La lotta spirituale nella tradizione ortodossa 888227313X, 9788882273132

(Atti del XVII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, Bose, 9-12 settembre 2009.) La ricerca di D

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La lotta spirituale nella tradizione ortodossa
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Enzo Bianchi, John Chryssavghis, Georges Khodr, Hervé Legrand, Filaret Vachromeev, Kallistos Ware e Aa.Vv.

LA LOTTA SPIRITUALE NELLA TRADIZIONE ORTODOSSA

EDIZIONI QIQAJON COMUNITÀ DI BOSE

LA LOTTA SPIRITUALE NELLA TRADIZIONE ORTODOSSA

Nella stessa collana SPIRITUALIT‘ ORIENTALE P. Deseille, Il vangelo nel deserto. Un itinerario di spiritualitÜ G. Bunge, Akedia. Il male oscuro G. Bunge, Vino dei draghi e pane degli angeli. Dall’ira alla mitezza Aa.Vv., Il deserto di Gaza. Barsanufio, Giovanni e Doroteo Aa.Vv., Giovanni Climaco e il Sinai Aa.Vv., Atanasio e il monachesimo al Monte Athos Aa.Vv., San Sergio e il suo tempo Aa.Vv., San Serafim: da Sarov a Diveevo Aa.Vv., La notte della chiesa russa Aa.Vv., Il Cristo trasfigurato nella tradizione spirituale ortodossa Aa.Vv., La paternitÜ spirituale nella tradizione ortodossa

Invieremo gratuitamente il nostro Catalogo generale e i successivi aggiornamenti a quanti ce ne faranno richiesta. www.qiqajon.it www.monasterodibose.it

AUTORE:

CURATORE: TITOLO: COLLANA: IN COPERTINA:

Enzo Bianchi, Iakovos Bizaourtis, John Chryssavghis, Amvrosij Ermakov, Justin Hicks, Georges Khodr, Hervß Legrand, Andrß Louf, Andrew Louth, Vasilij Maruòcˇak, Petr Meòcˇerinov, Porfirje Peric´, Antonio Rigo, Vassilis Saroglou, Grigorij Stefanov, Filaret Vachromeev, Michel Van Parys, Kallistos Ware Sabino ChialÜ, Lisa Cremaschi e Adalberto Mainardi La lotta spirituale nella tradizione ortodossa SpiritualitÜ orientale La lotta di Giacobbe, affresco (1294-1295), chiesa di San Clemente, Ocrida

Prima edizione digitale: 2012 ß 2010, 2012 EDIZIONI QIQAJON COMUNITA` DI BOSE 13887 MAGNANO (BI) Tel. 015.679.264 - Fax 015.679.290

isbn 978-88-8227-370-5

E. BIANCHI, I. BIZAOURTIS, J. CHRYSSAVGHIS, A. ERMAKOV, J. HICKS, G. KHODR, H. LEGRAND, A. LOUF, A. LOUTH, V. MARUóCˇAK, P. MEóCˇERINOV, P. PERIC´, A. RIGO, V. SAROGLOU, G. STEFANOV, F. VACHROMEEV, M. VAN PARYS, K. WARE

LA LOTTA SPIRITUALE nella tradizione ortodossa Atti del XVII Convegno ecumenico internazionale di spiritualitÜ ortodossa Bose, 9-12 settembre 2009 a cura di Sabino ChialÜ, Lisa Cremaschi e Adalberto Mainardi monaci di Bose

EDIZIONI QIQAJON COMUNITA` DI BOSE

PREFAZIONE

Due detti di un padre del deserto egiziano del IV secolo possono guidarci nella lettura degli atti del XVII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (Monastero di Bose, 9-12 settembre 2009) che ha visto uomini e donne spirituali e teologi provenienti da diverse confessioni cristiane meditare insieme sul tema della lotta spirituale. Così racconta il primo detto. “Chiesero ad abba Agatone: ‘Padre, quale virtù nella vita spirituale richiede maggior fatica?’. Rispose: ‘Perdonatemi, penso che non vi sia fatica simile al pregare Dio. Sempre, quando l’uomo vuole pregare, i nemici cercano di impedirglielo; sanno infatti che da nulla sono ostacolati quanto dal fatto che uno preghi Dio. Qualsiasi cosa poi l’uomo intraprenda, se persevera in essa, trova pace, ma la preghiera esige lotta fino all’ultimo respiro” (Detti dei padri, Serie alfabetica, Agatone 9). La ricerca di Dio, la preghiera richiedono una lotta “fino all’ultimo respiro”, una lotta incessante contro tutto ciò che cerca di distrarre il credente dalla comunione con il Signore, una lotta vigilante per discernere Satana che si traveste da angelo di luce (cf. 2Cor 11,14). Ma questa lotta interiore volta alla vigilanza del cuore per escluderne ogni pensiero che sia d’ostacolo alla memoria Dei, presuppone la lotta dell’intera persona – corpo, anima e psiche – come ci ricorda un altro detto attribuito allo stesso padre. “Chiesero ad abba Agatone: ‘Che cos’è più importante, la fatica del corpo o la custodia interiore?’. L’anziano disse: ‘L’uomo è simile a un albero: la fa5

Prefazione

tica del corpo sono le foglie, la custodia interiore è il frutto. Poiché, come sta scritto ogni albero che non dà buon frutto sarà tagliato e gettato nel fuoco (Mt 3,10), è chiaro che tutto il nostro sforzo deve essere rivolto al frutto, cioè a custodire le profondità del nostro cuore. Ma è necessaria anche la protezione e l’ornamento delle foglie, che sono la fatica del corpo” (Detti dei padri, Serie alfabetica, Agatone 8). A questa duplice lotta, a questa duplice ascesi del corpo e dello spirito sono dedicate le riflessioni raccolte in questo volume. L’essere umano nella sua interezza è coinvolto nella ricerca di Dio. Il patriarca Bartolomeos I di Costantinopoli ha rilevato la profonda attualità dell’argomento della lotta spirituale, che permette di misurare “l’importanza della tradizione ascetica nel nostro mondo”, e insieme la sua valenza ecumenica. Si tratta, secondo il patriarca Kirill I di Mosca, di “un tema fondamentale, di cui difficilmente si può esagerare l’importanza, in quanto tocca l’essenza stessa della vita di chiunque voglia seguire Cristo fino in fondo”. A fondamento di questa lotta sta infatti il rinnegamento di sé a causa del vangelo (cf. Mc 8,34-35), e già Paolo evocava “l’immagine della vita cristiana come battaglia”, non tuttavia “contro creature fatte di sangue” (cf. Ef 6,11-12), ma contro le dominanti di oppressione dell’uomo sull’uomo che sembrano condizionare la storia: per questo, rileva il patriarca, “il combattimento spirituale, come la salvezza stessa, ha una dimensione universale, coinvolge i destini del mondo e dell’umanità”. Il cristiano non lotta contro gli altri uomini, con tutti cerca di costruire vie di pace, ma lotta contro di sé, contro le proprie passioni, contro l’idolatria di se stesso, l’egoismo, la philautía, come dicono i padri orientali. “È un combattimento che riflette la dolcezza del vangelo”, ci ha ricordato il patriarca di Antiochia Ignatios; è “un duellum mirandum, una ‘stupefacente battaglia’, vale a dire una lotta corpo a corpo tra la vita e la morte nel mistero pasquale, dal quale Cristo emerge come vincitore”, annota nel suo messaggio di saluto l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams. 6

Prefazione

Il tema, studiato nelle sue radici bibliche da Enzo Bianchi, è stato in seguito approfondito con l’aiuto di diversi padri della chiesa: Giovanni Climaco, Isacco di Ninive, Massimo il Confessore, lo Pseudo-Macario e la tradizione ascetica russa … Non è mancato, nel corso di queste riflessioni, il confronto con le più recenti acquisizioni della psicologia contemporanea. Ampio spazio è stato dedicato a esperienze contemporanee di formazione alla lotta spirituale, in particolare in Grecia, in Bulgaria, in Serbia e in Russia. Alcune relazioni sono state consacrate alla lotta che il cristiano deve condurre in obbedienza la volontà del suo Signore contro lo spirito di divisione all’interno della comunità dei credenti. Si è riflettuto così sullo scambio dei doni spirituali tra chiese e sulla lotta per riportare alla comunione le chiese d’oriente e d’occidente, ciascuna con le proprie ricchezze e i propri tesori spirituali. Il convegno è stato così un’occasione di incontro e scambio fraterno tra cristiani di diverse confessioni, raccolti in ascolto della grande tradizione della chiesa d’oriente sul tema del discernimento e della lotta contro i pensieri malvagi, vera e propria palestra di libertà interiore, a cui tutti gli uomini sono chiamati. Questa dimensione ecumenica è testimoniata in particolare dalle parole di saluto e incoraggiamento, oltre a quelle già ricordate, pervenute da parte di papa Benedetto XVI, per il tramite del segretario di Stato vaticano cardinale Tarcisio Bertone, e da parte del cardinale Walter Kasper, capo del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani; dal patriarca della Chiesa ortodossa romena Daniel I, dall’arcivescovo di Atene Ieronimos, dal catholicos di tutti gli Armeni Karekin II, dal metropolita di Malta e Italia Gennadios, dal metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina Volodymyr, dal reverendo Samuel Kobia, presidente del Consiglio ecumenico delle chiese di Ginevra. Vorremmo infine ricordare qui con gratitudine e affetto un’insigne studiosa della tradizione ortodossa russa e amica della Comunità di Bose, Nina Kauchtschischwili (1919-2010), membro autore7

Prefazione

vole del Comitato scientifico dei convegni ecumenici internazionali di spiritualità ortodossa sin dal loro inizio, che ha dedicato tutta la sua vita alla lotta contro lo spirito di divisione tra le chiese. Ora, combattuta la buona battaglia, ha terminato la lotta (cf. 2Tm 4,7) e ci accompagna nella comunione dei santi del cielo e della terra.

Bose, 29 giugno 2010 Pietro e Paolo apostoli 8

Il Patriarca ecumenico, Bartholomeos I Costantinopoli, 9 agosto 2009

È con grande piacere che rispondiamo al cortese invito da parte del molto reverendo Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose, per estendere una parola di saluto ai partecipanti del XVII Convegno ecumenico internazionale che si terrà dal 9 al 12 settembre 2009. Questi convegni su svariati temi legati alla spiritualità ortodossa hanno arricchito nel corso degli anni il discorso accademico ed ecumenico, nella misura in cui radunano insieme da tutto il mondo alcuni dei più eminenti pensatori, teologi e rappresentanti ecclesiali. In più, essi sono la testimonianza eloquente del contributo unico del monachesimo alle relazioni ecumeniche tra le diverse confessioni cristiane. L’argomento di quest’anno, “La lotta spirituale nella tradizione ortodossa”, fornirà l’occasione per discutere l’importanza della tradizione ascetica nel nostro mondo. Per questa occasione, mentre siamo con voi nella preghiera giacché non possiamo essere presenti di persona, il nostro rappresentante ufficiale sarà sua eminenza il Metropolita Kallistos, il cui insegnamento e i cui scritti si sono concentrati in modo speciale sulla tradizione ascetica attraverso i secoli. Porgiamo dunque le nostre più sincere congratulazioni agli organizzatori e agli ospiti, insieme ai nostri fervidi auguri ai relatori e a tutti i partecipanti a questo Convegno accademico e spirituale. ✠ Bartholomeos I Arcivescovo di Costantinopoli fervente intercessore presso Dio

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Il Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, Kirill I Mosca, settembre 2009

Eminentissimo padre priore Enzo Bianchi, esimi organizzatori e partecipanti del Convegno, saluto cordialmente i partecipanti al XVII Simposio internazionale di spiritualità ortodossa, organizzato dalla Comunità monastica di Bose e dedicato al tema “La lotta spirituale nella tradizione ortodossa”. Un tema fondamentale, di cui difficilmente si può esagerare l’importanza, in quanto tocca l’essenza stessa della vita di chiunque voglia seguire Cristo fino in fondo. Rivolgendosi ai suoi discepoli, il Salvatore dice che l’autentico cammino del cristiano comporta una lotta, dal cui esito dipende la vita eterna dell’uomo: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà” (Mc 8,34-35). L’immagine della vita cristiana come battaglia, come impegno militare risale alle parole dell’apostolo Paolo: “Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i principati e le potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,11-12). Con la sua morte in croce e la sua resurrezione, il nostro Signore Cristo Gesù ha già sconfitto le forze del male e siede alla destra di Dio Padre “al di sopra di ogni principato e potenza, al di sopra di ogni forza e dominazione” (Ef 1,21). Ma il trionfo finale del bene sul male non è ancora attuato in questo mondo: sebbene il disegno di Dio sulla salvezza in Cristo sia già manifesto, le forze del male ancora tentano di impedire la trasfigurazione finale del mondo. L’eminente pensatore russo Vladimir Solov’ev ha descritto bene questa situazione del nostro tempo, dicendo che Cristo regna sul mondo, ma non ancora nel mondo. Invero nel mondo vediamo una continua ininterrotta lotta tra le forze del bene e del male, e talora sembra che coloro che san Paolo chiama “dominatori di questo mondo tenebroso” non siano mai stati così forti come oggi. Quando vediamo come nel mondo contemporaneo si spaccia il nero per bianco, la menzogna si traveste di verità, e ciò che in tutta la storia umana era ritenuto peccato ora non è più ritenuto tale, allora capiamo che sono minacciati i fondamenti stessi della salute morale e spirituale della

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società. La Chiesa di Cristo, pienamente cosciente della sua missione salvifica, con la forza dello Spirito santo che è in lei, non ha mai cessato di smascherare il mondo “riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio” (Gv 16,8), invitando al pentimento e contrapponendosi attivamente alle forze del male nelle diverse sfere della vita sociale. In verità il combattimento spirituale, come la salvezza stessa, ha una dimensione universale, coinvolge i destini del mondo e dell’umanità. Ciò è evidentissimo anche ai nostri giorni. Ma, come ci dice tutta l’esperienza ascetica dell’ortodossia, il potere degli “spiriti del male” in questo mondo si esercita attraverso le passioni umane. Le multiformi passioni di cui gli uomini sono pervasi non consentono a Cristo di regnare nel cuore umano, e quindi nel mondo. Perciò il primo obiettivo della lotta spirituale è la vittoria sulle proprie passioni. Senza questa vittoria, senza il “rinnegamento di se stessi”, secondo la parola del Salvatore, qualsivoglia tentativo di ricostruire il mondo anche sui più giusti fondamenti finisce inevitabilmente con un nuovo trionfo del male, come la storia testimonia in modo eloquente. Questo principio basilare della vita cristiana era ben noto agli antichi asceti, che sulla base della propria esperienza spirituale formularono le regole della lotta alle passioni. Tra le opere ascetiche dei santi padri sono particolarmente note La scala di san Giovanni Climaco, gli Insegnamenti di Abba Doroteo, i Discorsi ascetici di sant’Isacco il Siro e, naturalmente, la Filocalia, vero e proprio scrigno della saggezza spirituale dei padri anacoreti della Chiesa antica. Queste opere, tradotte e pubblicate in Russia, sono state una guida preziosissima nella vita di molte generazioni di credenti ortodossi. Con il loro aiuto gli asceti russi attinsero la santità e divennero a loro volta maestri nella difficile arena della lotta alle passioni. Tra loro si distinguono in particolare autori spirituali come i vescovi Tichon di Zadonsk, Ignatij (Brjan™aninov), Teofane il Recluso, i santi padri di Optina Pustyn’. Essi vissero in un passato relativamente recente, onde i loro consigli ai figli spirituali ci appaiono ancora attualissimi. Nelle loro opere ascetiche i santi padri indicano quattro fondamenti, sui quali costruire un’autentica vita spirituale e la lotta alle passioni: la consapevolezza della propria umana impotenza, il porre ogni speranza solo in Dio, la pratica dell’astinenza e l’autolimitazione e, infine, una vita di preghiera. Questa è l’“armatura di Dio” (Ef 6,11) con il cui aiuto i cristiani, usando le parole di Paolo, possono resistere alle “insidie del diavolo” e conservare così quello che la vittoria divina in Cristo ha già conquistato una volta per tutte.

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Confido che lo svolgimento del XVII Convegno internazionale rammenti ai cristiani di oggi la necessità che nella vita personale e in quella sociale si seguano le regole basilari dell’ascesi cristiana, e ci aiuti a vedere quanto l’insegnamento ortodosso sulla lotta spirituale sia importante e attuale per il mondo contemporaneo. Con amore nel Signore, ✠ Kirill Patriarca di Mosca e di tutta la Russia

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Segreteria di stato della Città del Vaticano Città del Vaticano, settembre 2009

In occasione del Convegno ecumenico internazionale “La lotta spirituale nella tradizione ortodossa” il sommo Pontefice rivolge un beneaugurante saluto esprimendo apprezzamento per l’opportuna iniziativa e, mentre auspica che il fraterno incontro susciti una rinnovata consapevolezza del valore della lotta spirituale come conseguenza dell’amore di Cristo e un generoso impegno per la formazione ascetica delle nuove generazioni, invoca la celeste intercessione della Madre di Dio e di cuore invia agli organizzatori, agli illustri relatori e ai partecipanti tutti l’implorata benedizione apostolica. ✠ Tarcisio cardinale Bertone Segretario di stato

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Il Patriarca di Antiochia e di tutto l’oriente, Ignatios IV Damasco, settembre 2009

È con amore e legame fraterno al carissimo fratel Enzo e all’amatissima Comunità di Bose che saluto i partecipanti al XVII Convegno ecumenico “La lotta spirituale nella tradizione ortodossa”. Il tema che avete scelto di affrontare quest’anno ha un significato particolare per la Chiesa di Antiochia. Questa Chiesa, cui il suo Signore ha voluto risparmiare le grandi tentazioni legate al potere delle diverse “Roma”, ha sempre concepito la propria lotta spirituale come una purificazione interiore che le permette di manifestare il proprio amore incondizionato verso il prossimo, nel mezzo del mondo arabo nel quale è chiamata a dare la propria testimonianza. Questa lotta diretta verso l’“interno” di noi stessi non si è mai manifestata contro l’altro nella sua alterità: è un combattimento che riflette la dolcezza del vangelo in un mondo alla ricerca continua di un senso di vita. Mi unisco alle vostre preghiere e vi porto nelle mie. Auguro vivamente che i vostri lavori siano accolti dal Signore come un’azione di grazie per la sua gloria e per l’edificazione di ciascuna e di ciascuno di voi nel corpo di Cristo. Che il Signore sia la nostra forza nelle nostre lotte quotidiane e ci aiuti a risorgere in ogni momento dalle tenebre della morte, testimoniando così il suo amore per tutta l’umanità. ✠ Ignatios IV Patriarca di Antiochia e di tutto l’oriente

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Il Patriarca di Romania, Daniel Bucarest, 9 settembre 2009

Eminenze, eccellenze, reverendissimi padri, fratelli e sorelle in Cristo! Il XVII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa organizzato dal Monastero di Bose ha per tema quest’anno “La lotta spirituale nella tradizione ortodossa”. Nel vangelo letto nel primo giorno dell’anno liturgico, Cristo annuncia a tutti nella sinagoga di Nazaret citando il profeta Isaia: “Lo Spirito del Signore … mi ha mandato a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi” (Lc 4,16-18). Attraverso la lotta spirituale contro le passioni egoistiche che lo opprimono e lo tengono prigioniero accecandolo, l’uomo viene a poco a poco purificato; un’energia nuova, la grazia increata, che è comunione con Dio, agisce in lui. Infatti come dice sant’Isacco il Siro, “se non è esercitato egli stesso, nessun figlio può ricevere come un aiuto la ricchezza della casa di suo padre”, e prosegue: “Poiché ogni giorno ci è domandata la prova del nostro amore per Dio nella lotta contro le tentazioni”. Domandiamo al Signore che benedica tutti i partecipanti di questo Convegno e i loro lavori. Possa egli accordare a ciascuno la sua pace e la sua gioia che sono i frutti della lotta spirituale dove si coltivano i doni di Dio. Infine desideriamo specialmente esprimere i nostri ringraziamenti a fratel Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose, per la sua opera missionaria e il suo impegno a favore dell’irradiamento della spiritualità della Chiesa indivisa. ✠ Daniel Patriarca di Romania

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L’Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, Ieronymos Atene, 7 settembre 2009

Cari padri e fratelli, con gioia saluto la Comunità monastica di Bose e tutti i fedeli partecipanti al presente Convegno spirituale dedicato a un tema assolutamente essenziale per la comprensione della spiritualità ortodossa. Il cammino con il Cristo è in modo eminente un cammino di lotta e di sacrificio. Non sarebbe possibile, a rigor di termini, se il cammino della Chiesa non fosse cammino di lotta spirituale, sia che essa venga intesa come sottomissione delle passioni, sia come rifiuto dei pensieri cattivi, sia anche come lotta corpo a corpo con il diavolo. In questa lotta spirituale l’esperienza delle sante figure della Chiesa del passato è una guida preziosa. Il loro amore per Cristo e la ricerca solo del suo Regno e della sua giustizia li hanno resi combattenti indefessi, che “fanno violenza” alle porte del paradiso. Dalle loro tecniche e dai loro esempi abbiamo molto da imparare e con gioia leggerò le interessanti relazioni del vostro Convegno. Augurando la buona riuscita secondo Dio ai vostri lavori e invocando la benedizione del Signore sulla vostra vita e sulle vostre opere rimango, con ardenti preghiere, ✠ Ieronymos Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia

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Il Metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina, Volodymyr Kiev, 9 settembre 2009

Fratelli e sorelle amati in Cristo! In nome della Chiesa ortodossa ucraina vi mando il mio saluto all’inizio dei lavori del Convegno sulla lotta spirituale nella tradizione ortodossa. Gli incontri teologici del Monastero di Bose sono da tempo una bella tradizione. Per la diciassettesima volta si riuniscono teologi della Chiesa cattolica e delle Chiese ortodosse nazionali per considerare diversi aspetti della tradizione spirituale orientale e, in tal modo, arrivare a una migliore comprensione reciproca. Il Convegno di Bose è una rara esperienza di incontro tra l’oriente e l’occidente. Una piccola comunità dell’Italia settentrionale è oggi nota in tutto il mondo per essere uno spazio di dialogo teologico di vicendevole arricchimento. Quest’anno l’incontro è dedicato a un concetto importantissimo, direi centrale per l’ascetica ortodossa: la lotta spirituale. Mi felicito che gli organizzatori abbiano scelto questo tema per un approfondito esame. È importante evidenziare che la lotta spirituale non è un concetto strettamente monastico, legato solo alla vita interiore dei monaci. La lotta spirituale è parte integrante della vita di ogni cristiano. Nel sesto capitolo della Lettera agli Efesini l’apostolo Paolo ci ha lasciato una descrizione intensa e precisa della lotta spirituale che ogni seguace di Cristo è chiamato a condurre. L’Apostolo ci invita a rafforzarci nel Signore e nella potenza della sua forza, e anche a rivestirci dell’armatura divina, per resistere alle insidie del diavolo (cf. Ef 6,10-11). La tradizione cristiana orientale ha accumulato una secolare esperienza nell’azione ascetica e nella lotta spirituale. Oggi però questa tradizione è poco conosciuta. Non solo, talvolta ci scontriamo con erronee interpretazioni, o con veri e propri travisamenti. Questo ci impegna a cercare sempre più di capire non solo la lettera, ma anche lo spirito degli scritti dei santi padri. Ora, uno studio teorico astratto della letteratura ascetica non sarà molto fruttuoso. Come non si può conoscere l’arte militare, senza partecipare a nessun combattimento, così non si può affrontare il combattimento invisibile senza un’esperienza di vita spirituale.

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Vorrei ringraziare specialmente il priore padre Enzo Bianchi. Grazie alla sua inestinguibile energia ed entusiasmo questo Convegno consente a noi di scoprire insieme e approfondire diversi aspetti della tradizione spirituale ortodossa e, inoltre, di testimoniare la nostra esperienza spirituale dinanzi al mondo cristiano occidentale. Ti auguro, caro padre Enzo, l’aiuto di Dio tanto nel lavoro teologico, quanto nell’ardua opera di direzione del Monastero. Auguro anche a tutti i partecipanti del Convegno di acquisire la benedetta conoscenza della tradizione della Chiesa orientale. Confido che questo dialogo tra rappresentanti delle tradizioni ecclesiali d’oriente e d’occidente sarà foriero di buoni frutti. ✠ Volodymyr Metropolita di Kiev e dell’Ucraina Primate della Chiesa ortodossa ucraina

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Il Catholicos di tutti gli armeni, Karekin II

Etchmiadzin, 2 settembre 2009

Salutiamo gli organizzatori e tutti i partecipanti al XVII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa e inviamo su di voi le nostre benedizioni pontificie e i nostri migliori auguri dalla sede madre della santa Etchmiadzin, il centro spirituale degli armeni e sede della Chiesa armena. È gratificante che il Convegno di quest’anno, che ha come tema “La lotta spirituale nella tradizione ortodossa”, rifletta sulle questioni della spiritualità umana, sulla lotta per vincere le tentazioni, sul rafforzamento della vita di preghiera e sull’ascetismo. Questi temi, visti alla luce delle percezioni e delle comprensioni del xxi secolo, prenderanno in considerazione le posizioni e gli insegnamenti di autori ecclesiastici rinomati e venerati. Nel cristianesimo la preghiera occupa un posto rilevante poiché rafforza il mondo spirituale comunicando le grazie divine, come dice l’apostolo Paolo: “Il nostro uomo interiore si rinnova di giorno in giorno” (2Cor 4,16). Infatti, l’illuminazione spirituale disperde la disperazione, la depressione, le difficoltà e le ansietà. Il nostro Signore Gesù Cristo ci ha insegnato come pregare, ci ha indicato che la preghiera è la chiave per vincere le tentazioni del Maligno; in tal modo egli rappresenta un esempio per noi, esortandoci a essere servi vigilanti e operai nella vigna del Signore. Nella vita personale, familiare e sociale, l’origine della tragedia e della calamità si trova nella vita spirituale interiore di un uomo. Nel mondo odierno vediamo alcune manifestazioni delle conseguenze prodotte quando l’uomo sceglie erroneamente il male invece del bene: guerre, atrocità, disastri, atti di intolleranza e conflitti tra nazioni e religioni. I tempi nuovi creano nuove sfide per la santa Chiesa di Cristo e per l’umanità tutta. La soluzione di queste sfide richiede la cooperazione comune tra le Chiese sorelle, che devono impegnarsi con più seria diligenza a diffondere il messaggio del vangelo del Signore che porta la luce. Al fine di fortificare lo spirito di solidarietà e amore nel mondo, dobbiamo mantenere viva la luce divina della fede e della vera spiritualità nel cuore degli uomini. La collaborazione tra le Chiese, i dialoghi teologici, le discussioni congiunte su questioni sociali e la realizzazione di importanti iniziative promuoverà una maggiore conoscenza delle reciproche tradizioni e tesori spirituali. Attraverso la condivisione reciproca delle nostre dif-

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ferenti eredità, la nostra missione diventerà più fruttuosa e il mondo potrà aspettarsi un futuro migliore. Estendiamo i nostri sinceri auguri per il successo del vostro Convegno e offriamo le nostre preghiere al cielo, chiedendo allo Spirito santo di donarci il coraggio di continuare a diffondere la luce del vangelo di Cristo nel mondo moderno e di instillare l’amore e la pace di Dio nell’anima degli uomini. Che l’Onnipotente rafforzi tutti voi nel corso del vostro Convegno e vi conceda rinnovati successi per la gloria e lo splendore della santa Chiesa. “Grazia, misericordia e pace saranno con noi da parte di Dio Padre e da parte di Gesù Cristo, Figlio del Padre, nella verità e nell’amore” (2Gv 1,3). ✠ Karekin II Supremo Patriarca Catholicos di tutti gli armeni

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L’Arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams Londra, 8 settembre 2009

Cari amici, sono molto felice di inviare ancora una volta la mia benedizione e i miei migliori auguri nel momento in cui vi riunite a Bose per pregare, riflettere e discutere su ciò che i grandi maestri della vita spirituale hanno chiamato “l’arte delle arti”, cioè le discipline e le pratiche ascetiche che ci modellano, grazie alla potenza e alla grazia dello Spirito santo, a somiglianza di Gesù Cristo. In quest’occasione vi concentrerete sull’immagine della lotta spirituale. Fin dagli albori del cristianesimo, come vediamo nelle parole e nelle azioni del nostro Signore stesso, c’è stata la convinzione che gli esseri umani sono oggetto del violento assalto delle forze del male, un assalto che li lascia tremendamente indeboliti e non liberi. Il Signore viene con un vangelo di misericordia assoluta, non violenta, e di promessa. Tuttavia l’effetto di questo vangelo che si oppone all’aggressione del male è un grande conflitto, che avviene in ciò che la liturgia occidentale chiama un duellum mirandum, una “stupefacente battaglia”, vale a dire una lotta corpo a corpo tra la vita e la morte nel mistero pasquale, dal quale Cristo emerge come vincitore. È questo combattimento pasquale che ora avviene nelle profondità del cuore di tutti i battezzati: noi combattiamo non per la nostra vittoria ma perché la vittoria di Cristo si manifesti in noi. Affinché questo divenga reale abbiamo bisogno almeno di due cose. La prima è un occhio acuto che sappia diagnosticare gli stratagemmi delle forze distruttive, delle diverse modalità subdole da cui la vittoria di Cristo può essere oscurata o minata in noi attraverso passioni che obnubilano la nostra comprensione. Dobbiamo essere in grado di vedere dove le nostre abitudini orientate a noi stessi e che servono noi stessi si alleano con le correnti profonde della negazione e della ribellione che operano nell’universo e che definiamo diaboliche. In secondo luogo, abbiamo piuttosto semplicemente bisogno di perseveranza, cioè di quella lungimiranza che è in grado di vedere le sconfitte di ieri e di oggi come opportunità per il pentimento e l’edificazione, e non per la disperazione. E questa è una pazienza che nasce dalla fiducia che la vittoria è stata già in verità conquistata con la croce e resurrezione del Salvatore. Non vi è nulla di passivo in questo; è invece l’attitudine di una speran-

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za incrollabile basata sull’affidabilità di Dio che continuamente “ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!” (1Cor 15,57). Agli occhi di qualcuno questo linguaggio è duro. Nel mondo moderno siamo inclini a rifuggire il linguaggio bellico. Nella nostra Chiesa alcuni inni che utilizzano queste immagini negli ultimi anni sono divenuti fuori moda. È altresì difficile per molti accettare che il compito di essere un discepolo di Gesù Cristo sia questione della fatica di una vita e non il lavoro di un momento né semplicemente la gioia di alcuni sentimenti religiosi confortanti. È certamente vero che la Chiesa nel passato ha qualche volta utilizzato il linguaggio che si riferisce propriamente alla lotta spirituale per legittimare le guerre contro i non cristiani o la violenza contro gli eretici. E non è sorprendente che, in un’epoca in cui siamo consapevoli più che mai della vergogna e della tragedia della guerra nonché della crudeltà con cui alcuni possono appropriarsi del linguaggio della fede per fini violenti, noi vorremmo distoglierci da alcune di queste immagini di battaglie, armature e spade. Tuttavia il Nuovo Testamento ci mostra che, quando la morte e la vita s’incontrano, cioè quando il regno di Dio, con la sua giustizia e la sua pace, appare nel mezzo del nostro mondo di ogni giorno, ne scaturisce un’autentica battaglia, in cui le forze di distruzione sono potenti e scaltre. Non dovremmo dunque indietreggiare davanti all’uso di questo linguaggio paradossale proprio della battaglia e della guerra, e riconoscere invece che il conflitto si gioca non nel mondo delle strategie umane di potere bensì nel cuore, e che la vittoria è ottenuta quando noi, con i nostri desideri e le nostre abitudini egocentriche, ci arrendiamo totalmente al nostro Signore e non quando acquistiamo potere sugli altri. Una grande guida spirituale anglicana del xix secolo, Richard Benson, ha dato al suo commentario ai Salmi il titolo Canti di guerra del principe della pace; questo sintetizza in maniera molto eloquente la tensione presente nelle parole e nelle immagini che usiamo. Affinché la vittoria di Cristo diventi pienamente efficace nella nostra storia abbiamo bisogno di una difesa solida, di una prassi di vigilanza, di coraggio, pazienza e volontà per continuare a fare le innumerevoli piccole cose che sostengono la nostra fedeltà, facendole nella comunione con altri che sostengono la stessa lotta. Nel nostro mondo febbrile e impaziente, parte importante della nostra testimonianza cristiana è che noi ricordiamo agli uomini che la nostra umanità ha bisogno di tempo per crescere, necessita del tempo in cui l’autoconsapevolezza, il pentimento e il rinnovamento possano fiorire. È difficile per così

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tanti riconoscere che la strada è lunga, che diventare umani nella modalità voluta da Dio è questione di un’intera vita. Tuttavia le alternative, così visibili intorno a noi, rappresentano un’umanità banalizzata e sciatta, ansiosa, arrabbiata ed egoista, restia a guardare a sé in modo nuovo nella luce dell’amore e della verità. In questo senso, dunque, le discussioni a Bose che si concentrano attorno al tema della lotta spirituale saranno di grande pertinenza per il mondo in cui viviamo. Abbiamo bisogno di strumenti per diagnosticare tutte le strategie che sono all’opera per distruggere la vita e minare la speranza. Abbiamo bisogno di consapevolezza riguardo alle risorse necessarie per sostenere il nostro coraggio e la nostra pazienza. Soprattutto abbiamo bisogno di uno spirito di ringraziamento per la vittoria già realizzata, per la resurrezione di Gesù Cristo che “calpesta la morte con la morte”. Che questi giorni siano una testimonianza potente e persuasiva del trionfo pasquale, che solo ci sostiene e ci dona fiducia nella quotidiana fatica del consegnare i nostri spiriti, le nostre anime e i nostri corpi a Cristo nostro Signore. ✠ Rowan Williams Arcivescovo di Canterbury

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Consiglio ecumenico delle Chiese Ginevra, 4 settembre 2009

Caro priore e cari membri della Comunità monastica di Bose, cari partecipati al Convegno, fratelli e sorelle amati in Cristo! È con una gioia profonda che mi rivolgo, una volta ancora, ai miei amici della Comunità e ai partecipanti al Convegno sulla spiritualità ortodossa. Se l’organizzazione di questi congressi è diventata una tradizione per il Monastero, la partecipazione dei miei colleghi del Consiglio ecumenico delle Chiese e l’invio di un messaggio fraterno da parte mia ne è diventata un’altra. Ci rallegriamo di questo legame che ci unisce nella preghiera e nell’impegno sulla stessa strada verso l’unità per la quale il nostro Signore ha inviato le sue preghiere ferventi a suo Padre. In questa apertura del XVII Convegno, mi sia permesso di non riferirmi direttamente al tema dell’incontro, ma piuttosto di fermarmi un momento sul retroterra del lavoro compiuto dalla Comunità. Primariamente, amerei sottolineare il nostro apprezzamento per il fatto che la Comunità è diventata un luogo privilegiato di ospitalità, di raccoglimento, di incontro e di dialogo, un luogo dove l’oriente e l’occidente (e anche l’occidente in quanto tale), divisi dal pesante fardello della storia, hanno l’opportunità di incontrarsi di nuovo per un ritorno alle sorgenti, alle sorgenti comuni, alle sorgenti così preziose di una parte e dell’altra. È un contributo al movimento ecumenico per il quale rendiamo grazie a Dio ed esprimiamo il ringraziamento ai nostri amici della Comunità. In secondo luogo, vorrei menzionare la collaborazione tra la Comunità monastica e il Consiglio ecumenico delle Chiese, una collaborazione che ha molteplici forme e aspetti, che diventa molto tangibile e molto importante quando i membri della Comunità e i miei colleghi di Fede e Costituzione fanno strada insieme sullo stesso progetto e questo contribuisce a mettere in evidenza la ricchezza della santità, della moltitudine degli uomini e delle donne, testimoni viventi della fede nel Cristo che può costituire un ponte unico, un legame senza precedenti tra le nostre Chiese e le nostre comunità divise. Infine, vorrei ricordare il nome di una persona che ci è molto cara qui a Ginevra e che al contempo lo è anche per la vostra Comunità. Un uomo che

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ha vissuto lungo tutta la sua vita questo combattimento spirituale di cui si parlerà durante il Convegno degli illustri teologi. Un uomo che ha saputo manifestare attraverso la sua vita e la sua opera l’amore di Dio: nella profondità delle miniere in Belgio, sulla scena internazionale delle istituzioni e dei dialoghi ecumenici. Qualche giorno fa, all’apertura della nostra sessione del Comitato centrale, abbiamo pregato per molte persone che hanno dedicato la loro vita all’unità delle Chiese. Tra queste persone abbiamo ricordato il Metropolita Emilianos che avete conosciuto, avete apprezzato e avete amato tanto quanto noi. Vi prego di volere cortesemente ricordarvi di lui durante questo Convegno e custodire la sua memoria vivente nella Comunità. I migliori auguri che il nostro Signore sia tra voi al momento delle vostre deliberazioni! Che il vostro contributo all’unità sia moltiplicato dalla grazia dello Spirito! E che il nostro Signore vi dia la forza di continuare su questa stessa strada con gioia, pazienza e perseveranza. Con tutta la mia amicizia, Pastore Samuel Kobia Segretario generale

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Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani Città del Vaticano, 2 settembre 2009

Caro fratel Enzo, sono lieto di poter rivolgere un saluto cordiale a lei, alla Comunità di Bose e a tutti i partecipanti al XVII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, al quale purtroppo a causa di altri impegni non posso partecipare, ma che accompagno nella preghiera. Già da molti anni, questo Convegno è un’occasione molto bella e fruttuosa di incontro fra tante persone di diverse Chiese e tradizioni, ma anche un luogo di riflessione teologica e di scambio su svariati temi spirituali. Il Monastero di Bose diventa così ancora una volta un esempio di ricerca della sempre più piena comunione tra i cristiani. Il tema di quest’anno in qualche modo continua quello dell’anno scorso. Infatti, se la paternità spirituale è importantissima nella vita del cristiano che vuole seguire Cristo, la lotta spirituale diventa il suo atteggiamento quotidiano. Questo termine non riguarda solo i monaci antichi, che si sono ritirati dal mondo e sono stati aggrediti da diverse forze nemiche nel deserto. Al contrario, credo che la lotta spirituale sia attuale oggi come nel passato, e forse ancora di più. La lotta spirituale non vale solo nella vita privata dei singoli fedeli, ma anche per la vita dell’uomo nella società. Infatti, sia nella vita privata che in quella della società, siamo bombardati da tante tentazioni che ci sottraggono dal rapporto con il Signore che, unico, ci può dare la vera vita. Queste forze, poi, sono molto raffinate, spesso travestite in “angeli della luce”. È quindi richiesto un discernimento molto acuto e attento, alla luce della coscienza rettamente formata dall’ascolto della parola di Dio e dalla preghiera, per poter “lottare” in senso giusto, senza perdere forza e coraggio, ma anche senza combattere quello che nella cultura odierna è frutto genuino dello Spirito creatore. Auguro a lei e a tutti i partecipanti al Convegno tante benedizioni e tanti doni dello Spirito santo, per un giusto discernimento e un’ulteriore crescita nella reciproca conoscenza in vista di una maggiore comune testimonianza a Cristo nel mondo. ✠ Walter cardinale Kasper Presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani

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Saluto del Cardinale Roger Etchegaray Bose, 11 settembre 2009

Cari fratelli e sorelle, arrivo da Cracovia. In polacco Bose è il vocabolo che proclama Dio. Abbiamo ricordato i settant’anni dall’inizio di una guerra di cui la Polonia fu la prima vittima. A Cracovia si parlava solo di pace da costruire. In questi giorni, qui al Monastero di Bose, si parla solo di lotta, di una lotta permanente, dalle origini, dagli albori dell’umanità. L’unica lotta peraltro che meriti di essere chiamata mondiale, perché tutti vi partecipano, anche i più grandi santi. Anche Gesù nel Vangelo ci dice che dopo l’insuccesso delle tre tentazioni, il nemico si era ritirato per un tempo. Una lotta spirituale, cioè un campo di battaglia nel mondo misterioso degli spiriti, tanto più pericoloso perché è invisibile; ignorato dai media e troppo raramente citato oggi dalle Chiese. Mentre il Credo ci chiede di credere in un Dio creatore delle cose visibili e invisibili, noi siamo sommersi da miriadi di spiriti, una parte dei quali si ribellò a Dio e fece di tutto per andare contro Dio. Nel nostro mondo materialistico molti non credono più alla loro esistenza e quindi neanche alle tentazioni… Invece noi non crediamo abbastanza all’azione benefica degli spiriti che servono Dio, più forti degli altri, più luminosi. Se è vero che ciascuno di noi ha un angelo custode, dobbiamo rendercelo amico, dobbiamo invocarlo spesso nel momento del combattimento spirituale. L’abilità di Satana, lo sapete, sta nel far credere che non esiste: noi abbiamo paura di chiamare Satana con il suo nome, come faceva Gesù. Egli si accanisce su ciascuno di noi per cogliere i punti deboli della nostra carne. Questo Convegno sulla lotta spirituale nella tradizione ortodossa, grazie allo scambio tra Chiese, ha ampliato, arricchito e adattato al nostro tempo le armi spirituali forgiate da san Paolo e dalla patristica. Il nostro colloquio ha qualcosa di davvero monastico, di familiare. Paul Valéry ha detto che “un uomo solo è in cattiva compagnia”. La vita fraterna è il migliore alleato della lotta spirituale, a patto, certo, che noi siamo colmi dello Spirito di Gesù. Concludo con una preghiera: sono stato per quattordici anni arcivescovo di Marsiglia, ricordo la preghiera di una pescivendola del porto vecchio che diceva: “Dio mio, fammi pescare abbastanza pesce perché possa

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mangiarne, donarne, venderne e farmene derubare”. Che il Cristo risorto ci aiuti a vincere il combattimento spirituale quotidiano che deve essere un combattimento di tutta la Chiesa insieme, e non ci potrebbe essere simbolo migliore di un monastero, questo Monastero di Bose fondato da Enzo Bianchi. Vi ringrazio tutti e tutte. ✠ Roger cardinale Etchegaray Vicedecano del Collegio cardinalizio

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Saluto dell’Arcivescovo Antonio Mennini

Bose, 12 settembre 2009

Eminenza reverendissima, eccellenze, cari amici, cari fratelli e sorelle, cari organizzatori di questo Convegno, è con viva gioia e riconoscenza che rivolgo il mio saluto a tutti voi al termine di queste giornate di intenso lavoro che quest’anno, ormai il diciassettesimo, ha visto il vostro tradizionale appuntamento ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa dedicato al tema della lotta spirituale nella tradizione ortodossa. Sono insieme a sua eccellenza l’Arcivescovo Zosima di Elista, che come avete sentito si è detto ben lieto di essere qui in mezzo a noi, per conoscere un centro di cui aveva già sentito parlare con grande stima e attenzione e di porgervi il suo fraterno saluto. Ritornando per una breve riflessione al tema prescelto, va premesso, probabilmente, che nulla parrebbe più lontano dalla mentalità e dalla priorità che si pone oggi l’uomo nella società secolarizzata, sia in occidente sia nell’oriente europeo o in Russia, eppure appartiene al poeta Rimbaud una definizione di ascesi che ne sottolinea il carattere esistenziale e impegnativo: “È un combattimento spirituale più duro che ogni battaglia di uomini”. In che cosa consiste la serietà di questa sfida lanciata all’uomo, solo di fronte a se stesso, nei profondi recessi della sua anima? Io direi così: è un appello alla libertà dell’uomo, alla sua capacità creativa, positiva, la chiamerei una chance per uscire dalla condizione di sonnambulismo quotidiano in cui ci troviamo a vivere. In ciò in cui l’uomo moderno vede semplicemente un elemento di mortificazione, quindi un elemento negativo, l’uomo medievale – e accomuno in questa definizione tanto l’esperienza della tradizione cristiana orientale, tanto i padri e asceti occidentali, ai primi strettamente legati e in qualche modo da essi dipendenti (ci basti pensare a san Benedetto) – vede anzitutto “l’aspetto della trasfigurazione nella sua antinomicità di morte e resurrezione”, come dice Olivier Clément a questo proposito: “Il combattimento spiri-

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tuale fa appello alla capacità della persona, mediante la propria adesione alla grande metamorfosi cristica, di trasfigurare nello Spirito santo il proprio rapporto con i materiali che gli sono imposti dal mondo: il suo patrimonio genetico, il suo condizionamento psicologico e sociale… e con ciò trasfigura quei materiali stessi”. Ma ciò che i padri concordemente sottolineano, e sulle loro orme gli autori dei trattati di ascetica cristiana di tutti i tempi, è che è il Verbo ad agire. Dobbiamo collaborare con lui, non tanto con una tensione volontaristica, quanto con un’attenzione di amore. Mi è capitato qualche mese fa di ascoltare nell’ambito di un Convegno dedicato alla figura del Metropolita Antonij di SuroΔ, grande pastore della Chiesa ortodossa russa, una lezione incentrata sulla sua concezione di santità, dove l’accento era posto sull’antinomia tra la perfezione a cui siamo chiamati dall’esigente imperativo che echeggia nella Scrittura: “Siate santi, siate perfetti come il Padre mio!” (cf. Mt 5,48), e l’impossibilità per l’uomo di realizzare questa sua vocazione. Eppure nella Bibbia troviamo alcuni casi in cui l’uomo dimostra sorprendentemente dei tratti divini di santità, si comporta come Dio non pretende neppure dall’uomo, ma come egli stesso fa continuamente nei confronti dell’uomo, cioè usando una misericordia, un amore incommensurabile alla risposta che gli viene data. Il Metropolita Antonij esemplifica tale comportamento nelle figure di David nei confronti di Saul, sebbene questi si trovi in suo potere, o di Rut che sacrifica tutto alla suocera per servirla lasciando la propria casa e il proprio popolo. Ciò che è più sorprendente in queste figure, ciò che maggiormente colpiva quanti li attorniano, conclude il Metropolita Antonij, è che attraverso il loro agire si svelano i tratti inconfondibili, certi di Dio, che nel Nuovo Testamento assume un volto e un’identità precise, quelle del Salvatore in cui si compone l’antinomia divino-umana. A questo proposito non può non colpire l’analogia del sentire, del vivere l’ascesi in una santa dei nostri giorni, indubbiamente esperta e maestra nel combattimento spirituale. Mi riferisco a santa Teresa di Lisieux che poteva dire: “Quando faccio del bene è Cristo che agisce in me”. L’ascesi è dunque un atteggiamento di stupore di fronte allo svelarsi di Dio nella storia e il trepidante assecondare questo suo disegno, che si avvale di noi come di suoi strumenti. Ecco, non voglio rubare tempo prezioso al vostro lavoro ma desideravo condividere con voi alcuni brevi spunti di riflessioni che il tema proposto mi ha suscitato.

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Approfitto ancora una volta per salutarvi e formularvi di vivo cuore ogni augurio di feconda missione e vita di comunione. Grazie! ✠ Antonio Mennini Nunzio apostolico Rappresentante della santa Sede presso la Federazione russa

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Saluto del Vescovo di Biella, Gabriele Mana

Bose, 10 settembre 2009

Un cordiale fraterno e intenso saluto a tutti e a ciascuno in questo luogo così accogliente, e dobbiamo dire anche grazie a Dio in questo clima settembrino così meraviglioso, avvolgente. Il tema di questo Convegno, la lotta spirituale, è di grande attualità per tutta la Chiesa, anzi per tutti gli uomini di buona volontà che cercano con speranza mista a utopia un futuro radioso. Il rischio è la riduzione della fede a convinzioni, quasi sia sufficiente possedere la certezza della verità; la fede è soprattutto una relazione, cioè un rapporto di amore salvifico che impegna questa stessa relazione a essere alimentata e accresciuta. Al di là di dichiarazioni declamatorie sulla chiamata universale alla santità, normalmente la preoccupazione è vivere in grazia e non crescere in grazia, è fare il bene e non cercare con ogni sforzo il meglio. L’ascetica e la mistica sono disattese, anzi quasi guardate con sospetto. Grande riconoscenza per i contenuti di questo Convegno internazionale, con l’augurio che possa incidere sulle nostre comunità. L’ascetica e la mistica esigono strategie spirituali, vigilanza continua sugli atteggiamenti e sui comportamenti. La vita cristiana vissuta nella mediocrità è fatica, se è vissuta in un processo dinamico continuo di perfezionamento è beatitudine. La lotta spirituale ci aiuti a correre per raggiungere la meta, cioè la comunione ineffabile con Dio, che ci fa lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità (cf. Rm 12,12), senza conformarci alla mentalità mondana, ma anzi trasformandoci, rinnovando la nostra mente per fare la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto (cf. Rm 12,2). Un grandissimo e dilatato ringraziamento al Monastero di Bose per questa iniziativa che ormai si ripete puntualmente, tanto attesa ogni anno, e veramente di cuore buon lavoro a tutti per il bene di tutte le nostre Chiese. ✠ Gabriele Mana Vescovo di Biella

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LA LOTTA SPIRITUALE: ELEMENTI BIBLICI Enzo Bianchi*

Introduzione Occorre ripetere quali sono le guerre e le lotte che ci attendono dopo il battesimo? … Si tratta di cercare fuori di sé un campo di battaglia? Forse le mie parole ti stupiranno, eppure sono vere: limita la tua ricerca a te stesso! Tu devi lottare in te stesso … perché il tuo nemico procede dal tuo cuore. Non sono io a dirlo, ma Cristo. Ascoltalo: “Dal cuore provengono i pensieri malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie” (Mt 15,19)1.

Queste parole di Origene sintetizzano mirabilmente quell’esercizio così essenziale della vita spirituale che la tradizione cristiana ci ha consegnato sotto il nome di lotta spirituale. Si tratta di una lotta interiore, invisibile, non rivolta contro esseri esterni a sé, ma contro “il peccato che ci assedia” (Eb 12,1), contro le passioni cattive che fanno guerra nelle nostre membra (cf. Gc * 1

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Priore del Monastero di Bose. Origène, Homélies sur Josué 5,2, a cura di A. Jaubert, SC 71, Paris 1960, pp. 164,

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4,1), contro le suggestioni che sonnecchiano nel profondo del nostro cuore, ma che sovente si destano ed emergono con una prepotenza aggressiva, fino ad assumere il volto di tentazioni seducenti. Conosciamo bene come il tema della lotta spirituale sia stato sviluppato in numerosi testi della tradizione patristica e della letteratura ascetica, sia in oriente sia in occidente2. Le radici della riflessione su questo tema si trovano però nelle sante Scritture. Già l’Antico Testamento, fin dalle prime pagine del libro della Genesi, conosce il comando a dominare l’istinto malvagio che abita il cuore umano: “L’istinto (jezer) del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza” (Gen 8,21); “Il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai” (Gen 4,7). E nella letteratura sapienziale si legge una massima molto eloquente: “Chi domina se stesso vale più di chi conquista una città” (Pr 16,32). Il Nuovo Testamento poi – e al suo interno, in particolare, il corpus paolino – presenta la lotta spirituale come un’esigenza insita nel battesimo, come un elemento fondamentale per definire l’identità di fede del cristiano3. Ciò emerge con chiarezza, per esempio, dall’esortazione rivolta da Paolo a Timoteo: “Combatti la buona battaglia della fede (tòn kalòn agôna tês písteos), cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede” (1Tm 6,12). Ed è lo stesso Apostolo che, ormai vicino alla morte, vol2 Cf. Il cammino del monaco. La vita monastica secondo la tradizione dei padri, a cura di L. D’Ayala Valva, Bose 2009, pp. 629-668 (c. xxi: “La lotta spirituale e il discernimento dei pensieri”). In particolare, è nota la sistematizzazione relativa agli otto loghismoí, ossia i “pensieri malvagi”, fornita da Evagrio Pontico (345-399) e, sulla sua scia, da Giovanni Cassiano (360-435). Cf. anche L. Cremaschi, “La guerra del cuore: la lotta contro le tentazioni secondo i padri del deserto”, in Parola, Spirito e Vita 55 (2007), pp. 215-230. 3 Cf. P. F. Beatrice, “Il combattimento spirituale secondo san Paolo. Interpretazione di Ef 6,10-17”, in Id., L’eredità delle origini. Saggi sul cristianesimo primitivo, Genova 1992, p. 150: “Con il battesimo il cristiano si impegna a rimanere sempre in tenuta militare, a indossare cioè quelle … che san Paolo chiama ‘armi di giustizia’ (Rm 6,13-14) e ‘armi della luce’ (Rm 13,12)”.

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La lotta spirituale: elementi biblici

gendo uno sguardo riassuntivo alla propria vita afferma di sé quasi con stupore: “È giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia (tòn kalòn agôna egónismai), ho terminato la corsa, ho conservato la fede” (2Tm 4,6-7). Nella seconda parte della mia riflessione tornerò più specificamente sulla presentazione della vita cristiana come lotta, come battaglia incessante, quale è attestata soprattutto negli scritti neotestamentari. Prima però vorrei compiere un percorso biblico meno consueto, ma a mio avviso essenziale per fondare una trattazione della lotta spirituale alla luce delle Scritture.

Alle radici della lotta spirituale Vi sono tre brani biblici che, letti in parallelo, costituiscono il paradigma delle seduzioni messe in atto dal demonio nei confronti dell’uomo: il racconto della tentazione alla quale soccombono il primo uomo e la prima donna (cf. Gen 3,1-6); la narrazione delle tentazioni affrontate vittoriosamente da Gesù (cf. Mt 4,1-11; Lc 4,1-13); la descrizione della lotta contro la mondanità cui il cristiano è chiamato (cf. 1Gv 2,15-16). Il passo genesiaco, in particolare, può essere collocato nel suo contesto più ampio, in modo da consentire qualche considerazione sulla motivazione profonda che spinge l’essere umano a peccare. La paura della morte e la “philautía” La tentazione e il peccato sono certamente da porre in relazione con l’ambiente storico, con l’atmosfera culturale e sociale in cui l’uomo è immerso, con quegli elementi che, prendendo a prestito il linguaggio paolino, si potrebbero definire “po35

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tenze dell’aria” (Ef 2,2), “principati e potenze” (Ef 6,12). Vi è però qualcosa di ancor più profondo, che attiene all’interiorità dell’essere umano. Esiste infatti in ogni uomo una tendenza egoistica, un’inclinazione peccaminosa: è quella disposizione interiore che oppone resistenza al dono di Dio, definita dal Nuovo Testamento con il termine “carne” (sárx: cf. Gv 3,6; 6,63; 8,15; Rm 6,19; 7,5; eccetera), dalla quale hanno origine “i cattivi desideri della carne che fanno guerra alla vita” (1Pt 2,11). La tradizione cristiana ha efficacemente parlato in proposito di philautía, cioè di “amore egoistico di sé”: una brama perseguita a ogni costo, anche senza gli altri e addirittura contro gli altri; una preoccupazione esclusiva per il proprio interesse che induce a considerare il proprio io come misura della realtà; in una parola, tutto ciò che si oppone al desiderio di Dio, quello della comunione tra sé e gli uomini e degli uomini tra di loro. Ma qual è il movente ultimo della philautía? Un brano della Lettera agli Ebrei lo esprime con grande lucidità: Cristo … è divenuto partecipe [del nostro sangue e della nostra carne], per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte (phóbo thanátou), erano soggetti a schiavitù per tutta la vita (Eb 2,14-15).

Si tratta di una constatazione estremamente vera: noi uomini durante tutta la vita patiamo la paura della morte, e tale esperienza ci domina, ci aliena. La morte è “il re delle paure” (melek ballahot: Gb 18,14), perché è la radice di tutte le altre paure. Essa non è solo l’ultimo istante della vita biologica, ma è una forza costantemente all’opera nella nostra vita quotidiana, che si manifesta come sofferenza, malattia, fine di ciò che per noi è vitale, al punto da causare vere e proprie situazioni di non vita in chi biologicamente è ancora vivo. 36

La lotta spirituale: elementi biblici

La morte, dunque, non è solo “salario del peccato” (Rm 6,23), ma anche istigazione al peccato: è infatti proprio la paura della morte che ci spinge a cercare vita anche attraverso vie di morte, di peccato; la morte è la schiavitù in cui ci avvince tale paura a essere causa del male e del peccato che commettiamo, come ci ricordano anche le parole che, con finezza psicologica, il libro della Sapienza mette in bocca agli empi (cf. Sap 1,16-2,24). In breve: mosso dalla paura della morte, l’uomo vuole preservare con qualsiasi mezzo la propria vita, vuole possedere per sé i beni della terra, vuole dominare sugli altri. Egli pensa di assicurarsi in tal modo una vita abbondante e giunge a considerare giusto ogni comportamento finalizzato a questo scopo, anche a costo di nuocere agli altri e persino a se stesso. E così finisce inevitabilmente per percorrere sentieri di morte. Tre passi scritturistici fondamentali Il racconto delle origini presente nella Genesi testimonia l’importanza che proprio la paura della morte riveste nel processo di tentazione e caduta dell’uomo e della donna. Dopo averlo creato a sua immagine e a sua somiglianza (cf. Gen 1,26-27), Dio aveva detto all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire” (Gen 2,16-17). Questo comando, volto a insegnare alla creatura che la sua libertà è tale all’interno di un limite, innesta invece in lei il meccanismo della frustrazione: l’essere privati di una sola possibilità equivale a essere privati di tutto. Ed è proprio su questo limite, garanzia e alveo della libertà umana, che fa leva la tentazione del “serpente antico” (Ap 12,9; 20,2), di Satana: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male” 37

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(Gen 3,4-5). E così dalla paura che la prospettiva della morte ha immesso nella donna (cf. Gen 3,3: “altrimenti morirete”), passando attraverso il dialogo interiore con la suggestione, si giunge all’elaborazione di una contro-verità, che si accompagna a una nuova visione della realtà: “Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, appetitoso agli occhi e desiderabile per acquistare sapienza/potere” (Gen 3,6). L’ansia di immortalità, onnipotenza e onniscienza, accresciuta dalla frustrazione per l’incapacità di accettare il proprio limite creaturale, spinge a considerare il mondo esterno come una preda di cui impossessarsi; a questo punto il peccato è già consumato, e il gesto della mano che carpisce il frutto non è che l’inevitabile manifestazione esterna di una realtà che abita il cuore. E così l’uomo e la donna acconsentono alla tentazione di contraddire la comunione voluta da Dio e cadono nella disobbedienza al loro Creatore4. A Adamo si contrappone il nuovo Adamo (cf. Rm 5,14), Gesù di Nazaret, nato da donna e da Spirito santo, anche lui tentato come ogni uomo che viene nel mondo, ma “senza commettere peccato” (cf. Eb 4,15): Gesù è l’antitipo dell’Adamo genesiaco, perché là dove Adamo è caduto, Gesù ha lottato e ha vinto. Ora, se Marco ci presenta Gesù che all’inizio del suo ministero pubblico è tentato da Satana per quaranta giorni nel deserto (cf. Mc 1,12-13), Matteo e Luca, meditando su questo evento, sono giunti a esemplificare in numero di tre le tentazioni subite da Gesù (cf. Lc 4,1-13; Mt 4,1-11): mutare le pietre in pane, possedere i regni della terra, gettarsi dall’alto del tempio per essere miracolosamente salvato. Siamo di fronte a una parafrasi della narrazione genesiaca, che presenta tre modalità di attuazione della vocazione nella via della philautía. A tale proposito, è significativo che nell’inno 4 Ho commentato più approfonditamente Gen 3,1-6 in E. Bianchi, Adamo, dove sei?, Bose 20073, pp. 201-209.

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La lotta spirituale: elementi biblici

cristologico della Lettera ai Filippesi (cf. Fil 2,6-11) Paolo rilegga la vicenda di Gesù proprio come rigetto della logica autocentrata di Adamo: a colui che ha voluto farsi “come Dio” (Gen 3,5) risponde il comportamento di Cristo che, “essendo in forma di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso prendendo forma di servo, diventando partecipe dell’umanità” (Fil 2,6-7). All’innalzamento di sé risponde l’abbassamento, la kénosis, che giunge fino all’umiliazione e alla vergogna della croce (cf. Fil 2,8). Se Adamo ha considerato l’essere come Dio una preda da conquistare e ha cercato di soddisfare la sua brama stendendo la mano verso l’albero per cogliere la qualità divina e renderla suo patrimonio esclusivo, Gesù Cristo ha invece percorso il cammino opposto: ha steso le sue mani sul legno della croce per offrire la sua vita fino alla morte, nella libertà e per amore di Dio e degli uomini. Posto di fronte alle lusinghe di Satana, Gesù reagisce con un atteggiamento di radicale obbedienza a Dio e alla propria creaturalità: egli custodisce austeramente e con vigore la propria umanità, salvaguardando in tal modo anche l’immagine di Dio rivelata dalle Scritture, senza sostituirvi un’immagine “manufatta”. Inoltre, l’arma con cui Gesù combatte la sua lotta e perviene alla vittoria è la piena sottomissione alla parola di Dio, come mostra il fatto che egli risponde all’Avversario solo con parole della Scrittura (cf. Mt 4,4.7.10; Lc 4,4.8.12): “L’uomo non vive soltanto di pane, ma … di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8,3); “Temerai il Signore, tuo Dio, lo servirai e giurerai per il suo nome” (Dt 6,13); “Non tenterete il Signore, vostro Dio” (Dt 6,16). Una Parola che Gesù assume e vive nel suo significato profondo, non nella sua semplice lettera, come invece fa Satana (cf. Mt 4,6; Lc 4,10-11)5.

5 La bibliografia sulle tentazioni di Gesù è assai estesa. Per una prima visione d’insieme, cf. J. Dupont, Le tentazioni di Gesù nel deserto, Brescia 1970; M. Gourgues, “La

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E la lotta di Cristo non può che essere la lotta dei suoi discepoli, i cristiani. Lo mostra bene l’apostolo Giovanni, quando rivolge alla sua comunità un’esortazione costruita mediante un’ulteriore parafrasi della tentazione genesiaca: “Non amate il mondo” – ossia la mondanità –, “né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo, la voracità della carne, la pretesa degli occhi e l’arroganza della vita, non viene dal Padre, ma viene dal mondo” (1Gv 2,15-16). Con queste parole egli fornisce un icastico ritratto della mondanità, così da spronare i cristiani a verificare la qualità della loro lotta antidolatrica. E lo fa riferendosi, ancora una volta, a tre ambiti. La “voracità della carne” (epithymía tês sarkós) indica la concupiscenza quale appare nei comportamenti di chi è teso unicamente a soddisfare il proprio egoismo, e così trasforma ogni desiderio in bisogno impellente; essa riassume le tendenze malvagie che spingono l’uomo ad appartenere a quel mondo di tenebra che si oppone al piano di Dio (cf. 1Gv 1,5-6; 2,8-9.11). La “pretesa degli occhi” (epithymía tôn ophthalmôn) si riferisce alla “suggestione seducente” (Sal 36,2) che cattura gli occhi dell’uomo e lo spinge a orientare tutto ciò che vede alla sua brama di possesso. L’accumulo di beni diventa un fine in sé, in vista del quale tutto è giustificato, e la logica che presiede a tale insaziabile mania è quella mortifera del “tutto e subito”. L’“arroganza della vita” (alazoneía toû bíou), infine, è l’atteggiamento di chi si considera l’unico metro della realtà, e pretende che il proprio “io” sia affermato sopra gli altri; è la ricerca del potere, della propria gloria a ogni costo. In sintesi, è l’esatto contrario della sottomissione reciproca richiesta da Gesù ai suoi

tentazione nel deserto o l’opzione iniziale (Mc 1,12 s.)”, in Id., La sfida della fedeltà. L’esperienza di Gesù, Roma 1987, pp. 17-53; Cahiers É´ vangile Supplément 134 (2005) dal titolo “Les tentations du Christ au désert”; J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Città del Vaticano-Milano 2007, pp. 47-68.

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discepoli: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti” (Mc 9,35)6. Ma il cristiano può affrontare queste tre tentazioni fondamentali nella certezza che la propria lotta si innesta in quella di Cristo, secondo le penetranti parole di Agostino: “Ti preoccupi perché Cristo sia stato tentato, e non consideri che egli ha vinto? In lui fosti tu a essere tentato, in lui tu riporti la vittoria”7.

Grammatica della lotta spirituale Dopo questo lungo percorso archetipico, che ci ha consentito di scoprire le radici di ogni tentazione e di ogni peccato, veniamo ora a esaminare alcune delle indicazioni consegnateci dalle sante Scritture su come affrontare il combattimento invisibile. Il mio intento sarà quello di tracciare brevemente una sorta di “grammatica della lotta spirituale”. Tra le numerose piste che si potrebbero seguire, mi soffermerò solo su due elementi che mi sembrano particolarmente rilevanti. Il cuore, luogo della lotta spirituale Come è già emerso nella prima parte, c’è un luogo preciso in cui si svolge la lotta spirituale. Più in generale, tutta la vita spirituale procede da un organo centrale dell’uomo che la Bibbia

6 Più estesamente su 1Gv 2,15-16, cf. E. Bianchi, L’amore vince la morte. Commento esegetico-spirituale alle lettere di Giovanni, Cinisello Balsamo 2008, pp. 85-89; cf. anche B. Maggioni, La Prima lettera di Giovanni, Assisi 1984, pp. 74-79. 7 Agostino di Ippona, Esposizioni sui Salmi 60,3, a cura di V. Tarulli, Roma 1970, vol. II, p. 327.

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chiama “cuore” (lev, kardía)8. Si tratta di un concetto che va ben oltre il valore quasi esclusivamente affettivo attribuitogli dalla nostra cultura. Nell’antropologia biblica il cuore è il luogo dell’intelligenza e della memoria, della volontà e del desiderio, dell’amore e del coraggio, è l’organo che meglio rappresenta la vita nella sua totalità: “Sede della vita sensibile, della vita affettiva e della vita intellettuale … il cuore contiene gli elementi costitutivi di ciò che noi chiamiamo persona”9. Non è facile parlare di questo “luogo impenetrabile” (cf. Sal 64,7), che Dio solo conosce, scruta e discerne in verità, come attestano a più riprese le Scritture: “Signore Dio di Israele … solo tu conosci il cuore di tutti gli uomini” (1Re 8,26.39); “Tu scruti il cuore e il profondo, tu, tu solo Dio giusto” (Sal 7,10); “Chi può conoscere il cuore? Io, il Signore, scruto il cuore ed esamino il profondo” (Ger 17,9-10). È nel cuore, la parte più segreta di ogni essere umano, che è impressa l’immagine di Dio in noi. In questo spazio che sfugge al rigore dei concetti, ma che è penetrabile attraverso il linguaggio simbolico, Dio parla all’uomo e lo invita a rispondere, ad aprire con lui un dialogo (cf. Os 2,16-17). Ed è esattamente a questo livello che si situa quotidianamente la scelta tra un “cuore che ascolta” (lev shomea: 1Re 3,9), che lotta per accogliere e far fruttificare la parola di Dio seminata in esso (cf. Mc 4,1-20 e par.), e un cuore insensibile alla Parola, che finisce per cadere in quell’incredulità che il Nuovo Testamento definisce “durezza di cuore” (sklerokardía: Mt 19,8; Mc 10,5; 16,14). È evidente che è proprio questo il terreno su cui si radica la lotta spirituale. Se infatti il cuore è il luogo dell’incontro intimo e dell’alleanza tra Dio e l’uomo, esso è però anche sede di cupi-

8 Cf. F. Baumgärtel, J. Behm, s.v. “Kardía”, in Grande Lessico del Nuovo Testamento V, a cura di G. Kittel e G. Friedrich, Brescia 1969, coll. 193-216. 9 A. Guillaumont, “Les sens des noms du coeur dans l’antiquité”, in Aa.Vv., Le coeur, Bruges 1950, p. 48.

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digie e passioni fomentate dalla potenza del male: “Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini” – ha detto con chiarezza Gesù – “escono le intenzioni (dialoghismoí) cattive” (Mc 7,21). Il cuore diviene così il luogo in cui si scontrano le astuzie di Satana e l’azione della grazia di Dio. È un’esperienza comune, che la Bibbia si limita a registrare: il cuore può essere senza intelligenza, incapace di comprendere e discernere (cf. Mc 6,52; 8,17-21); può chiudersi alla compassione (cf. Mc 3,5), nutrendo rancore e odio (cf. Lv 19,17), gelosia e invidia (cf. Gc 3,14); può essere menzognero e “doppio” (dípsychos: Gc 1,8; 4,8), aggettivo che traspone in greco un’espressione ebraica che suona letteralmente “un cuore e un cuore” (lev va-lev: Sal 12,3). Di più, è possibile estendere a ogni peccato la penetrante sintesi operata da Gesù a proposito dell’adulterio: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore” (Mt 5,28). Sì, prima di essere realizzato esternamente e di condurci sui sentieri mortiferi della dissomiglianza da Dio, ogni peccato è già stato consumato nel nostro cuore… Il cuore è dunque il luogo della lotta invisibile. È lì che può avere inizio il ritorno a Dio, la conversione (cf. Ger 3,10; 29,13), oppure si può soccombere alla seduzione del peccato e alla schiavitù dell’idolatria. È una lotta durissima quella per tendere ad avere un “cuore unificato” (Sal 86,11), capace di collaborare alla vita nuova operata in noi dal Padre, attraverso la fede in Cristo morto e risorto, nella potenza dello Spirito santo: ma è proprio questa la battaglia fondamentale a cui il cristiano è chiamato. Le armi della lotta spirituale Ma come il cristiano può affrontare la lotta spirituale? La tradizione cristiana ha individuato alcuni strumenti, alcune 43

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“armi” particolarmente indicate per condurre questo combattimento. Le radici di questa riflessione si trovano nel Nuovo Testamento. In particolare, un brano tratto dall’esortazione finale della Lettera agli Efesini (Ef 6,10-18) costituisce un vero e proprio classico riguardo a questo tema10. A partire da esso si può ricostruire una costellazione di passi scritturistici che presentano le armi di cui munirsi per fare fronte alle insidie di Satana, nella consapevolezza che “l’atleta non riceve il premio se non ha lottato secondo le regole” (2Tm 2,5)11. “Rafforzatevi nel Signore e nel vigore della sua potenza” (Ef 6,10). La parenesi paolina si apre con un imperativo, endunamoûsthe, che può significare sia “attingete forza, rafforzatevi”, sia “siate fortificati”. Nella lotta spirituale avviene cioè una sinergia inestricabile tra l’azione dell’uomo e quella preveniente di Dio. In altre parole, l’uomo è chiamato a predisporre tutto affinché la grazia del Signore Gesù Cristo agisca in lui, a cedere alla grazia che lo attira. L’Apostolo lo ripete altrove con parole inequivocabili: “Attingi forza (endunamoû) dalla grazia che è in Cristo Gesù” (2Tm 2,1); “Mi affatico e lotto con la forza che viene da Cristo e che agisce in me con potenza” (Col 1,29). Questa forza, questa potenza – si legge all’inizio della Lettera agli Efesini – si è manifestata in modo eminente nella resurrezione di Cristo (cf. Ef 1,19-20). Ovvero, la lotta invisibile del cristiano si fonda sulla fede nella resurrezione di Gesù Cristo, avvenuta nella potenza dello Spirito santo, evento che ha segnato la vittoria definitiva sulla morte e su “colui che della

10 Per una visione d’insieme di questa pericope, cf. P. F. Beatrice, “Il combattimento spirituale secondo san Paolo”, pp. 137-192; E. Best, Lettera agli Efesini, Brescia 2001, pp. 660-684; S. Romanello, Lettera agli Efesini, Milano 2003, pp. 219-231; D. Sannino, “Il motivo della ‘panoplía’ in Paolo di Tarso”, in Asprenas 54 (2007), pp. 203-222. 11 Questo versetto è particolarmente caro a Cassiano, che lo cita a più riprese nella sua trattazione degli otto pensieri malvagi: cf. Giovanni Cassiano, Le istituzioni cenobitiche V,12.16; VI,5.7; VII,20; VIII,5.22; IX,2; X,5; XI,19; XII,32, a cura di L. D’Ayala Valva, Bose 2007, pp. 149, 155, 189, 191, 224, 238, 253, 256, 267, 304, 337.

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morte ha il potere, cioè il diavolo” (Eb 2,14). Se infatti ogni peccato è in definitiva un tentativo maldestro di affrontare la paura della morte, l’arma più efficace della lotta contro le tentazioni è proprio la fede nella resurrezione. Chiarito questo primum imprescindibile, l’Apostolo può proseguire: Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i principati e le potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete dunque l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove (Ef 6,11-13).

Paolo si serve del linguaggio bellico, ammonendo i cristiani a indossare l’armatura (panoplía) di Dio, ossia quella che Dio prepara e mette a disposizione di quanti aderiscono a lui. In questa immagine si possono riconoscere gli influssi di quei passi dell’Antico Testamento in cui viene descritta, con valenza metaforica, l’armatura di cui Dio stesso si cinge per lottare contro i malvagi e far trionfare sulla terra il suo disegno di salvezza (cf. Is 59,17; Sap 5,17-20), oppure l’armatura da lui riservata al suo Messia, il germoglio di Iesse (cf. Is 11,4-5). Ancor più interessante per la nostra riflessione è notare che vi è un unico altro passo neotestamentario in cui è attestato il termine panoplía. Nel Vangelo secondo Luca, di fronte alle ingiurie degli avversari che lo accusano di scacciare i demoni in nome di Beelzebul, il capo dei demoni (cf. Lc 11,15), Gesù replica: “Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi (tèn panoplían) nelle quali confidava e ne spartisce il bottino” (Lc 11,21-22). Sì, Gesù è “il più forte” rispetto al demonio, che pure con la sua forza fa guer45

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ra agli uomini: è solo in lui e attraverso di lui, dunque, che è possibile lottare contro il Nemico e disarmarlo. L’Apostolo qui ricorre a questa stessa immagine, variando solo i termini per definire l’Avversario: lo definisce “diavolo”, cioè “divisore”; poco oltre ne parlerà come del Maligno (cf. Ef 6,16). Al v. 12, dopo aver specificato che la lotta del cristiano non è rivolta contro altri uomini (“la carne e il sangue”), fornisce una colorita descrizione al plurale delle dominanti del male e del peccato: i termini impiegati “designano cumulativamente le forze malefiche … che tendono a ricondurre il cristiano alla sua situazione prebattesimale”12. Di fronte a queste dominanti subdole, che giungono a saturare l’aria (cf. Ef 2,2), il primo atteggiamento richiesto con insistenza al credente è quello dello “stare” (hístemi: cf. Ef 6,11. 13-14), del “resistere” (anthístemi: cf. Ef 6,13). Tale saldezza consiste innanzitutto nell’affrontare gli attacchi del Nemico, senza fuggire davanti a lui: in questo senso è nuovamente esemplare la condotta di Cristo, che accettò di dimorare quaranta giorni nel deserto, guardando in faccia senza timore le seduzioni di Satana. Quanti si dispongono a questa dura fatica preliminare, a questa attiva passività senza la quale la lotta è persa in partenza, possono ascoltare l’ultima parte dell’esortazione paolina. In essa l’Apostolo elenca una per una quelle che altrove definisce nel loro insieme “armi di giustizia” (Rm 6,13; 2Cor 6,7), “armi della luce” (Rm 13,12), armi che ricevono da Dio la loro potenza (cf. 2Cor 10,4). State saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità (cf. Is 11,5); indosso, la corazza della giustizia (cf. Is 59,17); i piedi, calzati e pronti per il vangelo della pace (cf. Is 52,7). Afferrate sempre lo scudo della fede (cf. Sap 5,19), con il quale potrete

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R. Penna, La Lettera agli Efesini, Bologna 1988, p. 251.

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spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno; prendete anche l’elmo della salvezza (cf. Is 59,17) e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio (Ef 6,14-17).

Le varie armi elencate sono tratte puntualmente dai passi dell’Antico Testamento citati poco sopra. La novità rilevante apportata da Paolo consiste nel descrivere l’armatura del credente attraverso quegli elementi che solitamente compongono l’armatura di Dio. Ciò però non deve stupire il cristiano che ha gli occhi del cuore illuminati dalla fede: egli infatti sa che lui e Dio sono ormai accomunati da una stessa vita, la vita dell’uomo Gesù Cristo. Cristo, narrazione del Dio invisibile (cf. Gv 1,18), è la verità (cf. Gv 14,6; Ef 4,21); la giustizia di Dio (cf. Rm 3, 21-22.26; 1Cor 1,30; Fil 3,9), che giustifica chi crede in lui; il vangelo (cf. Mc 8,35; Rm 15,19; 2Cor 2,12; Gal 1,7), la buona notizia che porta shalom, pienezza di vita a tutti gli uomini; l’origine e il compimento della nostra fede (cf. Eb 12,2), colui nella cui fede salda siamo chiamati a deporre la nostra fede sempre vacillante (cf. Gal 2,20; Ef 3,12); la nostra salvezza (cf. 1Ts 5,9; 2Tm 2,10) e la nostra speranza (cf. 1Tm 1,1), ossia colui nel quale speriamo, al fine di partecipare alla salvezza da lui ottenuta (cf. 1Ts 5,8-9); la parola di Dio fatta carne (cf. Gv 1,1.14); Parola che “è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio”, capace di scrutare “i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12); Parola che sempre si accompagna al dono dello Spirito13. Il cristiano dunque è chiamato a rivestirsi del Signore Gesù Cristo (cf. Rm 13,14): questa è l’arma di gran lunga più efficace nella lotta spirituale. E il terreno in cui può germogliare l’esercizio mai finito di assunzione del sentire e dell’agire di Cri-

13 Sul legame inscindibile tra Parola e Spirito, cf. E. Bianchi, “Lo Spirito del Signore è su di me …” (Lc 4,18-19), Bose 2009 (Testi di meditazione 149), pp. 13-17.

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sto, è quello della preghiera, su cui significativamente Paolo termina la sua esortazione: Pregate incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, e a questo scopo vegliate con ogni perseveranza e supplica per tutti i santi (Ef 6,18).

La preghiera, che è lei stessa una vera e propria lotta (cf. Rm 15,30; Col 4,12), viene qui definita mediante alcune caratteristiche ben precise. Essa deve essere incessante (cf. anche 1Ts 5,17), avvenire “in ogni momento” (en pantì kairô). Ciò non significa impegnarsi nel ripetere continuamente formule, ma vivere un’esistenza contrassegnata da quella che i padri chiamavano memoria Dei, il ricordo costante di Dio, ossia lottare per essere sempre consapevoli della sua presenza in noi14. L’Apostolo parla inoltre di preghiera “nello Spirito” (en pneúmati). Di nuovo, nessun protagonismo da parte del cristiano: egli è chiamato a essere sempre in epiclesi, a consentire che lo Spirito preghi in lui e trasformi la sua vita in preghiera. E tutto questo al fine di giungere a una comunione sempre più piena con Dio e con i fratelli, i “santi” a favore dei quali sempre egli innalza a Dio le sue suppliche. E infine la preghiera è preparata dalla grande virtù della vigilanza (verbo agrypneín, connesso alla preghiera anche in Lc 21,36). La vigilanza, atteggiamento globale di tensione interiore per discernere la presenza del Signore e di apertura per far spazio in sé alla sua venuta, immette il credente in uno stato di lu14 “È preghiera ininterrotta tenere il cuore rivolto a Dio con grande devozione e desiderio, aggrapparsi sempre alla speranza in lui, aver fiducia in lui in ogni cosa, nelle opere e in ciò che accade … Con queste disposizioni l’Apostolo pregava incessantemente; infatti in tutte le sue azioni … e in tutto quanto accadeva, egli dipendeva dalla speranza in Dio” (Massimo il Confessore, Discorso ascetico 25-26, in Id., In tutte le cose la “Parola”, a cura di L. Cremaschi, Bose 2008, pp. 161-162).

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cidità spirituale. Essa è in radice la matrice di tutte le virtù cristiane, perché tempra il credente facendone una persona capace di resistere, di combattere, di trasformare l’energia vitale sviata o bloccata nelle passioni idolatriche in energia per conseguire l’unico vero scopo della lotta spirituale: l’agápe, l’amore verso Dio, verso tutti i fratelli e tutte le creature.

Conclusione Gesù ha detto: “Lottate per entrare attraverso la porta stretta” (Lc 13,24), ed egli stesso ce ne ha dato l’esempio quando nell’orto degli Ulivi ha affrontato nella preghiera la lotta, l’agonía (Lc 22,44) decisiva. Posto di fronte all’alternativa tra restare fedele al Padre, anche al prezzo di subire una morte violenta e ignominiosa, oppure percorrere le vie suggerite dal demonio, Gesù è rimasto pienamente obbediente alla volontà di Dio, fino ad accogliere l’arresto senza mutare lo stile di mitezza e di amore che aveva contrassegnato l’intera sua vita. Lo stesso ha fatto sulla croce, dove, simmetricamente alle tentazioni da lui subite nel deserto, ha sentito riecheggiare da parte degli uomini parole simili a quelle di Satana: Ha salvato gli altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto … Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso … Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi! (Lc 23,35.37.39).

Gesù però non ha voluto salvare la propria vita; al contrario, ha scelto di compiere fedelmente la volontà di Dio, continuando a comportarsi fino alla morte in obbedienza a lui, ossia amando e servendo Dio e gli uomini: ciò è stato causa di morte per 49

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Gesù, ma causa di vita per gli uomini tutti! Ed è proprio in risposta a quella vita in cui egli ha lottato per resistere alle seduzioni di Satana e per rimanere sempre capace di amore, che il Padre lo ha richiamato dai morti. Tutto questo ha per noi una conseguenza determinante: solo Gesù Cristo, il Signore risorto che vive in ciascuno di noi, può vincere il male che ci abita, e la lotta spirituale è esattamente lo spazio nel quale la vita di Cristo trionfa sulla potenza del male, del peccato e della morte. Non abbiamo vittorie da ascrivere a noi stessi: ogni nostra vittoria è nient’altro che un riflesso della vittoria pasquale di Cristo, lui che sa com-patire le nostre debolezze, essendo stato tentato in ogni cosa, come noi, ma senza commettere peccato (cf. Eb 4,15), e ora è sempre vivente per intercedere a nostro favore (cf. Eb 7,25). È dunque Cristo che possiamo invocare con le parole del salmista: “Nella mia lotta sii tu a lottare!” (Sal 43,1; 119,154); è con lui e in lui che ogni giorno, pur nella fatica della lotta spirituale, possiamo rendere grazie a Dio cantando: “Benedetto il Signore, mia roccia! Egli addestra le mie mani alla battaglia, le mie dita all’arte della lotta” (Sal 144,1).

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TEOLOGIA DELL’ATTO ASCETICO Filaret Vachromeev*

Confratelli vescovi amatissimi nel Signore, venerabili padri, fratelli e sorelle, esimi organizzatori e partecipanti! Ringrazio di cuore il padre priore per avermi invitato a partecipare al XVII Convegno internazionale di spiritualità ortodossa. Sono molto riconoscente a tutti coloro che da diciassette anni rendono possibile lo svolgimento di questo convegno, un segno dei nostri tempi, molto importante per la santa chiesa di Cristo. Il mio animo è lieto di essere qui tra voi e condividere alcune riflessioni su come la lotta spirituale sia considerata nella tradizione ortodossa.

“Benedetto il regno del Padre, del Figlio e del santo Spirito” Con queste parole comincia, in ogni chiesa ortodossa, la Divina liturgia1. Ogni volta che ci si rivolge a Dio bisogna inizia-

* Metropolita di Minsk, esarca patriarcale di Bielorussia, presidente della Commissione teologica sinodale del Patriarcato di Mosca. Traduzione dal russo di Leonardo Paleari. 1 Divina liturgia di Giovanni Crisostomo, in Liturgia eucaristica bizantina, a cura di M. B. Artioli, Torino 1988, p. 57.

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re con questa glorificazione, poiché, secondo Nicola Cabasilas, “colui che glorifica Dio, lasciando da parte se stesso e le sue personali preoccupazioni, lo fa per quello che lui è, per la sua maestà e la sua gloria”2. Inizio la mia riflessione sulla teologia della fatica ascetica – in russo podvig – con questo pensiero di un santo padre, e ciò per due ragioni. La prima ragione è che lo scopo dell’atto ascetico è il distacco dalle passioni. È noto che raggiungere questo distacco è considerata la virtù più alta in molte culture, anche in quelle che non hanno relazione con la fede in Gesù Cristo. Soltanto nel cristianesimo, però, le fonti del distacco dalle passioni si incentrano nella divino-umanità del Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. Lo scopo dell’ascesi del cristiana non consiste nello sviluppo delle proprie capacità umane, ma ha tutt’altra finalità. Lo scopo infatti è la ricerca di vie di comunione con Dio: con il proprio Creatore, il Salvatore, il Consolatore. Ecco perché la glorificazione del Signore per il Signore stesso, per la sua potenza e gloria, è la risposta originale dell’uomo al richiamo evangelico: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24). La seconda ragione della nostra attenzione al pensiero di Nicola Cabasilas è che la materia della nostra riflessione, la lotta spirituale, impegna i cristiani a una specialissima attenzione ai rapporti vicendevoli e verso se stessi. Questa attenzione spirituale, direi anche evangelica, trova la sua incarnazione ideale nella Divina liturgia. Infatti in questo servizio divino il Signore altissimo stesso ci riunisce in un’unità inscindibile. Proprio in ragione di questo riunirci, per questa unione eucaristica dei suoi fedeli, egli “ha tanto amato il mondo 2 Nicola Cabasilas, Commento della divina liturgia, a cura di A. G. Nocilli, Padova 1984, pp. 95-96.

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Teologia dell’atto ascetico

da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). L’unità di tutti e di ciascuno non solo riproduce la sinfonia delle membra di un solo corpo, ma diventa un fatto pienamente reale, poiché la santa chiesa è il corpo di Cristo, il corpo del Figlio di Dio dato agli uomini. Questo è il punto di vista ortodosso sulle finalità dell’atto ascetico e sui mezzi dati da Dio per conseguirlo. Orientandoci su questo ideale evangelico, ci sforziamo di avvicinarci, con sobrietà spirituale e mitezza, a una comprensione ecumenicamente cristiana del concetto di lotta spirituale.

I fondamenti cristologici dell’ascetica Una delle più antiche testimonianze della divino-umanità di Cristo è la Lettera di Paolo ai Filippesi, dal sesto all’undicesimo versetto del secondo capitolo. Gli studiosi del Nuovo Testamento concordano nel ritenere che questo inno al Salvatore esisteva già e fu incluso da Paolo nella sua lettera come una glorificazione del Signore Gesù. Quindi prima di leggere questo brano vorrei sottolineare il contesto in cui Paolo lo ha inserito. All’inizio del capitolo Paolo scrive dell’unità che i cristiani raggiungono in Cristo, amandosi vicendevolmente e agendo con umiltà l’uno verso l’altro: “Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso” (Fil 2,3). Fondamento di questo, dice l’autore ispirato da Dio, è che in noi devono esservi “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5). Così il giudizio cristologico diventa esatta indicazione della sua finalità: noi stessi dobbiamo diventare simili a Cristo. 53

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Nelle parole dell’Apostolo sentiamo l’esortazione a seguire non solo l’esempio morale di Cristo, ma a vivere di Cristo, come lo stesso Paolo vive di lui: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21). Qui è necessario sottolineare anche lo sviluppo di questo pensiero sul piano escatologico personale: “Ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio”. Ma più avanti ecco la sua ritrattazione: “Per voi è più necessario che io rimanga nel corpo” (Fil 1,23-24). Ora andiamo a quello che Paolo dice ai filippesi su Cristo, di cui i cristiani, trasfigurati dall’ascesi, devono condividere i medesimi sentimenti: Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il Nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!”, a gloria di Dio Padre (Fil 2,6-11).

Questo brano è stato più volte oggetto di accurata analisi teologica. Qui il mio compito non è di discutere sui diversi aspetti interpretativi di questo inno. Vorrei invece attingere da questa antica composizione cristologica un argomento necessario per meglio capire la problematica della teologia dell’atto ascetico. Questo argomento si trova nella risposta alla domanda: perché Dio ha esaltato Gesù e gli ha dato il Nome che è al di sopra di ogni altro nome? Perché tutti i popoli cristiani professano che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre? In sostanza ci si chiede qui perché l’umanità di Cristo è stata resa degna della gloria divina. 54

Teologia dell’atto ascetico

In una tale formulazione si può sospettare il sapore di una separazione nestoriana tra l’umanità e la divinità di Cristo. Io vorrei però lasciare la questione proprio in questa forma, per poter definire con estrema chiarezza l’essenza della natura umana nell’unica ipostasi divino-umana di Cristo. Ma proprio questo è l’insegnamento divino sull’essenza dell’ascesi. Nella Lettera ai Filippesi la gloria divina di Cristo è descritta come una conseguenza della sua umiltà e obbedienza fino alla morte, una morte straziante e ignominiosa. Su questo Paolo mette un accento particolare. Tuttavia la gloria divina non è solo una conseguenza dell’umiltà. Non a caso all’inizio del brano si parla dell’uguaglianza di Gesù Cristo con Dio. La morte in croce, impossibile per la natura divina, è possibile per la natura umana. Ed è per questo che Dio ha mandato “il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato” (Rm 8,3). In tal modo la morte in croce del Figlio dell’uomo diventa la morte personale del Logos immortale. Al mistero della morte dell’Immortale, al mistero della lotta ascetica del Dio-uomo distaccato dalle passioni noi ci possiamo in qualche modo avvicinare ascoltando le parole della preghiera del Getsemani: “Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!” (Mt 26,39). Qui si sente il “voglio” della natura umana, qui respira il “se è possibile” della libertà umana, ma proprio qui risuona anche il “tu” dell’umiltà divino-umana. In questa umiltà di Dio viene guarita la natura e viene rinnovata la libertà di tutto il genere umano che è malato per i peccati e soffre per le passioni. In questa umiltà ascetica del Figlio di Dio il libero arbitrio dell’uomo e la sua essenza naturale acquistano la prospettiva dell’eterna immortalità dinanzi al volto del Creatore. L’obbedienza e l’umiltà di Cristo rappresentano nel Getsemani non solo una diminuzione del Figlio dell’uomo dinanzi a 55

Filaret Vachromeev

Dio Padre. Questa estrema umiltà e piena obbedienza sono modi di esistenza propri del Logos eterno. Anche qui, nel Getsemani, nella notte dell’arresto arriva quel preciso momento in cui la parola di Dio realizza quei modi di essere, “assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini”. Così Dio ha esaltato Cristo e gli ha dato il Nome che è al di sopra di ogni altro nome, poiché l’umanità di Gesù di Nazaret si è realizzata pienamente, si è spalancata davanti all’occhio onnivedente del Padre.

L’atto ascetico come vita in Cristo

A questo punto è necessario comprendere che cosa significhi per i cristiani la divinizzazione della natura umana di Cristo. Il primo passo che non astrattamente ma oggettivamente unisce noi a Cristo è quello che compiamo nel sacramento del battesimo. Nella Lettera ai Romani, che viene letta durante il rito battesimale, Paolo dice: “Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua resurrezione” (Rm 6,5). In queste parole, proprio come nella triplice immersione del battezzando nell’acqua, vediamo che la partecipazione attiva a Cristo avviene attraverso la nostra personale partecipazione alla sua morte e resurrezione. Più avanti l’Apostolo sviluppa questo pensiero: “Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù” (Rm 6,11). Partecipi del corpo di Cristo nel sacramento del battesimo e della cresima, siamo chiamati ad assimilare e ravvivare i doni dello Spirito santo che abbiamo ricevuto. In questo è racchiuso 56

Teologia dell’atto ascetico

l’atto ascetico del pentimento, in greco metánoia, che significa “cambiamento di mente”. “L’uomo vecchio che è in noi” (Rm 6,6) nel pentimento trasforma il proprio pensiero, per acquisire il diritto di dire, con l’apostolo Paolo: “Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo” (1Cor 2,16). Ne consegue che il senso della nostra azione ascetica non consiste nello sviluppare le capacità dell’uomo vecchio, ma nell’acquisire una nuova umanità in Cristo. Il cammino verso questa umanità si compie nella lotta alle passioni, che costituiscono proprio l’essenza menzognera dell’uomo vecchio. Il pentimento è considerato come una morte, in rapporto alla necessità di rinunciare al modo di vita dell’uomo vecchio, che in ultima analisi è chiuso in se stesso. Credo sia giusto definire questo modo di vita come individualista, tanto più se si tiene conto del significato della parola latina individuum, cioè “indivisibile, a se stante”. L’origine dell’individualismo sta nel desiderio dell’uomo di essere lui stesso un dio, non di essere insieme al Creatore; così egli è affetto dalla sete di sottomettere a sé il mondo, ma senza trovarsi in un determinato grado di una gerarchia stabilita da Dio; è volto a mitigare la paura di perdere il potere personale di fronte alla necessità di condividerlo con le altre anime all’interno di quella gerarchia. L’uomo vecchio si protegge da questa paura con il proprio orgoglio. Questa tentazione funge da catalizzatore per la moltitudine di tutte le altre passioni e crea nella coscienza dell’individuo l’illusione di essere pari a Dio. In tale stato l’uomo non è capace di rallegrarsi della verità (cf. 1Cor 13,6), cioè non è capace di amare un altro uomo. Infatti per lui un altro uomo è sempre una minaccia alla sua propria sovranità. In questo meccanismo di orgoglio l’altro diventa oggetto di invidia, di irritazione e di odio: vizi che nella cecità spirituale spesso vengono considerati manifestazioni di un carattere forte. 57

Filaret Vachromeev

Istituendo la chiesa, il Signore ha dato inizio a una diversa logica dei rapporti interpersonali. Le parole della preghiera liturgica al momento della frazione dell’Agnello esprimono chiaramente questa logica: “Viene spezzato e suddiviso l’Agnello di Dio, che viene spezzato, ma non diviso, che sempre viene mangiato e mai è consumato, ma santifica chi ne partecipa”3. Qui vediamo la confutazione dell’individualismo, per il quale la divisione è simile alla morte. E insieme c’è qui un paradosso: l’Agnello divino viene frazionato e al tempo stesso rimane indivisibile. Viene mangiato, ma esso non si consuma. In questo sta il paradosso della vittima, la paradossalità del sacrificio come forma di pensiero e modo di vita. Così il dare diventa sorgente del ricevere, e la morte l’inizio della nascita. Seguendo questa logica, noi ci asteniamo dall’assecondare il nostro io, comunque si esprima questo assecondare: sotto forma di emozioni psichiche o nell’aspirazione alle comodità materiali. Il senso dell’astenersi è il Signore stesso: noi rinunciamo a qualcosa al fine di fare spazio in noi alla grazia divina. Questo astenersi, insieme al tendere della volontà verso Cristo, si chiama “digiuno”, che secondo Giovanni Climaco è causa del distacco dalle passioni, risoluzione dei peccati, porta del paradiso e godimento celeste4. Tuttavia il digiuno produrrà frutti solo quando sarà unito al discernimento. Il discernimento, come una lancia affilata, deve troncare le passioni e aprire all’anima pentita il suo stato autentico. Possiamo dire che con il digiuno è la nostra carne che viene offerta come culto razionale a Dio (cf. Rm 12,1). La parola russa plot’ (“carne”) ha la stessa radice dell’aggettivo plotnyj (“denso, compatto”), che in questo contesto si può intendere come impenetrabile alla luce. Divina liturgia di Giovanni Crisostomo, p. 110. Cf. Giovanni Climaco, La scala 14,31, a cura di L. d’Ayala Valva, Bose 2005, pp. 249-250. 3 4

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Teologia dell’atto ascetico

In tal modo lo smembramento dell’uomo carnale con la lancia del digiuno “razionale”, fatto con discernimento, fa sì che la carne diventi penetrabile alla luce della grazia divina. Comprensibilissime diventano allora le parole di Giovanni Climaco riguardo al digiuno, che è lampada nella tenebra, ritorno dell’errante sulla giusta via, illuminazione di chi non vede5. Separando il buono e il cattivo nella nostra anima, possiamo di nuovo raccoglierla in unità. E questa novità riguarderà anche le passioni in quanto forze della nostra anima. Infatti le passioni sono un male e portano sofferenza quando sono generate dalla natura umana peccatrice. Ma esse possono e devono avere un orientamento buono nelle nostre azioni. Non a caso nella letteratura ascetica vi è l’espressione “passione scevra di passioni”. Con tale formula si indica un tendere dell’uomo a Dio che non sia oscurato dall’orgoglio. Come il dono della vittima è accompagnato dallo spargimento di sangue, il sacrificio spirituale è accompagnato dallo spargimento di lacrime su se stessi e sul mondo. I destini del mondo e dell’uomo sono legati da tali inconfessabili legami, da tali sottili fili e pesanti catene che nessuno oltre a Dio può attingere la loro essenza onnicomprensiva. Così, condividendo se stesso nel sacrificio ascetico per Dio, l’individuo incontra il Dio risorto, che nell’abbraccio ha allargato davanti a lui le sue mani trafitte e che gli si rivolge con le parole: “Sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25,21). La gioia del padrone è la gioia della resurrezione e dell’immortalità, è l’eternità condivisa dal Creatore con tutti; l’eternità in cui, secondo le parole di Paolo, “Cristo è tutto e in tutti” (Col 3,11). In tal modo l’ascesi non è una fuga dell’uomo dal mondo. Nell’ascesi l’uomo si fa partecipe a Cristo, la cui natura umana è

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Cf. ibid.

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identica alla natura di ciascuno di noi. Questo significa che la partecipazione a Cristo di un uomo ha nella sua prospettiva l’unità nel corpo di Cristo di tutta l’umanità trasfigurata. Le parole di Serafim di Sarov: “Acquisisci uno spirito di pace, e migliaia si salveranno intorno a te”, acquistano allora un senso non solo morale, ma profondamente ontologico. L’esortazione di Nicola Cabasilas a glorificare Dio per amore di Dio stesso ci riporta nuovamente al fatto che l’atto ascetico non è un fine in se stesso dell’esistenza umana, ma un cammino che conduce dall’umanità alla divino-umanità. Così la triade evangelica “via, verità e vita” si rivela nello stesso Signore nostro Gesù Cristo. A lui la gloria nei secoli. Amen.

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AFFLIZIONE E LACRIME: CORPO, ANIMA E SPIRITO. GIOVANNI CLIMACO E LA TRADIZIONE DEL SINAI Justin Hicks*

Siamo stati scacciati dal paradiso, e l’afflizione e le lacrime sono la nostra condizione; è rimasta, tuttavia, dentro di noi la nostalgia del paradiso e, paradossalmente, è attraverso l’afflizione e le lacrime che vi ritorniamo.

Seguire Cristo nel pentimento È Cristo stesso che ci chiama, nella tenerezza dell’amore con cui avvolge ciascuno di noi. La sua parola e il suo esempio suscitano in noi una risposta d’amore. Lottiamo per seguirlo con pensieri, parole e azioni, credendo con fede retta e irreprensibile nella santa Trinità1: questa è la vera definizione del cristiano, ed è su tale fondamento che Giovanni, igumeno del Sinai, colloca la sua immortale Scala del paradiso. * Monaco del Monastero di Santa Caterina al Sinai (Egitto). Traduzione dall’originale inglese. 1 Cf. Giovanni Climaco, La scala 1,7, a cura di L. d’Ayala Valva, Bose 2005, p. 89.

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Cristo è la perla di grande valore (cf. Mt 13,45-46), ed è questo ciò che il monaco cerca quando si immerge nell’abisso della quiete. Egli è il tesoro nascosto nel campo (cf. Mt 13,44): per esso il monaco vende tutte le volontà proprie nell’obbedienza ai comandamenti (cf. Ef 2,20), in modo da poterlo acquistare fin da quaggiù. Egli è la pietra angolare che ci unisce a sé, la chiave (cf. Ap 3,7) di volta posta al vertice dell’arco, che lo completa e così unisce tutte le pietre a lui e l’una con l’altra2. Così dice Gregorio il Sinaita, che scrive circa sette secoli dopo Giovanni Climaco. Cristo ci chiama non soltanto a seguirlo, ma anche a diventare, per grazia, una sola cosa con lui. Per questo egli ha pregato, nella notte in cui ha consegnato se stesso per la vita del mondo, “perché tutti siano una cosa sola; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi” (Gv 17,21). Ciò richiede da parte nostra una purezza assoluta, dal momento che “quale rapporto può esservi fra giustizia e iniquità, o quale comunione fra luce e tenebre?” (2Cor 6,14). Gregorio il Sinaita ha scritto: La natura, se non è stata custodita immacolata o se, come avviene, non è stata purificata mediante lo Spirito, non può giungere a essere un solo corpo e un solo spirito in Cristo ora e nella futura armonia. La potenza comprensiva e unitiva dello Spirito non cuce insieme lo straccio della vecchiezza delle passioni con la nuova tunica della grazia per farne un tutt’uno3.

E tuttavia, chi potrà stare dinanzi alla terribile maestà di Dio? Non certo il figlio prodigo che è andato in un paese lontano e là ha sperperato il suo patrimonio in una vita dissoluta (cf. Lc 15,13), e nemmeno colui che giunge a dire: “Tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza; che altro mi manca?”

2 Cf. Gregorio il Sinaita, Utilissimi capitoli in acrostico 83, in La Filocalia III, a cura di M. B. Artioli e M. F. Lovato, Torino 1985, p. 548. 3 Ibid. 41, p. 539.

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Afflizione e lacrime …

(Mt 19,20). Di fronte alla santità di Dio “non c’è nessun giusto, nemmeno uno” (Rm 3,10). È nel pentimento che tutti possono ritornare a lui. Quando il figlio prodigo rientrò in se stesso, disse: “Mi alzerò e andrò da mio padre” (Lc 15,18); tutta la nostra vita sta in questo “alzarsi”. Giovanni Climaco scrive che il pentimento è “rinnovamento del battesimo”, “acquirente di umiltà”, “figlio della speranza”, “riconciliazione con il Signore”4. Nel pentimento noi non mettiamo i nostri peccati davanti a Dio, né tanto meno mettiamo davanti a lui le buone azioni che possiamo aver compiuto; piuttosto, portiamo davanti a lui con fede ferma la nostra debolezza e infermità e da lui riceviamo in cambio l’aiuto, oltre ogni nostra aspettativa, nella misura in cui ci immergiamo continuamente nell’abisso dell’umiltà5, dal momento che Dio giudica il nostro pentimento non in base alle nostre fatiche ma in base alla nostra umiltà6. Nel pentimento, l’anima è contrita e purificata e viene dunque condotta a un’afflizione profonda, attraverso la quale è “impastata” con Dio. Il pentimento e l’afflizione sono a loro volta trasformati nell’umiltà, nello stesso modo in cui il lievito e la farina divengono pane; oppure essi sono come le fasce di colore nell’arcobaleno che sfumano impercettibilmente l’una nell’altra7.

Afflizione, compunzione e dono delle lacrime Una vita di pentimento è ancorata nell’afflizione (pénthos), che Giovanni Climaco definisce come tristezza dell’anima e Giovanni Climaco, La scala 5,2, p. 165. Cf. ibid. 1,17, p. 92. Cf. ibid. 26/2,9, p. 382. 7 Cf. ibid. 25,7, p. 336. 4 5

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condizione di un cuore afflitto; o ancora, l’afflizione è un “pungiglione dorato dell’anima … che viene conficcato in essa dalla santa tristezza, per sorvegliare il cuore”8. “Afflizione” è il termine più generale, ma un altro termine è strettamente legato a esso: quello di “compunzione” (katányxis). Compunzione è quello stato di intenerimento del cuore che viene percepito durante la preghiera e la lettura spirituale. Scrive Climaco: “Quando una parola della tua preghiera ti pervade di dolcezza o di compunzione, rimani in essa, perché in quel momento il nostro angelo custode sta pregando con noi”9. La vera compunzione è sofferenza non distratta dell’anima che aspetta, come acqua fresca, la consolazione da parte di Dio10. L’afflizione e la compunzione generano il dono delle lacrime, e Climaco ha scritto su questo tema con profondo discernimento. La preghiera genera le lacrime, e le lacrime a loro volta generano la preghiera11. Il monaco che ha sempre davanti a sé il ricordo dei propri peccati e della morte bagna incessantemente le proprie guance con acque vive che scaturiscono dagli occhi del corpo, e può alzare gli occhi dell’anima verso le schiere angeliche12. Scrive Giovanni Climaco: Quando la nostra anima, senza alcuno sforzo o applicazione da parte nostra, diventa tutta umida e tenera sciogliendosi in lacrime, corriamo, perché il Signore è venuto senza essere stato invitato, per darci la spugna della tristezza che gli è cara e l’acqua refrigerante delle pie lacrime, che cancella i peccati scritti sul documento del nostro debito. Custodisci quest’acqua come pupilla dell’occhio, finché non si ritiri, perché è

Ibid. 7,2, p. 193. Ibid. 28,10, p. 435. 10 Cf. ibid. 7,27, p. 198. 11 Cf. ibid. 28,1, p. 433. 12 Cf. ibid. 7,42, p. 201. 8 9

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grande la forza di questa compunzione, molto più di quella che otteniamo con il nostro sforzo e la nostra riflessione13.

Le lacrime possono sgorgare per diverse cause; alcune di esse portano al nostro progresso spirituale più di altre. Ma possono anche essere provvidenzialmente negate da Dio, così che siamo condotti a ricercarle con più fervore. Questa condiscendenza nei confronti della debolezza della natura umana non ci consente però di sminuire l’importanza centrale che Giovanni attribuisce al posto delle lacrime nella nostra ricerca spirituale. Le lacrime pure e candide producono purificazione, progresso nell’amore di Dio, cancellazione dei peccati ed eliminazione delle passioni14. Noi piangiamo per il timore del giudizio che deve manifestarsi, ma le lacrime causate dal timore lasciano posto a lacrime di santissimo amore. L’afflizione, la compunzione e le lacrime generano misteriosamente la consolazione e la gioia spirituale. Per esprimere questo, Giovanni dovette inventare parole nuove; e così parla della santa compunzione in termini di “un’afflizione che produce gioia” (charopoiòs pénthos) e di “una tristezza gioiosa” (charmolØpe), che eleva l’uomo al di sopra delle cose di questo mondo e lo presenta puro a Cristo15. Attraverso l’afflizione e la tristezza del cuore, ritroviamo il paradiso che Adamo aveva conosciuto prima della caduta; gustiamo una primizia della gioia che vi sarà, quando ogni dolore, afflizione e sospiro saranno scomparsi16. Gli abiti dell’afflizione diventano abiti nuziali e la tristezza si muta in gioia spirituale:

Ibid. 7,27, p. 198. Cf. ibid. 7,33, p. 199. Cf. ibid. 7,11, p. 195. 16 Cf. ibid. 7,46, p. 202. 13 14 15

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Se considero la natura stessa della compunzione, sono stupito al vedere come quella che chiamiamo afflizione e tristezza contenga in sé, come miele nel favo, gioia e letizia. Ma da questo che cosa impariamo? Che tale compunzione è davvero da riconoscere come un dono del Signore: allora nell’anima non c’è più alcun piacere spiacevole, perché Dio consola segretamente i contriti di cuore17.

Anche Filoteo il Sinaita, che visse nel x secolo, ha descritto l’afflizione che lascia posto alla dolcezza e alla gioia. Egli scrive che il ricordo dei peccati commessi sa umiliare e generare lacrime, e muoverci con tutto il cuore al rendimento di grazie a Dio; come anche il ricordo perenne e distinto della morte. Questo infatti partorisce anche afflizione spirituale mista con una certa dolcezza, gioia e sobrietà dell’intelletto. Ma umilia fortemente il pensiero e lo dispone a piegare lo sguardo a terra anche il ricordo dei patimenti del nostro Signore Gesù Cristo, anch’essi ciascuno nel loro genere, raccolti e richiamati alla memoria con il ricordo; anche questi, davvero, producono lacrime. E inoltre, umiliano veramente l’anima anche i molti benefici di Dio verso di noi, enumerati e riconsiderati uno a uno, poiché il nostro combattimento è contro demoni superbi18.

Questa gioia al cuore dell’afflizione, questa gioia nata dall’afflizione è il paradosso di cui parlò Cristo quando disse: “Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati” (Mt 5,4). È di questo che l’apostolo Paolo scrisse, là dove afferma:

Ibid. 7,50, pp. 202-203. Filoteo il Sinaita, Quaranta capitoli di sobrietà 13, in La Filocalia II, a cura di M. B. Artioli e M. F. Lovato, Torino 1983, p. 402. 17 18

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“La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza” (2Cor 7,10).

Corpo, anima e spirito Nel dono delle lacrime, le lacrime fisiche sono versate da uno spirito contrito. Questo testimonia che la persona intera, corpo, anima e spirito è rinnovata e santificata. Nel Discorso al pastore, Giovanni loda il suo destinatario per la sua vittoria sul corpo, sull’anima e sullo spirito19; con ciò egli fa le stesse distinzioni di Paolo quando scrive: “Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo” (1Ts 5,23). Ci sono diversi passaggi nella Scala che sembrano implicare un certo dualismo: reprimendo il corpo, permettiamo allo spirito di essere liberato. Giovanni scrive, ad esempio, che coloro che hanno raggiunto l’afflizione nel profondo del loro essere hanno poi voltato le spalle al loro corpo come a un nemico20. Tuttavia, leggere tali testi in questo modo significa trascurare una delle lezioni più importanti che Giovanni ha da impartirci. Nel quindicesimo gradino, riguardante la castità incorruttibile, Climaco scrive: Come potrò vincere ciò che per natura sono pronto ad amare? Come potrò liberarmi da ciò a cui sono vincolato per l’eternità? Come potrò distruggere ciò che risorgerà con me? …

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Cf. Giovanni Climaco, Discorso al pastore 100, in Id., La scala, pp. 484-490. Cf. Id., La scala 7,31, p. 199.

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Cos’è questo mistero che mi circonda? Qual è il motivo di questa mescolanza che è in me? Come mai sono nemico e amico di me stesso21?

Il corpo è nostro nemico in quanto corrotto dalla caduta, ma è anche nostro amico in quanto chiamato a condividere la nostra santificazione; dunque non è cattivo in sé, ma soltanto nella sua propensione al peccato. Tale comprensione non conduce però al compiacimento; siamo chiamati piuttosto in corpo, anima e spirito, a ritornare allo stato incorrotto della nostra natura umana prima della caduta: tutte e tre le dimensioni devono essere riorientate verso Dio. Scrive Giovanni: Chi ha vinto il corpo, ha vinto la natura; e chi ha vinto la natura, certamente ha raggiunto una condizione superiore alla natura, e chi ha raggiunto questa condizione, è di poco – per non dire in nulla – inferiore agli angeli22.

Egli pone così una distinzione fra la nostra natura katà phØsin, creata da Dio, quella parà phØsin che è corrotta, e quella hypèr phØsin, deificata dalla grazia di Dio. Gregorio il Sinaita scrive che, una volta purificata, la persona intera diviene splendente: Raggiunge quasi lo stesso genere di vita degli angeli e diviene incorporeo in quanto incorruttibile chi, purificato l’intelletto con le lacrime, ha risuscitato da quaggiù la sua anima con lo Spirito e con la ragione ha reso la carne – cioè la propria statua, che per natura è di fango – simulacro luminoso e infuo-

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Ibid. 15,83, p. 278. Ibid. 15,70, p. 270.

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cato della divina bellezza: c’è infatti un’incorruttibilità dei corpi, cioè un venir meno di umori e di spessore23.

C’è una sinergia tra corpo e anima in cui uno influisce sull’altra e viceversa. Giovanni scrive: “L’anima si assimila ai comportamenti esteriori, si modella sulle proprie azioni e a esse si conforma”24. E in un altro passo egli scrive che le realtà spirituali sono conseguite per mezzo delle realtà sensibili25. È proprio per questa ragione che tutta la nostra lotta spirituale sarà di tipo ascetico, come è stato detto: ou mónon mathòn allà kaì pathòn tà theîa (“non solo imparando, ma anche patendo le cose divine”)26, poiché le realtà di Dio non sono soltanto conosciute in modo speculativo e concettuale, ma devono essere sperimentate e realizzate nella prassi concreta. Giovanni di Damasco istituì questa medesima correlazione tra corpo e spirito nella sua difesa della venerazione delle icone: Dal momento che siamo duplici, fatti di anima e di corpo, e la nostra anima non è nuda ma, per così dire, coperta da un mantello, è impossibile per noi raggiungere ciò che è intelligibile in modo separato da ciò che è corporale ... Per questo il Cristo assunse corpo e anima, perché l’uomo ha corpo e anima27.

La comprensione di ciò che compone l’essere umano è fondata sulla teologia dell’incarnazione. Anche Anastasio il Sinaita ha scritto che, proprio come Cristo ha agito “in maniera divino-umana”, così anche noi dobbiamo agire “in maniera tale

Gregorio il Sinaita, Utilissimi capitoli in acrostico 45, in La Filocalia III, p. 540. Giovanni Climaco, La scala 25,54, p. 348. 25 Cf. ibid. 13,2, p. 237. 26 Dionigi l’Areopagita, Nomi divini 2,9, in Id., Tutte le opere, a cura di E. Bellini, Milano 1981, p. 278. 27 Giovanni di Damasco, Discorsi contro i detrattori delle immagini 3,12, in Id., Difesa delle immagini sacre, a cura di V. Fazzo, Roma 1983, p. 123. 23 24

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da combinare corpo e anima, seguendo l’esempio del Cristo Dio-uomo”28. Le distinzioni che Giovanni istituisce tra corpo, anima e spirito sono, in definitiva, esistenziali: noi restiamo ontologicamente uniti, e anche la separazione dell’anima dal corpo al momento della morte è soltanto temporanea, in quanto aspettiamo la nostra reintegrazione nell’ultimo giorno, quando tutto risorgerà, in un momento, in un batter d’occhio (cf. 1Cor 15,52).

Lacrime come battesimo Nel settimo gradino della Scala leggiamo: Più grande del battesimo è la fonte delle lacrime che sgorga dopo il battesimo, per quanto l’affermazione possa essere un po’ ardita. Il battesimo infatti ci purifica dai peccati commessi prima, ma questa fonte da quelli commessi in seguito29.

Qui Giovanni istituisce un paragone originale tra la rigenerazione operata nel battesimo e il rinnovamento di quella purificazione portata dal dono delle lacrime. Possiamo anche considerare la tipologia soggiacente a un tale paragone. Il Sinai è l’emblema dell’incontro tra Dio e l’uomo. Quando i figli di Israele vivevano in schiavitù sotto il faraone, Mosè ordinò che ciascuna famiglia prendesse un agnello maschio senza difetto e lo uccidesse il quattordicesimo giorno del primo mese, alla sera. Avrebbero dovuto prendere il sangue, aspergerne gli stipiti delle porte

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Anastasio il Sinaita, Discorso “secondo l’immagine”, PG 89,1149A. Giovanni Climaco, La scala 7,6, p. 194.

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e mangiare la carne arrostita al fuoco, insieme a pane non lievitato e a erbe amare. Inoltre, avrebbero dovuto mangiarlo in fretta, pronti a partire dall’Egitto. Mosè disse loro: “È il sacrificio della Pasqua per il Signore, il quale è passato oltre le case dei figli di Israele in Egitto, quando colpì l’Egitto e salvò le nostre case” (Es 12,27). Quella notte i primogeniti di tutti gli egiziani morirono e quella stessa notte i figli di Israele uscirono, riversandosi fuori dalle loro case e partendo verso il deserto del Sinai. I figli di Israele attraversarono il mar Rosso all’asciutto; erano guidati da una colonna di nubi di giorno e da una colonna di fuoco di notte; mangiarono la manna e bevvero l’acqua scaturita dalla roccia; sul monte Sinai, ricevettero i comandamenti della Legge e costruirono l’arca per il culto a Dio, secondo la rivelazione che Mosè aveva ricevuto in cima alla santa montagna. Dopo aver vagato nel deserto per quarant’anni, Mosè fu tolto loro; poi Dio disse a Giosuè: “Come sono stato con Mosè, così sarò con te” (Gs 1,5). Quando giunsero al fiume Giordano, le acque si divisero di fronte a loro, proprio come il mar Rosso si era diviso di fronte a loro ai tempi di Mosè. Questo avvenne anche nello stesso momento dell’anno in cui era avvenuto l’esodo dall’Egitto, poiché il passaggio del Giordano avvenne il decimo giorno del primo mese, e il quattordici celebrarono la Pasqua: l’attraversamento del fiume Giordano è così visto come un nuovo esodo. Mentre erano accampati a Galgala, un angelo apparve a Giosuè e gli disse: “Togliti i sandali dai tuoi piedi, perché il luogo sul quale tu stai è santo” (Gs 5,15); ma queste sono le parole che Mosè aveva udito presso il roveto ardente sul Sinai. Giosuè condusse i figli di Israele nella terra promessa ed è scritto che il popolo ebbe timore di lui, proprio come avevano avuto paura di Mosè: in tutto ciò è evidente che Giosuè è visto come il nuovo Mosè. Viene dunque istituito un parallelismo con il primo esodo e con Mosè per illuminare il significato del nuovo esodo e della nuova guida, Giosuè. Il nuovo esodo e la nuova guida assumono un significato speciale proprio a causa di tale correlazione. 71

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Nella Scrittura possono essere identificati molti modelli del genere, in cui un certo evento, una certa persona o un certo luogo sono visti come il tipo – dal greco tØpos, che significa “prototipo, modello, figura” – di un evento, di una persona o di un luogo successivo: in tal caso abbiamo quello che si usa chiamare un rapporto tipologico. L’evento successivo non sarà mai perfettamente identico al precedente cui ci si richiama, ma la correlazione è ricercata come un modo per adattare o interpretare l’esperienza presente per mezzo di un evento, persona o luogo passati, e così poter celebrare il nuovo evento e rivelare la provvidenziale continuità nell’esperienza storica. Le tipologie non mettono sempre in relazione eventi passati con esperienze presenti; i profeti di Israele hanno invocato queste stesse correlazioni parlando delle speranze future. Il profeta Osea ricorda il soggiorno nel deserto con nostalgia: era stato un tempo in cui Dio era vicino al suo popolo; di nuovo Dio avrebbe condotto Israele nel deserto, dove l’alleanza sarebbe stata nuovamente celebrata “come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto” (Os 2,17). Il profeta Michea dice a Israele che Dio compirà ancora meraviglie “come quando sei uscito dalla terra d’Egitto” (Mi 7,15). Queste tipologie raggiungono in un certo senso il loro culmine nelle profezie di Isaia: il ritorno a Sion dalla schiavitù a Babilonia è visto come un nuovo esodo, e il primo esodo è evocato per le azioni potenti di Dio avvenute in quel tempo. In una visione escatologica il profeta Isaia vede anche la conversione delle genti, che saranno parte di tale nuovo esodo verso Sion, e quindi l’instaurazione del regno messianico universale. Nel Nuovo Testamento, troviamo richiami costanti ai tipi dell’Antico Testamento al fine di illustrare il significato degli eventi contemporanei. Cristo stesso ha detto: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14-15). Nella Prima lettera ai Corinti, una delle prime lettere 72

Afflizione e lacrime …

di Paolo, questa tipologia è già assai sviluppata: i figli di Israele attraversarono il mare e nel deserto mangiarono la manna e bevvero l’acqua che sgorgava dalla roccia; questi diventano tipi del battesimo cristiano e del cibo e bevanda spirituali (cf. 1Cor 10,1-4). Quel momento cruciale per i figli di Israele è qui invocato come paradigma della vita cristiana. Tutto questo ha trasmesso una ricca eredità alla chiesa. Quale liturgia non si sofferma sulla liberazione offerta da Dio al suo popolo e sul suo trionfo sui nemici? I figli di Israele furono liberati dall’Egitto con mano forte, attraversarono il mare e nel deserto costruirono l’arca dell’Altissimo, secondo il modello mostrato a Mosè sul monte, e questa fu riempita della sua gloria. I monaci del Sinai vivono questa tipologia e sono sufficienti minime indicazioni per richiamare quest’associazione alla mente. Quando Giovanni Climaco tratta delle lacrime come battesimo, fa qualcosa di più che istituire un parallelismo tra il battesimo e le lacrime. Poiché il passaggio dei figli di Israele attraverso il mar Rosso è un tipo del battesimo, attraverso cui noi siamo rigenerati, risuscitati, ed entriamo in una nuova vita, allora l’afflizione e le lacrime sono la frontiera che deve essere attraversata se vogliamo essere liberati dall’Egitto delle passioni, se vogliamo salire l’alta montagna e giungere alla presenza del Dio vivente. Che Giovanni fosse cosciente del valore tipologico di tale rapporto è confermato da quanto scrive nel ventiseiesimo gradino della sua Scala: Se verrà anche in noi colui che muta il mare in terra ferma, anche il nostro Israele – cioè la mente che vede Dio – certamente riuscirà a traversare il mare senza essere scossa dalle onde, e vedrà gli egiziani annegati nell’acqua delle lacrime30.

30

Ibid. 26/1,25, p. 362.

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Di coloro che hanno attraversato queste acque, le acque delle lacrime, e sono giunti in spirito sul santo monte su cui Dio ha camminato, il Sinai, è possibile dire, come è stato scritto dei settanta anziani di Israele: Essi videro il luogo dove stava il Dio d’Israele: sotto i suoi piedi vi era come un pavimento in lastre di zaffiro, il cui aspetto era come il firmamento del cielo nella sua limpidezza. E degli eletti di Israele neppure uno andò perduto; anch’essi apparvero nella dimora di Dio, poi mangiarono e bevvero (Es 24,10-11 lxx).

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ISACCO IL SIRO E LA LOTTA DELLA PREGHIERA André Louf*

Alcuni elementi per una biografia Sono pochi i dati precisi in nostro possesso sulla vita di Isacco il Siro, detto anche Isacco di Ninive, dal nome della città della quale fu per breve tempo vescovo. Sappiamo soltanto che egli visse verso la metà del vii secolo, che nacque in una regione corrispondente all’attuale Qatar, nel Golfo Persico, che si fece monaco e fu ordinato vescovo di Ninive (vicino all’odierna Mosul, in Irak) da Giorgio, catholicos della chiesa di Seleucia-Ctesifonte tra il 660 e il 680; incarico che lascerà dopo cinque mesi soltanto, “per una ragione che Dio conosce”, come recita una fonte antica1. Quando Isacco viene al mondo, la chiesa siro-orientale, alla quale egli appartiene, ha già alle spalle una lunga storia. Nel corso del tempo, peraltro quasi inavvertitamente, ha sviluppato un’indipendenza sempre più marcata rispetto alle chiese di * Monaco trappista, è stato a lungo abate dell’abbazia di Mont-des-Cats (Francia) ed è autore di vari contributi sulla spiritualità monastica e i padri della chiesa. Traduzione dall’originale francese. 1 Ishodenah, Libro della castità 124, in J. B. Chabot, “Le Livre de la Chasteté composé par Jésusdenah, Évêque de Bac¸rah”, in Mélanges d’archéologie et d’histoire 16 (1896), p. 277. Noi dobbiamo quel poco che sappiamo della vita di Isacco a quest’ope-

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lingua greca, e a maggior ragione rispetto al mondo latino. I motivi di questo isolamento sono complessi; nel contempo etnici, culturali e politici. In un tempo in cui gli imperatori bizantini apparivano come gli antagonisti del potere locale, era preferibile tenersi prudentemente a distanza da tutto ciò che poteva rappresentarli, compresa la religione cristiana; tale prudenza era suggerita dal ricordo di persecuzioni particolarmente sanguinose da parte delle autorità persiane. Nel frattempo, le tradizioni teologiche si erano anch’esse sviluppate in modo differente. Le definizioni dogmatiche dei grandi concili di Efeso e di Calcedonia, ai quali i vescovi di lingua siriaca non erano stati invitati né erano presenti, furono per lungo tempo ignorate da queste chiese2, che, nella stessa epoca, avevano invece dispiegato una straordinaria attività missionaria, sufficiente a mobilitare tutto il loro dinamismo e ad assorbire la loro attenzione. Questa attività di predicazione prese la via dell’India, dando così origine a cristianità che sono sopravvissute fino ai nostri giorni. Regioni lontanissime o territori chiusi, quali il Tibet o la Cina, non sfuggirono a questo slancio missionario, come attestano testimonianze raccolte ancora di recente3. Agli occhi dei cristiani di Bisanzio, di Alessandria e di Roma, queste chiese finirono abbastanza rapidamente per essere assimilate a chiese isolate, e presto, in seguito a dolorosi fraintendimenti sul linguaggio teologico le cui conseguenze secolari sono state analizzate solo di recente, furono sospettate di eresia, se non apertamente ritenute eretiche.

ra redatta intorno all’870 (cf. ibid., pp. 225-291), e a un altro documento, di data incerta, pubblicato da Rahmani (cf. I. E. Rahmani, Studia Syriaca I, Charfet 1904, pp. 32-33). 2 Per meglio valutare la portata e le conseguenze di queste “assenze”, cf. A. de Halleux, “Nestorius. Histoire et doctrine”, in Irénikon 66 (1993), pp. 38-51; 163-178; Id., “La première session du concile d’Ephèse (22 juin 431)”, in Ephemerides Theologicae Lovanienses 69 (1993), pp. 48-87. 3 Cf. P. Saeki, The Nestorian Documents and Relics in China, Tokyo 1951; G. M. Allegra, “Due testi nestoriani cinesi”, in Euntes Docete 26 (1973), pp. 300-319; M. Nicolini-Zani, La via radiosa per l’oriente. I testi e la storia del primo incontro del cristianesimo con il mondo culturale e religioso cinese (secoli VII-IX), Bose 2006.

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Dopo essere state coinvolte nei conflitti di potere tra persiani e bizantini, con le rispettive culture, queste stesse chiese dovettero sostenere, a partire dal 633, l’invasione dei popoli arabi, qualche anno appena prima della nascita di Isacco. All’inizio, gli arabi furono accolti piuttosto favorevolmente dalle popolazioni siriache, e lo sviluppo delle chiese in Siria-Mesopotamia non ne fu per nulla ostacolato. D’altronde, delle schiere degli invasori facevano parte anche alcune tribù arabe cristiane. I secoli vi e vii furono travagliati, ma conobbero anche una grande fioritura letteraria e teologica, che prolungava l’influenza della celebre scuola di Nisibe. È in questo periodo che i grandi testi teologici, ma soprattutto ascetici, di Bisanzio furono tradotti in lingua siriaca: Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo, i detti dei padri del deserto, abba Isaia, lo Pseudo-Dionigi, Diodoro di Tarso, Teodoro di Mopsuestia e soprattutto Evagrio. Isacco si mostrerà discepolo pieno di rispetto di questi ultimi due, da lui frequentemente citati. La vita monastica è attestata in Mesopotamia a partire dal iv secolo, in contemporanea con la sua comparsa in Egitto, ma senza che, a quanto pare, sia debitrice di un’influenza diretta di quest’ultima. Anche qui era stata preceduta da diverse esperienze di ascetismo, tra cui quella rappresentata dai “Figli del patto”, attestata da Afraat ed Efrem. Dopo aver conosciuto diverse forme, alcune delle quali oggi sarebbero giudicate anticonformiste ed eccessive, la vita monastica fu in seguito ridefinita intorno a una linea più classica, ispirata alla Regola di Abramo di Kashkar, una delle personalità monastiche più autorevoli vissuto poco prima di Isacco. Da questa Regola traspare un monachesimo organizzato secondo la struttura della laura – celle di solitari raggruppate attorno a un centro cenobitico che serve da “noviziato” – struttura che ritroviamo in Isacco e nei suoi contemporanei, Simone di Taibuteh e Dadisho Qatraya4. 4

Cf. Isacco di Ninive, Seconda collezione 10,37.

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Per conoscere meglio Isacco è bene riportare per esteso i due passi biografici che la tradizione ci ha conservato su di lui. Essi in parte coincidono e, pur senza avere un valore storico documentato, trasmettono indubbiamente con fedeltà alcuni tratti di Isacco, tra i ricordi che la sua cerchia aveva conservato di lui. La prima testimonianza viene dal Libro della castità, attribuito a Ishodenah di Basra, scritto tra l’860 e l’870, e dunque di molto posteriore a Isacco, libro costituito da una raccolta di notizie sui monaci celebri della regione. Ecco quello che si dice di Isacco: Santo mar Isacco, vescovo di Ninive, che abbandonò l’episcopato e compose libri sulle condotte dei solitari. Fu fatto vescovo di Ninive dal catholicos mar Giorgio, nel monastero di Bet Abe. Avendo guidato per cinque mesi, dopo il vescovo Mosè suo predecessore, la comunità di Ninive, abbandonò l’episcopato per una ragione che Dio conosce, e se ne andò ad abitare nelle montagne … Dopo che ebbe lasciato il seggio di Ninive, salì alla montagna di Matut, che è circondata dalla regione del Bet Huzaye, e abitò nella solitudine con gli anacoreti che erano nella regione; in seguito venne al monastero di Rabban Shabur. Scrutava soprattutto le divine Scritture, a tal punto da essere privato della luce degli occhi a causa delle letture e dell’ascesi. Era sufficientemente introdotto nei misteri divini e compose libri sulle vite divine condotte dai solitari, ed espresse tre proposizioni che non furono accettate da molti; fu attaccato da Daniele Bar Tubanita, vescovo del Garmai, a causa di quelle affermazioni che aveva fatto. Partì dalla vita terrena in età molto avanzata e il suo corpo fu deposto nel monastero di Shabur. Essendo originario del Bet Qatraye, io penso che l’invidia fu eccitata contro di lui dagli abitanti dell’interno, come [anche contro] Giuseppe Hazzaya, Giovani di Apamea e Giovanni di Dalyata5. 5 Ishodenah, Libro della castità 124, in J. B. Chabot, “Le Livre de la Chasteté”, pp. 277-278 (tr. it. in S. Chialà, Dall’ascesi eremitica alla misericordia infinita. Ricerche su Isacco di Ninive e la sua fortuna, Firenze 2002, pp. 53-54).

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La seconda testimonianza viene da un testo anonimo e del quale non si conosce la data, pubblicato da Rahmani, testo al quale Sabino Chialà pensa di poter attribuire, sulla base della critica interna, un’origine siro-orientale, dunque relativamente vicina a Isacco: Ecco la storia, ovvero lo splendore, del padre benedetto mar Isacco, dove si narra la sua regione di origine e la sua vita; e che fu vescovo di Ninive, che poi abbandonò [l’episcopato] e andò in un monastero, e compose cinque tomi di insegnamento per i monaci. Questo Isacco di Ninive, quanto alla sua origine, era della regione del Qatar, più in giù dell’India. Dopo essere stato formato intorno ai libri della chiesa e ai commentari, fu monaco e maestro nella sua regione. Quando il catholicos mar Giorgio venne nella sua regione, lo portò con sé nel Bet Aramaye, perché era della stessa famiglia di mar Gabriele Qatraya, esegeta della chiesa. Mar Isacco fu fatto vescovo di Ninive nel monastero di Bet Abe; ma a causa dell’acutezza del suo intelletto e del suo ardore, non riuscì a sostenere la cura della sua comunità neppure per cinque mesi. Così, dopo aver supplicato il papa [catholicos], che lo lasciò andare, se ne ritornò nella sua solitudine, nella montagna di Huzaye, insieme ai monaci di quella regione. Infine fu privato della luce [degli occhi] e i fratelli mettevano per iscritto il suo insegnamento e lo chiamavano “secondo Didimo”, perché era mite, dolce e umile e la sua parola era piena di tenerezza. Non mangiava nulla se non tre pani alla settimana insieme a un po’ di verdura e non gustava cibi cotti. Compose cinque tomi conosciuti fino a oggi: il dolce insegnamento! Così infatti testimonia mar Yozadaq nella sua lettera scritta a Bushiro suo discepolo, al monastero di mar Shabur, dicendo: “Rendo grazie a Dio perché ti sei preoccupato di mandarmi l’insegnamento di mar Isacco di Ninive. Io so che ti sei acquistate le chiavi del Regno mentre sei ancora in vita, perché hai riempito il nostro monastero dell’insegnamento vivificante; e noi ci confessiamo discepoli di mar Isacco, vescovo di Ninive”. Questo dice 79

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nella sua lettera, e infine, allo stesso modo del vescovo Giovanni, dice: “L’opera di mar Isacco è per me di grande aiuto e conforto”. Quindi [Isacco] invecchiò e avanzò negli anni, se ne andò presso nostro Signore e fu deposto nel monastero di mar Shabur. La preghiera di Maria, la genitrice di Dio, e quella del nostro padre [Isacco] e di tutti i santi sia con noi. Amen6.

Lo storico è evidentemente tentato di interrogarsi sul motivo che spinse Isacco ad abbandonare così rapidamente la carica episcopale. Diverse sono le ragioni proposte. È possibile che, venendo da una regione che era considerata terra straniera dai suoi nuovi diocesani, Isacco non si sia sentito accolto. L’invidia di cui fu oggetto secondo Ishodenah potrebbe essere interpretata in questo senso. Anche le tensioni interne alla chiesa di Ninive, alle quali il catholicos avrebbe voluto porre rimedio imponendo un vescovo proveniente dall’esterno, non sono estranee a questa sua scelta. Dana Miller suggerisce di ricollegare l’assegnazione a Isacco di quella sede alla riconciliazione tra la chiesa del Qatar e quella di Persia, che il catholicos Giorgio era arrivato a realizzare nel 6767. Il fatto che il successore immediato di Isacco sia stato anche lui costretto ad abbandonare la sede dopo un lasso di tempo altrettanto breve lascia intendere che i contrasti non si erano appianati dopo la sua partenza. Ma è anche probabile che questa breve esperienza di attività pastorale lo abbia presto convinto che la sua vera vocazione era altrove. “L’acutezza del suo intelletto e del suo ardore”, che la testimonianza edita da Rahmani ci indica come causa delle sue dimissioni, può essere interpretata come allusione a una predi-

6 I. E. Rahmani, Studia Syriaca I, pp. 32-33 (tr. it. in S. Chialà, Dall’ascesi eremitica, pp. 54-55). 7 Cf. The Ascetical Homilies of Saint Isaac the Syrian, a cura di D. Miller, Boston MA 1984, pp. lxvii-lxviii.

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sposizione personale per una vita più strettamente contemplativa. Nel vocabolario spirituale siriaco, infatti, l’“acutezza” dell’intelletto indica una delle qualità particolari dell’esicasta, alle prese con le fasi più elevate dell’esperienza mistica8. Comunque, non appena Isacco ebbe lasciato la sua cattedra episcopale, si ritirò tra i solitari del monte Matut, nella regione di Bet Huzaye. Giunto a un’età avanzata e divenuto cieco a causa dei suoi sforzi prolungati di lettura della Scrittura, fu accolto nel monastero di Rabban Shabur, dove morì e fu sepolto.

L’eredità letteraria di Isacco Fino a tempi recenti l’eredità letteraria di Isacco consisteva in una serie di discorsi, di numero variabile a seconda delle edizioni, che noi chiamiamo Prima collezione. Tradotti abbastanza presto dal siriaco in greco e in arabo, e più tardi anche in slavo e in russo, hanno avuto un’influenza considerevole sulla spiritualità delle chiese orientali. Tra queste, merita una menzione particolare la chiesa russa del xix secolo, perché è indubbiamente all’opera di Isacco che essa deve in gran parte la sua straordinaria fioritura spirituale ed esicasta. In occidente, l’opera di questo padre della chiesa conobbe una certa diffusione in Italia e in Spagna grazie a una traduzione latina, fatta sul greco alla fine del medioevo e all’alba del rinascimento, ma non svolse un particolare ruolo al momento dell’importante riscoperta dei padri bizantini, nei secoli xvi e xvii. Bisognerà attendere il xx secolo per veder riapparire Isacco, soprattutto nelle biblioteche mo8 Cf. Isacco di Ninive, Seconda collezione 3,2,59; 3,4,62; 3,4,86. L’acutezza è una proprietà dell’intelletto degli angeli (cf. ibid. 20,8); ma essa può anche essere considerata fattore di predisposizione agli studi profani (cf. ibid. 3,4,40).

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nastiche, grazie alla primissima edizione a stampa dell’originale siriaco e ad alcune traduzioni in lingua moderna, la maggior parte delle quali realizzate sulla traduzione greca9. All’inizio del xx secolo vennero alla luce le prime tracce degli scritti di Isacco non compresi nella Prima collezione. Quindi, nel 1983, il professore Sebastian Brock di Oxford ritrovò nella biblioteca Bodleiana un secondo insieme di discorsi e di centurie, purtroppo ancora solo parzialmente accessibili in un’edizione critica, noto come Seconda collezione. Questo secondo corpus di Isacco si compone di quarantuno documenti di lunghezza variabile. Il terzo di questi si distingue perché contiene quattro Centurie sulla conoscenza e occupa, da solo, la metà dell’intera collezione. Sebastian Brock ha assicurato l’edizione critica della seconda metà (capitoli 4-41)10, accompagnata da una traduzione inglese. Il professor Paolo Bettiolo, di Padova, sta preparando l’edizione critica dei primi due Discorsi e delle Centurie (capitolo 3). Di queste ultime ha già pubblicato una traduzione italiana11. Dal canto suo, Sebastian Brock ha pubblicato una traduzione inglese dei primi due Discorsi12. Segnaliamo infine l’esistenza di una Terza collezione ritrovata nella biblioteca episcopale caldea di Teheran13. Sabino Chialà, che ne ha già offerto una versione italiana14, ne sta preparando l’edizione critica. 9 Per una traduzione francese del testo greco, cf. Isaac le Syrien, Oeuvres spirituelles, a cura di J. Touraille, Paris 1981. 10 Cf. Isaac of Nineveh (Isaac the Syrian), “The Second Part”. Chapters IV-XLI, a cura di S. Brock, CSCO 554-555, Leuven 1995. 11 Cf. Isacco di Ninive, Discorsi spirituali, a cura di P. Bettiolo, Bose 1985 (edizione riveduta e ampliata nel 1990). 12 Cf. S. Brock, “St Isaac the Syrian: Two unpublished texts”, in Sobornost 1 (1997), pp. 7-33. Per una traduzione francese dell’intera collezione, cf. Isaac le Syrien, Oeuvres spirituelles, II. 41 Discours récemment découverts, a cura di A. Louf, Bellefontaine 2003. 13 Ms. Teheran, Issayi 5. 14 Isacco di Ninive, Discorsi ascetici. Terza collezione, a cura di S. Chialà, Bose 2004. Per una traduzione francese, cf. Isaac le Syrien, Oeuvres spirituelles, III. D’après un manuscrit récemment découvert, Bellefontaine 2009.

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Le fonti di Isacco Tra le fonti patristiche più spesso citate da Isacco, Evagrio detiene il primo posto con molti riferimenti espliciti, occasionalmente sottolineati da apprezzamenti senz’altro elogiativi; viene chiamato: “testimone fedele della Parola”15, “illuminatore della mente”16, “mirabile tra i santi”17, “uomo ricolmato di rivelazioni spirituali”18. È seguito da vicino da Teodoro di Mopsuestia, il “beato interprete”19. Il maestro e contemporaneo di quest’ultimo, Diodoro di Tarso, è chiamato in causa in occasione della discussione particolarmente delicata sulla durata delle pene dell’inferno20. Marco, che Isacco chiama “il Solitario” – lo stesso Marco che nella Filocalia viene detto “l’Asceta” –, compare anch’esso varie volte21. E infine alcune citazioni sono anche tratte da Giovanni: il “Beato di Apamea”, o semplicemente “il Beato”, è citato due volte22. Più importanti delle citazioni esplicite sono i mondi, concettuale e spirituale, che hanno determinato l’esperienza di Isacco e ne hanno forgiato il pensiero e il vocabolario. Studi recenti hanno sottolineato tutto quello che Isacco deve a Giovanni di Apamea (ad esempio il vocabolario dell’interiorità, lo schema dei tre livelli di comportamento – corporeo, psichico, spirituale –, la tensione escatologica che anima tutta la sua esperienza spirituale, la nozione di stupore), e a Evagrio (in particolare la concezione dell’intelletto nudo, della preghiera pura e della theoría

Isacco di Ninive, Seconda collezione 1; 3,1,10. Ibid. 3,1,22; 3,3.14; 3,3,57; 3,3,90; 3,3,92. 17 Ibid. 8,15; 14,21; 18,21. 18 Ibid. 35,12. 19 Ibid. 1; 3,1,19-20; 3,3,70; 3,3,94; 3,4,95; 8,21; 14,36; 39,7-9. 20 Cf. ibid. 39,11-13. 21 Cf. ibid. 3,2,39; 4,5; 10,14; 24,1. 22 Cf. ibid. 1; 3,4,93. 15

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o contemplazione23. Ma al di là di questi, che furono i suoi autori preferiti, bisogna ricordare tutta la tradizione siro-orientale della quale è impregnato il suo pensiero e di cui egli stesso diventerà uno dei portavoce più celebri, prima ancora di lasciare un’impronta profonda, a sua volta, nelle altre tradizioni, in particolare quella di Bisanzio e dei paesi slavi.

L’intento preciso dell’opera di Isacco A un certo punto della sua opera, Isacco ci offre quella che potrebbe essere considerata come una dichiarazione di intenti. Perché ha deciso di scrivere questi testi? E a partire da quali dati ne ha raccolto gli elementi? Alla prima domanda egli risponde che questi sono testi che gli serviranno da promemoria (noi oggi parleremmo di taccuino o diario spirituale); alla seconda domanda, risponde che la loro fonte è duplice: le Scritture e l’esperienza che egli ha tratto dall’aver affrontato le tentazioni. “Noi abbiamo composto questo libro come promemoria per noi stessi, a partire dalla pienezza della contemplazione attinta dalle Scritture, e … un po’ anche a partire dalle prove che sono sopraggiunte”24. Il suo scopo è tuttavia ancora più preciso. Lo formula all’inizio del discorso 4, immediatamente successivo alle quattro Centurie

23 Cf. Isaac of Nineveh (Isaac the Syrian), “The Second Part”, CSCO 555, pp. xxxvii-xxxix; I. Alfeev, La forza dell’amore. L’universo spirituale di Isacco il Siro, Bose 2003, pp. 33-36; R. Beulay, La lumière sans forme. Introduction à l’étude de la mystique syro-orientale, Chevetogne 1987, pp. 16-29; 95-101; 206-210. La presentazione della dottrina di Isacco fatta da Sabino Chialà nel suo recente libro (Dall’ascesi eremitica) evidenzia i molti punti di contatto tra le affermazioni di Isacco e quelle di Giovanni di Apamea e di Evagrio. 24 Isacco di Ninive, Seconda collezione 3,1,41.

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sulla conoscenza, che apre la seconda parte della Seconda collezione. Isacco ha intenzione di trattare di ciò che egli in diversi passi chiama la “fatica della preghiera”25, quella “conversazione con Dio per la quale ogni cosa esiste”26, e in particolare le “pratiche della preghiera nascosta (o segreta)”27, quella, cioè, che non basta pronunciare con le labbra, ma che si celebra nel cuore. Spiegare e diffondere la pratica di quello che noi oggi chiameremmo “preghiera interiore” è l’intento principale di Isacco. Per lui si tratta di una fatica o di un’ascesi più importante di quella che riguarda semplicemente il corpo, e che ha il vantaggio di essere sempre accessibile, anche a colui che non sopporterebbe un certo rigore ascetico. In effetti, spiega, anche se non si pratica nessuna fatica [ascetica], è sempre possibile sentirsi afflitti nel proprio pensiero, ricordarsi continuamente dei propri peccati, avere una bassa opinione di se stessi davanti a Dio, essere sereni e seminatori di pace tra gli altri, onorare tutti, raccogliersi in sé, ridere di rado, non essere chiacchieroni, avere una buona parola per tutti, rendere grazie nel proprio cuore in mezzo alle prove, custodire un silenzio sapiente e membra ben ordinate, e ricordarsi ... che dovremo [un giorno] lasciare questo mondo. Tutte queste cose non richiedono obbligatoriamente una fatica corporale, ma sono ornamento del pensiero28.

Lo specifico dei solitari e, in certo qual modo, la loro prerogativa è questo lavoro nascosto che Isacco vuole favorire e che, a suo avviso, non sempre è apprezzato nel suo giusto valore neppure da parte dei primi interessati. Eppure, si tratta

Ibid. 6,6.9;10,6 e passim. Ibid. 3,1,63. Ibid. 4,1. 28 Ibid. 1. Cf. anche il discorso 24. 25 26 27

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dell’opera eminente e mirabile della reclusione e della quiete con se stessi, che viene accordata solo a pochi, come dono che viene da Dio … In verità, la fatica di un centinaio di fratelli che digiunano e celebrano l’ufficio in mezzo alla ressa e nella compagnia della gente non vale quanto l’opera di un solo solitario che, nella sua debolezza, resta seduto nella quiete29.

Così afferma categoricamente Isacco. Egli auspica quindi che i suoi lettori mirino subito all’essenziale. Vuole impedire che i monaci “corrano verso cose superflue”, che, “anche se soddisfano l’amor proprio del solitario”, non sono “necessarie alla [sua] via, e ostacolano [la sua] ricerca e [il suo] zelo per la purezza”30. Non si stancherà di ripeterlo: è a questa conoscenza spirituale e interiore che il solitario deve mirare, piuttosto che alla virtù esteriore, perché si incontrano molte persone virtuose che non possiedono la conoscenza [spirituale]. Affrettiamoci dunque a correre dietro a quest’ultima, perché è lei che rende perfetta la condotta virtuosa della nostra anima. Se la nostra anima fosse nelle tenebre e priva di conoscenza, neanche la nostra prassi della virtù potrebbe restare pura31.

La lotta della preghiera L’occupazione principale del solitario nella “quiete” è la lettura, quella della Scrittura e degli scritti dei padri. Questa è 29 Ibid. 3,2,44. L’intenzione di difendere la vita solitaria da certe incomprensioni traspare anche in Prima collezione 18. 30 Id., Seconda collezione 1. 31 Ibid. 3,3,54.

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“la fonte e la madre”32 di ogni preghiera33. In un primo momento, attraverso comprensioni e intuizioni sempre più affinate34, questa lettura della Parola procurerà una “conoscenza luminosa” del “disegno di Dio”35 e della sua estrema misericordia nei confronti di coloro ai quali egli ha voluto donare l’esistenza. È così che il contemplativo (o gnostico), frequentemente scosso da “impulsi interiori” o “spirituali”36, si avvicinerà sempre più a Dio, fino a trovarsi unito o “mescolato” con lui37, per un dono di grazia dello Spirito santo. Senza per questo trascurare l’ufficio canonico – al quale Isacco tiene, in reazione ai messaliani, che pretendevano che la preghiera pura fosse sufficiente per provvedere a tutto38 –, il solitario non dovrà però preoccuparsi eccessivamente della recitazione integrale dei salmi previsti se si sente attratto nel suo intimo e invitato a fermarsi per “gustare” con maggior tranquillità i mille sensi contenuti nei versetti39. Infatti è “nel più profondo di se stesso”, nel suo intimo che la preghiera dovrà introdurlo, nel suo cuore dove si nasconde il Santo dei santi e l’altare di cui è l’officiante40 e dove si trova anche la porta che si apre sul Regno venturo e sul cielo. È quella che Isacco chiama l’opera o la fatica “nascosta”41. Giunto a questo punto, il contemplativo si trova “al di là della natura”, e persino “al di là della preghiera”42 o, più semplicemente, là dove c’è la sua natura autentica, quella della “creazione originale” o “primitiva”43, nella Ibid. 29,5 Cf. ibid. 3,4,63; 6,29. Cf. ibid. 31,1. 35 Ibid. 10,19; 14,27 e passim. 36 Ibid. 3,1,4-5.31 e passim. 37 Cf. ibid. 7,3. 38 Cf. ibid. 3,3,86-87. 39 Cf. ibid. 3,2,55-56; 3,4,31; 14,47. 40 Cf. ibid. 3,4,60; 41,2. 41 Cf. ibid. 29. 42 Ibid. 32,4-6. 43 Ibid. 3,2,72.74.76. 32 33

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quale tutte le parole e tutti i suoi impulsi sono ridotti al silenzio44 e dove rimane “colpito da meraviglia” o da stupore dinanzi a Dio45. Questa vita di solitudine non è però una vita di tutto riposo. A causa delle innumerevoli tentazioni alle quali il solitario deve far fronte, com’è accaduto a Gesù nel deserto (cf. Mt 4,1-11 e par.), Isacco la paragona alla fornace ardente nella quale furono gettati i tre adolescenti ebrei, al tempo del re Nabucodonosor (cf. Dn 3,8-97), e il cui fuoco sarà spento solo dalla rugiada di abbondanti consolazioni spirituali46. Il solitario vi apprende la propria povertà, quanto sia profondo l’abisso di debolezza che porta in sé, dal quale non può uscire se non dopo aver sperimentato continue cadute e aver cercato ogni volta di rialzarsi47, con molte lacrime, di pentimento e di dolcezza allo stesso tempo, con un cuore spezzato e reso profondamente umile48. Conoscendo per esperienza la tenerezza di Dio, il suo cuore sovrabbonda ormai d’amore per tutte le creature – gli animali, senza escludere i demoni – e la sua preghiera si muta in un’intercessione universale per tutta la creazione49, al punto che egli è ormai incapace di vedere il male nei suoi fratelli50. Tutto è puro per un cuore puro.

I rischi del percorso Come si è visto, Isacco ha una viva percezione di questo necessario progresso con il quale si approfondisce a poco a poco, con Cf. ibid. 6,5 e passim. Cf. ibid. 3,2,14; 3,3,49; 14,24; 20,11 e passim. 46 Cf. ibid. 3,4,36. 47 Cf. ibid. 3,2,101; 3,4,36; 10,11; 14,16; 40,16. 48 Cf. ibid. 3,2,93-94; 18,8.11. 49 Cf. ibid. 4,3. 50 Cf. ibid. 3,2,39. 44 45

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il tempo, l’esperienza spirituale. Questo progresso può essere osservato in occasione dei cambiamenti che si producono nell’esperienza del solitario, e che quest’ultimo deve osservare con cura: Come i movimenti dell’aria indicano con i loro cambiamenti che qualcuno li dirige, così il pensiero indica, con i suoi cambiamenti antitetici, verso il bene o verso il male, che lotte e aiuti della grazia accompagnano continuamente i suoi impulsi, e questo gli permette, giorno dopo giorno, di progredire gradualmente nell’apprendimento delle realtà nuove51.

Questi cambiamenti non devono scoraggiarci, perché sono caratteristici di ogni processo vitale. Isacco cita come esempio quelli che avvengono solitamente in natura, dove l’apparente desolazione dell’inverno prelude all’esplosione improvvisa della primavera, che essa ha preparato al prezzo di una lunga pazienza52. Dice altrove Isacco: Guarda del resto al tuo cuore come di ora in ora si trasforma in un altro cuore, grazie al rinnovamento che tu ricevi man mano dall’aiuto della grazia e della forza di Dio53.

Di questi cambiamenti Isacco analizza le diverse possibili cause – il progetto divino, la rilassatezza dell’uomo, le circostanze esterne o un intento misericordioso di Dio – che bisogna saper discernere con cura per trovare l’atteggiamento spirituale appropriato54. Infatti, anche un cambiamento positivo può celare delle insidie, ed è importante dunque non abbandonare

Ibid. 3,2,1. Cf. ibid. 23. Ibid. 3,4,46. 54 Cf. ibid. 14,4-8. 51

52

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troppo velocemente, o interamente, le abitudini sperimentate in precedenza55. Questi cambiamenti si producono lungo tutto un cammino che abbraccia la storia dell’uomo nel suo insieme, dalla natura primitiva (o antecedente) di quest’ultimo, la cui integrità purtroppo è stata perduta al momento della caduta, fino al rinnovamento di tutte le cose, alla fine dei tempi, nel mondo nuovo preannunciato, dove sarà restaurata la “natura della creazione delle origini”. Tutto lo sforzo spirituale tenderà a ritrovare la bontà primitiva e naturale, che d’altronde non è andata completamente perduta, perché il bene è stato immesso nella natura dell’uomo come il fuoco è nella natura della pietra e del ferro, ma ha bisogno di qualcosa che gli dia un impulso, cioè la grazia di Dio e la sollecitudine dell’uomo56.

Altrove Isacco dirà che l’anima è come una sorgente che conserva in sé “le acque della sua condizione naturale”: L’anima del solitario somiglia a una sorgente d’acqua, alla quale i padri antichi l’hanno già paragonata. Ogni volta che il solitario fa cessare in se stesso tutti gli impulsi dell’udito e della vista, percepisce chiaramente nel contempo Dio e se stesso, mentre sgorgano in lui acque limpide e soavi che sono i pensieri dolci della sua condizione naturale57.

Approfondire questa esperienza giorno dopo giorno, lungo gli anni, equivale ad anticipare, un po’ alla volta, e nella misura 55 56 57

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Cf. ibid. 22. Ibid. 3,1,39. Ibid. 3,3,61.

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in cui questo viene donato gratuitamente, quello che sarà accordato più tardi all’insieme degli uomini: Quando … qualcuno si raccoglie [lasciando] … le realtà che gli sono esteriori, … egli comincia a vedere in sé delle realtà nuove. Vi trova e percepisce indicazioni e segni nascosti, assaporando in mistero il rinnovamento del quale l’insieme degli esseri umani sarà reso degno alla fine [dei tempi] … Chi legge comprenda58!

L’itinerario del solitario si snoda quindi tra i due poli fondamentali della storia dell’umanità: la sua natura originaria e la medesima natura rinnovata al momento della parusia. Ciò che gli è dato di assaporare già fin d’ora “in mistero”, o misticamente, si offre a lui come pegno, o come “caparra” (cf. 2Cor 1,22; 5,5) dei beni a venire: è quello che Isacco chiama “un piccolo assaggio” nella citazione seguente, che riassume con molta chiarezza le tappe successive di questo itinerario: Quando qualcuno si distoglie dai peccati d’azione e ha vinto le suggestioni [cattive] ... quando si è purificato dal ricordo delle lotte sostenute contro di esse, il pensiero comincia allora a produrre degli impulsi che riguardano le realtà nascoste. Esso passa poi alle intuizioni che riguardano il mondo corporeo, e viene elevato al di là della meditazione degli esseri spirituali [gli angeli] che appartengono alla sua stessa natura, e viene colpito di stupore dinanzi a Dio, non a causa delle sue meraviglie in nostro favore, ma a causa della sua natura, in quella quiete totale che cade allora su di esso. È questa la perfezione che i santi acquisiscono fin da questo mondo e che è, secondo i padri, un piccolo (e primo) assaggio di ciò che si rice-

58

Ibid. 3,4,61.

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verà più tardi. Infatti, queste sono rivelazioni che concernono i misteri della gloria del mondo nuovo, nei quali la natura dotata di ragione si delizierà nella resurrezione59.

A una prima tappa, caratterizzata dalla lotta contro le suggestioni e i ricordi, succedono dunque degli impulsi che si concentrano sulle “cose nascoste”, sinonimo delle realtà interiori del cuore. Questi impulsi rendono l’anima capace di comprendere ciò che essa imparerà da quel momento sul senso del mondo materiale e su quello degli angeli – sono le “intuizioni” –, prima di essere infine “colpita da stupore” dinanzi a Dio, non più a causa di ciò che Dio ha fatto per noi – la contemplazione delle meraviglie del disegno della salvezza appartiene ancora alla tappa precedente –, ma a causa della sua stessa natura, alla quale lo spirituale, secondo Isacco, è unito, al cuore di una quiete interiore che prende possesso progressivamente di lui. Qui si tratta proprio dei “misteri della gloria del mondo nuovo”, ai quali l’uomo spirituale viene iniziato a poco a poco fin dalla vita presente. Questo è l’oggetto costante della sua preghiera. Seguendo una tradizione che risale a Origene60, Isacco interpreta in tal modo la seconda domanda del Padre nostro: “Venga il tuo regno”, che egli cita secondo una versione ampliata di uso liturgico nella sua chiesa61: “Venga il tuo regno prima del tempo”. E commenta: questo vuol dire “ricevere, sotto forma di caparra, il regno [dei cieli] nei sensi spirituali, salendo verso quelle dimore che non sono né di carne né di sangue”62. Un’uguale tensione verso il Regno, già misteriosamente presente nell’esperienza spirituale, si ritrova nella serie delle brevi

Ibid. 3,4,14. Cf. Origene, La preghiera 25, a cura di G. Del Ton, Roma 1974, pp. 111-114. Cf. Isacco di Ninive, Discorsi spirituali, pp. 77-78, n. 11. 62 Id., Seconda collezione 3,1,89-90. 59

60 61

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Isacco il Siro e la lotta della preghiera

preghiere che formano il discorso 5 della Seconda collezione. Isacco in esse chiede di “conoscere il mondo nuovo”63, di “gustare questo grande mistero nascosto e segreto” che Dio ha già potuto rivelare ai suoi santi64, e che consiste nel “percepire ciò che fu deposto” in lui al momento del battesimo65. Egli potrà così “mostrare sulla terra l’immagine dei beni a venire”66, e fin da ora “penetrare nel paradiso dei misteri”, che è il paradiso nuovo, dove potrà da quel momento “mangiare dell’albero (il Cristo) che fu vietato a Adamo”67. Questo significa “essere al di là del mondo per essere già con Cristo”68, ricevere la ricompensa “prima di passare dall’altra parte”69, e “raggiungere l’oasi della pace ... mentre ci si trova ancora nel corpo”70.

Ibid. 5,5. Cf. ibid. 5,18. 65 Cf. ibid. 5,14. 66 Ibid. 5,12. 67 Ibid. 5,20. 68 Ibid. 5,22. 69 Ibid. 5,21. 70 Ibid. 5,26. 63

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LA LOTTA PER LA CARITÀ: MASSIMO IL CONFESSORE Andrew Louth*

Sebbene Massimo il Confessore sia oggi più conosciuto rispetto al passato, mi pare utile iniziare con una breve introduzione sulla sua figura. Il fatto che oggi sia ben conosciuto, per lo meno negli ambienti accademici, è largamente dovuto ai lavori di alcuni studiosi quali Hans Urs von Balthasar, dom Polycarp Sherwood e Lars Thunberg, i cui importanti studi della metà del secolo scorso hanno evidenziato le linee di pensiero della visione teologica del grande santo e confessore. In seguito sono stati pubblicati numerosi studi monografici sul Confessore, tra cui in particolare una serie di monografie nella collezione Théologie Historique negli anni settanta e, più recentemente, un altro insieme di contributi nella Oxford Early Christian Studies. Massimo il Confessore nacque nel 580, probabilmente a Costantinopoli, anche se una vita antica e a lui ostile sostiene che egli nacque, come bambino illegittimo, in Palestina. Nel 610 divenne capo della cancelleria imperiale nella nuova amministrazione inaugurata dall’imperatore Eraclio dopo la sconfitta dell’usurpatore Foca. Massimo occupò solo per pochi anni questa importante carica; quindi lasciò tutto e divenne monaco, inizial* Teologo ortodosso, docente di patristica e studi bizantini presso l’Università di Durham (Inghilterra). Traduzione dall’originale inglese.

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mente nei pressi della capitale e in seguito, nel 626, dopo l’avanzata persiana verso Costantinopoli, nel nord Africa dove entrò in un monastero di monaci greci esiliati, vicino a Cartagine. Rimase là fino a quando, poco dopo il 640, si recò a Roma. La maggior parte dei suoi scritti monastici appartiene agli anni 626-636 e furono composti per dei monaci suoi amici. Essi consistono in centurie, insieme di sentenze suddivise in gruppi di cento – quattro centurie sull’amore e due centurie sulla teologia –, in risposte a domande che gli venivano poste, in particolare i due gruppi di Ambigua (“cose difficili”) – un primo gruppo indirizzato a Giovanni, vescovo della chiesa di Cizico, sua chiesa locale prima che abbandonasse il nord Africa, e un gruppo più breve indirizzato a un certo Tommaso – e nelle Domande a Talassio, un monaco in Libia, di carattere più esegetico. L’anno 633 vide l’inizio di due tentativi dell’imperatore di colmare la distanza tra i sostenitori ortodossi di Calcedonia e i miafisiti che rifiutavano la definizione calcedonese accusandola di tradire la cristologia di Cirillo di Alessandria poiché introduceva una pericolosa divisione nella comprensione dell’unione dell’umanità e della divinità in Cristo. Secondo Massimo questi compromessi – il monoenerghismo e il monotelismo – erano attuati a scapito dell’ortodossia, perché ambedue mettevano in discussione la piena umanità di Cristo. Se Cristo non era pienamente uomo, controbatteva Massimo, allora non poteva sostenere l’umana lotta contro il peccato e la morte e ottenere per noi la salvezza. Gli eventi della controversia cristologica sono confusi ma, alla fine degli anni 630, Massimo era diventato il campione dell’ortodossia e, poco dopo il 640, nel nord Africa ebbe luogo una pubblica disputa tra Massimo e il patriarca di Costantinopoli, Pirro, deposto da poco tempo. Gli atti della disputa sono stati trascritti e ci sono stati conservati. Pirro ebbe la peggio e nel 645 si recò a Roma per essere accolto nella comunione ortodossa dal papa – una riconciliazione che non doveva durare –. Massimo lo seguì e, nel 649, a Roma fu convocato il sinodo laterano progettato da Mas96

La lotta per la carità: Massimo il Confessore

simo con il pieno appoggio dell’allora papa di Roma, Martino. Il sinodo condannò i compromessi cristologici proposti dall’imperatore e gli ecclesiastici che l’avevano appoggiato. Questo sinodo fu considerato dalle autorità imperiali come un atto di sedizione e dapprima papa Martino, poi Massimo furono arrestati dalla polizia imperiale, portati a Costantinopoli e sottoposti a giudizio – papa Martino per sedizione, Massimo per eresia – condannati ed esiliati: papa Martino in Crimea, dove morì nel 655; Massimo a Lazika, in Georgia, dove morì nel 662. Massimo, dunque, sostenne una dura lotta spirituale, prima nei suoi quasi cinquant’anni di vita monastica, e poi, negli ultimi anni della sua vita, quando tale lotta prese una piega più politica. Venendo ora al tema annunciato, vorrei iniziare facendo alcune precisazioni sull’esatta formulazione del titolo: la lotta per l’amore (o la carità) e non la lotta per amare. È fondamentale per Massimo; secondo la sua visione, sebbene sia necessaria una lotta prima di arrivare ad amare veramente, l’amore in sé non è una lotta, perché amare è naturale. Secondo Massimo, e invero secondo tutta la tradizione patristica, noi siamo esseri creati da Dio dal nulla attraverso l’amore. Noi esistiamo grazie all’amore di Dio, e noi esistiamo per amare: per amarci l’un l’altro e per amare Dio. Amare è uno stato del tutto naturale; quando amiamo, noi siamo noi stessi. È quello che Massimo cerca di esprimere nel suo breve trattato sulla carità, la Lettera 2, quando, offrendo una definizione alquanto tortuosa della carità, dice: Essa è l’intimo volgersi con tutto se stesso verso il primo bene accompagnato da profondissima sollecitudine per l’intero genere umano1.

1 Massimo il Confessore, Lettere 2, in Id., Lettera sulla carità, a cura di L. Cremaschi, Bose 1994 (Testi dei padri della chiesa 11), p. 18. Per un’antologia delle opere di Massimo, cf. Massimo il Confessore, In tutte le cose la “Parola”, a cura di L. Cremaschi e B. Mariano, Bose 2008.

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Raggiungere l’amore diventa una lotta solo perché non siamo più esseri naturali, bensì innaturali, non siamo più noi stessi. La riscoperta di chi noi siamo veramente, la riscoperta di noi stessi in quanto creati a immagine di Dio è una lotta lunga e faticosa. Ed è così non perché amare sia un’impresa straordinaria, al di là delle nostre forze naturali, come scalare una montagna ripida e inaccessibile; è così perché ci siamo estraniati da noi stessi, distorti dal fine per cui eravamo stati fatti. In un passo della Disputa con Pirro, questi, deposto dalla sede patriarcale, osserva con sorpresa: “Che dunque? Sono naturali le virtù?”2. Massimo risponde che lo sono. Pirro riprende obiettando: “Se le virtù sono naturali, perché non si trovano in modo uguale in tutti coloro che hanno la stessa natura?”. “Esse si trovano tali e quali in tutti”, risponde Massimo al patriarca perplesso (almeno secondo la maggior parte dei manoscritti). “E da dove deriva in noi una tale disuguaglianza?”, replica Pirro. Massimo risponde: “Dal non compiere in modo uguale ciò che è naturale. Infatti, se tutti compissimo in modo uguale ciò che è naturale, in vista dello scopo per il quale pure siamo nati, allora si rivelerebbe in tutti, come una sola natura, così anche una sola virtù, e non sarebbe allora maggiore o minore”. Pirro obietta che “se ciò che è naturale proviene non dall’esercizio (in greco áskesis), ma dalla creazione, e la virtù è naturale, come mai conquistiamo le virtù, che sono naturali, mediante la fatica e l’esercizio?”. Massimo allora risponde: L’esercizio disciplinato e le fatiche che lo accompagnano furono concepiti dagli amanti delle virtù soltanto per allontanare l’errore che si insinua nell’anima mediante la sensazione, non per reintrodurre di nuovo dall’esterno le virtù: infat-

2 Id., Disputa con Pirro, in Id., Umanità e divinità di Cristo, a cura di A. Ceresa-Gastaldo, Roma 1979, p. 119.

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ti esse sono innate in noi dalla creazione, come si è detto; perciò non appena viene allontanato perfettamente l’errore, insieme l’anima rivela lo splendore della virtù secondo natura. Infatti chi non è stolto è saggio; chi non è pauroso o temerario è coraggioso; chi non è dissoluto è temperante; chi non è ingiusto è giusto. La ragione secondo natura è la saggezza; il metro di giudizio, la giustizia; l’ira, il coraggio; la concupiscenza, la temperanza. Dunque con l’eliminazione delle attività contro natura ( parà phØsin) sogliono apparire quelle secondo natura (katà phØsin) ed esse sole, così come, con l’asportazione della ruggine, appaiono il fulgore e lo splendore secondo natura del ferro3.

La virtù è naturale, e l’amore, corona delle virtù, è la realizzazione della nostra natura. È soltanto a causa di un inganno annidato nell’anima che l’esercizio disciplinato e la fatica sono necessari. Ho evitato di tradurre il termine áskesis con “ascesi”, dal momento che mi pare che una traduzione simile pregiudichi fin dall’inizio alcune questioni che devono essere prese in considerazione. La parola áskesis significa in senso generale “allenamento” o “esercizio”, quindi l’ho tradotta con “esercizio disciplinato”, ma il verbo da cui deriva, askéo significava in origine “lavorare la materia grezza”, e sono attratto dall’idea che anche il significato originale di áskesis sia “lavorare con materia grezza”, la materia grezza dell’umanità, e farne qualcosa di affinato. Ciò mi sembra si accordi con quello che Massimo intendeva per áskesis, dal momento che egli vedeva il genere umano come creato a immagine di Dio allo scopo di acquisire la somiglianza divina (cf. Gen 1,26-27). Tale lavoro con la materia grezza della nostra umanità – perfino in paradiso – implica fare unità tra il nostro essere e il nostro

3

Ibid., p. 120.

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essere eterno, entrambi doni di Dio, per mezzo di un’esistenza buona, e realizzando quindi quell’eterno essere-bene, in cui l’immagine divina raggiunge la somiglianza divina. Questa triade – essere, essere-bene, essere-sempre – è un aspetto fondamentale dell’ontologia del Confessore relativa all’essere creato razionale, ed esprime l’idea di Massimo che la virtù, l’essere-bene, unisca i doni di Dio dell’essere e dell’essere-sempre, conducendo all’essere-bene-sempre, cioè alla vita eterna con Dio al quale sono destinati gli esseri razionali creati. Quindi la mia prima considerazione è che la lotta per l’amore è la riscoperta della nostra natura, la riscoperta di ciò che siamo. Se volete, è la lotta che è innaturale, dal momento che siamo precipitati in uno stato profondamente innaturale in seguito alla caduta e alla complicità con il peccato. Detto questo, non illudiamoci però di poter fare a meno della lotta ascetica. Massimo chiarisce questo dedicando uno dei suoi più lunghi Ambigua, il decimo, a contrastare l’illusione secondo cui si può raggiungere la contemplazione soltanto attraverso la mente, senza bisogno della pratica, quello stadio della vita ascetica in cui, attraverso la lotta contro le passioni, si acquisiscono le virtù. Proseguiamo ora in questa riflessione su Massimo affrontando tre temi: primo, la necessità della lotta ascetica; secondo, ciò che si consegue attraverso tale lotta; terzo, il modo in cui l’amore risulta essere non soltanto una forza unificante in sé stesso, ma – nella visione di Massimo – un tema centrale che unifica le molteplici preoccupazioni della sua teologia.

La necessità della lotta ascetica (“praktiké”) All’inizio delle Centurie sulla carità troviamo due capitoli che presentano una struttura chiastica: 100

La lotta per la carità: Massimo il Confessore

La carità nasce dall’imperturbabilità [apátheia]; l’imperturbabilità dalla speranza in Dio; la speranza dalla pazienza e dalla longanimità; queste dalla padronanza di sé; la padronanza di sé dal timore di Dio; il timore, dalla fede nel Signore. Chi crede nel Signore teme il castigo; chi teme il castigo domina le passioni; chi domina le passioni sopporta le tribolazioni; chi sopporta le tribolazioni avrà la speranza in Dio; la speranza in Dio separa da ogni passione terrena; la mente separata da questa avrà l’amore di Dio4.

La prima di queste due centurie presenta la sequenza: amore, apátheia, speranza, pazienza e longanimità, padronanza di sé, timore di Dio, fede nel Signore; la seconda ha la struttura chiastica corrispondente: fede in Dio, timore del castigo, dominio delle passioni, afflizione, perseveranza nell’afflizione, speranza, separazione dalle passioni terrene (apátheia), amore di Dio. Ci sono diversi elementi da notare in tale sequenza. Innanzitutto, è una sequenza: c’è una via che conduce all’amore. L’amore è qualcosa che possiamo imparare, e questo mi sembra un fatto molto incoraggiante. Sull’amore vi è una consolidata tradizione che lo considera una sorta di ispirazione: l’amore ci giunge in un modo così sorprendente che ci destabilizza. Anche Massimo conosce questa interpretazione, come vedremo, ma è anche estremamente pratico. Noi vogliamo amare, ed egli ci propone come fare: c’è una sequenza, una progressione da seguire, che inizia con la fede e conduce all’amore. Un altro elemento da notare – che invece non mi pare sia generalmente evidenziato – è che tale sequenza è uno sviluppo di Romani 5,3-5:

4 Id., Centurie sulla carità 1,2-3, in Id., Capitoli sulla carità, a cura di A. Ceresa-Gastaldo, Roma 1963, p. 51.

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Ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato.

Si noti la sequenza: tribolazione, pazienza, virtù provata, speranza, amore. La sequenza proposta da Massimo offre all’inizio la tribolazione quale via per il timore e la padronanza di sé, e mostra come la speranza conduce all’amore attraverso l’apátheia. Il parallelismo è così stretto che non vi è possibilità di errore. La differenza principale tra l’Apostolo e il monaco è che Paolo si riferisce a una situazione di persecuzione – a ciò allude il termine thlípsis, “tribolazione” – mentre Massimo si riferisce alla vita di un monaco, nella quale la tribolazione nasce dalla lotta spirituale propria della sua vita monastica, e questo lo conduce a presentare le virtù monastiche classiche della padronanza di sé, dell’enkráteia e dell’apátheia (calma, distacco, serenità). Il passaggio dalla figura del martire a quella del monaco è un topos nella letteratura riguardante le origini del monachesimo, e qui trova una sua manifestazione. L’altra differenza maggiore è che Massimo non fa qui alcun riferimento al dono dello Spirito santo come fonte dell’amore di Dio nei nostri cuori. Massimo è però solo all’inizio delle quattrocento sentenze sulla carità e vuole stabilire innanzitutto la sequenza attraverso la quale noi tutti dobbiamo passare nel nostro cammino verso l’amore. Come l’amore sbocci nei nostri cuori è qualcosa che svilupperà in seguito, sebbene io ritenga che la sua allusione al passo paolino voglia trasmettere ai suoi lettori il fatto che qui è implicato qualcosa di più che una semplice scala di valori.

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Il frutto della lotta ascetica Questo mi conduce al nostro secondo tema: ciò che si consegue attraverso tale lotta. Si potrebbe dire ancora molto sulla natura di tale lotta: l’analisi che Massimo fa delle passioni e, in particolare, il modo in cui sviluppa il tema secondo cui la philautía è la “madre di tutte le passioni”5, o la “madre dei vizi”6, così che la lotta per l’amore può essere vista come un passaggio dalla philautía all’amore di Dio. Ma vi rimando a Hausherr per una discussione ormai classica su questo tema7. L’allusione al passo paolino cui abbiamo appena accennato suggerisce che questa lotta è necessaria per trovare in noi stessi un cuore aperto a ricevere lo Spirito dell’amore. Se i nostri cuori vogliono aprirsi a Dio, hanno bisogno di un rinnovamento radicale rispetto a ciò che sono diventati in seguito alla caduta; come afferma il salmo 51,17: “È un cuore contrito e umiliato (kardían syntetrimménen kaì tetapeinoménen) quello che Dio non di-sprezza”. Massimo esprime questo in un passo – purtroppo assai denso, come al solito – in Ambigua 41: Poiché, dunque, l’uomo non si mosse rivolgendosi alla realtà immobile, che era il suo principio (intendo dire Dio), obbedendo così alla sua natura, conforme alla quale era stato creato, ma si mosse rivolgendosi alle cose a lui sottomesse, alle quali Dio gli aveva dato l’ordine di comandare, di sua spontanea volontà stoltamente si volse contro natura. Così fece un uso perverso della potenza naturale che gli era stata data per unire le cose divise secondo la loro origine, e la impiegò piuttosto per dividere quelle che erano unite, e così poco ci mancò che

5 6 7

Ibid. 2,8, p. 93. Ibid. 2,59, p. 123. I. Hausherr, Philautia. Dall’amore di sé alla carità, Bose 1999.

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ritornasse miseramente nel non essere. Ecco perché si innovano le nature e, cosa mirabile, l’essere che è totalmente immobile nella sua natura si muove, per così dire, stando immobile e oltrepassando la sua natura, se vogliamo considerare quello che per natura si muove, e Dio diviene uomo per salvare l’uomo che era perito e unisce in sé le parti della natura totale che per colpa sua erano state spezzate e, mostrando i lógoi universali delle cose parziali, i quali erano stati manifestati e grazie ai quali si ha l’unione delle cose separate, compie il gran consiglio di Dio, il Padre, ricapitolando in sé, perché in sé, anche, erano state create, tutte le cose, quelle nel cielo e quelle sulla terra8.

Questa esposizione apparentemente arida e aristotelica riguarda in realtà l’amore e le sue distorsioni. È l’amore che fa mutare e muovere le cose, e l’origine prima dell’amore è Dio, il motore immobile, colui che causa il movimento essendo amato: kineî hos erómenon. Il racconto della caduta è, per Massimo e per gli altri padri, la storia del fallimento dell’uomo nell’amare Dio, colui che l’ha creato ed è immobile al centro di tutto, e il tentativo dell’uomo di fare di se stesso il centro del mondo, assoggettandosi in realtà alle creature a lui inferiori. L’amore di Dio è sostituito dall’amore di sé, la philautía, ma questo amore di sé conduce all’amore di ciò che è inferiore all’uomo, e così tutto lo schema metafisico delle cose è capovolto. L’uomo dunque è incapace di realizzare la sua funzione cosmica di tenere insieme tutto, quale legame del cosmo, funzione per cui Dio l’aveva creato, e così egli si lascia trasportare verso il non essere, verso l’estinzione. Per rimediare a questo, Dio fa qualcosa che appare del tutto incredibile: il motore immobile, Dio stesso, si

8 Massimo il Confessore, Ambigua 41,1308C-D, a cura di C. Moreschini, Milano 2003, pp. 457-458.

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muove, fa della creazione il centro della sua sollecitudine d’amore, e si incarna. Dio stesso assume, in Cristo, l’umanità e quella funzione cosmica per adempiere la quale l’uomo era stato creato, e così riporta il cosmo alla sua condizione originaria di armonia. Ciò equivale al “rinnovamento delle nature”, come afferma Massimo, utilizzando un’espressione presa da uno dei sermoni di Gregorio il Teologo. Il “rinnovamento delle nature” è per Massimo un’espressione per nulla pacifica, su cui ritorna molte volte, dal momento che la natura, phØsis, è ciò che Dio ha fatto, ed è dunque inviolabile. Non accade, come spiega Massimo, che le nature stesse sono mutate – questo significherebbe la distruzione del loro senso e scopo interni, del loro lógos – ma piuttosto è la loro modalità di esistenza, il loro trópos hypárxeos, il loro movimento (per usare il linguaggio del passo appena citato) che è stato distorto, a essere mutato radicalmente, così da corrispondere al lógos phØseos come era stato originariamente costituito da Dio. Nel passo citato, Massimo usa tre espressioni: katà phØsin, parà phØsin, hypèr phØsin, cioè “secondo natura”, “contro natura” e “al di sopra, oltre la sua natura”. La condizione originale del cosmo è katà phØsin, la sua condizione decaduta è parà phØsin, e per restaurare il cosmo è necessario qualcosa che sia hypèr phØsin. Ciò rivela qualcosa dell’amore su cui dovremo tornare nella parte finale della nostra esposizione: Dio ha creato il cosmo e l’umanità per amore, li redime per amore, ma questo amore che redime manifesta la verità che l’amore di Dio è qualcosa oltre la natura, qualcosa che scaturisce dalla natura di Dio stesso. Per Massimo il linguaggio della natura è importante per due ragioni strettamente correlate. Innanzitutto, il dramma della redenzione non consiste in una ristrutturazione superficiale del comportamento umano, ma riguarda piuttosto qualcosa di ontologico, riguarda cioè il modo in cui le realtà sono radicalmente. Questo è il motivo per cui, credo, Massimo è così appassionato nel descrivere la sua comprensione del dramma del peccato e della salvezza in termini metafisici e cosmologici. La storia 105

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del peccato e della redenzione umani è una storia che riguarda il cosmo, non soltanto le decisioni e il desiderio umani. Ma anche a livello umano, siamo di fronte a qualcosa che è inteso più in maniera ontologica, legato al modo in cui le cose sono, che non semplicemente morale. Ciò che è necessario, se l’uomo vuole perseguire il destino prospettato da Dio al momento in cui lo ha creato, è che egli sia radicalmente ristrutturato nel suo intero essere. Non è questione soltanto di imparare a comportarsi moralmente, né di accettare la verità sulle cose: entrambe queste realtà devono sgorgare da un flusso d’amore interno che trasforma ciò che l’uomo è chiamato a essere, o meglio rivela che la più profonda realtà umana si apre a Dio grazie al quale l’uomo è trasformato in essere divino. Alcuni dei più bei passi negli scritti di Massimo sono dedicati alla trasformazione necessaria a colui che voglia ardere di amore divino: Come il pensiero semplice delle cose umane non obbliga la mente a disprezzare quelle divine, così neppure la semplice conoscenza delle cose divine la spinge a disprezzare del tutto quelle umane: ecco perché ora la verità ci appare in ombre e in figure. E per questo c’è bisogno della beata passione della santa carità, che avvinca la mente alle contemplazioni spirituali e la induca a preferire le cose immateriali a quelle materiali e le cose spirituali e divine a quelle sensibili9. La passione biasimevole d’amore trattiene la mente nelle cose materiali; la passione lodevole di amore la lega addirittura alle cose divine. Infatti in quelle cose in cui si trattiene, la mente si abitua anche a spaziare; in quelle in cui spazia, a rivolgere pure il desiderio e l’amore a esse, sia alle cose divine e intellettuali che le sono proprie sia alle cose e alle passioni della carne10.

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Id., Centurie sulla carità 3,67, pp. 175-176. Ibid. 3,71, pp. 177-178.

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Abbiamo bisogno della “beata passione della santa carità” (tò makárion páthos tês haghías agápes), un concetto paradossale, dal momento che le passioni sono di solito considerate da Massimo in una luce negativa. Forse egli è stato qui ispirato dall’espressione, altrettanto paradossale, di Diadoco: p`yr apatheías, “fuoco dell’apátheia”11. In un altro passo delle sue Centurie sulla carità, Massimo ci fornisce ulteriori indicazioni di ciò che questo potrebbe significare: In colui la cui mente è sempre presso Dio anche la concupiscenza è cresciuta oltre misura nell’ardente amore divino (érota) e anche l’intera potenza irascibile si è mutata nella divina carità (agápe). Infatti per la diuturna partecipazione dell’illuminazione divina, essendo divenuto tutto splendente e avendo stretto a sé la parte suscettibile di passione, la diresse, come si è detto, verso l’ardente e incessante amore divino (éros) e verso la carità infinita (agápe), trasportandola completamente dalle cose terrestri a quelle divine12.

Per Massimo è necessario che l’amore divino si impossessi di tutto il nostro essere: la triplice natura dell’anima è coinvolta interamente in questo processo. Non avviene, come invece alcuni maestri di ascesi sembrano avere a volte suggerito, che la parte concupiscibile dell’anima e quella irascibile sono fatte tacere, così che l’intelletto si muove verso Dio senza ostacoli, ma piuttosto avviene che la parte concupiscibile dell’anima desidera Dio con éros e la parte irascibile dell’anima è mossa dall’agápe; in questo modo esse trasportano l’intelletto, per così dire, nel regno della preghiera, in uno stato di comunione ininterrrotta con Dio. Questo è ciò che si intende per “beata passione della santa ca11 Diadoco di Fotica, Cento capitoli 17, in Id., Cento considerazioni sulla fede, a cura di V. Messana, Roma 1978, p. 34. 12 Massimo il Confessore, Centurie sulla carità 2,48, p. 117.

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rità”, che per Massimo è necessaria, se vogliamo essere qualcosa di più che soltanto consapevoli del divino, cioè coinvolti concretamente nelle energie divine e partecipi di esse. L’amore è allora qualcosa che possiamo proporci di acquisire; c’è una sequenza da seguire che ci conduce all’amore. Inoltre, ciò che l’amore realizza è una ristrutturazione radicale del proprio sé, che ritorna alla sua condizione di essere “a immagine di Dio” (Gen 1,26-27), al suo stato naturale, a ciò che l’umano dovrebbe davvero essere. Forse questo riplasmare attraverso l’amore non riporta semplicemente allo stato naturale, ma opera qualcosa di più, poiché trova in questo stato naturale una quantità inimmaginabile di possibilità. Ciò che mi conduce a questa considerazione è il confronto tra ciò che Massimo dice nel passo della Disputa con Pirro citato in precedenza e ciò che abbiamo appena visto nelle Centurie sulla carità. Nella Disputa leggiamo che “secondo natura … l’ira è coraggio; la concupiscenza è temperanza”. Nelle Centurie ci viene detto che quando l’intelletto è ininterrottamente con Dio, condizione che per Massimo costituisce il suo stato naturale, la concupiscenza allora diviene éros e la potenza irascibile agápe. Non credo che ci sia una contraddizione tra queste due posizioni, sebbene vi sia certamente una differenza di accento. Credo piuttosto che ciò che emerge dal confronto tra queste due posizioni è che, per Massimo, il ritorno allo stato naturale dell’anima la rende capace di amore: la temperanza (sophrosØne), cioè il dominio della parte concupiscibile dell’anima, non è una castità fredda, un desiderio represso, ma piuttosto un desiderio di Dio non distratto; analogamente, il coraggio della naturale potenza irascibile trova il suo esercizio naturale in un amore audace, che sostiene ogni altro essere umano.

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L’amore come luogo unificante Ciò mi conduce all’ultimo punto della mia riflessione. Una delle opere più rilevanti di Massimo il Confessore è il suo breve Commento al Padre nostro. Dalle parole di commento di Massimo veniamo a scoprire che la preghiera è il luogo in cui comincia la nostra teologia, la nostra comprensione di Dio. Già le primissime parole della preghiera, “Padre nostro”, ci riportano alla nostra comune umanità, poiché, attraverso lo Spirito santo, diveniamo figli e figlie del Padre nel Figlio incarnato. In uno dei suoi libri, padre Gabriel Bunge ci ricorda che il Signore incarnato non ci ha lasciato un codice morale (il duplice comandamento dell’amore è una sintesi della legge veterotestamentaria), né ci ha lasciato un credo (che venne dopo), ma ci ha dato piuttosto una preghiera (e, si potrebbe aggiungere, un pasto rituale) che ci dice qualcosa su ciò che lui è venuto a fare: è venuto a insegnarci a pregare, poiché la preghiera è lo stato naturale della creatura razionale che è in comunione con Dio13. Nel suo Commento al Padre nostro, Massimo illustra la verità della sua intuizione. Già nelle primissime parole, in cui Massimo si sofferma sulle convenzioni epistolari utilizzate nell’indirizzarsi a qualcuno di alto rango, l’amore sta al centro della sua riflessione: l’amore, che lui dice manifestarsi come “una legge interiore di affetto, che si appropria di tutto ciò che è congiunto per natura, vincendo l’odio con la benevolenza e tenendo lontano il disprezzo con il rispetto”14. Mi sembra che sia questo affetto, questa tenerezza (storghé), che Massimo vede aprirsi nel

13 Cf. G. Bunge, Vasi di argilla. La prassi della preghiera personale secondo la tradizione dei padri, Bose 1996, pp. 9-10. 14 Massimo il Confessore, Commento del Padre nostro 15 (ed. di riferimento: Expositio Orationis Dominicae, a cura di P. van Deun, CCSG 23, Turnhout-Leuven 1991), in Id., Umanità e divinità di Cristo, pp. 63-64.

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cuore attraverso il risveglio dell’amore. Altri temi sono introdotti brevemente: la kénosis del Figlio e la deificazione (théosis) della nostra natura15, che è il “fine del divino consiglio”16. Questi temi non sono tuttavia separati e distinti, anzi sono interconnessi, impliciti uno nell’altro. La nostra théosis è il risultato della kénosis del Figlio; è la nostra risposta d’amore, una risposta in cui impariamo ad amare rispondendo all’amore di Dio manifestato nell’autosvuotamento di suo Figlio. Continua Massimo: Infatti [questa preghiera] possiede in sintesi misticamente nascosto tutto quanto lo scopo contenuto in ciò che è stato detto o, per parlare con maggiore proprietà, l’intenzione apertamente proclamata per coloro che sono saldi … per i quali e a causa dei quali, divenuto senza mutazione uomo, diviene lui stesso autore e maestro di molti nuovi misteri, per quanto ancora in nessun modo la ragione abbia potuto coglierne la quantità e la grandezza17.

Massimo continua riassumendo i sette misteri che egli discerne all’interno del Padre nostro, e poi prosegue trattando della preghiera stessa, domanda dopo domanda. Non abbiamo il tempo ora di seguire l’intero commento di Massimo, ma l’essenziale di ciò che vuole dire è rivelato in ciascuna sintesi dei misteri; ascoltiamo dunque la sintesi del secondo mistero, quello della nostra adozione a figli per grazia: [Il Logos] dona la filiazione divina elargendo la generazione soprannaturale nella grazia dall’alto mediante lo Spirito, e di

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Cf. ibid. 42-43, p. 64. Ibid. 50, p. 65. Ibid. 62-65.74-76, pp. 65-66.

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questa è custodia e adempimento in Dio la libera scelta di coloro che sono generati, la quale ama con sincera disposizione la grazia elargita e, con la pratica dei comandamenti, adorna con cura la bellezza data per grazia e con l’annientamento delle passioni, tanto si appropria la divinità quanto il Logos di Dio, svuotatosi deliberatamente per disposizione divina della sua pura gloria, è giunto a possedere veramente la proprietà di uomo18.

Ciò che risplende in questo passaggio è il modo in cui si parla del coinvolgimento tra Dio e il genere umano: il movimento di Dio verso di noi nell’amore e il nostro movimento verso di lui in un amore corrispondente. Caratteristica peculiare di Massimo, egli traccia qui un parallelo stretto tra i due movimenti; qualcuno ha parlato di un tantum-quantum, o tosoûton-hóson, di Massimo: nella stessa misura in cui Dio ha abbracciato l’umanità nell’incarnazione, noi in risposta possiamo abbracciare la divinità. Ma il parallelo si spinge oltre. Il Figlio di Dio svuotò se stesso spogliandosi della “sua gloria sublime”; la nostra risposta comporta la kénosis insita in essa: lo svuotamento dalle nostre passioni. Abbiamo già visto come Massimo parli delle nostre passioni con registri diversi, perché in definitiva le nostre passioni non sono sradicate ma trasformate, trasfigurate. Ma il processo ascetico che vi è implicato è severo e radicale, e il risultato è la trasfigurazione nel divino. Nel suo insieme si tratta di un movimento d’amore, un amore che proviene dagli intimi penetralia della vita divina e ci innalza al di sopra della nostra natura verso un amore per Dio che trasfigura ciò che si intende per essere umano; e tale trasfigurazione rivela ciò che davvero significa essere umani, quale fosse il fine del divino consiglio intento nella creazione dell’uomo, che è lo stesso della deificazione.

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Ibid. 97-106, p. 67.

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Spesso mi pare, leggendo Massimo, che esista una linea quasi diretta tra lui e il grande vescovo martire del secondo secolo, Ireneo di Lione. Massimo dischiude livelli di significato che sono impliciti nella visione di quel santo. Una delle frasi più famose di Ireneo mi pare riassuma ciò che troviamo nel grande santo confessore (o martire) del vii secolo: “La gloria di Dio è l’uomo vivente e la vita dell’uomo è la manifestazione di Dio”19.

19 “Gloria enim Dei vivens homo: vita autem hominis visio Dei”: Ireneo di Lione, Contro le eresie IV,20,7, a cura di E. Bellini e G. Maschio, Milano 1997, p. 349.

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LOTTA SPIRITUALE E DISCERNIMENTO DEI PENSIERI NELLA TRADIZIONE ASCETICA RUSSA Amvrosij Ermakov*

Il Signore Gesù nel discorso della montagna testimoniò con la sua autorità l’importanza della lotta per la purezza dei pensieri e dei sentimenti nella vita umana. Già nell’Antico Testamento ne avevano parlato i profeti e Salomone: “Più di ogni cosa degna di cura custodisci il tuo cuore, perché da esso sgorga la vita” (Pr 4,23). Ma questo insegnamento è rivelato in pienezza nel vangelo: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt 5,8); “Dal cuore, infatti, provengono propositi malvagi” (Mt 15,19); “La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso”(Mt 6,22-23). Queste parole del Signore, secondo Giovanni Crisostomo, significano che “come riguardo al corpo abbiamo cura di avere gli occhi sani, così facciamo anche per la mente riguardo all’anima”1.

* Vescovo di Gat™ina, rettore dell’Accademia teologica di San Pietroburgo. Traduzione dal russo di Leonardo Paleari. 1 Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Matteo 20,3, a cura di S. Zincone, Roma 2003, vol. I, p. 388.

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Le nozioni di “pensiero”, “cuore” e “mente” nelle Scritture sono contigue e strettamente connesse tra loro. Così un’espressione come “pensieri del cuore” si trova nella Bibbia circa venti volte, e il primo comandamento sull’amore verso Dio comprende l’invito ad amarlo “con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza” (Mc 12,33) o “con tutta la tua mente” (Mt 22,37; Lc 10,27)2. La tradizione ascetica monastica nell’alveo della tradizione insegna lo stretto legame e il reciproco influsso tra la mente e il cuore, e l’importanza di custodirne la purezza. L’iniziatore del monachesimo egiziano, Antonio il Grande, diceva che nel combattimento spirituale prima di tutto è necessario opporsi ai pensieri peccaminosi: “Caccia lontano da te i pensieri cattivi, affidandoti a Dio; e lui ti coprirà con la sua destra. Non seguire ogni tuo pensiero”3. Nell’esperienza monastica incontriamo diversi concetti direttamente connessi al nostro tema: il carisma del discernimento spirituale, la paternità spirituale e l’“apertura dei pensieri”, la “sobrietà” e la “preghiera mentale nel cuore”. Sono tutti concetti legati alla scienza del combattimento spirituale e ai metodi di lotta contro i pensieri cattivi.

Teodosio di Kiev e la tradizione ascetica dell’antica Rus’ L’eredità ascetica bizantina fu accolta nella Rus’ subito dopo il suo battesimo. Grazie alle relazioni con l’oriente ortodosso,

2 Cf. anche 1Cr 28,9: “Riconosci il Dio di tuo padre, servilo con cuore perfetto e con animo volonteroso, perché il Signore scruta tutti i cuori e conosce ogni intimo intento”. 3 Antonio il Grande, Regola della vita eremitica 198-199, in Id., Pou™enija, Moskva 2004, p. 23.

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nella vita spirituale russa si riflesse la spiritualità cristiana orientale, e in particolare le tradizioni della paternità spirituale e della sobrietà mentale (népsis). La tradizione ascetica russa prende inizio da Antonio e Teodosio delle Grotte di Kiev. Nella famosa Cronaca degli anni passati, attribuita al monaco Nestore, discepolo di Teodosio, troviamo un importante parallelo: “Antonio [di Kiev] fu glorificato come il grande Antonio [d’Egitto]”4. Questa breve frase indica l’orientamento spirituale dei primi monaci russi. Essi guardavano agli antichi padri asceti egiziani e bizantini. Antonio, il padre del monachesimo russo, pur avendo scelto la forma ascetica della reclusione, non evitava mai le persone. Dopo aver nominato Teodosio igumeno e senza più occuparsi del governo esteriore del monastero, Antonio ne rimase la guida spirituale, facendosi interprete della volontà di Dio5. Anche nella Vita di Teodosio non mancano i segni del padre spirituale: accoglie le rivelazioni dei pensieri, dirige i figli spirituali ed è ricolmo dei doni della grazia, di carismi. Il periodo dell’igumenato di Teodosio (1062-1074) è il momento migliore nella storia del monastero delle Grotte e nella storia del primo monachesimo russo. Teodosio può essere detto il “legislatore del monachesimo russo”6. In alcuni insegnamenti del santo vi sono chiare indicazioni per la pratica della rivelazione o apertura dei pensieri e altri metodi di lotta praticati nel monastero contro i pensieri cattivi: “Riveliamo i nostri peccati qui, dinanzi a un misero uomo,

4 Povest’ vremennych let, anno 6559 (1051), in BLDR, I. XI-XIII veka, Sankt Peterburg 1997, p. 198. Cf. Nestore l’Annalista, Cronaca degli anni passati (XI-XII secolo), a cura di A. Giambelluca Kossova, Cinisello Balsamo 2005, p. 213. 5 Esempi analoghi di organizzazione della conduzione spirituale del monastero si possono trovare in oriente. Così nel vi secolo, nel monastero di abba Serido, i padri spirituali erano Giovanni il Profeta e Barsanufio il Grande. A loro ci si rivolgeva per un consiglio e la benedizione in tutti i casi importanti nella vita del monastero. Questi padri spirituali erano diretti interpreti della volontà di Dio. 6 I. M. Koncevi™, StjaΔanie Ducha Svjatago v putjach Drevnej Rusi, Moskva 2002, p. 121.

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per non essere accusati là, dinanzi a tutto l’universo”7. La rivelazione dei peccati in opere e pensieri diventa così la condizione necessaria per ottenere il perdono e la vittoria nel combattimento spirituale. Nell’insegnamento di Teodosio contenuto nella Cronaca si parla della sorgente dei cattivi pensieri nella coscienza e contemporaneamente del fatto che gli spiriti maligni non conoscono il nostro mondo interiore: I demoni non conoscono i pensieri degli uomini; attribuiscono però degli intenti all’uomo, ignorando i segreti. Unicamente Dio solo conosce gli intenti degli uomini; i demoni nulla invero sanno, sono impotenti8.

Sui metodi della lotta troviamo uno specifico insegnamento del santo igumeno. Prima dell’inizio della quaresima Teodosio insegnava alla comunità “come trascorrere il periodo dell’astinenza, in preghiere diuturne e guardandosi dai pensieri impuri e dalle tentazioni del demonio”. Egli suggerisce di ricorrere al segno di croce, alla preghiera di Gesù, all’astinenza dal troppo cibo. Sollecitava anche a evitare la pigrizia e il dormire troppo, a essere vigili durante il canto liturgico e attenti all’insegnamento dei padri. Specialmente raccomandava la ripetizione dei salmi di David, ottimo metodo per “scacciare l’accidia demoniaca”9. Teodosio proponeva dunque un intero complesso di pratiche spirituali. Questo approccio sistematico è stato sempre una caratteristica dell’ascetismo ortodosso. Il tema del combattimento spirituale è discusso continuamente nel paterik del monastero delle Grotte, ma non vi tro-

7 V pjatok 3 nedeli posta svjatago Feodosija pou™enie o tr’’penii i o smirenii, in BLDR I, p. 440. 8 Nestore l’Annalista, Cronaca degli anni passati, p. 230. 9 Ibid., pp. 234-235.

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viamo dettagliati insegnamenti sui modi per lottare con i pensieri o sui criteri del loro discernimento. Un esempio dettagliato di lotta all’invadenza di pensieri ostili la troviamo nel racconto di Nestore su Isacco il Recluso. Isacco sconfisse le forze diaboliche dopo tre anni di lotta. L’agiografo sottolinea il suo coraggio, la speranza nell’onnipotenza e nell’amore di Dio, la preghiera monastica e il disprezzo per gli spiriti caduti. Ignorando le minacce dei demoni, il santo diceva loro: “Ora … in nome del Signore Gesù Cristo e del mio Dio, e con la preghiera del padre mio Teodosio, avrò la vittoria”10. Nonostante le notizie a noi giunte siano poche, la scienza della lotta spirituale era nota in terra russa fin dalla nascita del monachesimo.

Sergio di RadoneΔ († 1392) Del grande asceta del xiv secolo Sergio di RadoneΔ non abbiamo insegnamenti scritti, ma la sua Vita contiene molte indicazioni sulla sua pratica monastica, e quindi sulla lotta ai pensieri. Sergio, racconta l’agiografo, amava “offrire a Dio frequenti preghiere accorate e intime, conversare solo con Dio … aderire all’Altissimo e Onnipresente con tutti i propri pensieri”11. L’opposizione ai pensieri diabolici, la lotta contro il nemico invisibile sono i temi cardinali della sua Vita. All’inizio della sua vita eremitica, Sergio chiede all’igumeno che lo ha tonsurato:

Ibid., p. 244. æitie i ™udesa prepodobnogo Sergija RadoneΔskogo, BLDR, VI. XIV-seredina XV veka, Sankt-Peterburg 1999, p. 308. Su Sergio, cf. San Sergio e il suo tempo. Atti del I Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa, Bose, 15-18 settembre 1993, a cura di N. Kauchtschischwili e A. Mainardi, Bose 1996. 10 11

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Prega per la mia solitudine, e insegnami come vivere da solo nella foresta, come pregare Dio, come evitare il male dell’anima, come contrastare il nemico e i pensieri d’orgoglio che provengono da lui12.

Il suo biografo Epifanio racconta di uno dei migliori discepoli di Sergio, Teodoro, che condusse una vita virtuosa in piena obbedienza allo starec e che “non nascondeva mai al santo i suoi pensieri: né di notte, né di giorno”13. La rivelazione dei pensieri era per i monaci una pratica frequente. Sergio insisteva sulla “grande ascesi” (velikij podvig) che i monaci dovevano condurre “nella lotta con il nemico invisibile”14. Tra i mezzi della lotta spirituale nella Vita sono anzitutto indicati la preghiera – specialmente con i versetti dei salmi15 –, il segno di croce, l’invocazione della Madre di Dio. Un’importante nota sulla forza distruttiva dei pensieri diabolici è l’osservazione che proprio essi sono la causa dei disordini nel convento: “Il nemico che odia il bene … mise nei fratelli il pensiero di opporsi alla guida di Sergio”16. La brevità degli insegnamenti contenuti nella Vita di Sergio è spiegata così dallo stesso agiografo: “Egli non faceva molti discorsi, ma molto di più dava esempio ai fratelli con le proprie azioni”17.

æitie Sergija, p. 298. Ibid., p. 368. 14 Ibid., p. 324. 15 In particolare il salmo 68,2-4a: “Sorga Dio e siano dispersi i suoi nemici e fuggano davanti a lui quelli che lo odiano. Come si dissolve il fumo, tu li dissolvi; come si scioglie la cera di fronte al fuoco, periscono i malvagi davanti a Dio. I giusti invece si rallegrino”. 16 æitie Sergija, p. 356. 17 Ibid., p. 324. 12 13

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Nil Sorskij (1433-1508) La prima descrizione sistematica della lotta ai pensieri nell’antica letteratura russa la troviamo nella Regola (Ustav) per lo skit e nelle lettere di Nil Sorskij18. Il suo insegnamento deriva quasi interamente dai padri greci, i cui scritti entrarono poi nella nota antologia ascetica della Filocalia, ma il loro contenuto è riesposto in una parafrasi originale. Il santo cerca di scrivere in modo da essere capito da persone poco edotte nelle opere dei santi padri, in uno stile conciso e accessibile all’uomo russo. Nil fa spesso riferimento ad autori come Isacco di Ninive, Simeone il Nuovo Teologo, Gregorio il Sinaita, Giovanni Climaco. Nella prefazione alla sua Regola, riguardo al comportamento esteriore dei monaci Nil parla in breve dell’obbedienza al superiore, delle ascesi corporali, eccetera. Ma nella Regola tratta esclusivamente dell’attività della mente (umnoe delanie), cioè la preghiera mentale. Il primo capitolo è dedicato ai diversi gradi di unione della mente al pensiero: suggestione (prilog), legame (so™etanie), consenso (sloΔenie), prigionia (plenenie), passione (strast’). Ognuno di questi livelli è descritto in dettaglio, “come non troviamo in nessuno dei santi padri”19. Qui il santo fa un lavoro originale, rivelandosi esperto conoscitore dell’animo umano e pastore attento alla cura del gregge. Nel secondo capitolo Nil espone la lotta ai pensieri: occorre reciderli rapidamente non appena si presentano, e combatterli attraverso la concentrazione della mente, con il metodo della

18 La più recente edizione degli scritti è: Prepodobnye Nil Sorskij i Innokentij Komel’skij, So™inenija, a cura di G. M. Prochorov, Sankt-Peterburg 2005. Cf. anche Nil Sorskij, Vita e scritti, Torino 1988; Nil Sorskij e l’esicasmo. Atti del II Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa, Bose, 21-24 settembre 1994, a cura di A. Mainardi, Bose 1995. 19 A. Tarkmees, Prepodobnyj Nil Sorskij i ego u™enie, Leningradskaja Duchovnaja Akademija 1953 (Kursovoe so™inenie), p. 50.

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ritenzione del respiro, e l’unione della mente con il cuore. Nel sesto capitolo, dove si tratta della lotta a ciascuna delle diverse tipologie di pensieri, Nil fornisce molti consigli concreti. Tra i mezzi necessari per opporsi ai cattivi pensieri Nil nomina la preghiera a Dio e l’invocazione del suo Nome, la lettura dei salmi, l’invocazione delle preghiere dei santi, il pensiero della morte e del giudizio universale, il pentimento interiore e le lacrime, il distacco dalle preoccupazioni, l’esichia, il lavoro manuale, lo studio della santa Scrittura a memoria. Alla lotta contro la lussuria Nil dedica maggiore spazio rispetto a molti padri antichi. Se si è oppressi dal combattimento, il santo in una sua lettera consiglia che, con estrema umiltà, consapevoli della nostra impotenza, in piedi con gli occhi e le mani verso il cielo si preghi così: “Tu sei forte, Signore (Sal 89,9), e questa ascesi è tua; combatti e vinci tu per noi, Signore”20. Questa preghiera, composta dal santo stesso, crea una straordinaria disposizione di saggia umiltà nell’animo dell’orante. L’individualità dell’uomo è come se venisse meno e il successo nel combattimento è attribuito solo a Dio. Nil riteneva comunque essenziale che per la lotta spirituale si trovasse una guida esperta, osservando con Gregorio il Sinaita che nel suo tempo “non è lotta da poco trovare una guida che non vi tragga in inganno”21. Per quanto riguarda i criteri di discernimento dei cosiddetti pensieri “sottili”, Nil, seguendo gli insegnamenti di Nilo il Sinaita (Evagrio) ed Esichio di Gerusalemme, propone di recidere tutti i pensieri senza distinguere tra i buoni e i cattivi: Bisogna portare la propria mente a una disposizione tale che sia sorda e muta … bisogna avere il cuore libero da ogni pen-

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Nil Sorskij, Lettera a Gucij Tu∫in, in Id., Vita e scritti, p. 144. Id., Undici capitoli o Regola, “Prologo”, ibid., p. 45.

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siero, persino da quelli che sembrano buoni … una volta ammessi i pensieri buoni, privi di passione, seguono anche i pensieri cattivi e colmi di passioni; l’ingresso dei primi apre la porta ai secondi22.

Uno studioso dell’eredità di Nil Sorskij, A. S. Archangelskij, descrive a tinte fosche l’epoca della fine del xv secolo23. Sullo sfondo oscuro di un generale decadimento spirituale si delinea la luminosa figura del mite Nil, uomo colto, che in forme semplici e chiare sistematizzò la dottrina dell’attività interiore.

Paisij Veli™kovskij (1722-1794) Paisij Veli™kovskij è noto come rinnovatore della paternità spirituale o star™estvo, come portatore della tradizione monastica dell’Athos, dove visse diciassette anni, come fondatore di monasteri in Moldavia, come traduttore delle opere dei padri in lingua slava24. Il filo conduttore dell’opera di Paisij fu la rinascita dello star™estvo. Questa pratica grazie a lui e ai suoi discepoli si diffuse sulla terra russa. Assimilando la tradizione dei padri greci, Paisij fece rinascere la paternità spirituale e mise in luce l’eminente importanza dell’obbedienza25. Scrive: “Ognuno deve avere qualcuno esperto in direzione spirituale, al quale affidare interamente la

Ibid., “Capitolo 2”, p. 54. A. S. Archangel’skij, Nil Sorskij i Vassian Patrikeev: ich literaturnye trudy i idei v Drevnej Rusi, Sankt-Peterburg 1882, p. 56. 24 Cf. Paisij, lo starec. Atti del III Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa, Bose, 20-23 settembre 1995, a cura di A. Mainardi, Bose 1997. 25 Cf. Nikolaj (Sacharov), “Star™estvo i poslu∫anie v bogoslovii archimandrita Sofronija (Sacharova)”, in Na™alo 10 (2002), p. 92. 22

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propria volontà e al quale obbedire come al Signore”26. Paisij fece rinascere la figura dello starec secondo i precisi criteri con cui i padri greci definiscono il servizio dell’autentico padre spirituale: assenza di passioni, purezza d’animo, presenza dello Spirito santo, capacità di discernimento spirituale. Il metodo migliore e il criterio ultimo per discernere i pensieri, nell’insegnamento di Paisij, è rappresentato dallo starec, o meglio dall’apertura dei propri pensieri allo starec come strumento del lavoro spirituale del monaco. La sostanza dell’insegnamento di Paisij sta nella concentrazione sull’“ascesi mentale della preghiera”, nell’idea della contemplazione dell’interiore “paradiso del cuore” che si apre a misura della sottomissione del corpo e della mente27. Paisij tradusse e fece tradurre dai suoi monaci le opere ascetiche dei santi padri in slavo ecclesiastico e in lingua moldava. Così nacquero le traduzioni dei Discorsi di Isacco di Ninive, delle Domande e dubbi di Massimo il Confessore, delle Catechesi di Teodoro Studita, degli Ammonimenti di Barsanufio e altri ancora, e infine della Filocalia slava. Secondo lo storico Georgij Fedotov, “Paisij Veli™kovskij è il padre dello star™estvo russo. I monasteri di Optina Pustyn’ e di Sarov diventano due centri di vita spirituale: due focolari ai quali si riscalda una Russia congelata”28. L’influsso di Paisij si estese a centosette tra monasteri ed eremi di Russia, in cui si consolidò la tradizione dello star™estvo29.

Ibid., p. 93. Cf. Paisij Veli™kovskij, Ob umnoj ili vnutrennej molitve, Moskva 1912, p. 18. Cf. Id., “Piccolo florilegio sulla vita monastica”, in Id., Autobiografia di uno starec, Bose 1998, p. 201. 28 G. P. Fedotov, Svjatye Drevnej Rusi, Moskva 1991, p. 172. 29 Cf. S. Ωetverikov, Moldavskij starec Paisij Veli™kovskij. Ego Δizn’, u™enie i vlijanie na pravoslavnoe mona∫estvo, Paris 1988, pp. 5-6. 26 27

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Serafim di Sarov (1754-1833) Uno dei più noti santi russi è Serafim di Sarov, che aveva il dono della chiaroveggenza, della conoscenza e del discernimento dei pensieri, sapeva insegnare il difficile compito della purificazione del cuore30. Il santo ricorreva a un esempio tratto dal Salterio: “Ecco il mare, cioè il cuore con i suoi pensieri e desideri, spazioso e vasto: là rettili e pesci senza numero, animali piccoli e grandi (cf. Sal 104,25)”31. Il santo paragona i pensieri vani e impuri – generati da spiriti maligni – ai vari rettili e predatori che vivono negli abissi marini. Serafim insiste sulla necessità di mantenere l’attenzione e la concentrazione. Diversamente l’asceta non raggiungerà il suo scopo. Solo quando “la mente e il cuore saranno uniti nella preghiera e i pensieri della mente raccolti … il cuore si riscalderà di tepore spirituale, in cui splende la luce di Cristo, riempiendo di pace e di gioia tutto l’interno dell’uomo”. La mente di chi prega deve essere “come una sentinella o un guardiano insonne della Gerusalemme interiore”32. Oggi, nell’era dei flussi informativi quasi illimitati e ovunque accessibili, risuona particolarmente attuale l’appello di Serafim alla “solitudine interiore”, per ottenere la quale non si devono “ascoltare voci estranee”33. Il tema chiave dell’eredità di Serafim è l’insegnamento sulla custodia della pace dell’anima: “Acquisisci la pace nel tuo cuore e ti salverai tu stesso, e migliaia intorno a te si salveranno”.

30 Su di lui si veda San Serafim. Da Sarov a Diveevo. Atti del IV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa, Bose, 18-21 settembre 1996, a cura di A. Mainardi, Bose 1998. 31 Serafim Sarovskij, Nastavlenija, pou™enija i besedy, Moskva 1997, p. 132. 32 Ibid., p. 140. 33 Ibid., p. 136.

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Parlando della fatica con cui si raggiunge questa pace, il santo notava che in caso contrario diventa impossibile la stessa salvezza. Quando invece l’uomo “cerca di avere cuore umile e un pensiero non turbolento ma pacifico, allora tutti gli intrighi maligni non contano più, poiché dove c’è la pace dei pensieri là dimora il Signore Dio”34. La pace dell’anima è in tal modo sia un mezzo di opposizione ai pensieri sia un fine in sé. Tutta l’impresa della vita cristiana ha come scopo l’acquisizione della pace dello Spirito santo. Questa pace è un criterio per distinguere il pensiero buono da quello cattivo: “L’angelo buono è silenzioso e umile. Quando entra nel cuore dell’uomo, parla con lui di verità, purezza, onestà, serenità … mentre lo spirito maligno è bilioso, crudele e folle”35. Nonostante la chiarezza di questo criterio, il santo invita comunque a verificare se stessi: “Chi percorre la via dell’attenzione non deve credere soltanto al proprio cuore, ma verificare le azioni del suo cuore e la sua vita con la legge di Dio e la vita dei santi asceti”36. Per l’uomo di oggi è particolarmente difficile conservare la pace dell’anima. Il combattimento con i pensieri è più complesso e in un certo senso più importante che nei tempi antichi. Lo testimonia l’insegnamento di Serafim e la rivelazione che egli ebbe durante l’apparizione della Madre di Dio. La Madonna disse in particolare al santo che gli antichi martiri “soffrivano apertamente, ma quelli di oggi segretamente, di afflizioni del cuore … e la loro ricompensa sarà la stessa”37. Si può dunque parlare della crescente importanza, per il mondo contemporaneo, dell’attività interiore del cristiano nella vita quotidiana e per la salvezza dell’anima.

Serafim Sarovskij, Nastavlenija, p. 154. Ibid., p. 137. 36 Ibid., p. 136. 37 Nel giorno della festa dell’Annunciazione a Maria, il 25 marzo 1831: Serafim (Ωi™agov), Letopis’ Serafimo-Diveeskago monastyrja, Moskva 1996, p. 329. 34

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Nel contesto dell’insegnamento sulla pace dell’anima va intesa anche la figura stessa del santo, che salutava tutti i suoi visitatori con le parole affettuose e vivificatrici: “Mia gioia, Cristo è risorto!”.

Gli “starcy” di Optina Tra i santi russi della generazione successiva, che hanno insegnato e scritto sul combattimento spirituale, i più noti sono gli starcy di Optina38. Nel 1829 lo ieroschimonaco39 Lev (Nagolkin, 1768-1841) con i suoi discepoli, tra cui lo ieroschimonaco Makarij (Ivanov), si ritirò nell’eremo di Optina, dove ristabilì la prassi carismatica della paternità spirituale o star™estvo e la tradizione dell’attività spirituale. Dopo di lui tutti i santi padri spirituali di Optina Pustyn’ continuarono l’opera di Paisij. Con la benedizione del metropolita di Mosca Filarete (Drozdov) la comunità di Optina, sotto la guida dei suoi starcy, non solo curò l’edizione delle traduzioni di Paisij, ma tradusse e pubblicò le opere dei “grandi medici delle anime umane”: Barsanufio il Grande e Giovanni il Profeta, abba Doroteo, Pietro Damasceno, Giovanni Climaco, Isacco di Ninive, Simeone il Nuovo Teologo, Teodoro Studita, Anastasio il Sinaita, Giovanni Crisostomo. Il metropolita Filarete e Fedor Golubinskij, professore all’Accademia teologica di Mosca, recensore delle edizioni di Optina, apprezzavano molto quell’attività. In essa 38 Su di loro, si veda Optina Pustyn’ e la paternità spirituale. Atti del X Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (sezione russa), Bose, 19-21 settembre 2002, a cura di A. Mainardi, Bose 2003. 39 Cioè un monaco che ha ricevuto gli ordini sacri (ieromonaco) ed è stato tonsurato nel grande abito (schima), che indica il raggiungimento del grado più elevato dell’ascesi monastica [N.d.C.].

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ebbe particolare importanza l’esperienza spirituale personale dei monaci, che si rifletté in una traduzione più chiara dei punti “oscuri” presenti nei testi greci e paleoslavi. Nei molti anni di assistenza spirituale a uomini di varia condizione e formazione i padri di Optina diedero innumerevoli consigli per la lotta ai cattivi pensieri. Essi seguivano la tradizione dei santi padri e da essa traevano la loro saggezza. Al tempo stesso nel loro insegnamento si possono notare alcuni aspetti più attuali e interessanti per l’uomo contemporaneo. Gli starcy evidenziavano unanimemente l’importanza del discernimento dei pensieri per progredire nella vita spirituale. Varsonofij di Optina scrive: “I pensieri non si limitano a venire e andarsene. Un pensiero può rovinare l’anima umana, un altro costringe l’uomo a compiere una svolta nella sua vita e cambiare direzione”40. Nel criterio di discernimento dei pensieri, gli starcy di Optina, seguendo Serafim, si basavano sull’antico insegnamento dei padri, per cui i pensieri si riconoscono dalla loro azione sull’anima. Scrive lo starec Amvrosij: Per quanto dei pensieri sembrino benevoli e degni di fede, se portano turbamento, questo è segno evidente che vengono dalla parte sbagliata, e in lingua evangelica si chiamano lupi in veste di agnelli. I pensieri e i ragionamenti giusti rasserenano sempre l’anima, non la turbano41.

Come ripete lo starec Makarij, “dove c’è turbamento, c’è il nemico; dove c’è pace, lì c’è Dio”42.

40 Du∫epoleznye pou™enija prepodobnych Optinskich starcev II, Optina Pustyn’ 2003, p. 69. 41 Ibid. I, p. 412. 42 Ibid. II, p. 363.

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Sul combattimento contro i pensieri, gli starcy di Optina seguono gli antichi padri. Due sono i principali metodi di lotta che raccomandano: resistere al primo apparire del pensiero (ne scrivono Makarij e Nikon43) e respingerlo con la preghiera di Gesù (così Antonij, Anatolij, Varsonofij, Iosif e Nikon44). “I pensieri e i moti passionali appena compaiono … devono essere distrutti contro la pietra. E la pietra è Cristo. Colpisci con il nome del Signore questi figli di Babilonia”45. Gli starcy consigliano di non concentrare l’attenzione sui pensieri, come dice Iosif di Optina: “Meditare sui pensieri passionali ed esaminarli non fa che rafforzarli”46. I santi propongono un intero sistema di esercizi ascetici nella lotta ai pensieri: scrivono dell’importanza della confessione dei pensieri e del pentimento, del disprezzo di sé, della pazienza da avere per la presenza stessa dei pensieri senza esserne turbati: “Il turbamento per l’assalto dei pensieri mostra la nostra pusillanimità, che deriva dall’orgoglio: noi vogliamo vedere noi stessi puri dinanzi a Dio, come il fariseo, e non peccatori, come il pubblicano”47. Gli starcy scrivono anche dei mezzi esteriori della lotta spirituale: il digiuno e le lacrime (contro i pensieri blasfemi), la recitazione di brevi preghiere come: “Sorga Dio”, “Rallegrati Vergine Madre di Dio”, “È veramente cosa degna”, insieme a prostrazioni48. Tuttavia il tratto più caratteristico dell’insegnamento degli starcy di Optina, rispetto ai loro predecessori, è l’insistenza sull’umiltà, come principale arma di lotta ai pensieri e alle passioni. Scrive Makarij: “L’umiltà è un’arma invincibile contro le Cf. ibid., pp. 66-67, 78. Cf. ibid., pp. 68, 70, 69, 75, 82-83, 76. 45 Ibid. I, p. 111. 46 Ibid. II, p. 82. 47 Anatolij e Makarij: cf. ibid. I, p. 109; II, p. 74. 48 Amvrosij: cf. ibid. II, p. 87; I, p. 73. 43 44

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insidie del nemico”49. L’orgoglio è visto come la causa principale della sconfitta nella lotta ai cattivi pensieri, e anche come la causa del loro insorgere: “Quando qualcuno è sopraffatto dai pensieri, è segno che l’orgoglio ha il sopravvento, e perciò per loro tramite occorre umiliarsi”50. Riguardo ai frutti della lotta contro i pensieri e le passioni, i santi padri di Optina parlano della pace dell’anima. Tuttavia essi consigliano di ritenere se stessi indegni di tale premio, di camminare per la via dell’umiltà e raggiungere la serenità nel profondo dell’animo pur trovandosi ancora in mezzo al disordine. Afferma Makarij: “Umiliati e ritieniti indegno di ciò [della pace dell’anima] … Chi cerca la serenità, fugge via da essa, ma chi si affida alla croce con umile intendimento, troverà la serenità”51.

Ignatij Brjan™aninov (1807-1867) Di antica famiglia nobile, il futuro vescovo Ignatij, abbandonata la carriera militare per una severa vita monastica, fu uno straordinario interprete dell’eredità dei padri della chiesa per i suoi contemporanei. I cristiani del xix secolo si erano distaccati dai tesori della tradizione patristica ed erano incapaci di farli propri. È a Ignatij che si deve lo studio più accurato sulla lotta contro i pensieri, contro la natura decaduta e gli spiriti malvagi. Le idee principali sono esposte nei suoi Saggi ascetici e nell’Offerta al monachesimo contemporaneo.

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Ibid. II, p. 324. Ibid., p. 66. Ibid. I, p. 407.

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In primo luogo, Ignatij spiega la necessità della lotta spirituale nella vita del cristiano. Un tempo questa regola spirituale era talmente naturale per i cristiani che non aveva bisogno di spiegazioni. Ma per l’uomo contemporaneo, che cresce secondo modelli dettati spesso da visioni del mondo non cristiane, si tratta di un punto che necessita di una spiegazione specifica. “La forza oscura fa vacillare la ragione di ogni uomo attraverso percezioni peccaminose, ma soprattutto per il tramite dei pensieri che sorgono nella sua mente umana senza che lo desideri”52. Quando il cristiano cerca di vivere secondo gli insegnamenti evangelici, quando vuole iniziare una vita consapevole dei propri pensieri, un aspro combattimento spirituale si scatena contro di lui a opera della nostra natura decaduta, cui vengono in aiuto gli spiriti malvagi53. Ignatij raccomanda di affrontare la lotta interiore contro questi pensieri con indulgenza, con fede e speranza nel Signore54. Egli sottolinea che la situazione stessa di battaglia interiore è comunque utile all’asceta55. Dio se ne serve per risanare lo spirito, la volontà e l’anima tutta dell’uomo56. Diviene infatti evidente la nostra schiavitù dal peccato, e questo ci aiuta a umiliarci. Perciò occorre “affrontare senza passionalità le nostre passioni”. Questo significa, che quando nella mente e nella coscienza del cristiano compaiono pensieri peccaminosi, egli “non deve spaventarsi, né meravigliarsi”, poiché “è impossibile che la natura decaduta non dia il suo frutto, specialmente quando essa comincia a nutrirsi degli insegnamenti evangelici”57. Questo stato d’a-

52 Mark (Lozinskij), Duchovnaja Δizn’ mirjanina i monacha po tvorenijam svt. Ignatija (Brjan™aninova), Moskva 2003, p. 223. 53 Cf. Ignatij Kavkazskij, Polnoe sobranie so™inenij V, Moskva 2003, p. 44. 54 Cf. ibid. II, p. 349. 55 Cf. ibid. V, p. 319. 56 Cf. ibid., pp. 124-125. 57 Ibid., p. 128.

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nimo suscita nel cristiano un senso di umiltà, che gradualmente si rafforza e viene fatto proprio. Circa i criteri di discernimento dei pensieri, Ignatij dice concisamente che la “pietra di confronto”58 deve essere il cuore stesso dell’asceta. Tuttavia, poiché anche asceti esperti non sempre sanno capire subito da quale fonte proviene questo o quel pensiero, Ignatij consiglia di rifiutare tutti i pensieri e non ritenersi degni di essere destinatari di pensieri divini, ma di concentrarsi con la preghiera sul pentimento59. Il santo vescovo nomina diversi modi di lotta ai pensieri: respingerli subito, senza soffermare su di essi l’attenzione60, la preghiera, le prostrazioni a terra (specialmente in caso di un forte assalto delle passioni)61 , la memoria di Dio62. Tutti questi strumenti, sostanzialmente mutuati alla tradizione patristica, sono accompagnati in Brjan™aninov da precise spiegazioni e consigli pratici, che rendono i suoi libri insostituibili per il lettore contemporaneo. Tre sono le idee portanti che emergono dal suo insegnamento. 1. Per i novizi, la frequente confessione dei pensieri è un mezzo insostituibile e quasi l’unico efficace63. Il santo vescovo precisa che “rivelando con franchezza le mancanze in parole, opere e pensieri si può progredire in un solo anno più che in dieci praticando forme di ascesi più dure. Per questo il nemico lotta duramente contro questa pratica salvifica”64. 2. Anticamente alcuni asceti praticavano la lotta ai pensieri facendo entrare il pensiero cattivo nel cuore, allo scopo di met-

Ibid. VII, p. 480. Cf. Mark (Lozinskij), Duchovnaja Δizn’, pp. 223-225. 60 Cf. Ignatij Kavkazskij, Polnoe sobranie so™inenij V, c. 44. 61 Cf. ibid., c. 45. 62 Cf. ibid. II, p. 175. 63 Cf. ibid. V, p. 129. 64 Ibid. VII, p. 459. 58 59

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tersi alla prova e concepire odio per il peccato65. Ma Ignatij non ritiene di poterlo consigliare ai monaci contemporanei. L’esistenza di una simile pratica si spiega con lo slancio e il progresso spirituali del monachesimo dei primi tempi, spiegando che per un simile tipo di ascesi occorre essere pervenuti all’apatia. 3. Sviluppando un’idea di Serafim, Ignatij parla di uno speciale disegno divino per i cristiani (e specialmente i monaci) degli ultimi tempi. Essi sono destinati a soffrire in particolare nella lotta con pensieri e sentimenti di afflizione e tristezza66. Ignatij offre allora concreti consigli su come perseverare in questa difficile lotta, accentuando l’attenzione sul rendere grazie a Dio67.

Silvano dell’Athos e lo “starec” Sofronio (Sacharov) La tradizione ascetica russa della lotta contro i pensieri deve essere completata con i nomi di Silvano dell’Athos e del suo discepolo, lo starec Sofronio (Sacharov), che con straordinaria chiarezza ha rivelato al mondo l’insegnamento del suo padre spirituale. Essi definivano la lotta ai pensieri come la grande scienza, la cui essenza è: “Non accogliere nessun pensiero. Questo è un mistero che pochi comprendono. Poche parole e semplici, ma metterle in pratica è un’opera grandiosa e faticosissima, che eleva l’uomo alla visione”68. La lotta ai pensieri è la necessaria conseguenza della ricerca di una preghiera pura. Perciò l’azione monastica sta nel respinCf. ibid. I, p. 317. Cf. ibid. V, c. 30. 67 Cf. ibid. VII, p. 224. 68 Sofronij (Sacharov), Podvig bogopoznanija, Essex-Moskva 2002, p. 56. Cf. anche: Sofronij (Sacharov), Duchovnye besedy II, Essex-Moskva 2007, p. 97. 65 66

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gere non solo i pensieri “cattivi”, ma i pensieri in generale, in quanto si riferiscono all’ambito del mondo creato, le cui immagini possono ostacolare il raggiungimento della purezza della mente. “Conservare la nostra mente costantemente in Dio, questo è il compito del monaco”69. L’attenzione dei laici è volta piuttosto a opporsi ai pensieri “cattivi”, l’adesione ai quali porta a tristi conseguenze, in ultima analisi, all’ossessione: Tramite il pensiero malvagio entra in noi, in qualche modo, la potenza del nemico … Se il pensiero ti suggerisce: “Ruba”, e tu lo assecondi, per questo stesso fatto tu dai al demonio potere su di te. Se il pensiero ti dice: “Mangia molto fino alla sazietà”, e tu mangi molto, anche allora il demonio ha preso potere su di te. E così, se il pensiero di ciascuna passione riesce a dominarti, diventerai un ricettacolo di demoni70.

La possessione è l’effetto della leggerezza nel commercio con i pensieri impuri. I pensieri “contro il fratello” diventano bombe che fanno esplodere le relazioni umane. “Ogni pensiero non buono che compare in me si riflette negativamente sulle mie relazioni. Il cuore dell’altro percepisce questa energia cattiva”71. Diceva Sofronio sul finire della vita: “Che cosa mi preoccupa per il futuro? Se non imparerete a sconfiggere ogni cattivo pensiero, metterete in pericolo l’esistenza stessa del monastero”72. Questo pensiero ci riporta a quello analogo di Sergio.

Sofronij (Sacharov), Duchovnye besedy I, p. 154. Archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos (1866-1938). Vita, dottrina, scritti, Torino 1978, pp. 394, 398. 71 Sofronij (Sacharov), Duchovnye besedy II, p. 190. 72 Ibid., p. 192. 69 70

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La forza di un pensiero accolto in sé può essere sconvolgente. In ogni pensiero è racchiusa la forza di questo o quello spirito. Ma “gli spiriti dell’universo sono molti … e molti di essi sono spiriti potentissimi”73. Nei testi di Silvano e Sofronio troviamo molti consigli su come combattere i pensieri, che riassumono in sé tutta la ricchezza della tradizione ascetica precedente. Il primo metodo è il più semplice e più difficile al tempo stesso: Non accogliere [alcun pensiero] … Se vi mettete a discutere con i pensieri, a contraddirli, voi li costringerete al massimo a farsi indietro per qualche tempo; ma poi essi vi si riproporranno, ostinatamente, ripetendo sempre la stessa cosa, finché non spingeranno l’uomo al peccato; raggiunto un primo successo, lo continueranno a spingere fino alla rovina74.

È una lotta dura, snervante, poiché richiede attenzione costante, giorno e notte. Il secondo metodo è la preghiera. Il terzo metodo è fare qualsiasi altra cosa pur di non accogliere il pensiero: Quando siete assaliti da pensieri passionali, andate a lavorare, o incontratevi con qualcuno o, ancor meglio, pregate. Così in qualsiasi modo, con la lettura, il dialogo, il lavoro vi allontanerete dai pensieri passionali75.

Il quarto metodo e il più importante è l’umiltà. “Quando vedi che un altro spirito combatte contro il tuo spirito, umilia-

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Da una conversazione registrata. Sofronij (Sacharov), Podvig bogopoznanija, pp. 44-45. Ibid., p. 203.

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ti, e la guerra cesserà”76. Silvano parlava sempre in modo particolare dell’umiltà di Cristo, che egli conobbe quando il Signore gli apparve e che perseguì poi per tutta la sua vita. “L’uomo impara, per tutta la su vita, l’umiltà di Cristo. Finché non l’avrà imparata, i pensieri non lasceranno in pace l’anima sua, ed egli non potrà pregare con spirito puro”77. Una vittoria definitiva nella lotta ai pensieri non è possibile all’uomo. Silvano se ne rendeva ben conto. “Per tutta la vita – diceva – l’anima è in lotta con i pensieri”78. D’altra parte, questa vittoria in linea di principio è possibile. Con la sua venuta nel mondo, Dio ha liberato definitivamente dalla lotta dei pensieri l’anima purificata dalla fatica ascetica, rendendola invulnerabile alle energie diaboliche. La consapevolezza dell’estrema altezza di questo fine non deve essere di ostacolo alla preghiera per raggiungerlo. Ne parlava con grande ispirazione il monaco romeno Rafael (Noica): “Da Dio non aspettatevi nulla di meno dell’impossibile! Dio lavora solo nel regime dell’impossibile, poiché il possibile è già alla nostra portata”79.

Conclusione A conclusione di questa breve rassegna possiamo dire che Teodosio di Kiev, Nil Sorskij, e dopo di lui Paisij, Serafim, Ignatij, gli starcy di Optina, Silvano e Sofronio, sono gli anelli di un’unica catena di maestri russi che insegnarono l’attività interiore in modo adatto alla mentalità e alla vita dei loro contemporanei. Archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos, p. 398. Ibid., p. 396. Ibid., p. 395. 79 Rafail (Nojka), Kul’tura Ducha, Moskva 2006, p. 146.

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Lotta spirituale e discernimento dei pensieri …

L’analisi della secolare esperienza della tradizione ascetica russa mostra da un lato la continuità con l’insegnamento patristico bizantino, dall’altro lo spostamento d’accento, nel corso del tempo, dallo sforzo propriamente ascetico del corpo e della psiche a un’impostazione prevalentemente basata sull’umiltà e la pace interiore nell’atteggiamento spirituale del cristiano. L’apostolo Paolo come coronamento dell’azione spirituale indica il dono della pace data da Dio: “E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù” (Fil 4,7). In queste parole è racchiusa l’essenza della grande cultura ascetica russa dell’unione della mente con il cuore, divenuta parte inscindibile della tradizione della chiesa.

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L’ORGOGLIO, L’UMILTÀ E LE LORO VICISSITUDINI: UN APPROCCIO PSICOLOGICO Vassilis Saroglou*

È possibile l’umiltà quando lo scopo ultimo della vita (spirituale) è la perfezione? Come lottare contro l’orgoglio senza cadere nella falsa umiltà? O come lottare contro gli altri vizi senza rafforzare così l’orgoglio? Si può essere umili e intelligenti o è meglio essere umili senza esserne coscienti? Piuttosto che dedicarci all’insieme degli ambiti in cui si osservano le vicissitudini – gli “effetti secondari” – della lotta spirituale e dell’ascesi (o dei loro eccessi), cosa che sarebbe impossibile nei limiti di una relazione, abbiamo optato per una trattazione più dettagliata di uno di questi ambiti che è probabilmente al cuore di tale lotta: l’orgoglio e le vicissitudini per acquistare l’umiltà. Sarebbe illusorio sperare di trovare in questa sede una soluzione a questi problemi spinosi, nondimeno è legittimo e anche utile rivisitare tali problemi alla luce dei nuovi studi, delle nuove ricerche e considerazioni della psicologia contemporanea. Quest’ultima da tempo si è interessata delle dinamiche del

* Docente di psicologia all’Université catholique di Louvain-la-Neuve e direttore del Centro di psicologia delle religioni dello stesso ateneo. Traduzione dall’originale francese.

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narcisismo e della stima di sé e, da circa una decina di anni, anche dei concetti di modestia e di umiltà. Seguiremo in questo lavoro una logica interdisciplinare di interazione tra le conoscenze acquisite dalla psicologia contemporanea, basate notoriamente su studi empirici, e le conoscenze e le preoccupazioni della spiritualità ascetica, spiritualità in cui il modo di affrontare l’orgoglio e l’umiltà occupa un posto centrale. Grazie a una certa familiarità con il pensiero di Giovanni Climaco dovuta a lavori precedenti, faremo spesso riferimento a lui, nella consapevolezza che non si tratta di una figura isolata ma di un autore che ha raccolto, sintetizzato, e forse cristallizzato, la percezione che abbiamo oggi della spiritualità ortodossa, in particolare di quella ascetica1. La nostra riflessione si strutturerà intorno a tre problemi. In primo luogo, cercheremo di comprendere e di valutare, con l’aiuto dei nuovi dati della psicologia, l’idea secondo la quale la lotta contro l’orgoglio si trova al cuore della lotta spirituale. In secondo luogo, si tratterà di esaminare gli studi empirici sul legame tra fede e umiltà e i problemi che i risultati di tali studi pongono sul carattere non evidente di un simile legame. In terzo luogo, cercheremo di far interagire la psicologia con l’antropologia ascetica per farne emergere delle piste che potrebbero essere utili per comprendere ed evitare le vicissitudini della lotta contro l’orgoglio per mezzo di forme non desiderabili di un’umiltà non riuscita.

1 Per un approccio teologico del tema dell’orgoglio e dell’umiltà in diversi padri orientali, cf. J.-C. Larchet, Terapia delle malattie spirituali. Un’introduzione alla tradizione ascetica della chiesa ortodossa, Cinisello Balsamo 2003.

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L’orgoglio, l’umiltà e le loro vicissitudini …

Il carattere “di base” e l’importanza di orgoglio e umiltà per l’insieme della lotta spirituale A partire dal libro della Sapienza e successivamente in tutta la letteratura ascetica si afferma che l’orgoglio è al principio di tutti gli altri vizi2. La percezione dell’orgoglio come radice di tutti i vizi può essere compresa oggi alla luce dei nuovi progressi nella psicologia morale e nella psicologia del sé. Nella psicologia morale possiamo distinguere tre tipi di ambiti in cui si pone la questione morale. In primo luogo, e in maniera abbastanza universale in riferimento alle diverse culture, le età della vita (vale a dire dall’età di tre anni)3 e gli orientamenti socio-cognitivi (conservatorismo o liberalismo)4: si tratta della morale interpersonale. Questa si basa su principi quali la sollecitudine, la giustizia, l’equità e la reciprocità5. In secondo e terzo luogo, si tratta della morale intrapersonale relativa agli obblighi verso se stessi e della morale impersonale relativa agli insiemi più astratti che trascendono le persone, cioè Dio, il gruppo, la comunità o i simboli collettivi. La qualifica di questi ultimi due ambiti come morali è tuttavia oggetto di minor consenso; si veda, ad esempio, le specificità dell’atteggiamento etico nel contesto religioso, nel quadro delle società collettiviste, così come nel con-

2 Cf. C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel medioevo, Torino 2000. 3 Cf. E. Turiel, “The Development of Morality”, in Handbook of Child Psychology, III. Social, Emotional, and Personality Development, a cura di N. Eisenberg, Hoboken Nj 20066, pp. 789-857. 4 Cf. J. Graham, J. Haidt, B. A. Nosek, “Liberals and Conservatives Rely on Different Sets of Moral Foundations”, in Journal of Personality and Social Psychology 96 (2009), pp. 1029-1046. 5 Cf. L. Kohlberg, The Philosophy of Moral Development, I. Moral Stages and the Idea of Justice, San Francisco 1981; C. Gilligan, In a Different Voice. Psychological Theory and Women’s Development, Cambridge Ma 1982; J. Haidt, J. Graham, “When Morality Opposes Justice: Conservatives Have Moral Intuitions that Liberals May not Recognize”, in Social Justice Research 20 (2007), pp. 98-116.

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testo dei comportamenti e delle ideologie conservatrici6. Questi due ultimi ambiti spesso sono animati da principi quali la lealtà, l’autorità o la purezza7. È interessante il fatto che le ricerche che esaminano le implicazioni psicologiche del narcisismo e dei suoi opposti, la modestia e l’umiltà, suggeriscono che tali realtà hanno delle ripercussioni sui tre livelli, cioè sul livello delle relazioni interpersonali, del funzionamento intrapsichico e del legame con gli esseri o gli insiemi trascendenti. Così, il narcisismo si accompagna in primo luogo a un’immagine di sé grandiosa (esagerazione dell’importanza dell’io e dei talenti personali) e alle difficoltà d’autoregolazione delle emozioni relative alla riflessività in rapporto a sé (collera, vergogna, poca stima di sé). In secondo luogo si accompagna a relazioni interpersonali marcate da assenza di empatia, a competitività, freddezza, sfruttamento, aspettativa di favori da parte degli altri8. Talora il narcisista inizialmente è ammirato dal suo partner, ma alla lunga questi si rende conto della superficialità della relazione così stabilita9. Infine, come mostreremo in dettaglio nella sezione successiva, la ricerca indica anche che le persone tendono a dare un punteggio basso nelle scale di autovalutazione del narcisismo. Infatti, lo specifico di un approccio spirituale dell’etica del narcisismo è la percezione dell’orgoglio come un riflesso della hØbris che l’uomo manifesta dinanzi a Dio nel tentativo di mostrarsi uguale a lui10. Si tratta di un segno

6 Cf. J. Graham, J. Haidt, B. A. Nosek, “Liberals and Conservatives Rely”; E. Turiel, “The Development of Morality”. 7 Cf. J. Haidt, J. Graham, “When Morality Opposes Justice”. 8 Cf. F. Rhodewalt, B. Peterson, “Narcissism”, in Handbook of Individual Differences in Social Behavior, a cura di M. R. Leary, R. H. Hoyle, New York 2009, pp. 547-560. 9 Cf. J. J. Exline, W. K. Campbell, R. F. Baumeister, T. Joiner, J. Krueger, L. V. Kachorek, “Humility and Modesty”, in Character Strengths and Virtues. A Handbook and Classification, a cura di C. Peterson e M. Seligman, New York 2004, pp. 461-475. 10 Cf. A. Kleinberg, Peccati capitali, Genova 2009; A. Vergote, “Une approche psychologique de l’humilité dans ‘La Règle de Saint Benoît’”, in Collectanea Cistercensia 42 (1980), pp. 112-135.

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di mancanza di misura, di un eccesso di ricerca di autonomia, di disobbedienza e della non accettazione del proprio posto limitato davanti al Creatore. Nel suo recente saggio sui peccati capitali11 Kleinberg pone l’accento su questa terza caratteristica dell’orgoglio come peccato; vale a dire la ribellione e la sostituzione di Dio con l’io. Analogamente, gli effetti della modestia e dell’umiltà si osservano in tutti e tre gli ambiti morali. Anzitutto nella qualità delle relazioni interpersonali, caratterizzate da una maggior empatia, intimità, collaborazione, volontà di perdono, stabilità nel tempo, gratitudine. In seguito, si osservano nella qualità dell’autoregolazione delle emozioni e degli affetti. Ciò include, ad esempio, una maggior prudenza nel correre rischi, la capacità di perseguire obiettivi che hanno effetti previsti a lungo termine, e una migliore autovalutazione delle proprie capacità12. In terzo luogo, come vedremo in seguito, diversi studi mostrano un’associazione tra l’essere credenti e la valutazione positiva dell’umiltà. Infine, in un altro studio sulle percezione della modestia da parte della gente, ritroviamo in maniera centrale il rapporto con sé (umile, non vanitoso) e insieme il rapporto con l’altro (la preoccupazione per gli altri)13. È interessante segnalare a questo proposito che i padri ascetici sembrano consapevoli che l’orgoglio si ripercuote sui tre livelli. Così, tra le conseguenze dell’orgoglio, Giovanni Climaco cita la collera, l’irritazione, l’iracondia, l’irascibilità, il rancore14

Cf. A. Kleinberg, Peccati capitali. Cf. J. J. Exline, W. K. Campbell, R. F. Baumeister, T. Joiner, J. Krueger, L. V. Kachorek, “Humility and Modesty”; C. Sedikides, A. P. Gregg, C. M. Hart, “The Importance of Being Modest”, in The Self: Frontiers in Social Psychology, a cura di C. Sedikides e S. Spencer, New York 2007, pp. 163-184. 13 Cf. A. P. Gregg, C. M. Hart, C. Sedikides, M Kumashiro, “Everyday Conceptions of Modesty. A Prototype Analysis”, in Personality and Social Psychology Bulletin 34 (2008), pp. 978-992. 14 Cf. Giovanni Climaco, La scala 22,28, a cura di L. d’Ayala Valva, Bose 2005, p. 318. 11 12

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e anche difficoltà nel sonno15, realtà queste che indicano una grande difficoltà a livello dell’autoregolazione delle proprie emozioni. E analogamente i segni positivi dell’umiltà sul funzionamento intrapsichico sono l’assenza di collera16, la gioia, la serenità e la mitezza17. L’orgoglio, inoltre, avvelena le relazioni interpersonali, introducendovi l’ipocrisia, l’assenza di compassione, la maldicenza, l’invidia e l’odio18, mentre l’umiltà implica il rifiuto di condannare i peccatori19, il servizio del prossimo, la mansuetudine20, la compassione21, la stabilizzazione della carità22. Infine, in una prospettiva spirituale, Giovanni Climaco ricorda che la bestemmia è una conseguenza dell’orgoglio23 e che l’obbedienza permette di combattere l’orgoglio24. In conclusione, l’idea, argomentata con cura nella letteratura ascetica, dell’orgoglio come una sorta di matrice che ha un’influenza su tutti gli altri vizi e dell’umiltà come matrice in rapporto alle altre virtù, sembra essere confermata oggi in un modello più astratto nel quale non è più questione di sette vizi e virtù ma dei tre ambiti della morale e del funzionamento psichico. Il narcisismo e i suoi contrari, la modestia e l’umiltà, manifestano molteplici conseguenze a diversi livelli che appartengono insieme all’ambito della morale interpersonale (regolamentazione dei propri rapporti con altri), a quello della morale intrapersonale (la regolamentazione dei rapporti con sé) e a quello della morale in rapporto a entità trascendenti (mantenimento del proprio posto

Cf. ibid. 19,10, p. 297. Cf. ibid. 22,28, p. 318. Cf. ibid. 26/1,14, p. 357. 18 Cf. ibid. 22,1 e 28, pp. 313, 318. 19 Cf. ibid. 7,6, pp. 193-194. 20 Cf. ibid. 22,28, p. 318. 21 Cf. ibid. 25,10, pp. 337-338. 22 Cf. ibid. 25,36, p. 344. 23 Cf. ibid. 22,1 e 28, pp. 313, 318. 24 Cf. ibid. 4, pp. 117-164. 15 16

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circoscritto dinanzi a queste entità). Notiamo che nella teologia cristiana c’è una gerarchia logica e sostanziale tra questi tre livelli: l’orgoglio si definisce innanzitutto come l’arroganza di voler fare come Dio, che si tratti di Satana o del primo essere umano. Invece, i problemi nelle relazioni interpersonali (per esempio le accuse reciproche fra Adamo ed Eva) o intra-personali (la presa di coscienza da parte dell’essere umano della propria nudità nell’Eden) sono conseguenze di questo primo orgoglio25. Notiamo, infine, che la letteratura spirituale talora ha distinto tra orgoglio e vanagloria, intendendo il primo in riferimento principalmente all’arroganza in rapporto a Dio e alla negazione della dipendenza da lui, mentre la seconda come più direttamente legata al modo di collocarsi in relazione agli altri e alla propria sopravalutazione in confronto ad altri. Tuttavia, altri autori, come Giovanni Climaco26, insistono sulla continuità tra queste due realtà, suggerendo che la vittoria spirituale sulla vanagloria (l’abbandono del sentimento di superiorità nei confronti degli altri) conduca nel contempo alla vittoria sull’orgoglio.

25 A rigor di termini, la ricerca contemporanea reca delle prove sull’estensione delle conseguenze del narcisismo (o dell’umiltà); invece, la direzione della causalità tra il narcisismo e le altre problematiche morali è una questione più complessa. Per esempio, un argomento che oggi guadagna terreno è che l’elemento essenziale, comune a tutti i vizi e le virtù corrispondenti è la difficoltà (o abilità corrispondente) a esercitare il controllo di sé (cf. R. F. Baumeister, J. J. Exline, “Virtue, Personality, and Social Relations: Self-control as the Moral Muscle”, in Journal of Personality 67 [1999], pp. 1165-1194). Tale esigenza di controllo di sé è direttamente legata a quel tratto della personalità definito come “impulsività” (una bassa impulsività è tipica del comportamento religioso, cf. L. J. Francis, “Religion, Neuroticism, and Psychoticism”, in Religion and Mental Health, a cura di J. F. Schumaker, New York 1992, pp. 149-160; V. Saroglou, “Religiosity as a Cultural Adaptation of Basic Personality Traits: A Five Factor Model Perspective”, in Personality and Social Psychology Review 14 [2010], in corso di stampa) e all’ideale ascetico del dominio di sé. Giovanni Climaco lega l’umiltà al dominio di sé quando critica il riso come segno di non umiltà (cf. La scala 7,10, p. 195) e di assenza di dominio di sé (cf. ibid. 7,40, p. 200). 26 Cf. Giovanni Climaco, La scala 21,1, pp. 303-304.

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I credenti si dimostrano umili? I dati intriganti della ricerca empirica L’importanza dell’umiltà come virtù da acquisire nella lotta spirituale, probabilmente in tutte le grandi religioni, è fuori discussione. È, invece, meno evidente sapere se la valorizzazione di tale virtù nel discorso esplicito di una religione si traduca effettivamente nella vita quotidiana dei credenti. L’umiltà è un ideale cui i credenti cercano di giungere e, ancor di più, un loro comportamento caratteristico verificabile negli atti? Un modo per rispondere a tale domanda è quello di basarsi sui risultati degli studi empirici in psicologia. Questi studi sono relativamente poco numerosi – ricordiamo che lo studio dell’umiltà e della modestia in psicologia è molto recente – e si basano principalmente su inchieste ed esperienze nel mondo protestante statunitense. È dunque prematuro considerarli come una risposta definitiva e generalizzabile. Offrono, comunque, informazioni interessanti e invitano a riflettere di nuovo sulla realtà dell’umiltà all’interno della fede. Anzitutto, diversi studi mostrano come le persone che investono nella fede o danno peso alla spiritualità e alla sacralità della vita tendono non solo a valorizzare l’umiltà come virtù importante27, ma anche a percepirsi come poco narcisisti o come umili, soprattutto quando si tratta di scegliere tra “essere umile” o “arrogante”28.

27 Cf. J. J. Exline, A. L. Geyer, “Perceptions of Humility. A Preliminary Investigation”, in Self and Identity 3 (2004), pp. 95-114. 28 Cf. C. Doehring, A. Clarke, K. I. Pargament, A. Hayes, D. Hammer, M. Nickolas, P. Hughes, “Perceiving Sacredness in Life. Correlates and Predictors”, in Archive for the Psychology of Religion 31 (2009), pp. 55-73; C. Powers, R. K. Nam, W. C. Rowatt, P. C. Hill, “Associations between Humility, Spiritual Transcendence, and Forgiveness”, in Research in the Social Scientific Study of Religion 18 (2007), pp. 75-94; W. C. Rowatt, C. Powers, V. Targhetta, S. Kennedy, J. LaBouff, “Development and Initial

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Notiamo che in uno studio che distingue tra religiosità e spiritualità29 le persone che attribuiscono valore alla fede religiosa tendono a percepirsi come non narcisistiche, che si tratti di narcisismo manifesto o di narcisismo nascosto, entrambi espressioni del narcisismo unhealthy, o del narcisismo healthy che nella scala utilizzata in questo studio indica piuttosto l’autonomia, gli interessi diversi e le aspirazioni elevate per il “sé”. In compenso, la spiritualità è senza legame positivo o negativo con il narcisismo unhealthy, ma è associata positivamente con il narcisismo healthy30. Tuttavia, questa associazione tra religione e umiltà (o basso livello di narcisismo) non è più osservabile nelle ricerche che usano scale che misurano la modestia come tratto della personalità31. Questo è dovuto probabilmente al fatto che questa scala include anche delle componenti relative alla riuscita e alle prestazioni, il che potrebbe far entrare in conflitto l’imperativo dell’umiltà con altri imperativi religiosi (avere scopi o progetti nella vita e realizzarli). Un’altra spiegazione possibile: queste scale non mettono in evidenza il concetto di umiltà quanto le scale di studi

Validation of an Implicit Measure of Humility Relative to Arrogance”, in Journal of Positive Psychology 1 (2006), pp. 198-211; P. J. Watson, N. D. Jones, R. J. Morris, “Religious Orientation and Attitudes toward Money. Relationships with Narcissism and the Influence of Gender”, in Mental Health, Religion, and Culture 7 (2004), pp. 277-288; P. Wink, M. Dillon, K. Fay, “Spiritual Seeking, Narcissism, and Psychotherapy: How are they Related?”, in Journal for the Scientific Study of Religion 44 (2005), pp. 143-158. Ricordiamo che sono tutti studi condotti negli Stati Uniti su campioni costituiti in maggioranza da cristiani protestanti. 29 Negli studi empirici la distinzione tra religione e spiritualità fa riferimento all’aspetto individuale del credere che si manifesta con maggior chiarezza oggi in nuove forme, non necessariamente dipendenti da istituzioni e tradizioni religiose stabilite. Con spiritualità qui non si deve pensare alla sua concezione teologica classica (uno degli elementi d’insieme costitutivi del cammino religioso). Quest’ultimo non è tuttavia in opposizione con la prima concezione del termine; costituisce una delle figure storiche della spiritualità. 30 Cf. P. Wink, M. Dillon, K. Fay, “Spiritual Seeking, Narcissism, and Psychotherapy: How are they Related?”. 31 Cf. M. E. Aguilar-Vafaie, M. Moghanloo, “Domain and Facet Personality Correlates of Religiosity among Iranian College Students”, in Mental Health, Religion and

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citati sopra che oppongono l’umiltà all’arroganza o includono la manipolazione e lo sfruttamento degli altri come una delle componenti del narcisismo. In altre parole, è quando si aggiunge la dimensione antisociale dell’orgoglio, che l’autopercezione dei credenti come modesti diviene più chiara. In caso contrario, l’auto-percezione dei credenti come modesti è più debole, anzi inesistente. Nondimeno, ricerche future dovranno esaminare se tali risultati traducono effetti reali o se le misure di autovalutazione della modestia sono problematiche soprattutto quando le si applica all’ambito religioso: in linea di principio, non sembra molto modesto o umile dichiararsi modesti o umili. Possiamo così immaginare sia una sorta d’autoritenzione per non attribuirsi un punteggio elevato in modestia, sia una reale umiltà che preserva i credenti dal dirsi modesti evitando però la trappola di far pesare maggiormente il polo opposto della scala dicendosi poco modesti. I risultati diventano ancor più intriganti quando si passa dal livello dell’autodescrizione esplicita al livello degli atteggiamenti e dei comportamenti misurati in maniera implicita. Wade Rowatt con i suoi collaboratori della Baylor University hanno impostato un test implicito dell’umiltà (in linea con la tradizione di ricerca che utilizza la tecnica dello iat, Implicit Association Test, per misurare in maniera implicita altri costrutti psicologici). La tecnica dello iat parte dal presupposto che per i concetti che sono congrui nello spirito dei partecipanti (ad esempio “io” e “bello”,

Culture 11 (2008), pp. 461-483; K. L. Ladd, M. L. Ladd, P. Ashbaugh, D. Trnka, J. Harmer, K. St. Pierre, T. Swanson, “Inward, Outward, Upward Prayers and Personal Character”, in Research in the Social Scientific Study of Religion 18 (2007), pp. 209-231; W. C. Rowatt, C. Powers, V. Targhetta, S. Kennedy, J. LaBouff, “Development and Initial Validation”; V. Saroglou, A. Muñoz-García, “Individual Differences in Religion and Spirituality: An Issue of Personality Traits and/or Values”, in Journal for the Scientific Study of Religion 47 (2008), pp. 83-101. Si tratta di studi realizzati negli Stati Uniti, Spagna e Iran; si veda tuttavia per un’eccezione, V. Saroglou, L. Fiasse, “Birth Order, Personality, and Religion: A Study among Young Adults from a Three-sibling Family”, in Personality and Individual Differences 35 (2003), pp. 19-29.

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“vecchio” e “saggio”, “islam” e “pericolo”) le associazioni sono più forti che per concetti che non sono congrui (ad esempio “io” e “cattivo”, “giovane” e “saggio”, “islam” e “amore”). La forza associativa è misurata dalla rapidità con cui il partecipante clicca sul computer quando si devono accordare elementi congrui o elementi non congrui. Questa tecnica è stata spesso utilizzata, ad esempio, per evidenziare il razzismo implicito o gli stereotipi impliciti di coloro che, a livello esplicito, si dichiarano non razzisti o privi di stereotipi. Wade Rowatt e i suoi collaboratori32 in due studi hanno misurato la rapidità di associazioni semantiche tra l’“io” e le parole indicatrici dell’umiltà partendo dal postulato che i veri umili possono implicitamente viversi tranquillamente come umili. In questi due studi tale misura implicita si è rivelata valida; ha evidenziato però una discordanza non trascurabile tra le persone che hanno un punteggio elevato in spiritualità. Queste persone che, a livello esplicito, si percepivano come umili non davano necessariamente una maggior prova di umiltà quando quest’ultima era testata a livello implicito. Un’altra ricerca di Wade Rowatt e dei suoi collaboratori33, focalizzata questa volta non più sulla spiritualità ma sulla religiosità, dà risultati che portano più lontano. Tramite due esperienze, pur a livello esplicito, le persone credenti si caratterizzavano con l’effetto “sono più santo di te” (holier-than-you). Infatti, confrontando l’autovalutazione dei partecipanti e le valutazioni che essi davano degli altri (gli altri in generale o, in particolare, gli altri studenti della stessa università) su diversi atteggiamenti che misurano la fede e il rispetto dei precetti religiosi 32 Cf. W. C. Rowatt, C. Powers, V. Targhetta, S. Kennedy, J. LaBouff, “Development and Initial Validation of an Implicit Measure of Humility Relative to Arrogance”. 33 Cf. W. C. Rowatt, A. Ottenbreit, K. P. Nesselroade, P. Cunningham, “On Being Holier-than-thou or Humbler-than-thee: A Social Psychological Perspective on Religiousness and Humility”, in Journal for the Scientific Study of Religion 41 (2002), pp. 227-237.

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e morali, si è rivelato che più i partecipanti erano credenti, più si percepivano migliori degli altri. E, cosa ancora peggiore, questo non si limitava alle tematiche religiose e morali, ma veniva confermato (il confronto qui era limitato a “molti credenti” e “molto poco credenti”) anche quando si esaminava la differenza tra autovalutazione e valutazione degli altri su caratteristiche positive e indipendenti dall’ambito religioso o della morale (ad esempio leale, gentile, intelligente, attraente) o su caratteristiche negative (ad esempio impopolare, non attraente, non intelligente). Discussione dei risultati degli studi Come comprendere l’insieme di questi risultati che indicano come i credenti, da una parte, tendono a valorizzare l’umiltà e a percepirsi come umili e poco narcisisti, soprattutto nelle relazioni con gli altri e, dall’altra, non paiono mostrarsi effettivamente diversi dagli altri sull’umiltà implicita o sono persino meno umili dei non credenti percependosi migliori in tutto? Una prima reazione sarebbe squalificare questi studi per la loro provenienza da un ambiente molto specifico, per il fatto che sono ancora agli inizi, per una misurazione ancora imprecisa dei concetti in questione. Questo non è completamente escluso, ma vi sono degli elementi a favore della serietà di tali risultati. Questi ultimi sono stati replicati attraverso diversi studi, si integrano bene in un insieme più vasto di ciò che conosciamo oggi sui legami tra personalità e religione, e non ci sono molte ragioni per “sperare” che i risultati sarebbero particolarmente diversi in altri ambienti (esistono somiglianze stupefacenti sulla personalità e i valori in funzione della fede almeno fra le tre religioni monoteistiche)34.

34 Cf. V. Saroglou, “Religiousness as a Cultural Adaptation of Basic Personality Traits”; V. Saroglou, V. Delpierre, R. Dernelle, “Values and Religiosity. A Meta-Analy-

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Non c’è dubbio, sulla base di tali studi, che l’umiltà sia un valore interiorizzato per i credenti, in questo caso cristiani. Ma il problema appare quando si passa dai valori agli atteggiamenti e, ancor più, agli atti. Questo rimanda a un problema più generale (gli atti umani non sempre sono congrui con i valori professati), ma sembra riguardare in maniera particolare la personalità del credente. Altri studi, infatti, hanno mostrato che in altri campi esiste lo stesso divario tra l’autopercezione e il comportamento reale in funzione della religiosità. Ad esempio, l’autopercezione, abbastanza sistematica, delle persone religiose di essere disponibili a perdonare o di valorizzare il perdono non si traduce in una reale capacità di perdonare superiore a quella dei non credenti35. Inoltre, le persone credenti tendono maggiormente a percepirsi pro-sociali (agire in modo da incontrare il bisogno d’altri) e altruiste (motivazione fondata su ideali altruisti e non su preoccupazioni egoistiche). Negli studi sperimentali esse si comportano, in effetti, entro certi limiti, in maniera pro-sociale (più dei non credenti), ma la preoccupazione di una percezione positiva da parte degli altri o di una buona immagine di sé sembra aver la meglio sulla motivazione altruistica36. Ugualmente, in uno studio recente abbiamo trovato che, nonostante l’autopercezione dei credenti come persone che aiutano tutti, senza distinzione tra i loro e gli altri, il loro grado di religiosità era associato, invece, all’intenzione di aiutare solo le persone prossime e non dei destinatari sconosciuti37. sis of Studies Using Schwartz’s Model”, in Personality and Individual Differences 37 (2004), pp. 721-734. 35 Cf. M. E. McCullough, E. L. Worthington jr., “Religion and the Forgiving Personality”, in Journal of Personality 67 (1999), pp. 1141-1164. 36 Cf. C. D. Batson, S. L. Anderson, E. Collins, “Personal Religion and Prosocial Motivation”, in Advances in Motivation and Achievement 14 (2005), pp. 151-185. 37 Cf. J. Blogowska, V. Saroglou, “Religion and Fundamentalism as Related to Helping Close and (non-) Threatening Targets”, relazione tenuta al congresso dell’Associazione internazionale di Psicologia della religione nell’agosto 2009, a Vienna.

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Alcuni autori hanno formulato l’ipotesi di un’ipocrisia morale tra il discorso e gli atti nel quadro della personalità religiosa. Sarebbe possibile interpretare nello stesso modo i risultati degli studi citati sopra sulla religione e l’umiltà. Tuttavia, una tale interpretazione ci sembra riduttiva o perlomeno troppo semplicistica. Infatti, per parlare di ipocrisia nel senso forte del termine, ci deve essere l’intenzione e la coscienza di agire in maniera opposta ai valori proclamati, il che è caratteristico del narcisismo manipolativo. Non è, dunque, una spiegazione molto plausibile per il nostro problema. Un’ipotesi più plausibile potrebbe essere la seguente: la discordanza in questione è l’effetto della coesistenza, dietro ad atteggiamenti religiosi, di numerose tendenze e motivazioni latenti, motivazioni che possono talora produrre effetti opposti. Così accanto alla motivazione religiosa che spinge a essere altruista, pro-sociale, modesto e umile, c’è anche la motivazione che spinge a essere perfetto, a corrispondere agli standard che la fede o il gruppo sociale pongono e di progredire in termini di progresso spirituale facendo fruttificare i propri talenti; in breve, per usare una formula più generica, la motivazione di progresso personale secondo standard definiti o incoraggiati da un’istanza terza. Il che implica come conseguenza il bisogno di essere (e di verificare se lo si è) ben visti dagli altri e il bisogno di autovalutarsi regolarmente con la speranza che tale autovalutazione si riveli positiva. La ricerca empirica conferma d’altronde l’esistenza – e in modo abbastanza sistematico – di un’associazione positiva tra l’atteggiamento religioso e il bisogno di far buona impressione sugli altri o di rispondere in maniera conforme agli standard sociali38.

38 Cf. C. Sedikides, J. Gebauer, “Social Desirability and Religiosity: A Meta-Analytic Test of the Religiosity as Self-Enhancement Hypothesis”, in Personality and Social Psychology Review 14 (2010), in corso di stampa.

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La mia posizione a riguardo è la seguente. L’esercizio dell’umiltà è già difficile, in maniera generale, per ogni essere umano che si vuole umile. Infatti, come è possibile giungere all’umiltà senza andare a scuotere in qualche modo la stima di sé? Come è possibile riuscire in qualcosa nella vita senza sembrare nel contempo o uno che conta o un essere insignificante? E come è possibile concludere di essere in presenza dell’umiltà senza che ciò divenga fonte di orgoglio39? Ma tale esercizio diventa ancora più difficile quando si focalizza sulla lotta spirituale nel quadro della fede. Come è possibile giungere all’umiltà, cosa che richiede un lavoro minuzioso su di sé e un esame attento, quando lo scopo ultimo dell’esistenza del credente è quello di fare il bene a ogni costo, di essere perfetto e di assomigliare il più possibile a Dio? In altre parole, come è possibile evitare l’ipocrisia sottile del pubblicano quando lo scopo dell’esistenza stessa è raggiungere la perfezione divina40? In fondo siamo davanti al caso tipico del paradosso che, in più, nell’ambito della fede diviene un duplice legame: si ricevono dei messaggi contraddittori (sii umile; sii perfetto) e qualsiasi cosa si faccia, il rischio è quello di trovarsi bloccato. Come indica Giovanni Climaco, le stesse cose che generano l’umiltà possono generarne la perdita, cioè l’esaltazione41. La vanagloria e l’orgoglio, a differenza degli altri vizi, ricordano Casagrande e Vecchio, “non sono il risultato di un eccesso di malizia, ma si nutrono piuttosto dei progressi morali compiuti dal monaco”42.

39 Come dice Giovanni Climaco: “Quale dimostrazione più chiara della … passione [l’orgoglio] ci può dare qualcuno rispondendo: ‘Non sono superbo!’” (La scala 22,14, p. 315). 40 Antoine Vergote aveva sottolineato questo tipo di figura, cioè il fariseo che può nascondersi nel pubblicano, che non solo costituisce una negazione dell’obiettivo dell’umiltà, ma può rivestire inoltre una tonalità nevrotica per mezzo di un circolo vizioso di colpevolizzazione davanti all’ideale di perfezione impossibile da raggiungere (A. Vergote, Dette et désir: Deux axes chrétiens et la dérive pathologique, Paris 1978). 41 Cf. Giovanni Climaco, La scala 4,75, p. 149. 42 Cf. C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali, pp. 7-8.

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I meandri della falsa umiltà e qualche via per uscirne Sarebbe pretestuoso da parte nostra voler risolvere qui questo problema con il quale si è confrontata di continuo la spiritualità cristiana lungo la sua storia. Accettando però l’invito degli organizzatori del convegno ecumenico del Monastero di Bose di presentare una riflessione sui pericoli dell’ascesi, siamo costretti a cercare piste che possano permettere di uscire dalla prigionia del paradosso in questione. Per questo sia la spiritualità ascetica sia la psicologia contemporanea con i suoi lavori sul narcisismo, la stima di sé, l’umiltà e la modestia possono esserci di grande utilità, dal momento che ciascuno dei due tipi di fonte può gettare luce sull’altra. Un moderato decentramento da sé: l’umiltà è diversa dal narcisismo nascosto Gli psicologi che lavorano sul concetto di umiltà sottolineano quattro aspetti. Il primo è la necessità di dissociare l’umiltà dalla presenza di una stima di sé debole e vulnerabile (cosa che d’altronde può costituire una fonte latente di un narcisismo mascherato)43. Il secondo, di conseguenza, è che l’umiltà consiste in una corretta valutazione delle proprie capacità e realizzazioni come nella serena capacità di riconoscere i propri errori, limiti e debolezze. Il terzo è la necessità di non considerare l’umiltà solamente come assenza di narcisismo, assenza dunque di un sé grandioso o, più generalmente, assenza di un accentramento eccessivo su di sé. L’elemento chiave dell’umiltà sarebbe il decentramento da sé, cioè la focalizzazione relativamente bassa sul sé. Il quarto è ciò che permette l’apertura e l’apprezzamento 43

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Cf. F. Rhodewalt, B. Peterson, “Narcissism”.

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delle altre cose e persone esteriori al sé e l’apprezzamento del mondo in generale44. Sono queste le idee che ora svilupperemo. Si rivela così che una stima di sé moderata, né debole e vulnerabile, né smisuratamente elevata, è condizione necessaria per la salute psichica e il benessere e condizione importante per sentirsi sufficientemente solidi per intraprendere e realizzare dei progetti45. Invece, una stima di sé fragile e instabile si nasconde dietro il narcisismo e le sue due forme: l’instabilità e fragilità di una stima di sé apparentemente elevata nel caso del narcisismo manifesto, caratterizzato da un sé grandioso, e l’instabilità e fragilità di una stima di sé apparentemente bassa nel caso del narcisismo nascosto, mascherato, caratterizzato dall’ipersensibilità, dalla vulnerabilità, dall’ansietà, da una tendenza a tenersi in disparte e dalla timidezza/modestia apparente46. La stima di sé fragile e instabile (alta o bassa che sia) è l’elemento comune alle due forme di narcisismo; ed è la focalizzazione eccessiva su di sé che caratterizza anche il narcisismo mascherato attraverso la svalutazione eccessiva (per esempio: sono l’ultimo degli uomini; non faccio mai niente di buono; non avrò mai successo…). Questa seconda forma, il narcisismo nascosto, è ciò che ci interessa in maniera particolare, perché la falsa umiltà sembra spesso un tipo di figura di questo narcisismo. In altre parole, sembra che sia una corretta autovalutazione a contribuire all’umiltà e non all’esagerazione verso l’alto e verso il basso47. Gli imperativi, classici nella letteratura ascetica, di vincere l’orgoglio con la ricerca e l’accettazione felice delle umilia44 Cf. J. J. Exline, W. K. Campbell, R. F. Baumeister, T. Joiner, J. Krueger, L. V. Kachorek, “Humility and Modesty”; J. P. Tangney, “Humility”, in Handbook of Positive Psychology, a cura di C. R. Snyder e S. J. Lopez, London 2002, pp. 411-419. 45 Cf. J. K. Bosson, W. B. Swann jr., “Self-esteem”, in Handbook of Individual Differences in Social Behavior, a cura di M. R. Leary, R. H. Hoyle, New York 2009, pp. 527-547. 46 Cf. F. Rhodewalt, B. Peterson, “Narcissism”. 47 Cf. J. J. Exline, W. K. Campbell, R. F. Baumeister, T. Joiner, J. Krueger, L. V. Kachorek, “Humility and Modesty”; J. P. Tangney, “Humility”.

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zioni e con la pratica generalizzata dell’autoaccusa costante e persino assoluta (“sono l’ultimo dei peccatori”)48 oggi appaiono problematiche. Da una parte, possono condurre a una stima di sé debole, il che non è un segno di umiltà, né certo facilita il processo di maturazione della persona e mette la sua salute psichica in pericolo. Dall’altra, possono riflettere o condurre a un narcisismo nascosto. Ci sembra per questo che una lettura troppo letterale dei passi che lodano l’autoaccusa come via all’umiltà vada evitata. Un approccio più simbolico del messaggio antropologico sottostante sarebbe capace di integrare i dati della psicologia contemporanea. D’altronde, in Climaco troviamo un’eccellente allusione al carattere problematico dei sentimenti di vergogna, di collera e di umiliazione che possono testimoniare anche la presenza della vanagloria49. Acquisire la capacità di una corretta valutazione dei propri punti di forza e di debolezza, senza essere sedotto dai primi né atterrito dai secondi è altra cosa dalla virtù della magnanimità che alcuni, su influsso di Aristotele, hanno voluto proporre per evitare il rischio di comprendere l’umiltà come pusillanimità50. Non si tratta qui di essere necessariamente “fieri” dei successi giustificati51. Come diremo più approfonditamente nella sezione seguente, è possibile distinguere tra la corretta valutazione degli elementi positivi e la fierezza e anche l’orgoglio di ritenersene (l’unico) responsabile.

48 In Giovanni Climaco leggiamo che la vittoria sulla vanagloria passa per l’“amore delle umiliazioni” e “nel ricercare tutto ciò che può umiliarci in pubblico, senza provarne il minimo fastidio” (La scala 21,30, p. 310; cf. anche ibid. 4,34, p. 140), mentre la crescita della condanna di sé è un segno del ritorno all’umiltà (cf. ibid. 4,83, p. 150). Cf. anche ibid. 22,22; 25,7.35.41, pp. 316-317, 336, 343-344, 345. 49 Cf. Giovanni Climaco, La scala 21,18-19, pp. 306-307. 50 Per questa discussione nel medioevo, cf. C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali. 51 Per Aristotele “magnanimo è colui che si reputa degno di grandi cose, essendone effettivamente degno”, ibid., p. 13.

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Una moderata stima di sé implica di necessità il confronto sociale. Perciò la stima di sé si costruisce e si mantiene lungo l’intero sviluppo della persona52. Sembra difficile sfuggire a tale processo. Però vi è una differenza tra il confrontarsi con altri su questo o quell’aspetto dell’autovalutazione e il bisogno eccessivo del narcisista di essere approvato dagli altri53. Climaco ironizza sul monaco che insegue gli ospiti fingendo umiltà e altre virtù per ottenere il loro apprezzamento54 oppure che, mosso da vanità, ostenta le sue virtù davanti agli altri, con il pretesto della loro edificazione55, il che non è altro che un modo camuffato di ottenere il loro apprezzamento. Decentrarsi da sé non significa nemmeno abbandono di sé nel senso di fuga dalle proprie responsabilità in vista dello sguardo introspettivo che si deve avere su di sé. Una tale fuga non costruisce nemmeno l’umiltà e, di nuovo, può condurre all’illusione di aver fatto il necessario per acquisirla. Ricordiamo a questo proposito due atteggiamenti, che nella vita spirituale, se mal vissuti, possono condurre a tale fuga. Il primo è quello di prendere alla lettera l’importanza attribuita dai padri ascetici alla scelta di un bravo padre spirituale come criterio capitale di riuscita (altrimenti, come dice Climaco, si fa “naufragio”)56. Se scegliere un bravo padre spirituale e fargli obbedienza contribuisce evidentemente alla qualità della lotta spirituale, sarebbe tuttavia un controsenso pensare che l’umiltà si acquisisca come conseguenza automatica dell’obbedienza. Questo richiama un’altra problematica ben nota nella vita spirituale: si rivela il narcisismo latente, quando il credente o il monaco si inorgoglisce delle qualità del suo padre spirituale, il che mostra evidentemente una pseudoumiltà per introiezione. Cf. J. K. Bosson, W. B. Swann jr., “Self-esteem”. Cf. F. Rhodewalt, B. Peterson, “Narcissism”. 54 Cf. Giovanni Climaco, La scala 21,18, p. 306. 55 Cf. ibid. 21,28, p. 309. 56 Ibid. 4,7, p. 120. 52 53

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Una seconda tentazione di decentrarsi da sé venendo meno alle proprie responsabilità (e creando così l’illusione di un’umiltà sul vuoto) è quella di darsi in modo eccessivo alle opere buone, alle azioni pro-sociali, all’edificazione degli altri. Nel capitolo sulla vanagloria Climaco sottolinea il rischio che rappresenta per il monaco la tentazione di accettare incarichi che richiedano la responsabilità di altri, o di lasciare la comunità per salvare le anime57, o di ritenersi “luce davanti agli uomini perché vedano le [sue] opere buone!”58. Non perché, come possiamo immaginare, tali attività non abbiano valore quando sono il frutto di una motivazione altruista, ma perché possono anche essere il frutto di motivazioni egoistiche. Sembra che da questo punto di vista la volontà di edificare gli altri è particolarmente perniciosa in vista dell’umiltà. Possiamo trarre un esempio recente di ciò dal mondo ortodosso, vale a dire la confessione di fede che circola da qualche mese per raccogliere adesioni e che non è altro che una proclamazione di ostilità nei confronti dell’ecumenismo. Come spiegare altrimenti questa arroganza accusatoria verso tutti gli altri che pensano in modo diverso (poiché qui non si tratta di mettere in pericolo il benché minimo dogma, ma del grado di prossimità spirituale e di preghiera con gli altri cristiani) se non come un narcisismo che può essere sia manifesto (l’autosufficienza della mia percezione delle cose) sia mascherato (“stima di sé confessionale” fragile)? C’è anche un altro processo in cui il darsi ad atti pro-sociali non è in sé il risultato diretto del narcisismo ma un modo di compensare con il riconoscimento altrui una stima di sé debole. Infatti, alcune interessanti ricerche di psicologia dello sviluppo morale hanno rilevato che alcuni bambini e alcuni adolescenti con una stima di sé debole, dal carattere timido e privi di popolarità, si

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Cf. ibid. 21,16, p. 306. Ibid. 21,29, p. 310.

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rendono molto servizievoli, con una disponibilità senza condizioni; sono sempre pronti ad aiutare gli altri per guadagnare popolarità e accettazione tra i loro coetanei59. Infine un eccellente mezzo per realizzare questo decentramento da sé è l’apertura agli altri (sia alle cose del mondo sia alle persone). Antoine Vergote parla dell’umiltà come di quell’“attenzione carica di meraviglia” che ha qualcosa dell’infanzia, in modo autentico, senza divenire artificiale, ricercata60. Tangney61 indica come componente dell’umiltà il dare valore a ogni cosa e suggerisce che la chiave dell’umiltà non è propriamente il fatto di abbassarsi ma piuttosto di accrescere la nostra valutazione degli altri. Possiamo capire meglio così Giovanni Climaco quando scrive: La carità e l’umiltà formano una santa coppia: la prima innalza, e la seconda, sostenendo quelli che sono stati innalzati, non permette che cadano mai più62.

Le origini molteplici della vita psichica e spirituale o l’incertezza nel giudizio di sé In quest’ultima parte ci dedicheremo a un problema spinoso sollevato in precedenza: come effettuare un’autovalutazione serena che includa anche il corretto riconoscimento dei miei punti di forza senza divenire occasione di incremento dell’orgoglio? Affronteremo questo problema esaminando in parallelo le conoscenze e le concezioni proposte dalla psicologia e dall’an-

59 Cf. N. Eisenberg, R. A. Fabes, T. L. Spinrad, “Prosocial Development”, in Handbook of Child psychology III, pp. 646-718. 60 Cf. A. Vergote, “Une approche psychologique de l’humilité”. 61 Cf. J. P. Tangney, “Humility”. 62 Giovanni Climaco, La scala 25,36, p. 344.

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tropologia ascetica quando spiegano l’origine e la tipologia dei fattori che influenzano le nostre dimensioni caratteristiche. La ricerca contemporanea sui determinismi latenti a numerose strutture psicologiche, ricerca che utilizza una varietà di metodi (sperimentazione, studi longitudinali, genetica del comportamento, inchieste), ha evidenziato la coesistenza e interazione fra tre tipi di fattori che preannunciano le differenze tra gli individui: le predisposizioni genetiche, i fattori ambientali (che hanno una certa consistenza nel tempo; ad esempio l’ambiente familiare o il tipo di educazione ricevuta) e le esperienze e gli eventi unici che la persona conoscerà nel corso della sua vita. Perciò le differenze interindividuali a livello di realtà così diverse come la depressione o l’ottimismo, il conservatorismo o l’apertura di spirito, l’altruismo o l’aggressività, l’estroversione o l’introversione, l’intelligenza o la semplicità dell’intelletto, risultano nello stesso tempo da predisposizioni genetiche, da influenze ambientali e da esperienze uniche, come anche dalle interazioni possibili tra questi tre tipi di fattori63. Ciascuno di noi è dunque mosso dall’influenza di queste tre serie di fattori e dalla loro interazione. Ora, per ciascuna dimensione che ci caratterizza, per ciascun atto che compiamo, è possibile sapere con certezza se è dovuto ad altre persone o fattori (influenze genetiche, influenze dell’ambiente stesso) o a noi stessi, cioè al modo con cui abbiamo reagito e interagito con queste influenze? In altre parole, siamo assolutamente sicuri che possiamo o dobbiamo essere ogni volta fieri di ciò che potrebbe essere merito nostro o provar vergogna di ciò che potrebbe essere nostra colpa? O ancora, che dobbiamo e possiamo, a seconda dei casi, essere debitori nei confronti degli altri di ciò che ci è offerto o avercela con loro per il male che ci possono aver fatto? O,

63 Cf. Handbook of personality. Theory and Research, a cura di O. P. John, R. W. Robins e L. A. Pervin, New York 2008.

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infine, possiamo attribuire con certezza ciò che facciamo o ciò che ci capita a dei fattori terzi come le predisposizioni genetiche o il contesto socio-storico o socio-economico? Sembra veramente difficile poter essere certi di ciò che si debba attribuire a se stessi, agli altri, o a dei fattori terzi sia in maniera generale (ad esempio per l’insieme della nostra vita) sia in maniera specifica (in rapporto a un evento o a una dimensione precisa). Cerchiamo evidentemente ogni volta di fare una valutazione più o meno corretta di ciò che costituisce le nostre “prestazioni” in una serie di campi; o con più esattezza di dar loro una qualifica positiva o negativa secondo alcuni criteri. È importante coltivare questa conoscenza riflessiva di se stessi per progredire, cambiare, correggere, migliorare, in una parola crescere. Ma, propriamente parlando, non possiamo essere fieri o provar vergogna di qualcosa di cui non si domina l’origine e la cui causa non si sa attribuire con certezza. Questa riflessione può condurre a due osservazioni interessanti. Da una parte, è necessario sviluppare una conoscenza riflessiva e “oggettivante” di sé (capacità, forze, limiti, affinità), una conoscenza che si costruisce per forza di cose nel confronto sociale. Non esiste un’autovalutazione di sé stessi estroversa o intelligente in assoluto; avviene sempre mediante il confronto con altri. Dall’altra parte c’è anche da sviluppare una sapienza, quella di non arrischiarsi troppo ad attribuirci qualcosa di cui ci sentiamo più o meno fieri, la cui origine è incerta. Questa conoscenza serena di sé, precisa nella valutazione, incerta nelle attribuzioni, sarebbe un modo moderno di rispondere al paradosso etico e al problema spirituale seguente: come è possibile giungere a una corretta autopercezione, necessaria per lo sviluppo, il benessere e la maturità della persona evitando la Scilla del narcisismo (compresa la falsa umiltà) e la Cariddi della dimissione dalle proprie responsabilità attraverso un rifiuto totale di sé come oggetto di autovalutazione? Questa sapienza potrebbe caratterizzare non solo la spiritualità cristiana ma quella del credente in generale, e anche una spiritualità laica. 159

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L’antropologia patristica e ascetica propone un simile atteggiamento partendo, a mio avviso, da un altro schema di classificazione delle influenze che si esercitano sullo psichismo umano. Quanto accade nella vita psichica e spirituale, sia di positivo (un evento straordinario, uno stato emotivo positivo, i segni esterni di una virtù) sia di negativo (un evento o uno stato negativo, che può indicare l’assenza di una virtù) può avere diverse origini e, in particolare, tre principali: divina, umana o demoniaca. Nella letteratura ascetica esiste tutto uno sviluppo dei criteri che potrebbero aiutare a esercitare un discernimento su questi tipi di origine, ma con tutte le ambiguità, precauzioni e incertezze che s’impongono. Ad esempio, uno stato emotivo negativo il giorno successivo a un sogno è segno dell’origine demoniaca del sogno o è dovuto ai cattivi pensieri del giorno precedente che hanno influenzato questo genere di sogno64? Non stiamo dicendo di credere all’esistenza di un parallelismo a livello di contenuto fra i tre tipi di fattori indicativi delle realtà psicologiche (influenze genetiche, ambientali e situazionali) e i tre tipi di fonte degli eventi nella vita spirituale (divina, umana e demoniaca). Notiamo tuttavia che l’origine umana rinvia alla responsabilità umana di cui si è detto prima, cioè il caso dell’uomo che interagisce con le influenze esterne. Il parallelismo si colloca piuttosto a livello della dinamica che risulta da questi schemi classificatori. Da entrambi i lati, antropologia ascetica e psicologia, l’introduzione dell’idea che le influenze sulla nostra vita psichica e spirituale sono di origine molteplice e che è difficile, se non impossibile, poterle identificare con certezza, contribuisce a evitare i rischi del narcisismo, della falsa umiltà

64 Cf. F. Refoulé, “Rêves et vie spirituelle d’après Evagre le Pontique”, in Supplément de la Vie Spirituelle, 14 (1961), pp. 470-516; V. Saroglou, Rêve et spiritualité chez Jean Climaque, tesi di laurea sostenuta alla Facoltà di teologia dell’Università di Lovanio nel 1992.

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e della negazione di sé, permettendo di praticare con serenità l’autovalutazione necessaria per il progresso personale. Come ricordato nella sezione precedente, tra i padri ascetici, compreso Giovanni Climaco, troviamo talora espressioni della negazione di sé che vanno nella direzione problematica della cancellazione e mortificazione della volontà propria, del proprio giudizio e del sé nella sua globalità in quanto oggetto del giudizio. Vi si trovano anche alcune descrizioni dell’obbedienza che rendono sospettoso colui che cerca di discernere i segni o i pericoli della falsa umiltà e che rischiano di essere prese come escludenti la necessità di un corretto autoapprezzamento. Così l’obbedienza diviene “rinuncia al discernimento” e “tomba della volontà” in vista della “resurrezione dell’umiltà”65. Eppure, altre prospettive offerte da Climaco ci sembrano in sintonia con la comprensione contemporanea dell’umiltà come un giusto (de-)centramento in rapporto a sé. Nella Scala, umiltà non è negare o non essere consapevoli dei carismi e dei doni naturali. Si tratta piuttosto di non inorgoglirsene, percependoli come dovuti ai propri meriti, ma considerarli provenienti da Dio. Climaco descrive come vanitoso chi s’insuperbisce dei propri doni naturali, per esempio della propria intelligenza, della propria facilità di apprendimento, delle proprie capacità di lettura e di espressione, del proprio ingegno, e di altre cose simili66.

Con ironia, il padre sinaita dice che si può essere fieri dei meriti personali e delle virtù che si sono acquisiti al di fuori del proprio intelletto e del proprio corpo, cosa che è evidentemente impossibile, poiché se vi è l’aiuto dell’intelletto e del corpo, allora

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Giovanni Climaco, La scala 4,4, p. 118. Ibid. 21,24, p. 308.

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si è debitori a Dio67. D’altronde, la vanagloria assale più facilmente, dice Climaco, chi ha dei doni naturali68. Un modo per consolidare il lavoro sull’umiltà è non essere mai certi se ciò che ci capita, comprese le realtà buone, proviene da Dio o da Satana o è frutto specifico di nostre attività. Il più alto grado di umiltà per Climaco è la “sfiducia nelle proprie opere buone”69. Notiamo che la stessa incertezza si applica alle cose cattive, il che permette di evitare di cadere in un colpevolismo eccessivo70. Evidentemente, ciò facilita l’umiltà quando non siamo consapevoli delle nostre virtù: “Dio spesso nasconde ai nostri occhi anche le virtù che possediamo”71. Questo ci fa pensare a un’altra analogia. Spesso – soprattutto nel mondo universitario a proposito dell’uno o dell’altro collega – si dice: “È intelligente e sa di esserlo”. Una forma di umiltà, forse la più facile, è quando si può dire di noi: “È umile e non lo sa”. Al contrario, possiamo citare come la forma più perversa di falsa umiltà, quello che potremmo chiamare “meta-falsa umiltà”. Infatti, Climaco, non senza una certa ironia, evoca colui che “si accusa di vanagloria di fronte agli altri, e accusandosi va in cerca di gloria”72.

Conclusione Alla fine di questo percorso preferiamo seguire quegli autori della letteratura spirituale che non vedono motivo di distinCf. ibid. 22,16, p. 315. Cf. ibid. 21,24, p. 308. 69 Ibid. 25,8, p. 337. 70 Le polluzioni notturne sono causate dagli alimenti, dall’orgoglio, dal giudizio negativo degli altri o, in assenza di tali cause, sono semplicemente segno di impassibilità (cf. ibid 15,53, pp. 265-266). 71 Ibid. 21,8, p. 305. 72 Ibid. 17,3, p. 288. 67 68

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guere tra vanagloria e orgoglio o, sul versante positivo, tra modestia e umiltà. La problematica del mio giusto posto nel mondo, nel quadro della spiritualità, unifica le due dimensioni dell’esistenza, cioè il rapporto riflessivo che ho con me stesso e le relazioni che ho con gli altri, e nel caso della fede religiosa, con Dio in particolare. L’assenza di narcisismo si trova già nel giusto spazio tra il non focalizzarsi troppo su di sé (anche per l’autocritica) e il fare totale astrazione di sé. Si evita così sia il narcisismo esplicito e arrogante (vedi l’“élite” spirituale che si trasforma in giudice dell’ecumene) sia il narcisismo mascherato della falsa umiltà. Si evita così sia l’ipertrofia della stima di sé, sia la stima di sé debole che rischia di condurre a una soluzione per introiezione (identificarsi con la reputazione del padre spirituale), una cancellazione del sé e delle proprie responsabilità (con la pratica di un’obbedienza deresponsabilizzante), o la necessità di compensare con una disponibilità senza condizioni ma non libera nel servizio degli altri. Una corretta autopercezione delle proprie forze e debolezze fa altrettanto parte di una sana stima di sé. Oltre all’assenza di narcisismo, l’umiltà include un’altra componente, l’apertura a possibilità molteplici e più ampie su ciò che ci caratterizza o che ci capita, il che esclude l’orgoglio, data l’incertezza nell’attribuzione delle cause. Questa apertura si traduce nel riconoscimento e nell’ammirazione degli altri e di tutto ciò che appartiene alla creazione e si trasforma in gratitudine verso gli altri e, nel caso della fede religiosa, nei confronti di Dio per ciò che ci è stato offerto.

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SOSTENTATI DA DIO: BARSANUFIO E GIOVANNI DI GAZA SULL’INGORDIGIA John Chryssavghis*

Nella considerevole corrispondenza spirituale tra Barsanufio e Giovanni, “l’altro anziano” di Gaza, abba Giovanni, ribadisce l’ingiunzione apostolica secondo cui il regno dei cieli non è questione di cibo: Con tutta umiltà esortali dicendo: l’Apostolo ha detto: “Chi mangia non disprezzi chi non mangia; … chi non mangia non giudichi chi mangia …” (Rm 14,3-6). Così ambedue sono stimati presso Dio perché agiscono, ciascuno per parte sua, a gloria di Dio … Poiché l’Apostolo dice: “Il regno dei cieli non è cibo e bevanda, ma è carità e cuore puro” (Rm 14,17; 1Tm 1,5)1.

Altrove, abba Giovanni conclude: “Non astenerti [dal cibo] subito, ma contrasta il pensiero”2. * Teologo ortodosso, ha insegnato teologia all’Istituto teologico Holy Cross di Boston e attualmente è consulente del Patriarcato ecumenico per le questioni ambientali. Traduzione dall’originale inglese. 1 Giovanni e Barsanufio di Gaza, Lettere 584, in Id., Epistolario, a cura di F. T. Lovato e L. Mortari, Roma 1991, pp. 471-472. Cf. anche Lettere 607, pp. 490-495. 2 Ibid. 162, p. 216.

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Introduzione: non è questione di cibo Per molte persone oggi il cibo è divenuto un nemico3; ma per il monaco medievale affetto dall’ingordigia si trattava di un altro tipo di nemico. Nella nostra epoca, abbiamo demonizzato il cibo in una vana ricerca di benessere materiale, di controllo emotivo e di abilità fisica; la lotta contro la tentazione è combattuta nei centri di benessere o con le diete per perdere peso, e non nel cuore o nella mente. Nei secoli passati, l’ingordigia era considerata una conseguenza dell’auto-idolatria o dell’irriverenza nei confronti di Dio4, oggi invece è percepita come una dimensione dell’auto-ammirazione o della mancanza di cura di se stessi. Tuttavia, nonostante questo approccio profano alla vita, è sorprendente osservare come il nostro rapporto con il cibo sia ancora facilmente tradotto in un linguaggio del peccato e del pentimento: così diciamo “sbagliato” il mangiare troppo, definiamo “peccaminosamente deliziosi” e perfino “tentatori” i cibi raffinati, e affermiamo che il piacere nel prendere cibo crea “colpa” o causa “rimorso”. I grandi anziani del deserto di Gaza vissuti nel vi secolo, Barsanufio e Giovanni, testimoniano chiaramente la guerra permanente e persistente che deve essere combattuta contro il vizio dell’ingordigia: “Quando ti combatte la passione dell’ingordigia, lotta quanto puoi secondo Dio per non dare al corpo ciò che desidera”5. “Quanto alla golosità, lotta come puoi”6. Pare che lungo i secoli la nozione di ingordigia sia evoluta insieme ai nostri concetti di corpo e di cibo, società e individuo, 3 Il titolo di questo paragrafo è tratto da un libro sui disordini nel mangiare: C. E. Normandi, L. Roark, It’s Not About the Food, New York 1998. 4 Per un approccio socio-culturale alla tentazione, si veda S. M. Lyman, The Seven Deadly Sins: Society and Evil, New York 1978. 5 Giovanni e Barsanufio di Gaza, Lettere 502, p. 424. 6 Ibid. 328, p. 322.

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Sostentati da Dio: Barsanufio e Giovanni di Gaza …

salute e santità. Tuttavia, per quanto si lodi o si condanni questo peccato che seduce, esso rimane in definitiva lo specchio in cui vediamo in maniera distinta un’immagine riflessa di noi stessi e delle nostre paure, delle nostre passioni e dei nostri pregiudizi, dei nostri sogni più oscuri e dei nostri desideri più reconditi. Infatti la nostra attuale fascinazione per questo peccato – insieme alla nostra lotta per dominarla o estinguerla – è altrettanto rivelatrice delle nostre aspirazioni spirituali quanto del nostro desiderio infinito di definire la natura umana, dal momento che la nostra lotta con il cibo è, in ultima analisi, una questione metafisica. Se, come afferma Ludwig Feuerbach (1804-1872), “noi siamo ciò che mangiamo”7, allora ciò che noi crediamo riguardo al cibo rivela la nostra percezione di ciò che siamo e di ciò che vogliamo diventare, del bisogno del nostro corpo e, al di sopra e al di là di ogni altra cosa, della nostra fame spirituale. Il mio intervento si concentra sulla lotta per riconoscere il nostro comportamento ingordo guardando nello specchio, confrontando cioè i nostri desideri e le nostre passioni, facendo le dovute scelte in quei comportamenti cui dobbiamo rinunciare, e sostituendoli con una condotta altruistica, ascetica che mostri rispetto per gli altri. Solo così saremo sufficientemente aperti e vuoti per essere riempiti dall’amore di Dio e per fare, umilmente, scelte secondo la sua volontà.

7 È il titolo di un’opera di Ludwig Feuerbach, pubblicata nel 1862, Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia (l’espressione tedesca “der Mensch ist was er isst”, cioè “l’uomo è ciò che mangia” contiene un gioco di parole intraducibile in italiano).

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Guardare nello specchio: il volto dell’ingordigia Come appare l’ingordigia? Innanzitutto, come avrebbe detto Orson Wells, “l’ingordigia non è un vizio segreto!”; inoltre l’ingordigia non ha un solo ambito di azione. Secondo abba Giovanni la misura della temperanza non vale solo in queste cose [relative al cibo], ma anche nel parlare e nel dormire, nel vestirsi e nell’uso di tutti i sensi8.

A questo proposito, dunque, si potrebbe parlare di diverse forme di ingordigia “visibile”: vi è il più appariscente tra i vizi che è il mangiare in eccesso, cioè l’ingordigia di riempire lo stomaco; il vizio dell’attività compulsiva, cioè l’ingordigia del riempire il tempo; e il vizio del collezionare oggetti, cioè l’ingordigia del riempire lo spazio. Ciascuna di queste forme di ingordigia è un mezzo per andare incontro a bisogni specifici, in definitiva un modo per evitare un autentico incontro con il proprio bisogno e la propria sete più vitali, che nient’altro può saziare all’infuori dell’“acqua viva che zampilla per la vita eterna” (Gv 4,14). Nel ii secolo, Clemente di Alessandria metteva in guardia contro il cibo eccessivo basandosi sia su fondamenti medici che morali9. Per Clemente, gli ingordi affogano in mezzo ai pasticcini, ai dolci di miele e ai dessert10! Ma la definizione più esauriente dell’ingordigia (gastrimarghía) è stata forse data dal diacono di Giovanni Crisostomo, Evagrio Pontico, che osservava un regime ascetico severo:

Giovanni e Barsanufio di Gaza, Lettere 155, p. 213. Cf. Clemente di Alessandria, Stromati II,20,120-126 a cura di G. Pini, Milano 2006, pp. 274-278. 10 Ibid. II,20,119-120, pp. 273-274. 8

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L’ingordigia è madre della lussuria, alimento dei pensieri con le chiacchiere, rilassamento del digiuno, freno all’ascesi, spavento davanti alle questioni morali, fantasia di cibi, immaginazione di condimenti, una bestia bizzarra, una sfrenata mania, ricettacolo di malattia, invidia della salute, strozzatura della gola, spasmo delle viscere, termine di offese, iniziazione alla fornicazione, lordura dell’intelletto, fiacchezza del corpo, sonno pesante, triste morte11.

Dal momento che si pongono in questo, come in molti altri dettagli della vita ascetica, sulla scia di Evagrio Pontico, Barsanufio e Giovanni collocano l’ingordigia all’inizio della loro lista di vizi12. Una ragione dell’importanza accordata alla vigilanza e alla lotta contro questo vizio è la teoria o l’accusa secondo cui l’ingordigia indebolisce generalmente la moralità umana, aprendo la strada ad altre e più gravi tentazioni. Infatti l’ingordigia è considerata, per un certo verso, più di una semplice causa di peccato, essendo percepita come il peccato “originale”, ciò che condusse alla “caduta di Adamo”! Geoffrey Chaucer ha riassunto questo poeticamente: O ingordigia, piena di maledizione, causa della nostra rovina originale, radice della nostra dannazione13.

11 Evagrio Pontico, A Eulogio. I vizi opposti alle virtù, a cura di L. Coco, Cinisello Balsamo 2006, p. 127. Cf. T. Shaw, The Burden of the Flesh: Fasting and Sexuality in Early Christianity, Minneapolis Mn 1998; P. Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nel primo cristianesimo, Torino 1992. 12 Cf. Giovanni e Barsanufio di Gaza, Meditazione sulla lettera eta, in Barsanuphe et Jean de Gaza, Correspondance, a cura di L. Regnault , Ph. Lemaire e B. Outtier, Solesmes 1971, p. 123. 13 Cf. G. Chaucer,“The Pardoner’s Tale” (“Il racconto dell’indulgenziere”), in Id., The Canterbury Tales, a cura di H. Cooper, Oxford 1996.

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Comunque l’ingordigia è certamente secondaria, se non accidentale rispetto alla “caduta di Adamo”: interpretare il peccato originale come ingordigia significa chiaramente non capire il vero senso della storia raccontata dalla Genesi; se Adamo ed Eva fossero stati veramente ingordi avrebbero divorato l’albero intero! Platone ha scritto nel Timeo che l’ingordigia può costituire una distrazione da preoccupazioni elevate: Coloro che composero la nostra stirpe … allo scopo di contenere il superfluo della bevanda e del cibo, posero come ricettacolo di essi quello che si chiama basso ventre e avvolsero a spirale gli intestini, affinché il nutrimento, passando rapidamente, non spingesse il corpo a richiedere di nuovo subito dell’altro nutrimento14.

Inoltre per Filone di Alessandria, che certamente conosceva il Timeo, l’ingordigia era la principale pietra d’inciampo sulla via verso la santità, una vera e propria ossessione e, come diretta conseguenza, la principale causa della lascivia; per Filone, dunque, la comunità ascetica ideale è fatta di vegetariani e di celibi15. All’inizio del iii secolo Tertulliano propose addirittura una stretta connessione tra le due trasgressioni sorelle, ingordigia e concupiscenza, che nel secolo successivo Girolamo, nella sua propaganda ascetica, trasmise ai posteri attraverso un’immagine efficace:

14 Platone, Timeo 72E-73A, in Id., Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano 2000, p. 1395. 15 Cf. Filone di Alessandria, La vita contemplativa 34-35, a cura di P. Graffigna, Genova 1992, pp. 53-55.

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Queste due sono così strettamente unite che, se ci fosse stata mai qualche possibilità di separarle, i genitali non sarebbero stati fissati all’addome16.

Abba Barsanufio propone un collegamento simile: “Poiché non posso tacere, dico come la penso: … i cibi sono vietati per la sazietà e per i sussulti del corpo”17. Questo collegamento tra ingordigia e concupiscenza è quasi del tutto scomparso nella psiche moderna, che lo respinge quale rimasuglio di una ristrettezza di vedute medievale. Nelle sue Lettere di Berlicche, Clive Staples Lewis afferma che la “principale utilità [dell’eccesso nel cibo] è di essere una specie di preparazione d’artiglieria per gli attacchi contro la castità”18. Nell’Inferno di Dante, in effetti, i golosi sono relegati nel terzo girone dell’inferno, in una sfera più bassa e in un destino più orribile rispetto a quello riservato ai lussuriosi, giacché hanno scelto di adorare se stessi, mentre i lussuriosi hanno almeno rivolto la loro attenzione adorante gli uni verso gli altri19. A quanto pare, dunque, fra tutti i vizi l’ingordigia gode della storia più affascinante e paradossale, essendo considerata la forma suprema dell’idolatria e la forma più estrema di devozione materialistica. Dai tempi biblici, infatti, la principale obiezione mossa all’ingordigia è quella di distogliere la nostra attenzione dalle “cose sante” (dove dovrebbe dimorare la mente) e di dirigerla alle “cose terrene” (che la mente dovrebbe evitare), le quali diventano così un sostituto di Dio; secondo la severa am16 Tertulliano, Sul digiuno contro gli psichici I,1, in Tertulliani Opera Pars II, a cura di A. Reifferscheid e G. Wissowa, CCSL 2, Turnholt 1954, p. 1257; Girolamo, Lettere 54,9, in Jérôme, Lettres III, a cura di J. Labourt, Paris 1953, pp. 31-33; cf. anche Agostino, Confessioni 10,31,43-44, in Id., Confessioni. Libri X-XI, a cura di M. Simonetti, Roma 1996, pp. 65-67. 17 Giovanni e Barsanufio di Gaza, Lettere 510, p. 428. 18 C. S. Lewis, Le lettere di Berlicche, Milano 1957, p. 104. 19 Cf. D. Alighieri, La divina commedia. Inferno VI.

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monizione dell’apostolo Paolo ai cristiani di Filippi: “Il ventre è il loro dio” (Fil 3,19; cf. Rm 16,17).

Immagine e somiglianza divine: il potere della scelta Il problema, comunque, non è il cibo in quanto tale; è piuttosto il desiderio disordinato di cibo, cioè la brama potente e complessa che si frappone tra la nostra anima e il nostro Dio e ci distrae dall’amore per Dio e dalla nostra dedizione a Dio. Tale desiderio e tale distrazione derivano dal potere della scelta umana, dal dono divino della volontà, essendo creati “a immagine e somiglianza di Dio” (Gen 1,26). Infatti, in tutto l’intenso dibattito del monachesimo primitivo sulla natura del libero arbitrio e sulla sua relazione con la grazia divina, nessuno sembra aver messo in dubbio che anche l’ingordo aveva una possibilità di scelta nel momento in cui è posto di fronte alla questione di cosa mangiare, quando e quanto. Il problema non era tanto il fatto che il monaco mangiasse, ma piuttosto che il monaco facesse scelte sbagliate. Abba Giovanni ci assicura che nessun cibo è dannoso, se non quando è consumato con passione: Se Dio ha santificato tutte le cose e le ha purificate perché i fedeli vi partecipino, bisogna prendere parte con rendimento di grazie alle cose che ci presentano, senza fare discriminazioni20.

La letteratura monastica antica è preoccupata più di cosa il monaco sceglieva che di ciò che il monaco mangiava. Così, per

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Giovanni e Barsanufio di Gaza, Lettere 526, p. 437.

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abba Giovanni, il desiderio – cioè la pulsione della scelta e non della natura – è il servo dell’ingordigia: Un fratello domandò al medesimo anziano: “Padre, che cosa significa prendere cibo per avidità e non per natura?”. Risposta: “Per avidità significa bramare di prendere cibo non per necessità del corpo, ma per golosità … Bramare invece e agognare cibo, questa è l’avidità serva della golosità. Fa’ attenzione quando la passione della golosità ti sopraffà e domina il tuo pensiero. Se dunque la contrasti e fai uso ben ordinato del cibo secondo il bisogno, questo non è golosità”21.

Di conseguenza tutti i sapienti e anziani dell’antichità disapprovarono gli eccessi dell’ingordigia22. Molti di loro descriverebbero il loro rapporto con il cibo come una feroce battaglia, durata tutta la vita, per la scelta e il controllo. In questo senso, come battaglia per il potere, l’ingordigia potrebbe portare indubbiamente al male; di fatto è stata l’origine di tutti i mali. Perfino Dio previde questo contemplando la creazione di Adamo. Quindi, per gli anziani di Gaza come per tutta la tradizione del deserto, l’ingordigia deve essere recisa alla radice!

La via della rinuncia: spogliazione e abbandono La necessità di una grande vigilanza, già presente nella letteratura monastica antica, è ribadita da abba Giovanni il Profeta: Ibid. 161, pp. 215-216. Cf. V. Grimm, From Feasting to Fasting, The Evolution of a Sin: Attitudes to Food in Late Antiquity, London 1995; R. D. Chatham, Fasting: A Biblical-Historical Study, South Plainfield Nj 1987. Per un’affascinante analisi storica e culturale dell’ingordigia, si veda F. Prose, Gluttony, New York 2003. 21 22

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È necessaria molta vigilanza … Se [la schiavitù delle passioni] trascina la tua mente verso l’ingordigia, tu conducila verso l’ascesi23.

La disgrazia dell’ingordigia fu che la strutturazione di vizi e virtù coincise con il fiorire del monachesimo, il quale comprese l’insidioso inganno di questa particolare tentazione24. Per Giovanni Climaco l’ingordigia e la concupiscenza stanno a metà, cioè al cuore, della scala dell’ascesa verso il paradiso25. I monaci credevano che l’ingordigia parlasse un proprio linguaggio, facendo uso di una grammatica e un vocabolario propri; un linguaggio percepito, tuttavia, in maniera spesso confusa e contrastante. Per questo è utile decifrare attentamente i suoni emessi dall’ingordigia, al fine di discernere il linguaggio della santità. Nella grammatica dell’ascesi, la prima regola è la rinuncia: chi conosce anche minimamente la vita degli asceti sa che il primo gradino nella scala dell’ascesi è indubbiamente la rinuncia. L’astinenza o rinuncia è il metodo fondamentale usato da Antonio, padre dei monaci in Egitto, per imparare a ricordare di avere “sempre davanti agli occhi il timore di Dio”26. Nel deserto tutto è questione di distacco, è questione di abbandono: custodire il silenzio significa lasciare la sicurezza fornita dalle parole, digiunare è rinunciare alla dipendenza dalle risorse terrene, e affidarsi alla paternità spirituale significa rinunciare a contare soltanto su se stessi. Ci sono naturalmente diverse tappe nel cammino della rinuncia, così come vi sono diversi gradini nella scala della vita spi-

Giovanni e Barsanufio di Gaza, Lettere 87, p. 158. Cf. ad esempio R. Bell, La santa anoressia: digiuno e misticismo dal medioevo a oggi, Roma 2002. 25 Cf. i gradini 14 (sull’ingordigia) e 15 (sulla concupiscenza), che stanno nel mezzo dei trenta gradini totali della sua opera. 26 Detti dei padri, Serie alfabetica, Antonio 33, in Vita e detti dei padri del deserto I, a cura di L. Mortari, Roma 1975, p. 92. 23

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rituale27. Dovremmo forse considerare la rinuncia non tanto come la prima tappa, ma piuttosto come una serie di tappe di perfezionamento, dal momento che vi sono diverse rinunce successive attraverso cui si passa nel deserto. Una della forme più tangibili di tale rinuncia o perfezionamento è la lotta contro l’ingordigia. Il primo passo o il principio della rinuncia è imparare ad abbandonare o a diventare progressivamente distaccati, come afferma abba Giovanni nel testo seguente: Domanda: “Dato che in ogni cibo c’è una certa dolcezza naturale, non porta danno a chi lo prende?”. Risposta: “Il Dio sovrano ha disposto tale dolcezza in ogni cibo e non c’è danno per chi lo assume con rendimento di grazie (cf. 1Tm 4,4), ma bisogna guardarsi sempre dall’attaccamento passionale; questo sì è il danno dell’anima”28.

E questo è precisamente ciò che dovrebbe avvenire nella vita spirituale, dal momento che siamo obbligati a lasciare ciò che pensiamo di volere o di cui crediamo di aver bisogno, al fine di acquisire qualcosa di più grande, qualcosa che amiamo. Si tratta del processo doloroso ma cruciale di dire addio a certe cose o a certe abitudini al fine di imparare altro, ciò che davvero conta. Per aprirsi a una nuova prospettiva ci si deve necessariamente liberare da o morire alle vecchie abitudini. Abba Giovanni dice ancora: Abbiamo abbandonato l’Apostolo che dice: “Ogni ira e furore e bestemmia sia tolto da voi insieme a ogni malizia” (Ef

27 La scala del paradiso è il titolo dell’opera monastica scritta da Giovanni Climaco nel vii secolo. Per una traduzione italiana si veda Giovanni Climaco, La scala, a cura di L. d’Ayala Valva, Bose 2005. 28 Giovanni e Barsanufio di Gaza, Lettere 773, p. 564.

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4,31), e io aggiungo: insieme all’ingordigia … perché possiamo divenire da sporchi puri, da peccatori giusti, da morti viventi29.

La via della moderazione: il perfezionamento ascetico Come si è già detto, la fame dell’ingordigia può assumere forme diverse: mangiare in eccesso può manifestarsi come parlare in eccesso, reagire in maniera eccessiva, giudicare con troppa facilità, nascondere troppe cose, agire in modo eccessivo, agire guardando troppo all’efficacia, consumare in eccesso … Possiamo “rimpinzarci” di parole e non soltanto di cibi! Possiamo “consumare in eccesso” le nostre emozioni e non soltanto i dolci! Possiamo “ingoiare”, reprimendoli, i bisogni di altre persone e non soltanto l’equa condivisione delle nostre sostanze. Così la risposta dell’ascesi all’ingordigia è in definitiva una via di autentica liberazione e comunione, perché l’asceta liberato, cioè colui che ha lottato contro l’ingordigia e l’ha vinta, è una persona libera, non dominata da atteggiamenti violenti, non mossa da modi di fare incontrollati. L’asceta è caratterizzato da autocontrollo, autolimitazione e dalla capacità di dire “no” oppure “basta”. L’ascesi, dunque, mira alla moderazione in ogni cosa, compreso il cibo e le bevande30. Gli anziani di Gaza non erano, in modo ossessivo, a favore o contrari al cibo. Certamente un cibo succulento è cosa buona, il cibo è un dono elargito da Dio31, e la preparazione del cibo Ibid. 604, p. 485. Cf. Aristotele, Etica nicomachea 7, a cura di C. Mazzarelli, Milano 2000, pp. 257-297. 31 Cf. Giovanni e Barsanufio di Gaza, Lettere 338, p. 327. 29

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deve essere fatta “bene” e con grande cura32. Alcuni padri della chiesa hanno addirittura identificato Cristo con il cibo, con la manna dal cielo (cf. Es 6,15)33. Gesù stesso operò il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci che saziò una folla affamata (cf. Mt 14,13-21 e par.). Risposta del medesimo grande anziano allo stesso Andrea; poiché gli era stato seminato il pensiero che la non astinenza dai cibi gli potesse impedire di ottenere le promesse ricevute: “Non è perché io non tenga in alcun conto astinenza e disciplina, che dico sempre alla tua carità di fare ciò che giova al corpo come esso lo richiede – non sia mai! – … Perciò il Signore ha detto: ‘Non ciò che entra nella bocca corrompe l’uomo, ma ciò che esce dalla bocca’ (Mt 15,11) … Dunque, il tuo pensiero, o piuttosto il Maligno, non ti tenti con il timore che i cibi del corpo ti impediscano di raggiungere le promesse”34.

Ciò che il cristiano introduce nel suo stomaco conta meno dei pensieri albergati nel suo cuore. Secondo Barsanufio e Giovanni la moderazione è una soluzione decisiva per preservarsi dall’ingordigia: Per chi è in buona salute e vuole essere temperante, basta un bicchiere [di vino] al giorno, senza prenderne di più. Se ha frequenti malattie, ne prenda due interi. E così per il cibo cotto: deve averne una scodella e non preoccuparsene35.

Cf. ibid. 489, p. 415. Cf. Giovanni Crisostomo, Omelie sul vangelo di Giovanni 45,1, a cura di A. Del Zanna, Roma 1970, pp. 141-144; si veda anche la preghiera della Prothesis (preparazione) per la Divina liturgia. 34 Giovanni e Barsanufio di Gaza, Lettere 120, p. 186. 35 Ibid. 159, p. 215. 32

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Ciò è particolarmente significativo in caso di malattia, nei confronti della quale gli anziani di Gaza rivelano un profondo senso di discernimento e una grande compassione36. Per abba Giovanni, come abbiamo già visto, è necessario distinguere tra prendere cibo “secondo la propria disposizione naturale” (o “per il bisogno del corpo”) e mangiare “secondo il proprio desiderio” (o “per ingordigia”). Giovanni raccomanda moderazione in ogni cosa: Fa’ attenzione quando la passione della golosità ti sopraffà e domina il tuo pensiero. Se dunque la contrasti e fai uso ben ordinato del cibo secondo il bisogno, questo non è golosità37.

Il criterio della moderazione è mangiare “un po’ meno”, il che significa, in definitiva, avere ancora un po’ di fame. Abba Barsanufio dice: “Essere temperanti è alzarsi da tavola un po’ meno che sazi”38. E abba Giovanni concorda, come al solito, dicendo: I padri dicono, quanto alla misura della temperanza, che, sia per il mangiare che per il bere, bisogna restare un po’ al di sotto, cioè non avere mai pieno il ventre. Bisogna calcolare la quantità dei cibi cotti e del vino: d’inverno non si beve molto, e in proporzione a questo bisogna stare un po’ al di sotto, e ugualmente nel mangiare39. Non prenda [cibo] a sazietà ma un pochino, perché se uno ne prende a sazietà è danneggiato anche da quello che giova40. Cf. ibid. 512, pp. 429-430. Ibid. 161, pp. 215-216. 38 Ibid. 154, pp. 212-213. Cf. Isaia di Scete, Discorso ascetico 4, in Isaia di Gaza, Ascetikon, s.l. 1998, pp. 61-81. 39 Giovanni e Barsanufio di Gaza, Lettere 155, p. 213. Cf. anche Lettere 156 e 212. 40 Ibid. 530, p. 438. 36 37

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L’altro: non si tratta soltanto di te Potrebbe sembrare che l’ingordigia sia una questione privata o, peggio, comporti soltanto un peccato personale; in realtà questo è un peccato sia contro il prossimo che contro Dio. L’ingordigia può essere in questo senso considerata un sostituto dell’affetto e dell’amore41. Di qui le numerose regole che si trovano in Barsanufio e Giovanni riguardo al modo di comportarsi o di stare seduti a tavola: Noi che mangiamo siamo condannati, poiché altri si astengono completamente … Mangia in modo ben ordinato … Se alcuni siedono accanto a te, prendi un pochino di cibo perché essi non si accorgano di nulla42.

Vi è anche una solida motivazione sociale contro l’ingordigia che nasce dal considerare come, per molta gente, l’ingordigia comporta mangiare più del necessario pur nella piena consapevolezza che milioni di persone con cui condividiamo questa terra stanno letteralmente morendo di fame. Inoltre, è ampiamente dimostrato che l’ingordigia è spesso l’effetto di vizi più profondi, spesso meno “visibili” o percettibili, quali la cupidigia e l’orgoglio, di cui la maggior parte di coloro che lottano contro la tentazione dell’ingordigia paiono essere poco preoccupati. Questa potrebbe essere una conseguenza diretta della stessa ingordigia: che altri sensi vengano intorpiditi dalla chiusura su se stessi e sui propri bisogni. Rispondere con gioia ai bisogni degli altri of-

41 Per una discussione psicologica contemporanea in proposito, si veda G. Roth, When Food is Love: Exploring the Relationship between Eating and Intimacy, New York 1991. 42 Giovanni e Barsanufio di Gaza, Lettere 162, p. 216. Per altre regole dietetiche, cf. Lettere 132, 151-152, 157-159 e 166.

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frendo loro da mangiare e da bere è un aspetto importante della virtù monastica43. Dice abba Giovanni: Quando vedi che il tuo pensiero si diletta di cibi e quasi corre per prevenire tutti o trascinare davanti a sé il piatto, questa è golosità … Spingi piuttosto questo piatto davanti a quelli che siedono accanto a te. Non bisogna, come ho detto, con il pretesto della golosità rifiutare subito di prendere cibo, ma bisogna guardarsi dal prenderne in modo disordinato. Anche senza golosità – scrivono infatti i padri – non bisogna tendere la mano sul tavolo davanti a un altro44, poiché ciò è sconveniente ed estraneo al buon ordine comune … Altro segno della golosità è voler mangiare prima del tempo, cosa che non bisogna fare, a meno che vi sia una causa benedetta45.

In effetti, inserire nell’ingordigia la dimensione dell’“altro” – la dimensione dell’essere attenti al prossimo o anche a Dio – è in definitiva inserire la prospettiva del Regno, un elemento escatologico introdotto dai monaci quali profeti del mondo venturo. Il “grande anziano” osserva: Riguardo al futuro, Dio ha detto così, che gli uomini saranno simili agli angeli (cf. Lc 20,36), senza mangiare né bere e senza concupiscenze (cf. Mt 22,30)46.

Cf. ibid. 459, pp. 397-398. Cf. Isaia di Scete, Discorso ascetico 3, pp. 53-59. Giovanni e Barsanufio di Gaza, Lettere 163, pp. 216-217. 46 Ibid. 607, p. 493. 43

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La visione ascetica: conosci te stesso! Sfortunatamente, comunque, secoli di incomprensioni e di abusi hanno falsato il concetto di ascesi, identificandolo con un certo individualismo e con la fuga dalla realtà, oppure come una deriva verso l’idealismo e una visione angelica della vita. Entrambe queste tendenze convergono sull’elemento della disincarnazione, promuovendo l’inimicizia nei confronti del mondo. Tuttavia, almeno nella sua espressione più autentica, l’ascesi è una via di intimità e di tenerezza, un modo di integrare corpo, anima e società. A questo proposito, l’ascesi è essenzialmente una disciplina sociale; inoltre, l’ascesi non è mai praticata in un modo che offenda il Creatore.

Conclusione: una tavola per due L’icona biblica della lotta è la scena di Giacobbe che lotta con l’angelo di Dio in Genesi 32,24-30. L’immagine rappresenta sicuramente molto più di una lotta che si conclude con una ferita all’articolazione del femore causata dai colpi dell’angelo; la lotta, infatti, comporta una benedizione: un nome nuovo (da Giacobbe a Israele) e l’esperienza della visione di Dio “faccia a faccia”. In realtà si tratta di un’immagine della “lotta con Dio”47, un’icona dell’abbraccio vigoroso e dell’amore appassionato tra Dio e l’uomo. E la ferita non è un simbolo di sconfitta, ma rappresenta piuttosto lo spazio vuoto che solo la grazia e l’amore di Dio possono riempire. 47 Titolo di un libro di Paul Evdokimov, The struggle with God, Glen Rock Nj 1966 (tr. it.: Le età della vita spirituale, Bologna 1968).

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In un certo senso tutto ciò che facciamo nella lotta spirituale – proprio come tutto ciò che facciamo nella vita – è un riflesso di questo amore, nella sua pienezza o nella sua debolezza. Sappiamo imparare ad accogliere l’amore di Dio, che solo riempirà lo spazio vuoto che noi continuiamo a voler colmare con abitudini ingorde? Sappiamo rinunciare alle passioni della paura, della diffidenza, del rimpianto e della rabbia che creano barriere all’accoglienza dell’amore di Dio, e di rimando donare questo amore agli altri? Sappiamo fidarci dell’amore degli altri, anche quando questo è imperfetto, poiché sappiamo che viene da Dio? La lotta è scoraggiante, ma la ricompensa può colmarci: “Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi” (1Gv 4,12). Anche se il fine di dimorare nell’amore di Dio è chiaro, la lotta per raggiungerlo è complessa e, in ultima analisi, richiede di imparare a condividere, specialmente di imparare ad abbandonare e a perdere, e – in fin dei conti e al di là di tutto – di imparare a scegliere. Si tratta di una battaglia per imparare a discernere quando le nostre passioni interferiscono concretamente con le nostre relazioni; è una sfida per imparare ad abbattere il nostro orgoglio, imparando a discernere quando siamo egoisti e feriamo gli altri, o quando è il momento di indietreggiare e cambiare noi stessi, quando ci doniamo a un altro (e quanto di noi siamo disposti a donare), o persino quando stiamo giocando e manipolando. E, per lo più, la verità è che falliamo e facciamo del male agli altri; cediamo alla tentazione di cercarci da soli i modi per colmare i nostri bisogni. Ma se solo potessimo imparare a piangere per ciò che abbiamo perso e per i nostri desideri (lasciando perdere le nostre collere e paure), allora impareremmo a poco a poco a non mentire più sulle nostre relazioni. Soltanto diventando nudi possiamo forse essere visitati dalla grazia e dall’amore di Dio, che soli possono saziare la nostra sete e colmare la nostra fame (cf. Gv 6,12). Colmati da Dio, possiamo fare scelte che riflettono il suo volere e non soltanto il nostro. 182

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Quindi l’ingordigia ottunde i sensi. Se vogliamo vedere, gustare, sentire, odorare e toccare, abbiamo bisogno dell’astinenza. L’ascesi richiede che facciamo attenzione ai movimenti del cuore e ai sussulti del corpo; richiede di stare in silenzio, mettersi in ascolto, muoversi lentamente e delicatamente, riconoscendo i bisogni del corpo e rispettando la fame dell’anima. L’ingordigia intorpidisce il corpo. Se vogliamo avere una vita degna di questo nome, se vogliamo capire perché siamo qui su questa terra, se vogliamo amare ed essere amati, se desideriamo la vera felicità e la vera pace, se aneliamo a un senso che dia significato e scopo alla nostra vita, allora dobbiamo abbandonare tutto ciò da cui dipendiamo e su cui contiamo apparentemente; dobbiamo deporre la forchetta, dire no al cibo e smettere di mangiare senza ragione. La risposta non sta nel cibo: dopo tutto, lo sappiamo bene, “l’uomo non vive di solo pane” (Mt 4,4). Infine, l’ingordigia stimola la fame. Forse dobbiamo morire di fame prima di riuscire a scavare profondamente dentro di noi e scoprire le risorse che abbiamo sempre avuto in noi; ciò porterà a una vita che abbonda di grazia, una vita colma di “santa fame”48 e santo desiderio, assai più profondi di ogni brama di cibo; una vita in cui non siamo più rapiti da desideri inferiori, da una fame di dèi minori; una vita in cui i nostri desideri non sono né eliminati né estinti ma soltanto trasformati di gloria in gloria dall’amore di Dio. Così abba Barsanufio consiglia: “Condisci la tua pentola con vivande spirituali, che sono l’umiltà, l’obbedienza, la fede, la speranza, la carità”49. E il “grande anziano” continua assicurando: “Tu hai da parte mia un alimento secondo Dio, per molto tempo”50. In definitiva, come spiega abba Giovanni, la fame che riflette l’umiltà è l’u-

48 Cf. M. Bullitt-Jonas, Holy Hunger. A Woman’s Journey from Food Addiction to Spiritual Fulfilment, New York 1998. 49 Giovanni e Barsanufio di Gaza, Lettere 227, p. 260. Cf. anche ibid. 195, p. 236. 50 Ibid. 17, p. 94.

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nico metodo attraverso cui si può raggiungere “la misura … di aver bisogno di poco cibo”: Fratello, mi costringi a parlare di cose al di sopra della mia misura, e temo di essere condannato dicendo le opere di altri. È scritto: “Si sono attaccate le mie ossa alla mia carne” (Sal 102,6). Questo significa che tutte le ossa dell’uomo divengono una cosa sola, cioè tutti i pensieri dell’uomo sono unificati in Dio e allora la carne segue il pensiero secondo Dio e nasce nel cuore la gioia dello Spirito che nutre l’anima e ingrassa il corpo e fortifica entrambi51, così che non sono più né deboli né accidiosi. Gesù ormai è il mediatore e pone l’uomo vicino alle porte. Di là è fuggito il dolore, la tristezza e il pianto (cf. Is 51,11) … Porta l’uomo a questa misura l’umiltà perfetta in Cristo Gesù Signore nostro; a lui la gloria nei secoli52.

51 Sull’interconnessione tra cuore e corpo si veda Pseudo-Macario, Omelie (II collezione) 15,20, a cura di L. Cremaschi, Bose 1995, p. 196. 52 Giovanni e Barsanufio di Gaza, Lettere 153, p. 212.

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RESISTENZA AL MALE E GUARIGIONE: IL VESCOVO LUKA VOJNO-JASENECKIJ (1877-1961) Vasilij Maru∫™ak*

Il xx secolo ha dato al mondo una grande quantità di santi, uomini che con il loro martirio e la loro confessione acquisirono la grazia della vicinanza con Dio, fino a essere detti “amici di Dio”. I santi sono il sale della terra, che non permette all’umanità di dissolversi nella corruzione dei propri peccati. Per le preghiere dei santi e dei giusti il mondo continua a sussistere. I santi invocano su di noi la misericordia di Dio e distolgono da noi la giusta condanna per i nostri peccati. Nel firmamento dei santi recentemente ha cominciato a brillare una nuova stella, un nostro compatriota, il vescovo di Dio Luka, nato e morto in Crimea. Studiare la vita di un santo non è occupazione oziosa ma necessità vitale di recepire l’esperienza che condusse il santo alle vette del regno divino e anche a noi indica lo stesso cammino. A uno dei suoi primi biografi il vescovo Luka fece l’importante raccomandazione, valida per chiunque si apprestasse a raccontare la sua vita, di non separare la figura di Luka arcivescovo da quella del chirurgo Vojno-Jaseneckij1. Effettiva-

* Protodiacono della cattedrale della Trinità di Simferopoli, è docente al Seminario teologico della Tauride. Traduzione dall’originale russo di Leonardo Paleari. 1 La principale fonte per la biografia del vescovo Luka sono le sue memorie: Luka (Vojno-Jaseneckij), “Ja poljubil stradanie…”. Avtobiografija, Moskva 1995. I rimandi

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mente l’eccezionale duplice ascesi del santo Luka, chirurgo e vescovo, induce tanto i medici quanto i religiosi a inchinarsi profondamente dinanzi a questa straordinaria figura. Valentin Feliksovi™ Vojno-Jaseneckij (1877-1961), come è noto, dopo essere rimasto vedovo, ricevette l’ordinazione presbiterale e pronunciò i voti monastici. Tuttavia già molto tempo prima egli si era rivelato un membro attivo e consapevole della chiesa. Durante la sua permanenza a Ta∫kent, malgrado l’enorme mole di lavoro come chirurgo e primario dell’ospedale cittadino, partecipava alla vita della comunità ecclesiale. Nelle riunioni della comunità si tenevano incontri della massima serietà sulle questioni ecclesiali, si spiegavano le sacre Scritture, si eseguivano canti liturgici, si discuteva della situazione della chiesa nel paese e nella regione. Chiunque poteva prendere la parola. Una volta, dopo un appassionato intervento del dottor Vojno-Jaseneckij, il vescovo di Ta∫kent Innokentij, che era presente, gli disse: “Dottore, lei deve diventare sacerdote!”2. Accolte queste parole come una chiamata divina a una nuova forma di servizio, egli abbracciò questo rischioso cammino con tutto l’ardore del suo cuore di credente. Era un tempo in cui molti, temendo persecuzioni, rinnegavano la fede in Cristo per avere salva la vita. Come scrisse poi nelle sue memorie il vescovo Luka: “Dinanzi a mascherate sacrileghe e ingiuriose verso il Signore Cristo Gesù il mio cuore gridava: Non possiamo tacere! Sentivo che era mio dovere difendere con la predicazione il nostro Salvatore offeso e cantare la sua infinita misericordia per il genere umano”3. Iniziava così la sua personale opposizione a quel male infernale

verranno dati a questa edizione, anche se il testo è riportato dal dattiloscritto originale, che presenta alcune varianti. Sul dattiloscritto è stata realizzata la traduzione italiana: Memorie del vescovo Lukà (Valentin Vojno-Jaseneckij 1877-1961), Milano 1994. Per una biografia recente, ci sia concesso rinviare a V. Maru∫™ak, Svjatitel’-chirurg. æitie archiepiskopa Luki (Voino-Jaseneckogo), Moskva 20083. 2 Luka (Vojno-Jaseneckij), “Ja poljubil stradanie…”, p. 30 (Memorie, p. 60). 3 Ibid. (Memorie, p. 61).

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che come un fiume dilagava per gli sconfinati spazi della Russia. Egli non mirava ad alcun progetto globale di lotta contro il male, ma usava tutte le possibilità e i mezzi di cui poteva disporre. Conciliando la sua attività di medico con il servizio pastorale, padre Valentin, dotato di un’acuta intelligenza e di una vasta cultura in diversi campi dello scibile, si concentrò in particolare sul ministero di apologeta e predicatore. Teneva regolarmente delle conferenze in difesa della fede religiosa, criticando il materialismo. Talora sosteneva brillantemente discussioni pubbliche con ateisti e apostati della fede, durante le quali immancabilmente vinceva e svergognava gli avversari. Ben presto le persecuzioni contro la chiesa s’inasprirono, e i bolscevichi decisero di introdurre – con lo scisma del “rinnovamento” – il fermento rivoluzionario nello stesso ambiente ecclesiale. Vale la pena riportare il lungo passo in cui nelle sue memorie il vescovo Luka rievoca quel periodo: Subito dopo, scoppiò la rivolta dei sacerdoti di Mosca e Pietrogrado contro il patriarca Tichon, guidata dal protoierej Aleksandr Vvedenskij4. In tutta la Russia avvenne la divisione tra i sacerdoti di spirito forte e saldo, fedeli alla chiesa ortodossa e al patriarca Tichon, e i sacerdoti pusillanimi, infedeli, o disorientati dalle tumultuose vicende ecclesiali, che entrarono nella chiesa “viva”, capeggiata dal Vvedenskij e da alcuni suoi complici di cui non ricordo il nome. La divisione si riflesse anche nella nostra diocesi di Ta∫kent. Il vescovo Innokentij, pur non avvezzo a discorsi in pubblico, tenne una predica coraggiosa denunciando lo scisma in atto nella chiesa, facendo appello alla fedeltà alla chiesa ortodossa e al patriarca, diffidando dall’entrare in contatto con il vescovo della cosiddetta “chiesa viva” di cui si attendeva l’arrivo.

4 Il 12 maggio 1922 Aleksandr Vvedenskij, insieme ai preti di Pietroburgo Vladimir Krasnickij e Christofor Belkov, e al vescovo moscovita Antonin (Granovskij), con-

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Inaspettatamente per tutti due arcipreti che erano ritenuti affidabili passarono invece dalla parte dello scisma, seguiti da molti altri, e pochi rimasero fedeli. Il vescovo Innokentij si affrettò a compiere la chirotonia dell’archimandrita Vissarion e insieme al vescovo Sergij (Lavrov) rientrato a Ta∫kent dall’esilio di A∫chabad consacrarono vescovo Vissarione. Ma il giorno seguente il neo vescovo fu arrestato e allontanato da Ta∫kent. In seguito aderì allo scisma dei gregoriani5 e divenne metropolita. Monsignor Innokentij si impaurì molto, di notte partì segretamente per Mosca sperando di raggiungere il Monastero di Valaam. Naturalmente non ci riuscì, e solo molto tempo dopo poté rifugiarsi nel suo villaggio di Pustynka. Partito il vescovo, nella chiesa scoppiò una rivolta. Allora io e l’arciprete Michail Andreev riunimmo tutti i sacerdoti e gli starosta6 fedeli e organizzammo un’assemblea di coloro che erano rimasti fedeli, avvisando il gpu, perché desse l’autorizzazione e inviasse un osservatore. Con Michail Andreev prendemmo in mano la direzione degli affari diocesani, convocando a Ta∫kent i sacerdoti e i membri del consiglio pastorale

vinsero il patriarca Tichon, arrestato in connessione con la campagna di confisca delle suppellettili sacre, ad affidare loro l’amministrazione temporanea della chiesa. Il patriarca acconsentì, a condizione che la guida della chiesa dovesse essere affidata al locum tenens designato, il metropolita Agafangel di Jaroslavl’, al suo arrivo a Mosca. Ma Agafangel non giunse mai nella capitale: era stato infatti arrestato dal gpu. La regia della polizia politica nella formazione e nel sostegno dello scisma del “rinnovamento” è ora ampiamente documentata dalle ricerche d’archivio: cf. D. Pospelovskij, “Il patriarca Tichon tra rinnovamento della chiesa e scisma dei ‘rinnovatori’”, in L’autunno della Santa Russia. Atti del VI Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa, Bose, 16-19 settembre 1998, a cura di A. Mainardi, Bose 1999, pp. 119-167; I. V. Solov’ev, Obnovlen™eskij raskol: materialy dlja cerkovno-istori™eskoj i kanoni™eskoj charakteristiki, Moskva 2002 [N.d.C.]. 5 Nel dicembre 1925, dopo la morte del patriarca Tichon (7 aprile 1925) e l’arresto del metropolita Petr di Kruticy, locum tenens del trono patriarcale, l’arcivescovo Grigorij ( Jackovskij) di Ekaterinburg/Sverdlovsk, con l’appoggio del potere sovietico, istituì il Governo ecclesiale superiore temporaneo, disconoscendo l’autorità del metropolita Sergij (Stragorodksij), vicario del locum tenens: lo scisma che ne seguì (detto “gregoriano” dal nome dell’arcivescovo) non ebbe seguito nella popolazione e si esaurì alla fine degli anni trenta [N.d.C.]. 6 I responsabili delle amministrazioni parrocchiali [N.d.C.].

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diocesano che rifiutavano la chiesa “rinnovata”. Chiedemmo anche al gpu che mandasse suoi rappresentanti, ma non vennero mai. Sembrava che tutto fosse in regola, ma proprio questa attività fu la ragione principale della mia prima condanna al confino. In questo periodo venne a Ta∫kent un importante prelato, il vescovo Andrej (non ricordo il cognome). Informato della nostra situazione, mi nominò rettore della cattedrale e arciprete. Qualche tempo dopo da A∫chabad fu trasferito a Ta∫kent un altro vescovo confinato, Andrej di Ufa (principe Uchtomskij). Poco prima di essere arrestato e confinato in Asia centrale egli era stato a Mosca dal patriarca Tichon, che si trovava agli arresti domiciliari, il quale gli aveva conferito il diritto di designare candidati all’episcopato e di consacrarli con rito segreto. Giunto a Ta∫kent, il vescovo Andrej approvò la mia designazione a candidato espressa dal consiglio del clero di Ta∫kent e mi tonsurò monaco segretamente nella mia camera. Mi disse che voleva impormi il nome del martire taumaturgo Panteleimon, ma quando intervenne alla mia prima liturgia ed ebbe ascoltato la mia predicazione, ritenne che mi si addicesse maggiormente il nome dell’evangelista Luca, medico e iconografo7.

Consacrato vescovo, Luka fece in tempo a officiare una sola liturgia. Dopo una settimana si presentarono a casa sua gli agenti della Ωeka: la perquisizione si concluse con l’arresto. Salendo il calvario del servizio episcopale, Luka era pronto ad affrontare il doloroso cammino del confessore e del martire, su cui si erano avviati già molti vescovi, sacerdoti, diaconi e laici. Ma il suo cuore soffriva al pensiero del gregge di Ta∫kent affidatogli da Dio, che lasciava abbandonato dietro di sé … Nell’eventualità di un arresto improvviso aveva predisposto un testamento. Egli era tanto rispettato e amato che già il giorno dopo

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Luka (Vojno-Jaseneckij), “Ja poljubil stradanie…”, pp. 34-36 (Memorie, pp. 65-67).

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il suo arresto tra i fedeli e nelle chiese si diffondeva il testo dattiloscritto del suo “Testamento”. In quel messaggio breve ma forte nello spirito il vescovo metteva in guardia i credenti dalle tentazioni del rinnegamento e degli scismi: Con fermezza e tenacia vi chiedo di rimanere indefettibili sul cammino che io vi ho sempre indicato. Non opponetevi alla violenza, se vi porteranno via le chiese e le daranno in uso al cinghiale della foresta8 che Iddio ha permesso fosse elevato sulla cattedra della nostra chiesa diocesana. Non lasciatevi affascinare dall’esteriorità della liturgia allestita dal cinghiale, e quell’insulto di liturgia che è compiuta dal cinghiale non consideratela una Divina liturgia. Andate nelle chiese dove officiano sacerdoti degni, che rifiutano il cinghiale. Se il cinghiale occuperà tutte le chiese, consideratevene allontanati da parte di Dio e gettati nella fame della parola di Dio. Non abbiate nessun rapporto con il cinghiale e i suoi adepti e non scendete a dispute con loro. Alle autorità, che Iddio ha messo sopra di noi per i nostri peccati, non opponete alcuna resistenza, ma sottomettetevi in tutto, pacificamente. Con il potere della successione apostolica datomi dal Signore invio a tutti i figli della chiesa del Turkestan il mio testamento. Su chi non vi si atterrà e aderirà al cinghiale in comunione di preghiera scenda l’ira e la condanna divina9.

Mentre il vescovo Luka soffriva nelle camere di tortura del

gpu, arrivò a Ta∫kent il vescovo rinnovatore Nikolaj (Koblov)

e tutti gli edifici di culto della città furono consegnati agli scismatici. Ma le chiese rimasero vuote, perché il popolo ricordava l’ammonimento del suo vescovo. Cf. Sal 79,14. M. Popovskij, æizn’ i Δitie Vojno-Jaseneckogo, archiepiskopa i chirurga, Paris 1979, p. 137. 8 9

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Di lì a poco, con l’accusa di attività antisovietica, Luka fu condannato al confino in Siberia. Arrivato nella città di Enisejsk, il vescovo prese a vivere in un appartamento privato, dove spesso celebrava l’eucarestia davanti a un gran numero di parrocchiani. Non temeva le minacce dei ™ekisti e, continuando a impegnarsi nell’organizzazione della chiesa, ordinava diaconi e preti, attenendosi al canone 37 del concilio quinisesto e all’enciclica del santo patriarca Tichon10. Fu inviato a Turuchansk, ma anche lì, con il suo arrivo, si ravvivò la vita spirituale. La comunità locale si era sottomessa al vescovo rinnovatore di Krasnojarsk. Luka, con i suoi sermoni sul peccato dello scisma e la non canonicità della chiesa rinnovata, ricondusse il parroco e tutto il gregge di Turuchansk alla chiesa ortodossa legittima guidata da Tichon. Luka si dedicò intensamente alla predicazione e alla celebrazione della Divina liturgia. La cosa non rimase senza attenzione del potere locale che non mancò di punire l’indocile esule, che fu spedito a Plachino, il più remoto insediamento umano in Siberia. Al termine del periodo di confino Luka ritornò a Krasnojarsk in slitta, lungo lo Enisej ghiacciato. Durante il lungo e difficile tragitto fu spesso fermato da folle di persone, officiava la liturgia e predicava. La predicazione è uno degli aspetti principali della poliedrica attività del vescovo Luka. Nella storia della chiesa vi sono molti esempi in cui l’autentica vita cristiana del santo costituiva la migliore predicazione. L’insegnamento di Luka era ricco non solo per contenuto e profondità di pensiero, ma recava in sé un’indefettibile forza di spirito e di fede, davanti alla quale indietreggiavano i denigratori, gli oppressori e i persecutori. Il vescovo con coraggio e fortezza testimoniava la verità a rischio della propria vita, perciò le sue prediche sulla verità suonavano tanto 10 La Lettera patriarcale del 20 novembre 1920 disponeva che le diocesi si aggregassero in formazioni autocefale temporanee, nel caso in cui il governo ecclesiastico centrale fosse soppresso o i contatti divenissero impossibili [N.d.C.].

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convincenti. Quando predicava le persone coglievano con avidità le sue parole, le scrivevano, le diffondevano. Così furono raccolti circa undici volumi dei suoi insegnamenti, che l’arciprete A.Vetelev e il Consiglio dell’Accademia teologica di Mosca hanno definito un evento unico nella teologia e nella vita ecclesiale del nostro tempo. Il patriarca Aleksij I, nel febbraio 1959, intendeva proporre al Santo Sinodo la nomina del vescovo Luka al grado di dottore in teologia11. Attualmente l’opera omiletica del vescovo Luka è sempre molto richiesta: solo nella nostra diocesi sono state pubblicate più di trecento sue omelie. All’inizio della seconda guerra mondiale l’esilio del vescovo fu interrotto e Luka partecipò attivamente alla cura dei soldati feriti, che affluivano ininterrottamente a Krasnojarsk sui convogli dal fronte. In qualità di chirurgo capo dell’ospedale di evacuazione 15-15 di Karsnojarsk e di consulente di tutti gli ospedali della regione, guarì molti soldati feriti gravemente. Nello stesso tempo il Sinodo lo nominò a capo della diocesi di Krasnojarsk. La condizione della diocesi era penosa. Quando Luka era stato confinato a Krasnojarsk nel 1940, il capo del nkvd12 regionale lo aveva informato che “in tutta la Siberia non abbiamo lasciato neanche una chiesa”. Questa affermazione corrispondeva esattamente alla realtà, infatti allora a Novosibirsk era rimasta aperta solo una chiesa annessa al cimitero. All’inizio di marzo 1943, dopo molti sforzi il vescovo riuscì a far aprire la piccola chiesa cimiteriale di Nikolaevka, un sobborgo di Krasnojarsk. Dalla città alla chiesa vi erano 5 km di distanza e in primavera e autunno la strada era difficoltosa e pericolosa, poiché a Nikolaevka c’erano molti briganti. Per questo alle liturgie serali venivano pochi fedeli e in un anno il vescovo ne aveva officiate solo due nelle grandi feste e nella settimana santa. Prima delle normali litur11 “Krestnyj put’ patriarcha Sergija: dokumenty, pis’ma, svidetel’stva sovremennikov (k 50-letiju so dnja kon™iny)”, in Ote™estvennye archivy 2 (1994), p. 51. 12 Commissariato degli affari interni dell’Urss tra i cui compiti vi era anche la gestione degli organismi di polizia segreta.

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gie domenicali officiava quelle serali nella sua abitazione, all’ospedale, con il rumore della sala di concerto che era accanto alla sua abitazione. Soltanto negli ultimi tempi gli mandavano una slitta con il cavallo, mentre per quasi un anno raggiunse la chiesa a piedi, affaticandosi tanto che il lunedì non riusciva neppure a lavorare in ospedale. Il vescovo iniziò il suo servizio a Krasnojarsk con l’unico sacerdote della città, l’arciprete Zacharov. Quest’ultimo si rivelò pastore negligente, e ben presto Luka dovette sospenderlo dal suo ufficio e inviare al Sinodo una richiesta di sospensione a divinis. Dopo tre mesi dall’apertura della chiesa, per provvidenza divina giunse un altro sacerdote, Nikolaj Popov, un pastore mite e operoso. Qualche mese prima di andarsene da Krasnojarsk il vescovo nominò parroco Petr U∫akov, con il cui aiuto riuscì a rinnovare i componenti del Consiglio pastorale, di cui egli stesso divenne presidente. Se si tiene conto della continua pressione esercitata dalle autorità sulla chiesa, in un periodo in cui gli incaricati degli affari religiosi e il nkvd designavano normalmente i propri agenti a presiedere i consigli pastorali, questo agire del vescovo era veramente coraggioso. Egli però restava fedele alla sua vocazione e cercava in ogni modo di portare ordine nella diocesi. Il già nominato Zacharov, sospeso a divinis, insieme a dei complici, appropriatisi indebitamente di fondi ecclesiastici, era riuscito a ottenere la riapertura e l’assegnazione della cattedrale dell’Intercessione nel centro della città, e contava di poterci insediare un vescovo del rinnovamento. Luka riuscì energicamente a fermare la loro attività scismatica. Da molti villaggi, capoluoghi e città giungevano petizioni al vescovo per l’apertura di chiese. Il vescovo le inoltrava agli organi competenti, ma la riposta era sempre la stessa: “Le petizioni sono state inviate a Mosca. Sarete informati quando avremo risposta”. Questo era il solito modo burocratico per soffocare qualunque cosa. Infatti la diocesi non ebbe alcuna risposta. Non solo, ma in alcune città e capoluoghi i rappresentanti delle comu193

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nità che avevano firmato petizioni per l’apertura di chiese incorrevano in intimidazioni e minacce. In tal modo tutta la Siberia orientale, da Krasnojarsk all’oceano Pacifico, non dava alcun segno di vita ecclesiale. Secondo i responsabili della diocesi e le relazioni dei sacerdoti, il popolo in Siberia, specialmente orientale, era poco religioso. Alla fine del 1943 in tutta la diocesi era aperta una sola piccola chiesa a Nikolaevka. Il vescovo Luka si rendeva infatti conto che se non si fossero aperte chiese in diverse zone della regione di Krasnojarsk ci sarebbe stato un totale inselvatichimento spirituale del popolo. L’aspirazione religiosa nonostante tutto rimaneva presente, specialmente tra gli immigrati ucraini, che si distinguevano dai siberiani per la loro religiosità. Ma la fame spirituale era giunta a tal punto che gli uffici e i sacramenti erano celebrati e impartiti dai laici, persino da donne. Inoltre nella diocesi circolavano degli impostori che si spacciavano per sacerdoti approfittando della religiosità popolare13. Nel gennaio del 1944 il vescovo Luka fu preposto alla cattedra di Tambov e contemporaneamente nominato chirurgo-consulente degli ospedali della città. Secondo i dati dell’amministrazione regionale, il 1° settembre 1942 nella regione risultavano aperte 147 chiese, ma solo quelle di Tambov e di Mi™urinsk erano in realtà in funzione. La gran parte delle chiese erano adibite a depositi di merci. E nella chiesa dell’Intercessione di Tambov anche Luka continuò il suo ministero pastorale. Il 26 febbraio 1944 in questa chiesa il vescovo pronunciò la sua prima predica nella città: Per quindici anni le mie labbra sono rimaste chiuse, ma ora si sono nuovamente aperte per annunciarvi la parola di Dio.

13 Cf. Archivio della diocesi di Mosca. Cartella personale dell’arcivescovo Luka. Rendiconto dello stato della diocesi di Krasnojarsk nel 1943.

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Accogliete queste consolazioni, povero popolo affamato. Siete affamati per la mancanza della parola di Dio. Le nostre chiese sono distrutte, sono incendiate e in rovina. Voi siete fortunati perché avete una chiesa, sebbene piccola. È sporca, profanata, buia, ma nel nostro cuore splende la luce di Cristo. Vengano artisti, iconografi, si dipingano icone, ci serve il vostro lavoro per rimettere in piedi quello che è stato distrutto e la fede splenderà di nuova luce14.

Come scriveva il vescovo nelle sue lettere, “la terribile nevrosi passò quando fu ripristinato il culto ecclesiale”15. Nella chiesa dell’Intercessione di Tambov le prime parole che risuonarono furono quelle di pentimento del clero che aveva aderito al movimento rinnovatore. Il rito della penitenza per chi “a causa della propria pusillanimità ebbe paura di soffrire per Cristo scegliendo la via della malizia e della menzogna”, composto dallo stesso arcivescovo confessore, era piuttosto severo ma necessario per purificare la coscienza dei peccatori16. Dai primi giorni di governo della diocesi, il vescovo si adoperò perché a Tambov fosse aperta la grande cattedrale a due piani della Trasfigurazione, che avrebbe potuto contenere tutti i fedeli, ma il potere locale lo ostacolò in ogni modo. Per la prima volta dopo la rivoluzione, il vescovo di Tambov formulava davanti al Santo Sinodo un piano per la rinascita della vita spirituale nella diocesi: istruzione religiosa delle persone colte e avvicinamento dell’intelligencija al mondo spirituale, catechismo dei bambini, apertura di scuole domenicali per adulti. Tutte le chiese conservatesi nella regione dovevano essere al più presto

14 V. Ku™enkova, “Vojno-Jaseneckij. Tambov, 1944”, in Novaja Tambovskaja gazeta, 5 maggio 1995. 15 N. P. Puzin, “Neskol’ko pisem Vojno-Jaseneckogo (L. N. Tolstomu, N. P. Puzinu)”, in Slovo 3 (1991), p. 49. 16 Cf. V. Ku™enkova, “Vojno-Jaseneckij”.

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riaperte, mentre nei centri abitati in cui le chiese erano state distrutte o temporaneamente occupate o bisognose di grande restauro, occorreva costruire nuove case di preghiera di tipo semplice, una sorta di “chiese-prefabbricati” (cerkvi-obydenki). Al divieto delle autorità di convocare un’assemblea diocesana del clero e dei laici Luka si rivolse ai fedeli con un appello: “Accogliamo tutti, forti e deboli, poveri e ricchi, colti e incolti, per il grande compito di risollevare la chiesa di Tambov”17. Effettivamente lo slancio spirituale del popolo fu tale che al 1° gennaio 1946 erano state aperte ventiquattro parrocchie. Erano passati solo due mesi dall’insediamento alla cattedra di Tambov quando l’eco dell’intensa attività dell’arcivescovo Luka era arrivata a Mosca. Il plenipotenziario per gli affari religiosi G. G. Karpov si lagnò con il patriarca Sergij del fatto che “il vescovo di Tambov ha appeso un’icona nello studio del suo ospedale e, prima di operare, si mette in preghiera; alle riunioni dei medici dell’ospedale, al tavolo della presidenza, veste in abiti vescovili; nelle festività pasquali del 1944 ha messo in atto tentativi di celebrare la liturgia in chiese non funzionanti, ha condotto attacchi calunniosi contro il clero del rinnovamento”18. Luka, dall’alto della sua dignità vescovile, non compiacque mai il potere, e questo irritava i funzionari politici di ogni livello. Tuttavia essi non potevano trascurare il suo grande apporto alla scienza medica e alla pratica chirurgica. A Tambov Luka fu insignito della medaglia “per il nobile lavoro nella grande guerra patriottica del 1941-1945”. Il decreto del patriarca che lo trasferiva alla diocesi di Crimea fu accolto dal vescovo come volontà di Dio. Durante la guerra, la Crimea fu devastata da battaglie particolarmente cruente. Giunto a Simferopoli nel maggio del 1946, il vescovo poté Ibid. “Krestnyj put’ patriarcha Sergija: dokumenty, pis’ma, svidetel’stva sovremennikov (k 50-letiju so dnja kon™iny)”, in Ote™estvennye archivy 2 (1994), p. 76. 17

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subito misurare la gravità dello sfacelo postbellico. Stabilì la residenza in una casa sulla via dell’ospedale, dove allestì anche la sua segreteria. Sul lato della strada principale – via del proletariato – fu costruita una chiesa domestica dedicata all’Annunciazione. Accanto vi erano le chiese dei Santi Pietro e Paolo e la cattedrale della Trinità. Un enorme lavoro venne a gravare sulle spalle del vescovo settantenne. Chiese distrutte, popolazione in miseria, mancanza di sacerdoti, le autorità coglievano ogni pretesto per chiudere questa o quella chiesa. Malgrado l’età e le malattie che lo provavano, Luka impiegò tutte le sue forze per ristabilire l’ordine e il decoro nella diocesi. Le autorità locali non si rallegrarono certo dell’arrivo del celebre vescovo-chirurgo. Luka non compiaceva né si piegava davanti al potere, cosa che fu chiara fin dai suoi primi passi in terra di Crimea. Appena giunto a Simferopoli non si recò personalmente dal delegato per gli affari religiosi, Ja. I. ædanov, ma inviò la notifica del suo insediamento per il tramite del segretario. Ciò fece imbestialire il funzionario, che pretese la presenza del vescovo. Quando il vescovo si presentò, il dialogo tra i due fu particolarmente teso: l’ecclesiastico insisteva perché non ci si rivolgesse a lui con nome e patronimico, ma chiamandolo “Monsignore” o “Vostra eccellenza”. L’arcivescovo Luka disponeva nomine, licenziamenti, trasferimenti del clero senza aspettare il consenso del funzionario, il che era considerato un’inaudita insolenza. Quando il funzionario cominciò a fare pressioni su Luka e a ostacolarne l’attività, il vescovo scrisse una lagnanza a Mosca in cui diceva che il dirigente per gli affari della chiesa in Crimea “chiude e apre le chiese a suo piacimento”. Nel villaggio di Sovetskoe il vescovo sollevò dall’incarico lo starosta, il quale, con l’appoggio delle autorità, continuava a causare disordini nella chiesa. Luka si rivolse alle autorità locali chiedendone l’allontanamento, ma il funzionario scrisse in risposta che “gli organi sovietici non interferi197

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scono negli affari della chiesa”. Come si legge nella relazione di ædanov a Mosca, il vescovo per le più piccole violazioni delle regole canoniche riduceva allo stato laicale, licenziava e trasferiva i preti da una parrocchia all’altra, senza prenderne in esame i desideri o le giustificazioni. Avvicinava invece a sé i pastori che avevano sofferto la prigione e l’esilio a causa di Cristo e assegnava a loro le parrocchie migliori19. Nei rapporti dei delegati per gli affari religiosi, il ricordato ædanov (dal 1946 al 1955) e dopo di lui A. S. Jarancev (1955-1957) e A. S. Gus’kov (dal 1957), il vescovo è definito una persona orgogliosa e boriosa20. Ma tutta la vita del nostro dimostra che non può considerarsi pieno di amor proprio chi mette tutte le sue energie al servizio del prossimo. Non può essere borioso un chirurgo che considera ogni persona creatura divina sofferente e bisognosa del suo aiuto. I funzionari sovietici non potevano capire che non la vanagloria guidava le azioni del vescovo Luka, quando pretendeva che ci si rivolgesse a lui in modo conveniente alla sua persona, ma la coscienza della grazia del suo ministero e della dignità della successione apostolica. Nella sua lettera all’arciprete Nikolaj Kol™ickij emerge tutta la sua mitezza: Confesso di esser confuso della vostra alta opinione su di me e penso che voi esageriate molto nel pormi quasi tra i primi gerarchi della chiesa russa. Io stesso ne conosco pochi, ma sono convinto che tra di loro ve se sono molti assai più forti di me nella fede, nella devozione, nell’ortodossia, nell’amore e dotati di alte virtù morali che in me sono insufficienti21. Cf. KGA, F. 721, s/r-2647, op. 1, d. 1. I rapporti dei delegati per gli affari religiosi sono stati raccolti da padre Nikolaj Donenko e dal professore S. B. Filimonov nel loro libro “Sekretno”: Archiepiskop Krymskij Luka (Vojno-Jaseneckij) pod nadzorom parijno-sovetskich organov, Simferopol’ 2004, e in parte riportati nella nostra biografia: cf. V. Maru∫™ak, Svjatitel’-chirurg, pp. 201-332. 21 Archivio della diocesi di Mosca. Cartella personale dell’arcivescovo Luka. Lettera all’arciprete Nikolaj Kol™ickij del 14 giugno 1943. 19

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Si conserva una parte delle disposizioni e delle lettere che il vescovo indirizzava al suo gregge. Nel 1948, di fronte al grave peggioramento delle condizioni delle parrocchie rurali, il vescovo scrisse una relazione al patriarca, in cui comunicava che nei giorni festivi le chiese erano vuote e il popolo si era disabituato alla Divina liturgia. Si conservava solo una fede ritualistica; la gente non si sposava più in chiesa, non chiedeva esequie religiose, molti bambini non erano battezzati. Secondo Luka, la causa dell’allontanamento del popolo dalla chiesa stava nel fatto che i credenti erano privati della possibilità di frequentare la Divina liturgia, poiché le autorità locali, la domenica e nei giorni festivi, imponevano le visite veterinarie del bestiame. Il vescovo chiedeva al patriarca di intervenire presso il governo perché fosse permesso ai fedeli di frequentare la chiesa nei giorni festivi. Ottenuto dal patriarca Aleksij I il consenso a risolvere il problema localmente, Luka prescrisse al clero di raccogliere dati precisi per individuare chi tra le autorità locali ostacolava intenzionalmente i fedeli nel frequentare la chiesa con vari pretesti, per poi sollevare la questione direttamente di fronte al delegato per gli affari religiosi22. Il vescovo vegliava con cura che si rispettassero i precetti e i canoni della chiesa: Si avvicina la quaresima, perciò prego i decani di ricordare, a tutto il clero del loro decanato, la necessità di osservare per la confessione nei giorni di digiuno le regole di san Giovanni il Digiunatore, controllandone l’applicazione23.

E ancora raccomandava ai suoi preti: 22 Cf. Archivio del decanato (blago™inie) di Belgorosk, presso la chiesa di San Nicola. Corrispondenza con l’amministrazione diocesana. Decreti episcopali, 1948-1959, nr. 69. 23 Ibid., nr. 101.

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Alcuni preti battezzano adolescenti, ragazzi, ragazze e adulti, senz’alcuna catechesi, nella completa ignoranza da parte dei battezzandi delle nozioni più basilari della dottrina cristiana. Obbligo i sacerdoti a insegnare, a quanti chiedono il battesimo, il Simbolo della fede, i dieci comandamenti, le beatitudini e le principali preghiere. In mancanza di questo non si possono battezzare quanti hanno raggiunto l’età della ragione. Come padrini e madrine di battesimo non si accettino mai in nessun caso persone non credenti o con figli non battezzati24.

Il problema più drammatico restava quello del clero: Ho nel cuore un grande dolore e una continua sofferenza; vorrei essere io stesso separato da Cristo (cf. Rm 9,2-3) piuttosto che vedere alcuni di voi allontanare da Cristo, dalla fede in lui e dall’amore per lui le pecore del gregge di Cristo a causa della vostra avidità … Il ministero sacerdotale non è forse sempre, e specialmente nel nostro tempo, una difficile missione di servizio al popolo, che soffre per la fame e la sete della parola del Signore (cf. Am 8,11)? E quanti sono i ministri di culto che si pongono come fine questa missione? O non considerano forse il servizio a Dio come un mezzo per mantenersi, come un mestiere di dispensatore di sacramenti? Il popolo questi li riconosce subito … Che fare con un prete simile? Cerco di farlo vergognare, di toccare le corde migliori del suo cuore, lo trasferisco in un’altra parrocchia con un’ammonizione; ma se anche là non si corregge, lo sospendo dalle sue funzioni e aspetto che il Signore mandi al suo posto un buon pastore. La nostra chiesa ha sopportato pesanti prove e afflizioni durante la rivoluzione, e non senza colpa. Da molto, molto tempo si era accumulato nel popolo un grande astio verso i preti. Con amarezza vediamo che a molti neanche la rivoluzione ha insegnato nulla. Come prima e anche peggio di prima essi mo24

200

Ibid., nr. 100.

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strano il volto sporco di mercenari, non pastori, come prima la gente si allontana da loro e si perde aderendo alle sette25.

Il vescovo Luka compiva l’ufficio divino con fervore, e lo stesso esigeva dal suo clero. Ammoniva i sacerdoti che non avevano il diritto di abbreviare la messa26, organizzava riunioni di religiosi per discutere la situazione nelle parrocchie e risolvere i problemi ecclesiali. Egli considerava inammissibile il battesimo con l’abluzione. Il parroco della chiesa di Sant’Elia di Saki fu sospeso per sei mesi per aver battezzato con l’abluzione e per aver abbreviato la liturgia dei sacramenti, e per aver conservato nella propria abitazione, a due passi dalla chiesa, i santi doni, e per l’ostinato rifiuto a portare la veste presbiterale27. Il vescovo era severo verso i ministri negligenti. Più volte li apostrofava dicendo: “Che cosa risponderò a Dio per voi?”. Ma aiutava sempre chi aveva bisogno, senza considerare la loro indegnità. Nella diocesi di Crimea vi era un prete, Grigorij Alejnikov, che nella sua burrascosa giovinezza era stato per dieci anni nella chiesa rinnovata, poi nel 1942 fu ordinato nella chiesa ortodossa, ma nel suo nuovo posto ebbe a comportarsi male. Fu ripetutamente sospeso dal ministero e ridotto al rango di salmista per negligenza nelle mansioni sacerdotali. Per qualche tempo fu sospeso a divinis per ubriachezza. Quando però, ormai vecchio, si trovò del tutto solo (non aveva figli, la moglie era stata uccisa nel 1942) e senza mezzi di sussistenza, Luka si preoccupò della sua situazione e si adoperò presso il patriarcato perché gli fosse concessa una pensione28.

Ibid. Cf. V. Maru∫™ak, Svjatitel’-chirurg, pp. 171-173. Cf. V. Maru∫™ak, Svjatitel’-chirurg, p. 183. 27 Archivio del decanato (blago™inie) di Belgorosk, presso la chiesa di San Nicola. Corrispondenza con l’amministrazione diocesana. Decreti episcopali, 1948-1959, nr. 27. Cf. V. Maru∫™ak, Svjatitel’-chirurg, pp. 197-198. 28 Archivio della diocesi di Crimea. Rapporto dell’arcivescovo Luka nr. 380 dell’11 novembre 1950. 25 26

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Con lettere personali Luka esortava i sacerdoti e i diaconi a non trascurare il compito di istruire il popolo. I parrocchiani della chiesa cattedrale ascoltavano le omelie del vescovo non solo la domenica e le altre feste, ma anche nei giorni feriali, dopo la liturgia. Le sue parole avevano una forza e un’efficacia particolari, poiché dinanzi ai fedeli non stava un intellettuale staccato dalla realtà, che raccontava quel che aveva letto nei libri, ma un vero starec, un arcivescovo dai capelli bianchi, con una ricca esperienza spirituale e di vita, che aveva passato undici anni di prigione e di confino, e aveva il diritto non solo canonico ma anche morale di insegnare al popolo ed esortarlo all’ascesi in nome di Cristo. È sorprendente come in Luka si siano avverate con esattezza le parole del Signore: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno ascoltato la mia parola, ascolteranno anche la vostra” (Gv 15,20). Duemila anni fa ai piedi di Cristo stavano uomini e donne che con animo puro e cuore aperto ascoltavano la sua parola, ma vi erano tra loro anche quelli che, provando rancore, ascoltavano con attenzione le sue parole per coglierlo in contraddizione e incolparlo. Così anche tra chi ascoltava il vescovo Luka vi erano quelli che “per dovere d’ufficio” registravano ogni punto “inaffidabile” della sua predicazione. In una lettera segreta del segretario del partito comunista di Crimea N. Solov’ev del 28 ottobre 1948, si sente ancora l’eco dell’odio anticristiano di duemila anni fa. Ecco una serie di frasi tipiche di quel vocabolario, per ciascuna delle quali si poteva scomparire per sempre nelle carceri del nkvd: Tutta l’attività “religiosa” di Luka ha un esplicito carattere antisovietico … Da quando è arrivato in Crimea ha iniziato una energica attività religiosa … Nelle sue prediche in modo aperto e sistematico predica simpatia per l’autocrazia zarista e odio per il sistema sovietico e i suoi dirigenti … Data la particolare posizione della Crimea come zona di frontiera ri202

Resistenza al male e guarigione …

teniamo necessario, attraverso gli organi preposti, allontanare Luka dalla Crimea29.

Per quei tempi la predicazione del vescovo Luka era molto audace. Apertamente e impavidamente esprimeva i propri pensieri su questioni di attualità: Ora la nostra chiesa è separata dallo stato. È bene che lo stato non si immischi negli affari della chiesa; in passato la chiesa era nelle mani del governo, dello zar, ma lo zar era religioso, costruiva le chiese, ora il governo non è più così. Il nostro governo è ateo, non credente. Ora è rimasta soltanto una manciata di russi credenti, e sopportano l’arbitrio degli altri … Voi direte che il governo a voi cristiani ha arrecato danno. Ebbene sì, è così. Ma ricordate i tempi antichi, quando il sangue cristiano era versato a fiumi per la nostra fede. È così che si rafforza la nostra fede cristiana. Tutto viene da Dio30.

Consolando il popolo dei fedeli che soffriva a causa dei senzadio, il vescovo nell’omelia del 9 novembre 1947 previde che in futuro le sofferenze si sarebbero alleviate: Se voi mi chiedete quando avranno termine queste privazioni e si comincerà a vivere bene, allora vi dirò che gli ultimi trent’anni sono un periodo brevissimo. Passeranno ancora molte decine di anni prima che la nostra vita torni a essere normale31.

Che grande coraggio, che fede salda e incrollabile speranza nell’aiuto di Dio, per dire apertamente la verità, mentre intorno imperversavano menzogna, mancanza di fede e cinismo! 29 30 31

M. Vostry∫ev, “Donos iz Kryma”, in Pravoslavnaja Moskva 29/53 (1995), p. 4. Ibid. Ibid.

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Nella lettera pastorale del giugno 1955 il vescovo esortava i sacerdoti della diocesi a proclamare senza sosta la parola di Dio: Se il sacerdote pone a fondamento della sua vita di saziarsi la mente e il cuore dell’insegnamento di Cristo, la sua bocca parlerà per la sovrabbondanza del cuore. La predicazione non deve necessariamente essere in stile magniloquente. Lo Spirito santo, che vive nel cuore del sacerdote come nel suo tempio, sarà lui stesso a predicare attraverso le sue labbra miti e pure32.

Nel dopoguerra, quando la chiesa soffriva un’acuta penuria di preti, molti si facevano passare per sacerdoti: taluni erano presbiteri sospesi a divinis dalle autorità ecclesiastiche, altri non erano che faccendieri. Luka diede disposizione che questi casi gli venissero resi noti. Inviò alle parrocchie gli elenchi dei nomi dei preti defunti che avevano lavorato nella diocesi di Crimea. Abbiamo i documenti ufficiali riguardanti lo scandalo della chiesa di San Nicola a Belogorsk. Il 16 novembre 1959 fu emesso il decreto nr. 66, firmato “arcivescovo Luka” a caratteri illeggibili, come scritti da un cieco. Ma il testo del decreto rivela la sua forza di spirito: Per essersi arrogati il diritto episcopale di licenziare un presbitero, per aver tenuto una riunione senza la partecipazione del parroco, per aver chiuso la chiesa di San Nicola di Belogorsk ed essersi tenute le chiavi, diffido l’ex starosta Mark Vi∫nevskij e Andrej Gala∫kin dall’accostarsi ai sacramenti per cinque anni e li dichiaro per sempre ineleggibili in un consiglio parrocchiale … Questo mio decreto deve essere proclamato dall’ambone dopo la liturgia per tre giorni festivi33.

32 Archivio del decanato (blago™inie) di Belgorosk, presso la chiesa di San Nicola. Corrispondenza con l’amministrazione diocesana. Decreti episcopali, 1948-1959. 33 Ibid., nr. 36.

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Questo avveniva alla fine degli anni cinquanta, quando gli starosta, appoggiati dalle autorità e dai funzionari per gli affari religiosi cominciarono a governare la parrocchia come ne fossero i padroni, ignorando le disposizioni del parroco e dei sacerdoti. Questa tendenza fu ufficialmente confermata dallo Statuto del 196134. Ma il processo di rottura delle regole secolari della vita parrocchiale era iniziato molto prima. L’eminentissimo vescovo fu severo con le pecore ribelli del suo gregge. Ma, vedendo il pentimento dei colpevoli, riduceva il tempo di esclusione dalla comunione. Appena dopo un mese il vescovo accolse il sincero pentimento dei peccatori prostratisi ai suoi piedi e ridusse la penitenza. Luka era molto attento alle necessità dei chierici della sua diocesi. All’assemblea dei decani egli sollevò la questione di un’equa retribuzione per i diaconi, i cantori e i maestri del coro. Faceva regolari inchieste nelle parrocchie per sapere come erano alloggiati i chierici, quanto pagavano d’affitto e se fosse necessario migliorare le loro situazioni abitative. S’interessava anche che i sacerdoti non subissero abusi da parte dei funzionari del fisco nella determinazione dell’imposta sul reddito. I rapporti del nostro vescovo con le autorità civili, specialmente con il delegato per gli affari religiosi, erano particolarmente difficili. Ogni minimo pretesto veniva utilizzato per chiudere il maggior numero possibile di chiese: a volte qualche piccola crepa nei muri assumeva sulla carta dimensioni paurose, a volte i parroci erano artatamente calunniati per essere cacciati dalla parrocchia e poter così chiudere la chiesa. Il vescovo allora era in prima linea nel difendere i suoi sacerdoti.

34 Lo statuto approvato dal sinodo episcopale del 1961, su pressione del potere politico, subordinava interamente i parroci ai consigli parrocchiali, formati da laici e generalmente controllati dagli organi di polizia politica. Il prete si doveva occupare esclusivamente del servizio liturgico, ma era privato di ogni competenza sull’amministrazione della parrocchia, e poteva essere allontanato a discrezione del consiglio par-

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A metà degli anni Cinquanta, Nikita Chru∫™ev annunciò la sua crociata contro la chiesa, promuovendo un’intensa propaganda antireligiosa. Dopo la pubblicazione della tristemente nota delibera del comitato centrale del pcus e del discorso di Chru∫™ev, il vescovo Luka si rivolse con un’omelia al suo gregge sgomento e impaurito. “Non avere paura, piccolo gregge”, così si intitola la sua predica, pronunciata nel 1954 il giorno della festa dell’Intercessione della Madre di Dio: Nonostante i successi della propaganda ateistica, dappertutto il piccolo gregge di Cristo si è conservato e continua a vivere. Voi, tutti voi che mi ascoltate, siete questo piccolo gregge. Sappiate e siate certi che il piccolo gregge di Cristo è invincibile, nessuno può distruggerlo, esso non ha paura di niente, perché conosce e ha sempre con sé le parole di Cristo: “Edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Mt 16,18). Allora se neanche le porte degli inferi prevarranno sulla sua chiesa, perché sgomentarci, di che preoccuparci, di che affliggerci? Di nulla, di nulla! Il piccolo gregge di Cristo, il vero gregge di Cristo è invulnerabile a qualsiasi propaganda35.

La vita terrena di Luka si avvicinava inesorabilmente al tramonto. La sua anima, purificata dal fuoco delle sofferenze nel nome di Cristo, si preparava al passaggio nella beatitudine eterna, là dove, unendosi alla schiera dei santi, avrebbe continuato a servire la chiesa in altro modo. Il Signore confermò l’autenticità della sua predicazione con i miracoli, che ancora oggi testi-

rocchiale, di cui era formalmente un dipendente. Ne conseguiva una profonda spaccatura tra l’istituzione gerarchica (patriarca, vescovi, presbiteri) e le parrocchie, che di fatto rispondevano alle autorità civili [N.d.C.]. 35 Archivio del decanato (blago™inie) di Belgorosk, presso la chiesa di San Nicola. Corrispondenza con l’amministrazione diocesana. Decreti episcopali, 1948-1959, nr. 125.

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moniano la giustizia della sua lotta contro il male. Anche la sua attività professionale aveva qualcosa di miracoloso, come hanno testimoniato alcuni suoi pazienti. Un giorno andò da lui una donna magrissima, con la gola fasciata, Aleksandra Borisova. Il marito era stato assegnato in servizio in Estremo oriente, e là la donna si era malata alla gola, né il suo stato era migliorato con le cure dell’ospedale militare. La malattia progrediva con forti dolori e febbre alta, le era impossibile deglutire, si limitava a bere acqua. I medici le dissero che non potevano fare nulla per lei e le dissero di tornare in patria, in Crimea. La donna, madre di due bambini, era disperata. I genitori la portarono da Luka. Egli la visitò benevolmente, le disse che aveva fatto bene ad andare da lui, poi pregò, benedisse la malata e le disse: “Ora starai meglio. Togliti la fasciatura, mangia un po’ di tutto, specialmente cibi acidi e salati. Prima e dopo aver mangiato sciacqua la gola con acqua salata e qualche goccia di iodio”. La malata, come fu uscita dalla visita, cominciò subito a star bene e il giorno dopo la sua malattia era scomparsa. Tornò in oriente dal marito, con la certezza che il vescovo Luka l’aveva guarita in modo miracoloso36. Un’altra volta dal vescovo venne una donna con il figlio di dodici anni, affetto da un tumore sul collo e sul petto. I medici insistevano perché fosse operato, ma il vescovo, visitatolo, sorrise e disse: “Nessuna operazione. Torna da me fra tre giorni”. Tre giorni dopo la madre piena di gratitudine portò alla benedizione del vescovo il figlio completamente guarito37. Anche dopo la morte del vescovo, naturalmente, sono avvenuti straordinari miracoli in diverse parti del mondo. Ne menzionerò solo alcuni. A Dnepropetrovsk una donna che aveva la

36 Cf. Archivio della diocesi di Crimea. Materiali della Commissione per la canonizzazione dell’arcivescovo di Simferopoli e Crimea Luka (Vojno-Jaseneckij). 37 Cf. ibid.

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figlia malata nella semplicità del suo cuore così pregava: “Signore mandami dal cielo il tuo santo martire Panteleimon e il santo Luka che ci aiutino”. Cominciò l’intervento chirurgico, la madre stava seduta nel cortile interno dell’ospedale, d’un tratto vide che la parete dell’edificio era trasparente, e all’interno era visibile la sala operatoria, dove una donna chirurgo eseguiva l’operazione. Da un lato del tavolo vide san Panteleimon con una candela accesa, dall’altro lato il vescovo Luka che passava gli strumenti al chirurgo. Dopo l’operazione, la madre andò dal medico per sapere come era andata, e il medico le disse, non senza stupore: “Appena pensavo che mi servisse un certo strumento, me lo trovavo già tra le mani”38. Nell’ospedale di Atene una donna vide un vecchio alto dalla barba bianca che usciva dall’ascensore. Oltre al camice di medico indossava anche l’abito vescovile. La donna gli chiese: – Perché lei è vestito da vescovo? Questa non è una chiesa, ma un ospedale! – Io sono medico ma anche vescovo. – E dove opera? – Dove mi invitano a eseguire operazioni. – Come si chiama? – Arcivescovo Luka. – Dove vive? – Nel monastero di Sagmata39.

Potremmo raccontare a lungo sulle apparizioni e gli interventi del santo taumaturgo Luka, sulla guarigione di malattie gra-

Comunicazione personale a chi scrive. Comunicazione personale a chi scrive. Sagmata è un monastero greco, non lontano da Tebe, in cui si trovano parte delle spoglie mortali del vescovo; l’igumeno del monastero, l’archimandrita Nektarios, è autore di un libro sul vescovo Luka: N. Antono38 39

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vissime, tra cui quelle tumorali. Stiamo raccogliendo con cura le indubbie testimonianze della gloria del nostro protettore celeste40. È passato del tempo. I nomi dei persecutori della fede si sono cancellati dalla memoria del popolo. Nessuno più li ricorda, sebbene solo la pronuncia del loro nome suscitasse un tempo terrore tra la gente. Ma la gloria dei martiri indefettibili, degli eroi dello spirito, dei miti e audaci combattenti per Cristo, che fino in fondo lottarono per la Verità, si estenderà nei secoli e rimarrà come tesoro prezioso nella chiesa di Dio.

poulos, Αρχιεπρσκοπος Λουκς Βινο-Γιασεντσκι νας γιος ποιμνας καργιατρς χειρουργς (1877-1961), Efesou-Nea Smirni-Athinai-Thessaloniki 1999. 40

Una raccolta di testimonianze si trova in V. Maru∫™ak, Svjatitel’-chirurg, pp. 333-397.

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DA GIOVANNI CASSIANO A NICODEMO L’AGHIORITA: LO SCAMBIO DEI DONI SPIRITUALI Antonio Rigo*

La presente esposizione è articolata in due parti, di ampiezza diseguale: la prima si sofferma sul periodo bizantino propriamente detto sino alla caduta di Costantinopoli (1453), la seconda riguarda l’età della turcocrazia e gli albori della modernità. La nostra attenzione sarà rivolta esclusivamente al movimento nella direzione occidente-oriente, e non ci soffermeremo sul movimento opposto e complementare, ovvero sulla diffusione e l’autorità dei padri spirituali greci nell’alto medioevo, all’epoca dei tentativi di riforma del monachesimo ispirati dall’orientale lumen, né ci dedicheremo al loro potente influsso tra la fine del Duecento e il Trecento grazie all’attività degli Spirituali francescani (primo fra tutti Angelo Clareno) e poi nella devotio moderna e fino alla spiritualità cattolica del tardo Cinquecento e alla “Tebaide protestante” del xvii e xviii secolo.

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Docente di cristianesimo bizantino presso l’Università di Venezia.

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Il tardo periodo bizantino Nella storia millenaria della spiritualità bizantina, il numero dei testi tradotti in greco è molto limitato, anche se l’influenza di questi apporti e di questi autori è spesso decisiva per gli sviluppi successivi. Così, già nell’epoca formativa, alcune opere di Giovanni Cassiano vengono tradotte dal latino. Per il combattimento spirituale e la nomenclatura dei pensieri malvagi, l’autorità di Giovanni “il Romano” non farà che aumentare nei secoli successivi. Per questo primo periodo, oltre a un altro occidentale, Gregorio Magno “il Dialogo”, deve essere anche ricordata la traduzione dal siriaco in greco, effettuata a Mar Saba in Palestina, del corpus di Isacco di Ninive, evento decisivo per la rinascita spirituale bizantina nel x e xi secolo. Ma la storia di Isacco, e della traduzione di Isacco, è un altro capitolo. Nell’ultimo periodo della storia bizantina (xiii-xiv secolo), epoca caratterizzata da una ripresa della conoscenza della lingua latina a Bisanzio e da numerose traduzioni di opere latine e occidentali di vario argomento (filosofico, teologico, astronomico, astrologico, scientifico, manualistica varia) in greco, le traduzioni di testi spirituali occidentali sono invece molto rare e la loro influenza è limitata se non di fatto inesistente. Dopo un breve esame preliminare, per avere risultati degni di nota siamo costretti ad ampliare la nostra prospettiva e a non prendere soltanto in considerazione le opere di argomento spirituale in senso stretto, ma anche quelle più legate alla devozione, alla pietà e a certi aspetti del culto personale e comunitario. Partirò dall’analisi dell’ambiente filounionista bizantino della fine del xiv e dell’inizio del xv secolo e da Demetrio Cidone. Va segnalata in primo luogo la traduzione in greco effettuata da Demetrio dell’Ordo missae domenicano, con le parti proprie della messa della Trinità. Manuele Caleca ha inserito questa traduzione nella sua versione del Messale romano. Passando poi all’esame 212

Da Giovanni Cassiano a Nicodemo …

delle traduzioni effettuate da Manuele Caleca si trovano traduzioni del tutto simili per intenti e contenuto alla versione dell’Ordo missae di Cidone. Va segnalata quella dello Pseudo-Tommaso d’Aquino sulla festa del Corpus Domini e di Anselmo (Cur Deus homo). Ma la traduzione di testi liturgici, che era evidentemente legata ai progetti unionisti di Caleca e al suo desiderio di formare un piccolo gruppo di domenicani greci, è senz’altro più interessante. Si ritrovano ad esempio le versioni della messa di sant’Andrea, della messa dello Spirito santo, della messa di Natale secondo il rito ambrosiano (effettuata da Caleca durante il suo soggiorno a Milano), e dell’Ordo per la confessione e la penitenza. Possediamo una traduzione greca della preghiera Salve Regina e una versione greca anonima del Te Deum. Una nota in margine attribuisce la paternità del testo a Manuele Caleca ma questa attribuzione è incerta, se non dubbia. Altre due preghiere molto note della tradizione occidentale sono state tradotte da Caleca, o da qualcun altro rimasto anonimo. In effetti si conserva una copia della versione greca delle preghiere Pange lingua e Veni Creator. Inoltre nella stessa epoca si trovano altre preghiere occidentali tradotte in greco, come il Supplices te rogamus, utilizzato da Nicola Cabasilas per la sua Spiegazione della Divina liturgia. In questa linea ricordo ancora una composizione di Gennadio Scholarios: Le preghiere per le metanie e parziale riassunto dei salmi, opera composta da Gennadio monaco, prima di diventare patriarca, per la vita di solitudine e la lotta spirituale. Questa composizione è costituita da brevi invocazioni per le quali egli utilizza orazioni ben note di Isacco di Ninive, di Simeone il Nuovo Teologo, di Niceforo Blemmide, che dovevano essere ripetute nella solitudine della cella durante l’esecuzione delle metanie. La serie delle invocazioni si conclude con la traduzione dell’antifona mariana del breviario latino: Ave Regina caelorum, ave Domina angelorum. Alla fine della nona preghiera si legge la traduzione della colletta per le feste della santa Vergine. Il 213

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caso di Scholarios costituisce un’ulteriore testimonianza della traduzione e dell’utilizzo all’epoca di preghiere latine per la pietà e la devozione personali. Vorrei ora presentare un esempio completamente differente. Si tratta di un’opera molto nota: Il fiore di virtù. Questo testo è la traduzione di un’opera italiana scritta da un religioso italiano, Tommaso Gozzadini di Bologna, all’inizio del xiv secolo. L’opera ha un intento didattico e divulgativo, segue la tradizione dei florilegi e contiene un’esposizione su ogni virtù e il vizio che le si contrappone, corredata da esempi ed episodi moraleggianti. Il fiore di virtù ha conosciuto in greco, ma anche in slavo e in romeno, una straordinaria popolarità attestata dalle tre diverse traduzioni greche effettuate alla fine del xv secolo e da innumerevoli edizioni e rielaborazioni in epoca moderna. Lasciando da parte l’esempio troppo tardivo e particolare del Fiore di virtù, l’analisi fin qui condotta ha dato risultati assai scarni: qualche preghiera, qualche brano liturgico, con una diffusione limitatissima. Vorrei citare oggi all’interno di questa prima serie un esempio senza dubbio più interessante, ma che nel complesso non modifica i risultati cui siamo già pervenuti. Mi riferisco a un piccolo corpus di otto opere in traduzione greca, opera di una personalità molto conosciuta della fine del xiii e dell’inizio del xiv secolo, Arnaldo da Villanova, che deve la sua celebrità alla produzione di opere spirituali di contenuto apocalittico legate ai suoi progetti di riforma della chiesa, ai suoi contatti con gli spirituali francescani e i beghini e anche ai suoi interessi scientifici (soprattutto in campo medico e alchemico). Il corpus di Arnaldo in greco contiene una piccola collezione di opere che riunisce testi scritti in latino per un pubblico colto e altri in catalano diffusi anche in versione italiana per ambienti devoti di beghini. La collezione degli scritti di Arnaldo in greco, conservata in un unico manoscritto, è stata realizzata, a mio parere, in un ambiente occidentale ma in oriente nella seconda metà del xiv secolo, e resta per circa un secolo all’interno di quel214

Da Giovanni Cassiano a Nicodemo …

l’ambiente. Ma sin dalla fine del xv e poi nel xvi secolo si ritrova in ambienti greci e ortodossi. La storia delle opere in greco di Arnaldo da Villanova è indubbiamente interessante, ma bisogna osservare che in questo caso, ancor più che negli esempi precedenti, la circolazione e la diffusione di questi testi spirituali occidentali è stata molto limitata, o per meglio dire inesistente. In questa panoramica i cui risultati sono del tutto negativi un’eccezione significativa è senza dubbio rappresentata dalla versione greca di Demetrio Cidone dei Monologia sive soliloquia pseudo-agostiniani con il titolo Preghiere contemplative e d’amore. Queste meditazioni (scritte in realtà tra la fine del xii e gli inizi del xiii secolo) assomigliano ad altre composizioni pseudo-agostiniane della stessa epoca, ma anche a opere contemporanee come quelle di Ugo di San Vittore, e contengono i dialoghi dell’anima con Dio, caratterizzati da una calda affettività e una profonda pietà. Una sensibilità, questa, che ben si coniuga con la spiritualità bizantina e orientale dell’afflizione (pénthos) e delle lacrime.

L’età della turcocrazia e gli albori dell’epoca moderna Le numerose copie manoscritte e infine l’edizione dei Soliloquia a opera di Nicodemo l’Aghiorita (1799) mostrano che questa traduzione di Demetrio Cidone ebbe un successo considerevole già a Bisanzio, ma soprattutto nell’epoca della turcocrazia. Già nella Vita in Cristo di Nicola Cabasilas si possono trovare tracce dei Soliloquia. La diffusione di questa spiritualità agostiniana (o meglio pseudo-agostiniana), incentrata su meditazioni, invocazioni ripetute, monologhi e dialoghi dell’anima con Dio, conosce in oriente anche altri percorsi, che ne attestano la popolarità. Dobbiamo così citare, per gli inizi dell’età moderna, una personalità come Eugenio Voulgaris († 1806), il suo Portavo215

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ce di sant’Agostino (ΚεκραγΛριον το θερου κα! "ερο Α#γουστρνου) e il suo Salterio di sant’Agostino. Il caso di Voulgaris non è certo isolato, come conferma la presenza nei manoscritti di altre traduzioni neogreche (purtroppo inedite, ma che meriterebbero uno studio specifico) di questi scritti pseudo-agostiniani. A proposito dei Monologia sive soliloquia in greco abbiamo citato Nicodemo l’Aghiorita, figura centrale per il tema che ci interessa, come aveva già capito un pioniere degli studi sulla spiritualità e la mistica quale Marcel Viller (1924) e come hanno pienamente dimostrato gli studi più recenti, in particolare quelli di monsignor E. Fragkiskos. Per Nicodemo dobbiamo innanzitutto menzionare il Libro molto utile chiamato Combattimento invisibile (Βιβλρον ψυχωφελστατον καλο)μενον *Αορατος πλεμος) pubblicato nel 1796, ovvero la traduzione riadattata del libro Il combattimento spirituale del teatino Lorenzo Scupoli (1589) con aggiunte del Sentiero del paradiso del francescano Juan de Bonilla. Nicodemo non si limita a riprodurre questi testi, che stabiliscono quattro armi nel combattimento spirituale (umiltà, fiducia in Dio, ascesi, preghiera nelle varie modalità), ma li arricchisce di citazioni della Scrittura e dei padri e inserisce alcuni passi sulla pratica dell’orazione secondo l’insegnamento degli autori spirituali bizantini. Come Michel Van Parys ha mostrato bene proprio qui a Bose qualche anno fa, Il combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli conobbe tra la fine del xviii e il xix secolo una discreta popolarità anche in Russia. Ne conosciamo così due traduzioni, l’una dal latino di Ivan Andreevskij nel 1787, l’altra dal francese di Aleksandr Labzin nel 1816. Infine Teofane il Recluso nel 1886 pubblica una terza versione, basata sulla traduzione greca di Nicodemo, ulteriormente riadattata. Torniamo a Nicodemo l’Aghiorita. Oltre al libro dello Scupoli, egli pubblicava qualche anno dopo (1800) il Libro assai utile chiamato Esercizi spirituali (Βρβλος τ+, .ντι ψυχωφελεστΛτη καλουμνη ΓυμνΛσματα πνευματικΛ). Si trattava anche in que216

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sto caso della traduzione, rielaborata con gli stessi intenti e lo stesso metodo, dell’opera del gesuita Giovanni Pietro Pinamonti, Esercizi spirituali di sant’Ignazio proposti alle persone secolari (1698). Egli si serviva anche di altre due opere dello stesso autore: La religiosa in solitudine (1695) e La via del cielo appianata (1700). Si può notare che Nicodemo l’Aghiorita segue la stessa procedura su scala più ampia con una delle sue opere più celebri, il Manuale dei consigli (Συμβουλευτικ1ν 2γχειρρδιον), scritto nel 1782 e pubblicato soltanto nel 1801. Qui egli ricorre massicciamente al libro di Emanuele Tesauro, La filosofia morale derivata dall’alto fonte del grande Aristotele Stagirita (1670); ma, dopo aver tratteggiato un’antropologia (corpo, sensi, fantasia, mente, cuore) e prima di giungere ai piaceri sensibili e a quelli spirituali, Nicodemo riprende fedelmente nel capitolo centrale (il x), dedicato alla custodia della mente e del cuore, gli insegnamenti degli autori spirituali bizantini del xiii-xiv secolo sulla preghiera del cuore e in particolare la dottrina di Gregorio Palamas sul “movimento circolare” della preghiera. Le ricerche di monsignor Fragkiskos su Nicodemo l’Aghiorita hanno attirato l’attenzione su Emmanuel Romanitis, segretario del Monastero di San Giovanni il Teologo di Patmos tra il 1717 e il 1758. Questo personaggio, oltre ad aver tradotto le opere spirituali poi utilizzate e riadattate da Nicodemo (Scupoli, Pinamonti), aveva preparato la versione neogreca di altri scritti spirituali moderni e della fine del medioevo, tra i quali va segnalato l’importante De imitatione Christi, attribuito a Tommaso da Kempis (1379/1380-1471). Di quest’opera va ricordata anche la contemporanea traduzione effettuata dal domenicano di Chios Petros M. Kalomatis, dedicata ai figli di Michele Ra˘covit¸za˘, principe di Moldavia e Valacchia, e stampata a Venezia nel 1746. Il caso di Romanitis, come quello di altre traduzioni anonime e poco studiate, tra le quali quelle che abbiamo poc’anzi menzio217

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nato a proposito delle opere pseudo-agostiniane, ci mostra innanzitutto la costante diffusione di opere spirituali occidentali in oriente in età moderna e allo stesso tempo indica una pista da seguire per le ricerche future. L’assenza di una storia della letteratura spirituale in greco sotto la turcocrazia (il volume di Gerhard Podskalsky, pur degno d’interesse, si limita infatti alla produzione teologica in senso stretto, e in particolare alla polemica greco-latina) ha comportato anche la mancanza di indagini sistematiche sulle traduzioni di opere spirituali occidentali in greco. Le tracce che abbiamo segnalato ci attestano la costante presenza di questi testi nell’oriente greco. Senza dubbio un allargamento delle nostre conoscenze mostrerebbe da un lato la continuità degli scambi tra la spiritualità latina e quella ortodossa durante tutta l’età moderna e dall’altro fornirebbe nuove possibilità di lettura dei percorsi della spiritualità greca nei secoli della turcocrazia, una regione inesplorata che attende ancora un cartografo.

Nota bibliografica Per le opere di Giovanni Cassiano in greco, si veda innanzitutto E. Lanne, “Cassiano il Romano, discepolo di Evagrio Pontico. Un vincolo tra monachesimo d’oriente e d’occidente”, in Amore del bello. Studi sulla Filocalia. Atti del “Simposio Internazionale sulla Filocalia”, Pontificio Collegio Greco, Roma, novembre 1989, Bose 1991, pp. 58-60; Jean Cassien entre l’Orient et l’Occident. Actes du colloque international organisé par le New Europe College en collaboration avec la Ludwig Boltzmann Gesellschaft (Bucarest, 27-28 septembre 2001), a cura di C. Ba˘dilit¸a˘ e A. Jakab, Paris 2003. Per la traduzione di Isacco di Ninive, si veda per ora (in attesa dell’edizione di Marcel Pirard) S. Brock, “Syriac into Greek at Mar Saba: the Translation of St. Isaac the Syrian”, in The Sabaite Heritage in the Orthodox Church from the Fifth Century to the Present, a cura di J. Pa218

Da Giovanni Cassiano a Nicodemo …

trich, Leuven 2001, pp. 201-208; A. Rigo, “Introduzione”, in Mistici bizantini, a cura di A. Rigo, Torino 2008, pp. xvi-xx. Sulle traduzioni di testi spirituali occidentali in greco, si veda A. Rigo, “Textes spirituels occidentaux en grec: les oeuvres d’Arnaud de Villeneuve et quelques autres exemples”, in Greeks, Latins and Intellectual History 1204-1500. Debates, Influences, Impressions, Translations, Migrations, a cura di M. Hinterberger e Ch. Schabel, Leuven (in corso di stampa). Per il testo greco di Demetrio Cidone dei Monologia sive soliloquia, si veda A. Koltsiou-Niketa, Δημητρου Κυδ νη. Η βυζαντιν μετφραση το ψευδοαυγουστνειου ργου Soliloquia (Τ ν εποι ! ψυχ μ#νη πρ$ς μ#νον τ$ν Θε#ν), Athinai 2005.

Sull’edizione di Nicodemo l’Aghiorita dei Monologia, si veda E. Citterio, “Nicodemo Agiorita”, in La théologie byzantine et sa tradition, II. (XIIIe-XIXe s.), a cura di C. G. Conticello e V. Conticello, Turnhout 2002, pp. 915-916. Per i libri di E. Voulgaris, si veda D. Stiernon, “Eugène Boulgaris”, ibid., pp. 745-746. L’articolo evocato è M. Viller, “Nicodème l’Hagiorite et ses emprunts à la littérature spirituelle occidentale. Le combat spirituel et les exercices de saint Ignace dans l’Église byzantine”, in Revue d’Ascétique et de Mystique 5 (1924), pp. 174-177. Sul Combattimento invisibile di Nicodemo si veda E. Citterio, “Nicodemo Agiorita”, p. 927. Per l’opera di Scupoli, Nicodemo e Teofane il Recluso si veda M. Van Parys, “Preghiera e combattimento spirituale in Teofane il Recluso”, in La Preghiera di Gesù nella spiritualità russa del XIX secolo. Atti del XII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (sezione russa), Bose, 16-18 settembre 2004, a cura di A. Mainardi, Bose 2005, pp. 213-245. Sugli Esercizi spirituali di Nicodemo, si veda E. Citterio, “Nicodemo Agiorita”, pp. 928-929. Per il Manuale dei consigli, si veda ibid., pp. 929-930. Sulla dipendenza di Nicodemo da Gregorio Palamas, si veda A. Rigo, “Nicodemo l’Aghiorita, la ‘Filocalia’ e Gregorio Palamas”, in Nicodemo l’Aghiorita e la Filocalia. Atti dell’VIII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (sezione bizantina), Bose, 16-19 settembre 2000, a cura di A. Rigo, Bose 2001, pp. 151-174. 219

Antonio Rigo

Sulle traduzioni di E. Romanitis, cf. E. Fragkiskos, “Αορατος π λεμος (1796), Γυμνσματα Πνευματικ (1800). Η πατρ τητα τν μεταφρσεων το Νικοδμου Αγιορε!του”, in 7Ο 2ρανιστAς 19 (1993),

pp. 102-135; cf. anche E. Citterio, “Nicodemo Agiorita”, pp. 953955, 930. Per la traduzione di Petros M. Kalomatis dell’Imitazione di Cristo, si veda Th. I. Papadopoulos, 7Ελληνικ: βιβλιογραφρα (1466 ci.-1800) II, Athinai 1986, nr. 597. Da ricordare per inciso anche le traduzioni di Giovanni d’Avila († 1569), Documenti spirituali e De ascensione mentis in Deum, pubblicate a Roma dalla Congregazione de propaganda fide nel 1637: si veda É. Legrand, Bibliographie hellénique ou description raisonnée des ouvrages publiés par des grecs au dix-septième siècle I, Paris 1894, nrr. 259-260. Il volume citato è G. Podskalsky, Griechische Theologie in der Zeit der Türkenherrschaft (1453-1821). Die Orthodoxie im Spannungsfeld der nachreformatorischen Konfessionen des Westens, München 1988.

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LO SCAMBIO DEI DONI: UNA SFIDA SPIRITUALE TRA CRISTIANI Hervé Legrand*

Da molti anni il professor Antonio Rigo mette a disposizione dei convegni del monastero di Bose la sua grande erudizione. Ed ecco che ancora una volta ci sazia della sua impareggiabile conoscenza della storia della spiritualità bizantina, prestando particolare attenzione ai contatti che essa ebbe con la spiritualità latina e ricavandone delle piste di ricerca ancora da esplorare. Evidentemente non sono in grado di seguire le sue orme su questo terreno storico che non è di mia competenza. È considerando i tempi odierni, e dunque in modo un po’ arrischiato, che cerco di far emergere il significato spirituale degli scambi che avvengono oggi e di cui i nostri colloqui sono una testimonianza. Nei nostri convegni si riprende coscienza della forza delle nostre tradizioni spirituali, delle loro affinità, delle interazioni, non soltanto come fenomeni del passato, ma come dinamiche del tempo odierno, come ha già sottolineato il messaggio dell’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams. Simili scambi si collocano su un registro diverso da quello del dialogo teologico, paziente e prudente, dispiegato attualmente nel quadro del lavoro della Com* Teologo cattolico, esperto di ecclesiologia e di ecumenismo, professore emerito della facoltà di teologia dell’Institut Catholique (Parigi). Traduzione dall’originale francese.

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missione internazionale per il dialogo teologico tra cattolici e ortodossi. Grazie agli approfonditi contributi di cui abbiamo beneficiato anche quest’anno, credo che tutti, in questa nostra assemblea, saremmo disposti a far nostra la convinzione del metropolita Platon di Kiev per il quale: “I muri della nostra separazione non salgono fino al cielo”1, convinzione manifestata nell’esperienza spirituale vissuta, ad esempio, da Lev Gillet, cioè questo monaco della chiesa d’oriente il cui itinerario, complesso e degno di rispetto, ci è stato restituito dalla compianta Elizabeth Behr-Sigel2; convinzione ancora, che era ripresa ieri da monsignor Georges del Monte Libano quando osservava che Isacco di Ninive, per quanto “nestoriano”, era accolto e venerato come un maestro spirituale in tutte le chiese! Per molto tempo, troppo tempo, tuttavia alcuni, da una parte e dall’altra, hanno creduto che il cielo stesso approvasse la nostra mancanza di relazioni, o addirittura la esigesse. E se certuni sono potuti giungere a tali convinzioni, ciò è dovuto al fatto che tra cattolici e ortodossi si era quanto meno raffreddato l’amore. Ma la serie ormai impressionante dei convegni di Bose – con questo convegno siamo al diciassettesimo – è sicuramente un indice, tra tanti altri, di un considerevole approfondimento del clima spirituale tra di noi, dovuto probabilmente, del resto, anche all’irradiamento internazionale di questi convegni, divenuti veri incontri, che hanno contribuito, a loro volta, all’instaurazione di questo nuovo clima. Per questo motivo, se posso ispirarmi al titolo del contributo di padre Andrew Louth, direi che l’odierno convegno, al pari

1 L’espressione è tratta da uno scritto del metropolita Platon (Gorodeckij) di Kiev (1882-1891), che è stato frequentemente ripreso dal padre Couturier; cf. M. Villain, Oecuménisme spirituel. Les écrits de l’abbé Couturier, Paris-Tournai 1963, p. 100 (senza indicazione della fonte). 2 Cf. E. Behr-Sigel, Lev Gillet, Un moine de l’Église d’Orient, Paris 1993

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Lo scambio dei doni …

di quelli che l’hanno preceduto, testimonia che la lotta spirituale per la carità cristiana sta riprendendo, tra di noi, quel posto che non avrebbe mai dovuto perdere. Di tutto questo dobbiamo rendere grazie a Dio, perché questa nuova situazione alimenta la nostra speranza nella capacità di riconciliazione della vita cristiana in tempi in cui, sotto lo sguardo dei non credenti, ma anche sotto lo sguardo di Dio stesso, non possiamo non vergognarci collettivamente delle nostre divisioni. Basti evocare i conflitti dell’Irlanda del nord e quelli più sanguinosi dell’ex Iugoslavia o, ancora, delle diffidenze riapparse tra cattolici e ortodossi, così come tra ortodossi stessi, nella nuova situazione nata dal crollo del comunismo … Fondendo questi conflitti con le violenze islamiche, i mass media non hanno mai smesso di insinuare, nei loro commenti, che anche il cristianesimo, ben lungi dall’essere un fattore di pace e di riconciliazione, avvelenava piuttosto i conflitti in atto. Per quanto tali analisi giornalistiche risultino parziali, o addirittura erronee, sono state per tutti noi l’occasione di un esame di coscienza che potrebbe essere l’inizio di una conversione. La lotta spirituale non ha luogo soltanto nell’intimità delle nostre coscienze personali. Infuria anche nello spazio pubblico, contro “le autorità, le potenze, i dominatori di questo mondo di tenebra” (Ef 6,12)3. Possiamo cominciare a gioire nella speranza, perché ormai esiste la disponibilità a unire le nostre forze spirituali in questo senso. Unire le proprie forze non è ancora esattamente la stessa cosa che “scambiare doni”, una formula che Giovanni Paolo II ha spesso ripreso4. Sottoporrò al vostro discernimento, teologico e pratico, una diagnosi che si vuole caratterizzata dalla pru3 È noto che questo vocabolario angelologico comporta anche una visione della società; si veda, ad esempio, il suggestivo studio di E. Peterson, “Le problème du nationalisme dans le christianisme des premiers siècles”, in Dieu vivant 22 (1952), pp. 89-87. 4 Un elenco completo dell’uso di tale formula, con valenza polisemantica, nei discorsi di papa Giovanni Paolo II relativi a questo tema si trova in M. Mallèvre, “L’oecuménisme comme ‘échange de dons’ selon Jean Paul II”, in Istina 53 (2008), pp. 47-75.

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denza, perché il discernimento, in questo campo, è molto più necessario dell’entusiasmo. La mia opinione è che ci troviamo soltanto alla vigilia di uno scambio dei doni che Dio ci ha fatto. Formulerò questa diagnosi in quattro punti: il primo sarà un richiamo storico inteso a illuminare lo stato presente; il secondo sarà una breve analisi di quello che può essere in realtà lo scambio di doni spirituali; il terzo traccerà la dinamica che si intravede da parte cattolica in modo da correggere quanto sembra dover essere corretto. Nell’ultimo punto, tenterò di attualizzare un aspetto di quello che potrebbero essere questi scambi spirituali nel prossimo futuro; lo farò chiaramente da cattolico occidentale per consentire ai nostri fratelli ortodossi di reagire direttamente al mio discorso.

Gli scambi spirituali nel cristianesimo delle origini Gli scambi spirituali tra chiese e tra monaci nell’antichità cristiana Fin dall’origine, gli scambi spirituali tra le chiese hanno fatto parte della vocazione cristiana, vocazione determinata dalla loro nascita a pentecoste. Ecco come il concilio Vaticano II esprime tale vocazione in Ad gentes 4: Nel giorno della pentecoste … fu prefigurata l’unione dei popoli nella cattolicità della fede attraverso la chiesa della nuova alleanza, che parla tutte le lingue e tutte le lingue nell’amore intende e comprende, superando così la dispersione babelica5.

5 Concilio Vaticano II, Ad gentes 4, in Enchiridion vaticanum I, Bologna 200618, p. 1063, nr. 1095 (cf. la n. 21).

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A sostegno di tale interpretazione, il concilio Vaticano II offre non meno di quattordici riferimenti ai padri d’oriente e d’occidente, cosa che testimonia sufficientemente che non si tratta della speculazione di qualche spirito originale, ma di una percezione che determina la comprensione che la chiesa antica ha di se stessa. Le lingue, in questo contesto sono una metafora dalla duplice portata; essa tende, cioè, a riconoscere le diversità culturali come realtà da rispettare e da correggere, e invita la chiesa a mettersi a servizio della comunicazione tra i popoli. Beninteso, sarebbe anacronistico attribuire ai padri uno sguardo sociologico. Non utilizzavano gli attuali concetti di identità culturale, di nazionalismo, di etnocentrismo ma queste realtà erano loro familiari tanto quanto lo sono a noi. Con questo simbolismo di Babele rovesciata, i padri citati dal concilio Vaticano II intendono affermare da una parte che il tessuto di ogni cultura è chiamato a dar vita a chiese ogni volta originali, cosa che provoca la diversificazione spontanea del cristianesimo antico: le chiese siriana, greca, latina, copta, armena, etiopica, indiana (nel Malabar) non hanno adottato un modello uniforme che avrebbero poi più o meno adattato, ma si sono date ciascuna una liturgia, un’innografia, una teologia, un diritto in profonda simbiosi con il loro mondo. Non si tratta qui che di un primo aspetto del miracolo delle lingue, perché lo Spirito santo che è al principio della ricca diversità di chiese è anche colui che opera in vista della comunicazione e degli scambi tra di esse. È quello che ha mostrato per lungo tempo la vita sinodale, così attiva, dell’antichità. Lo si comprese molto concretamente, ad esempio, nella diversità delle assemblee cristiane poliglotte, che radunavano copti e greci nelle grandi città dell’Egitto6, e, più ancora, greci

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´ Cf. G. Bardy, La question des langues dans l’Église ancienne, Paris 1948, p. 43.

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e siri ad Antiochia7 e in Palestina8. E in particolare, poiché mi rivolgo a un’assemblea in cui i monaci sono numerosi, non posso non far notare che in queste stesse regioni del Vicino oriente già attraversate allora da conflitti etnici, culturali ed economici non meno numerosi che nel Vicino oriente attuale, un certo numero di monasteri internazionali seppero radunare greci, siri, latini e armeni nella lode continua e nella comune partecipazione all’eucaristia9. In mezzo a noi vi sono i nostri fratelli monaci della chiesa d’oriente; chi mai potrebbe rassegnarsi all’esaurimento di questa linfa del monachesimo orientale che seppe offrire una chiara dimostrazione di questo scambio di doni così congeniale alla chiesa? Osiamo proporre una parabola a mo’ di provocazione: durante la guerra in Bosnia, se accanto a una moschea, quattro monaci ortodossi serbi e quattro monaci cattolici croati avessero potuto riprendere questa tradizione, vivere sotto lo stesso tetto, condividere i pasti e pregare insieme i salmi, compresi quelli di maledizione dei nemici, quale uomo spirituale avrebbe potuto criticarli, soprattutto se si fossero astenuti dalla partecipazione alla medesima tavola eucaristica, rispettando dunque le regole della loro chiesa? Non avrebbero fatto da maestri a nessuno, non avrebbero impartito insegnamenti morali, ma non avrebbero espresso con questo loro modo di vivere l’essenziale della vita cristiana e non solamente della vita monastica? Non sarebbero stati veri uomini spirituali, colmi 7 Sul contesto culturale di Antiochia, si veda lo studio recente di R. Brändle, “Mehrsprachlichkeit im spätantiken Antiochien”, in Theologische Zeitschrift 65 (2009), pp. 47-61. Se ne trova una traccia nella predicazione di Giovanni Crisostomo; cf. Jean Chrysostome, Huit catéchèses baptismales, a cura di A. Wenger, SC 50, Paris 1957, pp. 47-48; 60-63 (cf. Giovanni Crisostomo, Le catechesi battesimali, a cura di A. Ceresa-Gastaldo, Milano 1998, p. 200). 8 Per la Palestina, cf. Eteria, Pellegrinaggio in Terra Santa 47, a cura di N. Natalucci, Firenze 1991, pp. 227-229 e passim; Girolamo, Lettere 108,29 in Vita di Martino, Vita di Ilarione, In memoria di Paola, a cura di A. A. R. Bastiaensen e J. W. Smit, Milano 1975. 9 Sui monasteri degli acemeti (“quelli che non dormono mai”), si veda la monografia classica di O. Hendriks, “Les premiers monastères internationaux syriens”, in L’Orient

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dello spirito della pentecoste, testimoni della speranza cristiana, profeti della vita futura? Non si sono trovati questi quattro monaci, né da una parte né dall’altra, ma forse qui prepariamo il giorno in cui questo sarà possibile, in Bosnia o altrove … Il monastero di Bose che certamente vive in uno spazio irenico, ha dimostrato di essere pronto a compiere questo passo: il compianto metropolita greco-ortodosso Emilianos Timiadis non aveva scelto di condividerne la vita fino al suo incontro, l’anno passato, con il Signore? L’indebolimento degli scambi spirituali nel corso della storia È un dato di fatto che la comunicazione dell’occidente cristiano con l’oriente fu costante nei primi sei secoli, anche nell’ambito della vita monastica, come ha ricordato il professor Rigo. Gli scambi rallentarono e non soltanto perché la vita cristiana aveva perso vigore, per quanto questo sia vero e parte della responsabilità ricada sui monaci – basta pensare al comportamento poco esemplare di alcuni di loro al tempo delle controversie cristologiche –. In Egitto e in Siria, in particolare, non furono affatto completamente innocenti nell’irrigidimento degli scismi che indebolirono notevolmente il cristianesimo di fronte all’islam. Tuttavia nell’assottigliamento degli scambi tra cristiani d’oriente e di occidente svolsero un ruolo considerevole le disgraziate invasioni barbariche, così come la conquista musulmana che portarono alla perdita della conoscenza del greco in occidente e del latino in oriente. Non si potrebbe incolpare il cristianesimo di queste grandi evoluzioni della civiltà10. Syrien 3 (1958), pp. 165-184. Per la Palestina e la coabitazione di greci e armeni, cf. la Vita di san Saba 43-44 o la Vita di san Teodosio (greci, bessi e armeni) di Cirillo di Scitopoli, in Id., Storie monastiche del deserto di Gerusalemme, a cura di L. Perrone, Praglia 1990. 10 Cf. Y. Congar, “Neuf cents ans après. Notes sur le ‘schisme oriental’”, in ´ 1054-1954. L’Église et les églises à neuf siècles de douloureuse séparation entre l’Orient et

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Nell’antichità cristiana, come nel periodo bizantino, il movimento delle traduzioni dal greco al latino fu molto più importante che il movimento inverso, inventariato or ora dal professor Rigo. Se i latini erano caduti in una certa barbarie, i bizantini da parte loro, al pari di tutti gli eredi delle grandi culture, hanno mostrato pochissimo interesse per le lingue straniere e per la traduzione di opere provenienti da universi culturali diversi dal loro, soprattutto dopo l’iconoclasmo11. L’attualità degli scambi spirituali odierni tra oriente e occidente Per il nostro intento è sufficiente dire poche cose su questo punto. Innanzitutto in occidente esiste un vivo interesse per il cristianesimo bizantino. A un livello culturale elevato si continua a coltivare la conoscenza dell’arte bizantina, mentre, negli ambienti cattolici, si osserva un’infatuazione per le icone da parte della gente comune e un reale interesse dei cristiani colti per la spiritualità orientale12, mentre i teologi continuano a pubblicare e a valorizzare i padri greci, tanto che una collezione come “Sources Chrétiennes”, sembra diventata uno strumento di lavoro indispensabile sia per i greci sia per i russi di oggi. Que´ l’Occident. Études et travaux sur l’unité des chrétiens offerts à Dom Lambert Beauduin I, a cura di O. Rousseau, Chevetogne 1954, pp. 3-95. 11 Secondo F. J. Thompson: “Non esiste alcuna prova che i bizantini si siano qualche volta interessati allo studio delle lingue straniere”. Egli osserva ancora che, contrariamente all’idea corrente, “la chiesa bizantina non ha mai incoraggiato l’uso liturgico dello slavone; al contrario, ha sempre cercato per quanto ha potuto, di assimilare gli slavi per mezzo della lingua greca” (“Communications orales et écrites entre grecs et russes [ixe et xiiie siècle]. Russes à Bysance, Grecs en Russie: connaissance et méconnaissance de la langue de l’autre”, in A. Dierkens, J. M. Santerre, Voyages et voyageurs à Bysance et en Occident du VIe au XIe siècle. Actes du colloque international organisé par la section d’histoire de l’université libre de Bruxelles en collaboration avec le département des sciences historiques de l’université de Liège [5-7 mai 1994], Genève 2000, p. 115, con la n. 10). 12 Ne è prova il fatto che la collezione “Spiritualité orientale” de l’Abbaye de Bellefontaine, in Francia, conta ormai quasi novanta volumi e che le collezioni edite dal monastero di Bose si avvicinano a settanta opere.

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ste diverse constatazioni testimoniano una simpatia manifesta per l’ortodossia in occidente13 senza dare avvio però a un movimento di conversione confessionale14. Quale può essere dunque il futuro di questa dinamica reale di scambi? Molto positivo se riesce a risvegliare un approfondimento spirituale in ciascuna delle due chiese. È allora che esse si troveranno più vicine. Se la prospettiva del proselitismo appare illusoria e sterile, come ha preso atto la Dichiarazione di Balamand, il momento attuale in cui ci mettiamo a parlare della nostra vita più profonda nello Spirito, pare aprire il futuro. Occorre precisare a quali condizioni.

Alcune condizioni per un nuovo cammino tra cattolici e ortodossi Inaugurando questa seconda parte mi sarà concesso, in quanto teologo cattolico, di citare Benedetto XVI, il quale osserva che quando i cristiani dialogano, il dialogo è … molto di più di uno scambio di idee, molto più di un’attività accademica; i cristiani compiono un passo at-

13 Una cinquantina d’anni or sono l’archimandrita E. Mastroghiannopoulos, della confraternita Zoí, presentava questo movimento come “nostalgia dell’ortodossia”; cf. E. Mastroghiannopoulos, Nοσταλγρα τCς 7Ορθοδοξρας, Athinai 1956. 14 Si vedrà in questo senso, la conclusione priva di illusioni sul numero di occidentali convertiti all’ortodossia, cui giunge lo studio di S. Model, “Une page méconnue de l’histoire de l’orthodoxie en Occident: la Mission orthodoxe belge”, in Irénikon 81 (2008), p. 46: in venticinque anni alcune decine di belgi convertiti, osserva, e aggiunge che “le cifre dei paesi vicini [Francia e Gran Bretagna] sono dello stesso ordine”; non sono che l’uno per cento degli ortodossi di questi paesi. Tale situazione conduce “i progetti di creazione di chiese ortodosse ‘locali’ al rango di ipotesi largamente irrealistiche o a un futuro indefinito”.

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traverso il quale sono chiamati a scambiare i loro doni (cf. Ut unum sint 28), un passo tramite il quale le chiese e le comunità ecclesiali possono mettere i loro propri tesori a disposizione gli uni degli altri15.

Questa presa di posizione invita a riconoscere l’insufficienza degli accordi in campo dottrinale, per quanto siano necessari, e a ristabilire gli scambi richiesti dalla carità cristiana. Altre maniere di condivisione delle ricchezze devono accompagnarli. Infine bisogna disporci più a ricevere che a donare. Insufficienza e necessità degli scambi dottrinali: dialogo della verità Alcuni temono di entrare in una dinamica di scambi con l’altra chiesa prima che siano chiariti i problemi dottrinali. Per quanto tale opzione sia degna di rispetto, essa urta, come si è ricordato, contro la lentezza del metodo degli accordi dottrinali, a cui gli stessi responsabili si mostrano sensibili16. E tuttavia, il metodo degli accordi dottrinali non può essere abbandonato perché l’unità esige di essere fatta nella verità. Ancor più, chiunque ha esperienza di questi dialoghi riterrà, anche solo empiricamente, che essi sono assolutamente indispensabili per chiarire le considerevoli incomprensioni reciproche ancor esistenti tra di noi, perché, in passato, abbiamo mostrato maggior zelo nel respingerci che nel cercare di comprenderci! 15 Acta Apostolicae Sedis 97 (2005), p. 913; La Documentation catholique 102 (2005), p. 899. 16 È il caso del cardinal Ratzinger stesso che constatava che “tutti i tentativi della riunificazione fondati su negoziazioni e su dialoghi sono stagnanti” ( J. Ratzinger, Faire route avec Dieu. L’E´glise comme communion, Paris 2003, p. 241). E più recentemente il cardinal W. Kasper osservava: “Il metodo utilizzato fino a oggi, consistente nel sottolineare i punti di convergenza … ha perso la sua efficacia: oggi non avanziamo più su questa via” (“La luce di Cristo e la Chiesa”, discorso del 5 settembre 2007 a Sibiu, in http://www.eea3.org/documenti/fourth/KasperIt.doc [ultimo accesso 5 maggio 2010]).

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Scambi di tipo pastorale e spirituale Alcuni scambi possono produrre effetti più concreti, in particolare gli scambi nella formazione del clero e nell’ambito pastorale a esso legato. Mi si concederà qui di evocare un ricordo personale. Molto tempo fa, ho avuto l’opportunità di accompagnare, a dorso di mulo, il vescovo Irinaios Galanakis di Kissamos e Selinos, nella visita pastorale alle sue parrocchie di montagna. Il vescovo Irinaios e l’arcivescovo di Creta erano stati formati nel seminario cattolico di Lilla in Francia, presso il cardinal Liénart, pioniere del movimento sociale. Questo fatto aveva prodotto un notevole scambio di doni che si rivelò particolarmente fecondo nell’atteggiamento di questi vescovi durante la dittatura dei colonnelli. Un altro esempio dei nostri giorni: il patriarca di Mosca sta fondando a Parigi un seminario per formare un clero per le parrocchie dell’Europa occidentale e anche per la nuova Russia. Questa iniziativa promette di essere fruttuosa per le responsabilità teologiche e pastorali previste così come per una corretta percezione dell’occidente cristiano in questo paese. Altro esempio parallelo: il lavoro del Comitato culturale per la cooperazione cattolica presso il Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani offre borse di studio a studenti ortodossi desiderosi di studiare in istituzioni cattoliche. Giustamente Giovanni Paolo II stesso non ha esitato a vedervi uno scambio di doni17. A questo proposito temo che lo sforzo principale debba essere fatto dai catto-

17 “Si tratta di un’opera importante che si ispira al criterio della reciprocità e che costituisce, di sua natura, una testimonianza importante di comunione. Infatti i candidati ortodossi titolari di borse di studio seguono i corsi in diverse Università di Roma e in altre città dell’occidente e sono generalmente accolti in collegi pontifici o in altre strutture cattoliche. La loro presenza esprime così una sinergia concreta che dà luogo a un elemento fondamentale dell’impegno ecumenico: lo scambio di doni tra le chiese nella loro complementarietà. Questo rende la comunione particolarmente feconda (cf. Ut unum sint 57)” (Service d’Information 112 [2003], p. 1).

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lici che inviano una minima percentuale dei loro futuri preti a studiare in facoltà teologiche ortodosse. A livello monastico, il monastero stesso di Bose svolge questo ruolo. Ancora a livello monastico, si devono segnalare gli incontri interconfessionali e internazionali di religiosi (eiir), di cui era cofondatore18 il compianto metropolita Emilianos Timiadis, membro di questo monastero, come già si è ricordato. Esistono ancora almeno altre due organizzazioni parallele, una di iniziativa spagnola, il cosiddetto Congresso internazionale e interconfessionale di religiosi (ciir), e l’altra, Kaire19, nata in seguito a un congresso internazionale organizzato nel 1971 da Diakonia, federazione mondiale delle comunità e associazioni diaconali delle chiese sorte dalla riforma e dall’Istituto ecumenico di Bossey20. Tutte queste associazioni organizzano degli incontri alternandosi di anno in anno. In campo spirituale, prendere a prestito può essere legittimo a determinate condizioni Antropologicamente, l’idea di dono richiama quella di contro-dono come ha mirabilmente mostrato Marcel Mauss, uno dei fondatori della sociologia in Francia21. In termini più sem-

Con monsignor Juan Garcia Hernando, morto a Madrid il 30 giugno 2008. Dal saluto dell’angelo alla Vergine (cf. Lc 1,28). 20 Questo convegno riuniva sessanta religiose di vita attiva, monache e diaconesse – cattoliche, protestanti, ortodosse e anglicane – per una riflessione sul tema “Vivere il vangelo in un momento di grandi sfide”. Attualmente il segretariato di Kaire è assicurato da una sorella del Monastero di Bose. 21 Questo testo è facilmente reperibile in M. Mauss, Sociologie et antropologie, Paris 1950, sotto il titolo: “Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaïques”, pp. 145-279 (tr. it.: Saggio sul dono e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Torino 2002). Tra le sue conclusioni si può notare la seguente: “Le società hanno progredito nella misura in cui esse stesse, i loro sottogruppi e infine i loro membri hanno saputo stabilire i loro rapporti: dare, ricevere e, infine, contraccambiare”. (Il corsivo è nostro). 18 19

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plici, fare un dono a qualcuno è instaurare una relazione di benevolenza, di rispetto e – chissà! – di amicizia con lui. Tale gesto suscita un gesto reciproco: tale è la dinamica dello scambio dei doni sia tra singoli sia tra gruppi. Ma lo scambio dei doni è un’operazione complessa: tra capi di stato rifiutare un dono significa rifiutare o rompere un’alleanza e può dare il segnale di apertura delle ostilità. È la stessa cosa quando ci si appropria dei beni altrui: non è il sentimento che molti ortodossi hanno provato quando la santa Sede si è messa a pubblicare i loro libri liturgici o a codificare il loro diritto22? Gli ortodossi possono anche sentirsi a disagio quando i cattolici latini si appropriano delle icone e le trasformano in oggetti estetici, privi del loro contesto liturgico e teologico. Può essere un problema anche offrire certi doni non desiderati. Per quanto riguarda gli scambi spirituali bisogna guardarsi dal pensare che, per quanto liberi, i prestiti mutuati dagli altri rappresentino sempre una reale ricezione teologica. È così che nel 1936, al primo congresso di teologia ortodossa riunito ad Atene, padre Florovsky denunciava la cattività babilonese della teologia ortodossa moderna in seguito ai numerosi prestiti mutuati dalla scolastica e dal pietismo23. Poiché è la chiesa cattolica a parlare profusamente “di scambio di doni” e poiché questo scambio richiede, come si è visto, molta delicatezza, può essere utile presentare, almeno brevemente, che cosa si intenda con questo.

22 Su queste due imprese si vedrà ormai la straordinaria e lucida monografia di G. M. Croce concernente l’uomo che, nella curia romana, ebbe a cuore più di ogni altro questo genere di imprese: Kirill Korolevskij. Kniga bytia moego I-V, Città del Vaticano 2007. 23 Cf. G. Florovsky, “Westliche Einflüsse in der russischen Theologie”, in Procès-verbaux du premier Congrès de théologie orthodoxe, Athènes, 29 novembre - 6 décembre 1936, Athènes 1939, pp. 212-232.

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La dinamica dello scambio di doni con la chiesa ortodossa Si troverà un’espressione contemporaneamente autorizzata e recente del modo in cui la chiesa cattolica concepisce lo scambio di doni con la chiesa ortodossa nel discorso che papa Benedetto XVI ha tenuto all’incontro ecumenico di Colonia, in occasione della Giornata mondiale della gioventù, il 19 agosto 2005. In campo ecumenico il papa ereditava questa espressione dal suo predecessore che l’aveva creata e che ne aveva fatto un uso frequente. Benedetto XVI da parte sua, la riprende e le assegna un inquadramento dottrinale immediatamente connesso con i grandi testi del concilio Vaticano II: Il dialogo è … molto di più di uno scambio di idee, molto più di un’attività accademica; i cristiani compiono un passo attraverso il quale sono chiamati a scambiare i loro doni (cf. Ut unum sint 28), un passo tramite il quale le chiese e le comunità ecclesiali possono mettere i loro propri tesori a disposizione gli uni degli altri24.

A questo passo seguono dei rinvii alla Lumen gentium, all’Unitatis redintegratio, che già abbiamo citato, e all’enciclica Ut unum sint. Per avere una visione chiara delle intenzioni cattoliche, basta dunque commentare brevemente quei testi del concilio cui rinvia Benedetto XVI, poiché gli enunciati conciliari godono della più grande autorità nella nostra chiesa. Cominciamo con il nr. 13 della Lumen gentium in cui si trova la seguente comprensione normativa della cattolicità:

24 Cf. Acta Apostolicae Sedis 97 (2005), p. 913; La Documentation catholique 102 (2005), p. 899.

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In virtù di questa cattolicità le singole parti offrono i propri doni alle altre e alla chiesa intera, così che il tutto e le singole parti traggano vantaggio dalla reciproca comunicazione di tutti e dal tendere in unità verso la pienezza25.

Questo testo è una carta della cattolicità: come si è già stabilito, gli scambi di doni tra le chiese fanno parte della loro essenza in quanto cattolici. Sono espressioni della stessa dinamica che lega tra loro delle chiese sorelle. Trasposta nelle relazioni con la chiesa ortodossa, questa dinamica non significherà né fusione né confusione tra di esse, come il decreto sull’ecumenismo precisa al nr. 16: Inoltre, fin dai primi tempi le chiese d’oriente seguivano discipline proprie, fissate dai santi padri e dai sinodi, anche ecumenici. E siccome una certa diversità di usi e di consuetudini, sopra ricordata, non si oppone minimamente all’unità della chiesa … il sacro sinodo, onde togliere ogni dubbio, dichiara che le chiese d’oriente, memori della necessaria unità di tutta la chiesa, hanno facoltà di regolarsi secondo le proprie discipline … La perfetta osservanza di questo principio tradizionale, in verità non sempre rispettata, appartiene a quelle cose che sono assolutamente richieste come previa condizione al ristabilimento dell’unità26.

È in questo spirito che il nr. 13 della costituzione dogmatica sulla chiesa, già citato, parlando della condivisione dei beni e dei doni, compreso il dono della grazia, conclude: I membri del popolo di Dio sono infatti chiamati a condividere i loro beni; anche per le singole chiese valgono le parole

25 26

Concilio Vaticano II, Lumen gentium 13, p. 497, nr. 320. Id., Unitatis redintegratio 16, p. 699, nr. 552.

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dell’Apostolo: “Ognuno metta al servizio degli altri il dono che ha ricevuto, da bravo amministratore della multiforme grazia di Dio” (1Pt 4,10)27.

Sempre in questa stessa linea di una cattolicità dinamica, il decreto sull’ecumenismo, al quale rinvia Benedetto XVI, fa questa constatazione al nr. 4: Le divisioni dei cristiani impediscono che la chiesa stessa attui la pienezza della cattolicità a essa propria in quei figli, che le sono sì posti vicino con il battesimo, ma sono separati dalla sua piena comunione. Anzi, alla chiesa stessa diventa più difficile esprimere sotto ogni aspetto la pienezza della cattolicità proprio nella realtà della vita28.

Infine, sempre nel discorso di Colonia, Benedetto XVI fa propria l’eredità dell’Ut unum sint, rinviando in particolare al nr. 56: Le strutture d’unità esistenti prima della divisione sono un patrimonio d’esperienza che guida il nostro cammino verso il ritrovamento della piena comunione … ma purtroppo il progressivo reciproco allontanamento tra le chiese d’occidente e d’oriente ha impedito loro di scambiare le ricchezze dei loro mutui doni e aiuti. Occorre compiere con la grazia di Dio un grande sforzo per ristabilire fra esse la piena comunione, fonte di tanti beni per la chiesa di Cristo … San Paolo ci sprona: “Portate i pesi gli uni degli altri” (Gal 6,2). Come si adatta a noi e come è attuale l’esortazione dell’Apostolo! L’appellativo tradizionale di “chiese sorelle” dovrebbe incessantemente accompagnarci in questo cammino29. Id., Lumen gentium 13, p. 499, nr. 320. Id., Unitatis redintegratio 44, pp. 681-683, nr. 517. 29 Giovanni Paolo II, Ut unum sint 56, in Enchiridion vaticanum XIV, Bologna 1997, pp. 1631-1633, nr. 2776. 27 28

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Questa dinamica non può rimanere, tra capi di chiesa, a livello di pura retorica; per questo bisogna prendere estremamente sul serio Giovanni Paolo II e il patriarca Bartholomeos quando esprimono insieme la loro comune risoluzione con queste parole: Vinca sempre il bene della chiesa! Il sostegno reciproco e lo scambio di doni non possono che rendere più efficace l’azione pastorale e rendere più trasparente la testimonianza resa all’evangelo30.

Una risoluzione del genere non può che essere ulteriormente rafforzata ora che il patriarca ecumenico ha come fratello Benedetto XVI. Ci si trova di fronte a un dinamismo evidente: là dove c’era l’anatema, l’ignoranza reciproca, la durezza di cuore, la pretesa di rappresentare da soli, in uno splendido isolamento, la pienezza del tesoro cristiano – atteggiamenti questi che hanno prodotto, tra di noi e di fronte al mondo, i ben noti amari frutti – vengono descritti gli atteggiamenti che ormai ci è proposto di coltivare insieme. In ogni caso, considerata la situazione culturalmente nuova in cui si trova la chiesa cattolica in occidente, mi si consentirà di esprimere il bisogno che essa ha della solidarietà spirituale della sua chiesa sorella, la chiesa ortodossa, e in particolare delle sue figure spirituali.

30 Acta Apostolicae Sedis 88 (1996), p. 241; La Documentation catholique 92 (1995), p. 735.

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La lotta spirituale della chiesa cattolica e il sostegno della chiesa ortodossa Per aiutarsi vicendevolmente cattolici e ortodossi hanno ancora bisogno di conoscersi più in profondità. Se manca questa conoscenza reciproca, come mostra la storia nelle liste di errori attribuiti dai greci ai latini e viceversa31, ci si priva della possibilità di distinguere ciò che, nelle nostre differenze, deriva indubbiamente dalla fede o dalle legittime differenze culturali nell’espressione di fede; tutto questo è tanto più probabile dal momento che i rapporti tra fede e cultura sono complessi. Dobbiamo esplicitare un po’ di più questa constatazione, perché essa contribuisce a rafforzare quella complessità e quella delicatezza, cui abbiamo già fatto cenno, attinenti allo scambio dei doni. La maggioranza degli ortodossi e la stragrande maggioranza dei cattolici vivono certamente all’interno di società che presentano profonde somiglianze. Si tratta delle società cosiddette tradizionali, che si possono caratterizzare come segue: sono società abbastanza gerarchizzate, ancora largamente rurali, si sviluppano piuttosto lentamente nell’ambito educativo e patiscono ancora varie forme di povertà; cambiano lentamente in profondità, malgrado i visibili sconvolgimenti politici in superficie. Ma abitualmente, in particolare per ragioni d’ordine geografico, ma non solo, gli ortodossi nel loro insieme hanno pochi contatti con questi cattolici delle società tradizionali. Incontrano soprattutto questa minoranza di cattolici che vive nelle società

31 Segnaliamo alcuni lavori recenti sugli errori dei latini: T. M. Kolbaba, The Bizantine Lists Errors of the Latins, Illinois 2000; M. Levy-Rubin, “‘The errors of the Franks’ by Nikon of the Black Mountain: between Religious and Ethno-Cultural Conflict”, in Byzantion 71 (2001), pp. 422-437; F. Tinnefeld, “Die Bezeichnung Angehöriger der Westkirche als ‘Christen’ in byzantinischen Quellen nach 1054”, in Orthodoxe Theologie zwischen Ost und West (Festschrift Th. Nikolau), a cura di K. Nikolakopoulos, A. Vletsis e Vl. Ivanov, Frankfurt an M. 2002.

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occidentali quasi completamente urbanizzate, società di tradizione democratica, in cui l’istruzione è generalizzata, società ricche ma complesse e fragili perché soggette a un cambiamento culturale profondo e rapidissimo. Tutti quelli e tutte quelle che hanno responsabilità educative nelle nostre chiese non possono trascurare la natura e l’importanza di queste differenze culturali in campo religioso proprio per non considerarle immediatamente, senza ulteriore analisi, come divergenze nella fede. Per illustrare tale intento mi rifarò a un unico esempio. Senza necessariamente convincere, darà per lo meno un’idea del modo in cui si pongono le domande. I cattolici latini dei paesi occidentali non digiunano se non alcuni giorni all’anno, ma i bravi cattolici orientali dell’Etiopia digiunano duecentocinquanta giorni all’anno32. E questo non avviene di certo perché gli uni sono meno cattolici degli altri; si tratta piuttosto di un rapporto diverso, culturalmente e antropologicamente, con il cibo dato dal fatto di vivere in questa Europa occidentale la cui produzione agricola comune porta a una sovrapproduzione di cibo impossibile da arginare oppure nella società etiopica in cui la carestia è endemica33. In Etiopia non è un’evidenza evangelica privarsi del cibo quando esso è così scarso? In compenso nelle società dell’Europa occidentale il rapporto con il cibo è ormai privo di significato a causa della sua sovrabbondanza tanto che il digiuno non può avere lo stesso significato antropologico. Digiunando non si rinuncia a niente di prezioso. Ben lungi dal costituire un sacrificio, il digiuno è cercato per pre-

32 È obbligatorio per i preti, i monaci e le monache; i cristiani devoti seguono il loro esempio. L’obbligo per tutti è di centottanta giorni. Cf. E. Gebre Medhen, “Lent in Ethiopia”, in Ethological Society Bulletin 7 (1956), pp. 7-16. 33 Si vedano i lavori di R. Pankhurst, “The History of Famine and Pestilence in Ethiopia prior to the Founding of Gondär”, in Journal of Ethiopian Studies 2 (1972), pp. 37-64; Id., Resettlement and Famine in Ethiopia, Manchester 1992; P. Henze, Hi´ stoire de l’Éthiopie. L’oeuvre du temps, Paris 2004; nell’indice a p. 375 si possono trovare molti rinvii al termine “carestia”.

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servare un buono stato di salute, poiché con grande scandalo dei paesi in cui si soffre ancora la fame, il sovrappeso, l’obesità sono diventati dei flagelli per la salute pubblica in occidente. In breve, il rapporto con il cibo è opposto tra i due contesti culturali che abbiamo sommariamente analizzato34. Antropologicamente ed evangelicamente, presso i cristiani d’occidente, l’atteggiamento spirituale si va spostando dal digiuno inteso come privazione di cibo per concentrarsi sulla condivisione della ricchezza. È così che il tempo di Quaresima è diventato un momento estremamente valorizzato nel quale i cattolici latini danno prova di una straordinaria generosità, non soltanto nei confronti dei loro fratelli dell’Etiopia, ma praticamente nei confronti del mondo intero35. Quale che sia la pertinenza della breve analisi che precede, il suo intento era di mostrare che atteggiamenti cristiani identici – l’ascesi e la condivisione – possono tradursi in forme ben diverse secondo la diversità delle culture in seno alle quali la divina provvidenza ha posto i cristiani. Ma simili differenze non dovrebbero affatto proibire uno scambio di doni. Al contrario, dovrebbero renderlo più desiderabile, soprattutto perché tutti i cristiani devono prendere quale regola l’avvertimento dell’apostolo Paolo ai cristiani di Roma, di cui spesso si cita soltanto la prima parte: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare per poter discernere la volontà di Dio” (Rm 12,2). Uno sguardo e una parola proveniente da cristiani che vivono in altri contesti culturali diversi dal nostro, infatti, dovrebbero essere tanto più pre-

34 Questo è vero anche se vi sono ancora dei poveri in occidente per i quali si organizzano banchi alimentari o mense a prezzo ridotto. Economizzando così sul cibo, conservano un accesso minimo ad altri beni considerati di maggior valore: attrezzature domestiche, minimi svaghi per i bambini. 35 Per la Francia basta ricordare il Secours catholique e il Comité catholique contre la faim et pour le développement; la Caritas internationalis confedera tutte queste opere a livello internazionale.

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ziosi per il nostro discernimento nelle cose dello Spirito al fine di realizzare quella trasformazione di cui parla Paolo. Non è forse uno dei motivi dell’importante corrispondenza che le chiese dei primi secoli intrattenevano vicendevolmente36? È in questa disposizione di spirito che vorrei ora farvi partecipi di alcuni dei gravi problemi spirituali che incontrano i cattolici di occidente nella nuova situazione culturale in cui si trovano: il vostro sguardo esterno ma anche informato e fraterno non ci potrebbe aiutare? Comincerò dal modo con cui noi cristiani occidentali parliamo di Dio. Parlare di Dio dopo Auschwitz ci richiede un approfondimento teologico e spirituale notevole. La realtà di Auschwitz è ben pesante! Questo non mi impedisce, tuttavia, di evocarla come una metafora per le decine di milioni di assassini dovuti a Hitler, Stalin, Mao Zedong e Pol Pot e per tanti altri genocidi del xx secolo: il massacro degli armeni, quelli del Rwanda, la tragedia palestinese. In questo contesto, che impregna profondamente le opinioni pubbliche occidentali, come parlare dell’onnipotenza di Dio e del suo amore infinito per gli uomini? In effetti colui che noi chiamiamo il Signore della storia e il Dio dell’amore è restato sordo, non al male dovuto alla natura, ma a questi crimini e a queste ingiustizie incommensurabili del solo xx secolo37. Se Dio è realmente buono, non è impotente? E se è onnipotente, è realmente buono? Invece di consacrare tante pagine alla cosiddetta secolarizzazione, che in realtà non è altro che un mantello che ricopre una mancanza di inculturazione38, dovremmo piuttosto

36 Il lavoro di P. Nautin, Lettres et écrivains chrétiens des IIe et IIIe siècles, Paris 1961 merita ancora di essere letto. 37 Si potrà leggere su questo tema il breve saggio: H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Genova 1989. 38 Si veda a questo proposito H. Legrand, “Sécularisation, imprécisions et polysémie d’un terme, nécessité d’analyses”, in Id., Les évêques d’Europe et la nouvelle évangélisation. Conseil des conférences épiscopales d’Europe, Paris 1991, pp. 168-175.

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sviluppare un atteggiamento spirituale all’altezza di tale problematica con il vostro aiuto, non senza interrogarci sulla nostra assenza di resistenza a un Male di tale ampiezza, così co- me sulla qualità della nostra lotta per la giustizia. Saremmo certamente aiutati già dalla risposta concreta, se fosse meglio conosciuta, data a queste domande dall’innumerevole coorte dei martiri del periodo comunista. Altra sfida spirituale in occidente: la ridefinizione dei rapporti tra uomini e donne. Affrontare tale problema sotto il segno del rifiuto del femminismo non è più pertinente che affrontare il problema di Dio sotto il segno del rifiuto della secolarizzazione. Lo statuto delle donne in occidente non è cambiato a motivo delle diverse correnti femministe, ma sono, piuttosto, i cambiamenti realmente avvenuti che hanno permesso l’espansione del femminismo. Questi cambiamenti reali sono risultato, in larga parte, dei progressi della medicina. Tali progressi hanno liberato le donne dal loro assoggettamento millenario alla riproduzione della specie: la mortalità delle donne al momento del parto e quella dei neonati in occidente è stata vinta. Tali progressi hanno consentito di regolare le nascite e hanno assicurato alle donne una longevità senza uguali. Le donne, poi, partecipano ancor più a un lavoro produttivo dal momento che nelle società postindustriali i muscoli maschili non servono più a molto. Certamente le donne hanno sempre lavorato, ma nel momento in cui la maggioranza di esse ricevono un salario fuori casa, l’androcentrismo come sistema di rappresentazione e di valore affonda e lascia posto al partnerariato. L’androcentrismo è questa evidenza culturale, universale fino alla metà del xx secolo, secondo la quale le donne sono molto più relative agli uomini di quanto gli uomini lo siano alle donne. Quali discernimenti spirituali sono necessari quando l’androcentrismo, divenuto culturalmente arcaico e percepito come francamente arbitrario, persiste nella chiesa sotto una forma più o meno sacralizzata, ad esempio quando si propone di vedere in Maria il modello della donna 242

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o quando si assegna a quest’ultima un destino che si colloca tra la figura di Eva e quella di Maria? Questo problema è spirituale e non riguarda, evidentemente, soltanto le donne… Penultimo esempio: in occidente, la medicina – è la protagonista ancora una volta! – nella scia dei suoi successi, cioè l’assicurazione di un’ineguagliabile longevità, crea, in parallelo, una curva crescente di anziani colpiti dall’Alzheimer. Sempre meno si muore di morte naturale; la medicina potrebbe fare ancora di meglio – già si dice che un neonato di oggi su due sarà centenario in Europa occidentale –. Ma chi non vede l’ingiustizia di tale progresso? Se ognuno facesse ricorso alle cure disponibili, il budget della nazione non basterebbe. Come, allora, risolvere il problema della fine della vita? Non inganniamoci; non si tratta semplicemente di una questione morale, ma di una questione profondamente spirituale. In altri tempi si attribuiva spontaneamente alla volontà di Dio la nascita di un bambino tanto quanto la morte di un anziano, ma ormai questa “evidenza” urta contro l’esperienza comune, anche contro quella dei pii credenti tanto che i cristiani occidentali hanno bisogno di una spiritualità diversa, nella quale il compimento spontaneo e per certi versi casuale, se non cieco, del destino biologico non può più essere attribuito alla volontà di Dio. Siamo dinanzi a un luogo di lotta spirituale in cui si tratta innanzitutto dell’onore di Dio, anche se si tratta pure dell’onore dell’uomo cristiano. Ho accennato a tre sfide spirituali: ve ne sono molte altre altrettanto urgenti, come la trasformazione degli atteggiamenti nei confronti della sessualità e dell’affettività, già impliciti nelle analisi precedenti. Un altro problema altrettanto importante: la spiritualità da proporre ai cristiani che vivono in società competitive non può essere quella di monaci nel mondo a meno di condannare la comunità cristiana alla paralisi sociale, quando, per rifarci alla Lettera agli Efesini, “la nostra lotta non è contro la carne e il sangue, ma contro i principati e le potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del 243

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male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12), cioè contro strutture di ingiustizia e di male che l’ascesi personale non riuscirà mai a combattere adeguatamente.

Conclusione Giovanni Paolo II ha scritto: Lungo il cammino che conduce verso la piena unità, il dialogo ecumenico si adopera a suscitare un fraterno aiuto reciproco per mezzo del quale le comunità si applicano a darsi scambievolmente ciò di cui ciascuna ha bisogno per crescere secondo il disegno di Dio verso la pienezza definitiva (cf. Ef 4,11-13)39.

Da un punto di vista cattolico ecco cosa potrebbe servirci quale conclusione. Non è per il fatto che una chiesa è vera che essa non può crescere ancora nella verità né crescere nella carità, in particolare praticando lo scambio di doni. Al momento presente non è questo atteggiamento che tende a costruire in ciascuna delle nostre chiese, in ciascuno e in ciascuna di noi, la vera spiritualità, cioè la vita secondo lo Spirito?

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Giovanni Paolo II, Ut unum sint 87, p. 94.

LA FORMAZIONE DEI MONACI ALLA LOTTA SPIRITUALE OGGI IN GRECIA Iakovos Bizaourtis*

Sento il dovere, innanzitutto, di esprimere i miei sentimenti di viva gratitudine e di profonda riconoscenza nei confronti dell’amato igumeno Enzo Bianchi e dei fratelli e delle sorelle in Cristo del santo e splendido Monastero di Bose per l’onore a me reso nel chiamarmi a partecipare a questo convegno e a tenere una relazione davanti a tale scelto uditorio su un tema tanto importante sia per la nostra santa chiesa, sia per la società. Ringrazio vivamente anche tutti i partecipanti che onorano con la loro presenza questa nostra assemblea. Quanto proporrò al vostro ascolto obbedisce all’intelligenza e alla saggezza dell’antico detto: “Non dire niente di eccessivo, niente di incompleto, niente di ostile”. Per quanto concerne la Grecia, occorre subito ricordare che, all’inizio del xx secolo, cominciò, tra molte difficoltà e opposizioni, una rinascita della vita monastica, quando il santo Nettario, vescovo della Pentapoli, nel 1904, fondò a Egina il monastero della Santa Trinità. Dopo il 1950, mentre la Grecia viveva una situazione di pace al suo interno, ex discepoli di Nettario

* Igumeno del Monastero greco ortodosso di Asomaton Petraki (Atene). Traduzione dall’originale greco.

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o presbiteri da lui formati cominciarono a fondare nuovi monasteri e centri spirituali, poli di attrazione, per lo più femminili, che funzionavano generalmente come fondazioni autonome. Tutte queste fondazioni hanno contribuito, fino ai nostri giorni, alla fioritura della vita monastica. Nel frattempo, tuttavia, molte cose sono cambiate rispetto al passato; diversi sono la qualità, le motivazioni, gli intenti, gli ideali e il cammino spirituale di quelli che si affacciano alla vita monastica, come anche il funzionamento dei monasteri. Concretamente, ora più di prima, si accostano alla vita monastica giovani provenienti da ambienti modernizzati che sono cresciuti in condizioni chiaramente diverse da quelle dei tempi passati. Sono stati educati senza essere sottoposti a limitazioni e privazioni, in un relativo benessere, senza aver conosciuto l’ascesi spirituale; in molti casi, hanno ricevuto un’ottima formazione culturale: molti sono diplomati in scuole superiori; inoltre non sono pochi anche quelli che durante la fanciullezza e l’adolescenza hanno frequentato ambienti ecclesiastici, organizzazioni religiose e monaci che vivono nel mondo senza appartenere a un qualche monastero particolare. Tutte queste realtà, in un primo momento, non si sono allineate di buon grado con l’ascesi spirituale e l’obbedienza monastica così come erano state vissute in passato dai monaci della Palestina, dell’Egitto e anche del Monte Athos. In secondo luogo, molte comunità monastiche e molti monasteri si trovano al cuore delle città oppure, anche se distanti dalle città, sono facilmente raggiungibili attraverso le autostrade e, di conseguenza, sono visitati per “pura curiosità” anche da molti laici, uomini e donne, con gli inevitabili vantaggi e svantaggi della cosa. Certamente vi sono anche i monasteri, le case, le kalivi, le skiti del Monte Athos, come anche uno o due altri luoghi inaccessibili alle donne nel resto del paese, ma questo non elimina il problema. Del resto, anche in questi monasteri non vale ciò che valeva in passato. Inoltre, i monaci, per molte e di246

La formazione dei monaci alla lotta spirituale oggi in Grecia

verse ragioni, escono molto più spesso nel “mondo” rispetto al passato. In terzo luogo, i monaci, e tanto più i novizi, non sono al riparo dai gravi problemi e dalle crisi spirituali del nostro tempo. Oggi i giovani sono intossicati dall’ateismo, dal dubbio, dai pregiudizi e dai sospetti nei confronti della chiesa. Lo spirito della rivoluzione francese e dell’illuminismo non solo non è scomparso con il passare del tempo, ma è continuamente all’opera e nella Grecia di oggi siamo al culmine di un folle ateismo e di un anticristianesimo che imperversa nelle scuole e nella politica, ed è diffuso nei comuni mezzi di comunicazione. Assistiamo continuamente al diffondersi di nuove ideologie e presunti metodi per trovare la pace profonda e realizzare pienamente se stessi che, spesso, sono soltanto mondani. Inoltre i giovani oggi sono estroversi ma chiusi in se stessi, sono affannati ma distratti, immersi in un mare di sollecitazioni e di informazioni, che creano turbamento più che contribuire alla formazione di una personalità salda, integra e a fornire criteri di giudizio. Non sono preparati né pronti a valutare persone e fatti sulla base dei valori eterni. Vale anche oggi, e con ancor più ragione, quello che Giovanni Crisostomo disse del proprio tempo: “I saggi sembrano diventati matti”. Infine, vi è ancora l’eterno problema di ogni essere umano e di conseguenza, anche del monaco. Si tratta della lotta contro le passioni, gli istinti, gli assalti della natura decaduta e dei suoi difetti, in particolare quando l’uomo in questione è un giovane e la forza e l’esplosione delle passioni sono al massimo grado. Tra le altre tentazioni vi sono i piaceri della carne, l’ira, l’indocilità, l’egoismo, il biasimo, l’invidia, l’ostinazione nel proprio punto di vista, la mancanza di spirito di collaborazione, eccetera. Quanto abbiamo detto e altro ancora suggerisce all’igumeno, all’anziano di esercitare la sua paternità spirituale e la sua guida con un metodo appropriato e di formare spiritualmente i monaci in modo da prepararli alla lotta in vista della perfezio247

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ne. Va ricordato che, contrariamente a quanto avviene nei monasteri slavi, nelle regioni di lingua greca l’igumeno è contemporaneamente anche la guida spirituale della comunità monastica; nei grandi monasteri, tuttavia, poiché l’igumeno non può essere continuamente presente e attento a tutti i monaci, alcuni monaci più sperimentati e più anziani ricevono quotidianamente la confessione dei pensieri, fortificando i giovani monaci e offrendo consigli per il loro cammino e la loro crescita spirituale. A questo punto permettetemi di indicare il modo di agire dell’igumeno carismatico: egli deve essere semplice, tranquillo, ben disposto, affabile, equanime, capace di consolare e di ammonire senza severità ma con giustizia, paterno secondo l’esempio del padre del figlio prodigo nella parabola lucana (cf. Lc 15,11-32). La maggior parte degli igumeni si accosta ai monaci con una sensibilità non teorica, ma frutto dell’esperienza. Nell’insegnamento e nella guida dei giovani monaci cerchiamo con amore di plasmare la loro mente guidandola alle cose dello Spirito, di dare pace alla loro coscienza, di intenerire le durezze del loro cuore, di orientarli al limpido modo di pensare dell’uomo nello stato secondo natura in cui Dio lo ha voluto. Cerchiamo con fede e con vivo amore di recidere la loro forsennata propensione verso le cose della terra, verso interessi superficiali, per indurli a essere concentrati e profondi. Con le nostre esortazioni li spingiamo verso dimensioni di profondità e maturità. Ricorriamo a esempi, immagini, eventi e fatti della vita quotidiana, ai diversi comportamenti degli uomini che si distinguono per la loro immediatezza concreta, all’esortazione, vale a dire a una serena e istruttiva analisi dei valori della vita. Si può far questo sia a livello personale, sia a piccoli gruppi di giovani monaci, sia al momento dei pasti al fine di offrire loro la possibilità di fare un’esperienza della vita mistica. Si tratta di piccole offerte, ma fatte con grande amore. In questa ricerca l’igumeno utilizza il lessico ascetico tradizionale per definire la vanità e la transitorietà delle realtà umane, 248

La formazione dei monaci alla lotta spirituale oggi in Grecia

l’obbedienza, la rinuncia alla volontà propria, l’astenersi dal giudizio, la lotta contro i pensieri, l’apertura del cuore attraverso un dialogo progressivamente liberatorio, sempre in accordo con l’ortodossia e le esigenze della salvezza in Cristo. L’igumeno insiste soprattutto sul combattimento contro i demoni portando esempi di un’incontestabile realtà in grado di indicare “la via eccellente” (1Cor 12,31), tratti sia dal Gherontikón, sia dalle vite di quanti ci hanno preceduto, sia ancora dalle vite di santi asceti nostri contemporanei che già riposano nel Signore. Elenchiamo ora in dettaglio alcuni dei vari strumenti utili alla guida spirituale. Il primo e principale è la vita liturgica, il culto divino. Spingiamo ad amare, a frequentare e a vivere gli uffici divini e i santi misteri, senza imporre l’esigenza di una partecipazione frutto di costrizione e obbedienza. L’igumeno dà il tono e l’esempio di uno spirito amante della liturgia. Si crea così un’atmosfera di famiglia che insieme loda Dio e si mette al servizio della sua casa osservando e custodendo l’antica tradizione. Sul Monte Athos e in altri monasteri si celebrano circa cinquanta veglie all’anno. La preghiera del cuore con la ripetizione dell’invocazione: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”. Molte comunità sottolineano l’importanza della preghiera “fonologica”. Il monaco “costringe” le labbra ad abituarsi alla preghiera, che ripete con la voce durante tutto il giorno – al di fuori del tempo degli uffici divini – in modo che la mente la “accolga”. Si realizza così un “dialogo” di tutta la chiesa che ondeggia al ritmo del silenzio. Al monaco viene affidata una misura quotidiana che può variare ma che di solito consta di quattro comboschini di trecento nodi e di cento metanie. Il monaco può farne di più soltanto con la benedizione dell’anziano. La confessione. A seconda del numero dei monaci di ogni monastero, la confessione avviene una volta alla settimana o due volte al mese; nelle comunità più piccole, anche ogni sera. 249

Iakovos Bizaourtis

I servizi. I monaci antichi attribuivano maggior importanza alla fatica fisica, al lavoro manuale e agli altri servizi “faticosi”. I monaci più giovani non hanno le stessa forza e la stessa resistenza fisica, per questo il più delle volte i servizi si svolgono a turno. In questo sono compresi anche i servizi di predicazione all’esterno. Le riunioni. In monastero hanno luogo regolari riunioni – in alcuni monasteri anche una o due volte la settimana – e gli igumeni trattano vari temi spirituali, come fanno anche a tavola, dopo la lettura. I temi variano a seconda dei casi e dipendono dal carattere e dalla sapienza dell’igumeno; ve ne sono di meno capaci di parlare, ma comunque uomini spirituali, che non eccellono per il carisma della parola. In queste riunioni della comunità vengono dibattuti e affrontati temi che riguardano direttamente il monastero, oppure temi pratici e liturgici di interesse comune. Tempo libero. Il tempo libero dei monaci, in base al discernimento dell’igumeno, si divide tra la preghiera personale, la meditazione della santa Scrittura e le letture di edificazione spirituale quali le vite dei santi e gli insegnamenti di asceti contemporanei; in alcuni casi si leggono anche testi di esperti di teologia, di scienze umane e sociali, secondo gli interessi particolari dei monaci. Per regola sono proibiti la radio e naturalmente la televisione e la stampa, per il fatto che non contribuiscono alla crescita e all’elevazione spirituale dei monaci. In alcuni casi si ascoltano programmi radiofonici ecclesiastici. Amore fraterno. Tutti i monaci si sottopongono alla preziosa fatica dell’amore in modo che il monastero sia una comunità d’amore grazie a un clima di sana familiarità e di pace, e grazie a un’atmosfera spirituale e di preghiera. La sopportazione e l’accoglienza delle debolezze dell’altro, l’amore reale, l’assunzione della propria colpa, portano all’amore vicendevole in Cristo. L’armonia, il rispetto vicendevole e la gentilezza nei rapporti provengono da una disposizione d’amore per Dio e per il prossimo. Si realizzano così le parole di san Nettario: “Il monaco non vive per se stesso, ma per la comunità e vivendo per 250

La formazione dei monaci alla lotta spirituale oggi in Grecia

la comunità vive per Dio”. In molti monasteri hanno vissuto e vivono santi, esperti di Dio; noti a Dio soltanto, con il loro silenzioso esempio confermano tutti noi. Abbiamo descritto, in poche parole e per quanto il tempo ce lo permetteva, il genere di formazione offerto ai nostri monaci. A conclusione possiamo notare quanto segue. – Come è cambiata la struttura della comunità nei tempi odierni, così anche i metodi di formazione spirituale dei monaci sono stati adattati alle nuove condizioni senza abbandonare i principi basilari del monachesimo. Naturalmente i cambiamenti non sono particolarmente visibili. – Quelli che si accostano oggi alla vita monastica sono diversi da quelli che vi entravano nei tempi passati e così anche le esitazioni e le tentazioni sono più grandi e svariate. – Quelli che si avvicinano a noi sono caratterizzati da sensibilità e da spirito religioso. Cercano discernimento, serietà, delicatezza, accoglienza e rispetto della persona, profondità spirituale, un amore vero colmo di discernimento e di sapienza e, oltre a questo, l’introduzione al mistero, la compunzione, la comunione con il mondo spirituale, con i santi e con gli angeli, la vicinanza e l’unione con la divina Trinità, che fa portare frutti nell’anima, la spiritualità, la santità, la pienezza di vita, la comunione fraterna tra i credenti e tra i monaci. – Talvolta, come in alcune skiti del Monte Athos, presso gli eremiti, l’ascesi è quasi altrettanto severa che nel passato. Si digiuna, si esercita la pratica del dormire per terra e di fare le metanie. – Nella maggior parte dei monasteri, non vi sono igumeni autoritari. Sia da parte dell’igumeno che da parte dei monaci si rifuggono gli eccessi. Vivono tutti come in una famiglia legata da vincoli di amore, con misericordia e comprensione. Ancora una volta ci vengono in aiuto le parole di san Nettario della Pentapoli: “Non tirate la corda all’eccesso, perché non si spezzi prima del tempo”. 251

IL PENTIMENTO, L’ARMA PIÙ POTENTE DEL COMBATTIMENTO SPIRITUALE Grigorij Stefanov*

“Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”. (Mt 9,12)

Noi non possiamo conoscere Gesù Cristo se non attraverso l’umiltà e il pentimento. È questa una verità facile da enunciare, ma estremamente difficile da realizzare. Molto spesso la vediamo snaturata. Che fare allora? Dovremmo forse parlare di orgoglio e pentimento? A chi rivolgere la nostra parola? Chi può comprenderci veramente? L’uomo mondano si tiene lontano dalla sapienza e aspira al potere: quel potere che è connesso al denaro, alla gloria, all’amore (così come lo intende lui). Al giorno d’oggi, lo stimolo più potente per la prosperità personale e il progresso nazionale è l’orgoglio. Un uomo privo di amor proprio, una società priva di coscienza dell’onore e di senso di dignità, un popolo privo di fie-

* Metropolita di Veliko Ta˘rnovo, chiesa ortodossa bulgara. Traduzione dall’originale bulgaro.

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Grigorij Stefanov

rezza nazionale sono sempre oggetto di disprezzo. Il tentativo da parte bulgara di far includere le rocce di Belograd™ik nel Patrimonio dell’umanità sembrava volersi appellare a Dio, “autore” di questi luoghi meravigliosi, creati quasi solo affinché noi ne godessimo. Chi mai, posto di fronte ai valori mondani, sarà portato a seguire il messaggio di Gesù Cristo? Il nostro linguaggio quotidiano è veramente molto lontano dalle parole del Padre, e la nostra ricerca di successo ci fa dimenticare che l’unica vera ragione di vita sta nel ritorno dell’uomo a Dio. Oggi anche il monaco riserva, certo, un piccolo posto nel suo cuore alla buona novella, ma riempie il suo intimo della propria vanità. Il nostro orgoglio trasforma la realtà, e così l’eremita comincia a portare alle stelle la propria persona rinviando il pentimento a giorni migliori. Poiché il mondo d’oggi si è allontanato da Gesù Cristo come forse mai in passato, l’uomo ha bisogno di una parola particolarmente forte da parte del pastore e di una resistenza particolarmente vigilante verso ciò che viene dalla carne. L’orgoglio ci trascina a un atteggiamento di venerazione nei confronti del sapere e degli elementi che compongono la civiltà, nascondendoci peraltro le orribili conseguenze di tale ebbrezza. Siamo stati molte volte testimoni di come una civiltà possa trasformare i suoi successi in sepolcri per l’umanità. Spesso troviamo il nostro compiacimento nell’osservare i peccati altrui e nel contemplare la nostra propria giustizia. Talvolta ci sembra di essere superiori ai peccatori, ai non credenti, ai non cristiani, agli eretici di ogni sorta. Siamo portati a giudicare. Benché trasgressori della legge divina, ci identifichiamo con i custodi della dottrina della chiesa, pretendiamo di essere ascoltati e obbediti. Se tuttavia riuscissimo ad affondare uno sguardo inquisitore sui nostri peccati, sugli inferni che abitano le nostre profondità, vedremmo scomparire tra le fiamme i peccati altrui. Solo così il penitente che è in ciascuno di noi può percepire e venerare l’immagine divina. I santi padri ci sono di grande insegnamento, perché l’ascesi della loro vita quotidiana li ha guariti: le 254

Il pentimento, l’arma più potente …

loro azioni, frutto di una ricerca perseverante, messe alla prova si sono rivelate capaci di durare. Dobbiamo esercitarci a una preghiera continua, anche se ci sentiamo evoluti. Ringraziando Dio di non averci mai voltato le spalle, dobbiamo sempre ricordare che senza la sua grazia non saremmo stati capaci di nulla. Dobbiamo entrare nella preghiera in uno spirito di penitenza, considerare soprattutto il nostro peccato più ricorrente e giungere a dominarlo, uscire dalla menzogna e dalla pigrizia. E dobbiamo anche vedere i nostri difetti nascosti, in particolare l’amore per il potere che è fra tutti il più pericoloso. Nella nostra attività di guide spirituali, noi rischiamo sempre di inondare di presunzione i nostri insegnamenti, di comportarci da amministratori; invece di essere degli intermediari nel rapporto con Dio, rischiamo di darci alla vanità. Tutti apprezzano una predica istruttiva e ben costruita; ma che cos’è mai la parola umana? Non esiste un filosofo che sia riuscito a dare una risposta soddisfacente a questa domanda. La parola è generata nelle profondità dell’anima senza essere accessibile alla nostra osservazione, e in seguito passa nella regione della coscienza. Alcuni la definiscono “secondo sistema segnico”. La parola è pluridimensionale e plastica, il segnale invece è semanticamente monovalente e indica un fenomeno rigorosamente definito. La parola è un simbolo nel quale è codificata un’informazione; è percepita individualmente, filtrata dal nostro intelletto acquisisce un aspetto convenzionale, una colorazione soggettiva. Nelle lingue antiche il numero dei sostantivi e degli aggettivi era inferiore a quello presente nelle lingue moderne, che sono piene di barbarismi, ma ciò non rendeva certo quelle lingue più povere. Nell’antichità le forme verbali erano preponderanti, per cui la frase era più dinamica, elastica ed efficace, capace di trasmettere la realtà dell’oggetto descritto. Oggi siamo propensi alla verbosità, ma l’enorme numero di parole e di lingue contemporanee fraziona il pensiero e rende la frase impotente. Il 255

Grigorij Stefanov

nostro pensiero cerca di esprimere ciò che gli manca moltiplicando le parole, e la nostra lingua si fa in tal modo sempre più statica e superficiale. Il motivo del nostro amore per le lingue antiche risiede appunto nella loro capacità di descrivere i fenomeni non con analisi minuziose ma in modo dinamico. Se paragoniamo l’antico Salterio in slavo ecclesiastico con la traduzione in bulgaro moderno, ci rendiamo conto che le frasi antiche suggeriscono stati d’animo profondi, mentre le versioni contemporanee si fermano alla superficie della coscienza: in un’operazione dinamica quale è la preghiera, la parola tradotta rivela tutta la sua impotenza. Ma potremmo noi parlare la lingua degli antichi? Mi sembra che non facciamo altro che imitarli. Non è possibile andare e venire in continuazione tra il pensiero logico concettuale contemporaneo e il pensiero immaginifico degli antichi. La verbosità è il più delle volte contraria a un modo di pensare approfondito. La lingua deve consistere in un’espressione compiuta e matura del pensiero, ma in realtà sono le pulsioni passionali ed emotive a essere preponderanti. L’uomo verboso si trova spesso a doversi rimproverare parole inutili o impulsive. Inoltre la comunicazione verbale esige molta energia psichica e nervosa. L’anima umana presiede alla nascita di ogni parola e alla creazione della lingua, il suo sapere si trasforma in una sorta di codice potenziale; poi la lingua è decodificata e l’informazione presente in essa è caricata nella memoria. Tutto ciò si traduce in una perdita enorme di forze psichiche, in un pensiero superficiale, in un’incapacità di penetrare in modo davvero profondo ciò che è essenziale e vitale per noi. Ecco perché aumenta l’incomprensione fra la gente, mentre le persone verbose raramente giungono a realizzare qualcosa di significativo. La preghiera s’impoverisce a causa di quest’abuso del dono più prezioso che abbiamo, la parola. La lingua elementare, profanata e involgarita, che viene utilizzata nella sfera del transitorio e del visibile, non può essere facilmente trasformata in paro256

Il pentimento, l’arma più potente …

la orientata a Dio: per questo la preghiera rimane estranea a una mentalità salottiera. È questa anche la ragione delle maggiori difficoltà che prova l’uomo contemporaneo sul suo cammino di preghiera: egli non prende precauzioni contro la verbosità, e una volta perduta la capacità di ragionare, vive in un contesto di parole vuote. Ricordiamo l’immagine dell’uomo che a forza di parlare incessantemente perde calore spirituale e si raffredda, come una camera d’inverno la cui porta è lasciata costantemente aperta. Possiamo dire che le tentazioni minacciano non solo gli individui, ma anche le comunità religiose. Due grandi prove sono state sempre presenti alla chiesa di Cristo: la prova della persecuzione e la prova del successo. La seconda prova è una tentazione fortissima, per cui i periodi di successo sono seguiti da scismi ed eresie che deformano l’immagine del cristianesimo. In passato questi periodi hanno provocato nell’aspetto umano della chiesa guasti di cui ci è particolarmente difficile parlare. La chiesa ortodossa bulgara sta ora vivendo un periodo di successo, anche se non certo nello spirito di quell’epoca in cui i rapporti tra chiesa e stato erano improntati alla “sinfonia” bizantina. Viviamo in un tempo di libertà religiosa e di pieno diritto per la chiesa di esistere legalmente. La chiesa ortodossa bulgara ha vissuto un periodo di persecuzioni durante il quale molti suoi ecclesiastici e laici hanno ricevuto la corona del martirio. Ora un’ondata di negatività, di calunnie e di speculazioni ha preso il sopravvento, in un tempo che dovrebbe essere più propizio all’unità che alla lotta. Dobbiamo discernere le pietre di scandalo che ci fanno inciampare sul sentiero stretto del pentimento. Dobbiamo cercar di capire in che cosa consiste la loro pericolosità per ogni cristiano, ma anche per la società nel suo complesso. Il problema di fondo è che in un periodo di edificazione libera e pacifica della chiesa, i suoi membri dovrebbero fortificarsi nel combattimento interiore contro le passioni. Questo è il mo257

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tivo per cui sono numerosi quelli che ricorrono alla ricerca di un nemico esterno proiettando spesso sul mondo di fuori le loro lotte interiori. Ecco così apparire lo scisma e l’apostasia, in forme visibili, là dove ci sono scompensi e scismi della personalità, che sono a loro volta il risultato di un’adesione poco convinta alla verità teandrica. La natura umana abbattuta dal primo peccato ha difficoltà ad accogliere in sé la verità divina del cristianesimo quale è stata solennemente annunciata con la venuta fra noi di Cristo, il Dio-uomo. L’uomo naturale ha difficoltà ad accogliere in sé la pienezza dell’amore del Dio-uomo; per usare le parole di Berdjaev, egli “o si volge a Dio e volta le spalle all’uomo, pronto ad amare Dio ma privo di amore nei confronti dell’uomo; oppure invece si volge all’uomo, è pronto a servirlo ma volge le spalle a Dio, ostile all’idea stessa di Dio”. Quando prende il sopravvento il servizio dell’uomo, appaiono l’ateismo e l’umanismo, ideologie anticristiane. L’estremo opposto si ha quando ci si volge a Dio e lo si ama ma ci si distoglie dall’uomo e non lo si ama, dando origine allo scisma. È il tipo di dissidio in cui prende corpo il malcontento del profeta Giona, che insorge contro Dio perché è grazia e amore. È difficile anche per chi vive le virtù cristiane accettare che Dio sia libero di perdonare il peccatore, che egli in un atto sovrano di misericordia abolisca il proprio comandamento e permetta allo spirito dell’amore di avere il sopravvento sulla sua Parola. Lo scisma è l’appello rivolto frequentemente nell’Antico Testamento a Dio che la giustizia abbia il sopravvento sull’amore. Di qui la pretesa che la chiesa di Cristo sia composta di perfetti e di santi, benché il numero dei peccatori, dei cristiani imperfetti sia molto più grande. Già nei primi secoli la setta dei montanisti dichiarava che la chiesa deve consistere in santi e perfetti. Lo spirito della chiesa riconobbe un errore nel massimalismo montanista, che pone esigenze altissime non verso se stessi ma verso gli altri e proprio per questo fu denunciato e condannato. La chiesa pensa a se 258

Il pentimento, l’arma più potente …

stessa come a una comunità di peccatori che vogliono essere salvati. Gli scismi contemporanei della chiesa ortodossa sono di fatto una risorgenza di questa antica pretesa umana nei confronti dell’altro, di cui è detto nell’evangelo: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?” (Mt 7,3). La psicologia può essere utile anche per l’analisi di tali fenomeni patologici della vita spirituale. Alla base di ogni scisma possiamo scoprire i segni di un certo meccanismo di difesa psicologica, la cosiddetta proiezione. Nelle parole di Carl Gustav Jung è descritto il ruolo enorme esercitato dalle proiezioni: “Le proiezioni trasformano il mondo circostante nel volto del loro autore, volto che peraltro rimane a lui sconosciuto”. Ciò significa che quello che non riusciamo a vincere in noi stessi (per lo più le nostre debolezze e le nostre passioni) lo attribuiamo all’altro. Nello scisma è in opera una proiezione della lotta interiore e del nemico autentico, oggettivati all’esterno: nel mondo, nella comunità, nell’altro. E quando una comunità cerca di convincersi che il nemico si trova all’esterno, sono le parole dei santi eremiti quelle che meglio possono condurre a una visione più sobria delle cose: “Temi le tue abitudini più che i tuoi nemici. Se non sei un pacificatore, almeno non essere un amante della sedizione” (Isacco di Ninive). Come può un nemico a prima vista inoffensivo, quale è l’abitudine, essere paragonato, ad esempio, a una cospirazione mondiale? I padri ci insegnano che proprio quella è l’arma capace di ferire le profondità della nostra persona. Mentre noi siamo occupati a sciogliere le catene di Satana nel mondo, lui mediante le nostre abitudini crea il nostro sosia, la nostra seconda natura, e alla fine ecco che al nostro posto c’è un altro. A questo si oppongono i padri, che sottolineano il senso della lotta interiore come unica via di rinnovamento del mondo, di contro alla tendenza dell’uomo a spostare questa lotta nella vita esterna e a ritenere il nemico al di fuori di sé. 259

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In una fase ulteriore, questa proiezione che ha completamente immerso l’uomo nella realtà del mondo, si volge in un’altra direzione: le attese e le speranze di salvezza dell’uomo si proiettano su una personalità determinata, la guida carismatica. Di questa proiezione dell’immagine del Salvatore su un uomo determinato approfittano abilmente i leader e le guide di quanti si sono allontanati dall’insegnamento di Gesù Cristo. Pongo fra questi anche le sette pseudoreligiose. Quando il nemico viene da fuori, è in certo senso naturale che gli uomini cerchino la salvezza in un essere umano e si affidino a lui, dimenticando che nella nostra dura lotta interiore, accompagnata da un pentimento incessante, il nostro unico soccorso è il Dio-uomo, il nostro Salvatore Gesù Cristo. Così la via dello scisma può condurre anche al settarismo. Nella nostra storia religiosa abbiamo vari esempi del genere. Talvolta gli uomini arrivano a lanciare un attacco rivoluzionario contro una certa istituzione, ma ottengono solo di perdere gli antichi simboli e profanare l’ideale che li muove. Può passare molto tempo prima che si arrivi a prender coscienza delle conseguenze degli atti commessi e provare delusione. Si potrebbero fornire moltissimi esempi dal passato. Giunge tuttavia un momento in cui si cerca consolazione e la si trova nei sacramenti della chiesa. È questa l’occasione opportuna di uscire dalle ristrettezze di un cristianesimo rituale per sperimentare in verità il bene della fede. Contemporaneamente vi sarà chi, trovandosi davanti all’immenso vuoto provocato dall’attacco rivoluzionario, cercherà di colmarlo con pratiche e culti esotici. Esiste tuttavia anche un cammino diverso, non violento ma spirituale. È il cammino del pentimento. Un pentimento sincero cambia la direzione della rivolta: la condanna si trasforma in biasimo di se stessi, la nostra autosufficienza e il nostro isolamento si rivelano come un allontanamento da Dio, e si comincia a sognare con ardore non più un rivolgimento esterno ma una riforma interiore. È il pentimento che può realizzare la rigenerazione 260

Il pentimento, l’arma più potente …

desiderata nell’intimo di chi vive un’esperienza religiosa. Questa rinascita comincia in se stessi, poi stimola a un cambiamento generale, permeando il mondo dei frutti delle realtà spirituali. Tale rigenerazione non dà certo vita a proiezioni, ma diffonde nel mondo i frutti dello Spirito: “Amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22). È l’unica via possibile per l’umanità cristiana, posta di fronte alla prova di una chiesa che vive il successo nel mondo. L’uomo singolo, dal canto suo, è sottoposto al pericolo dello scisma della sua personalità. È difficile, infatti, edificare una personalità, ma la si decompone facilmente. Il cuore umano, è vero, è capace talvolta di metamorfosi istantanee. Ma quando il cuore ha sfiorato una novità segreta, gli occorre ancora un certo tempo perché la ragione, carica delle consuetudini della vita mondana, si abitui a vivere alla presenza del Mistero. Molti varcano senza esitazione la soglia del tempio e portano con sé, nella comunità cristiana, stereotipi di cui non si rendono neppure conto. Cominciano dunque a conciliare l’esperienza del loro cuore con l’evangelo nel quadro degli schemi abituali di pensiero desunti dalle loro precedenti ideologie. Ci sono casi di persone che leggono assiduamente i libri santi ma non giungono ad applicare a sé quegli scritti. Uno può sentirsi membro a pieno titolo della chiesa senza essersi mai impegnato seriamente in vere lotte contro le proprie passioni. “Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato” (Eb 12,4). Così, benché la grazia della vocazione agisca e il suo fuoco non sia spento, l’anima non può sentire l’effetto metamorfosante dello Spirito santo. Quell’uomo già nuovo, con un nome e una vocazione, ma spiritualmente debole, è venuto da noi e spesso cerca consolazione e guarigione, ma rimane sotto il giogo di abitudini antiche. Colui che lavora nel campo di Cristo avrà in sorte la liberazione dell’erede (lo spirito) dalla schiavitù del tutore (l’anima) e dell’economo (il corpo); ma essa è rinviata fino al termine fissato da Dio Padre. “Il vino al principio della sua maturazione si trasforma. È un’im261

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magine del principiante che esita prima di diventare adulto e di acquisire uno spirito saldo” (abba Isaia). Macario l’Egiziano ci ricorda che la grazia divina non muta il carattere nativo delle persone, che tuttavia viene plasmato nell’anima umana grazie all’azione divina. Questo pensiero trova un’ottima conferma nella vita di Amvrosij di Optina, che dopo aver compiuto tutto il difficile cammino delle prove monastiche, nella vecchiaia ricevette il dono delle lacrime, ma conservando il suo temperamento gioioso. È in questo modo che si manifesta l’azione straordinariamente delicata e illuminante della grazia divina. Egli sapeva anche prendere in giro le persone, ma non per farsene beffa, bensì per sostenerle, consolarle e incoraggiarle. L’uomo deve conservare e moltiplicare tutto ciò che in lui è buono prima di accostarsi alla chiesa. “Sappiate che le qualità innate hanno importanza unicamente per il tribunale degli uomini, ed è soltanto lì che esse sono lodate o biasimate; ma nel giudizio divino le qualità innate e i doni naturali non sono né lodati né biasimati. Dio sonda l’intenzione benevola e l’impulso verso il bene, e apprezza la resistenza alle passioni”: così affermava ancora lo starec Amvrosij. Ecco perché nel battesimo occorre rompere con le abitudini e le tendenze acquisite dell’anima. Si tratta di fatto di una trasfigurazione. La collera in se stessa non è negativa né peccaminosa. Lo è la sua utilizzazione contro il prossimo. La collera può anche avere un ruolo positivo quando è orientata contro le passioni e la forza demoniaca. Nella comprensione ortodossa delle passioni, ciò che noi dobbiamo sradicare non sono delle forze che vengono in noi dall’esterno in un secondo momento, ma piuttosto le energie dell’anima, difettose e bisognose di trasfigurazione. Nella teologia ascetica la passione è definita con chiarezza come un movimento contro natura della forza dell’anima. Si dimentica spesso una condizione indispensabile perché ciò avvenga: con l’assunzione e la presa di coscienza della vita battesimale, coloro che entrano a far parte della chiesa devono orien262

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tarsi a una vita spirituale. Occorre discernere con uno sguardo non prevenuto tutto ciò che si è accumulato in noi negli anni trascorsi. Certo non è il processo di un minuto: quanto più la penitenza è profonda e attiva, tanto più lo sguardo sul mondo circostante, sulle persone e su se stesso si fa profondo e netto. Il mondo spirituale del cristiano aumenta progressivamente, si sviluppa in modo organico in parallelo con la crescita interiore. Per questo sono necessari sforzi costanti, ininterrotti, continui della volontà. Ma se questi sono privi di misura, possono causare solo una crescita tesa, artificiale – un’ipertrofia, per usare un termine della medicina –, se non si arriva addirittura a perdere le buone disposizioni iniziali (il che capita spesso). In ogni caso le conseguenze della mancanza di misura sono nefaste, e noi nel nostro ruolo di guide spirituali siamo tenuti a metterne in guardia i nostri figli. Se una persona senza preparazione si dedica alle pratiche tradizionali dell’ascesi senza aver risolto i propri problemi psichici, costruisce una casa priva di fondamenta: “Non vi è prima il corpo spirituale, ma quello psichico, e poi lo spirituale” (1Cor 15,46); tutti conoscono il destino della casa costruita sulla sabbia (cf. Mt 7,26-27). Il cristianesimo non priva l’uomo della sua umanità. Già nel secondo secolo Ireneo di Lione affermava che il peccato degli uomini consiste fin dall’origine nell’aver “voluto diventare dèi prima di diventare uomini”. Senza passare per la scuola dell’onore umano e delle attività quotidiane, senza educazione e amore per gli uomini, come si può parlare di “divinizzazione” per l’uomo? L’amore spirituale non può manifestarsi in ciò che è psichico, dove tutto è rovesciato, dove regna la disarmonia e non esiste obbedienza. Dal punto di vista psicologico, poi, è una manifestazione di anomalia della personalità, di evoluzione scorretta dei diversi dati del carattere. Scorgiamo il sintomo di una malattia psichica appunto nel desiderio di modificare la tappa iniziale del movimento di conversione dallo psichico allo spirituale. Il cammino ideale è quello nel quale tutte le qualità dell’anima si com263

Grigorij Stefanov

pletano l’una con l’altra, in un insieme armonioso. L’atrofia o al contrario lo sviluppo sproporzionato di certi elementi conduce alla formazione di una personalità disarmonica. La volontà, ad esempio, può indebolirsi o venire a mancare del tutto; può orientarsi in modo perverso verso il raggiungimento di obiettivi immorali o di nessun peso. Lo sviluppo smisurato delle forze psichiche quali l’immaginazione, le emozioni o altre può essere molto nocivo. È molto difficile spiegare tutto ciò in un’epoca dominata da ciò che si vede. Gli sforzi personali dell’uomo giocano evidentemente un ruolo importantissimo nel processo della formazione della personalità. Non bisogna mai dimenticare che tutto ciò che facciamo costruisce la nostra personalità e completa il nostro essere. I pensieri, i sentimenti, tutto il lavorio dello spirito passano per la nostra struttura fisica. Anche lo stare sdraiati su un divano ha un senso, perché ogni attività o inattività avrà senso in futuro. Il valore definitivo di ogni atto della vita quotidiana sarà valutato nell’eternità. Quando muore il corpo rimane soltanto l’uomo imperituro, quello reale, quello che ha scelto di utilizzare il materiale di cui è fatto nel modo migliore o peggiore. Osservandosi con quello strumento potente di introspezione che è l’antropologia ortodossa, si può imparare a vivere con se stessi, ricordandosi sempre che solo con un’opera incessante e con la misericordia di Dio è possibile condurre l’anima all’armonia. I mali fondamentali dell’uomo colpiscono sia i laici sia i monaci, ma i problemi spirituali dei monasteri, che sono la passione della vanità e quella dell’orgoglio, sono più difficili da sormontare a causa della difficoltà che si ha a discernerli. “Noi, noi siamo l’inizio e i genitori di tutte le passioni!”, esclamava Giovanni Climaco. Il cuore aperto all’orgoglio è chiuso alla preghiera. L’uso del termine “preghiera” non fa che aggravare il problema, perché produce un’apparenza di successo spirituale. Il cuore in realtà resta dietro la parte oscura della separazione creata dalla presunzione: e come potrebbe allora il sole di giustizia, 264

Il pentimento, l’arma più potente …

Gesù Cristo, illuminare con i suoi raggi la nostra ragione e aprirla alla conoscenza di sé e di Dio? La nostra debolezza interiore ci conduce all’oscurità esteriore, e di qui viene il rischio di una trasfigurazione in negativo, che altera necessariamente tutto il nostro rapporto con le cose. Unicamente quelli che hanno conosciuto l’amore divino sono in grado di sentire il fetore di questa passione, che è capace non solo di annientare l’uomo, ma anche di condannare alcuni angeli gloriosi. Le caratteristiche dello spirito decaduto – orgoglio, distrazione, oscurità – devono mutarsi nel loro contrario, che sono umiltà, raccoglimento nella preghiera, luce. Trasfigurazione apparentemente chiara e facile da ottenere, ma quanto più si è avanzati nel cammino, tanto più quest’ultimo si fa scosceso, e si cade sempre più in basso. L’oscuramento spirituale è una delle realtà più difficili da discernere, e ha pesanti conseguenze nella vita spirituale. Non è un caso che il pentimento sia l’imperativo dominante del Nuovo Testamento. Esso è alla base della preghiera di Gesù. Non si possono aprire le porte della preghiera con una chiave falsa, non si può recitare il pentimento come una parte della commedia della vita, né dentro né fuori le mura del monastero. Il pentimento deve essere autentico.

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LA LOTTA SPIRITUALE IN RUSSIA OGGI Petr Me∫™erinov*

La vita cristiana è impossibile senza lotta spirituale. La presenza stessa del combattimento interiore ci dice se il fedele vive veramente di vita spirituale, oppure si limita a pensarla, immaginarla. L’essenza di questa lotta è espressa nelle note parole di Dostoevskij: “Il diavolo lotta con Dio, e il campo di battaglia sono i cuori degli uomini”1. Libero di accogliere i doni salvifici di Cristo o di rifiutarli, l’uomo è posto dalla provvidenza in una situazione per cui tale scelta si attua nel più profondo del suo essere e influisce su tutte le sfere della vita umana. Scrive Macario il Grande, uno dei maggiori maestri di combattimento spirituale: Devi entrare nelle invisibili profondità del cuore e uccidere il serpente che sta ancor più al di sotto del cuore, a una profondità più grande dei pensieri, e che si nasconde in quelli che son detti recessi e ripostigli dell’anima e ti uccide … Occorre cercare in che modo e con quali mezzi si può ottenere la pu-

* Igumeno della Comunità di Dolmatovo, fondazione del Monastero San Daniil di Mosca. Traduzione dal russo di Leonardo Paleari. 1 F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Torino 1993, p. 144.

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rificazione del cuore. In nessun altro modo se non mediante colui che è stato crocifisso per noi2. Quando ti ritiri dal mondo e ti metti a cercare Dio e a esercitare il discernimento, combatti la tua natura, i tuoi antichi costumi e l’abitudine innata. E nel combattere l’abitudine scopri pensieri che ti oppongono resistenza e fanno guerra al tuo cuore, e questi pensieri ti trascinano e ti fanno vagabondare nel mondo visibile da cui sei uscito. Allora cominci a combattere e a lottare muovendo i pensieri contro i pensieri, il cuore contro il cuore, l’anima contro l’anima, lo spirito contro lo spirito3.

Un grande scrittore spirituale, il vescovo Teofane il Recluso, afferma: La nostra natura è stata guastata dal peccato. Il cristianesimo è strutturato al fine di ristabilire la natura umana nello stato originario. Perciò esso è sostanzialmente una violenza alla nostra natura nel suo stato attuale. La resistenza a sé e la costrizione di sé sono le prime forme di una vita cristiana salvifica, mirante al suo fine4.

La lotta spirituale non è condizionata dalle diversità nazionali. Ogni uomo che vuole vivere cristianamente deve contrapporsi al male che è in lui e costringersi al bene, con l’aiuto della preghiera, dei sacramenti, della parola di Dio e con la pratica dei comandamenti evangelici: e questo al di là e al di sopra dei caratteri nazionali. Le difficoltà e gli ostacoli in cui si imbatte il

2 Pseudo-Macario, Omelia 17,15, in Id., Spirito e fuoco. Omelie spirituali (Collezione II), a cura di L. Cremaschi, Bose 1995, p. 233. 3 Ibid. 32,9, p. 334. 4 Feofan Zatvornik, “Pis’ma k raznym licam o raznych predmetach very i Δizni”, in Du∫epoleznoe ™tenie (1882), p. 173.

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cristiano di oggi sulla via della lotta spirituale, sono complessivamente e generalmente i medesimi per tutti i cristiani. Vi sono tuttavia alcune specificità, nell’accoglienza del cristianesimo, determinate da condizioni storiche e dalla mentalità di un popolo, sebbene in linea di principio tali condizioni siano le stesse per ogni uomo. Cercherò di mettere in luce alcune di queste specificità nazionali. Una questione chiave è quella di comprendere che cosa sia la lotta spirituale e il suo posto nella vita del cristiano. Scrive ancora Macario il Grande: Tutto lo sforzo del nemico è volto a distogliere la mente dal pensiero di Dio, dal timore di Dio e dall’amore di Dio con tentazioni e adescamenti terreni, allontanandoci dal vero bene per il bene apparente5.

Ecco il problema fondamentale della vita cristiana oggi: la secolarizzazione del cristianesimo, la sua incorporazione nella “mondanità”, la sua comprensione in categorie esclusivamente “mondane”. Non mi riferisco alla posizione della chiesa nella società o ai vari caratteri esterni della vita cristiana – storici, sociali, culturali – ma alla percezione interiore e personale degli stessi cristiani. E qui si danno due modi di fraintendere la sostanza della lotta spirituale. Il primo è quando il cristianesimo si installa comodamente nel mondo, divenendo semplicemente una delle componenti di una vita confortevole. Allora l’idea stessa che non può esservi compromesso tra il cristiano e le realtà effimere di questo mondo (cf. 2Cor 6,15), che agiscono nell’uomo attraverso le passioni, i peccati, i vizi e gli errori, diventa per il cristiano un’idea estra-

5 Prepodobnyj Makarij Egipetskij, Duchovnye besedy, Svjato-Troickaja Sergieva Lavra 1994, pp. 369-370.

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nea, scomoda, astrusa; s’insinua il rifiuto di chiamare il peccato con il suo nome e così via. Il risultato è che il cristianesimo perde la sua inestinguibile energia. Questo è il tipo di secolarizzazione proprio dell’attuale civiltà occidentale. Il secondo fraintendimento del combattimento spirituale avviene quando il mondo intorno a noi, invece, non è confortevole e la vita è insopportabile: diventa allora naturale, per l’uomo, trovare un rifugio nel cristianesimo, attingere in esso forze vitali. Ma non è per nulla detto che un simile impulso dia all’uomo una giusta comprensione della lotta spirituale. Spesso il desiderio di ricostruire la vita esteriore induce a vedere la lotta spirituale nella realizzazione di obiettivi sociali, ammantati dei colori della tradizione religiosa; ma l’essenza dell’agire cristiano non ne viene per nulla toccata. Il problema allora è lo stesso: la vita ecclesiale è intesa in modo secolarizzato, come un elemento di questo mondo. In tale modalità, caratteristica dell’attuale coscienza ecclesiale russa, si pensa a migliorare la società e la cultura mediante il cristianesimo, piuttosto che a diventare cristiani noi stessi, personalmente. Che cosa si deve fare per prendere coscienza e resistere a queste tendenze? Non posso formulare rimedi per l’occidente, poiché per questo dovrei conoscere dall’interno la vita cristiana occidentale. Se comunque posso esprimere un’opinione “dall’esterno”, mi sembra che qui uno dei problemi principali è la tentazione del “politicamente corretto” trasferita sul terreno ecclesiale. Distinguo qui i due concetti di “politicamente corretto” e di “tolleranza”; tolleranza è un’idea pienamente cristiana. Accettazione degli altri così come sono, consapevolezza che il Signore ama anche gli altri come me: questo è il fondamento della tolleranza. Il politicamente corretto è tutt’altra cosa. È un’ideologia che impedisce all’uomo di chiamare le cose con il loro nome. Il senso religioso esige la verità. Ora questa verità non può e non deve contraddire la tolleranza; stiamo parlando della verità dinanzi a se stessi. La lotta interiore cristiana comincia 270

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qui: il cristiano si rende conto che qualcosa, nella sua esistenza, non corrisponde alla verità evangelica, perciò si impegna sul piano spirituale, religioso (o comunque non solamente esterno, socio-culturale) al fine di conformarsi alla verità evangelica. Nel contesto della lotta spirituale, parliamo allora di lotta per la verità, per dare un giudizio evangelico sulla vita umana, tanto sulla propria quanto su quella sociale. La lotta spirituale non può adeguarsi al politicamente corretto proprio perché è una lotta interiore. Qui il politicamente corretto porta a confondere le ragioni cristiane con le dinamiche sociali, confusione che sta alla base del problema principale, cioè la secolarizzazione della società. Per quanto riguarda le caratteristiche della vita spirituale in Russia, dobbiamo tener conto che il xx secolo è stato una vera catastrofe per la nostra società. La storia del nostro paese ha portato alla luce non semplicemente l’uomo postsovietico, ma direi l’uomo “postrusso”, con una moralità tutta rovesciata, con le tradizioni di nove secoli di vita nazionale del tutto sradicate. Queste tradizioni perdute sono state sostituite da un contenuto “sovietico”: distacco tra le parole e le azioni, irresponsabilità, indottrinamento, conformismo, mancanza di rispetto per la persona, di solidarietà, eccetera. Questo porta a far sì che il “sovietico” assai comodamente e inavvertitamente si mimetizza nell’“ecclesiale”: il collettivismo sovietico si trasferisce immutato nella vita ecclesiale sotto l’insegna della “conciliarità”; la passività sociale e civile diventa “umiltà”, l’irresponsabilità “obbedienza”, l’appiattimento a un’impersonale uguaglianza “lotta per l’ortodossia”, e così via. In questo si palesa proprio una radicale secolarizzazione, cioè un’incomprensione del senso religioso del cristianesimo. I tentativi di spiegarlo, di predicarlo (in altre parole il compito della missione contemporanea) ci mettono di fronte a quello che potremmo chiamare il problema del “prima”. Voglio dire questo: affinché l’uomo russo di oggi faccia proprio il senso religioso della vita ecclesiale, e in particolare il concetto di lotta spirituale (dove il termine principale è lo “spiri271

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tuale”, e non la lotta in quanto tale) è necessario che già prima di intraprendere un cammino spirituale egli faccia propri quei presupposti morali universali, senza i quali è impossibile vivere il cristianesimo, presupposti di cui siamo stati privati durante il periodo sovietico della nostra storia. E questo significa anzitutto essere persona. La lotta spirituale è condotta dall’uomo personalmente, “sotto la propria responsabilità”; una vita interiore collettiva non è possibile; il che non significa che il cristianesimo sia qualcosa di individualistico. Al contrario: la comunione, la conciliarità è caratteristica essenziale del cristianesimo; ma la comunione si costruisce e sviluppa sulla base delle reali persone cristiane. Oggi è quanto mai importante sottolineare ciò più che in passato, poiché oggi ovunque si va perdendo la continuità della tradizione cristiana. La scelta cristiana è diventata, oggi più che mai a partire dall’anno 313, una sfera di azione personale, una scelta di “navigare controcorrente”. La personalizzazione richiede come corollari indispensabili la libertà, la responsabilità, l’onestà con se stessi, il discernimento tra il bene e il male, una precisa conoscenza dell’insegnamento cristiano, dottrinale ed etico. L’educazione della persona oggi in Russia è la condizione necessaria, è il problema del “prima” che si pone con urgenza alla pedagogia ecclesiale. Ora, questa educazione è in aperto contrasto con l’eredità mentale che abbiamo ricevuto dal xx secolo. Perciò la lotta spirituale oggi in Russia è una lotta per la persona, cioè per un’umanizzazione che precede la cristianizzazione. Solo acquisendo una matura personalità umana, eticamente responsabile, noi possiamo entrare nello spazio di una piena vita spirituale. Se noi non siamo che una parte del collettivo, sia pur ecclesiale, per noi quello spazio resta chiuso, e l’ecclesialità si tramuta inevitabilmente in ideologia. Bisogna anche osservare che solo la personalizzazione, aprendo all’uomo le porte del suo mondo interiore, permette di evitare una grande ambiguità nella vita cristiana, che oggi riguarda 272

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molte persone in Russia: una relazione con Dio di tipo magico, veterotestamentario e pagano. In Europa talvolta il cristianesimo “si annacqua” con l’islam e con le pratiche religiose orientali; gli uomini in ricerca spirituale cercano valori religiosi anche al di fuori del cristianesimo secolarizzato. Questo ci dice quanto sia grande la sete del religioso anche nello stile di vita edonistico che vi è oggi in Europa. In Russia l’educazione ateistica del secolo scorso ha portato a spegnere o comunque soffocare la sete del religioso come tale. Malgrado la nostra convinzione di una “specifica spiritualità russa”, malgrado la rinascita dell’attività ecclesiale, oggi noi non siamo per niente una nazione religiosa. A questo si aggiunge il fatto che è sempre stata specifica della Russia una situazione di doppia fede e di ritualismo; nel cristianesimo è penetrata la visione del mondo pagana e un rapporto magico, veterotestamentario con Dio. Questi fenomeni di per sé sono irreligiosi, non sono orientati al regno di Dio, delle cui anticipazioni il cristiano vive su questa terra (il che costituisce la radice della religiosità cristiana). La percezione pagana e magico-veterotestamentaria del cristianesimo è caratterizzata dal fatto che tutto sia qui, in questo mondo, tutto sia volto a stare bene qui e ora, a costruirsi una vita confortevole non solo fisicamente, ma anche sul piano metafisico. Un tale cristianesimo è privo di senso religioso interiore, la comprensione dell’autentica lotta spirituale gli è inaccessibile. Possiamo trarre una conclusione: oggi – sia in occidente sia in Russia – l’orientamento fondamentale della lotta spirituale (come azione ecclesiale, non personale), deve essere quello di combattere la secolarizzazione del cristianesimo. Se consideriamo l’attività delle chiese cristiane oggi, vediamo che questo orientamento ha un posto importante nella vita delle diverse confessioni. Ma spesso succede che i metodi di questa lotta sono ancora precisamente gli stessi metodi secolari. Con gli stessi mezzi di questo mondo decaduto noi vorremmo affermare in esso il cristianesimo, cioè qualcosa che per sua natura è in contraddizione con 273

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questo mondo (cf. Gv 17,14; 18,36). Il risultato non è la cristianizzazione del mondo, ma il rischio che, nella coscienza dei cristiani, i concetti religiosi vengano sostituiti da altri: sociali, storico-culturali, eccetera. Ne deriva che non solo il mondo non capisce la motivazione religiosa dell’uomo, ma anche gli uomini di chiesa cessano di comprenderla, sostituendola con ideologie di diverso tipo. È un processo che avviene nel cristianesimo occidentale come in quello russo. Può manifestarsi in modi diversi, in ragione delle diseguali situazioni storiche, culturali e sociali; ma la sostanza è la stessa: la secolarizzazione del cristianesimo. È contro questo fenomeno che dovrebbe essere oggi ingaggiata la lotta spirituale: sia nell’attività personale, interiore di ogni cristiano, sia nell’impegno delle comunità ecclesiali.

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LA LOTTA SPIRITUALE E LE SUE SFIDE IN SERBIA OGGI Porfirje Peric´ *

Introduzione. Principi fondamentali della lotta spirituale nella tradizione ortodossa Nella sua essenza e nella sua pienezza la teologia ortodossa è eucaristica; di conseguenza, la lotta spirituale (pneumatikós agón), quale parte inseparabile dell’esperienza teologica ortodossa1, è parimenti liturgica per sua natura. L’esperienza dei padri della chiesa testimonia che soltanto la via stretta, lastricata con la liturgia eucaristica, porta al regno celeste di Cristo (cf. Mt 7,13-14). Al fine di delineare le sfide della lotta spirituale per i cristiani ortodossi nella Serbia contemporanea, dovremo innanzitutto descrivere i suoi principi fondamentali che sono stati fissati dallo stesso Cristo Signore e stabiliti attraverso l’esperienza ascetica dei suoi veri discepoli e teologi della chiesa.

* Vescovo di Jegar, superiore del Monastero dei Santi Arcangeli di Kovilj, docente di psicologia alla Facoltà teologica di Belgrado. Traduzione dall’originale inglese. 1 “Se sei teologo, pregherai veramente, e se preghi veramente sei teologo” (Evagrio Pontico, Sulla preghiera 60, PG 79,1180). Anche se questa massima proviene da un teologo la cui esperienza spirituale e, di conseguenza, teologica non fu riconosciuta dalla chiesa come interamente e autenticamente cristiana (eucaristica), è accettata dalla tradizione della chiesa come il miglior indicatore di una vera teologia accademica.

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Nella cultura ellenica ed ellenistica il termine “lotta” (agón) ha solitamente un senso metaforico; il termine si riferisce alla pratica della virtù e alla lotta morale in generale. Sforzo e rinnegamento di sé sono compagni fedeli in questa lotta. Incontriamo anche l’idea che la meta finale, cioè la vittoria nel combattimento morale, non è situata in questa vita ma in quella a venire2. Un concetto pressoché simile di lotta morale o, piuttosto, spirituale può essere trovato anche nell’esperienza cristiana3. Già il Nuovo Testamento attesta le parole di Cristo: “Sforzatevi di entrare (agonízesthe eiseltheîn) per la porta stretta” (Lc 13,24), poiché “il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11,12). La differenza, comunque, è che possiamo parlare di lotta spirituale cristiana soltanto alla luce della croce e della resurrezione di Cristo, dal momento che chiunque voglia diventare discepolo di Cristo deve rinnegare se stesso, prendere la propria croce e seguirlo (cf. Mc 8,34)4. Ci sembra che la prima parte di questa breve ed estremamente semplificata descrizione della vita cristiana, che implica sfor-

2 Cf. Plutarco, Il demone di Socrate 24, in Id., Il demone di Socrate. I ritardi della punizione divina, a cura di D. Del Corno, Milano 19933, pp. 109-112; Filone, L’agricoltura 112,119; Quarto libro di Ezra 7,92.127-128, in Apocrifi dell’Antico Testamento II, a cura di P. Sacchi, Torino 1981, pp. 331, 336; Quarto libro dei Maccabei 3,5; 13,14-17; 15,27-32, a cura di G. Scarpat, Brescia 2006, pp. 149, 328-331, 358-361; Sap 4,2; Testamento di Giobbe 4,7, in Apocrifi dell’Antico Testamento IV, a cura di P. Sacchi, Brescia 2000, p. 144. Per una rassegna dettagliata si veda E. Stauffer, s.v. “Aghón, agnonízomai”, in Theological Dictionary of the New Testament I, a cura di G. Kittel, Grand Rapids Mi 1964, pp. 134-140. Cf. anche M. N. fluric´, Istorija helenske etike, Beograd 1997; S. S. Meyer, Ancient Ethics. A critical introduction, Abingdon-New York Ny 2008. 3 Cf. l’eccellente studio di Andrew Louth, in cui l’autore mette in relazione i principi fondamentali della morale ellenistica con la teologia dei padri della chiesa: A. Louth, The Origins of the Christian Mystical Tradition. From Plato to Denys, Oxford 1981. 4 Esempi simili si trovano anche in altri vangeli: cf. Mt 16,24 e Lc 9,24. Anche l’apostolo Paolo parla della fede in Cristo e della vita in lui in quanto intrecciate con la sofferenza: “Riguardo a Cristo, a voi è stata data la grazia non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, sostenendo la stessa lotta che mi avete visto sostenere e sapete che sostengo anche ora” (Fil 1,29-30). Insieme a ciò, Paolo offre la sua testimonianza personale: “Ho combattuto la buona battaglia (agôna), ho terminato la corsa, ho conservato la fede” (2Tm 4,7).

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zo e autorinnegamento, possa essere comprensibile e facilmente accettabile da tutti. È noto all’esperienza umana universale che il raggiungimento di un certo fine dipende dagli sforzi che si investono in esso5; quindi, risulta piuttosto evidente che il fine della lotta spirituale – sia esso la virtù terrena o la vita celeste – può essere perseguito soltanto attraverso uno sforzo persistente. C’è comunque l’altro aspetto di questa definizione, che implica anch’essa un rinnegamento, non però un rinnegamento per mezzo di sé, ma piuttosto un rinnegamento di sé: è esattamente questa specificazione che rende la lotta spirituale cristiana fondamentalmente diversa da qualsiasi altro tipo di “lotta morale” o “perfezione spirituale”. Crediamo che proprio questo punto – in quanto opposto al precedente, comprensibile in maniera naturale – può apparire di difficile comprensione per l’uomo moderno6.

“Prendi la tua croce e seguimi” Una vera riflessione sulla vita spirituale e sulla lotta spirituale cristiane comporta spesso una serie di questioni che sono fon-

5 L’uomo moderno non fa altro che invocare aiuti (ad esempio prontuari e spettacoli televisivi) che lo conducano alla realizzazione del fine desiderato nel più breve tempo possibile. Libri bestseller che utilizzano il “soprannaturale” al fine di acquisire qualcosa di “naturale” spesso contengono nei loro titoli espressioni quali “potenza del subconscio”, “come avere successo”, “la via più veloce per …”, eccetera. Il numero di libri su questi argomenti pubblicati e venduti parla in modo chiaro della crisi dell’uomo moderno e della sua incapacità di affrontare il compito fondamentale della propria vita, la rinuncia di sé. 6 Ricordiamo qui il racconto evangelico del giovane ricco e virtuoso che fu sorpreso dalla parola di Cristo riguardo alla croce (cf. Mt 19,16-22): costui è senza dubbio un uomo che ha investito molte forze e numerose rinunce al fine di custodire i comandamenti di Dio (cf. Mt 19,20), ma proprio costui non è in grado di accogliere l’idea del rinnegamento di sé, e non soltanto il suo contenuto, ma anche il suo senso ontologico; infatti la parola della croce è scandalo e stoltezza (cf. 1Cor 1,23).

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damentalmente associate al dilemma di cosa debba essere fatto e che cosa non debba essere fatto. In generale questo dilemma è caratteristico di ogni etica che tenti di collocare un atto o una persona all’interno di categorie quali buono e cattivo, giusto e sbagliato. Sembra che l’uomo moderno desideri tale categorizzazione che semplifica il contenuto morale e spirituale della vita cristiana per mezzo di un sistema di valori morali che “esonera” l’uomo dal fastidio della responsabilità. Sulla base di una visione del mondo legata al contesto culturale particolare, la morale – e in alcuni casi perfino la morale cristiana – sviluppa un sistema di regole, la cui fedele applicazione conduce alla “perfezione morale” e a una desiderata “dignità” adamitica. Quale cristiano ortodosso, comunque, non potrei mai essere d’accordo sulla qualificazione della vita spirituale cristiana come mera etica cristiana e dell’avanzamento nella lotta spirituale come perfezionamento morale. La vita spirituale cristiana è innanzitutto un atteggiamento, espresso attraverso uno sforzo ascetico di rinnegamento per mezzo di sé e rinnegamento di sé; è un ethos e non un’etica. Perché è così? In generale, l’etica separa il comportamento individuale di una persona dalla sua verità esistenziale e dalla sua identità personale (ipostatica). Non prende in considerazione la questione ontologica della verità e della realtà dell’esistenza umana; non si preoccupa di ciò che l’uomo è davvero, come qualcosa di diverso da ciò che dovrebbe essere7. Nell’esperienza ortodossa, la vita umana in quanto tale è compresa, per definizione, come un’impresa ascetica. Il termine slavo per áskesis è podvig, che deriva dal verbo podvizatisja, che significa muoversi, procedere, ma anche ascendere. Questo termine esprime interamente la dinamica del concetto ortodosso della vita umana come áskesis,

7 Cf. Ch. Yannaras, La libertà dell’ethos. Alle radici della crisi morale dell’occidente, Bologna 1984, p. 9.

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sforzo e lotta spirituale. Certamente l’uomo peccatore e corrotto è spinto a concentrare il suo podvig innanzitutto verso il combattimento contro le passioni, il peccato, il diavolo e la morte, lottando per liberarsi da essi. Così di primo acchito può sembrare che l’áskesis sia essenzialmente negativa per sua natura. L’uomo però non deve essere considerato soltanto come peccatore. La sua natura può essere vista soltanto come rinnovata e resa autentica attraverso Cristo e in Cristo. Qualora sia osservata attraverso il prisma di Cristo, l’áskesis può essere compresa come processo dinamico. Tale dinamismo è radicato nella realtà che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza” (Gen 1,26). Attraverso l’immagine di Dio, l’uomo riceve in potenza anche la somiglianza; l’uomo si muove dall’immagine verso la somiglianza attraverso l’áskesis, e il movimento, o il progresso (cf. Col 2,19), tra questi due punti è l’ascesi. In questo modo la dottrina ortodossa sulla corruzione e sulla trasformazione dell’uomo è riportata al contesto teologico dell’immagine e della somiglianza divine8. Questo è il motivo per cui la “morale cristiana” – vale a dire la vita spirituale dei cristiani – è inseparabilmente legata ai presupposti teologici; per questa ragione specifica tali presupposti riguardano non soltanto la teologia accademica ma soprattutto l’esperienza spirituale di ogni cristiano, sia esso un monaco o un uomo che vive nel mondo. Ne consegue che, quando la tradizione della chiesa ortodossa desidera parlare di moralità, comincia con la domanda ontologica e dogmatica: “Che cos’è l’essere, che significa che l’uomo è?”9. Ma procediamo con ordine.

Cf. l’analisi più dettagliata in A. Jevtic´, Asketika, Beograd 2002, pp. 5-9. Ch. Yannaras, La libertà dell’ethos, p. 10. Il fatto di porre la questione in questi termini mostra che nella tradizione ortodossa la teologia dogmatica non è semplicemente questione di lettera morta, ma un soffio dello Spirito che dà vita. 8 9

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Il presupposto teologico Il fondamento della teologia ortodossa è la rivelazione del Dio trino quale comunione di persone (ypóstasis)10. Grazie ai padri cappadoci, è divenuto più chiaro che la causa di esistenza di Dio non è la sua natura, o essenza, ma la persona del Padre11. Ciò significa che l’esistenza dell’essere di Dio è determinata dalla libera comunicazione dell’amore trinitario e non dalla necessità della natura divina: per amore Dio dà una struttura alla sua natura (essenza) e stabilisce il suo essere. Tale posizione della tradizione ortodossa sulla persona e sull’amore quali categorie ontologiche comporta conseguenze antropologiche immense. Il presupposto antropologico Nel momento in cui Adamo ha rifiutato Dio, egli ha rifiutato la possibilità che la comunità, cioè l’Altro – nel caso particolare Dio – possa essere il costruttore del proprio essere. Autoproclamandosi Dio, Adamo diede una priorità ontologica al proprio ego rispetto all’Altro, facendo così esperienza della tragedia della morte. Tuttavia Adamo e ciascuno dei suoi discendenti, essendo a immagine di Dio, è chiamato a vivere come persona, cioè a reintegrare il modo di esistenza perduto in cui egli aveva la possibilità di una vita eterna: egli è chiamato a liberarsi dal proprio ego e a ridare priorità ontologica all’Altro. In verità la na-

10 Dobbiamo qui riconoscere l’enorme contributo del metropolita di Pergamo Ioannis Zizioulas al recupero di questo tema nella teologia moderna, non soltanto ortodossa ma cristiana in generale. Tra le sue numerose opere su quest’argomento, cf. Id., Being as Communion. Studies in Personhood and the Church, London 1985; Communion and Otherness. Further Studies in Personhood and the Church, London-New York NY 2006. Cf. in italiano anche Id., L’essere ecclesiale, Bose 2007. 11 Cf. I. Zizioulas, “The Contribution of Cappadocia to Christian Thought”, in Sinasos in Cappadocia, a cura di F. Pimenides e S. Roïdes, Athens 1986, pp. 23-37.

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tura umana, a causa del peccato di Adamo, mantiene ancora la priorità ontologica sulla persona, uno stato che tiene l’uomo nella schiavitù dell’individualismo e della morte. Nonostante questo, l’uomo ha ancora la possibilità di liberarsi, per mezzo dell’áskesis, dalle necessità della natura e di comportarsi in ogni aspetto della vita come se fosse una persona libera dalle leggi della natura. Certamente questo è impossibile senza Cristo che “è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti” (hós estin arché, protótokos ek tôn nekrôn, Col 1,18). Grazie a lui, l’uomo ha la possibilità di una vita deificata nella comunione d’amore trinitario libera e totalmente incondizionata, in cui egli riceve la propria identità eterna; e questa è la chiesa12. Il presupposto ecclesiale Il primo passo di questo sforzo ascetico, attraverso cui l’uomo dirige il come della propria esistenza verso il come dell’esistenza di Dio, è precisamente il rinnegare se stessi e prendere la propria croce; questo è il morire e il risorgere con Cristo quale è espresso dal sacramento del battesimo. In questo senso ontologico, il battesimo è una nuova nascita, non dal basso né “da volere di carne” (Gv 1,13) ma piuttosto dall’alto, “da acqua e Spirito” (Gv 3,5). L’ipostasi biologica umana, o l’individuo, limitato da nascita e morte fisica, muore nel battesimo, ma allo stesso tempo un’ipostasi ecclesiale, o persona nasce, la quale trascende la morte grazie all’eucaristia, “farmaco di immortalità”13.

12 La parola stessa ekklesía significa “riunione dei chiamati”, una comunità di coloro che hanno liberamente scelto di essere in comunione con altri. 13 Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini 20,2, in Id., Ora comincio a essere discepolo. Le lettere, a cura di S. Chialà, Bose 2004 (Testi dei padri della chiesa 68), p. 21.

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L’esperienza ascetica dei padri della chiesa L’intero sforzo ascetico successivo nella vita di un cristiano consiste nello svuotamento dell’ego e nel far vivere la persona. Come è testimoniato dai padri della chiesa, il principale ostacolo a ciò è l’amore di sé (philautía)14 o egoismo15, per usare il termine moderno. Questo amore irrazionale – come direbbe Massimo il Confessore – è la fonte di ogni vizio e di ogni passione; combattere contro di essi è totalmente inutile se prima non viene rimossa la loro radice. Il fine della lotta ascetica è lo sradicamento dell’amore di sé quale espressione di una maniera di vivere corrotta, e conseguire l’amore dell’Altro, cioè di Dio e del prossimo. Questo è il motivo per cui l’indicazione migliore e più certa della deificazione è l’amore per i nemici, che può estendersi fino al punto di morire per essi16.

14 “Principio di tutte le passioni, l’amore di sé (philautía); termine, la superbia (yperephanía). L’amore di sé è l’amore irrazionale verso il corpo; colui che è riuscito a troncarlo, ha stroncato tutte le passioni che ne derivano” (Massimo il Confessore, Centurie sulla carità 3,57, in Id., In tutte le cose la “Parola”, a cura di L. Cremaschi e B. Mariano, Bose 2008, p. 97). Per un’analisi più dettagliata si veda A. Louth, Maximus the Confessor, London-New York Ny 1996, pp. 33-62; cf. anche N. Russel, The Doctrine of Deification in the Greek Patristic Tradition, Oxford 2004. 15 Ritornando alla distinzione tra rinnegamento per mezzo di sé e rinnegamento di sé, notiamo qui che si possono praticare numerosi rinnegamenti come effetto dell’amore di sé: questo significa che è possibile fare numerose buone azioni, perfino imprese sovrumane, senza però mai rinnegare il proprio sé. Cf. Massimo il Confessore, Centurie sulla carità 3,75, in Id., In tutte le cose la “Parola”, pp. 106-107. 16 Cf. Massimo il Confessore, A Talassio 64, PG 90,725C; Id., Lettere 2, in Id., Lettera sulla carità, a cura di L. Cremaschi, Bose 1994 (Testi dei padri della chiesa 11), p. 20. Ricordando il comandamento di Cristo sull’amore per i nemici (cf. Mt 5,44; Lc 6,27), crediamo sia importante notare che la stessa esperienza di Massimo il Confessore si è ripetuta nella persona di un santo contemporaneo, un grande santo che ha vissuto esperienzialmente la conoscenza teologica. Si tratta di Silvano del Monte Athos (1866-1938) che, privo di qualsiasi formazione accademica, non conosceva presumibilmente le opere del Confessore. Egli scrive: “Se tu preghi per i tuoi nemici, allora in te scenderà la pace. Quando ami i nemici, sappi che allora grande è la grazia che vive in te; non dico che sia perfetta, ma è sufficiente per la salvezza” (Archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos [1866-1938]. Vita, dottrina, scritti, Torino 1978, p. 339).

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“Beati i poveri in spirito” Come abbiamo visto, la lotta spirituale all’interno della tradizione ortodossa non è semplicemente una lotta per adempiere delle regole e raggiungere una certa purezza morale. Pur non rigettando affatto questo aspetto così altamente significativo della vita spirituale, vorrei sottolineare che la lotta spirituale consiste anzitutto nel portare umilmente la croce di Cristo, in un costante processo di perdita della propria vita per poterla così ritrovare (cf. Mt 16,25). L’esempio biblico forse più significativo di un tale ethos si trova nel racconto di Gesù sul pubblicano e il fariseo (cf. Lc 18,10-14). Il fariseo era indubbiamente un uomo virtuoso, il cui rinnegamento di sé era in accordo con la legge ebraica (“Digiuno due volte alla settimana e pago le decime”, Lc 18,12); tuttavia il suo amore di sé era tale che non aveva nessun bisogno di Dio. Il pubblicano, invece, era molto più pronto per un vero incontro con Dio poiché aveva rinnegato totalmente se stesso: tutto ciò di cui aveva bisogno era Dio. Proprio a causa dell’importanza dello svuotamento del proprio ego, Cristo ripete con insistenza ai suoi discepoli che i pubblicani e le prostitute li precederanno nel regno di Dio (cf. Mt 21,31); vi entreranno i poveri (cf. Mt 5,3), ma non coloro che sono ricchi spiritualmente (cf. Mt 19,24). Naturalmente, questo non significa che l’idea di purità morale non fosse importante per Cristo; il punto è che l’ego di un pubblicano o di un fornicatore non ha nulla da far valere dinanzi al volto del Signore; è più facile per una tale persona adempiere il comandamento di Cristo: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). I santi della chiesa hanno vinto la passione dell’amore di sé senza compromessi. Vorrei indicare l’esempio dei padri del deserto. Le loro imprese ascetiche e, in particolare, i loro detti, con283

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tinuano a ispirare coloro che sono impegnati nella lotta spirituale17. Non ho intenzione, tuttavia, di ricordare soltanto le loro fatiche nel digiuno, nella preghiera e nella temperanza; vorrei piuttosto sottolineare la loro grande impresa di amare il prossimo. Che cosa significa questo? I padri del deserto insistevano che il prossimo non deve mai essere sottoposto a nessun tipo di giudizio; si deve giudicare soltanto se stessi: “Inizia con il giudicare te stesso, e tu avrai già trovato la via della salvezza!”18. Certamente questo non significa che i padri non riconoscessero il male nel loro ambiente; piuttosto si addossavano quello degli altri. Di fatto l’ethos ascetico di questi teologi esperienziali guarda al prossimo oltre le sue qualità morali: il prossimo deve essere quello che è e deve essere amato esattamente come tale. In questo modo i padri del deserto, avendo sepolto il proprio ego, risorgevano con Cristo, ridando primato ontologico all’Altro e dando all’Altro il primato sul proprio sé19. Infine l’amore, così come era inteso dai santi padri, non è un sentimento o una categoria psicologica, bensì innanzitutto una categoria esistenziale e ontologica20. Prendere la propria croce o

17 Cf. Detti dei padri, Serie alfabetica, PG 65,71-440. È significativo anche ricordare qui che questi detti sono stati recentemente tradotti in serbo e pubblicati: Stare™nik, a cura di S. Jak∫ic´, Beograd 1995 (Novi Sad 2008). 18 Si vedano i detti relativi a questo tema raccolti in Detti editi e inediti dei padri del deserto, a cura di S. Chialà e L. Cremaschi, Bose 2002, pp. 232-236. 19 Si consideri l’esempio di Macario l’Egiziano, il quale, accusato di fornicazione con una giovane pur essendo innocente, acconsentì umilmente a offrire sostentamento alla donna e al neonato; quando la verità venne infine scoperta, Macario fuggì nel deserto per sfuggire dall’essere lodato come un santo: cf. Detti dei padri, Serie alfabetica, Macario l’Egiziano 1, in Detti editi e inediti dei padri del deserto, pp. 213-214. Su questo argomento, si veda anche D. Burton-Christie, La Parola nel deserto. Scrittura e ricerca della santità alle origini del monachesimo cristiano, Bose 1998. 20 All’interno del tesoro degli insegnamenti spirituali dei padri, una posizione speciale è occupata da abba Doroteo, un santo di Gaza vissuto tra la fine del vi e l’inizio del vii secolo. Sebbene ognuno dei suoi insegnamenti rappresenti una perla di sapienza monastica, noi concentriamo la nostra attenzione sul seguente, nel quale Doroteo, nella sua interpretazione della comunione con Dio, parla non del singolo ma di una comunità: “Immaginate che per terra vi sia un cerchio … Immaginate che questo cerchio sia il mondo, il punto centrale del cerchio Dio e i raggi che dalla circonferenza vanno

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rinnegare se stessi costituisce l’imitazione della kénosis di Cristo; è il modo in cui un uomo è ipostatizzato da Cristo: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Questo sforzo ascetico di svuotare il proprio essere è una dinamica profondamente cristica21; è essenzialmente legato all’eucaristia della chiesa, in cui i fedeli offrono a Dio esattamente ciò che essi ricevono da lui: “Le cose tue da ciò che è tuo”22. Tutto ciò che abbiamo, perfino la nostra stessa esistenza, non proviene da noi o dal nostro ego, ma dalla grazia dataci dall’Altro, da Dio. La vita ascetica trova il proprio culmine nell’eucaristia: soltanto in ciò noi siamo immagini (icone) delle persone che diventeremo nel mondo a venire.

La comprensione della lotta spirituale nella Serbia contemporanea All’inizio della seconda parte di questa relazione vorrei mettere in evidenza l’universalità dell’esempio evangelico del gio-

al centro siano le vie cioè i modi di vivere degli uomini. Poiché dunque i santi, spinti dal desiderio di avvicinarsi a Dio, avanzano verso l’interno, quanto più avanzano, tanto più si avvicinano a Dio e si avvicinano gli uni agli altri. Quanto più si avvicinano a Dio, tanto più si avvicinano gli uni agli altri e quanto più si avvicinano gli uni agli altri, tanto più si avvicinano a Dio” (Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali 6,78, in Id., Scritti e insegnamenti spirituali, a cura di L. Cremaschi, Roma 1980, pp. 130-131). 21 Mi riferisco all’esempio di Silvano dell’Athos, il cui principio ascetico fondamentale era: “Tieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare!” (Silvano dell’Athos, Non disperare! Scritti inediti e vita, Bose 1994, p. 78). Questa regola ascetica dell’umiltà è, innanzitutto, di natura cristologica: non deve essere dunque intesa in senso psicologico bensì ontologico. La discesa con Cristo agli inferi e il passaggio insieme a lui attraverso di esso permette di identificarsi con l’umanità intera nel suo stato di corruzione e di risvegliare un amore esistenziale per l’uomo. Si veda anche: Silvano dell’Athos. Atti del Colloquio internazionale “‘Tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare!’. Silvano dell’Athos: vita e spiritualità”, Bose, 3-4 ottobre 1998, a cura di A. Mainardi, Bose 1999. 22 Divina liturgia di Giovanni Crisostomo, in Liturgia eucaristica bizantina, a cura di M. B. Artioli, Torino 1988, p. 98.

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vane virtuoso che si scandalizzò della parola della croce (cf. Mt 19,16-22). Sembra che vi sia poca differenza tra quel giovane e il giovane di oggi; inoltre, sembra non esserci nessuna differenza sostanziale tra i giovani che provengono da ogni parte del mondo di oggi23. In Serbia, come in ogni parte del mondo moderno, la vita umana è cambiata considerevolmente: la vita è divenuta automatizzata, gli uomini sono ridotti a numeri, la famiglia è disintegrata, la natura è abbandonata e le persone sono confinate in cabine di cemento. Tutto ciò genera un senso di solitudine, ansietà e un grande vuoto spirituale24. Insieme a questo, un impatto repentino e incontrollato della cultura postmoderna con le proprie caratteristiche principali, quali l’accento su ciò che è soggettivo, liberale ed emozionale, crea una cultura che è fondamentalmente narcisista; questo ha certamente un forte impatto sulla psiche e ancor più sulla lotta spirituale del giovane contemporaneo. Quindi, quando trattiamo della gente della Serbia e dei Balcani, parliamo inevitabilmente della vita spirituale della vasta maggioranza degli uomini contemporanei. Durante il xx secolo la nazione serba ha vissuto importanti eventi storici che hanno avuto un impatto significativo sulla sua identità nazionale e spirituale. Dopo le due guerre mondiali, la Serbia è stata governata dal regime ateo del partito comunista della Jugoslavia, la cui politica repressiva ha sistematicamente distrutto l’identità storica della chiesa. Negli anni novanta, quando questo regime ostile nei confronti di Dio dovette allentare le redini, è emersa una grande sete spirituale, resa ancor più forte dalla sete metafisica dell’uomo moderno in generale. Le parrocchie nelle città e nei villaggi sono andate affollandosi, men-

23 Cf. l’interessantissimo studio, recentemente pubblicato, di T. Cowen, Creative Destruction. How Globalization is Changing the World’s Cultures, Princeton Nj-Woodstock 2002. 24 Per un approfondimento, si veda V. Jerotic´, C ˇ ovek i njegov identite, Beograd 2008, p. 45.

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tre i cortili dei monasteri divennero troppo piccoli per accogliere le folle dei visitatori. La chiesa incontrò improvvisamente grandi difficoltà nel soddisfare una sete spirituale tanto grande di cui la gente pativa fino a morirne ogni giorno proprio davanti alle porte delle chiese. Una delle iniziative intraprese fu la traduzione e la pubblicazione di opere di contenuto spirituale, anche se a motivo delle possibilità organizzative ridotte dalle condizioni storiche, la chiesa non è stata sempre in grado di esercitare un controllo sufficiente su tale processo. Personalmente ritengo che tale attività rappresenti un elemento importante nella formazione e nella direzione della lotta spirituale, sia essa individuale o comunitaria. Libri quali La scala25, che durante gli anni dell’oppressione era un tesoro prezioso nelle mani di pochi, divenne improvvisamente un’arma pericolosa a disposizione di una moltitudine di neofiti. Seguirono le edizioni del Combattimento invisibile e della Filocalia, insieme a numerosi insegnamenti dei padri della chiesa. Lungi dal valutare negativamente la diffusione di questa letteratura nella nostra comunità, vorrei nonostante ciò mettere in guardia contro il rischio serio di cadere in una trappola spirituale, rischio particolarmente pericoloso per coloro che leggono tali opere senza una sufficiente o adeguata formazione spirituale. La lettura della Filocalia può accendere un forte desiderio di áskesis in un neofita. Una reazione simile non è affatto insolita, dal momento che la moderna società consumistica, la cui presenza è fortemente sentita in Serbia, non offre luoghi dove posare il capo (cf. Mt 8,20). Incoraggiato nella sua domanda di ciò che è “spirituale”, il neofita può raggiungere la perfezione nella 25 Cf. Giovanni Climaco, La scala, a cura di L. d’Ayala Valva, Bose 2005. Il famoso manuale di vita spirituale apparve per la prima volta in serbo vernacolare negli anni trenta del Novecento (cf. Lestvica prepodobnog Oca na∫ega Jovana, igumena monaha Sinajske gore, Beograd 1932). L’edizione del 1963, pubblicata dalla chiesa ortodossa, fu la prima traduzione fatta da un teologo, Dimitrije Bogdanovic´. Molte altre edizioni sono seguite.

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sua impresa di rinnegamento per mezzo di sé, trascurando però completamente il necessario e fondamentale sforzo di rinnegamento di sé. Disgraziatamente, però, tutta la sua fatica può restare totalmente vana. Sebbene possa accettare facilmente l’appello a divenire “spirituale”, egli rimane autosufficiente, intossicato da se stesso e dalla sua ascesi. In questo modo egli, nella sua vita spirituale, viene soltanto ulteriormente confermato nel suo egocentrismo e diventa incline al fanatismo, il quale è basato sull’aggressività e si manifesta come lotta per la difesa della fede, come antiecumenismo, eccetera; e mentre la si può rispettare per il suo zelo nell’adempiere numerosi precetti, una tale persona non diviene mai un vero discepolo di Cristo perché non rinuncia a se stesso. Che cosa allora significa “rinnegare se stessi” nell’attuale contesto di vita in Serbia? Significa obbedire alla chiesa. Ancor più, significa che, se uno vuole davvero divenire cristiano e membro vivo della comunità, deve rivolgersi alla chiesa e obbedire a essa. Certamente l’obbedienza alla chiesa non è un’impresa facile, specialmente quando un giovane intellettuale di vedute moderne incontra nel confessionale un prete dai capelli grigi poco colto26. Riguardo all’obbedienza alla chiesa, vorrei menzionare un tema ancor più significativo, cioè quello dell’identità della chiesa; al giorno d’oggi siamo d’altronde obbligati a predicare su questo tema dalle terrazze (cf. Mt 10,27)27. L’identità della chie-

26 La chiesa serba, così come la chiesa di Cristo di tutto l’oikuméne, offrì fiumi di “acqua viva” attraverso le figure di grandi teologi, padri spirituali e studiosi, quali il vescovo Nikolaj Velimirovic´ e padre Justin Popovic´. Nelle persone di questi due santi apparsi recentemente, la teologia accademica e la teologia esperienziale non sono due realtà distinte, ma piuttosto un’unica, onnicomprensiva esperienza e testimonianza del vangelo di Cristo. Le loro opere sono state raccolte e pubblicate in diverse edizioni e costituiscono solide fondamenta su cui numerosi cristiani vengono edificati, sia in Serbia che nel mondo intero. 27 Qualcuno potrebbe comprensibilmente osservare che ciò non ha nulla a che fare con il tema della “lotta spirituale”. Questa osservazione rivela di fatto una coscienza cristiana individualizzata propria di molti fratelli e sorelle, che pongono la propria vita

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sa assume spesso un carattere nazionale; di conseguenza, la lotta spirituale cristiana può essere erroneamente confusa con la lotta per la purezza nazionale. L’essere della chiesa è invece radicato nell’éschaton; come il lievito, essa impregna tutti i pori della società senza però identificarsi con essa. Le associazioni di destra che pretendono di lottare per la purezza della fede ortodossa e per la conservazione della nazione in senso ideologico non sono distanti dai movimenti pietistici28 e da vari gruppi di autoproclamantisi “zeloti”29. Sembra che tutti questi gruppi, particolarmente gli zeloti, restino intrappolati nel dare priorità ontologica a loro stessi e non all’Altro; come abbiamo visto, questo è un ostacolo essenziale alla comunione. Strettamente legato a questo c’è una difficoltà ancora più grave che riguarda innanzitutto la vita spirituale cristiana e che ha creato serie difficoltà alla chiesa in Serbia. Il problema riguarda il sacramento dell’eucaristia: in un arco di tempo molto stretto un grande numero di neofiti sono stati introdotti alla prassi eucaristica, la quale è stata, per questa stessa ragione, spesso fraintesa. L’eucaristia è stata solitamente associata con il pietismo, che la considera innanzitutto come un oggetto, vale a dire che conspirituale e i propri problemi spirituali al di sopra delle istituzioni gerarchiche e liturgiche della chiesa. Al contrario, un vero cristiano è chiamato ad andare al di là della propria persona: “Unus christianus, nullus christianus”. La vita della chiesa è la vita del Cristo crocifisso e risorto e, nello stesso tempo, è la vita di ciascun fratello, di ciascuna sorella, e di tutta la comunità nel suo insieme. La lotta spirituale di un cristiano riguarda esistenzialmente la lotta spirituale dell’intera comunità, e viceversa. È impossibile aspirare a tale modello a meno che non si estirpi il proprio amore di sé, a tutti i livelli possibili. 28 Cf. Ch. Yannaras, “Il pietismo, un’eresia ecclesiologica”, in Id., La libertà dell’ethos, pp. 119-138. Ricordiamo qui che nella chiesa serba ci fu un movimento pietistico molto attivo a metà del xx secolo, chiamato “Bogomolja™ki pokret” (Bogomoljac significa “colui che prega Dio”). Cf. H. Petakov, “Bogomolja™ki pokret”, in Teolo∫ki ™asopis 1 (2001), pp. 25-39. 29 Esempi di tale forma di lotta non mancano nella società serba e sono stati particolarmente vivi negli anni novanta. Cf. J. Byford, “Christian Right-Wing Organizations and the Spreading of Anti-Semitic Prejudice in Post-Milo∫evic´ Serbia: The Case of the Dignity Patriotic Movement”, in East European Jewish Affairs 32 (2002), pp. 43-60. Cf. A. Jevtic´, Zablude raskolnika, tzv. “starokalendaraca”, Vrnjci-Trebinje 2004.

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dividere il corpo e il sangue di Cristo è o un mezzo per esprimere la propria pietà personale o un atto utile alla propria salvezza. Una tale comprensione non riconosce che l’eucaristia è, di fatto, liturgia, cioè un atto dell’assemblea ecclesiale; è una manifestazione cattolica della chiesa intera e non soltanto una relazione verticale dell’individuo con Dio30. Quindi, qualora avessimo a che fare con un neofita, sarebbe necessario insegnargli a “prendere la sua croce” e a obbedire alla chiesa. Soltanto così egli potrà evitare la moltitudine di lacci spirituali che sembrano inesorabilmente costruire il tessuto della nostra società. E infine, vorrei sottolineare il grande impatto che la nostra Facoltà teologica, recentemente integrata nell’Università di Belgrado, esercita in Serbia. L’aumento rilevante del numero degli studenti così come la grande quantità di testi teologici prodotti e tradotti dimostrano che la lotta per il mondo a venire è ancora salda. Nello stesso tempo, attraverso corsi di catechesi nelle scuole primarie e secondarie, un numero immenso di giovani preparano – anche se inconsapevolmente – il terreno delle loro anime e diventano un terreno buono (cf. Mt 13,8), aperto a ricevere la Parola evangelica. Tutto questo faciliterà notevolmente l’interpretazione, da parte delle future generazioni di pastori, degli ideali ascetici propri della lotta spirituale, che qui noi speriamo di essere stati in grado di presentare in modo soddisfacente.

30 Sembra che la chiesa si sia frequentemente confrontata con tali tentazioni lungo la propria storia. La spiegazione teologica che offre una sintesi tra la teologia “salvifica” e quella “liturgica”, ed è la più citata dagli studiosi e dai teologi ortodossi, venne fornita da Massimo il Confessore. Cf. A. Louth, Maximus the Confessor; I. Zizjulas, “‘Isceliteljna ili liturgijska eklisiologija’ Sinteza svetog Maksima Ispovednika”, in Eklisiolo∫ke teme, Novi Sad 2001, pp. 35-45.

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Ciò che abitualmente viene in mente quando si parla di unità della chiesa è il dialogo tra oriente e occidente, secondo un’attitudine intellettuale nutrita di una dogmatica costruita soprattutto con concetti e coerenza logica; ed è noto che tutte le logiche sono egualmente sostenibili. Ora, e lo si è detto, un’idea ne esclude sempre un’altra. Spesso si dimentica che gli incontri tra le chiese sono incontri tra uomini così come la vita li ha forgiati, a tutti i livelli immaginabili che possono aver raggiunto sulla “scala” delle virtù, per riprendere un’immagine di Giovanni Climaco. E le comunità ecclesiali sono formate da questi uomini che costruiscono, o che demoliscono, la casa di Dio. Le comunità sono il prodotto della storia. Niente viene fatto o detto al riparo dall’opacità della storia o dei punti deboli delle culture, o addirittura, e spesso, dagli interessi politici che abitano nei nostri cuori. Quando operiamo a livello razionale, noi spesso veniamo “agiti” da questo frastuono interiore che ci mette in agitazione. Ecco perché Barsanufio di Gaza ha potuto scrivere: “Ogni pensiero che non ha principalmente la calma dell’umiltà

* Metropolita del Monte Libano, del Patriarcato greco ortodosso di Antiochia. Traduzione dall’originale francese.

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non è secondo Dio”1. Il pensiero allo stato puro è una visione dello spirito. L’uomo è un essere “capace di Dio”, se la fiamma incandescente della divinità gli arde nel cuore. Da qui il titolo di questo mio intervento: “La lotta spirituale per l’unità della chiesa”. È ovvio che, in tutte le epoche della storia, la chiesa è stata ambito di manifestazione di dissensi personali che non sempre e necessariamente erano legati a controversie dottrinali o canoniche. I fautori di scismi, di tensioni, spesso non avevano raggiunto quella pace interiore che poteva far dimorare le loro anime nella giustizia. È con una grande serenità che si devono trattare le controversie teologiche. Ora, Satana cerca di penetrare nel santuario e di governarlo attraverso quei capi religiosi che credono di rendere gloria a Dio (cf. Gv 16,1) attraverso controversie poco pertinenti. Se in una chiesa si formano fazioni animate da uno spirito partigiano, che fanno gli interessi dei singoli o dei gruppi, diventa evidente che quella chiesa non è più un luogo dove ci si preoccupa della gloria di Dio e di cercare l’unità. E d’altro canto può accadere a coloro che sono sensibili a una grande causa come quella dell’unità di essere tenuti lontani dalle decisioni di natura ecumenica che possono far vacillare il potere ecclesiastico dominante. Si pensi ad esempio alle manovre di Cirillo di Alessandria per ottenere la condanna di Nestorio. Al di là della persona di colui che fu dichiarato eretico, la posta in gioco, per la sede di Alessandria, era il controllo della sede di Antiochia. Un altro esempio è quello del cardinale Umberto di Silva Candida, al momento dello scisma del 1054. Gli interessi dei suoi alleati politici, da una parte, e il suo odio per la sede di Costantinopoli, dall’altra, hanno alimentato la sua azione di opposizione al Patriarcato ecumenico. La scomunica di Michele Cerulario e so-

1 Barsanufio e Giovanni di Gaza, Epistolario 21, a cura di M. F. T. Lovato e L. Mortari, Roma 1991, pp. 96-97.

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prattutto del suo gregge non aveva alcun fondamento nel diritto canonico orientale. Quegli assurdi anatemi, da entrambe le parti, sono finalmente caduti quando due capi delle rispettive chiese, Paolo VI e Athenagoras I, mossi da uno spirito d’amore, hanno iniziato il dialogo dell’amore. Riconoscere da parte dei capi di una chiesa che l’altra chiesa è altrettanto amata da Dio significa riconoscere chiaramente che si tratta di una chiesa sorella. Quale che sia la nostra analisi dei fatti storici e il nostro modo di concepire l’evoluzione storica, non vi è dubbio alcuno che chi aveva potere decisionale in ambito ecclesiastico ha svolto un ruolo considerevole nel promuovere le divisioni.

Lotta spirituale personale e lotta spirituale ecclesiale La lotta spirituale non è soltanto quella del singolo cristiano contro il fanatismo, il settarismo, il disprezzo atavico dell’altro. Anche la chiesa e le chiese sono arruolate nella guerra contro il principe di questo mondo (cf. Gv 12,31; 14,30; 16,11). Se prendiamo come modello della lotta quello della donna in Apocalisse 12, siamo di fronte alla lotta che la chiesa, rappresentata dalla donna, conduce in permanenza contro il drago. La donna è incinta, e noi ne siamo i figli. L’intera narrazione mette in rilievo questa “donna vestita di sole con la luna sotto i suoi piedi” (Ap 12,1): è l’idea di una purezza totale, nemico della quale è il drago rosso fuoco, perché esce dall’inferno. La donna fugge nel deserto, che non è soltanto luogo di rifugio dei perseguitati, ma anche degli spiriti impuri, contro i quali la chiesa porterà avanti la lotta con la sua forza ascetica. A partire dal iii secolo alcuni cristiani, che si sentono eredi dei martiri, prendono la via del deserto come luogo ottimale per combattere la potenza del male. La chiesa e le chiese possono pervenire al culmine della loro te293

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stimonianza soltanto nella morte a se stesse, nella rinuncia totale al mondo, luogo del principe di questo mondo (cf. Gv 12,31; 14,30; 16,11). Forte del sangue dei martiri e del sacrificio incruento dei monaci, la chiesa potrà dire: “Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, perché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli … Ma essi lo hanno vinto grazie al sangue dell’Agnello e alla parola della loro testimonianza” (Ap 12,10-11). Lotta spirituale personale e lotta spirituale ecclesiale sono strettamente legate. Nel libro dell’Apocalisse, infatti, il Cristo risorto e glorioso scrive delle lettere alle sette chiese dell’Asia minore per incoraggiarle e correggerle: vengono esortate a divenire quello che sono, attraverso il dono di Dio, attraverso la conversione e la perseveranza nella fede apostolica. L’angelo di ogni chiesa, al quale si rivolge il veggente, secondo il vescovo Kassian Bezobrazov, non è altro che la chiesa stessa. Il veggente critica le chiese per quanto riguarda la loro vita di fede, ma ne mostra anche la grandezza. L’elemento più importante del messaggio è colui che lo pronuncia. Si rivolge alle chiese “a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù” (Ap 1,9). La sua forza gli viene dal fatto che egli ha visto qualcuno “simile a un Figlio d’uomo” (Ap 1,13), e ha compreso che colui che gli parlava era il Risorto. Dunque qui qualcuno parla a coloro che non hanno visto come lui la potenza del Signore della gloria. Le chiese devono rivestire il Cristo totale e perfetto per potersi compaginare come suo corpo a partire dal Capo. Le chiese, che, in un dato momento della storia, sperimentano la luce, devono quindi esortare quelle che ne sono ancora lontane. È così che Cristo governa la sua chiesa. Da molti anni ormai sono giunto alla convinzione che il declino della chiesa terrena è una delle prove più eloquenti che lo Spirito santo mantiene la presenza di Cristo tra di noi. Nei periodi di declino la lotta spirituale contro il principe di questo mondo (cf. Gv 12,31; 14,30; 16,11), come spiega Basi294

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lio il Grande nel suo breve trattato sulla fede, è innanzitutto portata avanti dai martiri nelle persecuzioni. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15,13). Il sangue è la parola più eloquente. I martiri sono gli unici che non saranno convocati al momento del giudizio finale. Chi vive come loro è un rimprovero vivente e allo stesso tempo un’esortazione nella sua chiesa e nelle altre per quelli che hanno rinunciato alla lotta. Coloro che hanno dato la vita in condizioni di oppressione politica o che hanno subito ripetutamente una persecuzione aperta o larvata, e hanno combattuto nella testimonianza del silenzio “per la fede, che fu trasmessa ai santi una volta per sempre” (Gd 3) fondano la propria chiesa, e anche le altre, sulla Roccia (cf. 1Cor 10,4). È questa la forza che rende la chiesa incrollabile nei secoli dei secoli. Le chiese che sono state costantemente crocifisse possono intonare il canto pasquale con una convinzione provata. In queste chiese emergono movimenti di rinnovamento inattesi. Cristo sceglie in esse i suoi testimoni per trasmettere la vita ai membri considerati morti. E la vita nuova crea una teologia nuova con parole mai udite, una teologia che è soffio ( pneûma), e dunque preghiera.

Il mistero dell’unità nella Scrittura Questo soffio è presente in Giovanni 17 nella grande preghiera sacerdotale di Gesù, che è l’esempio più incisivo di preghiera per l’unità della chiesa. È affinché il soffio dello Spirito animi tutto il mondo cristiano che il diacono, nella Grande intercessione (ektenía), prega per tutte le chiese di Dio. Perché la liturgia della Parola sia accolta dal Padre con sollecitudine essa viene presentata a lui come un’obbedienza proclamata con una sola bocca e sentita con un solo cuore. Il Figlio suscita in noi la ca295

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pacità di rivolgerci a Dio: “Le parole che hai dato a me io le ho date a loro. Essi le hanno accolte” (Gv 17,8). È il mistero dell’unità della preghiera in tutte le assemblee eucaristiche del mondo. Se è vero che il sacrificio incruento nella potenza del Logos viene celebrato su tutti gli altari, è altrettanto vero che l’entusiasmo di alcuni sostiene i fratelli e le sorelle più deboli e meno innamorati della bellezza di Dio. Alcuni sono capaci di grandissima audacia fino a osar dire “Abba”, e trascinano nel loro slancio quelli che ne sono incapaci. Alla lettura del capitolo 17 del Vangelo di Giovanni, l’attrattiva unica che esercita su di noi il discorso dopo l’ultima cena giunge al culmine. Il nostro amore per tutte le chiese di Dio ci spinge a desiderare che esse aderiscano completamente a ciò che ha detto il Signore: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). Le chiese fanno a gara nell’amare Gesù. Questa corsa verso l’amore è uno degli aspetti della cattolicità della chiesa. In Giovanni 17, Gesù sembra riprendere la benedizione pronunciata da Giacobbe sui dodici figli: “Radunatevi e ascoltate, figli di Giacobbe, ascoltate Israele, vostro padre!” (Gen 49,2). Giacobbe richiamava all’unità fraterna dopo il dramma fratricida. Nella chiesa non si perdona all’uomo dei sogni. Egli ha altre attese, altre visioni, sa vedere il volto nascosto della chiesa e cerca di portarlo alla luce per coglierne la bellezza. La liturgia della settimana santa evoca la bellezza e la castità di Giuseppe. Una chiesa è bella solo se è autonoma dal corpo di questo mondo. È la sua virtù che le procura il senso della fraternità con le altre chiese di Dio a partire dal servizio che presta loro. I capitoli dal 37 al 50 della Genesi possono essere letti come un combattimento spirituale per l’unità. Prima che la bellezza spirituale di Giuseppe fiorisca in Egitto, in terra straniera, egli viene venduto dai fratelli come schiavo. I fratelli, attraverso le prove, prendono coscienza della loro colpa. Questo pentimento giunge al culmine quando Giuda si offre al posto di Beniamino (cf. Gen 44,18-34). Allora Giuseppe, che certamente ha dovuto affrontare una lotta 296

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per perdonare i fratelli, si fa riconoscere: “Avvicinatevi a me!”. Si avvicinarono e disse loro: “Io sono Giuseppe, il vostro fratello” (Gen 45,4). È necessario arrivare a riconoscere la chiesa sorella come tale, per la sua natura ecclesiale, anche se ci ha ignorato o addirittura ha peccato contro di noi. In questa storia di Giuseppe ci sono molti spunti di meditazione sulla lotta spirituale: pentirsi, perdonare, riavvicinarsi gli uni agli altri e, soltanto alla fine, parlare. All’inizio della storia di Giuseppe i suoi fratelli “lo odiavano e non riuscivano a parlargli amichevolmente” (Gen 37,4), mentre quando Giuseppe li incontrò in Egitto, “baciò tutti i fratelli e pianse. Dopo, i suoi fratelli si misero a conversare con lui” (Gen 45,15). Quando Giuseppe rimanda i fratelli a Giacobbe suo padre raccomanda loro di non litigare per strada (cf. Gen 45,24). La ritrovata concordia fraterna rimane sempre minacciata. L’apostolo Paolo traduce nel suo stile personale per le giovani chiese il vangelo della pace e della comunione. L’origine e la fonte della comunione ecclesiale è l’amore di Gesù Cristo che non è condizionato dalla nostra situazione spirituale: “Quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi” (Rm 5,6). Paolo riprende questa idea due versetti dopo, all’interno di un crescendo spirituale, e dice: “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8). L’unità della chiesa è un dono di comunione attraverso la morte e la resurrezione del Messia, ed è a immagine dell’unità trinitaria manifestata nel mistero della salvezza. La chiesa vive di teologia nell’economia. Quando Paolo esorta a “conservare l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace” (Ef 4,3), egli non dimentica che questo sforzo è possibile perché c’è “un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4,5-6). Emerge qui come la vita della Trinità si rifletta nella vita ecclesiale. Dunque, le discordie che possono prodursi in una 297

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chiesa o tra le chiese sono un attentato da parte degli uomini ai danni della loro conformità alla Trinità. Quando Paolo auspica che noi “arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (Ef 4,13), egli pone questa perfezione della fede di fronte alle eresie che incombono su di noi. Ci si aspetterebbe da lui un approccio concettuale alle eresie, ma egli parla solo di dimorare nell’amore e ci invita a crescere “in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo” (Ef 4,15). A quanto pare per lui è l’amore la vera guarigione dalle eresie e la fonte dell’ortodossia della fede. Nell’Apostolo delle genti non c’è mai scissione tra fede, amore e ordine ecclesiale. Le fonti dell’unità per lui sono nel contempo la presenza operante dello Spirito, del Signore, del Padre (cf. Ef 4,4-6) e l’attività convergente dei ministeri (cf. Ef 4,7-13). I ministeri sono l’opera dello Spirito. Vengono vissuti nella loro distinzione, ma anche nella loro unità, per l’edificazione del corpo di Cristo (cf. Ef 4,12). Lo Spirito resta l’ipostasi della varietà dei carismi e della loro unità. Noi siamo nella medesima economia del Figlio e dello Spirito, nonché in quella dell’unità e della diversità ecclesiali.

I carismi delle diverse chiese Meditando sul mistero dell’unità della chiesa così come appare a Paolo si può comprendere che in essa non viene meno la diversità delle singole chiese a causa della molteplicità dei loro carismi. E, se è vero che tale distinzione non è esplicita nel corpus paolino, ne troviamo però il fondamento. Questo ci permette di affermare che la diversità dei tratti peculiari delle chiese locali è un dono di Dio e nulla ne giustifica l’assorbimento: 298

La lotta spirituale per l’unità della chiesa

sarebbe un attentato alla ricchezza voluta da Dio. La lotta spirituale considerata in quest’ottica consiste nel riconoscere la diversità nella ricchezza e nel saper ricondurre le ricchezze all’unico “tesoro dei beni” di cui parla la preghiera inaugurale al Paraclito nella chiesa ortodossa2. Perciò noi dobbiamo beneficiare tutti insieme della bellezza dei doni ricevuti da patriarcati e chiese autocefale diverse. Io non so se ci sono dei modi sostanzialmente diversi di concepire l’ortodossia presso i greci, i russi, gli arabi e gli altri. Ma è innegabile che vi siano differenze di sensibilità nell’approccio ai singoli aspetti della vita ecclesiale. Ad esempio, non si può ignorare l’esegesi quando ci si rivolge agli ortodossi arabi perché il loro ambiente storico e culturale è stato inondato dall’esegesi nei primi sei secoli ed è stato arricchito, qualche tempo dopo l’invasione araba, dall’apporto della filosofia greca. Benché tutti gli ortodossi amino la liturgia, è innegabile che i russi vivono di canto, di uffici molto lunghi, di musica e della bellezza delle icone. Bisogna preservare tutti questi tesori nelle chiese locali. C’è una lotta spirituale da condurre proprio per la conservazione di tutti i nostri tesori. In una visione più ampia, l’occidente è occidente e l’oriente è oriente, e possono e debbono incontrarsi in Cristo senza perdere le loro caratteristiche culturali. Non è auspicabile che la sobrietà liturgica degli occidentali scompaia a vantaggio della magnificenza di Bisanzio. Dobbiamo lottare perché la chiesa di Roma conservi il suo senso dell’ordine gerarchico, imparare a discernere la bellezza della quale il Signore ha adornato la chiesa di Roma. È necessario che diveniamo sensibili alla sua grande pietà, alla serietà del suo approccio con la storia e con la cultura, alla sua ferrea volontà di reclutare religiosi e preti. Niente nella cultura che essa vive sfugge all’analisi della fede.

2 Cf. “Ufficio del piccolo canone paraklitikos alla santissima Madre di Dio”, in Anthologhion di tutto l’anno I, a cura di M. B. Artioli, Roma 1999, p. 1529.

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E d’altra parte non possiamo nemmeno ignorare i doni che il Signore ha fatto alle chiese nate dalla riforma. Il fatto che vivano della parola di Dio mostra manifestamente l’amore che i protestanti hanno sempre nutrito per la persona di Gesù. Questa sollecitudine costante nello studio della Bibbia è un’eredità per noi tutti. La chiesa dei padri è stata biblica e liturgica allo stesso tempo. La correzione fraterna qui si impone per ristabilire questo equilibrio.

Comunione e conflitto: un tesoro in vasi di creta

Ritorno a Paolo, che tante volte parla della preghiera per la chiesa e le chiese. “In ogni occasione, pregate con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, e a questo scopo vegliate con ogni perseveranza e supplica per tutti i santi” (Ef 6,18). L’Apostolo affida chiaramente tutti i fedeli gli uni agli altri, e affida il suo ministero ai cristiani di Colossi. Scrive loro: “Perseverate nella preghiera ... Pregate anche per noi, perché Dio ci apra la porta della Parola per annunciare il mistero di Cristo. Per questo mi trovo in prigione” (Col 4,2-3). L’annuncio, la fecondità, l’intelligenza della Parola sono in parte dovuti al sostegno dei fedeli che hanno a cuore la diffusione del vangelo tra di loro, tra gli altri, nella missione. Da sempre, i missionari hanno avuto coscienza che il successo della loro azione dipendeva in grande misura dalle preghiere della chiesa che li inviava. Erano consapevoli che era tutta la chiesa, in realtà, che usciva dai suoi confini geografici e annunciava il vangelo in terra di missione. E i fatti mostrano che il vangelo è stato recepito più profondamente in paesi lontani in proporzione alla fedeltà della chiesa che inviava i missionari. 300

La lotta spirituale per l’unità della chiesa

Anche nella vita quotidiana delle chiese, quando una comunità viene a sapere che un’altra si trova nell’afflizione, preghiere vigilanti vengono innalzate per i fratelli colpiti da prove fisiche o morali. È l’espressione diretta della koinonia. Ma, oltre a questo aspetto della comunione, sono molti i cristiani che confessano che la loro vita spirituale è sostenuta dalle preghiere promesse loro dagli amici. Molti fratelli mi hanno confidato di aver ritrovato la salute grazie ai rapporti spirituali instaurati. Quando il patriarca nel Grande ingresso della liturgia eucaristica commemora i suoi confratelli che presiedono le altre chiese, o quando, secondo un’altra usanza, lo fa il diacono, vi è qui l’espressione verbale dell’unità della chiesa. Al di là di quello che si dichiara, la concelebrazione nella quale viviamo un’autentica unità eucaristica è garanzia della conservazione dell’unità ecclesiale in tutte le sue dimensioni. Tuttavia, nonostante lo splendore dell’eucaristia e, per riprendere l’espressione della liturgia dopo l’anafora, malgrado essa sia il “compimento del regno dei cieli”3, il tesoro resta in vasi di creta (cf. 2Cor 4,7). Ma dietro la fragilità degli uomini si cela il mistero. Conflitti nella chiesa ce ne sono sempre stati perché non tutti i fedeli vivono una tensione alla santità. Se la gloria non c’è ancora, se la théosis non trasfigura continuamente la comunità, questo è segno che noi non custodiamo il tesoro e manifestiamo la nostra natura di vasi di creta. Divisioni e contese ci sono sempre state, secondo Paolo, fin dagli albori della chiesa di Corinto (cf. 1Cor 1,10-13). L’Apostolo denuncia il fatto che i fedeli vivono appartenenze diverse: “‘Io sono di Paolo’, ‘Io invece sono di Apollo’, ‘Io invece di Cefa’, ‘E io di Cristo’” (1Cor 1,12). Ancor oggi nelle chiese ortodosse, là dove il popolo di Dio partecipa all’elezione del vescovo, i candidati sono

3

Liturgia eucaristica bizantina, a cura di M. B. Artioli, Torino 1988, p. 99.

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conosciuti, e alcuni cercano di incoraggiare manifestazioni della loro popolarità o di coltivarla. Spesso ci sono tensioni all’interno del sinodo prima del voto. Sovente vi è una terribile crisi prima dell’elezione del patriarca, che a volte continua in sordina. La chiesa appare proprio come un’assemblea di ordine sociologico. Al disordine della chiesa di Corinto, Paolo contrappone questo: “La parola della croce è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio” (1Cor 1,18). Al posto di certa sapienza mondana, che ha potuto ispirare le fazioni di Corinto, l’Apostolo non può fare a meno di dire: “È piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione” (1Cor 1,21). Lo si dovrebbe tener presente a volte, in certe eparchie o parrocchie, quando ci si riduce a risolvere le difficoltà che insorgono tra i fedeli con i mezzi della sapienza di questo mondo. La situazione è più grave in Galazia. Paolo scrive: “Mi meraviglio che, così in fretta, da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo voi passiate a un altro vangelo. Però non ce n’è un altro, se non che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo” (Gal 1,6-7). In questo caso abbiamo una deriva nell’insegnamento, l’intento di predicare un vangelo diverso da quello di Paolo. Paolo scrive ai cristiani della Galazia come a quelli di Corinto: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). Vi è impossibilità radicale di affrontare dei conflitti in quanto chiesa con i mezzi di questo mondo. L’unità che si verrebbe a creare sarebbe raggiunta nel compromesso, usando categorie sociologiche, non sarebbe una riconciliazione in Cristo. In alcune parti del mondo ortodosso il vescovo di fatto è un etnarca, soprattutto in assenza di una catechesi preparatoria a un dialogo di qualsiasi genere tra pastore e gregge, gregge che a sua volta non sempre è così sensibile alla fede alla quale il presbitero o il vescovo fanno riferimento. Così nella co302

La lotta spirituale per l’unità della chiesa

munità convivono due linguaggi diversi e il risultato, esagerando un po’, è una Babele permanente. Ci si può quindi chiedere se le divisioni della chiesa non siano la conseguenza dell’infedeltà all’alleanza. È un’interpretazione possibile di Levitico 26: “Cadranno uno sopra l’altro” (Lv 26,37; cf. 26,36-37). Già nell’Antico Testamento le terribili maledizioni erano una conseguenza della non osservanza dell’alleanza da parte del popolo. E ancor oggi ognuno cerca di salvare se stesso senza preoccuparsi del bene comune. In certi ambiti vi sono derive identitarie familiari o politiche. Molti battezzati “si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine” (Rm 1,21-23). Il dramma di certe parrocchie è che si è condannati a tacere perché sono pochi quelli che adorano Dio; gli altri, invece, adorano le immagini, cioè se stessi. Nella lotta spirituale per l’unità della chiesa, la credibilità della chiesa sulla terra è strettamente legata alla sua testimonianza di comunione ecclesiale. Ora, la comunione ecclesiale ha un linguaggio, che è innanzitutto quello dell’amicizia. L’amicizia è il minimo che si possa sperare come fondamento di un linguaggio evangelico, condizione della vita ecclesiale che necessariamente è tesa alla missione. La sollecitudine autentica della vera fede è espressa dalla liturgia di Giovanni Crisostomo: “Amiamoci gli uni gli altri per poter professare nella concordia la nostra fede nel Padre, nel Figlio e nel santo Spirito”4. In vista dell’intelligenza della fede, scrive Paolo ai cristiani di Colossi, coltivate “sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri” (Col

4

Ibid., p. 93.

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3,12-13). È con queste disposizioni interiori che si può imparare gli uni dagli altri ad ascoltare la parola di Dio. In altri termini, accettare di divenire sempre più discepoli di Cristo, ascoltando ciò che lo Spirito dice attraverso il fratello o la sorella. Chi ha parole divine da dire le deve dire. Perché la chiesa viva, il dono di Dio va condiviso. L’obbedienza al Signore esige che noi riconosciamo la sua volontà nelle parole che ha deposto nel cuore dei suoi discepoli amati. Questo richiede grande umiltà da parte di tutti e in particolare dei capi, che devono saper ascoltare ciò che il Signore dice alle chiese, cioè molto spesso anche a laici dal cuore puro e che hanno una frequentazione abituale con le Scritture. Accanto ai vescovi e ai presbiteri, Dio può scegliere chi vuole per comunicargli i misteri del Regno e della Parola che ci è di consolazione nell’oggi di Dio. Un altro mistero della salvezza della chiesa intera è la comune diakonía dei “poveri”, che ci dà la certezza di servire in loro Cristo in persona. Dobbiamo ricordarci che è ai poveri che il Regno viene predicato, sono i fratelli minori di Gesù e il loro pascolo è Dio stesso. Non possiamo comunicare ai misteri se non viviamo la condivisione con loro. Sono loro l’altare sul quale offriamo un sacrificio superiore a quello offerto sull’altare della liturgia, per riprendere la straordinaria intuizione di Giovanni Crisostomo5.

La via della “kénosis” Infine, in questa via del distacco che ci prepara all’unità, possiamo trovare fondamento in Dio solo rinunciando ai nostri in-

5 Cf. Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Matteo 50,3-4, a cura di S. Zincone, Roma 2003, vol. II, pp. 358-361.

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teressi personali e al nostro orgoglio confessionale. Corona è la verità e non serve l’orgoglio della propria storia, quali che ne siano le attrattive. In questo senso Paolo evoca coloro che “cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo” (Fil 2,21), o quelli che “predicano Cristo per invidia e spirito di contesa” (Fil 1,15), con un atteggiamento che è agli antipodi di quello di Cristo, che “svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,7-8). La kénosis è il cammino che tutti dobbiamo fare verso la resurrezione permanente in Cristo, in una vita di preghiera per tutta la chiesa. Dio gradisce le preghiere di coloro che amano la pace. “Il sacrificio più grande davanti a Dio è la nostra pace, la concordia fraterna e un popolo radunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo”6. Questo ci porta ad affermare che la lotta spirituale e la lotta per l’unità della chiesa sono strettamente collegate. Lotta di ciascun cristiano e di tutte le chiese per la chiesa di Dio. Lotta attraverso la Parola di salvezza e la santità di vita. Santità e unità vanno nella stessa direzione. La sollecitudine per l’unità rischia di rimanere un mero discorso teologico in senso stretto, mentre l’orizzonte della lotta spirituale permette un approccio all’unità nella sua dimensione profonda, che è la vita in Cristo, e quest’ultima non è altro, attraverso un movimento di ascesa, che il dimorare con il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. Quanti ostacoli da superare in questa ascesa! Li abbiamo evocati. Lo scopo dell’ascesi e della contemplazione di Dio sulla strada che percorriamo verso il nostro fine ultimo nella gloria è di chiedere la santità reale per la nostra chiesa e per tutte quel-

6 Cipriano di Cartagine, La preghiera del Signore 23, in Tertulliano, Cipriano, Agostino, Il Padre nostro, a cura di L. Vicario, Roma 1983, p. 111.

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le che invocano la Trinità. È la Trinità che rende ecclesiali tutte le comunità che credono profondamente in essa. Se viviamo della comunione delle persone divine noi accediamo già all’esperienza della divinità intera e il Regno è in noi (cf. Lc 17,21).

Chiesa di Roma e chiesa ortodossa Una vera e propria unità è già realizzata in particolare tra la chiesa di Roma e la chiesa ortodossa. E tuttavia Roma è invitata dagli ortodossi a chiarire se l’anatema pronunciato contro gli anti-infallibilisti romani tocca in qualche maniera anche loro. Perché se gli ortodossi non sono oggetto di una condanna, possono restare fedeli alla loro teologia, e il dogma romano del 1870 divenire per loro un theologoúmenon. Non so se questo è possibile. Ma se la chiesa di Roma deve combattere una lotta spirituale è proprio questa. Se la nostra proposta venisse presa in considerazione, noi non pregiudicheremmo nulla delle nostre posizioni, e nel contempo l’essenziale delle nostre divergenze verrebbe meno. Lo scisma che attualmente ci separa potrebbe essere letto come una rottura all’interno dell’unica chiesa. L’importante è che si proceda insieme nella riflessione, facendo tutto per la gloria di Dio che ricopre il corpo di Cristo. Siamo o non siamo in comunione autentica, e non una “quasi” comunione? Possiamo scambiarci oggi il bacio di pace affinché l’unica nostra lotta, d’ora in avanti, non sia più quella di ricercare l’unità, ma quella di proclamarla e di cantarla.

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Nessun nuovo peccato? “Che peccato che non esistano nuovi peccati!”. Mi viene spesso in mente questa considerazione fatta più di cinquant’anni fa da una nota guida spirituale della tradizione anglicana, Algy Robertson, padre guardiano della Society of Saint Francis. Così mi disse con una nota di tedio nella voce, lui che ogni settimana trascorreva molte ore ascoltando le confessioni. Aveva sicuramente ragione. Contrariamente all’opinione mondana dominante, non è la santità ma il peccato che è spento e ripetitivo. Non ci sono nuovi peccati, ma ci sono sempre nuove forme di santità. Il male è non creativo e monotono, mentre i santi presentano una varietà e un’originalità inesauribili. Se il peccato è essenzialmente ripetitivo, ne consegue che la lotta spirituale continua a essere nel mondo contemporaneo quella che era stata nel passato. La forma esteriore può cambiare, ma il carattere interiore resta invariato. Un libro quale La scala

* Metropolita di Diokleia, del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, ha insegnato presso l’università di Oxford. Traduzione dall’originale inglese.

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di Giovanni Climaco (ca 570-649) può essere un manuale pratico nel xxi secolo così come lo fu nel vii. Oggi, come nel passato, il nostro “nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare” (1Pt 5,8). Oggi, come nel passato, “Satana si maschera da angelo di luce” (2Cor 11,14). Oggi, come nel passato, Dio ci chiama a quello spirito di vigilanza e di sobrietà sintetizzato dai padri ascetici dell’oriente cristiano con il termine népsis: “Vigiliamo e siamo sobri” (1Ts 5,6). Per cercare di apprezzare più profondamente l’orientamento della nostra lotta spirituale nel mondo odierno, inizierò con l’esplorare il senso del termine “passione”. Si tratta di una parola-chiave e, se non è correttamente interpretata, non si potrà comprendere il vero senso della nostra lotta invisibile. Farò riferimento in seguito alla testimonianza patristica dal ii all’viii secolo, ma questi autori del passato sono ancora attuali per il mondo contemporaneo. Poi, volgendomi ad alcune testimonianze degli ultimi cento anni, descriverò sei caratteri propri della lotta cristiana nell’oggi.

“Mortificare” o “trasfigurare”? Gli autori che parlano della lotta spirituale la descrivono più precisamente come una lotta contro le passioni. Ma che cosa si intende esattamente con questo termine? Purtroppo, la parola inglese passion e i suoi equivalenti nelle altre lingue moderne dell’occidente europeo non corrispondono esattamente al termine greco páthos, che presenta un ventaglio di significati diversi1.

1 Cf. K. Ware, “The Meaning of ‘Pathos’ in Abba Isaias and Theodoret of Cyrus”, in Studia Patristica 20 (1989), pp. 315-322.

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Collegato al verbo páschein, “soffrire”, páthos è adoperato più frequentemente in riferimento alla sofferenza o passione di Cristo. In senso più lato indica uno stato passivo, in contrasto con dØnamis, che indica invece una forza attiva; esso indica qualcosa di subito da una persona o da una cosa. Il sonno e la morte vengono allora definiti páthos da Clemente di Alessandria (ca 150-215)2, e Gregorio di Nazianzo (329/330-389/390) descrive le fasi della luna come páthe 3. Applicato alla nostra vita interiore, il termine páthos ha quindi il significato di un sentimento o di un’emozione patita o subita da una persona. Due differenti atteggiamenti nei confronti delle passioni possono essere distinti già nella filosofia greca antecedente il periodo patristico. Il primo è quello che si trova nello stoicismo primitivo, dove páthos indica un impulso disordinato ed eccessivo, hormè pleonázousa, secondo la definizione di Zenone (333-263 a.C.)4. Si tratta di un disturbo patologico della personalità, una “malattia” (morbus), come la definisce Cicerone (106-43 a.C.)5. Il saggio, pertanto, mira all’apátheia, all’affrancamento dalle passioni. Accanto a questa visione pessimistica delle passioni, tuttavia, vi è anche una valutazione più ottimistica, che si ritrova in Platone (429 ca-347 a.C.) e, in maniera più articolata, in Aristotele (384-322 a.C.). Platone, nel Fedro, utilizza l’analogia dell’auriga e dei due cavalli: l’anima è qui considerata come un cocchio che ha la ragione (tò loghistikón) come auriga; i due cavalli che sono aggiogati al cocchio – l’uno di razza nobile, l’altro

2 Cf. Clemente di Alessandria, Protrettico ai greci X,101,1-102,3, a cura di F. Migliore, Roma 2004, pp. 184-185. 3 Cf. Gregorio di Nazianzo, Orazioni 28,30, in Id., Tutte le orazioni, a cura di C. Moreschini, Milano 2000, p. 691. 4 Cf. Stoicorum Veterum Fragmenta, I. Zeno et Zenonis discipuli, a cura di J. von Arnim, Stuttgart 1964, pp. 50-51, nrr. 205-206. 5 Cf. M. T. Cicerone, De finibus bonorum et malorum 3,35; Cicerone tuttavia precisa che non tutte le passioni possono essere designate in tal modo.

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disobbediente e ribelle – rappresentano rispettivamente le emozioni più nobili della parte dell’anima “dotata di spirito” o “irascibile” (tò thymikón) e le emozioni più primitive della parte “concupiscibile” (tò epithymitikón). Il cocchio necessita di cavalli per muoversi, e allo stesso modo, l’anima, senza le energie vitali fornite da páthe, mancherebbe di vigore e di forza per agire. Inoltre, il cocchio a due cavalli per muoversi nella direzione giusta ha bisogno non di uno ma di entrambi i cavalli; la ragione, dunque, non può fare a meno né delle emozioni nobili né delle passioni più primitive, ma deve sforzarsi però di tenerle entrambe sotto controllo6. Questa analogia comporta dunque che il saggio deve aspirare a non sopprimere totalmente le passioni nelle diverse parti dell’anima, bensì a mantenerle in un giusto e armonioso equilibrio. Una visione simile è offerta da Aristotele nell’Etica nicomachea. Secondo lui le páthe includono non soltanto cose quali il desiderio e la collera, ma anche l’amicizia, il coraggio e la gioia. Le passioni in se stesse non sono “né virtù né vizi”, dice Aristotele, né intrinsecamente buone né intrinsecamente cattive, e noi non siamo né elogiati né biasimati a causa di esse; le passioni sono impulsi neutrali e tutto dipende dall’uso che ne facciamo. Il nostro obiettivo pertanto non è (come nello stoicismo) la totale eliminazione delle passioni, ma piuttosto una via di mezzo (tò méson), cioè un uso moderato e ragionevole di esse7. L’ideale non è l’apátheia, ma la metropátheia (termine che però non è usato da Aristotele nella sua opera). Quale di queste due comprensioni della passione è adottata nella teologia patristica? Di fatto non vi è unanimità tra i padri. Innanzitutto, un gruppo considerevole di autori abbraccia l’u-

6 Cf. Platone, Fedro 246ab.253c-254b, a cura di G. Reale, Milano 20053, pp. 67, 89-91. 7 Cf. Aristotele, Etica nicomachea II,5,1105b-6,1106b, a cura di C. Mazzarelli, Milano 2000, pp. 93-101.

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tilizzo stoico, di carattere negativo. Clemente di Alessandria ripete la definizione di Zenone di páthos quale pleonázousa hormé, un “impulso eccedente”, “che si estende oltre i limiti segnati dalla ragione” e “contro natura”8. Le passioni sono “malattie”9 e la persona veramente buona non ha passioni10. Similmente, Nemesio di Emesa (ca 400) adotta la visione stoica: la passione è “irrazionale” e “contraria alla natura”11. Evagrio Pontico (346-399), la cui teologia ascetica ha influenzato profondamente le generazioni successive non soltanto nell’oriente greco, ma tramite il suo discepolo Cassiano (360 ca-dopo il 430) anche nell’occidente latino, fa proprio il punto di vista stoico. Egli associa strettamente le passioni con i demoni12; per lui, come per Cassiano, la meta cui tende il lottatore spirituale è perciò l’apátheia, anche se Evagrio non la interpreta soltanto in termini negativi, perché l’apátheia è strettamente associata all’amore13; avendo smesso di cedere alle brame, siamo liberi di amare. Nelle omelie di Macario (tardo iv secolo) le passioni sono quasi sempre intese in un senso peggiorativo14. D’altro lato, vi sono altri padri che, nonostante le loro riserve nei confronti delle passioni, ammettono che esse possano essere utilizzate in senso positivo. Filone (ca 20 a.C.-50 d.C.), per esempio, mentre riprende la definizione stoica di páthos come “impulso incontrollato ed eccessivo”15, afferma anche che es-

8 Clemente di Alessandria, Stromati II,13,59, in Id., Gli stromati. Note di vera filosofia, a cura di G. Pini, Milano 2006, p. 228. 9 Id., Protrettico ai greci XI,115,2, p. 200. 10 Cf. Id., Stromati VII,11,60-68, pp. 777-785. 11 Cf. Nemesio di Emesa, La natura dell’uomo 16, PG 40,671A-676A. 12 Cf. Evagrio Pontico, Trattato pratico 34; 39; 58, in Id., Trattato pratico. Cento capitoli sulla vita spirituale, a cura di G. Bunge, Bose 2008, pp. 147-148, 157-159, 201-202. 13 Cf. ibid. 81, pp. 245-247. 14 Cf. ad esempio Pseudo-Macario, Omelie (Coll. I) 2,3; 2,5; 40,1, in Macario-Simeone, Discorsi e dialoghi spirituali I, a cura di F. Moscatelli, Bresseo di Teolo 1988, pp. 43, 49; ibid. II, 2003, pp. 257-262. 15 Filone di Alessandria, Le leggi speciali 4,79, in Philon d’Alexandrie, De specialibus legibus. III et IV, a cura di A. Mosès, SC 25, Paris 1970, p. 246.

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sa può essere “di aiuto e di sostegno” per l’intelletto (noûs)16. L’atteggiamento di Gregorio di Nissa (ca 330-395) nei confronti delle passioni non è molto diverso. Nella sua visione páthos non è un elemento costitutivo della natura umana decaduta, ma è stato l’uomo “ad attirare volontariamente su di sé, fuorviato da un inganno, la disgrazia in cui ora si trova il genere umano”17, e di conseguenza il páthos non fa parte della costituzione dell’anima18. Le passioni hanno un carattere “bestiale” (ktenódes), che ci rende simili ad animali irrazionali, e sono un’espressione propria dell’umanità nella sua condizione successiva alla caduta19. Tuttavia, avvicinandosi al punto di vista aristotelico, Gregorio aggiunge che delle passioni si può fare un buon uso: il male sta non nelle páthe in quanto tali, ma nella libera scelta (proaíresis) della persona che ne fa uso20. Giovanni Climaco è totalmente d’accordo con Gregorio di Nissa. Alcune volte egli si esprime in termini assolutamente negativi, eguagliando páthos con il vizio o il male (kakía), insiste nel dire che “il vizio e la passione ( páthos) non sono naturali nella nostra natura”, e aggiunge: “Dio infatti non è creatore delle passioni”21; queste appartengono agli esseri umani nella loro condizione corrotta e devono pertanto essere considerate “impure”22; nessuno deve aspirare a essere teologo se non ha ancora raggiunto l’apátheia23. Tuttavia egli ammette che si possa fare un buon uso delle passioni; l’impulso che soggiace a ogni passione non è

16 Id., Le allegorie delle leggi II,8,24, in Id., Tutti i trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, a cura di R. Radice, Milano 2005, p. 165. 17 Gregorio di Nissa, La verginità 12, in Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo, La verginità, a cura di S. Lilla, Roma 1976, p. 76. 18 Cf. Id., Sull’anima e la resurrezione 48-56, a cura di I. Ramelli, Milano 2007, pp. 388-397. 19 Cf. Id., L’uomo 18, a cura di B. Salmona, Roma 1982, pp. 83-87. 20 Cf. Id., Sull’anima e la resurrezione 57-61, pp. 397-405. 21 Giovanni Climaco, La scala 26/1,41, a cura di L. d’Ayala Valva, Bose 2005, p. 368. 22 Ibid. 27/1,1, p. 409. 23 Cf. ibid. 27/1,9, p. 411.

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cattivo in sé, ma siamo noi che, attraverso l’esercizio del nostro libero arbitrio, “abbiamo trasformato in passioni quelle che erano proprietà costitutive della nostra natura”24. La prospettiva di Climaco non è in realtà molto diversa da quella di Aristotele. È degno di nota il fatto che Climaco non condanni l’éros, l’impulso sessuale, come intrinsecamente peccaminoso, ma lo consideri come qualcosa che può essere diretto verso Dio25. Vi sono alcuni autori patristici che si spingono oltre Gregorio di Nissa e Climaco e che sembrano concedere non solo che si possa fare buon uso delle passioni, ma che esse siano parte della nostra natura originale creata da Dio. È questo il caso evidente di Isaia di Gaza († 491 ca). Nel suo secondo Discorso egli considera alcune realtà che sono solitamente considerate passioni, quali il desiderio (epithymía), la gelosia, la collera, l’odio e l’orgoglio, sostenendo che esse sono fondamentalmente, “in accordo con la natura”, katà phØsin, cioè innestate da Dio stesso. Siamo noi che abbiamo pervertito questi impulsi che di per sé sono buoni, trasformandoli in qualcosa di peccaminoso. E così abbiamo disperso il desiderio (epithymía), che per natura dovrebbe indirizzarci al desiderio di Dio, in “ogni tipo di impurità”. Lo zelo o gelosia che dovrebbe condurci a ricercare la santità – “desiderate intensamente i carismi più grandi”, dice Paolo (1Cor 12,31) – lo abbiamo corrotto a tal punto che ci spinge a invidiarci gli uni gli altri. La collera e l’odio che dovrebbero essere orientati contro il demonio e contro tutte le sue opere, li abbiamo rivolti contro il nostro prossimo. Perfino dell’orgoglio si può fare buon uso: c’è un’autostima buona che ci permette di contrastare l’autocommiserazione distruttiva e la depressione26. Ibid. 26/2,41, p. 391. Cf. ibid. 5,6, p. 178; 15,2, p. 254. Cf. anche Ch. Yannaras, Η μεταφυσικ το σματος. Σπουδ στν Iωννη τς Κλμακος, Athinai 1971, specialmente pp. 149-166; cf. anche K. Ware, “Introduction”, in John Climacus, The Ladder of Divine Ascent, New York 1982, pp. 31-32. 26 Cf. Isaia di Gaza, Logos 2, in Id., Ascetikón, Napoli 2003, pp. 5-7. 24

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Per Isaia di Gaza, dunque, realtà quali la collera e l’orgoglio – che Evagrio considererebbe come pensieri malvagi o come “demoni” – possono al contrario essere ritenuti parte naturale della nostra personalità in quanto creata da Dio. Il desiderio e la collera non sono di per sé peccaminosi: ciò che conta è il modo in cui vengono utilizzati, katà phØsin oppure parà phØsin. Se è possibile che abba Isaia sia stato influenzato da Platone o da Aristotele, è molto probabile che abbia attinto alla tradizione copta, come è attestato per esempio nel caso delle lettere attribuite ad Antonio il Grande (251-356). La prima Lettera parla di un moto “connaturale al corpo, creato con esso fin da principio” e descrive poi in che modo gli occhi, le orecchie, la lingua e le mani possono essere purificati e così pure “il ventre quanto ai cibi e alle bevande” e “i pensieri, sollecitati dalla sazietà del ventre”, così che “tutto il corpo sia trasformato, rinnovato e sottomesso alla potenza dello Spirito”27. In questa prima Lettera di Antonio, come in Isaia di Gaza, ciò cui si tende non è la mortificazione, ma il riorientamento. Questo approccio positivo alle passioni lo si può trovare, in una forma meno sviluppata, in un buon numero di autori. Lo si trova nella Cura delle malattie ellenistiche di Teodoreto di Cirro (ca 393-460)28. Quando Dionigi l’Aeropagita (500 ca) descrive Ieroteo come colui che ha “non solo imparato, ma anche sperimentato, le cose divine”, egli lascia certamente intendere che l’esperienza mistica è in un certo senso un páthos 29. Questa sembra essere l’opinione anche di Massimo il Confessore (580 ca-662). È vero che egli adotta la visione stoica della passione come “un

27 Antonio abate, Lettera 1, in Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio. Antonio abate, Detti-Lettere, a cura di L. Cremaschi, Milano 20012, pp. 241, 243, 244. 28 Cf. Teodoreto di Cirro, La cura delle malattie ellenistiche 5,76-80, in Théodoret de Cyr, Thérapeutique des maladies helléniques I, a cura di P. Canivet, SC 57, Paris 1958, pp. 251-252. 29 Pseudo-Dionigi l’Areopagita, I nomi divini 2,9, in Id., Tutte le opere, a cura di E. Bellini, Milano 1981, pp. 277-279, qui p. 278.

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movimento dell’anima [che è] contro la sua natura”30, e che tende a seguire Gregorio di Nissa secondo cui le passioni sono entrate nella natura umana soltanto successivamente alla prima creazione31, ma al tempo stesso, con termini che richiamano Dionigi, parla della “beata passione (páthos) della santa carità”32 e non teme di far riferimento all’unione con Dio in termini inconfondibilmente erotici33. Le passioni, afferma, possono essere “lodevoli” così come “biasimevoli”34. Questo atteggiamento positivo nei confronti delle passioni ritorna in particolare, alla fine dell’epoca bizantina, negli scritti di Gregorio Palamas (1296-1359), il quale con termini che richiamano Massimo, parla di “passioni divine e beate”35. Il fine della vita cristiana non è la mortificazione (nékrosis) delle passioni ma la loro trasposizione o riorientamento (metáthesis)36. Da tutto questo risulta chiaramente che non tutti i padri greci adottano il giudizio negativo, stoico sulle passioni. Quei padri che preferiscono una visione neutrale, o addirittura positiva, sono una minoranza, ma nondimeno una minoranza significativa. Questa diversità di atteggiamento ha un’immediata rilevanza per la nostra comprensione della lotta spirituale nel mondo contemporaneo. Ciò può avere un effetto di ampia portata sui consigli pastorali che offriamo agli altri e a noi stessi. Dobbiamo par-

30 Massimo il Confessore, Centurie sulla carità 2,16, in Id., In tutte le cose la “Parola”, a cura di L. Cremaschi e B. Mariano, Bose 2008, p. 89. 31 Cf. Id., A Talassio 1, in Id., In tutte le cose la “Parola”, p. 86. Ma Massimo giunge a dire, come del resto fa anche Gregorio di Nissa, che le passioni possono essere indirizzate verso un buon uso. 32 Id., Capitoli sulla carità 3,67, a cura di A. Ceresa-Gastaldo, Roma 1963, p. 177. 33 Cf., ad esempio, Id., Ambiguum 23, in Id., Ambigua. Problemi metafisici e teologici su testi di Gregorio di Nazianzo e Dionigi Areopagita, a cura di C. Moreschini, Milano 2003, pp. 400-403. Massimo qui sta seguendo Pseudo-Dionigi, I nomi divini 4,14-15, pp. 311-313. 34 Cf. Massimo il Confessore, Capitoli sulla carità 3,71, p. 177. 35 Gregorio Palamas, Triadi II,2,22, in Id., Atto e luce divina. Scritti filosofici e teologici, a cura di E. Perrella, Milano 2003, p. 603. 36 Cf. ibid. III,3,15, pp. 922-925.

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lare di “mortificare” o di “trasfigurare” le passioni? Dobbiamo dire “sradicare” o “guarire”? “Eliminare” o “educare”? “Reprimere” o “riorientare”? La differenza è grande. Si potrebbe dire che la questione è squisitamente semantica: si tratta di come scegliamo di adoperare il termine “passione”. Quelli che seguono Aristotele usano páthos per indicare un impulso soggiacente che non è malvagio ma neutrale; quelli che seguono gli stoici, invece, usano páthos in riferimento non all’impulso neutrale soggiacente ma all’espressione distorta ed eccessiva di questo impulso cresciuto al di fuori di ogni controllo. Il modo in cui utilizziamo le parole ha un’influenza decisiva sul nostro atteggiamento nei confronti della realtà espressa da queste parole. Per quanto riguarda la nostra lotta spirituale nel mondo contemporaneo non saremmo molto più efficaci e creativi, se con noi stessi e con gli altri parlassimo non di “distruggere”, ma di “trasfigurare” le passioni? Il mondo contemporaneo in cui dimoriamo, almeno in Europa occidentale, è un mondo fortemente secolarizzato, alieno alla tradizione cristiana; siamo più credibili se parliamo non come profeti di sventura, ma come annunciatori di speranza. Non riguadagneremo il mondo a Cristo, se nelle nostre vite e nel nostro annuncio agli altri interpretiamo la vita cristiana in termini pessimistici e di condanna. Non parliamo di distruzione, ma di salvezza; accendiamo una candela piuttosto che maledire la tenebra!

L’oscurità che ci circonda Se descriviamo la lotta spirituale in questo modo, cioè come una lampada da accendere nell’oscurità, questo implica che oggi come nel passato cerchiamo di mantenere in equilibrio i due elementi contrastanti di oscurità e di luce. Come afferma Paolo, 316

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vi è una continua “dialettica” nella nostra esperienza cristiana tra tenebra e luce, tristezza e gioia, morte e resurrezione: “Nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama … come moribondi, e invece viviamo … come afflitti, ma sempre lieti … come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!” (2Cor 6,8-10). Se banalizziamo la tenebra, la nostra lotta spirituale diventa un ingenuo ottimismo, blando e trionfalistico; ma se escludiamo la luce, la nostra battaglia spirituale diventa severo moralismo e austera disciplina. Sottolineando correttamente i due poli di tale antinomia, le omelie attribuite a Macario affermano: “Per coloro che hanno gustato quel dono [dello Spirito] ci sono ancora tutte e due le possibilità: gioia e conforto, timore e tremore, pianto e lutto”37. Tenendo presente questo duplice carattere del combattimento terreno, vorrei considerare sei aspetti della lotta spirituale tipici del mondo contemporaneo. La mia lista non è sistematica né pretende di essere esaustiva. Tre degli aspetti che ho scelto hanno a prima vista un carattere oscuro, tre invece riflettono uno spirito più luminoso; ma tutti e sei non sono in fin dei conti negativi ma piuttosto decisamente positivi. La discesa agli inferi Dagli uomini e dalle donne del xx secolo, l’inferno è stato sperimentato innanzitutto come assenza di Dio, come luogo in cui Dio (così sembra) è assente. Dico “così sembra”, perché in realtà – come ha chiaramente percepito Isacco di Ninive (vii secolo) – anche nell’inferno Dio non è assente, dal momento che l’amore di Dio è dovunque. Certo, per quelli che nell’inferno rifiutano questo amore, rimane una presenza nascosta, una

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Pseudo-Macario, Omelie (Coll. I) 33,2, pp. 211.

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fonte di tormento piuttosto che di gioia e di beatitudine38. Non sorprende allora che gli atleti spirituali del secolo scorso, che dimoravano in un mondo segnato dal senso dell’assenza di Dio, abbiano interpretato la loro vocazione come un radicale descensus ad inferos. Il pensatore russo Paul Evdokimov (1901-1970) sviluppa questa idea in rapporto al sacramento del battesimo che, insieme all’eucaristia, costituisce il fondamento della lotta spirituale del cristiano. Parlando della cerimonia dell’immersione al momento del battesimo, Giovanni Crisostomo annota: “L’azione di scendere nell’acqua e poi risalirne di nuovo simbolizza la discesa di Cristo agli inferi e il suo ritorno da quel luogo”. Continua Evdokimov: “Il battesimo non è soltanto un morire e risorgere con Cristo, ma è anche una discesa agli inferi e un portare le stigmate di Cristo sacerdote, della sua premura sacerdotale, della sua ansia apostolica per le sorti di coloro che hanno scelto l’inferno”39. Il pensiero di Evdokimov ha molto in comune con le idee di Hans Urs von Balthasar40. Un santo del xx secolo che ha particolarmente enfatizzato la discesa agli inferi è Silvano del Monte Athos (1866-1938). Tra i suoi detti, quello citato più spesso afferma: “Tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare”41. Egli aggiunge che questa è la via per acquisire l’umiltà42. Il suo discepolo, padre Sofronio, sostiene che le parole di Silvano non devono essere intese come

38 Cf. Isacco di Ninive, Prima collezione 27, in Mystic Treatises by Isaac of Nineveh, a cura di A. J. Wensinck, Amsterdam 1923, p. 136. Cf. K. Ware, The Inner Kingdom, Crestwood Ny 2000, pp. 207-208. 39 P. Evdokimov, “Le monachisme intériorisé”, in Le Millénaire du Mont Athos 963-1963. Études et Mélanges I, Chevetogne 1963, pp. 331-352, qui p. 339. 40 Cf., ad esempio, H. U. von Balthasar, Mysterium paschale, in Mysterium salutis. L’evento Cristo II, a cura di J. Feiner e M. Löhrer, Brescia 1971, pp. 171-412, in particolare pp. 289-324. 41 Archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos (1866-1938). Vita, dottrina, scritti, Torino 1978, pp. 274, 386, 410. 42 Cf. ibid., p. 410.

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una semplice metafora: egli si riferiva a una reale esperienza dell’inferno43. Nelle sue meditazioni, Silvano ricorda la visita di Antonio a un calzolaio di Alessandria, che era solito ripetere le parole: “Tutti saranno salvati: solo io sarò perduto”44. Silvano le applica a sé: “La fine è vicina, io morirò e abiterò nella buia prigione dell’inferno: là io solo brucerò, e avrò nostalgia del Signore e piangerò: ‘Dove sei, mio Signore?’”45. Tuttavia, sarebbe errato interpretare la posizione di Silvano in termini puramente negativi; bisogna attribuire il giusto peso a entrambe le parti della sua affermazione. Non dice soltanto: “Mantieni il tuo spirito agli inferi”, ma aggiunge subito dopo: “E non disperare”. Altrove egli afferma che la certezza della propria dannazione è una tentazione del demonio: “Ricorda e temi due pensieri: l’uno dice: ‘Sei un santo’, e l’altro: ‘Non ti salverai’”46. Silvano era profondamente influenzato dagli insegnamenti di Isacco di Ninive sul carattere invincibile dell’amore divino: “Senza l’amore la vita sulla terra è penosa”47; al contrario, se l’amore è presente, tutto è possibile. È l’invincibile potere dell’amore divino che fa della discesa di Cristo agli inferi non soltanto un atto di svuotamento di sé, ma anche, e più consistentemente, un atto di vittoria48. La discesa di Cristo agli inferi e la sua resurrezione dai morti formano un evento inscindibile.

Cf. ibid., p. 205. Ibid., p. 390. Per la storia di Antonio, in cui la persona incontrata dal santo monaco è un ciabattino o un medico, a seconda delle versioni, cf. Detti dei padri, Serie alfabetica, Antonio 24, in Vita e detti dei padri del deserto I, a cura di L. Mortari, Roma 1975, p. 90. Su questo tema, cf. K. Ware, “The Monk and the Married Christian. Some Comparisons in Early Monastic Sources”, in Eastern Churches Review 6 (1974), pp. 72-83, specialmente pp. 80-81. 45 Archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos, p. 386. 46 Ibid., p. 394. 47 Ibid., p. 383. 48 Il vero carattere di proclamazione della vittoria di Cristo sulla morte proprio della sua discesa agli inferi è correttamente sottolineato da Higumen Hilarion (Alfe43 44

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Il martirio Durante il xx secolo la discesa agli inferi nella lotta spirituale di numerosi cristiani ortodossi ha assunto una forma particolare, quella dell’esperienza della persecuzione e del martirio. Il xx secolo, per gran parte dell’oriente cristiano, è stato un secolo di grande sofferenza. La persecuzione non è terminata. Sebbene il comunismo sia caduto in Russia e nell’Europa orientale, vi sono ancora molti luoghi nel mondo in cui i cristiani – ortodossi e non ortodossi – continuano a soffrire persecuzioni e violenze, qualche volta anche la tortura e la morte. Basti pensare all’Egitto, alla Turchia, all’Iraq, al Pakistan, al Sudan, al nord della Nigeria, alla Cina. Questa persecuzione continua ha un profondo significato per la vita spirituale dei cristiani odierni. Secondo le parole di un prete russo della diaspora, Aleksander El™aninov (1881-1934), che scrisse nel momento culminante dell’oppressione staliniana, la sofferenza e il martirio hanno “un valore purificante e santificante”49. “Il mondo è deforme e Dio lo raddrizza. Questo è il motivo per cui Cristo ha sofferto (e soffre), così come hanno sofferto i martiri, i confessori della fede e i santi; e anche noi, che amiamo Cristo, non possiamo che soffrire altrettanto”50. Ancor più, quando parliamo di martirio, non dovremmo pensare soltanto alle persecuzioni esterne, perché il martirio può essere interiore o esteriore: pregare per gli altri, dice Silvano, significa versare il sangue51. Allo stesso tempo, come nel suo apoftegma “Mantieni il tuo spirito agli inferi e non disperare”, Silvano non perde mai di vista la coesistenza di tenebra e luce, di disperazione e spe-

yev), Christos Pobeditel Ada, Sankt-Peterburg 2001, con presentazione delle fonti patristiche greche, siriache, latine. 49 A. Elchaninov, The Diary of a Russian Priest, Crestwood Ny 1967, p. 39. 50 Ibid., p. 135. 51 Cf. Archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos, p. 436.

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ranza. Così la sofferenza dei martiri è anche una fonte di gioia: la sofferenza estrema è alleata con la beatitudine estrema52. Una martire la cui lotta spirituale ha particolarmente catturato l’immaginazione ortodossa negli ultimi sessant’anni è Marija Skobcova, nata nel 1891, morta in una camera a gas nazista a Ravensbrück, il 31 marzo 1945, offrendosi probabilmente al posto di un’altra prigioniera. Se così avvenne, ciò indica come il martire – allo stesso modo di Cristo stesso, il protomartire – svolge un ruolo vicario, soffrendo al posto di altri, morendo perché altri possano vivere. Il martire adempie, in modo definitivo e finale, il comando di Paolo: “Portate i pesi gli uni degli altri” (Gal 6,2). Questo era anche un tema che madre Marija ha sottolineato nei suoi scritti. In un’antologia di vite dei santi da lei compilata, essa ricorda la storia di Ioannikios il Grande e di una ragazza indemoniata: Collocò la sua mano sulla testa della ragazza sofferente e disse con tono calmo: “Per la potenza del Dio vivente, io, il suo indegno servo Ioannikios, prendo su di me il tuo peccato, semmai tu abbia peccato … perché le mie spalle sono più forti delle tue, perché desidero prendere su di me la tua condanna per amore”. La ragazza fu curata, mentre Ioannikios entrò nella sua agonia, giungendo vicino alla morte prima di emergere, vittorioso, dalla sua lotta con la potenza del male53.

Questo, dunque, è un aspetto molto importante della lotta spirituale: patire il martirio, versando il proprio sangue, in maniera visibile o invisibile, per amore degli altri.

Cf. ibid., p. 321. S. Hackel, One of Great Price. The Life of Mother Maria Skobtsova, Martyr of Ravensbrück, London 1965, pp. 15-16. 52

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Kénosis Strettamente legato ai due elementi di cui abbiamo appena parlato – la discesa agli inferi e il martirio – ve n’è un terzo, la kénosis o svuotamento di sé. Colui che si impegna nella lotta spirituale si ispira al Cristo umiliato e kenotico (cf. Fil 2,5-11) e lo prende quale modello. La centralità di questo tema nella coscienza ortodossa è rappresentata in modo commovente nel libro di Nadejda Gorodetzky, Il Cristo umiliato nel pensiero russo moderno, che è stato scritto settant’anni fa, ma merita di essere letto ancor oggi54. Prima di essere imprigionata, Marija Skobcova dimostrò il suo spirito kenotico in maniera impressionante. Attraverso un’attività sociale e personale diede prova di solidarietà con gli indigenti, gli emarginati, e tutti i reietti dalla società, e, durante la seconda guerra mondiale, con gli ebrei nella Parigi occupata. Sintetizzava la sua vocazione in queste parole: Per la carne del proprio fratello l’uomo deve avere un atteggiamento di maggiore attenzione che per la propria. L’amore cristiano ci insegna a offrire al fratello non soltanto doni spirituali, ma anche materiali. Dobbiamo dare al fratello anche la nostra ultima camicia e il nostro ultimo tozzo di pane. Qui sono ugualmente giustificate e utili tanto la misericordia del singolo quanto la più estesa attività sociale55.

Questa vocazione kenotica condusse Marija, come si è ricordato, alla morte vissuta nel martirio; seguendo Cristo nel suo autosvuotamento, divenne, al pari di lui, “obbediente fino alla morte” (Fil 2,8). 54 Cf. N. Gorodetzky, The Humiliated Christ in Modern Russian Thought, London 1938. Si veda anche la sua biografia di un vescovo russo “kenotico” del xviii secolo: Saint Tikhon Zadonsk. Inspirer of Dostoevsky, Crestwood Ny 19762. 55 N. Kauchtschischwili, Mat’ Marija, il cammino di una monaca. Vita e scritti, Bose 1997, p. 147. Si veda anche M. Skobtsova, Essential Writings, Maryknoll Ny 2003, p. 54.

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Un santo che ha mostrato questo spirito kenotico è Nettario della Pentapoli (1846-1920), molto amato dalla tradizione greca. Gli aneddoti relativi alla sua umiltà e non aggressività abbondano. Giovane vescovo di Alessandria, quando fu ingiustamente calunniato, rifiutò di difendersi e preferì partire per la Grecia, dove visse in un primo tempo in grande povertà. Più tardi, mentre era direttore della scuola teologica Rizareion di Atene, accadde che l’addetto alle pulizie si ammalasse; per impedire che il posto andasse a qualche altro Nettario ogni giorno si alzava all’alba per spazzare i corridoi e pulire le latrine, finché l’uomo non fu di nuovo in grado di tornare al suo lavoro. Negli ultimi anni di vita, nel monastero femminile che aveva fondato nell’isola di Egina, era solito riparare le scarpe delle monache e innaffiare il giardino. I visitatori che lo incontravano nel giardino lo congedavano con disdegno, senza immaginare che quella figura dagli abiti trasandati era proprio la persona che volevano incontrare e per la quale si erano messi in viaggio. A Nettario si applicano perfettamente le parole di Isaia sul servo sofferente: “Disprezzato e reietto dagli uomini … non ne avevamo alcuna stima” (Is 53,3). Dopo la morte giunse a occupare nel cuore del popolo ortodosso greco un posto paragonabile a quello di Serafim di Sarov (1754-1833) nell’ortodossia russa56.

Accendendo una candela La menzione di Serafim ci conduce alla seconda triade della nostra lista di caratteri propri della lotta spirituale. Questi tre

56 Per un esempio tipico dello spirito kenotico di Nettario, cf. Seasons of the Spirit, a cura di G. Every, R. Harries e K. Ware, London 1984, p. 53.

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elementi, luminosi più che oscuri, completano senza contraddire i severi elementi (per quanto anche positivi) dei quali abbiamo parlato in precedenza. La trasfigurazione In riferimento alle passioni, avevo suggerito che è più saggio parlare agli altri e a noi stessi in termini di “trasfigurazione” piuttosto che di “mortificazione” o di “sradicamento”. Il mistero della trasfigurazione ha veramente ispirato in modo particolare i cristiani della seconda metà del xx secolo, e continuerà a farlo nel nuovo millennio. Non è di certo una coincidenza che il santo che ha maggiormente influenzato la moderna ortodossia sia stato Serafim di Sarov, che è proprio un santo della trasfigurazione. “Il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11,12). Questo è indubbiamente un aspetto essenziale della lotta spirituale. Quelli che predicano un cristianesimo senza rinnegamento ascetico di sé incorrono nella condanna del profeta Geremia: “Curano alla leggera la ferita del mio popolo, dicendo: ‘Pace, pace!’, ma pace non c’è” (Ger 6,14). Ma allo stesso tempo non dobbiamo trasformare il rinnegamento ascetico di sé in qualcosa di oscuro e di austero. Scrive El™aninov: Sudore, lacrime, sangue … Se il sudore è accompagnato da ribellione interiore, ira, mormorazione; se le lacrime sono provocate da sofferenza, offesa, rabbia; se il sangue è versato senza fede, l’anima non ne otterrà alcun beneficio. Ma se tutto questo è compiuto in uno spirito di obbedienza, contrizione e fede, ci purifica e ci eleva57.

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A. Elchaninov, The Diary of a Russian Priest, p. 84.

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“Obbedienza, contrizione, fede”, dice El™aninov; e noi possiamo aggiungere: fede nel Cristo trasfigurato. La nostra lotta spirituale perderà il suo vero valore se non sarà illuminata dalla luce increata del Tabor. Non facciamo però del sentimentalismo sul santo di Sarov né semplifichiamo troppo il suo messaggio58. Facciamo bene a ricordare che egli si vestiva in bianco e non in nero, come la tradizione monastica voleva; che chiamava i suoi visitatori “mia gioia” e li salutava durante tutto l’anno con il saluto pasquale “Cristo è risorto”; che il suo volto risplendeva di gloria in presenza del suo discepolo Nikolaj Motovilov. Ma non dimentichiamo gli assalti demoniaci che Serafim ha dovuto sostenere mentre pregava mille notti e mille giorni, di notte su una roccia accanto al suo eremo e di giorno su un sasso nella sua cella. Non dimentichiamo l’aggressione dei tre ladri nella foresta e come rimase azzoppato per il resto dei suoi giorni; non dimentichiamo le incomprensioni che dovette sopportare da parte del suo stesso abate e le calunnie che lo perseguitarono fino alla morte. “Afflitti, ma sempre lieti” (2Cor 6, 10): nella lotta spirituale la trasfigurazione e il portare la croce sono due elementi inseparabili.

58 Su Serafim di Sarov, cf. I. Goraïnoff, Serafino di Sarov. Vita, colloquio con Motovilov, insegnamenti spirituali, Milano 20066; P. Evdokimov, Serafim di Sarov, uomo dello Spirito, Bose 1996; San Serafim. Da Sarov a Diveevo. Atti del IV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa, Bose, 18-21 settembre 1996, a cura di A. Mainardi, Bose 1998. Per una valutazione critica delle fonti su Serafim, cf. V. Rochcau, Saint Séraphim, Sarov et Divéyevo. E´tudes et Documents, Bégrolles-en-Mauge 1987; ma si tratta soltanto di un inizio pionieristico e molto lavoro resta ancora da fare. Sulla sopravvivenza della devozione a Serafim durante l’era sovietica e il rinnovamento attuale, cf. A. Artsybouchev, Mémoire du coeur: Saint Séraphim de Sarov. Naissance et résurrection du Monastère Séraphim-Divéevo, Paris 2001.

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L’eucaristia Autori dei tempi passati, quali Giovanni Climaco e Isacco di Ninive, facevano poco o nessun riferimento all’eucaristia, ma nel mondo odierno non si può permettere che il posto della Divina liturgia nel nostro cammino ascetico e mistico rimanga puramente implicito. Se è vero che “l’eucaristia fa la chiesa” come ha affermato il cardinale Henri de Lubac da parte cattolica59 e come hanno riaffermato Nikolaj Afanas’ev60 e il metropolita Ioannis Zizioulas di Pergamo61 da parte ortodossa, questa verità dovrebbe essere manifestata non solo nella nostra celebrazione liturgica ma a ogni livello della nostra vita personale e comunitaria. La nostra lotta spirituale nei tempi odierni necessita di essere consapevolmente e completamente eucaristica nella sua ispirazione. Così afferma un ortodosso russo che per tutta la vita lavorò alla riconciliazione tra i cristiani, Nicolas Zernov: L’eucaristia è un’azione che purifica il cuore e la mente di quelli che partecipano al corpo e al sangue di Cristo, rigenera la loro volontà, purifica i loro sensi e accresce il loro amore. L’eucaristia è perciò la fonte che ispira ogni attività sociale dei cristiani, ogni loro impegno nella lotta contro la povertà, l’in-

59 La frase, sembra, fu usata per la prima volta da Henri de Lubac nel 1953 nella sua Meditazione sulla chiesa, Milano 1965, p. 185; cf. P. McPartlan, The Eucharistic Makes the Church: Henri de Lubac and John Zizioulas in Dialogue, Edinburgh 1993. 60 Cf. N. Afanasieff, “The Church which Presides in Love”, in The Primacy of Peter, a cura di J. Meyendorff, Crestwood Ny 19922, pp. 91-143; A. Nichols, Theology in the Russian Diaspora. Church, Fathers, Eucharist in Nikolai Afanas’ev (1893-1966), Cambridge 1989, in particolare pp. 83-93, 163-177. 61 Di I. Zizioulas, cf. la dissertazione di dottorato, originariamente pubblicata in Grecia nel 1965, dal titolo Eucharist, Bishop, Church. The Unity of the Church in the Divine Eucharist and the Bishop during the First Three Centuries, Brookline Ma 2001. Zizioulas ha sviluppato le implicazioni di questo suo primo lavoro in due scritti successivi: Being as Communion. Studies in Personhood and the Church, London 1985; Communion and Otherness. Further Studies in Personhood and the Church, London-New York Ny 2006. Cf anche Id., L’essere ecclesiale, Bose 2007.

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giustizia, la malattia e la morte, e conferma la loro speranza nella vittoria definitiva del bene sul male62.

Un pioniere di questo ritorno all’eucaristia da parte dell’ortodossia contemporanea fu il presbitero Ioann di Kronstadt (1829-1908). Era solito chiamare l’eucaristia l’inesprimibile miracolo dei miracoli63; ed egli testimoniò il suo potere con l’intensità con la quale la celebrava. “Aveva in sé l’abbondanza dello Spirito santo che bruciava la sua anima d’amore per Dio”64, diceva di lui Silvano dell’Athos. Georgij Fedotov (1866-1951) racconta di lui: Ogni volta che celebrava [la Divina liturgia] era penetrato da una viva consapevolezza del dramma trascendente che aveva luogo. Non poteva mantenere la tonalità prescritta per la liturgia: invocava Dio, gridava, piangeva di fronte alle visioni del Golgota e della resurrezione che si presentavano a lui con tale straordinaria vicinanza. Per lui il mistero liturgico era un’esperienza profonda, viva ed egli desiderava che tutta la comunità vi partecipasse attivamente65.

Ioann era solito celebrare la Divina liturgia ogni giorno e le sue celebrazioni erano frequentate da migliaia di parrocchiani e pellegrini. Sebbene in Russia a quel tempo vigesse la pratica di comunicarsi raramente – in molti casi solo una volta all’anno – incoraggiava tutti i membri della comunità a venire a ricevere il sacramento. Poiché in Russia vi era la regola che la comunione dovesse essere preceduta dalla confessione ed egli natu-

N. Zernov, St. Sergius, Builder of Russia, London s.d. [1939], p. 105. Cf. Ivan di Cronstadt, La mia vita in Cristo. Semi di preghiera e di pace, Torino 1981, pp. 156-157. 64 Archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos, p. 423. 65 G. P. Fedotov, A Treasury of Russian Spirituality, Veduz 1988, p. 205. 62

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ralmente non poteva ascoltare singolarmente la confessione di ciascuno dei presenti, con grande audacia stabilì la pratica della confessione pubblica: Era uno spettacolo che faceva impressione, o addirittura incuteva timore: migliaia di persone che gridavano ad alta voce i loro peccati più segreti e piangendo chiedevano il perdono; tutte le regole dell’ordine e del decoro ecclesiastico erano trasgredite. Soltanto a un amico dello zar poteva essere permesso di introdurre una simile innovazione66.

Nessun prete in Russia, o perfino nella chiesa ortodossa, si è avventurato a seguire l’esempio di Ioann per quanto concerne la confessione pubblica, anche se da quel giorno in Russia e in alcuni altri posti sono state introdotte forme più disciplinate di confessione comunitaria. Ma la pratica della comunione frequente è attualmente assai diffusa nell’ortodossia contemporanea, anche se non lo è ovunque. Fu Ioann a destare la rinascita dell’eucaristia nella chiesa russa ortodossa, mentre poco dopo – e, a quanto pare, indipendentemente – la comunione frequente fu caldeggiata in Grecia dal movimento Zoí. Questa rinnovata percezione del primato della santa comunione è certamente una parte essenziale di ogni lotta spirituale nel mondo contemporaneo. Un aspetto importantissimo della nostra lotta contemporanea emerge nell’anafora della Divina liturgia. Immediatamente prima dell’epiclesi dello Spirito santo, quando il diacono eleva le sante offerte, il prete recita: “Le cose tue da ciò che è tuo a te offrendo, in tutto e per tutto”67. È significativo che nel momento fondamentale della consacrazione eucaristica si dice che i Ibid. Divina liturgia di Giovanni Crisostomo, in Liturgia eucaristica bizantina, a cura di M. B. Artioli, Torino 1988, p. 98. 66

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doni sono offerti non soltanto “per tutti gli esseri umani” (dià pántas), ma anche (con l’uso della forma neutra) “per tutto, per ogni cosa” (dià pánta). L’oblazione eucaristica intende essere cosmica, abbraccia non soltanto l’umanità ma l’intero regno della natura, abbraccia ogni cosa. La comunione con il sacramento ci investe di una responsabilità ecologica; ci impegna a proteggere e ad amare non soltanto i nostri fratelli in umanità ma tutte le cose viventi, e non soltanto queste, ma anche a proteggere e ad amare l’erba, gli alberi, le rocce, l’acqua e l’aria. Celebrando l’eucaristia con piena consapevolezza noi guardiamo il mondo intero come un sacramento della divina presenza. La nostra lotta spirituale, dunque, non è semplicemente antropocentrica: in quanto esseri umani noi siamo salvati non dal mondo ma con il mondo. Siamo personalmente responsabili della creazione, affidata alle nostre mani da Dio; e così lottiamo per santificare e per ridonare a Dio non soltanto noi stessi ma l’intera creazione nella quale viviamo. Questa portata ecologica della nostra lotta spirituale è stata particolarmente sottolineata dal patriarcato ecumenico di Costantinopoli negli ultimi due decenni. Il patriarca Dimitrios e il suo successore, l’attuale patriarca Bartholomeos, hanno stabilito che il primo settembre, giorno di apertura dell’anno ecclesiastico ortodosso, si celebri “il giorno per la salvaguardia dell’ambiente”, da osservarsi (così ci si auspica) non soltanto da parte degli ortodossi ma anche da parte degli altri cristiani. Come ha affermato il patriarca Bartholomeos nella dichiarazione che firmò a Venezia con papa Giovanni Paolo II il 10 giugno 2002: Occorre un atto di pentimento da parte nostra, e il rinnovato tentativo di considerare noi stessi, di considerarci l’un l’altro, e di considerare il mondo che ci circonda, nella prospettiva del disegno divino sulla creazione. Il problema non è meramente economico e tecnologico; esso è di ordine morale e spirituale. Si può trovare una soluzione, al livello economico 329

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e tecnologico, soltanto se nell’intimo del nostro cuore si verificherà un cambiamento quanto più possibile radicale, che potrà indurci a cambiare il nostro stile di vita, e i nostri insostenibili modelli di consumo e produzione. Una genuina conversione in Cristo ci permetterà di cambiare i nostri modi di pensare e di agire68.

Il papa e il patriarca concludono: Non è troppo tardi. Il mondo di Dio ha un incredibile potere di guarigione. Nell’arco di una sola generazione, potremmo imprimere alla terra il giusto orientamento per il futuro dei nostri figli. Esprimiamo l’auspicio che sia la nostra generazione, quella di oggi, a farlo, con l’aiuto e con la benedizione di Dio69.

Qui sicuramente vi è un elemento della nostra lotta spirituale che è al tempo stesso opportuno e urgente. Come dice Silvano dell’Athos a proposito della persona nella quale dimora lo Spirito santo, il cuore che ha imparato ad amare prova compassione per tutta la creazione70. Ciò che ci viene chiesto oggi ancor più che un tempo, è una tenerezza cosmica, come quella che descrive Isacco di Ninive: “Che cos’è un cuore compassionevole? È un cuore che brucia per tutta la creazione, per l’umanità, per gli uccelli, per gli animali, per i demoni, per tutto ciò che esiste”71.

68 Giovanni Paolo II, Bartolomeo I, Dichiarazione comune sull’etica ambientale, in Enchiridion vaticanum XXI, Bologna 2005, pp. 392-395, nr. 546. Cf. Grazia cosmica, umile preghiera. La visione ecologica del patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, a cura di J. Chryssavgis, Firenze 2007; His All Holiness Ecumenical Patriarch Bartholomew, Encountering the Mystery. Understanding Orthodox Christianity Today, New York Ny 2008, specialmente pp. 89-119. 69 Giovanni Paolo II, Bartolomeo I, Dichiarazione comune sull’etica ambientale, pp. 398-399, nr. 556. 70 Cf. Archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos, pp. 334-335. 71 Isacco di Ninive, Prima collezione 74, p. 341.

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Il silenzio del cuore “Acquista la pace interiore e migliaia, intorno a te, troveranno la salvezza”, diceva Serafim di Sarov72. Isacco di Ninive va ancora più lontano: “Ama l’inoperosità della quiete più che provvedere alla fame del mondo e a convertire una moltitudine di pagani dall’errore al culto di Dio”73. E ancora: “Meglio chi edifica la sua anima di chi edifica il mondo”74. Finché non ci siamo in qualche misura convertiti a Dio, ci sta dicendo Isacco, è improbabile che siamo in grado di convertire qualcuno a qualcosa. Per quanto possano essere vitali gli aspetti ecologici della nostra lotta spirituale, non si otterranno risultati durevoli se non sono radicati profondamente nella quiete (hesychía) e nella preghiera interiore, e non sono arricchiti da esse. Questo ci conduce a un sesto elemento della nostra guerra invisibile: il silenzio del cuore. Qui due fattori hanno giocato un ruolo decisivo nell’ortodossia del xx secolo: un libro e una preghiera. Il libro è la Filocalia, edita da Macario di Corinto (1731-1805) e Nicodemo l’Aghiorita (1748-1809)75. Pubblicata per la prima volta a Venezia nel 1782, questa vasta collezione di testi ascetici e mistici ebbe all’inizio un’influenza alquanto ristretta per quanto riguarda il mondo greco, godette invece di grande popolarità in Russia nel xix secolo. Ma la vera stagione della Filocalia fu la seconda metà del xx secolo. Fin dagli anni cinquanta del xx secolo fu regolarmente ristampata in Grecia sia nella lingua originale che nella traduzione in greco moderno, mentre una versione romena ampliata fu edita da Dumitru Sta-

Cf. I. Goraïnoff, Serafino di Sarov, p. 57. Isacco di Ninive, Prima collezione 4, p. 32. 74 Ibid. 65, p. 298. 75 Cf. K. Ware, “Possiamo parlare di spiritualità della Filocalia?”, in Amore del bello. Studi sulla Filocalia. Atti del “Simposio Internazionale sulla Filocalia”, Pontificio Collegio Greco, Roma, novembre 1989, Bose 1991, pp. 27-52, specialmente pp. 27-29. 72 73

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niloae. Ancor più sorprendentemente apparvero traduzioni – sia integrali che antologiche – nella maggior parte delle lingue occidentali, tra le quali l’inglese, il francese, l’italiano, il tedesco, lo spagnolo e il finlandese, e raggiunsero un’inattesa folla di lettori non solo ortodossi ma anche non ortodossi. Stupisce certamente e al tempo stesso rassicura sapere che un libro pensato originariamente per i greci del xviii secolo che vivevano sotto il governo ottomano avrebbe esercitato un incredibile impatto duecento anni più tardi sull’occidente postcristiano. Forse, dopo tutto, la nostra non è un’epoca interamente secolarizzata. Insieme al libro vi è una preghiera spesso raccomandata nella Filocalia: l’invocazione del santo Nome o preghiera di Gesù76. In passato la preghiera di Gesù era riservata ai monaci in alcuni centri maggiori e alle cerchie di laici che subivano la loro influenza. Negli ultimi cinquant’anni cominciò a essere utilizzata in misura più ampia non soltanto da monaci e monache ma anche da un crescente numero di laici. In occidente era stata conosciuta specialmente tramite l’anonima opera russa intitolata I racconti di un pellegrino russo77. Questo testo breve ma profondamente seducente pubblicato originariamente a Kazan’ nel 1881 fu tradotto in diverse lingue occidentali a partire dalla metà degli anni venti del secolo scorso, diventando immediatamente popolare; oggi la preghiera di Gesù è praticata da molti non ortodossi. Si può veramente dire che nei tempi odierni tale preghiera è molto più praticata che in passato. Di nuovo possiamo dire: veramente il nostro tempo non è soltanto secolarizzato. 76 I due studi principali sulla preghiera di Gesù, ambedue bisognosi di aggiornamento, sono I. Hausherr, Noms du Christ et voies d’oraison, Roma 1960; Un monaco della chiesa d’oriente, La preghiera di Gesù. Genesi, sviluppo e pratica nella tradizione religiosa bizantino-slava, Brescia 1964. 77 Sull’origine in parte misteriosa di questo testo, cf. A. Pentkovsky, “Introduction. From ‘A Seeker of Unceasing Prayer’ to ‘The Candid Tales of a Pilgrim’, in The Pilgrim’s Tale, a cura di A. Pentkovsky, New York Ny-Mahwah Nj 1999, pp. 1-46; e più recentemente Id., “Kto napisal ‘Otkrovennye rasskazy strannika’?”, in æurnal Moskovskoj Patriarchii 1(2010), pp. 54-59.

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Questi sono dunque alcuni degli elementi dominanti della lotta spirituale del cristiano contemporaneo: da una parte, discesa agli inferi, martirio, kénosis; dall’altra, trasfigurazione, eucaristia, silenzio del cuore. Le due triadi, la prima più oscura, la seconda più luminosa, non devono essere contrapposte bensì combinate insieme, come ha fatto Giovanni Climaco coniando il termine charmolØpe, “gioiosa tristezza”, e parlando di charopoiòn pénthos, “afflizione che diventa causa di gioia”78. Questi aspetti complementari della lotta spirituale sono ben riassunti in due brevi affermazioni di Serafim di Sarov che ciascuno di noi dovrebbe tenere sempre in mente: “Dove non c’è dolore, non c’è salvezza”79 e “Lo Spirito di Dio riempie di gioia tutto ciò che tocca”80.

Giovanni Climaco, La scala 7,11, p. 195. Cf. Archimandrita Lazarus Moore, St. Seraphim of Sarov. A Spiritual Biography, Blanco Tx 1944, pp. 126, 259. 80 Ibid., p. 199. 78

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CONCLUSIONI Michel Van Parys*

Concludiamo questa mattina il XVII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, dedicato alla lotta spirituale del cristiano. L’amicizia della comunità di Bose ci offre, anno dopo anno, con un’ospitalità generosa, il dono di un incontro di amicizia e di studio.È questa amicizia che mi ha dolcemente spinto a proporvi alcune riflessioni di sintesi del nostro convegno. Ecco quindi quello che un monaco latino ha imparato in questi giorni, mettendosi in ascolto della tradizione spirituale ortodossa. In primo luogo, abbiamo potuto constatare una notevole convergenza tra la meditazione biblica e la meditazione teologica sulla lotta spirituale. La lotta spirituale del cristiano non è nient’altro che la sua risposta attiva alla grazia della fede e del battesimo. “I tuoi peccati ti sono perdonati. Va’ e d’ora in poi non peccare più”, dice Gesù a chi ha peccato (cf., ad esempio, Gv 8,11; Lc 5,20). Il sacramento del battesimo ci immerge misticamente

* Monaco benedettino, è stato abate del Monastero di Chevetogne (Belgio) e consultore della Congregazione per le chiese orientali. Traduzione dall’originale francese. Le conclusioni sono state lette da Michel Van Parys a nome del comitato scientifico del Convegno, composto da: Enzo Bianchi, Lino Breda, Sabino Chialà, Nina Kauchtschischwili (†), Hervé Legrand, Adalberto Mainardi, Antonio Rigo, Roberto Salizzoni, Michel Van Parys.

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Conclusioni

nella morte e nella resurrezione di Gesù Cristo. Come dimorare in questa vita nuova che lo Spirito di Cristo suscita in noi mediante i sacramenti e, in particolare, l’eucaristia? Come vivere sotto lo sguardo di Dio, alla sua presenza? Come vegliare sul nostro cuore, centro misterioso del nostro essere, questo cuore umano inquieto, creato per amare Dio e il prossimo, e tuttavia incline al male, come già si constata nelle prime pagine del primo libro delle sacre Scritture? Come non tradire il dono gratuito di Dio? Come vincere in me questa resistenza alla grazia di Dio? È qui che interviene la lotta spirituale, l’ascesi gioiosa che è la vita in Cristo Gesù su questa terra. Il Verbo incarnato, nella sua umanità, è il modello da imitare nella lotta spirituale. “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo” (Fil 2,5), scrive Paolo ai cristiani della chiesa di Filippi. L’inno che segue è un appello a imitare Cristo Gesù, a camminare sulle sue orme: Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce (Fil 2,6-8).

Kénosis e umiltà del Cristo. Il combattimento spirituale, più che una lotta contro le passioni e i “pensieri” (loghismoí, cogitationes), è una lotta per la vittoria in noi del Cristo risorto, del suo umile amore per gli uomini. “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 4,17). Sono le prime parole di Gesù nel suo ministero pubblico. Gli apostoli e i padri della chiesa esortano instancabilmente il cristia336

Conclusioni

no al pentimento (metánoia). L’uomo si riconosce debole e peccatore dinanzi a Dio e ai suoi fratelli, e mette la sua fiducia nella misericordia di Dio. La tradizione monastica attribuirà la massima importanza al pentimento interiore ed esteriore. Dio non disprezza un cuore contrito e umiliato (cf. Sal 51,19). Giovanni Climaco, in particolare, fa l’elogio della tristezza secondo Dio (pénthos), della compunzione (katányxis) e delle lacrime (dákrya). Le lacrime costituiscono un nuovo battesimo? Non dovremmo piuttosto intenderle nel senso che esse rinnovano la grazia del battesimo? Comunque sia, tale questione riguarda il rapporto tra l’ordine sacramentale e l’esperienza spirituale intima del cristiano e del monaco. La lotta spirituale è anche ascesi. Con Massimo il Confessore possiamo interpretare il termine nel senso di “esercizio o allenamento disciplinato” (disciplined training). L’ascesi è interiore ed esteriore. Essa ha come scopo di purificare il cuore, con l’aiuto dello Spirito santo, disciplinando i pensieri dell’anima e le passioni del corpo. La praktiké, la fatica della lotta contro le passioni disordinate e per l’acquisizione delle virtù (dal timore di Dio all’amore di Dio), è il lungo cammino del pentimento o conversione. A parte le quattro testimonianze sulla formazione alla vita spirituale oggi, in Grecia, in Bulgaria, in Serbia e in Russia, e se si prescinde dai consigli sulla gastrimarghía di Barsanufio e Giovanni di Gaza (vi secolo), così opportunamente attualizzati, si è parlato poco, tutto sommato, della lotta contro i peccati e i vizi. Forse non a sufficienza. Abbiamo davvero preso in considerazione la lotta contro il demonio, combattuto da Gesù nel deserto e nel giardino del Getsemani, e dal quale chiediamo di essere liberati al nostro Padre che è nei cieli (cf. Mt 6,13), quando diciamo il Padre nostro? A più riprese, però, abbiamo riflettuto in questi giorni sulla radice del peccato e dei vizi: la philautía. Possiamo definirla come idolatria di sé? La si comprende meglio mettendola a confron337

Conclusioni

to con la kénosis e l’umiltà di Gesù evocata in Filippesi 2,6-11. Egli non si appropria, non cattura come una preda la sua natura divina, si decentra verso il Padre e verso la nostra umanità. La sua ascesi è quella dell’obbedienza del nuovo Adamo (cf. Rm 5). Senza dubbio lo svelamento dei pensieri al padre spirituale nell’apertura del cuore (exagóreusis) è da ricollegare a questa prospettiva di apprendistato dell’obbedienza amorosa di Gesù Cristo. La psicologia moderna ci viene in aiuto per una migliore comprensione della philautía, della quale l’orgoglio rappresenta il punto d’arrivo, come avevano compreso i padri del deserto. Già Antonio il Grande osservava che l’orgoglio è la tentazione ultima del monaco e che l’umiltà ne è l’antidoto assoluto1. La grande tradizione monastica, dopo di lui, ha analizzato gli infiniti meandri psicologici dell’orgoglio (idolatria di sé, di un sé debole e non amato), così come ha saputo discernere le difficoltà nel cammino verso l’umiltà2. Questo raffronto tra i risultati delle ricerche contemporanee in psicologia e la tradizione (in particolare Giovanni Climaco) offre spunto alla riflessione e apre delle prospettive per la formazione delle nuove generazioni monastiche alla lotta spirituale. In questo senso, l’ascesi dell’umiltà potrebbe forse essere definita come l’apprendistato di un’attenzione piena di ammirazione per l’altro (“mio fratello è migliore di me”, direbbero i monaci) e come la giusta valutazione di sé dei servi della parabola che hanno ricevuto cinque e due talenti (cf. Mt 25,14-30). L’ascesi è una lotta per arrivare alla verità su di sé dinanzi a Dio, ai propri occhi e agli occhi del fratello, della sorella. Ma è 1 Cf. Detti dei padri del deserto, Serie alfabetica, Antonio 7, in Detti editi e inediti dei padri del deserto, Bose 2002, p. 293. 2 Cf. Virtù di san Macario 2; 48, in Umiltà e misericordia. Virtù di san Macario, a cura di L. Cremaschi, Bose 1996, pp. 30; 67 ; Regola di Benedetto 7, in Regole monastiche d’occidente, a cura di E. Bianchi e C. Falchini, Torino 2001, pp. 209-215; Giovanni Climaco, La scala 25, a cura di L. d’Ayala Valva, Bose 2005, pp. 333-351.

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Conclusioni

anche una lotta in vista dell’agápe. È sicuramente meglio tradurre il sostantivo agápe con il verbo “amare”. Massimo il Confessore ci ha ricordato che la creazione dell’uomo e la sua ricreazione in Cristo Gesù, nostra natura autentica, non hanno altra finalità che quella di permettere all’uomo di recuperare liberamente la sua capacità di amare Dio e il prossimo. La lotta contro le passioni conduce, con l’aiuto di Dio, all’apátheia (impassibilità), che rende l’uomo capace di comunione d’amore con Dio e con l’altro. Un santo come Luca di Simferopoli è un esempio magnifico di questa agápe, di questo amare Dio e il prossimo. Il frutto della lotta per l’agápe è anche l’unificazione interiore dell’uomo, l’integrità del suo essere, corpo, anima e spirito. “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io, in mezzo a loro” dice Gesù (Mt 18,20). Già in Clemente di Alessandria questa “riunione” viene intesa come unificazione della persona, corpo, anima e spirito3. Giovanni Climaco4, Sergio di RadoneΔ e Serafim di Sarov lo ricordano: Quando la mente e il cuore sono uniti nella preghiera e l’anima non è turbata da nulla, allora il cuore si riempie di calore spirituale e la luce di Cristo inonda di pace e di gioia tutto l’uomo interiore5.

È il cuore dell’uomo il luogo dell’incontro con Dio, della sua visita. È anche il luogo nel quale si svolge la lotta spirituale, il luogo di ascolto della parola di Dio; e questa Parola purifica, gli dona intelligenza e sapienza, gli dà anche la forza dell’obbedienza. Il cuore è anche luogo e sorgente dei pensieri malvagi,

3 Cf. Clemente di Alessandria, Stromati III,10-68-69, in Id., Gli stromati. Note di vera filosofia, a cura di G. Pini, Milano 2006, pp. 226-227. 4 Cf. Giovanni Climaco, La scala 28,59, pp. 444-445. 5 Serafim di Sarov, Insegnamenti spirituali, in I. Goraïnoff, Vita, colloquio con Motovilov, insegnamenti spirituali, Milano 20066, p. 201.

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come insegna Gesù (cf. Mc 7,21; Mt 15,19); deve diventare libero e unificarsi, come abbiamo sentito a più riprese. Ma esistono anche altri luoghi della lotta spirituale: il mondo nella sua mondanità e la chiesa che, sempre e di nuovo, deve lasciarsi condurre nel deserto dal suo Sposo. Il metropolita Georges Khodr ci ha ricordato che la lotta spirituale del cristiano non si svolge soltanto nel cuore del singolo credente, e la posta in gioco di tale combattimento è l’unità della chiesa di Dio e la comunione tra le chiese di Dio. Nella chiesa continua la lotta di Cristo Gesù “per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52). “Nella lotta spirituale per l’unità della chiesa, la credibilità della chiesa sulla terra è strettamente legata alla sua testimonianza di comunione ecclesiale. Ora, la comunione ecclesiale ha un linguaggio, che è innanzitutto quello dell’amicizia”6. Anche a questo livello, la kénosis fino alla morte sulla croce del Messia traccia un cammino di umiltà per le chiese. Purificate dal sangue del Verbo incarnato, esse sosterranno la “buona battaglia” della fede (1Tm 1,18) perché la carità prevalga. Il metropolita Kallistos Ware ci propone un insegnamento molto simile: quello della lotta per la salvezza degli uomini e delle donne, nostri contemporanei. Infine, concludiamo con un ágraphon di Gesù: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere!” (At 20,35): abbiamo davvero compreso questa parola di Gesù? Lungo tutta la storia della chiesa, anche dopo le rotture e gli anatemi, gli scambi tra le chiese sono continuati. La chiesa latina deve molto alle tradizioni greca, siriaca, copta ... È evidente che lo Spirito santo non tiene conto delle barriere confessionali. Come spiegare altrimenti che Isacco, vescovo “nestoriano” di Ninive, sia stato accolto e venga accolto ancor oggi dalle nostre chiese come un santo dottore della vita spiri6

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Cf. supra, p. 303.

Conclusioni

tuale? Viene letto dai monaci della santa montagna dell’Athos, dai monaci di Optina, dai monaci di Sihastria, dai monaci copti di Scete, dai monaci etiopici. Noi accogliamo dei “santi” che lo Spirito suscita nelle chiese divise, li traduciamo, li riconosciamo. Possiamo fidarci dell’azione dello Spirito santo. Ed è questo che abbiamo vissuto tutti insieme, in questi giorni a Bose: lo scambio dei doni, perché il dialogo della carità precede e accompagna il dialogo teologico della verità. La lotta spirituale ci accompagnerà sino all’ultimo respiro. Già abba Agatone aveva messo in guardia i discepoli su questo punto7. Con Giovanni il Nano, un altro gigante spirituale del deserto, impariamo che la lotta spirituale ci è necessaria, perché ci ricorda la nostra miseria di peccatori: Abba Poimen raccontò di Giovanni il Nano che, avendo supplicato Dio, furono allontanate da lui le passioni ed egli divenne libero da ogni preoccupazione (amérimnos). Si recò allora da un anziano e gli disse: “Vedo che sono nella quiete (anapauómenos) e non ho alcuna lotta da sostenere”. L’anziano gli rispose: “Va’, prega Dio perché la lotta venga su di te e tu ne ottenga quella contrizione e quell’umiltà che avevi prima. È infatti attraverso la lotta che l’anima progredisce”. Giovanni allora pregò Dio e, una volta che la lotta fu ritornata su di lui, non lo pregò più perché la allontanasse ancora da lui. Chiedeva invece: “Signore, dammi pazienza (hypomoné) nelle lotte”8.

7 8

Cf. Detti dei padri, Serie alfabetica, Agatone 9, p. 160. Ibid., Giovanni il Nano 13, p. 53.

341

Conclusioni

L’icona della lotta di Giacobbe Nel corso di questi quattro giorni di convegno abbiamo potuto ammirare l’icona della lotta di Giacobbe, dipinta per noi. Sullo sfondo, un po’ in disparte, si vede Giacobbe addormentato a Betel (“casa di Dio”), che in sogno scorge la scala che collega la terra al cielo, mentre gli angeli di Dio vi salgono e scendono. Giacobbe fugge dalla violenza del fratello Esaù, lascia la terra promessa e contemporaneamente abbandona la presenza del Dio di Abramo e di Isacco (cf. Gen 28). In primo piano vediamo Giacobbe che lotta con l’angelo (cf. Gen 32). Egli ritorna nella terra promessa, arricchito dei suoi dodici figli e di molti beni. Ma prima di incontrare il fratello Esaù con timore e tremore, e cercare la riconciliazione con lui, Giacobbe viene colto di sorpresa dall’angelo di Dio, che lotta con lui per tutta la notte, fino all’alba. Lotta misteriosa che fa di Giacobbe un veggente di Dio, Israele, ma che lo lascia ferito per il resto dei suoi giorni. A modo suo, l’icona descrive con il linguaggio pittorico l’ambiguità, o meglio il paradosso pasquale della lotta spirituale del cristiano. La nostra natura umana ferita vi diviene ciò che essa è mediante la grazia del battesimo, della cresima e dell’eucaristia, morta e vivificata nella croce e nella resurrezione di Gesù Cristo. Il contesto scritturistico di questa icona ci rimanda anche all’incontro con il fratello, il fratello o la sorella nella fede e nella filiazione divina battesimale, ma anche il fratello o la sorella in umanità. La lotta spirituale dilata il nostro cuore, di modo che esso impari ad accogliere il dono di Dio, si apra all’amore del prossimo, si lasci purificare e unificare dallo Spirito santo.

342

SIGLE

BLDR

Biblioteka literatury Drevnej Rusi, Sankt-Peterburg 1997 ss.

CCSG

Corpus christianorum. Series graeca, Brepols, Turnhout 1977 ss.

CCSL

Corpus christianorum. Series latina, Brepols, Turnhout 1954 ss.

CSCO

Corpus scriptorum christianorum orientalium, Secrétariat du CorpusSCO-Peeters, Louvain 1903 ss.

KGA

Krymskij gosudarstvennyj archiv.

PG

Patrologiae cursus completus. Series graeca, a cura di J.-P. Migne, Paris-Turnhout 1857-1866.

SC

Sources chrétiennes, Cerf, Paris 1942 ss. * *

Ωeka

*

Ωrezvy™ajnaja Komissija (Commissione straordinaria panrussa per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio).

gpu

Gosudarstvennoe politi™eskoe upravlenie (Direzione politica dello stato).

nkvd

Narodnyj komissariat vnutrennich del (Commissariato del popolo per gli affari interni).

343

INDICE DEI NOMI Non sono segnalati i nomi dei santi dedicatari di chiese e di monasteri, e i personaggi biblici. In corsivo i numeri di pagina dove il nome ricorre solo in nota.

Abramo di Kashkar 77

Antonij di Optina 127

Afanas’ev N. 326

Antonij (Blum) 30

Afraat il Persiano 77

Antonin (Granovskij) 187

Agafangel di Jaroslavl’ 188

Antonio di Kiev 115

Agatone, abba 5, 341

Antonio il Grande 114, 115, 174, 314, 319, 338

Agostino di Ippona 41, 171, 305 Aguilar-Vafaie M. E. 145 Alejnikov G. 201 Aleksij I, patriarca di Mosca 192, 199 Alfeev I. 319 Alighieri D. 171 Allegra G. M. 76 Amvrosij di Optina 126, 262 Anastasio il Sinaita 69, 70, 125 Anatolij di Optina 127 Anderson S. L. 149 Andreev M. 188 Andreevskij I. 216 Andrej (Uchtomskij) 189 Anselmo d’Aosta 213

Antonopoulos N. 208 Archangelskij A. S. 121 Aristotele 154, 176, 309, 310, 313, 314 Arnaldo da Villanova 214-215 Artioli M. B. 51, 62, 66, 285, 301, 328 Artsybouchev A. 325 Ashbaugh P. 146 Atanasio di Alessandria 314 Athenagoras I, patriarca di Costantinopoli 293 Ba˘dilit¸a˘ C. 218 Balthasar H. von 95, 318 Bardy G. 225 Barsanufio di Gaza 115, 122, 125, 165-184, 291, 292, 337

345

Indice dei nomi Bartholomeos I, patriarca di Costantinopoli 6, 237, 329, 330 Basilio di Cesarea 77, 294 Bastiaensen A. A. R. 226 Batson C. D. 149 Baumeister R. F. 140, 141, 143, 153 Baumgärtel F. 42 Beatrice P. F. 34, 44 Behm J. 42 Behr-Sigel E. 222 Belkov Ch. 187 Bell R. 174 Bellini E. 69, 314 Benedetto di Norcia 29 Benedetto XVI, papa 7, 40, 229, 230, 234, 236-237 Benson R. 22 Berdjaev N. A. 258 Bertone T. 7 Best E. 44 Bettiolo P. 82 Beulay R. 84 Bezobranoz K. 294 Bianchi E. 6, 9, 10, 14, 15, 18, 26, 28, 38, 41, 47, 245, 338

Brjan™aninov I., v. Ignatij (Brjan™aninov) Brock S. 82, 218 Brown P. 169 Bullit-Jonas M. 183 Bunge G. 109, 311 Burton-Christie D. 284 Bushiro discepolo di mar Yozadaq 79 Byford J. T. 289 Caleca Manuele 212, 213 Campbell W. K. 140, 141, 153 Canivet P. 314 Casagrande C. 139, 151, 154 Ceresa-Gastaldo A. 98, 101, 226, 315 Ωetverikov S. 122 Chabot J. B. 75, 78 Chatham R. D. 173 Chaucer G. 169 Chialà S. 78, 79, 80, 82, 84, 284 Chru∫™ev N. S. 206 Chryssavghis J. 330 Ωi™agov S. 124 Cicerone M. T. 309 Cidone D. 212, 215, 219 Cipriano di Cartagine 305

Blogowska J. 149

Cirillo di Alessandria 292

Bogdanovic´ D. 287

Cirillo di Scitopoli 227

Bonilla J., de 216

Citterio E. 219, 220

Borisova A. 207

Clareno A. 211

Bosson J. K. 153, 155

Clarke A. 144

Brändle R. 226

Clément O. 29

346

Indice dei nomi Clemente di Alessandria 168, 309, 311, 339 Coco L. 169 Collins E. 149 Congar Y. 227 Conticello C. G. 219 Conticello V. 219 Cooper H. 169 Coutourier P.-I. 222 Cowen T. 286 Cremaschi L. 34, 97, 184, 268, 282, 284, 285, 314, 315, 338

Donenko N. 198 Doroteo di Gaza 11, 125, 284, 285 Dostoevskij F. M. 267 Dupont J. 39 fluric´ M. N. 276 Efrem il Siro 77 Eisenberg N. 139, 157 El™aninov A. 320, 324-325 Emilianos di Silyvria, v. Timiadis E. Epifanio il Saggio 118 Eraclio, imperatore d’oriente 95

Croce G. M. 233

Esichio di Gerusalemme 120

Cunningham P. 147

Eteria 226

D’Ayala Valva L. 34, 58, 141, 175, 287, 312, 338

Evagrio Pontico 34, 77, 83, 84, 120, 168, 169, 275, 311

Dadisho Qatraya 77 Daniel, patriarca di Romania 7 Daniele Bar Tubanitha 78 De Halleux A. 76 Del Corno D. 276 Del Ton G. 92 Del Zanna A. 177 Delpierre V. 148 Dernelle R. 148 Diadoco di Fotica 107 Dierkens A. 228 Dillon M. 145 Diodoro di Tarso 77, 83 Dionigi l’Areopagita (Pseudo-) 69, 314, 315 Doehring C. 144

Evdokimov P. 181, 318, 325 Every G. 323 Exline J. J. 140, 141, 143, 144, 153 Fabes R. A. 157 Falchini C. 338 Fay K. 145 Fazzo V. 69 Fedotov G. P. 122, 327 Feiner J. 318 Feuerbach L. 167 Fiasse L. 146 Filarete (Drozdov) 125 Filimonov S. B. 198 Filone di Alessandria 170, 276, 311 Filoteo il Sinaita 66 Florovsky G. 233

347

Indice dei nomi Foca, imperatore d’oriente 95

Giovanni il Nano 341

Fragkiskos E. 216, 217, 220

Giovanni Paolo II, papa 223, 231, 236, 237, 244, 329, 330

Francis L. J. 143 Friedrich G. 42 Gabriele Qatraya 79 Gala∫kin A. 204 Garcia Hernando J. 232 Gebauer J. 150 Gebre Medhen E. 239 Georges Khodr 222, 340 Geyer A. L. 144 Giambelluca Kossova A. 115 Gillet L. 222 Gilligan C. 139 Giorgio, catholicos di Seleucia-Ctesifonte 75, 78, 79, 80 Giovanni, vescovo di Cizico 96 Giovanni Cassiano 34, 44, 212, 218, 311 Giovanni Climaco 6, 11, 58, 59, 61-73, 119, 125, 138, 141-143, 151, 154-156, 174, 175, 264, 287, 291, 308, 312, 313, 326, 333, 338, 339 Giovanni Crisostomo 113, 125, 168, 177, 226, 247, 303-304, 312, 318 Giovanni d’Avila 220 Giovanni del Sinai 61 Giovanni di Apamea 78, 80, 83, 84 Giovanni di Dalyata 78 Giovanni di Damasco 69 Giovanni di Gaza 115, 125, 165-184, 292, 337 Giovanni il Digiunatore 199

348

Girolamo 170, 226 Giuseppe Hazzaya 78 Golubinskij F. 125 Goraïnoff I. 325, 331, 339 Gorodetzky N. 322 Gourgues M. 39 Gozzadini T. 214 Graffigna P. 170 Graham J. 139, 140 Gregg A. P. 141 Gregorio di Nazianzo 77, 105, 309 Gregorio di Nissa 77, 312, 313, 315 Gregorio il Sinaita 62, 68, 69, 119, 120 Gregorio il Teologo, v. Gregorio di Nazianzo Gregorio Magno, papa 212 Gregorio Palamas 217, 220, 315 Grigorij ( Jackovskij) 188 Grimm V. 173 Gus’kov A. S. 198 Hackel S. 321 Haidt J. 139, 140 Hammer D. 144 Harmer J. 146 Harries R. 323 Hart C. M. 141 Hausherr I. 103, 332 Hayes A. 144

Indice dei nomi Hendriks O. 226

Jonas H. 241

Henze P. B. 239

Jones N. D. 145

Hill P. C. 144

Jung C. G. 259

Hinterberger M. 219

Kachorek L. V. 140, 141, 153

Hitler A. 241

Kallistos Ware 9, 308, 313, 318, 319, 323, 331, 340

Hoyle R. H. 140, 153 Hugues P. 144

Kalomatis P. M. 217, 220

Ieronymos, arcivescovo di Atene 7

Karekin II, catholicos di tutti gli armeni 7

Ignatij (Brjan™aninov) 11, 128-131, 134

Karpov G. G. 196

Ignatios IV, patriarca di Antiochia 6

Kasper W. 230

Ignazio di Antiochia 281

Kassian (Bezobrazov) 294

Innokentij di Ta∫kent 186, 188

Kauchtschischwili N. 6, 117, 322

Ioannikios il Grande 321

Kavkazskij I. 129, 130

Ioann di Kronstadt 327-328

Kennedy S. 144, 146, 147

Ioannis Zizioulas 280, 290

Kirill I, patriarca di Mosca 6

Iosif di Optina 127

Kittel G. 42, 276

Ireneo di Lione 112, 263

Kleinberg A. 140, 141

Irinaios (Galanakis) 231

Kohlberg L. 139

Isacco di Ninive 6, 11, 15, 75-93, 117, 119, 122, 125, 212, 213, 218, 222, 259, 315, 318, 319, 326, 330, 331, 340

Kolbaba T. M. 238

Isaia, abba 77, 178, 180, 262, 313, 314

Koltsiou-Niketa A. 219

Ishodenah di Basral 75, 78, 80

Koncevi™ I. M. 115

Ivanov Vl. 238

Krasnickij V. 187

Jakab A. 218

Krueger J. 140, 141, 153

Jak∫ic´ S. 284

Ku™enkova V. 195

Jarancev A. S. 198

Kumashiro M. 141

Jerotic´ V. 286

LaBouff J. 144, 146, 147

Jevtic´ A. 276, 289

Labourt J. 171

John O. P. 158

Labzin A. 216

Joiner T. 140, 141, 153

Ladd K. L. 146

Kol™ickij N. 198

349

Indice dei nomi Ladd M. L. 146

Mao Zedong 241

Lanne E. 218

Marco il Solitario 83

Larchet J.-C. 138

Mariano B. 97, 282, 315

Leary M. R. 140, 153

Marija (Skobcova) 321-322

Legrand É. 220

Mark (Lozinskij) 129, 130

Legrand H. 241

Martino, papa 97

Lemaire Ph. 169

Maru∫™ak V. 186, 201, 209

Lev di Optina 125

Maschio G. 112

Levy-Rubin M. 238

Massimo il Confessore 6, 48, 95-112, 122, 282, 290, 314, 315, 337, 339

Lewis C. S. 171 Liénart A. 231 Lilla S. 312 Lopez S. J. 153 Löhrer M. 318 Louf A. 82 Louth A. 222, 276, 282, 290 Lovato M. F. 62, 66, 165 Lubac H. de 326 Luca di Simferopoli, v. Luka (Vojno-Jaseneckij) Luka (Vojno-Jaseneckij) 185-209, 339 Lyman S. M. 166 Macario di Corinto 331 Macario l’Egiziano 284 Macario l’Egiziano (Pseudo-) 6, 184, 262, 267, 268, 269, 284, 311, 317 Maggioni B. 41 Mainardi A. 117, 119, 121, 123, 125, 219, 285, 325

Mastroghiannopoulos E. 229 Mausss M. 232 Mazzarelli C. 176, 310 McCullough M. E. 149 McPartlan P. 326 Messana V. 107 Meyendorff J. 326 Meyer S. S. 276 Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli 292 Migliore F. 309 Miller D. 80 Model S. 229 Moghanloo M. 145 Moore L. 333 Moreschini C. 309, 315 Morhmann Ch. 226 Morris R. J. 145 Mortari L. 165, 174, 319

Makarij di Optina 125, 126, 127, 128

Moscatelli F. 311

Mallèvre M. 223

Mosè, vescovo di Ninive 78

350

Indice dei nomi Mosès A. 311

Outtier B. 169

Motovilov N. A. 325

Paisij Veli™kovskij 121-122, 125, 134

Muñoz-García A. 146

Pankhurst R. 239

Nam R. K. 144

Panteleimon, martire 189, 208

Natalucci N. 226

Paolo VI, papa 293

Nautin P. 241

Papadopoulos Th. I. 220

Nemesio di Emesa 311

Pargament K. I. 144

Nesselroade K. P. 147

Patrich J. 219

Nestore l’Annalista 115, 116, 117

Penna R. 46

Nestorio 292

Pentkovsky A. 332

Nettario, vescovo di Pentapoli 245, 250, 251, 323

Perrella E. 315

Niceforo Blemmide 213

Pervin L. A. 158

Nichols A. 326

Petakov H. 289

Nickolas M. 144

Peterson B. 140, 152, 153, 155

Nicodemo l’Aghiorita 215, 216, 217, 219, 220, 331

Peterson C. 140

Nicola Cabasilas 52, 60, 213, 215 Nicolini-Zani M. 76 Nikolaj (Koblov) 190

Perrone L. 227

Peterson E. 223 Petr (Poljanskij) 188 Pierre K. St. 146 Pietro Damasceno 125

Nikolakopoulos K. 238

Pimenides F. 280

Nikon di Optina 127

Pinamonti G. P. 217

Nil Sorskij 119-121, 134

Pini G. 168, 311, 339

Nilo il Sinaita, v. Evagrio Pontico

Pirard M. 218

Nocilli A. G. 52

Pirro, patriarca di Costantinopoli 96-97

Noica R. 134

Platon (Gorodeckij) di Kiev 222

Normandi C. E. 166

Platone 170, 309, 310, 314

Nosek B. A. 139, 140

Plutarco 276

Origene 33, 92

Podskalsky G. 218, 220

Ottenbreit A. 147

Poimen, abba 341

351

Indice dei nomi Pol Pot 241

Rowatt W. C. 144, 146, 147

Popov N. 193

Russel N. 282

Popovic´ J. 288

Sacchi P. 276

Popovskij M. 190

Sacharov N. 121

Pospelovskij D. 188

Saeki P. 76

Powers C. 144, 146, 147

Salmona B. 312

Prochorov G. M. 119

Sannino D. 44

Prose F. 173

Santerre J. M. 228

Puzin N. P. 195 Ra˘covit¸a˘ M. 217 Radice R. 312 Rahmani I. E. 76, 79, 80 Ramelli I. 312 Ratzinger J., v. Benedetto XVI, papa Reale G. 170, 310 Refoulé F. 160 Regnault L. 169 Reifferscheid A. 171 Rhodewalt F. 140, 152, 153, 155 Rigo A. 219, 220, 221, 227, 228 Rimbaud A. 29

Saroglou V. 143, 146, 148, 149, 160 Scarpat G. 276 Schabel Ch. 219 Scholarios G. 213, 214 Schumaker J. F. 143 Scupoli L. 216, 217, 219 Skobckova M., v. Marija (Skobckova) Sedikides C. 141, 150 Seligman M. 140 Serafim di Sarov 60, 123-125, 126, 131, 134, 323, 324-325, 331, 333, 339 Sergij (Lavrov) 188

Roark L. 166

Sergij (Stragorodskij), patriarca di Mosca 188, 196

Robertson A. 307

Sergio di RadoneΔ 117-118, 132, 339

Robins E. W. 158

Serido, abba

Rochcau V. 325

Shabur, rabban

Roïdes S. 280

Shaw T. 169

Romanello S. 44

Sherwood P. 95

Romanitis E. 217, 220 Roth G. 179

Silvano del Monte Athos 131-134, 282, 285, 318-319, 320, 327, 330

Rowan Williams, arcivescovo di Canterbury 6, 221

Simeone il Nuovo Teologo 119, 125, 213, 311

352

Indice dei nomi Smit J. W. 226

Thompson F. J. 228

Simone di Taiuteh 77

Thunberg L. 95

Simonetti M. 171

Tichon di Zadonsk 11, 187, 188, 189, 191

Snyder C. R. 153 Sofronio (Sacharov) 131-134, 282, 318, 319, 320, 327, 330

Timiadis E. 25, 227, 232

Solov’ev I. V. 188

Tommaso d’Aquino 213

Solov’ev N. 202

Tommaso da Kempis 217

Solov’ev V. S. 10 Spencer S. 141 Spinrad T. L. 157 Stalin J. 241 Staniloae D. 331 Stauffer E. 276 Stiernon D. 219 Swann W. B. jr. 153, 155 Swanson T. 146 Tangney J. P. 153, 157 Targhetta V. 144, 146, 147 Tarkmees A. 119 Tarulli V. 41 Teodoreto di Cirro 314

Tinnefeld F. 238

Touraille J. 82 Trnka D. 146 Turiel E. 139, 140 Ugo di San Vittore 215 Umberto di Silva Candida 292 U∫akov P. 193 Valéry P. 27 Van Deun P. 109 Van Parys M. 216, 219 Varsonofij di Optina 126, 127 Vecchio S. 139, 151, 154 Velimirovic´ N. 288 Vergote A. 140, 151, 157

Teodoro di Simonov 118

Vetelev A. 192

Teodoro di Mopsuestia 77, 83

Vicario L. 305

Teodoro Studita 122, 125

Villain M. 222

Teodosio di Kiev 115, 116, 134

Viller M. 216, 219

Teofane il Recluso 11, 216, 219, 268

Vi∫nevskij M. 204

Teresa di Lisieux 30

Vissarion, archimandrita 188

Tertulliano 170, 305

Vletsis A. 238

Tesauro E. 217

Von Arnim J. 309

353

Indice dei nomi Vostry∫ev M. 203

Worthington E. L. jr. 149

Voulgaris E. 215-216, 219

Yannaras Ch. 276, 277, 289, 313

Vvedenskij A. 187

Yozadaq, mar 79

Ware K., v. Kallistos Ware

Zacharov, arciprete 193

Watson P.J. 145

ædanov Ja. I. 197, 198

Wells O. 168

Zenone 309, 311

Wenger A. 226

Zernov N. 326, 327

Wensinck A. J. 318

Zincone S. 113, 304

Wink P. 145

Zizioulas I., v. Ioannis Zizioulas

Wissowa G. 171

Zosima di Elista 29

354

PARTECIPANTI AL CONVEGNO

✠ Kallistos di Diokleias, Patriarcato Ecumenico (Oxford – Regno Unito) ✠ Georges del Monte Libano, Patriarcato di Antiochia (Brummana – Libano) ✠ Filaret di Minsk e Sluck, Patriarcato di Mosca, Esarcato di Bielorussia (Minsk – Bielorussia) ✠ Amvrosij di Gatchina, Patriarcato di Mosca (San Pietroburgo – Fed. russa) ✠ Zosima di Elista e Kalmykija, Patriarcato di Mosca (Elista – Fed. russa) ✠ Evlogij di Sumy, Patriarcato di Mosca, Chiesa ortodossa ucraina (Sumy – Ucraina) ✠ Porfirije di Jegar, Patriarcato di Serbia (Novi Sad – Serbia) ✠ Marc di Neamt¸, Patriarcato di Romania (Bordeaux – Francia) ✠ Grigorij di Veliko Tarnovo, Patriarcato di Bulgaria (Veliko Tarnovo – Bulgaria) ✠ Kiprian di Traianopol, Patriarcato di Bulgaria (Vratza – Bulgaria) ✠ Roger Etchegaray, vice decano del Collegio cardinalizio (Città del Vaticano) ✠ Brian Farrell, segretario del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (Città del Vaticano) ✠ Antonio Mennini, nunzio apostolico presso la Fed. russa (Mosca – Fed. russa) ✠ Gabriele Mana, vescovo di Biella (Biella – Italia) ✠ Arrigo Miglio, segretario della Conferenza episcopale piemontese (Ivrea, Torino – Italia) ✠ Massimo Giustetti, vescovo emerito di Biella (Muzzano, Biella – Italia) Milan æust, Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (Città del Vaticano) Michel Nseir, Consiglio ecumenico delle Chiese (Ginevra – Svizzera) Dimitrij (Ageev), Patriarcato di Mosca, Dipartimento per le relazioni esterne (Mosca – Fed. russa) Aleksej Dikarev, Patriarcato di Mosca, Dipartimento per le relazioni esterne (Mosca – Fed. russa) Kirill (Hovorun), Patriarcato di Mosca, Chiesa ort. ucraina, Dip. per le relazioni esterne (Mosca – Fed. russa)

355

Partecipanti al convegno Savvas (Dimitreas), Chiesa di Grecia (Preveza – Grecia) Adam (Makaryan), Patriarcato armeno di Etchmiadzin (Etchmiadzin – Armenia) Zakeo (Ohanian), Patriarcato armeno di Costantinopoli (Instanbul – Turchia) Jonathan Goodall, Chiesa di Inghilterra (Londra – Regno Unito) † Nina Kauchtschischwili, Università di Bergamo (Milano – Italia) – Comitato scientifico Hervé Legrand, Padri domenicani (Parigi – Francia) – Comitato scientifico Michel Van Parys, Monastère de l’Exaltation de la Sainte Croix (Chevetogne, Namur – Belgio) – Comitato scientifico Antonio Rigo, Università di Venezia (Venezia – Italia) – Comitato scientifico Roberto Salizzoni, Università di Torino (Torino – Italia) – Comitato scientifico Agnès Valay, Abbaye Sainte Marie du Rivet (Auros – Francia) Amvrosios (Sioros), Iera Moni Prophitis Ilias (Preveza – Grecia) Ana Zbarcia, Monastero San Cipriano (Trieste – Italia) André Louf, Abbaye Sainte Marie du Mont-des-Cats (Godewaersvelde – Francia) Angela Nagy, Monastero Carmelitane Scalze (Magyarszèk – Ungheria) Antoine Lambrechts, Monastère de l’Exaltation de la Sainte Croix (Chevetogne, – Belgio) Arsenij (Sokolov) (Lisbona – Portogallo) Atanasia (Olinici), Mânâstirea Copou (Ia¸si – Romania) Athenagoras (Fasiolo), Arcidiocesi ortodossa d’Italia e di Malta (Montaner, Treviso – Italia) Beáta Mikusi, Monastero Carmelitane Scalze (Magyarszèk – Ungheria) Chrysostom, Iera Moni Petra (Karditsa – Grecia) Davide Muntoni, Monastero Sant’Elia (Giroc – Romania) Dimitrios, Iera Moni Petra (Karditsa – Grecia) Dionysia, Holy Monastery of Saint George Karaiskaki (Karditsa – Grecia) Emanuela Maria Nespoli, Abbazia di Viboldone (San Giuliano – Milano) Enzo Bianchi, Monastero di Bose (Bose, Biella – Italia) Gabriel Bunge, Eremo Santa Croce (Roveredo – Svizzera) Gheorghios (Chrysostomou) (Veria – Grecia) Giovanni Lamperti, Monastero SS. Trinità (Dumenza, Varese – Italia) Giuseppe Pegoraro, Abbazia Santa Giustina (Padova – Italia) Grigorios (El-Jamous), Monastero di Santa Caterina – Monte Sinai (Egitto) Imre Gèrecz, Abbazia San Martino (Pannonhalma – Ungheria) Ivo Dujardin, Abbaye Notre-Dame du Sacré-Coeur (Westmalle – Belgio) Josè Vela, Monastero Sant’Elia (Giroc – Romania)

356

Partecipanti al convegno Joséphine Le Clezio, Abbaye Sainte Marie du Rivet (Auros – Francia) Ioustinos (Hicks), Monastero di Santa Caterina – Monte Sinai (Egitto) Lydia, Holy Monastery of Saint George Karaiskaki (Karditsa – Grecia) Maria Clemente Moro, Abbazia di Viboldone (San Giuliano, Milano – Italia) Maristella Marchesin, Monastero Santa Maria (Poffabro, Pordenone – Italia) Maurizio Benzoni, Monastero SS. Trinità (Dumenza, Varese – Italia) Minke de Vries, Communauté de Grandchamp (Areuse – Svizzera) Mitrofan (Badanin) (Murmansk – Fed. russa) Nicolas Molinier, Monastère St. Antoine Le Grand (St. Laurent-en-Royans – Francia) Nikolaj KorΔi™ (Minsk – Bielorussia) Norbert Marie, Petites soeurs de Nazareth et de l’Unité (St. Laurent-en-Royans – Francia) Odile, Petites soeurs de Nazareth et de l’Unité (St. Laurent-en-Royans – Francia) Panteleimon, Iera Moni Petra (Karditsa – Grecia) Petruta Banciu, Monastero San Cipriano (Trieste – Italia) Rosanna Volpato, Monastero Santa Maria (Poffabro, Pordenone – Italia) Silvestr Stoychev (Kiev – Ucraina) Simeon (Durasov) (Mosca – Fed. russa) Vasilije (Grolimund), Serbisch-Orth. Skite S. Spyridon (Geilnau – Germania) Vera Klun, Monastero San Cipriano (Trieste – Italia) Wissam Karo (Mossul – Iraq) Adami Luigi (Colognola ai Colli, Verona – Italia) Agosta Cesare (Bisegna, Aquila – Italia) Agrano Piero (Ivrea, Torino – Italia) Alexopoulos Alexios (Volos – Grecia) Aliprantis Nikitas (Atene – Grecia) Asparuhov Asparuh (Vratza – Bulgaria) Aveline Anne (Angers – Francia) Bagration-Mukhraneli Irina (Mosca – Fed. russa) Barret Raphaelle (Roma – Italia) Baumejster Andrey (Kiev – Ucraina) Bazarinskij Igor (Kiev – Ucraina) Biavardi Paola (Parma – Italia) Bodrov Aleksej (Verona – Italia) Bolshakova Natalia (Riga – Lettonia) Bonavia Giovanni (Racconigi, Cuneo – Italia) Bortignon Michele (Bassano del Grappa, Vicenza – Italia)

357

Partecipanti al convegno Bourgiotis Dimitrios (Atene – Grecia) Bourtsev Andrei (Milano – Italia) Boyko Mishev (Vratsa – Bulgaria) Brusegan Giovanni (Padova – Italia) Bureha Volodymyr (Kiev – Ucraina) Callot Antoine e Catherine (St. Didier-au-Mont – Francia) Caspani Luigi (Costa Masnaga, Lecco – Italia) Castronovo Giuseppe e Anna (Palermo – Italia) Cavaliere Nelly (Torino – Italia) Ωesnokov Aleksej (Cadiz – Spagna) Chaillot Christine (Ginevra – Svizzera) Charalampidis Konstantinos (Tessalonica – Grecia) Chryssavghis John (Bath – Regno Unito) Cini Umberto (Roma – Italia) Clark Basil (Boston – Stati Uniti) Clark Constantine (Boston – Stati Uniti) Culotta Manfredi (Palermo – Italia) Dakalakis Eleftherios (Patrasso – Grecia) De Mottoni Paolo e Tiziana (Trieste – Italia) Despotis Ioakim (Naoussa – Libano) Dibo Amal (Beyruth – Libano) Dovgyallo Grigory (Minsk – Ucraina) Droghetti Anna (Torino – Italia) Fedele Marisa (Milano – Italia) Forrest Edmond (Cork – Irlanda) Forte Agnello (Camerota, Salerno – Italia) Gagna Gian Maria (Brusnengo, Biella – Italia) Gasak Dmitrij (Mosca – Fed. russa) Gaviglio Bianca (Givoletto, Torino – Italia) Gennarino Piero e Marilena (Moretta, Cuneo – Italia) Genoni Gianfranco (Milano – Italia) George Martin (Berna – Svizzera) Giannetto Maria Pia (Messina – Italia) Girotto Fabio (Bolzano Vicentino, Vicenza – Italia) Gobbi Maria Grazia (Saluzzo, Cuneo – Italia) Gribodo Carla (Susa, Torino – Italia) Grigorevna Natalja (Elista – Fed. russa) Grischenko Aleksej e Marina Evgeneva (Elista – Fed. russa)

358

Partecipanti al convegno Hadjiev Mihail (Veliko Tarnovo – Bulgaria) Hamam Marco (Bruxelles – Belgio) Hasapis Dinos (Atene – Fed. russa) Hogstrom Bengs (Goteborg – Svezia) Invernizzi Rinaldo (Lugano – Svizera) Jung André (Ginevra – Svizzera) Karadimas Fotios (Atene – Grecia) Karakoulachis Emmanuil-Evdokimos (Atene – Grecia) Karamanidou Anna (Panestimioupoli – Grecia) Kasimova-Zouchra Aikaterini (Atene – Grecia) Ko™etkov Georgij (Mosca – Fed. russa) Konkiov Zahari (Sofia – Bulgaria) Kontoyannis Spyridon (Atene – Grecia) Kostadinov Nikolay (Vratsa – Bulgaria) Krasikov Anatolij (Mosca – Fed. russa) Kurtanidze Kakhaber e Ja (Tblisi – Georgia) Lauritzen Frederick (Bologna – Italia) Loru Maria Giuseppina (Parigi – Francia) Louth Andrew (Durham – Regno Unito) Lovera Sereno (Saluzzo, Cuneo – Italia) Mainoldi Sergio e Mariangela (San Remo – Italia) Makar Mykola (Milano – Italia) Malakhov Viktor (Kiev – Ucraina) Malavolti Gianni (Modena – Italia) Malcovati Fausto (Milano – Italia) Manikas Konstantinos (Atene – Grecia) Maru∫™ak Vasilij (Simferopoli – Ucraina) Masi Davide e Anna Maria (Palermo – Italia) Medycky Christine (Toronto – Canada) Migliore Rosanna (Palermo – Italia) Mihajlov Vihren (Sofia – Bulgaria) Min™enko Vasilij (Riga – Lettonia) Minin Sergey (Vladimir – Fed. russa) Misser Joan e Françoise (Bailleul – Francia) Mladenov Mladen (Vratza – Bulgaria) Mozgov Kirill (Mosca – Fed. russa) Muguet Jean e Martine (Marsiglia – Francia) Münch Harald (Ijmuiden – Olanda)

359

Partecipanti al convegno Nilolaidis Konstantinos (Veria – Grecia) Nseir Najwa (Ginevra – Svizzera) Oeldemann Johannes (Paderborn – Germania) Ogorodnikov Aleksandr (Mosca – Russia) Oleinik Olga (Minsk – Bielorussia) Orsini Ezio (Avigliana, Torino – Italia) Paleari Leonardo (Roma – Italia) Pandele Gabriel Dorin (Galat¸i – Romania) Papagheorghiou Charilaos (Volos – Grecia) Paparidis Anarghyros (Atene – Grecia) Parisi Elisabetta (Roma – Italia) Pastukhova Katherinev (Minsk – Bielorussia) Pavlov Nikolay (Veliko Ta˘rnovo – Bulgaria) Peev Krasimir (Vratsa – Bulgaria) Pentzikis Gavriil (Tessalonica – Grecia) Porpora Antonio (Amalfi, Napoli – Italia) Pricop Cosmin (Insurateli – Romania) Prochorov Gelian (San Pietroburgo – Fed. russa) Puddinu Antonella (Aosta – Italia) Reati Fiorenzo (San Pietroburgo – Fed. russa) Ria Antonio (Milano – Italia) Ricciardi Gianmario (Torino – Italia) Roccucci Adriano (Roma – Italia) Rosso Stefano (Torino – Italia) Salerno Rita (Roma – Italia) Sangiorgi Maria Cecilia (Milano – Italia) Santomiero Chiara (Roma – Italia) Saroglou Vassilis (Louvain-la-Neuve – Belgio) Savik Viktor (Berlino – Germania) Savova Ljudmila (Sofia – Bulgaria) Shaban Ihor (Kiev – Ucraina) √eko Ekaterina (Mosca – Fed. russa) √emunka∫o Aho (Salisburgo – Austria) Signori Lino (Verona – Italia) Sigov Konstantin (Kiev – Ucraina) Simeonov Georgij (Vratza – Bulgaria) Smirnova Irina (Mosca – Russia) Smytsunyuk Pavlo (Ivano-Frankivsk – Ucraina)

360

Partecipanti al convegno Stathis Gheorghios e Anastasia (Melissia – Grecia) Spokojnaja Natalija (Berlino – Germania) Stavropoulos Evangelos (Atene – Grecia) Tevzadze Zaza (Tbilisi – Georgia) Torcivia Mario (Palermo – Italia) Toti Marco (Roma – Italia) Tsecov Georgij (Vratza – Bulgaria) Turco Emilia (Torino – Italia) Turner John (Frinton-on-Sea – Regno Unito) Valkova Milka (Viin – Bulgaria) Valzania Sergio (Roma – Italia) Van Ael Joris (Gent – Belgio) Vasilescu Gheorghe (Torino – Italia) Vasilieva Olga (Mosca – Fed. russa) Vassiliadis Petros (Tessalonica – Grecia) Velikanov Pavel (Mosca – Fed. russa) Vyshnevska Svitlana (Melitopol – Ucraina) Worontzoff Ania (Firenze – Italia) Wybrew Hugh (Oxford – Regno Unito) Zalakostas Achilleas (Tessalonica – Grecia) Zelinsky Pavel (Brescia – Italia)

361

INDICE

5 9 10 13 14 15 16 17 19 21 24 26 27 29 32

PREFAZIONE Messaggio del Patriarca ecumenico, Bartholomeos I Messaggio del Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, Kirill I Messaggio del Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di stato della Città del Vaticano Messaggio del Patriarca di Antiochia e di tutto l’oriente, Ignazio IV Messaggio del Patriarca della Chiesa ortodossa romena, Daniel Messaggio dell’Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, Ieronymos Messaggio del Metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina, Volodymyr Messaggio del Catholicos di tutti gli armeni, Karekin II Messaggio dell’Arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams Messaggio del Pastore Samuel Kobia, segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese Messaggio del Cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani Saluto del Cardinale Roger Etchaigaray Saluto dell’Arcivescovo Antonio Mennini, rappresentante della santa Sede presso la Federazione russa Saluto del Vescovo di Biella, Gabriele Mana

33

LA LOTTA SPIRITUALE: ELEMENTI BIBLICI Enzo Bianchi

51

TEOLOGIA DELL’ATTO ASCETICO Filaret Vachromeev

363

61

AFFLIZIONE E LACRIME: CORPO, ANIMA E SPIRITO. GIOVANNI CLIMACO E LA TRADIZIONE DEL SINAI Justin Hicks

75

ISACCO IL SIRO E LA LOTTA DELLA PREGHIERA André Louf

95

LA LOTTA PER LA CARITÀ: MASSIMO IL CONFESSORE Andrew Louth

113

LOTTA SPIRITUALE E DISCERNIMENTO DEI PENSIERI NELLA TRADIZIONE ASCETICA RUSSA Amvrosij Ermakov

137

L’ORGOGLIO, L’UMILTÀ E LE LORO VICISSITUDINI: UN APPROCCIO PSICOLOGICO Vassilis Saroglou

165

SOSTENTATI DA DIO: BARSANUFIO E GIOVANNI DI GAZA SULL’INGORDIGIA John Chryssavghis

185

RESISTENZA AL MALE E GUARIGIONE: IL VESCOVO LUKA VOJNO-JASENECKIJ (1877-1961) Vasilij Maru∫™ak

211

DA GIOVANNI CASSIANO A NICODEMO L’AGHIORITA: LO SCAMBIO DEI DONI SPIRITUALI Antonio Rigo

221

LO SCAMBIO DEI DONI: UNA SFIDA SPIRITUALE TRA CRISTIANI Hervé Legrand

245

LA FORMAZIONE DEI MONACI ALLA LOTTA SPIRITUALE OGGI IN GRECIA Iakovos Bizaourtis

253

IL PENTIMENTO, L’ARMA PIÙ POTENTE DEL COMBATTIMENTO SPIRITUALE Grigorij Stefanov

364

267

LA LOTTA SPIRITUALE IN RUSSIA OGGI Petr Me∫™erinov

275

LA LOTTA SPIRITUALE E LE SUE SFIDE IN SERBIA OGGI Porfirje Peric´

291

LA LOTTA SPIRITUALE PER L’UNITÀ DELLA CHIESA Georges Khodr

307

LA LOTTA SPIRITUALE NEL MONDO CONTEMPORANEO Kallistos Ware

335

CONCLUSIONI Michel Van Parys

343

SIGLE

345

INDICE DEI NOMI

355

PARTECIPANTI AL CONVEGNO

365