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Italian Pages 102 [99] Year 2007
La lingua del perdono* Beati quorum tecta sunt peccata Il peccato contro lo spirito linguistico Tradurre è perdonare? E perdonare è una forma del tradurre? Che cosa lega, se li lega, un atto che appartiene al registro pratico-morale e una pratica che invece inerisce alla sfera delle lingue? Per provare solo a porre la questione, per vedere cioè se un rapporto fra il tradurre e il perdonare esista e abbia un senso, si potrebbero prendere le mosse, in un modo d'altronde del tutto impregiudicato, senza dare in altri termini come già risolte né la possibilità ·una prima versione ridotta. di questo saggio col titolo Tradurre è perdonare? è stata pubblicata sulla rivista Studium, 5, XCIX, settembre-ottobre 2003, pp. 713-729. Tutto nasce comunque dalla relazione pronunciata durante il convegno Il dono delle lin3ue. Ermeneutica e traduzione organizzato in onore di Paul Ricoeur da Domenico Jervolino e Rocco Pittitto e tenutosi a Napoli nei giorni 21 e 22 ottobre del 2002. 5
in quanto tale del perdono né la sua eventuale connessione col tradurre, dal racconto fatto da Des1nond Tutu della sua esperienza di presidente della Commissione per la verità e la riconciliazione istituita in SudAfrica dopo la fine dell'Apartheid e in particolare da due notazioni che in modo del tutto secondario e laterale riguardano però il problema della molteplicità delle lingue e della conseguente necessità della traduzione. La prima osservazione riguarda l'uso a dir poco incongruo che la chiesa riformata olandese aveva fatto, nei lunghi anni del dominio bianco, della storia biblica della Torre di Babele, al fine di offrire una motivazione teologica del regime razzista: dal momento che Dio aveva condannato, attraverso la confusione delle lingue, le razze umane alla dispersione, era giusto te_nerle separate. La segregazione cui i neri erano stati sottoposti, le sevizie e le crudeltà di cui erano stati fatti oggetto, non erano altro da questo punto di vista che il risultato dell'obbedienza dovuta alla volontà divina. Che questa aberrante giustificazione teologica fosse stata in seguito abbandonata e sconfessata, non toglie tuttavia nulla al fatto per noi molto significativo che alla differenza delle lingue si attribuisse, anche se in modo del tutto surrettizio, una conseguenza etico-politica1• 1
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Cfr. D. Tutu, Non c'è futuro senza perdono, tr. it. di E. Dor-
La seconda osservazione riguarda quello che potrebbe apparire un semplice espediente tecnico-organizzativo adottato dalla Commissione nelle fasi preliminari del proprio lavoro e che invece potrebbe rilevarsi carico di significato e di conseguenze per il problema che tentiamo di affrontare: per facilitare ai testimoni il compito già di per sé doloroso e sgradevole di raccontare la propria esperienza di persecuzione e di sevizie, essi avrebbero parlato ciascuno nella propria lingua e la Commissione di conseguenza avrebbe provveduto ad assicurare ogni volta un servizio di traduzione simultanea.'2. Se lo scopo della Commissione per la verità e per la riconciliazione era quello da un lato di evitare, una volta messa la parola fine al regime dell'Apartheid, una resa dei conti violenta e sanguinosa, una terribile guerra civile, e dall'altro di costruire la nuova società sudafricana sul fondamento del perdono accordato dalle vittime ai carnefici attraverso la testimonianza delle prime e l'autodenuncia dei secondi, le due osservazioni dovrebbero dimostrare che un netti, Feltrinelli, Milano 2001, p. 140. Sull'esperienza della Commissione per la verità e la riconciliazione si veda il volume a cura di Marcello Flores, Verità senza vendetta. L'esperienza della Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione, Manifesto libri, Roma 1999. 2 lbid., p. 86.
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tale risultato non può non chiamare in causa il carau, re forse più originario dello statuto e dell'esperienza del linguaggio: la molteplicità delle lingue e la necessità tutta positiva della traduzione. Secondo la definizione radicale e iperbolica elaborata da Paul Ricoeur il perdono sarebbe un'azione - parente in qualche modo del miracolo - che non si limiterebbe a interporre uno iato o una discrasia fra l'atto criminale e le sue conseguenze, ma che mirerebbe invece addirittura a "slegare l'agente dal suo atto" 3, a purgare cioè il titolare dell'azione malvagia non solo degli effetti del suo gesto, ma dell'atto in quanto tale, come se l'atto o non lo riguardasse o non fosse stato mai compiuto. Ritorneremo fra un attimo sulle aporie e le contraddizioni cui una tesi simile va incontro. La qu~stione che si pone adesso è invece un'altra: se la definizione di Ricoeur è vera e se altresì è fondata la relazione fra il perdono e la traduzione da cui siamo partiti, non dovremmo forse attribuire anche a quest'ultima, non solo un qualche rapporto col peccato e col male, ma anche un potere di slegare simile a quello che caratterizza l'atto del perdono?
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P. Ricoeur, La mémoire, l'histoire, l'oubli, Seui!, Paris 2000, p. 637, ed. it. di D. !annotta, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, p. 696. 8
Nel grande saggio sulla lingua del I 9 l 6 Walter Benjamin aveva di fatto finito, se non per identificare, almeno per legare molto strettamente il peccato originale con il mito di Babele sulla base del fatto che per lui il peccato altro non era che la perversione e lo snaturamento dello spirito linguistico. Tuttavia l'accostamento fra il primo peccato e il mito di Babele non significava che il male, la potenza satanica che il peccato introduce nel mondo, fosse da ricercare nella pluralità e nella confusione delle lingue in quanto tali, ma piuttosto nel fatto che con l'avvento del peccato la lingua era chiamata non più ad esprimere l'essenza spirituale, e cioè a sua volta linguistica, delle cose così come era sgorgata dalla lingua creativa di Dio, ma a comunicare qualcosa che cadeva fuori di se stessa, qualcosa che non era più ori'ginariamente lingua e perciò spirito, bensì il prodotto della mera astrazione mentale, vale a dire l'ambito dei significati logico-semantici e delle categorie sintattico-grammaticali. Il peccato originale è per Benjamin l'atto di nascita della parola 'umana' che differisce in essenza e in grado da quella adamitica e paradisiaca che sola vigeva prima della caduta dello spirito linguistico. Mentre quest'ultima, attraverso la sonorizzazione del nome, portava ad espressione la lingua muta delle cose leggendo e traducendo i segni impressi su di ,
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esse dalla lingua creativa di Dio, quella umana, pervertita dalla promessa del serpente di poter conoscere il bene e il male, si avventurava per la strada della logica tentando, con l'invenzione del giudizio, di afferrare attraverso la parola la natura sfuggevole del male. E qui è il punto: se il progetto non riesce e anzi l'impossibilità di dire il male trascina nella stessa erosione nichilistica anche la possibilità contraria di dire il bene, è perché il male è nulla, nulla di concreto, nulla di effettivo, e quindi nulla che sia radicato nella lingua, che trovi nella lingua la sua origine e il suo senso. Il male che colpisce lo spirito linguistico, vale a dire lo spirito tout court, consiste dunque esattamente nell'idea che il male esista, che sia qualcosa di consistente e affermativo, di originario e scaturiente da Dio: il male al contrario non esiste, è_ un miraggio, l'illusione prodotta dalla forma stessa del giudizio, dalla nostra perversa volontà di giudicare e giudicando distinguere ciò che è_bene e ciò che è male4.
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Cfr. W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini, tr. it. di R. Solmi in Id., Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, voi. I delle Opere di Walter Benjamin a cura di Giorgio Agamben, Einaudi, Torino 1982, p. 189. Su questo testo benjaminiano e sulle questioni che pone rinvio ai miei La lingua muta e altri saggi benjaminiani, Filema, Napoli 2000, soprattutto pp. 11-34 e Walter Benjamin e la moralità del moderno, Guida, Napoli 1984, pp. 215-304. IO
La molteplicità e la confusione delle lingue raccontate dal mito di Babele, effetto a loro volta del peccato di volersi assimilare a Dio e frutto conseguente della sua punizione, potrebbero derivare allora da questo tentativo, sempre più frenetico proprio perché improduttivo e inutile, di pervenire ad un concetto affermativo e positivo del 1nale: lo scacco, invece di spingere alla rinuncia del progetto, centuplica lo sforzo, aumenta a dismisura la pletora linguistica, differenzia all'infinito i lessici e le grammatiche, gli idiomi e le parlate, facendo sprofondare sempre più l'intera sfera della lingua e della sua capacità espressiva nell'abisso della disperazione e dell'insensatezza. Le lingue diventano apparati giudiziari e le parole sentenze e1nesse a conclusione di un processo: attraverso il linguaggio i soggetti vengono inc'hiodati ai predicati, schiacciati su di essi, condannati a coincidere col contenuto significativo sancito nella e dalla proposizione. Utilizzando il termine kierkegaardiano 'ciarla' per denotare la realtà dello spirito linguistico nella situazione prodotta dal peccato, Benjamin sembra anticipare ciò che più tardi verrà chiamato la 'banalità del male', cioè l'acquisizione che, lungi dal richiedere un atteggiamento eroico caratterizzato dal possesso di una coscienza lucida e di una volontà di ferro, il male abbia bisogno, a fargli da terreno di coltura, di Il
una specie di 'distrazione ai limiti del frivolo e di un rassicurante conform1,1no: per commetterlo, si potrebbe dire, non c'è nemmeno bisogno di esercitare la violenza, basta il chiacchiericcio quotidiano, il normale scambio delle informazioni, la parola detta così tanto per dire. Torneremo più avanti su questo tema della banalità del male. Preme adesso stabilire il ruolo e il compito che, nella situazione dello spirito linguistico inaugurata dal peccato, Benjamin attribuisce alla traduzione. Per farlo tuttavia è necessario ricordare che anche prima del peccato alla traduzione era accordato un posto preminente nella teoria linguistica di Benjamin cosicché la traduzione in senso stretto, la traduzione inter-linguistica, veniva fondata su quella che, per usare la tripartizione di Roman Jakobson 5, definiremo la traduzione inter-semiotica, in cui cioè si tratta di passare da un medium espressivo ad un altro: come scrive esplicitamente Benjamin, ponendo il rapporto fra i due tipi di traduzioni, prima e dopo il peccato, "la lingua delle cose può passare nella lingua della conoscenza 5
Che distingue tre tipi di traduzione, quella infra-linguistica, quella inter-linguistica e quella appunto inter-semiotica: cfr. R. Jakobson, Aspetti lin3uistici della traduzione, tr. it. di L. Heilmann e L. Grassi, in Id., Sa33i di lin3uistica 3enerale, Feltrinelli, Milano 1966, p. 57. 12
e del no1ne solo in traduzione: e tante traduzioni, tante lingue, non appena l'uomo sia caduto dallo stato paradisiaco che conosceva una lingua sola" 6 . Prima del peccato Adamo parla e traduce, anzi per lui parlare, ossia nominare ad alta voce le cose che gli si presentano portando iscritto il segno che fa da traccia della loro originaria consistenza ontologica, del loro essere state create dalla parola divina, non è altro che tradurre, trasferire e metaforizzare le cose dal registro del muto e del visivo in quello del sonoro e dell'acustico. Quando Benjamin sostiene che la lingua di Adamo è l'unica lingua non vuol dire con questo che non vi sono altre lingue - parla infatti di una lingua creativa di Dio e di una lingua muta delle cose -, ma che nel paradiso si dà una sola lingua sonora, la lingua di Adamo fatta di puri nomi, la cui necessità, si potrebbe, dire onto-teo-logica, viene da Benjamin individuata nel fatto che attraverso la traduzione dal muto nel sonoro le cose passano da una condizione in cui erano senza nome ad una in cui sono nominate per cui possono solo adesso essere letteralmente 'chiamate' alla redenzione. La chiamata, l'appello, sono sempre singolari; bisogna di conseguenza avere un no1ne, un non1e 6
W. Benjamin, Sulla linBua in Benerale e sulla linBua deBli uomini, cit., p. 188. 13
propno e non un nome comune, un nome e non un significato logico, per sperare di non restare fuori dall'apocatastasi finale, vale a dire dalla redenzione. Se questo è il significato della traduzione prima del peccato, se cioè alla traduzione si attribuisce un tenore etico visto che le si accorda un ruolo decisivo nell'economia della salvezza, esso non potrà che restare il medesimo anche in seguito, dopo la caduta. Semmai aggravato e complicato dal fatto che con l'avvento del peccato la lingua sonora si è moltiplicata, pluralizzata e disseminata: nella realtà attuale del peccato se la traduzione intende continuare a perseguire il suo compito primario, vale a dire quello di nominare il senza nome perché venga in tal modo reso disponibile per la redenzione, essa deve preliminarmente disossare il terre;no dalla presenza dei significati che 1nimano e scimmiottano fino all'indiscernibilità quella dei nomi. Perché questo è l'effetto del peccato: scambiare generalità logiche per nomi, predicati verbali per appelli, giudizi per chiamate e, vera resa al nichilismo, fare co1ne se della redenzione non ne fosse più nulla proprio perché già del tutto data, compiuta e quindi già archiviata e classificata fra le cose indifferenti o inutili. Nella traduzione da una lingua sonora all'altra in cui, come dice Benjamin, più importante di tradurre l'inteso, cioè il significato, è tradurre il 1nodo 14
dell'intendere, vale a dire la forma e il suono che hanno le parole, non si tratta allora di slegare la lingua dal dominio dei significati e quindi dal Inandato del coinunicare e dell'infonnare, perché ricuperi, in una modalità necessariamente indiretta e simbolica, il suo originario statuto di una lingua puraInente noininale, purainente vocativa e dunque prossima, benché in una posizione infinitamente subordinata, alla lingua attraverso la quale Dio aveva creato il Inondo? Con la teoria benjaininiana della traduzione ci fermiamo qui salvo a riservarci la possibilità di ritornarvi quando ci avvieremo alla con cl usi o ne; lo scopo che ci prefiggevamo con il chiamarla in causa sembra raggiunto: come il perdono slega l'agente dal suo atto, così la traduzione slega la lingua dall'obbligo di coinunicare il significato, perdona cioè lo,spirito linguistico dal peccato . . . 1n CUI era incorso.
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Il perdono traduce la giustizia Ripartiamo da Ricoeur e dalla sua tesi del perdono come separazione completa e senza resti dell'agente dal suo atto: su di essa, come Ricoeur sa bene, pesa un'obiezione che, se lasciata senza una risposta adeguata, finirebbe per renderla totalmente priva di senso. Se il perdono consiste nello slegare l'agente dal suo atto, non si rischia in tal modo di perdonare non il colpevole ma un altro? Una volta infatti che sia stato dissociato dal suo atto, l'agente cessa di essere l'agente esclusivo di quell'atto per divenire un altro agente o comunque un agente capace di altri atti non malvagi; egli quindi non è più o non è solo la persona che si è resa responsabile di quell'azione cattiva, è anche un altro ed è a quest'altro, che lui è o può d'ora in avanti diventare, che si perdona: dov'è allora il colpevole? Nel mo1nento stesso in cui rivendica o gli viene concessa la possibilità di pentirsi del suo atto, non diventa un soggetto perdonabile prima ancora che qualcuno lo perdoni, il suo pentimento non diventa la condizione preliminare e preventiva del perdono? Ma così facendo non si è cancellato esattamente il carattere iperbolico e contraddittorio del perdono secondo il quale ha senso perdonare solo se ciò che si perdona è imperdonabile? Come scrive Derrida - l'autore dell'obiezione cui Ricoeur tenta di rispondere -, si 16
può ancora parlare di perdono nel caso in cui il perdono venga condizionato dal fatto "che il colpevole si penta, faccia ammenda, chieda perdono e sia dunque cambiato da un impegno nuovo, e da quel momento non sia più affatto lo stesso che si è reso colpevole" 7? Ovviamente no! Perché si dia perdono "bisogna al contrario perdonare e la colpa e il colpevole in quanto tali, laddove l'uno e l'altro restano, irreversibilmente come il male, co1ne il male stesso, e sarebbero ancora capaci di ripetersi, imperdonabilmente, senza trasformazione, senza miglioramento, senza pentimento né promessa" 8. Il vero perdono, un perdono degno di questo nome, è senza condizioni, perdona cioè l'imperdonabile. In altri termini, il perdono è folle, partecipa della blanchotiana follia dell'impossibile, senza che ciò lo squalifichi o lo escluda dal J:?.OVero delle imprese possibili, delle scelte etiche e politiche: anzi, può concludere Derrida, esso è forse "la sola cosa che veramente accade, che sorprende, come una rivoluzione, il corso ordinario della storia, della politica e del diritto" 9. 7
J. Derrida, "Le Siècle et le Pardon", in Le Monde des débats,
9, dicembre 1999, ora in Id., Poi et Savoir, Seui!, Paris 2000, p. 111, tr. it. vedi qui p. 71. Per il richiamo di Ricoeur: P. Ricoeur, La mémoire, l'histoire, l'oubli, cit., p. 638, ed. it. p. 697. 8 Ibid., p. 71. 9 Ibid., p. 75. 17
Se negli ultimi anni il raggio d'azione del gesto del perd0no ha subito un'estensione senza precedenti, tracimando la sfera della morale intima e privata per invadere il campo delle istituzioni eticopolitiche in cui prende formala vita delle comunità storiche; se, in altri termini, dalla pratica generalizzata del perdono ci si attende__:_ e i lavori della com1nissione sudafricana per la verità e la riconciliazione ne sono l'esempio più vistoso - il superamento non violento di antichi odi e iniinicizie i1nme1noriali, una soluzione duratura e condivisa dei conflitti quasi se1npre drammatici da cui sono attraversate le società umane, l'invenzione insomma di forme nuove ed inaudite del nostro essere-insie1ne; allora - ed è la tesi su cui si attesta Derrida - il perdono deve evitare di confondersi con tutti quei dispositi- . vi, dall'ideale regolativo di stampo k'antiano alla ricomposizione dialettica di Hegel, che tendono a vedere o a ricostruire una trama continua laddove, co1ne nel caso di una rivoluzione appunto, si tratta invece di rendere discreta la serie degli eventi, rompendo il regi1ne di equivalenza e comparabilità che regola innanzitutto e per lo più gli scambi e le transazioni umane, scardinando il modello del tempo vuoto e omogeneo che uniforma il prima e il dopo, sfiduciando preventivamente, coine avrebbe detto Benjamin, qualunque forma di intesa e di compro18
1nesso fra le classi, tra i popoli e tra i singoli 10 . Da questo punto di vista subordinare il perdono al pentimento, approntando cioè per esso una condizione che lo renda possibile, meno sconvolgente sul piano psicologico e più facile da accordare su quello delle regole sociali, vuol dire cancellarne del tutto il carattere eversivo e di rottura e impedirgli di svolgere la funzione per la quale se ne evocava la necessità, quella di mettere la parola fine ad una storia segnata dal dolore e dalla violenza per inaugurarne un'altra totalmente diversa: se il perdono deve essere rivoluzionario, esso deve applicarsi a ciò cui è i1npossibile applicarlo, all'imperdonabile, o, come direbbe Jankélevitch, all'imprescrittibile. È proprio però a proposito dell'iinprescrittibile che il tema del perdono mostra di non poter essere sussunto senza qualche restrizione sotto la rubrica della legge incondizionata, dell'imperativo categorico, che suonerebbero in questo caso come un "Tu devi perdonare - l'imperdonabile", vale a dire si deve perdonare anche quando manchi il pentimento, anche quando non ci sia stata richiesta di perdono, anche quando il perdono venga rifiutato. Quando
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Cfr. W. Benja1nin, Il surrealismo, tr. it. di A. Marietti Solmi in Id., Ombre corte. Scritti 1928-1929, voi. ·V delle Opere di Walter Benjamin a cura di G. Agamben, Einaudi, Torino 1993, p. 267. 19
nel 1965 Jankélevitch si occupa, non certo per la prima volta 11 , ma sicuramente con un'intensità e una partecipazione prima assenti, del tema del perdono per opporsi con tutte le sue forze alla tesi della prescrittibilità dei crimini n~zisti, la sua posizione è netta e priva di tentennamenti:
Il perdono! - scrive nell' Imprescriptible - Ma ci hanno mai chiesto perdono? Soltanto la disperazione e la solitudine del colpevole darebbero un senso e una ragion d'essere al perdono. Quando il colpevole è grasso, ben nutrito, prospero, arricchito dal 'miracolo economico', il perdono è uno scherzo sinistro. No, il perdono non è fatto per i porci e per le loro scrofe. Il perdono è morto nei campi della morte. Il nostro orrore per ciò che l'intelletto non può essenzialmente concepire soffocherebbe la pietà fin dalla nascita. . . se l'imputato potes~e farci pietà. L'imputato non può giocare su tutti i tavoli allo stesso tempo: rimproverare alle vittime il loro risentimento, rivendicare per se stesso il patriottismo e le buone intenzio11
Un riferimento al perdono si trova già nel Trattato delle virtù pubblicato per la prima volta nel 1949 e successivamente ristampato con aggiunte e rifacimenti in cui comunque si può trovare scritto: "Il perdono perdona insieme benché e perché, e al tempo stesso non perdona né perché né benché; e d'altra parte queste due verità sono al tempo stesso vere e false", cfr. V. Jankélevitch, Trattato delle virtù, tr. it. parziale di E. Klersy Imberciadori, Garzanti, Milano 1987, p. 52. 20
ni, pretendere il perdono. B1sognerrbbe scegliere 1 Bisognerebbe, per pretendere il perdono, dichiararsi colpevole, senza riserve né circostanze attenuanti 12 • Ma nemmeno due anni dopo in un saggio in cui, come egli stesso dice nell'avvertenza scritta nel 1971 per la ristampa dell'intervento del '65, la risposta alla domanda 'Bisogna perdonare?' sembra contraddire quella data precedentemente 13 e l'etica del perdono che vi viene teorizzata assume le sembian1 . ze di un'etica iperbolica, vale a dire incondizionata: Jankélevitch mostra di aver mutato veramente atteggiamento. Nonostante il fatto che nell'ultimo capitolo del saggio dedicato al tema dell'imperdonabile, in una ripresa del testo precedente che appare quasi come un'autocitazione, Jankélevitch faccia cadere il riferimento alla morte del perdono nei campi della morte, aprendo in tal modo uno spiraglio alla possibilità che siano perdonati anche i crimini nazisti, tuttavia una condizione per concedere il perdono è egualmente posta. Non è sufficiente che ripeta sia nel libro sul perdono sia nell'avvertenza di qualche anno dopo, con parole anche que12
V. Jankélevitch, L'imprescriptible, Seui!, Paris 1986, pp. 5051, tr. it. parziale di D. Vogelmann in Id., Perdonare?, Giuntina, Firenze 1987, p. 40. 13 Ibid., pp. 14-15, tr. it. p. 10. 21
sta volta quasi identiche, che in fin dei conti il male· e il perdono si equivalgono, che essi sono egualmente forti, e che di conseguenza ad un male estremo e radicale può seguire un perdono altrettanto impensabile e abissale 14 : anche in questo caso il perdono non può essere del tutto incondizionato.
Il perdono - scrive Jankélevitch - non conosce l'impossibilità; e tuttavia non abbiamo detto ancora la prima condizione senza la quale i1perdono sarebbe privo di senso. Questa condizione elementare è data dallo sconforto, dall'insonnia e dallo stato di abbandono del colpevole; e ancorché non sia chi perdona a porre lui stesso questa condizione, essa è tuttavia ciò senza cui l'intera problematica del perdono diventerebbe una semplice buffonata. A ciascuno il suo lavoro: al criminale il rimorso disperato, alla sua vittima il perdono, Ma la vittima non si pentirà al posto del colpevole: è necessario che il colpevole lavori se stesso; bisogna che il criminale si redima da solo. Quanto al nostro perdono non è affar suo; è affare dell'offeso. Il pentimento de 1criminale, e soprattutto il suo rimorso danno essi soli un senso al perdono, nello stesso modo con cui solo la disperazione dà un senso alla grazia. A che pro la grazia se il 'disperato' ha buona coscienza e buona cera? Il perdono non è destinato alle buone coscienze contente di sé, né ai colpevoll impeni14
Ibid. e V. Jankélevitch, Le pardon, Aubier-Montaigne, Paris 1967, p. 213.
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tenti che dormono e di&eriscono bene; quando li colpevole è Brasso, ben nutrito, j1orido, arricchito dal miracolo economico, il perdono è uno scherzo sinistro. No, il perdono non è fatto per questo; li perdono non è fatto per i porci e per le loro scrofe. Prima che possa essere questione di perdono, occorrerebbe in primo luo&o che il colpevole, invece di contestare, si riconoscesse colpevole, senza arrin&he difensive né circostanze attenuanti, e soprattutto senza accusare le proprie vittime: è il minimo' Perché noi perdonassimo, bisoBnerebbe prima di tutto, non è vero? che ci si domandi perdono. Ci hanno mai chiesto perdono? 15 • Le oscillazioni di Jankélevitch sul teina del perdono, l'andirivieni fra la tesi dell'incondizionatezza del perdono e quella della necessità di una condizione, non vanno ascritti ad un limite del pensatore francese, ma ad una difficoltà che attiene all' esperienza stessa del perdono. Da ciò quindi si deduce che la contraddittorietà da cui sembra affetto il concetto del perdono non è spuria e derivata, 1na al contrario essenziale e originaria: in altri termini è proprio il concetto del perdono, cioè il· nucleo di pensabilità del perdono in quanto tale ad essere contraddittorio. Pensare il perdono vuol dire allora pensarlo come il luogo in se stesso impossibile in cui si incontrano e convergono note e qualità tutte 15
V. Jankélevitch, Le pardon, cit., pp. 204-205.
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essenziali nonostante o a causa della loro contraddittorietà. Il dispositivo per pensare il perdono e quindi per tematizzarlo è quello della diairesi platonica, dei 'dissoi logoi' sofistici o, per citare lo stesso Derrida, della double séance, un dispositivo cioè che ci permetta di pensare fin dentro la scomparsa stessa del pensiero, fino ai limiti dell'impensabilità il carattere doppio del perdono, la sua contraddittorietà, infine il suo carattere impossibile. Se si volesse provare a formalizzare questa duplicità strutturale del perdono niente, ci sembra, eguaglierebbe queste parole di Derrida pronunciate nel dicembre del 1998 in occasione del XXXVII colloquio degli intellettuali ebrei di lingua francese dedicato al tema generale del 'vivere-insieme' e delle sue condizioni e ricondotto da Derrida alla questione specifica della riso-: luzione del conflitto israeliano-palestinese, al sogno o all'utopia, all'impensabilità di un vivere-insieme di ebrei e palestinesi 16: Da una parte non dovrebbe esserci perdono se non sotto la forma del dono sratuito, incondizionato, libero, 16
Su cui varrebbe la pena di rileggere le parole di Franç:ois Chatelet scritte nel novmbre del 1983 circa un anno dopo i massacri di Sabra e Chatila: F. Chatelet, Riflessioni su un 'ipotesi: «la Grande Palestina», tr. it. di A. Moscati in G. Deleuze, Grandezza di Jasser Arafat, Cronopio, Napoli 2002. 24
infinito e unilaterale, senza circolo economico di reciprocità - vale a dire anche là dove l'altro non espii, non si penta, dunque anche se il 'vivere-insieme' non s'iscriva in un orizzonte di riconciliazione, di riparazione, di 3uari3ione, d'indennizzo e di redenzione. Un perdono incondizionato è un'iniziativa assoluta che non dovrebbe motivare alcun calcolo, anche se fosse sublime e spirituale. Ma d'altra parte la stessa tradizione ci ricorda, in modo questa volta prevalente, dominante, e3emonico, che il perdono non può essere accordato che in modo condizionato, là dove ci sia riconoscimento della colpa, confessione, pentimento, ritorno sul passato, trasformazione presente o avvenire, perdono domandato 17 . Quest'aporia strutturale del perdono discende, d'altra parte, dalla sua stessa storia: per quanto enigmatico possa essere il concetto del perdono, non c'è dubbio tuttavia che esso appartenga ad una eredità religiosa molto precisa e detenninata, vale a dire a quella abramica in cui convergono le tre religioni monoteistiche, ebraismo, cristianesimo e islam. D'altra parte è altrettanto certo che oggi questa tradizione, già in se stessa complessa, differenziata e conflittuale, subisca, come sempre d'al17
J. Der:rida, Avouer - l'impossible: «Retours», repentir et Réconciliation, in AA. VV., Comment vivre ensemblel, Albin Miche!, Paris 2001, p. 207. In questo saggio Derrida riprende anche tutta la questione così come era stata posta da Jankélevitch.
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tronde, un processo di universalizzazione tale da aver fatto diventare il discorso sul perdono l'idioma dominante del diritto, della politica, dell'economia e della diplomazia anche di società come il Giappone e la Corea il cui linguaggio religioso più diffuso è totalmente estraneo a quello abramico, professando esse religioni spesso politeiste se non addirittura atee. Se "il proliferare di queste scene di pentimento e di richiesta di 'perdono' significa probabilmente un'urgenza universale della memoria" che costringe comunità storiche molto diverse fra di loro non solo ad interrogarsi sul proprio passato, ma anche e soprattutto a spingere al di là di una semplice istanza giuridica o comunque iscrivibile nei confini dello Stato-nazione questo "atto di memoria, d'autoaccusa, di 'pentimento' e di comparsa in giudizio" 18 , ciò non toglie tuttavia che il perdono·domandato e concesso e il pentimento richiesto e accettato non possano, al di là di tutte le buone intenzioni o forse proprio a causa di esse, servire surrettiziamente ad imporre una nuova forma di dominio, a sancire una diversa gerarchia sociale, religiosa, culturale e politica, a legittimare una norma giuridica ed una compagine statale diverse dalle precedenti ma egualmente autoritarie e normalizzanti. 18
J. Derrida, Le Siècle et le Pardon, cit., pp. 104-105, tr. it. ve-
di qui p. 61.
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Di fronte a questi fenomeni di universalizzazione di una singolarità o, se si vuole, di globalizzazione del locale, bisognerebbe sempre chiedersi se ci si trovi davanti all'annessione da parte di una singolarità empirica di altre singolarità diverse e talvolta conflittuali che finiscono per uniformarsi e omologarsi a quella che risulta dominante, o all'invenzione di un piano d'immanenza, per dirla con Deleuze, che muta in una meta1norfosi assoluta e radicale anche il punto singolare a partire dal quale esso si era sviluppato. Così a proposito del perdono noi dovremmo domandarci se "la mon,dializzazione della confessione ( atto che nel cristianesimo soprattutto precede di fatto e di diritto la richiesta e la concessione del perdono) coincide con un divenirplanetario del concetto abramico o più specificamente cristiano del perdono, o al contrario rappresenta una mutazione inedita attraverso la quale accade qualcosa d'inatteso, vale a dire di minacciante nei confronti di questa stessa tradizione" 19 • In altri termini, come è da discutere se la globalizzazione del capitalismo si risolva in una estensione illimitata della sua forma di dominio o nel principio della sua dissoluzione, così appare indecidibile - se non 19
J. Derrida, Avouer -
l'impossible: «Retours», repentir et Réconci-
liation, cit., p. 208. 27
con un colpo di mano, con l'appello all'impossibile appunto - stabilire se la generalizzazione del perdono rappresenti una riduzione di tutto ciò che--'--- religioni, culture e tradizioni - non partecipa del contesto abramico al dominio imperialistico del cristianesimo o al contrario, rivolgendosi contro la propria stessa provenienza, non ne contesti gli aspetti più normalizzanti e costrittivi. Ogni volta, aggiunge Derrida, che "il perdono è al servizio di una finalità, fosse anche nobile e spirituale (riscatto o redenzione, riconciliazione, salvezza), ogni volta che tende a ristabilire una normalità (sociale, nazionale, politica, psicologica) attraverso il lavoro del lutto, attraverso qualche terapia o ecologia della memoria, allora il 'perdono' non è puro - né lo è il suo concetto. Il perdono ;non è, non dovrebbe essere né normale, né normativo, né normalizzante. Dovrebbe restare eccezionale e straordinario, a prova dell'impossibile" 20 • Ciò che con questo tipo di argomentazioni Derrida vuole prendere di mira è la possibilità, sempre in agguato e in una certa misura ineliminabile, che il 'vivere-insieme' di cui siamo in cerca e di cui il perdono dovrebbe e potrebbe essere uno dei principi costituenti rischi di ridursi 20
J. Derrida, Le Siècle et le Pardon, cit., pp.
di qui p. 65.
28
107-108, tr. it. ve-
alla riaffennazione di un'identità, un'identità che anche se fosse la più larga possibile e la più includente, sarebbe comunque comandata dal criterio dell'assimilazione e dell'omologazione del diverso e dell'estraneo. Lungi dal permettere o dal favorire, fino all'imposizione soffice o violenta, l'identificazione, lungi dal ritenersi pienamente fondato solo quando si possa dire 'noi', fosse pure questo 'noi' coincidente con l'intero genere umano (non ne resterebbero fuori gli animali, le piante e le cose inanimate e tutti quegli 'umani' che per una ragione qualunque sono periodicamente dichiarati decaduti dalla condizione umana?), il 'vivere insieme' deve supporre e conservare come sua stessa condizione la possibilità di una "separazione singolare, segreta, inviolabile, quella secondo la quale solamente si accorda, nell'ospitalità, ,uno straniero a uno straniero"21. Bisogna riconoscere "che non si vive insieme che con e come uno straniero, uno straniero 'a casa propria (chez soi)', secondo tutte le figure dell"a casa propria', che non c'è 'vivere insieme' che laddove l'insieme non si formi (forme) e non si chiuda (ferme), laddove il vivere insieme (avverbio) contesti la com-
21
J. Derrida, Avouer- l'impossible: «Retours», repentir et Réconci-
liation, cit., p. 196. Su questo punto rinvio al mio La comunità e l'invenzione, Cronopio, Napoli 2001. 29
pletezza, la chiusura e la coesione di un 'insieme' (il nome, il sostantivo), di un insieme sostanziale, chiuso, identico a sé; riconoscere che non c'è vivere insieme che laddove, in nome della pr0messa e della memoria, del messianico e del lutto senza lavoro né guarigione, esso accolga la dissimmetria, l'anacronia, la non reciprocità con un altro più grande, insieme più vecchio e più giovane di lui, un altro che viene o che forse verrà, che forse è già venuto" 22 . La preoccupazione che il 'vivere insieme' possa per l'ennesima volta assimilare l'altro a noi spiega la diffidenza di Derrida nei confronti della subordinazione del perdono al pentimento: chiedendo all'altro di pentirsi o, ed è la stessa cosa, pretendendo che chieda perdono a noi o alle vittime nel cui nome noi parliamo, chiediamo e diamo il perdono, assimilandoci surrettiziamente ad esse o assimilando loro a noi, non abbiamo cancellato la realtà e l'alterità del colpevole e reso il perdono non solo perfetta1nente insignificante, ma addirittura utile per rafforzare la nostra identità e rinvigorire il nostro senso di superiorità? In una conferenza risalente anch'essa al 1998 Derrida ha affrontato questo punto attraverso una lettura del Mercante di Venezia shakespeariano in cui ha intrecciato il teina del perdono
22
30
Ibid., pp. 196-197.
con quello della traduzione 23 • Di fronte ad un pubblico di professionisti della traduzione Derrida pone la questione di come si riconosca una traduzione 'rilevante (relevante)', vale a dire una buona traduzione, una traduzione "che fa ciò che ci si aspetta da essa, insomma una versione che si sdebita della sua missione, onora il suo debito, e fa il suo lavoro o il suo dovere inscrivendo nella lingua d'arrivo l'equivalente più relevant di un originale, il linguaggio più giusto, appropriato, pertinente, adeguato, opportu-
Cfr. J. Derrida, Qu'est-ce qu'une traduction «relevante»?, in «L'Herne», Derrida, Édition de l'Herne, 2001, pp. 561-575, tr. it. di J. Ponzio in Athanor, 2, X, nuova serie, 1999-2000, pp. 25-45. La conferenza, la cui versione francese è stata pubblicata praticamente a ridosso della morte di Derrida, ma che era già da qualche anno disponipile in una traduzione italiana, fu pronunciata come relazione di apertura ad un convegno di traduttori sulla traduzione che si svolse a Parigi nel dicembre del 1998, nello stesso mese cioè in cui si tenne quello sulle condizioni del 'vivere insieme'. Nello stesso numero de l'Herne (pp. 541-560) è stata pubblicata una conferenza dal titolo Pardonner: I' impardonnable et I' imprescriptible tenuta da Derrida in varie università tra il 1997 e il 1998 e che corrisponde alle prime due sedute del seminario su 'spergiuro e perdono' condotto da Derrida per vari anni ali' École des Hautes Etudes en Sciences Socia/es nell'ambito del seminario più generale 'Questioni di responsabilità'. Di questa conferenza esiste una traduzione italiana di Laura Odello pubblicata nel 2004 da Raffaello Cortina editore. 23
31
no, acuto, univoco, idiomatico, ecc. "24 . Ma è poi vero che una traduzione sia 'rilevante' in questo senso oppure quest'economia del 'più' - la traduzione più giusta, più esatta, più corrispondente all'originale, anche dal punto di vista quantitativo - non costringe ogni traduzione ad essere nello stesso tempo traditrice, inesatta, bastarda e quindi, se non sempre irrilevante, 'rilevante' in un altro modo, secondo un'altra lettura di ciò che è rilevante in una traduzione e in generale? Per affrontare questo punto Derrida stesso ricorda che con il termine francese 'relève' aveva tradotto quasi trent'anni fa il tedesco Aujhebung che, come è ben noto, ha un ruolo rilevante nel pensiero hegeliano, indicando la struttura concettuale del processo dello spirito, vale a dire il modo specifico del movimento dialettico-negativo che è quello del superare conservando 25 • Una traduzione rilevante
24
Ibid., pp. 563, tr. it. pp. 27-28. Lo aveva fatto nella conferenza al CollèBe de France tenuta nell'ambito del Séminaire di Jean Hippolite e dedicata all'analisi del segno in Hegel - "Le Puits et la pyramide. Introduction à la sémiologie de Hegel", poi pubblicata in MarBes de la philosophie, Minuit, Pa:ris 1972. Questa traduzione è poi divenuta quasi canonica in Francia. Ovviamente se si cerca in un dizionario italo-francese (e la cosa non cambia anche se si consulta direttamente il Petit Robert) il corrispondente francese dell'italiano 'ri25
32
non è dunque semplicemente quella che resta più fedele, ma quella che, proprio perché vuole essere fedele, è costretta a sollevare o togliere 26 l'originale dalla lingua di partenza e a restituirlo in quella d'arrivo conservato ma anche superato, 1nantenuto ma ai limiti dell'irriconoscibilità: è una traduzione che tende soprattutto a rispettare il senso dell'originale, ad evocarne lo spirito, piuttosto che a replicarne la lettera, anche se questo comportasse lo stravolgimento del suo significato logico-semantico, l'abbandono, come avrebbe detto Benjamin, del suo lato più strettamente co1nunicativo. Proviamo allora a pensare, come c'invita a fare Shakespeare, al perdono come ad una traduzione, in particolare alla traduzione del rigore della giustizia e del diritto nella forza soverchiante della carità,
levante' si trovano nell'ordine i vocaboli 'considérable, in1portant, marquant, différenciatif ma non relevant: Derrida sa bene che relevant, di filiazione latina e attualmente in corso specialmente nella lingua inglese, non è proprjo della lingua francese ma è solo in via di francesizzazione. E quindi suo il passaggio o salto dal verbo relever e il sostantivo relevé all'aggettivo relevant e infine alla relève: un vertiginoso intreccio di lingue scambiate fra di loro da una serie di traduzioni 'rilevanti'. 26 Sarebbe importante riscostruire la storia delle traduzioni italiane 'rilevanti' del!' Aujheben dall'originario 'togliere', conio del tollere latino cui Hegel stesso avvicinava il termine tedesco, al più recente 'rimuovere'. 33
e poniamoci il problema di come tradurre il verso che pronuncia Porzia quando, travestita da avvocato, difende Antonio dalla richiesta di Shylock, legittima secondo il diritto e la giustizia, che gli venga pagata la penale prevista dal contratto e che consiste, come è noto, nella libbra di carne che egli può prelevare, co1ne e dove vuole, dal corpo del mercante. Il primo gesto di Porzia consiste, una volta riconosciuto che Shylock ha ragione dal punto di vista della legge, nel chiedergli o piuttosto imporgli di essere clemente, vale a dire perdonare Antonio e scioglierlo dal debito. "Then must the Jew be merciful", "Allora l'ebreo dev'essere clemente" - come recita la traduzione italiana di Sergio Perosa -, dichiara; ma di fronte al più che previsto rifiuto di quest'ultimo -"On what compulsion must n Tell me that", "E chi mi costringe ad esserlo? Ditemelo" -, Porzia si lancia in un elogio della clemenza e del perdono che, alla stregua di una battaglia o come in questo caso di un'arringa, lasceranno sul terreno solo il corpo sconfitto dell'ebreo. Shylock ha ragione: nessuno può forzarlo ad essere clemente. La clemenza infatti non s'impone, ma come una pioggerella scende inattesa dal cielo a fecondare i campi. Il perdono, glossa Derrida ( o aggiunge una se1nplice nota di traduzione?), "non si co1nanda, è libero, gratuito. Esso cade, co.me la grazia, dal cielo, come 34
una dolce pioggia. Non è program1nabile, calcolabile; giunge e non giunge; ma è una buona pioggia, una dolce pioggia; il perdono non si co1nanda, non si calcola, è estraneo al calcolo, all'economia, alla transazione e alla legge" 27 . La cle1nenza, prosegue Porzia, è due volte benedetta, per chi dà e per chi riceve; essa è più potente nei potenti ('"Tis mightiest in the mightiest") e si addice al monarca ben più della corona. Se lo scettro indica il pòtere temporale del re, la clemenza risulta superiore a questo potere, occupa il cuore del re e rende quest'ultimo simile a Dio. La grazia perdonante, continua a tradurre Derrida (anche il commento, l'interpretazione, la decostruzione, sono delle traduzioni 'rilevanti'), è "l'onnipotenza dell'onnipotenza, la onnipotenza nella onnipotenza o l'onnipotente fra tutti gli onnipotenti, la grandezza assoluta, la potenza assoluta nella potenza assoluta, il superlativo iperbolico della potenza". Ma questa potenza elevata all'ennesima potenza non potrebbe essere anche e allo stesso tempo una potenza "più alta de la potenza e più che potenza, al di là dell'onnipotenza" 28 ? In altri termini questo pote-
•
27
J. Derrida, Qu'est-ce qu'une traductlon «relevante»?, cit., p. 570-
571, tr. it. p. 38. · 28 Ibid., p. 571, tr. it. p. 39. Sul tema della potenza si veda35
re che va al di là del potere, che infrange il potere, è ancora un potere? L'esperienza del perdono è ancora un'esperienza del poter-perdonare, continua ad iscriversi nella cerchia dell"io-posso' o la eccede ed eccede l'intera sfera del possibile? E se il perdono è un di più rispetto al possibile non sconfinerà nell'impossibile? C'è sempre un di più - più potere e più che potere - che è anche il di più con cui si scontra ogni traduzione: usare più parole dell'originale, dire di più di quel che dice, dirlo meglio, e dicendo di più tradirlo, superarlo senza però distruggerlo, conservarlo insomma ma negato, sollevato dal suo ruolo e dalle sue mansioni, rimosso o memorizzato ma alla maniera dei defunti. Giungiamo così al verso decisivo del testo shakespeariano: il momento, dice Porzia, in cui il potere terreno assomiglia di più a quello di Dio si dà "when mercy seasons justice", "quando clemenza tempera giustizia." Come tradurre il verbo 'to season' che significa nell'ordine 'insaporire', 'stagionare' e 'temperare'? La traduzione francese citata da Derrida rende 'seasons' con 'tiempère'. Al suo posto Derrida propone una traduzione insieme rilevante e non rilevante, una traduzione che renderà, resti-
no i saggi contenuti in De Carolis, Fusillo, Russo, Zanardi, Sullq potenza. Da Aristate.le a Nietzsche, Guida, Napoli 1989.
36
tuirà, l'originale, ma che, fedele allo statuto e al compito della traduzione, lo tradirà, ne dirà di più e di 1neno allo stesso tempo, ne interrerà il corpo sensibile per eternarne lo spirito immortale. Derrida traduce 'seasons' con 'relève' e rende quindi il verso inglese in questo modo: "quand le pardon relève la justice ( ou le droit)", "quando il perdono rileva la giustizia ( o il diritto)." Se questa traduzione ha qualche punto a suo favore è perché essa traduce, cioè porta ad espressione, lo strano potere del perdono che è quello di superare la giustizia, vale a dire di sostituire un potere più grande, che tende a sconfinare nel non potere, nell'impotenza e nell'impossibile, al semplice potere della legge e del diritto e allo stesso tempo di far sopravvivere quest'ultimo ma appunto come tolto, ridotto allo stato di uno spettro, di un fantasma che continua ad abitare la cerchia dei beati e dei redenti. Tenendo conto che per Hegel il movimento verso la filosofia e il sapere assoluto come verità della religione cristiana passa per l'esperienza del perdono, che esso è quel movimento attraverso cui "lo Spirito, perdonando il Male, si spoglia con ciò della sua propria semplicità e dura immutabilità" 29 e si apre alla conoscenza
29
Cfr. G. F. W. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. di V. Cicero, Rusconi, Milano 1995, p. 1029. Per il riferimento di 37
di sé co111e a quella del lega111e del legame e del non legan1e, co111e alla fonna più alta del 'vivere-insien1e'. la traduzione di 'seasons' con 'relève' rende in un colpo solo la sostanziale transustanziazione del perdono e della traduzione: entrambi sono traduzioni dell' Aufl1ehen, della memoria luttuosa dello spirito. Con o senza riconciliazione, con o senza guarigione, riaffermando o destituendo il potere del cri-· stianesimo rispetto all'ebraismo e in generale a tutte le altre forme della religiosità? Come sempre la risposta è duplice: se, come scrive Derrida, la rilevanza e il rivelamento, cioè l'Aujhebu113, di una 'traduzione, o anche ciò che si potrebbe chiamare il suo prezzo, quel che acquista e quel che cede, "è sempre ciò che si chiama il senso, cioè il valore, la guardia, la verità co111e guardia (Wahrheit, bewahren) o il valore del senso, cioè ciò che, liberandosi del corpo, si eleva al di sopra di esso, lo interiorizza, lo spiritualizza, lo salvaguardia nella memoria", e se questo valore del valore salvaguardato "nasce dall'esperienza luttuosa della traduzione", allora è proprio perché si è opposto "a questa trascrizione, a questa transazione che è una traduzione, a questo rilevaDerrida al passo hegeliano della Fenomenolosia cfr. J. Derrida, Qu'est-ce qu'une traduction «relevante»?, cit. p. 573, tr. it. p. 42.
38
1nento", che "Shylock si è consegnato, mani e piedi legati, ai colpi della strategia cristiana" 30 . In altri termini, la sconfitta di Shylock, il fatto che perda i suoi averi e sia costretto per aver salva la vita a convertirsi al cristianesimo, non dipendono forse dal suo rifiuto di rinunciare al corpo della legge, alla sua 'dura immutabilità', al suo diniego della sopravvivenza fantasmatica? E d'altro canto la proposta di Porzia non er_a di quelle del tipo 'o la borsa o la vita' in cui, comunque si scelga, si sceglie male, perché si tratta in fondo di una falsa alternativa fra un divenir cristiano con le buone o un divenir cristiano con le cattive e perché il risultato è lo stesso in ogni caso: non essere più ebreo, nemmeno da morto. O ancora: chiedendo perdono e chiedendo che si chieda perdono il cristianesimo accetta di divenire anch'esso fantasmatico, aprendosi in tal modo verso un 'vivere-insieme' privo di identità e di appartenenza, oppure s'i1npone, come l'occidente capitalistico e borghese, a tutto il mondo, assimilandolo e cancellandone la diversità e la specificità? Forse è di questo modo di chiedere perdono che il papa o chi per lui dovrebbe chiedere perdono.
30
J.
Derripa, Qu'est-ce qu'une traduction .:relevante»?, cit., pp. 574-575, tr. it. p. 44.
39
Il male estremo e la redenzione Per rispondere all'obiezione di Derrida, Ricoeur ricorre, se così si può dire, a un doppio spostamento: fa slittare, da un lato, il discorso del perdono dal livello della responsabilità morale del colpevole alla natura del male in quanto tale e, dall'altro, trasferisce la filosofia dell'atto dall'ambito di un'analisi dei poteri a disposizione del soggetto, dalla sfera dell' • 'io posso', nello spazio dell'ontologia fondamentale aristotelica che, a differenza di quella sostanzialistica che ha imperversato fino a Kant, anche se con qualche considerevole eccezione, tratta l'essere in modo polisemico e distingue di conseguenza fra un essere in atto e un essere in potenza. Se· il perdono consiste nella capacità di slegare l'agente dal suo atto e allo stesso tempo deve restare perdono dell'imperdonabile, occorre che la differenza sia portata preliminarmente all'interno del male e che sia possibile distinguere nell'azione colpevole la potenza dall'atto. Rifacendosi al Kant della Religione nei limiti della semplice ragione Ricouer nota che "per quanto radicale sia il male - ed esso lo è in effetti come massima di tutte le 1nassi1ne malvagie-, non è originario. Radicale è 'l'inclinazione (Hang)' al male, originaria è la 'disposizione (Anlage)' al bene" 31 . Per cui se 31
40
P. Ricoeur, La mémoire, l'histoire, l'oubli, cit., pp, 639-640,
su questa posizione kantiana s'innesta la differenza fra potenza e atto e si fanno coincidere la disposizione originaria al bene con l'essere in potenza e la radicale inclinazione al 1nale con l'essere in atto, se ne otterrà che il perdono, slegando l'agente dal suo atto, non abolirà la colpa ma ripristinerà soltanto la potenza, reintegrerà l'agente nella sua originaria e mai perduta disposizione al bene. Non indagheremo ulterionnente sulla sostenibilità storiografica e teorica di questa lettura del pensiero kantiano 32 : come si era già accennato quel che è rilevante è che la questione del perdono spinga quasi inevitabilmente nella direzione di una revisione del problema del male radicale, in altri tennini nell'abbandono della tesi di una originaria consistenza ontologica del male e nel passaggio a quella della sua 'banalità'. Abbiamo usato non a caso quest'espressione resa celebre dalla riflessione di Hannah Arendt: proprio il pensiero di quest'ulti1na è la
ed. it. p. 699. Per il riferimento di Ricoeur a Kant cfr. I. Kant, La reliBione nei limiti della semplice raBione, tr. it. a cura di C. Riconda, in Id., Scritti di filosofia della reliBione, Mursia, Milano 1989, pp. 77-92. 32 Su questo punto si veda la puntuale ricostruzione di Richard J. Bernstein in Il male radicale. Kant in Buerra con se stesso, tr. it. di P. Vereni in M. P. Lara (a cura di), Ripensare,il male. Prospettive contemporanee, Meltemi, Roma 2003, pp. 97-155. 41
di1nostrazione nuda e cruda di come un certo lavoro sul concetto del male comporti quasi necessaria1nente la sua trasformazione e apra se non direttamente nella direzione del perdono almeno in quella della problematizzazione di una risposta al male estremo che si avvalga dei soli strumenti del diritto e della legge. All'epoca de Le oriBini del totalitarismo la posizione è, proprio come accadrà più tardi per Jankélevitch, netta:
È la comparsa del male radicale - scrive Hannah Arendt -, precedentemente sconosciuto, che pone fine alle evoluzioni e al trasformarsi di qualità. Qui non ci sono criteri politici, storici, o semplicemente morali, ma tutt'al più la constatazione che nella politica moderna è in Bioco qualcosa che non dovrebbe mai rientrare nella. politica, come noi usiamo intenderla, che essa è al bivio fra tutto e niente: tutto, un'indeterminata infinità di forme di convivenza umana, o niente, la distruzione dell'uomo in seBuito alla vittoria del sistema dei campi di concentramento, una distruzione altrettanto inesorabile di quella che l 'impieBo della bomba all 'idroBeno riserverebbe alla razza umana. Non ci sono paralleli con la vita dei campi di c9ncentramento. Il suo orrore non può mai essere percepito dall'immaBinazione, perché rimane al di fuori della vita e della morte. Esso non può mai essere pienamente descritto, perché il superstite ritorna nel mondo dei vivi che 42
gli impedisce di credere completamente nelle sue esperienze passate. È come se egli avesse da raccontare la storia di un altro pianeta, perché &li internati sono simili a individui mai nati nel mondo dei vivi, dove nessuno presumihilmente dovrebbe sap'ere se essi sono ancora in vita o già morti33 . Fa sen1pre bene al cuore, quando si leggono prese di posizione sullo sterminio perpetrato dai nazisti scritte, co1ne questa della Arendt, Ìln1nediatamente a ridosso della fine della seconda guerra mondiale, notare la sovranità e l'indipendenza del giudizio etico-politico con cui si riconosce l'assoluta novità dell'evento storico, la sua unicità, l'impossibilità di qualsiasi parallelismo con altri fatti sia passati che contemporanei. In momenti in cui un revisionismo non soltanto di destra, facendosi scudo ' delle esigenze della conoscenza storica, stabilisce la comparabilità assoluta degli accadimenti, sottoponendo i fatti storici al criterio dello scambio equivalente e delle transazioni commerciali - tutti i campi si equivalgono, quelli nazisti e quelli staliniani, la violenza subita si trasforma senza resti in violenza data come per gli ebrei divenuti israeliani -, è im-
33
H. Arendt, Le ori3ini del totalitarismo (1951), tr. it. di A. t.uadagnin, Comunità, Milano 1967, pp. 607-608.
43
portante ribadire, non che lo sterminio nazista sia stato un hapax storico, ma che la storia non è fatta che di eventi unici e monadici, di Jetztzeiten, di tempi-adesso, come avrebbe detto Benjamin, che, saltando fuori dal continuo storico-temporale da cui pure derivano sul piano della connessione causale, lo interrompono e lo annichiliscono e che quando si relazionano fra loro lo fanno, non in nome di un'astratta generalità, ma secondo la logica della differenza e della ripetizione 34 • La comparabilità e l'equivalenza assoluta degli eventi hanno come effetto quello di espellere dall'orizzonte della storia, determinandone in tal 1nodo l'inintelligibilità, esatta1nente l'impossibile che, nel caso specifico, si presenta sotto l'aspetto dell'infra e del sovra-storico, ivi compresa l'eventualità che la storia, così come ha avuto un inizio, abbia anche una fine 35 . E .dal mo-
34
Su questi temi rinvio ai miei Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz, Quodlibet, Macerata 2006, passim, e "L'eccedenza del presente. Sulla metodologia storiografica di Walter Benjamin", in I.a linBua muta e altri saBBi benjaminiani, cit., 187-237. Su questo punto si veda F. Chatelet, La nascita della storia, tr. it. di M. Spinella, Dedalo, Bari 1974. Sul concetto di 'fine della storia' rinvio al mio "La scena del presente. 'Storiéls1no' e 'fine della storia' in Michel Foucault", in G. Cantillo, F. C. Papparo (a cura di), GenealoBia dell'umano, SaBBi in onore di Aldo Masullo, Guida, Napoli 2000, pp. 365-397.
ff.·
mento che l'impossibile è la condizione, si potrebbe dire trascendentale, del perdono, negare che esso si presenti nella storia, significa fare di quest'ultima una cupa sequenze di rivalse, un'illimitata serie di vendette, senza che mai un 'vivere-insieme' senza appartenenza e senza identità sopraggiunga per sospenderla, per mettervi la parola fine. Basta al contrario che l'impossibile, sotto la forma del male radicale, faccia la sua comparsa nella considerazione storica perchè il tema del perdono s'imponga alla riflessione etico-politica anche se, almeno dal principio, nella forma della ripulsa e del diniego. Come accade alla Arendt quando, proseguendo il ragionamento già citato, aggiunge:
Quando l'impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato coi malvagi motivi dell'interesse egoistico, dell'avidità, dell'invidia, del risentimento, della smania di potere, della vigliaccheria; e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l'amicizia perdonare, la legge punire. Come le vittime delle fabbriche della morte o degli antri dell'oblio non sono più 'umane' agli occhi dei loro carnefici, così questa nuova specie di criminali sono al di là persino della solidarietà derivante dalla consapevolezza della peccabilità umana. 45
È conforme alla nostra tradizione filosofica non poter concepire un "male radicale", e ciò vale tanto per la teologia cristiana, che ha concesso persino al demonio un'origine celeste, quanto per Kant, l'unico filosofo che, nella terminologia da lui coniata, deve avere perlomeno sospettato l'esistenza di questo male, benché l'abbia immediatamente razionalizzato nel concetto di malvolere pervertito, spiegabile con motivi intelligibili. Quindi non abbiamo nulla a cui ricorrere per comprendere un fenomeno che ci sta di fronte con la sua mostruosa realtà e demolisce tutti i criteri di giudizio da noi conosciuti. Un'unica cosa sembra certa: possiamo dire che il male radicale è comparso nel contesto di un sistema in cui tutti gli uomi-. ni sono diventati egualmente superflui "36 . Ma dopo il processo a Adolf Eichmann per la Arendt cambia tutto 37 : in risposta 'ad una lettera di
36
H. Arendt, Le orisini del totalitarismo, cit. pp. 628-629. Sul rapporto della Arendt con il pensiero di Kant si veda H. E. Allison, Riflessioni sulla banalità del male (radicale). Un'analisi kantiana, tr. it. in M. P. Lara ( a cura di), Ripensare il male. Prospettive contemporanee, cit., pp. 156-180. 37 La valutazione del processo e gli effetti che provoca sulla riflessione della Arendt sono documentati nell'ormai celebre, H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), tr. it. di P. Bernardini, Feltrinelli, Milano 1992. Per una ricostruzione delle controversie suscitate dagli articoli della Arendt durante il processo si veda E. Young-Hruehl. 1-lannah ;
46
Gershom Scholem in cui si criticavano la sua opposizione al sionismo e la sua tesi sulla banalità del male, la Arendt riconosce esplicitamente di aver cambiato idea e aggiunge:
Quel che penso ora veramente è che il male non è mai 'radicale', ma soltanto estremo, e che non posse33a né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fun30. Esso 'sfida', come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di ra33iun3ere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua 'banalità'. Solo il bene è profondo e può essere radicale38. Ontologicamente 'retrocesso da 'radicale' a 'banale' e da 'originario' a 'estremo', il 1nale non cessa
Arendt. Una biowafia, tr. it. di D. Mezzacapa, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 374-428. 38 Cfr. H. Arendt, Ebraismo e modernità, tr. it. di G. Bettini, Unicopli, Milano 1986, p. 227; per la lettera di Schole1n, ibid., pp. 215-221. Sul passaggio arendtiano dalla 'radicalità' alla banalità' del male si veda E. Vollrath, Dal male radicale alla banalità del male. Riflessioni su un'idea di Hannah Arendt, tr. it. di E. Donaggio in E. Donaggio, D. Scalzo ( a cura di), Sul male. A partire da Hannah Arendt, Meltemi, Roma 2003, pp. 123-132.
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di essere per questo lo scoglio contro cui s'infrange l'onda della storia. Esso non perde né in intensità né in estensione: qualificarlo col predicato della 'ba-: nalità' non vuol dire renderlo più blando, più comprensibile e più giustificabile. Resta sempre vero che per toglierlo vale solo il colpo di mano del perdono, di questa giustizia impossibile o divina che è sempre di più di ogni giustizia umana. Soccorre questo assunto anche la provenienza etimologica: 'banalità' e 'banale' ( come del resto gli omologhi del tedesco, del francese e dell'inglese) discendono da 'Ban' termine francone che, designando la convocazione dei vassalli da parte del signore feudale, valeva come un ordine o un divieto. 'Ban' designava anche il territorio sottomesso alla giurisdizione del signore e da qui deriva l'aggettivo 'banal' usato per denotare una persona o cosa appartenenti a una circoscrizione signorile. Caduto il sistema feudale 'banal' passa a significare 'comunale' e infine in senso figurato 'comune, senza originalità, banale'. 'Banale' quindi è qualcuno che non è il signore originario e legittimo di un dato territorio, qualcuno il cui possesso è al contrario derivato e temporaneo, qualcuno di conseguenza che non appartiene originariamente al territorio, che non ha lì le sue radici, che è spurio. Ma che in quel territorio, comportandosi da esercito invasore, può abbandonarsi alla devastazio48
ne e ai peggiori crimini, a tal punto da poterne alla fine anche essere bandito - da 'ban' viene anche 'bando', 'bandire' ecc. E se la 1nessa a bando, co1ne ha mostrato Agamben 39 , rinvia ancora ad un esercizio di sovranità, implica un potere del diritto e della legge, ci si potrebbe abbandonare, per compiere l'opera di bonificazione, a quel più-che-potere che è il perdono. Non possediamo prove di un'influenza diretta del benjaminiano saggio sulla lingua su queste tesi arendtiane intorno alla banalità del male. Tuttavia la somiglianza è sorprendente: come per Benjamin anche per la Arendt il male è nulla, è un miraggio ontologico, è quel nulla che si spaccia per essere. Il pensiero u1nano è dal suo canto affennativo, ha di mira l'essere, rende al concetto solo ciò che è radicato. Di conseguenza posto davanti al male il pensiero cede e si sgomenta, la sfida che il male ogni volta gli lancia gli appare una sfida impossibile e infernale: come afferrare ciò che non è, ciò che è solo ombra e fantasma? All'altezza del saggio sulla lingua Benja1nin aveva indicato una possibile risposta: la traduzione era uno dei modi per perdonare lo
39
Cfr. G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995, soprattutto pp. 116-123. 49
spirito linguistico del suo peccato originale, per abbandonare-bandire l'illusione che il linguaggio fosse destinato alla comunicazione dei contenuti logico-semantici e per ripristinare il potere originariamente espressivo della lingua. Tutto questo è interamente presupposto nel saggio più tardo - scritto infatti nel '21 ma pubblicato nel 1923 - dedicato esplicitamente alla traduzione la cui tesi principale consiste nell'escludere che il compito del traduttore possa essere quello di approntare un equivalente abbastanza preciso dell'originale in modo da renderlo comprensibile nel suo significato a quei lettori che tuttora subiscono gli effetti di Babele. Come "nessuna poesia è rivolta al lettore, nessun quadro allo spettatore, nessuna sinfonia agli ascoltatori", così una traduzione non si rivolge "ai lettori che non comprendono l'originale." L'essenziale in una. traduzione, aggiunge Benjamin, "non è comunicazione, non è testimonianza" e quella traduzione "che volesse trasmettere e mediare non potrebbe mediare che la comunicazione - e cioè qualcosa di inessenziale" 40 .
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W. Benjamin, Il compito del traduttore, tr. it. di R. Solmi in Id., Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, vol. II delle Opere di Walter Benjamtn a cura di G. Agan1ben, Einaudi, Torino .1982, p. 157. 50
Una tale noncuranza nei confronti delle esigenze del lettore non è tuttavia un tratto peculiare della traduzione: essa discende in linea retta dall'originale. È quest'ultimo infatti ad ignorare l'intenzione del comunicare: come già si è visto ogni lingua umana, adamitica e non, mira a portare all'espressione un inespresso, a tradurre cioè dal muto nel sonoro, dal visivo nell'acustico, per permetterne la 'vocazione' e quindi la salvezza. Per cui alla traduzione in senso stretto spetta il compito di ripristinare la potenza espressiva dell'originale seppellita sotto strati sempre più spessi di atti linguistici volti alla comunicazione e all'informazione. Per Benjamin, che in questo segue Kant, quando si tratta di pensare è buona regola abbandonare ogni rispetto umano e rinunciare a cred~re che le cose siano fatte per rispondere agli interessi umani, troppo umani, cui solitamente si connettono. Nel caso della traduzione questa presa di posizione generale si traduce nell'articolazione della domanda sull'essenza della traduzione quando essa sia posta nei termini della traducibilità di un'opera. Co1ne se1npre la questione si divide e si pone in due n1odi: il prin10 di tipo proble1natico riguarda il fatto se l'opera in questione troverà rnai, nella totalità dei suoi lettori, una traduzione adeguata, è una do1nanda e1npirica e fattuale; il secondo, apodittico, si chiede invece se l' o51
pera implichi nella sua essenza una traduzione e quindi la esiga, è una domanda d'essenza o trascendentale. Da ciò discende un criterio di giudizio che fa tabula rasa delle discussioni sui meriti e demeriti delle traduzioni, sulla loro correttezza e sulla loro 'rilevanza': giacché il problema non è se una traduzione sia buona o cattiva, ma se era richiesta dall'originale. Il fatto che un'opera sia molto tradotta, in più lingue o più volte nella stessa lingua, non significa che la traduzione appartenga alla sua essenza e all'inverso che un'opera non sia mai tradotta non toglie che. la traduzione le sia consustanziale per e dal principio. Il punto è che per Benjamin certi concetti di relazione, quelli cioè che implicano la costituzione di un legame intrinseco, essenziale, fra entità diverse come appunto quello dell'originale e della sua traduzione o quello del desiderio e della sua realizzazione, "conservano tutto il loro significato, anzi forse il loro significato migliore, se non sono riferiti a priori esclusivamente all'uomo. Così si potrebbe parlare di una vita o di un istante indimenticabile, anche se tutti gli uomini li avessero dimenticati. Poiché se la loro essenza esigesse di non essere dimenticati, quel predicato non conterrebbe nulla di falso, ma solo un'esigenza a cui gli uomini non còrrispondono, e insieme il rinvio a una sfera in cui 52
fosse corrisposta: a un ricordo di Dio" 11 . In altri termini: che una richiesta di risarcimento per un torto subito non trovi riscontro nel corso di una vita, che un desiderio non giunga a compimento, che un istante di vita, indimenticabile nonostante il suo carattere effimero e caduco, non riesca a ripetersi indefinitamente, non vuol dire che la relazione ai predicati della giustizia, della beatitudine e dell'eternità non appartenga all'essenza di tutti quei soggetti. Perché un giorno la loro essenza si dispieghi integralmente e giunga tutta intera all'effettualità, occorre che essi sopravvivano ai colpi e alle omissioni che la storia gli infligge, che un di più di vita - o di morte - li mantenga pronti per l'arrivo della redenzione. La traduzione, per Benjamin, come la filosofia, la critica letteraria, la conoscenza storica e finanche la politica, è ,una delle fonne della sopravvivenza della vita che solo al modo di uno spettro può sperare di sconfiggere l'apparenza ingannevole del male. Per tutto questo la vita deve accedere, esattamente come la traduzione, alla logica del 'più': deve essere più vita e più-che-vita. Ma il più-che-vita è ciò che chiamiamo storia: "È solo quando si riconosce vita a tutto ciò di cui si dà storia e che non è solo 41
lbid., p. 158. 53
lo scenario di essa, che si rende giustizia al concetto di vita. Poiché è in base alla storia, e non alla natura, per tacere di una natura così incerta come il sentire o l'anima, che va determinato, in ultima istanza, l'ambito della vita" 42 . Tradurre allora significa trasferire la vita dalla natura alla storia, ma ciò vuol dire anche che la finalità della vita, il suo desiderio e la sua domanda,' non sono né vivere né incrementare la vita, ma portare ad espressione la propria essenza. C'è un rapporto intrinseco fra storia e tr\lduzione: quest'ultima rende storica la vita, ma la storia è la sua condizione di possibilità. È perché l'originale era già storico, già disposto alla sopravvivenza, che. una traduzione è possibile ed è solo la traduzione che introduce l'originale alla sopravvivenza storica. Questo ennesimo paradosso dimostra soltanto che anche la storia è duplice, che nella storia convivono e si scontrano più tempi: quello continuo della causalità, quello discreto della ripetizione, quello omogeneo e vuoto e quello carico di tempi-adesso, quello irreversibile che scorre e quello che si interrompe nel presente, quello della vita e quello della sopravvivenza, quello della rivalsa e quello del perdono. Ch.e cos'è il perdono se non un po' di tempo
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Ibid., p. 159.
in più, un tempo in più per far evaporare la vendetta, un tempo in più perché il male sia sconfitto? C'è un testo di Benjamin mai pubblicato in vita, quindi sopravvissuto, scritto nel '21 e coevo di quello - Per la critica della violenza - dedicato alla giustizia il cui teina è il rapporto fra la dimensione del tempo e quella della moralità: lo citiamo in conclusione senza accompagnarlo con nessun commento, cioè senza tradurlo, perché faccia da sigillo e da pegno, da chiusura e apertura allo stesso tempo, marchio di qualità che legittima il già detto e garanzia che ipoteca argomentazioni future, in bilico fra vecchie e nuove traduzioni, fra antichi e avveniristici perdoni: Nelle istituzioni del diritto che consentono di stabilire fatto e giudizio in relaz(one ad epoche che risalgono a molto tempo addietro è uso vedere null'altro che le intenzioni della morale stessa pervenute alla loro massima pregnanza. Ciò che conferisce al diritto questo interesse e questo potere su cose trascorse da gran tempo - ben lungi dal rappresentare in esso la presenza della morale - è però una tendenza che lo delimita nel modo più esatto rispetto al mondo morale: quella alla rivalsa. Se nel diritto moderno la rivalsa - come se avesse ritegno a spingersi oltre l'arco di una vita d'uomo - si limita, persino nel caso estremo del'assassinio, ad un lasso di tempo di trent'anni, di una generazione, è però noto dalle antiche forme di diritto che questo potere di rivalsa aveva facoltà 55
di spinBersi fino alla sequenza delle Beneraziom ulteriori. La rivalsa, in fondo, si pone con sovrana indifferenza in rapporto al tempo, nella misura in cui rimane in viBore non sminuita attraverso i secoli e ancor OBBi un'idea, propriamente paBana, ridimensionerà il Biudizio finale in questo senso: come la scadenza nella quale si pone termine ad oBni differire e si dà adito all'irruzione di OBni rivalsa. Solo che questo pensiero, che si beffa del differire come di un vuoto induBiare, non afferra quale incommensurabile siBnificato ha il Biorno del Biudizio, quel Biorno incessantemente spinto avanti, che dall'ora di oBni crimine così costantemente fuBBe nel futuro. Questo siBnificato non si schiude nel mondo del diritto, dove domina la rivalsa, ma solo là dove ad essa si fa incontro il perdono, nel mondo morale. Il perdono però, per combattere contro , la rivalsa, trova la sua poderosa strutturazione nel tempo. Infatti il tempo, nel quale Ate inseBue il malfattore, non è la solitaria bonaccia dell 'anBoscia, bensì la sonante bufera del perdono che precede muBBhiando il Biudizio sempre imminente, contro il quale non può nulla. Questa bufera non è soltanto il suono entro il quale svanisce il Brida d'anBoscia del malfattore, è anche la mano che cancella le tracce del suo (crimine), dovesse pure devastare per questo la terra. Come l'uraBano purificatore precorre la burrasca, così la collera di Dio muBBhia attraverso la storia nella bufera del perdono per spazzare via tutto ciò che dai fulmini del maltempo divino dovrebbe essere incenerito per sempre. Quanto è detto in quest'immaBine deve lasciarsi coBliere chiaramente e distintamente in concetti: il siBnifi- · 56
cato del tempo nell'economia del mondo morale, nel quale esso non soltanto estin3ue le tracce del crimine, bensì, anche con la sua durata al di là di 03ni ricordare o dimenticare contribuisce in modo totalmente misterioso al perdono, benché mai alla riconciliazione 43 .
43
Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, pp. 281-282.
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JACQUES DERRIDA
Il secolo e il perdono Incontro pubblicato in "Le Monde des débats"
Da tre anni il perdono e il pentimento sono l'argomento del seminario di Jacques Derrida all 'École des hau tes études en °sciences sociales. Qual è il concetto del perdono? Da dove viene? È presente in tutte le culture? Può essere introdotto nel!'ordinamento giudiziario e in quello politico? E a quali condizioni? Chi lo concede e a chi? In nome di che cosa, in nome di chi? MICHEL WIEVI0RKA. Il suo seminario si occupa del problema del perdono. Fino a che pu'nto si può perdonare? Il perdono può essere collettivo, cioè politico e storico? JACQUES DERRIDA: In via di principio, non c'è limite al perdono, non c'è misura, né moderazione, né un "fino a che punto?". Ovviamente solo se ci si mette d'accordo sul senso "proprio" della parola. Cos'è che chiamiamo "perdono"? Che cosa richiede un "perdono"? Chi chiede, chi fa appello al perdono? Misurare un perdono è difficile quanto lo sono queste domande, per parecchie ragioni che proverò ora a definire. 59
1. In primo luogo perché, specialmente nel dibattito politico che ai nostri giorni riattiva e sposta la nozione, persiste in tutto il mondo un equivoco. Si confonde spesso, a volte volutamente, il perdono con temi vicini: la scusa, il rimpianto, l'amnistia, la prescrizione, ecc.; e alcuni di questi significati derivano dal diritto penale a cui il perdono, per princi.pio, dovrebbe restare eterogeneo e irriducibile. 2. Il concetto di perdono è enigmatico, eppure si tenta di adattarvi la scena, l'aspetto e il linguaggio che appartengono a un'eredità religiosa ( diciamo abramica, per comprendervi giudaismo, cristianesimi e islamismi). Questa tradizione - complessa e differenziata, se non conflittuale - è insieme singolare e in via di universalizzazione, per il fatto che mette in opera o in luce una sorta di teatro .del perdono. 3. Ora - e questa è una delle linee conduttrici del mio seminario sul perdono (e lo spergiuro)~, in questa mondializzazione, la dimensione stessa del perdono tende a cancellarsi, e con essa ogni misura, ogni limite concettuale. In tutte le scene di pentimento, di confessione, di perdono o di scuse che si moltiplicano sulla scena geopolitica a partire dal:.. l'ultima guerra, e in modo accelerato da qualche anno, si vedono non solo degli individui ma comunità intere, corporazioni professionali, rappresentanti delle gerarchie ecclesiastiche, sovrani e capi di 60
Stato chiedere "perdono". Lo fanno in un linguaggio abramico che non è (nel caso del Giappone o . della Corea, per esempio) quello dominante nella loro società ma che è già diventato l'idioma universale del diritto, della politica, dell'economia o della diplomazia: insieme un agente e un sintomo dell'internazionalizzazione. Il proliferare di queste scene di pentimento e di richiesta di "perdono" significa probabilmente un'ursenza universale della memoria: è necessario volgersi verso il passato; e l'atto di memoria, di auto-accusa, di "pentimento", di comparsa in giudizio, è necessario portarlo al di là dell'istanza giuridica e insieme al di là dell'istanza Stato-nazione. Ci chiediamo dunque che cosa accada a questo livello. Le piste sono numerose. Una di esse riporta regolarmente a una serie di eventi straordinari che, prima e durante la Seconda Guerra mondiale, hanno reso possibile o in ogni caso "autorizzato", con il Tribunale di Norimberga, l'istituzione internazionale di un concetto giuridico come quello di "crimine contro l'umanità". Ci fu in quella sede un evento "performativo" di una portata ancora difficile da interpretare. Anche se parole come "crimine contro l'umanità" circolano ora nel linguaggio corrente, quell'evento fu prodotto e autorizzato da una comunità internazionale in una configurazione e a una data precisa della sua storia. 61
Quell'evento s'intreccia ma non si confonde con la storia di un riaffermarsi dei diritti dell'uomo, di una· nuova Dichiarazione dei diritti dell'uomo. Questa sorta di mutazione ha creato lo spazio teatrale in cui si recita - sinceramente o meno - il grande perdono, la grande scena del penti1nento di cui ci occupia1no. Essa ha spesso i tratti, nella sua stessa teatralità, di una grande convulsione - dovrei forse dire di una compulsione frenetica? No perché risponde anche, fortunatamente, a un moto "buono". La simulazione, l'automatismo del rituale, l'ipocrisia, il calcolo o lo scimmiottamento però ne fanno spesso parte e si invitano da parassiti alla cerimonia della colpevolezza. Ecco un'umanità intera scossa da un movimento che si vorrebbe unanime; ecco un genere umano che all'improvviso pretenderebbe di accusarsi, pubblicamente e spettacolarmente, di tutti i crimini in realtà da lui commessi contro di sé, "contro l'umanità". Se si cominciasse infatti ad accusarsi, chiedendo perdono, di tutti i crimini contro l'umanità del passato, non èi -sarebbe più un solo innocente sulla Terra, e dunque più nessuno con la funzione di giudice o di arbitro. Siamo tutti eredi di persone o eventi segnati, in sé e in n1odo intimo e indelebile, da crimini contro l'umanità. A volte, alcuni di questi eventi, di questi omicidi di 1nassa, organizzati, crudeli, che possono essere stati rivoluzioni, grandi Rivoluzioni canoniche e 62
"legittime", furono gli stessi che consentirono l' emergere di concetti come i diritti dell'uomo o il crimine contro l'umanità. Che ci si veda un immenso progresso, un cambia1nen to storico o invece un concetto ancora oscuro nei suoi limiti, fragile nei suoi fondamenti ( e ci si può vedere insieme l'una e l'altra cosa e, quanto a me, propendo per questa visione), non si può negare questo fatto: il concetto di "crimine contro l'umanità" resta all'orizzonte di tutta le geopolitica del perdono, le fornisce discorso e legittimazione. Si prenda l'esempio sorprendente della Commissione verità e riconciliazione in SudAfrica. È un caso unico malgrado delle analogie, e solo delle analogie, con alcuni precedenti sudamericani, specialmente in Cile. Ebbene, ciò che ha dato la giustificazione ultima, la dichiarata legittimità a' questa commissione, è la definizione dell'Apartheid come "crimine contro l'umanità" da parte della comunità internazionale così come rappresentata all'ONU. La convulsione di cui dicevo prenderebbe oggi l'aspetto di una conversione, di una conversione di fatto e tendenzialmente universale, in via di mondializzazione. Se infatti, come credo, il concetto di crimine contro l'umanità è il capo d'accusa di questa auto-accusa, di questo pentimento con richiesta di perdono; se d'altra parte solo una sacralità dell'u63
mano può, in ultima istanza, giustificare il concetto (in questa logica niente è peggio di un crimine contro l'umanità dell'uo1no e contro i diritti dell'uomo); se dunque un crimine contro l'umanità è un crimine contro quanto c'è di più sacro nel vivente, e perciò contro il divino nell'uomo, nel Dio-fattouomo o nell'uomo-fatto-Dio-da-Dio (la morte dell'uomo e la morte di Qio rivelerebbero qui lo stesso crimine), allora la "1nondializzazione" del perdono rassomiglia a un'immensa scena di confessione in atto, e dunque a una convulsione-conversioneconfessione virtualmente cristiana, un processo di cristianizzazione che non ha più bisogno della Chiesa cristiana. Se, come suggerivo poco fa, questo linguaggio incrocia e accumula in sé potenti tradizioni (la cultura "abramica" e l'umanesimo filosofico, più precisamente un cosmopolitismo nato anch'esso da un innesto di stoicismo e cristianesimo paolino), perché s'impone oggi a culture che non sono in origine né europee né "bibliche"? Penso a scene come quella in cui un primo ministro giapponese "chiese perdono" a coreani e cinesi per le violenze passate. Presentò certo le sue heartjelt apologies a titolo personale, innanzi tutto senza impegnare l'Jmpei:atore quale capo dello Stato, ma un primo ministro impegna sempre più che un privato cittadino. Ci sono stati di recente veri e propri negoziati sull'argomen64
to, questa volta stretti e ufficiali, tra i governi giapponese e sudcoreano. Si trattava di riparazioni e di un orientamento politico-economico diverso. Le trattative miravano, come è quasi se1npre il caso, a produrre una riconciliazione (nazionale o internazionale) propizia alla normalizzazione. Il linguaggio del perdono, al servizio di finalità determinate, era tutto tranne che puro e disinteressato. Co1ne sempre in ca1npo politico. Rischierò allora questa affermazione: ogni volta che il perdono è al servizio di una finalità, foss'anche nobile e spirituale (riscatto o redenzione, riconciliazione, salvezza), ogni volta che tende a ristabilire una normalità (sociale, nazionale, politica, psicologica) con il lavoro del lutto, con qualche terapia o ecologia della mernoria, allora il "perdono" non è puro, né lo è il suo concetto. Il perdono non è, non dovrebbe essere né normale, né normativo, né normalizzante. Dovrebbe restare eccezionale e straordinario, a prova dell'impossibile: come se interro1npesse il corso ordinario del tempo storico. Bisognerebbe dunque interrogare da questo punto di vista la e.cl. mondializzazione e quel che al trove 1 propongo di chiamare mondialatimzzazione, 1
Cfr. ). Derrida, Fede e sapere. le due fonti della 'rel(qione'. ai limiti della semplice ra31one, tr. it. di A. Arbo, in Annuario Filosofico Euro-
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per tenere in conto l'effetto di cristianità romana che surdetermina oggi tutto il linguaggio del diritto e della politica, e anche l'interpretazione del e.cl. "ritorno del religioso". Nessun preteso disinganno, nessuna secolarizzazione viene a interromperla, proprio il contrario. Per affrontare ora il concetto stesso di perdono, la logica e il. buonsenso si trovano per una volta in accordo con il paradosso: mi sembra che si debba partire dal fatto che c'è in realtà qualcosa d'imperdonabile. Non è forse questa la sola cosa da perdonare? La sola cosa che richieda il perdono? Se si fosse pronti a perdonare solo ciò che sembra perdonabile, quel che la Chiesa chiama "peccato veniale", svanirebbe l'idea stessa del perdono. Se_ c'è qualcosa da perdonare è ciò che nel linguaggio religioso viene detto peccato mortale, il peigiore, il crimine o il torto imperdonabile. Donde l'aporia che può essere descritta nella sua forma secca e implacabile, senza misericordia: il perdono perdona solo l'imperdonabile. Non si può, non si dovrebbe perdonare; se c'è perdono c'è solo dove c'è qualcosa d'imperdonabile. Il che vale a dire che il perdono deve presentarsi peo. La religione ( a cura di J. Derrida e G. V attimo), La terza, Roma-Bari 1995, pp. 32-35 e p. 47.
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come l'impossibile stesso. Può essere possibile solo per fare l'impossibile. In questo secolo infatti crin"1ini mostruosi ( dunque, iinperdonabili) sono stati non solo commessi - il che non è forse in sé tanto nuovo - ma sono divenuti visibili, noti, ricordati, nominati, archiviati da una "coscienza universale" più che mai informata; perché questi crimini insieme crudeli e di massa sembrano sfuggire ( o si è cercato di farli sfuggire), per il loro stesso eccesso, alla misura di ogni giustizia umana, l'appello al perdono s'è trovato per questo (per l'imperdonabilità stessa, dunque) riattivato, ri-motivato, accelerato. Quando nel 1964 fu approvata in Francia l'imprescrivibilità dei crimini contro l'u1nanità, si aprì un dibattito. Osservo di passaggio che il concetto giuridico di imprescrivibilità non è affatto equivalente al concetto non giuridico di imperdonabilità. Si può mantenere l'imprescrivibilità di un crimine, non 1nettere alcun limite alla durata dell'atto d'accusa o del possibile procedimento legale, e tuttavia perdonare il colpevole. Al contrario, si può assolvere o sospendere un giudizio e tuttavia rifiutare il perdono. Resta che la singolarità del concetto d'imprescrivibilità (in opposizione alla "prescrizione" che ha equivalenti in altri diritti occidentali, quello americano ad esempio) dipende forse dal fatto che ·introduce anche, come il perdono o co1ne l'imperdonabile, 67
una sorta di eternità o di trascendenza, l'orizzonte apocalittico di un giudizio finale: nel diritto e al di là del diritto, nella storia e al di là della storia. È un punto capitale e difficile. In un testo polemico giustamente intitolato L'imprescrivibile, Jankélévich dichiara che non è possibile perdonare dei crimini contro l'umanità, contro l'umanità dell'uomo: non contro dei "nemici" (politici, religiosi, ideologici), ma contro ciò che fa dell'uomo un uomo - cioè contro il potere stesso di perdonare. In modo analogo, Hegel, gran pensatore del "perdono" e della "riconciliazione", diceva che tutto è perdonabile eccetto il crimine contro lo spirito, cioè contro il potere riconciliatore del perdono. Poiché si tratta ovviamente della Shoah, Jankélévich insisteva soprattutto su un altro argomento, ai suoi occhi decisivo: ancor meno si pone il problema del perdono in questo caso, perché i criminali non hanno chiesto perdono. Non hanno riconosciuto la loro colpa e non hanno manifestato alcun pentimento. Questo è quanto sostiene, forse un po' frettolosamente, Jankélévich. Sarei tentato dal contestare questa logica condizionale dello scambio, questo presupposto così largamente diffuso secondo il quale si può prendere in considerazione il perdono solo se viene richiesto, in una scena di pentimento che attesti insieme la coscienza della colpa, la trasformazione del colpevole 68
e l'ilnpegno almeno implicito a fare di tutto per evitare il ritorno del male. È questa una transazione economica che conferma e insieme contraddice la tradizione abramica di cui abbiamo parlato. È importante analizzare a fondo, al cuore della tradizione, la tensione tra da un lato l'idea, che è anche un'esigenza, del perdono incondizionato, per grazia, infinito, aneconomico, concesso al colpevole in quanto colpevole, senza contropartita, anche a chi non si pente e non chiede perdono, e dall'altro, come testimoniato da numerosi testi, attraverso molte difficoltà e raffinatezze semantiche, un perdono condizionato, proporzionato al riconoscimento della colpa, al pentimento e alla trasformazione del peccatore che, in questo caso, chiede esplicitamente perdono. E così facendo non è più completamente il colpevole ma già un altro, migliore ciel colpevole. In questa misura e a questa condizione, non si perdona più a un colpevole in quanto tale. Un problema indissociabile da questo e che m'interessa altrettanto rigu;irda dunque l'essenza della tradizione. Che cosa si eredita dalla tradizione quando il retaggio comporta un'ingiunzione insieme doppia e contraddittoria? Un'ingiunzione che bisogna dunque riorientare, interpre-1'are attivamente, performativamente, ma di notte, come se dovessimo, senza norma né criteri prestabiliti, reinventare la memoria? 69
Malgrado la mia ammirazione e la mia simpatia per Jankélévich, e anche se comprendo ciò che ispira la collera del giusto, stento a seguirlo. Per esempio, quando moltiplica le imprecazioni contro la buona coscienza del "tedesco" o quando tuona contro il miracolo economico del marco e l'oscena prosperità della buona coscienza, ma soprattutto quando giustifica il rifiuto di perdonare con il fatto o piuttosto allegando il non pentimento. Egli dice insomma: "Se avessero co1ninciato, nel pentimento, a chiedere perdono, avremmo potuto prendere in considerazione l'accordarlo, ma non fu così". Mi costa molto seguirlo qui perché, in quello che lui stesso chiama un libro di filosofia, Le Pardon, pubblicato precedentemente, Jankélévich era stato più aperto all'idea di un perdono assoluto. Rivendicava allora un'ispirazione ebraiC'.a e soprattutto cristiana. Parlava anche di un imperativo d'amore e di un'"etica iperbolica": di un'etica dunque che si porta al di là delle leggi, delle norme o di un obbligo. Etica al di là dell'etica, ecco forse il luogo introvabile del perdono. Tuttavia, anche allora, e la contraddizione dunque resta, Jankélévich non arrivava ad ammettere un perdono incondizionato, che sarebbe quindi concesso anche a chi non lo chiede. Il nerbo dell'argomento, ne L'imprescriptible, e 70
neHa parte intitolata "Pardonned", sta nel fatto che la singolarità della Shoah raggiunge le dimensioni dell'inespiabile. Secondo Jankélévich, per l'inespiabile non ci sarebbe perdono possibile, né un perdono sensato, che abbia un senso. Infatti, l'assioma comune o dominante della tradizione, e ai miei occhi il più problematico, è che il perdono debba avere un senso. E questo senso dovrebbe determinarsi su sfondo di salvezza, di riconciliazione, di redenzione, di espiazione, direi addirittura di sacrificio. Per Jankélévich, quando non si può più punire il crìminale con una "punizione proporzionata al crimine" e che dunque la "punizione diviene quasi indifferente", si ha a che fare con "l'inespiabile" dice anche "l'irreparabile" (parola che Chirac ha utilizzato nella sua famosa dichiarazione sul crimine contro gli ebrei sotto il governo di Vichy: "La Francia, in quei giorni, compiva l'irreparabile"). Dall'inespiabile o dall'irreparabile Jankélévich passa all'imperdonabile. E all'imperdonabile, secondo lui, non si perdona. Non mi sembra che questo passaggio sia scontato; per quanto ho già detto ( che mai sarebbe un perdono che perdonasse solo il perdonabile?) e perché questa logica continua a implicare che il perdono sia correlativo di un giudizio e contropartita di una punizione, di un'espiazione possibile, dell"'espiabile" . • 71
Jankélévich sembra infatti ritenere come acquisite due cose ( come Arendt, per esempio, in Vita activa ): 1. il perdono deve restare una possibilità umana insisto su queste due parole e soprattutto su questo tratto antropologico che è decisivo (in fondo si tratterà sempre di sapere se il perdono è o no una possibilità, o una facoltà, dunque un "io posso" sovrano, e se è o no un potere umano); 2. questa possibilità umana è il correlativo della possibilità di punire, non di vendicarsi certamente •ché è altra cosa a cui il perdono è ancor più estraneo, ma di punire secondo la legge. "Il castigo", dice Arendt, "ha in comune con il perdono il tentativo di mettere fine a qualcosa che, se non si intervenisse, potrebbe continuare indefinitamente. È dunque assai significativo, è un elemento strutturale del campo delle vicende umane (lo sottolineo), che gli uomini sono incapaci di perdonare ciò che non possono punire e sono incapaci di punire ciò che si rivela imperdonabile" 2. Ne L'imprescrivibile e non ne Le Pardon, Jankélévich si pone dalla parte dello scambio, della simmetria tra punire e perdonare: il perdono non avrebbe più
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Cfr. H. Arendt, Vita activa, tr. it. di A. del Lago, Bompiani, Milano 1989, p. I78. 72
senso laddove il crimine è divenuto, come nel caso della Shoah, "inespiabile", "irreparabile", sproporzìonato a ogni misura umana. "Il perdono è morto nei campi di sterminio" egli dice. Ebbene sì, a meno che non divenga possibile proprio a partire dal momento in cui sembra impossibile; la sua storia comincerebbe proprio con l'imperdonabile. Non è in nome di un purismo etico o spirituale che insisto su questa contraddizione in seno alla tradizione e sulla necessità di continuare a fare riferimento a un perdono incondizionato e aneconomico, che sia al di là dello scambio e anche al di là dell'orizzonte di una redenzione o di una riconciliazione. Se dico: "Ti perdono a condizione che, chiedendo perdono, tu sia cambiato e non sia più lo stesso", ho forse perdonato? che cosa perdono e a chi? che cosa e chi? qualcosa o qualcuno? ,Una prima ambiguità sintattica peraltro su cui dovremmo già intrattenerci a lungo: tra domandare "chi?" e domandare "che?". Si perdona qualcosa, un crimine, una colpa, un torto cioè un atto o un momento che non esauriscono la persona incriminata e al limite non si confondono con il colpevole che resta quindi a esso irriducibile? O invece si perdona a qualcuno, in assoluto, senza segnare più il limite tra il torto, il momento della colpa, e la persona che si ritiene responsabile o colpe. vole? In quest'ultimo caso ( domandare "chi?"), si 73
chiede perdono alla vittima o a qualche testimone assoluto, a Dio, per esempio a quel Dio che ha prescritto di perdonare all'altro (uomo) per meritare di essere a propria volta perdonato? (La Chiesa francese ha chiesto perdono a Dio, non si è pentita direttamente o soltanto davanti agli uomini, o davanti alle vittime, per esempio la comunità ebraica, che ha solo chiamato come testimoni pubblici del perdono chiesto in realtà a Dio, ecc.). Devo lasciare aperti questi immensi problemi. Immaginate dunque che io perdoni a condizione che il colpevole si penta, faccia a1n1nenda, chieda perdono e sia dunque cambiato da un impegno nuovo, e che da quel momento non sia più affatto lo stesso che si è reso colpevole. In questo caso, si può ancora parlare di perdono? Sarebbe troppo facile da ambo le parti: si perdonerebbe qualcuno di diverso dal colpevole. Perché ci sia perdono non bisogna forse al contrario perdonare e la colpa e il colpevole in quanto tali, là dove l'una e l'altro restano, irreversibilmente come il male, come il male stesso, e sarebbero ancora capaci di ripetersi, imperdonabilmente, senza trasformazione, senza miglioramento, senza pentimento né promessa? Non bisogna forse sostenere che un perdono degno di questo nome, se mai ce ne fu uno, deve perdonare l'imperdonabile, e senza condizioni? e che l'incondiziona74
lità, come il suo contrario, cioè la condizione del perrtimento, è anch'essa iscritta nella "nostra" tradizione? anche ~ questa radicale purezza può sembrare eccessiva, iperbolica, folle? Se dico infatti, come penso, che il perdono è folle e che deve restare una follia dell'impossibile, non è certo per escluderlo o squalificarlo. È forse addirittura la sola cosa che veramente accade, che sorprende, come una rivoluzione, il corso ordinario della storia, della politica e del diritto. Ciò vuol dire infatti che resta eterogeneo all'ordine del politico o del giuridico come di solito li si intende. Non si potrà mai, nel senso comune delle parole, fondare una politica o un diritto sul perdono. In tutte le scene geopolitiche di cui parliamo, il più delle volte si abusa della parola "perdono". Si tratta infatti sempre di negoziati più o men0 espliciti, di transazioni calcolate, di condizioni e, co1ne direbbe Kant, di imperativi ipotetici. Certo, queste trattative possono sembrare onorevoli; per esempio in nome della "riconciliazione nazionale", espressione cui De Gaulle, Pompidou e Mitterrand hanno tutti e tre fatto ricorso nel momento in cui hanno ritenuto di dover assumere su di sé la responsabilità di cancellare debiti e crimini del passato, durante l'Occupazione o durante la guerra d'Algeria. In Francia, i massimi responsabili politici hanno regolarmente usato lo stesso lin75
guaggio: bisogna procedere alla riconciliazione e ricostituire così l'unità nazionale. È un leitmotiv della retorica di tutti i capi di stato e primi ministri francesi dalla Seconda Guerra mondiale, senza eccezioni. È stato, alla lettera, il linguaggio di quelli che, dopo il primo momento di epurazione, decisero la grande amnistia del 1951 per i crimini commessi durante l'Occupazione. Ho sentito una sera, in ùn documentario d'archivio, M. Cavaillet dire, cito a memoria, che, da parlamentare, aveva votato l'amnistia del 1951 perché bisognava, diceva, "saper dimenticare"; tanto più che, in quel momento, e Cavaillet vi insisteva pesantemente, il pericolo comunista era sentito come il più urgente. Bisognava far rientrare nella comunità nazionale tutti gli anticomunisti che, collaborazionisti pochi anni prima, rischiavano di trovarsi esclusi dal campo politico da una legge troppo severa e da un'epurazione che dimenticava troppo poco. Rifare l'unità nazionale voleva dire riarmarsi di tutte le forze disponibili in una lotta che continuava, questa volta in tempo di pace o di guerra c.d. fredda. C'è sempre un calcolo strategico e politico nel gesto generoso di chi offre la riconciliazione o l'amnistia, e bisogna sempre integrare questo calcolo nelle nostre analisi. "Riconciliazione nazionale" fu ancora, come ho detto, il linguaggio esplicito di De Gaulle quando tornò per 76
la pri1na volta a Vichy e vi pronunziò un famoso discorso sull'unità e l'unicità della Francia; fu identico il discorso di Pompidou che, in una famosa conferenza stampa, dopo aver concesso la grazia a Touvier, parlò anche di "riconciliazione nazionale" e di divisione superata; e fu ancora il linguaggio di Mitterrand quando sostenne, a più riprese, che era il garante dell'unità nazionale, e con molta precisione quando si rifiutò di dichiarare la colpevolezza della Francia sotto Vichy ( che definiva, come sapete, potere illegittimo o non-rappresentativo, fatto proprio da una minoranza di estremisti, mentre sappiamo che la cosa è più complessa e non soltanto dal punto di vista formale e legale, ma lasciamo correre). Al contrario, quando il corpo della nazione può sopportare senza rischio una divisione minore o anche rafforzare la propria unità con processi, aperture di archivi, "soppressione di rimozioni", allora altri calcoli dettano di lasciar spazio in modo più rigoroso e più pubblico al cosiddetto "dovere della ." memona. È sempre la stessa preoccupazione: fare in modo che la nazione sopravviva alle sue lacerazioni, che i traumi cedano al lavoro del lutto, e che lo Statonazione non sia afferrato dalla paralisi. Anche quando lo si potrebbe giustificare però, questo imperativo "ecologico" della salvezza sociale e politica 77
non ha niente a che vedere con il "perdono" di cui in questi casi si parla con troppa leggerezza. Il perdono non deriva, non dovrebbe mai derivare da una terapia della riconciliazione. Ritorniamo all' esempio notevole del SudAfrica. Ancora in prigione, Mandela ritenne di dover prendere lui stesso la decisione di negoziare una procedura d'amnistia. Innanzi tutto per consentire il ritorno degli esiliati dell' A.N.C., e in vista di una riconciliazione nazionale senza la quale il paese sarebbe stato messo a ferro e fuoco dalle vendette. Ma ancor più dell'assoluzione, del non luogo a procedere, o anche della "grazia" ( eccezione giuridico-politica di cui riparleremo), l'amnistia non significa perdono. Quando Desmond Tutu è stato nominato presidente della Commissione verità e riconciliazione ha cristi\lnizzato il linguaggio di un'istituzione destinata a trattare unicamente crimini a motivazione "politica" ( enorme problema che rinuncio ad accennare qui, come ri-nuncio ad analizzare la complessa struttura della suddetta commissione nei suoi rapporti con le altre istanze giudiziarie e con le procedure penali che avrebbero dovuto seguire il loro corso). Con molta buona volontà e altrettanta confusione, mi sembra, Tutu, arcivescovo anglicano, introduce il vocabolario del pentimento e del perdono. Ciò gli è stato rimproverato, insieme ad altro, da una parte non 78
cristiana della comunità nera. Per non parlare della temibile sfida posta dalle traduzioni, che qui posso solo evocare ma che, come lo stesso ricorso al linguaggio, concerne anche il secondo aspetto della sua domanda: la scena del perdono è un faccia a faccia personale o richiede invece una mediazione istituzionale? (E il linguaggio stesso, la lingua è qui una prima istituzione mediatrice). In principio dunque, sempre per seguire il filo della tradizione abramica, il perdono deve impegnare due singolarità: il colpevole (il perpetrator come si dice in SudAfrica) e la vittima. Non appena interviene un terzo, si può ancora parlare di amnistia, di riconciliazione, di riparazione, ecc., ma certamente non di perdono in senso stretto. Lo statuto della Commisione verità e riconciliazione è molto ambiguo su questo punto, come il discorso di Tutu che oscilla tra la logica non-penale e i'ion-riparatrice del "perdono" (la chiama "restauratrice") e la logica giudiziaria dell'amnistia. Si dovrebbe analizzare da vicino l'instabilità equivoca di tutte queste auto-interpretazioni. Favoriti dalla confusione tra l'ordine del perdono e l'ordine della giustizia, ma abusando anche della loro eterogeneità e del fatto che il tempo del perdono sfugge al processo giudiziario, si può sempre mimare la scena del perdono "immediato" e quasi automatico per sfuggire alla giustizia. La pos79
sibilità di questo calcolo resta sempre aperta e si potrebbero fare molti esempi, e contro-esempi. Tutu racconta così che un giorno una donn~ nera venne a testimoniare davanti alla Commissione. Suo marito era stato assassinato da poliziotti torturatori. Parla nella sua lingua, una delle undici ufficialnìente riconosciute dalla Costituzione. Tutu interpreta e traduce all'incirca così, nel suo idioma cristiano (anglo-anglicano): "Una commissione o un governo non può perdonare. Solo io eventualmente potrei farlo (And I am not ready to forgive). E non sono pronta a perdonare, o per perdonare". Parole assai difficili da intendere. La donna vittima, la moglie della vittima3 voleva certamente ricordare che il
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Ci sarebbe molto da dire qui sulle differenze sessuali, che si tratti di vittime o della loro testimonianza. Tutu racconta anche come delle donne abbiano perdonato in presen- · za dei carnefici. Antje Krog,.ìn un libro ammirevole, The Country of My Skull, descrive la situazione delle donne militanti che, violentate e inizialn1ente accusate dai carnefici di non essere delle n1ilitanti ma delle puttane, non potevano neanche rendere testimonianza di ciò davanti alla Commissione, né in famiglia, senza denudarsi, senza mostrare le loro cicatrici o senza esporsi ancora una volta, con la testimonianza stessa, a un'altra violenza. La "questione del perdono" non poteva neanche porsi pubblicamente per queste donne, alcune delle quali occupano ora alte responsabilità di Stato. Esiste in Sud Africa una Gender Commission per questi casi.
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corpo anonilno dello Stato o di un'istituzione pubblica non può perdonare. Non ne ha né il diritto, né il potere; e non avrebbe peraltro alcun senso. Il rappresentante dello Stato può giudicare, ma giusta1nente il perdono non ha niente a che vedere con il giudizio, né con lo spazio pubblico o politico. Anche se fosse "giusto", il perdono sarebbe giusto di una giustizia che non ha niente a che vedere con la giustizia giudiziaria, con il diritto. C'è il corso della giustizia per questo e il corso della giustizia non perdona mai, nel senso stretto del termine. La donna voleva forse suggerire qualcosa d'altro ancora: se c'è qualcuno che ha titolo a perdonare, questi è solo la vittima e non un'istituzione terza. D'altronde, 1nalgrado la sposa fosse anch'essa una vittilna, la vittima assoluta, se così si può dire, restava pur sempre suo marito morto. Solo il 1norto avrebbe potuto legittimamente pensare al perdono. La sopravvissuta non era pronta a sostituirsi abusivamente al morto. Immensa e dolorosa esperienza del sopravvissuto: chi mai ha il diritto di perdonare in nome delle vittime scomparse? sono sempre in qualche modo assenti. Essenzialmente scomparse, non sono mai del tutto presenti come tali, al momento della richiesta di perdono, quali furono al 1no1nento del crimine; sono talora assenti nel corpo, e spesso morte. 81
Ritorno un momento all'equivoco della tradizione. A volte il perdono ( accordato da Dio o ispirato dalle prescrizioni divine) deve essere una gentile concessione, senza scambio e senza condizioni; a volte richiede, come condizione minima, il pentimento e la trasformazione del peccatore. Che con. seguenze trarre da questa tensione? Almeno questa, che non semplifica le cose: se la nostra idea del perdono cade in rovina non appena la si priva del suo polo di riferimento assoluto, cioè della sua purezza incondizionata, resta tuttavia inseparabile da ciò che gli è eterogeneo, cioè l'ordine delle condizioni, il pentimento, la trasformazione, cose tutte che gli permettono d'iscriversi nella storia, nel diritto, nella politica, nell'esistenza stessa. Questi due poli, l'incondizionato e il condizionato, sono del tuno eterogenei e devono restare irriducibili l'uno all'altro. Sono tuttavia indissociabili: se si vuole, e lo si deve, che il perdono divenga effettivo, concreto, storico, se si vuole che accada, che abbia luogo e cambi le cose, è necessario che la sua purezza s'impegni in una serie di condizioni d'ogni tipo (psico-sociologiche, politiche, ecc.). Le decisioni e le responsabilità vanno assunte tra questi due poli, irriconciliabili ma indissociabili. Malgrado tutte le confusioni che riducono il perdono all'amnistia o all'amnesia, all'assoluzione o alla prescrizione, al lavoro del lutto o a una qualche te82
rapia politica di riconciliazione, in breve a qualche ecologia storica, non bisognerebbe tuttavia dimenticare mai che tutto ciò si riferisce a una certa idea del perdono puro e incondizionato senza la quale questo discorso non avrebbe il minimo senso. Complica la questione del senso anche quanto suggerivo poco fa: il perdono puro e incondizionato, per avere il suo proprio senso, non deve avere alcun "senso", alcuna finalità, neanche intelligibilità: è una follia dell'impossibile. Bisognerebbe seguire senza demordere le conseguenze di questo paradosso o di questa apona. Il c.d. diritto di 3razia ne è un esempio, un esempio tra gli altri e insieme il modello esemplare. Se è vero infatti che il perdono dovrebbe restare eterogeneo all'ordine giuridico-politico, giudiziario o penale, se è vero che dovrebbe ogni volta, a ogni occorrenza, restare un'eccezione assoluta, c'è allora in qualche modo un'eccezione a questa legge d'eccezione, ed è in Occidente proprio la tradizione teologicache attribuisce al sovrano un diritto esorbitante. Il diritto di grazia è sì infatti, come il suo nome indica, dell'ordine del diritto ma di un diritto che iscrive nelle leggi un potere al di sopra delle leggi. Il monarca assoluto di diritto divino può graziare un criminale, cioè praticare, in nome dello Stato, un perdono che trascende e neutralizza il diritto: un 83
diritto al di sopra del diritto. La tradizione repubblicana si è riappropriata del diritto di grazia, come anche dell'idea di sovranità. Negli Stati moderni di tipo de1nocratico, come la Francia, si direbbe che sia stato secolarizzato (se questa parola ha un senso fuori della tradizione religiosa che mantiene pretendendo di sottrarvisi). In altri, come gli Stati Uniti, la secolarizzazione non è neanche un simulacro, poiché il Presidente e i governatori, che hanno il diritto di grazia (pardon, clemency), prima giurano sulla Bibbia, fanno discorsi ufficiali di tipo religioso e invocano il nome o la benedizione di Dio ogni volta che si rivolgono alla nazione. Ciò che conta in questa eccezione assoluta che è il diritto di grazia, è che l'eccezione del diritto, l'eccezione al diritto si situa al culmine o alla base del giuridico-politico. Nel corpo del sovrano, incarna ciò che fonda, sostiene o istituisce al più alto livello, insieme all'unità della nazione, la garanzia della costituzione, le condizioni e l'esercizio del diritto. Come è sempre il caso, il principio trascendentale di un sistema non appartiene al sistema: gli è estraneo come un'eccezione. Senza contestare il principio di questo diritto di grazia, il più "elevato" che ci sia, il più nobile, ma anche il più "scivoloso" ed equivoco, il più pericoloso e arbitrario, Kant ricorda gli stretti limiti che bisognerebbe imporgli perché non dia luogo alle 84
peggiori ingiustizie: il sovrano può graziare solo se il crimine ha di mira il sovrano stesso ( e ha dunque di 1nira, nel suo corpo, la garanzia stessa del diritto, dello Stato di diritto e dello Stato). Come nella logica hegeliana di cui parlavamo poco fa, è imperdonabile solo il crimine contro ciò che dà il potere di perdonare, il crimine contro il perdono, insomma contro lo spirito - lo spirito secondo Hegel, ciò che egli chiama "lo spirito del cristianesimo" -; è però proprio questo imperdonabile, e solo questo imperdonabile, che il sovrano ha ancora il diritto di perdonare, e soltanto quando il "corpo del re", nella sua funzione sovrana, è preso di mira attraverso l'altro "corpo del re", che è qui lo "stesso", il corpo di catne, singolare ed empirico. Al di fuori di questa eccezione assoluta, in tutti gli altri casi, ovunque i torti riguardano i soggetti stessi, cioè quasi sempre, il diritto di grazia non può esercitarsi senza ingiustizia. È noto infatti che il sovrano lo esercita sempre in modo condizionato, in funzione di un'interpretazione o di un calcolo, quando s'incrociano un intere$Se particolare (il suo proprio, quello dei suoi o di una frazione della società) e l'interesse dello Stato. Un esempio recente potrebbe essere Clinton, che non è mai stato incline a graziare nessuno e che è un sostenitore alquanto offensivo della pena di 1norte. Ora, poco te1npo fa, ha utilizzato il suo right 85
to pardon per graziare dei portoricani in carcere da tempo per terrorismo. Ebbene, i repubblicani hanno ovviamente contestato il privilegio assoluto dell'esecutivo accusando il presidente di aver voluto aiutare così Hillary Clinton nella sua prossima campagna elettorale a New York in cui i portoricani sono, come sapete, numerosi. Nel caso insieme eccezionale ed esemplare del diritto di grazia, laddove ciò che eccede il giuridicopolitico s'iscrive, per fondarlo, nel diritto costituzionale, c'è e non c'è quel faccia a faccia personale, di cui si può pensare che sia necessario all'essenza stessa del perdono. Mentre dovrebbe impegnare solo delle singolarità assolute, in qualche modo può manifestarsi solo facendo appello a un terzo, all'istituzione, alla socialità, alla tradizione delle generazioni precedenti, al sopravvissuto in generale; e soprattutto a quell'istanza universalizzante che è il linguaggio. Può mai esserci, da una parte o dall'altra, una scena di perdono senza un linguaggio condiviso? La condivisione non solo di una lingua nazionale, di un idioma, ma di un accordo sul senso delle parole, sulle loro connotazioni, sulla retorica, sull'estensione di un riferimento, ecc. Ecco un'altra forma della stessa aporia: quando la vittima e il colpevole non condividono alcun linguaggio, quando 86
niente di comune e di universale permette loro di intendersi, quando il perdono sembra privo di senso, abbiamo a che fare con l'imperdonabile assoluto, con quell'impossibilità di perdonare di cui poco fa dicevamo tuttavia che era, paradossalmente, l'elemento stesso di ogni possibile perdono. Per perdonare bisogna intendersi da ambo le parti sulla natura della colpa, bisogna sapere chi è colpevole, di quale male e verso di chi, ecc. E questa è già cosa assai improbabile. Potete immaginare infatti che perturbazione potrebbe apportare una "logica dell'inconscio" in questo "sapere" e in tutti gli schemi di cui pur detiene una "verità". Potete immaginare anche che cosa accadrebbe quando la stessa perturbazione facesse traballare tutto, quando risonasse nel "lavoro del lutto", nella "terapia" di cui abbiamo parlato, nel diritto e nella politica. Se infatti un perdono puro non può, non deve presentarsi come tale e dunque esibirsi sul teatro della coscienza senza insieme negarsi, mentire o riaffermare \}na sovranità, allora come sapere che cos'è un perdono, se ha mai luogo, e chi perdona chi, o che cosa a chi? D'altré\ parte infatti, se è necessario, come abbiamo or ora detto, intendersi d'ambo i lati sulla natura della colpa, sapere cioè in coscienza chi è colpevole, di che male e verso chi, ecc., e se ciò resta già assai improbabile, è vero anche il contrario. È necessario in87
fatti anche che l'alterità, la non identificazione, l'incomprensione stessa restino irriducibili. Il perdono è dunque folle, deve sprofondare, ma lucidamente, nella notte dell'inintellegibile. Chiamatelo inconscio o non-coscienza, se volete. Non appena la vittima "comprende" il criminale, non appena ha uno scambio, parla, s'intende con lui, comincia la scena della riconciliazione, e con essa quel perdono corrente che è tutto tranne che un perdono. Anche se dico "non ti perdono" a qualcuno che mi chiede perdono, ma che comprendo e che 1ni comprende, è cominciato un processo di riconciliazione, è intervenuto il terzo. E per il puro perdono è finita. M. W. Nelle situazioni più terribili, in Africa, in Kosovo, non si tratta precisamente di una barbarie di prossimità dove il crimine s'è compiuto tra gente che si conosceva? Il perdono non implica dunque l'impossibile: essere allo stesso tempo in una situazione diversa da quella anteriore, precedente il crimine, pur essendo nella comprensione che era della situazione anteriore? J. D. In quel che chiama la "situazione anteriore" potevano infatti esserci ogni tipo di prossimità: linguaggio, vicinaggio, familiarità, famiglia stessa, ecc. Ma perché sorga il male, il "male radicale" e, forse ancor peggio, il male imperdonabile, il solo che fa sorgere là questione del perdono, è necessario che, nel più intimo di questa intimità, un odio assoluto 88
venga a interrompere la pace. L'ostilità distruttrice può aver di mira solo ciò che Lévinas chiama il "volto" dell'altro, l'altro simile, il prossimo più prossimo, il bosniaco e il serbo ad esempio, nello stesso quartiere, nella stessa casa, a volte nella stessa famiglia. Il perdono deve allora saturare l'abisso? Deve suturare la ferita in un processo di riconcilia. zione? O invece dar luogo a un'altra pace, senza oblio, senza amnistia, fusione o confusione? Certo nessuno oserebbe in tutta decenza obiettare all'ilnperativo della riconciliazione. È certo meglio mettere fine ai crin1ini e alle lacerazioni. Ma ancora una volta credo di dover distinguere tra il perdono e il processo di riconciliazione, quella ricostituzione di una salute, di una "normalità", per quanto possano · sembrare necessarie e auspicabili, attraverso le amnesie, il "lavoro del lutto", ecc. Un perdono "finalizzato" non è un perdono, è solo una strategia po- · litica o un'economia psicoterapeutica. In Algeria oggi, malgrado il dolore infinito delle vittime e il torto irreparabile che hanno sofferto per sempre, si può pensare certo che la sopravvivenza del paese, della società e dello Stato passi per l'annunciato processo di riconciliazione. Da questo punto di vista si può "comprendere" che un voto abbia approvato la politica promessa da Bouteflika. Credo però che sia inappropriata la parola "per89
dono" pronunciata in questa occasione, in particolare dal capo di Stato algerino. La trovo ingiusta sia per rispetto delle vittime di crimini atroci (nessun capo di Stato ha il diritto di perdonare al loro posto), sia per rispetto del senso della parola, per l'incondizionalità non-negoziabile, aneconomica, apolitica e non-strategica che esso prescrive. E ancora una volta, il rispetto della parola o del concetto non traduce solo un purismo semantico o filosofico. Ogni tipo di "politica" inconfessabile, ogni sorta di furbizia strategica può nascondersi abusivamente dietro una "retorica" o una "commedia" del perdono per bruciare le tappe del diritto. In politica, quando si tratta di analizzare, di giudicare, o di contrastare praticamente questi abusi, l'esigenza concettuale è di rigore, anche là dove tiene da conto, caricandosene e dichiarandoli, dei paradossi e delle aporie. Ancora una volta, è la condizione della responsabilità. M. W. È dunque permanentemente diviso tra una visione etica,
"iperbolica" del perdono, il perdono puro, e la realtà di una società al lavoro nei processi pragmatici di riconciliazione? J. D. Sì, come lei dice, resto diviso. Ma senza potere, né volere, né dovere tranciare di netto. I due poli sono irriducibili l'uno all'altro, certo, ma restano indissociabili. Per piegare la "politica" o quel che 90
avete appena chiamato i "processi pragmatici", per cambiare il diritto ( che si trova preso tra due poli, l'"ideale" e l"'empirico" - e quel che qui m'interessa, tra i due, è la mediazione universalizzante, la storia del diritto, la possibilità del progresso del diritto), è necessario fare riferimento a quel che avete appena chiamato "visione etica 'iperbolica' del perdono". Benché in questo caso non sia sicuro delle parole "visione" o "etica", diciamo che soltanto questa inflessibile esigenza può orientare una storia delle leggi, un'evoluzione del diritto. Solo essa può ispirare, qui, ora, nell'urgenza, senza attendere, la risposta e le responsabilità. Ritorniamo alla questione dei diritti dell'uomo, del concetto di crimine contro l'umanità, ma anche della sovranità. Questi tre temi sono più che mai legati nello spazio pubblico e nel discorso politico. Benché spesso una certa nozione della sovranità sia positivamente associata al diritto della persona, al diritto all'autodeterminazione, all'ideale dell'emancipazio. ne, in verità all'idea stessa di libertà, al principio dei diritti dell'uomo, è spesso in nome dei diritti dell'uomo e per punire o prevenire crimini contro l'umanità che si finisce per limitare, o almeno a prevedere di limitare con interventi internazionali, la sovranità di certi Stati-nazione. Alcuni di questi però, piuttosto che altri. Esempi recenti: gli interventi in 91
Kosovo o a Timor Est, peraltro diversi per natura e scopi. (Il caso della guerra del Golfo è complicato in modo diverso: viene limitata oggi la sovranità dell'Irak dopo aver preteso però di difendere, contro di esso, la sovranità di un piccolo Stato - e di passaggio degli altri interessi, ma sorvoliamo). Dobbiamo sempre fare attenzione, come assai lucidamente ricorda Hannah Arendt, al fatto che la limitazione di sovranità è imposta sempre solo là dove è "possibile" (fisicamente, militarmente, economicamente), è cioè sempre imposta a piccoli Stati, relativamente deboli, da Stati potenti. Questi ultimi restano gelosi della propria sovranità pur limitando quella degli altri e pesano così in modo determinante sulle decisioni delle istituzioni internazionali. Questo è un ordine e uno "stato di fatto" che pos:;ono essere o consolidati al servizio dei "potenti" oppure, al contrario, poco a poco dislocati, messi in crisi, minacciati da concetti ( cioè qui performativi istituiti, eventi per essenza storici e trasformabili), co1ne quelli dei nuovi "diritti dell'uomo" o del "crimine contro l'umanità", da convenzioni sul genocidio, la tortura o il terrorismo. Tra le due ipotesi, tutto dipende dalla politica che mette in opera i concetti. Malgrado le loro radici e le loro fondamenta senza età, questi concetti sono veramente giovani, almeno in quanto dispositivi del diritto internazionale. 92
Quando nel 1964 - giusto ieri - la Francia ha giudicato opportuno decidere che i crimini contro l'umanità dovessero restare imprescrivibili ( decisione che ha reso possibili tutti i processi che sapete - ancora ieri quello di Papon), ha fatto implicitamente appello a una sorta di al di là del diritto nel diritto. L'imprescrivibile, come nozione giuridica, non è certo l'imperdonabile, abbiamo visto perché poco fa. Ma l'imprescivibile, e lo ripeto, fa segno verso l'ordine trascendente dell'incondizionato, del perdono e dell'imperdonabile, verso una sorta di anistoricità, o di eternità e di Giudizio Finale, che supera la storia e il tempo finito del diritto: per sempre, "eternamente", dovunque e sempre, un crimine contro l'umanità sarà passibile di giudizio, e non se ne cancellerà mai l'archivio giudiziario. È dunque una certa idea del perdono e dell'imperdonabile, di un certo al di là del diritto ( di ogni determinazione storica del diritto) che ha ispirato i legislatori e i pari amen tari, coloro che producono il diritto, quando per esempio hanno istituito in Francia l'imprescrivibilità dei crimini contro l'umanità o, in modo più generale, quando trasformano il diritto internazionale e istituiscono tribunali universali. Ciò dimostra chiaramente che, malgrado la sua apparenza teorica, speculativa, purista, astratta, ogni riflessione su un'esigenza incondizionata è da subi93
to impegnata, totalmente, in una storia concreta. Può indurre processi di trasformazione - politica, giuridica, e in verità senza limiti. Detto ciò, poiché mi ha ricordato fino a che punto sono "diviso" davanti a queste difficoltà apparentemente insolubili, sarei tentato da due tipi di risposta. Da una parte c'è, deve esserci, bisogna accettarlo, qualcosa di "insolubile". In politica e al di là. Quando i dati di un problema o di un compito non sembrano infinitamente contraddittori, ponendomi davanti all'aporia di un'ingiunzione doppia, allora so subito che bisogna fare, credo di saperlo e questo sapere ordina e programma l'azione: ed è fatta, non c'è più decisioni o responsabilità da prendere. Un certo non sapere deve al contrario lasciarmi disarmato davanti a ciò che devo fare, a perché debba farlo, a perché mi senta liberamente obbligato a farlo e tenuto a risponderne. Devo allora, e solo allora, rispondere della transazione tra due imperativi contraddittori e ugualmente giustificati. Non che sia necessario non sapere. Al contrario, è necessario sapere il più e il meglio possibile, ma tra il sapere più esteso, più raffinato, più necessario, e la decisione responsabile resta un abisso, e deve restare. Si ritrova qui la distinzione dei due ordini (indissociabili ma eterogenei) che ci preoccupa dall'inizio di 94
questojncontro. D'altra parte, se si definisce "politico" quel che lei designava parlando di "processi pragmatici di riconciliazione", allora, pur prendendo sul serio queste urgenze politiche, credo anche che non siamo .definiti totalmente dal politico, soprattutto non dalla cittadinanza, dall'appartenenza statutaria a uno Stato-nazione. Non si deve forse accettare che, nel cuore o nella ragione, soprattutto quando è in questione il "perdono", accade qualcosa che eccede ogni istituzione, ogni potere, ogni istanza giuridico-politica? Si può immaginare che qualcuno, vittima del peggio, in sé, nei suoi, nella sua generazione o nella precedente, esiga che giustizia sia fatta, che i criminali compaiano in giudizio, siano giudicati e condannati da una corte - e tuttavia in cuor suo perdoni.
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M. W. E l'inverso? J. D. Anche l'inverso, sicuro. Si può immaginare, e accettare, che qualcuno non perdoni mai, anche dopo un'assoluzione o un'amnistia. Il segreto di questa esperienza resta, deve restare, intatto, inaccessibile al diritto, alla politica, alla stessa morale: assoluto. Di questo principio trans-politico farei però un principio politico, una regola o una presa di posizione politica: è necessario anche rispettare, in politica, il segreto, ciò che eccede la politica o che 95
non dipende più dal giuridico. È ciò che chia1nerei la "democrazia futura". Nel male radicale di cui parliamo e di conseguenza nell'enigma del perdono dell'imperdonabile, c'è una sorta di "fol-lia" che il giuridico-politico non può avvicinare, ancor meno appropriarsene. Immaginate una vittima del terrorismo, una persona cui hanno sgozzato o deportato i figli, o una la cui famiglia è morta in un forno crematorio. Che dica "perdono" o "non perdono", in ambedue i casi non sono sicuro di capire, sono anzi sicuro di non capire e in ogni caso non ho niente da dire. È una zona dell'esperienza che resta inaccessibile e devo rispettarne il segreto. Quel che resta da fare dopo, pubblicamente, politicamente, giuridicamente, è parimenti difficile. Riprendiamo l'esempio dell'Algeria. Capisco, condivido anche il desiderio di coloro che dicono: "È necessario fare la pace, questo paese deve sopravvivere, basta con queste uccisioni mostruose, va fatto quel che è necessario perché ciò finisca"; e se, per questo, bisogna agire con astuzie fino alla menzogna o alla confusione ( come quando Bouteflika dice: "libereremo i prigionieri politici che non si sono macchiati di sangue"), ebbene, vada pure questa retorica abusiva, non sarà stata la prima volta nella storia recente, meno recente e soprattutto coloniale dell'Algeria. Capisco quindi questa "logica", 1na capisco anche la logica 96
opposta che rifiuta, a ogni prezzo e per principio, questa utile mistificazione. Ebbene, questo è il momento di maggiore difficoltà, la legge della transazione responsabile. Secondo le situazioni e i momenti, le responsabilità da prendere sono diverse. Nella Francia di oggi non si dovrebbe fare, mi sembra, quel che ci si appresta a fare in Algeria. La società francese di oggi può permettersi di fare luce, con inflessibile rigore, su tutti i crimini del passato ( con1presi quelli che ci riportano proprio in Algeria, e non è stato ancora fatto), può giudicarli e non lasciare che la memoria s'assopisca. Ci sono situazioni in cui, al contrario, è necessario se non addormentare la memoria ( questo, se anche fosse possibile, non bisognerebbe farlo mai) ma almeno fare come se, sulla scena pubblica, si rinunciasse a tirarne .le conseguenze. Non ·si è mai sicuri di fare la cosa giusta, non lo si sa mai, non lo si saprà mai di un vero sapere. Neanche l'avvenire ce lo farà sapere perché anch'esso sarà stato determinato da questa scelta. È per questo che le responsabilità vanno ri-valutate a ogni istante secondo le situazioni concrete, cioè quelle che non aspettano, quelle che non ci danno il tempo delle infinite delibere. La risposta non può essere la stessa in Algeria oggi, ieri o domani, e nella Francia del 1945, del 1968-70 o del 2000. È più difficile, è un'angoscia infinita. È, la not97
te. Riconoscere però queste differenze "contestuali", è tutt'altra cosa che una de1nissione en1pirista, relativista o pragmatica. Proprio perché la difficoltà sorge in nome e in ragione di principi incondizionati, e dunque irriducibili a questi espedienti (en1piristi, relativisti o pragmatici). In ogni caso non ridurrei la terribile questione della parola "perdono" ai "processi" in cui si trova inevitabilmente i1npegnata, per complessi e inevitabili che siano.
M. W. Resta complicato il rapporto tra il politico e l'etica iperbolica. Poche nazioni sfuggono al fatto, forse fondatore, che ci sono stati crimini, violenze, una violenza fondatrice, per parlare come René Girard, e il tema del perdono diventa assai comodo per giustificare, a posteriori, la storia della nazione. J. D. Tutti gli Stati-nazione nascono e si fondano nella violenza. Credo che questa sia una verità irricusabile. Non c'è bisogno di esibire spettacoli atroci su questo punto, basta sottolineare una legge strutturale: il momento di fondazione, il momento istitutore precede la legge o la legittimità che instaura. È dunque fuori legge e per questo violento. Lei sa però che si potrebbe "illustrare" ( che parola!) questa verità astratta con documenti terrificanti, presi dalla storia di tutti gli Stati, dai più antichi ai più recenti. Prima delle forme moderne di quel che viene chiamato, in senso stretto, "colonialismo", tutti gli Stati 98
( oserei anche dire, senza giocare troppo sulla parola e l'etin1ologia, tutte le culture) hanno la loro origine in un'aggressione di tipo colonlale. La violenza fondatrice non viene soltanto dimenticata: la fondazione stessa è fatta per occultarla e tende per essenza a organizzare l'a1nnesia, a volte dietro la celebrazione e la sublimazione di grandi inizi. Quel che sembra singolare oggi, e inedito, è il progetto di far comparire degli Stati o almeno dei capi di Stato in quanto tali (Pinochet), e anche dei capi di Stato in carica (Milosevic) davan ti a istanze universali. Si tratta soltanto di progetti o di ipotesi, ma la possibilità basta per annunciare un mutamento: costituisce da sola un evento importante. La sovranità dello Stato, l'immunità di un capo di Stato non sono più, per principio e per legge, intangibili. Ovviamente resteranno a lungo numerosi equivoci, davanti ai quali sarà necessario raddoppiare la vigilanza. Si è ben lontani dal passare all'azione e dal mettere in opera questi progetti, perché il diritto internazionale dipende ancora troppo dagli Stati-nazione sovrani e potenti. Inoltre, quando si passa all'azione, in nome degli universali diritti dell'uomo o contro "crimini contro l'umanità", lo si fa spesso in modo interessato, tenendo conto di strategie complesse e a volte contraddittorie, alla mercé di Stati non solo gelosi della propria sovranità ma dominanti sulla scena inter-
nazionale, sollecitati a intervenire qui piuttosto o prilna che là, per esempio in Kosovo piuttosto che in Cecenia, per limitarsi a esempi recenti, ecc., ed escludendo, ovviamente, ogni intervento a casa loro; donde, per esempio, l'ostilità della Cina a ogni ingerenza di questo tipo in Asia, a Timor, per esempio - potrebbe far venire idee sul Tibet; o ancora la reticenza degli Stati Uniti, o della Francia, ma anche di certi paesi detti "del Sud", davanti alle co1n petenze universali promesse alla Corte Penale Internazionale, ecc. Si ritorna puntualmente a questa storia della sovranità. E poiché parliamo del perdono, quel che rende il "ti perdono" a volte insopportabile o odioso, anche osceno, è l'affermazione della sovranità. Essa si rivolge spesso dall'alto in basso, _conferma la propria libertà o si arroga il potere di perdonare, foss'anche in quanto vittilna o in nome della vittima. Ora, è necessario pensare anche a una vittimizzazione assoluta, quella che priva la vittima della vita, o del diritto alla parola, o di quella libertà, di quella forza e di quel potere che autorizzano, che consentono di accedere alla posizione del "ti perdono". In questo caso l'imperdonabile consisterebbe nel privare la vittima di questo diritto alla parola, della parola stessa, della possibilità di ogni manifestazione, di ogni testimonianza. La vittima si vedrebbe al100
!ora spogliata anche della possibilità minima, elementare, di pensare virtualmente a perdonare l'imperdonabile. Questo crimine assoluto non si verifica soltanto nell'assassinio e dunque immense difficoltà. Ogni volta che il perdono è effettivamente esercitato, sembra supporre un qualche potere sovrano. Può essere il potere sovrano di un'anima nobile e forte, ma anche un potere di Stato che dispone di una legittimità incontestata, della potenza necessaria per organizzare un processo, un giudizio efficace o eventualmente l'assoluzione, l'amnistia o il perdono. Se, come pretendono Jankélévitch e Arendt (ho espresso le inie riserve al proposito), si perdona solo dove si potrebbe giudicare e punire, dunque valutare, allora la creazione, l'istituzione di un'istanza giudicante suppone un potere, una forza, una sovranità. Lei sa' l'argomento "revisionista": il tribunale di Norimberga era invenzione dei vincitori, restava a loro disposizione, per stabilire il diritto, giudicare e condannare così come per assolvere, ecc. Ciò che sogno, ciò che tento di pensare come la "purezza" di un perdono degno di questo nome, sarebbe un perdono senza potere: incondizionato ma senza sovranità. Il compito più difficile, insieme necessario e apparentemente impossibile, sarebbe dunque dissociare incondizionalità e sovranità. Lo si farà mai? Sicura101
mente non domani o dopodomani. Ma poiché l'ipotesi di questo impresentabile compito s'annuncia, benché solo come un sogno per il pensiero, questa follia non è forse tanto folle ... dicembre 1999
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Indice
.Bruno Moroncini La lingua del perdono
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APPENDICE
Jacques Derrida Il secolo e il perdono
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