L’intervista letteraria. Storia e teoria di un genere trascurato


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L’intervista letteraria. Storia e teoria di un genere trascurato

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lingue e letterature carocci / 297

I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Vittorio Emanuele ii, 229 00186 Roma telefono 06 / 42 81 84 17 fax 06 / 42 74 79 31

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Federico Fastelli

L’intervista letteraria Storia e teoria di un genere trascurato

C

Carocci editore

Il volume è frutto della ricerca svolta presso il Dipartimento di Formazione, Lingue, Intercultura, Letterature e Psicologia dell’Università degli Studi di Firenze, e beneficia per la pubblicazione di contributi dell’ateneo.

1a edizione, dicembre 2019 © copyright 2019 by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Edimill S.r.l., Bologna Finito di stampare nel dicembre 2019 da Litografia Varo (Pisa) isbn 978-88-430-9853-8

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice



Introduzione. L’insuccesso del signor Carrère

9

1.

Che cos’è un’intervista

15

1.1. 1.2. 1.3.

La società dell’intervista L’intervista come genere L’intervista letteraria

15 19 26

2.

Storia dell’intervista

39

2.1. Un genere moderno 2.2. Un genere americano 2.3. Un genere intermediale

39 46 51

3.

Letteratura e intervista

59

3.1. 3.2. 3.3. 3.4. 3.5.

Giornalisti, scrittori e letterati Jules Huret e l’inchiesta letteraria Un’ora con… L’intervistatore scrittore “The Paris Review”

59 66 72 79 84



Riferimenti bibliografici 93



Indice dei nomi

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Introduzione L’insuccesso del signor Carrère

C’è un racconto piuttosto divertente che descrive lo statuto precario dell’oggetto di studio di questo libro. Si tratta della ricostruzione di un’esperienza fallimentare vissuta personalmente dallo scrittore Emmanuel Carrère. Contattato da una nota rivista cinematografica per intervistare la grande Catherine Deneuve, Carrère accetta dopo qualche iniziale perplessità. Decide tuttavia di non preparare delle vere e proprie domande. Riguarda alcuni dei film dell’attrice, rilegge la sua raccolta di taccuini À l’ombre de moi-même (2004) e telefona a Pascal Bonitzer, l’ultima persona ad averla intervistata. Nonostante l’amico regista lo metta in guardia – intervistare Deneuve non è cosa semplice, o almeno non lo è stato per lui –, Carrère idealizza il suo incontro: non vuole costruire la solita intervista da giornalista cinematografico, anche perché non lo è. Non è a caccia di gossip e si propone di evitare questioni troppo complicate. Non intende mettere in difficoltà l’intervistata. Immagina l’intervista come una conversazione, uno scambio da cui emergerà un «ritratto complice e pieno di sfumature» (Carrère, 2017, p. 245). Carrère conta sul fatto che è stata proprio Deneuve a proporre il suo nome alla redazione della rivista. Dunque è certo che l’attrice apprezza il suo lavoro e conosce i suoi romanzi, magari anche i suoi film. È convinto che l’incontro si trasformerà in un’esperienza dialettica nella quale, al momento opportuno, intervistata e intervistatore convergeranno spontaneamente sui giusti argomenti. L’appuntamento presso il vecchio Cinéma Panthéon del Quartiere latino si risolve in un vero e proprio disastro. La conversazione stenta a decollare e l’intervistatore sprofonda in pochi minuti in una sorta di imbarazzata titubanza, di impacciato disagio. In due ore di registrazione, sbobinate nei giorni successivi, non trova materiali significativi da rieditare nella tipica forma del “botta e risposta”, che caratterizza di norma il genere. Decide quindi di rimpiazzare il pezzo promesso a “Première” con la narrazione 9

l’intervista letteraria

della propria peculiare (e in un certo modo indimenticabile) esperienza, che intitola ironicamente Comment j’ai complètement raté mon interview de Catherine Deneuve (Come ho completamente cannato la mia intervista a Catherine Deneuve, nella traduzione italiana del 2017)1. Cos’è andato storto? Perché l’idea iniziale non ha funzionato? È stato il temperamento deciso e un po’ snob di Catherine Deneuve a mandare in fumo le aspettative dello scrittore, o piuttosto è stato lui a non prepararsi in maniera adeguata? Le ragioni del fallimento chiamano in causa, in primo luogo, l’intima parentela dell’intervista con altri generi dialogici. Carrère rifiuta esplicitamente il ruolo del giornalista, e il modello formale del dialogo diretto, con domande dell’intervistatore e risposte dell’intervistato riportate fra virgolette. Sa bene, infatti, che l’intervista, intesa senza ulteriori specificazioni, è una declinazione testuale specifica che proviene dalla storia dell’informazione. Sa che ha molto a che fare con il gossip e con il sensazionalismo, con il reportage e con l’inchiesta, nonché con l’idea moderna di opinione pubblica. Ma sa anche che, nel caso di interviste a personalità straordinarie dell’arte, del cinema e della letteratura, il termine “intervista” non esaurisce le possibilità del genere entro lo schematico modello che il giornalismo ci ha reso familiare, né entro la “macchina binaria” di opposizioni preconfezionate (intervistato-intervistatore, uomo-scrittore, vita-opera, intenzione-significazione), che, come ha detto una volta Claire Parnet dialogando a distanza con Gilles Deleuze, preformerebbe le domande «sulla base delle risposte supposte probabili secondo le significazioni dominanti»2. Quando Carrère pensa all’arduo compito che si è assunto, utilizza quindi termini come “incontro”, “visita”, “conversazione”, “dialogo”, sovrapponendo, in maniera impropria, l’intervista a diversi generi testuali. Lo fa perché ha in mente alcuni esempi. Pensa quasi certamente a Truman Ca1. Si legge nella raccolta di articoli e saggi Il est avantageux d’avoir où aller (2016), disponibile in italiano per la traduzione di Francesco Bergamasco col titolo Propizio è avere ove recarsi (2017). 2. Secondo Parnet, quindi: «il procedimento per domande e risposte non è conveniente per ragioni molto semplici. Il tono delle domande può variare: c’è un tono perfidomaligno, o al contrario un tono servile, o anche da pari a pari. Lo si ascolta tutti i giorni in televisione. […] Quale che sia il tono, il procedimento domanda-risposta è fatto proprio per alimentare i dualismi. Per esempio, in un’intervista letteraria si trova innanzi tutto il dualismo intervistatore-intervistato, poi, al di là di questo, il dualismo uomo-scrittore, vita-opera nell’intervistato stesso, e inoltre il dualismo opera-intenzione o significazione dell’opera» (Deleuze, Parnet, 1977, p. 25).

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introduzione. l’insuccesso del signor carrère

pote – maestro e rivale con cui, d’altra parte, si misura più volte nel corso della carriera3. E in particolare ha in mente l’anno 1956, quando lo scrittore americano aveva intervistato un’altra leggendaria star del cinema, Marlon Brando. Capote aveva raggiunto Brando in Giappone, durante le riprese del film Sayonara, diretto da Joshua Logan. Per vincere le resistenze del grande attore, di solito restio a mettere in piazza la propria vita privata, aveva adottato una tecnica che lo avrebbe reso celebre: parlare per primo, confessarsi, far sembrare il dialogo in corso tutt’altro che un’intervista. Ne era uscito un geniale racconto-intervista-ritratto dal titolo The Duke in His Domain (1957), la cui struttura è lontanissima dalla morfologia dell’intervista giornalistica, e i cui contenuti esorbitano dai limiti solitamente assegnati a un pezzo d’informazione. In un classico esempio di “angoscia dell’influenza”, per usare l’arcinota formula bloomiana (Bloom, 1973), Carrère rende il proprio fallimento come intervistatore parte sostanziale del ritratto di Deneuve, rovesciando ironicamente l’inimitabile modello capotiano. La confessione quasi da lettino dello psicoanalista di Brando (cfr. Winchell, 1957) trova così il suo corrispettivo nel distacco elegante ma indisponente dell’attrice snob, ovvero nel suo indefesso comportamento da star – «comportamento di merda» si lascia sfuggire Carrère, a un certo punto. Il discrimine, come si capisce, è l’autoritratto dell’autore come intervistatore: al cinismo radicale di Capote corrisponde infatti l’egocentrismo onesto e moralmente ammissibile di Carrère. Per Capote, come scrive Gerald Clarke nella sua nota biografia, intervistare è una vera e propria arte, la cui unica regola è la dissimulazione: «tu cominci a raccontargli di te e piano piano tessi la tua rete finché l’altro non ti racconta tutto di sé. Ecco come ho messo in trappola Marlon» (Clarke, 1993, p. 246). Lo stesso Brando è la conferma vivente della diabolica efficacia di tale stra3. È noto, per esempio, che nella stesura del romanzo non finzionale L’avversario (2000), Carrère si fosse misurato con A sangue freddo (1966) di Capote. Anche in quel caso, lo scrittore francese aveva dovuto ammettere il proprio fallimento rispetto alla via indicata dal maestro statunitense: la fredda oggettività della narrazione in terza persona del capolavoro di Capote non poteva essere replicata nel proprio romanzo, se non costringendone la scrittura entro una postura falsa, inautentica. Così, L’avversario era stato scritto in prima persona, e le modalità narrative del reportage classico, fondato sull’identità di autore, narratore e personaggio testimone, di fatto ripristinate. Seppure alla luce di un’importante operazione di rammodernamento, la parzialità prospettica da cui Carrère finisce per raccontare gli eventi definisce morfologicamente il romanzo come un racconto fattuale (cfr. Lejeune, 1975). Ma anche in quel caso egli rivendica la propria scelta come la più corretta rispetto alla verità della narrazione e, soprattutto, la più giusta da un punto di vista morale.

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l’intervista letteraria

tegia: «quel piccolo bastardo», dirà qualche tempo dopo l’incontro del 1956, «ha passato metà della serata a raccontarmi tutti i suoi problemi; ho immaginato che il meno che potessi fare fosse raccontargliene un po’ dei miei» (ibid.). Per Carrère, invece, intervistare è una pratica scontata e noiosa, per la quale, oltretutto, si sente poco portato. Non riesce a costruire l’intervista perché non può focalizzare la propria attenzione sull’intervistata. E Deneuve, dal canto suo, non manca di sottolinearlo, con gesti, modi e risposte stringate o fredde. Lo scrittore ricorda a sé stesso, citando a memoria una frase di Marguerite Duras, che la prima regola dell’intervista vuole che di fronte a una persona si pensi solo a quella persona. Al contrario, le sue preoccupazioni appaiono introflesse. Piuttosto che a Deneuve, Carrère pensa all’impressione che sta facendo lui a Deneuve. Dal momento che non pone domande che siano vere domande, non riceve risposte. Ma in fondo, l’incontro che egli desidera, il ritratto che pensa di realizzare, richiedono da principio una forma discorsiva nella quale i due soggetti si implichino in un rapporto dialogico (almeno) paritario. Egli presume, prima di incontrare Deneuve, che lei conosca i suoi romanzi e i suoi film e dunque che l’intervista possa declinarsi come uno scambio sostanzialmente biunivoco. Al contrario, Deneuve suppone che Carrère abbia, per così dire, fatto i compiti a casa: abbia cioè preparato domande coerenti e focalizzate sul suo lavoro di attrice o sugli eventi significativi della sua biografia. L’intervista, sembra dirci insomma Carrère, è un oggetto dai confini decisamente labili. Per prima cosa è un genere ibrido, intrecciato profondamente con le forme della biografia e dell’autobiografia. Costituisce, anzi, qualcosa che sta a cavallo tra le due: in un’intervista, la biografia dell’intervistato è il riflesso, in un certo senso, dell’autobiografia dell’intervistatore. Il dialogo, nell’intervista, è un modo di costruire sé stessi oltre che il proprio interlocutore. Ecco perché nel caso dell’intervista artistica o letteraria la pratica giornalistica del porre domande per ottenere risposte interessanti, divertenti o curiose tende a scolorare, degradando verso le convenzioni di generi storicamente deputati alla costruzione dei ritratti di grandi personalità. L’intervista è contraddistinta da una ineliminabile ambiguità autoriale: vi sono due autori, ma il loro ruolo è sbilanciato. Nell’intervista giornalistica «l’intervistatore dovrebbe usare discrezione, nel senso di non interferire con la sua personalità fra l’intervistato e i lettori» (Papuzzi, 1998b, p. 67), ma ciò non sempre avviene nell’intervista letteraria o artistica, come dimostra l’esempio di Capote. Nel giornalismo, inoltre, l’intervista deve essere preparata: «l’intervistatore deve conoscere l’argomento 12

introduzione. l’insuccesso del signor carrère

e deve avere un elenco di domande» (ibid.), ma tale preparazione separa il genere dalla tradizione dell’incontro, della visita e del dialogo. Così, nel caso dell’intervista letteraria e di quella artistica l’intervistatore può coltivare l’ambizione di improvvisare, di trasformare cioè il rapporto sbilanciato tra intervistatore e intervistato in un rapporto biunivoco: Carrère, per esempio, non ha alcuna intenzione di cancellare la propria voce, di eclissare il proprio io. Talvolta, addirittura, chi fa le domande può volere i riflettori per sé, come capita in certe interviste che si leggono sulla rivista “Interview” di Andy Warhol4. L’intervistatore, certo, non dovrebbe mai «mostrare soggezione, per quanto famoso o potente sia l’intervistato» (ibid.), al contrario dovrebbe essere in grado di eclissarsi, mediando tra quest’ultimo e i destinatari. Ma quando l’intervistatore è uno scrittore, è assai probabile che l’intervista finisca per problematizzare anche la posizione di chi pone le domande, le sensazioni e le opinioni dell’io inquirente, secondo una prassi sconsigliata se non proprio vietata al giornalista. Qualsiasi intervista, d’altra parte, è il frutto del lavoro dell’intervistatore: tocca a lui fare le domande e, soprattutto, scegliere le risposte (cfr. ivi, p. 66), tocca a lui rielaborare il materiale, costruire un sistema logico e una cornice narrativa all’interno dei quali le risposte possano assumere un significato per il lettore. Così, anche quando si nasconde, anche quando riesce a eclissarsi, resta di fatto protagonista. L’intervista che leggiamo o che ascoltiamo – sembra dirci Carrère – è un prodotto paradossale, frutto di un complesso processo di scrittura, montaggio ed editing: se «il lettore dimentica, quasi sempre, che ogni parola dell’intervista è il prodotto di una tecnica attraverso la quale una conversazione è stata tradotta in un testo» (ibid.) ciò capita perché la forma codificata di discorso diretto simula una sorta di intima spontaneità che il discorso indiretto non può garantire. Ma si tratta comunque di una finzione. Ed ecco, allora, che un racconto come quello su Deneuve si fa improvvisamente oggetto incerto, ambiguo, bizzarro. È un racconto, d’accordo. Ma non è forse vero che si tratta anche di una forma rieditata dell’intervista realmente avvenuta? Pur non essendo riuscito a realizzare un’intervista (e, forse, non avendolo voluto fare da 4. Si tratta di un noto mensile nato nell’autunno del 1969, per iniziativa di Andy Warhol e del giornalista inglese John Wilcock. La prima direzione di Gerard Malanga ne fece soprattutto una rivista di cinema underground. Già dal terzo numero, con la direzione di Bob Colacello, gli interessi mondani per la vita delle celebrità e della moda furono messi in primo piano, e dall’underground la rivista si mosse verso un pubblico di massa.

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l’intervista letteraria

principio), Carrère ha comunque intervistato Catherine Deneuve. La voce dell’attrice che egli riascolta dal proprio registratore ne è la prova inequivocabile. Il passaggio tra l’incontro realmente avvenuto e la forma finale che lo rappresenta per iscritto o in forma audiovisiva consiste in un lavoro di selezione, organizzazione e sintesi che ne ristabilisce una grammatica, ne definisce un tempo e uno spazio attraverso la narrazione. Questa rielaborazione è propriamente ciò che rende un’intervista un genere letterario e al tempo stesso ciò che impedisce a quel genere di essere facilmente teorizzabile. Siamo partiti da Carrère perché è uno scrittore; uno dei massimi scrittori viventi. La sua rielaborazione dell’incontro con Deneuve è certamente letteraria. Non vi sono dubbi, in questo caso, sull’autorialità del testo. Ma l’intervista, si capisce, interessa l’ambito letterario in diversi modi, il più noto e studiato dei quali prevede che un giornalista, un mediatore culturale o un critico ponga delle domande a uno scrittore. In questo caso, come è chiaro, sorge più di qualche perplessità sull’autorialità del testo (o del prodotto audiovisivo definitivo). Nelle pagine che seguono proveremo a chiarire quest’ordine di problemi. Nel primo capitolo analizzeremo la forma dell’intervista definendone il significato e la funzione sociale, nonché la morfologia in relazione a una specifica teoria dei generi e i meccanismi che essa implica quando incontra il campo letterario. Nel secondo capitolo tracceremo una breve genealogia del genere, ricostruendo alcuni avvenimenti essenziali della storia del giornalismo moderno. Nell’ultimo, infine, approfondiremo il rapporto tra letteratura e intervista attraverso i momenti più importanti che hanno visto l’impiego del genere in ambito letterario.

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1 Che cos’è un’intervista

1.1 La società dell’intervista I palinsesti mediatici della modernità, dalla radio alla televisione, dai rotocalchi alle riviste scientifiche, dai blog ai fandom, ci hanno assuefatto alla pervasiva onnipresenza dell’intervista (Gelshorn, 2012, p. 32): politici, scienziati, tecnici, vip, persone comuni, lavoratori in sciopero, scrittori, rappresentanti dei consumatori, maestre, sindacalisti, influencer, addestratori di cani, docenti universitari, recordmen, testimoni di eventi significativi o singolari, chiunque, potenzialmente, può essere intervistato. Ogni giorno leggiamo interviste o le ascoltiamo in radio. Vediamo persone intervistate in tv, dove la loro voce si accompagna a tutta una serie di espressioni facciali, alla comunicazione non verbale. L’istintiva familiarità che abbiamo con questo genere viene subito meno quando avviciniamo il nostro sguardo per capire meglio di cosa stiamo parlando, e magari raffrontiamo un esempio a un altro, assecondando la nostra naturale attitudine alla comparazione: troviamo interviste brevi, a volte brevissime, altre molto lunghe; intervistatori anonimi o semianonimi e altri che occupano uno spazio pari se non superiore a quello dell’intervistato; e, ancora, intervistati riluttanti e altri entusiastici, alcuni molto informati e altri ignoranti, alcuni arcinoti, altri sconosciuti. Come se non bastasse, prendiamo subito atto che l’intervista viene utilizzata in numerosi campi discorsivi e disciplinari, dal giornalismo all’intrattenimento, dall’etnologia al marketing, dalla politica alla letteratura, dalle scienze umane alla sociologia. Anche i sondaggi d’opinione, che vanno così di moda nei programmi di approfondimento politico, sono svolti attraverso interviste. Se gli argomenti trattati sono i più diversi, pure la struttura formale non ne garantisce un’immediata identificabilità. A fronte del peculiare al15

l’intervista letteraria

ternarsi di domande e risposte, la natura sia delle prime che delle seconde ci appare quanto meno sfaccettata: brevi o molto articolati, conversati o seccamente referenziali, aneddotici o perentori, gli scambi dialogici dell’intervista assumono dinamiche difficili da schematizzare. Talvolta, l’intervistatore può addirittura decidere di utilizzare una forma indiretta, evitando la struttura a domande e risposte e amplificando gli aspetti narrativi dell’incontro. Come riassume l’esperto di tecniche giornalistiche Alberto Papuzzi (1998b, p. 67): la forma classica dell’intervista, nella sua stesura finale, è il dialogo diretto, con le domande dell’intervistatore e le risposte dell’intervistato riportate fra virgolette. Quando l’argomento dell’intervista lo richiede, perché è molto complesso o perché necessita di una contestualizzazione, si può passare a una forma indiretta, in cui l’intervistato […] non risponde a delle precise domande e contestazioni, ma interviene o colloquia, sempre fra virgolette, su questioni poste in modo generale, in un contesto di informazioni provenienti anche da altre fonti.

Del resto, anche nel caso di interviste in forma classica, l’intervistatore si serve quasi sempre di una struttura narrativa. Con essa presenta la situazione spazio-temporale e/o la personalità dell’intervistato. Anche in questo caso, però, le possibilità sono pressoché infinite: nell’intervista scritta, per esempio, ci può essere un’introduzione corposa, volta a rendere l’atmosfera dell’incontro; oppure tale introduzione può essere minima. In rari casi, magari quando l’intervista non è il frutto di un incontro vero e proprio, ma risulta da meeting virtuali, in genere telefonici o via email, questa introduzione può essere assente, di modo che l’intervista si riduca al referto freddo dello scambio dialogico. Altre volte, invece, l’intervista può inserirsi in una narrazione più ampia, come succede, paradigmaticamente, nelle inchieste o nei reportage. Nel primo caso vengono proposte interviste, talvolta mediante un questionario preciso, talaltra come raccolta di interviste singole, a diversi soggetti, su un tema definito. La dimensione narrativa è data quindi dalla loro raccolta all’interno di una cornice generale, approntata dall’intervistatore. Nel secondo caso l’intervista è usata da un reporter come strumento veridittivo, con funzione probatoria di una certa notizia o dimostrativa delle diverse opinioni su di essa, ovvero, dove necessario, con funzione patetica e drammatica, come dispositivo di regolazione degli aspetti emotivi di una certa vicenda. Anche l’intervista video conosce una casistica quanto mai ampia da un punto di vista di costruzione narrativa: può indugiare, per esempio, su par16

1.  che cos’è un’intervista

ticolari fisici degli intervistati, su certe espressioni, sugli ambienti, oppure non farlo. Può fare uso espressivo del montaggio, per dilatare o sottolineare determinati passaggi, oppure svolgersi con camera fissa, per esempio nei casi molto comuni di un inviato che intervista un testimone in diretta, oppure in certe trasmissioni speciali, dal chiaro carattere trasgressivo. Nell’intervista televisiva a uomini pubblici, la scelta del primo piano dopo una domanda particolarmente pungente può assumere un preciso significato politico e definire la natura e, in sostanza, gli obiettivi della trasmissione. Nei documentari il montaggio parallelo di diverse interviste può giustapporre opinioni simili, per rafforzare una certa idea, oppure far reagire una posizione con una molto differente. Le possibilità, insomma, sono davvero troppe per poterle schematizzare, e ciò comporta il seguente paradosso: anche se il più delle volte sappiamo riconoscere un’intervista quando la vediamo, abbiamo comunque molte difficoltà a descriverla. Il motivo, in realtà, è semplice: l’intervista è probabilmente il genere meno teorizzato della modernità, sebbene possieda un altissimo livello di codificazione sociale e utilizzi a dire il vero «protocolli piuttosto normativi» (Lavaud, Thérenty, 2006, p. 10). Pur non sapendo di preciso cosa essa sia, siamo del tutto a nostro agio in quella che Paul Atkinson e David Silverman, in un saggio del 1997 dedicato al romanzo L’immortalità di Milan Kundera (1990), hanno definito Interview Society. La società dell’intervista è contraddistinta, secondo i due studiosi, dall’impulso collettivo ad attribuire alle forme di esperienza personale un inedito carattere di autenticità. Il successo dell’intervista dipenderebbe proprio dal suo porsi come confessione privata in pubblico, con la promessa implicita di lasciare accedere il fruitore alla sfera intima dell’intervistato, laddove invece essa sarebbe in realtà una modalità di costruzione del sé, non differente, in questo senso, da qualsiasi altra rappresentazione biografica. È piuttosto indicativo, da un punto di vista storico, che Atkinson e Silverman, forse senza saperlo, abbiano ripreso un’affermazione vecchia di più di un secolo. Nel 1890, infatti, Henry James tratteggiava la realtà a lui contemporanea come «an age of interviewing» (Salmon, 1997, p. 160), e intendeva, nel dettaglio, un’epoca in cui la rincorsa alla celebrità e l’uso di forme del tutto nuove di pubblicità per sé stessi e per il proprio lavoro stavano annientando la separazione tra pubblico e privato (cfr. Maunsell, 2016, p. 4). Il diritto alla privacy, per la prima volta, era messo in discussione, e proprio perciò la legge cercava affannosamente di normarlo (cfr. Shils, 1975). 17

l’intervista letteraria

L’avvento dell’intervista è dunque profondamente intrecciato con alcune trasformazioni ideologiche e sociali avvenute nella modernità. Le due definizioni, in effetti, circoscrivono un arco cronologico che, dalla fine del xix secolo, arriva in sostanza alle soglie del nuovo millennio. L’attuale logica monologante dei social network (che pure, in quanto monologo, è sempre in un certo senso dialogica, come Michail Bachtin ci ha insegnato una volta per tutte), e l’inedita possibilità di dar esito al bisogno quasi morboso di esprimere la nostra opinione (per lo più non richiesta) su qualsiasi argomento all’ordine del giorno indicano un cambiamento di abitudini, che comporta necessariamente una frattura all’interno della storia del genere. Secondo Stefano Verdino (2007, p. 102): è evidente che le nuove modalità comunicative grazie alle tecniche informatiche vanno da qualche tempo mutando di nuovo scenario: molte interviste non hanno più quell’unità di tempo e spazio che le ha caratterizzate per oltre un secolo, in quanto la comunicazione eterea consente la scissione di tempo e spazio e nelle varie modalità di chattamento e blogismo si ripristina la modalità del colloquio sopra inteso, ovvero della risposta preparata direttamente dall’intervistato e non più redatta dall’intervistatore […]. L’intervista è quindi un genere quasi a rischio di estinzione o a vasto ridimensionamento, anche se rimane la diffusività della sua onomastica.

La continuità con la società descritta da James, tuttavia, non va sottovalutata. Il meccanismo interattivo che sta alla base del funzionamento della società di massa in un’economia di mercato globale è sicuramente in perenne evoluzione, ma di certo non è nato con Internet. L’intervista è in questo senso un diretto antenato delle forme di costruzione del sé tipiche della stretta contemporaneità e il suo successo fa leva, difatti, su una dialettica di voyeurismo ed esibizionismo che in forme rinnovate determina anche il nostro quotidiano. Sebbene il web ne sta trasformando le funzioni e, probabilmente, ridimensionando l’importanza, possiamo essere certi, anche solo sulla base dell’esperienza (per quanto imprudente ciò possa sembrare), che l’intervista continua a occupare uno spazio di tutto rilievo nell’autorappresentazione mediatica della società occidentale. La sua straordinaria diffusione multimediale ne è la prova inequivocabile: continuiamo a leggere, ascoltare e guardare interviste attraverso quasi tutti i canali espressivi a nostra disposizione, dai media che hanno alle spalle secoli di storia, come il libro o il quotidiano, ai cosiddetti nuovi media. Per questo motivo, e al di là della sua evoluzione, l’intervista è ancora «uno dei grandi luoghi comuni della cultura del nostro tempo», come ha detto anni fa Giuseppe Galasso (1987, p. 173). Ci resta da capire che cosa sia, precisamente. 18

1.  che cos’è un’intervista

1.2 L’intervista come genere Quando si vuole descrivere un genere – lo sappiamo dalle indispensabili riflessioni di Tzvetan Todorov – si deve necessariamente ricondurne la nascita alla codificazione sociale di determinate proprietà discorsive, e non altre. Il che può riguardare il piano semantico o quello sintattico, il piano verbale o quello pragmatico, ma, in ogni caso, tale descrizione deve risalire a un atto linguistico o a degli atti linguistici fondamentali che ne costituiscono la struttura originaria, ovvero il discorso comune che precede la propria stessa istituzionalizzazione. Qualsiasi società tende infatti a formalizzare determinate proprietà discorsive ricorrenti quando rispondono a specifici criteri ideologici, di modo che i singoli testi vengano prodotti e fruiti in base alla norma costituita da tale codificazione. Pertanto un genere (non solo letterario) finisce per funzionare sia da orizzonte d’attesa per i lettori, sia, allo stesso tempo, da modello di scrittura per gli autori (cfr. Todorov, 1978, pp. 50-1). L’intervista è evidentemente un genere fondato sull’atto linguistico del fare domande e, ovviamente, sul fatto di rendere pubbliche le risposte. Si distingue perciò dai generi dialogici che assumono come propri fondamenti atti linguistici differenti, nonché da qualsiasi scrittura privata. I pochi critici che se ne sono occupati da un punto di vista morfologico hanno posto l’attenzione sul fatto, innegabile di per sé, che essa è costruita come un dialogo. Tuttavia, nella sua accezione comune, il dialogo presuppone, almeno in linea di principio, che le due (o più) parti in causa siano paritarie, e la conduzione del discorso condivisa. Sebbene l’intervista si strutturi come un dialogo e talvolta possa diventare tale, un dialogo, di per sé, non è un’intervista: l’intervistatore e l’intervistato hanno infatti, preliminarmente, funzioni diverse e specifiche. L’intervista fa quindi eccezione rispetto alla più nota casistica delle forme espressive co-autoriali di ambito letterario, dal momento che il rapporto tra i due interlocutori appare profondamente sbilanciato: se, di norma, l’intervistato è il protagonista dell’intervista, poiché sono le sue risposte che ci interessano, è pur vero che l’intervistatore risulta colui che promuove e cura il lavoro; spetta a lui porre le domande e scegliere le risposte. In Francia, proprio per questa ragione, alcuni studiosi distinguono l’entretien, cioè l’incontro simmetrico, dall’interview, ovverosia l’incontro asimmetrico. Nella lingua inglese, sebbene qualcuno proponga di separare conversation e interview, la differenza appare assai meno sfumata. Tutto ciò 19

l’intervista letteraria

non risolve, in ogni caso, la questione fondamentale del genere: chi è l’autore di un’intervista? La risposta più intuitiva è che si tratti comunque dell’intervistatore: dopotutto ha lui l’ultima parola sul prodotto finale. Eppure, quante volte ci è capitato di leggere frasi del tipo «come dichiara Tizio in un’intervista rilasciata a Caio», ovvero «la nostra lettura è suffragata dallo stesso Sempronio, che ribadisce la propria posizione nella nota intervista rilasciata alla “Gazzetta del Campus”»? Ciò significa evidentemente che anche le parole dell’intervistato sono considerate parole d’autore, e vengono perciò utilizzate come documentazione attendibile. Pure nel caso in cui il tal intervistato non avesse avuto controllo sulla redazione (o sul montaggio) finale, come talvolta succede, ciò che viene riportato dall’intervistatore avrebbe la credibilità della dichiarazione diretta. Tanto che se il Tizio e il Sempronio del nostro ridicolo esempio non fossero d’accordo con sé stessi, per così dire, cioè con le loro parole riportate dai giornalisti, dovrebbero affrettarsi a smentire il lavoro di Caio e quello della famigerata “Gazzetta del Campus”. L’intervista è perciò un genere dalla «duplice valenza autoriale» (Verdino, 2007, p. 104). Le parole riportate tra virgolette, se non sconfessate, possono considerarsi pienamente come parole d’autore. Nel caso dell’intervista scritta, ciò avviene «anche se il passaggio dall’oralità alla scrittura è stato operato da altra mano, da quella dell’intervistatore o da ignota mano redazionale» (ibid.). Nel modello che deriva da un certo modo di fare giornalismo, l’intervistatore dovrebbe avere la capacità di cancellarsi (cfr. Ganne, 1966, p. 381), o almeno di rendersi invisibile rispetto alla personalità, all’opinione o alla testimonianza dell’intervistato, che sono il vero soggetto dell’intervista. Tuttavia, come ha mostrato John Rodden (2001, p. 19), le modalità con cui si può condurre il lavoro sono tutt’altro che univoche. Il critico ne distingue tre: l’intervistatore dietro le quinte (stage-hands), che effettivamente riesce a delineare la figura dell’intervistato e la sua opinione con interventi invisibili e assai limitati; l’intervistatore di sostegno (supporting-interviewer), che si pone come presenza secondaria, nel dialogo, indirizzandolo comunque, attraverso domande esplicite o interventi, verso ciò cui è più interessato; e infine quello che Rodden chiama intruder, che tende invece a intromettersi con continuità alle parole dell’intervistato, cercando di fatto il centro della scena. In tutti i casi, comunque, l’intervista è un genere caratterizzato da uno scambio dialogico nel quale una delle due persone coinvolte tenta, con tattiche e temperamento diversi, di condurre il discorso, al fine di ottenere 20

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informazioni su un certo numero di questioni (cfr. Gorden, 1992, p. 2). Possiamo pensare l’intervista anche come un furbo espediente mediante il quale, ha scritto una volta Furio Colombo (1998, p. 83), «si tende ad attribuire a qualcuno la responsabilità di qualcosa che il giornalista o il giornale non hanno il coraggio di dire». Ci sono dei casi, poi, in cui l’intervista diventa «un favore» (ibid.), cioè uno spazio gentilmente concesso da un quotidiano o, molto più spesso, da un telegiornale a qualcuno, perché possa esprimere direttamente la propria opinione da una posizione privilegiata, con domande su misura e scarsissima dialettica. In Italia è prassi ben nota. Le questioni sollevate da un’intervista, evidentemente, devono avere una qualche rilevanza per il pubblico cui lo scambio dialogico è indirizzato. Ciò definisce la funzione dell’intervistato (cfr. Papuzzi, 1998b, p. 66), che può essere esperto di uno specifico argomento, oppure un testimone privilegiato di un evento, o, ancora, parte in causa in una certa situazione. In tutti questi casi parliamo di intervista tematica. Ma può anche succedere che l’intervistato risulti interessante di per sé, per cui l’intervista verterà sulla sua personalità, sulla sua vita o sull’attività che svolge. Parliamo allora di intervista personale. Lietta Tornabuoni (1983, p. 57) ha riassunto in maniera molto efficace le casistiche più note: si pongono domande a chi sa qualcosa più degli altri, a chi pensa qualcosa di nuovo e di diverso, a chi è stato testimone di eventi cui gli altri non erano presenti: attraverso le risposte, anche la comunità dei lettori viene così informata. Si pongono domande a chi possiede una competenza, un sapere scientifico, tecnico o storico, ma non possiede il linguaggio della comunicazione: attraverso le risposte, e la mediazione del giornalista che le traduce in linguaggio comune, le conoscenze dell’intervistato diventano accessibili al pubblico. Si pongono domande a chi prende decisioni influenti sulla vita collettiva: attraverso le risposte, la gente viene informata di quali siano le tendenze, i programmi, le prospettive del futuro anche proprio. Si pongono domande agli autori di un’opera d’arte: attraverso le risposte, il pubblico viene a conoscere quali fossero le intenzioni, le ispirazioni, le motivazioni dell’autore […]. Si pongono domande a chi ha vissuto un’esperienza non comune; attraverso le risposte, una parte di quell’esperienza diventa collettiva.

Lo studioso di interviste Martin Kött (2004), approfondendo la distinzione tra intervista tematica e intervista personale, riconosce in realtà non due ma quattro forme principali del genere: l’intervista focalizzata su una grande personalità, che, a suo dire, discende genealogicamente dalla tradizione della visita; l’intervista tematica, che non si focalizza sulla persona intervistata, ma su un argomento specifico; l’inchiesta, che si serve 21

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di interviste multiple per portare alla luce qualcosa di non chiaro, di nascosto o di controverso; l’intervista breve con un esperto, che nella tradizione giornalistica occidentale è indirizzata generalmente a chiarire un aspetto specifico, rispetto al quale è dirimente l’opinione di uno specialista riconosciuto. In un saggio del 2001, Bruce Bawer ha distinto inoltre tra interviste editate e interviste che si limitano a una trascrizione del colloquio, che chiama “interviste-verità”. Secondo Bawer, quest’ultima modalità postula paradossalmente la presenza di un intervistatore che abbia, da principio, la ferma conoscenza del proprio soggetto e quindi la forza di non ostentarlo. Deve saper fare le giuste domande, per ottenere le corrette risposte. In breve, deve preparare seriamente la propria intervista, di modo che la successiva fase di editing possa essere bypassata, così che il lavoro restituisca fedelmente il dialogo che ha avuto luogo. Nonostante l’utile distinzione, che certo possiamo adoperare per approfondire l’indole e l’obiettivo teorico di alcuni grandi intervistatori, l’idea di intervista-verità resta utopica e segna più che altro un percorso ideale che le necessità contingenti tendono a deviare in maniera differente a seconda dei casi. Nel finale di una lunga videointervista di Enrico Ghezzi a Jacques Derrida, datata dicembre 2001, i due interlocutori discutono esattamente di questo. Lo scambio si inserisce all’interno di una cervellotica disquisizione sulla natura dell’immagine e, in particolare, dell’immagine traumatica. Concludendo, Derrida afferma che le immagini prese nel corso dell’intervista costituiscono soltanto un deposito di materiali grezzi, d’archivio. Dovranno essere rielaborati e dunque reinterpretati, prima della loro pubblicazione. Ghezzi replica che non ha intenzione di farlo: lascerà che il nastro finisca, lo riavvolgerà e lo proietterà nel suo Fuori orario così com’è: senza tagli, senza montaggio, senza musiche. Caso davvero limite di intervista-verità, si direbbe. Ma è interessante l’ultima replica di Derrida: anche se la libertà del programma televisivo cui il pezzo è destinato gli consente un’operazione così radicale, ciò che gli spettatori vedranno sarà comunque un’interpretazione dell’incontro che ha avuto luogo: anche il taglio dello spazio, l’inquadratura, i colori e tutto ciò che la cinepresa ha impresso sono una forma di rappresentazione della realtà. Il termine “intervista” indica sia l’evento dell’intervistare che il prodotto testuale (o audiovisuale) specifico che ne deriva. Ciò significa che, in qualsiasi forma venga rappresentata, l’intervista come genere deve sempre considerarsi la rielaborazione dell’esperienza di uno specifico evento. L’orizzonte d’attesa di un lettore di interviste è dunque caratterizzato dall’i22

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dea di ritrovare nel testo editato la testimonianza di un incontro reale e di una conversazione effettivamente avvenuta, tanto che persino nel caso in cui l’intervista sia stata condotta a distanza, poniamo via email, l’effetto che ne risulta è quello di un dialogo avvenuto dal vivo (cfr. Yanoshevsky, 2018, p. 77). Fanno eccezione le sole interviste in diretta, per esempio in radio o in televisione, perché in tal caso i due momenti dell’evento e del prodotto coincidono. Proprio per questo, le interviste in diretta necessitano di un mediatore terzo rispetto all’intervistatore, emblematizzato dall’invisibile figura del regista. Ciò rende questo tipo di interviste assai distanti dal modello delle interviste editate. Come ha scritto Marino Sinibaldi (2010, p. 59) a proposito dell’intervista radiofonica: è un po’ come il gioco della battaglia navale: tu fai delle domande… “acqua”, niente!, poi continui e senti che hai colpito qualcosa, un vascello, una corazzata. Hai bisogno di tempo, per cercare e poi trovare le risposte – quelle suggestive o decisive. Ma è importante il percorso, fallimenti compresi. […] Mentre nelle interviste scritte o registrate tutto il percorso, e cioè la parte del fallimento, di buco nell’acqua, viene rimossa, nella mia esperienza rimane. E questo è uno dei varchi attraverso il quale si sfugge alle semplificazioni, allo schematismo. Si genera attesa, si produce sorpresa. L’intervista radiofonica con le sue approssimazioni, con le sue correzioni, le progressioni, mi sembra mantenga qualcosa del cammino con cui realmente si giunge a sapere qualcosa: per approssimazioni, per tentativi. Emerge qui uno dei tratti più critici, più interessanti della conoscenza; cioè il fatto che a sapere qualcosa, a capire qualcosa, a una possibile verità, parziale, naturalmente, parziale e relativa come per me sono le verità, ci si arriva progressivamente […]. La scrittura cerca la formula più esatta, anche solo la parola giusta per dire una cosa, e cancella tutti i tentativi: noi vediamo (leggiamo) solo la pulizia dell’esito finale. Quello che mi piace della conversazione, dell’oralità, e che sarebbe bello mantenere anche in una forma di comunicazione professionale come quella radiofonica, è invece l’approssimazione continua del linguaggio, anche solo semantica, anche solo terminologica.

Il passaggio dall’intervista-evento all’intervista-prodotto costituisce probabilmente il nodo più complesso per lo studio del genere. Nell’intervista scritta ciò coinvolge, peraltro, il rapporto tra oralità e scrittura, che, come si sa, è uno dei problemi filosofici cruciali del pensiero occidentale, da Platone ai nostri giorni. L’orale dell’intervista scritta, anche nella forma più tipica di domanda-risposta, è un orale di “secondo grado” (cfr. Lévy, Laplantine, 2003). Per alcuni studiosi, esso implica specifiche disposizioni retoriche da imputare, a seconda dei casi, a chi compone il pezzo o alla stessa persona intervistata, se interpellata nella fase di editing (cfr. Goetsch, 1985). 23

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Roland Barthes, che ha dedicato a questo aspetto alcune riflessioni essenziali, aggiunge un ulteriore tassello a questa riflessione. In un intervento pubblicato nel 1974 sulla “Quinzaine littéraire”, ma nato come prefazione alla prima serie dei Dialogues diretti da Roger Pillaudine per il canale radio France-Culture, e poi compreso nella raccolta di interviste La grain de la voix (1981)1, il critico scrive: parliamo, veniamo registrati, segretarie diligenti ascoltano le nostre formulazioni, le epurano, le trascrivono, ne curano la punteggiatura, ne ricavano una prima stesura che ci viene sottoposta affinché la ripuliamo di nuovo prima di consegnarla alla pubblicazione, al libro, all’eternità. Non è forse questo il rituale della “toilette del morto”? Imbalsamiamo la nostra parola, come una mummia, per renderla eterna. Perché bisogna pur durare un po’ più della propria voce; bisogna pure, mediante la commedia della scrittura, iscriversi dovunque sia (Barthes, 1986, p. 3).

Questo processo di imbalsamazione, di pietrificazione, secondo Barthes, produce una serie di perdite nel discorso (ivi, pp. 3-4, passim). La trascrizione elimina intanto l’innocenza del discorso orale. Il parlato, benché sottoposto all’influenza dell’insieme dei codici “culturali e oratori”, esibisce aspetti idiosincratici che la trascrizione tende a cancellare. Trascrivendo, infatti, «ci proteggiamo, ci sorvegliamo, ci censuriamo, depenniamo le nostre sciocchezze, le nostre sufficienze (o insufficienze), le nostre esitazioni, le nostre ignoranze, i nostri compiacimenti […], insomma tutta la marezzatura del nostro immaginario, il gioco personale del nostro io» (ivi, p. 4). In secondo luogo, si perde la struttura connettiva che concatena nell’orale una parola a un’altra, cioè tutti quei termini che Barthes chiama espletivi del pensiero e che non possiedono un «grande valore logico» (ibid.), come ma e dunque. Infine, si perde la funzione fàtica o d’interpellazione del linguaggio, allorché la trascrizione cancella tutto ciò che il parlante in genere utilizza nel proprio discorso per richiamare l’attenzione di chi lo ascolta. In generale, quindi, la trascrizione elimina quello che il critico definisce “il corpo” del linguaggio, «quel corpo esteriore (contingente) che, in situazione di dialogo, lancia verso un altro corpo, altrettanto fragile (o in tumulto), messaggi intellettualmente vuoti, la cui sola funzione è, in certo modo, quella di agganciare l’altro (anche nel senso prostitutivo del termine) e di mantenerlo nel suo stato di partner» (ivi, p. 5). 1. Sulle interviste di Roland Barthes si veda Gallerani (2017; 2019).

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1.  che cos’è un’intervista

La struttura scarna e ripulita che resta, proprio perciò, deve essere distinta dalla parola orale, rispetto alla quale la trascrizione comporta un cambiamento di destinatario e di soggetto: «non si tratta più di richiesta, di richiamo, non si tratta più di gioco di contatti; si tratta di installare, di rappresentare una discontinuità articolata, cioè, in realtà, un’argomentazione» (ibid.). Ma il risultato della trascrizione deve distinguersi anche dalla scrittura propriamente detta, nella quale il corpo «ritorna ma per via indiretta, misurata, e per dir tutto giusta, musicale, tramite il godimento e non l’immaginario (l’immagine)» (ibid.). Esistono allora, secondo Barthes, tre distinti regimi del discorso: l’orale, che possiede un proprio corpo, la trascrizione, che ne è priva, e la scrittura, che invece lo ricrea, attraverso dispositivi retorici, in maniera mediata. L’intervista trascritta non è né orale né scritta, ma occupa la posizione estrema di un discorso senza corpo. Anche gli antropologi Joseph Josy Lévy e François Laplantine (2003) descrivono qualcosa di simile quando definiscono l’intervista come un genere anfibio, che si distingue tanto dall’evento culturale orale quanto dal monumento culturale scritto. La differenza, rispetto alla riflessione di Barthes, consiste nel fatto che in questo caso l’intervista occupa più semplicemente una posizione mediana tra scrittura e oralità. Del resto Barthes parte dal caso eccezionale della trascrizione verbale di un dialogo avvenuto in radio. Ma in generale, anche l’intervista pensata direttamente per essere scritta si colloca tra la volatilità dell’evento, la cui unicità la rende irriproducibile, e la perfezione immutabile della scrittura. Essa cioè manifesta la singolare caratteristica di rappresentare l’evento in una configurazione testuale fissa, che tuttavia simula la precarietà e la spontaneità del discorso orale, riflettendo il «desiderio nostalgico di riscrittura della parola viva» (Lavaud, Thérenty, 2006, p. 8). Si potrebbe dire, allora, che qualsiasi intervista scritta è in realtà la finzione di un’intervista orale, come sostiene il filosofo Louis Marin (1997). Finzione è naturalmente da intendersi in senso etimologico come messa in forma o modellizzazione (cfr. Gelshorn, 2012, p. 32): la conversione trascritta di un dialogo che ha avuto luogo, e che magari è stato anche registrato, rappresenta sempre il passaggio dall’effimera realtà della voce a un oggetto di linguaggio chiuso in sé stesso, che cristallizza il tempo reale, univoco e irripetibile, nel tempo della scrittura-lettura, e lo rende così sempre disponibile a essere ripetuto. Un discorso avvenuto un’unica volta nella real­tà, e in specifiche circostanze, si sdoppia in un altro differente (cioè differito nel tempo e potenzialmente reinterpretabile) a ogni atto di lettura (cfr. Marin, 1997, pp. 14-5). 25

l’intervista letteraria

Per questo motivo, il movimento che va dal dialogo reale alla sua rappresentazione contiene inevitabilmente una serie di riferimenti di ordine drammatico (Maunsell, 2016, p. 3). Rispetto alla tradizione teatrale, dove un testo scritto viene recitato, qui capita esattamente il contrario: una performance orale viene riscritta, per cui si dovrà sempre distinguere tra il tempo e lo spazio in cui l’intervista in realtà si svolge, il tempo e lo spazio ricreato attraverso la messa in scena prevista dal format scritto dell’intervista e il tempo e lo spazio in cui avviene la ricezione da parte del lettore (cfr. Charaudeau, 1986). La polarizzazione tra l’immediatezza, l’idea di colloquiale intimità, che funziona nel momento della ricezione e, invece, la premeditazione o la messa in posa dei soggetti coinvolti, che di fatto caratterizza la fase di creazione (Bell, van Leeuwen, 1994), è connaturata al genere: la storia dell’intervista è una storia di posture pubbliche e dissimulazioni private. Infine, come abbiamo già accennato, l’intervista è un genere non “medium-specifico”, cioè non ha bisogno di dispositivi esclusivi né di tecnologie predeterminate per rappresentarsi. Al contrario è un genere transmediale, che può ripetere le proprie forme servendosi delle risorse di numerosi media differenti, senza che questo ne pregiudichi il risultato o ne invalidi la riconoscibilità.

1.3 L’intervista letteraria L’espressione “intervista letteraria” è assai ambigua, poiché può indicare oggetti tra loro molto diversi. È anche parecchio problematica, dal momento che implica una riflessione generale, oltre che sul genere intervista, sul concetto di letteratura. Se mai avesse senso farlo, non sarebbe comunque questo il luogo adatto per domandarci che cosa sia la letteratura2. Perciò, senza mai dismettere i nostri istintivi sospetti su nozioni che il buon senso vorrebbe pacifiche e che noi sappiamo esserlo molto poco, dovremo fatalmente procedere in maniera pragmatica: riferiamo l’espressione “intervista letteraria” a un genere che possiede le caratteristiche elencate poco sopra, laddove esso reagisce con il campo letterario, cioè con l’insieme, in2. Tra gli studi che cercano di rispondere alla domanda determinante e impossibile di qualsiasi teoria della letteratura – che cos’è la letteratura? – si rimanda al recente lavoro di Federico Bertoni (2018).

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1.  che cos’è un’intervista

stabile e dinamico, delle istituzioni e degli agenti impegnati nella produzione di opere letterarie. Per nostra fortuna, l’intervista è un genere moderno, la cui diffusione avviene in una fase molto precisa della storia letteraria, la stessa nella quale si afferma il romanzo borghese moderno, la stessa in cui il processo di democratizzazione estende all’uomo comune il diritto a lasciare traccia della propria middle station of life (Mazzoni, 2011, p. 241), la stessa nella quale si attesta un’idea di autore e di autorialità simile a quella che abbiamo tuttora, e si tratta pertanto di fare i conti con un contesto nel quale le forze che compongono il campo letterario si sistemano secondo una logica ed entro una grammatica i cui assunti macroscopici, in un discorso critico di lunghe prospettive, sono di fatto anche i nostri. A una prima approssimazione, potremmo riassumere l’intera faccenda nell’idea che un’intervista è letteraria quando presenta «un autore letterario che tratta di letteratura o di tutt’altro, di sé stesso o della propria opera» (Yanoshevsky, 2018, p. 12). Chiaramente, guardando la cosa da più vicino, si noterà che in questo modo potrebbero però intendersi due classi di oggetti differenti a seconda della posizione e della funzione svolte dall’autore. Da una parte, possiamo definire letteraria un’intervista scritta nella quale la fase di trascrizione sia sovrintesa da uno scrittore, come avviene nel caso eccezionale in cui questi vesta i panni dell’intervistatore, oppure, più frequentemente, quando uno scrittore intervistato è chiamato dall’intervistatore a prendere parte alla fase di editing, come in modo paradigmatico è richiesto dalla nota rubrica The Art of Fiction della “Paris Review”. In entrambi i casi la letterarietà risulta dal fatto che lo scrittore partecipa al momento della produzione di un certo testo, per cui l’intervista può essere considerata un vero e proprio genere letterario. La creazione letteraria non consiste per l’appunto nel lavoro di scrittura? Da un’altra parte, e secondo un’accezione contemporaneamente più inclusiva e ormai invalsa, ma in realtà molto scivolosa, un’intervista può essere considerata letteraria semplicemente perché il soggetto interrogato è uno scrittore. Possiamo pensare, in questo caso, l’intervista letteraria come una sottocategoria dell’intervista personale, focalizzata su una grande personalità. Ma possiamo anche considerare l’intervista letteraria come un’intervista tematica centrata sulla letteratura. Sul terreno dell’analisi empirica dei singoli prodotti fare chiarezza su questo punto è quanto mai problematico. Una consuetudine critica francese (Seillan, 2004; Wrona, 2014; Yanoshevsky, 2018) suggerisce di distinguere comunque le interviste in cui il contenuto del dialogo è letterario 27

l’intervista letteraria

(entretien o interview littéraire) da quelle in cui lo scrittore è chiamato a esprimersi su questioni differenti da quelle specifiche del proprio mestiere (entretien o interview d’auteur). La letterarietà, in entrambi i casi, dipende dal fatto che il fruitore attribuisce la responsabilità dell’emissione di un certo messaggio allo scrittore, benché questi, in realtà, non la possegga, o la possegga soltanto apparentemente. Ciò succede in ragione del particolarissimo statuto del genere, cui si demanda, in astratto e secondo un orizzonte d’attesa piuttosto ingenuo, di riportare con esattezza la parola dell’autore, anche quando non sia lui a scriverla o a controllarne la versione definitiva. Nel caso dell’intervista scritta, tutto il virgolettato attribuibile a un determinato scrittore è accettato come testo d’autore. Allo stesso modo, nel caso dell’intervista audiovisiva, lo sono le parole emesse dalla sua voce3. Come è manifesto, ciò tende a mettere in secondo piano l’azione determinante che trasforma l’intervista-evento in intervista-prodotto, cercando di oltrepassare, in maniera un po’ astuta, un aspetto particolarmente controverso che caratterizza il genere, e cioè il fatto che si chiede a chi scrive di professione di esprimersi senza scrivere, in genere su qualcosa di scritto. Niente male, come istanza, anche considerando che in essa è implicita la relativizzazione di uno dei miti romantici più coriacei della nostra cultura, laddove ci lascia intravedere che alcune delle “sacre parole d’autore” non sono affatto il frutto della sua penna, che l’ordine con cui sono riportate non è l’ordine realmente utilizzato nell’incontro con il giornalista, e, nel caso delle interviste audiovisive, che il gioco di montaggio ha dato un ritmo e una coerenza al suo pensiero che la registrazione grezza non possedeva. Secondo qualcuno, proprio alla luce di ciò, la nozione di intervista letteraria è nella sostanza impossibile: la riflessione sulla scrittura e sullo scrivere non è altro che un pretesto, anche quando si focalizza su discorsi letterari. In realtà, lo scrittore viene convocato pubblicamente soltanto in qualità di intellettuale e di saggio (Martens, 1998). E d’altra parte, anche intesa come semplice documentazione biografica, l’intervista risulta fallace: per poter essere usata come strumento di interpretazione negli studi letterari, il contesto e il protocollo di editing adoperato dovrebbero essere resi espliciti (cfr. Boddy, 1998), come avviene nelle scienze sociali. 3. Veronica Ujcich (2008, p. 89) riconosce opportunamente che ciò provoca uno «scollamento tra la responsabilità della produzione dell’opera (del redattore) e il riconoscimento pubblico (all’intervistato)».

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1.  che cos’è un’intervista

Pessimismi a parte, il fatto che il momento della produzione del testo (verbale o audiovisivo) sia gestito da un giornalista, da un critico o da un qualsiasi altro mediatore ha indotto alcuni studiosi, tra cui il più importante è senz’altro Gérard Genette (1989), a definire le interviste agli scrittori come una forma di epitesto pubblico mediatizzato, cioè una componente paratestuale che, pur pensata per il pubblico in una sede autosufficiente (un giornale, una rivista, in radio o in televisione), non ha un’autonomia testuale rispetto all’opera letteraria. Certamente, l’intervista-prodotto che risulta da un dialogo tra uno scrittore e un mediatore culturale che ne controlla la realizzazione non può essere considerata parte del suo macrotesto artistico. Tuttavia l’intervistato conserva la responsabilità di ciò che viene detto o che gli viene fatto dire, poiché la dimensione pubblica in cui l’intervista si inscrive riduce concettualmente l’intervistatore alla stregua di un semplice intermediario attraverso il quale, in realtà, l’intervistato è posto a dialogo col pubblico. L’intervistatore non sarebbe allora un vero interlocutore, come succede invece nei dialoghi, ma rappresenterebbe fisicamente una sorta di maschera allegorica dei reali destinatari dell’intervista. Intesa come epitesto pubblico mediatizzato, l’intervista, secondo Genette, deve essere distinta da altri due generi dialogici: la conversazione e il colloquio. Mentre l’intervista consisterebbe di un dialogo generalmente breve condotto da un giornalista, oppure svolto d’ufficio in occasione dell’uscita di un libro, la conversazione dovrebbe essere considerata come un dialogo più esteso, non occasionato da uno specifico evento editoriale e assicurato, in genere, da un interlocutore riconoscibile e noto al lettore. Infine con colloquio dovremmo intendere un dialogo tra lo scrittore e un auditorio composto da più persone. Se quest’ultima definizione identifica una forma facilmente riconoscibile, i confini tra l’intervista e la conversazione appaiono, al contrario, piuttosto labili, un po’ perché il parametro dell’estensione risulta sinceramente opinabile, un po’ perché numerosi testi assicurati da intervistatori noti e riconoscibili si presentano editorialmente sotto l’insegna di intervista, e dismetterne la legittimità genera più confusione che altro. Pensiamo a casi limite in cui sia l’intervistato che l’intervistatore sono degli scrittori. Quando, per esempio, Ian Fleming interroga Raymond Chandler per la bbc, in uno dei momenti più alti della storia della comunicazione di massa, oppure quando Philip Roth include il suo dialogo con Primo Levi nel suo Shop Talk (noto in Italia col titolo di Chiacchiere di bottega, 2004) stanno approntando un’intervista o una conversazione? 29

l’intervista letteraria

La risposta, qualunque sia, non aiuta a far luce sull’autorialità del pezzo, che costituisce il vero nodo gordiano in questa tipologia di opere. Implicitamente, utilizzando il termine “conversazione”, indichiamo un’autorialità condivisa, laddove col termine “intervista” segnaliamo lo sbilanciamento tra intervistatore e intervistato che è il contrassegno indelebile del genere. Tuttavia, in casi come questo, resta un conflitto implicito sull’appartenenza del testo: non è infatti il prestigio o la riconoscibilità degli interlocutori a stabilire la responsabilità dell’emissione di un certo messaggio, ma il controllo sulla sua produzione. Tutt’al più, ciò informa il mercato editoriale, soprattutto nel caso di raccolte di interviste e libri-intervista, ovviamente al di là della morfologia e del funzionamento reale dei processi di creazione e confezionamento delle tipologie testuali o audiovisive. Più in generale, come è stato notato dalla critica, la struttura editoriale del paratesto definisce il rapporto tra gli interlocutori: «può essere ritenuto autore lo scrittore intervistato, per evidenti questioni commerciali e viene utilizzata la formula a cura di o intervista raccolta da» (Ujcich, 2008, p. 93), oppure «viene ritenuto autore l’intervistatore, perché sufficientemente conosciuto o perché i testi raccolti sono montati con riflessioni e interventi critici» (ibid.), o ancora «vengono citati tutti e due i nomi, o perché si considera il libro scritto a quattro mani o perché lo si considera più un dialogo che un’intervista» (ibid.). Il fatto che tale aspetto organizzi l’orizzonte d’attesa del testo, però, non è solo un danno collaterale, che aggiunge confusione a un genere già particolarmente complesso, ma falsifica di fatto la natura del prodotto intervista, laddove presenta formalmente due interlocutori sullo stesso livello, quando in realtà non lo sono. Marguerite Duras ha sfruttato brillantemente questa incoerenza, riscrivendo, con esplicite finalità letterarie, le sue conversazioni con Jérôme Beaujour, in La vie matérielle (1987). Più utile appare, invece, la distinzione promossa dallo studioso tedesco Volkmar Hansen (1998) sulla base dell’occasione per cui una certa intervista viene realizzata. Egli distingue Ritualgespräch, cioè letteralmente conversazione di rito, Feuilletongespräch, ossia conversazione giornalistica, e Werkstattgespräch, che letteralmente vuol dire conversazione d’officina. In effetti, si tratta di tre diverse declinazioni dell’intervista, le cui finalità specifiche divergono. Il Ritualgespräch è un’intervista realizzata per un evento routinario e ripetibile, come la pubblicazione di un nuovo libro, un convegno, una conferenza, l’assegnazione di un premio letterario. Si tratta di un’intervista sostanzialmente informativa, che si pone come forma colta di pubblicità per lo scrittore, per la sua ultima fatica e soprattutto per l’e30

1.  che cos’è un’intervista

ditore che vi ha investito denari. Il Feuilletongespräch indica un’intervista espressamente realizzata per le pagine culturali di un giornale o per altri media. L’occasione è più vaga, così come le finalità: uno scrittore può essere intervistato su argomenti letterari specifici, su qualche collega, oppure sul proprio lavoro, ma non è raro che egli sia chiamato a esprimersi su eventi, emergenze o dibattiti del momento. Con Werkstattgespräch, infine, si deve intendere la forma più squisitamente letteraria di intervista, dal momento che è occasionata dalla visita nell’“officina” dell’autore. In questi casi il dialogo si sofferma sugli aspetti tecnici e idiosincratici del mestiere. Il Werkstattgespräch trova quindi esito editoriale in riviste letterarie o in volume e si rivolge a un’utenza specialistica di studiosi o di appassionati. Comunque la si declini, l’intervista come epitesto mediatizzato riveste una notevole rilevanza negli studi letterari4. Quando il suo soggetto è espressamente letterario, costituisce in primo luogo un momento privilegiato di autoesegesi: lo scrittore riflette sulla propria opera e in qualche modo ne legittima una o diverse interpretazioni. Come dispositivo formale volto a offrire risposte plausibili all’incessante interrogazione di senso di cui consiste il letterario, si avvicina quindi all’esercizio critico, poiché discute direttamente o indirettamente le scelte compiute e i meccanismi che le hanno prodotte, le idee che le hanno guidate, i modelli che le ispirano. Ma anche come repertorio documentario, l’intervista lascia emergere, palesi o alluse che siano, le influenze, i debiti e le antipatie dello scrittore intervistato, delineando nei fatti, anche se implicitamente, lo scheletro di una poetica e chiarendo sul terreno storico-critico aspetti talvolta sommersi della civiltà letteraria otto e novecentesca: tangenze, contatti, affinità che di riflesso interessano, oltre che il singolo autore, le dinamiche polimorfe della società letteraria in un dato momento storico. Persino nel caso in cui l’argomento dell’intervista è decentrato rispetto agli specifici interessi del 4. Ciò spiega la proliferazione di libri-intervista, impostati il più delle volte come raccolte più o meno complessive dei testi di autori ormai classici, ma anche sotto forma di inchieste letterarie, di biografie in forma di intervista o, ancora, come trascrizione di conversazioni avvenute per lo più in radio. Tale successo, come rileva Kasia Boddy (1998), è da mettere in relazione a una rinnovata attenzione per la figura dell’autore nella teoria letteraria contemporanea, in antitesi, per esempio nel contesto angloamericano, come pure sostiene Ronald Christ (1977), con il New Criticism e la nota affermazione barthiana della morte dell’autore. Solo in Italia, in tempi recenti, sono stati pubblicati volumi di interviste di autori fondamentali come d’Annunzio, Pirandello, Gadda, Pasolini, Calvino, Fortini, Montale. Per maggiori ragguagli su questo aspetto si veda Francesca Castellano (2016, cap. 1).

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mestiere dello scrittore, lo studioso di letteratura ne può trarre beneficio in diversi modi. Intanto, conoscere l’opinione di uno scrittore su questioni di attualità, di politica o di costume permette di ricostruirne il pensiero e quindi di inscrivere in un quadro più solido le ragioni profonde della sua opera. Ma soprattutto, è evidente che, qualunque sia l’argomento specifico che affronta, l’intervista diviene per lo scrittore uno spazio privilegiato di rappresentazione del sé, che rivitalizza, come suggerisce Philippe Lejeune (1980, p. 125), la tradizione varia e illustre delle cosiddette scritture dell’io. Ciò inscrive il testo di un’intervista letteraria entro un’intrinseca e irrisolvibile dualità: per un verso è percepita come opera di uno scrittore, il quale, pure in maniera indiretta, espone e ricostruisce così pubblicamente la propria biografia o le proprie ragioni estetiche e poetiche. Per un altro, funziona da commento della sua stessa opera, intervenendo allora come ipotesi autoesegetica e di critica letteraria5. Alcuni studi più recenti (Rodden, 2001; Yanoshevsky, 2018), sottolineando le antinomie cui conduce l’idea di intervista intesa come epitesto mediatizzato, disapprovano più o meno esplicitamente la posizione di Genette: l’intervista è soprattutto una rappresentazione rituale, una performance pubblica, nella quale uno scrittore si esibisce secondo un preciso cerimoniale. Va pertanto considerata parte attiva della sua opera. Come ha scritto per primo Stephen Arkin (1983, p. 13), nell’intervista gli scrittori costruiscono un io che somiglia a quello che utilizzano nei loro romanzi. Piuttosto che confessarsi, lo scrittore intervistato sta dando prova di immaginazione e abilità narrative. L’intervista non funziona quindi come deposito documentario di informazioni biografiche e dichiarazioni di poetica, ma come «luogo di espressione creativa» (Yanoshevsky, 2018, p. 209). Il grado di letterarietà non dipende dal fatto che in essa si propone un discorso sulla letteratura, al contrario la sua forma dischiude «uno spazio letterario» (ivi, p. 128), cioè una dimensione che «libera gli intervistati dai vincoli del già detto e dall’ombra delle proprie opere» (ibid.). Questa prospettiva ha il vantaggio evidente di eliminare una serie di ambiguità altrimenti irrisolvibili. In primo luogo abbatte ogni distinzio5. «Le interviste a uno scrittore, infatti, sono rivolte a un autore in carne e ossa, e riconosciuto come tale, in quanto artefice di una serie di testi generalmente noti al lettore (altrimenti non vi sarebbe interesse a leggere quell’intervista), ai quali si rimanda. Non solo si identifica quella determinata persona come un autore, ma, spesso, si desidera sovrapporre l’immagine che se ne è tratta dai libri con una nuova immagine, da costruirsi nel corso dell’intervista, per giungere a identificarlo come uomo» (Ujcich, 2008, p. 85).

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1.  che cos’è un’intervista

ne mediale. Tutte le interviste agli scrittori, indipendentemente dal mezzo e dalle tecniche utilizzate per realizzarle, sono letterarie, giacché ognuna concede all’intervistato la possibilità di costruirsi finzionalmente. L’intervista diventa allora una forma di spettacolo, che si pone come «estensione del dominio letterario» (ivi, p. 134) e ricompone in una tutte le «attività creatrici dello scrittore» (ibid.). In secondo luogo, ciò reimposta il grado di autorialità del genere, risolvendo il problema del dualismo intervistato-intervistatore alla radice: nell’intervista letteraria lo scrittore partecipa a una sorta di «gioco di ruolo secondo scenari prestabiliti, in funzione del suo (o dei suoi) interlocutore(i) e del proprio talento» (ivi, p. 135), del quale è co-autore oppure co-produttore. Se è vero che per essere autori occorre avere o lasciarsi attribuire la responsabilità dell’emissione di un messaggio in un determinato circuito di comunicazione (cfr. Lejeune, 1980, p. 241), il solo prendere parte all’evento sarà quindi sufficiente a collocare lo scrittore in una posizione autoriale, indipendentemente dalla funzione specifica che ricopre al suo interno. Infine, tale interpretazione risolve un dualismo paradossale che, apparentemente, rende l’intervista un genere anfibio, ovvero il fatto che essa dà l’illusione della spontaneità nonostante sia pesantemente editata (Martens, 1998). Anche la spontaneità, infatti, diviene parte del gioco: è una costruzione che dipende, essenzialmente, dai meccanismi mediatici, e infatti è resa in maniera differente da medium a medium. La scrittura, la radio e la televisione rendono l’effetto di spontaneità con strumenti retorici specifici e peculiari. Per questo motivo la trasgressione dei confini mediatici e la successiva realizzazione di forme espressive ri-mediate (per esempio la pubblicazione di volumi tratti da conversazioni radiofoniche6) si accompagnano, per non sembrare artificiali e meccaniche, ad accomodature e ricondizionamenti editoriali. Nonostante gli inoppugnabili vantaggi di interpretare l’intervista letteraria in questo modo, restano alcuni dubbi teorici di fondo. L’intervista non può essere considerata un genere letterario finché non la si possa intendere come una modalità di espressione consapevole che riguardi la poetica o l’opera di un certo autore. Ora, questa consapevolezza deve essere sottoposta a una verifica storica: scrittori contemporanei come Michel Houelle6. Viene in mente, per fare un esempio molto noto, il volume di André Breton Entretiens 1913-1952 (1952), che raccoglie 16 conversazioni con André Parinaud e altri importanti intervistatori, già trasmesse tra marzo e giugno del 1952 dalla radio francese.

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becq, Walter Siti o Bret Easton Ellis di certo partecipano agli spazi pubblici rituali loro concessi con un’avvertibile consapevolezza creativa e, magari, anche con la volontà di giocare autofinzionalmente con il proprio io. Ma siamo certi che ciò valga per gli scrittori del passato? L’idea dell’intervista come docudramma (Rodden, 2001, p. 17) nel quale si mischiano elementi della biografia reale con i frutti di un’azione immaginativa dell’io è a un tempo scettica e superficiale: scettica perché parte dal presupposto che un attore sociale come uno scrittore non possa travalicare i propri specialismi e presentarsi al di fuori del campo letterario se non recitando. Superficiale perché quell’attività di creazione di sé, entro una certa misura, è un’operazione assai comune che coinvolge ogni interlocuzione umana, pubblica o privata che sia. Non facciamo forse lo stesso sul lettino dello psicoanalista, davanti allo specchio, nel nostro diario o con il nostro migliore amico? Entro quale limite quel che ci rispondiamo può considerarsi di ordine biografico? Ed entro quale limite ciò equivale a un atto creativo? Anche Roland Barthes si era accorto, in tempi non sospetti, che «l’intervista è una pratica abbastanza complessa, se non da analizzare almeno da giudicare» e che essa «fa parte, per dirla in modo disinvolto, di un gioco sociale a cui non si può sottrarsi o, per dirla in modo più serioso, di una solidarietà di lavoro intellettuale tra gli scrittori, da un lato, e i media dall’altro» (Barthes, 1986, p. 314). Ma aggiungeva subito dopo, segnalando di fatto la sua distanza da un uso intenzionalmente finzionale del genere, di sentirsi sempre imbarazzato «quando la parola in qualche modo viene a duplicare la scrittura, perché allora ho un’impressione di inutilità: quello che ho voluto dire non potevo dirlo meglio che scrivendo, e ridirlo parlando tende a ridurlo» (ibid.). Senz’altro Barthes costruisce sé stesso attraverso eventi e situazioni pubbliche, ma che lo faccia con la consapevolezza della creazione letteraria è assai più dubbio. E viene in mente, a supporto di questa riflessione e a proposito di critici eccellenti, lo straordinario libro di interviste di Ludovica Ripa di Meana a Gianfranco Contini, dall’efficace titolo Diligenza e voluttà (1989). Il grande filologo vi ricostruisce gli eventi fondamentali della propria esistenza e lo fa di fronte a un’intervistatrice distante culturalmente e anagraficamente, ma curiosa e ammirata. In quell’occasione, come del resto in grossa parte delle interviste del secondo Novecento, non solo l’interesse del lettore si indirizza principalmente verso questioni di ordine biografico e documentario, ma il meccanismo teatrale, se proprio vogliamo vedercelo, è innescato unicamente da precise disposizioni tecniche di chi conduce il dialogo. Ciò significa che l’intervista letteraria ha, beninteso, delle regole specifiche, ma 34

1.  che cos’è un’intervista

anche che la loro applicazione spetta quasi sempre all’intervistatore. Come ha spiegato Walter Mauro (1987, p. 48): da parte di chi pilota e gestisce l’intervista di un letterato, intanto si deve assumere un ruolo non prevaricante […], per cui l’intervistatore si trova nella difficile condizione […] proprio di eliminare ogni possibile attività mimetica, di eliminare e di cancellare ogni possibile incrostazione da parte del personaggio, del letterato, dello scrittore intervistato, in maniera da consentire un più diretto rapporto. Tutto questo deve poi assumere il ruolo e la funzione di una vera e propria conversazione, quindi più che di intervista, in cui c’è chi gestisce l’operazione e chi la subisce, a proposito del rapporto fra intervista e letteratura direi che si deve parlare più correttamente di conversazione reciproca7.

E che dire, all’opposto, dei casi in cui la personalità dell’intervistatore è pari, se non superiore, a quella dell’intervistato, come capita nelle iconiche interviste della rivista “Interview” di Andy Wharol o di “Bomb Magazine” di Betty Suessler (cfr. Boddy, 1998)? Anche in essi la letterarietà dell’intervista consiste nella mera partecipazione creativa dello scrittore intervistato? Come si capisce, insomma, questa strategia interpretativa non cancella tutti i problemi di ordine tassonomico dell’intervista letteraria. In realtà essi dipendono dal fatto che la tradizione del genere è profondamente influenzata, in certi casi interpolata, da altri. Se è vero che, come ha notato Marziano Guglielminetti (2002) in un intervento davvero seminale, l’intervista nasce nell’ambito del giornalismo, e perciò non si rivolge a un pubblico ristretto di letterati, pure i suoi contatti con il campo letterario riattivano parentele e genealogie con generi e forme che con il giornalismo nulla hanno a che vedere. Stefano Verdino (2007), a tal proposito, colloca idealmente lo statuto dell’intervista in una posizione mediana rispetto a due estremi altrettanto codificati. Da una parte la tradizione del colloquio, rappresentata emblematicamente nel 1836 dai Colloqui con il Goethe di Johann Peter Eckermann (1957); dall’altra quella dell’incontro o della visita al grande scrittore, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. 7. Secondo Mauro, infatti, l’intervista letteraria «non è un tipo di intervista che deve servire a stabilire un rapporto politico, non è un tipo di intervista che deve rappresentare anche una forma di esibizione, come abbiamo ascoltato che spesso accade, ma è invece una sorta di intervista-confessione per tutto quanto l’intervistatore è in grado di tirar fuori maieuticamente […], quindi un tipo di mediazione e anche un tipo di superamento, per molti aspetti, di quella forma mimetica che spesso configura e riflette la finzione letteraria» (Mauro, 1987, p. 47).

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l’intervista letteraria

Se il colloquio tende ad annullare gli aspetti spazio-temporali dell’occasione, l’incontro, al contrario, li dilata, contemplando «la combinazione di cronaca (anzi diario), racconto e virgolettato in referto dell’interlocutore» (Verdino, 2007, p. 103). Il successo dell’intervista giornalistica e il suo utilizzo in ambito letterario dipendono dal fatto che nella grande stagione della comunicazione di massa l’occasionalità è sempre più stata considerata un valore e un fatto da esibire, che non un tratto da raccontare o da rimuovere, nel passaggio da orale a scritto, per cui sono venute a cadere tanto la tradizione retorica dei dialoghi, quanto la modalità esemplare del colloquio (alla Eckermann) a vantaggio di occasionali incontri o interviste, refertate in diretta o quasi (e non più sul filo della memoria) grazie a risorse tecniche progressivamente focalizzate di stenografia, telegrafo, registrazione (ivi, p. 102).

Ma il retroterra favorevole a tale affermazione è andato formandosi progressivamente, a partire da alcune trasformazioni ottocentesche8, quando le strutture narrative tipiche della pratica tradizionale dell’incontro e della visita hanno ceduto il passo, anche per l’influenza e il crescente prestigio del genere romanzo, a ragioni referenziali e documentarie, avvicinando tali generi alle peculiarità del colloquio. Ciò ha provocato il lento declino di quest’ultimo, le cui funzioni potevano essere inglobate dagli altri due, mentre il contemporaneo avvento dell’intervista giornalistica la sovrapponeva, nella sua dimensione letteraria, proprio alle modalità dell’incontro e della visita. A questo si deve aggiungere, infine, che l’intervista letteraria si presenta anche come moderna e ambigua discendenza di un’altra tradizione, quella dei dialoghi riportati, delle parole citate, alla maniera dei Discorsi a tavola di Lutero del 1566 (cfr. Hansen, 1998). In tal senso, si inscrive inevitabilmente entro una dimensione biografica, che trova un antenato imprescindibile nel 1791 nella Vita di Samuel Johnson di James Boswell (1993) (cfr. Arkin, 1983). Possiamo, insomma, essere certi che «la refertazione secca e fededegna dell’intervista» (Verdino, 2007, p. 101), che proviene dalla pratica giornalistica, è di conio recente ed è anche genealogicamente indipendente dalle 8. «Nel corso dell’Ottocento (e poi per tutto il Novecento) l’occasionalità di tempo e spazio dell’incontro o dell’intervista ha progressivamente ridotto lo spicco dell’ambientazione narrativa, ma è rimasta – come dire – incisa nella testualità del dettato, ad imprimere una relazione documentaria del testo prodotto, diversamente, ad esempio, dalla pratica del colloquio» (Verdino, 2007, p. 101).

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1.  che cos’è un’intervista

tradizioni del colloquio, della visita e della biografia. Tuttavia, il peso di opere così note9 ha esercitato (ed esercita) un’influenza non secondaria, benché sotterranea e misconosciuta, ogni qualvolta un’intervista ha qualcosa a che fare con uno scrittore, un intellettuale, un uomo di lettere, nonché, di riflesso, su tutti i discorsi che possiamo produrre sul suo funzionamento.

9. Che trascorre, naturalmente, attraverso una tradizione illuministica del dialogo, che va da Étienne Bonnot de Condillac a Mandeville, per arrivare a Jean-Jacques Rousseau.

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2 Storia dell’intervista

2.1 Un genere moderno L’intervista – ha scritto a ragione Dorothy Speirs (1990) – è un genere «résolument moderne». Il termine italiano è un calco dell’inglese interview, probabilmente importato dal contesto francese. Di certo è assai recente: non se ne ha traccia prima del 1877, quando compare per la prima volta nel lessico Fanfani-Arlia (cfr. Farinelli et al., 1997). Del resto, il termine interview è attestato nella lingua inglese già nel 1514 (cfr. Clayman, Heritage, 2002; Masschelein et al., 2014a), e deriva a propria volta dal francese entrevoir, che letteralmente significa “rendere visita, incontrare qualcuno”. Tale significato si mantiene anche nella lingua inglese per tutto il xviii secolo. È solo nel corso del xix che ha iniziato a indicare il genere che conosciamo oggi. La novità deve essere ricercata nell’evoluzione del giornalismo americano. In particolare, occorre risalire alla metà degli anni Trenta dell’Ottocento, quando nasce l’idea stessa di news come attualmente l’intendiamo (cfr. Schudson, 1978). Nel decennio 1830-40 non soltanto il numero dei quotidiani e dei settimanali negli Stati Uniti raddoppia e la loro circolazione aumenta in maniera esponenziale (cfr. Papuzzi, 1998a, pp. 12-3), ma la “rivoluzione commerciale” che conduce alla nascita della cosiddetta Penny Press istituisce un’idea di obiettività giornalistica del tutto inedita. Le notizie sostituiscono quasi integralmente gli interventi editoriali, i fatti, apparentemente, trionfano sulle opinioni (Schudson, 1978, p. 14). I prezzi degli inserti pubblicitari si abbassano. Dai bollettini di commercio e dai periodici di partito, destinati alle élite politiche e commerciali, si passa alle prime forme di stampa popolare. L’avvento di un pubblico di massa modifica le modalità di acquisto dei giornali: le sottoscrizioni per abbonamento vengono sostituite dalla 39

l’intervista letteraria

vendita in strada, grazie al lavoro dei caratteristici paperboys. Il costo della copia di un quotidiano cala drasticamente rispetto ai tradizionali 6-8 penny. Il 3 settembre 1833 nasce il primo giornale venduto a un solo penny, il “New York Sun”. L’indicazione It Shines for All, che funge da sottotitolo, è particolarmente indicativa: compito della stampa è proporre le notizie del giorno “a tutti”, con un costo decisamente accessibile. In pochi anni, il “Sun” raggiungerà le ventimila copie (Gozzini, 2011, pp. 118 ss.), superando nettamente il numero di copie vendute dal più prestigioso e rilevante quotidiano europeo, ovverosia il “Times” di Londra, che nello stesso periodo non ne tira più di diciassettemila. Faranno seguito al “Sun” numerose testate, come l’“Evening Transcript” (1835), il “New York Herald” (1835), il “Boston Daily Times” (1836), il “New York Tribune” (1841) e infine, nel 1851, il “New York Daily Times”, che dal 1857 si chiamerà semplicemente “New York Times”. La Penny Press rivoluziona la forma e la funzione della comunicazione giornalistica, inglobando «nel concetto di notizia, qualsiasi frammento del mondo visibile» (Papuzzi, 1998a, p. 17), secondo una ricetta che giornalisti come Joseph Pulitzer e W. R. Hearst renderanno universale qualche anno più tardi. I progressi tecnologici nella stampa a caratteri mobili e l’aumento degli annunci pubblicitari e delle inserzioni liberano gli editori dall’affiliazione diretta a un’azienda o a un partito politico. I direttori editoriali acquisiscono un’indipendenza fino a quel momento sconosciuta. Allo stesso tempo, i contenuti del giornale si aprono alle cosiddette features, in aggiunta e talvolta addirittura in sostituzione alle hard news: non più o non solo bollettini economici e notizie di macropolitica, ma storie, eventi e fatti della vita quotidiana e di “interesse umano”, come si diceva all’epoca. La Penny Press, insomma, inventa la cronaca ed estende il dominio dell’opinione pubblica, contribuendo a una mutazione epocale dei rapporti tra verità e realtà. Sebbene, come ha spiegato Walter Lippmann (1922), resta incolmabile la distanza tra il dominio della verità e quello della notizia, pure, nella percezione del pubblico, la fattualità è sovente sovrimposta alla verità. Da questo momento in poi, quindi, non è più scontata la reale antipolarità tra le due dimensioni e occorre esplicitare ciò che prima della Penny Press era scontato, ovverosia che il «compito della verità è lasciare affiorare ciò che non è visibile» mentre il «compito della notizia è misurare avvenimenti manifesti e misurabili» (Papuzzi, 1998a, p. 15). Non sorprende che la tradizione giornalistica attesti la prima intervista proprio all’inizio degli anni Trenta del xix secolo. Come sempre 40

2.  storia dell’intervista

succede, ab origine troviamo un racconto mitico. In un giorno imprecisato del 1831 la giornalista e scrittrice Anne Newport Royall sorprese il presidente degli Stati Uniti John Quincy Adams mentre nuotava nudo nel Tiber Creek, un piccolo affluente del Potomac. Anne, che desiderava da tempo ottenere alcune risposte sulla delicata legislazione delle pensioni, si sedette sui suoi vestiti. La minaccia era piuttosto chiara: se Quincy Adams fosse uscito dalle gelide acque del fiume senza accettare di rispondere alle sue domande, lei si sarebbe messa a urlare. I pescatori della zona avrebbero visto un uomo nudo e una donna in preda al panico e ne avrebbero tratte le inevitabili conseguenze. Quincy Adams accettò, così, di essere intervistato. Il racconto, qui esposto nella sua versione più nota, è di certo apocrifo, sebbene innestato su una serie di aneddoti verificabili, tra cui l’intima conoscenza di Anne col presidente – il quale nel suo diario, effettivamente, la definiva «una virago errante in una armatura incantata» (cfr. Clapp, 2016). La diffusione della storia può essere facilmente imputata ad ambienti misogini, come monito all’eccessiva disinvoltura di Anne rispetto alle libertà riconosciute alle donne a quell’epoca. D’altra parte, Anne Royall è figura davvero straor­dinaria per il proprio tempo. Pioniera del reportage di viaggio e prima giornalista-editrice d’America, è ricordata spesso con tratti protofemministi, probabilmente al di là delle sue intenzioni. È significativo, allora, che la responsabilità dell’invenzione di un genere come l’intervista, che per statuto tematizza l’irruzione del privato nel pubblico, sia affidata proprio a lei. La fortuna del racconto apocrifo in cui una donna tiene in scacco il presidente degli Stati Uniti non si spiega infatti se non in riferimento alla capacità di rappresentare allegoricamente i cambiamenti della professione del giornalista. Il presidente nudo e imbarazzato del racconto diventa l’immagine un po’ grottesca dell’intima fragilità della vita politica dello Stato di fronte all’invasività del quarto potere. Il giornalismo è infido e ardimentoso, sfacciato e tenace, ed è in grado di arrivare al cuore delle istituzioni repubblicane, fino addirittura al presidente. L’intervista, manifestamente, è la sua nuova arma. Dalla leggenda alla storia: secondo alcuni studiosi, come Dorothy Speirs (1990), che si rifà a uno studio di Michael Palmer (1983), ripreso anche da Galia Yanoshevsky (2018), la prima vera intervista della stampa moderna si deve a un’altra figura mitica, il direttore del “New York Herald” Gordon Bennett. L’invenzione è legata a un controverso fatto di cronaca nera – il primo, forse, nel quale la Penny Press giocò il ruolo determinante nel dibattito pubblico, catalizzando i sentimenti popolari. Si 41

l’intervista letteraria

tratta dell’omicidio della prostituta Ellen Jewett, ritrovata cadavere in un noto bordello di New York domenica 10 aprile 1836. Come riporta James L. Crouthamel (1973), la donna fu uccisa a colpi di accetta e il suo corpo bruciato. La polizia, sulla base di prove indiziarie, arrestò Richard P. Robinson, un giovane benestante che si era intrattenuto in diverse occasioni con Ellen. L’“Herald” si interessò da subito al fatto e Bennett avviò una sua indagine personale. Dopo aver visitato la scena del crimine e averla descritta ai lettori (11 aprile), il giornalista sollevò una serie di dubbi sulla colpevolezza di Robinson, insinuando che l’omicidio fosse il frutto di una cospirazione all’interno della stessa Maison dove la ragazza esercitava la professione. Per questo motivo, il 16 aprile Bennett intervistò la tenutaria Rosina Townsend, riportando poi sul quotidiano un frammento del dialogo, parola per parola. Al di là dell’evento, è interessante notare che l’intervista appare qui, per la prima volta, come uno strumento esplicito d’indagine. Per perseguire la verità, il giornalista, come gli altri soggetti inquirenti, deve andare sul campo e interrogare i testimoni. Fare domande diventa la pratica essenziale di un nuovo modo di concepire e praticare il giornalismo che gli americani chiamano già da alcuni decenni reporting. La scelta di riportare il dialogo nella forma domanda-risposta allude naturalmente alla testimonianza in tribunale, e rende perciò l’intervista un elemento probatorio nell’ambito dell’inchiesta. Di contro, il discrimine tra informazione e indiscrezione (cfr. Melmoux-Montaubin, 2006) tende ad assottigliarsi poiché il “sensazionalismo” che fa vendere copie al giornale indulge assai spesso in una pratica che conosciamo bene tuttora, e che consiste, in buona sostanza, nel condire il fatto con dosi massicce di mistero, occultismo, cospirazionismo e piccanti ingredienti della stessa varietà. Ecco perché “i fatti di sangue”, come ha notato Clotilde Bertoni (2009, p. 29) «diventano lungo l’Ottocento punto di richiamo della grande stampa, e pezzo forte di quella sensazionalistica»: «l’autenticità dei fatti – ottimo scudo contro censure, moralismi e anche obiezioni di buon gusto – autorizza a esibirne e magari a gonfiarne gli aspetti efferati e turpi; con il risultato paradossale di far piombare il giornalismo nei procedimenti della fiction più deteriore» (ibid.). Secondo altri storici dell’informazione, la primogenitura del genere è invece da attribuire a Horace Greeley, fondatore del “Tribune”. Nell’agosto del 1859 Greeley intervista Brigham Young, leader della comunità mormone di Salt Lake City. La novità, in questo caso, riguarda la promozione concettuale dell’intervista al rango di notizia. Dall’ancillare fun42

2.  storia dell’intervista

zione di strumento di indagine che aveva in precedenza, essa diventa in questo caso un fatto di per sé. Per la prima volta, come ha scritto Giovanni Gozzini (2011, p. 117), «la stampa non si limita a registrare ciò che avviene nella realtà indipendentemente dalle sue intenzioni, ma provoca attivamente in prima persona uno “pseudoevento”: l’incontro registrato fra un giornalista e un’altra persona». Tale espediente rende diretto il collegamento tra il mondo della news narrata e la realtà fattuale, dal momento che la citazione tra virgolette della voce del testimone funziona «come prova di attendibilità e obiettività del giornalista» (ibid.). Il reporter acquisisce in questo modo un nuovo potere che ne aumenta considerevolmente l’indipendenza rispetto alla direzione editoriale. Da questo momento in poi, come scrive Papuzzi (1998b, p. 65): «non ci sono avvenimenti, da vedere o da raccontare: l’avvenimento è l’intervista. Anche se l’intervistato viene interrogato su qualcosa di specifico, l’avvenimento che genera la notizia è il fatto che egli ne parli. Questo è il caso più limpido in cui la notizia è ciò che ne fa il giornalista». L’intervista, di contro, si attira le spiacevoli antipatie di quanti vedono limitato il proprio controllo sui giornalisti. Per esempio, nel 1869, l’editore di “The Nation” E. L. Godkin la definisce senza mezzi termini come il prodotto comune di politici dilettanti e reporter impostori (Godkin, 1869). Nello stesso anno, il “Daily News” di New York è ancora più perentorio: una parte dei giornali americani, secondo il quotidiano, sta portando la professione del giornalista verso una condizione disprezzabile, a causa di quella specie di ruffianeria o servilismo che chiamano intervista (cfr. Lasky, 1989, p. 61; Lyon, 1994, p. 75). Naturalmente, stabilire a chi debba assegnarsi la coccarda di primo intervistatore della storia è del tutto irrilevante. Importa però che una pratica in sostanza sconosciuta fino al 1830 diventi, nel corso di tre decenni circa, qualcosa di assai familiare per il mondo dell’informazione americano, e in particolare newyorkese. L’istituzionalizzazione dell’intervista come genere è uno degli indicatori fondamentali per comprendere la trasformazione ideologica della società tra gli anni Trenta e la Guerra civile. Ecco perché la sua pratica fa discutere: essa evidenzia uno spostamento degli equilibri nel problematico rapporto tra la sfera pubblica e quella privata della società. Resistenze conservatrici e istanze progressiste ne fanno un terreno di scontro. Già alla metà dell’Ottocento ci si domanda quali sono (se ci sono) i limiti dell’informazione rispetto alla privacy del cittadino, così come dell’uomo di Stato. 43

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I primi discorsi pubblici sull’intervista, che funzionano per noi come prove di attestazione del nuovo genere (cfr. Todorov, 1978), sottolineano questioni legali e soprattutto etiche della dialettica tra il diritto di cronaca e diritto alla riservatezza. Come ha dimostrato il sociologo Edward Shils, proprio nel momento in cui la pratica dell’intervista inizia a istituzionalizzarsi, si assiste anche alla nascita di interventi a difesa del diritto alla discrezione. Lavori come Liberty, Equality, Fraternity di James Fitzjames Stephen (1873) riflettono infatti sui cambiamenti imposti alla sfera privata degli individui dall’invadente e intrusiva attività di figure sociali come i nuovi reporter (cfr. Shils, 1975, pp. 329-33). La stessa intervista di Greeley, per esempio, scatenò aspre polemiche, dal momento che il giornalista, accanto a domande generali sul mormonismo, chiedeva al suo interlocutore di descrivere la propria esperienza di marito poligamo (pare che Young avesse ben ventisette mogli). La questione della privacy, come si capisce, reimposta completamente il livello di responsabilità del giornalista rispetto alle proprie fonti. L’istituzionalizzazione dell’intervista può essere letta in questo senso come la progressiva abitudine a rendere pubblica e nominativa una funzione umana da sempre conosciuta, sia nella quotidiana vita associata, sia in alcune ritualità tipiche della cultura occidentale. Porre domande, come ricordava già a suo tempo Gilbert Ganne (1966), è una pratica essenziale nei sondaggi di opinione, nei test psicologici, nelle inchieste sociologiche, negli interrogatori della polizia, nelle campagne politiche, nell’anamnesi medica, nella confessione cristiana e, almeno finora, negli esami universitari. Gli stessi giornalisti, anche prima della nascita della Penny Press, solevano conversare con politici, diplomatici e pubblici ufficiali. Ma è solo a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento che ci si riferisce pubblicamente al singolo individuo che dà risposte, chiamandolo per nome e cognome. L’intervista diventa così una «private conversation reported to the public», come ebbe a scrivere Henry Wadsworth Longfellow (1891, p. 144) nella propria autobiografia, a proposito della sua prima esperienza da intervistato. Non sempre una conversazione privata può essere resa pubblica senza che ciò provochi scandalo. E ci si inizia a chiedere, perciò, in che misura è concesso al giornalista restituire confidenze rivelate durante un colloquio, senza un esplicito consenso dell’interlocutore. Un caso molto noto, a tal proposito, coinvolse il grande poeta e all’epoca diplomatico americano James Russell Lowell (cfr. Roach, 2018, pp. 33-47). Il 24 ottobre 1886, l’amico di famiglia Julian Hawthorne, figlio del cele44

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bre narratore Nathaniel, pubblicò sul “New York World” un articolointervista dal titolo Lowell in a Chatty Mood (Hawthorne, 1886), nel quale rivelava una serie di confidenze private assai imbarazzanti fattegli da Lowell sulle massime autorità britanniche (dalla regina al principe di Galles). Quando, due giorni dopo, Lowell tentò di porre rimedio alla cosa, lo fece in maniera piuttosto goffa. Sebbene la notizia avesse ormai fatto il giro dell’intero paese, anche a causa della sua grande notorietà, lo scrittore inviò una lettera al “Daily Advertiser”, storico quotidiano di Boston, dalla circolazione decisamente locale. In essa giustificava il suo comportamento scrivendo, in sostanza, che nessuno avrebbe potuto essere più sorpreso e addolorato di quanto lo era stato lui nell’apprendere che il figlio del suo vecchio e onorato amico l’avesse tradito, rivelando dettagli di una conversazione privata e strettamente confidenziale. Se avesse saputo che l’intento di Julian era intervistarlo, sarebbe rimasto muto (cfr. Lowell, 1886, p. 1). La distanza ideologica tra la generazione di Lowell e quella di Julian Hawthorne è tutta qui: per il primo, legato ancora a un’idea primo-ottocentesca di informazione, la circolazione di una notizia ha una dimensione locale e un’utenza specialistica (cfr. McGill, 2003). In una società in cui i rapporti tra gli uomini si fondano sulla fiducia reciproca e sulla parola, la dimensione pubblica è intesa come del tutto distaccata da quella privata. Ogni dichiarazione alla stampa deve perciò risultare da una scelta chiara e deliberata di chi la rende. Per questo, piuttosto che smentire i propri giudizi sui nobili britannici, Lowell accusa Hawthorne di aver procurato un danno alla morale collettiva e di avergli estorto senza consenso parole destinate alla riservatezza delle mura domestiche. All’orecchio della generazione di Julian Hawthorne, tuttavia, questa dichiarazione appare di certo sospetta: con essa Lowell sembra difendere la prassi di indossare maschere nell’esercizio politico, ovvero di nascondere all’opinione pubblica la verità dei propri reali giudizi. In nome di un’insindacabile quanto opportunistica trasparenza, per Hawthorne i giudizi privati di personalità di spicco della società non possono essere sottoposti a censure: l’opinione pubblica merita di conoscerli proprio in quanto espressi da uomini notabili, specie nel caso in cui costoro ricoprano incarichi che hanno a che fare con la vita dell’intera cittadinanza. Ma la verità è che il gossip, la chiacchiera e la confidenza estorta diventano elementi tanto significativi nel discorso politico, quanto straor­ dinariamente vendibili dai giornali, mentre il peso dell’informazione a circolazione globale (almeno entro i confini degli Stati confederati) entra 45

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prepotentemente in qualsiasi calcolo riguardi gli equilibri complessivi del sistema sociale.

2.2 Un genere americano Tra gli anni Sessanta dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale i cronisti americani intervistano le più eminenti personalità del mondo politico dell’epoca, da papa Pio ix (1871) al re di Svezia Oscar ii (1906), dal presidente americano Andrew Johnson (1868) al presidente francese Félix Faure (1897). Nel decennio 1870-80 Karl Marx viene intervistato almeno tre volte: nel 1871 da R. Landor per il “New York World”, nel 1879 da un anonimo cronista del “Chicago Tribune” e nel 1880 dal giornalista scozzeseamericano John Swinton per il “Sun” (Schudson, 1995, pp. 82-3). I nomi di reporter come Edward Price Bell e Thompson Cooper, come Joseph McCullagh e Frederic William Wile iniziano a essere piuttosto noti persino nella lontana Europa. L’intervista non è soltanto un genere decisamente moderno, ma anche, altrettanto decisamente, un genere americano. «A modern and American inquisition», sentenzia Thompson Cooper dalle colonne del “New York World” nel 1871. Dorothy Speirs (1990, pp. 301-2) ricorda che il Grand dictionnaire universel di Pierre Larousse del 1890 insiste sulla paternità statunitense dell’interview, anche per mettere in risalto le differenze tra il giornalismo inglese e quello che si fa nel nuovo continente e per impedire che vengano confusi tra loro: gli inglesi, secondo l’anonimo estensore della voce, provano orrore per questa specie di “inquisizione a domicilio” che è l’intervista. La società francese, al contrario, sembra assai più favorevole ad accoglierla. Anche Paschal Grousset, nel suo Public Life in England (scritto con lo pseudonimo di Philippe Daryl) assicura che in Inghilterra questa pratica «imbevuta di spirito inquisitorio e spionistico» tipicamente americani non metterà mai radici, mentre in Francia, dove a suo avviso la classe politica è più disponibile a subire la presenza e l’indiscrezione di alcuni corrispondenti stranieri, la nuova moda sta prendendo piede (Grousset, 1884, p. 39). Di contro, alcuni giornalisti francesi, come Pierre Giffard, sottolineano la differenza dei propri metodi di indagine rispetto a quelli dei giornalisti americani: «i reporter americani esagerano. Non hanno alcun senso artistico. Sono delle macchine da appunti. Non sono né scrittori, né artisti, né critici» (Giffard, 1880, pp. 330-1). 46

2.  storia dell’intervista

A partire dal 1884 (cfr. Lejeune, 1980; Seillan, 2002; Lavaud, Thérenty, 2006), quotidiani come “Le Petit Journal”, “Le Matin” e “L’Éclair” iniziano a includere tra le loro pagine interviste sul modello statunitense (Lejeune, 1980, p. 106). E la platea degli intervistati si fa da subito molto larga. Come ha notato Marie-Éve Thérenty (2007, pp. 333-4): «dal portinaio dell’anarchico Vaillant, al Presidente della Repubblica, dagli ingegneri della navigazione durante le grandi inondazioni della Senna nel 1891, all’amichevole segretario generale del Monte di Pietà, tutti possono divenire testimoni». Del resto, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, anche la stampa francese conosce una serie di drastici cambiamenti: il 29 luglio 1881 la iii Repubblica promulga una nuova legge sulla libertà di stampa, ispirata, come è noto, all’articolo 11 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Con essa viene abolita l’autorizzazione preventiva alle pubblicazioni periodiche. La responsabilità in sede civile e penale, rispetto ai reati di diffamazione o di falso, passa al direttore della testata. Il giornale può uscire senza alcun deposito cauzionale e ciò abbassa notevolmente i costi editoriali, incoraggiando la nascita di numerosi organi di stampa. Questa democratizzazione si accompagna alla definizione sempre più inclusiva di un pubblico di massa. All’inizio degli anni Novanta del secolo, durante la crisi boulangista, la tiratura di “Le Petit Journal” raggiungerà il milione di copie (Speirs, 1990, p. 302). Anche in Francia, quindi, le notizie di attualità e di cronaca guadagnano spazio rispetto ai commenti politici ed economici, mentre l’impatto dei quotidiani sull’opinione pubblica e sulla vita dei singoli individui si fa sempre più rilevante. La legittimità del genere intervista, anche in questo caso, è fortemente discussa. Il 15 novembre 1890 il quotidiano “Le Temps” mette in relazione la nuova moda a una trasformazione generale del modo di condurre inchieste e reportage. In un articolo privo di firma in prima pagina, la testata sintetizza pregi e difetti del nuovo genere: l’interview riscuote un grande successo presso i lettori, ed è perciò inutile negarne la legittimità, come è inutile, in generale, censurare pregiudizialmente il gusto del pubblico. Ciò non significa, però, che essa renda un buon servizio all’informazione. Secondo l’anonimo articolista, certi eccessi nel suo utilizzo danneggiano gravemente sia il giornalismo in sé, sia, soprattutto, la società civile. Ci dovrebbero essere dei limiti per i giornalisti che si adoperano in questa radicale e caratteristica forma di “informazione per l’informazione”. Allo stesso tempo, le persone intervistate, anche considerando il proprio ruolo sociale, dovrebbero sapere meglio quando rispondere e quando invece rifiutarsi di farlo. L’anno successivo, Henry Fouquier controbatte agli argomenti di “Le Temps” dalle pagine di “Le xix Siècle”. Secondo l’ex garibaldino, l’inter47

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vista è tra tutte le forme del giornalismo contemporaneo quella destinata ad avere il maggior successo. A parte qualche testata, avvinghiata un po’ anacronisticamente a un giornalismo classico à la Armand Carrel, e qualche uomo politico, come Clemenceau, che rifiuta ancora di sottoporsi alle domande dei reporter, il genere è ormai sdoganato anche in Francia. Ciò dipende, continua Fouquier, dai suoi molti aspetti positivi. In primo luogo l’intervista «mostra gli uomini sotto una luce interessante» (Fouquier, 1891, p. 1, passim), fornendo qualche «buona scena di commedia», almeno “qua e là”. Inoltre, permette al lettore di approcciarsi alle diverse opinioni delle persone che possiedono “qualche competenza” e “qualche autorità” sulle diverse questioni poste all’ordine del giorno. In questo senso costitui­ sce una forma di documentazione preziosa e, al tempo stesso, facilmente accessibile. La raccolta in volume di più interviste produce poi vere e proprie inchieste che permettono al lettore di approfondire le proprie conoscenze su molteplici argomenti. Non mancano, viceversa, critiche particolarmente salaci, come quella mossa da Jules Case. In un suo articolo datato 2 settembre 1892, la passione francese per l’intervista – una passione “furente”, “convinta” e di certo “eccessiva” – è bollata come decisamente pericolosa, dal momento che tende a includere nel dibattito pubblico persone che non hanno alcun sapere particolare. Viene interpellato chiunque su qualunque argomento, scrive Case, qualche volta su questioni che l’intervistato conosce, molto più spesso su questioni che invece ignora. A cavallo tra i due secoli, contrariamente a quanto immaginato da Grousset, l’intervista si diffonde anche nel Regno Unito. L’intraprendenza di alcuni giornalisti americani come Frederic William Wile e un crescente interesse per l’opinione pubblica statunitense allentano, infatti, le iniziali resistenze dei politici inglesi a concedersi alle domande dei cronisti (cfr. Schudson, 1995, pp. 77-8). Nel 1906 Wile, all’epoca corrispondente del “Chicago Daily News”, intervista a Berlino il segretario di Stato Richard Burton Haldane. Si tratta, probabilmente, della prima volta di un politico britannico. È pur vero che anche in Inghilterra l’intervista era già ampiamente praticata come strumento d’indagine, nel giornalismo d’inchiesta. Il pioniere britannico del genere, William Thomas Stead, aveva importato fin dai tardi anni Ottanta il modello di giornale-tabloid fondato sul sensazionalismo in stile Penny Press. Negli anni della sua direzione della “Pall Mall Gazette” (1883-89) e, più tardi, del mensile “Review of Review” (1890-94), Stead fece largamente uso dell’intervista, conducendo una serie di reportage particolarmente scottanti come The Maiden Tribute of Modern Babylon (1885), che svelò 48

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un terribile traffico di prostituzione minorile a Londra. A differenza dei giornalisti americani, Stead, per rendere le proprie interviste al di sopra di ogni sospetto, e poterle utilizzare pienamente come prove, era solito sottoporre il testo prodotto all’intervistato prima della pubblicazione. La critica chiamerà questa pratica, che sarebbe divenuta una consuetudine solamente in tempi piuttosto recenti, “intervista autenticata”. La penetrazione dell’intervista nel vecchio continente, nonché quella del nuovo modo di fare informazione legato alla sua pratica, non è uniforme. In Italia, per esempio, stenta ad attecchire. La moda del giornalismo all’americana, nonostante qualche generoso tentativo – assai noto è per esempio quello di Dario Papa all’epoca della sua direzione dell’“Italia” (1885-90) – è ancora guardata con sospetto. Di fatto i giornali restano alle dipendenze di interessi politici più o meno diretti. L’industrializzazione della stampa è decisamente in ritardo rispetto agli altri paesi avanzati e il numero di copie vendute ben inferiore. Come ha scritto Paolo Murialdi (2014, p. 95), la distinzione tra «giornali politici e d’opinione e giornali di cronaca, tra fogli di qualità e fogli popolari, che caratterizza la stampa quotidiana francese, inglese e statunitense, in Italia non è netta o addirittura non esiste». Occorre attendere l’inizio del Novecento per vedere comparire anche nel nostro paese il nuovo genere. Il merito va ad Alberto Bergamini e al suo innovativo “Giornale d’Italia”, noto soprattutto per aver codificato la cosiddetta terza pagina quale spazio istituzionalmente destinato alla letteratura, alle arti e alla musica. Nel terzo numero del giornale, datato 19 novembre 1901, compare un breve articolo dal titolo Intervista a Santos Dumont. Si tratta di un racconto di poche righe in cui si riporta in maniera indiretta, senza alcun virgolettato, un colloquio tra il giornalista e il noto aviatore brasiliano. Nel biennio successivo, il “Giornale d’Italia” ospiterà alcuni colloqui con eminenti personalità della politica, come Filippo Turati e la Regina Natalia, costruiti sul modello dell’intervista americana: una breve introduzione, in cui si presenta l’intervistato e l’occasione dell’incontro, precede in genere il dialogo vero e proprio, che viene riportato fedelmente. Memorabile è l’intervista di Bergamini a Guglielmo Marconi, datata 5 febbraio 1902. A differenza dei reporter statunitensi e francesi, i giornalisti del “Giornale d’Italia” evitano qualsiasi commento, né indulgono in dettagli scandalistici e sensazionali. È evidente che il giornale si indirizza a un pubblico di lettori colti, ben lontano dalla platea di massa cui si rivolgono i maggiori quotidiani americani e francesi del tempo. 49

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Diverso è il caso di una singolare pubblicazione dal titolo Interviste, di Carlo Paladini, pubblicata a Firenze da Bemporad nel 1902. Il volume, oggi semidimenticato, raccoglie i resoconti di una serie di colloqui avuti dal cronista con importantissimi uomini politici britannici e statunitensi, tra cui William Ewart Gladstone, Cecil Rhodes, Lord Dufferin, Jefferson Davis, Frederick Douglass e Lord Salisbury. Nella prefazione Paladini affronta pionieristicamente, almeno per l’ambito italiano, il problema del genere intervista, definendolo una «forma determinata di un dato colloquio, a scopo di informazione pubblica» (Paladini, 1902, p. xii). Si tratta, egli scrive, di un’invenzione di J. B. McCullough, direttore del “Globe Democrat” di St. Louis, che ormai da anni è ben conosciuta anche al di qua dell’Atlantico, dove è divenuta uno «strumento indispensabile della cronaca quotidiana e della storia contemporanea» (ivi, p. xiii). Il suo successo si deve alla democratizzazione del mondo occidentale, ovverosia alla possibilità di rendere pubbliche questioni politiche un tempo riservate solo agli uomini di potere. Paladini discute, tra le altre cose, l’impiego del termine nella lingua italiana, riportando peraltro una lettera dell’illustre glottologo Graziadio Ascoli, espressamente interrogato sulla questione. Nonostante nella sua risposta Ascoli consigli l’uso di «qualche perifrasi chiara, liscia» (ivi, p. xi) per evitare il barbarismo dal sapore anglosassone derivato dall’interview, il giornalista opta per la traslitterazione diretta dall’inglese, intendendo che l’“intervista” è di fatto un genere specifico, e che l’italiano non possiede una voce propria che lo possa esprimere. Nonostante il grande lavoro di Bergamini, e il singolare esempio di Paladini, il dizionario etimologico Pianigiani, ancora nel 1907, riporta che “intervista” è una «brutta voce di nuovo conio per “visita”», e ciò significa che all’inizio del secolo passato non era ancora stata codificata come genere specifico. La moda americana dell’intervista e la scarsa familiarità con essa da parte degli italiani sono rappresentate magistralmente anche da uno scrittore del calibro di Luigi Pirandello. Nel controverso romanzo Suo marito del 1911, lo scrittore affida alla figura di un cronista, Nathan Crowell, corrispondente di “The Nation”, il compito di incarnare le ragioni, le peculiarità e le idiosincrasie del giornalismo statunitense. Incaricato dal protagonista Giustino Boggiolo di intervistare la moglie scrittrice, Silvia Roncella, per scopi squisitamente promozionali, il giornalista si trova, all’inizio del terzo capitolo, al centro di un esilarante dialogo, fitto di doppi sensi e incomprensioni, con il grottesco zio di Silvia, Ippolito. Ed è palese dal tono e dalle parole di quest’ultimo che alla marginalità della pratica dell’intervista nel discorso pubblico italiano corrisponde pure un 50

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certo pregiudizio sugli scopi scandalistici cui il genere viene spesso piegato: «mi ringrazierebbe», si legge a un certo punto, «perché la sua… come la chiama? Intervista, già, già, intervista… la sua intervista riuscirebbe molto più… più… saporita» (Pirandello, 1973, p. 664).

2.3 Un genere intermediale Malgrado queste resistenze e quindi la diversa rapidità della sua diffusione, l’intervista diventa nei primi vent’anni del Novecento una pratica comune per l’intera società occidentale. Da un punto di vista formale essa evolve assai rapidamente: gli incontri riportati dal giornalista, che usano un linguaggio indiretto, spesso senza citare le parole dell’intervistato, si ridispongono, nella prima metà del xix secolo, entro strutture miste che uniscono il racconto indiretto con la citazione delle parole dell’intervistato. La funzione documentaria ricoperta dal discorso diretto si accompagna alla funzione di mediazione costituita dal discorso del giornalista (Kött, 2004, pp. 18-9). Agli inizi del Novecento, l’intervista giornalistica ha generalmente assunto tanto negli Stati Uniti quanto in Europa la seguente organizzazione formale: un’introduzione narrativa in prima persona del giornalista anticipa il resoconto del dialogo sotto forma di discorso diretto nel modulo di domanda e risposta che ben conosciamo (Speirs, 1990, p. 303). Il successo dell’intervista è l’esito, come abbiamo detto, di un cambiamento epocale. La nascita dell’opinione pubblica di massa si accompagna alla creazione di una vera e propria industria dell’intrattenimento. Si diffonde così, capillarmente, un’idea inedita e vincente di “notorietà”. L’affermazione di valori legati all’individuo e alle sue libertà e la diffusione di un’economia di mercato che si espande su scala internazionale determinano la nascita di un fenomeno che gli americani chiamano Celeb­ rity Culture, e di cui il nascente Star System hollywoodiano è, con ogni probabilità, la declinazione più nota e paradigmatica. Come Henry James aveva immaginato già alla fine dell’Ottocento, l’idea che sorregge la pratica dell’intervista deriva da una rivoluzione dei rapporti tra pubblico e privato e, allo stesso tempo, contribuisce a perfezionarla: le cosiddette storie di interesse umano abituano le persone a ciò che Richard Schickel definisce come la presenza di un “intimo sconosciuto” nelle proprie vite. La celebrità, ovvero la rincorsa a uno status sociale privilegiato che gode della legitti51

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mazione sociale e che, in sostanza, viene invidiato da chi non lo raggiunge, diventa, in breve tempo, il principale motore di trasmissione di idee sociali, politiche, estetiche e morali (cfr. Schickel, 1985). Questa dinamica, come hanno mostrato numerosi studi, è da connettere più in generale alla nascita di ciò che Schudson (1995, p. 89) chiama “sorveglianza impersonale”. Si tratta, nel dettaglio, della nuova pratica sociale di ottenere notizie da qualcuno e su qualcuno, non già per esercitare forme di controllo attraverso la possibilità di un intervento diretto sulla singola persona, come avviene nelle forme di “sorveglianza personale” (per esempio quella svolta dalle famiglie) e di “sorveglianza interpersonale” (per esempio quella svolta dalla polizia). Piuttosto la sorveglianza impersonale si basa sulla possibilità di esternare le informazioni raccolte, per cui il controllo che ne deriva non riguarda il contenuto dell’informazione, ma il fatto di possederla e reinvestirla socialmente, individuando e definendo così un certo pubblico; che significa poi avere il potere di creare interconnessioni tra individui che non si conoscono, a prescindere dall’etnia, dalla fede religiosa e dalla condizione sociale. Gli attuali social network funzionano esattamente in questo modo. L’interazione tra soggetti viene semplicemente portata in primo piano, mentre prima dell’invenzione del web l’aspetto, per così dire, social di ogni attività mediatica era di fatto implicito, sebbene costituisse la ragione profonda del loro successo. Comunque sia, tra la fine dell’Ottocento e i primi vent’anni del Novecento, lo spirito di competizione tipico della struttura capitalistica inizia a coinvolgere anche ciò che un tempo restava privato, assolutizzandosi, come è stato detto, in una specie di neocalvinismo mondiale (Braudy, 1986). Il voyeurismo del pubblico di massa, che nella narrazione della celebrità altrui rintraccia le proprie paure e i propri intimi desideri, trova il necessario correlativo nell’esibizionismo delle star e delle persone note, che la stampa scandalistica e il marketing, soprattutto in ambito cinematografico, promuovono attraverso interviste e scatti fotografici. La logica del desiderio e la sua frustrata insoddisfazione si allargano dalla sfera intima a quella sociale. L’interazione fra la nascente società dello spettacolo e il pubblico risulta, insomma, fin dal principio consustanziale al suo funzionamento. È questo il contesto nel quale, a partire dagli anni Venti del Novecento, compaiono le prime forme di intervista radiofonica (cfr. Bell, van Leeuwen, 1994, p. 35, passim), praticamente assieme alle trasmissioni stesse, quando ancora la radio è poco più di un hobby per amatori. Il merito va a personaggi assai curiosi, pionieri e sperimentatori del nuovo medium che, 52

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negli Stati Uniti, dove non c’è un monopolio nazionale dell’etere, acquistano spazi pubblicitari fondendo per la prima volta i ruoli di intrattenitore/ presentatore e di venditore. L’editore-culturista Bernarr Macfadden, per fare un esempio, ottenuta la possibilità di trasmettere ogni mattina nella stessa fascia oraria grazie a un accordo con l’emittente wor, che trasmette dai grandi magazzini Bamberger di Newark (New Jersey), mette in piedi un format di esercizi sportivi accompagnati da musica, che presto diviene popolare. L’obiettivo è vendere le proprie pubblicazioni su sport e cultura fisica. Ma è interessante che per rendere più appetibili i suoi prodotti Macfadden si serva della voce di alcune ragazze, persone qualsiasi, naturalmente, che prendono parte al suo show, rivelando agli ascoltatori i magici benefici del metodo d’allenamento in questione. L’uso commerciale di ciò che gli americani chiamano vox pop, abbreviando l’espressione latina, passa quindi dall’interlocuzione diretta dei consumatori: il pubblico, per la prima volta, diviene attore, ovvero ha l’illusione di diventarlo, dal momento che le conversazioni sono realtà interamente scritte e tutt’altro che spontanee. L’idea, comunque, avrà grande fortuna nella storia della pubblicità degli anni a seguire. La ritroviamo anche oggi in numerose televendite. In generale, Macfadden e gli altri impresari che nello stesso periodo compiono esperimenti simili al suo indovinano una singolare particolarità del medium radiofonico. Intervistare il singolo radioutente, permettergli di esprimere la propria opinione sugli argomenti più vari o, semplicemente, di raccontare una propria esperienza significa far interagire tra loro sconosciuti lontani e altrimenti indifferenti gli uni agli altri. Mentre la carta stampata, dalla Penny Press in avanti, poteva solo riconoscere la presenza di un pubblico di massa, e dunque esercitare la propria influenza nell’opinione che collettivamente andava formandosi, volta per volta, sul singolo evento, il medium radiofonico può fare qualcosa di ulteriore. Può cioè rivolgersi agli invisibili individui che compongono il pubblico in maniera individuale, sollecitando la loro influenza reciproca. In questo modo la radio diventa una sorta di invisibile mediatore sociale di gusti e abitudini relativi al consumo e al mercato. Non solo la complicata dialettica tra consenso e partecipazione che costruisce l’opinione pubblica può essere manipolata da un uso tendenzioso o partigiano dei messaggi, ma il suo impiego per fini commerciali ingrossa l’utenza e ne forgia i vezzi, la routine, le mode: siamo alle radici di ciò che Hans Magnus Enzensberger, in un saggio fondamentale del 1970, ha definito come “industria della coscienza”. La radio si trova a svolgere così una 53

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funzione di controllo sociale precedentemente sconosciuta ad altri media, poiché l’interazione mediatica tra individui istituisce forme ideali di convergenza estetica e ideologica, tesse tra le menti e i corpi delle singole persone fili impercettibili, ma vigorosi e assai duraturi. Gli stessi fili che più tardi la televisione gestirà in maniera ancor più capillare e pervasiva. La pratica dell’intervista nel contesto di trasmissioni di intrattenimento agisce poi a un altro livello, contribuendo complessivamente alla definizione degli indirizzi e del funzionamento del medium (cfr. Clayman, Heritage, 2002). L’elemento (finzionale) di spontaneità della conversazione informale, che da essa deriva, viene infatti lentamente assunto come uno standard anche in alcuni programmi di approfondimento, già a partire dagli anni Trenta del Novecento. Viceversa, la consuetudine di rivolgersi direttamente al radioascoltatore, fatta eccezione per i programmi di informazione giornalistica, per la pubblicità e per le tribune politiche, viene progressivamente abbandonata. La struttura retorica dell’intervista agisce quindi sulla costruzione stessa dei discorsi pubblici in radio: la finta spontaneità delle cosiddette Fireside Chats (1933-44), le famose chiacchiere al caminetto, del presidente Franklin Delano Roosevelt, per esempio, è di certo da connettere all’introduzione della pratica di intervistare personaggi pubblici in trasmissioni di inchiesta che iniziano immediatamente a riscuotere un discreto successo. Anche in Europa, dove in genere lo Stato detiene il monopolio della comunicazione in onde medie, almeno fino al secondo dopoguerra, ci si accorge presto dell’efficacia del discorso colloquiale rispetto ai primigeni tentativi di programmi pedagogici e scolastici di diretta divulgazione del sapere. Come riferisce Rodolfo Sacchettini in uno studio dedicato ai radiodrammi in Italia, «l’idea di divulgazione culturale, per tutto l’Ottocento, si impernia su alcuni media: il libro, la conferenza e le pubblicazioni periodiche», ovverosia «gli stessi mezzi con cui la ricerca scientifica trasmetteva i propri progressi a gruppi specializzati» (Sacchettini, 2011, p. 108). La radio, invece può restituire le chiacchiere dell’epoca (cfr. ibid.). In Cosa leggevano i tedeschi mentre i loro classici scrivevano (1932), per esempio, Walter Benjamin, che pionieristicamente aveva inteso il vantaggio del medium radiofonico in questa specifica attività, rappresenta «i dibattiti nei caffè e le lunghe passeggiate, le discussioni sulla stampa, sui giornali, sul mercato dei libri, sulla cultura giovanile. Si parla molto dei prezzi dei giornali e dei libri, notazioni apparentemente superficiali, ma alla fine fondamentali per ricostruire un’atmosfera» (Sacchettini, 2011, p. 108). 54

2.  storia dell’intervista

Seppure la radio commerciale vedrà la luce solamente nel secondo dopoguerra, gran parte dei paesi europei promuove tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta forme di pubblicità. Nel Regno Unito, dove il monopolio della bbc impedisce l’uso commerciale del broadcasting, la vox pop viene introdotta artificialmente da una serie di esperimenti in programmi educativi. I monologhi formali, rivolti all’ascoltatore colto, vengono affiancati da programmi informali, indirizzati all’“uomo comune”. In questi ultimi, sebbene i testi siano ancora interamente scritti, vengono utilizzati espedienti retorici per rendere l’effetto di un discorso spontaneo: l’introduzione di incertezze e balbettamenti nella lettura, l’uso di attori con diversi accenti dialettali, l’uso di rumori, per simulare interviste avvenute in strada o in luoghi di lavoro. Con l’invenzione della televisione e la sua inarrestabile diffusione, gli elementi della cosiddetta comunicazione non verbale, le espressioni facciali, il movimento degli occhi, il gesticolare delle braccia e delle mani vengono inclusi per la prima volta in un messaggio pubblico. Non si può più fingere spontaneità leggendo un discorso scritto, almeno fino all’invenzione del cosiddetto gobbo. Il movimento delle telecamere e, per quanto riguarda i programmi registrati, l’azione del montaggio, diventano strumenti significativi, in grado di agire sulla grammatica e sulla logica del genere, così come, d’altra parte, fanno anche le luci e le scenografie. L’intervista ne è rivoluzionata. Alla metà degli anni Cinquanta il conduttore radiofonico americano Myron Leon Wallace appronta per una televisione di New York quello che probabilmente è il primo programma di interviste televisive, il Night Beat. Nel corso della trasmissione, della durata di un’ora, Wallace intervista due ospiti, uomini politici in genere, oppure artisti (Salvador Dalí), musicisti ( John Cage) e scrittori (Norman Mailer), incalzandoli solitamente su idee “provocatorie o originali” (Wallace riportato da Roach, 2018, p. 138). Nel 1957 l’esperienza positiva del Night Beat, accompagnata peraltro da un altrettanto fortunato spazio quotidiano sul “New York Post” intitolato Mike Wallace Asks (cfr. ibid.), prosegue con The Mike Wallace Interview, trasmesso in prima serata dalla abc. Il programma affronta questioni particolarmente controverse di politica e di società – «questioni di spionaggio, intercettazioni telefoniche, sovvenzioni governative agli artisti, segregazione» (ibid.) –, e lo fa attraverso dialoghi con attori, artisti, intellettuali, politici e scrittori molto noti, tra cui Aldous Huxley, Erich Fromm, Frank Lloyd Wright e Mortimer Adler. Le interviste si svolgono in uno studio televisivo scuro, mentre l’intervistato e l’intervistatore sono 55

l’intervista letteraria

illuminati dalla luce di alcune lampade. In un primo momento la regia mostra Wallace e il suo ospite, inquadrando il primo di fronte e il secondo, che gli sta davanti, di spalle o di tre quarti. Poi la macchina da presa si avvicina. Mediante l’uso del primo piano, l’intervistato viene presentato al pubblico. «L’intensa atmosfera» (ibid.) creata da luci e scenografia è amplificata dall’introduzione del conduttore, stringata ed estremamente puntuale, subito indirizzata verso gli aspetti più controversi e sensazionali che verranno dibattuti. In questo modo Mike Wallace mette a punto uno standard, poi imitato in tutto il mondo. Intervistati e intervistatori impareranno presto le nuove regole imposte dal medium televisivo: una vera e propria grammatica del gesto e dello sguardo, nella quale la performance fisica funziona parallelamente a quella verbale. Dagli anni Sessanta in poi questo aspetto costituirà un parametro fondamentale nel funzionamento stesso del sistema democratico: il processo di spettacolarizzazione della politica, come mise bene in evidenza il celebre confronto televisivo tra Richard Nixon e J. F. Kennedy (26 settembre 1960), trova diretta incarnazione nella fruizione audiovisiva del nuovo medium. Le qualità richieste a un leader di partito non si esauriscono più entro il novero delle sue competenze ideologiche, amministrative o dialettiche. La capacità di raccogliere consenso attraverso la propria immagine e la proiezione televisiva di sé diventano essenziali. Dagli anni Sessanta in poi, anche grazie a una serie di innovazioni tecnologiche, tra cui l’invenzione del magnetofono portatile (Valsangiacomo, 2015, p. 106), l’intervista inizia a diversificarsi in vari sottogeneri. Il suo impiego in ambito etnologico, dove la testimonianza esatta fornita dai soggetti interrogati esclude, almeno in linea di principio, l’intervento di riscrittura delle risposte, o, quanto meno, limita il processo di editing al minimo, avrà un riflesso anche in campo giornalistico. Si diffonde in questo periodo la moda dell’intervista-verità, che si accompagna all’affermazione di nuove forme di documentario e di cinema-verità. Sia in radio che in televisione, accanto al modello più tradizione del vis-à-vis giornalistico, si attesta l’uso di interviste telefoniche in diretta, ovvero di spezzoni di interviste preregistrate, che diventano, specie nell’ambito di programmi di intrattenimento o nelle cosiddette trasmissioni-contenitore, segmenti di conversazioni più ampie, garantite dalla presenza di ospiti in studio. Dagli anni Novanta in poi l’avvento di Internet ha fornito, infine, nuovi modi di intervistare, dalla videoconferenza alla chat, sino all’intervista56

2.  storia dell’intervista

questionario via mail. Il web, inoltre, ha permesso la riscoperta di audio e videointerviste precedentemente irreperibili, dominio dei soli ricercatori e di qualche collezionista appassionato. Attraverso canali come YouTube e mediante le numerose teche digitali rese pubbliche da emittenti radiofoniche e televisive di tutto il mondo, circa quattro miliardi di persone possono ora accedere alle risposte che hanno segnato la storia del genere fondato sull’atto linguistico del fare domande.

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3 Letteratura e intervista

3.1 Giornalisti, scrittori e letterati Sebbene possa sembrare paradossale, di per sé, domandare la parola a uomini di scrittura (Lavaud, Thérenty, 2006, p. 11), l’interesse del giornalismo per la vita e l’opera degli scrittori viene da lontano. La pratica di incontrare i grandi autori e dialogare con loro ha una tradizione che precede l’istituzionalizzazione dell’intervista. Già negli anni Quaranta dell’Ottocento i giornali propongono ritratti e bozzetti di grandi scrittori, basati su incontri vis-à-vis che, come suggerisce Sarah Fay (2013), devono essere considerati alla stregua di vere e proprie protointerviste. Quando, per esempio, Charles Dickens compie il suo primo viaggio negli Stati Uniti (1842), sulle colonne dei quotidiani statunitensi si moltiplicano ritratti e istantanee concentrati essenzialmente sul suo aspetto fisico. Si tratta di interventi brevi, costituiti a volte da un singolo paragrafo. La loro nascita può essere messa in relazione con l’avvento dell’arte fotografica, del dagherrotipo, oltreché dello schizzo e della vignetta (Ujcich, 2008, p. 54; Fay 2013, pp. 24-30). Del resto, già a questa altezza cronologica, nei quotidiani americani non mancano rubriche destinate alla recensione di libri dal carattere arditamente ibrido, antenate prossime, in qualche modo, di quel genere indefinibile che da noi prenderà qualche anno più tardi il nome di elzeviro. Di tanto in tanto, tali spazi comprendono il ritratto di uno scrittore o il resoconto di un suo intervento pubblico, confinando di fatto con l’idea primigenia di intervista, come avviene, per esempio, nella serie The Literati of New York City curata da Edgar Allan Poe per il “Godey’s Magazine and Lady’s Book”. È con i grandi mutamenti del rapporto tra la sfera pubblica e quella privata dei cittadini, nel corso della seconda metà del xx secolo, che la pratica dell’intervista allo scrittore di fama diventa un genere giornalistico vero e 59

l’intervista letteraria

proprio. Non solo negli Stati Uniti, ma anche in Francia e in Inghilterra, gli scrittori iniziano a essere interrogati sui più disparati fatti del giorno. Autori molto celebri, come Zola, vengono spesso chiamati a esprimere la propria opinione su eventi di cronaca e di costume (cfr. Becker, 2006). Altri, la cui biografia attira la curiosità di un pubblico sempre più interessato all’indiscrezione, vengono seguiti in maniera morbosa. Nei dieci mesi passati negli Stati Uniti, nel corso del 1882, Oscar Wilde rilascia oltre novanta interviste (cfr. Hofer, Scharnhorst, 2010). I reporter che lo avvicinano cercano tracce di un supposto decadentismo byroniano nel suo aspetto fisico e nel suo modo di vestirsi. La stessa curiosità è alla base dell’enorme successo di pubblicazioni come Authors at Home di Jeannette Leonard Gilder (1888) e American Authors and their Homes di Francis Whiting Halsey (1901), nelle quali si raccolgono brevi ma dettagliate descrizioni delle visite a noti scrittori presso le loro abitazioni, molte delle quali già pubblicate su riviste e giornali come “Critic”, “New York Times” e l’innovativo “New York Times Review of Books”. Si tratta di interventi dal carattere miscellaneo, collocabili in realtà tra «l’intervista, il bozzetto di costume e il catalogo immobiliare» (Roach, 2018, p. 52), che interessano soprattutto come indicatori inequivocabili di una nuova sensibilità, a cavallo tra il culto della sfera domestica (cfr. Fay, 2013, pp. 54 ss.) e la curiosità voyeuristica per l’affascinante vita dei poeti e dei narratori. A livello formale, le interviste di questo periodo somigliano a brevi bozzetti, piuttosto prevedibili (cfr. Lejeune, 1980, pp. 107-8). La messa in scena dell’incontro avviene in maniera stilizzata. Il dialogo è sintetizzato al massimo e la citazione della parola d’autore compare solo dove necessario. La costruzione dello scambio insiste sui momenti più curiosi o vivaci o divertenti della conversazione, creando di fatto uno standard facilmente reiterabile. La narrazione introduttiva dell’intervistatore descrive lo spazio dell’incontro e rende conto dei gesti, delle espressioni facciali e in generale di tutta la comunicazione non verbale. Lo scrittore, dal canto suo, viene assorbito dagli ingranaggi della macchina giornalistica e finisce per rappresentare «l’incarnazione esemplare dell’opinione pubblica, la doxa» (Lavaud, Therènty, 2006, p. 12), mentre le sue specifiche competenze, ovverosia l’ambito prettamente letterario nel quale opera, sono oscurate dall’avvenimento mediatico e dalle urgenze della cronaca. Il grande successo di pubblico dell’intervista spinge comunque il mondo letterario a interrogarsi sulla legittimità e sull’utilità della nuova moda. Negli Stati Uniti il dibattito coinvolge in generale il rapporto tra 60

3.  letteratura e intervista

letteratura e giornalismo, anche perché il sensazionalismo promosso dalla cosiddetta Yellow Press attraverso, per l’appunto, le forme del reportage e dell’intervista, scaturisce spesso da un uso deliberato di tecniche desunte dalla narrazione letteraria. La somiglianza con le forme del romanzo rea­ lista e la sfocatura del confine tra fiction e non fiction accendono il dibattito tra chi considera le innovazioni promosse dalla carta stampata forme degradate e squalificanti di letteratura e chi, al contrario, gli riconosce una piena dignità. A quanti, come Willa Cather (1895, p. 6), il giornalismo pare una sorta di gorgo che assorbe intelligenze e talenti restituendo in cambio soltanto del mero chiacchiericcio che addirittura “vandalizza” l’ambito letterario, fanno da controcanto coloro che invece vi riconoscono una «nuova forma di letteratura», per dirla con il titolo di un intervento di Hutchings Hapgood (1905). Secondo Hapgood, in particolare, il giornalismo, proprio mediante l’intervista, offre una forma di autobiografia insolita e alternativa, capace di rappresentare gli individui e la società in maniera più diretta ed efficace di quanto possa fare la letteratura tradizionale. Di sicuro interesse, in tale contesto, appare retrospettivamente la posizione di uno degli scrittori americani più spesso interpellati dai giornali in quegli anni – tanto che c’è chi lo considera il «primo intervistato professionista» (Silvester, 1993, p. 9) –, cioè Mark Twain. In un articolo datato 1889-90, ma in realtà pubblicato postumo soltanto in tempi assai recenti (2010), Twain paragona l’atteggiamento dell’intervistatore a quello di un ciclone che piomba su un piccolo villaggio con l’obiettivo di rinfrescarne l’aria, ma finisce per distruggerlo. Non c’è consapevolezza e malizia nelle sue azioni, e anzi crede di portare sollievo e felicità al suo intervistato. L’intervista è, proprio per questo, un genere sbagliato, un’invenzione infelice: l’intervistato, di fronte all’irruenza cieca dell’intervistatore, si muove con molte cautele. Cerca di non sbilanciarsi, di non rivelare mai troppo di sé. Per non cadere nei possibili tranelli del suo interlocutore, alla ricerca inesausta di effetti comici e frasi divertenti, di idiosincrasie linguistiche e peculiarità caratteriali, smarrisce la propria ispirazione e la propria profondità. Nell’informe messe di questioni che gli vengono poste sui più diversi argomenti, finisce così per perdersi, rispondendo a ciascuna domanda quel tanto che basta per danneggiarsi, senza mai riuscire a esprimere compiutamente la propria opinione. L’invadenza e, per così dire, la sfacciataggine del nuovo giornalismo diventano presto anche un tema letterario. Tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e l’inizio del Novecento vedono la luce alcune pionieristiche rap61

l’intervista letteraria

presentazioni della moda scandalistica della stampa (cfr. Roach, 2018, pp. 52-5). Lo stretto legame tra il rinnovamento dell’informazione, e dunque anche la pratica dell’intervista, e l’affermarsi di una divorante «publicity of life» ( James, 1987, p. 40), si ritrova così al centro di romanzi di stampo realistico. In A Modern Instance (1882) di William Dean Howells, per esempio, l’ossessione che vive il giornalista Bartley Hubbard, che ritroviamo poi anche nel successivo The Rise of Silas Lapham (1885), indica il passaggio dalla generazione dei Lowell a quella dei Julian Hawthorne. Dietro l’estenuante e ripetitiva ricerca del dettaglio sensazionale o piccante si cela in realtà l’affermazione di un nuovo archetipo di identità privata e, con esso, di un’inedita coscienza dell’individuo: la celebrità, ma anche la ricerca di un consenso immediato caratterizzano tanto la fredda applicazione delle tecniche stereotipate dell’intervista, quanto l’utopia di un’esistenza senza privacy, nella quale la morale collettiva non può rivendicare alcun diritto di censura. Nel romanzo breve, del 1888, Il riflettore, anche Henry James rappresenta gli effetti sociali dell’abitudine alla sistematica violazione della sfera privata da parte della stampa scandalistica. Già nel celebre Ritratto di signora, uscito a puntate nel 1881, poi, in volume, con un testo rivisto e ampliato nel 1908, e nelle Bostoniane, del 1886, lo scrittore aveva animato figure di giornalisti interamente votati al gossip e al pettegolezzo come Henrietta Stackpole e Matthias Pardon, la cui profanazione dell’intimità altrui era divenuta immagine sconveniente, ma certo modernissima, di un’intera professione. Nel Riflettore la vicenda prende spunto proprio da un’intervista estorta: quando il cinico e ambizioso cronista George Flack, inviato a Parigi dalla rivista di gossip che dà nome al romanzo, riesce a farsi confidare dall’ingenua Francie Dosson alcuni pettegolezzi sulla famiglia aristocratica del fidanzato, non si fa scrupolo a pubblicarli, sollevando uno scandalo che investe la ragazza e mette a rischio il suo fidanzamento. James è forse lo scrittore che rappresenta con maggior profondità la logica feroce che governa il mondo dell’informazione e il mestiere del giornalista in questa fase di grandi cambiamenti, come dimostra anche il più tardo I giornali del 1903. Con esso James rende palese ciò che in precedenza appariva solo implicito, ovverosia che il rapporto tra l’impudenza spudorata del giornalismo e la rincorsa alla celebrità è in realtà di ordine interattivo. Come ha scritto Bertoni (2009, p. 123), nei Giornali «i meccanismi pubblicitari della stampa sono non solo subiti, ma ormai anche alimentati da personalità smaniose di restare alla ribalta». 62

3.  letteratura e intervista

In Francia, invece, dove il rapporto tra letteratura e giornalismo era stato sondato fin dalla pubblicazione, tra il 1837 e il 1843, del capolavoro di Balzac Illusioni perdute, e in particolare del secondo dei tre romanzi che lo compongono, Un grande uomo di provincia a Parigi del 1839, la discussione riguarda la liceità dell’intervista come genere. Sul finire del secolo la promozione intellettuale e dunque la sua legittimazione a una fruizione colta sono invocate da più parti. Già nel 1890, in un articolo uscito sulla prima pagina di “Le Figaro” (22 agosto), Maurice Barrès aveva preso con decisione le difese del genere. In quello che potremmo considerare il primo intervento teorico sull’intervista, lo scrittore condanna la tendenza, all’epoca evidentemente piuttosto diffusa, a calunniare l’intervista da un punto di vista morale. Pura ipocrisia, secondo Barrès, dal momento che una conversazione tra un giornalista curioso e un’importante personalità appassiona senz’altro di più di un articolo di giornale dal carattere freddamente informativo: «un’intervista col signor Bismarck», afferma senza mezze misure, «è molto più piacevole a leggersi di qualsiasi cronaca sullo stesso personaggio» (Barrès, 1890, p. 1). Les beautés de l’interview descrive quindi, pionieristicamente, la statutaria finalità del genere che prescrive di intrattenere il pubblico e, allo stesso tempo, di informarlo. Un mandato che ne fa, come ha detto una volta Ronald Christ (1977, pp. 111-24), uno “strumento bastardo”, poiché i due compiti raramente appaiono sintonici. In ogni caso, la critica più diffusa nella Francia di fine Ottocento riguardava il fatto che in un’intervista l’intervistatore non potesse riportare con esattezza le parole pronunciate dall’intervistato. La questione, d’altra parte, resterà all’ordine del giorno almeno fino alla commercializzazione del magnetofono (1948). Secondo quanti polemizzavano con questa pratica, la condizione fondamentale di ricostruire a memoria il dialogo implicava un’inevitabile falsificazione. Per Barrès, al contrario, la verità non può misurarsi in base al rispetto delle esatte parole dell’intervistato. Il discrimine tra una buona intervista e una che non lo è risiede piuttosto nella capacità dell’intervistatore di penetrare con passione e competenza la personalità dell’interlocutore. Pur inesatte rispetto a una verità di ordine meramente referenziale, le parole nate da questa disposizione saranno vere “di una verità superiore”. L’intervista ben fatta, insomma, renderà l’impressione delle cose umane nella loro complessità, indipendentemente dall’abilità stenografica del giornalista: «l’ironia e il pianto, la pietà e la rabbia, il sorriso e il rispetto» (Barrès, 1890, p. 1), questo conta. In tal modo, secondo Barrès, l’intervista diviene davvero un modo per esprimere i più diversi pregiudi63

l’intervista letteraria

zi che gli uomini hanno, a seconda del temperamento, del carattere e della condizione sociale, su una certa idea. Il fatto che uno scrittore e un uomo di cultura come Barrès intervenga a difesa dell’intervista è un evento di straordinaria rilevanza e, palesemente, ne riscatta la funzione e lo status da qualsiasi dimensione volgarmente popolare. L’intervista è apprezzata dal vasto pubblico dei lettori di giornale per la propria facile leggibilità. Non per questo, però, dev’essere catalogata come una modalità espressiva qualitativamente degradata. L’intervista, in realtà, è un genere “molto filosofico”: una lettura seria, una lettura davvero critica delle numerose interviste che si producono mostrerebbe la contraddittorietà delle opinioni degli uomini, perennemente scisse tra un’implicita difesa dei propri interessi e la declamata volontà di parteggiare per un senso universale di giustizia. Più che alle idee espresse, si dovrebbe guardare, allora, alle modalità e agli scopi con i quali ciascuno degli intervistati difende la propria posizione su uno specifico argomento. Ciò permetterebbe, infatti, di distinguere il retroterra culturale nel quale si è prodotto un determinato punto di vista, e questo, naturalmente, è un dovere di ragguardevole portata. Nella sua strenua difesa del genere, è evidente, Barrès ricongiunge l’intervista alla nobile tradizione filosofico-letteraria del dialogo: sono entrambi, propriamente, strumenti di interrogazione e autointerrogazione volti all’accertamento della verità. L’intervista è dunque un modo di «cercare risposte confrontandosi direttamente con una persona» (Colombo, 1998, p. 82). Nobilitarla non significa cambiarne le modalità ma, soltanto, spostare la nostra attenzione da ciò che dice a come e perché quello che si dice viene detto. Più scettico appare, negli stessi anni, Émile Zola. Nonostante la nota apertura nei confronti del giornalismo1 e il largo uso che, già a questa altezza cronologica, fa del nuovo genere, nel suo giudizio le ombre pareggiano, quantomeno, le luci. Ne è prova la lunga intervista concessa a Henry Leyret e pubblicata il 12 gennaio 1893 su “Le Figaro” (cfr. Zola, Leyret, 1. Come scrive a ragione Clotilde Bertoni (2009, p. 17), «Zola non irride, non svilisce, non rinnega mai la sua esperienza giornalistica. Al contrario, ne sottolinea il valore a più riprese, soprattutto in due interventi, La letteratura e il denaro (inserito nel Romanzo sperimentale) e Étude sur le journalisme, interessanti non tanto perché – in prevedibile consonanza con le teorie darwiniane – vedono nella stampa un terreno congeniale allo struggle for life […]; ma soprattutto perché ne rilevano vigorosamente l’utilità, riconoscendovi il mezzo migliore per attingere “una conoscenza più dolorosa, ma più penetrante del mondo moderno”, e scorgendo nei suoi ritmi frenetici non un rischio di consunzione ma un esercizio della scrittura».

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3.  letteratura e intervista

1893, p. 4, passim). Tanto più che l’argomento affrontato è l’intervista stessa. Leyret afferma che nessuno meglio di Zola – l’uomo più intervistato di Francia – può esporre i vantaggi e gli svantaggi del sottoporsi alle domande di un intervistatore. Zola, in effetti, sembra tenere in considerazione tale forma espressiva, che è anche, evidentemente uno straordinario strumento autopromozionale: non solo la sua pratica rende il giornale più piacevole da leggere, ma occorre anche considerare che, oramai, il pubblico la considera il “proprio gioco preferito”. Tuttavia esprime più di una perplessità sugli intervistatori della carta stampata. Costoro apparterrebbero a due differenti categorie. La prima, quella dei “bravi ragazzi senza alcun sapere”, è costituita da persone la cui ignoranza neutralizza la loro pur buona volontà. Non comprendendo ciò che l’intervistato dichiara, ardiscono di fargli dire “le cose più mostruose”, le quali cose, assai spesso, si trasformano in veri e propri scandali. La seconda categoria, quella dei “fantasiosi senza alcuno scrupolo”, include invece intervistatori più preparati, i quali, dopo aver condotto in maniera corretta un’intervista, tendono a modificare consapevolmente le parole dell’intervistato, quasi sempre per andare incontro ai gusti del pubblico, o far vendere più copie al proprio giornale, o, in certi casi, creare voci sensazionalistiche. Lo stesso Zola racconta di aver avuto esperienze con gli uni e con gli altri. Pur essendo stato vittima di spiacevoli equivoci a causa dell’incompetenza o il dolo volontario di qualche intervistatore, lo scrittore non ha mai smentito ufficialmente e pubblicamente alcuna delle proprie interviste. Egli rifiuta infatti il carattere veritiero di tutte le dichiarazioni rese in questa forma: l’intervista sarà pur piacevole a leggersi e aiuterà anche a vendere i giornali che la pubblicano, ma resta uno strumento assolutamente inaffidabile. Per rendere veritiere le dichiarazioni concesse in un’intervista servirebbe la sincerità di chi le raccoglie. Non l’incapacità dei bravi ragazzi, non la furbizia dei fantasiosi e nemmeno i tentativi meccanici della fredda stenografia, incapace di rendere conto delle circostanze, delle fisionomie e della retorica del dialogo. Piuttosto, l’auspicio di Zola è che i direttori editoriali diano incarico di condurre interviste solamente a “scrittori di prim’ordine” e “romanzieri estremamente capaci”, gli unici in grado di rendere vividamente e onestamente il carattere di verità dell’incontro che ha avuto luogo e restituirlo nella forma peculiare del genere. L’anno successivo anche Anatole France prende la parola sull’argomento. Lo fa con un lungo articolo pubblicato il 26 agosto per la rubrica Études & Croquis del quindicinale “Les annales politiques et littéraires”. Dopo aver chiarito che il termine inglese interview è ormai entrato nell’uso 65

l’intervista letteraria

francese, declinato al femminile e pronunciato interviou, France ne dà una vera e propria definizione: interview indica un incontro, occasionato da un avvenimento recente, tra una persona molto nota, per esempio un attore come Benoît-Constant Coquelin, o uno scienziato di fama, come Louis Pasteur, con un giornalista, più specificamente un reporter come Charles Chincholle. In questo senso, il termine è propriamente da intendere come sinonimo di reportage: si tratta per l’appunto di riportare l’esperienza di un certo incontro. Nella seconda parte dell’articolo, lo scrittore risponde a diverse tipologie di detrattori del genere. In primo luogo l’uso dell’intervista è ormai una consuetudine. Piace al pubblico. Piace ancor di più agli intervistati, anche quando si fingono infastiditi dalle domande, perché, in fondo, l’essere interpellati carezza la loro vanità. Gli unici a cui l’intervista non piace sono, continua France con crudele ironia, coloro che, ogni mattina, attendono che il reporter vada a trovarli, ma lo attendono invano. Secondariamente, in risposta a quanti si sentono allarmati dalla possibile interferenza dell’intervista nelle più delicate questioni politiche, France afferma che non c’è di che preoccuparsi. Nulla di ciò che avviene in Parlamento può essere tenuto nascosto al pubblico, e dunque non si capisce perché l’attività di un reporter dovrebbe costituire una minaccia per le ragioni di Stato. Quanto poi alle negoziazioni diplomatiche in corso, che certamente sarebbe meglio non divulgare, si deve semplicemente aver fiducia: gli agenti governativi sanno bene che non devono aprire i propri dossier segreti davanti agli occhi indiscreti dei reporter, e i reporter, d’altra parte, sanno altrettanto bene che è loro dovere non tradire la patria. La stessa fiducia, continua France, andrebbe concessa ai reporter giudiziari, che, certamente, rivelano tutto ciò che hanno appreso dalle loro interviste. La loro attività, infatti, finisce per essere un contributo all’esercizio della giustizia, e di certo non lo pregiudica, anche considerando il fatto non indifferente per cui gli agenti e i magistrati sono liberi di decidere cosa rivelare e a quali domande rispondere.

3.2 Jules Huret e l’inchiesta letteraria Tra il marzo e il luglio 1891, il giornalista Jules Huret pubblica sull’“Écho de Paris” una serie di sessantaquattro interviste a importanti scrittori contemporanei, che provvede poi nello stesso anno a raccogliere in volume, con il titolo Enquête sur l’évolution littéraire. Nell’introduzione Huret 66

3.  letteratura e intervista

giustifica la metodologia del proprio lavoro e ne precisa il significato: la stampa popolare, anche grazie all’attenzione ottenuta dalle sue stesse interviste, ha iniziato ormai a occuparsi di fatti artistici e letterari. Ciò dipende, con ogni evidenza, dalla presenza di un nuovo pubblico che, in maniera inedita, interviene adesso sui dibattiti estetici, facendosene ingenuamente giudice. Sulla base di un principio di autorità che gli deriva dall’abitudine a discutere quotidianamente di “pettegolezzi”, i lettori dei quotidiani si sentono legittimati ad affrontare ogni tipo di argomento, compreso quello più nobile e raffinato che la letteratura (all’epoca almeno) incarnava. Il giornale ridisegna così i confini della repubblica delle lettere, individuando un’utenza assai più ampia e curiosa di quanto fosse in passato quella dei soli iniziati all’arte del romanzo o, ancora di più, della poesia. L’intervista, considerando il grande successo di pubblico che riscuote, è lo strumento principale per dilatare il novero degli argomenti del dibattito quotidiano. Intervistare scrittori importanti è quindi per Huret un mestiere alternativo alla critica e alla storia letteraria, il cui obiettivo consiste essenzialmente nel mostrare lo “spettacolo della letteratura”, attraverso una sorta di rappresentazione vivida e diretta dello scontro tra diversi gruppi e scuole poetiche. Nel riunire in volume le sue interviste, Huret supera l’occasionalità dell’uscita periodica del singolo pezzo sul quotidiano – condizionata come si sa dalla stringente referenzialità dei doveri della cronaca, per cui le interviste muovono di norma da eventi specifici (l’uscita di un libro, per esempio) –, a tutto vantaggio di una struttura che riassume nella sostanza lo scacchiere estetico della letteratura francese dell’epoca. Il volume distingue quindi gli scrittori tra les psychologues, les mages, symbolistes et décadents, les naturalistes, les néo-réalistes, les parnassiens, les indépendants, théoriciens et philosophes. In qualità di reporter-impresario, come si definisce, Huret aggiunge inoltre una classificazione soggettiva sulla base del temperamento e del carattere del singolo intervistato, differenziando così bénins et bénisseurs, acides at pointus, boxeurs et savetiers, vagues et morfundus, ironiques et blagueurs, théoriciens. Come ha scritto Galia Yanoshevsky (2018, p. 204), il risultato è una sorta di messa in scena teatrale della storia letteraria, nella quale gli scrittori contemporanei, esponendo le proprie tendenze letterarie e i conflitti con le altre, diventano gli attori di una serie di scenette sapientemente orchestrate dal drammaturgo Huret. Il modello della conversazione elitaria da salotto letterario è riportato entro una dimensione pubblica, nella quale il singolo lettore, identificandosi con l’uno e con l’altro scrittore, simpatizzando con l’una o con l’altra tendenza, 67

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osteggiando l’una o l’altra tradizione, si sente adesso chiamato direttamente in causa (cfr. Masschelein et al., 2014a, p. 6). Tale effetto, come ammette lo stesso Huret, si produce tuttavia soltanto riferendosi a un pubblico meno occasionale di quello dei quotidiani, e questo, essenzialmente, è il motivo della raccolta in volume del suo lavoro. La contingenza cui è legata la stampa quotidiana squalifica le interviste singole, almeno in un primo momento, agli occhi di un fruitore colto, pure al netto del grande successo che esse riscuotono presso il fruitore di massa (e forse anche per questo). È un fatto che l’inchiesta di Huret segna una nuova tappa nella storia dell’intervista in Europa. Come ha scritto Lejeune (1980, p. 107), il giornalista francese si rese conto per primo delle potenzialità del genere in ambito letterario. Il suo lavoro, in effetti, non solo fonde in maniera brillante tre pratiche discorsive diverse tra loro, ovverosia l’inchiesta, il ritratto e la polemica letteraria, ma soprattutto sfrutta in maniera consapevole la grande potenzialità dell’incontro tra news e letteratura. Huret presenta infatti le sue interviste come un evento in sé, piuttosto che come una circostanziale interrogazione agli scrittori su qualche fatto del giorno o sulla loro biografia, ponendo le basi dell’intervista letteraria propriamente detta. Da questo momento in poi si potrà iniziare a distinguere tra l’intervista allo scrittore e l’intervista letteraria: la prima, praticata assiduamente dai cronisti americani ed europei tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, è evidentemente una declinazione dell’intervista personale. La seconda, pur facendo leva sull’importanza dei nomi degli scrittori interrogati, assomiglia di più a un’intervista tematica, dove, come è palese, il tema è la stessa letteratura. Le due forme, del resto, continuano a convivere nel corso degli anni e i giornalisti che più frequentano il genere le praticano di solito entrambe. Lo stesso Huret, per esempio, in un’altra serie di interviste realizzate per “Le Figaro” tra il 1889 e il 1905, sembra coltivare piuttosto l’intervista personale (cfr. Yanoshevsky, 2018, p. 21). Nel 1895 Ugo Ojetti pubblica, presso i tipi dei Fratelli Dumolard di Milano, il volume Alla scoperta dei letterati, seguendo dichiaratamente, ma in maniera in ultimo assai originale, il modello francese. Come è stato giustamente notato, anche in Italia si dà così conto in maniera tempestiva «di un genere giornalistico da poco scoperto» (Ujcich, 2008, p. 95). L’inchiesta condotta per “La Sera” di Milano diverge dall’Enquête di Huret, essenzialmente per due ragioni. La prima è che Ojetti si era dovuto adoperare a percorrere in lungo e in largo l’intera penisola, laddove Huret aveva comodamente lavorato rimanendo in sostanza nella sola città di Parigi. I ventisei scrittori intervistati vivevano infatti in diverse regioni italiane. Per raggiun68

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gerli l’autore deve viaggiare. Come si legge nei prolegomeni che aprono il volume, io invece da Roma mi son dovuto, attraverso a Bologna e a Venezia, spingere fino a sotto il confine di Arsiero nel Vicentino e a Campiglia Cerro nel Biellese, là per vedere Antonio Fogazzaro, qui per cercare di Edmondo De Amicis; e da Genova, ripassando per Roma, son dovuto scendere fino a Napoli e in Abruzzo. Bene a ragione – conclude con un pizzico di sana autoironia – i giornali umoristici della mia Roma nell’estate scorsa mi figuravano sperduto in ignote lande, abbigliato in fogge strane, discendendo il corso di ignoti fiumi, inerpicandomi su per intatte acutissime rupi, solo per onore dell’arte e dell’editore! (Ojetti, 1946, pp. 53-4)

Alla scoperta dei letterati prende così le sembianze, allo stesso tempo, dell’inchiesta giornalistica, del racconto di viaggio e della cronaca di memorie, entro una struttura che aveva avuto fortunati precedenti, anche nel nostro paese. In Ricordi di Parigi (1879), per esempio, Edmondo De Amicis riportava il racconto dei propri incontri con Victor Hugo ed Émile Zola, inserendo, dove necessario, il discorso diretto dei due scrittori francesi, ma in generale riassumendo nella sostanza la loro opinione sugli argomenti affrontati. La seconda ragione per cui il libro di Ojetti differisce dell’Enquête di Huret riguarda la struttura finale del volume. L’italiano evita una divisione degli intervistati in gruppi e poetiche. L’obiettivo principale diventa nel suo caso la “soppressione” della funzione intermediaria del critico letterario, in un’epoca in cui i professionisti della letteratura patria appaiono del tutto disattenti alla contemporaneità. Assecondando una pulsione, per così dire, democratizzante, che Ojetti chiama curiosamente “socialismo estetico”, il volume intende presentare direttamente al pubblico «gli scrittori e le loro idee sull’arte» (Ojetti, 1946, p. 48). Perciò la posizione ideologico-letteraria del reporter-intervistatore viene subito precisata. Rispetto al dibattito estetico in atto egli non è affatto neutrale. Parteggia infatti per una certa declinazione dell’idealismo, e ha «in grande disdegno tutta l’arte puramente naturalista» (ivi, p. 50). Ojetti pratica infine una distinzione basata sull’impressione che ha avuto nel corso dell’intervista, non relativamente al carattere degli intervistati, come aveva fatto Huret, ma rispetto alla questione del futuro delle patrie lettere. Pessimisti gli appaiono Carducci, Cantù, Bonghi, Lioy, De Amicis, Marradi e Graf. Ottimisti d’Annunzio, Giacosa, Fogazzaro, Capuana, Antona-Traversi, Verga, Oliva, Butti, Panzacchi e Bracco. Incerti, infine, Serao, Scarfoglio, Martini, Gallina, De Roberto, Colautti. 69

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Al di là delle arbitrarie distinzione promosse dal lavoro, ciò che più interessa è la riflessione generale sull’intervista, che nel volume viene nominata sempre con il termine inglese interview. Secondo Ojetti, nelle nazioni dove questa è più diffusa, come in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti d’America, l’intervista non è semplicemente una “rapida conversazione”, come succede in Italia. In tali contesti, infatti, è quasi sempre concepita come un vero e proprio articolo di giornale «che l’interviewer domanda all’interviewed» (ivi, p. 52). Se ciò non avviene nel nostro paese è a causa di una peculiarità linguistica dell’italiano. La lingua orale dei nostri scrittori è ben peggiore del loro italiano scritto. Alcuni, addirittura, parlano quasi esclusivamente il dialetto. Perciò, riportare fedelmente la conversazione, come fanno gli americani o i francesi, sarebbe una forma di pubblicità piuttosto sconveniente rispetto alla grandezza della loro opera: la distanza tra la qualità dell’ars scribendi e la rozzezza del parlato è, insomma, troppo marcata perché si possano condurre anche in Italia interviste vere e proprie. E ciò sottolinea sia l’idea, un po’ ingenua, di una spontaneità, di una fattualità del dialogo riportato dai colleghi d’oltralpe e d’oltreoceano, che ne dimostra tuttavia l’efficacia e ne spiega il successo di pubblico, sia la consapevolezza del meccanismo autopromozionale che blandisce invece gli scrittori. Ma Ojetti, in questa sua formulazione, riconosce anche una scissione sproporzionata tra la lingua letteraria (artificiale) e la lingua comune, non destinata al lettore, che caratterizza fortemente la tradizione italiana, come Gramsci non mancherà di notare, anni dopo, in uno dei passaggi chiave dei suoi Quaderni. Seguendo l’esempio di Huret e di Ojetti, inchieste letterarie fondate su interviste multiple o su veri e propri questionari sottoposti agli scrittori noti si moltiplicano. Del resto, la nuova pratica sembra sposarsi perfettamente con le acquisizioni principali del giornalismo dell’epoca. In essa trovano compimento contemporaneamente i meccanismi di raffronto e giustapposizione di opinioni differenti, tipici del reportage, e l’incedere episodico e pieno di suspense del feuilleton (cfr. Carbonnel, 2006). La fortuna dell’inchiesta, inoltre, sembra collocarsi sul crinale storico di un cambiamento epocale della figura dello scrittore e del poeta nel suo rapporto con la società moderna: non solo consente agli autori, come qualsiasi altra intervista, di coltivare per via diretta un vitale rapporto con l’universo dei giornali, quale luogo per eccellenza della comunicazione e della sociabilità, evitandogli perciò un paralizzante anonimato; ma pure ne riscatta la solitudine permettendogli di superare ogni esuberanza individualistica, a favore di una specifica appartenenza intellettuale e, in generale, del proprio 70

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impegno estetico. D’altra parte, le sempre più fitte relazioni tra letteratura e giornalismo a cavallo tra i due secoli, dalla “fondazione” tutta italiana della cosiddetta terza pagina al successo mondiale del romanzo di appendice, vanno lette alla luce di una generale ridefinizione della funzione dell’arte e dell’artista all’interno dei meccanismi competitivi della società borghese. Un cambiamento su cui la critica letteraria e la teoria della letteratura si sono a lungo soffermate, fin dagli studi di Benjamin sulla figura di Baudelaire, e che coinvolge l’inedita disposizione dello scrittore moderno a rovesciare la tendenziale consapevolezza della propria solitudine e della propria marginalità nell’attività di autopromozione, di cui la pratica dialogica dell’intervista e la partecipazione alle polemiche letterarie diventano declinazioni fondamentali. È chiaro, infatti, che la collaborazione con i giornali è per gli scrittori anche un mezzo per accedere a una funzione pubblica e civile, quale precondizione della sopravvivenza stessa della letteratura nel mondo contemporaneo. È in questo clima che, nel 1904, Georges Le Cardonnel e Charles Vellay realizzano per “Gil Blas” l’inchiesta La littérature contemporaine, pubblicata in volume l’anno successivo. L’obiettivo dichiarato è raccogliere le opinioni dei maggiori scrittori della propria epoca sulle tendenze confuse e contraddittorie che attraversano la produzione letteraria di quegli anni. Gli autori intervistati sono moltissimi, rispetto ai sessantaquattro sentiti da Huret. Novantotto, per la precisione. Le domande poste sono diverse per i poeti, per i narratori, per gli autori di teatro e per i critici, ma in sostanza vertono sulle tendenze dominanti nei rispettivi campi e sull’idea del loro sviluppo futuro. Ai romanzieri si chiede anche cosa pensino della decadenza del genere, invocata spesso dalla critica all’esaurirsi progressivo del naturalismo. Dai critici, invece, si cerca di sapere come operino le scelte preliminari rispetto ai libri meritevoli di essere recensiti, e dunque, in generale, qual è il metodo d’indagine per loro più efficace. In maniera non troppo diversa, qualche anno più tardi (1913), Jean Muller e Gaston Picard promuovono Tendances présentes de la littérature française, per la rivista “Comoedia”, uscito in volume l’anno seguente, intervistando settantasette tra poeti, romanzieri e critici. Anche in questo caso l’operazione ha come fine un affresco che sintetizza in maniera descrittiva e analitica lo stato di cose presenti nel panorama della letteratura francese contemporanea, in un momento in cui il lievitare del numero di pubblicazioni rende necessari nuovi strumenti critici in grado di chiarire quali sono e cosa propongono i principali orientamenti estetici in campo. 71

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Tra gli anni Venti e gli anni Trenta del Novecento l’inchiesta letteraria inizia a essere praticata anche da riviste di nicchia e di ricerca. Ne è prova il numero conclusivo della leggendaria “Little Review”. Fondata da Margaret Anderson a Chicago in pieno Chicago Literary Renaissance, ma trasferita nel Greenwich Village di New York già nel 1917, “Little Review” è stata una sorta di organo non ufficiale del modernismo negli Stati Uniti, e ha contribuito in maniera significativa a far conoscere gli scrittori sperimentali europei al pubblico americano, suscitando anche una serie di scandali e di polemiche2. L’ultimo numero, datato 1929, ospita le risposte a un questionario di dieci domande stilato da Jane Heap e sottoposto a tutti gli scrittori che nei quindici anni di attività avevano collaborato con la testata. Le domande riguardano la sfera esistenziale piuttosto che quella strettamente letteraria: desideri, paure, idee sul futuro, visioni del mondo. Le risposte, specialmente quelle degli scrittori più noti, si rivelarono ben al di sotto delle aspettative della redazione. Come riferisce Sarah Fay (2013, p. 126), Joyce rispose che non aveva nulla da dire, Picasso era troppo impegnato, Pound consigliò Heap di riadattare qualche suo vecchio testo. Nonostante il fallimento dell’iniziativa, solo parzialmente compensato dalle risposte di William Carlos Williams, di Joseph Stella e di qualche altro scrittore, le inchieste e i questionari letterari avranno grande seguito negli anni successivi all’esperienza di “Little Review”, e in particolare dopo la Seconda guerra mondiale.

3.3 Un’ora con… Se le interviste focalizzate su aspetti strettamente letterari, come quelle promosse dalle inchieste di Huret e Ojetti, si fanno strumenti propiziatori dell’esperienza stessa della letteratura, amplificandone la circolazione e risultando infine assai utili alla sua interpretazione, le interviste personali, basate sull’opinione degli scrittori rispetto agli eventi del giorno, trasformano 2. Nel 1918 la rivista iniziò a pubblicare a puntate l’Ulisse di James Joyce, grazie alla collaborazione di Ezra Pound, che per anni ne fiancheggiò il lavoro. Dopo il numero del luglio del 1920, nel quale comparve l’episodio relativo a Nausicaa, la rivista fu accusata di oscenità dalla New York Society for the Suppression of Vice. Nel 1921 il processo si concluse con un responso di colpevolezza. La pubblicazione del capolavoro di Joyce fu vietata e Margaret Anderson e Jane Heap furono costrette a pagare un’ammenda di cinquanta dollari ciascuna.

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3.  letteratura e intervista

questi ultimi in intellettuali socialmente impegnati. Da una parte, quindi, abbiamo quello che è stato definito il «grande spettacolo della letteratura» (Carbonnel, 2006); dall’altra, l’idea che uno scrittore, un poeta, un critico non sia competente soltanto nella propria arte, ma possa assurgere al ruolo di saggio, per così dire, indicando al lettore comune cosa e come pensare. Nonostante l’enorme importanza che può rivendicare in ambito letterario, come luogo in cui gli scrittori sono chiamati a riflettere sulla propria posizione ideologica e sulla funzione della loro scrittura nell’epoca della pubblicità, e nonostante il dibattito avvenuto in Francia ne autorizzasse di fatto una fruizione colta, l’intervista resta per molto tempo esclusivo appannaggio di quotidiani e settimanali di informazione. Le riviste letterarie europee, almeno quelle storiche, così come, di norma, tutti gli addetti ai lavori – critici e professionisti delle lettere – ignorano il genere per molti anni. La stampa quotidiana, dal canto suo, continua a proporre soprattutto interviste d’occasione. I testi di solito non sono controllati dagli scrittori, e i reporter possono adattare i contenuti della conversazione alle proprie necessità, quasi sempre di ordine sensazionalistico. Gli argomenti, nella maggior parte dei casi, sono pretestuali. Martine Lavaud e Marie-Ève Therénty, nella loro introduzione al doppio numero della rivista “Lieux littéraires” dedicato a L’interview d’écrivain (giugno 2006), ne danno un elenco particolarmente rappresentativo: a favore o contro il tabacco (“Le tabac” del 21 dicembre 1890), sull’abbigliamento femminile in bicicletta (“Le Gaulois” del 9 dicembre 1895), sul cappello a cilindro (“Le Figaro” del 19 gennaio 1897), sulla calligrafia (la “Revue encyclopédique” del 12 febbraio 1898), sulla necessità di nuove statue a Parigi (“Le Gaulois” dell’8 luglio 1912). Il settimanale politico-letterario “Les Nouvelles littéraires”, fondato a Parigi da Maurice Martin du Gard nel 1922, è la prima rivista a recuperare l’eredità lasciata da Huret. Frédéric Lefèvre, che ne è il caporedattore, inaugura fin dal primo anno di vita del periodico una fortunatissima rubrica dal titolo Une heure avec… con la quale recupera e migliora il modello di fine Ottocento, estendendone anche la lunghezza, che passa dalla misera colonna (o anche meno) riservata all’intervista dalla stampa d’informazione, sino a occupare almeno quattro o cinque colonne della rivista. Da Barrès a Cocteau, da Muriac a Giraudoux, da Château­ briant a Larbaud, da Prévost a Claudel, da Valéry a Benda, l’intera scena culturale francese dell’epoca passa a colloquio da Lefèvre, il quale, peraltro, non si lascia sfuggire l’occasione di interloquire con scrittori e intellettuali stranieri come Miguel de Unamuno, Paul Hazard, Blasco 73

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Ibáñez, Arnold Bennett, Thomas Hardy e G. K. Chesterton, o con uomini politici come il presidente della Cecoslovacchia Tomáš Masaryk (27 ottobre 1923). Lefèvre, a differenza di quasi tutti i reporter dell’epoca, non si limita a raccogliere opinioni o proposte dei suoi interlocutori su uno specifico argomento, di solito pretestuoso o strettamente connesso a qualche accadimento. Piuttosto, basando il suo lavoro su una vasta conoscenza dell’opera dell’intervistato, egli tende a presentare sé stesso come una sorta di confessore. In questo modo le sue interviste valicano i problemi di attualità politica, per avvicinare aspetti biografici, sino a farsi vere e proprie inchieste sull’identità dello scrittore e della sua opera. Come afferma lo stesso Lefèvre (1929, p. 58), l’obiettivo ultimo del suo approccio è rappresentare la «biografia di un’opera letteraria», di modo che tutti possano capire come quell’opera stessa è nata. Al contrario dello stile, che tende a variare a seconda dell’interlocutore (Yanoshevsky, 2018, p. 206), la struttura di Une heure avec… è piuttosto ripetitiva. Lefèvre, in genere, chiede allo scrittore delle sue origini sociali e geografiche, ancorando da subito il dialogo entro una dimensione fortemente personale (cfr. Helbert, 2012). Domanda quindi degli inizi della carriera, insistendo anche sugli strumenti e sui canali che consentono di norma allo scrittore esordiente di pubblicare per la prima volta. Chiede quali siano state le principali influenze subite, i modelli ammirati e non manca di interrogare l’interlocutore sugli scrittori contemporanei a suo avviso più interessanti. Passa quindi a inquadrare l’ultimo lavoro dell’intervistato, cercando di ricostruirne la genesi. Le domande possono riguardare, in questo caso, anche il modo in cui lo scrittore sceglie i propri soggetti, e quali sono le abitudini quotidiane imposte dalla sua professione. Anche quando Lefèvre intreccia i problemi letterari con le grandi questioni sollevate dall’attualità, le sue interviste si distinguono dalla tradizione giornalistica per il vivo confronto tra lo scrittore intervistato e l’intervistatore. Ne risulta un’interlocuzione che recupera la spontaneità del dialogo letterario e attesta, allo stesso tempo, il carattere veridico delle osservazioni attraverso la refertazione diretta dello scambio di battute. Dalla fondazione della rivista allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Lefèvre realizza quasi quattrocento interviste, alcune delle quali saranno incluse, tra il 1924 e il 1933, in sei volumi (i primi quattro pubblicati dalle Éditions de la Nouvelle Revue Française, il quinto da Gallimard, il sesto uscito per i tipi di Flammarion). La sua fama si diffonde con ra74

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pidità e il lavoro di Une heure avec… provoca reazioni diametralmente opposte. Secondo alcuni, Lefèvre lavora con serietà, competenza e profitto tali che la sua rubrica va considerata alla stregua di un nuovo metodo di studio e di interpretazione dei fatti letterari. Per la prima volta alla tecnica dell’intervista viene assegnata la nobile qualifica di declinazione della critica letteraria. Per altri, Lefèvre è in sostanza un mentitore che si appropria del lavoro dei suoi interlocutori riscuotendo al posto loro un successo del tutto immeritato. Per altri ancora, come il pugnace Jacques Boulenger, egli stravolge l’opinione degli intervistati e la realtà dei dialoghi avvenuti. Al di là del giudizio sulla competenza del giornalista e di un possibile uso fazioso della parola altrui, e anche al netto di uno stile assai compiaciuto che senz’altro caratterizza l’indole di Lefèvre, è chiaro che il problema dell’autorialità dell’intervista gioca ancora un ruolo fondamentale nell’alimentare polemiche che, per la verità, riguardano piuttosto il genere di per sé che il lavoro del singolo intervistatore. A metà degli anni Venti, insomma, si continua a discutere su quali siano i limiti del giornalista rispetto ai diritti dell’intervistato. Si dibatte sulla proprietà intellettuale del testo, su quanto la trascrizione finale condizioni o plagi l’opinione di chi sceglie di sottoporsi a tale pratica. Ci si accapiglia ancora sullo spinoso rapporto tra la sfera pubblica e quella privata, a dimostrazione che ciò che si produce tra la metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento è un cambiamento epocale degli equilibri della società: gli sviluppi del giornalismo e la storia dell’intervista non ne sono che minime e tipicissime declinazioni. Comunque sia, travolto dalle polemiche, Lefèvre decide di smobilitare la sua rubrica per riproporla in radio. Nel 1930 nasce così Radio-Dialogues, trasmesso dall’emittente Radio Paris. Il critico Pierre-Marie Héron (2000; 2006), che ha studiato con competenza e attenzione il fenomeno, riconosce in questa ri-mediazione, cioè in questo trapianto mediatico, due rilevanti mutamenti rispetto alla struttura tradizionale dell’intervista scritta. In primo luogo, viene completamente eliminata l’introduzione narrativa. I Radio-Dialogues iniziano sempre ex abrupto. In secondo luogo, i dialoghi diventano più snelli e rapidi, vengono eliminati i lunghi commenti alle risposte dello scrittore, che giornalisti come Lefèvre solitamente aggiungono in fase di editing, con un effetto assai benefico di spontaneità e di ritmo. L’idea sarà seminale: nel secondo dopoguerra l’intervista letteraria in radio riscuoterà, soprattutto in Francia, un sorprendente successo, renden75

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do il medium parte integrante «della creazione, della diffusione e della critica di opere letterarie» (Yanoshevsky, 2018, p. 33). Il merito va soprattutto a Jean Amrouche, il quale, come ha scritto Lejeune (1980, p. 119, passim), è stato con ogni probabilità il primo intellettuale a comprendere pienamente i cambiamenti strutturali che l’emissione radiofonica comportava rispetto alla tradizione giornalistica del genere intervista. Tra il 1950 e il 1953 Amrouche porta in radio quarantadue dialoghi con Paul Claudel, quaranta con François Muriac e dodici con Giuseppe Ungaretti. In essi, due aspetti segnano l’avvenuto passaggio tra la semplice ri-mediazione di una rubrica giornalistica, come quella operata da Lefèvre, e l’invenzione di un genere davvero nuovo, capace di sfruttare a pieno le caratteristiche e le peculiarità del medium radiofonico. Da un lato, Amrouche è cosciente della straordinaria potenzialità dell’intervista letteraria in radio come strumento paratestuale di informazione e di autoriflessione di uno scrittore sulla propria opera. Ciò che fino a quel momento veniva di norma consegnato all’edizione di epistolari, biografie e diari può indirizzarsi adesso direttamente dall’autore a un pubblico ampio di ascoltatori. Dall’altro lato, si rende immediatamente conto che l’intervista in radio restituisce piena autorialità alle parole dello scrittore. Diversamente da quanto avviene nell’intervista scritta, la voce dell’autore non è resa dal filtro problematico della memoria dell’intervistatore, né dall’altrettanto delicato processo di trascrizione. Le risposte dello scrittore assumono in sé il carattere della «performance stilistica» e dell’«atto drammaturgico» (cfr. ivi, p. 119). L’intervista radiofonica agli scrittori inizia a essere praticata nello stesso periodo anche negli Stati Uniti. Nei primi anni Cinquanta nascono programmi assai fortunati e longevi, come The Studs Terkel Show (cfr. Mildorf, 2017, pp. 117-36), trasmesso dalla wfmt di Chicago, tra il 1952 e il 1997. Il conduttore e ideatore Louis “Studs” Terkel, grazie alle sue abilità di intervistatore “impertinente”, diviene presto un’icona della radio, nota in tutto il paese. Dal suo studio transitano numerose personalità del mondo della politica e della musica, da Martin Luther King a Leonard Bernstein, da Bob Dylan ad Alexander Frey, ma anche scrittrici e scrittori come Dorothy Parker, Tennessee Williams, Ralph Ellison e Toni Morrison. Nel resto d’Europa, d’altra parte, si diffondono programmi simili. In Italia, secondo quanto riferisce Franco Monteleone (1999, p. 256), la rete rossa di Roma della radio di Stato inaugura nel 1944 la rubrica Scrittori al microfono, che «assume la funzione dell’elzeviro di terza pagina dei quotidiani». L’idea fondamentale del programma consiste nell’avvicinare l’opera letteraria e lo scrittore al pubblico, scavalcando la funzione della critica 76

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letteraria, in un momento in cui l’attività scientifica e accademica appare distante da preoccupazioni divulgative. Scrittori al microfono diventa così un invito agli scrittori a «confessarsi, a rivelare metodi di lavoro e propositi, illusioni e delusioni, orientamenti e preferenze» (Piccioni, 1951, p. 6). Alcune delle interviste trasmesse dal programma nel biennio 1950-51 verranno trascritte in un volume a cura di Leone Piccioni, pubblicato dalle Edizioni Radio Italiana nel 1951. Questo esperimento di trascrizione sarà replicato molti anni più tardi nel libro È difficile parlare di sé (Ginzburg, 1999) in cui sono raccolti i diversi colloqui che la scrittrice aveva avuto con gli ospiti della trasmissione Antologia di Radio Tre, condotta da Marino Sinibaldi (Vittorio Foa, Giulio Einaudi, Mirella Fulvi, Cesare Garboli, Masolino D’Amico, Dinda Gallo, Enzo Siciliano) (cfr. Ujcich, 2008, pp. 108-9). Nonostante la diffusione del fenomeno e l’influenza internazionale di una trasmissione su un’altra, non si può non segnalare la differenza e la singolarità del contesto francese relativamente all’importanza assegnata all’intervista letteraria e, più in generale, all’uso culturale dei media di massa. Intervistatori d’oltralpe come André Parinaud, Robert Mallet e, poco più tardi, Georges Charbonnier, seguendo il tracciato indicato da Amrouche, costruiranno tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta il retroterra intellettuale di quella che è stata definita l’“eccezione francese”, ovverosia garantiranno, tanto in radio che in televisione, una diffusione e un successo ai programmi letterari – tra cui, appunto, alcuni espressamente fondati sulla pratica dell’intervista – sconosciuti ad altri contesti culturali. Esperienze radiofoniche straordinarie come quelle di Jacques Chancel (Radioscopie) e di Alain Veinstein (Du jour au lendemain), nonché la nascita dell’emittente France Culture (1963), si accompagnano così al parallelo sviluppo di programmi televisivi incentrati sull’attualità letteraria. Galia Yanoshevsky (2018, pp. 49-62) distingue tre diversi modelli di trasmissione, che, a suo avviso, caratterizzerebbero rispettivamente l’epoca della “paleo-televisione” (1950-60), della “neo-televisione” (1970-90) e della “sur-televisione” (1990-2000). Il primo modello è emblematizzato da Lectures pour tous (1953-68) di Pierre Desgraupes e Pierre Dumayet e consiste in un incontro vis-à-vis tra l’intervistatore (uno dei due Pierre) e uno scrittore. L’attenzione è rivolta soprattutto alla scrittura, tanto che vengono letti e commentati alcuni brani dell’autore. Dal punto di vista delle tecniche televisive, Lectures pour tous è contraddistinto da inquadrature semplici, alternate a un uso espressivo di primi piani del viso dello scrittore e delle sue mani, con lo scopo di carpirne le emozioni o le incertezze. Su questo primo modello sono impostati anche alcuni programmi andati in onda in Italia tra la fine 77

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degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. In particolare Uomini e libri (1958-61) e Libri per tutti (1962-63), entrambi curati e diretti da Luigi Silori. Il primo, che contò 177 puntate a cadenza settimanale, permise a Silori, affiancato talvolta da Giulio Cattaneo ed Elio Vittorini, di intervistare scrittori come Italo Calvino, Primo Levi, Aldo Palazzeschi, Vasco Pratolini e Dino Buzzati. Il secondo, che di fatto rinnovava la formula precedente con un più attento mandato pedagogico e di guida alla lettura, si concludeva di norma con un’intervista di Silori dedicata alle abitudini di lettura di noti personaggi dello spettacolo. Il secondo modello, rappresentato dal più celebre e longevo tra i programmi letterari che la televisione abbia avuto (sono state ben 724 le puntate, andate in onda tra il 1975 e il 1990), cioè Apostrophes di Bernard Pivot, si distingue dal primo per l’attenzione rivolta piuttosto all’autore che alla sua opera. Le interviste, raramente impostate come un semplice incontro tra intervistatore e intervistato, si svolgono di norma in una sorta di tavola rotonda, cui possono partecipare contemporaneamente più scrittori, e nella quale alcuni critici affiancano la conduzione di Pivot. Negli anni hanno preso parte alla trasmissione scrittori del calibro di Vladimir Nabokov, Norman Mailer, Marguerite Yourcenar, Susan Sontag, Milan Kundera, Georges Simenon, Tom Wolfe, Umberto Eco, Marguerite Duras, Alain Robbe-Grillet, Georges Perec e Doris Lessing. Molto celebre è la puntata del 22 settembre 1978, quando un Charles Bukowski decisamente ubriaco abbandona lo studio, interrompendo malamente una discussione tra Pivot, Marcel Mermoz e Catherine Paysan. Nel terzo modello, infine, la distanza tra l’opera letteraria e l’autore che l’ha prodotta viene radicalizzata. Gli scrittori invitati in programmi come Tout le monde on parle (1998-2006) di Thierry Ardisson non sono più chiamati a parlare di un loro libro in particolare, ma partecipano all’evento mediatico in quanto celebrità, personaggi noti, discutendo, insieme agli altri invitati presenti in studio, gli accadimenti del giorno. Anche nei programmi in cui si continua a intervistare faccia a faccia uno scrittore, come On n’est pas chouché (iniziato nel 2006), di Laurent Ruquier, l’intento degli intervistatori è il più delle volte di ordine sensazionalistico, e comunque esula dallo specifico della scrittura e della riflessione artistica. L’intervista letteraria ritorna in questo modo alle proprie origini giornalistiche: la ricerca del dettaglio clamoroso o scandaloso che guidava la stampa di fine Ottocento e quella di primo Novecento sembra trapiantata adesso nella logica del talk show, dove lo scrittore, per ragioni autopromozionali, è chiamato a prendere parte a uno spettacolo da cui la sua arte è in 78

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grande parte esclusa. Viene perciò rappresentata la sua vita, e le sue opinioni – magari controverse – su argomenti di interesse generale diventano fonte di discussione.

3.4 L’intervistatore scrittore Mentre, come abbiamo visto, l’avvento delle interviste radiofoniche comporta una sostanziale rivoluzione nella pratica del genere nei cosiddetti media di massa, le interviste scritte, tra gli anni Venti e gli anni Quaranta, continuano il più delle volte a ripetere schemi stantii e alquanto ripetitivi. Anche di fronte a grandi scrittori, i giornalisti tendono a reiterare moduli collaudati, sia nella costruzione delle domande, sia più in generale, nella struttura formale del pezzo. Del resto la Celebrity Culture che sta alla base del successo e della diffusione dell’intervista ne promuove con forza una versione standardizzata, adatta a un pubblico ampio e non settoriale. In epoca modernista, l’intervista agli scrittori attraversa quindi un momento di crisi: se le avanguardie storiche avevano rovesciato gli strumenti promozionali del sistema ottocentesco delle lettere e delle arti, appropriandosi coscientemente di armi devastanti ma anche autodistruttive come la polemica, lo scandalo e la marinettiana “voluttà di essere fischiati”, l’esaurirsi delle fiamme innalzate dalla loro “fase eroica” aveva lasciato sotto una coltre di cenere una situazione di rapporti di forza tra il mercato delle lettere e la letteratura di ricerca quasi del tutto immutata. Tuttavia, la pratica senza compromessi di lavorare in direzione fieramente opposta a quella degli attardati gusti del pubblico borghese aveva anche avuto la sua parte di bottino e aveva impostato una propria mitologia. Le avanguardie avevano dimostrato che l’autopromozione poteva bypassare i canali preimpostati dalla nascente società di massa, per sintonizzarsi su stazioni di tutt’altra costituzione, e ciò spiega l’iniziale ritrosia di scrittori come T. S. Eliot, James Joyce e, proverbialmente, Virginia Woolf a concedersi ai giornali, almeno fino alla metà degli anni Trenta. Non sono dunque gli organi di informazione a determinare questo stato di cose, e anzi in questo periodo nascono rubriche di interviste piuttosto interessanti e molto apprezzate, che finiranno per avere una certa influenza sull’esercizio del genere nel dopoguerra. Tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, per esempio, appare sul settimanale londinese “Everyman” How Writers Work, per la firma dell’americana Louise Mor79

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gan. La rubrica ospita una serie di interviste «amichevoli professionali e imparziali» (Roach, 2018, p. 119) a scrittori come Aldous Huxley, W. B. Yeats e Sinclair Lewis. Morgan focalizza le proprie domande sulle influenze letterarie e anche, in maniera decisamente innovativa, sulle idiosincrasie legate al lavoro di scrittore. Per la prima volta si chiede a un autore se preferisce scrivere con la matita o con la penna, se la radio o il telefono lo distraggono, se c’è un giorno in particolare in cui si sente più ispirato, dove e come lavora. La struttura formale del pezzo, di contro, resta piuttosto tradizionale: un’introduzione narrativa presenta il soggetto e precede un dialogo solo in parte riportato attraverso il discorso diretto. Se molti scrittori modernisti disertano gli appuntamenti pubblici con i giornalisti, in nome di una “riduzione dell’io” – come si dirà anni dopo –, che comunque appare una reazione agli indirizzi imposti dalla Celeb­rity Culture, pure alcuni di loro vestono eccezionalmente i panni dell’intervistatore, con risultati decisamente innovativi nelle forme e anche nelle funzioni del genere. È il caso della scrittrice americana Djuna Barnes, che dalla fine della Prima guerra mondiale, per una decina di anni, intervista colleghi o personaggi dello spettacolo, da Mimì Aguglia a Flo Ziegfield, da Jess Willard a Frank Harris, da Alfred Stieglitz a Coco Chanel. Tra il 1921 e il 1922 incontra a Parigi James Joyce e ne restituisce un indimenticabile ritratto su “Vanity Fair”, in quella che, se non è la sua intervista migliore, senza dubbio è la più nota. Joyce è presentato come la più importante personalità letteraria del momento. La descrizione fisica che ne dà Barnes è lontana dai clichés giornalistici di ordine sensazionalistico e assume significato solo reagendo con la struttura fortemente autobiografica del pezzo: seduta al caffè dei Deux Magots, di fronte alla chiesetta di St. Germain des Près, vidi avvicinarsi, emergendo dalla nebbia e dall’umido, un uomo alto, la testa leggermente sollevata e voltata, che offriva al vento una tempera ordinata di capelli neri e rossi, che scendevano dritti, digradando a cuneo su un mento proteso […]. Nel momento in cui lo vidi, mi balenò in mente l’osservazione di un mistico: «un uomo che è stato crocefisso alla sua suscettibilità più di qualsiasi altro scrittore dei nostri tempi», e mi dissi: «strano modo di riconoscere un uomo che non ho mai visto» (Barnes, 1994, p. 83).

Come si capisce da queste poche righe, la costruzione narrativa esalta le doti stilistiche della scrittrice, che insiste quindi sulle note dell’allusione, su metafore ardite, su costruzioni evocative. Gli scambi di battute sono pochissimi: 80

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perché possiamo anche non fargli domande, ma conoscerlo è necessario. Ho avuto il piacere di conversare con lui parecchie volte durante i miei quattro mesi a Parigi. Abbiamo discusso di fiumi e di religione, del genio istintivo della chiesa che ha scelto, per fare cantare i suoi inni, una voce senza “ipertoni” – la voce degli eunuchi. Abbiamo parlato di donne; ma alle donne sembra interessarsi poco. Se fossi vanitosa, direi che ne ha paura, ma sono certa che è solo lievemente scettico sulla loro esistenza. Abbiamo discusso di Ibsen, Strindberg, Shakespeare: «Hamlet è un’opera teatrale singolare scritta dal punto di vista dello spettro»; e di Strindberg: «Nessun dramma dietro il delirio isterico». Abbiamo parlato di morte, ratti, cavalli, mare, linguaggi, climi, offerte. Di artisti e di Irlanda. «Il popolo irlandese non avrà mai un capo, perché al momento giusto l’abbandona. Ha prodotto uno scheletro – Pernell – mai un uomo» (ivi, pp. 85-6).

Lo schema di domande e risposte svanisce a favore di una costruzione a cavallo tra il racconto e il saggio critico. Barnes non si limita a ricostruire gli incontri che ha avuto con l’autore dell’Ulisse, ma ne interpreta i gesti, i modi, le parole. I pochi virgolettati ne disegnano così il carattere anche in rapporto alla cultura del tempo, offrendo uno spaccato del suo background culturale e del suo peculiare temperamento: «Tutti i grandi conversatori» disse sommessamente, «hanno parlato nella lingua di Sterne, Swift o della Restaurazione. Persino Oscar Wilde. Al mattino osservava la Restaurazione attraverso un microscopio e alla sera la riproduceva attraverso un telescopio». «E in Ulysses?» Domandai. «Sono tutti là, i grandi conversatori», rispose, «loro e ciò che hanno dimenticato. In Ulysses ho registrato simultaneamente ciò che vede, dice e pensa un uomo e l’azione di ciò che vede, pensa, dice su quello che voi freudiani chiamate l’inconscio. Ma la psicoanalisi» si interruppe «non è né più né meno che un ricatto» (ivi, p. 84).

Ma l’innovazione più sbalorditiva rispetto a un genere tradizionalmente scarno e diretto come l’intervista è l’inserimento di citazioni, rimandi e riferimenti all’opera dell’intervistato, che se da una parte mostra la ferma conoscenza che Barnes ha del suo soggetto, dall’altra contribuisce a infondere al pezzo un andamento marcatamente letterario ed esegetico. Il finale dell’intervista a Joyce ne è forse l’esempio più clamoroso: se ammettiamo che Joyce sia Stephen, egli ha fatto come ha detto: «non servirò ciò in cui non credo più, sia esso patria o chiesa; e cercherò di esprimermi nella mia arte con la libertà che mi sarà consentita e con il senso della totalità, usando per difendermi le uniche armi che mi concedo: il silenzio, l’esilio e l’astuzia». Questo è in un certo qual modo Joyce e chissà se l’Irlanda non ha finalmente creato il suo uomo (ivi, p. 87). 81

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La via indicata da Djuna Barnes, cioè l’idea di un’intervista-ritratto in forma totalmente narrativa, nella quale, per giunta, l’intervistatore-scrittore può occupare, se non il centro della scena, almeno la sua buona metà, non avrà una fortuna immediata. A parte qualche sporadico tentativo nel corso degli anni Trenta, è solo dopo la Seconda guerra mondiale che modalità di questo genere iniziano a essere praticate con frequenza, trovando infine una propria canonizzazione e una più stabile collocazione editoriale sotto l’insegna generale di “profili”. Il merito principale spetta alla rubrica Profiles della rivista “The New Yorker”. Attiva già dalla fondazione del settimanale (1925), ospita inizialmente brevi schizzi biografici o aneddotici di personalità illustri, realizzati dalle penne sapienti di giornalisti come James K. McGuinness, Waldo Frank e John K. Winkler. Nel corso degli anni Quaranta, ancora sotto la direzione del fondatore Harold Ross, e poi soprattutto negli anni della direzione di William Shawn (1952-87), i profili del “New Yorker” si ibridano con il genere intervista. La dimensione narrativa si amplia: dal ritratto stilizzato di qualche riga si passa al racconto esteso dell’incontro tra il giornalista e la personalità descritta, le cui parole vengono spesso riportate tra virgolette, ovvero, altre volte, riassunte dall’intervistatore. Grazie al lavoro di reporter come Alva Johnston e Lillian Ross, ma anche di accademici prestati al giornalismo, come Dwight MacDonald, la rubrica inizia a godere di un notevole successo e a far parlare di sé. Proprio a Lillian Ross si deve, per esempio, un memorabile ritratto di Hemingway (Ross, 1950), che all’epoca destò grande scalpore. Sebbene il settimanale avesse avuto il placet dello scrittore prima di mandare in stampa il pezzo, numerosi lettori ne considerarono controversi alcuni dei contenuti. Come racconta la stessa giornalista una decina di anni più tardi (1961) in una premessa alla ripubblicazione del profilo nella raccolta Reporter: Quasi tutti i lettori trovarono nell’articolo soltanto quello che voleva esservi, e io confido che si divertirono a leggere senza complicazioni. Un certo numero di altri lettori, invece, reagì con violenza e in modo assai complesso. Tra costoro v’erano persone recisamente ostili alla personalità di Hemingway, ed esse presunsero ch’io fossi altrettanto ostile, e apprezzarono l’articolo per le ragioni sbagliate; credettero cioè che descrivendo minuziosamente quella personalità io volessi coprirla di ridicolo o attaccarla. Ad altri, più semplicemente, non piaceva il modo di esprimersi di Hemingway […]. In effetti, non garbava loro che Hemingway fosse Hemingway (Ross, 1967, p. 262). 82

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Negli anni, il “New Yorker” si è arricchito della collaborazione di scrittori-intervistatori di indubbio prestigio, da Truman Capote, che, come abbiamo già ricordato, vi pubblica il suo The Duke in His Domain (1957), a Susan Orlean, da Janet Malcom a Nicholas Lemann. In un volume del 2000, David Remnick, che dirige il “New Yorker” dal 1998, ha proposto un’antologia dei migliori profili pubblicati sul settimanale, la cui ricchezza è sufficiente a ricomporre l’influenza esercitata dalla rubrica sulla tradizione dell’intervista giornalistica americana e occidentale (Remnick, 2000). Se già l’esperienza di Barnes aveva dimostrato in un certo senso un’insofferenza per i limiti imposti alla professione giornalistica e, in particolare, alla pratica dell’intervista, la piega introflessa e la dimensione personale di questo nuovo modo di rendere l’incontro con una personalità pubblica porteranno a risultati decisamente più eversivi ed eterodossi pochi anni dopo, con il cosiddetto New Journalism. Emersa dalla montante insoddisfazione di cronisti nati tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del Novecento nei confronti del giornalismo tradizionale – quello per intenderci ipostatizzato dalla celebre regola delle 5 W (Who, What, When, Where, Why) –, la corrente del New Journalism (tra cui Tom Wolfe, Joan Didion, Guy Talese, Hunter S. Thomp­son, Rex Reed) tenta di rivoluzionare le tecniche del reportage, attraverso un uso disinvolto di strategie narrative tipicamente letterarie. Tom Wolfe, che ne teorizza a posteriori le tecniche, curando, con la collaborazione di Edward W. Johnson, un’antologia di reportage intitolata appunto The New Journalism (1973), propone l’idea di un giornalismo capace di recuperare dalla grande narrativa realista dell’Ottocento la vocazione etico-pedagogica e, dall’opera di scrittori reporter come Hemingway, l’originale mistura di informazione e tensione narrativa. In realtà, il New Journalism può contare su antenati piuttosto nobili, ovverosia su una tradizione tutta americana di reportage narrativo che da Lincoln Steffens a John Reed aveva già mostrato le potenzialità espressive della notizia raccontata e dell’indagine partigiana e interessata. Comunque sia, l’allontanamento dei new journalists da ogni pretesa di oggettività che non dipenda dall’osservazione individuale conduce a forme di intervista molto particolari e dall’impianto dichiaratamente letterario. In esse, di norma, l’intervistatore guadagna il centro della scena (cfr. Bell, van Leeuwen, 1994, pp. 37-48), dando luogo a sequenze narrative incentrate sull’incongruenza “quasi comica” (ivi, p. 44) del rapporto con l’intervistato, come capita in alcuni pezzi del più radicale dei giornalisti della sua generazione, cioè Hunter S. Thompson (leggendario il suo incontro con Muhammad Ali a Las Vegas pubblicato su “Rolling Stone” nel 1978), oppure a interviste volte a evidenziare le contraddizioni e le incoerenze degli intervistati (cfr. 83

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Bertoni, 2009, p. 60), come nel raffinato ritratto del giovane comunista Michael Laski realizzato da Joan Didion nel 1967. L’intervista diventa allora una forma malleabile, al limite dell’espediente narrativo. Al netto del livello comunque fattuale degli incontri rea­lizzati dai new journalists, tali modalità corrono evidentemente parallele a un’altra tradizione novecentesca, quella dell’intervista immaginaria o impossibile, largamente praticata dagli scrittori europei e da quelli americani sin dal volume di André Gide Les interviews imaginaires (1942), la cui tradizione può risalire, attraverso il capostipite moderno Imaginary Conversations of Liter­ ary Men and Statesmen di Walter Savage Landor (1824), sino addirittura al Creso e Solone delle Storie di Erodoto. Certo, il genere intervista resta specifico della modernità. Ma nella sua declinazione finzionale tale specificità rispetto alla tradizione del dialogo tende a sfumare, se non nella formulazione secca dell’interlocuzione diretta di tante prove del genere, come nelle Interviste impossibili di Manganelli (1997), e, in generale, nella teatralità radiofonica dell’omonimo programma rai (che vide l’illustre partecipazione di scrittori come Italo Calvino, Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Alberto Arbasino), senz’altro nella sostanza, oltre che nell’uso. L’aspetto giocoso o di divertissement che caratterizza la formula può anche rovesciarsi in ragionamento serio su questioni specifiche di morale, di costume o di politica, ma è altrettanto innegabile che l’episodicità che la contrassegna mal si adatta ad approfondimenti che varcano l’intrattenimento intelligente. Tutt’altro succede invece quando la forma intervista diventa espediente impiegato in più ampia misura, come nei Colloqui con il professor Y di Louis-Ferdinand Céline (1955), o in quello straordinario romanzo autobiografico in forma di intervista che è La notte sarà calma di Romain Gary (1974).

3.5 “The Paris Review” C’è un’aquila americana che sfoggia un bel cappello frigio, come la Marianne di Delacroix. Tra i suoi puntuti artigli tiene paziente una penna stilografica. Ha un’aria orgogliosa, quasi fiera. Questa, a grandi linee, è l’iconica rappresentazione che campeggia sul frontespizio del primo numero di “The Paris Review”. A disegnarla è stato l’illustratore William Pène du Bois. Effettivamente, l’immagine condensa e restituisce in maniera immediata le principali caratteristiche del trimestrale. L’origine è franco-americana; l’obiettivo prefissato a suo modo rivoluzionario. Fondata a Parigi 84

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nel 1953 da Harold L. Humes, Peter Matthiessen e George Plimpton, “The Paris Review” è probabilmente la rivista che ha maggiormente innovato la storia dell’intervista agli scrittori, determinando di fatto la transizione del genere da un ambito ancora giornalistico a quello proprio delle lettere. L’intento iniziale dei giovani intellettuali americani che la idearono era in realtà piuttosto semplice: pubblicare testi creativi come «antidoto al formalismo accademico» (Gourevitch, 2009, p. 8) che imperava in quasi tutti i periodici letterari dell’epoca. Annoiati dalla chiacchiera colta dei professori (cfr. Styron, 1953) e preoccupati dal rischio di asfissia che correva la letteratura in re, per dirla con la nota formula di Luciano Anceschi, Plimp­ton e compagni misero in piedi una dimora per gli «scrittori di valore – quegli scrittori di valore non ancora abbastanza famosi per “Life” né abbastanza ricchi da meritarsi il rispetto della società» (Atwood, 2011, p. 8). Il senso di stravaganza che l’operazione poteva suscitare negli anni Cinquanta, sia per il mandato apparentemente leggero con cui dei non professionisti si rapportavano al mondo letterario, sia per la precaria sede del periodico, che passava da un improbabile domicilio a un altro (da una stanzetta delle Éditions de la Table Ronde alla portarinfuse Thames River ancorata sulla Senna, per esempio), lascia il campo già nei primi anni Sessanta alla sua affermazione come istituzione culturale riconosciuta e assai autorevole (cfr. ivi, pp. 8-9). Questo successo si deve in grossa parte alla rubrica The Art of Fiction (negli anni allargatasi poi alle gemelle The Art of Poetry, Translation, Editing, Theatre, ecc.), che in ciascun numero ospita una o più interviste a scrittori e letterati. L’intervista viene infatti concepita come «il mezzo più efficace per discutere della scrittura, senza intermediari, a chiare lettere – lasciando che gli scrittori raccontassero da sé il proprio lavoro» (Gourevitch, 2009, p. 8), e diventa presto una sorta di marchio di fabbrica. A inaugurare la rubrica è E. M. Forster. Tra il 1953 e il 1960 vengono intervistati scrittori come Graham Greene (1953), François Muriac (1953), Alberto Moravia (1954), Georges Simenon (1955), Ralph Ellison (1955), William Faulkner (1956), Truman Capote (1957), Ernest Hemingway (1958), T. S. Eliot (1959), giusto per fare qualche esempio. A partire dagli anni Sessanta «molti dei più grandi scrittori del mondo» (ivi, p. 10) accettano di raccontarsi alla rivista. Attualmente gli archivi della “Paris Review” ospitano oltre trecento interviste: si tratta con tutta probabilità del più importante deposito del genere, considerando anche la sua dimensione internazionale e l’importanza dei nomi degli intervistati. Il motivo essenziale della partecipazione di così tanti scrittori va cercato nel modo in cui la “Review” intende e costrui85

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sce le interviste. Siamo, infatti, ben distanti dalla tradizione giornalistica americana, sebbene la forma finale assuma, anche qui, la canonica struttura di domande e risposte, preceduta da un’introduzione narrativa a firma dell’intervistatore o, più spesso, degli intervistatori. I testi finali, in verità, sono il frutto di un’esplicita collaborazione tra intervistatore e intervistato. Ciò, come ricorda Philip Gourevitch (ivi, p. 11), «è inesorabilmente in contrasto con il metodo giornalistico, in cui si presume che l’accuratezza del reporter dipenda dalla sua totale autonomia di fronte alle ingerenti pressioni del soggetto». L’intento della rivista è armonizzare le voci dei soggetti in dialogo, evitando sia le modalità accondiscendenti dell’intervista alla celebrità, nello stile hollywoodiano di “Look”, “Life” o “Confidential” (cfr. Roach, 2018, p. 172), sia il «braccio di ferro» (Gourevitch, 2009, p. 10) tipico dell’intervista “intrusiva” del reporter. E si tratta davvero di pensare l’intervista come un testo a quattro o più spesso a sei mani. Questa la prassi: l’intervistatore della “Paris Review”, dopo aver studiato i libri dello scrittore, lo incontra in una o (più spesso) in diverse occasioni. Talvolta il processo di realizzazione può durare mesi o anni, «anche se la versione poi pubblicata viene invariabilmente presentata come il lavoro di un solo pomeriggio» (Moshfeh, 2018, p. 7). Nel caso dell’intervista di Shusha Guppy a Marguerite Yourcenar, per fare un esempio davvero limite, la conclusione è stata decretata solo dalla morte della scrittrice. Il punto è che non sono previste date di scadenza: il risultato deve essere soddisfacente da entrambe le parti e comunque non può limitarsi a una semplice discussione «sul mestiere e sulla struttura» (ibid.). Si tratta di «prove di dialogo sulla tecnica degli scrittori», come disse una volta lo stesso Plimp­ ton in una lettera alla famiglia (ibid.), capaci tuttavia di tramutarsi in vere e proprie storie. Le interviste della “Review” vengono di norma realizzate da due persone che, contemporaneamente, prendono nota delle risposte. Confrontano in un secondo momento i propri appunti e realizzano una prima trascrizione. Segue una complessa operazione di editing: tagli, spostamenti, aggiustamenti, continuano fino a quando il prodotto non appare come un «unicum coerente e fluido» (Gourevitch, 2009, p. 10). Nella fase finale, prima della stampa, le bozze vengono inviate all’intervistato che è libero, a propria volta, di editare il testo, fino a ottenere un risultato appagante. In tempi più recenti, l’uso del registratore ha modificato questo schema di lavoro, da un lato semplificando la realizzazione della prima trascrizione, dall’altro obbligando l’intervistatore a un’attività di editing supplementare. Oltre a dare coerenza e unità al testo, questi ades86

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so deve anche evitare l’effetto innaturale della trascrizione automatica della voce registrata, a scongiurare insomma il “registratorese”, per dirla con Janet Malcom (ibid.). In ogni caso, il risultato configura una struttura inconfondibile: tutte le interviste della “Review” presentano un intervistatore – indipendentemente da chi sia in realtà – con un ruolo preciso, equidistante sia da quello dell’intervistatore dalla forte personalità, che tende a dominare la scena, sia da quello dell’intervistatore freddo e quasi esterno, che si limita a ricomporre il profilo dello scrittore. Come propone Rebecca Roach (2018, p. 174), l’intervistatore della “Review” è da considerarsi come una sorta di «suggeritore impersonale e obiettivo». Egli lascia il centro del palco, per così dire, al protagonista intervistato, fornendogli con professionalità e attenzione le giuste imbeccate, ma anche curando i migliori giochi di luce, perché questi, infine, possa mostrare tutto il proprio talento allo spettatore-lettore. Intendiamoci, non tutte le interviste riescono egualmente bene. E non tutti gli intervistati accettano il centro del palco, senza prima esserselo conquistato. Quando, per esempio, Plimpton intervista Hemingway, nel 1958, fatica non poco a governare la conversazione dalla propria specola di suggeritore obiettivo. Al netto dei procedimenti di revisione e di editing adottati dalla rivista, nel testo resta traccia di alcune reazioni piuttosto infastidite dello scrittore, che quindi andranno considerate come una sorta di “postura” dello scrittore, ovvero del modo in cui egli costruisce pubblicamente sé stesso come uomo e come artista (cfr. Meizoz, 2007). Quando Plimpton chiede se Hemingway ammette l’esistenza di significati simbolici nei propri romanzi, questi risponde seccamente: «Credo che ce ne siano da quando i critici si ostinano a vederli. Ma se non le dispiace, preferirei non parlarne e le sarei grato se non mi facesse altre domande su questo argomento» (Hemingway, Plimpton, 2009, p. 61). E più avanti, è lo stesso intervistatore a censurarsi. Dopo aver posto un’ulteriore domanda sul simbolismo di Fiesta, interrompe la risposta ammettendo che insistere sull’analisi dei romanzi può in effetti risultare fastidioso. Ma il carattere indomito di Hemingway riemerge più avanti. Alla domanda: «riesce a passare con facilità da un progetto all’altro, oppure una volta che ha cominciato a lavorare su qualcosa preferisce portarlo a termine?» la risposta di Hemingway è quasi sdegnosa: «il fatto che io interrompa un lavoro serio per rispondere a queste domande dimostra la mia stupidità, e per questo dovrei essere punito severamente. Ma stia certo che lo sarò» (ivi, p. 66). Un esempio più recente di intervista conflittuale è quella del 1998 di Jonathan Rosen e Tarun Tejpal allo spigoloso Vidiadhar Surajprasad Nai87

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paul. Lo scrittore trinidadiano, premio Nobel del 2001, appare preoccupato sin dall’inizio di una certa vaghezza di alcune delle domande che gli vengono poste. Chiede più volte di riformularle, pregando gli intervistatori di essere concreti. Vorrebbe indirizzare la conversazione soltanto sul suo lavoro di scrittore, e non su questioni biografiche o ideologiche e politiche. Nonostante Rosen e Tejpal accettino senza controbattere il ruolo apparentemente inerte del suggeritore prescritto dalla rivista, il dialogo precipita in più di un’occasione, dando luogo a passaggi come questo: Lei è stato criticato per essere andato tra le braccia dell’oppressore. Chi mi ha criticato? Derek Walcott, per dirne uno. Non lo so non leggo queste cose. Non deve chiederlo a me, deve chiederlo a lui. Giudichi lei queste cose, io non posso affrontarle tutte, è stata una lunga carriera la mia. Mi piacerebbe chiederle… Non avrebbe dovuto farmi quella domanda sul correre fra le braccia degli inglesi e dei padroni… Viene fuori dai miei libri? Non direi. Allora perché me l’ha chiesto? Perché si è sempre tenuto lontano dalle semplificazioni, a differenza dei critici che la circondavano. È un problema loro (Naipaul, Rosen, Tejpal, 2012, pp. 317-8).

Il disagio di Naipaul ritorna esplicito nel finale, quando è lui stesso a chiedere: «crede che parlando con lei io abbia buttato via un po’ di me?» (ivi, p. 324). E conclude, dopo le rassicurazioni di rito degli intervistatori, con una frase che suona come la formulazione lapidaria di una critica che a dire il vero perseguita il genere praticamente da sempre: «credo che i pensieri siano così preziosi che non possano andare sprecati in chiacchiere» (ibid.). Che sia per merito della tranquillizzante idea dell’intervistatore-suggeritore o del ritmo serrato che assume l’alternarsi di domande e risposte, che sia per la platea illustre degli intervistati o per l’impostazione decisamente antiaccademica, quel che è certo è che The Art of Fiction, dopo una decina di anni dalla fondazione della rivista, è già un punto di riferimento per lettori comuni e per diverse generazioni di giovani scrittori. Orhan Pamuk (cfr. 2010, pp. 8-9, passim), per esempio, ha descritto con precisione e non senza un evidente attestato di gratitudine, l’importanza che la rubrica ha ricoperto nel suo apprendistato di romanziere. Venire a contatto con le 88

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diverse «abitudini, preoccupazioni, eccentricità, e piccoli capricci» di altri autori ha rappresentato ai suoi occhi una sorta di spazio virtuale dove incontrare chi, come lui, aveva deciso di fare della scrittura la ragione della propria esistenza. Un antidoto alla solitudine e all’emarginazione che soffriva nella chiusa Turchia dell’epoca. Ed è in particolare un’intervista, quella di Jean Stein a William Faulkner, datata 1956, a farsi per lui amuleto portafortuna e testo sacro in cui ritrovare per interposta persona le risposte ai propri dubbi, alle proprie insicurezze. La prima lettura del testo, d’altra parte, cade in un momento fondamentale della sua formazione: me ne stavo seduto in una stanza sul retro, circondato dai libri, fumavo una sigaretta dopo l’altra, faticando per riuscire a concludere il mio primo romanzo. Scrivere il primo romanzo non significa solo imparare a raccontare la propria storia come se appartenesse a qualcun altro. Significa anche diventare una persona capace di immaginare un romanzo dall’inizio alla fine in maniera equilibrata, in grado di esprimere con parole e frasi il proprio sogno… (ivi, p. 7)

La risposta di Faulkner alla domanda «come fa uno scrittore a diventare un buon romanziere?» diventa allora anche sua: novantanove per cento talento… novantanove per cento disciplina… novantanove per cento lavoro. Non devi mai essere soddisfatto di quello che fai: potresti sempre farlo meglio. Devi sempre sognare e mirare più in alto di quanto sai di poter fare. Non devi preoccuparti solo di essere migliore dei tuoi contemporanei o dei tuoi predecessori. Cerca di essere migliore di te stesso […]. La sola responsabilità che uno scrittore ha è nei confronti della sua arte (ivi, pp. 7-8).

L’immedesimazione, per Pamuk, è così profonda che non influisce soltanto sul modo generale di intendere la letteratura rispetto alle altre attività umane, ma pure ha ricadute sul come produrre letteratura, su cosa scrivere. Anche lo scrittore indiano Salman Rushdie racconta qualcosa del genere nella sua prefazione a una delle raccolte in volume delle interviste della rivista: Ho tirato fuori i vecchi numeri e me li tengo vicino mentre scrivo, mi fanno ricordare l’entusiasmo con il quale, nella primavera del 1979, mentre lavoravo a capofitto al mio secondo romanzo, I figli della mezzanotte, lessi con attenzione l’intervista della “Paris Review” a John Gardner e pensai che se quella rivista avesse mai detto di un mio libro che rappresentava «una nuova ed esilarante era nell’impresa della scrittura moderna», come avevano scritto i quattro intervistatori, allora sarei potuto morire contento (Rushdie, 2009, p. 8). 89

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Per Rushdie, così come per Pamuk, le interviste della “Paris Review” non sono soltanto un piacevole intrattenimento, ma una specie di manuale involontario in cui si descrive con dovizia di particolari il funzionamento dei ferri del mestiere, per così dire, dello scrittore. Le risposte di Donald Barthelme, per esempio, o quelle di William Styron, offrono un campionario di scelte già compiute, sia per quanto concerne questioni pratiche di opzioni lessicali o sintattiche, sia, invece, rispetto a problemi teorici ampi e a riflessioni di poetica. Da questi dialoghi emerge, in genere, più di quanto lo stesso autore intervistato crede di sapere: la costruzione di sé che l’atto di editing gli impone fa sì che al lettore non si mostri, come avviene in altre serie di interviste, l’irrisolutezza di un pensiero semplificato dalla sollecitudine del momento o colto di sorpresa dalla domanda, ma l’arte di costruire in maniera mediata una risposta che sembri spontanea. Così, nella costruzione finzionale o semifinzionale della “Review” c’è più verità che nella fattuale registrazione della cosiddetta intervista-verità. Gilles Deleuze ha spiegato perfettamente questo paradosso descrivendo la propria repulsione per ogni situazione di dialogo pubblico: un’intervista, un dialogo, una conversazione – “spiegarsi” è molto difficile. La maggior parte delle volte, quando uno mi fa una domanda, anche una domanda che mi tocca, m’accorgo di non avere propriamente nulla da dire. Le domande, come qualsiasi altra cosa, si costruiscono: e se non vi lasciano costruire le vostre domande, con elementi raccolti dovunque, con pezzi presi da qualsiasi parte, se ve le fanno, succede che non avete gran che da raccontare. L’arte di costruire una domanda, questa sì è importante: una domanda, la sua impostazione, le si inventano ancora prima di trovare una risposta. Niente di tutto questo avviene in un’intervista, in un colloquio, in una discussione (Deleuze, Parnet, 1977, p. 5).

Il lavoro della “Paris Review” ovvia a questo palese inconveniente, smontando peraltro un luogo comune dell’intervista allo scrittore, ovverosia la spontaneità della confessione resa al giornalista intermediario. Le interviste promosse da Plimpton e compagni devono essere considerate come qualcosa di diverso da semplici epitesti pubblici (Genette, 1989). La “Paris Review” propone l’intervista come un genere letterario vero e proprio, un genere che finzionalizza la struttura giornalistica dell’intervista, rilanciando in questo modo il formato di domande e risposte e conferendogli in maniera indubitabile il marker dell’autorialità. L’intervista come genere letterario vede quindi affiancarsi due forme diverse, per certi versi opposte. Da una parte l’intervista-ritratto alla maniera del “New Yorker”, di riviste come “Rolling Stone” e “Playboy”, oppure 90

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di giornalisti-scrittori che riprendono i modi personali e idiosincratici del New Journalism. L’autorialità, in questo caso, è tutta dell’intervistatore: se l’intervista-ritratto vale di norma come opera letteraria di chi la produce, nel caso in cui l’intervistato fosse uno scrittore, essa somiglierà a un saggio critico, o comunque potrà essere utilizzata nello stesso modo. Dall’altra parte, l’intervista della “Paris Review”, che mantiene una prospettiva oggettiva, una struttura tradizionale di domande e risposte, ma che si pone a un tempo come una riflessione mediata di uno scrittore rispetto alla propria opera e come opera letteraria in sé, indipendentemente da chi sia in realtà il mediatore.

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Indice dei nomi

Adams John Quincy, 41 Adler Mortimer, 55 Aguglia Mimì (Gerolama A.), 80 Ali Muhammad (Cassius Clay), 83 Amrouche Jean, 76-7 Anceschi Luciano, 85 Anderson Margaret, 72 e n Antona-Traversi Camillo, 69 Arbasino Alberto, 84 Ardisson Thierry, 78 Arkin Stephen, 32, 36 Arlia Costantino, 39 Ascoli Graziadio Isaia, 50 Atkinson Paul, 17 Atwood Margaret E., 85

Benda Julien, 73 Benjamin Walter, 54, 71 Bennett Arnold, 74 Bennett James Gordon, 41-2 Bergamini Alberto, 49-50 Bernstein Leonard, 76 Bertoni Clotilde, 42, 62, 64n Bertoni Federico, 26n Bismarck Otto von, 63 Blackwood Frederick T. H.-T. (Lord Duf­ferin), 50 Bloom Harold, 11 Boddy Kasia, 28, 31n, 35 Bonghi Ruggiero, 69 Bonitzer Pascal, 9 Boswell James, 36 Boulenger Jacques, 75 Bracco Roberto, 69 Brando Marlon, 11 Braudy Leo, 52 Breton André, 33n Bukowski Charles, 78 Butti Enrico, 69 Buzzati Dino (D. B. Traverso), 78

Bachtin Michail, 18 Balzac Honoré de, 63 Barnes Djuna, 80-3 Barrès Maurice, 63-4, 73 Barthelme Donald, 90 Barthes Roland, 24 e n, 25, 34 Baudelaire Charles, 71 Bawer Bruce, 22 Beaujour Jérôme, 30 Becker Colette, 60 Bell Edward Price, 46 Bell Philip, 26, 52, 83

Cage John, 55 Calvino Italo, 31n, 78, 84 Cantù Cesare, 69 103

l’intervista letteraria

Capote Truman, 11 e n, 12, 83, 85 Capuana Luigi, 69 Carbonnel Marie, 70, 73 Carducci Giosuè, 69 Carrel Armand, 48 Carrère Emmanuel, 9-10, 11 e n, 12-4 Case Jules, 48 Castellano Francesca, 31n Cather Willa, 61 Cattaneo Giulio, 78 Cèline Louis-Ferdinand (L. F. Des­ touches), 84 Chancel Jacques ( Joseph Crampes), 77 Chandler Raymond, 29 Chanel Coco (Gabrielle C.), 80 Charaudeau Patrick, 26 Charbonnier Georges, 77 Châteaubriant Alphonse de, 73 Chesterton Gilbert Keith, 74 Chincholle Charles, 66 Christ Ronald, 31n, 63 Clapp Elizabeth J., 41 Clarke Gerald, 11 Claudel Paul, 73, 76 Clayman Steven, 39, 54 Clemenceau Georges, 48 Cocteau Jean, 73 Colacello Bob, 13n Colautti Arturo, 69 Colombo Furio, 21, 64 Condillac Étienne Bonnot de, 37n Contini Gianfranco, 34 Cooper Thompson, 46 Coquelin Benoît-Constant, 66 Crouthamel James L., 42

Dalí Salvador, 55 D’Amico Masolino, 77 D’Annunzio Gabriele, 31n, 69 Daryl Philippe (Paschal Grousset), 46 Davis Jefferson, 50 De Amicis Edmondo, 69 Delacroix Eugène, 84 Deleuze Gilles, 10 e n, 90 Deneuve Catherine (C. F. Dorléac), 9-14 De Roberto Federico, 69 Derrida Jacques, 22 Desgraupes Pierre, 77 Dickens Charles, 59 Didion Joan, 83-4 Douglass Frederick, 50 Dumayet Pierre, 77 Duras Marguerite (M. G. M. Donnadieu), 12, 30, 78 Dylan Bob (Robert A. Zimmerman), 76 Eckermann Johann Peter, 35-6 Eco Umberto, 78, 84 Einaudi Giulio, 77 Eliot Thomas Stearns, 79, 85 Ellis Bret Easton, 34 Ellison Ralph, 76, 85 Enzensberger Hans Magnus, 53 Erodoto, 84 Fanfani Pietro, 39 Farinelli Giuseppe, 39 Faulkner William, 85, 89 Faure Félix, 46

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indice dei nomi

Fay Sarah, 59-60, 72 Foa Vittorio, 77 Fogazzaro Antonio, 69 Forster Edward Morgan, 85 Fouquier Henry, 47-8 France Anatole (François-Anatole Thibault), 65-6 Frank Waldo D., 82 Frey Alexander, 76 Fromm Erich, 55 Fulvi Mirella, 77

Gozzini Giovanni, 40, 43 Graf Arturo, 69 Gramsci Antonio, 70 Greeley Horace, 42, 44 Greene Graham, 85 Grousset René, 46, 48 Guglielminetti Marziano, 35 Guppy Shusha, 86 Haldane Richard Burton, 48 Halsey Francis W., 60 Hansen Volkmar, 30, 36 Hapgood Hutchings H., 61 Hardy Thomas, 74 Harris Frank, 80 Hawthorne Julian, 44-5, 62 Hawthorne Nathaniel, 45 Hazard Paul, 73 Heap Jane, 72 e n Hearst William R., 40 Helbert Catherine, 74 Hemingway Ernest, 82-3, 85, 87 Heritage John, 39, 54 Héron Pierre-Marie, 75 Hofer Matthew, 60 Houellebecq Michel, 33 Howells William D., 62 Hugo Victor-Marie, 69 Humes Harold L., 85 Huret Jules, 66-73 Huxley Aldous, 55, 80

Gadda Carlo Emilio, 31n Galasso Giuseppe, 18 Gallerani Guido Mattia, 24n Gallina Giacinto, 69 Gallo Dinda, 77 Ganne Gilbert, 20, 44 Garboli Cesare, 77 Gardner John, 89n Gary Romain (Roman Kacev), 84 Gascoyne-Cecil Robert (Lord Salis­ bury), 50 Gelshorn Julia, 15, 25 Genette Gérard, 29, 32, 90 Ghezzi Enrico, 22 Giacosa Giuseppe, 69 Gide André, 84 Giffard Pierre, 46 Gilder Jeanette L., 60 Ginzburg Natalia (N. Levi), 77 Giraudoux Jean, 73 Gladstone William E., 50 Godkin Edwin L., 43 Goethe Johann Wolfgang von, 35 Gorden Raymond L., 21 Gourevitch Philip, 85-6

Ibanez Blasco, 74 Ibsen Henrik, 81 James Henry, 17-8, 51, 62 Jewett Ellen, 42 105

l’intervista letteraria

Johnson Andrew, 46 Johnson Edward W., 83 Johnson Samuel, 36 Johnston Alva, 82 Joyce James, 72 e n, 79-81 Kennedy John Fitzgerald, 56 King Martin Luther, 76 Kött Martin, 21, 51 Kundera Milan, 17, 78 Landor Walter Savage, 84 Laplantine François, 23, 25 Larbaud Valery, 73 Larousse Pierre, 46 Laski Michael, 84 Lasky Melvin J., 43 Lavaud Martine, 17, 25, 47, 59-60, 73 Le Cardonnel Georges, 71 Lefèvre Frédéric, 73-6 Lejeune Philippe, 11n, 32-3, 47, 60, 68, 76 Lemann Nicholas, 83 Lessing Doris, 78 Levi Primo, 29, 78 Lévy Joseph J., 23, 25 Lewis Harry Sinclair, 80 Leyret Henry, 64-5 Lioy Paolo, 69 Lippmann Walter, 40 Logan Joshua, 11 Longfellow Henry W., 44 Lowell James R., 44-5, 62 Lutero Martino (Martin Luther), 36 Lyon Ted, 43

MacDonald Dwight, 82 Macfadden Bernarr, 53 Mailer Norman, 55, 78 Malanga Gerard, 13n Malcom Janet, 83, 87 Mallet Robert, 77 Mandeville Bernard de, 37n Manganelli Giorgio, 84 Marconi Guglielmo, 49 Marin Louis, 25 Marinetti Filippo Tommaso, 79 Marradi Giovanni, 69 Martens Debra, 28, 33 Martin du Gard Maurice, 73 Martini Ferdinando, 69 Marx Karl, 46 Masaryk Tomáš, 74 Masschelein Anneleen, 39, 68 Matthiessen Peter, 85 Maunsell Jerome B., 17, 26 Mauro Walter, 35 e n Mazzoni Guido, 27 McCullagh Josep, 46 McGill Meredith, 45 McGuinness James Kevin, 82 Meizoz Jérôme, 87 Melmoux-Montaubin Marie-Fran­ çoise, 42 Mermoz Marcel, 78 Montale Eugenio, 31 Monteleone Franco, 76 Moravia Alberto (A. Pincherle), 85 Morgan Louise, 80 Morrison Toni (Chloe Anthony M.), 76 Moshfeh Ottessa, 86

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indice dei nomi

Muller Jean, 71 Muriac François, 73, 76, 85 Murialdi Paolo, 49 Nabokov Vladimir Vladimirovič, 78 Naipaul Vidiadhar Surajprasad, 88 Natalia, regina di Serbia (Natalija Keško), 49 Newport Royall Anne, 41 Nixon Richard, 56 Ojetti Ugo, 68-70, 72 Oliva Domenico, 69 Orlean Susan, 83 Oscar ii, re di Svezia (Oscar Fredrik Bernadotte), 46 Paladini Carlo, 50 Palazzeschi Aldo (A. Giurlani), 78 Palmer Michael, 41 Pamuk Orhan, 88-90 Panzacchi Enrico, 69 Papa Dario, 49 Papuzzi Alberto, 12, 16, 21, 39-40, 43 Parinaud André, 33n, 77 Parker Dorothy, 76 Parnet Claire, 10 e n, 90 Pasolini Pier Paolo, 31n Pasteur Louis, 66 Paysan Catherine, 78 Pène du Bois William, 84 Perec Georges, 78 Pianigiani Ottorino, 50 Picard Gaston, 71

Picasso Pablo, 72 Piccioni Leone, 77 Pio ix, papa (Giovanni Maria Mastai Ferretti), 46 Pirandello Luigi, 31n, 50-1 Pivot Bernard, 78 Platone, 23 Plimpton George, 85-7, 90 Poe Edgar Allan, 59 Pound Ezra, 72 e n Pratolini Vasco, 78 Prévost Jean, 73 Pulitzer Joseph, 40 Reed John (“Jack” R.), 83 Reed Rex T., 83 Remnick David, 83 Rhodes Cecil, 50 Ripa di Meana Ludovica, 34 Roach Rebecca, 44, 55, 60, 62, 80, 86-7 Robbe-Grillet Alain, 78 Robinson Richard P., 42 Rodden John, 20, 32, 34 Roosevelt Franklin Delano, 54 Rosen Jonathan, 87-8 Ross Harold, 82 Ross Lillian, 82 Roth Philip, 29 Rousseau Jean-Jacques, 37n Ruquier Laurent, 78 Rushdie Salman, 89-90 Sacchettini Rodolfo, 54 Salmon Richard, 17 Sanguineti Edoardo, 84

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l’intervista letteraria

Santos-Dumont Alberto, 49 Scarfoglio Edoardo, 69 Scharnhorst Gary, 60 Schickel Richard, 51-2 Schudson Michael, 39, 46, 48, 52 Seillan Jean-Marie, 27, 47 Serao Matilde, 69 Shakespeare William, 81 Shawn William, 82 Shils Edward, 17, 44 Siciliano Enzo, 77 Silori Luigi, 78 Silverman David, 17 Silvester Christopher, 61 Simenon Georges, 78, 85 Sinibaldi Marino, 23, 77 Siti Walter, 34 Sontag Susan, 78 Speirs Dorothy, 39, 41, 46-7, 51 Stead William Thomas, 48-9 Steffens Lincoln, 83 Stein Jean, 89 Stella Joseph, 72 Stephen James Fitzjames, 44 Sterne Laurence, 81 Stieglitz Alfred, 80 Strindberg Johan August, 81 Styron William, 85, 90 Suessler Betty, 35 Swift Jonathan, 81 Swinton John, 46

Thérenty Marie-Éve, 17, 25, 47, 5960, 73 Thompson Hunter S., 83 Todorov Tzvetan, 19, 44 Tornabuoni Lietta, 21 Townsend Rosina, 42 Turati Filippo, 49 Twain Mark, 61 Ujcich Valentina, 28n, 30, 32n, 59, 68, 77 Unamuno Miguel de, 73 Ungaretti Giuseppe, 76 Vaillant Auguste, 47 Valéry Paul, 73 Valsangiacomo Nelly, 56 Van Leeuwen Theo, 26, 52, 83 Veinstein Alain, 77 Vellay Charles, 71 Verdino Stefano, 18, 20, 35, 36 e n Verga Giovanni, 69 Vittorini Elio, 78

Talese Guy, 83 Tejpal Tarun, 87-8 Tennessee Williams (Thomas W.), 76 Terkel Louis (“Studs” T.), 76

Wallace Myron Leon (“Mike” W.), 55-6 Warhol Andy (Andrew Warhola), 13 e n Wilcock John, 13n Wilde Oscar, 60, 81 Wile Frederic W., 46, 48 Willard Jess, 80 Williams William Carlos, 72 Winchell Walter, 11 Winkler John K., 82 Wolfe Tom, 78, 83 Woolf Virginia, 79

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indice dei nomi

Wright Frank Lloyd, 55 Wrona Adeline, 27

Young Brigham, 42, 44 Yourcenar Marguerite (M. de Crayen­cour), 78, 86

Yanoshevsky Galia, 23, 27, 32, 41, 67-8, 74, 76-7 Yeats William Butler, 80

Ziegfield Florence, 80 Zola Émile, 60, 64 e n, 65, 69

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