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Italian Pages 332 Year 1989
— Silvio Guarnieri L'ULTIMO TESTIMONE
ARNOLDO MONDADORI EDITORE
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Dopo la scomparsa di Alessandro Bonsanti e di Giansiro Ferrata sono rimasto l’unico sopravvissuto di quel gruppo, di quella società, di scrittori, — Carrocci, Franchi, Montale, Ferrata, Vittorini, Bonsanti, Loria, Nannetti, Timpana-
ro, Carlo Emilio Gadda, — i quali avevano dato vita alla rivista «Solaria» e che solevano riunirsi quotidianamente intorno ai tavoli delle «Giubbe Rosse», in piazza Vittorio a Firenze negli anni fra il 1926 ed il 1936. Ma il titolo di questo libro ha un’altra, più profonda, ragione. Nella mia prima giovinezza ho
praticato diverse attività sportive, e particolarmente lo sci e l'atletica, anche a livello agonistico, partecipando anche a gare di staffetta; ora si sa che, in quella corsa dei 4 X 100, i partecipanti sono portatori di un bastoncino, chiama-
to appunto testimone, il quale va consegnato dal sopravveniente a colui che gli dà il cambio; l’ultimo lo deve recare con sé sino al traguardo. In quella società di scrittori io ero il più giovane e l’ultimo arrivato; con loro feci il mio apprendistato letterario, la mia educazione; e quel patrimonio di principi, di convinzioni, anche di modi di comportamento, lo ho sempre portato, ed ancora lo porto, con me; restandovi fedele, per quanto potevo, ma anche con l’impegno di trarne una conseguenza, di arricchirlo
con un mio contributo. Ora, giunto quasi al traguardo della corsa della mia esistenza, non mi basta però concluderla con la testimonianza di essa, — e sia pure dignitosa; ma vorrei che qualcosa di essa, un anelito, un’aspirazione, una tensione, fossero raccolti
da altri; diventassero stimolo per altri; vorrei che la mia vita, il meglio della mia vita, si trasmettessero ad altri; e che così fosse smentito il
titolo di questo libro.
LG.
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Silvio Guarnieri
L'ULTIMO TESTIMONE Storia di una società letteraria
Arnoldo Mondadori Editore
ISBN 88-04-32180-6.
© 1989 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
I edizione aprile 1989
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Con Montale a Firenze ed a Milano
Ho conosciuto Montale nel dicembre del 1930, al caffè delle « Giubbe Rosse » di piazza Vittorio a Firenze. Vi ero stato invitato da Alessandro Bonsanti, una sera prima di cena, nell’ora in cui solevano incontrarsi nella saletta imminente all’ingresso gli scrittori che facevano capo alla rivista «Solaria»: con Montale e Bonsanti,- Franchi, Nannetti, Vittorini, Timpanaro, Loria; a volte Carocci.
In quegli incontri, che si ripetevano due ed anche tre volte il giorno e che erano stati inizialmente determinati dall'impegno di prendere in esame e di concordare le scelte della rivista, le nuove collaborazioni che le si proponevano 0 che si proponeva di sollecitare, ed anche la linea, il programma ch’essa doveva seguire o la posizione che doveva assumere in un dibattito, in una polemica o di fronte ad una chiamata in causa, ad un attacco rivoltole da una
od altra parte,- perlopiù il discorso verteva sul fatto letterario, sulle pubblicazioni più recenti di scrittori italiani e stranieri, su qualche articolo di maggior richiamo uscito su di un giornale o su di un foglio letterario, sull’ultimo numero di una rivista; ed in essi la presenza, di Montale, al primo impatto non appariva certo preminente: per nulla pareva che il gruppo, nelle sue scelte, nelle sue decisioni, facesse capo a lui; né che il suo parere, il suo giudizio avessero tanto peso da determinare il corso della conversazione, della discussione. Di volta in volta Loria, Timpanaro,
Vittorini, Franchi indirizzavano il
discorso in uno od in altro senso, gli imprimevano una svolta, portavano avanti una loro rivendicazione, una loro denuncia, si accanivano nell’affermazione di una loro tesi; ed il dibattito acquistava vivacità proprio per il fatto che raramente l'affermazione anche perentoria dell’uno trovava del tutto concordi anche gli altri; mentre Montale, seduto tra loro, se ne stava perlopiù in silenzio, persino apparentemente distratto, come se covasse dentro di sé una preci-
sazione, un rilievo che sempre rinviava; quasi ad attendere il momento che gli sembrasse più opportuno per pronunciarli; spesso intento a trafficare intorno al fornello della sua pipa con minuscoli attrezzi che traeva da un astuccio riposto in un taschino del panciotto; ed anche se mostrava di seguire con attenzione l’intervento di qualcuno, anche se l'andamento del dibattito si andava sviluppando su posizioni di netto contrasto tra gli uni e gli altri e
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nessuna risoluzione avanzata, proposta dall'uno o dall’altro, riusciva ad imporsi, riscuoteva un'adesione concorde, egli perlopiù evitava di partecipar-
vi; e, se qualcuno gli si rivolgeva esplicitamente per avere il conforto di una sua conferma, di un suo appoggio, al solito si schermiva, o, se costretto a prendere la parola, tendeva a spostare il centro dell’argomentazione, a commentarlo con una punta di ironia, per testimoniare il suo distacco, una sua
dimensione diversa, quasi per fare intendere l’inutilità, l’inconsistenza di tanto affannarsi; e ciò pur senza assumere la posizione e l’accento di chi vuol dire l’ultima parola, di chi si arroga il diritto di un giudizio definitivo; ma soltanto quasi a giustificare la sua non partecipazione, quella sua assenza. Come se lui
a ben altro fosse intento, come se ben altri argomenti lo preoccupassero, ed al tempo stesso come se fosse convinto dell’inutilità di proporli, di renderli espliciti, di farne partecipi gli altri. Ma l’importanza ed il peso delle scelte, dei giudizi di Montale si rivelavano improvvisamente in taluni suoi interventi, in taluni suoi richiami, brevi e
perentori, ch’egli pronunciava a volte, intervenendo d’un tratto nella conversazione avviata, con accento persino risentito, quando gli altri neppure si
aspettavano da parte sua una simile reazione, né ritenevano di averla provocata. Ed allora egli appariva completamente impegnato a reagire contro un atteggiamento che considerava improntato a superficialità, a noncuranza, ad una opportunità casuale, per contrapporgli una severa assunzione di respon-
sabilità, richiamandosi a dei principi, a dei valori che non potevano essere messi in dubbio. In questi suoi momenti Montale si dichiarava nella sua parte più segreta; rivelava qualcosa ch’egli conservava dentro di sé e che finiva col comunicare agli altri solo quando fosse portato e sostenuto da un empito subitaneo; come se vi fosse costretto suo malgrado. E neppure in questo suo modo di intervenire era mai presente una volontà ammaestratrice; con esso egli era lontano dall’assumere una posizione, dal manifestare una convinzione di superiorità sugli altri o sull’altro, dall’atteggiarsi a maestro che esige di essere ascoltato e di essere approvato in quella che è la sua azione pedagogica. Anzi, in tali suoi scatti, in tali sue brusche ed accese puntualizzazioni, che quasi sempre interrompevano e mettevano a tacere l’interlocutore, egli pareva obbedire ad un impulso incontrollato, accondiscendere ad un moto passionale che gli facevano dimettere quello che era il suo comportamento consueto. Ed è pure caratteristico come, in questi suoi interventi improvvisi, quasi mai il suo richiamo fosse inteso alla svalutazione, alla condanna od alla negazione, ma come egli
assumesse invece la parte di colui che ristabilisce un giusto ordine, che rivendica e ripropone alla considerazione una persona ed un’opera le quali ingiustamente sono state trascurate o deprezzate, deciso a scoprirsi senza reticenze
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o riserve; così da farci sentire quale peso avessero in lui il rispetto di sé e del proprio mestiere, la convinzione della propria dignità, della dignità dello scrittore, secondo un alto senso di moralità. Allora improvvisamente si affermava il Montale più coraggioso e generoso. E chi era investito da questi suoi brevi ed impetuosi interventi non reagiva, neppure si giustificava; ed anche coloro che con lui avevano assistito in silenzio a questo contrasto ne ricevevano una spinta a rivedere le proprie affermazioni, a respingere quella che ora consideravano una incauta avventatezza; erano tutti richiamati insomma ad un severo esame di sé e delle proprie ragioni, ad un approfondimento di esse, ed anche ad una revisione, ove appena volessero accettare quello che infine si era presentato come un invito alla coerenza ed all’onestà. Altre volte, nei giorni in cui sin dal primo incontro con gli amici egli si dimostrava di umore più lieto, maggiormente disponibile anche all’invito altrui, all’altrui sollecitazione ad inserirsi nella conversazione già avviata, o quando in essa gli si offriva un argomento che suscitasse in lui un qualche interesse, che lo richiamasse ad un ricordo di un qualche rilievo, che si riferisse ad una sua presenza, ad una sua esperienza più o meno recenti ma ancor
vive in lui per una loro precisa caratteristica; ecco che Montale si rivelava un conversatore di una straordinaria vivacità; quell'evento, quell’episodio diventavano in lui racconto; in essi di un subito egli ricuperava quell’elemento o quegli elementi che ne sottolineavano le caratteristiche di fondo, ma sopratutto l’eccezionalità, l’anomala stranezza, la dimensione paradossale; e così delle persone che ne erano i protagonisti egli era pronto a mettere in evidenza
quell’atteggiamento, quel comportamento che più e meglio li caratterizzavano, rivelandone la più profonda natura, ma sotto un aspetto di impaccio, di goffaggine, di meschinità. Pareva infine che il suo più vivo interesse per gli uomini e per i loro fatti, per le loro vicende, si ridestasse improvvisamente quando fosse sollecitato da un loro gesto, da una loro parola, da un loro atteggiamento risibili che tutti li investiva e li qualificava; e qui si metteva in luce la sua acuta capacità di cogliere e di ridicolizzare il lato debole, il momento più negativo di chiunque, quelli che più e meglio risultano ridicoli; ed in tale disamina, in questa immediatezza di visione e di resa Montale era persino spietato; in nessun modo tale acutezza si accompagnava a commiserazione, ad
un moto di pietà; in nessun modo egli era disposto a giustificare, ad ammettere nei loro confronti una possibilità di comprensione, di tolleranza. Gli accadeva come se da un lato egli testimoniasse quanto gli uomini, nel loro quotidiano manifestarsi, lo incuriosissero, lo attirassero, tanto da esserne affascinato; ma dall’altro come se da essi egli fosse costretto a prendere le distanze, a
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differenziarsi per quelle che erano le loro carenze, le loro discordanze, le
contraddittorietà insite nella loro stessa natura. Finiva così che il suo narrare quasi sempre si concludeva in una risata sommessa ed agra, rivolta più a se stesso che agli ascoltatori; come se, in quella sua esposizione, egli fosse stato intento più a scavare, a scoprire per sé una certa dimensione delle vicende e dei fatti umani, e quindi a confermare una propria convinzione, un proprio giudizio su di essi, sulla realtà, che non a dichiararle, a farne partecipi quanti lo ascoltavano. Cosicché, a costoro, per quanto divertiti ed anche solleticati in un loro segreto gusto della maldicenza, non restava spazio per considerazioni e per commenti; mentre anche accadeva,- ed anche da parte di chi si considerava a lui legato da rapporti di amichevolezza— che un tale suo atteggiamento, che un tale suo comportamento, per quanto apparivano improntati ad acrimonia, ad una divertita malignità, fossero accolti con riserve e cautele, a sottolineare un proprio disaccordo; benché nessuno se ne dispiacesse, glieli rimproverasse esplicitamente; convinti tutti evidentemente ch'egli in nessun modo sarebbe potuto mutare in tale suo comportamento e che in ogni modo la sua intelligenza e la sua sensibilità poetica compensassero di gran lunga quelle che potevano venir considerate come le debolezze, le contraddizioni consuete nell’uomo, in qualsiasi uomo.
Ma qui bisogna aggiungere che, in questa sua talvolta persino spietata necessità di mettere in evidenza il negativo della realtà, degli uomini, egli comprendeva non solo quanti gli erano vicini, coloro con i quali aveva e nutriva un legame di affetto, ma anche se stesso. Ed allora si potrebbe dire che era proprio una spregiudicata considerazione di se stesso, della propria inettitudine pratica, della propria dissociazione, a spingerlo a cogliere negli altri quello che egli infine considerava come una propria menomazione e che addirittura condannava in se stesso. E d’altra parte noi ben sappiamo come in tutta la sua opera la sua considerazione della realtà, della realtà quale è, quale ci è data, sia il più spesso negativa; o, ancor più, come sempre la sua scelta di una realtà da mettere in evidenza, cui confrontarsi, sia intesa al negativo, a ciò che offende, a ciò che travaglia, a ciò che umilia l’uomo.
Così, anche sotto quella che poteva apparire una divertita maldicenza, andava rivelandosi quale fosse la più profonda conformazione di Montale, e come il suo comportamento ne fosse di necessità improntato, o perlomeno conseguente. Difatti, di sé egli sempre tendeva a mettere in evidenza il proprio permanente disagio, il proprio insuperabile impaccio nell’affrontare le più consuete difficoltà che la realtà quotidiana propone all’uomo. Egli soffriva
di insonnia, la quale assumeva dimensioni tali da rendergli poi faticosi ogni atto, ogni decisione o presa di posizione durante la giornata; così in lui era sempre presente una tensione nervosa, come se dentro di sé egli avvertisse un
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disagio, una instabilità che gli rendevano rati i periodi o addirittura imomenti di abbandono, di serenità. Ma anche vi era in lui una inadattabilità alle cose,
alla realtà; come se, in qualunque suo atteggiamento, egli rivelasse il disaccordo con quanto gli si proponeva, con ciò cui doveva confrontarsi; come se mai
non sapesse come comportarsi di fronte alla più facile, alla più semplice delle situazioni che gli si offrivano. E di ciò davano testimonianza anche il suo modo di muoversi, di camminare; quel suo passo spesso titubante, come se egli fosse sempre sul punto di inciampare, anche se il cammino che percorreva era il più agevole; come se egli fosse sempre incerto di esso, di quale direzione prendere; e sempre sentisse il bisogno di una mano che lo sorreggesse e guidasse, di appoggiarsi al braccio di qualcuno che si accompagnasse a lui. Anche il suo gestire era spesso come trattenuto e vincolato da una difficoltà; come se gli mancasse la sicura dimensione degli oggetti. Evidentemente, quand’era ancora giovane o nella prima maturità tali sue caratteristiche erano meno evidenti; tali difficoltà si manifestavano solo a momenti, a tratti; quando fosse particolarmente inquieto e preoccupato; ma, con il passare degli anni, una tale condizione andò sempre più aggravandosi, sempre più accentuandosi negativamente. Ora non è che questo stato, che queste condizioni fisiologiche finissero col determinare, con l'avere un peso determinante sul suo carattere; ma direi che
esse testimoniavano, erano la spia evidente di quella che possiamo definire la sua lacerazione interiore. Poiché egli poteva essere e mostrarsi sereno e persi-
no allegro in molte occasioni, e compiacersi e godere quando gli si offrisse una qualche possibilità di svago, di incontri con gente amica, di essere ammesso in un ambiente che stimolasse la sua curiosità; ma dentro sé egli nutriva una insoddisfazione profonda che talvolta, anche se egli non lo mostrava, poteva toccare punte di grave amarezza, anche di disperazione, nella considerazione di sé e della propria esistenza; della quale egli sentiva la provvisorietà, la precarietà, anche l'ambiguità, e che al tempo stesso egli non era in grado di cambiare e neppure di proporsi un modo di cambiarla. E qui ancor più ci si rende conto di come egli avesse sempre presente, ed in
modo anche drammatico, la propria condizione esistenziale, di quanto egli si sentisse disarmato di fronte alla realtà, di come si sentisse completamente impegnato, travagliato nella fatica del vivere; e di come egli fosse di necessità convinto che soltanto lui aveva la possibilità di sapere quanto gli costassero ogni gesto, ogni parola, ogni presa di posizione, appena fosse implicato in una vicenda che esigesse una decisione, che lo ponesse di fronte ad una scelta, alla necessità di dare un qualche indirizzo alla sua esistenza. Ed era tanto più grave in lui la coscienza di questa fatica del vivere in quanto quasi mai egli riusciva a trovare negli altri un aiuto, un appoggio, quasi mai poteva affidarsi
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agli altri con fiducia abbandonata. Tanto più sentendosi solo quanto più grave era la scelta che gli si proponeva, ch’egli doveva affrontare. E ciò proprio in quanto Montale non rivendicava come esemplari la propria inettitudine pratica, la propria incapacità di intervento e di risoluzione in quel campo ed in quelle materie che esigessero una pronta rispondenza nei confronti della realtà; non le rivendicava come un modo di essere cui tutti dovessero conformar-
si, come un modello valido per l’uomo; egli invece ne soffriva come conscio per esse di una propria insufficienza, di una propria carenza; e ciò anche se, per quanto lo riguardava, le doveva considerare a sé insuperabili. Da ciò il suo soffrire, il suo sentirsi diviso, dilaniato in se stesso. Pertanto egli viveva in uno stato permanente di tensione; sempre dibattuto fra esigenze diverse; fra ciò cui tendeva, cui aspirava, e la difficoltà, l’impossibilità di realizzarlo; e pertanto incombeva sempre su di lui una visione drammatica dell’esistenza; e di tale stato egli soffriva ed invano cercava di sottrarvisi, di liberarsene, non fosse che per un breve momento; poiché davvero egli non riusciva mai a superarlo raggiungendo una risoluzione che lo facesse in completo accordo con se stesso. Tanto che ad un certo punto gli poteva persino accadere di respingere da sé ogni aspirazione, come se in essa fosse l’errore; come se, solo negandosela, egli potesse giungere alla pacificazione con se stesso, ad uno stato di acquetata atarassia.
Evidentemente tale sua inadeguatezza di fronte alla realtà, tale sua refrattarietà ad immettersi in essa, a ritrovarsi appieno in essa e quindi a prendere decisioni che in qualche modo potessero indirizzare la sua esistenza erano accentuate ed esasperate dal momento storico in cui egli viveva, in cui era costretto a vivere, dall'ambiente, dal costume che, almeno ufficialmente, nelle sue manifestazioni più evidenti, si era creato od andava creandosi nel nostro paese. Difatti per Montale il fascismo trionfante in quegli anni era l’espressio-
ne più patente e clamorosa di un modo di essere che ripugnava all’intelligenza, che si affidava e cercava esclusivamente il risultato, il successo più banali, più esteriori, e quindi più fallaci, meno rispondenti alla più profonda consistenza della realtà, alla più profonda ragione delle cose. Montale, appena dopo il mezzogiorno, giungeva alle «Giubbe Rosse» e prendeva posto nella prima saletta del caffè o, nella buona stagione, all’aperto, con davanti, sul tavolino, il consueto caffè. Qualcuno degli amici di «Solaria» c’era già, qualcuno arrivava ben presto, e, se non vi era un argomento nuovo di conversazione, Montale subito si appigliava a qualche spunto della cronaca politica quotidiana. Al « Vieusseux », dove di prima mattina giungevano tutti i giornali di una qualche diffusione, di una qualche importanza, italiani e stranieri e s'intende fra gli stranieri quelli ammessi dalla censura—
egli li aveva tutti sfogliati prima di darli in lettura ai frequentatori; cogliendo
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qua e là una notizia, scorrendo un articolo, registrando dentro di sé una novità; ed ora ne faceva partecipe chi gli stava vicino. In genere era una notizia
ch’egli metteva in evidenza, e perlopiù senza aggiungervi un commento; come se essa bastasse da sé a convincere, a far prendere partito ai suoi interlocutori;
e si era sempre una notizia che metteva in evidenza la banalità, la volgarità, la goffaggine presuntuosa degli uomini del fascismo, dei suoi maggiori esponenti, a cominciare da Mussolini. Si soffermava egli talvolta anche sulle decisioni politiche del partito, del governo; ma quel che più rispondeva alla sua ricerca, alla sua scelta, era proprio tutto ciò che nel fascismo si presentava come frutto di ignoranza, di una vacua boria, di una tracotanza che magari mascherava
una celata viltà; ora di tali prese di posizione, di tali atti e gesti e parole, Montale sempre riusciva a mettere in evidenza l'elemento ridicolo, comico, addirittura grottesco; e su questo elemento egli più insisteva; e di esso si nutriva e si sosteneva la sua conversazione quando essa comunque toccava l'argomento politico. E tali erano la vivacità della sua esposizione, il gusto maligno di cui essa si improntava, che infine nessuno dei presenti era in grado di contrapporglisi, di esprimere un parere diverso da quello che evidentemente era il suo, e neppure di attenuarlo, di negargliene l’importanza. Infine chi lo ascoltava, anche se le sue convinzioni non fossero ostili al fascismo, anche se la sua considerazione del fascismo non fosse del tutto negativa, taceva, al più mostrava di estraniarsi da ogni manifestazione di consenso con lui; e ciò sia perché l'accento di Montale in questi suoi interventi metteva in evidenza una tale carica di esasperazione e di indignazione da rendere difficile ogni riserva, a meno di non voler trasformare la conversazione in una lite; sia perché a chiunque considerasse od intendesse i propri atti e le proprie scelte come determinati dall’intelligenza, quelle manifestazioni del fascismo, delle persone che ne erano le portatrici, non potevano non risultare dalla rappresentazione che Montale ne faceva come offensive di ogni principio dell’intelligenza. La sua lezione perciò finiva con l’assumere un carattere di perentorietà: il fascismo si opponeva, negava, rifiutava l’intelligenza; chi accettava il fascismo ed al
tempo stesso si riteneva uomo di cultura, scrittore, dall’intelligenza illuminato, non poteva non rendersi conto della profonda contraddittorietà in cui si dibatteva; a lui una scelta si imponeva; e quale essa dovesse essere sopratutto ad un giovane non restavano dubbi. Evidentemente l’antifascismo di Montale non si riduceva in tali limiti; non
per nulla egli aveva collaborato a «Il Baretti» ed era stato amico di Gobetti; ma quello che mi preme qui sottolineare si è come la sua contrapposizione al fascismo non si fondasse solo su dei principi, e fossero politici come morali, ma proprio su di una reazione umana, quasi fisica, quasi su di un fatto umora-
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le; che in ogni modo rispondevano alla sua intera personalità, al suo modo di considerare l’uomo e la vita e la realtà e di comportarsi di fronte ad essi. E qui dobbiamo completare questo discorso partendo proprio da quella che ho cercato di delineare come la condizione esistenziale di Montale: la sua difficoltà di confrontarsi con la realtà, di decidere una propria scelta, un proprio comportamento e l'impossibilità di intervenire su di essa conformandola in qualche modo secondo un proprio desiderio, secondo una propria aspirazione; questo era il suo limite umano di fondo; del quale egli era completa-
mente cosciente e del quale soffriva. Ora a lui il fascismo si presentava nella sua accezione più vistosa, in quella sua determinazione di agire, di fare, di intervenire, di modificare la realtà, la realtà degli uomini a proprio piacimento. Questa volontà di intervento e di imposizione poteva anche offendere Montale in quanto metteva in evidenza la sua incapacità, la sua impotenza; poteva anche accentuare in lui quel senso di solitudine, dell’essere diverso e quindi escluso da una società; ed era l’intera società italiana, almeno quella ufficiale e quella che aveva accettato ed accettava il fascismo, la quale si conformava e si riconosceva in tale determinazione e nel costume che ne conseguiva. Ma l’intelligenza di Montale a questo punto si ribellava, poiché gli era anche facile constatare quanto di velleitario, di improvvisato, di equivoco e di fallace improntasse e condizionasse ogni intervento, ogni azione, ogni impresa del fascismo. Cosicché in un certo senso egli poteva anche sentirsi riscattato,—
nella propria impotenza, nella propria incapacità nell’agire anche quotidiano,- da questo esempio patente di quel che, a chi avesse occhi per vedere e buon giudizio per capire, non poteva non risultare come l'esaltazione della più fallace delle apparenze, contro ogni autentica sostanza. E da questa continua messa in evidenza delle opere e delle imprese del fascismo nella loro intrinseca conttaddittorietà, nel loro equivoco di fondo, l’acutezza critica di
Montale usciva sempre confermata. Ma c'erano nel carattere, nella personalità di Montale un altro elemento, un’altra componente, senza i quali, senza tener conto dei quali, non riusciremmo ad intenderlo nella sua più piena dimensione, nella compiutezza della sua personalità. Poiché di questo comportamento, di questo modo di essere, di questa massiccia ed incombente presenza del fascismo, egli in fondo soffriva;
soffriva di vivere in un paese che accettava e che si conformava per una sua buona parte, per la sua parte più evidente, sul modello del fascismo, che dal fascismo si sentiva rappresentata. E ciò tanto più in quanto, per la sua età, durante la sua adolescenza e la sua giovinezza, egli aveva sperimentato un altro modo di governare, di gestire il potere nel nostro paese, al quale, con tutte le sue deficienze ed i suoi errori, andavano in ogni modo le sue preferenze; mentre, ancor più, altri paesi in Europa, alla cui cultura il nostro si riferiva
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di necessità, dai quali anche dipendeva per la propria, ci offrivano un esempio di come una moderna organizzazione della società potesse conciliarsi con il rispetto dell'autonomia della singola persona. Cosicché in lui, proprio per questi esempi cui sempre egli si riferiva, erano profonde l’aspirazione ed anche la convinzione che in Italia, in un futuro più e meno lontano, la realtà, il modo di vivere si sarebbero potuti presentare ben diversi, altri da quelli presenti; nei quali anche lui si sarebbe potuto inserire, ricuperare o conquistare infine una propria unità, sentirsi integrato con una sua pienezza di uomo, in rispondenza con le cose e con gli altri. Il suo profondo, costituzionale disprezzo per il fascismo viveva nell’attesa di quella ch’egli pensava, che ansiosamente attendeva come l’ineluttabile caduta di esso, il suo necessario fallimento
definitivo. Sin da quando lo avevo conosciuto, sin dai miei primi incontri con lui, io avevo sentito la forza perentoria della parola, delle affermazioni, delle scelte di Montale; tanto che rapidamente venni considerando la sua presenza ed il suo insegnamento, anche se non sempre esplicito, come un punto di riferi-
mento sicuro, dal quale in nessun modo potessi esimermi. Ed a tale sentimento di ammirazione, di stima e di rispetto, quasi di necessità si era accompagnato quello della riconoscenza e quindi dell’affetto. E devo dire che, anche col passare degli anni, anche dopo ch’ebbi conquistato una mia maturità, sempre conservai il desiderio, addirittura spesso provavo la necessità, di risentirmi in lui, di confrontarmi con lui; e tale egli restò per me sinché visse. Pertanto egli ha occupato un posto preminente nella mia formazione letteraria, e non solo in quella letteraria. E difatti ben presto, nella mia frequentazione di lui, mi venne fatto di diventare partecipe di un suo impulso, di una sua indicazione, investito anch’io di quei valori di cui lo sentivo portatore e di cui mi andavo facendo sempre più cosciente; e quindi desideroso di offrire, di portare un mio contributo, per quanto di ben limitata importanza, per favorirne, per renderne possibile l’affermazione. Così da una sua parola, da un suo suggerimento talvolta partivo per una mia ricerca, per lo studio di un’opera o di uno scrittore al fine di appropriarmi e di svolgere compiutamente quella che era stata la sua prima suggestione; e tale era la mia dipendenza in tal senso da lui che non esitavo a dichiararla, anche se in modo scherzoso, quando, insieme a Vittorini, mi proclamavo suo discepolo e paladino, anche nei confronti degli altri scrittori più anziani di «Solaria»; dal che lui, un po’ compiaciuto, un po’ preoccupato, quasi non volesse assumersi una responsabilità che poteva sembrargli compromettente, si schivava, come se davvero un simile ruolo di guida esemplare non gli si confacesse. Mentre, al tempo stesso egli non poteva non rendersi conto di come quella nostra affermazione avventata, detta con accento di baldanza giovanile ed
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appena tocca di affettuosa ironia, fosse sostenuta in entrambi dalla convinzione dell’importanza del debito che avevamo contratto con lui; e, per quanto mi riguardava, di come davvero io mi considerassi suo allievo. D'altra parte egli si rendeva ben conto di quella mia giovanile ammirazione, e pure della mia irriducibile fedeltà; e non le respingeva, anzi tacitamente le accettava; tanto che talvolta, chiamato in causa in una polemica letteraria od aggredito da qualche avversario, restio, persino timoroso di fronte al rischio di essere coin-
volto in una rissa ed al tempo stesso irritato ed indignato di quella che gli appariva l’altrui prevaricazione; pur senza suggerirmi di farmi suo interprete, tacitamente mi invitava, quasi mi sollecitava ad una presa di posizione, a manifestare insomma la mia solidarietà con lui. In tali occasioni, in me si alternavano ed anche si accompagnavano moti
diversi e contrastanti; poiché, se da un lato mi sentivo persino orgoglioso di questa sua fiducia, di questo suo affidamento, dall’altro il suo ritrarsi da ogni assunzione di una responsabilità, il suo chiudersi in sé finivano col dispiacermi; come se lo sentissi incapace di un atto, di una testimonianza coraggiosi,
come se egli così mostrasse di dubitare di se stesso, di dubitare anche di ciò ch’egli infine rappresentava; e forse anche, in tale contingenza, scattava in me
una carica di orgoglio, a sottrarmi da quella che poteva risultare come una soverchia dipendenza da lui; come se mi dispiacesse di sentirmi da lui strumentalizzato. Di fatto, col passare degli anni, con la mia quotidiana frequentazione degli amici di «Solaria», con lo studio e le assidue letture, ed anche per l’attività di
critico militante, di recensore di volumi e dell’opera di scrittori contemporanei su riviste, su settimanali e talvolta su giornali, pian piano ero andato configurando e precisando una mia personalità; se pure non potessi presumere di aver raggiunto quella sicurezza, quella fisionomia rilevata che distinguevano gli altri solariani, tutti più anziani di me. Così andavo caratterizzandomi, ed anche distinguendomi da Montale, nella considerazione dello scrittore, del valore della presenza dello scrittore nella società umana, e quindi del valore e dell’importanza della poesia, come di ogni altra attività, di ogni espressione dell’uomo. Sentivo la poesia come l’espressione necessaria in cui l’uomo trasferisce ogni propria aspirazione più
alta, il meglio di sé; in cui propone un modo di essere, quel modo di essere ch’egli considera esemplare, cui aspira. Di conseguenza chiedevo al poeta, allo scrittore, di dare con essa una decisa, strenua testimonianza di sé. E ciò anche perché la sua opera potesse conservare la propria autenticità, si presentasse sempre come il momento in cui egli si considerava e si esprimeva con una piena e coraggiosa dedizione; senza accondiscendere a giustificazioni od a commiserazioni nei propri confronti. E quindi per me la poesia doveva essere
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anche educazione alla vita; capacità di scoprire nella realtà ed in se stessi il meglio della vita, per essergli fedele, per conformarsi su di esso. Così, gradualmente, di Montale, da discepolo attento e preoccupato di accogliere ogni sua parola, ogni suo insegnamento, ero diventato esigente
interlocutore; non certo per contrappormi a lui, ma da lui pretendendo che sempre rispondesse a quella figurazione che di lui mi ero fatta, attraverso quello che di lui avevo letto, attraverso gli interventi che di lui avevo ascoltato; ed era una figurazione aliena da cedimenti, da accondiscendenze troppo facili, ligia ad un principio di rigore, ad un costume di conseguente onestà, ch’io accanitamente, talvolta disperatamente, cercavo in lui, che a lui chiedevo in un mondo ed in un momento contrassegnati dall’incertezza e dal compromesso. E mi accadeva, in questa mia esigente attesa, in questo mio tacito dibattito con lui, di farlo cadere talvolta in contraddizione con se stesso, di metterlo in
difficoltà, addirittura di provocarlo sino ai limiti di un’irritazione ch'egli appena dominava; come se da me venisse costretto a cercare, a ritrovare una coerenza cui intendeva sottrarsi, cui male si adattava.
Così, in questo secondo momento del mio apprendistato, mi accadeva, in quanto dicevo, ma ancor più in quanto venivo scrivendo, non tanto di differenziarmi o addirittura di contestare, di ripudiare quello che consideravo il suo insegnamento; quanto di voler portare i suoi giudizi, le sue affermazioni e rivendicazioni, ed infine i principi dai quali queste derivavano, sino al loro ultimo termine, in una conseguenza che non soffrisse eccezioni o reticenze. È mi poteva accadere in tal senso, di partire da una sua sollecitazione,— e fosse in senso positivo come negativo, ma impegnato ad andarne a fondo, a ren-
dermi conto con tutti i mezzi di cui disponevo delle ragioni e dell'importanza in uno od in altro senso dell’opera propostami; e mi poteva anche accadere di recensire in termini severi ed anche negativi un volume o l’intera produzione di uno scrittore nei confronti del quale Montale si tratteneva dal dare un giudizio non favorevole, o in quanto con lui aveva un rapporto di amicizia o per una riserva di opportunità; il che io infine gli rimproveravo, che non accettavo. Ed allora, benché dopo avere scorso rapidamente quel mio scritto appena pubblicato, appena me ne accennasse senza darne un giudizio, bene mi rendevo conto come la mia intransigenza, la recisa perentorietà di quei miei interventi non sempre lo soddisfacessero, a volte addirittura ne restasse irritato. Ma a volte mi poteva anche accadere quando lo vedessi tutto abbandonato ad un discorrere che a me appariva improntato ad una certa condiscendente fatuità confinante con quello che consideravo il suo eccessivo gusto del pettegolezzo, con persona di cui né io, né tanto meno lui, apprezzavamo
l’opera, ma che gli offriva il destro di rievocare il ricordo di comuni conoscen-
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ze, di comuni frequentazioni con quelle punte di mondana malignità che gli erano proprie,- di assistere, senza neppure tentare di parteciparvi, alla loro conversazione, con un atteggiamento di puntigliosa estraneità che sfiorava la scortesia e rivelava la mia disapprovazione. Gli capitava allora, quando quel visitatore occasionale se ne era andato, di manifestare con me la sua irritazione per quel mio comportamento, come ribellandosi a quello che considerava
un mio continuo ed inopportuno controllo; quasi da me gli fosse impedita una piena libertà di movimenti, della agevolezza di manifestarsi come meglio gli aggradasse. Ed ancor più lo irritava il fatto ch’io, al suo rimprovero, non mi discolpassi, non mi giustificassi, ma vi reagissi in silenzio, dispiaciuto sì di averlo amareggiato ma deciso a non pentirmi, a non smentirmi, a restare fede-
le a quella mia intransigente pretesa nei suoi confronti. Ora, proprio per il fatto che la sua presenza, che il suo insegnamento avevano avuto tanto peso sulla mia formazione e che sempre avevano su di me un valore determinante; proprio in quanto per me egli contava non solo per quello che era stato, per quello che aveva fatto, ma anche per quello che era, che andava facendo; io mi ponevo di fronte a lui come colui che esige, o perlomeno come chi chiede alla persona che stima ed ammira una piena coerenza, il pieno rispetto di sé, di ciò che ha rappresentato e che tuttora rappresenta. E così, con esigente insistenza, lo incalzavo perché rispondesse a quella più alta immagine di sé, a quella che dentro di lui restava come la sua più alta aspirazione; perché su di essa puntasse, portasse il suo maggiore impegno; la tramutasse in proposito, e quindi in una spinta in avanti, la traducesse in termini di intervento e di azione, di modificazione della realtà, anche della propria realtà, del proprio modo di essere e di comportarsi. Per questo io non lo potevo accettare quando, nella sua conversazione, egli accondiscendeva al sarcasmo ed alla malignità, quasi si compiacesse nell’esemplare i limiti intrinseci alla natura dell’uomo, a quella di tutti. Un simile atteggiamento mi pareva lo immeschinisse; per me egli non doveva, non poteva neppure limitarsi ad individuare, a denunciare ciò che nella realtà era negativo; in nessun modo
egli doveva arrestarsi a tale constatazione, anche se improntata ad amarezza ed a desolazione; poiché mi pareva che in lui vi fossero una tale carica di insofferenza ed anche una tale necessità, una tale richiesta di una nuova, di
una diversa condizione dell’uomo, di un nuovo rapporto fra gli uomini, di un nuovo costume, per cui consideravo quei tentativi di assuefazione e di rinuncia cui egli talvolta accondiscendeva quasi come una smentita della sua poesia, dei momenti più alti di essa; o addirittura come un tradimento, e quindi come il segno di uno stato d’animo che, se coltivato, se accettato come definitivo, avrebbe potuto indirizzare la sua poesia in un senso che ne avrebbe certamente diminuito se non annullato la carica, che l’avrebbe privata di quello che era
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stato, sin dai suoi inizi, il suo senso più dirompente; che avrebbe finito con l’inficiarne la parte più viva. Ora Montale ben capiva come tale mio atteggiamento nei suoi confronti fosse motivato dalla volontà, per parte mia, di una piena adesione, di riconoscermi in lui e di accettarlo in ogni sua manifestazione, in ogni sua presa di posizione; e gli poteva anche accadere, quando ci trovavamo insieme, di asse-
condarmi in tal senso, di accordare il proprio comportamento su quella che era la mia attesa, su quella ch’egli ben sapeva era la mia attesa; e ciò per una propria naturale propensione all’accordo, ad una consonanza con gli altri, e così adattandosi spontaneamente, rispondendo ed accondiscendendo senza nessuno sforzo od autoimposizione a quella che era, più che la mia attesa, la mia implicita richiesta; ma anche forse sentendo il dovere, nei miei confronti, di indirizzare il proprio discorso per un certo verso, infine di rispondere appieno a quella ch'egli ben sapeva essere l’immagine ch’io mi ero fatta di lui. Ma altra volta, quando la mia richiesta, la mia pretesa gli risultavano fuori luogo, gli apparivano troppo condizionanti in un senso in quel momento a lui
discaro, ad esse riluttava, resisteva, pareva sottrarsi. E così, quando in me coglieva una reticenza nei confronti di un suo argomentare, di un suo modo di affrontare un tema, come di chi non può esprimere il proprio consenso ma al tempo stesso si esime dall’approvazione, lasciava trasparire nei suoi modi, nell’accento del suo discorso un’ombra di impaccio, di disagio, anche di celata irritazione; quando poi quella mia tacita resistenza si manifestava in termini di opposizione, se arrivavo a manifestare esplicitamente la mia pur cauta disapprovazione di fronte a qualcosa ch’egli aveva detto, che aveva affermato, egli aveva un subito moto di insofferenza; lo prendeva il desiderio di soverchiare, di respingere o di cancellare da me quella mia valutazione; ed a quella che infine era stata una mia richiesta si rifiutava di rispondere. Come se, ad un certo momento, egli mi chiedesse di essere compreso ed accettato anche in quegli interventi, anche in quegli atteggiamenti in cui accondiscendeva al gusto di sottrarsi al rigore di un’autodisciplina, di concedersi quasi una momentanea vacanza respingendo un’assunzione di responsabilità. Se poi io non lo assecondavo, permanendo in quella mia chiusura nei suoi confronti, ecco ch’egli improvvisamente scattava, reagiva sottraendosi alla mia pretesa,
arroccandosi su di una posizione di difesa, rifiutandosi infine di rispondere a quel modello ch’io mi ero fatto o intendevo farmi di lui. Ma in questo suo atteggiamento vi era anche un altro risvolto; vi era cioè la
difesa di una sua intimità, di un suo pudore. Molte volte il suo comportamento, il suo conversare erano intesi a celare, a ricacciare dentro di sé quello che era un suo sentimento, ed anche un sentimento profondo; come se quella fosse una zona che gli apparteneva, segreta, e che neppure in lui arrivasse e
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potesse arrivare ad una piena comunicazione. E si noti in tal senso come mai
Montale abbia raccontato a qualcuno il tema, l'argomento, la trama di una sua poesia; mai ne abbia anticipato gli elementi di fondo; e come di esse perlopiù neppure abbia mai dato la prima motivazione, ci abbia detto da quale esigenza interiore esse erano nate. Tanto che più volte e nelle più diverse occasioni
egli ha teso a dichiarare come la poesia nasca da sé e come il poeta difficilmente possa rendersi conto delle ragioni che lo spingono a scriverle. Mentre spesso i racconti poi raccolti in La Farfalla di Dinard sono stati anticipati da lui in conversazioni, in narrazioni rivolte agli amici, talvolta addirittura già complete nel loro svolgimento, ed anche precise nel loro linguaggio, nel tono di cui erano permeate. Ed a questo proposito dobbiamo anche riconoscere come raramente, in ben pochi casi, quei brevi racconti abbiano l’intensità, addirittura partano da una ragione tanto perentoria, da una tale forza necessaria quali quelle che determinano le sue poesie; anche quelle che non raggiungono una loro piena e distesa enunciazione.
E qui direi che quegli scatti con cui Montale reagiva a taluna mia richiesta, o ad una mia pretesa, od a quelle di altri simili alle mie quando si sentiva cimentato a fondo, quando sentiva ch’io od altri da lui pretendevamo un impegno totale rispondevano proprio a quell’empito, a quella violenza da cui tante volte sono motivate nel loro momento iniziale le sue poesie. Da ciò la sua reazione nei miei confronti, poiché io con quel mio chiedere non facevo che proporgli quanto già era dentro di lui, non facevo che mettere a nudo quanto più lo arrovellava, un interrogativo, un’angosciosa volontà di risoluzione che lo perseguitavano; cosicché, rifiutandomisi, respingendomi, non faceva che celarsi, che negarsi, proprio nella difesa della parte più segreta di sé; quella che in lui trovava il suo esito solo nella poesia. Chiudendosi così in una sorta di disperato ripiegamento in sé; come se potesse trovare una solu-
zione al suo travaglio solo in se stesso; senza darne ragione agli altri, senza
accettare lo stimolo e l’invito degli altri. Ma ciò significa anche come egli desse uno spazio agli altri; come spesso le sue poesie finissero con l'essere una risposta,- magari lungamente maturata in
lui alla richiesta, alla proposta, diciamo pure alla sfida di qualcuno; senza con ciò darlo a divedere. E si tenga ben presente di come e di quanto la poesia di Montale sia ancorata a tutta la nostra cultura e non solo alla cultura poetica del suo tempo; e come essa si presenti talvolta come ben inserita in un dibattito di cui anche potremmo individuare gli interlocutori, di volta in volta. E come al tempo stesso la sua poesia,— se parta da una suggestione che al poeta viene di fuori sempre si proponga, addirittura sia determinata, da una volontà di portare avanti un discorso, di dichiarare un termine ulteriore, di giungere ad una risoluzione che è sua, di Montale; come per la necessità di
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sopravanzare l’accenno, il momento cui l’altro è giunto e dai quali egli è partito. Ma, ancor più, per la necessità di ritrovare se stesso, di ricostruire il proprio mondo, una propria posizione, resi ancor più sicuri, ancor più suoi ed a lui convenienti dopo il confronto. E si veda anche, a tale proposito, come egli talvolta abbia risposto agli obiettori, a coloro che avevano manifestato riserve
nei suoi confronti o che gli avevano rivolto delle critiche di fondo; com’egli abbia loro risposto in termini perentori ed anche indignati, difendendo una propria personalità, dichiarandosi in termini di una evidenza descrittiva di sé, come mai aveva fatto mancandogli un tale stimolo, una tale provocazione. In ciò proprio geloso della propria più profonda intimità, della propria più autentica individualità; come dichiarandosi il solo responsabile di se stesso; il solo capace di giudicarsi senza attenuazioni, senza ipocrisie, non solo con
piena conoscenza, ma addirittura con spietatezza, con una coraggiosa e ferma dignità. Ora, in quegli anni lontani, la mia richiesta nei suoi confronti peccava di semplicismo; nella mia giovanile sprovvedutezza allora io tendevo a ridurre Montale al mio livello, nei miei termini, e perciò, per quanto mi rendessi conto, se pure vagamente, di come essi nascessero da uno stato d’animo travagliato, fossero motivati da una ragione profonda, non riuscivo a rendermi ragione compiutamente di quei suoi scatti, di quelle sue ripulse, di quelle sue insofferenze nei miei confronti, nei confronti di quelle richieste che esplicitamente od implicitamente gli rivolgevo. Ed insieme mi accadeva come se, per esse, mi sentissi costretto, investito di una responsabilità; tanto che le sue ripulse, invece di allontanarmi da lui, mi facevano a lui più vicino, più desideroso di comprenderlo; se possibile anche inteso ad aiutarlo. E d’altra parte anche mi pareva di comprendere, od almeno lo speravo,— e mai egli mi smentì in tal senso, che quel suo modo di reagire al mio comportamento nei suoi confronti fosse dettato anche da un legame profondo che ormai esisteva fra noi; poiché egli era certamente tanto attento e tanto acuto nell’avvertire sia quanto io tendessi a rendermi partecipe di lui, ad entrare nella sua intimità, sia quanto anche mi proponessi, per quel che mi fosse possibile, di contare per lui, di essergli vicino, di rispondere a qualunque sua richiesta, a qualunque suo desiderio. Insomma, proprio per quel mio comportamento, proprio
per quel mio continuo dibattito con lui, egli non poteva non rendersi conto di quanto io avessi bisogno di lui, di riferirmi a lui, di confrontarmi con lui; di quanto anche avessi tentato e sempre tentassi di inserirmi, di diventare parte-
cipe di quel profondo travaglio, di quel dibattito interiore che era quello di ogni uomo del nostro tempo, che vivesse nella cultura nella quale eravamo nati e della quale eravamo nutriti di cui per me egli era il testimone più angosciato, il portatore più ansioso; di come infine fossi sempre sostenuto,
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proprio per quella sofferta partecipazione, dalla volontà di superarli, di trovare ad essi un esito positivo. Messomi per questa via e tenacemente ed anche testardamente deciso a percorrerla senza pentimenti e soste, in quel mese di licenza nel periodo del servizio militare di leva che passai a Feltre, mi venne fatto di scrivere un libretto tutto intonato ad uno sfogo ingenuo ed alquanto sprovveduto sulla nostra letteratura contemporanea; al quale, quando fu pubblicato ed egli lo ebbe ricevuto e letto, Montale reagì, per quanto me ne dissero gli amici, con profonda irritazione, ch’egli mai però mi comunicò, né con una lettera né più tardi a voce; in ciò seguendo un suo costume, o meglio quel modo di comportamento che gli era solito in simili contingenze. Di esso evidentemente gli erano dispiaciute e la rivendicazione troppo perentoria del valore della sua poesia, ch’egli considerava addirittura provocatoria e compromettente per lui, e la denuncia di una evidente sordità di fronte ad essa di una parte della nostra critica, ed in modo particolare di Pietro Pancrazi,- il quale allora primeggiava fra i recensori di terza pagina dei quotidiani, colpevole, secondo me, di avere atteso dieci anni dalla prima apparizione degli Ossi di seppia per scriverne in modo di adesione cauta e limitata da una grave riserva. Ora, con questo moto di accesa irritazione, Montale, se metteva in evidenza
un lato del suo carattere, finiva anche col sottolineare il rapporto che lo legava a me; in quanto tale sua reazione, se era motivata dalla sua ripugnanza all’essere chiamato in causa in termini tanto clamorosi e quindi caricato di un’eccessiva responsabilità, ancor più lo era dal timore che Pancrazi potesse sospettare dietro a quella mia affermazione, dietro a quella mia denuncia, un suo suggerimento; che infine io mi fossi fatto portatore di un suo risentimento. Insomma in lui primeggiava la preoccupazione che in qualche modo, per causa mia, i suoi rapporti con Pancrazi potessero essere perlomeno turbati, se
non resi difficili. Così finiva che tali posizioni, anche contrastanti, condizionavano il nostro modo di essere ed anche di comportarci l’uno con l’altro; per cui, nei miei
confronti, egli non poteva non nutrire per me un’amicizia, la quale poteva avere anche dei momenti di adesione piena, concorde, ma nella quale egli anche talvolta assumeva un atteggiamento di distacco, di difesa; quasi a farmi intendere che in nessun modo egli poteva e voleva rispondere alla mia richiesta, a quel modello di uomo, di persona, ch’io gli attribuivo, che io esigevo da lui. Tanto che talvolta egli aveva di fronte a me un moto di ritrosia, addirittura
quasi di timidezza; ed altre volte invece improvvisamente scattava in una decisa ripulsa, ad esimersi, a sottrarsi a quella ch’egli considerava una mia pretesa
inopportuna.
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E certo che questi suoi scarti, che questa che poteva anche apparire una sua ambiguità mi lasciavano insoddisfatto ed anche mi poté accadere in quel tempo di essere ingiusto ed ingeneroso nel mio giudizio su di lui, poiché non mi rendevo conto appieno, come mi avvenne poi, di quanto egli si sentisse insidiato, di quanto si sentisse indifeso, di quanto egli vivesse nel timore di una minaccia di cui non poteva cogliere appieno tutti i termini, tutte le componenti. Erano questo timore, questo senso di accerchiamento, di assedio che lo portavano a ritrarsi, a non figurare, a non mettersi in evidenza: come se un
avversario celato, anche sconosciuto, fosse attento a considerare ogni suo intervento, ogni suo passo, per coglierlo in errore, per colpirlo; come se egli da tale insidia non potesse difendersi, non potesse sottrarsene; e come se, di conseguenza, fosse costretto a vivere in un’atmosfera di incubo; perlomeno di
insuperabile disagio. Ma la mia amicizia con Montale, in quegli anni, e quasi sin dall’inizio, non si era limitata ad un rapporto letterario; dopo qualche tempo io ero diventato un po’ partecipe della sua vita quotidiana, l’avevo anche in parte condivisa, ed ero andato sempre più legandomi a lui affettivamente, testimone di una sua vicenda umana alterna, delle difficoltà che egli incontrava nel suo faticoso cammino, delle sue esigenze, delle sue aspirazioni tanto limitatamente soddisfatte, della sua esistenza così grigia e cui ben poche occasioni di serenità e di lietezza si offrivano. Al tempo del mio primo incontro con lui, egli risiedeva a Firenze ormai da tre anni; dapprima, assunto come impiegato presso la casa editrice Bemporad con uno stipendio modesto, vi aveva svolto mansioni che in nessun modo rispondevano alle sue preferenze e che neppure utilizzavano la sua preparazione e le sue capacità; poi, dopo un paio d’anni, poiché Bonaventura Tecchi, ormai indirizzato verso la carriera universitaria, aveva lasciato la direzione del
Gabinetto Vieusseux, egli ne aveva preso il posto, evidentemente anche per l’intervento dell’amico; e qui la pochezza della retribuzione era compensata dal fatto che quell’impegno rispondeva completamente ai suoi interessi e gli lasciava al tempo stesso una libertà di movimento quale prima certo non aveva conosciuto. Nel primo periodo del suo soggiorno a Firenze egli aveva preso alloggio in una squallida camera ammobiliata quale gli era permessa dalla sua ben limitata disponibilità economica; poi Matteo Marangoni, che gli era amico e che lo stimava, con una decisione generosa, a sollevarlo da un dispendio per lui forse eccessivo, gli aveva offerto ospitalità nella villa in cui abitava con la famiglia, in una stanza del seminterrato a nulla adibita sino allora. Montale in quella
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stanza dormiva la notte e riposava durante la breve sosta pomeridiana; poiché desinava e cenava sempre in una di quelle trattorie in cui il costo del pasto era modesto ma i cibi genuini e che erano frequenti nel centro di Firenze; di volta in volta affezionato all’una od all’altra, a seconda che vi si sentisse bene accolto, trattato con una qualche considerazione e preferenza; od anche soltanto desideroso di cambiare cucina, di gustare altre pietanze, altri sapori: ed a lui talvolta si accompagnava qualche amico di passaggio per Firenze o giuntovi
per un breve soggiorno. Dopo un primo tempo, poiché ebbi superato l’impaccio che mi tratteneva dalla confidenza nei suoi confronti, gli divenni commensale consueto nei periodi in cui le lezioni e gli esami universitari mi trattenevano nella città. Ma casa Marangoni ben presto gli si aprì in una disponibilità che gli offriva maggiore spazio. La moglie di Matteo, Drusilla Tanzi, era donna di carattere vivace, attiva e desiderosa di incontri e di frequentazioni, con l'aspirazione di introdursi negli ambienti intellettuali di Firenze; pronta quindi ad accogliere ogni invito, ogni sollecitazione per mostre, per convegni o dibattiti che le dessero la possibilità di allargare le proprie conoscenze nell’ambito letterario od artistico; e ciò benché i suoi studi fossero stati irregolari e le sue basi culturali apparissero perlopiù improvvisate e non approfondite. D'altra parte le sue letture erano molto limitate anche a causa della forte miopia da cui era affetta, che la costringeva a portare occhiali dalle lenti di tali dimensioni da caratterizzare il suo volto e la sua espressione; e di qui le venne quel nomignolo datole da qualche amico: «la Mosca», da lei accettato quasi con compiacimento e con il quale ben presto tutti le si rivolsero; da esso forse non era del tutto estranea l’allusione un po’ maligna al suo modo di essere, caratterizzato da una pertinace puntigliosità, quasi da petulanza, nelle sue insistenti richieste, quando volesse ottenere qualcosa, quando volesse soddisfare un proprio desiderio, una propria esigenza. Per questa capacità di apertura e di disponibilità della Mosca, ecco che a Montale divenne facile ben presto rivolgere a nome di lei un invito agli amici che a Firenze giungevano per incontrarsi con lui. Al solito essi si recavano a salutarlo al Vieusseux e si trattenevano a conversare con lui nello studio direttoriale di cui là egli disponeva; quasi sempre poi essi lo accompagnavano nelle sue soste alle Giubbe Rosse; ma infine divenne consuetudine che la sera, dopo cena, specie se si trattasse di un ospite di eccezione, quelli che erano gli amici fiorentini più vicini a Montale fossero invitati in casa Marangoni, quasi a rendere omaggio, a festeggiare il nuovo venuto. Ed in chiacchiere, in discussioni, anche in rievocazioni, si trattenevano il più spesso sino a notte inoltrata. Ben presto anch'io mi legai di amicizia con la Mosca e fui uno dei consueti
frequentatori della sua casa, tanto da entrare nell’intimità di coloro che l’abi-
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tavano. In essa, Matteo,- il quale nel frattempo aveva ottenuto la cattedra di storia dell’arte nell'Università di Pisa,- divenne quasi un ospite intermittente; il suo legame con la moglie andò sempre più riducendosi in termini formali; non sempre egli era presente in quelle serate, in quegli incontri di persone che
lo stimavano e che pure gli erano amiche, e, quando c’era, risultava persino evidente in lui una certa insofferenza, come se non si trovasse a proprio agio;
come se tendesse ad esimersi da quello che avrebbe dovuto essere il suo compito di ospite. Una simile situazione famigliare basata sull’equivoco, che costringeva sia i due coniugi sia Montale a rapporti improntati ad un evidente impaccio, infine anche a falsità, appena mascherata da accondiscendente tolleranza, durò alcuni anni, sinché Matteo si staccò definitivamente dalla moglie, lasciò la propria abitazione e si creò una esistenza indipendente da quella che ancora restava ufficialmente la sua famiglia; e ciò senza che,- almeno per quanto ne potemmo avvertire, si giungesse a tale risoluzione attraverso rotture clamorose, a scenate spiacevoli da parte dell’uno o dell’altra; forse infine per un accordo reciproco, a seguito di una schietta spiegazione. Per tutto quel periodo, ma anche più avanti, quando il suo rapporto con la Mosca poté essere accettato da tutti in termini di normalità, anche senza essere consacrato da una convalida ufficiale, il comportamento di Montale nei confronti di lei restò ben caratteristico, contribuendo a mettere in luce la sua personalità, o meglio una parte, ma ben importante, della sua personalità. A chi lo conobbe e lo frequentava in quegli anni, sebbene mai ne avesse ricevuto confidenze od anche soltanto allusioni sulla sua condizione sentimentale, poiché egli era ben restio, ben pudico anche solo all’accennarvi,— era facile
però supporre che non da lui fosse partita l’iniziativa di quel rapporto che si era andato stabilendo fra lui e la Mosca; ed anche era facile rendersi conto che
tale rapporto, il quale pure implicava una componente affettiva, non gli si era imposto dal di dentro, non gli era nato con i tratti della passione, di un amore che avesse avuto in lui un peso tale da costringerlo ad una determinazione. In ogni modo pareva, anche dal suo comportamento quotidiano nei confronti di lei, che egli fosse quasi sempre lontano dall’iniziativa, dall’assumersi, in qualunque scelta che li implicasse entrambi, una decisione od una responsabilità. Egli della Mosca subiva in un certo senso la spinta, la suggestione; a quella disposizione attiva al fare, all’intervenire, tanto preminenti in lei, egli accondiscendeva, talvolta a malincuore, come se vi fosse costretto, ed anche poteva
sottrarsene, sfuggirvi; ma anche si poteva comprendere come ne fosse attirato; come se quella che era la manifestazione di una fervida vitalità da parte di lei lo seducesse, destasse in lui non solo curiosità ma anche il desiderio di
adeguarvisi. Ancora infine si poteva pensare che per lui in ogni modo la
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Mosca rappresentasse un punto di riferimento certo, gli offrisse una sicurezza; di cui comunque egli sentiva il bisogno, che addirittura costituiva per lui un rifugio, una difesa, senza i quali si sarebbe sentito come scoperto, sprovveduto. È certo perciò che la Mosca rapidamente costituì per lui un mezzo sicuro e necessario nel suo rapporto con la realtà; una presenza continua cui non poteva rinunciare; e ciò anche in quanto ella era una donna pratica, esperta di affari, decisa nell’affrontare gli impegni e le difficoltà quotidiane che si presentano a chiunque e che chiunque riesce a risolvere a suo modo, inserendosi più o meno agevolmente nel tessuto della vita di relazione. Allo stesso tempo, anche nei rapporti con la gente, con amici e conoscenti e pure con chiunque incontrasse per la prima volta, la Mosca aveva un suo piglio discreto ed anche quasi timido, ma al tempo stesso atteggiato a cordialità, che subito incoraggiava alla confidenza; così ella compensava quella ritrosia, quella scontrosità che spesso improntavano l’atteggiamento di Montale nel suo primo approccio con gli altri. Poiché egli era sì sempre curioso e disponibile per nuove conoscenze, interessato ed attento ad ascoltare il racconto di chi aveva avuto le più varie esperienze, come se la sua fantasia ne venisse alimentata e stimolata; ma questa sua disponibilità cessava ed egli si rinchiudeva in sé appena avvertisse od anche solo subodorasse da parte dell’altro un modo di freddezza, di indifferenza nei suoi confronti. In tal senso era ben caratteristico il suo comportamento con Andrea, l’unico figlio della Mosca e di Matteo, ch'egli aveva conosciuto ragazzo, appena adolescente, alla sua venuta a Firenze, e col quale aveva convissuto sin quando questi, appena laureatosi, lasciò la madre per seguire una propria via. Monta-
le, specie nei primi tempi, avrebbe voluto essergli amico, avrebbe voluto in qualche modo contare per lui con la sua presenza; ma al tempo stesso di fronte a lui si sentiva sempre imbarazzato, quasi colpevole; poiché non poteva non avvertire come il ragazzo si rendesse conto appieno di quella equivoca
situazione che travagliava la sua famiglia e ne imputasse la responsabilità a Montale; cosicché, nei suoi confronti, non mancava occasione per fargli senti-
re la sua ripulsa, per manifestargli la sua antipatia, spesso con modi bruschi, mai rivolgendogli la parola e rispondendo a qualche sua richiesta solo se costrettovi e sempre in termini caratterizzati da insofferenza, quasi da ripugnanza. Avveniva così che quei tentativi di Montale di stabilire un rapporto di reciproca confidenza con lui spesso motivati dal desiderio di sostenere e confortare i consigli, gli inviti ed anche i rimproveri della Mosca al figlio, nascevano sotto il segno dell’incertezza, dell’impaccio, sino a risolversi talvolta in goffaggine; talvolta anche irritato dentro di sé per la propria incapacità di stabilire
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un giusto rapporto con lui, nel vedere la sua profferta ripagata con una ripulsa anche villana, ed allora da un improvviso empito portato a dichiararsi, ad esprimere il proprio diritto ad essere quello che era; ma subito costringendosi al silenzio, preso da un'esigenza di pudore, timoroso di rendere ancor più grave una situazione già difficile; e così ricondotto alla propria condizione di lacerazione, nell’incapacità di raggiungere, di conquistarsi una posizione esplicita, di chiarezza, con il ragazzo, come con chiunque.
Quando, adempiuto all’obbligo del servizio militare di leva, dopo un’assenza di quasi due anni, tornai a Firenze per portare a termine gli esami della Facoltà di Lettere che ancora mi restavano, era ormai imminente l’inizio della guerra coloniale con l’Abissinia. Con gli altri amici vi ritrovai Montale, il quale, sin dall’inizio di quell’impresa e per tutto il suo corso sino all’esito finale, vi apparve interamente coinvolto, travagliato e sostenuto da un’ansia trepidante ed incontenibile; inteso a seguirne la vicenda di giorno in giorno, in ogni suo momento, in ogni suo particolare. Ma, non contento di questa sua
puntuale e sempre aggiornata informazione, egli sentiva la necessità di renderne partecipi gli altri; così, al caffè, con gli amici, ma anche con chiunque si sedesse al suo tavolo e rientrasse nella cerchia delle nostre conoscenze, ogni giorno, dopo quella lettura di prima mattina di tutti i giornali che il Vieusseux gli offriva, ed una lettura sempre più attenta, sempre più tesa a cogliere l’inedito, l’appena detto, l’allusione o la supposizione, egli metteva in evidenza qualunque fatto potesse configurarsi come negativo, come il segno di un non lontano fallimento della spedizione. A volte arrivava al caffè in preda ad un’agitazione che non sapeva e non voleva contenere; gli pareva ormai imminente e sicura la sconfitta, il nostro corpo di spedizione sarebbe stato buttato a mare; da un particolare, da uno scacco parziale traeva conseguenze generali; dandosi per certo di quella che gli si presentava come una conclusione necessaria; ed in lui la previsione si rivestiva di volta in volta di una tensione un po’ spasmodica, a tacitare la propria ansiosa attesa. Questo suo atteggiamento, questo suo comportamento, ch’egli mantenne sino alla fine dell'impresa, provocò, anche negli amici a lui più vicini, anche in coloro che frequentavano quotidianamente il caffè, una reazione di insofferenza e di disagio; e taluni, come Loria, come Carocci, si allontanarono da lui; smisero di far parte del gruppo, anche soltanto per una breve presenza. Loria, che una volta incontrai in piazza Vittorio, mi disse che ormai non poteva più sopportare la compagnia dell'amico, quel suo accanimento esasperato che gli appariva farneticante, del tutto lontano da un assennato ragionare, nel rifiuto
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di ogni giudizio equilibrato, di rendersi conto della realtà nei suoi termini più evidenti. Ma neppure l'avvenuta conquista dell’Abissinia, il trionfo del fascismo al di là di ogni più ottimistica previsione degli altri, placarono Montale, lo costrinsero a dimettere od a moderare la sua posizione di critica spietata e puntuale. Se egli si era potuto sbagliare in quell’occasione, se la sua previsione era stata prematura, questo non significava che il fascismo non dovesse prima o poi, e forse in tempi anche brevi, andare incontro al disastro, trascinarci tutti al
disastro. E fu in questo tempo che io ebbi con lui uno scontro quale mai avevo avuto e mai più ebbi di tale dimensione e che incise profondamente su di me,
sulla mia formazione, anche sulle mie venture scelte morali e politiche. Fu da quello scontro, breve ma di un’intensa violenza, ch'io mi resi conto appieno di quel che fosse Montale, della sua natura e del suo carattere; quali mai mi si erano palesati con tanta pienezza e con tale evidenza sino allora; quando pure ci conoscevamo da sei o sette anni.
Ci trovavamo nella stanza da pranzo di casa Marangoni, c’era con noi anche Bonsanti, e la Mosca entrava ed usciva affaccendata, ed a volte sostava attirata
dalla nostra discussione; la quale verteva sul fatto politico, sul nostro atteggiamento e sul nostro comportamento nei confronti del fascismo, ormai trionfante dopo la conquista dell’Abissinia. Ed io a Montale non rimproveravo il suo antifascismo, non la sua pertinace opposizione al fascismo, anche se essa era
stata smentita dai fatti, ma gli dichiaravo che ormai quei suoi rilievi negativi sulla guerra di conquista coloniale, quelle sue critiche sul modo com'era condotta, quel suo atteggiamento protestatario, se potevano anche essere giudica-
ti generosi, avevano anche dimostrato con evidenza i loro limiti; e quali fossero il suo dilettantismo, il suo velleitarismo, che a nessun esito portavano né
avrebbero potuto portare; poiché infine, per quelli che non potevano non apparire il suo sprovveduto incaponimento, il suo rifiuto pertinace e sordo di rendersi conto di quale fosse la realtà, egli rischiava di perdere il prestigio di cui sinora aveva goduto, di essere considerato persona priva di ogni affidabilità; quasi persino un’amara macchietta. Ormai evidentemente le chiacchiere di caffè, le parole, poco contavano di fronte al fascismo, nessun apporto davano ad una sua possibile caduta; e poiché il suo insegnamento era sempre stato coerente nella decisa ostilità ad esso, era tempo che lui, come noi tutti, assumessimo altra posizione, operassimo in altro modo, ci accollassimo ben altre
responsabilità. Fu qui che esplose la reazione di Montale, alla quale si accompagnò quella di Bonsanti; entrambi decisamente opposti a me, a quello che andavo affermando, a quello che perentoriamente esigevo da loro. Montale cominciò a tremare, come gli capitava quando era colto da un sentimento profondo, da
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un violento moto passionale; tremava e gridava con empito affannato; e si dichiarava completamente; dichiarava la propria impotenza, la propria dissociazione. Che cosa mai avrebbe egli potuto fare, in quale modo agire, se neppure sapeva usare le mani con coordinazione in qualunque movimento od atto che uscissero dai consueti? lo vedevo io in grado di impugnare un’arma, un fucile, di usarli? A quei termini egli era ridotto; egli era un uomo incapace all’azione ed inetto in qualunque attività pratica: ed io non potevo in nessun modo pretendere da lui ciò ch’egli non era in grado di dare. La sua voce era spezzata ed affannata e con le mani alzate pareva quasi mi volesse aggredire; e Bonsanti accompagnava il suo dire, egli pure a voce alzata ed anch’egli preso da una profonda emozione; come se io, con le mie parole, con la mia richiesta,
avessi costretto anche lui ad esprimere un rovello che da tempo lo tormentava, lo avessi costretto a mettersi di fronte ad una risoluzione che celatamente
tante volte gli si era proposta e dalla quale era sempre rifuggito. Nella concitazione del dibattito una seggiola fu scaraventata a terra, non ricordo da parte di chi dei due; poi la discussione cessò quasi di colpo. Io non ribattei; capivo di averli costretti a dichiararsi con tutta sincerità, capivo che da loro, ma in
particolar modo da Montale, nulla potevo esigere, nulla potevo pretendere più di quel che facevano; che non potevo pretendere da Montale ch’egli divenisse altro da quello che era. E sopratutto, nei suoi confronti, ero preso anch’io da una sorta di commozione, nel rendermi conto di quello che era un suo dramma interiore; di come, manifestandosi per quello che era, egli avesse quasi espresso più che una giustificazione un atto di accusa nei propri con-
fronti; com’egli fosse dolorosamente angustiato per la propria condizione, per la propria impotenza e di non riuscire in nessun modo a superarla; né cercasse scusanti o giustificazioni rivendicando un proprio ruolo, un proprio comportamento esemplari. E da allora più non affrontai con lui quell’argomento, più neppure vi allusi. Gli ero legato ancora da un profondo affetto; sentivo sempre quanto gli dovessi; ma a questo punto, se lo accettavo per quello che era, se in nessun modo la sua figura, la sua personalità da quella chiarificazione uscivano per me diminuite, incrinate; restava il fatto ch’io sentivo la necessità di proseguire la mia esperienza umana per mio conto, di cercare e di tentare una possibilità di vita e di comportamento diversa da quella che era la sua. In un certo senso cominciarono da quel momento la mia maturità, la mia ricerca di conquistarmi una maturità. I nostri rapporti si stabilirono quindi sul piano di una reciproca accettazione; egli si rendeva conto che in me c'erano una ricerca, un’ansia che sfuggivano ad ogni suo controllo, anche ad ogni sua possibilità di partecipazione; d’altra parte egli pure sentiva ch’io gli restavo legato, che mai lo avrei sconfessato, insomma ch'io lo accettavo per quello che era, per quello che mi aveva
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dato e per quello che ancora mi dava. Ed in un certo senso a partire da quel
pomeriggio compresi che in lui, nei miei confronti, vi era un nuovo modo di considerarmi; come se egli sentisse, nonostante quella sua violenta reazione,
ch’io pure avevo il diritto di essere quello che ero; di tentare, perlomeno di aspirare a percorrere, quella via ch’egli non si sentiva in grado di proporsi; ed anche per tale verso egli mi accettava; rispettava quello che poteva essere un mio tentativo, anche se fosse fallito; e forse in cuor suo sperava che non fallisse. In un certo senso finiva ch’egli sentiva in me qualcosa di cui anche lui era partecipe, che rientrava nella sua comprensione; da cui certo non si sentiva né ripugnante né estraneo.
Ma un altro elemento mi si offrì a rendermi conto appieno del suo carattere, delle sue contraddizioni, nelle quali si esprimevano la sua dissociazione, il doloroso travaglio della sua personalità; e ne venni a conoscenza con qualche ritardo, e non perché a tale proposito egli mi si fosse confidato ché mai con me vi alluse— ma perché altri me ne informò; e con altri egli ne aveva parlato, ne aveva anche discusso, non ne aveva fatto mistero. Ed è ben caratteristico,
per rendersi conto di quali fossero i suoi rapporti con me, quale la sua posizione nei miei confronti, ch’egli per tale verso mi avesse escluso dalla sua confidenza. Il partito fascista, nei suoi anni trionfanti, e sino, mi pare, al 1938, a dimostrare ed a confermare la propria forza, la solidarietà di tutti gli italiani con le sue scelte, con la sua linea politica, riaprì le iscrizioni anche per chi sino allora si fosse mantenuto distante e persino ostile ad esso; e ripetutamente, per almeno due volte di seguito, Montale aveva inoltrato la sua domanda; che ogni volta era stata respinta. La notizia, quando la appresi, mi lasciò interdetto. Sapevo bene, per averla in parte vissuta, quale fosse la situazione dei solariani e della loro rivista in città, nei confronti delle autorità politiche. «Solaria » spesso era stata coinvolta in polemiche da parte dei fogli e delle riviste del fascismo, specie di quelli locali, e spesso le erano state rivolte accuse esplicite di non sapere o di non volere inserirsi nel nuovo clima politico che andava formandosi in Italia, anzi addirittura di contrastarlo; inoltre la rivista e le sue edizioni erano state ripetutamente colpite dalla censura con limitazioni ed esclusioni, ed una volta un suo numero era stato sequestrato dopo la pubblicazione; infine una volta, ed io ero allora assente da Firenze i suoi collaboratori erano stati convocati singolarmente in questura ed ammoniti per il loro atteggiamento, per il loro
comportamento, per le posizioni ostili al regime da loro manifestate in conversazioni al caffè; dove evidentemente qualcuno tra i camerieri si era assunto il compito di uno spicciolo spionaggio. Così, dopo questo avvertimento e dopo le minacce che lo avevano implicitamente accompagnato, i solariani si
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erano riuniti per discutere come si dovessero comportare, quali decisioni fosse opportuno prendere per evitare guai peggiori. Tra loro erano presenti le
più diverse posizioni: in taluno di pur cauta adesione, o meglio di accettazione del regime; in altri di indifferenza; Vittorini era iscritto al fascio sin dall’adolescenza ed in esso tentava di portare avanti una propria rivendicazione; e così
pure Franchi lo era da tempo; infine tutti concordemente avevano deciso di presentare la loro domanda di iscrizione, ad eccezione di Timpanaro che aveva contestato un tale cedimento con fermezza intransigente. Le domande erano state tutte accolte, tranne quella di Montale; ed egli per questa esclusione si vedeva confermato in una posizione aleatoria, del tutto insicura; difatti egli era stato assunto alla direzione del Vieusseux, benché privo della tessera del partito, dal podestà di Firenze, ma senza la garanzia di un contratto; sicché questi avrebbe potuto licenziarlo in qualunque momento e con qualunque pretesto; una motivazione politica sarebbe stata la più valida, non ammetteva ricorsi. Inoltre egli ben sapeva che, una volta licenziato, dato tale precedente, non avrebbe trovato nessun ente od istituto disposti a giovarsi delle sue prestazioni, ad assumerlo per un qualsiasi compito. Perciò si sentiva completamente disarmato, incapace di provvedere altrimenti alla propria sopravvivenza con i mezzi a sua disposizione, in balìa di qualunque capriccio, di qualunque ricatto da parte di coloro che detenevano il potere. D'altra parte nulla egli faceva per guadagnarsi quella che dall’alto veniva considerata una promozione; se nei suoi scritti mai risultavano un’allusione, un riferimento, sia pur cauti, a quelle che erano le sue convinzioni; comunque mai ne risultava un qualche segno di una sua adesione al regime dominante, alle sue scelte ed ai suoi successi; mentre egli non sapeva costringere alla prudenza i propri discorsi, la propria conversazione e fosse pure in quel caffè nel quale sapeva di essere in qualche modo tenuto sotto controllo,— mai riusciva a trattenere un’uscita improvvisa, un commento maligno che subito lo qualificavano politicamente anche per chi fosse del tutto sprovveduto. I dirigenti politici fiorentini ben sapevano quindi quali fossero le sue convinzioni e provvedevano di conseguenza; e forse, con sottile crudeltà, gli facevano pervenire di quando in quando degli avvertimenti che lo mettessero in guardia, che gli facessero comprendere come il suo avvenire era nelle loro mani e come, appena lo avessero deciso, non sarebbero stati trattenuti, per una risoluzione a lui ostile, dalla valutazione dei suoi meriti culturali, dalla considera-
zione ch’egli godeva, dal posto ch’egli ormai occupava nella nostra letteratura, ed ancor meno dall’attività ch’egli svolgeva nel gabinetto Vieusseux con competenza ed un puntuale senso del dovere. Conclusasi la guerra di conquista dell’Abissinia e mentre l’inizio e l’incerto svolgimento di quella di Spagna alimentavano nuove inquietudini e nuove
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ansie, il gruppo degli amici scrittori che solevano ritrovarsi alle «Giubbe Rosse» era andato gradualmente mutando nella sua composizione; solo una parte dei vecchi frequentatori restavano fedeli a quegli incontri giornalieri ormai fissi; mentre a loro se ne erano venuti accompagnando altri, più giovani, attirati sopratutto dalla presenza di Montale; ed erano Carlo Bo, Leone Traverso,
Tommaso Landolfi, talvolta anche Mario Luzi, Piero Bigongiari ed Alessandro Parronchi. Con la loro venuta, attorno a Montale si era gradualmente creata un’altra atmosfera; o meglio per loro quelli che erano il prestigio, l’autorevolezza ch’egli si era andato conquistando nella nostra letteratura con la sua poesia, venivano accettati come un dato indiscutibile; in questo senso a lui essi guardavano come ad una personalità esemplare; però al tempo stesso questa ammissione, questa convinzione permettevano loro, quasi li autorizzavano a porsi di fronte a lui come degli interlocutori depositari essi pure di una loro certezza, di un loro patrimonio culturale; l’omaggio dovuto conteneva in sé anche una contrapposizione, non come polemica, ma come riserva nei suoi confronti; infine come difesa di una loro autonomia; insomma essi accettavano i termini, od alcuni termini, della sua poesia in quanto essi rientravano
nella loro concezione di che cosa dovesse essere la poesia, di che cosa fosse. Avveniva così ch’essi, od almeno alcuni di essi, accettavano Montale, il suo comportamento, il suo modo di essere, di presentarsi, di manifestarsi, dandoli
per scontati del suo patrimonio umano, del suo essere uomo. Infine per loro la poesia era un punto di arrivo definitivo per l’uomo; che si doveva accettare, in quanto il poeta si rispecchiava in essa, si trasferiva in essa con la parte migliore di sé; la sola infine che contasse; così da ancorarsi ad una zona di contemplazione; e là raggiungere uno stato di pacificazione, di serenità, di equilibrio. Quella che ne era la preparazione, l’elemento umano dal quale la poesia nasceva, pure la realtà cui essa si riferiva contavano solo in quanto erano superati, ed infine annullati nella loro ragione prima, dalla poesia. Finiva così che la poesia riscattava chi ad essa giungeva, chi ad essa si affisava, da qualunque suo scacco, come da qualunque suo cedimento; poiché tutta la parte umana, quotidiana dell’uomo aveva un carattere, una connotazione del tutto casuali, senza un vero peso definitivo; essa restava un fatto episodico,
senza nessuna incidenza determinante sulla poesia, sul modo di fare poesia. Quel fare, quel comportamento di Montale che talvolta itritavano i suoi vecchi amici, ch’essi talvolta gli rimproveravano; ai quali io mi ero spesso contrapposto e gli avevo almeno tacitamente contestato, ai suoi nuovi amici non apparivano offensivi e neppure incresciosi; anzi essi giungevano a confermarli nelle loro scelte, nelle loro convinzioni; non facevano che comprovare la profonda dissociazione presente ed implicita nella sua natura, come in quella di qualunque uomo. Infine Montale era a quel modo, si comportava in quel
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modo quasi di necessità, legato alla sua condizione umana, dipendente da essa; di là da questo termine, di là da quei momenti e da quegli atteggiamenti che in lui a molti potevano dispiacere vi era la sua poesia; che si staccava da essi, che in un certo senso li annullava; da ciò la sua permanente contraddizione, da ciò il suo continuo travaglio; ch’essi, con la loro frequentazione, con la
loro amicizia, tendevano a fargli superare con un’operazione di distacco, di rifiuto; spostando decisamente il proprio impegno, ogni propria attenzione su quel che più contava, anzi su ciò che solo contava, la poesia. Mentre per altro verso egli alle vicende umane, anche alle proprie, avrebbe dovuto guardare con sufficienza, accondiscendendo ad esse senza esserne davvero partecipe,
senza sentirsene coinvolto. Ed in tal senso essi anche entravano nella sua esistenza quotidiana, nella sua giornata, lo rendevano anche partecipe di talune loro abitudini, di un certo loro costume di ascendenza goliardica, cui solevano accondiscendere, che solevano concedersi con un reciproco gioco di svilimento e di riserva ironica; ad evitare forse ogni motivo di insoddisfazione, di scoramento di fronte ad uno stato, ad una realtà, ed anche ad una loro realtà, che non li soddisfaceva, che non li tacitava. Ed a queste loro esperienze egli talvolta poteva assistere ponendosi in disparte, sempre come uno spetta-
tore curioso di una vicenda umana che, senza impegnarlo, lo divertiva nella propria prudente cautela. Si può dire anche che, almeno per un certo periodo, fu questa per lui una compagnia stimolante, cui egli si confrontò ed amò confrontarsi; ed anche, attraverso questo confronto, egli poté mettere in luce taluni elementi, taluni momenti della sua poesia, spingendosi con essa sino a quello che per lui poteva essere un ultimo termine in quel senso; ma infine ritraendosene. Ed io di questa che infine era una piena fedeltà a se stesso, alle proprie più fonde esigenze, mi resi conto un giorno, mentre, insieme a Bo, desinavamo in una
delle modeste trattorie ch’egli frequentava. Lo pungeva e lo sollecitava Bo con un suo discorso nel quale poneva come a sé modello esemplare di scrittore, del modo di essere e di fare poesia, il Petrarca; ed io, per parte mia, quasi a costringere, a provocare Montale, lo appoggiavo tacitamente; sin quando a Bo venne fatto, quasi di necessità, quasi a quell’esito non potesse sottrarsi, di contrapporre al modello Petrarca il modello Dante, a tutto e solo vantaggio del primo; e qui Montale,— il quale sino allora aveva ascoltato senza intervenire, mangiando con il capo chino sul piatto; e già il suo silenzio avanzava una riserva, con esso egli si poneva in una posizione di cauta attesa, d’un tratto
esplose, a voce alta e perentoria, dando un esito a quella che in lui era indignazione; poiché quel confronto non si poteva neppur fare; quella scelta non era neppure da porsi; tali erano la superiorità, la esemplarità di Dante. Ed era questo uno dei momenti in cui egli si rivelava nella sua dimensione più auten-
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tica, sostenuto davvero da una convinzione che non ammetteva attenuazioni o limitazioni.
Dopo che ebbi ottenuto la laurea in lettere, i miei soggiorni a Firenze vennero diminuendo ed abbreviandosi; e così i miei incontri e la mia frequentazione di Montale e degli altri amici di «Solaria». Fu allora mi par di ricordare ch'egli, con la Mosca, mi venne a trovare a Feltre; dove era già stato
preceduto, per più o meno lungo periodo, da Bonsanti, da Vittorini, da Gadda e da Ferrata. Egli vi si trattenne solo un paio di giorni e con me percorse le vecchie vie della mia città, ma l’episodio culminante di quella sua visita fu quando lo portai ad ammirare il teatro settecentesco, che un tempo aveva goduto di un’attività e di una rinomanza non solo provinciali e che ormai era chiuso per ragioni di sicurezza. In quella mattina, quando le luci vi furono accese, il teatro, nonostante la
polvere che ne ricopriva le poltroncine della platea ed ogni cosa, con il giro dei suoi palchi ed il suo ampio palcoscenico, pareva vivere una sua pur fittizia ripresa. Poiché il sipario era alzato, Montale vi salì per una scaletta laterale e si presentò al proscenio; noi sedevamo in prima fila a fingerci pubblico; ed egli cominciò a cantare, dapprima con qualche emissione di voce a provare i vari registri, e quindi distesamente, brani d’opera, con quel suo tono baritonale che ben conoscevamo perché talvolta anche alle «Giubbe Rosse» egli d’un tratto soleva interrompere i suoi silenzi con qualche gorgheggio, con qualche frase musicale che commentava o puntualizzava un momento, un tema della conversazione. Ma qui, ora, cantando, accennava con le braccia o con qualche breve spostamento della persona quella che era l’azione della scena rappresentata, come se davvero si investisse della parte, provasse l'emozione del prodursi ad un vero pubblico. Ci trattenemmo così forse una mezz'ora ed egli concluse la sua esibizione con i nostri applausi, accogliendoli soddisfatto, come se finalmente avesse
realizzato quelli che erano stati un suo fermo proposito, una lunga attesa; e così la sua venuta a Feltre fu improntata da questo episodio; e di essa, quando ne parlò a qualcuno, sempre e solo ad esso si riferì; come se nient'altro lo avesse colpito, nient'altro gli fosse rimasto impresso nella memoria. Ed anche questo atteggiamento gli era ben caratteristico: la mitizzazione di un fatto, di un evento, anche minimi ma che, per lui, nella sua esistenza, acquistavano ed
andavano acquistando un significato, sopravanzava quella che ne era stata la resa evidente per gli altri, per quelli che vi avevano assistito. Ed in tali momenti, nella rievocazione di questo o di simili episodi, egli pareva trovare e confermare un suo equilibrio, la soddisfatta acquisizione di una dimensione
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umana in cui si realizzasse, si esprimesse completamente, in una zona al di fuori del consueto, di quella che era la sua esistenza quotidiana. Talvolta anche mi scriveva da Firenze. Ma è ben caratteristico come, sia
allora sia per tutta la nostra lunga amicizia, egli mai si sia rivolto a me, come soleva con altri amici, raccontando di sé, di qualche incontro occorsogli, come insomma continuando una conversazione. Quasi tutte le sue lettere indirizzate a me contengono una richiesta, una sollecitazione, una proposta; attirano la
mia attenzione su di un fatto cui io dovrei reagire, che in qualche modo mi coinvolge; ed allo stesso modo, le mie a lui sono sempre lettere che implicano una risposta, che contengono magari un richiamo. Pare insomma che i nostri rapporti siano sempre stati improntati all’esigenza, da una parte o dall’altra, di un intervento, di un'azione. Ma forse proprio in lui la mia immagine, la mia persona avevano assunto una tale conformazione, gli si presentavano con tale connotazione; ed egli ad esse si atteneva, ad esse rispondeva. Così, in quel tempo, mi scrisse segnalandomi l’apparizione della nuova rivista nata dalla scissione del gruppo di «Solaria», «La riforma letteraria», diretta da Carocci e da Noventa, nel cui primo numero un lungo intervento di questi accumunava la poesia di Montale a tutta la maggiore poesia contemporanea italiana ponendola sotto accusa, ed al tempo stesso proponendole altro modo, altra tendenza sostitutivi. E così implicitamente esemplando la propria produzione poetica allora conosciuta solo in una ristretta cerchia di amici, come portatrice di esigenze ben altrimenti valide nei confronti di quella. A me allora Noventa era quasi sconosciuto, ma l’azione ch’egli, insieme a Carocci, iniziava con quella rivista mi appariva equivoca sia da un punto di vista politico che da quello letterario; e tale mi si confermò per tutta la breve vita ch’essa ebbe. Restava poi il fatto che la sua poesia, quando qua e là cominciarono ad esserne pubblicati alcuni testi, con quel suo linguaggio di un dialetto affatturato, mi sembrava ben gracile, ben riduttiva nel suo proposito di contrapposizione a quella di Montale, e fosse pure a quella di Ungaretti. Ora, da quella lettera di Montale, se pure egli non me ne facesse richiesta esplicita, io capivo come egli da me si aspettasse una qualche reazione come altra volta aveva fatto; gli accadeva quasi di chiedermi una mia solidarietà, di farmi in qualche modo suo portaparola. Ma quella volta non corrisposi al suo implicito desiderio; e ciò anche per il fatto che in quel momento ero preso da altre preoccupazioni, da altri impegni con me stesso; e probabilmente lo delusi nella sua attesa. Poi, dopo poco più di un anno, lasciai l’Italia per un incarico di insegnamento all’estero, e per quasi due anni non lo rividi; in ogni modo da allora, e per un lungo periodo, i nostri incontri, quando non furono interrotti dalle vicende della guerra, ebbero luogo soltanto durante il periodo estivo. Intanto si annunciavano ormai tempi duri ed il regime poliziesco del fasci-
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smo andava facendosi sempre meno tollerante, sempre più esigente, sempre più deciso a controllare ed a stroncare qualunque opposizione, anche la più blanda, anche la più lontana dalla possibilità o dalla volontà di un’azione
concreta; così egli si sentiva sempre più minacciato, sentiva sempre più la
precarietà del proprio avvenire, assillato dalla preoccupazione e addirittura dall’angoscia che gli venisse tolta ogni possibilità di una sopravvivenza dignitosa. Più tardi appresi di come, in tale frangente, preso dall’affanno della propria impotenza, egli avesse giocato l’unica carta di cui credeva di disporre, l’unica che gli desse un qualche affidamento. Sin dalla sua venuta a Firenze egli conosceva i fratelli Pavolini; con Corrado addirittura intratteneva rapporti di amicizia; Corrado aveva fatto parte del primo gruppo dei «solariani»; Montale lo stimava come poeta e ne aveva recensito favorevolmente un volume di versi. D'altra parte Alessandro aveva dimostrato sempre una qualche benevolenza per « Solaria »; talvolta aveva accettato di collaborarvi; ed ora egli era un personaggio di spicco del fascismo fiorentino, responsabile di quella federazione del partito. E Montale si rivolse a lui, chiedendogli il suo appoggio o perlomeno il suo consiglio; e ne ebbe un consiglio ma non l’appoggio. Evidentemente altri fascisti, e di un qualche peso politico, si contrapponevano a lui ed ai suoi modi di gestione del potere; decisi di assumere una linea di durezza, di intransigenza e da loro egli temeva di essere scavalcato, ne temeva i propositi e le intenzioni; in nessun modo intendeva offrire un nuovo pretesto alle loro critiche. Gli suggerì quindi di far giungere a Mussolini, per altra via che non la sua, un breve promemoria sulla sua situazione e sulle persecuzioni ch’egli subiva, o riteneva di subire, da parte di taluni esponenti del fascismo fiorentino; a Mussolini una decisione che nessuno avrebbe potuto contestare. L’iniziativa si rivelava di difficile attuazione e di una bene scarsa probabilità di successo; tanto più che Montale non conosceva nessun’altra personalità politica in cui potesse riporre la propria fiducia, disposta ad accettare tale compito di mediazione. Infine decise di rivolgersi a Marcello Gallian, scrittore di una qualche notorietà, il quale da sempre aveva rivendicato la propria fede di scrittore interprete del fascismo, se pure ben lontano dallo squallido conformismo di cui al solito si connotavano quanti militavano sotto quella insegna, ed il quale in ogni modo intratteneva stretti rapporti con gli uomini del potere, nel partito e nei vari Ministeri. Era questi un intermediario ben anomalo, ma Montale lo conosceva, ne conosceva anche la generosità e nutriva una ben ingenua fiducia sulle sue possibilità. Gallian fece certamente quanto stava in lui per assolvere il compito che si era assunto; Montale gli inviò la breve memoria scritta in «forma dignitosa e forse fredda»; essa fu consegnata a chi di dovere, ma non sappiamo se giunse mai nelle mani di Mussolini, se questi la abbia letta; certo Montale non ne ebbe nessuna risposta; o meglio
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l’unica risposta che ne ebbe, se fu una risposta, fu quella che lo colpì dopo non molti mesi da quella sua iniziativa con il licenziamento dalla direzione del Vieusseux, senza preavviso e senza neppure una minima liquidazione per il servizio prestato durante almeno un decennio. Questa amara vicenda, la quale più di vent'anni dopo fu fatta conoscere in termini di denuncia da Gallian, esasperato per la propria condizione di perseguitato, di escluso, come se egli fosse stato il solo scrittore compromessosi con il fascismo; a dimostrare come tutta la nostra letteratura, tutti i nostri scrittori, in uno od in altro modo avessero compiuto atti di accettazione o di sottomissione al fascismo durante il periodo del suo dominio trionfante,- non fa che sottolineare lo stato di incertezza, di inquietudine, di ansia in cui viveva in
quel tempo Montale di fronte ad un avvenire che gli si presentava sempre più incerto; ed al tempo stesso la sua profonda dissociazione. Ma qui bisogna anzitutto sottolineare che, in tale vicenda quel che più conta si è che la sua richiesta non sia stata neppure presa in considerazione, che gli sia stata tolta l’unica modesta fonte di guadagno di cui disponesse, e proprio in quanto ben si sapeva quel ch’egli era, quel ch’egli pensava; in quanto ben si sapeva di colpire con quel provvedimento un avversario, chi era stato sempre e sempre sarebbe stato un avversario. In ogni modo il fatto stesso di rivolgersi a Mussolini, e sia pure per ottenere da lui un atto di giustizia, non poteva non risultare umiliante per Montale; poiché esso implicava il riconoscimento di un’autorità e di un potere cui egli si affidava, cui egli attribuiva anche una funzione positiva, almeno nei propri riguardi. Ed egli ben sapeva che nei metodi del fascismo nei confronti degli avversari, di tutti coloro ch’esso considerava come degli avversari, sin dalla sua nascita, sin dalle sue prime affermazioni, rientrava una volontà di umiliazione. Poiché il fascismo non si accontentava soltanto di sconfiggere chi gli si contrapponeva, chi lo rifiutava; non si accontentava di metterlo in una condi-
zione di inferiorità, nella condizione di non più nuocergli; ma si proponeva di cancellare in lui ogni atteggiamento e segno di dignità; voleva ridicolizzarlo, renderlo meschino e distruggerlo nella sua persona, nella sua entità umana; non solo perché risultassero chiare a tutti l’inutilità, l'impossibilità della resistenza, come ogni resistenza al fascismo fosse un atto assurdo, marcato da un
vacuo velleitarismo; ma come gli avversari, del movimento prima e del regime poi, fossero piccoli uomini, vili e spregevoli, indegni persino di considerazione e pietà. Perciò quella breve memoria indirizzata da Montale a Mussolini,- anche se
non ne possediamo il testo, che forse mai potrà venire ricuperato,— possiamo supporre gli fosse costata, nella sua stesura, un’amara pena; ma al tempo
stesso, con essa, per quanto ce ne possiamo rendere conto dalle sue stesse
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parole, egli intendeva difendere, rivendicare quello che riteneva un proprio diritto; infine egli intendeva denunciare delle persecuzioni o perlomeno delle minacce da parte di taluno che avrebbe potuto attuarle a suo svantaggio in quanto disponeva delle armi per farlo. Infine egli riteneva di avere svolto e di svolgere nel migliore dei modi la funzione che gli era stata assegnata e chiedeva soltanto che si prendesse atto di ciò e che gli si rendesse giustizia. Quindi quella richiesta era anche determinata e sostenuta da una carica di indignazione, nasceva anche da un moto di ribellione contro un sopruso ch’egli non riteneva di meritare; per quanto possa anche apparire strano ch'egli si rivolgesse perché gli fosse evitato a chi col sopruso aveva conquistato il potere e che sul sopruso fondava la gestione di esso. D'altra parte risulta dalle sue stesse parole che in quella memoria non vi erano nessuna dichiarazione di sottomissione, nessuna abiura e neppure nessuna giustificazione di carattere o
di sapore politico; e perché non pertinenti al suo contesto e perché tali atteggiamenti non rientravano nel costume mentale di Montale e certo egli non poteva affermare di essere quello che non era, e tutti sapevano che non era. Ma in chi, come Montale, in qualche modo si sottoponeva ad un atto che dobbiamo considerare comunque umiliante, ad una qualsiasi richiesta di essere risparmiato da una condanna, da una' persecuzione, vi era anche un ben caratteristico atteggiamento che già altrove è stato messo in luce. Ad un certo momento, nella vittima, od in chi si attendeva di essere vittima, vi erano tal-
volta quasi un sussulto, una ricerca ed un appello di umanità, al persecutore; come se al colpito, al perseguitato paresse impossibile di non trovare in lui un momento, un atto soltanto di comprensione; come se egli giudicasse impossibile che in quella persona, benché detentrice del potere, fossero stati cancellati, eliminati completamente ogni elemento, ogni segno che contraddistinguono l’uomo; quelli che rendono possibile la convivenza umana. E purtroppo ben dolorosa, disperata era la constatazione di tale assenza, era dolorosa la
constatazione della presenza del disumano nella sua più piena e definitiva dimensione. Una tale esperienza, nella sua durata, nei suoi diversi momenti,
finiva poi, per chi la pativa, con l’accentuare la sua dissociazione; quasi egli finisse con il sentirsi investito da quella disumanità, con il sentirsene, per un qualche proprio atto, per un qualche proprio intervento partecipe; e ciò come
conseguenza della sua sottomissione, di quella che in un certo qual modo aveva potuto significare la sua accettazione.
Montale fu allontanato dalla direzione del Vieusseux senza un preavviso,
dopo un incontro con il podestà di Firenze, breve ed improntato, com'egli
stesso racconta, ad una brusca e quasi villana perentorietà. E, benché ormai egli se lo aspettasse, in un primo tempo ne fu dolorosamente sconvolto; si sentì ormai completamente indifeso, incapace di trovare una fonte di sostenta-
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mento che gli permettesse di continuare quella vita di modesta agiatezza di cui aveva goduto sino allora; e nella sua amarezza, si rammaricava che un amico, Bonsanti, avesse accettato il posto di cui egli era stato privato, come se quella accettazione avesse in un certo senso convalidato il suo licenziamento; tanto che per qualche tempo i loro rapporti ne risentirono. Com'egli aveva preveduto e come era ben facile prevedere, nessuna possibilità di un impiego, di uno stipendio gli si era offerta e gli si offriva a Firenze. Ormai le sole e ben modeste fonti di guadagno di cui potesse godere erano quelle di qualche collaborazione a riviste letterarie e delle traduzioni dall'inglese o dallo spagnolo che riuscì ad ottenere da taluna casa editrice, la Bompiani, la Sansoni per l'intervento di qualche amico. Certo la sua sopravvivenza era garantita dal legame che ormai da tempo aveva stretto con la Mosca, ma una simile dipendenza non poteva non pesargli; per essa egli non poteva non sentirsi in una
condizione di disagio. Eppure, passati i primi tempi dall’improvviso licenziamento che aveva subito, egli parve aver superato lo scacco subito, parve persino aver acquistato una nuova serenità.
Gli avveniva come se infine egli fosse in pace con se stesso: su di lui non incombeva più una minaccia, egli non viveva più nell’angustia di perdere ciò che aveva; il nemico in nessun altro modo poteva ormai danneggiarlo, non poteva più infierire su di lui. D’altra parte egli aveva fatto quanto stava in lui, quanto poteva, per non perdere quella che era la sua sola fonte di esistenza; aveva persino rinunciato un po’ alla propria dignità, si era umiliato. Ma da quella ripulsa, da quella cacciata si sentiva ora riscattato pagando di persona: così aveva acquistato una propria piena indipendenza; e nulla doveva al persecutore; egli si era posto di necessità proprio dall’altra parte, era stato riconosciuto da quello come un avversario, irreducibile; sentiva insomma di aver superato, almeno per un verso, quella dissociazione che per tanti altri ancora lo travagliava. E così non gli restava che attendere lo svolgersi dei tempi; la storia infine stava per confermare le sue previsioni che sempre erano sembrate inficiate da illusioni azzardate, da un velleitarismo sprovveduto. L’estate lo vedevo al Forte dei Marmi, dov’egli soleva soggiornare con la Mosca per un periodo più o meno lungo; in un primo tempo lo raggiungevo là venendo da Bocca di Magra, dove, insieme a mia moglie, ci eravamo uniti a Vittorini, a Ginetta, a Giansiro; ma ben presto anche noi due preferimmo la
più comoda spiaggia del Forte; e là ogni mattina lo potevamo incontrare. Egli vi giungeva perlopiù quando noi da tempo ci eravamo sistemati intorno
all’ombrellone a prendere il sole e sempre tenendo un suo libro sotto il braccio; poi, dopo i saluti e qualche chiacchiera, o dopo aver fumato la prima o la seconda sigaretta, lasciava la sua sdraia e si rifugiava nella cabina che dividevamo con la Mosca e con lui, per riprendere il lavoro di traduzione
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interrotto il giorno precedente, come se gli mancasse il tempo. Evidentemente scrupoloso di attenersi ai termini impostigli dall’editore, ma al tempo stesso quasi per giustificare quella sua vacanza, per mostrare anche a noi come dovesse guadagnarsela; o forse per fingere a se stesso di guadagnarsela. Poiché noi, mia moglie ed io e qualcuno dei giovani amici, facevamo continuo uso della bicicletta, anche per qualche gita, sino a Viareggio, od a Bocca di Magra, od ai centri della Versilia situati ai piedi delle montagne, anche lui espresse una volta il desiderio di accompagnarsi a noi. Un pomeriggio presi a noleggio un tandem per due persone, allora di moda in quella zona balneare; egli si issò con qualche fatica sul sellino posteriore ed io lo trainai lungo il viale del lungomare per un tratto di alcuni chilometri; ma, dopo qualche tentativo fallito, egli smise di pedalare affidandosi completamente alla mia fatica. Forse anche per questo, per una condizione che poteva apparirgli di inferiorità, o perché gli era difficile conservare l’equilibrio e magari temeva di trascinarmi in una caduta, egli non si dimostrò troppo soddisfatto dell’esperimento, né più lo ritentò. Ancora una volta risultava evidente, a me come a lui, come a chiunque altro, la sua inettitudine a qualsiasi esercizio fisico che richiedesse una qualche destrezza; né infine di questa sua inferiorità egli si rammaricava di troppo, quasi considerandola a sé connaturale; né certo mi invidiava per tale superiorità fisica su di lui, ché anzi tendeva a considerarmi un’eccezione, appena mi mettesse a confronto con gli altri amici letterati, ed un’eccezione che non si connotava davvero sotto un segno del tutto positivo. Venne il periodo più duro della guerra; io rimasi assente dall’Italia per quattro anni; nell’estate del ’46, quando vi tornai, dopo una sosta a Milano, da Vittorini, mi recai a Firenze; ed anche qui, come là, trovai un vivo fervore di
attività, un gusto dell’iniziativa, di cimentarsi in esperienze che sino allora, per più di vent'anni, non erano state possibili; a Firenze si pubblicava ogni quindici giorni «Il Mondo», di cui erano redattori Bonsanti, Loria e Montale; ad
esso collaboravano regolarmente Carlo Emilio Gadda ed intermittentemente molti dei vecchi collaboratori di «Solaria » insieme ai tanti giovani che erano stati presenti nelle pagine della «Letteratura» di Bonsanti. Però quel foglio quindicinale non limitava i suoi interessi all’ambito letterario od a quello culturale ma, come d’altra parte quasi tutte le riviste ed i settimanali di quel periodo, aveva una ben precisa collocazione politica, anche senza essere l’or-
gano di qualche partito.
Nella ritrovata solidarietà con i vecchi amici, favorita da quel fervore, Montale pareva aver acquistato una nuova sicurezza di sé, una disinvoltura, una capacità di decisione quali prima mai gli avevo conosciuto. Di lui mi racconta-
rono, senza ch’egli me ne facesse cenno, come, nei lunghi mesi dell’occupazione tedesca di Firenze, prima che la Mosca dovesse essere ricoverata in una
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clinica per una grave malattia, egli si recasse quasi quotidianamente a trovare Saba, nascosto in una casa amica per sfuggire alle persecuzioni razziali; con ciò dimostrando un’attenzione affettuosa e generosa per l’amico in difficoltà, di cui molti non l’avrebbero ritenuto capace; tanto più che per quella frequentazione egli incorreva in qualche rischio, poteva venire accusato di connivenza con chi ospitava una persona in qualche modo incriminata, certo ricercata. Quindi, dopo la liberazione della città, egli si era dichiarato politicamente, aveva preso posizione esplicita in tal senso, iscrivendosi ad un partito,— il Partito d'Azione, il cui programma era permeato da decise esigenze di rinnovamento del paese,- ed aveva partecipato a manifestazioni nelle quali la sinistra si presentava unita. Ancor più, alcuni dei suoi scritti di quel tempo rispondevano appieno a quelle istanze, a quelle sue prese di posizione. Ed io, in quei giorni d’estate del mio ritorno a Firenze, nel 1946, lo vidi ancora sostenuto da quell’afflato di attesa, da quella volontà di fare, di operare che tutti coinvolgevano e che sembravano rispondere a quella che era stata una sua lunga istanza; come se infine, in un’età in cui la sua forza intellettuale e la sua capacità creatrice erano del tutto integre, egli fosse giunto ad essere quale intendeva, ad esprimersi per quello che era. E tale suo modo di essere, tale suo comportamento avvaloravano completamente l’immagine che di lui avevo colto ed avevo sempre coltivato in me; quella cioè di un uomo la cui natura, il cui più profondo sentimento erano improntati ad un’ansia di vita, ad un’aspirazione alla vita, ad innestarsi ed a partecipare della realtà; ma che al tempo stesso da tale partecipazione si era sentito respinto; da quella che era la realtà del suo tempo si era dovuto escludere; e ne aveva sofferto; e non aveva credu-
to che tale fosse la condizione umana di sempre, ma che essa dipendesse soltanto dalla condizione storica del momento. Montale quindi mi si confermava come un uomo ed un poeta decisamente e completamente legato e condizionato dalla storia, dalla storia degli uomini, della loro società; lontano
da ogni atteggiamento di protagonismo, di titanismo, ben conscio della limitatezza delle forze di un singolo uomo e quindi di se stesso; convinto perciò che gli uomini, in una loro solidarietà conquistata, avessero in sé la capacità di determinare il proprio avvenire, rinnovando il proprio costume; e, di conseguenza, ecco ch’egli rifiutava il disimpegno, non si poneva da parte, non intendeva limitare il proprio compito all’attesa ed al rinvio, ma era e si faceva disponibile ad agire, ad operare, almeno per quanto stava in lui, concordemente agli altri. Non solo la sua esistenza passata e tutta la poesia che aveva dato sino allora dovevano essere intese e motivate partendo da tale presupposto; ma anche il corso successivo della sua vita e quanto avrebbe scritto per una ancor lunga sequenza di anni.
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A Milano, a partire dall’anno in cui egli vi si stabilì con la Mosca, i miei incontri con Montale furono meno frequenti e più brevi e quasi sempre determinati dall’occasionalità, più di quanto lo fossero stati quelli di Firenze. A
Milano, benché mi fosse sempre aperta la casa di Vittorini e di Ginetta, avevo
minori possibilità di recarmi che non avessi avuto a Firenze negli anni dell’Università. Non vi era però soggiorno per quanto breve in quella città durante il quale mi mancasse il tempo per rivedere Montale. Dapprima, nei primi tempi della sua residenza colà, quando ancora abitava in un albergo della Galleria del Corso,- mi ci recavo per accompagnarmi con lui in una breve passeggiata; poi, quando ebbe la sua prima e quindi la sua seconda abitazione in via Bigli, lo visitavo intrattenendomi con lui negli spazi di tempo in cui non era impegnato dal suo lavoro. Alcune volte, su suo invito, lo raggiunsi alla sede del «Corriere», dove era stato assunto come redattore.
Al «Corriere» egli aveva cominciato a collaborare subito dopo la fine della guerra, da Firenze, con articoli e con le prose ed i brevi racconti che poi raccolse in La farfalla di Dinard; la retribuzione ch’egli otteneva da tale collaborazione, del tutto dignitosa, soddisfaceva alle sue esigenze essenziali, ed è da ritenere ch’egli se ne sarebbe accontentato; certamente fu la Mosca ad intervenire ed a premere su di lui perché egli ottenesse dal giornale l’assunzio-
ne quale redattore, lasciando quindi definitivamente Firenze e trasferendosi a Milano; e così egli uscì da un ambiente e da un giro di amicizie che erano stati suoi per vent’anni e si inserì in altri che da quelli erano diversi, costringendosi pure ad un diverso modo di vita, ad una diversa distribuzione del proprio
tempo, a frequentazioni diverse da quelle che aveva avuto ed anche a rapporti di confidenza con persone che sino allora gli erano state estranee o quasi. Alla sede del «Corriere», almeno per quanto potei rendermene conto, ma tale impressione mi fu confermata anche da altri che là lo frequentavano,- egli era considerato, perlomeno dal personale di servizio—ma era quello che rendeva il clima dell'ambiente come uno dei tanti impiegati che vi lavoravano, o persino come un ospite occasionale; certo non godeva del prestigio da cui erano circondati quelli che ne erano i redattori di maggiore rinomanza; di fronte ai quali il portiere si toglieva il berretto con un ampio saluto al loro entrare ed al loro uscire, a sottolineare la propria deferenza, a sottolineare il riconoscimento del potere di cui erano depositari. Mentre Montale entrava ed usciva quasi di soppiatto e senza salutare ed essere salutato da nessuno, schivando incontri e contatti. Appena entrato, egli si recava nello stanzino che gli
era stato assegnato e che divideva con Emanuelli, una scrivania di contro all’altra nello spazio ristretto, con ai muri vecchie scaffalature ricolme di libri e giornali; sedeva al proprio posto e là lavoricchiava: prendeva qualche appunto, leggeva o scorreva le pagine di un libro, scambiava qualche parola
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con Emanuelli; il cui comportamento di uomo preso da diverse attività, da diversi impegni e sempre inteso a farvi fronte, con la sicurezza di chi dispone di un proprio spazio ed al tempo stesso si sente necessario, ha la convinzione di una propria presenza ben motivata; contrastava evidentemente, si contrapponeva al suo. Si aveva l’impressione, vedendolo a quella scrivania, ch’egli non vi si sentisse a proprio agio, come se egli occupasse un posto che non era il suo, che non gli si addiceva, che non si addiceva alle sue capacità, alle sue propensioni; come se là dentro egli fosse entrato quasi per caso e vi fosse mal tollerato e quindi dovesse sempre motivare, giustificare la propria funzione, la retribuzione che ne traeva. Quando lo raggiungevo là nel tardo pomeriggio, egli con me non si abbandonava ad una conversazione distesa, ma appariva continuamente preoccupato di assolvere ad un qualche compito, o forse di mostrare a me come ad altri di assolverlo; di tratto in tratto prendeva in mano un foglio, un libro di sulla scrivania per poi di subito riporli; cincischiava con una penna, tendeva l’orecchio ai rumori, alle parole che venivano dal corridoio su cui dava quello stanzino; come se lo riguardassero, come se fosse in attesa di qualcosa, di una chiamata, di una richiesta. E continuamente consultava l’ora sull’orologio che aveva al polso. La prima volta che mi recai da lui là dentro capii ch’egli attendeva con impazienza, quasi con ansia, lo scattare delle sei per alzarsi ed andarsene, e non osava anticipare anche solo di cinque minuti l'uscita, quasi temesse un richiamo, un rimprovero se non avesse rispettato quel termine; come un impiegato che deve attenersi ad un orario preciso
anche se non ha più nulla da fare, nessuna pratica da evadere. Evidentemente egli era male innestato in un organismo che non gli si confaceva, nel quale egli non si riconosceva neppure per una parte di sé e che lo soverchiava; tanto ch’egli vi appariva ansioso ed al tempo stesso come spento, umiliato, privato della parte più vivace, più risentita della propria personalità. Però in ogni modo egli accettava quella sua nuova condizione, vi si sottoponeva; ma per questa sua accettazione aveva dimesso, o almeno dimetteva là dentro, quello che era il suo consueto modo di comportarsi, di muoversi, di parlare. Tanto che, uscito di là, pian piano riprendeva i suoi modi consueti, il suo discorso riacquistava una certa sua vivacità passando da uno ad altro argomento, come se egli andasse gradualmente dimettendo quella cautela, quel continuo autocontrollo cui sino allora si era sottoposto; non tanto però che non gliene restasse una traccia. Ben diversi erano stati il suo comportamento, il suo modo di presentarsi, di parlare, a Firenze, al Gabinetto Vieusseux, quando lo avevo conosciuto, nei
primi anni almeno del mio soggiorno in quella città. Ed ancora, a ricordarli, ben diversi erano i suoi modi, gli atteggiamenti, l'accento del suo discorso
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quando lo avevo riveduto l’anno del mio rientro in Italia, in quel primo dopo-
guerra, a Firenze. Ora più che mai apparivano in lui evidenti quella dissociazione, quella dilacerazione che nella sua poesia restavano come uno degli elementi di fondo, costitutivi della sua personalità; ma che si manifestavano, risultavano in tutta la loro evidenza in determinate condizioni; quando cioè veniva a stabilirsi un ben preciso rapporto tra lui e la realtà, quando la realtà gli era ostile, quando egli non riusciva in nessun modo a trovare un rapporto, un qualsiasi appiglio in essa. Però quel suo impaccio, quel suo disagio, quella sua non rispondenza con l’ambiente in cui lavorava, in cui aveva accettato di lavorare, egli mai li avrebbe dichiarati, a nessuno, neppure agli amici a lui più vicini, e tanto meno a
me; egli li teneva dentro sé, li celava persino a se stesso, per un modo di pudore, per una esigenza di dignità. Ad un certo momento egli aveva fatto una scelta, in un certo senso quella scelta egli l'aveva accettata anche se gli era venuta dal di fuori, se l’era imposta; non era del suo carattere dimostrarsene ora pentito; rientrava nella sua concezione della realtà e dell’esistenza il considerare se stesso, come ogni altro uomo, incapace di trovare un luogo, un ambiente in cui riconoscersi, in cui esplicarsi completamente. E così si rasse-
gnava, riteneva necessario rassegnarsi; dalla realtà, anche da quella realtà in fondo negativa, accettando, o meglio in essa cercando, tentando, quel poco di positivo, ch’essa poteva dargli, che da essa egli potesse ricuperare. E perciò, se talvolta dell'ambiente del «Corriere» o dei personaggi che vi frequentava, parlava, se appena vi accennava, si era per mettere in evidenza qualche incontro, qualche episodio che lo riportassero in una posizione di agevolezza, che potessero apparire divertenti, caratteristici, che per qualche verso suscitassero in lui e nell’interlocutore un moto di interesse. Ma anche questo suo atteggiamento sapeva in qualche modo di costrizione, di un’autocostrizione; c’era in lui appunto la volontà di accettare quel che gli era dato, come necessario, come inevitabile; e da parte sua vi era in ogni
modo l’impegno di crearsi là dentro un proprio spazio, le proprie difese per non sentirsi troppo estraneo, per evitare od allontanare od annullare ogni possibilità di scontro, di contrasto. Fu per questo che, senza che nessuno glielo chiedesse, ma di propria iniziativa, scrisse un articolo di tono cordiale e di giudizio infine positivo su di un libro di Montanelli, a smentirne altro decisamente negativo, addirittura dall’accento di riprovazione e di ripulsa ch'egli aveva pubblicato negli anni dell’immediato dopoguerra nel «Mondo» di Firenze, a proposito di un volume nel quale Montanelli aveva assunto una posizione politica evidentemente equivoca. Si trattava ora di una sorta di palinodia, ma si trattava anche quasi dell’ammissione di una sconfitta. Il Montale di quel tempo non troppo lontano era il
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Montale che credeva nella possibilità di una nuova realtà, di una trasformazione e di un rinnovamento del nostro paese; il Montale di ora si rendeva conto,
o meglio si era reso conto da tempo della illusorietà di quella sua attesa; e così quasi si sentiva in dovere di dare atto di quella propria sconfitta. Infine questo
suo articolo egli lo aveva scritto con amarezza, quasi con dispetto, ma con un’amarezza ed un dispetto ch'egli celava anche a se stesso. Ed anche, in lui, vi era in una simile occasione quasi un moto di rivolta, di esacerbata irritazio-
ne contro la realtà ed al tempo stesso contro di sé; contro la realtà poiché essa non aveva risposto a quelle che erano state le sue attese, cui, derogando dal proprio costume, egli si era abbandonato per un periodo se pur breve; e contro se stesso in quanto aveva accondisceso a quelle illusioni. Con ciò egli si conformava a quella che era la sua cognizione di sempre, alla considerazione di una realtà negativa sempre vincente, cui l’uomo in ogni modo era costretto sempre a sottomettersi, ritagliando a se stesso il breve spazio che gli permet-
tesse di sopravvivere, di sfuggirle. Egli era a piena conoscenza della mia convinzione e della mia posizione
politica, e sapeva pure come io dessi all’attività politica una parte del mio tempo e come anche i miei scritti ne ricevessero l’impronta. Come io, d’altra parte, mi rendevo conto, per sue replicate prese di posizione, per quanto anche talvolta scriveva o dichiarava, di quanto egli fosse lontano da me in tal senso, quasi un avversario; e sempre avevo evitato ed evitavo, nella nostra
conversazione, di portarlo su questo piano, di toccare argomenti che in qualche modo lo implicassero in una presa di posizione politica; in nessun modo volevo contrappormi a lui; in nessun modo volevo che un dissapore avesse a turbare i nostri incontri, ad incrinare la nostra amicizia; ed evidentemente anche lui aveva accettato questa mia esclusione, e si vietava anche accenni ed
allusioni che talvolta gli sarebbero venuti spontanei; in tal senso obbedivamo entrambi ad una norma di comportamento. E ciò in quanto io ben sapevo
quale sarebbe stata la sua reazione per averla sperimentata altra volta, se pure in condizioni e per motivi ben diversi; sapevo quindi che in nessun modo sarebbe stato possibile affrontare tra noi un tale argomento in tono pacato e disteso, ed ancor meno raggiungere un qualche accordo, anche un solo punto di intesa. Solo una volta mi accadde di scontrarmi con lui per un tale motivo, e senza che lo avessi voluto, poiché era stato lui a prendere l’iniziativa; mentre d’altra parte la mia ripulsa si era manifestata solo con un silenzioso rifiuto. Ci trovavamo per la via, in una via del centro, ed io gli camminavo accanto chiacchierando, quand’egli d’un tratto, come se non avesse più potuto trattenere un discorso che da lungo tempo aveva maturato per me ed ora avesse deciso di dargli corso, affrontò l'argomento della politica, della politica attuale nel nostro paese; e lo fece come ribellandosi a quell’accordo comune cui
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sino allora avevamo tacitamente ottemperato, come se fosse costretto, come se non potesse rinunciare a giungere ad un chiarimento con me, come se al tempo stesso volesse motivare la propria scelta, volesse convincermi della validità di essa, rispondere a quella che sapeva, che intuiva, fosse la mia disapprovazione, silenziosa ma perciò forse per lui più grave, più indisponente. Non ricordo come egli avesse iniziato tale discorso, come fosse entrato nell'argomento, ma ricordo invece con piena chiarezza che, ad un certo momento, e forse proprio in quanto io lo ascoltavo senza ribattergli, senza avanzare nessuna obiezione, egli uscì in un’affermazione nella quale riassumeva e la sua presa di posizione politica e la motivazione di essa, obbediente ad un principio di necessità, di opportunità politiche in quel momento storico. Decisamente, perentoriamente egli affermò che, in quella contingenza, nella condizione in cui si trovava il nostro paese, non si presentava, non si offriva possibilità diversa da quella dell’attuale governo, di quello presieduto da De Gasperi; questa era la sola scelta giusta che si potesse fare, anzi la sola scelta. Mi parve che si fosse tornati a tanti anni prima, a quella volta ch’io l’avevo provocato chiedendogli un suo intervento attivo contro il fascismo. Come allora ora egli improvvisamente aveva alzato la voce, se pure si fosse per la via, con accento teso, acuto, e gestiva con le mani, tremando, in preda ad un’agitazione, ad un’irritazione incontenibili. Come se io lo avessi provocato, come se anche solo il mio silenzio gli fosse apparso come una provocazione. Ma non gli risposi, mi rifiutai alla polemica; come quella volta, dimettendo dall’intervenire, mi chiusi in me stesso attendendo ch'egli riprendesse il suo equilibrio, che si attenuasse quella carica di tensione che gli si era accumulata dentro e che improvvisamente gli era esplosa quasi a contraccuore, come se davvero non potesse più contenerla. Stemmo qualche minuto senza scambiare parola; infine riprendemmo su altro argomento. Da allora mai più tornammo a quel tema, mai più egli mi aggredì in questo od in altro senso.
Ma quella subita esplosione mi aveva rivelato qualcosa di ben profondo in lui; un rovello, un’amarezza, una frustrazione che ben gli conoscevo, di cui conoscevo tutti i termini e che sapevo ben ricostruire nella loro storia, nelle
loro contrapposizioni. Con quella sua concitata affermazione Montale voleva richiamarmi alla realtà; ad una realtà incombente e massiccia cui non ci si
poteva sottrarre, cui ci si doveva adattare, cui ci si doveva sottomettere. E si era in qualche modo una realtà negativa, ove la confrontassimo con quelle che erano state le nostre attese, le nostre speranze, ma l’unica che ci permettesse di vivere, di salvare la parte migliore di noi. Certo anche lui aveva sperato, aveva atteso, aveva creduto in qualcosa; certo anche lui era stato partecipe di quella volontà di rinnovamento che io ancora testardamente perseguivo. Ma la via ad esso ormai era chiusa, non la si poteva più percorrere; non restava
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che accettare quel poco che la storia ora ci dava; non ci restava che salvare quel poco che ci era dato salvare. Qualunque altra soluzione ci sarebbe stata dannosa, pregiudizievole; ci avrebbe reso ancor più dura, ancor meno libera l’esistenza. Ciò io dovevo riconoscere, e perciò dargli atto, ch’egli era nel giusto; ero io che non volevo capire, che non volevo rendermi conto della
realtà, della giustezza delle sue affermazioni; e quello ch’egli sentiva come il mio sottaciuto rimprovero egli lo rifiutava, lo respingeva; così quelle che erano in lui una giustificazione, una motivazione si mutavano in una rivendicazione; per difendersi da me, dal mio tacito invito o dal mio tacito rimprovero, egli mi aggrediva; la sua difesa era una ripulsa, senza possibilità di trovare un accordo, un punto di incontro. Così, al di là delle sue parole, al di là delle sue affermazioni, io coglievo qualcosa, un moto, una tendenza, un’aspirazione, che erano ancora in lui, che
in lui non erano del tutto soffocati, ch’egli in nessun modo riusciva a soffocare e che sempre gli si ripresentavano, che costituivano insomma il suo più segreto e più generoso, più ricco patrimonio, quello di cui si nutriva la sua poesia nel suo nocciolo più perentorio. Ed egli, nei miei confronti, certamente sentiva dentro di sé, per quanto mai lo avrebbe ammesso, che io questo suo afflato represso e negato lo riprendevo, che da esso ero partito nella formazione della mia personalità sin dalla mia prima giovinezza, quando mi ero confrontato con lui; e che proprio per questo mi rassomigliavo a lui, coincidevo con lui, con la parte più segreta ed anche, ora, più conculcata di lui. Cosicché, polemizzando con me, respingendo me, egli non faceva che polemizzare con se stesso, che respingere se stesso, perlomeno una parte di se
stesso; ed era quella parte che si contrapponeva alla sua esistenza attuale, al suo disagio attuale, a quello stato che pure egli aveva accettato, ch'egli si era rassegnato ad accettare; e fosse pure solo per difendersi dalla vita, per difendersi dalla realtà; senza però riuscire ad innestarsi in esse, senza sentirsi parte-
cipe di esse in questa loro dimensione; ma d’altra parte ormai deciso, costretto, a tentare di raggiungere la pacificazione, l'accordo con se stesso, a riconoscerle come tali, come a sé confacenti; per convincersi di avere raggiunto la migliore delle sistemazioni; quella che gli permetteva un'esistenza priva di preoccupazioni economiche ed al tempo stesso distinta da un qualche prestigio; quasi a conferma dei suoi meriti, del suo valore. Così in lui finiva col risultare evidente da un lato la dissociazione che dentro lo arrovellava; dall’altro, appunto per ciò, come egli nutrisse ancora dentro di sé una disponibilità, un’apertura, cui egli avrebbe risposto se in qualche modo gli si fossero offerte una qualche occasione, una qualche possibilità.
Dopo quella volta, dopo quello scontro, poiché non più tornammo su quell’argomento, come se di comune accordo lo avessimo definitivamente elimina-
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to non solo dalla nostra conversazione, ma addirittura dai nostri interessi; in noi, od almeno in me, ne restò una traccia evidente, quasi una menomazione; poiché quell’attenzione a controllare ogni mio intervento, quasi ogni mia
parola, quell’impegno a non affrontare fatti ed eventi che d’altra parte erano ben presenti ed urgenti in me, ma certo anche in lui, rendevano il nostro colloquio reticente, leggermente affatturato; finiva ch’io parlassi e gli chiedessi solo di cose e di persone di cui supponevo gli facesse piacere parlare; e che finissi quindi con l’assumere un atteggiamento, nei confronti di lui, di accondiscendenza, inteso solo a dirgli cosa che gli facesse piacere, che suscitasse la sua approvazione; evitando ormai di avere con lui un confronto deciso, completo; cosicché i nostri rapporti erano contenuti in una dimensione ben precisa e scontata che in nessun modo doveva essere superata, la quale infine escludeva una piena confidenza, come se l'uno dall’altro più non potesse aspettare uno stimolo, un arricchimento. A dimostrare però che la nostra amicizia non si era inaridita e che sempre in me, e talvolta anche in lui, restava il desiderio di affrontarci, di cimentarci, di
esigere l’uno dall’altro qualcosa che in noi urgeva, una risposta, o perlomeno di stabilire un confronto sui nostri più gravi interrogativi; appena se ne presentasse, per una o per altra via, l'occasione; appena in lui mi capitasse di cogliere un moto, un atteggiamento che me lo confermassero vivo di una tensione, capace ancora di attingere a quella ricchezza ideale che celava dentro di sé, ecco ch’io venivo ripreso dal desiderio, dalla necessità di intervenire,
quasi potessi determinarlo, sospingerlo per la nuova via che gli si apriva davanti; e questo stesso desiderio, questo stesso gusto, con il sapore anche di una sfida potevo cogliere anche in lui nei miei confronti; a segno della tacita
presenza di un dibattito sempre aperto fra noi, di una ricerca esigente ed ansiosa che costituiva il nostro patrimonio comune. Ma intanto Montale era coinvolto e sempre più preso in una vicenda la quale, per il suo svolgimento e per il suo esito conclusivo, doveva testimoniare, e non solo a me, una sua intrinseca impossibilità, doveva rivelare com’egli
in sé non potesse ormai credere nella vita, e neppure credere in se stesso; com’egli si condannasse con una propria scelta all’involuzione, ad una recisa chiusura di fronte ad ogni invito, ad ogni sollecitazione che a lui giungessero dalla realtà. Ed è ben caratteristico e significativo, per ricuperare e definire integralmente la sua personalità, il fatto che il suo comportamento, le sue scelte di fondo fossero del tutto coerenti, si uniformassero ad un principio che a tutte si imponeva; e fosse la scelta sentimentale come quella politica, come qualunque altra, in una profonda, umana
coerenza,
cui necessariamente
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conformava la sua poesia, almeno nel suo esito ultimo, più clamoroso ed evidente; per quanto sempre egli tendesse a farla uscire da tale sconfitta, da tale costrizione, per quanto sempre tentasse di ricuperare con essa una ragio-
ne, un motivo di essere, di sopravvivere in quel pur breve spazio che ancora gli restava, che ancora si concedeva. Qualche tempo innanzi quel nostro scontro lo avevo cercato a Milano dove io mi trovavo per qualche giorno, e lo avevo accompagnato ad una manifestazione, ad una riunione di scrittori, nella sala di un circolo culturale; mentre
poi, conclusosi l’incontro, ci eravamo distribuiti in diversi gruppi nelle diverse stanze di ritrovo di cui disponevamo. Io ero rimasto con lui e con quanti ancora conversavano e discutevano intorno ad un tavolo sul quale si era seduta, o meglio quasi sdraiata appoggiando il capo alla mano sostenuta dal braccio ripiegato sul gomito, Maria Luisa Spaziani; la quale allora cominciava ad essere conosciuta negli ambienti letterari per le sue poesie. Ella era una giovane donna, bella e fiorente, elegante nel vestito scuro attillato, vivace di parola, risentita nel dibattito, nel suo intervenire in esso anche interrompendo improvvisamente l’interlocutore; e, per quella sua posizione che le permetteva di rivolgersi di volta in volta all’uno od all’altro, appena volgendo il capo dall’una all’altra parte, ella stava al centro del gruppo, in qualche modo si
imponeva attirando su di sé l’interesse, l’attenzione di tutti. Di Montale colsi d’un tratto lo sguardo inteso verso di lei, come affascinato; egli aveva il volto sereno, improntato ad un lieve sorriso, e la guardava con atteggiamento di ammirazione compiaciuta, appena segnata da un’intima commozione, libero da ogni preoccupazione, da ogni ritegno a rivelarsi per quel che era, per quel che sentiva. A Maria Luisa, per la posizione assunta, la gonna si era ritratta
sulle gambe scoprendogliele sin sopra il ginocchio; belle gambe, lunghe e tornite, appena accavallate, che Montale fissava, evidentemente dimentico delle altre presenze, del discorso o dei discorsi che si facevano intorno. Qualche voce mi era giunta di questa sua predilezione, di questo suo vivo interesse per la giovane donna, e quindi potevo comprendere e motivare quel suo sguardo, quel suo abbandono; ma quel che mi colpì in quell’occasione fu l'intensità dell’espressione del suo volto, che mai tale gli avevo visto, che mi giunse inconsueta, alla quale sino allora lo avevo creduto negato. Si trattava, almeno per me, di un Montale nuovo, di un Montale che aveva dimesso ogni
difesa cui, quasi sempre nel confronto con gli altri, pareva costretto; di un Montale del tutto pacificato con se stesso e con la vita; insomma di un Montale non solo innamorato ma interamente preso da quell’amore, fiducioso di esso, ad esso affidato; di un Montale che sorprendentemente avesse la certezza di aver incontrato la felicità.
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Mai egli mi parlò di questo suo amore, ma altri che in tutta questa vicenda lo avevano seguito me la riferirono di volta în volta, sino alla sua conclusione,
dalla quale egli uscì ancora una volta sconfitto. Per la prima volta nella sua esistenza Montale si era innamorato di una donna che aveva corrisposto al suo amore, e per la prima volta questo amore era stato per lui completo, lo aveva coinvolto in ogni senso rispondendo ad ogni sua attesa, ad ogni sua aspirazione. Così egli era giunto ad una unione integrale con lei; poiché con lei non aveva raggiunto soltanto la piena confidenza fisica e di abitudini e di desideri con una giovane donna, non solo aveva scoperto attraverso lei di essere quale neppure sapeva, supponeva; ma con lei aveva anche trovato una coincidenza di interessi, di predilezioni, di giudizi; tanto che talvolta gli era accaduto, richiesto dal giornale di qualche intervento, di qualche scritto cui non gli riusciva di rifiutarsi ed ai quali non trovava né
il tempo né la voglia di applicarsi— di accettare la subita offerta di lei, lieta di sostituirglisi, lieta di quel piccolo imbroglio che confermava ancora una volta la loro unione, la loro identità intellettuale ed affettiva; ed il foglio scritto da lei ed avallato dalla firma di lui restava come una patente testimonianza di quella identità. In tal modo ella aveva risposto appieno a quell’attesa, a quella ricerca tanto intrinseche alla natura di lui: di una sicurezza, di un rifugio, di chi lo difendesse da ogni impatto troppo grave, troppo faticoso con la realtà, con qualunque realtà. Sostenuto, rinnovato da una simile pienezza di rapporti, fiducioso di essi, e quindi di lei e di se stesso, ad un certo momento egli vi si impegnò senza
reticenze e cautele, disposto a giocare su quell’amore tutta la propria esistenza. Ma allora, quando il suo sentimento aveva raggiunto una piena chiarezza, quando egli ne aveva preso una sicura coscienza, acquistando il peso e la determinazione di una scelta che sarebbe stata irrevocabile, era intervenuta la Mosca. Per la Mosca Montale era la vita, la sua vita; ella aveva conformato tutta la
propria esistenza su di lui; ogni sua decisione ed ogni sua abitudine erano improntate a quelle di lui, alle esigenze, al modo di essere di lui. Fra loro, come ho già fatto notare e com'era a conoscenza di tutti, non c’era mai stato un rapporto passionale; si può dire davvero che sia all’uno che all’altra era mancato l’amore come prepotente legame affettivo; tanto che ai più egli aveva potuto apparirvi negato; certo entrambi ormai vivevano di una consuetudine assestata su di una reciproca comprensione. Montale dalla Mosca si sapeva difeso nella vicenda quotidiana dell’esistenza e lei d’altra parte godeva di questo suo ruolo, di questo suo compito, in un certo senso di proteggerlo, di sostenerlo nelle difficoltà pratiche, in quelle ch’egli poteva incontrare, che lo potevano mettere in una condizione di difficoltà. D’altra parte ella si sentiva,
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si riconosceva quale era, nei rapporti e nella considerazione degli altri, solo in quanto era la compagna, di fatto la moglie, di Montale. Se fosse rimasta sola, la sua esistenza sarebbe cambiata completamente, addirittura sarebbe stata come cancellata, privata del suo senso, di quella che poteva apparirne come l’unica funzione. Ormai, proprio per la scelta che aveva fatto, ella non aveva nulla e nessuno su cui indirizzare la sua vitalità, la sua sempre presente capacità di iniziativa. L’unico figlio, che si era distaccato da lei proprio a causa di Montale, del rapporto di lei con Montale, ormai viveva negli Stati Uniti; le sue
visite erano rare e brevi e pareva che nulla più lo legasse alla madre. Perciò la Mosca non poteva rassegnarsi a perdere Montale, a rinunciare a lui; e quando le si fece presente tale possibilità, tale eventualità, ella cominciò a minacciarlo,
a ricattarlo: se egli l'avesse abbandonata lei si sarebbe ammazzata; era pronta a farlo subito, si sarebbe buttata dalla finestra quando meno egli se lo sarebbe aspettato. Posto ormai di fronte alla necessità di una decisione in uno od in altro senso, Montale combatté a lungo; certo egli restò per lungo tempo indeciso, e certo soffrì a lungo, a volta a volta portato, costretto, nell’uno o nell’altro senso; certo prima di risolversi resisté per quanto stava in lui. Difatti da un lato gli si offriva un modo nuovo di vita, gli si offriva di realizzare qualcosa che mai gli si era offerto nella sua esistenza e che in ogni modo mai prima sarebbe stato in grado di realizzare; che forse anche aveva sempre atteso ma su cui mai aveva contato, nella sua fondamentale sfiducia in se stesso e nelle
proprie possibilità. Forse se avesse deciso in tal senso egli avrebbe potuto raggiungere una integrazione con se stesso che avrebbe improntato la sua esistenza ed anche il suo carattere, che in ogni modo avrebbe potuto dare una nuova, diversa direzione al suo modo di essere, al suo modo di vivere; per cui si sarebbero potuti mettere in evidenza, prevalere quel lato, quella parte di lui, della sua persona che sino allora perlopiù erano rimasti soverchiati, repressi, ma che la sua poesia aveva tante volte rivelato persino con prepotenza. Dall’altro lato restava però la minaccia di suicidio della Mosca; ch’egli temeva,
dalla quale si sentiva perseguitato in una forma persino ossessiva, che gli prospettava l'eventualità di un rimorso inestinguibile, e quindi anche la preoccupazione di tutte le conseguenza che ne sarebbero derivate. In tale frangente, in tale tumulto di sentimenti e di preoccupazioni, prevalse in lui il suo consueto abito al pessimismo, al considerare la realtà sempre nella sua accezione peggiore; prevalse la sua incapacità di credere in una nuova realtà e quindi nella possibilità di indirizzare la propria esistenza in un senso diverso, che rompesse con quello passato. Ed egli si risolse ad accettare ciò che più era sottomesso ad una consuetudine, ciò che rientrava in un ritmo scontato; ciò che in ogni modo lo costringeva, lo limitava; rinunciando nel modo più cla-
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moroso e doloroso a quanto la vita pur gli offriva. Così, in quell’occasione, egli dimostrò la sua impossibilità di credere nella vita, di credere di poter attingere ciò cui da sempre aspirava; d’ora in avanti egli non avrebbe più potuto coltivare in sé, nutrire in sé un’attesa, la speranza di una qualche riso-
luzione pratica, concreta, tale che mutasse radicalmente la sua esistenza. In un certo senso, con tale sua scelta, con tale sua rinuncia egli compì e chiuse una parte del suo cammino, la parte di esso più ricca ed intensa, più aperta e disponibile; poiché con tale risoluzione egli era giunto a negare non solo a se stesso, ma all’uomo, ogni possibilità di riscatto, di salvezza; ed essa non avrebbe potuto ormai non improntare definitivamente il suo carattere, chiuderlo in una dimensione definitiva. E forse, con questa sua decisione, gli si erano imposte anche e sopratutto la realtà consueta, l’abitudine, la piccola abitudine quotidiana. Di contro ad un insieme ritmato di atti, di gesti, di movimenti nei quali si risolveva la sua giornata ed in cui ormai, per lunga consuetudine, egli si ritrovava, si riconosceva, gli si offriva l’incognito, anche con i caratteri del rischio, perlomeno dell’imprevisto; e così forse anche gli si presentava la possibilità di un errore di previsione, la possibilità di un insuccesso, di una propria carenza, di una
propria inadattabilità, di non riuscire a superare questa che in ogni modo avrebbe costituito per lui una prova. Così forse anche l’amore gli si propose come una sfida in cui lui si doveva cimentare, un impegno cui doveva far fronte; e qui appunto egli avvertì la propria debolezza, la propria incapacità; si sentì intimidito, pauroso, impari a tanto compito, si riconobbe davvero inetto; ed accettò questa propria natura, questa parte della sua natura tanto e tante volte confermata da esperienze lontane e vicine, insieme con la sorte che ne derivava. Giunse alla conclusione che la felicità è comunque pericolosa, nella sua immagine, che il suo fantasma ci affascina per poi sempre respingerci, per ingannarci e quindi condannarci. E di questo suo intrinseco limite resta il segno nelle poesie ch’egli aveva scritto durante il periodo più intenso del suo rapporto con Maria Luisa, e sopratutto nelle ultime, in cui è presente il senso doloroso della labilità, della brevità delle cose, di una certezza insidiata;
è presente lo spasimo di chi dentro sé prevede e teme che ciò che ha gli sarà negato e ch'egli non ha la possibilità di difendere la propria conquista. E così egli si riconobbe davvero nell’uomo che può vivere solo al cinque per cento. Quell’amore, l’unico vero amore della sua vita, fu troncato; egli tornò alla Mosca, riprese l’esistenza che gli era stata consueta sino allora; rientrò in quella figurazione del suo destino in cui sempre si era sentito inquadrato; senza più possibili prospettive, senza più possibili illusioni. Non per nulla dopo questa vicenda passarono lunghi anni prima ch’egli riprendesse a scrivere poesie e non per nulla la sua nuova poesia fu diversa nella sua ragione
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di fondo da quella precedente; e ciò proprio in quanto la sua convinzione nei confronti della realtà era ormai decisamente ferma, completamente smagata; e ad essa conseguentemente si conformava la sua considerazione di se stesso. A meno che non si voglia e non sia giusto invertire i due termini. Ma egli non avrebbe accettato tali considerazioni, tali conclusioni su se stesso; implicitamente le respinse quando io pur sottacendole vi ricorsi, quando quasi lo provocai ancora una volta in nome di esse. La mia non fu una sfida; in qualche modo il mio fu ancora una volta un richiamo; che per me era quasi necessario; non potevo sottrarmi a quella presa di posizione nei suoi confronti. Quando ci si presentava un argomento di tale importanza come
quello che riguardava la nostra sorte, la sorte dell’uomo nella vita, era ormai inevitabile che ci scontrassimo, anche se io cercavo di fare appello, di richiamarmi a qualcosa che era stato sempre presente in lui e che ritenevo lo fosse ancor ora; o meglio che esigevo da lui che lo fosse ancor ora. Certo in tali occasioni il mio comportamento nei suoi confronti era improntato anche da una improvvisa insofferenza, quasi da brusca asprezza; come di chi tira al concreto, di chi pretende una risposta precisa, conseguente, ed una presa di posizione che ad essa corrisponda; mentre sempre egli si era sottratto a tale conseguenza, sempre era sfuggito a tale mia richiesta. Fu questo il nostro ultimo scontro, il nostro ultimo contrasto, ed anch'esso
si rassomigliò, ebbe lo stesso decorso degli altri due; solo che avvenne per via epistolare. Fu alla morte della Mosca. Il giorno in cui ne appresi la notizia ero ancora, sebbene fossero passati anni, sotto l'impressione di quella sua rinuncia, di quanto doveva essergli costata; per lui avevo sofferto ed ancora soffrivo ricordando come sul suo volto solo in quella occasione ormai lontana, avessi visto il segno della felicità. Ma quando la Mosca morì per me Montale non poteva essere considerato un vecchio; dal punto di vista intellettuale egli era ancora sostenuto da quella carica, da quella vivacità, da quell’empito che lo avevano sempre caratterizzato; ed io pensavo che ancora la vita gli si poteva presentare aperta, disponibile; che ancora da essa egli poteva ottenere quello che non aveva ottenuto sino allora, o che aveva ottenuto solo in parte e che sempre aspirava ad ottenere. Ed in tal senso gli scrissi: se per la morte della Mosca egli aveva sofferto e soffriva, come era giusto che soffrisse dopo tanti anni di vita in comune, per essa infine egli aveva riconquistato la sua libertà, quella che prima gli era stata negata; egli aveva dinanzi a sé ancora molti anni di vita da percorrere e li avrebbe potuti percorrere secondo una propria scelta, non più costrettovi dalla presenza di chi la sua esistenza aveva voluto far dipendere dalla propria, conformare alla propria. Non glielo scrissi, credo, in termini tanto espliciti, ma il senso del mio
discorso era questo; in ogni modo a tale mio invito egli rispose immediata-
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mente con una lettera sostenuta da un empito incontenibile, da una reazione improvvisa, e ricca di un'intensità, di un fervore tali che ancora una volta mi resi conto di averlo provocato, di averlo costretto a ricuperare in sé la sua attuale più forte ragione di vita contrapponendomisi, contrapponendomi la sua propria visione di se stesso, del proprio posto e del proprio compito a quella che io gli proponevo, che in lui rivendicavo. Scrivendomi in quei termini egli mi diceva io non avevo capito a fondo la vita, che cosa fosse, che cosa potesse essere la vita; quali legami, quali profondi anche se invisibili legami ci fanno uniti ad essa: infine non mi ero reso conto e non avevo capito che cosa per lui avesse rappresentato la Mosca, come ella fosse stata davvero parte di lui, ed una parte ben importante; della quale solo ora anche lui si rendeva conto nella sua interezza. Così egli mi dava una profonda lezione e per essa io dovevo capire che quelli che avevo considerato come un ripiegamento, come una rinuncia erano
stati tali sino ad un certo punto; che da essi Montale in lui per riscattarsi; in ogni modo dovevo rendermi egli aveva di trarre dalla realtà gli elementi più celati, profondi, la parte più inedita e più improbabile di
aveva fatto quanto stava conto di quale capacità più segreti ma anche più essa, per nutrirsene, per
ricuperarla e sentirsene arricchito, per potersi comunque riconoscere in essa.
Compresi allora che le vicende della vita di volta in volta lo avevano conformato sempre più in una posizione di difesa di fronte alla realtà, di fronte alle sollecitazioni della realtà, anche di fronte a se stesso, a quella forza, a quell’im-
pulso che talvolta lo avevano spinto al tentativo, anche al rischio. In nessun modo egli avrebbe potuto fingere a se stesso di avere realizzato ciò che si proponeva, ciò cui aveva teso, ove non vi fosse riuscito; egli respingeva ogni
velleitarismo, respingeva ogni modo di autoinganno; nella considerazione della realtà il suo occhio era spietato. Infine quante volte egli le si era affidato, le aveva fatto credito, le si era abbandonato, tante aveva dovuto ritrarsi, riconoscere a se stesso di essersi sbagliato, di aver giocato su di un'illusione mal
fondata. Ed allora ecco che, di fronte a quella che gli si presentava come la presente disintegrazione dell’uomo e sua propria, come l’impossibilità dell’uomo e sua propria di realizzarsi secondo le proprie aspirazioni, egli pian piano aveva proceduto ad un’operazione di contenimento, di dirottamento di quell’empito, di quel fervore che avevano costituito la molla, la spinta, la
ragione determinante della sua poesia, e, nel modo più evidente, della sua
prima poesia. Così da un lato aveva respinto ogni possibilità di ripiegare nella
palinodia o nel rodìo della frustrazione e dall’altro aveva recisamente rifiutato di accondiscendere a qualunque invito che gli apparisse troppo facile, macchiato di improvvisazione e superficialità; educando quella sua prima spinta, quella sua prima tendenza, indirizzandole verso una dimensione estranea ad
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ogni aggancio con la realtà patente, ma che, proprio per questo, nutriva in sé una ben più valida consistenza; così sempre deciso a rivendicare, a riscattare quanto nell’uomo costituisce il suo patrimonio irrinunciabile di speranze, di attese, comunque di fiducia in se stesso e nella vita; e non fosse che per quel poco, per quel minimo che la vita gli dà ma che gli è necessario per credere in essa, per sopravvivere.
Ed a testimoniare tale sua ricerca, tale sua strenua capacità di ricupero, ecco che, dopo non lungo tempo dalla morte della Mosca giunsero gli Xens4; lontani, ben lontani da qualunque volontà esteriormente celebrativa, da ogni risoluzione in qualche modo giustificatoria, ma intensi di una sofferta capacità di commozione. Con l’immagine che in essi Montale ci dà della Mosca, per chi l’ha ben conosciuta, egli improvvisamente la rivela, ricuperando in lei ciò che anche poteva apparire evidente al primo impatto, ma che nella consuetudine della frequentazione poteva essere considerato ben secondario, di bene scarsa incidenza ed importanza per una definizione della personalità di lei; cosicché egli riesce, senza cancellarne in nessun modo, senza alterarne in nessun modo i tratti, a definirne la personalità secondo una dimensione che possiamo considerare inedita, alla quale mai avevamo pensato, che mai le avevamo attribuito, ma che, attraverso il suo disegno, la sua riscoperta non possiamo non riconoscere come autentica. In tal modo egli non ha compiuto un’operazione di sublimazione, non ha deformato e cancellato quel che per uno od altro verso gli conveniva deformare e cancellare per giungere comunque ad un ritratto del tutto positivo, ma ha compiuto semplicemente uno spostamento ed un ricupero; e nessuno degli amici della Mosca e suoi può affermare che la Mosca negli Xerza non sia stata tale; perlomeno non sia stata anche così; ma noi la riconosciamo tale solo attraverso la proposta, solo per l’interpretazione di Montale, che con essa dimostra non solo quale capacità di comprensione, di penetrazione, ma anche quale generosità, quale amore di vita, delle più segrete e libere manifestazioni della vita ci siano in lui, e come su di esse egli abbia puntato, abbia sempre puntato; al di là di ogni più apparente ed evidente rinuncia. Passò qualche quindi a Pisa mi gno, poco tempo visite a Milano,
anno. Io iniziai a Pisa il mio insegnamento universitario; trasferii con la famiglia; tutto preso da questo nuovo impemi restava anche per quelle che mi erano state le consuete agli amici di Milano; ma ben presto ebbi un più intenso
scambio epistolare con Montale in quanto la sua poesia divenne uno degli argomenti primari delle mie lezioni. Di lui avevo sempre letto e riletto quanto egli aveva scritto, quanto veniva pubblicando, mai però gli avevo chiesto spie-
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gazioni su qualche passo, su qualche verso delle sue poesie che mi restavano oscuri o di non sicura interpretazione; il fatto di doverle presentare e commentare agli studenti mi pose di fronte alla esigenza di una comprensione puntuale anche di particolari che potevano apparire del tutto secondari e trascurabili nel discorso complessivo. E mi rivolsi a lui chiedendogli se gli fosse possibile accontentarmi in tale mia richiesta; ch’egli subito accolse. Così cominciò quel nuovo carteggio fra noi: io gli mandavo le mie domande, battute a macchina su dei grandi fogli; egli mi rispondeva di seguito, od ai margini di esse, talvolta lamentandosi con me del poco spazio che gli lasciavo. Queste talvolta erano evidentemente necessarie, chiedevano solo una puntualizzazione di fatti, di riferimenti alla sua biografia, che mi erano o ignoti o noti con scarsa esattezza, altre volte con esse tendevo a richiamare Montale ad una ragione patente, ad una dichiarazione evidente alle quali la sua poesia sfuggiva, dalle quali egli stesso rifuggiva. Di molte di quelle richieste ancora mi vergogno; poiché in esse spesso ho accondisceso a forzature, riconducendo la sua poesia, quel momento della sua poesia, in termini quasi di banalità; poiché molte volte esse sono ingenue e superficiali, tendono a cogliere solo il dato esteriore, una coincidenza con la realtà del tutto superficiale. Potrei qui motivarle con la fretta affannata con cui spesso le ponevo, le scrivevo; ma credo che di esse, pure ammettendone le cadute, proprio le banalità, si deva mettere in evidenza quell’elemento che connota sempre quelli che sono stati i miei rapporti con Montale. Tali mie domande sono state in un certo senso spesso provocatorie; con esse io quasi sempre ho teso non solo a rivendicare quello che era un mio ritratto di Montale, con l’accentuare quello che per me era un certo modo di essere di Montale, privilegiandoli sugli altri, imponendoli agli altri; ma anche quasi a costringere Montale a riconoscersi in essi; quasi ad indicare a Montale non solo la via ch’egli aveva percorso, ma anche quella ch’egli avrebbe dovuto percorrere, riconoscendo che essa era implicita in lui, nella sua poesia. In un certo senso io tendevo a farmi di lui il solo interprete possibile, ed in tal modo intendevo avvicinarlo a me; propormi a lui come colui che più e meglio aveva seguito il suo esempio. E, ciò facendo, da un lato forzavo anche me stesso, a lui mi dichiaravo in un certo modo che
anche per me costituiva solo una parte di me; e dall’altro lo costringevo a contrappormisi accentuando quello che era solo un modo della sua poesia e del suo essere uomo. Cosicché si può dire che quell’epistolario, nel suo svol-
gersi, assume l'aspetto di una implicita, lunga polemica in cui l’uno e l’altro dei contendenti rivendica, riafferma e motiva continuamente la propria posizione, o meglio un suo particolare modo di essere che dall’altro viene trascurato, posto troppo in sottordine.
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In tal senso dobbiamo bene ammettere che tutta la poesia di Montale parte da un dibattito che è in lui stesso, ch’egli porta avanti senza mai riuscire a risolvere, per quanto se ne impegni. E si veda a tale proposito come nell’ultima parte, negli ultimi anni della sua poesia, se egli pare impegnato in una sorta di fuga da se stesso, in una fuga dalla propria personalità per quanto essa
ha avuto ed ha di ansioso, di ancor teso in una attesa, in un’aspirazione, e così
vada ricuperando tutti i momenti della propria esistenza passata inserendoli in un nuovo ordine, a conferma di esso; basterebbero quegli scatti, carichi di un'improvvisa violenza, di un’appassionata rivendicazione; od anche soltanto quell’amaro sarcasmo con cui egli considera il momento a lui presente e la sua posizione in esso, perché ci si renda conto come Montale non abbia mai trovato una pacificazione con se stesso, con gli uomini e con le cose; che mai si sia rassegnato ad accettare le cose, gli altri e se stesso per come erano, per come sono; e come, sempre, ad un certo momento, anche di fronte a quella
che in lui era un’operazione accanita di autoconvinzione, egli si ribellasse ed ancora tornasse ad essere il Montale della richiesta, il Montale della proposta, anche il Montale della rivolta contro la realtà, contro il suo tempo, contro se stesso. Ed è strano come questo contrasto tra noi, celato, ma che di tanto in tanto si rivelava, appena affrontassimo un qualche tema impegnativo, non lasciasse traccia nel suo comportamento, nei suoi modi con me; sempre pronto ad accettare una mia richiesta, una mia proposta; anche se potesse costargli una qualche fatica; ma, ancor più, sempre atteggiato nei miei confronti con modi ed un comportamento di confidenza persino affettuosa; e me ne potei rendere conto in taluni momenti, in taluna contingenza.
Era venuto a Firenze per commemorare Palazzeschi e vi era stato accolto con tutti gli onori; e di colui che era stato per lui un amico ed uno degli scrittori del nostro tempo che più aveva stimato, che più aveva amato, egli aveva parlato a Palazzo Vecchio, seguendo un testo scritto ma completandolo con arricchimenti e con battute che rendevano il suo discorso ben sapido e malizioso; come soleva fare quando mascherava anche un proprio sentimento,
anche la propria commozione con un gioco divertito di allusioni e di divagazioni. Anch'io, con tanti dei suoi vecchi e nuovi amici, ero presente mattina; e con lui, nel tardo pomeriggio, mi trattenevo a chiacchierare delle salette dell'albergo dove eravamo ospitati entrambi, quando Maria Corti ad invitarlo a cena con un gruppo di amici e di suoi allievi, per festeggiarlo, per fargli onore. Ma egli si ritrasse, si rinchiuse in sé.
quella in una venne anche Come
gli capitava di fronte ad una sollecitazione che lo implicava, che lo coinvolgeva e che in qualche modo gli giungeva imprevista, che lo distraeva da quello che era un suo proposito, da un lato dispiaciuto di un rifiuto che poteva
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apparire scortese, ma dall’altro ben deciso a non accondiscendere, a difendere una sua privatezza, la sua più intima propensione,— si negava con impaccio,
scusandosi, dichiarandosi stanco, troppo stanco per affrontare i discorsi, addirittura la presenza di tanta gente; lui quella sera voleva cenare semplice-
mente, da solo con Guarnieri, restare a chiacchierare con Guarnieri; e si strin-
geva nelle spalle, e piegava il capo quasi borbottando, con gli occhi che guardavano in basso, quasi a significare la propria stanchezza, ad accentuarla. Poi cenammo insieme, con Gina, e conversavamo ed egli mi appariva ancora ricco di una sua vivacità, contento di rievocare vecchi ricordi della Firenze di un tempo, dei suoi incontri e delle sue amicizie; come se io, che ne ero stato un
testimone, fossi il migliore interlocutore cui egli potesse rivolgersi. Ma quella sua commemorazione ebbe uno strascico che ancora una volta
mi confermò nella convinzione di un posto particolare che mi era riservato nelle sue amicizie. Qualche mese più tardi una rivista che si stampa a Firenze, «Belfagor», pubblicò l'intervento di uno scrittore di una qualche notorietà, inteso a mettere in evidenza una prevaricazione che in quell’occasione Monta-
le avrebbe compiuto nei confronti di colui ch’egli aveva presentato come un proprio amico ma del quale si era servito per sminuirlo e solo per mettere in evidenza se stesso. Di quella che considerava un’aggressione Montale si amareggiò— ancora una volta, come in tempi lontani, preso dal desiderio di rispondere, di dare la propria versione dei fatti, di manifestare insomma quelli ch’erano stati la propria intenzione, il proprio proposito, e d’altra parte restio alla polemica, a lasciarsi coinvolgere comunque in quella ch’egli temeva potesse assumere il tono di una rissa. E così, come nei vecchi tempi, si rivolse a me;
il solo, secondo lui, disponibile per tale compito ed anche il solo che potesse ristabilire la verità, che potesse testimoniare quali fossero stati i suoi rapporti con Palazzeschi e come egli sempre avesse apprezzato la sua opera. Per parte mia quella richiesta mi giunse a confermarmi ancora una volta come Montale sentisse sempre valido, mai indebolito il rapporto che ci legava l’uno all’altro, come se io rappresentassi per lui quel che altri, pure a lui vicini e con ben lunga frequenza ed ora con frequenza maggiore della mia, non potevano rappresentare; più che lusingato ne rimasi quasi commosso; come se egli avesse
potuto superare un suo ritegno, un suo pudore, una sua riservatezza, e si fosse potuto rivelare in quella sua condizione nella quale l'indignazione e l’amarezza si univano al timore, all’impaccio di chi si ritrova quasi impotente di fronte all'aggressione altrui e sente il bisogno di essere difeso, di essere protetto da
chi lo possa comprendere, dargli una piena sicurezza. Così finii col mettere da
parte ogni altro impegno e col portare a termine una risposta la quale da un lato testimoniasse quale fosse il sentimento più veritiero da sempre nutrito da Montale per Palazzeschi e dall’altro come Montale tale suo sentimento, come
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qualunque altro, solesse mascherarli con un gioco sottile ed umoroso leggermente mistificante. Tale mio intervento fu pubblicato da un’altra rivista fiorentina, «Il Ponte», la quale altre volte aveva ospitato miei scritti e credo Montale ne sia rimasto soddisfatto, anche al di là di quanto me ne scrisse, sopratutto pet essersi sentito liberato da una preoccupazione che lo angustiava. Ancora gli poteva accadere talvolta che gli si offrisse l'occasione di cimentarmi su quell’argomento che ci divideva, sul quale avevamo posizioni opposte, e lo faceva ormai con una sorta di malizioso ammiccamento, a tentare se proprio potessi concordare appieno su talune risoluzioni del partito in cui militavo, se la mia fiducia in esso non ne fosse incrinata, se la mia attività non ne avesse risentito; come quando mi inviò un epigramma sul compromesso storico, su quella nuova linea del partito comunista intesa ad una collaborazione con l’altro, la Democrazia Cristiana, alla quale sino allora esso si era sempre contrapposto; non a caso egli supponeva che, proprio per le mie
convinzioni ideali, per quello che era il mio carattere, improntato, com’egli ben sapeva, ad una qualche intransigenza, tale accordo mi giungesse sgradito; e, a sottolineare, a rendere patente a chi fosse rivolto, lo intitolò «A Berlin-
guer», forse anche intendendo ch’io mi facessi tramite per farlo giungere a questi. E non vi era in lui forse anche il desiderio di una messa in guardia, di un’ammonizione al segretario di un partito e, per lui, ad un partito che sino allora aveva svolto con coerenza la sua funzione di opposizione; mentre ora scendeva appunto ad un compromesso che ne modificava la fisionomia, che contribuiva a rendere ancor più incerta ed equivoca la conformazione politica e morale del paese? E forse pure in lui vi era, nei miei confronti, non tanto la volontà di una provocazione, quanto il desiderio di una coincidenza e, addirit-
tura, quello che la sua ammonizione giungesse a colui cui eradiretta, il quale, anche se non l’avesse accolta, perlomeno l’avrebbe presa in considerazione, avrebbe quindi proceduto con maggiore cautela per la via che aveva intrapreso. Io non gli risposi, non colsi quel suo invito, per quanto era rivolto a me, ma la breve poesia feci giungere a colui cui era intitolata, dal quale però, a mia volta, non ebbi neppure un segno che l’avesse ricevuta, che in qualche modo l'avesse apprezzata. Lo rivedevo di tanto in tanto; una o due volte per anno lo andavo a trovare a Milano od al Forte dei Marmi, dove passava qualche mese l'estate. Talvolta approfittavo di quell’occasione per porgli qualche domanda, per sottoporgli qualche problema di comprensione o di interpretazione di momenti, di passaggi di sue poesie; ormai mi sarebbe parso di esigere troppo chiedendogli di continuare quello scambio epistolare di qualche tempo prima. La sua età era avanzata; sempre pronto nelle risposte, sempre limpido nella sua presenza
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intellettuale, il peso degli anni si manifestava però nel suo camminare sempre più impacciato, nel tremito delle mani che gli rendeva impossibile anche il bere il caffè da una tazzina. Ora, con la sua poesia, egli aveva raggiunto una notorietà quale mai forse si sarebbe aspettato, che mai aveva rincorso. Era stato nominato senatore a vita, aveva vinto il premio Nobel, aveva ricevuto non so quante lauree ad honorem, gli erano state conferite le cittadinanze di Milano e di Firenze; ma quel che colpiva chiunque parlasse con lui, e non solo me che lo frequentavo da tanto tempo e che ben lo conoscevo, era il fatto ch’egli mai si intratteneva a parlare di quegli onori che gli venivano resi, e, se lo faceva, si era con brevi allusioni, con accenni, a metterne in evidenza talun lato, talun momento che gli si erano presentati sotto un aspetto fuori da ogni
norma di ufficialità, estravagante o addirittura buffo. Tali fatti infine lo interessavano se aveva potuto coglierli da un punto di vista che li riconducesse in una dimensione quotidiana, che li rendesse più vicini a lui ed al suo costume. Al Senato si era recato poche volte e sopratutto per soddisfare la propria curiosità; attento al comportamento degli altri, dei nuovi colleghi, a sottolineare un loro gesto, un loro modo di atteggiarsi che li ponesse su di un piano del tutto consueto, uomini in mezzo agli altri uomini, con loro caratteristiche specifiche, con le loro manie, con le loro anomalie, con le loro qualità ed i loro
difetti; talvolta anche divertenti, ed anche simpatici. Ma quel che doveva avergli fatto piacere si era l’essersi trovato a proprio agio anche in quell’ambiente per lui così fuori da ogni sua abitudine; dell’avervi goduto di un’accoglienza cordiale e pure intonata al rispetto da parte di tutti. Nella sua nuova condizione egli si rallegrava più che altro in quanto per essa sentiva intorno a sé manifestarsi e confermarsi un consenso, una solidarietà che aveva sempre cercato, o perlomeno che aveva sempre desiderato di raggiungere. Ma tale notorietà, tanti riconoscimenti, tale sua nuova condizione non inci-
devano profondamente in lui, non determinavano in lui un nuovo modo di essere, di considerare la vita, la realtà. Nella sua riflessione interiore, nella sua poesia che l’esprimeva egli si era posto in una dimensione diversa, ormai era andato oltre quelli, infine addirittura oltre i termini della propria diretta esperienza umana. Nulla che lo riguardasse, che anche gli facesse piacere poteva contare a deviarlo, a fargli mutare il cammino che ormai perseguiva; in un certo senso egli aveva cancellato da sé ogni proprio fatto personale, il proprio
personale destino; od almeno, ad essi non poteva più riferirsi se non per adattarli a quella che era la sua considerazione del mondo, della realtà, della
vita dell’uomo sulla terra nel momento presente; con una proiezione di sé sugli altri, su quanto avveniva, su quanto gli accadeva, come la desolante prospettiva di una crisi che colpiva prepotentemente chiunque in ogni sua manifestazione, in ogni sua accezione e che a nessuno lasciava spazio per un
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riscatto, per una salvezza. Con atteggiamento stoico egli contemplava quella che considerava come una situazione senza prospettive, senza una via di uscita, non fosse stato per quell’amaro, insistente sarcasmo, per quella pur contenuta indignazione che da ogni sua poesia trapelavano, la improntavano, a dichiarare la sua impotente disperazione, l’incapacità, la debolezza, la non incidenza dell’uomo, e sua propria, sulla realtà. E la fuga da questa rivelava ancor più la convinzione della sconfitta; se era costretto ad accettarla, la rinuncia per lui non costituiva una soluzione, non lo compensava di quanto per essa aveva perduto, finiva con l’essere una povera difesa; la sua contemplazione dolorosa ammetteva soltanto il rifugio della pietà; senza però che questa potesse costituire un ultimo termine, senza però che essa potesse controbilanciare la convinzione del negativo, di ciò che ci soverchia e cui, in ogni modo, disperatamente resistiamo, dobbiamo resistere, pur senza speranza. Ora quella profonda dissociazione, che era in lui costituzionale, che era propria della sua conformazione umana, e che via via con lo svolgersi della sua esistenza si era andata sempre più confermando ed accentuando, era andata al tempo stesso diventando se non l’unico elemento, se non l'elemento costitutivo perlomeno uno degli elementi più importanti della sua poesia, quello intorno al quale gli altri si alternavano o si accentravano, talvolta in un tentativo di sfuggirvi, talvolta con la tendenza a convergervi. In tal senso è ben caratteristico come, proprio nell'ultimo periodo della sua esistenza, proprio quando egli andava ottenendo i più alti riconoscimenti del valore della sua poesia, proprio quando egli giungeva ad essere considerato non solo come uno degli scrittori di maggior peso e di maggiore significazione nel campo delle lettere italiane ed europee; ancor più, proprio quando al riconoscimento del valore della sua produzione poetica si accompagnava il riconoscimento di una sua esemplarità morale e civile; la sua poesia abbia proceduto in un senso del tutto opposto a quello che pareva essere il corso della sua esistenza. Difatti, sempre più decisamente, in tono sempre più accanito essa si indirizzava verso una condanna della realtà, della realtà attuale, di
quella a noi presente, del mondo in cui viviamo, del nostro paese e di ogni altro. E ciò con accenti e modi che vanno dall’ironia all’indignazione; come chi in nessun modo si ritrova nel mondo e nell’ambiente in cui vive, di chi se ne dissocia, di chi lo respinge e non ritiene possibile ricuperare in esso anche soltanto qualche ragione, una minima ragione di accettarlo, di trovarvi un posto per sé; ancor più, di chi in nessun modo, per nessuna via, ritiene che in
esso vi sia una qualche premessa per un suo svolgimento in un senso comunque positivo, che ci permetta di affidarci comunque al futuro. Così il suo accanimento, la sua condanna assumono sempre più gli accenti di una polemica intransigente, che nega ogni accondiscendenza od assuefazio-
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ne, che rifiuta ogni giustificazione; addirittura come se egli volesse difendersi non solo da ogni sollecitazione, da ogni suasione in un senso diverso, ma fosse
inteso a smascherare quegli inganni, quegli allettamenti di cui si traveste la
realtà per nascondere la propria parte più perversa, quella che è la sua conformazione di fondo, la sua consistenza intrinsecamente e completamente negative. Addirittura pare che Montale, col procedere degli anni, e sino all’ultimo, sia come investito da una sorta di furore della denuncia, come se egli andasse accumulando le prove di quella negatività, ogni giorno cogliendone una spia, una nuova testimonianza nelle cose, negli eventi, negli incontri che gli si offrono. Ed in ciò quasi trasportato da un feroce fervore, come sostenuto da un’acre passione; a confermare con continue prove quel che ha già affermato, quel che ha già ripetutamente provato. Ma direi che proprio questo accanimento, questa sorta di furore, ed anche il sarcasmo che ad essi sono sottesi, ed ancor più quella sorta di cattivo compiacimento di quella che è la sua demistificazione della realtà; quell’amara risata che pare a volte trapelare e concludere una sua composizione, restano, a rivelarci appieno la sua condizione e a confermarci la sua lunga storia, la sua vicenda umana. Montale davvero ancora una volta, e proprio per la testimonianza di questa sua ultima poesia, ci appare come l’uomo che è partito da una fiducia iniziale nella realtà e nella vita; e che a questa fiducia ha cercato e tentato tutti gli esiti, ed anche l’ha confermata tutte le volte che la realtà gli ha offerto un qualche aggancio cui potersi afferrare, cui potersi attenere. Ma la realtà gli è mancata ogni volta. Mentre al tempo stesso in lui quella sua attesa, quella sua esigenza, col passare del tempo; proprio quanto più la realtà gli si manifestava refratta-
ria e nemica, si facevano sempre più esigenti, si coloravano sempre più con i termini dell’assoluto, dell’utopico. Così la distinzione, la separazione fra ciò
che è e ciò che ci si attende, ciò cui si aspira si andavano sempre più accentuando, sino al momento in cui il poeta, l’uomo, è portato a dichiarare l’in-
conciliabilità tra i due termini, l'impossibilità della realizzazione di ciò che si è
a lungo atteso, cui si è teso. Ma neppure per tale via Montale giunge alla pacificazione; poiché egli in nessun modo può essere l’uomo, il poeta della pacificazione; poiché sotto quello che potrebbe essere il suo punto di approdo fervono sempre la sua scontentezza, la sua insoddisfazione; fervono cioè ancora, benché celate, benché conculcate, la volontà, la necessità di credere, di attendere, anche di spe-
rare; benché il poeta da sé respinga tale possibilità, benché il poeta ad essa rivolga la sua beffarda acredine; che è il modo di reagire contro se stesso, che è il modo di condannare se stesso, di condannare quel fervore, quell’anelito di
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vita, che restano tuttavia il modo determinante della sua ricerca e della sua poesia.
E di questa dissociazione abbiamo testimonianza anche in altro senso, anche per altra sua tematica; poiché da un lato in questi ultimi anni sono state frequenti le sue dichiarazioni di sentirsi ben presente nel suo tempo, in questo tempo, e di accettarlo per quello che esso è, nella sua piena dimensione; mentre nella sua poesia egli sino alla fine è andato compiendo un’opera di disintegrazione e del tempo e della realtà e di se stesso nel tempo e nella realtà; giungendo sino a rifiutarsi di distinguere, di cercare di distinguere fra ciò che è e ciò che non è, addirittura fra ciò ch'egli è e ciò ch’egli crede di essere; per cui ogni rapporto fra lui, fra l’uomo, da un lato, e la realtà in cui vive dall’altro, è troncato, viene a mancare. Mentre la salvezza si configura, o
può configurarsi, come l’uscita dalla realtà presente, la negazione della realtà presente; senza peraltro che risulti qualcosa, non certo altra realtà— che a quella nota, sperimentata si contrapponga, che si configuri in qualche modo. Così riprendendo il discorso già presente in termini evidenti, e pure in modi, con risoluzioni e tentativi diversi, negli Osst di seppia. Ma, anche attraverso questa enunciazione, anche attraverso questa ricerca,
restano sempre in lui perentoriamente presenti da un lato una ripulsa e dall’altro un’ansia non soddisfatta, non acquetata; resta quella spinta ch’egli in nessun modo può tacitare; anche se egli tenti ripetutamente, insistentemente di
respingerle da sé; anche se egli accanitamente dichiari la propria impotenza, l'impotenza dell’uomo a realizzare la propria salvezza. Resta il fatto ch'egli mai ci si presenta come il poeta dell’acquetamento, della pacificazione, della rinuncia; anche se talvolta possa aspirarvi, anche se alla fine senta la fatica, il peso di una tensione che dura da troppo tempo. Ma è proprio questa faticata volontà di vivere, questa mai rassegnata pertinacia che gli dà il posto ch'egli ormai definitivamente occupa nella nostra poesia e nella nostra storia. Lo vidi l’ultima volta nel suo appartamento di via Bigli agli inizi del giugno dell’anno passato, qualche mese prima della sua morte. Una influenza invernale, protrattasi per mesi, lo aveva prostrato; Gina diceva che da quella malattia non si era più ripreso, che faticava troppo a riprendersi, che non era più lui. Affondato nella sua poltrona, ma tutto ingobbito, dimagrito, con il capo,
come gli era spesso consueto, volto in basso, mi accolse tendendomi appena la mano che mi lasciava stringere tra le mie senza reagire alla loro pressione. Anche il suo volto pareva fosse cambiato; senza dentiera, che non sopportava, la parola gli usciva di bocca impastata; parlava pienamente cosciente di sé ma privo ormai di quella vivacità che gli era propria, di quell’umore che sempre connotava la sua conversazione; mi fece le domande consuete, rapidamente
disse del proprio male; mi chiese della mia famiglia, di qualche amico. Poi
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d’un tratto, sollecitato anche da Gina, ricordò il volume pubblicato di recente
che conteneva l’edizione critica delle sue poesie; me ne aveva messo da parte un esemplare, attendendo ch’io mi recassi a trovarlo, per darmelo con le sue mani. La Gina glielo porse e, com'egli gliela chiese, gliporse anche una penna. Ma la mano gli tremava, pareva fosse senza fai inetta anche a tracciare un segno. Io gli dicevo che non si affaticasse, non mi era necessaria una sua dedica, e neppure che tracciasse il suo nome; ma egli insisteva, lottando contro la propria incapacità, con accanita volonta di vincerla, di imporlesi; piano piano riuscì a scrivere «Eusebio », il nome affettuoso con cui i vecchi amici da sempre lo chiamavano. Poi della Eicolvolie premiarsi con una sigaretta, che gli era proibita; ora Gina non era presente ed egli poteva sfuggire al suo controllo. L’accese a stento e la fumava con gusto, concentrandosi su ogni inspirazione; ma quand'era verso la fine, cominciò a tossire, a lamentare som-
messamente un disagio. Gina accorse avvertendo che qualcosa era accaduto, ch’egli aveva trasgredito ad un ordine del medico, e subito intervenne con decisione; la sigaretta, come sempre, gli aveva provocato l’irritazione delle
gengive, di cui soffriva; lei prese la boccetta della medicina e con un batuffolo di bambagia imbevuto di essa cominciò a strofinargliele, finché quella molestia si attenuò, scomparì; ed intanto lo sgridava, amorevolmente lo sgridava; egli sapeva bene che cosa lo aspettasse per ogni sigaretta fumata, come quel
breve piacere fosse subito cancellato da una più lunga anche se non grave sofferenza. Egli la lasciava dire, accettava il rimprovero ma scuoteva un po’ la testa. Poi, quando Gina fu uscita, accennò a quella sua presenza continua, a
quel suo continuo intervenire, a quel suo controllo cui egli non poteva sfuggire, un po’ giustificandoli ed un po’ lagnandosene come se per essi fosse posto continuamente in una condizione di inferiorità; inteso, almeno di tanto in tanto, a sottrarsene, a compiere un atto di indipendenza nei confronti di lei, anche se poi avesse a pentirsene. Ed io ricordavo di altra volta, quando, alla
fine del nostro incontro, della mia visita, egli aveva voluto accompagnarmi sino alla porta dell’appartamento e poi era uscito sul pianerottolo mentre io attendevo l'ascensore che stava salendo; ma Gina improvvisamente era intervenuta sgridandolo, richiamandolo: non sapeva che il vano delle scale era freddo, che, per quella sosta, si sarebbe potuto prendere un raffreddore? Ed egli l ascoltava un po umiliato e rammaricato ma sottomesso, senza reagire, e subito sospinto da lei e tutto rabbuffato era rientrato luana Potevo pensare, ed altri potrebbe pensare, che per tali atteggiamenti, per tali reazioni, Montale, nella sua ormai avanzata vecchiaia, tornasse ad una condizione adolescenziale, quasi infantile; ma, attraverso essi, io riconoscevo la sua condizio-
ne di sempre, quel suo modo di agire e di comportarsi di sempre, anche se ora accentuati, con moti e figurazioni leggermente esasperati. In lui riconoscevo
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quel suo bisogno di aver vicino qualcuno su cui contare, che gli servisse di schermo fra lui e la realtà, nel suo insuperabile, inguaribile disagio di fronte ad essa; mentre al tempo stesso, di tratto in tratto, a quella protezione, a quella tutela egli sentiva il bisogno di sottrarsi, di ribellarsi, anche se il suo scatto di indipendenza avesse a costargli disagio e pena; come a riaffermare la propria individualità, la propria indipendenza; come se quella protezione avesse da mantenersi in termini di discrezione, non dovesse prevaricare su di lui, non dovesse condizionarlo in quella che restava la sua aspirazione a sentirsi libero, sottratto e renitente ad ogni sopraffazione. Prima che me ne andassi mi disse che al Forte dei Marmi aveva già fissato
l'appartamento consueto per l’estate; ora attendeva la buona stagione, il caldo, e di star meglio, di essersi completamente ripreso, poi avrebbe intrapreso quel viaggio per lui un po’ lungo e faticoso; ci saremmo visti laggiù; ma io temevo che non riuscisse a tornare qual era, a riprendere completamente le sue forze; temevo di non rivederlo più. Quando lo salutai avrei voluto dirgli qualcosa che gli facesse capire ancora una volta che cosa egli era stato per me, che cosa ancora rappresentava per me; mi piegai ad abbracciarlo e gli mormorai un po’ commosso per quello che mi si presentava un ultimo saluto: «Ti ho sempre voluto bene»; ed egli riprese quella mia affermazione tenendomi le braccia con le mani, e ripetendomi: « Anch'io, anch'io ». Appresi la notizia della sua scomparsa dai giornali; quello era stato davvero il mio ultimo saluto. Non mi recai al suo funerale; ormai egli era divenuto preda dell’ufficialità, dei presidenti, dei ministri, dei prefetti, dei generali, anche dei vescovi e di coloro che costruivano e costituivano la Storia; di coloro che dalla sua poesia erano sempre stati espunti, esclusi, non fosse che per essere meta della sua invettiva; ma essi sulla sua poesia, sulla sua persona di uomo, su quello ch’egli era stato per tante generazioni di lettori anche a venire, nulla potevano; la loro presenza al più poteva costituire per lui una beffa, l’ultima beffa, l’ultimo tranello che la realtà nemica gli allestiva. La sua immagine non ne veniva turbata, ne usciva indenne. 1982-1987
Il doloroso travaglio di Carlo Emilio Gadda
Conobbi Carlo Emilio Gadda a Firenze nella primavera del 1931. Il suo primo volume di racconti e di prose varie, La Madonna dei filosofi, era stato
appena pubblicato per le Edizioni di Solaria; si può dire ch’esso era ancor fresco di stampa, ed egli a Firenze era venuto per incontrare gli amici di «Solaria », per festeggiare con loro un evento per lui importante, in quanto, se tra i «solariani» aveva degli estimatori, delle persone che lo avevano incoraggiato e stimolato a dedicare più tempo e più impegno a questa attività per lui ancora del tutto secondaria, quanto di lui sinora era apparso sulle pagine della rivista aveva avuto ben pochi lettori; si può dire insomma che per la società letteraria italiana a quasi quarant'anni egli era ancora uno sconosciuto; questo libro segnava il suo debutto. Io ne avevo acquistato uno dei primi esemplari; stimolato anche da Bonsanti subito lo avevo letto e ne ero rimasto colpito; a confronto con gli altri narratori di «Solaria» che già conoscevo e che pure apprezzavo, sentivo in
Gadda una impetuosa forza di sentimenti ed una ricchezza di temi e di argomenti tali da esserne affascinato; e la mia piena adesione avevo già dichiarato in ogni occasione mi si era presentata nel giro dei frequentatori delle «Giubbe Rosse». Così, quando vi giunsi quella mattina, subito dopo il mezzogiorno, qualcuno subito mi chiamò facendomi il suo nome; come se già di me gli avesse parlato indicandomi come uno dei suoi più convinti ammiratori; e così ci stringemmo la mano. Nei rapporti con chiunque Gadda improntava ogni suo gesto, ogni suo intervento, tutto il proprio comportamento, ad una gentilezza corretta, persino cerimoniosa. Di fronte a chi gli veniva presentato, di fronte a chi gli si rivolgeva od a chi egli stesso si rivolgeva, egli assumeva modi tali da dimostrare non solo la propria completa disponibilità, ma persino la propria deferenza; come se, nei suoi confronti, egli intendesse sempre porsi su di un piano di dipendenza, addirittura di inferiorità; pronto a scusarsi di quella che a lui poteva apparire una propria disattenzione, una propria dimenticanza, una propria trascuratezza. Pareva che, in quell’ambiente di scrittori o di artisti, egli si sentisse impacciato, conscio di una propria estraneità; come se sempre
ritenesse gli altri, chiunque altro, più preparati, più esperti, più informati di
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lui. Ed a tale atteggiamento e comportamento egli era tanto più disposto in quanto, a dire il vero, quelli dei «solariani» e di coloro che li frequentavano si caratterizzavano sempre per un loro modo di sicurezza, diciamo pure per una loro coscienza di sé e del proprio valore; o meglio per la convinzione di far parte di un gruppo, di un ambiente in cui il livello della preparazione, il livello delle competenze, e quindi del dibattito, della conversazione, fossero sempre esemplari, avessero una loro forza perentoria, un loro spicco indiscutibile. Gadda in un simile ambiente si sentiva, od almeno mostrava di sentirsi, non del tutto partecipe; accettato sì ma ancora sottoposto ad una sorta di continuo esame; a decidere se potesse essere promosso a farne parte di diritto o no; da ciò la sua discrezione, la sua titubanza, anche l’incertezza delle sue risposte,
dei suoi interventi; come di chi teme e si aspetta sempre dall’altro, dagli altri, un giudizio negativo. Ma anche evidentemente, per chi già lo conoscesse bene, in lui vi erano sempre presenti, il gusto, il compiacimento di giocare su questo proprio atteggiamento, di assumersi la parte di colui che è e vuole dimostrarsi impacciato e goffo; di insisterci, anche di trincerarsi dietro ad essa; e non solo a propria difesa, ma anche per una propria cautela, per una prudenza che lo portavano a pesare ogni propria reazione, ogni proprio atteggiamento ed il proprio comportamento di fronte agli altri, sinché non li avesse davvero conosciuti, sinché non li avesse egli stesso pesati, giudicati dentro di sé per quel ch’essi erano, per quel ch’essi valevano. Ed allora quel suo gioco di reticenze e di pudori, se perdurava, diventava davvero esclusivamente un gioco; dietro al quale si nascondeva una ben diversa considerazione; il che poi lo portava, dentro di sé, ma anche di fronte a chi egli ben conoscesse e nella cui discrezione potesse fidare, a sfoghi improvvisi di un’irritazione che sfociava persino nell’invettiva, nell’imprecazione ma che perlopiù si risolveva in un’ironia sarcastica, con il gusto del grottesco, della deformazione e dell’invenzione parossistica, a cogliere il lato debole, la deficienza di fondo di colui che
diventava l’oggetto della sua reazione; ch'egli tramutava in propria vittima; e ciò tanto più se prima si era sentito in dovere di rivolgerglisi con atteggiamenti di rispetto, anche di ammirazione; ora infine deprecati e respinti. Ma ancora, in quel suo incontro con i «solariani», egli davvero si sentiva, ed a giusta ragione per quanto dentro sé andava considerandosi,- come un apprendista,
o meglio come uno che ancora non è e non può venir considera-
to come un addetto ai lavori; poiché infine, nel campo delle lettere, egli non aveva ancora dato una compiuta prova di sé; e non vi si era neppure immesso con prepotenza, con una propria decisa perentorietà; a quasi quarant'anni
egli non si presentava con una personalità di tale spicco, di tale rilievo da imporsi ad un mondo, ad un ambiente perlopiù estremamente esigenti, ed anche restii o perlomeno molto attenti ad accogliere qualcuno come degno di
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far parte di un sodalizio che aveva una sua unità, anche una sua compattezza; anche se in esso diverse erano le posizioni degli uni e degli altri, tanto da giungere talvolta ad esprimersi in contrapposizioni, in contrasti. In tale contesto ed in tale momento evidentemente egli non poteva non compiacersi di trovare qualcuno deciso a manifestargli il proprio consenso in termini di ammirazione esplicita; come io facevo per quanto gli era stato riferito e come andavo confermandogli, lui presente, appena mi se ne offrisse l'occasione. Tra lui e me vi era una differenza d’età di quasi vent'anni; io ne avevo appena compiuto ventuno; infine io ancora non avevo dato nessuna
prova di me, nulla avevo pubblicato; però ormai in quel gruppo dei «solariani» ero stato accolto, ero presente; ed infine in esso mi ero inserito accettan-
done, facendone mie le scelte di fondo, la base di partenza per ogni giudizio che riguardasse il fatto letterario; cosicché, se con la baldanza giovanile che mi era caratteristica, ripugnante da cautele e tergiversazioni, avevo dichiarato la esemplarità di Gadda scrittore, lo avevo fatto dando corpo a quelle che, in modo più e meno accentuato, erano valutazioni positive anche degli altri «solariani». E così, raccogliendole, facendomene portatore, avevo posto un problema, un interrogativo che agli altri finivano con l’imporsi; attraverso me e la mia ingenua provocazione anche a loro si poneva il quesito di quale peso, di quale importanza potesse avere nella nostra letteratura di quegli anni uno scrittore il quale sinora si presentava con una produzione quantitativamente
tanto limitata. Così nacque la nostra amicizia; quella mia esigenza, quella mia ricerca di scrittori, di uomini cui confrontarmi, dai quali apprendere, sulla cui esperienza misurare la mia, trovarono in lui un punto di riferimento sicuro sin dal nostro primo incontro; ed egli di un subito mi accettò; quasi di un subito o ben presto dimise con me quel suo gioco di cautele e di riserve, anche di timidezze e di timori. E ciò tanto più in quanto, nei suoi confronti, come nei confronti di chiunque altro, io mi comportavo in un modo del tutto scoperto nella mia necessaria sincerità, nel mio darmi per come ero; cosicché infine egli finiva con l’accettare questo mio modo di essere e col rispondervi al mio stesso modo, col porsi sul mio stesso piano. E tale reciproca sincerità, tale confidenza erano rese più facili, quasi necessarie, anche per il fatto che ci univano un costume, una moralità, anche un’educazione, di cui in modi, con forme, ed attraverso vicende ed accadimenti diversi, eravamo stati entrambi partecipi; che in noi erano rimasti come un patrimonio comune; al quale per
un verso aderivamo ed al quale per altro verso ci eravamo ribellati o ci ribellavamo; al quale tendevamo a sottrarci; ma che in noi in ogni modo aveva lasciato un'impronta profonda.
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Evidentemente restavano in me come primari, nei confronti di Gadda, il mio interesse, la mia adesione per quel ch’egli aveva scritto e per quel che avrebbe scritto; da ciò il mio continuo interrogarlo su quanto sino allora aveva fatto, ed anche per quanto aveva soltanto iniziato; magari senza averlo portato a termine, in ogni modo senza averlo pubblicato; e quindi su quel che si riprometteva di fare, su ciò che andava immaginando e progettando. Ed a tale proposito quel che mi poneva in una posizione antagonista di fronte a lui era la sua confessione, alla quale si abbandonava con un qualche modo di autocompatimento e di giustificazione, anche a motivare quel suo ritardo per cui si trovava a quasi quarant'anni con il capitale un po’ esiguo di un solo volumetto pubblicato— della propria pigrizia, o meglio della propria difficoltà a scrivere, a dare l’ultima mano, l’ultima revisione a quel che aveva già scritto, alle molte pagine inedite celate nei suoi cassetti. Ed io allora, a tale sua confessione, mi dispiacevo della rassegnazione che mi pareva ne trapelasse; e lo incitavo, lo stimolavo a lavorare con decisione per questa che ritenevo fosse la sua via, ch’egli doveva intendere come la sola sua via; rifiutando e respingendo quel suo modo di autocompatimento che mi pareva celasse una sua debolezza, anche una ipocrisia; come se lo sentissi in malafede; o meglio ancora incerto,
dubbioso di sé, della propria vocazione, dei risultati cui sarebbe potuto arrivare con una maggiore, con una più continua fiducia in se stesso. Ed allora,
per quanto mi riguardava, badavo a rincuorarlo, a fargli sentire in quale conto tenessi quel che aveva scritto e le sue possibilità ove si fosse dedicato a dare quanto poteva davvero dare. Infine la sua difficoltà a scrivere, ciò che gli impediva di scrivere, o che
glielo impediva a tempo pieno, si erano le esigenze della sua professione di ingegnere, in un’attività che aveva svolto in Italia ed in altri paesi europei e persino in Argentina; e si trattava di un’attività ch’egli affrontava sempre e dovunque con estremo impegno, che gli prendeva l’intera giornata, che gli lasciava ben poche ferie o vacanze o giorni di sosta; e che d’altra parte costringeva la sua intelligenza ad una continua tensione, ad una continua applicazione, al di là dei tempi del lavoro; poiché in lui sempre erano presenti un forte senso delle proprie responsabilità, ma anche l’assillo, la volontà di operare, di realizzare ciò che si proponeva o che gli veniva proposto, persino al di là delle sue possibilità; con il compiacimento, anche con l’orgoglio, diciamo, di otte-
nere il risultato migliore, il più apprezzato, quanto agli altri era ben difficile, forse impossibile, raggiungere. Ma poi gli accadeva, e proprio per questa sua strenua dedizione, dopo aver portato a termine l’opera che gli era stata proposta o commessa, di concedersi una pausa; come a fuggire, a rompere un ritmo
che gli era stato troppo pesante, nel quale si era ritrovato troppo costretto; che insomma non lo aveva soddisfatto appieno in tutte le sue esigenze, in tutte
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le sue attese; in quanto la sua propensione, la sua ansia di fare, di realizzarsi non si esaurivano in quella sua attività professionale; ed allora, in quei brevi o
meno brevi periodi durante i quali, portato a termine il lavoro affidatogli, era in attesa di quello nuovo; ecco che si poneva a scrivere, a realizzare quanto si era proposto nel rifugio segreto della fantasia; e si trattava allora di una attività, amata sì, attesa come un premio ch’egli concedesse a se stesso, ma dalla quale sapeva o temeva di non poter trarre nessun frutto, che in nessun senso, per nessun verso gli avrebbe dato la possibilità di sopravvivere, perlomeno di conquistare quel modesto benessere cui era abituato; ed anche quel livello di dignità che dalla famiglia, dall'ambiente in cui era nato e cresciuto, gli era sempre stato presentato come un modello al quale bisognava conformarsi, al quale non si poteva sfuggire. Ora io ben potevo capire da un lato questo suo travaglio, questa sua preoccupazione, e quella sua propensione dall'altro; ma, nella mia giovanile avventatezza, lo avrei spinto a mettere da parte ogni altra attività che non fosse quella dello scrivere, a costo di qualunque sacrificio; mentre dentro me, contraddittoriamente, sentivo il valore della sua presenza e del suo esempio proprio per quel ch’egli era, proprio per quel che aveva fatto e faceva, al di là della sua limitata applicazione alle lettere, allo scrivere. Difatti, senza che me ne rendessi conto appieno, in Gadda sentivo una consistenza umana, una concretezza di vita, una conoscenza diretta, una piena sperimentazione della realtà che nessuno degli altri miei amici di «Solaria»
aveva. Ed infine nei suoi scritti, in qualunque suo scritto, mi attirava appunto il fatto ch’essi di tale esperienza, di tale conoscenza si nutrivano. E ciò che più mi colpiva, che più mi convinceva in essi non era il fatto ch’essi partissero da una realtà conosciuta e sperimentata, ma che in essi vi fosse proprio la presen-
za di un'impostazione ideologica di chi pone in primo piano la necessaria conoscenza della realtà, di una precisa dimensione della realtà dalla quale partire, dalla quale far nascere le proprie reazioni, le proprie considerazioni. Come se nessun principio, nessuna tendenza e persino nessun sentimento potessero avere una loro validità senza essersi confrontati e cimentati
con l’esperienza; addirittura se non nati da essa. E poteva anche essere l’esperienza con una realtà negativa, con una realtà ostile; ma quella in ogni modo in cui l’uomo era immesso, nella quale e dalla quale traeva i propri mezzi di esistenza. Così con Gadda mi accadeva di incontrarmi, e nei pochi giorni durante i quali si trattenne a Firenze in quell'occasione, e più tardi quando ci tornò e vi rimase per più lungo periodo, e di conversare e di interrogarlo e di discutere; interessato dalle diverse vicissitudini da lui affrontate nei vari momenti della sua vita, apprendendo da lui una lezione che non mi era solita; e questo infine
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al di là di ogni interesse letterario; in lui avvertendo non solo una ben più larga, una ben più vasta dimensione di interessi di quella solita agli amici scrittori di Firenze, ma una sicurezza di giudizi, un equilibrio di considerazioni, di cui non potevo non tener conto, cui non potevo non confrontarmi. Ed è ben caratteristico il fatto che un uomo, del quale avrei ben presto imparato a conoscere, e attraverso gli scritti ma anche attraverso le sue confidenze, la condizione contraddittoria, il travaglio continuo ed esasperato fra le diverse tendenze ed aspirazioni mi desse in quel primo periodo della nostra amicizia il senso così preciso di una pacatezza acquistata con una piena conoscenza di sé e della realtà, all’insegna di una razionalità sempre presente, cui in nessun modo si potesse rinunciare. E mi avveniva anche di interrogarlo sulle vicende del nostro paese, sulla sua presente condizione. In tal senso mi era sempre ben presente la lezione di Montale nella accanita fermezza della sua polemica antifascista della quale mi nutrivo quotidianamente; ora non è che Gadda si contrapponesse ad essa; ma in ogni modo, nella sua considerazione del passato più recente, delle vicende attraverso le quali il fascismo era arrivato al potere, egli mi immetteva in una realtà storica che aveva una sua conseguenza, una sua continuità ed una sua ragione. Egli non esaltava il fascismo, non si dimostrava un fautore di esso; ma mi indicava le cause del suo successo, ma mi immetteva nel gioco perverso della politica di cui il fascismo si era giovato riuscendo ad imporsi, a trionfare di avversari che parevano aver fatto quanto stesse in loro per favorirlo. Insomma egli anche poteva mostrarsi avverso al modo di governare, alle imposizioni ed alle limitazioni che il fascismo imponeva agli italiani, ma ne considerava la ragione, quasi ne ammetteva la necessità. La sua esigenza di una razionalità, di
un ordine, di una disciplina come fondamento nei rapporti tra gli uomini, se non lo facevano soddisfatto e convinto del costume che nel paese il fascismo tendeva ad imporre, lo spingevano però a cercare nelle realizzazioni del fascismo quanto gli si offriva sotto un aspetto positivo; poiché infine, nel suo giudizio sull’attività, sul gioco della politica, egli non faceva intervenire un giudizio morale, non partiva da una convinzione ideale; ma solo da una considerazione di fatto; e cioè dalla realtà quale essa era, quale si presentava; e di quali strumenti si servisse, fosse in grado di servirsi chi sapeva gestirla, o mostrava di saperla gestire. Alle «Giubbe Rosse», nelle conversazioni e nei dibattiti tra gli amici di «Solaria», anche dopo che ebbe superato quel primo periodo di faticoso ambientamento; quando ebbe conquistato una qualche famigliarità di modi e di parole, giungendo persino ad una condizione di disinvoltura, per quanto gli fosse possibile egli però di rado interveniva; perlopiù si limitava ad ascoltare, come chi sta apprendendo un linguaggio per lui nuovo o persino diverso
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dal suo; come appunto se dovesse ambientarsi in quel mondo letterario dal quale, per la sua professione, era stato escluso e cui ora si affacciava; ed in questo suo atteggiamento non vi erano né ipocrisia, né falsa modestia, ma solo, come era nella sua consuetudine, un grande rispetto degli altri, la volontà di diventare partecipe delle loro conoscenze, del loro modo di pensare; infine proprio di apprendere. E neppure, e forse ancor meno, egli interveniva quando il discorso volgesse su fatti od eventi politici, del nostro o di altri paesi; ma anche qui la sua attenzione era tutta intesa a capire quel che gli altri pensassero, quali fossero le posizioni a loro consuete, caratteristiche. Mai si sarebbe contrapposto a loro su tale piano, e tanto meno a Montale; di fronte al quale, non solo allora ma anche più tardi, quando anche tra loro si venne stabilendo un rapporto di confidenza, mantenne sempre un atteggiamento di stima e di rispetto persino riverenziali. E tale sua discrezione, tale suo ritegno
da un lato gli venivano da una sua timidezza e dall’altro da quell’esigenza di un confronto che sempre lo sosteneva, che sempre lo costringeva di fronte agli altri; disposto insomma non solo a capire ed a giustificare le risoluzioni altrui, ma anche a modificare le proprie, se non a mutarle, se fatto convinto dalle loro ragioni. Ed anche in questo atteggiamento potevano risultare evidenti le contraddizioni di cui si nutriva, quanto fossero profonde in lui. Non ricordo con esattezza se, durante quella primavera del nostro primo incontro a Firenze, egli vi restasse per un periodo di una qualche lunghezza o se vi fosse ritornato poco più tardi, dopo un breve soggiorno a Milano, dove vivevano la madre e la sorella. Evidentemente era quello per lui un momento in cui, lasciata un’impresa, una società, attendeva di essere chiamato da altra; e forse rimandava l’accettazione di questo nuovo impegno, si concedeva una vacanza più lunga del solito con qualche pretesto che la giustificasse a se stesso ed alla sua famiglia. Fatto si è ch’egli aveva organizzato quelle poche settimane di sosta in modo da condurre a termine un racconto che evidente-
mente da tempo portava dentro sé e che attendeva la stesura definitiva. A tale scopo riteneva di poter lavorare con maggiore agio e con più piena libertà a Firenze che non a Milano, dov'era sottoposto ad un controllo di certo attento ed esigente da parte dei famigliari, della madre sopratutto. A Firenze vi era la presenza degli amici di «Solaria», vi era il quotidiano scambio di idee, di pareri, di informazioni con loro che lo faceva partecipe di un’atmosfera, di un mondo, ben diversi da quelli in cui soleva vivere a Milano; e poi vi era la costante, assillante presenza di Bonsanti, il quale non mancava ogni giorno, o
addirittura ad ogni loro incontro, di chiedergli a quale punto fosse giunto nella stesura del racconto; poiché intendeva pubblicarlo nell’imminente fascicolo di «Solaria»; di cui andava ritardando l’uscita a tale scopo; così da giungere quasi a strappargli dalle mani od a farglieli strappare dalle mani dal
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commesso della tipografia quei fogli dei quali avesse compiuto l’ultima stesura, per farli portare alla composizione, e così affrettarne i tempi di stampa. Egli era alloggiato in una pensione direi di quart’ordine, dall’aspetto piuttosto squallido, ma sita nel centro della città, non lontana da piazza Vittorio; e là
restava rinchiuso l’intera mattina a lavorare; poi non mancava agli appuntamenti alle «Giubbe Rosse», anche se talvolta vi giungeva in ritardo, scusandosi come se si sentisse colpevole di una trascuratezza; e pure prendeva posto badando a non incomodare chi già sedeva intorno ai tavoli del caffè; timoroso di disturbare, di giungere inopportuno; compuntamente attento a salutare tutti i presenti, a cercare una espressione pertinente per ciascuno; con ciascu-
no attento a pronunciare una parola che gli esprimesse una sua particolare propensione; per dimostrare che di tutti si ricordava, che a tutti dava uno spazio nella sua memoria e nella sua considerazione; sentendo il dovere sempre di informarsi della loro salute, della loro attività, di quel che facessero e di quel che scrivessero; e sempre pronto a giustificare la propria trascuratezza, se di uno o dell’altro non avesse letto, non avesse potuto leggere, l’ultimo loro scritto su uno od altro giornale, su una od altra rivista, o magari anche l’ultimo loro libro; e subito affermava, asseriva che lo avrebbe fatto al più presto, in quanto l’argomento in esso trattato lo attraeva, suscitava la sua curiosità ed il suo interesse in modo particolare. Ma già da quel suo modo preoccupato, da quelle affermazioni cui egli dava un accento perentorio, a farle più convincenti- a chi ormai meglio lo conosceva, a chi meglio era divenuto partecipe del suo comportamento, del gioco contraddittorio che era in lui, al quale sempre si concedeva appariva un modo di costrizione del tutto formale; come se vi
fosse costretto, come se vi si sentisse costretto; al di là di ogni sua più fonda convinzione, di ogni sua propensione. Però anche gli poteva accadere di cogliere, nella conversazione, nella discussione degli altri, il nome di uno scrittore, il titolo di un libro che venivano presentati in tal modo, nell’argomento o negli argomenti da loro affrontati, che improvvisamente suscitavano la sua curiosità. Ed allora eccolo chiedere a colui che li aveva proposti o che li aveva ricordati, dati più precisi, e l’indicazione dell’editore e di dove si potessero acquistare, in quale libreria, e di quale ne fosse il prezzo. E non sempre era facile distinguere in lui se quel suo improvviso interesse fosse autentico o se egli lo fingesse, se lo proponesse per mostrarsi presente, per accondiscendere alla proposta che dall’altro in uno od in altro modo gli veniva. Cosicché poteva anche capitare che davvero da quel suggerimento la sua curiosità fosse stata suscitata, che esso rispondesse ad una sua ricerca, ad un suo ben preciso interesse; ed allora ecco che egli finiva con l’acquistare quel libro o quei libri di quell’autore, e poi anche con il leggerli; ed era in tal caso un lettore estremamente scrupoloso, e pure estremamente
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esigente; quando egli aveva letto un testo, ne aveva cercato e ne aveva colto la più profonda ragione, si era impadronito dell'intera sua tematica e poteva parlarne con una padronanza e con una sicurezza di giudizio ben rare anche nei letterati più esperti. E così gli accadeva per ogni altro invito, per ogni altro suggerimento gli giungessero, come quelli di vedere una mostra d’arte, di assistere ad uno spettacolo; cui sempre pareva aderire, di cui chiedeva una completa informazione; per poi magari dimenticarsene, o più spesso per disinteressarsene ben
presto; cosicché poi, di fronte a colui che gli aveva indicato o suggerito quell'adempimento e lo interrogava sul giudizio ricavatone, si trovava d’un tratto sorpreso in uno stato di trascuratezza o addirittura di una completa smemoratezza; per cui eccolo darsi a giustificazioni, a motivazioni eccessive; come sentendosi in colpa; come non avesse dato peso, come avesse dentro sé negato ogni valore alle parole dell'amico o del conoscente; e l’accentuazione delle scuse, dell’affermazione del proprio rammarico non faceva che sottolineare una sua celata e persino irritata indifferenza; come se egli si sentisse assediato dalle richieste altrui cui non poteva rispondere, che non aveva il tempo e la voglia di assecondare. Ma poteva anche capitare che,- preso da uno dei suoi impulsi improvvisi, da una sua estrosa e capricciosa voglia, con il gusto di concedersi qualcosa che gli pareva proibito, o negato, proprio per reagire ad un’imposizione che gli venisse dal di dentro, per rompere una autodisciplina costrittiva— egli improvvisamente, inaspettatamente accondiscendesse a quell'invito e da esso traesse un piacere, una soddisfazione persino inattesa. Tanta era la sua disponibilità, tanta era ancora la sua giovanile voglia di apprendere, di conoscere, di inserirsi in una realtà, qualunque fosse; tanti erano la sua capacità di arricchirsi, il suo gusto di cogliere, di toccare, di sviscerare, di
approfondire in ogni senso la realtà, in ogni sua dimensione, in ogni suo risvolto; e di appropriarsene, di calarli dentro di sé, di assimilarli, proprio di nutrirsene; e l'indomani di approfittarne, di renderli dopo averli inseriti in quello che era il suo vasto patrimonio di conoscenze e di esperienze; dopo averli distribuiti secondo un ritmo, secondo un ordine che si era fatti; a confermare, a suffragare ed anche a svolgere una sua convinzione, una sua posizione, anche un suo sentimento.
Il suo primo libro aveva avuto riconoscimenti ed aveva riscosso l'interesse e la considerazione dei critici di maggior valore, di quelli più attenti alla nuova letteratura; ed il primo risultato di tale consenso egli lo ebbe con l’invito a collaborare a riviste ed a giornali che gli erano disponibili per i più diversi interventi, accettando quanto egli proponeva, oppure commettendogli articoli su argomenti che potessero rientrare nell’arco delle sue competenze e dei suoi interessi. In tal senso uno dei suoi più attenti estimatori fù Giuseppe Gorgeri-
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no, redattore di «L’Ambrosiano», il quale continuamente lo stimolava per ottenere da lui prose varie, racconti, recensioni; qualunque scritto egli gli offrisse. Ma vi era anche «L'Italia letteraria », il settimanale di Roma diretto di
fatto da Enrico Falqui, disposto a dedicare anche un’intera pagina ad un suo scritto; e ben presto gli venne l’offerta di collaborare a «La Gazzetta del popolo» di Torino, la quale gli commise anche incarichi di corrispondenze, come era costume fare con i collaboratori più noti ed apprezzati. Però mai, neppure quando ormai la sua fama di scrittore si era confermata con altri volumi ed egli era conosciuto e seguito da un numero sempre crescente di lettori appassionati, mai gli si apersero le pagine del «Corriere della sera»; il quotidiano che allora in Italia veniva considerato come il più autorevole, ed era quello che vi aveva una maggiore diffusione; ed esso infine era il giornale di Milano, la città in cui Gadda era nato e cresciuto e si era culturalmente
formato; la città ch’egli meglio conosceva in tutte le sue diverse componenti, nella quale egli era inserito nei più diversi sensi, ed alla quale aveva dedicato scritti nutriti da tutto un patrimonio di esperienze sofferte ed in cui aveva dato fondo a tutto un suo stato contraddittorio e tormentato di affetti, di
nostalgie, di appassionata adesione, ed anche di rancori, di feroci critiche, di giudizi sprezzanti. Ed il «Corriere della sera» accettandolo tra i suoi collaboratori avrebbe potuto dargli quella sicurezza finanziaria che gli avrebbe permesso di programmare una vita più serena e conseguente secondo le sue esigenze e pure secondo quella che ormai veniva precisandosi ed affermandosi come la sua prima propensione; la scelta cui sempre aveva teso. Eppure un riconoscimento, ed un riconoscimento ambito, Gadda lo ebbe
da Milano proprio in quegli anni. Egli aveva pubblicato, tre anni dopo il primo, sempre per le Edizioni di Solaria, il suo secondo volume, I/ castello di Udine, anche questo composto di scritti vari, di riflessioni autobiografiche, di corrispondenze e di racconti; il quale pure aveva avuto il consenso della critica, e più vasto che non ne avesse avuto il primo; tanto da essere preso in considerazione dai membri della giuria del «Premio Bagutta»,- il primo che fosse stato istituito in Italia— creato da un gruppo di scrittori ed artisti i quali si raccoglievano spesso la sera a cena intorno ai tavoli di quella trattoria; ed erano le personalità più note, i cui nomi avevano maggiore risonanza nella
città. Il consesso riprendeva per certi suoi modi spregiudicati quelli che erano stati caratteristici della vecchia tradizione scapigliata milanese; per quanto attenuati ad atteggiamenti più che ad una scelta di costume; ma nell’assegnazione del premio i giudici non facevano nessuna concessione ai gusti più facili, alle suggestioni della letteratura di intrattenimento; così per un duplice motivo il libro di Gadda si presentava a loro come degno di quel riconoscimento che, dopo lunga discussione, gli tributarono.
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Mi trovavo in quei giorni a Milano, portato ormai a termine il servizio militare, e non ricordo se vi fossi venuto anche allo scopo di assistere a quel dibattito, fiducioso ch’esso avesse a concludersi nel modo a me gradito. E fui io a portare la felice notizia a lui che attendeva, forse un po’ ansioso, in un caffè non lontano dalla trattoria; e poi gli fui vicino nella cerimonia della premiazione, mentre tutti gli si affollavano intorno a congratularsi per il suo meritato successo; con modi di una mondanità alla quale egli non era abituato e nella quale si destreggiava un po’ imbarazzato ma pure compiaciuto; come se infine fosse stato accettato da quel mondo, da quell’ambiente cui sino allora aveva aspirato anche con una certa trepidazione. Poi lo riaccompagnavo
verso casa ancora congratulandomi con lui per quella meta raggiunta, la quale, secondo me, doveva dimostrare come la strada dell’attività letteraria gli fosse definitivamente aperta. E davvero io sentivo quel suo successo come un successo anche mio; non
che io ritenessi di averlo in qualche modo aiutato a conquistarlo, che mi arrogassi il merito di una mia presenza determinante in tal senso, se pure in termini del tutto modesti. Ero troppo giovane e per nulla, o quasi nulla, noto nel campo letterario, della critica letteraria, per nutrire quella che sarebbe
stata una mera presunzione. Di fatto per il suo primo libro avevo pubblicato una recensione sulla terza pagina di «Il Corriere padano», ed altra per il suo secondo nella rivista «Il Leonardo», cui collaboravo regolarmente; in cui riprendevo talune decise affermazioni già fatte in termini quasi provocatori in quel libretto, Lo spettatore appassionato, che da molti era stato considerato come uno sfogo inopportuno; ma con sempre maggiore decisione ero andato rivendicando per Gadda un posto di spicco nella narrativa italiana di quel tempo; e di tale giudizio mi ero sempre fatto portatore non solo fra gli amici di «Solaria» e con quanti erano a loro vicini, ma anche con qualunque uomo di lettere o di cultura mi accadesse di incontrarmi. Di fatto non tutti i «solariani» consentivano completamente con me in questo mio giudizio; Montale stesso, per quanto mai si fosse pronunciato in termini anche soltanto limitativi, evidentemente nel suo silenzio, nel suo riserbo, celava una convinzione almeno in parte riduttiva; difatti mai egli scrisse di lui e, quando tra noi il discorso cadeva su uno od altro dei suoi scritti, taceva, anche sfuggendo a qualunque mia richiesta; poiché, ben conoscendo la mia decisa propensione, non intendeva contestarmela, porsi in contrasto con me; esternare un giudizio che voleva tenere per sé, e ben segreto nelle sue motivazioni; sopratutto in quanto, in ogni occasione gli si fosse presentata ed attra-
verso tutto il comportamento, attraverso ogni atteggiamento di Gadda nei suoi confronti, aveva avuto modo di rendersi conto di quanto questi lo stimasse, di quanto apprezzasse la sua opera, e come facesse tesoro di ogni suo
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giudizio, di ogni sua valutazione; come se da lui sempre avesse qualcosa da imparare, di cui far tesoro; e ciò, nonostante egli fosse di qualche anno più anziano di Montale e di lui ben più ricco di esperienze. Infine di tale sua ammirazione egli aveva dato testimonianza in un articolo sugli Ossi di seppia; e si trattava di un intervento di omaggio non formale ma che testimoniava una lettura estremamente attenta e penetrante del testo; come se Gadda si fosse voluto porre a confronto con lui e cavare da lui, dalle sue poesie, quel che a sé sentiva più connaturale, porsi, nei suoi confronti, su di un piano di sofferta partecipazione.
Ma sulla esemplarità dell’opera di Gadda vi erano allora ancor più decise riserve in altre zone della nostra società letteraria di allora. Mi accadde in quel tempo di polemizzare a tale proposito con Longanesi in un rapido e casuale incontro, forse il solo che ebbi con lui. Con atteggiamento disincantato, quasi di sfida, a saggiarmi, a giudicarmi per quel che valessi,- poiché evidentemente egli conosceva il mio nome e qualcosa di quel che avevo pubblicato mi chiese quali fossero gli scrittori nuovi sui quali puntavo la mia attenzione; e, poiché di un subito gli feci il nome di Gadda, egli reagì ridacchiando e definendolo in termini che mettevano in evidenza la presenza umana di lui, il suo impaccio, la sua mancanza di disinvoltura nel presentarsi, nel dichiararsi, specie a chi lo avvicinasse per la prima volta, a chi non lo conoscesse; ed un simile giudizio mi parve tanto superficiale, tanto rispondente a quella presuntuosa convinzione di sé, a quella concezione della letteratura come pratica esperta e
spregiudicata del mondo, della realtà, ben caratteristiche in Longanesi, da impedirmi di reagire, di rispondergli a tono; se non con un’alzata di spalle come di chi non vuole ridurre la discussione su di un piano che considera troppo meschino; fuori da ogni possibilità di un serio confronto. Intanto Gadda, nella sua attività letteraria che andava sempre più coltivando, di quando in quando si dedicava anche alla critica, pubblicando su riviste, come già aveva fatto in «Solaria», su settimanali, come « L'Italia letteraria », 0 sui giornali cui collaborava regolarmente, recensioni ed articoli su libri di narrativa, di storia, ed anche, più raramente, di poesia. E però le sue scelte erano perlopiù occasionali; cioè egli interveniva su volumi che gli erano stati offerti e proposti dagli autori con i quali aveva rapporti di amicizia e cui non poteva non negarsi. Non che Montale gli avesse mai manifestato il proprio
desiderio ch’egli scrivesse di lui; ma Gadda, proprio per la sua frequentazione quotidiana, quand’era a Firenze, ad un certo momento si era ritenuto in debi-
to con Montale, aveva voluto in qualche modo testimoniargli quella che era la sua autentica adesione. Altre volte invece si sentiva costretto a rispondere alla pressione di richiedenti cui consentiva riluttante; con un suo gioco caratteristico, come piegandosi ad una violenza cui non sapeva resistere, cui condi-
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scendeva a malincuore; altre volte si compiaceva di rimproverarsi di non avere ancora scritto o di non riuscire a scrivere su libri di qualche amico, appena pubblicati; e si autocompativa, dichiarava la sua scarsa disponibilità, la mancanza di tempo e di energie; che ben avrebbe voluto avere; e così anche si difendeva da quelle che erano esigenze eccessive ed anche addirittura aggressioni da parte di coloro i quali speravano o addirittura erano certi che prima 0 poi egli avrebbe ceduto alle loro richieste esplicite od implicite. Così gli accadde di recensire l’ultimo romanzo del cugino Piero Gadda, collaboratore anche lui di «Solaria» e scrittore di una qualche dignità, ma lontanissimo all’intensa passionalità degli scritti di Carlo Emilio; ed a tale suo intervento,
più che il senso di un dovere da compiere lo spinse il gusto di fare sfoggio di una propria abilità, nel gioco fra il giudizio positivo, l'apprezzamento delle qualità, del dono di scrittore che riconosceva al cugino, ed una implicita riserva, una certa tiepidezza anche nell’elogio, le quali infine facevano trapelare un suo deciso distacco, una sua differenza di fondo, costituzionale, da lui: ed il titolo della recensione: Gadda contro Gadda, riassumeva in termini allusivi ed
infine ironici quella che ne era un’ambiguità di fondo. Di fatto Carlo Emilio nulla aveva da rimproverare al cugino; il quale, con lui come con chiunque altro, aveva un comportamento del tutto corretto, amichevole e comprensivo; per quanto in termini di un distacco un po’ com-
passato com'era nella sua natura e nel suo costume; e di fatto tra i due intercorse, per tutto il periodo dell’esistenza di Carlo, una corrispondenza che non indulgeva a soste troppo lunghe e di accento sempre confidente; come di persone che ben si comprendono pur nella loro ammessa differenza di carattere e di abitudini. Restava però un fatto di fondo che di necessità contrapponeva Carlo Emilio a Piero; Carlo faceva sì parte della famiglia Gadda, ma ne stava ai margini; dopo la morte del padre, con la madre ed i fratelli, egli era rimasto privo di quella disponibilità economica, di quegli agi, e quindi di quel costume signorile di cui godeva Piero; e di questa privazione, di questa differenza soffriva; come se se ne sentisse definitivamente diminuito, incapace di superarle, di liberarsene; come se ben sapesse di non disporre di quella forza, di quell’impegno necessari a superarle. E di questa propria minorità, o ch'egli considerava come una minorità, soleva incolpare il destino avverso; ed a Piero non poteva non invidiare un corso dell’esistenza tutto improntato ad una indiscutibile sicurezza, da nulla, in nessun modo insidiata. E tanto più sentiva se stesso costretto in termini che mai sarebbero mutati, mentre l’altro aveva
ancor più rafforzato la propria condizione, dopo essere stato adottato dal senatore Conti,- legato di parentela all’uno come all’altro dei due cugini,— e così destinato ad un’eredità che lo poneva fra le famiglie più abbienti di Milano. Agli amici, in tale occasione, Carlo confidava, con un sorriso che nascon-
tin ne
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deva la convinzione di un’impossibilità, come il senatore, in quella sua deci-
sione, avesse mancato di ricordare un parente, come lui, che tanto più dell’altro avrebbe meritato la sua benevolenza, che tanto più ne sarebbe stato avvantaggiato; ma tant'è, la fortuna favorisce sempre coloro che già le sono prediletti; altro evidentemente era e non poteva non essere il suo proprio destino; ch’egli non poteva non accettare, al quale non poteva non rassegnarsi; e da una simile amara conclusione, cui talvolta si accompagnava anche uno scatto di irritazione, come per sentirsi defraudato di qualcosa che in qualche modo gli spettava; trapelavano il desiderio, l'aspirazione di un qualcuno, di una forza, di un intervento protettore, dai quali potesse considerarsi difeso; e
forse anche la nostalgia di una condizione di cui in tempi lontani, nella sua infanzia o fanciullezza, aveva goduto. Quei suoi scritti, quei suoi interventi critici, perlopiù del tutto occasionali, venivano così spesso a nutrirsi di succhi celati, che nascevano da un rapporto umano, da un confronto umano con lo scrittore i cui libri egli prendeva in
esame; e se ne caratterizzavano, se ne arricchivano; così fu costretto a recensire il recente romanzo della Manzini, poiché questa insistentemente gliene aveva rivolto preghiera con quei suoi modi affettati, quasi supplichevoli, a testimoniargli un desiderio incontenibile; come se ella tenesse di saper che cosa egli pensasse di lei, quale fosse l'apprezzamento, il valore ch’egli assegnava alla sua opera, più che non quelli di chiunque altro. E in tal caso il gioco di lui si rivelò ben complesso in quanto tradiva una profonda doppiezza; poiché, mentre ogni affermazione era improntata alla partecipazione, persino all’ammirazione, al tempo stesso queste apparivano accompagnarsi ad un senso di insofferenza, di saturazione, infine dalla ripulsa di uno stile, di un modo di
scrittura che a lui non potevano non apparire affatturati, inficiati da un preziosismo alambiccato, infine stucchevoli come una pietanza troppo raffinata. E capitava così che quelle lodi lasciassero colei che ne godeva un po’ interdetta; mentre a chi ben conosceva Gadda, ne trapelava, se non la rabbia od
almeno l’irritazione di chi è costretto a mascherare, ad attenuare quel che pensa, il gusto perverso di far intendere quel che il testo nella sua esteriore evidenza non dichiara. Ma anche gli capitava di essere costretto a scrivere di volumi che non amava, dei quali nulla apprezzava; ma sui quali non poteva esimersi dall’intervenire; e ciò gli accadeva in modo particolare per Bonaventura Tecchi. Il quale gli era stato compagno di prigionia e ch’egli a quel tempo aveva ammirato nella sua dignità, anche nella sua fierezza di comportamento nei confronti del nemico; ch’egli affermava di ammirare anche per la chiarezza delle sue convinzioni, per la sua schiettezza nei confronti di amici e di avversari; e dal quale era stato sempre aiutato e quasi protetto; poiché Tecchi gli aveva procurato la
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collaborazione a «Solaria», si era fatto garante di lui, e gli aveva dato la possibilità di pubblicare il suo primo libro con un intervento pecuniario decisivo. Sicché, quando gli giungeva l’ultimo suo libro, Gadda entrava in uno stato di agitazione, di inquietudine, dibattuto fra sentimenti diversi, fra rea-
zioni contrastanti per quanto fosse portato ad esagerarli, ad esasperarli quando ne parlava con gli altri, con me, da un lato riconoscendosi vittima di una tacita imposizione, anche di una sorta di ricatto, e deprecando quell’impegno cui non sapeva sottrarsi; dall’altro incapace di sottrarvisi per fedeltà ad un’amicizia dalla quale aveva avuto più di quanto gli spettasse, più di quanto da essa si potesse aspettare. E di questa brama di successo letterario di Tecchi, della sua ansiosa ricerca di recensioni favorevoli da parte di critici prestigiosi, altre testimonianze circolavano. A proposito del romanzo da lui recentemente pubblicato, Montale raccontava, e probabilmente per averne avuto notizia da Pancrazi con il quale aveva rapporti di amichevolezza, se non di confidenza come Tecchi, secondo una consuetudine abbastanza frequente in quanto a lui legato da una comprovata sodalità, recatosi con la moglie alla sua villa di Camucia suo ospite per qualche giorno, avesse sollecitato e quasi spinto questa a farsi portatrice della sua ansiosa richiesta presso l’amico. Evidentemente, nella sua narrazione, Montale si divertiva ad arricchirla di
particolari, come soleva, forse inventati, forse desunti da qualche accenno discreto di Pancrazi; brillante ed accattivante com’era quando raccontava di fatti come questo, nei quali alla comicità della situazione si univa un leggero senso di disagio, dell’impaccio che investiva l’uno e l’altro dei due interlocuto-
ri, e che Montale metteva in evidenza con un tocco di malizia leggera ma allusiva; come se sottacesse, dovesse sottacere un elemento, una componente di quell’incontro che ne accentuava la possibile ambiguità, per quanto tacitamente denegandola. Una mattina, ancora per tempo, mentre il marito dormiva o sonnecchiava attardandosi a letto, la signora Tecchi era discesa nel giardino prospicente la villa per una breve passeggiata durante la quale sapeva che avrebbe incontrato Pancrazi, solito a questa breve sosta prima di porsi al lavoro; ed a lui, con modi di confidente partecipazione, aveva detto dello stato ansioso del marito, della sua attesa tormentata, della sua sofferenza nel vedere il proprio libro, cui tanto aveva lavorato ed al quale tanto si era dedicato, non ancora accolto da
quei riconoscimenti che si era atteso, che ingiustamente, per sordità o scono-
scenza gli venivano negati. E tale sfogo, forse a lungo trattenuto, ch’ella faceva all'amico investendosi di un sentimento del marito, di uno stato d’animo del
marito, ed al tempo stesso confidando quello che era anche un suo proprio travaglio,— in quanto la sua condizione, la sua giornata erano rese faticose ed
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appenate dalle insistenti recriminazioni di lui si era risolto, come una conseguenza inevitabile, nella commozione delle lagrime; trattenute sì ma non perciò meno
evidenti; costringendo Pancrazi a farsi consolatore, almeno per
quanto stesse in lui. E l’unico modo si era quello di dichiarare la propria disponibilità, il proprio impegno a recensire sul «Corriere della sera» quel romanzo in termini favorevoli; come Tecchi si attendeva, come ella aveva ben
fatto intendere mercé quella sua intercessione. Di un subito Gadda aveva ascoltato ed accolto con il gusto compiaciuto
della malizia la narrazione di quell'episodio— la quale veniva a confermarlo in quello che era il suo proprio stato, se pure in lui provocato con altri modi, per altre vie e da esso era stato confermato ed era confermato nella propria irritazione ed al tempo stesso nella propria insofferenza di fronte a cosa che non avrebbe voluto fare ma che al tempo stesso sapeva avrebbe fatto; sebbene di fronte a Montale si trattenesse per quel costume di timorosa cautela che gli era proprio; il che poi rendeva ancor più esasperata la sua reazione. Certo era ben caratteristico il fatto che simili sentimenti e simili reazioni accomunassero due persone, come Gadda e Montale, le quali entrambe da Tecchi erano state si può dire beneficiate; e difatti proprio da Tecchi, quando questi aveva lasciato la direzione del gabinetto Vieusseux per darsi alla carriera universitaria, Montale aveva avuto il più valido appoggio per succedergli. Ma ecco poi che, più tardi, quando infine Gadda si era costretto a leggere il libro di Tecchi, infine deciso a sottoporsi alla fatica di farne la recensione da questi attesa, ecco che, da solo, ma anche con me, dava fondo alla propria
irritazione giungendo ad esplosioni di rabbia, non più attenuate da ironia, non più risolte in valutazioni sarcastiche, ma che dimostravano come in quei momenti egli potesse giungere ad una sorta di parossismo dell’esasperazione; investito dalla necessità di fare quel che mai avrebbe voluto. E la sua lettura del libro gli si mutava nella ricerca spietata dei suoi momenti, delle sue espressioni più goffi, più imprecisi, più stentati; e li sottolineava con tratti violenti della matita, ed al margine della pagina non segnava note od appunti che potessero avere un valore critico, ma dava fondo al proprio malumore, alla propria insofferenza con una violenza non contenuta; come a liberarsi di quel che dentro in sé nutriva e che in nessun modo avrebbe potuto esprimere; e tanto più pesante era la sua reazione in quanto egli ben sapeva quel che poi avrebbe dovuto scrivere del libro quel che non avrebbe potuto fare a meno di scrivere. Ed io, sfogliandone le pagine, coglievo qua e là, ridendo, sghignazzando, quelli che non erano giudizi, per quanto negativi, ma invettive e le più volgari: «fesso», «coglione» egli annotava sul margine bianco delle pagine, con quella sua calligrafia limpida ed ordinata che pareva contrastare, contrapporsi alla violenza cattiva dell’espressione. Poi la recensione, l’articolo sul
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volume apparivano in un giornale od in una rivista interamente intonati ad una valutazione positiva, a mettere in evidenza quanto del libro poteva apparire accettabile, apprezzabile, almeno nel proposito, nelle intenzioni dello scrittore; infine qualche riserva era accennata con mano leggera, quasi il critico se ne scusasse; ma dentro a lui restavano l’affanno, la scontentezza di una
prova malamente portata a termine, di una costrizione cui si era sottoposto a malincuore, ed anche la insoddisfazione di sé, del proprio cedimento; cui reagiva scaricando sull’amico la responsabilità della propria debolezza, di quella che sentiva come una propria finzione, di una propria menzogna. Era ben caratteristico e contraddittorio il rapporto che egli aveva stabilito e che si era venuto stabilendo fra lui e quelli che erano stati icompagni a lui più vicini durante il periodo della prigionia, con i quali allora aveva fraternizzato: Tecchi ed Ugo Betti. Di entrambi aveva scritto ricordandoli durante quella lunga esperienza, ma quelle pagine incluse in I/ castello di Udine non avevano la forza perentoria delle altre cui erano unite, tutte intonate al ricupero della sua esperienza di guerra; e ciò in quanto in esse si era controllato; con attenta
e timorosa cautela ne aveva eliminato ogni episodio che potesse ritenere sgradito a loro. Come quello che riguardava Betti, il quale quasi ogni giorno si apparta dai compagni in una solitudine tutta dedicata alla meditazione; e difatti è allora, in quella sosta, lontano da ogni sollecitazione degli altri, da ogni distrazione, concentrato in se stesso, ch’egli scrive le sue poesie. Ma Gadda, che talvolta non visto lo segue, curioso di tale suo comportamento, lo vede sì scrivere, prendere appunti o stendere versi su di un suo quadernuccio, ma anche consultare di tanto in tanto un libriccino ch’egli porta sempre con sé. Ed in Gadda la curiosità si accentua; egli non può e non sa soddisfarla con una richiesta rivolta a lui, il quale si adonterebbe per un’indiscrezione inopportuna; ma al tempo stesso non sa rinunciare a quell’indagine; sinché, con un atto di indiscrezione, approfittando dell’assenza momentanea dell’altro dalla camerata dove sono allogati, riesce a scoprire quel libriccino riposto e nascosto con gelosia; si tratta di un rimario; e la scoperta lo lascia al tempo stesso stupito e soddisfatto; come se avesse colto l’amico in fallo, come se in lui gli si fosse rivelato un elemento, se non disdicevole, perlomeno di debolezza, come un piccolo vizio. E qui ci si mette in luce un atteggiamento caratteristico di Gadda; lieto di individuare una pecca, di sorprendere sotto un aspetto che comunque lo diminuisce, un compagno, diciamo pure un amico, il quale però nei suoi confronti, ed evidentemente non solo nei suoi, conserva un contegno di una
compostezza distaccata, leggermente altezzosa; come di chi, dentro di sé, si considera superiore a colui che pure frequenta, con cui ha un rapporto di famigliarità. Gadda infine, di fronte agli altri, a chiunque gli fosse presentato
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o lo frequentasse, sempre si poneva su di un piano di discrezione e di mode-
stia; come se egli si considerasse inferiore; mentre poi, se l’altro di tale esibi-
zione di umiltà approfittava come se gli fosse davvero dovuta, reagiva, e dentro gli cresceva una volontà di rivalsa; ben lieto di cogliere, di individuare in quello che gli diventava un rivale ogni atteggiamento, ogni dato che potessero risultare meschini, in qualche modo degradanti. E così gli avvenne quando, in un successivo incontro con Betti, a qualche anno da quella loro comune esperienza della prigionia, poiché questi il quale cominciava a godere di una qualche notorietà perilsuccesso che aveva avuto un suo dramma alla rappresentazione teatrale—lo aveva accolto con freddezza distaccata, come chiha ben altri impegni cui assolvere; quasi di un subito si congedò da lui, né più lo cercò; e, ove gliene capitasse l'occasione, si divertiva a riferire uno od altro aneddoto il quale confermasse l’inopportuna, eccessiva, ed in ogni modo ingiustificata vanità di quello che in altri tempi egli aveva considerato un amico. Anche lui, come già Bonsanti, e quindi anche Vittorini, fu ospite mio e dei miei genitori a Feltre; insieme appunto a Bonsanti; e poi entrambi consentirono a recarsi, nell’automobile guidata da mio padre, sino alla casa che avevamo in montagna nella quale dimoravamo durante i mesi estivi. Le prime mattine di quella nostra vacanza, io lo assillavo con un’insistenza anche inopportuna pretendendo ch'egli ne approfittasse, ch’egli si ponesse al lavoro, ch’egli utilizzasse quel tempo libero da qualsiasi impegno per scrivere, per portare a termine l’uno o l’altro di quei libri di cui mi aveva parlato sempre lamentando la propria indisponibilità a riprenderli in mano; e gli approntavo un tavolo nel luogo che più mi pareva gli potesse essere propizio, in una stanza, od all’aperto, cosicché egli potesse anche godere la bella stagione. Ma alle mie richieste, ai miei richiami egli sorrideva; per lui quello doveva essere evidentemente un periodo di completo riposo; ed alla mia esigenza si sottraeva, giocando sulla propria pigrizia, sulla propria incapacità; riluttante sì ad ogni impegno ma al tempo stesso compiaciuto del mio fervore; come colui che si nega ad una proposta ma insieme ne è sedotto; poiché essa gli appare come il riconoscimento di un proprio merito. Com'era del suo costume, nei confronti dei miei genitori egli si comportava come un ospite di nessuna esigenza e di grande disponibilità; pronto a rispondere ad ogni proposta, ad ogni suggerimento di mio padre, il quale era ben lieto di trovare un interlocutore tanto attento ed accondiscendente; e, durante una mia improvvisa e breve assenza, si accompagnò a lui in una gita in montagna, con altri suoi amici più o meno anziani. Poi, l'indomani, al mio ritorno,
con me si mostrava preoccupato per l’attenzione un po’ assillante che gli pareva gli avesse rivolto una signorina di mezza età partecipe di quel gruppo, la quale forse non aveva del tutto rinunciato a propositi ed attese matrimonia-
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li; e con me, a metà ridendone come compiaciuto, ed a metà ansioso, come nel timore di essersi potuto compromettere con una parola, con un sorriso, si
dava a quel suo frequente gioco con il quale tendeva a mettere in evidenza il personaggio un po’ comico ed un po’ drammatico sotto il quale al solito amava raffigurarsi. E davvero per lui non vi erano luogo e momento di cui dentro sé non potesse approfittare, da cui non riuscisse a ricavare un'esperienza, e fosse
positiva come negativa; che comunque lo arricchiva; sempre attento, pur senza darlo a vedere, a quel che accadesse intorno a lui, sempre attento a cogliere gli atteggiamenti, gli estri, il modo di comportarsi della gente; e, dentro sé, a farne tesoro, a ritenerne l'elemento caratterizzante, a situarli nell'ambiente da cui nascevano, ad individuare propensioni e vizi delle persone conosciute.
Infine davvero, almeno per chi lo conoscesse, si aveva il senso che di qualunque incontro, di qualunque rapporto ch'egli avesse con gli altri egli fosse attento a penetrare ed a conservare quegli elementi di fondo cui più tardi, al momento giusto, avrebbe attinto in qualche sua pagina; come il suo scrivere, il suo narrare, avessero inizio e si nutrissero delle occasioni più varie, consuete
ed inconsuete; le quali sempre provocavano la sua attenzione, che spesso stimolavano, toccavano un suo sentimento; e dalle quali quindi egli sapeva trarre e mettere in evidenza quell’elemento che desse loro un significato, che le rendesse ricche di una problematica. E difatti il suo raccontare, il suo riferire agli amici i fatti accadutigli, le vicende di cui era stato partecipe, che in qualche modo lo avevano colpito, nelle sue parole avevano già l'andamento della narrazione, già mettevano in evidenza quelle che erano le sue doti di scrittore; già dalla sua resa verbale si riconosceva quello che sarebbe potuto diventare un racconto od almeno episodio di un racconto. Ma il pomeriggio più spassoso di cui godemmo insieme lassù fu quello di una giornata di pioggia, come spesso avviene anche l’estate nei nostri paesi. Stavamo in un’ampia stanza a due letti, sdraiati sopra le coperte l’uno accanto all’altro, Bonsanti, Gadda ed io, ed egli leggeva dal volume comprendente l’intera opera poetica del Carducci quelle poesie ch’egli riteneva più atte a mettere in evidenza le forzature, la gonfiezza retorica, la mancanza di una corretta aderenza alla realtà di cui troppo spesso peccava il poeta. Gadda leggeva a voce alta, squillante, e tanto più squillante in quanto il testo prescelto gli pareva significativo nel senso da lui cercato; ma, giunto al passo in cui la poesia culminava, rallentava la sua dizione, a sottolinearne ogni parola, ad
attirare su di essa vieppiù la nostra attenzione; e quindi via e via la sua lettura precipitava verso il suo esito, concludeva sino al finale, se questo ne riassumesse tutto il tono, l’intero significato, nella sua prepotente volontà di esibizione, nel suo vano, mancato tentativo di raggiungere un culmine di intensa
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commozione. Ma alle volte invece non poteva non arrestarsi, non interrompe-
re la lettura a metà; quando lo prendesse e ci prendesse un empito di riso. Quasi ci piegavamo in due, ci comprimevamo lo stomaco ed il petto nella risata incontenibile, ci torcevamo per le risa; ed egli pure vi accondiscendeva, ma con meno abbandono, quasi si contenesse; quasi per lui il conforto di quel ridere fosse frequente, come se già lo prevedesse, ben sicuro che lo avrebbe suscitato; e sulle labbra aveva un sorriso appena disegnato e contenuto; ben compiaciuto del proprio successo che sentiva ben meritato; ed a quel nostro sfogo faceva seguire una breve conferma, un commento succinto; una frase, una parola, che ne sottolineavano la necessità. Ma poi, dopo una breve pausa, quasi a non lasciarci tempo di tirare il fiato, di riflettere; eccolo riprendere con la lettura di altra poesia, se avesse completato quella della precedente; e l’una confermava l’altra, ne accentuava ancor più l'elemento comico; poiché la sua scelta era ben avveduta ed egli tendeva a creare un crescendo, quasi uno spettacolo che si svolgesse con sempre maggiore accentuazione sino ad una conclusione, in cui ci esprimevamo quasi in singhiozzi, in sussulti fra le risa, ormai esaurite in un convulso che ci lasciava svuotati; ed allora pacatamente ragionava su quel che aveva letto, ne metteva in evidenza il carattere od i caratteri, sviscerava l’uomo, il poeta, nei suoi profondi limiti, in quella sua pochezza che risultava evidente; sopratutto nella sua volontà perentoria del grandioso, dell’eccessivo, dell’esaltante che si esauriva infine nel grottesco. Ed a lui evidentemente quel testo offriva proprio un insegnamento, egli ne traeva un insegnamento come scrittore; di là nasceva il suo senso del comico; il suo sarcasmo si nutriva della profonda contraddizione del poeta; il quale, nella sua fondamentale ingenuità, appariva davvero incapace di una pacata ed intelligente considerazione della realtà delle cose ed anche della propria realtà. A tale ingenuità, a tale incapacità Gadda implicitamente si contrapponeva con il suo senso sempre avvertito del comico, del grottesco che vi sono nelle cose, nei fatti umani, per cui ogni pretesa, ogni forzatura si svilivano, risultavano nella loro dimensione di meschinità, di goffaggine. E tale coscienza Gadda aveva, era riuscito ad avere proprio in quanto dentro di sé egli aveva sentito, e forse ancora sentiva, un impulso che lo portava ad una forzatura, ad un’accen-
tuazione, anche ad un’esaltazione degli eventi e dei sentimenti; dai quali però subito si ritraeva, divenuto improvvisamente conscio di un proprio inconsulto anelito; non più, o non mai, in concordanza con la realtà, con quello che la realtà era divenuta, o che forse sempre era stata. E fummo ancora insieme a Firenze, in uno di quei suoi periodi di sosta dal
lavoro, quando per qualche settimana prese in affitto una stanza ammobiliata dalle due anziane signore delle quali io ero ormai ospite da tempo ogniqualvolta dovessi soggiornare a Firenze; ed anche ci accadde, poiché ne mancava
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una migliore disponibilità, di occupare per qualche giorno la stessa stanza; ed egli era sempre un compagno di un’attenta discrezione, di una cortesia preoccupata che non era forzatura; e per qualche tempo fu anche sofferente; di tanto in tanto una gamba gli si gonfiava per una flebite mal curata o di cui mai riusciva a guarire; e del suo male si mostrava preoccupato ed amareggiato; come se nel proprio corpo, nel proprio fisico individuasse le ragioni prime della propria inquietudine, della propria impossibilità a realizzare quanto si proponeva od avrebbe desiderato proporsi; a propria giustificazione, a scaricarsi di una responsabilità che gli era troppo grave; e c’era in lui il gusto della commiserazione; come per un uomo in balia di forze che non sa e non può dominare; che sono pertanto dentro di lui, ed alle quali non sa contrapporsi, non sa sottrarsi. Mangiavamo allora, e spesso con Montale, in una di quelle trattorie di aspetto e di clientela modesti e di prezzo limitato che allora erano frequenti nel centro della città; ed egli si dimostrava allora sempre sostenuto da un robusto appetito, e spesso avrebbe accondisceso a superare i consueti limiti del pasto; magari a ripetere la prima o la seconda portata; ma si tratteneva dal mettere in evidenza una tale voracità sopratutto pet la presenza di Montale; a volte però si ribellava a quell’autoimposizione, e quasi di prepotenza, quasi con un modo di sfida agli altri ed a se stesso, calcava l'accento sulla ripetuta, inconsueta ordinazione; magari insistendo con i complimenti al trattore pet un piatto tanto succulento per cui non poteva trattenersi da una
deroga alla propria consueta disciplina. Gli accadde in quel tempo di essere invitato, durante l’estate, ospite nella loro villa di Arenzano, dai coniugi Rodocanachi; i quali talvolta capitavano a Firenze, dove conoscevano Montale e gli altri «solariani». Lui era pittore e lei si mostrava lettrice attenta ed interessata. Gadda amava questi inviti e vi accondiscendeva senza resistenze, per quanto sempre si dichiarasse restio dal procurare disagio o dal pesare troppo con le sue pur modeste esigenze su chi lo accoglieva nella propria casa. In tal caso in lui, insieme al gusto di una vacanza estiva che poco o nulla gli sarebbe costata, vi era l’attrazione del luogo tanto celebrato e ricercato nella bella stagione. Ed egli poi non ebbe che da compiacersi dell’ospitalità goduta e delle premure con cui lo accudivano gli amici; solo che un episodio un po’ imbarazzante per loro e per lui era venuto a turbare il corso del tutto sereno ed improntato ad una reciproca soddisfazione di quel soggiorno. Gadda, sin dai primi giorni dalla sua venuta,
subito dopo il desinare, scusandosi con loro in modo insistito, come soleva fare, si allontanava per una non lunga passeggiata, a rendere più facile, come diceva, secondo la propria ormai consacrata abitudine, la propria digestione. Ora un giorno a quella stessa ora la signora Rodocanachi, non so per quale esigenza o necessità propria o della gestione famigliare, uscita anch'ella di
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casa, era entrata in una trattoria che poco ne distava, di ambiente e di tono del tutto popolare; e là, appena varcato l’uscio, seduto ad un tavolo con davanti un ampio tovagliolo allacciato intorno al collo e davanti una bistecca di dimensioni notevoli, tanto da travalicare il piatto su cui era posta, mentre era sul punto di affrontarla con deciso ed avido impegno, vi sorprese Gadda; e l’incontro fu improvviso e del tutto inatteso per entrambi, per quanto forse da lui paventato. Al che, più che mai impacciato ed incapace sul momento di abbozzare una qualche spiegazione, alzatosi in piedi ed allargando le braccia in una implicita scusa come chi è stato colto in fallo e non può che ammettere la propria colpa, egli, a voce bassa ma non tanto ch’ella non sentisse, abbozzò
la prima motivazione che gli venne in mente: «Sa, stavo passando di qua...» e lasciò intendere il fascino che su di lui aveva avuto quella bistecca, tanto che non aveva saputo sottrarsene. Fu Gadda stesso a raccontarmi l’episodio ed era ben caratteristico il modo in cui si esprimeva; poiché di esso egli coglieva sopratutto l'elemento comico, grottesco, e quindi anche la sua assurdità; e cioè l'impossibilità a dargli un qualunque esito, a rimediarvi; poiché l’imbarazzo della situazione era e non poteva non essere che reciproco fra i due che ne erano parte; ed infine su entrambi pesava una qualche responsabilità; entrambi potevano nutrire in sé un sentimento di colpa; restava, a dominare, a primeggiare, l'elemento abnorme di un appetito, addirittura di una fame, eccezionali; di fronte ai quali non
vi era da un lato possibilità di tacitazione, di difesa, e dall’altro possibilità di
previsione, di farvi fronte. Ed ancora aveva un suo spazio, entrava come motivo determinante, il fatto che, a tavola, sempre Gadda resisteva ad ogni prof-
ferta di reiterare un piatto, una portata; e non per un semplice atto di discrezione, di cortesia; ma proprio ad impedirsi di trasmodare, ad evitare un trop-
po grave affaticamento nella digestione; come temeva e come
avrebbe
rischiato se non si fosse moderato, se non si fosse contenuto in quella sua eccessiva voracità. E pure, infine, ad essa non riusciva a resistere, ad un certo momento l’istinto, quella feroce prepotenza dei suoi sensi, del suo fisico, primeggiavano; e tanto più in quanto reagivano ad una costrizione, ad un castigo
ch’erano stati loro imposti. Vi era insomma una sorta di fatalità che incombeva su Gadda; e perciò la sua narrazione poteva essere addirittura spassionata; egli di sé e di quell’evento poteva parlare con il sorriso sulle labbra; e più riderne che rammaricarsene; quasi ne fosse divertito; quasi di quell’episodio fosse stato protagonista un suo personaggio; ed egli se ne compiacesse; si compiacesse di quella che era una sua finzione, una sua invenzione. Ed ecco proprio confermarsi quella sua tendenza a farsi personaggio; a vedersi in
modo del tutto distaccato da sé; con un’allegria divertita e che al tempo stesso aveva in sé qualcosa di feroce; come se egli si sdoppiasse, ad un certo momen-
ed
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to si vedesse agire e vivere completamente staccato da se stesso; e non soffrisse, non potesse soffrire di quel che all’altro accadeva; ma lo guardasse, lo considerasse addirittura divertito per lo spettacolo che gli si offriva; poiché infine più lo interessavano, più lo attiravano quel fatto, quella vicenda, quella situazione in cui s'era ritrovato, che non le loro conseguenze; che non l’imba-
razzo che ormai inevitabilmente avrebbe improntato i suoi rapporti con gli amici Rodocanachi; nei quali qualunque sua motivazione, qualunque sua scusa non avrebbero potuto cancellare un’ombra di dispiacere, di rammarico; come non potendosi non sentire in qualche modo colpevoli di disattenzione, di trascuratezza nei confronti dell’ospite; se non addirittura di un’eccessiva
parsimonia, o addirittura di avarizia. Ma questa sua dissociazione, questa sua capacità di agire su due piani mi fu confermata anche in altra occasione. In quegli anni, dopo che aveva pubblicato i suoi primi volumi, od almeno il suo primo, egli aveva accettato un impegnativo incarico di direzione tecnica nello Stato del Vaticano; il che lo costrinse a risiedere a Roma per alcun tempo durante il quale non gli fu possibile coltivare nessun’altra attività che non fosse quella dell'impresa affrontata. Durante quell’intero periodo, o perlomeno durante una buona parte di esso, egli prese alloggio in una pensione a gestione famigliare, situata in via Cavour, una via centrale di Roma, imminente al Tevere ed ai viali che lo fiancheggiano. Essa era gestita da due anziane sorelle, di cui l’una era moglie di Alfredo Gargiulo— le quali l'avevano ereditata da una vecchia inglese loro amica, da ciò il suo nome di Pensione White; era sita nell’ultimo piano di un vecchio
palazzo ed aveva un aspetto estremamente dignitoso, persino severo, con mobili ed arredamento di una consistente anzianità ma sempre controllati e connotati da una pulizia irreprensibile; il silenzio vi regnava, mai si sentivano l'esplosione od anche solo l’accento alto di una voce; ed il rumore dei passi lungo i corridoi era attutito od annullato da spessi tappeti. In tale ambiente Gadda pareva trovarsi a proprio completo agio; la frequentava un pubblico perlopiù di persone anziane, con molti stranieri, con abitudini di scrupoloso, reciproco rispetto; bambini non se ne vedevano, ed il personale si intonava nei modi e nel comportamento all'ambiente. Così egli aveva finito con l’entrare in un rapporto di famigliarità, se non addirittura di confidenza, con le due sorelle; al tempo stesso non poteva non fargli piacere l’incontro, per quanto non frequente, con Gargiulo, il quale lo stimava ed aveva scritto di lui in modo decisamente positivo. Delle due sorelle, la moglie di Gargiulo era sofferente, allettata, e dal letto teneva la contabilità della pensione e praticamente la dirigeva; l’altra la gestiva, ne portava il peso della funzionalità pratica, con l’aiuto di una giovane nipote. Era questa seconda, più giovane sorella, di un’età di mezzo, di modi signorilmente disinvolti, deci-
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si e disinibiti, come di chi è da tempo uso ad accollarsi le responsabilità e le brighe di una attività pratica, ma godeva anche di momenti di rilassamento, di chiacchierare con qualcuno dei clienti cui era legata da più lunga frequentazione; e nella conversazione era dotata di una vivacità non esente da malizia, dal gusto della maldicenza e di affrontare con spregiudicatezza qualsiasi argomento; anche quelli che possono apparire arditi, al di là delle consuete norme di buon comportamento, di uno stile contegnoso. Con lei Gadda si intratteneva nelle ore libere dalla sua attività; divertendosi
ad ascoltare da lei il resoconto dei vari pettegolezzi che riguardavano l’uno o l’altro dei suoi clienti; e pure si divertiva di quel suo modo di sfida con cui lei gli proponeva gli argomenti più scabrosi; come se ella lo ritenesse sì persona del tutto spregiudicata ed esperta del mondo e delle vicende che travagliano gli uomini; ma al tempo stesso lo tentasse, spingesse sempre più in là il limite delle sue insinuazioni, quasi a rendersi conto sin dove egli potesse giungere. E così in Gadda al gusto di quella confidenza che giungeva a limiti di eccessività si accompagnò ad un certo momento un senso di timore; quasi potesse venire
coinvolto in una solidarietà eccessiva; compromesso in un gioco che andava apparendogli troppo ardito; quasi sotto di esso si celassero un proposito, o
perlomeno un’intenzione, di cui bene non sapeva cogliere la profonda ragione. Certo si è che s’impaurì, sentì, o credette di sentire di correre un rischio, e, d’un tratto, come era del suo costume, lasciò la Pensione White, senza neppu-
re giustificare la sua partenza o giustificandola nel modo meno convincente; e si trasferì in altra, posta nella stessa via, quasi ad essa adiacente; nella speranza, o nella convinzione, che mai avrebbe incontrato in quei pressi la donna dalla quale si può dire era fuggito. E fu in questa pensione, come prima nell’altra, che lo ritrovai nella mia successiva andata a Roma, sollecitato da lui ad allogarmici, senza però ch’egli mi desse una ragione piena di tale suo cambiamento; ma solo manifestandomi una sua insofferenza; infine l’essergli venuto a noia quell’ambiente con i suoi cerimoniali defatiganti. Evidentemente era avvenuto qualcosa che lo aveva allarmato, o meglio si era creata intorno a lui un’atmosfera nella quale si era sentito come invischiato; e se ne era liberato; ma dentro gliene era rimasta una traccia di un qualche
peso; che in un certo senso lo perseguitava. Tanto che, non molto tempo dopo, sentì il bisogno, meglio la necessità, di liberarsene dandone testimonianza in un racconto. Quel che più mi colpì quando lo lessi si fu l'esplicita spregiudicatezza che lo connotava; in quella sua resa del personaggio che ne stava al centro, l’anziana signorina,- in nessun modo lo scrittore tendeva a
mascherarlo con qualche artificio; pareva anzi ch'egli fosse teso esclusivamente a renderlo per quel che era ed appariva, per quello che a lui era risultato, o meglio che andava risultando attraverso tale sua impietosa descrizione; la qua-
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le viveva di una sua acrimoniosa cattiveria; come se egli le recasse dentro di sé un rancore cui dava sfogo; senza una qualsiasi analisi di sentimenti, senza nessuna volontà di comprensione, di ricuperare in lei un suo momento, una sua condizione celati e che ne motivassero gli atti, il comportamento. Spesso Gadda, di fronte ai suoi personaggi, a quelli ch’egli infine condanna nel suo risentimento morale, conclude con un moto di pietà, perlomeno di commiserazione; il che qui non gli avviene; la sua freddezza nella disamina è toccata persino da una punta di crudeltà; senza che ci si renda conto della ragione da cui essa è motivata. Ed è strano che in quelle pagine Gadda abbia superato il suo consueto riserbo, ogni sua preoccupazione di una rivalsa, di una recrimi-
nazione. Il che, se testimonia appunto una carica di profonda irritazione, quasi di rabbia di cui si debba liberare, testimonia anche la sua capacità di una freddezza, di un deciso distacco di fronte ad una persona dalla quale infine è ben difficile pensare sia stato offeso od ingannato in un modo per lui tanto grave da spingerlo a tale reazione. Ed allora ci viene fatto di prendere atto di questa sua capacità di tanto distaccata spregiudicatezza, di questa che in fondo giunge ad apparirci come una cattiveria nutrita persino da perfidia. Il che evidentemente restava come una componente della sua natura, del suo carattere. Ma di lui, del suo modo di essere, delle vicende più travagliate della sua esistenza, delle angosce che continuamente lo perseguitavano, in quegli anni dei nostri frequenti incontri a Firenze od a Roma, i quali si intonavano ad una sempre più stretta e partecipe confidenza egli mi disse in più riprese, come di volta in volta liberandosi da ricordi che troppo gli pesavano dentro; ed anche a giustificare, o meglio a motivare, talun suo comportamento, talun suo modo di essere. Così appresi la storia della sua famiglia, di cui quasi dieci anni dopo egli diede testimonianza pubblicando il Giornale di guerra e di prigionia; così mi fece partecipe dei suoi rapporti con la madre; sui quali tanto erano andati conformandosi la sua natura, il suo carattere, tanto da restare determinanti del suo comportamento, delle sue scelte di fondo nel corso della sua esistenza. Così seppi del rancore ch'egli nutriva nei confronti del padre; responsabile, a suo giudizio, della condizione economicamente difficile in cui si era ritrovata la famiglia alla sua morte, per la sua incauta gestione del consi-
stente patrimonio di cui pur disponeva; così mi confidò le proprie reazioni che lo portavano ad atti di una incontrollata violenza appena i ricordi dolorosi lo investissero senza ch’egli riuscisse a farvi fronte: come quando aveva gettato a terra il grande quadro incorniciato con la fotografia del padre calpestandolo forsennatamente. Ma a tali esplosioni di violenza, fuori da ogni possibilità di autocontrollo, in cui egli sfogava il proprio incontenibile furore contro le cose, contro la realtà, contro se stesso, quando si ritrovasse nell’impossibilità
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di superare un ostacolo anche di poco conto; egli accondiscendeva evidentemente quando amarezze, delusioni, disinganni erano andati accumulandosi in
lui sino a giungere ad un livello non più tollerabile; e la prima occasione, la prima contraddittorietà, per quanto labili e di bene scarso rilievo, gli si offrivano a rompere, a sconvolgere un equilibrio sino allora mantenuto con tanto faticosa costrizione; come gli accadde una volta, quando, incapace di far funzionare una penna stilografica nuova e di un qualche valore, la scaraventò sul pavimento schiacciandola con le scarpe sino a ridurla in bricioli. Evidentemente tali atti inconsulti implicavano in lui uno stato di continua tensione, di continuo travaglio ch’egli mai riusciva a superare, mai riusciva a risolvere. Difatti in lui vi era una fondamentale esigenza di ordine, di equilibrio; continuamente, ossessivamente egli era portato ad agire secondo una norma, a cercare la via esatta a risolvere ogni problema del vivere secondo un principio di ragione; nei piccoli, quotidiani, come nei massimi interventi; e sempre nelle vicende degli uomini, e nelle sue proprie, egli tendeva a cogliere
gli elementi di fondo, a metterne in evidenza le cause ed i motivi determinanti per dedurne il più opportuno svolgimento, la via giusta che ad essi doveva proporsi. Mentre al tempo stesso era costretto a riconoscere come la realtà, la realtà quotidiana, male rispettava una tale esigenza di ordine, le si opponeva, la contrastava nella sua conformazione caotica. Ma erano sopratutto gli uomini che si sottraevano ai dettami della ragione, che operavano quasi sempre nel modo opposto a quello che sarebbe stato più opportuno, più ragionevole seguire. E nella sua storia personale, nella storia della sua famiglia si esemplava per lui questa profonda contraddizione; della quale era portatrice, e prima responsabile, la madre: con i sacrifici eccessivi, quasi disumani ch’ella aveva imposto alla famiglia, ai figli, per riscattare il patrimonio, le proprietà gravate di debiti dopo la morte del marito; nel suo culto della proprietà, dell’appartamento a Milano, della villa in Brianza in cui ella vedeva l’unica garanzia di uno stato sociale di dignità, di elezione, il solo mezzo di una promozione sociale
dei suoi figli dopo lo scadimento cui li aveva condotti il padre; e ciò anche a spese della loro salute, delle loro esigenze sentimentali. A tale dissennata conduzione della famiglia si era sempre opposto ed ancora si opponeva Gadda; ma a nulla erano valse le sue recriminazioni; la madre era sempre riuscita ad imporsi anche a lui; ad operare secondo le proprie scelte indiscutibili, inderogabili; ed infine egli in lei vedeva la causa prima della propria esistenza svoltasi sotto il segno della contraddizione, del continuo contrasto fra ciò ch'egli
avrebbe voluto fare e ciò che invece era stato costretto a fare; come se lei avesse dato un’impronta iniziale e definitiva alla sua natura, al suo modo di essere e di comportarsi, tale ch’egli poi mai era riuscito e mai sarebbe riuscito
a liberarsene.
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Infine la sua irritazione, la sua indignazione nei confronti della madre avevano un carattere tanto radicale da giungere all’odio; benché dentro sé egli respingesse anche solo la possibilità di un simile sentimento; proprio per il rispetto ch’egli nutriva per il codice morale di cui l’uomo si è dotato; d'altra parte quei suoi scatti incoercibili d'ira le molte volte avevano la loro origine proprio da uno od altro atteggiamento della madre, da una od altra decisione di lei che gli si venivano proponendo attraverso i più diversi fatti, i più diversi eventi che lo colpivano; ed ai quali egli reagiva proprio in un modo che a chiunque poteva apparire come del tutto improprio. Direi anche che il suo modo di comportarsi e di considerare le donne era stato profondamente condizionato dal suo rapporto con la madre; poiché non è a dire che Gadda fosse indifferente di fronte ad esse, od almeno a taluna di esse; in un momento di abbandono confidenziale, egli mi accennò a suoi amori occasionali della giovinezza, probabilmente mercenari; e sorridendo di
se stesso, ancora una volta proiettandosi nel personaggio che faceva di sé, mi disse che allora alle donne, al momento dell’approccio, talvolta egli incuteva paura; come se lo scatenamento dell’istinto lo portasse a rompere ogni modo di autocontrollo, sino ad improntare il rapporto sessuale ad un atteggiamento di violenza, quasi persino ad una volontà di offesa. Ed anche una simile confessione valeva a mettermi in luce, a farmi evidente la profonda dissociazione della sua personalità. Poiché infine, ora, quando io lo conobbi e per tutto il periodo durante il quale la mia frequentazione di lui fu continua, io mi resi ben conto di come, nei confronti delle donne, od almeno delle donne che avvicinava, con le quali iniziava un rapporto comunque di amichevolezza, di una qualche confidenzialità, di un subito era trattenuto da un sentimento di paura; dal timore insomma di potersi compromettere; e ciò anche se la donna avvicinata fosse del tutto lontana da ogni aspirazione o pretesa di imporgli un qualunque legame.
D'altra parte potrei dire che del fatto sessuale, e particolarmente del rapporto sessuale fra uomini, egli era interessato; senza però in nessun modo dimostrare di essere attirato da esso in modo morboso; poiché una simile sua particolare curiosità mi pare rientrasse completamente
in quella generale
curiosità ch’egli dimostrava per tutte le manifestazioni dell’uomo, e sopratutto per quelle che gli si presentassero sotto l’aspetto di una loro anomalia, di una loro anormalità; di quelle in particolar modo che potessero fare scandalo, che la società borghese, della quale egli faceva parte e della quale era partecipe, considerasse, da un proprio punto di vista perbenistico, come motivo di scandalo e cui magari invece accondiscendeva segretamente. Era appunto da questo gioco di profonda ipocrisia ch'egli era preso, era attirato; per coglierne i modi, come se, anche attraverso un simile comportamento,
attraverso tali
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manifestazioni, gli giungessero nuove prove di una vita celata, peccaminosa,
di una società la quale si faceva vanto di manifestare ad ogni occasione la limpidezza, la severità del proprio comportamento, la perfetta coerenza fra le proprie parole, il proprio aspetto, ed il proprio agire, anche i propri più segreti pensieri. E ricordiamo che da questa classe egli si era sempre od almeno per lungo tempo sentito escluso, considerato come non degno di farne parte, nonostante le decise rivendicazioni della madre nella sua volontà di un ricupero economico che riportasse lei e la famiglia, od almeno i propri figli, al livello in cui un tempo si erano posti. In ogni modo Gadda, ove gli se ne offrisse l'occasione, si arrischiava a porre delle domande, dei quesiti a chi glieli potesse risolvere; e così amava stabilire rapporti di amichevolezza e di confidenza con coloro che praticavano un costume del tutto spregiudicato, anticonformista; forse anche ammirando un simile coraggio, attirato da esso; come a rappresentazione di ciò ch'egli mai avrebbe potuto essere, che mai si sarebbe potuto proporre di essere. Fu così che fra lui e Filippo De Pisis, ch’egli ammirava come pittore e di fronte al quale usava modi persino ossequenti, sempre dichiarandogli la propria stima, si stabilì un rapporto spigliato, spregiudicato; e poiché il pittore manifestava senza reticenze le proprie abitudini, le proprie predilezioni, un giorno, quasi a provocarlo, a sfidarlo ad una compiuta sincerità, Gadda gli chiese infine a quali esiti portasse il rapporto sessuale fra maschi; e,_- com'egli ridacchiando ed imitando l’accento ed i modi di De Pisis, ebbe a riferirmi— questi gli rispose: «Vede, caro Gadda, perlopiù l’atto sessuale fra uomini si risolve per via orale»; e tale sua spiegazione egli la dava con assoluta serietà; quasi dall'alto di una propria comprovata esperienza, come di chi assume i modi di un maestro il quale accondiscende ad illuminare l'ignoranza di uno sprovveduto; e quindi anche a rivendicazione di una propria superiorità; come già fatto certo che in nessun modo il proprio interlocutore avrà il coraggio, la capacità di una ferma decisione così da diventargli discepolo, da accettarne il costume. In ogni modo debbo qui dire che, e nell’uno come nell’altro senso, l’esi-
stenza, la presenza di sua madre, l’educazione ricevuta da sua madre costituivano sempre per lui un termine di imposizione e di costrizione contraddittori ma diversamente determinanti; tali che neppure quand’ella più non viveva egli poté liberarsene. Fu così che, quando lessi nella rivista «Letteratura» le puntate ch’egli vi pubblicò di La cognizione del dolore, da lui scritte poco tempo dopo la morte di lei, se da un lato in esse, in buona parte di esse, sentii la prepotenza di una confessione non più rinviabile, finalmente possibile e che raggiungeva un tono estremamente intenso di drammaticità dolorosa; dall’altro lato mi parve ch’egli non fosse riuscito a dare piena testimonianza di sé e
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dei propri sentimenti nei confronti di lei per quanto ci si fosse provato, poiché infine, se a momenti la sua irritazione, la sua rabbia, la sua gelosia
venivano alla luce, trovavano sfogo in una resa del tutto concreta, nel rapporto della donna con la realtà, con le cose, con gli altri; le più profonde ragioni del suo rancore per lei, di quelle che erano le sue gravi accuse a lei solitamente rivolte, restavano celate, erano eluse; infine la madre appariva come una persona disarmata e sofferente, cui da parte del figlio non poteva non venir tributato un sentimento di pietà, di commossa comprensione; ed il figlio di fronte a lei finiva con l’essere investito da un senso di responsabilità, se non di colpevolezza. Ma quell’autoaccusa— non portata alle sue estreme conseguenze, trovava la sua motivazione in quello che era per Gadda l’irrinunciabile fedeltà, l’irrinunciabile accettazione della norma, del codice, anche nel campo dei sentimenti; il rancore, l’odio per la madre non potevano essere dichiarati dal figlio; ancor più, non potevano esistere nel figlio; e semmai egli li sentiva come il frutto di una propria sordità, addirittura come una propria colpa. La madre così si riscattava completamente da ogni proprio addebito, diventava una persona intangibile, la sua figurazione diventava persino ieratica sin dal suo primo apparire; in essa Gadda compiva un caratteristico capovolgimento
di posizioni; egli spostava il personaggio madre in una zona assolutamente mitica, al di là della realtà; per cui il figlio, lui stesso, si faceva carico completamente di ogni incomprensione, di quella che era la loro evidente incompatibilità; senza però in nessun modo riuscire a superarla. E ne derivava il fatto
che la confessione, così deviata dalla sua più profonda ragione, non poteva avere un esito, una conclusione; restava senza una fine; e Gadda, che pure vi aveva aspirato, che pure si era dato a quel testo per andare a fondo di sé e della propria condizione, non vi riusciva; egli stesso compiva un’opera di
automistificazione e ne restava la vittima. Quel libro non poté fargli superare il suo travaglio; egli continuò a portarlo dentro di sé. Dopo che mi fui trasferito in Romania e dopo ch’ebbi preso moglie, al solito, almeno nei primi anni, l’estate rientravamo in Italia ed una parte delle vacanze le passavamo al mare; a Lussino un anno; poi a Bocca di Magra, dove incontravamo Giansiro e Ginetta Ferrata ed anche Vittorini; ed un anno là ci
raggiunse anche Gadda. Ma era quello un periodo inquieto, tormentato; la presenza di Elio, ospite di Giansiro, provocava tra lui e Ginetta, sposi da poco tempo, uno stato di disagio, di equivoci, di sospetti; i quali si ripercuotevano su tutti noi; mancava tra noi un pieno affiatamento; nel nostro parlare, nel
nostro discorrere eravamo costretti ad un continuo autocontrollo per non
toccare un qualche argomento che potesse suscitare imbarazzo o contrasti;
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Giansiro era sempre di cattivo umore, Ginetta gli rispondeva con accento
irritato come invitandolo a comportarsi in un modo perlomeno assennato. Noi assistevamo a questi bisticci in silenzio, senza osare intervenire. Poi la sera, con Gadda, talvolta ci veniva fatto di affrontare tale situazione della
quale non sapevamo farci ragione; e ciò da un lato in quanto sapevamo che da tempo durava il legame fra Giansiro e Ginetta, e dall’altro che l’amicizia fra lui e Vittorini era stata da sempre intonata ad una piena fiducia dell’uno per l’altro, ad una sodalità persino esemplare.
Gadda nelle sue osservazioni, nelle sue considerazioni era di una spregiudicatezza libera da ogni condizionamento; e di quella vicenda, di quello che era un contrasto radicale, per quanto mascherato, mai dichiarato— era pronto a cogliere il lato anomalo, e subito lo trasferiva in termini comici; come considerandoli ridicoli e disdicevoli per degli uomini ormai maturi, per quanto giocassero ad essere adolescenti; e poi non ammetteva quello che gli appariva come un groviglio di sentimenti l’uno in contrasto con l’altro; dalle persone egli esigeva un comportamento conseguente e coraggioso, in ogni modo respingeva la fuga dalla realtà, la mistificazione di essa a propria difesa; e così finiva col rappresentarsi quella vicenda, per noi perlomeno spiacevole, se non dolorosa, in termini comici. I due uomini dichiaratamente l’uno e segretamente l’altro innamorati della stessa donna ed al tempo stesso fortemente legati tra loro da una vecchia amicizia, li descriveva intenti ad atti di feticismo, quasi a gestire i loro sentimenti dandovi sfogo nella commozione che li prendeva nel cogliere una traccia di lei; rivali ma sodali nel riconoscersi partecipi dello stesso sentimento, dello stesso culto; a noi due con gusto dissacrante li
descriveva piangenti insieme, per pietà di se stessi e della propria condizione, di fronte ad uno spazzolino da denti da lei dimenticato in qualche luogo. Ed il sarcasmo della sua invenzione, a chi lo conoscesse, poteva apparire come una propria difesa, come la ripulsa, quasi come uno scongiuro ad evitare, a respingere, per sé, ogni possibilità accondiscendere ad un simile gioco di equivoci. Poi Vittorini se ne andò, improvvisamente, risolvendo una situazione non
più sopportabile; ma a Bocca di Magra restò un’atmosfera di impaccio, di disagio, ogniqualvolta ci veniva fatto di ricordarlo. Noi due allegammo la difficoltà di giungere alla spiaggia, sita al di là del fiume, perché privi di una barca, sempre costretti ad attendere la disponibilità di altri; ed in ogni modo Giansiro e Ginetta preferivano godersi il mare in una zona di scogli, a noi, pessimi nuotatori, impervia. Così ci trasferimmo al Forte dei Marmi, dove avremmo potuto godere di una spiaggia ben più agevole, e dove avremmo potuto incontrarci con altri amici, in una ben diversa atmosfera. E Gadda si accompagnò a noi.
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Trovammo posto, a condizioni moderate, in una pensione, di proprietà di religiosi, sita non lontano dal mare, gestita con ordine ed un’estrema attenzione alla pulizia; vi era in essa un’atmosfera un po’ strana; la clientela era ridotta, la servitù non numerosa,
dai modi compassati, di una cortesia un po’
untuosa; l’ambiente spazioso e luminoso; il cibo accurato per quanto contenuto in termini di una sufficienza ai limiti della penuria. Eravamo già dentro la guerra e se ne sentivano le conseguenze sopratutto nel campo dell’alimentazione; mangiavamo tutti e tre allo stesso tavolo in una sempre affiatata conversazione in cui Gadda si produceva nelle sue più spassose e vivaci rappresenta-
zioni; un po’ giocando con noi al fratello maggiore che protegge i più giovani a lui affidati; poiché, per quanto di tanto in tanto accusasse inconvenienti e disturbi, appariva e si sentiva vigoroso, direi nel pieno delle sue forze e propenso anche ad esercitarle, a cimentarle. Una mattina scesi con mia moglie forse in anticipo sull’ora consueta della prima colazione; poiché lui tardava, il cameriere ci chiese se «il babbo » sarebbe venuto; e noi ridevamo dell’equivoco, ma al tempo stesso ne restavamo colpiti; Gadda di certo non lo avrebbe gradito: difatti in nessun modo egli mai aveva alluso a sé come a persona anziana, sulla via della vecchiaia; infine non aveva ancora compiuto i cinquan-
t’anni. Certo la sua vitalità esuberante, quella ch’egli stesso definiva come la sua eccessiva voracità, descritta in termini persino allucinanti in La cognizione
del dolore, a quel regime di restrizioni male si adattavano; mai però egli dichiarava la sua insofferenza, mai ci si ribellava; solo di tanto in tanto si
rivolgeva a mia moglie dichiarandole la propria pena, il proprio disagio nel vedere com’ella dovesse accontentarsi di porzioni di dimensioni talmente modeste; mentre noi con un piccolo gioco di ipocrisia protestavamo la nostra soddisfazione, ridendo dentro di noi nel vederlo costretto a trattenersi dall’esprimersi con tutta sincerità; di giorno in giorno sempre più insofferente,
sempre più sollecitato da quella che in lui era davvero una fame non saziata. Però, subito dopo il desinare, com’era appunto nelle sue consuetudini, egli ogni giorno si allontanava dalla pensione; non lontano da essa, ad un incrocio di strade, c'era un chiosco con un baretto frequentato a tutte le ore dai villeggianti, e Gadda vi faceva capo quotidianamente a quell’ora di solleone, per bersi una mescita, a quanto ci diceva, prima di portare a termine la sua passeggiata. Ma c’era qualcosa in quella sorta di ripetuto cerimoniale che lo indisponeva e gli toglieva in parte anche il gusto di quel bicchiere di vino, che doveva essere, per quel che ci faceva capire, di buona qualità. Poiché l’oste, il quale ormai lo riconosceva e forse anche scambiava con lui qualche frase delle più consuete in tali occasioni, poneva sul banco, accanto al suo, il proprio bicchiere, e come se lo avesse atteso per cavarsi quella voglia approfittando
della compagnia che gli si offriva, riempiti e l’uno e l’altro, alzando il proprio
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alla sua salute, se lo vuotava con avidità e soddisfazione. Ma il gesto non piaceva a Gadda, egli non ne apprezzava la implicita cortesia; esso gli appariva come una sfida; poiché lui pagava del suo e all’oste la bevuta nulla costava, o meglio questi se la offriva con il guadagno che ricavava a spese del cliente. Ed il sorriso che sempre accompagnava il congedo, la parola di saluto, l’arrivederci per l’indomani gli suonavano come una beffa; come se gli accadesse ogni volta di cadere, di accondiscendere ad un tranello; e con noi, narrandoci poi di quell’incontro quotidiano, se ne indignava, ce lo riferiva con irritazione, persino imprecando. Ma forse anche, dentro di sé, all’oste amico-nemico, il quale era di grossa corporatura e di incarnato colorito, come conviene ad uomo di simile attività, segno di una buona e ricca nutrizione, egli rimproverava ed invidiava il pasto già consumato, di ben altra misura che non fosse stato il suo, e che trovava il proprio coronamento, la propria consacrazione
proprio in quel bicchiere di vino. Alla spiaggia ci recavamo il mattino e vi incontravamo Montale ed altri amici; Gadda magari ci capitava più tardi di quel che noi solessimo e non sempre ci si tratteneva a lungo; non amava troppo il riposo abbandonato al sole, a crogiolarsi al sole, preferiva il camminare; nel camminare dava sfogo e cimentava i propri pensieri, le proprie preoccupazioni. Ma poi talvolta accondiscendeva a trattenersi con noi, a chiacchierare con noi e con gli amici che ci
avevano raggiunto o che ci raggiungevano; infine finiva anche lui con l’adeguarsi alla vita di spiaggia, a considerarsi un villeggiante ed a conformarsi a quel costume, a quel ritmo di vita; anche se in un certo modo se ne rivelasse estraneo; anche se in lui vi fossero talun atto e comportamento che lo facevano diverso. Ed era anzitutto il suo modo di vestire, di abbigliarsi a testimoniare com’egli non fosse riuscito ad immettersi naturalmente in quell’ambiente, in quell’atmosfera; al solito egli vestiva sempre nel modo più corretto e convenzionale della città, con giacca e calzoni lunghi, e se talvolta accondiscendeva a qualche capo di vestiario più adatto al luogo ed al momento, lo faceva quasi adeguandosi forzatamente al modo degli altri; ed ecco allora qualche camiciotto a colori vivaci che però, indossato da lui, contrastava con il rimanente del suo abbigliamento; e, a testimoniare tale sua inadattabilità, gli capi-
tò, o gli capitava, di giungere alla spiaggia, prima di indossare il costume da bagno, magari in calzoncini corti ma con le scarpe alte, nere, di uso invernale. Infine pareva che anche in questi scarti, in queste contrapposizioni, talvolta
persino vistose in quanto del tutto fuori dalla norma della consuetudine, si manifestassero, senza ch’egli se ne rendesse conto, quella dissociazione, quel
modo di essere duplice che aveva profonde radici nella sua persona. Ed è pure caratteristico il fatto che, di quelle sue per lui eccezionali, od almeno rare
e sempre parziali concessioni alla moda, al costume dei più, all'ambiente, egli
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si compiacesse, senza troppo darlo a vedere, come di una propria conquista,
come di un’affermazione della propria mondanità, del sapersi adeguare, del saper capire il gusto dei giovani; di coloro che di lui erano più giovani; come di una conquista che ancora gli fosse possibile; come di una dimensione dell’esistenza che ancora fosse alla sua portata. Ricordavo anni prima; a Firenze, quando egli vi aveva preso stanza per alcun tempo. Tra i frequentatori delle «Giubbe Rosse», a quel tempo, ai più abituali si era aggiunto un giovane pittore, Ugo Capocchini, che ben presto si era legato di amicizia con tutti noi; specie con i più giovani di noi; e ad alcuni di noi, ed anche a me, si era profferto ed aveva finito col fare il ritratto; ed era questo da parte nostra un modo per aiutarlo anche economicamente, per incoraggiarlo nella sua attività, nella via da lui intrapresa; ed al tempo stesso un riconoscimento delle sue capacità, della sua personalità che già si delineava
di notevole spicco nei confronti degli altri artisti che solitamente frequentavamo. Così, convinto da noi, anche Gadda aveva accettato di farsi ritrarre; e si recò nello studio del pittore, all'ora concordata, sempre estremamente pun-
tuale, due, tre, quattro volte; quant’era necessario perché fosse portata a termine un’opera che soddisfacesse al tempo stesso l’artista ed il committente; ed a me ed a Bonsanti, che talvolta ci accompagnavamo a lui nello studio per curiosità di come essa procedesse, quando a lui ci rivolgevamo chiedendogli se si riconoscesse, se fosse contento del modo, delle fattezze nelle quali lo aveva colto il pittore; rispondeva annuendo ma con una qualche reticenza, come se nascondesse una riserva; come se infine nel ritratto non si riconosces-
se per quello che era, per come si considerava. E fu con un po’ di pena, mercé la nostra insistenza, che riuscimmo a cogliere la ragione della sua insoddisfa-
zione. Sin dalla prima seduta Gadda si era presentato allo studio vestito del suo abito migliore, diciamo il più severo, nel segno di una sua dignità, di una sua
distinzione; però, al tempo stesso, a quell’abito aveva voluto accompagnare un tocco che vi facesse spicco, che ne rompesse quella che ne poteva essere considerata l’austerità; e si era un fazzolettino infilato nel taschino della giacca, di colore rosso, ma di un rosso talmente sgargiante, quasi offensivo alla vista, che il pittore aveva voluto trascurarlo, escluderlo da ogni presa in considerazione. Gadda, di questa che riteneva trascuratezza, si era accorto, e di
giorno in giorno, di seduta in seduta, a quel fazzolettino aveva dato maggiore
spazio mettendolo in evidenza in una dimensione sempre più vistosa; ma
Capocchini, senza dir nulla, aveva continuato nel suo lavoro sempre facendosi cieco per quel verso. Sinché infine, anche perché stimolato dalle nostre domande, Gadda finì con l’esplodere, rammaricandosi con il pittore il quale implicitamente aveva respinto la sua evidente per quanto muta sollecitazione.
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Né si accontentò, né accettò le ragioni di quell’esclusione quando da quello gli furono spiegate, con la nostra solidale conferma; poiché davvero, nel quadro, quel colore fiammante, in contrasto ed in disaccordo con i toni dell’insieme, ne avrebbe incrinato l’unità, avrebbe immesso un elemento del tutto estraneo in un contesto che rispondeva ad una sua ragione. Vi era evidentemente in Gadda una profonda, radicata esigenza di rispetto
della realtà, di tutta la realtà, per quel che era, per come si dimostrava in ogni sua direzione e dimensione; e tale resa, nei suoi scritti, egli la perseguiva con accanimento, con una fedeltà che talvolta aveva i toni dell’ossessivo; nella ricerca, nella tensione di nulla dimenticare, di nulla escludere, di tutto coglie-
re e di tutto penetrare; sino ad attingere talvolta un ritmo esasperato; come se in questo accumulo egli tendesse ad una completezza che sempre gli sfuggisse; meglio, come se nella sua ricerca insaziata egli sempre sentisse mancargli quell’elemento che poteva rendergli, motivargli la ragione del tutto. Mi trovavo una volta con lui a Venezia, non ricordo in quale occasione; e ci
si offrì la possibilità di vedere La terzpesta del Giorgione il cui restauro era stato portato a termine di recente; e chi ci accompagnava e ci illustrava il
quadro era persona di sicura competenza e di acuta sensibilità. Gadda, come gli accadeva, si mostrò estremamente interessato e dell’opera in sé e del procedimento cui era stata sottoposta per ricuperare l’antica condizione. Pareva proprio ch’egli nutrisse un particolare amore per quel pittore, che avesse atteso da tempo una simile occasione di impadronirsi appieno della sua tecnica, del suo modo di considerare la realtà e di esprimerla, e continuava ad urgere di domande l’accompagnatore, il quale, in un primo tempo soddisfatto e compiaciuto di tale interesse, rispondeva con premura e compiutezza ad ogni quesito da lui postogli; ma infine se ne dimostrava stupito, quasi a disagio, parendogli evidentemente che essi travalicassero, non rispondessero ad una vera comprensione del testo; ne fossero addirittura estranei. Poiché Gadda, nella sua esigenza di una piena informazione, si mostrava curioso di dati che alla nostra guida parevano del tutto estranei al valore, al significato dell’opera; insisteva egli nel chiederne le precise dimensioni, il materiale su cui il pittore aveva lavorato, i colori di cui si era servito nella loro composizione, il genere dei pennelli che aveva usato alternativamente; e poi
spostava il proprio interesse sulle figure raffigurate, interrogando se rispondessero a dei modelli precisi, e quanta e quale parte di esse fosse frutto della fantasia; e così per la natura che le circondava, dalla quale erano come avvolte; se essa ritraesse veramente un preciso contesto ambientale. Queste ed altre erano le sue domande; e tutte poste l’una dopo l’altra, lentamente, come se andasse maturandole dentro sé, come per un graduale approccio, come per una graduale presa di coscienza del quadro. Ed intanto, com’era suo uso,
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andava annotandosi con scrupolosa attenzione le risposte in un suo libriccino; a ciascuna di esse dando un valore definitivo; facendosene ripetere talvolta taluna, se gli paresse di non averla ben capita; tanto che il suo interlocutore ad un certo punto non poteva non manifestare una qualche impazienza; anche se non osò mai fargli intendere come molte di tali sue richieste gli paressero del tutto superflue, del tutto inopportune. Ma tale era Gadda; e stranamente gli poteva capitare che poi, in questa od in quante altre occasioni, riuscisse a servirsi di quel vasto ed apparentemente inutile capitale di appunti accumulato, per un articolo in cui nulla, nessun particolare, nessun dato apparivano fuor di luogo, ma tutti rispondevano ad un ordine, ad una ben precisa linea di svolgimento del contesto. Ancor più, ad un certo momento, per chi lo avesse seguito in quella sua preparazione, in quella sua che era parsa una sorta di inchiesta, risultava che di essa nessun elemento, nessuna informazione erano stati riportati, trascritti nell’articolo; ma evidentemente Gadda aveva sentito l'esigenza quasi di costituire a sé un fondo, una base di partenza di conoscenza, e di una conoscenza concreta, fatta di realtà; per poi su tale base costruire la sua illazione, la sua invenzione; diciamo pure la sua interpretazione; che era interpretazione di un’opera; di una vicenda, di un fatto umani; dei cui più profondi motivi aveva voluto impadronirsi, era giunto ad impadronirsi, per quelle vie che potevano anche esserne apparse le più lontane. Ma nella rivendicazione della presenza di quell’orribile fazzolettino nel ritratto che andava facendogli Capocchini, egli rivelava un’altra componente della sua persona; oltre a quella sua esigenza di cogliere e rispettare la totalità della realtà, in tutti i suoi aspetti, in tutti i suoi elementi, vi era allora in lui il compiacimento, quasi il vanto di mostrarsi, di dichiararsi in un senso opposto a quello che in lui aveva maggior peso e consistenza; insomma, in qualche modo, per una via che poteva apparire del tutto occasionale, ad un certo
momento egli poteva manifestare, attraverso un particolare del proprio abbigliamento— il quale era in evidente contrasto con quello che era il suo consueto costume, adeguato ad una norma che sempre aveva accettato ed accettava la rottura di tale norma, una deroga ad essa; quasi una repulsa ed una sfida ad essa. E così, a chi lo conoscesse e sempre considerasse con attenzione ogni suo atto, il suo comportamento in ogni occasione, era facile cogliere spesso in essi gli elementi della presenza in lui della duplicità, di quel contrasto profondo,
intrinseco che lo connotava, insomma di quella dissociazione su cui era imperniata la sua personalità. E così gli poté accadere che, un giorno, sul mezzodì, mentre nella calura del sole a picco dalla spiaggia si rientrava verso la pensione, egli si volgesse verso mia moglie ancora in costume da bagno,- ed era nel pieno fiore della giovi-
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nezza, con le carni sode appena tinte dall’abbronzatura, ed il volto arrossato nella breve fatica del camminare a quell’ora- Gadda, quasi parlando a se stesso, più che a lei od a noi, improvvisamente, come solo allora capacitandosi di quel ch’ella era, rendendosi conto di quale si manifestava, esclamò, quasi per una constatazione la quale era al tempo stesso sorpresa, che ella era davvero «una bella pollastra»; e di questa ardita e per lui sconveniente definizione subito parve pentirsi, per essa dentro di sé avvertendo di avere rotto quel codice di comportamento di un rispetto persino complimentoso che con lei gli era solito; e se ne scusava, e cercava di motivare un’espressione tanto ardita con riferimenti letterari a scrittori che l'avevano usata; e così tentando di
nobilitarla, di toglierle quel che potesse apparire di volgare o grossolano ed al tempo stesso di troppo confidenziale. E pure nella sua recriminazione, nelle scuse che insistentemente ripeteva, si poteva cogliere qualcosa di non veritiero, un tocco di ipocrisia; poiché infine, con quell’affermazione, egli non aveva fatto che esprimere spregiudicatamente quel che davvero sentiva, quel che dentro sé da tempo forse aveva maturato e che d’un tratto, quasi esplosivamente, aveva sentito la necessità di dichiarare. E non che il suo abituale comportamento, quella sua deferente cortesia, ne venissero turbate, ne venissero smentite o condannate; poiché anch’esse erano e restavano parte di lui, erano
ben radicate in lui; e l’uno modo e l’uno costume erano complementari dell’altro; si alternavano all’altro; nell’uno e nell’altro egli si riconosceva; dell’uno e dell’altro viveva. Né l’uno smentiva l’altro ma infine lo completava e lo avvalorava. E di queste sue rotture, di queste sue infrazioni al costume cui al solito si atteneva, ci dava esempio quando gli se ne offriva il verso; quando gli se ne presentava una qualche occasione. Spesso il pomeriggio, mia moglie ed io, ma anche qualcun altro degli amici e ci venne qualche volta anche Montale,con biciclette o con tandem a due presi a nolo, andavamo per la grande arteria a ridosso della spiaggia o per i viali interni ombreggiati dalla folta vegetazione allora immune da malattie, e giungevamo sino ai centri marini più abitati, giù, giù, sino a Marina di Pietrasanta, a Camaiore, a Viareggio; od a quelli più interni, a Pietrasanta, a Seravezza. E talvolta anch'egli ci si accompagnò, con il gusto allegro di una scampagnata, gareggiando con noi in brevi corse in cui esibire una sua vigoria giovanile; ed era tanto preso ad un certo punto da quel gioco di sfide, di scherzi e di motteggi, che si abbandonava completamente a reazioni sino allora faticosamente, costrittivamente contenute. Pedalando di
forza, guardandosi in giro, quasi a sfida, a voce alta, stridula, in falsetto a fingere voci femminili gridava: «Luciano, Fabrizio, Antonella; vieni qui; che cosa ti sei fatto? sii bravo»; ed altri nomi, altri richiami soliti alle madri alle prese con la propria figliolanza scatenata in giochi avventurosi ed anche
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rischiosi. Erano quei richiami che avevano probabilmente turbato ed interrotto il suo sonnellino pomeridiano; o che lo avevano colpito e distratto mentre nella sua stanza alla pensione stava magari scrivendo; od anche soltanto era immerso nelle proprie fantasie, nella considerazione di sé, dei propri eventi. Ed allora era entrato in uno stato di profonda irritazione, maledicendo ai ragazzi, alle donne; alla maleducazione della gente, incurante del diritto altrui alla pace, al silenzio. E di quella rabbia investiva tutta una società, tutto un
costume; quei richiami, quelle grida gli rivelavano e gli confermavano le pecche di quella borghesia e di quella media borghesia nella quale era cresciuto e cui apparteneva; ed essi gli ridestavano dentro chissà quali ricordi, chissà quali risentimenti. Ed ora, pedalando in bicicletta, passando fra la gente che lo guardava sorpresa e come investita da quei richiami, quasi ad essa fossero rivolti, se ne sfogava, se ne liberava; e si esibiva, si raffigurava ancora una volta
in uno spettacolo che finiva col divertirlo; in una rappresentazione di sé nuova, a sorpresa, che infine lo faceva sorridere con noi; quasi compiaciuto del suo scatenato ardire. AI caffè del Forte dove ogni giorno, nel pomeriggio si incontravano gli amici scrittori che in quella zona solevano villeggiare l’estate, poco ci veniva; ed anche quando ci veniva, poco ci si tratteneva. Vi conosceva tutti ma con quasi nessuno era in rapporti di famigliarità, o forse non vi si sentiva a proprio agio, forse addirittura vi si annoiava; evidentemente non aspirava, non deside-
rava inserirsi in un contesto per lui nuovo; in un certo senso le sue scelte erano ormai fatte: vi erano per lui gli amici, coloro che ben conosceva, con i quali poteva manifestarsi in piena libertà, certo di non essere frainteso, di non dare luogo ad equivoci; altrimenti, con quanti avvicinava per la prima volta o con i quali non avesse l'abitudine di una continua frequentazione, si sentiva costretto e non poteva non costringersi ad un comportamento improntato
all’ossequio, alla deferenza, senza saperne, senza poterne derogare; e così preferiva evitarne l'occasione. Poiché là, in quel periodo, egli si riteneva in vacanza, intendeva godersi una sua piena vacanza.
Eravamo ormai in tempo di guerra, e la guerra, con le sue restrizioni, con le sue minacce, con i suoi drammi ed i suoi lutti, gravava sempre più su tutti; ci costringeva ad adeguarci ad un ritmo che si andava facendo sempre più difficile; Gadda l'aveva temuta sin dalle sue prime avvisaglie. Dopo l’esperienza compiuta da giovane, dopo il periodo per lui duro ed umiliante della prigionia, sopratutto a causa della morte del fratello da lui amatissimo, aviatore caduto in combattimento, la guerra gli si presentava come un evento infausto, che in ogni modo dovesse venire evitato. Ricordo un giorno, quando stava per
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avere inizio la conquista coloniale dell’Abissinia, mentre nella sua stanza nello stesso appartamento nel quale anch’io abitavo,— stava sfogliando le pagi-
ne di un libro, di fretta, con un'espressione di malumore nel volto; ed io,
appena entrato per parlargli, per chiedergli qualcosa, lo interrogai, gliene chiesi; con profonda irritazione me ne esibì la copertina, me ne mostrò il titolo: La guerra ritorna. Era un volume di ricordi della prima guerra mondiale di Vieri Nannetti, il quale vi aveva partecipato come volontario; ed il titolo evidentemente alludeva ad un ritorno nella memoria, nella fantasia; ma a lui quella affermazione suonava del tutto inopportuna, come di cattivo augurio;
ed egli faceva gli scongiuri e malediva all’autore ed alla sua sprovvedutezza. Ora, la seconda guerra mondiale, con i suoi drammatici eventi, se non lo aveva visto partecipe diretto, certo lo aveva investito nel modo più inquietante; lo aveva colpito nei suoi sentimenti più profondi, e certo lo dilaniava nelle
sue drammatiche contraddizioni. Ci incontrammo a Firenze un’ultima volta prima della mia lunga assenza dall’Italia, in una trattoria del quartiere di periferia dove egli ormai abitava stabilmente avendovi preso in affitto un piccolo appartamento; alla nostra tavola, invitato da lui, aveva preso posto un giovane, Enzo Faraoni, ch’egli mi presentò come un pittore d’ingegno, che ben prometteva; mentre quello, a tale elogio, si ritraeva, imbarazzato, come se ritenesse di non meritarlo; e fu proprio per questo suo pudore intonato a discrezione, che mi venne fatto di dargli fiducia; poiché avevo intuito la sua condizione di difficoltà, con l’avallo
di Gadda gli commisi un quadro dandogli un anticipo; lo avrei ritirato al mio prossimo ritorno; al più tardi l’anno successivo. Ma la guerra ci divise per un periodo ben più lungo; solo dopo quattro anni, e con un viaggio piuttosto avventuroso, nell’estate del 1946, potei rientrare nel mio paese, tornare a
Firenze e ritrovarvi Gadda giuntovi da non molto dopo un momentaneo rifugio a Roma; e mi parve tacitato e rasserenato ma non insistei nel chiedergli in quali eventi egli fosse stato coinvolto, da quali traversie fosse stato colpito; tanto più che mi resi conto di come egli fosse restio ad affrontare un tale argomento; difatti quasi mai vi alludeva, vi faceva cenno. Ma di lui seppi dagli amici Russo un episodio che mi colpì e che resta estremamente significativo del suo stato e del suo modo di essere durante tutto quel periodo. Durante gli anni più gravi di quel tempo di guerra egli era andato sempre più legandosi di amicizia a Luigi Russo,— il quale lo stimava ed amava come uomo e come scrittore,— e con l’intera sua famiglia; così quando i Russo, nella
primavera del 1944, per sfuggire ad eventuali e possibili rappresaglie dei fascisti fiorentini, decisero di rifugiarsi a Nozzole, presso Greve in Chianti, in una
fattoria messa a loro disposizione da Raffaele Mattioli, Gadda si accompagnò a loro e poté trovare alloggio in una stanza d’affitto apprestatagli dalla pro-
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prietaria di un negozietto di generi alimentari non lontana dall’abitazione provvisoria dei Russo; mentre con loro egli passava l’intera giornata e partecipava ai loro pasti, incapace come sarebbe stato di provvedere a se stesso in quella situazione; e perlopiù il suo pomeriggio era dedicato a delle passeggiate con il professore in quella zona di colline di una amenità, di una dolcezza penetranti e pacificatrici. Ma un giorno, durante uno di questi brevi vagabondaggi sempre arricchiti da conversazioni stimolanti, da discussioni, essi incontrarono un giovane,
vestito in quel modo pittoresco e del tutto casuale solito ai partigiani; e che fosse partigiano lo indicava sopratutto il fatto che era armato. E Russo, subito incuriosito, interessato e addirittura partecipe, desideroso di darsi a conoscere per quel che era, sodalizzando immediatamente con lui; lo fermò e gli si rivolse e gli disse parole di consenso, di fiducia e di augurio; sinché l’altro, diretto ad un suo posto, ad una sua incombenza, salutando se ne andò. Gadda durante il breve scambio si era tenuto in disparte, quasi ostentando la propria dissociazione, quasi mostrando di non voler udire quel che i due dicessero; e
quindi, nel ritorno, mostrò un impaccio inconsueto, come se fosse impedito dal continuare il colloquio iniziato e quindi interrotto, tutto preso dai suoi segreti pensieri, da una nuova preoccupazione che gli si imponesse, che non gli lasciasse altri spazi, altri interessi. Ed in questa condizione di disagio e di assenza passò l’intera serata in casa Russo.
Nella mattinata dell’indomani, poiché ad ora ormai avanzata ancora Gadda non si era fatto vedere, come era sua consuetudine, qualcuno dei Russo si recò
alla casa dov'era alloggiato, ma la proprietaria, la signora Mariannina, disse che di primo mattino egli era partito, definitivamente, portando con sé tutte le sue cose; nella stanza già da lui occupata, sul tavolo, era rimasto solo un libro, il Decamerone nell'edizione curata da Russo, con le sue note; ma la prima
pagina di esso, con la dedica, era stata strappata. Evidentemente Gadda aveva inteso cancellare, annullare qualunque traccia della sua amicizia, della sua sodalità con persona ch’egli giudicava ormai gravemente compromessa per quel suo incontro con il giovane partigiano, per avere, con tale suo comporta-
mento, quasi provocato a sfida la vendetta della parte avversa. Cui egli intendeva in ogni modo sottrarsi, evitare di cadervi; e non tanto in quanto fosse partecipe di altra convinzione, di altra fede; ma solo in quanto in nessun modo voleva correre un rischio, subire una violenza; lontano, estraneo, ripugnante dagli uni come dagli altri contendenti. A Firenze, durante i pochi giorni che mi ci fermai, fui suo ospite in quel-
l’appartamentino in cui ancora era allogato, riconfermando quel legame di amicizia e confidenza dai quali eravamo uniti e sodali; egli sapeva delle mie propensioni, delle mie prese di posizione politica, ma di esse non parlavamo;
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su di esse egli non mi interpellava, evidentemente per evitare ogni argomento che in qualche modo potesse dividerci; per quanto di tanto in tanto, appena gli se ne offrisse l'occasione, affermasse una sua convinzione, o meglio esprimesse un suo sentimento che in qualche modo mi coinvolgessero; come quando, poiché la sua abitazione guardava verso i colli imminenti a Firenze ad oriente, egli ricordò il sacrificio di molti giovani, coraggiosi, sostenuti dall’entusiasmo, all’assalto delle postazioni che là, se pure provvisoriamente, avevano apprestato i tedeschi; a tali azioni spinti e sollecitati dagli alleati americani ed inglesi, bene attenti ad evitare per sé scontri rischiosi e di esito incerto. Ed era con accento commosso che me ne parlava; come se ad un tempo riconoscesse la generosa dedizione di coloro che considerava della mia parte, dando quindi una ragione alla mia scelta; e dall’altro con una punta di rancore, di acredine nei confronti dell’esercito alleato, esemplare nella sua organizzazione e nel suo armamento, il quale preferiva mandare allo sbaraglio quanti vi si prestavano quasi a spregio della propria vita all’affrontare un’azione di logoramento dall’esito in ogni modo non del tutto scontato, certo non conquistabile senza sacrifici anche gravi. E nelle sue parole era ben presente la traccia del nazionalismo sul quale si era conformata la sua educazione sin dalla sua prima giovinezza, del rancore ch’egli portava alle grandi potenze occidentali, ed in specie all'Inghilterra; ch’egli sempre aveva considerato un’altezzosa antagonista del nostro paese. Non so, e non glielo chiesi, quali fossero allora la sua situazione, quale la sua possibilità di sopravvivenza. Durante gli anni precedenti la guerra, attraverso le diverse esperienze di lavoro affrontate e portate a termine, egli aveva potuto mettere da parte, anche a prezzo di un attento controllo del proprio tenore di vita, una certa somma; la quale, come ben ricordo, era stata da lui
affidata nella quasi sua interezza a persona ch’egli considerava uno dei propri più cari e fedeli amici, l'ingegner Semenza,- esperto nel campo finanziario, il quale aveva investito quel suo piccolo capitale sempre nel modo migliore, più sicuro, tanto da dargli quel modesto reddito di cui egli viveva nei periodi di sosta fra l’una e l’altra occupazione. Ora, dopo la morte della madre, dalla vendita della villa in Brianza e di quanto essa conteneva certamente aveva ritratto, unitamente alla sorella, una qualche somma; per quanto quella vendita fosse stata fatta in tempi poco propizi, e per quanto la sua fretta astiosa di liberarsi di tale eredità detestata lo avesse fatto accettare— credo la prima
offerta che gli era capitata; senza discuterla, senza cercare di renderla appropriata al reale valore dell'immobile. In ogni modo, con la grave e progressiva svalutazione della moneta a seguito della guerra, i suoi redditi dovevano essere ben modesti; ed altri non ne aveva, od erano del tutto occasionali e certa-
mente intermittenti. Ma egli non appariva angustiato o preoccupato, od alme-
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no non lo pareva in termini assillanti, com'era nel suo carattere nei periodi più incerti della sua esistenza; e neppure si proponeva o cercava un posto di lavoro, un’attività in cui utilizzare ancora una volta la sua competenza tecnica; in cui riprendere la professione dell’ingegnere. Ormai aveva compiuto una scelta definitiva, quella dell'essere scrittore e di dedicare l’intero suo tempo a tale attività; anche se, in questo campo, le possibilità di guadagno fossero a quel tempo, in quegli anni, ben limitate. A Firenze Bonsanti, Loria e Montale avevano dato vita ad un foglio di cultura, «Il Mondo», che usciva ogni due o tre settimane; di bell’aspetto, ricco di articoli, di cronache, di corrispondenze; di impostazione ideologica decisamente laica, ma aperto ad ogni suggestione, ad ogni proposta; il quale, benché si presentasse di facile lettura, si teneva su di un piano di distinzione, mai accondiscendente alle facili suggestioni, alla banalità, all’improvvisazione. Gadda vi teneva le cronache degli spettacoli; e lo faceva, com’era suo costume in qualsiasi impresa affrontasse, con estrema attenzione, con una scrupolosa
correttezza; mentre al tempo stesso spesso in queste sue cronache uno spunto, un momento gli si offrivano per un improvviso scatto in cui immediatamente i suoi lettori riconoscevano la mano dello scrittore insofferente di limiti troppo consueti, divagante nel modo più intenso ed anche decisamente spassoso. A me spiacque vederlo escluso dal comitato di redazione del foglio; non trovarlo accanto a Bonsanti, Loria e Montale; come mi pareva sarebbe stato doveroso dato il valore della sua personalità di scrittore. Ma su questa decisione forse a quel tempo aveva pesato la sua passata accondiscendenza al fascismo; non ch'egli avesse svolto una qualsiasi attività politica a favore del fascismo, o che avesse ottenuto dal fascismo incarichi, prebende, che ne avesse goduto i favori; in tal senso egli si era limitato ad accondiscendere in alcuni, anche in parecchi, dei suoi articoli su giornali e riviste, alla celebrazione dei miti e delle opere del fascismo, di quanto il fascismo aveva realizzato e di quanto si proponeva di realizzare; e ciò anche in un campo di sua competenza specifica, nella campagna in difesa dell’autarchia economica dell’Italia; con indicazioni ben precise che avevano anche riscosso il riconoscimento e l’approvazione delle personalità eminenti del regime. Ma in questa sua attività, infine anche apologetica, per quanto contenuta in termini di discrezione, egli aveva sempre risposto a quello che era un proprio principio di fondo; a quel
nazionalismo su cui si era formato e di cui si era nutrito sin dai tempi delle manifestazioni interventistiche a favore dell’entrata in guerra dell’Italia nel 1915; ma ancora restava in lui un legame con il fascismo, in quella sua prepotente esigenza di un ordine, di una disciplina, di una norma che reggesse la vita sociale. Certo le vicende dell’ultima guerra avevano brutalmente smentito tale sua illusione; egli aveva dovuto ricredersi completamente di quella sua
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malposta fiducia; e per tale dolorosa ammissione, per questa imprevista e deprecata smentita aveva subito il profondo trauma che ne avrebbe condizionato il comportamento ed anche l’attività, e pure l’attività letteraria, in uno ed in altro modo, anche tra essi contraddittori, per tutto il rimanente della sua esistenza. Lo rividi l’ultima volta a Firenze, probabilmente l’anno successivo, ed ancora fui suo ospite, ma non nel suo appartamento bensì nella villa a San Domenico di Fiesole, dove Mariuccia Carena nel periodo estivo accoglieva persone amiche della più diversa provenienza, delle più diverse propensioni ed abitudini. Era questo un fabbricato di notevoli dimensioni e di aspetto signorile, in cui si era realizzato un ambiente dove predominava l’assoluta autonomia di quanti vi alloggiavano, di quanti vi capitavano; tanto che neppure ai pasti ci si incontrava tutti, o perlomeno mai ci si incontrava rispettosi di un orario preciso; ma ciascuno vi giungeva a suo comodo; quando magari gli
altri, o la maggior parte degli altri ne erano giunti alla fine. Davvero là ciascuno operava ed agiva per proprio conto, vi mancava un qualunque legame di frequentazione, di comuni interessi, di reciproche curiosità che ci unissero, che unissero anche alcuni tra noi; per quanto ben ci conoscessimo; e con Mariuccia Carena c'era Tommaso Landolfi, e c'era spesso Delfini, ed infine
altri ed altri, con i quali talvolta ci soffermavamo a chiacchierare; e magari la conversazione era piacevole ed impegnata; ma non veniva più ripresa. Si trat-
tava insomma di una pensione famigliare, ma gestita nel modo più diverso ed inconsueto a quello solito nelle pensioni; insomma eravamo tutti degli ospiti senza nessun dovere, senza nessun impegno di rispetto, di adeguamento ad un
orario, ad una disciplina di comportamento; ed è ben caratteristico il fatto che Gadda in un simile ambiente non solo si trovasse a proprio agio ma addirittura che per un certo verso ne fosse affascinato; come se quel disordine gli convenisse, come se quella che era la piena, assoluta libertà che improntava il comportamento di tutti e quindi anche il suo gli fosse del tutto gradita. E con me si compiaceva di sottolineare momenti ed aspetti che davano a quell’ambiente, ai modi ed alle abitudini dei suoi frequentatori, di coloro che lo gestivano, una nota di irregolarità, di assoluta spregiudicatezza, nella piena agevolezza dei rapporti che si erano stabiliti o che si andavano stabilendo tra gli uni e gli altri. E talvolta, passando per il corridoio sul quale davano le stanze da letto, talune con la porta aperta, mi sottolineava con un sorriso malizioso i letti ancora sfatti, con le lenzuola tutte all’aria come sconvolte, ed era ormai
tarda mattina, e per lui era questo il segno evidente di amorose colluttazioni protratte oltre i termini più consueti.
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Sopravvenne un periodo durante il quale la mia situazione era divenuta per me difficile ed incerta; dopo dodici anni di attività all’estero fui richiamato e costretto a rientrare in Italia dove cominciai ad insegnare e ad operare in altro ambiente e con altri compiti e responsabilità e con una retribuzione piuttosto modesta; per qualche tempo ebbi limitate possibilità di rivedere gli amici, anche qualcuno di coloro che più mi erano cari; e così Gadda. Appena mi fu dato di recarmici lo ritrovai a Roma; dove ormai si era trasferito, e dove anche aveva ottenuto un incarico regolare alla Radiotelevisione nazionale. Da allora, di necessità, i nostri incontri perlopiù si limitarono a quelle occasioni non troppo frequenti che mi portavano in quella città; e talvolta passavano anche due o tre anni prima che lo rivedessi; per quanto sempre conservassimo vivo perlomeno un rapporto epistolare; ed anche ci accadde una volta di concordare un soggiorno al Forte dei Marmi durante l’estate, nella nostalgia di rinnovare una vecchia esperienza. E durante tutto questo lungo periodo di circa un ventennio i nostri incontri a Roma si regolavano su di una sorta di cerimoniale obbediente sempre alle stesse norme. Posso dire che, subito dopo il mio arrivo, la mia prima od almeno una delle prime telefonate indirizzate agli amici vecchi e nuovi che avevo in città, era per lui. Mi rispondeva la portiera dell'immobile in cui egli viveva in un appartamentino di modeste dimensioni, com’egli me lo descrisse, ma che mai visitai; era una donna di origine straniera, mi sembra russa, la
quale godeva della sua completa fiducia; stava a lei decidere se dare una risposta positiva o negativa a colui che chiedeva di lui, di essere ricevuto da lui, od almeno di potergli parlare direttamente al telefono; dopo le prime volte, o forse anche dopo la prima volta, ella già sapeva che io ero ammesso come uno degli amici privilegiati di Gadda, e mi metteva in contatto con lui senza indugi e senza chiedermi inutili delucidazioni; anzi i suoi modi, il suo discorso al telefono erano improntati ad un’amichevolezza comprensiva; come se ella si investisse di quello che era il rapporto che a Gadda mi legava; riconoscendomi ormai come uno dei suoi fedeli, uno di coloro per i quali egli era sempre disponibile. Gadda veniva subito al telefono e mi salutava con calore, si informava di me, del mio stato di salute, di quello di mia moglie e delle mie figliole; poi passava a chiedermi quanto mi sarei trattenuto a Roma e mi esprimeva il suo desiderio di rivedermi, di incontrarmi; ma l’appartamento in cui viveva era troppo piccolo, troppo modesto perché egli potesse invitarmi a raggiungerlo là, tanto più che era sito alla periferia della città; ma quindi, subito, cominciava a parlarmi della sua condizione fisica e psichica, dei guai, degli inconvenienti di cui soffriva; e si trattava sempre di un momento per lui difficile, nel quale non godeva di una piena disponibilità, nel quale dagli acciacchi era
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anche impedito nella sua mobilità, o perlomeno essa gli era resa difficile. E poi era preso da diversi impegni ai quali non riusciva a far fronte, e se ne preoccupava, e ne era angustiato e quindi anche lo stato dei suoi nervi ne era turbato, egli non godeva di quella serenità, di quella tranquillità che avrebbero propiziato l’incontro con un vecchio amico com'io ero; ch'io in ogni modo
mi sarei meritato; e se ne sentiva dispiaciuto ed amareggiato; ma certo ci si sarebbe visti, ci si sarebbe incontrati; gli lasciassi soltanto un po’ di tempo; magari anche soltanto un giorno; poi egli mi avrebbe cercato, mi avrebbe telefonato all’albergo per fissarmi un appuntamento, perché si potesse stare un po’ insieme in tutto agio. Io gli dicevo che non doveva preoccuparsi, che in nessun modo intendevo incomodarlo, costituire per lui una preoccupazione; avrei potuto io telefonargli dopo un paio di giorni; ma infine dovevo accondiscendere alla sua richiesta; dettandogli lentamente il numero telefonico dell’albergo in cui avevo preso stanza; e se lo era fatto ripetere due o tre volte, per non sbagliare nel trascriverlo e così si era segnato anche le ore in cui più facilmente mi ci avrebbe potuto trovare; e ciò senza recarmi in qualche modo disturbo o disagio; senza costringermi ad aspettare una sua chiamata se appe-
na fossi preso da altro impegno, da un qualche contrattempo. Tale suo comportamento non mi sorprendeva; gli era stato sempre solito questo contrasto fra la sua disponibilità verso gli amici e l’ansia che lo prendeva per qualunque chiamata, per qualunque invito, per qualunque appuntamento gli si proponessero. E, per quanto ben lo conoscessi, la prima volta presi alla lettera quel suo rinvio; poi, completamente entrato in quel suo
modo di essere, in tale sua contraddizione che sempre puntualmente si ripeteva, mi ci sottomettevo senza più esserne sorpreso; accettavo quel che ormai riconoscevo come un suo gioco con se stesso, a lui necessario. Difatti, pochi
minuti dopo quella prima mia telefonata, venivo chiamato da lui; ed egli subito si scusava, si profondeva in scuse per avermi disturbato ancora una volta, mentre forse io stavo per uscire, e forse dovevo rispondere ad un appuntamento; e pure si scusava per quanto prima mi aveva detto, per non avermi subito fissato il giorno e l’ora del nostro incontro; ma dovevo rendermi conto del suo stato, delle sue profonde deficienze, anche dei suoi mali; ma certo desiderava vedermi, e vedermi quanto prima; e così concludeva invitandomi a desinare quello stesso giorno, od al più tardi l’indomani, in una delle trattorie che conoscevamo entrambi, od in altra a lui famigliare, di cui mi dava tutte le
indicazioni a che mi fosse facile trovarla; e dovevo segnarmene con esattezza, alla sua dettatura, il nome e l’indirizzo ed il mezzo pubblico che là mi avrebbe più facilmente condotto, e l’ora dell’appuntamento; e, se non bastasse, mi
ripeteva tali indicazioni, e mi chiedeva di leggerle ad alta voce in modo ch'egli
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potesse controllarne l’esattezza. Col che infine ci salutavamo; ci saremmo rivisti tra poco.
Ci incontravamo alla trattoria ed io vi giungevo sempre puntuale, ma spesso
lo trovavo magari sulla soglia, ad attendermi, in anticipo sull’ora fissata; e
forse già preoccupato nel non vedermi. Poi, dopo le prime effusioni, dopo le ripetute domande su di me, sulla mia attività, su mia moglie e sui miei famigliari; e dopo che ancora mi aveva fatto l’elenco dei suoi guai, dei mali da cui la sua salute era insidiata; cominciavamo la nostra conversazione, riprendevamo un discorso che sempre era continuato tra noi e nel quale potevamo anche infervorarci, ritrovare quella vecchia passione che ci aveva sempre sostenuto. E la conversazione poteva ancora avere momenti di intensità, di vivacità, ed ancora egli poteva passare dall’irritazione, dall’indignazione, allo scherzo, al motteggio; ridacchiando dell’uno o dell’altro; mettendo in evidenza vizi e manchevolezze di comuni conoscenti; anche di amici; se pure questi erano visti con una qualche comprensione, certo senza acredine; e spesso il suo discorrere era spassoso, nutrito di cose, di fatti, di osservazioni acute, di una rara chiaroveggenza; segno dell’attenzione con cui egli guardava, considerava gli altri; in ogni loro moto, in ogni loro atteggiamento. Però, se in lui tali momenti segnavano uno stato di abbandono, se erano improntati ad una qual-
che festosità, se in essi egli pareva dimenticare, scacciare da sé quel cumulo di dubbi, di preoccupazioni, di timori che su di lui gravavano al solito; mai ad essi egli sapeva e poteva intonare l’intero periodo di quel nostro incontro, quel paio d’ore che passavamo insieme. Con essi egli tornava ad essere quel che era stato anni innanzi, tornava ad essere quello che avevo ben conosciuto; ma poi, ad un momento, pareva calare su di lui il peso di altri pensieri, di altre immagini, di altre preoccupazioni; ed io sentivo che gli anni gli pesavano, ch’egli andava mutando, che lentamente in lui andava prevalendo quella parte di lui che lo portava allo scoramento, quella parte che lo allontanava da quello che in ogni modo era stato per lui il gusto del vivere; o forse anche, più che del vedersi vivere, del veder vivere gli altri; e di ritrovarsi negli altri per accreditare anche in sé una possibilità, un legame carnale, pieno con la vita. E così,
con gli anni, egli andava quasi necessariamente sempre più difendendo la propria solitudine; o meglio difendendo se stesso da ogni richiamo, da ogni suggestione della vita che potessero venirgli dagli altri; come preso dal timore di accondiscendere a degli inganni, a delle illusioni di cui avrebbe pagato necessariamente, inevitabilmente, lo scotto, il fallimento. E con la solitudine
difendeva quella parte della sua vita passata, tutto quell'insieme di ricordi che gravavano su di lui in un senso negativo; con il senso di avere sprecato, di aver
devastato la propria esistenza; di essere passato di guaio in guaio, di sofferenza in sofferenza; senza mai essere approdato ad uno stato di serenità, di tran-
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quillità, di pacificazione con se stesso; senza mai essersi sentito padrone di sé, di un proprio equilibrio esente da minacce ed insidie. Nei miei confronti egli conservava il comportamento di sempre; c'erano tra noi sempre presenti un rapporto reciproco, come un’abitudine contratta che in nessun modo puoi mutare e che non è soggetta a variazioni; e c’era anche, sempre mantenuto, quel rapporto che io, nei suoi confronti, avevo avuto sin da quando avevo letto il suo primo libro; la mia amicizia sin da allora si era improntata all’ammirazione; alla piena coscienza di avere di fronte a me un uomo dalla personalità eccezionale, in ogni senso; e di tale intensa sensibilità, di tale limpida intelligenza per cui quelli che in lui non potevo non considerare cedimenti e compromessi dovevano essere comunque accettati e giustificati; poiché quell'uomo davvero non poteva dare, non era in grado di dare più di quanto desse. Ma di fronte a lui, sin da giovane, ed anche più tardi, quando ormai mi sentivo padrone di me stesso, per quanto lo fosse possibile, diciamo meglio, responsabile appieno di me stesso,- io mai mi ero atteggiato ad ammiratore
senza riserve, pronto ad accettare con piena soddisfazione quanto egli facesse. E molte delle sue pagine, dei suoi scritti anche se in essi vi era sempre il segno non solo di una grande perizia, ma anche di una sofferta umanità,— sentivo come fiacche, occasionali, forzate, nella vana ricerca di una motivazio-
ne che ne alzasse il tono, che le sostenesse interamente con una ragione profonda. Mi pareva allora che Gadda troppe volte tendesse a fuggire da se stesso, che non avesse il coraggio di andare a fondo di se stesso; e che talvolta addirittura giocasse con se stesso. E così mi venne fatto di considerare i libri che venne pubblicando dopo i primi due, Le meraviglie d’Italia e Gli anni come raccolte di scritti di vario valore e di varia importanza ma che non segnavano un sicuro progredire per un cammino che gli fosse aperto; infine mi pareva ch’egli non rispondesse all’attesa che io, e tanti con me, nutrivamo nei suoi confronti, in lui come scrittore. E così anche mi venne fatto di scrivere dei saggi panoramici sulla nostra
letteratura contemporanea, e particolarmente sulla nostra narrativa, nei quali, se in ogni modo lo ponevo come uno dei nostri scrittori di maggiore spicco e di maggiori qualità, gli imputavo anche, come un grave limite, il fatto di non essere mai riuscito a portare a termine uno dei romanzi ai quali aveva dedicato magari anni interi di preparazione e di lavoro. E difatti ciò gli era accaduto con Novella seconda, con La meccanica, con L’Adalgisa, con La cognizione del dolore ed infine anche con Quer pasticciaccio brutto de via Merulana; almeno sinché questo si arrestò entro i limiti delle puntate pubblicate in « Letteratu-
ra». E di questa mia riserva Gadda si adontò, come se per essa si fosse sentito toccare in un punto per lui dolente; come se per essa io mettessi in evidenza
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quello che anche per lui era un limite; ed un limite che non riusciva a superare, per quanto ci si impegnasse. E, benché sempre mantenessimo un rapporto di corrispondenza, non me ne scrisse, ma ne scrisse in un breve intervento su
di una rivista, in cui motivava puntualmente quella che io avevo indicato quasi come una sua intrinseca incapacità; affermando invece, per ciascuno di quei volumi, la causa esterna che gli aveva impedito di portarlo a termine; ed erano una vicenda famigliare, od un contrattempo, un subito impegno che lo avevano distolto dallo scrivere, od una indisposizione, un male che lo avevano colpito; e così egli finiva col considerare e con l'esemplare tutta la propria esistenza come quella di un uomo continuamente violentato, continuamente
condizionato e costretto dalla malasorte a rinunciare a portare a compimento quanto s'era proposto, non solo, ma quanto aveva ben chiaro in mente, ben previsto nella memoria. Insomma la sua esistenza non doveva essere vista, ed egli stesso non la vedeva, sotto questa angolazione, secondo questo ritmo assolutamente inevitabili, ma la sua stessa natura, il suo stesso essere uomo, la
sua stessa presenza umana dovevano essere considerati e valutati sotto questo segno di una ripetuta causalità ostile, di una violenza che di volta in volta egli subiva; al di là ed al di sopra di ogni suo progetto, di ogni sua previsione, di ogni suo proposito ed aspirazione.
Io non so quanto quei miei interventi poterono significare per lui, quanto peso esso possa aver avuto sulle sue decisioni e sulla sua attività; per quanto
quella sua risposta fosse improntata ad un piglio di rivendicazione; si intonasse sì ad un accento di amarezza, ma fosse lontana da ogni modo di rassegnazione; come di chi si sente ancora vivo e forte di tanta vigoria da smentire una previsione che sa di non meritare; né certo io posso arrogarmi un merito che
in nessun modo mi illudo di avere avuto; resta però il fatto che proprio in quel tempo egli aveva ripreso a lavorare a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, e con tanta decisa passione da portarlo a termine; tanto che fu pubblicato un paio di anni dopo quel breve contrasto fra noi. E si trattava di un romanzo
compiuto in tutto il suo svolgimento; con una soluzione finale che dava un significato unitario a tutta la vicenda; ed un significato preciso, dichiarato, al di là di ogni tergiversazione od incertezza. E tale lo vidi alla prima lettura, poi ch’egli me lo ebbe inviato; e glielo scrissi, in termini del tutto espliciti; in un certo senso provocatori. Si trattava per me di una vicenda imperniata su di un delitto passionale: Liliana, la protagonista, di cui il commissario Ingravallo era segretamente innamorato e ch’egli considerava donna di alta moralità, in un’immagine quasi di castità nel suo pudico ritegno, nella sua malinconica ritrosia, di fatto era una lesbica allettatrice e corruttrice di ragazze adolescenti; cui si imponeva e che anche ricattava; e la morte violenta che la colpiva era motivata dalla vendetta passionale di una delle sue amanti, da lei ripudiata ed
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allontanata; si trattava insomma di un delitto a fondo sessuale, che brutalmen-
te rivelava la vera natura, il vero comportamento della donna, che addirittura ne smentiva il nome, non certo casuale, di Liliana; e che colpiva nel profondo del proprio sentimento il commissario innamorato; il quale sino all’ultimo inconsciamente aveva fatto quanto poteva, quanto stava a lui per allontanare da sé una simile verità, che l’acutezza della sua intelligenza gli aveva continuamente proposto con i più vari elementi probanti. Gadda mi rispose subito con una di quelle sue lettere ben caratteristiche; intonata ad una sorta di bonaria accondiscendenza; dandomi atto della mia interpretazione, ed anche accettandola; ma al tempo stesso sorridendo di
quella mia foga demistificatrice, di quella mia volontà di una lettura tanto esplicita. Non che non si dovesse capire, non che non si dovesse dire quella che davvero era la ragione di fondo del romanzo; quella mia interpretazione quella risoluzione di esso da me presentata egli le ammetteva, in un certo senso era costretto ad ammetterle; ed infine, senza che lo dicesse, me ne era grato; in quanto capiva di essere stato inteso da me nella sua più piena intenzione, nella sua più piena esemplazione di sé, ch’egli aveva dato di sé; per quanto non fosse necessario proclamarle in termini tanto crudi come avevo fatto con lui, e come egli ben sapeva era del mio costume. Ed è interessante il fatto che, dopo la pubblicazione del libro, quand’esso era appena uscito, egli ripetutamente ed insistentemente dichiarasse ch’esso non era compiuto, ch’egli ancora lavorava, che ne mancava la conclusione. E ciò con un gusto sottile anche di ironia; quasi continuando la polemica con me, quasi dandomi ragione, a convincere tutti ch'egli mai poteva concludere una narrazione, dare un segno finale ai propri libri. E ciò faceva anche con una sorta di pudore, ma anche con un residuo di timore; quasi preoccupato di poter essere in qualche modo messo in stato di accusa, per una conclusione non solo tanto efferata, ma anche offensiva della più consueta pubblica moralità. Ma forse per lui, al di là di tale timore e di tale cautela, vi era altra ragione che lo spingeva a dichiarare non concluso il romanzo; e forse questa ragione era rivolta sì ai suoi lettori, ma anche a se stesso. Poiché forse, dentro di sé, egli ancora cercava, ancora tendeva a cercare una via, una risoluzione, della
realtà, della propria concezione della realtà e della vita che non fossero tanto negative, tanto distruttive. Poiché infine questo romanzo non era soltanto la storia di un delitto, ma in esso era testimoniata la storia del nostro paese, nella
sua più drammatica e tragica conclusione, con tutte le illusioni che lo avevano sostenuto, o meglio che avevano sostenuto Gadda, e sia pure nelle vesti del commissario Ingravallo; ed infine con la tragica rivelazione della realtà,
appunto della profonda corruttela che comprendeva, che penetrava l’intero paese. E pure esso ricuperava, in ben diversi termini, la vicenda famigliare di
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Gadda; il suo rancore per la madre, spostato su Liliana, aveva modo di scaricarsi in un atto di violenza ed al tempo stesso di motivare in lui, di dare una ragione a quel rancore per le donne ch'egli su di loro trasferiva, lasciandone apparentemente indenne la madre; mentre, al tempo stesso, egli rivelava la falsità, l'ipocrisia, la finzione e l’inconsistenza di tutte quelle norme, di tutto quel codice di comportamento di cui la madre era stata la portatrice, e di cui Liliana era parsa la portatrice nel senso più alto, più esemplare. Mai però, dopo questo libro, in cui si conclude la sua vicenda di scrittore, Gadda pub-
blicò altre pagine che a quella desolata concezione della realtà e della vita, anche della sua vita, si contrapponessero. Continuavo ad incontrarmi di tanto in tanto con lui a Roma; lo vedevo invecchiare, lentamente chiudersi in sé, quasi celarsi nella sua solitudine; tentai una volta di legarlo a qualcuno la cui compagnia gli potesse essere gradita, con il quale egli potesse sentirsi a suo completo agio. Un pomeriggio con Niccolò e Dinda Gallo, lo accompagnai ad Ostia, dove egli volle visitare i ruderi delle antiche vestigia romane; poi ci recammo a chiacchierare al caffè; e furono ore in cui egli ritrovò un gusto della confidenza, di raccontare di sé, di chiedere e di interessarsi di fatti ed eventi del mondo letterario romano. Rien-
trammo nel tardo pomeriggio; ma poi, accompagnatolo a casa, mentre scendeva dalla macchina, egli si accorse di aver perduto i guanti di recente acquisto che aveva con sé; forse li aveva dimenticati al caffè; ed ora in ogni modo sarebbe stato inutile tornarci per ritrovarli. Ne rimase amareggiato; l’episodio gli guastava il piacere di quella gita. Erano un paio di guanti di pelle, evidentemente costosi ma di un colore rosso arancione orribile. Non c'era modo di rimediare a quel contrattempo, di confortarlo di quella distrazione di cui
andava accusandosi; ci lasciammo impacciati ed anche noi dispiaciuti; come se quella disavventura ricadesse anche su di noi, ne fossimo in parte colpevoli. Con Niccolò più non si rivide. Altra volta a Roma ci andai accompagnato dalla mia seconda figlia Adriana; ch’egli volle vedere ed invitare a desinare con me; e con lei, studentessa di conservatorio, si compiacque di chiacchierare e di discutere di musica, dei propri gusti, di quelle che evidentemente erano per lui delle scelte appassionate. E poiché nel pomeriggio Adriana intendeva assistere ad un concerto sinfonico, egli le manifestò il desiderio di accompagnarla; insistendo nello scusarsi con lei se le imponeva la sua compagnia, non volendo in nessun modo
abusare del suo tempo, forzare le sue abitudini; ma in esso si eseguiva la
Pastorale di Beethoven a lui prediletta che desiderava ascoltare ancora una volta. Io in quel pomeriggio avevo altro impegno e li rividi solo a concerto finito; del quale egli si dimostrò del tutto soddisfatto, come se per esso avesse ritrovato, almeno per un po’, una sua pacificazione. Poi mia figlia mi disse
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come, durante l’intervallo, egli le avesse chiesto, ripetutamente, con ansiosa preoccupazione, se si fosse accorta ch’egli avesse tenuto sino allora il cappello in capo senza rendersene conto. Il che a lei assolutamente non pareva; ma ai suoi dinieghi egli insisteva; gli restava quel dubbio, quasi esso lo turbava al punto da compromettere l’esito di quello che per lui sarebbe dovuto essere un pomeriggio di serena distensione. Pareva davvero che, di fronte a qualunque momento, a qualunque periodo o condizione gli si presentassero sotto il segno dello svago, dell’abbandono ad un ritmo pacato delle cose, delle ore, egli fosse condannato a trovare un motivo, un elemento, un momento che li
sconvolgessero, che perlomeno li incrinassero. Poiché con il nostro rientro in Italia avevamo ripreso l’abitudine di recarci, ed ora con le nostre figlie, durante un mese dell’estate, al mare, dapprima a Bocca di Magra e quindi al Forte dei Marmi; un anno mi venne fatto di insistere con Gadda perché si accompagnasse a noi; almeno per un paio di settimane; gli avrei trovato io una stanza d’affitto che rispondesse ai suoi gusti, alle sue esigenze di tranquillità, di silenzio; e mi parve di aver risposto a tali sue richieste. Di fatto egli venne, ma, dopo aver preso atto con scrupolosa attenzione ed essersi dimostrato soddisfatto della mia scelta, passato qualche giorno cominciò a lamentarsi che, sul cammino tra la casa in cui abitava e la nostra, un cane, pur rinchiuso nel cortile recintato di una villa, quand’egli vi passava davanti, lo minacciava accogliendolo con un lungo abbaiare che durava anche dopo ch'egli si era allontanato. Ed anche qui, in tale caso, si confermava il suo stato, per il quale mai egli potesse sentirsi a proprio agio, compiutamente tacitato in ogni propria esigenza, rasserenato in ogni proprio timore,
in qualunque luogo si recasse; ed in specie là dove tutto pareva essere disposto ad accoglierlo secondandolo nelle sue attese e nei suoi desideri. Una sua profonda insoddisfazione si trasferiva così in questi particolari, trovava appigli del tutto occasionali ma che apparivano reali, concreti; come una minaccia sempre incombente. Ci incontravamo spesso, si stava insieme chiacchierando, anche con mia moglie, talvolta con le ragazzine; ricordavamo i tempi passati al mare con gli altri amici; neppure ora egli amava frequentare il caffè del Forte, rivedere persone che pur conosceva e dalle quali era stimato, che avrebbero desiderato
godere della sua presenza. Talvolta veniva a desinare od a cena da noi, e sempre dimostrava di apprezzare i cibi che mia moglie gli approntava, specie certi minestroni di verdura di cui, sempre insistendo nelle proprie scuse e deplorazioni per la propria avidità, reiterava la richiesta, motivandola sempre con elogi per una fattura che considerava eccezionale. Infine i suoi modi, il suo comportamento erano quelli di sempre; ma come diventati ormai troppo
consueti, come scontati, come se egli li ripetesse per abitudine; senza più quel
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gioco sottile di malizia, di sottintesi, di piccola ipocrisia di cui nei tempi passa-
ti si divertiva, su cui insisteva, come in una rappresentazione di sé. Né più
erano frequenti quelle sue narrazioni, quei suoi riferimenti ad episodi di cui insieme eravamo stati partecipi, di cui altre volte ci eravamo dilettati, uniti a lui a volta a volta nella sua malizia, nella sua indignazione, e sia pure mascherate, in quel suo gusto del considerare la gente ed i casi della gente nella loro dimensione grottesca, nella loro paradossale contraddittorietà. Se ne ripartì il giorno fissato, senza proporsi, come gli sarebbe accaduto per il passato, di trattenersi ancora qualche giorno; e neppure ripromettendosi di ritornare, come noi avremmo fatto, l’anno seguente; ogni iniziativa, e fosse la più scontata, la più abituale, gli pesava, e gli pesava anche soltanto proporsela; e neppure la prospettava per farci piacere, per testimoniarci come quell’esperienza gli era stata gradita, ne era rimasto soddisfatto. Si limitava semmai a dichiarare a mia moglie la sua nostalgia per quei minestroni di cui più non avrebbe potuto godere. All’Università, sin dai primi corsi che vi avevo tenuto, ripetutamente ed insistentemente avevo parlato di Gadda, presentandolo come uno degli scrittori più nuovi e vivi della nostra letteratura del Novecento. Su di lui avevo dato delle tesi di laurea a quegli studenti che reputavo più sensibili e capaci di coglierne la ricca e tormentata personalità. Infine mi decisi a dedicare un’annata intera all'esame scrupoloso della sua opera; quando ormai essa mi appariva compiuta in tutti i suoi possibili esiti; anche se egli ancora scriveva, anche se ancora pubblicava qualche suo libro ricuperandolo da quella notevole massa di manoscritti che ancora aveva da parte. E fu allora, a seguito e contemporaneamente allo svolgimento di tali mie lezioni, che mi posi a comporre quel volume su di lui cui da tempo mi proponevo di dedicarmi. A tale scopo mi era necessaria qualche indicazione biografica che solo lui avrebbe potuto darmi, specie sulla sua infanzia, sulla sua adolescenza e sulla prima giovinezza; perciò gli scrissi una lunga lettera con delle richieste specifiche ben elencate; ma invano attesi una risposta; né credetti opportuno insistere; evidentemente con quelle mie domande io lo avevo costretto a ritornare su di un passato per lui in parte doloroso e dal quale in ogni modo tentava di distaccarsi, che voleva dimenticare. O forse soltanto egli non aveva più la disponibilità, il desiderio di scrivere; ed infine anche poco desiderava che di lui si parlasse, si scrivesse.
Quel mio libro restò così monco, incompleto per questa sua parte. Ad esso lavorai a lungo, per alcuni anni; nel frattempo andavano uscendo alcuni di quei suoi libri, od alcune parti di quei suoi libri del primo periodo della sua attività e, ad ogni nuova loro pubblicazione, io dovevo riprendere e
completare il mio discorso; infine la pubblicazione della Meditazione milanese, avvenuta poco dopo la sua scomparsa, mi si propose come un nuovo
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apporto cui mi sarei dovuto rifare come ad un punto di riferimento necessario per ogni ulteriore affermazione; e mi scoraggiai; chiesi a me stesso una pausa; rimandai ripetutamente la ripresa di quella ricerca. Ancor oggi quello che è un grosso dattiloscritto è rimasto interrotto, incompleto; e non so se avrò più la forza, la capacità necessaria di applicazione per rivederlo e portarlo a termine. E ben caratteristico e significativo che quell’accusa da me tante volte rivoltagli di non riuscire a concludere, a compiere i suoi libri— di cui egli si era dispiaciuto, ora, almeno nei suoi confronti, ricada su di me. Può essere questo il segno di una qualche affinità fra me e lui? O può addirittura essere il segno di una condizione che nasce dalla temperie in cui viviamo, in cui entrambi siamo vissuti? L’ultima volta che lo vidi, che lo incontrai fu a Roma in una delle occasioni
che mi portavano in quella città. Come al solito egli mi aveva invitato a desinare in una trattoria del centro; ed a noi si era accompagnato, non ricordo più per quale motivo occasionale, Giannantonio Cibotto, cui da tempo sono legato d’amicizia e che anche lui ben conosceva; ma neppure la vivacità di conversazione di Giannantonio poté stimolarlo, diede vivacità a quel nostro incontro. Egli pareva sempre più rinchiudersi in una sua rassegnata accettazione del proprio stato, nella rinuncia di qualunque proposito, di qualunque attesa; infine persino di qualunque interesse per la vita. Uscimmo dalla trattoria, ci salutammo, ci abbracciammo; io mi auguravo un prossimo incontro, non troppo lontano, ma egli non si associava a questo mio desiderio; conservando, rispondendo ad una vecchia abitudine, fedele ancora ad un suo stile, mi chie-
deva di salutargli mia moglie, le mie figliole. Poi si allontanava pian piano, un po’ curvo, più che non lo fosse mai stato, con la giacca, con gli abiti che gli cascavano addosso; come se negli ultimi tempi fosse dimagrito; il passo era lento, come se egli calcolasse ogni proprio movimento; e non si voltò a salutarci. Cibotto,- mentre lo guardavamo proseguire il suo cammino ed io ero preso da un doloroso sgomento, da un sottile strazio come se sentissi che quello era stato il mio definitivo addio, con quel suo gusto delle immagini di effetto, lo definì un vecchio elefante che va a raggiungere il luogo della propria morte; ed essa da allora mi è rimasta dentro a segnare quel nostro ultimo saluto. 1987
is
La presenza ininterrotta di Alessandro Bonsanti
L’improvvisa scomparsa di Sandro mi colpì con un senso doloroso di vuoto, come non mi era avvenuto per quelle degli altri pur cari amici dei tempi di «Solaria»: Vittorini, Gadda, Montale. Forse perché per questi la morte era stata quasi annunciata dalla malattia o da una decadenza del fisico ormai incapace di resisterle. Ma quello sgomento mi prese anche per altra ragione, e cioè quella che, con Bonsanti, perdevo l’ultimo testimone dei miei inizi letterari, del mio apprendistato di scrittore. Poiché ormai da anni Giansiro Ferrata era chiuso in una sua dolorosa incapacità di comunicare, con nessuno ormai avrei potuto ricordare quei tempi lontani, accertarmi di un dato che la mia memoria offuscata mi lasciava impreciso; insomma era una parte di me, ed
una parte per me di un significato determinante, che con lui se ne era andata. Avevo incontrato per la prima volta Sandro nella tipografia dei fratelli Parenti dove si stampava «Solaria»; era l'autunno del 1930 ed ero giunto a Firenze da pochi giorni per continuare là i miei studi universitari, e la copertina del numero della rivista dedicato a Svevo, esposto nella vetrina di una libreria, mi aveva attirato dandomi la garanzia di una consonanza, di una predilezione condivisa. A modo di presentazione, a motivare il mio desiderio di conoscerne i redattori, i collaboratori, recavo con me, e glielo consegnai, il
dattiloscritto di un romanzo che da poco avevo terminato di scrivere. Egli mi aveva ricevuto in piedi, forse mentre si accingeva ad uscire, ed avevamo scam-
biato poche parole; mi aveva dato un appuntamento per quando avesse letto quel mio esperimento giovanile; poi, quando ci si rivide, accennò ad una parte di esso che non gli era dispiaciuta e mi invitò a recarmi alle «Giubbe Rosse», dove tutti i giorni si riunivano i «solariani»: con lui, Loria, Franchi, Nannetti, Montale, Vittorini, Timpanaro; talvolta anche Carocci.
Bonsanti apparteneva ad una famiglia della piccola borghesia; non ricordo quale attività praticasse od avesse praticato suo padre; ma certo, con le due sorelle più giovani di lui, egli era cresciuto in un ambiente non privo di una qualche agiatezza; sopratutto per l’attenta gestione della madre, di cui egli ammirava il pacato ed assennato equilibrio, ed alla quale nei momenti più difficili della propria esistenza egli faceva capo ben sapendo di poter contare su di lei. Dopo essersi diplomato ragioniere egli era stato assunto da una
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banca di Milano nella quale aveva lavorato per un paio di anni; ma nelle ore lasciategli libere da tale impegno egli aveva cominciato a scrivere dei racconti, il primo dei quali, per la mediazione di Giovanni Titta Rosa che lo aveva apprezzato, era stato pubblicato da «La Fiera letteraria», l’unico settimanale di un buon livello culturale di quel tempo. Nel frattempo, forse per il disagio di un’esistenza cui non era riuscito a dare una propria impronta, e forse anche in quanto preso da quella duplice attività, da una duplice tensione, un periodo di crisi e di depressione lo aveva costretto a dimettersi dall'impiego ed a rientrare in famiglia; e qui, in un’atmosfera a lui del tutto consentanea, era riuscito a portare a termine il suo primo volume di racconti, La serva arzorosa,
che aveva pubblicato per le edizioni di «Solaria» e che era stato accolto con favore dalla critica più attenta; tanto ch’egli venne considerato, insieme a Loria ed alla Manzini, uno dei giovani scrittori più promettenti, uno di quelli che davano maggiori garanzie del rinnovamento della nostra narrativa ed in particolar modo di quella toscana; fuori dagli schemi ormai consunti del bozzettismo, ed anche al di là dei termini ristretti dell’elzeviro rondesco. Intanto, dopo la partenza di Ferrata, il quale di «Solaria» era stato il condirettore insieme a Carocci, da questi era stato chiamato a sostituirlo; cosicché e la sia pure limitata notorietà che si era ormai conquistata e questa nuova funzione lo avevano reso partecipe di diritto del mondo letterario come un possibile, venturo protagonista. Non che da tali successi egli traesse un guadagno di una qualche regolarità, o che essi gliene dessero garanzia di un prossimo, ma, per essi, in ogni modo egli sentiva di operare in un ambiente che era il suo, che rispondeva completamente alle sue propensioni, che lo confermava nelle sue aspirazioni. Evidentemente con la piena solidarietà dei famigliari egli ormai perseguiva una sua meta, se pure ancora incerta, se pure ancora lontana. Dopo l’esperienza precedente di Ferrata, il quale, in stretta collaborazione con Vittorini, aveva dato alla rivista una caratteristica impronta di coraggiosa spregiudicatezza, per quanto fosse possibile a quei tempi, concedendo spazio sopratutto alle più recenti sperimentazioni straniere, ed in particolar modo a
quelle francesi; non rifuggendo da un piglio talvolta polemico, come chi si propone di far luce, di immettersi decisamente in un ambiente culturale ancora in parte chiuso ai più nuovi fermenti; la condirezione di Bonsanti sin dai suoi inizi si qualificò in un modo diverso; non che questi intendesse contrapporsi alle tendenze cui si era improntata la precedente di Ferrata; ma egli tese ad eliminare, od almeno ad attenuare, tutti quegli elementi che gli parevano accondiscendere a modi caratteristici di una qualche improvvisazione, se non di avventatezza; poiché in nessun modo egli voleva concedere a predilezioni improvvise, ad entusiasmi troppo facili, a suggestioni che secondo lui ben
presto si sarebbero rivelate labili.
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Obbedendo a tale costume, in diverse occasioni egli impedì che la rivista entrasse in polemiche in cui altri tentavano di trascinarla. «Solaria» in quel tempo era spesso oggetto di critiche ed anche di attacchi, e non solo da parte di fogli giovanili che la mettevano in stato di accusa per la sua evidente apoliticità, ma anche da parte di chi si contrapponeva ai valori letterari di cui essa si faceva portatrice; ed in tali appunti acrimoniosi vi era anche spesso una componente di invidia per la posizione di rilievo, di prestigio che sempre più essa andava assumendo nel mondo letterario di quegli anni. Bonsanti in tali frangenti era convinto che qualunque risposta a tali attacchi avrebbe favorito l'avversario, gli avrebbe attribuito un’importanza ch’esso non aveva; ed al tempo stesso avrebbe assunto il carattere della giustificazione. Il meglio si era restare fedeli a se stessi, confermare quello che era il posto sino allora occupato nel dibattito letterario. Ma di questa sua cautela, di questo suo rifiuto ad accondiscendere alle polemiche vi era anche un’altra ragione. Anche Bonsanti, come tutti i « solariani», ammirava Montale, ammirava l’opera di Montale, sentiva quale importanza determinante, nella linea che la rivista perseguiva, nelle scelte ch’essa faceva, avessero la personalità di Montale, la sua presenza nella rivista; ma egli si opponeva a che in qualche modo «Solaria » divenisse lo strumento di Montale, diciamo pure degli interessi di Montale. Se Montale aveva le sue antipatie, le sue ostilità, i suoi rancori, essa non doveva farsene la portatrice; insom-
ma in nessun modo essa doveva prestarsi ad un gioco di personalismi, in favore di nessuno. Tanto più che a lui pareva ben chiaro come Montale non avesse davvero bisogno di difensori, anche se generosi nella loro partigianeria, in quanto egli si difendeva da sé, con la propria poesia, con il peso della propria dimensione culturale. Ora è ben caratteristico il fatto che quella cautela, quella sua attenzione ad evitare ogni provocazione, ogni inutile contrasto, a non offrire occasione di rivalse agli avversari che la rivista aveva, non siano valsi a Bonsanti, durante
tutto il periodo della sua direzione, ad evitargli richiami, accuse ed anche provvedimenti ostili da parte di coloro che detenevano il potere, e specificamente da parte della censura gestita dai fascisti. Ma qui bisogna anche ricordare che il periodo durante il quale Bonsanti diresse «Solaria» vedeva la sempre più decisa presa del potere da parte del regime dittatoriale e l’organizzazione sempre più attenta degli strumenti con cui gestirlo. Da ciò i ripetuti interventi della censura sulla rivista sino al sequestro di un suo numero. E ciò ci testimonia come, pur nella sua attenta prudenza, egli non fosse disposto ad intervenire con modificazioni o con tagli su testi che, da un punto di vista letterario, giudicasse degni di essere pubblicati; insomma la sua prudenza era
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indirizzata in un certo senso, mai però egli era disposto ad abdicare a quello ch’egli considerava il primario diritto dello scrittore, dell’uomo. Ma ancora, e ad intero suo merito, è necessario dire come, durante il pur
breve periodo della sua condirezione, sopratutto a lui si deve l'affermazione in campo nazionale di taluni scrittori; ed in particolar modo di Carlo Emilio Gadda e di Vittorini; ai quali fu vicino ed insistente nel sollecitare la loro collaborazione, talvolta persino strappando loro di mano le pagine appena scritte per passarle in tipografia. Forse ora non disporremmo di un racconto come Sar Giorgio in casa Brocchi di Gadda o del primo romanzo di Vittorini, I{ garofano rosso, senza la sua affettuosa ma esigente pressione. Fu durante questi anni che la nostra frequentazione andò mutandosi gradualmente in amicizia. Dapprincipio, nei primi mesi dopo quel nostro incon-
tro, contenuta in un rapporto distaccato, come era nel costume dei «solariani», specie di fronte a me che mi presentavo come del tutto sprovvisto di garanzie letterarie e culturali. Con lui, come con gli altri, ci davamo del lei ed io mi recavo al caffè 7dove mi spettava il compito di ascoltare e di apprendere, solo a giorni alterni, poiché non volevo dare a lui ed agli altri l’impressione di voler prevaricare, di volere in qualche modo imporre di forza la mia continua presenza. A lui probabilmente quella nuova funzione, quella nuova attività avevano dato una qualche sicurezza di sé e forse avevano contribuito a confermare o addirittura ad accentuare quel costume di riservatezza di fronte a quanti venivano considerati degli estranei, così caratteristico dei toscani ed in particolar modo dei fiorentini; del quale io un po’ soffrivo, sentendomi escluso da un mondo che consideravo come il mio, del quale aspiravo a far parte. Fu solo dopo qualche mese che questo limite, questa esclusione cessarono; e, su mia richiesta, con Sandro dal lei passammo al tu. Infine, gradualmente, dopo che da lui e da Vittorini, venni promosso a tale sodalità anche dagli altri. Così ben presto tale mia frequentazione di Sandro divenne amicizia e tra noi si stabilì un rapporto che mi differenziò anche dai suoi amici scrittori che conosceva da tempo; e fu proprio quella sua riservatezza a legarmi vieppiù a lui; da un lato in quanto l’averla almeno in parte superata mi inorgogliva, dall’altro in quanto proprio per essa io lo sentivo vicino ad un costume, ad un comportamento che erano anche i miei, che avevo derivato dall’educazione famigliare; e lo stesso dovette accadere anche a lui; ma sopratutto egli dovette essere attirato da quella mia foga di confrontarmi con lui, da quella mia esigenza di dichiararmi, di testimoniare, di fargli conoscere le mie scelte, le mie predilezioni, e non solo nel campo letterario e culturale; ed anche le mie
vicende, le mie abitudini nell'ambiente in cui ero cresciuto e da cui provenivo. Egli mi ascoltava e, se non mi ricambiava sullo stesso piano, entrava però pian
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piano in quel clima di compartecipazione ch’io andavo creando; pur restando sempre schivo dal parlare di sé e sopratutto del suo mondo sentimentale, cui solo se costretto alludeva in termini generici. AI di fuori degli incontri al caffè, talvolta mi recavo, su suo invito, a casa
sua; e da tale ammissione mi sentivo privilegiato poiché ben sapevo che a ben pochi essa era estesa; chiacchieravamo un po’, quindi uscivamo per una passeggiata in città, o lo accompagnavo sino alla tipografia o dove dovesse assolvere a qualche impegno; ben presto poi prendemmo l’abitudine di passare insieme il pomeriggio della domenica, od una parte di esso, e, il dopocena, di assistere alla proiezione di un film di qualche interesse, di qualche richiamo, uniti dalla stessa propensione. Durante l’estate fu ospite mio e dei miei genitori a Feltre, e ci tornò negli anni successivi, solo o, una volta, con Gadda; ed insieme fummo anche nella
casa di montagna dove la mia famiglia soleva recarsi da sempre nel periodo estivo. A Feltre gli feci conoscere i miei amici, la ragazza che sarebbe divenuta mia moglie, lo immisi nel girò dei miei coetanei, in quello che era stato ed ancora in parte era il mio ambiente; ed egli vi accondiscese con una qualche curiosità, divertito ma al tempo stesso sempre attenendosi a quel suo costume di riservatezza; come se infine ne restasse uno spettatore anche divertito ma in nessun modo potesse integrarsi in esso; poi, di quel mio paese e di quelle frequentazioni, dette anche testimonianza con scritti di colore pubblicati su «La Stampa», di cui allora era collaboratore. Ormai si era venuto stabilendo tra noi un legame fondato su di una reciproca comprensione, su di una fiducia che andava al di là delle differenze, anche delle contrapposizioni che ci potevano dividere su scelte e su prese di posizione che riguardassero la letteratura o qualunque altro degli argomenti che ci appassionavano. Evidentemente io andavo differenziandomi profondamente da lui per una mia volontà di impegno deciso, di una schiettezza intransigente sino alla compromissione; dai quali egli era lontano, ma non tanto che talvolta non ne fosse attirato, non fosse propenso ad ammetterli; come se io finissi con
l’esprimere qualcosa ch’egli pure sentiva in sé, che non poteva né condannare né escludere preventivamente e recisamente da sé; anche se restava estraneo al suo costume consueto, al suo abituale modo di comportarsi. Insomma io non rappresentavo per lui quello ch’egli non poteva essere e che avrebbe voluto essere, ma una condizione, un modo di comportarsi e di agire che non gli erano connaturali, dai quali era lontano non solo per abitudine ma anche per convinzione, per quella che considerava come una loro eccessività; dai quali però non poteva dissentire completamente, che non poteva condannare, almeno in taluni casi, in talune contingenze, sopratutto in quanto li sentiva in me sostenuti da un calore umano, da un'esigenza di chia-
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rezza, di sincerità, dal rifiuto di troppo facili accondiscendenze; infine egli non respingeva il sentimento da cui erano determinati quei moti, non se ne dichiarava estraneo; ma ne respingeva il carattere che li improntava, il loro modo di espressione. E di come egli infine mi accettasse per quel che ero, per il modo in cui tendevo a manifestarmi, è segno ben sicuro il fatto che proprio da lui partì l’iniziativa per quanto su mia sollecitazione,— di farmi collaborare a «Solaria» con interventi critici, con recensioni e brevi saggi, nei quali prendevo in considerazione volumi di scrittori contemporanei, specie narratori, e perlopiù in un accento improntato a severa ripulsa; e, poiché le pagine di «Solaria» non avevano per me spazio sufficiente, fu lui a presentarmi, quasi facendosi garante di me, delle mie capacità, a Federico Gentile il quale allora dirigeva la rivista bibliografica «Leonardo »; cui collaborai continuativamente per alcuni anni. Così avvenne ch’egli favorì la pubblicazione dei miei primi libretti Interpretazione di Machiavelli, Lo spettatore appassionato, Il costume letterario, Saggio su d’Annunzio,- i primi due per le Edizioni di Solaria, gli altri due per quelle dei fratelli Parenti, ch’egli infine dirigeva. E si trattava di testi nati dalla necessità di uno sfogo, di mettere in stato di accusa una letteratura, un modo di concepire la letteratura e di fare letteratura, ed al tempo stesso un costume, una società; ed essi recavano in sé un richiamo ed una sfida, talvolta addirittura provocatori; tanto da mancare non solo di ogni senso di opportunità, di equilibrio, ma anche di quella pacatezza che rivela un pieno possesso dell’argomento, una certezza raggiunta attraverso il confronto e la convalida della realtà. Come se io mi arrovellassi su di una situazione e su problemi ai quali non riuscivo in nessun modo a far fronte. Insomma erano questi degli scritti che nascevano sì da un empito generoso ma improntati ad ingenuità, od ancor
peggio a sprovvedutezza ed a velleitarismo; cosicché poteva accadere come accadde, che le rivendicazioni da me avanzate, le proposte suggerite erano sostenute da un accento tanto perentorio da mettere in imbarazzo anche coloro ai quali mi rivolgevo, anche coloro sui quali contavo per il loro consenso,
per la loro solidarietà. Può anche apparire strano che Bonsanti si sia fatto garante della pubblicazione di quei miei libretti, senza neppur tentare di propormene la revisione, di discuterne con me l’impostazione; ed un suo consiglio, un suo deciso con-
fronto con me a tale proposito sarebbero stati più che opportuni; ma egli non volle intervenire su di me; mi volle lasciare completamente libero nella mia decisione, nella mia assunzione di responsabilità. Addirittura, di quello che aveva suscitato le più gravi riserve ed anche l’irritazione di taluno degli amici scrittori a me più cari, Lo spettatore appassionato,- prese le difese pubblicando in una rivista romana,- «Caratteri»
diretta da Mario Pannunzio,
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scritto in cui, sotto forma di apologo, solidarizzava con me mettendo al tempo stesso in evidenza il disinteresse opportunistico e la cattiva coscienza di quanti, anche miei amici, chiamati in causa da me, si erano ritratti al mio invito come se non li riguardasse; mentre infine delle mie prese di posizione erano, dentro sé, ben partecipi, ed altre volte, ed in altre occasioni, se ne erano
dimostrati corresponsabili. Non fu quello il solo scritto che, prendendo in considerazione quel mio libretto, ne accettasse le affermazioni, le rivendicazioni primarie, ma fu certo quello che meglio mise in evidenza l’ambiente da cui esso era nato ed era stato motivato, e le sue carenze, i suoi vizi di fondo; e
di tale sua adesione io gli fui profondamente grato, tanto più che mi veniva da persona che ben sapevo restia alla polemica; difatti più volte avevo visto Bonsanti rifuggirne come da un modo, da un atteggiamento a lui non confacenti, addirittura sgraditi. Anche questo suo intervento valse a farmi capire come per lui io fossi giunto a costituire un punto di riferimento, persino alternativo a quello che gli era proprio, a quello cui soleva conformarsi, ma che pertanto a lui poteva parere necessario; o del quale perlomeno egli prendeva atto, ch’egli non poteva condannare e neppure respingere. E nelle più diverse occasioni egli mi dimostrò come tale sua disponibilità nei miei riguardi,- poiché questa che era la sua convinta accondiscendenza di fronte al mio operare, al mio esprimermi in un certo modo, non era certo occasionale e neppure obbediva ad un sentimento di doverosa amicizia, ma era sostenuta da una ragione più fonda, rispondeva infine ad una scelta ben calcolata, ad una esigenza di cui si improntava il suo carattere. Ma qui devo pur dire che, anche per questa sua evidente sodalità con me, per questa sua paziente capacità di comprensione, egli ebbe ad influire su di me più che se con me avesse assunto altro atteggiamento, di riserva o di critica; difatti, sentendomi da lui accettato per quello che ero, anche in quelle che non potevo non considerare come mie cadute, come mie deficienze, anche come degli inutili eccessi, io ero certo di poter riporre in lui una piena fiducia, e quindi ero spinto a considerare i suoi modi ed il suo comportamento, che tanto parevano dissimili dai miei, come un esempio necessario; e così della sua lezione mi giovai, ad essa anche mi confrontai; per questo non respingendo, non cancellando in me quel che ero, quel che sino allora mi era stato connaturale, ma imparando a controllarmi, a sottoporre i miei impulsi, —
quei miei slanci anche generosi ma spesso sprovveduti, le mie insofferenze motivate talvolta da una conoscenza superficiale dei fatti, della realtà cui mi opponevo, ad un ripensamento, ad una considerazione attenta degli altri e di me stesso; sino a giungere a comprendere la realtà, le vicende degli uomini in un modo più completo ed approfondito; insomma a penetrare nella realtà, nel
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moto contraddittorio della realtà, sino a giungere ad una comprensione dell’a-
gire umano più compiuta e più ricca che non avessi potuto sino allora. Insom-
ma, in quel mio apprendistato letterario ed umano che andavo perseguendo, Bonsanti costituì per me un punto di riferimento sicuro con quell’invito alla pacatezza, con quel rifiuto all’improvvisazione, alla superficialità del giudizio, all'abbandono al velleitarismo che erano impliciti in tutto il suo comportamento. Ed ancora debbo dire che questo suo tacito insegnamento ebbe un suo peso anche nella mia formazione letteraria, sul mio modo di scrivere, sul mio modo di narrare ed anche di condurre la critica; poiché sempre più mi sentii necessitato, e nell’un caso come nell’altro,
a rendermi conto appieno,
per quanto lo potessi, della condizione, del tempo e dell'ambiente in cui vivevano ed operavano gli scrittori la cui opera prendevo in esame o le persone la cui vicenda umana ero portato a testimoniare.
Ed in tale senso devo pur dire che, evidentemente, a tale modo di tolleranza, o meglio di necessaria comprensione, ero infine portato dentro di me, anche se non sempre, se non immediatamente, nei miei atti e nei miei inter-
venti, lo dessi a vedere; poiché infine anche i miei scatti di indignazione, i miei interventi intonati all’accusa sempre erano nati ed ancora nascevano da un
moto, da una reazione ad un atto o ad uno stato di ingiustizia, di prevaricazione, ad ogni comportamento che rispondesse ad un’eccessiva convinzione di sé, ad una presunzione immotivata. Per questo incontro, per questo rapporto di reciproca comprensione che
mi legavano ormai a Bonsanti andava nascendo tra noi anche un modo di collaborazione. E così avvenne che, dopo la fine di «Solaria», a lungo si discutesse insieme il progetto di un nuovo foglio, di una nuova rivista; di cui io sentivo l’esigenza per poter portare avanti quello che ritenevo un discorso da me appena iniziato ed a me ancora non del tutto chiaro; ma per dare la via ad un simile progetto, al quale Bonsanti avrebbe dato il suo pieno appoggio, avrei dovuto improntare la mia esistenza ad un ordine e ad un ritmo che purtroppo erano lontani da ogni mia possibilità; così cadde quasi di un subito un progetto alla cui pratica realizzazione neppure io avevo potuto credere
appieno; ed intanto, forse sulla scorta di quel mio intento velleitario, egli maturò il proposito di dar vita a quella rivista, «Letteratura», della quale a lungo discutemmo il programma, la linea cui si sarebbe dovuta conformare e le rubriche che più l'avrebbero caratterizzata. Questa rivista, la quale evidentemente si contrapponeva a «La Riforma letteraria», costituì per almeno sei anni uno dei pochi luoghi, se non l’unico,— in un periodo di sempre più severo controllo censorio,— in cui si potesse esprimere, e sia pure in modo implicito, la propria non appartenenza al «regime»; raccogliendo al tempo stesso con estrema apertura la collaborazione sia di alcuni dei vecchi «solariani», sia di
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chi, come Bilenchi, sino allora aveva fatto capo a fogli antagonisti di «Solaria», come «Il Selvaggio » e «L’Universale», sia dei più giovani collaboratori
di «Il Frontespizio », da Bo, a Macrì, a Luzi, i quali avevano lasciato la rivista
nella quale avevano debuttato. Sicché essa riunì nelle sue pagine il meglio di quanto la nostra letteratura esprimesse allora, e tra gli scrittori più anziani e tra quelli più giovani. Ad essa io collaborai sin dal suo primo numero ed in essa rimasi presente anche durante i primi anni del mio soggiorno all’estero; per quanto Bonsanti non pubblicasse taluni degli interventi critici che gli avevo inviato motivando la sua riserva con un principio di opportunità, data l'atmosfera che andava creandosi e pesando sempre più nel nostro paese e della cui crudele gravità nella mia assenza io mal mi rendevo conto; ciò per talun caso, mentre per altri mi pareva ch’egli troppo inclinasse ad un’abitudine di cautela e di equilibrio fra posizioni contrastanti, cui male mi sottomettevo. Nell’ultimo anno del mio soggiorno a Firenze egli si era sposato; e tutta la vicenda che lo aveva portato a tale nuova condizione aveva accentuato e reso più intimo il legame che già esisteva tra noi per esserne io divenuto partecipe inopinatamente e senza che me lo proponessi, e quindi per essere stato immesso nel segreto della sua confidenza più di quanto mi fosse mai accaduto; tanto da divenire tramite quasi necessario di appelli accorati fra colei cui
egli era stato legato sino allora e che ora stava abbandonando, e lui, impacciato e riluttante di fronte alle sue richieste, di fronte anche alle sue invocazioni.
Ma anche in quel periodo, per lui ben travagliato, in cui pareva che ogni sua capacità di moderazione, di attenuazione di ogni vicenda, di ogni atto e fatto
umani non reggesse di fronte all’urgenza ed alla violenza dei sentimenti che li determinavano; egli si preoccupava di mantenere un pieno controllo di sé, la compostezza che gli era solita. Evidentemente in quella contingenza egli era infine costretto a scelte che avrebbero condizionato il suo avvenire, che avrebbero profondamente modificato la sua esistenza, e dentro sé doveva avvertire la prepotenza di una realtà cui in nessun modo poteva sottrarsi, e ne soffriva: come se d’un tratto la vita, le contingenze della vita lo avessero portato ad un punto in cui una decisione radicale gli si imponeva; cui non poteva contrapporre quella sua consueta capacità di rinvio, quell’invito ad una pacata riflessione cui sempre faceva ricorso quando gli si proponevano problemi di diffici-
le soluzione. Però anche in tale arrovellata temperie egli obbediva a quella
riservatezza che sempre aveva improntato i nostri rapporti, comportandosi con me come se io fossi a piena conoscenza di quel che gli capitava, di quel che dentro lo sconvolgeva; mai però concedendo ad abbandonate confidenze; come se tra noi le parole, le effusioni fossero del tutto inutili; ma anche come
se egli ben si rendesse conto che nessun mio intervento poteva contribuire a
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risolvere i suoi problemi di fondo; mentre io sentivo come egli mi fosse grato ch’io rispondessi a tale suo riserbo senza tentare di forzarlo, senza porgli inutili domande, rispettando il suo intimo travaglio; deciso a fargli sentire la mia piena solidarietà, la mia completa disponibilità, per quel poco che di esse egli potesse giovarsi; per rendere meno grave il contrasto in cui si dibatteva; per giungere almeno ad evitargli un ultimo incontro con la donna già da lui amata, il quale non si sarebbe potuto risolvere che in amare ed inutili deprecazioni, in un’esplosione di sentimenti esasperati cui non si offriva conforto che non fosse illusorio, cui ogni promessa sarebbe risultata forzata se non equivoca.
Fu più tardi, dopo il suo matrimonio, che conobbi sua moglie, Marcella; la quale probabilmente era stata informata da lui di quel compito difficile e faticoso di mediazione cui mi ero sobbarcato e cui non avevo potuto sottrarmi; mai però ella vi accennò, neppure di sfuggita; come d’altra parte neppure lui più fece; mentre al tempo stesso da tutto il comportamento di lei nei miei confronti, dal modo confidente con cui mi si rivolse sin dal nostro primo incontro, io sentii di essere stato immesso naturalmente da lei in un rapporto di spontanea amichevolezza; come chi è entrato a far parte della nostra vita a buon diritto e viene accettato di buon grado. Così fu del tutto naturale che entrambi, l’estate successiva al loro matrimonio, venissero a Feltre, ospiti nella mia casa; ed a mia volta io fui loro ospite quando, successivamente, mi dovetti recare a Firenze per gli ultimi miei esami all’Università. Infine dopo che mi fui trasferito all’estero, in Romania e nel Belgio, dove risiedetti durante dodici anni— rientrando in Italia per le vacanze estive, mai mancavo di fare una puntata a Firenze, e questa città per me significava anzitutto e sopratutto
Bonsanti; specie dopo che Vittorini e Montale si erano stabiliti a Milano. Nel frattempo Sandro aveva definito e sistemato la propria esistenza in un modo che gli era confacente e che tale rimase per tutto il corso della sua esistenza. Dopo che Montale era stato estromesso dalla direzione del Gabinetto Vieusseux, ne aveva preso il posto fatto che l’amico gli aveva rimproverato conservando con lui un atteggiamento di freddezza per qualche tempo,- ed insieme, per i suoi meriti letterari e culturali, aveva ottenuto l’insegnamento della letteratura italiana nel conservatorio di Bologna; così, sollevato da ogni preoccupazione di ordine economico, era andato sempre più acquistando una piena sicurezza di sé nel proprio comportamento e nel proprio
agire; dopo la prima figlia gli era nato un maschio; abitava in un appartamento dall’aspetto signorile; Marcella gestiva con saggezza e decoro l’amministrazione famigliare ed egli, quasi esentato da ogni altra preoccupazione, poteva
dedicarsi completamente alla direzione del Vieusseux, all'insegnamento ed
allo scrivere; in questo seguìto con amorosa attenzione da lei.
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Ma il periodo in cui vidi tutto il suo comportamento, ogni suo atto e parola improntati ad una disinvolta sicurezza, persino ad uno slancio di fervore, fu quello dell’immediato dopoguerra, quando, nell’estate del 1946, potei infine recarmi a Firenze. Egli allora, oltre a «Letteratura» che aveva ripreso le pubblicazioni, dirigeva un quindicinale, «Il Mondo», insieme a Loria ed a Montale; ma di fatto era lui a dargli un’impronta, che era quella da lui sempre perseguita, di un livello letterario lontano da ogni improvvisazione, da ogni concessione al gusto più facile, ed al tempo stesso di un’apertura ad ogni tendenza, ad ogni voce, in un confronto aperto, lontano da ogni risentimento,
da ogni polemica pretestuosa, in un confronto pacato e comprensivo fra le diverse posizioni. Un tale foglio, in quella temperie, costituiva un fatto nuovo, un modo nuovo di presenza letteraria e culturale, e costituì anche l’ultimo tentativo di rivendicare a Firenze il primato della cultura, di riaffermare la continuità di una presenza attiva e determinante che risaliva ai tempi di «Il Leonardo» e di «La Voce». Lo incontravo al Gabinetto Vieusseux ed anche spesso a casa sua, nell’abitazione ch’ebbe dapprima a Fiesole e poi a San Domenico, e talvolta ero accompagnato da Carlo Emilio Gadda finché questi risiedette a Firenze, o da mia moglie. E vidi di volta in volta crescere i suoi figli, e, col passare degli anni, colsi un giorno l’immagine improvvisa delle tre nipotine, figlie della figlia, nella loro vivacità sconvolgente che lasciava i nonni esterrefatti ed impotenti. Ed in qualunque occasione, in qualunque luogo e contingenza,
l’incontro con lui aveva sempre il carattere di una conferma; come se tra noi non vi fosse la necessità di riallacciare un discorso su quelle che erano le nostre scelte di vita, in qualunque campo, anche al di fuori di quello della letteratura. Certo diversi erano stati ed erano le nostre esperienze, il nostro modo di affrontare la realtà; però ormai la nostra reciproca conoscenza era
tale che a me accadeva, come penso accadesse a lui, di conoscere ancor prima di chiederglielo, quale fosse il suo giudizio, quale fosse il suo atteggiamento su uno od altro evento, su uno od altro momento di quanti travagliavano il nostro paese od anche il nostro mondo culturale e letterario. Poiché io ben sapevo, com’egli stesso ben sapeva, che entrambi restavamo fedeli ad un nostro principio, ad un nostro stile; che entrambi ponevamo come prima condizione per stabilire un rapporto di reciproca fiducia fra gli uomini la comprensione ed il rispetto di quello che l’altro faccia, della personalità altrui,
in ogni sua dimensione; purché ligio ad una conseguenza, ad una norma di coerenza, di profonda moralità; al di fuori da ogni interesse meschino, anche da ogni possibile vantaggio personale. Con la mia chiamata all’Università di Pisa da parte di Luigi Russo e quindi con il mio trasferimento in questa città insieme alla mia famiglia, ci trovammo
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riavvicinati e quindi con la possibilità di una frequentazione quale da vent’an-
ni non ci era stata possibile. E per me più che mai recarmi a Firenze significa-
va incontrarmi con Bonsanti; però quegli ultimi anni non erano passati senza
lasciare una traccia, certo anche in me, ma sopratutto in lui. In nessun modo egli era mutato nel suo comportamento, nel suo rapporto con me; ed anche la sua attività lo faceva sempre impegnato e presente nelle più diverse direzioni; però ora in un certo senso egli aveva visto gradualmente ridursi la propria capacità e possibilità di incidenza sulla letteratura, sulla cultura del nostro paese; gli se ne erano ridotti i limiti. Difatti «Il Mondo » aveva avuto breve vita, dal 1945 al 1947; e pure « Lette-
ratura» aveva avuto un'esistenza travagliata; mutando titolo in quello di « Letteratura ed arte», ritornando al primo; cambiando ripetutamente condirettore; e così pure cambiando editore e sede della redazione; sinché anch'essa dopo tale lunga e faticosa vicenda cessò le pubblicazioni. E poiché nessun’altra rivista ne aveva preso il posto a Firenze, anche tale fine davvero confermava la decadenza culturale della città nel contesto della nazione; ed al tempo stesso confermava come, insieme alle condizioni della vita, insieme al costume andassero mutando un certo costume letterario, un certo modo di fare letteratura; quel modo e quel costume cui Bonsanti sempre si era attenuto, cui mai aveva rinunciato, mai aveva voluto rinunciare. Se «Letteratura », se «Il Mon-
do» avevano inteso sempre conservare una loro dignità ed al tempo stesso affermare, rivendicare il loro diritto all’espressione più libera, alla presenza delle tendenze, delle posizioni più diverse; mai qualificandosi come portavoce di un movimento, di una corrente, di una parte; forse proprio questo rifiuto di una scelta, questo loro pur nobile eclettismo; ed al tempo stesso questo rifarsi a dei valori che sopratutto erano del passato, aveva segnato la loro decadenza. Poiché infine da essi non era partita una proposta di tale fermezza, di tale coraggio che li distinguesse per una loro forza di iniziativa. Ma anche in un’altra dimensione Bonsanti aveva visto chiudersi una sua possibilità di presenza e di incidenza letterarie e culturali; per alcun tempo
egli aveva diretto una collana di narrativa per le edizioni Sansoni; ed in essa era riuscito a pubblicare tra l’altro, quel Giornale di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda che resta una delle sue testimonianze autobiografiche più penetranti ed anche sconvolgenti e ch’egli aveva affidato all'amico dopo lunghe resistenze solo per le sue insistenti richieste; ma anche questa collana aveva dovuto ben presto concludere il suo corso. Così, pur definitivamente privato di quelli che gli si offrivano come gli strumenti più adatti per la sua attività di operatore culturale, dopo la fine di «Letteratura» Bonsanti non dimise da quella che in ogni modo considerava la propria funzione e, sia pure in una dimensione che risultava più limitata, si
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dedicò completamente alla direzione del Gabinetto Vieusseux facendone in breve tempo il centro della cultura fiorentina ma non limitandolo ad un ambito cittadino e provinciale. Con conferenze, con dibattiti, con presentazioni di volumi, e con mostre d’arte, con tavole rotonde e con convegni nei più diversi campi e sui più diversi problemi, con una presenza quasi settimanale, egli agì come stimolo e sollecitazione nei confronti di un ambiente il quale pareva investito dal torpore ma che finì col rispondere perlomeno a quegli inviti che proponevano argomenti di maggiore interesse; infine, a partire dal 1966, riprendendo l’antico titolo di «Antologia», egli dotò la biblioteca circolante di un bollettino bibliografico trimestrale che sempre più andò acquistando le dimensioni e la varietà di interventi di una rivista portatrice e documentatrice di tutte le attività, di tutte le manifestazioni del Vieusseux. E più che mai, e
proprio per quella che pareva la riduzione della sua attività ad un ambito circoscritto, egli obbediva ad un senso profondo del proprio compito, del proprio dovere; nel campo e con i mezzi che gli si offrivano; così da disporre di essi nel modo migliore, almeno per quanto stesse in lui. Talvolta, da Pisa, mi recavo a Firenze per una od altra occasione; e fossero un
convegno od una tavola rotonda cui anch'io ero stato chiamato a partecipare; e ci incontravamo al Vieusseux come per una consuetudine ormai scontata; ed una volta, quasi casualmente, poiché glielo chiesi, egli si dimostrò ben lieto di far presentare in quella sede un mio volume di saggi critici appena uscito. Ma, in tale contingenza, non si accontentò di dare le disposizioni necessarie a che tutto si svolgesse nel migliore dei modi, ma si preoccupò che tale compito venisse affidato a persona che ne potesse parlare con sicura competenza ed altempo stesso con partecipe comprensione. Alla sua proposta rimasi dapprima titubante; mi pareva che Ferruccio Ulivi fosse ben lontano dal mio modo di considerare la letteratu-
ra, dalmio modo di fare la critica; ma Sandro mi rassicurò: non mi sarei pentito di quella sua scelta; e davvero non potei non compiacermene, per il garbo, per la finezza, per la penetrazione nelle ragioni profonde del mio scrivere che il mio presentatore,.pur non aderendo completamente ad esse, dimostrò; quasi stimolato ancor più da questa nostra diversità a cercare ed a mettere in evidenza quelli che erano il comune sentimento, la comune passione per la letteratura, per l’umanoesistere da cui partiva e su cui si reggeva la nostra ricerca. Ed anche intale occasione Bonsanti testimoniò la sua sensibilità, la sua capacità di mediazione, di mettere a confronto due persone che tra loro parevano ben lontane e che si ritenevano ben lontane e di portarle a trovare una consonanza, a farle risultare
ben più vicine che non credessero, a portarle su di un piano di convinta solidarietà.
Ma questi incontri intermittenti mai troppo frequenti e sempre legati ad un'occasione indipendente dalla nostra volontà, nel breve tempo di cui pote-
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vamo disporre quando ci si offrivano; entrambi presi da uno od altro impe-
gno, da una od altra incombenza,- ci lasciavano insoddisfatti; troppo brevi e
frammentari erano quegli scambi di notizie, di impressioni, anche di ricordi cui si riduceva la nostra conversazione, nel suo studio del Vieusseux; fra una chiamata e l’altra del telefono, fra l’andare ed il venire della segretaria, dell’u-
no o dell’altro degli addetti al Gabinetto, con il sopraggiungere di altri interlocutori, anche di altri amici; e tutti con qualche richiesta, e taluni con lo stesso desiderio che là mi tratteneva, di chiacchierare un po’ tra noi, di ricuperare la vecchia atmosfera di piena confidenza della quale sempre eravamo stati partecipi. E così ci accadeva, al momento del congedo, di riconfermarci ancora una volta l’impegno, la promessa di passare infine una giornata insieme, nella sua casa a San Domenico o, più tardi, nel nuovo appartamento in Costa San Giorgio dove si era trasferito, tutti riuniti, noi e loro, con i nostri ed i loro figli; ma sempre rinviavamo tale appuntamento ad altro tempo, più opportuno, quando meno fossimo assillati da impegni, dalla nostra attività. E pareva quasi che fossero proprio quella possibilità, quella vicinanza di Pisa a Firenze, a farci sicuri che prima o poi quel proposito si sarebbe realizzato; che non c’era nessun motivo per farci fretta; il momento opportuno sarebbe venuto. Così gli anni se ne andavano; non che non fossimo informati e che non ci informassimo di noi, del nostro lavoro, delle nostre attività, ma ci mancava un rapporto più stretto, più continuo, più approfondito; quale tanto a lungo avevamo mantenuto nei vecchi tempi. Pareva non ci rendessimo conto che la vita si era impadronita di noi; e dell’uno e dell’altro; evidentemente entrambi eravamo entrati in giri diversi che ci lasciavano pochi spazi liberi, che ci facevano costretti ad un ritmo preciso; e, con l’età, veniva anche a mancarci quella
disponibilità che ci contrassegna da giovani; il far fronte agli impegni presi, alle funzioni che ci competevano esauriva il nostro tempo, si prendeva ogni nostra energia. Una volta mi trovavo a Firenze con mia moglie per un convegno od un
dibattito che con altri mi aveva impegnato per un paio di giorni; durante i quali però lo avevo incontrato solo per un breve saluto; né egli aveva trovato il tempo per seguirlo od anche solo per ascoltare la mia relazione che pure in parte lo riguardava. Nel pomeriggio del giorno in cui esso si concludeva, mentre ci attardavamo tra i convenuti in discussioni e saluti, egli ci raggiunse con Marcella, e con un modo impacciato che non gli era solito, quasi celando una sua insoddisfazione, un suo disagio, si giustificò di quell’assenza che gli era dispiaciuta, che non gli era stato possibile evitare; mentre proprio avrebbe voluto approfittare di quell’occasione per averci a casa sua, per dedicare a noi un po’ del suo tempo, perlomeno per riprendere con noi un discorso da tempo rinviato. E c'erano in lui, insieme a quella pur dominata irritazione,
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come se dovesse imputare ad altri quello spiacevole contrattempo, il desiderio di rimediare a quella che poteva apparire una sua trascuratezza, di dimostrarci il suo disappunto, insomma di farci sentire come le sue giustificazioni fossero motivate, il suo dispiacere non fosse pretestuoso. Così, nonostante ormai l’ora cominciasse ad essere per noi avanzata data la nostra esigenza di rientrare a Pisa, quasi ci costrinse ad accompagnarci a loro in un caffè; dove appena potemmo trovare un tavolino libero tanto era affollato, con la gente che ci premeva dintorno; e lo spazio che ci mancava ed il tempo che ci incalzava ed il clamore delle chiacchiere altrui che, nell'ambiente ristretto, soverchiava le nostre voci, rendevano ben difficile, se non impossibile, quel discorrere abbandonato ch’egli si era prefisso. Ma evidentemente, per lui, restava quel tardo invito, non come un riparo, non come una sostituzione ad un’accoglienza che ci avrebbe voluto riservare, insomma come l’adempimento di quello che considerava un dovere non assolto, ma come il richiamo e la conferma di un vecchio costume, di un vecchio modo che legavano lui e Marcella a noi, ed ancor più come il segno, quasi l’anticipo di un venturo adempimento di quello che era un suo, che era un loro ben preciso proposito; insomma così egli
voleva sottolineare la continuità, la presenza non dimenticata di un rapporto con noi, al di là, al di fuori di ogni convenzionalità, sempre nutrito da un
sentimento che non si era esaurito, che non si era inaridito. E proprio quella forzatura che improntava il suo comportamento, i suoi gesti e persino le sue
parole, attestava, insieme ad un suo rammarico, la volontà di riappropriarsi di qualcosa, di una dimensione che a sé sentiva connaturale, che infine lo faceva ancora legato a me, a noi; che rendeva tanti ricordi ancora attuali e validi.
Quando, per raggiunti limiti di età, dovette lasciare la direzione del Vieusseux, egli non dimise ogni attività di organizzatore culturale; ché anzi parve aver atteso quel momento per sobbarcarsi ad altro compito che via via era andato sempre più attirando i suoi più vivi interessi e che ora pareva ancor più
confarsi alla sua età, come per un compito che ben gli conveniva, un ultimo segno ch'egli volesse lasciare di sé. Divenuto conservatore dell'Archivio contemporaneo, egli si dedicò con amore e quasi con nuova energia al riordino ed alla raccolta di manoscritti e della corrispondenza di scrittori toscani e non toscani, delle loro biblioteche, di quelle loro testimonianze che altrimenti
sarebbero andate disperse e perdute; e così egli si radicava ancor più, se ve ne
fosse stato bisogno, nel tessuto culturale e civile della città in cui era sempre vissuto, in cui aveva operato per più di mezzo secolo, divenendone uno dei protagonisti.
L’ultima volta che passai qualche ora con lui, a Firenze, egli volle lo accom-
pagnassi al di là d'Arno, in quel vecchio palazzo di proprietà comunale dov'era appunto allogato l'Archivio storico cui ora andavano tutte le sue cure; e mi
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faceva passare lungo quegli scaffali allineati di sala in sala sottolineandomi la ricchezza di quel patrimonio, indicandomi ad ogni scomparto i nomi di coloro le cui carte erano là conservate; e mi rivelava quanto aveva fatto per arricchirlo e per sistemarlo, e quanto ancora si proponeva di fare, anche per renderlo accessibile agli studiosi, ai possibili ricercatori; e pareva interamente preso da questo nuovo interesse, come se una tale mansione si confacesse completamente alla sua preferenza ed alle sue possibilità attuali; ed al tempo stesso a evidenziare una ancor fervida ricchezza della sua età pur avanzata, la sua capacità di scoprire in essa nuove dimensioni che sino allora gli erano rimaste ignote; ed a tale proposito mi diceva delle sue più recenti letture, della sua scoperta, per lui sorprendente, degli ultimi scritti di Victor Hugo, ricchi di un insegnamento affascinante nella sua novità. Ed in lui vi era il gusto della scoperta, la meraviglia di poter trovare ancora nei libri, nella letteratura, nella vita qualcosa che lo colpiva e lo attirava, qualcosa che lo arricchiva, ma che infine testimoniava ancora per lui una sua ricuperata giovinezza, una sua con-
fermata capacità di presenza e di incidenza sulla realtà. Ebbi dal giornale la notizia della sua elezione a sindaco di Firenze; sapevo ch’egli da tempo era consigliere nell’amministrazione comunale per il partito repubblicano; mai però avrei pensato ch’egli potesse giungere ad occupare un tale posto ed a svolgere una tale mansione; tanto più che sempre lo avevo conosciuto come ben lontano da ogni abitudine e proposito di brigare per ottenere incarichi, e specificamente incarichi politici; restio dall’emergere,
dall’esibirsi e pure bene scettico sul riconoscimento altrui dei propri meriti; cosicché probabilmente anche a lui l’elezione a sindaco era giunta come una sorpresa. Ero ormai ritornato a Feltre per risiedervi definitivamente; difficilmente avrei potuto rivederlo in tempi brevi, ma volevo in ogni modo fargli giungere il mio compiacimento per una designazione la quale testimoniava la stima di cui godeva in quella che egli considerava la sua città. Gli scrissi in tal senso; mi compiacevo con lui per una simile promozione che gli avrebbe dato i mezzi per svolgere un’attività culturale in termini quali mai gli erano stati offerti; a me semmai poteva solo dispiacere ch’egli fosse sindaco sostenuto da una maggioranza che comprendeva la Democrazia Cristiana; ero certo però
che, qualunque fossero le forze su cui si reggeva, sempre sarebbe rimasto fedele a quei principi di liberalità, di non conformismo, di rispetto degli altri che avevano connotato tutta la sua esistenza. Mi ripromettevo di incontrarmi con lui, di trovare il tempo per recarmi a salutarlo in quella sua nuova veste e funzione. Non mi rispose; interamente preso dal nuovo impegno, evidentemente non ne trovò il tempo; o forse aspettava che mantenessi la mia promessa; seppi da un amico di quanto fosse lieto dell’incarico ottenuto; di essere giudicato in grado di giovare a Firenze; e lieto pure di quanto per Firenze si
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sentiva in grado di fare ed avrebbe fatto. Poi, dai giornali, mi giunse la notizia della sua malattia. Ripetutamente cercai di stabilire un contatto con lui, con Marcella; ma al numero telefonico che conoscevo nessuno rispondeva; se ve
ne era uno di nuovo mi era sconosciuto, né mi fu dato ottenerlo; non osai
telefonare alla clinica dove era ricoverato. Chiesi di lui a degli amici fiorentini che lo frequentavano, ma le risposte che ne ebbi erano incerte, contraddittorie; nessuno sapeva dirmi se la sua vita fosse davvero in pericolo o se si trattasse solo di una crisi passeggera. Infine improvvisamente dalla radio mi giunse la notizia della sua morte. Lo sgomento da cui fui preso poteva avere anche una motivazione del tutto
esteriore. Di fatto Bonsanti, a me, come a mia moglie, come a chiunque lo
conosceva e lo frequentava, appariva, nell’aspetto, sempre eguale a com'era stato, se non nella giovinezza, nella maturità; il suo personale si era appena appesantito, ma il volto non portava il segno di rughe profonde, i suoi capelli non si erano diradati di troppo e conservavano il loro colore originario, il suo camminare era sempre sicuro ed anche rapido, il suo gestire non denunciava nessun impedimento; e così la sua voce conservava il timbro di sempre; infine ancora, nella sua presenza, egli confermava l’immagine che di lui avevamo da sempre; come se, godendo di una particolare immunità, egli avesse arrestato per sé il corso del tempo. Semmai, se di un cambiamento esteriore potevamo accorgerci, ed anche stupirci, si era per una qualche trasandatezza nel vestire; il che poteva anche indicarci una sua noncuranza, una sua insofferenza di fronte ad un cerimoniale basato solo sull’apparenza; come se ormai egli fosse certo di sé, non dovesse affidarsi ad una convenzione formale per farsi riconoscere qual era. Oppure vi era in lui, e di lui caratteristica, una predilezione per i vecchi abiti, per i vecchi capi del suo vestiario, in cui si sentiva più comodo e disinvolto che in quelli nuovi; ed un tale modo di essere riprendeva, si rifaceva a quella insofferenza che talvolta, e sia pure con discrezione e con cautela, egli manifestava nei confronti di chi da lui esigeva che si comportasse, che agisse secondo un principio, secondo una norma a lui sgraditi. Ma questa sua immagine sempre eguale a se stessa non era che l’aspetto
esteriore di una sua continuità, di una sua permanente fedeltà a se stesso. E questo era un elemento ben importante del suo carattere, della sua personalità; una fedeltà non formale al proprio passato, ai momenti di esso che più lo avevano connotato; nessuna delle acquisizioni ch’egli aveva fatto durante la
sua ormai lunga esistenza egli voleva lasciar cadere, di tutte pareva ch'egli
ancora volesse nutrirsi; come se la vita avesse una sua inoppugnabile coerenza. E questa sua fedeltà al proprio passato, ad ogni momento di esso, per lui
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doveva sempre essere suffragata da un gesto, da una parola; doveva essere convalidata dal modo di essere, di manifestarsi dell’uomo. In questo stile di vita egli si riconosceva, ad esso si conformava nel parlare come nel gestire. Quando incontrava qualcuno, magari dopo anni di distacco, di lontananza, egli con lui riprendeva il discorso di un tempo, senza precederlo con un eccessivo accento di sorpresa, come se quel distacco di fatto non fosse avvenuto, o
meglio come se esso non avesse un’importanza di fondo; come se nessun evento, e neppure un prepotente rivolgimento della storia potessero incidere in modo sconvolgente sugli uomini e sui rapporti tra uomini. Per lui quella fiducia che si instaura fra due persone le quali ad un certo momento sentono e sono convinte di avere qualcosa in comune, le quali l’una all’altra si legano di una comprensione e di una reciproca stima, non doveva mai incrinarsi, non
doveva mai allentarsi. Ed egli fu un uomo che sempre davanti a sé ebbe un ben preciso modello di comportamento; per il quale un simile modello era divenuto natura. Neppure per lui l’esistenza era stata sempre facile, anche lui aveva avuto periodi di travagli, di preoccupazioni, aveva subito il peso e l'offesa dei tempi; non sempre gli era stato agevole il vivere; ma, dopo le inquietudini, le incertezze della giovinezza, appena ebbe acquistato una qualche sicurezza economica e di lavoro su cui conformare la propria esistenza, egli era andato sempre più conquistando e rafforzando quell’equilibrio, quella pacatezza, quella padronanza di sé cui sempre aveva teso, che solo avevano atteso un appiglio concreto per confermarsi, per convalidarsi in ogni occasione, in ogni contingenza; insomma per divenire costume. Dietro la correttezza e la compostezza del parlare e dell’agire che gli erano
proprie egli infine celava una fermezza di scelte, una volontà di decisione che, nella sua pacatezza, difficilmente smentiva, cui raramente rinunciava, se pure
era alieno da rigidezze ed impuntature. Benché egli fosse sempre cauto nel suo procedere e sempre attento ad ascoltare gli altri, a confrontarsi con gli altri, anche nelle loro posizioni contrastanti con le sue, una volta iniziata la via che si era proposto di percorrere raramente vi rinunciava; a meno di incontrare un’opposizione irreducibile; e davanti a sé aveva sempre ben precisa la meta da perseguire, da cui far dipendere ogni proprio intervento. E di conseguenza sapeva anche assumersi le proprie responsabilità e trarre tutte le conseguenze necessarie di quel che si era proposto di fare. A questo punto però è necessario mettere in evidenza un’altra componente
del suo carattere e della sua natura, dei suo comportamento che da questi dipendeva. Poiché in Bonsanti, in qualunque impresa si ponesse, mai traspari-
vano modi di acceso entusiasmo; egli si mostrava e risultava lontano da qualunque proposito, da qualunque programma di prospettiva troppo ampia, e
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neppure era portato da una qualsiasi frenesia di intervento; mai era sostenuto
dall’accanimento del fare, dell’intervenire, del risolvere; ed in nessun modo considerava la propria presenza, la propria iniziativa come necessarie, come
insostituibili. Pareva infine addirittura ch’egli si assumesse un compito, che si sobbarcasse ad un’impresa quasi costrettovi, quasi in assenza di altri, più propensi o più portati di lui ad una attività pratica; e di qualunque iniziativa si trattasse. Ed ancora egli soleva agire, portare avanti l'impegno che si era assunto, che aveva accettato di assumersi, lentamente, pacatamente; studiandone le possibilità e gli sviluppi in ogni loro senso; ma sempre restio alla fretta, sempre sospettoso di fronte a tutto ciò che poteva in qualche modo assumere il carattere dell’'improvvisazione; ripugnante, com’era sempre e come sempre fu, ad ogni proposito od aspirazione privi di un sicuro fondamento, ad ogni velleitarismo; sempre attento a tener conto della realtà, ad adattarsi ad essa, anche nelle sue dimensioni più difficili; alieno dal correre rischi che reputava inutili, dal cimentarsi con una opposizione decisa e repul-
siva senza disporre dei mezzi per farle fronte; in una parola alieno da ogni sprovvedutezza, da ogni avventura inutile e spericolata. Ora però è necessario intenderci per non incorrere in un fraintendimento di fondo; poiché Sandro era ben lontano dall'essere un pavido od un rinunciatario, chiuso nel proprio particolare, cauto in ogni proprio passo sino alla rinuncia e calcolatore di un proprio vantaggio o svantaggio in ogni propria iniziativa, in ogni propria impresa. E diciamo pure che per quanto egli fosse sempre inteso a dominare e contenere ogni reazione troppo vivace ad un atto
altrui che lo offendesse o che lo colpisse negativamente, ad evitare ogni intervento polemico, ogni scatto di umore,- non è ch'egli accettasse un comportamento altrui offensivo od anche soltanto scorretto, improntato ad opportunismo, ad ipocrisia, a malafede; non è che potesse ammetterli come sentendosene anche segretamente partecipe; poiché poteva accadergli, di fronte a quelle che gli apparivano aggressioni inopportune, di esprimersi uscendo decisamente dal proprio riserbo, dalla propria cautela, con un empito improvviso di indignazione. Evidentemente tali moti ed impulsi di irritazione, di insofferenza, quand’era giovane si manifestavano nel modo più evidente, anche con impennate decise; ma anche allora erano di breve durata; come se di un subito egli si
imponesse di sottoporli ad un controllo, li volesse dominare facendo appello ad un intervento di riflessione. Poi, col passare degli anni, la sua contrapposizione tendeva a farsi più pacata, a svolgersi in tempi lunghi; però mai accondiscese ad un modo di distacco indifferente di fronte a quello che riteneva un atto di ingiustizia, specie se esso si esprimesse sotto il segno della imposizione,
della prevaricazione, poiché allora vi si ribellava esplicitamente. Insomma mai
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egli si chiuse o parve disposto a chiudersi in posizioni di scetticismo indifferente di fronte ai fatti umani. Però, e proprio per questo, di fronte all'operato
altrui che in qualche modo fosse andato contro le sue aspettative, che anche lo avesse colpito negativamente, per superare quello che poteva essere un suo fastidio motivato da cause troppo personali, troppo esteriori, egli si imponeva una sosta di ripensamento; per coglierne le ragioni più profonde, al di là delle apparenze; per rendersi conto dell’elemento umano che, dietro a tale manifestazione, dietro a quella aggressione, si nascondeva, che le sottendeva.
Infine, sin da quando era giovane, ma sempre più accentuatamente con l'avanzare degli anni, con il progredire nell’età, si erano andate affermando in lui la volontà, la necessità di comprendere gli altri, di trasferirsi negli altri per cogliere le più profonde determinanti del loro essere e del loro agire; qualunque esse fossero. E direi che in tal senso nel suo carattere, nella sua umanità vi era come componente di fondo la curiosità; la curiosità della natura umana in tutte le sue manifestazioni, in tutti i suoi aspetti; ed anche direi che spesso egli era colto da una sorta di meraviglia di fronte a tanta varietà, a tanto illimitata possibilità di comportamenti di cui l’uomo è capace. Ma egli non si fermava a questo punto, non si accontentava di acquisire una simile conoscenza, di con-
templare quello che ad un certo momento poteva presentarglisi come uno spettacolo sempre rinnovato; ma sempre tendeva ad un giudizio; e tale giudizio in lui non era di approvazione o di condanna, di accettazione o di ripulsa; ma era inteso a ricostruire una personalità umana, per trovare in essa quell’e-
lemento costitutivo, di fondo, sul quale essa si articolasse, che tutta intera la motivasse, che ne motivasse anche quelle parti, quei momenti che di essa potevano essere giudicati negativi. In una parola egli tendeva a cogliere di ogni uomo quelli che ne erano gli atteggiamenti, imomenti positivi, legati ad una ragione profonda, per metterli in evidenza, e quindi per arrivare a stabilire con lui un rapporto di reciproca comprensione. Ancor più, egli tendeva e faceva in modo che un simile rapporto venisse accettato dagli altri, anche da coloro che in un primo momento ne erano stati trattenuti per un moto di diffidenza, o per prevenzione; e quindi mossi e motivati da un equivoco, da un fraintendimento. Ed un tale comportamento rivela e caratterizza quella che è stata tutta la linea direttrice dell’attività di operatore culturale di Bonsanti, di direttore di riviste e di fogli letterari; poiché sempre egli si è proposto e godeva di dimostrare come uomini, e specificamente uomini di studio e di cultura, i quali apparivano e si ritenevano ben lontani l’uno dall'altro, addirittura estranei od almeno restii dal ricercare alcunché li unisse, potessero d’un tratto riconoscersi ben diversi da quel che avevano ritenuto; se appena fossero sostenuti da una autentica buonafede, dalla capacità di liberarsi da ogni prevenzione, da
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riserve che si basavano su schematismi ideologici o addirittura su equivoci, e che rapidamente cadevano, si scioglievano appena essi fossero messi a confronto l’uno con l’altro, appena potessero rendersi conto di quanto fossero vicini nelle loro più fonde e sofferte convinzioni. E proprio di conseguenza con questa sua apertura, con questa sua capacità
e volontà di confrontarsi con gli altri, con chiunque altro, ecco un’altra componente di fondo della sua personalità; e cioè la sua disponibilità; di come egli si dimostrasse sempre pronto ad aiutare non solo gli amici, ma chiunque ricorresse a lui, si rivolgesse a lui con qualche richiesta, con qualche istanza; addirittura come se egli attendesse simili interventi e sollecitazioni non solo per il gusto di dimostrare, di comprovare una propria capacità di potere, della gestione di un potere, od almeno un proprio prestigio, ma quasi riconoscendo
a sé confacente un tale compito; come se esso rientrasse, fosse del tutto conseguente al suo modo di essere, al suo programma di vita; ed anche alla funzione ch’egli esercitava nella società. Mentre però una tale sua disponibilità mai si presentava sotto l'aspetto di una disinvolta faciloneria; un simile impegno da lui mai veniva assunto a cuor leggero, nella presunzione delle proprie forze. Bonsanti era sì disposto a dare, ad aiutare chi ricorreva a lui, ma sempre
ponendogli ben chiari i limiti delle proprie possibilità, del proprio intervento; e tali limiti implicavano anche un giudizio sull’opportunità, sulla validità della richiesta. Tale ben lo conoscevano gli amici, ma anche tutti coloro che con lui avevano avuto rapporti brevi ed occasionali, che lo avevano incontrato con questo scopo anche una sola volta. Ed ancora dobbiamo dire, anche a tale riguardo, di come in lui vi fosse la netta convinzione dell’estrema varietà della realtà, della vita, degli uomini, e quindi del loro modo di essere, del loro comportamento; che non potevano in nessun modo essere incapsulati, costretti in norme troppo precise; che non potevano essere dati come scontati, come ripetitivi; sicché ogni via, ogni tentativo ed a stabilire con loro un rapporto ed a giungere con loro ad una realizzazione erano possibili, ma non potevano essere previsti a colpo sicuro, in una loro scontata elementarità. Di conseguenza, nel proprio esistere, nel proprio agire, per Bonsanti l’uomo doveva guardarsi da ogni prevenzione e da ogni presunzione, da ogni entusiasmo sprovveduto come da ogni diffidenza
preconcetta; infine egli doveva confrontarsi ed essere disposto a confrontarsi con la realtà, con la realtà umana, con paziente e persino umile volontà di comprensione. Pertanto potrei dire che Sandro, in ogni iniziativa, in ogni impresa cui si dedicasse, si atteneva ad una norma che non era improntata né ad ottimismo né a pessimismo. Egli però sapeva che qualunque passo in avanti, qualunque risultato positivo avevano come contrappunto un risultato negativo, o perlo-
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meno che ogni risultato positivo era dovuto ad un’attenta cura e ad una lunga
pazienza, ad una tenacia irriducibile. Egli sapeva che ogni cammino è fatto di
tanti passi, e che ciascuno va calcolato; che una corsa troppo rapida si sconta
con una sosta a volte pericolosa e talvolta anche con una costretta rinuncia;
insomma che la realizzazione di qualunque progetto è ostacolata da innumerevoli ostacoli e ritardi, da contrasti ed opposizioni. Perciò, se egli era cauto e paziente nella considerazione, nella previsione di quel che si proponeva di fare, che progettava di fare, non per questo era facilmente disposto a rinunciare; in lui difatti dobbiamo riconoscere una pertinace e continua e mai ridotta attività, una continua applicazione, infine un’esistenza tutta dedita al fare, al realizzare; senza mai soste, addirittura senza vacanze, senza distrazioni; come
se egli trovasse il proprio equilibrio, una propria pacificazione, come se egli sentisse di realizzarsi appieno solo in questo suo continuo, ininterrotto confronto con la realtà; in questo suo tacito e tenace cimento con essa. E tale sua continuità, tale sua pertinace applicazione rispondevano infine ad un profondo, connaturato senso del dovere; del quale forse neppure lui era del tutto cosciente; che probabilmente aveva ereditato, o meglio che aveva desunto, derivato dalla famiglia, dal costume famigliare in cui era cresciuto e si era formato; ma che, con il passare degli anni, con la conquista della maturità si era andato in lui sempre più confermando attraverso una più o meno lunga autoeducazione. Cosicché in lui il valore ed il significato di ciò che faceva, del suo operare non erano determinati dal risultato che ne otteneva, ma proprio dall’animo, dal modo con cui veniva raggiunto; insomma l’uomo per lui doveva sempre essere valutato non in base al successo od allo scacco che incontrava ma per come agiva, per il modo con cui affrontava l'impresa cui si era dedicato. Di conseguenza, di fronte ad una meta raggiunta, ad un risultato realizzato, egli non si tacitava nella propria attività, non la dimetteva; ma quelli considerava esclusivamente come una tappa del proprio cammino; per lui essi contavano sopratutto in quanto aprivano nuove possibilità al suo agire, in quanto
proprio offrivano nuovi termini alla sua esigenza di realizzazione. Ma qui dobbiamo anche ricordare come egli si presentasse sempre come il miglior giudice di se stesso; come egli fosse ben conscio delle proprie capacità e quindi dei propri limiti; di come egli si rendesse ben conto di quel che poteva fare e di quel che mai sarebbe riuscito a fare; e quindi della misura che gli convenisse, cui dovesse attenersi; il che non gli impediva atti generosi, anche coraggiosi; il che non gli negava talvolta di rischiare, di affrontare un rischio; ma in tal caso senza nessuna presunzione di sé; e persino con la convinzione
di una quasi certa sconfitta; e ciò quando a tale impatto si prestasse per non mancare ad un impegno con se stesso 0 con gli altri; infine per restare fedele a
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se stesso; mentre anche egli riteneva che la realtà, che gli uomini sono tanto imprevedibili che è possibile raggiungere, che è possibile realizzare talvolta anche quanto appare lontano da ogni previsione la più favorevole. Ed in tal caso, raggiunta la meta inopinata, era il primo a stupirsene, mai disposto a dare al proprio intervento, alla propria presenza un'importanza superiore a quella che avevano avuto, anzi, semmai, disposto a diminuirne il peso ed il valore, a ridimensionarne l’importanza; troppo cosciente ed avvertito non solo di quanto egli valesse e contasse, ma di quanto infine ogni uomo vale e conta. Allo stesso modo, ove non riuscisse nella propria impresa, ove fallisse in un proprio intervento, egli mai ricorreva alla giustificazione, egli mai incolpava la malevolenza degli altri o della realtà, ma, con assoluta spregiudicatezza, era pronto a riconoscere il proprio errore, un proprio fraintendimento, addirittura un proprio limite di capacità; mai egli tendeva a riversare sugli altri una responsabilità che si era assunta e che continuava ad assumersi; e questo proprio per una riaffermazione ed una difesa della propria dignità. Poiché egli riteneva appunto l’errore come una componente inevitabile dell’operare umano cui egli non si sottraeva; l'importante semmai si era, dopo lo scacco, non abbandonarsi allo scoramento ed alla rinuncia, ma scoprirne le cause per evitare di incorrervi in avvenire. Insomma per lui successi e scacchi non erano
e non potevano essere che momenti, episodi di quello che era e doveva essere un lungo cammino; nel quale sopratutto contavano l'impegno, la paziente tenacia con cui veniva affrontato. Così Bonsanti si era educato ad una attenta autodisciplina, ad un autocontrollo che gli era divenuto abito. Così, in qualunque contingenza, di fronte a qualunque fatto od evento che lo colpissero in qualche modo, era sempre un appello alla ragione ch’egli compiva, cui si rifaceva e da cui ricavava quell’equilibrio, quella pacatezza di giudizio, appunto quella illuminata spregiudicatezza che sempre lo hanno distinto in ogni sua scelta. Certamente la lunga, ininterrotta presenza di Bonsanti nel nostro mondo letterario e culturale, le attività che in esso svolse, le funzioni che gestì lo
definiscono e lo qualificano, lo pongono sotto un segno che ha la sua ben precisa connotazione e quindi un suo significato ed un suo valore. Ma, se noi vogliamo ben renderci conto delle ragioni di questa sua presenza, e sopratutto se vogliamo comprendere appieno la dimensione della sua personalità, le componenti determinanti del suo essere e del suo agire, non solo non dobbiamo dimenticare, ma dobbiamo porre in primo piano quelli che sono stati la
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sua passione determinante, insomma il suo primo impegno di vita, dai quali ogni altro derivava. Ed erano quelli di essere scrittore. Come scrittore, Bonsanti si era fatto conoscere ancor giovane, se pure non
avesse debuttato negli anni della prima giovinezza; ma a questa ch’egli sempre ha coltivato come una professione egli è rimasto fedele durante tutta la sua lunga esistenza; anche se da essa mai abbia tratto vantaggi economici tali da garantire a sé ed alla sua famiglia un'esistenza agiata. E fu sempre scrittore non occasionale— anche se talvolta abbia accondisceso alla collaborazione di giornali, ed anche con articoli che possono essere considerati di attualità, ma
dedito allo scrivere sempre obbedendo ad un ben preciso programma di lavoro; proprio come se la sua esistenza avesse per centro, come propria prima
motivazione, lo scrivere, e lo scrivere volumi; così passando quasi naturalmente, necessariamente, dal racconto breve al racconto più lungo e quindi al romanzo; ed alla composizione di romanzi dedicò la più gran parte dei suoi anni; ed il romanzo che più lo impegnò, ch’egli dovette considerare, almeno per sé, per la sua storia di scrittore, come l’opera sua di maggiore importanza, come un punto di arrivo del suo essere scrittore, La buca di San Colombano, il
quale comprende tre grossi volumi, complessivamente di quasi duemila pagine, gli costò lunghi anni di un’applicazione continua e tenace; quasi estranea, incurante del momento storico, di quel che avveniva nella vicenda del paese. Ma a tale proposito si deve anche riconoscere che, come scrittore, Bonsanti
non ottenne certo quel successo che probabilmente egli si attendeva e che infine gli spettava. Difatti l’attenzione della critica, e della critica più attenta e più illuminata, lo seguì per qualche tempo, direi sino al Racconto militare; ma per quelle che furono le opere della sua piena maturità e che certamente egli considerava le sue opere maggiori, nelle quali si era impegnato assolutamente, forse anche con la convinzione di tirare le somme di tutta la propria attività, di ogni propria esperienza di vita, di fare il discorso più ricco e completo che gli fosse concesso, non si ebbe che affermazioni di una stima generica, e semmai
da parte di amici, di quelli che erano stati i suoi primi lettori. Ma anche per questi, od almeno per la più gran parte di questi, col passare degli anni, con le sue nuove opere, egli pareva aver perduto la affabile acutezza, la garbata eleganza che avevano improntato le sue prime; mentre dagli altri, dai più giovani, era considerato come uno scrittore ormai fuori dal giro dei più vivi interessi, di altri tempi, decisamente estraneo al clima, agli interrogativi che si erano posti dopo la caduta del fascismo. Solo da taluno dei critici della neoavanguardia egli ebbe il riconoscimento che spetta ad un anticipatore, ma anche tale invito, tale indicazione finirono col cadere nel vuoto; e neppure, ad un suo maggiore, ad un suo qualche successo, gli giovò vedere ripubblicati da un grande editore i suoi primi volumi di racconti e pubblicata quella che era
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la sua opera di maggior respiro; né per il riscontro ch’essi ottennero dalla critica, né per un consenso che gli giungesse dal pubblico. E tale misconoscimento sembra diventato ormai canonico; difatti la recente antologia dei Racconti italiani del Novecento a cura di Enzo Siciliano,- sebbene non possa far testo per le inesplicabili assenze e per talune presenze non sufficientemente motivate, e nonostante comprenda ben settantuno scrittori, lo dimentica, o
meglio dichiara di escluderlo a giusta ragione. Così ogni ricupero della sua opera potrebbe essere anche ritenuto oggi impossibile; al più potrebbe presentarsi come un atto di pietosa, postuma fedeltà. Eppure Bonsanti ha un suo posto nella storia della nostra letteratura, e non solo per quanto egli scrisse intorno agli anni Trenta, ma per l’intera sua produzione; in quanto egli porta avanti coerentemente un suo discorso, svolgendone le premesse già poste nei primi volumi; e non si tratta di un discorso improvvisato, ma che scava sempre più in una dimensione della realtà che lo scrittore va mano a mano scoprendo e confermando a se stesso con una propria considerazione, con una propria concezione di essa e della vita, dell’uomo, che ha una sua profonda coerenza; con una stretta compattezza, cui ogni parte, ogni momento, ogni episodio della narrazione, e lo stesso stile con cui è portata avanti rispondono. Se il discorso di Bonsanti può apparire ed ancora appare fuori tempo, esso in ogni modo non può essere trascurato, di esso non si può non tener conto; se esso viene dimenticato o neppure preso in conside-
razione ciò avviene per un costume di trascuratezza, o meglio di colpevole ignoranza.
Bonsanti ha sempre scritto i suoi libri ed ogni sua pagina con la penna, su grandi fogli ch’egli riempiva con una scrittura dai caratteri minuti, in lunghi righi diritti, l’uno completamente a ridosso dell’altro, tanto da quasi confondervisi, sicché la pagina ne risulta completamente coperta, senza un minimo di spazio bianco tra rigo e rigo; tanto che le correzioni e più ancora le aggiunte al testo erano impossibili allo stesso scrittore; o perlomeno molto difficili; per la loro lettura, a chi non abbia occhi giovani, è necessaria la lente. Da ciò
risulta che la stesura del testo allo scrittore veniva senza pentimenti, senza ripensamenti; come se egli stendesse quanto era stato da lui a lungo pensato e previsto in ogni dettaglio. Insomma evidentemente esso gli nasceva non certo assecondando un'ispirazione improvvisa ma obbedendo ad un piano ben determinato, secondo un’organizzazione mentale che ne aveva anticipatamente previsto l'andamento, che ne aveva disposto le singole parti, i singoli movimenti. Tale constatazione vale a mettere in evidenza quella carica di necessità, cui lo scrittore giunge attraverso una lunga maturazione e che risponde a quelli che erano la sua personalità, la sua visione della vita ed il suo comportamento.
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Ho già accennato sopra alla considerazione in cui furono presi i primi libri da
lui pubblicati; e difatti essi si ebbero il concorde elogio della critica; ma, se essi devono ancora costituire il primo punto di riferimento per un qualunque
esame e per una qualunque comprensione dell’intera sua opera, non ci si deve certo limitare ad essi per stabilirne da un lato il valore intrinseco ed al tempo stesso per porli come un punto di arrivo, come un risultato cui lo scrittore giunge avendo in esso esaurito, avendo in esso dato esito a quel discorso, a quella ricerca ch’egli dentro sé nutriva e che gli urgeva; e d’altra parte proprio in tutta questa prima parte della sua produzione è possibile individuare un continuo progredire del suo discorso in una volontà di approfondimento, di scavo; sempre motivati da una ragione interna; fedele egli ad una tematica che viene indicando, abbozzando sin dai primi racconti; ma che ad un certo momento ne supera il contesto, lo travalica; come chi d’un tratto si avvede
come l’equilibrio raggiunto, che gli pare di aver raggiunto, ha in sé elementi emotivi di incertezza e di inquietudine ch’egli non può allontanare da sé, che non può tacitare e che lo spingono ineluttabilmente verso nuove soluzioni, o addirittura verso un nuovo contesto; con il quale il confronto è ben più difficile, ed aspro, ma al tempo stesso inevitabile. Difatti in quei primi racconti di Bonsanti il problema del vivere e del comportamento dell’uomo di fronte alle vicende della vita, all’agire ed all’operare degli altri, se resta come il sottofondo della narrazione, appare come stemperato, come sommerso da quella che ancora si presenta come la possibilità di vivere in una condizione di serenità, persino quasi in un gioioso abbandonarsi alle occasioni, nella certezza di poter sempre ricuperare in esse motivi, se non
di una costante felicità, se non di una gioia continua, perlomeno di una continua accettazione di ciò che ci viene offerto. Così si arrivava ad un più e meno convinto ridimensionamento di ogni affanno, al ripudio di ogni esasperazione, ad una norma di pacatezza, di distacco, sopratutto di equilibrio; in fondo si potevano anche attribuire allo scrittore un abito di controllato epicureismo, in ogni modo il rifiuto di ogni inutile esasperazione dei sentimenti; l’invito insomma in ogni modo alla moderazione, all’attento controllo di ogni sentimento. E non erano forse questo clima, questa soluzione in accordo con altri risultati caratteristici in quel tempo nei «solariani» e non solo nei «solariani»? Poiché se in essi non era dichiarata la fuga dalla realtà, non vi era forse in quei racconti, situati perlopiù in altra epoca, un’atmosfera quasi di fiaba? Non prevaleva in essi forse il gusto di un gioco condotto con grande abilità; con la volontà di sottrarsi ad un condizionamento della realtà presente, dei problemi ch’essa poneva? Mentre, appunto, al di sotto di questa scorza, e quasi contro l’esito che lo stesso scrittore perseguiva, andavano sempre più facendosi luce
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altra esigenza, altra problematica che forse i tempi stessi, la stessa nostra società imponevano con la loro sempre più brutale prevaricazione. In ogni modo a questo punto lo scrittore avrebbe potuto fermarsi. Infatti all’apparenza la sua visione della vita era talmente ferma, appariva talmente sicura; ogni interrogativo ed ogni inquietudine ne parevano talmente esclusi, o meglio talmente tacitati, soverchiati, che si potevano persino prevedere o l’esaurirsi di una vena od il suo continuare ma su posizioni ripetitive, in un gioco di eventi alla fine conclusi sempre allo stesso modo, portando così nuove prove ad una morale di vita ormai acquisita, indiscutibile. E Bonsanti sarebbe potuto divenire uno scrittore estremamente piacevole nella sua garbata eleganza, nella sua smagata considerazione della realtà; cui non erano estranei improvvisi sommovimenti, spiacevoli turbamenti, dispettose inquietudini, sempre però seguiti e superati da schiarite conclusive, dalla serenità dell’ordine riconquistato.
Ma dentro di lui, al di là di quella che appariva la sua persino ostentata saggezza, si andava sempre più rivelando una insoddisfazione che lo spingeva ad approfondire, a calcolare, a sviscerare quella realtà che sino allora gli era parsa, gli era risultata come infine accogliente. Ed era proprio la realtà, la realtà esterna, quella con la quale via via sempre più era costretto a confrontarsi, contro la quale sempre più urtava, collideva, a costringerlo ad un riesame, a porsi su di un diverso piano; infine ad uscire da un mondo che si era finto, che aveva ricuperato dal passato adattandolo, facendolo rispondente alle proprie aspirazioni. Ed eccolo allora riprendere la sua via, riprendere quella sua visione della realtà, e di una realtà infine statica, immobile, ma al tempo stesso di una realtà presente, non trasferita nel passato. E quell’opera di minimizzazione, di ridimensionamento di ogni vicenda, di ogni fatto, e
negativi e positivi, diciamo anche di demistificazione di ogni impresa e vicenda dell’uomo, vengono da lui sempre più perseguiti sino a giungere ad una sempre più penetrante, sempre più coinvolgente operazione di scomposizione
dello stesso agire umano, della presenza, della :continuità della presenza dell’uomo nella realtà; e non solo dei suoi interventi, ma dei suoi propositi e sin
nei loro esiti. Con una decisa conseguenza, completamente dedito alla propria impresa, mai dimettendo il proprio intento, lo scrittore scompone l’atto, il fatto, ed insieme ad essi le loro premesse, il progetto dal quale essi partono, e le loro conseguenze, e le reazioni ch’essi provocano; da parte di chi ne è il fattore, il protagonista e da parte di chi li subisce, in tutti i loro momenti, in tutti i loro movimenti; e tutti ponendoli sullo stesso piano, a tutti dando lo
stesso peso, la stessa importanza; cosicché il particolare, anche minimo, anche quello che meno appare ad essi legati, ad essi intrinseco, ne diventa una com-
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ponente necessaria; nel complesso in cui rientra appare investito dalla stessa
forza determinante. Ciò provoca un estremo rallentamento dell’azione, tanto che essa viene svalutata nel suo insieme, nella sua unità, perde ogni proprio peso ed importanza; in essa il particolare primeggia, esso finisce con l’acquistare un valore superiore all’insieme, all’azione intesa nella sua interezza; negandole quindi ogni capacità determinante. Avviene come per un film girato al rallentatore; per cui tutta l’attenzione dello spettatore è posta, viene attirata, dalla singola immagine ed il movimento giunge a perdere ogni proprio valore, o perlomeno tale valore viene decisamente sminuito. D'altra parte avviene così che intenzioni, propositi, volontà vengono assolutamente privati della propria incisività, finiscono con l’annullarsi, con l’affondare in una sorta di magma. Allo stesso modo avviene che i personaggi protagonisti della narrazione finiscono con l’apparire smembrati nella loro personalità, o meglio col vederla configurata di volta in volta nelle sue più diverse componenti, e quindi proiettata nelle più diverse prospettive, e così pure di volta in volta spezzata ogni sua
continuità, persino in contrasto con se stessa; tanto che nessuno dei suoi momenti, dei suoi atteggiamenti appare imporsi, anche soltanto prevalere
sugli altri; pare essere in grado di unificare gli altri, di dare ad essi una qualunque coordinazione; oppure, al più, una tale possibilità, una tale prevalenza appaiono come del tutto casuali, occasionali, ed in ogni modo del tutto labili,
passeggere. Ora, se, in quel suo modo di scrivere, egli era quasi necessitato a tutto
prevedere, a tutto preventivare, nella impossibilità appunto di correzioni e di aggiunte, noi possiamo anche e dobbiamo supporre che, nel corso del suo comporre, egli dovesse accondiscendere anche alla subita ispirazione, fosse costretto ad accettare anche una improvvisa suggestione che lo sorprendesse, che gli offrisse altri elementi, altri particolari con cui arricchire, magari confermare e completare il proprio discorso. Insomma noi possiamo supporre ch’egli fosse disponibile, se non all’improvvisazione, perlomeno a qualunque suggerimento gli sovvenisse nel momento in cui scriveva; proprio in quanto tendeva ad un discorso esauriente, totalizzante, a dire tutto ed a non trascura-
re nulla di quanto potesse rientrare nella sfera del suo narrare; nessun particolare, nessuna componente e dell'ambiente e del tempo dell’azione e delle riflessioni di cui sono depositari i personaggi presenti nella scena vengono trascurati, vengono tralasciati dal narratore; il quale è sempre sostenuto, quasi
trascinato da una sorta di frenetico fervore o da una esasperata applicazione, a confermare quello che aveva adottato come un metodo di scrittura, come la norma del proprio scrivere; a riconfermare a se stesso in modo esaustivo la dimensione, o meglio le innumerevoli dimensioni della realtà, e delle cose e
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degli uomini. È, s'intende, in tal modo, per tale contesto, che ogni sua parte, ogni sua componente finivano con l’acquistare, con l’avere, lo stesso valore delle altre; nessuna si imponeva come prevalente, come emergente; e proprio in tal senso ogni volontà di una scelta, di una determinazione naufragavano nell’infinità inesauribile dell’essere; e ne veniva assolutamente denegata non soltanto ogni possibilità dell’uomo di intervenire sulla realtà, di incidere in qualche modo su di essa, ma anche soltanto di distinguersi in essa con una propria fisionomia, per un proprio indirizzo, insomma di evidenziarsi per una sua capacità di estrinsecarsi in atti, in soluzioni, in risultati. Ed in tal senso, parallelamente a tale visione, a tale constatazione del nessun peso e del nessun valore dell’intervento dell’uomo sulla realtà, si veda,— quando la narrazione si esprima attraverso il parlato, con il dialogo tra i suoi personaggi— come accade in modo particolare in La nuova stazione di Firenze come tali conversazioni e dibattiti e le lunghe polemiche che li sottendono risultino infine del tutto vacui nella loro effettiva inutilità; tali da lasciarci un senso di vuoto, di inconsistenza; come se gli uomini fossero colti esclusivamente in un loro atteggiamento di presunzione, nei loro pietosi conati, nella loro incapacità di realizzare quanto si proponevano, quanto dichiaravano di
proporsi; come se anche quanto riuscivano a portare a termine, od anche soltanto quanto si proponevano di portare a termine fossero infine cosa di ben poco peso, di nessuna importanza nel corso dei fatti, delle vicende umane; e come se addirittura anch'essi fossero dentro sé ben coscienti di questa propria incapacità, della vanità di questo loro affannarsi, di questa loro puntigliosa diatriba; come se insomma proprio questo loro continuo parlare, questo loro continuo disputare non avessero altro compito che quello di mascherare la
loro segreta coscienza del loro limite insuperabile, della loro intrinseca, fondamentale inconsistenza. E così, nel suo narrare, avviene a Bonsanti che atti, movimenti, gesti di un
suo personaggio siano del tutto ripetitivi e finiscano col connotarlo solo in tale modo del tutto esteriore; cosicché l’uomo, l’individuo finisce col contare, nel
suo ultimo significato, nella sua presenza nell’umana società, per ciò che più sfugge alla sua determinazione, alla sua volontà, al suo più profondo moto
interiore; ed i tic diventano la componente macroscopica della sua personalità, l’unico punto di riferimento che dagli altri lo distingue, per cui può essere riconosciuto; l’unico elemento di una qualche consistenza per dargli un volto ed una fisionomia. Ed anche per tale via ecco che si vengono a svalutare completamente ogni possibilità di intervento dell’uomo sulla realtà, ogni suo proposito in tal senso; in quanto egli stesso è determinato da qualcosa, da una realtà a lui immanente che lo condiziona, che lo regge al di fuori della sua coscienza e della sua volontà. O meglio potremmo dire che l'individuo invano
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tenta di sottrarsi ad un simile condizionamento, invano tenta di essere quale vuole, poiché agli altri egli tale appare, e la sua volontà non lo porta a nessun risultato in tal senso, egli non riesce a conformarlo in modo da sottrarsi a
quella che risulta legge spietata. Evidentemente per tale via, e con tale punto di approdo Bonsanti si innesta decisamente in un filone che percorre tutta la nostra letteratura, e tutte le letterature europee, a partire dalla fine dell'Ottocento e sino ai giorni nostri; e ricordiamo ch’egli fu sempre lettore estremamente attento di tutti coloro che vengono considerati i maggiori narratori dei nostri tempi; da James a Proust, a
Joyce, alla Woolf; e, per quanto ci riguarda, ricordiamo la lezione di Svevo e di Pirandello; ma ricordiamo pure come, negli anni durante i quali Bonsanti operava e scriveva, erano presenti Carlo Emilio Gadda e Montale; e si tratta di tutta una tradizione letteraria nella quale è determinante la tematica della dissociazione della personalità, e quindi dell’alienazione dell’individuo, della
perdita della sua identità; sino alla completa disintegrazione dell’essere, di tutto ciò che è; e di essa ce ne è testimonianza recente la francese école du régard, giù giù sino a Perec, con coincidenze ben evidenti proprio con il
tessuto narrativo di Bonsanti; e così pure qui da noi in tale tematica mi sembra evidente oggi l’attualità di un simile indirizzo e non solo in un senso letterario ma anche in quello filosofico ed ideologico. Ora però, per una presa d’atto conclusiva di quelli che risultano il nucleo di fondo, la motivazione costante, esplicita ed implicita della sua opera, ci resta da considerare quale sia stato l’atteggiamento dello scrittore Bonsanti nei confronti di quella ch’egli considerava la conformazione della realtà delle cose e degli uomini; resta da considerare in quale modo egli accettava e reagiva a tali conclusioni. Ed a tale proposito direi di un subito che mai da nessuna delle sue opere risulta un moto di desolazione, ancor meno di disperazione; mai egli attinge o tende ad un accento di drammaticità; quello che in fondo gli si rivela e ch’egli ci rivela come un mondo dell’assurdo mai lo porta ad uno scatto di ribellione. Il suo scrivere è sempre intonato ad un piglio di pacatezza, di attenta ed accanita osservazione, come di chi sente che il proprio dovere è quello di rivelare, di dichiarare la realtà come gli si presenta; senza mai dirci com’egli si ponga di fronte ad essa, quale sia il sentimento ch’essa, per tale sua conformazione, provochi in lui. Semmai talvolta la sua esposizione si carica di un elemento di sottile sarcasmo più che di ironia; come di chi non può fare a meno di sorridere di commiserazione di fronte al vano dibattersi degli uomini in una ragnatela ch’essi stessi si creano, in cui si rinchiudono. Ma forse in lui, a ben guardare, in quel suo persistente accanimento, vi è sopratutto una spinta a cercare; forse in quel suo impegno nell’accumulare prove e riprove della impotenza dell’uomo, insieme alla condanna di ogni velleitarismo, insieme al
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L'ULTIMO TESTIMONE
rifiuto ed alla ripugnanza di fronte alla presunzione di chi troppo si ritiene, di chi troppo conta su di sé e sulle proprie forze, vi è la ricerca di qualcosa, di uno spiraglio che superi una negazione complessiva, la condanna di ogni volontà di intervento. Capovolgendo questa affermazione, direi che perlomeno, nel contesto dei suoi romanzi, degli scritti di Bonsanti, mai si possano
cogliere un moto di radicale scetticismo, il compiacimento soddisfatto delle proprie conclusioni negative, o perlomeno radicalmente riduttive del destino dell’uomo. Credo insomma che, in un’accurata ricerca nei suoi testi, si possa
invece sorprendere a volte, perlomeno a barlumi, la ragione profonda di quella che per lui era una necessità. Poiché infine quella dedizione allo scrivere che lo sostenne durante tutta la sua esistenza e che fu la prima ragione di essa ci costringe a credere che nello scrivere egli non solo constatasse, portasse le prove della piena e totale disintegrazione della realtà e dell’uomo, ma anche cercasse, accanitamente, faticosamente, forse dolorosamente, la via, il modo
di uscirne, insomma la via per credere nel valore della presenza dell’uomo con una sua motivazione di fondo. In ogni modo, a comprovare quale fosse la sua convinzione di un compito dell’uomo, del suo codice di comportamento, ci resta la testimonianza esplicita dataci da lui nel Racconto militare e da lui mai smentita, neppure mai corretta. In quel lungo racconto, di fondo evidentemente autobiografico— nel senso che lo scrittore si impersona nella coscienza del protagonista e nella sua convinzione di sé, del posto che gli spetta nella società, nella sua ristretta società, ma al tempo stesso in quella più vasta, nella vita, egli si attiene ad un principio del dovere, del modo in cui l’uomo deve comportarsi sia nei confronti degli altri, sia rispetto al proprio lavoro, all’attività ch’egli svolge, ch’egli è chiamato a svolgere. L’uomo, qualunque sia il posto da lui occupato nella società, deve agire secondo un ben preciso principio di moralità; egli infine ben sa di doverlo tenere ben presente in ogni momento del proprio agire, della propria attività, per quel che gli compete fare, di fronte agli altri ma ancor più di fronte a se stesso. Egli può errare, ma l'importante si è ch’egli si avveda e riconosca il proprio errore; egli può anche essere frainteso, può incorrere in scacchi; quel gesto, quell’azione che avrebbero potuto procurargli un premio, un riconoscimento, possono anche essergli computati a suo danno; ma quel che importa, quel che resta definitivo per lui, si è il fatto ch’egli abbia sempre la chiara coscienza di aver agito, per quanto stava in lui, per quanto era nelle sue possibilità e capacità, nel modo più onesto; rispettoso appunto di quel codice morale che la società in cui vive si è formata, che sta alla base di essa; anche al di là di quelle che ne sono le manifestazioni più
esteriori; e sopratutto di quelle che ne sono le deformazioni, le alterazioni. E si noti come, infine, in quel racconto, se pure dopo travagli e contrasti, il
LA PRESENZA
ININTERROTTA
DI A. BONSANTI
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protagonista giunga non solo a dimostrare la giustezza delle proprie scelte, l’onestà lineare del proprio agire; ma ad ottenere anche dagli altri, ed anche da chi in qualche modo della sua intransigenza ebbe a soffrire, un riconoscimento, la giusta e meritata convalida. E così si confermava anche in un suo testo quella norma cui sempre Bonsanti, durante il corso della sua esistenza, nel rapporto con gli uomini, si era attenuto, o perlomeno aveva teso ad attenersi: quella del rispetto degli altri; e non solo per poter godere del loro rispetto, ma per godere del proprio rispetto di sé. E si noti come Bonsanti si impersonasse, in quel racconto, in un personag-
gio minore; in un personaggio ben lontano da ogni possibilità ed anche da ogni desiderio, pur nei limiti della sua funzione, di protagonismo. Con ciò prefigurandoci quale fosse il posto ch’egli riservava a se stesso nella società in cui viveva, infine anche in quella letteraria. E difatti egli mai volle essere, mai si atteggiò a protagonista; ma forse, con il suo comportamento ed in tutta la sua attività, egli tendeva a svalutare, addirittura a contestare ogni volontà, la
consistenza stessa del protagonismo. Per sua scelta, e rispondendo alla sua più profonda natura, egli poneva in primo piano il fare rispetto all’apparire; ed il fare nel miglior modo possibile; cioè con il senso ben preciso delle proprie possibilità. A questo principio, e quanti lo conobbero lo possono testimoniare, egli si è sempre attenuto durante la sua lunga esistenza; questa era la convinzione che lo sosteneva e lo guidava in ogni sua scelta; e questa infine era la risposta ch’egli dava alla domanda che sempre si poneva nei suoi romanzi, in tutta la sua opera. Se questa infine si concludeva con un interrogativo che poteva anche assumere il carattere dell’angoscia, al di fuori di ogni accento del testo; se, nell’assurdità dell’essere e dell’esistenza dell’uomo, lo
scrittore, per dovere di sincerità con se stesso non poteva offrirci un’indicazione che la superasse; se a nessuno dei suoi testi della maturità poteva dare una risoluzione comunque positiva; per proprio conto, nel suo agire, nel suo comportamento, a quell’interrogativo egli aveva dato una risposta; e con tutta
la sua esistenza l’aveva testimoniata. Se si può parlare di una religiosità laica, ad essa certamente Bonsanti si attenne. Per questo, all'annuncio della sua scomparsa, io, come credo molti altri, siamo stati presi da un senso di sgomento, di vuoto; come se improvvisamente sentissimo che ci veniva a mancare
un uomo su cui sempre avevamo contato ed ancora contavamo, la cui misura restava per noi un punto di riferimento sempre sicuro; che sempre ci poteva
aiutare a ritrovare in noi il nostro più giusto equilibrio; che ci dava l’affidamento di poter operare e di poter essere presenti nella realtà con la limpida coscienza del nostro limite umano. 1984-1988
Il mio sodalizio letterario con Vittorini
Tra quelli che sarebbero divenuti i miei amici di «Solaria», — Bonsanti, Montale, Loria, Franchi, Nannetti, Timpanaro,- Vittorini fu il primo, poco dopo il mio arrivo a Firenze nell’autunno avanzato del 1930, a stabilire con me un rapporto di confidenza, a pormi sul suo stesso piano dandomi del tu, discutendo con me e spingendomi a manifestare le mie opinioni, i miei giudizi anche di fronte agli altri, quando mi trattenessi per timidezza o per pudore. E fu per lui se anche dagli altri fui infine accettato; dopo un primo periodo quasi di apprendistato, a pesarmi, a considerare se avessi le qualità e le capacità per essere accolto nel gruppo, per farne parte a piena ragione. Quando io arrivai, o poco dopo, la condirezione della rivista era passata da Ferrata a Bonsanti. Vittorini, che aveva collaborato con Ferrata per un anno, ed era certo stato l’anno più vivo, più fervido di «Solaria »,- era stato messo
un po’ da parte; la sua presenza tacitamente era stata considerata come troppo ingombrante, magari anche un po’ provocatoria; ed egli aveva difficoltà anche a farsi accettare troppi interventi, troppe recensioni; come se per lui la
rivista rischiasse di assumere un tono, un carattere che agli altri non convenivano, o non convenivano più. Ma egli conservava i suoi modi, il suo costume, non dimetteva dalla polemica, insisteva difendendo la propria presenza, anche scontrandosi con gli altri, contrastando la loro cautela; quasi appellandosi a quello che era stata e che aveva voluto essere «Solaria» sino allora; a
quello ch’essi avevano finito col rappresentare con «Solaria ». Già allora la sua personalità aveva qualcosa di prorompente; ripugnante da cautele e calcoli di opportunità; con il gusto di esprimersi, di fare, di intervenire, con la necessità di una presenza che potesse in qualche modo essere determinante. E poiché la collaborazione a «Solaria» non gli bastava, poiché in essa egli non poteva esaurire ogni sua esigenza, ogni sua spinta; dopo che era stato costretto a rinunciare a quella a «La Stampa» di Torino, di certo di ben maggiore importanza e di notevoli compensi a causa di un grave abba-
glio in cui era caduto scrivendo di un romanzo di James; ecco che gli si offrirono le pagine di «Il Bargello », il settimanale della federazione fascista di Firenze, ed in particolar modo la terza pagina di esso; mentre già da qualche anno collaborava a «L'Italia letteraria», a «Il Lavoro» di Genova e ad altri
IL MIO SODALIZIO LETTERARIO
CON VITTORINI
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giornali e riviste. Ma in «Il Bargello» la sua collaborazione era continua; ogni settimana una o due colonnine di critica letteraria, di critica d’arte, di inter-
venti anche polemici ed anche di politica, di politica della cultura ma anche di ideologia politica. A quel tempo egli conduceva un’esistenza modesta, di ristrettezze economiche. Da «Solaria» aveva una piccola retribuzione mensile per la sua attività di redattore, e così pure da «Il Bargello »; le altre collaborazioni lo aiutavano ad aumentare di un po’ tali ben limitati guadagni; ed intanto aveva dovuto smettere il lavoro di correttore di bozze al giornale «La Nazione» per un disturbo
causatogli da un’intossicazione da piombo. A sollevarlo da tali difficoltà ben presto avrebbe iniziato il suo lavoro di traduttore dall’inglese per la casa editrice Mondadori e quindi per la Bompiani. Ma di tale sua difficile situazione egli non si lagnava, né troppo la esemplava; pareva che tuttavia egli sempre contasse su di sé, sulle proprie possibilità, fidasse su quel che avrebbe potuto fare; come se avesse davanti a sé aperti il futuro, ogni possibile soluzione; infine bastava solo resistere, superare quelli che erano un momento, un periodo di difficoltà; ed egli aveva, nutriva in sé
una grande fiducia in se stesso, nei propri mezzi, nelle proprie possibilità; non temeva di logorarsi, non gli pareva di sprecarsi nelle diverse anche meschine esperienze; anche da esse qualcosa sarebbe nato, anch’esse ad un certo momento avrebbero potuto aprirgli nuove prospettive, offrirgli più ricche scelte; e poi questa fiducia in sé gli veniva confermata ed avvalorata da quella che gli testimoniavano in uno od in altro modo i molti amici, i quali contavano su di lui, i quali erano ben convinti della sua ricchezza umana, della sua apertura intellettuale; e nessuno, neppure quelli che consideravano taluni suoi interventi, talune sue risoluzioni con riserve ed anche con giudizi severi,
gli negavano prontezza e vivacità di ingegno, infine un dono autentico di scrittore. La mia condizione era ben diversa; benché io gli fossi inferiore di età solo di due anni, la mia esperienza letteraria a confronto con la sua era nulla, nulla
avevo pubblicato e nulla avrei potuto pubblicare di quanto già avevo scritto; d’altra parte la mia cultura letteraria, benché molto avessi letto, non poteva se non per taluni settori, competere con la sua; ma egli mai assumeva una posizione di superiorità nei miei confronti e con me accettava la discussione in termini di un’assoluta parità; anzi, nel suo dibattere con gli altri, talvolta sollecitava il mio intervento, mi stimolava ad intervenire, intuendo di poter avere
da me un appoggio; benché io ben poco contassi, benché non potessi pretendere di imporre un mio giudizio, anche soltanto di farlo accettare. Così, senza darlo troppo a vedere, aveva assunto un modo leggermente protettivo nei miei confronti; mi interrogava e mi dava spazio più che me ne
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L’ULTIMO
TESTIMONE
concedessero gli altri alle mie riflessioni, ai miei giudizi sulle mie letture, su quel che mi piacesse e su quel che non mi piacesse; mi dava da leggere quello che scriveva e mi provocava a parlarne in tutta schiettezza; talvolta ascoltando le pur caute limitazioni che gli facevo, ma come sottraendosene motivandole, giustificandosi con il porre avanti esigenze di opportunità; costretto, com°era talvolta ad interventi, a modi del tutto occasionali per rispondere alle richieste della rivista, del giornale in cui scriveva; ma di queste sue concessioni rideva, come se esse infine non lo toccassero, come se per esse non si sentisse com-
promesso; quasi con il gusto di fingersi quale non era, di giocare e di burlarsi di un pubblico troppo lontano dal suo gusto, dalle sue vere scelte. Così, con uno scatto di spregiudicata allegria si riscattava da quelli che gli si sarebbero potuti rimproverare come cedimenti ad una pretesa che gli avrebbe dovuto ripugnare.
Ma c’era tra noi una differenza che avrebbe nostri modi, nel nostro atteggiamento, nei nostri fronte alle sue difficoltà, di fronte alla ristrettezza mia una ben diversa possibilità; io vivevo di quel
anche potuto rapporti l’uno dei suoi mezzi che mio padre
riflettersi nei con l’altro; di c’era da parte mi dava per il
mio sostentamento e per i miei studi; e, se pure non godevo di un’agevolezza
tale da poter soddisfare ogni mio desiderio, ogni mia esigenza, pertanto, giocando con attenzione ed anche con calcolo attento su quelle che erano le mie consuete spese quotidiane, potevo contare su una certa somma per l’acquisto
di libri, di riviste, per la frequenza che mi permettevo ai cinematografi, al teatro, a concerti ed a spettacoli d’opera; il che a lui infine era negato. Mai però a lui venne fatto di accennare a tale sua limitazione, a tale che era un mio vantaggio nei suoi confronti; semmai poteva capitargli di chiedermi una rivista od un giornale nei quali fossero stati pubblicati un articolo, un saggio, uno scritto di qualche interesse, per scorrerli, per leggerli qua e là, a rendersene conto; e gli bastava una tale rapida presa d’atto per coglierne la ragione che per lui più contava; cosicché subito o ben presto me li restituiva con un gesto quasi di insofferenza, anche a rendere meno spiacevoli quelli che erano una sua impossibilità, un suo limite. Così finiva, a volte, che a quella sua condizione di ristrettezze, quasi di povertà, accennava, dandola come scontata; ed anche poteva ricorrere agli amici facendosi forte del fatto che ben raramente e solo per motivi di una
qualche gravità si era affidato alla loro generosità. Ma infine egli era convinto
che la generosità dovesse essere per gli uomini, per qualunque uomo, un costume, tale da improntare ogni loro decisione, ogni loro gesto, e specialmente i loro rapporti con coloro che erano loro più vicini affettivamente, e quindi con gli amici. Ora a tale proposito è significativo il fatto che, se ad un certo momento egli ricorreva, quasi esigeva da un amico un atto di generosità,
IL MIO SODALIZIO
LETTERARIO
CON VITTORINI
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a sua volta, appena gli era possibile, egli quell’atto ricambiava; ancor più, per quanto stava in lui egli era sempre disponibile ad aiutare, a soccorrere chi si trovasse in una condizione più difficile, più bisognosa di aiuto che non fosse la sua; e di tale sua propensione, di tale che in lui era spontaneo impulso può dare testimonianza chiunque lo abbia frequentato. Per quanto mi riguarda, se, quando pubblicò il suo primo libro, Piccola borghesia, a me ricorse perché gli procurassi un certo numero di prenotazioni fra i miei conoscenti e perché ne acquistassi almeno una copia dell’edizione di lusso, contribuendo così, se pure in minima parte, a coprire i costi di tipografia, cui altrimenti non avrebbe potuto far fronte; e se, quando cominciò la sua attività di traduttore affron-
tando i racconti di Poe, mi chiese e poi tenne per sé un vocabolarietto di cui si serviva nel suo lavoro; poi un giorno, quasi assecondando un subito impulso, mi regalò i sedici volumi della Recherche di Proust motivando tale decisione con la necessità di disfarsi di un’opera dalla quale troppo era stato condizionato: quasi a troncare un legame con qualcosa da cui si sentiva ormai lontano. E quelle sue richieste erano sostenute da un modo quasi di sfida, quasi di provocazione, come se mi costringesse a superare, a vincere una mia ritrosia,
anche una mia calcolata parsimonia e sopratutto quel geloso amore per i libri che possiedo; come se infine mi invitasse a considerare quanto modesto fosse il sacrificio che dovevo sopportare a confronto con lo stato di necessità in cui si ritrovava; e nel sorriso con cui accompagnava la sua domanda vi era un estro malizioso ed al tempo stesso pudico, per cui essa diventava invito, sollecitazione; mentre poi, con quel suo dono, a fargli perdere ogni aspetto di contraccambio, a togliergli ogni proposito di volermi sopravanzare, di volermisi imporre con un dono di tanto più prezioso e liberale dei miei, forzati, si mostrava quasi impacciato ed al tempo stesso insofferente;. come se infine fosse lui a chiedermi di sollevarlo da un peso, da una presenza che lo infastidivano; e non è detto che quel suo modo non nascondesse una titubanza, che quella privazione egli non sentisse dentro come uno strappo doloroso. Ed a dimostrare sino a quale limite potesse arrivare la sua generosità, mi basta ricordare come, qualche anno dopo ma quando ancora egli abitava a Firenze, ed ancora non era uscito dalle difficoltà economiche in cui si dibatteva, durante un’invernata rigida, come spesso accade in quella città, incontrato Pratolini- ch’egli da poco aveva conosciuto e con il quale si era già legato di amicizia, com’era suo costume con i giovani nei quali avesse riconosciuto la
presenza di un ingegno vivace, di un amore per la letteratura, e vistolo tutto intirizzito, privo di un cappotto com'era; si tolse quello che indossava e lo costrinse ad indossarlo. E quel suo gesto era motivato da una ragione profonda, poiché il giovane amico era uscito da poco da un sanatorio dov'era stato ricoverato per curarsi di una malattia polmonare. Egli poi all'inverno fece
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L’ULTIMO
TESTIMONE
fronte allegramente con un vecchio impermeabile; se poi non trovò qualcuno che quel suo regalo compensasse con altro consimile. Fu già nei primi anni dalla mia venuta a Firenze che ebbe inizio ed andò rapidamente affermandosi tra noi una sorta di confidente sodalità letteraria. Dopo qualche tentativo di collaborazione ad uno o ad altro giornale «Il Corriere padano», «Il Tevere »,- tramite Bonsanti avevo ottenuto da Federico Gentile, il quale la dirigeva, una regolare collaborazione alla rivista bibliografica «Leonardo» nella rubrica della letteratura contemporanea. Già neppure a me bastavano una presenza intermittente ed il breve spazio concessomi in «Solaria»; e nel «Leonardo» mi sentivo più libero da considerazioni di opportunità che là non fossi. Al caffè delle « Giubbe Rosse », nei nostri incontri quotidiani, con gli amici ma in particolar modo con Vittorini discutevamo dei libri appena usciti, di quanti potevano attirare il nostro interesse, dell’attività e della produzione di uno od altro scrittore contemporaneo, giovane od anziano; e con lui, con le sue scelte ed i suoi gusti quasi sempre concordavo; ci univa l'ammirazione per coloro che ritenevamo esemplari, punti di riferimento di cui non si potesse non tener conto: da Svevo a Palazzeschi, a Pea, da Montale a Saba, da Carlo Emilio Gadda a Comisso; ed al tempo stesso punta-
vamo con decisione su quella che consideravamo la nuova letteratura, sopratutto la nuova narrativa, su Loria, su Bonsanti, su Quarantotti Gambini. Ancora, ci univano il gusto, l’esigenza di parlar chiaro, senza reticenze, di dire quel che pensavamo, senza attenuare il nostro giudizio, anche degli scrittori che collaboravano a «Solaria» o che i solariani tenevano in qualche conto; con la volontà di liberare il campo da quelli che consideravamo ormai come pesi morti.
Certo Montale, il giudizio e le scelte di Montale avevano su di noi una forte incidenza, ma Montale talvolta era reticente nelle sue prese di posizione; e non sempre quel che diceva, quel che affermava, una sua recisa condanna li portava sulla pagina, li tramutava in interventi critici. E forse era proprio una
tale riserva di Montale a spingerci ad una critica del tutto esplicita ed anche polemica. Così giungemmo ad operare quasi di concento: lui sul «Bargello», io sul «Leonardo», talvolta contemporaneamente, recensivamo gli stessi libri, prendevamo in esame l’opera dello stesso scrittore, con prese di posizione analoghe, anche con un tono di sfida, di leggera provocazione. Si può dire che da allora il nostro accordo di gusto, di preferenze e di esclusioni, durò, se pure con qualche differenziazione, con qualche riserva, per tutto il tempo della nostra amicizia, sino alla scomparsa di lui. Ed era un accordo di fondo, del modo con cui dovevamo affrontare e portare avanti la nostra attività letteraria; ancor più, insieme tendevamo ad affermare una nostra convinzione di che
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LETTERARIO
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cosa fosse e di che cosa dovesse essere la letteratura, di quale fosse allora in Italia la vera letteratura, l’unica valida, di quale compito dovessero assumere i giovani scrittori perché questa si affermasse, fosse accettata da tutti. Evidentemente in noi c’era tutto un fermentare di idee, di convinzioni, di
intenzioni e di propositi che andavano sempre più articolandosi ed arricchendosi in una graduale presa d’atto della realtà nelle sue più diverse dimensioni; ma quello che ci sosteneva, quello che per noi restava l'elemento portante e determinante di ogni nostro moto e risoluzione era un gusto dissacrante di quelle che sentivamo come convenzioni ormai scontate, un costume e quindi anche un modo di vedere e considerare la realtà secondo schemi ormai vecchi,
incapaci di coglierla e di restituirla nelle sue dimensioni più nuove, più sollecitanti; e così in noi c’era il gusto di contestare quelli che consideravamo luoghi comuni, e quindi di assumere un piglio di spregiudicatezza; che in lui giungeva talvolta ad accenti di ironia sarcastica sino allo sberleffo, mentre in me si irrigidiva in una condanna di principio; come se per essa facessi sempre appello ad una nuova moralità, ad una diversa convinzione di vita. Ci accadeva così per l’una e per l’altra via di azzardare una polemica implicita con le manifestazioni più appariscenti e pacchiane di quello che era il costume ufficiale del nostro paese, prendendo di mira e mettendo in stato di accusa quegli scrittori che vi accondiscendessero, tendessero a farsene portatori; e così ci
pareva, con tali nostre prese di posizione, con tali scelte, di sfidare, se pure per vie traverse, il potere, chi il potere deteneva; insomma il nostro anticonformismo si manifestava nell’unico modo che ci pareva consentito ma al tempo stesso in esso portavamo una carica che mirava a colpire un termine che
stava al di là di quello cui all’apparenza ci riferivamo. E che quel nostro atteggiamento, quel nostro comportamento potessero portare ad un qualche risultato, anche maggiore di quello che potessimo sperare ed attenderci, ci fu dimostrato dalla reazione imprevista di uno degli scrittori che con maggiore cattiveria avevamo
concordemente
condannato
nella sua opera evidentemente celebrativa del regime dittatoriale e dell’uomo che lo incarnava. Un giorno Elio mi avvertì che Vitaliano Brancati, di cui non da molto tempo era stato pubblicato L’amzico del vincitore ed il quale aveva assunto il ruolo e la rinomanza di scrittore ufficiale, interprete accreditato di chi deteneva il potere, era giunto a Firenze per incontrarsi con noi, per discu-
tere con noi. Ci ritrovammo tutti e tre a desinare in una di quelle piccole trattorie che solevo frequentare con Montale e l’incontro ci dimostrò come Brancati non soltanto non ci fosse ostile od almeno dispiaciuto per il rifiuto con cui avevamo condannato quel suo libro; ma come addirittura egli intendesse confrontarsi con noi, quasi cercasse in noi una convalida, una conferma di una nuova ricerca che in sé andava maturando; alla quale pareva persino
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che noi lo avessimo spinto, addirittura costretto con il nostro perentorio rifiuto. Evidentemente egli era persona che aveva agito ed agiva in piena buona fede, percorrendo anche un cammino difficile, poiché infine di quel suo successo avrebbe potuto restare vittima, chiuso in uno schema dal quale avrebbe potuto ricavare ogni vantaggio pratico ma che al tempo stesso gli avrebbe impedito di rendersi conto e di approfondire quella realtà ch'egli pure andava tentando e che andava sempre più rivelandoglisi diversa da come in un primo tempo gli era apparsa secondo gli schemi letterari più adusati. In tal senso la nostra parola e la nostra presenza lo confortarono a ritrovarsi in una nuova dimensione; e la sua fu una scelta coraggiosa e decisa. Né io né Elio avemmo più in quegli anni l’occasione di incontrarlo, ma la pubblicazione del romanzo Gli anni perduti, nel quale con evidenza si esprime la crisi nella quale egli è caduto, e la scelta ch’egli per pubblicarlo fece dei fratelli Parenti i quali erano stati gli editori e di «Solaria» e dei primi volumi di Elio, da Piccola borghesia a Viaggio in Sardegna, sino a Nome e lacrime, e pure dei miei primi libretti polemici, stanno a testimoniarci una consonanza, forse anche soltanto una coincidenza, di lui con noi, in un momento di profondo travaglio intellettuale, letterario e morale, di cui erano partecipi per la più gran parte i giovani scrittori in quel torno di tempo. Furono quelli anche per Elio anni tormentosi ed inquieti, tutta la sua esi-
stenza ne era mossa ed agitata nei più diversi sensi; e finì che la dimensione fiorentina, pur nelle diverse frequentazioni ch’egli ne aveva, pur nelle diverse esperienze che vi aveva fatto e che andava facendovi, si rivelò come un limite alla sua iniziativa. A Firenze ancora si pubblicavano parecchie riviste letterarie, avevano la loro sede alcune tra le case editrici più importanti nel nostro paese; ma vi mancavano una decisa volontà di rinnovamento, la ricerca di
nuove soluzioni, l'esigenza di uscire dai termini ormai chiusi di un dibattito culturale ristretto ad una cerchia di competenti, ad una zona elitaria. Dopo il suo primo viaggio a Milano egli si sentiva attratto da quella città, dal suo fervore di attività, dalla possibilità in essa di innestare il lavoro letterario in un ambito più vasto, di farne elemento propulsore di un rinnovamento civile. Con la sua opera di traduttore egli aveva già stabilito un rapporto con le case editrici Mondadori e Bompiani; ma fu proprio Valentino Bompiani a rendersi conto della sua volontà e capacità di operare, di realizzare, a comprendere quale prezioso collaboratore egli potesse essere per la sua attività; e
gli affidò la direzione della collana «La Corona» e della serie di antologie di scrittori stranieri.
Vittorini era un autodidatta; direi che era autodidatta per vocazione e per scelta; egli rifuggiva da schemi, da norme scontate, da tutto quello che si presentasse con i caratteri della ripetitività; egli tendeva sempre alla scoperta,
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al nuovo, all’inedito; a capovolgere i giudizi fatti; od almeno a verificarli, nella certezza che ogni valore assodato, considerato indiscutibile, dovesse essere continuamente verificato, cimentato; e nella convinzione che ogni letteratura,
ogni cultura celassero in sé preziosi tesori mal conosciuti, trascurati dalla incomprensione, dalle remore di una sottaciuta censura, da falsi pudori o da prevenzioni ottuse. Ora, per tale suo gusto di ricerca e di scoperta, egli era pronto ad accettare ed a far propri ogni suggerimento, ogni indicazione, da qualunque parte gli provenissero; ad investirsene con nuovo entusiasmo; e quindi anche a comunicare agli altri la propria nuova proposta, la propria nuova scelta. Perciò naturalmente egli tendeva alla collaborazione, ad avere accanto a sé chi poteva rispondere a tale sua stimolante presenza; chi, ricco di una cultura più vasta e
più approfondita ch’egli non avesse, potesse immetterlo in campi a lui sconosciuti o mal conosciuti; ma sopratutto chi, come lui, fosse anche capace di andare al di là, di capovolgere i giudizi scontati e di scoprire nuovi valori da mettere in luce. Da ciò la sua diffidenza di fronte a professori titolati; come se essi fossero depositari di valori di cui essi stessi non si rendevano conto, che essi non apprezzavano per quello che era il loro vero significato. Uno scrittore come lui, sostenuto dalla sua ansia di conoscenza, anche se non fornito degli strumenti di cui quelli disponevano, aveva in sé quelle doti di intuito che gli permettevano di diventare elemento determinante nello svolgimento, nell’arricchimento e nel rinnovamento della cultura, anche della vita morale e civile
di un popolo. Ma, insieme a questa sua perentoria e decisa sicurezza di sé, delle proprie
scelte, delle proprie improvvise intuizioni, egli in sé nutriva altra tendenza, altra esigenza; che proprio da quelle nasceva; come se ad un certo momento si sentisse costretto a motivarle, a dar loro una ragione, ed al tempo stesso a coordinarle, a legarle l’una all’altra secondo una norma; così da dare ad esse anche una forza costruttiva, da renderle in qualche modo esemplari. Insomma a volte egli sentiva la necessità di rifarsi a delle prime ragioni, a dei primi principi; e qui questa sua ansia di ricerca, questa sua volontà ordinatrice si trovava di fronte ad una mancanza di strumenti, ad una sua impreparazione;
insomma in tali casi egli avvertiva come il suo autodidattismo gli costituisse un limite. Però non per questo si rassegnava, anzi ancor più si impuntava nella
propria ricerca, anche costringendosi a crearsi quegli strumenti, ad apprendere quegli elementi che nella prima giovinezza la scuola, male frequentata ed interrotta, non gli aveva dato. Ecco perciò che, quasi intermittentemente, in momenti diversi della sua esistenza, ma quando era preso dalla necessità, dall’ansia di fare il punto, di concludere una propria esperienza, di mutare in qualche modo il corso della
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propria vicenda letteraria, culturale ed anche civile; e quando in tal senso proprio gli accadeva di sentire insufficiente la dimensione narrativa; ecco ch'egli tendeva al saggio, ed al saggio ideologico. E si veda come, alla ristampa
di I/ garofano rosso, egli sentisse il bisogno di premettervi una motivazione di
carattere ideologico; e si veda come più avanti, in un momento per lui di grave crisi, quasi a concludere il proprio passato, a fare il punto su di esso, egli tentasse di rifarne tutta la storia, di ricuperarne tutto il corso con il Diario in pubblico; e si veda il lungo travaglio cui si sottopose, di studio e di applicazione su testi da lui sino allora trascurati od appena sfogliati, nella preparazione di quella che doveva essere l’ultima opera da lui lasciataci, con Le due tensioni.
Ma di tale esigenza, di tale suo ricorrente tentativo in quella che ne fu la prima prova, dovevo essere anch'io uno dei pochi testimoni. Fu questo nel primo o nei primissimi anni del suo soggiorno a Milano; mentre la sua esisten-
za era completamente cambiata e gli si apriva una prospettiva di lavoro, di un’attività prima da lui forse neppure previste, addirittura neppure sperate. Con deciso impegno, che io sappia non sollecitato da nessuno ma solo per rispondere ad una propria esigenza impellente, si mise a scrivere un saggio di una notevole dimensione, da farne diciamo un libretto, perlomeno un opuscolo, di fondo ideologico, sul destino dell’uomo, sugli strumenti di cui l’uomo dispone di fronte alla realtà. Diciamo che in quel tempo il momento, la temperie che vivevamo ci costringevano quasi a riflettere ed a renderci conto di quel che eravamo, di quel che avremmo dovuto essere e sopratutto di quel che avremmo dovuto fare; ed egli, sempre pronto a cogliere le richieste che in modo più o meno preciso percorrevano e sommovevano il nostro mondo culturale e letterario, ed anche il nostro mondo di uomini; volle rispondervi. Mi fece avere il manoscritto appena portato a termine; ed io,- che in quel
tempo, proprio in consonanza con quella sua condizione e con la condizione di chiunque in quegli anni tendesse a prendere coscienza di sé, mi ero dato a studiare i filosofi, il corso della filosofia, con una dedizione perseverante,
quasi accanita, tralasciando ogni altra lettura, ogni altro interesse subito lo lessi, pronto a concordare con lui, pronto a partecipare a quella sua sollecitazione, a quel suo invito. Ma, a lettura terminata, non potei che riconoscere il velleitarismo di quel testo, proprio la impreparazione culturale di chi aveva affrontato, e sia pure con animosa passione, argomenti sui quali da sempre si erano arrovellati gli uomini, i filosofi. Si trattava insomma, a mio parere, di un’improvvisazione dilettantesca e velleitaria; Elio tentava di dare una risposta ad interrogativi che lo angustiavano e che angustiavano tutti, ma neppure ci riusciva, vi si affannava intorno senza giungere a nessun esito; e neppure, nella sua esposizione, riusciva a darle un accento stilistico per cui essa potesse
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essere ricuperata per tale via. Con lui fui, come solevamo, di una franca schiettezza, ed egli non mi replicò, o meglio, se mi rispose, non fu per rifiutare il mio giudizio. Credo anche che proponesse la lettura di quell’operetta ad altri amici, e certamente a Giansiro Ferrata, ma anche la loro risposta, i loro
giudizi furono negativi; ed egli probabilmente lo distrusse; certo non più me ne parlò. A me rimase il rammarico di averglielo restituito, di non averglielo chiesto in dono; ché forse egli me lo avrebbe lasciato, fiducioso della mia capacità di conservazione di testi e di manoscritti di amici. In quei primi anni dopo il suo trasferimento a Milano egli aveva già dimostrato la sua capacità di inserirsi nel nuovo ambiente e di imporvi le proprie iniziative, sia con il ricupero e la rilettura di scrittori italiani e stranieri nella collana «La Corona», sia con gli ampi panorami antologici iniziati con il successo contrastato ma perciò ancor più stimolante di Arzericana. Proprio in
quel tempo io mi trovavo in Romania, lettore di italiano in un Politecnico e direttore di un Istituto di cultura; ma durante le vacanze estive tornavo in Italia, mi recavo a Milano, a Firenze, a Roma, a riprendere i contatti con gli
amici scrittori, e per primo mi incontravo con Elio il quale mi informava e mi rendeva partecipe della sua attività e dei suoi progetti, sempre sostenuto da un fervido entusiasmo, dal gusto di fare ed anche dal compiacimento di sentirsi al centro di un dibattito, di promuoverlo continuamente con il consenso e l’adesione di quegli scrittori, di quegli uomini di cultura che sopratutto stimava ed in modo particolare dei giovani. Poiché, in tale sua nuova attività, egli dimostrava la sua capacità di coinvolgimento, di collaborazione, di stimolo nei
confronti anche di persone che sino allora avevano preferito lavorare in silenzio, appartati e ch'egli improvvisamente valorizzava per un loro apporto, per un loro contributo, spesso prezioso, ad un’opera di carattere collettivo. Proprio in quel tempo in cui preparava ed andava realizzando Azzericana, io mi incontrai ripetutamente con lui e potei rendermi conto di come, attraverso quest'opera, la quale si presentava come un'antologia di testi narrativi, egli tendesse a dare la rappresentazione di una propria idea della letteratura, di quel che dovesse essere la letteratura; e lo faceva con una implicita volontà di innovazione, persino di rottura di ogni schema precedente; per certo verso quasi a continuare ed a convalidare il risultato raggiunto in tal senso con Conversazione in Sicilia; poiché egli era sostenuto sopratutto dall’ansia ed insieme dalla convinzione di poter essere portatore, di potere esprimere in termini evidenti quella che era la convinzione di tanti giovani scrittori, della sua età o di un’età minore della sua, che fosse ormai il momento o che stesse
per giungere comunque il momento di profondi cambiamenti, di profonde
mutazioni, e non solo nel nostro paese, e che in tale momento di crisi e di salto
in avanti la cultura e la letteratura dovessero avere un posto preminente, per-
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lomeno dovessero farsi portatrici di una spinta, di una sollecitazione, addirittura di una proposta. Un giorno, mentre discutevamo sui nomi degli scrittori cui egli aveva affidato la traduzione dei vari testi di Arzericana, ad una mia domanda che già suonava come maliziosa, me la confermò ridacchiando; davvero non a caso a Moravia egli aveva proposto di tradurre un racconto di Dreiser; infine nell’antologia questo scrittore stava a rappresentare la controparte, la vecchia letteratura, una vecchia concezione della realtà e della letteratura, che si poneva sotto l'insegna della massiccia presenza di una realtà ostile a qualunque volontà, a qualunque spinta innovatrice dell’uomo, a qualunque suo tentativo di incidere su di essa per trasformarla; ed infine una consimile posizione aveva assunto da noi Moravia; che lui ed io consideravamo come del tutto legato ai canoni di un postnaturalismo ormai privo di ogni carica di protesta, di rivolta, ormai chiuso nel giro di un’amara constatazione di permanente ed ineluttabile sconfitta. Ed ormai, proprio per questa via, proprio in quanto sempre più prendeva coscienza del momento storico in cui viveva, in quanto sempre più era parte-
cipe di quel travaglio che ormai permeava e condizionava tutto il paese, egli tendeva a trasferire in un campo pratico quella che sino allora era apparsa come una battaglia letteraria; ormai, proprio quella sua tendenza, quel suo proposito di farsi portatore di qualunque sollecitazione al nuovo, ad un radicale sovvertimento della vecchia società, del vecchio costume, lo avevano por-
tato ad incontrarsi ed a stabilire rapporti di reciproca fiducia con intellettuali legati al partito comunista. E fu proprio allora, quando Americana era stata ormai pubblicata ma, nella sua prima edizione, bloccata dalla censura, ch'egli me ne affidò un esemplare non ancora rilegato da consegnare ad Alicata, a Roma, dove io mi sarei recato; e così mi confermava di avere già stabilito uno
stretto legame con quel partito che operava in clandestinità, mentre al tempo stesso con tale suo atto di fiducia in me mi aveva confermato una sodalità, una consonanza che ci facevano vicini in ogni senso, in ogni risoluzione.
Così Elio andava sempre più confermando e svolgendo quella sua capacità di aggregazione degli altri ad un suo progetto, ad un suo proposito che ritengo si possa definire eccezionale e che si presentava come elemento costitutivo ed insieme conseguente della sua generosità. Con gli amici, con coloro in cui aveva fiducia egli stabiliva sempre un rapporto che era di dare e di avere; mai intendeva imporsi a loro ma sempre cogliere in loro quanto vi fosse di ricco, di vivo, di ancora non maturato o non divenuto opera concreta; ed a loro, al
loro parere o giudizio spesso si affidava, anche se per essi si sentisse contraddetto o limitato nella sua attività, nelle sue aspirazioni; ed in tal senso in lui vi erano anche una dimensione di umiltà, la capacità di rendersi conto dei propri
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limiti. E sempre, in ogni periodo della sua esistenza, in tutte le sue esperienze letterarie e culturali egli aveva voluto e volle avere intorno a sé dei collaboratori, degli amici; come se senza di loro, senza un continuo confronto con loro
nulla potesse o nulla intendesse fare; così nei primi tempi di «Solaria» quando ne era il redattore responsabile con Ferrata direttore, e poi appunto in quella sua direzione di «Corona» e delle antologie di letterature straniere fu Ferrata il suggeritore primo e determinante delle sue scelte; tanto che, almeno per «La Corona», si può parlare persino di un lavoro a due. Poi, più avanti, nel periodo del «Politecnico», Vittorini saprà circondarsi di giovani collaboratori i quali si affiancheranno a Ferrata, arricchendo ed integrando il suo contributo. E qui debbo dire che la presenza di Ferrata nella nostra letteratura, e per i suoi interventi, per le sue prese di posizione, e per il suo contributo all'attività di Vittorini, non è ancora stata messa in luce per quanto essa merita, per quanto essa pesò. Quel suo compito di suggeritore fu spesso prezioso
per Vittorini, valse a dargli una sicurezza, una base di partenza su cui egli poteva operare con l’entusiasmo, anche con la vivacità di improvvisazione che gli erano consueti. Dopo la fine del « Politecnico », per lui dolorosa come per uno scacco subito, come per il segno di un limite delle proprie capacità, anche della propria capacità di resistenza, di pertinacia a portare a termine un’opera, Vittorini trovò nei «Gettoni» un nuovo campo su cui operare, in cui trasferire quell’a-
more di iniziativa, di stabilire un rapporto con una realtà umana, per condizionarla, per arricchirla, ma anche per arricchirsi nel contatto con essa, che
ben gli era caratteristico, direi costituzionale. Con «Il Politecnico» egli già aveva stabilito un contatto con i giovani, già si era in un certo senso identificato con i giovani, era venuto riscoprendo nei giovani quella spinta, quella passione, quell’entusiasmo che erano presenti in lui; ed i «Gettoni» furono dedicati sopratutto ai giovani, valsero a stabilire per lui un contatto continuo e
direi quasi un dialogo prolungato con i giovani, in un confronto che certo incise anche sulla sua opera creativa. Per un lungo periodo, dodici anni, io avevo vissuto all’estero in Romania
e nel Belgio, e per quattro anni, dal 1942 al 1946,- non ero potuto neppure rientrare in Italia durante le vacanze estive; ma sempre con Elio avevo mantenuto rapporti di amicizia e di confidenza, per quanto era stato possibile; certo fra noi, durante tutto quel tempo, non era continuata quella sorta di collaborazione che s'era avviata ai tempi di Firenze. In ogni modo egli sempre mi aveva sostenuto ed incoraggiato nel mio lavoro. Mi aveva invitato a collaborare al «Politecnico», ed anzi sulla rivista era stata annunciata la pubblicazione a puntate di un mio saggio, purtroppo quando ormai ne era stata decisa la fine; poi aveva presentato ad Einaudi il mio Caraztere degli italiani, che appar-
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ve nella collana dei «Saggi» anche con l'avallo di Antonio Giolitti, allora redattore della Casa. Ora, nel 1950, ero rientrato ed i nostri incontri, a Milano od a Bocca di Magra od a Feltre, erano frequenti, sostenuti da un legame
affettivo che non s’era attenuato per la lunga lontananza, ed anche dalla coincidenza delle convinzioni riconfermate ed arricchite, se pure con contrasti e differenziazioni, che però mai ci fecero diffidenti o distanti l’uno dall’altro.
I «Gettoni» segnarono in un certo senso il ritorno, almeno per me, a quella sodalità di propositi e di intenti che ci aveva legato durante il periodo fiorentino; della collana, del suo programma, dei libri che intendeva pubblicare o che aveva in lettura Vittorini mi parlava in quei nostri incontri e così mi poneva
interrogativi, mi chiedeva un giudizio su scrittori che cominciavano ad avere una qualche notorietà e che egli pensava fosse opportuno sollecitare ad inviargli l’ultima loro produzione per la collana. Di tutti i volumi pubblicati ero attento lettore e poi ne discutevamo; e per essi mi aveva quasi sempre consenziente, benché ponessi l’accento e dichiarassi le mie preferenze per taluno di essi, sentendolo più vicino alle mie scelte, al mio gusto; così per Seminara, per Fenoglio, per La Cava, per la Ortese, per Biasion, per Giampiero Carocci; ed ancora ritengo che questi scrittori abbiano dato il meglio di sé in quel periodo, con quei volumi che certo contribuirono a tenere alto il livello dei «Gettoni».
Ma ancor più, io stesso contribuii ad essa offrendogli dei testi, facendomi intermediario tra lui e scrittori che conoscevo ed ai quali ero legato da lontana o più recente amicizia; e così avvenne che, per quella collana, gli potei inviare
il dattiloscritto di I/ deserto della Libia di Tobino, quello di La tigre viziosa di Antonielli, e che, più tardi, gli segnalai I/ cavallo Pimlico di Cancogni, uscito
in «Comunità», il quale poi da lui venne pubblicato con l’aggiunta di altri racconti. Ma quella che posso definire la mia collaborazione non si arrestò a queste indicazioni o sollecitazioni. Poiché della mia amicizia con Elio si sapeva, mi accadde che alcuni giovani scrittori, od aspiranti scrittori, si rivolsero a me in
quegli anni chiedendomi di far loro da intermediario; ed allora da lui fui sollecitato a prendere visione dei testi, dei dattiloscritti che mi venivano proposti per la pubblicazione, di darne un giudizio, di avallarli, se ne fosse stato il caso, con una decisione favorevole. Volentieri accettai questo impegno, ma
purtroppo non ebbi troppa fortuna; i testi presi in esame non mi parevano degni di pubblicazione; talvolta le discussioni con gli autori erano lunghe e faticose, e sgradevoli; è sempre amaro dover deludere speranze a lungo colti-
vate. Così, anche per non assumermi completamente la responsabilità del rifiuto, indirizzavo a lui per l’ultima decisione l’aspirante scrittore; non fossi
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stato io giudice troppo severo. Ma egli sempre concordò con me confermando quella che mi era apparsa come una dolorosa ma necessaria condanna. Nel frattempo, proprio nei primi anni dei «Gettoni», dal 1950 al 1951, ero andato scrivendo dapprima delle brevi prose, che apparvero sull’« Unità», poi dei racconti che, riuniti, avevano la dimensione di un volume. A tale proposito ricordo del foci 1952, quando egli fu costretto a causa di un dolore alla schiena che lo perseguitava, a recarsi ad Abano per le cure del caso, ed io allora insegnavo a Rovigo,- egli venne ripetutamente a trovarmi, anche per interrompere la noia di quel soggiorno; fu allora forse che gli parlai di questi miei racconti e che glieli proposi per i «Gettoni». Ma, come mi accadeva ed ancora mi accade, sentivo la necessità di rivederli, di riprenderli; non ero
contento della prima stesura; e così passò del tempo prima che potessi consegnarglieli. Ad essi poi, a significare una mia lunga vocazione, volli aggiungere un mio vecchio racconto dei miei primi anni fiorentini; anche se l'argomento e forse anche la scrittura lo distaccassero da questi ultimi. Vittorini era giudice attento e severo dei manoscritti che gli venivano proposti per la collana che dirigeva. Anche se accettava un dattiloscritto, spesso, dopo lunghe discussioni con l’autore, lo sottoponeva ad una attenta revisione, ne escludeva talune parti, lo riduceva in termini più succinti che non fosse nella stesura originaria; questo evidentemente gli accadeva sopratutto con gli scrittori più giovani, al loro debutto; con gli altri, con quelli in qualche modo già noti, egli si limitava al più a qualche consiglio, a qualche indicazione; in un dibattito che era un confronto e mai una imposizione ma che talvolta aveva un esito positivo; che portava cioè ad una qualche modifica, ad una più attenta rielaborazione del testo da parte dell’autore. Per quanto mi riguarda devo dire che Elio mai mi fece delle riserve, mai mi propose tagli o cambiamenti: semmai fu Calvino a sottolineare la farica curera sottoposto il lettore per la mia aggrovigliata sintassi, per la mia talvolta stentata scrittura, ed io, a seguito di questa sua indicazione, credo di ricordare che sottoposi il manoscritto ad un ennesimo attento riesame.
Evidentemente Elio era ben lontano dal mio modo di scrivere; si può dire in un certo senso che tutta la sua ricerca e stilistica e di contenuti si situava in una zona del tutto divergente, opposta alla mia. Però non credo che accettasse quei miei racconti solo per un atto di amicizia; per la sua disponibilità, per la sua continua, sempre vigile attenzione a qualunque testo gli si presentasse con i caratteri di una nuova proposta, di una ricerca comunque impegnata in uno
od in altro senso, egli poteva sentirsi incuriosito e stimolato anche da questo mio. E sopratutto direi vi erano in esso un impegno morale, una volontà di ricerca approfondita e di ricupero della realtà nella sua dimensione più segreta, di far chiaro in me stesso e negli altri, di dichiarare senza reticenze e
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cautele quella ragione di cui mi fossi impadronito, che non potevano dispiacergli, anzi che in certo modo si accompagnavano alla sua ricerca, alla sua ansia di scoperta, di captazione di una nuova realtà, di una realtà segreta,
ancora non rivelata. Del libro, che fu pubblicato con il titolo Utopia e realtà dopo averlo accettato, non mi parlò. Ne scrisse il risvolto, come soleva, ed è una testimonianza, mi pare, di questa sua adesione, di questo suo incontro con me. Calvino poi, alla pubblicazione del volume, ne fece sull’« Unità» un lungo articolo di fervida adesione. Purtroppo né la presentazione di Vittorini, né l’avallo di Calvino, di Pampaloni e di tanti altri valsero a determinarne il successo; esso
non ottenne nessun premio letterario e le vendite rimasero ad un livello piuttosto basso, anche nei confronti degli altri volumi dei «Gettoni». Forse il limite indicato da Calvino nella sua lettera si presentò come decisivo per il lettore comune. Ma il libro aveva pure un suo valore ed un suo significato in quegli anni; come aveva sottolineato Pampaloni e come Calvino mi confermò qualche tempo dopo, inviandomi La giornata di uno scrutatore, che definiva «un racconto guarnieriano ».
Press’a poco con il mio volume ebbe inizio il progressivo esaurimento dei «Gettoni». La collana aveva risposto ad un momento dell’attività di Vittorini; pian piano egli non si riconosceva più in essa; la sua esigenza di una presenza nel mondo letterario e culturale non trovava più in essa lo strumento opportu-
no. Difatti i «Gettoni» erano nati sulla spinta del neorealismo, anche come la continuazione per certi versi del «Politecnico»; in essi, in un primo tempo,
una notevole parte era stata presa dai volumi di testimonianza, della guerra, della prigionia, della lotta partigiana; ridottosi questo filone, sempre presente quello di una resa della realtà attuale nelle sue diverse dimensioni, ad essi si era andato accompagnando altro che appariva ben lontano, addirittura in contrasto con i precedenti; incominciava già lo sperimentalismo che doveva
anni dopo sfociare nelle esperienze della neoavanguardia; e Vittorini, sempre attento e pronto a cogliere ogni novità della società letteraria, spostava i suoi interessi in questo senso. D'altra parte sempre più, in quegli anni, andava attenuandosi in lui la volontà di una presa d’atto, di un deciso inserimento nella vicenda attuale, presente, della realtà. L'esperienza di «Il Politecnico », la delusione subita, il suo distacco dal partito comunista, la sua reazione polemica nei confronti di esso andavano perdendo sempre più la loro importanza,
incidevano sempre meno sulla sua attività; egli sempre più era portato a rico-
noscersi in altra dimensione. Fu intorno a quel tempo ch'egli sentì necessario riflettere e fare il punto su tutta la propria esperienza passata, ricapitolarla, quasi per concluderla lasciando aperta a sé ogni nuova istanza, ogni nuova suggestione. Rapidamente egli progettò e mise in atto la composizione di quel
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Diario in pubblico, nel quale egli ricostruisce, e sia pure secondo una sua ben precisa linea di svolgimento, quelle che erano state la sua storia, la sua vicenda di scrittore sino agli ultimi esiti; con la volontà non tanto di trovare in sé e nel cammino percorso una continua coerenza ma certo con l’aspirazione di dare una precisa testimonianza del fervore, della passione con cui aveva vissuto le proprie diverse esperienze, di come si era generosamente battuto per le proprie convinzioni, di come sempre aveva pagato per esse, mai sottraendosi alle responsabilità assunte, pagando di persona quando si era scontrato con una realtà avversa troppo forte, troppo a lui refrattaria. La composizione di un simile volume non gli fu del tutto facile; credo, o
meglio so, che egli mai aveva conservato copia di quel che aveva scritto, se non per quanto riguardava gli ultimi tempi; e neppure aveva conservato le pagine dei giornali, dei settimanali, delle riviste nei quali i suoi scritti erano stati pubblicati; ed anche se in un primo tempo li aveva messi da parte, li aveva avuti sottomano, poi, nei suoi successivi, ripetuti spostamenti, da Firenze a Milano, ed a Milano da una ad altra abitazione, ed infine, quando la casa
di Milano dove abitava era stata colpita dal bombardamento, essi avevano finito con l’andare dispersi o addirittura perduti. Quindi quell’opera di ricupero, di scelta, di ricucitura di brani, di affermazioni, di indicazioni tolti da tutta la sua ricca opera di recensore, di critico, anche di saggista, ed anche tolti da taluna sua pagina narrativa di una qualche particolare accezione, non gli fu facile; e non sempre gli amici, le biblioteche cui ricorse, che frequentò
potevano soddisfare, accontentare la sua ricerca. Tanto che dovette ricorrere anche a me per ricuperare taluni di quei suoi scritti nelle collezioni di riviste o di settimanali che avevo messo da parte gelosamente e che ancora possedevo. Ed a tale scopo venne ancora una volta a Feltre, e vi restò qualche giorno, ed insieme cercammo e sfogliammo quei vecchi fogli; e purtroppo non sempre potei accontentarlo in quel suo ansioso tentativo di ricupero. Giusto in quel tempo egli, sempre attento alle richieste che gli venissero dal mondo delle lettere, ma anche da qualsiasi parte e che gli si proponessero con nuove istanze, secondo una nuova dimensione, e sopratutto se di esse si facevano portatori dei giovani, cominciò a rispondere a quanti gli si ponevano come possibili interlocutori su di un piano, se non diverso, perlomeno alternativo a quello nel quale sino allora aveva operato; e fosse in un senso letterario che in quello politico; poiché, almeno sino allora, per lui l’uno era stato necessariamente implicito e concomitante all’altro. Un giorno, mi trovavo a Milano, suo ospite, ed assistei ad un suo incontro con un gruppo di giovani
scrittori, i quali già operavano solidalmente con la volontà di innestarsi nel dibattito letterario e politico ed al tempo stesso di rompere vecchi schemi che ancora a quel tempo travagliavano il partito comunista ed in genere il fronte
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delle sinistre; essi speravano di trovare a Milano una casa editrice di buon nome che accettasse di pubblicare la loro rivista; a Vittorini comunicavano le loro difficiltà, le loro aspirazioni, le loro speranze; forse anche indirettamente chiedevano il suo aiuto, od almeno una sua indicazione, una sua proposta. Egli li ascoltava, rispondeva alle loro domande, entrava nel loro dibattito chiedendo loro delucidazioni, precisazioni; ma non si mostrava del tutto partecipe di quel loro travaglio, di quella loro ansia realizzatrice. Persino fattosi diverso, altro da come lo conoscevo, restio ad ogni impegno preciso, restio anche ad una piena partecipazione, si mostrava cauto e quasi diffidente; si
poneva come uno spettatore appena interessato di una vicenda che non sapeva quale esito avrebbe avuto; mentre a quell’esito si rifiutava di dare un apporto. Non che manifestasse un rifiuto, una sua non disponibilità, ma avanzava dubbi, poneva delle remore a quel loro fervore, a quella loro decisa volontà di impegno. Gli accadeva infine come a chi in qualche modo si sente sopravanzato da altri per una via che ancora non è sicuro di iniziare e si mostra ancor più indeciso se iniziarla; quasi attento solo a vedere come potrà procedere il loro passo, come essi potranno avanzare in quel loro cammino; magari disposto ad intervenire, a portare il proprio aiuto solo se ad un certo momento sia davvero convinto di una loro capacità, di una loro coerenza, della generosità del loro impegno. Era già questo forse il tempo in cui cominciava a progettare il «Menabò», od almeno in cui andava proponendosi una sua presenza nella letteratura in modo più rilevante che non potesse fare con i «Gettoni». E proprio il «Menabò» segnò, più marcatamente che non i « Gettoni», il suo passaggio da una ad altra concezione della letteratura, ed al tempo stesso da uno ad altro modo di esprimersi, di scrivere; come ben si può individuare dal confronto fra la prima e la seconda edizione di Le donne di Messina. Difatti, se nei primi numeri del «Menabò» è ancora presente la tematica che era stata caratteristica del neorealismo, con una volontà di presa sulla realtà, di scavo e di approfondimento di essa, ma quindi anche nella volontà e nella convinzione della propria capacità di intervento e di modifica di essa secondo anche un principio ideale, addirittura utopico; in quelli che seguirono sin dal secondo fascicolo della rivista e successivamente, con una presenza sempre più determinante; l’attenzione di Vittorini si sposta sul modo di intendere e di rendere la realtà; infine, ancor più, egli sposta la sua attenzione su altra realtà, su di una
dimensione della realtà altra da quella alla quale sinora si era attenuto; ed ecco che, a collaborare con sé in tale ricerca, egli chiama alcuni di quegli scrittori
che poi saranno definiti sperimentali, da Roversi a Volponi, da Leonetti a
Scalia, a Pasolini, anche a Pagliarani. E per questa via ecco rapidamente prendere quota ed affermarsi, come poeti e narratori, ma anche come critici, con
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prese di posizione a volte programmatiche, quegli scrittori che poi sarebbero divenuti i promotori del gruppo ’63, banditori della neoavanguardia o suoi fiancheggiatori: da Sanguineti ad Eco, da Filippini a De Marco, a Furio Colombo, da Guido ad Angelo Guglielmi; a Manganelli, a Porta, ad Isgrò, a Fantinel, a Pignotti. Infine, forse a rompere, a superare quello che ad un certo momento doveva parergli un ambito troppo chiuso, ma anche a convalidarlo con nuove conferme e secondo nuove e più ricche dimensioni, ecco Vittorini aprire le pagine della rivista alla collaborazione di scrittori stranieri; i quali dettero un apporto e costituirono una presenza di tali dimensioni e di tale importanza in essa da spostarne l’asse in una nuova direzione. E fu il tentativo del «Gulliver» che, se pure fallito, o meglio non portato a termine, resta a
testimoniare quel fervore di conoscenza sempre vivo in lui ed anche della sua volontà di incidere su spazi più ampi, di trovare una concordanza, un punto di appoggio alle sue posizioni in ambienti diversi, confrontandosi con essi, riprendendone motivi ed indicazioni, cui potersi conformare ma anche cui poter dare un proprio apporto. Quasi a compensare quella che era potuta apparire la rinuncia ad un’incidenza più diretta e concreta, anche in un senso politico, sin dalla cessazione della pubblicazione del «Politecnico». In questa sua diversa ed anche un po’ frenetica attività io lo avevo seguito sino ad un certo momento; o meglio, egli di essa mi aveva fatto partecipe sinché e per quanto gli pareva ch’io potessi portargli uri mio contributo, contargli come un punto di riferimento cui rifarsi in momenti di incertezza e di insoddisfazione. Evidentemente ora egli non considerava le mie scelte ed il costume cui andavo attenendomi come esemplari, od almeno come praticabili anche da lui; c’era sempre in lui la volontà di esiti rapidi, di conquiste evidenti; e nella realtà, in qualunque realtà, egli cercava quella via, quell’ambiente che paressero offrirglieli. Certo il momento era inquieto, gli spazi che, nella nuova società, ancora risultavano aperti agli intellettuali, agli scrittori parevano ridursi sempre più, la loro capacità di incidenza sulla realtà appariva sempre più limitata; ed egli a tale esclusione non si rassegnava, e, a reagirvi, si proponeva sempre nuove mete, tentava le vie più diverse. Certo la mia, quella che avevo preso e perseguivo, gli diventava sempre più lontana; e così nei miei confronti egli poteva sentire anche una qualche insofferenza, come se io gli ricordassi qualcosa, un modo di essere e di comportarsi da cui andava sempre più distinguendosi. Per quanto sull’ultimo risultato, sulla meta da proporsi, sui fini da attingere si potesse sempre concordare, si faceva sempre più forte tra noi la differenza sulla via da percorrere per giungervi. Ma poi forse egli in me avvertiva una rigidezza che lo respingeva. In quei tempi difficili evidentemente ogni scelta costava e pesava, ci imponeva anche delle esclusioni, delle limitazioni; ed io sentivo i mezzi umani, i miei mezzi, troppo limitati, troppo
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esigui per permettermi di giocare su diversi piani, di impegnarmi in diversi sensi. Però quello che non accettavo e non ammettevo per me non condannavo e non escludevo negli altri; l’attività, la presenza degli altri, anche se diverse dalle mie, anzi ancor più se diverse, mi attiravano, stimolavano la mia curiosità, il mio interesse; in nessun modo volevo escludermene, escludermi dalla capacità di capirle. In tal senso io potevo ancora essere vicino ad Elio, ma forse tale modo a lui non bastava; forse in lui, in quella sua frenesia di ricerca, in quel suo spasimo di cogliere e di affidarsi a qualunque moto, a qualunque suggestione gli pareva avessero una forza di incidenza, di determinazione sulla realtà, vi erano la ripugnanza ed anche la ripulsa di qualunque ostacolo, di qualunque impedimento che ad essi si contrapponessero. Insomma in lui ora, come in qualunque altro momento della sua esistenza in cui gli si era presentata la necessità di una scelta, prevaleva il gusto spregiudicato di respingere qualunque costrizione, qualunque calcolo di opportunità; od anche soltanto qualunque accondiscendenza a soluzioni che tali potessero apparirgli; poiché sempre era presente in lui con la sua forza determinante il gusto dell’avventura, della novità, dell’invenzione; cui si abbandonava senza reticenze, senza calcoli; poiché sentiva, o meglio riteneva, che questa fosse la
sua forza, che in questa spericolata disponibilità consistesse la sua più autentica ragione di essere. E difatti, se egli umanamente si definiva in un modo bene esplicito e deciso, si era proprio per tale sua generosità, che era generosità di intendere, di accettare gli altri, anche di sovvenire e di darsi loro; ma era
anche generosità di accogliere, di tentare, di perseguire le più diverse esperienze, di giocare su di esse ogni propria riserva; ed era infine la sua sempre viva, sempre rinnovata capacità di entusiasmo, di cogliere ogni sollecitazione gli giungesse di fuori con il gusto di investirsene, di farsene portatore, senza calcolarne la possibilità di successo, di affermazione; ma quasi ancor più stimolato dal rischio che poteva correre, dalla difficoltà dell'impresa. Sin dai primi anni dopo il mio rientro dall’estero, Elio aveva ripreso la
vecchia consuetudine di venirmi a trovare a Feltre, e ciò sopratutto dopo che si era reso conto di come io non avessi mutato per nulla il mio comportamento nei suoi confronti a seguito della sua polemica con il partito comunista e della sua uscita da esso; ché anzi, per quanto non avessi seguito e non intendessi seguire il suo esempio, condividevo talune sue posizioni di critica e di
insoddisfazione sulla politica culturale da quello perseguita. Forse la comprensione ch’egli trovava in me ed al tempo stesso la diversità della mia posizione, quella mia convinzione che nel partito vi fossero spinte ed esigenze che infine lo avrebbero portato a quel rinnovamento auspicato da lui quanto da
me, lo facevano desideroso di un continuo confronto con me; come se egli attraverso me sentisse non ancora del tutto spezzato un legame, un rapporto
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che tanto avevano condizionato la sua esistenza e la sua attività in un periodo travagliato ed esultante. Ed ancora vi era forse in lui la ricerca di un diverso clima, di un ambiente diverso da quelli di Milano, di una grande città, dove la polemica e gli scontri tra politici ed intellettuali erano accesi e mai tacitati, anzi sempre più esasperati nelle continue occasioni di incontro e di confronto.
E ch'egli fosse convinto, per quella che era la mia pur continua presenza nel partito, di una ancora ricca ed articolata dimensione di esso, di una sua mai del tutto spenta possibilità di rinnovamento mi fu confermato un giorno da una sua venuta improvvisa e del tutto inattesa; lo accompagnava un suo amico francese, scrittore e saggista, anche a me noto per le sue recenti prese di posizione, come lui in dissenso con il partito comunista cui era appartenuto.
Ed Elio, nella discussione che ci impegnava e che mi vedeva spesso consenziente con i loro rilievi, nella loro polemica, insisteva nel mettere al confronto
le posizioni rigide e ferme del partito comunista francese per sottolineare la ben diversa articolazione di quello italiano; e quindi la opportunità di una continua presenza critica, di uno stimolo continuo di quanti, pur essendogli vicini, non potevano accettare una disciplina che significava costrizione ed imposizione, che impediva ai più vivi fermenti pur presenti in esso di svolgersi, di affermarsi in una pratica quotidiana. Ma questo suo atteggiamento di attesa impaziente non ebbe lunga durata. A Feltre, nel desiderio di renderlo partecipe di una mia profonda conseguenza, io lo avevo immesso nelle mie frequentazioni, nell'ambiente che era divenuto il mio; lo avevo fatto conoscere a quelli che erano i miei amici, i miei compagni, contadini ed operai; ed egli si era compiaciuto di stabilire con loro un rapporto amichevole, si era incuriosito delle loro abitudini, delle loro attività; ma, mentre da un lato umano aveva di un subito aderito a loro, aveva raggiunto con loro una piena comprensione, tanto che la sua fantasia era stata stimolata da uno o da altro momento della loro esistenza, della loro esperienza, appena era approdato con loro ad un discorso politico, appena li aveva stimolati ad esprimere le loro convinzioni, si era riconosciuto da loro diverso e distante; spazientito e persino irritato per quella ch’egli considerava la elementarietà delle loro idee, dei loro principi, per la loro disinformazione, infine per quella ch’egli riteneva la loro chiusura settaria; cosicché finiva ch'egli li aveva sentiti troppo da sé lontani, che neppure aveva avvertito la possibilità di stabilire con loro un linguaggio comune, di partire da una comune tematica come all’inizio di quel loro rapporto aveva sperato. Non so se questa che non poté non essere una delusione abbia avuto su di lui una tale incidenza da condizionare le sue scelte successive; ma, in quello stato di inquietudine, di insofferenza, di ricerca un po’ spasmodica in cui si trovava, forse essa ebbe un suo peso; o forse le suggestioni che gli venivano da
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altra parte, in altro senso, avevano su di lui una forza suasiva cui non si sapeva
sottrarre; sempre più egli era attirato da quelle attività che si svolgevano in un ambito letterario, non staccato dalla presa di posizione politica, ma tendente a sottrarsi ad ogni implicazione con la politica. E sempre più egli aspirava ad affermare la sua presenza in una dimensione più vasta che non fosse quella nazionale, come se negli scrittori francesi e tedeschi e di altra nazionalità europea egli trovasse un riscontro, una possibilità di intesa quali non gli erano stati concessi, quali non aveva mai trovato nel suo paese; frequenti ormai erano i suoi viaggi all’estero ed egli coglieva ogni possibilità gli si offrisse per
nuovi incontri al di là dei confini nazionali, e fossero convegni come premi letterari, come anche soltanto incontri nei quali studiare nuove possibilità di collaborazione, di iniziative. Pareva, nel periodo precedente la malattia che lo doveva colpire troncando infine la sua esistenza quando egli era in un’età ancora ricca per lui di possibilità e di attese, ch'egli fosse colto da una sorta di fervoroso ed ansioso urgere, da un continuo spasimo di nuove esperienze, come se la sua curiosità avesse
assunto modi esasperati, come se egli fosse inteso per una spinta inarrestabile e sempre insoddisfatta a tutto cogliere, a tutto sperimentare. Ed era il suo nuovo interesse per la musica anche la più moderna e per l’urbanistica e per l’architettura e per il cinematografo; ed era persino il suo gusto nell’apprendere a guidare e nel guidare l’automobile e per l’esercitarsi con la macchina da presa nella fattura di brevi film di natura del tutto occasionale. E sembrava davvero che questa frenesia di attività gli nascesse dall’esigenza di respingere, di allontanare da sé quell’insidia che già dentro gli si celava, che dal di dentro gli andava minando segretamente il fisico, la persona. Ma oggi, a tanti anni da quel tempo, ripensando a lui, a quel suo modo di essere e di manifestarsi che infine aveva il carattere dell’eccezionalità, dell’esasperazione; non posso fare a meno di risalire da essi a quella connotazione che ha improntato la sua persona, la sua presenza e la sua attività, e quindi anche i suoi libri, sopratutto quelli cui ha lavorato con maggiore impegno, con la volontà di dar fondo in essi a quello che più gli urgeva, di rispondere a quegli interrogativi che da sempre gli si ponevano. Se noi ci riproponiamo la ricerca di come siano composti, di come si articolino i suoi romanzi, da I/ garofano rosso ad Erica e i suoi fratelli, a Conversazione in Sicilia, a Uomini e no, a Le donne di Messina, a Le città del mondo, sino all’ultimo, appena iniziato e troncato dalla sua morte,- ci risulta evidente come quell’empito di vivacità, di felicità accalorata che li improntano tutti al loro inizio, nella loro apertura e che li regge per un certo numero di pagine, con il proseguire della narrazione, con il suo svolgersi, si vada gradualmente smorzando; come se lo scrittore avesse esaurito quel suo primo slancio; ed
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ecco quindi, a sostenere l’accento, il tono della narrazione, a ravvivarli, ecco ch’egli tenta altre vie, altre risoluzioni, si pone da un’altra prospettiva; gli accade come se, esaurito un modo di considerare la vicenda che narra, la realtà che gli si è offerta, si propongano altro modo, altro punto di vista. Ciò è ben patente in I/ garofano rosso ed in Conversazione in Sicilia; in Uomini e no
gli accade che, sin dall’inizio dell’opera, il suo interesse sia diviso tra due obiettivi, tra due realtà, da entrambe delle quali egli è di volta in volta attirato; e si veda d’altra parte come egli abbia sospeso la composizione di Erica e i suoi fratelli per passare a quella di Conversazione in Sicilia, come ad un argomento che improvvisamente lo affascina e che dal precedente lo distoglie, poiché se ne è fatto completamente lontano; e si veda pure l’incompiutezza di Le città del mondo, le varie tematiche cui esso risponde; e come in esso si alternino
parti di una prorompente felicità di composizione, ad altre che appaiono forzate, volute, non sostenute da quell’appassionato fervore che ci appare non solo presente nelle sue pagine migliori ma decisamente caratteristico del suo modo di essere scrittore, della sua personalità di scrittore; e che ci appare presente anche nel suo modo di essere, nel suo modo di esprimersi, nelle diverse attività ch’egli inizia ed in cui si esprime; in tutte le sue iniziative. Infine ecco il suo lungo arrovellarsi su Le donne di Messina, il romanzo al quale si è applicato per più lungo tempo ed anche in tempi diversi; il quale pure ci risulta composito sin dalla sua prima stesura, ma del quale infine esistono due versioni, ed entrambe significative, entrambe determinanti per conoscere il loro autore in due momenti della sua esistenza, in due suoi atteggiamenti di fronte alla realtà; ad una realtà in movimento, che sta trasformandosi e ch’egli in ogni modo vuole captare, alla quale reagisce nella sua volontà di assumerla a sé, di impadronirsene. Sono forse questo continuo variare, questo continuo modificarsi della realtà, ed in modo anche clamoroso, in modo anche profondo, o che noi riteniamo profondo, una caratteristica di questo nostro secolo, di questo periodo in cui siamo vissuti e viviamo; che ci costringono continuamente a modificare, a
cambiare modi, atteggiamenti, comportamento, a seconda del momento, rea-
gendo al momento per cercare di affermare, di salvare una nostra coerenza, una nostra continuità; o forse Vittorini, nella sua persistente volontà di essere
presente, di far propria questa realtà mutevole, variabile e passeggera, percorre di volta in volta la stessa via che da un primo slancio di adesione, di consonanza felice, ben presto lo porta alla delusione, al rifiuto, alla condanna; e quindi ad un necessario rinvio, dopo essersi affannato nelle più diverse direzioni, nei più diversi sensi, per trovare un esito definitivo, nel quale tacitare e risolvere la propria ricerca?
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A questo proposito direi che tutti i suoi libri, e proprio per il modo con cui sono composti, per l'andamento della vicenda o delle vicende in essi narrate, ci confermano questa sua irrequietezza, questo suo alternarsi in lui dei diversi momenti, dei diversi atteggiamenti; ci confermano la sua insofferenza per quanto sta per apparirgli come scontato, anche per ciò che credeva di possedere, cui si era abbandonato con piena fiducia, che gli era apparso sotto un aspetto risolutivo, e che rapidamente gli si esaurisce in mano, che gli si spegne, che più non impegna il suo interesse; ma qui vorrei anche dire che ciò per cui egli conta, ciò su cui deve appuntarsi la nostra ricerca per compren-
derlo appieno e per cogliere in lui quel che di lui resta esemplare, restano davvero connotativi, non sono tanto questa sua insofferenza,
queste che
potremmo anche dire la sua mutevolezza, addirittura la sua incostanza; ma invece quello che costituisce davvero, come ho già detto, la prima ragione del suo essere scrittore; quel suo primo slancio felice, quel suo empito che in sé ha una forza, qualcosa di così fervido, intenso e generoso da fissare decisamente la sua immagine, da individuarlo come una presenza incancellabile, cui non possiamo non riferirci. Altra e diversa è stata la mia via, altro e diverso anche il mio modo di essere scrittore; altra infine la realtà cui mi sono confrontato ed anche in cui mi sono
riconosciuto. Così è avvenuto, senza che ce lo fossimo proposto, senza che neppure ce ne rendessimo conto appieno, che le diverse realtà in cui operavamo, i diversi modi con cui le affrontavamo, finissero con condizionarci, con
l’assorbirci sempre più; tanto che gradualmente andavamo sempre più allontanandoci l’uno dall’altro, come se ormai le nostre strade divergessero. Difatti io restavo pur sempre fermo in una mia tenace volontà di presa su di una mia
realtà, su quella che mi era più vicina, quella che sentivo di poter meglio conoscere e sperimentare, qualunque essa fosse, e per quanto modesti potessero essere i risultati di tale mio confronto con essa. La sua invece mi sembrava infine come una fuga dalla realtà, una fuga in avanti ma che difficilmente avrebbe potuto avere un esito che lo soddisfacesse. Durante questo periodo i nostri incontri andarono
sempre più rallentando; ed anche mi accadeva,
quando mi recavo a Milano, e sempre ero ospite suo e di Ginetta, di vederlo tutto preso da impegni e da frequentazioni alle quali infine mi sentivo estraneo. Già mi era accaduto per il passato talvolta, quando era più vivace il suo contrasto con il partito comunista, di rendermi conto come la mia presenza non fosse da lui ritenuta opportuna quando gli avveniva di incontrarsi con qualche scrittore che lo aveva preceduto o lo aveva seguito nella sua decisione di uscirne; allora di quella inopportunità mi ero reso anche conto; la mia
presenza forse avrebbe impedito a chi non bene mi conosceva di esprimersi in
tutta sincerità; ma in ogni modo mi ero dispiaciuto di quell’esclusione; come
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se Elio tenesse a stabilire ed a coltivare un proprio rapporto con chi gli dava o gli avrebbe dato qualcosa ch'io non potevo; come infine se egli si riservasse una zona, uno spazio che a me venivano negati. Ma ora capivo che quella sua
esigenza rispondeva proprio ad un modo di essere, ad una dimensione dai quali io ero lontano, dei quali davvero non potevo essere partecipe. Gli capitavano dalla Francia degli amici ai quali era legato e sempre più andava legandosi, ed egli si incontrava con loro, aveva con loro lunghi colloqui, mentre io, per conto mio, obbedivo ad altri appuntamenti, mi recavo a salutare altri scrittori con i quali intrattenevo rapporti di amicizia; e pareva quasi che, per quelle diverse frequentazioni ciascuno di noi svolgesse la propria vita in un
senso ormai divergente da quello dell’altro; e davvero quella divergenza si affermava anche nel nostro lavoro, in quello che scrivevamo. Mi accadde così in quel tempo, ed Elio era all’inizio della pubblicazione del «Menabò», di accennargli a due racconti che andavo portando a termine, che avrei potuto approntargli per la pubblicazione nella sua nuova rivista; ma egli mi rispose evasivamente; avrei dovuto attendere perché ancora egli bene non sapeva quale indirizzo essa avrebbe preso, in quale direzione si sarebbe espressa; in quanto ancora il preciso programma non ne era stato definito; poi di quella mia eventuale collaborazione non mi fece più parola né io insistetti ulteriormente. E così tra di noi si instaurava una sorta di divisione quale mai prima si era verificata. Fu in quel tempo ch'io iniziai il mio insegnamento all’Università di Pisa; per esso il mio tempo fu sempre più occupato dalle diverse attività, cui non potevo o non sapevo sottrarmi; infine il mio trasferimento in quella città con la famiglia mi allontanò ancor più da Milano. Della malattia di Elio seppi con ritardo, quando pareva che, dopo varie, anche dolorose esperienze, fosse ormai superata; ma essa, in capo a non lungo tempo, lo riprese; io restavo in
contatto con lui, avevo sue notizie, ma mi era difficile recarmi a Milano;
attendevo il momento propizio per lui e per me. Quando potei farlo e fui accompagnato da Ginetta alla clinica dov'era ricoverato lo trovai logorato in quella che sempre più appariva la sua vana resistenza; era molto dimaggrito,
ogni movimento gli era difficile, gli costava una fatica che affrontava con pena; ormai il male lo soverchiava e, nonostante la sua disperata volontà di vivere, andava distruggendo ogni sua residua forza vitale, la sua irrinunciabile esigenza di essere presente. Mi salutò ma pareva quasi ansioso di riprendere con me un discorso che pareva non essersi mai interrotto; voltandosi sul fianco accennò ad un pacco di fogli dattiloscritti poggiati sul comodino, accanto al capezzale, e mi sollecitò ad un giudizio, stimolandomi con quella irruenza
che gli era tanto naturale e spontanea sin dai tempi della giovinezza. Si trattava di un libro di Manganelli ch’egli aveva in esame, e, ben sapendo quali
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fossero le mie propensioni, le mie scelte, mi provocava, voleva infine ch’io mi compromettessi con lui, per trovare ancora con me un punto di contatto, una consonanza; che esistevano, che non potevano non esistere, per quel che mi conosceva. Quasi a sfida mi sollecitava ad un confronto; e, a dimostrarmi
quella che era ancora in lui una ben precisa riserva di fronte ad una certa letteratura dalla quale entrambi eravamo sempre stati del tutto lontani, quasi a riferirsi ed a ricuperare il tempo passato, esclamò, guardandomi ben perentorio negli occhi: «Questo non è Pizzuto ». E le labbra gli si atteggiavano a quel sorriso compiaciuto ed ironico, malizioso e divertito nell’evidente provocazione, che gli conoscevo sin dagli anni ormai lontani di «Solaria». 1979-1987
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I Alberto Carocci era sul punto di laurearsi o si era appena laureato quando dette inizio alla pubblicazione di «Solaria». Di essa egli era stato il promotore, spinto dal gusto di fare, di intervenire, di essere presente nel dibattito culturale cittadino; caratteristiche spesso proprie dei giovani al tempo degli studi universitari ma che egli conservò e coltivò si potrebbe dire per tutto il corso della sua esistenza. «Solaria» non iniziò il suo cammino con pretese soverchie e nella sua gestione mantenne sempre un carattere privato ed arti-
gianale; non disponeva di capitali che ne garantissero la sopravvivenza; per essa via via i suoi redattori si quotarono di somme che ne colmassero i vuoti, i collaboratori non ritraevano nessun guadagno dai propri scritti; la tipografia che la stampava, quella dei fratelli Parenti anch'essi associati all'impresa, anch'essi sostenuti dall'amore per il proprio mestiere e dall’orgoglio di qualificarsi come portatori di cultura nella loro città,- ne limitava i costi allo stretto necessario e non era assillante nell’esigere quanto le era dovuto; d’altra parte Carocci all’inizio si accollava l’intero peso della redazione: dall’evasione della sempre più fitta corrispondenza, alla scelta dei collaboratori e persino alla correzione delle bozze, ed ove fosse necessario alla confezione dei pacchi ed alla loro spedizione; con un’attività che venne sempre più aumentando quanto più «Solaria» prese piede, si affermò ed acquistò importanza culturale in un ambito che superava i limiti della città e della regione. Carocci si era laureato in Legge e ben presto aveva cominciato ad esercitare
la professione dell’avvocato, dalla quale venne traendo il proprio maggiore reddito; dapprima a Firenze e quindi, a partire dal 1943, a Roma; ma in sé nutriva sempre vivo l’amore per la letteratura; testimoniato dapprima da due volumetti di poesia, di cui il secondo, «Narcisso», venne pubblicato per le Edizioni di Solaria, contemporaneamente all’uscita dei primi fascicoli di questa e quindi da una raccolta di racconti, I/ paradiso perduto, i quali per la maggior parte erano apparsi nella rivista; ma egli aveva anche, e forse preminenti, qualità di organizzatore ed anche di promotore di cultura. Prudentemente, e saggiamente, ben conscio dei limiti della propria preparazione e
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dello scarso peso che il suo nome avrebbe potuto avere nell'ambiente letterario, per tale sua iniziativa si era rivolto a quanti scrittori conosceva o poté conoscere a Firenze, ancora giovani ma già ricchi di una qualche esperienza letteraria: Raffaello Franchi, Leo Ferrero, Bonaventura Tecchi; mentre a loro
si accompagnavano in quell’iniziativa alcuni artisti come Bruno Bramanti, Baccio Maria Bacci, Libero Andreotti e Giovanni Colacicchi, le cui incisioni o xilografie adornarono i primi fascicoli della rivista. Ben presto, e proprio per l'apporto di tali primi suoi collaboratori, «Solaria» andò allargando il numero di essi; e Franchi e Tecchi vi chiamarono altri
scrittori giovani più e meno conosciuti; e così finì con l’affermarsi da un lato proprio in quanto fatta da giovani e rivolta ad un pubblico giovane, portatrice dei gusti, delle scelte, delle aspirazioni dei giovani, e dall’altro per un qualche rigore nelle sue scelte, che mantenevano sempre un livello dignitoso. E furono proprio questa sua affermazione, la risonanza che tale sua presenza riscosse a rendere sempre più pressante l’impegno della sua realizzazione; tanto che Carocci, sempre più preso dalla propria attività professionale, sentì di non poter più conservarlo senza l’aiuto, la collaborazione di qualcuno; ed allora nella direzione della rivista egli si associò dapprima Giansiro Ferrata, allora studente all’Università, e quindi dopo la laurea ed il ritorno di questi alla propria città di origine, Milano Bonsanti; per infine, durante l’ultimo tratto
della vita di essa, riassumersene completamente la responsabilità. Mentre al tempo stesso, per sbrigare il lavoro consueto di corrispondenza e di redazione, dopo un paio d’anni di vita della rivista, fu chiamato a Firenze con un modesto stipendio Elio Vittorini; il quale vi si stabilì. In questi termini alterni di impegno e di disimpegno si colloca Carocci, con le sue diverse attività. Attirato sì dalla letteratura ma, per i propri doveri professionali, sempre meno disponibile, sempre meno capace di dedicarsi ad essa con pienezza di tempo. Così, mentre da un lato egli sente la necessità di avere accanto a sé qualcuno che lo aiuti o che addirittura a lui si sostituisca nella direzione della rivista; in essa, nella sua gestione, vuole sempre essere presente, perlomeno deciderne le scelte di fondo, il suo indirizzo; e d’altra parte, col passare degli anni, la sua presenza come scrittore, ed ora scrittore di racconti, non solo è più rara, ma infine si interrompe; e questa interruzione
può anche apparire come l’esaurirsi di una vena, come il cessare di una vocazione. E forse di un tale inaridimento Carocci soffriva; forse egli in sé nutriva la volontà di riscattarsene; in sé coltivando altri propositi, altri progetti; ripu-
gnandogli di uscire di scena, di darsi per vinto.
Forse perché preso tra questi impulsi contrastanti e forse anche perché
dentro sé egli nutriva aspirazioni insoddisfatte e non voleva in nessun modo darlo a vedere; egli evitava la compagnia ed il dibattito degli amici al caffè.
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Spesso si presentava alle « Giubbe Rosse» nel tardo pomeriggio; ma quasi mai si soffermava a chiacchierare con loro, quasi mai sedeva tra loro; all’impiedi chiedeva se vi fossero delle novità, scambiava qualche frase, qualche battuta; e quindi si dirigeva alla vicina saletta del caffè, dove aveva sede il circolo degli scacchisti; e là si impegnava in lunghe ed accalorate partite. Per un verso come chi, affaticato per il proprio duro e lungo lavoro, cerca di scordarlo nello svago di un gioco, al di là di ogni più severo impegno; o di quello che ormai considera un impegno severo; ma anche pareva che egli rifuggisse dal confronto, dal dibattito con gli amici, come se lo temesse ed insieme ne fosse insofferente; come se se ne ritenesse estraneo. Pareva quasi che, di fronte a
«Solaria», a quello che «Solaria» era divenuta, egli si sentisse insoddisfatto, nutrisse persino, più che disinteresse, una riserva di fondo, rammaricato di
non costituire più in essa l'elemento determinante, colui che la indirizzava e la realizzava in un certo senso; al tempo stesso conscio di non avere più il tempo, la forza, la capacità di una propria presenza, di una propria partecipazione che alla linea, alla posizione della rivista si imponessero; e forse neppure lui si rendeva ben conto di quel che avrebbe desiderato, di quel che avrebbe voluto; forse c'erano in lui un’inquietudine, una insoddisfazione, una irrequietezza che gli erano connaturali; ma che anche riflettevano e ripetevano una condizione di quei tempi, e che non erano soltanto caratteristiche di lui. I rapporti fra lui e me erano improntati ad una disinvolta e superficiale amichevolezza; come se egli mi avesse accettato senza preoccuparsi di render-
si conto di quel che io fossi, di ciò cui tendevo, delle mie preferenze e delle mie aspirazioni. Dopo che ebbi pubblicato la mia prima recensione su «Solaria», quando mi incontrò alle « Giubbe Rosse», per quanto frettolosamente, come per un atto che gli risultasse necessario, e forse anche per sottolineare la sua presenza, il fatto di essere pur sempre uno dei direttori della rivista, e quindi di seguirne la vicenda; egli si congratulò brevemente con me per il mio accento di una perentoria intransigenza in quel pur breve scritto; e le sue
parole erano improntate ad un tono di convinto, e forse un po’ sorpreso, compiacimento, come se egli da me non si fosse aspettato un tale pur modesto risultato. Poi, qualche tempo dopo, poiché avevo pubblicato in «Leonardo», una rivista bibliografica cui collaboravo, la recensione al volume di uno scrittore toscano che talvolta era presente nelle pagine di «Solaria», definendolo, insieme ad altri di cui facevo il nome, come una figura di secondo piano e di scarso spicco nella rivista, accanto a quelle di coloro che in essa e nella nuova letteratura consideravo esemplari; una mattina, sempre al caffè delle «Giubbe Rosse», incontrandomi, egli subito mi si rivolse rammaricandosi di un intervento che per il suo rigore egli giudicava poco opportuno, e ciò anche in
quanto, poiché in «Solaria» scrivevo, ed infine del gruppo dei «solariani»
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facevo parte, esso poteva essere inteso come l’espressione anche di altri, se non di tutti, i suoi collaboratori; e infine egli non poteva non sentirsi imbarazzato e dispiaciuto, suo malgrado coinvolto in una vicenda sgradevole dalla quale avrebbe potuto ritrarre reazioni e proteste. Al che Vittorini, presente a quell’incontro, e sempre solidale con tali mie posizioni polemiche nella loro intransigenza, immediatamente reagì esclamando,- nel modo caratteristico che gli era proprio, tra il convinto ed il sardonico, con il gusto della provocazione,- rivolto a me ma richiamandosi a lui ad alta voce così da attirare l’attenzione di tutti i presenti: «Metticelo anche lui, metticelo anche lui! ». E, nella ripetizione, se quell’invito si qualificava come una minaccia ed una sfida, proprio per la risata che lo accompagnava, esso anche si attenuava, divagava nello scherzo. Carocci non rispose e si allontanò, nella convinzione che quel suo pur cauto rimprovero a nulla avrebbe portato e quindi dissuaso dal volergli dare un soverchio peso; ma non è a dire che infine l’intervento di Vittorini nella sua brutalità non lo avesse colpito, non avesse suscitato in lui, nell’intimo di lui, un amaro risentimento; poiché egli non poteva non rendersi conto di come la sua figura di scrittore, col passare del tempo, non convalidata, non confermata da nuovi apporti, andasse presentandosi sempre più incerta, sempre meno affidabile; proprio di secondo piano. Poiché egli non aveva rinunciato alla letteratura, a fare letteratura; e ne fu testimonianza un romanzo, al quale evidentemente aveva lavorato per mesi, se non per anni, nei ritagli di tempo tolti al suo consueto lavoro, o la sera; che
infine era riuscito a portare a termine e che diede in lettura ad alcuni degli amici di «Solaria » del cui giudizio sopratutto faceva conto. Ed è caratteristico il fatto che a questi suoi lettori egli ponesse, sin dal suo primo affidamento, un ben preciso interrogativo, esigendo da loro una risposta puntuale e precisa:
«Si poneva questo romanzo al livello di Gt indifferenti di Moravia? Avrebbe esso ottenuto, se pubblicato, lo stesso successo— od uno consimile— che quello aveva riscosso?». E proprio con questa domanda egli veniva a porre in evidenza la propria intenzione, la propria pretesa, di tornare alle lettere, di
ripresentarsi nel dibattito letterario in una posizione di autorevolezza; rivendicando quella parte, quel posto cui, dopo il suo promettente debutto, egli pareva aver rinunciato, che nessuno più pareva voler concedergli, attribuirgli. Insomma egli pretendeva, nel campo delle lettere, di essere un protagonista o addirittura di non essere. E difatti, poiché le risposte, i giudizi dei suoi lettori, nei quali ai riconoscimenti si univano talune riserve e che in ogni modo si proponevano come un ridimensionamento delle sue ambizioni, egli preferì non pubblicare il volume; metterlo da parte; ad un modesto successo di stima di eventuali recensori amici rinunciava; se doveva essere presente nella società
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letteraria, intendeva esserlo a pieno diritto; sennò meglio porsi in disparte, in silenzio. In lui infine persisteva il rovello di un’ambizione insoddisfatta; e non solo per avidità di mettersi in evidenza, di primeggiare; ma proprio per una irrequietezza che lo spingeva sempre a nuovi tentativi, a nuove ricerche; e difatti ad un certo momento, insofferente di interventi e decisioni altrui che gli sembravano troppo limitati, troppo ristretti al campo letterario, volle riassumere la direzione di «Solaria», ancor più, imprimerle una diversa impronta; e così ne allontanò Bonsanti, il quale, pur nella sua costante opera di mediazione, andava conformandola secondo un suo carattere, una sua propensione. Resta però il fatto che, in lui, a questa esigenza, a questi propositi di riscatto della propria iniziativa, si accompagnava una fondamentale incertezza; insomma egli tendeva ad intervenire nel dibattito letterario e culturale del tempo con una propria scelta, con una propria indicazione più coraggiose, più avanzate,
ma al tempo stesso non aveva ben chiarito a se stesso quali esse dovessero e potessero essere; infine egli appariva malato di velleitarismo; e, proprio per tale limite, eccolo ricorrere in ogni modo, quasi costretto, all’aiuto, all’appoggio altrui; sedotto sempre dalla suggestione di chi gli appariva come il portatore di un indirizzo deciso, di una presa di posizione perentoria, capace di rispondere ai tempi ed ai loro interrogativi. Ed ecco che, nell’ultimo periodo della vita della rivista e poi con la direzione di «La riforma letteraria», quasi facendosi portatore di una nuova spinta, di una nuova proposta, egli si affidò alle non sempre limpide e sempre contraddittorie istanze e culturali e politiche di Giacomo Noventa; mentre, dopo la fine impostagli di «La riforma letteraria» e dopo una radicale revisione delle proprie posizioni, si accompagnò a Raffaello Ramat dando vita ad un’altra rivista, «Argomenti»; la quale, prendendo atto del tentativo fallito di quella, si proponeva altro spazio di ricerca e di dibattito, con la suggestione di un diverso esito; ed anche questa ebbe breve vita. Proprio a mettere in evidenza, a sottolineare, l'incertezza dei tempi, l’irrequietezza e l’instabilità della società letteraria, di volta in volta
spinta in diverse direzioni, sollecitata a scelte diverse; che infine sempre venivano smentite; costretta così sotto il segno dell’improvvisazione ed appunto del velleitarismo. I miei rapporti con Carocci, sempre ridotti in termini di una frettolosa amichevolezza, durante l’ultimo periodo di «Solaria », si caratterizzarono per una vicenda che mi pose in contrasto con lui. Durante il periodo immediatamente successivo al servizio militare cui avevo adempiuto a Feltre e che mi
aveva tenuto lontano da Firenze, io avevo portato a termine un saggio di
notevoli dimensioni nel quale avevo preso in esame, attraverso alcuni campioni, le diverse tendenze della nostra narrativa più giovane, di cui condannavo la
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superficialità, l’improvvisazione ed anche la malafede. E l’avevo destinato a «Solaria» come alla sede più opportuna; ma qui esso, anche per la sua lunghezza, da Carocci non era stato accettato; o meglio era stato accettato con la riserva di apportarvi tagli di una notevole entità; il che rifiutai e, ritiratolo, smembratolo, lo destinai ad altre riviste, ad altri fogli letterari i quali non ebbero difficoltà a pubblicarlo. Da ciò la mia irritazione con lui; tanto più forte in quanto ancora una volta mi rendevo conto di non essere accettato, riconosciuto per quello che ero, per quello che ero divenuto, nella mia volontà di chiarezza, nella mia esigenza di un’iniziativa anche spregiudicata; e ciò proprio a difesa, a sostegno di quei principi che mi parevano impliciti nell’insegnamento dei «solariani»; di coloro che consideravo gli scrittori esemplari di «Solaria». Poi, più tardi, mi rappacificai con Carocci, il quale mi pubblicò proprio nell’ultimo fascicolo della rivista un saggio su Palazzeschi; il quale in ogni modo nulla conteneva di polemico, per nulla poteva essere considerato come provocatorio.
Da allora non ho più avuto nessun rapporto diretto con lui; se pure lo abbia incontrato occasionalmente, almeno sin quando egli rimase a Firenze; ma,
dopo il suo trasferimento a Roma, più non lo vidi. Per parte sua, per parecchi anni egli parve decisamente estraneo ad ogni interesse letterario; senonché, verso la metà degli anni Cinquanta, il suo nome riapparve, insieme a quelli di Moravia e di Pasolini, alla direzione di una rivista la quale riprendeva l’intitolazione dell'ultima sua fiorentina: « Nuovi argomenti »; infine successivamente l'editore Bompiani gli pubblicò quel romanzo, Ur ballo dagli Angrisoni, che sino allora egli aveva tenuto nel cassetto; ma esso ebbe bene scarsa risonanza. Ancora una volta tale sua presenza letteraria si connotava con i caratteri che aveva sempre avuto; quelli di un’aspirazione nutrita, coltivata a lungo, mai completamente dimessa, ma che restava conclusa in termini sempre più vaghi, sempre più irreali; come di chi non sa dimenticare quegli slanci, quegli entusiasmi che lo avevano sostenuto in gioventù e ad essi resta idealmente fedele, li nutre in sé come un pegno; mentre di fatto essi si sono svuotati di ogni loro consistenza, di ogni loro forza in qualche modo determinante. Restavano però ancora in lui una volontà di presenza, di partecipazione nel contesto in cui viveva; l’ansia, la volontà di partecipare ad una iniziativa, di essere inserito in un movimento che incidesse o potesse incidere sulla realtà, ed anche sulla realtà civile, politica; così nella tarda maturità accettò la propo-
sta del partito comunista di presentarsi come candidato indipendente alle
elezioni della Camera dei deputati e venne eletto. Però poco poté dare, poco poté distinguersi in quel suo nuovo impegno perché ben presto fu colto da una malattia che in breve gli rese impossibile una qualunque attività. Fu in
quest’ultimo travagliato e doloroso periodo della sua esistenza ch’io tentai di
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raggiungerlo, di ristabilire un rapporto con lui. Stavo allora preparando per la rivista fiorentina «Il Ponte» un numero speciale su Vittorini e, male informato di tale sua condizione, gli scrissi chiedendogli una testimonianza sulla decisione che lui ed i più assidui collaboratori di «Solaria» avevano preso, tanti anni innanzi, di chiamare Elio a Firenze con il compito di segretario di redazione; un suo contributo in tal senso sarebbe stato prezioso. Ma egli non era in grado neppure di rispondermi; mi telefonò la moglie, che conoscevo ma che dai tempi di Firenze più non avevo rivisto: la sua voce aveva un tono accorato ed al tempo stesso tocco da una punta di sorpresa: ma non sapevo, non mi rendevo conto di quale fosse lo stato della malattia di Alberto, di come egli sopravvivesse conservando appena barlumi di coscienza, nell’assoluta impossibilità di affrontare una qualunque fatica, di adempiere ad un qualunque impegno? Ed era la voce di chi più nulla spera, di chi più nulla può sperare, di chi è ormai soverchiato dalla incombenza della morte ormai ineluttabile; per cui nel malato sono presenti soltanto l'apparenza della vita, un barlume di essa. Non mi restò che scusarmi della mia ignoranza, dell’inopportunità della mia richiesta; neppure potevo augurarle un miglioramento; attraverso lei gli mandai il mio saluto, a lei tentai di esprimere la mia commossa solidarietà. Ma ero impacciato ed amareggiato per quella che consideravo la mia improntitudine, per essermi rivolto a lui, e quindi anche a lei, senza in precedenza essermi informato se lo potessi fare; dal che si rivelava una mia disinvolta noncuranza; come se talvolta mi capitasse di operare senza prima accertarmi dell’opportunità, della tempestività di tale mio agire; infine poco attento, poco rispettoso degli altri; od almeno di coloro cui non mi sentivo legato da un profondo rapporto di affetti. Non molto tempo dopo quella telefonata mi giunse la notizia della sua morte.
II Raffaello Franchi durante i primi anni della vita di «Solaria» era stato in essa la personalità determinante, e per le scelte dei collaboratori e per il suo indirizzo nel dibattito della società letteraria; tanto che la premessa al primo fascicolo della rivista era stata scritta da lui ed infine costituiva anche la dichiarazione di una scelta di valore autobiografico nel campo letterario. Poiché Franchi, pur essendo ancor giovane, aveva dietro a sé una abbastanza lunga esperienza umana e letteraria. Difatti ai tavoli delle « Giubbe Rosse», adolescente, aveva conosciuto, ai tempi di «Lacerba», Papini e Soffici; quindi, dopo aver partecipato come volontario alla prima grande guerra mondiale, si era legato di amicizia a Giuseppe Raimondi, il quale a Bologna aveva dato vita
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ad una rivista,
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«La Raccolta», di un dignitoso livello culturale, tanto da costi-
tuire una sorta di ponte, di intermezzo fra «La Voce» e «La Ronda». Ed a «La Raccolta» Franchi aveva collaborato, cosicché ben poteva affermare che «Solaria», sull'esempio di questa, si sarebbe nutrita della esperienza e dell’una e dell’altra rivista. Ma ancora, nel dopoguerra, egli aveva stretto rapporti di collaborazione con Gobetti ed il suo «Il Baretti», tanto che per le Edizioni del «Baretti» aveva pubblicato un volume; così, tra i giovani scrittori fiorentini egli era certamente quello che più poteva vantare una presenza continua nelle riviste e nei fogli di maggiore prestigio in quel torno di tempo, ed al tempo stesso rapporti di amicizia con quegli scrittori, più e meno giovani, che nel campo delle lettere più si erano messi in evidenza negli ultimi anni. E fu attraverso lui che a «Solaria», sin dal suo primo numero, collaborò Raimondi e che ad essa vennero scrittori, come Guglielmo Alberti ed Umberto Morra,
già collaboratori di «Il Baretti». Franchi usciva da una famiglia di ben modesta collocazione sociale; il padre era stato gestore di un’osteria, la madre gli era morta ancor giovane; i due uomini, che vivevano soli in un quartierino dall’aspetto povero, quasi squallido, nel quartiere di Oltrarno, conducevano un'esistenza sul filo di un’econo-
mia attentamente controllata; il reddito maggiore di cui godevano doveva essere la pensione che il giovane Raffaello riscuoteva come invalido di guerra, per una gamba resa storpia da una grave ferita e costretta in un pesante apparecchio metallico. Ed era proprio questa condizione di quasi indigenza che aveva condizionato e condizionava il suo modo di essere scrittore. Difatti i suoi studi erano stati condotti attraverso severi sacrifici ed avevano costituito per lui una conquista persino eccezionale; così la sua vocazione era risultata e si era affermata come un’esigenza, come una forza che quasi gli si imponevano al di là di quelle che erano la sua pratica di vita, al di fuori dall'ambiente in cui era cresciuto e che gli pesava nel suo monotono grigiore. Ecco così— come mi
fece osservare Bonsanti, il quale gli era legato di amicizia e che per lui nutriva una profonda stima, che la scrittura di Franchi era sempre improntata alla ricerca di una dimensione eletta, di raffinata eleganza; estranea non solo alla volgarità ma anche a qualunque accondiscendenza ai modi consueti del parlato, della conversazione famigliare; e tali, nei suoi scritti, erano anche la sua
considerazione e la sua reazione di fronte alla realtà; poiché sempre egli si poneva su di un piano di eccezionalità, di estrema sensibilità, tendendo a
cogliere dalle cose, dall'ambiente quanto gli pareva o gli risultava come fuori da una norma abituale, quanto in nessun modo poteva essere considerato come scontato, comunque tocco dalla banalità. Evidentemente vi era in lui
una componente di gusto che si riconduceva a d'Annunzio, all’estetismo dannunziano; e ciò benché d’Annunzio non fosse tra gli scrittori ch’egli amava;
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infine tra gli scrittori di «Solaria» che subito si misero in vista, quello ch'egli naturalmente preferiva, che sentiva a sé più vicino e che anche più ammirava era Gianna Manzini; che non possiamo non vedere bene inserita in un filone dannunziano.. Resta il fatto ch’egli era uomo di un gusto sicuro, sostenuto da una autentica passione letteraria e sempre generoso nelle sue scelte e nei suoi riconoscimenti; gli scrittori da lui prediletti, da Ungaretti a Cardarelli, erano coloro che avevano rinnovato ed andavano rinnovando il contesto della letteratura del Novecento; ma egli era pure attento ad ogni proposta, ad ogni sollecitazione
dei più giovani, e non si deve dimenticare che egli fu uno dei primi critici a recensire in termini elogiativi gli Ossi di seppia di Montale; cosicché, ad un attento esame della sua produzione critica, ci si renderebbe conto di come le sue indicazioni, le sue scelte fossero sempre significative, sempre coerenti; ed anche al di là dei termini nei quali egli operava come scrittore. Credo che la venuta di Montale a Firenze abbia costituito per Franchi un momento determinante nella sua presenza, nella sua attività di scrittore. Sino allora, nella rivista, nella piccola società letteraria che si era formata intorno ad essa, egli si era sempre presentato come un promotore, come colui che suscitava o guidava il dibattito; come colui che, per la sua esperienza, per le sue letture, per quel che aveva scritto e pubblicato, si imponeva agli altri, ne determinava od almeno ne condizionava le scelte; infine in «Solaria », durante
quel periodo, in qualche modo era lui, era la sua presenza che primeggiavano. Con la venuta di Montale la situazione rapidamente cambiò. Non che Montale operasse in modo tale da cambiarla, non che egli si imponesse, che imponesse esplicitamente le sue scelte, le sue predilezioni, i suoi gusti ed i suoi principi; ma tale era già la sua preparazione e tale era la sua personalità che ben presto, se non subito, egli godette di un prestigio quale nessun altro. Quei giovani che già facevano corpo intorno a «Solaria » e quanti vi giunsero sentirono la forza perentoria dei suoi interventi; egli costituì quindi sin dai primi
tempi dalla sua venuta il punto di riferimento primo di ogni dibattito, di ogni discussione, di ogni discorso. Senza che egli tale si presentasse, che tale volesse essere; tanto che persino ne rifuggiva, tendeva a sottrarsi a dichiarazioni troppo esplicite, ad atti di fede che in qualche modo lo impegnassero, lo compromettessero. Per tale situazione, che sempre più si andava delineando, precisando, la presenza di Franchi, il peso della sua presenza andavano riducendosi di importanza; egli veniva quasi di necessità ridotto ad una parte di secondo piano; le sue prese di posizione, i suoi giudizi, le sue indicazioni persero quell’autorevolezza di cui prima avevano goduto; se essi venivano ascoltati, se anche venivano discussi, alla fine, quasi di necessità, ecco che tutti si rivolge-
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vano a Montale, attendevano l'intervento di Montale per manifestare appieno la propria concordanza od il proprio dissenso con essi. E ciò anche se Montale spesso intendesse sottrarsi a tale posizione risolutiva, ad ogni impegno che gli paresse eccessivamente grave. Ma qui direi che il carattere di Franchi acquistò allora la sua più piena, la sua più valida dimensione; poiché mai egli dimostrava un suo risentimento; mai, se pure si accorgeva che la propria proposta, il proprio parere venivano contestati, o meglio disattesi, egli se ne
mostrava dispiaciuto, si chiudeva in un silenzio riottoso; come di chi subisce una sconfitta e ne soffre. Ad un certo momento, anche in antagonismo a Montale, egli riaffermava la propria convinzione, senza che essa assumesse un accento provocatorio; ma come di chi resta fedele a se stesso, anche se in questa propria rivendicazione resti o rischi di restare solo; e non lo faceva con protervia, nulla vi era in lui dell’atteggiamento di chi si chiude in una propria convinzione di superiorità offesa, o perlomeno dispiaciuta del mancato consenso altrui; ma come chi, in termini pure di tolleranza, di comprensione degli altri, delle ragioni di coloro che gli si contrapponevano, non può rinunciare a quello che è il proprio patrimonio, od una parte del proprio patrimonio, di gusti, di predilezioni. E perciò, proprio perciò, per questa sua del tutto discreta ma decisa assunzione di un compito e di una responsabilità, egli finiva con il mantenere e con il conquistare un proprio posto, una propria connotazione
in seno a quella piccola società letteraria che si muoveva intorno a Montale. La sua posizione, che non era di contrapposizione, che era del tutto aliena da ogni polemica, si presentava come di controcanto; ad allargare, ad arricchire, ad articolare la discussione, il dibattito. E forse proprio la presenza di Montale aveva contribuito, aveva pesato sul comportamento di Franchi, costringendolo, spingendolo a precisare, ad approfondire una sua coerenza; gli aveva persino fatto definire in termini sempre più evidenti una sua fisionomia. Né mai, proprio per la sua natura, per quella che era la sua fondamentale generosità, Franchi ebbe ad esprimere, a me come a chiunque altro, un suo rammarico, una sua riserva, una sua pur trattenuta ostilità nei confronti di Montale, la sua amarezza per dover riconoscere come Montale gli avesse tolto qualcosa di cui egli prima era depositario; nella sua autentica dignità, egli ben sapeva, ben si rendeva conto di quale fosse il suo posto nella società letteraria, ed anche nella piccola società letteraria di «Solaria»; di quale contributo egli potesse darle; e non vi rinunciava, anche se si rendeva conto ch’esso non era e non
poteva essere determinante. Poiché infine egli si assumeva un compito che era e di integrazione ed anche di correzione di quelle che erano le scelte, le indicazioni di Montale. E così egli avanzava e difendeva dei nomi di scrittori, anziani e giovani, proponeva modi e soluzioni letterarie che infine integravano quelli di Montale, quelli su cui Montale si impegnava; e così rendeva più
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ampio, più ricco il panorama letterario su cui si impegnavano i «solariani»; tendeva a togliere ad essi ogni volontà di un eccessivo esclusivismo; di una troppo pesante selettività. Ed un simile suo atteggiamento di estrema discrezione, di convinta modestia si manifestava anche nella considerazione ch’egli faceva di ciò che scriveva, di quel che veniva pubblicando. Sempre, di fronte ai propri scritti, ai
libretti che via via andava componendo e per cui trovava sempre con qualche fatica un editore che li accettasse,— ed il più spesso si trattava di un editore di limitata notorietà, egli li proponeva, li donava agli amici quasi scusandosene, per primo negandone l’importanza, od almeno limitandola; come frutto di una propria accondiscendenza, come se ad essi si fosse abbandonato per svago, per un gusto del gioco; e quindi negando ad essi un significato comunque definitivo anche per lui, così da sentirsi del tutto impegnato. Li presentava e li offriva con un sorriso, come a suggerire ch’egli per primo si rendeva conto della loro pochezza, dei loro limiti; però in tale suo atteggiamento non c’era niente che potesse apparire volontà di falsa modestia, che potesse far pensare ad un modo di pur contenuta ipocrisia. Egli infine, con piena coscienza di sé, di quel che era e di quel che valeva, voleva darsi sopratutto come un uomo ed uno scrittore il quale, al di là della giusta considerazione di tali proprie capacità e possibilità; in quanto ben sa quali livelli per esse possa attingere,— è sopratutto rispettoso di quelli ch’egli ritiene gli alti valori della letteratura; cosicché quel che fa si presenta a lui stesso come un omaggio, come la testimonianza di un amore, di una fedeltà ad essa, cui egli aspira, e che in nessun modo intende tradite od anche solo offendere con un proprio atto di eccessivo orgoglio. Perciò nei suoi libri egli cercava sempre di rispettare un limite di misura; mai forzava il tono, mai si impancava in imprese che in qualche modo superassero le sue possibilità. E forse, in tale sua discrezione, vi erano al tempo stesso un pudore, ma anche una punta di amarezza per una meta ch’egli sentisse a sé negata; ed al tempo stesso il timore di cadere in un equivoco di presunzione, per cui evitava ogni impegno che gli potesse apparire di soverchia ambizione. Vigile ed attento a contenersi in un giusto limite. Ed infine di questo pudore e di questa discrezione risentono i suoi libri, tutti chiusi in termini di una signorile dilettazione; come di chi, proprio mentre scrive, si impedisce ogni soverchio abbandono per timore di cadere negli inganni di un’eccessiva convinzione di sé e quindi dell’enfasi. Scritti in punta di penna, semmai con una qualche accondiscendenza appunto, com’era del
suo costume,- alla raffinatezza del sentire, della propria sensibilità, della propria considerazione delle cose, delle persone. Ma i suoi giudizi, com'erano severi con quanto egli scriveva, lo erano anche
per quello che scrivevano e gli proponevano gli altri. Di quel mio primo rac-
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conto che Bonsanti gli aveva dato in lettura egli mi parlò in termini del tutto espliciti, sottolineandone le parti e gli elementi che lo legavano al più facile bozzettismo, facendomi ben convinto di un giudizio che mi restò dentro come determinante. E pure di lui ricordo altro intervento quando uscì il primo libro di Vittorini, Piccola borghesia, di cui egli parlò persino con una punta di indignazione, sottolineandone gli imprestiti evidenti da scrittori a noi tutti ben noti; ed erano e Svevo e Proust e Joyce; e ciò che in questo suo confronto lo irritava si era sopratutto la disinvoltura con cui Vittorini si approfittava di quelle sue letture, quasi per una sua spregiudicata spudoratezza; il che a Franchi pareva ben grave per uno scrittore giovane e che già si poneva come una personalità di punta nel dibattito letterario. Infine egli si sentiva quasi offeso da quel libro, come se esso costituisse una sorta di sfida alla letteratura, al modo di essere scrittore; come se ne respingesse, si rifiutasse di sottomettersi a quella che è la prima condizione della letteratura, il rispetto, al tempo stesso, della letteratura e di se stesso. Nei suoi limiti, in quei limiti di cui egli era ben cosciente, egli sentiva di non aver mai tradito tale sua concezione, e perciò poteva anche soffrire nel vedere, nel rendersi conto che chi non si atteneva a tale norma, od anche vi derogava, finiva poi con l’ottenere quel successo ch’egli mai aveva ottenuto e che mai avrebbe ottenuto; soffriva e non tanto per un fatto personale, nel veder premiata quella ch’egli condannava come una mistificazione; ma nel veder preso per buono quello che gli appariva come un atto di mistificazione; il quale aveva l’aggravante di una piena coscienza; non frutto di sprovvedutezza ma di un’astuzia spericolata. Così certo si sentì ingiustamente colpito ed escluso quando «L'Italia letteraria» gli sostituì Vittorini nelle cronache periodiche delle attività artistiche fiorentine ch’egli da tempo vi pubblicava. Franchi, si può dire da sempre, oltre alla critica letteraria, si era dato a quella dell’arte, sia della pittura che della scultura; portatovi da un continuo interesse, e dall’amicizia che lo legava ad artisti fiorentini e toscani, ma anche al di là di queste frontiere; in ciò
seguendo una tradizione caratteristica degli scrittori del Novecento; e specie degli scrittori toscani. Vittorini invece mai aveva dimostrato una tale propensione, un vivo interesse per le arti, per le manifestazioni delle arti; egli era dotato di una pronta disponibilità, capace di impadronirsi di un subito degli strumenti, dei mezzi validi per una resa letteraria appropriata in qualunque campo della cultura; con il gusto anche di impegnarsi e di esprimere un giudizio personale proprio là, proprio su quell’argomento al quale sino allora era apparso estraneo, incompetente; inoltre egli era anche spinto a tali imprese dalla necessità di un guadagno, per quanto limitato esso fosse. In ogni modo
né si scusò con Franchi di aver accettato tale incarico, né motivò in questo
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senso tale sua accettazione. Era convinto di una propria superiorità su di lui; era convinto di saper portare anche in tale campo una innovazione, di poter proporre delle scelte più coraggiose di colui che lo aveva preceduto; e, per questa via, di poter diventare più gradito sia al foglio cui collaborava sia agli artisti di cui avrebbe scritto. E Franchi si ritrasse senza polemiche, solo appena dimostrandosi amareggiato per un intervento e per un comportamento che infine lo offendevano ingiustamente. Ma egli non poteva non rendersi conto di quella che ormai era la considerazione in cui era tenuto dai più, ed anche dai più giovani; poiché egli si vedeva sopravanzato anche da molti che alle lettere erano giunti ben dopo di lui; dei quali le riviste di maggiore spicco, di più alto livello letterario e culturale andavano ormai accettando gli scritti, sollecitando la collaborazione, e che anche per questa via andavano affermando una propria personalità, andavano imponendosi all’attenzione della critica e del pubblico. Franchi aveva goduto a suo tempo di una fama se pure limitata; al suo debutto egli era parso dotato di una sua iniziativa, di un suo particolare accento; poi pian piano si erano sempre più andati precisando i limiti entro i quali egli operava, egli intendeva operare; e così aveva ridotto la propria presenza ad un'attività dignitosa ma quasi scontata; come se egli andasse
ripetendo e riaffermando le proprie posizioni ma senza avviare, senza proporsi e proporre un più ampio, un più coraggioso discorso. La stessa sua discrezione lo condannava ad una posizione di secondo piano; ed egli pareva infine accettarla, riconoscersi in essa. Poiché nulla faceva, nulla intraprendeva per superarla, per uscirne. Mi trovavo da poco tempo in Romania quando mi giunse un suo invito a
collaborare ad un almanacco che stava per essere pubblicato a Firenze; avrei dovuto scrivere le mie impressioni su questo paese per me del tutto nuovo in ogni sua componente; e, se questa richiesta mi era gradita come il segno ch'egli si ricordava di me, ed anche come una prova di stima; essa d’altra
parte mi confermava anche un suo modo di essere, di considerare lo scrivere, la letteratura. Di quel paese, di quell’ambiente io avrei voluto cogliere i caratteri attraverso una più lunga esperienza, attraverso uno studio più approfon-
dito; egli invece si limitava a chiedermi delle impressioni immediate, le mie prime reazioni, in punta di penna; ed infine tale egli era nello scrivere, tale nel considerare la realtà nel suo approccio con essa. In ogni modo gli inviai alcune pagine nelle quali avevo cercato di trarre dei giudizi, di approfondire dei temi che dai nuovi amici mi erano stati offerti; come saggiando un mondo che appena cominciavo a conoscere e tentando di coglierne quegli elementi che mi pareva potessero connotarlo nella sua più profonda ragione. Anche se i miei giudizi potevano apparire azzardati, perlomeno essi testimoniavano la
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mia esigenza di una conoscenza più accertata; indicavano anche a me la via per giungervi. Lo ritrovai a Firenze nell'immediato dopoguerra; si era sposato di recente con una vedova di mezza età; abitava ora nella casa di lei, che rivelava una solida agiatezza; nella quale egli si ritrovava; ma il suo evidentemente non era
stato un matrimonio di interesse; fra i due sposi c’era un rapporto d’affetto che improntava il loro modo, il loro comportamento, le loro parole. E di un tale sentimento essi godevano, quasi sentivano la necessità di farne partecipi anche gli altri, gli amici. Fui da loro invitato con mia moglie per una visita pomeridiana; forse con noi c’era anche Bonsanti; e mi resi conto che Franchi
aveva raggiunto un suo pieno equilibrio, una sua convinta serenità; la moglie evidentemente lo ammirava, era orgogliosa di avere per compagno una persona che considerava di tanto superiore a sé per intelligenza, per cultura; infine, uno scrittore; e lui le era grato di questa ammirazione e vi rispondeva con modi improntati ad una gentilezza persino commossa. Credo che davvero egli si sentisse completamente appagato, se lo è possibile per un uomo, che ritenesse di avere raggiunto la felicità. Ma essa gli fu concessa per breve tempo. Si ammalò e la diagnosi subito fu crudele, il cancro lo divorava; gli restarono pochi mesi di una sopravvivenza dolorosa; la moglie gli fu vicina, fece quanto stava in lei per rendergli meno grave, meno faticoso il decorso del male; e tale attenzione, tale amorosa fedel-
tà lo commovevano; infine anche in una condizione tanto drammatica gli si confermava un affetto del quale poteva nutrirsi. Mi dissero che la sua fine era stata estremamente dignitosa; cosciente di essa, mai egli aveva perso la propria padronanza di sé, mai aveva concesso alla disperazione, al compianto di sé. Accettava dalla vita quel ch’essa gli aveva dato; e da essa infine credeva di aver avuto molto, quanto più desiderava. Si spense in piena coscienza, pacificato come chi ha compiuto il proprio cammino senza mai tradire se stesso.
III Vieri Nannetti, nella prima giovinezza, se non aveva partecipato, era stato presente, con il fratello Neri, nei movimenti di avanguardia che avevano preso
piede, dopo la fine di «Lacerba», a Firenze, ma ben presto era partito per il
fronte, volontario nella prima guerra mondiale. In ogni modo quell’esperienza aveva avuto per lui un significato, non era stata del tutto occasionale e superficiale; ed egli ne risentì per una buona parte della sua produzione letteraria,
per quella almeno che godette di un qualche successo.
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Egli aveva fatto parte del gruppo dei «solariani» sin dagli inizi della rivista ed era un frequentatore puntuale ed assiduo delle «Giubbe Rosse» sia sul mezzogiorno che la sera avanti la cena. Era insegnante di materie scientifiche in un istituto medio superiore ma l'impegno scolastico non pareva pesargli e gli lasciava tutto il tempo a lui necessario per le sue letture e per il suo lavoro letterario. Al caffè i suoi interventi erano poco frequenti e sempre molto brevi; si limitavano al più ad un’affermazione, all'espressione di un consenso; ma anche ad essi egli pareva accondiscendere solo quando gli paresse necessario; quando dagli altri fosse sollecitato ad esprimersi; e lo faceva quasi a fatica, come se giudicasse inutile o superflua una propria partecipazione; vi consentiva per un atto di cortesia più che con una volontà di parteggiare in uno od altro senso; come se infine sentisse l’inutilità del discutere; come se in tutti, anche nelle posizioni più contrapposte, sapesse ricuperare una ragione; a nes-
suna desse un valore determinante che le altre escludesse. Anche le volte cui concedeva all’una od all’altra, lo faceva quasi con una riserva; lontano da condanne e da recise esclusioni. Come accade a chi ha affrontato nella propria esistenza tante vicende e tali imprese per cui di nulla più stupisce ed ogni contrasto gli pare risolvibile, ed ogni impegno, anche il più deciso, gli sembra malato di ingenuità o di presunzione. Se ne stava così seduto in uno dei divani del caffè, in posizione appena rilassata, appoggiato allo schienale, fumando una dopo l’altra le sue sigarette; ma il suo occhio era sempre vigile, e del dibattito, della conversazione mai perdeva un momento, mai si mostrava distratto od insofferente. Solo che, evidentemente, ogni parola, ogni intervento egli subito misurava dentro sé, ne calcolava il peso ed il valore, lo comparava con quello che era il suo più profondo convincimento; toglieva loro di un subito quella che ne era la carica di passione, ogni accento in qualche modo aggressivo; mai entrava nel vivo di una polemica; e se le voci si alzavano, si contrapponevano, senza neppure
tenerle in conto, ad esse rispondeva con un sorriso appena accennato sulle labbra; quasi reagendovi con modo di saggezza pacata, esente da ogni volontà partigiana.
Talvolta, specie nel tardo pomeriggio, a lui si accompagnava sua moglie; insegnante come lui, ma di carattere e di comportamento ben diversi dai suoi, in certo senso contrastanti con i suoi. Difatti nella conversazione ella subito si immetteva, ne diventava partecipe, con una propria scelta, con una propria
presa di posizione; sempre decisa, sempre convinta, sempre tesa ad affermare la propria personalità; e spesso reagendo alla tesi che alla propria considerava avversa alzando la voce, dichiarandosi senza remore o cautele; addirittura
aggredendo colui che considerava un avversario. E spesso le sue ragioni, nella
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loro elementarietà, nella loro scontata evidenza, abbassavano, immeschiniva-
no il livello del dibattito; mentre al tempo stesso avevano una qualche loro forza, quasi ella ponesse gli scrittori di fronte alle esigenze della realtà, di fronte alla ragion comune, al parere dei più; togliendo loro quelle che reputava soverchie illusioni, fantasie lontane da ogni pratica del vivere. Il marito, in questi dibattiti anche accesi, nei quali taluno dei più giovani, come Vittorini, alla donna tenevano testa anche con un gusto di provocazione, con una punta di ironia divertita— non interveniva; mai accorreva in soccorso di lei, neppure quando ella mal si difendesse da un’insinuazione maliziosa; ma se ne stava ancor più in disparte, più che mai attento, ma sopratutto divertito di questa ch’egli considerava evidentemente in lei come una manifestazione di vitalità anche piuttosto sprovveduta; e quasi si poteva pensare ch'egli godesse di questo strenuo impegno di lei che finiva col tacitarla, con l’esaurire una sua carica eccessiva di energie; cui più non avrebbe sentito l'esigenza di far ricorso una volta rientrati a casa; ove, lei tacitata, egli avrebbe potuto godere di una serata silenziosa, non coinvolto in contrasti od anche solo in sollecitazioni esigenti. Ma egli era uomo abbastanza intelligente ed acuto per rendersi conto che gli interventi ed i discorsi della moglie erano motivati da una sua condizione, da una sua convinzione ch’ella mai in ogni modo avrebbe dichiarato; e che forse anche avrebbe smentito se qualcuno vi avesse alluso. Infine ella credeva, reputava che il marito, nel gruppo dei «solariani», non avesse la parte che meritava di avere, che gli spettava; che, per il suo carattere, per il suo modo di
essere e di comportarsi, per la sua ritenutezza schiva, non godesse di quella considerazione che di fatto avrebbe meritato. Infine ella si faceva portavoce di lui; parlava per lui, diceva quel che lui mai avrebbe detto. Metteva in evidenza, dichiarava, come coloro i quali pure nel gruppo giungevano ad imporre il proprio parere, le proprie scelte, potessero venir contraddetti, essere messi in scacco. E tale propria esigenza, tale propria tendenza forse neppure a lei erano del tutto chiare; forse ella non ne era cosciente; ma, nel gioco dei rapporti umani, nel confronto fra le diverse personalità in quell’ambito ristretto, simili contrapposizioni esistevano; e si manifestavano per una o per altra via, in uno od in altro senso. Vittorini, se la signora Nannetti sino ad un certo momento gli appariva una rivale divertente nella sua accanita ingenuità, infine la giudicava una petulante presuntuosa, ed allora, a screditarla, quando ne parlavamo tra noi, assente il marito, riferendoci a talun suo intervento più acceso, usava per lei definizioni ed allusioni maligne nel loro sarcasmo; a definirne l'aggressività mascolina affermava che ella era una donna villosa, che le crescevano i peli anche fra le mammelle, e di questa sua azzardata invenzione ridacchiava soddisfatto, compiaciuto di un ambiguo gioco sensuale.
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Quando entravo nel caffè, e quasi sempre lo trovavo seduto al posto che di
solito occupava, Nannetti,
a modo di saluto, ripeteva il verso iniziale della
poesia del Leopardi: «Silvia, rimembri ancora»; né mai rinunciava a questa abitudine; che dopo qualche tempo mi metteva un po’ a disagio; come se per essa io finissi col rientrare in uno schema risaputo; quasi egli mi considerasse, mi prestasse la sua attenzione solo per quel richiamo che il mio nome gli offriva ad un poeta da lui amato; e forse neppure per questo ma soltanto, per un ricupero mnemonico quasi inconscio di un lontano apprendimento. Ma in lui, nei miei confronti, non vi erano riserve e neppure una scarsa considerazione; anch'io infine rientravo in un quadro del gruppo ch’egli aveva sempre presente; in un certo senso egli mi accettava come una componente ormai abituale di esso; forse senza neppure proporsi l’interrogativo di quel che pensassi, di quali fossero in quell’ambito le mie reazioni; insomma di quale fosse la mia personalità in maturazione. D'altra parte una volta che a lui mi rivolsi per avere un consiglio, un’indicazione bito letterario, si diede da fare con un non avrei preteso da lui, che persino alla mia richiesta nel modo migliore;
su argomento del tutto estraneo all’aminteressamento e con un impegno quale mi stupirono, e che infine soddisfecero e fu, si può dire, questa, la sola volta in
cui stabilimmo fra noi un rapporto di confidenza e di reciproca comprensione; ma, per essa, mi restò dentro la convinzione che in ogni momento, per
qualunque necessità avrei trovato in lui una pronta rispondenza; quasi ch’egli solo aspettasse un invito, una profferta per rispondervi, per dimostrarsi utile, per comprovare la propria solidarietà, la propria amicizia. Quand'ero arrivato a Firenze egli aveva appena pubblicato un volumetto di prose che aveva ottenuto un limitato successo di stima e che testimoniava una qualche finezza, una sensibilità attenta e discreta. Ma, dopo un paio d’anni da quello, egli uscì con un altro volumetto, I nudisti di monte Catterina, un romanzetto di brevi dimensioni, fra l’apologo ed il gioco di fantasia, che confi-
gurò la fisionomia di uno scrittore in termini di un’eleganza lontana, nella sua finezza, da ogni manierismo e non priva di una sua ironia sottile che talvolta ha esiti umorosi. Il libro piacque anche alla critica più esigente, ne scrisse anche Pancrazi sulle pagine del «Corriere della sera», ed ebbe anche un qualche successo di pubblico; per quanto allora fosse possibile per un volume pubblicato dalle Edizioni di Solaria. Poi a questo, in breve, dopo ancora un paio di anni, si aggiunse un altro: Sogno degli amanti in catene; il quale ne continuava il filone di una narrazione a mezza strada fra la resa della realtà e la fantasia, l'invenzione favolistica; e sempre con un gusto sottile di gioco ed una contenuta ironia. E così Nannetti rispondeva a quella che era stata la sua iniziazione letteraria, a Firenze, quando era stato vicino al gruppo degli scrittori di «L'Italia futurista»; ed evidentemente aveva risentito l’influsso di
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Palazzeschi, del Palazzeschi delle poesie e dei primi romanzi. Ma anche da «Solaria» e dai «solariani» aveva ripreso quella volontà di distacco, di un’attenta considerazione di sé e del proprio testo, il gusto acuto dell’autoironia, un sempre vigile autocontrollo, lontano da ogni troppo facile abbandono. In ogni modo i suoi libri, od almeno questi suoi due libri, si situano, hanno il loro posto, benché del tutto dimenticati, in un filone di evasione fantastica,
appunto tra l’apologo e la favola, che già aveva avuto la sua fortuna oltre che con i futuristi, anche con i «rondisti» e con Bontempelli; e che quindi si sarebbe affermato con Buzzati e Landolfi. Dopo la fine di «Solaria», dopo che il gruppo dei «solariani» ebbe smesso di incontrarsi quotidianamente alle «Giubbe Rosse», Nannetti rese sempre più rara la sua frequentazione, finì con lo smetterla; né più lo vidi o lo incontrai nel dopoguerra. Di lui seppi che si era avvicinato ad altro gruppo di scrittori, di ben altra ispirazione e ricerca; forse aveva avuto quella che si suole definire come una crisi di coscienza; aveva smesso di scrivere in prosa ed andò via via pubblicando dei volumetti di poesia che si connotano per una loro tormentata religiosità, ma che, pur distinguendosi per una loro dignitosa limpidezza, non ebbero nessun successo; non fosse nello stretto giro dei suoi
sodali di allora. Morì alle soglie della vecchiaia senza avere riallacciato i rapporti con i vecchi amici; come chi ha intrapreso una via troppo diversa da quella percorsa prima; anche se nulla avesse da rimproverare a se stesso per quella sua presenza ormai lontana. Ed infine anche così, per questo suo comportamento, egli restava fedele alla propria immagine; di un uomo fondamentalmente chiuso in sé, attento agli altri ma infine lontano dagli altri, intento
sempre a rivolgere in sé, dentro di sé, un proprio faticoso, forse doloroso discorso, cui gli altri non potevano accedere, farsene partecipi; a lui solo conveniva risolverlo; se ne fosse capace.
IV Tra i frequentatori delle « Giubbe Rosse » collaboratori di « Solaria » Sebastiano Timpanaro non era dei più assidui. Egli ci capitava talvolta alla fine della mattinata, dopo il mezzogiorno, probabilmente subito dopo aver terminato le lezioni all'Istituto dove insegnava; ma allora ci si tratteneva poco, il più spesso all’impiedi, dopo aver salutato rapidamente gli amici con un gesto della mano che tutti li comprendeva. Secondo l’uso del suo paese, poiché era di origine siciliana, e benché ormai da tempo acclimatatosi a Firenze, era sempre vestito di nero, e pure neri portava il soprabito, ed il cappello che teneva in capo in modo caratteristico: alto sulla nuca sui capelli che lasciava crescere un po’
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lunghi, appena arricciati sotto la tesa e basso sulla fronte. Postosi dietro qualcuno di coloro che sedevano al tavolo nel giro dei convenuti, appoggiandosi con le mani allo schienale della sedia da questi occupata, ascoltava gli interventi, le notizie, i commenti che gli uni e gli altri si scambiavano; si informava delle novità che più lo potevano riguardare nei suoi molteplici interessi; raramente interloquiva; con quella breve sosta pareva volesse soltanto mantenere un contatto, aggiornarsi sugli ultimi accadimenti; e probabilmente non voleva tardare al consueto appuntamento del desinare in famiglia. Quando invece ci veniva il pomeriggio, accettava l’invito di sedere accanto agli altri, nel giro che si era già formato, dopo avere rivolto ai convenuti il solito saluto complessivo, quasi rifiutandosi di dare la mano a ciascuno, come per una convenzionalità inutile, con una insofferenza appena spazientita; si guardava intorno, ascoltava con attenzione i discorsi altrui, ma si immetteva
raramente nella conversazione e solo quando essa gli offriva un argomento che lo toccasse da vicino; allora il suo intervento era puntuale e preciso, ben determinato, le sue prese di posizione sempre coerenti con un suo principio, ad un suo costume; e sempre intonate ad una certa rigidezza; non disposto a
concedere troppo a chi gli si contrapponeva; a cedere sulle proprie posizioni, ad attenuarle, ancor meno a modificarle; mentre, al tempo stesso, non vi insisteva, nella sua intransigenza tendeva a chiudersi in se stesso; fedele ai propri principi, ammetteva che gli altri ne coltivassero di diversi, del tutto diversi dai suoi; e non per questo li avversava, li poneva in stato di accusa. Però, su taluni argomenti che lo toccavano profondamente, nelle sue più radicate convinzioni, alzava il tono della voce, si infervorava; ed ancor più se taluno, con il gusto di provocarlo, di suscitare la sua decisa reazione, gliele
contestava. Poiché accadeva che talvolta qualcuno tra i più giovani, specie Vittorini, gli tenesse testa, gli ribattesse con altrettanta foga, contrapponendoglisi proprio sul piano dei principi; ritenendolo appunto troppo fermo, troppo chiuso in termini che a lui, ed anche a noi, parevano superati; od almeno lontani da quelle che erano le nostre propensioni, la nostra ricerca; perlomeno nel campo letterario. E difatti le sue scelte, le sue preferenze letterarie ci vedevano dissenzienti; taluni degli scrittori ch’egli preferiva, anche tra i collaboratori di «Solaria», a noi parevano lontani da ogni nostro più vivo interesse, un modulo stilistico ottocentesco ed infine, nella loro propensione intesi ad una fuga dalla realtà attuale, ripiegati nella nostalgia di un di un costume ormai perenti. Timpanaro era anzitutto uomo di scienza; la sua preparazione in
chiusi in all’idillio, mondo e
tale cam-
po, nella fisica e nella matematica, era a livello di insegnamento universitario;
gli articoli di divulgazione scientifica ch’egli andava pubblicando, oltre che in
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riviste specializzate anche nelle pagine di «L’Ambrosiano », si distinguevano per la loro peculiarità, per la sicurezza dell’informazione sempre aggiornata e per la chiarezza dell’esposizione; ed attraverso essi si rivelava una preparazione letteraria formatasi sui classici, e prima d’ogni altro su Galileo, ma non sdegnosa di un aggiornamento stilistico che lo rivelava lettore attento dei contemporanei; e sia pure dei contemporanei più legati alla tradizione. Ma egli era studioso dai vasti interessi culturali. La sua preparazione nel campo della scienza era bene inserita e si nutriva del dibattito filosofico in atto in quegli anni; dal quale egli partiva, riprendendo l’insegnamento e di Croce e forse ancor più di Gentile, cui però si contrapponeva per talune sue ben precise prese di posizione. E poi vi era in lui un sempre vivo interesse letterario, coltivato con amore e mai pretestuoso, mai obbediente alle mode, di
qualunque tendenza; sempre coerente a delle scelte che erano legate evidentemente a quelli che erano i suoi principi filosofici ed anche morali, ma che rispondevano anche ad un suo gusto svincolato da essi. Così «Solaria» ed anche «Pegaso » e «Pan»
spesso ospitavano sue recensioni, specie di romanzi,
e degli autori ch’egli prediligeva, ch’egli sentiva rispondenti ad una sua esigenza. Mentre mai accondiscendeva nei suoi scritti alla polemica, al giudizio negativo su opere o su scrittori dai quali si sentiva lontano, che non amava; quasi di loro noncurante; o forse anche trattenuto da un senso di pudore, di discrezione; come se di fronte ad essi ritenesse di non disporre degli strumenti per capirli, per coglierne la profonda ragione. Ed infine vi era anche il suo interesse appassionato, direi il suo amore, per l’arte, per le opere di pittura e sopratutto per quelle dell’incisione. Le « Giubbe Rosse», oltre che dagli scrittori di «Solaria», erano frequentate da artisti, ma si trattava perlopiù di pittori di capacità e di risultati modesti, e con loro Timpanaro, se aveva rapporti improntati ad amichevolezza, come con chi ti accade di incontrare quasi ogni giorno, poco aveva a che fare; fra tutti solo a Capocchini egli testimoniò il suo apprezzamento favorevole; mentre invece si incontrava e frequentava altri che al caffè non solevano farsi vedere, come Peyron; ma ancora conosceva ed intratteneva una corrispondenza con artisti
che abitavano in altre città e che a Firenze capitavano di rado, o addirittura mai capitavano; come De Pisis, Bartolini e Morandi. E per tali scelte, per tali predilezioni egli si abbandonava completamente al proprio gusto, al di là di ogni schema intellettualistico; talvolta persino accondiscendendo ad un moto infervorato. Volentieri, appena gli se ne offrisse l'occasione, parlava di questi
ch’egli considerava degli amici, e rivendicava termini anche perentori; né certo era attirato da acquisita; ché anzi si appassionava sopratutto di stamente mal conosciuti o non ancora valutati
il valore della loro opera in loro per una fama già da loro coloro che considerava ingiuper quel che, secondo il suo
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giudizio, contavano. Ed ancora, di questi artisti che ammirava, si faceva il
portatore incisione, del primo di un olio
ed agli amici suggeriva l’acquisto di un loro quadro, di una loro facendosi mediatore disinteressato dell'affare. A lui devo il possesso quadro di quella che divenne la mia limitata collezione; si trattava di De Pisis, che allora mi costò una somma esigua. Per parte sua egli
sopratutto o quasi esclusivamente collezionava incisioni, acqueforti, e giunse a
metterne insieme parecchie e degli artisti che andavano riscuotendo i maggiori riconoscimenti da parte della critica e degli amatori; così da costituire una raccolta di alto valore, che più tardi, consenzienti i famigliari, donò al Museo
civico di Pisa; con un gesto di alta generosità rispondente appieno al suo carattere. Ora un uomo di tanti interessi e di tante capacità, un uomo che, per la sua attività di scienziato e di scrittore, aveva una certa rinomanza, che godeva la stima di chi lo aveva anche soltanto avvicinato, di chiunque aveva letto suoi scritti, e che mai, da parte di nessuno, si era attirato ostilità od aveva provocato inimicizie od anche soltanto riserve o diffidenze; come spesso avviene negli ambienti degli scrittori e degli artisti; conduceva di fatto un’esistenza non facile; ma in limiti di modestia ed anche di sacrifici; poiché per lunghi anni egli fu costretto ad insegnare in un istituto medio privato, gestito da religiosi; con una retribuzione certamente inferiore a quella che avrebbe ottenuto in un istituto pubblico; e ciò in quanto questi, come l’Università, gli erano preclusi dal fatto ch’egli mai aveva avuto la tessera del partito fascista, né mai aveva accondisceso a chiederla; neppure quando i suoi amici di «Solaria » si erano piegati dopo lunghi e travagliati dibattiti— a farne domanda. Ma tale egli era; e non si poteva dire ch’egli fosse un politico, che in lui, nella sua attività di uomo di cultura la politica avesse uno spazio determinante; ma egli era un uomo che obbediva e conformava la propria esistenza a dei principi che considerava inderogabili per una corretta convivenza degli uomini e tutti fondati su di un’alta, limpida moralità. Alla quale si atteneva, mai se ne sarebbe sottratto, ma alla quale non intendeva costringere gli altri; né mai avrebbe condannato od anche soltanto disprezzato chi non vi si attenesse; solo si sentiva da loro diverso; senza un moto di orgoglio, senza neppure un accenno di alterigia o di superiorità, ma infine rivendicando con pacata ma ferma discrezione tale suo diritto ad essere diverso; semmai si considerava un caso anomalo, un uomo fuori dal suo tempo; ma infine un uomo assolutamente libero; ed in ciò, almeno per chi tenesse conto della sua presenza, del suo modo di vivere, un
uomo esemplare. Una sera, ormai vicina, se non superata, l’ora della cena, eravamo usciti dal
caffè ed i più dei convenuti se ne erano andati; ma in quattro o cinque ci eravamo trattenuti a continuare all’impiedi la discussione cominciata, tutta
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intesa a definire quale dovesse essere la funzione dello scrittore, la norma che lo scrittore dovesse seguire, cui dovesse adeguarsi. Per Timpanaro lo scrittore doveva essere «un uomo intero», ed egli intendeva che doveva essere coerente, nei suoi atti, nel suo agire, nel suo comportamento, e quindi pure nella sua resa letteraria, con quelli che ne erano i principi; a questi anch’essa doveva ispirarsi; e per lui non vi era opera di alta letteratura che non fosse sostenuta da dei limpidi e coerenti principi; priva dei quali la letteratura risultava di necessità un gioco discontinuo, una dilettazione in balia degli eventi. Ma Vittorini gli contestava tale definizione, tale enunciazione in quanto gli parevano troppo esclusiviste; insomma una norma troppo rigida e pesante al fervere
della fantasia; per lui lo scrittore aveva il diritto ed il dovere di essere fedele soltanto a se stesso, a quello che l’impulso prepotente della sua natura di scrittore gli suggeriva, gli indicava, senza sottostare a dettami che la vincolassero, che ne abbassassero il tono, che la riducessero in termini che ne avrebbero smorzato la vivacità, che ne avrebbero limitato la ricchezza. Ed io ero
con lui, lo spalleggiavo nella sua polemica; e vagamente sentivo, avvertivo che era questo un modo, era una via per sottrarsi alla presa dei tempi, per rifiutare di assumerci una responsabilità che i tempi tendevano ad imporci; nella nostra ancora immatura giovinezza tutti protesi a difendere quella che ritenevamo una nostra libertà, cui non si imponevano, non si contrapponevano
limiti e costrizioni. Ma non sarebbe passato molto tempo e quella perentoria e rigorosa definizione di Timpanaro ci si sarebbe imposta, ci avrebbe messo di fronte alla necessità di fare i conti con noi stessi, di aspirare ad una scelta che ci avrebbe avvicinato a lui. Ed allora avremmo compreso che in quel dibattito si affrontavano due concezioni della vita e della letteratura che si proponevano entrambe come una possibile risoluzione al problema, ai problemi, che il nostro tempo, la nostra condizione e quella del nostro paese ci presentavano; e tra l’una e l’altra ci saremmo a lungo dibattuti, e l’una all’altra avremmo cercato di conciliare con le più diverse soluzioni, con i più diversi esiti. A Timpanaro rimasi legato da un rapporto di amicizia anche dopo aver lasciato l’Italia e Firenze per la Romania, ma quando in Italia tornavo, per le vacanze o per qualche altra necessità, e, passando per Firenze, mi ci fermavo, lo cercavo per salutarlo; ed una volta fui anche a casa sua, invitato da lui, con mia moglie. Poi,- forse in virtù di un intervento risolutore di Giovanni Genti-
le che lo conosceva e lo stimava e che ancora nel partito fascista, perlomeno in un ambito culturale, godeva di una presenza determinante, egli ottenne il posto di conservatore della Domus galileiana a Pisa e là prese dimora con la famiglia, né più ebbi modo di incontrarlo. Quando, molti anni dopo, venni chiamato da Luigi Russo, all'insegnamento della letteratura contemporanea all’Università di Pisa, e lui era già scomparso, vi incontrai e rinnovai l'amicizia
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con il figlio, che ne portava il nome; ci si incontrava, all’ora di cena o subito dopo cena, in una trattoria sita nel corso principale della città, in un gruppo di amici i quali tutti gravitavano intorno all’Università, legati da una più e meno lunga frequentazione, in conversazioni ed in dibattiti sui più vari argomenti, spesso accalorandoci in confronti e contrasti anche accaniti. E Timpanaro, come il padre, vi aveva la sua parte sopratutto quando ci si impegnava su argomenti in cui si contrapponevano principi diversi; ed era sempre limpido e preciso, ed anche intransigente nelle sue prese di posizione. Ma il giovane Timpanaro ad un certo momento dovette decidere di lasciare Pisa per trasferirsi a Firenze e così essere vicino alla sede del suo lavoro di consulente editoriale, e, nei giorni dell'imminente trasloco, mi chiese se volessi scegliere dalla biblioteca del padre che, anche per ragioni di spazio, egli non poteva portare con sé quei volumi cui andava il mio interesse. Su di un
grande tavolo della Domus galileiana stavano ammucchiati quei libri ed io passavo dall’uno all’altro quasi portato da un gusto della scoperta; o meglio della riscoperta; andavo così ricostruendo, ridefinendo tutto un periodo, tutta
una zona della nostra letteratura e della nostra arte che erano state di Sebastiano Timpanaro ma che erano state anche mie; e, attraverso quei libri, mi tornava precisa la sua presenza, con le sue scelte, con le sue predilezioni; e sentivo come quei libri costituissero una loro unità, come attraverso essi si testimoniasse la vicenda culturale di un uomo, e ciascuno mi richiamava e sottolinea-
va un suo momento, un elemento della sua personalità. Molti li possedevo anch'io, ma di parecchi ero privo; ed ero ben lieto di impadronirmene; ma al tempo stesso questa appropriazione quasi mi dispiaceva, mi sentivo colpevole
di rompere una unità, di annullare quella che era un’immagine di lui ben precisa, almeno per me. Tornai a casa con un pacco di libri; gli altri erano destinati alla biblioteca dell’Istituto di italiano della Facoltà di Lettere; dove essi non avrebbero mantenuto la loro connotazione, sarebbero stati dispersi in un contesto più ricco in cui sarebbe stata dimenticata, in cui sarebbe del tutto scomparsa la ragione prima della loro presenza, della loro storia. Come se il volto, l’immagine di Sebastiano Timpanaro si andassero sempre più cancellando dalla nostra memoria.
V Arturo Loria non aveva fatto parte del primo gruppo di scrittori dato vita a «Solaria», ma ben presto si era accompagnato a loro; suo racconto era stato pubblicato in uno degli ultimi fascicoli annata della rivista. E ben presto, con un ritmo rapido, egli andò
che avevano tanto che un della prima pubblicando
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due volumi di racconti, I/ cieco e la Bellona, per le Edizioni di Solaria, e
Fannias Ventosca, per le Edizioni Buratti, le quali allora andavano presentando quei giovani scrittori che stavano dando prova di sé, diventando i protago-
nisti di una nuova letteratura; specie nel campo della narrativa, nel racconto e
nel romanzo. Nel frattempo Loria era divenuto un personaggio di spicco anche tra i «solariani»; la ricchezza della sua fantasia, la sua tematica varia e sempre ricca
di nuovi spunti, la forza incisiva del suo narrare che mai presentava momenti di stanchezza o di incertezza, e quella sua capacità di affrontare la realtà cogliendone al tempo stesso una dimensione estranea ad ogni scontata consuetudine, lo avevano ben presto indicato come un protagonista della nuova stagione letteraria fiorentina; e la sua capacità di lavoro, la sua costante applicazione che mai risentiva di uno sforzo, della fatica, facevano sì che l’attesa e
la speranza di tutti puntassero su di lui come sullo scrittore che più prometteva di dare un’opera o delle opere capaci di porre le basi di un rinnovamento letterario; proprio quale era stato ed era nelle esigenze di «Solaria». Alle «Giubbe Rosse» Loria capitava ogni giorno, sopratutto il pomeriggio; e nel gruppo dei frequentatori di quel caffè egli si distingueva per un suo modo di essere, di presentarsi accanto ed a differenza dagli altri. Difatti egli poco interveniva nei dibattiti, nelle discussioni nei quali i più si impegnavano; pareva quasi che non amasse, che si esimesse da qualunque intervento il quale potesse accendere un contrasto o costringerlo ad aderire ad una parte contro un’altra; addirittura pareva ch’egli sfuggisse alle affermazioni di principi, infine a ragionamenti che gli parevano astratti, come un gioco inutile. Quegli incontri per lui rispondevano, acquistavano un valore, avevano un loro pro-
prio valore in quanto si presentavano come un colloquio piacevole fra degli amici disposti a rendere conto di sé; di quel che avevano fatto, di quel che avevano udito, di quel che avevano saputo. E per lui essi costituivano anche una sospensione, una sorta di compenso al suo lavoro quotidiano, addirittura persino uno svago; lontani quindi da ogni proposito, da ogni intenzione che richiedessero un’applicazione troppo impegnativa; infine la sua parte con gli amici veniva a rispondere a quella che era la sua natura di scrittore; anche in
quelle conversazioni del pomeriggio, anche se distaccato, quasi dimentico del suo lavoro del mattino, egli restava sempre, nella sua conformazione intellettuale, un narratore; un uomo che gode nel raccontare fatti ed eventi, propri
ed altrui. E difatti, ad un certo momento, od anche sin dal suo primo giungere al caffè, dal suo primo inserirsi nel gruppo di chi lo aveva preceduto, come se già avesse previsto l'argomento che avrebbe affrontato, come se avesse atteso l’incontro con gli amici per renderli partecipi di esso; egli cominciava a parlare, a raccontare; ed il suo inizio, il suo attacco aveva sempre un accento
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accalorato, un piglio deciso; ed il suo discorso non attendeva una risposta, infine neppure ammetteva l’intervento, l’interruzione altrui; ma tutto si svolgeva quasi per un rendiconto di sé ch’egli fosse tenuto a dare agli amici, a chi lo stava ad ascoltare. E si deve anche dire che tali suoi interventi erano piacevoli, che in essi egli dava ed intendeva dare il meglio di sé; che in essi sempre egli era sostenuto da una carica di curiosità, ed anche da un senso di sorpresa; come chi, di fronte alla realtà, agli eventi della realtà, sempre vi scorge qualcosa di inedito; qualcosa di inatteso; e vi ragiona, e ne discute con se stesso per cogliere in essi la loro più profonda ragione; e si pone su diverse posizioni, li considera da diversi punti di vista; per meglio comprenderli, per meglio sperimentarsi con essi; per assorbirli, per impadronirsene appieno ed arricchirsi di essi; e probabilmente da questi confronti, da queste esemplazioni della realtà ch’egli dava agli altri ed a se stesso, avevano inizio, nascevano poi i suoi racconti; evidentemente attraverso una selezione; quando l’argomento affrontato avesse tanto peso, tanta ricchezza ed importanza da costringerlo a fermarsi su di esso, a rivederlo ed a riprenderlo, sino a dargli una compiuta unità, sino a centrarlo in un nucleo che in sé contenesse ed avvalorasse ogni propria parte. Ma gli accadeva anche di parlare di quello che andava scrivendo, o meglio di quello che si preparava a scrivere, infine di raccontare nelle sue linee di fondo, di riassumere, quello che sarebbe stato il suo prossimo racconto. E ciò non faceva rivolgendosi al gruppo degli amici, degli ascoltatori, ma solo quando si trovava accanto un unico interlocutore; e questi perlopiù era Montale. A Montale egli si rivolgeva in modo confidenziale, come a testimoniargli una propria particolare fiducia, come se solo lui egli potesse fare partecipe di
questa che era una sua confidenza. E ciò anche perché da Montale si sapeva apprezzato, sapeva che Montale faceva conto di lui, attendeva da lui risultati sempre più validi, sempre più suggestivi; e poi Montale tale sua attesa e tale sua stima le aveva testimoniate scrivendo di lui, recensendo i suoi volumi,
dandogli credito; e quando Loria aveva vinto il premio di «L’Italia letteraria», Montale aveva accondisceso al suo invito ad accompagnarlo a Roma per assistere alla cerimonia della premiazione; quasi per avallarla con la sua presenza. E certo Montale godeva di tale confidente dedizione, e lo ascoltava con attenzione in quelle sue anticipazioni; le quali però gli ponevano un problema, lo lasciavano interdetto; tanto che una volta,- con quella sua naturalezza assolutamente spregiudicata; come chi rende conto della realtà per quello ch’essa è anche se possa avere un valore ed un significato del tutto spiacevoli; anche se la propria constatazione assuma di necessità un valore negativo per chi egli pure considera un amico, un sodale,- mi disse, e credo di non essere stato il solo con cui Montale si sia espresso in tali termini,— che tali narrazioni
fatte da Loria, tali anticipazioni, erano infine più ricche e suggestive di quel
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che non risultassero poi i suoi racconti una volta ch’egli aveva dato loro la veste definitiva. Infine gli pareva che in Loria il primo impatto della sua fantasia con una realtà che lo aveva particolarmente affascinato fosse più valido, avesse un empito più forte, si esprimesse in termini più intensi che non fosse poi la resa ripensata e calcolata, se pure più ricca ed articolata, della narrazione giunta alla sua ultima espressione; poiché Loria era scrittore tormentato e solito a lavorare sul proprio testo, a farlo ed a rifarlo prima di raggiungerne la versione definitiva; od almeno quella ch’egli sentiva come definitiva; e quindi come la migliore ch’egli potesse realizzare. Per parte mia io avevo sempre considerato Loria come uno scrittore vivo perla
ricchezza della sua tematica ma ancor più perla sua sempretesa attenzione, per la sua continua volontà di ricerca e di scavo; se in lui erano evidenti il gusto del narrare, persino la gioia dello scrivere; mai un simile fervore era improntato al compiacimento, mai si risolveva in un gioco facile; poiché in lui, nell’andamento del racconto e nelle sue conclusioni erano sempre presenti un’ansia, un’insoddisfazione, un’inquietudine che restavano come un segno dei tempi e pure testimoniavano come lo scrittore non si accontentasse di risoluzioni facili e sempre provvisorie. Semmai le mie preferenze andavano appunto a quei racconti più
impegnati nella volontà di captarele ragioni profonde della realtà che non a quelli che si risolvevano in un gioco della fantasia; in un’atmosfera appena surreale, quasi magica. Ed appunto, quando recensii il suo terzo volume di racconti, La scuola di ballo, misi in evidenza quello che mi pareva il lento ma continuo avvicinarsi dello scrittore ad una piena resa della realtà; ad investirsi sempre più dei travagli, anche del rovello di una realtà umana presente. Loria, poiché ebbe letto quel mio intervento, incontratomi al caffè, me ne
ringraziò; ma nonlo fece con le parole consuete di chi è grato di un atto che gli è dovuto, ma nelle sue parole vi era il segno di chi accetta la ricerca, le conclusioni altrui sul proprio lavoro sopratutto in quanto esse colgono qualcosa che gli è nuovo, che gli si propone con una sua novità e lo costringe a ripensarci, a vedersi sotto un nuovo aspetto; emi era grato in quanto capiva che, nella lettura di questo e degli altri suoi libri, mi ero impegnato a fondo, avevo cercato di evidenziarne la più profonda ragione, od una delle più profonde. Poiché fu invitato a tenere dei corsi in Università americane, per un paio d’anni egli si allontanò da Firenze, e sia pure a tratti, nei periodi di lezione; e quello era il tempo durante il quale io prestavo il servizio militare; lo rividi quando ripresi a frequentare l’Università ed era il momento culminante della campagna fascista contro l’Abissinia. Ci incontrammo in piazza Vittorio, nei pressi delle «Giubbe Rosse», ed io, che vi ero diretto, mi meravigliai di non avervelo visto entrare; come non ve lo avevo visto nei giorni precedenti. Ma
egli approfittò di quell’incontro casuale per dichiararsi, per giustificarsi; ed
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era ad uno sfogo ch’egli accondiscendeva, come se volesse liberarsi di un dispiacere, di una pena che teneva chiusi dentro di sé. Mi disse che al caffè non veniva più, che non ci poteva venire; infine che non poteva più accompagnarsi a Montale; in quel torno ditempo, in quella temperie il comportamento di Montale, i suoi discorsi, nella loro insistenza, nel loro accanimento, avevano qualcosa di soffocante; toccavano momenti parossistici ch'egli non poteva sopportare. Montale, lo si sapeva bene, era antifascista, ma ora il suo antifascismo era divenuto ossessionante; come se egli non conoscesse altro argomento, non potesse trattare altro argomento; mentre, al tempo stesso, egli si negava ogni conoscenza spregiudicata della realtà; dava esasperatamente ogni momento, ogni evento di quella aggressione come segnati dalla disfatta, od almeno come la premessa di una disfatta; impedendosi di vedere quello di cui chiunque poteva rendersi conto. Le parole di Loria, queste sue motivazioni erano improntate ad una amara irritazione, come se non potesse accettare quello ch’egli considerava una sorta di accecamento, di obnubilamento dell’amico, ma da esse traspariva anche un profondo disagio: come se egli sentisse che quel suo allontanamento, quel suo ripudio dilui potevano segnare la rottura di un rapporto che tanto aveva durato e che tanto aveva inciso sui loro sentimenti, sul loro comportamento. Bonsanti, al quale riferii lo sfogo di Loria, mi informò che la fabbrica di cappelli gestita dalla famiglia di lui e di cui anche lui era partecipe, aveva ottenuto dal Ministero una notevole ordinazione di materiale necessario alle nostre truppe impegnate in Abissinia; e da ciò egli desumeva che l’atteggiamento di Loria non poteva non essere cauteloso, prudente; un suo passo falso, una denuncia che lo avesse toccato avrebbero potuto avere delle conseguenze negative sui suoi, sulla loro attività; mentre, al tempo stesso, un simile
rapporto che si era venuto a stabilire fra il potere, chi reggeva il potere e l’impresa dei Loria non poteva non riflettersi sulle posizioni, sui convincimenti e quindi sul comportamento di Arturo; al di là di ogni suo possibile peccato di opportunismo; per una necessaria solidarietà con il padre ed i fratelli. Ma in me si andava affermando e chiarendo un’altra motivazione; io vedevo in Loria mettersi in luce quello che era un elemento costitutivo della sua personalità: la presa d’atto della realtà, la volontà di captare, di riconoscere e di accettare quella che era la massiccia, la preponderante forza della realtà; dalla quale non potevamo esimerci, alla quale non potevamo sottrarci; al di là di ogni nostra preferenza, al di là di ogni nostra convinzione ed attesa. Loria non poteva negarsi alla presa d’atto di quanto avveniva, non poteva nutrirsi delle illusioni così evidentemente sprovvedute di Montale, e le rifiutava ma anche le condannava nell’amico; come se l’intelligenza di lui ne risultasse sminuita, infirmata. Di ciò egli soffriva e di ciò si dispiaceva; ed in lui il peso di un tale contrasto non poteva essere eluso o rimosso in quanto egli non poteva rinun-
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ciare od anche solo nascondere, la propria convinzione, il proprio atteggiamento; insomma fingersi diverso da quello che era; ed allora preferiva non incontrarsi, non frequentare Montale; e così anche sfuggire ad un chiarimento con lui; il che avrebbe potuto avere un esito ancor più pesante, più grave, portare ad una rottura. E forse sopratutto Loria si rammaricava di questa che riteneva la intolleranza di Montale, esasperata appunto forse dalla coscienza profonda e repressa del proprio errore, e quindi della propria impotenza. Altri, come Franchi e Nannetti i quali continuavano ad incontrarsi al caffè con lui, se pure con minor frequenza limitavano il proprio dissenso con lui su tale materia al non rispondere ai suoi inviti quand’egli affrontava un tale argomento; a sottrarsene con un silenzio che significava in ogni modo dissociazione; ma il loro rapporto con Montale era diverso da quello che legava Loria a lui; ed il modo di essere, il carattere di Loria era diverso dai loro. Finiva così che, in uno od in altro modo, Montale restava solo, e tale si sentiva, e la sua esasperazione ne era accentuata; tanto più che, sino allora, egli aveva sempre sentito intorno a sé il consenso di quanti lo avvicinavano, lo frequentavano; né gli poteva bastare la solidarietà dei pochi che gli restavano accanto; ed intanto il volgere degli eventi lo smentiva, lo poneva in uno stato
di inferiorità, al di là di ogni sua previsione. Passò qualche tempo e vennero le leggi razziali; le quali colpirono, insieme a tutti gli ebrei italiani, anche la famiglia Loria. Ma Arturo non dimise la sua attività; non volle darsi per vinto ed uscire dal dibattito letterario, rinunciare ad una propria presenza in esso; sulla nuova rivista diretta da Carocci, « Argomenti», egli cominciò a pubblicare qualche poesia, con uno pseudonimo; e subito dopo, con uno pseudonimo, pubblicò a puntate il romanzo che andava scrivendo, sino alla sospensione della rivista per un provvedimento della censura; ed allora forse più che mai si sentì isolato, si sentì escluso da una società che sempre aveva considerato come la propria. Un giorno, entrato nella libreria Beltrami di via Martelli, che soleva frequentare per prendere visione dei libri di recente pubblicazione, egli vi scorse Papini intento a sfogliare un libro accanto ad un banco; ma si tenne lontano da lui, mentre questi, sollevato il volto dalla pagina sulla quale aveva inteso la propria attenzione, guardando il nuovo sopravvenuto, lo aveva riconosciuto e, chiuso e deposto il libro, indirizzava qualche passo verso di lui. Loria da tempo lo conosceva e con lui aveva sempre conservato un rapporto di amichevolezza; Papini aveva testimoniato
attenzione e stima per il suo lavoro, per i libri che pubblicava, e, quando si incontravano, solevano sempre scambiare qualche parola, commentare i fatti, gli eventi letterari, i libri che di recente avevano letto, ma ora da tempo non si erano visti. Papini era stato eletto da poco tempo accademico d’Italia; forse
ora, dopo il riconoscimento dal quale si sentiva gratificato, egli intendeva
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riconfermare a Loria la sua amichevolezza, riaffermare il rapporto che sempre con lui aveva avuto; e, mentre gli andava incontro, accennava con le braccia un gesto che sapeva al tempo stesso di cordialità e compunzione, quasi di dispiacere; l'approvazione delle leggi razziali era recente; forse in qualche modo egli intendeva affermare una sua solidarietà, esprimere una parola di conforto. Ma Loria, benché ormai quello gli fosse quasi di fronte, non attese che gli porgesse la mano, ma, guardandolo decisamente in volto, gli voltò le spalle ed uscì dalla libreria. Papini, con la sua elezione ad accademico, aveva implicitamente approvato od almeno accettato le leggi razziali; in ogni modo non le aveva respinte, non si era dissociato da esse; in nessun modo aveva espresso una propria ripulsa; come d’altra parte nessun accademico aveva
fatto. Certo Loria non pretendeva un simile gesto da chi era investito di una carica di una tale importanza sociale e politica; ciascuno aveva il diritto di comportarsi secondo le proprie convinzioni; ma egli esigeva da chiunque coerente fedeltà alle proprie scelte; non poteva ammettere l’ipocrisia di chi godeva di un vantaggio, di un prestigio, respingendone le conseguenze negative che ne derivavano. Papini non poteva accettare che gli ebrei fossero esclusi dalla vita pubblica italiana ed al tempo stesso cercare di mantenere con loro quei rapporti amichevoli che con loro aveva precedentemente stabilito. Con tale suo comportamento, che mi fu riferito da Bonsanti o che forse udii narrare da lui, Loria aveva riaffermato una propria dignità; qui, a questo punto, la sua tolleranza, la sua volontà di comprensione degli altri, delle loro ragioni e dei loro motivi si annullavano; gli si imponeva quella esigenza di chiarezza, di un necessario rispetto di sé che erano propri del suo costume. La guerra raggiunse Firenze; per mesi la città fu in balia della sua efferata violenza, intere zone tra le più caratteristiche e celebrate ne furono sconvolte; ‘ le case ed i palazzi sull’una e sull’altra sponda dell’Arno su cui dà il Ponte di mezzo furono fatte saltare dai tedeschi con cariche di dinamite; coloro che vi abitavano non ebbero neppure il tempo di farne uscire le proprie masserizie. In una di queste abitazioni, in un appartamento di proprietà della famiglia, Loria aveva lasciato il manoscritto del romanzo, dei suoi ultimi capitoli rimasti forzatamente inediti. Almeno così egli disse, motivò con gli amici, con quanti al proposito lo interpellavano, il fatto di non averlo pubblicato quando infine, terminata la guerra, gli sarebbe stato possibile; d’altra parte, egli aggiungeva, non si sentiva più capace di riscriverlo, di ripeterne la stesura come l'aveva già portata a compimento con un’attenta e scrupolosa revisione; questa la sua testimonianza, alla quale mai derogò, che mai smentì; per quanto agli amici
talvolta apparisse pretestuosa; proprio cogliendo in essa il segno di una accorata impotenza. E forse davvero tale sua motivazione mascherava la sua impossibilità di continuare, di portare a termine un libro che, per gli eventi,
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era rimasto incompiuto; quegli ultimi mesi della guerra e quindi la fine di essa avevano rivelato e messo in evidenza un’altra realtà, annullando la precedente; gli uomini, tutti gli uomini, nel nostro paese, si sentivano e dovevano
riconoscersi diversi da quello che erano stati prima; nessuno era stato escluso da tale condizione; né coloro che una tale soluzione della storia, della vicenda storica, avevano previsto, né coloro che l’avevano respinta da sé, che non l’avevano voluta e che, con ogni proprio mezzo, l’avevano contrastata. Così, di necessità, erano cambiati lo stato, le intenzioni, i propositi di ogni individuo; a questa nuova realtà, che si presentava tanto diversa, chiunque doveva aderire, in essa più o meno riconoscersi, in essa inserirsi; e per uno scrittore,
com'era possibile riprendere integralmente il discorso iniziato precedentemente; scrivere con quell’andamento, con quell’accento che prima gli erano stati caratteristici? Il romanzo di Loria, iniziato e di cui erano stati pubblicati i primi capitoli, apparteneva ad altro tempo; non era assolutamente possibile riprenderlo al punto in cui era stato lasciato continuandolo con il ritmo, conservandogli l'atmosfera che erano stati caratteristici di quelli, né era possibile rifarne, riscriverne la parte perduta secondo la trama ch’egli aveva già predisposto nella sua fantasia. Infine tale impossibilità non poteva non gravare su Loria, non poteva non condizionarlo nella sua attività di scrittore. E davvero egli non riuscì più a superare quello che per lui era stato uno scacco, ed uno scacco non solo doloroso ma definitivo. Lo ritrovai a Firenze, al mio ritorno in Italia dopo quattro anni di assenza; con Bonsanti e Montale, nella sede del Gabinetto Vieusseux, lavorava alla composizione di «Il Mondo»; il quindicinale cui avevano dato vita da alcuni mesi ed intorno al quale avevano raccolto quasi tutti i vecchi amici di Toscana ma anche di altre regioni d’Italia, sotto il segno di un rinnovamento che non si limitava alla cultura, ad una zona di essa, ma che voleva investire il costume
del paese, assumersene ogni sua problematica. Esso però ebbe breve vita; Firenze ormai andava perdendo quella primazia culturale che aveva mantenu-
to per almeno mezzo secolo; i centri più vitali del dibattito culturale andavano trasferendosi altrove, a Roma, a Milano, a Torino. E di questa sorta di declas-
samento Firenze risentì in modo sempre più evidente; Vittorini l'aveva ormai lasciata da alcuni anni; Montale si trasferì ben presto a Milano, Carlo Emilio Gadda a Roma; ed a Roma se ne andarono anche alcuni degli scrittori più giovani che pure erano nati a Firenze o che Firenze già avevano considerato la sede più ambita per il proprio lavoro; come Pratolini e Gatto. Né quelli che vi restarono, come Bonsanti, per quanto attivi ed impegnati in un lavoro di organizzazione culturale, valsero a ristabilire, a ricostituire un nucleo di scrit-
tori ricchi di una loro forza di iniziativa, tale da farsi centro di aggregazione,
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capace di attirare i più giovani, di farsi portatore di una proposta, in una parola, di diventare esemplare in un qualche senso. Rividi Loria dopo qualche anno, dopo il mio rientro definitivo in Italia; di passaggio per Firenze, nel pomeriggio, mi ero recato al caffè Paszkowski, dove solevano incontrarsi quegli scrittori come Luzi, Macrì, Bigongiari, Parronchi edaltriiquali un tempo, tutti legati da sodalità a Carlo Bo, avevano collaborato a«Il Frontespizio». Da tempo ormai le « Giubbe Rosse » non costituivano più il punto di riferimento necessario per incontrare gli scrittori fiorentini; od almeno quelli di loro che ancora mantenessero l'abitudine dell’incontro pomeridiano; a quel caffè era stato sostituito questo, quasi a segnare una differenza, un deciso distacco da una vecchia abitudine, da una vecchia atmosfera. Loria entrò, si guardò in giro, salutò i convenuti, e, scortomi, ebbe un gesto di
sorpresa e mirivolse alcune parole comelieto infine di rivedermi; sedette quindi e quasi subito cominciò a parlare, raccontando di sé, di una propria recente esperienza, di un fatto cui aveva assistito o di cui aveva avuto notizia; insomma egli riprendeva e ripeteva quello che era stato il suo modo, quel modo con cui caratterizzava la sua presenza alle « Giubbe Rosse » con gli amici di « Solaria ». Lo ascoltavo e lo riconoscevo, ma soltanto in parte; il suo modo di raccontare, di
esporre i fatti e di commentarli, di rivolgersi agli altri chiedendo la loro approvazione, attento e certo di suscitare il loro interesse, e magari esprimendo a loro un
proprio dubbio, una propria incertezza di giudizio, era lo stesso di una volta, mi ripeteva quello che allora era l’accento della sua voce, ilsuo modo di esprimersi, il suo gestire; e, proprio come allora, lo rivedevo tutto intento a stabilire un legame con gli altri; ancora una volta il suo parlare significava, esprimeva il suo desiderio di trovarsi in compagnia, di stare con gli altri, di comunicare con loro; solo che stavolta il suo discorso appariva appena sforzato, con qualcosa di affatturato; come una ripetizione cui mancavano il gusto, il calore di un tempo; come se quella sua volontà di suscitare il consenso, quella sua convinzione di legare a sé l’attenzione altrui fossero infirmate, come se lui stesso andasse rendendosi conto
di un proprio errore, di una propria mancanza di capacità di legare con i nuovi amici, di essere accettato da loro per quello che era; od almeno come se pian piano un simile dubbio andasse insinuandosi in lui. E di fatto anche coloro che gli erano vicini mostravano con il proprio atteggiamento un bene scarso interesse per quel ch’egli diceva, parevano seguirlo per un’esigenza di cortesia; ma infine persino da certi gesti, da un certo loro atteggiarsi del volto, da certi sorrisi tirati, forzati, ecco che si potevano ben cogliere in loro moti e sensi di insofferenza, di non sopportazione; come di chi a malapena tollera cosa discara e non riesce a sottrarsene, ma dentro sé ci si ribella, e vorrebbe pur far capire il proprio disagio, la propria repulsa.
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Io mi sentivo a disagio; sentivo purtroppo in Loria una stanchezza, una fiac-
chezza ed al tempo stesso di com’egli si sottoponesse ad uno sforzo che rendeva il suo discorso ancor più affatturato; sentivo come egli si concedesse modi del tutto convenzionali, di una mondanità quasi salottiera, forse per reagire ad un’atmosfera che sempre più lo isolava, lo escludeva; ma altempo stesso sentivo negli altri unatale freddezza, una tale mancanza di disponibilità verso di lui, che confinava-
no con la scortesia, se non con la villania. Era infine un atteggiamento di superiorità nei suoi confronti che questi scrittori, ben più giovani di lui, manifestavano di fronte ad una persona che pure aveva avuto nella nostra letteratura un posto ed una funzione da protagonista; e che, nonostante tutto, ancora li aveva. E tale posizione sentivo ingiusta oltre che inopportuna. Infine Loria chiuse, tacque; nessuna interruzione aveva avuto, nessuna domanda aveva suscitato; come inve-
ce sempre gli accadeva nei nostri incontri d’altro tempo alle «Giubbe Rosse »; nessun segno non tanto di un’approvazione ma anche soltanto di un qualche interesse. Come prendendo atto di tale situazione egli si alzò, si guardò in giro, salutò tutti; ed il saluto che ne ebbe in ricambio, appena accennato, come di chi finalmente si sente liberato da un impegno comunque sgradevole, forse fu da lui avvertito nel suo celato significato; e si allontanò lentamente, a capo basso, quasi sotto il segno di una sconfitta. Appena fu uscito vi fu chi intese esprimere esplicitamente la propria insofferenza, la propria recisa repulsa di fronte ad un discorso, ad una presenza che considerava inopportuni, privi diogni significato o valore, lontani, del tutto estranei alle loro abitudini, al livello dei loro interventi,
dei loro discorsi; od a quelli che avrebbero voluto che fossero. Avevo assistito, senza volerlo, e senza avvertirlo tempestivamente, alla fine di un rapporto, alla fine di una consuetudine, alla fine di un modo di essere, della reciproca comprensione di cui si nutrono, o dovrebbero nutrirsi, i rap-
porti umani; dovevo rendermi conto che ormai altro costume, altra convinzione li governava; ed avevano in sé qualcosa di spietato, erano sorretti da un’in-
transigenza recisa; e non era forse questo il segno patente attraverso il quale si manifestavano a Firenze la fine di un’epoca, l’estinguersi di una sua ricchezza che era stata al tempo stesso culturale ed umana? Loria visse ancora qualche anno, ed ancora scrisse ed anche pubblicò, volumi di poesia, di racconti, anche opere di teatro; e sempre testi di un certo livello letterario; nei quali egli sempre esprimeva una sua volontà di ricerca,
una sua ansia verso un termine nel quale ritrovarsi appieno, con il quale ricuperare e rinnovare quel fervore che lo aveva sostenuto negli anni della sua giovinezza; mentre questi suoi volumi non fanno che segnare, pur sotto il segno dell’intelligenza sempre fervida e tormentata, il graduale spegnersi di una profonda ragione dello scrivere. Morì ancora giovane, nel pieno delle sue forze intellettuali. Dopo quell’incontro al Paszkowski non l’avevo più rivisto. 1988
Il mio apprendistato letterario a Firenze
Appartengo ad una famiglia di professionisti; mio padre, come già mio nonno, ha esercitato l'avvocatura prima di farsi notaio, costrettovi dalla discriminazione che gli riserbavano i fascisti. Mio nonno si dilettava di poesia, ed una ne aveva pubblicata nell’occasione di un matrimonio di amici; mio padre, nella sua incipiente vecchiaia, aveva ripreso quella che era stata probabilmente una sua propensione giovanile. Probabilmente mio nonno, per quanto glielo permettevano i tempi e la sua condizione, ma ancor più mio padre, erano lettori di libri che soddisfacevano ad interessi ben lontani dal loro lavoro quotidiano; la biblioteca di mio padre, ricostruita dopo la prima guerra mondiale, conteneva volumi di ideologia politica, di storia ed anche di romanzi, in notevole quantità; oltre ad un ricco settore di romanzi polizieschi; per i suoi acquisti egli seguiva le indicazioni dei critici del quotidiano che ogni giorno acquistava, il «Corriere della sera », o di una rivista bibliografica cui era abbonato, «L’Italia che scrive». Io cominciai a leggere i giornalini per bambini e per ragazzi a cinque anni, cimentandomivi da solo agli inizi, apprendendo le lettere dell’alfabeto una per una e poi mettendole insieme con una qualche impegnata agevolezza; e di giornalini mi nutrii per lunghi anni, allargando ed arricchendo sempre più le mie collezioni; vennero quindi i libri, quelli di fiabe e di racconti per bambini, e poi quelli di avventure, degli scrittori più celebrati ma anche di altri che andavo scoprendo nella mia vorace ricerca; e spesso le mie preferenze andavano a coloro che avevo scoperto per mia iniziativa; e così, con gli anni, ma ben presto, vennero letture più impegnative ma altrettanto, e forse più, appassionanti, i romanzi di Alexandre Dumas e di Victor Hugo. Infine cominciai ad attingere alla biblioteca di mio padre, seguendo anche i suoi consigli e le sue indicazioni; fu così che alla lettura dei romanzi di scrittori di più facile successo potevano essere Virgilio Brocchi, o, ad un livello comunque superiore, Marino Moretti— accompagnai quella delle novelle, dei romanzi e dei drammi di Pirandello o degli scritti polemici di Papini, con più impegnato interesse. Ben presto anche la poesia mi attirò; ed ecco che, come guida della più recente produzione, ebbi l’antologia Poeti d'oggi di Papini e Pancrazi, nella sua prima e nella sua seconda edizione; che mi servì quale invito ad altri acquisti,
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alla conoscenza più approfondita di qualche poeta o narratore da me preferito per quel che ne avevo potuto leggere in esse; mentre di seguito a quelle si aggiunse l’altra antologia, la prima, di I poeti futuristi; la quale mi incuriosì e mi sollecitò a superare i canoni tradizionali cui mi ero attenuto sino allora nei miei primi tentativi poetici. Feltre era, ed ancora è, una piccola città di lunga tradizione e di una qualche importanza in tempi passati, situata nella parte più settentrionale del Veneto, tra le montagne; fuori da tutte le strade e da tutte le linee ferroviarie di grande comunicazione; in essa allora ben pochi stimoli culturali erano presenti, non fosse quello di una breve stagione di opera, o meglio di operetta, nel teatro comunale; un cinema proiettava le pellicole che allora godevano di
un maggior successo; ed io ne ero, per quanto potevo, un frequentatore assiduo; ma in città, al di fuori di mio padre, non avevo persona cui rivolgermi, con cui confrontarmi, con cui discutere sulle mie letture, sugli scrittori che
andavo prediligendo; di una signora della piccola nobiltà cittadina si sussurrava che fosse abbonata a «La Nuova Antologia», e passava per persona colta e di qualche propensione letteraria. L'estate un professore di scuola media, dell’età di mio padre e suo amico, di famiglia veneziana, ma nato a Feltre, Giuseppe Ortolani, veniva a passarvi le vacanze, ed io spesso a lui mi accompagnavo chiacchierando e discutendo, con lui confrontandomi; egli non seguiva con attenzione la produzione letteraria più recente, ma i suoi tre nipo-
ti, Sergio, Dario e Roberto, che talvolta venivano a salutarlo, tutti e tre appassionati di letteratura, gli davano indicazioni e suggerimenti; che io, o direttamente da loro, o tramite il loro zio, subito facevo miei. Durante gli anni del liceo, che frequentavo a Belluno, solo per il terzo ebbi un insegnante, Virgilio Procacci, che mi fu di guida e che mi stimolò sia nelle mie letture sia in quelle composizioni in poesia ed in prosa che andavo scrivendo; e con lui il mio orizzonte culturale si venne allargando; cominciai ad inserirmi in una cultura di un livello più alto e sopratutto di una più viva attualità che non lo fosse stata sino allora. E così presi ad acquistare settimanalmente un foglio letterario, «La Fiera letteraria», che mi immise nel dibattito culturale e letterario più attuale; per parte sua, sin dalla loro apparizione, mio padre si era abbonato ad una rivista culturale di tendenza cattolica, «Il Frontespizio»,
e ad altra,
«Pegaso», di scelta più ricca e spregiudicata; e di questa seconda fui lettore attento.
Dopo gli esami di maturità, al momento di iscrivermi all’Università, non riuscii a resistere agli inviti di mio padre, e, con qualche pena, mi iscrissi alla Facoltà di Legge all’Università più vicina, quella di Padova, dove avevano al loro tempo studiato sia lui che mio nonno; e per un paio d’anni, poco frequentandola e sostenendo gli esami con una preparazione diligente se pure
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priva di un qualsiasi interesse, dedicai la più gran parte del mio tempo alle letture più disparate, di scrittori italiani ma sopratutto stranieri, russi, americani, inglesi; godendo della tollerante accondiscendenza di mio padre, tanto che potevo attingere alla maggiore libreria di Padova,- nella quale egli aveva conto aperto, quanto più desiderassi, quanto preferissi nella mia aspirazione di allargare sempre più le mie conoscenze, ed anche nel campo della critica letteraria; mentre al tempo stesso egli continuava ad arricchire la sua biblioteca con acquisti periodici secondo le proprie preferenze; e spesso insieme li concordavamo, specie quando ci si proponeva l'abbonamento a collane di volumi; come ci avvenne per le varie sezioni della Casa editrice Slavia, diretta da Alfredo Polledro; la quale in quegli anni diffuse in Italia la conoscenza in
particolare degli scrittori russi. Per quanto riguardava la letteratura italiana del Novecento, in essa ero andato individuando due filoni che tra gli altri mi pareva avessero una maggiore consistenza, intorno ai quali mi pareva si raccogliessero gli scrittori di
maggiore spicco; e si erano da un lato quello del crepuscolarismo e dall’altro quello di un tardo naturalismo; essi all'apparenza si distinguevano nettamente l’uno dall’altro, mentre di fatto spesso l’uno confluiva, partecipava dell’altro; ciò per quanto riguardava la narrativa; mentre per la poesia, se il crepuscolarismo di un Moretti mi poteva attirare con la sua dimessa quotidianità, l’estro provocatorio di talun poeta futurista stimolava quella parte di me che più accondiscendeva all’esibizione di una mia estrosità, di una mia eccezionalità.
In ogni modo, dopo i diciotto anni avevo ormai abbandonato ogni propensio-
ne per lo scrivere dei versi; era ormai il racconto che mi attirava e già il romanzo mi si configurava come un necessario punto di arrivo. In questi termini, in un continuo, se pure sottaciuto, forse neppure avvertito, confronto con quanto leggevo, andavo educandomi allo scrivere; e, per me, facevo scelte ben precise e decise. Già negli ultimi anni del liceo avevo scoperto, senza nessuna sollecitazione scolastica, l’opera del Verga; e la lettu-
ra di essa tanto più mi aveva appassionato in quanto a quel tempo si trattava di uno scrittore dimenticato e misconosciuto; così già in quegli anni si andava delineando una caratteristica componente della mia personalità, della mia ventura attività di critico militante; ma ben presto l'insegnamento di altro scrittore, Italo Svevo, mi parve esemplare, e per me costituì una scoperta di tale importanza per la mia maturazione letteraria da farmi sentire come decisamente superati quella dimensione, quel modo di scrivere racconti ai quali sino allora, almeno negli ultimi tempi, mi ero attenuto. Fu proprio la lettura di La coscienza di Zeno a rivelarmi quale strumento di conoscenza potesse diventare la letteratura; così per me quella resa della realtà, cui mi ero attenuto sino
allora, nelle sue motivazioni sentimentali e nel suo compiacimento di un esito
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finale con una sua forzata drammaticità, mi apparvero risoluzioni che in nessun modo riuscivano a toccarne il fondo, la sua celata consistenza; tale realtà mi apparve improvvisamente come estremamente ricca, per la sua gran parte sconosciuta; si trattava di attingere ad essa, di scavare in essa, di coglierne le più diverse dimensioni, di capirne l’inesauribile varietà, di scoprirne la più segreta ragione; nella sua prepotente esigenza di vita. Ed anche qui, al gusto della scoperta, di una conquista imprevista e tanto più esaltante, si aggiunsero l'esigenza della rivendicazione, il convincimento di dover fare quanto stesse in me per far conoscere ed apprezzare per quel che valeva uno scrittore di tale dimensione, di tale importanza. Infine per me si ripeteva quello stato di fervore e di appassionata esaltazione che mi aveva colto qualche anno innanzi alla lettura dei libri di Verga; ma stavolta ben più accentuato e con ben maggiore determinazione. Dopo i primi due anni di frequenza, se pure limitata, dell’Università di Padova, mi sentii stanco di una condizione, la quale, nella sua quasi piena libertà, mi lasciava incerto su ogni mia prospettiva; avvertivo la necessità di
una disciplina, di una guida sicura nelle mie letture, nella mia preparazione culturale; mentre lo studio della legge mi restava come una zona fondamentalmente estranea; ad esso accondiscendevo per un impegno preso con mio padre ma del quale non ero per nulla partecipe. Né d’altra parte, all’Università di Padova, dalla Facoltà di Lettere, la cui tendenza predominante era quella tradizionale delle letterature classiche, mi giungevano indicazioni e stimoli dai quali fossi attirato; e neppure la città, nella sua attività, nella sua presenza culturali, mi offriva un ambiente in cui ritrovarmi, che rispondesse alla mia ricerca. Così cominciai a pormi la risoluzione di cambiare Università e città;
mi incontrai con un amico della mia età che frequentava la Facoltà di Medicina a Firenze, e da lui ebbi indicazioni e sollecitazioni in quel senso; la mia scelta in breve fu decisa e, se pure con qualche fatica, ottenni il consenso ad essa da parte di mio padre. Sebbene le mie conoscenze fossero vaghe ed approssimative, sapevo che Firenze a quel tempo era indiscutibilmente il centro culturale del paese. In questa città erano sorti o si erano affermati tutti imovimenti culturali e letterari del primo Novecento; quasi tutte le riviste attorno alle quali si erano fatte conoscere la nuova cultura, la nuova letteratura erano nate a Firenze, da «Il Marzocco», cui avevano collaborato Pascoli e d'Annunzio, a «Leonardo», a «Il Regno», a «La Voce», ad «Hermes»,
a »L’Unità»,
a «Lacerba»,
a
«L’Italia futurista»; delle quali avevo avuto più o meno precisa informazione, ma i cui nomi ricorrevano continuamente nelle riviste, nelle antologie o nei volumi di critica che consultavo per cogliere gli elementi di fondo di un panorama letterario di quel periodo. Ma ancora, attraverso la lettura di «La Fiera
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letteraria», ben presto divenuta «L'Italia letteraria», e di «Pegaso», ero stato avvertito della presenza a Firenze di nuovi movimenti letterari, di nuove pubblicazioni cui davano vita sopratutto giovani scrittori; così mi era giunta notizia di «Il Selvaggio», di «Il Frontespizio», cui era abbonato mio padre, di «Solaria», e delle riviste bibliografiche «Leonardo» e «La nuova Italia»; infine ben sapevo che a Firenze avevano la loro sede alcune fra le più prestigiose case editrici, come la Sansoni, la Le Monnier, la Bemporad, la quale
andava pubblicando l’opera omnia di Pirandello, la Vallecchi, cui aveva fatto capo la giovane letteratura durante almeno vent'anni; infine la Nerbini e La Nuova Italia. Così, pur in un modo del tutto vago, sentivo che a Firenze certamente esistevano ed erano attivi quei movimenti, quei centri culturali cui avrei potuto riferirmi, cui forse avrei potuto partecipare.
Giunsi a Firenze nell'autunno del 1930. Come punto di riferimento avevo quel giovane studente mio coetaneo, il quale mi aiutò a trovarmi una stanza
d’affitto e mi introdusse in un circolo letterario ch’egli di tanto in tanto frequentava,— per quanto le sue propensioni fossero ben lontane da tali interessi; ma forse vi era attirato dalle ragazze che, di quel consesso, costituivano la parte più vivace; in esso primeggiava un’anziana scrittrice di romanzi rosa di una qualche notorietà, i cui libri avevano un notevole successo di vendite, e la
quale, con i suoi modi di una suasiva famigliarità, legava a sé quel pubblico giovanile e perlopiù sprovveduto. Con quel mio amico mi ci recai un paio di volte, alla scrittrice affidai una copia dattiloscritta del romanzo che da poco avevo portato a termine e che doveva costituire per me una sorta di garanzia,
perlomeno una carta di presentazione, e ne ebbi parole di un generico apprezzamento ma nessuna indicazione di cui potessi servirmi per tentarne la pub-
blicazione; in uno di questi miei incontri conobbi anche un giovane di alcuni anni più anziano di me, Luigi Berti, del quale l’anziana scrittrice faceva gli elogi, rammaricandosi al tempo stesso ch’egli non fosse equamente apprezzato nei suoi meriti da chi era depositario di potere nel campo letterario, nelle riviste o nelle case editrici. Con lui, successivamente, in altri ambienti e con
altre persone, ci incontrammo e chiacchierammo, mai però ricordando od alludendo a quel nostro primo incontro; come se ce ne vergognassimo. Ma dal professor Ortolani avevo avuto una lettera indirizzata a persona di ben altro spicco ed importanza, Pietro Pancrazi, allora critico letterario del «Corriere della sera», il quotidiano più letto in Italia. Pancrazi godeva di un notevole prestigio ed un suo articolo di terza pagina valeva a segnalare l’opera di uno scrittore, a garantirne il successo; egli era anche il redattore di « Pega-
so», la rivista letteraria e culturale promossa e diretta da Ugo Ojetti, la quale
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in quegli anni si presentava come la pubblicazione che desse la più sicura garanzia di un alto livello; i suoi collaboratori nei più diversi campi erano rappresentativi per la loro competenza specifica, per il loro valore riconosciuto; ed in essa la presenza degli anziani si accompagnava anche a quella dei giovani che già avessero dato prova di sé; con al più l’esclusione di quanti avessero assunto o andassero assumendo posizioni di rottura, o considerate almeno come frutto di un’eccessiva volontà di innovazione, di sovvertimento.
La sede della redazione della rivista era situata al primo piano del Palazzo di parte guelfa, in un appartamento di aspetto signorile, un po’ raggelante nella sua distinzione; Pancrazi mi ricevette, lesse la lettera, si espresse in termini elogiativi per quello che gli era un vecchio amico, me ne chiese notizia, ed infine accettò il mio dattiloscritto; mi congedò con l’invito a tornare dopo alquanto tempo, così che mi potesse dare una risposta, un giudizio ed un consiglio su questa mia opera giovanile. Seppi più tardi ch’essa era stata letta da Bonaventura Tecchi, collaboratore di «Pegaso » ed in rapporti di amicizia con Pancrazi, e dall’uno o dall’altro ne ebbi un qualche apprezzamento non del tutto negativo. Infine, ed anche qui per consiglio del professor Ortolani, mi recai, ma senza alcun avallo, alla Casa Editrice Vallecchi, chiedendo di essere ricevuto da qualcuno cui poter offrire il mio testo in lettura per una possibile pubblicazione; fui introdotto e ricevuto da un redattore, evidentemente incaricato di una simile funzione, il quale ascoltò la mia richiesta impacciata e quindi, con una qualche accondiscendente cortesia, mi fece presenti quali fossero le difficoltà cui andava incontro una tale proposta, come la Casa Editrice fosse continuamente sollecitata da postulanti come me; per cui mancavano, a lui come a chiunque altro vi lavorasse, il tempo e la possibilità anche soltanto di leggere i dattiloscritti che quotidianamente vi venivano recapitati. E così, con una stret-
ta di mano ed un augurio di migliore fortuna, si concluse anche quel breve incontro. Certo questi rifiuti, questi insuccessi non potevano rallegrarmi, né inorgo-
glirmi, ma li accettavo come il segno di quanto fosse difficile anche soltanto proporsi di iniziare la carriera dello scrittore. Sino allora io avevo avuto modo di pubblicare una poesia ed un breve racconto in una rivista giovanile che aveva mostrato di apprezzare i miei scritti, ma di un tale avallo non potevo certo servirmi in ambienti che da quella si differenziavano per una ben diversa loro dimensione; e ben sentivo come dovesse essere lunga e dura la via per
essere accettato da questi. Ma in me c'erano un’altra attesa, un altro desiderio che mi sospingevano, che attendevano di essere soddisfatti; infine io di quel
mio primo tentativo di romanzo già non ero del tutto soddisfatto; se lo avevo portato a termine da poco, esso mi pareva ormai lontano dalle mie più recenti
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esigenze; come se con esso avessi voluto adempiere ad un compito, giungere
in qualche modo ad un risultato; mentre d’altro canto altri progetti, addirittùra altri modi, mi si presentavano che da quelli in esso esemplati differivano. Ormai quel mio dattiloscritto per me aveva esclusivamente il valore di un tentativo, e doveva presentarsi come un pegno, una garanzia di quel che sarei riuscito a fare col tempo, quando davvero avessi raggiunto quell’equilibrio, quella piena coscienza di me che mi ripromettevo. Infine con esso tendevo a stabilire un rapporto, a realizzare una sodalità con chi era avviato per una carriera letteraria; con coloro con i quali desideravo confrontarmi, dai quali
anche volevo apprendere; con i quali insomma potessi iniziare o meglio compiere la mia educazione letteraria. Nel pomeriggio di uno dei primi giorni del mio trasferimento a Firenze, nella vetrina di una piccola libreria di via Martelli, forse mentre mi recavo all’Università, attirò la mia attenzione la copertina di una rivista, evidente-
mente esposta con il suo fascicolo più recente, la cui fascetta indicava come esso fosse interamente dedicato ad Italo Svevo ed alla sua opera. Subito lo acquistai, in esso trovai l’indicazione della sede della redazione della rivista, là
dove avrei potuto incontrare uno dei due direttori di essa; mi recai alla tipografia dei fratelli Parenti che la stampavano ed ebbi la ventura di incontrarvi Alessandro Bonsanti; dopo essermi presentato ed avergli detto qualcosa di me, dei miei studi e delle mie aspirazioni letterarie, affidai anche a lui una copia di quel mio dattiloscritto; ed anche da lui ebbi l’invito di tornare colà una settimana più tardi per rivederlo quando avesse avuto la possibilità di leggere e di darmi un giudizio di quella mia prova giovanile. Intanto cercavo di ambientarmi all’Università; sceglievo i corsi di Legge che avrei dovuto frequentare, ma a quelli subito accompagnai i corsi di Lettere che più mi attiravano; difatti intendevo seguire e sostenere contemporaneamente gli esami degli uni e degli altri; proposito cui assolsi, a cominciare dalla seguente sessione estiva, senza gravi difficoltà; le due Facoltà erano insediate nello stesso fabbricato di piazza San Marco, il che mi rendeva più facile la realizzazione di tale programma; seguivo le lezioni di italiano, se pure con limitato interesse, data la superficiale brillantezza di esposizione del docente, Guido Mazzoni, del quale mi era già noto il nome come poeta, per averne letto la «stroncatura» di Papini; e quindi quelle delle letterature straniere che maggiormente mi attiravano, francese, inglese, tedesca; e così pure frequentavo i lettorati delle tre lingue, e per il francese e l’inglese mi affidavo, nella mia volontà di apprenderle nei termini più brevi, a lezioni private per un paio di pomeriggi la settimana. Insomma avevo inquadrato la mia giornata secondo un orario ben rigido e lo seguivo senza tentennamenti e senza deroghe; volevo dimostrare a me stes-
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so che quella scelta di Firenze non rispondeva ad un capriccio; per essa intendevo sottopormi ad una disciplina, darmi una norma di studio quali mi erano mancate sino allora; giungere ad una preparazione sostenuta da una conseguenza ben precisa; insomma vi era in me l’esigenza di rispondere a quello che pur era un sacrificio cui avevo costretto mio padre, ma ancor più di mettere in evidenza, per me oltre che per lui, una serietà e continuità di impegno che mi portassero a compiere la mia educazione, a confermare a me stesso la validità di quelle che sino allora erano state perlopiù aspirazioni incerte e velleitarie. C'era in questo mio comportamento qualcosa di forzato, anche di eccessivo, quasi la volontà di dimostrare a me stesso la mia costanza, la mia capacità
di dedizione e di sacrificio; in un esercizio che talvolta aveva per fine solo la necessità di una simile riprova. Poiché davvero non è che molte delle lezioni della Facoltà di Lettere da me frequentate mi appassionassero, mi arricchissero 0 stimolassero nella mia ricerca; al più esse mi sollecitavano a nuove letture, a riempire spazi della mia cultura sino allora a me rimasti vuoti. Infine dentro di me altro mi ero atteso ed andavo ricercando in quella esperienza universitaria, altre indicazioni e sollecitazioni da quelli che avrei dovuto considerare
come maestri; così da giungere a stabilire con loro un rapporto, per avere da loro delle indicazioni, dei consigli, per ottenere da loro qualcosa di più di quanto erano soliti dare nelle loro lezioni; ma ben presto dovetti ammettere come ciò fosse ben difficile da realizzare, se non impossibile; lo tentai con il docente di francese, Luigi Foscolo Benedetto, il cui discorso acuto e penetrante dalla cattedra mi aveva fatto supporre una contenuta passionalità; ma il suo distacco, freddo per quanto cortese, come di chi non vuole sprecare il
proprio tempo con uno sconosciuto, mi respinse; gli altri, per uno od altro motivo, si mostravano ben poco disponibili, e quelli che forse lo sarebbero stati sentivo da me troppo lontani; nulla mi avvicinava a loro. Per quanto poi riguardava gli insegnamenti della legge, io adempivo esclusivamente all’impegno preso con mio padre; se per taluna delle materie frequentate mi rendevo conto del valore, della passione o della finezza acuta di chi le trattava e mi avvenne per Piero Calamandrei e per Federico Cammeo, troppo esse erano
lontane da qualunque mio interesse; in un certo senso era proprio l’ammirazione per questi docenti che mi faceva capire quanto la mia richiesta, la mia attesa si differenziassero e ricercassero altra via da quella da loro perseguita. Nel giorno stabilito mi recai puntualmente all’appuntamento fissatomi da Bonsanti; anche stavolta egli mi trattenne brevemente; mi disse di aver letto il
mio romanzo e di aver apprezzato in esso un capitolo, indicativo di quale via
avrei dovuto perseguire per ottenere un risultato dignitoso; infine mi invitò a recarmi alle « Giubbe Rosse», il caffè dove i collaboratori di « Solaria» soleva-
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no incontrarsi la mattina, dopo il mezzogiorno, ed il pomeriggio, dopo le sei.
Con questo invito egli mi ammetteva in una società letteraria, in quello che era
un circolo di scrittori abbastanza chiuso, quasi mi dava fiducia presentandomi agli altri e garantendo per me. Alla sua sollecitazione subito accondiscesi, la sera stessa 0 la seguente, e là da Bonsanti fui presentato a coloro che già vi avevano preso posto o che vi andavano giungendo; a Franchi, a Loria, a Mon-
tale, a Vittorini,
a Nannetti, a Carocci, a Timpanaro.
Non era questo, in quegli anni, l’unico gruppo di scrittori che si fosse formato a Firenze; nella città almeno altri due esistevano e col tempo sempre più acquistarono di importanza. Ed anzitutto quello che comprendeva Berto Ricci, Romano Bilenchi, Dino Garrone, Ottone Rosai e che si riuniva nel caffè Paszkowski, in quella che allora era piazza Vittorio, giusto dirimpetto alle «Giubbe Rosse». Il gruppo si era formato intorno ad Ottone Rosai, pittore che già godeva di una fama e di un prestigio, ed anche scrittore; tanto che quella pubblicazione anticipatrice del foglio periodico, «L’Universale», nel quale si espressero le tendenze e le aspirazioni di questi giovani, era intitolata al suo nome. Rosai era conosciuto per la sua militanza fascista, se pure con qualche colorazione di dissidenza, su posizioni anticonformiste; ed accanto a
lui questi giovani scrittori, i quali già avevano dato prova delle loro capacità in volumetti di poesia o di narrativa— sul suo esempio, pur proclamandosi fascisti e polemizzando contro quegli scrittori e quella letteratura che non volevano o non sapevano accettare la nuova società, il nuovo costume che il fascismo promoveva, intendevano differenziarsi da molte delle posizioni ufficiali assunte dal partito; al quale rimproveravano la progressiva burocratizzazione, l’attenuarsi di quella che essi ritenevano ne fosse stata l’iniziale spinta rivoluzionaria, o perlomeno eversiva. i In piazza San Marco, il caffè che ne portava il nome si può dire fosse frequentato a tutte le ore da un altro gruppo di giovani, tutti studenti universitari della Facoltà di Lettere o recentemente laureati; fra tutti faceva spicco, per la sua personalità ricca di una vivacità dirompente, Renato Poggioli, studioso di letterature slave; ma, accanto a lui, già si facevano luce, andavano
occupando un loro spazio, Carlo Bo, appassionato lettore di scrittori francesi, Tommaso Landolfi, il quale stava per laurearsi in letteratura russa, Leone Traverso, studioso di letteratura tedesca, Oreste Macrì; e quindi, negli anni successivi, Mario Luzi, Piero Bigongiari ed Alessandro Parronchi. A quel tempo già Renato Poggioli andava iniziando la propria collaborazione a «Solaria», e così capitava talvolta, per rapidi incontri, alle « Giubbe Rosse »; ma non è ch'egli si facesse tramite fra l’uno e l’altro gruppo; anzi quasi si considerava in una situazione privilegiata, di cui altri dei suoi amici non potevano ancora essere partecipi. Mentre invece Carlo Bo,- il quale già aveva
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conosciuto Papini e gli altri scrittori anziani o di mezza età, collaboratori della rivista «Il Frontespizio», diretta da Piero Bargellini, di impostazione e di
indirizzo esplicitamente cattolici si fece promotore di un graduale inserimento in essa se non di tutti loro almeno di quanti già con i loro scritti avevano assunto una fisionomia, si andavano distinguendo con una propria caratterizzazione, sopratutto nella ricerca critica.
Quand’io cominciai a frequentarlo in quell’autunno del 1930, del circolo dei «solariani» facevano parte scrittori più e meno giovani, di diversa educazione e di diversa provenienza. Alla sua nascita, nel 1926, la rivista aveva
contato anzitutto sull’iniziativa appassionata di Alberto Carocci, il quale aveva dato prova di sé e si era dato a conoscere per un libretto di versi e per i racconti che era andato pubblicando in essa e che quindi aveva raccolto in volume; ma, in questi suoi inizi, nella sua inesperienza, egli si era affidato sopratutto al consiglio ed alle indicazioni di Raffaello Franchi, il quale già nella sua adolescenza, ai tempi di «Lacerba», aveva frequentato le « Giubbe
Rosse» e conosciuto Soffici e Papini, e che quindi dopo la prima grande guerra cui aveva partecipato uscendone con una mutilazione che lo rendeva storpio ad un piede aveva collaborato ad alcune tra le riviste letterarie più vivaci di quegli anni legandosi di amicizia con scrittori suoi coetanei, a mezzo suo poi presenti nelle pagine di «Solaria» sin dai suoi primi numeri. Egli era scrittore e critico di una qualche acutezza e sensibilità, ma sempre inteso a risultati che mettessero in evidenza tali caratteristiche, esasperandole sino ad una esibizione insistita di raffinatezza; accanto a lui, anche Bonaventura Tec-
chi, allora direttore del gabinetto Vieusseux, aveva avuto un suo compito di promotore nella rivista, sia per la sua conoscenza della letteratura tedesca, sia come narratore, con i suoi primi racconti intesi al ricupero di una realtà quotidiana in modi di una controllata partecipazione; ed a lui andava il merito della presenza in essa, sin dal suo primo anno, di pagine di Carlo Emilio Gadda; mentre in quel primo tempo aveva contribuito con la sua fervida iniziativa ad allargarne il campo degli interessi culturali e letterari Leo Ferrero, scomparso improvvisamente per un incidente fortuito quando ancora non aveva dato piena prova di sé; infine anche Vieri Nannetti, il quale con il fratello Neri era stato durante la guerra uno dei promotori del foglio «L’Italia futurista»,— si era inserito fra i primi «solariani» con una presenza perlopiù silenziosa ma come chi nel proprio raccoglimento tenta e prepara un testo che lo distingua, in cui poter dare piena prova di sé. Ma, in questi suoi primi anni, «Solaria», pure arricchendosi della presenza di prose, di poesie e di interventi critici di scrittori di altra provenienza, aveva avuto una diffusione sopratutto locale ed anche un’importanza ed un’incidenza culturali limitate a Firenze od al più alla Toscana. Erano state la venuta a
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Firenze di Montale, e quindi quelle di Ferrata e di Vittorini, a determinare una svolta alla rivista, a darle quell’impronta per cui essa assunse un suo ben chiaro compito di iniziativa culturale. Montale, con Sergio Solmi e con Giacomo Debenedetti, era stato precedentemente il promotore di «Primo tempo», una rivista giovanile che si era distinta per le sue scelte e per le sue prese di posizione, quindi aveva collaborato a «Il Baretti», il quindicinale di Gobetti, nelle edizioni del quale erano stati pubblicati gli Ossi di seppia, ormai giunti alla terza edizione e per i quali egli già veniva considerato un poeta di forte personalità, il più valido della sua generazione. Vittorini si era fatto conoscere dalle pagine di «La Conquista dello Stato » di Malaparte, e quindi da quelle di «L'Italia letteraria» con interventi che avevano avuto anche una notevole risonanza; infine, sempre per l’iniziativa di Malaparte, aveva cominciato a collaborare a «La Stampa». Ferrata, dopo brillanti studi universitari, si era distinto nelle pagine di «Solaria » per la sua preparazione e per la sua capacità di giudizio critico sino a diventarne per un anno il direttore accanto a Carocci. Lui e Vittorini, sostenuti da un fervore di innovazione, ricchi di entusiasmo e di iniziativa, si erano posti decisamente a fianco di Montale, accogliendo ogni suo suggerimento ed indicazione e così togliendo ai primi redattori della rivista, a Franchi, a Tecchi ed anche a Carocci, quella che era stata sino allora la
loro indiscussa primazia. E, per loro, la rivista si era via via arricchita dell’apporto di quasi tutti quegli scrittori che in quel tempo in Italia si ponevano come i rinnovatori dell'ambiente letterario; o perlomeno di quanti intendevano tale rinnovamento in un certo senso. «Solaria», sin dalle sue origini, aveva rivendicato l’esigenza di una dignità dello scrivere, al di là di ogni sciatteria ed improvvisazione, ma al tempo stesso al di là di ogni accademismo, di ogni dilettazione formalistica compiaciuta, ed in tal senso aveva insistito sulla necessità di un confronto con la realtà, di una
coraggiosa assunzione di essa; e quindi sulla necessità, per lo scrittore, per il prosatore, di cimentarsi nella narrazione piena, anche nel romanzo; una narrazione però che rifiutasse i vecchi schemi ormai superati del bozzettismo e
del sentimentalismo e che si rifacesse ai grandi modelli europei di Proust, di Joyce, di Gide, della Woolf; di quanti si presentavano come i grandi rinnovatori. E non a caso, in tal senso, aveva dedicato due numeri unici prima a Tozzi
e quindi a Svevo; infine aveva presentato narratori più o meno giovani, alle loro prime esperienze ma che già si affermavano come portatori di nuove proposte, di nuove indicazioni, come Carlo Emilio Gadda, Arturo Loria,
Alessandro Bonsanti ed Elio Vittorini. Così, abbastanza rapidamente, a Firenze i collaboratori di «Solaria » si erano affermati come il gruppo letterario più ricco di fermenti; alle «Giubbe Rosse» ogni giorno, nelle ore ormai divenute canoniche convenivano quelli
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che ne erano i frequentatori consueti, Montale, Franchi, Loria, Bonsanti, Nannetti, Vittorini; ai quali spesso si aggiungeva Timpanaro, per quanto, specie sul mezzogiorno, la sua presenza si riducesse a pochi minuti; egli entrava, si accostava al gruppo con un breve saluto che comprendeva tutti, ascoltava
l’intervento dell’uno o dell’altro, e quindi, come preso da una fretta che gli impediva di trattenersi assecondando il proprio desiderio, se ne andava con un rapido cenno della mano alzata. Carocci vi capitava di frequente, specie il pomeriggio, ma restava con gli amici anche lui per breve tempo; portava qualche notizia, ne chiedeva all’uno od all’altro, quindi si dirigeva verso la saletta attigua del caffè, riservata agli appassionati del gioco degli scacchi, dove si intratteneva in lunghe partite. Talvolta vi giungeva anche Gianna Manzini, la quale già aveva una sua notorietà e veniva accolta con modi di compiaciuta e premurosa attenzione; tutti subito disponibili a quel che dicesse, a quel che chiedesse. Raramente e con l’atteggiamento di chi si considera ospite casuale evidentemente schivo nel dare notizia di sé, quasi inteso a difendersi dall’accoglienza cordiale di quanti gli si dichiaravano amici e gli chiedevano notizie di quel suo lungo periodo di assenza con modo di affettuoso rimprovero,— capitava alle « Giubbe Rosse » Roberto Papi; il quale ai « solariani» era stato vicino nei primi tempi della rivista, e quindi aveva pubblicato un romanzetto, Piripino, di modi tra la favola e l’apologo, di una qualche acuta e sorvegliata finezza. E di fuori, da Lucca o dal Forte dei Marmi, a mezzogiorno passato, quasi a smaltire in altro ambiente la fatica accumulata, arrivava spesso Enrico Pea, dopo aver dedicato l’intera mattinata allo scrivere in un caffeuccio vicino. Egli entrava, salutava tutti accomunandoli con un gesto della mano levata; poi prendeva posto accanto all’uno od all’altro, ma il più spesso a Montale, tacitamente riconoscendogli così un diritto di prelazione, e subito diventava il centro dell’attenzione, con il suo variato discorrere. Infine talvolta, per piazza Vittorio, passava, attraversandola frettoloso, Aldo Palazzeschi, mai però deviando verso le «Giubbe Rosse» ed ancor meno facendovi sosta; qualcuno dei «solariani» lo scorgeva, qualcuno usciva dal caffè per raggiungerlo, magari anche per invitarlo ad entrarvi, ma egli ricusava allegando un impegno, al più trattenendosi un po’ a parlare con l’inatteso
interlocutore, ma sempre sul punto di concludere il breve colloquio e subito indirizzato alla sua meta segreta.
E poi, in quella prima saletta delle « Giubbe Rosse», accanto agli scrittori, in circolo con loro, vi erano anche i pittori, primo tra gli altri Giovanni Colacicchi, il quale aveva appartenuto al gruppo dei fondatori di «Solaria», ed Ugo Capocchini, e tanti altri; ed anch'essi intervenivano, appena se ne offrisse loro l’occasione, nel discorso, nel dibattito in cui gli scrittori erano coinvolti,
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con la volontà di portarvi un contributo, anche col desiderio di contrapporsi ad affermazioni, a posizioni dalle quali si sentivano lontani. Ma alle «Giubbe Rosse» non convenivano soltanto scrittori ed artisti che risiedevano a Firenze; ben presto, e proprio sia perché legati di amicizia a taluno dei «solariani», sia perché già avevano collaborato alla rivista, sia per il desiderio di immettersi in questa società letteraria, di darsi a conoscere, giungevano scrittori da ogni regione d’Italia; così Umberto Motra, Giacomo Debenedetti e Guglielmo Alberti da Torino, così Sergio Solmi, Piero Gadda,
Carlo Emilio Gadda e Giansiro Ferrata dopo che ebbe abbandonato Firenze,- da Milano; così Umberto Saba, Silvio Benco, Giani Stuparich da Trieste; ed Italo Svevo, prima che morisse, dai «solariani» a Firenze era stato festeg-
giato; così capitavano a Firenze da Treviso Comisso, da Roma Alvaro; dalla Sicilia Salvatore Quasimodo e Glauco Natoli. Il cerchio dei frequentatori delle «Giubbe Rosse » si allargava, il discorso, dopo il primo impatto con i nuovi venuti, si arricchiva di notizie, di prese di posizione, di un reciproco scambio di vedute, di conferme e contrapposizioni; e sempre più si confermava nei «solariani» la convinzione dell'importanza e del valore della loro rivista, ed insieme quella di essere divenuti, nel paese letterario, un sicuro punto di riferimento. Difatti l’essere pubblicati nelle pagine della rivista dava una garanzia, costituiva un titolo di merito; al tempo stesso in essa erano vivi diversi fermenti; se pure mai si accondiscendeva ad una polemica in uno od in altro senso, essa risultava, negli scritti pubblicati, sempre viva di nuove istanze, sempre intesa ad una volontà di rinnovamento; aliena da ogni assuefazione a modi ormai consueti; se era cauta nell'accettare innovazioni in sapore di eccessività, mai si adagiava sul risaputo, sullo scontato.
Semmai una certa
ingenuità la faceva accondiscendente a chi faceva sfoggio di una preparazione culturale magari d’accatto ma tutta inserita nel dibattito più attuale, legata a moduli delle più recenti correnti letterarie europee; come poteva avvenire per Aldo Capasso o per Alberto Consiglio, presenti in essa troppo spesso e con scritti anche di soverchia dimensione; in virtù anche di una loro continua
disponibilità ad intervenire su qualunque argomento, sempre in nome di un aggiornamento necessario nella sua tempestività. Certo il mio inserimento in questo gruppo di scrittori non fu né facile né rapido, né, una volta raggiunto, ebbe un qualche peso; da parte loro vigeva, nel confronto con gli altri, con quanti, come me, erano per loro degli sconosciuti, sopratutto per quanti non avessero ancora dato prova di sé, non avessero scritto e pubblicato testi in qualche modo apprezzabili, una preventiva
diffidenza; per loro la riserva ed il distacco erano atteggiamenti spontanei e necessari. Né io mi proponevo di forzarli; il mio desiderio di arrivare ad
essere da loro accolto ed accettato mi faceva attento a non mostrare di voler
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imporre la mia presenza, di chiedere loro più di quanto non fossero disposti a darmi, a concedermi; per qualche tempo non mi recai ogni giorno alle « Giub-
be Rosse», perché essi non avessero a considerarmi un sollecitatore inteso a
vincere il loro riserbo, a stabilire con loro un rapporto che ancora non meritavo e che da loro fosse giudicato intempestivo; quando mi ci recavo, al solito nel pomeriggio— allorché quell’incontro durava più a lungo ed il discorrere si faceva più ricco, più vario sedevo su una delle seggiole libere evitando di pormi accanto a coloro che nel gruppo vedevo primeggiare, tenendomi un po’ in disparte, mai cercando di attirare l’attenzione su di me; tacendo ed ascoltando, mai interloquendo. Mi accontentavo infine di essere tollerato, di non essere considerato come un intruso e di venir presentato a quanti là convenuti ancora non mi avevano conosciuto. D'altra parte sentivo in Bonsanti la volontà di darmi un qualche spazio, di motivare l'opportunità della mia presenza più che non lo potessi fare io. Tutti mi davano del «lei» e raramente mi rivolgevano la parola; il primo a rompere quella esclusione fu Vittorini, degli altri più giovane ed anche più disinvolto, più generoso nel tratto e nel comportamento; e con lui, quando a lui mi accompagnavo, lasciato il caffè, discutevo di uno od altro argomento, anche di quelli che là quella sera erano stati affrontati, dichiarando una mia opinione, prendendo una mia posizione; e dimostrandomi meno sprovveduto di quel che mi si potesse pensare, ricco di
letture ed anche di scelte già ben precise, anche di rivendicazioni che il più spesso coincidevano con le sue. Così, ben presto, per continuare il discorso
non concluso, poiché nell’accompagnarlo ero giunto sino alla casa dov'egli abitava con la moglie ed il figlio ragazzino, mi invitò a salire e con lui là mi trattenni, famigliarizzandomi e con l’una e con l’altro, a lui legatissimo e che
sempre ne attendeva con ansia il ritorno. Ed anche con Bonsanti_ con il quale cominciai ad incontrarmi, magari nei giorni festivi, al di fuori degli appuntamenti consueti al caffè, finii con lo stabilire un rapporto di confidenza; tanto che infine, sollecitato da una mia richiesta di un’impacciata effusione, anch’e-
gli accettò di darmi del «tu», e giunse ad ammettere che, per incontrarmi con lui, mi recassi a casa sua; di dove uscivamo per delle passeggiate in città o lo accompagnavo per incombenze cui doveva soddisfare; e nel salottino di cui egli disponeva ed in cui avevano luogo i nostri incontri conobbi una sua sorella e forse anche sua madre; facendogli superare quella gelosa riservatezza cui sempre egli soleva attenersi con chiunque; specie per quanto riguardasse
la sua intimità famigliare. Infine, non ricordo più in quale occasione, venni invitato anche in casa Marangoni, là dove Montale abitava, dapprima quale ospite e quindi, dopo che il professore si fu separato dalla moglie, come il consorte di fatto della Mosca; la quale tendeva a riunire intorno a sé quanti egli frequentava a Firenze e con i quali intratteneva rapporti di amichevolezza,
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o quanti vi giungevano per incontrare gli scrittori di «Solaria »; con il proposi-
to di creare intorno a lui un ambiente, un contorno di persone in cui egli
costituisse il naturale punto di riferimento, tra le quali egli naturalmente assumesse una posizione di spicco. E di quella casa ben presto, con pochi altri tra i «solariani», divenni un frequentatore assiduo. D'altra parte non è a dire che, fra i frequentatori delle « Giubbe Rosse», fra gli scrittori che di fatto costituivano una sorta di piccola società letteraria intorno alla rivista, si fosse costituito un rapporto di piena famigliarità, di una confidente sodalità. Di fatto i loro rapporti si limitavano perlopiù a quegli incontri al caffè; tolta quella che divenne una consuetudine della Mosca, nes-
suno aprì la propria casa per ricevervi gli amici; e neppure essi presero l’abitudine di riunirsi di tanto in tanto intorno ai tavoli di una trattoria; in tal senso
furono gli artisti, almeno alcuni tra loro, ad avere l’iniziativa delle cene all’« Antico Fattore» dalle quali nacque il premio che ad esso si intitolò; ma neppure tali riunioni, cui partecipavano numerosi sia gli artisti che gli scrittori, erano frequenti; esse avevano luogo in occasione dell’assegnazione del premio 0 quando ci si proponeva di festeggiare persona di una qualche notorietà nel campo delle arti o delle lettere, di passaggio per Firenze. Per parte mia, in un tale ambiente e di fronte a tale costume così diversi da quelli nei quali ero cresciuto e mi ero formato sino allora ed anche da quella che era la mia natura, incline a rapporti umani improntati alla confidenza, ad una piena sodalità,- andavo attenendomi ad un comportamento di discrezione, di una sorvegliata cautela; ed in ciò rispondevo anche alla timidezza di cui solo lentamente andavo liberandomi, ben conscio di quale dovesse e potesse essere la mia presenza nei confronti di persone che non solo erano più anziane e più mature di me, ma che, per una o per altra via, avevano già dato prova di una loro capacità, della loro possibilità di una resa concreta in opere ed in interventi. D'altra parte, nella mia continua e tesa attenzione, nella mia volontà di essere o di divenire partecipe di quella ristretta società letteraria, io andavo già confrontandomi con coloro che ne facevano parte e proponendomi delle scelte, delle predilezioni; cui affidarmi, su cui sostenere le mie aspirazioni, le mie propensioni. Qualche tempo dopo la mia venuta a Firenze, la mia giornata si era andata assestando in termini precisi; distribuita fra le lezioni all’Università, quelle private di francese e di inglese e lo studio cui dedicavo la più parte del tempo che mi restava libero; ma ormai l'appuntamento del mezzogiorno e del tardo pomeriggio alle «Giubbe Rosse» era divenuto per me una tappa della giorna-
ta, un punto di riferimento cui non potevo esimermi. Altri incontri con scrit-
tori ed anche con giovani scrittori mi si sarebbero potuti offrire ma in nessun modo essi avrebbero potuto sostituirsi a quelli con i «solariani». Fu forse
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nella primavera di quel mio primo anno fiorentino che mi incontrai per la prima volta con Carlo Bo nel corridoio su cui davano le aule della Facoltà di Lettere, ed a lui, per la comunanza degli interessi che di un subito ci avvicinò, ben presto mi legai di amicizia; così mi capitava a volte, al termine delle lezioni all’Università, di cercarlo al caffè di piazza San Marco dov’egli sempre soleva convenire con i suoi amici. Però, sin dal primo incontro con loro, per quanto essi mi fossero coetanei e perseguissero i miei stessi interessi letterari,
e frequentassero od avessero frequentato gli stessi corsi ch’io frequentavo all’Università, non mi sentii a mio agio. Difatti, benché si conoscessero e si incontrassero quotidianamente da non molti anni, essi avevano raggiunto un comportamento ed un linguaggio cui tutti aderivano spontaneamente, nei quali trovavano una loro unità così da costituire quasi di necessità un circolo chiuso ad ogni intrusione esterna; tanto che sin dal primo impatto con loro si avvertiva come il loro discorso ed anche il loro dibattito fossero continuamente punteggiati da allusioni, da accenni, da riferimenti a giudizi, a scelte, a preferenze sui quali evidentemente essi avevano ormai raggiunto un accordo,
delle convinzioni ben precise, come dei punti fermi cui ci si potesse sempre riferire, dati come scontati; che li vedevano del tutto solidali; sui quali perciò
appariva loro inutile tornare, ridiscuterli; come se non vi fosse modo ormai neppure di trarne nuove indicazioni, portarvi dei nuovi contributi. Avveniva così che a volte la loro conversazione si interrompesse, come se fosse giunta ad un punto morto, per un comune accordo, per un comune convincimento;
ed allora si trinceravano nel silenzio; quasi a riconoscere l’inutilità, l’inopportunità di ripetere quanto ormai era risaputo. Quando poi trapelavano o si mettevano in evidenza elementi, momenti che li vedevano o li avevano visti in disaccordo, in contrasto tra loro, ecco che il loro discorso si indirizzava e si
risolveva in un gioco di confronti personali, in cui l’uno si richiamava ad abitudini, a manie, a predilezioni caratteristiche dell’altro; fissatesi ormai in
una loro rigidità, in una loro immutabilità; cui fosse inutile obiettare, e da tutti accettate con accondiscendenza quasi compiaciuta ed al tempo stesso con una punta di ironia. Come se, in qualche modo, in tale verso, gli uni
all’altro concedessero, anche sotto questo aspetto, o magari proprio per esso, una personalità distinta, ben precisa, con un suo peso ed un suo valore di cui bisognava pure tener conto. Poiché infine, benché ancora ben poco o nulla avessero pubblicato,- tranne Poggioli— e perlopiù solo tra loro si fossero scambiati i loro scritti per avere un apprezzamento, un consiglio; evidentemente essi tutti nutrivano una forte convinzione di sé e del proprio valore, perlomeno di una loro specifica capacità e competenza in un campo particolare; e la loro solidarietà valeva e si confermava vieppiù, proprio in quanto tutti si venivano a porre su di un piano di superiorità nei confronti di quanti erano
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a loro estranei, di chiunque non fosse stato accettato e non fosse parte di quella che era la loro società. Cosicché qualunque intrusione dall'esterno, se non era respinta esplicitamente, perlomeno era accolta con una sorta di diffidenza, con una qualche insofferenza; perlomeno era guardata con sospetto; come se essa venisse a turbare, minacciasse un modo di essere e di comportarsi che ormai si era affermato tra loro, che era fondato su delle convenzioni
ormai ben precise. Poiché nei miei non frequenti incontri con loro da loro mai mi giungeva un invito a pronunciarmi, ad esprimermi su di uno od altro argomento della loro conversazione; e poiché d’altra parte non mi sentivo disposto ad inserirmi nel loro discorso accettandone i modi ed il linguaggio, adeguandomi a quella che era la loro consuetudine, come se ciò già potesse significare da parte mia il riconoscimento di una loro esemplarità—mai mi sentii portato a stabilire con loro un rapporto di confidenza; mai sentii il desiderio di far parte del loro gruppo. Di fatto da loro mi faceva diverso quello che avvertivo come il loro costume di fondo; il quale infine rientrava nella consuetudine ancor viva allora negli studenti universitari e che anche, in qualche modo, reagiva alla temperie di allora; ed era di un goliardismo scapigliato, di un anticonformismo che si esprimeva in atteggiamenti di insofferenza scanzonata per tutto ciò che apparisse consueto, scontato; ma che rimaneva nei termini di un inevitabile scetticismo, di una convinta inutilità ad intervenire sulla realtà, di contrapporsi anche alla realtà più spregiata. La loro convinzione di superiorità li poneva così su di un piano di separatezza, di distacco dagli eventi quotidiani, dai quali nulla era possibile trarre; ma al tempo stesso li portava a considerare i fatti degli uomini, degli altri, con una sorta di tollerante indifferenza; come il portato inevitabile della realtà su cui non valeva la pena di soffermarsi. E tale scissione, tale dissociazione della realtà umana infine per loro investivano anche l’individuo, loro stessi; da ciò da un lato la loro convinzione, il loro affidamento ad una superiorità dell’intelletto non insidiata da dubbi od incertezze; dall’altro la loro accondiscendenza a quelli che potevano anche consi-
derare come i cedimenti alla fralezza della natura dell’uomo, della loro propria natura, che potevano essere accettati come del tutto ininfluenti su quel che più contava, e dei quali si poteva sorridere; perciò quelle allusioni ironi-
che che l’uno all’altro si rivolgevano finivano con il rafforzare l'umano rapporto che li legava. Da altro ambiente e dalla frequentazione di altri scrittori avrei potuto essere attirato in quello stesso periodo del mio soggiorno fiorentino, e sin dai primi mesi di esso; ed erano quelli che avevano come luogo di riferimento la redazione della rivista «Pegaso », e quindi dell’altra che le successe, «Pan»; là dove avevo già conosciuto Pancrazi e Tecchi; ed a facilitarmi tale accesso
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stava anche il fatto che ad entrambe collaboravano alcuni degli scrittori di «Solaria»; anzitutto Montale, ma poi ben presto Loria, Bonsanti, Vittorini; e
tutti, proprio per le esigenze di tale loro collaborazione, spesso si recavano alla sede dell’una e poi dell’altra rivista; per parte mia, le poche volte che vi andai per salutare Pancrazi, da lui ebbi sempre un’accoglienza cordiale, come si suole con persona già nota con la quale si intrattengono rapporti di una qualche confidenzialità. Là una volta avevo incontrato anche Ugo Ojetti, in una di quelle sue presenze che dovevano essere frequenti per quanto intermittenti, ma che erano sempre improntate alla fretta, ad una sorta di urgenza, come di persona estremamente impegnata nelle più diverse incombenze ed al tempo stesso ben convinta della propria autorità, della propria preminenza. Le quali si affermavano anche attraverso modi ed un discorrere che si atteggiavano ad una espansa e disinvolta cordialità con chiunque fosse presente; come di chi, in qualunque ambiente ed in qualunque occasione, è tanto abituato ad affermare se stesso, a porsi su di un gradino più alto nei confronti dei presenti che a tutti può rivolgersi con modi di un’accentuata famigliarità, ben certo che nessuno ne potrà approfittare, ne potrà abusare. E questa sua certezza mi si caratterizzò quando, proprio quella volta del mio primo ed ultimo incontro con lui, riferendosi alla sua recente udienza ottenuta da Mussolini,
egli a lui ripetutamente si riferì definendolo «il babbo»; ed in quel suo appellativo era sottolineato anzitutto l’implicito riconoscimento del legame ch'egli intratteneva con lui, ma da esso anche trapelava un suo modo di prendere le distanze, di giudicarlo con certa affettuosa condiscendenza, sorridendo a quella che, per lui, poteva anche apparire una presunzione del dittatore, una sua illusione di infallibilità; mentre il suo interlocutore,- ricco di ben altra
esperienza, di ben altra dimensione culturale— era abbastanza spregiudicato e sicuro di sé per stare al gioco senza sentirsene per nulla diminuito. Ora, per me, finiva che, nonostante l’accoglienza di Pancrazi, io in quel-
l’ambiente, attraverso quegli incontri, sentissi che la mia presenza colà non rispondeva a nessuna delle mie richieste. Davvero per essa avrei potuto stabilire un qualche rapporto con scrittori ormai noti, affermati nel loro campo di attività, avrei anche potuto via via conoscerne altri che là avrei incontrato; ma al tempo stesso, nonostante la mia inesperienza e la mia ingenuità, non potevo non rendermi conto che la mia presenza colà non aveva e non poteva avere nessun peso e nessun significato; né sentivo là la possibilità di assistere e di partecipare ad un discorso, ad una discussione dai quali trarre un insegnamento, per i quali arricchire il mio patrimonio culturale; sopratutto nei quali
potere ad un momento inserirmi, recare un mio apporto. E finì che, dopo due o tre volte, a quelle visite rinunciai, me ne esentai.
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E neppure, in quel tempo, mi venne fatto di provare il desiderio, o perlomeno di sentirmi spinto dalla curiosità di conoscere i giovani redattori di
«L’Universale», riuniti quotidianamente nel caffè giusto dirimpettaio alle «Giubbe Rosse»; poiché ben presto avevo avvertito come essi rivendicassero a sé una posizione del tutto antagonista a quella che in qualche modo caratterizzava e definiva «Solaria»; dapprima esemplata con allusioni generiche, ma via via divenuta sempre più decisa ed aggressiva. E qui, attraverso simili scelte, simili preferenze e sopratutto attraverso simili esclusioni, si andavano precisando e definendo alcuni di quelli che erano gli elementi di fondo su cui andavo formando il mio carattere, sui quali costruivo la mia persona. Di fatto in me c’era appunto la volontà di una scelta ben precisa, di perseguire una via, senza tentennamenti, senza oscillazioni; c'era infine una esigenza di fedeltà per coloro che mi si erano rivelati, o che andavano rivelandosi, nella loro
persona, diciamo pure nel loro insegnamento, come portatori potenziali di quelle che erano le mie aspirazioni; coloro i quali mi potevano indicare la via per soddisfarle; o meglio dai quali io sentivo che mi si stavano indicando i mezzi, il modo, gli strumenti per far sì che quelle aspirazioni si tramutassero
in realtà, improntassero il mio costume, formassero o confermassero il mio comportamento di fronte alla realtà, di fronte agli altri. Di fatto, col passare dei mesi, io sentivo di andare sempre più inserendomi nel gruppo dei « solariani», che su di essi andavo facendo la mia educazione; la quale non era soltanto letteraria, ma era appunto un’educazione di costume, di modi di comportamento nei rapporti con gli altri. Ed innanzi tutto vi era il fatto che, tra i collaboratori della rivista che si incontravano quotidianamente alle «Giubbe Rosse», non vi era una tale coincidenza di intenti e di valutazioni da evitare contrapposizioni e contrasti; se pure contenuti in termi-
ni di reciproco rispetto. Di fatto nei «solariani » la convinzione di una propria capacità, di una propria presenza nel campo letterario si esprimeva in una continua ricerca; in loro la esemplarità della letteratura si poteva esprimere nei modi più diversi; ed essi tutti sentivano la letteratura come un'attività presente nella realtà del loro tempo con una sua specifica connotazione, attraverso un confronto non facile, non scontato, non chiuso e fermo in moduli ormai consacrati, non definito in tutti i suoi termini; e quindi vario, articolato
e, proprio per questa sua apertura, stimolante ed al tempo stesso impegnativo. Ora ecco che, per me, quella continua varietà di tesi e di posizioni, quel
continuo confronto fra i «solariani», i quali si esprimevano in modi diversi e che tendevano a risoluzioni diverse, mi attiravano; di volta in volta tentavo di affiancarmi, di schierarmi con l’uno o con l’altro; cosicché in quel dibattito
finiva che anch’io potevo trovare un mio spazio. Certo ero l’ultimo venuto,
ero il più giovane ed il più sprovveduto; nulla avevo fatto, nulla avevo pubbli-
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L’ULTIMO
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cato che in qualche modo mi definisse, con cui avessi dato testimonianza di me; ma in quel mio ascoltare, in quel mio apprendere, ed in quel mio tacito confrontarmi con l’uno e con l’altro vi era ormai anche l’esigenza di una partecipazione attraverso la quale si manifestasse, si affermasse un mio contributo; così da seguire sì la via indicatami da altri, ma già percorrendola con mezzi miei, od anche contribuendo a tracciarla insieme ad altri. Così la mia
riconoscenza, anche la mia dedizione a questi nuovi amici, che in me sempre più andava assumendo il carattere di una necessaria fedeltà, potevano nutrirsi anche di orgoglio; come per una mia progressiva, quotidiana promozione. Per cui, anche di fronte ai miei coetanei che si riunivano al caffè San Marco, io potevo dentro di me vantare l’appartenenza ad un ambiente, ad una società letteraria nei quali gli scrittori che ne facevano parte si erano già dati a conoscere con i volumi e con gli scritti che andavano pubblicando e per i quali avevano rivelato e confermato una loro esemplarità. Insomma il gruppo di scrittori che si raccoglievano intorno a «Solaria» aveva per me, e non soltanto per me, i caratteri di una società letteraria, quale mi si andava configurando nei modi per me più suggestivi e stimolanti; così dentro di me, anche se non ancora esplicitamente, si andava affermando la convinzione di che cosa dovesse essere la letteratura, di come dovesse com-
portarsi ed agire colui che alla letteratura conformava o voleva conformare la propria esistenza; e tale discorso si differenziava decisamente da quello perseguito e rivendicato dai miei coetanei del caffè di San Marco, poiché esso sempre sottointendeva l’esigenza, l'aspirazione di integrarsi in una civiltà, in una società che obbedisse a dei principi di civiltà; ed in tale società lo scrittore, od anche soltanto colui che amava la letteratura, che indirizzava la propria esistenza secondo un’aspirazione letteraria, aveva un proprio compito; non solo, ma occupava un proprio posto, ed anche si arrogava una propria funzio-
ne di iniziativa; persino al di là dei risultati che raggiungeva, persino al di là delle sue possibilità di realizzarsi in un modo per lui soddisfacente. Ed intanto, proprio ascoltando i diversi interventi di questi miei nuovi amici e cercando di individuare in essi i diversi caratteri, le diverse personalità, io già avevo cominciato a distinguere tra loro le diverse posizioni, le diverse tendenze, a spostare il mio interesse dall’uno all’altro, e quindi a farmi parte, ad aderire più all’uno che all’altro, appena fra loro si delineassero delle posizioni di contrasto, od almeno di diversità; e pure ero suscettibile alle indica-
zioni, ai suggerimenti che mi venivano dall’uno e dall’altro attraverso il linguaggio ch’essi usavano; ancor più, attraverso l’accento che lo sosteneva. Più attirato dalla dichiarazione e dalla rivendicazione perentoria che dall’invito ad una cautelosa moderazione. E, se ero spontaneamente portato ad accettare qualunque invito, qualunque moto di simpatia mi giungessero, con la volontà
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di rispondervi, di ricambiarli con un moto di solidarietà, od almeno di condiscendenza; purtuttavia già tendevo a testimoniare la mia adesione obbedendo ad un giudizio, facendola dipendere da una scelta di principio. Infine io già tendevo ad accompagnarmi a colui che sentivo ricco di una sua personalità, a colui che, con la sua presenza, per la sicura fermezza della sua parola, per il modo perentorio che assumeva di fronte agli altri, mi si-proponeva non solo come portatore di una propria convinzione, di una sua nuova proposta, ma in quanto sapeva ed intendeva sostenerla, respingendo decisamente dubbi e riserve. Così, infine, mi avvicinai e mi sentii portato a stabilire un deciso
legame di consentimento, e fosse pure di dipendenza, con quegli scrittori i quali sapevano dare una risposta alle mie richieste, alle mie esigenze; dai quali sentivo che si esprimeva e si affermava qualcosa che in me urgeva; e questi furono, accanto a Bonsanti ed a Vittorini, nei quali trovavo una rispondenza a taluni miei modi di essere, a talun mio comportamento più di ogni altro
Montale e quindi Carlo Emilio Gadda, che conobbi più tardi. Se oggi, a tanti anni di distanza da quel tempo, riconsidero quello che è stato per me il loro insegnamento, quello che è stato il loro apporto alla mia formazione; e ciò sia per quel che è stato e che è il mio modo di comportarmi, di agire, di intervenire nel mio contesto, nell'ambiente in cui ho operato ed opero; sia per quello che ho scritto ed anche per il modo con cui mi sono espresso, per il carattere del mio scrivere; debbo riconoscere ch’essi su di me hanno influito in sensi diversi l’uno dall’altro; insomma ch'io da loro ho preso quello che a me era più consentaneo, che infine più rispondeva alla mia ricerca; e ciò anche se allora non me ne rendessi conto; ed evidentemente in tale mia condizione di apprendimento io mi riferivo ad essi cogliendo quelle risposte ch’essi davano in quel momento agli interrogativi, alle richieste di una società, di una realtà; anche se allora né io, né forse loro stessi, ce ne rendessimo conto, ci proponessimo di rendercene conto. Ed anzitutto da Montale io ripresi, o forse andai confermando in me, la convinzione della presenza del male, del dolore, della sofferenza nella realtà, nella realtà naturale ed umana,
come fatto irrimediabile, in nessun modo
superabile, cancellabile; per il quale non vi è riscatto né riparazione; per il quale anche il pentimento è segnato da impotenza. Ma, al tempo stesso, accanto a questa certezza e quasi come conseguenza di essa, ecco la convinzione della perentoria esigenza del vivere; ecco la persistente, irriducibile, indistruttibile volontà di vivere; al di là di qualunque resistenza, di qualunque opposizione, ed anche di qualunque scacco, di qualunque sconfitta; patrimonio comune, ragione prima e della natura e dell’uomo; forza determinante di ogni atto ed azione, del modo di essere e del comportamento di ogni esistenza.
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Da Carlo Emilio Gadda ebbi un insegnamento che riusciva implicito dai suoi scritti e che restava come l'elemento di fondo, determinante di essi, e
proprio del loro svolgersi, del loro organarsi; e cioè quello della continua, persistente ricerca dello stretto legame tra i fatti, di una loro necessaria conseguenza; la ricerca quindi di quell’ordine che regge le cose, la realtà ed anche la vicenda dell’uomo, degli uomini; da momento a momento, da intervento a
intervento; ed a questa ricerca, a questa vicenda si conforma e si deve conformare la letteratura; e la narrativa che a tale modulo risponda ha di necessità, come conseguenza prima, la tensione verso un momento risolutivo, culminante; cui fanno capo tutte le fila, tutte le diverse componenti della narrazione; in una soluzione, od anche in una conclusione, necessarie. Lo scacco, lo scacco dello scrittore, risulta evidente quand’egli non tocca, non raggiunge questo termine ultimo, questo momento chiarificatore; per il quale ogni momento, ogni fatto precedente trovano il loro posto e la loro motivazione. Da Bonsanti appresi, proprio
a moderare un mio fervore eccessivo, l’esi-
genza di una pacata, attenta considerazione delle cose, della realtà, del comportamento degli uomini; in ogni loro dimensione; per comprenderne appieno le motivazioni, il giro e la condizione del loro agire, appunto nella loro compiutezza; e quindi me ne risultava, proprio a contrasto con la mia tendenza a scelte precise, a determinazioni anche intransigenti, l'invito alla tolleranza; a darmi ragione, per ogni fatto e per ogni individuo, della ragione o delle ragioni che li determinavano, che perlomeno li condizionavano. Da Vittorini ebbi quell’esempio che più mi si confaceva in quel momento, in quel periodo, ma poi, debbo dire, anche negli anni venturi; e fu della spinta, della sollecitazione ad intervenire, ad inserirmi nella vicenda, nel dibattito che animava, che ferveva nel contesto, nell'ambiente in cui vivevamo
ed operavamo; ed era una lezione di generosità, era l’invito ad una coraggiosa assunzione di responsabilità; a dichiararmi per quel che ero, per ciò cui credevo; ed era quindi implicitamente, necessariamente, la sollecitazione a vedere chiaro in me, a precisare in me, nell’esperienza, nell’operare, quali fossero i motivi determinanti di essi; la sollecitazione infine, di fronte a me stesso, di capire quel che fossi, quel che mi proponessi di ottenere.
Proprio in quanto sin dall’inizio del rapporto che andava stabilendosi con questi nuovi amici io ben sentivo come di loro io fossi debitore; a loro mi davo con la volontà di un’adesione piena, almeno per quanto mi fosse possibile, per quanto me lo permettesse il mio costume; e perciò ero anche disposto ad accettare da loro momenti di dimenticanza e di trascuratezza nei miei confronti, pronto e deciso a giustificarli; convinto di giungere a conquistare con la mia dedizione, con la mia fedeltà, una loro piena amicizia, una loro comple-
ta fiducia in me; ma convinto anche che ben presto in qualche modo mi sarei
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dimostrato per quel che ero, per quel che sentivo di essere, in modo da meritarmele; così ch’essi spontaneamente, necessariamente fossero portati a con-
cedermele. E mi poteva anche accadere che,- col passare del tempo, quanto più giungessi ad una piena conoscenza di loro, nelle loro diverse manifestazioni, nelle diverse contingenze mi rendessi conto di un loro cedimento, di una loro manchevolezza, di una loro tendenza a sottrarsi a quella che io ritenevo una necessaria assunzione di responsabilità; e pure mi accadeva in tali occasioni,
in tali contingenze, di vederli messi in stato di accusa o perlomeno di sentirli decisamente criticati da altri, specie da coloro i quali non condividevano quelli che in fondo in me erano ammirazione e rispetto al tempo stesso; ed allora il mio primo impulso era quello di prenderne la difesa, di giustificare il loro comportamento, per quanto era nei miei mezzi, nelle mie possibilità; e quindi, magari dentro di me, di cercare di attenuare l’importanza ed il valore di quei loro atti, di quei loro modi dai quali pure, mio malgrado, dissentivo; di cercare di comprenderne la causa, e quindi di restituirli alla loro giusta dimensione; e ciò talvolta persino superando quella che in me era una mia profonda convinzione, un principio al quale sentivo necessario attenermi; almeno per quanto mi riguardasse. Però, col passare del tempo, con il mio necessario maturare, poiché gradualmente, anche di fronte a loro, io cominciai ad assumere, a dar da vedere una mia personalità; mi avvenne anche di pormi di fronte a loro chiedendo, esigendo da loro una piena coerenza, una piena fedeltà a quelle scelte cui, con i loro interventi, con le loro parole, sempre avevano mostrato di conformarsi. Infine io pretendevo da loro ch’essi rispondessero sempre ed appieno a quell’immagine che di loro mi ero fatto sin dai primi tempi dal mio incontro con loro; a quella su cui avevo conformato la mia amicizia per loro. E pure mi accadde, in quei miei anni giovanili, ma anche più tardi nella mia maturità, per taluno di loro, od anche per chiunque altro degli scrittori ai quali successivamente mi ero legato con modi in cui alla stima si univa l’affetto, di sentirmi non solo amareggiato, contristato, ma anche ferito e persino offeso nella considerazione che mi ero fatto di loro, ove una loro decisione, un loro intervento, una loro presa di posizione non rispondessero o addirittura venissero a distorcere, a stravolgere l’immagine che di loro mi ero fatto e che avevo sempre portato in me; come se essi avessero tradito quella parte di loro
che a loro mi aveva attirato e legato, quella parte che di loro più mi premeva e che ritenevo la parte migliore, quella più viva ed esemplare della loro personalità. Per quanto debba dire che, con il passare degli anni, con le diverse esperienze che dovetti subire e sopportare, andai moderando ed attenuando quella intransigenza che aveva caratterizzato il mio modo di essere e che evidente-
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mente costituiva una parte, ed una parte significativa, della mia natura, del mio carattere, e che talvolta mi ha reso inopportunamente e forse anche ingiustamente troppo rigido e severo di fronte a persone che ancora meritavano la mia stima ed il mio affetto; per le quali, dentro di me, ancora conservavo stima ed affetto. Insomma quella rigidezza di scelte e di giudizi che mi ha caratterizzato nei miei anni giovanili andò mano a mano temperandosi, articolandosi; nella più larga ammissione della contraddittoria complessità della natura umana, nella considerazione delle diverse e costrette reazioni dell’individuo inserito in una realtà spesso a lui ostile, avversa, od almeno indifferente;
di fronte alla quale il più spesso egli si sente indifeso ed incapace di farle fronte. In ogni modo, sin dai primi mesi della mia frequentazione delle «Giubbe Rosse», sin da quando cominciai a stabilire un rapporto di famigliarità con gli scrittori di «Solaria», io sentii il bisogno di articolare tale mio rapporto, di differenziarlo secondo delle scelte che mi divennero sempre più precise. Difatti, lentamente ma sicuramente, io andai avvicinandomi a taluni di loro aderendo alle loro posizioni, ai loro interventi, alle loro indicazioni; giunsi
insomma a stabilire una sorta di confine tra coloro cui andava la mia ammirazione, la mia piena adesione, che accettavo come per me esemplari e gli altri. Infine io sentivo la necessità di far coincidere completamente il mio apprezzamento, la mia stima per il loro valore di scrittori con la mia amicizia. Mi pareva che una vera amicizia non potesse nascere ed affermarsi e durare se non fosse sostenuta dalla piena adesione all’opera dei nuovi amici; a quello ch’essi scrivevano, a quella che consideravo la loro migliore, la più alta loro espressione. Mi pareva ambigua, persino equivoca, un’amicizia fondata solamente su di una coincidenza di preferenze e di abitudini, od anche di gusti e
di propensioni, ma non sostenuta da un giudizio fondato sul valore della persona; in quanto davvero non sapevo e non volevo distinguere, in uno scrit-
tore, la persona dall’opera. Ed evidentemente una simile pretesa rivelava in me la volontà di una piena coerenza, la ricerca di una coincidenza, nello scrittore, fra l’opera, ciò che l’uomo, lo scrittore, scrive, produce, ed il suo comportamento, il suo modo di vivere, di essere presente nel suo ambiente,
nella sua società. Quindi, di conseguenza a tale mia convinzione, a tale mia ricerca, ecco la
volontà di stabilire con coloro che consideravo amici, o miei possibili amici, un legame di piena sodalità, un rapporto che ci rendesse davvero intimi l’uno dell’altro, partecipi anche dei sentimenti, degli affetti l’uno dell’altro; in una reciproca, piena conoscenza, anche nella diversità, nelle diverse esperienze,
nelle diverse esigenze. Così per potermi vieppiù avvicinare a quanti di loro sentivo a me più consentanei, per renderli maggiormente partecipi del mio
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modo di essere, del mio modo di comportarmi; e quindi dell'ambiente da cui provenivo; infine, per rendere più forte ed intimo il legame che già si era stretto fra noi, sin dal primo anno dopo la mia andata a Firenze, cominciai ad invitare, dapprima Bonsanti, e quindi Vittorini e Carlo Emilio Gadda, a Feltre, a casa mia, ospiti di mio padre e di mia madre, durante l’estate, per un breve soggiorno; durante il quale ebbi modo di far conoscere loro la mia città, i luoghi dov’ero nato e cresciuto, le persone che più frequentavo, i miei amici. E di queste loro esperienze, di questo loro inserimento nel mio mondo mi diedero atto e Vittorini con le sue lettere improntate ad un modo di effusivo entusiasmo, e pure Bonsanti con alcuni articoli sui suoi incontri e sulle sue ricognizioni feltrine, pubblicati in «La Stampa», cui allora collaborava.
Durante questo mio primo anno fiorentino, nei miei propositi e nelle mie aspirazioni letterarie restava in primo piano la tendenza a cimentarmi nella narrazione, come per una scelta accertata; ma quel nuovo confronto, quei nuovi incontri, quella nuova atmosfera culturale nella quale mi ero immesso mi rendevano incerto ed inquieto sul modo di realizzarla; crescevo in me talune immagini, talune vicende, tornavo e ritornavo su alcuni motivi; talvolta, come ormai divenuto improvvisamente certo di una soluzione, accondiscen-
devo a quella che mi pareva infine la giusta ispirazione; insomma tentavo una od altra via senza però giungere ad un risultato che mi fosse del tutto congeniale; in cui avessi raggiunto un mio pieno equilibrio. Sullo scorcio di quell’anno scrissi un racconto il quale, sottoposto successivamente a correzioni
e mutamenti, mi resta ancora come la prima testimo-
nianza di un modo di scrivere che infine rispose a mie nuove e vecchie esigenze; in esso avevo evidentemente colto le istanze dei «solariani», e sopratutto quelle di Bonsanti: una certa pacatezza del narrare, il gusto di rendere i caratteri dei diversi personaggi penetrandoli nelle loro contrastanti implicazioni, la
tendenza a considerarmi spettatore nella vicenda in cui ero implicato; ma anche avevo conservato in esso qualche elemento che mi legava all'ambiente in cui ero nato e cresciuto ed a quelli che erano stati i tentativi letterari della mia adolescenza e della prima giovinezza: il legame con quella realtà, con quei luoghi e con la gente che avevo frequentato durante quel tempo; il gusto di
riprendere vicende da me sperimentate o che almeno mi erano consone ed in special modo quelle riferitemi, narratemi da questi miei interlocutori, infine l’esigenza di individuare, di stabilire la possibilità di un rapporto con gli altri, nella diversità dello stato sociale, della situazione dell'uno rispetto a quella degli altri.
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Ma la prima stesura del racconto conservava ancora dei momenti, delle soluzioni che troppo accondiscendevano ad un vecchio modo di narrare; come se non sapessi liberarmene; e Franchi, cui Bonsanti lo aveva affidato per averne un giudizio, me li indicò, proprio richiamandosi a quello nuovo di cui mi ero appropriato nelle parti più riuscite di esso; ancora in me c’erano delle ingenuità, delle forzature, l’accondiscendenza proprio a quel bozzettismo da cui i «solariani» decisamente erano voluti uscire. E la lezione mi servì, ad essa
completamente accondiscesi; insomma le attente notazioni di Franchi mi servirono a distinguere in me quanto ancora c’era di residuo di una maniera
ormai scontata di rendere persone ed eventi, in contrasto con un contesto quasi interamente orientato su di un piano ben diverso. Di qui le correzioni e
le mutazioni che portai a quel mio testo sino alla sua stesura definitiva. A quel racconto successivamente meditai di accompagnarne altri, giunsi anche a progettare lo schema di un romanzo, mai però detti un’attuazione a queste fantasie. Però una simile continua attenzione a questo mio testo, tale intermittente proposito di dargli un seguito, di esprimermi con nuove narrazioni avevano
una loro motivazione intrinseca; poiché in quei modi si manifestava la mia volontà di narrare, di essere narratore; cui detti finalmente esito proprio una volta che si fu concluso il lungo periodo del mio apprendistato letterario. Poiché, nel frattempo, in quella mia lunga frequentazione delle « Giubbe Rosse» che in breve era divenuta quotidiana, con gli amici di « Solaria», nel confronto con loro, io mi ero venuto sempre più addestrando ad un discorso critico; mano a mano che mi venivo affiatando con loro, col partecipare ai
loro discorsi, con il parteggiare ora con l’uno ora con l’altro, con l’esprimere un mio giudizio, con il motivare una mia scelta, io andavo precisando un mio gusto, andavo gradualmente affermando e rivendicando una mia posizione; ed essa andava facendosi sempre più chiara, in essa sempre più andavo caratterizzandomi, esprimendo un mio modo di essere, un mio rapporto con l’ambiente, con gli altri; sotto il segno di una per me necessaria intransigenza. Fu così che, proprio all’inizio del mio secondo anno fiorentino, dopo avere a lungo sollecitato Bonsanti,- il quale di «Solaria» era il condirettore, ma praticamente colui che ne organizzava il lavoro di redazione,— ottenni da lui l’incarico di scrivere la mia prima recensione di un libro; dopo aver scelto, tra le novità esposte nella vetrina di una libreria, quella che, appartenendo a scrittore di modesta notorietà, mi potesse essere affidata a sperimentare la mia capacità. E poiché ebbi superato dignitosamente quella prima prova, ecco che mi si aprì la collaborazione alla rivista, vi fui accettato come estensore di interventi critici di minore o di maggiore dimensione, a seconda dell’argomento che proponevo o che mi veniva affidato.
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Quindi, in breve, come se avessi infine imboccato la strada a me più consona, quella cui ormai da tempo aspiravo, fui preso da un fervore di attività; come se fino allora a lungo mi fossi preparato a quella prova ed ora potessi dedicarmici appieno; così, poiché «Solaria» aveva una periodicità mensile e non sempre rispettava tale scadenza ma spesso la prorogava e lo spazio offertomi in essa era limitato, sempre con l’aiuto e l'avallo di Bonsanti, cominciai a pubblicare articoli e recensioni nella terza pagina dei quotidiani «Il Corriere padano» ed «Il Tevere», quindi in «La Fiera letteraria » che aveva periodicità settimanale; sinché infine ottenni una collaborazione regolare alla rivista bibliografica «Leonardo», edita dalla Casa Editrice Sansoni e diretta allora da Federico Gentile, uno dei figli del filosofo, la quale godeva di un qualche prestigio ed aveva una discreta diffusione. Così per almeno cinque anni esercitai la critica militante; scrivevo quasi esclusivamente di volumi di prosa narrativa di recente pubblicazione e ben presto, prendendo lo spunto dall’ultimo volume che avevano pubblicato, dell’opera di scrittori già noti ed affermati e che godevano di una certa rinomanza, di un certo prestigio; ma, sin dall’inizio, il proposito che mi guidava nelle mie scelte e nel mio giudizio era quello di una necessità di chiarezza, e quindi del rifiuto di qualunque reticenza, di qualunque cautela; ancor più, di qualunque compromesso. Così, in un senso di scelte letterarie nell’ambito della letteratura italiana, con la frequentazione del gruppo dei «solariani» andavo sempre più impadronendomi di quei metri di giudizio, di quegli orientamenti e di quei principi di cui la rivista si era fatta e si faceva portatrice; ed anzitutto della proposta e della rivendicazione di una letteratura nuova, dell’esigenza di un pieno rinnovamento della nostra letteratura, sia nel campo della prosa quanto in quello della poesia; sulla scorta di quanto era avvenuto ed andava avvenendo in altri paesi, come in Francia ed in Inghilterra; e quindi ecco che da un lato mi proponevo di riaffermare il valore di quegli scrittori che potevano venir considerati come degli anticipatori di tale rinnovamento, e potevano essere Svevo e Tozzi, ma anche Palazzeschi e Pea, e dall’altro di
proporre all’attenzione dei lettori le prime opere di quei più o meno giovani scrittori che apparivano come dei promotori di tale nuova letteratura come Carlo Emilio Gadda, Comisso, Arturo Loria, Bonsanti e Vittorini. Ma, in tale
mio proposito, sostenuto anche da una giovanile avventatezza, altro compito mi arrogavo; e si era quello di portare avanti una polemica letteraria intesa anzitutto a liberare il campo, a rifiutare, a respingere quegli scrittori che ritenevo ancorati
a modi ormai scontati, contenti di uno scrivere fiacco, ripetiti-
vo, di argomenti consunti ed ormai divenuti convenzionali; di conseguenza
alla loro partecipazione ad un costume ormai superato; ma anche a condanna-
re quanti giovani scrittori si presentavano ostentando la propria novità di temi
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e di espressione, mentre al tempo stesso accondiscendevano all’improvvisazione, a forzature, ad un esibizionismo concitato, rivelando uno stato di velleitarismo sprovveduto; oppure quanti altri si riducevano in termini di una affettata semplicità, di una dimessa accettazione della grigia vicenda della vita, giungendo sino ad accreditare la propria rinuncia rassegnata, la propria sottomissione ad una realtà irriducibile, accondiscendendo ad un facile scetticismo. Così, con questi miei ormai abbastanza frequenti interventi, andavo rivelando a me stesso ed anche agli altri, a quanti mi leggevano, mi seguivano in tale mia attività, una tendenza ed anche un carattere; i quali via via andavano
assumendo un rilievo, prendendo una connotazione in termini sempre più precisi e per i quali venivo definendomi non solo nell’attività letteraria ma anche nei confronti della realtà, della società nella quale vivevo, del costume di cui essa era portatrice.
Potrei dire che, se con tale mia attività critica, io avevo ripreso ed andavo svolgendo la lezione appresa dai «solariani», e sopratutto da quella che giornalmente mi veniva esemplata da Montale, ma anche da Vittorini; per quanto non sempre io concordassi con le loro scelte, con le loro predilezioni; però, pure innestando il mio nel loro discorso, da esso derivandolo, io vi portavo
una mia esigenza di una conseguenza irriducibile; insomma io sentivo la necessità di affermare, di dichiarare anche quanto in loro restava o sottaciuto od accennato solo per brevi allusioni. Talvolta anche da loro taluni scrittori, i quali godevano di una qualche considerazione o che addirittura venivano proposti come esemplari dalla critica che sul pubblico aveva maggiore influsso, venivano ricondotti a quella che era la loro vera dimensione, e talvolta su di loro il giudizio finiva con l'essere decisamente negativo; poi però tale giudizio non si traduceva in un testo scritto, quella condanna era al più sottaciuta per il fatto che l'argomento non veniva neppure toccato sulle pagine di «Solaria ». Ma a me dispiaceva anche tale silenzio, esso mi appariva come un’occasione
mancata, come frutto di timidezza ed anche un po’ di opportunismo; in quanto in tal modo ci si asteneva dall’entrare in contrasto con un critico come Pancrazi, sempre attento a seguire e ad affermare la validità di scrittori dell’ormai esausto filone del bozzettismo toscano, e depositario di un potere letterario, sia come critico del «Corriere della sera» che come redattore di
«Pegaso». Ecco perciò che in un certo senso io diventavo il portavoce esplici-
to di questi miei amici, continuavo la loro lezione, la mettevo in evidenza; in un certo senso li compromettevo; ed essi talvolta, magari anche con semplici allusioni, con rapidi accenni, mi rivolgevano dei rimbrotti; mentre invece spesso da Vittorini ottenevo incoraggiamenti a perseguire tale mio proposito, a continuare tale mia opera. Ma questa sottaciuta resistenza, le obiezioni che
daa
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coglievo anche da parte di chi, tra i miei nuovi amici, più rispettavo ed amavo mi servivano di stimolo, mi spingevano ancor più a dire, a dichiarare quanto pareva proibito, quanto poteva parere giusto sottacere. Ed ecco che mi rendevo sempre più conto come la mia vera formazione letteraria, il mio vero apprendistato si andavano facendo proprio ai tavoli delle «Giubbe Rosse» e non sui banchi dell’Università; poiché nel mio confronto con i «solariani» io mi ero immesso e mi andavo sempre più immettendo nel contesto della letteratura, della letteratura viva, di quella attuale; non solo, ma, per questa via, pur con tutti i limiti della mia attività e della mia presenza in essa, io ne diventavo elemento attivo, vi portavo una mia iniziativa; tendevo ad indirizzarla in un certo senso. E proprio con questa mia ingenua, anche spesso sprovveduta presenza, assumevo già una mia parte, mi proponevo e mi
caratterizzavo secondo una tendenza che sempre più sarebbe divenuta precisa, che sempre più mi avrebbe spinto verso risoluzioni per me impegnative, addirittura decisive per il corso della mia esistenza. Ed anche in questo senso Montale ebbe un ascendente determinante su di me. I suoi interventi al caffè non vertevano soltanto sul fatto letterario, ma
spesso si riferivano agli eventi ed avvenimenti che più toccavano il nostro paese, né egli rifuggiva dall’argomento della politica, e le sue posizioni erano decisamente avverse al fascismo; direi che in lui l’antifascismo era persino un fatto passionale, lo coinvolgeva completamente; quando gli veniva fatto di riferirsi a talun momento del regime dittatoriale che incombeva sul nostro paese egli era preso da un fervore cattivo, deciso a non ammettere opposizioni o contestazioni a quanto andava affermando: persino irritato se taluno di quanti gli stavano intorno tentava di attenuare la sua accusa: Tra i «solariani», se proprio per la convinzione da cui tutti erano sostenuti della primazia della letteratura, di un necessario svincolo dello scrittore da ogni condizionamento esterno che sapesse di sottomissione ad un potere, e fosse pure quello politico, nessuno mai dichiarava una propria esplicita adesione alla predicazione ed al programma fascista; taluno, di fronte al fascismo non nutriva la dichiarata ostilità di Montale; Vittorini, per parte sua, militava nel fascio
secondo una sua tendenza, per quanto vaga e forse velleitaria. In ogni modo a Firenze il gruppo dei «solariani» era considerato refrattario ad ogni intrusio-
ne della politica ufficiale e nella rivista e nella vita privata di ciascuno, per cui la letteratura doveva restarne del tutto estranea; mentre gli esponenti più intransigenti e settari del fascio giudicavano i suoi componenti non solo per-
sone sulle quali in nessun modo si sarebbe potuto contare, fare affidamento,
ma degli avversari celati, subdoli, dei quali era necessario diffidare, ed in ogni
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modo irrecuperabili; per cui meglio sarebbe stato togliere loro ogni possibilità di espressione e di intervento.
Durante la mia adolescenza e la mia prima giovinezza, io non avevo avuto una educazione politica di una qualche esplicita consistenza. Mio padre, che era stato a Feltre uno degli esponenti di maggior prestigio del Partito Popolare, portatovi sopratutto dalle sue convinzioni e dalla sua pratica religiose, dopo la presa del potere da parte del fascismo aveva dimesso ogni attività politica, si era chiuso in una sua solitudine; come chi ha subito una sconfitta definitiva e la accetta, vi si sottomette. Poi il concordato con la Chiesa cattolica cui era giunto Mussolini aveva di molto attenuato la sua ostilità verso la dittatura; e certo non intendeva suscitare o nutrire in me sentimenti di oppo-
sizione al regime, nel timore ch’io corressi il rischio di venire escluso da qualsiasi attività professionale o addirittura di subire l’ostracismo ed anche la violenza da parte di coloro che detenevano il potere e che non ammettevano non solo una opposizione esplicita ma neppure una distaccata estraneità. Per parte mia io, ragazzo, fra i dieci ed i quindici anni, con il consentimento e forse anche con lo stimolo dei genitori, avevo fatto parte della Gioventù Cattolica, ed in quella frequentazione avevo confermato ed assestato la mia educazione religiosa, per quanto in un modo del tutto formalistico, secondo un catechismo le cui domande
e risposte andavano
apprese mnemonicamente.
Per
quanto poi riguardava la mia preparazione politica, in quell’ambiente essa era mancata del tutto di organicità e di una conseguenza, e si era affidata esclusivamente ai discorsi casuali, ai commenti affrettati sulle vicende di quegli anni; come se si desse per scontata la nostra piena adesione al partito dei cattolici;
mentre sempre ero stato indotto a considerare come degli avversari politici temibili anzitutto quanti militavano nei partiti della sinistra. A quindici anni, poi che cominciai a frequentare il liceo a Belluno, avevo smesso di partecipare a quell’associazione per una sorta di stanchezza o di insofferenza; e, mentre gradualmente si attenuavano le mie istanze religiose, mi veniva fatto sempre più di sottoporne a critica i fondamenti. Poi, a diciott’anni, appena iniziati gli studi universitari, seguendo le sollecitazioni di quello che allora era il mio più caro amico, mi ero iscritto ai Gruppi universitari fascisti nei quali avevo svolto per un biennio un'intensa attività sportiva anche agonistica; mai però vi ero
stato sollecitato o coinvolto in un’attività politica di qualunque ordine, anche se di fronte ad essa non nutrissi in me delle remore, non fossi trattenuto da
una qualche diffidenza; ma intanto, anche senza che intervenissi con una mia scelta, quasi per un passaggio obbligato, ero stato iscritto al partito fascista, ne avevo avuto la tessera; né avevo sentito l'esigenza di oppormici, nessuna riserva nutrivo in me a questa che avrebbe potuto essere considerata una prevari-
cazione. Tanto più che la militanza politica, per me come per chiunque altro
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si trovasse nella mia condizione, si riduceva a qualche adunata nelle occasioni
di ricorrenze patriottiche o politiche, da tutti accettate con sopportazione e che si riducevano ad una sorta di scampagnata, durante la quale la monotona assenza di ogni vivo interesse veniva colmata da battute, da scherzi e da frizzi ad ingannare il tempo. Ma la continua polemica di Montale, cui nessuno osava contrapporsi, cui
nessuno pareva trovare elementi validi per contrapporglisi, non poteva non indurmi a riflettere su quale fosse la mia condizione, su come mi dovessi comportare se appena volessi essere coerente con me stesso. Montale quoti-
dianamente mi dimostrava la volgarità, la meschinità, la grossolanità di Mussolini e dei gerarchi del fascismo in ogni loro manifestazione; mi dimostrava la vuotezza e la menzogna di ogni loro programma e proposito; mi dimostrava come essi, e per essi il fascismo, fossero i portatori di quanto il nostro paese
aveva di negativo; e sopratutto mi dimostrava come la loro presenza, il loro modo di agire fossero offensivi per l'intelligenza, per chi impostava la propria vita, il proprio agire su di un rispetto dell’intelligenza, su di una volontà di intelligenza. All’uomo di cultura, all'uomo di studio, all’intellettuale come allo scrittore, non poteva non ripugnare questa che davvero si presentava come una fiera delle vanità nella sua manifestazione più presuntuosa, più smaccata, priva in ogni modo, sotto qualunque aspetto, di una motivazione, di un fondamento che potessero essere accettati al lume della intelligenza. Fu questa la ragione per cui in breve tempo mi sentii lontano ed estraneo al fascismo. Non nutrivo in me, ed infine neppure ricercavo, dei principi politici diversi ed opposti a quelli del fascismo; persino mi sentivo estraneo a qualunque volontà non solo di un'attività politica, ma anche soltanto di crearmi una cultura politica, di confrontarmi con i diversi principi, con le diverse tendenze della politica. A me la mia scelta era ben precisa; ed era quella della letteratura, di una letteratura sostenuta dall’intelligenza e dalla cultura; ed affermata come piena acquisizione di conoscenza, nella libertà assoluta della ricerca e dell'espressione. Il fatto che il fascismo limitasse la possibilità sia dell'una che dell’altra mi portava di necessità ad estraniarmi da esso, a sentirmene lontano ed ostile. E ciò tanto più in quanto sentivo ben presente e bene insistente l’aggressione che il fascismo portava alla letteratura; difatti frequenti erano gli attacchi che i vari fogli del fascismo, e tra essi anche «L’Universale », portava-
no a «Solaria» ed agli scrittori che ad essa collaboravano per la loro evidente e certo voluta estraneità dalla politica, da qualunque volontà celebrativa della realtà ufficiale, di quella che veniva conclamata la realtà del nuovo costume fascista. Ed ecco, per parte mia, ed in ciò spesso accompagnato a Vittorini, la polemica cui mi abbandonavo contro quegli scrittori che mi si presentavano come dei celebratori, degli esaltatori dei miti fascisti, od ancor peggio di quelli
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mussoliniani, come il primo Brancati, come il primo Jovine. E mi dispiaceva che «Solaria», nella sua prudente cautela, evitasse ogni scontro, ogni decisa presa di posizione in tal senso, non intendesse mai rispondere alle accuse, agli attacchi che le venivano mossi; evitasse di dichiarare e di esemplare quali fossero i principi ai quali si riteneva fedele, quale fosse la concezione della letteratura cui si preoccupava di attenersi. Per parte mia proprio di conseguenza a questa presa di coscienza che in me andò affermandosi in tempi brevi, ed anche approfittando del fatto che a Firenze risiedevo la più gran parte dell’anno, smisi di rinnovare la tessera del fascio; anche senza prendere una posizione di rifiuto esplicito, ma come per una mia noncuranza, per una dimenticanza, e sia pure sfuggendo ad un confronto che mi avrebbe impegnato anche in termini rischiosi; e così, con tali che infine erano una mia incertezza, una mia incapacità di una decisione radicale, si manifestava la possibilità di un’ambiguità cui spesso costringevano i tempi; su cui anche contava e si fondava il regime dittatoriale; deciso alla violenza solo di fronte ad oppositori strenui, dichiarati ed attivi; pronto all’accondiscendenza con chi potesse essere considerato comunque disposto al cedimento, vulnerabile di fronte al ricatto.
Ma il richiamo ad una piena assunzione di responsabilità non mi venne da chi era depositario di potere; benché per quasi un paio di anni non avessi
rinnovato la tessera, non ero stato né richiamato, né minacciate dai dirigenti del partito; evidentemente anche la burocrazia di esso aveva le sue dimenticanze, le sue falle; motivate anche dal fatto che in quello e nei suoi organi vi era la certezza di godere ormai il pieno consenso dell’intera popolazione, al di fuori magari di quei pochi, vecchi oppositori sempre tenuti d’occhio ed ormai del tutto innocui,— e così distrazioni, ritardi, rinvii da parte di chi non si
aveva motivo di supporre intendesse contestare o sottrarsi ad una disciplina, a quello che veniva considerato un dovere, erano tollerati. Ma anche, tale assenza di un controllo continuo sugli iscritti stava a dimostrare come l’attività del
partito dei fasci si riducesse a ben poco; come infine essa fosse gestita da un numero ben limitato di persone, le quali ritenevano di esprimere quella che era, che doveva essere, la volontà di tutti gli altri suoi membri; per cui infine
l'iscrizione significava una permanente delega di poteri; e questa evidentemente soddisfaceva sia l’ambizione di quanti si ponevano come dirigenti, sia la pigrizia di quanti tendevano ad esimersi da ogni impegno, considerato inutile o addirittura spiacevole fatica. In ogni modo la necessità di superare quel mio stato di reticenza, di sotterfugio non mi giunse per una sollecitazione dall’esterno, ma fu determinata da un momento di crisi famigliare che mi colpì in uno dei miei più vivi affetti.
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Mi trovavo a Feltre, e mia madre la quale soffriva di crisi isteriche che in nessun modo riusciva a dominare, di fronte alle quali non voleva darsi una ragione, tentare di imporsi un controllo di gesti, di parole sino a riportarsi alla normalità cominciò ad ammonirmi, a richiedermi un comportamento di prudenza, preoccupata per le mie esplicite affermazioni di antifascismo ch’io non mi trattenevo dal fare a tavola, nelle discussioni ormai frequenti con mio padre. Per parte sua egli era evidentemente dibattuto fra le sue vecchie posizioni politiche, che mai aveva smentito, e l’adesione convinta a talune delle realizzazioni del fascismo; e sia al concordato da esso raggiunto con la Chiesa cattolica e sia alla sua politica estera di un nazionalismo aggressivo. Mai però egli era giunto ad affermare una sua adesione piena al regime ed a pretenderla da me; entrambi sapevano che ormai da anni io non avevo rinnovato la tessera del fascio, mai però egli aveva tentato di convincermi a tornare su quella mia decisione; ma forse in quelle sue discussioni egli tendeva implicitamente a suggerirmi tale risoluzione come il riconoscimento di uno stato di fatto che ormai improntava la nostra società, che era accettato dall’intero paese. A questo discorso di lui che voleva essere convincente, lei si rifaceva in modo del
tutto istintivo, passionale, affermando che andavo compromettendo me stesso ed il mio avvenire, che stavo mettendomi al bando, che avrei finito con l’esse-
re perseguitato da chi deteneva il potere e non accettava nessuna opposizione, che sarei stato arrestato e magari picchiato; ed eccola rievocare,- ricuperando quello che il fratello professore universitario, testimone ineccepibile, le aveva raccontato le immagini di tempi non troppo lontani, di aggressioni e di
bastonature selvagge di antifascisti da parte degli squadristi, di cui ormai ella mi vedeva come la vittima designata; e, nel suo discorso, il suo accento si
faceva di volta in volta concitato sino alla esasperazione, sino ad un grido appena soffocato, nel timore di essere udita da estranei, sino alle convulsioni ed allo stato dell’incoscienza. Per parte mia non potevo sottrarmi ad un senso di responsabilità; ero ancora legato ai miei genitori, alla mia famiglia; travagliato da quel contrasto, mi rendevo conto delle loro preoccupazioni, della loro sofferenza; il parossismo da cui era presa mia madre non faceva che esprimere in termini eccessivi una condizione che era presente in entrambi. La mia dignità, il senso di rispetto di fronte a me stesso mi avrebbero portato a dissentire da loro, a sottrarmi a quello che mi poteva apparire come un ricatto dei sentimenti; ma non seppi
resistere; con un senso di avvilimento e di vergogna mi recai alla sede del fascio ed allogando motivazioni del tutto occasionali per quel lungo periodo di assenza, rinnovai la tessera senza che quella omissione mi venisse imputata come una colpa. Ma di là uscii umiliato come per una sopraffazione subita; ancor più, come per aver violato un principio ed un costume che avevo voluto
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far miei, ai quali avevo inteso conformarmi. Così ero costretto a scoprire in me dei momenti, delle zone che non potevo non condannare, dai quali non potevo non ripugnare; ma che anch’essi dovevo riconoscere come miei, che facevano parte di me; ed anch'io a me stesso risultavo ormai di necessità come contraddittorio, incapace di resistere alle pressioni, alle violenze della realtà. Mi sentivo insomma come un uomo non estraneo alle incertezze, alle titubanze, ai cedimenti, ai compromessi, pure alle viltà che già avevo rimproverato e solevo rimproverare agli altri, anche ai miei più cari amici. A casa dissi a mia madre di come non avessi retto alla sua pressione ed avessi accondisceso alla sua richiesta, ma non seppi accompagnare le mie
parole con un gesto affettuoso; volli anzi farle capire quanto quel passo mi era costato, come ella avesse approfittato dell’affetto che le portavo per impormi una decisione che mi ripugnava, che era estranea alla mia più profonda coscienza; ma anche— poiché tale decisione mi era costata, mi aveva umilia-
to, che il mio affetto per lei ne era stato incrinato; infine sentivo e volli farle capire ch’ella aveva abusato di me, aveva prevaricato violentando il mio costume, quello che avrei voluto fosse il mio costume e questo mai avrei potuto dimenticarlo. Di quel che avevo fatto, della mia risoluzione non parlai a mio padre; uomo più sensibile che lei non lo fosse, probabilmente si rendeva conto di quel mio travaglio e forse a me si sentiva vicino in una sua profonda insoddisfazione, nella sua incapacità di contare come deciso esempio di fedeltà a se stesso.
Nel frattempo questi che non potevo non considerare come un mio cedimento morale, la ripresa e la prosecuzione di uno stato di ambiguità cui non avevo voluto e non ero riuscito a sottrarmi, mi vennero confermati da una
scelta e da una decisione nelle quali furono coinvolti tutti o quasi tutti i miei amici «solariani». In quegli ultimi tempi gli interventi polemici e le messe in stato di accusa della rivista da parte di fogli politici e letterari giovanili fascisti si erano fatti più frequenti e cattivi; incoraggiati forse anche dal fatto che mai i collaboratori di «Solaria» avevano risposto ad essi; quasi a confermare quelle accuse, a dimostrare la mancanza di ragioni valide che le contestassero. Insomma l’im-
putazione di antifascismo dei «solariani» ne risultava come scontata; ed intanto, in un periodo di mia assenza da Firenze accadde che un giorno
essi tutti, od almeno quelli tra loro che erano i più assidui frequentatori delle «Giubbe Rosse», vennero convocati in questura. Colà il titolare dell’ufficio fece loro intendere che il loro atteggiamento di riserva e di critica nei confronti del regime fascista e del suo stesso capo era ben noto e comprovato, forse per la spiata di uno dei camerieri del caffè. Il suo richiamo non fu aspro ma ricattatorio:
come
potevano
persone
dall’intelligenza
così vivace, che già
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godevano a Firenzee nel paese di una posizione di prestigio ed anche di una rinomanza, estraniarsi completamente dalla vita civile, politica del paese;
addirittura assumere atteggiamenti di riserva e di scetticismo di fronte ad essa? Insomma, se essi volevano continuare nella loro attività senza intralci ed
opposizioni, sempre spiacevoli per entrambi, dovevano inserirsi in quel contesto di cui tutti ormai erano partecipi; e li congedò quasi in attesa di una loro decisione maturata. Così, incapaci di far fronte a quelle pressioni ed a quelle minacce, dopo essersi riuniti ed avere a lungo discusso sulla propria situazione, pur a malincuore essi avevano deciso di presentare domanda di iscrizione al fascio; questo da loro si pretendeva, un atto di sottomissione, ed a tale intimazione non
potevano sottrarsi; solo taluno se ne dissociò; negli altri restò l'amara umiliazione della prepotenza subita; dell’atto di viltà cui avevano accondisceso. Di tale vicenda e di tale sua conclusione io ebbi notizia solo più tardi ed in termini succinti, forse da parte di Bonsanti; come di chi affronta un tema sgradevole perché ne è costretto; e ne trassi una ancor più pesante scontentez-
za, come se da loro mi venisse confermata una sconfitta cui non restava per nessuno possibilità di riscatto. Intanto era giunto per me il momento di sostenere l’esame di laurea in Legge; e fu questo, nella sua ripetuta vicenda, a mettere in evidenza la fonda contraddizione che nutrivo in me e che non sapevo ancora superare; mentre al tempo
stesso rivelava quella che era una deficienza della mia cultura ed infine anche una presunzione nelle mie forze, nelle mie capacità; ma al tempo stesso un mio stato di tensione che non riuscivo a contenere, a dominare proprio al lume dell’intelligenza, proprio di quell’intelligenza cui facevo appello nella mia ricerca, nella mia attività letteraria come nel mio operare. Avevo chiesto la tesi di laurea al docente di storia del diritto; del quale avevo frequentato le lezioni e che avevo seguito con un certo interesse nella
sua polemica con quella che mi pareva fosse l'ideologia allora dominante in quel campo. Egli si era dimostrato del tutto disponibile ed aveva accettato senza obiezioni l'argomento che gli avevo proposto; senza neppure invitarmi a tener conto della difficoltà dell'impresa che mi proponevo, senza considerare con attenzione se possedessi gli strumenti necessari per portare a termine in
modo dignitoso ed accettabile il compito propostomi. Ma io avevo abbastanza chiaro in mente il progetto che perseguivo, al di là dell'ambiente nel quale
operavo, al di là dello scopo evidente cui avrei dovuto obbedire. Difatti inten-
devo dare testimonianza attraverso questa tesi di laurea del mio disagio, della mia inquietudine, della mia incapacità di dare un senso preciso, di affidarmi
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ad un esito su cui potessi contare se appena mi ponessi di fronte al problema del potere, dello Stato in cui mi trovavo a vivere, del quale ero soggetto. E
difatti il titolo che sin dall’inizio avevo dato a questo mio lavoro era quello, evidentemente presuntuoso, di Saggio sull'idea di Stato. E si trattava della testimonianza della condizione in cui si trovava un giovane della mia età e della mia cultura di fronte ad una realtà che su di lui incombeva, nella quale egli si trovava in ogni modo integrato, mentre essa di fatto gli era estranea; né
d’altra parte egli sapeva come porsi di fronte ad essa; era costretto ad accettarla, pur sentendosene escluso, perlomeno lontano. In questi termini io introducevo la mia tesi ed infine bastavano essi per definirne l’inopportunità, perlomeno l’intempestività. Nell’Università, nell'ambiente, nel corpo dell’Università, e sopratutto nella Facoltà di Legge, come la massima parte degli studenti io mi sentivo ed ero un estraneo, non vi aderivo in nessun modo e per nessuna via; ciononostante in
me perdurava una considerazione che mi restava dentro, che aveva in me una sua forza condizionante, secondo la quale l’Università restava la depositaria della cultura, e fosse pure di una certa cultura; restava una zona in cui la
cultura trovava, aveva il suo asilo e la sua difesa. Ed in me questa convinzione e questa considerazione assumevano forse anche un accento rivendicativo; infine io intendevo, io volevo che tale essa fosse; insomma operavo e mi proponevo di operare come se tale essa fosse. Da ciò la decisa spregiudicatezza con cui affrontai il tema della mia tesi; dichiarando esplicitamente sin dall’inizio di essa la mia incertezza, la mia inquietudine e la mia diffidenza di fronte allo Stato, quale esso mi appariva, quale esso si manifestava nel nostro paese; di fronte a quelli che esso manifestava come i principi su cui si fondava, di fronte al suo modo di gestire il potere. Ma, per suffragare il mio discorso con punti di riferimento precisi, pet ancorarlo ad una cultura, a dei testi che me lo avvalorassero, attraverso i quali esso acquistasse una sua dimensione, io mi rifacevo a quella che era stata la mia ben limitata preparazione liceale, ad una preparazione la quale, senza che io me ne avvedessi, aveva in sé un limite ben preciso ed era proprio il limite entro il quale si esprimeva il fascismo; chiuso in una sua dimensione storicamente lontana, addirittura ripugnante da quella che era stata la lunga preparazione della civiltà moderna. Difatti i testi ai quali mi riferivo in questa mia appena abbozzata ricerca erano quelli di Platone, di Aristotele, di Cicerone, di San Tommaso, di Dante e di Machiavelli. E qui si manifestavano in tutta la loro evidenza la mia impreparazione, la mia sprovvedutezza nutrita evidentemente di ingenuità ma anche di presunzione. Poiché, se questa mia ricerca risultava evidentemente monca, essa risultava del tutto dilettantesca anche per
quanto riguardava i testi presi in considerazione, per quanto riguardava la
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disamina storica del periodo, del momento, del luogo, delle condizioni da cui
erano nati; e così pure dell’incidenza che nella storia del pensiero politico essi avevano avuto. Infine io li affrontavo con la spavalda sicurezza con cui affrontavo i vari romanzi cui, nella mia attività di critico militante, dedicavo una recensione; essi infine mi servivano a portare avanti un mio discorso, anzi di
essi mi servivo per tentare di costruirlo, per tentare di motivare quella che nella parte conclusiva della tesi si presentava come la difesa accalorata dell’individualità umana, dell’individuo nella sua libera espansione ed affermazione. Una simile tesi non poteva non apparire come insufficiente da ogni punto di vista la si considerasse; e sopratutto dal punto di vista della ricerca, della preparazione; al più essa poteva essere intesa come lo sfogo passionale di un giovane alla ricerca di se stesso di fronte ai problemi della sua epoca; ma anche in tal senso troppo evidente ne era la disarmata sprovvedutezza. La discussione della tesi fu accesa ed accanita; già preventivamente, ma giusto il giorno avanti, Giorgio Pasquali, cui mi ero legato di amicizia, mi aveva avvertito come mi si preparasse un esame difficile dal quale non sarei uscito indenne; per quanto riguardava il docente cui mi ero affidato e che la presentava, egli la lesse il giorno stesso della discussione e all’ultimo momento non ebbe a dirmi se non che dovevo difendermi con decisione da tutti gli attacchi che mi sarebbero stati portati. La commissione d’esame era presieduta dal professor Arias, uno dei teorici più eminenti del corporativismo— che
in quegli anni andava affermandosi come lo strumento politico cui il fascismo ricorreva per giungere ad una solidarietà nazionale nella conciliazione degli opposti interessi delle diverse classi sociali ed egli ebbe buon gioco nel mettere in evidenza quelli che erano i limiti di fondo di quel mio scritto. Io mi difendevo con avventata decisione; in aula erano presenti tutti i miei amici «solariani» ed io ero convinto di parlare per loro, di esprimere quelli che erano i loro sentimenti più che le loro convinzioni; spostavo il mio discorso su di una dimensione del tutto attuale, affermavo il disorientamento dei giovani della mia generazione; la mia impreparazione politica, la mancanza di una base culturale politica accertata; la superficialità con cui avevo affrontato un tema di tanta rilevanza non facevano che dimostrare uno stato di profonda contraddittorietà cui la cultura ufficiale non sapeva dare una risposta soddi-
sfacente, cui infine si esimeva dal darla. Alla fine fui interrotto e, dopo che la sala fu abbandonata, come d’uso, da tutti i presenti, e pure dopo una lunga attesa, vi fui di nuovo introdotto, senza che agli altri fosse permesso di accompagnarsi a me. Il presidente, con modi di una comprensione accondiscendente, mi disse che, nei miei confronti non vi era da parte della commissione nessuna riserva di carattere politico, i limiti della mia tesi presi in considerazione erano soltanto quelli culturali; e per questo mi si chiedeva di ritirarla;
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senza che ciò significasse per me una condanna, una menomazione; ma solo la presa d’atto della necessità di ripresentarmi con un testo cui dessi mano dopo una più impegnata e più severa ricerca.
Da questa vicenda uscivo sconfitto, ma il momentaneo orgoglio di non essere risultato una vittima rassegnata ma di essermi difeso mettendo i miei esaminatori in difficoltà, tanto da costringerli a dichiarare assente dalla loro condanna ogni considerazione di carattere politico, ad una severa considerazione non poteva nascondere neppure a me quella che era stata una mia deficienza di fondo. Di fatto la mia sconsiderata avventatezza finiva col condannare anche quelle che potevano passare per una coraggiosa sincerità, per una esplicita assunzione di responsabilità. In ogni modo quello scontro con una realtà, con un costume che erano quelli del mio tempo mi contò a rendermi cosciente che, se volevo perseguire quella via, mi era necessario cimentar-
mi in un terreno che mi fosse conosciuto, su di un piano nel quale la mia preparazione avesse buon gioco; insomma quanto più impegnativo fosse il mio proposito tanto più severa doveva essere la mia ricerca; la mia maturazione esigeva un continuo autocontrollo, un procedere bene calcolando la sicurezza del mio passo. Nella ripetizione dell'esame di laurea mi affidai a Piero Calamandrei, il quale si rese conto immediatamente della situazione e me la fece affrontare deciso a risolverla nel modo più opportuno. Per la tesi egli mi affidò al docente di Storia del diritto italiano, dal quale ottenni l'argomento a me più consentaneo; e stavolta da un lato non mancai di prepararmi ad essa con gli strumenti che essa esigeva; ma dall’altro me ne servii per riprendere e riaffermare e stavolta con ben più cosciente convinzione, quel discorso già affrontato con troppo dilettantesca superficialità. La tesi verteva sul pensiero politico di Machiavelli, o meglio sul rapporto fra i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio ed Il principe, ed aveva il suo punto chiave, il suo elemento di fondo nel rapporto che, attraverso I/ principe, metteva di fronte lo storico, lo scrittore, l’intellettuale, all'uomo di azione, al politico; ed era di una decisa superiorità
di quello profonda parte del cerazione realtà.
su questo; infine, per motivarla, riprendevo quella che era per me la intuizione del Foscolo, poiché sotto l’esaltazione del principe da
Machiavelli sentivo fervere un doloroso orrore, che indicava la diladell’uomo, dello scrittore, di fronte alla prepotenza massiccia della
Ma la tesi non fu discussa, su di essa non mi fu nemmeno
accordata la
parola; invece trattai a lungo la tesina in procedura civile propostami da Calamandrei; fu così evitato preventivamente che siripetesse quello che evidentemente era stato giudicato un episodio scandaloso. Ed anche stavolta ne uscii insoddisfatto ed anche umiliato, e non per il voto conseguito, di molto inferio-
“di
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re alla media degli esami sostenuti, ed anche questo significava una punizione; ma in quanto mi era stato impedito, rifiutato ogni tentativo di dichiararmi, di stabilire un confronto con coloro che avrei dovuto considerare ed ancora consideravo depositari di cultura, uomini intesi alla conoscenza, rispettosi dell’umana intelligenza. Si andavano così delineando alcune delle componenti del mio carattere, della mia persona umana; ma sopratutto andava prendendo corpo un mio stato di disagio, o addirittura di conflittualità con la realtà, con la società in cui vivevo,
di cui facevo parte. Evidentemente io avevo derivato un tale stato dalla frequentazione, dall’educazione che ero andato assorbendo durante i miei incontri con gli amici delle «Giubbe Rosse»; in un certo senso io non avevo fatto che evidenziare, che mettere in luce, una insoddisfazione, un contrasto che risultavano dai loro interventi, dai loro discorsi; od almeno da quelli di coloro ai quali mi sentivo più vicino, che avevo assunto come maestri; in me semmai vi erano di specifico, di caratteristico l’accentuazione di un tale stato, addirit-
tura l’esasperazione di esso il che poteva venir considerato come un portato della mia età, della mia immatura giovinezza, ma che già poteva considerarsi come una componente del mio modo di essere. Quella spinta alla quale obbedivo, quell’impulso che ad un certo momento mi sosteneva, dai quali anche ero trascinato, attraverso tali episodi andavano via via affermandosi come inerenti a me, come un ritmo cui obbedivo, cui ero costretto ad obbedire; cui
non potevo rifiutarmi di obbedire. Fu in questo torno di tempo che mi recai per la prima volta a Roma; come
se mi concedessi un premio per la prova bene o male superata. Qui presi stanza nella pensione diretta dalla moglie di Alfredo Gargiulo, il critico che allora dai giovani scrittori, e non solo da loro, veniva considerato di più severa coerenza con un principio di assoluta autonomia della letteratura da ogni condizionamento estraneo ai suoi fini; a lui Montale era legato di amicizia anche per la prefazione che ne aveva ottenuto alla seconda edizione degli Ossi di seppia. Egli era un signore in età, ma ancora lontano dalla vecchiaia, estremamente accurato nel vestire, riservato nei modi sempre improntati ad una
gentilezza, ad una disponibilità lontane da ogni abitudine formale; lo si incontrava talvolta nei corridoi silenziosi e semioscuri della pensione, ch’egli percorreva in una sorta di passeggiata; ma, salutando chi casualmente incontrava, non si fermava, non si intratteneva a parlare, ma proseguiva, forse continuan-
do a meditare su quel che stava scrivendo; alle numerose compagnie preferiva sempre i colloqui a due; ed anch'io fui invitato da lui una volta a desinare ed a lungo mi intrattenne interrogandomi su quel che facessi, su quel che intendessi fare. Poiché gli dissi del racconto che da poco avevo portato a termine, me
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lo chiese e, dopo averlo letto, mi incoraggiò a proseguire per questa via ed intanto mi offerse di presentarlo ad Antonio Baldini perché lo pubblicasse in «La nuova antologia» di cui era redattore. Questi poi all'impegno preso non tenne fede, ed infine Compagni di caccia, qualche anno più tardi, apparve in tre puntate nel settimanale «Quadrivio » per iniziativa di Alfredo Mezio, un vecchio amico di Vittorini che conobbi e frequentai a Roma in uno dei miei brevi soggiorni colà. A Roma incontrai anche Ungaretti, che già avevo conosciuto qualche anno innanzi a Venezia ed il quale allora abitava con la moglie e i due figli fuori città ma vi capitava spesso ad incontrarvi i giovani che lo ammiravano e lo seguivano, lieti della confidenza ch’egli dava loro; e ripetutamente mi recai alla redazione di «L’Italia letteraria» per parlare con Enrico Falqui che ne era il redattore e che apprezzava le mie recensioni, i miei interventi critici. Egli era ancora un uomo giovane, ma sicuro di sé, lieto dell’attività cui era dedito, del posto che occupava ed anche della funzione che svolgeva; in tal senso egli si sentiva impegnato a fondo nella difesa della nuova letteratura, lontano da reticenze e compromessi, con una decisione che esprimeva anche in termini aggressivi, come se si fosse assunto un compito cui in nessun modo poteva derogare; e la sua dedizione era davvero appassionata e disinteressata, sino ai
limiti dell’ingenuità; tanto che persino coloro dei quali si presentava come il fedele allievo, ai quali guardava con piena e disarmata fiducia, talvolta si mostravano, con lui e con altri, quasi insofferenti, persino spazientiti di questa sua assidua, insistente ammirazione che poteva giungere sino alla petulanza.
Ma io queste sue caratteristiche, queste sue qualità apprezzavo, apprezzavo sopratutto questa sua volontà di fare, di intervenire, questa fiducia nelle capacità dell’uomo, dell’individuo intese ad affrontare la realtà, a modificarla, anche se restia, riluttante; tanto più che in lui non vi erano tanto la volontà, la preoccupazione di imporre convinzioni, principi, posizioni che gli appartenessero, di cui egli fosse il primo portatore, ma che di fatto egli derivava dagli altri, dai più anziani, di cui egli si faceva l’interprete, inserendo il proprio discorso in quella che riputava la nuova civiltà letteraria. A lui in breve mi legai di amicizia, benché non sempre le mie scelte, le mie predilezioni coincidessero con le sue; e di questa amicizia, ch’egli mi ricambiò, ripetutamente
potei provare la validità; poiché mi accadde, in ripetute occasioni, di ricorrere a lui e di godere del suo appoggio, del suo aiuto; ancor più, mi accadde di ottenerli anche senza averglieli richiesti, anche per sua propria iniziativa; e per le molte esperienze che ho fatto debbo dire che una tale generosità non è da tutti.
Ma, se pure a Roma conobbi altre persone, altri scrittori, non mi legai ad un ambiente, non mi ritrovai in un giro di sodali; per quanto ve ne fossero. E tali
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erano quelli che si accompagnavano ad Ungaretti; e tale era il gruppo di scrittori e di artisti che si riuniva nelle ore divenute consuete al caffè Aragno; così come accadeva a Firenze con i «solariani» convenuti alle « Giubbe Rosse», anche qui nel pomeriggio si incontravano ormai per lunga abitudine giovani ed anziani legati dagli stessi interessi, dalla comune attività; ed era qui che, attraverso il reciproco confronto ed il dibattito, si formavano quei giudizi destinati poi a diventare correnti, almeno a Roma, su opere ed autori; il più spesso intonati ad una certa sufficienza, al distacco ed anche all’irrisione; specie ove si trattasse di demistificare le fame che si ritenevano usurpate. Io però mai mi ci recai; non conoscevo nessuno dei suoi frequentatori e ritenevo che il mio nome a nessuno fosse noto; ero trattenuto dalla timidezza, dall’impaccio di dovermi presentare, di ricevere un’accoglienza forse diffidente o perlomeno indifferente; meglio preferivo la frequentazione di quanti già avevo incontrato, di coloro con i quali avevo già stabilito un rapporto di reciproca comprensione. Poiché, se da un lato non mi sentivo e non potevo sentirmi sicuro di una mia personalità, capace di confrontarmi e di reggere il confronto con chi era più esperto, più maturo di me, dall’altro, nella mia formazione, nel mio apprendistato, avevo compiuto delle scelte, avevo assunto delle posizioni che mi indirizzavano in un senso ben preciso; se non ero ancora in grado di sostenerle, di difenderle in tutta la loro dimensione, non per questo intendevo rinunciarvi, anche soltanto metterle in dubbio. Così mi accadeva di evitare il
confronto con chi sapevo o ritenevo troppo distante, estraneo ai fini che ormai perseguivo.
In tal senso posso dire che il periodo del servizio militare, al quale ottemperai dopo aver ottenuto la laurea in Legge, e sopratutto quello compiuto a Milano come allievo ufficiale del corpo degli alpini, mi servì davvero a cimentarmi con la realtà, con una realtà che, sin dal primo impatto, non potei non considerare a me ed alle mie esperienze, alle mie abitudini estranea, lontana e persino ostile; ma essa mi servì anche a conoscermi in essa, e quindi, come si
suole ritenere, ad educarmi in essa; ma in un modo che non posso non considerare negativo; come chi in ogni modo è costretto ad assumere, ad abituarsi ad una posizione di difensiva, e quindi a costringersi a controllare ogni proprio gesto, ogni propria parola per evitare il danno che da essi gli può derivare, Non che su di me, per tutto quel periodo, gravassero eccessivamente le condizioni fisiche di quel vivere, le fatiche cui eravamo costretti od i disagi cui perlopiù non eravamo abituati, la grossolanità e la monotonia dei cibi e la promiscuità cui non potevamo in nessun modo sottrarci. Ed in ogni modo la mia giovane età mi sollecitava continuamente a trovare anche in quell’ambien-
te la via ad una partecipazione, ad una presenza possibili; così, almeno a
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momenti, per talune attività, specie per quelle fisiche, agonistiche, tendevo e riuscivo anche a ritrovarmi in quell’ambiente, ad inserirmi nella sua atmosfera; ma mi avverine anche, e ben presto, in quelle contingenze, di trovare e di scoprire in me modi di adattamento, di soggezione ed anche di ipocrisia, se
non addirittura di viltà, ai quali non solo non ero assuefatto, ma di cui prima non avevo dato prova, che mai avevo individuato in me. Ed in tal senso quel periodo mi è rimasto nella memoria come il più sgradevole, il più deprimente della mia esistenza; od almeno uno dei più sgradevoli e deprimenti; uno di quelli in cui fui costretto a vivere inserito in un ambiente ed in un costume quanto più lontani non solo dalle mie aspirazioni, dalle mie attese, ma anche dalle mie abitudini; in cui fui portato a reazioni, necessarie, forse inevitabili,
ma certo per me avvilenti, persino degradanti, o che almeno sentii come tali. Era proprio un modo di educazione, un nuovo modo che si imponeva su di noi, o che si tentava di imporci, il quale si informava ad un principio di disciplina cui nessuna obiezione, nessuna riserva, nessuna resistenza potevano contrapporsi; cui si esigeva sempre una immediata e piena rispondenza. Ed essa non poteva non essere ritenuta e credo non solo da me, come un fenome-
no aberrante, poiché il principio della disciplina ci si presentava di un subito come inteso da un lato ad escludere completamente ogni nostra possibilità e volontà di iniziativa e quindi, dall’altro, a cancellare in noi, nella nostra abitudine e nella nostra memoria, quello che era stato sino allora il nostro costume
di vita, quello già da noi acquisito o quello che perseguivamo. Ora, per l’educazione che avevo ricevuto ma anche evidentemente per la mia conformazione, per la mia più profonda natura, io sempre avevo inteso ad inserirmi in un ordine, a dare un ordine al mio comportamento, al mio modo di essere; a
regolare ed a conformare le mie azioni ad una regola ordinatrice; ma qui, in caserma, erano la formalità del tutto esteriore di un tale ordine e l’esasperata pignoleria con cui si intendeva imporlo, applicarlo che mi sgomentavano, che infine mi ripugnavano. E difatti c'erano, in questa volontà di imposizione, di applicazione di un principio di disciplina, qualcosa di perverso, se non anche, a guardarlo dal di fuori, di grottesco; poiché noi tutti eravamo permanentemente sottoposti ad uno stato di allarme come di fronte ad un grave pericolo incombente, come se in qualsiasi momento potessimo essere chiamati ad un cimento a noi celato, da noi sconosciuto ma ben noto a chi ci guidava. Insomma quella norma di cieca obbedienza sottintendeva l'esigenza di prepararci ad uno stato di guerra, ma a tale scopo si doveva operare come se già fossimo in guerra; poiché tale nostra condizione non poteva di fatto avere altra motivazione ragionevole. D'altra parte coloro cui eravamo affidati e dai quali erava-
mo controllati in ogni momento della giornata, i nostri immediati superiori i
sottufficiali erano per la loro totalità persone di bene scarsa cultura, ormai
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educati ed assuefatti ad una simile atmosfera, che era diventata la loro, la loro
ragione e motivazione di vita, nella quale non potevano non riconoscersi; poiché essi erano stati destinati a questa sede, al corso allievi ufficiali, proprio a riconoscimento di loro specifiche capacità, il che costituiva per loro un
riconoscimento, cui non potevano sottrarsi, che non potevano tradire; essi
poi, mentre di fronte a noi si consideravano e dovevano considerarsi come depositari di potere, di un’autorità indiscutibile, in noi sentivano e temevano una nostra sottaciuta superiorità, dati gli studi da noi compiuti, i titoli di studio che ne avevamo ottenuto; data anche la nostra estrazione sociale, quasi sempre superiore alla loro; e dato sopratutto il fatto che alla fine del corso avremmo raggiunto un grado che a loro era irrevocabilmente negato. Un tale nostro stato pesava su di loro e quasi li costringeva, per imporci la loro autorità, a cancellare in noi qualunque elemento che ci portasse ad un diretto confronto con loro; così dovevamo essere considerati e trattati come delle persone prive di ogni possibilità di intervento, di discussione, di decisione; quasi ridotte in termini di mera animalità. Insomma essi quasi erano costretti, per
evitare di essere soverchiati, di vedere minacciata la loro superiorità, a negare a noi, e quindi anche a se stessi, ogni possibilità di un rapporto fondato sul rispetto reciproco, sulla comprensione, e diciamo pure sull’intelligenza. Di fronte a loro il mio comportamento non poteva non essere improntato al riserbo, al distacco, alla cautela ed alla diffidenza; per quanto talvolta io sentissi la spinta, la sollecitazione verso l’adesione, od almeno la comprensione. Infine vi era in me qualcosa che mi tratteneva, che mi impediva di ritenere la natura dell’uomo, di qualunque uomo, come partecipe di una definitiva degradazione al disumano; e così talvolta, magari con un gesto, con una parola, tentavo di sollecitare, di provocare o di favorire anche in chi pareva lontano da una tale possibilità, una corrispondenza; tanto da cogliere anche in lui almeno un breve accenno, un barlume di una possibile solidarietà. Ma il più spesso restavo deluso nel mio proposito, venivo respinto; al più ne ricevevo un gesto che significava la necessità di rassegnarsi a quella che era una norma cui nessuno poteva trasgredire, neppure coloro che parevano da essa avvantaggiati. Era come se, in quell’ambiente, si fosse costretti a ritenere che una qualunque concessione, una qualunque sospensione di quel ritmo teso, all’insegna dell’autorità, della gerarchia e dell'imposizione, ne minacciassero la consistenza, rischiassero di annullarla di un tratto.
Agli ufficiali che a questi nostri diretti superiori erano preposti un simile costume era ormai consueto, in esso erano immessi e lo accettavano anch'essi
come necessario; taluni di loro erano uomini delusi per la scelta fatta, per una carriera troppo lenta, che non aveva risposto alle loro attese, ma ormai incapaci di dimettersi, di cambiare il corso della propria esistenza; altri invece, più
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giovani, si sentivano a loro agio in quell’ambiente, si consideravano favoriti per essere stati destinati al corso; ritenevano per tale destinazione di essere stati avvantaggiati in vista di un’eventuale promozione; ambiziosi di arrivare, di avanzare di grado nel modo più rapido. Nell’un caso come nell’altro essi erano preoccupati di evitare ogni difficoltà, contenti soltanto che nella scuola tutto procedesse senza intoppi, senza contrattempi, per il suo verso consueto; evitando loro preoccupazioni ed interventi che uscissero da un ritmo scontato. E gli uni come gli altri si ponevano in una posizione di difesa, della propria tranquillità o del proprio interesse; con rassegnazione gli uni, con decisa intransigenza gli altri. Di fronte ad una simile norma e ad un simile costume, la mia reazione, se avessi obbedito al mio primo impulso, sarebbe stata quella di ribellarmici, di contestarli; ma, sin dal mio primo entrare nella caserma, mi dovetti render
conto come da essa fossero ben lontani i principi ed i modi che perlopiù reggono, e che ancora in quel tempo reggevano, il vivere civile; per quanto ben presto, sin dal mio primo tentativo di inserirmi nel vivo contesto della mia società, mi sarei dovuto render conto come quel principio e quei modi, improntati da un lato all’imposizione, e dall’altro alla disciplinata accettazione di un’autorità incontestabile, andassero rapidamente permeando il costume del nostro paese; perlomeno nelle sue forme più evidenti, più esteriori. Quella scuola, quella caserma, nella brutale elementarità della sua organizzazione, non faceva che esemplare, nel modo più rozzamente esplicito, quell’ordine che il regime politico tendeva ad imporre, a far accettare al paese. Ed era caratteristico il fatto che tutti coloro i quali avevano già compiuto una simile esperienza, ma anche coloro i quali ne erano rimasti estranei, dessero come
scontata la necessità di accettarla per quel che era, di sottoporvisi; come se quella parentesi della vita di un uomo, nella sua brevità, nella sua eccezionalità, andasse considerata quale un episodio inincidente nella nostra esistenza, nell’esistenza di un uomo; dal quale nulla si potesse ritrarre, sul quale in nessun modo la nostra esperienza potesse incidere. E con tale atteggiamento
non si rendevano conto di accettare un principio ed un costume abnormi, di ammetterne la liceità, almeno in taluni momenti, in talune condizioni della vita di un popolo; quasi prevedendo, quasi preparandosi ad accettarli in ben altra dimensione, su ben altro piano. Così a me non restava che tener presente anzitutto l'esigenza di portare a
termine il corso ottenendo di venire classificato nella graduatoria finale in modo tale da poter essere assegnato come sottotenente al battaglione che ha sede nella mia città natale; il che mi avrebbe avvantaggiato in tutti i sensi e non solo da un punto di vista affettivo. Del resto non mi preoccupai, capii di non dovermene occupare; ebbi ben presto la chiara convinzione che qualun-
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que intervento, qualunque tentativo di dare un corso in qualche modo diver-
so, improntato ad una vera razionalità, a quella vita, assurda nel suo contesto, ripugnante nei modi in cui si esprimeva, inincidente su di me, come sulla
gran parte di coloro che la soffrivano, per quelli che ne venivano indicati come gli ideali supremi cui essa si conformava, od intendeva conformarsi sarebbero stati del tutto inutili, avrebbero provocato una decisa ripulsa ed una condanna; avrebbero portato me, come chiunque altro ci si fosse provato,
alla esclusione ed alla frustrazione. Così compresi che dovevo adattarmi, e mi adattai: tutto il mio impegno fu inteso a rispondere a quanto mi si richiedeva con quel tanto di partecipazione che era indispensabile, defilandomi per quanto mi fosse possibile, ricorrendo anche all’astuzia e persino alla simulazione per ottenere il ricovero all’infermeria durante intere settimane, quasi al limite massimo di quanto permetteva il regolamento; reagendo così a quell’abito che andavo creandomi in rispondenza all’ambiente; nel quale in ogni modo consideravo necessario sfuggire ogni scontro con i sottufficiali dai quali dipendevo, evitando quindi richiami e punizioni; mostrandomi sempre accondiscendente anche a chi usava con noi modi dai quali ripugnavo, che mi offendevano. Accadeva, anche se non accadde molte volte, che alla prevarica-
zione, alla prepotenza, le quali risultavano evidenti in taluni richiami, in taluni rimproveri, come quello rivoltomi in quanto dedicavo alla lettura qualunque spazio di tempo riuscissi a ricuperare, non reagissi come naturalmente sarei stato portato a reagire, ma mi costringessi ad accettare come inevitabile, anzi
come conforme ad una norma perversa, anche quel che meno risultava inevitabile, opportuno; quell’impulso di anche generosa fierezza che alle volte, in altri tempi e luoghi, mi aveva sostenuto spontaneamente, in quell’ambiente si tramutava in una decisa volontà di autocontrollo; ed in tal senso scoprii in me anche la possibilità di un comportamento di forzata ed umiliante sottomissione. Se dentro di me ne soffrivo, se mi ci ribellavo, la coscienza dell’inutilità di ogni gesto, di ogni reazione inconsulta mi tratteneva; per quanto tale sconfitta, che era sconfitta nei miei stessi confronti, mi umiliasse; ed anche questo comportamento faceva parte, rispondeva a quell’abito che andavo creandomi
in rispondenza all'ambiente. Ma io non soffrivo di uno stato di quasi permanente contraddizione solo per tale motivo; direi che, proprio all'origine di esso, vi era il naturale desiderio di inserirmi nell'ambiente in cui vivevo, in cui ero costretto a vivere, di
riuscire a stabilire un rapporto di equilibrio con esso e l'impossibilità di realizzarlo. Poi, durante i sette mesi di servizio come sottotenente al battaglione che aveva la sua sede a Feltre, nella mia città, mi trovai, se pure in quella stessa condizione che sempre mi appariva non solo a me estranea, ma assurda, però
con ben altri compiti ed in una situazione ben diversa. E qui si poté infine
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manifestare la mia implicita resistenza a quel sistema in un modo che rispondeva al mio carattere e che al tempo stesso lo mise in luce; poiché anzitutto con i soldati intrattenni di un subito un rapporto che volevo di rispetto reciproco, non considerandoli a me inferiori ma come dei miei pari, e quindi mai imponendomi con un ordine di imperio, ma chiedendo loro una disponibilità ed una compfensione che li rendessero partecipi con me di uno stato cui conveniva rassegnarsi; e‘ quindi escludendo assolutamente dal mio operato ogni forma di punizione, anzi cancellandola quando fosse minacciata a qualcuno da un sottufficiale. Né, per questo mio comportamento, ottenni risultati meno rispondenti all'ambiente che non ottenessero quanti si comportavano in un modo opposto al mio. Ma che questo mio modo fosse del tutto difforme dal costume della caserma, dalla tradizione di essa mi fu confermato al momento del congedo, quando le note caratteristiche che definivano il mio comportamento durante quei sette mesi, pur non imputandomi deficienze od incapacità, concludevano affermando di come fossi del tutto privo dell’attitudine al comando. Il che a me risultò come un elogio e mise in evidenza una mia ben precisa propensione.
Nel tempo dei sette mesi durante i quali avevo frequentato a Milano il corso allievi ufficiali ero rimasto quasi completamente escluso da quello che era stato sino allora il mio ambiente; evidentemente mai avevo trovato lo spazio necessario per scrivere anche pure quanto mi premesse; addirittura potrei
dire che quella condizione, quel ritmo mi impedivano anche la concentrazione necessaria a propormi uno scritto, a prevederlo e ad organizzarlo; riuscivo
in ogni modo a leggere quel che volumi; sopratutto approfittando contatti che, durante quell’intero amici del mio ambiente letterario,
più mi premeva, giornali, riviste ed anche dei giorni passati all’infermeria. Gli unici periodo, ero riuscito a mantenere con gli furono quelli con Vittorini, giunto in quel
tempo a Milano, in vista di un suo trasferimento colà, e con Ferrata che a
Milano abitava; ma si trattava di incontri che non potevano avere un seguito, una conseguenza; quasi addirittura io ne riluttassi; tutto assorbito in quell’atmosfera cui mi era impossibile sottrarmi; come se tutte le mie forze fossero intese a difendermi da essa ma vivendo di essa; e quel che potesse da essa distrarmi costituisse per me un rischio, mi potesse distogliere da quella continua vigilanza intesa a controllare il mio comportamento in quel gioco di ripugnanza celata, di costretta accondiscendenza. Terminato il corso, ottenuto il risultato che mi ero proposto, in quel mese di licenza e di libertà che precedeva gli altri sette di servizio nel battaglione, rientrato a casa mia, avevo scritto di un fiato, senza soste e ripensamenti, un
volumetto di considerazioni, tra l’autobiografico ed il saggistico, nel quale
tentavo una sorta di consuntivo della mia esperienza di critico militante; e
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dopo qualche mese lo avevo pubblicato— contemporaneamente alla mia tesi di laurea su Machiavelli,— con il titolo di Lo spettatore appassionato. Il libretto risentiva evidentemente della mia recente esperienza militare,- alla quale accennavo con un giudizio del tutto negativo e già tentava di mettere in evidenza la contrapposizione che mi pareva evidente fra la nostra società, il nostro costume, le esigenze concrete dell’esistenza, e le aspirazioni, le attese degli scrittori; e s'intende degli scrittori nuovi, di coloro che ancora non godevano i favori di un pubblico; che a me risultavano ancora trascurati dalla critica anche più attenta, e che io proponevo come i soli i quali contassero, i soli ai quali si potesse guardare con fiducia; i soli i quali esprimessero quella che io sentivo essere la mia condizione e dai quali potessi derivare una indicazione di vita, di comportamento. Il volumetto era scritto in un tono concitato, effusivo, come una testimonianza che obbedisse alla prima ispirazione, sfuggendo ad ogni controllo, a qualunque esigenza di un ordine costruito, di una conseguenza razionale; come se con esso mi ribellassi ad ogni convenzione, a qualunque imposizione di una norma; insomma si trattava di uno sfogo passionale di chi si sottraeva e voleva sottrarsi ad ogni principio di convenienza, ad ogni considerazione di opportunità. Ed anche nelle sue scelte, nelle sue indicazioni e nelle sue proposte poteva risultare offensivo; sia pet coloro che venivano esclusi dalla mia considerazione positiva, sia anche per coloro che da me venivano indicati come esemplari; in quanto la mia messa in evidenza del valore, del significato della loro opera in un modo tanto perentorio poteva finire col danneggiarli. Di conseguenza esso aveva avuto ben poche recensioni, e tutte e soltanto da parte di giovani amici, i quali evidentemente erano partecipi con me di un’esigenza di schiettezza, del rifiuto di ogni opportunismo, di ogni ipocrisia. Ed esso in qualche modo mi aveva qualificato, mi aveva definito, e sotto un aspetto che, nella società letteraria, poteva anche risultare negativo; come di un
giovane non disposto ad accettare un’esigenza di opportunità; una pratica di equilibrio, di rispetto per quelli che ormai erano valori consacrati; come di chi insomma non può essere inserito in un contesto ormai affermato; di chi non può non essere considerato come inopportuno, indisponente, persino irritan-
te nelle sue pretese, nella sua volontà di esprimere quanto al solito viene celato o viene espresso con cautela, secondo un’abitudine di discrezione, di moderazione. E di questo giudizio, di me e della mia presenza letteraria, che era andato affermandosi abbastanza rapidamente, mi ero dovuto rendere conto ben presto; difatti durante il periodo del mio servizio al battaglione di Feltre, per la comprensiva benevolenza di un tenente dal quale dipendevo,
mi fu possibile riprendere la mia attività di recensore di volumi di narrativa contemporanea, e lo feci tutto sostenuto da un nuovo fervore, come a com-
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pensare i tanti mesi di mia assenza dalla scena letteraria; ma quando li proposi a quella rivista, «Solaria», cui mi pareva in qualche modo di appartenere e che mi pareva la sede più opportuna per essi, mi vidi costretto ad apportarvi tali modifiche che mi pareva ne stravolgessero il significato; tanto che preferii pubblicarli in «Leonardo », in «La Fiera letteraria » ed in altre riviste giovanili che non ebbero difficoltà ad accettarli. Per quanto poi, dopo non molto tempo, in una sorta di rappacificazione con Carocci, «Solaria», e giusto nel suo ultimo fascicolo, pubblicasse un mio saggio di una qualche consistenza. In ogni modo sin già da allora avevo dovuto quasi di necessità considerarmi escluso dalla collaborazione a quelle riviste che si proponevano come depositarie e rappresentative di valori letterari assestati, al di fuori da ogni polemica; e difatti, mentre molti anche tra i più giovani «solariani»,- come Vittorini e Ferrata e Quarantotti Gambini,- erano stati invitati a collaborare dapprima a «Pegaso» e quindi a «Pan», le due riviste dirette da Ugo Ojetti, a me mai
giunse un simile invito; come se l’accento, il modo e l’ispirazione dei miei scritti fossero giudicati non confacenti, non rispondenti al costume di cui esse erano e si facevano portatrici. Si può dire così che sin da allora, quando ancora non avevo certo raggiunto una mia maturità, né come uomo, né come
scrittore; quando ancora non mi ero espresso per quello che potevo dare e che
più avanti riuscii a dare; fui considerato secondo una dimensione, secondo delle caratteristiche ben precise, ed infine riduttive; le quali mi rimasero come
ben definite anche più tardi, ogniqualvolta si dovesse qualificarmi, definirmi
nella mia attività, e non solo in quella letteraria. Portato a termine il servizio militare, mi si poneva ben precisa l’esigenza di una scelta di vita, di quello che avrei dovuto fare; di quale attività, di quale
professione avrei dovuto indicare a me stesso come convenienti, come capaci di darmi quella sicurezza economica per cui potessi rendermi indipendente dalla mia famiglia ed inserirmi attivamente in quelli che erano il mio ambiente, la mia società. Una brevissima, intermittente presenza nello studio d’avvocato di mio padre mi portò a respingere decisamente una tale prospettiva; mi
restava ormai solo il proposito di portare a termine gli studi di Lettere, di sostenere gli ultimi esami e quello della laurea; d’altra parte avrei potuto frequentare l’Università a Firenze per almeno un anno, e cioè per quanto mi bastava a sopperirvi, in virtù dei risparmi che avevo potuto mettere da parte durante il periodo del servizio militare come sottotenente.
Tornai a Firenze nella primavera del 1935 e ripresi quel rapporto di frequentazione quotidiana con i vecchi amici, con Montale, con Bonsanti, con Gadda la cui presenza era periodica ed intermittente con Vittorini— ormai
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diviso fra Firenze e Milano; ma questo mio reinserimento in un ambiente che tanto avevo sentito come a me consono e nel quale mi ero riconosciuto, nel quale mi ero andato formando, dal quale tanto avevo preso, mi risultò difficile. Non era cambiato l’atteggiamento dei miei vecchi amici nei miei confronti, né era cambiato il mio nei loro; anzi si era fatto più schietto e più disinvolto; i nostri legami di famigliarità e di confidenza si erano rafforzati; ed in particolar modo quelli con Vittorini, il quale, durante il periodo del mio servizio militare al battaglione, era stato ancora mio ospite a Feltre; ma in breve tempo, contro ogni mia attesa e contro ogni mio desiderio, fui costretto a prendere atto di un certo loro modo di essere, di un certo loro comportamento, di un certo loro modo di agire; il che mi costringeva a rivedere il mio giudizio su di loro, sulla loro personalità. Fu anzitutto un’esperienza, breve ed occasionale, di Vittorini a colpirmi ed a dispiacermi; durante il periodo della mia assenza da Firenze egli si era incapricciato di una ragazza straniera avvenente e disponibile, attirato da una sua disinvolta libertà di costumi da noi ancora ben rara; ma quel rapporto era finito nel modo più squallido e disdicevole, per lui e per la moglie, suo malgrado in esso coinvolta. Ora io ben conoscevo Vittorini in questa sua dimensione di disponibilità all'avventura, anche a qualunque avventura; ed in tale sua avventatezza egli rivelava anche un suo gusto della vita, dell'incontro con una realtà a lui nuova, sconosciuta, nell’assecondare qualunque gioco della fantasia, in lui sempre fervida; ma questo incidente, questo che gli si rivelò uno scacco di una qualche gravità mi misero in evidenza una sua gracilità,
persino una sua inconsistenza, quanto infine egli si rivelasse indifeso di fronte alla malasorte; e come d’altra parte al momento della resa dei conti, egli fosse incapace di assumersi la propria responsabilità, di far fronte alle conseguenze anche gravi di quello che per lui era stato un capriccio. Quello che mi colpiva sopratutto in lui in tale frangente si era una sua inconsistenza; come se egli si abbandonasse al flusso delle cose rifiutando, esimendosi da ogni decisione e da ogni intervento, cosicché ad un certo punto la sua disponibilità poteva risultare incostanza e dispersione; limitava la sua capacità e volontà di dichiararsi per quello che era, per quello che voleva; infine inficiava persino la sua dignità di uomo che sa far fronte agli eventi più sgradevoli con la ferma accettazione anche di un proprio errore, di come ha operato pure in piena coscienza di sé. Ma pure l’operato di Montale, che ora ero costretto a considerare in modo diverso, più avvertito che non avessi fatto per l’innanzi, mi appariva poco limpido, persino equivoco; difatti il suo legame con la Mosca, a chi li cono-
scesse, a chi li frequentasse, era ormai evidente, ma il comportamento del marito della Mosca e quello del loro figlio Andrea, in modo diverso, contrap-
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posto, rivelavano una condizione anomala, di indifferente sopportazione da un lato, di disagio e di insofferenza dall’altro; in un rispetto apparente delle convenzioni che li costringeva ad un contegno di finzione, simulando dei
rapporti che ormai erano ben diversi; ed a tale ipocrisia, della quale soffriva, il giovane spesso reagiva con malgarbo a dimostrare il proprio disagio, la propria forzata sopportazione. Così Montale si sottometteva, acquiescendovi per opportunità, ad una situazione del tutto falsa, lasciando che le cose scorressero per il loro verso, quasi rifiutandosi di accorgersi della ambiguità della propria situazione; senza intervenire, senza decidersi ad affermare esplicitamente una propria scelta; e senza reagire a quella altrui, a quella della Mosca; anche se da essa riluttasse, male vi si acconciasse; mentre pure mi pareva che, per
tale cedimento, per tale rassegnazione ad uno stato che non poteva non sentire a sé disdicevole, non vi fosse in lui una giustificazione sentimentale, ancor
meno passionale; ma solo la difesa di un proprio modesto agio, di una propria abitudinarietà, dei vantaggi pratici che gliene venivano. Ed anche in questo caso, anche per lui mi pareva gli mancassero quella decisa assunzione della propria responsabilità, la volontà di dare un ordine alla propria esistenza rispondente ad un principio di dignità e di decoro; come da lui ci si sarebbe potuti aspettare. Infine, in quel tempo, od in quelli immediatamente successivi, vidi Bonsan-
ti travagliato e contrastato per le scelte diverse che gli si proponevano, dibattuto tra l’una e l’altra; disputato tra due donne ed impacciato, quasi restio dal troncare definitivamente con l’una per legarsi all’altra; ed anche lui, in questo oscillare, in questa incertezza nel prendere una decisione, in questo gioco di rinvii, di procrastinazioni, e sopratutto in questo timore di dover mutare le condizioni della propria esistenza, mi si dimostrava impreparato, incapace di superare uno stato di irresponsabilità, pauroso di dover affrontare nuovi
impegni, nuovi doveri, riluttante di fronte ad una realtà da lui imprevista, ad assumersi un carico che supponeva e temeva troppo grave, troppo oneroso. La mia reazione iniziale di fronte a tali vicende di tre fra i miei amici ai quali più ero legato, dei quali più godevo la confidenza ed ai quali sempre, per uno o per altro verso, mi ero rassomigliato, sentendomi a loro vicino, sentendoli a me esemplari per uno o per altro modo, fu di sconcerto più che di sorpresa. E ciò anche in quanto sino allora io avevo reagito, avevo respinto da me quelle allusioni, quelle che avevo giudicato come insinuazioni nei loro confronti, nei confronti del loro agire, del loro comportarsi, del loro carattere; sempre con-
siderandole come supposizioni, come illazioni maligne e persino denigratorie; poiché sempre io avevo voluto vederli e giudicarli sotto ben altro aspetto, guidati e sostenuti da ben altra coscienza di sé, da ben altra considerazione e convinzione di quel che dovessero fare, di quel che per loro fosse doveroso
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fare. E se talvolta in loro avevo colto qualche momento, qualche gesto od atto
in qualche modo per me disdicevoli della loro personalità di quella che doveva essere per me la loro personalità anche di fronte a me stesso avevo rifuggito dal dare ad essi un soverchio peso; come degli episodi di una bene scarsa importanza, i quali non intaccavano una condotta, un modo di essere che conoscevo, o che volevo fossero, di una piena coerenza. Certo vi era in me, in tale mio severo giudizio, una componente moralistica
che mi derivava dalla mia educazione famigliare, dalla mia educazione cattolica e dall’ambiente in cui ero cresciuto, nel quale si erano formate la mia adolescenza e la mia prima giovinezza; ma, al di là di quelli che consideravo i loro cedimenti, che mi dispiacevano, restava per me sopratutto il fatto di vederli mancare di fronte a se stessi. Posti nell’occasione, posti anche nella necessità di apparire e di manifestarsi quali essi erano, essi tutti mi erano risultati o mi andavano risultando ben diversi da come li avevo considerati sino allora; o meglio da come avevo voluto considerarli, da quell'immagine che di essi mi ero fatto, che avevo voluto farmi; quella di uomini ben decisi
nelle loro scelte, almeno in quelle le quali avessero un valore determinante nella loro esistenza; capaci di accettarne tutte le conseguenze, fedeli a quelle che erano le loro convinzioni, quelle da loro manifestate o testimoniate tante volte nei loro dibattiti, nei loro discorsi; alle quali perlomeno mai avevano mostrato di voler sottrarsi. Insomma a loro io mi ero avvicinato sì in quanto
essi erano degli scrittori, in quanto nei loro libri avevo colto delle indicazioni, delle sollecitazioni cui ero stato portato a rispondere naturalmente, spontaneamente, quasi a risposta delle mie attese, in talune delle mie attese; ma
anche in quanto dai loro scritti, dalle loro pagine mi si erano conformati un modo di vivere, un modo di essere nel nostro mondo, nella nostra società, i quali mi si ponevano come normativi di ogni umana convivenza, di ogni rapporto fra gli uomini. Così mai avevo considerato separatamente la loro attività di scrittori, la loro capacità di scrittori dalla loro presenza umana; e questa avevo sempre visto come strettamente legata a quella; quella continuamente e necessariamente nutrita da questa. Ora oggi tale mia considerazione, tale mia fiducia, o meglio tale mio affidamento, mi venivano a mancare, o perlomeno venivano profondamente incrinati; certo non potevo modificare, correggere quello che era stato ed ancora era il mio giudizio sulla loro opera letteraria; ma se esso restava ancora del tutto positivo, se in essa ritrovavo sempre quegli stimoli cui avevo risposto sino allora, ora ero costretto ad ammettere che il
loro agire, il loro comportamento risultavano in contrasto, ed in un contrasto di fondo, con quella; cosicché essi non mi potevano non apparire come travagliati da una profonda dissociazione; come se in loro fosse presente una contraddizione che non sapevano risolvere, che non erano in grado di risolvere.
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Però, al tempo stesso, attraverso questo loro comportamento, attraverso questo loro rifiuto di assumersi una responsabilità, attraverso queste che anche mi potevano presentarsi come una debolezza, una incostanza del loro
carattere, una fondamentale mancanza di coerenza fra ciò che avrebbero voluto essere e ciò che di fatto erano; mi si rivelava una loro condizione di fondo, la quale, se non li giustificava appieno, perlomeno me li presentava sotto un aspetto del quale non potevo non tener conto, il quale evidentemente limitava
le loro responsabilità; faceva sì che li sentissi vicini con un senso di pena, portato ad una comprensione persino affettuosa, appena venata dal compatimento. Poiché dovevo riconoscere che queste loro vicende mettevano in evi-
denza sopratutto quella che era la loro esistenza da un punto di vista economico, i limiti ristretti entro i quali essi erano costretti a vivere, la mancanza di
una libertà di fondo che sempre li costringeva, che anche li assillava; infine essi non erano e non potevano essere degli uomini liberi nelle loro scelte, nelle loro decisioni in quanto erano gravemente, decisamente condizionati in ogni loro atto dai termini del loro bilancio famigliare; qualunque loro scarto, qualunque variazione nel corso della loro giornata, proprio per gli stretti argini entro i quali essa si svolgeva, assumevano un carattere di turbamento, addirittura di sovvertimento. Infine, se essi riuscivano a sopravvivere, se, per qualche verso, vivevano in una modesta agiatezza, o meglio se essi mai avevano rischia-
to di sentir mancare quanto sovveniva alle loro necessità quotidiane, non per questo essi si erano mai sentiti forti e pronti a far fronte a delle avversità, a
degli eventi che in qualche modo li costringessero ad assumersi un qualche nuovo carico, un qualche nuovo onere. Così, attraverso loro, attraverso questa necessaria considerazione su tale loro stato mi risultava evidente quale fosse la condizione dello scrittore, quando lo scrittore non fosse difeso, non fosse sostenuto da una agiatezza economica della quale non dovesse rispondere che a se stesso; come avveniva per un Palazzeschi o per un Tecchi, o per talun altro. Ma per i più, per la più gran parte degli scrittori, anche di quelli che già risultavano di maggior valore, di una già profonda incidenza sulla nostra letteratura, ove appunto non godessero del reddito sicuro di un patrimonio famigliare, l’esistenza si presentava sempre come un peso difficile da sopportare, tutta ostacolata da difficoltà; ed infine per loro era quotidiana la preoccupazione di conservarne il ritmo se appena essi aspirassero, tendessero ad esperienze nuove e diverse dalle consuete; se fossero allettati dai richiami di una realtà che si presentava loro, che
loro si offriva con le sue proposte, con le sue suggestioni. Una simile considerazione mi riavvicinava a loro nel solo modo che mi fosse possibile, poiché mi costringeva a pormi sul loro stesso piano, di fronte ai loro
stessi problemi, e quindi a differenziarmi da loro, da quelle che erano state le
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loro scelte pratiche, concrete; in tal senso essi non mi indicavano una via che avrei voluto e potuto praticare, ma proprio mi invitavano, mi suggerivano di iniziarne un’altra, di propormene un’altra dalla loro ben diversa, che non mi
portasse a quelli che erano stati i loro esiti. Così, mentre da un lato sentivo dentro di me perentoria l’esigenza di essere scrittore, di dedicare la mia esistenza allo scrivere secondo quella che, con un termine consueto, si suole definire una vocazione cui non potevo rinunciare, che mi si presentava come
la prima ragione della mia vita; dall’altro sentivo sempre più gravare su di me delle responsabilità che non potevo respingere, rifiutarmi di assumere; che ancora potevo procrastinare, rinviare, poiché ancora non avevo i mezzi, le
forze per farvi fronte, ma che ormai dovevo avere ben chiare davanti a me; per cui già, sin da ora, dovevo propormi delle scelte precise, al di là di ogni illusione e di ogni velleitarismo; che in ogni modo sapevo ingannevoli; cui per mia natura non potevo affidarmi. Ebbe pertanto inizio per me uno stato di incertezza, di inquietudine, in una parola di provvisorietà, e quindi di crisi permanente, che mi condizionò in ogni mia decisione, in ogni mio atto, ed il quale; in modo più o meno intenso, con maggiore o minore accentuazione, durò quasi tre anni; sinché non giunsi
ad ottenere una sistemazione pratica, ad assumere un lavoro ed a percepire un guadagno. E la prima testimonianza di un tale stato la diedi proprio in quell’estate del 1935, quando, nel tentativo di veder chiaro in me stesso, iniziai e
portai a termine tutto d’un fiato un altro libretto fra l’autobiografico ed il saggistico, dal titolo I/ costume letterario; nel quale mi ponevo il problema della sopravvivenza quale si presentava a chi aspirasse, a chi sentisse come propria prima esigenza indefettibile quella di essere scrittore, di vivere facendo lo scrittore. Era questo una sorta di sfogo di fronte ad una prospettiva che mi appariva come molto vaga, di fronte ad un desiderio che mi risultava ormai ben difficilmente realizzabile; ma il saggio aveva tutti i limiti di una effusiva improvvisazione; poiché da un lato mancava
di quelle premesse concrete,
umane dalle quali era stato determinato, in quanto evidentemente non potevo farmi testimone esplicito delle vicende famigliari e personali dei miei amici che tanto mi avevano turbato, e dall’altro di un’attenta e documentata inda-
gine su quale fosse il modo di vita, quale la possibilità di sopravvivenza, e di una sopravvivenza in limiti di decenza, di dignità, dello scrittore che in Italia
intendesse dedicare ogni propria forza, tutto il proprio tempo alla letteratura, o meglio allo scrivere, ed allo scrivere secondo una propria scelta non determinata o condizionata da altri motivi che non fossero la sua propensione, la sua aspirazione.
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Da Feltre, dove avevo passato il periodo delle vacanze estive, tornai a Firenze nell'autunno, all’apertura dell’anno accademico, tutto preso dall’esigenza di portare a termine nel modo migliore i miei studi universitari. Ed anche questa per me fu una scelta, o meglio la conferma di una scelta. Difatti anni prima, quando da non molto avevo iniziato il mio soggiorno in questa città e la mia frequentazione dell’una e dell'altra Facoltà, rivelando la mia propensione per lo studio delle lettere, un fratello di mia madre, professore di storia del diritto italiano all’Università Cattolica di Milano, venuto a conoscenza di una tale mia ambigua situazione aveva scritto a lei invitandomi a trasferirmi colà; dove, in quella Università in cui egli godeva di una posizione di prestigio e di potere
e nella quale era legato di amicizia con il docente di lettere italiane, Carlo Calcaterra, avrei avuto aperta la via all'insegnamento universitario. Tale offerta allora aveva provocato il rammarico ed il risentimento di mio padre, come se egli si fosse sentito tradito nelle sue aspettative, come se stessi per mancare ad un impegno preso con lui; ma non per questo, o non solo per questo, per una esigenza di lealtà nei suoi confronti, io avevo respinto quell’offerta, ma in quanto avevo già fatto, od almeno stavo facendo, una mia scelta; difatti mi ero
inserito ormai nell'ambiente dei «solariani» ed in esso andavo riconoscendomi; in nessun modo da esso avrei voluto distaccarmi. Ed inoltre, proprio attraverso loro, attraverso il rapporto che con loro andavo stabilendo, mi andavo sempre più confermando in un deciso distacco dalla matrice religiosa che aveva improntato la mia infanzia e la mia adolescenza sulla scorta dell’insegnamento e dell’esempio famigliare. L’accondiscendere a quell’invito avrebbe allora significato per me un’abdicazione, l’inversione di quello che ormai per me era un indirizzo di pensiero, di principi ai quali andavo conformandomi; insomma accettando avrei tradito me stesso, o meglio quel me stesso che andavo perseguendo, che andavo acquisendo in me; anche se la via che mi si proponeva sarebbe stata agevole da percorrere, mi garantiva sin da allora un esito facile nella sua concretezza, ed anche rispondente alla mia propensione. Così ancor meno ora, alla ripresa degli studi universitari, mi si propose una simile scelta; per quanto ora la dovessi sentire come accaparrante, vantaggiosa, capace di risolvere ogni mio problema di una sistemazione soddisfacente. Ed anche per quanto all’Università di Firenze non sentissi soddisfatte le mie attese, i miei desideri. Alla Facoltà di Lettere, nell’insegnamento dell’italiano, al vecchio professor Mazzoni era succeduto Attilio Momigliano. Di lui avevo ascoltato la lezione inaugurale del suo corso; nella quale egli aveva celebrato il Carducci come maestro di vita e di letteratura, del modo di fare letteratura; il che evidentemente lo poneva lontano da tutte quelle che erano le istanze e le tendenze della letteratura del Novecento, di tutta la nostra letteratura contemporanea; alla quale pertanto egli non era stato sempre estraneo, tanto che a
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taluni autori, a taluni libri appartenenti al nostro tempo, se pure in anni non recenti, egli aveva rivolto il proprio interesse con certe cronache da lui tenute regolarmente in una rivista di cultura. Le sue lezioni, come sempre quelle di tale materia, erano molto frequentate, sopratutto da ragazze; ma, al di qua dei primi banchi vicini alla cattedra, era ben difficile seguire il suo discorso, per la sua voce smorzata, quasi fioca, ch'egli in nessun modo si sforzava di alzare di tono; ed inoltre la sua esposizione era di una monotonia esasperante, come se egli non parlasse rivolto ad un uditorio ma a se stesso. Mi riusciva difficile frequentarle per l’affollamento dell'aula; mi ci provai alcune volte, ma, poiché non mi pareva di trarne nessuno stimolo, nessun arricchimento, vi rinunciai. In ogni modo decisi di rivol-
germi a lui per chiedergli la tesi di laurea; altre possibilità non mi allettavano. Mi ero sì legato di amicizia con Giorgio Pasquali, il quale a me, tanto più giovane di lui ed ai primi passi di un’ipotetica carriera, aveva sempre dato credito, dimostrandomi la sua stima, incoraggiandomi nella mia attività di critico letterario, aiutandomi per quanto potesse; a lui mi ero avvicinato attraverso Bonsanti e gli altri «solariani» ch’egli a volte frequentava; in lui sentivo l’uomo aperto alle suggestioni della nuova letteratura, curioso, quasi avido di ogni nuova istanza; ma, all’Università, le poche lezioni da lui tenute cui avevo assistito mi erano risultate del tutto incomprensibili; evidentemente mi mancava per esse una sia pur minima conoscenza degli strumenti di cui egli si serviva, una sia pure elementare preparazione filologica. D'altra parte i miei
interessi erano tutti intesi allo studio delle letterature moderne, di ogni lingua e paese, per quanto potessi; ero curioso ed avido del mio mondo, della mia realtà contemporanea attraverso la letteratura, anche attraverso la sua cultura. Così mi accadde che, se pure avessi seguito con interesse sempre vivo alcuni insegnamenti cui evidentemente nella Facoltà non veniva data un’importanza primaria, ma che mi appassionavano tanto da indirizzare la mia ricerca anche al di là delle esigenze dell’esame, come quello della storia medioevale tenuto da Nicola Ottokar e quello di storia delle religioni tenuto da Nicola Turchi; mai mi posi la possibilità di dedicarmici con un impegno che soverchiasse
ogni altro. Semmai poté lasciarmi per un momento indeciso l’offerta che, alla fine dell'esame di letteratura tedesca, il professore della materia, Guido Manacorda,- il quale mi aveva interrogato ma che sino allora raramente avevo incontrato a lezione,- evidentemente soddisfatto della mia preparazione e della mia resa, mi fece di continuare a lavorare con lui, prospettandomi la possibilità, la probabilità di inserirmi nel contesto universitario; ma, per quanto, preso alla sprovvista, neppure mi lasciassi il tempo di prendere in esame una simile prospettiva, quasi d’istinto la respinsi. Evidentemente era prevalente e deter-
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minante in me la volontà di continuare per quella via che in qualche modo avevo intrapresa; ma vi era anche un altro motivo a farmi diffidente e restio a quell’invito. Difatti Guido Manacorda era persona di una qualche fama nell’ambiente letterario, e non solo in quanto studioso di letteratura tedesca e docente universitario, ma come critico ed anche come scrittore; di estrazione
cattolica, collaborava alla rivista «Il Frontespizio », e spesso con interventi ed articoli di una certa veemenza; inoltre, pur nel suo cattolicesimo, egli si presentava come un fervido ed impegnato sostenitore del fascismo; posizione che infine anche il direttore della rivista, Piero Bargellini, condivideva e cui nella rivista concedeva sempre maggiore spazio, condizionandone l’indirizzo di fondo. Al mio diniego, che cercavo di motivare con altre mie predilezioni, il professore, evidentemente abituato a ben altro modo, a ben altra reazione da parte dei suoi allievi, ebbe un gesto di sorpresa ma non insisté; né io poi mi pentii di tale mio atteggiamento; semmai quella proposta poteva lusingarmi come la riprova che anche nell'ambiente universitario le mie propensioni letterarie potevano venire apprezzate; forse, simile invito, se mi fosse venuto da altro docente, per altra materia, avrebbe potuto lasciarmi interdetto, mi avrebbe davvero costretto ad un ripensamento; ma ciò non mi accadde. Alla mia richiesta Momigliano si dimostrò disponibile, né di un subito mi pose delle riserve, mi fece delle obiezioni; e così accondiscese al mio desiderio di incontrarmi con lui per discuterne i termini, per concordarne la linea;
mentre, al tempo stesso, poiché in quell’anno egli trattava come argomento delle sue lezioni la letteratura contemporanea, a conclusione di una storia della letteratura italiana cui lavorava da anni dentro di me ero spinto dal desiderio di confrontarmi con lui su tale argomento, di proporgli le mie posizioni, le mie scelte; anche nella speranza di trovare con lui un punto d’incontro, una ragione su cui concordare. Fu così ch’egli mi invitò a casa sua ed io
mi ci recai ripetutamente, parlandogli di quel che più mi premeva, facendogli i nomi degli scrittori che consideravo i più validi del nostro tempo. Egli mi ascoltava in silenzio, senza interrompermi, senza contrappormisi, nulla obiettandomi, e senza neppur tentare di moderare il mio entusiasmo, la mia passione; come se accogliesse le mie proposte riservandosi di controllarle, di rifletterci sopra, di farle proprie solo dopo un attento esame. Era persona estremamente riservata, forse timida, ma evidentemente lontana da ‘abbandoni e dall’accettare o dal subire suggestioni che gli venissero da altri; fermo e tenace in una propria conseguenza. Poi che compresi ch'egli non conosceva l’opera
di molti degli o di alcuni di mi, gli recai avere esaurito
scrittori di cui gli parlavo, almeno di quelli più giovani; di loro, loro,— dai quali li ottenni in dono per lui o che potei procurarquanti volumi mi fu possibile. Certo con essi non ritenevo di il compito che mi ero prefisso, ma supponevo che quel dono e
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la conoscenza di testi cui attribuivo un valore determinante ed anche indicativo della ricchezza di tutta una produzione, lo avrebbero spinto ad ampliare, a completare la propria informazione, Però poi, quando la sua storia della letteratura fu pubblicata ed io subito la acquistai e subito mi affrettai a leggerne l’ultimo capitolo, ebbi la sorpresa di constatare che in quel suo panorama,- il quale avrebbe dovuto essere esauriente, come nei suoi giudizi sugli autori presi in considerazione, egli si era riferito quasi esclusivamente a quei testi da me procuratigli;, per cui, se potevo anche compiacermi per la mia offerta tempestiva, restavo sorpreso ed anche scandalizzato per quelle che mi risultavano la sua parzialità, la sua cattiva informazione; quando infine esse non denunciassero una diffidenza, un bene scarso interesse per tutto un periodo lontano dalle sue predilezioni. Ma infine fui spiacevolmente colpito nel vedere come nell’ultima pagina del volume, a conclusione di esso, egli avesse celebrato Mussolini, e proprio nella sua esemplarità di scrittore; come colui che con la sua presenza di scrittore improntava esemplarmente la nostra letteratura, la nostra cultura attuali. Una simile affermazione mi ripugnava come una non richiesta, una non necessaria piaggeria; ma ancor più mi offendeva il vedere contrapposti una letteratura, un modo di fare letteratura se era letteratura—
in ogni modo per me obsoleti, a quella che di fatto era la nostra letteratura, la letteratura del nostro tempo; la quale si muoveva su ben altro piano, intendeva a ben altra ricerca; affermava ben altri valori; e questa era per noi significativa, a questa ci rifacevamo; e proprio respingendo le sollecitazioni di quello stile, di quel modo di scrivere, di esibirsi e quindi di essere, da cui eravamo del tutto lontani; i quali davano del nostro paese un’immagine del tutto falsa, nella sua perentorietà forzata e del tutto esteriore. Ma in quel tempo, proprio in quei mesi, il fascismo appariva trionfante; la guerra di conquista coloniale dell’Abissinia si era svolta in diversi tempi e con diverso andamento; e molti di noi, con Montale, ci eravamo illusi di uno
scacco, addirittura di una sconfitta di Mussolini, e sul campo politico e su quello militare; ma ne fummo delusi; sgomenti nel considerare come una violazione tanto avventata e provocatoria del diritto internazionale e dei patti firmati potesse trionfare, avere il sopravvento anche sulle grandi potenze che l'avevano condannata. Ed intanto la gente rispondeva perlopiù alle sollecitazioni del fascismo, si investiva e si compiaceva di un successo da cui tutti si sentivano esaltati, come promossi ad una nuova dimensione; mentre noi eravamo presi da una sorta di sgomento cui nessuna ragione poteva contrapporsi. L'opposizione di Montale, che era apparsa imperterrita sino all’ultimo atto, assumeva ora i caratteri di un’ingenuità sprovveduta; alcuni dei «solariani»
dissentivano da lui e da lui si allontanarono nel timore di essere coinvolti nella sua posizione di ostilità polemica e priva di cautele nei confronti del fascismo,
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anche dopo il suo successo; forse ancor più maligna ed esasperata di prima; così accadde per Carocci, per Loria. Per parte mia restai accanto a lui; non
potevo ripudiare il suo insegnamento, i suoi principi; mentre al tempo stesso
mi sentivo irritato con lui per quel suo atteggiamento caratteristico di un velleitarismo ormai del tutto estraneo ai risultati della realtà più patente e che si chiudeva in un rifiuto del tutto astratto, non motivato e sopratutto non sostenuto da nessuna volontà, da nessun proposito di una presenza attiva, che non si riducesse alle consuete chiacchiere di caffè; le quali a nessun esito potevano portare. Fu allora che ebbe luogo il mio primo scontro con lui, il quale raggiunse un tono persino drammatico, e che, invece di allontanarmi da lui, a lui mi avvicinò ancor più, fattomi conscio della sua profonda, intrinseca,
ineliminabile vulnerabilità; della sua condizione di un uomo sempre soverchiato e sconfitto dalla realtà, privo di ogni strumento con cui difendersi, con cui contrapporsi ad essa. In «Solaria» si era così verificata una spaccatura a seguito della quale la rivista cessò le pubblicazioni; Carocci negli ultimi tempi ne aveva ripreso la direzione allontanandone Bonsanti del quale evidentemente non condivideva i criteri di conduzione; ad essa egli evidentemente intendeva dare un indirizzo diverso; la sua presenza letteraria doveva presentarsi ormai in altro modo da quello che le era stato caratteristico, che l'aveva connotata sino allora; la parte
dedicata alla narrativa ed alla poesia era diminuita di spazio e di peso; le recensioni a volumi di recente apparizione erano state abolite, togliendole quel carattere di una presenza attiva e stimolante che essa sempre aveva avuto; la parte saggistica aveva preso il predominio con il maggiore spazio occupato, sulla suggestione di nuovi collaboratori, ben lontani da quello che era stato sino allora il carattere di «Solaria», come Chiaromonte e Noventa; ma sopratutto fu quest’ultimo a segnarne il nuovo corso, il quale fu improntato ad una presa di posizione ideologica, espressa in sensi diversi ed anche implicitamente contrastanti tra loro, come chi si avvede, o ritiene, che il paese abbia iniziato o vada iniziando un periodo, se non un’epoca, nuovi, diversi dai
precedenti; di cui gli intellettuali debbano tener conto, di cui dovevano diventare partecipi.
Avevo conosciuto Chiaromonte che talvolta da Roma giungeva a Firenze e con lui mi ero incontrato parecchie volte, a lungo discutendo, di letteratura sì, ma sopratutto di politica. Egli si esprimeva in termini decisamente e coerentemente antifascisti, con la sicurezza di chi suffraga i propri sentimenti con lo studio, con una preparazione ideologica; cosicché il suo discorso era sempre sollecitante per la sua conseguenza, per la sua chiarezza. Restava il fatto, almeno per me, di una sua considerazione della letteratura ch’egli poneva in subordine alla politica, ch’egli prendeva in considerazione solo se rispondesse ad
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una esplicita od almeno implicita volontà, ad un'esigenza politiche. Egli era amico di Moravia e lo seguiva attentamente nel suo lavoro di scrittore spingendolo in questo senso, e leggeva quanto questi pubblicava cogliendo in quelle pagine ogni elemento che lo potesse confermare in questa sua attesa;
mentre a lui io contrapponevo la mia convinzione di un profondo pessimismo di questo scrittore che spesso si risolveva in scetticismo, nel riconoscimento
scontato dell’impossibilità, dell’incapacità dell’uomo ad intervenire sui fatti umani, sulla realtà; sempre soverchiato da essa suo malgrado. E così non potevo non considerarlo come un epigono del naturalismo ottocentesco; lontano ed incapace di quella fervorosa e generosa passione che investiva tutta la nostra letteratura novecentesca. A Firenze avevo anche conosciuto Noventa, che talvolta faceva delle rapide visite alle «Giubbe Rosse»; ma, sin dal nostro primo incontro, sin dalla sua
stretta di mano, ch'egli nel saluto offriva molle ed abbandonata, con appena tre dita tese quasi rifuggisse da un contatto sgradevole, quasi si sottraesse a stabilire un rapporto preciso e deciso con altri, il suo atteggiamento ed i suoi modi mi erano dispiaciuti. Vi erano in lui, a prima vista, un modo di esibita discrezione, di quasi ostentata modestia; come se si ponesse ed intendesse porsi in disparte, non attirare su di sé l’attenzione degli altri; e pure non mi era gradita, quando egli parlava, quando interveniva nel dibattito, quella sua calcolata pacatezza, quella moderazione cui pareva attenersi con un ben preciso proposito; quasi a rivelare, a mettere in evidenza la sua volontà di stabilire un accordo con gli altri; mentre qualcosa, nel suo parlare, nel suo accento,
sapeva di una forzata accondiscendenza; come se egli volesse in ogni modo sottrarsi ad ogni responsabilità; come se si costringesse a tacere, o perlomeno a controllare attentamente, quel che più gli premeva, quanto aveva dentro di sé. Così egli appariva sempre sotto un aspetto leggermente equivoco; come di
chi dice e non dice, e mai si azzarda a dire quel che pur vorrebbe; e ne risultava una ipocrisia di fondo, alla quale egli pareva accondiscendere come se gli fosse impossibile altro modo, come se di essa si costituisse una difesa. Poiché, all’incontro, egli celava una forte convinzione di sé, la certezza di
essere depositario di una verità; per cui dentro di sé considerava gli altri, chiunque altro, degli sprovveduti, incapaci di rendersi conto di quel che era più evidente, di una realtà di cui però lui solo riusciva a comprendere lo stato e la ragione; e ad essi andava il suo compatimento, velato di compiacimento per la conferma che da questo confronto egli aveva della propria superiorità. E che tale egli fosse mi risultò dagli attacchi che, nei suoi scritti, egli rivolse a Montale in modo particolare, ma anche a tutta la poesia del Novecento; i quali denunciavano la sua presunzione, il suo malcelato orgoglio, la sua volontà di emergere; mentre quelle poche composizioni che andava pubblicando
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qua e là come esemplari di una nuova poesia, quelle che avrebbero dovuto indicare quale fosse, quale avrebbe dovuto essere la nuova via, la via che la nuova poesia italiana avrebbe dovuto seguire, mi risultavano ben gracili, ben lontane dalla dolorosa tensione che sempre sosteneva anche i più recenti testi di Montale. Infine, poiché ormai il contrasto si era andato sempre più acutizzando; dopo un lungo ritardo nella pubblicazione, uscì l’ultimo numero di «Solaria » sotto il segno di un commiato definitivo. Pochi mesi dopo iniziò le pubblicazioni una nuova rivista,
«La riforma letteraria», diretta da Carocci e Noventa,
la quale sin dal primo numero assumeva un carattere ben delineato con l’affermazione che ormai gli scrittori intendevano inserirsi nel nuovo contesto creatosi nel paese, per portarvi un loro contributo; essi non intendevano con questo rinunciare ad una loro autonomia, ad una loro iniziativa, ma riteneva-
no di poter confrontarsi con il potere, con quella che ritenevano la realtà effettiva del paese e quindi contribuire alla formazione od allo svolgimento di una nuova società, anche di una nuova civiltà. Ed a suffragare questo possibile incontro, lo scritto di apertura del primo numero della nuova rivista era firmato dal ministro Bottai, il quale evidentemente approvava e favoriva tale impresa.
D'altra parte, a convalidare la non casualità di quella scissione ed a contrapporsi alle posizioni dichiarate da «La riforma letteraria», a breve distanza di tempo Bonsanti, che la diresse, dette inizio alla pubblicazione di «Letteratura»; una rivista la quale già nel titolo rivendicava, per quel che era possibile, la difesa di un principio, di un indirizzo che volevano porre la letteratura come estranea alla dipendenza, all’asservimento alla pratica, alla pratica del potere; infine sottrarsene, rifiutarsi di esserne condizionata. E per tale via, condividendo tali posizioni, ecco accompagnarsi ben presto a quasi tutti i vecchi collaboratori di «Solaria», a Vittorini, a Montale, a Carlo Emilio Gadda, da un lato quei collaboratori di «Il frontespizio » i quali si dissociavano dall’indirizzo di Bargellini, sempre più inteso a dare alla rivista un'impronta di adesione conformistica al fascismo ed alle sue scelte come Bo, Macrì, Luzi dall’altro a quegli scrittori, come Bilenchi, i quali già avevano dato vita a «L’Universale»
ma
che ora,
in modo
quasi esplicito,
dal fascismo
venivano
allontanandosi. Durante tutto questo periodo di scelte e di decisioni travagliate, io ero sempre rimasto al fianco di Bonsanti sostenendolo e stimolandolo in questa sua iniziativa ed alla nuova rivista collaborai sin dal suo primo numero; per quanto la mia presenza a Firenze ormai, dopo aver ottenuto la laurea in Lettere, fosse del tutto intermittente e per periodi del tutto brevi.
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Sull’argomento della tesi ero stato in dubbio per alcun tempo; difatti dapprima la mia attenzione si era fermata sull’opera di Svevo, lo scrittore al quale dovevo il mio incontro con gli amici di «Solaria» e che ancora sentivo a me del tutto consentaneo; per essa avrei potuto utilizzare le testimonianze, i ricordi di Montale, di quanti a Firenze lo avevano conosciuto, e certo avrei avuto l’appoggio e la collaborazione anche dei suoi famigliari, di quanti a Trieste gli erano stati vicini; e pure avrei avuto il privilegio di dedicare a questo scrittore
la prima monografia che su di lui fosse scritta; ma, proprio in quel tempo, altro argomento ed altra esigenza mi si proponevano. Nella mia attività di critico militante, attraverso la lettura, lo studio e la disamina dell’opera degli scrittori contemporanei, e fossero narratori o poeti, sulla suggestione anche dei diversi critici che su di essi erano intervenuti, mi si era posto con sempre maggiore insistenza il problema del rapporto che legava l’intera nostra letteratura del Novecento a d'Annunzio; quasi essa tutta da lui dipendesse, o perlomeno da lui derivasse; pareva infine che non vi fosse scrittore del nostro tempo il quale non avesse attinto ad una o ad altra sua opera, che da lui non avesse ripreso un modo, una cadenza, un accento. Ma poi vi era un’altra ragione che mi sollecitava ad una piena conoscenza di lui, a studiarne da un lato l’esistenza ed il suo comportamento nei confronti con la realtà, con la realtà del suo tempo, e dall’altro la sua opera, la quale appunto sempre ed evidentemente era derivata dalla sua esperienza, in un accanita volontà di interpretazione, anche di giustificazione. E qui ancora mi si presentava, ed
anche in termini clamorosi e non del tutto chiari, il problema della presenza attiva e persino determinante dello scrittore sulla realtà del suo tempo, della sua incidenza in essa; ed infine anche quello del suo rapporto con il potere, del suo contrasto, del suo dibattito ed infine della sua sottomissione al potere; e specificamente al potere politico. Di fatto di lui sino allora poco e con scarso interesse avevo letto, e sempre lo avevo sentito lontano dalla nostra letteratura contemporanea, da quella che più amavo; nell’ambiente dei «solariani» di lui poco si parlava, perlopiù era questo un argomento sul quale si sorvolava; mai si esprimevano nei suoi confronti delle riserve di fondo; si ammetteva una sua presenza, si accennava a
talune sue opere, a taluni suoi risultati come se essi non potessero non essere accettati; mai però egli veniva dichiarato in una sua esemplarità; pareva ormai che tutti ne fossero lontani, che la ricerca di tutti fosse intesa in un senso
ch’egli in nessun modo aveva indicato, aveva anticipato. L’impresa che mi accinsi ad affrontare era difficile; la sua opera era vastissima, e pure le biogra-
fie, le testimonianze su uno o su altro periodo della sua esistenza erano numerose e non sempre di facile ritrovamento e così pure su di lui scrittore innume-
revoli erano gli studi critici; di lui avevano scritto, in modi e con scelte diver-
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L'ULTIMO
TESTIMONE.
se, i critici tenuti in quel tempo in maggiore considerazione; da Croce a
Gargiulo, da Borgese a Serra, a Cecchi, a Flora. Il tempo della ricerca, della lettura, dell'esame critico mi era di fatto estremamente limitato; ero insidiato dalla fretta, in quanto non potevo rinviare la laurea; mi sentivo in dovere di dimostrare a mio padre come sapessi far fronte nei tempi previsti all'impegno preso sia con me stesso che con lui. Ma nella stesura della tesi mi sentivo sempre dibattuto fra posizioni contrastanti: da un lato vi era in me la volontà
della comprensione; di qualunque scrittore del quale avessi letto i testi, cui mi fossi applicato, sempre avevo inteso cogliere quella che era la più profonda ragione del suo scrivere, sempre avevo voluto ricuperarne una personalità che lo dimostrasse coerente a se stesso; sempre avevo sentito l’opera come un atto, come un intervento unificanti della sua personalità; né certo potevo mancare con lui. D'altra parte, nel mentre non potevo respingerne e non valutarne la presenza imponente ed anche dirompente nella realtà italiana, egli mi si presentava sempre come un esempio negativo, come colui che aveva
compiuto una scelta dalla quale mi sentivo lontano, che non potevo accettare; così il mio saggio si presentava impacciato da questo alternarsi e sovrapporsi di posizioni diverse; se da un lato la sua abilità nel destreggiarsi nella vicenda umana e la sua bravura di scrittore mi lasciavano interdetto se non diffidente, dall’altro andavo cogliendo in lui e pure nel suo esprimersi una ingenuità di fondo, una disarmata volontà di dichiararsi che a volte mi attiravano. Ma non fu questa mia ambiguità a rendermi difficile la discussione della tesi. Momigliano ne aveva avuto in lettura una prima parte e, pur accettandola, mi aveva chiesto di apporvi delle note, necessarie a suffragarne il testo, le varie affermazioni, i continui riferimenti. Il che eseguii, quasi soddisfatto di dimostrare la ricchezza e la varietà delle mie letture. Ma la discussione, alla quale erano presenti anche gli amici di «Solaria», non ebbe un esito felice. Momigliano poco disse e poco si pronunciò sul mio discorso che riguardava d’ Annunzio ma si fermò quasi esclusivamente, contestandolo, sul giudizio negativo, peraltro documentato, ch’io davo di Benedetto Croce quale critico di letteratura contemporanea, non solo di quella italiana, ma di tutta la nuova letteratura.
Anche stavolta mi difesi con impeto, completamente convinto di quanto avevo affermato, ma la vivacità del mio intervento forse lo offese ancor più, lo costrinse a rinchiudersi in una testarda negazione. Qualcuno degli altri esaminatori tentò di attenuare quello scontro, però tali interventi non fecero che esasperarlo; infine, dopo un lungo dibattito tra loro, sebbene mi fossi presen-
tato con una media di esami molto alta, quasi al massimo, non ottenni neppure i pieni voti; e solo, come poi mi fu detto da uno di coloro che avevano
preso la mia parte, per il rifiuto di colui che della tesi era stato il primo relatore.
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Ancora una volta subivo uno scacco; ancora una volta mi ero battuto, mi ero difeso, avevo sostenuto con decisione e fermezza le mie posizioni; ancora
una volta mi ero dichiarato esplicitamente in quello che ritenevo il mio onesto compito di sincerità, di coerenza aliene da compromessi; e stavolta in modo più valido che non nella precedente occasione; in un modo non certo sprovve-
duto ma anche sostenuto da una preparazione, da una competenza specifica. E stavolta, proprio il professore cui mi ero affidato mi aveva respinto, mi aveva rifiutato, così che il discorso in qualche modo iniziato con lui ne veniva definitivamente troncato. Così cessava necessariamente anche quel rapporto con l’Università che io, se pure con incertezza, se pure con reticenza, avevo
cercato di realizzare; e proprio con quell’insegnamento che più mi aveva legato ad essa. E questo, dovevo pure riconoscerlo, proprio in quanto non avevo
obbedito ad un’esigenza di opportunità, ad uno scrupolo di discrezione; senza ammettere la possibilità di una concessione a colui al cui giudizio ero sottoposto, da cui mi sarebbero potuti venire un incoraggiamento, anche un aiuto. E ciò proprio per la mia natura, per il mio modo di essere e di manifestarmi più caratteristico; per la mia pertinacia nel difendere una scelta fatta, nel perseguire la via intrapresa; e tutto ciò nel modo più aperto, più schietto e baldanzoso; quasi respingendo, persino sfidando colui dal quale in certo modo dipendevo, o sarei potuto dipendere; poiché nulla volevo mi fosse dato, mi fosse concesso mercé un atto di sottomissione, mercé una anche limitata
rinuncia; e così andavo sprovvedutamente incontro, quasi provocavo volutamente il mio danno. Evidentemente nel mio carattere, nella mia persona umana vi erano delle componenti primarie specifiche che mi sostenevano in tale comportamento, che me lo rendevano quasi inevitabile; ed erano certo anche un eccessivo orgoglio di me, una ingenua presunzione, una soverchia certezza della validità delle mie ragioni; ma vi era anche l’esigenza, che potrei dire generosa, di difendere, di rivendicare quelle che erano le convinzioni conquistate nel mio lungo apprendistato con gli amici scrittori. Quando affermavo perentoriamente una mia convinzione, quello che ritenevo un principio, quando mi battevo con impeto per essi, io sentivo di non tendere tanto ad un’affermazione di me, di una mia particolare sagacia, di una mia indiscutibile competenza, quanto di essere il portatore della parola, dell'esempio di coloro ai quali sempre mi ero confrontato, di coloro ai quali avevo aderito e dai quali avevo appreso, dai quali avevo derivato il mio patrimonio intellettuale. Avevo dei maestri, ammiravo gli scrittori ora miei amici come dei maestri; e sentivo
l’esigenza di ripagarli, di doverli ripagare, per quanto da loro avevo avuto, per quello che ero divenuto per merito loro.
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L'ULTIMO TESTIMONE
Quel mio scacco alla discussione della tesi di laurea in lettere mi fu in
qualche modo attenuato, addolcito dal consenso che alcuni dei docenti presenti nella commissione giudicatrice mi vollero testimoniare; i due che mi avvicinarono subito dopo l’esito di essa, P. E. Lamanna e Ludovico Limentani, insegnavano materie filosofiche ed evidentemente concordavano con me,
sulla mia presa di posizione nei confronti di Croce, per una loro ragione ideologica; ed entrambi mi sollecitarono a continuare e ad approfondire un filone di studi per il quale, a loro giudizio avevo dimostrato una qualche propensione. In quel momento, in cui si mischiavano in me lo scoramento della delusione e pure l’eccitazione della foga cui avevo dato corso, quell’incoraggiamento mi giunse come un gesto di solidarietà di chi mi testimoniava la sua fiducia ed al tempo stesso mi offriva la possibilità di riscattarmi dalla sconfitta subita dimostrandomi che sconfitta non era. Ed in tale proposta, più che una nuova possibilità di inserirmi o di reinserirmi nell'Università con un proposito pratico, di riuscire a crearmi un posto in essa, io vidi quella di
tornare agli studi, di completare i miei studi; di affrontare con impegno e decisione una zona di studi che avevo appena sfiorato e di cui ora sentivo in modo particolare la suggestione; come se, in tal senso, avvertissi dentro di me un vuoto che andava colmato, un’attesa cui dovevo rispondere; per far chiaro in me stesso, per ordinare in un’unica ragione il senso della mia esistenza, della mia presenza nella realtà. Fu così che mi iscrissi alla Facoltà di Filosofia, scegliendo secondo una scelta loro argomenti. Mentre infine, per me come nostro tempo andava sempre rante quale mai sino allora era
precisa gli esami che avrei dovuto sostenere ed i
per i miei amici, ma forse anche per tutti, quel più rivelandosi come incerto, inquieto, dilaceapparso; la guerra civile di Spagna la quale ai
suoi inizi, quando ancora non pareva avesse coinvolto il nostro paese, mi
aveva lasciato incerto nel mio giudizio e nella mia scelta di quale parte fosse nel giusto,- ben presto divenne per me,- come per Vittorini, e forse anche per
la perentorietà del suo esempio, un banco di prova per le convinzioni mie e dei miei amici fiorentini. E la nostra educazione politica, avvenuta per vie tanto diverse, finì col portarci agli stessi esiti, alle stesse certezze; ormai il nostro giudizio politico, quello di Montale, quello di Bonsanti, quello di Vittorini, e pure quello di Bilenchi e di tutti i nuovi frequentatori delle «Giubbe Rosse» finivano col coincidere in una decisa deprecazione delle posizioni assunte dal fascismo, dei fini ch’esso ormai più o meno esplicitamente perseguiva. Ora però, di fronte all’imposizione, alla violenza che risultavano l’elemento di fondo, la componente determinante del fascismo, quale doveva, quale poteva essere il nostro comportamento? Che cosa dovevamo e potevamo fare? Questo, almeno per me, restava il problema da affrontare, quello che
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dominava ogni altro; il punto fermo al quale era ben difficile sottrarsi. Io sentivo bene come la prima ragione della mia esistenza fosse la letteratura; la letteratura mi pareva fosse l’espressione più alta che l’uomo avesse raggiunto, il più alto segno di civiltà che, nel corso della sua storia, egli avesse espresso; o meglio, almeno uno dei più alti, ma quello nel quale io mi sentivo parte, del quale mi sentivo portatore; nel quale mi pareva di testimoniare il meglio di me stesso. A questa convinzione mi avevano portato la mia educazione, quello che era stato il mio apprendistato letterario; ed all’antifascismo ero giunto proprio in quanto sentivo e vedevo come e quanto il regime costringesse ed impedisse la piena libertà dello scrittore. Ma qui, ora, ci si poneva proprio l'interrogativo sulla funzione, sul carattere e sulla validità della letteratura nella presente contingenza; su quali fini essa potesse porsi, a quali norme essa dovesse obbedire, nella temperie presente; quando proprio non solo la libertà di espressione, ma qualunque libertà erano minacciate, addirittura ormai erano evidentemente conculcate. Durante gli ormai brevi periodi dei miei soggiorni a Firenze, mi incontravo ancora con i vecchi amici alle «Giubbe Rosse», oppure, fatti avvertiti della presenza tra i camerieri di un delatore, al caffè della nuova stazione dove non eravamo conosciuti e dove sarebbe stato ben difficile controllare i nostri discorsi. Ma il giro dei convenuti si era di molto allargato; accanto a Franchi, a Nannetti, a Loria, a Montale ecco gli ultimi arrivati, come Delfini e Gatto, i quali ormai risiedevano più o meno continuativamente a Firenze; e pure ecco
il gruppo dei giovani che già avevano frequentato il caffè San Marco, Bo, Macrì, Landolfi, Traverso. Ed ancora si discuteva di letteratura e degli ultimi libri pubblicati e di quegli eventi letterari di cui parlavano giornali e riviste; ma ormai sul nostro discorrere, qualunque ne fossero il tema, il pretesto, pareva incombesse un argomento che non sempre affrontavamo ma che sempre condizionava ogni nostro intervento, che addirittura dominava la nostra mente. Erano ormai lontani i tempi di «Solaria», erano lontani quei dibattiti spesso accesi, quel vivace scambio di idee, di prospettive, di richieste che allora improntavano quei nostri incontri; quando tutti apparivamo, più o meno, impegnati nel portare avanti una proposta, nel rivendicare una ragione; convinti tutti di quel che facevamo o che avremmo fatto; convinti del valore,
dell'importanza di una decisione, di una risoluzione; come se da esse potesse dipendere il corso della letteratura; e pure dell'importanza, del valore della letteratura in sé; come di un mondo che aveva una vita a sé ma che al tempo
stesso aveva un suo posto, aveva una sua importanza incidente sulla realtà; e
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L’ULTIMO TESTIMONE
fosse pure su quella realtà che non amavamo, che anzi spesso spregiavamo. Era come se quella nostra passione, quell’entusiasmo che allora si manifesta-
vano in modo più o meno evidente, più o meno contenuto, ma dei quali infine tutti eravamo partecipi, si fossero non solo smorzati, placati, ma non avessero più ragione di essere; come se non avessero più un contesto cui riferirsi, un punto, un elemento da cui partire. La conversazione perciò mai o quasi mai era accesa, vivace; spesso si arre-
stava, si interrompeva come se comunque fosse impossibile portarla a fondo, arrivare ad una soluzione dei problemi che ci si proponevano; come infine se neppure valesse la pena di impegnarci in qualche modo, anche soltanto in un confronto od in uno scontro di parole, per giungere ad una decisione che consideravamo in ogni modo lontana da qualunque concretezza, vacua ed inutile. Lunghe pause si alternavano a brevi colloqui tra due o tre degli amici; ognuno pareva chiuso in sé; pareva infine che ci si incontrasse solo per rispettare una vecchia consuetudine; o meglio pareva che ciascuno di noi giungesse all'appuntamento nella speranza che dagli altri, da qualcuno degli altri, giungessero una parola, un suggerimento capaci di suscitare in noi uno stimolo, capaci di spingerci in qualche modo ad un intervento, ad un’attività. Talvolta la presenza di Gatto ravvivava l’ambiente; d’un tratto egli prorompeva in una sua polemica, in una sua rivendicazione, superando quello stato di timidezza che gli era stato caratteristico nei primi tempi; qualcuno accettava la sua sfida, la sua provocazione; pareva si accendesse un nuovo interesse; ma rapidamente ogni spinta si esauriva, le repliche giungevano sempre più smorzate; come
di chi obbedisce sino ad un certo punto ad un gioco consueto ma infine se ne stanca. Landolfi talvolta esplodeva con una subita invenzione, quasi nella speranza di togliere se stesso e gli altri da quella loro rassegnata sonnolenza; come quando una volta eravamo alle
«Giubbe Rosse»,- ad un forte botto
che ci giunse dal di fuori, simile ad un’esplosione, forse provocato da un’automobile in sosta, di un subito, scattato all’impiedi ed alzando le braccia, a voce alta, guardandosi intorno, si chiese e chiese a tutti: «Dunque, si comincia? »; ma l’accento stesso della sua interrogazione, il suo atteggiamento che si into-
nava a modi melodrammatici ci rivelavano com’egli accondiscendesse a quel gusto del gioco, della mistificazione pareva che proprio il modo com'egli gativo rivelasse una sua incredulità, fonda sfiducia; dichiarasse insomma
che gli erano caratteristici. Infine a tutti si era posto ed aveva posto quell’interroesprimesse quella che in lui era una prola propria e l’altrui impotenza. Nulla vi era che potessimo attendere, nulla vi era che potessimo fare. Né certo in tale contingenza, in tale stato d’animo che tutti coinvolgeva, la venuta di Delfini e la sua presenza poterono avere una tale incidenza da dare ad essi un corso, un esito diverso da quello ormai scontato; in lui si manifestavano e si frammi-
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schiavano due atteggiamenti diversi; e l’uno era di impaccio, quasi di timidezza di fronte a persone che gli apparivano comunque autorevoli, ch'egli sentiva di dover ammirare, di fronte alle quali si sentiva tanto da meno, sprovveduto;
ma al tempo stesso la sua educazione, l’ambiente in cui era cresciuto e l’agiatezza economica di cui godeva gli davano una sicurezza di sé che si manifestava anche in un modo ingenuo, lontano da ogni sufficienza, da ogni presunzione. Mentre la spontaneità disarmata delle sue reazioni provocavano una sincera simpatia; avveniva come se, in quell’ambiente su cui gravava un senso di
torpore e di assuefazione si offrissero improvvisamente attraverso lui una nuova possibilità, una nuova dimensione dell’esistenza, non prive di una loro affidabilità. Fu Montale colui che più accolse con curiosità divertita il nuovo ospite; godendo nell’ascoltare le vicende episodiche della città di provincia da cui egli proveniva, Modena, raccontate con un candore compiaciuto non esente da malignità. Infine pareva che Montale concedesse a tale svago proprio per sottrarsi a quell’atmosfera che su tutti incombeva ed in modo particolare su di lui. Poiché di fatto raramente egli interveniva nel discorso che qualcuno aveva iniziato; se interpellato, spesso si limitava a bofonchiare ritraendosi da ogni presa di posizione; quasi rifiutandosi di prendere partito, riluttante ad uscire dalla propria silenziosa concentrazione; spesso intento scrupolosamente ad armeggiare intorno alla propria pipa con gli aggeggi che traeva da un suo
astuccio; quasi soddisfatto ed accanito di affidarsi ad un compito che ancor più lo estraniava da ogni possibilità di partecipazione. Egli non era mai stato un promotore di dibattiti, mai era stato presente nel gruppo degli amici con una sua continua ed attenta partecipazione; ma ora pareva non solo che bene si adattasse ma che si ritrovasse appieno in quel nuovo costume; addirittura che lo assecondasse; in un certo modo staccandosi da quelli che erano stati i vecchi amici di «Solaria» e sentendosi a proprio agio con i nuovi, con i più giovani, già frequentatori del caffè San Marco. E gli poteva anche accadere talvolta di accondiscendere ai loro inviti, alle loro sollecitazioni che sempre
avevano un tono provocatorio, e di unirsi a loro nei loro vagabondaggi notturni, in quelle loro squallide frequentazioni nelle quali essi ricuperavano un’abitudine goliardica con modi ed accenti di una rassegnata assuefazione; in un gioco ripetuto di sfide, di motteggi, di scherzi nei quali parevano rinnovare un vecchio rapporto di confidenza; l’uno all’altro divenuto umanamente più vicino in un modo di reciproco e scontato compatimento, di commiserazione nella vana ricerca di qualcosa che per quella via ben sapevano mai avrebbero trovato.
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L’ULTIMO
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Ed intanto per me si andava facendo sempre più urgente il problema del mio avvenire, a quale attività pratica avrei potuto dedicarmi raggiungendo l’autonomia dalla mia famiglia. A ventisei anni ero ancora a carico di mio padre ed ancora non avevo ben chiara in mente la soluzione concreta da dare alla mia esistenza. Le collaborazioni a riviste ed a fogli letterari che sino allora avevo praticato mi avevano dato delle ricompense di ben limitata entità; altre, più rimunerative invano avevo tentato di ottenere; da quei giornali cui mi ero rivolto con la presentazione e l'appoggio di amici che con quell’ambiente avevano un qualche legame, avevo avuto risposte negative; nessuna collaborazione fissa e retribuita equamente mi era stata offerta: d’altra parte rifuggivo da un impegno più continuo, dall’entrare nella redazione di un quotidiano; là mi sarei sentito costretto e vincolato ad un lavoro di apprendistato anche lungo che non rispondeva alla mia preparazione ed alla mia ricerca. Altra possibilità di guadagno avrei potuto perseguire prestandomi alla traduzione di testi, sopratutto di romanzo, da una lingua straniera, dal francese come
dall’inglese; ed era l’attività cui si era dedicato negli anni più recenti Vittorini; in tal senso feci delle proposte a Mario Bonfantini, di recente trasferitosi a Firenze con un incarico redazionale presso la Casa Editrice Bemporad; ma, benché i volumi da me indicatigli, già tradotti in francese, di Sherwood Anderson e di Hemingway, avessero tutti gli elementi per ottenere anche un successo di pubblico, esse non furono accettate. D'altra parte ripugnavo decisamente dal giocare il mio avvenire su di un’ipotesi di realizzazione incerta ed insicura, di arrischiarmi per una via che si presentasse come avventurosa; mi restavano sempre presenti la fondamentale debolezza, l’incapacità di far fronte alle proprie responsabilità che di recente avevo riscontrato nei miei amici «solariani» ed intendevo perseguire e con-
quistare un posto di lavoro il quale, rispondendo alle mie capacità ed al tempo stesso non condizionandomi nella mia attività letteraria, mi desse la sicurezza
di una base economica pur modesta ma sulla quale contare regolarmente. A confermarmi in una simile soluzione, se ce ne fosse stato il bisogno— valse anche il breve colloquio che, a Roma, in uno dei miei saltuari soggiorni in quella città, ebbi con Mario Soldati. Di lui avevo letto sia il suo primo volume di racconti, Salzz4ce, che quello ispirato dalla sua esperienza negli Stati Uniti, Amzerica, primo amore; ed ero stato spinto a conoscerlo, come
sempre mi accadeva con quegli scrittori per i quali sentivo una qualche propensione, specie se fossero ai loro inizi. Ci eravamo incontrati alla stazione; non so se egli dovesse partire o se attendesse l’arrivo di qualcuno; tutto preso dalla sua attività di aiuto regista cinematografico, non aveva avuto per me
altra possibilità, e poco tempo mi avrebbe potuto dedicare; ma mi apparve subito disponibile, anzi persino effusivo nella sua cordialità verso chi gli ricor-
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dava i suoi libri e dimostrava di averli letti con attenzione, ed anche con
adesione. Di un subito inclinò alla confidenza; forse anche a giustificare quell'appuntamento che sarebbe potuto apparire dettato da noncuranza od insofferenza per me che glielo avevo richiesto, mi disse della sua vita, tutta consumata all’insegna della fretta, dell'angoscia di scordare un impegno, di non riuscire a far fronte alle esigenze del suo mestiere. Lavorava così a tempo pieno, otto, dieci ore il giorno, non concedendosi soste e vacanze, con l’inten-
zione, addirittura con il fermo proposito di guadagnare quanto più potesse, per mettere da parte una somma tale da potersi infine permettere un periodo di sosta, quanto gli era necessario per dedicarsi a quella attività che amava e preferiva ad ogni altra: lo scrivere. Gli accadeva però che, preso da quel gorgo assillante, dopo una giornata intensa, faticosa, abbrutente; libero infine la
sera, con qualche ora davanti a sé di cui poter disporre senza dover darne conto a qualcuno, sentisse prepotente ed irrevocabile il desiderio di cancellare ogni ricordo delle ore precedenti; e così, in trattorie, nei bar, in locali di divertimento, insieme ad amici vecchi e nuovi, finiva con lo sprecare, con il
buttar via non solo quell’unico tempo che avrebbe potuto essere suo, ma anche quel che era stato il suo guadagno della giornata; cosicché alla fine del mese si ritrovava nella stessa condizione in cui si era ritrovato all’inizio di esso.
Nulla risparmiava, nulla era in grado di risparmiare; si allontanavano sempre più la previsione, la speranza di realizzare quella che era stata la sua prima illusione. Poiché ormai la sua esistenza era compresa e si svolgeva in un cerchio chiuso: egli dava fondo a tutte le sue energie, a tutta la propria intelligenza in un lavoro disamato e poi, per cancellarlo dalla mente, a ripagare quell’ingrata fatica, era costretto a buttar via quel che da esso aveva tratto. E mi parlava concitatamente, con un qualche affanno; come chi ben si conosce, come chi ben sa quale sia il proprio peccato, e ne soffre, e si condanna, ma non sa come liberarsene; e vi soggiace; e così vede passare i giorni, i mesi, gli anni. Fu l’amico Ferrata, il quale di recente aveva partecipato, vincendolo, ad un concorso per l'insegnamento della filosofia e della storia nei licei, a sollecitarmi con il suo esempio; a convincermi dell'opportunità di una simile scelta; ed in tal modo, perseguendo tale fine, venivo a giustificare anche quegli studi cui ora mi dedicavo a tempo pieno. Infine quell’insegnamento mi avrebbe preso un ben limitato spazio della mia giornata senza impegnarmi nella correzione di compiti scritti, lasciandomene così quanto mi fosse necessario per lo studio e per l’attività letteraria. Ma, quasi contemporaneamente, altra prospettiva, altra ben più sollecitante possibilità parvero offrirmisi sulla indicazione di altro amico; si trattava di concorrere ad un posto di lettore di italiano presso un Istituto od una Università stranieri; l’impegno non era grave, l’ambiente in
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cui mi sarei trovato di un alto livello culturale e la retribuzione superiore a quanto avrei ottenuto insegnando in una scuola italiana. Renato Poggioli, il quale ormai si distingueva tra i giovani slavisti come uno dei più preparati e di più vivace ingegno, collaboratore di «Solaria » e di altre riviste di alto livello letterario e culturale, conosciuto se non ancora inserito nell'ambiente universitario, era ormai deciso a perseguire tale carriera e riteneva di poterla iniziare
tra poco; e fu lui a stimolarmi per tale via; egli riteneva che anch'io potessi dimostrare una mia preparazione ed una mia presenza nel dibattito letterario e vantare titoli e pubblicazioni di una qualche dignità; infine potevo confidare sulla stima e sull’amicizia di personalità ben note anche negli ambienti universitari, le quali sarebbero state disposte ad avallare una mia candidatura. Da lui ebbi tutte le indicazioni necessarie ed utili ad avviare una tale pratica e per il suo intervento potei presentarmi a colui dal quale, almeno come prima scelta, sarebbe dipesa la mia assunzione. Mi recai a Roma, alla Direzione degli italiani all’estero dipendente dal Mini-
stero degli Esteri, e vi fui ricevuto dal caposervizio del settore che mi riguardava, il dottor Biscottini; da lui interrogato, gli dissi degli studi da me com-
piuti, della mia attività di critico letterario, di cui egli era stato già informato da Poggioli, gli presentai alcune mie pubblicazioni, ed infine sulla sua indicazione gli rilasciai la domanda rispondente alle norme di rito. Nulla egli mi promise; a suo tempo, quando all’estero si fosse fatto libero o fosse stato istituito un nuovo posto di lettore, di essa si sarebbe tenuto conto e sarei stato ‘convocato per un colloquio. Da questo breve incontro ebbi l’impressione ch’egli fosse persona di potere, dal comportamento molto riservato proprio in quanto convinto di una propria responsabilità; evidentemente si trattava ora di intervenire su di lui perché la sua decisione mi fosse favorevole. In tal senso potevo contare sull'amicizia di Enrico Falqui, il quale allora era redattore di «L'Italia letteraria» e che ben mi conosceva per avere sempre pubblicato i miei scritti in essa ed anche per avermene richiesti, e che aveva frequenti rapporti con lui, ed anche su quella di Giorgio Pasquali, il quale sempre mi si dimostrò estremamente comprensivo di tale mia aspirazione; ed infine, poiché un giorno di quella mia domanda informai Federico Gentile, direttore della rivista «Leonardo» alla quale collaboravo con frequenza regolare, ne ebbi l’offerta di far intervenire a mio favore il padre. Certo Giovanni Gentile, benché in quel periodo non godesse nel regime una posizione di forza, ne restava uno dei personaggi più rappresentativi e di maggior prestigio; ma per me egli era anzitutto una personalità della cultura; di lui avevo letto suoi scritti e taluni di essi mi avevano colpito per la novità del discorso e per la carica appassionata da cui esso era sostenuto; forse il mio nome, che aveva
potuto vedere nella rivista diretta dal figlio, non gli era del tutto ignoto; il
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ricorrere al suo aiuto, il godere del suo avallo come uomo di studio e di
cultura non mi parevano disdicevoli. Così, a Roma, mi presentai a lui e da lui fui ricevuto con atteggiamento di una comprensiva cordialità; già sapeva quale fosse la mia richiesta, quale la mia aspirazione; e, per mostrarsi di un subito investito del compito che mi attendevo da lui, chiamò al telefono il dottor Biscottini, con il quale godeva evidentemente di un rapporto di confidenza e lo sollecitò a tener conto della mia richiesta, a darle un esito favorevole; e forse anche, uomo dai molti impegni, dai molti incarichi, si liberò nel modo
più rapido da un compito che altrimenti lo avrebbe potuto impegnare di troppo. In ogni modo, per quanto non potessi contare sulla certezza di una rapida assunzione, mi pareva che la mia pratica fosse avviata nel modo migliore, almeno per quanto era nelle mie possibilità. Nel frattempo, ormai ritornato a Feltre, interrompendo quel mio soggiorno soltanto con delle non frequenti e brevi puntate a Firenze per sostenervi gli esami di filosofia, mi ero dato completamente a questi studi, tutto inteso a portarli a termine nel più breve tempo e quindi interrompendo ogni mia attività letteraria. Ma, in tale applicazione, non obbedivo soltanto all’imperativo di perseguire una nuova laurea, un nuovo titolo, od a quello di prepararmi equamente all'esame di concorso cui intendevo partecipare; a quello studio mi dedicavo con impegno accanito come se soddisfacessi ad un’attesa da lungo avvertita, come se in esso cercassi di cogliere e di affermare a me stesso quale fosse la mia presenza nella mia società, nella cultura e nella civiltà del mio tempo, quali le motivazioni di fondo del mio operare, infine la ragione prima del mio esistere. Mai avevo studiato con tanto continua applicazione, rinunciando ad ogni
altro interesse, ad ogni altro richiamo; come se mi paresse che solo per quella via andassi immettendomi con piena coscienza nel filone più vivo della nostra cultura. Evidentemente esso era quello dello storicismo di accezione idealistica, il quale si era andato affermando con sempre maggiore ampiezza, con ricerche intese nei diversi sensi, nel nostro paese in questo nostro secolo; e di quelle che erano state le rivendicazioni di fondo, le istanze prime dell’idealismo italiano andavo sempre più facendomi partecipe; ma al tempo stesso, nella mia ansia di conoscenza e di ricerca, non mi limitavo, nella lettura di manuali di storia della filosofia e di opere dei filosofi, a quelli appartenenti a tale scuola. In ogni modo attraverso l’idealismo ed i suoi maggiori rappresentanti avevo conquistato od affermato in me il senso della storia come storia della cultura; la quale poteva anche dipendere, anche essere condizionata dalla realtà, ma che aveva in sé una forza, l’esigenza di contrapporsi, di superare le remore e gli inganni della realtà, stimolando, anche costringendo la realtà per un verso al quale questa riluttava, resisteva. Così mi veniva fatto di
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cogliere in ogni filosofo, in quelli di cui leggevo l’opera e dei quali maggior-
mente subivo il fascino, una caratteristica condizione umana in tale sua con-
trapposizione, in tale suo confronto con la realtà, e nella sua volontà di superarla, di darle un ordine ed una conseguenza; e mi appassionavo come se mi immettessi in questo confronto, come se mi investissi di questo tentativo, anche se esso si concludeva con il riconoscimento di un limite raggiunto; anche se la ricerca del filosofo lo portava alla constatazione di quelli che erano i limiti dell’uomo nella sua ricerca di una certezza. Ma evidentemente ancor più mi affascinavano quei filosofi, dei tempi e degli ambienti più diversi, nei quali prevaleva un afflato di coraggiosa fiducia nell'uomo e nei suoi mezzi, nella sua capacità di farsi creatore di civiltà; così il mio laicismo si arricchiva di una sua tensione, di una spinta costruttiva; ancor più, per esso mi sentivo
investito di una responsabilità, di una necessaria coerenza tra quelli che erano ormai non solo un mio ideale ma la mia partecipazione ad un progressivo arricchimento dell'umanità, e quindi del mio operare, della mia azione a servizio di questo, in accordo con questo. Così, dopo la lettura dei testi fondamentali di Kant, di Hegel e degli altri idealisti tedeschi, attraverso le indicazioni dei filosofi della sinistra hegeliana, giunsi a Marx. Di pochi testi del quale disponevo; ma almeno nella biblioteca di mio padre ricuperai un’edizioncina del Manifesto del partito comunista e quindi riuscii ad ottenere, facendomela pervenire dalla Francia, un’antologia dei suoi scritti divisi per argomenti, che mi risultò un testo prezioso, pur nella sua elementarità; ed esso conteneva quelle Tesi su Feuerbach, le quali credo abbiano avuto un’importanza determinante sulla formazione di tanti intellettuali, di tanti scrittori e non solo della mia generazione. Contemporaneamente a queste letture e quanto più procedevo in esse, sempre più acuto, quasi di necessità, andava facendosi il mio interesse per la storia, per lo svolgimento della storia, e non solo e non tanto nel mio paese, quanto nell’Europa; poiché ormai vedevo la cultura, la filosofia come sempre più investite, come sempre più partecipi di essa; mi pareva ormai che non si
potessero comprendere i testi dei filosofi, e dei filosofi che meglio conoscevo e più amavo, senza conoscere la vicenda dei fatti storici a loro contemporanei; ed al tempo stesso mi pareva che la storia trovasse la propria motivazione, che potesse trovare una propria ragione di fondo proprio in tali opere od almeno in quelle che da tutti venivano ritenute come fondamentali. Così, percorrendo quello che sempre più mi si confermava come lo svolgersi progressivo della civiltà, pur nei suoi corsi e ricorsi, nei suoi diversi ed anche contrastanti momenti, sempre più andavo avvicinandomi al tempo presente, e sempre più mi pareva mi si offrissero gli strumenti opportuni a com-
prenderlo, a darmene la prima ragione; ancor più, ad indicarmi quale potesse
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essere il mio giudizio su di esso e, conseguentemente, quali potessero o doves-
sero essere in esso la mia presenza, la mia scelta; e sempre più mi si poneva la
necessità di comprenderlo nei suoi diversi aspetti, nella sua articolazione; di un’informazione che non fosse parziale e superficiale sugli avvenimenti che investivano il mio paese, nei quali il mio paese era coinvolto. Così non mi accontentavo di leggere con nuova attenzione i quotidiani, ma seguivo quelle
pubblicazioni periodiche francesi che in qualche modo potevano allargare ed arricchire le mie conoscenze, come «Je suis partout», un settimanale di destra
ma ben più ricco di dati e di notizie e di articoli e dall’impostazione criticamente più rigorosa che non lo fosse quella della nostra stampa. Ma la mia ansia di capire, di sapere, non si accontentava di tali fonti; ed ecco che potei abbonarmi e ricevere regolarmente due riviste, «Esprit» e «La vie intellectuelle»,- di tendenza cattolica ma di una notevole apertura nei confronti di qualunque movimento e posizione di sinistra, ed anche, se pure in modi cauti e non sempre espliciti, di un reciso rifiuto nei confronti di ogni movimento
fascista, o di ispirazione fascista. Così potevo seguire le vicende della guerra civile di Spagna e le risonanze che essa aveva in Europa, arricchendomi di una problematica di cui altrimenti non avrei potuto disporre; mentre al tempo stesso il regime dittatoriale che si era imposto in Italia andava sempre più risultandomi come un fatto che non riguardava soltanto il nostro paese ma che investiva tutta l'Europa ed insidiava nella sua prima ragione la nostra civiltà. Ora non è da stupirsi di troppo di un fatto che può apparire ben anomalo. Non credo di essere stato io solo in Italia in quegli anni ad essere abbonato a quelle due riviste. Libri, riviste, settimanali e giornali francesi si potevano trovare nelle grandi città in qualunque libreria o rivendita di giornali di un certo livello. E durante tutta quella prima metà del secolo si deve pur dire che la cultura francese primeggiava in Italia; le opere degli scrittori e dei saggisti francesi di maggiore spicco erano lette al loro primo apparire, e spesso erano prese come un modello cui rifarsi, cui non ci si poteva sottrarre; inoltre il più
spesso era attraverso traduzioni in francese, attraverso la segnalazione della critica francese che si arrivava alla conoscenza di opere e di scrittori di altri paesi; come avvenne anche per quelli americani. Così, sin dai primi mesi della mia andata a Firenze, io mi ero abbonato a «La Nouvelle Révue Francaise »; ed era questo il testo cui, per la loro informazione, perlopiù si rifacevano gli ambienti letterari italiani, tutti coloro i quali aspirassero ad immettere il proprio discorso in un ambito che superasse i troppo ristretti confini nazionali. Non che la censura fascista non fosse preoccupata ed attenta, ma accadeva che, al solito, chi era addetto a simili controlli raramente era persona colta e preparata; cosicché in libreria si potevano trovare volumi anche di chiara
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impostazione antifascista, purché non si proponessero come tali nel loro titolo; così mi era accaduto di acquistare in ùna libreria di Firenze Fontamara di Silone, e credo di non esserne stato il solo acquirente; così potei procurarmi quell’antologia degli scritti di Marx ed anche lo Staline di Boris Souvarine poco dopo la sua pubblicazione,- e si trattava di un libro che poteva considerarsi lecito in quanto costituiva un atto di accusa per quello che vi veniva considerato uno spietato dittatore. Però, se la censura fascista era distratta ed incompetente,- almeno in quel suo compito,— la vigilanza sui cittadini, od almeno su quelli che appena potessero essere considerati degli oppositori del regime, era bene organizzata ed estremamente scrupolosa; tanto più per il fatto ch’essa poteva contare sull’apporto di chi, contando su di una ricompensa o sull’acquisizione di un qualche vantaggio, era pronto o disponibile alla delazione; ed in tal senso l’esperienza fatta dai «solariani» era significativa. Per quanto mi riguarda, durante il mio servizio militare, mentre mi trovavo a San Martino di Castrozza, un centro
montano non lontano da Feltre, rinomato per le sue piste sempre innevate distaccato colà quale istruttore di sci di una squadra di alpini, mi era capitato di incontrarmi ripetutamente con Alberto Moravia, recatovisi per il clima a lui confacente dopo la malattia che lo aveva reso storpio di una gamba. Ci eravamo conosciuti precedentemente a Firenze od a Roma, e lassù, nelle ore del pomeriggio libere da ogni impegno, mi ero accompagnato a lui in brevi passeggiate, lieto di discutere di letteratura, di scambiare con lui opinioni ed informazioni; e forse avevamo anche discusso di politica; benché i nostri interessi in quel campo fossero ancora limitati. Ma quella nostra assidua frequentazione era stata notata da un agente che lo seguiva spiandone tutti imovimenti, ed al fascio di Feltre era stata indirizzata, per essa, una denuncia, od almeno una comunicazione a che venissi anch'io controllato nelle mie abitudini, nelle mie amicizie. Qualche tempo
dopo, alle poste di Feltre, era stato sequestrato un pacco di pubblicazioni di propaganda antifascista provenienti dalla Francia ed indirizzate a me, ch’io mai vidi; ed anche di questo fatto vennero investiti i dirigenti del fascio cittadino. La cosa avrebbe potuto avere un qualche seguito se per me non avesse
preso una ferma posizione di difesa quello che sarebbe divenuto mio suocero, il quale era membro del direttivo del partito: per lui io ero e dovevo venir considerato un letterato, un uomo di studi, ero già conosciuto per la mia
attività di critico letterario; un rapporto con Moravia, incontrato casualmente a San Martino, era del tutto comprensibile e giustificabile per i comuni interessi che ci legavano. Per quanto poi riguardava quelle pubblicazioni sovversive, evidentemente l'emigrazione politica italiana in Francia faceva il possibile per stabilire un contatto con i giovani in Italia, e, naturalmente, fra i giovani
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sceglieva quanti riteneva depositari di una preparazione culturale, quanti in qualche modo attraverso la stampa avessero fatto conoscere il loro nome. Entrambe queste imputazioni erano così cadute senza ch’io fossi richiamato o messo in stato di accusa ed io ne seppi soltanto per una rapida informazione di lui; che a me suonò in ogni modo come un’ammonizione; comunque, con-
trollassi bene il mio comportamento, mi fosse ben chiaro che su di me si era fermata l’attenzione di chi non avrebbe sopportato degli scarti, delle infrazioni alla norma. Ma altro episodio mi giunse come un richiamo, come un avvertimento; mai sino allora, anche per il mio intermittente soggiorno a Feltre, vi avevo svolto una qualche attività nel partito fascista; addirittura conoscevo appena quelli che ne erano i dirigenti, e semmai per altra via che quella della politica; ed un giorno venni convocato alla sede del Fascio, dov’ero atteso da tre o quattro di loro, i quali, dopo una breve premessa sull’esigenza del partito di rinnovarsi e di fare appello a delle forze nuove sopratutto giovanili, mi invitarono ad assumere la carica di segretario del fascio cittadino. La proposta mi giungeva del tutto inattesa; una tale loro scelta doveva dipendere da una considerazione del tutto esteriore; dagli studi che avevo compiuto, dall’attività letteraria da me svolta, di cui si aveva un qualche sentore, dall’appartenenza ad una famiglia che in città godeva di un certo prestigio; per quanto mio padre fosse stato un esponente del partito cattolico ormai da tempo soppresso; ma sopratutto per essa doveva esser giunto l’avallo, se non addirittura l'indicazione, di un anziano signore, amico della mia famiglia, persona che godeva di una considerazione di spicco in città; il quale evidentemente aveva voluto intervenire per tale via su di me, convinto che con quella assunzione di responsabilità mi sarei inserito nella vita della città, avrei iniziato il cammino che, a parer suo, più mi conveniva.
La discussione fu lunga e faticosa; di una tale possibilità mai avevo avuto sentore, in nessun modo l’avrei potuta prevedere; così, nella mia sorpresa, alle motivazioni ed alle sollecitazioni che mi venivano fatte non sapevo rispondere che con dinieghi che potevano rivelarsi come pretestuosi; insistevo col dire che tutto il mio tempo era dedicato allo studio, ad una seria preparazione per
le prove che mi attendevano, che contavo di ottenere un posto di insegnante all’estero, per cui ritenevo ormai imminente una chiamata; ma il mio impaccio
di fondo, quello che impediva una franca e decisa motivazione del mio rifiuto, derivava dall’impossibilità di dichiararmi per quel che ero, per quel che mi sentivo di essere; di esprimere la mia profonda opposizione ai principi ed ai metodi di un regime che consideravo oppressivo e tirannico. Riuscii in qualche modo a superare la prova e mi congedai da loro lasciandoli però insoddisfatti e poco convinti; e, se pure dalle loro parole, dalle loro domande, non avessi colto nessun accento di sfida, come a cimentarmi sulle
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mie convinzioni, sul mio modo di essere e di pensare; potevo però prevedere che, delusi e respinti da quel mio reciso rifiuto, d’ora in avanti la loro attenzione su di me, su come avrei operato, su come mi sarei comportato, si sarebbe
accentuata. Forse la mia ripulsa aveva confermato in loro dei dubbi nei miei
confronti, o li aveva creati; in qualche modo essa mi aveva qualificato ed in modo negativo per quanto era nel loro costume; perlomeno, ora, in città; in
un modo che non poteva soddisfarli e del quale non potevano non tener conto. Quando di tale episodio riferii a Vittorini la prima volta che, dopo quell’episodio, mi incontrai con lui a Firenze- ed egli scattò ridacchiando e contestandomi il mio rifiuto in quanto avevo rinunciato all’occasione offertami di buttare sottosopra il fascio feltrino, di porre in esso le premesse di una piccola rivoluzione locale come era nei suoi intenti alquanto velleitari, ma anche nel suo gusto provocatorio,- mi parve ch’egli non cogliesse o non volesse cogliere quel profondo disagio che quell’invito e quel dibattito avevano lasciato in me; come se per essi fossi stato sottoposto ad una prova e non ne fossi uscito nel modo cui più avrei tenuto; come se infine fossi ricorso all’ambiguità ed al sotterfugio, all’ipocrisia; non avessi avuto il coraggio, la fierezza di dichiararmi per quel che ero, per quel che pensavo, se pure in termini di una pacatezza distaccata; secondo quel comportamento che avrebbe dovuto qualificare e
distinguere l’uomo di cultura. Ora questi diversi incidenti ed interventi giunsero a creare in me uno stato di allarme; cominciai a sentirmi malsicuro, costretto a controllarmi nei miei atti, nelle mie parole; qui, nella mia città dove tutti ci conoscevamo e ben facile si era essere informati di qualunque vicenda anche personale di quanti
vi abitavano; e così, per questa condizione che mi aveva investito ed alla quale non sapevo e potevo sottrarmi, mi accadde anche di accondiscendere ad atti ed a decisioni che non potevo non considerare opportunistiche ed anche improntate a viltà. Come quando, appresa la notizia dell’assassinio dei fratelli Rosselli per ordine di Mussolini, per quanto preso dallo sgomento e dall’indignazione per un delitto di tanta spietatezza, pur dibattuto fra le due diverse risoluzioni, non riuscii a scrivere e ad inviare quella lettera di solidale cordoglio che di un subito mi ero ripromesso. Nella casa di Nello Rosselli mi ero recato una volta, introdotto da Montale, e gli ero stato presentato; altra volta mi ci ero recato insieme ad Adriana Pincherle che ne era ospite; certo né l’anziana madre, né la moglie conservavano un ricordo di me; restava il fatto
che in me l’esigenza morale di dar loro testimonianza di un mio profondo sentimento era impellente; ma al tempo stesso non potevo sottrarmi alla convinzione che in quel frangente la posta a loro diretta sarebbe stata tutta controllata dalla censura; che forse del mio nome si sarebbe preso nota, che
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ancora una volta a Feltre sarebbe stata inviata un’informazione, la quale,
aggiunta alle precedenti, si sarebbe trasformata in una denuncia. Forse il mio
timore era eccessivo, ma ormai stavo vivendo in uno stato di continuo sospet-
to e di preoccupazione. Fu durante questo periodo del mio più lungo soggiorno a Feltre, che un giorno mi cercò a casa l’agente di una casa editrice per propormi l’acquisto degli ultimi volumi da essa pubblicati. Paolo Fabiano, come mi si presentò, si trattenne con me a chiacchierare più che non lo comportasse il suo compito; disponibile a soccorrermi in ogni mio desiderio, tornò dopo breve tempo per recarmi un libro di difficile reperimento che gli avevo richiesto, ed ancora tornò, senza neppure darsi la pena di giustificare la sua visita con un pretesto; infine, poiché la discussione politica tra noi si era fatta ormai esplicita nella coincidenza delle nostre posizioni, in un successivo nostro incontro, mi si dichiarò come un membro del partito comunista clandestino che operava sotto quella copertura pretestuosa. Per me una simile dichiarazione, che lo scopriva, che poteva apparire come frutto di un’imprudenza avventata, finiva
col rendermi partecipe della sua condizione, mi costringeva ad un segreto che in nessun modo avrei potuto tradire; così, quasi di necessità io passavo dalla sua parte, coinvolto in una sorta di gioco rischioso e sempre più impegnativo, cui non avrei ormai potuto sottrarmi, cui non potevo ormai non accondiscen-
dere; ma che, al tempo stesso, quando ci ripensavo, mi lasciava preoccupato ed interdetto. Poiché, se pure i testi di Marx che avevo letto mi fossero giunti quasi come la conclusione necessaria di una mia lunga ricerca; se pure essi mi si fossero presentati come la chiave alla comprensione della mia società, del mio tempo, quale prima mai avevo saputo con tanta chiarezza; io ero trattenuto da forti riserve sulla gestione del potere nel paese, l'Unione Sovietica, che per primo nella sua organizzazione della società era partito dai principi del marxismo applicandoli nel modo più radicale. In tal senso la mia formazione non si rifaceva soltanto allo Stalize di Souvarine, ma anche all’autobiografia di Trockij pubblicata in Italia, ai molti articoli e saggi letti in «Esprit» ed in «La vie intellectuelle», estremamente critici, se pure non ostili per principio, sull’operato di Stalin, sulla sua politica nei confronti dei contadini e degli oppositori; e pure nei confronti dei comunisti in Spagna, nella loro lotta contro gli anarchici per la conquista del potere. Ed ultimi, sulla condizione, sul costume vigenti nell’Unione Sovietica nel momento presente, mi erano appena giunti, ed evidentemente avevano avuto via libera in Italia dalla censura i due volu-
metti di André Gide di ritorno dal suo viaggio in quel grande e segreto paese. Tali e tante testimonianze, tali e tante riserve non potevano che trattenermi da una adesione completa, da un affidamento senza riserve al comunismo. Se
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ormai sentivo che mi si andava sempre più imponendo la necessità di una scelta politica; se sentivo che non avrei in nessun modo potuto estraniarmi da una presa di posizione politica, in quanto la politica aveva condizionato ed andava condizionando la nostra storia, la nostra civiltà; volevo che tale scelta per me avvenisse in piena coscienza, dopo avere ottenuto una risposta soddisfacente a tutti i miei dubbi, alle riserve critiche alle quali non potevo sottrarmi, in quanto esse troppo contrastavano con quelli che ormai erano i principi
cui avrei voluto conformarmi, quelli di cui sempre più mi facevo convinto attraverso questi miei studi più recenti.
Ma sopratutto vi era un principio al quale non potevo sottrarmi, al quale non potevo rinunciare; io mi sentivo e mi ritenevo un uomo di studi, un uomo
di lettere e non un politico; alla politica in nessun modo avrei voluto sottomettere i miei studi ed il mio lavoro; per quanto sentissi anche ormai come un dovere, come una necessità l’esserne investito, il prendervi parte; mai però rinunciando a quella che era la necessità della conoscenza, del confronto, del dibattito. Ed infine vi era in me una ripugnanza quasi naturale cui rispondevano completamente il mio comportamento, il mio modo di essere,— per qualunque imposizione; ed era sopratutto il rifiuto dell'imposizione che mi aveva fatto respingere il fascismo; che mi aveva fatto riluttante in ogni modo al fascismo. Ora io sentivo dentro di me prepotente e determinante l’impossibilità di farmi esecutore di azioni, di interventi che fossero decisi da altri, che dipendessero da altri e cui io dovessi attenermi senza esserne stato partecipe, senza averli discussi ed accettati coscientemente; non volevo così vincolare il
mio presente ed il mio avvenire a chi avrebbe potuto dirigerli e condizionarli a suo proprio ed esclusivo giudizio. Ma un simile rifugio, una simile difesa nel segreto dello studio, nella letteratura, mi dovevano risultare sempre più improbabili, infine dovevano presentarmisi come inattingibili; qualunque via percorressi, l’esito che raggiungevo mi smentiva nella mia attesa. Sull’inizio dell’estate di quell’anno tormentato avevo pubblicato due volumetti per le edizioni dei fratelli Parenti i quali erano già stati gli editori di «Solaria» ed ora lo erano di «Letteratura»,- il
primo, scritto durante l'estate di due anni innanzi, poneva appunto il problema della condizione attuale dello scrittore, il secondo era la tesi di laurea che
avevo discusso con il professor Momigliano; al quale avevo tolto tutte le note esplicative che gli davano la consistenza di una informazione e di una documentazione puntuali. Ma tant'è, a quel tempo già io intendevo qualificarmi quale scrittore intento a testimoniare una propria esperienza umana e senti-
mentale più che quale un critico attento a riferimenti culturali. Però il travaglio per la pubblicazione di quei due libri era stato lungo e tormentoso; anch'io ero caduto nelle insidie e nei tranelli della censura. A Firenze il censo-
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re cui era affidato il controllo della stampa, di ciò che veniva pubblicato nelle riviste e nei giornali, era il dottor Malagoli; un anziano signore, di una qualche cultura, di una preparazione non disdicevole, di estrazione liberale; nominato a quel posto ed a quella funzione sia per tali suoi meriti, sia perché risultava completamente succube a tutte le esigenze e le imposizioni del regime e dei suoi esponenti locali. Egli già si era dimostrato estremamente esigente ed in taluni casi anche intransigente nei confronti di «Solaria» e di taluni dei suoi scrittori, in modo particolare di Vittorini. E tale si dimostrò anche nell’esame di quei due miei libretti, proposti alla sua revisione quando erano ormai alle seconde bozze di stampa. Certo, nell’uno, la condizione del giovane che, nel nostro paese, volesse dedicarsi alla letteratura risultava del tutto labile, priva
di qualunque supporto concreto, di alcuna garanzia per lui di una dignitosa sopravvivenza; ed il censore non contestava la veridicità delle mie affermazioni, ma semplicemente si rifiutava di permettere che tali fossero pubblicate; io avrei dovuto modificare, attenuare il mio testo, indicare possibilità ed occasioni che facessero di contrappeso a quella visione troppo pessimistica, non ammessa in tempi di fascismo trionfante e realizzatore. Ma quel che lo aveva più indignato ed anche spaventato si erano, nel libretto su d’Annunzio, i riferimenti e le allusioni a Mussolini; evidentemente celati, mascherati, e tutti
di accento negativo, anche di spregio; nessuno dei quali alla sua acuta attenzione era sfuggito; e di cui, con Bonsanti che quale responsabile di quelle edizioni— si era recato al suo ufficio per un confronto, egli si rammaricava, timoroso; come se, solo per aver letto ed inteso tali che non erano solo insinuazioni, si ritenesse colpevole di non denunciare chi se ne era fatto portatore. Infine, nel mio rifiuto di mutare il senso di un discorso che era un atto di accusa, io tolsi dal testo del primo libro la sua parte centrale; e dal secondo esclusi tutti quei riferimenti giudicati oltraggiosi di chi non avrebbe dovuto i essere nominato se non a sua celebrazione. Così i libri uscirono incompleti; solo segno di tale mutilazione mi era stato concesso di lasciare nel primo una mezza pagina bianca; né mi confortava il fatto d’essermi in qualche modo preso gioco del mio censore col far pubblicare tutta tale parte censurata nella terza pagina di un giornale di provincia, «Il Corriere adriatico», come anticipazione del libro in corso di stampa; con la
solidarietà di un amico che la dirigeva, ma che di questo mio ripiego non era informato. In ogni modo tale mia disavventura aveva assunto per me i caratteri di uno scacco definitivo; per essa sentivo di essere stato costretto ad un ultimo termine; già precedentemente, dopo il dibattito che mi aveva visto soccombente nella discussione della tesi di laurea in legge, mi ero dovuto rendere conto dell’impossibilità di far accettare un discorso non conformista, spregiudicato,
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anche in quella che avrebbe dovuto essere, per me, la sede culturale più aperta al dibattito, ad un libero confronto di idee, di convinzioni; e questa rigidez-
za, questa intransigenza le avevo riscontrate, anche se per ben diverso motivo,
anche durante la discussione della tesi di laurea in Lettere da parte di quello che ne era il primo relatore. Ma ora mi accadeva che addirittura mi si impediva di parlare, di esprimermi, di stabilire comunque un rapporto con un pubblico di lettori, e fosse pure quello più ristretto della società letteraria. Attraverso queste pur diverse esperienze mi dovevo far convinto che proprio tutto quello che avevo appreso, che avevo maturato in me, che, nella mia educazione letteraria, nel mio apprendistato, avevo cresciuto ed andavo crescendo in me, mi portava a scontrarmi con un deciso rifiuto; infine io ero impedito non solo di darmi per quel che ero, di testimoniarmi per quello che più contava per me, ma di farmi portatore di quella che sentivo, che consideravo come la cultura letteraria più avanzata nel nostro paese; per quanto dovessi considerarmene, nelle mie modeste dimensioni, un portatore sprovveduto ed arri-
schiato. In questa travagliata temperie ebbe luogo il mio ultimo incontro con Emilio Cecchi. Lo avevo conosciuto a Firenze tempo prima, in uno dei suoi non frequenti ritorni in quella che era stata la sua città; una sera, in casa di amici,
accompagnatomi a Montale, lo avevo ascoltato discutere con gli altri di libri, di letteratura, delle cose della cultura, variando dall’uno all’altro argomento in . un modo che poteva anche apparire capriccioso, ma ricco di umore, di affermazioni improvvise e recise; come se l’uomo si aprisse quasi a modo di sfida, rivelando le proprie più intime convinzioni; con un che di profondamente amaro nel fondo; ma al tempo stesso con una grande sicurezza di sé, confermatagli o derivatagli da una conoscenza delle cose, dei fatti del mondo, che aveva sperimentato, che aveva colto nella loro prima ragione. Ed in quell’occasione mi ero reso conto di quale stima godesse da parte degli amici, di come per loro egli costituisse un punto di riferimento sicuro, o perlomeno del quale bisognava prendere atto. Poi, una volta che mi trovavo a Roma, su suo invito
mi ero recato a trovarlo, ed a lungo avevo chiacchierato con lui, o meglio lo avevo ascoltato; e sempre si era parlato di letteratura, ed egli anche aveva dato
sfogo ad una sorta di confessione nei confronti della nostra nuova letteratura; della quale non appariva soddisfatto, sulla quale aveva profonde riserve. Come se infine, di fronte ad essa, egli difendesse i suoi coetanei, la generazio-
ne di cui faceva parte e l’opera loro e sua; di cui i giovani poco tenevano conto, mostrando, proponendosi di tentare altre vie. E con piglio risentito egli accennava all'ultimo romanzo di Moravia: Le ambizioni sbagliate: era questo il modo, era questo il risultato cui essi tendevano, che perseguivano? Ma allora d'Annunzio ai suoi tempi, pure in tal senso, con i suoi romanzi, aveva raggiun-
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to risultati ben più convincenti. E si appassionava, pur in quel suo modo inasprito, in quella che era in lui la difesa di uno stile, di un modo di scrivere e di un modo di essere, di comportarsi; cui non mi potevo opporre, e non lo avrei fatto neppure se avessi potuto; poiché egli mi si rivolgeva come parlando a se stesso, come testimoniandomi una sua intima coscienza e rendendomene
partecipe, in una effusione che sino allora fosse stata trattenuta; e così sentivo di essere divenuto inaspettatamente depositario di una sua confidenza, coinvolto in una sua particolare convinzione. Quasi rifacendomi a quell’incontro ed a quel colloquio, od a quel solilo-
quio, l’ultima volta che mi ero recato a Roma e quando ormai ero in ansiosa attesa di una decisione del Ministero nei miei confronti, poiché disponevo di ben poco tempo e non avevo quindi la possibilità di recarmi a casa sua, gli telefonai. Certo con una telefonata non avrei potuto dirgli quel che intendevo, ristabilire tra noi quel modo, quel clima di comprensiva confidenza da cui mi ero sentito preso la volta precedente; ma non potevo rinunciare a parlargli, a chiedergli quanto mi premeva, ad ottenere da lui una risposta su quanto mi preoccupava e mi amareggiava. Emilio Cecchi era stato da sempre un oppositore del fascismo; egli era stato tra i firmatari, insieme a Montale, del manifesto degli intellettuali antifascisti di cui si era fatto promotore il Croce; e mai aveva dimostrato di dimettere quella sua posizione, di concedere qualcosa al fascismo, di scendere a patti con esso; ora, in quel mio breve soggiorno roma-
no, io avevo colto da qualche amico la notizia che circolava in città, negli ambienti dei letterati, di una prossima nomina di lui a membro dell’ Accade-
mia d’Italia; previo evidentemente un suo atto di accettazione, il che significava inevitabilmente adesione al regime. Da tale notizia ero rimasto sorpreso e riluttante ad accettarla; come poteva d’un tratto un uomo smentire tutto il
proprio passato, tutta l’opera ed il comportamento cui si era.attenuto durante quasi vent'anni? E per come lo avevo conosciuto, per quella sua impetuosa schiettezza, per quella sua volontà di esprimersi sempre dando fondo a quanto più lo preoccupava, lo tormentava, egli non mi pareva uomo capace di compromessi, di ipocrisie, di quella sottomissione che in ogni modo gli uomini del potere esigevano da coloro cui intendevano concedere qualcosa. Gli telefonai quindi, scusandomi se mi permettevo di disturbarlo e di toccare un argomento tanto delicato e difficile; ma avevo colto delle voci su di lui che non mi avevano convinto; noi giovani, e parlavo al plurale, avevamo creduto e credevamo in lui, e lui ci era stato sempre un esempio di onestà intellettuale, di indipendenza, della dignità della letteratura; ora egli non poteva mancarci, non poteva deluderci; ed io avevo bisogno di una smentita di quelle voci probabilmente avventate ed improvvide che correvano per Roma; avevo
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bisogno di una sua smentita, di sentirmi riconfermare da lui ch’egli era ancora quello che sempre era stato, quale sempre lo avevo considerato. Mi rispose con quel suo tono irruento che già gli conoscevo, come affrontandomi decisamente ed al tempo stesso confidandosi senza reticenze, ma stavolta con un accento doloroso, dichiarandosi con sofferenza, con dispetto
per quel che stava facendo; ma al tempo stesso quasi inveendo contro di me, contro quanti, come me, pretendevano da lui quel che lui più non poteva dare. Per anni ed anni egli aveva faticato, aveva «tirato la carretta», aveva
sopportato sacrifici e si era dibattuto in difficoltà che aveva spesso dubitato di poter superare; che cosa pretendevamo da lui? Ed in nome di che cosa? Egli non ne poteva più, non era più in grado di resistere; lo lasciassimo in pace, lo lasciassimo al suo destino; egli non era mai stato e non voleva essere il maestro esemplare per nessuno; era questo un compito che non gli spettava. Alle sue frementi parole non sapevo contrapporre che una amareggiata resistenza, non
sapevo che ripetere le mie frasi ormai scontate; ed ero investito da quel suo accento doloroso che mi toccava dentro, che mi faceva partecipe di quello che sentivo come un suo dramma. Scattò il «clich» del telefono; ci lasciammo senza neppure una parola di saluto; il suo discorso era davvero concluso; egli mi aveva respinto; si era chiuso in sé ed aveva rifiutato ogni intrusione nella sua esistenza di quelli che considerava ormai degli estranei, perlomeno delle persone dalle quali doveva prendere le distanze, alle quali non avrebbe più potuto confidarsi. Anche se un simile gesto, una simile scelta gli costassero, lo amareggiassero; lo privassero di qualcosa che per lui, nonostante lui, ancora contava. Ormai aveva deciso quale dovesse essere il proprio avvenire, anche contro se stesso, contro la parte migliore di se stesso; e non voleva tornare sulla propria decisione, la accettava come definitiva, con rabbia, con dispetto; come chi compie un atto da cui ripugna e che pertanto considera necessario, e
ne investe anche gli altri, ne sente responsabili anche gli altri; non fa infine che essere il testimone di un mondo, di una realtà che sono e non possono non essere che completamente negativi; e che in nessun modo possono essere mutati.
Le parole di Cecchi e l’accento con cui le aveva pronunciate mi colpirono profondamente e vennero a confermarmi in uno stato nel quale da tempo andavo arrovellandomi; in un certo senso dentro di me Cecchi sino allora era
rimasto, tra gli scrittori che conoscevo, uno dei pochi che ancora mi davano l’esempio di come la letteratura, il fare letteratura fosse possibile; di come lo scrittore estraneo, indipendente dal potere potesse sopravvivere; per lui sinora la letteratura aveva conservato una sua dignità, una sua fierezza, una sua
ragione d’essere; aveva insomma dimostrato una sua forza; con il cedimento
di Cecchi pareva che questa possibilità si fosse dimostrata ben labile; insidia-
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ta, minacciata tanto da rivelarsi come illusoria, priva di un’autentica consi-
| stenza. Mi accadeva come se improvvisamente mi sentissi più solo, più incerto
che mai, o addirittura sfiduciato; privato di quella che avevo imparato ed avevo nutrito in me come la prima ragione del mio vivere, privato della con-
vinzione della sua validità. I cedimenti di Montale, i cedimenti di Bonsanti e
degli altri «solariani» mi venivano confermati ormai quasi come necessari, perlomeno come inevitabili. Ancora una volta lo scrittore mi si confermava come l’uomo più vulnerabile; come l’uomo indifeso ed incapace di difendersi di fronte alla realtà; per lui la letteratura, la passione e la fedeltà alla letteratura non gli bastavano a preservarlo dalle aggressioni o dalle seduzioni della
realtà; e della realtà più negativa. Nel colmo dell’estate, mentre mi trovavo in montagna, improvvisamente mi
giunse la convocazione del Ministero per l'assegnazione di un posto all’estero. La mia attesa ormai stava finendo; fui preso di un subito da un’ansia fervorosa; mi pareva infine di avere raggiunto quella meta cui tanto avevo aspirato, cui avevo creduto ma di cui anche, a certi momenti, avevo dubitato. A Roma, alla Direzione degli italiani all’estero, ci ritrovammo in quattro o cinque; dovevamo sostenere un breve colloquio con un funzionario dal quale
sarebbe dipesa la nostra sorte. Fra gli altri concorrenti c'era Piero Bigongiari, anche lui da poco laureato e che da poco aveva cominciato un’attività letteraria; stupito e sorpreso per questa chiamata per la quale aveva sì inoltrato una domanda, anche suffragata da una presentazione del professor Momigliano, ma della quale non aveva fatto gran conto. Qualcuno degli altri, probabilmente più informato che noi non lo fossimo, ci indicò il primo di noi introdotto a quella sorta di esame, come il sicuro vincitore, quale fratello di un caduto decorato al valore. Per me esso fu estremamente breve; l’esaminatore mi chie-
se dei miei studi e di quel che facessi attualmente; risposi che stavo preparandomi per il concorso all'insegnamento nei licei ed egli mi congedò sollecitandomi a continuare ed a portare a termine la mia preparazione. Consiglio che di un subito accolsi come un augurio; mentre poi, ripensandoci, mi risultò come una ripulsa. E forse egli aveva inteso rendermi meno grave lo scacco che andavo subendo indicandomi la via per me più facile ed agevole da percorrere. Tornai a Feltre, incerto ma anche deluso; attendevo ancora una risposta che non fosse negativa; ma non venne; dovetti ammettere che altri mi era stato preferito; scrissi a Falqui, a qualcun altro degli amici che avevano avallato la mia domanda; le risposte erano sempre interlocutorie; si trattava di attendere,
di pazientare; forse la buona occasione prima o poi si sarebbe offerta. Intanto
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L'ULTIMO TESTIMONE
continuavo a studiare per il concorso all'insegnamento, ma, dopo quell’improvvisa ventata di fiducia speranzosa, mi sentivo in preda allo sconforto, alla frustrazione; sentivo che intorno a me, tra coloro che mi conoscevano e che frequentavo, si andava formando un’atmosfera di attesa dubbiosa; come se infine si godesse di un mio scacco, come se una mia eccessiva ambizione, un
mio orgoglio ne fossero giustamente puniti. Mio padre, già deluso nel vedermi ormai decisamente lontano da ogni proposito di associarmi a lui nel suo studio di avvocato, mi guardava con una sorta di interdetta ed inquieta perplessità. Dal preside dell'Istituto cittadino mi giunse l’invito a sostituire per qualche tempo un insegnante malato, ed in un primo tempo lo accolsi, per quanto riluttante; avrei dovuto insegnare una materia, il latino, per la quale mi mancava una preparazione adeguata; così avrei dovuto sottrarre parecchio tempo allo studio, alla preparazione dell'esame; ma sopratutto quell’accettazione dell'incarico significava per me il riconoscimento di come ormai fosse lontana ogni possibilità di essere inviato all’estero. A mia madre dissi che avevo assunto quell’impegno solo in quanto lo stipendio che ne avrei tratto mi sarebbe servito ad acquistare libri a me necessari; da mio padre ebbi un gesto di comprensione; i libri avrei potuto procurarmeli senza mio sacrificio, e rinunciai a quella supplenza. Ma, a rendere più difficile quella mia condizione incerta, c’era in me anche
una punta di orgoglio; come se, per quel che avevo scritto, per quel che avevo pubblicato, per quel tanto di notorietà che avevo raggiunto tra i giovani dell’ultima generazione letteraria, ritenessi di meritare una posizione di rilievo, che comunque mi privilegiasse, perlomeno che mi distinguesse. Infine in me si andava sempre più affermando una contraddittorietà di fondo: da un lato io sentivo a me connaturali l’anticonformismo, il rifiuto di tutto quel che pareva più scontato, di tutto quello che attirava il consenso dei più; mentre dall’altro non accettavo, non mi rassegnavo alla sconfitta, a considerarmi respinto ed escluso da coloro cui pertanto mi contrapponevo; e c’era evidentemente in me un fondo di velleitarismo cui non pareva offrirsi una via di uscita. Quel
mio sentirmi diverso, quel mio sottrarmi alla norma sulla quale si reggeva la vita dei più mi avrebbero dovuto portare, come conseguenza necessaria, ine-
vitabile, all'accettazione dello scacco; alle mie aspirazioni, alle mie rivendicazioni la realtà si contrapponeva decisamente; a tale conseguenza mi sarei dovuto rassegnare; e non lo volevo, mi incaponivo a non volerlo. Ma, al di là ed al di sopra di questo stato di incertezza, di inquietudine e sopratutto di insoddisfazione, altra considerazione, o meglio altro sentimento
mi travagliavano e mi angustiavano; e questi derivavano da quello, o meglio a quello si accompagnavano, ne erano una stretta conseguenza. Difatti, in quegli ultimi tempi, durante quel mio più lungo soggiorno a Feltre, ancor più che
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non mi fosse accaduto a Firenze; nei miei incontri, specie con giovani della mia età, sino allora poco frequentati o addirittura non conosciuti, mi accadeva, appena mi se ne offrisse l'occasione, appena il discorso ci portasse ad affermazioni di principio sugli eventi del giorno di tentare un discorso politico, di investirli della mia ricerca, dei temi che più mi avevano colpito nel mio studio, nelle mie letture; e così fui portato ad imprestare il Manifesto di Marx ad uno studente d’Università che mi si rivelò nel suo carattere appassionato; per quanto il suo patriottismo di maniera mi sembrasse affatturato; e con quell’atto di confidenza, puntando sulla sua volontà di sapere, di conoscere, mi pareva di offrirgli uno strumento ben valido per la sua maturazione, capace perlomeno di porgli degli interrogativi, di costringerlo al dubbio su quelle formule scontate di cui si era nutrito. Così pure con un giovane insegnante, venuto da altra regione, appena egli me ne offrì lo spunto, non potei rinunciare di discutere apertamente il momento politico, sottolineando, accentuando le mie coincidenze con le sue affermazioni. Ed infine mi accadde di scontrarmi sino a giungere ad una posizione di rottura con colui che era stato l’amico più caro nei miei anni giovanili, sin dalla mia infanzia; di fronte al suo conformismo, alla sua ferma adesione alle posizioni ed alle scelte del fascismo, quasi di un subito investito da un empito di indignazione, come fossi posto di fronte a chi si rifiutava testardamente di ammettere quelle che io consideravo le ragioni della storia, il corso necessario della civiltà, lo investii con un atto di accusa che finiva col coinvolgerlo in ogni sua manifestazione, in tutta la sua umana presenza. Poi, ripensando a questi miei interventi, a questi miei impulsi cui mi ero abbandonato senza riuscire a trattenermi, a controllarmi nella mia immediata reazione, me ne pentivo, mi ci arrovellavo; mi richiamavo a quelle considera-
zioni di necessaria cautela, di diffidente prudenza che i tempi consigliavano, rendevano necessarie; cui tante volte mi ero proposto di adeguarmi. Infine sarebbero bastati una denuncia contro di me da parte di un mio interlocutore in malafede, od anche un suo discorso sprovveduto, una sua confidenza inopportuna, a tradirmi, a farmi cadere in un agguato dal quale non sarei potuto uscire indenne. Poiché infine mi pareva di essere oggetto di un esame attento e segreto di chi mi attendeva al varco, di chi attendeva che dicessi quella parola, che facessi quel gesto capaci di rivelarmi; per cui, senza possibilità di remissioni, mi fosse impossibile sottrarmi all’imputazione di antifascismo. Mi veniva alla memoria l’incontro che, qualche tempo innanzi, in Galleria, a Milano, avevo avuto con Beniamino Joppolo. Una sera, mentre insieme ad alcuni amici la percorrevo, improvvisamente egli ci era venuto incontro, e gli altri gli si erano fatti intorno salutandolo, interrogandolo, presi da un’ansia affettuosa, per lui, per quel che gli era accaduto, preoccupati ed insieme
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L’ULTIMO TESTIMONE
incerti di quel che potessero fare. Da un giorno o due egli era uscito dal carcere, rilasciato dopo una detenzione di qualche mese e dopo essere stato sottoposto a lunghi interrogatori, ad una severa inchiesta; ed ora si trovava libero, ma ben sapeva che ogni suo atto, ogni sua attività erano controllati, e
di ogni suo spostamento doveva dar ragione. Di tale stato egli appariva sgomento, come non sapesse che fare, come reagirvi; come se neppure sapesse come organizzare la propria esistenza. E ben capiva che ora ben difficilmente gli si sarebbero offerte possibilità di un lavoro; era la sua stessa sopravvivenza ad essere minacciata, insidiata; ed agli amici si confidava con semplici parole, come chi si rassegna, non può non accettare la propria sorte; avvilito, stroncato; e proprio in quanto il suo arresto, la sua detenzione non erano stati motivati da una sua attività clandestina ma soltanto da qualche confidenza, da qualche affermazione inopportuna; riferite magari senza che neppure chi se ne era fatto tramite pensasse, prevedesse di danneggiarlo. Tutto pareva così casuale, così lontano da ogni giusta ragione, che la stessa esistenza dell’uomo, di chiunque, apparivano incerte, prive di una garanzia, di una sicurezza; e l’uomo in balia del caso, dell'evento più imprevedibile. Ed a confermarmi l’attenta vigilanza cui erano sottoposti gli intellettuali, gli scrittori, e d’altra parte la loro sprovvedutezza, la loro avventatezza, come troppo facilmente essi fossero vittime di denuncie, come troppo sprovvedutamente essi dessero credito a chi poi si rivelava una spia; andavo ricuperando nella memoria episodi ed eventi, più e meno lontani, di cui avevo avuto noti-
zie, più e meno precise, dagli amici fiorentini; con modi di una segretezza preoccupata, allarmata; ed erano quelli di cui erano stati protagonisti alcuni scrittori torinesi che avevano subito interventi polizieschi ed arresti ed anche
condanne; e tra loro Pavese, il quale dal confino, od appena rilasciato dal confino, aveva mandato a Carocci per la pubblicazione il volume delle sue poesie. Ma ancora, più recentemente, mi era stato riferito di alcuni giovani collaboratori di una rivista bibliografica fiorentina, «La nuova Italia», denunciati ed arrestati nei loro tentativi di tradurre in pratica le loro convinzioni politiche, di darsi un’organizzazione; evidentemente traditi nella loro generosa ingenuità, nel loro spericolato velleitarismo. Ripensavo a quelle vicende, e vieppiù sentivo come l’intelligenza e l’amore per la cultura, la passione letteraria quasi nutrissero in sé la propensione per il rischio, per una sfida alla realtà maligna, l’esigenza della ribellione, della rivendicazione di sé, della propria dignità; ma al tempo stesso sentivo quanto chi ne era il portatore fosse indifeso, in balia del più facile inganno, della
prima insidia; ed ancor più mi apparivano incerti il mio avvenire, la mia sorte,
come se .con le mie stesse mani, e quasi per un’intima necessità che andavo nutrendo in me, io fossi portato a danneggiarmi, alla rovina; e sentivo, lenta-
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mente e sicuramente, rinchiudersi un cerchio intorno a me; di giorno in giorno mi sentivo assediato senza che mi si offrisse, che mi si potesse offrire una via di scampo. Ed in questo travaglio mi dibattevo senza riuscire a superarlo; tanto che anche il mio fisico, la mia salute cominciarono a risentirne. Avevo difficoltà di digestione; un peso sgradevole, un impaccio che non riuscivo a superare mi gravavano continuamente lo stomaco. E, specie nel pomeriggio,
lo studio, ogni applicazione od impegno mi pesavano come una fatica ingrata. Mi sottoposi a degli esami, mi fu diagnosticata la possibilità di un’ulcera; mi furono prescritti rimedi, cure; dopo mangiato, nel primo pomeriggio come la sera dopocena, uscivo di casa per lunghe passeggiate tenendo la mano aperta sulla zona dello stomaco, verso il fegato, in una sorta di massaggio, a sollevarmi da quella pena che mi affliggeva; ma non me ne liberavo. Era infine la mia conformazione fisica che si ribellava alla temperie, alla pressione dei miei sentimenti; ad essa cedeva; una sorta di sconvolgimento, di sovvertimento delle prime funzioni entrava in me; e non ero in grado, non trovavo la via a
controllarle, a ricostringerle nel loro giusto corso. Sentivo a quel punto di non saper reggere alla prova cui ero sottoposto, e neppure sapevo che fare per superarla; neppure mi rendevo conto della causa prima di quel malessere; mi pareva che al mio disagio psichico si fosse accompagnato casualmente quello fisico, né legavo l’uno all’altro come l’uno conseguente dell’altro. Eppure era proprio il mio fisico a rivelarmi, a mostrarmi il segno dell’eccessiva pressione cui mi ero sottoposto e mi andavo sottoponendo; come se volesse avvertirmi che al di là di un certo punto, al di là di una certa mia capacità di resistenza, in me qualcosa cedeva, non avrebbe retto alla pressione che mi costringeva. E questo stato di crisi denunciava quel che ero, quale era la mia persona, i suoi limiti e quella spinta che mi portava a superarli, a tentare di superarli. Tutto il ritmo della mia esistenza sarebbe poi stato condizionato da questo che era per me il primo, vero impatto con la realtà, con la realtà che mi si contrapponeva, ma che io in ogni modo volevo superare, od alla cui presa intendevo sottrarmi; mentre essa pareva pronta ad approfittare di ogni mio cedimento, di ogni mia debolezza; e subito pareva avere buon gioco. Ed intanto le mie capacità di difesa andavano diminuendo; di fronte ad essa mi riconoscevo sprovveduto; né sapevo a chi od a che cosa affidarmi. Sentivo così la necessità, l’urgenza della fuga; di andarmene da Feltre, di
riparare in altro paese dove nessuno mi conoscesse, dove non fossi in nessun modo conosciuto per quel che ero, dove non mi sentissi quotidianamente sottoposto al controllo di chi poteva seguire e giudicare ogni mio comportamento, ogni mio discorso; o perlomeno avvertirne il significato segreto, supporlo, per utilizzarli secondo i suoi fini; anche senza far pesare questa propria vigilanza, questa propria attenzione; ed anche improntandole ad un modo di
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tolleranza, di benevolenza persino; ma sino ad un certo punto; sino a che non
fossi caduto nel tranello che mi veniva teso; sinché di necessità non dovessi
essere giudicato irricuperabile. Volevo sottrarmi a quella stretta, ma al tempo stesso non volevo concedermi ad altra costrizione, ad altra imposizione, non volevo impegnarmi in un’altra scelta che mi obbligasse ad accettare una disciplina; a questa decisione resistevo, mi pareva di non essere maturo per essa; avrei voluto giungervi senza esservi costretto come per l’unica possibilità che mi restasse; al tempo stesso anelavo a tale maturità ma volevo conquistarla con mezzi miei; non volevo costringermi ad una decisione avventata che avrebbe potuto completamente sconvolgere la mia esistenza, il mio modo di pormi di fronte alla realtà. A Feltre un giorno mi giunse l’invito di recarmi da persona che conoscevo solo di nome, che non avevo mai incontrato. Era una signora, figlia di una famiglia della media borghesia della mia città; ancor giovane, ragazza, aveva sofferto una vicenda inquieta, tormentata; senza essere sposata le era nata una
figlia e si era sentita isolata, quasi respinta dai parenti e dai conoscenti, da
tutto il proprio ambiente; giusto in quel tempo mio padre l’aveva conosciuta e si era legato a lei di amichevolezza per un sentimento di solidarietà, rifiutando quella ripulsa, quella condanna di cui ella soffriva. Poi, non molti anni dopo, ella aveva conosciuto un uomo che aveva apprezzato la vivacità della sua intelligenza e l’impulsiva generosità dei suoi sentimenti, e l’aveva sposata. Ora, ormai da tempo, ella viveva a Roma con lui e con i figli e godeva di una condizione agiata ed anche di un qualche prestigio per la carica che il marito ricopriva; a Feltre, durante l’estate, capitava, ma sempre per brevi periodi; ed i parenti la accoglievano e la ospitavano soddisfatti e compiaciuti della sua nuova situazione. Mi accolse con vivace cordialità; mi chiese dei miei, di mio padre, che ora
raramente incontrava ma di cui conservava un ricordo gradito; quindi volle conoscere la mia situazione di cui aveva avuto sentore, del tentativo che avevo
fatto per ottenere un posto di lettore all’estero, e quasi mi rimproverò per non aver pensato a lei, per non essere ricorso a lei. Vi erano in lei ad un tempo la disponibilità ad aiutare un giovane della sua città ed il compiacimento di far noti il posto di rilievo ch’ella, con il marito, occupava nella capitale, le conoscenze che là coltivava, le possibilità di intervento e di decisione di cui disponeva. Mi consigliò di insistere nella mia richiesta, per parte sua avrebbe provveduto come sapeva; potevo contare su di una risoluzione positiva della mia vicenda. Per quanto fossi stato reso diffidente dallo scacco subito di recente, la sua promessa e sopratutto la spontaneità della sua proposta, quella partecipazione comprensiva ed impegnata al mio stato mi rincuoravano. Dalle sue
parole, dal modo con cui si era rivolta a me avevo avvertito in lei il desiderio
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di rinnovare quel vecchio rapporto che l’aveva fatta vicina a mio padre, quasi a ricambiarlo ora della sua solidarietà di allora. Infine, in quel periodo, era questo ch’io cercavo, era questo di cui sopratutto sentivo il bisogno: di trovare chi si dimostrasse partecipe del mio travaglio, della mia insicurezza, della mia inquietudine; chi, di propria iniziativa, si mostrasse pronto ad aiutarmi, a soccorrermi nella mia attesa. Dopo non molto tempo, giusto sull’inizio del 1938, dal Ministero, e forse contemporaneamente anche da lei, mi giunse l’avvertimento di una nuova convocazione, ma stavolta con la certezza dell’assegnazione immediata di un incarico all’estero. Mi recai di un subito a Roma; alla Direzione degli italiani all’estero dovetti soltanto adempiere ad alcune formalità, firmare alcune carte. Ero stato destinato ad una città della Romania, Timisoara, situata nella parte più occidentale di quel paese; là avrei dovuto insegnare l’italiano nel Liceo maschile e nel Politecnico; dovevo assumere il mio posto entro il primo febbraio; perché meglio potessi essere informato sui compiti che mi aspettavano era opportuno prendessi contatto con l'insegnante che mi aveva preceduto negli anni passati, che a lungo era vissuto in quella città ed ora risiedeva a Roma. All’ultimo momento, mentre stavo per uscire dagli uffici della Direzione, un commesso, sceso dal piano superiore, con qualche affanno per un ritardo che avrebbe potuto essergli rimproverato, mi fermò chiedendomi se ero disposto a presentarmi a persona che desiderava conoscermi; ma, nella mia fretta, quasi inteso solo ad allontanarmi da quell’ambiente, quasi nel timore di un possibile contrattempo, di una possibile resipiscenza, con un modo noncurante che non mi è solito, senza rendermi conto da chi mi venisse quell’invito e quale ne fosse la ragione, lo respinsi e scesi le scale tutte d’un
fiato. Mi recai l'indomani nell’appartamento della signora mia concittadina; fui presentato a suo marito, il quale si rivelò persona comprensiva, affabile, quasi inteso ad esimermi dal testimoniargli una riconoscenza che riteneva soverchia. La risoluzione del mio caso gli era stata estremamente facile; avevo tutti i titoli
per occupare il posto che mi era stato assegnato; forse egli fece anche cenno alle cause che avevano motivato questa chiamata improvvisa, fuori tempo; ed io le ebbi più precise una volta giunto laggiù. Colui che mi aveva preceduto ed era il giovane prescelto nel colloquio di qualche mese innanzi, nei pochi mesi della sua attività a Timisoara si era rivelato inadatto al suo compito, stravagante e dissennato per un comportamento privo di ogni equilibrio, di ogni senso dell’opportunità, sino a rasentare l’anormalità: sicché a me si ricorreva per sanare una situazione di crisi, eccezionale ed imprevedibile; la mia pronta disponibilità era giunta ben opportuna, tempestiva.
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Con il professor Morozzo della Rocca, il quale mi aveva preceduto nel mio
incarico a Timisoara, mi incontrai nell'ufficio in cui ora lavorava; era persona
civile, ben disposta a darmi tutte le informazioni, tutte le indicazioni che gli richiedessi; mi diceva degli anni, parecchi, passati laggiù, con la famiglia, con i figli che là gli erano nati; di quel tempo conservava un ricordo sereno; l’insegnamento non gli aveva mai pesato di troppo; il mio compito, come già il suo, non mi sarebbe stato né troppo impegnativo, né faticoso; la gente vi era tollerante e disponibile; egli vi si era fatto anche degli amici. Dal suo parlare, dal suo comportamento, dal suo vestito egli mi appariva come una persona assuefatta ad una norma di vita di modestia, di rassegnazione; come se le esperienze fatte gli avessero pesato, gli avessero tolto od almeno moderato ogni aspirazione, ogni attesa; infine egli si ritrovava ad apprezzare l’esistenza nella sua dimensione più consueta, più discreta; senza presumere di sé, delle proprie capacità e possibilità; l'equilibrio che aveva raggiunto appariva intonato alla sottomissione ad una realtà che infine sempre incombe su di noi con il suo peso, con il suo condizionamento, ed alla quale non possiamo sottrarci; sta a noi l’accettarla, l’adattarvisi cercando di non consentire alle sue pretese eccessive, ma senza logorarci in una resistenza troppo esigente, senza accondiscen-
dere ad atteggiamenti di ribellione. Mi trattenni a Roma un paio di giorni. La signora mia protettrice insisteva a
che prolungassi quel periodo che per me doveva essere ormai di vacanza, di un rilassamento completo, liberato ormai da ogni preoccupazione per il mio avvenire, in attesa di assumere il posto cui ero stato assegnato; la sua figlia maggiore, di poco più giovane di me, mi avrebbe potuto accompagnare in una mia visita di Roma, dei luoghi e dei musei che ancora non vi conoscevo; ma io mi sentivo immerso in una strana atmosfera; come se ancora non fossi del tutto immesso, del tutto partecipe della mia nuova condizione; rilassato e
placato sì nella mia ansiosa attesa, ma ancora confuso, incerto, incapace di prendere piena coscienza di quello che sarebbe stato il mio destino; avevo bisogno di riflettere, di raccogliermi in me, di mettere ordine nei miei diversi sentimenti, di precisare a me stesso le mie attese, i miei propositi.
Tornai a Feltre. Pian piano ripensavo alla conclusione di questa mia vicenda, a come essa si era svolta; da un lato non potevo non vedere in essa lo scioglimento di ogni mia attesa, il soddisfacimento di un desiderio a lungo perseguito e che negli ultimi tempi mi era sembrato irrealizzabile; dall’altro
non potevo non considerare il modo, la via per i quali essa era stata raggiunta. Difatti dovevo ammettere che ben poco erano contati i titoli che avevano accompagnato la mia domanda; le due lauree, i libri, i molti articoli e recen-
sioni pubblicati, le garanzie della mia preparazione culturale e delle mie capacità date da persone di prestigio; poiché la segnalazione che aveva risolto
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positivamente il mio caso era venuta da persona ben lontana dagli ambienti della letteratura, della cultura; ancor più, essa era venuta da persona ben inserita nel mondo politico, nel mondo dei detentori del potere; difatti il marito della signora che era intervenuta a mio favore era centurione della Milizia, di quel corpo armato istituito da Mussolini a sostegno e difesa del regime, nel quale erano stati immessi, sin dalla sua istituzione, quanti più e meglio avevano dato garanzia della loro fedeltà politica ad esso. Infine anche la rapidità con cui il mio caso era stato risolto mi dimostrava quanto quell’ultimo intervento fosse stato decisivo. Ed ecco che, rivedendo pacatamente i diversi momenti di quella mia ultima convocazione al Ministero, mi si chiariva l’ultimo di essi; quando quasi scortesemente avevo rifiutato di incontrare persona che desiderava conoscermi; ed ora capivo che si trattava di colui che, nella Direzione, aveva caldeggiato la mia nomina; mi era allora accaduto di respingere inconsciamente quell’intervento, di misconoscere un debito di riconoscenza verso una persona depositaria di potere. Così, dentro di me, benché potessi scagionarmi con le più diverse motivazioni, con le più diverse giustificazioni, dovevo ammettere di essere stato accettato, o addirittura favorito, a seguito di una indicazione, di una segnala-
zione da parte di una personalità che là dentro aveva una funzione politica e che, in un certo senso, aveva dato una garanzia di me. E, per contrastare quell’intervento, evidentemente politico, a seguito del quale, l’estate precedente, ero stato privato di un posto che, per i titoli di cui disponevo, mi sarebbe spettato,— avevo reagito con altro intervento della stessa natura; infine, quasi senza rendermene conto, avevo accettato quel gioco, mi ero immesso in esso; quindi la mia assunzione e l’attività che avrei svolto di seguito ad essa nascevano sotto il segno del compromesso e dell’ambiguità; in qualche modo io venivo ad inserirmi in quell’ambiente, in quella zona della mia società, della società del mio paese, dai quali più mi sentivo lontano, dai quali infine persino ripugnavo; dentro di me non poteva non aprirsi un dibattito che non avrei potuto risolvere e cui al tempo stesso non avrei potuto sottrarmi; la mia esistenza ora non poteva non apparirmi scissa in due parti, dilacerata più che non lo fosse stata sinora. Ora non mi restava che prepararmi a quel lungo viaggio che aveva per meta un paese, una città a me del tutto sconosciuti, di cui non avevo mai studiato la lingua, la storia, la cultura; dove non avevo nessuno cui far capo. Dentro di me sempre avevo coltivato la speranza e l’illusione di poter ottenere un lettorato nell'Università di una piccola città della Francia; e sia pure periferica;
lontana dai centri maggiori, da Parigi, ma che in ogni modo mi avrebbe permesso di mantenere i contatti con una cultura di cui sempre mi ero nutrito,
cui ancora avrei potuto attingere. Non ero stimolato dal gusto dell’imprevisto,
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dell’inedito, dalla curiosità di un mondo a me del tutto sconosciuto; temevo
che la mia nuova destinazione, tanto diversa, quasi opposta a quella mia aspirazione, mi avrebbe costretto, avrebbe impedito ogni mio slancio, ogni mia ricerca di uno spazio culturale; mi sarei dovuto rassegnare ad un ambiente che forse pian piano mi avrebbe logorato, mi avrebbe umiliato, avrebbe impedito e frustrato ogni mia possibilità di una iniziativa culturale; e così forse le esigenze della vita quotidiana avrebbero finito col riempire la mia giornata, in esse si sarebbero esaurite ogni mia ansia e tensione. Mi restava nella memoria
l’immagine del mio predecessore; quella sua modestia dell’aspetto e del comportamento, quella sua discrezione riservata mi si presentavano sotto il segno di chi nulla ormai si aspetta dalla vita, da se stesso; di chi si è gradualmente
educato ad accettare di sopravvivere senza nulla chiedere, senza nulla aspettare dalla realtà della vita, da se stesso. E dentro mi nascevano la nostalgia, lo sgomento di dover rinunciare d’ora in avanti ad ogni diretto, frequente rapporto con gli amici scrittori di Firenze, all'ambiente in cui ero cresciuto intellettualmente e moralmente, di cui mi ero nutrito e di cui ancora sentivo la suggestione, il bisogno; cui sempre mi confrontavo ed in cui mi riconoscevo. Mi trovavo ormai definitivamente solo; da solo avrei dovuto affrontare la
realtà della vita; era finito per me il periodo dell’apprendistato; d’ora in poi non avrei dovuto dipendere che da me stesso, dal mio comportamento di fronte agli altri, nelle mie scelte, nella mia attività; ma sentivo la pena di quel
distacco, della lontananza che mi avrebbe separato da loro; e forse li avrei dovuti pagar cari; ne sarebbe rimasta in me l’impronta per il resto della mia
esistenza. Sono ormai passati cinquant’anni e più da quel tempo. Spesso vi sono tornato
con la memoria; ripetutamente ho cercato di dare testimonianza di esso, di individuarne e di metterne in evidenza gli elementi di fondo, di fare il punto sulla vicenda della quale sono stato partecipe; ma solo ora mi pare di essere giunto ad esprimermi con compiutezza, e con piena e decisa sincerità; senza attenuazioni e senza forzature in uno od in altro senso; lontano sia dalla cele-
brazione che dalla palinodia. Ora, se ancora una volta sono tornato a considerare quegli anni, si è in quanto,— sia da parte di scrittori miei contemporanei, di miei coetanei, presenti e partecipi di quelle vicende, di quella temperie, sia da parte di coloro che, più giovani, ad esse si sono riferiti con l’intento di farne la storia, di darne il senso più profondo,- la narrazione di quel periodo, la resa dell'atmosfera in cui vivevamo, in cui eravamo costretti a vivere, non
venivano affrontati con una spassionata, spregiudicata volontà di approfondimento, in base ad una coraggiosa limpidezza di visione; in ogni dimensione
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della realtà. Troppi fatti, troppi comportamenti venivano sottaciuti, dati come scontati, non esposti con esplicita puntualità; troppo spesso si restava sul generico; troppo spesso si ricorreva alla giustificazione; si sottintendeva, a proposito dell’uno o dell’altro comportamento, che esso era stato determinato da un costume al quale non ci si poteva sottrarre; che infine non era possibile essere, agire, esprimersi in un modo diverso. Ora, se vogliamo intendere quel tempo e quel costume nel modo più esaustivo, dobbiamo partire dal fatto che il fascismo ormai, a pochi anni dalla presa del potere, si era inserito in ogni ente, in ogni istituzione, in ogni
ambiente, nella intera società del paese, ed era giunto ad occuparli nella loro organizzazione, nelle loro strutture portanti. Infine l’individuo partecipe della società civile nulla, o quasi nulla, poteva fare al di fuori del fascismo, senza riconoscere e dare atto della presenza del fascismo. E nella società italiana, nella sua conformazione, il fascismo operava da un lato con l’imposizione, dall’altro con la suasione. Costringeva e non costringeva, pesava e non pesava;
di volta in volta si mostrava intransigente e corrivo. Ed erano proprio quella sua estrema dilatazione, quella sua onnicomprensività, quella sua pretesa di unanimismo, in una società estremamente articolata e differenziata come la nostra, che finivano con lo smorzare, con l’attenuare la sua presa impositiva, col far sì che in esso si attuasse una condizione di compromesso permanente, di continui, successivi adattamenti, persino di tolleranza, e quindi anche di
possibile, facile corruttela. Infine il fascismo, l’autorità fascista assumevano posizioni e decisioni di intransigenza, di violenza anche efferata solo quando si trovassero di fronte ad un avversario capace di nuocere e che consideravano come irriducibile, che temevano come irriducibile. Ma agli altri veniva lasciata la possibilità di crearsi uno spazio, un qualche spazio. Ora si deve ammettere che, durante tutto il ventennio durante il quale il fascismo fu al potere, vi furono scrittori che si schierarono decisamente al suo fianco e che da esso pretesero ed ottennero favori, vantaggi ed onori, e furono
parecchi; ma d’altra parte vi furono anche scrittori i quali di fronte al fascismo assunsero una posizione di distacco deciso, come se esso non esistesse, come
se tutta la loro esistenza fosse intesa a svolgersi al di fuori di esso, ad esso estranea; e basterebbe ricordare i casi esemplari di un Saba, di uno Sbarbaro, di un Palazzeschi, ed anche di un Solmi e di un Timpanaro, per quanto la loro
condizione ci appaia quasi anomala; persino, almeno per alcuni di loro, lontana dalla realtà consueta; od anche improntata ad una disciplina di sacrifici e di
rinunce non facilmente accettabili dai più; mentre, per la loro più gran parte, gli scrittori italiani oscillavano fra diverse soluzioni, fra diverse posizioni; per quanto ostili al fascismo, per quanto convinti della via che il fascismo avrebbe percorso, ed anche, almeno a partire da un certo momento, dell’esito cui esso
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avrebbe portato il paese; essi perlopiù tentavano di sopravvivere sottraendosi ad impegni troppo gravi nell’uno e nell’altro senso; tentavano di tenersi fuori dal giro delle connivenze con il potere politico, senza d’altra parte osare di impegnarsi in una qualsiasi attività contro di esso. Da ciò tutto un gioco di ambiguità, di sotterfugi, di reticenze, anche di ipocrisie; cui essi si sottopone-
vano a malincuore, anche con rabbia, e che spesso li portavano ad un senso di frustrazione, di sfiducia radicale nella realtà ed in se stessi. Ora noi possiamo nutrire indignazione, od almeno insofferenza, od anche
un addolorato rammarico di fronte ad un simile gioco che ad un certo punto non ci può non apparire in una dimensione di meschinità; ma mi sembra
evidente che la prima responsabilità di esso, e di una simile condizione, la responsabilità dei cedimenti, dei compromessi, anche delle viltà di cui sono imputabili molti scrittori, ricade sopratutto ed anzitutto sul fascismo; e quindi su coloro i quali, detentori del potere politico, religioso od economico, gli avevano aperto la via e lo avevano sostenuto nei suoi diversi momenti e nelle sue diverse risoluzioni. Sarebbe ingiusto investire di una troppo grave responsabilità proprio coloro i quali di quella condizione di costretta sottomissione soffrivano; che al fascismo cedevano, incapaci di trovare il modo, la via, la possibilità di uscirne, di sottrarsene; ed i quali si preoccupavano di ottenere solo quanto loro era necessario per una decente sopravvivenza; in quanto a
loro non si presentava altro mezzo per conquistarselo se non quello del compromesso, di una magari tacita accettazione. Ma qui è opportuno passare ad altra considerazione, per comprendere completamente quel periodo e capacitarsi non solo del comportamento degli scrittori in esso ma della loro resa come scrittori, dei modi e dei caratteri delle
loro opere. Difatti dobbiamo dire, e non lo si è mai studiato in modo puntuale, che quel periodo non si è conformato ad un unico modello, non si è presentato in un unico modo nella sua interezza, durante il ventennio del suo corso; poiché, di fatto, esso è passato attraverso diversi momenti, attraverso diversi stadi; più accentuato nella repressione e più accondiscendente alla tolleranza a seconda delle contingenze, nel prevalere delle diverse considera-
zioni; ed ancora dovremmo dire che tali diversi modi di comportamento e tali diverse decisioni sono stati applicati in modo più e meno deciso, più e meno radicale nelle diverse regioni, nelle diverse città. Ora queste variazioni, questo alternarsi di una diversa disciplina avevano evidentemente una risonanza nella popolazione, erano avvertite e provocavano in essa reazioni e modi di comportamento diversi; e di tale vicenda alterna evidentemente risentivano anche gli scrittori; e ne risentiva la loro opera. È lecito quindi affermare che una storia della letteratura di quel periodo, bene
attenta al variare delle tematiche, ai diversi modi di espressione, potrebbe
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mettere in evidenza tutta la vicenda politica del nostro paese; la storia del regime dittatoriale nelle sue aspirazioni, nelle sue pretese, nei suoi propositi, nei suoi successi ed anche nei suoi insuccessi. Considerata per questo verso, la
nostra letteratura di quel ventennio ci dovrebbe apparire davvero come impegnata in un continuo confronto, come una continua contrapposizione al potere oppressivo del fascismo, nella ricerca di un proprio spazio; più o meno ampio, più o meno costretto a seconda dei momenti, a seconda dei periodi. Insomma una storia del fascismo si potrebbe fare attraverso la letteratura; e non solo attraverso quella letteratura promossa e sostenuta dal fascismo, e quindi celebratrice in modo più e meno vistoso del fascismo, ma anche proprio di quella che da esso più si teneva lontana, che più tendeva ad esserne lontana; che in ogni modo tendeva a crearsi un proprio spazio, indipendente da quello. Tra gli scrittori più presenti in «Solaria», tra quelli che in essa ebbero il maggior peso, alcuni appartenevano alle generazioni più anziane, a quelle la cui educazione si era fatta, si era compiuta prima della presa del potere da parte del fascismo; così Carlo Emilio Gadda, e Montale, e Franchi e Tecchi; altri, più giovani, erano cresciuti e si erano formati in altro momento storico, in altro ambiente; così Loria, così Bonsanti; sino a coloro che per ultimi ave-
vano fatto parte del gruppo, di quella società letteraria; e si vedano anzitutto Vittorini, e quindi Quarantotti Gambini ed anche Delfini. Evidentemente tra
gli uni e gli altri vi erano notevoli differenze, e di preparazione culturale e di personalità; ed evidentemente i più anziani godevano di necessità di un maggior prestigio, nel gruppo assolvevano una funzione esemplare per la loro maturità, per essersi espressi e per andare esprimendosi con le loro opere al meglio delle loro capacità. Ma al tempo stesso essi si connotavano e si distinguevano dai più giovani con talune caratteristiche ben precise e rilevanti proprio per quelle che erano state la loro storia culturale, la loro formazione durante l'adolescenza e la prima giovinezza. Difatti in Montale, e diciamo sopratutto nel primo Montale, quello degli Ossi di seppia nella loro ultima edizione, la ricerca e l’esemplazione delle ragioni prime della vita, dell’esistere, il travaglio che investe l’uomo quando nasce alla coscienza e vuole capacitarsi, intendere quale sia il suo posto nella natura, nella realtà e nella vita dell’uomo erano espressi con accento di una tale forza perentoria che pareva travalicare le forze ed i limiti dell'individuo; come se il poeta si facesse portatore di un’accesa problematica che investiva tutto il suo tempo; ed in modo tale, al di là di ogni possibile retorica, di ogni accondiscendenza all’eloquenza, con un linguaggio scandito in termini asciutti ed incisivi, quale più non è stato raggiunto dalla poesia del nostro Novecento.
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E pure in Carlo Emilio Gadda, al di là della sua tormentata e dolorosa aspirazione all’eroico,— e sia pure nei termini di un’alta retorica di contro ad una realtà che si presenta sempre avversa e trionfante nella sua caotica perversità, e che investe l’uomo, che condiziona l’uomo; vi è una tale accanita ricerca
delle profonde ragioni del suo agire, vi è una tale spasimosa volontà di trovare, di ricuperare un ordine e nella realtà e negli atti, nei fatti umani; vi è infine una tale tensione verso un termine che superi il provvisorio ed il consueto, mentre è pur sempre presente il senso inesorabile dello scacco da cui l’uomo è investito in ogni sua iniziativa, in ogni suo tentativo, da segnare un termine
di drammaticità quale mai più è stato raggiunto, e neppure tentato, dagli scrittori che a lui sono seguiti nel nostro paese. Ora questi due scrittori, che decisamente fanno spicco tra i collaboratori di «Solaria», non hanno costituito per i più giovani, i quali pure operavano intorno a loro, un esempio puntuale per quanto riguarda la tematica delle loro opere, il loro modo di considerare ed anche di affrontare la realtà. Con quanti, insieme a loro, ma di loro appunto più giovani, sono venuti più tardi alla
letteratura ed hanno dato un’impronta alla rivista, si è venuta affermando un’altra atmosfera, si è venuto stabilendo un altro modo di porsi di fronte alla realtà e di testimoniarla; come se ormai fosse finito, come se si fosse concluso il tempo delle grandi aspirazioni, delle grandi imprese; insomma anche delle grandi illusioni. In un primo tempo, nei primi anni della vita di «Solaria», assente Montale e Gadda non ancora presente con tutta la sua forza perentoria, la prosa narrativa, che nella rivista aveva come protagonista la Manzini, ma che poteva comprendere anche Franchi, sino all’unica esperienza in tal senso di Ferrata, Luisa era una prosa che intendeva scavare nell’interiorità dell’individuo cogliendone gli impulsi, gli avvertimenti più segreti, alla ricerca di una sensibilità estremamente acuita, sempre all’erta; e così la realtà, nella sua concre-
tezza, pareva essere messa da parte, quasi annullata; essa contava solo per la spinta, per la suggestione che offriva all'uomo a riconoscersi nelle sue più intime, più sofferte reazioni. Si trattava così infine di una letteratura, di una narrativa per la quale lo scrittore rifuggiva da un rapporto, da un confronto diretti con la realtà; infine implicitamente affermando l’impossibilità di incidere su di essa. E si vedano in tal senso anche le prime prove e di Loria e di Bonsanti; nelle quali per alcun tempo prevale un modo che infine si può definire di evasione: Loria per quel suo gioco di ricupero di un mondo picaresco di mendicanti, di vagabondi, di esclusi dalla società, ma anche insofferenti di essa e del suo costume; Bonsanti nel suo ripiegamento in un ambiente ed in un costume ottocenteschi, con un andamento tra il gioco e la favola. La fantasia così portava lo scrittore a ricer-
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care altro ambiente da quello che gli era consueto, a lui contemporaneo, in cui esprimersi, in cui trovare uno spazio, in cui raggiungere un proprio equilibrio.
E qui si deve dire che solo in un secondo tempo, la presenza e l’esempio di Montale, più che non quella di Carlo Emilio Gadda, abbiano assolto ad una propria funzione, abbiano indicato e sollecitato un approccio alla realtà più deciso, evidentemente per quanto era possibile, per quanto lo permettevano i tempi. In Montale, nella sua poesia, il richiamo continuo alla realtà, a conside-
rare ed a sentire la realtà nella sua consistente presenza, ed al coraggio, alla necessità di tener conto di essa, di cimentarsi con essa, sono evidenti; e dicia-
mo pure negli Ossi di seppia nel modo più aperto; ma c’è anche tutta la sua attività di critico militante che ebbe pure un peso in tal senso. Ed ecco che allora noi possiamo considerare il cammino percorso da Loria, da I/ cieco e la Bellona a La scuola di ballo, e da Bonsanti da La serva amorosa a Racconto
militare, come un progressivo avvicinamento alla realtà; ad una realtà concreta, attuale; ed al tempo stesso ad una realtà umana, quotidiana; nell’ambito breve di ambienti famigliari, di affetti e sentimenti consueti; al di là di ogni
volontà rappresentativa ad un livello sociale e politico che investisse anche quella ufficiale, quella che diventa storia nelle sue più patenti manifestazioni. Vi era, in questo loro punto di arrivo, di raggiunto equilibrio, in loro come in altri, un atteggiamento ben caratteristico di fronte al contesto della società, alle vicende dell’uomo a confronto con la realtà; poiché da un lato essi erano sostenuti ancora da una esigenza di vita, di credere nella vita, nella necessità e
nel diritto dell’uomo di esprimersi secondo i suoi moti e le sue aspirazioni; e dall’altro il senso vivo e sempre vigile dei limiti che a tale espressione dell’uomo si oppongono, che lo chiudono in un cerchio breve; essi perciò, pur essendone partecipi, si trattenevano decisamente da ogni accondiscendenza a posizioni di un esuberante vitalismo, ma al tempo stesso, nella loro ricerca, nei loro tentativi di trovare un esito ad essa, respingevano quello che loro si offriva come del tutto negativo, ogni conclusione del tutto negativa; come pure ogni abbandono alla palinodia, al compianto di sé in termini di una patetica rinuncia. Infine il tono, l’accento della narrativa di «Solaria», negli anni più fervidi
della. sua presenza, avevano una loro connotazione che poteva considerarsi improntata ad una cauta attesa; in ciò e con ciò essa si qualificava ed anche si distingueva da quella di altri narratori a loro più e meno coetanei, come da un lato Moravia e Piovene e dall'altro Soldati e Buzzati; per quanto Piovene fosse stato un occasionale stato insistentemente via, come anche per persino compiaciuta
collaboratore della rivista, e per quanto Moravia fosse invitato a collaborarvi da parte di Carocci. Ma in Moraaltro verso in Piovene, l’accezione naturalistica, la resa ad una intrinseca negatività delle cose, della realtà, del
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destino dell’uomo avevano un tale peso conclusivo, negavano allo scrittore, all’uomo, ogni possibilità di superamento e di riscatto da una condizione data, intrinseca alla natura umana in modo tanto reciso da porli al di qua dei tentativi, della ricerca caratteristici dei «solariani». Mentre a quelle posizioni di una nostalgia magari appena sfiorata dal patetismo, nel ricupero di un mondo e di un’atmosfera che erano stati del loro passato più e meno recente, cui accondiscendevano infine il primo Soldati ed il primo Buzzati; sono estranei sia Quarantotto Gambini, sia Delfini; pure intesi a ricuperare il mondo della loro prima giovinezza, ma in esso cogliendo fermenti e provocazioni che, attualizzandolo, respingono ogni tentativo di ripiegare in un accorato rimpianto. E così entrambi paiono avere appreso od essere partiti da quella che era la lezione di fondo di «Solaria ». Ma qui si veda il lungo percorso della narrativa di Vittorini; in cui si può dire siano presenti sin dalle sue prime prove una volontà di rottura e quindi la decisa tendenza al ricupero della fiducia nell’uomo e nella sua capacità di iniziativa, qualunque essa sia; rifacendosi a quel filone di vitalismo cui si era improntata la nostra letteratura perlomeno durante il primo decennio del secolo; e con ciò egli dimostrava di non voler rientrare, o meglio di voler superare quell’equilibrio, quella pacatezza di resa cui parevano tendere e che, se pure intermittentemente, parevano aver conquistato i più giovani narratori di «Solaria». E difatti ecco che, sin dai suoi primi volumi sin da Piccola Borghesia e da Il garofano rosso, ma poi anche in Conversazione in Sicilia, e più avanti in Uorzini e no, in Il Sempione strizza l'occhio al Frejus ed in Le donne di
Messina, Vittorini si propone le più diverse soluzioni di un problema che non arriva a risolvere e della cui urgenza drammatica di risoluzione egli è investito e si fa portatore; anche se ben conscio della provvisorietà delle proprie proposte; e perciò confinato in una zona di sperimentalismo, dalla quale tenacemente e dolorosamente tenta in ogni modo di uscire; tanto da riuscire a definire meglio di chiunque altro questa propria condizione con la esplicita condanna dei propri «astratti furori». Sono perciò quei libri come dei gridi di chi denuncia la propria insofferenza, ed al tempo stesso la propria impotenza, ma al tempo stesso rifiuta la rassegnazione, l’assuefazione, il rifugio in una
letteratura che accetta una propria misura dimessa, un proprio definitivo distacco; pure intrisi di amarezza di fronte ad una realtà informe, riluttante a qualunque ordine ideale. E evidente che Vittorini proponeva a se stesso un termine, una posta superiori ai propri mezzi, ch’egli non era in grado di raggiungere; ma in tal modo egli perlomeno si faceva interprete del suo tempo, del periodo storico in cui viveva; il quale non solo non offriva delle certezze, ma neppure indicava un punto di riferimento sicuro, consistente cui far capo,
da cui partire. Mai però potremo incolpare Vittorini di aver tentato di rag-
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giungere ciò cui aspirava senza esservi riuscito; anche la sua generosa illusione, il suo coraggioso tentativo hanno sostenuto e sollecitato altri, e tanti altri, a credere in sé, nella vita in periodi diversamente ma similmente difficili, spieta-
ti. Ed a tale proposito si veda come egli fosse pure in grado di attingere una sua placata serenità di resa, pur sempre sommossa da fremiti e fermenti, e così anche rientrare in quei modi ed in quel ritmo di una narrativa caratteristicamente «solariana »; come possiamo vedere in quello che è il punto di approdo della sua maturità, il romanzo incompiuto Le città del mondo. Ma qui, a ricuperare integralmente la ricca personalità di questo nostro scrittore, dobbiamo ben comprendere com’egli ad un certo momento potesse persino respingere questo suo testo, e proprio nel suo ultimo significato; infine rivendicando a sé quel carattere di sempre ansioso e sempre insoddisfatto sperimentatore secondo il quale egli ben si qualifica durante tutto il periodo della sua presenza umana e letteraria. Ed ancora potremmo dire che a quella atmosfera, a quel modo di essere e di esprimersi che possiamo definire «solariani» sono ben vicini, vi appartengono anche scrittori la cui formazione umana e letteraria avvenne in quegli anni; i quali, in uno od altro modo, per una od altra via, anche se non frequentarono l’ambiente dei «solariani», con loro ebbero o stabilirono un contatto.
Ed in tal senso ricordo Alberto Vigevani e Niccolò Tucci e pure Ferruccio Ulivi, anche se la narrativa di quest’ultimo sia opera del tutto recente; poiché in essa, anche a molti anni di distanza da quel periodo o da quella atmosfera letteraria che lo determinò e lo improntò, ne appare evidente l'appartenenza. Ed ancora si veda I/ segreto di Anonimo triestino, ma di Guido Voghera,- un libro apparso venticinque anni dopo la fine di «Solaria», scritto da persona che, per quanto ne so, con «Solaria» mai ebbe contatti diretti, e che pure rientra in quell'area narrativa che ho cercato di definire sommariamente; e qui, rendendo la storia di un’adolescenza, svoltasi durante gli anni del fascismo, nelle sue aspirazioni, nei suoi slanci, pur contenuti, nelle sue celate fru-
strazioni, ma con la resa corretta di una chiusura, di una costrizione che pesano su ogni atto, su ogni movimento dell’uomo; persino su ogni suo proposito; ma al tempo stesso senza negargli la possibilità, la necessità di sperimentarsi,
di confrontarsi con la realtà. Ed è necessario infine ricordare anche la prosa narrativa di Montale, quasi per intero raccolta in La farfalla di Dinard; la quale e mi pare che sinora mai lo si sia detto rientra decisamente nell’atmosfera «solariana »; e lo si potrebbe provare con un confronto testuale con la prosa narrativa di altri scrittori di questa rivista, più giovani di Montale, che egli apprezzava come Loria, e dai quali riprese modi ed accento.
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Ma a questo punto però è opportuno fare una considerazione di fondo. Poiché, se pure teniamo come un punto di riferimento necessario la presenza di «Solaria» in quegli anni nel nostro panorama letterario; non possiamo certo affermare che essa abbia avuto una sua funzione di deciso spicco, determinante in termini espliciti di un modo di scrivere, di narrare in esso. Difatti nella sua presenza critica, mai la rivista rivendicò od affermò a sé un suo programma, mai sostenne e difese un suo manifesto letterario, mai proclamò un proprio compito di guida in un suo senso. Evidentemente essa, in quegli anni, si pose, senza neppure proporselo intrinsecamente, come un punto di
riferimento catalizzatore di un certo modo di affrontare la realtà e quindi di un certo modo di fare letteratura, e specificamente di scrivere racconti e romanzi, avvertendo quella che era una condizione dell’epoca; quelle che erano le possibilità che si offrivano agli scrittori nella loro tendenza ad un’espressione che da un lato riprendesse ed affermasse le loro aspirazioni, la loro esigenza di partecipare in un qualche modo alla realtà nel suo farsi; e dall’altro i limiti che la realtà ufficiale, che un costume ormai affermato e costrittivo imponevano. Cosicché la loro iniziativa, la loro spinta necessariamente erano
sempre controllate da una coscienza vigile; mentre al tempo stesso essi tentavano, saggiavano quel varco, quella via che si potevano loro offrire, su cui giocare la propria carta, in cui poter cimentarsi secondo un proprio progetto,
nella ricerca comunque di un esito; ed infine questo appariva come un gioco cui erano costretti, il quale si realizzava in una condizione estremamente limitata e circoscritta ma che in ogni modo lasciava a loro possibilità di sperimentarsi, di sentirsi ancora vivi; forse anche di porre le premesse di una più valida affermazione ventura. Mentre al tempo stesso così essi sentivano di difendere, di affermare una propria dignità; sentivano che, pur nella loro limitata dimensione, i loro scritti si ponevano come un punto di riferimento lontano, estraneo a cedimenti e viltà da un lato ed a velleitarismi spericolati ed improvvidi dall’altro. Per quanto mi riguarda, io debbo dire che già prima della mia venuta a Firenze, il mio carattere, la mia persona si erano andati conformando in un certo senso, avevano assunto, od andavano in sé nutrendo, alcuni degli ele-
menti, alcuni dei modi di espressione di sé che poi mi sono restati precipui per l’intera mia esistenza. Ed a tale proposito devo riconoscere l’importanza determinante che su di me ebbe l’educazione famigliare, improntata all’accettazione convinta dei principi religiosi e morali del cattolicesimo; dei quali, se da essi mi ero ritratto ai diciott’anni sottraendomi decisamente all’obbedienza formale alle norme ed ai riti della Chiesa, avevo però conservato l’adesione ed il rispetto ad un costume di vita, ad un modo di considerare la mia presenza nella società umana. Poiché, abbandonando le pratiche religiose, io non avevo
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voluto sottrarmi a quella che accettavo come una disciplina di costume e di comportamento
necessaria:
ma
avevo inteso rivendicare a me una simile
responsabilità, al di fuori da ogni intervento esterno, al di fuori da ogni dipendenza da altri, al di fuori da ogni obbedienza a dei dettami formali. Di tale mia Sica io conservavo ed ancora conservo quella che nel modo più generico ed elementare posso definire come l’aspirazione ad un ideale; il che, più o meno, è proprio di ogni uomo; ma in me una tale aspirazione, perlomeno nel suo primo slancio, nel suo primo impulso, si connotava spesso in termini estremi; come se, (inedindmentee necessariamente io tendessi a confrontare le mie decisioni, i miei atti, i miei interventi con il loro modello che dentro me nutrivo; il che dava talvolta ad essi un carattere, un modo di eccessività; come se nell’attuazione pratica di un proposito, nella sua realizzazione,
io di un subito fossi portato a chiedere a me stesso qualcosa di più di quello che avevo fatto sino allora, qualcosa di più di quel che infine potessi fare. Ed ancora debbo dire che quell’impulso e quell’impegno mi imponevano, mi costringevano ad una disciplina, ad una costrizione, a cavare da me anche quel che fosse più difficile e più faticoso da ottenere; e quindi a considerare l’esistenza, o meglio la mia esistenza, come retta sempre da un principio del dovere; da un senso di profonda e continua responsabilità di fronte a me stesso. Ora una simile concezione della vita, della presenza dell’uomo nella società, se è un lascito evidente della mia formazione religiosa, testimonia
anche come di quell’educazione io accettassi e facessi miei i suoi elementi più esigenti, come di essa privilegiassi la parte più intransigente, diciamo pure la parte che, nella mia giovinezza, potevo considerare intesa ad un termine assoluto, conformata secondo un modello di sublimazione, di tensione dell’individuo verso un fine che lo assumeva a sé, o che a sé lo avrebbe assunto se egli ne fosse stato degno, se se ne fosse dimostrato degno; come se a questa aspirazio-
ne più e meglio si conformassero la mia natura più fonda, il mio essere originario. Evidentemente questa conformazione, questo modo di essere si sono andati rivelando sin dalla mia età giovanile; ma ben presto essi sono divenuti e sono
rimasti come dei dati costitutivi, degli elementi permanenti della mia persona; dai quali è necessario, anche per me, partire perché io possa essere compreso
e comprendermi in ogni mio momento e per l’intero corso della mia esistenza. Ma, proprio a tale proposito, debbo aggiungere che la lezione della realtà e della vita ha avuto, come doveva avere, una decisa importanza nel mio svolgimento, nel mio maturare. E ciò in quanto quella mia tendenza originaria ad
una meta ideale, quella mia spinta all’eccessivo, non si traducevano in una fuga dal reale, dal concreto, non mi indirizzavano verso l’isolamento dai fatti, dalle vicende della vita; nel compiacimento e nell’esaltazione di una mia
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dimensione interiore; e qui devo pure aggiungere che, anche nei momenti più gravi e difficili della mia esistenza, anche quando, di fronte ad uno scacco, ad una sconfitta o ad una umiliazione, sentivo la necessità di rifugiarmi in me stesso per ricuperare la fiducia nei miei mezzi, nelle mie possibilità; mai mi si propose la scelta dell’estraniazione, della ripulsa e del rifiuto della realtà, della partecipazione alla realtà; poiché sempre consideravo lo scacco subito come conseguenza di un mio errore di valutazione o di comportamento, o di un falso scopo; e cioè dell’attesa o della ricerca di qualcosa che non mi competeva, che in fondo restava al di qua delle mie più limpide aspirazioni. Infine io mai ho ritenuto di appartenere ad una ristretta minoranza di intellettuali depositari di un’aspirazione ideale la quale ci distinguesse, ci isolasse nei confronti degli altri; mai ho ritenuto questa un patrimonio di cui noi godessimo e che la realtà, la realtà degli uomini, non potesse assumere a sé, non potesse far propria; e quindi ho sempre sentito l'esigenza di confrontarla con la realtà, di inserirla nella realtà; sostenuto sempre non solo dalla convinzione della giustezza delle mie prese di posizione, e quindi del mio agire, del mio operare per farle conoscere, per farne partecipi gli altri, ma anche dalla certezza di un esito infine positivo, di un incontro necessario fra l’istanza ideale e la realtà, e la società degli uomini. Ed anche qui, in questa che, più che una convinzione, è una condizione del mio essere, della mia umana natura, non posso non riconoscere un lascito della mia educazione religiosa. Insomma io ritenevo e sempre più andavo confermandomi nella certezza che la letteratura fosse e dovesse essere depositaria di una sua esemplarità, fosse e dovesse essere portatrice di cultura; fosse e dovesse essere promotrice di civiltà. E come conseguenza necessaria di una tale convinzione, nella volontà di stabilire, di raggiungere una coerenza fra ciò che pensavo, fra ciò in cui credevo ed il mio agire, e la mia attività letteraria, ecco, sin dagli inizi della
mia collaborazione a «Solaria » od alle altre riviste e giornali che mi aprirono le loro pagine, profilarsi e determinarsi una mia particolare fisionomia; con caratteri anche di intransigenza, di aggressività; come di chi è giunto ad essere il depositario di una certezza, ne è divenuto il portatore, se ne è fatto il portatore; superando e rompendo quella che era una consuetudine di accondiscendenza, di connivenza, di tolleranza un po’ ipocrita quale si era andata affermando nel costume della società letteraria. E tutto ciò, specie nei miei anni giovanili, con l'impronta di una saputezza anche irritante, non fosse per una certa generosità sprovveduta che la attenuava. Infine in tal modo io avevo sentito profondamente la suggestione di quelli che erano le convinzioni, le scelte, i giudizi dei miei amici «solariani», ma che essi tenevano dentro sé; o meglio che al più si lasciavano sfuggire talvolta nei loro dibattiti al caffè. In tal senso io mi innestavo e portavo avanti quello che
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era il loro discorso; mostravo di essere del tutto convinto di esso; di credervi
ancor più di quel che loro non vi credessero. Ed in questa operazione da un lato sentivo confermata la mia fedeltà all'insegnamento che da loro avevo derivato, mentre, al tempo stesso, sentivo di acquistare, nei loro confronti,
una mia dimensione, di qualificarmi per una mia conformazione, insomma di distinguermi in qualche modo per una mia personalità. Era evidentemente facile accusarmi da un lato di esibizionismo e dall’altro di velleitarismo; ma ora, a tanti anni da quel tempo, non è forse facile vedere in quel mio atteggiamento, in quel mio modo di essere un segno del momento, di quel momento? Non reagivo io forse, per quanto potevo, per quanto mi era concesso, ad un clima, ad un costume che infine, con diversi modi, con diversa intensità, era oppressivo, e ciò persino senza rendermene conto? Infine al
velleitarismo era condannato chiunque tentasse di rompere, perlomeno di incrinare quel costume, di indicarne una via di uscita. Ed in tal senso possono risultare evidenti e necessarie la mia consonanza, la mia sodalità con Vittorini; determinate e dall’età— poiché egli era il più giovane dei «solariani»- ma anche da una certa conformazione caratteriale, da una continua propensione al manifestarsi, all’agire, improntate a generosità ma anche a sprovvedutezza. Certo per me il velleitarismo restò un rischio cui spesso accondiscendevo, ed il più spesso senza rendermene conto o senza voler rendermene conto; se,
con il passare degli anni ed il succedersi delle esperienze, l’invito che mi facevo alla cautela, alla prudenza era in me sempre più accentuato, però esso mi era pur sempre un’imposizione ch’io facevo a me stesso e che mi era del tutto innaturale; alla quale solo mio malgrado cedessi, e soverchiando, costringendo quella che era in me la parte migliore, quella più spontanea e coraggiosa. E qui debbo dire, riferendomi agli scacchi, alle sconfitte da me subiti nel corso della mia esistenza e sono accadimenti e momenti che con-
traddistinguono il succedersi di ogni esperienza umana,— che essi sono perlopiù dipesi proprio da quella mia esigenza iniziale, da quella mia tensione all’eccessivo, ad un termine estremo. Di fronte ai quali ad un certo momento non reggevo, non avevo le forze per reggere; per tradurre il mio proposito in realtà. E ad un tempo devo riconoscere di avere spesso teso, di avere spesso puntato ad un esito che non era alla mia portata, con la convinzione di poterlo raggiungere quasi d’impeto, senza soverchia fatica, troppo fiducioso di me e delle mie possibilità, ed anche nutrito di presunzione e di faciloneria; e ciò anche se potevo incolpare, accusare la realtà, gli altri, di una loro ostilità, di una loro ingenerosa resistenza nel respingere la mia istanza. Col tempo, attraverso le più diverse vicende, avrei imparato a mie spese che è difficile e frutto
di lunghe esperienze la conquista di un equilibrio di sé, che l’uomo è sempre dibattuto e travagliato dalle sue profonde contraddizioni; e che, se ad un
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certo momento raggiunge, conquista un equilibrio, la capacità di stabilire un giusto rapporto fra ciò cui aspira e ciò che ottiene; non sempre si tacita ed è soddisfatto di una tale assestata sicurezza, di questa condizione pacificata; poiché spesso anche colui che pare connotarsi con la più evidente assennatezza, d’un tratto, quasi rinnegandola, cacciandola da sé, si butta allo sbaraglio, rischia più di quel che gli sarebbe consentito; addirittura compromette la propria situazione, si ritrova ad aver subito una sconfitta quale non solo lui ma nessuno avrebbe ritenuto a lui confacente, a lui possibile. Ma non è qui forse, non è forse in questo suo continuo dibattito con se stesso, in questa sua esigenza di rompere, di respingere il consueto, l’acquisito; in questo talvolta crudele gioco con se stesso che l’uomo si manifesta nella sua più profonda ragione? Non è forse questo il modo di essere che più gli è proprio? E quindi non dobbiamo forse riconoscere che quella parte di eccessivo di cui egli si nutre, che lo spinge e lo coinvolge in impegni ed in attività i quali travalicano le sue capacità di realizzazione ed anche di resistenza, è caratteristica in lui, nella sua natura umana; che proprio per essa egli è uomo? Ma, a tale proposito, è pure necessario riconoscere che una tale vicenda, un tale dibattito dell’uomo con se stesso si connotano e si colorano di termini estremi sopratutto in taluni momenti o periodi storici, in un determinato ambiente, in una determinata società; quando questi coltivano, incrementano,
od almeno ammettono ed accettano, tali istanze, tali aspirazioni; nel mentre
ad un certo momento, successivamente e talvolta quasi di un subito, le deprimono e le condannano. Ora, in tale temperie, nella lunga vicenda della mia esistenza svoltasi in periodi ed in momenti alterni ma sempre tormentati e difficili, devo ammettere che, insieme agli insuccessi, agli scacchi, anche alle umiliazioni che mi hanno colpito, come, ripeto, colpiscono ogni uomo, spesso anch’io ho accondisceso a cedimenti, a concessioni, a sottomissioni ad una realtà, la qua-
le, per me, allora come ora, non poteva non essere considerata come negativa; e quindi ad atti, ad interventi che non posso non giudicare come macchiati da opportunismo od anche da viltà; e vi ho accondisceso quasi sempre proprio in contrapposizione a quello che era stato il mio precedente impegno, per essere stato troppo fiducioso nelle mie capacità e nelle mie forze; quasi per riparare ad esso, quasi smentendolo; come si fa per un atto, per un movimento cui ci si è abbandonati in un momento di impulsiva sconsideratezza. Successivamente però, a mente limpida, riconquistata la piena padronanza di me, ho riveduto e riconsiderato quegli atti e quei momenti con un senso profondo di colpa ed anche di vergogna, come se per essi avessi smentito la parte migliore di me, come se avessi tradito quel che di fatto sono; o meglio quello che vorrei essere e che non sempre riesco ad essere; mai consentendo a motivazioni ed a giusti-
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ficazioni di quei miei falli per giungere a considerarli come inevitabili, ineluttabili, in quanto a me imposti da una forza maggiore. Poiché sempre ho voluto considerare l'intelligenza dell’uomo come intesa a scelte ben decise, a risoluzioni conseguenti nella via ch'egli si è proposto di percorrere; nella fedeltà all'immagine ch'egli si è fatto di sé. Insomma mai ho voluto accondiscendere a riscattare ed a ricuperare in me, come ricca di un qualche suo valore, di una qualche sua positività, quella parte di me che derogava, che inquinava tale immagine.
Ed in tal senso ecco il valore che per me ha sempre avuto, o meglio che per me è andata sempre più conquistando la letteratura, la testimonianza che l’uomo dà di sé attraverso la letteratura. E questo è stato l'insegnamento più importante, decisivo nella mia formazione, quello che cercavo e che mi è stato offerto, od anche confermato, dagli amici di «Solaria» durante quegli anni del mio apprendistato. Certo tutti quei miei amici ed anche quelli che tra loro primeggiavano per l’acutezza dell’intelligenza e per la preparazione culturale, ai quali andava la mia ammirazione e che più mi si proponevano come esem-
plari- erano uomini vivi e presenti nel loro tempo, in quella realtà infine prepotente e corruttrice; e perciò quasi nessuno di loro fu del tutto esente, riuscì a sottrarsi completamente a quella che era la sua imposizione; e ciò perlopiù in quanto la loro condizione di vita in quegli anni era difficile, improntata a privazioni, o perlomeno a radicali limitazioni; e da qui anche ecco talvolta il loro ridursi, quasi a compensazione di tale stato, ad un piccolo gioco di opportunismo, di accaparramento di piccoli vantaggi, a soddisfazione di ambizioni di ben corto respiro. Ed a tale proposito devo dire che, quando di questi loro cedimenti mi rendevo conto, ne soffrivo, dapprima tendevo a cancellarli dalla memoria, ad attenuare od a negare ad essi peso ed importanza; almeno sin che mi fosse possibile; mentre poi, ove dovessi ammetterli
per quel che erano, nella loro dimensione di meschinità, non solo mi si incrinava dolorosamente l'ammirazione che dentro me a loro avevo sempre tributato, ma ne restava turbato anche l’affetto che a loro mi legava. Resta però il fatto che la loro opera, quello ch’essi andavano via via scrivendo e pubblicando, superava decisamente tale loro scadimento, tale loro con-
cessione alla realtà più vile, al costume dei più; nella loro opera e per la loro opera essi si riscattavano; in essa scancellavano la parte di sé più legata ai tempi ed all'ambiente, le abdicazioni che malamente facevano al vivere quotidiano. E proprio da questo travaglio, a superarlo, nasceva e si affermava in essa quell’alto accento che la connotava, o che almeno connotava quei momenti di essa che più mi attiravano, quelli nei quali più e meglio mi ricono-
scevo; almeno nelle mie aspirazioni, nella mia ricerca.
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L’ULTIMO TESTIMONE
E da questo esempio, per questo esempio, ecco in breve in me affermarsi la necessità di testimoniarmi nel testo scritto con piena, con decisa ed intransigente sincerità; di superare ogni barriera di opportunità; di darmi senza cautele o riserve od inutili pudori; obbediente ad una spinta cui non potevo non rispondere per credere in me, per credere al valore di quel che facevo; infine per sentire di aver bene appreso il loro insegnamento, per aver derivato da loro quella che era la loro più alta lezione. Poiché una tale decisa e coraggiosa e spregiudicata chiarezza, una tale testimonianza assolutamente sincera di sé e degli altri, una tale piena conoscenza di se stessi, delle proprie capacità e possibilità costituiscono la premessa necessaria di ogni azione, di ogni attività indirizzate ad un fine, ad una realizzazione; possono creare e nutrire, in noi come negli altri, la fiducia nell'uomo, nella sua attiva presenza, nel suo farsi
strumento cosciente di cultura e di civiltà, per sé e per gli altri. Così, per i principi cui sempre mi sono confrontato, da cui sempre ho teso a derivare i miei atti, il mio comportamento, poiché dal mio tempo li ho desunti ed al mio tempo li ho sempre riferiti, credo di appartenere, di essere completamente situato in esso, anche se con una precisa connotazione che mi caratterizza. E così la mia continua insoddisfazione, la mia inquietudine, la mia ansia,
e conseguentemente la mia volontà, persino la mia necessità di fare, di intervenire sulla realtà, e non solo sulla realtà letteraria— se le sento in me connaturali, a ben guardare le sento in me provocate, o perlomeno sollecitate continuamente dall’ambiente in cui vivo. Ed al tempo stesso devo riconoscere che
il mio modo di essere, il mio modo di reagire alla realtà, nel corso della mia esistenza, di volta in volta, mi hanno fatto e mi fanno aderente, inserito in
quelli che di essa appaiono il più vivo andamento, il moto eminente; ma quindi distaccato, lontano, inattuale di fronte ad altri che a quelli succedono; cosicché, in momenti alterni, mi sono trovato ad ora ad ora vicino e quindi lontano da quelle correnti, da quelle tendenze, da quelle posizioni che sono
state e sono predominanti nella cultura, nella letteratura del nostro secolo; durante quella parte di esso in cui sono vissuto; il che mi ha fatto isolato durante taluni periodi della mia presenza e della mia attività letteraria; e tale forse mi rende anche ora. E qui mi resta da indicare l’ultima ragione di questa mia testimonianza, e forse quella che di essa è stata determinante e che al tempo stesso la rende attuale. Difatti, a più di quarant'anni dalla caduta definitiva del fascismo ed a
più di quarant'anni dalla realizzazione in Italia di uno stato di democrazia e quindi di libero dibattito, debbo pur dire, dobbiamo pure ammettere, che alcuni degli elementi di fondo, i quali, nella nostra società, hanno caratterizza-
IL MIO APPRENDISTATO
LETTERARIO
A FIRENZE
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to il fascismo non ne sono completamente scomparsi; cosicché ci si pone il problema se il fascismo abbia avuto nel nostro paese una tale capacità di formazione, una tale forza esemplare da improntare profondamente il nostro costume, il nostro modo di essere e di comportarci; o se noi, il nostro paese, la nostra società fossimo portatori, ancor prima dell’affermazione, della presa del potere da parte del fascismo, di almeno alcuni dei principi, di almeno alcune delle componenti costitutive su cui il fascismo conformava il proprio comportamento, il proprio modo di essere; di cui il fascismo si avvalse, che utilizzò ai propri fini, che mise in evidenza ed esasperò nel modo più clamoroso; e che poi, attraverso esso, giunsero sino a noi, dico sino a questi nostri anni
più recenti; ed in forme anche oggi esasperate. E qui anzitutto sento la necessità di individuare e di mettere in evidenza quali fossero per noi,- per il gruppo degli scrittori di «Solaria», non solo, ma per quanti nel nostro paese si appellassero alla cultura, ponessero la cultura a fondamento delle loro convinzioni e delle loro scelte, la connotazione ed il significato del fascismo da un punto di vista culturale. Di fatto, allora, il fascismo ci appariva e ci risultava,— e direi sopratutto per l’esemplazione che ce ne dava quotidianamente Montale come l’anticultura, o forse meglio come una sottocultura; noi sentivamo che il fascismo operava su di un piano culturale del tutto arretrato, scontato rispetto a quello sul quale noi ci ponevamo; i suoi miti, i suoi principi, l'ideologia sulla quale essi si fondavano, nella civiltà del nostro tempo, di quel tempo, appartenevano ormai al passato; significavano non spinta in avanti, non sollecitazione ed istanza di civiltà, di una promozione di civiltà; ma impaccio, ritardo, resistenza alla civiltà quale andava prospettandosi. E dobbiamo dire che tale ritardo, che tale inferiorità si rivelavano nel modo più evidente proprio dalle manifestazioni, dall'espressione, dal linguaggio di cui facevano uso i fascisti; non più attuali, non più vivi da un punto di vista culturale. Ed ancora debbo dire che di tale situazione si rendevano conto, a controcuore, anche i fascisti; e non solo quelli più avvertiti tra loro; essi sentivano di fatto l’esistenza di una frattura fra il regime che avevano imposto all’Italia, alla società italiana, e la cultura, e la parte più avanzata della cultura; da ciò la loro continua polemica contro di essa, contro la parte migliore della cultura italiana; da ciò il loro continuo atto di accusa contro gli intellettuali che restavano estranei, se non ostili, al fascismo; e da ciò, di conseguenza,
quasi necessariamente, da un lato la loro tendenza ad attirarla, a compromet-
terla, a portarla perlomeno su posizioni di tacita accettazione; e dall’altro la loro imposizione, la loro volontà di persecuzione; ed in fondo tali diversi
atteggiamenti e comportamenti rivelavano il forte complesso di inferiorità dal quale nascevano.
316
L'ULTIMO
TESTIMONE
Però qui, riprendendo il discorso accennato più sopra, dobbiamo ricordare che il ventennio del fascismo deve essere considerato nei suoi vari e diversi momenti, in diversi successivi periodi, nella sua lunga parabola; e che all’incirca il primo decennio dalla sua affermazione vide ancora presenti, nel campo della letteratura, della cultura, tendenze, manifestazioni, moti che esprimevano un interesse, un fervore, una passione tali da investire l’intero paese, nei suoi strati più acculturati; ed un segno ne sono le molte riviste letterarie e culturali che nacquero e si affermarono in quegli anni, e sopratutto intorno e dopo il 1925, il 1926. Come se in esse si trasferisse tutta una volontà di ricerca e di dibattito che ormai nel paese andava diventando sempre più impossibile manifestare su di un piano politico. Ma, a partire dagli anni intorno al 1932, al 1933, e sopratutto con la conquista dell’Abissinia, un tale fervore rapidamente si attenuò e si spense; ad esso subentrò uno stato di acquiescenza, di rassegnazione; avvenne come se tutti, e
non solo gli scrittori, e non solo i più anziani, avvertissero che ormai i dibattiti erano chiusi, che le iniziative, di qualunque genere, erano impossibili; ormai si doveva e non si poteva non accettare la realtà quale essa era, quale si era
imposta; ed era una realtà politica di costume, di fronte alla quale nulla era possibile fare; ad essa non si poteva in nessun modo reagire, in essa non si poteva tentare nessun innesto, intervenire in nessun modo per avviare un discorso, per dare inizio ad una discussione comunque rinnovatori.
Questa è stata la storia di «Solaria»; la vicenda di questa rivista si pone in questi termini di tempo; infine essa restò viva e presente sinché tale sua presenza parve poter avere un significato; sinché la letteratura pareva ancora aver tale importanza da incidere in qualche modo sulla realtà, ed al tempo stesso sinché essa parve poter attingere alla realtà, ad una realtà disponibile, ad una realtà in qualche modo seconda. La vanità dei tentativi per continuare o per ristabilire un simile rapporto caratterizza il corso della breve esistenza sia di «La riforma letteraria» che di « Argomenti», nate dalla fine di «Solaria»; mentre «Letteratura», di fatto, per quanto può, si esime dallo stabilire, dall’azzardare qualunque rapporto con la realtà stabilita, affermata, esemplata
ufficialmente. Il velleitarismo piuttosto dilettantesco delle prime e la fuga, se non il rifiuto, della realtà della seconda stanno a definire la temperie di un momento storico. Per quanto, nelle une come nell’altra, gli scritti, gli interventi, nella loro varietà, nella loro articolazione, uscissero da ogni schema
preciso, superassero od almeno forzassero i termini che alle riviste erano stati posti da chi le dirigeva. Ed anche qui si veda come esse fossero in qualche modo rappresentative di uno stato, di una condizione che erano del tempo, del momento storico, più che portatrici di un programma, espressione di un proposito esplicito od implicito.
IL MIO APPRENDISTATO
LETTERARIO
A FIRENZE
57
Ora, riguardando e riconsiderando in me questi più di quarant’anni dalla caduta del fascismo, mi pare che, dopo un primo periodo durato poco più di un ventennio, reso vivo da un continuo dibattito e sostenuto dalla convinzio-
ne di un possibile, persino di un imminente rinnovamento radicale del nostro paese; dopo la fiammata velleitaria del '68 e dopo le efferate violenze del terrorismo,— segno l’una e le altre di una impossibilità, di una impotenza ecco che si è giunti ad una condizione che ha molti punti di contatto, che si rassomiglia nei suoi termini di fondo a quella degli anni lontani durante i quali si concludeva il mio apprendistato letterario e culturale. Infine anche oggi, come allora, da parte dei più, da parte dico del contesto letterario e culturale italiano, almeno per quel che appare e risulta dalle sue più evidenti manifestazioni, si è finito con l’accettare la realtà, la realtà del paese,— la realtà che regge ed esprime il paese per quello che essa è, anche nei suoi lati e dati negativi; senza più contare, senza più sperare nella possibilità di un mutamento, di un rinnovamento radicali; pare infine che i giochi ormai siano stati fatti, conclusi;
perlopiù sugli intellettuali, sugli scrittori pesa lo sgomento della presa d’atto della propria impotenza, della propria incapacità; ad un entusiasmo sprovveduto si sostituisce una accorata rassegnazione.
Evidentemente oggi il potere politico non si esprime certo con la brutalità, con la prepotenza con cui si esprimeva ai tempi del fascismo; per quanto di una consimile violenza si siano connotati taluni interventi e taluni momenti della sua azione; ma esso ha una tale capacità di imporsi e di dominare ogni campo, ogni zona, ogni elemento della nostra società; e quindi anche una tale capacità di convinzione, di captazione, e quindi di corresponsione, quali forse neppure il regime fascista possedeva. D'altra parte lo sviluppo industriale ed economico del paese lo ha arricchito in modo tale da coinvolgere sempre più larghi strati di intellettuali; i quali, nella nuova società, trovano non solo innumerevoli e le più varie possibilità di lavoro e di guadagno, ma anche quella di diventare anch'essi depositari e portatori di potere; e di un potere che può anche avere dimensioni di spicco. E ciò è avvenuto ed avviene anche per gli uomini della cultura e per gli scrittori; i quali, proprio in quanto sempre più si offre loro l'occasione di inserirsi nella società, di occupare in essa posti di prestigio, od anche di essere rimunerati per le proprie prestazioni in modo tale da poter mutare od almeno elevare la propria condizione sociale, tanto più sono portati ad accettare ed a confermare un tale stato di cose; e quindi a sottomettere la propria attività, la propria opera alle esigenze del contesto in cui e di cui vivono; così, quasi di necessità, quasi naturalmente, anche senza pressioni o forzature, si giunge alla strumentalizzazione della cultura e della letteratura. E tale che si potrebbe anche definire come una integrazione necessaria e positiva, in uno scambio
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L'ULTIMO
TESTIMONE
reciproco, in una continua reciproca sollecitazione fra le diverse componenti di una società civile, risulta invece una degradazione dell’una ed un mancato elevamento dell’altra; e ciò proprio in quanto i modelli che sono stati proposti e che si propongono a questa nostra società e che sempre più giungono a
conformarla, sono improntati ai principi ed alle ragioni del più facile, del più meschino profitto individuale; sotto l'insegna della mistificazione e della corruzione. Ora è certo che il nostro paese, in queste sue connotazioni come in quelle che le provocano, che ne stanno all'origine, è partecipe di un mondo e di una civiltà e di un momento della civiltà che comprendono tutta la parte industrialmente ed economicamente più avanzata del genere umano; e che quindi esso è partecipe dei problemi che la travagliano e che paiono lontani dall’essere risolti; solo che, per il fatto che in questo mondo, in questa civiltà esso risulta come l’ultimo arrivato e di fatto pure come l'elemento più debole; in questo contesto esso si evidenzia e si distingue per un suo particolare modo di essere. E davvero in esso le contraddizioni che ne improntano il costume da un lato appaiono più forti, più evidenti, più clamorose nella loro espressione che altrove; ma dall’altro, a ben guardare, le risoluzioni che dal potere, da chi dispone del potere, ad esse vengono proposte ed indicate, appaiono più di
forma che di sostanza; come se infine lo stato, la condizione in cui opera il potere, chi detiene il potere, e sia quello politico come quello economico, fossero soddisfacenti, almeno nelle loro ragioni di fondo. Ecco così che noi sembriamo sempre e sempre più votati ad operare sull’apparire più che non sull’essere; ed insomma tutta la nostra realtà, la realtà in cui viviamo e cui ci riferiamo, ci appare tutta intesa e sollecita a curare, a rifinire la propria apparenza più che la propria sostanza. Da ciò la gracilità, la labilità, la provvisorietà che improntano la nostra esistenza, tutta la realtà in cui viviamo; da ciò
anche la superficialità, l’improvvisazione, il dilettantismo, il velleitarismo che improntano i nostri atti, le nostre attività; e che coinvolgono perlopiù anche la nostra cultura, la nostra letteratura. E non era forse proprio questa la connotazione più evidente, perspicua del fascismo, che ne improntava ogni risoluzione, ogni atto, tutta la linea politica, tutto il modo di essere e di manifestarsi? Ed è per tale ragione, ed in quanto siamo stati fatti esperti nella nostra esperienza lontana ma a noi ancora presente, che una simile caratterizzazione del nostro paese, e persino della sua cultura e della sua letteratura, ci rattrista e ci preoccupa; alla quale più si ribella la nostra intelligenza. 1987-1988
Alberti, Guglielmo 184, 221 Alicata, 162 Alighieri, Dante 35, 244 Alvaro, Corrado 221 Anderson, Sherwood 276 Adreotti, Libero 178 Antonielli, Sergio 164
Borgese, Giuseppe Antonio 270 Bottai, Giuseppe 268 Brancati, Vitaliano 157, 240
Arias, Gino
Calamandrei, Piero 216, 246 Calcaterra, Carlo 262 Calvino, Italo 165, 166 Cammeo, Federico 216 Cancogni, Manlio 164 Capasso, Aldo 221 Capocchini, Ugo 100, 102, 196, 220 Cardarelli, Vincenzo 185 Carducci, Giosuè 86, 262
Aristotele
245
244
Bacci, Baccio Maria
178
Baldini, Antonio 248 Bargellini, Piero 218, 264, 268 Bartolini, Lorenzo 196 Beethoven, Ludwig van 116 Benco, Silvio 221 Berti, Luigi 213 Betti, Ugo 84, 85 Biasion, Renzo 164 Bigongiari, Piero
34, 207, 217, 291
Bilenchi, Romano Biscottini Bo, Carlo
128, 217, 268, 272
278, 279 34, 35, 128, 207, 217, 224, 268,
273 Bompiani, Valentino 158, 182 Bonfantini, Mario 276 Bonsanti, Alessandro
9, 30, 31, 36, 38, 41,
42, 68, 74, 85, 86, 100, 12225 258] 27/68/2338] 136, 137, 138, 139, 140, 145, 146, 148, 149, 150, 178, 181, 184, 188, 190, Di zo, Zi, 20) 22 233) 234, 2351243, 256; 268, 272, 287, 291, 303,
Bontempelli, Massimo
194
Brocchi, Virgilio Buzzati, Dino
209 194, 306
Carena, Mariuccia 109 Carocci, Alberto 9, 29,37, 120, 121, 177, 178, 180, 181, 182, 183, 204, 217, 218, 219, 220, 256, 266, 268, 294, 305
Carocci, Giampiero Cecchi, Emilio
164
270, 288, 289, 290
Chiaromonte, Nicola 266 Cibotto, Giannantonio 119 Cicerone, Marco Tullio 244 Colacicchi, Giovanni 178, 220 Colombo, Furio 169 Comisso, Giovanni 156, 221, 235
Consiglio, Alberto 221 108, 120, 121, 80 201813: RA1525 ‘ Conti, Ettore Corti, Maria 59 142, 143, 144, Croce, Benedetto 196, 270, 272, 289 151, 152, 156, 203, 205, 206, DANZA: d’Annunzio, Gabriele 184, 212, 269, 270, 258, 263,266, 287, 288 304, 305 D'Aquino, Tommaso
244
322
INDICE DEI NOMI
De Gasperi, Alcide
48
De Marco, Roberto 169 De Pisis, Filippo 95, 196, 197 Debenedetti, Giacomo 219, 221 Del Valle Bonsanti, Marcella 129, 133, 134, 136 Delfini, Antonio
109, 273, 274, 303, 306
Dreiser, Theodore Dumas, Alexandre
162 209
Eco, Umberto 169 Einaudi, Giulio 163 Emanuelli, Enrico 44, 45 «Eusebio », v. Montale, Eugenio
Fabiano, Paolo 285 Fabrello, sorelle 90 Falqui, Enrico 77, 248, 278, 291 Fantinel, Valerio 169 Faraoni, Enzo 105 Fenoglio, Beppe 164 Ferrata, Giansiro 36, 41, 96, 97, 120, 121, 152816116381 277, 304
Ferrero, Leo
788219
Garrone, Dino
217
Gentile, Federico 125, 156, 235 Gentile, Giovanni 196, 198, 278 Gide, André 219, 285 Giolitti, Antonio 164 Giorgione, v. Zorzi, Giorgio Gobetti, Piero
15, 184, 219
Gorgerino, Giuseppe 76 Guarnieri, Adriana 116 Guarnieri, Silvio 60
Guglielmi, Angelo Guglielmi, Guido
169 169
Hegel, Georg Wilhelm
280
Hemingway, Ernest 276 Hugo, Victor 135, 209
2218025 49256)
Isgrò, Emilio
169
178, 218
Feuerbach, Ludwig 280 Filippini, Enrico 169 Flora, Francesco 270 Foscolo Benedetto, Luigi 216 Foscolo, Ugo 246 Franchi, Raffaello 9, 33, 120, 152, 178, 183, 184, 185, 186, 188, 189, 190, 204, 21782189219 2207234#273 3031304
Gadda, Carlo Emilio
36, 42, 68, 69, 70,
TT ISTE I, I 86, 87, 88, 89, 90, 91, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 101, 102, 103, 104, 105, TOS 106; 10980, ey vel, 1007 IS R12.0 123124713013 1 MT49M56! 206821342:19922:1R2298230 82338235, 256, 268, 303, 304, 305
Gadda, Piero
Galilei, Galileo 196 Gallian, Marcello 38, 39 Gallo, Dinda 116 Gallo, Niccolò 116 Gargiulo, Alfredo 90, 247, 270 Gatto, Alfonso 206, 273, 274
80, 221
James, Henry 149, 152 Joppolo, Beniamino 293 Jovine, Francesco 240 Joyce, James 149, 188, 219
Kant, Immanuel
280
La Cava, Mario 164 Lamanna, P.E. 272 «La Mosca» v. Tanzi, Drusilla Landolfi, Tommaso 34, 109, 273, 274
Leonetti, Francesco
168
Leopardi, Giacomo
193
Limentani, Ludovico Longanesi, Leo 79
272
194, 217,
INDICE DEI NOMI
Loria, Arturo 9, 29, 190, C152:156: 199, 204, 205, 206, 207, 226, 235, 266, 273, Luzi, Mario 34, 128,
42, 108, 200,201, 208, 217; 303, 304, 207, 217,
120, 121, "202,7203, 219, 220, 305, 307 268
Machiavelli, Niccolò 244, 246, 255 Macrì, Oreste 128, 207, 217, 268, 273 Malagoli 287
Malaparte, Curzio
219
Manacorda, Guido
263, 264
Manganelli, Giorgio Manzini, Gianna
169, 175
81, 121, 185, 220, 304
Marangoni, Andrea
Mazzoni, Guido 215, 262 Mezio, Alfredo 248 Momigliano, Attilio 262, 264, 270, 286, 291
9, 10, 11, 12, 14, 15,
417; 16016 2,23) 25, ALS, DID. 2.085 (183115285 389495 O OST SII: 40, 42, 43, 44, 46, 47, 48, 50, 51, 52, 53,
55, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 64, 66, 73, 74, 78, 79, 82, 83, 88, 99, 103, 108, 120, 122, (2913 049 MZ CRD 18581861 2.02.03. 048206 8217/210220 22: DI SQ 2923 023239241825 0825:]5 PAIA, DI DI, BELLI, CADI, 284, 288, 289, 291, 303, 304, 305, 307,
315 Montanelli, Indro Morandi, Giorgio Moravia, Alberto 282, 288, 305 Moretti, Marino
Nannetti, Neri
190
Nannetti, Vieri
9, 105, 120, 152, 190, 192,
193, 194, 204, 217, 218, 220; 273 Natoli, Glauco 221 Noventa, Giacomo 37, 181, 266, 267, 268
Ojetti, Ugo 213, 226, 256 Ortese, Anna Maria 164 Ortolani, Dario 210 Ortolani, Giuseppe 210, 213, 214 Ortolani, Roberto 210
Ortolani, Sergio
210
Ottokar, Nicola
263
28, 257
Marangoni, Matteo 25, 26, 27, 28, 30, 222 Mariannina 106 Marx, Karl 280, 282, 285, 293 Mattioli, Raffaele 105, 106
Montale, Eugenio
323
46 196 162, 180, 182, 183, 267, 209, 211
Morozzo della Rocca 298 Morra, Umberto 184, 221 Mussolini, Benito 15, 38, 39, 226, 238, 239, 265, 284, 287, 299
Pagliarani, Elio 168 Palazzeschi, Aldo 59, 60, 156, 182, 194, 2208235260801]
Pampaloni, Geno
166
Pancrazi, Pietro 24, 82, 83, 193, 209, 213, DIAN225226)236 Pannunzio, Mario 125
Papi, Roberto 220 Papini, Giovanni 183, 204, 205, 209, 215, 218
Parenti, fratelli
120255
Sl 7A2157
286
Parronchi, Alessandro 34, 207, 217 Pascoli, Giovanni 212 Pasolini, Pier Paolo -168, 182 Pasquali, Giorgio 245, 263, 278 Pavese, Cesare 294 Pavolini, Alessandro 38 Pavolini, Corrado 38 Pea, Enrico 156, 220, 235
Perec, Georges
149
Petrarca, Francesco Peyron, 196
35
Pignotto, Lamberto 169 Pincherle, Adriana 284 Piovene, Guido 305 Pirandello, Luigi 149, 209, 213 Pizzuto, Antonio Platone, 244
176
Poe, Edgar Allan
155
324
INDICE DEI NOMI
Tanzi, Drusilla
Poggioli, Renato 217, 224, 278 Polledro, Alfredo 211 Porta, Antonio 169 Pratolini, Vasco 155, 206 Procacci, Virgilio 210 Proust, Marcel 149, 155, 188, 219
26, 27, 28, 30, 36, 41, 42,
AA LIZ RSI IANII DOSI AZ2I 2299230, 258
Tecchi, Bonaventura
25, 81, 82, 83, 84,
178, 214, 218, 219, 225, 260, 303
Timpanaro,
Sebastiano
104195198,
9, 33, 120, 152,
1997721772207301
Timpanaro, Sebastiano junior Quarantotti Gambini, Pier Antonio
156,
256, 303, 306
Quasimodo, Salvatore
221
Raimondi, Giuseppe 183, 184 Ramat, Raffaello 181 Ricci, Berto 217 Rodocanachi, Lucia 88, 90 Rodocanachi, Paolo 88, 90 Rosai, Ottone 217 Rosselli, Carlo 284 Rosselli, Nello 284 Roversi, Roberto 168 Russo, Luigi
105, 106, 130, 198
Saba, Umberto
43, 156, 221, 301
Sanguineti, Edoardo
169
Sbarbaro, Camillo 301 Scalia, Gianni 168 Semenza, Luigi 107 Seminara, Fortunato 164 Serra, Renato 270 Siciliano, Enzo 144
Silone, Ignazio 282 Soffici, Ardengo 183, 218 Soldati, Mario 276, 305, 306 Solmi, Sergio 219, 221, 301 Souvarine, Boris 282, 285 Spaziani, Maria Luisa 51, 54 Stuparich, Giani 221 Svevo, Italo 120, 149, 156, 188, 211, 215, 2218235:2.69
199
Tiossi, Gina 60, 65, 66 Titta Rosa, Giovanni 121
Tobino, Mario 164 Tozzi, Federigo 219, 235 Traverso, Leone 34, 217, 273 Trockij, Lev Davidovié 285 Tucci, Niccolò 307 Turchi, Nicola
263
Ulivi, Ferruccio 132, 307 Ungaretti, Giuseppe 37, 185, 248, 249
Varino, Ginetta 174, 175 Verga, Giovanni
41, 44, 65, 66, 96, 97,
211, 212
Vigevani, Alberto
307
Vittorini, Elio 9, 17, 33, 36, 41, 42, 44, 85, 9649762012. 18123129815 2M157 1581
160, 161, 162, 163, 164, 165, 166, 168, 109017156173 8175 178818081331 183,61927195;4198206,2:17382.19:3220) IZPAI COA), 755), VD), Va, 237. 239, 248, 254, 256, 257, 268, 272, 284, 287, 303, 306, 311
Voghera, Guido Volponi, Paolo
307 168
Woolf, Virginia
149, 219
Zorzi, Giorgio
101
Con Montale a Firenze ed a Milano
Il doloroso travaglio di Carlo Emilio Gadda La presenza ininterrotta di Alessandro Bonsanti Il mio sodalizio letterario con Vittorini
Di alcuni «Solariani» Il mio apprendistato letterario a Firenze Indice dei nomi
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000963.
Questo volume è stato impresso nel mese di aprile dell’anno 1989 dalla Milanostampa - Farigliano (CN) Stampato in Italia - Printed in Italy
Silvio Guarnieri è nato a Feltre nel 1910; du-
rante gli anni dell’Università, a Firenze, si è legato di amicizia con quegli scrittori che davano vita alla rivista «Solaria», e particolarmente con Bonsanti, Vittorini, Montale e C.E. Gadda. Dal 1938 al 1950 è stato direttore di Istituti italiani di cultura e lettore in Istituti universitari, dapprima a Timisoara (Romania) e quindi a Bruxelles. Dopo il rientro in Italia, dal 1960 al 1980 è stato docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea nella Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa. Dal 1981 risiede a Feltre. Iniziata l’attività di critica letteraria in «Solaria», ha collaborato quindi ed ancora collabora a riviste e quotidiani italiani e stranieri. Dopo i primi volumetti di carattere polemico, ha pubblicato: Autobiografia giovanile, volume primo, edizione privata, Timisoara, 1941. Autobiografia giovanile, volume secondo, edizione privata, Timisoara, 1942. Carattere degli italiani, Einaudi, Torino, 1948. Cinquant'anni di narrativa in Italia, Parenti, Milano, 1955. Utopia e realtà, Einaudi, Torino, 1955: Cronache feltrine, Neri. Pozza, Vicenza, 1969. Condizione della letteratura, Editori Riuniti, Roma, 1975. L’intellettuale nel partito, Marsilio, Venezia, 1976. Storia minore, Bertani, Verona, 1985.