, ma anche moralmente, questi lavoratori; associazioni nate soprattutto per l'impegno di quanti — non molti — si rendevano sempre più conto della centralità dell’istruzione per il paese e della necessità di affermare la propria professionalità e il proprio ruolo civile. Ancora alle figure di un romanzo possiamo rifarci per cogliere questo passaggio e ancora alla penna di Edoardo De Amicis dobbiamo il ritratto di due giovani profondamente diverse dalla “maestrina della penna rossa”. Anzi le protagoniste di Azzore e ginnastica e di La maestrina degli operai ci appaiono come antitetiche alle protagoniste di Cuore: un campionario di valori capovolti quasi ad arte. Non c’è più la patetica ma intrepida maestrina della penna rossa, ma la vigorosa maestra Pedani, oppure la spaventata Varetti; e insieme a loro c’è una nutrita schiera d’insegnanti nevrotiche o stravaganti, dalla Zibelli, appassita collega della Pedani, amareggiata dalla propria “troppo lunga vita di ragazza”, alla piccola Latti, collega della Varetti, dominanta dalla sua “monomania malinconica”, alla matura Garallo, tutta presa dalla propria passione oratoria. Soprattutto c’è lei, la signorina Pedani, che non solo aveva fatto dell’insegnamento della ginnastica lo scopo della sua vita, ma arrivava anche a sostenere con energia le nuove idee davanti ai burocrati ministeriali e a tenere relazioni ai congressi dei maestri. E tale era la forza e l’ardore del suo parlare che, proprio in occasione di un dibattito sul tema “Modificazioni da proporsi nel-

l’insegnamento della ginnastica”, alla fine del suo intervento «si scatenò una tempesta; tutti balzarono in piedi, battendo le mani e gridando; la Pedani, pallida e trafelata, si dovette alzar tre volte per ringraziare. /.../ Quando la seduta fu chiusa, scoppiò un nuovo applauso, e la Pedani discese dal suo banco fra due ali di visi sorridenti e di mani tese, in mezzo a un grido assordante di congratulazioni e di evviva». 184

Bibliografia — S. Soldani (a cura di), L'educazione delle donne. Scuole e modelli di vita

femminile nell'Italia dell’Ottocento, Milano, Angeli, 1991 (in particolare G. BINI, La maestra nella letteratura: uno specchio della realtà, pp. 331-362.

— Società umanitaria, L’emzancipazione femminile in Italia. Un secolo di discussioni 1861-1961. Firenze, La Nuova Italia, 1963.

— F. De Vivo e G. Genovesi (a cura di),

Cento anni di Università. L’istruzione superiore in Italia dall’unità ai giorni nostri, Napoli, E.S.I., 1986 (in particolare E. CATARSI, L'Università e la formazione dei maestri nell'Italia liberale 1859-1923).

185

NUOVO

LAVORO

STORICO

Nella stessa collana:

A. COLETTI, Mafie (Storia della criminalità organizzata nel Mezzogiorno)

R. SAPIENZA, Un mondo da governare (L'organizzazione internazionale dal Seicento alle Nazioni Unite) A. SANTINI, I/ caso Galileo (La lunga storia di un “errore”) F. PANARELLI, I/ corpo e l’anima (Vita quotidiana e atteggiamenti mentali tra Medioevo ed Età Moderna)

TAVOLA

1

J. Duvet, Il matrimonio di Adamo e Eva, incisione, 1540-1557 (?), The National Gallery of Art

(Elster 35 2/2, Rosenwald Collection

1954.12.245), Washington.

La relazione maschile/femminile si fonda in natura sulla coppia. Il matrimonio di Adamo e Eva rappresenta nell’opera dell’orafo protestante Jean Duvet l'archetipo dell’unione cristiana. Le figure nude indicano lo stato d’innocenza, ma la scena è dominata dall’albero che simboleggia il peccato originale.

7.

ZARRI, La memoria di lei

TAVOLA

2

L. van Leyden, Adamo e Eva dopo la cacciata dal Paradiso, incisione datata 1510, The National Gallery of Art (Hollestein 1, Rosenwald Collection 1946.11.94), Washington.

Fatica e dolore nel parto sono indicati come conseguenze del peccato. L'immagine raffigura una divisione dei ruoli sessuali che ha le sue radici in natura.

TAVOLA

3

C. Susini, Venere. Figura femminile giacente a strati anatomici sovrapposti e scomponibili, cera, 1781 (?), Museo della Specola, Firenze.

Il ruolo biologico condiziona per secoli la storia della donna. La conoscenza del suo corpo è aspetto essenziale della costruzione culturale del “genere”.

TAVOLA

4

R. Sanzio, La gravida, Galleria Palatina, Firenze.

La gravidanza accompagna con estrema frequenza il periodo fecondo della vita della donna.

TAVOLA 5 Fratelli Toselli, Fei di gerzelli, cera e tela dipinta su tavola, xvm secolo, Museo ostetrico

G.A. Galli, Palazzo Poggi, Università di Bologna, Bologna.

Ad un alto tasso di natalità corrisponde una elevata mortalità infantile. L'amore materno si approfondisce anche in connessione con una maggior attenzione culturale al periodo dell’infanzia.

TAVOLA

6

Domenico di Bartolo detto il Vecchietta, Affreschi del Pellegrinaio, particolare: La balia, Spedale di Santa Maria della Scala, Siena.

L’allattamento dei bambini appartenenti ai ceti più elevati della società e di quelli abbandonati è affidato generalmente alle balie. Il mestiere di balia, rappresenta una delle più quotate professioni femminili.

TAVOLA

7

L. Lotto, Marsilio Casotti e la sua sposa, olio su tavola, 1523, Museo del Prado, Madrid.

La condizione matrimoniale rappresenta il ruolo effettivo della maggior parte delle donne. Nell'immagine il legame indissolubile degli sposi è rappresentato dal giogo sostenuto da Cupido, che indica l’amore profano come fondamento dell’unione della coppia. Non c’è in questo dipinto riferimento alla sacramentalità del matrimonio.

TAVOLA

8

L. Fontana, Ritratto di famiglia (particolare), Pinacoteca Nazionale di Brera, Milano.

Nella famiglia le donne costituiscono un gruppo separato e coeso. In questo ritratto tre generazioni si trasmettono valori di fedeltà, rappresentata dal cane al centro del dipinto, e di vita cristiana, simboleggiata dal libro di preghiere retto dalla bambina.

TAVOLA

9

A. Bonvicino, detto il Moretto, Lo sposalizio mistico di santa Caterina di Alessandria con santa Caterina da Siena e santi Paolo e Girolamo (particolare), 1543 circa, Chiesa di San Clemente, Brescia.

Lo stato monastico è considerato in ambito cattolico superiore a quello matrimoniale, ma la vita religiosa femminile è rappresentata come matrimonio, quasi a simboleggiare una condizione naturale della donna che definisce la propria identità in un rapporto di coppia.

8

ZARRI, La memoria di lei

TAVOLA

10

G. Mazzuoli, Madonna in gloria con le sante Barbara, Orsola e le zitelle (particolare), Pinacoteca Nazionale, Ferrara.

L’educazione femminile è prevalentemente affidata alla trasmissione di un sapere pratico comunicato in famiglia o nei “conservatori”, destinati a preservare la virtù

e a impartire una educazione religiosa.

TAVOLA

11

F. Guardi, I/ parlatoio delle monache di San Zaccaria, olio su tela, Ca” Rezzonico, Venezia.

La vita monastica costituisce per secoli un’alternativa al matrimonio, specialmente per le donne appartenenti ai ceti più elevati. Il monastero rappresenta anche una possibilità di approfondimento culturale ed è al centro di molteplici relazioni sociali.

TAVOLA

12

Scuola materna, inizio xx secolo, foto Alinari.

L’educazione femminile è stata tradizionalmente affidata a monache e suore. Fino a oggi le congregazioni religiose gestiscono scuole di ogni ordine e grado professionalmente qualificate.

TAVOLA

13

V. Carpaccio, Le cortigiane, Museo Correr, Venezia.

Il meretricio rappresenta uno dei ruoli trasgressivi femminili di più lunga durata. In diversi tempi è stato sottoposto a controlli e regolamentazioni pubbliche. Nel Rinascimento le “cortigiane oneste” godono anche di riconoscimento sociale.

TAVOLA

14

A. Diirer, Strega che cavalca un caprone, incisione, 1500-1501 circa, The National Gallery of Art

(Meder/Hollstein 68, Rosenwald Collection

1943.3.3556), Washington.

Una lunga tradizione culturale identifica nella strega l’immagine della trasgressione e della ribellione sociale femminile. La caccia alle streghe, che colpisce prevalentemente donne emarginate e indifese, rappresenta uno dei più duraturi fenomeni di allucinazione collettiva.

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Trento, Torre Aquila, Sala dei Mesi, parete sud, Giugno, particolare: Donne che mungono e fanno burro e formaggio, affresco del 1407, ridipinto nel 1535.

Il lavoro femminile rappresenta una costante su cui si fonda l'economia delle società agrarie.

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F. Del Cossa, Il m2ese di marzo (particolare), Palazzo Schifanoia, Ferrara.

Filatura, tessitura e ricamo costituiscono ambiti professionali femminili e rappresentano occupazioni abituali anche delle donne appartenenti ai ceti elevati della società.

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A. Morandi, Busto di Anna Morandi Manzolini, cera, secolo xvm, Istituto di Anatomia, Bologna.

Pur nell’estrema carenza dell'istruzione femminile, alcune donne recano un significativo contributo alla scienza. Anna Morandi indirizza alla ceroplastica, valido sus-

sidio allo studio dell'anatomia, le abilità acquisite nel disegno e nella scultura.

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Le trecciaiole, fine 1800 inizio 1900, foto Alinari.

Un altro aspetto dell’operosità femminile nelle campagne italiane del secolo scorso.

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Scuola professionale. La lezione di dattilografia, fine 1800 inizio 1900, foto Alinari.

Diffusione dell’istruzione e innovazioni tecnologiche creano nuove professionalità femminili.

TAVOLA 20 A. Gentileschi, Giuditta uccide Oloferne, 1620 circa, Uffizi, Firenze.

Prototipo della donna “virile” che libera con la spada il suo popolo, Giuditta rappresenta la legittimazione della partecipazione femminile alla guerra.

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W. Segar (?), Elisabetta I (Il Ritratto dell’ermellino), 1585, National Portrait Gallery, London.

Ragioni dinastiche e disposizioni ereditarie possono abilitare le donne all’esercizio del potere. Elisabetta I rappresenta un esempio di indiscussa abilità politica.

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Charlot Corday subito dopo l’assassinio di Marat, dipinto anonimo, xvm secolo, Musée Carnavalet, Parigi.

Il gesto dell’aristocratica di provincia Charlot Corday, che sembra ripetere l’impresa gloriosa di Giuditta, ma è rivolto contro “l’amico del popolo” nella Francia rivoluzionaria, guadagna alla donna la ghigliottina e la fama di mbstro-femmina.

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Manifestazione suffragista a Londra, 1905.

Il suffragismo della fine del secolo xtx rappresenta il primo movimento politico organizzato delle donne.

«Questo volume se sprovvisto del triangolino qui a fianco stampigliato, è da considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE GRAìO, fuori commercio (vendita e altri atti di disposizione vietati: art. 17, comma 2, Legge nr. 633/1941). Esente da |.V.A. (D.P.R. 26.10.1972, nr. 633, art. 2, lett. d). Esente da bolla di accompagnamento (D.P.R. 6.10.1978, nr. 627, art. 4, nr. 6)».

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Il libro si presenta come un organico tentativo di ricostruire il dibattito teorico che ha accompagnato il nascere e il costruirsi della storia delle donne come disciplina scientifica e di offrire indicazioni per ulteriori ricerche in questo campo. La prima parte del volume, la guida, affronta la questione del rapporto donna-storia. Infatti l’Autrice, partendo da un’analisi della donna come oggetto e soggetto di storia, esemplifica il discorso degli uomini sulla donna e presenta le prime donne scrittrici di storia. Esamina poi il definirsi della base epistemologica di una nuova disciplina storica che muove i primi passi tra militanza e ricerca per giungere infine a una recente istituzionalizzazione.

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Nella seconda parte del volume si individuano i principali settori di indagine relativi alla storia delle donne, presentando

diversi profili biografici come esemplificativi dei più significativi risultati della ricerca o come proposte per approfondimenti didattici. Sono indicati personaggi storici di grande rilevanza politica, religiosa e civile, ma non sono dimenticate le donne di tutti i giorni che nella maternità, nell’educazione, nella vedovanza, nel lavoro domestico e artigianale han-

no sempre svolto un ruolo socialmente rilevante. Gabriella Zarri (Bologna 1942) è professore ordinario di storia mo-

derna presso l’Università di Firenze, dopo aver insegnato a Bologna e Udine. Studiosa di storia religiosa con particolare riferimento alla spiritualità e alle istituzioni ecclesiastiche femminili, è Autrice di numerosi saggi. Tra questi ricordiamo: Le sante vive (Torino, 1990) Finzione e santità tra medioevo e età moderna

(Torino, 1991) e

Donne e fede (quest’ultimo in collaborazione con Lucetta Scaraffia, Roma-Bari, 1994).